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Questo giornale rappresenta una delle punte più avanzate dei risorgimentalisti, giornale democratico, mazziniano, che si batte per le libertà civili e viene più volte sequestrato. Ovviamente le libertà civili riguardano solamente le classi agiate, quando si tratta di contadini meridionali cambia la musica. Riportiamo un campionario di espressioni estratte dagli articoli:

Riferite al brigantaggio:

“questa funesta eredità del passato”

“nemici della causa italiana”

“una vile accozzaglia di ladri e di assassini”

Riferite ai Borbone:

“tenebre del passato”

“barbarie borbonica”

“dispotismo borbonico”

Riferite agli stranieri, come Borges:

esempio agli stranieri, che si fanno, propugnatori di tirannide in casa altrui”

Riferite ai patrioti:

“le forze benefiche dell’incivilimento e del patriottismo italiano si affaticano al bene”

Anche le fucilate e le devastazioni quindi erano benefiche! Portavano la civiltà.

Zenone di Elea – 22 gennaio


ANNO I.
GENOVA — Sabato 18 Luglio 1863
NUM. 20.
 IL DOVERE
Libertà
GIORNALE POLITICO, SETTIMANALE
 Unità
 PER LA DEMOCRAZIA.


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Pag. 145
Alla Direzione del DOVERE

Lo scritto che vi mando, dacché vi piace ingombrare le vostre colonne di scritti miei, è tolto in parte da una memoria ch'io scrissi ad amici inglesi sulle cose dell’Italia meridionale, pubblicata nel Macmillan Mayazine del 1.° luglio. Esso contiene alcune mie impressioni personali sullo stato presente di quelle Provincie, e sulla infallibile trasformazione civile che un prossimo avvenire riserba alle medesime. Nel rapido viaggio ch'io feci colà in occasione dell'inchiesta, cercai, quanto mel consentiva la ristrettezza del tempo, di prender note per mio conto e studio sulle disposizioni native e sulla condizione sociale delle popolazioni, sul poco che fu fatto sin qui e sul molto che rimane da fare per fecondare i preziosi semi della natura e dell’incivilimento in una regione tanto privilegiata dal cielo, all’azione progressiva infine delle forze riparatrici del paese contro la t tejprslso eredità delle rie tirannidi. I cenni che seguono sono un sunto di queste note. A svolgerne il disegno occorrerebbero più mature osservazioni, e soprattutto quell’ampiezza e precisione di dati statistici, di cui l'Italia sente ancora grandissimo difetto. Ma è mio convincimento che, approfondendo gli studi, le mie impressioni, anziché mutare, si confermerebbero. Ad ogni modo, fatene quella stima che vi piace. La memoria, per l'ordine delle materie in essa trattate, può dividersi in tre parti per tre numeri della vostra Rivista.

Vostro Aurelio Saffi.


CENNI SULLE PROVINCIE MERIDIONALI

DELLA PENISOLA

Disposizioni degli abitanti; — condizione degli operai e dei lavoratori dal suolo in alcune provincie

Quella parte d'Italia che dalla vallo del Tronto e del Lari corre fra l'uno e l'altro mare insino all'acque del Jonio, e di tutte le regioni della penisola la più doviziosamente fornita d'ogni maniera di naturali bellezze e d'utili produzioni. Le tinte brillanti del cielo, le montagne imporporate dal sole cadente, le splendide viste del mare dai seni delle costo odorifere, dove l'olivo e l'arancio crescono in selva lungo le vie, dove l'aloe e il cactus germogliano Ira gli avanzi de’ templi antichi, danno al paese l'aspetto lussureggiante di una contrada d'Oriente. Da quella natura il poeta nazionale dell’Italia latina prese le ispirazioni e i colori a descrivere i pregi della sua terra, madre feconda di messi e di maschia prole, com'ei la cantava.

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E le vaste foreste che coprono le valli dell'Appennino, i minerali che il suolo nasconde, i laghi sospesi fra le roccie dei monti, e l'acque vive che di lassù scaturiscono ad alimentare le rapide fiumare, presterebbero materia e forza motrice a qualsiasi lavorio d'industria, se alle ricchezze spontanee della natura sovvenisse la mano dell'uomo. Né gli abitatori del mezzodì sono da meno degli altri Italiani per quanto dipende da naturale disposizione. Che anzi privilegiati dal genio nativo di perspicacissimi intelletti, di vivace immaginazione e di pronto sentire, e ne' validi corpi agitando animi n'eri ed arditi specialmente nelle regioni montagnose, sembrano destinati a riprendere nel consorzio della patria italiana quella operosità e quel grado, che in altri tempi occuparono. Ivi, più che altrove, vivono ancora i ricordi della passata grandezza. Ivi per ogni parte tu incontri ne' monumenti e nei nomi de’ luoghi le reliquie della forte antichità; e un non so che d'antico spira tuttavia dai sembianti e dal far della razza, te quale ne' costumi e negl'idiomi, nelle feste e nelle superstizioni, nel sito dello città e de’ villaggi pendenti sull'erte de’ colli, addita la non interrotta eredità de’ padri Sanniti e Lucani. Poca traccia di se lasciarono in quelle riposte valli la Longobarda conquista e gli Eserciti alemanni. Le sacre sorgenti della vita indigena rimasero intatte in gran-parte in quei santuari della natura; e l'Italia ti si svela fra que' monti nella robusta semplicità delle sue forme native.

Dell'attitudine delle popolazioni al lavoro ed alla coltura intellettuale citerò alcuni esempi notevoli. Sogliono parecchi in Italia e fuori, superficialmente giudicando, fare stima degl'Italiani del mezzodì in generale dalla indolenza e dalle corruttele, che molti anni di pessimo governo ingenerarono massime nella capitale dell'ex regno. Ma dove si lasci da parte il volgo d'ogni Camorra, se bassa od alta non monta, e si faccia più intrinseca conoscenza col buono della popolazione, recherà sorpresa il vedere qual soma di fatiche o di privazioni i contadini e gli operai del Napoletano pazientemente sopportino. Essendo in alcuna delle provincie l'agricoltura affatto rozza e selvatica, unico strumento ai lavori de’ campi è l'opera manuale dell'uomo. Il lavoratore, che per lo più dimora, non in case rurali sparse per la campagna, ma nelle città e ne' borghi, esce mentre fa notte ancora, camminando molte miglia al podere lontano; ivi fatica l'intera giornata, esposto alle intemperie dei verni malsani, od alla cocente sferza del sole estivo, e ritorna la sera allo squallido abituro, munto dalle cure, dagli stenti, e talor dalla febbre. E tutto questo sostiene per misera mercede, senza porzione alcuna de’  prodotti del suolo. Né però rifugge da nuovo fatiche; e dove non gli sia dato ottenere in affitto, o per concessione del Comune, un campicello da coltivare nei momenti d'ozio per proprio conto, lascia la stanza natale, quando non vi trovi da collocare l'opera sua, e va a cercare lavoro altrove. Molti contadini della Basilicata, profittando del precoce venir delle messi nelle pianure pugliesi, scendono in quelle nel tempo della mietitura, ritornando poi alle loro montagne per la raccolta de’ grani, ivi d'alcuni giorni più tarda.

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E tutti sanno le annuali migrazioni de’ pastori e de’ mietitori abruzzesi nella Capitanata e nella campagna romana, la misera provvigione su di che campan la vita, la parsimonia e la previdenza onde sono naturalmente dotati, e come robusti, laboriosi, e perduranti siano quei figli dell'Appennino.

Passando dalla campagna agli opificii industriali tu incontri gli operai dei distretti manifatturieri egualmente disposti al lavoro, assidui, aitanti. Di che basti un esempio. Il Circondario di Sora, in Terra di Lavoro, fu dalla natura provveduto d'ogni comodità opportuna ad opere d'industria. Scorrono in quella valle il Fibreno ed il Liri con acque abbondanti, rapide, perenni, beneficio delle alte e nevose montagne e dei laghi in quelle riposti. Onde nelle vicinanze di Sora e di San Germano sorsero da tempo alcuni lanificii e cartiere sotto ordini e privilegi di protezione governativa, com'era il costume del governo borbonico. La protezione e il monopolio produssero i consueti effetti, favorendo i pochi a danno dei molti, giovando alle fortune dei privilegiati, non al progresso delle industrie del lavoro, e della generale prosperità. L'abolizione dei privilegi e i principii della libertà commerciale adottati dalla rivoluzione del 1860, apporteranno grado grado beneficii grandissimi a quella contrada. Ma per ora le condizioni dei distretti di Sora e di San Germano sono di poco migliori da quello che erano tre anni addietro. Le vecchie fabbriche hanno sofferto danni considerevoli dalle abbassate tariffe; e non se ne intrapresero ancora di nuove a sviluppare i mezzi della ricchezza locale. Tuttavia, in una popolazione di 148,000 abitanti, intorno ad 8500, fra uomini, donne ed adolescenti, sono impiegati negli opifici. Uno de’  più vasti stabilimenti del Circondario è la cartiera del Fibreno, appartenente al signor Lefevre, Duca di Balsorano; la quale impiega 625 operai. Di questo numero più della metà sono donne, e forse 50 ragazzi dai 12 ai 15 anni. Le donne, che lavorano a giornata, ricevono 12 grana, circa mezzo franco, al giorno, quelle che fanno opera a cottimo possono, con lungo lavoro, guadagnare quotidianamente tutto al più 16 o 17 grana; per gli operai speciali, come fabbri, falegnami, ecc. il più alto profitto è dai a ai 4 carlini, un franco e mezzo o poco più. Minore è il salario degli operai comuni; i ragazzi sono pagali anche men che le donne. Il direttore dell'opificio, di nazione francese, professavasi contentissimo di quella buona gente. Avere egli visitato, dicevami, le manifatture di Francia, dell'Inghilterra, del Belgio, ma non essersi mai avvenuto in tanta assiduità, forza fisica, e naturale intendimento. Poneva quella razza fra le più perduranti nella fatica, e più pazienti dei disagi e delle privazioni, ch'egli conoscesse. Senonchè la loro educazione fu miseramente negletta. Pochissimi operai sanno leggere e scrivere. Al difetto d'istruzione supplisce la facilità dell'ingegno. Né dei scarsi salari sono malcontenti, che vivono di pochissimo, e le donne sono d'una frugalità primitiva. Ne' casi di malattia l'amministrazione della Cartiera somministra gratuitamente le medicine e mezza paga agl'infermi; il che pare gran beneficio, e v'è offerta di braccia oltre il bisogno della manifattura. Devo aggiungere ad onore de’ fabbricatori italiani di quello stesso Circondario, che alcuni di loro mettono assai cure nel migliorare lo stato dei loro operai.

La Cartiera del signor Visochi in Atina, più che un opificio d'industria, è una istituzione di benificienza e d'educazione. Il sig. Visochi è Sindaco di quella città, e vi si adoperò con ogni suo mezzo a promuovere le scuole elementari e l'istruzione popolare, prestando personalmente l'opera sua ad educare i figliuoli del povero e gli artigiani, si nell’arti loro come nelle virtù cittadine e nell’amore della patria comune. Certo sig. Zino, il quale conduce un lanificio vicino a Sora, allorché, nell'autunno del 1860 e nell'inverno del 1861, la reazione minacciava quei dintorni, mantenne costantemente al lavoro i suoi uomini, sebbene ciò gli tornasse a perdita grande pelle difficili circostanze del mercato; ma per tal modo prevenne maggiori disordini e rimosse dagli onorai tentazioni sinistre.

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Il sig. Pulcinelli di Alpino, vecchio e venerando patriota, il quale possiede un lanificio ad Isola sollevò in armi i suoi operai, marciando con essi contro le bande, che, pagate da Roma, travagliavano il confine. Onde forse si spiega come, per la influenza di questi cittadini — oltre la vigilanza militare sulla frontiera — e per la condizione del Circondario alquanto più lieta di quella d'altre provincie in opera d'agricoltura e d'industrie, il brigantaggio non vi mettesse radici, sebbene quel territorio sia situato quasi alle porte di Roma.

Della attitudine degl’intelletti a ricevere rapidamente i benefici della istruzione fanno testimonianza i progressi dei fanciulli e, dei giovani nelle scuole. E sono tanto più da deplorare la lentezza e la negligenza, con cui municipi e governo procedono in questa bisogna della pubblica educazione, vedendo i frutti della scarsa coltura sino ad oggi applicata in quelle provincie. Dei quali frutti, più generosi del seme, fui testimonio io medesimo in un esperimento d'una scuola istituita per associazione di particolari a San Severo in Capitanata, dove gli alunni, di corto cominciati ad ammaestrare, diedero ottimo saggio di sé medesimi.

Ma, non ostante tanti vantaggi della natura e dell'ingegno dell'uomo, varie provincie del mezzodì della penisola sono travagliate dalla miseria e dal decadimento morale. Ovvia e popolare spiegazione di questo fatto è il dispotismo borbonico in esse successo ad altre tirannidi non meno malvagie. Il dispotismo non fu certamente inoperoso anche negli altri Stati d'Italia, ma la civiltà non ne ricevette detrimento eguale a quello che afflisse alcune provincie del Napoletano. I Borboni non si limitarono a perseguitare le opinioni politiche ed a porre a tortura le umane membra; impedirono inoltre, con più studio ed ostinazione ch'altri non facesse, ogni maniera di progressi civili, incatenando il paese a quella specie di barbarie nella quale era stato lasciato da' suoi Baroni e dalla signoria spagnuola. E i buoni principii della nuova dinastia nel passato secolo furono al tutto spenti dallo inselvatichirsi ed imperversare della medesima nel presente. Onde in varie provincie del mezzodì si protrasse, in mezzo alla civiltà del secolo XIX, uno stato di cose da lungo tempo dimenticato nella rimanente Italia, e che ricorda i masnadieri e i bravi del medio-evo.

Due fatti principali siano d'argomento ai lettori a giudicare della infelice condizione che la barbarie borbonica fece a que' popoli. Prima di tutto le provincie Napoletane furono con ogni studiò chiuse ad ogni esterna influenza d'incivilimento, isolate le une dalle altre e tenute quasi interamente prive di strade. In secondo luogo i lavoratori del suolo, la maggior parte braccianti poverissimi, o, come i francesi dicono proletari, non associati da alcun diritto, interesse od affezione alla terra, furono ridotti all'estremo della miseria, egli stessi proprietari grandemente impoverirono, in taluni luoghi pei vincoli che inceppano il possesso e la coltivazione dei fondi, da per tutto per gli ostacoli opposti al commercio dei cereali, alla colonizzazione dei terreni incolti, alla divisione dei possedimenti comunali a beneficio dei paesani. A queste cagioni fondamentali di miseria sociale s'aggiungevano, come accessori e stimoli al male, le corruttrici ingerenze del clero, le vessazioni della polizia, il favore e la venalità posti in luogo della legge, e la malvagità delle sette servili, che i reggitori adoperavano in ogni Comune a spiare i pensieri e gli sguardi della gente onesta e liberale, premiando siffatti servigi colla licenza di usare ed abusare delle cose municipali, e di esercitare sui deboli e sui perseguitati angherie e spogliazioni d'ogni fatta.

Delle vie e de' mezzi di comunicazione dirò sol questo. Le tre Calabrie non hanno che una strada, la quale le congiunge a Napoli, interrotta in più d'un luogo, e senza ponti sugli impetuosi torrenti. Dalla Capitanala alla Terra di Molise e agli Abruzzi non è via praticabile con vetture. Il servizio postale da Teramo e Chieti a Foggia facevasi per Napoli, di modo che una settimana non bastava alle corrispondenze fra provincie e città vicine, oggi poste dalla ferrovia a distanza di due o tre ore l'ima dall'altra. La Basilicata, provincia importantissima, poco men vasta della Toscana, naturalmente ricca e capace, tra valli, pianure e coste marittime, d'ogni varietà di prodotti; dall'abete e dal cerro della montagna all'olivo, al cotone, al tabacco, manca per quattro quinti di strade, è in molte parti deserta, squallida, contristata dalla mal aria, per l'abbandono in che la lasciò l'industria dell'uomo. Aggiungete il difetto di comodi porti, malgrado l'ampiezza e la facilità delle spiaggie, in ciascuno dei tre mari che le bagnano, e potrete inferirne la solitudine e il deperimento, al quale un governo selvaggio condannò per mezzo secolo ogni ragione di commerci, di utili operosità e di studi civili nell'Italia meridionale. Lasciando da parte le opportunità topografiche offerte per tal guisa alle bande dei malfattori, erano necessari effetti di queste cagioni l'incaglio della produzione per ristrettezza e difficoltà di mercato, l'ozio forzato e l'abbrutimento della popolazione, la mancanza di un ceto-medio illuminato, attivo, indipendente, e di una classe di operai numerosa ed aspirante a sollevarsi moralmente a dignità cittadina, ogni germe di virili virtù prostrato, il vizio e la frode signoreggianti.

Chi abbia veduto alcuni de’ più selvaggi territori dell'ex-regno, come per esempio il Gargano, le rive del Fortore, le foreste di Monticchio e di Lagopesole. e le lande spopolate della Capitanata, non maraviglierà che quelle triste solitudini fruttino briganti. In quest'ultima provincia, particolarmente, i possessi e il lavoro della terra durano costituiti in modo, da sfruttare ogni beneficio della natura. L'ignoranza dell’uomo e la perfidia de’ cattivi governi inventarono la miseria e il dissolvimento sociale, dove tutto cospirava a prosperità di civile convivenza. La Capitanata si stende dalle alture del Gargano e dalle più basse colline dell’Appennino in vastissimo piano lungo le coste dell'Adriatico, da Manfredonia a Canosa. Fu, sin dai tempi più antichi, comune pastura de’ greggi e degli armenti delle montagne, ch'ivi scendevano, per la mitezza del clima e per la fecondità de’ pascoli, ne' mesi d'autunno e d'inverno. I pubblicani romani ne cavavano grossi proventi, e v'ha chi deriva il nome di Tavoliere dalle tabelle de’  loro conti. Nell'età di mezzo i signori feudali si appropriarono quelle terre, e le tennero nella loro giurisdizione sino a che, nel XV secolo, Alfonso li d'Aragona, re di Napoli, le ritirò alla Corona, cacciandone coloro che avevano parteggiato contro di lui, ed affittandole annualmente ad uso di pascolo, a pastori la più parte Abruzzesi, mediante contratti appellati professazioni dalla dichiarazione che quelli far dovevano del numero degli animali, che vi menavano a pascere. Questo sistema dal quale la fiscalità de’  governanti ritrasse somme considerevoli a danno della buona agricoltura e della bene ordinata pastorizia, fu continuato, con varie alterazioni nella misura delle imposte, sino al regno di Giuseppe Bonaparte, il quale nel 1807 fece una legge che mutava le annue professazioni in una specie di affitti permanenti o censi, con obbligo ai censiti di pagare un canone al demanio regio oltre le tasse ordinarie. I più doviziosi fra i locati, che cosi chiamavansi coloro che avevan l'uso del pascere, ottennero nel nuovo concorso la preferenza sui meno abbienti, e nacquero da ciò grandi apparenze di vaste possessioni con poca sostanza di capitali per ridurle a coltura. La restaurata dinastia borbonica annullò nel 1817 questa riforma del Tavoliere, ritraendo in parte le cose al vecchio stato con accrescimento di miseria per tutti. Secondo la legge del 1807 i possessori del Tavoliere avevano facoltà di coltivare le terre ed affrancarle, la legge borbonica restrinse a un quinto d'ogni possesso la libertà della coltura e vietò gli affrancamenti, eccetto in piccola misura e con lunghe e dispendiose formalità. Oltre a' quali impedimenti il governo borbonico, facendosi ad assegnare da capo le locazioni, non tenne conto, a beneficio degli attuali possessori, delle spese da questi applicate alle migliorie agrarie, onde molti, non potendo sostenere le perdite fatte e i nuovi pesi, dovettero cedere parte delle terre, e gli abbandonati poderi furono concessi ai satelliti e favoriti della Corte.

Così la legge Bonapartiana tornò di poco vantaggio o la Borbonica di rovina alla Capitanata e agl'interessi generali del paese collegati colle industrie di quella provincia: avendo la prima incoraggiato l'avidità de’  grandi possessi invece di dirigere con savi provvedimenti una giusta distribuzione della proprietà ad incremento dell’agricoltura e della prosperità universale, e la seconda distrutto ogni buono ordine civile ed economico. Onde i possessori antichi del Tavoliere, già ridotti al verde dalle spese sproporzionate ai mezzi, dalla necessità di prestiti a condizioni inique e dallo accumularsi dei debiti, furono la maggior parte disfatti; e de’ nuovi alcuni crebbero a grandi fortune per la facilità de’ pascoli spontanei, ma la vera ricchezza fondata sulla coltura del suolo e sulla operosità della classe agricola venne sempre più decadendo, le campagne si spopolarono, le città intristirono, un volgo sinistro di vagabondi e di ladri rurali, sotto il nome di terrazzani, vi si annidò in sozzi e miserandi tuguri. E fuori ampissime estensioni di terreno ritornarono all’antica selvatichezza; le bene ordinate e fiorenti masserie divennero rare; povera ed infrequente la vegetazione, tranne di pasture incolte, senz'alberi stalle né case, dove errano, come in deserto, i greggi, gli armenti, e le neglette razze de’  cavalli pugliesi.

Ivi il viandante cammina per molte miglia nella solitaria e monotona pianura, senza incontrare indizio di domesticità, di vita e di lavoro, toltone, di tanto in tanto, qualche povero pastore abruzzese, avvolto nel suo logoro mantello, e vagante per molti mesi dietro alla sua mandra, senza tetto, senza amici, maravigliosamente rassegnato al suo destino. (Continua).


ANNO I.

GENOVA — Sabato 25 Luglio 1863

NUM. 20.

 

IL DOVERE

Libertà


GIORNALE POLITICO, SETTIMANALE

 Unità

 

PER LA DEMOCRAZIA.



CENNI SULL'ITALIA MERIDIONALE

II.

La quistione sociale e il brigantaggio.


Descrissi noi precedente numero le circostanze dell’agricoltura e della pastorizia nel Tavoliere di Puglia. Aggiungo qui che lo stato delle terre appartenenti ai demani de’ comuni e della nazione, e di quelle già usufruite dalle corporazioni ecclesiastiche ed oggi amministrate dal governo, non è gran fatto diversa. Onde può dirsi che in molli territori del mezzodì della penisola il lavoratore del suolo è in condizioni peggiori di quelle d ogni altro contadino d'Italia. Ed appunto ne' luoghi dove la campagna è più grama, il brigantaggio è più tenace ed infesto, ed incontra meno efficace resistenza nelle popolazioni. In Terra di Lavoro, negli Abruzzi, dovunque un miglior metodo di locazioni agrarie, o la mezzeria e la piccola e varia coltura rendono più certo il lavoro per tutto il corso dell'anno, e meno infelice la vita del colono e del bracciante, e dove quest'ultima classe è scarsa in paragone dell'altre addette alla coltivazione della campagna, ivi gli elementi nativi, meno attristali dalla miseria e men guasti dall’ozio e dai vizi, diedero pochissime reclute al brigantaggio, e il paese più virilmente lo perseguitò. In Basilicata, i proprietari, il ceto-medio e gli artigiani, associatisi sin da principio nel movimento nazionale, combatterono alacremente i malfattori, e se ne sarebbero liberati per intero, se la natura del suolo, la più parte montagnoso e coperto di foreste profonde, non avesse prestato ai banditi opportunità di fughe, e rifugi pressoché impenetrabili.

Nelle Puglie marittime, dove il commercio, l'industria, il contatto col mare generarono spiriti più intraprendenti e mezzi maggiori di civile convivenza, e dove sono città culte e fiorenti, come Bari, Brindisi, Lecce ed altre simili, i briganti furono vigorosamente respinti dalle cittadinanze. Intorno alle quali relazioni fra il brigantaggio e le circostanze naturali e sociali de’ luoghi, gioverebbe avere dati precisi a studio de’ rimedi civili, che quelle circostanze richiedono; ma la statistica è ancora bambina in Italia per la lunga guerra che il dispotismo fece alla ricerca delle nostre condizioni interne, e ciò nuoce all’azione legislatrice ed alla amministrativa in un medesimo tempo.

Io mi sono dilungato a discorrere dello stato sociale del paese, perocché da ciò grandemente dipenda, sebbene per modo indiretto, la piaga del brigantaggio. Non già che la questione sociale sia l'incentivo  o il pretesto dogli assalti, che il brigante muove al civile consorzio; ma certamente la trista vita del paesano scema in questi interesse ed energia a difendere i frutti non suoi della sua fatica, e lo spinge talora al delitto. Le bande de’ malfattori, in sé medesime, non hanno alcun carattere di protesta sociale o politica per le gravezze e le sofferenze di qualsiasi ceto. I paesani, nel chiedere riparazione delle patite ingiustizie, usarono ultimamente modi pacifici e civili. I contadini dell’Italia meridionale avevano, nelle terre de’ municipi, diritti antichissimi di pascere, far legna ecc, e in molti casi, erano coloni parziari, od enfiteuti, sia ne' fondi del comune, sia in quelli della corona.

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Tali diritti furono limitati od annullati ad arbitrio; ed una porzione de’ beni comunali venne usurpata da chi sovrastava, durante l'anarchia del reggimento borbonico. Il Sindaco, l'avido impiegato municipale, procacciantisi colla prostituzione dell'animo il favore de’ padroni, la potente famiglia che, sotto la protezione del governo, dominava nel luogo, invadevano sovente i mal disegnati confini di quelle terre, costringendo al silenzio i testimoni delle loro usurpazioni. D'onde nacque contro gli usurpatori una lotta di proteste e di liti, di cui la tirannide borbonica si valse a strumento di mala signoria, facendo mostra di favorire, secondo era spediente per essa, ora gli offesi ora gli offensori. Accaduta la rivoluzione, l'interesse sociale e l'interesse politico si trovarono concordi su questo punto; e la questione delle terre comunali fu messa in campo dal partito liberale come opera di giustizia e di rivendicazione di diritti violati. Il nuovo governo mandò commissari speciali, col titolo di commissari ripartitori, a verificare i titoli; ma la opposizione e i raggiri degli interessati, e le difficoltà inerenti a tale specie di cause civili, attraversarono l'equa e spedita restaurazione delle antiche ragioni. Ora, i giudizi sulla materia delle usurpazioni furono affidati ai prefetti delle provincie; ed è importante ed urgente per la quote di queste, che sia resa giustizia ai reclamanti; tanto più che i paesani aderiscono alla definizione legale delle liti con tale moderazione da recar meraviglia a chi pensi come il sentimento della legge fosse tra quelle popolazioni oltraggiato da lunga abitudine di arbitrario potere. Nondimeno questo sentimento sembra sopravvivere in esse dopo tante iatture; e la disposizione a disputare del dritto e del torto per modi legali nel foro, direbbesi radicata nella loro natura quasi da ereditaria influenza o tradizione dello spirito de’ loro antichi progenitori. Più agevole e già bene avviata è l'altra questione concernente i beni liberi ossia demani tuttora esistenti dei comuni. I paesani ne chiedevano da lungo tempo la divisione a censo; molti municipi, mutate le cose pubbliche, consentirono alla giusta domanda, e le divisioni vanno procedendo con reciproco vantaggio di chi dà e di chi riceve. Del che citerò alcun esempio più tardi.

Tali sono i caratteri della questione sociale nelle campagne dell’ex-regno. I briganti, invece, non si danno verun pensiero di siffatti interessi e ragioni, mirando unicamente ad una generale rapina degli averi di tutti, senza distinzione fra grandi e piccoli, fra liberali e retrivi. E se qua e là, per famigliarità e parentela coi banditi, o per ira di torti ricevuti, o per avidità di bottino, e più sovente per timore di vendetta, alcuni paesani hanno complicità con quelli, non v'é però nell’universale verun moto o disposizione, che tenda a far causa comune coi medesimi, e a convertire il brigantaggio in una vera guerra sociale. Vediamo, in fatto, i briganti rubare ed uccidere non meno ferocemente la gente di villa, che le altre classi de’ cittadini.

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Un rapido sguardo sulla storia delle bande e sugli elementi che le compongono chiarirà questa sentenza. Innanzi tutto è da far distinzione fra quelle reazioni, che avvennero al mutare dell'antico ordine di cose, e il brigantaggio nella sua forma presente. Quando Francesco II occupava ancora Gaeta e Civitella del Tronto, era guardata da truppe borboniche, la fazione retriva diedesi ad eccitare le popolazioni ignoranti delle montagne abruzzesi, spargendo falsi rumori d'intervento austriaco e del ritorno del Borbone a Napoli. I gendarmi di Civitella del Tronto invasero varie terre degli Abruzzi, e la canaglia che li seguiva uccise i magistrati, irruppe nelle case de’ liberali, distrusse proprietà e vite senza riguardo, ad età od a sesso. Di quelle sollevazioni furono macchinatori una parte del clero e i partigiani della caduta dinastia ne' conventi di Terra di Lavoro, in Capitanata ed altrove. Tali violenze travagliarono, in que' mesi, le piccole città e i villaggi del Monte Gargano e delle circostanti pianure. Si vedevano, fra gl'insorti montanari dell'Abruzzo, frati fanatici e feroci, monsignori, ufficiali dell'esercito borbonico, avventurieri d'oltr'Alpe, corno De Christen, La Grange, ed altri di simil fatta. Ed in tutti que' moti, gl'interessi di coloro, che traevano profitto dagli abusi del cessato governo, si mescolavano colle passioni selvagge di turbe superstiziose ed avide di saccheggio, sospinte dai preti e dalla loro propria cupidità a quegli eccessi. Siffatti tumulti scoppiavano senza ordine o disciplina comune, disgregati, parziali, ne' luoghi sguerniti di truppe, e dove le guardie nazionali non erano ancora bene costituite ed armate. Ma appena alcune centinaia di patrioti e di soldati marciavano contro gl'insorti, costoro si disperdevano o cedevano. Negli Abruzzi la legione de’ volontari indigeni comandata dal maggiore Curci, e poche compagnie di linea bastarono ad abbattere la rivolta, mentre il Generale Pinelli assediava Civitella del Tronto. In Capitanata, dove allora non erano forze regolari, la guardia nazionale e i cacciatori dell'Ofanto ristabilirono l'ordine, ed arrestarono buon numero di tumultuanti; fra' quali i più tristi; se riuscirono a scampare, cercarono rifugio nelle foreste, e divennero banditi. Una mano di condannali alle galere — gente perduta — fuggitivi o liberati dalle carceri di Bovino, accrebbero le loro file; e la più parte dei capi-banda che da indi in poi infestarono quei distretti, uscirono da tali elementi. Gli ultimi tentativi di simili reazioni, per mezzo dell’infime classi specialmente rurali, ebbero luogo nella Basilicata e nel Principato Ulteriore, la primavera e la state del 1861. A quel tempo, le città di Venosa, di Melfi, di Rionero, con altri comuni di quelle vicinanze, erano privi di forze; le guardie nazionali né bene ordinate né bene armate; e i proprietari, col cetomedio e gli artigiani, in piccol numero tra la moltitudine dei braccianti, il malcontento dei quali ora stimolato con ogni artificio dai satelliti del Borbone. Alcune delle principali famiglie di quei luoghi semi-feudali erano state grandi e potenti sotto il regno di Ferdinando II, e la rivoluzione le aveva in sospetto. Temendo esse di perder grandi fortune per le novità seguite, si diedero a cospirare con Roma e coi Comitati Borbonici di Napoli, lusingando con danaro 'e promesse quelle plebi ignoranti ed inquiete, e concitandole contro i: liberali. E gli errori dei nuovi governanti aggiunsero forze alla reazione, avendo il ministro della guerra dato licenza di restituirsi per due mesi ai propri focolari a quella parte di soldati borbonici, che un suo decreto obbligava, scorso quel termine, a riprender servizio sotto le insegne italiane. Sconsigliata agevolezza; perocchè costoro, come il resto dei soldati sbandati, repugnassero tanto dal servire, quanto dal ripigliare le oneste abitudini della vita domestica; onde il rimandarli alle case loro era come farne regalo ai borbonici, i quali se ne servirono ai nostri danni. E si associarono ad essi gli evasi dalle prigioni, fra' quali primeggiarono per vecchi e nuovi delitti Carlo Donatelli, col soprannome di Crocco, Nicola Somma, chiamato volgarmente Ninco-Nanco, ed altri ribaldi, che divennero capi delle bande nella Basilicata: rei di assassinio e di furto, condannati alle galere, sotto i Borboni, ed ora da questi stessi adoperati all'impresa della loro ristorazione.

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Donatelli entrò in Melfi dandosi il titolo di Generale Crocco, fu ricevuto ospite in casa dei signori Aquilecchia, ad onorato di diplomi dagli agenti di Francesco II nello stesso modo che fra' Diavolo, Antonelli, ed altri briganti, in principio del secolo, s'ebbero lodi, premi ed onoranze, come sostenitori del trono e dell'altare, da Ferdinando Le da Carolina d'Austria.

Queste reazioni, per altro, furono tosto spente. Le guardie nazionali della provincia, guidate da patrioti come Mennuni, Pisanti. Bruni, D'Errico ed altrittali, accorsero a liberare i loro concittadini, e poco stante Crocco errava fuggiasco nella foresta di Lagopesole, portando seco una forte somma di danaro, frutto delle sue rapine. Quella foresta e l'altra non meno impraticabile di Monticchio furono da indi in poi il teatro delle bieche opere dei capi-banda mentovati qui sopra; sebbene le guardie nazionali eie truppe, gareggiando insieme di costanza e di abnegazione, abbiano perseguite senza tregua quelle feroci masnade, penetrando sovente nei più intricati nascondigli dei boschi, sorprendendovi le stanze, le provvigioni, il bottino dei banditi, e facendo toccar loro sbaragli e perdite gravi (1).

Delle reazioni del 1861, quelle che scoppiarono nel Principato Ulteriore superarono tutte l'altre in atrocità. Ariano, Montefalcione, Montemiletto furono testimoni del macello dei migliori cittadini. In quest'ultima città, 17 liberali, che s'erano raccolti a difesa in una casa privata, fra i quali il culto e valoroso giovane Carmine Tarantino e il Sindaco Leone, caddero spietatamente mutilati. Due delle vittime, che gridavano fra le torture «Viva l'Italia» furono sotterrate ancor vive fra i cadaveri dei macellati. Il capo degli assassini, Vincenzo Petruziello di Montemiletto, fatto più tardi prigione e fucilato, confessò in punto di morte che il danaro per pagare i suoi gli era mandato da Benevento e da Roma. Alle quali scelleratezza fu posto termine dalle guardie nazionali di Avellino, di Atripalda e d'altre città della provincia, dalla legione ungarese e da pochi garibaldini stanziati ancora nel mezzodì d'Italia; e chi consideri l'umana natura e la straordinaria barbarie degli aggressori, non maraviglierà se alle opere malvagie di costoro seguirono rappresaglie severe da parte delle popolazioni e delle truppe; se all'eccidio dei iì militi del 36 di linea a Pontelandolfo i commilitoni delle vittime risposero col metter fuoco a quella terra; e se talora in uno stesso impeto di repressione fu avviluppato col reo l'innocente. La responsabilità di tali sciagure ricade intera su coloro che fomentano e nutrono il brigantaggio; ma più particolarmente su chi potrebbe cessare tante miserie in brev'ora, ritirando le sue forze da Roma. e in luogo di ciò preferisce coprire colla bandiera di una polente nazione, macchiandone ogni gloria passata, i principali autori del male.

I tentativi di reazione furono cosi, l'un dopo l'altro, sventati con poco sforzo dei nostri nella primavera e nell'estate del 1861. L'attitudine del paese e la condotta delle guardie nazionali dimostrarono che la dinastia Borbonica non aveva seguaci fra le classi educate, fra gli operai, fra la parte onesta e laboriosa dei paesani. Le narrate reazioni furono, come si è veduto, macchinate dai corrotti avanci del servidorame borbonico e dalla feccia del clero, specialmente dopo la legge del febbraio 1861 sulla soppressione dei conventi, eseguite per mezzo dei più tristi elementi della società, e respinte con orrore dalle civili cittadinanze, le quali si sollevarono per tutto a combatterle. Né una sola città, un solo villaggio, in tutta la estensione dell’ex-regno, si dichiarò, o costituì governo, in favore del bandito re. E la repressione dei tumulti e delle violenze della fazione, che per lui parteggiava, fu massimamente opera degli stessi cittadini, essendovi a quei giorni ancora scarse e rade le guarnigioni delle milizie regolari nelle provincie Napoletane. Del che fanno irrefutabile testimonianza, oltre le memorie dei fatti compiuti dalle guardie nazionali e dai volontari, tutti i reclami delle autorità locali ai Luogotenenti,


(1) Per le reazioni della Basilicata vedi, fra gli altri documenti. l'Interessante racconto del signor Camillo Battuta ci Potenza, nel quale sono con semplicità, verità, e generoso amore di patria, narrati i particolari tanto delle turpitudini, quanto delle virtù di quella storia domestica.

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che si successero in Napoli dall'autunno del 60 all'estate del 61; reclami pieni di doglianze per essere lasciati, combatter soli, senza soccorso di truppe, e con poche e cattive armi, contro i nemici della causa italiana. Il disonorato vessillo del fuggitivo re venne alle mani dei briganti, unico appoggio ch'ei s'avesse fra gli antichi sudditi; e il brigantaggio apparve — ridotto com'è da quel tempo ai suoi propri caratteri — non altro che una organizzazione di perseguirti dalla giustizia penale per delitti comuni, un assembramento di vagabondi, di oziosi, di avventurieri, intesi sotto pretesto di causa politica a spogliare e manomettere ogni classe di cittadini.

E di questi caratteri del brigantaggio napoletano, come della ripugnanza delle cittadinanze a seguire le parti de’ vecchi padroni, abbiamo a testimonio tale, che nessun retrivo ed amico della legittimità in Europa può contraddire.

Nell'autunno del 1861, lo spagnuolo Borjès, ingannato dai vanti de’ Comitati Borbonici in Roma e altrove, si avventurò, com'è noto, ad impresa, che gli riusci funesta. Giunto in Calabria e di là passato nella Basilicata co’ suoi compagni, si trovò attorno, non come egli credeva un'onorata mano di partigiani politici presti a combattere, ma una vile accozzaglia di ladri e di assassini, a' quali s'erano accostati con diversi intenti alcuni stranieri, e fra questi certo francese Langlois, che Borjès ebbe tosto a schifo. L’esito della spedizione di costui è noto a tutti, e non mi farò qui a ripeterne i particolari, ricordando solamente che la sua audacia fu rotta dalla pronta resistenza oppostagli dalle guardie nazionali, mentre il generale Della Chiesa gli lasciava aperta la via con inesplicabile condotta. E furono mirabili i fatti de’ Comuni di Pietragalla, di Muro, di Avigliano, di Bella e finalmente di Pescopagano, (1) contro le bande raccolte dal guerrigliero spagnuolo; fra le quali Crocco, Ninco-Nanco, Coppa. Langlois e simili, capitaneggiavano, e davano ordine alle ribalderie. Dopo la disfatta toccata a Pescopagano, Crocco e il rimanente della masnada abbandonarono Borjès e i suoi pochi compagni rubandoli del denaro e del vestiario che avevano, e lasciandoli andare, mezzonudi, pe' fatti loro, su per lo più inospite montagne dell'Appenino. E tutti sanno la fine di quegl'illusi, esempio agli stranieri, che si fanno, propugnatori di tirannide in casa altrui. Borjès lasciò fra le sue carte un Giornale, (2) o Diario di ciò che gli avvenne, dallo sbarco in Calabria sino alla dispersione delle bande in Monticchio, dopo l'accennata sconfitta. Quel diario è pieno di passi come i seguenti;

Trevigno 3 novembre «... il disordine più completo regna fra i nostri, cominciando dai capi stessi. Furti, eccidi ed altri fatti biasimevoli furono le conseguenze di questo assalto. La mia autorità è nulla»

5 novembre a.... Ci arrestiamo (a Caliciana); è stato saccheggiato lutto, senza distinzione, a realisti e a liberali in un modo orribile; è stata anche assassinata una donna, e tre o quattro contadini.»

9 novembre. «Giungiamo ad Alliano (villaggio reazionario) dove la popolazione ci riceve col prete e colla croce alla lesta, alle grida di Viva Francesco II; ciò non impedisce che il maggior disordine non regni durante la notte. Sarebbe cosa da recar sorpresa se il capo della banda, e i suoi satelliti non fossero i primi ladri ch'io m'abbia, mai conosciuto.

Ricigliano 24 novembre»... I disordini più inauditi avvennero in questa città; non voglio darne i particolari, tanto sono orribili sotto ogni aspetto.»


Tali erano le forze del legittimo re fra la vantata fedeltà de’ popoli, che la sua casa aveva contristati.

Allorché Borjès fu fatto prigioniero, disse all’ufficiale che lo scortava a Tagliacozzo: «io andava a Roma a dire al re Francesco li, che non vi hanno che miserabili e scellerati per difenderlo, che Crocco è un Sacripante e Langlois un bruto.«

Dopo la mala prova di Borjès, il dare indirizzo politico e militare al brigantaggio doveva apparire impossibile agli amici interni ed esterni de’ Borboni. Non per tanto, le mene della cospirazione continuano. I tentativi non mai riusciti in sul confine, si ripetono ostinatamente; la Francia guarda e lascia fare; i suoi battelli postali trasportano i briganti più micidiali da un porto all'altro del Mediterraneo; i passaporti di costoro hanno il visto francese; e non v'ha il menomo dubbio intorno alla diretta complicità di Francesco II e del governo pontificio coi masnadieri, sotto la protezione della bandiera imperiale. La Commissione d inchiesta ha diligentemente raccolte dai processi le prove giuridiche di questo turpe giuoco, nel quale l'infamia altrui è solo inferiore alla nostra vergogna. Sino a quando sopporteremo noi quest'onta alla patria nostra ed alla umanità? Il arto è questo, che sino a tanto che la occupazione francese faccia di Roma un sicuro asilo ed un baluardo di tutti i nemici d' Italia, il male non cesserà d'infestarci, ed occorreranno sforzi continui di vigilanza e di repressione per limitarlo. (Continua)


(1) de’ fatti di Pescopagano esiste una' relazione scritta dal Signor Luca Araneo, culto e benemerito allattino di quel Comune, e in quella difesa contro i briganti primo a combattere e a soffrire danni considerevoli

La della relazione fu pubblicala nel Giornale napoletano Il Paese del 27 febbraio 1862.

(2)il Diario di Borjès fu pubblicato per intero da Carlo Monnier nel suo libro. sul brigantaggio nelle provincie napoletane.


ANNO I.

GENOVA — Sabato 1 Agosto 1863

NUM. 20.

 

IL DOVERE

Libertà


GIORNALE POLITICO, SETTIMANALE

 Unità

 

PER LA DEMOCRAZIA.


CENNI SULL’ITALIA MERIDIONALE

III.

Repressione del Brigantaggio.


lo definiva altrove il brigantaggio: organizzazione di delitti comuni scevra d'ogni carattere di questione sociale o politica. Né le cospirazioni borboniche, clericali e straniere, riuscirono a mutarne l'indole e le tendenze. Vero è che i briganti portano rosari e medaglie di santi, ritratti di Francesco II e di Maria Sofia, e i capi s'intitolano Generali e Luogotenenti delle Loro cadute Maestà e difensori della Fede. Ma è vecchio costume dei Borboni e della Curia Romana il confidare la propria causa a tali partigiani; e l'Italia ha d'onde confermarsi nella fede del suo avvenire, vedendo come le male signorie del passato e il potere temporale del Papa non abbiano, entro ai contini della penisola, per seguaci armati e campioni, che ribaldi usciti dalle galere, o degni d'entrarvi. Or come correggere il male o restringerlo, sinché non sia estirpato dalla radice coll'acquisto di Roma? L'azione militare con forze regolari non raggiunse l'intento. Le truppe si rassegnarono a questa sciagurata ed ingloriosa guerra con pazienza e virtù maggiori d'ogni lode. Ma è cosa inutile «peggio il consumare il valore de’ soldati italiani a perseguire briganti. Né deve recare maraviglia se le truppe non riuscirono. Le sole operazioni militari e i mezzi delle regolari milizie non bastano a cogliere e combattere un nemico che sempre fugge; che si nasconde nelle foreste e nelle grotte de’ monti; conosce ogni sentiero, ogni ripostiglio, ogni agguato; vigila dall'alto dei colli la campagna intorno a molte miglia: scorge da lontano ogni moto di chi si mette sulle sue traccie; e quando non può sottrarsi fuggendo, o aggredire a man salva, nascoste l’armi e abbandonati i cavalli pei campi, si Unge contadino o pastore, protetto dalla somiglianza del costumo e dalla spopolata vastità dei luoghi. L'esercito italiano hn, in vero, ben più alti ufficii da compiere pei paese. È suo dovere e suo voto apparecchiarsi a combattere i nemici di fuori e a finirla per sempre colla secolare importunità dell'invasione straniera. Le vittorie da esso aspettate sono quelle dell’indipendenza e della libertà della patria. Il suo campo d'onore sono le provincie della penisola, che ancora sostengono il danno e la vergogna del dominio altrui.

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Che fare adunque? Dovrà il brigantaggio lasciarsi in podestà di se stesso? No. Il paese ha mezzi a sufficienza per domarlo; e sarebbe assurdo il supporre che una società civile, nel secolo XIX, aperta ormai a tutte le influenze del progresso dei tempi, non dovesse a breve andare liberarsi da poche centinaia di banditi. Ma è cosa urgente il mettere in opera questi mezzi per modo organico e regolare, con attività, con risoluzione, con perseveranza. Vedemmo le guardie nazionali, sebbene male ordinate e scarse d'armi, combattere con successo le reazioni del 1861. che pur non erano aliene da un certo spirito di parte. Or saranno le medesime milizie meno disposte a combattere ribaldi, i quali mettono a continuo sbaraglio la vita, la proprietà, l'onore di tutti senza eccezione di opinioni?

La causa maggiore di debolezza è consistita sin qui nella meschina diffidenza dei governanti verso gli elementi più attivi del patriottismo italiano e del partito popolare in generale. Una specie di sodalizio burocratico, fruito d'ogni governo il quale, come accadeva di quello delle antiche provincie, tenda ad accentramento amministrativo, si distese per ogni parte d'Italia, inceppando il libero e spontaneo sviluppo della vita locale. L'egoismo, la tenacità delle Vecchie abitudini, la presunzione di volere regolar tutto e tutti secondo le formo e le tradizioni del centro ufficiale — vizi comuni ad ogni burocrazia; indi, nella cresciuta mole degli affari, la confusione, la negligenza, le lentezze inevitabili di un sistema, che pretende tirare tutte le fila ad un nodo; queste ed altre cagioni ritardano il progresso delle riforme amministrative, la esecuzione de’ lavori pubblici, la risoluzione degli all'ari privali dipendenti dai pubblici dicasteri, e furono fonte non ultima di malcontento fra le popolazioni. Ai quali danni s'aggiunse quella passiva aspettazione, quello sconforto, quel lasciarsi andare alla china, che è proprio di chi non s'educa a fare da sé i propri negozi e s'accorge d'essere nelle mani d'inesperto tutore. Né poco contribuì a svogliare gli animi dal concorrere operosamente al buon andamento delle cose pubbliche il carattere di coloro che alla esagerata tutela furono preposti. Parecchi non conosciuti mai per liberali, o tristamente noti come persecutori dei liberali, s'ebbero importanti uffici nel nuovo Stato. Si videro magistrati municipali e provinciali, giudici, ed altri ufficiali pubblici, che già nel regno dei Borboni esercitarono influenze sinistre contro i patrioti, rimanere influenti, mutate le cose, sotto maschera di moderati, ed egualmente intesi a perseguitare i loro avversari. E ne nacque un liberalismo ipocrita, tutto zelo a seminare calunnie e diffidenze contro gli uomini indipendenti e a procacciarsi favore offendendo le opinioni, le simpatie, i sentimenti, che la origine popolare della rivoluzione del mezzodì aveva creato in quei popoli. Il che naturalmente irritò ed oltraggiò gli animi, con grande ingiuria della nazionale concordia fra una gente che, essendo d'indole sensitiva e pronta all’amore ed all'odiò, è assai più tocca dalle offese fatte agli affetti suoi, che non da quelle che riceve ne' suoi materiali interessi. Onde antagonismo e cattivi umori fra paese e governo, non in tal grado da generare

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serio pericolo, ma certo grave e crescente, e da curarsi con sollecitudine ed amore; perocché, se poco è il pericolo presente, ciò non dipende da leggerezza di cagioni, ma da quel sentimento e da quella aspirazione, che costituiscono la forza e la salute dell'Italia in ogni provincia della medesima, e che avendo per supremo fine la fondazione della comune patria, fanno dimenticare ai migliori ogni spiacevole realtà ed ogni ingiustizia. La quale aspirazione di tutto un  popolo, se fosse intesa e guidata da chi regge, lo Stato con animo pari all'altezza degl'intendimenti di quella, potrebbe operare cose grandi e maravigliose, come avviene tutte le volte che un grande principio penetra nella vita individuale o collettiva dell'Uomo, e levandolo sopra la sfera de’ suoi particolari interessi lo consacra interprete ed esecutore delle leggi universali dell'umano progresso.

Si cessi adunque dalle grettezze di una politica al tutto indegna di una nazione che si rinnova a generosi destini, si promuova la cooperazione di tutte le forze del patriottismo italiano nella difesa della società e della patria, diasi libero campo alle operosità degli interessi locali nella cerchia di amministrazione e di sviluppo che è propria dei medesimi, e vedrassi il paese riacquistar fede in se stesso e farsi sicuro custode della propria salute. La istituzione. di una buona polizia urbana e rurale e il compiuto ordinamento delle guardie nazionali bene armate, bene esercitate e congiunte ad azione comune in corpi scelti e mobilizzati, sono i due principali strumenti della pubblica tutela contro le scompigliate aggressioni del brigantaggio. E all'uno e all'altro mezzo non mancano buoni e volenterosi elementi. Manca bensì nel governo la volontà o la capacità di valersene.

Non s'intende dire con questo che l'azione delle forze regolari sia interamente da escludersi, massime sino a che le milizie cittadine più validamente ordinate ed agguerrite, non abbiano acquistato ferme abitudini di solidarietà, di prontezza, di disciplina nell'accorrere a guardia della sicurezza comune. La cooperazione delle armi regolari colle guardie nazionali ha fatto sin qui buona prova, essendo quelle sfate d'esempio e di sprone alle seconde, e queste di guida alle prime. I carabinieri resero importanti servigi, sebbene scarsi e sperperati a grandi distanze; e i loro posti potrebbero servire di nucleo ad una vasta rete di vigilanza civica delle campagne, associando ad essi drappelli scelti di milizie paesane. I bersaglieri nei luoghi aspri e boscosi, la cavalleria nelle pianure e su pei lievi e scoperti pendii delle colline pugliesi, mostrarono sovente contro un indegno nemico ciò che potrebbe contro un nemico migliore l'impeto del valore italiano; e la presenza di un certo nerbo di tali forze mentre vale da un lato a tenere in maggior soggezione i banditi, è dall'altro come lievito e norma alla educazione militare del paese. Ora, a. quest'ultimo fine principalmente è necessario rivolgere ogni cura, per ragioni morali, politiche ed economiche di gravissimo momento. Le circostanze interne, ed esterne dell'Italia richiedono con suprema urgenza che la tutela sociale delle provincie meridionali sia affidata alle cittadinanze armate. Verrà giorno, e forse è vicino,; in cui la nazione avrà d'uopo di tutto l'esercito per compiere i suoi destini. Importa quindi che il paese impari a custodirsi da se contro i nemici domestici.

La Commissione d'inchiesta, invocato prima a rimedio dei mali sociali delle provincie Napoletane un insieme di provvedimenti civili, che l'ordine del giorno da essa proposto alla Camera riassumeva per sommi capi, opinò in secondo luogo che a reprimere la presente licenza dei malfattori fosse necessaria una legge eccezionale da applicarsi transitoriamente ai luoghi infestati dal brigantaggio. La Commissione era, condotta in questo pensiero dalla evidente inefficacia della giurisdizione ordinaria, dal grido delle popolazioni inasprite pei continui delitti de’ banditi e per le frequenti assoluzioni dei complici loro mercé la debolezza o la parzialità dei magistrati, dallo stesso spettacolo delle fucilazioni arbitrarie, alle quali una legge, per quanto severa,, avrebbe posto ordine e freno. Ma delle misure pensate dalla maggioranza dei Commissari alcune per vero, più che dalle dottrine e dai costumi

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della civiltà moderna, erano attinte dalle tradizioni della legislazione statutaria delle città del medio-evo contro i banditi che infestavano la sicurezza dei loro commerci. Ora, quantunque la barbarie di quei tempi si continui nella guerra che i principi spodestati, i preti e i briganti muovono all'Italia, stanno però dal lato di quest'ultima la civiltà del presente secolo e l'aspettazione di un nobilissimo avvenire; ond'è suo debito, astenersi da quell'armi che, in età inferiore alla nostra, parvoro espedienti e necessarie. Un'assemblea legislativa dei nostri giorni mal potrebbe ripetere i bandi del secolo XVI, investire ogni privato cittadino del diritto di uccidere, assegnar premi all'inganno ed alla violenza, sebbene rivolte a buon fine, mettere a prezzo la testa del malfattore, abdicare insomma il magistero della giustizia ed innalzare l'arbitrio alla dignità della legge. Ma, se l'opinione civile dei tempi nei quali viviamo respinge siffatti mezzi, la necessità di una più vigile, più spedita e più sicura azione della giustizia penale, confortata da ordini più efficaci di polizia e di guerra in difesa della società, non può contestarsi da chiunque abbia un esatto concetto della natura e della enormità del reato che vuoisi reprimere. Onde l'applicazione del Codice Militare ai malfattori colti in flagrante sembra giusto ed opportuno provvedimento, tanto più se si ridetta che l'assalto mosso dal brigante al proprio paese è senza paragone più iniquo di qualsiasi altro genere di guerra, più atroci i delitti che l'accompagnano, ed assolutamente impotenti od impossibili ad applicare, in tali contingenze, i mezzi della giurisdizione ordinaria. Non cosi pei complici e fautori, contro ai quali occorre sovente procedere dietro semplici indizi e sospetti, la cui verificazione richiede molteplici e mature indagini a garanzia dell'innocenza. E le cautele di una regolare procedura sono tanto più necessarie alla rettitudine dei giudizi di complicità, quanto maggiore, nelle circostanze presenti di quelle provincie, è la disposizione degli animi all'ira, alla vendetta, alla parzialità; e quanto, più recenti e vivi sono gli odii delle fazioni locali, pronte sempre a calunniarsi e a sfogare, sotto pretesti politici, le loro private passioni, lo sono convinto che i Giurati lasciati arbitri di tali cause seguiteranno ad adempiere ottimamente l'ufficio loro, e l'esperienza fattane sin qui n'è sicura mallevadrice. L'effetto morale poi di questa specie di giustizia civile e paesana sarà certo più grande nelle popolazioni, per la opinione, delle giuste sentenze e per la solennità delle discussioni nella presenza del pubblico. Ma adoperando i Giurati, tornerà indispensabile moltiplicare le sezioni di accusa, ed accelerare, semplificandole, le procedure; vegliando in pari tempo — e questo è debito di gravissima responsabilità che incombe al Ministro Guardasigilli — sulla onestà e sulla fede dei giudici istruttori con inesorabile sindacato sulle prevaricazioni. — La restaurazione della giustizia ordinaria nelle provincie del mezzodì è mio dei più urgenti bisogni del tempo, e conforta il vedere indizio di miglioramento nella alacrità dei processi presenti, tanto che più per la mala prova degli ultimi anni trascorsi, le popolazioni e le milizie combattenti il brigantaggio perdettero fede nella efficacia della legge comune e nella integrità dei magistrati; e il sistema delle esecuzioni marziali senza alcuna forma di giudizio, gli arresti arbitrari e la sottrazione dcgl’imputati ai loro giudici naturali, cominciarono a guardarsi con favore quasi unico rimedio atto a ristabilire la sicurezza sociale. Sebbene i. fatti abbiano dimostrato che tali enormità non hanno in se alcuna virtù riparatrice, ne mai l'avranno; lasciando stare il pervertimento d'ogni senso di legalità e di giustizia, che ne deriva; pervertimento pieno di pessimi effetti soprattutto in un paese, il quale, già travagliato da lunga anarchia di governo dispotico, ha d'uopo, d'ogni studio d'educazione e di esempi civili per emanciparsi dalle funeste abitudini del passato. [Continua)


ANNO I.

GENOVA — Sabato 8 Agosto 1863

NUM. 20.

 

IL DOVERE

Libertà


GIORNALE POLITICO, SETTIMANALE

 Unità

 

PER LA DEMOCRAZIA.


CENNI SULL’ITALIA MERIDIONALE

IV.

Forze riparatrici dell’incivilimento italiano.


Discorsi, nel precedente numero, della repressione del brigantaggio. Ma se questa funesta eredità del passato dimanda rimedi straordinari e severi, e ci ritrae per forza a circostanze che sembrano di altri tempi, ne conforti il pensare che i mezzi di progresso civile che l'Italia possiede, i miglioramenti economici, l'incremento delle industrie e de’ commerci, la virtù della educazione popolare, l'innalzamento morale delle classi inferiori, varranno assai più d'ogni legge eccezionale a vincere il male e ad affrettare i beneficii dell'avvenire. Le difficoltà che gl'Italiani hanno da superare, sono certamente grandissime, e importa che la forza degli animi sorga pari agli ostacoli. Però è debito loro temprarsi ed educare se medesimi a quella potenza d'intelletto e di volontà, della quale i nostri antichi ci dettero fortissimi esempi, combattendo vittoriosamente, colla incipiente civiltà de’ Comuni del medio-evo, una barbarie ben più profonda e generale di quella che affligge oggidì alcune provincie della penisola, e creando la coltura e l'unità morale del mondo moderno. Che se la politica che ci governa mal risponde al bisogno, ed è più atta ad impiccolire che ad elevare gli animi, l'obbligo di quanti sentono la grandezza del lavoro, che incombe all’Italia, diventa perciò appunto maggiore. Non ci addormentiamo sull'opera; guardiamone con sicuro sguardo tutte le parti, le asprezze, gl'intendimenti, ed alla conoscenza del da fare segua volente ed assidua la virtù dell’eseguire. Gl'Italiani hanno dinanzi a sé un grave viluppo di questioni apparentemente inestricabili, intorno alle quali si smarrisce il pensiero di coloro, che s'arrestano al cominciare dell'erta, invece di salire in alto, e vedere a che punto della sua emancipazione intellettuale e religiosa sia giunto lo spirito umano nell'età nostra. Se noi prendiamo argomento e scorta a procedere, non da chi va innanzi, ma da chi resta addietro, o, peggio ancora, da chi vorrebbe ritirarci a barbarie, come cammineremo nelle vie dell’avvenirci! Se mai fu necessario ad alcun popolo, per conseguire alti effetti civili, essere franco della mente ed animoso, ciò si richiede in massimo grado al popolo italiano, tanto è vasto e pieno di feroci resistenze e d'insidie il terreno ch'esso deve conquistare a civiltà. Direbbesi l'opera di diverse età, di più generazioni, raccolta in uno stesso momento della sua storia, chiedente simultaneo adempimento in ogni sua parte, sotto pena di precipitare da ogni lato a rovina. E stanno contro di noi tutti gli abusi, tutti i pregiudizi, tutte le tenebre del passato. L'intera falange de’ simulacri del medio-evo, la violenta unità del papato e dell'impero, il diritto divino dei re e i privilegi della legge canonica, le ombre superstiti del feudalismo e la sanguinosa realtà del brigantaggio, insorgono ad attraversarci il cammino. E nondimeno noi dovremo obbedire alla chiamala de’ tempi, e raggiunger la meta.

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Una forza ineluttabile attrae i popoli nella luce del vero, del diritto, e della vita. E l'Italia ha in sé gran parte de’ problemi, dai quali dipende il rinnovamento civile, politico e religioso delle nazioni. Sta in noi lo sciogliere gli ultimi vincoli, che la teocrazia del medio-evo, educatrice allora, inutile e tirannica dappoi, impose alla mente umana colla duplice signoria della Chiesa e dell'Impero. La libertà della coscienza e la emancipazione delle nazionalità s'attengono, come a proprio centro, alla rivoluzione italiana, la quale non avrebbe significazione nè intento, se non mirasse ad instaurare colle sue opere questi grandi principi] dell'incivilimento moderno. Ond'è che l'acquisto di Roma e la liberazione di Venezia involgono, non solo una necessità italiana, ma un bisogno universale. E in ciò consiste la legge e la certezza della nostra vittoria; in ciò risiede la forza che guida e sostiene l'Italia nel suo maraviglioso risorgere come dal nulla. I due imperi, le tradizioni della legittimità, la mole degl'interessi ecclesiastici, sono moralmente meno potenti della necessità civile della vita italiana, che è parte importantissima della vita universale dell'umanità. Per questo l'opinione pubblica delle nazioni è con noi; per questo tutto ciò che, in Europa e fuori, procede a civiltà, a scienza, a libertà, ci è naturale alleato ed amico; laddove ai nostri avversari non rimangono che gli avanzi delle vecchie sette e delle scadute aristocrazie, i complici de’ loro malefici, e la feccia degli avventurieri e de’ briganti d'ogni paese.

Or mentre le dette questioni dimandano ogni nostra sollecitudine, un vasto lavoro di riforme e di miglioramenti interni, e quasi una nuova creazione fisica e civile dell’intero paese, ci sta sulle spalle: né si potrebbe indugiare a mettervi mano, senza venir meno di forze, di mezzi, e di accordo morale nell'altre imprese. Noi abbiamo lande deserte e paludi da bonificare., terre incolte da restituire all’industria agricola, città neglette e malsane da ristaurare e nettare; noi dobbiamo aprire strade da provincia a provincia, da comune a comune; fornire di comodi. porti coste pericolose ed inospitali; e innanzi tutto, convertire colla educazione una moltitudine ignorante ed abbietta in un popolo intelligente, laborioso ed onesto. E questi due ordini di funzioni nazionali, questi due urgenti doveri, s' hanno da proseguire con intendimenti e sforzi contemporanei, perocché ogni progresso materiale e morale della nazione giovi a renderla più forte contro le ingerenze straniere, e il liberarsi finalmente da queste sia la condizione suprema del pieno svolgimento e della futura consistenza dell'esser suo.

Poco fu fatto sin qui in paragone del lavoro assegnato alla nastra giornata. Nondimeno la grandezza dell’opera è in se medesima una buona promessa del nostro avvenire. Ogni volta che il corso degli umani eventi suscitò in un popolo la coscienza di una grande missione, e la sua vita s'identificò con questioni di universale importanza, l'ufficio e il dovere che i tempi recavauo, non tardarono a desiare gl'ingegni e ad ispirare le virtù che dovevano compierle.

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Del che fanno testimonianza la Grecia, Roma, le Repubbliche lombarde, i tre Cantoni svizzeri, la rivoluzione d'Inghilterra, quella di Francia, la guerra dell’indipendenza in America, e via discorrendo. Le idee generose, trapassando dalla regione del pensiero in quella della fede che opera e crea, sollevano alla propria altezza gl'intelletti e le azioni degli uomini. La natura umana s'innalza in proporzione de’ fini che la muovono. Né le corruttele del passato impediscono i risorgimenti che le età nuove maturano. Dall'età dei tiranni uscirono gli eroi di Maratona e la libertà della Grecia. Dalle dissolutezze del secolo di Luigi XV proruppero, terribile protesta, le generazioni che vinsero, al canto della marsigliese, la vecchia Europa. E nella abbiezione della nostra servitù nacquero gl'iniziatori della indipendenza e della unità dell'Italia, e apparve di nuovo nella luce della storia un popolo, il quale, nel breve giro di 12 anni, ci diede l'insurrezione di Palermo, le cinque giornale di Milano, le difese di Roma e di Venezia, Palestro e San Martino, la spedizione di Marsala e la battaglia del Volturno: principii memorabili di cose maggiori.

Certo né alla nazionale indipendenza, né alla prosperità materiale, né alla popolare istruzione, questi tre anni trascorsi dal 60 in poi, recarono il frutto che poteva aspettarsi, se più sapiente e magnanimo fosse stato l'indirizzo delle cose nostre. Nondimeno, nell'ordine dei miglioramenti economici e delle opere pubbliche, il poco e il lento può parer molto e sollecito, in paragone dell’ozio e dell'obblio sì lungamente durato. Toccai altrove della rusticità in che giacque sino ai di nostri gran parte dell’Italia meridionale, senza strade, senza industrie, senza progressi di alcuna specie. Or bene, in tre anni, attimo di tempo nella vita d'un popolo, la regione adriatica di quelle provincie è già percorsa da una ferrovia che la congiunge ad Ancona e all’Italia settentrionale. Fra pochi mesi quella ferrovia giungerà a Foggia, e poco stante a Bari, ed a Brindisi. Taranto sarà fra non molto egualmente congiunta alle Puglie da un lato, alla Basilicata ed alle Calabrie dall'altro, e queste a Napoli. Altra ferrovia, perforando l'Appennino, metterà quest'ultima città in comunicazione col capo-luogo della Capitanata, e coll'Adriatico. E già da Napoli a Roma non sono più che poche ore di distanza. Le strade nazionali, le provinciali, le comunali, quale che sia l'inerzia della amministrazione pubblica, riceveranno irresistibile impulso dallo sviluppo degl’interessi generali, e dal movimento delle strade ferrate; e a quest'ora alcune si vengono restaurando, altre, per lungo tempo sospese, si proseguono. Da Sapri all'Jonio una grande strada rotabile aprirà utilissime comunicazioni. Gli Abruzzi, quasi chiusi, specialmente nel versante Adriatico, all’Italia centrale, saranno in breve posti in contatto con questa. Il Consiglio provinciale della Capitanata votò, nell'autunno scorso, l'assegnamento di un mezzo milione di franchi per concorrere alla spesa delle strade del Gargano, regione pressoché impraticabile oggidì, e nido di banditi. Il Parlamento votò varie leggi per costruzione di ponti, per allargamenti e scavi di antichi porti, per apertura di nuovi. La costa calabrese, oggi sprovveduta di ricoveri e approdi tra Salerno e Reggio, tranne quello mai sicuro di Paola, avrà facile, ampia e bella stanza navale a Santa Venere. Brindisi racquisterà, mercé provvido e studiate opere, l'antica vastità ed importanza, ritornando a primeggiare sull'estrema punta d'Italia; quale ultimo porto continentale a chi va da Occidente ad Oriente, e primo a chi dalle coste dell'Asia e dell'Egitto viene a cercare le celeri comunicazioni delle ferrovie europee: vero centro e scala delle future operosità ed influenze Italiane dall'Adriatico insino ai mari dell’India. Così l'intelletto e l'industria della nazione vanno esplorando i mezzi e le opportunità locali per migliorare le condizioni del paese, schiudere nuove fonti di produzione, di lavoro di prosperità generale. Un'ampia rete di comunicazioni comporrà in un comune vincolo di relazioni sociali l'alta, la media e la meridionale Italia; e già pe' rami delle strade non ancora compiute, e attorno alle coste dei nostri mari, la libertà dei commerci viene strettamente collocando in una grande e progressiva solidarietà gli interessi dell'intera nazione. E il moto rinnovatore sarebbe più celere e più efficace, più fecondi i progressi, il mezzodì della penisola più presto trasformato dalle vecchie abitudini agli studi e ai costumi di una matura civiltà, se non ostassero le lentezze, le forme pedantesche, e forse il mal volere della burocrazia, non tutta amica e sincera al patrio risorgimento,                                      (Continua)


ANNO I.

GENOVA — Sabato 22 Agosto 1863

NUM. 20.

 

IL DOVERE

Libertà


GIORNALE POLITICO, SETTIMANALE

 Unità

 

PER LA DEMOCRAZIA.

Pag. 187

CENNI SULL’ITALIA MERIDIONALE

V.

Forze riparatrici dell’incivilimento Italiano (Continuazione e fine)


Fra le leggi intese a correggere gli effetti dei cattivi ordini sociali nelle provincie napoletane, quella che concerne l'affrancamento del Tavoliere di Puglia, votata con lodevole cura dal Senato nello scorso maggio, vuoisi annoverare fra le più importanti. È legge da emendare in alcune parti, onde rendere più agevole la liquidazione del canone agli attuali possessori, e con ciò accrescere nei medesimi la facoltà di estendere le colture, colonizzare le terre, e migliorare lo stato dei lavoratori del suolo. Ed alcuni uffici della Camera dei Deputati raccomandarono ai loro Commissari utili emendamenti a tal fine. Ma tolto qualche vizio nei modi dell'applicazione, il concetto che informa la legge è giusto e conforme ai precetti della buona economia, ed ai principii della libertà. Secondo la medesima, i censiti del Tavoliere saranno, dal 1.° gennaio 1864, costituiti nella condizione di liberi proprietari, e le loro obbligazioni verso lo Stato dovranno redimersi, mediante successivi pagamenti, in 12 anni di tempo, od in più breve termine,;d elezione dell'affrancato. Siccome il tempo prescritto dalla legge per la redenzione del canone e la conseguente gravezza dille quote dei pagamenti, potrebbero riuscire di non lieve danno ai possessori delle terre, massime ai mono agiati ai quali si devono usare maggiori riguardi di equità, così è probabile che la Camera allarghi su questo capo i limiti del progetto ministeriale e della deliberazione del Senato. Ad ogni modo però, il fatto dell'affrancamento del Tavoliere porterà grandissimi beneficii alla Capitanata, anzi all’intera nazione, la quale ha un grande e generale interesse nello sviluppo delle speciali industrie e della straordinaria ricchezza naturale di quella importantissima provincia.

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Pel libero movimento della proprietà territoriale, per lo ampliarsi dell'industria agricola, pel restringersi della pastorizia nomade a vantaggio della pastorizia stabile e ben curata, 300,000 ettari del suolo più fertile che si conosca in Italia muteranno faccia in pochi anni, fioriranno d'industrie, di commerci, di ricche, popolate, e ben costituite fattorie; mentre oggi di quei 300,000 ettari di terreno, 225,000 sono pasture selvatiche, possedute da non pili di 1600 censiti, che maritano la propria inerzia all'ozio della terra; e gli altri 75,000 ettari sono mal coltivati poderi, appartenenti a 3220 possessori, la più parte carica di debiti fra pochi ricchi da un lato, ed una affranta e malsana popolazione di miseri braccianti dall’altro. So che taluni preferirebbero al modo di liquidazione proposto nella legge, che il capitale corrispondente al dominio diretto dello Stato fosse dedotto dai possedimenti degli affrancati in altrettante porzioni di terra, e queste distribuite a censo ai terrazzani e braccianti per conto del governo. Ma se tali operazioni possono produrre utili effetti eseguile dai municipii nei loro demanii per la facilità, la presenza e la economia delle amministrazioni locali, non affermerei che praticamente fossero per riuscire a buon termine per iniziativa ed ingerenza dello Stato; né che la classe che vorrebbesi in tal modo beneficare, mancando di mezzi, d'associazione e di educazione agricola, potesse per tal via sollevarsi a miglior condizione. Trattasi di terre che richiedono vaste e dispendiose bonificazioni, e che a cominciare dalle case coloniche, sono prive d'ogni elemento di buona agricoltura. Certo è poi, d'altronde, che l'affrancamento per sé stesso, e la conseguente circolazione della proprietà, colla applicazione di capitali proporzionati alle necessarie colture, produrranno una profonda rivoluzione anche nelle condizioni del lavoro; che i salari si alzeranno in ragione del maggior bisogno di braccia; e che il contadino, importando agli stessi proprietari di averlo industrioso, aitante, associato ai beneficii della terra, otterrà migliori patti, sia come colono parziario, sia come affìttaiuolo. Il terrazzano, mutato ad un tratto in piccolo proprietario senza le scorte opportune a dissodare la terra, renderla fruttifera ed atta a stanziarvi la famiglia, rischerebbe di essere in breve divorato dall’usura, o spoglialo dalla concorrenza dei ricchi proprietari. Il mezzaiuolo e l'affittuario invece sarebbero solidamente garantiti dalla natura stessa dei loro contratti, e dal mutuo interesse dell'eque relazioni fra il capitale e il lavoro.

Più sicuro, a parer mio, è il successo dei piccoli censi redimibili dopo un determinato numero d'anni, nelle terre municipali, entro la cerchia per cosi dire domestica d'ogni Comune. Ivi il Municipio, naturale tutore dei suoi paesani, può agevolmente vegliare e promuovere l'industria dei censiti, somministrar loro, occorrendo, aiuto e protezione nei primi esperimenti, allevare e crescere a vita propria il nascente celo colla geniale influenza delle istituzioni comunali, colle casse di risparmio, colle scuole, colla solidarietà cittadina. I nuovi possessori delle terre divise, essendo le medesime a piccola distanza entro i territori delle città, non hanno d'uopo di stabilirvisi, sinché colle migliorie non vi abbiano sanificata l'aria, e cogli avanzi progressivi non si siano procacciato modo di fabbricarvi case a perpetua dimora; oltre di che. avendo altre industrie ed occupazioni nel Comune, non sono costretti a lasciarle. Ond'é che la divisione dei demanii comunali vuoisi incoraggiare con ogni studio, siccome vantaggiosa a tutte le parli, ed alla veramente a fare che i poveri lavoratori del suolo, i braccianti, gl'indigenti, diventino, a poco andare, utili, sobrii, ed ordinati agricoltori. Meritano quindi lede que' Municipii, che diedero opera a questo provvedimento; fra i quali citerò ad esempio la città di Canosa in Terra di Bari, che, nello scorcio dell'anno passato, deliberò di partire in novecentotrentaquattro lotti fra i novecentotrentaquattro padri di famiglia non possidenti (che tanti n'aveva il Comune) una terra incolta nelle vicine Murgie, concedendola a censo ai medesimi con la condizione di non poter vendere il fondo, senza la espressa volontà del Consiglio comunale, se non dopo un ventennio, e ciò per impedire che la tentazione di poco danaro conduca i censuarii a lasciarsi spogliare de’ nuovi possessi da facoltosi e avari competitori, e renda vano il beneficio. Passati 20 anni, ciascun censuario rimane libero di alienare la terra, dando però la preferenza al Comune; o. se a questo non convenisse di ricomprarla, pagandogli il laudemio come a padrone diretto. Il canone fissato pe' censi è lieve, distribuito in 4 classi secondo la diversa bontà del suolo, e ascende da 4 a 12 ducati all'anno per versura. La divisione fu stabilita a mezza vorsura per famiglia, di modo che ciascun censuario paga da 2 a 6 ducati soltanto; ma è tenuto, sotto pena della devoluzione del fondo, non solo a dissodarlo, ma a piantarvi alberi e metterlo a buona coltura; e se questo non fa nel termine di sei anni gliene segue la perdita del suo diritto. La ripartizione de’ lotti o quote fu fatta a sorte per torre l'invidia della varia qualità de’ terreni.

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La entrata annuale, che il Municipio di Canosa ricavava dalla detta possessione nel suo sfato erboso ed incolto, aggiuntovi un reddito d'altra proprietà, che formava con quella un insieme di 610 versure, eia di ducati 3329: 91, netti. Ora invece le 467 versure divise a censo, rendono per sé sole ducati 4148 al Comune; e sommando con esse i profitti dell'altre 133 versore non dissodagli, l'intera rendita netta ammonterà a ducati 4348: il che dà un guadagno di 1019 ducati all'anno a quella provvida amministrazione municipale. Per tal guisa la città di Canosa, mentre procacciava l'utilità del comune e ponevasi in grado di sopperire alle crescenti spese senza imporre nuovi balzelli, faceva nello stesso tempo opera benefica ed incivilitrice migliorando la condizione de’ paesani e dell'agricoltura nel proprio distretto. Principale promotore del beneficio fu il Consigliere, oggi Sindaco, signor Fabrizio Rossi, secondato con pronta e volenterosa cooperazione dall’intero Consiglio. E il fatto merita onorevole ricordo. Altri Municipii, fra' quali quello di Potenza, o già dieder mano alla divisione di alcune terre, o si preparano a soddisfare questo ardente e giusto voto delle popolazioni di quelle provincie. Taccio, confidando nel tempo— il quale per ogni parte d'Italia importa moto rinnovatore ed affrancamento dalle tristizie del passato — di que' Comuni, che ai bisogni materiali e morali del paese si oppongono per ignoranza, avarizia, antichi abusi, odio del bene; preferendo all'educare l'opprimere, all'istituire scuole il conservare in una cieca abiezione le classi inferiori, all'aprire strade, industrie, commerci, il vivere in villana e ringhiosa salvatichezza, quasi fuori del mondo civile, pieni delle passioni e delle sette minuscole d'un'altra età. Fortunatamente sono pochi e poco importanti. La maggior parte delle città e delle terre dell'Italia meridionale segue, colla fortuna della patria comune, il moto civile de’ tempi; e l'impulso dato dalla libertà commerciale e industriale, dalle più frequenti e più rapide comunicazioni, dalle necessità della vita collettiva della nazione, al progresso economico, intellettuale e morale del paese, è incontestabile, malgrado tutte le contrarietà e tutti gli errori che si frammettono ad un più spedito avanzamento.

Ma, pur troppo, mentre le forze benefiche dell’incivilimento e del patriottismo italiano si affaticano al bene; mentre una nazione, che sorge a nuovi destini, cerca risollevarsi da lunga abbiezione a dignità morale, ed apportare il suo tributo ai progressi dello spirito umano, alla pace, alla prosperità dell'Europa; una funesta ingerenza straniera si adopera a dissolvere ciò che noi tentiamo edificare, facendosi custode ipocrita delle tradizioni barbare del passato, e fautrice del male. Quella ingerenza toglie all'Italia la metà dell'anima, occupandole il centro stesso della vita nazionale; e riesce assai più perniciosa, ne' suoi effetti, della dominazione militare dell'Austria, la quale è come un campo nemico attendato all’aperto, la cui presenza suscita le virtù guerriere de’ nostri e li tempra alla lotta. La Francia invece si striscia ed introduce con insidiosi avvolgimenti nelle cose nostre, come Tartuffo nell’altrui famiglia. E la debolezza della politica ufficiale, che governa le sorti della nazione, e prende norma a' suoi atti dalle esigenze di una falsa alleanza più che dagli inlenti della rivoluzione italiana, fa maggiore il danno e la vergogna.

Le grandi questioni della indipendenza, dell’autonomia, del diritto del popolo italiano alla piena signoria di se stesso nell'assetto delle sue relazioni interne, sembrano poste dai nostri uomini di Stato fra le cose che dipendono dalla fortuna e dall’arbitrio altrui, più che dalla volontà e dalla virtù nostra. E questo avviene e si tollera in un paese, nel quale, tre anni or sono, una mano di eroi sorti dal popolo scrissero col sangue santamente versalo per la libertà della patria, quel sublime poema a Da Marsala al Volturno» che ricorda ai contemporanei le più grandi gesta de’ nostri antichi; in un paese, dove ogni forte e dignitoso appello all'ultime prove troverebbe unanime risposta, non di parole, ma di opere. Senonchè i nostri reggitori, lunge dal giovarsi con sapiente audacia delle generose dimostrazioni del patriottismo italiano, ad apparecchiarsi alla lotta — alla lotta possibile, necessaria, opportuna — alla lotta pel riscatto del Veneto; non osarono trarne argomento neppure a resistenza morale contro l'inganno francese, nè levar voce di severa protesta alla permanente ingiuria dell’occupazione di Roma.


E se alcuno d'essi tentò assumere contegno più conforme alla coscienza ed alla dignità dell’Italia verso l'importuna e bifronte alleanza, cadde nel vuoto che gli fece intorno la pusillanimità del suo partito. Tanto è immedicabile nella maggioranza moderata il difetto d'orgoglio italiano! Se, nella poca accortezza e nella sommessione della politica governativa, la forza delle cose e le intrinseche repugnanze degli Stati europei non soccorrono ai nostri casi, vedremo probabilmente le armi italiane fatte strumento di collegate ambizioni a vantaggio dei due imperi che ci calpestano.

V'è (né vale il negarlo) un triste contrasto fra le tendenze del popolo italiano e l'attitudine del governo sì dentro che fuori. E questo contrasto è fonte di scoraggiamento, di dubbio, di discordie di parte. La unità di un grande partito nazionale più non esiste in Italia, né può. Esiste una profonda, maravigliosa unità morale ne' buoni istinti del popolo, e questa ci. salva. Mai partiti errano senza certo indirizzo, senza comune intento, per diverse vie, e finiscono nello scetticismo politico. Colpa di chi siede al timone dello Stato, senza, quella potenza assimilatrice, che nasce dall'intendere ed abbracciare nell’opera del governo il fine, il dovere, la missione di tutto un popolo. Né infrequente ed arbitrario frapporsi ad impedire l'esercizio pacifico de’ diritti politici, l'offendere la libertà di associazione e di riunione, la libertà individuale, la libertà della stampa, giova alla autorità de’ governanti, mentre nuoce alla educazione politica del paese. Sono errori di un falso sistema; razioni della effetti di una meschina politica, la quale, essendo inferiore alle aspinazioue, le teme e le perseguita come rimprovero e sindacato importuno. Sinché il governo italiano, dimenticando i voti solenni del popolare suffragio, trascurando il mandato della nazione e l'intento supremo dell’unità della patria, piegherà la fronte al beneplacito di un potere straniero, il quale, sotto pretesto di proteggere la indipendenza della Chiesa, mira in realtà a distruggere l'Italia, né chi regge avrà solido fondamento nella stima e nell’amore de’ popoli, né questi acquisteranno fede nelle proprie sorti e sicurtà nel proprio diritto. E la opposizione a questa politica da minorenni e da paggi diventerà più forte ogni giorno, avendo con sé la miglior parte della coscienza pubblica. L'Italia è tratta dalla necessità della sua esistenza e dal suo buon genio a più nobili ed alti portamenti; e quella forza morale, che sta sopra alla presunzione e agli arbitrii degl’imperatori e dei re, e mostra da 50 anni, nelle rivoluzioni europee, che poco valgono ad arrestarla gli eserciti più agguerriti, favorisce e fortifica la nostra causa contro 1' indecorosa tutela. La politica che afflisse questi primi tre anni del nostro risorgimento, riuscirebbe, se continuata, a disfare — non la nazione italiana, — che Dio creò a vivere e progredire — ma qualunque governo o partito che s'ostinasse a proseguirla malgrado i segni de’ tempi e la protesta della pubblica opinione.

Aurelio Saffi.


Pag. 206


NOTA AGLI ARTICOLI SULL'ITALIA MERIDIONALE

COMUNICATA ALLA DIREZIONE DEL DOVERE


Nel mio secondo articolo sull'Italia Meridionale (N.° 20 del Dorare) toccai di passaggio delle reazioni del 1860 e 61 nella Capitanata. Non era mio assunto, in que' rapidi cenni, fare menzione degli uomini- e delle cose per minuto e particolar modo, nè i limiti dello scritto me lo avrebbero permesso. Devo nondimeno riparare ad una omissione. Tra quelli che più efficacemente cooperarono ad abbattere lo feroci reazioni garganiche del (SO, meritano speciale ricordo, oltre le guardie nazionali e i patrioti indigeni, i cacciatori Veneti della Brigata Pelicela, comandata dal colonnello Liborio Romano, e fra gli ufficiali della medesima il capitano (indi maggiore) Francesco Calò, coadiuvato dai capitani Vincenzo 'l'ateo e Federico Priorelli (Vedi: Il Governo della Capitanata e le reazioni garganiche nel 1860 per P Avv. Michele Cesare Rebecchi. Cosi pure, alla repressione delle reazioni di Basilicata concorsero onorevolmente, per iniziativa delio stesso sig. Calò e dell' Avv. Nicola Quinto di Traili, parecchi drappelli di G. Nazionale della provincia di Bari. Non essendo stato mio proposito di scrivere storia, ma considerazioni generali sull'insieme de' fatti, m'occupai necessariamente de' resultati principali, più che de' nomi propri, sebbene molti fra questi meritino onorato lungo nelle memorie delle cose patrie.

Aurelio Saffi.



GENNAIO 2010 - Pubblicazioni - Articoli - Documenti













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