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IL
BRIGANTAGGIO
NELLE
PROVINCE NAPOLETANE
RELAZIONE
DELLA COMMISSIONE D’INCHIESTA PARLAMENTARE
LETTA DAL DEPUTATO
MASSARI
alla Camera del Comitato segreto
del 3 e 4 maggio 1863
seguita da quella letta dal deputato
CASTAGNOLA
nella tornata segreta del 4 maggio
E DALLA
LEGGE SUL BRIGANTAGGIO
1863
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PREFAZIONE

II vivo interessamento con cui il popolo italiano tenne dietro, si può dire passo per passò, al viaggio della Commissione parlamentare d'inchiesta sul brigantaggio nelle provincie napoletane, e l’ansietà con cui affrettava il momento di conoscere il risultato de1 suoi studii, senza parlare della somma importanza del soggetto, svegliarono nei sottoscritti l'idea di riprodurre per intero, dagli Atti della Camera dei deputali» la Relazione dell'onorevole Massari e quella, che come appendice la segue, dell'onorevole Castagnola.

Il brigantaggio nelle provincie meridionali è da tre anni, e voglia il buon genio d'Italia che presto più non lo sia, una delle piaghe più dolorose del nostro paese; uno di que' mali che più contristano, e che impediscono d'essere intera alla letizia che nasce dal vedere in gran parte indipendente, libera e, dirasi pure, forte la nostra bella patria, la quale pur dianzi mirava fremendo le sue secolari catene.

Gl'Italiani lo sentono; e porge non dubbia prova il rapido smaltimento d'ogni scrittura, d'autore nostro o forestiero, consacrata a mettere in chiaro la natura e la stato di cotesto terribile flagello.

Parve dunque opportuna cosa il fornire al maggior numero possibile di lettori il mezzo di conoscere, quali vennero distribuite alla Camera elettiva le Relazioni sopra mentovate. Esse sono il frutto di lunghe, mature e profonde indagini, compiute sui luoghi, coll'amore d'un archeologo e colla scoria di testimonianze e di documenti irrecusabili, da una eletta di persone autorevoli, a cui furono lume e sussidio l'ingegno e la carità della patria. In esse, e più specialmente nella prima, sono esposte, con ordine e chiarezza non facili, le origini, i progressi e le attuali condizioni del brigantaggio; ed enumerandosi le cause varie e molteplici per le quali ei si mantiene e rinnovella, s'accenna saviamente ai precipui rimedii, dalla cui applicazione si può sperare, se non l'immediata estinzione del male, almeno un pronto e sensibile sollievo.

La Relazione del signor Massari non è una cronaca indigesta di fatti più o meno rilevanti, aggruppati alla meglio, ma bensì una pagina vera di storia moderna, nel più rigoroso significato della parola.

Gli Italiani leggano questo volumetto, odano dalla voce di egregi rappresentanti della nazione la gravita dei mali che affliggono tuttavia alcune membra della patria comune, ed imparino di quanta virtù e cittadina concordia faccia ancor mestieri per assicurare il compimento del grande edificio nazionale.

GLI EDITORI



COMMISSIONE D'INCHIESTA
SUL
BRIGANTAGGIO
__________

Relazione letta alla Camera nel Comitato segreto

del 3 e 4 maggio 1863 dal deputato MASSARI.


Signori! — Nell'affidarci il mandato di studiare le cagioni e lo stato del brigantaggio nelle provincie meridionali, e di additare gli opportuni rimedi, voi foste compresi dalla coscienza dell'imperiosa necessità di metter fine ad una condizione di cose che tanto conferisce a render più malagevole l'opera del nostro riordinamento nazionale, e che porge facile pretesto alle calunnie ed alle insidie dei nemici dell'unità italiana. Il sentimento che determinò la Camera ad affidarci questo mandato è stato la nostra scorta e la nostra regola nel procedere al suo adempimento. Venuti da parti diverse di quest'Assemblea noi ci siamo convinti, fino dai primi momenti dei nostri lavori, come nostro indeclinabile dovere fosse quello di appurare la verità e di porla in chiaro senza preoccupazioni di sorta alcuna, e siamo proceduti nelle nostre indagini con quella concorde operosità, che il comune affetto alla patria e la comune deferenza ai cenni della Camera ci imponevano. Nessuno di noi ba avuto in mira di far


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prevalere le proprie opinioni: tutti abbiamo rivolto le nostre cure ad attuare il meglio che per noi si poteva la vostra deliberazione, ed a rettamente interpretare il vostro intendimento: se i nostri sforzi abbiano, oppur no, sortito il desiderato effetto, tocca a voi giudicare dopo avere ascoltata l'esposizione delle nostre indagini e del metodo adoperato nel praticarle, non meno che quella dei rimedi che, il lungo studio del doloroso argomento ci ha suggerito di proporre all'attenta vostra considerazione.

I documenti, dei quali fin dal principio i ministri furono solleciti di darci comunicazione, porgevano ampia materia di meditazione e di indagini: ma a noi non parve né che il nostro compito dovesse restringersi al loro esame, no che questo dovesse essere la parte essenziale del nostro lavoro. Il fatto del brigantaggio perturba tanti interessi, tocca a tante e si svariate questioni politiche e sociali, da non poter essere considerato soltanto in modo astratto e generico; ma da doversi bensì attentamente osservare in tutti i suoi particolari, in tutte le sue forme, in tutte le sue relazioni, nella sua indole intrinseca del pari che nei suoi modi di manifestazione. Ond’è che a noi sembrò divisamento più che opportuno, necessario recarsi sui luoghi, ed ivi attingere un concetto esatto e ben determinato dell'indole e delle vere cagioni del male. Ad appigliarci a questo partito ci moveva pure il pensiero di meglio corrispondere all'intendimento della Camera, che era quello di dar pegno a tanta parte delle popolazioni italiane della sua benevolenza, ed attestare ad esse il suo fermo proposito di migliorarne le sorti ed assicurarne la prosperità. Recandoci nel mezzodì della nostra Penisola, e segnatamente nelle provincie dove più imperversava il brigantaggio, noi porgevamo con la nostra presenza alle contristale popolazioni non dubbia testimonianza della sollecita premura dei grandi poteri dello. Stato verso di esse; noi eravamo ai loro occhi la dimostrazione irrefragabile e vivente della solidarietà di affetti e di interessi, che oramai stringe indissolubilmente in un fascio tutte le provincie d'Italia. I! nostro viaggio ebbe


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una fortunata coincidenza con la sottoscrizione nazionale a prò dei danneggiati dal brigantaggio; in guisa che apparivano contemporaneamente all'opera la carità della nazione intesa ad alleviare i patimenti delle vittime e l'antiveggenza del Parlamento intesa ad escogitare i provvedimenti più efficaci a rimuovere le ragioni di quei patimenti. Anche sotto quest'aspetto perciò la nostra gita poteva non essere destituita di utilità; poteva essere, come diffatti ci pare sia stata, un pruno rimedio morale. Ed oggi siam lieti di essere in grado di affermare, che la nostra antiveggenza non andò fallita. Già nei primi giorni della nostra dimora in Napoli ci fu dato accorgerci che non ci eravamo ingannati; il viaggio nelle provincie poi ci diede incessanti motivi di rallegrarci di essere venuti in quella risoluzione. La presenza della deputazione di uno dei grandi poteri dello Stato, a cui tutti avevano adito e tutti potevano liberamente esporre le loro doglianze; di una rappresentanza che viaggiava a bella posta per interrogare le popolazioni intorno alle loro sofferenze ed ascoltare da esse medesime i suggerimenti dei rimedi, era fatto nuovissimo per quelle provincie, e l'impressione da esso prodotta non può essere descritta con acconce parole. Noi non vi ridiremo, o signori, le amorevoli ed entusiastiche dimostrazioni con cui le popolazioni meridionali festeggiarono la vostra Commissione; tutte quelle manifestazioni, che l'affetto e la fiducia possono suggerire ed inspirare, vennero largite con quella spontaneità di effusione e vivacità di espansione, che sono proprie a quelle popolazioni imaginose e sensibili. Con gli ardenti applausi, con le rinnovate dimostrazioni di ossequio e di amore esse attestavano come ben comprendessero e fossero grate al benevolo intendimento della Camera a loro riguardo. Nei trasporti della loro riconoscenza campeggiava quello stesso sentimento di fiducia nell'indestruttibilità dell'unità italiana, che dettò a voi, o signori, la risoluzione di ordinare apposite indagini sulle condizioni delle provincie napolitane. Voi decretaste l'inchiesta per attestare la vostra vigile premura sulle sorti di tutti i componenti l’italica


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famiglia; le popolazioni meridionali afferrarono prontamente il significato della vostra deliberazione, e da Napoli ad Avellino, ad Ariano, a Foggia, a Barletta, a Bari, a Lecce, a Taranto, a Potenza, a Salerno, a Sora ce lo hanno dimostrato con ogni maniera di amorevolezza, con inesauribile cordialità. Municipi, guardie nazionali, cittadini di ogni ceto e di ogni condizione gareggiavano nel tributare ossequio e fiducia alla rappresentanza nazionale; era un9 acclamazione senza posa al Re, al Parlamento, all'unità italiana. Le borgate ed i villaggi, che non erano compresi nell'itinerario della Commissione, spedivano le loro deputazioni e le loro guardie nazionali lungo la strada. Non citeremo nomi, perché una dimenticanza sarebbe facile, e sarebbe sconoscenza ed ingiuria verso i dimenticati; ma ci è grato ricordare in modo speciale la milizia nazionale della città di Bitonto, la quale per due giorni consecutivi bivaccò a parecchie miglia di distanza dalla città per essere in grado di salutare la Commissione al suo passaggio da Barletta a Bari. E con singolare compiacenza in tutte quelle deputazioni ed accolte di popolo ravvisammo la presenza di non pochi sacerdoti, i quali coglievano premurosi l'occasione di esprimere i loro sensi di devozione al Governo italiano ed ai nostri liberi istituti.

Il venerabile vescovo della diocesi di Larino si recò di persona ad incontrare la Commissione; il vescovo di Monopoli, ammalato, spedi a bella posta il suo vicario; a Taranto, a Matera, a Tricarico, a Sora, dove le sedi sono vacanti per assenza o per morte, i rispettivi vicari si affrettavano a porgere i loro ossequi alla rappresentanza della Camera; la quale era specialmente onorata io San Germano, tanto all'andata, quanto al ritorno, dall'affettuosa ospitalità degl'illustri Benedettini della celebrata abbazia di Montecassino. Se queste ci paressero vane pompe, sterili e convenzionali onoranze, noi non ne faremmo motto alla Camera; ma ricordando questi particolari, noi intendiamo darvi contezza della grata e consolante impressione, che il viaggio nelle provincie meridionali ha lasciato negli


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animi nostri; essere cioè quelle provincia, al pari delle altre, comprese profondamente dal pensiero dell’unità nazionale, e devotissime alla monarchia costituzionale nella quale quella unità si compendia e s'incarna. Mentre tante voci prezzolate vanno tuttodì ripetendo essere l'unità italiana cosa impossibile, o per lo meno effimera e transitoria, mentre infinti o tiepidi amici vanno glorificando la gretta utopia della confederazione, la vostra Commissione è lieta e commossa di adempiere al dovere di darvi, con piena cognizione di causa, l'assicurazione e la conferma dei rapidi e sempre crescenti progressi del sentimento dell'unità nazionale negli animi delle popolazioni meridionali. Noi torniamo da quelle provincie recando ad un tempo il doloroso convincimento, che molti e gravi sono i mali che le travagliano, e la confortante certezza che tutti quei mali sono sanabili, che saranno sanati e che cederanno agl'influssi irresistibili di quell'unità nazionale e di quella libertà, a cui danno sono indarno invocati da fallaci ed interessati presagi.

Narrandovi delle accoglienze ricevute dalle popolazioni, non intendiamo di certo mancare al debito di parlarvi di quelle che ci vennero fatte dalle autorità; le quali tutte, e civili, e politiche, e amministrative, e giudiziarie, e militari sono state le prime a dare l'esempio della riverenza e dell’ossequio alla dignità del Parlamento. Vi diremo in seguito del contegno e delle opere del nostro esercito, ma fin d'ora ci è grato esprimervi la viva soddisfazione che abbiamo sperimentata, per le accoglienze piene di deferenza e di affetto, che la Commissione si ebbe dai militari di ogni arma e di ogni grada. Nelle quali accoglienze ci è stato agevole scorgere, come l'esercito italiano abbia ereditato dal suo glorioso progenitore, l' esercito piemontese, non solo la tradizione del valore, della disciplina e dell'abnegazione, ma anche quella dell'ossequio profondo e sincero alle leggi ed alla libertà.

La nostra dimora a Napoli durò parecchi giorni, i quali furono tutti adoperati a raccogliere il parere e le opinioni delle autorità di qualsivoglia ordine, e dei cittadini


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di ogni condizione e di ogni opinione politica. Basterebbe a documento della severa e scrupolosa imparzialità con la quale stimammo dovere nostro procedere a citarvi i nomi delle persone interrogate...................................................................

Il giorno 28 gennaio la Commissione, accompagnata dal capitano di stato maggiore Mocenni, posto a sua disposizione dal generale La Marmora, muoveva alla volta di Avellino.

Il 31 gennaio giungeva in Ariano; il 1.° febbraio a Foggia.

La necessità di conciliare la prontezza dei lavori con i riguardi dovuti alle popolazioni, le quali per mezzo dei loro municipi! invocavano la presenza della Commissione, ci suggerì il consiglio di dividerci in due sotto-Commissioni: composta la prima dai deputati Sirtori, Bixio, Argentino e Saffi, e l'altra dai deputati Castagnola, Ciccone, Morelli, Romeo e Massari: la prima visitava il circondario di Sanseverino in Capitanata, i boschi del Fortore, il circondario di Larino nel Molise, e poi tornando per Foggia percorreva il circondario di Melfi, e dopo aver visitato il bosco di Monticchio per Rionero ed Avigliano andava a Potenza; la seconda percorreva la Puglia barese e la leccese, e da Taranto per Gioia, Santeramo ed Altamura andava in un altro circondario della Basilicata, quello di Matera, e per Grottole, Grassano e Tricarico raggiungeva l'altra sotto-Commissione in Potenza. Ognuna delle due sotto Commissioni procedeva con la stessa norma e con lo stesso sistema praticato sino a quel momento.

Da Potenza la Commissione nuovamente riunita tornava a Napoli, fermandosi un giorno a Salerno, finalmente si recava a visitare la frontiera romana, e dimorava due giorni a Sora.

Pervenuta a questo punto dei suoi lavori la Commissione agitò la questione, se convenisse proseguire le


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indagini nelle provincie non ancora visitate, gli Abruzzi, vate a dire, e le Calabrie, oppure se fosse d’uopo affrettarsi a tornare in Torino, deliberare intorno alle conclusioni e presentare la relazione alla Camera. Vivissimo era il desiderio di tutti i componenti della Commissione di non tralasciare la visita agli Abruzzi ed alle Calabrie, e di dimostrare a quelle nobili e care popolazioni lo stesso interessamento manifestato a quelle delle altre provincie del Mezzodì: ma ragioni maggiori ed imperiosissime impedirono che questo desiderio venisse appagato. La Commissione togliendo in considerazione le angustie del tempo e la mole dei lavori, ai quali ancora doveva dare opera, pensò che tutto dovesse essere subordinato all'evidente necessità di far presto, perché le sue indagini potessero sortire in tempo utile gli effetti che tutti ne bramano o ne aspettano, e quindi con grandissimo rincrescimento, ma con la profonda persuasione di adempiere con fedeltà al proprio mandato e di giovare agi' interessi delle popolazioni, rinunziò definitivamente alla meditata escursione nelle Calabrie e negli Abruzzi. Questa escursione oltracciò, se veniva suggerita da un riguardo affettuoso verso le popolazioni abruzzesi e calabresi, non poteva praticamente aggiungere nulla di rilevante alle indagini già fatte. Negli Abruzzi il brigantaggio si restringe entro i confini del circondario di Vasto, ed è una diramazione diretta di quello di Capitanata e del Circondario di Larino, dove già erano state fatte le opportune indagini

Nelle Calabrie il brigantaggio o non esiste affatto, oppure è faccenda d'assai poco momento; tutte le volte che esso ha osato levare il capo, le popolazioni calabresi non hanno affidato ad altri fuorché a loro medesime la cura di combatterlo e di annientarlo,; in guisa che la Commissione recandosi nelle Calabrie non avrebbe potuto far altro se non significare i sensi della più calda ammirazione verso quei coraggiosi e patriottici abitanti, i quali come in agosto 1860 secondarono vigorosamente il moto nazionale senza temere le migliaia di soldati borbonici che stanziavano nelle loro contrade, così dopo non hanno mai


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tollerato che il suolo calabro venisse contaminato dalla presenza di orde brigantesche.

Io tal guisa avevano fine le indagini delle quali siamo ora per esponi i risultamenti e le pratiche conseguenze.

La Camera ci ha dettato l'ordine logico a cui deve informarsi la nostra esposizione nei termini stessi del mandato che si compiaceva affidarci. Nel Comitato segreto del 16 dicembre 1862 ci veniva commesso l'incarico di riferire intorno alle cause ed allo stato del brigantaggio nelle provincie napolitane, e intorno ai più acconci provvedimenti che fossero a prendersi dal Parlamento e da suggerire al Governo per la più efficacie repressione di esso. In conformità di quest'incarico noi veniamo oggi a dirvi quali siano, a senso nostro, le cause del brigantaggio, quale il suo stato attuale, e quali i diversi provvedimenti che Governo e Parlamento debbono prendere non solo per reprimere gli effetti immediati del male, ma anche per rimuoverne le cause, e prevenirne in tal guisa il possibile rinnovamento.

Incominciamo dalle cagioni. Dalla loro definizione soltanto, dalla determinazione precisa della maggiore o minore loro importanza si può inferire il concetto esatto e veritiero del brigantaggio, e quindi il criterio con cui debba procedersi per combatterlo ed estirparlo. Facil cosa è dire che il brigantaggio si è manifestato nelle provincie meridionali a motivo della crisi politica ivi succeduta; con ciò si enuncia il motivo più visibile del doloroso fatto, ma si rimangono nell'ombra le ragioni sostanziali, le quali invece sono quelle che vanno accuratamente studiate ed esaminate, perché esse sole possono fornire l'indicazione dei mezzi più sicuri e più efficaci a ricondurre le cose nelle condizioni regolari. La prima domanda che spontanea sorgeva nell'animo nostro era la seguente: il brigantaggio che da tre anni contrista le provincie continentali del mezzodì dell’Italia, è conseguenza esclusiva del cangiamento politico avvenuto nel 1860, oppure questo cangiamento è stato soltanto un'occasione dalla quale lo sviluppamento del brigantaggio è


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stato determinato? Negli ordini politici e sociali, come nel fisico, non basta riconoscere le cause prossime ed immediate dei fenomeni, ma è d’uopo accennare se a queste cause si colleghino altre, senza le quali l'azione delle cause prossime ed immediate, o non potrebbe svolgersi affatto, oppure raggiungerebbe proporzioni minime e di poca entità. Certo è cosa evidente che in tutte le crisi politiche il principio di autorità soggiace a gravi scosse, i vincoli sociali si rallentano, le ragioni intrinse. che di sicurezza e di tranquillità scapitano di molto nel loro vigore; e quindi è naturale che avvengano gravi disordini, e che la sicurezza pubblica, segnatamente, sia profondamente turbata. Certo le provincie napolitane hanno soggiaciuto nel 1860 ad una crisi di questo genere, e torna agevole il comprendere come in seguito a ciò siasi manifestato il brigantaggio. Ma basta forse la sola crisi politica a rendere ragione e della intensità del male e delle proporzioni che ha raggiunte e della ostinazione con cui resiste ai mezzi adoperati per combatterlo e guarirlo? A persuadervi che restringendo a quella poc'anzi enunciata le cause del brigantaggio si cadrebbe in errore, bastava una sola considerazione. Gl'influssi della crisi politica non potevano essere, non sono stati diversi nelle diverse provincie dell'exreame napolitano: se dunque in ogni caso la loro azione è stata identica, gli effetti avrebbero pure dovuto essere i medesimi in ognuna di quelle provincie, e queste avrebbero perciò dovuto essere allo stesso grado infestate dal brigantaggio. La conchiusione è strettamente logica: ma il fatto la contraddice, poiché è indubitato che mentre in alcune provincie il brigantaggio è infierito ed ha raggiunte terribili proporzioni, come, a cagion d'esempio, in Capitanata ed in Basilicata, in altre, come le Calabrie, o non ha alliguato affatto, o tutto al più si è astretto in angusti limiti. Per rendere ragione di questo contrasto è dunque mestieri supporre o che la crisi politica non abbia avuto nessun influsso in alcune provincie e molto in altre, oppure che le rispettive condizioni di quelle provincie non essendo


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identiche, gli effetti della crisi siano stati diversi. La prima di queste ipotesi non regge all'esame: il rivolgimento politico essendo unico nella sua essenza e nella sua origine non poteva non tramandare i suoi influssi alla stessa guisa e con la medesima efficacia in tutte le località, e quindi sarebbe all'intutto gratuito ed assurdo il supporre e l'asserire che questi influssi si manifestassero e fossero attivissimi a Foggia ed a Potenza, latenti od inerti a Catanzaro ed a Reggio. La ragione del divario va dunque ricercata altrove, e propriamente nella diversità delle condizioni delle varie provincie. Ond'è che dalla evidenza dei fatti noi siamo stati costretti a domandarci se per avventura non esistessero cause generali ed essenziali che contribuiscono a rendere in alcune località, meglio che in altre, più agevole, più pronto, più terribile lo sviluppamelo del brigantaggio, e frappongano pili gagliardi ostacoli alla sua estirpazione. La risposta a questa domanda ci è stata largamente fornita e dalla osservazione dei fatti e dalle ricordanze istoriche e dalle opinioni di molte fra le persone che all'uopo abbiamo interrogate, e di quelle che spontaneamente ci hanno partecipato per iscritto il loro parere. Quelle osservazioni, quelle ricordanze, quelle opinioni ci hanno condotto a conchiudere che il brigantaggio ha una sua precipua ragione di essere in alcune cause, che non sono quelle che a prima giunta si scorgono, e che pur troppo non sono né le meno efficaci, né le meno essenziali. A bene esprimere il nostro concetto diremo che il brigantaggio se ha pigliato le mosse nel 1860, come già nel 1806, ed in altre occasioni dal mutamento politico, ripete però la sua origine intrinseca da una condizione di cose preesistente a quel mutamento, e che i nostri liberi istituti debbono assolutamente distruggere e cangiare. Molto acconciamente è stato detto e ripetuto essere il brigantaggio il fenomeno, il sintonia di un male profondo ed antico: questo paragone desunto dall'arte medica regge pienamente, ed alla stessa guisa che nell’organismo umano le malattie derivano da cause immediate e da cause


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predisponenti, la malattia sociale, di cui il brigantaggio è il fenomeno, è originata anch'essa dallo stesso duplice ordine di cause.

Le prime cause adunque del brigantaggio sono le cause predisponenti. E prima fra tutte, la condizione sociale, lo stato economico del campagnuolo, che in quelle provincie appunto, dove il brigantaggio ha raggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice. Quella piaga della moderna società, che è il proletariato, ivi appare più ampia che altrove. Il contadino non ha nessun vincolo che lo stringa alla terra. La sua condizione è quella del vero nullatenente, e quand'anche la mercede del suo lavoro non fosse tenue, il suo stato economico non ne sperimenterebbe miglioramento. Dove il sistema delle mezzerie è in vigore, il numero dei proletari di campagna è scarso; ma là dove si pratica la grande coltivazione,sia nell'interesse del proprietario, sia in quello del fittaiuolo, il numero dei proletari è necessariamente copioso. Tolgasi ad esempio la Capitanata. Ivi la proprietà è raccolta in pochissime mani: la stessa denominazione di proprietari anzi è inesatta, poiché in realtà essi non sono veri proprietari, ma censuari vassalli del Tavoliere di Puglia; ed ivi il numero de' proletari è grandissimo. A Foggia, a Cerignola, a San Marco in Lamis havvi un ceto di popolazione, addimandato col nome di terrazzani, che non possiede assolutamente nulla e che vive di rapina. Nella sola città di Foggia i terrazzani assommano ad alcune migliaia. Grande coltura: nessun colono: e molta gente che non sa come fare per lucrarsi la vita. I terrazzani ed i cafoni, ci diceva il direttore del demanio e e tasse della provincia di Foggia, hanno pane di tale qualità che non ne mangerebbero i cani. Tanta miseria e tanto squallore sono naturale apparecchio al brigantaggio. La vita del brigante abbonda di attrattive per il povero contadino, il quale ponendola a confronto con la vita stentata e misera che egli è condannato a menare non inferisce di certo dal paragone conseguenze propizie all'ordine sociale. Il contrasto è terribile, e non è a


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meravigliare se nel maggior numero dei casi il fascino della tentazione a male oprare sia irresistibile. I cattivi consigli della miseria non temperati dalla istruzione e dalla educazione, non infrenati da quella religione grossolana che si predica alle moltitudini, avvalorali dallo spettacolo del cattivo esempio prevalgono presso quegl'infelici, e l'abito a delinquere diventa seconda natura. La fioca voce del senso morale è soffocati, ed il furto anziché destare ripugnanza appare mezzo facile e legittimo di sussistenza e di guadagno, ond'è che sorgendo dall'occasione l'impulso al brigantaggio le sue fila non indugiano ad essere ingrossate. Su 375 briganti che si trovavano il giorno 15 aprile prossimo passato nelle carceri della provincia di Capitanata, 293 appartengono al misero ceto dei cosi detti braccianti. Là invece dove le relazioni tra il proprietario ed il contadino sono migliori, là dove questi non è in condizione nomade ed è legato alla terra in qualsivoglia modo, ivi il brigantaggio può, manifestandosi, allettare i facinorosi, che non mancano in nessuna parte del mondo, ma non può gettare radici profonde ed è con maggiore agevolezza distrutto. Nella provincia di Reggio di Calabria diffatti, dove la condizione del contadino è migliore, non vi sono briganti. Nelle altre due Calabrie, la provincia di Catanzaro e quella di Cosenza, le relazioni tra contadini e proprietari sono cordiali, e quindi allorché questi invocano l'aiuto di quelli per difendere la proprietà e la sicurezza sono certi di conseguirlo. Nelle provincie dove lo stato economico, la condizione sociale dei campagnuoli sono assai infelici, il brigantaggio si diffonde rapidamente, si rinnova di continuo, ha una vita tenacissima; mentre in quelle dove quello stato è più tollerabile, dove quella condizione è comparativamente migliore, il brigantaggio suoi essere frutto d'importazione, nè può, manifestandosi, oltrepassare certi limiti, e quando sia stato una volta disfatto non risorge con tanta facilità. Quante e quante volte le bande di Caruso e di Crocco in Capitanata e Basilicata sono state sbaragliate e decimate, e talvolta pur quasi


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interamente distrutte; e frattanto sono sempre risorte. In Terra di Lavoro invece la banda di Cipriano della Gala tenne la campagna per molto tempo, ma alla fine fu incontrata dalla truppa e completamente disfatta. D'allora in poi abbenchè il capobanda sia ancor vivo e non fatto prigioniero, della banda non si è mai più inteso a parlare. In provincia di Bari è succeduto un caso identico. Una banda di masnadieri guidata da un tal Pasquale Romano di Gioia, ex sergente borbonico, contristava con ogni maniera di rapine e di uccisioni quelle amene ed ubertose contrade; nei primi di gennaio scorso i cavalleggieri di Saluzzo, comandati dal valoroso capitano Bollasco, e secondati dalla coraggiosa guardia nazionale di Gioia, assalirono l'infame banda, ne uccisero il capo, la distrassero. D'allora in poi il tenimento di Gioia è libero e sicuro. Il circondario di Sora in Terra di Lavoro è limitrofo al territorio pontificio, e quindi esposto tuttodi alle incursioni delle bande brigantesche che tranquillamente e con tutti gli agi immaginabili si organizzano in quel territorio; frattanto il brigantaggio è ivi affatto transitorio, e non trapassa i limiti della importazione. E perché? Perché la condizione del contadino è migliore che altrove, perché il paese è assai industrioso e commerciante, perché i lavori della strada ferrata hanno adoperato molte braccia e cagionato l'aumento dei salarii. La banda di Chiavone era reclutata tra i contadini più miseri della selva di Sora e della vicina valle Roveto. Nel Molise la condizione del contadino non è prospera, così pure nella Basilicata, dove in aggiunta sono assai vive le controversie per le usurpazioni di beni demaniali. Nel circondario di Avezzano, in provincia di Aquila, i contadini vanno a lavorare nel vicino agro romano e guadagnano onestamente la vita. Quel circondario, al pari di quello di Sora, è limitrofo al territorio pontificio, ed ivi pure il brigantaggio è conseguenza d'importazione. In generale ciò si avvera in tutto l'Abruzzo aquilano, perché in esso pochi sono i contadini i quali non abbiano qualche vincolo alla terra.


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Nell'Abruzzo teramano il fatto del quale accenniamo risulta con molla evidenza: in quella provincia fu l'ultimo asilo delle truppe borboniche, la fortezza di Civitella del Tronto, la quale si arrese dopo la caduta di Gaeta; non mancava adunque il fomite del brigantaggio: pertanto la provincia fu preservata dal flagello a motivo, senz'alcun dubbio, della mitezza e del patriottismo dei suoi abitanti, ma anche perché lo stato economico del contadino non è cattivo. Il contrapposto che risulta dalla diversità delle condizioni sociali ed economiche è evidente; non solo esso si scorge facendo il confronto tra le diverse provincie, ma è visibile anche senza uscir dai confini di una stessa provincia. Valga ad esempio l'Abruzzo chietino. Nel circondario di Chieti è stabilita tra il proprietario ed il contadino una specie di società, mediante la quale questo si obbliga a prestare la propria opera, e l'altro il fondo od il capitale. Il profitto è ripartito in determinate proporzioni, le quali variano a seconda della fertilità del terreno. Il contadino perciò non è un semplice bracciante che per salario lavora la terra, ma è invece legato a questa, partecipa agl'interessi del proprietario. Nel circondario di Chieti il brigantaggio è stato importato, ma non vi ha mai gettato radici. In un altro circondario della stessa provincia, in quello di Vasto, la sorte del contadino non è così lieta: si avvicina a quella del contadino delle provincie di Campobasso e di Foggia, ed il circondario di Vasto è stato una delle contrade abruzzesi dove più il brigantaggio è imperversato; né è incominciato a declinare se non quando attivandosi i lavori della strada ferrata la povera gente ha potuto accorgersi che il valore della mano d'opera era di molto cresciuto, e che il lavoro può procacciare un guadagno onesto, sicuro e copioso.

In alcune località il contrapposto è visibile entro i limiti dello stesso mandamento. Nella medesima provincia di Chieti sono nel medesimo mandamento Bomba e Montazzoli: a Bomba la sorte del contadino non è cattiva; a Montazzoli si avvera l'opposto. Il numero dei briganti


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nel primo paese è scarsissimo, nel secondo è rilevante. Ma vi è ancora di più» II mutare delle condizioni sociali ed economiche nella stessa località attenua, se pure non distrugge compiutamente, la predisposizione ai brigantaggio. Un onorevole senatore di Capitanata ci narrava il fatto seguente. Durante il decennio della occupazione militare francese, Orsara fu uno dei paesi che fornì maggior numero di briganti. Il Governo borbonico stimò opportuno di dividere i beni demaniali di quella terra fra coloro che possedevano un capitale di 20 carlini in giù. Il concorso fu numerosissimo: ognuno potè acquistare una mezza versura di terreno (due jugeri) ed una intiera, allorché la qualità dei terreni era assai cattiva. Mutate in tal guisa le condizioni sociali ed economiche, Orsara ha fornito uno scarsissimo contingente all'attuale brigantaggio: in questi ultimi tempi cotesto contingente riducevasi a due.

La condizione di cose, della quale siamo venuti fin qui discorrendo, ci sembra porgere in modo non equivoco la nozione di una delle cause che con maggiore efficacia generano fatalmente in alcune provincie meridionali la funesta predisposizione al brigantaggio. Il sistema feudale spento dal progredire della civiltà e dalle prescrizioni delle leggi ha lasciato una eredità che non è ancora totalmente distrutta; sono reliquie d'ingiustizie secolari che aspettano ancora ad essere annientate. I baroni non sono più, ma la tradizione dei loro soprusi e delle loro prepotenze non è ancora cancellata, ed in parecchie delle località che abbiamo nominate l'attuale proprietario non cessa dal rappresentare agli occhi del contadino l'antico signor feudale. Il contadino sa che le sue fatiche non gli fruttano benessere né prosperità; sa che il prodotto della terra innaffiata dai suoi sudori non sarà suo; si vede e si sente condannato a perpetua miseria, e l'istinto della vendetta sorge spontaneo nell'animo suo. L'occasione si presenta; egli non se la lascia sfuggire; si fa brigante; richiede vale a dire alla forza quel benessere, quella prosperità che la forza gli vieta


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di conseguire, ed agli onesti e mal ricompensati sudori del lavoro preferisce i disagi fruttiferi della vita del brigante. Il brigantaggio diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche secolari ingiustizie.

Ma forse la causa predisponente al brigantaggio che risulta dalla infelice condizione sociale, dalla miseria, dalia povertà, non possederebbe la terribile efficacia, che in realtà possiede e manifesta, se non fosse potentemente coadiuvata da un'altra causa dello stesso genere, vale a dire dal sistema borbonico. La sola miseria non sortirebbe forse effetti cotanto perniciosi se non fosse congiunta ed altri mali che la infausta signoria dei Borboni creò ed ha lasciati nelle provincie napolitane. Questi mali sono l'ignoranza gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa ed accreditata, e segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia. Gli uomini che a migliaia nel periodo di soli sessantanni il Governo borbonico ha scannato sui patiboli, o fatti dolorare negli ergastoli, nelle galere, negli esigli, non furono le vittime più infelici; la scure del carnefice, il capestro non furono i maggiori, né i più crudeli tormenti di supplizio usati dai Borboni, i quali a tutta possa si adoperarono a commettere il più nefando dei parricidi!, quello di togliere ad un intiero popolo la coscienza del giusto e dell’onesto. Ferdinando II segnatamente arrecò nella proterva impresa una operosità ed un ingegno veramente infernali. Del tribunale della giustizia umana come di quello della giustizia divina aveva fatto il sacrario della denuncia e della menzogna; aveva confusa l'onorata assisa del soldato con quella del delatore e dello scherano; glorificava ed onorava il delitto, puniva come infamia la virtù e l'eroismo; famelico di dominio assoluto, poco gli premeva di regnare su di un deserto, purché regnasse; poco gli premeva che puntelli del suo trono fossero l’iniquità, la frode, la venalità, purché vi sedesse sopra; il suo regno lungo e funesto fu un brigantaggio permanente contro il più sacro diritto di proprietà, quello della onestà, contro la più preziosa


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prerogativa della vita delle nazioni, la morale. La stessa voce irresistibile dell'istinto che lo avvertiva come la sua dinastia potesse occupare per qualche tempo, ma non regnare per sempre nell'estremo lembo d'Italia, non lo distoglieva dall'esiziale assunto, ma sempre più ve lo infervorava: regnare, e non potendo più regnare, lasciava al Governo civile, che prevedeva dovesse succedere a quello della sua dinastia, un cadavere; questo era il suo scopo (I). Non gli fu dato raggiungerlo, perché l'intelligenza napolitana oppose al perverso disegno una incrollabile resistenza; e fu vittoriosa. Ma l'apostolato della immoralità e della ingiustizia fatto dall'alto di un trono non poteva non far risentire i suoi effetti sulle povere plebi; ed oggi alla luce della libertà se ne scorgono le amare conseguenze. Ce lo hanno detto e ripetuto tanti autorevoli ed onorandi uomini: questo popolo non ha il sentimento della giustizia, non ha fiducia in essa, non ci crede. Qual meraviglia di ciò se per tanto volgere di anni quel popolo ha veduto il prete confondere le attribuzioni del suo santo ministerio con quella del delatore, il magistrato trafficare la giustizia, il soldato far da carnefice? Qual meraviglia se plebi misere ed infelici ed educate a questa guisa accorrano oggi ad ingrossare le fila dei briganti? Qual maraviglia se nel periodo di trasformazione, del passaggio cioè dal dominio assoluto della forza brutale all'impero pacifico della libertà e delle leggi, quelle povere plebi chieggano alla violenza e alla ribellione contro la società il ristoro ai lunghi danni,alle eterne ingiustizie, quel ristoro che non sanno, sarebbero in grado di ottenere dal lavoro e dalla libertà? Dai Greci ai Normanni, agli Svevi, agli Angioini, agli Aragonesi, ai Francesi, la storia delle provincie napolitano è la storia delle conquiste e dei trionfi non del più giusto, ma del più forte, né v'ha nulla che tanto conferisca a perturbare la coscienza di un popolo ed a fargli


(1) Ai principii del 1850 Ferdinando II diceva all'ex-ministro principe Dentice, ora defunto: “se io debbo lanciare il regno legherò ai miei successori cinquantanni di anarchia.”


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smarrire il senso della giustizia quanto l'alternarsi e succedersi senza posa di dominatori stranieri: il simulacro d'indipendenza, la mendace autonomia che esse acquistarono con l'ultima dinastia borbonica non rialzarono, ma sempre più scalzarono quel sentimento dalle sue naturali fondamenta. Ora è cosa incontrastabile che la mancanza di fede nella giustizia è di per sé sola la più efficace predisposizione che possa invaginarsi, alla vita eslege delle avventure e delle rapine. La mala signoria borbonica fecondando, infondendo vigore negli elementi di guerra sociale ha resa la loro azione più deleteria, i loro influssi più perniciosi, il loro svolgimento più ampio. Né ciò fu opera del caso, ma di premeditazione, di concetto preordinato: il primo impulso all'attuale brigantaggio venne dato fin dal mese di luglio 1860, quando cioè i Borboni si erano già avveduti che non avevano potuto trarre in inganno le popolazioni con l'infido dono della Costituzione, e che tosto o tardi sarebbero stati costretti ad abbandonare il regno. Rammentavano che alla fine del secolo scorso e nei primi anni del secolo corrente erano tornati per opera del brigantaggio, e quindi nel 1860 pensavano ad ammannire le stesse armi per conseguire lo stesso scopo.

A queste due cause essenziali e fondamentali del brigantaggio altre debbono aggiungersi, le quali vanno del pari annoverate fra quelle che abbiamo chiamate predisponenti. Una di esse, non irrilevante di certo, né da porsi in non cale, è quella che diremo storica o, meglio, tradizionale. È la esistenza di una tradizione di brigantaggio, la quale trae la sua origine dal sistema feudale, nelle provincie napolitano tenacissimo, e tardi contrastato e vinto dalla potestà regia. Sorgente, misura e guarentigia di ogni diritto era la forza. 11 barone imperava circondato da bravi, e fra costoro i più bravi erano quelli che potevano vantare di aver commesso maggiori delitti e maggiori atrocità. L'esercito del barone era un'accolta di scherani pronti a commettere ogni maniera di sopruso e di violetta. Ai poveri vassalli non rimaneva altra


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elezione se non quella di lasciarsi manomettere, ovvero di arruolarsi tra i bravi. Nella lunga e tetra vicenda di conquiste e di straniere signorie coteste condizioni sociali ed il mal governo non mancarono mai di determinare la produzione dello stesso fenomeno. In quel lacrimevole periodo storico, che si chiama del viceregnato, e che durò oltre a 230 anni, il brigantaggio diventò abituale e quasi endemico. Infierì nelle Puglie, in Terra di Lavoro ed in altre provincie. Il nome soltanto era diverso: i masnadieri si appellavano allora sbanditi e non briganti; questa ultima denominazione ci è venuta dai Francesi. «I baroni del regno, dice il dotto storico Winspeare, si sono serviti del brigantaggio come della loro e ordinaria milizia... Le milizie e i domestici delle Corti dei baroni sono stati d'ordinario assortiti di uomini coperti di delitti, i quali si rifuggivano sotto la loro protezione. Per uno di quei principii di onore che l'anarchia feudale aveva adottati, la qualità di uomo inquisito passava per un requisito di coraggio che rendeva un candidato degno di essere ammesso fra le squadre baronali... Fra le cause che diedero luogo alla proscrizione del principe di Salerno Sanseverino, ci fu quella di essere non solo protettore, ma anche partecipante del brigantaggio; e fra le pi ime rimostranze che fece la città di Napoli all'imperatore Carlo V fu che i nobili tenevano uomini facinorosi nei loro portici, per mezzo dei quali perseguita vano, straziavano, uccidevano gli onesti cittadini e toglievano per forza i ribaldi dalle mani della giustizia... Il viceré D. Pietrantonio d'Aragoua nel 1568, dopo di aver creata una Commissione straordinaria per giudicare i fautori e i ricettatori di banditi, e dopo di aver fatto arrestare e sottoporre al giudicio alcuni dei principali baroni del regno aprì, in unione colla moglie un baratto cogli accusati, e dalla seduta pubblica del giudicio, alla quale la città credette ch'ei volesse assistere per l'esempio della strepitosa condanna che attendevasene, si ritirò ricco di multe nella somma di 30,000 ducati...


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il viceré conte di Castrillo, mentre perseguitava i briganti, richiamato alla difesa di Castellammare contro il tentativo di sbarco che ivi faceva il duca di Guisa, chiamò in suo soccorso quella stessa masnada di banditi che t aveva voluto sino a quel momento distruggere» (1).

Le cronache e le storie contemporanee somministrano gran copia di fatti, che si riscontrano con le riflessioni del Winspeare, e porgono documento dell'audacia e della potenza degli sbanditi. Nel 1559 una masnada di essi, forte di 1500 uomini e guidata da un Re Marcone, pose l'assedio alla città di Cotrone, batté un corpo di truppe spagnuole, e non si ritirò se non quando sopraggiunse un altro corpo delle stesse truppe più forte del primo. Un altro masnadiere per nome l'abate Cesare, essendo viceré il conte di Pennaranda, spinse l'audacia fino a bloccare la capitale. Nel 1644, essendo viceré il duca di Medina, fu stimato necessario di creare un viceré per la campagna con l'incarico speciale di combattere gli sbanditi. Mentre era viceré il come di Castrillo, un Carlo Petriello teneva la campagna in Terra di Lavoro con tanta forza di masnadieri da interrompere il passaggio, sicché il cardinale Buoncompagno, arcivescovo di Bologna, dovendo recarsi a Sora, era costretto ad implorare un salvocondotto da Petriello, che glielo concedeva. Nel 1642 il duca di Maddaloni cospirava contro Masamello, e per conseguite i' intento faceva entrare cella stessa città di Napoli sotto vari pretesti gli sbanditi, i quali poi, cessata la rivoluzione, per lunga pezza di tempo seguitarono ad infestare il reame, né si venne a capo di mettere fine alle loro gesta se non quando il conte di Conversano, uno dei maggiori loro promotori, venne mandato prigione in Ispagna.

Nella storia del viceregnato spagnuolo le gesta brigantesche tengono il posto di fasti militari; gli eroi di quell'epoca sono ì masnadieri: Re Marcoue, Pietro Mancino, Carlo Ramerà, Benedetto Magone, l'abate Cesare


(I) V. Winspeare, Storia togli abusi feudali. Introduzione.


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Riccardo, Marco Sciarra, Carlo Petriello, Buttinello, Verticillo, Angiolo del Duca, gli Spicciarelli.

La tradizione del viceregnato era continuata dai Borboni. Il Colletta riferisce che nei primordii del regno di Ferdinando IV, un regio bando diceva: “ Sono continui e i furti di strada e di campagna, i ricatti, le rapine, le e scelleratezze; è perduta la sicurezza del traffico; sono e impedite le raccolte” (1).

Nel 1799 le orde dei masnadieri aizzate dai Borboni e capitanate da un porporato di Santa Chiesa, misero a sacco e a ruba tutto il reame, e per la sanguinosa via dell’anarchia sociale ricondussero sul trono il principe spodestato. Durante il decennio, nel quale regnarono Giuseppe Napoleone e Gioachino Murat, il brigantaggio, atteggiandosi a difensore dell'indipendenza, travagliava in ispecial guisa le Calabrie, e turbava la pace di tutto il regno. Se il soccorso degli Austriaci fosse mancato nel 1821, Ferdinando I avrebbe adoperato il brigantaggio per disfarsi della Costituzione; se il 15 maggio 1848 Ferdinando II fosse stato vinto nella città di Napoli, egli era già pronto a scatenare il brigantaggio nella campagna.

Al pari del viceré D. Pietrantonio d Aragona i Borboni sono scesi a patti con i briganti, come attestano gli esempi dei Vardarelli e di Talarico. Dal complesso di questi fatti risulta una tradizione storica la cui partecipazione alla genesi del brigantaggio non può essere rivocata in dubbio. Nelle infami torme dei saccheggianti e dei masnadieri del 1799 l'esercito borbonico trovava i suoi generali: Pronio, Mammone, Sciarpa, Fra Diavolo ed altri simili: “ultima plebe, come dice il Colletta, e immondizia di plebe” (2), erano fatti colonnelli, baroni, cavalieri; il delitto non più argomento di pena, ma di premio, fu via palese e sicura a conseguire gli onori supremi; il saccheggio ed il furto mezzi legittimi e glorificati di ricchezza. I contadini hanno inteso dire non poche volte dai loro padri o dai loro avi che quella tale


(1) Vol. I, pag. 193. Capolago.

(2) Vol. II, pag. 193.


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famiglia del loro paese oggi ricca ed opulenta, nel 1799 era poverissima, era nelle condizioni in cui essi medesimi 'sono attualmente, e che va debitrice di tutta la sua fortuna al brigantaggio. La tentazione non è piccola, e molti di essi adescati dalla possibilità del facile e grosso guadagno, non resistono alla speranza dì poter fare altrettanto per conto proprio. Il senso della cupidigia svegliato dall'esempio e dalle memorie parla parole più efficaci e più ascoltate di quelle del senso morale, e le attrattive dell'agognato fine nascondono i pericoli e le iniquità dei mezzi ed incoraggiano al misfatto. Crocco e Caruso sognano forse di diventar generali e marchesi, come avvenne a tanti loro predecessori nel 1799. Alcuni anzi di questi ribaldi precorrono l'aspettato premio, e s'intitolano con gradi tolti dalla gerarchia militare o da onorificenze cavalleresche. Chiavone si diceva generale, nominava ufficiali, assumeva e riceveva il titolo di eccellenza. Pilone si denominava cavaliere e comandante un corpo di osservazione. Crocco reca sul petto due decorazioni, una delle quali con nastro giallo, ed i masnadieri di Capitanata e di Basilicata lo chiamano loro generale. Noi stessi abbiamo letto una lettera scritta da Ninco Nanco all'infelice Palusella, delegato di pubblica sicurezza in Avigliano, da lui poscia proditoriamente ucciso, nella quale si firmava: II colonnello Giuseppe Nicola Somma alias Ninco Nanco.

Chi abbia posto mente alle considerazioni ed ai fatti che siamo venuti esponendo non può ragionevolmente aspettare che la voce del senso morale abbia virtù di farsi ascoltare a preferenza di quella dei pravi istinti e delle passioni rapaci. La morale deformità del brigante, la nefandezza delle sue opere è del suo mestiere sono velate agli occhi di quelle povere plebi, le quali perciò non sperimentano, non possono sperimentare verso di esso il salutare ribrezzo che per benefico ìstioto di natura il delitto desta sempre noli' animo umano. Agli occhi di quelle plebi piene d'immaginazione e crucciate dalle privazioni il brigante appare ben altra cosa da quello


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che realmente è; dinanzi ad esse si trasforma, diventa un essere fantastico, il simbolo delle loro contrastate aspirazioni, il vindice dei loro torli. La stessa leggenda alimenta la traduzione brigantesca. Il concetto popolare del brigante è tutto speciale, tutto proprio e conforme alle condizioni ed alle disposizioni degli animi; la lurida realtà cede il posto ad una finzione immaginaria d'indole affatto opposta; il brigante non è più l'assassino, il ladro, il saccheggiatore, ma l'uomo che con la sua forza sa rendere a sé e agli altri la giustizia a cui le leggi non provvedono; il masnadiere è trasformato in eroe. In questa metamorfosi si raccoglie una intiera storia di dolori non alleviati, di ingiustizie non riparate, ed un insegnamento morale che non può andare perduto. Là dove le leggi non sono fatte nell'interesse di tutti, e son sono imparzialmente eseguite per e contro tutti, l'infrazione alle leggi diventa consuetudine ed argomento non di disdoro, ma di vanità e di gloria. Là dove il manto delta legge non si stende ugualmente su tutti, chi sorge a lacerarlo invece dell'infamia consegue agli occhi delle moltitudini prestigio ed ammirazione.

Ma oltre queste grandi e dolorose cause morali e storiche, che sono germe propizio allo sviluppamene del brigantaggio, non dobbiamo tralasciare di annoverarle altre, che anche sono predisponenti, ed alle quali, se non può assegnarsi la somma importanza che pur troppo posseggono quelle fin qui ricordate, v'ha però dovuta motta attenzione. Intendiamo dire le cause che derivano dalla configurazione de' luoghi, dalla divisione delle terre, dall'indole delle coltivazioni, dalla distribuzione degli abitanti sul territorio, dalla malagevolezza delle comunicazioni, dall'abbondanza di folti e vasti boschi e che perciò chiameremo cagioni topografiche.

I punti più infestati del brigantaggio sono quel lembo della catena degli Appennini che scende digradando belle Puglie, e il corso dei due fiumi o torrenti, il Fortore e l'Ofanto, le cui rive boscose sono asilo sicuro ai malviventi. Da quei monti si discende facilmente nella vasta


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pianura pugliese, dove prevale il sistema della grande coltivazione, scarseggiano le città, abbondano le case rurali: tutte condizioni propizie alle scorrerie dei briganti a cavallo.

La regione garganica, che toglie il nome dal monte Garbano, è bagnata dall'Adriatico da una parte, e dall'altra tocca alla immensa pianura del Tavoliere di Puglia. Per la posizione, per il clima, per la varietà dei prodotti potrebbe essere una delle più felici e più ridenti contrade del mondo: e frattanto è misera, disgraziata, selvaggia. Non un punto di ricovero, non strade, tranne quella che conduce al Santuario di San Michele. Sono parecchie migliaia di creature umane, che si trovano sequestrate dal contatto e dal consorzio dei loro simili, che non conoscono nessuno dei vantaggi della civiltà. Ci sono località nelle quali non si può andare nemmeno a cavallo: è mestieri andare a piedi. Un altro circondario della Capitanata, quello di Bovino, è del pari alpestre e montuoso, e non ha strade. La pianura del Tavoliere incomincia all'apertura del vallo di Bovino, e si estende assai lungi. I briganti la percorrono facilmente e rapidamente a cavallo, e quando sono inseguiti dalla forza cercano e trovano sicuro scampo nei monti e nei boschi. Il bosco di Dragonara, la selva delle Grotte, daila parte garganica, sono i loro ricoveri naturali. quest'ultimo bosco segnatamente per la vastità, e perché confina con quelli della vicina provincia di Molise, porge ai briganti facile mezzo di occultarsi e sfuggire a qualsivoglia persecuzione. Dal Fortore fino al bosco Petacciato, vale a dire fino al circondario di Vasto in provincia di Chieti, è una lunga selva, interrotta a brevi intervalli, di fitte e selvagge boscaglie, rade, folte, macchiose, arboree, frattose: qua facili ed accessibili, là difficili ed inaccessibili: or traversate da rovinosi sentieri, ora scavate da orrende spelonche, piene di dirupi, di caverne, di burroni: ora intralciate da denso fogliame, ora da acuti spineti, agevoli nascondigli ai masnadieri, ostacoli insuperabili alla forza che li perseguita. A tempi della occupazione francese,


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come al di d'oggi, quei boschi erano il teatro natura la del brigantaggio. In Basilicata i boschi di Monticchio, di Lagopesole, di Ripacandida, di San Cataldo, di Policoro, di Montemilone, porgono ai briganti agevolezze dello stesso genere: da quello di Monticchio vanno ad infestare il circondario di Melfi in Basilicata, il circondario di Sant'Angelo dei Lombardi in Principato Ulteriore, la Capitanata: da quello di Montemilone fanno scorrerie nella zona montuosa della provincia di Bari, che è conosciuta col nome di Murgia. Il solo aspetto di quei boschi basta a far indovinare, come in una regione travagliata dal brigantaggio, essi debbano grandemente favorirne lo sviluppo e la conservazione.

Sono tanti ricoveri dati dalla natura ai briganti, i quali ivi stabiliscono i loro depositi di viveri, ivi conservano il prodotto delle loro rapine, ed hanno talvolta perfino le ambulanze per i feriti e per gli ammalati.

Quanto poi la mancanza di strade agevoli e giovi al brigantaggio, ci sembra cosa di tanta evidenza da non avere nemmanco a dimostrare. Anche questa deplorabile mancanza era uno degli elementi del sistema borbonico, e conseguenza di un disegno preconcetto. I Borboni facevano costruire magnifiche strade nelle vicinanze di Napoli per ingannare i forestieri, e procurarsi nell'apparenza le sembianze di Governo civile: sapevano che la maggior parte dei forestieri, se non tutti, si soffermavano nella capitale, e non curavano di andare a visitare né la Capitanata, né la Basilicata. In tal guisa l'intento era raggiunto: a Napoli una maschera di civiltà, nelle provincie la barbarie senza velo di sorta alcuna. La Basilicata è una provincia, che per la estensione del territorio uguaglia, o per lo meno si avvicina assai alla Toscana: si può dire che è quasi totalmente sprovvista di strade carreggiabili: le sole che essa ha sono quella che da Melfi va a Potenza, quella che da Potenza mena alla provincia di falerno ed a Napoli, quella che per Lagonegro congiunge la provincia di Cosenza con quella di Salerno.


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La strada da Potenza a Matera è interrotta a Grottole. Nessuna via di comunicazione verso la marina dell'Ionio.

Si viaggiano le dieci e quindici e venti miglia per scoscesi sentieri, per pericolosi dirupi senza incontrare un villaggio. Rimangono quindi precluse a quegli abitanti le vie del commercio, impossibili le comunicazioni, tolti i contatti benefici della civiltà. Ai tanti vantaggi che naturalmente porge ai briganti la configurazione del suolo, si aggiunge in questo modo anche quello che risulta dalla difficoltà non di rado insuperabile, che la mancanza delle vie di comunicazione frappone a perseguitarli ed a ricercarli. Il lungo spazio che divide gli Abruzzi dalla Capitanata è parimenti sprovvisto intieramente di strade. Non pochi proprietari abruzzesi hanno interessi di non lieve importanza nella provincia di Foggia, ma quando intendono invigilarli con gli occhi propri sono obbligati a fare un lunghissimo giro, ad andare prima a Napoli, e di lì a Foggia. Tutti gli anni i pastori che scendono dagli Abruzzi percorrono il cosi detto tratturo per recarsi in Capitanata, ma tranne che ad essi, quella via non è accessibile ad altri, e nella stagione invernale è pressoché all'intatto impraticabile. Dalla Capitanata all'altra limitrofa provincia di Benevento manca parimente la comunicazione per strada carreggiabile.

Sui 124 comuni di Basilicata 91 sono senza strade: sui 108 della provincia di Catanzaro 92: sui 78 della provincia di Teramo 60. Nella stessa provincia di Napoli sono 24 comuni senza strade. La provincia privilegiata è quella di Bari, la quale per ogni miriametro quadrato ha undici chilometri di strada, laddove negli Abruzzi, in Capitanata, nelle Calabrie, in Basilicata la proporzione è di soli tre chilometri. In totalità sui 1848 comuni del Napolitano 1321 mancano di strade. Ora questa mancanza di strade è tutta a profitto del brigantaggio, il quale nasce, si mostra e prospera dovunque tacciono le opere della civiltà.

Queste erano le condizioni nelle quali versavano le provincie napoletane allorché avvenne il rivolgimento


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politico dell'anno 1860; ed eccoci naturalmente condotti a discorrere delle cause prossime ed immediate dell'attuale brigantaggio; poiché, giova non dimenticarlo, quelle delle quali abbiano tenuto fin qui ragionamento sono soltanto le cause generali predisponenti al crudele flagello.

Ogni mutamento politico è cagione necessaria di crisi, e questa assume la forma che più si addice alla tradizione, alle consuetudini, alla storia del paese, dove il mutamento si avvera; e quando ciò avviene in un corpo sociale afflitto da longeva infermità, è inevitabile che la crisi non si restringa, entro i limiti politici, ma trapassi anco nei sociali. Le provincie meridionali non solo hanno dovuto soggiacere a questa legge generale della istoria, ma hanno anche dovuto sperimentare un' altra volta, e sarà l'ultima, i tristi effetti del maltalento e del malvolere di coloro che per tanti anni le hanno manomesse ed avvilite. Fra le cause prossime perciò ed immediate del brigantaggio vanno annoverale, e quelle che fatalmente erano inerenti alla natura delle cose, e quelle che sono derivate dai biechi propositi della dinastia esautorata. Il rivolgimento politico del 1860, muovendo dal santo concetto di nazionalità, ebbe a manifestarsi con forme maestose e solenni, ed all'intutto degne del grande principio, del quale consacrava il trionfo: gli animi, assorti nella contemplazione dell'imponente spettacolo di un popolo che viene ad essere di nazione, non potevano preoccuparsi di altro: e frattanto mentre il moto nazionale si svolgeva nelle provincie meridionali, già incominciavano gli apparati alle male opere contro i diritti e le franchigie della nazione. Presago della sorte che l'aspettava, fedele alle consuetudini di famiglia ed ai dettati paterni, Francesco II si. apparecchiava a turbare con le insidie la pace di quelle provincie, che con le animose opere ed il coraggio non aveva saputo conservare. I primi semi della mala pianta dei brigantaggio furono gettati negli ultimi giorni del regno borbonico. Era la freccia avvelenata del Parlo fuggente, che la moriente dinastia scagliava contro l'Italia trionfante. Nei mesi di luglio e di agosto 1860,


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mentre nelle apparenze si dichiarava di voler promuovere e proteggere le libertà costituzionali, venivano apparecchiate in segreto le fila della reazione, nella quale, come in maggio 1848, si sperava soffocare il moto nazionale. Gli antichi impiegati furono conservali nelle intendenze, nelle cancellerie municipali, nelle giudiziarie: gli antichi capi urbani furono assunti alle cariche d'uffiziali della guardia nazionale: la truppa era autorizzata alla rapina ed al saccheggio: le carceri e le galere a disegno mal custodite. In meno di una settimana un dugento fra galeotti e carcerati, evasero da Castellammare e da Avellino. Prima di abbandonare Napoli, Francesco II emanava un decreto che apriva a molti immediatamente, ad altri in poco volger di tempo, le porte delle prigioni. Era un disegno di reazione all'intutto premeditato; e di fatti io alcune località, come per esempio a Bovino, dove o vinse eccessiva impazienza, oppure non era stato trasmesso a tempo opportuno il necessario motto d'ordine, i tentativi di reazione ebbero principio anche prima della partenza di Francesco II da Napoli. Il Borbonismo non essendosi potuto conservare con l'inganno, non essendo più riuscito a trarre in errore nessuno con le lusinghiere promosse, ricorreva all'antica consuetudine, pigliava la forma, per cui sortì vittorioso nel 1799, quella del brigantaggio. Nell'ottobre dei 1860 la bandiera borbonica sventolava ancora sulle mura di Capua: dalla riva destra del Volturno fino al confine romano regnava ancora Francesco II: ed in quell'andar di tempo per l'appunto si formavano le bande del Lagrange, le quali si reclutavano fra i contadini più miseri e più cenciosi di quella parte di Terra di Lavoro, e recavano dovunque passavano la devastazione ed il saccheggio; assalivano parecchi paesi, fra' quali la città di Arpino, che strenuamente difesa dai suoi cittadini, le sbaragliava e le respingeva. Il contadiname fu dovunque aizzato ed associato ai gendarmi ed alle truppe. A Castelmorone, a Piedimonte, a Caiazzo, a Casolla i volontari dell’esercito meridionale ebbero a combattere contro contadini armati. I sanguinosi casi d'Isernia furono


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opera di feroce accozzaglia di soldati e di plebe: le bande del Giorgi negli Abruzzi erano composte da gente vaga di saccheggio e rapacissima. Cotesto Giorgi insieme ad un ufficiale dell'esercito borbonico, arringando i contadini nella piazza di San Germano, per persuaderli ad ingrossare le bande devastatici, diceva: “Francesco II vuol finirla con questi galantuomini, che vi fanno del male. Egli m'incaricò di dirvi che vi darà tutti i loro beni e le loro case. Ho anche incarico dal papa di benedirvi e e assolvervi dai vostri peccati. Tutti sanno che nel gergo locale galantuomo vuoi dire chi porta abito, chi possiede qualche cosa.

Ora le parole testé riferite svelano chiaramente il concetto borbonico, che è quello di operare la ristorazione per mezzo della guerra sociale, aizzando le passioni ed i risentimenti del povero contro il ricco o l’agiato, del proletario contro il possidente. Caduta Capua, il regno di Francesco II fu ristretto entro le mura dell'assediata Gaeta, e Chiavone incominciava le sue gesta: tenne la città di Sora per alquanti giorni, e quando ne fu scacciato dalle milizie regolari si diede a fare il brigante in campagna. I soldati dell'esercito borbonico nell'andarsene alle loro case avevano il motto d'ordine di ciò che dovevan fare in primavera; e perché non sorgessero equivoci, ognuno di loro riceveva un anello di una forma particolare, che doveva servire di segnale di riconoscimento. Fin dai primi giorni adunque della liberazione delle provincie napolitane appare evidente quella complicità attiva, efficace, sciente tra il Borbonismo ed il brigantaggio, che sussiste tuttora, e che avremo occasione nel prosieguo della nostra esposizione di additare alla Camera con documenti irrefragabili ed autentici. Giova pure ricordare a questo proposito, che sui primi giorni della dittatura dei generale Garibaldi, numerosi e disperati tentativi di reazioni sanguinose vennero fatte ad Ariano, a Montemiletto, a Castigiole, a Carbonara (in provincia di Avellino), a San Marco in Lamis, a San Giovanni Rotondo, e pressoché in tutti i paesi della regione


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garganica ( in provincia di Foggia ) ed in altre località. II primo nucleo della banda di Cipriano della Gala, che poi per tanto tempo menò strazio in Terra di Lavoro e nelle provincie circostanti, apparve parimente in quel medesimo frattempo. Mentre dunque si andava attuando un grande mutamento politico, il quale di necessità doveva spostare e ledere molti interessi, urtare molte suscettività, offendere tanti amor proprii e produrre perciò inevitabilmente una generale perturbazione nelle cose e negli uomini. Il brigantaggio sorgeva sotto gli auspicii e dietro l'impulso di coloro che soli potevano ripromettersene vantaggio, vale a dire della dinastia borbonica. Senza mancare mai delle sue vere caratteristiche, il furto, cioè, il saccheggio e l'assassinio, il brigantaggio nei tempi delle sue prime manifestazioni teneva più dell'indole politica, la quale poi andò successivamente dileguandosi, finché non riprese le sembianze di guerra sociale senza cessare con ciò di essere aiutato e sostenuto da coloro medesimi che primi lo accesero e lo promossero. Ond’è che a noi sembra questione all'intutto oziosa il definire se il brigantaggio sia esclusivamente politico oppure esclusivamente sociale, essendo evidente che se nella essenza è il sintomo di un profondo male sociale, non cessa dall'essere adoperato ed usufruttuato per fini meramente politici. Il partito politico, che non vergogna di cercare i suoi proseliti ed i suoi paladini tra gli assassini ed i ladri, toglie ad altri la molesta cura di giudicarlo: facendosi complico del brigantaggio, accettandone e sollecitandone l'alleanza, pronuncia la severa ed inappellabile condanna di sé medesimo. Raccoglie vinto tutta l'infamia, e quando (facciasi per un momento un presupposto impossibile) trionfasse, non detterebbe, ma riceverebbe la legge dai suoi alleati, e dovrebbe ricorrere, per disfarsene, ad artificii ignobili e scellerati, come in quello della capitolazione con i Vandarelli.

L'elemento borbonico adunque, profittando dello spostamento d'interessi e della generale perturbazione inevitabilmente prodotta dal movimento politico, scatenò


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sulle povere provincie napoletane la furia del brigantaggio. Questa fu nel 1860 la prima causa prossima ed immediata dello scoppio del flagello. Le fila degli assassini non indugiarono ad ingrossare: le recluto erano belle e pronte. Le reazioni qua e là succedute erano state represse e non sempre senza trasmodare; e non tutti coloro che le avevano istigate e capitanate caddero nella mischia, ovvero furono fatti prigionieri; molti fuggirono, e non trovando altro scampo si diedero in campagna. Aggiungasi che in parecchi casi la repressione aveva oltrepassato i limiti della legittima difesa, ed aveva servito di facile pretesto a sfogo di privati rancori, di personali vendette; quindi in molti il desiderio di vendicarsi alla loro volta e di lavar col sangue le offese di sangue. Come raggiunger lo scopo? Parteggiando per i briganti, accompagnandosi ad essi, accrescendo il loro numero. Le gare e gli odii personali, nei piccoli paesi soprattutto singolarmente vive e tenaci, porgevano in questa guisa nuova esca all'incendio. A Cervinara, a Sansevero, in altri luoghi avvennero altre reazioni, ed il risultamelo fu il medesimo. Dall'altro canto le carceri mal guardate e mal custodite fornivano pur esse un pericoloso e non iscarso contingente al brigantaggio. Le evasioni dei galeotti furono facili e numerose, ed il posto dei facinorosi sfuggiti alla severità della giustizia punitrice era naturalmente presso i briganti. Lo scioglimento dell'esercito borbonico conferì pure, come è agevole il prevedere, a produrre lo stesso effetto. Le consuetudini di quell'esercito non erano per fermo quelle di una regolata ed austera disciplina; i soldati erano avvezzi al furto, al mendacio, ad ogni maniera di dissolutezza e di iniquità. Ai più pervertiti tra essi parve preferibile di andare a raggiungere i briganti, anziché tornare alle pacifiche occupazioni del lavoro nel seno delle loro famiglie. Importa peto osservare che in sulle prime il contingente fornito dagli sbandati dell'esercito borbonico al brigantaggio non fu così numeroso, come poteva ragionevolmente temersi; diventò invece assai grande allorché vennero nuovamente


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richiamati a prestare il servizio militare. La prima leva del brigantaggio fu dunque composta dagli evasi di galera, dai perseguitati per le reazioni debellate, dagl'imputati di delitti o misfatti non assicurati alla giustizia, dai condannati in contumacia, dai disertori, dai renitenti alla leva, da tutti coloro insomma che avevano conti aperti con la4 giustizia, dagli sbandati e dai miserabili spinti dall'avidità del bottino e del saccheggio. Ha più del rinvio degli sbandati il loro successivo richiamo sotto le bandiere fu cagione di grande recrudescenza nelle reazioni, e quindi nel brigantaggio.

Nella primavera dell'anno 1861 le bande cosi ingrossate crebbero di baldanza e di audacia fino al segno da aggredire borgate e città. Crocco con la sua banda percorse il circondario di Sant'Angelo dei Lombardi, predando, taglieggiando, uccidendo, ponendo a ruba ed a sacco Caliti, Monteverde, Conza, Teora. Le milizie nazionali della provincia di Avellino accorsero a combattere le infami orde, le quali furono disfatte ed inseguite fino a Venosa e Melfi. In quel circondario commisero nuove immanità e nuovi orrori; entrarono in Melfi, dove tra le feste e le acclamazioni Crocco inalberò la bandiera bianca. Il brigantaggio proseguiva in tal maniera a serbare una tinta politica e ad associarsi palesemente alla causa della caduta dinastia. Furono riposte in seggio le autorità borboniche, e fatta la proclamazione di Francesco li a re delle Due Sicilie. All'appressarsi delle forze che fu possibile raccogliere i briganti fuggirono, ed il loro tentativo di reazione non ebbe seguito. In quella occasione comparve per la prima volta la compagnia di militi a cavallo comandata da Davide Mennuni, la quale allora e poi rese segnalati servigi nella repressione del brigantaggio.

A cotesta recrudescenza di tentativi reazionarii dava occasione, come poc'anzi dicevamo, il provvedimento del richiamo degli sbandati. Alcuni di costoro si erano già dati in campagna, ma il maggior numero stavano tranquilli, apparentemente almeno, nelle proprie case.


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L'annuncio del richiamo tornò loro sgraditissimo. L'esecuzione del provvedimento peggiorò le cose, poiché si erano ommesse le opportune preparazioni. Non erano nemmanco stabiliti depositi, talché quelli che si presentarono, non trovandosi nulla in pronto, erano rimandati, e poi richiamati di bel nuovo. In taluni casi il rinvio ed il richiamo vennero praticati per ben tre volte successive. Non pochi,per isfuggire all'obbligo del servizio militare, esibirono congedi falsi, no mancò chi, profittando dell'occasione,facesse di questa frode una vera speculazione. Pare diffatti che quei congedi falsi ascendessero ad oltre 30,000. Cotesti sbandati richiamati furono i principali strumenti dei nuovi tentativi di reazione che vennero fatti in alcune provincie, segnatamente in quelle di Avellino e di Bari nel mese di luglio dell'anno 1861. Il giorno 7 di quel mese 31 comuni della prima di dette provincie inalberavano la bandiera bianca; la città stessa di Avellino era assai minacciata. La poca truppa disponibile e volonterosi cittadini mossero per domar la ribellione. La resistenza in alcuni luoghi fu accanita, ma dovunque fu superata. La reazione fu successivamente debellata a Candida, a Ghiusano, a Montemiletto, a Montefalcione, a Lapio. Queste reazioni, come abbiamo detto, ebbero a principali strumenti gli sbandati richiamati sotto le armi, e vennero pure istigate dal clero, il quale era singolarmente esasperato dalla promulgazione della legge del 17 febbraio sui beni dei conventi. A Gioia, popolosa e fiorente città di Terra di Bari, i briganti irruppero nell'abitato, ma dopo lungo e vivo combattimento furono vigorosamente respinti da quei bravi abitanti e da quella ottima guardia nazionale. Fra i campioni della reazione era un Pasquale Romano, già sergente nel disciolto esercito borbonico, il quale, essendo riuscito a porsi in salvo, si fece capo di quella comitiva di briganti, che fino a gennaio scorso infestò molta parte delle Puglie, e che da lui s'intitolava li compagnia del sergente di Gioia. Questo fatto porge la dimostrazione evidente dell'intimo nesso che nelle provincie meridionali corre tra la reazione ed il brigantaggio.


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La reazione, vinta nelle città, è brigantaggio nelle campagne, nello stesso modo in cui le rare volte che il brigantaggio è riuscito ad entrare in qualche abitato si è subito confuso ed immedesimato coi la reazione. Sarebbe succeduto lo stesso pochi mesi dopo, nell'anno medesimo, allorché lo spagnuolo Borjes tentò una ribellione a favore dei Borboni. Perseguitato dai Calabresi prima, e poi combattuto ad oltranza dagli abitanti di Basilicata, si vide ridotto a diventare non un guerrilliero, ma un capo di masnada, come Crocco e gli altri della stessa risma, e quindi preferì fuggire. Fu l'ultima volta in cui per numero e per forza il brigantaggio pigliò proporzioni rilevanti. Se Borjes avesse potuto sortir l'intento, gli orrendi casi del 1709 si sarebbero rinnovati, ed il brigantaggio avrebbe un'altra volta fatto ricuperare il trono alla famiglia borbonica. Epperò anche prescindendo dalle ulteriori prove che saremo per allegare, della complicità tra i borbonici ed il brigantaggio ci pare possa fin d'ora considerarsi come punto assodato che quella dinastia li quale non ha saputo reggersi quando aveva a sua disposizione un esercito di 100 mila uomini, ed una falange d'impiegati e di sicari, ha cercato, dopo aver perduto il trono, di ricuperarlo col sussidio degli assassini. Alla vergogna della fine ingloriosa si aggiunge ora quella maggiore delle male arti per conseguire il ritorno impossibile.

Generato dalle cause predisponenti, delle quali abbiamo fatta l'enumerazione, prodotto e promosso dalle cause immediate e prossime testé rammentate, il brigantaggio si è, per così dire, accampato nelle provincie continentali del mezzodì d'Italia, e, comecché in via di evidente declinazione, dura ed arreca danni di ogni maniera nelle persone e nelle cose, e nell'animo delle tormentate popolazioni desta Io sconforto e l'ansietà, che sono il portato inevitabile della mancanza di quella prima necessiti di ogni ben ordinato vivere civile, che è la sicurezza delle persone e delle proprietà. Ma quali sono i motivi della tenace permanenza del brigantaggio?


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La risposta a questa interrogazione implica Tesarne delle cause che alimentano il brigantaggio, e quello delle ragioni per cui i rimedi finora adoperati siano stati inefficaci. Questo duplice esame è inseparabile, poiché evidentemente la persistenza delle cause non può non conferire alla inefficacia dei rimedi, e questa alla sua volta mutandosi in cagione, conferisce alla durata ed alla tenacità del male. Ora le cause per le quali il brigantaggio tuttavia sussiste, e non cede all'eroica costanza, all'indomito valore dei nostri soldati, sono chiaramente indicate dalle vicende di quegli ultimi due anni. È una dolorosa responsabilità che non compete a nessun partito politico e che in pari tempo compete a tutti; è una concatenazione di fatti, della quale vanno chiamati in colpa e le cose e gli uomini in genere, nessuno in particolare. Un grande disordine sociale, com'è il brigantaggio, non può non ricevere alimento da un grande lavorìo di ricomposizione politica, com'è quello a cui oggi 6 intenta l'Italia. è una fatalità della quale la ingiustizia delle parti politiche può a vicenda accagionare l'una all'altra la responsabilità, ma che in realtà spetta a tutte od a nessuna. Dal giorno in cui la dinastia borbonica cessò dal regnare, il principio politico del nuovo governo delle provincie napoletane è stato indubitatamente il medesimo, quello vale a dire della unità monarchica e costituzionale; ma i rappresentanti, gli esecutori del concetto sono stati diversi, ed hanno adoperato per attuarlo sistemi e mezzi diversi. E tutti hanno commessi errori: e chi ponga mente alla straordinaria novità dei casi, consentirà di leggieri che non potevano non commetterne. L'Italia soggiace ad un lavoro di trasformazione, del quale non porgono riscontro le istorie; lavoro pieno di grandezza e di gloria, irto di difficoltà, le quali debbono essere necessariamente maggiori io quelle provincie dove maggiori furono le sventure passate, e quindi più ampio e più profonde le piaghe per essa prodotte. Commisero errori e il governo della dittatura, e quelli delle quattro luogotenenze, e le successive amministrazioni; le stesse buone intenzioni arrecate da chi succedeva nello


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emendare gli errori di chi lo aveva preceduto accrescevano il numero di questi e la intensità dei cattivi effetti. Il rapido succedersi degli uomini ingrossava le incertezze, accresceva le oscillazioni governative connaturate ai principii di qualsivoglia reggimento politico: e queste incertezze, queste oscillazioni comparivano maggiori agli occhi di popolazioni le quali, perché aveano eccessivamente sofferto, eccessivamente speravano, e non si figuravano, né lo potevano, che alla miracolosa prontezza dell'opera della distruzione fosse per succedere tanta lentezza nell'opera della riedificazione. A popolazioni avvezze a veder fatto il male in modo istantaneo non poteano non parere inesplicabili ed essere intollerabili gl'indugi e le lungaggini non evitabili nel fare il bene. Quindi una naturale inclinazione al dubbio, al sospetto, alla sfiducia, al malcontento: ragioni tutte di debolezza, e fomite perciò, non rimedio, al disordine sociale già esistente. Né la nozione vera della nuova forma di governo poteva ad un tratto acquistare nelle menti e nelle coscienze il vigore che ingenera e mantiene la fiducia; né il falso ed illiberale concetto della onnipotenza assoluta del Governo nel bene e nel male poteva essere sradicato ad un tratto; onde la tendenza ad accusare il Governo del bene non fatto, dei mali non riparati, a continuare a discorrere di esso come di cosa affatto distinta e separata, se non avversa dalla nazione, e chiamarlo in colpa della stessa eredità di falli e di mali passati, ad assegnare a mal volere gli errori inevitabili, ad interpretare come debolezza lo stesso ossequio alle leggi ed ai riti costituzionali. Lo stesso retaggio delle ricordanze Ì3toriche conforma gli animi in queste disposizioni. Ricordano le popolazioni che nel 1799 i Bortoni cacciati dal regno, tornarono; che nuovamente scacciati nel 1806, nuovamente tornarono; che nel 1820 gli ordini dello Stato furono mutati a libertà, ed a capo di pochi mesi per inganno e per violenza restituiti a despotismo; che nel 1848, nel breve giro di tre mesi, avvenne lo stesso. Queste ricordanze incontrano senza dubbio grande ostacolo nella potenza del sentimento ntzio


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sale, e nella progrediente coscienza del nuovo non più veduto ordine di cose; ma i loro influssi non possono essere ad un tratto annientati, e non è a stupire traggano da essi alimento colpevoli speranze e paure miserabili.. Da questo complesso di cose torna agevole inferire come abbiano a grandeggiare le difficoltà nel periodo che intercede tra la distruzione degli ordini vecchi e la instaurazione dei nuovi, tra la cessazione del regno della forza e l'inaugurazione, o, a dir meglio, l'attuazione di quello della legge. Il giorno in cui sarà compiutamente attuato in quelle provincie il sistema della legalità costituzionale, superiore a tutti i partiti, protettrice di tutti i diritti, vindice imparziale di tutti i torti, gli argomenti ed i pretesti di sfiducia cesseranno ed ognuno accorrerà fidente a riparare all'ombra d'una legalità, che non è privilegio di nessuno in particolare, ma di tutti, senza eccezione.

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Nelle incertezze adunque dell'indirizzo governativo, nei facili e continui mutamenti di persone, nelle apparenze d'instabilità dell'attuale ordine di cose, il brigantaggio attinge ragioni di forza e di durata. Né minore è l'alimento che esso riceve dai ci tu di ai dissensi, i quali, pili che altrove, sono dannosi nei piccoli paesi, dove facilmente i privati rancori, le personali querele assumono forma e sembianza di contrasti d'opinione, di dissidi! politici, e dove sovente il paleggiare politico di un individuo è determinato dalla considerazione di quello a cui si è appigliato un altro, con cui quegli ebbe qualche contesa o verso di cui nutre qualche risentimento, inclinazione che ò pure essa eredità non facilmente destruttibile del passato sistema. Esso viveva né poteva altrimenti vivere, suscitando diffidenze, animosità, discordie tra cittadini, le quali per naturale riazione dovevano, caduto quel sistema, essere surrogate da odii appassionati, da rancori né facilmente né prontamente estinguibili. Questa reazione fu naturale, ma non andò esente


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dal peccato di tutte le reazioni, quello cioè di trapassare! giusti confini e di trasmodare: ond'è che l'epiteto borbonico fu regalato con la stessa profusione con cui la polizia borbonica dispensava altre volte la patente di attendibile: e tanti e tanti che di cose politiche poco o nulla curavano e dei Borboni non erano giammai stati ligi, si trovarono, senza che il sapessero e senza che il volessero, creati borbonici. Il guasto prodotto da cosiffatte pare non è stato scarso, né di lieve entità, ed i cattivi effetti apparvero visibilmente nell'ordinamento dei municipii e delle guardie nazionali. Le ambizioni locali si destarono vivaci e ardenti, le cariche di sindaco, di ufficiale della milizia nazionale furono molto agognate, ravvisandosi in esse un mezzo efficace a dominare sugli altri, e non di rado a sfogare personali vendette. Il sistema elettorale nuovamente introdotto non poteva non risentire nella prima sua attuazione i poco propizi effetti di cosiffatta condizione di cose: e conseguentemente ne fu tutto viziato. Dal momento che la fascia del magistrato municipale e le spalline dell'ufficiale di guardia nazionale erano considerate come facoltà di potere e di prepotere sembra evidente che dovesse avvenire ciò che è avvenuto. Le più essenziali franchigie di popolo libero, male usate tornavano in tal guisa a detrimento dell'ordine, delle quali esse sono la più efficace custodia ed il più saldo puntello: e per necessità di contrapposto porgevano nuovo alimento al disordine sociale ed al brigantaggio, che di questo è l'immediata conseguenza. Né su questa causa • su questi effetti può affacciarsi il menomo dubbio: la testimonianza dei fatti a questo riguardo è categorica e positiva, e non patisce contraddizione di sorta alcuna. Il grado d'intensità del brigantaggio va misurato in ragione inversa di quello della maggiore o minore concordia che regna nei paesi, là, dove quella concordia è grande o non è brigantaggio, oppure è di poca entità; ed in ogni caso quando si mostri, è vigorosamonte combattuto e respinto: là dove all'incontro, o è scarsa la concordia oppure infierisce la discordia, il brigantaggio sussiste e manomette proprietà


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e persone, lino dei pochi paesi di Basilicata, immune da briganti, è la piccola borgata di Vietri, collocata al limitare della provincia e di quella di Salerno: è una di quelle: fortunate località, dove non sono gare civili. Atina, amena e bella borgata della provincia di Terra di Lavoro, è abitata da una popolazione buona ed unita: possiede un ottimo sindaco, un ottimo capitano di guardia nazionale: non fu mai travagliata da brigantaggio, ed allorché questo rumoreggiava nelle vicine contrade, Atina non chiedeva soccorso di truppe, dichiarando bastare la sua guardia nazionale ai bisogni della difesa ed anche alle offese. Più ardenti sono le gare civili nella Capitanata e nella Basilicata, ed ivi il brigantaggio è più che altrove pertinace. L'anno scorso i malfattori entrarono in due grosse borgate di Terra di Otranto, Grottaglie (nel circondario di Taranto), Carovigno (nel circondario di Brindisi), recando sterminio, saccheggiando, uccidendo: ivi erano malvagie: autorità municipali, indegne guardie nazionali. A pochi passi da Carovigno il piccolo paese di San Vito, unito e concorde, opponeva gagliarda resistenza ai briganti e li respingeva. A preservare Erchia, altro paese dello stesso circondario, dalla selvaggia irruzione, bastavano quattro cittadini volonterosi, i quali si davano a tirar fucilate contro i briganti e li fugavano. Ulteriori citazioni di casi dello stesso genere sarebbero all'intatto superflue. Il fatto è costante: i paesi, e disgraziatamente non son pochi, travagliati da intestini dissidii, i cattivi municipii, le cattive guardie nazionali sono efficace alimento al brigantaggio.

Composti in un'epoca nella quale non era ancora ben manifesta la nuova importanza che acquistavano, i municipii non hanno saputo sorgere il più delle volte all'altezza del loro ufficio. Altra volta un sindaco, un decurione profittava della carica per perseguitare i proprii nemici, anatemizzandoli come liberali: oggi ad alcuni sindaci pare conveniente fare altrettanto, minando nomenclatura, chiamando cioè borbonici i proprii nemici: altri non si curano di niente: altri, senza più, aiutano


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le macchinazioni borboniche e congiurano coi briganti. Lo scandalo di sindaci e di ufficiali di guardia nazionale, manutengoli di briganti, si è avverato in parecchie località. E le amministrazioni comunali in genere procedono languidamente; gl'interessi del popolo non sono tutelati: in Basilicata quattro o cinque Consigli municipali hanno osato dichiarare in pubblica adunanza non essere necessario di provvedere alla istruzione primaria. Il municipio di Bisaccia in provincia di Avellino ha un'annua rendita di ducati 20 mila: io quel comune, tranne una mediocre scuola maschile, non c'è insegnamento. Le guardie nazionali alla lor volta furono pure composte con fretta soverchia e senza le volute precauzioni; troppo numerose le liste; chiamati al servizio attivo anche i poveri braccianti, i quali, prestandosi, perdono il guadagno di cui hanno d'uopo per la loro sussistenza; quindi la poca coesione delle milizie e la poca probabilità di giovarsene nei momenti di pericolo. Non è a dire quanto disordine da tutto ciò derivi. A questo modo le più provvide istituzioni rimangono sterili e le migliori guarentigie di libertà si trasformano in elementi di perturbazione.

Né dobbiamo trasandare dal dire, che oltre gli accennati motivi, i quali rendono ragione del cattivo ordinamento e del peggiore andamento delle amministrazioni municipali, avvene un altro, i cui influssi non sono meno perniciosi. Ogni municipio possiede un elemento che, per conformarci alla locuzione ormai sanzionata dall'uso, chiameremo burocratico; il quale, quantunque dipendente dagli ordini dei rappresentanti il comune e quindi affatto subordinato, non cessa però dall'avere molta e continua ingerenza nelle faccende municipali. Ora, questo elemento in molte località procede dall'antico, o, per dir meglio, non è mutato da quello che era ai tempi del cessato governo borbonico: dimodoché, per l'istinto della consuetudine, se non altro è imbevuto degli spiriti e della tradizione borbonica, e adopera in conformità di questi spiriti e di questa tradizione, non in obbedienza delle nuove leggi. In molti comuni del napolitano il segretario


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del Consiglio municipale è oggi quel medesimo che era ai tempi del decurìonato borbonico: anzi, non di rado avviene che abbia maggiori e più efficaci ingerenze di quelle che avesse allora. I nuovi sindaci, per negligenza taluni, altri per difetto di esperienza, lasciano fare a cotesti segretarii, talché l'antica cancelleria comunale sussiste, a malgrado dei nuovi ordini e delle leggi nuove, procede col vecchio sistema, rimane fedele alla vecchia consuetudine. È un pezzo dell'antico fusto, innestato al nuovo albero, e che di certo non lo vivifica, ma lo guasta e corrompe.

Ricorderemo all'uopo un fatto, il quale non ha mestieri di commenti. In un comune della provincia di Terra di Lavoro, il segretario comunale pattuiva per data somma di danaro, di non comprendere i contadini nella lista per la coscrizione: quel comune era chiamato dalla legge a fornire 13 reclute, e frattanto annoverava 50 latitanti! Di esempi cosiffatti della permanenza dei vecchi abusi pur troppo non v'ha inopia, e quali deplorando effetti sortiscano nella pratica ci sembra perfino soverchio dichiarare. L'antico tarlo della corruzione e della venalità attossica nel nascere le nuove provvide istituzioni, e mentre impedisce che esse attecchiscano e prosperino, corrobora sempre più negli animi delle popolazioni quel funesto sentimento di sfiducia nella giustizia, che tanto importa distruggere. L'argomento vittorioso a prò del nuovo ordine di cose, quello che più persuade le popolazioni ò il potere ad essa dimostrare con l'evidenza dei fatti, che in tutti i rami della cosa pubblica campeggia e regna la giustizia; e che questa è a tutti equamente impartita senza considerazione di rango, di fortuna, di antecedenti politici: se ciò esse non veggono con i proprii occhi, e non toccano con mano, vano è sperare che acquistino fede nella potenza dei liberi istituti e credano cordialmente ai benefizi dell'unità nazionale. Le operazioni della leva porgono la prova palpabile di questa asserzione. Nel 1861 quelle operazioni procedettero in conformità dell'antico sistema con tutto il corredo degli antichi abusi: il loro


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risultamento non fu splendido. Nel 1862 invece si è proceduto con le nuove leggi e col nuovo onesto sistema, ed il mutamento ha sorpassato le migliori speranze. Le popolazioni hanno veduto che si faceva giustizia davvero: che non si esentava dal tributo del servizio militare chi aveva più danari, ma bensì chi a termini di legge doveva essere esentato: e la leva ha avuto un esito che, senza tema di esagerazione, può esser chiamato magnifico. Basti dire che perfino nelle regioni garganiche il numero dei renitenti è stato scarsissimo. In una città della provincia di Bari, Corato, nove soli fra gl'inscritti mancarono all'appello, e fatte le opportune indagini si venne in chiaro che erano nove briganti od uccisi od arrestati! Le operazioni della leva del 1863 non solo hanno provveduto alte necessità del servizio militare, ma, come opportunamente ci si faceva riflettere da un presidente di un Consiglio di leva, esse hanno fatto, a motivo del mode con cui sono state condotte, un salutare e benefico apostolato di moralità e di libertà. Differenziare in modo evidente il nuovo dall'antico, testimoniare con l'eloquenza dei fatti che il nuovo si discosta dall'antico, tanto quanto dall'ingiustizia la giustizia: ecco il mezzo migliore di far germogliare negli animi delle popolazioni meridionali il sentimento di fede nella stabilità e nella durata del nuovo ordine di cose. Il prospero successo della leva del 1862 ha indubitatamente tolto moltissime recluto al brigantaggio; ma questo vantaggio materiale, che è pure rilevantissimo, è superato di gran lunga dal vantaggio morale, da esso arrecato, quello cioè di avere eliminato una causa di malcontento e di disordine, e quindi una potente ragione di essere al brigantaggio medesimo.

Né il tarlo dell'inveterata corruzione rode soltanto le amministrazioni municipali, ma anche le provinciali. È una lagnanza che abbiamo intesa soventi, e che è nostro dovere segnalare all'attenzione della Camera. La stessa piaga burocratica, dalla quale sono róse le amministrazioni municipali, esiste nelle prefetture e nelle sottoprefetture. Ivi sono antichi impiegati, che non hanno smesso


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il cattivo vezzo del mal fare, e con l'esempio corrompono i nuovi, incagliano l'andamento della pubblica amministrazione, e col loro modo di comportarti accreditano sempre più la funesta idea, che il mutare delle leggi e delle istituzioni non ha mutato I' antico mal costume. Il disbrigo delle faccende patisce lunghi indugi, dai quali non sempre torna agevole rendersi ragione ricorrendo a cause ordinarie e regolari. Anche in quelle provincie, alle quali sono preposti prefetti solerti ed operosi, il male sussiste e dura, poiché quando nel congegno della macchina amministrativa serpeggia il vizio della corruzione e della venalità, i suoi movimenti non procedono con la dovuta regolarità: o son troppo precipitosi o troppo lenti, e nell'un caso e nell’altro denotano abbastanza resistenza di uno sconcerto intrinseco e sostanziale di una perturbazione profonda; né v'ha buon volere di prefetto, di consigliere delegato, di sottoprefetto che valga a soffermare gli effetti del male, il quale non può esser curato se non ad un solo modo, estirpando cioè senza titubanza e senza mollezza la cagione, da cui ripete là sua origine. «Volete distruggere il brigantaggio nelle campagne? (ci diceva un ragguardevole cittadino) pensate prima di tutto a mettere la falce nella mala erba della camorra civica, che si annida negli uffizi delle nostre prefetture e delle nostre sottoprefetture, e sarete alla metà dell'opera, ed al brigantaggio sarà tolto uno de' suoi fomiti maggiori ed incessanti». Come la regolarità e la giustizia nella pubblica amministrazione sono la pia potente guarentigia della pubblica sicurezza, cosi la loro mancanza è il più potente alimento del brigantaggio. Anche cotesta burocrazia non è una delle eredità meno pesanti, che il Governo borbonico ha tramandate al Governo nazionale, ed i suoi influssi riescono tanto più perniciosi quanto più difficili sono le condizioni in che versa attualmente l'amministrazione. La quale soggiace ancor essa alle necessità della trasformazione generale, a cui tutto soggiace oggidì in Italia. L'applicazione delle nuove leggi e dei regolamenti nuovi, la necessità della unificazione,


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la novità degli amministratori, la cresciutamele delle faccende sono altrettante gravi difficoltà, che basterebbero solo a generare confusione e disordine, a cui non si può agevolmente ovviare: i portamenti della burocrazia, la sua indole, le sue tradizioni non mutale concorrono a renderle più avviluppate, più inestricabili: ci è stato perfino assicurato esservi impiegati i quali sono i primi a porre in risalto dinanzi agli occhi degli amministrati tutti questi impacci e tutte queste difficoltà, e si compiacciono ad inferirne conseguenze non favorevoli al Governo ch'essi servono. Ond'è che per questi motivi le provincie napoletane sono defraudate dei vantaggi della buona amministrazione. Non mancano per fermo i buoni e capaci amministratori: ed anzi tra prefetti delle provi nei e da noi visitate sono uomini pieni d'intelligenza e di patriottismo, nei quali il buon volere è congiunto alla perizia delle faccende amministrative.

Noi vi abbiamo additato ove giaccia la radice del male. Molti mutamenti sono stati fatti dal 1860 in poi: il progresso nel bene è sensibile: non iscarseggiano gl'impiegati onesti ed operosi; ma la macchina amministrativa non è ancora del tutto svecchiata: né tutte le sue parti si muovono in conformità delle leggi nuove, e dei nuovi principii: ora è evidente che dal conseguimento di questo scopo dipende la buona amministrazione, e che la deficienza di questa è fonte di disordine sociale, e quindi causa di alimento al brigantaggio.

Intorno all'amministrazione della giustizia abbiamo udito dovunque gravi doglianze. Grandi mutamenti sono stati operati nel ramo giudiziario e per quanto concerne le cose e per quanto spetta alle persone. Dal primo maggio 1862 in poi, la legge sull'organico giudiziario è stata applicata alle provincie meridionali, e magistrali, per la massima parte nuovi ancor essi, sono stati prescelti a curare l'esecuzione della nuova legge, ad attuarla in tutta la sua pienezza. Ciò non ostante ci è stato detto che l'amministrazione della giustizia non procede no con quella speditezza, no con quella efficacia che sarebbero


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e desiderabili e necessario; segnatamente per ciò che concerne il giudizio dei reati di brigantaggio, che questi processi procedano, generalmente parlando, senza vigore: tarde e monche le istruzioni; frequenti le sentenze di non farsi luogo a procedere delle sezioni di accuse; scarsissime le condanne; ingente il numero dei giudicabili, che aspettano nelle carceri una decisione sulla loro sorte.

Indubitatamente non è difficile rintracciare i motivi di queste doglianze nella natura stessa delle cose. La magistratura, come tutto nelle provincie meridionali, trovasi ancoressa nel periodo della trasformazione, del passaggio dal vecchio al nuovo: né può ragionevolmente aspettarsi che in tempi di crisi l’amministrazione della giustizia proceda con la pacata regolarità dei tempi ordinari. Nuova la procedura, nuovo il rito, nuovi gl'istituti, nuove le attribuzioni, nuovi i collegi giudiziari: ricco di guarentigie, ma necessariamente pieno di lentezze il sistema dei giudizi! per via dei giurati: accumulati i processi ed ingombre le prigioni di giudicabili per le straordinarie circostanze: diverso il criterio del magistrato da quello delle autorità civili e militari e del pubblico nell'estimazione del grado di imputabilità e della colpabilità: la libertà provvisoria in determinate condizioni prescritta dalla legge e quindi impossibile a negarsi: difficili le prove giuridiche di certi reati: difficile e talvolta impossibile il raccoglierle: scarsi per le distanze i circoli delle assise: mancanza di facoltà nei magistrati a costringere i testimoni a deporre la verità: per la vivacità delle passioni e dei risentimenti politici, per gì' interessi lesi, per i continui pericoli della proprietà e della vita, proclivi le popolazioni alle ingiuste accuse: troppo esigente la pubblica opinione. Tutte queste sono gl'avi e fondate ragioni, e certo nessuna di esse giustifica le severe censure mosse contro la magistratura. La vostra Commissione adempie stretto debito d'imparzialità pregandovi a toglierle in seria considerazione, ma essa non può tacervi come in alcuni casi i fatti, nella loro apparenza almeno, conferiscano gravita a quelle censure: quello a modo di esempio, della sentenza di non farsi


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luogo procedere, emanata dalla sezione di accusa di Potenza a favore di alcuni proprietari di Basilicata, imputati di complicità con Crocco, e le sue orde, i quali notoriamente nell'aprile del 1661, coadiuvarono e festeggiarono l'ingresso di quei ribaldi in Melfi. L'annunzio di questa sentenza ha vivamente commosso gli animi nella provincia di Basilicata: e noi senza menomamente pretendere di innalzarci a giudici della coscienza di quei magistrati crediamo dover richiamare su questo argomento l'attenta considerazione dell'onorevole ministro di grazia e giustizia, al quale come a noi tutti, sta sommamente a cuore di assicurare alla magistratura il prestigio che si può maggiore.

Ma negli ordini giudiziali havvi pure un elemento burocratico, quello delle cancellerie, e non pare che questo vada esente dalla pecca dello stesso vizio d'origine del quale poc'anzi vi favellavamo a proposito della burocrazia municipale e dell'amministrativa. La burocrazia giudiziaria non gode molto credito presso le popolazioni, alle quali talvolta, i cancellieri ed i loro sostituti, ricordano, per le pratiche ed il contegno, coloro che servivano le cessate gran Corti criminali. Ci è stato narrato il caso di un' autorità politica costretta a collocare sotto la vigilanza della polizia il cancelliere ed il sostituto del tribunale circondariale.

Ora non è chi non vegga, come per conservare alla giustizia penale la venerazione e la fiducia che ad essa sono dovute, e senza le quali la sua azione vindice e tutelare rimane sprovvista di efficacia, sia d'uopo che in tutti i rami della sua amministrazione, non escluso quello della burocrazia, prevalga la regolarità più scrupolosa.

Discorrendovi della giustizia penale non dobbiamo tralasciare di far menzione dei giurati. La Camera, ne siam persuasi, udirà con lo stesso compiacimento con cui ne raccogliemmo dovunque il concorde attestato che quella preziosa istituzione di civiltà ha dato fin dai primordi eccellente saggio di sé nelle provincie napolitano. Il qual


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fatto, mentire d deve rinfrancar l'animo interno all'avvenire, giova a reintegrare la fiducia n<?lla giustizia, che necessaria sempre in qualsivoglia comunanza civile, è indispensabile alle condizioni nelle quali versano attualmente le provincie del mezzodì. La mancanza di fiducia nell'azione della giustizia punitrice conferisce in modo incontrastabile alla permanenza del brigantaggio.

Alle cagioni fin qui annoverate s'aggiunge e sovrasta un'altra, la quale, abbenchè vada enunciata in termini negativi, genera effetti disgraziatamente troppo positivi. La molla essenziale e principale di qualsiasi azione contro il brigantaggio manca, vale a dire, non c'è polizia. Non intendiamo con questa affermazione escludere le commendevoli eccezioni, quella segnatamente della questura della città di Napoli, che fornisce egregiamente il suo compito, ed è esempio di solerzia e di vigilanza; ma la massima nella generalità non può essere invocata in dubbio. L'azione incessante e bea diretta di una polizia oculata e sagace è ostacolo poderoso ai progressi del brigantaggio, il quale attinge ragioni di forza e durata appunto nella mancanza di quell'azione. Il brigantaggio non potrebbe sussistere in campagna, se non avesse complici nelle città e negli abitati; e per conoscere e colpire costoro non v'ha altro mezzo che non sia quello della polizia. Ond'è che i briganti scorrono la campagna sicuri per le salde e non interrotte fila con i loro complici nelle città, nelle borgate, nei villaggi. I briganti soggiornano, gozzovigliano, dormono nelle masserie senza che nessuno sappia di loro, talché è occorso alle truppe di trovarsi nelle case dove essi stavano, e di non averli molestati, perché non sapevano che vi fossero. Frequentemente i briganti vedendo avvicinarsi i soldati, nascondono le armi in un solco, dietro una siepe; la marra piglia nelle loro mani il posto dell'archibugio; per subitanea metamorfosi diventano campagnuoli intenti ai pacifici lavori della terra; la truppa sopraggiunge: li vede, non li riconosce, perché dalla polizia non ha informazione di sorta; li giudica ciò che non sono; pissa oltre, e cessalo in tal guisa il pericolo,


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i laboriosi contadini tornano ad imbrandire le armi, si apparecchiano sicuri a nuove rapine, a nuove grassazioni. I nostri militari parlando degli scontri contro i briganti, usano dire: «Abbiamo avuta la fortuna d'incontrare i briganti;» e di fatti raro è che gl'incontri avvengano per anticipata ed esatta informazione; ordinariamente sono conseguenza del caso. Per caso la truppa scopri il ricovero della banda di Palliacello che infestava i dintorni di Cerignola, e la catturò tutta; per caso parecchie volte i lancieri di Montebello s'imbattevano nella banda Caruso e la sbaragliavano» I briganti non di rado entrano nelle città e negli abitati a provvedersi di viveri e di munizioni, talvolta anche a curarsi per infermità o ferite. Non patiscono molestia di sorta. A Matera, per esempio, ci veniva narrato esservi sette od otto briganti, i quali spesso entrano in quella città, e quante volte ci vanno, altrettanto ne escono illesi e liberi. Dalle città e dagli abitati i briganti ricevono vettovaglie, munizioni, bardatura ed altri attrezzi; questi non sono di certo oggetti che si fabbricano in campagna, e quando escono di città non possono andar per aria, non possono non essere veduti; pertanto non ci è occhio di polizia che li discerna e li ferma al passaggio. I briganti mandano ai proprietari le intimazioni per pagare i ricatti; non c'è vigilanza di polizia per i latori di cosiffatti messaggi. Talvolta le autorità hanno stimato dover proibire di tener viveri in campagna; i briganti si sono beffati del divieto, poiché i viveri che non trovavano più in campagna li ricevevano dalla città, senza che la polizia nulla vedesse, nulla sapesse.

Non la finiremmo mai se volessimo moltiplicare a questo proposito le citazioni e gli esempi. I sindaci, a cui la legge municipale affida le attribuzioni di polizia, non le adempiono come dovrebbero; non sanno alcuni, non vogliono altri, temono moltissimi di esercitarle. A quel sindaco forse l'adempimento dell'obbligo suo come ufficiale di polizia costerà un'archibugiata nella schiena; a quell'altro l'incendio di una masseria; a quell'altro chi sa


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qual altro danno. Laonde, nel maggior numero di casi, a scanso di equivoci e di brutte avventure i sindaci non fanno la polizia. I delegati di pubblica sicurezza lasciano pure nella generalità molto a desiderare, non per malvagità di volere, ma per insufficienza d'idoneità. La maggior parte di essi vennero nominati al principiare della rivoluzione, e la scelta non cadde sulle specialità. Bastava allegare qualche merito politico per essere scelto all'ufficio di delegati di pubblica sicurezza. Era un ufficio il quale si dava a coloro a cui non si sapeva che cosa dare, oppure si riconosceva non fossero idonei a disimpeguarne nessuno.

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Dei disonesti tacciamo: per buona ventura sono l'eccezione. Delle guardie di pubblica sicurezza poi niente altro diremo, fuorché essere le spese che si fanno per mantenerle, danaro assolutamente sprecato. Intorno a quelle guardie è unanime il parere e delle autorità di qualsivoglia ordine e della cittadinanza; tutti hanno concordato nel dichiarare che esse non corrispondono menomamente allo scopo col quale vennero istituite, e che anzi invece di contribuire alla conservazione dell'ordine pubblico, sono elementi di perturbazione. Da un servizio di sicurezza pubblica composto nel modo che abbiamo descritto, non può per fermo derivare nessuna sorta di forza contro il brigantaggio, il quale, appunto perché sarebbe estirpato dall'opera vigile ed assidua della polizia, se polizia ci fosse, è rigoglioso e prospera, perché polizia non ci è. Né gl'inconvenienti che abbiamo riferito sono i soli; avvene un altro che non tocca alle persone, ma che pure non è di lieve momento, ed è la mancanza di danaro per lo spionaggio. Pongasi anche un delegato di pubblica sicurezza, capace e solerte, e ve ne sono; ma che può far egli se gli mancano i mezzi pecuniari per procacciarsi informazioni opportune e veritiere? In tempi e im condizioni ordinarie sarebbe già questa una mancanza non esente da inconvenienti, nelle condizioni speciali, ma che


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a motivo del brigantaggio versano le provincia napolitano, questa mancanza produce veri e lamentevoli danni.

Delineandovi però questo quadro del servizio di pubblica sicurezza, ci corre l'obbligo di dichiararvi che in esso non sono compresi i reali carabinieri, il cui contegno sovrasta ad ogni elogio, e la cui opera zelante ed infaticabile è per universale consenso giudicata proficua ed utile. Alla stessa guisa con cui tutti consentivano nel dolersi del servizio delle guardie di pubblica sicurezza, tutti parimente concordavano nel lodarsi di quello dei carabinieri, e nell'attestare i servizi che tuttodì prestano. Per la disciplina, per il coraggio, per la diligente alacrità Dell'adempimento dei proprii doveri, Tarma dei carabinieri ha saputo accattivarsi ed ha meritato la stima e la fiducia dell'universale.

Mentre difetta l'azione della polizia contro i briganti, costoro hanno avuta l'abilitò di sapersene organizzare una a proprio vantaggio, la quale è operosa ed efficace. Così essi riescono ad essere informati con la massima precisione ed esattezza delle mosse della truppa, del giorno e dell'ora in cui essa muove per fare qualche perlustrazione dei luoghi per i quali deve passare, dei provvedimenti delle autorità e perfino dei discorsi che si tengono io città sul conto loro. Hanno perfino un sistema convenuto di segnali, che non li inganna mai. In Capitanata, per esempio, ci è stato narrato che quando la truppa sta per muovere per la campagna, un contadino esce a cavallo di un asinello e s'avvia ad una data direzione; i briganti dalle alture veggono uscire quel contadino, e già sanno ciò significare che la truppa sta per marciare; dalla direzione poi che piglia il contadino sono avvertiti di quella che sta per pigliare la truppa. Quindi la facilità con cui sfuggono alle ricerche e la possibilità di apparecchiare ai nostri soldati gli agguati e le imboscate, che in taluni casi hanno avuto esito così doloroso e così funesto.

Allorché il generale Frauzini divisava l'impresa così felicemente riuscita della distruzione della banda di Ciprjano della Gala per assicurante il prospero successo,


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serbò il più scrupoloso segreto con tutti» ingannò le spie dei biffanti, le popolazioni e le stesse truppe dalle quali l'operazione venne eseguita. Cosi e non altrimenti potè riuscire. Uno dei più ragguardevoli proprietari di Foggia ci narrava di aver avuto un giorno un colloquio col prefetto della provincia, e che la dimane i briganti gli fecero sapere eh' essi erano informati per filo e per segno di tutto quanto in quel colloquio egli avesse detto. I briganti hanno spie nelle città, parte per connivenza, parte per solidarietà di guadagno, parte per paura, parte perché informando i ribaldi ha speranza di salvare la rota. Le spie di campagna sono i miserabili ed i vagabondi. Ad una masseria di Capitanata, appartenente alla famiglia del nostro onorevole collega il deputato Emidio Cappelli, vennero derubate un giorno 125 giumente. La grossa preda fu cosi abilmente nascosta dai briganti, che tutte le indagini per ritrovarla tornarono frustranee. I briganti hanno contezza anche delle determinazioni prese a loro riguardo, ed all'occorrenza sanno approfittarne. Un maggiore dell'esercito ci narrava d'avere un giorno incontrati delle vicinanze di Martina, in Terra d'Otranto, parecchi briganti, 1 quali, vedendosi a mal partito, gettarono le armi. Circondati e catturati furono consegnati al giudice del mandamento di Martina; dichiaravano di aver gettate le armi, perché sapevano che in tal guisa avrebbero scansata la fucilazione.

Ed in quai guisa riescono quei ribaldi ad essere cosi esattamente e così fedelmente ragguagliati? Incutendo spavento e spendendo molti danari; a questo modo essi adoperano a profitto dell’infame mestiere, e a danno della società le stesse armi che, adoperate contro di essi, avrebbero facoltà di porre un termine ai loro delitti ed alle loro rapine. Su questo punto non può sorgere dubbio veruno, non è possibile la controversia; la concordia dei fatti, dei pareri, dene osservazioni è significantissima; massimo lunedio contro il brigantaggio e. ordinamento d'una buona polizia, come massimo alimento al flagello è in mancanza di essa.


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Tutte le cause fin qui annoverate porgono al brigantaggio un alimento morale, incessante, in modo diretto ed anche a motivo del malessere che generano, del malcontento che producono. L'amministrazione che noti procede, le leggi antiche distrutte ma non le usanze amiche, né rimosse dagli offici le persone che quelle usanze praticavano, le leggi nuove o male eseguite o non eseguile affatto, il numero degl'impiegati accresciuto, e gli affari disbrigati ciò non ostante con maggiori ritardi: da fotte queste cose consegue una prostrazione di spiriti, un languore di cui i tristi si studiano continuamente di trarre profitto. Non annoveriamo fra le cause di malcontento i nuovi tributi, poiché siam convinti che il malcontento prodotto da questi non oltrepassa i limiti di quello che le tasse nuove hanno prodotto e produrranno in qualsivoglia paese, e che in realtà essa, qualora non si collegasse con le altre cause accennate, sarebbe cosa poco rilevante. Il malcontento prodotto dalla tassa di registro e bollo più che dalla tassa medesima è derivato dal modo di riscossione. Del resto giustizia vuole si dirà non essere estranea alle popolazioni meridionali l'idea che per compire ed ordinare l'Italia sia d'uopo di grandi sacrifici pecuniali. Il sindaco di una piccola e non ricca borgata di Terra d'Otranto ci diceva: “Dateci la sicurezza pubblica e pagheremo tutte le tasse che il Governo proporrà ed il Parlamento approverà”. L'imposizione delle tasse è fomite inevitabile ma transitorio di malcontento. La radice di questo è tutt'altra. Le popolazioni non si sentono governate, e quindi si credono abbandonate; questa è la radice vera del malcontento.

Ora dal malcontento nasce il malessere, dal malessere una condizione di cose tutta propizia al brigantaggio; e cosi questo riceve un sussidio perenne, un costante alimento morale. Ma il brigantaggio è anche sussidiato da altre cause, le quali materialmente conferiscono alla sua durata ed alla sua conservazione. I briganti posseggono oltre la loro polizia anco i loro banchieri, i loro fornitori e i loro depositi. Hanno d'uopo


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di uomini per rifarsi delle perdite che sostengono, di vettovaglie per nutricarsi, di cavalli per meglio scorrere e fuggire, di foraggi per alimentare quei cavalli, di armi e di munizioni per assalire e per difendersi, di medicinali per curare gli ammalati ed i feriti, di danaro per arricchirsi e per satollare tutte le voglie. Trovano le loro recinte fra gli oziosi, i vagabondi, i miserabili ed i paurosi, che per tema di essere scannati li seguono e partecipano alle loro gesta; ma il nucleo dei loro depositi è nelle galere e nelle carceri, le une e le altre, o difficili a custodirsi per l'ingombro degli abitatori, o mal custodite per mancanza di forze sufficienti, oppure affilate alla vigilanza di gente mal sicura. Né l'attuale servizio della polizia carceraria è tale da impedire le relazioni tra coloro che son dentro e chi sta fuori. Non sempre l'ingresso è vietato con quell'inesorabile vigore che sarebbe mestieri; do» sempre i custodi son gente inaccessibile alla corruzione ed alla venalità. In alcune località, a Brindisi segnatamente, è stato notato che quante volte i briganti si aggiravano nelle vicinanze, gl'indizi di una certa agitazione si appalesavano tra galeotti, e raddoppiavano i tentativi di evasione. Né questi tentativi sogliono essere isolati: raro anzi avviene che carcerati o galeotti fuggano dai luoghi dove erano rinchiusi, senza che tosto si venga a scoprire come le stesse fughe siano avvenute da altri luoghi di detendone o di pena di località anco distanti. I bagni e le carceri, e naturalmente i primi ancor più delle seconde, sono i depositi preferiti dai briganti per rifornire le loro schiere; e con ciò agevolmente s'intende, come in questi ultimi due anni le evasioni dalle galere e dalle carceri sieno state cosi frequenti e cosi numerose: in ogni accolta di facinorosi, di gente colpita dalla giustizia, ò un contingente di brigantaggio bello ed apparecchiato.

Abbiamo detto che i briganti hanno del pari i loro fornitori ed i loro banchieri. Quelli volontari, questi involontarii mossi i primi da maltalento, da avidità di lucro, da desiderio od interesse di disordine, da smania di vendetta; mossi gli altri da paurosa condiscendenza, da


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timore di peggio, da preferenza smodata alla conservazione degli averi e della proprietà; complici, indegni e perversi i primi, condiscendenti talvolta spregevoli, tal altra volta degni di commiserazione i secondi; i primi sodo i manutengoli, i secondi coloro che pagano i cosi detti ricatti, che in seguito, vale a dire, ad intimazioni minacciose od a sequestri di persone sborsano la moneta richiesta dai briganti, od inviano gli oggetti da essi domandati. I manutengoli da una parte, i pagatori di ricatti dall'altra, sono le due vere fonti di sussistenza del brigantaggio, il quale nella stagione invernale segnatamente non potrebbe senza quell'aiuto tenere a lungo la campagna come fa. Il manutengolo, più che complice, è vero fautore e sostenitore del brigantaggio; e il brigante urbano, e qualche volta anche in guanti gialli, assai più spregevole di quello che è in campagna, poiché non affronta nessun disagio, ripone ogni suo studio nelol'evitare diligentemente qualsivoglia rischio e pericolo, congiura nell'ombra, e il più delle volte divide con gli assassini di campagna il bottino ed il lucro. Questi è il fornitore volontario, interessato, infaticabile del brigantaggio; è quegli che manda gli avvisi, che previene i predoni delle mosse delle truppe e dei provvedimenti delle autorità, che li distoglie dal costituirsi dinanzi alla giustizia, che li assicura del prossimo ritorno di Francesco II, e quindi della certa impuniti; che addita loro le case più opulente a derubare, le famiglie più ricche a svaligiare, i proprietari più avversi a trucidare. Colui che paga i ricatti, invece se non è sempre banchiere riluttante del brigantaggio, non può mai dirsi volontario; egli paga od in tutto od in parte la somma che minacciosamente gli sì chiede,» perché teme, non facendolo, gli si bruci la masseria, gli si devasti il lenimento, gli si ammazzino i buoi, le pecore, i cavalli. è un tributo forzato, la cui riscossione è dovuta al timore, ma che sovente è pagato con soverchia fretto.

Non mancano però gli esempi di proprietarii come il principe di Sansevero, che a costo di molti danni non


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hai mai tollerato che i suoi agenti pagassero un sol ricatto alla banda Caruso; o come i fratelli Domenico e Carlo del Sordo, della città di Sansevero, i quali hanno sempre rifiutato di accondiscendere alle minacciose intimazioni de' briganti, talché questi si sono stancati di farne più oltre; o come il sindaco di Anzano, il quale ai briganti che con minaccia di bruciargli la masseria gl'intimavano pagasse un ricatto, rispondeva inviando loro una scatoletta di fiammiferi. I quali esempi, se sono degni di essere altamente commendati, dimostrano pure che chi non vuoi pagare i ricatti non li paga, e che perciò coloro i quali li pagano per lo meno peccano di una arrendevolezza che non può essere abbastanza biasimata.

La facilità con la quale si pagano i ricatti è pur essa un doloroso indizio della poca o nissuna confidenza nella protezione delle leggi e del Governo; essa denota che i proprietarii banno maggior paura dei briganti di quello che abbiamo fiducia nel Governo. E cosi, mediante l'opera dei manutengoli ed il pagamento dei ricatti, il brigantaggio provvede ai suoi bisogni, si alimenta, si sostenta, si procaccia ogni maniera di agiatezza e... diremmo ancora di più, se non cel vietasse un sentimento di verecondia e di pietà. I briganti a questo modo non mancano di niente. Diffatti tutte le volte che i nostri soldati sono penetrati nei loro nascondigli e nelle loro tane vi hanno trovato ogni maniera di provvigioni e di squisitezze: carni,pane, formaggio, vini, liquori, dolci, medicinali e perfino gazzette. Fra le carte rinvenute su) cadavere del sergente Romano, era il numero del 13 dicembre 1862 del giornale la Stampa (napoletana), in cui leggevasi un articolo intitolato: II nuovo Ministero, riboccante di plateali ingiurie contro i ministri e segnatamente contro gli onorevoli Farini, Manca e Pisanelli. Caruso aveva nella Selva delle Grotte un'infermeria largamente provviste di tutto il necessario; nel ricovero di Crocco, nel bosco di Monticchio, abbondavano le vivande, i vini, le provvigioni di ogni sorta. Nel bosco di Lagopesole, ricovero di Ninco Nanco, la truppa eseguendo in gennaio scorso


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una perlustrazione, trovò molti cappotti e biancheria pulita in quantità occultata nelle cavità dei tronchi degli alberi. Talune volte sono stati rinvenuti presso i briganti perfino degli istromenti musicali. Nelle vicinanze di Foggia fu veduto sulla loro mensa pane bianco di ottima qualità col marchio del municipio di quella città. La mala acquistata opulenza sfoggia in tal guisa e conforta il delitto da cui è derivata, ed il lusso della corruzione fa pompa delle sue più ghiotte raffinatezze Dell9 antro stesso degli assassini.

E come se questi sussidi e conforti materiali fossero poca cosa vi si aggiungono anco i morali. La creatura umana più rozza e più depravata non cessa dallo sperimentare di tempo in tempo la necessità di essere sorretta e ristorata da qualche cosa, che non è il cibo né altra soddisfazione materiale: per quanto sien fitte le tenebre, che l'ignoranza ed il delitto possano avere addensato sur animo dell’uomo, esso non cessa mai dall'essere di tratto in tratto travagliato e sospinto da aspirazioni che può non comprendere, ma alle quali non può resistere. Né il brigante sfugge all'imperio di questa necessità: la tetra atmosfera di eccidio e di rapina che ogni momento egli respira non ha facoltà di preservare il bieco sguardo dalla vista di un tenue raggio di luce, e quindi egli è istintivamente costretto a richiedere alla superstizione quel sollievo, che non può attingere nella serena coscienza del sentirsi puro ed incolpabile. Chi gli ammannisce questi conforti, chi gli largisce cosiffatto sollievo? Il ministro di quella religione che più abborre dal sangue e dal misfatto, ed è dispensatrice inesauribile di mansueti e caritatevoli consigli.

Tristo a dirsi, o signori) molta parte del sacerdozio cattolico anche questa volta ha mancato in luttuosi frangenti alla sua missione di pace e di carità. Non parliamo ben inteso di tutto il clero, ma di quella parte di esso che immolando i principii religiosi a' mondani interessi, ed immedesimando la causa della Chiesa con quella di una potestà essenzialmente umana e caduca, ha


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 sconosciuto l'altezza dei suoi doveri, ed ba stretta la mano a tutti i nemici grandi e bassi, palesi ed occulti della quiete e della integrità della nazione italiana. Aizzato dalla legge su i conventi del 17 febbraio 1861, frettolosamente com8 pilala ed improvvidamente promulgata, giacché ebbe il torto di ledere gl'interessi senza schiantare il male dalla radice, commosso a sdegno ed a timore per l'inevitabile fine della moriente dominazione ecclesiastica, cotesto clero dapprima si diede a promuovere le reazioni, e quando queste vennero debellate e sconfitte, invece di raccogliersi: e pentirsi, stese la mano al naturale erede delle reazioni, al brigantaggio. Una sua parola dall'alto del pergamo, un suo suggerimento dal confessionale sarebbero bastati ad allontanare od almeno ad attenuare il flagello, ma quella parola non fu pronunciata, quel suggerimento non fu dato. A noi è stato detto e ripetuto in tutti i paesi che abbiamo visitati, che dal confessionale partono incitamenti e conforti al brigantaggio; non ci sono state, uè potevano esserci allegate le prove giuridiche di quest'asserzione; ma ciò non toglie che essa non esprima un convincimento morale, il quale è profondo ed universale. Certo è che un sol motto profferito dal tribunale della penitenza, ed indirizzato alle donne ed ai parenti dei briganti avrebbe avuto salutare ed immediata efficacia; ora è forse arrischiato presupposto l'inferire dalla mancanza dell'effetto quella della cagione? Se quel motto fosse stato detto i briganti meno induriti e meno pervicaci non avrebbero forse mutato vita? Od alla peggio il numero dei parati a delinquere non sarebbe forse scemato? II pergamo d'ordinario si è taciuto, ma quando non ha avuto ritegno d'affrontare i rigori della giustizia umana ha perorato la causa del brigantaggio, si ò studiato di santificarla, ha tentato il sacrilegio d'innalzare il masnadiere bruttato d'infamie e di sangue alla dignità di martire. Nello scorso mese di dicembre dalla cattedra di una delle più affollate chiese di Napoli, un predicatore diceva: I nostri fratelli i briganti in varie provincie d'Italia riportano la vittoria, e sempre la riporteranno perché


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“combattono contro il Re usurpatore: la Madonna dorrà e farci il miracolo di veder cacciati fuori dal regno gli e usurpatoci”. Ed un altro predicando in altra chiesa della stessa città nella novena dall'Immacolata Concezione prorompeva in questa apostrofe: “Vergine Immacolata, e io non ti crederò più Vergine se tu subito non farai e tornare gli adorati sovrani Francesco e Maria Sofia”. E quand’anche il pergamo si fosse sempre taciuto, il silenzio solo basterebbe ad accusarlo. Solevano altre volte i ministri del santuario usare il pio costume d'invocare dal cielo con solenni preci la cessazione dei pubblici flagelli; ma ciò non è avvenuto questa volta.

Il sergente Romano, capo della banda brigantesca di Gioia, in provincia di Rari, soleva far celebrare, pagandola, una messa nella cappella della Masseria detta dei Monaci, che perciò venne denominata la messa dei briganti, e trovava pronto sempre il cappellano, che invocando le divine benedizioni su quella masnada, osava tentare di far complice di essa il cielo. A Minervino, nella stessa provincia, infermava a morte un caporale del nostro esercito, ed il sacerdote invitato ad amministrare i conforti ed i sacramenti della religione a quel prode che aveva combattuto contro i briganti, spietato glieli rifiutava. A Viesti, nel Gargano, bastò che un sacerdote celebrata la messa dinanzi alle truppe cantasse il Domine salvum fac regem, perché l'arciprete interdicesse la chiesa. In un'altra località invece un brigante entrava in chiesa a cavallo, ed in quella postura ascoltava la messa: né per quanto a noi consti fu pronunciata veruna interdizione. Un brigante del Gargano, soprannominato il principe Luigi, essendo riuscito in uno scontro con i lancieri di Montebello a salvar la vita con la fuga, pensò celebrare lo scampo come portento operato dalla Vergine Santissima, e fece dipingere un quadro nel quale egli era effigiato alle prese con quei lancieri, e dalle loro offese tutelato e serbato incolume dalla Madonna del Carmine. Il quadro fu collocato con religiosa solennità nella chiesa di Monte Sant'Angelo. Il prefetto di Capitanata fece arrestare


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 l'artista da cui la dipintura era stata fatta, ed il sacerdote che si era prestato a quella profanazione. Il tribunale di Lucera (sia detto fra parentesi) rilasciò in libertà l’uno e l'altro. I briganti sono superstiziosissimi: recano sotto le vestì amuleti e scapolari in gran copia: in certi dati giorni, senza mai smettere le uccisioni ed i furti, sono capaci per devozione alla Madonna di non mangiar carne.

“I briganti, ci diceva il prefetto della provincia di Capitanala, sono usi ad ogni stravizzo, ad ogni scelleratezza; eppure fanno dire le messe ai preti, ai quali le pagano largamente”. Un colonnello dell'esercito nostro che passò molti mesi nella stessa provincia di Capitanata, ci narrò una usanza, alla cui attuazione i preti hanno parte. Per farsi io vulnerabili, per rendersi immuni dai pericoli, per affrontare coraggiosamente la morte, i briganti nell'accingersi alle sanguinarie e scellerate imprese si fanno consacrare da un sacerdote, il quale consegna ad essi la sacra ostia, e per mezzo di un taglio gliela intromette alla base del dito pollice. Alcuni briganti non è guari caduti in potere della giustizia hanno dichiarato di avere ricevuto da sacerdoti sacre immagini col suggerimento di mettersele in bocca, e con la promessa che in tal guisa sortirebbero illesi da tutti i combattimenti.

Altri briganti presi nelle vicinanze di Zungoli, circondario di Ariano, recavano sul petto la stella pontificia. “I briganti, ci diceva il generale Villarey, hanno tutti e religione a loro modo; quando possono fanno cantare e le litanie nei boschi; portano addosso le immagini della e Madonna e corna contra il fascino”.

II sergente Romano, di Gioia, mentre teneva la campagna scriveva pietose giaculatorie, ed intitolava gli assassini che dipendevano dai suoi ordini giurati della fede cattolica: essi prestavano un giuramento, la cui formola fu rinvenuta nel suo portafogli quando venne ucciso, che merita di essere integralmente riferita.


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Atto di giuramento e di fedeltà.

“Nel momento medesimo da disposizione superiore si conforme che nell'anno, mese e giorno noi tutti in unanimità di voti contestiamo il presente atto di giuramento e di fedeltà con le seguenti condizioni da noi stabilite con i presenti articoli.

Promettiamo e giuriamo di sempre difendere con l'effusione del sangue Iddio, il sommo pontefice Pio IX, Francesco II, re del regno delle Due Sicilie, ed il comandante della nostra colonna degnamente affidatagli, dipendere da qualunque suo ordine, sempre pel bene de' soprannominati articoli; cosi Iddio ci aiuterà e ci assisterà sempre a combattere contro i ribelli della santa Chiesa.

Promettiamo e giuriamo ancora di difendere gli stendardi del nostro re Francesco II a tutto sangue, e con questo di farli scrupolosamente rispettare ed osservare da tutti quei comuni i quali sono subornati dal partito liberale.

Promettiamo e giuriamo inoltre di non appartenere a qualsivoglia setta contro il voto unanimemente da noi giurato, anche con la pena della morte che da noi affermativamente si è stabilita.

Promettiamo e giuriamo che durante il tempo della nostra dimora sotto il comando del prelodato nostro comandante distruggerà il partito dei nostri contrari i quali hanno abbracciato le bandiere tricolorati sempre abbattendole con quel zelo ed attaccamento che l'umanità dell'intiera nostra colonna ha sopra espresso, come abbiamo dimostrato e dimostreremo tuttavia sempre con le armi alla mano, e star pronto sempre a qualunque difesa per il legittimo nostro re Francesco II.

Promettiamo e giuriamo di non appartenere giammai per essere ammesso ad altre nostre colonne del nostro partito medesimo, sempre senza il permesso dell9 anzidetto nostro comandante per effettuare un tal passaggio. Il presente atto di giuramento si è da noi stabilito volontariamente a conoscenza dell'intiera nostra colonna tutta e per non vedersi più abbattuta la nostra santa Chiesa cattolica romana, della difesa del sommo pontefice e del legittimo nostro re.

Cosi abbracciare tosto qualunque morte per quanto sopra si è stabilito col presente atto di giuramento.

Fatto e stabilito nel giorno, mese ed anno, oggi 20 agosto 1861, e firmato dal proprio pugno del signor comandante della colonna nella nostra presenza.

II Comandante Superiore”.


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Né meno significante di questa formola di giuramento sono le confessioni che un capo brigante, per nome Pasquale Forgione, faceva il giorno 23 febbraio dell'anno corrente in seguito ad apposito interrogatorio in Gesualdo, provincia di Avellino. Siccome il brigante mostrava esser persuaso di aver fatto male e di aver meritato rodio delle popolazioni, gli si chiedeva perché non ti fosse presentato; le sue risposte furono le seguenti:

Domanda. Con questi convincimenti perché non vi siete presentato voi ed i vostri compagni, persuasi che odiati da tutte le popolazioni la vostra vita era in pericolo ogni momento? Storno (1) stesso intimorito dall'esagerato numero dei briganti che si diceva circondavano il paese, appena che era sgombro di due malfattori che vi entrarono, rialzava i stemmi di Vittorio Emanuele, e benediceva il suo nome e la unità italiana.

Risposta. Noi combattevamo per la fede.

D. Che cosa voi intendete per la fede?

R. La santa fede della nostra religione.

D. Ma la nostra religione non esecra i furti, gl'incendi, le uccisioni, le sevizie e tutti gli empi e barbari misfatti che ogni giorno consuma il brigantaggio, e voi stesso coi vostri compagni avete perpetrati?

il Noi combattevamo per la fede, e siamo benedetti dal papa, e se non avessi perduta una carta venuta da Roma vi convincereste che abbiamo combattuto per la fede.

D. Che cosa era questa carta?

A. Era una carta stampata venuta da Roma.

0. Ma che conteneva questa carta?

R. Diceva che chi combatte per la santa causa del papa e di Francesco li non commette peccato.

D. Ricordate che altro conteneva detta carta?

R. Diceva che i veri briganti sono i Piemontesi che hanno toho il regno a Francesco 11, che erano scomunicati essi, e noi benedetti del papa.


(1) Era stato invaso dalla banda cui apparteneva l'interrogato.


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D. In nome di chi era stata fatta quella carta, di quali firme era segnata?

R. La carta era una patente in nome di Francesco II e firmata da un generale che aveva un altro titolo, che non ricordo, come non ricordo il nome; vi era attaccata una fettuccia con suggello.

D. Di che colore era la fettuccia e il suggello, e che impronta il suggello offriva?

R. La fettuccia era color bianco come tela; il suggello erabianco coli' impronta di Francesco II e delle lettere che dicevano Roma   

D. Non potendo ammettere no consentire che il papa possa benedire tante iniquità, no che Francesco II abbia potuto vilipendere la dignità di re ordinando omicidi, grassazioni, incendi, quando anche questi mezzi, l'umanità disonorando, aveséer potuto fargli sperare il riacquisto del trono, però non può essere che una favola la vostra assertiva.

R. Essendoché avete fatto venire i bersaglieri e che sarò fucilato, persuaso come sono di morire, vi assicuro che ho tenuto quella carta e che ò verità tutto quello che vi ho detto contenere, e se altri, come me, sarà arrestato, vi convincerete allora che non ho mentito   

D. Che abbiate tanto ben ligata al petto con un nastro una piastra di Francesco II come medaglia non fa meraviglia, perché credevate, uccidendo, grassando, rubando, combattere per lui. Ma come consumando tante scelleratezze, potete tenere a testimone di esse, e direi anche a complico, se scempia non fosse questa parola, la Vergine Santissima, portando appeso al petto questo insudiciato abitino colla sua effigie del Carmine? È cosa che fa credere la vostra religione più empia e scellerata di quella che potrebbe avere un demone, se i demoni potesse! o avere una religione 1 Non ò questa la più infernale derisione che possa farsi a Dio?

R. Io ed i miei compagni abbiamo la Madonna nostra protettrice, e se aveva la patente colla benedizione non sarei stato certamente tradito.

Ed essendogli annunziato che si approssimava Torà per lui fatale, risponde:

Confermerò anche queste stesse cose al confessore che »pero mi sarà accordato. “


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In quegli animi ottenebrati dalla ignoranza e pervertiti dalla consuetudine del male, lo stesso sentimento religioso non penetra se non per mezzo della paura: è il solo ritegno che può alquanto infrenarli: tolto anco cotesto ritegno ogni freno è rotto, la propensità al delitto non è più contrastata da nessun ostacolo. Il brigante non ha paura del Codice penale, perché gli hanno assicurato che al ritorno di Francesco II otterrà l'impunità; non ha paura delle pene di un'altra vita, perché il ministro della religione gli ha assicurato che uccidendo, saccheggiando, stuprando, egli serve una giusta causa. Ond'è che pur troppo ci è mestieri affermare che una pane del clero non rifugge dal far la parto di manutengolo morale dei briganti, parte peggiore di quella stessa di manutengolo materiale, perché i soccorsi che questi presta finiscono coli1 esaurirsi, laddove quelli che presta il manutengolo morale lasciano tracce profonde ed indelebili, e per mezzo del fanatismo e della superstizione (la formola di giuramento poc'anzi riferitive ne porge irrefragabile documento) tengono più salde le armi omicide nelle mani dei malfattori. E pur troppo dobbiamo anche aggiungere che preti e religiosi non hanno nemmeno rifuggito dall'essere anche manutengoli nel senso più stretto e più materiale della parola. In provincia di Salerno, a modo di esempio, vennero, in marzo del 1862, arrestati cinque frati cappuccini perché prestavano ai briganti ogni maniera di assistenza. Per coglierli in fallo alcuni de' nostri soldati si travestirono da briganti, ed in quell'arnese si ebbero dagl'indegni monaci le più umane accoglienze, e viveri in quantità, e la dichiarazione che il convento era tornito di vettovaglie in guisa da poter accogliere una comitiva di 400 briganti. Nel convento dei Padri Liguorini in Pagani, provincia di Salerno, si facevano arruolamenti di brigami. Nella città di Anana, in Terra di Bari, furono diffusi nel popolo nello scorso mese di agosto molte cartelle che recavano queste parole: “I briganti sono benedetti dal papa, ed i ogniqualvolta si battono si attaccano a nome di Dio,


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e vinceranno. Che si formi allora una deputazione e li « vada incontro con una bandiera bianca facendoli en• trare in paese, e tutto sarà finito.” In quella città che annovera oltre a 20 mila anime sono un 300 tra preti e frati. Vi sono perfino dei casi, come si avverò nella disfatta che ai primi di novembre 1862 una grossa banda toccò dai lancieri di Montebello nelle vicinanze di Lucera, nei quali si sono veduti sacerdoti far parte delle masnade. Laonde è pur forza conchiudere che il brigantaggio nelle provincie meridionali ritrova in una parte del clero fòmite incessante ed incoraggiamenti di ogni maniera.

Né gl'incoraggiamenti che provengono dalla parte borboniana sono minori. Quella parte che nel 1860 lasciò coprire di obbrobrio la propria bandiera, che non seppe difendere né i suoi principii, né il suo Re, che non seppe arrendersi con dignità, né cadere con gloria, non ha saputo trovare altro espediente per pigliar la rivincita se non quello di collegarsi con gli assassini, di aiutarli col consiglio, con la direzione, col danaro, di infervorarli alle opere inique. La partecipazione, la complicità al brigantaggio dei Comitati borbonici è fatto che non patisce contraddizione: i processi di monsignor Cenatiempo, del Bishop, del Cosenza le pongono in piena luce. Altre processure da poco iniziate ed ora in via d'istruzione, quella, per esempio, intorno ai complici del sergente di Gioia, l'altra a carico della principessa Sciarla le confermano in modo incontrastabile. Le indagini alle quali si è proceduto in seguito al sequestro del marchese Avitabile ed alla cattura di parecchi seguaci del Pilone, hanno sortito lo stesso risultamelo. Il malfattore Pilone s'intitolava comandante il corpo di operazione nelle vicinanze di Napoli a nome di Francesco li, e sulle vesti brigantesche recava le insegne di cavaliere borboniano. L'altro malfattore Pizzichicchio faceva il suo, ingresso in Grottaglie inalberando bandiera bianca, e gridando viva Francesco II! Un borboniano, non è ignari, arrestato poneva avere il Comitato borbonico di Napoli, spedito


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ordine al Crocco di catturare i componenti la Commissione d'inchiesta al loro passaggio per le Puglie. Ora è chiaro che ordini s'inviano a subordinati od almeno a gente con la quale si procede d'accordo. Un Giuseppe Tardio, di Centola, provincia di Salerno, giovane di 28 anni, di condizione civile, già studente di leggi nel liceo salernitano, fece un viaggio a Roma, e reduce andò difilato al suo paese, dove si mise a capo di una banda di malviventi, la quale infesta il circondario di Vallo. Senza darsi nessun fastidio di occultare a nome di chi turbasse la pace pubblica emanava in luglio scorso il seguente proclama:


AI POPOLI DELLE DUE SICILIE.

Cittadini,

II fazioso dispotismo del subalpino regime nel conquistare il regno vi sedusse con promesse fallaci. Amari fratti ne avete raccolti. Riducendo queste belle contrade a provincie, angariandovi di tributi, apportandovi miseria e desolazione. Inaugurando il diritto della fucilazione a ragione di Stato (che Re galantuomo!). I più arditi oramai è un anno da che brandirono le armi. E l'ora di fare l'ultimo sforzo è suonata. Non tardate punto ad armarvi e schierarvi sotto il vessillo del legittimo sovrano Francesco II, unico simbolo e baluardo dei diritti dell'uomo e del cittadino, non che della prosperità commerciale e ricchezza dei popoli. Esiterete voi ad affrontare impavidi gli armati piemontesi, onde costringerli a valicare il Liri?

Pubblicato in............. e per copia conforme in questo comune affisso.

2 luglio 4863.

Il capitano comandante le armi borboniche Giuseppe Tardio.

Accanto alla firma è il suggello con lo stemma borbonico.


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II Tardio intimava ricatti a nome di Francesco II. Eccone il documento:


FRANCESCO II RE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE.

Si fa ordine a don Raffaele Salerno, del comune di Camerota, consegnare al latore, senza punto esitare, la somma di ducati 120 da servire per paghe agl'individui componenti la colonna di formazione sotto il mio comando.

E glielo partecipo per intelligenza.

Il capitano comandante le armi borboniche Giuseppe Tardio.


E trovava complici nei componenti il municipio di Camerata, come risulta dalla seguente lettera:

Camerata, 4 loglio 1863.


AMMINISTRAZIONE DEL COMUNE DI CAMEROTA

Al signor assessore don Paolo Ambrosano.

Signore,

Le si spediscono due donne, che con tutta premura le caricherete più che si possa di pane da servire per la gente armata prossima a giungere in questo comune, nell’intelligenza che il valore sarà pagato da questo comune

II municipio:

.....................................................................................
........................................................................................


Un uffiziale che per parecchi mesi fu comandante del distretto militare di Vasto, nell'Abruzzo Citeriore, ci narrava che un brigante fucilato perché colto con le armi alla mano prima di subire l'estremo supplizio dichiarava,


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come il suo capobanda, detto Pizzolungo, avesse letto a lui ed ai suoi compagni un ordine del giorno mandato da Roma da Francesco II, nel quale questi annunciando il ritorno prossimo nei suoi Stati esortava i briganti a perseverare. In altre carte sorprese sulle persone di malviventi che facevan parte della banda di Chiavone, leggesi, come alcuni dei malfattori abbiano relazioni dirette ed immediate con la stessa persona di Francesco II, e lo tengano ragguagliato di ciò che i briganti fanno ed operano. E ci è stato parimente riferito che quando il Chiavone fu con alcuni dei suoi più fidi seguaci ucciso per ordine di Tristany, questi dasse contezza dell'accaduto con apposita relazione a Francesco II, ed atteggiandosi ad uomo politico gli riferisse come avesse fatto togliere di vita quei miserabili, perché colpevoli di volgari delitti, e che alla lettura di questa relazione Francesco II deplorasse la morte del Chiavone e dei suoi, e fosse compreso da vivo sdegno contro il Tristany che lo privava di cosi fedele ed affezionato servitore!

Il giorno 16 luglio 1861 due soldati del 44.° di fanteria, per nome Carlo Bedoni e Bernardo Gamba, furono, mentre scortavano un esattore da Morino a Rendinara, sorpresi da una decina di brigami, disarmati, fatti prigionieri e condotti prima in quella località del territorio pontificio denominata Campoli, e poi alla montagna detta delle Scalette sullo stesso territorio, dove il Chiavone ed i suoi seguaci tenevano il loro quartiere generale. Dopoché i due soldati vennero spogliati dagli abiti militari, e vestiti da contadini si ebbero dal Chiavone ordine di andare in Roma, un foglio di via per ciascuno ed una lettera per il conte di Trapani, zio di Francesco II, e con esso lui dimorante in Roma; e perché non fuggissero ebbero anche uua scorta brigantesca. Fortuna volle che sulla strada comparisse un distaccamento francese, alla cui vista i malfattori se la diedero 4 gambe, ed i nostri due soldati furono in grado di riposero la frontiera e di tornare al loro reggimento di presidio a Sora.


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II giorno 24 luglio dello stesso anno alquanti masnadieri, guidati da un Luigi di Gian Marco Bianchi, si impossessavano per inganno del corpo di guardia di Luco, nel circondario di Avezzano, e prese le armi che rinyennero si diedero alla fuga associando nello stesso evviva il nome di Chiavone a quello di Francesco II.

Al principio dell'anno corrente in seguito a ricatto con sequestro di persona fatto dalla banda Crocco, nel circondario di Sant'Angelo dei Lombardi, il delegato di pubblica sicurezza di Bisaccia procedeva all'interrogatorio del giovane sequestrato, e di un contadino inviato dalla famiglia a ricercarlo: e l'uno e l'altro concordi deponevano che, trovandosi fra i briganti avevano veduto sopraggiungere un'altra banda guidata da un tale Teodoro il quale diceva a Crocco: «Due giorni dietro uno dei nostri amici è venuto a dirmi che il nostro Re Francesco nella primavera ci manda rinforzo di soldati con capi esteri, munizione e danaro. E facilmente si mette egli stesso alla testa di soldati del papa e dell'Austria, per entrare nel regno.» Uno degl'interrogati deponeva pur aver chiesto ad uno dei compagni di Crocco per nome Sacchitiello: Che fai più in campagna; ora che hai fatto i danari; perché non cerchi ritrarti?... ed il Sacchitiello avergli risposto: «Io fui invitato da parte del nostro Re Francesco, e perciò mi riunii colla banda. Ora ci è stato riferito, precisamente ieri dal capo della banda Teodoro che venne a ritrovarci, assicurando che egli aveva ricevuto notizia dal Re che in primavera ci avrebbe mandato sicuramente gran forza con capi esteri, e danaro, ed egli stesso sarebbe entrato. Noi dunque attendiamo tale sua promessa. Allora mi vedrai caro paesano, in altro stato. Basta, ci rivedremo.»

Ai primi di febbrajo testé scorso un brigante per nome Francesco Gambaro si costituiva in Sant'Angelo dei Lombardi, ed interrogato per qual fine si fosse associato ai malfattori, rispondeva:

«Mi unii alla banda di cui capo erano Andreotti e     Sacchitiello fin dal 16 agosto dello scorso anno, giorno


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di San Rocco. La banda era di circa 40. Io qual pastore ero sempre a contatto coi briganti, ed in tale occasione m'illusero che loro erano protetti da Francesco II, che gli mandava danaro, munizioni ed armi, e che fra breve sarebbe entrato nel regno, ed a noi ci avrebbe dato molti terreni del comune e danari; mi dissero pure che il Re è figlio di una Santa che protegge lui e noi. La banda ora è ristretta a pochi, perché i capi dissero ai briganti che il Re Francesco e gli aveva fatto sapere che a primavera mandava soldati, e danaro e munizione per entrare nei paesi, ed egli stesso sarebbe entrato in Napoli, e perché in tempo d'inverno non potevamo mantenerci noi e cavalli, così ci disse di ritirarci ed alla meglio nasconderci nelle case nostre e masserie degli amici per poi ritornare in primavera. »

Le recenti irruzioni di bande con capi esteri dal territorio pontificio in provincia di Aquila sono illustrazioni e conferma di queste deposizioni; qualsivoglia commento tornerebbe inutile.

Tutte le irruzioni di briganti dal territorio pontificio sono promosse ed apparecchiate dai Gomitati borbonici qua e là sparsi fuori del nostro Stalo, di concerto con quelli che hanno stanza af di dentro. Ve ne ba a Marsiglia, a Parigi, a Malta; abbondano a Roma e nelle località più vicine alla nostra frontiera. Il Comitato di Alatri è presieduto e diretto dal vescovo di quella diocesi. Ed allo stesso modo con cui sono innegabili le frequenti e strette relazioni tra briganti e Comitati borbonici non possono nemmeno essere rivocate in dubbio le relazioni fra queste ed il principe che già fu sovrano delle provincie del mezzodì dell'Italia. I capi di quei Comitati residenti in Roma fanno notoriamente parte della Corte di Francesco II, e le comunicazioni per via di corrieri di ogni condizione, di ogni nazione e di ogni sesso con le provincie napolitano sono incessanti. Francesco II adunque è consapevole di tutte le macchinazioni, e non tollera ma vuole chela sua causa sia rappresentata e servila dai masnadieri e dai predoni. Alla sventura anche meritata si deve


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rispetto; né mai noi vorremmo sfuggisse dalle nostre labbra una sola parola che suoni insulto ai caduti. Come fu eroica nel soffrire, l'Italia è magnanima nel perdono agli offensori. Ha il principe che all'ombra di un vessillo glorioso ed amico all'Italia, non ha ribrezzo di scatenare orde di ribaldi per arrecare la desolazione in quelle provincie, che non seppe conservare alla sua dominazione col valore, ha con ciò finanziato allo stesso diritto della sventura, e dispensa dall'obbligo di qualsivoglia riguardo e compianto. Egli non è più il principe esautorato e nemmanco il pretendente, ma il complico, l'istigatore, il manutengolo di Crocco, di Ninco Nanco e di ogni maniera di volgari e miserabili scellerati.

I soccorsi materiali che il soggiorno di Francesco II nella eterna città procaccia al brigantaggio nelle nostre provincie non ne sono però la peggiore né la più dannosa conseguenza. Gli effetti morali e politici sono di gran longa più nocivi alla pace, alla sicurezza ed alla prosperità di quelle provincie; sicché quand'anche quel principe non inviasse né un sol quattrino, né un sol uomo alle orde dei malviventi, il solo fatto della sua permanenza in Roma sarebbe fomite grandissimo del brigantaggio. Allo stesso modo con cui durante il decennio dell'occupazione militare francese il soggiorno di Ferdinando I e della sua Corte in Sicilia, oltre alle continue spedizioni di briganti nelle Calabrie, manteneva viva la speranza dei partigiani della dinastia borbonica; il soggiorno attuale di Francesco II in Roma é, se non argomento, certo pretesto plausibile e non destituito delle apparenze della verosimiglianza, a colpevoli speranze, a pronostici protervi. Nel decennio il buon senso popolare aveva battezzato coloro che aspettavano il ritorno di casa Borbona con la espressiva locuzione di speranzuoli: ed oggi non ne mancano. Costoro fanno assegnamento sulla ignoranza e sulla credulità delle moltitudini, sulla difficoltà delle comunicazioni, e divulgano di continuo le più insigni fandonie, le più grossolane fole, le quali naturalmente non si avverano mai, sortiscono l'effetto che se ne ripromettono


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e valga il vero, colpirebbe anche altre meno di esse fantastiche e proclivi a credulità. La conseguenza morale del sentimento di sfiducia e di dubbiezza intorno all'avvenire che questo fatto genera ed alimenta è di per sé sola un male gravissimo, ed una delle più salde radici del brigantaggio. I malfattori vi attingono forza ed incoraggiamento perenne a perseverare nelle opere infami; la presenza di Francesco li a Roma implica per essi la certezza del di lui ritorno a Napoli, la eventualità di quel ritorno è guarentigia ad essi di lucro, di onori, di premio e nel caso più disperato d'impunità. Il giudice del mandamento di Cerignola ci narrava di aver saputo da un brigante tenuto prigione nelle carceri di quella città avere Crocco dichiarato di essere pronto a consegnarsi nelle mani della giustizia, a costituirsi, quando avesse avuto certezza che Vittorio Emanuele fosse entrato in Roma. E v'ha anche chi afferma che il Crocco due volte sia stato a Roma travestito da frate per conferire con Francesco II od altri della sua famiglia. Un brigante di anni 17, per nome Giuseppe Ciampaglia, arrestato lo scorso mese di marzo in Termoli, interrogato dal giudice di quel mandamento deponeva che un capo brigante l'aveva costretto a seguirlo, e gli prometteva di armarlo e dargli un buon cavallo, e cosi con la comitiva tutù annata recarsi in Roma per far tornare Francesco IL

La dimora di Francesco II nella capitale d'Italia accenna pure ad una delle altre maggiori cause della durata e della tenacità del brigantaggio nelle provincie napolitane, alla connivenza vale a dire ed alla complicità del Governo pontificio. Si dirà forse che la ospitalità non implica solidarietà di doveri tra chi la concede e quegli che Faccetta; che il benefizio non conferisce al benefattore la prerogativa di vincolare la libertà delle azioni del beneficato; e che perciò chi dona l'ospitalità può ripudiare la responsabilità dei portamenti di chi la riceve. Ma anzitutto è a riflettere che la ospitalità largita dal Governo pontificio a Francesco II non è corollario del principio del diritto di asilo, sacro ed inviolabile presso


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le libere nazioni, ma bensì concessione spontanei 0 ritrattabile di quel Governo. In secondo luogo fra i desiderii e gli atti del Governo pontificio e quelli della Corte borbonica è tale identità, da cui scaturisce piena ed evidente la comune solidarietà e la responsabilità comune.

Gli abitatori del Vaticano non possono ignorare e non ignorano di certo quali siano il contegno e i portamenti, le opere degli abitatori del palazzo Farnese; e per ciò sono sindacabili degli atti di costoro come se fossero atti loro proprii. Questa verità non ha d'uopo di essere dimostrata: la sua evidenza è palpabile. L'officina d'importazione del brigantaggio nelle provincia napolitano stabilita da Francesco II e dai suoi seguaci cosmopolitici in Roma è la condanna di chi l'ha stabilita, e di chi la tollera e la sovviene.

Dicesi che l'asilo conceduto in Roma a Francesco li abbia avuto a motivo un pensiero di gratitudine, e che Pio IX abbia voluto ricambiare al figlio la ospitalità usatagli dal padre in Gaeta negli anni 1848 e 1849. £ sia pure. Pongasi pure che in ciò non entrino per niente le ragioni politiche, e campeggi esclusivamente il sentimento della riconoscenza. Ma che? Questo sentimento deve forse imporre silenzio a quelli della giustizia, della umanità, della carità? Abusando della ospitalità concessagli dal pontefice, Francesco II se ne è reso immeritevole, e quindi doveva essergli tolta; ciò non è stato fatto; dunque la tolleranza dell'abuso si risolve necessariamente in pretta ed incontrastabile complicità.

Ma se Francesco II ha abusato ed abusa della ospitalità largitagli dalla persona del pontefice, non può essere addebitato della stessa colpa verso il Governo pontificio. Discorrendo in modo generico, si può inferire la connivenza dalla tolleranza, la complicità dalla inerzia nell'impedire i\ male; ma i fatti chiariscono che la connivenza e la complicità del Governo pontificio col brigantaggio non si restringono negli accennati confini; poiché sono connivenza sciente e deliberata, complicità attiva, perenne, efficacissima. «Francesco II, ci veniva detto


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a Sora, è il perno del brigantaggio; ma il Governo pontificio palesemente lo tutela.»

«La radice del brigantaggio, ci diceva il senatore e Ferrigni, avvocato generale presso la Corte di cassazione di Napoli, è a Roma; finché quella non sia tolta non sarà estirpato il brigantaggio. Da Roma, ci diceva il senatore Niutta, presidente di quella stessa Corte,t viene il principale alimento al brigantaggio. L'incitamento massimo, ci diceva l'illustre Luigi Settembrini, viene da Roma; di dove più che il danaro viene l'idea che li è il re delle Due Sicilie che può tornare.»

I fatti dimostrano che queste opinioni autorevoli hanno fondamento nel vero. A Roma havvi un ordinamento regolare di bande, come di esercito che si ammannisca per combattere nemici. I conventi di Trisulti e di Casamari sono ricettacoli notissimi di briganti; sono i loro quartieri di predilezione. Nel 1861 monsignor Montieri, vescovo della diocesi di Sora, ora defunto, aveva fissato stanza nel convento di Casamari, ed ivi con l'assistenza del padre abate di detto monastero e di parecchi legittimisti forestieri organizzò quella banda di briganti, capitanata dal De Christen, che venne sconfitta ed inseguita dalle truppe comandate dal nostro valoroso collega, il generale Maurizio di Sonnaz. Naturalmente la polizia pontificia adopera tutte le scaltrezze immaginabili, perché manchino le prove dirette e giuridfche della sua connivenza con i masnadieri. Le astuzie però, le cautele, le accortezze sono tradite dai fatti. Le bande si organizzano sul territorio romano senza molestia di sorta alcuna. Il Tristany fa forniture di pane e di viveri dentro i paesi senza che le autorità pontificie trovino nulla a ridire. Nel mese di marzo 1862 si spedivano da Veroli 121 razioni di pane al giorno ai briganti raccolti nel convento di Trisulti; né ostacoli di sorta erano frapposti a quest'invio quotidiano. Due volgari grassatori nativi della Selva di Sora abitano a Veroli, e fanno da guida e a Tristany e ai gendarmi pontificò Le provincie di Frosinone e di Velletri sono quelle dove più d'ordinario


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le bande si formano; nessuno dei contadini di quelle due provincia vi prende parte; sono avventurieri forestieri) oppure malviventi e miserabili provenienti dalle provincie napolitane. I componenti della banda di Tristany sono, per la maggior parte vestiti con la divisa militare, e co' loro che recitano la parte di uffiziali recano i distintivi dei rispettivi gradi. La polizia pontificia non ha occhi per vedere questi apparati di guerra, e li lascia compiere tranquillamente senza arrecare ad essi il più lieve disturbo. Alla fine della stagione estiva dell'anno 1861 la banda capitanata dal Chiavone, che tante volte disfatta erasi altrettante volte rifornita e rifatta, raggiunse proporzioni rilevanti. Si partiva in otto compagnie di 80 uomini ciascuna, ed annoverava i suoi capi con le denominazioni di gradi tolti dalla gerarchia militare. Fra suoi componenti, massime tra sedicenti capi, erano avventurieri spagnuoli, francesi, svizzeri, irlandesi ed il belga Trazigny. Gotesta banda accantonava impune mente verso la frontiera di Sera, tra Santa Francesca e Casamari; aveva persino gli avamposti e le vedette; né mai ebbe a patire molestia alcuna, finché essendosi risoluta l'11 novembre 1861 a passare la frontiera si ebbe dalle nostre truppe il meritato castigo nei combattimenti d'Isoletta e di San Giovanni Incarico.

Ogniqualvolta i briganti valicano la frontiera sono stati incontrati dalle nostre truppe e sbaragliati, ma poi hanno avuto sempre agio di rifarsi e di riordinarsi ripassando sul territorio romano. A Campo di Fiori e a piazza Montanara in Roma vi sono persone le quali notoriamente ingaggiano chi possono trovare per le orde brigantesche. Scelgono e trovano le loro recluto fra contadini dell'Abruzzo Aquilano che sono fuggiti per tema della leva, oppure per delitti. Il Governo pontificio sovviene con armi e con danaro, e per non essere scoperto adopera ogni sorta d'artifizio. Una volta, a mòdo di esempio, forni parecchie centinaia di cappotti militari, e per riuscire neir intento il Ministero delle armi annunzio una venI dita all'asta pubblica di quei cappotti. Un prete francese


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 si presentava all'incanto e faceva mostra di comprarli. Una volta in poter suo li consegnava puntualmente a coloro ai quali erano destinati. I Comitati borbonici di Alatri, di Frosinone, di Ceccano, di Velletri, di Pratica si adoperano senza posa a sovvenire in ogni maniera i briganti. Del Comitato di Frosinone fanno parte un giudice, il cancelliere vescovile, due canonici ed il curato; di quello di Ceccano una persona addetta al servizio della casa del cardinale Antonelli; di quello di Àlatri fanno pure parte dei canonici; di quello di Pratica l'arciprete che talvolta accompagna di persona i briganti. All'Abbadia dei Passionisti in Ceccano risiedono un genderme pontificio e due gendarmi pensionali che servono da guide ai masnadieri. Né il Tristany si da nessuna briga di mascherare il suo scopo; assume palesemente il titolo di maresciallo di campo comandante le regie truppe del regno delle Due Sicilie. Abbiamo veduto in proposito un documento originale che. qui trascriviamo:


Comando supremo delle regie truppe del regno

delle Due Sicilie.

N. 41.

Spedisco a bella posta il mio quartier mastro con incarico di riscuotere delle somme da taluni signori che lei sa; a cui sono diretti li uniti ufficii, ed alla ricevuta della moneta il detto quartier mastro consegnerà agl'interessati la regolare ricevuta.

Impegno lei di adoperarsi a tutt'uomo per lo adempimento di questo affare, facendolo certo di tutta la mia considerazione.

Dal quartier generale di Rendinara,

15 luglio 1861.

Il maresciallo di campo R. Tristant.


Al signor Isidoro Borselli, capitano, in Ceprano.


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Accanto alla firma del Tristany è l'impronta del suggello borbonico, identica a quella della quale abbiamo accennato a proposito della lettera del brigante Tardio in provincia di Salerno.

Dalle deposizioni fatte e giuridicamente raccolte, dai due fratelli Colafella, ex-soldati borbonici, dinanzi al presidente della gran Corte criminale di Chieti il giorno gennaio 1862, risulta: che gli arruolati borbonici, e volontari ed exs-oldati, fossero acquartierati parte fuori,parte dentro Roma, e questi ultimi a San Sisto vecchio,che i loro ufficiali fossero parte napolitani, parte stranieri che es3i fossero calabresi, abruzzesi, siciliani e napolitani, che ricevessero gli ordini da Francesco II, che,prima di essere acquartierati, avessero per parte di lui 25 grana al giorno, e dopo acquartierati, pane e zuppa,oltre abito bigio, fucile, baionetta e sciabola, e che vi fosse tempo nel quale erano costretti a far gli esercizi militari.

La notte del 5 al 6 di aprile dell'anno 1862, un duecento briganti, che al solito si erano accozzati ed impunemente ordinati sul territorio pontificio, valicavano il Liri, ed alle 10 antimeridiane del giorno si piombavano inaspettatamente sopra Luco paesello collocato sulle sponde del lago Fucino nel circondario di Avezzano. Il presidio era composto da un distaccamento di 20 uomini del 44.° di fanteria, cinque dei quali, per ragioni di servizio erano assenti. Nel volgere di pochi momenti i briganti baldanzosi per il soverchiante numero occuparono tutto l'abitato. Il sergente, che comandava il distaccamento, si asserragliò nella caserma risoluto a vender la vita a caro prezzo. Lunga ed accanila fu la lotta: la porta della caserma non potè essere atterrata; ed allora i briganti, saliti sul tetto, si diedero a rovinar le tegole ed a gettar fascine, alle quali appiccarono il fuoco. I soldati non posavano dal combattere; sparavano dai fori del tetto, dalle finestre; alle intimazioni di resa, rispondevano con rifiuto sdegnoso. L'accanita lotta durava da tre ore: già il tetto ardeva, e minacciava di seppellire sotto le fumanti rovine



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l'eroico drappello; allorché una pattuglia di cinque uomini ed^un caporale, uscita dal vicino paesello di Trasacco in perlustrazione, udito il rumore della moschettoria, accorreva al passo di carica ad aiuto degli assediati. Quel caporale prese incontanenti disposizioni militari opportune ed ingegnose, si avanzò impavido verso Luco al grido di Savoia; i briganti che stavano in vedetta alla punta del villaggio stimarono che quei pochi soldati fossero 1avanguardia di una colonna di truppe che muovesse ad assalirli, e perciò dato di fiato alle trombe per avvertire i compagni del creduto pericolo, la comitiva tutta si diede alla fuga. Il capo, che era un Pasquale Mancini, di Pacentro, luogotenente di Chiavone, veniva preso e fucilato. La stessa sorte toccò ad altri: la banda fa decimata e dispersa. Fra gli arrestati era un tal Pàbuli, ex-sergente borbonico, il quale, interrogato, dichiarava: gli arruolamenti farsi a Roma, presso il farmacista Vagnozzi, a Campo di Fiori; essere la sua banda (forte di 200 uomini) partita da Roma il 30 marzo a piccoli distaccamenti da 15 a 20 uomini l'uno, essersi radunata il 4 aprile nei piano di Arcinazzo non lungi da Trevi, vicino ad un'osteria: aver ivi incontrato un carro carico d'armi» che aspettava la banda; le armi essere state distribuite da un prete per nome don Luigi, il quale compartiva loro la benedizione e poi li diresse alla volta di Anticoli; più lungi aver trovato in una masseria gli abiti militari, e tutti i briganti aver ricevuto un cappotto grigio sul modello francese con i colli gialli ed i rispettivi sacebi. Permessi gli arruolamenti, gli esercizi militari degli arruolati, lasciata pitna libertà alle bande in tal guisa organizzate di percorrere senza molestia il territorio romano e di cercarti scampo sicuro dalla giusta punizione, che senza alcun dubbio riceverebbero dalle truppe italiane, qualora queste potessero oltrepassare la frontiera; data piena Dalia ai capi delle masnade di far forniture di viveri nei paesi; dare i gendarmi per guida ai briganti; non torcere neppur un cappello a nessuno dei componenti i diversi Comitati borbonici: e che cosa


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potrebbe fare di più il Governo pontificio per mettere in piena luce la sua cooperazione incessante al brigantaggio?

Né, a malgrado delle astuzie e delle precauzioni della polizia pontificia, mancano documenti autentici a corroborare materialmente il convincimento morale che risulta dal complesso dei fatti e dalla logica stessa delle cose. Le due lettere che qui trascriviamo, vennero scritte da un brigadiere dei gendarmi pontificii, vale a dire da un individuo che non poteva certamente aver carteggio e relazioni con i briganti, se non ne avesse avuto il beneplacito dai suoi superiori od almeno non fosse stato certo di non incorrere nel loro sdegno. Ora codesto brigadiere era in carteggio con Chiavone, e gli dava dell'eccellenza. In quell'andar di tempo Chiavone stava sulla montagna tra Veroli e Sora; i soccorsi in uomini ed armi gli pervenivano da Roma e da Velletri, ma per salvare le apparenze, gli uomini che dovevano raggiungerlo evitavano di battere le strade principali, e per Vallecorsa prendendo il confine e lasciando a destra Terracina si recavano alla residenza del ladrone, la cui banda erano chiamati ad ingrossare. A Sezze poi teneva domicilio un Gallozzi, famiglio e colono della casa Antonelli, il quale fa nominato da Chiavone tenente prima e poi capitano, con l'incarico di radunare ed indirizzare i briganti, e provvederli dell'occorrente. Sembra che un incarico dello stesso genere venisse affidato al gendarme che scriveva la lettera, e che quegli, rispondendo, accettasse.

Ecco questa lettera:

Li 5 settembre 1861,

circa le ore 16 Italiane.

Gendarmeria pontificia

Comando della brigata di Vallecorsa

(d’ufficio).

Eccellenza,

Contro ogni mio merito nell'ora suindicata ho ricevuto il di lei dispaccio io data di ieri per mezzo di due di lei corrieri; dai suddetti due corrieri ho inteso tuttociò che brama


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l'È. V. che io eseguisca. Dal canto mio rassicuro, signor generale, che farò del tutto, anche a costo della vita, onde poter appagare le brame dell’E. V., e la prego a stare tranquillo che il tutto sarà provveduto colla massima tranquillità e segretezza.

Mentre con sensi della più aita stima e profondo rispetto passo rassegnarmi

Dell'Eccellenza Vostra

Comandante la brigata

Gaetano Bolognesi, brigadiere.


A sua Eccellenza

Signor generale in capo Ghiavone.

Sotto la firma è il timbro della gendarmeria pontificia. L'altra lettera era indirizzata al Gallozzi:


Mio ottimo ed eccellentissimo sig. tenente Gallozzi,


La prevengo, signor tenente che, contro ogni mio merito, in questo momento, che sono le ore 6 italiane, ho ricevuto per mezzo di due corrieri un dispaccio di S. E. il signor generale in capo Luigi Chiavone, comandante tutte le Truppe Regie Napolitano; che conviene che io cerca in ogni modo possibile di assistere, e di portare in salvo fuori della mia giurisdizione gl'individui ed armamenti che porteranno seco quando giungeranno per quella volta.

Per questo, signor tenente, la prego di assicurare il lodato signor generale, che dal canto mio farò del tutto anche a costo della vita, per poter appagare alle brame in quanto mi viene ordinato nel suddetto dispaccio.

Come pure le fo noto, signor tenente, che la di lei rispettabile famiglia si ritrova nella più perfetta salute, ed io quasi ogni giorno mi porto alla loro abitazione esortando alla signora di lei consorte a vivere nella più perfetta tranquillità in tutti i rapporti, mentre siamo alia fine dei seguaci iniqui ed assassini che colle loro infamità hanno fatto, sicché che per fino hanno tentato di levare i diritti della Nostra Santa Madre Chiesa. In questo incontro sonò a pregarla, signor tenente, a fare conoscere a Sua Maestà, per mezzo anche dell'eccellenza signor generale Chiavone, la fedeltà e premura che io


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ho anche per le sue truppe abbenchè si ritroviamo nei momenti più critici, ma ormai si farà giorno anche per noi.

In atteso della di lei sperimentata bontà che vorrà provvedere a calcolo di quanto sopra, la prego in pari tempo a perdonarmi della libertà che mi prendo, mentre con sensi della più alta stima e profondo rispetto passo all'alto onore di ossequiosamente rassegnarmi.

Di lei Signor Tenente

Da Valleoorsa, li 5 Settembre 1861.

L'affezionatiss. a tutta prava

Gaetano Bolognesi, Brigattiere.


E nemmeno a questa seconda lettera manca il timbro della gendarmeria pontificia.

Un altro brigadiere della gendarmeria pontifìcia, per nome Fontini, comandante la stazione di Torretreponti scriveva al suo capitano, cavaliere Fabbo, residente in Velletri, una lettera, nella quale lo avvertiva di aver ricoverato dieci ufficiali spagnuoli, destinati a raggiungere sulle montagne di Ceccano le truppe di Francesco II, ossia i briganti, di averli sottratti alla vigilanza delle truppe francesi, e poi di averli fatti accompagnare da due guide al posto, dove avevano a recarsi.

Il giorno 16 luglio 1861 quattro reali carabinieri, perlustrando la montagna di Sora, videro un uomo vestito alla foggia del paese, il quale, rivolgendo ad essi la parola, disse: Che, cercate del nostro generale? I carabinieri ebbero tosto ad accorgersi che v'era un equivoco; ed all'interrogazione risposero affermativamente. Allora colui replicò: ebbene, vi ci condurrò io, ma aspettale un momento; cosi dicendo, si avvicinò ad un albero, vi sali sopra, ne prese un fucile nascosto fra i rami, e poi si avviò verso la vetta della montagna a guida dei carabinieri,i quali però non gli fecero proseguire il viaggio, ma arrestatolo lo condussero a Sora. Quell'uomo era della banda di Chiavone, e vedendo i nostri carabinieri aveva preso abbaglio e credutili gendarmi pontificii.


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Il giorno 29 agosto 1861 una pattuglia di bersaglieri eseguiva una perlustrazione nelle vicinanze di Fondi per catturare alcuni briganti; i gendarmi pontificii, di stazione all'Epitafio, spararono proditoriamente otto colpi di fucile su i nostri soldati, ferirono leggermene un sergente, mortalmente un bersagliere del 28.° battaglione per nome Guindani.

La sera dei 12 settembre un operaio francese, che lavorava alla strada ferrata da Napoli a Roma, innalzò una bandiera italiana su di una trave del ponte d'Isoletta sul Liri, ma dalla parte dei nostro territorio. Non sì tosto questa bandiera fu veduta dal brigadiere dei gendarmi pontificii eh' era di stazione alla parte opposta, preso com'era dal vino, incominciò a profferire insulti, fece schierare i suoi uomini e tirare sulla bandiera nove colpi di fucile, i quali rompevano il bastone che la sosteneva; e poi non contento di ciò, s'impossessava della bandiera, che nessuno difendeva, e la portava via. Non s' tosto il maggiore Freyre, comandante il 4.° battaglione del 59.° di fanteria (brigata Calabria) e residente ad Arce, veniva informalo dell'oltraggio, si affrettava a scrivere al capitano comandante la compagnia di stanza ad Isoletta questo telegramma:

“Lei avrebbe dovuto passare confine per fucilare gendarmi pontificii, anche sulla faccia dei Francesi. Metta subito un e posto al ponte, e si faccia rispettare, per Dio!”

Il giorno susseguente lo stesso maggiore scriveva per telegramma al comandante le truppe francesi in Ceprano:

“Hier au soir des gendarmes du pape ont falt feu sur le drapeau italien, hissé sur notre territoire au delà du pont sur le Liri, près de Isoletta. Si j'avais été encore à Isoletta, je serais venu fusiller cette làche canaitle jusque dans Ceprano. Monsieur le coroandant, fai le droit de compier sur. vous pour la juste réparation qui nous est due.”

La riparazione era consentita in seguito ad appositi ordini;del generale di Montebello, comandante le truppe


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francesi in Roma, e diffatti la mattina del 44 settembre, con solenne pompa, in presenza delle truppe francesi e delle italiane, i gendarmi pontifìcii autori del fatto, a capo scoperto e reggendo i lembi dell'oltraggiata bandiera si recavano a mezzo il ponte d’[soletta, dove incontrati dal maggiore Freyre, la bandiera era restituita dal comandante francese con queste parole:

«Mon commandant,

J'ai l'honneur de vous rendre le drapeau que ces deux gendarmes ponttficaux ont étó assez insolens de prendre sur e le territoire italien, lorsque personne ne le gardait, et j'espère que cette róparalion sulfira pour vous prouver l'estimo que nous avons pour votre drapeau.»

II maggioro rispondeva:

«Mon eber capiialnel

Je vous remerete de la répiration d'honneur que la Franca e nous donne, mais j'assure la gendarmerie pontificale, que si les gendarmes passent d'une seule ligne le confln, je les fais fusiller coùte qui coùte.»

L'onore del vessillo italiano fu energicamente e prontamente vendicato; né le valorose mani alla cui custodia esso è affidato tollereranno giammai che venga impunemente offeso.

Gli uomini lordi di sangue e macchiati dei più atroci delitti son certi di trovare benevolo asilo sul territorio romano per parte del Governo, ben inteso, e non delle popolazioni, alle quali, oltre al dolore di non essere ancora ricongiunte all'italica famiglia, tocca pure il crac ciò di essere spettatrici delle macchinazioni, che tuttodì si apprestano contro la quiete delle libere provincie italiane.

Quando non possono più tener la campagna i briganti fanno quanto è possibile per guadagnar la frontiera pontificia, sicuri di rinvenirvi ricovero, assistenza, protezione. Ci è caduta sottocchio una lettera scritta da un brigante della provincia di Benevento ad un suo parente, nella


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quale lo assicura che se la gode con tutta la sua compagnia, che passa i giorni in festa ed in giuoco 9 e che tornerà a primavera.

E quando è succeduto che i facinorosi sono caduti nelle mani della giustizia, ciò è stato non per opera delle autorità pontificie, ma bensì dei Francesi. Senza allegare molti esempi ci basti riferirvi quello del brigante Cucitto, il quale trovasi ora incarcerato in Terra di Lavoro e sottoposto a regolare processo. Costui sul finire del 1861 ammazzò barbaramente il sindaco di Mola di Gaeta, per nome Spina, e poscia fuggì sul territorio pontificio, ed a Roma in pubblici luoghi si vantava dell'omicidio commesso, e mostrava l'oriuolo tolto alla vittima. La polizia pontificia non si diede al solito nessuna briga per arrestare l'omicida, il quale soggiornò qualche tempo in Terracina, e per parecchi mesi tenne la campagna in quelle vicinanze, finché essendo stato preso con altri malviventi dai Francesi, fu da questi, in seguito all'estradizione chiesta dal comando delle truppe italiane in Gaeta consegnato alle autorità nostrali perché fosse processato. I particolari dell'assassinio vanno ricordati.

Lo Spina aveva in Frosinone un fratello, che ò superiore dei frati del Sangue Sparso; il quale, informato della cattura del suo germano, si adoperò a salvarlo, ed all'uopo richiese ed ottenne la intercessione presso Chiavone delle autorità pontificie. Un sott'ufficiale dei gendarmi pontificii, per ordine del delegato di Frosinone, si recò in montagna presso Chiavone pregandolo ad ordinare la liberazione dello Spina. Per aderire all'invito, Chiavone chiese ragguagli al Gallozzi, del quale abbiam fatto cenno più sopra, e questi gli rispose nel tenore seguente:


Stimatissimo Don Luigi.

Francesco Spini sindaco e commissario di Governo nel comune di Mola, gli ò stata recisa la testa, e la moschetta del defunto è stata dal Cuccino portata in Roma. Francesco Piazza alias Cuccino al mio sentimento fece bene, che il suddetto


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 ha reso od servizio perché ha tolta la vita a un celebre rivoluzionarlo nemico del Re N. S. Il defunto sindaco si chiamò il Cucitto e gli voleva obbligare di fargli formare una massa promettendogli una gran somma di danaro, che con la detta massa doveva andare contro di noi per distruggerci, e gli voleva anche obbligare che doveva ammazzare anche Voi; ma il Gucitto invece di farci il tradimento gli uccise: e qui credo bene che ha adempito al sacro dovere di ciò che ha procurato.

Li 16 dicembre 1861.

Devotits. Umilia. Servilor vostro

Giuseppe Gallozza


È fuori di dubbio, che se l'arresto del Cuccino avesse dovuto essere praticato dalle autorità pontificie non sarebbe mai succeduto, e se le truppe francesi invece di consegnarlo alte autorità nostre lo avessero consegnato a quelli è parimenti indubitato, che a quest'ora sarebbe nuovamente libero ed arbitro di commettere impunemente nuove immanità. Tutti i briganti diffatti arrestati dai Francesi e da essi consegnati alle autorità pontificie sono stati sempre da queste rilasciati in libertà. In tal guisa il rinnovamento delle bande è perenne e costante; l'arresto non è che una fase momentanea di sospensione, perché appena i ribaldi passano dalle mani dei Francesi in quelle del Governo pontificio son certi di avere la libertà e senza indugiò ripigliano a vivere la loro vita di furto e di delitto.

Un altro artificio usato dal Governo pontificio per favorire e coadiuvare il più che può il brigantaggio è il seguente. I comitati borbonici residenti di là della nuova frontiera hanno naturalmente de' mezzi di frequenti comunicazioni con i loro aderenti che sono di qua, ma adoperano il meno che possono la scrittura e preferiscono trattare le loro facende oralmente per mezzo di persone che s'incaricano di fare l'ufficio di corrieri. La linea delta frontiera è abbastanza lunga ed il passaggio è continuo: né riesce molto agevole invigilarlo od impedirlo. Per meglio riuscire nell'intento le autorità pontificie usano


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non restituire i passaporti esibiti da persone che esse sanno non parteggiare per casa Borbone. Il viaggiatore che presenta all'ufficio pontifìcio di Isoletta il suo passaporto in regola ne riceve io cambio un altro. Io tal guisa tutti quei passaporti regolari servono poi a far passare la frontiera, senza destar sospetti, le persone che vanno e vengono per mantenere le comunicazioni fra i cospiratori ed i briganti. In pari tempo i borbonici residenti in Roma hanno una officina di spedizione di passaporti. Noi stessi abbiamo avuta occasione di vederne parecchi di cotesti passaporti, i quali recano tutti la intestazione Regno delle Due Sicilie, l’impronta del sigillo borbonico e tutti vidimati con firma e bollo dalle autorità pontificie.

Queste autorità pontificie accettano dai briganti persino la consegna dei prigionieri che essi fanno. Rarissimi sono i casi, nei quali sia riuscito ai masnadieri di fare prigioniero qualcuno dei nostri soldati, e quando ciò è avvenuto la proporzione numerica dai briganti ai soldati era almeno di cinque ad uno. Un caso di questo genere avvenne nel mese di luglio dell'anno trascorso. Un distaccamento composto da carabinieri e da soldati dell'11° di fanteria eseguiva una perlustrazione sulla montagna della Fossa della Neve. Ma essendosi diviso in parecchie frazioni ed i briganti essendo assai numerosi, una di quelle frazioni composta da cinque soldati e dal carabiniere Pozzi 4.° Bernardo della stazione di Formia, accerchiata da cinquanta di quei malfattori venne fatta prigione perché per la pioggia e la stanchezza essendo a sedere non ebbero tempo di pigliar le armi e difendersi. I prigionieri vennero nelle mani dell'assassino Cuccito, e da lui furono consegnati ai gendarmi pontifici, tradotti da questi a Roma e da 11 a Civitavecchia al deposito dei mercenari pontificii; dove un maggiore della gendarmeria pontificia fece ogni opera per subornarli e persuaderli a disertare la bandiera italiana, e pigliar servizio nelle orde brigantesche o nell'esercito del papa, locchè tornava lo stesso. Due soli fra essi (erano soldati del disciolto esercito borbonico) si lasciarono sedurre; gli altri tre soldati e il carabiniere


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serbarono onoratamente fedeltà al Re ed alla,patria, è quindi tornati frustranei i tentativi vennero imbarcati sul Blidah e condotti a Genova. Pochi giorni dopo l'Ossenatore Romano narrava l’accaduto a suo modo, e ne toglieva occasione per lodare la generosità del Governo pontificio, attribuendo a magnanimità di quel Governo una risoluzione che era stata la conseguenza necessaria della onoratezza di quei militari.

Pochi giorni dopo che era avvenuto il fatto testò raccontato i zuavi pontificii prestavano palesemente soccorso ai briganti, e tendevano imboscate alle nostre truppe. Era a9 primi del mese di agosto, i posti di truppe francesi a Pastena ed a San Giovanni Incarico erano stati tolti. Pervenne notizia ai comandanti del nostro esercito che i briganti dispersi si raccozzavano nuovamente, si riordinavano e si accingevano alle consuete gesta di qua dalla nostra frontiera. Furono quindi presi gli opportuni provvedimenti di precauzione, ed il maggiore Lachelli alla testa di forze competenti ebbe incarico d'invigilare la frontiera, e d'impedire l'ingresso alle orde, quando l'avessero tentato. Il 4 agosto, mentre le truppe procedevano verso la frontiera di San Cataldo, vennero aggredite da un centinaio di briganti. L'aggressione fu vigorosamente respinta: alcuni fra i ribaldi vennero uccisi, altri feriti, la maggior parte si salvarono con la fuga. Mentre lo scontro succedeva nel bosco di Castro, parve al capitano, comandante il distaccamento di presidio ad Isoletta, che i zuavi pontificii, i quali avevano preso posizione al confluente del Tolero e del Liri, appoggiassero le operazioni dei briganti. Per accertarsi del fatto mandò in perlustrazione una parto della sua compagnia. Appena fu giunta al Tolero era assalita da un vivisssimo fuoco d'imboscata fatto da zuavi pontificii i quali in numero di quasi 500 erano sostenuti da un distaccamento di gendarmaria a cavallo e da una sezione di campagna. La forza fu respinta colla forza, ed a malgrado la superiorità numerica i zuavi ebbero la peggio; sconfitti fuggirono. In seguito alle rimostranze del comando italiano, il generale


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Montebello, comandante il corpo francese in Roma, obbligò il Governo pontificio a rimuovere i zuavi della frontiera ed Internarli.

Nei mesi d'agosto e settembre dell9 anno 1862 scorso erano a Forzino, ad Anagni, a Rissa molte truppe papaline e squadriglie di briganti sotto la direzione dell'Ispettore della polizia pontificia.

Laonde a noi sembra dimostrato che le relazioni, le quali corrono tra il Governo pontificio ed il brigantaggio nelle provincie meridionali non sieno né la connivenza inerte della tolleranza, né la connivenza platonica della comunanza di desiderii, principii di scopo, ma bensì la complicità effettiva e reale della cooperazione. è il nesso che stringe l'effetto alla causa, la conseguenza alle premesse. E questa complicità si manifesta in tutti i modi e ad ogni occasione, con i mezzi morali patimenti che con i materiali. Il governo pontificio sovviene ed agevola in tutte le guise l'opera del brigantaggio: col danaro, con la protezione visibilmente accordata in Roma agli arruolatori di briganti, e con le istruzioni all'episcopato napolitano, le quali (e gli atti del processo di monsignor Prapolla, vescovo della diocesi di Foggia, non consentono di dubitarne) sono informate da senso di non dissimulata profonda avversione contro il Governo italiano. Tant'è, o signori, le mani sacerdotali si levano a benedire gli assassini, la croce è profanata a simbolo di eccidio e di rapina. Fra tanta luce di civiltà, la potestà temporale dei papi, quasi a confermare con la propria testimonianza il presagio della sua fine, stringe intima alleanza col brigantaggio, il quale da un prelato di Santa Chiesa in un documento, che non era destinato a venire alla luce, è definito la reazione salutare delle province napoletane! Comportandosi a questo modo il Governo pontificio, non solo offende la morale e commette la violazione manifesta dei principii del diritto delle genti, ma provvede anche assai male ai proprii interessi, e mentre si studia di avversare il consolidamento dell’unità italiana, corrobora sempre più negli animi degl'Italiani il convincimento della


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necessità di ricuperare la loro alma capitile. Didatti sé in qualsivoglia condizione di cose l’Italia vorrebbe ad ogni patto, com' è suo diritto, acquistare la sua naturale metropoli, oggi il volere è stimolato ed infervorato dalla condizione di cose che sussiste in Roma. Basterebbe l'istinto della propria conservazione a far desiderare agi' Italiani il ricupero di Roma, poiché in tal guisa sarebbe tolto il massimo alimento alla cruente piaga del brigantaggio. Dell'esistenza di questo convincimento negli animi delle popolazioni meridionali noi abbiamo avute continue occasioni di persuaderci. è un convincimento universale, che ha radici profondissime. A voce e per iscritto ci è stata ripetuta la medesima cosa. Uomini di tutte le condizioni e di tutte le opinioni politiche, dalle più temperate alle più superlative, dissenzienti pressoché in tutto sono stati consenzienti su queste vitale argomento. L'alleanza tra il brigantaggio e la potesti temporale dei papi Imi posto in risalto maggiore la necessiti della restituzione di Roma all'Italia.

Avvi dunque sulla superficie del suolo italiano un pezzo di territorio, dove accorrono gli avventurieri e i ribaldi di ogni risma, ed ivi impunemente apparecchiano offese e danni all'Italia. Frattanto su quel territorio spande la sua ombra formidabile il vessillo glorioso della Francia. A noi non compete in questo momento farci ad indagare ed a giudicare i motivi politici, che determinano il Governo imperiale a conservare le sue truppe in Roma, né di esaminare fino a qua).segno questa determinazione concordi con l'amicizia, della quale la Francia ci ha dato luminose prove e quanto sia conforme all'osservanza del principio di non intervento dalla Francia medesima confessato e propugnato dopo la pace di Villafranca; dobbiamo perciò restringerci a considerare l'occupazione francese nelle sue attinenze con l'argomento del quale trattiamo. Le quali attinenze sono di doppio genere, morali, doé, e materiali. Per quanto concerne le prime non è mestieri lunga riflessione per convincersi, che la permanenza delle truppe francesi in quella parte centrale della penisola


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italiana, porge pretesto ai nemici dell'Italia e dell'alleanza francese, di toglier feda ai destini di quella ed alla virtù di questa. 11 tema prediletto dei borbonici è che la Francia sia avversa all'unità italiana, e voglia ad ogni costo il ritorno ai patti di Villafranca. L'imperatore Napoleone, essi dicono, conserva i suoi soldati in Roma perché non vuole che l'Italia sia una. Questo ragionamento poggia su di un fatto senza alcun dubbio male interpretato, ma vero; e ciò basta perché produca grande impressione sugli animi delle popolazioni del mezzodì, e contribuisca ad avvalorare quel sentimento di sfiducia e di dubbiezza, a cui esse sodo tanto naturalmente proclivi. Né sotto l'aspetto materiale gli effetti sono di minore entità, poiché indubitatamente la giusta riverenza in che tutti teniamo la bandiera della Francia, i vincoli che ci stringono al suo potente sovrano ci tolgono assolutamente la libertà di azione, che sarebbe necessaria per recidere di un sol colpo, come agevolmente potrebbe farsi, il nerbo del brigantaggio. Le bande brigantesche vengono ad. infestare e devastare le nostre provincie! le truppe italiane accorrono ad interrompere quest'opera di sterminio, e non durano fatica ad aver ragione dei malviventi, ma quando sono sul punto di infliggere ad essi il meritato castigo e di collocarli Dell'impossibilità di rinnovare i nefandi tentativi, essi hanno già toccato il suolo, dove sventola lo stendardo francese, ed i nostri soldati non possono procedere oltre. I masnadieri tornano in tal guisa sicuri là dove tranquillamente e sicuramente si accozzarono per venire a predare di qua del Liri; ed in cosiffatta guisa le bande cento volte disperse e fugate, cento volte si riordinano, si riforniscono e tornano alle consuete imprese di devastazione e di sterminio; e della protezione che le armi francesi concedono al papa si avvalgono e si vantaggiano Chiavone e Tristany.

Vero è che le truppe francesi si comportano verso le truppe italiane come verso antichi fratelli di arme, e che i generali francesi hanno sempre usato ed usano ogni maniera di riguardi all'illustre vincitore di Traktyr ed


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ai suoi luogotenenti: vero è che quante volte, i hanno incontrato i briganti, li hanno dispersi, fugati od arrestati; ma è parimente vero che i Francesi avendo da fare con un Governo che a ricambio della protezione cerca tutti i mezzi di comprometterli, sono non di rado ingannati intorno alla vera indole delle cose, e generosi e leali quali essi sono non aggiustano fede alla furberia ed alla scaltrezza, delta curia romana, e son proclivi a credere che nei racconti di partecipazione del Governo pontificio al brigantaggio siavi per lo meno molta esagerazione: vero è pari menti che per combattere con efficacia il brigantaggio avrebbero d'uopo del concorso della polizia locale, e che questo concorso non solo non l'hanno, ma hanno l'opposto; tutte le valle diffatti che essi si mettono in movimento e divisano fare qualche operazione, i briganti ne sono incontanente informati dalla polizia pontificia. Tempo fa, a cagion d'esempio, era deliberata l'occupazione del convento di Trisulti, nido e ricettacolo di briganti: la vigilia già quei frati, complici e manutengoli dei masnadieri facevano partire questi, e apparecchiavano allegramente gli alloggi per le truppe francesi. Vero è parimenti che i Francesi procedono nelle loro operazioni con quella gaia disinvoltura che è l'attributo dei prodi, ma che toglie dall'usare quelle precauzioni che sono indispensabili nella guerra contro i briganti: il suono delle trombe, la stessa rumorosa giovialità da cui il soldato francese è compreso al momento in cui sa che va ad affrontare un pericolo sono tanti avvisi dati ai briganti, i quali ne traggono profitto e non si fauno più trovare: vero è patimenti che i Francesi stimano loro debito assoluto d'impedire la violazione della frontiera, e che lo esagerano al segno da allarmarsi, se veggono nelle acque di Terracina qualche nave italiana in crociera, il cui scopo non è né può essere altro se non quello di vigilare i possibili tentativi di sbarco dei malviventi sulla costiera di Gaeta. I danni che da ciò risultano alle operazioni della truppa italiana sono evidenti: i briganti non astretti dalle leggi dell'onore passano la frontiera eludendo facilmente


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la vigilanza dei Francesi, laddove i nostri soldati, fedeli al loro dovere ed alle loro istruzioni, appena raggiunto il confine si fermano: ai briganti, vale a dire, rimane la libertà dell'offesa, ai soldati italiani è tolta quella della difesa. E quando 6 avvenuto che o per imperfetta cognizione delle località, o per mancanza di determinazione pratica nella linea di frontiera, o per necessità ineluttabile i nostri soldati abbiano oltrepassato il confine, il comando francese in Roma ha abbondato nelle rimostranze e nelle proteste. In una occasione anzi tre briganti nativi della selva di Sora essendo stati catturati dai nostri soldati di là dal confine, le autorità francesi ne chiesero la consegna, la quale non potè essere negata. I particolari del fatto sono i seguenti. Il giorno 24 gennaio 1862 il comandante d'Isola, avendo avuto avviso che alcuni briganti solevano passare la notte in una capanna da pecoraio nella località detta Vallata di Sant'Elia, prossima alla frontiera pontificia, diede gli opportuni ordini per catturarli. La operazione venne eseguita di nottetempo, ma l'abbaiare di un cane diede l'allarme ai briganti, i quali si diedero alla fuga. Per meglio inseguirli il comandante divise i suoi uomini in tre drappelli, uno dei quali dopo breve corsa s'imbatté in una casetta che stimò opportuno perquisire, e dove trovati tre individui, Antonio Cascherà detto il Tartaro, Donato Cascherà il di lui figlio, e Loreto Capobianco, e riconosciutili per briganti li arrestò. 1 due primi facevano parte della banda Chiavo ne, e il terzo era uno sbandato. Essendo stati presi senz'arme vennero consegnati al potere giudiziario. la seguito si venne a sapere che la casetta dove i malviventi avevano trovato asilo era collocata sul territorio pontificio a pochi passi dalia nostra frontiera; ciò bastò perché fossero reclamati dal comandante francese: e diffatti il giorno 19 marzo 1862 vennero consegnati. In altre occasioni i comandanti italiani hanno chiesta ai francesi la estradizione di assassini ricoverati sul suolo pontificio, e la domanda dopo lunghe pratiche è stato esaudito. Dal complesso di questi fatti e di queste considerazioni


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chiaro si scorge come il concorso delle truppe francesi alla repressione del brigantaggio non abbia la efficacia che a noi tornerebbe di tanta utilità, e che i Francesi desiderano si abbia. Sarebbe mestieri la vigilanza dei Francesi sulla frontiera fosse maggiore di quella che è, e segnatamente che vi fossero accordi positivi tra essi e la nostra truppa per conseguire l'unità di azione, senza di cui non è lecito sperare utili pratici risultamene Sul finire del 1861 fuvvi speranza di addivenire a questi accordi; ma le pratiche intavolate tra il generale Covone, comandante la zona di Gaeta, e il generale Goyon, e l'invio all'uopo in Gaeta dei capitano di stato maggiore francese Parmentier non sortirono l'effetto desiderato. In guisa che mancano anche attualmente norme positive e ben determinate per regolare l'azione simultanea e concorde delle truppe italiane e delle truppe francesi, e tutto è in balìa dello, zelo dei comandanti francesi e del buon volere del conte di Mootebello, generale in capo» il quale ne mostra molto ed usa tutti i riguardi ai nostri ufficiali. Fra gli antichi commilitoni di Crimea, di Palestra, di Solferino, a malgrado della difficile e dilicata posizione nella quale si trovano reciprocamente collocati gli uni verso degli altri, non sono rallentati i vincoli della fratellanza stretta nelle gloriose battaglie, nei pericoli comuni. Rallegrandoci di questo fatto noi dobbiamo altamente deplorare che possano sussistere tuttavia ragioni politiche9 per le quali è serbato ai più pertinaci nemici della Francia e dell'Italia il privilegio di potere congiurare impunemente contro la Francia e contro l'Italia all'ombra della bandiera francese.

A Roma dunque è l'officina massima del brigantaggio, in tutti i sensi e in tutti i modi, moralmente e materialmente: moralmente perché il brigantaggio indigeno alle provincie napoletane ne trae incoraggiamenti continui ed efficaci: materialmente, perché ivi è il deposito, il quartiere generale del brigantaggio d'importazione. Fra le sorgenti di questo brigantaggio non annoveriamo gli sbarchi, poiché se se ne eccettua quello del Borjes


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sulle coste di Calabria, non pare ve ne siano stati altri. Ne furono temuti nelle vicinanza di Taranto sul littorale del mar Ionio, ed in alcuni paesi dell'Adriatico, ma non si avverarono. Qualche barca forse con pochi uomini, procedente da Corfù, riuscì ad approdare furtivamente in qualche punto dell'Adriatico e del mare Ionio, ma fu cosa di poco momento. Fu pure supposto che la recrudescenza del brigantaggio succeduta in Terra d'Otranto nell'autunno scorso fosse dovuta a sbarchi; difettano le prove per giudicare se cotesto presupposto abbia oppur no fondamento di vero. Per qualche tempo fu veduto un bastimento austriaco stazionato nelle acque di Gallipoli sul mar Ionio, ma senza nessuna conseguenza. Da Barcellona sono partiti talvolta degl'individui per ingrossare la banda di Tristany, ma sbarcarono a Civitavecchia. L'attiva vigilanza delle nostre navi lungo il litorale del Mediterraneo da Civitavecchia in giù ha senza dubbio impediti i tentativi di sbarco nelle vicinanze di Gaeta, ed i briganti hanno sempre preferito di gettarsi in Terra di Lavoro per la frontiera terrestre. È chiaro che gli avventurieri ed i malviventi che si addicono al mestiere di briganti fanno tutti capo a Civitavecchia ed a Roma, e che di là, a preferenza di qualsiasi altro punto, muovono per dare opera alle, loro gesta.

Questa, o signori, è la storia delle varie cagioni che predispongono al brigantaggio, che ne hanno determinata la produzione nel 1860, e che negli anni successivi lo hanno alimentato. È una vasta cospirazione di cose e di uomini, di fatalità e di errori, di passioni e di pregiudizi, della storia e della politica, a danno della sicurezza delle provincie del mezzogiorno e della forza dell'Italia. La sola enunciazione delle cagioni che alimentano il brigantaggio tosta a far rendere ragione della durata del male e delta inefficacia dei rimedii: perché è cosa evidente che quando le forze più adatte a contrastare il male sono appunto quelle che più lo alimentano, i rimedii non possono avere la virtù di curarlo. Questi rimedii del resto si riducono ad un solo, all'azione militare.


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Il brigantaggio è stato quando più, quando meno, ma in sostanza sempre, considerato come questione di forza, e quindi per combatterlo non si è saputo far altro di meglio se non contrapporre forza a forza. L'incarico di purgare il mezzodì della nostra penisola dalle orde che lo infestano venne perciò affidato all'esercito. Ma il nodo del brigantaggio va sciolto con provvedimenti opportuni, non può essere reciso dalla spada: in cosiffatta questione la parte militare è accessoria, è secondaria: è un ottimo e talvolta indispensabile mezzo di azione, ma non è né può esserne il principio informatore. Se si fosse trattato davvero di una questione di forza, la quarta parte delle truppe che ora sono adoperate nelle provincie meridionali a combattere il brigantaggio sarebbe stata più che sufficiente a raggiungere lo scopo. Ma senza una buona e provvida amministrazione, senza polizia, senza una giustizia imparzialmente e prontamente amministrata, gli effetti dell'azione militare sono di necessità scarsi e poco durevoli. In cosiffatte condizioni di cose l'azione militare è un energico palliativo, il quale non impedisce la rapida e pronta rinnovazione del male.

Nell'esprimervi questa opinione, che è pur quella dei capi e degli ufficiali del nostro esercito, la vostra Commissione non può tralasciare di rendere all'esercito nostro un ampio tributo di ammirazione e di affetto. la questa ingloriosa e mesta guerra contro il brigantaggio l'esercito italiano non ha curato né pericoli, né disagi, né fatiche per adempire il proprio dovere, né la tenuità dei risultamenti, né il continuo rinnovarsi del male lo hanno scosso od abbattuto. Il nostro esercito ha dato saggio di quell'eroismo tranquillo e paziente che sovrasta anche al valore e che è tanto più degno di riscuotere ammirazione quanto è più difficile a praticare. Il campo di battaglia abbonda di attrattive per i valorosi; la stessa vista delle schiere inimiche infiamma ed inebbria: l'entusiasmo, l'amore della gloria sono naturali e potenti stimoli alle grandi gesta, agli atti di eroismo; ma tutte coteste attrattive mancano nella guerra contro i briganti.


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Sono nemici abbietti che non combattono se non quando assolutamente non possono fuggire, ovvero quando si affidano all'eccesso del numero, ed i nostri soldati lo sanno, e quando vanno ai cimenti non sono confortati dal pensiero d'incontrare una morte invidiala per mano di valorosi nemici, ma persuasi che corrono rischio di cader vittima di qualche agguato, e di essere miseramente straziati e trucidati. Un impeto di entusiasmo basta ad improvvisare gli eroi; ma non s'improvvisa ad un tratto l'eroismo che regge all'opera dissolvente dei disagi, delle privazioni, delle fatiche, delle malattie, e non si logora, né si sgomenta per mancanza di grande e durevole risultamento. I nostri soldati sono privilegiati in supremo grado di questa virtù che è l'eroismo del dovere e dell'abnegazione. Il solo conforto che essi hanno è quello che nasce dalla coscienza del dovere, e questa coscienza è la loro forza e la loro grandezza. Ben si poteva senza far onta all'esercito temere che in codesta guerra alla spicciolata, la quale rende necessaria la dispersione e lo sparpagliamento delle forze, la disciplina ne sarebbe scapitata. Ci sono delle compagnie che per mesi e mesi non veggono il colonnello del reggimento al quale appartengono: ci sono dei reggimenti di cavalleria che per la necessità del servizio tengono stanza in tre ed anche in quattro provincie; quella dei cavalleggieri di Saluzzo, a motivo d'esempio, ha il comando in Nocera, e tiene drappelli ad Eboli in provincia di Salerno, a Venosa, e Melfi, in Basilicata, in Terra di Bari, in Terra di Otranto. La disciplina è stata dunque sottoposta ad;un esperimento il quale sembrerà, come diffatti era, tanto più pericoloso, qualora si ponga mente che nell'esercito sono molti soldati nuovi, molti coscritti, e che esso in certo modo è in via di formazione. Ma l'esito ha compiutamente dileguato i fondati timori; anziché mancare alla disciplina, l'esperimento l'ha corroborata. Fra i vecchi soldati col petto coperto delle medaglie commemoratici di Unte gloriose battaglie, e i nuovi che aspettano a fregiarsi di quelle che ricorderanno le battaglie avvenire, non è stato


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divario, e gli udì agli altri sono stati di reciproco pio ed incoraggiamento. Le difficoltà non li sgomentano, anzi li allettano; non li sorprendono, anzi porgono ad essi l'occasione di provare fino accorgimento, di usare ripieghi ingegnosi. Valgano ad esempio i seguenti fatti, dei quali da contezza il nostro onorevole collega il generale Reccagni, comandante in capo la divisione militare degli Abruzzi.

Un sergente del 42.° reggimento fanteria, sull'imbrunire del giorno 7 agosto 1862 andava alla testa di pochi uomini da Lanciano ad Atessa in provincia di Cheti. Egli ed i soldati vestivano l'abito di tela, ed alcuni contadini scambiandoli con i briganti si unirono ad essi. Il sergente si avvide dell'errore, ma non si affrettò a dissiparlo: seppe da quei sciagurati molti ragguagli sugli eccidii e sulle rapine commesse e su quelle che avevano disegno di commettere, e poi giunti nelle vicinanze di Atessa li arrestò. Il giorno 16 settembre dello stesso anno, un ufficiale del 6.° reggimento di fanteria sapendo che una comitiva di briganti infestava i monti prossimi alla città di Sulmona, travesti da brigante sé medesimo e pochi soldati, e si finse capo di un'altra comitiva. Riuscì con quest'artiflzio ad abboccarsi col capo della vera comitiva, ed accompagnato da un solo dei suoi si addentrò con quello nei nascondigli dei masnadieri e si accertò della connivenza di due sindaci. Di lì a poco in conformità di quanto venne prestabilito gli altri soldati lo raggiunsero, s'impegnò la zuff, lottò corpo a corpo col capo della banda, lo uccise; gli altri della comitiva furono ammazzati, feriti, fugati: la banda fu distrutta.

Ai disagi, alle privazioni, agli stenti si aggiungono le malattie, prodotte in gran copia e dalla faticosa vita e dal clima, il quale segnatamente nella stagione estiva, in Capitanata è micidiale. Le febbri, più crudeli dei briganti, mietono tante nobili vite, o maltrattano in guisa da rendere inabili per un pezzo se non per sempre al servizio militare.


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Il colonnello Migliare, comandante l'8.° di linea, che per parecchi mesi stanziò in Capit: nata, ci narrava i seguenti particolari intorno alle fatiche ed alle sofferenze di quel reggimento. Su 1800 uomini annoverò talvolta fino a 360 ammalati; in ogni compagnia di 100 uomini non erano disponibili che 35. Nel mese di gennaio il reggimento era traslocato per rifarsi da tante fatiche a Nocera, ed ivi sull'effettivo di 1200 uomini vi erano 293 ammalati. In un solo mese per spossatezza perirono 80 uomini e 3 uffiziali. Nello spazio di pochi mesi la spesa dei medicinali oltrepassò i cinque mila franchi. Mancavano gli ospedali. Per mesi interi non era possibile svestirsi, né dormire su pagliaricci. Le fatiche erano eccessive, perché il reggimento doveva guardare ed invigilare una estensione di territorio della circonferenza di 100 miglia. Una colonna da Cerignola fino a Troia ed a Serracapriola; un'altra guardava la regione garganica. Doveva fornire 60 uomini al giorno per la custodia delle carceri di Lucera, i quali si alternavano con altri 60 col solo riposo della notte. Un giorno il numero degli ammalati crebbe al segno che fu mestieri porre a sentinella delle carceri i componenti la banda musicale del reggimento. Questo doveva fornire un distaccamento a Manfredonia e provvedere alla scorta tra Lucera e Troia, tra Lucera e Foggia, tra Lucera e Sansevero, tra Lucera e Torre Maggiore e lungo la via sannitica. Spessissimo era d'uopo di uomini per le perlustrazioni e per gli agguati. Nel tempo della mietitura per impedire che i briganti incendiassero le messi, i soldati dovevano passare le notti in campagna. Nel tempo delle seminagioni dovevano fare altrettanto. E poi i bisogni sorgevano cosi improvvisi da non poter tenere nemmeno una compagnia in riserva. Questi particolari intorno alle sofferenze di un solo reggimento bastano a dare una idea di ciò che soffre l'esercito: la storia degli altri reggimenti non è purtroppo diversa. I quarti battaglioni del 21.° e del 28.0 di fanteria, che passarono alcuni mesi nel vallo di Bovino, furono pure dolorosamente sperimentati dalle malattie e dalle privazioni.


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Ai patimenti delle persone si aggiungono i danni nel vestiario e nella calzatura: è agevole imaginare che cosa debbano diventare gli uniformi e le scarpe dopo una perlustrazione per boschi e dirupi, per valli e burroni, scavalcando siepi, guadando torrenti. Nella cavalleria i patimenti non sono minori. Su tre squadroni dei lancieri di Montebello, di guarnigione in Capitanata, si annoveravano in gennaio scorso 92 ammalati e 52 in permesso di convalescenza. Per evitare le recidive è d'uopo accrescere il numero dei congedi.

Tanti patimenti, ci è grato il ripeterlo ad omaggio del vero ed a comune conforto, non turbano la serenità del soldato italiano, non gli scemano l'energia e lo zelo nell'adempimento dei suoi doveri, non intaccano, né scuotono la disciplina. L'esperimento era difficilissimo e pieno di pericoli; il prospero successo che esso ha sortito è la testimonianza irrecusabile della virtù ordinatrice, da cui sono privilegiati gl'Italiani, e la guarentigia infallibile della unità nazionale. La guerra contro il brigantaggio ha posto in risalto in modo luminoso le virtù del soldato italiano; ha dimostrato quanta potenza di eroismo longanime si raccolga in petto ad uomini che obbediscono alla voce del dovere e dell'onore, e di qual prezioso tesoro di forza morale sia sorgente una tradizione militare pura e gloriosa, com'è quella che dopo otto secoli l'esercito piemontese ha tramandata all'esercito italiano. La oscura e penosa guerra contro i briganti implicando in sé tutti gli elementi più dissolventi che possano immaginarsi, poteva tornare di massimo danno all'ordinamento militare dell'Italia; invece è succeduto l'opposto: l'esercito nostro ha resistito e superato quegli elementi dissolventi, i quali non hanno potuto impedire che esso si agguerrisse, né interrompere quel mirabile lavoro di unificazione che nelle fila dell'esercito è compito.

Fra tante testimonianze che abbiamo raccolto intorno alla condotta delle truppe ci basti ricordare quella del commendatore Antonio Spinelli, già presidente del Consiglio dei ministri di Francesco II in luglio 1860:


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“La truppa, egli ci diceva, nel combattere il brigantaggio è stata veramente eroica. Ha reso immensi servizi; ha fatto prodigi di valore: senza di essa ci sarebbero ora 20,000 briganti. Ha un'abnegazione senza esempio. Sono e virtù di tutte le armi dell'esercito.”

Ma la vostra Commissione non crederebbe di aver compito il proprio dovere se discorrendovi in tal guisa dell'esercito uon ricordasse il nome dell'illustre guerriero, cui è affidato il comando del sesto dipartimento militare. Egli già tanto benemerito dell’Italia, a cui dopo Novara apparecchiò il nucleo del suo esercito e la cui fortuna inaugurò nei lontani campi della Crimea, ha accresciuto ed accresce nel mezzodì dell'Italia i suoi titoli alla riconoscenza Nazionale. Di questa riconoscenza noi vi preghiamo, o signori, di essere gli autorevoli interpreti onorando nel generale Alfonso La Marmora quell'esercito che è l'inespugnabile presidio della unità e delle franchigie dell'Italia, ed uno di quei grandi e rari caratteri che sono l'orgoglio e la salvaguardia dello libere nazioni.

Lo stato numerico delle forze da cui si compone il sesto corpo d'armata è il seguente. La totalità della forza attiva dei corpi o frazioni di essi mobilizzati e delle forze sedentarie è di 85,940 uomini. Le forze mobilizzate ammontano a 65.875 uomini, sui quali a tutto il 31 marzo dell'anno corrente erano 4855 ammalati. Queste forze sono ripartite in parecchie zone e sottozone militari, i cui comandanti hanno piena libertà di azione nelle operazioni contro il brigantaggio. Nella forza attiva sono compresi sette reggimenti di cavalleria: i lancieri di Montebello, i lancieri di Aosta, i cavalleggieri di Lucca, gli Ussari di Piacenza, i cavalleggieri di Saluzzo, i lancieri di Milano, i cavalleggieri di Lodi. I primi quattro stanziano in Capitanata; il quinto nelle provincie di Salerno, di Potenza, di Bari e di Lecce; il sesto è a Caserta, nel Beneventano e nei dintorni di Napoli.

L'enumerazione di queste forze ci sembra valido argomento a persuadere che se si fosse trattato di una quistione militare essa sarebbe già da un pezzo composta e risoluta.


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 Né per valore di certo, né per numero i briganti potrebbero nemmanco tentare dì competere con soldati come sono i nostri; ma ai briganti sono sussidio efficace la stessa codardia e la stessa scarsezza numerica. La loro tattica è semplicissima: raro avviene che si adunino in grosse bande, perché sanno che allora torna assai agevole alla truppa di trovarle e di distruggerle. Non aggrediscono mai, e se aggrediti, furono sempre. Tendono agguati ed imboscate, quando hanno la certezza del sicuro scampo e della sovrabbondanza numerica sui soldati. Assalgono quando sono in proporzione di cinque o più contro uno. Non ci è esempio che abbiano mai osato aggredire una compagnia di soldati. Predare, uccidere, fuggire, stancare la truppa il più che è possibile, questa e non altra è la strategia dei briganti. I soli artifizi militari che adoperano sono quelli che vengono suggeriti dall'istinto, hanno vedette, e quando vanno a cavallo dispongono alcuni di essi a modo di fiancheggiatori. Maneggiano le armi con poco accorgimento, e le scariche dei loro fucili tornano soventi volte innocue. Raro è che abbian l'ardimento di combattere corpo a corpo; e profittano abilmente della conoscenza che hanno dei più lievi accidenti di terreno per scegliere le posizioni dove più facilmente offendendo, più difficilmente possano essere offesi. Non è vero che tutti vadano a morte con coraggio; ciò è avvenuto in taluni casi, ma non è la regola generale: a meno che si voglia confondere la stupidità con lo stoicismo, il forte disprezzo della vita con la freddezza dell’abbrutimento. Per la massima parte vigliacchi, posseggono tutti gli attributi della vigliaccheria, e massimo tra essi la ferocia. Noi non vogliamo funestarvi, o signori, con la narrazione delle atrocità che i briganti commettono sugli infelici che cadono nelle loro mani. Più che opera di creature umane sembrano essere quelle di cannibali e di belve selvaggie. Talvolta l'immanità di taluno di essi è giunta al segno da fare inorridire gli stessi compagni, e ci si è narrato il caso di un Cerritacchio, che lo staso Curato fece ammazzare


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 f perché aveva.torturato con g£dì mao strazio un misero fanciullo. N£ la stessa morte della appaga e slanra La ferocia di'i masnadieri, ì quali sf«v libidi uè di sangue da cui sono invasali anche e cadaveri. 1 vit issimi Ira loro sono i ferorissinii: U un Coppa che è con Crocco, un Varanelli che è i rusoFra meco sitibondi di sangue sono Schia Coppolonc. Sono rotti ad ogni lascivia e turpit pronti ad ogni delitto: bevono il sangue, mang carni umane. Sono rozzi, superstiziosi, ipnorani io generale non tagliano mai i fili dei telegrafi e ma alle volle è avvenuto che recidessero alcuno e Don tulli, direndo di tagliare quelli cheservow torio Emanuele, non quelli che servono a FraneI capi sono la maggior partp fumiti da le carceri galera. Caruso, di Torre Ma&giore, era un past principe di Snnsevero; sostenuto in carcere per comuni, ebbe agio d< grappare e si diede in csa Ninco Nanco è un miserabile rontadioo di Avigìi quale custodiva private proprietà mi bosco di Lgo fu condannato nel 18S6 per omicìdio; scappò da ceri nel 1860; andò a Napoli a presentarsi al g Garibaldi; gii fu ingiunto di tornare in parse, e si diede in campagna. Crocco, nativo dì Rione vaccaro: fece, parte dell'esercito borbonico; perst dalla giustizia prima del 1860, in quell'epoca si gran torto di ammetterlo nelle fila degl'insorti causa della libertà, e sperava l’impunita; tua seppe che gli sì spiccava roniro il mandato di « diede a fare il reazionario ed il brigan'e. Arri tradotto nelle carceri di Tentinola trovò mezzo di 1 Coppa da San Feta in Basilicata, è imo sbandate Serra vai le, di Marcane, io Calabria Citeriore, è t cida scappato due volte dal'e gali re. Tortora, d candida, è uno sbandatoMarsino, da Morsico l’aiìch'egli uno sbandalo. Pilone era uu mastro lino di Bosco Tre Case, che per dissidi avuti e urbane di quel paese fu posto in carcere,


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poi per la protezione del capitano Caracciolo. Nel 1860 seguì l'esercito borbonico in Sicilia, e poi reduce in patria si mise in relazione, per mezzo dei Corniteli borbonici, con Francesco II, ed organizzò la comitiva che per mesi e me3i ha infestato le vicinanze del Vesuvio e di Napoli. Altri capi di piccole e sanguinarie comitive sono od erano Nicandruccio, Nicandrone, il principe Luigi, Mangiacavallo, Orecchiomozzo, Bruciapaese: orrendi nomi di più orrendi uomini. Le fattezze morali di questi ribaldi sono le stesse; essi sono i Mammone, i Pronio, i De Osare, i Fra Diavolo dell'epoca nostra; degni in tutto e per tutto dei loro antecessori; Marescialli in pectore di Francesco II, vera immondizie di plebe.

La descrizione dei costumi e dell'indole dei componenti le bande è stata fatta da un testimonio, la cui imparzialità non può essere argomento della menoma dubbiezza, da uno dei loro stessi capi. Il sergente di Gioia, quegli medesimo che facera prestar giuramento di fedeltà ai suoi masnadieri, e che li intitolava giurati della fede cattolica, aveva l'uso di scrivere di tempo in tempo qualche memoria e qualche appunto, che vennero rinvenuti nel suo taccuino, e che ora fanno parte dei documenti del processo in via d'istruzione a carico dei suoi complici. Cotesto brigante non era cosi abbietto come gli altri: aveva coraggio, e diffatti perì combattendo; nella sua indole era uno strano miscuglio di bieco fanatismo e di rozza pietà, no la consuetudine del delitto gli aveva soffocato ogni senso di onestà; un qualche spiraglio di luce rischiarava talvolta l'oscurità della sua coscienza, e componeva l'animo suo alla invincibile melanconia del rimorso. In quei momenti di abbandono con sé medesimo scriveva il suo diario che intitolava: Le mie disgrazie. Udite, 0 signori, quali giudizi la verità gli strappasse intorno ai suoi compagni. Ne trascriviamo originalmente alcuni brani: «Dopo un anno incirca di boscosa solitudine un di si presentano meco tredici masnadieri, individui mediocremente armati, accennandomi essere difensori di


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Francesco II e della santa Chiesa cattolica romana. Io desideroso far compagnia in tale oggetto onde difendere i sovracitati diritti esattamente, ai quali era ben disposto da mollo tempo, come a tutti è ben noto, accoglieva detti uomini e con tutto zelo incominciava subito ad occuparmi a tutto quello che mi conveniva. Al che questi mi accettarono per loro capo, dovevano stare sotto la mia obbedienza per tutti quei buoni comandi che da me si emanavano pel bene del nostro Re e della propria vita.

Ma siccome in questi esisteva il solo sentimento di rubare e non mai quello di farsi onore di eguaglianza al mio, incominciavano ad agitarsi contro me permettendosi dire fra di loro stessi: noi siamo usciti in campagna e siamo chiamali ladri e dobbiamo rubare, e se il nostro capo non fa come noi diciamo, mala morte e farà oppure resterà solo.

Tal congiura portava presso di me senza saperlo. Si permettevano pure fare i furti senza la mia conoscenza, dove io ordinava di andare ordinatamente e militarmente con educazione.

Ecco che Dio, siccome non ha mai permesso la falsità, ha dimostrato subilo che chi credeva ingannare è l'ingannato, come loro tradivano od ingannavano me, che cercava farmi e farmi onore; cosi da un traditore più fiero ed ancor di loro esser amaramente tradito e con mio gran duolo disfatti, e la maggior parte di atroce morte   

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Permise pure il sempre lodato Iddio che quantunque rimasto solo nel più crudo ed atroce combattimento, pure nondimeno fui salvo mediante la sua protezione.

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Mi dolgono immensamente quei pochi raccolti da me dopo, da tredici sino al numero di venticinque, che forse, se non tutti, parte innocenti ed ingannati, come me, pure ne perirono.

Ma Dio poi, sa non in questo mondo, nello eterno


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saprà rimunerarli. Per me sta che quello che ne mori nell'innocenza, morì martire ed ha fatto un grandissimo acquisto nella eterna vita.

Sono questi presso Iddio.»

I briganti forestieri sono avventurieri, i quali si vorrebbero spacciare come campioni del principio della legittimità, ma in realtà altro non sono fuorché gente che va in busca di lucri e di ricchezze. Tal è, a modo di esempio, lo spagnuolo Tristany, il quale si atteggia a capo di truppe regolari e fa pómpa del titolo di generale di Francesco II, senza però impedire a quelli che chiama suoi soldati di comportarsi da veri briganti. Alla schiera di avventurieri stranieri appartenevano il De Christen. il Lagrange, il Langlois, lo Zimmerman, ed il più infelice di tutti lo spagnuolo Borjes, il quale troppo tardi si avvide che le decantate falangi di Francesco II erano torme di volgari assassini.

Le località predilette dai briganti sono le rive boscose dell'Ofanto e del Fortore. Dalle prime infestano il circondario di Melfi in Basilicata, quello di Sant' Angelo dei Lombardi in Principato Ulteriore, quelli di Altamura e di Barletta in Terra di Bari, quelli di Foggia e di Bovino in Capitanata. Dalle seconde il circondario di Sacsevero e la regione garganica in Capitanata, la provincia di Benevento e il circondario di Larino nel contado di Molise. Crocco con Coppo e Sacchitiello è sull'Ofanto; va di tratto in tratto a raggiungerlo Ninco Natìco, la cui stanza è il bosco di Lagopesole. Schiavone corre dal vallo di Bovino al circondario di Ariano e nel Beneventano. Caruso con Varanelli è sul Fortore, e di là talvolta solo, talvolta con altre bande fa scorrerie nella pianura di Capitanata, nelle falde del Gargano, nel Molise enei Beneventano. CoppoIone e Serravalle si aggirano nel circondario di Matera in Basilicata, e di là stendono le loro scorrerie verso la marina dell'Ionio fino al bosco di Ginosa. Tortora è nel bosco di Ripacandida. I boschi di San Cataldo, di Montemilone ed altri in Basilicata sono ricovero frequenti di briganti. Il piccolo bosco dell’Incoronata tra Foggia


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e Cerignola fu pure per molto tempo la base delle toro operazioni. Traevano le provvisioni da Foggia e da Manfredonia, facevano le loro scorrerie, e quindi celavano uomini e cose in quel bosco. Pizzichicchio si ricovera nel bosco di Marsano io Terra d'Otranto, e di là fa scorrerie nelle terre circostanti. In provincia di Salerno vi è la banda di Tardio nel circondario di Vallo, quelle di Ricci e di Marcantonio nel circondario di Campagna. Nel circondario di Vasto, in provincia di Chieti, vi è la comitiva di Pizzolungo, che si ricovera abitualmente nel bosco Petacciato. Nella provincia di Terra di Lavoro vi sono gli avanzi della banda di Maccarone. Nelle parti montuose di questa provincia confinanti con quella di Avellino s'aggira una piccola banda, di cui sta a capo un Piciocchi, la quale si mostra talvolta presso Monteforte nel circondario di Avellino. Nell’Abruzzo teramano, nell'aquilano sono malviventi qua e là sparsi, non vere bande, tranne ben inteso quelle che fanno irruzione dalla frontiera romana. Nella provincia di Reggio in Calabria non ò brigantaggio di sorta. Nelle altre due Calabrie (la provincia di Cosenza e quella di Catanzaro) le proporzioni del brigantaggio sono di poco momento. Nel Gargano parimente qua e là si annidano a due, a tre, a sei, parecchi malandrini. Il grosso delle bande adunque si aggira sulle rive dell'Ofanto e del Fortore, ed è composto da quelle a cavallo. Una determinazione precisa del loro numero sarebbe impossibile. Ogni capobanda ha attorno a sé un nucleo di 15 a 20 persone, al quale si aggiungono eventualmente in vano numero i briganti di occasione; sicché di rado i venti diventano cento in modo quasi istantaneo. Nell'agguato teso in marzo scorso ad un distaccamento di cavalleggieri di Saluzzo i briganti assommavano ad un centinaio, ed erano le bande riunite di Crocco, di Gioseffo da Barile, di Coppa, di Ninco Nanco e forse anche di altri. Parecchi dei capobanda poc'anzi nominati sono rimasti chi con dieci, chi con sette echi anche con tre soli seguaci. Nel valutare anche approssimatamente le forze numeriche del brigantaggio


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non vanno dimenticati i briganti avventizi, i ladri comuni, il cui numero trovasi notevolmente accresciuto delle località travagliate dai flabello del brigantaggio si avvera lo stesso fenomeno che succede in quelle afflitte da qualche epidemia; come in questa unte le malattie pigliano la forma della epidemia regnante, cosi in quelle tutti i delitti partecipano alla forma del brigantaggio. Il fenomeno non è nuovo, anzi la sua intensità odierna è minore di quella che fu altra volta, allorché le provincie meridionali versavano in condizioni identiche alle attuali.

«Fra i delitti di brigantaggio, così Pietro Colletta, e quelli che dal brigantaggio derivavano, il corso giudiziario del regno numerò in quell'anno (1809) trentatré mila violazioni delle leggi» (1). Lo stesso storico narra che Giuseppe Napoleone, durante il suo regno sol trono di Napoli, non osò «porre io piede la coscrizione, perché la ripugnanza dei popoli al militare servizio, l'istesso brigantaggio, la facilità dei coscritti di fuggire in Sicilia facevano temere che uomini levati per noi servissero di aiuto e di reclutamento al nemico; e rispetti gravi e veri, non dispregiati nei primi tempi del regno dallo stesso arrischioso Gioacchino (2)». Il Governò italiano invece ha osato procedere alla leva nelle stesse provincie per ben due volle, a norma della legge napoletana la prima, della legge siciliana la seconda, ed il risultamelo di questa, come già abbiamo avuto la soddisfazione di ricordare, ha vinto i pronostici del più fiducioso ottimismo.

Il brigantaggio però è uno di quei malanni la cui intensità mal si giudica dalle proporzioni esteriori e dalle forze numeriche: anzi è tanto più difficile a sradicare, quanto più esigue diventano le sue proporzioni e le sue forze. è un germe d'infezione che ad ogni patto è d'uopo eliminare dal corpo sociale, poiché bastano le più lievi occasioni perché ad un tratto il male che si credeva spento si faccia gigante, e cagioni gravi e profonde perturbazioni.


(1) Vedi Colletta, vol. III. pag. 4)0. (V M, pai. 401.


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Al governo ed al Parlamento incombe l’obbligo di avvisare a tutti i provvedimenti che meglio conferiscano a curare quella piaga. L'adempimento di quest'obbligo sarà mezzo efficacissimo a ravvivare la fiducia ed infondere negli animi delle popolazioni meridionali quella sicurezza nell'avvenire, che è il vigore e la forza delle nazioni. Fra le cause che alimentano il brigantaggio vanno, senza dubbio, compresi il sentimento della sfiducia ed il malcontento, ma la permanenza del brigantaggio alla sua volta trasforma queste due cause in effetti; giacché facilmente si addebita a malvolere ciò che deriva da necessità o da involontario errore, e si ascrive ad impotenza della libertà ciò che è conseguenza inevitabile della novità dei casi e delle condizioni. Noi abbiamo perfino udito dire in alcune località prevalere l'opinione che il Governo facesse a bella posta durare il brigantaggio con lo scopo di procacciarsi un valido argomento per persuadere i Francesi a cessare dall'occupazione di Roma! Urge adunque fare ogni opera perché il male venga curalo ed estirpato; urge dimostrare alle popolazioni che la libertà di esse invocata possiede la facoltà di assicurare la loro prosperità, e che mutando la loro condizione di sudditi di un Governo dispotico e nemico alla nazione in quella di cittadini del regno d'Italia, hanno conseguito tutti i vantaggi ed i benetìcii del vivere libero e civile. La questione del brigantaggio è estranea alle controversie politiche ed alla diversità dei partiti; a chiunque non sia disonesto deve stare sommamente a cuore, che i provvedimenti per comporta siano energici, ed efficaci, e prontamente attuabili. Sotto questo aspetto noi abbiamo studiata la questione, e non indarno confidiamo che alla stessa guisa sarà da voi, o signori, contemplata e giudicata.

Ma quali possono essere i provvedimenti che debbono adoperarsi per liberare il mezzodì della nostra Penisola dal brigantaggio? Lo scioglimento di questo problema è l'ultima parte del mandato che vi piacque affidarci, e quindi dopo avervi esposto il risultamene delle


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nostre indagini intorno alle cagioni del brigantaggio ed alle sue attuali condizioni» ci corre ora il debito di dichiararvi quali abbiano ad essere, a nostro giudizio, i provvedimenti ed i rimedi.

La classificazione delle cause del male racchiude la evidente indicazione di cotesti provvedimenti e rimedi, i quali è mestieri sieno rivolti a rimuovere le cause predisponenti, a combattere te cause che hanno determinato la recente manifestazione del doloroso fenomeno, ed a mutare in cause di guarigione quelle che oggi più alimentano il male. Laonde fra i rimedi è d'uopo distinguere quelli la cui azione deve schiantare il male dalle radici, e quelli che devono dileguare il fenomeno attuale. La pratica di alcuni provvedimenti spetta al potere esecutivo, ed a noi basterà suggerirli; laddove altri debbono avere una indole legislativa, e richieggono la cooperazione e la sanzione di tutti i poteri dello Stato.

Discorrendo delle cagioni del brigantaggio abbiamo assegnato un posto importante a quelle che abbiamo definite col titolo di predisponenti. La prima serie di rimedi deve conseguentemente rivolgersi alla cura di dette cause; né per annoverarli e giustificarli sarà mestieri di lungo discorso. Essi sono evidentissimi. e vengono additati dalla natura stessa delle cose; no crediamo che intorno ad essi possa sorgere la menoma discrepanza di opinioni. Sono rimedi la cui azione sarà efficacissima, ma i cui effetti non possono essere né immediati, né pronti. La diffusione della istruzione pubblica, l'affrancazione delle terre, la equa composizione delle questioni demaniali, la costruzione di strade, le bonifiche di terre palude se, rattivazione dei lavori pubblici, il miglioramento dei boschi, tutti quei provvedimenti insomma che dando impulso vigoroso ai miglioramenti sociali trasformino le condizioni economiche, e valgano ad innalzare le plebi a dignità di popolo. L'affrancazione del tavogliere di Puglia è un provvedimento indispensabile, e noi siamo lieti di scorgere che comprendendo questa necessità il Governo ne abbia fatto argomento di una speciale proposta


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di legge già presentata all'altra Assemblea di questo Parlamento nazionale. Utile complemento di questa affrancazione dovranno essere acconci provvedimenti relativi alle terre di Tressanti, di Santa Cecilia, di Pagliccio, le quali possono collocare i terrazzani di Cerignola, di Foggia e di San Marco in Lamis nella fortunata condizione di cessar di vivere la vita di rapina che attualmente vivono con grave scapito della pubblica moralità e della sicurezza. L'emancipazione della terra dai vincoli che la gravano è sorgente di benefizi alla proprietà ed all'agricoltura, e produce in pari tempo il salutare effetto di trasformare le condizioni del contadino e di distruggere quel proletariato selvaggio che sotto l'impulso della fame e della miseria non obbedisce ad altra voce se non a quella dell'avidità, e fornisce sì ampio contingente al brigantaggio. Né meno evidente è la necessità di assestare il più celermente che sia possibile le questioni dei terreni demaniali che in tante località pendono da moltissimi anni, e mantengono vive le controversie e le gare nei piccoli comuni. Le attribuzioni relative al componimento di quella questione sono ora affidate ai prefetti, ed in alcune provincie le operazioni sono a buon porto; ma è d'uopo raddoppiare l'attività, togliere al più presto il lievito di disordine che quelle questioni racchiudono. I municipi che danno saggio di maggiore zelo vanno incoraggiati, rampognati gl'inerti. I) municipio di Canosa, a cagion d'esempio, ha diviso in tanti piccoli lotti quanti erano i proletari i demanii comunali rimanenti, concedendoli a censi remidibili a capo di venti anni, e ciò per impedire che quei beni andassero a finire nelle mani degli speculatori. Nel 1860 vennero fatte promesse e concepite speranze che non si sono avverale; né il disinganno da ciò prodotto entra per poco nelle attuali condizioni. Quelle promesse e quelle speranze erano senza dubbio assai esagerate, ma ciò non toglie si abbia a fare quanto è possibile entro i limiti del giusto e dell'onesto per rimuovere questa cagione di malcontento tra i ceti faticanti ed infelici. La questione della Sila è di sommo


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momento per le Calabrie, e ben si appose il Governo a sottoporla con apposito schema di legge alle considerazioni del potere legislativo. Non meno importante per Terra di Otranto è la questione relativa alle decime; anch'essa va composta definitivamente secondo giustizia, e noi confidiamo che il Governo non mancherà di proporre al Parlamento gli equi ed opportuni provvedimenti a questo riguardo. In generale tutte quelle provvisioni che mirano a svincolare la terra, a promuovere la circolazione dei capitali, ad assicurare la prosperità economica sodo indicate dalla natura stessa delle cose, e la loro attuazione è una necessità, i cui benefici effetti non hanno d'uopo di essere descritti. Della libertà di commercio niente altro diremo se non che essa ha già avuto nella pratica conseguenze buone, le quali col tempo non possono non diventare ottime: il ribasso delle tariffe ha conferito in modo non contrastabile alla pubblica prosperità: Governo e Parlamento non vorranno di certo fermarsi in via.

C'è pure da appigliarsi a qualche risoluzione intorno ai boschi: noi non suggeriremo per fermo il disperato partito di dissodarli o di bruciarli, ma indubitatamente converrà diradarli. La possibilità del miglioramento non implica né punto né poco quella della distruzione. Bisognerà abbattere le macchie basse, sradicare gli arbusti e le spine, fare insomma quella operazione che nelle località si dice sterpare, e per la quale le piante di alto fusto rimangono intatte. Mediante ciò anche i terribili boschi del Fortore diventeranno accessibili,ed i malviventi avranno perduti i loro arcani e naturali nascondigli.

I risultamenti già prodotti dai lavori delle ferrovie confermano ampiamente ciò che si prevedeva intorno agl'influssi salutari che avrebbero esercitati sul benessere materiale ed economico non solo, ma anche sulle condizioni morali delle popolazioni. In Terra di Lavoro, in provincia di Salerno, nel Chietino, nel Molise, dovunque quei lavori sono stati intrapresi, le popolazioni hanno incominciato ad avere sotto gli occhi una mostra evidente della potenza dalla civiltà.


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Cresciuta la mane d'opera, persuasi i contadini con la evidenza del fatto che all'onesto lavoro non manca il largo ed onesto compenso, tante braccia tolte materialmente al brigantaggio. A Termoli, per esempio, è stabilita una vera colonia lombarda, la quale con le ordinate consuetudini, con l'aspetto decente, con le civili costumanze porge a quelle misere popolazioni la dimostrazione pratica dei vantaggi morali e materiali che gli uomini ricavano dalle proprie fatiche. I briganti hanno sempre fatto ogni opera per impedire che i lavori della strada ferrata progredissero, e pur troppo sono riusciti a farli indugiare segnatamente nel territorio di Vasto e nel tratto che intercede fra Termoli e Sansevero: quasi si direbbe che un presago istinto, del quale, senz'alcun dubbio non sanno rendere ragione a loro medesimi, li avverta che la locomotiva sta per tornare ad essi più esiziale del fucile e delle armi.

Ma ad accrescere e fecondare la utilità somma delle strade ferrate è mestieri provvedere alla costruzione delle strade ordinarie, le quali ne sono il necessario complemento, poiché senza di esse non è lecito sperare che la ferrovia sia per produrre gli effetti che ragionevolmente si aspettano. Ottimo fu il provvedimento relativo alle strade garganiche già fatto dall'onorevole ministro dei lavori pubblici, e noi siam lieti di essere stati i testimoni oculari della soddisfazione e del plauso con cui l'annunzio venne accolto nella provincia di Foggia, la quale per mezzo del suo Consiglio provinciale stanziò apposita e non piccola somma nel suo bilancio per concorrere all'attuazione del provvido disegno. Ond’è che nel commendarlo noi esprimiamo il voto che non abbia ad essere un esempio isolato, ma che ne venga estesa l'applicazione a tutte quelle provincie del mezzodì, dove la mancanza di mezzi di comunicazione è più visibile e più dannosa. Le valli dell'Ofanto, del Fortore, del Sangro, del Vomano, del Bradano sono gli sbocchi naturali ai molte provincie alla linea di ferrovie in corso di esecuzione; il mezzo di rendere utili e di far prosperare


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 le ferrovie consistè appunto nel solcare quelle valli di strade carreggiabili. La connessione fra la rete stradale e la rete ferroviaria appare evidentissima; né questa può mancare del sussidio di quella. Voi ben sapete, o signori, come dopo l'unione della Scozia con l'Inghilterra la prima di dette contrade ebbe a patire il flagello del brigantaggio. Ora gli storici di quel paese e di quell'epoca concordi attestano che la Scozia era affatto priva di mezzi di comunicazione, e che il brigantaggio cessò quando la mancanza fu riparata, quando la Scozia fu solcata da strade. Ciò che avvenne di quell'isola, allora tanto misera, ed oggi in condizioni tanto ridenti avverrà pure nelle nostre provincie meridionali, e l'abbondanza di beni ecclesiastici; erariali e comunali in essa esistenti potrebbe somministrare i mezzi pecuniari per sopperire alla grande necessità della quale favelliamo.

A tutti questi provvedimenti deve far corona la incessante ed efficace diffusione della istruzione pubblica; così verranno diradate le fitte tenebre d'ignoranza addensate da tanti secoli di schiavitù e di miseria, così sarà disfatta e smagliata quella vasta rete di pregiudizi e di superstizione che involge tante povere menti. I municipi delle provincie napoletane hanno, salvo le lodevoli eccezioni, trascurata questa importantissima parte dei loro doveri, e quindi sarà necessario che il Governo ed il Parlamento imprendano ad esaminare se non convenga per mezzo di clausole obbligatorie e di correlative sanzioni penali porre i municipi! nella necessità di adempire al dovere che finora hanno con così biasimevole noncuranza negletto.

Quanto più è lenta l'azione dei provvedimenti testé accennati, tanto più evidente è la necessità di troncare gli indugi nell'incominciarne l'attuazione. Noi portiamo fiducia, o signori, di avere consenzienti in questo papere e Parlamento e Governo, e quindi ci sembra soverchio di proporre a questo riguardo risoluzioni speciali e determinate.

La seconda serie di rimedii deve essere adoperata a trasformare il maggior numero delle cause


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che alimentano il brigantaggio in cause che lo distruggano. Diciamo la maggior parte e non tutte, poiché ve n' ha taluna, quella, a modo d'esempio, che deriva dalla permanenza di Francesco II a Roma, la quale non può soggiacere ad altra trasformazione che non sia la completa cessazione: e di questa dovremo discorrere tra poco in modo affatto speciale. Restringendo adunque per ora il nostro discorso alle cause che sono attualissime sorgente di male, e che invece debbono essere cambiate in sorgente di bene, diremo, che siccome la mancanza di una buona amministrazione, di una ben ordinala e solerte polizia, di una spedita e regolare amministrazione della giustizia, sono altrettanti cagioni, nelle quali il brigantaggio attinge forza e motivi di durata, cosi P ordinamento di una buona amministrazione, l'esistenza di una ben ordinata e solerte polizia, e la spedita e regolare amministrazione della giustizia debbono essere, e certamente saranno, altrettante cagioni, dalle quali le forze del brigantaggio saranno scemate e distrutti i motivi della sua durata. Noi perciò vi preghiamo, o signori, ad invitare il Governo a proseguire gagliardamente nella sua opera riparatrice, togliendo sempre più in ponderata considerazione le condizioni attuali del pubblico servizio nelle prefetture e nelle sottoprefetture, e distruggendo all'intutto quella tradizione di abusi e di corruttela, che la burocrazia conserva e prosegue. Le questioni relative all'ordinamento amministrativo del regno d'Italia aspettano ancora ad essere sciolte dal senno dei poteri dello Stato, e certo il giorno nel quale le attribuzioni di tutti saranno ben definite, e le norme della nostra amministrazione saranno informate a principii uniformi di libertà l'assetto delle provincie meridionali avrà fatto un passo definitivo: ma la questione di principii e di massime non deve neppure per un momento distogliere l'attenzione da quella delle persone. Ben sappiamo che a conseguire lo scopo si richieggono tempo e pazienza, che il Governo non può improvvisare ad un tratto i buoni impiegati: e siamo alienissimi dal suggerire quei provvedimenti complessivi, quelle riforma generali,


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il cui risultamento meno improbabile è quello di peggiorare il male, non di emendarlo, ma diciamo e ripetiamo che il Governo deve arrecare vigili cure in questo grave argomento, e procedere con quell'avvedutezza animosa, che non obbedisce né ad appassionati, né a timidi consigli. Dando all'amministrazione un impulso vigoroso, riordinando tutti i congegni della macchina amministrativa, dimostrando alle popolazioni, dov'è mestieri, la mano del Governo, s'infonderà la fiducia, che nasce dalla certezza di sentirsi governato, ed allora cesseranno il languore e l'inerzia, ed alla difesa sociale concorremmo spontanee tutte le forze del paese.

L'ordinamento poi di una polizia operosa ed infaticata è argomento della massima importanza; è ponto vitale. La maggiore efficacia dì repressione contro il brigantaggio è riposta nella polizia; l'eroismo e l'abnegazione dei nostri soldati non hanno sortito l'effetto durevole che potevasi ripromettere, poichè non v' è polizia. Se questa non viene ordinata, se non è quale deve essere, il brigantaggio non potrà essere estirpato. Quando mancassero le buone ragioni, e ve ne sono a dovizia, basterebbe un fatto recente a porre in evidenza la veracità di questo assunto. Per molti e molti mesi le falde del Vesuvio ed i dintorni di Napoli erano infestata dalle scorrerie della banda brigantesca guidata dal Pilone: i nostri soldati con la solita loro perseveranza non curavano fatica per incontrarla e sbaragliarla: fu opera vana. Pilone ed i suoi erano introvabili, tantoché, non era irragionevole il supporre che non si avesse a fare con una realtà vivente, ma bensì con un essere fantastico, con un mito: la cattura ed il ricatto del marchese Avitabile, suggerirono il consiglio di stabilire in Torre dell'Annunziata un apposita delegazione di polizia, e non si tosto questa fu all'opera, la banda fa trovata e sconfitta, la maggior parte de1 suoi componenti sono nelle mani della giustizia, ed il Pilone, fuggiasco, ha dovuto rinunciare a dirigere le evoluzioni del corpo di operazioni di Francesco II nelle adiacenze di Napoli. In tal guisa, nello spazio di pochi giorni si


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è venuti a capo di una impresa, che per tanti mesi non era riuscita: e ciò per una sola ragione, perché vi è stata una azione efficace di polizia, e perché sono stati adoperati impiegati capaci e diligenti. Esistono dunque gli elementi di una buona polizia: ordinandoli acconciamente, e adoperando gli opportuni mezzi pecuniari, lo scopo non potrà fallire. L'invio recente di buoni ed attivi delegati di pubblica sicurezza nella provincia di Capitanata non ha mancato di sortire effetti utilissimi. I fatti dunque provano che le difficoltà non sono insuperabili, e che non solo si deve, ma si può ordinare un buon servizio di polizia. Per sopperire a questa necessità è stato vagheggiato da taluno il disegno di togliere le attribuzioni di polizia ai sindaci, e di restituirle, come per lo passato, ai giudici di mandamento. Questo desiderio ci è stato manifestato sovente nell’Italia meridionale, e quindi abbiamo dovuto sottoporre a disamina la convenienza della sua attuazione. La vostra Commissione ha opinato che questo suggerimento non dovesse essere accolto. Se i giudici regi sostenevano bene altra volta le funzioni di uffiziali della sicurezza pubblica, questa non è tal ragione che debba persuadere a ristabilire l'antico costume; e non sappiamo davvero con quanta ragionevolezza dal ricordare che i giudici regi borbonici disimpegnassero l'ufficio di agenti di polizia con piena soddisfazione di quel Governo si voglia inferire che i giudici mandamentali del regno costituzionale d'Italia abbiano ad esercitare lo stesso uffizio col medesimo prospero successo e colla piena contentezza del Governo e delle popolazioni. La diversità essenziale dei tempi, della legislazione, delle condizioni stesse di quei magistrati, ci sembra fornire un saldo e vittorioso argomento contro il disegno di cui favelliamo. La parte investigatrice non può essere confusa con la preventiva, né la indole stessa dei due uffizi consente che essi vengano raccolti nelle mani medesime. La polizia né si attiene, né può attenersi a norme invariabili, come deve fare la poteva giudiziaria: essa toglie consiglio nelle sue determinazioni dalle ragioni mutabili delle speciali


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condizioni e delle necessità del momento, e dalle considerazioni di ordine pubblico: un provvedimento di polizia giusto ed opportuno oggi, cesserà di esser tale la dimane, e quindi non è permanente. La polizia si governi dalle circostanze particolari: laddove la giustizia ba le sue ragioni immutabili, i suoi principii determinati, né può dispensarsi dal praticarli. Le due magistrature si differenziano tanto nella sostanza, quanto nella forma. La confusione di quelle facoltà era tollerata, e giovava al Governo assoluto: ma anziché ravvisare in ciò un motivo per riattuarla sotto il governo libero, se ne dovrebbe ricavare una induzione diametralmente opposta. L'essenza del Governo assoluto è la confusione de' poteri: quella del Governo libero è la distinzione.

La restituzione delle attribuzioni di polizia ai giudici mandamentali sarebbe perciò un vero regresso, il quale mentre cozzerebbe apertamente con i principii del Governo libero, non pare a noi confermerebbe le speranze che coloro i quali suggeriscono cotesto provvedimento sembrano riporre nella sua efficacia. I sin lari fanno male la polizia, ma chi potrebbe guarentire che i giudici mandamentali la farebbero meglio? Anche sotto l'aspetto dell'opportunità l'esito sarebbe dubbioso, laddove è certa la violazione dei principii. Né sarebbe giusto togliere a regola generale la condizione attuale delle cose, e dichiarare in modo assoluto che i sindaci, perché fanno male oggi la polizia, abbiano a farla male sempre. Noi portiamo opposta sentenza, convinti come siamo che niente più conferisca a rendere gli uomini idonei all'adempimento dei doveri pubblici quanto la pratica di questo adempimento, e che gì' inconvenienti che si manifestano nei primordii sono dal teoipo corretti e largamente compensati.

Noi sia ino persuasi che utili ed importanti riforme possono essere introdotte nell'ordinamento del servizio di sicurezza pubblica; ma tra coteste riforme non annoveriamo di certo quella della quale ora si accenna. Appunto perché sappiamo che la polizia in uno Stato libero non può esser quella del Governo assoluto, noi la vogliamo


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sollevata e nobilitata nel concetto delle popolazioni, e bramiamo si accosti il più che è possibile a quell'esemplare modello che è in Inghilterra. Il nostro assunto non ci consente di diffonderci con i dovuti particolari intorno a questo argomento, e ci restringiamo perciò a raccomandarlo all'esame del Governo e del Parlamento. Fino d'ora però stimiamo dover affermare che qualora si ritenga necessaria la conservazione delle guardie di pubblica sicurezza, l'ordinamento di esse abbia ad essere sostanzialmente mutato. Tali e quali oggi sono, mentre tornano di aggravio al pubblico erario, non giovano all'ordine pubblica: e ad ogni patto sarebbe d'uopo sottopone d una disciplina inflessibile e severa. La esperienza forse chiarirà che la istituzione delle guardie municipali finirà col rendere all'intuito soverchie quelle di pubblica sicurezza. Nella città di Napoli quella istituzione è già attuata, e fa buona prova.

L'aumento dei reali carabinieri è pienamente giustificato dai servizi che tuttodì rende quell'arma benemerita, e dalla necessità delle cose; e,prefetti, e generali, e magistrati, e cittadini ci hanno costantemente ripetuto che di quell'arma non ve n'ha mai abbastanza. Il Governo non ha mancalo di fare molti acconci provvedimenti per ampliare il più che è possibile il numero dei carabinieri senza deterioramento della qualità, giacché, come tutti sanno, i carabinieri non si improvvisano, ed è assai più facile decretarne la formazione che ottenerla subito quale dev'essere; ma anche come adesso è la forza numerica nelle provincie meridionali è insufficiente alle esigenze del servizio ed alle stringenti necessità dell'odierna condizione di cose. Per avere una rete compita di stazioni di carabinieri a piedi ed a cavallo in quelle provincie sarebbero mestieri 8 mila uomini, laddove a tutto il 31 marzo di quest'anno i presenti ammontavano a 5199. La deficienza dei carabinieri a cavallo è generalmente lamentata; essi sono tanto più desiderati, quanto più utili sono i servizi che rendono. Il carabiniere a cavallo possiede anche nell'aspetto un prestigio che atterrisce


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 i malandrini e rincuora la gente timida. Bastano pochi di essi a porre in fuga intiere orde di briganti. Particolarmente quando si tratta di piccole bande, una buona polizia e non molti carabinieri fanno opera più efficace di molta truppa. Le regioni topografiche concorrono a dimostrare la opportunità dell'aumento di cui discorriamo. Nelle provincie meridionali, sopratutto in Basilicata, le distanze tra i paesi non sono brevi: si fanno soventi miglia intiere senza incontrare un abitato: epperò quando il brigantaggio imperversa, le piccole stazioni di carabinieri si trovano condannati a non poter far nulla, perché non possono uscire dai paesi. Talvolta gli uffiziali hanno dovuto rinunziare, per questo motivo, a fare le ispezioni delle stazioni. L'aumento degli uomini è necessario al buon andamento ed alla efficacia del servizio: né crediamo che in massima possa impugnarsene la opportunità. Ci si potrà obbiettare, egli è vero, che non basta dimostrare la necessità, ma che sia d'uopo suggerire i mezzi, additare la possibilità di soddisfarla. Né possiamo dissimularci la gravita di questa obbiezione, essendo evidente che quanto maggiori sono i requisiti che si addimandano in chi serve nell'arma dei carabinieri, tanto più torna difficile rinvenirli, ed essendo cosa ben nota, che in questi ultimi due anni il numero dei carabinieri è stato straordinariamente accresciuto; ma giova pur riflettere, che la considerazione del divario tra le condizioni della sicurezza pubblica nel mezzodì della penisola e quelle delle altre provincie può somministrare il mezzo di conciliare le difficoltà e le esigenze, e di provvedere alle urgenze attuali. Il numero delle stazioni di carabinieri nell'Italia superiore e nella centrale potrebbe essere diminuito senza gravi inconvenienti, e soltanto provvisoriamente, e gli uomini da esse tolti potrebbero esser mandati ad ingrossare le stagioni già esistenti nelle provincie napoletane, ed a formarne all'occorrenza delle nuove. Anche questo espediente può non essere all'intuito esente nella pratica da qualche malagevolezza, ma giova non dimenticare che la considerazione di alcuni inconvenienti non dee sovrastare alla


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necessità che tutti riconosciamo di adoperare tutti 1 mezzi per ricondurre al più presto, nelle provincie del mezzodì, la sicurezza pubblica alle condizioni regolari. Noi confidiamo perciò che il nostro parere sarà per essere accollo, e che il Ministero continuerà a fare ogni opera, perché il numero dei reali carabinieri nelle provincie napoletane venga aumentato.

Non abbandoneremo questo importante argomento del servizio di sicurezza pubblica senza additare la necessità di invigilare attivamente le carceri e le galere, e di provvedere alla loro sicura custodia. Le carceri che abbiamo visitate, quelle di Potenza, di Foggia, di Avellino, di Taranto, per non dire di tante altre, lasciano molto a desiderare: l'ingombro della gente ivi rinchiusa è pericoloso e sotto l'aspetto morale e sotto l'igienico e sotto quello della sicurezza. La facilità delle evasioni è largo sussidio al brigantaggio. La rigorosi custodia delle carceri e dei luoghi di pena è reclamata dagl'interessi della giustizia e dell'umanità, non meno che da quelli della sicurezza pubblica. La vigilanza dell'autorità deve estendersi anche ai custodi, poiché fra essi sono pure di quelli che appartengono all'antica scuola, ed essendo ligi alle vecchie consuetudini non sono alieni dalle infedeltà. Noi sappiamo che l'introduzione dei nuovi regolamenti carcerali ha incominciato a fare sparire alcuni abusi, e che il Governo ha rivolto la sua attenzione a questo grave argomento; e però confidiamo che perseverando alacremente nella stessa via, e raddoppiando gli sforzi il servizio carcerario sarà quale debbe essere presso ogni nazione incivilita.

Ma a far cessare l'ingombro di giudicabili che è nelle carceri è mestieri l'attività nei procedimenti giudiziari ed il pronto disbrigo dei processi: le quali cose sono tuttavia un desiderio. Sono ancora in prigione, aspettando un un g udì zio, persone arrestate fin dal tempi della dittatura, dall'autunno, vale a dire, dell'anno 1860. Ci è stato riferito il caso di un imputato di asportazione di armi proibite, che avrebbe tutto al più potuto avere per pena


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quattro mesi di carcere, e che frattanto fa detenuto prima di essere giudicato per lo spazio di sei mesi. Questa disgraziata condizione di cose non è indubitatamente frutto di mal volere, né di premeditata negligenza, e se ne scorgono agevolmente le ragioni nelle straordinarie contingenze politiche e nelle novità succedute: né noi crediamo sia molto ragionevole lo scandalo che di questi fatti hanno menato alcuni severi filantropi inglesi, i quali o non hanno letto o probabilmente hanno dimenticalo la storia del Macaulay, e giudicano delle attuali condizioni di cose in Italia col criterio desunto dal confronto con quelle dell’Inghilterra odierna, e non dal conforto con le condizioni dell’Inghilterra nell’epoca dì trasformazione narrata dall'insigne storico. Ma l'obbligo di fare quanto è possibile, perché anche per questo verso sia stabilita una perfetta e legale regolarità è evidente, e per adempirlo non deve essere trascurato nessun mezzo. Percorrendo diverse provincie la vostra Commissione ha dovuto convincersi che il numero attuale delle Corti di assise non sia sufficiente, e che forse non si possa sfuggire alla necessità di renderle permanenti, almeno, per ora, in tutti i capoluoghi di provincia. Per quanta buona volontà, per quanto zelo vogliasi arrecare dalla magistratura, certo è che la mole dei processi basterebbe soia ad escludere la speranza di. vederli esauriti, e di veder cessare 1arretralo in breve spazio di tempo. Non è guari l'onorevole guardasigilli deliberava opportunamente una Corte straordinaria di assise in Avellino: ragguardevoli magistrati commendando quella risoluzione ci hanno assicurato che con essa non si riuscirà a raggiungere lo scopo, se non è resa permanente. La prontezza nell'amministrazione della giustizia, oltre all'essere una delle più essenziali guarentigie del vivere civile, torna a vantaggio della sua stessa efficacia, e la sua necessitò cresce in proporzione della intensità e dell'ampiezza delle colpe che è chiamata a punire. Se i giudizi dei reati di brigantaggio fossero stati meno infrequenti, il loro numero sarebbe stato certamente minore.


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E perché l'amministrazione della giustizia sia quale deve essere è d'uopo rimuovere da essa qualsivoglia sospetto, qualsivoglia possibilità di accusa. Come abbiamo già detto, le condizioni della burocrazia giudiziaria non sono esenti dai sospetti,non escludono la possibilità delle accuse; e perciò noi stimiamo debito nostro di richiamare anche su questo argomento l'attenzione scrutatrice e severa dell'onorevole ministro guardasigilli.

Ma oltre all'ordinamento amministrativo e giudiziario è fuor di dubbio che il contegno di quella parte del clero che si è fatta strumento cieco ed obbedientissimo delle passioni mondane della curia romana abbia ad esser preso in seria considerazione, e sia mestieri escogitare tutti quei mezzi che più sieno acconci od a mutarlo, oppure a controbilanciarne i cattivi effetti. Ma quali possono estere cosiffatti mezzi? Il quesito è arduo e la risposta è assai malagevole. Se si lascia al clero, del quale favelliamo, piena balìa di fare, esso si avvale della facoltà per abusarne; se questa facoltà gli è negata, grida alla persecuzione ed «1 martirio: e nell'una ipotesi e nell'altra raggiunge lo scopo suo, che è quello di tenere «li animi agitati e di turbare le coscienze. Il Governo e la società si trovano in tal guisa disarmati dinanzi ad una congiura incestante, permanente, e tanto più pericolosa inquantoche opera occultamente, e le prove di essa sono pressochè impossibili a raccogliere. In qual guisa mai la vendetta della legge può colpire coloro che dal confessionale incoraggiano e glorificano il brigantaggio? Il grido accusatore della voce pubblica ingenera il convincimento morale che il fatto stia; ma non basta a dar motivo ad una regolare processura, la quale per difetto di prove giuridiche andrebbe necessariamente a vuoto. Noi quindi portiamo opinione che il Governo abbia ad esercitare la più assidua <fed indefessa vigilanza sul contegno di codesto clero, e che debba provvedere all'inesorabile applicazione delle leggi ogniqualvolta dal campo delle aspiratali quel contegno trapassa in quello delle azioni. Il rigore sistematico sarebbe tanto dannoso quanto l'indulgenza:


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il Governo non deve tollerale i cospiratori, ma non deve nemmeno creare i martiri. Le sorti del clero povero e liberale debbono stare sommamente a cuore al Governo ed al Parlamento: un savio ed equo provvedimento a questo riguardo, mentre gioverebbe ad assicurare al Governo un ascendente morale indubitato su d'una parte dello stesso sacerdozio, porgerebbe alle popolazioni la dimostrazione palpabile della falsità dell’accusa tra esse con tanta pertinacia diffusa, che il libero Governo del regno d'Italia, cioè, sia persecutore della religione. Vero è che non di rado sono tra cosi detti preti liberali tali che meglio varrebbe non lo fossero, e non liberali andrebbero denominati, ma libertini: vero è che un provvedimento, il quale giovasse a costoro, peggiorerebbe il male, e confermerebbe le popolazioni nella erronea opinione in luogo di farle ricredere: ma ciò non prova che il provvedimento, al quale accenniamo, non debba farsi; prova bensì che esso è molto difficile, che ira ponderato con molta prudenza, che va praticato in accorgimento e con le debite cautele. Noi siamo convinti che il giorno in cui il Governo potesse fare assegnamento sulla simpatia della parte veramente liberale è morale del sacerdozio cattolico, esso sarebbe più forte contro le sorde macchinazioni del clero cattivo.'e la estinzione del disordine morale, che tanto conferisce alla (produzione del brigantaggio, sarebbe prossima e certa.

Gl'influssi del clero ostile alla causa nazionale ricevono maggiore impulso dalla permanenza di Francesco II a Roma, il quale per mezzo di alcuni alti dignitari della Chiesa si adopera a serbare quei medesimi influssi propizi ai suoi interessi ed ai suoi disegni. E questa è nuova ragione perché dal canto nostro si faccia quanto è possibile a porre termine a quella permanenza. A noi pare, o signori, di avervi ampiamente dimostrata la complicità perseverante ed attiva del principe spodestato con le macchinazioni e con le scorrerie brigantesche: e quindi ci crediamo in grado di poter affermare il diritto, che il Governo italiano compete, di chiedere ed ottenere


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l'allontanamento di Francesco II dalla sua attuale dimora. Questo diritto sarebbe incontrastabile, quand'anche non si trattasse che d'un semplice pretendente, il quale profittasse della vicinanza agli antichi suoi domini per suscitar torbidi ed accendere la guerra civile: ma diventa imperioso ed indeclinabile quando si tratta, come avviene nei caso nostro, di un principe, il quale, conculcando la dignità della sventura, si collega apertamente con la gente più facinorosa, e si adopera tuttodì ad accendere nelle provincie sfuggite per libera volontà di popolo alla sua dominazione la sanguigna face della guerra sociale. Non vi è Governo civile ed umano che possa negare ad un altro la estradizione dei volgari delinquenti: e davvero noi non sappiamo comprendere con qual diritto si negherebbe al Governo italiano non la estradizione, ma la espulsione di un principe nel cui nome vengono commessi tanti delitti e tante atrocità. Non aggressore, ma aggredito, il Governo italiano trovasi collocato rispetto a Francesco II nella condizione di chi esercita il diritto della legittima difesa; con qual giustizia adunque si diniegherebbe all'aggredito la soddisfazione di vedere scacciato l'aggressore dal sicuro suolo, dove impunemente macchina le offese e le insidie? Né ci pare possibile che a tutela di Francesco II possa essere invocata la protezione della bandiera francese, la quale, avvezza a coprire le onorate sventure dignitosamente sostenute, non può oggi macchiarsi col patrocinio dei fautori del brigantaggio. Se il Governo francese non stima essere ancora giunta l'ora nella quale debba togliere alla persona del pontefice la protezione che fio oggi gli ha concessa, nessuno per fermo potrà pretendere che quella protezione conferisca al Governo pontificio il privilegio esorbitante di congiurare con Francesco II ed i suoi seguaci a benefizio dell'anarchia sociale.

Ad ogni modo il Governo italiano adempirà al debito suo verso la nazione dando contezza all'Europa di questa intollerabile condizione di cose, e rinnovando al Governo alleato le istanze, perché l'allontanamento da Roma


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di Francesco II e dei suoi segnaci non sia più a lungo indugiato: e noi, o signori, alla nostra volta stimeremmo mancare al dover nostro qualora non vi rivolgessimo la preghiera di voler concedere al nostro parere la vostra approvazione con una solenne deliberazione. La coscienza delle nazioni incivilite riconoscerà il diritto nostro a far cessare que la perenne importazione di assassini e di avventurieri, che da tre anni si sta facendo lunghesso quella linea di frontiera, che divide ancora artificialmente le provincie del regno italico da quelle che con indicibile rammarico siamo tuttavia costretti a chiamare provincie pontificie. Mediante i provvedimenti che abbiamo finora accennati, saranno combattute le cause che predispongono al brigantaggio e quelle che lo alimentano, ma con ciò il compito del Governo e del Parlamento non è esaurito. Non basta combattere il brigantaggio nelle sue origini e nelle sue fonti; preme oltreciò ed urge di combatterlo nelle sue attuali manifestazioni, e d'infliggere a chi se ne rende colpevole una punizione giusta, pronta, efficace, esemplare. Ed eccoci per logica concatenazione di concetti e di discorsi condotti a toccare della ultima serie di rimedi che intendiamo suggerire, e che si risolvono nell'azione militare e nei provvedimenti legislativi. L'azione militare deve intendere alte repressione immediata del brigantaggio che attualmente è in campagna; i provvedimenti legislativi al castigo dei colpevoli secondo i dettati della giustizia. Finché bande vi sono in campagna, finché il servizio dei carabinieri non sia accresciuto, finché quello delle guardie nazionali non sia migliorato, l'azione militare è indispensabile. La presenza della truppa ha anche il vantaggio di produrre un sa mare effetto morale, quello cioè ai rialzare gli spiriti delle popolazioni e d'ispirare fiducia; sicché l'azione militare ai vantaggi degli effetti materiali accoppia quelli dell'effetto morale. Ci pare soverchio ricordare che quest'azione non ha mai lascialo niente a desiderare dal lato del valore; ai nostri uffiziali e soldati non può addebitarsi che soverchia temerità e per quarto spetta pur alla direzione


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 i soli nomi degli abili e sperimentati uffiziali che ad esso sodo preposti porgono guarentigia che essa è vigorosa ed accorta. La mancanza di risultameati decisivi non è per fermo dovuta a deficienza di valore, di senno, di pazienza; ne abbiamo già dette le ragioni, ed ora non staremo a ripeterle. La guerra contro il brigantaggio ha un'indole affatto speciale, e non va combattuta secondo le regole della strategia militare. I nostri soldati combattono quei ribaldi troppo cavallerescamente, troppo lealmente. Fra, un nemico che non rifugge mai dal combattere, ed un nemico che ha sempre per ultima ragione la fuga ed il nascondiglio sicuro; tra nemici di indole sì diametralmente opposta non sono praticabili le regole dell'arte della guerra. A combattere, con efficacia il brigante è d'uopo adoperare le sue arti: gli agguati, le sorprese, le corse continue; ed è perciò che tutte le armi del nostro esercito quella che più, è idonea a fare la guerra ai briganti, e quella che essi più temono; è l'arma dei bersaglieri, i quali sono addestrati ad agire isolatamente e durano meglio a quel genere di fatiche. L'agglomerazione, delle truppe nelle città e nelle borgate, resa tante volte indispensabile dalle condizioni igieniche, è da evitarsi il più che è possibile, e perché i briganti battono in tal guisa più facilmente la campagna e sanno per file e per segno le mosse delta truppa, e perché si avvezzano gli abitanti a non adempire, uno dei loro maggiori doveri, che è quello di sapersi difendere da sé medesimi. Quando nei 1800 il brigantaggio infestava il mezzodì della Francia, il primo console scriveva al ministro della, guerra Berthier: «Je suis mécontent de voir. tant de troupes à Lyon et à Marseille. Dans des cireonstanca, pareilles les troupes doivent étre sans cesse sur les chemins et dans les bois; que le generai forme sur le champ ses colonnes, et en donnent le commandement aux genéraux Gaveau et Guillot; qu'ils pour suivent sans relàcbe les brigants, en mettant toujours leurs quartiers genéraux dans les villages (1)»


(1) Vedi Correspondance de Napoleon yol VL Paris 1830, pag. 5


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 Alcuni anni dopo, nel 1803, essendosi manifestato nuovamente il brigantaggio in Vandea, Napoleone, scrivendo allo stesso maresciallo Berthier, gli dava le medesime istruzioni: Mon opinion est qu'il ne fàut laisser nulle part degarnison, mais faire de toutes les forces quatre corps sous les ordres, chaque corps d'un generai de brigade, indépendamment des corps des géneraux.Girardon et Dufresse; que chacun de ces corps doit étre partagé en trois autres, chacun de 150 à 200 hommes, infanterie, cavalerie et gendarmerie comprises. Soutenus par l'espionnage et continuellement en mouvement, ces corps doivent parvenir à étoufler la rivolte dans sa naissance (1).»

La saviezza di cotesti suggerimenti è pienamente confermata dall'attuale esperienza; le frequenti e non interrotte perlustrazioni, il continuo muoversi delle truppe nella campagna hanno sempre prodotto qualche risultamento. Né occorre aggiungere che in tutti gli scontri, quando scontri sono stati possibili, i briganti hanno avuto sempre la peggio le poche volte in cui, sono riusciti a trionfare dei nostri soldati l'hanno fatto per sorpresa ed in numero sproporzionato. Il capitano Richard ed il luogotenente Contini dell'8.° di fanteria furono massacrati il, 17 marzo 1862 a Torre Fiorentina con 19 soldati perché accerchiati per sorpresa da uno stuolo numerosissimo di briganti. Il capitano. Rotta ed il luogotenente Perino con 20 soldati del 39.° di fanteria, circondati nel tenimento di Santa Croce di Migliano, provincia di Molise, il giorno 4 novembre 1862 da parecchie centinaia di briganti vennero trucidati dopo aver soggiaciuto a martirii inauditi. Il sottotenente Lauri con 16 soldati del 39.° di fanteria, incontrato da una banda di 00 briganti a cavallo, guidati dallo Schiavone, presso Francavilla, nel Beneventano, caddero dopo disperata resistenza il 24fehbrajo 1863. Il sottotenente Bianchi e 16 soldati del reggimento cavalleggieri di Saluzzo aggrediti, il giorno 12 marzo 1843 presso la masseria Cattapani in tenimento


 (1) Vedi Correspondance de Napoleon yol IX Paris 1830, pag. 140


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di Venosa in Basilicata, da 100 briganti a cavallo, vennero tutti crudelmente martoriati e straziati. Il 22 dello stesso mese il capitano del genio Valentini, mentre cercata di snidare i briganti da una casa in San Marco in Lamis, colpito da una palla di moschetto morì. Il luogotenente Enrico Pizzagalli dei cavalleggieri di Saluzzo inseguendo, il 20 marzo, nelle Murgie, una banda, fu ucciso da una scarica fatta da briganti occultati dietro un muro. Il capitano Oddone dei lancieri di Milano, il cappellano militare dello stesso reggimento Gaspardonee il chirurgo Cardona furono assassinati il 29 ottobre 1861 presso la cappella dell'Incoronata nelle vicinanze di Foggia. Il capitano Luigi Capoduro, del 13.° di fanteria, venne proditoriamente ucciso da Ninco Nanco che aveva finto di trattare di rendersi. In totalità la guerra contro il brigantaggio dal 1.° maggio 1861 sino a tutto marzo 1863 è costata all'esercito nostro le seguenti perdite; nei primi otto mesi del 1861, 8 ufficiali morti ed 89 soldati; in tutto il 1862, 8 ufficiali e 156 soldati; nel primo trimestre del 1863, 6 ufficiali e 41 soldati: in tutto 21 ufficiali e 386 soldati, ossia 307 uccisi. Nei primi mesi del 1861, 3 ufficiali feriti e 45 soldati; nel 1862, 2ufficiali e 29 soldati; nel primo trimestre del 1863, 7 soldati. Vale adire 5 ufficiali e 81 soldati: in totalità 86 feriti. In tutto questo spazio di tempo 6 soldati rimasero prigionieri degli assassini, di altri 19 non si ha notizia. Queste sono le nostre perdite; sempre eccessive e lamentevolissime quando si confronti la qualità delle vittime a quella degli uccisori, e si pensi agli strazi crudeli, alle torture a cui furono assoggettate. Onoriamo, o signori, di affettuoso compianto la memoria dei prodi infelici. Caddero gloriosamente in campo inglorioso, trucidati da mani selvagge, martiri della civiltà e dell'Italia.

Le perdite patite dai briganti nel medesimo periodo di tempo sono le seguenti: nei primi otto mesi del 1861, 365 fucilati, 1343 morti in conflitto, 1571 arrestali; nel 1862, 594 fucilati, 950 morti in conflitto, 1106 arrestati; nel primo trimestre del i8Q$, 79 fucilati, 120 morti in


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conflitto, 91 arrestati: in totalità 1038 fucilati, 2413 morti in conflitto, ossia 3461 morti, e 2768 arrestati. Lugubri cifre ancor queste; luttuoso documento della funesta eredità di delitti e di barbarie tramandata a noi da tanti secoli di corruttela e di schiavitù.

Oltreciò nei primi otto mesi del 1861 si presentarono 267 briganti, 634 nel 1862, 31 nel trimestre del 1863; in tutto 932. Il numero totale perciò approssimativo dei briganti per morte, per arresto e per presentazione volontaria posti fuori di combattimento ascende a 7151 II numero dei presentati è cresciuto in proporzione della cresciuta energia della repressione. Nell'ultimo quadrimestre del 1861 in Capitanata furono fucilati 7 briganti e morti in conflitto 30; nel quadrimestre corrispondente dell'anno successivo i fucilati furono 136, e 322 i morti in conflitto; nella prima epoca non si presentò nessuno, nella seconda il numero dei presentati ammontò a 281.

A coadiuvare l'azione militare debbono essere chiamatele guardie nazionali. Ad estirpare il brigantaggio è mestieri assolutamente del concorso attivo di tutte lo forte del paese; e per la cognizione della località e, degli uomini, e per l'ottimo effetto morale che ne risulta. Le guardie nazionali delle provincie meridionali non sono certamente in quelle condizioni di buon ordinamento e dì floridezza che sarebbero a desiderare: composte in fretta e senza norme precise e ben determinate esse racchiudono elementi, che non conferiscono di certo né alla disciplina né alla energica attività; ma tutte quante in pari tempo racchiudono giovani volonterosi, i quali null'altro domandano se non dar saggio della loro devozione agl'interessi della patria e gagliardamente concorrere alla tutela dell'ordine sociale. Ora di cotesti giovani, di cotesti buoni elementi è d'uopo far tesoro. In molte e molte occasioni, in tutte le provincie, le guardie nazionali ben dirette sono state di aiuto alle truppe, alle quali hanno servito di guida e prestato appoggio. In Capitanata meritano particolare menzione le guardie nazionali di Roseto, di Casalnuovo, di Alberona, di Greci; in


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Basilicata quelle di Pietrogalla, che respinse con molte vigore l'aggressione dei Borjes, di Pescopano, di Bella, di Bernalda; m Terra di Bari quelle di Minervino, di Canosa, di Corato, e prima di tutte quella di Gioia; in Terra d'Otranto quelle di Ostuni, di Manduria, di Laterza, di Nardi, di Lattano di Mesagna. In alcune città, come a Salerno ed a Bari, si sono organizzate nella milizia nazionale compagnie speciali di bersaglieri, dalle quali si potranno avere alcuni servizi. Di tante altre guardie nazionali che hanno fatto o son sempre pronte a fare il loro dovere tacciamo, perché l'elenco non sarebbe breve, e assai ci dorrebbe di commettere involontariamente qualche ommissione, in alcune località si sono anche ordinate delle squadriglie di militi nazionali a cavallo, come ad Altamura, a Gravina, a Sause vero, a (lanosa, e massime a Troia, la cui squadriglia è quella che merita gli encomi maggiori. A Cerignola un egregio proprietario per nome Morra, capitano della guardia nazionale è pure a capo di una squadra a cavallo formata da una trentina di quei militi giovani e pieni di buona volontà, il Pisanti, il Padoli e il Pomarici in Basilicata sono a capo di compagnie speciali addette ai servizio contro il brigantaggio, le quali hanno fatto ottima prova, ed hanno in tutte le occasioni divise le fattezze ed i pericoli delle truppe. Ma discorrendo di questi corpi speciali non militari, una menzione particolare è dovuta alla cavalleria organizzala e capitanata da Davide Mennuni, proprietario del comune di Genzano in Basilicata. Questa compagnia forte di oltre cento uomini, venne formata nell'aprile dell'anno 1851 quando Crocco ed i suoi compagni ponevano a sacco ed a ruba il Melfese, e promuovevano dovunque sanguinose reazioni. All'udire di quei casi il Mennuni, che era capitano della guardia nazionale di Genzano, raduno senza indugio ventidue coraggiosi cittadini, i quali tutti a cavallo ai offrivano volontariamente ad accorrere a combattere le orde dei masnadieri. Tennero la loro parola egregiamente. Ciò determino in municipio di Genzano a deliberare la formazione di un corpo di cavalleria.


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II prefetto de Rolland si affrettò a sanzionare con la sua approvatone quella deliberazione, e d'allora in poi il Mennuni ed i suoi non hanno cessato né cessar di rendere utilissimi servizi contro il brigantaggio. Periti dei luoghi, coraggiosi, infaticabili corrono sa e giù pei monti e pei boschi, e non danno tregua ai malviventi, i quali li temono moltissimo. Davide Mennuni è uomo di modi semplici, modesto, pronto ad ogni sacrificio; commendandolo a voi, o signori, noi auguriamo alla patria molti cittadini che lo rassomiglino.

L'ordinamento di corpi consimili alla cavalleria del Mennuni sarebbe possibile nelle altre provincie, e dappertutto se ne potrebbero trovate gli elementi.

Alle azioni eroiche della truppa, dei carabinieri, delle guardie nazionali, dei cittadini non deve giungere tarda la ricompensa e l'onorificenza; come ai poveri superstiti delle vittime non deve farsi aspettare il pietoso conforto e la sovvenzione della patria. Sono atti di giustizia e di riconoscenza nazionale, i quali hanno il privilegio di destare una emulazione fruttifera e salutare. Ci è grato poter dire che riparando alla passala negligenza, il Governo abbia distribuito in quest'uomo andar di tempo molte ricompense e molte onorificenze, e noi preghiamo la Camera ad esortare i ministri a perseverare in questa via, ed a far sì che per l'avvenire il premio alle buone azioni venga conferito con la maggior prontezza.

L'energia nella repressione del brigantaggio deve essere accompagnata da energia non minore nella punizione pronta ed esemplare dei colpevoli. Al pari della ricompensa, a chi pugnò contro i briganti, la pena contro questi ed i loro fautori non deve farsi aspettare. La pena più efficace è quella che segue a pochi passi il delitto; la prontezza dea espiazione è freno salutare al contagio del cattivo esempio. Oggidì siamo ben lungi da ciò; i briganti consegnati al potere giudiziario stanno in carcere senza essere giudicati, mentre i loro complici passeggiano per le città, ed i loro compagni proseguono le ruberie e le infamie. I briganti colti colle armi alla mano sono fucilati.


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Questa condizione di cose si risente dell'arbitrio in modo non equivoco; è deplorata da tutti, ed importa sommamente che abbia a cessare. Deve cessare non solo perché cosi richiedono i sacri interessi della giustizia e dell'umanità, ma anche per ristorare nel concetto delle popolazioni il prestigio e l'autorità delle leggi. La vostra Commissione ha perciò opinato, che una legge temporanea, e rivolta esclusivamente a conferire alla potestà esecutiva le opportune facoltà, sia con imperiosa urgenza richiesta dalla necessità di reprimere e debellare il brigantaggio.

Questa legge dev'essere improntata da tutti i caratteri della provvisorietà; la sua applicazione deve cessare col cessare del male che è destinata a distruggere. Assai ci dorrebbe, o signori, di potere esser accagionati di suggerire provvisioni arbitrarie e dispotiche, le quali fossero per vulnerare le guarentigie costituzionali. Noi vi preghiamo a dettare una legge, appunto perché non vogliamo l'arbitrio, e perché siamo profondamente convinti che gli stessi rigori della difesa sociale debbano, in uno Stato libero, essere definiti con la più scrupolosa precisione; e dettati non dal volere di nessun individuo, ma da prescrizioni chiare e determinate di legge. Il maggior male da cui le popolazioni napolitane sono travagliate è la mancanza di fede nella legalità e nella giustizia; e però gioverà mostrare ad esse, che sotto l'impero della libertà, le stesse provvisioni straordinarie richieste da necessità impreteribili non si praticano, se non perché la potestà legislativa le ha consentite ed autorizzate. Importa dunque sommamente che i limiti della legalità sieno religiosamente osservati, ma è indispensabile che la legge provveda ed armi vigorosamente il braccio della potestà, a cui è commessa la difesa degl'interessi sociali e della pubblica sicurezza. Questo è il nostro concetto, né esso si discosta menomamente da quello che in casi consimili ai nostri prevale presso le più libere e civili nazioni. A far cessare condizioni straordinarie e fuori della regola comune si vogliono adoperare provvisioni


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del pari straordinarie e fuori della regola comune, la cui applicazione ha termine non si tosto l'intento è raggiunto. Durante lo stato di guerra, che è appunto una di quelle condizioni straordinarie, si praticano provvedimenti speciali e corrispondenti alle necessità della difesa dell'indipendenza e dell'onore della patria. Ora il brigantaggio genera una condizione di cose, che non è punto dissimile da quella prodotta dallo stato di guerra. Il brigantaggio è una vera guerra, anzi è la peggior sorta di guerra che possa immaginarsi; è la lotta tra la barbarie e la civiltà; sono la rapina e l'assassinio che levano lo stendardo della ribellione contro la società. Ond'è che alla stessa guisa con cui le condizioni di un paese che sia in guerra, non possono essere equiparate a quelle di un paese che sia in istato di pace, non possono nemmeno essere equiparatele condizioni delle provincie contristate dal brigantaggio, quelle delle altre che per buona ventura noi sono. Le condizioni di una piazza assediata, di una regione soggetta a scorrerie nemiche non può per fermo essere raffrontata a quella di una piazza libera, di una regione immune da mimiche insidie. Lo stato di brigantaggio è uno stato a parte, uno stato sui generis; affinché cessi è mestieri ricorrere a provvisioni speciali, e poiché la legge non è esplicita a questo riguardo è d'uopo che essa parli chiaramente e prescriva e legittimi l'uso di quelle provvisioni.

Noi crediamo adunque che le provincie le quali si trovino in istato di brigantaggio debbano essere assoggettate a disposizioni speciali, le quali e debbano essere esclusivamente ristrette eritro i limiti di ciò che concerne il brigantaggio, e non debbano più essere in vigore quando il brigantaggio sia cessato, e perciò siam di avviso abbia a dettarsi una legge speciale per quelle date località, per quelle date emergenze, e che non trapassi giammai nella sua applicazione il limite di tempo assegnato dal conseguimento dello scopo.

Ma come determinare se una data provincia sia oppur ao in istato di brigantaggio?


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A noi pare che la dichiarazione legale di un fatto così grave la quale implica necessità di assoggettare una parte qualsiasi del regno italiano? disposizioni straordinarie, non possa essere fatta senza la sanzione parlamentare. Una dichiarazione di tanta entità non ci parve possa essere fatta dalle autorità elettive provinciali, poiché il loro giudizio può facilmente essere traviato dalle passioni e dalle esagerazioni dell'odio o della paura. Ad una cosiffatta dichiarazione cosi circondata, non sono soverchie le guarentigie, e queste non potrebbero derivare maggiore efficacia di quella che scaturisce dall'autorità parlamentare. Siccome però può avverarsi il caso in cui la necessita di fare quella dichiarazione sorga mentre la Sessione legislativa è prorogata e chiusa, cosi è d'uopo concedere al Governo la facoltà di provvedere per mezzo di decreto regio, il quale non sì tosto il Parlamento fosse radunato sarebbe convertito in legge. Ad oggetto poi di imprimere sempreppiù alle straordinarie provvisioni il marchio di provvisorietà, da cui debbono essere contrassegnate, ci sembra opportuno consiglio stabilire, che la cessazione della necessità della loro applicazione abbia ad essere pronunciata con apposito decreto reale. In tal guisa le condizioni eccezionali legalmente stabilite, legalmente hanno termine.

La vostra Commissione com'è stata concorde nel riconoscere che contro il brigantaggio vanno adoperati mezzi energici, cosi pure è stata concorde nell'ammettere che questi mezzi debbono essere straordinari ed appropriali alle straordinarie contingenze, che ne richiedono l'applicazione; ma a che deve essere affidato il carico della direzione nella pratica di cosiffatti mezzi. Ad alcuni di noi è sembrato che a meglio assicurare l'efficacia e l'unità detrazione fosse conveniente affidare la direzione ad un solo, il quale potrebbe essere o il comandante delle truppe attive, o il prefetto, od un commissario civile per una ed anco per più provincie, della cui scelta sarebbe arbitra e responsabile la potestà esecutiva. E certo questo partito offrirebbe i vantaggi della semplicità e della speditezza, e porgerebbe guarentigia dell'unità di concetto, che è tanto desiderabile e necessaria.


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La maggioranza della Commissione ha però riflettuto, che sarebbe possibile di raggiungere lo stesso scopo abbondando nelle guarentigie, e che anche senza concedere ad un solo te facoltà straordinarie, sarebbe possibile di lasciare intatta la responsabilità ministeriale e di assicurare l'unità e la efficacia dell'azione» Trattandosi di facoltà eccezionali le precauzioni non sono mai superflue, e giova sempre rimuovere dall'uso di esse anche l'apparenza dell'arbitrio. La maggioranza della Commissione ha dunque opinato, che senza nulla detrarre alla responsabilità e quindi alla libertà d'azione del Governo, l'esercizio delle facoltà straordinarie nelle provincie dichiarate in istato di brigantaggio abbia ad essere affidato al prefetto, il quale dietro proposta o sul parere conforme di una Giunta appositamente costituita farebbe i provvedimenti indicati e determinati dalla legge. In virtù dr questi espedienti nulla è abbandonato all'arbitrio, la libertà d'azione del Governo non è inceppata, ed il paese è confortala dalla certezza c&e anche in condizioni straordinarie, anche sotto l'imperio di provvisioni eccezionali la legali Le è osservata. La composizione della Giunta come noi l'abbiamo ideata, conferirebbe ad accrescere l'utilità e l'efficacia di quell'espediente; ne avrebbe la presidenza il prefetto della provincia, e ne sarebbero componenti il comandante delle truppe attive, l'uffiziale superiore della guardia nazionale, il comandante dei reali carabinieri, il procuratore generale presso la Corte d'appello, od in sua mancanza il procuratore del Re presso il tribunale circondariale, e due cittadini all'uopo scelti dalla deputazione provinciale.

Forse questo numero potrà parere soverchio; ma qualora si consideri che, assegnando nella Giunta una rappresentanza a tutti gli ordini dell'autorità ed alla cittadinanza, si raggiunge l'ottimo scopo di eliminare le ragioni ed i motivi di dissidii è di conflitti, e di associare il paese anco alla direzione dell'azione per la sua difesa, tornerà agevole convincersi che gl'inconvenienti del numero non abbastanza ristretto sono largamente compensati dai due


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sostanziali vantaggi or ora accennati. La Giunta cosi composta, aggiungendo efficacia, non toglie libertà all'azione governativa; ed in essa si trovano raccolte e coordinate tutte le forze governative e sociali; loccbè quanto debba conferire al conseguimento dell’unità di azione non è chi non vegga. Gli accordi che oggi difficilmente si stabiliscono, oppure quando ci sono, vanno dovuti esclusivamente al buon volere ed alle disposizioni concilianti delle diverse autorità, deriverebbero dallo stesso regolare andamento delle cose. 1 provvedimenti eccezionali, oltre ciò, quelli segnatamente che, dettati da considerazioni d'interessi generali, sono lesivi d'interessi particolari, perderebbero almeno in parte l'apparenza di rigore e di durezza che non possono non avere: le autorità li applicherebbe con la massima ponderazione e con illuminata cognizione di causa; il paese non solo, ma le stesse persone che più sarebbero colpite li accoglierebbero con maggiore arrendevolezza e con la persuasione che sono state prese tutte le cautele e che niente è stato fatto a capriccio. Mediante la creazione di Giunte composte nel modo indicato, si raggiunge del pari lo scopo d'imprimere un impulso energico alla repressione del brigantaggio localizzando l'azione ed unizzandola il più che è possibile senza detrimento della pienezza dell'autorità governativa ed appoggiandosi sul concorso morale del paese.

Da queste generali premesse nasceva il disegno di legge che noi abbiamo ideato, e nel quale sono due parti distinte: la preventiva e la punitrice. Vi accenneremo brevemente dell'una e dell'altra.

La parte preventiva si aggira intorno alle provvisioni, a cui il prefetto, o invitato dalla Giunta o interrogatala ed avutone il favorevole avviso, darebbe opera. Di qual genere debbono essere cosiffatte provvisioni? Quali sono coteste facoltà straordinarie? L'indicazione di esse ci è stata suggerita dall'esame delle ragioni per le quali finora non si è venuto a capo delle difficoltà, dalle impressioni e dalle notizie attinte nelle località, dagli esempi e dai desiderii, che a voce e per iscritto ci sono stati espressi da cittadini d'ogni condizioni e di ogni ceto.


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Nel combattere il brigantaggio conviene sapere tutto chi siano coloro che si addicono ali9 infame mestiere, raccogliere i nomi di coloro che, ribellatisi alle leggi sociali, scorrono la campagna uccidendo e predando: occorre, vale a dire, procedere alla compitazione di elenchi nominativi, nei quali siano raccolti, comune per comune, i nomi di tutti i briganti. Questi elenchi dicevansi altre volte liste di fuorbando. Ora a chi meglio della Giunta può essere affidato il lavoro delle compilazioni di quelle liste? Compiuto cotesto lavoro, assicurati i mezzi della più ampia pubblicità e delle rimostranze ed opposizioni possibili, la Giunta, pigliando in considerazione le opposizioni e sottoponendole a disamina, giudicherebbe se esse debbano oppure no essere menate per buone. In seguito alle sue decisioni le liste diventano definitive, ma ogni mese dovranno essere rivedute per le opportune sottrazioni od aggiunte. I vantaggi della compilazione delle anzidetto liste non hanno d'uopo di essere dimostrati; per mezzo di esse si ha contezza esatta delle esatte proporzioni del contingente che ciascun comune fornisce al brigantaggio, e la loro pubblicazione fatta con tutti i mezzi della pubblicità legale è già una prima minaccia ed un primo monito ai malviventi. Certo quelli fra essi che sono indurati nel delitto non si lasciano scuotere da quella minaccia, ma quelli che si sono trovati trascinati alla vita brigantesca senza essere ben Consapevoli di ciò che fanno, ne posso ricevere uno stimolo, un incitamento a fermarsi sulla malvagia strada ed a presentarsi. A conferire maggiore utilità pratica alla compilazione ed alla pubblicazione delle liste gioverà distribuire premii e ricompense, seconda le norme che all'uopo verranno fissate dal Governo, a coloro che avranno arrestato uno o più dei briganti, il cui nome leggasi in quell'elenco. Dal momento che rimane assodato quel tale o tale altro individuo essere brigante, evidentemente egli trovasi collocato fuori della legge, è un nemico pubblico, ed è dovere non solo degli agenti governativi, ma di qualsivoglia buon cittadino di fare ogni opera per consegnarlo nelle mani della giustizia.


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Se  il brigante sociale resiste chi vuole arrestarlo, questi trovasi el case di legittima difesa. L'opportunità di assegnare premio o ricompensa a chi arresta colai sorta di gente non ci pare possa essere contrastata con saldi argomenti, e ad ogni modo non se ne può negare l'utilità pratica. l’usanza di concedere premi a chi perviene a dare nelle mani della giustizia un malvivente è praticata nei paesi più civili e più liberi, com'è l'Inghilterra, dove talvolta a chi arresta un malvivente il Ministero dell'interno (home departement) da premii vistosi, sino a 500 lire sterline (12,500 franchi).

Nelle condizioni nelle quali attualmente versano le provincie napolitane a motivo del brigantaggio, il pensiero dì far cessare quel flagella con tutti i mezzi che la giustizia e la morale non riprovano categoricamente deve prevalere tutte le altre considerazioni. Il premio, dirà taluno, potrà aizzare la cupidigia, alimentare passioni poco lodevoli; nè noi neghiamo che ciò possa succedere; ma ragionando con questa logica inflessibile, pochi sono i mezzi adoperati dalla giustizia umana che possano andare essenti da appunti di questo genere. Certi scrupoli sono onorevolissimi e degni di essere ponderati; ma debbono tacere quando l'utile della società è evidente, e i principii cardinali della morale non sono offesi. Ora l'utilità pratica del sistema dei premii a chi arresta briganti è evidentissima; è dimostrata dall'esperienza e corroborata dal raziocinio. Per esso si ottiene immediatamente l'ottimo risultamelo di spargere i semi della diffidenza tra le fila degli stessi briganti; il giorno in cui Crocco sapesse che la sua testa ha acquistato un valore, non se la sentirebbe più tanto sicura sulle spalle, ed avrebbe ragione di temere de' suoi più fidi. è un mezzo la cui efficacia non può essere rivocata in dubbio; è stato di recente praticato nelle provincie di Capitanata, e i buoni effetti sono visibili; nel breve spazio di un mese molti briganti sono stati consegnati alla giustizia, altri uccisi, ed altri, intimoriti dalla sorte toccata ai loro compagni, si sono presentati volontariamente.


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Già si sottintende che quando siavi stato conflitto tra il brigante e chi volevi arrestare, ed il primo sia rimasto ucciso, il premio debba essere parimente accordato. Gli inganni poi ed il rischio di dar premio a chi non l'abbia in realtà meritato sono assolutamente improbabili quando la decretazione e la distribuzione del premio venga fatta da persone che si trovano sopra luogo, come sono il prefetto e gli altri componenti della Giunta, e che certo non pigliano nessuna deliberazione senza aver prima accertati i fatti con esattezza e con precisione.

Senza farne argomento di speciale disposizione legislativa, noi crediamo sarebbe pure utile che il Ministero desse istruzione ai prefetti d'invitare le Giunte a compilare le liste dei soldati sbandati, dei renitenti alla leva, dei disertori e dei condannati in contumacia, essendo evidente che a cotesta categoria d'individui il brigantaggio può non essere estraneo.

Proseguiamo pertanto l’annoverazione delle altre facoltà straordinarie. Una di esse ci pare abbia ad essere quella di ordinare non solo la mobilizzazione delle guardie nazionali, ma anche l'ordinamento di speciali squadriglie del paese nel genere di quelle delle quali abbiamo avuto occasione di favellare poc'anzi. Anche questo geniere di provvedimento è di quelli che sono suggeriti o da bisogni istantanei o dalla adeguata cognizione delle località e degli uomini; e quindi è naturale vengano fatti senza indugio da persone che meglio sono ili grado di valutare il bisogno. Ai feriti, alle vedove, agii orfani dei caduti nei combattimenti giustizia vuole si applichi senza più il sistema prescritto dalla legge sulle pensioni militari. Faremo osservare a questo proposito quanto importi che il diritto alle pensioni venga puntualmente soddisfatto, e perciò non ci sembra fuor di luogo raccomandare al Governo di fare ogni opera perché la liquidazione delle pensioni sia il più che è possibile accelerata, nelle provincie infestate dal brigantaggio può succedere che sia necessario proibire in determinati siti l'esercizio di alcune particolari industrie, chiudere le masserie,


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concentrare gli armenti, chiudere i forni di campagna, vietare le esportazioni dalle città e dagli abitati di polveri, di munizioni, di bardature e di altri oggetti di vestiario e di nutrimento, procedere al disarmo; anche la necessità di appigliarsi a cosiffatti partiti può venire in luce da un momento all'altro, e quindi la facoltà di ricorrere ad essi va parimente collocata nel novero delle facoltà straordinarie. Nella provincia di Capitanata segnatamente, dove ci è tanta pastorizia ed abbondano le masserie, l'opportunità dei provvedimenti accennati è grandissima, massime in certe stagioni; né i briganti, quando siano stretti dalla fame e dalle privazioni, possono tenere la campagna per un pezzo. La scarsezza dei viveri toglie al brigante il mezzo di appagare l'insaziabile avidità, e né è sopraffatto; sicché o tenta qualche colpo disperato, oppure, come spesso è succeduto in casi simili, si da per spacciato e si costituisce dinanzi alla giustizia. Ragioni ancora più calzanti consigliano la proiezione dell'esportazione delle polveri, delle munizioni e delle bardature; sono mezzi di offesa, e togliendoli al brigante, gli si toglie l'agio di esercitare l'iniquo mestiere.

Ma queste non sono le più importanti facoltà che a nostro giudizio debbano essere prescritte dalla legge. I provvedimenti fin qui enunciati si riferiscono direttamente a danno dei briganti che sono in campagna; ma non bisogna dimenticare che i più pericolosi e più spregevoli briganti sono quelli che annidano nelle città, e che da queste con ogni maniera di sussidii, d'incoraggiamenti, di aiuti sovvengono coloro che sono in campagna. Contro codesti complici urbani più o meno palesi od occulti dei masnadieri campestri vuoisi si rivolga in modo speciale la severa e indefessa vigilanza del prefetto e della Giunta. Vi ha dei sindaci che tepidamente o male adempiono i loro doveri? Essi debbono essere sospesi dall'esercizio delle loro attribuzioni. Vi ha degli ufficiali e dei militi di guardia nazionale che non si adoperano con la voluta alacrità al disimpegno dei loro doveri? Deve essere parimente decretata la loro sospensione,


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e quando si giudichi che la trascuratezza nel servino sia frutto di malvolere, si deve senz'altro procedere alla radiazione dai ruoli, e provvedere all'andamento del servizio anche con la nomina di comandanti provvisorii. Qualora poi avvenga che le cose oltrepassino i limiti indicati, e che i Consigli municipali e le guardie nazionali manchino ancor più gravemente ai loro doveri, la sospensione e la radiazione non sono punizioni sufficienti. Pongasi per esempio il caso del municipio di Grottaglie che festeggia ed accoglie la masnada del brigante Pizzichichio; quello del municipio di Carovigno che usa gli stessi modi verso le orde del brigante La Veneziana; quello del municipio di San Marco in Lamis che tollera, senza dir motto alle autorità competenti, il soggiorno in paese degli sciagurati che uccisero il rimpianto capitano del genio Valentini; basta forse a soddisfazione della giustizia vendicatrice che quei municipi e quelle guardie nazionali vengano sciolte, e che i sindaci e gli uffiziali vengano sospesi dalla loro dignità e grado? Senta allegare nessuna delle tante ragioni che potremmo per giustificare la risposta negativa a cosiffatto quesito basta rispondano i fatti, i quali attestano che sottosopra gli stessi uomini tornano al maneggio della faccende comunali, e tornano col prestigio di essere rimasti superiori alle leggi con quanto scapito dell'autorità di queste e con quanta perturbazione del senso morale delle popolazioni non occorre dirlo.

I perniciosi effetti di questa condizione di cosa non possono sfuggire, o signori, atta vostra attenzione: né il Governo può appigliarsi a verun partito che non sia quello della stretta osservanza delle leggi. La legge vuote che ogni Consiglio municipale sciolto debba essere ricostituito dagli elettori a capo di un termine prestabilito, il quale non può essere allungato nemmeno dì un giorno; il Governo trasgredirebbe il proprio dovei a se non si conformasse scrupolosamente alle prescrizioni della legge. Che cosa dunque rimane a fare? A noi pare sia d'uopo creare la facoltà, che attualmente non esiste, e porre la


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potestà esecutiva in grado di riparare al male con quelli efficacia che oggi non è conceduto. Il mezzo di raggiungere questo scopo senza violare, no abrogare, né sospendete iè disposizioni della legge vigente, ci è stato suggerito dalla costumanza che si pratica con tanto vantaggio della giustizia e della pubblica moralità presso quella sperimentata maestra di libertà che è la nazione inglese. In Inghilterra ogni corporazione elettorale (constituency) possiede il privilegio della franchigia, il diritto, vale a dire, di scegliere il proprio rappresentante alla Camera dei Comuni; ora quantunque volta è dimostrato che nell'esercizio della sua prerogativa quella data corporazione sia caduta nel fallo della corruzione, la rimane esautorata, la franchigia le viene tolta (disfranchised), perde il diritto di scegliere il deputato. Il caso si avverò pochi anni or sodo a proposito del collegio di Saint-Albans.

Ciò che si pratica in Inghilterra verso i collegi elettorali chiamati in colpa di corruzione, può essere praticato in Italia verso i Consigli municipali, e le guardie nazionali chiamate in colpa e convinte di aver prestato appoggio ai briganti e con la connivenza materiale e palese, e con la connivenza morale, senza escludere. ai sottintende, nel primo caso i rigori della legga penale. Avverandosi adunque l'esempio al quale accenniamo, il prefetto, sulla proposta, o previo consenso della Giunta, dovrebbe proporre al Governo la sospensione del diritto di scegliere i consiglieri municipali e gli ufficiali di guardia nazionale; ed al Governo poi spetterebbe di ordinare l'esecuzione di quel provvedimento con apposito decreto, circondato e munito di tutte le necessario guarentigie. Nè il tempo della sospensione sarebbe indentato, non dovrebbe eccedere i tre anni. Da questa disposizione legislativa noi siamo persuasi, possano riprometterai ottimi effetti; con essa s'impedirebbero molti snudali, si svellerebbero dalla radice motti abusi, e oltre al vantaggio incontrastabile del danno evitato, si otterrebbe pur quello dell'esempio salutare. Lo stesso fervore col quale si agognano nelle provincie napolitane le cariche municipali


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e gradi nella guardia nazionale, ci è pegno che i municipi colpiti dal provvedimento di cui discorriamo, sarebbero compresi da un profondo senso di umiliazione, il quale schiuderebbe facilmente la via al ravvedimento.

Durante il nostro viaggio abbiamo avuto occasione di accertarci in modo non dubbio di questo fallo; a Foggia, a Trani, in altre località, dove le guardie nazionali ermo state sciolte, abbiamo udito lagnanze vivissime, le quali testimoniavano per l'appunto quel senso di umiliazione di cui testò favellavamo. Quelle popolazioni impressionabili e vivaci saranno sensibili, forse anche con esagerazione, all'applicazione di un provvedimento, il quale le costituisce in certa guisa nella condizione di minorenni, perché le dichiara per un dato tempo incapaci ed indegne dell'esercizio delle civili franchigie. Né si dirà che il castigo sarebbe ingiusto, poiché colpirebbe tutta la popolazione di un comune. Casi come quelli di Grottaglie, di Carovigno, di San Marco in Lamia non possono succedere senza la complicità operata a tacita, sempre colpevole, della maggioratila degli abitanti, e vento i collegati dei briganti non si hanno ad usare riguardi. V'ha di più: affidando durante la sospensione la gestione delle faccende; municipali ad uomini ai sperimentala probità e fama liberale, scelti nel paese medesimo, il Governo, oltre al fare atto di forza, dimostrerebbe alle popolazioni che le persone obbedienti alle leggi e morali riscuotono tutta la sua fiducia. La privazione temporanea della prerogativa, anziché scemare il prestigio dei liberi istituti e renderli meno cari alle popolazioni, sortirebbe l'effetto emiliano: il prestigio crescerebbe, i vantaggi sarebbero meglio estimati, e il desiderio di riavere il bene perduto sarebbe stimolo irresistibile a buone opere ed a civili virtù.

Un'ultima facoltà vorremmo fosse quella di decretare l'esilio locale od al confino a riguardo di persone gravemente indiziate di turbare la pace dei paesi e di alimentare quest'agitazione, quel disordine morale che di tanta utilità torna al brigantaggio. Cì sono legalità dove


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tutto il male proviene da due individui, od anche da un solo: con l’allontanamento di costoro il male perde la sua ragione di essere e cessa immediatamente. È un mezzo che, usato con le opportune precauzioni e con equità di discernimento, gioverebbe moltissimo, poiché spegnerebbe le gare civili, le quali sono Unto pii accanite e tenaci, quanto più angusta è la cerchia delle mura entro le quali fervono, e placherebbe le animosità. Forse respirando altra atmosfera, lontane da quei luoghi, da quei dati individui, le stesse persone, a cui il provvedimento venisse applicato, avrebbero agio e possibilità di emendarsi e di persuadersi del proprio errore.

All'esercizio delle facoltà che siamo venuti successivamente annoverando sarà necessariamente d'uopo di adequati mezzi pecuniarii: laonde noi vi proponiamo di stanziare nel bilancio dello Stato un apposito credito per sopperire a coteste spese. Largheggiando su questo punto, si otterranno risultamene oltre ogni dire proficui. Saranno prevenuti molti delitti, evitati motti disordini, risparmiale molte vite.

Questo è uno di quei casi, nei quali l'aggravio dell'erario è compensato con usura dall'importanza e dai grandi vantaggi delle conseguenze che se ne ricavano. E forse oggi non avremmo a deplorare tante sciagure se H provvedimento di cui favelliamo fosse stato praticato.

La Giunta del nostro concetto deve tornare di poderoso aiuto all'azione governativa, ed essere guarentigia alle popolazioni; e perché questo scopo sia ancora più sicuramente raggiunto, noi stimiamo sia conveniente prescrivere che dettò sue deliberazioni abbia a compilare e conservare apposito processo verbale.

Assicurata con i mezzi finora indicati un'azione preventiva, vigorosa contro il brigantaggio, ci rimase a dire in qual guisa possa, a nostro giudizio, provvedersi ad un'azione punitrice parimente vigorosa, e la quale sappia conciliare le. ragioni dell'umanità e della giustizia con guelfe dei vitali interessi della società.


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L'attuale modo di procedere nella punizione dei reati di brigantaggio raggiunge questa conciliazione, soddisfa a queste legittime esigenze, consegue lo scopo della vera giustizia, che è quello di vendicare l'offesa sociale e di prevenirne il rinnovamento incutendo il terrore salutare dell'esempio?

La nostra risposta a queste dolorose interrogazioni è dolorosamente negativa. L'attuale condizione delle cose non è giusta, non è regolare, non raggiunge lo scopo; deve cessare, deve essere assolutamente mutata; è tempo oramai che i legislatori della nazione avvisino e provvedano. Oggi i reati di brigantaggio sono assoggettati ad una doppia specie di giurisdizione, ovvero ad usare una locuzione più esatta, poiché in un caso vera giurisdizione non esiste, sono trattati in due modi diversi. I briganti colti colle armi alla mano sono fucilati; i briganti arrestati inermi sono dati in balla della potestà giudiziaria. Nel primo caso, la morte immediata; nel secondo, la lentezza della procedura penale, e non di rado una sentenza di non farsi luogo a procedere. Questa difformità, questa coesistenza di due estremi opposti sono già un inconveniente gravissimo, un male deplorabilissimo. Il brigante più reo non è sempre colui che è passato per le armi, né il meno colpevole è sempre quegli a cui i magistrati hanno conceduta la libertà provvisoria. Questa disparità di condizioni tra complici dello stesso misfatto, tra operatori della stessa iniquità, questa disparità che spesso si risolve in un privilegio a favore di chi è maggiormente colpevole, »non può essere più a lungo tollerata. Né le fucilazioni sommarie sono conformi alle prescrizioni delle nostra legislazione; nel silenzio della legge sono state suggerite da una ferale necessità. Il sistema delle fucilazioni non ha altra sanzione se Don quella del fatto; ed il fatto non può prevalere sulle ragioni indeclinabili della legge. Affrettiamoci a dichiarare che cotesto sistema desta il maggiore rincrescimento e la più viva ripugnanza a coloro che sono costretti a praticarlo ed eseguirlo: ai militari. Questo rincrescimento ci è stato reiterata mente espresso dal generale La Marmora e dai più distinti


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generali ed officiali che militano sotto i suoi ordini. Ad essi gi deve anzi che il male non sia stato ancor più grande di ciò che è, e che non debbasi deplorare che abbia avuto maggiore ampiezza. Il generale La Marmora ba usato e usa la vigilanza più indefessa, e non tollera che i suoi subordinati oltrepassino mai i rigori imposti dalla dura necessità. Ma il buon volere degli uomini non deve pigliare il posto che solo compete all'autorità della legge; l'azione della giustizia punitrice deve togliere l'impulso e la regola dalla legge che a tutti sovrasta e che tutti indistintamente debbono ubbidire; no l'offesa che una pratica che non è sanzionata dalla legge reca alla maestà della giustizia può essere compensata dal buon volere degli uomini, il quale torna a lode di questi e non assolve di certo il sistema dalla pecca originale da cui è viziato.

Dall'altro canto non è meno evidente che le necessità supreme della difesa sociale richiedevano la punizione esemplare e pronta degli autori dei reati di brigantaggio, e che questa punizione per la via ordinaria non eri ottenuta. Nell'alternativa di abbandonare la società senza difesa contro i colpi de' suoi nemici, ovvero di ricorrere ad un sistema sommario, questo secondo partito ebbe t prevalere. Gl'inconvenienti e i danni sono palesi: no trovano compenso nel risultamene poiché se sono stati fucilati molti briganti, non ò stato spento con ciò il brigantaggio. La reintegrazione dell'autorità della legge è indispensabile tanto nell'interesse della giustizia, quanto in quello della società, chiaro essendo che là dove l'azione punitrice non ha per sua base la legalità, ivi essa torna inefficace.

Il sistema delle fucilazioni sommarie e senza processo deve cessare? La cognizione dei reati di brigantaggio dev'essere conservata ai tribunali ordinarii Noi abbiamo lungamente ponderato questi argomenti importantissimi: abbiamo interrogato intorno ad essi il parere di militari, di magistrati, di amministratori e di altri ragguardevoli nomini: ed oggi, con tutta la pienezza del nostro


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convincimento e con perfetta sicurezza di coscienza dichiariamo, che al primo quesito abbia a darsi una risposta categoricamente affermativa, ed al secondo una risposta categoricamente negativa. Le due cose sono strettamente connesse: il sistema delle fucilazioni, qual è oggi praticato, deve cessare: la cognizione dei reati di brigantaggio deve essere deferita ad una giurisdizione che non sia quella dei tribunali ordinari: i due provvedimenti si riscontrano l'uno coll'altro, collimano allo stesso scopo, che è quello di tutelare gl'interessi sociali senza violare la dignità della legge, né possono andare l'uno dall'altro scompagnati. Perché l'uno riesca è d'uopo attuar l'altro, e per contrario, se l'un provvedimento si disgiunge dall'altro, invece di arrecare rimedio al male, questo sarà di gran lunga aggravato. Noi non ispenderemo parole a tessere il novero delle vittoriose e molteplici ragioni d'ordine politico, morale, sociale e costituzionale, che consigliano a porre termine al sistema delle fucilazioni senza processo; né ci pare aver d'uopo di diffonderci a dimostrare, che la competenza dei reati di brigantaggio va affidata ad una giurisdizione speciale. L'azione penale contro i briganti attinge le ragioni della sua efficacia dalla prontezza con cui è adoperata, dal rapido succedere del castigo al delitto. Si può accogliere la speranza che a questo scopo indispensabile sia per giungersi col sussidio della giurisdizione ordinaria? Si può forse sperare prontezza nei giudizi, quando unta folla di giudicabili si accalca nelle carceri, Unti delitti si commettono ed il rito e la procedura giudiziaria implicano unte lentezze? Togliendo ai magistrati ordinarii la cognizione dei reati, dei quali ci occupiamo ci assicura ciò che oggi manca, l'amministrazione, cioè spedita della giustizia, si preclude l'adito a qualsivoglia arbitrio e si sgrava la stessa magistratura da un peso che in tanta difficoltà e viluppo di casi essa oggi mal regge. Ora, quando venga concesso, e ci pare impossibile che noi sia, che debba mutarsi di giurisdizione, il partito a cui appigliarsi emerge ad un tratto evidente; la giurisdizione sui reati di brigantaggio


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va deferita ai tribunati militari, ed ai tribunali militari qual seno stabiliti e prescritti in tempo di guerra dal Codice penale militare. Atte straordinarie condizioni ingenerate dal brigantaggio vuoisi riparare con una giurisdizione, che meglio ad esse si addica; alle urgenze delta difesa sociale va provveduto con una giustizia severa, immediata, esemplare.

Ai ribaldi che si sono ribellati contro la società e che ad essa muovono guerra colle rapine e cogli assassinii è d'uopo mostrare che la società possiede non solo là forza materiale di combatterli e debellarli, ma anche li forza morale di punirli, senza ricorrere all'arbitrio. Alle popolazioni dolenti ed atterrite è d'uopo mostrare che hanno a gagliarda tutela la spada dell'esercito ed una giustizia inesorabile che raggiunge il colpevole senza esitazioni e senza lungaggini sullo stesso teatro dei suoi delitti. Il brigantaggio è la guerra contro la società: praticando dunque a suo riguardo la giurisdizione che si pratica in tempo di guerra, non si offende nessun principio, non si lede nessuna guarentigia, non si manca a nessuna norma di equità. La legislazione penale per i tempi di guerra è determinata in modo esplicito e preciso dal nostro Codice militare, e noi pensiamo che ciò che si abbia a far di meglio per la punizione dei reati di brigantaggio aia per l'appunto l'applicazione pura e semplice delle disposizioni di quel Codice. L'esperienza ha dimostrato quanto siano provvide quelle disposizioni, e come al nostro Codice militare non possa muoversi il rimprovero di severità eccessiva. Le innovazioni non sarebbero opportune. Per la cognizione dei reati di brigantaggio perciò avrebbe ad esservi lo stesso duplice ordine di tribunali fissati dal Codice per i tempi di guerra, gli ordinarii, cioè, e gl'instantanei. La formazione di questi ultimi è circondata da tutte le guarentigie desiderabili, e sarebbe strano davvero che fossero giudicate insufficienti rispetto ai briganti. Pongasi il caso d'una colonna mobile, che scontrandosi coi briganti, ne colga parecchi con le armi alla mano: il tribunale istantaneo viene incontanenti formato, ed il giudizio è esaurito senza indugio.


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I principii della giustizia vengono in tal guisa osservati nella sostanza e nella (or: ma, non è violata guarentigia della difesa, la società 4 vendicata senza offesa della legalità, ed i soldati, quando fossero per cedere alla tentazione di usare violenza, sarebbero rattenuti dalla certezza che i veri colpevoli non possano sfuggire al castigo meritato. L'utilità di questo sistema è ampiamente confermata dalla storia e dadi esempi delle altre nazioni civili. Quando nell'anno 1808 il brigantaggio infieriva in molti dipartimenti della Francia, il primo console decretava la formazione di colonne mobili, composte di soldati di fanteria, di cavalleria ecfe carabinieri. Nel decreto si legge l'articolo che qui trascriviamo:

«Art. 4. Chacun de ces corps aura à sa suite une Commission militaire extraordinaire, qui jugera le brigands dans les vingtquatre beures de leur arrestation, Cette Commission sera nommée par le general commandant la division (1).

I risultamene chiarirono l'opportunità del concetto e i vantaggi del provvedimento: in breve volgere di tempo il brigantaggio fu distrutto.

“Celle ràce de brigands (così scrive il signor Thiers) qui s'était formée des déserteurs des armées et dessoldats licenciés de la guerre civile, qui poorsuìvait les propriétaires riebes dans ls campagnes, les voyageurs sur les grands routes, pillait les caises publiqueset répandait la terreur dans les pays, venait d'estre réprimée avec la deroière rypeur. Ces brigands avaint choisi, pour se répandre, le moment ou les armées parties presque toutes à la fois au dehors, avaient privè l'intérieur des forces néceasaires a sa sécurdè. Mais depuis la paix de Luneville, et le retour d'une partie de nos troupes en France, la situation niestait plus la méme. De nombreuses colonnes mobiles, accompagnees d'abord de Commissions militaires et plus tard de trìbunaux spécianx, avaient parcouru les routes en tout

(1) Vedi Coa, tomo VI, pag, 539


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sens, et chatié avec la plus impitoyable energie ceux qui les infestaient. Plusieurs ceotaines d'entre eux avaient été fusillés en six mos sans qu'aucune reclamation s'élévàt en faveur di scélérats, restes impures de la guerre civile. Les aulres, complètementl découragés, avaient remis leurs armes, et fait leur soumission. La sécurìté était rétablie sur les grands chemins, et tandis qu'aux mois de janvier et de février 1801 on pouvait à peine voyager de Paris à Rouen, ou de Paris à Orléans, sans courir le danger d'étre égorgé, on pouvait à la fin de cette méme année traverser la Franca entière sans étre exposé à aucun accident. Cest à peine, si dans le fond de la Bretagne et dans l'intérieur des Cévennes il subsistait encore quelque reste de ces bandes (1)”.

Ad alcuni onorevoli componenti della vostra Commissione pareva che a meglio guarentire le ragioni della giustizia fosse opportuno divisamento d'introdurre nei tribunali militari un elemento tolto dalla giurisdizione ordinaria, e che i tribunali incaricati del giudizio dei reati di brigantaggio avessero ad essere non puramente militari, ma misti. Il quale suggerimento, dettato dal lodevole desiderio di scostarsi il meno che fosse possibile dalle ordinarie forme della giustizia penale, non è però sembrato alla maggioranza capace a rimuoverla dal suo parere. Gl'inconvenienti a cui nella pratica darebbero occasione i tribunali misti non sarebbero compensati dai problematici vantaggi che potrebbero avere; e quando la necessità ha consigliato di appigliarsi al partito della giurisdizione straordinaria, è divisamento più opportuno quello di applicare quella giurisdizione nella sua integrità e senza arrecarvi modificazioni, la cui utilità non avrebbe forse la sanzione dell'esperienza.

Determinata la competenza, assodata la giurisdizione, sorge naturalmente, la questione della penalità. I reati di brigantaggio debbono essere puniti con l'estremo supplizio,


(1) Vedi Thiers, Hoistoire du Contultant e de l'Empire. Bruxelles, 1845 volume XI, pagina 190.


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oppure la pena di morte va intieramente esclusa? Una parte della vostra Commissione, mossa da sentimenti alla cui elevatezza rendiamo piena giustizia, si pronunciava per il secondo partito; la maggioranza sarebbe stata lietissima di associarsi a questo parere e di raccomandarvene l’approvazione; ma essa ha stimato anzitutto dorerei preoccupare delle ineluttabili necessità della difesa sociale, epperciò è stata costretta a superare qualsivoglia ripugnanza ed a propugnare la dolorosa necessità di dover conservare la pena di morte. Con la stessa pienezza di convincimento, colla quale vi affermavamo poc'anzi che l'attuate sistema di fucilazioni abbia a smettersi, vi affermiamo ora che le condizioni delle cose non consentono venga tolta all'azione punitrice della giustizia la terribile facoltà di sentenziare la morte. Forse se la pena capitale fosse già cancellata dai nostri Codici, l'esperienza chiarirebbe la lugubre necessità di applicarla in via di eccezione ai colpevoli di reati di brigantaggio, ma la nostra legislazione sanziona ancora la pena dell'ex stremo supplizio, e l'opportunità sarebbe assai male scelta, qualora si volesse incominciare a toglierla in occasione del brigantaggio. Chi si faccia a considerare l'enormezza di delitto che si raduna nel brigantaggio, là sanguinaria violazione d'ogni fogge naturale e scritta che esso è, la ribellione aperta che esso implica contro la società sarà condannalo a parteggiare per la nostra sentenza. Chi poi ponga mente alle immanità senza esempi che i briganti commettono ed alle loro scelleratezze selvagge non potrà non confermare questo parere.

E una condizione di cose durissima, alla quale mal si pretenderebbe arrecare rimedio ascoltando i suggerimenti di una improvvida pietà. Togliere la pena di morte per i reati di brigantaggio tornerebbe all'abdicazione assoluta e funesta del diritto sociale di punire. La guerra diventerebbe più sanguinaria; i soldati non darebbero quartiere a coloro che hanno straziati i loro compagni, quando sapessero che costoro non saranno puniti con tutto il rigore delle leggi.


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Le popolazioni dal canto loro non ravviserebbero in questa decisione il senso di umanità, dal quale sarebbe informata, ma la interpreterebbero come tacita confessione della impotenza del Governo e delle leggi contro il brigantaggio. Le leggi non debbono per fermo essere subordinate ai capricci ed alle passioni delle moltitudini, ma per sortire efficacia non debbono nemmeno fare astrazione troppo grande dall'ambiente nel quale vivono le popolazioni a cui debbono essere applicate.

Ora oggi, non è chi noi sappia, le popolazioni del mezzodì d'Italia sono conturbate ed inasprite dal brigantaggio, e sono proclivi a ravvisare io ogni atto di mitezza un testimonio di debolezza. La vita e la proprietà mal sicure, i traffici interrotti, la prosperità pubblica incagliala nelle sue sorgenti e nel suo sviluppamene, e lutto ciò per opera del brigantaggio, sono tante cause di malessere che non possono non essere tolte in seria considerazione. è tal complesso di cose che, se non giustifica, scusa di certo e ad ogni modo rende ragione della esasperazione degli animi. Non è guari il Governo è stato costretto a pronunciare lo scioglimento del Consiglio municipale e della guardia nazionale della città di Monopoli in Terra di Bari, perché ad ogni costo volevano la fucilazione di briganti che la forza pubblica aveva catturati inermi, e che perciò questa a buon diritto intendeva consegnare alla potestà giudiziaria. A Manina, io Terra d'Otranto, un brigante trovavasi nelle condizioni medesime; la popolazione irruppe violentemente, lo strappò dalle mani dei carabinieri che lo custodivano, e lo uccise. A Cotrone, in provincia di Catanzaro, avvenne un caso dello stesso genere.

Il legislatore senz'alcun dubbio non può né deve incoraggiare le popolazioni in queste loro inclinazioni e disposizioni di spirito; ma non può nemmeno e non dee porsi in troppo estremo contrasto con esse, e dimenticare all'intuito le ragioni della opportunità. Dichiarando che non vi abbia più ad essere pena di morte per i briganti, le inclinazioni delle popolazioni non sarebbero mutate, forse


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diventerebbero più risentite, e lo scopo fallirebbe anche per questo riflesso. no dall'abuso delle fucilazioni si può inferire la loro assoluta inefficacia, e perché mal si corregge un eccesso appigliandosi all'eccesso opposto, e perciò l'asserzione di quell'abuso e di quella inefficacia è insussistente. Se i briganti fossero stati immuni dalla pena di morte il loro numero sarebbe a quest'ora di non poco accresciuto; se Borjes e Trazigny non fossero stati fucilati le irruzioni di bande dalla frontiera pontificia, gli sbarchi di avventurieri di tutte le parti del globo si sarebbero moltiplicati oltre ogni credere. La sicurezza dello Stato meglio tutelata, le numerose vittime risparmiate attestano che la severa punizione di pochi fu pietà a molti ed alla patria, come crudele a molti ed alla patria sarebbe stata la pietà usata ai pochi.. Nell'enunciare questi principii e nel riconoscere che la pena di morte debba essere applicala ai reati di brigantaggio la maggioranza de la Commissione non intende, o signori, che non vi abbia ad essere gradazione in cotesti reati, e che tutti indistintamente abbiano ad essere puniti dall'estremo supplizio. La gradazione è necessaria e per conformarsi ai dettati della giustizia e per conservare alla pena la sua efficacia. Un miserabile che, sospinto dall'amor del bottino o da paura, siasi ascritto ad una comitiva di malfattori, ma che non ha fatto altro se non scorrere la campagna, e quando ha incontrati la forza ba gettate le armi, non potrebbe essere assoggettato alla stessa pena che colpirebbe Ninco Nanco, lordo di tante brutture e di tanti misfatti.

Ad alcuni fra noi, a dir vero, pareva che il solo fatto di avere appartenuto ad una banda armata costituisca tale reato da essere punito di morte, e che le circostanze attenuanti fossero temperamento sufficiente a tutelare in ogni caso le ragioni della giustizia e della umanità; ma alla maggioranza è sembrato che il dichiarare reo di morte chiunque abbia fatto parte di bande armate fosse severità eccessiva, e che non conferirebbe allo scopo, poichi chiunque in un momento di trascorso si fosse arruolato


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in una Comitiva, persuaso di non poter più riscattare la vita, si studierebbe di venderla cara e sì darebbe a percorrere la carriera del delitto senza ritegno, perché senza speranza.

In conformità adunque di questo avviso noi vi proponiamo che la pena di morte debba essere pronunciata dai tribunali militari a carico dei briganti cotti in flagranza di resistenza alla forza pubblica, e che negli altri casi debba essere surrogata da altra penalità, salvo, ben inteso, i casi di complicazione con delitti comuni, nei quali è d'uopo conformarsi alle prescrizioni del Codice penale ordinario.

La penalità che nei casi ora accennati può essere con maggior vantaggio surrogata alla morte è la deportazione in isole lontane. L'efficacia di questa pena ci è stata commendata da pressoché tutti gli onorandi magistrati e giureconsulti che abbiamo interrogato. Tutti ci hanno fatto riflettere che alla intrinseca efficacia di questa pena si aggiunge nel caso speciale, di cui trattiamo, quella che deriva dall'indole delle popolazioni meridionali, affezionatissime al proprio suolo, invaghite del proprio cielo, ritrose oltre ogni credere al pensiero dell'allontanamento dal tetto natio. Il solo annunzio di questa nuova penalità cagionerebbe uno spavento salutare e fruttifero. La efficacia della pena crescerà col crescere della distanza; la deportazione alle isole di Tremiti non produrrebbe effetti cosi decisivi come quella in terre lontane e di là dai mari. Nel novero dei colpevoli da condannarsi alla deportazione a vita od a tempo, con lavori forzati o senza, tutto ciò secondo le circostanze accertate del delitto, si vogliono comprendere i componenti della banda armata che non furono colti in flagranza, i complici, le spie, i manutengoli dei briganti e tutti coloro senza il cui concorso il brigantaggio non sarebbe potuto sussistere, né procedere alle opere consuete di saccheggio, di uccisione, di devastazione. Il benefizio della gradazione della pena non potrà in nessun caso essere conceduto ai complici e manutengoli che appartenessero a pubblici uffizi governativi, provinciali o municipali, o


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che fossero ministri dei culti; per gli uni e per gli altri non è lecito invocare il patrocinio delle circostanze attenuanti, dappoiché la imputabilità delle azioni umane è maggiore quanto più elevata è la condizione, quanto più alto è il ministerio sostenuto dall'imputato.

Il Parlamento ha già sanzionato questi principii in occasione della legge sulle diserzioni, e noi ora chiediamo che contro gli impiegati ed i preti chiariti complici dei briganti si proceda con la stessa inflessibile severità con cui la legge prescrive attualmente dì procedere contro gl'impiegati ed i preti che si fanno promotori e complici delle diserzioni militari. Sarà questa una delle più provvide e più eque disposizioni della legge, poiché colpire il manutengolo torna a colpire il delitto odia sua scaturigine. I briganti urbani sono più pericolosi e più iniqui di quelli che tengono la campagna; questo, o signori, è il grido della coscienza pubblica nelle provincia del mezzodì, ed è pura e schietta verità. Invocando contro quei miserabili le più severe penalità noi abbiamo la certezza di manifestarvi un voto che collima in tutto e per tutto con le esigenze delta giustizia e con la ragionevole aspettazione della pubblica opinione.

La multa, la interdizione dai pubblici uffici, la perdila dei diritti civili sono il naturale accompagnamento ed il corollario delle penalità, e rispetto ad esse è evidente che sia d’uopo togliere la norma dal Codice penale ordinario. La cifra della multa da noi adottata si riscontra con le prescrizioni dell'articolo 182 del Codice penale ordinario. E' del pari evidente che, tutto quanto concerne il brigantaggio non potendo essere sottoposto a giurisdizioni diverse, i tribunali militari sieno anche chiamati a giudicare ed a pronunciare la pena proporzionala di carcere o multa a carico di coloro che per avventura si fossero resi contravventori alle prescrizioni promulgate dai prefetti nell'esercizio delle facoltà straordinarie stabilite nella parte preventiva della legge. A convalidare sempre più gli effetti della giustizia punitrice ci sembra pure opportuno divisamente la imposizione del sequestro ai


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beai mobili ed immobili degl'individui il cui nome è scritto definitivamente nella lista, e degl'imputati di. reati di brigantaggio. Anche questo provvedimento ha l’immenso vantaggio di ferire il male al cuore, di colpirlo in una delle sue origini. La passione del bottino, l'avidità del lucro, la smania di arricchirsi non sono lievi incitamenti al brigantaggio sopratutto quando si ricordi che essi sono sanzionati dalla tradizione storica e dall'esempio parlante di famiglie che vanno debitrici dell'agiatezza e delle dovizie al brigantaggio dei loro antenati. La imposizione del sequestro implica che delle male acquistate ricchezze il brigante non sarà per godere, e questo pensiero gioverà senza dubbio a distogliere molti dalla carriera del delitto. L'azione punitrice rimane in cosiffatta guisa avvalorata dalla distruzione dello scopo materiale immediato del brigantaggio, il delitto cessa dall'avere le attrattive di istrumento di guadagno, ed il convincimento che mediante il brigantaggio non si diventa più ricchi è già grande remora alle prave inclinazioni ed alle opere pravissime. Questa disposizione della legge è quindi doppiamente utile: e perché rende l'azione penale più poderosa, e perché ci sembra debba pure esercitare una valida azione preventiva.

A coronare tutti questi provvedimenti noi crediamo che non debba essere dimenticata la opportunità della indulgenza verso coloro, che non esitano a collocarsi da sé medesimi nelle mani della giustizia. I provvedimenti di questo genere, quando vengono fatti a proposito, sortiscono sempre buoni effetti. Vi narreremo a questo particolare un fatto che ci venne riferito dal valoroso comandante la zona militare di Avellino, il generate Franzini.

In uno scontro tra la truppa e la banda brigantesca, di cui era capo un tale Crescenzio, in Terra di Lavoro, i briganti furono compresi da tanta paura, che giurarono se avessero potuto scampare la vita di far celebrare una messa, e di costituirsi poscia volontariamente. Quattordici di essi diffatti si presentarono al capitano Arri dei bersaglieri, deposero le armi, ma gli chiesero facoltà,


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approssimandosi il Natale, di andare a passare quella festa nelle loro case prima di entrare in prigione. Il capitano, come era suo debito, ne riferì al generale Franzini, il quale rispose accordando la chiesta facoltà con la condizione che col primo convoglio della via ferrata sarebbero venuti a Noia a costituirsi la domane stessa dei giorno di Natale. Furono puntuali: uno di essi accorse tutto trafelato alla stazione perché credeva che il convoglio fosse già partito. Invece di 14 però, i briganti che si presentavano e si costituivano nelle mani della giustizia erano diventati 25. Il generale li arringò, e chiese ad essi se sapevano che presentandosi sarebbero stati sottoposti a pròcessura e correrebbero rischio probabile di essere condannati. Risposero affermativamente; ed anzi ano di essi, per nome Torneo, soggiunse essere carico di delitti, e sapere che gli sarebbe toccata la galera. Il generale allora diede ad essi il permesso di tornarsene di bel nuovo alle loro case per dimorarvi fino al primo dell'anno, con l'ingiunzione di presentarsi un'altra volta il giorno 2 gennaio. Venne quel giorno, ed i briganti tornarono; ma non erano più né 14 no 25, erano 46.

Le conseguenze che si ricavano da questo fatto militano tutte a prò del nostro assunto; laonde a noi sembra che la legge ponendo a calcolo la eventualità della presentazione spontanea, ravvisi in essa una circostanza attenuante, la quale determini la diminuzione di un qualche grado di pena. E di questa diminuzione ò pur giusto godano quei briganti che abbiano consegnato un loro compagno nelle mani della giustizia.

La legge per ultimo dovrà stabilire che col cessare dello stato di brigantaggio, cesserà la competenza della giurisdizione militare su quei reati, e la giurisdizione ordinaria rientrerà in possesso di tutte le sue attribuzioni.

Signori, noi siamo compresi dalla persuasione, che ponendo in pratica queste disposizioni legislative, ed avvalorando la energia dell’azione punitrice con la virtù riparatrice dei provvedimenti amministrativi, e con l'impulso fruttifero ai miglioramenti economici, la inala pianta dei


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brigantaggio sarà sradicata dal suolo italiano. Noi siamo convinti che la promulgazione di questa legge coincidendo con la esecuzione del complesso di provvedimenti che abbiamo partitamente indicati, e con la pratica costante e sincera dei principii di giustizia e d'italianità nella politica estera e nell'interna, parimente che in tutti i rami della pubblica amministrazione e sortirà l’effetto che ne auguriamo.

E forse sarà utile che il Governo rifletta se non sia buon consiglio di profittar dell'occasione per accompagnare un atto di forza e di severità con qualche atto clemente. Già vi abbiamo detto quanto e quale sia l'ingombro delle carceri napolitano: la prerogativa sovrana non potrebbe forse essere invocata a benefizio di quei giudicabili, che imputati di lievi pecche politiche, sono scevri da qualsiasi imputazione di delitti comuni?

Con questo suggerimento di mitezza ci è grato conchiudere questa relazione dolorosa.

Noi crediamo, o signori, di aver compito in questa guisa il debito nostro, e di avere facoltà di deporre il mandato che voleste affidarci. l’abbiamo esposto senza velo e senza esagerazione quale sia stato il risultamento delle nostre indagini, e quale la persuasione che esso ha creato negli animi nostri. Non vi abbiamo dissimulato la entità del male, no vi abbiamo taciuto i rimedi. Il compito nostro mesto e faticoso è finito. Ora spetta a voi,o signori, coronare l'opera ed appagare le speranze che la vostra deliberazione di procedere ad una inchiesta sul brigantaggio ha destato nelle afflitte popolazioni dell9 Italia meridionale. Voi non defrauderete tanta aspettazione e tante speranze. Voi non dimenticherete che quelle popolazioni hanno molto sofferto, e vi affretterete a confortarle col senno delle vostre decisioni giuste ed amorevoli. Voi dimostrerete a quelle popolazioni, che su i loro destini veglia la nazione, e che dall'Italia e dalla libertà verrà distrutta la tetra eredità ad esse tramandata dagli antichi oppressori. Voi dimostrerete all'Europa che non paventate di affrontare le difficoltà, e che le sapete virilmente combattere e superare.


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II brigantaggio nelle provincie napolitano porge argomento di soddisfazione e di speranza ai nostri nemici, i quali si figurano che per esso si logorino le forze e la vitalità della nazione. Vana soddisfazione; speranza fallace i Noi invece portiamo ferma fiducia, che il fatto dimostrerà, come l’Italia e la libertà abbiano sole il privilegio di distruggere i mali che esse non hanno creato, e come le stesse insidie dei nemici, la stessa coedizione di cose che ci si appone ad argomento di debolezza non sortiscano altro effetto se non quello di porre in evidenza sempre maggiore che l'unità italiana è un fatto irrevocabile ed indestruttibile, e che coloro i quali ne sognano la fine, dovranno invece rassegnarsi ad essere testimoni del suo immancabile compimento.

GIUSEPPE MASSARI, relatore.


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Relazione alla Commissione d'inchiesta, del deputato CASTAGNOLA, letta, alla Camera nella tornata secreta, del 4 maggio 1863.


Signori! — Le tavole processuali che m'incaricaste di svolgere io occasione dell’inchiesta eseguita nelle provincie meridionali del regno italiano, provano evidentemente la complicità, dirò anzi l'istigazione di Francesco II, dei Comitati borbonici residenti a Roma e del Governo romano ai fatti di cospirazione, di reazione e di brigantaggio che infestano quelle belle contrade. Un rapido esame delle medesime dimostrerà il fondamento di quest'asserzione.


Proeessura contro monsignor Bonaventura Cenatiempo, De Christen ed altri.


Voi ben conoscete, o signori, il dramma giudiziario che si svolse a seguito della scoperta del Comitato borbonico chiamato di Frisa o di Posillipo dalla casina ove radunavansi a convegno i congiurati. Chiave principale dello stesso sono le rivelazioni d'Ettore Noli, congiurato pur esso e segretario del Comitato, il quale però fece conte alla punitrice giustizia quelle trame tenebrose. E queste propalazioni appaiono informate al vero, che tali le addimostra il contesto della tela giudiziaria, ed il verdetto della popolare giustizia, la quale riconobbe accertato il fatto e l'importanza delle rivelazioni; perlocchè la Corte d'assise del circondario di Napoli applicando la disposizione dell'articolo 179 del Codice penale lo dichiarava esente da pena, come ne fa fede la sua sentenza del 7 agosto 1862.

Ebbene: dai diversi documenti sequestrati nella cabina di Frisia assicurati al processo, e combinati colle suddette rivelazioni chiara risulta la complicità di cui vi tengo discorso.

Fan parte di quel processo:

L'abbozzo di un memorandum diretto a Francesco II in Roma, scritto da esso Noli d'incarico del generale Nuists e del cavaliere Tortora, col quale lo si ragguaglia dell'incremento del partito borbonico, dello scoraggiamento de' liberali, degli operosi lavori del Comitato (1).

Due stati scritti pure dal Noli d'incarico dei suddetti contenenti i nomi più importanti degli affiliati alla setta borbonica; al quale proposito dichiarò il Noli «che in seguito di ordine venuto da Roma da Francesco II il generale avea disposto di farsi le proposte delle onorificenze o delle promozioni o nomine o cariche avvenire e in prò di tali affiliati per inviarsi in Roma, donde doveano venire gli analoghi decreti» (2).

Una lettera diretta a D. Desare Firrao, spedizioniere presso la Curia romana, da monsignor Cenatiempo siccome egli stesso riconobbe. Si raccomanda colla stessa il porgitore della medesima Capitino del Paranzello con cui vennero i precedenti amici ed ora è ritornato per mandato del generale; si dice di detto porgitore ch'è conosciuto direttamente dal nostro principale. Se al suo ritorno dovete mandar cosa riservata potete consegnargliela. Si porgon quindi notizie del Comitato e si soggiunge: qui tutto è disposto ed all'ordine e vi assicuro che il tempo ci nuoce non poco (3). A questa misura fan seguito altre responsive del Firrao ed altra della baronessa Teresa Federici diretta pure al Cenatieapo. Interrogato costui chi fosse l'amico a cui dovea raccomandare il marito della baronessa


(1) Vol. I pag 26 tergo

(2) Loc, cit.

(3) Vol. I pag 71


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 ha risposto essere Francesco II; che i precedenti amici indicati nella lettera al Firrao erano Besio e Sarti, amendue di Roma, venuti di colà in Napoli per cospirare.

Rispetto ad un pezzo di carta, contenente alcuni nomi, vergato a matita, il Noti dichiarò: che due giorni prima del suo arresto pervenne da Roma al sig. De Gòltedon una lettera colla quale gli s'ingiungeva di spedire un emissario a Roccamorfina in terra di Lavoro per chiamare diverse persone della famiglia di Pippo (1) ad oggetto di spingerla a reclutare delle masse borboniche e farle entrare in campagna per rinforzare le bande di Chiavone (2). Né sarà inutile il qui notare come essendo stato interpellalo il Noli sugli altri nomi trascritti sullo stesso pezzo di carta ha risposto tra le altre cose... «che il Diego Terlizzi come ex-capo stazione della telegrafia elettrica in Napoli ricevea giornalmente dagli attuali impiegali di della stazione tutte le segnalazioni telegrafiche che interessano l'attuale Governo, tanto dalle province che dall'estero e che le facea diffondere ai diversi Comitati borbonici, e che le spediva pure in Roma...» (3) per mezzo d'interposte persone a Francesco II due o ire volte la settimana, siccome ripete Dei suoi interrogatori (4).

Frattanto si ritenga che all'atto della perquisizione si rinvennero tre telegrammi, coi quali i governatori delle provincie chiedevano soldati e riferivan su i movimenti reazionari. E valga questo cenno di sprone al Governo onde abbia a tenere ben aperti gli occhi sugli antichi impiegati borbonici, perché non si avveri lo scandalo che lo Stato paghi sul proprio bilancio i nemici d'Italia e che le nostre amministrazioni servan di strumento alle macchinazioni dei tristi.

Si rinvenne pur anco la cifra adoperala dal generale De Gottedon per scrivere a Francesco II, a cui dirigeva


(1) Veggasi infra il n.° IV

(2) Pag. 46 a tergo, vol. I

(3) Vol. pag. 47.

(4) Vol, IV, pag. 25.


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le sue lettere sotto il nome di Conte Mayel, via Poli, n.° 80 (1).

Un verbale redatto dai carabinieri reali avente la data 7 settembre 1861 constata come a seguito della scoverta del Comitato reazionario di Frisa, essendo stato arrestato tra gli altri il capobanda della compagnia della morte, De Luca Domenico, a formarla autorizzalo da Francesco Borbone, vennero in coercizione che il De Luca avea data commissione al pittor Biase di dipingere il figurino secondo le istruzioni avute da Roma dall'ex-re, giusta le quali la compagnia dovea esser vestita in tal foggia da incutere spavento; e di fatti a seguito di perquisizione operata presso il Biase rinvennero il figurino, rappresentante una figura soldatesca con pantaloni, tunica, centurino, giberna neri; nero il berretto con un teschio di morto, barbuta la faccia, armata la destra di fucile a fulminante con baionetta, atteggiata la manca in posizione minacciosa (2). Il Biase dichiarò che il figurino gli era stato commesso da un Domenico De Luca alquanto sordo, di Potenza, ch'è quello stesso che venne in Roma confidato al Noli da Francesco II e dal generale Vial onde lo conducesse a Napoli. Faceva ei parte del Comitato e dovéa recai si in Avellino per organizzarvi le bande le quali dovean prender nome di compagnia della morte (3).

E qui sì noti col pubblico Ministero (4) che «Francesco Borbone diè al De Luca danaro e tre carte di  visita per essere conosciuto dal padre Pepe, dal Sansone e dal Comitato.»

Ma usa luce maggiore si sparge dalle rivelazioni del Noli. Appare dalle stesse che le armi che doveano distribuirsi agli affigliati alla setta doveano imbarcarsi a Marsiglia per Civitavecchia, dove il generale Bosco le stava aspettando (5).


(1) Vol. XIII pag. 1 e 3

(2) Vol. III, pag. 53.

(3) Vol. IV, pag. 23

(4) Atto d'accusa, vol. XIII, pag. 8

(5) Vol. I pag. 47.


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Narra poi come un Marino Caracciolo, ch'era uffiziale di marina ai tempi dei Borbonici, rivelasse a lui ed al capitano Legaldano come « «pochi giorni addietro (la deposizione è del 21 agosto 1861) era stato a Roma conducendovi seco Salvatore e Giuseppe Cardinale ed Antonino Monteforte, i quali erano ricercati dalla giustizia come compartecipi della stessa cospirazione di Frisia. Che appena giunto a Roma per mezzo del maggiore Torrenteros, uno dei più fidi della espulsa dinastia, era stato ammesso all'udienza di Francesco II nel palazzo del Quirinale ad un'ora dopo la mezzanotte.»

Avergli esso Caracciolo esposti i mezzi coi quali si avvisava di concorrere alla ristorazione. «Allora Francesco Borbone lo aveva infervorato a partir subito per Napoli e Sicilia, dandogli faglia di promettere in suo nome i maggiori gradi e le maggiori onorificenze a tutti coloro che o si mantenessero costanti alla sua causa, e rinnegassero le parti del nuovo Governo; et come esso Caracciolo gli avea manifestato che intendeva principalmente di far capitale dell'opera e dell'influenza di un maggiore garibaldino a nome Pagani, che stava a Palermo, l'ex re Francesco lo avea autorizzato di promettere al Pagani il grado di brigadiere, se decidevasi veramente di procacciargli il concorso di una buona quantità di garibaldini.» Continua dando altri chiarimenti sulla cospirazione, e soggiunge: «Riguardo alla corrispondenza ci ha assicurato lo stesso Caracciolo che l'indirizzo di comunicazione tra Torrenteros e gli altri fidi lasciati a Roma si è quello di Roberto Smirne o Adelaide Smirne, ed in ciò dire ha incaricato Legaldano a voler mandare ogni giorno una persona alla posta a prendervi le lettere che portasero un indirizzo somigliante in tutto il tempo ch'egli si sarebbe rimasto a Palermo per eseguire gli anzidetti concerti reazionari col maggiore Pagani.»

E qui cade in acconcio l'osservare come coteste propalazioni circa


(1) Vol. II pag. 44


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le rivelazioni del Caracciolo vengono confermate per filo e per segno dal capitano Legaldano (1), il quale addusse argomenti a provare come il Caraceiolo realmente si recasse in Roma onde offrire sé stesso a Francesco Borbone; e pur anco come a seguito delle avute indicazioni sequestrassi alla posta una lettera all'indirizzo di Roberto Smirne (2), la quale evidentemente ha tratto alla cospirazione. Secondo le indicazioni del Noli, la stessa sarebbe stata vergata in Roma dal maggiore Torrenteros, ed indirizzata al Marino Caracciolo indicata sotto il pseudonimo di mio caro FRA DIAVOLO, nome ben noto nei fasti briganteschi. Nella stessa si parla di Luisella; nome questo di convenzione stabilito da Torrenteros coi componenti il Comitato di Frisia per indicare l'ex-re di Napoli (3).

In altro suo interrogatorio (4) l’Ettore Noli dichiarò che un Giuseppe Cardinale, appartenente assieme al di lui padre Salvatore e fratelli al Comitato di Frigia, venne spedito a Roma e si trovò colà nella settimana santa dell'anno 1861; che anche vi si recò il di lui padre e che ritornarono assieme. «Dissero di avere più volte visto i Francesco B rbone che gli animava a tener viva la reazione, ispirando fiducia di sincera riuscita, promettendo larghi compensi, elargendo onorificenze; ed invero il Salvatore Cardinale passò sei o sette brevetti di cavaliere, tra i quali ricordo quelli per monsignore Cenatiempo, per monsignor Lettieri, per Girolamo Tortorà, per Francesco Cardinale e per D. Ismaele De Ciampis, brevetti che furono passati a costoro, i qualie se ne rallegrarono ed ebbero ad onore particolare.»

Prosegue narrando dei danaro che si raccoglieva e dell'organizzazione delle bande, e soggiunse: «Giunto poi a Napoli il generale De Gottedon, che vi venne spedito da Francesco Borbone, in compagnia del signor


(1) Vol. Il, pag. 51.

(2) Vol. II, pag. 57.

(3) Vol. II, pag 60

(4) Vol. IV, pag 26


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De Christen e del visconte De Lupi, e ciò mi consta di propria scienza perché io per ben due volte sono stato spedito a Roma e vidi il Borbone che si mostrava« di tutto inteso e tutto regolava, e la seconda volta, recai al Borbone una lettera in cifra del signor De Gottedon; giunto, come dissi, costui a Napoli assunse la direziona suprema del Comitato e di tutta la organizzazione delle bande rivoluzionarie e si dette premura e di avere altro danaro...

Mi consta egualmente che il generale De Gotttdon, che introitava delle somme vistose, ne usava per la organizzazione delle bande, spendendo danaro nelle provincie e taluna volta passandolo a degli ex-ufficiali borbonici che arruolavano e spedivano nelle dette provincie.»

Rivela poi che «il danaro a Girlando Boccadoro e al di lui figlio Antonio che avevano assunto l'incarico di uccidere il generale Cialdini fu passato agli stessi da Gerolamo Tortora ed in ducati centoventi, dovendo poi ricevere maggior compenso ad opera eseguita. Il danaro per l'acquisto di due pariglie di pistole, che servir doveano per la consumazione di detto assassinio, fu sborsato dal generale De Gottedon e nelle mani del contino Cammerano Siciliano che comperò le dette due pariglie di pistole, pagandole ducati cinquantasette a pariglia e ducati otto la corrispondente munizione. Mie consta ugualmente che per mezzo di D. Salvatore Cardinale, Tortora pagò ducati centotrenta a Luigi Langolare, ex sergente della guardia reale borbonica, e di più capitano garibaldino, il quale si recò nel Cilento per arruolare gente che servir dovea alle bande reazionarie borboniche... »

Prosegue che fu una seconda volta a Roma nei primi di luglio 1861 che allora, siccome di già si è accennato, gli venne consegnato il De Luca. Questi gli confessò... «di essersi recato in Roma per vedere l'ex-re Francesco ed i suoi aderenti reazionari e conoscere cosi e concertare la rivoluzione in queste provincie.»


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Spiega come egli si recasse e ritornasse da Roma sul paranzello di Giuseppe Àttanasio di Sorrento (1), il quale viaggiava da Napoli a Civitavecchia per conto del Comitato e dovea trasportar plichi all'ex-re Francesco; era egli obbligato nel suo ritorno da Roma d'imbarcare a Ponza tutti i camorristi che trovavansi colà rilegati. Enumera gli affigliaci al Comitato, tra i quali comprende un Salvatore Viola, ex-sergente di gendarmeria, il quale recavasi spesse fiate a Sora onde abboccarsi con Chiavone.

Egualmente importanti sono le rivelazioni da esso fatte in altro interrogatorio (2). Ripete che vennero da Roma a prendere la direzione del comitato i tre francesi De Gottedon, De Lupe e De Christen. Conferma l'incarico dato di assassinare Cialdini e la provvista delle armi, quale assassinio dovea aver luogo tra il 24 ed il 25 luglio 1861. «Io fui presente, dice, quando Girolamo Tortorà diede quest'incarico ai due Saladino ed ai Boccadoro nella casina di Frisia, e loro consegnò le armi. De Gottedon non v'era, perché per tale faccenda erasi tutto affidato a Tortora; ma prima però avea veduto e parlato alle persone che doveano compiere l'assassinio.»

Racconta come tra gli agenti del Comitato vada annoverato anche il capitano Fusco, della guardia nazionale di Pianura, che avea a sua posta una banda di briganti. La banda ch'egli avea adunata si sciolse dopo il suo arresto per opera di suo fratello cappellano di reggimento.

«II tenente colonnello Ricoletti, prosegue, era anche uno degli agenti del Comitato. Egli stava in corrispondenza con la banda di Somma, comandata dall'ex-sergente di gendarmeria Viscusi.» Narra poi come si avesse soccorsi pecuniari dal Comitato, e prosegue: «Alttri danari non potette egli avere, perché non ve n'erano se non per pranzi, nei quali si spendevano quaranta in cinquanta ducati al giorno, e si aspettava che io andassi a Roma a prendere dugento mila


(1) V. infra il N.° VII.

(2) Vol V, pag. 39.


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ducati e tredici mila facili che si eran mandati da Maniglia e doveano essere portati a Napoli per imprendere e dare l'ultima mano al designato moto reazionario. Il tempo venne meno poichè fummo arrestati e il Comitato disperso.»

Ripete ciò che disse della sua gita a Roma, e della consegna a lui fatta del De Luca dal generale Vial, e continua:

«In mia presenza gli diede anche alcune istruzioni intorno al modo di condurre l'impresa. Ed e erano: attaccare quando vi era probabilità di vincere; e ritirarsi quando si vedesse a fronte forze prevalenti; e assalire la posta delle lettere e bruciare la corrispondenza; assalire i procacci ed impadronirsi dei danari; e entrando nei paesi mettere tutto a sacco ed a fuoco: e prender dalle casse pubbliche tutti i danari che vi  trovasse, lasciandone analoghi ricevi per tenersene conto e al ritorno di re Francesco nel regno.»

Accenna ad un Emanuele Raieli di Palermo che teneva gran mano nella congiura, ed era particolarmente incaricato di andare a Malta e Marsiglia per procurare proseliti alla causa del Borbone. Che monsignor Lettieri gli confessò d'esser andato a Roma con lettere di madama Lalon, la quale teneva in casa un Comitato borbonico, il quale andava in istretta relazione con quello di Frisia, che ben potea chiamarsi Comitato centrale, giacché dal medesimo dipendevano gli altri piccoli Comitati sparsi per la città di Nipoti. Dette lettere erano dirette a Francesco II: chiedevano si mandasse a Napoli un capo, il quale potesse riunire le fila della cospirazione e tradurla in (atti. Si fu dietro questa ed altre consimili domande che si decise a mandare i tre francesi su accennati. Il Lettieri in premio dei prestati servigi fu decorato in Roma della croce di cavaliere Costantiniano.

Rivela come un «Salvatore Viola ex-sergente di Gendarmeria riceveva dal Comitato un salario giornaliero perché prestasse servizi come fosse un corriere, e veniva mandato di qua e di là per mantenere le corrispondenze con le bande delle altre provincie. Si ebbe


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lo incarico di andare a trovare Chiavone negli Abruzzi, e stabilire il modo come congiungere la banda di Chiavone con quella di Cipriano La Gala che si aggirava per le montagne sopra Maddaloni e l'altra di Viscusi che spargeva il terrore nelle montagne di Somma, e ne' luoghi adiacenti. Questo Salvatore Viola era stato anche a Roma, dove avea portato lettere di Mancinelli (1) e del P. Apreda; ed ivi aveà ricevuto un pezzo di osso rotondo di color rosa carico, il quale dovea servirgli come segnale di riconoscenza; perché simile pezzo di osso trovasi ancora presso tutti i capibanda, e la riconoscenza si opera col sovrapporre l'un pezzo all'altro e vedere se combaciano...»

Spiega quindi com'ei si recasse per ben due volte a Roma d'incarico del Comitato, giacché da Roma s'aspettava indirizzo ed aiuti d'ogni maniera. La prima volta si fu nel maggio 1861: vide allora Francesco II una sol volta, il quale gli disse che non era ancor tempo. Verso la fine di giugno vennero spediti i tre francesi. Il secondo viaggio venne da lui fatto nel luglio.

Voi ben vedete, o signori, quanta luce si spanda di queste rivelazioni su quelle tristi borboniche macchinazioni; al qual riguardo cade in acconcio il far osservare col pubblico Ministero presso la Gran Corte criminale di Napoli nelle sue requisitorie del 23 settembre 1861 (1); come le stesse sieno circostanziate, coerenti e precise e in gran parte sussidiate da notevoli indizi. E ben si disse nell'atto d'accusa (3): «La spontaneità e costanza ne' suoi detti, i minuti particolari onde sono rivestiti, il loro riscontro con documenti rinvenuti o con indizi che derivano da altre fonti, e finalmente il considerare che mentre svela i fatti criminosi ed i colpevoli egli non iscusa sé stesso, danno alle sue dichiarazioni tutù l'impronta della verità.»

Le stesse poi son anco confortate dalle deposizioni


(1)V. Infra IX

(2) Vol. X, pag. 98.

(3) Vol. XIII, pag. 3 tergo.


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 d'un Pasqaule Scuotto, cocchiere da solo (1), dalle quali appare com'ei fosse in relazione d'un tal Capobianco, primo sergente d'artiglieria sotto il passato Governo, il quale io un giorno del mese di luglio 1861 lo richiese di quattro o cinque carrozze per facilitare lo sbarco di molto armi, le quali dovean servire ad una reazione borbonica. Lo incitò in seguito a far raccolta d'uomini e gli diceva che i denari si aspettavano da Roma. E quindi soggiunge «...Mi disse essere venuto il tempo e di avere danari quanti ne avessi desiderato perché una     buon somma sarebbe venuta da Roma fra qualche§ giorno e m'invitò a recarmi sotto la casa del generale per veder la cosa con i miei proprii occhi. Vi andai§ di fatto un giovedì a sera, come il Capobianco mi avea detto di fare; e vidi giungere un uomo in una carrozzella, che portava una valigia di pelle nera, con chiodi a capocchia di ottone. Quell'uomo lasciò la valigia sotto la casa, e la valigia stessa fu portata sopra dal generale... Rimasi per un tratto sotto quella casa e aspettando che Capobianco ne uscisse e mi parlasse e de' denari. Usci Capobianco, ma per dirmi che il giorno appresso ad un'ora designata e propriamente alle ore ventuna, avessi guidato io stesso una carrozza in quel luogo e che allora avrei avuto anche una buona somma... Il giorno appresso andai colla carrozza che mi§ era stata richiesta alla casa del generale, ma forse per essere giunto troppo tardi, non vi trovai più alcuno; la casa era deserta. Ricordandomi che Capobianco mi avea detto il giorno innanzi che tutta quella gente, da me veduta salire alla casa del generale dovea partire per portar i denari alle bande, ossia ai briganti che infestavano le campagne per conto di Francesco II... corsi subito alla strada ferrata, ed ivi di fatto trovai il generale con tutti gli uffiziali svizzeri che altre volte avea veduto salire sulla casa del detto generale, e nel medesimo tempo rividi quella stessa valigia... Partirono


(1) Vol. III pag. 44


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con l'ultimo convoglio per la via di Salerno, e la valigia con loro.»

Fanno parte del processo in quistione molte lettere sequestrate nel casino di Frisia appartenenti ad altro dei francesi colà dimoranti; dei legittimisti inviati da Francesco II a Napoli onde capitanare quella cospirazione. Alcuni tratti della medesima che qui riporto varranno a spargere uno sprazzo di luce su queste macchinazioni:

«.... Questa volta tu hai avuto il buon gusto di non e parlarmi dell9 impossibilità in cui si trova il re di accordare ai tuoi servigi la conveniente rimunerazione, ed io te ne ringrazio, poiché tu comprendi bene che e io non potevo credere ch'egli fosse ridotto ad una tale e miseria, a non avere il mezzo di riconoscere i servigi di un cosi fedele servo quale sei tu ed i tuoi amici. Il re il più rovinato è sempre assai ricco da non ispirare inquietudine da questo lato ai suoi partigiani, Francesco II particolarmente ha dimostrato che il danaro non gli mancava. Se egli ne ha avuto abbastanza sino a questo giorno per mantenere il suo partito fare insorgere i partigiani che difendono la sua causa;e egli ne avrà evidentemente a sufficienza onde pagare o piuttosto riconoscere i servizi che tu gli rendi cole tuo attaccamento»(I).

Nella lettera 23 marzo 1861 si legge: «La vostra ultima lettera ci ha tutti irritati come doveva farlo contro quelli imbecilli che circondano Francesco II. Se voi non avreste di basso i volontari francesi, voi non solamente avreste niente a fare, ma anche niente a dire con quelle tali genti. Borjes ci ha detto altrettanto che voi, e compiange i suoi spagnuoli, e pretende che in tutto il regno delle Due Sicilie non vi sia un uffiziale fatto per la guerra.» (2).

E in altra: «Lasciate dunque cadere un Governo che  non ha più grucce da sostenersi e specialmente astenetevi di entrare ne' zuavi del papa» (3).


(1) Lettera 9, versione giudiziale, vol. VI, pag. 29

(2) Lettera 14, pag. 80, vol. VI.

(3) Lettera 35. vol. VI, pag. 146


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Fanno parte eziandio di questo voluminoso processo alcuni documenti concernenti l'invasione di Borjes.

Il signor Achille Caracciolo, coinvolto nella cospirazione di Frisia, già primo tenente nell'esercito borbonico, e che fece parte di quella spedizione, così dichiara nel suo interrogatorio del 15 ottobre 1861 (1): «Rattrovandomi in Roma circa un mese addietro, io ebbi ordine dal generale Clary di recarmi in Malta e di mettermi a disposizione del generale Borjes spagnuolo. Giunto in quell'isola trovai diffatti il detto generale di unità ad e altri ufficiali esteri; e non guari dopo dal cancelliere del consolato generale napoletano venne approntato un legno ove imbarcati tutti in numero di venti approdammo nelle Calabrie... Come il capitano Mereuda, aiutante di campo del generale Clary in Roma, aveami manifestato che il generale Borjes avrebbe capitanato una regolare spedizione, al vedere l'inganno in cui era stato tratto, che invece di far parte di un corpo d'armata non si cercava in sostanza che di dar capi alla gente che si trovava in Calabria briganteggiando ed infestando quelle contrade, specialmente la Sila, mi risolvetti ben tosto ad abbandonare il Borjes, non essendo del proprio onore di far il brigante...»

Giuseppe Coriba, già capitano della 4.^ compagnia del 4° cacciatori, che col Caracciolo avea seguitato il Borjes, cosi si esprime nel suo interrogatorio del 24 ottobre 1861 (2): «Potere assicurare essere un fatto notorio in Roma che il Comitato legittimista di Marsiglia dalla caduta di Gaeta in poi non ha cessato mai di spedire tanto in Roma quanto in altri punti di diverse nazioni, per promuovere una insurrezione a favore dei Barboni.

Aggiunge che quando egli arrivò a Malta il generale Borjes era ivi da più di un mese e mezzo a modo suo di vedere speditovi anche dal Comitato di Marsiglia col quale era in relazione.» Ha quindi soggiunto; «Ch'egli recandosi a Malta e mettendosi d'accordo col


(1) Vol. X, pag. 11

(2) Vol. X, pag. 43


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capitano Merenda aveva inteso di prendere servigio a favore dei Borboni, ma in un corpo regolare, poiché se avesse voluto rendersi complice del brigantaggio avrebbe profittato della facilità che vi era in Roma di gettarsi negli Abruzzi o nella Sabina, come tinti praticavano, ai quali era agevole di ritornare io Roma...»


II


Processo Bishop


Li 2 aprile 1862 in Mola di Gaeta per parie dell'autorità di pubblica sicurezza procedevasi ad una perquisizione sulla persona e nel e valigie dell'inglese Jtimes Bishop, proveniente da Napoli e diretto per Roma; quale perquisizione era cagione del sequestro di molle carte e dell'arresto del perquisito.

Li 4 successivo procedevasi alla dissuggellazione dell'involto contenente le carte sequestrate ed alla loro descrizione in presenza del Bishop.

Si rinvenne una lettera all'indirizzo del P. Serafino Torquato generale dei minimi in Roma, avente una sottoscrizione dicente Carlo Lillo. In essa sta scritto: «Veneratissimo amico. Essendomi, secondo gli ordini sovrani, unito al signor Bishop, ho allo stesso palesato tutto il numero delle mie forze, dandogli uno specchietto delle« medesime onde fargli conoscere la verità della cosa, e presentarlo nello stesso tempo al re, giacché entusiasmato di ciò che io diceva, decise immediatamente di portarsi a Roma. Noi siamo per conseguenza pronti al movimento, il quale non può avverarsi senza dei mezzi; vi prego di mettere tutta la vostra energia, onde i medesimi, per vostra cooperazione mi pervenissero, perché sono necessarissimi. Farete conoscere al mio signore che tra tutti i miei che si sono distinti nelle fatiche ei nell'amore verso il trono, vi è il signor D'Agostino, ch'è instancabile e non mi lascia un momento senza che non sia presente a tutte le operazioni.


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Pregherete la demenza di Sua Maestà onde mi faccia ottenere la grazia di farmi tenere dei brevetti per la nomina di cavalieri, onde potere adescare alcuni che sono desiderosi di averli... »

Chi fosse poi questo Carlo Litio, rifiutossi il Bishop di dichiararlo e dar schiarinenti in proposito.

Venne pure sequestrata una scrittura divisa in due colonne, con al margine delle cifre numeriche corrispondenti a nomi di diverse città del Napoletano, portante la epigrafe di specchietto della complessiva forza di uomini ottanta mila settecento due, cioè armati 16,353 ed inermi 64,349, e divisi nel modo di cui in appresso, che si chiude con una dichiarazione del tenore seguente: «Nota bene. Nel surriferito specchietto non vi sono compresi ventidue paesi del Beneventano, paesi limitrofi a Napoli, la banda di Giuseppe il Caporale, di Cipriano, di Pilone, quella di Romano col maggiore Procelia, che fa parte ancora delle fila del barone Cosenza (1), più, un'altra banda che si andrà a fissare sui Camaldoli, facendone parte ufficiali e capi di banda che ne prenderebbero la direzione, non che la batteria del molo ed il corpo dei marinai cannonieri.»

Non vi sfuggirà, o signori, l'importanza di questo documento che rende manifesta la relazione tra Francesco II, i Comitati borbonici ed il brigantaggio: chi sieno invero Giuseppe il Caporale, Cipriano La Gala, Pilone, Romano; come dessi vadino distinti tra le nequizie del brigantaggio, quali le infamie delle quali si macchiarono le loro bande è inutil cosa il ripetervi.

Venne pur anco rinvenuta una lettera firmata colla cifra C. N., nella quale si legge: «Rispondo alla vostra ricevuta colla posta, la quale è stata per punto letta dal Pad.e In pari posta da Pater e per espresso incarico del Pad.e è stato scritto a persona di presentarsi alla nostra amica duchessa di M. C. onde parlarle, per concertare qualche cosa a seconda le proporrà fare,


(1) V. infra N. III


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e mettersi d'accordo anche col di lei fratello. Laonde in vista della presente, prevenitene la signora duchessa della presentazione di tale persona, la quale gode tutte la fiducia del Pad.e. Le cinque persone da voi spedite qui sono tuttora inoperose.»

Per quanto il Bishop rifiutasse ogni chiarimento in proposito non vi riuscirà difficile, o signori, il riconoscere chi sia il Padrone, a che tendessero le proposizioni e gli accordi ai quali misteriosamente si accenna in detta lettera.

Ritrovossi pur anco il bozzo di una lettera, ch'egli stesso ammise d'aver indirizzata al principe Torella. Nella stessa si legge: «Signor principe, io v'invio una lettera che ho testè ricevuta da Roma in risposta ad una proposizione da me fatta ai re. Sua Maestà vi avrebbe pregato di assistere agli sforzi che si fauno pel suo  ritorno. Questa proposizione era fatta in conseguenza delle ripetute assicurazioni di madama la duchessa di M. G. che voi accettereste con piacere siffatta dimostrazione della stima dei vostro sovrano.»

L'ufficiale di polizia giudiziaria che procedeva alla descrizione di dette lettere, osservò come questa fosse in correlazione con quella precedentemente esaminata, e che quindi egli era alle recondite proposte di Roma che intendevasi attirare il principe Torella; a quale osservazione il Bishop non disconvenne della correlazione accennata fra gli incarichi confidatigli da Roma, e le sue proposte al Torella.

Attilliamoci però di soggiungere che il principe Torella Aon solo riuutó ai prender quella parte alla quale tra stato invitato, ma rinviò la lettera al bishop, siccome ammise Costui, e risultò tiana lettera responsiva del Torcila rinveuuta tra le di lui carte.

Avea anche il Bishop un ritrailo io fotografia dell'ex-re Francesco, sui dorso del quale eia scruto il di lei nome. Ed egli dichiarò che quel nome di Francesco fu scritto di proprio pugno dall'espulso re ed il ritratto a lui consegnato in segno di benevolenza,


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 col dire che principalmente per questi documenti venne il Bishop, dalla popolare giustizia, dichiarato colpevole di cospirazione.


III

Processo contro Cosenza, Gallo ed altri.


L'esistenza di un Comitato borbonico centrale residente in Napoli, dipendente da Roma, dal quale partivano ordini ed istruzioni per i Comitati figliali latenti nelle meridionali provincie, la è cosa che riesce anche manifesta dal processo aperto al barone Achille Cosenza, Michele Gallo ed altri consorti di reato.

«Un'analisi (1) profonda e coscienziosa delle prove raccolte a carico del barone Cosenza e di altri, toglie ogni dubbio della esistenza in atto di una cospirazione in Napoli, diretta con mezzi i più sediziosi ed esiziali al fine di distruggere e cambiare (a forma attuale del  Governo. La lettera repertata in dosso allo stesso Cosenza, le carte rinvenute in mano del Troise, i proclami trovati a casa dei Tancredi, altre carte presso del Gallo, le testimonianze del Potenza e di altri soldati italiani ed ungheresi, rivelano abbastanza che un Comitato di reazione eravi organizzato per funzionare per la ristaurazione del trono borbonico, per eccitare i militi alla diserzione, per promuovere il brigantaggio, per seminare nel popolo il terrore e la guerra civile, mercé scoppio di bombe ed altri simili trovati. Che uno dei più peregrini ed efficaci modi con cui la cospirazione adoperavasi al conseguimento più facile del criminoso suo intento fu l'aprire una bettola sotto la direzione di Tancredi a Vico Quercia, ove avvenivano i soldati del nostro esercito in copia, e si somministrava vino gratis promesse e suggestioni per svegliare nei cuori loro la simpatia del Borbone e persuaderli a disertare.


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Allo stesso scopo foggiavansi boni a nome di Francesco II, e spendevansi per reclutar gente per le bande armate, per sovvenire i più bisognosi, per premiare i più audaci e per di tutto darne conto al gran Comitato di Roma.

II concerto constituitosi a tal fine in Napoli avea e tutti i caratteri di un Comitato centrale che teneva sue corrispondenze con altri Comitati di provincia e nominatamente con quello di Caserta, e dipendeva da Roma, ove trasmetteva le sue relazioni mercé il vapore postale francese. Carlo Poli era l'organo di queste segrete comunicazioni, ed il suo servo Tobia Troise, il confidente messaggiere che recava i plichi sul battello, Troise che dapprima si peritava e negava, svelò poi tutto l'arcano delle sue clandestine spedizioni.

Cosiffatti elementi sono stati raccolti coi mezzi i più legali ed onesti ed escludono ogni sospetto di spirito di parte e di zelo troppo esageralo sia da parte della polizia, sia da parte del giudice istruttore. La critica più severa e più schiva non saprebbe non riconoscere nei loro procedimenti quella dignità e quei delicati riguardi che conciliano piena fiducia nei loro atti.»

Tra le carte assicurate alla giustizia di cui fa cenno l'ora citata sentenza havvi una lettera diretta ad un parroco in Roma, sottoscritta Giulio Nemes, nella quale si legge: «... Il Comitato centrale di qui è scisso a cagione che alcuni di essi non zelanti troppo per la causa del nostro sovrano si opposero energicamente alla risoluzione di agire subito dopo che si sono ricevuti gli ordini da costà.» E più giù: «... Fate riflettere al sovrano che la rivoluzione è scoraggiata dalle bande e queste possano salvarci aumentandosi di numero al presente: io posso dare da 400 individui ed altro ben rilevante numero: ora si può operare la diserzione che i nostri soldati chiedono eseguire prima che giungano gli ordini di partenza.»


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— 186 —

IV

Processo contro D. Giovanni De Pippo.


Le dichiarazioni fatte da Giovanni Turchetta il 19 novembre 1861 nanti il giudice del mandamento di Gaeta, dimostrano anch'esse come da Roma si partano le istigazioni che fomentano le cospirazioni ed il brigantaggio (1).

Dovendo egli recarsi in Roma, si ebbe incarico dal delegato di pubblica sicurezza di Pontecorvo d'adoperarsi a scoprir le mene che in quella città si ordiscono a danno del Governo italiano. Presentossi colà al sacerdote D. Pietro Forte d'Isoletta, infingendosi d'aver in Pontecorvo persone che avrebbero parteggiato con Francesco II, ove fossero fornite dv armi e danaro. A questo fine averlo il Forte indirizzato al D. Giovanni De Pippo di Roccamorfina, col quale e dovea mettersi di concerto onde «fissare e quanti uomini il Comitato (furono queste le espressioni) teneva già pronti, quanti aranti e quanti senza le armi, ed anche invitarlo a venire in Roma. Portò egli l'imbasciata al De Pippo, che accettò l'invito e recossi in Roma col dichiarante. Portaronsi entrambi a casa del Forte che gl'indirizzò all'ex commissario di polizia D. Salvatore De Spagnolis che fece molta festa al De Pippo assicurandolo che la causa di Francesco II di breve sarebbe trionfata e ch'egli ne avrebbe avuto grande onoranza. Fece quindi uscire il Turchetta, rimanendo in segreto colloquio col De Pippo in seguito del quale entrambi furon diretti a casa del generale Vial. Il De Pippo venne introdotto presso il generale. Dopo il colloquio di quasi duee ore venne fuori il ripetuto De Pippo e gli mostrò un foglio di carta ch'egli non lesse, ma vi vide anche un suggello. Mostrandosi molto allegro, gli disse ch'era« quello un brevetto rilasciatogli anticipatamente


(1) Voi I, foglio 107.


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dal generale, che accordava a lui grado di capitano è quello e di tenente a due suoi fratelli... »

Ritornato in paese il De Pipo tenne frequenti riunioni con alcuni capi massa onde concertare movimenti reazionari. Conveniva in quei conciliaboli un Costantino Sarcione, finto liberale, già capitano di forza mobilizzata, che manifestava aver molta forza alla sua dipendenza per Francesco II, e che fidava capitanata una reazione negli Abruzzi e ad Isernia; si vantava che «metteva meno a bere un bicchiere di sangue che di vino, ma che però alla esecuzione del progetto imponeva la sola condizione di voler prima nelle mani un provvedimento scritto da Francesco II, col quale si sarebbe detto che tutti coloro i quali erano imputati di omicidio (osservate cotesti campioni della legittimità) o reità di Stato, e si fossero associati tutti al comando di D. Giovanni De Pippo, avrebbero avuto piena grazia.»

Onde avere detto documento si propose l'invio del Turchetta a Roma. Il De Pippo approvò il progetto del Sarcione e il Turchetta venne indirizzato al De Spagnolis io Roma, ove più non si recò essendogli stato vietato dal delegato di Pontecorvo.



V

Processo contro Vincenzo Antignano ed altri 134 imputati del crimine di banda armata, diretta da Vincenzo Barone, e di grassazioni, assassini ed estorsioni.


Vedeste già, o signori, come i Comitati borbonici sien direttamente ispirati da Roma, e come questi Comitati si facciano istigatori di brigantaggio. Di quest'istigazione una prova novella ce l'offre il processo in discorso.

«Vincenzo Barone (1) da Sant'Anastasia, giovine sugli anni 22, uscito dalle fila dell’esercito borbonico


(1) Sentenza della sezione d'accusi presso la Corte d'appello di Napoli del 1° settembre 1862.


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t ambi la rinomanza di un partigiano atticissimo dalla borbonica dominazione. Ei fece centro dei suoi movimenti il monte di Somma, ove alzata la bandiera d'un ribelle accoglieva quanti soldati sbandati fossero inchinevoli a perdurare in quell'abitudine di prepotenza e di abusi, cui erano assuefatti. I comitati borbonici none mancarono d'avvalersi dell'opera di questo giovane traviato e gli fornivano tratto tratto delle somme per mantenere in armi gli occorrenti satelliti. La pubblica tranquillità in popolosi comuni venne scossa profondamente, imperocché gli atti di vandalismo di quelle bande si traducevano in estorsioni, grassazioni ed assassinii. Lurida e lunga storia di simili reati tessono gli atti processuali.

Vincenzo Barone prendeva il titolo di comandante le forze regie. A nome di Francesco II spediva ordini per denaro e ne prometteva la restituzione.»



VI

Processo contro Camillo Colafella ed altri.


In occasione del plebiscito ebbe luogo una reazione in Caramanico. Essendo stato assicurato alla giustizia il brigante Ancelo Camillo Colafella, egli deponeva avanti il giudice istruttore (1) che nel mese di novembre 1860 avendo saputo che Francesco II reclutava dei volontari si decise di andare a Gaeta ove allora trovavasi assediato. Gli riuscì di penetrare in quella piazza e di rimanervi tredici giorni. In quel periodo di tempo ebbe a parlare più volte con Francesco Borbone e si ebbe promesse di soccorsi e di appoggi. Verso la metà di detto novembre i viveri della piazza cominciarono a stremarsi, sicché vi fu ordine che lutti quelli che non aveano mezzi sufficienti dovessero uscir fuori e ricoverarsi in Roma, o nella provincia di Campagna; essersi perciò con lotto in Roma con molti altri.


(1) Interrogatorio 17 gennaio 1851


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Avanti la Corte d'assiste del circolo di Chieti (1) essendo stato interrogato sulla reazione e sui massacri di Caramanico e sui diversi crimini che gli erano addebitaci rispose: che si levò in nome ed agli ordini di Francesco II, che dopo la reazione fu al forte di Gaeta a rendere conto del suo operato; che Francesco II dopo i fatti di Caramanico gli regalò sessanta ducati, che in fine il titolo di generale gliel'avevano dato, ma non se lo ha mal assunto.



VII.

Processo contro l'ex generala Sargardi, Alessandro Michel ed altri (A).


Gran copia di lumi per l'obbietto cui mira questo lavoro si ricava da questo processo che or si matura nello stadio dell9 istruttoria.

Eusebio Cutaneo, già uffiziale superiore nelle schiere borboniche, or detenuto sotto il carico di cospirazione, ebbe a dichiarare (2) che si strinse in attinenze coll'ex-generale Fabio Sergardi e coll'ex-alflere Filippo Pironti, già uffiziali nella milizia borbonica. Il Sergardi lo pose in segreto di esser egli alla testa di un Comitato borbonico, al quale appartenevano vari personaggi raggnardevoli, e che aveva a luogo di riunione la parrocchia di San Matteo ed una cappella attigua a quella strada. Più volte ebbe ad accompagnarlo nello additato luogo: Seppe di più che l'ex-maggiore Torrenteros, rifugiato a Roma «travestito da marinaio, soleva qua (in Napoli) recarsi sopra bastimento mercantile per portare la pia riservata corrispondenza da Roma di accordo con esso generale, e che il Comitato, del quale faceva parte, ispirava ben anche le operazioni dei briganti, tra i quali la banda di Pilone, a cui non mancava di spedir danaro ed altri soccorsi somiglianti.»


(1) Verbale del dibattimento, udienza del 15 settembre 1862.

(2) Interrogatorio 23 febbraio 1863, nanti il signor Paolo Tosti, delegato di pubblica sicurezza


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E che ciò fosse vero, ei soggiunge, «lo so per un fatto mio personale. Imperciocché, prosegue, quando« era qui in Napoli la Commissione d'inchiesta sulle cause del brigantaggio, essendo corsa la voce che energici provvedimenti si sarebbero spiegati contro gl'imperversamenti di quella banda, e che fra le altre cose pensava di prezzolare dagl'individui i quali avessero dovuto far sembianza di arruolarsi alla comitiva di Pilone, per poi tramar insidie alla di costui vita (vedete, o signori, che i nostri avversari ci giudicano da loro stessi), il signor............, che in quel momento mancava dell'abituale agente del Comitato, mercé del quale corrispondevasi con Pilone, m'impegnò vivamente a trovar modo di far pervenire quella notizia al Pilone, che avea egli medesimo vergato in un biglietto.»

E continua accennando com'egli accettasse l'incarico e facesse pervenire il biglietto avvalendosi dell'opera di un tal Scudieri, già soldato nell’esercito borbonico; come Pilone mandò a dire in risposta che avrebbe desiderato tenere con lui un particolare abboccamento.

Narra come lo invitasse, il....................., a star saldo nella fede ai Borboni, ed attirare alla stessa causa quanta più gente potesse di ogni classe, di star pronto ai ogni movimento. «Così la mattina, ei dice, in cui ebbero a sgombrare dal lor convento di Napoli i monaci di San Severino, per cui furono commossi a tumulto i popolani di quei dintorni, il............. al primo vedermi non fece altro che sollecitarmi ad andare in quel quartiere per aggiungere la mia opera a quel tafferuglio, spingendomi con le parole: andate, sostenete il vostro Re.»

............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

Recossi quindi a Bari, ove entrò in intimità con un Francese, dal quale seppe come ei presiedesse il Comitato reazionario di Bari, avente a scopo principale di accrescere ed infervorare le orde dei briganti.

Ritornato a Napoli, strinse amicizia col frate................... del Monastero dì Scudieri, ei dice, mi procurò l’amicizia di questo frate, che vidi ben tosto essere un accanito sobillatore di sentimenti reazionari nell'animo dei popolani dei diversi quartieri e nelle diverse case dove bazzicava sotto sembiante di questuare pel convento cui apparteneva, e, per quanto mi rammento, quattro o cinque volte, unitamente allo Scudieri, ho tenuto abboccamento con costui nella cella del suo convento. Fu in questo segreto abboccamento che io rilevai dalle labbra di frate come avesse egli spedito a Roma a Francesco II il presente d'una spilla in oro in attestato della sua devozione; come fosse e in relazione con un marinaio di Sorrento, a nome Giuseppe Atanasio il quale era adoperato a portare a Roma la corrispondenza reazionaria, ed a traghettare di segreto gli sbandati e refrattari di leva arruolati per Roma in seguito della cospirazione qui organizzata.»

II frate fabbricava gigli di pastiglia, e disse al Capitaneo «che bisognava diffonderli come segnali di riconoscenza fra i vari associati io caso di un movimento reazionario, ed a questo scopo volle che fossero spediti a Pilone, come si fece da Scudieri.»

....................................................................................
......................................................................................

Recatosi a Roma, venne ammesso all'udienza di Francesco Borbone al palazzo Farnese; tra le altre cose «mi disse, cosi si esprime, che se voleva rimanermi a Roma avrebb'egli pensato o di farmi accogliere nell'esercito pontificio, o di mandarmi con divisa militare ad accrescer le fila dei briganti.» Soggiunge poi: «Fu in una di quelle udienza ricevute dal Borbone ch'ebbi a conoscere nell'anticamera del palazzo Farnese un contadino di Caserta, a nome Salvadore.... il quale, mentre aspettavamo insieme, mi confidò che era il corriere abituale del Comitato di Caserta.

..................................................................................
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— 192 —

Coteste importanti rivelazioni del Capitaneo appaiono meritevoli di fede, giacché aggravano la giuridica di lui posizione, e son confortate di molti amminicoli.

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Anche fra    assicurato pure alla giustizia, non negò (1) l'invio al Borbone della spilla per mezzo del marinaio Giuseppe di Sorrento, le visite del Capitaneo, la fabbricazione dei gìgli, la e od segna dei medesimi al Capitaneo, il di costui viaggio a Runa.

Si noti che in quel turno di tempo venia menato in arresto un ex-soldato, a nome................, già sospetto di avere appartenuto a bande di briganti, e sulla costui persona si sorprendevano cinque appunto di quei gigli convenzionali.

Frattanto dalla guardia nazionale di Mugnano veniva arrestato il francese.................a causa degli eccitamenti reazionari e voci sediziose cui si abbandonava. Era egli latore di armi e di diversi ritratti in fotografia di Francesco Borbone, di Maria Sofia, del conte di Trapani, di monsignor Gallo e di Pio IX.

Egli vien qualificato viceconsole di Francia! (2)

Sottoposto ad interrogatorio dal prefetto della provincia d’Avallino Nicolò De Luca (3), disse che i ritratti dei quali era portatore li aveva ricevuti da Francesco II in Roma nel novembre 1862. Soggiunse che nel dicembre il viceammiraglio Sabatelli due volte si recò da lui dicendogli che Francesco II gli aveva scritto favorevolmente sul suo conto, e che il momento era venuto per eccitare un movimento popolare, e perciò lo invitava a porsi alla testa del movimento stesso in Calabria, dove sarebbero sbarcati da Sicilia e da Malta numerosi congiurati per


(1) Interrogatorio 27 febbraio 4863 nanti il signor Francesco Petroli!, ispettore presso la questura di Napoli.

(2) Verbale di suggellamento di carte redatto il 2 marzo 1863 dal delegato centrale d'Avellino.

(3) Verbale 2 marzo 1863.


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operare la rivelazione; che avevano moltissimi affigliati per riuscire nell'intento. Soggiunse esservi in Napoli un Comitato borbonico molto pericoloso, il quale lavora incessantemente e corrisponde con tutte le provincie per mezzo di emissari che sono di continuo in giro. Due colonnelli svizzeri pensionati aver tentato d'indurlo a prendere il comando del movimento. Dagli stessi venne condotto presso un antico generale di Francesco II, il quale si mostrava determinato ad ogni eccesso, ed assicuravi di aver parati i lazzaroni a scannare tutti i Piemontesi. Egli si rifiutò di prendervi parte, indignato per tali propositi, rispondendo non essere un brigante per macchiarsi a tal punto. Principali istigatori essere gli uffiziali svizzeri oggi in ritiro e i generali borbonici ritiratisi in Roma.

Ammise di conoscere i membri del Comitato di Bari, aggiungendo che sul suo onore non potea nominarli Disse che eguale Comitato esisteva in Foggia e soggiunse che la Commissione parlamentare d'inchiesta per mero miracolo sfuggì ad un agguato tesole dei briganti per opera di tale Commiato; agguato che dovea seguire a poca distanza da Foggia e che falli per lo sbaglio di una sola ora di tempo.

«Domandato se conosce che in Roma vi sieno ritraiti e molti individui e se sieno armati per tentare qualche t invasione, rispose ch'egli stima il numero degli uomini e riuniti da tutte le contrade d'Europa ascendere a circa 10000. Che l'armamento di essi è già completato, « ma che però manca loro un capo idoneo, e quel ch'è più manca in quell'accozzaglia il coraggio e la disciplina... Gli arruolati per la più parte sono spagnuoli, bavaresi, irlandesi, pochi legittimisti francesi, alcuni toscani e milanesi e molti napoletani. Ha spontaneamente soggiunto che Francesco II gli diceva il brigantaggio comporsi in queste provincie in parte di gente onesta lui devota. Che i briganti offrirono alla stesso Francesco 16,000 ducati, da lui dignitosamente rifiutati.»


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VIII

Processo contro Pilone

pel ricatto del marchese Abitabile.


Ben conoscete, o signori, quanto rumore levò il ricatto del marchese Avitabile operato dalla banda di Pilone. Riacquistata avendo il medesimo la libertà mediante lo storto d'una egregia somma di denaro, sporse alla punitrice giustizia querela (1) per quel crimine audacissimo. Da questo documento, cui conviene aggiustar fede in considerazione della persona rispettabilissima da cui proviene, emergono alcune circostanze che sarà prezzo dell'opera il farvi presenti.

Nel mattino del giorno 30 gennaio 1863 essendo egli uscito dal suo casino di Torre del Greco onde cacciare in un suo fondo, si vide circondato da più persone armate le quali gl'imposero di gettare a terra il fucile e gli dissero di doverlo accompagnare dal loro capo CavaIier Pilone, «Salimmo (ei dice) verso il Vesuvio, e giunti  all'angolo inferiore del bosco di pini di proprietà del     signor Califano, incontrammo un individuo armato, con cappello alla calabrese, con pennacchio bianco e rosso, se non erro, avea giacca bleu e calzoni color rubbia con fascia. Gli pendeva una medaglia sul petto ed avea qualche nastro sulla giacca, simbolo di ordine cavalleresco.»

Prosegue narrando come Pilone facesse scrivere dal suo segretario e firmare da esso querelante una lettera di richiesta alla di lui famiglia di venti mila ducati; come quel capo brigante lo minacciasse e il ricatto non veniva pagato nella sera, «Soggiunse (cosi dice l'Avitabile) che egli (Pilone) agiva per disposizioni venute da Roma; che dal momento che i Comitati borbonici di Napoli aveano mangiato persino i due mila ducati che


(1) Li 5 febbraio 1863 nanti il giudice istruttore Carlo Cipolla.


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Francesto II gli avea rimesso per munizioni, il suo corrispendente gli diceva da Roma che il padrone permetteva a lui di avvalersi di tal mezzo per far danaro quando ne mancava pel mantenimento della banda. Mi fece leggere io giustificazione una lunga lettera da Roma, dalla i quale rilevavano diversi particolari, che tutti con precisione non ricordo. I principali erano che il padrone i (ossia Francesco) volea conoscere i suoi gloriosi conie battimenti e voleva che in essi non avesse troppo esposto la sua preziosa vita; che avesse subito mandato la sua e signora (ioè la moglie) in Roma, con la famiglia, ove e non avea bisogno di portate altro che i vestimenti; che il padrone permetteva di servirsi del mezzo... per far danaro. Era scritto poi: e voi mi capite... ed aggiungeva di non potergli parlare più chiaramente. Pilone traduceva queste ultime frasi interrotte nel permesso di fare ricatti. Mi fece leggere pur un diploma, ma non ne ricordo il tenore, poiché in quel momento vedendo scendere dal Vesuvio otto o dieci individui che mi sembrarono bersaglieri temetti della vita. Pilone però spinse innanzi immantinenti una ricognizione e mi disse: non abbiate timore, se sono i profossi, alludendo ai soldati, vi sono avanti gli altri compagni i quali li faranno stare a dovere. Essi sono passati questa mattina poco prima di noi e non ritorneranno più per questa giornata.»

Non sarà poi inutile che fermiate il vostro pensiero su quest'altro brano della deposizione Avitabile: «... Dopo tal discorso incominciarono quasi tutti i briganti a dirmi che se pel mio riscatto soffriva il dispiacere di sborsare una forte somma, quella mi sarebbe stata utile per la protezione del Cavaliere Pilone, la quale avrei potuto implorare al prossimo ritorno di Francegeo II a primavera; mentre i Tedeschi avevano fatta sapere a Vittorio Emmanuele che se per tutto marzo non andava egli a Venezia sarebbero essi andati a Torino. Che in quell'epoca non essendovi in queste provincia più di trenta mila soldati piemontesi


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 (ch'essi chiamavano ladri) sarebbero stati scannati dal popolo  e dai soldati stessi delle nostre provincie che si trovavano uniti ad essi.»

E qui osservate, o signori, di quali fole la reazione alimenti l'immaginazione e le speranze di questi sciagurati; e voi che nella vostra perlustrazione udiste e vedeste con quanta disciplina ed ardore i giovani coscritti napoletani si stringano attorno alla bandiera dell'unità italiana, dite, s'egli è possibile, che impugnano a guerra fratricida quelle armi che loro ha consegnato la patria.


IX

Precottura contro il parroco Mancinclli (b).



Il parroco don Michele Mancinelli venne tradotto in potere della giustizia per reato di cospirazione. Diverse lettere vennero sequestrate in sua casa dall'autorità di pubblica sicurezza.

Tra queste ve n'ha una, che il Mancinelli dichiarò essere di suo fratello, a lui diretta, scritta evidentemente da Roma, datata li 30 dicembre 1869. In essa si leggono questi versi «.. ebbi la tua del 20 con ritardo per mezzo della legazione. Ma il tubo con gl'indirizzi non mi è affatto pervenuto. Ma perché non servirti della stessa legazione?... Ho consegnato al Cardinale la tua lettera e gli ho manifestato tutto l'accaduto. Egli attende ansiosamente gl'indirizzi.»

Interrogato in proposito il Mancinelli (1) disse che la legazione indicata in detta lettera crede sia la legazione prussiana che gentilmente si presta per far risparmiare le spese di posta. Quanto agli indirizzi disse ch'erano da lui diretti al papa ed al cardinale Riano Sforza ed erano firmati da tutti i parroci di Napoli; sembra però più probabile come l'opina il Pubblico Ministero che fossero diretti a Francesco Borbone, giacché è ora sparso nelle


(1) Interrogatorio 26 gennaio 1863.


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meridionali provincie un proclama del medesimo col «piale ringrazia quelle popolazioni degl'indirizzi inviatigli.


X

Processo contro Hirt, Florio, ed altri (b).


Li 3 marzo 1863 dall'autorità di pubblica sicurezza veniva arrestato nei dintorni di Portici Luigi Florio sul quale pesavano forti sospetti pe' suoi aggiramenti con persone reazionarie. Perquisito sulla persona, gli si rinveniva una lettera datata da Roma li 22 febbraio 1863, firmata vostro Anselmo; per indirizzo non avea che la parola Portici. Essa è del tenore seguente:

«Signor Giosuè. — Riscontro la vostra onorevole del 18 corrente, e prima di venire alla spiegazione delle vostre domande debbo parteciparvi che per ora può sospendersi il vostro viaggio, dappoiché sarà più utile e dopo che avrete avuto abboccamento con la persona  che v'indicherà il latore, cui lo stesso avrà l'amabilità d'accompagnarvi. Spero che sarete compiacente a quanto vi ho indicato senza offerire ulteriori difficoltà del tutto contrarie ai passati vostri proponimenti fervidi ed efficaci e senza scriverne o parteciparne a chicchessia e ciò per vostra sicurezza »

II Florio ammise d'aver ricevuto da Roma detta lettera, e disse che dovea consegnarla all'amico di Portici, ossia all'ex-maggiore svizzero signor Hirt, il quale per mezzo suo avea già ricevute diverse lettere dallo Anselmi di Roma.

Sul Florio, sull'Hirt e su altri pende or l'accusa di cospirazione.


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XI

Processo contro la principessa

Barberini Sciarra (c).


Menò gran rumore l'arresto della principessa Barberini Sciarra che si operò dalla solerte questura di Napoli alla


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 stazione d'Isoletta. Tra le diverse carte che le si rinvennero nella perquisizione, sonvi tre lettere in cifra, le quali vennero decifrate dall'autorità suddetta e furon rese di pubblica ragione (1). Appare dalle stesse, evidentemente dirette da Napoli a Roma, l'organamento dei Comitati borbonici, i quali, per precauzione, non si riuniscono che nel numero di tre persone, la raccolta di denaro che si fa da loro per la reazione, rinvio che se ne fa al Sorbone, il camuffarsi dei reazionari sotto larve repubblicane. Vi si legge inoltre: « Stamane ho ricevuto una lettera di Riano, la quale dovrebbe togliere ogni scrupolo ai preti!»


XII

Processo contro Farneraro ed Aniello (D).


Sospetto era alla questura il Farneraro per i suoi segreti aggiramenti e per la fama di borbonico; fece quindi la medesima sorprendere, li 27 febbraio ultimo, un giovine marinaio che a costanti intervalli recavasi da lui, mentre era accompagnato dal figlio del Farneraro: venne rinvenuto detentore di tre lettere dirette a Roma, due delle quali con vari nomi in cifre numeriche che accennano apertamente a macchinazioni reazionarie, nelle quali il Farneraro è intrigato (2). In una di queste lettere si parlava di una nuova cifra ricevuta non guari innanzi da Roma.

Era cotesto marinaio in intima relazione con un Luigi Aniello. Perquisita la di costui abitazione, vi si rinvennero varie carte di misteriosa scrittura ed una chiave numerica, che dalla questura vien creduta senza fallo quella spedita da Roma.

In altra delle lettere sequestrate si leggono i seguenti periodi:

«Dopo di aver visto il generala da voi designatomi per comandante le forze militari, vi diressi una mia con la


(1) Supplemento straordinario al Giornale di Napoli, 25 gennaio 1865.

(2) Memorandum della questura di Napoli alta Commissione di inchiesta.


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quale vi pregava presentare ai piedi del trono del nostro e augusto monarca i sensi della mia divozione e fedeltà, non che le poche condizioni ebe sotto meneremo il generale ed io per darci all'opera... Abbiamo pochi uomini e questi, abbenchè valessero molto, non sono abbastanza decisi di sostenere la nostra causa, se prima alcun di loro non sia venuto costà per assicurarsi delle disposizioni che a loro favore veggono nell’animo del nostro re. Io ho creduto spingere cento diciotto (numero o nome convenzionale del porgitore della lettera) perché al più presto possibile facesse venire a voi uno di loro. Ora mi resta solo ripetervi in breve a quali condizioni il generale accetterebbe la missione. Egli desidera degli ordini diretti da S M. il re. Desidera sapere lo stato effettivo delle forze che dovrebbero dipendere dai suoi ordini....

Per la mia parte vi sottometto pure che desidero un autografo di S. M. il re, e ciò non deve dispiacervi perché conseguente al mio giuramento che mi lega alla sua persona, ed i posteriori li attenderò da voi. Desidero sapere anticipatamente con chi io debba trattare, e nel caso abe bisognassero mezzi da chi far capo, giacché gli onesti sudditi sono esausti anche per le circostanze infelici dei tempi ».

L'operoso questore di Napoli in un suo memorandum, che vi rassegnava, sulle cospirazioni reazionarie ultimamente scoperte dall'autorità politica di Napoli, vi diceva con molto senno: «Da questi nuovi anfanamenti dei partigiani della caduta dinastia, non è però a derivare alcuna sfavorevole induzione sullo spirito pubblico degli abitanti di queste contrade; poiché è sempre nella stessa classe di persone, è sempre nella classe degli uffiziali e degl'impiegati del passato regime che si reclutano i cospiratori ed i briganti. Ed in quella vece le processure anzidetto servir debbono a rifermare un principio generale, che già la pubblica coscienza ha da più tempo proclamato, ed in cui forse si riassumono le diverse discussioni intorno al brigantaggio, che, cioè a Roma sia la causa di quante insidie si ordiscono al Governo italiano, e che la pace di questa parte d'Italia non possa essere assicurata che a cominciare da quel giorno in cui, con la espulsione da Roma dell'ultimo Borbone, sia disperso il centro principato delle cospirazioni reazionarie.»


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XIII

Atti d'istruttoria a seguito del fatto di Luco.


Nel principio dell'aprile dell'anno 1862 una masnada dì briganti organizzatasi nel paese ancora sottoposto al dominio dei pontefici, varcata la frontiera, assaltava il distaccamento di truppa stanziato in Luco; ma, avuta la peggio, riguadagnati i monti e ripassato il Liri, si trasse in sicuro. Altri però dei briganti caddero in mano della forza italiana.

Uno di essi vestiva cappotto militare, aveva una tasca a pane con entro qualche cartuccia, molte carte tra le quali la nota degli individui componenti la banda.

Egli era un Padulli, già sergente nell'artiglieria dell'esercito borbonico, disertore dell'armata italiana. Ammise d'aver fatto parte della banda. Disse essere stata sua ferma credenza che la spedizione dovesse essete composta da ex-soldati e comandata da ex-ufficiali napoletani; tardi si accorse di essere in mezzo ad una masnada di assassini. Disse che gli arruolamenti si fanno da un certo Vagnozzi, farmacista in Roma, che abita in Campo de9Fiori, e che gl'individui cosi arruolati a piccoli gruppi di 10 a 15 vengono avviati a un dato punto di convegno. Nel mattino del 21 marzo antecedente essersi riunita la banda nel piano di Arcinazzo ove trovavasi apprestato un carretto. Arrivato un prete, fece sciogliere i sacchi che si trovavano sul carro; contenevano fucili, sciabole e pistole. Più tardi furono loro distribuiti i cappotti militari e le tasche a pane; i cappotti hanno le mostrine gialle (1).

Altro degli arrestati è Raffaele Brandoli. Disse che la banda proveniva da Roma per ordine di Francesco II; che tendeva ad unirsi a quella capitanata da Chiavone; ciascuno degli arruolati riceveva la paga giornaliera di venti baiocchi oltre i viveri (2).


(1) Rapporto del maggior Reverberi al generale Govone in data 8 aprile 1862

(2) Interrogatorio 7 aprile 1862 nanti il delegato di Civitella Roveto


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Il terzo arrestato è Antonio Jucaro d'anni 16, figlio d'un capitano di cavalleria dell'esercito borbonico. A Roma, ove egli fu ed ove facevansi arruolamenti per conto di Francesco II a due paoli al giorno, si ascrisse ai briganti. Uscito da Roma il 2 aprile, ne trovò tra via una ventina; lungo il cammino il numero s'andava ingrossando. A metà strada, da un prete, excappellano dei lancieri borbonici, si distribuirono fucili, sacchi ai pane, zaini e cappotti ad uso militare (1).


XIV

Processo contro Piazza, Minutillo, Papa ad altri.


Se i documenti dei quali superiormente vi facemmo cenno addimostrano la complicità di Franoesco II col brigantaggio, quello che or vi trascriviamo prova invece l’intima relazione col medesimo del Governo pontificio. Questo documento consiste nella deposizione del carabiniere Pozzi 4° Bernardo, da Como.

«Io fui, ei dice (2), nell'attacco coi briganti al luogo detto Forno della Neve nella sera del primo luglio prossimo passato; fui fatto prigioniero con cinque soldati dell'11° di linea, poiché il numero dei briganti era molto superiore al nostro, e fummo colti in una cattiva posizione presa a causa della pioggia.

Quei briganti che a capo avevano il famigerato Francesco Piazza, detto Coatto, mi tennero per circa tredici giorni per le montagn, come pure quei soldati, senza però farci alcun male. Poi fummo consegnati ai gendarmi pontifici, nei confini dello Stato romano. Condotti di poi a Roma fummo spediti al deposito. Il maggiore comandante volea che io prendessi servizio nelle truppe papaline, ma essendo io stato fermo nella negativa, fui a capo di nove giorni imbarcato per


(1) Interrogatorio 9 aprile 1862 nanti il sindaco di Civitella Roveto.(2) Suo nome del 20 agosto 1863 nanti il giudice del mandamento di Gaeta, volume II, foglio 12.   


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Genova, e così rimasi libero. Con me furono imbarcati pure tre di quei soldati, mentre gli altri due volontariamente si rimasero in Roma. »

Passa quindi a parlare di altri particolari e di diversi briganti fuggiti: «... quando erano stati spediti ad incontrare un tale che dovea venire da Roma con gli ordini a riguardo mio e dei soldati.»

Un di costoro, Alessandro Saramiero, nel suo interrogatorio (1), precisamente depone di essere con altro della banda fuggito: «... quando fummo spediti ad incontrar una staffetta che veniva da Roma con ordini relativi a taluni soldati che quella banda aveva presi in un attacco.»

Non vi sfuggirà, o signori, l'importanza di queste deposizioni. I briganti varcano il confine, catturano i nostri soldati, ripassano la frontiera; e a chi li consegnano? Dietro qual ordine? Ove son dessi tradotti? Quali le istigazioni che loro si usano? Ma dunque i gendarmi pontificii trattano a paro, si considerano come alleati, come l'istessa cosa coi briganti? E il Governo del papa considera buona preda, legittima la loro cattura? E si subornano i nostri soldati perché abbiano a rompere la fede giurata?

Questo fatto ben panni, o signori, il guizzo di un baleno che rotto le tenebre svela un baratro d'infamie!


XV

Processo contro monsignor Frapolla

vescovo di Foggia.


Se i documenti superiormente indicati vi dimostrano come Roma politica sia nemica al Governo italiano, tollerando, anzi incoraggiando le cospirazioni che si ordiscono da Francesco II e dalla sua Corte, e prestando efficace aiuto al brigantaggio, il processo del quale ora vi


(1) Volume I, foglio 98.


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tengo, parola vi dimostrerà come egualmente ci sia nemica Roma religiosa, Roma cattolica.

Voi ben conoscete le risposte che li 10 dicembre 1860 si diedero in Roma dalla Sacra Penitenzieria ad alcuni dubbi presentatili da alcuni vescovi italiani.

Voi pure sapete come la pubblicazione e l’attivazione di questi responsi venne considerata reato dalla Corte d'assiste di Lucera, la quale indisse a monsignor Frapolla, vescovo di Foggia, la pena di due anni di carcere.

Secondo gli stessi non è lecito cantare il Te Deum in occasione della proclamazione del Governo italiano o di altra analoga circostanza; recitare nella messa o altre sacre funzioni la colletta prò rege; prender parte alla funzione religiosa per l'anniversario dello Statuto; illuminare la propria abitazione per festeggiare il Governo italiano e indossare coccarde o fascie tricolori; invitare dal clero le autorità governative alle funzioni ecclesiastiche; arruolarsi alla guardia nazionale. Solo posse tollerati militescivicos coactos qui militiam absque gravi damno seu incommodo deserere nequeunt, dummodo tamen animo parati sint, eam deserere cum primum polerunt, et inlerim abstinere ab omnibus actibus hostilitatis in subditos et milites legitimi principis et ab actibus contra bona jura et personas ecclesiastica. Non esser lecito a' parrochi dare gli elenchi chiesti per la guardia nazionale o leva militare. Potersi tollerare la ritenzione dell'ufficio di consigliere e di magistrato municipale, dummodo municipales se abstineant a prestando juramento juxta formam a Gubemio invasore propositam. Potersi concorrere a magisteri, sempre astendendosi dal presentare adesione al Governo intruso, e dal fare qualunque atto che tenda a riconoscerlo. Potersi concedere dagli ordinari agli amministratori dei luoghi pii il permesso di accettarne l’uffizio: dummodo ex inde non requiratur ad hcesio Gubemio invasori aut juramentalum fidelitatis juxta formam ab eodem Gubemio propositam    et cum dependentia ab episcopo, seu ab ordinario loci rationem reddere teneantur. Potersi tollerarela ritenzione e l'assunzione degl'impieghi:


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dummodo non agatur de ufficiti qum directe et proxime influnnt in spolium, vel in ejusdem spolii manutentionem; non essere però lecito il giuramento di fedeltà ed obbedienza a Vittorio Emanuele Re d'Italia e suoi successori, all'osservanza dello Statuto e delle leggi dello Stato. Doversi negare l'Eucarestia, le esequie e la sepoltura ecclesiastica ai notoriamente censurati per causa politica.

Allorquando però si tratta dell'interesse pecuniario del clero vediamo che la Sacra Panitenzieria tosto si piega ad una insolita indulgenza; invero la stessa concede ai parrochi e agli altri ecclesiastici, i quali sono stati danneggiati nelle decime per le abolizioni fattene dal Governo di poter percepire i compensi assegnati dallo stesso Governo.

Questa mostruosa confusione della religione colla politica da i suoi tristi frutti nelle provincie meridionali, ove il clero è in gran parte avverso al nuovo ordine di cose, e le popolazioni, più che divote, superstiziose.

Nella vostra peregrinazione in quelle provincie, ben vi siete convinti come questa attitudine ostile di Roma e del clero sia fomite possente di brigantaggio. Questa verità che dimana dai moltissimi documenti che avete raccolti, emerge in modo assai splendido da uno recentissimo trasmesso dal commendatore De Luca, prefetto della provincia d'Avellino.

Si è questo l'interroga torio subito li 23 febbraio 1863 in Gesualdo dal capo brigante Pasquale Forgione, nanti la Commissione del mandamento di Frigento per la distruzione del brigantaggio. Ne riferiamo testualmente alcuni brani

............................................................................................................

Domanda. Con questi convincimenti perché non vi siete presentato voi ed i vostri compagni, persuasi che odiati da tutte le popolazioni la vostra vita era in pericolo ogni momento? Storno (1) stesso intimorito dall'esagerato numero dei briganti che si diceva circondavano il paese, appena che era sgombro di due malfattori che vi entrarono, rialzava i stemmi di


(l) Era stato invaso dalla banda cui apparteneva l'interrogato


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Vittorio Emanuele, e benediceva il suo nome e la unità italiana.

Risposta. Noi combattevamo per la fede.

D. Che cosa voi intendete par la fede?

R. La santa fede della nostra religione.

D. Ma la nostra religione non esecra i furti, gl'incendi, le uccisioni, le sevizie e tutti gli empi e barbari misfatti che ogni giorno consuma il brigantaggio, e voi stesso coi vostri compagni avete perpetrati?

R. Noi combattevamo per la fede, e siamo benedetti dal papa, e se non avessi perduta una carta venuta da Roma vi convincereste che abbiamo combattuto per la fede.

D. Che cosa era questa carta?

R. Era una carta stampata venuta da Roma.

D. Ma che conteneva questa carta?

R. Diceva che chi combatte per la santa causa del papa e di Francesco II non commette peccato.

D. Ricordate che altro conteneva detta carta?

R. Diceva che i veri briganti sono i Piemontesi che hanno tolto il regno a Francesco II, che erano scomunicati essi, e noi benedetti dal papa.

D. In nome di chi era stata fatta quella carta, di quali firme era segnata?

R. La carta era una patente in nome di Francesco II e firmata da un generale che aveva un altro titolo, che non ricordo, come non ricordo il nome; vi era attaccata una fettuccia con suggello.

D Di che colore era la fettuccia e il suggello, e che impronta il suggello offriva?

R. La fettuccia era color bianco come tela; il suggello era bianco coll'impronta di Francesco II e delle lettere che dicevano Rama........   

D. Non potendo ammettere né consentire che il papa possa benedire tante iniquità, né che Francesco II abbia potuto vilipendere la dignità di re ordinando omicidi, grassazioni, incendi, quando anche questi mezzi, l'umanità disonorando, avesser potuto fargli sperare il riacquisto del trono, però non può essere che una favola la vostra assertiva.

R. Essendoché avete fatto venire i bersaglieri e che sarò fucilato, persuaso come sono di morire, vi assicuro che ho tenuto quella carta e che è verità tutto quello che vi ho detto contenere, e se altri, come me sarà arrestato, vi convincerete allora che non ho mentito..............   


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D. Che abbiate Unto ben ligata al petto con un nastro una piastra di Francesco II come medaglia non fa meraviglia, perché credevate, uccidendo, grassando, rubando, combattere per lui. Ma come consumando tante scelleratezze, potete tenere a testimone di esse, e direi anche a complico, se scempia non fosse questa parola, la Vergine Santissima, portando appeso al petto questo insudiciato abitino colla sua effigie del Carmine? È cosa che fa credere la vostra religione più empia e scellerata di quella che potrebbe avere un demone, se i demoni potessero avere una religione! Non è questa la più infernale derisione che possa farsi a Dio?

R. Io ed i miei compagni abbiamo la Madonna nostra protettrice, e se aveva la patente colla benedizione non sarei stato certamente tradito.

Ed essendogli annunziato che si approssimava Torà per lai fatale, risponde:

«Confermerò anche queste stesse cose al confessore che spero mi sarà accordato.»


Firmò quindi il processo verbale.

È opera perduta raggiungere parole all'eloquenza di questo documento, che dimostra l'aberrazione ed il pervertimento morale cui si abbandonano questi infelici, che, fanatizzati da un clero propugnatore di guerra empia, ladra e fratricida, credono di farsi campioni della fede!


XVI

Processo contro i complici e manutengoli della banda capitanata dal sergente Romano, di Gioia.


Non dissimili sono le risultanze che si hanno da questa procedura.

La banda comandata dal sergente Romano, terrore del paese di Gioia e dei territorii limitrofi, cadde disfatta il 5 gennaio 1863 sotto le sciabole dei bravi cavalleggeri di Saluzzo, i quali furono efficacemente coadiuvati in


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quella avventurosa giornata dalla valorosa guardia nazionale di Gioia.

Ben ventidue briganti rimasero estinti sul suolo, altri due furono catturati.

Sul cadavere del sergente Pasquale Romano venne rinvenuto il suo portafoglio e molte altre carte delle quali non potrà sfuggirvi l'importanza.

Vi ha in primo luogo il giuramento di fedeltà che si prestava dai briganti all'atto dell'aggregazione alla banda, documento che integralmente io qui trascrivo, osservando che lo stesso è seguito da una nota di ottanta briganti, sotto la denominazione di giurati alla fede cattolica.


Atto di giuramento e di fedeltà.


«Nel momento medesimo da disposizione superiore si conforme che nell'anno, mese e giorno noi tutti in unanimità di voti contestiamo il presenta atto di giuramento e di fedeltà con le seguenti condizioni da noi stabilite con i presenti articoli.

Promettiamo e giuriamo di sempre difendere con l'effusione del sangue Iddio, il sommo pontefice Pio IX, Francesco li, re del regno delle Due Sicilie, ed il comandante della nostra colonna degnamente affidatagli e dipendere da qualunque suo ordine, sempre pel bene de' sopranominati articoli; cosi Iddio ci aiuterà e ci assisterà sempre a combattere contro i ribelli della santa Chiesa.

Promettiamo e giuriamo ancora di difendere gli stendardi del nostro Re Francesco II a tutto sangue, e con questo di farli scrupolosamente rispettare ed osservare da tutti quei comuni i quali sono subornati dal partito liberale.

Promettiamo e giuriamo inoltre di non appartenere a qualsivoglia setta contro il voto unanimemente da noi giurato, anche con la pena della morte che da noi affermativamente si è stabilita,

Promettiamo e giuriamo che durante il tempo della nostra dimora sotto il comando del prelodato nostro comandante distruggere il partito dei nostri contrari i quali hanno abbracciato le bandiere tricolorate sempre abbattendole con quel zelo ed attaccamento che l'unanimità dell'intiera nostra colonna ha sopra espresso, come abbiamo dimostrato e dimostreremo


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tuttavia sempre con le armi alla mano, e star pronto sempre a qualunque difesa per il legittimo nostro re Francesco II.

Promettiamo e giuriamo di non appartenere giammai per essere ammesso ad altre nostre colonne del nostro partito medesimo, sempre senza il permesso dell’anzidetto nostro comandante per effettuirsi un tal passaggio. Il presente atto di giuramento si è da noi stabilito volontariamente a conoscenza dell'intiera nostra colonna tutta e per non vedersi più abbattuta la nostra santa Chiesa cattolica romana, e della difesa del sommo pontefice e del legittimo nostro re.

Così abbracciare tosto qualunque morte per quanto sopra si è stabilito col presente atto di giuramento.

Fatto e stabilito nel giorno, mese ed anno, oggi 20 agosto Ì862, e firmato dal proprio pugno del signor comandante della colonna nella nostra presenza.

II COMANDANTE SUPERIORE».


Onde conoscere poi qual gente si fossero cotesti giurati della fede cattolica valga una testimonianza non sospetta, quella dello stesso loro duce.

Nel suo portafogli si veggono vergate alcune note dì sua mano. Il titolo melanconico sotto il quale sono registrale è questo: le mie disgrazie

Ne trascriviamo originalmente alcuni brani:


«Dopo un anno incirca di boscosa solitudine un di si presentono meco tredici masnadieri, individui mediocremente armati, accennandomi essere difensori di Francesco II e della santa Chiesa cattolica romana. Io desideroso far compagnia in tale oggetto onde d fendere i sovra citati diritti esattamente, ai quali era ben disposto da molto tempo, come a tutti è ben noto, accoglieva detti uomini e con tutto zelo incominciava subito ad occuparmi a tutto quello che mi conveniva. Al che questi mi accettarono per loro capo, dovevano stare sotto la mia obbedienza per tutti quei buoni comandi che da me si emanavano pel bene del nostro re e della propria vita.

Ma siccome in questi esisteva il solo sentimento di rubare e non mai quello di farsi onore di eguaglianza al mio, incominciavano ad agitarsi contro me, permettendosi dire fra di loro stessi: noi siamo usciti in compagnia e siamo


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e chiamati ladri e dotiamo rubare, e se il nostro capo non e fa come noi diciamo, mala morte farà oppure resterà solo.

Tal congiura portava presso di me senza saperlo. Si per mettevano pure fare i furti senza la mia conoscenza dove io ordinava di andare ordinatamente e militarmente con educazione.

Ecco che Dio, siccome non ha mai permesso la falsità, ha dimostrato subito che chi credeva ingannare è l'ingannato, come loro tradivano od ingannavano me che cercava farmi e farmi onore; cosi da un traditore più fiero ed ancor di loro esser amaramente tradito e con mio gran duolo disfatti, e la maggior parte di atroce morte   

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Permise pure il sempre lodato Iddio che quantunque ric inasto solo nel più crudo ed atroce combattimento, pure e nondimeno fui salvo mediante la sua protezione

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Mi dolgono immensamente quei pochi raccolti da me dopo, da tredici sino al numero di venticinque, che forse, se non tutti, parte innocenti ed ingannati come me, pure ne perirono.

Ma Dio poi, se non in questo mondo, nello eterno saprà  rimunerarti. Per me sta che quello che ne mori nella innocenza, mori martire ed ha fatto un grandissimo acquisto nella eterna vita.

Sono questi presso Iddio ».


Sono inoltre trascritte in detto portafogli alcune pie canzoncine, una delle quali molto affettuosa alla Vergine.

Ben rileverete, o signori, questo strano miscuglio e confusione. L'uomo informato a sensi di pietà e di religione si fa capo di una masnada di ladri, li riconosce e proclama tali e seguita a capitanarli per la difesa della Chiesa e di Francesco II.

Si rinvennero pure sulla di lui persona alcuni stati nominativi. Tra questi uno a diverse colonne composto di ottanta nomi, accenna evidentemente alla formazione della sua banda. Oltre il nome e cognome vi è in altra colonna indicata la patria, e in un'ultima, sotto il titolo


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di osservazioni, la provenienza. Or bene apparisce dello stesso che ben sedici provengono dagli antichi corpi dell'esercito borbonico, che diciassette sono renitenti alla leva, essendo tutti gli altri indicati quai volontaria ossia persone che, senza esservi spinte dalle cagioni che mossero le precedenti due categorie, volontariamente si ascrissero al brigantaggio.

Si rinvenne pure tra le di lui carte il numero 46 del giornale reazionario La stampa napoletana, cattolicismo, libertà, indipendenza, del 13 dicembre 1862. Vi è in detto numero un articolo di fondo coll'epigrafe II nuovo Ministero, col quale si lancia il fango dell'ingiuria contro i nuovi ministri, specialmente contro Farini, Pisanelli e Manna.

E' questa la dimostrazione del nesso tra la stampa reazionaria ed il brigantaggio.


CONCLUSIONE


Da questa rapida analisi di talune processure penali maggiormente vi sarete convinti (che già l'eravate in prima) come Roma siasi fatta il convegno dei reazionari stranieri, falliti, avidi di possanza e di ricchezza; il centro delle tenebrose cospirazioni che si ordiscono e pertinacemente si riannodano a danno del Governo italiano; il quartiere dei briganti; la fucina ove si preparano le armi loro e si aguzzano i pugnali per gli assassini dei nostri generali; egli è di li che partono gli eccitamenti alla rivolta, al sacco ed al sangue, le scomuniche pei soldati d'Italia; ove si con verte una religione di pace e di amore in uno strumento di guerra civile. E tutto ciò si fa all'ombra e sotto la protezione della bandiera francese, della bandiera di quella nazione che versò per la causa d'Italia il più generoso suo sangue sui campi della Lombardia, di quella nazione che riconosce diplomaticamente il regno d'Italia!

Rifletterete quindi, o signori, se non sia il caso di proporre alla Camera d'invitare il Governo del Re


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ad insistere energicamente presso dell9 imperatore de' Francesi onde abbia a volere l'allontanamento di Francesco II da Roma.

Ben sapete, o signori, e lo sapete per prova, quanto sacra esser debba la sventura, quanto sia doloroso nel doro cammino dell'esiguo Tesser balestrato dall'una in un' altra terra. Ma se questo giovinetto non ammaestrato dalle dure lezioni della Provvidenza, che volle in lui punite le colpe de' suoi maggiori, non si perita, tentando le arti avite, spingendo gli antichi sudditi ad ignominiosa ed infame guerra, avvolgendo nel sangue, nel lutto, nelle espiazioni, nella guerra civile le provincie già obbedienti al suo scettro, macchinando delitti maggiori, riconquistare un trono per sempre perduto, ben si sta che vada in bando da quell'Italia di cui si studia far tanto dura la sorte.

Esaminerete pur anco se non convenga l'attuazione di più efficaci rimedi onde impedire l'abuso dei mezzi spirituali a danno della pubblica cosa.

I documenti dei quali vi ho fatto cenno non illuminarono che un lato della questione, mentre non può negarsi che il brigantaggio alimentasi ben anco di altre fonti: lo stato sociale dei campagnuoli, la corruzione seminata dal cessato Governo, le storiche tradizioni delle ricompense accordate ai briganti, la profondità della scossa prodotta dalla rivoluzione, le disillusioni, l'agitazione dei partiti. Dessi non l'illuminano che fiocamente, mentre non feci l'analisi che di quei documenti giudiziari dei quali per incidenza si ebbe cognizione negli studi della nostra inchiesta; un più perfetto lavoro potrebbe esser fatto dal ministro guardasigilli.

Vi ha tanto però in questi documenti per conchiudere che elemento non ultimo di brigantaggio si è la presenza di Francesco II a Roma, il contegno ostile del Governo e della Curia Romana. Genova, 20 aprile 1865.

STEFANO CASTAGNOLA.



NOTE.


(A)

Le lacune che si riscontrano furono volute daila'drcostanza che questo processo non è ancor pubblico, ma in istato d'istruttoria.


(B)

Gli imputati vennero assoluti.


(C)

L'istruttoria di questo processo venne ultimata. La Sezione d’accusa presso la Corte d'appello di Napoli, colla sentenza delli 11 giugno 1865, pronunciava l'accusa della principessa Sciarra Barberini, la marchesa Sofia De Medici, il cavaliere Quattromani e di altri sei per reato di cospirazione diretta ad attentati aventi per oggetto di distruggere la forma del governo, eccitare i regnicoli ad armarsi contro i poteri dello Stato, avendo, associati in setta, concertata e conchiusa fra essi la risoluzione di agire nello scopo di l'istaurare il dominio dell'ex-re Francesco II Borbone, per vie di attentati contro la forma del governo e col mezzo del brigantaggio ed eccitamenti alla guerra civile.

Credesi conveniente il riferire alcuni brani della elaborata requisitoria presentata dal procuratore del Re presso il Tribunale del circondario di Napoli (D. Marvasi) al giudice istruttore.

«La istruzione di questo processo ha svelato una nuova cospirazione, o, per parlare con maggior precisione, un altro periodo di quella cospirazione che da tre anni si trama a Roma contro il Governo d'Italia.

«La mattina del 9 gennaio in Isoletta, sulla persona della principessa Barberini Sciarra, mentre da Napoli tornava a Roma, furono sorprese parecchie lettere, fra le quali un plico diretto al duca Caracciolo di Brienza.


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«In questo plico era, tra altro, una lettera diretta a monsignor don Gaetano De Ruggiero, nella quale era acchiusa una lettera in cifra colla data 6 gennaio indirizzata a Padre Clarenzio da Viterbo: ed un'altra data il 2, anche in cifra, indirizzata allo stesso Padre.

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«Non può rìvocarsi in dubbio che non uno ma molti fossero i cospiratori, poiché dalle due sole lettere sorprese sappiamo il finto nome o la cifra di parecchi congiurati: Palamede, Eufratto, Aronne, Adamo, Abramo, di 7, 91, 93, 96, ecc.

«È tutti costoro erano associati in un pensiero comune; lo prova il modo della loro organizzazione, perocché essi erano ordinati ammaniera di setta, avevano un Consiglio in cui s'inventavano, per cosi dire, tutte le loro operazioni, ed avevano la loro gerarchia, essendovi affigliati di diversi gradi, no si poteva prender parte alla congiura senza essere proposto ed accettato dal Consiglio.

«Stamane, si legge nella lettera del 2, si è riunito il Consiglio ed è stato proposto ed accettato buon numero di fratelli, e Àronne, Adamo, Abramo hanno pagato per gli ultimi due gradi.»

«L'esistenza di un'associazione segreta avente la sua gerarchia, i suoi capi, i suoi affigliati e contribuenti, è dunque innegabile.

«Se non che quest'associazione per essere elevata a cospirazione, è mestieri provare che gli associati si proponessero per iscopo di raggiungere l'attentato. Ebbene, essi si proponevano di distruggere la presente forma di Governo, e i ristaurare i Borboni; d'eccitare i cittadini ad armarsi contro i poteri dello Stato; di suscitare la guerra civile; di portar la devastazione, la strage ed il saccheggio nei diversi comuni dello Stato, e contro una determinata classe di persone.

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«Richiamiamo al pensiero l'agitazione reazionaria al tempo in cui le lettere furono scritte, i raggiri e la lotta del clero, la stampa reazionaria, i proclami e gli affissi sovversivi; ravviciniamo tutti questi fatti, tutte queste circostanze colle operazioni del Consiglio dei congiurati, e sarà manifestato che era desso il centro e l'anima di tutto il movimento reazionario di quel tempo; e non si potrà più dubitare non solo del loro scopo, ma della loro risoluzione di agire, già concertata e conchiusa.

«Sul finire dell'autunno dell'anno scorso mentre nelle campagne il brigantaggio, anziché scemare pel rigore della stagione, infieriva e s'ingrossava, i borbonici avevano rialzato il capo in città. Il clero con segreti raggiri ed apertamente faceva guerra al Governo. Alcuni più audaci, come il parroco


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di Santa Lucia, Acciardi, Borghi, Mancinelli e Trama furono arrestati dalla questura. Ebbene, nella lettera del 6 gennaio 95 dice a Clarenzio: «il fiscale Trama, il parroco di Santa Lucia, Acciardi, Borghi ed alcuni altri sono prigioni, e questo ci fa male.» Dunque il Consiglio, dunque i congiurati si giovavano dell'opera loro, dunque la questura era bene informata quando le si denunciavano gli adoperamenti di quei preti contro il Governo».

Inoltre nella stessa lettera si scrive: «Stamane ho ricevuto una lettera di Riario, la quale dovette togliere ogni scrupolo ai preti ai quali io aveva parlato». Che cosa poteva mai essere l'opera che si pretendeva dai preti, alla quale ripugnavano di prestarsi, e che solo una lettera di Riario poteva spingerli a fare se non qualcosa di estraneo alla loro missione?

Questa lettera è scritta da un reazionario ad un altro reazionario, e tratta di cose politiche, quindi l’opera a cui si eccitava il clero non poteva essere che politica e reazionaria.

Le parole della lettera e le considerazioni da noi fatte basteranno certamente a provare che i congiurati eccitavano il clero a servir la loro causa: ed in ogni modo non erano estranei ai suoi intrighi ed alla guerra che faceva al Governo.

Ed i congiurati non erano neanche estranei alla stampa reazionaria che in quello stesso tempo aveva oltrepassato ogni freno di legge, di morale, di pudore. Si pubblicarono Il Ciabattino ed Il Papà Giuseppe; espressione feroce e selvaggia di una reazione plebea, fanatica, ignorante e sanguinaria; vera stampa di briganti! Si pubblicava II Napoli che rappresentava, per cosi dire, l’intelligenza e l'aristocrazia del partito reazionario che propugnava il principio della federazione e la restaurazione dei Borboni.

Ed i giornali sedicenti religiosi, rotto ogni freno, s'eran messi a predicare la rivolta col più sfacciato cinismo, facendo uno strano e sacrilego miscuglio della religione e dei Borboni; della croce e del pugnale, del prete e del brigante; ricordando in mezze al secolo xix l’immagine del cardinale Buffo che con una mano benediceva e con l'altra assassinava.

Vi ha la stampa che propugna principii ed opinioni; e la stampa che invita all'azione ed è mezzo di rivoluzione.

«I giornali di cui discorriamo erano del secondo genere. Si pubblicavano mentre i congiurati si riunivano in consiglio; aggregavano affiliati: raccoglievano danaro e provocavano il clero alla sedizione. E tra i congiurati e gli scrittori di questi periodici non è possibile che non vi fosse una segreta corrispondenza».


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«Qui (si dice infatti odia lettera fin cifra del 2 gennaio) qui la polizia si prende ogni giorno tatti i giornali contrari. E poi si soggiunge con compiacimento: che sono però più ostinati ed escono sempre». E la prova che i cospiratori ispiravano e scrivevano il giornale Napoli è evidente, non potendo essere altro il giornale di Coluni a cui si accenna nella lettera. «Dite ad A, scrive Sertorio a Clarenzio, che gli farò tenere ciò che sul giornale di Colmi avranno pensato 91, 93, 94 e noi.»

Fu stampato e sparso fra gli altri un proclama che invitava i cittadini a muoversi in favore di Francesco II, che porta la data del 51 dicembre 1862, e finisce colle parole: Viva Francesco II! Viva la Costituzione! Viva l'autonomia delle Due Sicilie!

E nel 16 gennaio trovansi affissi nella città, ed in parecchi paesi circostanti, dei cartelli ov'era scritto: Viva Franesco II ovvero Maestà, i Napoletani spogliati da un assassino hanno ancora lena di gridare: Viva Francesco II!

È indubitato che i capi della cospirazione raccoglievano danaro, e questo danaro mandavano a Roma a Francesco II, Aronne, Adamo, Àbramo hanno pagato per gli ultimi due gradi. «A... riceverà per mezzo di 7 da 91 (in cifra) i nomi e dei contribuenti. Per mezzo di Filippo Ferri, Palamede riceverà oltre 1,000 franchi pel re.»

Perché questo danaro a Francesco II? Francesco II dacché perduto il regno si fu ricoverato io Roma, protetto dal Papa, ed aiutato dai preti e frati reazionaria e da alcuni suoi antichi sgherri, si è messo alla testa di una cospirazione permanente contro l'unità d'Italia. In tutto questo frattempo non ha fatto altro che annotare briganti e sguinzagliarli contro queste provincie; questa sua cooperazione al brigantaggio, da Roma suo asilo, sotto l'egida del Santo Padre, è un fatto notorio, storico, e di cui non è più permesso dubitare, dopo la solenne dichiarazione fatta dal Parlamento.

Ora i reazionari di Napoli perché mai avrebbero mandato con tanto segreto, con tanto mistero del danaro a Francesco II se non per aiutarlo in quella sua opera?

E se è cosi cotesti reazionari non operavano già insieme con lui alla distruzione della presene forma di Governo, ed ai mezzi atroci adoperati per distruggerlo?

Considerati sotto questo aspetto la raccolta ed invio del danaro a Francesco li provano manifestamente che i congiurati non solo avessero concertata e conchiusa la risoluzione di agire, ma già operassero agevolando scientemente le mene di Francesco li. Parecchie persone si associano in Napoli col più profondo segreto; si ordinano a modo di setta, hanno capi, affiliati, contribuenti; si alleano col clero retrivo; e io


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invitano ad opere sovversive; pubblicano e spargono proclami che eccitano alla rivolta affiggono cartelli sediziosi; scrivono od ispirano giornali che propugnano la causa della federazione ed il diritto e l’eroismo del brigantaggio; raccolgono danaro e lo mandano a Francesco II a Roma; si fanno insomma centro ed anima di quel movimento reazionario che si era manifestato in Napoli da novembre a gennaio, ed è finito colla sorpresa delle lettere, coll'arresto d'alcuni congiurati, e colla fuga di altri; queste persone si rendono colpevoli di cospirazione.

In quei tetti s'incontrano tutti gli estremi di questo reato. L'associazione di parecchie persone, lo scopo di raggiunger l'attenuto, la risoluzione concertata e conchiusa di agire. Se taluno non volesse ravvisare tutti gli estremi della cospirazione nel Consiglio dei congiurati di Napoli e nelle loro opere, non potrebbe Ben ravvisarli nel Comitato di Roma, asilo di coloro che da tre anni congiurano contro l'ordine sociale e la pace d'Italia; covile donde sbucano quelle orde di briganti che devastano le provincie napoletane. Ebbene, se non può negarsi che a Roma nei stretti termini legali si cospiri ed organizzi il brigantaggio, è necessità ritenere che i membri del Consiglio di Napoli, cospirassero anche essi. Perché il Consiglio di Napoli non era al fondo che una sezione, una diramazione, un Comitato succursale di quello residente a Roma.

Ed invero queste lettere eran dirette al padre Clarenzio a Roma. Una di esse era acchiusa in un'altra diretta a monsignor D. Gaetano De Ruggiero, reazionario ed intimo di padre Modesto dei Riformati, confessore della famiglia dei Borboni. Monsignore ed il frate sono entrambi di opinioni retrive. Vuoisi che te lettere in cifra fossero in realtà dirette al padre Modesto. È' certo però che sono scritte se non agli stessi Borboni, ai frati e preti che erano in dimestichezza con loro.

E perché il Consiglio da Napoli scriveva a Roma? Per dargli conto di tutte le sue operazioni, per chieder norme, consigli ed istruzioni, per inviargli il numero ed i nomi degli affiliati e dei contribuenti e per spedirgli il danaro del Re, vero capo delta permanente cospirazione di Roma e di tutte le orde di briganti che spedisce contro questi paesi. Può immaginarsi un Comitato che dipende da quello di Roma più di questo?

Questa dipendenza è provata dalle stesse lettere. Sertorio dice a Clarenzio:

«Si è riunito il Consiglio, ed è stato proposto ed accettato buon numero di fratelli: Aronne, Adamo. Abramo hanno pagato per gli ultimi due gradi. A. riceverà i nomi dei contribuenti Approvate se credete il consiglio, e dopo aver detto che Adamo aveva scrupolo di restare al monte della


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Misericordia con quelli che giurano, e che sarebbe utile che vi rimanesse, cosi il corrispondente di Napoli chiede istruzioni a quello di Roma.»

Decidete e respondete.

In ogni modo adunque la cospirazione con tutti gli estremi legali essendo nei Comitato di Roma, non può essere nel Consiglio dì Napoli che dipendeva da quello in tutte le sue operazioni, ed in quello aveva il suo compimento.

Questa cospirazione, lo abbiamo detto più volte, era diretta da Roma. Quivi sono i veri capi. Non è stato possibile scoprirli tutti. Ma dalle pruove raccolte risulta a primo sguardo abbastanza provata la reità del Caracciolo di Brienza, di monsignor D. Gaetano De Ruggiero e di padre Clarenzio.

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Fra i cospiratori di Napoli e quelli di Roma la corrispondenza era continua. Essi avevano i loro messaggieri.

La istruzione ha scoperto in Filippo Ferri uno di questi messaggieri.

Filippo Ferri appartiene ad una famiglia che deve tutto ai Borboni. Dopo che questi furono espulsi dal regno, si ritirò anch'egli a Portici per piangerli, desiderarli ed aspettarli. Nel mese di dicembre andò e venne da Roma.

Conosceva Quattromani ed era amico della Medici e di Palamede.

Per mezzo loro, deriva dalla lettera del 2 gennaio, i congiurati di Napoli mandarono mille franchi a Palamede pel Re. Spedito contro di lui un mandato di cattura non lo si potò arrestare, poiché, consapevole della sua colpa, si era rifugiato sotto le grandi ali del Papa.

Le sue opinioni, le sue relazioni, le sue gite a Roma, il danaro colà portato, le lettere cifrate, la sua scomparsa lo convincono reo. La principessa Barberini Sciarra prestò anche essa l'opera sua per facilitare ai congiurati la loro corrispondenza

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Ad Isoletta la principessa è arrestata. Minacciata di essere rovistata, presenta le lettere che portava, fra le quali erano quelle in cifra che organizzavano il tradimento e facilitarono la guerra atroce che da tre anni desola queste provincie.

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Se la principessa fosse una donna senza opinioni politiche, se quelle due lettere si fossero trovate come per caso in mezzo ad altre indifferenti, forse si potrebbe dubitare della sua buona fede. Ma essa che è di opinioni borboniche, essa che preferisce la repubblica all'infame Vittorio Emanuele; essa che ha ricevuto in sua casa tanti reazionari in, così poco tempo da richiamar sopra di sé la sorveglianza della polizia; essa che


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venendo da Roma, avea portato tante lettere di emigrati borbonici, e che ritornando a Roma, portava lettere di Roberti pel Re; lettere e suppliche a principi di casa Borbone; di Perman che sospirava una marcia trionfale in Napoli dell'esercito del Papa, lettere di Quondel, lettere della Galiotti, che dice le più grandi sciocchezze contro il Governo; lettere di una superiora di monache che piange e grida contro la Cassa ecclesiastica e contro i liberali; lettere di Monteleone a Spilman, albergatore degli emigrati a Roma; lettere di auguri che desiderano che il Ì863 porti tempi migliori ed asciughi le lagrime, e faccia cessare questo stato di tribolazione; lettere ad Atanasio Mazzocchi, lettere a Caracciolo di Brienza, lettere a monsignor De Ruggiero, lettere al cardinale Riario Sforza: essa che portava tante lettere di questa sorta, e scritte da tali persone, non poteva essere che una messaggiera borbonica, e non ti persuadi che avesse potuto portare le lettere in cifra inscientemente. Ma si è detto, essa portava anche tre ritratti di Mazzini! II ritratto di Mazzini può giovare anche ai reazionarii. E poi omnia manda mundis. Questo ritratto era spedito e portato da un reazionario ad un reazionario; era spedito dal barone Federico Farini, era inviato al principe Pignatelli; era portato dalla principessa Sciarra! Giungeva a Roma protetto da tre passaporti.

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Sono questi i risultati delle investigazioni giudiziarie, modesti, se si pon mente alla vastità ed importanza della cospirazione; ma molto soddisfacenti, se si considera che la sede della cospirazione è in un paese nemico, dove le ricerche dell'istruttore non potevano giungere, e che il processo fu istruito colla massima imparzialità e schiettezza.


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(D)

Dopo la lettura di questa relazione fatta alla Camera in comitato segreto furono fornite alta Commissione d'inchiesta altre notizie e documenti concernenti nuove processure che or versano nello stadio dell’istruttoria. A complemento di questo lavoro credesi utile il fornire un cenno.


Processo contro Salatino, Noviello e Majella.


La processura ha per base la seguente corrispondenza:


I


«Caro Luigi,

Ricevo oggi la voglia lettera del 13/3, nella quale mi dite che siete ansioso di conoscere il risultato della mia


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conferenza colla persona di qua che ha ricevuto il potere di trattare con me. Sono dispiaciuto di dirvi che fino a questo giorno 16/3 non ho veduto nessuno. Sono mille volte più ansioso di voi di questo ritardo, e non capisco niente a questa faccenda insolita. Questo mi pare niente di buono, e mi fa temere tutto. Vi avviso perché nella vostra posizione dovete essere dieci mille volte sicuro delle persone delle quali vi servite per trattare fuori. Se poteste sapere quant'infamie si commettono qua ogni giorno, quanta è numerosa la canaglia di questa Corte benedetta, capirete quanto temo con ragione, che la persona in quistione ne sia venduta alla vergognosa fanga della quale siamo girati. Dunque senza perdere un momento, vedete subito dove è venuto questo ritardo, e si avete qualche dubbio, cessate immediatamente tutte relazioni con la persona di qua, che potrebbe, si non 1ha fatto ancora, tradire voi e noi tutti insieme. Aprite l'occhio! Vi prevengo che nel dubbio, o son io, che si la persona viene alla fine, non voglio trattare con lei affatto, prima una nuova lettera di voi che verrà rassicurarmi. Non voglio essere minchionato per impeoilli di costà. Più che mai, credo io lo stato attuale, che vostra presenza è indispensabile. Miei complimenti a madama.

«Tutto il vostro

«Eugenio Potosi

«N.° 6 — Roma 16/5 63.


«Al signor Luigi Puppoli in Loggia di Noviello — Largo Gesù e Maria — all'Infrascata N.5. — I.° piano — Napoli ».


II.

«Caro Luigi,

«Fin a questo momento, credo che tutto, tutto va benone: 1.° ho veduto, sono quattro giorni la persona in quistione, non ho adesso nessun dubbio, suo nome è la migliore di tutte le cauzione; 2.° ho ricevuto per dopo domani lunedì 25 alle 2 dopo mezzogiorno, un appuntamento con il padrone, credo che faremo questo giorno molte cose, il padrone alla fine mi pare volere trattare francamente con noi. Mi pare sentite bene non posso ancora l'assicurare ma fra pochi giorni lo vedrò. L'idea di voler trattare la quistione del danaro nel gabinetto suo, è sempre la sua. Potremo lo fare, credo, con la combinatione della commissione della quale vi ho parlato. Solamente credo che per questa faccenda, vostra presenza sarà necessaria; più vado, più vedo più sono convinto abbiamo bisogno per principiare, d'avere in cassa la somma completa


— 221 —

per potere agire d'un colpo senza impicci no ritarda alcuno; dunque movete il diavolo se bisogna e, per arrivare a questo punto. Mi dite che quando sarò d'accordo con il padrone, di pregarlo di chiamare il figlio di questo di Portieri................... e farseli dire di prevenire il padre suo per occuparsi di compire la somma. Credo che là c'è un diffetto, perché il padrone potrà temere un'indiscrezione d'un giovane; penso che sarà migliore quando l'avrò veduto (il padrone) di affermarvi sull'onore mio che la volontà sua è d'approvare il compimento della somma per nostra persona di Portici. Sono conosciuto di questa persona che tratta con voi a Portici e credo che la mia parola lui basterà. Adesso per la quistione dei brevetti il padrone l'accorda, ma non vuole mandarli cosi senza piedi. Consente, fra me e voi nel suo cabinetto a darli conoscendo il nome che sarà scritto in pranza sua. Oggi non posso scrivere che questo. Attendo a lunedì per darvi esatto ragguaglio di tutto quello che passerà fra noi. Scrivetemi subito per la quistione della somma intera, poi sulla questione delle difficoltà che c'è qua per trattare con il giovane, ho bisogno di sapere si a Portici, hanno fiducia nella mia parola e nei contrario che devo fare: tutto il vostro E. P. — Roma 2i/3 63».


III


«Caro Luigi,

«Ieri lunedì ho veduto il padrone dalle 2 dopo mezzogiorno fino alle 4 e mezzo pomeridiane cui ho dato la vostra lettera. Tutto è inteso, e tutto fu convenuto secondo i vostri desiderii, tutto tutto. Non posso col mio dispiacere, in una lettera, entrare con voi nel dettaglio della nostra conversazione. La prudenza mi obbliga, lo capirete, a tacere, le cose le più importanti. Posso parlare chiaro solamente che a faccia a faccia, e vi assicuro che il momento o vostra presenza è necessaria, è venuto. Siate sicuro che per il bene della cosa dovete venire trattare di tutto con me:

«1.° È inteso che quando i danari saranno arrivati qua i capponi saranno dati subito, i danari resteranno nelle mani della Commissione composta di voi, una terza persona e me. Da tempo a tempo il padrone avrà notizia della spesa.

«2.° Il negozio sarà diretto da me solo.

«3.° Dell'avviso del padrone e del mio, è necessario far dare al negozio il sviluppo indispensabile, e fare le cose meglio che furono fatte fino a questo momento, che tutto il danaro che potrà essere raccolto sia interamente riunite qua per poter fare le spese d'un colpo, senza essere nella necessità di aspettare o di ritardare. Difatti che fino adesso hanno fatto mancare tutto. Credo che sarete del nostro avviso.


— 222 —


«4.° I brevetti saranno dati subito, quando bisogno si farà, e che il padrone conoscerà il nome (per mezzo dl mio intermediario). Il padrone ha la più grande speranza in noi e nel nostro negozio. Dunque mettetevi all'opera per compire la somma totale, e più se potete nel più breve tempo sia possibile.

«Per principiare a far vedere al padrone che possiamo tenere questo che abbiamo promesso, potete mandare qua il danaro, cioè 7,000 ducati da questo modo: Da Rothschild e Torlonia al mio nome o a quello che vi piacerà meglio. Questo è convenuto con la terza persona (la vostra).

«Subito che sono prevenuto dell'arrivo del danaro andrò insieme con questa persona prevenire questa Banca che questo danaro non potrà essere toccato più da nessuno senza nostre due firme, la mia e la sua. Lo stesso si farà per il resto del danaro a mandare. Se questo vi conviene fatelo, poi vi terrò al corrente di quello che si farà. Fu trattato poi della quistione dei ragazzi di bottega necessari al negozio. Il padrone pensa che la maggiorità deve essere francesi e qualcheduno napoletano. Per questa faccenda faro farsi nell'obbligazione di fare un viaggio in Francia per il bene del negozio e la scelta di questi ragazzi. Quando il tempo sarà venuto di fare questo viaggio sarete prevenuto da me per certi riguardi. Ma prima di tutto voglio sapere se tutto questo che fu convenuto fra me ed il padrone vi conviene a voi ed a tutti gli altri, dopo e quando sarò sicuro che il danaro potrà sicuramente esser fatto nella quantità assicurata prima e più se è possibile, potrò allora mettermi a lavorare in completa sicurtà.

«Credo che approverete la mia prudenza, e che capirete tutto, che non posso mettermi all'opera prima di essere sicuro di non essere nell'obbligazione d'andare a dietro dopo essere andato in avanti La sicurtà è necessaria per compromettere nessuno senza ragione, e impedire di fare saltare in aria tutto nel caso le promesse non potrebbero più essere mantenute. Prima di principiare qualunque cosa, di acquistare qualunque oggetto, ho bisogno di parlare con voi, di farvi conoscere il mio piano, di conoscere le operazioni di tutti, perché voglio un accordo completo, essendo risoluto ad agire solamente con l'approbazione di uomini di cuore che siete voi tutti. Vorrei che poteste mandarmi presto la carta geografica topografica del regno in 31 cartelle. Questo è indispensabile, è necessario adesso. Presto una risposta e prevenitemi se mandate il danaro come vi bo detto. Sarà bene di specificare che questa somma e le altre potranno essere pigliate per me a questa banca integralmente, senza cambio in dritti, in napoleoni d'oro, al mio piacere, o in scudi romani.


— 223 —

Dovete sapere che i napoleoni d'oro hanno corso tutto il regno senza perdita. II mio nome ha bisogno di essere bene scritto.

«Eccoti il conte di Cautaudon (levatelo di questa lettera doppo l'avete ben saputo). La vostra persona mi prega di dirvi che la somma di ducati 500 che doveva mandarvi il padrone, ha risposto che li darrà dopo il negozio (di questi 500 ducati) fatto. Dite a M. che avrà suo affare a tempo, può esser sicuro. Presto risposta. Ditemi il vostro indirizzo e sempre sicuro. Tutto il vostro E. P.

«Roma, 24/3 63 ».


IV


«Caro Luigi,

«Ricevo e rispondo alla vostra del 24/3. Ho visto la persona di qua, ella m'ha assicurato d'avere scritto al suo corrispondente di costà, e come prova ha scritto un'altra volta io presenza mia a lui e a me. Dunque siamo d'accordi in tutti i punti, e possiamo camminare come il fulmine. Ella vedrà il padrone per questo che riguarda il paio di migliaia di cap., e sono d'accordo con lei, che tratterà la questione de' giovane. Ella pensa con me che il padrone potrà avere paura di un ragazzo e verrà il modo d'assicurare lei stessa. La persona di Portici che può trattare e con voi e con la persona vostra di costà. Nella vostra lettera mi dite che forse fra qualche settimana potrete far migliaia e decine di migliaia............. credo capire che queste migliaia sono in più di 30............. sopra le quali il padrone ed io contiamo. Nel questo caso, non posso dirvi abbastanza, quanto questa faccenda sarei bella e importante, questa assunzione alle vostre 30. Darebbe al negozio uno sviluppo del quale le conseguenze non ponno essere capite adesso, ma della quale la minore sarebbe forse la riuscita di una partita del negozio, perché avremo cosi la possibilità di acquistare interamente tutti i diversi oggetti necessari al negozio. Sapete bene che una bottega che manca di niente è sicura di avere una buona clientela. Vi ho parlato del vostro viaggio qua solamente, ma fatelo quando tutto sarà pronto e terminato. Aspetto una risposta alla mia lettera del 24;3 poi vi terrò al corrente di quello che si farà. Andiamo presto presto e bene bisogna di provare al padrone per i fatti che a ragione, e che farà avere fiducia in voi

«Tutto il vostro E. P.

«Roma 28/3 63 ».


Questa corrispondenza è chiara e non ha bisogno di commenti per rendere persuaso ognuno che il brigantaggio e la reazione riceva alimento e vita dalla presenza del Borbone in Roma.


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LEGGE

SUL

BRIGANTAGGIO

___________


VITTORIO EMANUELE II

Per Grazia di Dio e per volontà della Nazione

RE D'ITALIA


Il Senato e la Camera dei deputati hanno approvato,

Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:

Art. 1. Fino al 31 dicembre corrente anno nelle Provincie infestate dal brigantaggio, e che tali saranno dichiarate con Decreto Reale, i componenti comitiva o banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche vie o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai Tribunali Militari, di cui nel libro II, parte II del Codice Penale Militare, e con la procedura determinata dal capo III del detto libro.

Art. 2. I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti colla fucilazione, o co' lavori forzati a vita concorrendovi circostanze attenuanti. A coloro che non oppongono resistenza, non che ai ricettatori e somministratori di viveri, notizie ed ajuti di ogni maniera, sarà applicata la pena de' lavori forzati a vita, e concorrendovi circostanze attenuanti il maximum de' lavori forzati a tempo.


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Art. 3. Sarà accordata a coloro che si sono già costituiti o si costituiranno volontariamente nel termine di un mese dalla pubblicazione della presente legge la diminuzione da uno a tre gradi di pena. Tale pubblicazione dovrà essere fatta per bando in ogni Comune.

Art. 4. Il Governo avrà pure facoltà, dopo il termine stabilito nell'articolo precedente, di abilitare alla volontaria presentazione col beneficio della diminuzione di un grado di pena.

Art. 5. Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare per un tempo non maggiore di un anno un domicilio coatto agli oziosi, a' vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice penale, non che ai camorristi, e sospetti manutengoli, dietro parere di Giunta composta del Prefetto, del Presidente del Tribunale, del Procuratore del Re, e di due Consiglieri Provinciali.

Art. 6. Gl'individui, di cui nel precedente articolo, trovandosi fuori del domicilio loro assegnato, andranno soggetti alla pena stabilita dall'alinea 2 dell'articolo 29 del Codice Penale, che sarà applicata dal competente Tribunale Circondariale.

Art. 7. Il Governo del Re avrà facoltà di istituire compagnie o frazioni di compagnie di Volontari a piedi od a cavallo, decretarne i regolamenti, l'uniforme e l'armamento, nominarne gli ufficiali e bassi ufficiali ed ordinarne lo scioglimento. I Volontarii avranno dallo Stato la diaria stabilita per i Militi mobilizzati, il Governo però potrà accordare un soprassoldo, il quale sarà a carico dello Stato.

Art. 8. Quanto alle pensioni per cagione di ferite o mutilazioni ricevute in servizio per la repressione del brigantaggio, ai Volontari ed alle Guardie Nazionali saranno applicate le disposizioni degli art. 3, 22, 28, 29, 30 e 32 della Legge sulle pensioni militari del 27 giugno 1850. Il Ministero della Guerra con apposito regolamento stabilirà le norme per accertare i fatti che danno luogo alle pensioni.


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Art. 9. In aumento del Capitolo 95 del bilancio approvato pel 1863, è aperto al Ministero dell'Interno il credito di un milione di lire per sopperire alle spese di repressione del brigantaggio.

Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta ufficiale delle Leggi e de' Decreti del Regno d'Italia, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.

Dat. Torino addi 15 Agosto 1863.

VITTORIO EMANUELE

U. PERUZZI



Relazione a Sua Maestà fatta in udienza del 30 agosto 1863:


Sire,

La legge, testò iniziala nel Parlamento Nazionale e dalla Maestà Vostra onorata della sua Reale sanzione, mentre intende a conferire temporariamente al Governo alcune facoltà speciali nell’intendimento di restaurare nelle Provincie Napolitano e Siciliane la pubblica sicurezza, sostituisce altresi per i reati di brigantaggio la giurisdizione dei Tribunali militari a quella dei Tribunali ordinari. Senonchè, nell'intendimento di limitare questa temporaria sostituzione, l’articolo primo della legge dispone che per Decreto Reale vengano designate le Provincie ove questa misura debba esser applicata.

Sebbene le condizioni di parecchie delle Provincie già maggiormente infestate dal brigantaggio, per esempio della Capitanala, del Molise, degli Abruzzi, siano tanto migliorate da potersi parecchie di esse considerare quasi libere da questo flagello, pure è indubitato che la mobilità di talune bande, le quali passano talvolta dall'una all'altra Provincia, sotto la persecuzione attiva e costante della Truppa e delle Guardie Nazionali, e le invasioni parate da malfattori provenienti dai


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vicini paesi tuttora sottratti all'azione del Governo di Vostra Maestà, potrebbero condurre all'inefficacia della legge ed alla disuguaglianza di trattamento rispetto a fatti identici, qualora la dichiarazione di cui nell’articolo primo della legge stessa fosse di troppo limitata.

Egli è in questo intendimento che il Riferente ha l’onore di pregare la Maestà Vostra a volersi degnare di onorare della sua Real firma il seguente Decreto:


VITTORIO EMANUELE II

Per grazia di Dio e per volontà della Nazione

RE D'ITALIA


Vista la legge in data del 15 corrente mese, n° 1409;

Sentito il Consiglio dei Ministri;

Sulla proposta del Nostro Ministro Segretario di Stato per gli Affari dell'Interno,

Abbiamo decretato e decretiamo:

Articolo unico.

La dichiarazione di che all'art. 1° della Legge suddetta è fatta per le Provincie di Abruzzo Citeriore, Abruzzo Ulteriore II, Basilicata, Benevento, Calabria Citeriore, Calabria Ulteriore II, Capitanata, Molise, Principato Citeriore , Principato Ulteriore e Terra di Lavoro.

Ordiniamo che il presente Decreto, munito del Sigillo dello Stato, sia inserto nella Raccolta ufficiale delle Leggi e dei Decreti del Regno d'Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.

Dato a Torino addì 20 agosto 1863.

VITTORIO EMANUELE

U. PERUZZI


Il brigantaggio nelle provincie napoletane: relazione dei deputati Massari e Castagnola colla legge sul brigantaggio

Napoli: Stamperia dell'Iride, 1863

Il brigantaggio nelle provincie napoletane: relazione dei deputati Massari e Castagnola colla legge sul brigantaggio

Milano: Ferrario, 1863

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