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Esula dal nostro stile pubblicare un articolo affiancandolo ad un contro articolo perché abbiamo grande stima degli amici e dei visitatori di questo sito. Qualche interrogativo, però, la conversione di Piperno intellettuale di punta degli anni settanta – fondatore insieme ad altri di potere operaio – accusato di fiancheggiare il terrorismo ce lo strappa e ve lo porgiamo così come ci viene.

Dove erano queste anime belle quando tanti giovani meridionali in divisa venivano falciati come servitori dello stato e a difenderli si ergevano solamente un grande scrittore friulano?

Che significa, oggi, dopo le ubriacature operaiste degli anni settanta santificare le piccole comunità meridionali come unico antidoto allo strapotere della globalizzazione?

Prima certi intellettuali nostrani hanno collaborato alla desertificazione culturale del popolo meridionale attraverso la venerazione della modernità ed ora vorrebbero organizzare trincee antimperialiste in quello che è diventato il disastro meridionale?

Noi riteniamo che il solco scavato dall’arrivo dei garibaldini fra il mondo contadino (legato alla monarchia per una serie di motivi che non stiamo qui ad analizzare) e le città (vicine alle correnti di pensiero più liberali e inclini al cambiamento, quindi antiborboniche) per noi fu deleterio e causò una sanguinosa guerra civile di cui paghiamo ancora le conseguenze.

Oggi non si tratta quindi di “recuperare il premoderno per difendersi dal moderno”, bensì semplicemente di colmare l’assenza del lavoro: nelle piccole e nelle grandi comunità esistenti nelle provincie napolitane.

Di Piperno riportiamo anche una intervista apparsa sul Manifesto del 14 agosto 2009:

Questione meridionale? Per salvarci toglieteci tutti i finanziamenti. Intervista a Franco Piperno di Eleonora Martini

Zenone di Elea – 26 febbraio 2011


Fonte:
https://informarexresistere.fr/

La retorica unitaria a 150 anni dalla conquista del sud

Franco Piperno

18/02/2011

 I).Le dimenticanze..

Ciò che più colpisce colui che osservi con attenzione la sagra celebrativa dell’unità nazionale, messa a parte la condizione di quasi-demenza senile di non pochi tra i più noti officianti, è la perdita di memoria, il velo di un oblio pubblico, condiviso, che ancor oggi, nella educazione sentimentale dei meridionali, copre pudicamente i massacri perpetrati nel corso della spedizione garibaldina; per non parlare della feroce repressione che, a partire dalle “regole d’ingaggio” impartite a bersaglieri e artiglieri piemontesi dalla legge speciale Pica, ha segnato, nella parte continentale del Regno di Napoli e per gli anni immediatamente successivi alla conquista, la costruzione, a tappe forzate, della macchina statale italo-sabauda.

Per argomentare con un episodio, si pensi che, qualche mese fa, una miriade sperduta di intellettuali meridionali, progressisti e antagonisti ad un tempo, ha avuto l’idea patetica di riunirsi a Teano per commemorare l’incontro tra il re savoiardo Vittorio Emanuele ed il nizzardo mazziniano Giuseppe Garibaldi; proprio quell’incontro che, sancendo l’emarginazione della vita civile del Mezzogiorno, fonda simbolicamente il nuovo stato su una operazione apertamente trasformistica — trasformismo che, come un vizio d’origine, farà nido nel costume etico-politico nazionale per arrivare intatto fino ai nostri giorni.

Riesce difficile vedere cosa ci sia che meriti d’essere festeggiato, per la sentimentalità meridionale, nell’incontro di Teano; tanto più se ci si ricorda che, a Pontelandolfo, centro contadino dell’osso sannitico, a pochi kilometri da quel luogo, l’anno successivo al fatale incontro, dopo aver costretto gli abitanti a stare nelle proprie case, i liberatori dell’esercito italiano diedero alle fiamme l’antico borgo; in quel rogo, narrano le cronache, perirono centinaia e centinaia di abitanti; e tra essi, come suol dirsi, vecchi, donne e bambini. Giova rammentare che la strage di Pontelandolfo è solo l’inizio e non resterà l’unica; una lunga sequela di indiscriminate punizioni collettive, gestite dai militari al di fuori di ogni prassi giudiziaria, cadenzerà, per quasi un decennio, la guerra per espugnare, ad una ad una, le città rurali del Meridione continentale. Alla fine, per dirla in cifre, centomila circa saranno i meridionali colpiti, tra morti in battaglia, fucilati, feriti gravemente o inviati all’ergastolo nelle prigioni piemontesi; mentre le perdite del regio esercito ammonteranno a poco più di settemila.

Se le cose stanno così, v’è, forse, del masochismo nella attitudine a genuflettersi davanti alle oleografie risorgimentali da parte della intellettualità meridionale – una sorta d’inconsapevole compiacimento per aver perso la sovranità delle proprie città, per essere stati conquistati da bergamaschi e padani.

Quel che è certo è che siamo qui in presenza di una rimozione fabbricata iterativamente dalla nazionalizzazione della cultura e della scuola; e affiora, nel senso comune, alla stregua di una amnesia socialmente condivisa, una sorta di incapacità a situarsi in comunanza nel corso della storia. La millenaria esperienza delle città meridiane dorme insignificante nella coscienza collettiva; come quei ruderi sbrecciati che appaiono inaspettati nella spettrale periferia di quella che pure è stata l’antica Krotone.

Per la verità, qui non si tratta solo d’insignificanza del passato ma piuttosto del suo assurgere a simbolo di ciò da cui bisogna quasi rifuggire lontano, quasi fosse esso la causa di quell’aura malefica che avvolge la vita quotidiana delle comunità urbane nel Mezzogiorno d’Italia.

E questo non a caso, perché si sa che l’esperienza per essere ricondotta ad unità e quindi trapassare a principio d’individuazione, deve essere raccontata come una appartenenza comune—senza quel comune racconto, la soggettività urbana perde la sua potenza, e l’appartenenza si risolve in mera contingenza.

Sembra a noi che la perdita di memoria spieghi bene, in prima approssimazione, l’insolita situazione venutasi a creare, con l’unificazione della penisola italiana; che ha visto il Mezzogiorno incapace d’iniziativa comune, sottoposto a tanti mutamenti, economico-politici ed etico-politici, sempre elaborati altrove, luogo di rivoluzioni passive nate al di fuori ed imposte con la violenza della legge.

II).Le rivoluzioni passive del Mezzogiorno.

Vediamole brevemente. La grande emigrazione meridionale verso le Americhe, vero e proprio esodo di dimensioni bibliche avvenuto a partire dagli anni settanta del XIX secolo, è la diretta conseguenza delle misure giacobino-massoniche attuate dal governo sabaudo nei decenni successivi alla spedizione di mille. Si va dalla confisca dell’oro alle banche meridionali per ripagare gli istituti di credito piemontesi dei capitali investiti nelle imprese di conquista—confisca destinata ad amplificare esponenzialmente la pratica dell’usura e a smantellare crudelmente i precoci e tecnicamente avanzati episodi d’industrializzazione; si passa poi alla introduzione della leva militare pluriennale che sorprende e sconvolge la famiglia contadina; alla introduzione di una tassazione esosa che grava perfino sull’auto produzione per il consumo alimentare; alla abolizione della “universitas”, questa esplosione di senso giuridico inventata nel Medioevo, che assicurava, ad un tempo, nella forma degli “usi civici”,vuoi la sopravvivenza alimentare vuoi la gestione collettiva dei cicli agropastorali e la cura del paesaggio; alla guerra doganale con la Francia che provoca una irreversibile rattrappimento della produzione e delle esportazioni agricole del Sud; per finire con il primo conflitto mondiale, voluto dalla grande borghesia lombarda, barattato come quarta guerra d’indipendenza, e alimentato dalle vite di centinaia di migliaia di contadini meridionali, stupefatti e senza lingua, costretti a divenire italiani in quella bolgia dantesca che furono le trincee.

Poi, ancora il fascismo, fenomeno padano quanti altri mai; e, l’italianizzazione delle colonie con il trasferimento-deportazione delle popolazioni meridionali in Libia ed in Etiopia; e poi, di nuovo, la guerra, la seconda guerra mondiale, dove l’impiego della tecno-scienza ha comportato che le stesse città del Sud facessero parte, per la prima volta e direttamente, del campo di battaglia; e come coda di quel massacro, la lunga sconfitta, l’occupazione umiliante del territorio da parte di eserciti stranieri, fossero tedeschi o americani o inglesi o francesi d’oltremare..

In seguito,come non bastasse, ecco venire a maturazione il frutto più velenoso e duraturo del fascismo, l’antifascismo, appunto; nato, non a caso, come vento del Nord. La Costituzione repubblicana suggellerà l’egemonia dei produttori, ovvero degli interessi e delle consuetudini dei padroni e degli operai del Nord; mentre il fenomeno meridionale dell’occupazione delle terre, ultimo gesto autentico della civiltà contadina,con le passioni e le abitudini che esso rivela, non troverà alcun posto negli articoli della Carta; che anzi, ad una prima lettura, pare scritta addirittura contro la riappropriazione contadina della terra.

Nel dopoguerra, l’abolizione, da parte della neo nata Corte costituzionale, dello “imponibile di mano d’opera” cancellerà di un sol tratto le pur timide misure repubblicane di sostegno alla agricoltura del Sud; innescando, così, una nuova ondata migratoria, questa volta diretta soprattutto verso il Nord. Una intera generazione di meridionali andrà via per ricostruire le città industriali del Piemonte, della Lombardia come della Baviera e della Renania. Tutti gli avvenimenti che si svolgeranno in quegli anni – il decollo capitalistico, la programmazione economica ovvero le grandi opere pubbliche, il “68, la piccola guerra civile volgarmente nota come terrorismo, tangentopoli, la speculazione finanziaria, l’integrazione nel mercato europeo, le privatizzazione degli istituti pubblici con la conseguente scomparsa per la seconda volta delle banche meridionali, la globalizzazione cioè l’unificazione del mercato mondiale, il federalismo secessionista—tutto questo, anche quando coinvolgerà la vita quotidiana meridionale, sarà nato al Nord secondo le dinamiche ed i conflitti sociali di quei luoghi, senza tener in alcun conto, se non in termini assistenziali, delle risorse, degli interessi e delle potenzialità della civiltà meridionale.

Tocca riconoscere, in questi mesi di celebrazioni risorgimentali, non senza un certo raccapriccio, che perfino i lampi di memoria che illuminano per squarci la ferocia con la quale fu condotta la conquista del Sud, vengono non già dalle università o dagli studiosi meridionali, ma dagli intellettuali leghisti; insomma, è la voce di Borghesio che sollecita la nostra memoria perduta.

Certo, c’è del paradossale in questo arco temporale di un secolo e mezzo che ha visto un prima durante il quale i padani hanno imposto, a mano armata, l’annessione del Mezzogiorno; ed un poi per il quale proprio i pronipoti di quei bergamaschi si apprestano, a colpi di decreti del governo centrale, a separare ciò che prima avevano unito.

III). Recuperare il premoderno per difendersi dal moderno..

L’ emarginazione della vita civile meridionale non va imputata a qualche fatalità economica, fosse la penuria di investimenti privati o le gravi inadempienze della mano pubblica nell’assicurare adeguate infrastrutture. Piuttosto, essa è interamente addebitabile alla perdita di autonomia, culturale e politica, delle città: investite dalla modernizzazione forzata condotta dallo stato centrale e incapaci di farvi fronte, si sono rifugiate in una sorda passività, ripudiando la loro stessa potenza, rinunciando alla dimensione della soggettività agente, per limitarsi a praticare ossessivamente la rivendicazione, rancorosa e plebea, che si affida al futuro migliore ovvero all’attesa di risorse monetarie crescenti.

Così, dileguatasi la sovranità energetica e poi anche quella alimentare, ostruito il rapporto secolare città-campagna, si è venuta creando una ideologia della rendita, un tratto psicologico servile della personalità meridionale che rifugge il rischio e la umana, troppo umana precarietà; pratica la rappresentanza come rete clientelare; e briga, barattando il consenso elettorale, ad integrarsi nelle strutture pubbliche, massimamente in quelle dello stato centrale, quasi che la garanzia di reddito monetario fosse una rivalsa sociale per la libertà perduta.

Non è quindi per nulla sorprendente che i meridionali affollino il pubblico impiego; ed i loro rappresentanti, divenuti mediatori dei flussi finanziari, militino unanimi a favore della permanenza ed estensione dello stato centrale. Come nella favola filosofica, abbiamo qui un caso nel quale il servo si è impossessato del corpo del padrone.

Oggi che, per una molteplicità di motivi impossibili da elencare per esteso, questa sorda e passiva resistenza di massa alla modernizzazione è giunta a saturazione, occorre un primo gesto che rimescoli le carte ed apra un processo di risarcimento delle autonomie dei luoghi libertà, giacché si è liberi solo se la città è libera; questo primo gesto ci sembra possa essere uno sforzo di pensiero che inietti nel senso comune la consapevolezza che la condizione di malavita nella quale versa il Meridione non è responsabilità dell’ Italia e men che mai dell’Europa ma è opera dei meridionali stessi.

Tradotta in termini dell’agire politico, questa acquisizione comporta automaticamente il rifiuto del finanziamento modernizzatore e la riscoperta, nelle risorse locali, della ricchezza comune; per immediatamente dopo individuare i nemici più pericolosi, quelli interni, alla maniera di qanto accade nelle guerre civili; e circondare, quindi, d’odio sociale i professionisti della politica, quasi costituissero una specie di ceto parassitario e vile, ai quali chiedere conto personalmente delle responsabilità assunte, confiscando loro il patrimonio accumulato, ove fosse ingente ed acquisito grazie al ruolo rappresentativo svolto.

Come si vede, siamo ben lontani dal partito unico del Sud, questa proposta che somiglia ad un serpente che si morda la coda, un modo di aggravare ulteriormente la sofferenza alla quale in principio si vorrebbe porre riparo.

E ancor più lontani, pressoché agli antipodi, ci collochiamo dagli ipocriti ideologi della legalità, che scambiano le cause con gli effetti; e non si accorgono che le diverse comunità criminali meridionali sono potenti non in quanto, come fan tutte,banalmente organizzate bensì perché socialmente radicate, e in grado di costruire il consenso con gli stessi metodi con i quali il ceto dei rappresentanti costruisce il suo. E la differenza, che pure persiste, è tutta a favore dei criminali: non solo, dirò così, sul piano dell’onore inteso come stima sociale, giacché questi ultimi infrangono la legge mentre i politici delinquono protetti dalla legge; ma soprattutto essi, i membri delle comunità criminali, sanno cooperare e si mostrano capaci, dopo una fase di rapina dove il rischio è volto a realizzare l’accumulazione primitiva, di iniziative imprenditoriali assai più intelligenti ed efficaci di quanto accada per le clientele politiche.

Infatti, per dirla in breve, mentre la criminalità socialmente radicata tende a divenire, secondo le migliori tradizioni, borghesia imprenditrice, il ceto politico che vive di rappresentanza desidera semplicemente arricchirsi, e si acquieta pigramente nel suo potere di arbitro della condizione pubblicana.

IV). Cambiare il cambiamento: l’esodo semantico e la confederazione delle cinquanta città meridiane.

V’è nel Sud , come sentimento condiviso, un diffuso auto disprezzo per la cooperazione sociale, per l’agire collettivo— disistima di sé che costituisce il vero ostacolo alla rinascita. Non ci si libererà da questa passione triste attraverso l’ingegneria costituzionale; e neppure tramite soluzioni populistiche che deleghino la questione all’incerto carisma di qualche nuovissimo rinnovatore. Lo stato delle cose non è drammatico ma tragico, nel senso che solo una rottura profonda del senso comune può autorizzare la messa in atto di quel desiderio di accettare i propri limiti, di realizzarsi menando semplicemente una buona vita — potenzialità presente da sempre, sia pure allo stato di latenza, nella mentalità meridiana.

Qui davvero può dirsi che la grande trasformazione è prima di tutto una trasformazione interiore: il suddito del Mezzogiorno per divenire cittadino libero deve compiere un esodo semantico, una dolorosa separazione da parole- chiave che gli sono familiari, malgrado risultino desolate e vuote di significato.

Come procedere collettivamente alla trasformazione interiore, si sa, non è possibile apprenderlo a scuola; né è compito che possa essere portato a termine con la persuasione o il consenso elettorale. Occorrono gesti la cui potenza simbolica sia in diretta proporzionale alla violenza sociale che minacciano o alla quale alludono. Giacché, oggi come ieri, niente comunica più verità che la determinazione a conseguire una esistenza piena mettendo a rischio il proprio corpo,fosse la libertà o la stessa vita.

Ed è giusto questa considerazione che ci fa guardare con fiducia alla forma d’insurrezione urbana che ha via via assunto, da quasi un decennio, il conflitto sociale nel Meridione d’Italia. Da Scansano passando per Cosenza e poi Scilla per giungere a Terzigno,un lungo ciclo d’ insorgenze cittadine si è venuto svolgendo attorno alla cura e alla difesa dei luoghi. Queste insorgenze sono le imprese collettive attraverso le quali si forma una nuova leva di cittadini attivi,determinati a risolvere i problemi contando sulle proprie forze, mettendo in campo quella formidabile energia che sola la pratica dell’autogoverno è in grado d’accendere..

A fronte delle masse insorgenti, come è già accaduto più volte nella storia delle città rurali, lo stato si mostra tanto incapace di mediazione quanto di repressione—e questa impotenza contribuisce grandemente alla sua delegittimazione nell’opinione comune. Anche la rappresentanza locale, a qualsiasi partito appartenga, perde ogni capacità d’iniziativa; e o si adegua, obbediente, alle ragioni degli insorti o scompare, in un batter di ciglia.

Infine, per ultimo ma non ultimo, le insorgenze urbane riscoprono spontaneamente le antiche forme istituzionali della democrazia, quella vera, diretta; e le contrappongono frontalmente a quelle proprie alla rappresentanza. Ecco allora, come per incanto, riapparire l’assemblea urbana dove ogni cittadino può prendere pubblicamente la parola; circostanza che la rende luogo adeguato, oggi come due millenni fa’, all’esercizio della sovranità indivisa e totale. Inoltre, per coordinare le assemblee e potenziare la cooperazione, non vi sono più rappresentanti a decidere per conto ed in nome dei rappresentati; al loro posto, secondo la tradizione consiliare, appaiono i “delegati” con mandato imperativo e continuamente revocabile. Insomma,giova ripeterlo, si tratta di esperienze attuali , postmoderne e perfino raffinate della antichissima pratica della democrazia diretta.

Certo, è presto, troppo presto per dire se queste esperienze convergeranno in una grande trasformazione capace di assicurare la rinascita del Meridione. Ma certo è che per la prima volta, dopo tanto tempo, si presenta come praticabile un processo che punta al ridimensionamento dello stato centrale a favore delle città, secondo lo slogan ciromista: il potere alle città, la potenza ai cittadini. Così, sembra nascere dal Mezzogiorno una proposta politica che appare riproponibile anche per il centro-nord del nostro paese, secondo l’intuizione del Cattaneo; una proposta che rifiuta il burocratico federalismo regionale, per puntare dritto su la “confederazione delle cento città”, forma finalmente adeguata alla civiltà complessa delle nazioni italiane.

FONTE: Loop in edicola da venerdì 18 Febbraio






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