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Fonte:
https://www.fiscooggi.it/

Frodi carosello, buona fede del tutto irrilevante

Domenico Bitonti

04/12/2007

I giudici confermano quello che sembra, in sede tributaria, un orientamento oramai consolidato

Nell'ambito delle "frodi carosello", il secondo cessionario non può eccepire la propria buona fede. E' il principio ispiratore della a sentenza n. 22555 della Cassazione. Sentenza, del 26 ottobre scorso, con cui la Corte consolida il proprio orientamento in tema di operazioni soggettivamente inesistenti.

Il meccanismo normalmente praticato con le "frodi carosello", che ordinariamente arricchiscono i soggetti coinvolti (consapevolmente o inconsapevolmente) nell'ambito di cessioni intracomunitarie e derivate, è ormai ben noto (seppur dispiegato nelle sue varianti) e si fonda essenzialmente sul mancato versamento dell'Iva incassata da società cartiere a seguito di acquisti intracomunitari e successive rivendite a operatori nazionali, direttamente a questi ultimi ovvero, nei modelli più complessi, attraverso l'interposizione di una o più società "filtro" (buffer).

Il mancato versamento dell'Iva da parte delle società cartiere fornisce loro la possibilità di praticare prezzi di vendita inferiori a quelli mediamente praticati sul mercato (con grave danno non solo per l'Erario ma anche per la concorrenza).

Ad esempio, la "cartiera" acquista dei prodotti dalla Francia al prezzo di 100 (acquisto intracomunitario esente dall'applicazione di Iva). Il fatto che, al momento della rivendita (di solito contestuale all'acquisto), non verserà l'Iva incassata dal cliente, comporta la possibilità di praticare un prezzo (ad esempio, 90) addirittura inferiore a quello di acquisto, ravvisato che la differenza di prezzo (100 - 90 = 10) verrà abbondantemente recuperata con l'imposta non versata (18), applicata sul prezzo di acquisto (90 + 18 = 108).

Seppur tali operazioni sembrino avvantaggiare esclusivamente la società cartiera, in realtà esse sono sovente organizzate dagli stessi effettivi destinatari della merce, i quali, tramite la semplice costituzione di una (o più) società (intestata a un prestanome e priva di organizzazione alcuna) e predisposizione ad hoc di documentazione che attesti l'effettivo acquisto della merce e il suo pagamento(1), possono detrarre l'Iva solo apparentemente versata al momento dell'acquisto, con l'effetto di acquistare la merce a un prezzo ancora più basso(2).

La predisposizione formale della documentazione e l'effettività dell'operazione rendono assai arduo il compito dell'Amministrazione finanziaria, impegnata a recuperare l'Iva illegittimamente detratta da parte dei soggetti destinatari, i quali ordinariamente eccepiscono la loro estraneità all'operazione e la mancanza di intenti fraudolenti, ben consci delle gravi difficoltà cui incorre la prima nel dover fornire una prova contraria in tal senso.

Sul punto, si è tuttavia ormai consolidato l'indirizzo giurisprudenziale circa l'irrilevanza dell'elemento psicologico (e quindi della buona fede) del soggetto destinatario della merce.

In questo senso è la sentenza della Suprema corte, n. 22555 del 26 ottobre 2007, che ha cassato una sentenza della Ctr Lombardia, con la quale era stato accolto l'appello della società, fondato esclusivamente sulla effettività dell'operazione e sulla considerazione che le violazioni tributarie commesse dalla società cartiera (mancato versamento) non potevano ricadere sulla società acquirente.

I giudici, in particolare, hanno focalizzato l'attenzione su due principi che, secondo la stessa, costituiscono ormai jus receptum:

   1. "in presenza di operazioni inesistenti - da riferire non soltanto all'ipotesi di mancanza assoluta dell'operazione fatturata, ma anche ad ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, ivi compresa l'ipotesi di inesistenza soggettiva, nella quale, pur risultando i beni entrati nella disponibilità patrimoniale dell'impresa utilizzatrice delle fatture, venga accertato che uno o entrambi i soggetti siano falsi (Cass. N. 6378/2006, n. 5719/2007) - non si realizza l'ordinario presupposto impositivo né la configurabilità stessa di un "pagamento a titolo di rivalsa", né i presupposti del diritto alla detrazione di cui all'art. 19, comma 1, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, come è confermato anche dal combinato disposto dei successivi artt. 21, comma 7, e 26, comma 3, dello stesso decreto del Presidente della Repubblica (Cass. 22882/2006)"

   2. "se l'Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l'indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni deve essere fornita dal contribuente mediante l'esibizione dei documenti contabili legittimanti, i quali non possono provenire da un soggetto inesistente (Cass. N. 1727/2007, n. 1950/2007, n. 1569/2007, n. 6341/2002, n. 13605/2003); in mancanza di tale prova legittimante l'Ufficio procede a recuperare l'imposta detratta (Cass. 13662/2001)".

Con la prima considerazione, la Corte ha equiparato le operazioni "soggettivamente" inesistenti a quelle "oggettivamente" inesistenti; non viene dunque a crearsi il "presupposto impositivo". Da ciò deriva che il pagamento effettuato dal secondo cessionario nei confronti della società cartiera non può ritenersi imposta pagata a titolo di rivalsa, con conseguente impossibilità di fruire della relativa detrazione.

Con la seconda, invece, i giudici hanno ulteriormente precisato che i documenti provenienti da una cartiera, in quanto soggetto inesistente, non costituiscono "documenti contabili legittimanti" e, pertanto, sono assolutamente irrilevanti ai fini della prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni.

Conseguenza inevitabile della giurisprudenza esaminata è, dunque, l'accollo in capo alla società che intrattiene rapporti commerciali con la cartiera del rischio di un eventuale comportamento fraudolento da parte di quest'ultima, con la conseguente impossibilità di portare in detrazione le somme versate a titolo di Iva.

Pertanto, qualora l'Amministrazione finanziaria dimostri l'inesistenza della società italiana cedente (cartiera), il contribuente non potrà più eccepire la propria buona fede: lo stato soggettivo può avere ancora qualche rilevanza in sede penale, ma in sede tributaria ha ben poca valenza giuridica(3).

NOTE:

1) In questo senso è già emerso le scetticismo della Corte di cassazione nei confronti di tali documenti probatori esibiti a giustificazione della effettività dell'operazione e dell'estraneità del destinatario, evidenziando che "la produzione degli assegni bancari non aggiunge nulla al quadro probatorio ed ha la stessa efficacia probatoria della emissione della fattura. Se questa di per sé non prova la effettività dell'operazione sottostante, non può ritenersi che tale prova venga raggiunta con la produzione dei mezzi di pagamento utilizzati. La prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni IVA deve essere fornita dal contribuente. Tale prova, però, non può essere costituita dalla sola esibizione dei mezzi di pagamento, che normalmente vengono utilizzati fittiziamente, per dare corpo apparente ad una transazione inesistente. Si tratta di un mero elemento indiziario, la cui presenza (o assenza) deve essere letta nel contesto di tutte le altre risultanze processuali"(sentenza n. 15228 del 3 dicembre 2001).

2) Tornando all'esempio di sopra, dal prezzo di 100 della merce, l'effettivo destinatario potrà scomputare l'Iva illegittimamente portata in detrazione (20), per cui il prezzo finale della merce sarà 80.

3) Del resto, come aveva già precisato la Cassazione con la sentenza del 5 giugno 2003, n. 8959, "l'elemento soggettivo della conoscenza della circostanza relativa alla illegalità o illiceità degli accordi esistenti tra le società variamente interessate alle vendite non viene in rilievo agli effetti del rapporto tributario".








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