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Antonio Ranieri

Antonio Ranieri

(Napoli, 8 settembre 1806 - Portici, 4 gennaio 1888)

Nel 1861 fu eletto come deputato al parlamento italiano e vi fu più volte confermato fino al 1881.

Come deputato si occupò della questione meridionale e pubblicò Quattro discorsi circa la questione meridionale (1862).

Nel 1882 fu nominato senatore. Per ultimo fu anche professore di filosofia della storia nell'università di Napoli.

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Leggere "Discorsi circa le cose dell'Italia meridionale" di Antonio Ranieri costituisce una sorta di arrampicata sugli specchi.

Seguire il filo dei suoi discorsi ci fornisce una immagine di quello che sarà poi il "perfetto meridionalista". Uomo di cultura, legato al potere politico, con venature di rimpianto per quelle che nel Gattopardo verranno definite le "magnifiche civiltà".

Una lagna colta sui destini del mezzogiorno d'Italia che viaggia sulla superficie dei problemi senza toccarli nelle zone più profonde ed oscure, le modalità di formazione dello stato nazionale.

Leggetevi i passaggi di Ranieri su istruzione e cultura nel Regno di Napoli, nonostante i Borbone! Tanta cultura e tante personalità, tanti buoni insegnanti. Ma come? Non era la negazione di Dio eretta a sistema di governo?

Tutte le problematiche, sottolineate da Ranieri nei suoi discorsi parlamentari, vanno a farsi benedire nella sua prolusione su Vico nel primo anniversario del plebiscito. La scelta di campo è fatta, l'adesione personale al nuovo stato è totale, il sud può attendere. Attende ancora.

Zenone di Elea 27 maggio 2010


DISCORSI

DI

ANTONIO RANIERI,

DEPUTATO,

CIRCA

LE COSE DELL'ITALIA MERIDIONALE.

CASA EDITRICE ITALIANA DI M. GUIGONI.

TORINO.

Via Carlo Alberto, N.4

MILANO.

Corso di Porta Nuova, N.5

1862.

(se vuoi, puoi scaricare l'articolo in formato ODT o PDF)

DISCORSO PRIMO,

INTORNO

ALLA QUISTIONE SICULO-NAPOTETANA

XX marzo MDECCLXI.

AVVERTIMENTO.

Il conte di Cavour aveva annunziata alla Camera l'abolizione delle luogotenenze meridionali. I deputati di quelle provincie si erano accordati intorno alla imprudenza di quella abolizione. A dì 20 di marzo cadeva la discussione. Il conte di Cavour, nel presentarsi quel dì alla Camera, le si protestò che i ministri avevano tutti rassegnati i loro portafogli, e che però i deputati dovessero astenersi dal discutere finché il Ministero non si ricostituisse con elementi eziandio meridionali. Questi elementi meridionali furono gli onorevoli Niutta, de Sanctis e Natoli; che poi si risolsero nei semplici onorevoli Cordova e de Sanctis.

Signor Presidente! Io sarò brevissimo: e mi sforzerò unicamente nel ridurre la quistione ne' suoi veri termini. E, per non promuovere sentimenti amari o discordi, mi farò scrupolosa coscienza di non parlar degli uomini; e parlerò solo de' sistemi.

I mali che affliggono le provincie meridionali, sono innegabili; ed avrebbero imposto a molti deputati il debito d'interpellarne il ministero. Ma una interpellazione, in forma, sino a poco fa, mistica, ha preoccupati tutti i passi: la quale attribuisce tutti quei mali al sistema autonomico, benché serbato finora nella forma piuttosto che nella sostanza; e propone, per panacea, la unificazione immediata.

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Io sono, per l'opposto, di credere, che quei mali sieno derivati segnatamente dalla violazione troppo rapida e selvaggia di quella autonomia, dalla quale bisogna indubitatamente passare alla unificazione, ma con prudente e mediato passaggio.

Se s'ha a scendere dal quinto piano in sulla strada, bisogna scegliere la via della scala e non quella della finestra. Ed io non so intendere perché non debba aversi alle necessità napoletane e siciliane quel sapiente e politichissimo riguardo che s'è avuto alle necessità toscane; quando, per lontananza, grandezza e stato morale, tutte le ragioni d'un indugio maggiore militano assai più potentemente per le prime.

Io non ignoro già che di Bettini Ricasoli v'è pochi al mondo. Ma tutti ignoriamo le vie segrete della Provvidenza; e dee bastarci l'operare secondo la ragione e la coscienza, che sono pure le due più belle derivazioni di quella Provvidenza.

L'autonomia non è un fatto artificiale dell'uomo. Essa è l'effetto necessario delle leggi particolari ed anteriori onde s'è retta una determinata provincia; ed il negarla, quando quelle leggi sussistono ancora, sarebbe come negare il sole o il movimento diurna.

Questi argomenti, per così dire, a priori, sono prodigiosamente confermati da tutti quelli che possono desumersi a posteriori.

In effetto, non l'autonomia, o la luogotenenza che ne determinava la forma; ma il legiferare, in vece di governare e di amministrare; anzi il non governare né amministrar punto, ma il dare, in vece, con la scure sopra instituzioni, se non ottime,

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né anche pessime, radicate e coordinate in quelle provincie da oltre a mezzo secolo; l'aver distrutto e disordinato l'antico, cosa, di sua natura, rapida e facile, senza aver avuto il tempo di edificare ed ordinare il nuovo, cosa, di sua natura, tarda e difficile; in somma l'aver troppo manomesso, non già l'aver troppo rispettato, ciò che suoi chiamarsi autonomia, sono state le cagioni precipue che hanno ridotte quelle provincie ne' termini in cui ora si travagliano.

Qui cadrebbe in acconcio il domandare, qual era la fonte legittima di quel malaugurato legiferare, quando voi, ch'eravate i soli legislatori possibili, non eravate ancora né raccolti in questo recinto, né ancora solamente eletti al vostro uffizio supremo?... E qui potrei avermi assai facile vittoria de' due o tre vani sofismi che sono stati sparsi sul proposito.

Ma s'io toccassi, solamente, simiglianti lati della quistione, o, quel che sarebbe anche peggio, s'io mi mettessi a tessere la storia de' fatti e delle conseguenze individue che derivarono dall'applicazione de' falsi sistemi cui ho dianzi accennato, non solo ne fastidirei troppo lungamente questa Camera, ma ancora mi sarebbe impossibile di non isdrucciolare nel terreno scottante delle personalità, e di non oltrepassare i limiti di quella moderazione che, per l'amore della santa causa commune, mi sono rigorosamente imposti.

Laonde, mantenendomi nella serie, meno torbida e più serena, delle massime e de' principii, io concluderò, in nome mio e di tutti que' miei nobili paesani e colleghi che mi onorano della loro amicizia politica, che» conosciuta la vera natura de' mali e le vere cause

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ond'essi sono derivati, non è difficilissima né la determinazione, né l'applicazione de' veri ed opportuni rimedi. Questi rimedi, nell'intimo convincimento della nostra coscienza, consistono, non nella metamorfosi, scenica piuttosto che storica, della passata separazione in una unificazione che solo un equo e giusto tempo può rendere possibile; ma in un saggio, a un tempo, ed operoso preparamento di quella unificazione: preparamento che potrà solo ottenersi da una temporanea autonomia puramente e semplicemente amministrativa, dove una franca e leale libertà locale sia prudentemente contemperata con una franca e leale dependenza dal potere politico centrale. E qui lascia con piacere ad un mio onorevole e chiarissimo collega, il nobile carico di formolare, in un ordine del giorno, la perfetta sospensione o la severa esecuzione di alcuni ordinamenti, con o senza i quali non De pare possibile di ottenere la guarigione d' un tanto malato.

Resta la quistione del deputare al grande uopo coscienziosi, pratici e sapienti amministratori. La quale, a mio credere, non è una quistione.

Quanto a me, io, darei immediatamente la mia dimissione dall'altissimo onore di sedere in questo supremo consesso e correrei a chiudermi in Vallombrosa, se, un momento solo, potessi persuadermi, che la patria di Vico e di Genovesi, di Filangieri, di Galiani, di Pagano, di Natale, di Spedalieri e di mille altri, mancasse ora di due o tre uomini onesti e saggi, capaci a menare per pochi mesi un'autonomia amministrativa.

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Né so, finalmente, intendere, per quali irrepugnabili ragioni abbiano a risolversi, qualche mese prima, con grave pericolo di sventure civili, problemi, presso che di presente, insolubili; i quali, qualche mese dopo, troverebbero la loro facile, naturale e normale risoluzione, nel ritorno della gran madre Roma, alla gran famiglia che l'aspetta.

Che se molti fra i miei onorevoli colleghi delle provincie meridionali mi hanno incoraggito al grande onore di manifestare in questa Camera la loro opinione collettiva intorno a un argomento tanto grave e tanto dilicato, egli è perché essi non hanno, per avventura, dimenticato, che trentanni fa, quando dovevano ancora passarci sul capo le tristi e sanguinose esperienze del neofederalismo clericale e di non so quante altre sorti di separatismi, io stampava, in un volume intero, e sotto il naso di sette tiranni in partecipazione, la mia inconcussa fede unitaria, ed in un volume intero accennava ed aspirava a questo prodigio di questa unità, che sole avrebbero potuto compiere un dì le sacre nozze del suffragio popolare con la gloriosa casa di Savoia!...

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DISCORSO SECONDO,

IN FORMA

DI

MEMORANDUM,

INTORNO

ALLA QUISTIONE SICULO-NAPOLETANA:

SCRITTO

IN NOME

DELL'ASSOCIAZIONE:

ITALIA UNA.

I NOVEMBRE MDCCCLXI.

Appena Giuseppe Garibaldi, innanzi a quattro fortezze guernite di feroci presidii borbonici, pose cosi maravigliosamente il piede in questa metropoli, menato, non da altra forza, che dall'invicibile consentimento dell'universale; egli si diede nelle mani di uomini affezionati al Governo delle antiche provincie: perché quel grande uomo, eh'è la lealtà stessa, non volle prestarsi al benché menomo pretesto, ch'egli volesse allontanarsi dal suo santo programma: Italia e Vittorio Emanuele. Salvo, dunque, alcuna momentanea eccezione, che tutti sanno non aver condotto a veruna importante conseguenza, la dittatura può considerarsi come constituente un tutto continuo col

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governo che ha retto e regge queste provincie meridionali dal dì 7 di settembre 1860 finora.

Questo tutto continuo è riuscito allo scopo, cui dal bel principio ha inteso a tutto potere: cioè, all'abolizione di ogni autonomia; e, finalmente, della luogotenenza.

Ora, se grandi e miserevoli erano le piaghe di questo provincie al dì

1 di settembre 1860, ora sono grandissime e miserevolissime!

Consideriamo, senza ira o studio di parte, in che modo il governo di questi tredici mesi, senza averne, certo, l'intendimento (anzi noi tenghiamo per fermissimo ch'abbia avuto l'intendimento contrario), sia, nondimeno, riuscito a non mediocremente aggravarle.

In due modi si può render più o meno felice o infelice, contentare o scontentare un popolo: con gli ordini, o con le persone. Il governo di questi tredici mesi ha (senza, certo, volerlo) rendute più infelici, e scontentate queste provincie, con gli uni e con le altre.

Quanto agli ordini: il governo ha voluto sempre attuare l'annessione, dove che queste provincie? e con la loro cooperazione all'entrata di Garibaldi, e col loro plebiscito, vollero sempre attuare la fusione.

Ed acciocché non si abbia ciera di non intender spiegheremo rapidamente il nostro pensiero.

Il governo, senza considerare le condizioni particolari e respettive di queste provincie e delle provincia antiche, ed ordinare un tutto che rispondesse, nel tempo stesso e nelle respettive proporzioni, alle une

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ed alle altre (ecco quello che s'intende per fusione), ha abbondantissimamente legiferato, imponendo tutte le condizioni delle seconde alle prime, e nessuna delle condizioni delle prime alle seconde (ecco quello che s'intende per annessione!).

E poiché gli ordini e le leggi del mezzodì d'Italia (da una tirannia personale in fuori, che le negava e le violentava di frequente) non erano le pessime di Europa; anzi, talvolta, per le ragioni che ognuno sa, erano più libere delle piemontesi; le provincie meridionali hanno veduto nella incomposta legiferazione anzidetta, non un progresso da quel che già avevano, ma un passaggio da una legislazione appropriata a loro e nota, ad una non appropriata ed ignota; e nella nuova e non appropriata ed ignota, spesse volte, un regresso!

Gli stessi più grandi trovati della civiltà, le stesse più nobili teorie delle scienze economiche e politiche, sono state applicate a queste provincie come da professori astratti (timbratici doctores), piuttosto che comi da uomini di stato!

Chi non sa che gli ordini monastichi non possono convivere con la civiltà odierna?

Ma, nel paese stesso dove questa medesima riforma fu operata, da uomini suoi, con tanto ammirevole senso pratico e prudenza civile, nel tempo che s'è convenuto di chiamar decennio; ora, per la mani; della legiferazione, s'è operata in parole, in quanto gli ordini predetti sono stati minacciati, impoveriti e gittati nella confusione e nella disperazione: non s'è operata in effetti, in quanto essi ordini sono rimasti

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perfettamente in piedi, coniutte le loro forze morali, per agitare le fantasie volgari e nuocere al nuovo stato, e con tutte le più fiere e concitate loro passioni, per ispendere quelle forze in prò de' principii reazionari.

Quindi l'orribile reazione clericale, e forse anche un poco contadinesca, in un paese dove il prete e il contadino, era già stato, in massima parte, conquistato a' nuovi principii.

Come si sono applicate nel vacuo, e solo per danno delle misere coscienze delle moltitudini, le serene teoriche della filosofia agli ordini monastichi; così si sono applicate, in momenti eccezionali e terribili, a' grandi centri di popolazioni ed al grandissimo di questa metropoli, le placide teoriche del libero commercio.

Quando il povero è morto di fame, gli si è dati magnifichi brani di economisti, in vece di pane procacciato con qualunque mezzo, anche momentaneamente contrario alla scienza generale:

e dove la quiete non è stata turbata, è dovuto assai più alla rassegnazione maravigliosa di coloro che stavano giù, che non alla prudenza civile e politica di coloro che stavan di sopra!

Qual opera pubblica s'è veramente attuata? Non tutte le opere pubbliche sono imprese gigantesche, i cui grandi inizii sono sempre difficili. In tutte le cose sono le gradazioni. E, per uno spazio di tredici mesi, il pretto nulla, è troppo poco!

Quanto alla istruzione pubblica, il disinganno ò stato tanto più crudele, quanto più grandi e legittime erano le speranze.

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Ma che cosa è seguito negli effetti? Professori no minati a bizzeffe (la coscienza pubblica sa con che tatto o giudizio, o sopra quali elementi!); riscossi esattamente gli onorarii: ma i professori, o, nel tempo stesso, consiglieri, direttori, segretarii e giornalisti, o, i migliori, a casa: e le cattedre, inesorabilmente chiuse e deserte!

Il governo ha menato gran vanto delle scuole primarie. Ma quante ne sono state instituite? e quali? Esse sono, pur troppo, e poche, e pessime! E t può vedere al frutto. Il retto sentimento popolare non s'inganna mai. Esse fanno pessima concorrenza alle scuole private; e risospingono sventuratamente i fanciulli o a vili e interessati impresarii di lettere, o a preti ignoranti e pregiudicati.

Degli ordinamenti che sbandarono l'esercito borbonico, è oramai nausea il più discorrere. Per questi furono gittati forse cinquantamila uomini sulla nuda terra, ch'essi, (quasi tutti antichi cambii) s'erano da lungo tempo disavvezzi a lavorare, e che, di conseguenza, non potea più nutrirli. Ecco, allora, cinquantamila uomini precipitati nella fatale necessità di morire o di uccidere. E se qualcosa è da maravigliare, ella è che sieno stati tanto pochi coloro che hanno eletto il secondo partito! Giacché, oramai non è più dubbio ad alcuno, che le più orribili stragi sono state commesse dalla straniera e raccogliticcia colluvie che ci piove, al cospetto di tutta Europa, da Roma, da Trieste e da Marsilia.

Sorto una volta il brigantaggio, i suoi effetti divennero, nel tempo stesso, causa ed incremento a se medesimo.

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Tutte queste miserande provincie divennero un laberinto inestricabile di comunicazioni e di commerci interrotti; di ordini non pervenuti; di falsi e scoragggianti romori, sparsi dalla perfidia o dal terrore; di cereali, marcenti per abbondanza in un posto, non potuti trasportare in un altro, dove la gente periva di fame per le vie; di scene orribili di miseria e di povertà, sconosciute insino nel buio più profondo dell'età media! E dieci milioni d'uomini, che hanno sopportato per tredici mesi in pace un subuglio ed una confusione sì fatta, definiti per ingovernabili da quegli uomini stessi che li avevano tratti a queste gemonie!...

Con quali mezzi sia stato combattuto il seminato brigantaggio, sarà bello il tacere. Il sangue, ancora che, nel fondo, indispensabile e salutare, è sempre qualcosa di sdrucciolevole e di malagurioso. E forse vi era alcun modo più rapido e più incruento, che un miglior giudizio dell'italianità di queste provincie avrebbe di leggieri svelato a chi si fosse scomodato di visitarle.

E qui appunto cade in acconcio il passar dagli ordini alle persone; cioè, ai pubblici uffiziali.

Costoro, scelti ciascuno, non per ingegno, non per dottrina, non per prudenza civile, doti tutte estimate accessorie; ma per la principalissima, e per la sine qua non, l'annessionismo, cui forse (certo per sola inavvertenza d'un governo che reputiamo per probissimo!) è stata talvolta posposta e sacrificata insino la probità; si sono trovati, per instinto e quasi involontariamente, a dar dello spinto, del rosso, del repubblicano e del socialista,

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a chiunque per Itali intendeva tutti gl'Italiani; e, per instinto e quasi involontariamente, si sono trovati in istrana alleanza coi più immedicabili dei borbonici, infatuati tutti e imbaldanziti dallo scorgere, che i loro presupposti nemici, disarmati e molli verso di essi, o non se ne diffidavano punto, o se ne diffidavano assai meno che non si diffidavano di coloro stessi che il loro antico padrone aveva più fieramente, e per sì lunghi anni, flagellati!

La promiscuità stessa di questi uffiziali pubblici, il principio più santo e più nato a partorire le più desiderate conseguenze, in fatto di affratellamento e d'italianità, in che modo è stato egli applicato?

Come sono state rispettate le relative proporzioni? Queste provincie sono esse egualmente rappresentate nelle varie sezioni della piramide governativa? E sono rappresentate alla stessa stregua delle antiche provincie, tanto al vertice quanto alla base? Come è stata rispettata la libertà delle opinioni? Le indennità sono state le medesime?

Le sterminate influenze dei climi sono state rispettate? 0, per onesta sete d'eguaglianza, si è mandato il tisico di Domodossola a Girgenti, ed il tisico di Girgenti a Domodossola?

Ritornando colà donde siamo partiti, il governo di questi tredici mesi ha chiuso il suo periplo coll'abolizione totale della luogotenenza.

Noi vogliamo ammettere (benché non è punto difetto di chi vada in una contraria sentenza) che il governo sia stato nel pieno diritto di farlo.

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Ma era egli il momento opportuno di attuare questo diritto?

Primieramente, perché due pesi e due misure? Perché tolta ai Napoletani; e non tolta ai loro fratelli di Sicilia?

Se la suspicione era estrinseca, il continente si prestava assai meno dell'isola a somiglianti fantasmi! S'ella era intrinseca, perché oltraggiare il fratello al cospetto stesso del fratello? L'oltraggio di sospetta fratellanza non è de' più sopportabili!

Secondariamente, se il Governo attende Roma in un avvenire non lontano; perché inacerbire una piaga già sanguinosa, ed il cui certo balsamo era tanto vicino? Se non l'attende, perché non dice chiaro a ventidue milioni d'uomini, che (Dio sperda l'augurio!) Roma non s'avrà per ora; e perché, innestando negli animi loro la coscienza della loro sorte, non li predispone, di mano in mano, a quella costanza, a quella prudenza, a que' sacrifizii, a quella moderazione stessa, che solo può loro conquistare una tanta necessità e un tanto bene? Ma il tacere; e il ridurre, intanto, a pretta provincia una gran regione, quando ancora non v'é la capitale comune, significa accennare alla non possibilità di Roma, alla possibilità di Torino, ed al perenne, anzi crescente, alimento del brigantaggio e della reazione, cioè, a tre assurdi, a tre impossibili, a tre perfettissime e compiutissime negazioni d'Italia; e significa sobbarcarsi alle impronte e spaventevoli esplosioni che tre negazioni si fatte potrebbero esser atte a provocare.

Considerati i termini nei quali si è pervenuti, l'Associazione: Italia Una: crede esser giunto il

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momento nel quale essa debba dire una sua parola; non per volersi sostituire al governo, perché non ne ha il diritto; né anche per eccitare alcuna troppo calda passione, perché non ne ha né il pensiero, né la volontà, né il mandato; ma per frenare, anzi, e rendere morigerate ed utili alla conservazione dello stato quelle passioni che, per mancanza di buono indirizzo, potrebbero fuorviare, e in somma, nei confini più rigorosamente constituzionali, e come onesti cittadini che si riuniscono pacificamente per ragionare sulle cose pubbliche, e manifestare coscienziosamente quelle opinioni che a loro sembrino poter meno difficilmente condurre alla salute ed alla grandezza della patria comune.

Compresa di questi nobili e mansueti pensieri, essa si astiene a studio di fare un esame assai più lungo e più rigoroso di quegli errori ch'essa si piace di considerare piuttosto come una necessità della natura umana, che come un difetto di tale o tal altro uomo individuo. E non volgendosi più indietro, anzi versandosi, oramai, unicamente ed interamente, nel presente e nell'avvenire, essa manifesta la sua opinione e i suoi voti, che il governo debba provvedere:

Primieramente, che sia adottato un indirizzo interno il quale risponda più direttamente a tutti i bisogni ed a tutti gl'interessi morali e materiali che si sono dimostrati essere stati finora, tanto ed in tante svariate guise, bistrattati:

Secondariamente, che insieme coi pur troppo necessarii ed indispensabili modi militari e guerrieri di sbarbare il brigantaggio, vadano congiunti i modi civili ed amministrativi,

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massime il non diffidarsi, anzi l'operar di conserto, in ciascuna provincia, con gli esimii per carità della patria:

In terzo luogo, che l'attuazione delle grandi opere pubbliche, intorno alle quali manca tutto in queste provincie, diventi, non più una

speranza, ma un

fatto.

In quarto luogo, che queste provincie sentano, io tutti gli strati governativi, e non solo negli infimi o negli inoperosi, gli uomini che hanno radici nella loro terra, nei loro cuori e nei loro interessi morali o materiali:

In quinto luogo, che non sia punita, non avversata, anzi, nei limiti dell'amore e della fraternità con la nobile Francia e col bellicoso capo di quella gran nazione, francamente capitanata dal governo la manifestazione della ferma volontà, del supremo bisogno, della questione di vita o di morte, del to be or not to be d'Italia, del riaver Roma e Venezia: tanto più, che la conoscenza, che prenderà l'Europa e il mondo intero, di questa suprema necessità, supremamente sentita dal popolo e dal governo italiano, sarà, forse, il migliore e il solo pacifico modo di vederla presto compiuta:

In sesto luogo, che diventi una verità, una verità vera (come il secolo dice), una grande maestosa e rispettabile verità, l'armamento della nazione, in qualunque guisa e sotto qualunque forma piaccia più al governo; ma senza l'esclusione (per ingiusti ed oltraggiosi timori, che potrebbero assai più logicamente derivare da un ordinamento contrario) di quelle forze,

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le quali, per essere più vive, non sono, però, meno fedeli al santo principio d'Italia e Vittorio Emmanuele: giacché, se bene, per alcun verso, discrepante, l'Associazione rispetta abbastanza il Ministero, da non credere mai, eh' egli sia per disperare de' destini d'Italia, e della suprema annegazione di tutti gì' Italiani.

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DISCORSO TERZO,

INTORNO

ALLA QUISTIONE SICULO-NAPOLETANA.

XI dicembre MDCCCLXI.

AVVERTIMENTO,

Io non so se sia parlamentare, o non parlamentare, di pubblicar per le stampe questo discorso, senza averlo potuto recitare in atto nella Camera. So benissimo che, appena conosciute in Napoli le relative interpellanze, m'inscrissi telegraficamente fra gli oratori. So benissimo che navigai il Tirreno e feci settecento miglia per trovarmi al mio posto qui il dì due di dicembre che la discussione cominciava. E so ancora benissimo, che, fra gl'incidenti, i fatti personali, le lettere violate o non violate, le commissioni censorie, gli exconsiglieri e gli exsegretarii che si narravano a vicenda, gli oratori asiatichi, i ministri che parlano quando e quanto vogliono, e le

quattro discussioni di chiusura, duranti le quali si potevano udire a parlare, nei giusti limiti, poco meno che tutti i trecentoundici onorevoli votanti, attesi in vano, insino al dì 11, che la mia volta venisse. Interrompere la serie degli oratori legittimamente inscritti, annunziando grandi cose da dire, non mi parve cosa conveniente alla piccolezza mia. Spero, dunque, che i miei onorevoli Colleghi degneranno perdonarmi se, nelle supreme condizioni in cui versa quella parte d'Italia che mi vide nascere, e con essa l'Italia intera, io pubblichi per le stampe quel motto, per dire il quale ero venuto di sì lontano, e che non mi fu regolamentarmente permesso

di poter dire. Tanto più, che; o in esso si contiene qualche verità; e della verità si può far senno tanto oggi quanto ieri: o non se ne contiene alcuna; e, fra tanto inchiostro e tanta carta che si sciupa ogni dì, non sarà gran danno la menomissima parte ch'io ne avrò sciupata.

Torino XII dicembre MDCCCLXI.

A. RANIERI.

Signori! Io confesso d'esser così profondamente commosso ed amareggiato dell'antagonismo che il signor Ministro de' Lavori Pubblici ha gratuitamente immaginato fra la città di Napoli e il resto delle provincie napoletane, e fra i signori e i contadini; ch'io non mi sento capace a sottoporvi qualche mio modesto pensiero sulla quistione meridionale, se prima non avrò lavata quella città e quelle provincie dalle inopinate ed ingiuste accuse che il nobile Ministro ha loro lanciate.

In un mese, o poco più, il nobile Ministro ha corso Napoli, Palermo, tutte le Due Sicilie, ed ha traversato per ritto e per rovescio l'Apennino, senza scorta,

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senza revolver, e senza essere sgozzato o fatto in quarti, come segue, non di rado, a noi altri uomini volgari.

In questa sua corsa, ha conosciuto la vera indole de' Napoletani e de' Siciliani, i veri loro bisogni e le vere cause de' mali; sopra le quali voi, o signori, vi stillate in vano il cervello da tanti mesi. Ripassando, poi, per Napoli, se l'ha come recata qui nel suo portafoglio. E ieri l'altro, su quel banco, l'accusò, la convinse e la condannò, come quel predicatore (mi sia permesso il dirlo) accusò, convinse e condannò la sua berretta, cui aveva posto il nome di Voltaire.

No, signori; credetemi: quel doppio antagonismo non fu mai altrove che nella fantasia del nobile Ministro.

Né le Due Sicilie sono la Russia o la Gallizia; né fu mai, in altra contrada, più vera ed affettuosa carità fra il possidente e il colono; fra il ricco e il povero; fra gli abitatori d'una metropoli e quelli del rimanente d'uno stato: né mai Napoli s'impinguò del sangue delle sue provincie.

Che anzi, il nobile Ministro mostrò ignorare un fatto, eh' io non avrei mai presupposto ch'egli potesse ignorare; voglio dire, che Ferdinando secondo, similissimo in tutto (salvo nei costumi privati) a Tiberio, odiò sempre e cordialmente la città di Napoli, come quegli Roma; fece ogni opera di abbassarla; ed il mondo intero sa che scelse Gaeta per sua Capri.

Napoli, non che impinguarsi artificialmente del sangue delle sue provincie, ebbe appena, in assai modesta misura, quel lustro naturale che accompagna sempre ciò che si chiama una capitale. E sarebbe singolarissimo, che, perché in questo suo provvisorio

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essere di capitale,

Torino, con mio grandissimo ed italianissimo compiacimento, s'abbellisce più sempre ogni dì, si dovesse credere ch'essa s'impingua del sangue di tutta Italia.

Napoletani di Napoli e Napoletani delle provincie, fummo tutti egualissimamente vittime della tirannia de' Borboni: e, benché sotto forme diverse (come segue sempre nelle cose politiche), nella sostanza, abbiamo tutti una sola e medesima opinione intorno alle vere cagioni dei nostri mali più scottanti.

Signori! La quistione romana e la siculo-napoletana sono una sola quistione. Nondimeno, per le necessarie partizioni, io parlerò solo della seconda. E poiché Don credo che questa Camera abbia molto a dolersi della mia loquacità, oso sperare, che, benché stracca, essa vorrà udire umanamente le poche parole che la mia coscienza m'impone di dover dire.

Signori! Io non fui mai, e non sono, esagerato. E chi mi credesse ora tale, farebbe come colui, che correndo sopra un rapido piroscafo per un verso, accusasse il lido di correr per l'altro. Non ostante la repulsa data iersera alla concordia da un onorevole deputato della destra, il mio pensiero era, e sarebbe ancora, se il Ministero lo volesse, un pensiero di conciliazione. Ma nulla, né anche la conciliazione, é durabile, se non è fondata sulla verità.

Voi, o signori, sapete tutti dove alberghi immutabilmente la verità. Essa alberga nel fondo di tutte le umane coscienze. Ed io scorgo, con consolazione, che nel fondo di tutte le coscienze di quella come di questa parte della Camera, alberghi il sentimento doloroso

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dei mali terribili onde le provincie napoletane sono travagliate.

Ecco già un gran punto morale, sul quale (come Archimede sopra un punto fisico si confidava di muovere e terra e cielo) io mi confiderò di assai meno: mi confiderò di muovere de' cuori italiani alla giustizia ed alla equità verso dieci milioni d'Italiani.

Io non intendo di accusare nessuno. «Anzi fo profession di credere, che il sobbarcarsi ora ad esser ministro d'Italia, sia un sacrifizio supremo. Ma questo sacrifizio è indarno, se non si ha il coraggio di guardare in viso gli errori che si sono commessi, o noi o i nostri antecessori; e se non si ha il coraggio di correggerli, per quanto è possibile.

Io non correrò la serie di quegli errori, ne degli avvenimenti ond'essi sono stati cagione: perché altri l'ha già fatto in abbondanza. Mi studierò solo di rannodar gli uni e gli altri ad un qualche principio informatore, senza rimontare al quale non potremo mai pervenire alla invocata correzione.

Il porsi una benda su gli occhi, e dire: noi unifichiamo: sono parole; e i fatti si ridono delle parole. La grande, la vera unità, sta nei cuori: e il giorno in cui tutti gl'Italiani elevarono i loro cuori al sublime, all'ineffabile sentimento dell'unità della loro patria comune, e giurarono di assidersi ancor essi all'anfizionato delle grandi nazioni del mondo o di morire tutti; quel giorno l'Italia fu veramente una!... Dopo quel gran giorno; la libertà di più in Napoli, e i Borboni di meno: e l'Italia era fatta. Invece, che cosa ha fatto, e fa tuttavia, di quel gran giorno,

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una politica che, iniziata da un grande uomo (ma anche Napoleone andò a Mosca!) è ciecamente, ostinatamente continuata dagli uomini, d'altra parte certamente degnissimi, che lo hanno seguito nel potere?

Le Due Sicilie non erano Costantinopoli o Giava: ma erano la patria di Vico e di Filangieri; e di Natale che precorse Beccaria. La loro legislazione, salvo in quella poca parte che ritraeva da' Borboni, era delle migliori, se non la migliore, d'Europa; e la tirannide dei Borboni in tanto era più nefanda e più scellerata, in quanto era un fatto isolato, materiale e, per cosi dire, dinamico, il quale invadeva, percoteva, sforzava e straziava un bell'ordine ed una bella connessione di dritti e di doveri, che filosofi e giureconsulti grandissimi avevano lavorato da otto secoli.

Signori! Che cosa ha fatto, in quella regione, la politica continuata per quattordici mesi? Si è forse giovata di quell'ordine e di quella connessione per migliorarne le leggi di altre provincie italiane, assai più, legislativamente, infelici? Si è fatta forse a lavarla di tutte quelle macchie, non sue, onde i Borboni l'avevano contaminata; ed a migliorarla in quelle poche ed accessorie parti che sole mancavano alla sua totale perfezione? Non già!

Seguendo, in vece, non il gran pensiero del nuovo ente italiano, l'unità, il tutto composto di tutti gli elementi di ciascuna sua parte, ma l'infausto, l'illogico, l'impossibile pensiero dell'annessione, ha sgominato tutto quell'ordine e tutta quella connessione, ha legiferato quotidianamente per quattordici lunghi mesi, contraddicendo sempre a quel che era, spesso

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a se medesima; ed ha creata una confusione, un caos, ubi nullus orda, sed sempiternus horror inhabitat.

Signori! I primi giuristi di Napoli, massime nelle cose pubbliche ed amministrative, non sanno più, per cosi dire, donde farsi a menare innanzi un giudizio come instituire un libello, qual magistrato adire!

Percorrete, o signori, con la rapidità delle vostre nobili menti, tutte le difficoltà che sono surte, da quattordici mesi, nel reggimento di quelle provincie; e voi, insieme con gli altri principii secondari della rivoluzione e della controrivoluzione, vi troverete, come principio generatore, come l'Arimane di questo Microcosmo, l'indomito principio dell'annessione.

Che il disordine delle leggi sia derivato dal furore legiferante, inspirato dal principio

annessionista, credo di averlo già dimostrato.

Ma lo sbandamento de' vecchi soldati; cioè, il lurido, l'atroce, il mostruoso brigantaggio; questo nauseante anacronismo, che ci avrebbe tolta fede nella civiltà, se questa fede potesse mai venir meno nei nostri petti; da che altro trasse la prima sua origine, se non dal principio annessionista applicato improvvidamente al vecchio esercito?

lo confesso e dichiaro altamente, che se v'era instituzione nella quale le antiche provincie avessero il legittimo dritto di tutto dare e nulla ricevere, era certamente la milizia. Ma l'instituzione da dover imporre, non ha nulla a comune con l'ostracismo imposto a cinquanta o sessantamila soldati ed a quasi tutti gli uffiziali. Non ha nulla a comune con l'aver confusi i rimanenti con quei soldati delle antiche

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provincie, che, benché loro fratelli, essi avevano, per ubbidienza militare, dovuto combattere il dì dinanzi. Qualche motto! Qualche sarcasmo! Homo sum, humani nihil a me alienum pitto! Ecco la vera origine dell'apparente pervicacia di quegli annessi.

Signori! S'io dica il vero, lo mostra il recente Campo di San Maurizio, dove un'ombra sola di pruova

antiannessionista, e quei soldati posti accanto ad alcuni de' loro assueti uffiziali, gli ha convertiti da scandalo in esempio, ed ha consolati gli animi di tutti i veri Italiani!

E gli ordini religiosi, aboliti in parole, lasciati in fatti? aboliti per quel poco bene che facevano; lasciati per quel molto male che potevan fare, e che effettivamente hanno fatto?... Non è egli forse un incommensurabile flagello derivato, ancor esso, dal principio annessionista applicato in diversissime condizioni? applicato ad un paese dove il basso clero, eziandio regolare, era stato laboriosamente e maravigliosamente conquistato alla libertà?

Signori! Col sequestro delle rendite diocesane, con la così detta Cassa Ecclesiastica, amministrata... non vorrei offender nessun orecchio!... amministrata... diciamo così!... in visione e in sogno, i parrochi vanno a dire la messa con due piccole candele in tasca. I parrochi, o signori, non sono i vescovi. I parrochi, massime quelli delle campagne, sono buoni: è, dove onestamente trattali e non ridotti alla mendicità, meneranno, con que' due ceri, le popolazioni intere con tra i briganti paesani e forestieri; non ostante il recentissimo ordine di Pio nono, di accoglierli e di favoreggiarli.

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Delle opere pubbliche, non parlo. Quando veggo quello che si e fatto, e si fa tuttavia, qui, in Lombardia, in Toscana, nelle Romagne e nelle Marche, non mi raccapezzo come nelle provincie napoletane né anche nelle sicule, in quattordici mesi non si sia fatto nulla. Ma il principio annessionista può spiegarvi ogni cosa più inesplicabile: poiché, se si vuoi tenere che il cuore e la testa dell'Italia, sieno quassù, si deve essere naturalmente meno inclinati a mandare e spargere la vita insino laggiù, dove si dee tenere che sieno gli arti inferiori.

E il mancato armamento?... Signori! anche il mancato armamento spiegherete con quel funesto principio! Tutte le volte che si è voluta estendere la possibilità dell'armamento a quelle forze più vive che, per essere tali, si sono credute più proclivi al principio unitario e fusionista che allo annessionista, una ingiusta, ed, oserei dire, ingrata suspicione si è impadronita del Governo; e per lincenziar la fusione o l'unità, che s'è fatta sinonima della rivoluzione, si sono licenziati quegli elementi di forza ch'erano necessari al sostegno ed alla difesa della rivoluzione, della fusione, della unità, ed oramai, se più s'indugia, anche dell'annessione!

E l'istruzione pubblica?.. Signori! I Borboni avevano rovinato quel che potevano, le Università, le Biblioteche pubbliche, tutto, in somma, quell'insegnamento che si chiama uffiziale. Ma Dio è grande! E la sua invincibile Provvidenza pone sempre ai grandi mali un qualche grande e inosservato rimediò.

Alla barbarie delle scuole uffiziali, Egli aveva posto, nelle

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Due Sicilie, il grande ed inosservato rimedio d'un tradizionale libero insegnamento: e tutte le tirannie, anche quella dei Borboni, si rompono contra le tradizioni. Nelle Due Sicilie erano migliaia di onesti e valenti uomini, che, senza fatuità di esami e di lauree, assisi in umili sgabelli, insegnavano (dalle più rimesse insino alle più sublimi discipline) quel che appena ho udito insegnare nelle più perfette scuole primarie e secondarie, e nelle più nobili cattedre di tutta Europa.

Molti ne perivano fra le catene dei Campagna e degli Aiossa. Molti ancora ne scampavano.

E tutti, senza strepito o appariscenza veruna, formavano, alla barba dei Borboni, il perenne semenzaio di quegli innumerevoli professori, di cui l'Italia Meridionale ha popolata, da tempo immemorabile, l'Europa.

La politica

annessionista non si è curata di studiar questi fatti, che pure appartengono alla storia. Essa ha negata la scienza nella terra della scienza: nella terra dove il Sommo Iddio, se ha permesso i Borboni, da un lato, ha voluto, dall'altro, che la face della sapienza fosse inestinguibile. E salvo ai pochissimi ch'essa s'immagina abbiano avuta l'opportunità di studiare altrove, ci ha concessa, a noi tutti, una patente d'ignoranza!

Signori! Questa immaginaria patente ha partoriti frutti amarissimi a quelle nostre provincie. E solo la nostra ferma, inalterabile, invincibile; sempiterna e sacrosanta fede nell'unità della patria comune, sarà cagione che non ne partorisca degli egualmente amarissimi per tutta l'Italia.

E come spieghereste, o signori, senza questa chiave.

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l'assenza relativa di tutti gl'Italiani del mezzodì da tutti gli uffìzi alti ed operosi dello Stato? Come spieghereste i giovanissimi, per non dire i fanciulli, delle antiche provincie preferiti agli uomini gravi delle nuove? Percorrete, o Signori, tutta la serie degli uomini che stanno per qualche cosa nella gestione degli affari d'Italia. Vedete quanti e quali sono i Napoletani! Quanti e quali i Siciliani!... La Gazzetta uffiziale è là; e l'aritmetica è una scienza!

Dio mi guardi dalla più lontana e leggiera ombra di allusione o di personalità. A fronte dell'uomo individuo, io fo di berretto a tutti ed a ciascuno; e la mia natura affettuosa m'inclina a scoprire e ad esaltare le buone qualità; e mi rende cieco e muto verso le cattive!... Ma ciò non invalida per nulla il fatto generale ch'io ho affermato ed affermo: gl'Italiani del mezzodì non hanno la loro parte relativa, non hanno (se non vogliamo negane la luce del dì) nessuna parte nella gestione intrinseca ed estrinseca dello cose d'Italia,

Subbiettivantótite, e considerato in relazione agli Uomini individui, che no sarebbero pur degni, questo male è leggierò; perché quella gestione, in questi momenti, è (come ho dianzi detto) la più grande delle annegazioni. Ma, obbiettivamente, ed in relazione a quelle provincie, ed al mondo intero, questo male è assai più grave di quel che forse non si crede. Perché, quelle provincie, non sentendosi aver parte nella gestione della cosa comune, si credono lese ed umiliate, e non si avvezzano al gran sentimento dell'imita; ed il mondo intero, vedendo la metà degl'Italiani già riuniti,

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quasi del tutto esclusi dal governo di se stessi, perde fede nella riunione dei pochi altri che mancano; tanto più che, por le più profonde ragioni di filosofia storica, Venezia e Roma sono destinate alla unità, alla fusione, sì, ed infallibilmente, perché così sta nel gran fato di Dio: ma non già mai all'annessione!

Ma chi potrebbe mai seguire la politica annessionista in tutte le enormità in cui il suo esiziale principio l'ha tratta?

Esso l'ha tratta (sia detto con buona pace di un altro onorevole deputato della destra), esso l'ha tratta a voler, per così dire, annettere insino la lingua italiana. E, nella furiosa attuazione di se medesimo, esso ha preteso che, in quella celebrata Umile Italia, che non fu seconda alla stessa Toscana nello scaturire il più puro e sacro latte italiano, sonassero, di viva ed uffizial forza, gli scorci o gl'idiotismi d'una regione, che, per essere ineffabilmente meritoria in tanto altre parti verso l'Italia tutta, non aveva mai, nella sua nobilissima modestia, aspirato al premio della lingua.

Signori! Io non mi risolverò mai con la formola

unitaria, e dovrò sempre ricorrere alla formola

annessionista, per ispiegarmi: i cantieri distrutti o scemati; le provvigioni dei vestiti militari al tutto tolte, o quasi; la scuola politecnica scomposta e vilificata; (vilificazione alla quale l'onorevole Ministro della Guerra è stato ben lungi dal rispondere categoricamente); nel pareggiamento dei macchinisti della Marina (lasciamo stare se costoro ebber poi ragione di recarsi qui) degradati i napoletani, piuttosto che

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innalzati i piemontesi; degradati gli uffiziali del Ministero della Guerra, e forse di alcun altro Ministero; e, per giunta, con due pesi e due misure, non degradati quelli del Ministero della Marina..; e cose altre assai ch'è assai bello tacere.

E, di rimpetto, l'ingrandimento al tutto metropolitano de" ministeri, e cinquecentomila lire deputate alla futura ed unica Gran Corte de' Conti, di Roma, non già, ma della bella, dell'ospitale Torino; della precorritrice, della Medina d'Italia; ma, in fine, non di Roma, ma di Torino.

E qui è tempo oramai ch'io abbia il coraggio della mia coscienziosa opinione; ch'io tocchi finalmente una questione vitalissima; e ardisca, forse il primo, di mettere veramente il dito in una piaga sanguinosa.

Signori! lo fui accusato sempre di tutt'altro che di municipalismo; e se la fortuna m'avesse conceduta la scelta della mia dimora, sarei voluto vivere sempre e morire nella mia cara Firenze, dove passai quasi tutta la mia giovanezza. Io riconosco e dichiaro, che, considerate le nostre condizioni tutte insieme, Napoli non dee mai aspirare ad esser la capitale dv Italia. Ma, dopo questa franca e risoluta dichiarazione, continuatemi ancora per un momento la vostra benevola pazienza; e udito.

Signori! Curviamoci tutti a ringraziare devotamente la Sapienza Divina, che, volendo l'unità d'Italia, fece degl'Italiani un popolo di artisti e di poeti. A questo solo divino consiglio noi dobbiamo l'accordo maraviglioso onde tutti chiniamo il capo innanzi al gran nome di Roma. Scegliete qualunque altra nazione del mondo, ponete la mano sulla vostra coscienza,

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e giudicate se un nome solo trionferebbe di tutte le vere condizioni, di tutta la vera vita viva, che constituisce naturalmente, realmente, attualmente una capitale!

Signori del Ministero! Togliete quel nome; e Napoli non potrà mai rassegnarsi ad essere la seconda città d'Italia. Lasciate anche quel nome, ma solamente in lontana aspettativa; e Napoli non potrà, molto meno, rassegnarsi ad esserne la terza. La Provvidenza non gitta a caso un milione d'uomini in una piccola cerchia qual è quella che si volge fra Portici e Mergellina. Una sì gran congregazione d'uomini in un posto così circoscritto e determinato, è un fatto, che ha le sue profonde radici nella storia d'una nazione. E tutte le ordinanze, tutti i decreti e tutte le leggi della terra, e tutte le corse, in posta o a cavallo, de' signori Ministri, non possono abolire un fatto sì grande e sì anticamente compiuto!

Centrale quasi egualmente che Roma, posta a piccola distanza dalla medesima, Napoli ne fu, insino dalla guerra di Annibale, la più fedele, la sola fedele figliuola: e, fra la riverenza filiale; fra il divenir quasi capitale di fatto, se non di dritto; e fra il servir quasi di affacciatoio sul Tirreno alla gran Madre vicina; essa si rassegnerà, sì è già rassegnata, alle necessità della patria comune.

Ma se togliete di mezzo la gran Madre; se non potete prometterle che assai di lontano quell'amplesso materno ch'essa aspetta giada tanti secoli; non isperate eh' essa si rassegni alla vostra formola malaugurata. Essa sarà sempre italiana; non moverà un dito,

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non metterà fuori un fiato, che non sia per la sacrosanta unità della patria. Che più?... Io giungo appena di là, e ne sono partito fra le grida di valorosi drappelli che movevano spontanei contra i briganti austriaci, belgi e spagnuoli; e fra quelle, ancora più italiane, di: viva la leva! Ma il vostro fallacissimo principio annessionista s'infrangerà contra le leggi eterne che governano il mondo morale non meno che il mondo fisico. Il satellite non può attrarre il pianeta. E se non sostituite la vera formola, la giusta e legittima formola del plebiscito, la gran formola unitaria; voi batterete indarno i vostri telegrafi!

Signori! Il sogno di tutta la mia vita, è stato sempre l'Italia una e indivisibile sotto lo scettro d'un re galantuomo. Io raffermava per le stampe quando, divisa l'Italia fra giobertisti, federalisti, clericali e somiglianti, il mio sogno era quasi estimato un delitto. Ed a chiunque, in fatto di unità, pretendesse volerne più di me, io mi sentirei il diritto e l'obbligo di dirgli, ch'egli serve, non l'Italia, ma una fazione.

Signori del Ministero! Io spero che, dopo tutto ciò, degnerete non l'affacciare più, che noi si demolisce e non si edifica, si critica, e non si propone.

I parlamenti non fecero mai programmi. Il loro lavoro è, di sua natura, analitico. Nelle crisi supreme, essi ripongono la loro fiducia in tali o tali altri uomini di stato: ed a costoro, poscia, si aspetta il formolare il programma di salvazione.

A ogni modo, s'egli fosse pur necessità di dire una parola sintetica, questa parola sarebbe, a mio credere, la seguente.

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In politica, non si curò mai con la medicina omeopatica. Non similia similibus, sed contraria contrariis curantur. Nei limiti sacrosanti della libertà e dello statuto, fate, in tutto ed in ciascuna cosa, assegnatamente il contrario di quel che avete fatto finora: ed avrete il più certo temmirio di fare l'ottimo.

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DISCORSO,

RECITATO

IL DÌ PRIMO ANNIVERSARIO DEL PLEBISCITO

DELL'ITALIA MERIDIONALE,

DEDICANDOSI

LA STATUA DI GIAMBATTISTA VICO

NEL GIARDINO PUBBLICO DI NAPOLI.

Concittadini! Gentile pensiero del nostro valoroso Municipio fu quello di sposare all'anniversario del Plebiscito la dedicazione, in questo pubblico giardino, della statua di Giambattista Vico.

Questo marmo, voi lo sapete tutti, fu donato alla nostra gloriosa città da un principe sventurato, i cui vizii giovanili non furono sua colpa; le cui virtù virili furono tutto suo merito. Colei che sola sa guarire alcuni dolori, gli velò opportunamente gli occhi quando questi erano ineffabilmente stracchi di contemplare le nefandigie dei suoi. I popoli rammentano il male e il bene. Sia pace eterna al nobile resipiscente!

Giambattista Vico, voi lo sapete ancora tutti,

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nacque e morì in questa metropoli fra le due metà dei due secoli decorsi. Ma il suo passaggio su questa terra fu un avvenimento mondiale.

Non è questo né luogo né tempo, ch'io possa rimemorarvi tutte le maravigliose opere ond'egli arricchì lo scibile umano. Dirò solo (e intenderò tutto insieme di tutto quanto egli scrisse), che il nome suo sorvolerà tutti i secoli, come quello del gran creatore, del gran fattore della scienza nuova, della scienza vera, di quel quid divinum, che doveva (dopo la rivelazione che egli solo n'aveva arrecata) insinuarsi in tutte lo umane discipline; dalle intellettuali o morali (di cui scoprì il primo le delicate, e quasi vanienti, e, non per tanto, non meno universali ed eterne leggi) riverberare sulle naturali o fisiche; ed innalzando tutti i due ordini, dell'une e dell'altre, ad un solo grande ordine universale, ridurre tutta la sapienza umana ad un solo principio e ad un solo fine, e renderla veramente figliuola della sapienza divina.

Si, che vostr'arte a Dio quasi è nepote!

Di questo quid divinum, che rivelato un dì dal nostro gran concittadino, doveva, di mano in mano, informare tutta l'umana sapienza, presentì e quasi prenunzio un qualche bagliore l'antichità (benché in figura manchevole e materiale) quando si sfogò nella leggenda:

Spiritus intus alit, totamque infusa per artus

Mens agitai molem.

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Poiché, dall'apparire nel mondo della scienza nuova, tutta la mole dello scibile fu informata da un nuovo afflato cela un nuovo spirito, da una nuova mente; che un grande interprete di quel gran filosofo, un magnanimo deputato alla nostra rappresentanza nazionale, Giuseppe Ferrari, il cui solo nome è un elogio, domandò, in un suo aureo volume: la Mente di Giambattista Vico.

I più grandi risultamene di questa mente informatrice, si manifestarono nell'ampio seno d'una nazione, dalla quale (la verità innanzi tutto!), quando in fatto di sapere, si passa anche nelle più colte e più grandi nazioni vicine, egli è come passare dal giorno alla notte. Questa nazione è la nobilissima Germania.

Dopo l'Italia (dove fu indovinato incontanente il grande uomo, eziandio da chi meno si sarebbe aspettato, papi, viceré, cardinali!), la Germania fu la prima a sentirlo. E Giovanni detto Clerico, di nazione affine, pronunziò per il primo: doctiora et acutiora dici ab Italis, quam quae a frigidiorum orarum incolis expectari queant.

Ma quando la messe ricolta divenne sterminata; quando vide esser dato solo all'Italia, che allo scopritore d'un nuovo mondo nel pianeta, seguisse lo scopritore d'un nuovo mondo nella scienza, allora anche quella grandissima nazione ingelosì; ed un amaro silenzio segui ai primi fervori della divinazione.

Chi di voi, o miei concittadini, non ha letto i lavori storici del grande Niebuhr? Chi di voi non ha toccato con le due mani, che, non nato Vico, non poteva nascere Niebubr?

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Chi di voi non lo ba predicato (salvo ne' suoi eccessi) gran figliuolo di quel gran padre?

Ma quel gran figliuolo, fu sconoscente! Egli riconosce la scienza nuova, la studia, la tratta, l'applica, la mena a conseguenze insino troppo supreme ed eccessive: ma del gran padre italiano, nec vola nec vestigivm, né puzzo né bruciaticcio: e, nel risalire alla prima rivelazione di quel quid divinum, egli va anfanando intorno a Perezio!...

Che più? Giacomo Leopardi, quell'altro eterno lume d'Italia, giovanissimo ancora, abitava, in Roma, una riposta casetta. Niebuhr lo scoperse, e lo visitò; e lo predicò, poscia, a tutta Germania. Ma Giacomo, già da lunga pezza addolorato del tristo silenzio del visitante, si fece cuore a nominargli il gran padre; e n' ebbe un silenzio ancora più tristo, perché inasprito dal scotimento ineffabile che dovette, in quel punto, flagellare il gran figliuolo!

Ma grande fu l'ammenda che fece, poi, la nazione tutta insieme, di queste macule di quel d'Adamo. Il gran nome di Giambattista Vico risuona ora nelle più gloriose università, come ne' più riposti seni del Reno, dell'Oder e dell'Elba. E quella grandissima nazione, di cui una piccola, e non la più splendida, parte, ha l'apparenza di nostra nemica; che, quasi tutta, è nostra figliuola primogenita, nostra emula, e, per qualche verso (non imiterò già il Niebuhr), nostra maestra nella stessa scienza nuova: in breve (applicato che avrà il migliore e supremo frutto di questa nuova scienza, l'uno eterno ed incorruttibile diritto, a Venezia),

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sarà tutta, nell'ordine politico, una delle nostre più elette e più care sorelle!

Concittadini! Quel che ho discorso della Germania, è da applicare a tutte le nazioni, più o meno civili, del globo. Sopra tutte le nazioni sfolgorò la luce che partì da questa terra privilegiata. Sotto nome, ora di filosofia della storia, ora di storia dell'umanità, della civiltà, del progresso, ora di altra più o meno vasta e comprensiva disciplina, sgomberò via le tenebre ovunque erano più dense; dai tribunali, dalle castella, dalle torri, dagli ergastoli, dalle catacombe, dai trabocchi, dai santi uffizi e dai vaie in pace. E raccattate e descritte le leggi comuni di tutti i popoli e le individue di ciascuno, a ciascuno le rendette eterne tutte ed universali, derivate tutte da un solo principio, intese tutte ad un solo fine, tutte e ciascuna tanto meno impure e contaminate, quanto i miracoli sociali e politici de' nostri dì sono più lontani dalle lente e putride miserie de' dì che furono! Concittadini! Non v'ha nessuno de' grandi portati del secolo, che non derivi, come fiume da sua prima fonte, dalla scienza nuova rivelata da questo grande uomo: né anche quelli che, per le così dette leggi della materia, ne sembrano più lontani. Ed a che, effettivamente, varrebbe il telegrafo elettrico e la via ferrata, se l'uno servisse ad intimar guerre fratricide con la rapidità del fulmine, e l'altra a compierle con la rapidità della locomotiva? In tanto questi grandi strumenti sono reputati benefizi, e non flagelli, in quanto i popoli si dichiarino socii e fratelli, e, per così dire, in solido fra loro, e non già usurai o nemici.

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E la fratellanza e l'in solido fra i popoli, deriva dal gran concetto della scienza nuova, dal gran concetto dell'umanità (parola cui la scienza nuova venne a dare significato e vita novella), e non dalle scienze o fisiche o chimiche o matematiche; non ostante la molta reverenda e il molto amore che sia loro, d'altra parte, dovuto.

Concittadini! Questo Plebiscito ch'oggi celebriamo; questa Italia una e indivisibile, per la quale abbiamo giurato e giuriamo tutti di versare fino l'ultima stilla del nostro sangue, non ci rappresenta, non è, forse, il supremo portato della scienza nuova? Non è il solo principio e il solo fine del diritto italiano; rivelato dal gran riformatore napoletano; consecrato dal più puro sangue di tanti nostri martiri; principio e fine che, come circolo che torna in se stesso, avrà il suo pieno compimento, quando avrà involte Roma e Venezia nel suo perimetro?

Concittadini! Se

uno è il

principio, uno il fine del diritto italiano; l'abolizione del mostruso potere temporale della curia romana,

la restituzione della eterna città alla sua santa madre Italia, fu segnata dal gran riformatore nella sua scienza nuova; n'è la più logica e la più necessaria delle conseguenze: e quando (assai più di corto che i nostri nemici non sognano) la nostra rappresentanza nazionale soderà sul Campidoglio, allora il primo e più puro pensiero di riconoscenza di tutto il Popolo Italiano sarà rivolto a Giambattista Vico.

Nei momenti, adunque, in cui innalziamo più intenso il pensiero all'altezza dell'Unità d'Italia, sìa più

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china la persona a baciare reverente questa terra sacrosanta, la cui polvere è d'eroi, la cui rugiada ò sangue di martiri e di riformatori:

Salve, magna parens frugum, Saturnia Tellus,

Magna virum

Si, o concittadini! Qui Bernardino Telesio, che Bacone chiama il primo de' filosofi odierni, e che il prete perviene a seppellire in una oscura tomba cosentina! Qui Giulio Vanini, che il prete perviene a cogliere, ne' suoi roghi in Tolosa! Qui Tommaso Campanella, che il prete e il forestiere cavano, dopo ventisette anni, quasi curvo e intirizzito cadavere, da un fosso sottomare al Castel Nuovo. Qui Giordano Bruno, l'onore della specie umana, che Tempio potere temporale di Roma si delizia di vedere e di sentire crepitar vivo fra le fiamme, e poi spargerne le sante ceneri al vento! Qui Pietro Giannone, cui lo stesso empio potere, contra ogni legge umana e divina, chiude lentamente gli occhi in un tetro carcere subalpino!... Qui Mario Pagano!.. Qui Domenico Cirillo!...

Concittadini del Municipio, attendete alacrmente a dedicare il Panteon de' nostri grandi uomini! Deputate immantinente il nostro Tempio di Santa Croce! Pensate, che tutti i grandissimi che ho nominati; che tutti gli altri (e sapete quanti sono!) che ho taciuti, tutti giacciono senza monumento o ricordo veruno! Pensate che Giambattista Vico, cui oggi dedichiamo questa statua, giacque cinquantasei anni nella chiesa de' Padri dell'Oratorio, senza una sola pietra o un solo motto che lo rammentasse!

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e che, solo nella breve e sanguigna luce del novantanove, s'ebbe una povera e brevissima lapide, dal suo povero e vecchio figliuolo, Gennaro!... Pensate per ultimo, che un monumento veramente nazionale all'incommensurabile filosofo,4 il primo e più santo de' doveri di questa gran metropoli; poscia che a lei toccò l'incommensurabile onore d'essergli madre!

Che se i due più vivi e profondi sentimenti che Dio stampò nel cuore dell'uomo, la carità della patria e la riconoscenza a quei cittadini che la onorarono, hanno forza, come cose quasi divine, di penetrare insino agli spazii supremi dell'Infinito; e s'egli è da credere che, dalle serene regioni dell'Eternità, le anime de' grandi uomini che furono, contemplino, con eterna gioia, l'eterno svolgersi de' frutti di quei semi ond'essi arricchirono questo pianeta, rallegriamo oggi la grande anima di Giambattisla Vico, che, forse, ora ci contempla di colassù, col sempiterno grido di viva l'Italia una e indivisibile: viva Vittorio Emmanuele re constituzionale e galantuomo: viva Giuseppe Garibaldi: viva Enrico Cialdini: viva il gran Plebiscito dell'Italia Meridionale!






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