Eleaml


DELLE

PRESENTI CONDIZIONI

D'ITALIA

DEL SUO RIORDINAMENTO CIVILE

PER

ENRICO CENNI

NAPOLI

1862


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INTRODUZIONE

Pubblichiamo uno stralcio - le ultime cento pagine - dell'opera di Enrico Cenni "Delle presenti condizioni d'Italia del suo riordinamento civile". Si tratta della più spietata descrizione del fuoriuscitismo napoletano, quello che si fece piemontese e svendette il proprio paese per trenta denari.

Lasciamo la parola a Cenni:

Chi scrive queste pagine, pur troppo dolorose, ha la coscienza di non alterare la verità, essendo immune da qualunque affetto, che lo potesse far fuorviare: egli aveva ascritto a fortuna di conoscerne parecchi, quando erano in carcere, di cooperare colle poche sue forze alla loro difesa, di dividere con essi le angosce e le speranze loro; e di averne serbata affettuosa ricordanza. Ma la verità è superiore ad ogni particolare rispetto; tanto più in quanto che le aberrazioni in cui caddero voglionsi piuttosto imputare alla infermità della umana natura.

Fu a questi uomini, così poco acconci a maneggiare la cosa pubblica, che il Cavour confidò l'opera della unificazione di queste provincie; ed essi servirono a capello al suo disegno. Intorno a costoro si raccolse una genia di uomini, che si trova in tutti i tempi e in tutti i paesi, di abbietto animo, avidi di guadagni, e smaniosi di uscire della oscurità o della povertà, perciò prontissimi ad abbracciare ogni partito, purché trionfi; i quali rappresentano ne' corpi delle nazioni in tempi di rivoluzioni, quello che i maligni umori nel corpo umano, i quali vengono fuori nelle crisi delle infermità […].

Penso non vi sia altro da aggiungere in merito agli esuli napoletani che si costituirono in quella consorteria che ci portò nel baratro.

Cenni era un cattolico liberale, antiborbonico, motivo in più per meditare quanto egli scrive - siamo nel 1862! - sul disastro che gli si para davanti agli occhi. Egli appartenne alla categoria degli illusi, di quei napoletani che sognavano Napoli capitale del neonato regno d'Italia. Ne scrisse anche un libello che prima o poi metteremo online: NAPOLI E L'ITALIA.

Buona lettura.

Zenone di Elea - 29 dicembre 2009

AVVERTENZA

Nel momento che corre quanti v'ha buoni italiani sono a giusto diritto preoccupati delle sorti della patria. L'inquietudine degli animi non può essere maggiore; secondo il particolare vedere de' partiti le cause di tanta turbatone diversamente si mirano:tutti guardano con ansia nel futuro. In così grave frangente, in cui ciascuno stima obbligo di buon cittadino di dire la sua opinione, ardisco di aprire anche io la mia, sottoponendola al giudizio imparziale de' prudenti. Per me fo stima, che la ragione di tanta inquietezza si debba principalmente ascrivere alla quistione dell'interno ordinamento dello stato, sulla quale massimo è il disaccordo e il battagliare de partiti. Egli è questa perciò che mi propongo di trattare. Non ho punto toccato della quistione di Roma, perché non entra nel disegno del lavoro: s'abbia o non si abbia Roma, quella dell'interiore riordinazione rimane sempre la stessa. Mi sono studiato di tirarmi fuori di ogni spirito di parte: ho detto quello che credo la verità, senza rispetto per nessuno, evitando di parlare delle persone, se non dove era indispensabile, e qui non ho indietreggiato dal palesare senza velo il mio parere.

Troverò lettori, che abbiano la pazienza di leggere fino all'ultimo un lavoro di una certa lunghezza?

Ad ogni modo io prego coloro che vorranno darsi questa briga, di non farlo in brani, ma di scorrerlo per intero;perché l'unità del concetto è forse l'unico pregio che ha, senza di che rischierebbero di vederlo sotto falsa luce; e che, guardando solo alla intenzione, perdonino a molti difetti del libro, in grazia della vastità del tema, della brevità del tempo in cui è stato scritto, ed infine della pochezza delle mie forze. Non avrei osato di arrisicarmi a trattare così ampio soggetto, se avessi saputo che altri lo avesse fatto. Spero che la benignità loro voglia con me essere imparziale, come io mi sono argomentato di essere. Che se per contrario dovessi venire frainteso, e quindi vituperato, di buon grado mi rassegno; poiché solo è buon cittadino, chi non dubita di sacrificare volentieri alla salute della patria, nonché la vita e l'avere, ma per fino il credito ed il favore dell'universale.

Napoli novembre 1862.

I.

CONSIDERAZIONI PRELIMINARI

A chi con mente serena si ponga a considerare le presenti condizioni d'Italia, si porge uno spettacolo degno della più profonda considerazione del filosofo e del politico. Era non ha guari l'Italia divisa in più stati, altri dominati dagli stranieri, altri da cattivi governi condotti, un solo retto da principato civile: debole, oppressa, tra sé divisa, allo straniero in gran parte o mediatamente o senza mezzo suggetta. Testé una guerra felice ne sottraeva all'imperio forestiero una parte nobilissima; nelle altre i tristi governi si spegnevano l'uno dopo l'altro, e queste parti quasi attratte da prepotente virtù, si univano insieme. Dunque le sorti d' Italia pareano mutate affatto in meglio: se la unione fa la forza, l'Italia dovrebbe essere fortissima: se l'unione è partorita dalla concordia, l'Italia dovrebbe essere concordissima: se la concordia produce la pace, l'Italia dovrebbe essere tranquilla: se la pace frutta letizia, l'Italia dovrebbe essere lieta: se la pace è il fine della umana società e la condizione indispensabile perché questa possa attingere il suo bene, esplicando tranquillamente l'attività del suo essere, dovrebbe essa nuotare nel colmo della civile beatitudine. Però il contrario accade con maraviglia universale: è inutile pascersi di vento:

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la realtà salta agli occhi de' meno veggenti, e de' più ostinati.

L'Italia non è lieta: la sergente delle lacrime, suo antico e doloroso retaggio, non è inaridita, perché ella è contristato da sangue italiano sparso da mani italiane; non è pacifica, perocché sono in essa partiti piucché mai riscaldati, inaspriti, e lo diremo pure, impazienti di venire alle mani e disputarsi il terreno; non è concorde, perché non mai si vide, forse anche ne' tempi di sua maggiore miseria, tanta disformità di opinioni, come ne fa fede la stampa; e se è unita tuttavia lo è più dalla forza che dal consenso degli animi, quale unione lungi dall'aumentarne il valore, lo scema; perché se il governo dee sciupare buona parte delle sue forze a contenere tra loro le parti; non può avere virtù proporzionata a tutelare la patria dall'altrui violenza. Il che è tanto vero, che tutti consentono (in buona pace de' cervelli viziati, ciechi ad ogni lume, sordi ad ogni ragione) che senza il presidio di Francia, l'Italia non avrebbe potuto far testa al Tedesco; e sarebbe da un pezzo ricaduta in mali peggiori di quelli da cui recentemente, quasi per miracolo, era uscita. Questo lacrimevole stato dell'Italia, suscita non meno maraviglia, di quello che ne abbia eccitato il suo prodigioso risorgimento: si dimanda, come un tristo effetto possa essere generato da una causa buona, quando questo solo è vero, che l'arbore buona non può produrre frutti cattivi. I partiti, i quali appunto perché tali non posseggono mai il vero compiuto, ma frammisto più o meno di errore, essendo proprio delle opinioni partigiane l'essere esclusive ed inflessibili, si accusano a vicenda de' mali della patria, con accanimento che piuttosto par segno di odio reciproco, che di amore verso di quella. Da qui le contumelie, le calunnie, le minacce, le ire: sicché se ne può conchiudere, che se loro se ne porgesse agevolezza, si combatterebbero l'un l'altro fino all'ultimo esterminio. E se questo finora non è avvenuto solo si dee in parte alla

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paura del ritorno delle antiche signorie, il quale si teme pieno di sdegni e di ferocissime vendette: in parte alla spada dell'Austria, che come quella di Damocle, si vede star sospesa sul cuore d'Italia: in parte al timore delle stesse milizie governative; le quali tre cagioni perché violente per sé stesse, valgono ad operare una quiete superficiale e violenta, ma non naturale e durevole; cosicché la pace che ne è frutto sarebbe necessariamente distrutta se esse venissero meno; e l'unione irreparabilmente risoluta.

E questo stato doloroso, benché più o meno comune a tutte le parti d'Italia, non escluso il Piemonte, in nessuna regione tanto infierisce quanto nelle provincie napoletane, dove da due anni si combatte una lotta nefanda, che ha spento tante vite, che certo più gloriosamente si sarebbero consumate per la tutela della patria contro gli assalti esterni; dove gli animi sono concitatissimi, e discordi; dove i partiti sono frementi e più che mai inviperiti gli uni contro gli altri; dove la sicurezza individuale è nulla; e per soprassello i commerci o spenti o languenti, e la ricchezza pubblica e privata colpita nella radice.

I più di queste lacrimevoli condizioni accusano gli uomini che han messo mano a reggere la cosa pubblica; ed in gran parte a ragione. Ma qui dimanderemo: come va che sieno tanto male riusciti a condurre l'Italia, uomini che avean fama di prudenti, cui non si può senza ingiustizia negare, almeno ne' più, non ordinario ingegno, copiosa dottrina nelle civili, nelle economiche, nelle politiche, nelle militari, rettitudine di animo, e volontà di ridurre ad unità la famiglia italiana, il che si può piuttosto recare loro ad eccesso che a difetto? Che anzi alcuni di loro aveano con lode maneggiato per lo innanzi le cose dello stato in alcune particolari provincie; onde era a sperare ragionevolmente che avrebbero bene soddisfatto al debito loro, ove fossero stati chiamati ad indirizzare le sorti di tutta la penisola.

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Ma per l'opposto appena furono assunti all'alto incarico vennero meno; quindi è avvenuto che si è fatto un consumo spaventevole di riputazioni, per lo addietro splendide e ferme; ed i migliori avendo fatto mala prova, non si £a ora a quali mani si deggia confidare la suprema direzione dello stato. E questo fatto è più universalmente e lucidamente avvenuto nelle provincie napolitane, dove l'avvicendarsi delle amministrazioni, non è stato che una seguela di ruine di riputazioni degli uomini che ne hanno tolto l'indirizzo.

Il male dunque dee avere una radice più profonda: le turbazioni degli stati non possono nascere che o per difetto di ordini, o di uomini a quelli preposti; se non si può ragionevolmente in tutto apporre gli attuali disordini agli uomini, il che sarebbe ingiusto e calunnioso, è da attendere se essi nascano dagli ordini, come da loro principale radice. E poiché i nuovi ordinamenti sono fondati nel principio della Unità, egli è da questo che dee cominciare il nostro discorso. Nato italiano e nelle provincie napoletane, parlerò più particolarmente delle cause dello stato presente in esse, sì perché sono a me più note, sì perché ivi i disordini essendo maggiori e più evidenti, se ne possono le cause studiare con più frutto e con più certezza. Parlerò francamente, senza timore di dispiacere a qualsiasi partito, e senza reticenze; perché sarebbe ridicolo ed incivile, quello che forse in altre condizioni sarebbe prudente ed utile, di usare lenitivi e palliativi, quando i mali sono alla scoperta, e le condizioni che al presente si girano, piucchè mai minaccevoli ed urgenti.

[...]

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VII.

DE' FATTI DI NAPOLI.

Ma ora è tempo di porgere lo sguardo nelle conseguenze che dall'infausto principio dell'unità semplice, scaturirono in queste provincie. Materia che scotta è vero, piaga in cui porre il dito non si può senza causare dolori acutissimi; ma poiché ogni dissimulazione non prova, quando i mali sono in pieno meriggio, il farlo è necessità, affinché gli uomini che indirizzano le cose dello stato aprano gli occhi, e provveggano quando ancora è tempo.

Una volta accettato il principio della unificazione semplice e simmetrica, i governanti furono necessitati ad uscire di una linea di condotta assennata ed equabile; ad essere poco scrupolosi in su' mezzi, purché il fine si raggiungesse: fu necessità violare lo Statuto, tradire il plebiscito e battere francamente la via della rivoluzione. ll governo fu costretto a divenire rivoluzionario, non nel senso legittimo, che consiste in disfare le istituzioni già morte, rinvigorire quelle che languiscono per l'altrui violenza, perfezionare l'antico, rinfrescandolo con prudenti novità facilmente ad esso connettibili; ma gli fu forza di essere rivoluzionario nel senso sofistico, che importa l'annullare ordini secolari, sperimentati e vigorosi, l'abbattere senza distinzione quello che poteva e quello che non poteva conservarsi; distruggere parimenti il buono ed il cattivo, e per conseguente contraddire alla storia, alla' natura, alla vita di questo popolo. Ed è singolare, che mentre il Cavour dichiarava in parlamento chiusa l'epoca delle rivolture, la sua azione governativa era tanto rivoluzionaria, quanto più si può immaginare, se rivoluzione vuol dire rovina totale degli ordini antichi, sforzo di edificare tutto da nuovo.

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I montagnards della Convenzion Nazionale aveano appena osato lo stesso.

Per riuscire nel suo disegno il Cavour abbisognava di strumenti docili e vigorosi, che senza esitare gli ubbidissero; ed il suo consueto acume gli fece presto gettare gli occhi su quelli che efficacemente poteano servire alle sue mire. I passati rivolgimenti e le persecuzioni politiche, per molti ingiustissime, aveano obbligato parecchi napoletani d'ogni condizione a fuggire dalla patria loro: alcuni si stabilirono in altre parti di Europa, i più rifuggirono in Piemonte, dove tutti furono generosamente ospitati, parecchi sussidiati, non rari ebbero carichi pubblici, onori, stipendii; altri acquistò fama in trattare negozii giuridici, e poté porre a profitto il suo valore. In che modo l'esiglio modifichi l'animo di chi lo subisce è stato detto da molti, ma da nessuno, crediamo, con più vivacità e naturalezza quanto dal Macaulay: «Un uomo politico, (dice questo rimarchevole scrittore ed uomo di stato) cacciato in bando da una fazione avversa, comunemente guarda a traverso ad un falso strumento la società che egli ha lasciato. I desiderii, le speranze, i rancori suoi gli fanno apparire ogni cosa scolorata e contorta. Ei pensa, che ogni lieve malcontento debba produrre una rivoluzione. Ogni baruffa gli sembra una ribellione. Non intende come la patria non lo pianga nel modo come egli la piange. Immagina che tutti i suoi vecchi colleghi, i quali godono tuttavia i domestici commodi e le agiatezze loro, sieno tormentati da' medesimi sentimenti, che gli rendono grave la vita. Come la ripatriazione diventa più lunga, i vaneggiamenti si accrescono. Il correre del tempo, che tempera l'ardore degli amici da lui lasciati indietro, gli accresce la fiamma nel cuore. Ciascun giorno che passa gli rende maggiore l'impazienza ch'ei sente di rivedere la terra natia, e ciascun giorno la sua terra lo rimembra e lo compiange meno.

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Tale illusione diventa quasi un'insania, ogni qual volta molti esuli, che soffrono per la medesima causa, si trovano insieme in terra straniera. La precipua delle loro faccende è quella di ragionare intorno a ciò che essi erano un tempo, e a ciò che potrebbero essere in futuro; d'incitarsi a vicenda contro il comune nemico: di pascersi con frenetiche speranze di vittoria e di vendetta. Così essi diventano maturi per certe imprese, che a prima vista verrebbero giudicate disperate da chiunque non sia stato dalla passione privato del senno di calcolare le probabilità di prospero successo (1)».

E tale appunto era la condizione de' nostri fuorusciti. Parecchi di essi aveano tenuto già nel loro paese onorato seggio nelle cariche e nelle professioni, e si vedeano privati di quegli utili e di quegli onori, cui fuori dubbio sarebbero pervenuti senza l'esiglio; molti, giovani di liete speranze quando esularono, aveano visto sfumare lo splendido avvenire che loro si spiegava d'innanzi; altri capo di molta famiglia era tormentato dal pensiero di alimentarla, e dare condizione a' suoi figliuoli: tutti aveano perduta la patria, e con essa gli affettuosi consorzii e le care consuetudini che legano alla vita. Che i loro rammarichi fossero giustissimi, che le loro trafitture fossero soprammodo pungenti, chi potrà negarlo? ma la condizione dell'esiglio loro oscurò la mente. L'astio che covavano contro il principe autore de' loro mali, facea crescere in essi il desiderio di vendicarsene, che sventuratamente era connesso con quello di ritornare in patria, e restaurare la fortuna loro. Ferdinando Borbone avea spinto le cose tanto innanzi, che gli era impossibile tornare indietro: la sua rovina era dunque dagli esuli considerata sotto il doppio verso, di mutazione in meglio delle loro sorti, e di punizione del loro flagellatore;

(1) Storia d'Inghilt. trad. dal Giudici, Firenze 1839, tom, I, cap. v, p. 486.

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e questo duplice aspetto loro sorridea così fattamente nell'animo, da infiammarlo vie maggiormente: ogni indugio gli facea sempre più fremere per l'impazienza, ed offuscati dalla passione cominciarono a pigliarsela col popolo perché non insorgeva, e non mandava in fascio una potestà loro così funesta. Nessun maggiore ostacolo per giudicare sananamente, quanto il velo del proprio interesse. Inchinevoli, come tutti quelli che ardentemente sperano, ad esagerare le probabilità del desiderato evento, ed a rimpiccolire gli ostacoli che s'infrappongono, immaginarono che i napoletani non insorgessero perché non voleano: quindi credettero che se la godessero in quello stato, senza guardare alle vittime innumerevoli che in diversi modi erano straziate; quali col carcere, quali co' confini, quali con la vigilanza e le vessazioni di ogni genere della polizia, quali con la inibizione di ogni carriera, e financo di potere insegnare, scrivere e studiare a loro senno, ed anche di poter conversare liberamente. Tennero per vero, che questo popolo fosse caduto in una vergognosa prostrazione di animo, senza attendere alle difficoltà insuperabili di una insurrezione, per essere gli uomini spiati, invigilati, imprigionati al menomo sospetto, e specialmente per un'armata validissima, numerosa e divota al principe sia per amore, sia per disciplina; ed apposero a viltà d'animo la tolleranza inevitabile di quel reggimento pessimo per molte parti. E perché la viltà d'animo, e l'immergersi in volontaria servitù è gran segno di corruttela, ne conchiusero che la nazione era, non che guasta, fradicia; e dimentichi dell'attività intellettuale incomparabile della gioventù napoletana, per cui senza perdonare né a spesa, né a fatica, né a rischi, ha saputo erudirsi sotto i governi più nemici della diffusione delle lettere e degli studii, giudicarono che la pressura politica avea dovuto oppressare anche le menti;

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e rendendo gli studii difficili, imbestiarle nella ignoranza (1). Così a poco a poco l'odio loro verso il principe si estese fino al popolo, e ne divennero calunniatori, ponghiamo pure che queste calunnie non fossero effetto di animo malvagio, ma certo annuvolato dalla condizione dell'esiglio. Con ciò solo si possono spiegare, senza disdire loro l'interezza della ragione, i rabuffi, le contumelie, i dispregii che prodigarono al popolo napoletano.

D'altra parte l'ospitalità liberalissima del Piemonte gli legava a quello per naturale gratitudine, il vedervi fiorire gli ordini costituzionali, all'ombra de' quali riposavano, gli accendeva di amore per quello stato e per quegli ordini: la memoria delle cose della patria loro si andava spegnendo: il Piemonte loro si mostrava come il solo, la cui mercé un giorno si fosse loro dischiusa la via del ripatriare, e di far rinverdire la loro fortuna, onde essi si avvezzarono a guardarlo come una seconda patria, più benigna e più pia della prima; e per quanto l'odio contro gli abitatori di questa e il suo governo si fortificava, per tanto cresceva l'amore pel popolo e pel governo subalpino; così insensibilmente si trovarono civilmente transustanziati, e da napoletani divenuti non già italiani, ma piemontesi. Né questa trasformazione è nuova nella storia: gli emigrati francesi, che riposero il piede in Francia nel 1814. con le armate della coalizione, tornarono divenuti russi, tedeschi, inglesi: calunniavano la patria: godevano delle sue umiliazioni: molti vennero come duci di soldati stranieri, non vergognando di vestirne la divisa; e non indietreggiarono innanzi all'infamia di bagnare le spade nel sangue de' loro fratelli, che disperatamente difendevano l'onore e l'indipendenza della patria contro l'invasione straniera,

(1) Per esilarare il lettore narrerò un aneddoto. Un giovane emigrato mio conoscente, mi parlava della Revue Germanique: io gli dissi che mi era nota, che anzi ci era associato: egli andò in visibilio. Possibile che quel giornale fosse penetrato fino a Napoli!!

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che sommerse la Francia nelle vergogne della restaurazione. Questo furore avea preso anche le donne, per l'ordinario tenere delle consuetudini domestiche; egli è noto come Susanna Necker, più conosciuta col nome di Madama di Staci, calunniasse spesso la Francia ne' suoi scritti, ed a' suoi connazionali anteponesse i tedeschi. Gli uomini sono sempre gli stessi, e messi nelle identiche condizioni, pensano ed operano al modo medesimo. Financo gl'Inglesi, tanto tenaci nel loro carattere nazionale, subirono la stessa vicenda: gli emigrati inglesi, tornati con Carlo II, erano servi umilissimi di Francia; e contribuirono potentemente a rendere la loro patria ligia a' Francesi. I fuorusciti fiorentini di parte ghibellina, giunti in Firenze dopo la battaglia d'Arbia, pensarono di distruggerla; ed avrebbero compiuto il nefando parricidio senza la magnanimità di Farinata degli liberti, che con la sua autorità l'impedì (1). Il Machiavelli riferisce il detto di Nicolò da Uzano, il quale, sebbene capo della fazione nimica a Cosimo de' Medici, sconsigliava che fosse esiliato: egli diceva: andrà via buono e tornerà cattivo (2). I fatti lo giustificarono.

Naturali ausiliarii de' fuorusciti erano i condannati politici. La più parte di essi si erano visti strappati alle loro famiglie, a' loro lavori; molti erano caduti in desolante povertà; altri aveano veduta stremata di molto la loro fortuna. Aveano sofferto patimenti crudelissimi, meno forse a causa de' dolori fisici, che per l'angoscia di essere obbligati a trarre la vita consociati a' ladri e agli assassini, perloppiù per condanne ingiustissime. Alcuni forse erano colpevoli di reati politici punibili, sia qualunque la forma del governo; ma il modo con cui vennero giudicati fu iniquo.

(1) Machiavelli, Istorie fiorentine, lib.IIi, § VII.

(2) Machiavelli, op. cit. lib. IV. S'intende, che tra' nostri emigrati erano alcuni che Dod partecipavano alle fisime degli altri. Ma erano rare, rarissime eccezioni.

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Gli scandali de' processi politici agitati in Napoli sono di pubblica ragione; né trovano altro parallelo che in quelli delle politiche processure fatte in Inghilterra a' tempi di Enrico VlII, di Elisabetta, di Cromvello, de' due Carli e Giacomo Stuardi. Le condanne erano state pronunziate sulla fede di testimoni della risma de' Bedloe; de' Dugdale, de' Carstairs, de' Tuberville (1); qualche magistrato avea vestito le sembianze del terribile Giorgio Jeffrey (2), salvo quella attenuazione che nasce non dall'indole degli uomini, ma de' tempi. I condannati, inaspriti da tante sofferenze, comunicavano con gli esuli per le stesse cagioni nell'astio contro il popolo e il governo napoletano, nella devozione al Cavour e nella idolatria pel Piemonte, da pochissime eccezioni in fuori. Aggiungi che la più parte degli uni e degli altri volevano il restauro a' danni patiti; cosa che per alcuni era reclamata dalla più stretta giustizia, ma che pe' più era mal mascherata cupidità. Neanco questo fatto è nuovo nella storia. Gli emigrati francesi. tornati in patria, posero innanzi le più smodate pretensioni: a stento furono contenti di un migliardo di franchi; e questo quando la nazione si ammiseriva per le spese della lotta. sostenuta e per le enormi tasse di guerra pagate a' vincitori. Gli emigrati inglesi nel regno di Carlo II saccheggiarono il tesero nazionale e posero in fondo la pubblica fortuna. Tutti fecero inonesto traffico del martirio politico. Il buon popolo napoletano si era cordialmente rallegrato della liberazione degli uni e del ritorno degli altri; avea tutti applauditi, lisciati, vezzeggiati forse anche troppo; e la carità con cui li guardavamo rese inchinevole ad esagerare per un istante la riputazione loro, che per altro era molto superiore. alla realtà; né le cose da essi fatte nell'esiglio erano di tal valore da aggiungere

(1) Vedi su costoro il Mscau'lay. Stor. d'Inghilt. ediz. cit. pag.222 e seg.. ag.247 e seg.

(2) Su questo mostro vedi il Macaulay, op. cit. cap. iv, p.412

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un centesimo al nome, che godevano prima delle loro disgrazie. Chi scrive queste pagine, pur troppo dolorose, ha la coscienza di non alterare la verità, essendo immune da qualunque affetto, che lo potesse far fuorviare: egli aveva ascritto a fortuna di conoscerne parecchi, quando erano in carcere, di cooperare colle poche sue forze alla loro difesa, di dividere con essi le angosce e le speranze loro; e di averne serbata affettuosa ricordanza. Ma la verità è superiore ad ogni particolare rispetto; tanto più in quanto che le aberrazioni in cui caddero voglionsi piuttosto imputare alla infermità della umana natura (1).

Fu a questi uomini, così poco acconci a maneggiare la cosa pubblica, che il Cavour confidò l'opera della unificazione di queste provincie; ed essi servirono a capello al suo disegno. Intorno a costoro si raccolse una genia di uomini, che si trova in tutti i tempi e in tutti i paesi, di abbietto animo, avidi di guadagni, e smaniosi di uscire della oscurità o della povertà, perciò prontissimi ad abbracciare ogni partito, purché trionfi; i quali rappresentano ne' corpi delle nazioni in tempi di rivoluzioni, quello che i maligni umori nel corpo umano, i quali vengono fuori nelle crisi delle infermità; come la esperienza delle storie ci ammaestra, e i cui più splendidi esempii si rinvengono nelle due epoche contrarie della Convenzione Nazionale e del Direttorio, e in quella della ristorazione de' Borboni.

Noi avevamo di questa roba saggiato altre volte, nel ritornare della monarchia nel 1799 e nella rivoltura del 1820; nell'epoca susseguente, nonché ne' quattro primi mesi del 1848 e nel tempo posteriore. Non così nelle due epoche, del ritorno de' francesi al 1806 al 1815;

(1) Per onore del vero si dee notare, che alcuni condannati politici conservarono la dignità del martirio politico con la temperanza delle opinioni; furono generosi in dimenticare le offese; rimasero amici del loro paese, e taluno rese importanti servigii anche a periglio della propria vita. Ma ripetiamo questi esempii furono più che rarissimi.

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ed in quella della restaurazione de' Borboni, conosciuta appo noi col nome di quinquennio, perché durò fino al 1820; le quali ultime mutazioni, essendo surte meno da commozioni interiori, che dall'andamento generale della politica europea, tornarono poco violente. I francesi qui si comportarono con senno: nessuno degli emigrati del 99 fu assunto al ministero, e pure tra quelli si contavano uomini assai pregevoli, come per esempio il Coco ed altri: si compensarono debitamente alcuni ma con impieghi subalterni: i ministri vennero eletti tra coloro che poco o nulla aveano partecipato agli eventi, come il chiarissimo Cianciulli, e taluno preso tra quelli che aveano seguito i Borboni in Sicilia, tra cui vogliamo a cagion d'onore indicare il celebre conte Zurlo, i quali col Ricciardi e col de Thomasis furono i migliori ministri che si ricordino presso noi. Ferdinando IV al suo ritorno seguì l'esempio lodevole de' suoi nemici: favorì discretamente i suoi, ma stette duro incontro alle immoderate loro pretese (1); non molestò nessuno, conservò gl'impiegati di ogni genere; a' pochi, che non potevano conservarsi, perché aveano messo mano direttamente all'indirizzo politico contrario, furono date pensioni, tra' quali agl'intendenti delle provincie (prefetti); e qualcuno di essi fu presto richiamato a posto onorevole (2); anche al Coco, già consigliere di stato, comunque autore di un celebre libro contro i Borboni, fu data una larga pensione. I fatti mostrarono, se l'assennata moderazione de' francesi e de' Borboni riuscisse a bene: i mutamenti non generarono scosse sensibili; ed il regno godette di pace profonda: basta dire, che nell'una e nell'altra mutazione quasi non furono emigrati.

(1) Per esempio i nobili emigrati dimandavano ad alte grida la rivocazione de' giudicati della commessione feudale, che li avea privati di gran parte della loro fortuna: la richiesta fu respinta.

(2) Cosi l'illustre Acclavio, stato intendente, fu promosso a presidente della G. C. Civile di Trani.

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Prima però di passare oltre, uopo è vedere come il Conte di Cavour, da uomo accorto, cercò di prepararsi il terreno mercé il plebiscito; per ciò fare è bene brevemente indicare le cause del malcontento de' napoletani contro il passato governo, e come questo fatto fu consumato.

Dopo la catastrofe del 1799, come di sopra è notato, il regno ebbe due buoni governi: quello de' francesi e quello de' Borboni dal 1815 al 1820: entrambi si mostrarono teneri della stretta osservanza delle ottime leggi che imperavano su queste provincie (1). Ma dopo il 1821 la cosa andò altramente. Certo la rivoluzione del 1820 era stata tumultuaria: lo statuto identico a quello di Spagna del 1812, era per sua natura atto a perpetuare l'anarchia: gli animi temperati ne vedeano gl'inconvenienti, ed aborrivano dagli eccessi che quello rendeva possibili: ma essi erano fautori delle libertà costituzionali: bisognava riordinare lo stato e riformarne la legge fondamentale; invece si preferì di spegnerla. La violenza esterna e la presenza di un esercito straniero manteneano esacerbati gli animi: il principe preso dal timore e soggiogato dagl'influssi austriaci, allora nemici di ogni ordine che sentisse di libertà civile, incominciò a manomettere le leggi esistenti. La legge sulla polizia del 1817, congiunta ad alcune disposizioni del codice di procedura penale, teneano luogo presso di noi quasi dell'habeas corpus degl'inglesi. Quest'ordine, che non potea combaciare con un governo pieno di sospetti, se non fu abolito espressamente, non venne mai più eseguito: le vessazioni politiche degli agenti del governo fecero scadere le libertà civili. Le cose andarono peggio sotto il regno susseguente. Ferdinando II nel salire al trono ritornò a migliori principii, nondimeno la legge suindicata non fu applicata mai più.

(1) Non vogliamo altra testimonianza che del Colletta, scrittore spesso partigiano ed esagerato. Vedi il lib. VIII della sua storia.

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Poi i tumulti del 1837, quelli del 1840, del 1844 infierirono l'animo del re, il quale non seppe trovare altro rimedio contro le aspirazioni liberali di questi popoli, che rafforzare maggiormente l'assoluta sua autorità, ohe grado a grado venne sostituendo alle leggi. Ma il suo mal vezzo toccò il colmo della esagerazione dopo che furono proscritti gli ordini costituzionali del 1848. Accentrò nelle sue mani tutti i poteri dello stato; scelse a timoneggiarlo uomini mediocri, incapaci di fargli la menoma resistenza; egli era non solo il re, ma il suo ministero: i ministri furono abbassati alla condizione di semplici capi di divisione. Aspirando alla divina onnipotenza, senza di cui non si muove, come dice la Scrittura, foglia di albero, egli volle che foglia d'albero non si movesse nel regno, senza che non solo ne fosse consapevole, ma senza che l'impulso non partisse da lui. Profondamente imbevuto del principio, che il re è lege solutus, era intimamente convinto, che la sua volontà, lungi dall'essere infrenata dalle leggi, fosse la sola e vera legge. Da qui quel principio, che egli mise in vigore: che la volontà del re obbligava in qualunque modo fosse manifesta: con questo solo è evidente che le formo legali erano abbattute per sempre: se esse esistevano, la loro esistenza dipendeva dal beneplacito sovrano: e l'anarchia regia subentrò agli ordini costituiti. Da qui nacque una enorme confusione di giurisdizioni e di ordini: gli affari si accumulavano: lo spedirli diventava intralciato, difficile: il re, accollatasene la massa enorme, lavorava moltissimo, ma l'amministrazione peggiorava. Questo principe non volle mai intendere, che il rispetto alle leggi ed alla libertà civile, è il più saldo scudo del trono e de' popoli. Gli umori di queste provincie intristivano: il re lo vedea, lo sapeva: il suo sistema di compressione diventò più gagliardo: cresceagli col sospetto e colla paura la sete di sconfinata autorità.

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Per dare una prova come anche le leggi penali tacessero innanzi all'arbitrio regio, deesi sapere che i volontarii reduci di Lombardia furono per suo comando confinati sulle isole: in realtà questa era pena, che nel nostro codice penale dicevasi relegazione, la cui durata non potea eccedere dieci anni, né poteasi applicare se non dopo pubblico giudizio dalle G. C. Criminali: i volontarii ritornati la subirono in effetti per undici anni cioè fino al 1860, e senza giudizio. Addurrò questo altro fatto: il ministro Longobardi nel 1853, stando egli sopra le cose di giustizia, percorreva la lista de' condannati nel bagno di Brindisi, nella quale era a costa del nome di ciascuno notata la decisione che lo avea condannato: trovò un nome senza questa indicazione: chiamò immediatamente l'impiegato del ramo, e furiosamente dimandò schiarimenti: l'impiegato gli fece notare, che quell'uomo non era stato condannato da veruna decisione, ma si trovava colà per ordine sovrano: il ministro tacque: dicesi fosse un militare imputato di liberalismo. Tale era il sistema del governo. A parte certe secondarie inesattezze, le lettere del Gladstone diceano la verità, quando asserivano che nel regno uno era il potere effettivo, la polizia; e che quel sistema governativo era la negazione di Dio. Onde la confutazione che il governo fece fare a quella scrittura riusciva ridicola: perché rispondeva injure, cioè mostrando la bontà degli ordini, quando l'accusatore promovea la sua istanza in fatto, cioè che le leggi non erano eseguite. In una parola le leggi e le istituzioni erano eccellenti, ma giaceano come lettera morta. Lungi da noi la viltà di voler dare il nostro colpo di scure all'albero caduto: ma la verità è verità. A questi disordini si aggiungevano le vessazioni della polizia: si fece una ridicola guerra a' baffi, alle barbe intere, a' peli sotto il mento, tutto questo accompagnato da violenze odiosissime, che mischiavano il serio nel comico.

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Si giunse perfino ad applicare le bastonate a qualche imputato politico, copiandosi in diciottesimo il Russo, del quale Ferdinando II si dicea fosse grande ammiratore. Insomma non rimase per lui, che il popolo napoletano non fosse coperto di vergogna, e di venuto la favola delle nazioni. Lo stato degli animi era concitatissimo: questo procedere governativo batteva tutti: ma quali erano le doglienze? contro le leggi? no: si sapeva che le erano buone, ma contro l'arbitrio regio che le conculcava. Venuto il 1860 fu dato lo statuto: il popolo non credette a quello: la mancata fede nel 1821 e nel 1848 forniva una grave ragione alla miscredenza generale nelle promesse regie; il popolo in parte ingrossando le file garibaldine, in parte rimanendo immobile, non porse il suo braccio alla vacillante monarchia che gli dimandava aiuto, e quella rovinò. In questo frattempo i partigiani dell'unità soffiavano nell'incendio: gli unitarii si dividevano in due schiere, i costituzionalisti e i repubblicani; questi per acquistar credito s'infingevano, in realtà volean giuocare la posta a loro vantaggio. Ma il provocare il consenso della maggioranza del popolo ad annettersi al Piemonte non era impresa da reputarsi agevolissima: ostava la tradizione di quasi otto secoli della esistenza di queste provincie in principato, che era il più potente d'Italia; ostava la coscienza pubblica, la quale sapeva che Napoli non solo era la prima città d'Italia, ma che superava per ampiezza, per bellezza di sito, per grassezza di terre circostanti parecchie delle capitali di molti stati europei assai più potenti; né era possibile l'indurre il popolo a far baratto di tutte le sue leggi ed ordinamenti civili che facevano la sua gloria, perché ne era notoria la eccellenza, benché alcuni esuli napoletani o per ignoranza o per piaggiare il Piemonte dicano il contrario. A ciò si provvide. I settatori del Conte, de' quali buon numero senza dubbio in buona fede, divulgarono la voce

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che tutti gli ordini sarebbero rimasti intatti, né altro mutamento dall'antico avrebbe avuto luogo che quello della dinastia: Vittorio Emmanuele avrebbe surrogato i Borboni: il Parlamento e l'Armata solamente sarebbonsi unificati, e ciò era generalmente consentito; in tutto il resto le cose non avrebbero patito alterazione. Il Settembrini, uomo assai accreditato, confortando i suoi connazionali all'annessione, avea scritto in sul finire di luglio 1860: «La città di Napoli rimarrà capitale del Napoletano, come Firenze è rimasta capitale della Toscana; avrà un regio Luogotenente, Ministri, Tribunali, Amministrazioni, tutto come sta, tranne i Borboni (1).» II Matteucci, uomo non meno riverito, avea pubblicato quegli scritti, de' quali innanzi abbiamo tenuto discorso, in cui propugnava apertamente il principio delle autonomie provinciali, anche a proposito di Napoli (2). Il Farini, nome anche chiarissimo, e dippiù ministro sopra gli affari interni, avea caldeggiato il famoso sistema regionale, consuonante alle idee del Matteucci; ed essendo membro del gabinetto la sua parola aveva anche maggiore autorità. Il giornale il Nazionale, notorio apostolo del Conte, con una lunga seguela di articoli s' ingegnava a fare proseliti all'annessione, ponendo innanzi, non senza qualche cautela, le stesse idee: così lodava un articolo del Dailg News il quale, come esso diceva «pone il gran principio che bisogna unificare l'Italia sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emmanuele, ed osserva che per cansare mali gravissimi, non bisogna violentemente assoggettare le diverse provincie italiane alla efficacia di un forte governo centrale (3)». Anzi revindicava il trovato agl'italiani: «Di guisa che il giornale inglese propone un grande governo italiano nazionale, ma costituito in modo,

(1) Dell'annessione di Napoli al Regno d'Italia, Firenze 27 luglio 1860.

(2) Vedi pag.84 e seg.

(3) Numero del 27 settembre 1860.

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che non tolga una certa autonomia alle varie parti d'Italia, diverse per tradizione e per interessi. E quello un bellissimo pensamento, che già altri illustri italiani trattarono e svolsero prima che il giornale inglese ne parlasse» (1). Non di meno v'erano i dubbiosi! qualche giornale alzava la voce, perché le parole si traducessero in formale stipulazione; contro essi il Nazionale inorridito e scandalizzato si levava furiosamente: «E orrendo, diceva, a pensare, che alcuni, vorrebbero invece suscitare contro esso (il Piemonte) la più vergognosa delle gelosie (2)». Ed in altro luogo esclamava: «In che fine si può supporre che un partito alzi su questa bandiera? Noi ci siamo risposto: al fine di suscitare gelosie e sospetti ne' napoletani di far loro credere, che alcuni de' beneficii, che godono oggi che sono costituiti in reame a parte, rischierebbero di perdergli quando l'unione fosse fatta (3)». E chiamava i sostenitori di tale idea «separantisti, che danno a sé nome di unitarii purissimi (4)»; e quindi esaltando la magnanimità del Piemonte e la rettitudine delle sue intenzioni, risolutamente affermava; che «il Piemonte non crede per questo, che i suoi usi, le sue leggi, i suoi costumi devono prevalere in Italia». E trasportato da santa bile, esclamava che: «l'accusarnelo nascosamente o apertamente, è la più goffa delle babbuaggini, se non è la più perfida delle calunnie!»(5). Poi tornando spesse volte alla carica, rampognava gli oppositori: «Perché vorreste dare ad intendere, che il Piemonte voglia imporre le sue istituzioni municipali,

(1) Ibid.

(2) Ibid.

(3) Ibid.

(4) Ibid.

(5) Eppure ad onta delle assicurazioni del giornale ufficioso, dopo pochi mesi non rimaneva pietra sopra pietra dell'antico venerando edificio delle nostre leggi: tutto il nuovo era vestito alla piemontese; gli uomini del Piemonte, quasiché soli prevalevano, massime in Napoli. Alla nostra volta noi diciamo, che il discorso del Nazionale arguiva o la più goffa semplicità, ovvero la più perfida delle insidie.

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i suoi codici, i suoi ordini civili (1)»? Altrove discutendo col giornale milanese la Perseveranza sul valore della parola fusione, la dichiarava così! «La parola fusione poi ci sembrava esente da ogni equivoco, come quella che indicava chiaramente, che non si trattasse dell'assorbimento del Regno (napoletano) in un altro stato, ma della unificazione a pari titolo di parecchi stati in un solo (2)». Infine nel calore della eloquenza, rimproverando a' municipalisti il panico timore di divenire una provincia (sic), loro facea toccare con mano, che l'annessione delle altre regioni si facea quasi a profitto dell'Italia meridionale (3). A queste parole rispondevano a coro i piemontizzanti; e il povero popolo credeva.

L'annessione, predicata come il paradiso civile, guadagnava rapidamente terreno. Intanto il generale Garibaldi era stato astretto a sostare innanzi Capua: qualche rovescio parziale avea colpito le sue armi: lasciarsi dietro quella fortezza non poteva, e di pigliarla non avea modo, per difetto quasiché completo degli strumenti di assedio, e delle armi speciali del genio militare e dell'artiglieria. La gloriosa vittoria del 1 ottobre provò anche una volta l'indomabile valore de' suoi soldati, ma non fece progredire di un'oncia l'ossidione: le cose stringevano: il Cialdini entrò nel regno.

(1) Numero del 29 settembre 1860.

Numero del 4 ottobre 1860..

(2) «E questo si chiama divenire provincie, nel senso in cui coloro che se ne allarmano l'intendono? E non sarebbe forse più vero il dire, che l'annessione delle altre regioni italiane si fa quasi a profitto dell'Italia meridionale»? Num. del 13 ottob. 1860. Il nerbo dell'argomento era, che i nostri deputati superavano relativamente in numero quelli delle altre provincie. L'argomento provava troppo: i fatti lo hanno mostrato. Nondimeno poteva avere qualche valore, se non si fosse da' governativi cercato di sfatare e di escludere dalle candidature come borbonici e separatisti tutti coloro, che erano assai e i migliori, i quali ardivano di dire qualcosa in favore dell'autonomia. Non bisognava usare di una legge elettorale propria a favorire gl'intrighi de' chercheurs de fortune; né doveansi maledire, bistrattare, accoppare con gli urli e le risa quei tre o quattro deputati, che ardirono di aprire la bocca nell'aula parlamentare per propugnare le autonomie provinciali.

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Gli squittinii universali si rendeano più necessarii per dare autorità al Principe di proseguire la guerra. Alcuni prudenti voleano, che le promesse de' giornalisti e degli uomini governativi avessero una guarentigia migliore, che non le parole fuggevoli: i repubblicani, che mal soffrivano che col venire delle truppe piemontesi loro si togliesse l'imperio, si agitavano mostrando la necessità di convocare l'assemblea nazionale napoletana, per determinare le condizioni dell'annessione; e si faceano scudo del gran nome del Garibaldi, il quale volea lo stesso, ma per tutt'altre ed incolpabili ragioni: essi diceano bene, ma il

Timeo Danaos et dona ferentes

era entrato nell'animo di tutti coloro che erano forestieri a quel partito. La convocazione dell'assemblea richiedeva tempo, e questo indugio poteva soffermare il Cialdini; si sapeva che il Borbone si fortificava; Garibaldi non avea potuto fare un passo innanzi; le giornate come quelle del 1 ottobre non si ripetono spesso: dippiù i repubblicani lavoravano, ed era certo che avrebbero a loro pro voltato ogni indugio. A tranquillare gli animi non del tutto persuasi, si dicea da molti che il pericolo stringeva; ed il menomo ritardo potea porre a sbaraglio ogni cosa; che d'altra parte non si poteva legare preventivamente le mani al governo, poiché l'annessione dovea necessariamente spegnere certi ordini speciali, non compatibili con essa; la nomina preconizzata del Farini, fautore delle autonomie provinciali, dovea rassicurare qualunque dubbiezza; che ad ogni modo voleasi avere piena confidenza nella lealtà del Re Galantuomo. E certo i nostri ordini, il nostro bene, le nostre vite non potevano commettersi ad ancora più salda delle mani di tanto Principe: chi potea dubitarne? chi mai ne dubitò? ma ne' governi costituzionali il principe non è solo a reggere;

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e talvolta gli conviene cedere a' suoi ministri, anzi come pretendono i costituzionali alla francese, ei dee regnare non governare (1). In tal modo il popolo napoletano, tra la paura dell'anarchia repubblicana, e quella di una rotta del Garibaldi che avrebbe rimesso in sedia i Borboni, si trovò preso tra l'uscio e il muro; e rassicurato in qualche maniera dalle tante ciarle che si smaltivano, votò l'incondizionata annessione. Intanto il Cavour, che nulla avea direttamente promesso, rimase affatto libero nella sua azione. Se vuolsi ammirare la destrezza del giuoco, si ammiri pure; sempre che si creda, che i rettori de' popoli deggiano ormare i valenti schacchisti.

Messosi buono in mano il Cavour e i suoi partigiani non tardarono a porre mano all'opera. Col giungere del Farini s'iniziò propriamente il regno degli emigrati e degli alleati loro; perocché nel breve spazio della dittatura se alcuni di essi afferrarono il potere, ci fu per poca stagione; ma le poche cose da loro fatte erano per dirla con Dante,

di lor vero ombriferi prefazii

Parad. n.

come il correre del tempo dimostrò. Tutti i carichi più importanti dello stato, ed anche i più lucrosi, furono amichevolmente divisi tra essi, e i loro aderenti e concolori; le poche eccezioni in contrario non meritano che se ne tenga ragione:

(1) Dico alla francese, perché i migliori pubblicisti inglesi credono, che i poteri del re sieno molto più grandi di quello che d'ordinario non si stima; puoi vederlo nel Blackstone. Questo celebre pronunziato è un bel trovato per fare di un principe il re travicello, rompere ogni equilibrio di potere, abbandonare lo stato al mutabile vento che spira nelle assemblee popolari, e favorire gl'intriganti e gli ambiziosi: solo per questo falso assioma, mediconzoli, avvocatuzzi. professorelli di umane lettere e rabberciatori di articoletti di politica giornalistica, sforniti di ogni capacità ed esperienza governativa, di lancio hanno potuto recarsi in mano il potere, e malmenare lo stato; né vi ha melenso che oggi non aspiri in cuor suo a diventare ministro. Certo se vi ha cosa necessaria a' tempi che volgono, per dare stabilità allo stato ed un andamento equabile che sovrasti a partiti, si è la fortificazione dell'autorità regia.

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a chi non avea qualche entratura con quel partito, si conveniva uscire d'ogni speranza. Furono messi a capo di gravissimi negozii e di amministrazioni quando uomini maturi e quando giovani, i quali non avevano alcuna attitudine a condurli; né questo dee recare maraviglia, perché non si nasce colla scienza infusa; e se oggi pochi vogliono credere a' miracoli de' santi, ci si permetta di miscredere a quelli degli uomini. A subalterni si porgevano frequenti occasioni di sollazzarsi piacevoleggiando, sugl'innocenti pargoleggiamenti de' loro soprastanti nelle cose del governare. Essi in compenso coll'altero sussiego, colla solennità del sentenziare e col tragedieggiare del volto, conditi in alcuni dall'affettare i modi di parlare di Piemonte, nel che non mostravano finissimo gusto, assumevano l'aria di strasaputi, e si poneano in sul grand'uomo; sicché per un pezzo non fu spettacolo più ghiotto e saporito di questo. Ben presto a quel partito fu affibiato il nome di consorteria, il quale, come la camicia di Nesso, gli si appiccò addosso, e ne consumò a poco andare la riputazione e le forze. Dicesi il Farini avesse avuto altre intenzioni: forse dové cedere alla corrente; checché ne sia, la sua amministrazione, in cui non si può raffigurare il grave e temperato scrittore dello Stato Romano, causò gran parte della nostra rovina.

Le destituzioni della dittatura erano state innumerevoli: si sperava che il furore sotto il governo riparatore si sarebbe allentato: ma l'opera distruttrice dovea dirsi appena iniziata. Si privò degli ufficii una enorme quantità d'impiegati d'ogni maniera: per parecchi era giusto che fossero stati esautorati; ma alla massima parte furono tolte le cariche, che per moltissimi erano l'unico mezzo per sostentare sé e le famiglie loro, senza alcuna valida ragione. Tutti ricordano, che per cinque o sei mesi i numeri del quotidiano giornale ufficiale recavano la quotidiana manna delle esautorazioni;

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e gl'impiegati aspettavano tremando l'ora della pubblicazione del foglio, per vedere se il loro nome fosse compreso in quelle interminabili liste di proscrizioni. Il governo dovea essere conciliante, invece si dichiarò partigiano. Si trovò per adonestare queste enormezze un vocabolo: l'aggettivo borbonico. Ma quale era il valore di questa parola? era applicabile solo a quelli che erano stati i notorii e malvagi strumenti della cattiva amministrazione caduta; o a quelli che erano stati semplicemente impiegati sotto il precedente governo? comprendeva anche coloro che per convinzione tenevano al reggimento antico, senza avervi per nulla partecipato? Che importanza avesse il vocabolo borbonico non fu spiegato giammai: era una specie di materia elastica, che tira di qua, tira di là poteva aggiustarsi ad un numero infinito di persone; e noi ricordiamo un momento di esagerazione, fuggevole per altro, in cui fu dato del borbonico a chiunque, che senza appartenere al partito di azione, mostrava di dissentire dall'indirizzo governativo. Eppure per questa parola indefinita, applicabile a capriccio, fu decretata col più maraviglioso, anzi cinico sanguefreddo. la ruina di migliaia d'impiegati e delle loro famiglie, a molti de' quali non rimase altra via che l'onta di andare limosinando. Per la stessa ragione vennero rimossi da carichi gratuiti e meramente onorifici, parecchi, urtandone inutilmente la dignità, e sia pure la innocente vanità. La parola borbonico ebbe tra noi presso a poco lo stesso valore indeterminato, che quella di aristocratico al tempo della rivoluzione francese, la quale fu bastevole a far cacciare in esiglio, a porre in ceppi ed a trascinare perfino sul palco, molta gente ragguardevole ed innocente, ed anche celebratissimi rivoluzionarii; appo noi la cosa andò più mite; si stette contenti a ridurre solamente la gente alla miseria ed a covrirla di vergogna. Di leggieri si può immaginare, che chi mirava a qualche ufficio lucroso o no,

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non aveva via più sicura che dare del borbonico a colui che aspirava a soppiantare: alla magica parola questi era scavalcato e l'avversario montava in sella in luogo suo. La tentazione era troppo forte: e moltissimi vollero saggiare il giuoco. Si videro sbucare d'ogni parte torme di unitarii, di martiri e di salvatori della patria: fu piacevole spettacolo l'assistere a frequenti metamorfosi, non meno maravigliose delle ovidiane. Molti superarono in pochi giorni que' gradi gerarchici, che voleano ad essere saliti lunghi anni: non rari di balzo incominciarono di là dove per lo più gli altri terminavano la loro carriera; alcuni usarono prudentemente delle rinuncie per progredire, e facevano il viso dell'arme quando loro si offerivano posti, che non più che un anno innanzi si sarebbero riputati beati di conseguire; ma riuscivano: ogni rinuncia era un passo di più. La camorra fu universale, ma questa volta era governativa; la rea costumanza erasi nobilitata; dall'abituro del mascalzone e del paltoniere era salita a più eleganti dimore, ed anche a' saloni dorati. I soli sacrificati in tanto baccano erano gli antichi impiegati co' capelli grigi, i quali si vedevano rapire da gente nuova, e per l'ordinario assai meno capace di loro, que' posti cui aveano incontrastabile e santissimo diritto, dopo lunghi e spesso faticosi servigii senza altra speranza; ma si guardavano come dal fuoco di far sentire i loro lamenti, felici di farsi dimenticare in tanto tramestio. I nuovi venuti gavazzavano: oh! la bella cosa, che l'Unità d'Italia! oh! il felice trovato, che la parola borbonico!

Questo vocabolo colla rapidità del lampo dalla capitale si dilatò per le provincie. Tutti sanno le gare municipali che corrono tra gli abitanti de' borghi e de' villaggi, e più questi sono piccoli, più quelle sono violente: l'aspirazione del tale o del tale altro ad un ufficio municipale, ad un posto di ufficiale della milizia cittadina, ad ottenere quell'appalto,

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e financo talvolta un litigio civile tra' più influenti paesani, basta per accendere, alimentare, produrre all'infinito le discordie. Ognuno cerca fortificarsi con partigiani, i quali d'ordinario avendo anche essi le loro gare, sono pronti a schierarsi nell'uno o nell'altro partito, purché avverso a' proprii contraddittori. Se questo disordine si trovi nelle altre parti d'Italia non sappiamo: tra noi, bisogna dolorosamente confessarlo, e assai frequente. Quale più bel pretesto per colorire le discordie private, che le divisioni politiche? ben presto tutti quasi i paesi furono scissi in borbonici e liberali, cioè unitarii alla Cavour, i quali, in quei momenti di pochissima energia governativa, spesso si combatterono colle armi. E questo fu il primo generale principio delle reazioni, le quali dapprima non avevano mantello politico. Non bisogna farsi illusioni:. se n'è già abusato abbastanza: il governo caduto era dalla massima parte del popolo (non dirò da tutto), specialmente delle città, mal veduto; perché chi più chi meno ne risentiva i tristi effetti: i campagnuoli, che erano i meno esposti alle sue battiture, o lo amavano per tradizione, o per lo meno erano indifferenti. Della numerosa parte de' malcontenti, che senza dubbio conteneva i migliori clementi della nazione, molti pensavano alla costituzione, pochi, o per dir meglio rarissimi, e tra' più colti intendevano all'unità d'Italia; ma non s'accordavano sulla sua forma. Il concetto di unità della patria, perché universale è ideale e metafisico, e però può attecchire solo in menti sveglie ed ornate di coltura. La moltitudine, che per quanto è più grossolana più si versa in su' sensibili, intende generalmente il proprio comune, una buona parte giunge a comprendere la provincia, pochissimi s'innalzano fino alla nazione: ben può il concetto di unità della patria albergare in menti rozze, purché però sia tradizionale ed antico, e s'incarni nelle particolari determinazioni sensibili delle consuetudini della vita.

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Certo qual contadino francese non intende l'unità della Francia? anche i nostri popolani capivano bene l'unità del regno napoletano, ma quella d'Italia era per loro una incognita. Come si può dire sul serio, che pensassero all'unità d'Italia que' milioni di contadini che spesso non sanno leggere. e di piccoli proprietarii e mercantuzzi di provincia, il cui mondo finisce colle loro botteghe e colla siepe che imprima i loro orti? come poteano desiderare l'unità italiana quelli, di cui i più non sapevano, ed altri sapevano appena, che ci fosse un Piemonte o una Venezia? Né in questo è contraddizione con quello che altrove scrivemmo (1), di essere il concetto dell'unità della patria nato in queste provincie da' tempi più remoti. Era surto negl'intelletti privilegiati, e da questi travasato ne' mezzani; era nato, per la eguaglianza di diritto che tra noi si celebrò sempre, per cui gli stranieri venivano equiparati a' nostrani; ma come forma di fusione era peregrino alle moltitudini. Queste voleano in primo luogo essere ben governate e non essere tormentate negli affari loro; lo erano state, e perciò astiavano il governo; anelavano che andasse in perdizione, ma non per questo bramavano l'unità. Ma se per questa non si struggevano, non la odiavano, perché non aveano ragione di combatterla, né di rischiare la vita e la roba per impedire un ordine di cui nulla loro caleva: l'avrebbero amata se loro fosse tornata a bene. Moltissimi consentirono alla rivoluzione, molti ardentemente vi parteciparono, perché vedevano in quella il mezzo di sottrarsi alle oppressioni governative, e quindi si trovarono per naturale conseguenza inchinevoli a favorire l'unità. I saputi diceano attorno, che i nuovi ordini avrebbero molto giovato; ed essi credevano. Se questi sono fatti, che nessuno uomo imparziale può negare, egli è evidente che le parole unitarii e borbon('ci, nella massima parte degli abitatori delle provincie, indicavano due partiti, ma non due idee politiche;

(1) Napoli e l'Italia, pag.37 e seg.

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ed erano accettate come scusa delle gare municipali. Tale fu borbonico solo perché il suo avversario dicevasi unitario; taje Fu unitario perché il suo nemico era borbonico; e non di rado è occorso il caso, di essere uno stesso uomo passato dall'un partito all'altro, non per politica convinzione, ma per mire private (1). Ma tra le energiche popolazioni delle nostre provincie i dissidii spesso non finivano a parole: in molti luoghi si venne alle armi: dove trionfarono i così detti borbonici, si disse essere scoppiata reazione; dove ebbero la meglio gli unitarii, i vinti per sottrarsi alle ire de' loro nemici, ed anche per evitare le mani della giustizia, si diedero a battere la campagna; e questa è la prima origine tanto delle reazioni che del brigantaggio. Si noti bene, che io intendo parlare di prime origini; non di discorrere delle cause seconde, che hanno moltiplicato le prime, e reso tremendo l'altro. So anche io, come tutti, che nelle reazioni fu subdolamente soffiato: ma voglio dire, che se il fuoco non era già acceso, riusciva inutile il soffiarvi dentro. E indubitato che i briganti hanno avuto da mare e da terra soccorsi di armi, di danari e di uomini; e che le limitrofe provincie romane sono il tristo ritrovo di venturieri esteri e di coloro che pretendono il restauro della caduta dinastia; ma dico, che se non si trovasse materia predisposta, i tentativi riuscirebbero a vuoto (2).

(1) Che in massima parte le reazioni sieno state causate da litigii privati è un fatto dimostrato da molte processore, segnatamente da quelle della provincia di Salerno, d'onde la somma mitezza delle pene, che furono applicate da quella G. C. Criminale. Questo fatto lo tenghiamo dalla bocca di chi vi giudicò.

(2) Noi non siamo di coloro, i quali trovano un facile modo di spiegare tutti gli eventi storici mercé il capriccio e l'intristii umani. Il che è un non capirne niente. Si dice da molti, che Garibaldi trionfò perché i capi dell'armata borbonica si lasciarono corrompere: non so se sia vero: sia: ma coloro che si fanno corrompere per danaro, è chiaro che credono più al danaro, che al principio che debbono difendere: dunque la miscredenza nel principio fu la vera cagione della dissoluzione dell'armata borbonica. Dicono ancora, che l'accoglienza fatta al Re in Napoli fu effetto degl'intrighi de' liberali. Ma perché questi intrighi non potettero produrre che la magra dimostrazione per Roma; la quale solo al Popolo d'Italia, armato di un cannocchiale, che sfiderebbe quelli del Herschel o di lord Ross, che gli fece pigliare una formica per elefante,

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Aumentarono il numero de' briganti molti soldati dell'esercito napoletano imprudentemente congedati; e quindi varie cause hanno invelenita la piaga, perché piccolo fuoco se alimentato divampa in grande incendio, in contro a cui si dee poi lottare con sommi sforzi, quando prudentemente poteasi impedire che nascesse, o gittarvi su cenere al primo suo apparire.

Gli emigrati di corto chiarirono la loro sovrana incapacità nel reggere la cosa pubblica. L'illustre Angeloni, fuoruscito anche esso, parlando della niuna attitudine degli esuli ripatriati a riassumere il governo dello stato, scriveva. «I fuorusciti, che dopo lunghi anni ritornano, ebbri di dolore, di furore, di amor di bene, e di consuetudini e di parole straniere, fanno più che altri inganno a sé stessi; e possono alla patria nuocere più che crudele nemico (1)». Ed il Macaulay, solenne maestro di politica, dettò: essere «quasi impossibile che un uomo politico, che sia stato costretto dalle lotte civili a bandirsi dalla propria patria, e passare lungi da quella molti de' più begli anni della vita, sia adatto, appena ritornato sul suolo natio, a togliere in mano il timone della cosa pubblica (2)». Questo egli considerava ad occasione dell'amministrazione del conte di Clarendon, esule inglese che fu ministro al tempo del II Carlo Stuardo; e del quale egli dice: «che quando ritornò alla patria, senza avere speso una settimana a volgere lo sguardo all'intorno, e mischiarsi ne' socievoli costumi, e notare i mutamenti che quattordici anni di vicende aveano prodotto nel carattere e nel sentire della popolazione,

parve di sessantamila persone? Così pure si dica del brigantaggio, le cause, ne son ben oltre che le istigazioni e i danari che vengono da Roma; solo ragioni secondarie, e dispregevoli se fossero uniche.

(1) L'Italia tom. II p 246. Questo scritto commendevole per molti rispetti, fu pubblicato senza indicazione di epoca e di luogo, se non andiamo errati nel 1845.

(2) Storia d'Inghilterra, ediz. cit. tom 1 pag.165.

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fu posto repentinamente a condurre il governo dello stato (1)»; alle quali cause appone il falso modo tenuto da quello nel moderare l'Inghilterra. Queste parole sembrano scritte pel nostro caso; colla sola differenza, che i nostri emigrati aveano col Clarendon comune la qualità del patito esiglio, ma se ne dilungavano dal lato della capacità, della profonda cognizione delle cose di stato, della esperienza ne' pubblici negozii, e di tutti gli altri pregi che lo storico inglese ammira in lui; onde non è da trasecolare se presto si rovinò in malissime condizioni. Di tutte queste prerogative che loro mancavano, tenne luogo l'implacabile vezzo di distruggere, la superbia di volere far tutto da nuovo, senza rispetto nessuno alle condizioni reali di queste provincie; ed invalse una furia incredibile di legiferare, ormai divenuta proverbiale. L'amministrazione civile ne' suoi moltiplici ordini, la finanza, le dogane, la pubblica istruzione, la polizia ecclesiastica, l'ordine giudiziario, la guardia nazionale, tutto in somma diventò materia in cui si esercitava la feconda inventiva de' governanti; ed i loro portati aveano tanta vitalità, che si videro in poco spazio sulla stessa materia, abbattute le antiche leggi dalle nuove, e queste surrogate da altre nuovissime. Parca che i reggitori credessero incombesse il finimondo, tanta era la furia con cui procedevano; cosicché potea loro attagliarsi quello che Dante diceva di Firenze a' suoi giorni,

e fai tanto sottili

Provvedimenti, che a mezzo novembre

Non giunge quel che tu d'ottobre fili.

Purgat. VI.

Da qui nasceva, che appena un ordine cominciava ad operare, gli sottentrava un altro o contrario o modificativo. Si creavano commissioni sopra commissioni; ed in breve ora si

(1) Op. cit. tom. I pag.160.

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generò una incredibile confusione. Il numero de' provvedimenti avrebbe soverchiata la memoria di Mitridate o di Giulio Cesare. L'autorità ne scapitava: perché come si voleva aver fede in un ordine, quando era incerto se e quanto avesse a durare? Anche a' pochi rimasugli delle antiche istituzioni furono mutati i nomi, contro l'insegnamento del Machiavelli, il quale consiglia di mantenere almeno i nomi, se gli ordini non si possono conservare (1). Ma quello che è più piacevole a notare, è un altro vezzo tenuto da' legiferanti. Persuasi che questo popolo giacesse sepolto nelle tenebre della ignoranza e della corruzione, come gli uomini dello speco platonico, si credettero in dovere di farci sentire, che essi apportavano la triplice luce della scienza, della moralità, della civiltà. Il dire che noi fossimo guasti, imbestiati e barbari diventò di moda ufficiale: i preamboli delle nuove leggi ne erano pieni: i leggifattori per carità cristiana si messero in sul predicatore; era un sermonare assai gustoso; e le famose relazioni de' consiglieri di luogotenenza e più tardi de' segretarii generali, toglieano aspetto piuttosto di omelie, che di atti governativi, ma a modo delle geremiadi correnti al tempo del farisaismo politico de' puritani inglesi (2). Certo se a' posteri non giungesse altra notizia delle cose nostre di questi tempi, se non quella esibita dagli atti governativi, farebbero stima che in ignoranza non la cedessimo a' turchi; in barbarie entrassimo innanzi agli aborigeni; in corruzione superassimo i romani sotto gli ultimi cesari, e gl'inglesi al tempo degli ultimi Stuardi (3). Ma in buona sostanza che ci

(1) Per rara benignità si serbò il nome di Eletto a certi funzionarii municipali della città di Napoli.

(2) Se vuoi, lettore, avere un saggio delle filippiche e delle catilinarie ufficiali scritte contro il povero Giobbe del popolo napoletano, risparmiandoti il non lieve fastidio di leggerne altre, puoi far tesoro della relazione del Nigra al conte di Cavour, la quale per vivacità, colorito, esattezza di disegno ed eloquenza vale per molte.

(3) La cosa andò tanto oltre, che ogni volta che si parlava di noi, sia anche nel parlamento, non si sapeva trovare altra ragione di tutti i fatti nostri che

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era di vero in queste esagerate declamazioni? Eravamo barbari: e pure possedevano i migliori ordinamenti civili (sia pace a quelli che opinano in contrario). Che i nostri ordini amministrativi fossero eccellenti, e per alcuni particolari superiori anche a' francesi, lo hanno dimostrato parecchi nostri scrittori, né lo contrastano i francesi stessi; che i nostri ordini finanzieri fossero i migliori d'Italia, lo ha detto per tacere di altri, il Sacchi, inviato da Piemonte a maneggiare la nostra finanza (1); che il nostro codice penale si lasciasse lungo tratto indietro il subalpino lo ha fatto toccare con mano il Roberti, che ne ha tessuto un pregevole confronto (2); che la nostra procedura penale fosse la migliore in Europa, è cosa notissima a tutti quelli che della legislazione penale hanno fatto obbietto di studii;

l'ignoranza, la corruzione, la barbarie. Ad occasione delle discussioni sollevate io parlamento per le ultime leggi sulle tasse, fu notato che in Napoli le tasse graduali sulle successioni e i contratti erano già state in tempo de' francesi, ma che il ministro Medici le avea soppresse. Questa fu buona occasione per l'oratore del governo di dichiarare, che quei balzelli ci erano stati tolti a causa della nostra corruzione, ed in prota ciiò, però senza leggerlo, Il preambolo della legge che li sopprimeva, il quale, sia detto per parentesi, diceva tutt'altro, ed assegnava ragioni economiche e di buona amministrazione, non la ignoranza e la corruttela de' popoli, il che sarebbe stato assai singolare, come motivi dell'abolizione. Qui umilmente rigettiamo, che se la nostra ignoranza e corruzione ci fruttava l'abolizione di gravissime imposizioni, ed i nostri governanti ci teneano per ignoranti e corrotti, doveano almeno, non dico sollevarci da altri dazii, ma non imporcene di nuovi, perché stava per noi il principio di legge, ubi cadem ratto idem jus. Ma no: essi sventuratamente per noi, pensarono che potevamo aspirare alla civiltà; e come prima entratura nella via de' popoli civili, ci aggravarono di tasse enormi; in questo solo ci considerarono come civili. Ciò mi ricorda un fatto grazioso di un procuratore generale, che diede la sua requisitoria contro un sordomuto imputato di parricidio; l'avvocato si era sfiatato a provare, che le azioni de' sordomuti non sono imputatili, a causa della direttività consueta delle loro facoltà intellettuali; ma il valente magistrato osservò, che era indegno delle civiltà e della carità il tenere i sordomuti come esseri degradati, e per innalzarli al rango di esseri razionali perfetti dimandò la pena di morie contro l'imputato, per fargli godere l'equiparazione a' suoi simili.

(1) Il segret. gener. delle finan. di Nap., Nap.1861.

De reati e delle pene in gen., Nap.1862.

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che i nostri temperamenti sulla pubblica istruzione fossero eccellenti, in quanto soli in Europa consentissero la piena libertà d'insegnamento lo ha mostrato il Settembrini (1), che gli ordini della magistratura fossero preferibili a nuovi è stato con lucidità fatto aperto da una scrittura anonima, che vuolsi dettata da uno de' migliori nostri magistrati, ora fuori d'ufficio; che le nostre leggi doganali superassero le presenti per chiarezza, rigore di principii e libertà d'idee, venne dimostrato al Governo con un dotto lavoro compilato da uno de' più egregi nostri amministratori, ed è gran peccato che non siesi divulgato per le stampe; in materia di beneficenza pubblica, che è presso di noi prodigiosa, avevamo una completa legislazione (2); infine i nostri codici erano in sostanza i francesi, e molte delle leggi nostre principali erano state edificate, non senza avvisate modificazioni, sul modulo di quelle di Francia, la quale non pare che sia un paese barbaro. Eravamo ignoranti: ma i nostri professori insegnavano in buon numero nelle università e ne' collegii italiani; e gli uomini che abbiamo periti in giurisprudenza, in economia, in filosofia, in amministrazione, in letteratura, in antiquaria, nelle scienze naturali si lasciavano lungo tratto indietro i maestri novelli (3). In quanto a' nostri impiegati, il Sacchi non solo disse che non cedevano agli altri per intelligenza e perizia,

(1) L'Università di Napoli, Napoli agosto 1860 Raccomandiamo molto la lettura di questa pregevole scrittura.

(2) Vedi l'opera del De Rossi, Intuizioni per l'Amminittraz. di benef. Napoli 1856, tre volumi in 8 "

(3) Non vogliamo altra testimonianza che quella del Nigra, cosi poco sospetto di parzialità per noi. «Gli elementi ammaestrativi (sic) abbondano in queste provincie, ma esse difettano massimamente di elementi direttivi. Sarà quindi utilissimo, che si chiamino nell'Italia superiore professori napoletani, e che da essa vengano a Napoli i direttori». Relaz. al conte di Cavour, p.41. Singolare ignoranza chiamata a diffondere il sapere. E soggiunse, che io queste provincie ci è profusione d'ingegno e di coltura. Come dunque eravamo ignoranti? Forse il signor Nigra è partigiano della teoria della immedesimazione de' contrarii», la quale come è noto, trascende dal principio di contraddizione.

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ma che li superavano per cognizioni economiche specialmente, di cui quelli erano per l'ordinario privi, e per dettare italia

namente, allontanandosi dal consueto gergo officiale altrove in fiore (1).

Ma quella che non si può tollerare è l'imputazione di corruzione? ma in che? non credo per moralità privata, la quale è notoriamente eccellentissima: le famiglie napoletane sono specchio di buon costume, in cui può specchiarsi chi ne ha bisogno: per moralità pubblica? ma di grazia quale de' nostri ministri ebbe voce di ladro da sessanta anni in qua? molto si gridò di un solo: ma a costui fatto il processo nel 1848 per pretese concussioni, da uomini che certo non egli erano amici, fu chiarito innocente; e testé essendo morto, i suoi creditori hanno promosso la espropriazione di quel poco che rimase a' suoi eredi. I capi della nostra Tesoreria hanno maneggiato per cinquanta e più anni centinaia di milioni di ducati; e sfidiamo chicchessia a citare un nome solo che sia rimasto macchiato. La nostra G. C. de' Conti ha acclarato le gestioni del danaro pubblico per tanto tempo, ed i nomi de' suoi componenti porgono argomento di riverenza e non di scandalo. de' molti amministratori delle provincie, che in cinquanta anni sono saliti a più centinaia, salvo quattro o cinque, non si sa che abbiano rubato: sono usciti di carica poveri, e molti morendo hanno rimasto onorata povertà per unica ricchezza alle loro famiglia. Su' pubblici contratti non si potea far lucro, perché le nostre leggi volevano come condizione indispensabile lo sperimento della gara pubblica, la quale non era un nome vano, poiché il giorno dello sperimento era annunziato ripetute volte

(1) «Molte belle intelligenze vi si facciano rimarcare E checché voglia dirsi in contrario, vi si trovavano uomini di grande istruzione. Le scienze economiche, altrove generalmente sconosciute alla classe degl'impiegati, erano qui generalmente professate. Facili e pronti i concetti, purgata ed elegante la lingua, ci scostavano le scritture degli uffici da questo amalgama di parole convenzionali, che altrove rimpinzano la corrispondenza ufficiale». Sacchi, op. cit. pag.12.

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dal giornale ufficiale, e le clausole ne erano pubblicate con avvisi ed affissi per tutto il regno: che anzi non fu raro l'esempio, che nel caldo della gara gl'intraprenditori ne riuscirono ruinati, pel poco prudente ribasso da loro offerto: ma questo è nulla, davansi ancora dopo l'aggiudicazione diffinitiva altri due termini detti di decima e di sesta, ne' quali una migliore offerta vincea l'antica, ed anche essa era soggetta allo sperimento dell'asta, che avea luogo dopo le suindicate formalità. La frode era assolutamente impossibile: in qualche raro caso si dispensava da tali forme: ma questa dispensa era facoltà regia, che il re solo poteva esercitare con la forma di apposita disposizione. E che può dirsi della magistratura civile e penale, altro che lode per questo rispetto? ci erano degl'ignoranti, degli uomini che ligi al governo giudicarono crudelmente ne' giudizii politici; ma gli stessi condannati non hanno mai detto, né possono dire, di avere subornato i giudici. Che anzi vuolsi notare, che in una celebre causa trattata or sono circa quaranta anni, uno de' nostri migliori avvocati, il Cassini, potè provare che alcuni giudici si erano lasciati corrompere: ricorse al re, e i giudici furono dimessi. Altri due funzionarii il de Matteis ed il Procurator Generale d'Alessandro, vennero dalla pubblica indignazione gridati ladri ed agozzini: furono giudicati, e condannati. Egli è vero che dipoi Ferdinando II volle far consigliere il de Matteis, ma il Parisio, allora ministro di giustizia, si oppose; ed il principe cedette innanzi al deciso rifiuto del nobile vecchio. Questi due tristissimi casi sono le sole eccezioni: essi non furono ripetuti mai più. Dunque, ci si dirà, voi siete tutti santi; e la pianta del ladro che fiorisce per tutto, non pone barbe tra voi? Volesse il cielo che così fosse: saremmo già in paradiso: tra noi lo spirito d'inonesto lucro allignava solo in qualche subalterno, il quale pigliava qualche tenue mancia per far forse sbrigare con più sollecitudine un affare, un pagamento,

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o far passare una merce in contrabbando: qualche cosa s'è ventilato anche dell'amministrazione de' pubblici lavori: contro la bassa polizia si è gridato molto, ed ivi ci era del fradicio.

Si è fatto anche molto scalpore de' famigliari de' principi, i quali metteano a profitto i regii favori: e taluno di questi causò molti scandali; ma il paese sa che erano pochissimi, ed i nomi loro furono vituperati dall'universale: però questi uomini svergognati non provano nulla, perché faceano rare eccezioni, e i principali tra loro non occupavano verun civile ufficio: essi erano per lo più cortigiani famelici e corrotti, peste che s'annida nelle corti di tutti i principi, anche de' migliori, e massime de' sovrani assoluti: i popoli sono tali da per tutto, e in grembo a loro cova sempre il lievito della corruzione: covava anche tra noi: ma di questo possiamo consolarci, che quello che si può apporre a' nostri impiegati, è ben poco a petto del numero loro, e non è uscito fuori degli ultimi ordini della gerarchia. Non vogliamo sapere de' fatti degli altri: chi si sente innocente scagli la prima pietra. Ci è un proverbio che dice, che se i mali di tutti gli uomini si mettessero alla scoperta, ognuno si terrebbe i suoi. Questo proverbio in subiecta materia lo invochiamo per noi. Lodiamo i governanti che ci ammonivano: ringraziamoli delle intenzioni e del fastidio che si pigliavano: solo siamo dolenti, che fuori proposito sprecarono il tempo ed il fiato: gli coroneremo di fiori, ma gli pregheremo a lasciarci in pace, come Platone nella sua Repubblica volea si facesse co' poeti.

Ecco come si governavano i nostri rettori. Le cose non andavano per bene: i nuovi ordini invece di fruttificare, imbozzacchivano: la fede nel governo intiepidiva. A ciò aggiungi, che gli spostamenti d'interessi privati, inevitabili in ogni mutazione di stato, sia pure prudentissima, qui si moltiplicarono fuormisura per le inconsiderate innovazioni.

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Gli umori cominciavano a risentirsi: ma la benignità de' più li conteneva. Richiamato il Farini, e venuto il Nigra, si sperò un istante che il governo si ravviasse: ma la speranza dileguò. Si chiarì che la musica era la stessa, anzi più alta di tono: e l'opera di eroica distruzione, e di debile e malferma edificazione imperversò. Gli animi seriamente si alteravano: i prudenti pregavano i reggitori che soprastessero; ma egli era un predicare al deserto: di quelli non pochi guadagnarono la taccia di borbonici. I governanti incapati parca togliessero a modello il dottor Salgado, che curava gl'infermi con acqua calda e salassi: morivano, ed egli crescea la dose per gli altri: questi morivano pure, e il dottore illustre dicea, che fossero morti per aver poco usato i salassi e l'acqua calda. La confusione del governo ne facea l'azione di necessità inferma: e spentone il credito, fu porta comodità a' turbolenti di fare il piacer loro; e quegli iniqui, piaga di ogni società, i quali non aspettano che l'ora propizia per mostrarsi, ebbero balìa di scuotere ogni freno e manomettere le vite e le sostanze de' cittadini: ben presto il regno fu infestato da ladri cittadini e campagnuoli, e la sicurezza pubblica e privata ridotta al verde. La miseria, conseguenza inevitabile di tanta turbazione, cominciò ad infierire. I gridi contro la consorteria salirono alle stelle: e più tempestava il partito di azione, per gelosia di mestiere. E perché si dee rendere tributo di lode a chi spetta, non si può lasciare indietro che un solo tra' piemontesi, intese e capì la posizione degli animi nel Napoletano, e questi fu il Ponza S. Martino: ma le sue mire prudenti, il suo fare conciliante, furono turbati dalle mene delle fazioni signoreggianti, né gli vennero perdonate vigliacche calunnie: egli non fece molto bene a questi popoli, perché non ne ebbe il tempo; gli si deve però riconoscenza delle ottime intenzioni. Si asserisce il falso quando si dice, che sotto la sua breve amministrazione gli animi si mostrarono malcontenti:

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tali erano unicamente le frazioni de' partiti estremi, abborrenti per principio da ogni conciliazione: ma il sussidio di moltissimi non mancò al nobile uomo: egli stesso lo ha dichiarato nella sua lettera al conte Gallina, pubblicata pe' giornali. In questa moriva il Cavour: si spediva il Cialdini, ma questo prode generale ebbe una commissione più militare che civile; ed intento a combattere i briganti, e d'altra parte avendo le mani legate ed essendo quasi del tutto l'unificazione consumata, poté fare assai poco: sotto di lui però il partito d'azione pigliò fiato, e volle a volta sua fare il contrappelo. Il governo centrale ben presto trovò una scusa per sopprimere ogni centro locale di amministrazione: le leggi piemontesi ci fioccavano addosso: delle nostre quasi non restò vestigio. Si disse che il concetto del Cavour era attuato: Napoli fu piemontizzato, e l'unità si predicò compiuta. Il popolo guardava stupefatto, e fremeva.

VIII.

DE' NUOVI ORDINI E PROVVISIONI.

Non intendiamo certamente di passare a rassegna i novelli ordinamenti messi in atto tra noi: questa materia sarebbe così enorme da richiedere per sé sola un volume. Come si può in poche pagine esporre e criticare tutte le innumerevoli leggi che hanno da cima a fondo rimutata la nostra civile costituzione? Staremo contenti a qualche breve nota sulla legge fondamentale dell'amministrazione civile, come quella che è la prima base dell'edificio governativo, e però la più importante di tutte; e toccheremo di volo degli altri provvedimenti, allungandoci un poco di più su' temperamenti della pubblica istruzione.

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In quanto all'amministrazione civile appo noi la sua base era la legge del 12 dicembre 1816, la quale in fondo era identica a quella sancita dalla Convenzione Nazionale, ma modificata in meglio in alcune parti importanti dal Zurlo, che è stato il più eccellente tra' nostri amministratori, e la cui riputazione è europea. Questa legge avea felicemente retto la nostra amministrazione, e costava di una congegnazione semplice e vigorosa così, che ne fu visto il valore, quando nel 1848 re Ferdinando, assalito dalla rivoluzione che minacciò da vicino il suo trono, poté solo per essa provvedersi di uomini e di danaro, nelle stesse provincie in cui regnava l'agitazione rivoluzionaria. Quella legge era informata da principii liberalissimi, ma ad un tempo conservava perfettamente l'unità ed il vigore dell'azione governativa. I comuni godevano di quella indipendenza che è comportabile con l'azione del governo centrale, il quale interveniva solo quando si trattava di ricondurre all'unità le amministrazioni comunali, ed impedire che si rovinassero con improvvide ordinazioni. L'intendente (prefetto) poteva una sola volta annullare le deliberazioni comunali: ma se l'assemblea municipale persisteva, l'affare dovea essere rinviato al ministro. I comuni erano considerati come minori, cioè stavano sotto l'alta tutela dello Stato: ma questa parola non bisogna pigliarla alla lettera; e se si vuole, rassomigliavano piuttosto a' minori emancipati: questo ordine avea preservato in tal guisa i patrimonii comunali, rendendoli da un lato imprescrittibili, dall'altro impedendo le alienazioni e gli acquisti senza la regia approvazione, la quale s'impartiva dopo matura deliberazione, cui potea essere chiamata la Consulta (consiglio di Stato). Si è gridato molto che quella legge fosse troppo centralizzatrice; ma in onor del vero bisogna dire, che essa fu guasta da posteriori disposizioni governative, le quali scemarono il potere de' comuni e de' prefetti;

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ma nel suo testo, quale anche oggi si legge, non avea tali modificazioni. Che dunque doveasi fare? abolire le malfatte alterazioni, ed introdurre il principio elettivo, voluto dagli ordini costituzionali. Né per questo occorreva fare nulla di nuovo; esisteva già il progetto analogo compilato dal Beneventano, nome illustre nella storia della nostra amministrazione, e discusso da una commissione di uomini riputatissimi, la quale ne ebbe l'incarico nel 1848, quando si trattò di porre quella legge in armonia con lo Statuto (1).

Ma la furia dell'unificazione estinse quella legge e sostituì l'altra stabilita in Piemonte nel 1859, conosciuta sotto il nome del suo autore, il Rattazzi. Non ci faremo ad esaminarla: la bisogna uscirebbe de' confini di questo scritto: solo vogliamo notare alcuni suoi vizii capitalissimi. Oggi è di moda la parola decentralizzazione, ma i più non capiscono di che si tratta. Se per decentralizzazione s'intende lo sciogliere i ceppi che impediscono il libero movimento delle parti, senza scapito della vita dell'insieme, essa è buona e salutare: come verbigrazia, se ad un uomo che abbia legate le mani, le braccia e le gambe, tu togli i legami, queste parti del suo corpo racquisteranno la vita propria, e tutto l'individuo se ne vantaggerà: ma se per decentralizzazione s'intende, quello che vogliono i radicali moderni, cioè la dissoluzione del tutto nelle sue parti, quest'ordine è morte, non vita; e chi l'attua si conduco così bene colla società civile come colui, che per rendere indipendenti le membra del corpo umano, le separasse recidendole: periranno ad un tempo l'individuo e le sue parti. A questo secondo caso può paragonarsi la decentralizzazione delle legge Rattazzi. Secondo natura ogni organismo unico costa di altre unità minori e meno ricche, le quali alla loro volta tengono sotto di sé altre unità;

(1) Leggasi quel progetto,è un monumento di sapienza civile.

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queste ultime per mezzo delle seconde si connettono alla prima; e così si stabilisce la vita organica dell'individuo, mercé le funzioni delle sue parti disposte a gerarchia. Nel corpo civile massima unità è lo Stato, vien dopo la Provincia, indi il Distretto (o circondario) dipoi il Comune; ed in questo si muovono le minori unità di quegli enti morali, che la nostra legge assomigliava a sezioni de comuni. La legge Rattazzi ha risoluto questo organismo mercé l'autonomia quasi assoluta de' comuni: essa è l'atomismo applicato all'amministrazione: le autorità provinciali e distrettuali (circondariali) sono organi senza vita, e logicamente superflui: né il sottoprefetto né il prefetto ha ingerenza alcuna nell'amministrazione comunale: le loro funzioni rassomigliano più a quelle di notai, cerzioranti la verità dell'atto, anziché a quelle di amministratori. Ma gli atomi indipendenti costituiscono un'aggregazione, come i granelli di sabbia marina, non una vera individualità organica. Ora ogni comune reso autonomo ha una naturale tendenza a guardare sé solamente e il proprio utile, sia vero o no, senza brigarsi degli altri: come si vuole che un comune di Abruzzo studii a mettersi in armonia con uno di Calabria? in conseguenza i provvedimenti che l'uno prenderà potranno essere contraddittorii a quello, ed a tutti gli altri comuni, sieno pure suoi limitrofi: le varietà lasciate a sé stesse tendono ad affermarsi come tali, senza brigarsi dell'unità più ampia che le dovrebbe contenere. L'amministrazione dunque precipiterà in un guazzabuglio inevitabile: e se finora ciò non si è del tutto avverato, egli è perché la legge funziona da poco, e le è mancato il tempo a sviluppare i perniciosissimi germi di sociale dissoluzione che nasconde: ma già se ne sentono i prenunzii: abbiamo udito alcuni tra' più intelligenti prefetti del Napoletano confessare, di essere disperati di ridurre oramai i comuni all'unità dello Stato; uno di essi mi dicea: se per poco vuoi premere

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sulle amministrazioni comunali per condurle per miglior via, ti gittano in volto dimissioni in massa, e la vita della società si sospende. Aggiungi a questo, che gli amministratori de' comuni, gente ignara in gran parte de' principii generali di amministrazione, si lasciano andare a certi provvedimenti, che sono direttamente contrarii alla vita dello stato: abbiamo veduto qualche municipio deliberare l'abolizione della contribuzione diretta prediale: e parecchi per contrario, decretare l'assoluta abolizione de' dazi comunali, senza avere un patrimonio proprio, e metterne la intera cifra in addizione all'imposta prediale; e siccome né l'una né l'altra delle due provvisioni contener potea di necessità violazione alle forme, né si trovavano in opposizione con gli art.113 e 114 della legge, i prefetti non poteansi dispensare dall'approvarle:ed altri finalmente elevarsi a corpi politici e deliberanti; e decretare p. e. la caduta del dominio temporale del papa: cose che han fatto piacevolmente ridere, ma che sono sinistro presagio di futuro dissolvimento. Oltreachè gli abitanti de' comuni si dividono in poveri e ricchi: questi perloppiù seggono ne' consigli municipali: e poiché chi fa la legge, dice il Montesquieu, pensa prima a sé stesso, anche nell'antico nostro reggimento si vedeano consigli municipali sancire imposizioni che colpivano il povero e francavano il ricco (1). Allora l'autorità centrale della provincia, superiore alle gare ed agl'interessi municipali, proteggeva i deboli ed i poveri negando l'approvazione al partito preso, e riconducendo l'amministrazione municipale a più equi principii; ma ora chi li proteggerà? La libertà de' comuni sarà dunque un mezzo di oppressare gl'impotenti ed i poveri. L'altro grave difetto della nuova legge è di mancare grandemente di sviluppo organico: la legge del 12 dicembre 1816 costituiva organicamente

(1) Per esempio i dazi comunali sul minuto: il povero che comprava a minuto pagava; il ricco che comprava all'igrosso era esente dal dazio.

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l'amministrazione municipale: vi erano due funzionarii, il primo ed il secondo Eletto, con attribuzioni proprie e limpidamente determinate, il che dava al corpo municipale l'organismo di un essere vivente. Ora questo non è che un'accozzaglia di atomi similari, con un atomo più grandetto nel mezzo, che si chiama Sindaco. Da qui una naturale per mischianza di attribuzioni e di giurisdizioni. Si dirà: ma si provvede colle commissioni: bene: ma queste appunto arguiscono un vuoto di organismo, che si cerca, loro mercé, ricolmare; senzachè le commissioni sono poco atte a mantenere le tradizioni amministrative, perché sono per loro natura mutabili, né hanno attribuzioni bene profilate. Ma il vizio precipuo della legge nuova è quello di avere messo il potere amministrativo in mano a' collegi. La poca autorità del sindaco non può esercitarsi se non colla giunta comunale; e quella larva di autorità del prefetto nemmeno può valere se non colla giunta provinciale; le quali giunte decidono, come è naturale, a maggioranza di voti. Da ciò viene per conseguenza una mancanza di unità e di vigore nell'azione amministrativa: mancanza di unità, perché il giudizio de' collegii è per sua essenza variabile; mancanza di vigore, perché l'operazione riesce essenzialmente lenta, ogni provvisione esigendo una preliminare discussione;onde se torna tardigrada nelle bisogne ordinarie dell'amministrazione, risulta pressoché inefficace nelle straordinarie, ed in quelle che conviene espedire senza indugii: le quali sono la massima parte degli atti dell'amministrazione, che dovendo attendere alle giornaliere occorrenze del comune, procede quasi sempre per urgenza. Tale terzo vizio porta più nocevoli frutti quando le popolazioni sieno sveglie, ricche d'individualità ed acute nel discutere, come sono le nostre. Gli effetti se ne cominciano a risentire: a Napoli corrono molte doglienze contro il municipio, e sono vere: ma si vogliono imputare meno agli uomini, che alla legge.

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Del resto non ci era bisogno di farne esperienza: questa era stata già fatta: e noi avremmo potuto imparare ad altrui spese. In Francia al tempo della rivoluzione fu messo in atto un consimile principio: e presto l'amministrazione francese cadde in un caos che minacciò la salute della nazione: e si dovette in fretta correre al rimedio, spegnendo quell'ordine e restituendo la potestà amministrativa nelle mani di un solo, come da' migliori scrittori in ragione amministrativa è universalmente consentito, poiché se il consigliare è di molti, l'operare dee essere sempre d'un solo (1). Ma la storia ora è trattata come l'archeologia: si crede indegno dalla superbia degli odierni di far tesoro delle sue lezioni. Presso di noi la cosa andava diversamente: l'amministratore nel comune era il sindaco, accompagnato però dal decurionato (consiglio municipale); nella provincia era l'intendente (prefetto) temperato però dal consiglio d'intendenza, datogli dalla legge per consigliarlo a sua volontà in alcuni casi, necessariamente in certi altri; ma l'azione governativa si sviluppava liberamente nelle sue mani. Nulla diremo dell'organica del consiglio di prefettura: la nostra antica ed assennata tradizione volea che i consiglieri fossero scelti tra le persone più ragguardevoli e tra' maggiori possidenti della provincia:questo temperamento assicurava un consiglio maturo al capo della provincia, e rendea conforme agli usi locali l'amministrazione, senza distruggere il suo nesso con lo stato. Dipoi quest'ordine fu alterato: sotto Ferdinando Borbone s'incominciò ad inviare ne' consigli uomini estranei alla provincia,

(1) Tutti gli scrittori più lodati si accordano in questo: vedi tra gli altri Bonnin, Princ. di amm. pubbl. Napoli 1824, inni.1. Introd. pag.36 e seg. Laferrière, Cauri de droit. publ. et admin. Paris 1S41, pag.513 e seg. Macarel. Courtdedroit admin. Paris 1844 tom.1 pag.190; l'orticz de L'Oise, Court de Ugisl. admin. tom.1, Introd. p.35 ete. Si dirà che nella legge municipale belga vi ha lo stesso difetto, ebbene appunto per questo è stata criticata dngli autori del lihro intitolato Élém. du droit admin. en Belgique, Bruxelles 1837, |t.70 e 73.

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e spesso giovanissimi ed inesperti: i consigli d'intendenza furono così trasformati e distolti dalla finalità e destinazione loro: bastava correggere questo vizio, ed applicare la legge fondamentale. Ora i consigli di prefettura si compongono di uomini spesso forestieri alla provincia: si può mandare a Napoli un lombardo o un romagnolo, ignari delle condizioni di questa provincia, le quali vogliono essere conosciute profondamente da chi amministra: di che sussidio potranno riuscire al prefetto? come lo consiglieranno di quello che essi non sanno?

Non parliamo di altri minori inconvenienti: in conclusione la legge Rattazzi è la dissoluzione dell'amministrazione elevata a sistema, ed è chiamata ad esercitare nel corpo sociale, quello che la putrefazione negli organismi. ll processo non è ancora compiuto, ma non tardi l'aspettare; e se non si pone a tempo rimedio, forse sarà troppo tardi quando ci si penserà. Così noi abbiamo guadagnato la perdita di una eccellente legge fondamentale, e l'acquisto di una che minaccia la vita della società civile.

Rispetto agli ordini finanziarii noi possedevano i più perfetti d'Europa, da anteporre in certe parti anche a quelli di Francia, il che sarebbe facile a dimostrare; ma l'entrare per minuto nelle particolari disposizioni, per fare aperto, come i nostri ordini esemplati su' francesi, li avessero poi, man mano perfezionandosi, superati, esigerebbe una discussione lunga, e probabilmente noiosa; ma chi volesse approfondire la materia, potrebbe giovarsi della pregevolissima esposizione del sistema finanziario della Francia fatta dal tedesco De Hock(1), e di quella assai succinta, ma sugosa, che del nostro ha fatto il Sacehi, per scorgere in più di un punto la differenza, non dirò per la sostanza, ma per alcuni particolari. A noi si deve l'onore di avere assai prima de' francesi ridotta

(1) L'administ. financ. de la Franca trad. par Legentil. Paris 1838.

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alla maggiore unità possibile la percezione delle imposte ed il pagamento de' carichi tutti dello stato, introducendo il sistema de' versamenti lordi nella cassa centrale dello stato, in luogo de' versamenti netti delle contribuzioni; riforma gravissima, eseguita dopo il 1821 per migliorare la condizione finanziaria del regno, allora non troppo felice, ed i cui risultamenti corrisposero, anzi sorpassarono l'espettazione (1). In una parola la Tesoreria generale era l'organo centrale cui tutti i versamenti non depurati dalle spese pervenivano; e da cui partivano tutti i pagamenti, anche quelli delle spese di esazione. Si dirà, che questa sistema era soverchiamene ccntralizzatore; è vero: ma in materia di finanza la centralizzazione ed il minuto controllo sono condizione sine qua non della sua floridezza, perché così solamente si possono evitare le distorsioni del pubblico danaro. E chi vuole discentrare la finanza, non se ne intende, perocché per un poco di commodità maggiore a' privati, manomette i sacrosanti interessi della nazione e de' contribuenti, rendendo possibili i furti e le malversazioni. Il regolamento della nostra Tesoreria del 2 febbraio 1818 era un modello di prudenza. Né meno egregia era la istituzione della nostra Corte de' Conti. Oggi si è profondamente alterata questa parte delle nostre leggi, con sostituirvi altri ordini assai meno perfetti, e che ritornano agli errori antichi, da' nostri finanzieri avvisatamente evitati. Il vizio massimo del moderno sistema consiste appunto in un certo discentramento finanziario, molto amico delle dilapidazioni; e nell'avere ridotto la macchina ad una semplicità, che rende assai meno sicura la gestione del pubblico danaro. In questa i nostri legislatori si sono regolati con l'accorgimento di chi trovando

(1) Un tal fatto è notissimo presso di noi: la finanza migliorò, poiché fu reso possibile un più stretto controllo; e venne stornata cosi ogni magagna. Vedi l'opera ragguardevole del Rotondo, Saggio politico sulla popol. e le pubbl. contrib. del regno delle due Sicil. Napoli 1834 pag.141 e seg.

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troppo complicato l'ingegno di una nave a vapore, pensasse di semplificare la cosa ritornando alle triremi.

Che diremo delle leggi doganali? dianzi ne abbiam detto qualche cosa. Qui noteremo un sol fatto, che la furia di unificare a sproposito rese applicabile anche a noi una tariffa assai bassa, la quale colpiva nel cuore le nostre manifatture indigene, che sono state in gran parte rovinate. Certo non siamo amici del sistema protezionista: ma i mutamenti di tariffa si fanno con prudenza, studiando accuratamente le condizioni economiche del paese; e poi ponendo un intervallo abbastanza lungo dal dì della pubblicazione del nuovo ordine a quello della esecuzione, affinché gl'interessati possano provvedere a tempo; e questo si vede essersi costantemente fatto in Inghilterra, ed ultimamente in Francia. Ma il dottrinarismo de' nostri unitarii non sofferse remora, né si arrestò innanzi al pensiero di causare perdite e ruine a coloro, che legittimamente aveano fatto i conti loro all'ombra delle leggi esistenti (1). Né diremo che i nuovi regolamenti erano fatti a bella posta per favorire i contrabbandieri, i quali avranno benedetto il momento della unità assoluta, e siamo certi che ne sono i più sfidati amici. Insomma si disse: s'unifichi ad ogni costo, et pereat mundus.

Lo stesso ha avuto luogo per la unificazione delle monete. Per unificare la moneta ci si è data quella d'oro francese (giacché le monete d'oro italiche le vediamo come fenomeni numismatici) per un valore superiore al reale. Ma si vuol ridere? il Nigra, conveniva che questa provvisione avrebbe fatto sparire la nostra buona moneta d'argento, giusta il pronunziato della scienza economica, che la cattiva moneta manda via la buona; consentiva che gli speculatori

(1) Sono degne di molta attenzione le savie riflessioni del cav. Giovanni Cenni, benché propugnatore del libero cambio, contenute nella scrittura col titolo di Osservax. sulla introduz. delle tarif. dogan. piemon. nelle prov. napolet. Napoli 1862.

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avrebbero rinvenuto il loro utile a smaltire l'oro screditato per pigliarsi l'argento ricercato;nondimeno si applaudiva del trovato (1). Or di grazia: il perdere una moneta buona e fare acquisto di una cattiva non è un danno materiale? e gli speculatori come arricchir possono se non a scapito de' possessori della moneta d'argento (2)? Il governo dunque danneggiava per questo verso i suoi amministrati; e prestava mano alla cupidità de' trafficanti a danno dell'universale. Ma non cale: si rovinino queste provincie, purché l'unificazione secondo il preconcetto disegno proceda. E che diremo poi dell'idea di unizzare la moneta con un decreto, senza che realmente l'unica moneta esistesse? Sono due anni dacché il fatto è avvenuto: ma non appariscono finora che i magri centesimi. Ciò importa, che realmente tutti furono unificati non per la moneta, ma per le tavole di ragguaglio che ebbero mestieri di comprare; onde l'unificazione non fu reale, ma cartolaria; e i compratori e i venditori ci hanno guadagnato il fastidio di fare un doppio computo in ducati e in lire. Ognuno vede con questo quanto siasi agevolato il commercio interno e l'esteriore.

Nulla diremo de' nuovi balzelli: già da altri è stato trattato questo argomento.

(1) Lo squarcio della citata Relazione del Nigra fa venire l'acquolina alla borea, tanto è pruriginoso, e perciò crediamo di non defraudarne i lettori. «Il governo centrale si preoccupa a buon diritto della pronta unificazione monetaria. A facilitare questa riforma nelle provincie napoletane gioverebbe il dare alla moneta d'oro italiana nel suo rapporto colla moneta d'argento napoletana quello stesso valore ufficiale proporzionato, che ha in Francia e in Piemonte la moneta d'oro verso quella d'argento. Se la maggior carezza dell'argento fece scomparire quasi interamente questa moneta in Francia ed in Piemonte colla surrogazione dell'oro, non vi ha dubbio che la medesima causa produrrebbe qui il medesimo effetto. Gli speculatori troverebbero il loro conto a comprare l'argento coll'oro, c cosi troverebbesi singolarmente facilitata nelle Provincie Napoletane l'opera della unificazione monetaria»!!!!!

(2) Il sullodato Cenni fin dal 1856 avea fatto avvertire la convenienza della moneta di argento come unica moneta legale. Vedi l'opuscolo di lui Riflessioni sull'oro moneta, ristampato in Napoli nel 1862.

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Il deputato de Luca nobilmente fece, solo, avvertire la durezza, la fiscalità, la ingiustizia, e la impreveggenza di molte disposizioni della legge, infesta per sua essenza alla amministrazione della giustizia, come quella che la rende difficile per l'enorme spesa che reca, e la fa quasi impossibile per le contese di tenue valore, che sono le più numerose e direttamente interessano il popolo minuto. Non fu ascoltato: ma i fatti da lui previsti si sono verificati. La camera di disciplina degli avvocati napoletani ha già messi in luce altri disordini di quella legge, per la quale, senza parlare di altro, per un solo credito si può pagare quattro volte la tassa a cominciare dal momento in cui si ottiene la sentenza di condanna, a finire a quello in cui si riceve il mandato di pagamento, dopo seguita l'aggiudicazione definitiva nel giudizio di espropriazione de' beni del debitore. Speriamo che queste osservazioni giovino; e si modifichi radicalmente la legge, se in tutto abolire non si può.

Del nuovo ordinamento giudiziario non parliamo distesamente; si è già molto discorso di questo argomento. Qui se ne è assai poco contenti. Certo per alcune provincie un solo tribunale di prima istanza non poteva stare: e la istituzione di altri tribunali di distretto (circondarii) era reclamata dal maggior commodo de' cittadini. Ma in questa contingenza facea d'uopo accuratamente procedere: edificarli dove era il bisogno, non per massima generale, perché sonovi non pochi distretti, o circondarii, i quali sia per la piccolezza loro, sia per la vicinanza al capoluogo della provincia, non ne risentivano la necessità. E le leggi deggiono dare sfogo a' bisogni che si manifestano, non operare come se esistessero, quando per verità non sono. In rispetto poi a' giudizii correzionali si è immaturatamente operato si è creduto che le nostre provincie fossero piccole come gli scompartimenti francesi, e come quelle dell'Italia superiore, e facilmente atte ad essere percorse: ma la cosa non va così.

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Ora è dimostrato coll'esperienza, che i giudizii correzionali sono resi difficili, pigliano gran tempo, costano enormemente allo stato, e tutte questo a scapito della pronta punizione dell'offesa, e della economia della finanza, che dee pure contare per qualcosa. Ma si dirà: i poteri de' regii giudici (giudici di mandamento) erano eccessivi: l'essere un solo a pronunziare è un grosso vizio: vero: ma tutto poteasi conciliare col dare a' giudici due assessori giudicanti sotto la sua presidenza, da scegliersi tra' consiglieri municipali, o tra le più spettabili persone del paese. Si sarebbe avuto il collegio, la prontezza de' giudizii, la economia delle spese. In ordine a' giudizii criminali non c'ingolferemo nella seria quistione del giurì, che per essa sola vorrebbe un libro. Solo diciamo, che il nuovo ordinamento non potea giungere in peggior punto, perocché le carceri erano stivate di prigionieri, i processi innumerevoli, massime i politici, de' quali taluni comprendevano centinaia di persone; intanto il recente ordine, oltre all'inconveniente della novità, la quale non consente che possa in poco spazio operar bene, è di sua natura più lento che non quello prima esistente: e perciò nocevole alla prontezza de' giudizii, che sommamente importava spedire. Ma che diremo della odiosa diversità delle classi introdotta ne' tribunali, propria ad umiliare i meno favoriti? Hanno forse i giudici diversamente classificati disparità di attribuzioni? i loro voti non hanno eguai peso? non è lo stesso il lavoro? dunque perché la differenza della retribuzione? A questo aggiungiamo, che la tenuità degli emolumenti per le ultime classi è tale, che quelli compresi in esse non possono vivere se non hanno del loro; da noi prima si menava lamento perché queste altissime funzioni fossero mal retribuite, ora per l'oppostosi sono stremati gli antichi stipendii; anzi è singolare, che con uno strano criterio, quando sonosi accresciuti quelli di molti impiegati,

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per esempio delle poste, del registro e bollo ec., si sono ridotti quelli de' magistrati, le cui funzioni eccedono incomparabilmente quelle di tutti gli altri pubblici ufficiali, tranne i superiori funzionarii amministrativi. Senza dire di una irragionevole confusione incorsa, per cui un giudice di mandamento può essere meglio pagato di quello di un tribunale di circondario, ed anche di un sostituito procuratore del re; e nello stesso collegio un giudice, se di prima classe, avrà maggiore stipendio del suo presidente, se questi appartiene all'ultima del suo ordine. Né c'intratterremo nel disordine, che il nobilissimo e importante ufficio di procuratore del re possa essere confidato a mani giovanili ed inesperte; quandoché nell'antica nostra legge, esso non potea mai cadere se non in mani perite, poiché ci si ascendeva per merito, dopo esercitato per più anni l'ufficio di giudice. Ebbene un temperamento così falso, e di gran lunga inferiore a quello che avevamo, costa alle nostre provincie poco meno che il quadruplo di quello che costava l'antico. Aggiungiamo a tutto questo una parola sulle persone. Si era gridato molto contro la magistratura passata; se ne è mandata via la massima parte. Ma sono forse, generalmente parlando, le nuove scelte più felici? lo dicano gli avvocati, i litiganti, il pubblico intero; ed ora conviene confessare, che quello che ci è di meglio tra gli odierni magistrati, è quel poco che è rimasto degli antichi, se ne salvi rarissime eccezioni. Anzi abbiamo udito dire, che ne' processi politici hanno sovente mostrato maggiore indipendenza gli antichi, che i nuovi magistrati. Il doppio mal vezzo di precipitare con furia la cosa, e di non volere ammettere che gli unitarii, cioè per l'ordinario gli uccellatori d'impieghi e i procaccianti di ogni genere, ha fatto rimpinzare i tribunali di gente spregevole ed ignorante, con quanta edificazione della pubblica coscienza, e con quanto aumento di riverenza verso l'ordine giudiziario,

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che dovrebbe essere una delle pietre angolari dello stato, la giustizia vivente, come diceva Aristotile, e l'antemurale de' cittadini contro le intemperanze civili sia della piazza sia del governo, non è chi nol veda (1). Parlo di queste cose perché note lippis et tonsoribus, e non senza profondo rincrescimento; perocché se certi fatti piacevoli accaduti nelle pubbliche udienze, porgono un momento occasione a ricrearsi a spese de' togati, d' altra parte l'animo si oscura in pensare alla ruina che minaccia quella società, dove l'ordine giudiziario diventa ridicolo e contennendo. E questo in Napoli, dove la venerazione verso i magistrati è stata sempre grandissima! ed ancora si ricordano con desiderio e rispetto la magistratura creata dal non mai abbastanza lodato Ricciardi, e quella promossa dal ragguardevole ministro Nicola Parisio, benché generalmente alquanto inferiore alla prima. E ciò che è peggio si è, che tanto male è difficilissimo, se non impossibile, a riparare prontamente. E questo è uno degli obblighi capitali che ha il paese verso coloro che hanno finora retto le nostre sorti.

L'armata fu sciolta: la massima parte degli ufficiali congedata. E bene quale era l'imputazione fatta a costoro? aveano preso servigio sotto una dinastia, che salvo breve interruzione, da 130 anni governava il paese: non poteasi dunque per questa via gravarli di checchessia. Ma tra loro erano molti vecchi ed inutili? dunque era bene congedarli. Alcuni si erano resi colpevoli di eccessi nelle lotte civili precedenti? dunque i trascorsi, per verità inevitabili

(1) Re Federico II di Prassia andava altiero dell'ottima magistratura di cui dotò lo stato; ed esercitava la massima vigilanza nella scelta de' suoi membri. Un giorno mandò a chiamare un iale, da cui voleva ottenere la cessione di un podere, per non so che oso cui voleva addirlo. Il proprietario, che era un contadino, si rifiutò: Sai tu che io sono il re? disse Federico, obbliando per un momento sé stesso; e il contadino rispose senza esitare: Abbiamo buoni giudici a Berlino. A questa risposta il re rinsavì, e poi narrava spesso con Mugolare compiacimento il caso.

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nelle guerre civili, doveansi punire: e fin qui si faceva bene. Ma la più gran parte era fedele al principe caduto per quella specie di onore militare, che è pure la forza degli eserciti stanziali, il quale sentimento mena i soldati a combattere, a morire financo, per una causa che non amano, e che talvolta detestano: di ciò non vogliamo altra prova, che il reggimento italiano Arciduca Sigismondo, che combatté a Magenta contro gli eserciti francese ed italiano, e l'altro Barone Vernhart, anche italiano, che pugnò pe' tedeschi alla battaglia di Solferino. Il vizio sta qui nell'ordine, non negli uomini. Moltissimi tra gli ufficiali, soprattutto tra' subalterni, guardavano nella milizia un mezzo di sussistenza; parecchi odiavano la malvagia politica di Ferdinando II, ma rispettavano in lui il capo dell'armata. Sono noti i dissidii tra gli ufficiali napoletani e la polizia, che essi non volevano tollerare: il principe d'Ischitella, ministro della guerra, si oppose risolutamente all'idea di scrutinare l'esercito, venuta in mente alla polizia, ed a lui si deve che quella trista misura non fosse adottata; vi erano poi tra essi non pochi di fortissime tendenze liberali; e molti erano dotati di non comune capacità, segnatamente nelle armi di artiglieria e del genio, antico vanto della napoletana milizia. Infine molti aveano presto aderito al nuovo ordine di cose; ed altri, guardando l'interesse della patria al di sopra di quello del soldato, sottrattosi alla meglio, era venuto ad offerire la sua spada. Or bene a sperdere del tutto l'esercito fu trovato un bel modo: quelli che aveano tenuto per la caduta dinastia furono espulsi, perché sostegni della tirannide: quelli che aveano aderito, perché aveano mancato all'onore militare. La contraddizione era ne' termini:ogni ufficiale dovea trovarsi nell'una o nell'altra delle categorie: tutti furono allontanati dall'attività del servizio. Non si oppongano talune eccezioni: pochissimi nomi salvati nell'universale naufragio,

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e il cui numero è affatto sproporzionato a quello della somma degli ufficiali, non provano nulla. In quanto a' soldati si stimò bene di congedarli tutti: questi tornati ne' paesi insolentirono, ed alcuni si unirono a' briganti, poiché si vedeano espulsi, e nelle case loro soggetti alla derisione ed alle minacce del partito trionfante. Concederemo volentieri, che molti lo avessero fatto per indole malvagia e per cupidità di saccheggiare. Visto che il numero de' briganti ingrossava, come inevitabilmente dovea succedere, ^ fatto ordine, che tutti coloro che avean partecipato ad atti ostili al governo, e quelli che da quel dì in poi non stessero cheti, sarebbero incorporati all'armata, e così ne furono riprese molte migliaia. Dunque il servire lo stato era per essi una pena: come fa il Russo, che in punizione manda i colpevoli a militare nel Caucaso, e l'Austria ne' confini militari; essi perciò doveansi tenere umiliati innanzi agli altri commilitoni, e quel che è peggio, comparire tra loro colla divisa di borbonici. La loro ripugnanza al servizio militare dovea essere estrema, e lo fu: preferirono in gran parte di associarsi a' briganti: il regno si popolò di banditi. Così la malvagia via tenuta fece perdere allo stato un utile nerbo di gente addestrata alle armi, e moltissimi ufficiali giovani e gagliardi; e questo quando sopra ogni altra cosa importava di impinguare l'esercito.

Rispetto alla pubblica istruzione non difettavamo di ordini, ma questi in verità assai mediocri. Ci erano scuole primarie, ma poco fiorenti. Avevamo collegii e licei provinciali, ed anche a Napoli; ma l'ordito dell'insegnamento era anticato, in guisa da non corrispondere alle mutate sembianze della società civile da cinquanta anni in qua. Questo vuoto doveasi riempire, e condurre il disegno degli studii in modo più conforme al bisogno de' tempi. Che questo siasi tentato è certo: se sia riuscito è dubbioso; perché i collegii,

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ginnasii o licei non raccolgono che piccolo numero di alunni: segno sicuro che non ispirano fiducia a' padri di famiglia (1). Se questo dipenda dagli ordini, o dalle persone deputate ad amministrarli, non si può senz'altro affermare; forse probabilmente muove dagli uni e dalle altre. Checché ne sia, non discuto la cosa, noto il fatto; e dico, che questo deesi studiare.

A' difetti dell'insegnamento pubblico sopperiva il privato liberissimo e ricchissimo. I professori doveano essere licenziati nella facoltà che insegnavano, ed essere autorizzati dal governo: questo era in jure, in fatto il governo chiudeva gli occhi. Anche le provincie non mancavano d'insegnamento privato; ma questo soprammodo fioriva in Napoli, specialmente prima del 1848. Massime in giurisprudenza, in filosofia, in medicina si contavano moltissimi professori particolari, ognuno de' quali era frequentato da un numero di studenti, eguale o poco inferiore a quello delle università dell'Italia superiore. L'insegnamento privato era in assai maggior credito che l'universitario: quelli che intendevano di volere seriamente studiare, perloppiù quasi tutti, accorrevano da' privati docenti. Ognuno di questi leggeva a suo modo con somma libertà, a suo rischio e pericolo. La stessa diversità de' metodi partoriva una ricchezza grandissima nell'insegnamento; ed essi si completavano l'un l'altro. La concorrenza di tanti professori era un acuto sprone per loro a perfezionarsi sempre più: la immobilità avrebbe causato la loro rovina: la indipendenza di cui godevano li assolveva da ogni attitudine servile verso il governo; e questo fece sì, che la scienza e la libertà si diffondessero in Napoli,

(1) Per darne un saggio basterà notare, che nel liceo di Maddaloni io questo anno vi sono stati due alunni, e quattordici o quindici professori. I due miserrimi giovanetti erano senza pietà obbligati a girare per tutte le cattedre, ed udire tutti i professori, perché il preside avesse potuto dire che il liceo era io esercizio. Quel collegio altre volte raccoglie da 90 a 100 alunni.

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anche quando il governo mostravasi poco curante della prima, ed avverso alla seconda. Questo è un fatto noto all'universale. Né ciò solo: tra noi l'insegnamento privato spinse innanzi anche il pubblico: vuolsi sapere, che del primo gabinetto di strumenti fisici andiamo debitori al Fazzini;del primo orto botanico al Cirillo; della prima collezione di minerali al Monticelli; del museo di anatomia patologica al Nanula. Tali eran presso noi gli studii privati (1)-E bene questa salutare consuetudine si è tentato di annichilare per la ragione, che non essendovi nella Italia superiore, a senno de' piemontizzanti non dovea sussistere nemmeno nella inferiore. Si è seriamente pensato di porre nelle mani del governo l'insegnamento, solo mezzo efficace per renderlo immobile e vacuo, e per fermare il corso della civiltà, se si potesse; contro la vera idea dello stato, il quale non può ora, né deve essere insegnante, piucchè non possa né deggia essere trafficante o manifatturiero. In nome della libertà si è escogitato a porre i ceppi alla libertà del pensiero. Il funesto divisamente anticivile ed illiberale non si è pienamente attuato pe' rumori che sollevò: ma in parte si è effettuato con l'ultima legge. Che lo stato, in tempo in cui il lume della civiltà è poco, provvegga all'insegnamento, è naturale e ad un tempo liberale, e non ci accordiamo col Settembrini, il quale nella creazione delle università nel medio evo vuol vedere un istrumento di tirannide: furono forse argomenti di tirannide le università protestanti della Germania? Dove la luce civile è debole, spetta allo stato di promuoverla, come qualunque altro bene: l'impulso di civiltà che non è nelle masse, dee venire dal governo; né certo i capitolari di Carlomagno,

(1) Non si dica che i Borboni ne manomisero la libertà: l'ultimo decennio avea stremato il numero de' professori. Ma il governo non alterò mai l'ordine: non volle né programmi, né ingerenza dell'insegnamento ufficiale nel privato: lo ha dunque malmenato in quanto agI'insegnanti, ma la natura della istituzione fu mantenuta.

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che si occupavano perfino di quello che i francesi doveano mangiare, e gli statuti economici stabiliti dal Colbert possono aver voce di tirannici: quegli ordini furono buoni e liberali nelle condizioni delle società su cui imperarono; ma non lo sarebbero ora, in cui i popoli avendo attinto la maturità civile, sono in caso di provvedere da loro a questo bisogno. Il volere ora che il governo sia l'esclusivo direttore dell'insegnamento, è un tirare indietro di parecchi secoli la civiltà; e far questo in nome del progresso è una cosa dannosa e ridevole

Per la contraddizione che noi consente

Ma quello di cui non possiamo tacere è il mal governo che si è fatto della Università. Ogni reggimento liberale dee conservare quello che esiste legittimamente, e non guastarlo. Per una indigesta idea sulla libertà dell'insegnare, si è pensato di porre professori acattolici nell'università cattolica di Napoli. Certo non si possono lodare alcuni cattolici d'idee anguste, sospettosi e nemici di ogni libertà d'insegnare: per l'opposto noi l'amiamo o la stimiamo utilissima alla verità stessa. Singolari cattolici, i quali hanno tanta poca fede in lei, da credere che l'arbitrio umano possa annullarla. Noi loro muoveremmo questa istanza: se il vero è l'essere, se l'errore è il non essere, temere che la verità possa venire rovesciata dall'errore, è credere che il nulla possa distruggere l'essere. Gli assalti contro la verità non fanno che giovarle, perché obbligano i suoi seguaci a difenderla, e le apprestano buona occasione di manifestarsi in tutta la sua luce; di ciò non vogliamo altra testimonianza che S. Paolo: l'oportet haereses esse è una verità civile, religiosa, e scientifica. Certo senza gli errori degli Ariani, degli Eutichiani, de' Nestoriani, de' Priscillianisti, de' Manichei e di tutte le innumerevoli sette ereticali, che hanno fatto impeto contro il domma cattolico, non sarebbero surti né Attanasio, né Basilio, né Agostino,

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né Giustino, né Tertulliano, né Bernardo, né Tommaso, né tutti quei grandi i quali hanno portato la dottrina ortodossa a quella luce, a quel rigore scientifico^ quella ricchezza che ora possiede. Il domma è vero, è immutabile, perché la Verità essendo l'Essere, è per sua essenza infinita ed invariabile: ma la cognizione di lei nella mente umana limitata e difettosa, è progressiva e storica; passa da uno stato di minore ad uno di maggiore chiarezza, e in questo sta il progresso intellettuale e reale dell'umanità. Pognamo che con la violenza si fosse pervenuto a far tacere tutti i settatori acattolici, il mondo si sarebbe riempiuto di strage e di sangue; e per ultima conclusione la notizia umana della verità divina non avrebbe progredito di un pelo; perché chi avrebbe cavato di mente agli uomini, per natura pieghevoli a miscredere, che gli oppositori diceano il vero, e non potendosi da' cattolici confutare, questi abbiano preso il partito di spegnerli? Il fine dell'errore è quello di servire al trionfo del Vero, e gli serve facendosi consumare dalla luce di lui. Fu un nobile ingegno il quale propose di scrivere una storia della verità per mezzo degli errori, è un gran peccato che non l'abbia fatto. I grandi cattolici non hanno temuta la discussione. S. Atanasio pregava l'imperator Costante a non mischiarsi delle cose di religione, e di lasciare a lui il carico di combattere le sette eterodosse de' suoi tempi (1). S. Bernardo, contro cui si commette l'errore di crederlo istigatore della persecuzione contro Abelardo, lo vinse nel celebre cimento pubblicamente tenuto nella università di Parigi (2). S. Domenico, di cui molti fanno l'autore della inquisizione, non fece mai a nessuno violenza, ma solo con l'arma della sua prepotente parola

(1) Moelher, Athanase le Grand, trad. par Cohen, Parigi 1840.

(2) Vedi la vita di S. Bernardo del Ratisboone.

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vinse gli errori de' tempi suoi (1). Ecco come quei grandi intendeano la libertà, fondati nella incrollabile e veramente miracolosa fede, che aveano nella verità. Sappiamo che moltissimi, che così non pensano, sono timorati, ma si lasciano pigliare al vezzo del secolo, cioè al credere alla onnipotenza dell'arbitrio, il quale superbo dettato è figliuolo di Lutero, e diametralmente opposto alla dottrina cattolica, ed al preciso insegnamento di Cristo, il quale non diede in questo altro mandato a' suoi discepoli che l'ite et docete. Aggiungi, che tale superbia ora è impossibile ad esercitare: in un momento in cui l'Europa presenta lo spettacolo di un ribollimento profondo ed universale di molte idee e credenze; in cui niente non v'ha che sia certo, anche negli ordini delle scienze; in cui s'agita una innumerabile congerie di sistemi che stanno a fronte tra loro, e si combattono a vicenda; in cui l'ateismo e l'indifferentismo prevale, non vi può essere miglior servigio a rendere alla Verità, che la libertà di discussione in tutte le forme. Né si può maggiormente disservirla, che adoperando mezzi violenti per difenderla: perché la forza non ha che fare colle idee; e la causa della Verità se usa di questi argomenti, si da per vinta a' suoi nemici, si rende sospetta, e giustifica le ire e le calunnie di quelli: perché riman sempre quella terribile inchiesta, che spesso è stata lanciata contro gl'improvvidi difensori

(1) Uno de' più volgari e marci errori si è quello di apporre a S. Domenico l'istituzione della inquisizione, e, peggio ancora, di essere stato il promotore degli auto-da-fè. Questo pregiudizio storico travasato di gente in gente, come tanti altri consimili, è io tutto sfornito del menomo fondamento, come con matura discussione della storia e de' documenti storici ha mostrato il sommo Lncordaire. Se non ci fosse altra pruova basterebbe la ufficiale relazione alle Cortes di Spagna del 1812, fatta dal comitato incaricatone appositamente da quelle, le quali non possono essere sospette di favore verso l'inquisizione, quando per contrario ne abolirono i residui. In essa è detto, che S. Domenico non oppose alla eresia altre armi che la preghiera, la pazienza, e I'istruzione. Leggi il rimarchevole scritto del Lacordaire Mém. pour le rétablis. en Fran. de l'ord. dei. frèr. préch. che precede la sua Vita di S. Domenico. Paris 1857 pag.93 e seg.

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del cattolicismo, cioè, se mantenete che questo sia la verità, perché temete che l'errore, di sua natura impotente, si manifesti?E noi siam di credere, che il discredito in cui sono le dottrine cattoliche presso moltissimi, anche dotti e dabbene, abbia per causa prossima l'imprudente modo di governarsi de' difensori di quelle. Ecco quale è in ultima analisi il servigio che prestano alla religione i nemici della libertà: Dio confonde la loro superbia, perocché riescono perfettamente allo scopo opposto a quello che si propongono; e la nullità dell'arbitrio umano apparisce in tutta la sua miseria ed impotenza. Però se la libertà dell'insegnamento è un frutto che viene dalla dottrina cattolica, checché ne paia agli spigolistri ed a' paurosi; se essa è ormai passata nel diritto, ed è uno degli obblighi dello stato, noi accusiamo altamente il governo di aver violato questo principio di libertà rispetto alla università di Napoli. Questa fu ab antico. cattolica; e tale sempre si è mantenuta: essa come tale avea legittimo diritto ad esistere, quale organo della fede cattolica di queste provincie, ed è stata profondamente alterata da due provvisioni governative: la soppressione della facoltà teologica, e la introduzione di professori insegnanti esprofesso dottrine acattoliche. In quanto alla prima disposizione si è proceduto ab irato, pe' pregiudizii infantili che si hanno contro il cattolicismo. Ma senza versarci nel discutere, che sia la teologia, quale funzione eserciti nella enciclopedia; senza entrare a vedere, che oggi appunto il campo della teologia è quello che è l'arena comune di tutti i sistemi e di tutte le opinioni (I); rimanendo fuori di tutte queste disquisizioni, di cui pare fosse stata perfettamente digiuna la mente dell'ordinatore, certo non si vede università di qualche grido in Europa dove non sia

(1) Questo fatto, tra moltissimi, è stato osservato dal Ranke: «Le seizième siècle se distingue sourtout par l'esprit de création religieuse. Encore de nos jours nous ne vivons que des luttes, qui éclatèrent pour la première fuis dans ce siècle». Hist. de la pop. tom. I, pag.261.

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la facoltà teologica; e se qui esisteva, non vi ha ragione perché avesse dovuto togliersi. Ma il secondo provvedimento è più ostile del primo: quello recideva dalla università cattolica la principale sua facoltà: ma questo ne corrompeva intimamente l'essenza. Che cosa è ora l'università di Napoli? un puro e semplicissimo caos: lo studente da un professore ascolta che la dottrina cattolica sia la verità assoluta, da un altro che sia il massimo degli assurdi, né manca chi fa un miscuglio di essa e dell'opposta. A chi de' tre crederà?

Lo scetticismo compiuto ne dovrebbe essere la conseguenza inevitabile: il governo per coronare l'opera avrebbe dovuto creare una cattedra preliminare a tutti gli studii, dove il professore dichiarasse il Faust del Goethe. Sarebbe assai più logico rimuovere tutti i professori cattolici, proscrivere il cattolicismo, ed ateizzare l'università: ma foggiare un guazzabuglio simile, è un portato peregrino, che mostra quale sia la fede, non dirò religiosa, ma scientifica di chi presedette a quegli ordinamenti. Certo non incontra mai che nelle università protestanti di Kiel. di Berlino, di Gottinga, d'Oxford sedessero professori cattolici: né che in quelle cattoliche di Parigi, di Friburgo, di Vienna, di Lovanio, salissero in cattedra professori protestanti. E ne' paesi dove la libertà dell'insegnamento è rispettata, sonovi università cattoliche ed università protestanti, come nel Belgio e nella Svizzera. Se insomma il governo credeva, che qui fosse uopo d'inoculare il protestantismo, che non ci è, potea fondare una università protestante; se stimava fosse utile propagare l'ateismo pratico, che è la piaga universale della società moderna, poteva istituire una università atea: ma il guastare una università cattolica, è cosa contro la libertà di coscienza e dell'insegnamento, la quale noi cattolici gridiamo di essere stata violata solo per noi.

Ecco come pel capriccio di tutto innovare e di far da capo noi abbiamo perduto due cose:

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la libertà dell'insegnamento privato, ed una grave ferita abbiamo riportato nella libertà di coscienza.

De' nuovi codici che dire? sarebbe impossibile l'occuparcene. Ma il dotto foro napoletano e i migliori nostri magistrati sono di accordo nell'aggiudicare la preferenza agli antichi. Si è menato gran rumore perché per molti casi si è abolita la pena di morte; ma questa modificazione gravissima poteasi fare all'antico senza distruggerlo. Ma quale paragone tra i due codici per la scala delle pene, la teoria delle scuse, la precisione del linguaggio? né dubitiamo asserire, che in molti casi il nuovo codice penale contiene un lassismo pericoloso, che è ingiusto, e fa inchinevoli gli uomini a farsi giustizia da sé, cosa perniciosissima. Né si può ragguagliare per la speditezza, per le garenzie dell'imputato, per la condotta della pubblica discussione la presente procedura penale con l'antica. Lo dicano gli uomini periti: a noi non lece in così breve cenno entrare più innanzi. Non diremo verbo di altre novità, per accorciare il discorso; per esempio del disordine introdotto nella università con istituire molte cattedre superflue, per cui si fu obbligato a confidarle a professori che ne sapeano tanto della materia, per quanto gli studenti che avessero voluto ascoltarli; i quali per altro ne hanno fatto giustizia, lasciandone i banchi deserti; né della dissoluzione dell'Accademia delle scienze, fatta senza ragione e senza utilità, ricomponendola con molti nomi, de' quali non tutti hanno raccolto il pubblico plauso, ed escludendone altri che borbonici o non borbonici meritavano di esservi ascritti; che ha che fare la politica colla scienza? Si guardi l'Accademia Francese, dove uomini di tutti i colori seggono insieme. Di queste e di altre cose tacciamo, non perché non siano momentose, ma come menome a petto delle altre.

Ecco in breve mostrato come furono disfatti i nostri prischi ordini ed introdotti i nuovi; e questo,

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come innanzi accennammo, violando lo Statuto, e tradendo il plebiscito. La violazione della legge fondamentale è evidente, quando si attenda che il mutamento degli ordini tra noi ebbe luogo, non in virtù di una legge sancita dal parlamento, ma per volontà de' consiglieri di luogotenenza e de' segretarii generali. E questo ad onta che lo Statuto assicuri a tutte le popolazioni italiane il diritto di non essere sottoposte ad altre leggi, che a quelle discusse nel consesso nazionale, presenti i loro rappresentanti. Non vogliamo qui metter su la quistione della incostituzionalità della massima parte delle nuove leggi importate, cosa che potrebbe farsi facilmente; ma solo vogliamo notare, che se il ministero centrale poteva credersi potenziato a fare queste novità in virtù della legge del 25 aprilo 1859, che conferiva al potere esecutivo la plenipotenza anche di far leggi, quella non poteva mai applicarsi a noi per tre ragioni: 1. perché i pieni poteri furono conceduti per la durata della guerra con Austria, la quale ebbe fine in luglio 1859, e l'annessione del regno fu proclamata nel 1860; 2. a perché il parlamento subalpino si riunì nel settembre del 1860, e col ricomparire il potere ordinario, l'estraordinario cessava di diritto, per volgarissima dottrina di ragion costituzionale; 3. perché que' poteri erano stato conferiti dal parlamento piemontese, il quale non avea alcuna autorità su queste provincie, che allora non faceano parte della monarchia (1). Il ricorrere poi al pretesto, che essendosi l'annessione sancita col plebiscito, questa si tirava dietro come conseguenza la pubblicazione delle identiche leggi esistenti nel Piemonte,

(1) A causare gli equivoci trascriviamo la legge del 25 aprile 1859.

Art.1. In caso di guerra coll'impero d'Austria e durante la medesima, il Re sarà investito di tutti i poteri legislativi ed esecutivi, e potrà «odo la responsabilità ministeriale, fare per semplici decreti reali tutti gli atii necessarii alla difesa della patria e delle nostre istituzioni.

Art.2. Rimanendo intangibili le istituzioni costituzionali, il governo del Re avrà la facoltà di emanare disposizioni per limitare provvisoriamente, duranti la guerra, la libertà della stampa e la libertà individuale.

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è un sutterfugio avvocatesco, non una solida ragione, poiché riposa sopra una petizione di principio, cioè che l'annessione si traeva necessariamente per mano l'unità semplice, il che non sussiste; perché la volontà popolare fu bensì quella di volere l'unione di queste provincie al regno d'Italia, ma né esplicitamente, né implicitamente venne manifestata l'idea, che dovessero gli stessi ordini vigenti in Piemonte essere traslatati tra noi. Ed appunto per questo noi diciamo, che il plebiscito napoletano fu tradito. In buona fede chi oserebbe mantenere, che se si fosse nettamente detto al popolo napoletano, che ponendo la sua tessera nell'urna del sì, avrebbe perduto tutti i suoi ordini; sarebbe stato assoggettato a nuovi temperamenti, sconosciuti da lui; che la sua costituzione sarebbe stata rovesciata da capo a piedi; che si sarebbe dato, in una parola, mani e piedi legato al Piemonte, accrescendosi di molto le gravezze, egli avrebbe prestato il suo incondizionato assenso; quando oggi si vedono tanti umori e si ascoltano tante grida precisamente per le innovazioni fatte contro l'universale espettazione? Si può ingoiare, che tanti impiegati che hanno perduto le cariche; tanti negozianti ruinati; tante persone i cui interessi sono stati malmenati avrebbero votato senza più pel sì, se avessero subodorato tali conseguenze funeste? E tanto questo non si credeva, in quanto che di sopra abbiamo veduto, come per mille vie si fece intendere al popolo, che nulla sarebbe stato innovato; e che altre leggi non avrebbe subito, che quelle sancite dal parlamento italiano (1). Perché dunque maravigliare, se il popolo che si vedo tradito, rumoreggia? se grida sotto i dolori delle battiture che gli vengono inferite? se s'indigna della doppiezza usata, e per soprassello si vede ingiuriato, calunniato, svergognato pubblicamente al cospetto

(1) Ecco come nel proposito si esprimeva il Nazionale, organo semiufficiale del governo: «Le leggi di ciascheduna provincia italiana saranno pesate e valutate avanti a quell'autorità suprema ed unica del Parlamento d'Italia, nel quale solo non pure risiede la competenza e la sovranità legittima,

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de' suoi confratelli e dell'Europa intera? E perché egli si lamenta senza trascorrere ad eccessi, gli si appicca la qualità d'ingovernabile:ma è questa una vecchia astuzia che ha perduto il suo valore: Russia chiama ingovernabile la Polonia; l'Austria le sue provincie italiane; Inghilterra l'Irlanda; Danimarca i ducati. Ma non così disse il Ponza S. Martino, né il Sacchi (1), testimoni per fermo irrecusabili. Che vuolsi che dica un popolo, che mira peggiorate per ogni verso le sue condizioni materiali, aumentati i balzelli, oltraggiata la sua religione, invilito il suo onore (2)?

ma che è anche il solo giudice abbastanza informato ed in grado di determinare, quale sia la migliore organizzazione amministrativa, e quali le leggi più adatti all'indole varia e ricca del popolo italiano». Num. del 4 ottobre 1860.

«L'Italia meridionale, appena raccolto il Parlamento di tutta Italia, sarebbe anch'essa rappresentata cosi in questo come nella Commissione» (cioè una commissione istituita a quel tempo per avvisare sulla riforma di alcune leggi); «le sue leggi, le sue istituzioni e i tuoi ordini avrebbero agli occhi di uomini cosi competenti maggior valore che non hanno a' vostri» (l'articolo combatteva i sostenitori dell'annessione condizionata) «e riscuoterebbero «maggior rispetto che non è quello, che riscuotono per arte di partito da voi». Num. del 29 settembre 1860.

(1) Del Ponza abbiamo detto di sopra; il nobile nomo potrà dire se è vero. In quanto al Sacchi stimo utile riferirne le parole:

«

Vi hanno taluni che giudicando leggermente delle cose, gettarono contro le popolazioni napoletane la taccia di ingovernabili.

Sette mesi di permanenza fra le medesime ed a capo di una amministrazione che abbraccia i più grandi e vasti interessi, mi hanno posto in grado, di dare quanto meno un giudizio coscienzioso.

Queste popolazioni sono appassionate per tutto ciò che colpisce i sensi e la immaginazione.

Inchinevoli a' trasporti delle più vive passioni, feconde negli espedienti, d'ingegno fertilissimo, piene di brio, di grazia e d'arguzia, facili ai giudizii, disposte per natura a tutto ciò che è buono e bello, esse hanno bisogno di amare e di essere amate, l'indifferenza per esse è impossibile. Se non che non poteva Napoli sottrarsi alla sorte comune a tutti i paesi, che escono da uu grande commovimento politico». Op. cit. pag.

(2) Si può credere che il Nigra pone il caro de' viveri, come uno de' vantaggi che abbiamo conseguito? e che scorge in esso un mezzo di moralizzare il popolo?

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Quando egli si dimanda, e se lo dimanda assai spesso, quale è il guadagno che ha fatto; che gli si risponderà? Che ha guadagnato l'unità d'Italia?Ma i popoli non si pascono né di astrattezze, né di vuoto promesse,

Varrebbe lo stesso che dire: quel tale è ricco, riduciamolo alla miseria: cosi non potrà soddisfare i suoi vizii, e lavorerà per vivere.

Il brano è cosi grazioso, da farlo gustare a' lettori:

«

Quando venne S. A. R, grande era il timore per l'elevato prezzo de' cereali, degli olii e di altre derrate.

Dopo la rivoluzione si verificò infatti un aumento di prezzi in tutti i generi: ma questo aumento, che si manifesta costantemente ne' grandi rivolgimenti politici, è più relativo che assoluto; imperocché esso risponde ad un maggiore corrispondente aumento della circolazione del numerario. Di fatti all'antico numerario in argento, esistente in queste provincie, venne aggiungendosi una considerevolissima quantità di oro monetato, il quale prima era quasi affatto escluso da questo mercato. Del resto l'aumento di quei generi se può tornare nocevole a quella parie di minuta plebe cittadina, che era solito a vivere di elemosina, non potrà che ajutare, come per tutto altrove, il lavoro, e quindi la moralità e la ricchezza». Relazione citata pag.43.

Finora si era creduto, che la pace fosse condizione necessaria della pubblica prosperità (gl'inglesi tra gli altri, pessimi economisti, hanno il torto di tenere alla pace); ora sappiamo, che le rivoluzioni sono un mezzo per diffondere la ricchezza. Si credeva, che in tempo di rivolgimenti molto numerario sparisse; ma il Nigra dice, che appunto allora la circolazione aumenta. Si stimava che fosse opera di buon governo studiare che il vivere sia al più buon mercato possibile; il Nigra insegna a' governanti, che debbono fare il contrario. Gli economisti dicono, che la diffusione della ricchezza moralizza gli uomini; il Nigra per l'opposto affermarne un popolo più è affamato, più si moralizza; infine, e questa è la più maravigliosa delle sue conclusioni, che il caro de' viveri, in vernacolo carestia, produca la ricchezza. In quanto alla moneta d'oro aggiunta, ci venne essa regalata? affedidio che nulla sappiamo di questa gratificazione fatta ai popolo napoletano. Qui il Nigra ha poca buona memoria, perché innanzi disse, che la moneta d'oro avrebbe mandata via quella di argento mercé l'opera degli speculatori' In quanto all'aumento dello materie alimentizie, è egli vero che questo torna dannoso solo all'ignobile pecus umano che vive di elemosina? e tutti quelli che vivono di stipendii fissi? Che l'abbondanza del numerario faccia aumentare i generi alimentarii è vero, ed allora è indizio di prosperità; ma non é vero che questo aumento abbia per causa sempre la moltiplicazione della moneta. Secondo questa teoria peregrinala peste, la carestia e la guerra sarebbero tre grandi beneficii per l'umanità, perché fanno incarire i viveri. Finora si era creduto il contrario; ed il popolo cristiano ebbe la stoltezza di pregare; a peste, fame et bello (nella guerra vanno comprese anche le lotte civili e le rivoluzioni, se non andiamo errato), libera nos Domine.

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né stendono molto il loro sguardo al futuro: essi vivono principalmente del presente, e vogliono toccare con mano le utilità de' nuovi ordini; e quando questa si faccia, non si paventi che bramino in alcun modo il ritorno del passato (1). Se gli direte, che ha conseguito la libertà del pensiero, della stampa, dell'insegnamento, e il parlamento, gli terrete un discorso che non intende, perché pochi sono quelli che di tali vantaggi fruiscono; ma la massa non scrive né giornali né libri, non insegna, non aspira alla deputazione, al senato, al ministero. E quando anche fosse pronta per l'unità a tanti sacrificii, se obbietterà: ma per ottenerla, era necessaria tanta jattura, che si risponderà? Ricordiamo quello che dice il Machiavelli, che tutti hanno nella bocca, ma di cui quasi nessuno pensa a seguire gl'insegnamenti: «li assai uomini non si accordano mai ad una legge nuova «che riguardi uno nuovo ordine nella città, se non è mo«stro loro da una necessità che bisogni farlo (2)». Si dirà forse che la necessità scaturiva dal volersi l'unità a modo come si è fatto:

D'ora innanzi si metterà la colletta alla messa: pro peste, fame et bello. Il signor Nigra vuoi dare ad intendere che noi mancavamo di moneta: desiderabile mancanza! avevamo poca cattiva moneta, ed abbondavamo della buona. Sa il signor Nigra che nel 1860 il pezzente popolo napoletano teneva depositati al solo Banco diciannove milioni di ducati, come riferì il Sacchi; oltre più di dugento milioni di ducati (de' quali quarantacinque ne furono coniati nel 1856, rifondendo le monete da cinque franchi francesi) che stavano in circolazione per negozii, e per le bisogne quotidiane della vita? La quale enorme quantità di danaro, quasi 1000 milioni di lire, superava in proporzione quella che è in Francia, che, secondo il calcolo del signor Fould, ascende compresa l'Algeria a 2200 milioni di franchi. Del resto le teoriche economiche di certi nostri governanti sono singolari. Anche il signor Sacchi assume il principio, che un popolo più è indebitato più è ricco: i falliti dunque sarebbero i ricchissimi tra gli uomini. Che un ricco possa fare più debiti di un povero, l'intendo: ma non intendo, come sia ricco perché fa debiti; e molto meno che il far debiti sia ria per arricchire.

(1) «Perché gli uomini sono molto più presi dalle cose presenti che dalle passate; e quando nelle presenti ci trovano il bene, vi si godono e non cercano altro, anzi pigliano ogni difesa per lui, quando il principe non manchi nelle altre cose a sé medesimo». Principe cap. XXIV.

(2 Discorsi, Lib. I, cap. II.

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ma hoc erat demonstrandum, che l'unità non avesse potuto avere altra forma, che quella che le si è data. Tanto più che guardando in Toscana, dove poco o nulla si è toccato, e le cui condizioni sono per questo migliori delle sue, ha dritto di chiedere: perché non si è fatto lo stesso tra noi? Ma la Toscana non ha quasi avuto emigrati, condannati politici e martiri; ciò che l'ha campata dalla rovina.

Egli è questo un grande obbligo che ha col governo granducale; e noi tra' tanti danni che abbiamo da' Borboni, ponghiamo quello di averci tirata addosso tanta peste. Non temo la taccia che altri potesse darmi, di invelenire la piaga con queste parole, e di diffondere il malcontento. Dio mi preservi da simile intenzione. Ma rivelo io forse segreti ascosi? riapro ferite rammarginate? eccito clamori dove non sono? Ovvero, discorro di cose trite per tutti; mostro piaghe aperte e sanguinanti che tutti vedono, e che recano strazii e dolori acutissimi, che tutti risentono; e ripeto le grida generali, le quali pubblicamente s'innalzano, e che trovano il loro eco nella stampa quotidiana? E per l'opposto non mi sono forse astenuto dal citare nomi, e pubblicare non pochi particolari fatti illodevolissimi, noti a molti, ma non all'universale? Se questo è, tanto io sono imputabile, quanto il viaggiatore, che accorgendosi d'avere il pilota dirizzata la nave verso uno scoglio dove converrà naufragare, gridi perché cangi cammino, e salvi con lui sé medesimo, la nave ed il carico. Mi si obbietterà: per lo meno tu sci ingiusto: tutto quello che si è fatto è male, senza briciolo di bene? Sono lontanissimo da questa esagerazione. Ma nessuno potrà disconvenire, che que' miglioramenti parziali effettuati, sono un tenue compenso a fronte de' mali grandissimi causati; e che essi agevolmente si poteano mettere in pratica, senza che per questo fosse mestieri della unificazione totale degli ordini; in guisa che questa rimane sempre l'origine di tutti i danni che abbiamo sofferto e soffriamo, senza essere la causa di quel poco di bene che si è operato.

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IX.

RIMEDII E CONCLUSIONE.

Giunti al termine del nostro lavoro, raccogliamo in breve quanto si è per noi discorso. Abbiamo dimostrato, indagando l'indole e la finalità della nazione italiana alla luce della filosofia e della storia, che la forma di unità che le compete, sia quella che rannodi intorno ad un centro comune le diverse provincie sue, varie per postura, per natura di abitanti, per singole tradizioni, costumi, ed ordini i quali ne sono conseguenze, ed ancora poco note a vicenda tra loro, conservando però a tutte la vita loro propria. Abbiamo confortato questa idea colla autorevole testimonianza de' migliori scrittori italiani, che si sieno travagliati negli ordini da dare alla patria per ridurla ad unità; e dall'altra parte abbiamo mostrato colla storia in roano, che nessuno degli stati più importanti di Europa, tranne la Francia, possiede l'unità quale si è voluto introdurre in Italia, la quale era la meno atta a tollerare unità di ordini identici per le sue provincie; ed anche la Francia non esservi pervenuta, se non dopo quattro secoli di continuo lavorio. Abbiamo presentate le cause dell'andazzo corrente presso i politici moderni, pe' quali nulla è da rispettare; reputando falsamente che l'arbitrio umano possa, non pure disporre secondo l'ordine di natura gli elementi preesistenti, ma crearli dove non sono; e per ultimo abbiamo mostrato quali tristissimi effetti abbia generati l'erroneo ed innaturale sistema finora seguito, principalmente nel già regno di Napoli. Diamo ora uno sguardo alle condizioni presenti, francamente, senza retrocedere qualunque sia lo sgomento che possa partorire, perché dissimularsi i pericoli, quando incombono minacciosi, e chiudere gli occhi per divertirli dalla vista paurosa, è cosa da fanciulli, e da uomini fiacchi e tepidi amatori della patria.

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I prudenti e gli animosi guardano in viso il pericolo, e provveggono a' rimedii quando ne è tempo. Or bene: quale è lo stato attuale d'Italia? Se guardiamo a queste provincie la situazione non può essere più trista: partiti frementi ed inesorabili, ohe s'imputano a vicenda i mali della patria; i vinti e gli sbattuti rialzano il capo e minacciano i percussori; da queste ire generato il brigantaggio, che come l'idra favolosa riproduce i suoi capi troncati, il quale, come giustamente osservava un giornale, ha un carattere politico innegabile (1), perché è sempre carattere politico quello che muove molti uomini a far guerra disperata ad un principio governativo; col quale flagello vanno di conserva le uccisioni, le devastazioni, i depredamenti, che mettono in continuo ripentaglio le vite e le fortune private, ed anche la pubblica: perocché mal si possono esigere i tributi ove l'azione governativa non è libera, ed ove la miseria pone i contribuenti in posizione da non poter pagare chc a stento. Come conseguenza di questo stato s'aggiunge il ristagno delle operazioni commerciali interne, le quali, secondo gli statisti, vincono per importanza e per valore le operazioni del commercio esteriore; ciocché fa infierire la miseria dovunque, perché da un lato toglie i mezzi di guadagno ad una moltitudine infinita di persone; dall'altro fa aumentare il prezzo delle materie alimentizie, come si sta sperimentando. a' tristi data balìa di governarsi a loro talento; a' pacifici cittadini tolta ogni sicurtà di vita e di averi. I vantaggi promessi ancora in spc; i danni quotidiani e numerosi. Per tutti l'incertezza del domani, e lo sgomento del presente. Quali frutti deggiono produrre queste crudeli condizioni negli animi delle moltitudini, le quali non si governano colle astrazioni, ma guardano a' fatti?

(1) La Patria, n. del 22 sett,1862.

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Lo diremo liberamente: i primi più sinistri portati sono nel maggior numero l'indifferenza pel presente ordine di cose, in moltissimi sentimenti ostili al Piemonte, ed agli stessi loro connazionali che hanno partecipato al governo; in molti, principalmente tra le plebi, un cocente desiderio del restauro de' principi caduti. Delle altre parti d'Italia non parlo; ma se lice argomentare in qualche modo dalle provincie meridionali, e se si dee credere a quello che dicono i giornali, e le persone che le hanno visitate, gli stessi mali, dal brigantaggio in fuori, benché per avventura meno intensi, travagliano quelle popolazioni, tra cui sono scoppiate manifestazioni avverse al governo, forse di gravità maggiore che non quelle che hanno avuto luogo tra noi, tranne la Sicilia. Non si spacci la solita novella che il malumore muove da partiti mazziniano e borbonico, perché tutte le sette del mondo sarebbero impotenti ove non ci fosse fradicio: ben potrebbero esservi de' pazzi e degli esaltati, ma questi sono sempre in numero infinitesimale, e di loro ogni governo non dee curare, quando intorno ad essi non si assiepino i molti malcontenti. Tutti poi gridano contro Torino. Si è voluto l'unità, e si è riuscito alla divisione; si è voluta la concordia e si è conseguito l'astio; solo perché si è perfidiato in battere una via funesta e dissennata. Aggiungi la bancarotta la quale ci minaccia, poiché gli spaventevoli bilanci presentati dal ministero sono proprii ad atterrire agli animi più intrepidi. Come si farà a camminare sopra un vuoto sistematico? Come si provvederà a riempirlo? E per ultimo: un nemico terribile accampato in sullo stremo boreale, immezzo a fortezze formidabili, quasi Icone nel covo, che spia il momento per assaltarci, tenuto unicamente in rispetto non dalla nostra forza, no, ma dalle minacce di chi già gli ha fatto sentire come pungano i suoi artigli.

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Quali adunque saranno i rimedii a tanti mali? Parecchi gridano, che si dee lavorare nel popolo, che bisogna persuadere che essi sono inevitabili, che il fine che se ne caverà, sarà ottimo e lieto, cioè l'unità e la grandezza d'Italia, la liberazione di Venezia; ma non pensano né punto né poco a mutare cammino. Questi tali, tra cui trovi molti onesti, sono assai curiosi; credono alla onnipotenza delle parole, o meglio delle ciarle, e che i popoli sieno come i bimbi, a' quali quando strepitano, si cantano storielle per addormentarli. Ma i popoli sogliono per poco credere a' ciarlivendoli, vogliono fatti, vogliono buon governo, sicurtà di vita e di averi, libertà di operazione; e se alle promesse (che per altro sono state già troppe) non susseguano i fatti, abbandonano presto i promettitori e le idee loro; soprattutto le moltitudini, le quali vivono poco d'idee, ma specialmente attendono agli utili materiali. I popoli non fanno sacrificii se non quando tocchino con mano l'utile che loro ne torna; e quando i medesimi sieno indispensabili; noi ne appelliamo alla storia, non a certi strani politici, i quali parlano delle moltitudini ignoranti, che sono sempre i nove decimi di tutti gli stati, come se queste filosofassero o astratteggiassero, e quindi imprestano ad esse le proprie loro convinzioni. Or come si può credere, per esempio, che il popolo napoletano possa sopportare in buona pace i sacrificii di ogni genere cui è stato sottoposto, quando da un lato le sue condizioni sono andate peggiorando, e quando dall'altro per la gran parte non erano necessarii? Altri onorevoli uomini del pari si son fatti a proporre certe misure come rimedii, le quali rassomigliano a' pannicelli caldi ed all'acqua zuccherata, buoni a curare un raffreddore, ma inciti ad un corpo travagliato da mortale infermità: questi politici credono a' palliativi, come gli altri alle ciarle. Posto adunque che i rimedii deggiano essere tali quali richiede tanta gravezza di condizioni,

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noi ne proponghiamo alcuni all'esame de' prudenti, con quella peritanza, che nasce dalla somma importanza della materia, e dalla profonda consapevolezza delle scarsissime nostre forze.

1.° Che l'unità dello stato deggia rispettare l'autonomia amministrativa, nel senso più ampio della parola, di ciascuna provincia, e lasciare che viva co' proprii ordini e temperamenti, co' quali ha sempre vissuto; in guisa che rimanendo un centro supremo governativo, questo si appoggi su' succentri particolari proprii di ogni provincia, coordinandoli alla vita unica dello stato, ma consentendo loro in tutto il resto libero spazio a muoversi; così che l'ordine fondamentale presenti un connubio dell'unità con le varietà speciali e indelebili di ciascuna famiglia, e concordi con l'unità del parlamento e dell'armata, la diversità delle leggi amministrative, finanziarie, ed anche degli ordini giuridici; di che porge molti rimarchevoli esempli la storia contemporanea.

2.° Non essendo, per quanto pare, sperabile che prossimamente possa ottenersi Roma per capitale, si pensi di tramutare la residenza da Torino, dove non può più a lungo rimanere come l'esperienza l'ha mostrato; e si trasferisca in Napoli. Non diciamo altre ragioni, essendoci già su questo argomento versati in una precedente nostra scrittura divulgata l'anno scorso (1); allora quelle idee sembrarono strane, ne fui anche vituperato: ora ci si comincia a pensare anche da' governativi. Solo aggiungiamo, che essendo Napoli la città più importante e più centrale d'Italia, queste provincie costituendo i tre quinti del regno italico,

(1) Napoli e l'Italia. Napoli 1861. Credo che le ragioni da me esposte fossero assai calzanti. Allora fui chiamato municipalìsta: il tempo mi ha dato ragione e più ampia me ne darà.

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e sventuratamente essendo il teatro di lotte sanguinose, la presenza del governo in Napoli è indispensabile per rinvigorirne l'energia, e togliere a molti la fantasia di combatterlo. Si attenda, che egli non è né a Torino, né altrove, dove si decideranno le sorti italiane, ma a Napoli. Lungi la paura che questo provvedimento possa far crescere il partito de' separatisti: per l'opposto ci sembra il solo mezzo per disfarlo completamente, quando sia accompagnato da buon governo. Né dovrebbe eccitare la gelosia delle altre città. Sul serio, la stessa Firenze può ragionevolmente credere di superare Napoli, per le condizioni che si richieggono ad essere la capitale di un grande stato come il regno italico, anche per postura geografica? Lo spiegarsi Napoli sul mare è un vantaggio, non un pericolo; perché delle potenze marittime non abbiamo da temere, essendo nostre amiche; e dall'Austria essa è la più lontana, cui si converrebbe attraversare gran parte d'Italia prima di giungervi; il che non accade né per Torino, né per Firenze. Ed inoltre che danno fece a Napoli la flotta inglese guerreggiante contro re Gioacchino, benché le armi inglesi si fossero impadronite di alcune isole vicine. Senza dire, che le fortificazioni delle spiagge sono ora assai superiori a quelle che non erano in quel tempo, e si possono facilmente ingrandire; e, che se uno straordinario caso s'inimicasse Inghilterra, Francia ci tutelerebbe per proprio interesse colle sue flotte; e per contrario.

3.° Per quanto riguarda singolarmente il popolo napoletano noi richiediamo, che la scure si ponga alla radice; e che, come il primo inizio di ogni turbazione si fu la infelice ed improvvida partizione fattane in borbonici ed unitarii, singolarmente per opera del governo, divisione che rinnovcllò le tristi memorie delle parti politiche del medio evo; così il governo stesso deggia in buona fede e con ogni energia adoperarsi a cancellare la malnata e funesta scissura. Stenda le braccia a tutti, senza esigere una preliminare

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dichiarazione di fede da nessuno: sia unico titolo a' carichi pubblici la onestà della vita e l'attitudine dell'ingegno; la considerazione odiosissima e partigiana del colore politico si sbandeggi una volta per sempre: né si tema di nulla; perché il governo farà immancabilmente suoi, anche quelli che per privati danni e per diverse convinzioni gli sono ora avversi, poiché gii uomini, come dice il Machiavelli, del presente si godono, e non cercano novità dove sieno trattati bene; e l'amore verso il governo naturalmente si genera, quando si dimostri amico generoso e magnanimo, e innanzi tutto giusto (1). Così fecero i Francesi presso noi, così fecero i Borboni al loro ritorno nel 1815, e se ne trovarono bene. E quindi richiami a' carichi da cui furono rimossi, o collochi in altri pari a quelli in importanza, tutti coloro contro cui non sicno ad appuntare gravi colpe di disonesta vita; e perdoni anche i piccoli falli, se occorre. Così da un lato avrà il vantaggio di restaurare i danni ingiusti recati a molte famiglie che languiscono nelle strettezze; dall'altro di chiudere la via agl'intrighi de' mestatori politici e de' procaccianti; e di usufruttuare tanti nobili ingegni e capacità, che giacciono inoperosi con detrimento universale, quando la patria più che

(1) Stimiamo opportuno il riferire sul proposito il seguente luogo del Machiavelli. «Hanno i principi, e specialmente quelli che sono nuovi, trovato più fede e più utilità in quelli uomini che nel principio del loro stato sono tenuti sospetti, che in quelli che nel principio erano confidenti quelli uomini che nel principi» di un principato erano stati inimici, se sono di qualità che a mantenersi abbino bisogno di appoggio, sempre il principe cou facilità grandissima se li potrà guadagnare; e loro maggiormente sono forzati a servirlo con fede, quanto conoscano essere loro più necessario cancellare con le opere quella opinione sinistra che si aveva di loro; e così il principe ne trae sempre più utilità, che di coloro, i quali servendolo con troppa sicurtà, stracurano le cose sue.

E discorrendo bene con quelli esempii che dalle cose artiche e moderne si traggono, la cagione di questo, vedrà essere molto più facile il guadagnarsi amici quelli uomini che dello stato innanzi si contentavano, e più erano suoi inimici, che quelli i quali per non se ne contentare, gii diventarono amici e favorironlo ad occuparlo». Princip. cap.20 p.64 e 65.

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mai necessita di uomini valenti in ogni genere. Molto si è detto, che non fossero uomini: è falso: vi sono e in buon numero, ma per trovarli si dee abolire ogni spirito di parte. Gli alti funzionarii in amministrazione, in finanze, in magistratura non s'improvvisano; l'esperienza non si acquista in un giorno; e bisogna confessarlo a viso aperto: i buoni amministratori, gli egregii magistrati, e i periti finanzieri sono oggi per lo più quelli che servirono i passati governi. La lunga prova a posteriori non ammette né replica né dubbiezza.

4.° Si restituiscano a noi i nostri eccellenti ordini manomessi in amministrazione, in finanze, in istruzione pubblica. Questo andare indietro sarà un progresso effettivo, come è il retrocedere per colui che ha sbagliato la via, perché rifacendo il cammino, realmente progredisce verso la meta del suo andare. Né si gridi, che questo disfare il fatto sarebbe pericoloso: perché l'abbattere ciò che malamente si è fabbricato e che non può reggere, è opera di prudente architetto, il quale comprometterebbe la salute dell'intero edificio, se accorgendosi che un muro esca di piombo, invece di demolirlo, si ostini a volerlo conservare. Né il ritorno sarà difficile, perché è agevole togliere il nuovo che non è ancora solidamente abbarbicato, e stende malamente le radici per la superficie; e far rifiorire l'antico che ha messo profonde radici, il quale ripiglierà lena da sé, solo che si rimuovano gli ostacoli. S'intende, che questo ritorno vuole essere prudente e ponderato, e non fatto colla furia che tutto ha perduto sinora.

5.° Si rispettino con ogni scrupolo le credenze religiose del popolo, le quali sono il lato più intimo e delicato di tutti i popoli, segnatamente del nostro. Napoleone l, quando condusse la guerra di Egitto, mostrò il più grande rispetto per la religione de' turchi, riuscì ad amicarseli per quanto era possibile, e ne ebbe da essi il bel soprannome di Sultano giusto. Questo popolo è cattolico per essenza, e sia pure, anche per certi versi superstizioso; le superstizioni

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si vogliono guarire diffondendo i lumi e la istruzione, non combattendole con violenza e di fronte, perché esso sendo avvezzo a considerarle come essenziali alle sue credenze, giudicherà, che volendosi quelle togliere, si voglia spiantare la religione stessa, la quale con esse confonde: si tenga presente, che questo è il solo popolo che non tollerò l'inquisizione, e nemmeno sette ereticali. Si cessi perciò dalla persecuzione che si fa a' preti ed a' monasteri;la quale è solo utile a metterli in credito maggiore, e dannevolissima per gl'influssi che esercitano nelle moltitudini. Se vi è prete che si renda colpevole, si punisca come qualunque altro cittadino; ma si attenda bene a definire, che sieno i delitti che loro si imputino; né si cada nel ridicolo e nell'arbitrario delle processure fatte al vicario Tipaldi, al parroco di Portici, a' canonici della Cattedrale, ed altri consimili scandali; dove il preteso reato non esisteva, che nel cervello de' giudicanti. Le misure proposte dal Conforti mostrano la più completa ignoranza del diritto civile, del diritto canonico e delle relazioni giuridiche che corrono tra lo Stato e la Chiesa; oltreché sono una violazione perfetta della libertà della stampa. Sarà permesso al più vile giornalaccio di spropositare in politica, di astiare malignamente il governo, di denigrare gli uomini, di accendere pericolose passioni, di sbeffeggiare la religione; e negato ad un vescovo di parlare liberamente a suoi figliuoli spirituali, senza l'approvazione governativa? Ma il vescovo può trasmodare? ebbene se viola le leggi dello stato, si traduca senza riguardi innanzi al giudice secolare. La giustizia sia severa per tutti, ma non si usi d'una duplice bilancia per pesare le azioni de' preti e quelle degli altri cittadini (1).

(1) Nulla diciamo della totale confusione delle giurisdizioni civile ed ecclesiastica, e di altre squisitezze consimili, che ingemmano quel progetto di legge. Rimandiamo a talune giudiziose osservazioni fatte dal giornale il Nomade, mini. del 2 ottobre 1861; ed a quelle del sig. D'Haussonville, che ne ha saputamente trattato nella Rev. des devz mond, del 15 Ottobre 1862.

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Non si obblighino i preti a cantare Te Deum officiali, cosa vecchia ed insulsa, poiché si è visto che stranissimo e risibile abuso se ne è fatto da tutti i partiti, per gittare polvere agli occhi, e dare un certo carattere di legittimità al proprio operato. Se pure può semplicemente chiamarsi con tal nome quella che per un cuore cattolico è una trista profanazione del Nome di Dio Santissimo. S'invochi con reverente fiducia quel Nome Sacrosanto ne' pericoli, ne' travagli; si ringrazii la Divinità quando ci preserva da' meritati flagelli, o ci largheggia le sue grazie: questo

l0 faccia ognuno da sé; ed in quanto alle pubbliche sacre cerimonie, si lasci assoluta libertà a' vescovi ed a' preti, i quali non possono né deggiono riconoscere autorità laicale nessuna, in quanto concerne il sacerdotale ministerio ed il disporre le religiose osservanze. Né si facciano per ombra servire le cose auguste e venerande della religione alla politica. In somma si dia a Cesare quello che è di Cesare, ed a Dio quello che è di Dio, come il Divino Maestro comandò. In contrario suonerà una vana parola quella libertà di coscienza, di cui sono tanto teneri in ciarle certi governanti, pe' quali consiste in non rispettare il cattolicismo, ovvero nel promuovere, dove non sono, nuove credenze religiose (2).

(2) Che diremo di certi liberali, i quali vogliono inoculare il protestantismo in Italia? Il Macaulay col suo consueto acume ha notato che: «È significatissimo che nessuna gran massa di popolo, la lingua del quale non sia teutonica, si è giammai volta al protestantismo; e che dove si parla un idioma derivato da quello dell'antica Roma, la religione della Roma moderna fìnoggi prevale». Stor. d'Ignhilt. ediz cit. cap. I, p.71. Ma non ne assegna la ragione. Lo stesso fatto è osservato dal Gervinus: «Ce sont en effet les races (le germaniche) qui seules ont embrassé la Réforme, qui seules se sont débarrasseuses de la vieille hiérarchie religieuse et ont rompu complétement avec le innove âge». Introd. a l'hist. du XIX siècle, pag. 4i. Questo fatto è spiegato dalla natura delle due razze latina e germanica, l'una tenera dell'unita, è perciò cattolica, l'altra del discentramento è perciò naturale fautrice del protestantismo. Il sognare adunque d'introdurre il protestantismo in Italia è una solenne pazzia, che fa a calci colla natura delle cose; il che dovrebbe ammonire questi curiosi liberali, se si dessero il pensiero di studiare la natura e la storia.

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6.° In quanto a' monasteri si ritorni francamente sulle ingiustissime provvisioni del 17 febbraio, marchiate dello stesso suggello d'incostituzionalità, che innanzi osservammo potersi apporre a tutti gli ordini introdotti dalle Luogotenenze, senza espressa sanzione de' tre poteri che costituiscono il parlamento, unico e solo legittimo ordinatore di leggi. Senza dire, che le prefate disposizioni furono emesse in fretta e senza ponderazione. Si sono aboliti gli ordini religiosi quasi che tutti:

È singolare poi, che costoro pretendono di trapiantare in alieno terreno il protestantismo, quando esso è morto nel suolo natio. SI morto alla lettera: vi sono protestanti, ma chiesa protestante più non vi ha: questo non lo diciamo già noi cattolici, ma i più sfidati protestarti. Ecco alcune loro testimonianze: «Lutero edificò la sua chiesa, noi ci riuniamo insieme per tributarne lodi e grazie senza fine a Dio; ma ohimè mentre preghiamo, essa non esiste più». Bemhard, Serm. nel giorno della ricord. tresecol. della Riforma. «Hanno eglino i proiettanti una chiesa? in che cosa ella mai si fonda la fede della chiesa protestante?» Mùller La Chiesa crist. nella sua idea, tom. t. pag.59. «La chiesa protestante è presso ad essere ridotta in fati scio. Conciossiachè talmente sia guasta, da tornare vana qualunque opera. di ristorazione o di puntello si opponga alla rovina di lei». Ul Iirisori, Studii teologici. «L'altezza di questo edificio è già crollata, e la religione evangelica è pure ridotta ad un punto da cui più non risorge». Woltmaon, Stor. della Rifor.» Ben mirasi il protestantismo, ma una chiesa protestante «non mai». Lehmann, Stato e perir della Rifor. E tutte le altre consimili attestazioni di teologi protestanti riferite dal Theiner, Sulla introd. del protest. in Ital. trad. dal tedes. Napoli 1850 pag. 99 e scg. Onde per verità non sappiamo concepire la gran paura che fa a' preti in generale ed a molti cattolici quest'ombra vana, questo cadavere che è già putrefatto. Non è il protestantismo che minaccia; ma sì l'ateismo schietto, il quale è vegeto e rigoglioso; ed il tarlo assai più funesto dell'indifferentismo, il quale sugge i succhi vitali della società moderna, ed è penetrato anche assai addentro in moltissimi che si credono cattolici, solo perché non sono inchinevoli ad altre credenze, ed ascoltano la messa. Questi sono i due veri giganteschi nemici del cattolicismo, a combattere i quali ci vogliono scienza profonda, pazienza eroica, annegazione totale di sé medesimo, fuoco ardentissimo di carità operosa per tutti i versi. A questo pensino i cuori cattolici, a questo attendano i preti: bisogna armarsi di ben altre armi, che non quelle da loro finora usate. Probabilmente l'ora della battaglia non è lontana. Guai se non ci troveremo provvisti di buone armi, e se da Dio non impetriamo la costanza del cuore. Noi crediamo, che la società si ricomporrà per bene, ma dopo la lunga e terribile lotta che si prepara.

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ma si è veramente approfondita la quistione? chi de' leggiferanti e degli altri schiamazzatori se ne è fatta chiara coscienza collo studio della storia, e della scienza dell'umanità? Si è esaminato in quali occasioni nacquero; a quali fini furono ordinati; a quali bisogni hanno sopperito; quale è stata la loro azione, non dirò religiosa solamente, ma umanitaria, non solo nel passato, ma anche nel presente; se la società possa veramente farne a meno? E senza prima risolvere tutte queste quistioni, né lievi, né facili, né alla portata di tutti, come si poteva avere un buon criterio su quello che doveasi fare? Oggi si sente di bocca in bocca suonare, che gli ordini religiosi furono buoni nel medio evo, ma che ora hanno fatto il tempo loro; che i monaci sono esseri inutili, anzi pericolosi, e che, come diceva Dante,

le cocolle

Sacca son piene di farina ria;

che il favore con cui sono guardati dal popolo è un pregiudizio; ed altre consimili trivialità, perché sono vecchie canzoni, che da due secoli e più si ricantano e perciò non hanno nemmeno la freschezza della novità. Ma qui domanderei: come accade, se quello che si dice è vero, che, per esempio, gli ordini mendicanti francescani, i più numerosi di tutti, che nulla posseggono o quasiché nulla, vengono alimentati dalle spontanee largizioni del popolo, sensu lato, poiché vi concorrono non pure le ultime classi, ma anche le più gentili?Se l'istituzione fosse cosa morta, dovrebbe cascare da sé, come cascano i morti; intanto anche dopo il decreto di abolizione, non una sola casa religiosa si è chiusa; e pure il governo le ha private de' beni loro. Io per verità mi sono dichiarato, che non credo alla onnipotenza dell'arbitrio: quando veggo un fatto cerco di indovinarne la causa: se non riesco, confesso la mia ignoranza: ma né nego il fatto, né dico che sussiste senza una causa reale e sostanziosa.

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Ora in ciò

mi par chiaro, che il popolo sente che il monachismo è un elemento necessario della società civile, di cui egli non può dispensarsi; e però lo mantiene in vita, a dispetto delle provvisioni governative. Se dunque il popolo lo vuole, perché gli dà i mezzi per vivere, come si può giustificare la proscrizione? Sono in esso disordini? Ebbene, questo importa che alcuni ordini monastici voglionsi riformare, riconducendoli a' loro principii. Sono forse troppe le case religiose? dunque si riducano. l'ha taluno di quelli per avventura superfluo? se ne curi l'estinzione nel regno. Ma tutto questo si faccia d'accordo colla sola potestà che ha valore a provvedere, che è il Papa; né presuma l'autorità laicale farlo da sé, la quale non ha voce in capitolo, perché in quanto riguarda il domma e la disciplina ecclesiastica il solo Pontefice è competente; ed i principi stessi non sono che membri della christiana plebs, come S. Ambrogio provò a Teodosio; S. Leone Magno a Teodelinda; S. Gregorio VII ad Enrico IV; Nicola I all'imperator Lotario. So che molti rideranno: sta bene; ma noi cattolici rideremo de' derisori. Se essi non hanno sentimenti cattolici, li abbiamo noi; se loro i monasteri non quadrano, garbano a noi, che siamo pure la enorme maggioranza della nazione, a petto a cui essi non fanno che una microscopica minoranza. Si dirà, che il governo ha conservato gli ordini utili: ma è egli giudice del bene della società morale e religiosa, egli cui Bolo spetta di reggere la società civile? Si sono eccettuate appena pochissime case di ordini insegnanti; ed alcuni che praticavano opere di beneficenza: ma questo non è tutto: anzi quelli che si occupano d'insegnare, sono oggi realmente i meno utili, perché la scienza è già uscita del chiostro, si è in gran parte laicalizzata, e tende a farsi laicale sempre più: infatti ora non si va più a studiare a' conventi, ma si frequentano le università, o i privati docenti.

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Non è dunque nulla l'assistere i moribondi, corneé ufficio de' crociferi? nulla il predicare la fede, che è quello de' domenicani? Nulla il nudrire i poveri, e curare gl'infermi, come fanno i mendicanti alcantarini? Nulla l'offerire un porto alle anime sbattute dalle tempeste del mondo; o a quelle che, sollevandosi dal fumo e dal puzzo della corrottissima società presente, aspirano a più libero e sereno atmosfera? nulla l'ajutare i vescovi nella opera dell'amministrazione de' sacramenti? Sapete voi quantobene fanno i monasteri, specialmente di mendicanti, a certi miseri paeselli, separati per un abbisso dalla società civile? dove non giunge la civiltà, dove la stessa volontà del principe è impotente, arriva l'opera degli ordini religiosi, i quali sono un mezzo efficace per dirozzare la barbarie, ammansare le ire, spargere un po' di luce nelle molte borgate delle nostre provincie, che giacciono sepolte in tenebre perenni, dimenticate dalla superba civiltà odierna, che si occupa solo a traricchire ed a scialacquare. Ecco una parte delle ragioni profonde che fanno del monachismo uno stromento non solo religioso, ma sociale e civile; ecco perché mantiene la sua riputazione presso il popolosi quale non divide per ombra le ire e i sospetti de' suoi rettori; e ne ha dato pruova, accogliendo con manifesto malcontento le inopportune ed illegali ordinazioni del i7 febbraio 1861. La sua coscienza e il suo benessere ne dimandano l'abolizione (1).

7.° Come congruente al restauro delle cose religiose si riformi la nostra università, la quale è stata sempre cattolica. In nome della libertà di coscienza noi cattolici

(1) Mi si dirà che sono clericale (voce di moda)? Per me non fo quistiooi di parole: se clericale vuol dire, chi difende colla storia e colla ragione le cose di religione, accetto l'aggettivo: se importa, chi ha sentimenti cattolici, l'accetto anche dippiù, solo dolendomi di non meritarlo abbastanza. Per grazia di Dio, non erubesco evangelium.

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mandiamo, che sia tolto il guasto fatto alla università nostra, perché quella è un organo della nostra credenza. Ed è frutto di violenza l'avercelo alterato, insediando in essa professori nemici del cattolicismo, de' quali io non pongo in dubbio né la dottrina, né l'onestà della vita, né la dirittura delle intenzioni, per divulgare quella che essi credono la verità. Dico solo, che il posto che ivi occupano, loro non appartiene. Insegnino in altra università consona a' loro principii, insegnino privatamente con tutta larghezza: per me sono lungi dal credere, che sieno mai per nuocere alle dottrine cattoliche, le quali amano la luce del sole, e non le ombre; combattono i loro avversarii, non gli sfuggono; accettano la discussione e non turano la bocca a' contraddicenti. Anzi io stimo, che nulla cosa sia tanto proficua alla verità, quanto che l'errore si mostri in tutta la sua estensione ed intensità, perché così cadrà più facilmente da sé; massime in questo paese nato alla metafisica ed alla metafisica platonica, che da Agostino, da Bernardo, dal Crisostomo, da Giustino, da Bonaventura e da Tommaso, fu trasportata nel cattolicismo; e però non può gustare la filosofia subbiettiva d' oltremonte. Né in questo partecipo alle preoccupazioni di molti uomini pii, ma pregiudicati: perché ho viva fede che la verità è come il sole, cui i vapori possono far velo per poco, ma che infallibilmente presto saranno dalla onnipotenza de' suoi raggi risoluti. Però dico, che la libertà vuole essere conservata a tutti. Noi cattolici abbiamo una fede religiosa, di cui le leggi garentiscono l'esercizio apertamente: ci si lasci dunque quello che è nostro: cattolica era la nostra università, dunque solo violando il principio della libertà di coscienza, ci si può guastare. Senza invocare lo Statuto, pel quale essendo il cattolicismo la religione dello stato, ne segue che l'insegnamento ufficiale non possa da quello dipartirsi.

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8. Si vegli diligentemente sul pubblico costume. E egli forse necessario il ricordare, che i buoni costumi sono il fondamento unico su cui può basarsi con sicurezza lo stato? E verissimo che lo stato non debba inframmettersi nella moralità privata de' cittadini, come stoltamente si è fatto da molti governanti. E altro il giudice ed altro il tribunale della moralità, lo stato non può versarsi che sul diritto. Però stando appunto a' confini del diritto, è diritto del cittadino di non essere scandalezzato in pubblico: quindi tutto quello che tiene alla moralità pubblica entra nelle attribuzioni governative. Qual governo al mondo permetterebbe il cinismo di Grati; ovvero tollererebbe i Mormoni? Eppure si sono viste le nostre scene insozzate da rappresentazioni turpissime, da digradarne le commedie del Bibbiena e del Machiavelli; e per lo più infeste ad un tempo alla religione cattolica, deridendone i dommi, i riti e la gerarchia. I buoni governi di ogni epoca e presso tutte le colte nazioni, si sono dati gran pensiero de' teatri; perché non vi ha tribunale predicazione, né mezzo di pubblicazione tanto efficace per muovere così al bene che al male le moltitudini, quanto il teatro, che opera ad un tempo potentemente sull'elemento intellettuale e sul sensibile dell'uomo; in cui si raccolgono persone di ogni età, di ogni sesso, d'ogni condizione. Quando nel 1813 ferveva la riscossa nazionale di Germania contro Francia, per ottenere volontarii, tra gli altri mezzi, si adoperavano le frequenti rappresentazioni de' Masnadieri dello Schiller, e del Gotz di Berlichingen del Goethe, e l'effetto superava le speranze (1). La rivoluzione recente del Belgio fu affrettato dalle rappresentazioni della Muta di Portici. E il celebre Talma, testimone oculare, notò, che la rivoluzione francese andò a rilento fino a quando la scena non divenne

(1) Consimile effetto produceva il Campo di Wallensteio dello Schiller. De Stael, L'Allemogne, Paris 1857, pag.230.

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l'arena delle passioni popolari (1). Così non vi li a mezzo più efficace per tirare alla dissolutezza ed all'empietà, e ad infiammare le più pericolose passioni politiche. In Inghilterra il parlamento adoperò la più lodevole sollecitudini per questo gran negozio, massime nella inchiesta parlamentare ordinata nel 1835 e proseguita per molti anni colla più scrupolosa diligenza: l'effetto ne fu non solo di conservare, ma di allargare i confini della censura preventiva delle opere teatrali e degli altri pubblici spettacoli (2). In Francia due volte sotto gl'influssi delle due rivoluzioni del 1830 e del 1848 si volle abolire la censura preliminare, ma gli scandali e le turbazioni di ogni genere furono tali e tanti che si dové presto restaurare quell'ordine (3). I censori teatrali in Inghilterra, scelti sempre tra gente degnissima, hanno cura di castigare i drammi, sopprimendo tutto quello che possa essere nimico alla religione, alla morale, alla vita privata de' cittadini, agli ordini dello stato; e si può dire che la censura inglese superi in rigidità anche la francese (. i). Si permette che sieno pubblicamente esposte stampe invereconde; e che si faccia pubblico spaccio di libricciuoli pregni di ogni sudiciume, indirizzati ad avvelenare la prima adolescenza, e ad essiccare ogni fior di pudore. Si dirà forse, che ciò importa la libertà della stampa? Ma questa è libertà da bordello, non di società civile. Non si vuole confondere la libertà colla spudorata licenza, la quale è il suo maggior nemico. La libertà della stampa dee giovare alla manifestazione libera delle opinioni politiche, civili, scientifiche, letterarie, religiose, ma non servire di strumento a suscitare il malcostume, il quale è un tarlo che rode dalla radice ogni società costituita.

(1) Vivien, Etudes Administratives, Paris 18159, tom. n, p.366.

(2) Vivien, op. cit. tom. II, pag.361 e seg.

(3) Vivien, op. cit, tom. II, p. 398.

(4) Se vuoisi vedere un curioso saggio della rigidità della censura inglese leggasi il Vivien, op. cit, tom. II, p.367.

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Ricordiamo, che il magnanimo Savonarola, quando tentò di far rifiorire la libertà in Firenze, incominciò dalla riforma de' costumi; e perché la corruzione era troppa non riuscì, e per conseguente naufragò nella sua riforma politica (1). Ricordiamo, che l'impero romano cadde quando i costumi furono guasti, e che tanto valeva il dire romano, quanto un uomo corrottissimo e perduto; ed in generale al lume della storia si può chiarire, che a' momenti di decadenza delle nazioni, precessero epoche corrottissime, come fu per Francia negli ultimi anni di Luigi XIV e ne' regni susseguenti, e per Inghilterra al tempo degli Stuardi. Vero è, che gli uomini non sono santi; e però su certi disordini il governo dee chiudere gli occhi, ma deve impedire che lo scandalo sia propalato nel pubblico. Noi quindi richiediamo, che la censura preventiva de' lavori teatrali stringa il freno, li castighi, o li rifiuti quando impugnino la morale e la religione, sia pure la protestante e la musulmana. E si vieti onninamente lo spaccio per le vie de' libercoli che esprofesso propagano la immoralità, e spargono il ridicolo o l'odio sulla religione; nonché la pubblica mostra di stampe indecenti.

9.° Deesi smettere qualunque preferenza e supremazia tra gente e gente italiana. Tutte sono degne e gloriose, e se sono per natura disegualmente eguali come Dante diceva della gloria de' beati (2), il che forma la loro gerarchia, questa disuguaglianza non o soggetto d'invidia e di contenzione, quando non dà luogo a disuguaglianze di fatto ed a preferenze (3). Ed ora una delle cose, che hanno nociuto grandemente,

(1) Vedi l'elegantissimo cenno storico sul Savonarola scritto dal Marchesi. Scritti varii, Firenze 1853.

(2) Disugualmente in lor letizia eguali.

(3) Rammentiamo i bei versi del Berchet, ad un simile proposito:

Il suo dono a ciascun fu sortito,

È

tal dono che basta per lui.

Maledetto chi usurpa l'altrui,

Chi il suo dono si lascia rapir.

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è stata la supremazia che il Piemonte ha senza fondamento voluto arrogarsi su tutte le altre stirpi italiane; preminenza non giustificata punto in natura; ma la fosse pure stata, bastava per aizzargli contro il malumore dell'universale; è sembrato e si è detto, che egli avesse voluto confiscare a suo pro l'utile ed il bene di tutti, il che non ha contribuito poco a metterlo in discredito.

Quindi si cessi dall'oltraggiare più lungamente co' detti e coi fatti il nobile popolo napoletano; gli si restituisca realmente la riputazione, che gli si è tolta al cospetto d'Italia e di Europa. Come si può sperare di avere per amico un popolo svillaneggiato pubblicamente, ed umiliato a torto, ferito in quello dove ogni uomo bennato ha più di senso, dico, nel proprio onore? Ma vi erano tra noi de' birboni. E dove non sono? Ma rammentiamo uomini importantissimi e dottissimi, i quali hanno bene altrimenti parlato di questo popolo; e nel 1851 quando più infuriava il dispotismo, e forse quando gli altri studiavano ad infamarlo, il Gioberti scriveva di Napoli: «Uno di questi centri incoativi della nazionalità italica, dovrebbe essere Napoli, se la qualità de' principi che la reggono, rispondesse allo splendore della città, al numero, alla virtù ed all'ingegno degli abitanti». E il Gioberti era un grande uomo e piemontese (1).

10.° Si promuova la pubblica istruzione, specialmente lasciando libero il campo a' privati insegnanti; ed in nome della libertà non s' impastoi la libera diffusione delle idee. La scienza non ha che fare col governo. Certo nella repubblica

e che l'Olanda perdette il Belgio, precisamente per la preminenza che volle usurpare sovra essa.

(1) Rinnovamento, Parigi ISSI, tom. II, pag.208. Nel mio scritto Napoli e l'Italia ho addotto le più gagliarde e rispettabili testimonianze di solenni scrittori in favore de' napoletani: aggiungi il Leo, Storia d'Italia, lib. I. cap I. B.

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delle lettere, quando sorge una quistione di scienze naturali, di matematiche, di economia e così discorrendo, non si dimanda, che ne pensi il governo di Francia, o di Prussia, ma sì quali sieno le opinioni e gli argomenti degli scrittori e de' professori. Se le condizioni della società non tollerano ancora che lo stato si spogli del tutto di ogni ingerenza nella istruzione, dee però rendersi al meno possibile inframmettente. Ponghiamo che uomini come l'Hegel, il Gioberti, il Rosmini volessero leggere filosofia, quale sarà il programma che esigerà il governo? logicamente costoro dovrebbero essere respinti, poiché i loro sistemi sendo radicalmente diversi, non possono raccogliersi sopra un fondo identico: ed un ministro giudicherebbe della verità, in cercare la quale si travaglia il genere umano. Non è egli questo porre in trono l'arbitrio, dove il suo insediamento è più odioso, cioè nelle libere aspirazioni del pensiero? e come conciliare questa assurda tirannide intellettuale colla libertà di opinare, che lo Statuto assicura a tutti; la quale torna derisoria, quando si vieti indirettamente la manifestazione del pensiero pel potentissimo veicolo dell'insegnamento: tanto varrebbe dire ad uomo che egli è libero di correre, dopo di avergli legata al piede una palla da cannone.

11.° Finora queste riforme si possono fare facilmente perché non costano danaro. Venghiamo a quei vantaggi, per asseguire i quali bisogna spendere qualche cosa. Io confesso in verità, che non appartengo a coloro, i quali pesano la civiltà da' soli incrementi materiali, e stimano che un governo debba promuovere ad ogni costo le ferrovie, la navigazione a vapore etc; e che quando ha fatto questo il sue ufficio è assoluto, e la società sia beata. Dico, che queste cose sono utili, che si hanno da fare, ma con modo e misura, e secondo le risorse pecuniarie dello stato. Si favoriscano queste intraprese e sarà bene: ma senza indebitarsi fino agli occhi,

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e senza fare contratti rovinosi, che riescono disonorevoli per ambo le parti contraenti: lo stato perché veste la giubba di fallito, e gl'intraprenditori quella di usuraio; con miseria del popolo, il quale è in fin de' conti quello che paga. Valga lo stesso per le altre opere pubbliche. Ed a questo proposito rivolgiamo una parola al ragguardevole municipio napoletano, cui preghiamo di non gittare somme vistosissime di danaro in intraprese di secondaria utilità e di abbellimento, quando per tre quarti il popolo è tuttavia costretto ad aggirarsi per viuzze sudice, senza luce, senza aria, e ad abitare case nocevoli alla salute. Entri per dio! il vantaggio del popolo minuto per qualche cosa nelle mire dell'amministrazione; e facciamoci coscienza, che noi altri cui la Provvidenza collocò in migliori condizioni, abbiamo lo stretto dovere di essere i suoi tutori, e di procacciare il suo bene. Se volete renderlo vostro ed amico al governo, fategli assaporare qualche dolcezza de' nuovi ordini, e non dubitate che egli non sarà vostro; e se sorga il dì del pericolo non vi offra le sue robuste braccia, il suo indomito coraggio, e quel generoso sangue che palpita intorno al suo cuore coverto da cenci, assai più nobile di quello che scorre per le vene delle classi colte e gentili dell'odierna società.

12.° Il popolo napoletano travagliato da un deplorabile stato di cose che dura da due anni, ammiserito dalle ultime rivolture è stato testé gravato da nuovi e pesanti dazii. Certo sarebbe ora impossibile il pretendere, che le cose ritornino in un attimo al pristino stato. Il governo, per sua e nostra disgrazia, trovasi ingolfato in certe imprese, ed ha sancito improvvidamente certi ordini, che richieggono somme formidabili per far fronte alle spese che si è accollato. Però si pensi alla economia, si pensi a togliere molte indoverose pensioni che si pagano per qualche mese di servigio pubblico, come si vede dallo stato discusso;

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si richiamino a servire molti impiegati onesti, a quali si danno o soldi o sussidii; facciasi lo stesso co' numerosi ufficiali, tra cui v'ha gente vegeta e giovane, che non desidererebbe niente di meglio, che tornare in servizio attivo; non si dieno esorbitanti indennità a coloro che senza necessità si mandano in queste provincie, per fare da ispettori nelle opere pubbliche, negli studii ed in altre cose; né si spediscano ambascerie costosissimo per soddisfare una donnesca vanità politica; si pensi a ritirarsi se è possibile, da qualche intrapresa dispendiosa; si facciano de' risparmi non illusorii, ma reali. Il solo bisogno imperioso per ora è l'esercito: tutto il resto si può a miglior tempo differire. Federico di Prussia prima che non ebbe posto in sodo la indipendenza e la grandezza della monarchici prussiana, non curò che del solo esercito: a' grandi miglioramenti interiori non attese che quando lo stato fu sicuro da' nemici esterni. Se queste cose, ed altre, che il senno de' governanti saprà trovare, si condurranno con perseveranza, si potrà tra non molto ottenere che i pubblici balzelli vengano alleggeriti. Questo non toglie, che nella prossima sessione parlamentare non si attenda ad una revisione completa delle nuove leggi di tassa, e si diminuiscano almeno in parte le rovinose imposte del registro; ordinazioni compilate da uomini non capaci, non pratici, e vinte quasi senza discussione (cosa incredibile) nel parlamento.

13.° Questo savio indirizzo si dirà è impossibile conservando il parlamento attuale. D'accordo. Dunque si provvegga senza più alla sua dissoluzione. Qui non espongo una opinione mia propria, ma quella della maggioranza della nazione, e ripeto il desiderio palesato da molti giornali. La camera presente de' deputati non rappresenta la nazione, né la può rappresentare.

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La storia ci fornisce costanti pruove che un parlamento eletto all'indomani di una rivoluzione è solo la espressione dell'idea politica che trionfa, ma non quella della nazione. Tale fu il parlamento inglese sotto la dittatura di Cromvello, e quello in senso contrario che uscì dagli squittinì pubblici al ritorno di Carlo ll Stuardo (1); tale fu il parlamento di Francia all'epoca della restaurazione de' Borboni. Il famoso Lungo Parlamento rappresentava veramente la nazione inglese, ma esso fu quello che fece la rivoluzione, ed era stato già convocato dal I Carlo, non già venne da quella. Infatti dove era l'aristocratica Inghilterra ne' parlamenti cromvelliani? e dove la libera Inghilterra in quello convocato da Carlo II, il quale sanciva che al re, fosse pure un mostro di tirannide e l'assassino de' suoi popoli, non era lecito resistere (2)? E dove era la libera e magnanima Francia nelle camere francesi del 1845, in cui il deputato Bwthisy poté tra gli applausi universali, esclamare: Vive le roi quand meme (15); avide di distruggere ogni libertà, bacchettone, intolleranti, crudeli, fino al punto da spaventare lo stesso Luigi XVIII ed i suoi ministri, che erano pure aristocratici ed emigrati; e servili fino alla sfrontatezza verso le potenze alleate, che allora dominavano a Parigi, e traeano a rimorchio la Francia (4)? Eppure l'aristocratica Inghilterra viveva sotto Cromvello; e segno ne fu che molte provvisioni stabilite dal parlamento di quel tempo, ostili all'aristocrazia, furono mandate in fascio. La libera Inghilterra era impiedi al tempo del II Carlo; e se mordeva il freno, mostrò l'essere suo pochi anni appresso, rovesciando dal trono il suo scellerato ed abbietto successore.

(1) Macaulay, Storia d'Inghilterra, cap. ii, § IX.

(3) Macaulay, Storia d'Inghilterra, cap. ii, § x.

:'.) L. Blanc. Histoir. do dix, ani, Paris 1843, tom. i, p.72.

(4) L. Blanc. op. cit. tom, i, p.71.

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E la nobile Francia appena quindici anni più tardi, in nome dell'onor nazionale conculcato e della libertà oppressa, scavalcava l'indegna dinastia, che la vituperevole adulazione de' suoi piaggiatori avea dichiarata immortale, e quasi divina. In ogni mutazione di stato, essendovi un'idea politica che trionfa ed un altra che soggiace, si genera un'atmosfera, un ambiente che trascina la massima parte, sì perché il nuovo par sempre bene, sì perché lo splendore della vittoria abbaglia le menti, sì perché la viltà di molti, pronta sempre ad adorare il sole che sorge, cerca piaggiando ed adulando di aprirsi la via agli utili ed agli onori: ma quando anche queste ragioni non fossero, basta la sola potentissima forza dell'ambiente, la quale penetrando per tutti i pori del corpo sociale, modifica i sentimenti e le opinioni delle moltitudini; forza insuperabile, dalla quale appena certi spiriti privilegiati si difendono. Egli è naturale, che in queste condizioni non si dimanda altra dote per gli eliggibili, che quella di essere devoti all'idea trionfante, e si trascura il resto; di frequente i più onorati nomi restano in fondo; e soprannuotano né i migliori, né i più capaci,

Sì, che buon frutto rado se ne schianta.

Il parlamento del 1861 avea mandato di proclamare l'unità: lo ha fatto: il suo incarico è compiuto; ora non ha più ragione di esistere: esso non ha più, né può avere la fiducia della nazione:dove era infatti rappresentata la gran massa de' così detti autonomisti napoletani e siciliani, che, per parentesi, formano i novemila novecento novantanove diecimillesimi della popolazione (1), quando il deputato Massari poté esclamare in aria di trionfo:

(1) Non si creda iperbolica l'espressione, noi crediamo che non ci sieno più di 900 persone nell'ex regno, che intendano l'unità come il Cavour e i suoi seguaci l'hanno voluta.

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«L'autonomia napoletana è morta, e non vi ha forza umana che possa farla risorgere»? Molto si è gridato contro la corruttela di parecchi de' suoi membri; si è detto che trafficavano per sé e per gli altri, che uccellavano al proprio utile e de' loro aderenti, si è menato scalpore per l'abuso del privilegio di viaggiare gratuitamente, e molte cose anche peggiori, che trasandiamo. Di questo non vogliamo dir nulla, né possiamo approvare le invereconde parole di un osceno recente libello. Ma era bastante a togliere al parlamento ogni credito, il vedere l'aula parlamentare divenuta una specie di arena o di circo, dove politici gladiatori si contrastavano il potere, con incredibile scandalo della nazione spettatrice; l'osservare la nessuna serietà delle discussioni, in cui si è disceso a scene indegne, non diremo di uomini politici, ma di uomini bene educati; lo scorgere la nessuna ponderazione con cui si sono adottati provvedimenti e leggi importantissime; ed infine la vergogna, mille volte rinnovellata, di non essersi potuto andare alla votazione perché non presenti moltissimi, alla quale non si è pervenuto a mettere argine, ad onta che si fosse minacciato di far pubblicare nel giornale ufficiale i nomi degli assenti. Per noi napoletani vi è poi una ragione specialissima. Si è in mille occasioni pubblicamente calpestato il nome napoletano; e non si è alzata una voce a difendere questo nobile popolo? si sono lanciate filippiche violente, e lo diremo ancora, bugiarde, contro la corruzione, l'ignoranza, l'intemperanza, l'incapacità civile de' napoletani, e non vi è surto alcuno, che abbia raccolto il guanto, e rintuzzato le indegne calunnie. Con qual nome la società civile darebbe qualità ad un figlio, che ascoltasse pubblicamente svergognare sua madre, senza difenderla? Quando anche l'accusa fosse vera, la carità del proprio sangue gli darebbe obbligo a non tollerare, lui presente, le ingiurie;

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e che si dirà, quando queste sieno esagerate e spesso menzognere? Si sono assalite, screditandole e deridendole, le nostre migliori istituzioni; e da' nostri deputati si sono lasciate combattere e distruggere senza contesa. Che più? si è apertamente oltraggiata la religione de' nostri padri, e non si è sciolta una lingua per rimbeccare l'offesa? E son questi i rappresentanti del popolo napoletano, e del popolo napoletano cattolico? Quali esempli hanno tolto ad imitare i nostri deputati, forse quello de' deputati di Francia, d'Inghilterra, di Spagna, di Prussia? No essi hanno il tristo vanto di essere esempio unico, ma non lodevole, nella storia parlamentare de' popoli civili? Solo tra' nostri il Ricciardi generosamente tenne il campo, e il nobile uomo ne riportò vituperii e derisioni dagli stessi suoi concittadini; seguito dall'egregio Ferrari, che anche patrocinò la nostra causa, essendo lombardo, dando un segno dippiù del naturale affetto che lega noi meridionali alle generose genti di Lombardia; e qui gli espremiamo sentimenti di gratitudine in nome de' suoi confratelli. Il chiaro Ranieri dettò qualche pagina eloquente in difesa de' suoi conterranei. Né è da trasandare il rispettabile Ondes Reggio, che trattò caldamente la causa del suo paese; né si perirò di confessare la sua fede cattolica, immezzo a' timidi silenti, e a' derisori strepitanti; e qualche altra più unica che rara eccezione: la storia gliene terrà conto. Sappiamo pure, che in alcuni fu timidità, in altri nessuna attitudine a parlare in pubblico: ma in cuor loro e ne' privati discorsi protestarono contro l'indegno procedere (1): ma se ciò vale ad attenuare la colpa, non basta ad assolverli; perché in certi casi l'obbligo di combattere incombe benanche a' timidi ed a' deboli, sieno pur certi di procombere: la rondine difende i suoi pulcini contro lo sparviero,

(1) Noi abbiamo parlato solo della camera de' deputati; ma per verità sarebbe ingiusto non tribuire le meritate lodi agli egregii senatori sigg. Vacca e de Monte, che più che si ricordarono degl'interessi del loro paese.

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sebbene diverrà anche essa preda del rapitore; ad ogni modo hanno fatto prova di non aver buone spalle a sostenere l'incarico.

Sappiamo che più volte si è messa sul tappeto la quistione di sciogliere il parlamento, ma si è temuto che i nomi che sarebbero tratti dall'urna avrebbero formato una maggioranza ostile al governo. Noi stimiamo, che forse riuscirebbero avversi al governo sì; ma non all'Italia, né al Principe magnanimo che solo ne sostiene i destini: questo importa unicamente che il governo dee mutare indirizzo. In quanto alla paura che la maggioranza potesse formarsi con uomini di opinioni esagerate e di. repubblicani, non la temiamone il governo parli, e mostri benigne ed assennate intenzioni. Risponda per noi l'illustre Ponza S. Martino, il quale, avendo avuto la dirittura d'animo e l'ingegno di sollevarsi al di sopra degli schiamazzatori e delle mire interessate de' partiti, poté serenamente pesare la pubblica opinione, e sentire che essa lungi dall'astiare, favoriva la causa dell'Italia ed era devota al Principe.

14.° Però noi reputiamo, che ad ottenere un buon risultato nelle elezioni sia indispensabile mutare la legge elettorale. Quella che ora è in vigore ha fatto malo sperimento: si è visto che essasi presta maravigliosamente agl'intrighi, per lo scarso numero di cui si compongono i collegi elettorali, e per le potenti influenze locali che hanno largo campo a maneggiarsi. Una buona legge elettorale dee allontanare con ogni studio, non dico la possibilità, ma almeno la probabilità degl'intrighi, e questo si ottiene col molto numero degli elettori. Nel 1848 con la nostra legge elettorale non si riusciva ad essere eletto riunendo mille voti, ed ora ne possono bastare trenta o quaranta; e si ha lo sconcio, che quando centinaia di voti sono necessarii per l'elezione all'umile carica di consigliere comunale, ne bastino pochi per esercitare le funzioni auguste di rappresentante della nazione.

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Non si alleghi l'esempio d'Inghilterra; perché chi non intende la sostanziale differenza che passa tra la società inglese, in cui predomina l'elemento germanico, e la società italiana, in cui primeggia l'elemento latino, per cui molti ordinamenti inglesi non si possono trasferire tra noi, non tolga a discorrere del nostro politico riordinamento.

Questi rimutamenti, che non sono né pochi, né leggieri, non si vogliono però operare tutti insieme e ad un tratto; ma sì consigliatamente e con temperanza, schivando quella scapestrata furia, propria di politici superficiali e di animi leggieri, i quali trattano gli uomini, come se non fossero nature intelligenti e libere, fornite di una volontà propria, che si oppone spesso a quella di chi vuol dargli la legge. Sia di scuola salutare la rovina, che il dissennato furore di precipitare ha prodotto in Italia. Ben però è mestieri, che il governo cangi radicalmente cammino: il presente è chiarito falso da dolorosa esperienza. E poiché esso si è collocato imprudentemente in un circolo da cui non può uscire, lo spezzi; e si liberi dall'altalena della consorteria o de' mazziniani, i quali curando poco della patria, profittano della situazione per disputarsi il potere. La salute di questa patria adorata, per la quale si è tanto sofferto, sonosi tanti tesori spesi, si è versato tanta copia di puro e nobilissimo sangue, non può dipendere da' femminili pettegolezzi parlamentari de' partiti politici accapigliantisi. Ci è un partito al di sopra di tutti, che è quello che gl'inglesi chiamano, il partito della nazione; gli uomini che vi appartengono tolgano in mano animosamente le redini. Ma il governo parli ad alta voce: proponga francamente quello che vuol fare pel bene universale; si metta sopra un assetto vero; non prometta quello che non può mantenere, e che da lui non dipende totalmente. Dica: che se le innovazioni necessario che abbiamo esposte, non si possono tutte attuare

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in un attimo senza pericolo, saranno però con prudenza introdotte; e come segno del nuovo andamento, dichiari: che innanzi a lui non vi sono partiti, ed abbracci tutti indistintamente purché vadano con lui; si regoli insomma con quella maniera con cui si comportava il primo Napoleone, il quale soleva dire, che egli era riuscito a governare la Francia perché era l'amnistia vivente; esempio nobilissimamente e fruttuosamente seguito ora dal Nipote. Ordini, che si cessi da certe vie finora battute per combattere i briganti; ordini, che si desista da quel vezzo orribile, che da quasi due anni è in voga in queste provincie, la fucilazione senza giudizio; contro di cui ha tante veementi reclamazioni sollevate la stampa; eccesso enorme, barbaro, proprio a discreditare la più santa delle cause, a muovere gli animi in favore de' più scellerati. Il Manhés, la cui memoria è tinta di sangue. il cui nome è nelle Calabrie ripetuto con spavento, non mandò a morte nessuno senza un giudizio, sia pur sommario; eppure il brigantaggio di Calabria nel 1806 a quello che ora devasta alcune provincie del regno, non può paragonarsi né per numero, né per qualità di persone, né per l'indomabile valore di quegli uomini tremendi, i quali coversero di ossa francesi i calabri campi. Sembra forse anche troppo lungo e troppo pieno di garenzie il giudizio militare statario? Or se non sempre è facile, anche colle forme giudiziarie, massime con le subitanee e sommarie, di dare nel segno; si presumerebhe senza giudizio nessuno si sia sempre certo di punire il reo? e non si rabbrividisce pensando, che qualcuno (e si buccina di parecchi) abbia potuto essere senza rimedio colpito innocentemente? Inoltre l'uccidere senza giudicare è un puro e semplice assassinio, sia anche dal delinquente meritata la pena: dimandatelo a quanti sono giuristi e politici del mondo. E come si può l'assassinio giustificare al cospetto di Dio e delle nazioni civili?

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e come si può credere, che possa giovare a difendere qualunque causa, sia pure la migliore? Cessi, per dio! cessi presto tanto orrore, per onore della umanità, per bene della patria. Si punisca chi n'è degno: ma si rispettino i primi universali canoni del giure umano; basti il sangue abbondantemente ed inutilmente versato. Dicesi che un ufficiale borbonico nel fatto di Sapri, fece fucilare di sua volontà molti presi con le armi in mano. Quel caso destò giusto furore; e ne fu il governo implacabilmente svergognato in Europa. Or la misura è una del giusto e dell'ingiusto: se quello scempio fu stimato un delitto, non può in altro modo sentenziarsi quello che si è fatto fin qui. Si occupi senza indugio principalmente di tre cose che necessitano in sommo grado: l'aumento dell'armata, il riordinamento della finanza, adottando tra l'altro una severissima economia che sopprima ogni sperpero di danaro, sia pur lieve, senza riguardo nessuno; e quello dell'amministrazione civile. Deponga ogni pensiero di ulteriori innovazioni; e in quanto alla unificazione de' codici, se la reputi indispensabile, prepari le vie, ma faccia aperto chiaramente, che questa opera colossale non si può abborracciare; e che ci vogliono anni di lunghi studii per poterne venire a capo, come la storia di tutti i popoli civili ammaestra. Io non ho la ridicola presunzione (ormai volgarissima) di porre in bocca a' ministri quello che avranno da dire, e precisare quello che avranno da fare:metto innanzi qualche pensiero; chi ne sa più di me lo tolga in considerazione e provvegga. Dico solo però, che alle promesse deggiono tenere dietro i fatti; perché di risonanti proclami, di calde parole, di bei sermoni e prediche siamo stucchi; ed abbiamo già troppo ammirati i fiori di eloquenza degli oratori e degli uomini di stato; ma di gustarne i frutti non se ne parla. Né dubitiamo, che se il governo con buona fede, con prudenza civile, e con costanza d' animo si ponga all'opera,

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ed abbia bisogno d'interrogare la Nazione, la Nazione risponderà come conviene. Nella nostra storia ve ne ha un esempio: parlo del manifesto regio dopo la battaglia di Novara; il popolo subalpino corrispose al degnissimo invito, e sbugiardò i partiti. Il Piemonte, che pareva perduto, fu salvo; e con esso il palladio della libertà e dell'indipendenza d'Italia, con gloria immortale del Principe, che mantenne cavallerescamente immacolata la fede data a' suoi popoli, quando disonoratamente buona parte de' principi europei falliva la sua; e con singolarissima lode del nobile Massimo d'Azeglio, che non temette di assumere la formidabile responsabilità di riordinare, in sì duri frangenti, lo stato.

In tanto stremo di fortuna noi ci volgiamo a Voi, magnanimo Principe, su cui, dopo Dio, sono fondate le nostre speranze. Come avete difeso la nostra carissima patria con l'indomito valore, e con quella gloriosa spada, che è il più prezioso retaggio che vi abbiano trasmesso i vostri incliti antenati; ora con quel senno, con quella fermezza, di cui avete dato illustri pruove, provvedete contro un nemico, forse anche più terribile dell'Austria, l'interiore dissoluzione. Sembra, che la Provvidenza vi ponga nelle più difficili congiunture, per darvi spazio a mostrare la vostra virtù, e come padre del popolo italiano, e come suo primo soldato; per gloria vostra sempre maggiore, e per salute ed onore della patria. Sì, noi siamo vostri figli, e Voi il Padre nostro: l'amore che ci portate vi consigli al nostro bene; l'amore è il più acuto e veridico consigliero; e noi siamo convinti, che se aveste avuto piena balìa di operare secondo i nobili impulsi del vostro cuore, le cose sarebbero andate e andrebbero meglio di gran lunga. Voi, innanzi a cui tutte le famiglie italiane sono eguali; che siete al di sopra de' turbini e delle nebbie delle parti; Voi, il cui nome glorioso ha conservato il suo fulgido splendore,

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quando quello degli altri si è più o meno miseramente offuscato, Voi solo siete al caso di attendere alla universale salute. Noi popoli diversi della penisola siamo, è vero, fratelli tra noi, tuttavia ci conosciamo ancora poco a vicenda; ma tutti siamo più vicini a Voi, che siete il Padre comune, in cui tutti ci riconosciamo. Ed i Napoletani più degli altri a Voi mirano, a Voi stendono le braccia; e da. Voi sperano conforto a tanti dolori. Essi guardano con ammirazione a Voi, erede di tanti guerrieri famosi, figliuolo di Carlo Alberto di sacra memoria, il quale, quando non per suo fallo, ma per rabbia di fortuna trionfatrice dell'eroico suo valore, fu messo al duro caso di non poter compiere la promessa fatta all'Italia, non dubitò di gittare lo scettro; e quello che è più, di morire in terra straniera, lungi da quella Italia da lui tanto amata; guardano a Voi, che avete con insolita felicità adempiuto con pienezza a tre ufficii, di cui un solo sarebbe già grave carico per un solo uomo; quello di principe magnanimo, di soldato intrepido, e di cittadino ardentissimo di patria carità; e che, quasi Atlante novello, reggete su' vostri poderosi omeri l'Italia tutta. Se essi vi amino, ne hanno mostro buon segno, quando al vostro scettro volontariamente si unirono; o quando Voi veniste tra noi, non fu festa, non onore, non amorevolezza che non vi abbiano fatta. Sappiamo che il vostro animo paterno ne fu commosso; e come non lo sarebbe stato un cuore generoso, caldo, leale come il vostro, il quale per quanto è inaccessibile al timore, per tanto è morbido all'amore e tenero del bene? Fidatevi di noi: noi altri Napoletani abbiamo buon cuore, è il principale nostro merito: e le innumerevoli sciagure patite da tanto tempo ci rendono anche più facili a stringerci a chi ci preservi dalla ruina. Parlate, e la vostra parola sarà per noi un' ancora sacra; poiché la vostra parola è più forte di un esercito schierato in battaglia, e più salda delle alpine rupi che cingono i vostri antichi dominii.

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Ci dicono che siete pervenire tra noi: venite presto, e siate il benvenuto; e portate con Voi quella pace, che noi da Voi, e da null'altro attendiamo.

Legislatori! specchiatevi nella natura, che è, come la chiamava Dante, l'arte di Dio; addottrinatevi sulla storia, che è la voce della Divina Sapienza. Non vogliate presumere di saperne più dell'Autore dell'universo. Se volete edificare l'Italia, e fondarvi ordini stabili e fruttuosi, non andate a caccia ad imitazioni forestiere, ma ispiratevi alla sapienza politica de' nostri padri, alla indole, alla storia, alla destinazione sublime della nazione italica, modellatrice e tipica delle nazioni universe. Ricordatevi il grande pronunziato del Vico, che «questa è la «natura de' principii, che da essi primi incominciano, ed in essi ultimi le cose vadano a terminare (1)»; onde l'ordinamento finale d'Italia non può non corrispondere a' principii suoi. Ricordatevi, che nulla di bene e di durevole si può effettuare contrariando la natura, ma secondandola, rimovendo gli ostacoli che alla libera sua operazione si oppongono; in questo è circoscritta l'opera dell'uomo, in questo è riposto il fine delle leggi e de' governi. Voi ridereste se un cervello bisbetico volesse innalzare una torre, adoperando, invece di calce e pietra, l'acqua? e perché? perché egli vorrebbe andare contro la natura. Ma non sono meno insipienti di costui, quelli che si sforzano di dare all'Italia una forma di unità, contraddetta dalla sua indole, da' suoi istinti, da' suoi costumi, dalla sua storia, dalle sue tradizioni, dalla sua condizione geografica, e per ultimo dalla sua finalità. Si è ad alta voce gridato contro la forza esterna del barbaro dominio, il quale rapiva al consorzio italico due nobilissime e carissime provincie, violentandone la legittima aspirazione;

(1) Vico, Scienza Nuova, terza ediz. Lib. v.

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e non si teme ora d'imporre a tutte una violenza molto più intima, molto più distruttrice, che vizia dalle midolle la vita nazionale. S'invocano i sacri nomi dell'Alighieri e del Machiavelli, ma questi grandi, se vivessero oggi, disconfesserebbero il fatto;ei loro scritti accusano ad alta voce gli operatori di quello. Se qualche ordine peculiare ad alcuna provincia non teneva che allo stato di separazione in cui era con le altre, ed è divenuto inutile dopo l'unione, e voi sopprimetelo: egli è giusto, e ve ne sapremo grado, come di un ostacolo tolto all'unità nazionale; se qualche altro ordine era difettivo in questa o quell'altra provincia, e più perfettamente esisteva presso di un'altra, introducetelo pure dove manca, perché il nuovo in tal caso è semplice complemento del difetto, e ne sarete benedetti. Il buono della unione consiste proprio in questo, che ognuno ponga in mezzo quel bene che ha, e ciascuno se lo approprii secondo che la sua natura comporta. Ma non si vuole abusare di questa ragionevole facoltà di correggere e d'innovare. Non gridate concordia, seminando discordie; non bandite la pace, attizzando la guerra; non predicate l'unione, spargendo la divisione; non distruggete quello che non potete edificare. La concordia è frutto di volontaria e spontanea armonia della volontà; la pace, della conservazione dell'ordine naturale; l'unione, della conservazione delle parti che si uniscono; l'edificazione stabile è prodotto della libera attività che seconda la natura. Le grandi parole sono mere ampolle, quando contrastano a' fatti ed alla natura. Tenete innanzi agli occhi continuamente, che l'uomo non ha potere creativo, ma solo quello di uniformare le proprie azioni all'ordine creato da Dio onnipotente; il che se faccia, la sua azione riuscirà efficace; se no, è vento e nulla. Direte, che non si può retrocedere, perché troppo si è camminato per certe vie? Ma il progresso consiste non nel camminar sempre,

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bensì nel muoversi verso lo scopo; e quando si è per cammin falso il progresso non sta in proseguire in quello, ma in rifare i passi e porsi sulla via vera. Direte, che sarà dannoso? ma i nuovi ordini, provvisorii in gran parte» non hanno gittato sì fonde barbe, che non si possano agevolmente svellere; e gli abiti antichi ripiglieranno vigore, con facilità molto superiore agli sforzi che si fanno per insufflare una languida vita a' novelli. E se la coscienza pubblica reclamerà in appresso, per mutate circostanze, uniformità maggiore, lasciatene il carico alla maturità del tempo ed al senno de' futuri. Che se voi vorrete, rinnegando l'ordine della creazione, fare di getto un'Italia nuova, che non è un ente reale, ma chimerico, riuscirete solo a sconvolgerla dalle fondamenta, e a rompere la via dell'unità, tradendo la speranza della nazione; di che sarete responsabili alla patria, all'Europa, all'Universo, perché né questo, né quella possono unificarsi senza l'UNITA' D'ITALIA; e ne sarete dal terribile e inesorato giudizio de' posteri infamati e maledetti.

FINE.

SOMMARIO

I. Considerazioni preliminari Breve sguardo sullo stato presente d'Italia e delle sue parti politiche. Si pone la quistione.

[...]

VII. De' fatti di Napoli La causa de' mali presenti o I' unità uniforme. Degli emigrati napoletani. de' condannati politici. Di due epoche ultime della nostra storia. de' Francesi e de' Borboni. Del governo di Ferdinando II. Stato degli animi nel 1860. S'incoraggiò l'annessione promettendosi il rispetto all'autonomia napoletana. Positive assicurazioni del fazionafe. Difficile posizione dei popolo in ottobre 1800. Del Farini e della consorteria. Della parola borbonico. Prima origine delle reazioni e del brigantaggio. Del governo degli emigrati. Tacce apposte al popolo napoletano di barbarie. d'ignoranza, di corruzione. Se queste sieno vere. Conseguente dello sgoverno. Fusione completa.

VIII. De' nuovi ordini e provvisioni 

Della legge municipale. Delle leggi finanziarie, doganali, monetarie. Delle nuove tasse. Del nuovo ordinamento giudiziario. Della dissoluzione dell'armata napoletana. Della pubblica istruzione. Necessità che l'insegnamento sia libero. Le nuove leggi feriscono la libertà. Si accenna qualche cosa de' nuovi codici, e di altre provvisioni. Si deliba la quistione della incostituzionalità de' nuovi ordini. Si dimostra che il plebiscito è stato tradito. Si respinge ogni maligna interpretazione.

IX. Rimedii e conclusioni. Raccapitolazione. Sguardo sulle presenti condizioni d'Italia, massime delle provincie meridionali. I rimedii vogliono essere capitali. 1.° Ricostituzione delle autonomie amministrative delle provincie italiane. 2.° Trasferimento della capitale a Napoli. 3.° Il governo dee smettere ogni partigianeria.

- 4.° Restituzione a Napoli delle mal tolte sue leggi. 5.° Rispetto alla religione del popolo. 6.° Rivocazione delle improvvide ordinazioni del 17 febbraio 1861. 7.° Riforma della università di Napoli. 8.° Necessarii provvedimenti pe' teatri e pel pubblico costume. 9.° Si smetta ogni idea di preminenza di una famiglia italiana sull'altra. 10.° Si renda libero affatto l'insegnamento. 11.° Non si facciano nuove imprese dispendiose. 12.° Si usi la più severa economia nelle spese. 13.° Dissoluzione del parlamento. 14.° Nuova legge elettorale. Del come tutto questo si abbia da fare. Umile indirizzo al Re. Esortazione a' legislatori italiani.

Prezzo del presente volume, lire 3.

Vendibile presso Federico Stikler, largo del CastelloAlberto Detken, largo del Plebiscito De Angelis, strada Toledo G. Madia, al deposito della Stamperia Nazionale, Toledo num. 331 R. Rondinella, Toledo num. 233.

DELLO STESSO AUTORE

NAPOLI E L'ITALIA Un volume di 116 pagine in 8,° lire 1,50

In questo scritto si dimostra completamente, tanto per argomenti filosofici che storici, come Napoli sia nelle presenti circostanze la capitale naturale del regno italico.






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