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Fonte:
https://www.rivistaindipendenza.org/ - QUESTIONANDO - GENNAIO/FEBBRAIO 2002

NEOBORBONICI, STATO SUDICO E COLONIALISMO INTERNO 

Sono un ricercatore universitario, vi leggo da un paio d'anni ed esprimo un giudizio molto positivo sulla vostra iniziativa editoriale, a parte il difetto di avere un prevalente punto di vista settentrionale.

Ciò che mi interessa maggiormente sono gli articoli di Zitara. Secondo me Indipendenza dovrebbe rivolgere più attenzione ai problemi del colonialismo interno italiano, mettendoli in relazione con i problemi del colonialismo nel mondo.

A titolo d'esempio: sarebbe interessante evidenziare lo sfruttamento petrolifero da rapina che si sta effettuando in Basilicata, con la connivenza delle forze politiche locali e nazionali. Ed in dispregio, a mio avviso, delle norme di tutela ambientale. In merito alla questione nazionale italiana, ritengo se ne possa parlare nei termini del riconoscimento delle differenti nazionalità, e della colonizzazione e sfruttamento del Sud (Due Sicilie) da parte del Nord (Roma inclusa). In sintesi, quindi, parlerei di "questione meridionale", di "colonizzazione interna" e di "razzismo diffuso nel nord verso il sud".

Idee ed attività di un movimento nazionalitario dovrebbero consistere nella divulgazione della vera Storia dell'Italia e nella messa in evidenza delle politiche "nazionali" pro-Nord.

Sono rimasto colpito, negli ultimi anni, dal fenomeno della globalizzazione, dalla mistificazione storica operata dalla Lega Nord e dalla nascita del Movimento Neoborbonico in Italia meridionale, a revisione dei miti e falsità della storia "nazionale".

Carmine (Potenza) 


Da tempo affrontiamo in termini di colonialismo interno la questione sudica, originatasi non in una presunta nazione 'altra' ed oppressa, ma in una parte della nazione italiana oggetto del saccheggio e dello sfruttamento perseguito, in questi 140 anni di storia, dalla politica di interessi capitalistici, anche tra loro conflittuali, rappresentati da questo Stato unitario.

Una valutazione sinteticamente per punti sul Risorgimento, sul suo significato ideale e sui suoi effetti reali soprattutto nel Sud, nonché su altre questioni che richiami, può essere utile almeno ad impostare una discussione di merito. 

1. Il Risorgimento non è solo  un periodo di "complotti", come  certa pubblicistica neoborbonica  sostiene. A prescindere dai suoi  esiti storici e da chi l'ha messo  'a profitto', esso testimonia  pure l'esistenza di un sentire  nazionale, preesistente alla formazione dello Stato, che legittimamente volle organizzarsi in  spazio politico e gestire il proprio destino. Ciò sta dentro l'aspirazione dei popoli – in ogni  epoca ed in ogni dove – al rifiuto  dell'oppressione e dell'occupazione del proprio territorio, in  qualsiasi forma si esplichino. Non è infatti con uno Stato che  va confusa una nazione. E poi,  perché il Sud dovrebbe respingere l'idea di nazione italiana,  quale si è formata attraverso  l'opera dei colti, anche meridionali, particolarmente a partire  dai primi secoli del secondo  millennio, e i diversi apporti  culturali interagenti da ogni  dove dell'Italia? 

2. Lo Stato proclamato nel  1861 rappresentò solo una  forma possibile di Stato, pur  troppo vincente, che soggiogò  una nazione e sancì la vittoria di  interessi particolari, e non popolari. Questa genesi particolare,  capitalistica, della formazione  dello Stato, non deterministicamente obbligata a durare per  sempre, non inficia l'esistenza e la legittimità della nazione italiana, ma impone una critica al percorso di formazione di questo Stato, egemonizzato dalla componente liberal-monarchica e svolgentesi nel quadro degli interessi egemonici di Inghilterra in primis e Francia in subordine. 

3. Altrettanto obbligata e  necessaria è la critica alla successiva azione statuale: l'essere  uno strumento dì classe per lo  sviluppo capitalistico. Lungi dal  rappresentare il compimento di  un processo di liberazione, la  nascita stessa del Regno d'Italia  determina per sua natura, sin da  subito, le condizioni di una  ancora irrisolta questione razionale, tanto per la sua dipendenza esterna, quanto per l'avvio  del saccheggio interno, che, con  intensità diversa, si snodano  nonostante i diversi assetti istituzionali di questo Stato  (monarchico a conduzione liberale e fascista prima, repubblicano a conduzione antifascista  dopo) sino ai giorni nostri. 

4. Il divario socio-economico  tra Nord e Sud non è dunque  ascrivibile alla nazione italiana,  bensì agli indirizzi politico-economici che furono vincenti nel  neonato Stato unitario e che  sono rimasti sostanzialmente gli  stessi, al di là dell'ascesa o  declino di specifici gruppi  imprenditorial-fmanziari o di  dati comparti produttivi. È bene  però precisare che dette politiche non hanno operato in favore  di un Nord genericamente considerato, quantunque in scia  certi interessi anche popolari  possano averne in qualche  modo beneficiato, ma al servi  zio di certi interessi privati, nel  quadro dei su accennati e più  complessivi interessi imperialistici (Inghilterra, Francia e successivamente Germania prima,   Usa adesso) nonché con l'appoggio subalterno degli ascari residenti al Sud. 

5. Indipendenza, per la sua ottica nazionalitaria italiana, non  intende esprimere né un punto  di vista settentrionale, né un  punto di vista meridionale,  bensì valorizzare le potenzialità  liberatorie proprie dell'idea di  nazione, che stridono radicalmente con una visione individualistica e capitalistica di ciò  che avviene sul territorio, nel  l'ecosistema e nelle relazioni tra  i suoi abitanti. Giacché la nazionalità italiana esiste ed in essa ci  riconosciamo, è evidente che di  questa ci occupiamo principalmente, considerati i nodi strutturali irrisolti e mai rimossi. È  partendo dal contesto di dipendenza odierno (filoamericanismo, neoliberismo, unitarismo  europeo) e dalle politiche perseguite dalle grandi oligarchie  imprenditorial-finanziarie e  dalla borghesia di Stato della  "provincia italiana", che si pos  sono meglio comprendere quali  effetti si riverberano anche al  Sud, e comunque sulla nazione  tutta, per attrezzarsi nel contrastarli – ed in prospettiva ribaltarli – in termini di liberazione  sociale anticapitalistica. 

6. Sul movimento neo-borbonico. Fermo restando la nostra  refrattarietà a qualunque logica  monarchica, va rilevato come  esso comprenda una miriade di  sigle, tra il discutibile e l'in  quietante, che lasciamo all'esplorazione 'virtuale' degli  eventuali interessati esaminare  con cura. Diciamo subito che  non ci convince affatto la tesi  della costituzione di uno Stato  indipendente nel Meridione: a  parte il criticabile rimpianto sul  "mancato decollo capitalistico",  non ne vengono argomentati  natura, indirizzi complessivi e  prospettive. Questa aspirazione,  che 'passa' come la panacea di  tutti i mali, realizzata la quale il  Sud miracolosamente "si risveglierebbe" e "libererebbe" le  sue energie a lungo compresse  dalla "dominazione italiana",  appare inoltre del tutto slegata  da un'analisi critica dei meccanismi di dipendenza indotti dal  dominio capitalista ed imperialista. Quel che si staglia è solo la nostalgia della dinastia borbonica, con tanto di regali polemiche sul legittimo successore deputato a rappresentarla.

7. Ciò detto, ben vengano rivisitazioni della storia patria che evidenzino come si sia dispiegata la prima fase storica del colonialismo interno ad opera dei Savoia e della politica capitalistica della Destra e della Sinistra storica, espressione di determinati e differenti interessi economici. Andrebbe però anche evidenziato come nel Nord andassero prendendo quota interessi capitalistici (paradigmatici quelli dell'industria serica principalmente lombardi), quantomeno indifferenti alla colonizzazione sudica, a dimostrare l'inesistenza -anche sul terreno capitalistico- di un generico Nord compattamente unito nello sfruttamento del Sud. Così come ben vengano anche lavori tesi ad accertare la presenza di nuclei di borghesia armatoriale, commerciale e industriale nel Sud preunitario, al fine di sfatare certi luoghi comuni sulla inettitudine dei meridionali a produrre alcunché, che non sia mafia o camorra. Ma la realtà del colonialismo interno non induca per questo ad idealizzare i Borbone. 

Questi non fecero altro che prendere coscienza dei cambiamenti intervenuti nell'antica società feudale e cercarono di governarli compatibilmente con il mantenimento del loro potere, che avvertivano lucidamente in pericolo. Fallirono. Ci si dovrebbe quindi chiedere come fu possibile il rapido crollo del più antico e più grande Stato in Italia. Spiegare la caduta del Regno delle Due Sicilie con gli interessi inglesi, la Massoneria, le ambizioni dei Savoia e della borghesia agraria e speculativa piemontese, che pur ci furono, non è sufficiente, come è fuorviante addossare la responsabilità interna alla pur presente corruzione di certi quadri militari e alti funzionari borbonici. 

Bisogna capire perché non si verificò una sollevazione di massa di fronte all'avanzata di Garibaldi, perché il cosiddetto "brigantaggio" scoppiò solo dopo la conquista piemontese, e non durante. Nelle opere di Capecelatro e Carlo, o del Demarco stesso, si avanza l'ipotesi che la conquista piemontese abbia trovato terreno fertile nelle contraddizioni scaturite dalla politica protezionistica borbonica, mirante ad uno sviluppo capitalistico al di fuori dell'egemonia di Inghilterra e Francia. 

Questa politica mirava   allo sviluppo dell'industria, prevalentemente nell'area del napoletano, e si andava realizzando col "sottosviluppo moderato" dell'agricoltura e della Sicilia. Senza contare la miseria nelle province interne e le condizioni del proletariato urbano, dei contadini e dei braccianti. Il fatto che questi ultimi fossero indifferenti all'ideale di nazione, non significa che fossero contro e del resto non furono nemmeno disposti a morire per la dinastia borbonica. 

Questa aveva cercato in tutti i modi di non inasprire le tensioni sociali, ma al momento dello sbarco dei Mille, venuti meno anche possibili appoggi militari esterni, si era trovata di fronte alla sollevazione della Sicilia, all'ostilità dei proprietari fondiari (in maggioranza libero-scambisti), all'indifferenza della borghesia industriale (che semmai mirava ad un assetto politico liberal-costituzionale) e alla posizione di attesa di gran parte del popolo, che sperava in un miglioramento della propria condizione sociale. Cosi falliva il progetto di sviluppo capitalistico dei Borbone, che, a giudicare dalle preme ;se di quel modello, avrebbe comunque comportato delle disuguaglianze e la molto probabile nascita di una questione meridionale all'interno del Sud stesso.  

IL MIO DISSENSO SUL RISORGIMENTO 

Cari amici di Indipendenza, ho portato con me qui in vacanza, nel paese d'origine, arbéresh (italo-albanese), di mio nonno, l'ultimo numero della rivista. Come al solito ci sono articoli molto interessanti, con visione critica della realtà, come per esempio quello su Israele e i Nuovi Storici, sui Tamil, sulla Corsica, sui Paesi Baschi.

Mi trovo d'accordo sulle analisi riportate, così come con le posizioni di Zitara nella seconda parte della sua intervista. Indipendenza riesce a rifuggire dai soliti luoghi comuni, dalla solita propaganda che vuole farci credere che i vari movimenti indipendentisti altro non sono che movimenti di pochi terroristi, se non proprio criminali, e comunque portatori di ideologie non compatibili con i tempi attuali.

Di questo ve ne sono grato, e penso sempre di più che ci sia proprio bisogno della vostra pubblicazione. Vengo però subito al dunque. Nell'articolo di Costanzo Preve, Per una credibile identità nazionalitaria italiana, al punto 5, si parla di "partecipazione popolare mazziniana e garibaldina".

Come si può intendere per "partecipazione popolare" quella delle truppe mercenarie garibaldine inviate dal Piemonte e per il Piemonte? Da quali documenti risulta questa "partecipazione popolare"?

Di quante persone si tratta? Si ricade nella mitologia dominante se non si prende in considerarne che una partecipazione popolare (intendendo con popolare quella della maggioranza, o comunque di una parte significativa della popolazione) si ebbe subito dopo l'invasione piemontese, ma nelle vesti del brigantaggio anti-colo-niale, unico vero movimento popolare (con tutti i suoi limiti, ovviamente) che si è visto in quel periodo.

Certo, alcuni (molto pochi in proporzione a quelli che poi combatterono contro gli invasori) di questi briganti (ma sarebbe giusto chiamarli partigiani, anche se so che la vulgata ufficiale preferisce farli passare per ignoranti assassini, alla Lombroso per intenderci) in un primo momento furono "garibaldini".

Non si può ignorare, poi, che le masse meridionali ben presto si resero conto che le promesse di Garibaldi (la riforma agraria, in primis) erano in realtà promesse "da marinaio". Realizzarono un aggravamento delle condizioni sociali e l'ulteriore riduzione dei pochi diritti che avevano sotto i Borbone, a vantaggio delle classi dominanti conquistatrici ed in ruolo subalterno delle varie componenti ascare meridionali. 

L'Unità d'Italia si è realizzata nella forma di un'aggressione colonialistica del Piemonte  a    appoggiata fortemente con vari mezzi (soldi, logistica militare,   ecc.) dall'Inghilterra, potenza imperialista di quei tempi, interessata ad indirizzare gli eventi in Italia in una maniera a lei favorevole.

E il Vittoriale, con il museo del Risorgimento ivi contenuto, non è forse un monumento all'asservimento di mezza Italia alle logiche di conquista di quei tempi?

O veramente si crede che il governo borbonico, cioè il governo di uno Stato indipendente e riconosciuto intemazionalmente, fosse la "negazione di Dio in terra"?

Suvvia, la propaganda esisteva, eccome, e già da allora. È noto, ad esempio, che le lettere di Gladstone sulle carceri napoletane sono un falso. E non dimentichiamo che la conquista del Sud fu solo la prima guerra coloniale dei Piemontesi (poi Italiani).

Contrariamente a ciò che dice un'altra "vulgata", in Africa l'Italia non c'è andata a costruire strade: se questo fosse stato il suo scopo, non ci sarebbe stato bisogno di inviare truppe. Insomma, come meridionale, le becere e semplicistiche posizioni di Ciampi non le posso proprio condividere (anche se le capisco, così come capisco a chi e a che cosa sono funzionali). Sulla Resistenza poi si potrebbe aprire un discorso a parte.

Ne condivido pienamente i valori antifascisti ed antinazisti, però, ancora una volta, si tratta di un mito fondatore che esclude il Sud. Ricordo inoltre come, dopo la Liberazione, si decise di usare i fondi del Piano Marshall: tutti al Nord, mentre poteva essere l'occasione storica per "fondare" finalmente lo Stato unitario.

Vi ringrazio e vi saluto cordialmente.

Cannine (Potenza)


L'interessante lettera di Cannine C. si presta a molte considerazioni, per le quali non vi è qui purtroppo lo spazio. Per brevità, mi limiterò a due ordini di rilievi, il primo di tipo storiografico, il secondo di tipo teorico. 

Sul piano storiografico, Cannine C. non ha torto quando osserva "che le cose, in particolare fra il 1860 ed il 1866, andarono proprio nel modo in cui le descrive, con tutto quel che ne è poi seguito. Ma io non mi riferivo a quegli eventi, sia pure decisivi, ma ad un giudizio globale sul Risorgimento italiano a partire dal 1815 e prima ancora sul giacobinismo patriottico 1796-1799. In questo giudizio globale non si possono dimenticare patrioti unitari meridionali come Carlo Pisacane. Più in generale, ogni connotazione globale del Risorgimento come "conquista piemontese", sui garibaldini come "mercenari", eccetera, mi sembra riduttiva ed anzi insostenibile.

È molto più sobrio limitarsi a dire ciò che peraltro da lungo tempo è noto, e cioè che alla fine i cavourriani ebbero purtroppo l'egemonia sui mazziniani e sui garibaldini, per le note carenze strategiche di questi ultimi.

Il resto, lo dico francamente, mi sembra "bossismo alla rovescia".  Sul piano teorico, Cannine C. è un lettore attento di questa rivista, e si è certamente accorto che essa sostiene una linea politico-culturale globalmente "nazionalitaria".

Ora, è molto facile essere naziona-litari parlando degli irlandesi, dei curdi, dei baschi, eccetera. E invece molto più difficile esserlo parlando degli "italiani". Bisogna dire francamente se si pensa che il popolo italiano può essere un soggetto legittimo di identità nazionalitaria oppure no.

Se non lo si pensa affatto, allora la logica conseguenza è che i soli soggetti legittimi di essa siano evanescenti e confusi contenitori classificatori, "i settentrionali" ed "i meridionali", con supposte identità nazionalitarie diverse e magari confliggenti.

Se qualcuno lo pensa, si accomodi pure, e continueremo a discutere pacatamente insieme. Ma io non lo penso, e colgo l'occasione della lettera di Cannine C. per dirlo chiaramente e senza equivoci. 
    








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