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RIVISTA CONTEMPORANEA

FILOSOFIA — STORIA — SCIENZE — LETTERATURA POESIA — ROMANZI — VIAGGI CRITICA — ARCHEOLOGIA — BELLE ARTI


VOLUME DUODECIMO

ANNO SESTO

TORINO,

TIPOGRAFIA ECONOMICA DIRETTA DA BARERA

Via della Posta n. 1,

1858.

(se vuoi, puoi scaricare il testo in formato ODT o PDF)


LETTERE MENSUALI

SULLE

PRESENTI CONDIZIONI ECONOMICHE, LETTERARIE
ED ARTISTICHE

DEL REGNO DELLE DUE SICILIE


LETTERA PRIMA

Al Direttore della Rivista Contemporanea


Proficuo, nobile ed eccellente pensiero fu il vostro, egregio signore, nel volere le notizie più sode, più fruttuose ed esatte intorno agli uomini e alle cose di questo regno nella triplice ripartizione della scienza, delle lettere e delle arti; e sol mi reca maraviglia che ciò non siasi praticato fin dalla fondazione e pubblicazione della Rivista; forse cosi si sarebbero evitati gl'infiniti errori banditi per tutta Europa da penne straniere intorno agli uomini ed alle cose nostrali in questi ultimi anni. E per vero dire ignorato o poco conosciuto è questo regno, che forma la più bella e più gran parte d'Italia, e da ciò gli errori;

(*) La Direzione detta Rivista ha già stabiliti collaboratori anche nelle altre Provincie d'Italia, i quali invieranno mensilmente corrispondenze sul movimento contemporaneo economico letterario ed artistico di tutta la Penisola.


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onde la farragine degli scritti stranieri pubblicati sinora su le cose nostre rivela noi loro autori una certa somiglianza con quei cotali uomini di cui parla il nostro maggior poeta, i quali vivono secondo senso e non secondo ragione, a guisa di pargoli; e questi cotali non conoscono le cose se non semplicemente di fuori. Tosto sono vaghi e tosto sono seri; spesso sono lieti e spesso sono tristi di brevi dilettazioni e tristizie; e tosto amici e tosto nemici: ogni cosa fanno come pargoli senza uso di ragione (1).
La Rivista Contemporanea pel credito e la bella fama che con giustizia gode cosi in Italia che fuori; ella che si onora dei nomi più chiari ed onorevoli della Penisola, i quali arricchiscono di scritti peregrini e fruttuosi le sue pagine, potrà senza dubbio concorrere al nobile ufficio di chiarire il vero in ordine alle cose di questo regno, e forse con utilità de' suoi leggitori. Gli scritti estemporanei come quelli dei fogli volanti sono costretti ad esprimere la sembianza anziché la sostanza delle cose, il senso volgare anziché il senso retto, le fantasie, i desiderii, le preoccupazioni, in breve la facoltà sensitiva di un popolo, anziché la razionale. E forse per questo il divino Giacomo Leopardi li derideva, il severo Vittorio Alfieri chiamava l'opera loro una rispettabile arte che biasima e loda con eguale discernimento, equità e dottrina (2), e Vincenzo Gioberti, e Cesare Cantù, ed altri valentuomini vorrebbero che la cosi detta letteratura folliculare interamente sparisse d'Italia, sostituendovi i libri e le pubblicazioni periodiche, sode, fruttuose ed eccellenti. Il loro desiderio, comune a tutti gli eccellenti scrittori, è in parte soddisfatto; perciocché si numerano già in Italia parecchie pubblicazioni periodiche pregievolissime, tra le quali primeggia la Rivista, e non pochi fogli volanti, che per la sodezza delle scritture e la qualità dei loro collaboratori riescono veramente degni di considerazione.
Per tutte siffatte ragioni accetto ben volontieri il vostro onorevole invito, e faccio lode al vostro divisamente, tanto più che noi Italiani abbiamo bisogno di rinfrescare la savia e prudente condotta degli antichi Romani, i quali serbavano il loro odio e il loro risentimento per gl'inimici, e non sapevano contendere che di gloria e di virtù coi loro concittadini: jurgia, discordia, simultates cum hostibus exerceòant: cives cum civibus de virtute pugnabant (1).
Io vi parlerò dunque di mano in mano delle cose agrarie, pastorali industriali e commerciali dell'una e dell'altra Sicilia; delle opere pubbliche,

(1) Dante, Conv., I. 4.
(2) Vita, IV, 10.
(3) Sallustio, Catil., c. IX.

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delle vie di comunicazione aggrandite e migliorate, e del pensiero economico che ha influito gradatamente al loro immegliamento. Mostrerò eziandio le vere condizioni letterarie ed artistiche del Regno, non desunte dai libercoli, dalle strenne e dagli scritti estemporanei de' fogli volanti, ma dalle scrittore ponderate de' sapienti e degli ottimi ingegni. E di questi ve ne ha dovizia ancora in tutti i rami; ma in quanto al mio assunto mi restringerò a parlare dei soli valentuomini, le cui opere hanno più intima e stretta relazione con le materie ohe dovrò trattare. E nel far questo non obblierò quel Giano della Bella, che, secondo scrive il Compagni, con animo grande e virilità di proposito, difendeva quelle cose che altri: abbandonava, e parlava quello che altri taceva, e tutto in favore della giustizia (1). Onde seguirò più la sostanza che l'apparenza delle cose; perciocché non v'ha uomo più facile ad ingannarsi quanto colui che nel formare i giudizi si governa dall'apparenza. In breve imiterò, per quanto mi sarà dato, la virtù dei nostri antichi padri, i quali con sano consiglio e somma prudenza tenevano conio delle forte e non delle vanità (2). In tal guisa verranno giustificati dell'equivoco nome di oziosi gl'ingegni dell'una e dell'altra Sicilia, e lo scamberanno in quello più vero e più giusto di operosi, gentili e prudenti; né si avrà più a dir di noi inconsideratamente, come il buon Perticari esclamava, quella lode simile all'oltraggio, che questa cioè è la terra delle ricordanze.
Quello che più necessita agli Italiani è la carità patria, perché senza di essa inni si potrà mai fare il bene. Quand'anche un uomo parlasse il linguaggio degli angeli, se non ha carità, sarà come un bronzo che suona e un cembalo squillante. E quando pure ei fosse protesa e intendesse tutt'i misteri e tutto lo scibile, s'avesse tutta la fede in modo da traslocare i monti, se non ha carità, ci sarà un bel nulla (3). La carità sola, e non le ire, gli sdegni, le maldicenze e l'odio potrà farci valutare gli uomini con sennatezza, cosi nel procedere loro che nelle azioni; facci meglio considerare i tempi e giudicare le cose; onde per diverse vie a noi verrà quella lode medesima che il Lasca faceva a Lorenzo de' Medici, dicendo che questi non cominciava impresa, che Moti finiva e non mai faceva disegno che non colorisse; cosicchè egli era il diavolo l'aver a fare con un uomo che sapeva, poteva e. volea (4).
Con questi principii, e da servire come prefazione alle cose che dirò Mi seguito, io incomincio il mio assunto.

(1) Cronic, 1.
(2) Tacito, Ann, XV, 31.
(3) I, Cor. XIII, 1, 2.
(4) Cene. III, 10.

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Se uno scrittore,.schivando la miseria del presente, si ricovrasse nelle gloriose memorie del passato per mostrare che i suoi concittadini sono eredi di glorie immortali, farebbe opera sterile e dannosa ad un tempo, perché non può giammai abbellirsi la nullità del presente con la luce d'un tempo che fu. Le rovine e le tombe son sempre tali anche sotto un cielo di smeraldo e un sole splendidissimo. Ma ricordando io d'essere stata questa parte continentale del regno la culla della scienza economica, e d'aver dato i natali ad Antonio Serra, a Carlantonio Broggia, a Giandonato Turbolo, all'abate Galiani, ad Antonio Genovesi, a Giuseppe Palmieri, a Gaetano Filangieri, a Melchiorre Delfico e infiniti altri che elevarono a scienza l'economia, dirò cosa che grandemente onora i viventi economici napolitani, i quali accolsero come legato officioso la gran parola de' loro padri immortali, e fanno ogni sforzo per conservare ed aggrandire l'avito patrimonio d'una scienza che a buon diritto può e debbe dirsi la benefattrice dell'umanità.
Rapiti all'amor della patria e della scienza il Monticelli, il Burini, il Mele, il De Augustinis, l'Afan de Rivera, il Moreno, l'Arcidiacono Cagnazzi, Mauro Luigi Rotondo, e tutti in brevissimo tempo; sopraggiunti i più gravi evenimenti a distrarre gli spiriti, parea che le sorti future della scienza economica appo noi dovessero patir danni certi e molti. Ma la Provvidenza ci serbava il Ceva Grimaldi, il duca ili Ventignano, il Savarese, il Blanch, il Manna, il De Luca, e segnatamente il Bianchini, che dal 1824 fin oggi non ha cessato un solo istante di lavorare intorno ad opere difficili, faticose con grande onore di sè e del paese che gli diede la cuna.
Costoro non avranno successori, si diceva dai molti: ed ecco in men di due lustri sorgere una schiera di giovani animosi, e sperdere il triste vaticinio; giovani tratti per naturale e spontanea inclinazione allo studio delle teorie economiche, senza che avessero ricevuto incitamento da chicchessia, e parecchi anche precettori. Ed è notevole eziandio l'uso delle teorie ch'eglino han saputo fare, cogliendo le occasioni più propizie per applicarle utilmente alle cose più rilevanti. Dico l'uso delle teorie, perché in ciò io fo consistere quella che dicesi comunemente pratica, la quale non è che una derivazione di quelle; perciocché a dir vero non fu, non è, non sarà mai una dottrina vera in teoria, che non il sia verissima in pratica (1).
Coi giovani per lo stesso scopo gareggiano i più provetti e i più chiari per fama e per ingegno maturo; onde il professore Placido De Luca pubblicava perla gioventù studiosa i Principii elementari di statistica;

(1) Genovesi, Lezioni di Economia civile, parte I, C. XVIII, § XXXIII.

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il duca di Ventignano il Catechismo economico; Giovanni Mauno uno scritto Sul credito immobiliare e un altro Sulle strade ferrate; Giuseppe Gallotti discorreva Del ribasso del valore permutabile dell'oro, e delle conseguenze di questo ribasso; e Costantino Baer in due separati scritti tenea ragionamento Delle monete d'oro e del loro valore legale: e del basso corso de' cambi e delle grandi immissioni d'argento in Napoli.
Sotto diversi aspetti pregevoli scritture sono queste, se si pon mente alla legge di opportunità, al valore scientifico ed all'applicazione di esse; perciocché comparvero in tempo che i Congressi statistici di Parigi e di Bruxelles discutevano del migliore indirizzo delle cose statistiche; quando avvenivano le più grandi fondazioni bancarie in Europa cosi dal lato del credito immobiliare che mobiliare; quando si allargava ed estendeva dappertutto il movimento delle società per le ferrovie; e quando la grave questione dell'oro e della smonetazione dell'oro tuttavia duratura diventò generale in tutti gli Stati Europei. La brevità di tali scritti non iscema punto il loro merito, e possono dirsi ben degni della patria del Galiani.
Le scienze non sono d'alcun partilo. A qualunque appartengano, i grandi uomini devono essere onorati. Così esclamava con profondo senno politico Napoleone l nel visitare l'università di Pavia, cercando del professore Scarpa, già dimesso insieme ad Oriani per non aver voluto entrambi far giuramento alla repubblica francese del secolo passato (1). E forza lodare questo pensiero del primo Napoleone, perché pieno di moderazione e di giustizia; e chi non sa che un procedere moderato, generoso e magnanimo ha una potenza incredibile per disarmare le ire e vincere i cuori? Se dunque le scienze non sono d'alcun partito, per debito di coscienza è mestieri confessare apertamente che una grande e benefica influenza personalmente e con gli scritti esercitò il Bianchini in quanto alle svariate pubblicazioni di cose economiche avvenute nel regno da un lustro a questa parte. Le stesse società economiche delle provincie paiono innamorate delle questioni economiche, e nei loro giornali ed atti accademici spesso leggonsi acconce scritture d'economia applicata alle cose agrarie e industriali. Trattazioni economiche eziandio propongono le accademie: e la Pontaniana nel 1856 presentava agli studi de' nostri economisti il bellissimo e vantaggioso tema concernente la Esposizione delle condizioni economiche e morali delle popolazioni agricole d'una data regione del regno, promettendo di conferire alla migliore scrittura il premio di ducati 150, stabilito dalla generosità del celebre botanico vivente Michele Tenore.

(1) CANTE, Storia dei cento anni, pag. 7 e 8, vol. II.

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Da tutto questo un imparziale e sennato indagatore delle cose ben rileverà che qui l'amore per le discussioni utili e per gli studi sodi e fruttuosi si va semprcppiù allargando e diffondendo, e già promette di sè per l'avvenire opere più rilevanti e più vantaggiose cosi nell'interesse della prosperità patria, che dell’universale.
In quanto a me, niuno mi saprà male, o mi farà rimprovero d'aver parlato innanzi tutto di siffatte cose, perché gli scritti sono seme di operazione, come l'ingegno stupendo fortificato dalla virtù e dagli studi eccellenti è il pensiero attuato da ogni parte. È per vero dire, niuno può essere operatore insigne, se non è altresì gran pensatore; onde il Leopardi nota assai bene che non sono propriamente atti a scrivere cose grandi quelli che non hanno disposizione o virtù di farne (1). Questo vero parrà più manifesto nel seguito delle mie lettere, quando terrò ampio discorso del pensiero scientifico applicato alle cose di maggior rilevanza.. 0. E. E.

(1) Opere, tom. I, pag. 240.


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RIVISTA CONTEMPORANEA

FILOSOFIA — STORIA — SCIENZE — LETTERATURA POESIA — ROMANZI — VIAGGI CRITICA — ARCHEOLOGIA — BELLE ARTI


VOLUME DECIMOTERZO

ANNO SESTO

TORINO,

TIPOGRAFIA ECONOMICA DIRETTA DA BARERA

Via della Posta n. 1,

1858.

LETTERE MENSUALI

SULLE


PRESENTI CONDIZIONI ECONOMICHE, LETTERARIE


ED ARTISTICHE


DEL REGNO DELLE DUE SICILIE


LETTERA SECONDA


Al Direttore della Rivista Contemporanea

 

Sommario — Gli Economisti in Sicilia.


Nella parte continentale del Regno già fioriva verso la metà del secolo XVIII una gloriosa scuola di economia civile, quando incominciò a parlarsene in Sicilia, e come di uno stupendo trovato. Allora dominavano i fisiocrati, e ninna dottrina polca tornare più accetta ai Siciliani quanto quella che ogni ricchezza facea scaturir dalla terra, e ne avean ben donde: perciocché in possesso d'un suolo fertilissimo, il più prezioso dono che natura fece loro; 'memori della ricchezza, potenza e civiltà dell'antica Siracusa, di Agrigento, di Gela e delle altre cospicuo città siciliane, quando l'isola detta di Cerere era il granaio d'Italia; non ignari che le produzioni abbondanti, squisito e svariate avevano offerto in altro tempo ai loro antichi padri copiosi mezzi da commutare quelle con ogni lavoro, con ogni opera e con ogni altro valore che costituirono l'opulenza e la civiltà de' Siculi, doveano naturalmente accogliere e festeggiare siccome una scoperta la dottrina che insegnava loro a considerar la terra esclusivamente qual fonte inesauribile di tutte le ricchezze. E tanto più plaudivano gli ingegni siciliani a questa teoria, in quanto la condizione economica della loro patria era troppo affliggente, e triste lo spettacolo delle campagne isterilito in cui errava solitario il rozzo montone e la indomita e quasi selvaggia cavalla.


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Fisiocrati furono dunque tutti i primi scrittori di cose economiche in Sicilia, non già nel senso teorico, ma pratico, anzi empirico, se si pon mente ai mezzi proposti per l'applicazione delle dottrine fisiocratiche. Leggansi gli scritti di Vincenzio Emanuele Sergio, che pur valsero a fargli ottenere la cattedra di pubblica economia in Palermo (la quarta cattedra che sorgeva allora in Europa fondata nel 1779); quelli di Pietro Lanza principe della Trabia, pubblicati nel 1786 (1),e gli altri del barone Giuseppe Guggino (2), dell'abate Paolo Balsamo (3), di Salvatore Scuderi (4), di Salvatore Russo Ferruggia (o), di Nicola Palmieri (6), di Francesco Ventura (7), di Natale Costanzo (8), di Giovanni D'Angelo (9), del Vaccari (10), e di molti altri Siciliani di minor considerazione, e vedrassi di leggieri che impotenti erano i mezzi con cui voleasi far rifiorire l'industria agraria, e spesso inopportuni, esagerati e inapplicabili.

Di fatto l'Accademia degli studi di Palermo avea inviato a sue spese negli altri stati Italiani, in Francia e in Inghilterra Paolo Balsamo per istudiarvi le migliori pratiche agricole, ed applicarle alla Sicilia. Il Balsamo, dopo lunghi viaggi e dispendii, ritornò nell'isola ricco di pensamenti forestieri e strane idee; e dietro le ispirazioni ricevute da Arturo Joung per opera magica pretese di mutare i deserti campi siciliani in giardini e parchi inglesi, in luogo di stabilire il miglior metodo economico intorno alla coltivazione ed ai miglioramenti dell'industria agraria. Altri con le accademie volevano ristorare il processo agrario, ed altri con istituti e comizi manutenuti dagli aristocrati; proposte tutte ben lontane dal conseguimento


(1) Memorie sulla decadenza dell'agricoltura nella Sicilia, ed al modo di rimediarvi. Napoli, 1786.

(2) Piano dell'Accademia di agricoltura, ecc. Napoli, 1793.

(3) Principii d'agricoltura. Lipomi, 1810. — Memorie economiche ed agrarie. Palermo, 1802.

(4) Sulla rendita rurale — Dissertazioni economiche ed agrarie. Catania, 1818..

(5) Progetto per l'istituzione della società di economia rurale, ecc. Palermo, 1818.

(6) Saggio sulle cause e i rimedi delle angustie agrarie della Sicilia, 1826.

(7) Memoria intorno ai corpi ecclesiastici e loro beni, diretta al supremo Parlamento di Sicilia. Palermo, 1814.

(8) La proprietà ecclesiastica. Palermo, 1814.

(9) Contro il progetto della censuazione de' beni della Chiesa votato nella Camera de' Comuni. Palermo, 1815.

(10) Sul richiamo della canna zuccherina in Sicilia, e sulle ragioni che lo esigono. Il primo volume fu pubblicato in Palermo nel 1825, il secondo in Girgenti nel 1826.


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d'uno scopo dirotto, se vuolsi guardare alla condiziono economica della Sicilia in quel tempo.

Lo stesso Salvatore Scuderi, il quale sorti da natura ingegno bellissimo, già professore di economia e di agricoltura nella università di Catania, mirava all'applicazione delle dottrine del Genovesi e dello Smith dal lato agricolo; e il Sanfilippo pubblicando le sue Istituzioni di politica economia si proponeva di fare lo stesso (1). Da ciò si raccoglie che in cima ai pensieri degli economici siciliani fu mai sempre il miglioramento dell'agricoltura e l'applicazione delle dottrine dello Smith, del Say, di Hume e di Joung all'industria agraria. Né fu inutile il tentativo e il battagliare per questo degli scrittori dell'isola; perciocché le proposte più o meno giudiziose sul miglioramento agrario acchiudevano indirettamente le altre contro i feudi, contro la promiscuità, contro i vincoli d'ogni sorta inceppanti la proprietà territoriale; e favorivano per converso le liberalità industriali, la libertà dello transazioni e del commercio. Di fatto, figlie di quelle idee, di quei voti, di quelle proposto, di quelle lotte economiche furon le leggi salutari reprimenti le violenze e gli abusi feudali, e le altre in processo di tempo sulla censuazione delle terre pertinenti ai corpi morali, ai baroni, ai principi reali stessi, come il territorio di Paternico distribuito per censo in piccole porzioni; sui fedecommessi, sulle soggiogazioni (2),. sulle conciliazioni per l'assegnamento delle terre in cambio dei posi feudali, sulla promiscuità disciolta. Siffatti provvedimenti produssero beni incalcolabili all'industria agraria, se si pon mente che prima della loro pubblicazione tutto il territorio siciliano non dividevasi che tra poche centinaia di persone, e da ciò la vera decadenza dell'agricoltura e della miseria del popolo siciliano. Rotti in parte i vincoli che inceppavano la proprietà territoriale, divise per censuazione le terre pertinenti ai corpi morali, accordato con facoltà l'assenso regio per la vendita de 'feudi, concedute dai baroni in enfiteusi le porzioni delle loro possessioni feudali, in pochi anni le incolte e deserte terre siciliane mutarono aspetto; od all'uopo ben sono da ricordarsi quelle di Paternico, della mensa vescovile di Catania alle falde orientali dell'Etna, di Militello, appartenenti per l'addietro a diversi corpi morali, del contado di Modica, una dello più grandi signorie della Sicilia, pertinente ad una nobile famiglia che risiedeva nelle Spagne, di Ragusa, di Vittoria, di Scicli e di Noto, nelle cui provincie avevano estesi feudi i principali baroni dell'isola.


(1) Cenno sul modo di migliorare l'agricoltura, ecc. Palermo, 1822.

(2) Per non ismembrare la proprietà di numerosi ed estesi feudi, i diversi pesi de' fondi ed anche la dote delle figlie si costituivano in soggiogazione, e questa dava il diritto di pagar tutto in contante e non già in benifondi.


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Tutti codesti sterminati territori, una volta sterili e coperti di lave in dissoluzione, ovvero sparsi di bronchi e destinati a scarso pascolo, dal quale si ritraoa una tenuissima rendita, oggi presentano fertili campi coltivati a biade, e le più belle e rigogliose piantagioni di viti, di ulivi, di carrubi, fichi d'India, e d'ogni sorta d'alberi da frutto. Nel distretto di Noto, ove la pastorizia è più estesa, fin nei prati torreggiano i carrubi, albero prezioso per la Sicilia, perché mentre con l'ombra difende dai raggi del sole nella state il pascolo, nello stesso tempo offre una ben grossa rendita da sè.

Vero è dunque che col benefizio del tempo e mediante quel lento travaglio dinamico da cui erompono gli eventi e germogliano le cose (1), le idee non lasciano d'ottener sempre l'effetto loro: cosi quelle degli economici siciliani fruttarono la ripartizione del suolo per censo, ed una miglior coltura in processo di tempo, e di ciò vuolsi saper grado anche agli sforzi di coloro che osteggiarono ogni altra dottrina che dei fisiocrati non fosse. Chi semina idee perciò non deve essere impaziente a coglierne il fruito, ma invece aspettar debbo con longanime sapienza il tempo propizio della maturità e del ricolto; ed ove pur questo sia fatto e giovi esclusivamento alle future generazioni, un tal pensiero non può non confortar l'animo di colui che scrive pel bene della sua cara patria.

Notevoli furono i progressi della economia in Sicilia dal 1832 in poi, quando fu eretta la direzione centralo di statistica in Palermo, e non più dal lato delle applicazioni, ma sibbene della scienza. Allora apparvero giovani atleti nel campo statistico ed economico, Francesco Ferrara che oggi onora l'Ateneo della capitale del Regno Subalpino, Emanuele Estiller, Raffaele Busacca, Emerigo Amari, Vito d'Ondes Reggio, Francesco Pere., Giovanni Bruno, Gaetano Vanneschi ed altri valentuomini; i quali rivelarono alla Sicilia tutti i tesori delle verità economiche con pensiero e forma convenienti all'alte dottrine della scienza, segnatamente il Ferrara, il quale fece aperta la teoria della statistica secondo Romagnosi, ed altre dottrine concernenti la popolazione, il modo come avviare utilmente la scienza statistica e formare gli ufficii statistici; mentre l'Ondes discorreva del progresso delle scienze morali, del diritto, dello stato e delle riforme delle proprietà territoriali; l'Amari intorno ai difetti e le riforme delle statistiche dei delitti e delle pene, ai principii di diritto pubblico marittimo, ai privilegi industriali, al sistema protettore e alla collisione degl'interessi rivali; il Busacca sulla divisione delle proprietà territoriali, sulle statistiche de' prezzi e de' consumi, ecc. Ma i passati avvenimenti disperderono con gli uomini ad un tratto


(1) Gioberti, Prolegomeni, ecc., p. 251, vol. I. Ediz. Nap., 1849.


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così mirabile progresso di studi dal lato teorico, e fu alta sventura per la economia siciliana.

Il Siciliano però, come ogni altro isolano, non sa discostarsi dalle tradizioni patrie; il Siciliano, per virtù del proprio animo, è tratto ad amare svisceratamente il bene del luogo natio, e tuttociò che a questo può recare onore, dignità e fama; ma siffatti onorevoli sentimenti, spesso da taluni che non sanno addentrare la virtù degli animi passionati per la terra natale, sogliono facilmente scambiarsi con i ciechi orgogli d'anime superbe e poco civili, ovvero col più gretto e basso municipalismo. Sotto questo aspetto io trovo sennatissime le parole del poeta Errante, che suonano cosi: noi Siciliani siamo da tutti calunniati di barbarie, eppure la nostra istoria civile potrebbe mostrarci, anziché barbari, sconosciuti. I Tebani dagli altri Greci erano tenuti imbecilli; vennero i tempi di Pelopida ed Epaminonda, ed allora, ma allora soltanto, fu vendicato l'oltraggia (1). E per vero dire un popolo che ha la tradizione ancor viva e parlante d'una civiltà millenia nelle opere del siracusano Antioco, figlio di Serofane, di Filisto, di Timeo da Taormina, del messinese Dicearco, di Aristocle pur da Messina, di Polo d'Agrigento, di Filino, di Cocilio, di Andera da Palermo, di Diodaro da Argiro, di Archimede, e persino dei due tiranni Dionigi che storiarono: un popolo che si aggira tra i monumenti, i capi d'arte, le architetture d'una civiltà anteriore alla greca, o contempli ogni dì le eloquenti rovine di Siracusa, Egesta, Selinunte, Agrigento, Taormina; i Giovi palliati di Solunto, le Veneri di Siracusa e Callipiga superiori alla stessa Medicea, gli Ercoli catanesi e i Saturni di Girgenti: un popolo circondato dall'immenso e libero elemento delle acque del Mediterraneo, di cui un giorno era assoluto signore, ancorché affranto da mille sventure, roso da molti guai, contrarialo dagli eventi e dalla mala fortuna, non giungerà mai a farsi vincere dalla barbarie. E di ciò diede sempre prova e testimonianza lo stesso popolo siciliano in tutte le epoche della storia.

Spariti dall'isola i migliori e più forti ingegni economici, rimase il seme delle idee che germogliò tosto, onde apparve una eletta schiera di giovani intelletti che animosamente si cacciò nel campo economico e fece valere gli studi fatti per lo innanzi; propugnando non più per le ideo fisiocratiche, come i primi economisti, ma per le liberalità industriali, per la libera concorrenza, per la libertà del commercio. E questo fu anche seme sparso dal Ferrara, dall'Oudes, dall'Amari e da altri di minor fama nell'isola, i quali furon difenditori esimii nel loro classico paese d'ogni liberalità industriale, e degli uomini che un tal principio rappresentarono, primi in Europa, ai tempi nostri.


(1) Prefazione alle poesie.


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Di fatto, quando nel marzo del 1847 Riccardo Cobden visitò Napoli, e fu altamente onorato di festose accoglienze dal Governo e dai dotti napolitani, gli economisti siciliani non si stettero dall'invitare con modi lusinghieri il Cobden perché si determinasse a visitare la loro patria. Dico questo per mostrare sempre più l'adesione de' loro principii alle dottrine della libertà commerciale. E per questa ora combattono, nel senso pratico e di applicazione, il professore Giovanni Bruno (1), Giuseppe Biondi (2), Giovanni Intringila (3), ed altri di non minor pregio, intesi alla compilazione del Giornale di statistica in Palermo.

La Sicilia non vanta grandi opere economiche; e tranne i Principii di civile economia di Salvatore Scuderi (4), e le Istituzioni di economia politica di Ignazio Sanfilippo (5), neanche dal lato dell'insegnamento può vantare scritture di molto rinomo, e tali da servire al loro scopo. Perciocché lo Scuderi, innamorato di Adamo Smith, qual creatore della scienza, volle farsi anch'egli novatore delle dottrine economiche, innalzando a principii le conseguenze dell'unico principio che tutto regge l'edifizio dell'economia: e il Sanfilippo non fece che riprodurre, sotto altra fórma e senza metodo, lo dottrine del Say e di Hume. E ciò doveva accadere, prima perché le dottrine del tempo eran quelle; in secondo luogo, perché gli economici siciliani guardarono sempre al principio di applicazione, per giovare alla industria patria ed alla prosperità dell'isola. E questa scuola di applicazione, che vuol produrre degli alti, non è disertata, anzi cresce di giorno in giorno, ed all'uopo tien giornali e scrittori per l'opera cui intende con alacrità. Il Giornale dell'Accademia Gioenia, il Giornale di Statistica, l'Empedocle, scritture mensuali a fascicolo, ed ora il Poligrafo trattano continuamente di coso economiche ed agrarie; e ben vi si leggono ad intervallo eccellenti scritti di Giovanni Bruno, Giuseppe Biundi, Giovanni Antonio Intringila, Vincenzo Scarcella, Salvatore MajoranaCaltabiano, Giuseppe di Menza, Andrea Chirico, Francesco di Paola Bertucei, del barone d'Antalbo Cacioppo, di Gaetano Vannescbi, e d'altri valentuomini. I più chiari discorrono sovente delle tariffe doganali, e propugnatori del libero cambio si rivelano,


(1) Vedi Sul sistema doganale in Sicilia e scala franca in Palermo — Sul libero paneficio e sulle mete — Sul divieto alla importazione degli animali bovini — Su i difetti e riforme delle statistiche commerciali.

(2) I Porti franchi con alcwne riflessioni economiche su quello di Messina. Palermo, 1857.

(3) Saggi economici: Noto, 1853.

(4) Questo scritto diviso in 3 volumi fu pubblicato in Napoli nel 1822 pei tipi della Stamperia Reale.

(5) Furon pubblicate in Palermo nel 1821 pel tipi della Reale Stamperia.


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ed in ciò procedono a paro degl'ingegni economici del Napolitano; cosichhè da tutte questo scritture o voti qualche cosa ne escirà senza dubbio in quanto all'abbassamento delle tariffe doganali, e forse qualche cosa degna de' tempi e  del presente svolgimento delle dottrine economiche. I voti e i consigli di sapienti sogliono sempre precedere ed esser nunzii di buone leggi.

Non è dunque barbara e misera la Sicilia io"quanto a scienza, come da taluni vuolsi far credere, quando giovani animosi si affaticano a non far perire il glorioso retaggio degli avi; quando di buon'ora si adusano alle generose e gravi discussioni scientifiche, e lo migliori dottrine cercano di applicare ai bisogni della loro patria col nobile disegno di sviluppare sopra una larga sfera d’azione il lavoro, il traffico, l'industria agraria, la manifattrice, e contribuire cosi alla prosperità e all'incivilimento dell'isola. E questo ch'io dico parrà più manifesto da quello che scriverò in seguito, quando dovrò discorrere di proposito della migliorata agricoltura, delle vie di comunicazione aggrandite ed estese, dell'esposizione de' prodotti industriali della Sicilia fatta nell'anno passato, e delle altre cose che non possono nascondersi, e delle quali non può farsi silenzio per debito di coscienza, perché son vere e di pubblica ragione. L'onesto scrittore debbe amare e pregiare il bene ove lo trova, e da qualunque mano venga fatto; così solamente non si fa ingiuria al vero ed alla giustizia, che sono le due àncore del gran naviglio della società civile.

 O. E. E.


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CORRISPONDENZA DELLE DUE SICILIE


Dal 1818 fin oggi grande è stato il progresso della industrianapolitana: prima di quel tempo questo bel regno non avea che le sole arti primitive rozzamente praticate, e manifatture grossolane e incompiute. Gli illustri economici del secolo passato avevano predispostogli animi all'industria manifattrice, e di buona fede credettero che Napoli potesse in breve tempo diventare una Lione e una Manchester sol che l'indirizzo governativo lo avesse voluto. Con ciò rafforzavano il Colbertismo già da lunghi anni addottato non solo dal Regno ma da tutta Europa. Il Governo prestò ascolto agli scrittori e favori l'industria manifattrice, i cui primi germogli divennero visibili nella pubblica esposizione del 1818. Per debito di coscienza e ad onore dell'ingegno napolitano è mestieri affermare che in quarantanni l'avanzamento delle manifatture e stato rapido e lusinghiero, e chi voglia vederne il procedimento faccia di leggere la dotta Storia delle finanze di Napoli dell'economico Bianchini, e in quelle troverà la narrazione più compiuta ed esatta fino al 1835 del progresso industriale di questa parte del Regno. Più rapido e più notevole però è stato l'avanzamento dal 1835 al 1858, e di questo voglio ora occuparmi senza escire dai limiti che mi sono imposto, cioè di una lettera.

La provincia di Napoli, oltre ai reali stabilimenti di S. Leucio, dell'Albergo dei Poveri, del Convitto del Carminello, della Casa dell'Annunciata, dei Conservatoci dello Spirito Santo, di S, Maria del Presidio, delle Teresiane della Torre del Greco, di S. Maria alla Sanità, e dei Ritiri di S. Raffaele e S. Maria della Provvidenza, ove si lavorano tessuti per tappezzeria, per abiti, e nastri per ordini cavallereschi, spille a doppia trafila, ricami diversi, arricciature, merletti in in filo, fiori, guanti di pelle, scarpe, stoffe rasate e broccate, pianete ricamate in oro e seta, ed altri oggetti di minor considerazione, vanta pure l'opificio dei fratelli Cosenza;


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 il lanificio di Sava; le fabbriche di filo, cotone e lana de' fratelli Ai Mauro, di Gabrielli e Marrone; la fabbrica di maglie di Guérin Pajot; le filande di seta organzina all'uso piemontese di Panico e Bianco; le fabbriche di fiori artificiali di Varriale e Gamba; di creta cotta di Morretta; di tele per dipingere di Chiavello; d'ornamenti di tappezzerie di Ippolito; di cornici dorate di Bonniot; di guanti di Montagna e Pellerano; di saponi, profumerie e liquori di Genevais; di ombrelli di De Martino e Zaccaro; gli stabilimenti tipografici del Ministero dell'Interno, di Nobile e del Fibreno; le fonderie di caratteri di Sollazzo e Banchieii; le manifatture d'armi di Mazza, Izzo e Fonzo; e le altre di bronzo dorato, d'argento, di plackfond di Massimo, Bottacchi e Binincasa; le fabbriche di macchine diverse di Baudieri, De Palma, Gargiulo, Bedaelli, Spano e Tozzoli; le fonderie di ferro e costruzione di macchine di Zino e fratelli Oomens; gli opificii meccanici di Lamoite, Armingaud e Guppv; le fonderie di bronzo di Alfano e Fontagnv; le fabbriche di stoviglie e lastre di Del Vecchio, Rossi, Benvenuto, Bruno e Cappelli; di corde armoniche di Avallone e Perrone; di cuci e pelli all'uso ili Francia di Bonnel, di Contento, di Stella e Ingegno; di pianoforti di Sievers, Helzel, Schmid, Maurer, Muller, De Meglio, Bretschneider, Federici e Mach; di prodotti chimici di Nunziante, Ferrara, Paura, e Mando; di colla di pesce di De Mio e Fresca; di carte per parali di Marescotti, ecc. ecc.

La Terra di Lavoro presenta i lanificii di Zino, Polsinelli, Manna e Ciccodicola; lo stabilimento ili cotone e lino di Egg; le cartiere del Fibreno, di Courier, del Liri e dei fratelli Visocchi. Il Principato Citeriore, la filanda di lino e canapa in Sarno della Società industriali. Partenopea; le manifatture di cotone di Mever in Scafati; di Wenner, Fumagalli, e Womviller in Salerno; la fabbrica di tessuti di lino e filanda di cotone, con macchine a vapore per pulire il cotone AiEgg in Pagani di Nocera; l'opificio di Buchv in Sarno. L'Abruzzo Citeriore,;l lanificio dei fratelli Odorisio in Chieli; la fabbrica di tessuti di lino, cotone e lana di Crecchio in Lanciano; le fabbriche di sapone di Bevilacqua e Marciano; di cuoi di Nardone in Messa. L'Abruzzo Ultra 1°, le fabbriche di cuoi di Fabritiis, Mancini, Alessandrini, Pasquale in Feramo; d’Impacciatore in Elice; di Conloresi in Campii; le manifatture di faenze di Celli in Castelli. La Calabria Ultra 2", le macchine, gl'istrumenti e le armi diverse dei Reali Stabilimenti in Mongiana; le fabbriche di tessuti in seta di Mazzocchi e Verni in Catanzaro; di cuoi di Mazzitelli in Fropea. Oltre queste, sono degne di lodevole menzione le manifatture del Reale Morotrofio e dell'Ospizio di S. Agostino in Aversa; del Reale Ospizio di S.. Ferdinando in Salerno; del Reale Istituto delle Girolamine in Potenza; della Casa de' mendici per gli Abruzzi,


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 dello Stabilimento delle scuole pie per la istruzione delle alunne povere, del Conservatorio della Misericordia e dell'altro dell'Annunziata in Aquila; dell'Ospizio Fornari in Cerignola; del Reale Ospizio Francesco I in Giovinazzo; dell'Orfanotrofio di S. Filomena in Lecce; del Conservatorio di Santa Maria della Stella in Catanzaro, nei quali stabilimenti si lavorano stoffe diverse, tele, oggetti di sartoria, di calzoleria, di ferreria, tappezzerie, ricami in seta, oro e lana, velluti, veli crespi, drappi di seta, fiandre, e tessuti diversi di filo, cotone e lana. né queste sono tutte le fabbriche di manifatture esistenti, ché ve n'ha infinite altre di second’ordine; ma io ho voluto tener discorso di quelle soltanto che han più volte richiamato lo sguardo del Reale Istituto d'incoraggiamento, e possono dirsi le principali del Regno e le più notevoli. Ma qui ogni uomo non destituito di coltura domanderebbe: sbucciarono e progredirono spontaneamente tutte codeste fabbriche e stabilimenti di manifatture; mantengonsi in piedi sotto lo stimolo della libera concorrenza, ovvero siccome piante esotiche acclimate han bisogno di serre e del calor della stufa per vegetare? Rispondo che il caso nostro è il secondo, e non il primo. Le nostre manifatture possono dirsi una creazione del Governo, cioè figlie esclusive della protezione. Fu il Governo che dotò la fabbrica di Zino di centomila ducati per le spese di primo stabilimento: fu il Governo che fortificò d'una triplice concessione gratuita la fabbrica di Sava, cioè d'un vasto edifizio nel centro di Napoli, della mano d'opera de' detenuti, e del privilegio di vestire de' suoi panni esclusivamente il numeroso esercito napolitano; fu il Governo infine che coi premii, i privilegi e le tariffe doganali fece avanzare l'industria manifattrice. Ma quanto costò e costa la protezione spiegata per le nostre manifatture? Non voglio dirlo io, perché l'orgogliosa facilità di coloro che credono di sentir molto innanzi nelle cose di stato, potrebbe rilegare tra i sogni il mio giudizio; invece citerò un fatto all'uopo che varrà senza dubbio più della mia opinione.

Il Ministro delle finanze del Regno nel 1845 indirizzò una circolare alle Società Economiche dello Stato, annunziando che avrebbe tra non guari richiamato in esame e riformata nelle sue parti viziose la tariffa doganale, nella quale ogni più piccolo errore porta seco per conseguenza incalcolabili danni così pel tesoro pubblico, come pei consumatori e per la industria in generale. Le Società Economiche lodarono l'eccellente determinazione del Real Governo, e quasi a stimolarlo vieppiù alla riforma doganale mediante cifre e computi statistici più o meno esatti, stabilirono che la protezione accordata all'industria manifattrice del Regno costava annualmente allo stato una somma equivalente a quella di tutte le imposizioni, senza punto giovare alla cassa del pubblico tesoro.


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Or dopo cosi enormi spese, dopo quarant'anni di decisa protezione, domando: perché mai in mezzo a tanto fabbriche di panni, di filo, di cotone e di seta i magazzini delle città delle Due Sicilie rigurgitano di tessuti stranieri? Perché ci vestiamo tuttavia di panni francesi e belgi? Perché indossiamo la camicia di tela d'Olanda, di Sassonia e della Svizzera? Perché in mezzo ai setifici di S. Leucio, del Carminello, della Società Industriale Partenopea, di Matera, e molti altri di second'ordine, le nostre donne vestono le stoffe di Francia, i veli e trapunti d'Inghilterra? Perché in mezzo a tante concerie diffuse per tutte le provincie del Regno la gente agiata porta le scarpe di cuoio e pelle di Francia?

La risposta non può essere altra che questa: perché le nostre manifatture sono vinte dalla concorrenza straniera; perché il prezzo delle manifatture forestiere, non ostante la miglior qualità di queste, è minore e più sopportabile del prezzo delle nostre; perché in questi tempi di tornaconto non vi è un solo individuo che potendo procurarsi il buono e l'eccellente voglia lungamente accontentarsi del cattivo e del peggiore, quand’anche indigena e nazionale ne sia l'origine e la provenienza; perché ciascun consumatore infine mette bene a calcolo oggidì la qualità, la durata e il prezzo degli oggetti che vuol comperare, e nella comparazione a quello si appiglia ben volentieri che presenta i dati della miglior qualità, della maggior durata e del minor prezzo. Da ciò scaturisce che dopo quarant'anni di protezione e di enormi sagrifici le nostre manifatture non sono affatto paragonabili con le forestiere. E perché questo? Perché la nostra industria manifattricc è figlia dell'artifizio e delle tariffe doganali, e non dell'indole spontanea e del libero movimento dell'operosità nazionale; perché in forza dell'esorbitante dazio sulle manifatture estere, i fabbricanti nazionali non danno opera a migliorare le loro, contenti delle qualità inferiori sufficienti a procurar loro un sicuro profitto; quindi non tentano, non cimentano, non s'instruiscono, non amano d'istruirsi e di regolare la divisione del lavoro secondo i canoni della scienza economica.,

Citerò al proposito due esempi di grande rilevanza non solo per l'industria, ma eziandio per la civiltà del paese. Abbiamo grandiosi stabilimenti e infiniti fabbricanti di carta; ma finora, dopo tanti ottenuti favori, né i signori Lefévre, né Bartolomucci, né Courier, né i fratelli Visocchi che tengono le principali cartiere hanno saputo darci una carta da stare in paragone della straniera, segnatamente quella da stampa. La carta napolitano è fragile, e tosto si calcina e si crepola ad ogni minima piegatura, mancando di tenacità e di nettezza. L'inchiostro napolitano da stampa è degno della carta, insudiciando questa assai più, e non reggendo all'azione del tempo;


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e da ciò le cattive edizioni dei libri che si stampano nel Regno, la inferiorità della nostra industria libraria per questo lato alle altre del rimanente d'Italia. Non è guari un festevole ingegno napolitano, Giuseppe Orgitani, servando l'antico precetto del Venosino, castigai ridendo mores, nel parlare della carta e dell'inchiostro nostrale, con molta grazia scrivea che da qui a cent'anni non solo i libri più pregevoli del secol nostro, ma eziandio i documenti degli archivi non si potranno più leggere. Per una gran quantità di scritti questo sarebbe un atto provvidenziale, ma per molti altri la carta e l'inchiostro napolitano assumerebbero la ferocia e l'importanza storica degli Unni, de' Vandali, degli Ostrogoti, in breve di nuovi barbari invasori per le scienze e le lettere di questa bella parte della Penisola.

I privilegi, i favori, la protezione adunque hanno un'indole papaverica pei manifattori e gl'industriosi, né i loro stimoli valgono per niente ad aumentare la vitalità delle manifatture e i miglioramenti. Si diminuisca il dazio sulla carta e l'inchiostro straniero, e i nostri fabbricanti si desteranno senza dubbio dal lungo sonno in cui sono immersi, le nostre stampe diventeranno nitide ed eleganti, la nostra industria libraria per bellezza di edizioni si metterà a pari della Fiorentina, della Torinese, della Milanese e della Veneziana.

Adamo Smith e i più illustri e grandi economici che lo seguirono insegnarono che le arti manuali non possono prosperare se non dove e quando l'agricoltura abbia raggiunto il sommo della prosperità; allora, ma allora soltanto l'industria manifattrice nata senza sforzo, allevata senza violenza, nutrita nell'abbondanza ed avente forze bastevoli potrà sopportare le infermità e le crisi del primo sviluppo, crescere liberamente e promettere lunghissima vita (1). «Ove s'inverta e perturbi, aggiungeva il Mengotti, quest'ordine necessario con cui si sviluppa l'industria manifatturiera e si vogliano introdurre le arti prima che la nazione sia giunta alla pubertà e a un grado di forza sufficiente per ben nutrirle, esse non crescono se non a stento, e dopo di essersi strascinate lungamente in uno stato infermiccio di debolezza e di languore, si veggono finalmente perire. La nazione in tal caso è simile a quelle giovani che abusando troppo presto degli organi ancora deboli ed imperfetti, non arrivano mai ad essere madri di sana e vigorosa prole. Quindi è grande imprudenza il voler le arti primaticcie ed immature. Se non precede numerosa popolazione, copia di materie prime e di sussistenze, accumulazione ed incremento di capitali, vani saranno gli sforzi per far nascere e prosperare le arti, come la esperienza il dimostrar. lo non accetto ciecamente siffatti principii, perché non omnis fert omnia tellus; perché il fatto della prima nazione industriale del mondo attuale


(1) Recher. sur la nature des rich. Liv. Ili, c. I et suiv.


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mi darebbe una mentita; perché la storia d'Italia de' tempi antiromani, quand’ella contava dal capo di Leuca al Moncenisio più di 70 milioni d'abitanti, rafforzerebbe l'argomento in contrario; perché lo svolgimento della scienza economica ai tempi nostri nol consente. Ma non sarà men vero che ove le materie prime mancano per naturale e spontanea industria nazionale, ovvero sono percosse all'entrata da forte dazio, ivi le arti manuali o non sorgono, o somigliano alle piante esotiche coltivate con grande spendio nelle stufe. Di fatto, con cattive o mediocri lane e sete, e vendute per soprassello a caro prezzo, come pretendere panni e stoffe eccellenti ad egual prezzo delle fabbriche straniere? Con lino e canape mal coltivati, non ben macerati, maciullati e pettinati, come poter ottenere tele eguali a quelle d'Olanda? Bisogna dunque immegliare la pastorizia con l'educare, accrescere e ingentilire i greggi; ordinare l'agricoltura con la varietà de' pascoli e de' prati, con la scelta e la concimazione delle terre, con la bontà e varietà delle sementi, col moltiplicare e perfezionare gl'istrumenti agrarii affin di produrre maggior copia e miglior qualità di lana, lino, canape, cotone, barbabietola e foglia di gelso. Per debito di coscienza è mestieri confessare che il Governo non lascia di stimolare gli avanzamenti agrarii; ma il suo buon volere e le cure riescono infruttuose quando i forti dazii impediscono l'introduzione delle macchine e strumenti necessari all'agricoltura altrove perfezionati; quando colpiscono l'elemento sostanziale de' miglioramenti agrarii qual è il ferro; quando i vincoli d'ogni sorta inviliscono il prezzo d'ogni derrata per mancanza di liberi sbocchi.

Ma si dirà che talune manifatture potrebbero progredire indipendentemente dagli avanzamenti agrarii, siccome quelle che si provveggono di materie prime dall'estero. Verissimo; ma gravato di forte dazio il cloruro di calce, come poter migliorare la fabbricazione della carta? E così l'indaco per le tintorie, la ghisa per le fonderie di ferro, le macchine per le arti, la seta filata per le stoffe, il cotone filato tinto per i tessuti, ed altre materie prime per altre manifatture. Per siffatte cose il fabbricante napolitano non può ribassare il prezzo delle sue manifatture, dee fondare il suo profitto sul risultamento del monopolio, delle privative, dei privilegi, ed invocare continuamente la protezione. Ma ciò non lo toglie dai palpiti incessanti in cui vive, perché la sua sorte può vacillare ad ogni istante, ad ogni riduzione, ad ogni minimo perfezionamento, ad ogni concorrenza. Intanto il conflitto tra la produzione e la consumazione cresce e diventa più ostile, e spesso nello stesso individuo corrono interessi rivali e contrarli all'avanzamento delle arti. Il tessitore vuol essere difeso dalla concorrenza straniera per i tessuti e nello stesso tempo vorrebbe libera l'importazione del filato:


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il filatore per lo contrario vuol protetto il filato e dimanda la libera introduzione della bambaggia e del bozzolo. Fra questi propugnatori a vicenda del regime protettore e del libero cambio nello stesso tempo s'alza il consumatore cui nulla preme questa lotta d'interessi rivali, e vuole libero il commercio, onde poter scegliere la miglior qualità de' generi e il minor prezzo. Sopra tutti siffatti interessi la scienza imparziale e impassibile porta il suo giudizio, e sentenzia non già nell'interesse di questo o di quell'individuo, ma di tutta quanta la società. Quindi ella c'insegna che la consumazione procede in ragion composta delle miglior qualità e del minor prezzo, e il maggior guadagno non si rinviene che nella maggior consumazione; la quale d'altra parte è la rivelazione più certa delle maggior ricchezza d'uno Stato. Laonde quella industria che offre produzioni di miglior qualità ed a più basso prezzo sarà sempre la più degna di lode, la più fiorente, e non lascerà eziandio d'essere la prova più aperta della ricchezza diffusa e della prosperità d'una nazione.

Da tutto ciò scaturisce come quel sistema che si è voluto chiamar protettore non protegge nessun interesse, nessun individuo, nessun tesoro, nessuna società, anzi li osteggia, li sconcerta e li tradisce nei loro fini più rilevanti rispetto al vantaggio individuale e sociale. Agricoltura, pastorizia, arti manuali, ricchezze private e pubbliche, tutte sono osteggiate e tradite dal falso sistema della protezione. Nel solo principio del liberocambio si chiudono gli elementi della prosperità individuale e universale, quando il principio del liberocambio è bene applicato. Persuaso di ciò, il nostro Governo già intende alla riforma delle tariffe, e non dubito che laddove questa sarà fatta e portata a compimento con le norme severe della scienza, laddove si terrà presente l'agricoltura di questa magna parerti frugum Saturnia tellus, la nuova tariffa segnerà il principio di un'era di prosperità per l'una e l'altra Sicilia.

O. E. E.



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RIVISTA CONTEMPORANEA

FILOSOFIA — STORIA — SCIENZE — LETTERATURA POESIA — ROMANZI — VIAGGI CRITICA — ARCHEOLOGIA — BELLE ARTI


VOLUME DECIMOQUARTO

ANNO SESTO

TORINO,

TIPOGRAFIA ECONOMICA DIRETTA DA BARERA

Via della Posta n. 1,

1858.



CORRISPONDENZA DELLE DUE SICILIE

Napoli, agosto 1858

La letteratura, come espressione della società, è un patrimonio peculiare che dalle circostanze particolari di una società deriva. In quanto al bello che è universale e indipendente dalle circostanze parziali ella si rannoda al generale; ma in quanto alla forma che riveste l'espressione del bello, al carattere ed allo spirito che la informa, la letteratura debb'essere nazionale, se vuol produrre buoni frutti in quanto alla vita civile di un popolo. Lo spirito nazionale delle lettere non è figlio dell'arbitrio, ma della separazione geografica e della varietà delle razze che traggono dal suolo il principio del divario tra l'una e l'altra. Il divario scaturisce eziandio dalle divisioni naturali, indispensabili come tutte le classificazioni, e come elemento di ordine necessario per regolare società composte di esseri imperfetti. Oltreciò ogni uomo rispetto alla società, di cui è parte, ha interessi e affezioni proprie, personali che si identificano col tutto, cioè con la società, da cui cerca guarentigia, protezione e gloria.

Da ciò la famiglia, la tribù, il comune, la provincia e la nazione che le comprende tutte nell'unità della religione, del linguaggio e dello spirito sociale, nella comunione de' grandi e vitali interessi patrii e delle idee, dei pensieri e delle forze di tutti per operare secondo uno scopo determinato. Quindi ne segue che i risultamenti dell'umana intelligenza rispetto a ciascuna nazione diventano un patrimonio nazionale a cui non si può, senza taccia di viltà e d'ingratitudine, rinunziare; una nobile tradizione di fatti e di glorie ed anche di sventure; un principio di emulazione per i propri cittadini, di orgoglio e di superiorità su le altre nazioni meno favorite per la quantità e qualità degl'ingegni pellegrini. Onde spesso avviene che i più ignoranti si gloriano d'appartenere alla stessa patria di Omero e di Aristotele, di Tacito e di Virgilio, di Dante e di Vico, di Bacone e Shakespeare, di Bossuet e Ratine, di Kant e Schiller, ovvero de' più sapienti legislatori e grandi capitani.


(1) La Direzione nel pubblicare questa ed altre lettere non intende di rendersi solidale di tutte le opinioni dei suoi corrispondenti, ai quali dando piena libertà nello scrivere vuol pure lasciare tutta la responsabilità dei loro giudizi.


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Ma lo Spirito nazionale viene spesso alterato dall'azione della conquista e dalle sue dolorose conseguenze. È allora che il popolo conquistato in una misera confusione di usi, di costumi, di leggi, di opinioni, di virtù, di vizi tra nativi e stranieri viene ad alterare le schiette e naturali sembianze del suo carattere originario, e l'alterazione non lascia di corrompere e falsificare le lettere, che sono appunto la espressione della società. A misura che il tempo avanza, il nativo carattere originario si perde, e si acquista l'artifiziale; quindi le lettere si viziano a mostruosi parti, a licenziose produzioni, a novità pericolose, a filosofico libertinaggio, finché inaridite le fonti del pensiero, rifinite le anime, corrotti i cuori, spatriati i costumi e gli usi nativi interamente, precipitati in rovina i migliori ordini pubblici il popolo per nuova generazione cerca di riacquistare il perduto con un gradato, profondo e sostanziale cangiamento del sistema intellettuale capace di ritemperare gli effetti sinistri della stessa conquista a nuova vita: ond'ei si rialza a novella letteratura e a nuovo incivilimento. Ed ove incontra che non tutti gli elementi della vita sociale si rinnovano per manco di forze vitali o per soverchio impiego di esse nei travaglio del rinnovamento; ove il risorgimento sia difettivo e il regno della nuova arte malfermo, questo processo di cose non lascia di giovare, perciocché esso tien luogo di apparecchio e di transizione a letteratura maschia o nazionale, a civiltà più grande e universale. Ma d'altronde come un popolo può riacquistare il perduto senza la notizia di ciò che ha perduto? Ed ecco la necessità di ritornare alla memoria l'antico, le grandi creazioni inspirate primitivamente dalla natura e che furono d'insegnamento ed esempio alle opere nuove degl'ingegni in epoca di maggior civiltà, quando le lettere rifulsero bellissime d'ingenuo candore, di semplici e caste bellezze, di elaborate invenzioni, di grandi ammaestramenti, feconde di gloria e di felicità per la patria.

Questa lodevole opera di ricostruzione dura tra noi da cinquant'anni, e cominciò dalla lingua, per cui i veri e sodi ingegni con riverenza ed amore ricordano Giordano de' Biacchi, Dottula e Basilio Puoti che intoscanarono il linguaggio, e fecero scuola, gloriosa scuola! Perciocché fondamento primo della nazionalità d'un popolo è la lingua, e ciò ben intendevano quelle due grand'anime dagli imitatori degli stranieri non comprese affatto, anzi spregiate e derise dai più giovani e dai destituiti di soda coltura. Ma lasciando da parte il passato, che la via sarebbe lunga e disastrosa, sebbene d'alto insegnamento ai giovani ingegni, io mi restringerò al presente; e parlerò di quelle sole cose che valgono il pregio d'essere nominate, e degli uomini che più onorano il paese.

Primo ad eccitare quel movimento che ora è fatto universale e sempre crescente verso gli studi storici in Italia fu Cario Trova, uomo e ingegno venerabile sotto tutti gli aspetti. Sull'esempio delle sue faticose ricerche nelle biblioteche e polverosi archivi della gentile penisola, sorse in Firenze una società di sapienti intesa fin dal 1841 a mettere in luce i più importanti documenti di storia italiana, che erano giaciuti fin allora ignoti e pressoché inutili all'universale nelle pubbliche e private biblioteche, negli archivi e nei cartolari; e così ebbe principio e vita VArchivio storico italiano affidato alle cure editrici di quel bravo ed onesto uomo eh'è Giampietro Vieusseux.

Napoli in bella gara rivaleggiò con Firenze, e in breve vide istituita una grande società per le ricerche o pubblicazioni di documenti spettanti alla storia delle Sicilie dall'anno 568 fino al 1734. Letterati principi e s'gnori fecero gara per ascriversi nella bella schiera, la cui presidenza fu meritevolmente data al Trova, e primi frutti della lodevole unione furono la Tavola d'Amalfi, messa in luce dal principe di Ardore,


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e il principio del Codice diplomatico longobardo, ora portato a compimento dallo stesso Trova, con un' appendice chiudente una serie di discorsi sopra Dante, e segnatamente sulla questione del famoso Veltro allegorico. Quindi Torino vide nascere la grande raccolta storica per cura ed a spese del glorioso re Carlo Alberto, col titolo Monumenta historiae patriae, e le nobili fatiche di Luigi Cibrario e Federico Sclopis. Quindi la Storia universale dell'infaticabile ingegno del benemerito Cesare Cantù: i tabularli e le cronache messe a pubblica luce da monaci di Montecassino e di Monreale: la bella storia dell'Amari, ed altri lavori di non minor considerazione e studio, come quelli del Capei, del Rezzonico, del Capponi, del Borghesi, del Melchiorre ecc.

A parecchi valent'uomini italiani parvero inutili le questioni promosse dal Trova sulla storia del medio evo. Dopo le dissertazioni di Donatantonio d'Asti, di Guido Grandi e Bernardo Janucci, e si affrettarono a combattere l'illustre storico napolitano; altri risposero con molto corredo di dottrina e documenti, e da questa gloriosa lite chiaro appariva che il Trova già diventava un caposcuola, e cosi fu. Perché se molti abbracciarono il sistema e le opinioni sue negli altri stati d'Europa, in Napoli ei formò scuola, e suoi seguaci possono anzi debbono chiamarsi il Trevisani, il Josti, il De Vera, il Kalefati, Scipione e Luigi Volpicella, il Capecelatro, Saverio Baldacchini, Giovanni Manna tra i più noti, e molti altri giovani ingegni che si rivelarono discepoli del Trova nella questione del Veltro allegorico, e in altri scritti.

Ma checché fosse delle opinioni discordanti, certa cosa è che dopo la pubblicazione del Codice diplomatico Longobardo testé compiuto, le storie non solo d'Italia, ma della Francia, dell'Inghilterra e della Spagna dovranno prender nuovo cammino. Finora la storia del medio evo era stata falsata; il Trova le diede novella vita, e con tal copia di documenti, con si maravigliosa erudizione, che può dirsi il suo un lavoro attetico, il più bèi monumento che mente italiana abbia innalzato ai tempi cristiani ed all’Italia.

Io scrivo queste cose con molto orgoglio patrio, e vorrei poter dire lo stesso del Sosti, autore della Storia di Montecassino, dell'Abelardo, del Bonifazio Vili, del Concilio di Costanza, dello Scisma. d'Oriente, della Contessa Matilde e i Romani Pontefici, ultima scrittura inserta nel giornale il Giambattista Vico e non ancor terminata: vorrei poter dare le stesse lodi a Carlo De Vera, autore d'uno scritto intitolato Dante e il secolo XIX: a Sebastiano Kalefati, autore della scrittura che porta per titolo Montecassino e Carlo Magno, ad Alfonso Capecelatro per la Storta della S. Caterina da Siena e del Papato del suo tempo; ma costoro esagerarono la dottrina del Trova, e in luogo di storici diventarono apologisti d'un principio unico, per cui dovettero dare arbitrarie interpretazioni e svolgimento ai fatti storici per acconciare questi al pieno trionfo del loro principio, e con ciò tradirono la storia vera. Io son di credere che l'errore scaturisca dal voler continuare nei tempi moderni le tradizioni del medio evo, di predicare il misticismo e la vita contemplativa tra le generazioni formate nello svolgimento del principio cristiano e tra la lotta e il compimento de' doveri sociali. Leggendo le storie del Josti segnatamente, pare che i barbari già picchiano alle nostre porte, e che tutta quanta la società sia in pericolo. Ed ei debba credere che ciò sia veramente, se cotanto fuoco, cotanta vivezza di stile e di frasi trovansi nelle sue apologie, sia che parli di Papa Ildebrando o di Alessandro III, senza dubbio grandi pontefici, ovvero de' Cassinesi e di quel medio evo che vide il misticismo popolare i conventi e creare città e mondi ideali. Il Josti, il De Vera, il Kalefati sono Cassinesi, e lontani dalla società, viventi su di un erto monte,


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fra 'l canto de' salmi e nella prima stanza dei primi romiti d'Occidente santificata dal divino Benedetto da Norcia, ricordevoli di quanto debbe la presente Europa al loro inclito ordine conservatore de' monumenti e delle lettere dell'antica civiltà; dotti nelle cose ecclesiastiche e nella storia del cristianesimo, guardarono la la storia da un sol punto, e perciò all'indarno ti affatichi a trovare in essi lo storico della nuova civiltà, l'uomo del secolo xix. Qualcuno si è avvisato non è guari di sostenere in difesa del Josti, che questi debbe tenersi in conto di creatore d'una novella scuola riposta in un principio morale-religioso svolto nei fatti; ma la difesa ravvalora per questo assai più il mio giudizio nel considerare come apologie e non co me storie gli scritti del dotto, bravo e valoroso figliuolo di S. Benedetto, il quale difende all'appoggio di certi fatti storici l'unico principio che vuol far valere.

Questa maniera di trattar la storia, portando le passioni dell'individuo e le opinioni esclusive in forma apologetica nell'imparziale e rigido campo storico, questo continuo ritorno sul medio evo, lodandolo da un sol punto di vista, ha fatto pensare e dire ai molti della scuola opposta, che il Trova sia stato il rinnovatore del Guelfismo tra noi. L'accusa non mi par troppo giustificata pel Trova che volle serbarsi storico imparziale e non altro; lasciando all'arbitrio del lettore in forza di documenti indeclinabili le conseguenze che dal racconto del dotto uomo e de' documenti scaturiscono. Ma non cosi per gli altri, quantunque le personali condizioni di taluni giustificassero le tendenze si, il partito no; perché lo storico non debbe esser partigiano che della sola verità.

Se il mio discorso non dovesse restringersi allo svolgimento del pensiero in questa parte d'Italia da due lustri in qua, con molta soddisfazione dell'animo mio terrei parola del pellegrino lavoro storico di Giuseppe Di Cesare sopra Manfredi di Svezia, come principio di un'opposta scuola a quella del Trova, e l'altro non meno eccellente di Antonio Ranieri dal quinto al nono secolo, ovvero da Teodosio a Carlomagno, pubblicato per la prima volta, se non vado errato, a Bruxelles nel 1841. Per larghezza e profondità di giudizio, per severità di stile e purgatezza di lingua, questa Storia d'Italia del Ranieri avrebbe dovuto avere maggiori considerazioni nel nostro paese, non fosse altro che per italianità di concetto .di modi e di favella; in quella vece dai molti si ricorda il romanzo dell'Orfana dell’Annunziata dello stesso autore, e non i due eccellenti libri della storia. La stessa sorte ha avuto il dotto libro del Di Cesare. I Grandi lavori storici contemplano dall'alto le vicende d'uno Stato, e non seguono, ma addentrano e notomizzano i savii o pessimi reggimenti delle umane generazioni perdute nel fiume irrevocabile del passato; espongono ed analizzano le cause producenti cosi le grandezze, la potenza e la civiltà, come la miseria, la fiacchezza, la servitù e la barbarie di un popolo, le virtù e i vizi, la prosperità e la decadenza, le glorie e le sventure; ed associando gl'interessi della memoria e dell'intelletto, della ragione e del cuore, in breve le precipue forze dello spirito umano, il tutto concatenano al principio signoreggiante del grande edilizio innalzato con alto intendimento dello storico a documento solenne degli avvenire. Ma nei grandi fatti armonizzali al principio dello svolgimento dell'umana società, lasciando però apparire lucidamente i contrasti, i piccoli accadimenti son taciuti, i tenui fatti trasandati, le modeste virtù oscurate dalle eroiche, i singoli esempi di cittadino amore vinti o adombrati dalle magnanime imprese di tutta quanta una nazione. Or questi fatti di second'ordine non è inutile di raccogliere ed ordinare; né opera sterile, dirò col più illibato storico del mondo, fia quella di naturalizzare cotali membretti di storia che da prima niente paiono,


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ma che pur ei sono alla vita di grandissimi insegnamenti (1). Le storie peculiari delle città considerar si debbono per questo Come subordinate a quelle degli Stati, come episodii delle grandi storie, come elementi che aiutano il vasto complesso dell'ordito storico, che le vicende d'un gran popolo comprende ed espone. E quando lo storico d'una singola città o municipio con accuratezza raccoglie le memorie sfuggite alla grande storia; quando dalle cause generali fa discendere naturalmente i particolari effetti, ovvero dalle poche faville fa secondare una gran fiamma, quando al generale accoppia l'individuale, al pubblico il domestico interesse, ai grandi accadimenti i piccoli siccome cause od effetti di quelli, la storia peculiare con modi e favella, dirò cosi, famigliari, non lascia di tornar dilettevole ed utile, non pure ai luoghi di cui si narrano le vicende, ma eziandio a tutta la nazione. E per vero dire il nostro regno non è illustrato abbastanza; perciocché là dove ci sono città antichissime un tempo autonome e metropoli di Stati indipendenti; città che in Italia rappresentarono il greco imperio; città che con le arti, l'industria e il commercio ricondussero nella penisola la civiltà; città che levarono semplici cittadini a condizioni di principi, che si dotarono di leggi sapientissime e di nobili instituti, che diffusero le lettere le scienze, le arti e la nuova civiltà nelle più barbare contrade d'Europa e del nuovo mondo, le profonde indagini degli eletti ingegni non possono non riescire dilettevoli ed utili ad un tempo. Siffatti lavori, insieme agli altri di non minor rilevanza, possono rendere gloriosa e degna di lode nell'avvenire la condizione delle lettere presenti, e non mai le vane dispute e le scritture a singhiozzi, secondo la bella frase di Gaspero Gozzi (2). Laonde sono grandemente da lodare Matteo Camera per la sua Storia d'Amalfi, e gli Annali delle Due Sicilie; Domenico Spanò Bolani, autore della Storia di Reggio di Calabria dai tempi primitivi sino all'anno 1857; Giulio Petroni per la sua Storia di Bari dagli antichi tempi sino all'anno 1SSS: e tutti quei buoni ingegni che hanno scritto finora talune monografie di parecchie città nel Regno descritto ed illustrato, la cui vasta impresa senza sussidio di sorta è condotta innanzi con alacrità dall'operoso Filippo Cirelli. Quest'opera però avrebbe bisogno di sussidii per riescire a buon fine. Al congresso degli scienziati italiani tenuto in Venezia nel 1847 venne fatta la proposta di una raccolta generale degli statuti delle città italiane, e il Bonaini, per agevolare l'esecuzione del progetto, pubblicò nel 1851 un libro, in cui tutte ei cercò di enumerare le consuetudini e gli statuti delle città della nostra penisola. D'allora in poi non pochi eruditi con longanime pazienza si applicarono alla rìcerca degli antichi ordinamenti delle nostre città, e la legislazione statutaria antica divenne oggetto di venerazione.

E per siffatte ricerche il vostro Federigo Sclopis, già venuto in fama come storico e giureconsulto, si acquistò nuovi titoli alla benemerenza di tutti i buoni Italiani. E per vero dire, non è da porre in dubbio la grande utilità che a noi può venire dalla conoscenza delle leggi che governarono la nostra patria dal risorgimento della civiltà fino all'età presente. Anzi può affermarsi, che questo studio nobilissimo in cui si ascondono le cagioni da cui originarono le attuali condizioni civili d'Italia, agguagli per importanza e per utilità qualsivoglia tema. Imperocché dalle antiche leggi che regolarono le nostre città per lunghissimo tempo non vuolsi cavare opera e frutto di semplice erudizione, ma sibbene i primordii delle moderne società: le quali, messe a riscontro delle antiche, ci raffigurano non solamente un innovamento civile, un vero progresso,


(1) Tacito, Storie, pag. 188.

(2) Vedi la critica sulla storia del Bolani inserita nel n. 13 del Poliorama, an.     XVII.


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l'eleganza delle lettere con la sapienza in vigore, le qualità dell'instituto per i quali si governarono i nostri padri, ma eziandio gli usi, i costumi, gli ufficii diversi in processo di tempo aboliti, e le relazioni d'una popolazione con l'altra.

In questo nobile aringo di studi fruttuosi e sodi pel Regno concorre un uomo solo, bisogna dirlo con franchezza, Luigi Volpicella. Il quale dopo aver ridotto a miglior lezione ed annotato le Consuetudini della città di Amalfi, dopo aver chiarito molte questioni importanti intorno agli Antichi ordinamenti marittimi della città di Trani, e sviscerata l'essenza del Diritto di albinaggio, esponeva infine con un corredo "di non comune erudizione le consuetudini della città di Bari,confermate dal Normanno Ruggiero, allorché i Baresi con onorevolissime condizioni si diedero a lui, adottate in seguito da diversi luoghi di quella bellissima provincia; la speciale consuetudine della città di Giovenazzo, relativa alla restituzione della dote; la consuetudine della città di Andria, stabilita da Francesco II del Balzo, intorno ai contratti matrimoniali, chiarita e confermata con apposito statuto da Federigo d'Aragona nel 1489. Quindi egli accenna con dotta critica alle particolari consuetudini di Trani, di Bitonto, di Molfetta, di Altamura e di Monopoli, delle quali non si ha più memoria. Utilissime, ripeto, sono codeste ricerche intese a chiarire ed illustrare i documenti e le scritture dell'antica sapienza legislativa degl'Italiani, e di ciò vuolsi far lode al Volpicella per la parte risguardante le sue dotte fatiche.

Degni di considerazione e di lode sono eziandio gli Studi storici intorno a Manfredi e Corradino della imperiale casa di Hohestauffen, e la Genealogia di Carlo Primo di Angiò, frutto di molti anni di fatiche di Camillo Minieri Riccio sopra 288 volumi di pergamene appartenenti ai tempi angioini. Il primo scritto si rannoda alle monografie storiche del benemerito Duca di Luvnes intorno a Federigo II e ai Diuturnali di Matteo Spinello da Giovenazzo; l'altro rischiara molte incertezze della storia sul barbaro governo angioino, e le cagioni intime ed occulte degli accadimenti di quel tempo, che ebbero una terribile e funesta importanza nelle cose del Regno in quanto alla caduta degli Svevi, e non lasciarono influire sul rimanente d'Europa.

Come cose d'attualità scritte con vivezza di stile, e per talune eccellenti considerazioni politiche nello svolgimento di fatti accaduti sotto agli occhi nostri, io sento il debito di ricordare la Storia delle guerre d'Oriente, e l'altra Della dominazione inglese nelle Indie, di Giuseppe Lazzero. Considerarle come storie accurate e ben fatte non è possibile, né l'autore lo pensa; perché la storia non può scriversi sulle relazioni de' giornali politici, dei discorsi tenuti nei Parlamenti, degli ordini del giorno de' comandanti, delle note e circolari diplomatiche palesi e pubbliche e quando i fatti non hanno avuto ancora il loro pieno esplicamento. Oltre ciò, in mezzo alle passioni ancor vive del presente, io tengo per fermo che non si possa scrivere una storia imparziale, calma e severa, passando anche di sopra a certi ostacoli di diversa natura che non permettono allo storico in taluni luoghi lo sviluppamento dei fatti e del pensiero. Ma dirò con l'immortale Cuoco: è forse indispensabile che un libro, perché sia utile, sia una storia? (1). Non sono forse lodevoli le fatiche di quelli che apparecchiano i materiali necessari alla compilazione di una storia per l'avvenire, quando le passioni e gli ostacoli del presente saranno interamente spariti? Secondo me, il tempo non è arrivato ancora di pronunziare su i moltiplici e grandi avvenimenti di questi ultimi due lustri un giudizio severo ed esatto. Ciò nullameno bisogna saper grado a coloro che questo giudizio apparecchiano agli avvenire, e lodare l'animoso Giuseppe Lazzero,


(1) Saggio storico, pag. vi, prefazione alla seconda edizione.


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non fosse altro che per aver messo a parte di molti tra noi la notizia di accadimenti a cui tutti gli Stati civili del mondo non possono essere estranei.

Il più insigne restitutore della favella e del pensiero italiano, Vittorio Alfieri, volle vivere e morire in Firenze per avvezzarsi a parlare, udire, pensare e sognare in toscano (1); perciocché ivi la plebe assai più degli odierni scrittori la serba ancora intatta o quasi. A Firenze dunque si volsero i nostri ingegni intesi alla restaurazione delle nostre lettere, né per questo i poeti furon secondi ai prosatori, e lo fecero a disegno. Per la qualcosa Saverio Baldacchini bevve lungamente alle pure sorgenti dell'Arno, e lungamente attese agli studi della poetica forma italiana, e ritornato in Napoli cercò con tutto il poter suo di seguitare e fortificare l'opera egregia del marchese di Montrone e di Basilio Puoti. E per questo egli ebbe a sopportare in pace gli epigrammi ed anche il sogghigno beffardo de' compilatori del famoso giornale il Caffè del Molo. Dico famoso, perché scritto da stupendissimi ingegni, ma troppo corrivi nell'imitare allora lo stile francese e le smancerie galliche. Terribile era quella società del Caffè del Molo, fino a mandare all'altro mondo avvelenato da un epigramma un pover'uomo; e parecchi, per campar la vita insidiata epigrammaticamente, emigrarono allo straniero. Queste parranno esagerazioni ai molti, e giungeranno strane alla facile garrulità di non pochi scrivacchiatori di giornali; ma ora più che mai la società del Caffè del Molo tornerebbe provvidenziale tra noi.

La perseveranza del Baldacchini portò i suoi frutti, e la società stessa del Caffè del Molo non guari dopo riconobbe l'opera stupenda de' cosi detti pedanti, e per tali intendevansf il Puoti, il Montrone, il Baldacchini, ecc. Allora i più vecchi, prosatori e poeti, si applicarono agli studi di lingua, e fu chiarito che se i Greci sopravvissero più d'un millenio e mezzo alla perdita delle proprie istituzioni e alla nostra memoria risuscitarono, ei fu perché i Greci, sotto il giogo macedonico, romano, bizantino, custodirono quasi intatta l'antica loquela, e la serbarono in parte sotto il ferreo giogo musulmano (2). Ma non solo gli studi di lingua fecero allora i poeti; anzi prima di formolare in versi il loro pensiero, lungamente versarono negli studi filosofici del tempo, storici e poetici, e prima d'esser poeti eran già letterati. Allora Napoli si onorò de'nomi di Paolo Emilio Imbriani, il più profondo e squisito fabro di verso sciolto, di Saverio Costantino Amato (ahi! troppo presto rapito ai viventi), di Pierangelo Fiorentino, di Giuseppe Campagna, del P. Nicola Borelli delle Scuole Pie, di Giovanni Chiaia, oltre al Matrone e al Baldacchini, tutti poeti lirici d'una medesima scuola, posto mente alla pura e serena forma de' loro versi. E tutti costoro insieme al Puoti, al Mele, a Raffaello Liberatore e ad altri valentuomini convenivano in casa di quella gran donna o poetessa che fu Giuseppa Maria Guacci, la Micbiel, l'Albrizzi e la Roland della conversazione letteraria napolitana; ed ivi, come un tempo nel poetico ritrovo della marchesa Palomba e Berio, udivi a parlare di Platone, dei poeti greci e latini, de' classici italiani, degli storici antichi e moderni, di scienze, lettere ed arti in modo famigliare e cortese. Io accenno a queste cose, ignote ai molti, per mostrare che in quel tempo il titolo di poeta esprimeva tutt'altro di quel che oggi esprimer vuole, e solea darsi ai pellegrini ingegni ravvalorati da forti e severi studi, da belle e schiette virtù, da nobili e generosi sentimenti, e non mai come nel tempo presente ai destituiti d'ogni soda coltura, accozzatori di vuote ciancie e arcadici versi.


(4) Vita, iv, 2.

(5) Vedi il Leopardi nel suo Discorso in Gemisto Platani.


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Spariti in gran parte quegli eletti ingegni e per morte e per inopinate sventure, rimase il solo Baldacchini a rappresentare la scuola della bellezza temperata e pudica in poesia non discompagnata da molle e delicato affetto irraggiato di platonica filosofia; avvegnaché negli ultimi suoi lavori poetici d'Ideale e l'Erato) trovi qua e là un'arte dedalea ed una sostanza da smentire l'età del poeta e la pacata serenità dei suo animo. L'inno Alla Dea Sventura e l'altro Alla Poesia, messi a riscontro della situazione de' tempi e delle cose, riesciranno senza dubbio più grati a coloro che non hanno saputo vedere tutto ciò nei versi del valentuomo.

Molti giovani ingegni presero ad imitare in questi ultimi anni il Baldacchini; ma sprovveduti di cognizioni, non versati in filosofia, in istoria e in altri studi sodi e fruttuosi, ignari delle antiche e moderne lettere, riescirono sterilissimi. Fatto un buon corredo di armoniose parole e frasi, nei musicali accordi di queste fanno consistere la poesia, intesa esclusivamente a rappresentare il mondo sensibile, ch'è sempre una poesia al dissopra dell'imitativa. L'arte comincia là dove la natura finisce; quindi il bello naturale non può affatto costituire l'arte, ma vi si richiede l'ideale. La natura non è un modello, ma un'occasione per l'artista, il quale deve partire dalla natura per creare e non già copiare. Quel vasto intelletto di Giorgio Hegel fece consistere il bello nei due elementi dell'intelligibile e del sensibile uniti insieme da formare una cosa sola, un'idea che si chiama appunto bello. E come conseguenza di questo suo principio stabili la teoria che la preponderanza di un elemento sull'altro distruggerebbe il bello; anzi egli afferma che un giorno dovrà spegnersi il bello del mondo, e sarà quando l'elemento spirituale soverchierà l'elemento corporeo in modo da annientarlo. Allora verranno i tempi della ragion pura, e tutti gli uomini saranno filosofi. Io consento agevolmente all'Hegel che la preponderanza della forma sull'idea distruggerebbe l'arte; ma non posso dire altrettanto della preponderanza dell'elemento intelligibile, perché allora l'arte diventerebbe più pura, e le forme, penetrate dalla luce soverchiante del pensiero, diverrebbero più spirituali. Forse ci scapiteranno l'armonia, la serenità, la chiarezza; ma si acquisterà moltissimo dal lato della verità, della profondità, del sublime. Non avremo la regolarità di Eschilo e di Sofocle, ma avremo in suo luogo la profondità del gran tragico inglese. Noi italiani adunque, cui tornano vergognose le poesie dell'Arcadia e del Frugoni, rimbombanti di vuote parole, noi dovremmo più degli altri badare a questo per evitare la morte dell'arte e risparmiarci una vergogna. Ma in Napoli, in disprezzo de%li avvisi de' sapienti e dotti critici, i giovani poeti chiudono gli orecchi per non udire, e i più sordi sono gli imitatori del Baldacchini; e da ciò l'accusa, non giustificata, contro il maestro, cioè d'esser egli il rinnovatore, sotto altra forma, delle pastorellerie arcadiche. Ma il Baldacchini in questo non ha colpa, come non l'ha il Trova per taluni seguaci della sua dottrina storica, divenuti poi accaniti Guelfi a modo loro, e non secondo gli antichi che erano più giusti.

D'altronde come rimuovere dalla mala via i giovani intelletti poetici, se i molti li rimeritano d'applausi, e taluni giornalisti li innalzano a cielo? Mi paiono i tempi di Stazio, e Stazio era napoletano. Dai tredici ai diciannove anni ei riportò palme nemee e pitie ed istmiche in tutte le antiche gare letterarie di Napoli; per la qual cosa i grandi lo chiamarono dalla scuola a popolare i loro pranzi, ch'ei ricambiava con versi per tutte le occasioni. Quando vide in Roma venir alle mani i fautori di Vitellio con quei di Vespasiano e andare in fiamme il Campidoglio, esultò di occasione si opportuna a sfoggiare poesia, e da' suoi contemporanei fu ammirato che la rapidità della composizione


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di quel suo poema eguagliasse la rapidità delle fiamme (1).

Ora, fatta differenza dell'ingegno ch'era potente e bellissimo nel poeta latino, non uno, ma centinaia di Stazi ammorbano il parnaso napolitano. Ve nozze? V'è bruno? Mori il cantante? Fu suonato bene il contrabasso, il violino, il flauto da Tizio o Caio? Ad un uomo ignoto mori una moglie ignota, e si desidera fare una raccolta di versi per celebrare le rare virtù dell'estinta o lodare il superstite marito? I poeti banno in pronto l'ispirazione. E cosi molti e molti svaporano l'ingegno sagrificato all'andazzo del tempo, anzi al vizio ed alla sciagurata abitudine del contentarsi il pubblico di cose improvvisate, l'autore degli applausi del momento. Da questo vizio di scriver versi per tutte le basse occasioni non vanno esenti i migliori cui spetta dare esempi di dignità e decoro, ed è una sventura! Dico basse occasioni perché tali sono quelle che risguardano la vita e la morie degli istrioni, delle cantatrici e delle ballerine. Eppure moriva non è guari in Napoli il più grande illustratore e interprete delle dottrine di Vico, il nuovo Platone e il nuovo Mazzocchi d'Italia, Cataldo Gannelli, e nessun poeta pianse una si gran perdita, nessun giornalista ne annunziò la morte!

Il cantare di tutti e per tutti, per voglia di cantare ad ogni costo; l'attendere alla sola forma e non all'essenza, all'esteriorità e non al fondo; pretendere infine un grano d'incenso all'idolo di ciascun giorno, sapete ove mena, miei cari poeti concittadini? Al difetto che trascinò a precipizio e rovina quel potente ingegno che fu Vincenzo Monti. Quel divino, a cui largì natura il cor di Dante e del suo Duca il canto, incominciò fin dalla prima giovinezza a cantare matrimonii e feste, abituandosi ad inspirarsi delle cose presenti, onde avvenne che con lo stesso fuoco poetico cantò i mali e gli infiniti guai di Francia nella Basvilliana, la repubblica nella Cisalpina, l'ordine e la pace nella Mascheroniana, le vittorie di Bonaparte ch'ei chiamò rivale dì Giove, e caduto il gran guerriero canta il più giusto, il migliore dei re, Francesco d'Austria, già turbine in guerra e zefiro in pace. Ma Francesco Augusto, per non ismentire l'epiteto di giusto datogli dal poeta, con sano criterio gli sospende il titolo di storiografo e gli assegnamenti, dicendo: Costui canta per tutti quelli che lo pagano. Eppure il Monti non per versatilità politica, non per ottener pensioni aveva cantato gli Odescalchi e i Braschi, la repubblica e l'impero, Napoleone e Francesco d'Austria, ma solo per difetto di scuola, perché credeva che il poeta dovesse cantare e non filtro che cantare, nulla importando se il soggetto di oggi fosse opposto e contrario a quello di ieri.

Negli ultimi anni della sua vecchiezza Goethe diceva: «Testé è morto a Jena un giovine poeta, troppo presto davvero; che per poco che tirasse innanzi diveniva dei sopracciò. I suoi amici assicurano nelle gazzette che i suoi sonetti vivranno nella posterità. Eh! ci vuol altro che sonetti e almanacchi per divenire un grand'uomo. In gioventù io ho sentito da uomini gravi che tutto un secolo si affatica per produrre un poeta, un pittore di genio. Ma i nostri giovinotti ci hanno posto riparo, ed è un gusto a vedere come trattano il secolo.» Coi sonetti dunque non si può divenire un grande uomo, lo diceva uno scrittore non sospetto, il più gran poeta moderno della Germania, e ciò dovrebbero intendere tutti i giovani Italiani che scrivono versi.

Però superiori alla facile gloria d'un sonetto sono tra noi Emidio Cappelli, autore della Bella di Camarda, novella abbruzzese in terza rima; Francesco Saverio Arabia, autore di un volume di poesie prose pubblicate nel 1855,


(1) CANTU', Storia degl'Italiani, vol. I, pag.213, ediz. Napol.


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e Vincenzo Baffi; tutti e tre della scuola del Baldacchini, ma con questo divario, che i primi accoppiano altri meriti letterarii e scientifici alloro nome ed alla poesia, e Baffi invece non vuol dare un passo più in là de' melodiosi accordi di un'arpa che ti carezza l'orecchio e non dice nulla al cuore e alla mente. Ma al disopra della forma persiste il pensiero, scrivea non è guari in questo stesso giornale il maschio e nobile intelletto di Francesco De Sanctis. La poesia, figlia del cielo, dee calare in terra e prender corpo. Qui lascia la terra, si inette al disopra dell'umano, al disopra della storia, si scorpora, si spiritualizza, si fa immobile come una cifra, si fa scienza. E per vero dire, oggi il poeta, il vero poeta debb'essere la voce delle nazioni, la fiaccola che dee rischiarare il cammino avanti ai popoli per segnare la via novella che dee condurre alla terra promessa, al mondo morale; quindi dee coraggiosamente flagellare il vizio, l'accidia, l'indifferenza; insinuare la generosità, la carità, l'abnegazione; guidare le società alla benevolenza e non all'odio, all'azione e non all'inerzia, alla speranza e non allo sconforto, all'amore e non all'egoismo, all'entusiasmo del vero e della virtù e non alla derisione della scienza e all'apoteosi del vizio, alla fede e non all'ateismo.

Ma se non vi è arte, ove non vi è manifestazione di pensieri, donde avviene che la poesia comincia ad aver vita prima d'aver forma; lo scopo dell'arte eziandio non è pienamente raggiunto ove la forma è trasandata, e non risponde alle convenienze del soggetto. Imperoché la forma è pure bellezza, ed è quella bellezza che esce manifestata con tale unità, da far che tutto lo spirito che la informa risplenda come un raggio di sole da un velo sottilissimo. Quindi la forma stessa si compone di elementi poetici consistenti nelle parole armonizzate all'idea, rivelatrici della bellezza delle immagini. È dunque necessario pel poeta di armonizzare in modo il soggetto alla materia, il concetto alla forma, che questa appaia puranco spiritualizzata. A questo sopratutto dee porre mente il poeta lirico: perché egli è chiamato a manifestare col canto direttamente l'animo suo. Ma sventuratamente la forma è trascurata quasi sempre da coloro che sortirono da natura maggiori facoltà poetiche; cosicché se il Pellicciotti e De Virgiliis di Chieti, Nicola Sole di Senise in Lucania, ed altri stupendi ingegni di che il Regno è ricco, curassero con più studio la forma, vincerebbero il passo senza dubbio su gli altri dell'opposta scuola; perché in questi vi è gran fantasia e calore di affetti, qualità che mancano negli studiosi della forma,

Oltreciò il Regno offre pure due specialità poetiche, entrambe nell'Abruzzo; tanto è vero che la poesia germina nei luoghi freddi d'Italia, come la scienza nei caldi, e senza citare esempi passati basta ricordare la culla del Manzoni, cui voglia Iddio prolungare i giorni a gloria della penisola, del Carcano, del Giacometti, del Prati, del Romani e dell'Aleardi, le cui poesie sono ora qui con avidità crescente ricercate dai molti. Le due specialità sono il poeta latino Quanciali, autore di un poema su l'Hanneman, volgarizzato in forbiti versi italiani da un altro Aprutino,Raffaello d'Ortensio; di un secondo poema sul Congresso degli scienziati tenuto in Napoli, e di un terzo (inedito) sul sipario del teatro San Carlo, ove ii pittore Giuseppe Mancinelli dipinse i grandi scrittori e poeti d'Italia, e Domenico Slromei calzolaio di Zocco, autore di una raccolta di poesie intitolata Cantica di ricompensa, nella quale si leggono versi da far venire i rossori al volto di non pochi che tra noi pretendono al lauro poetico. Le cose del Quanciali non sono apprezzate dai molti, perché ai molti, letterati, poeti e giornalisti, non incombe l'obbligo di papere il latino; ma in Germania e in Francia il Quanciali è tenuto in conto di un novello Lucrezio Caro. Peccato, che anche egli, vinto dall'andazzo, prosterna la maestà del linguaggio latino ad imitazione di Stazio


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nel celebrare istrioni, cantanti e cose di poco o nessun conto, scrivendo però sempre epigrammi di squisita fattura e degni di ben altra età.

Due raccolte di versi, già stampati nella maggior parte su i giornali napolitani, sono le ultime pubblicazioni poetiche della nostra stampa. La prima, che porta per titolo Riposi ed Ombre, appartiene a Saverio Baldacchini, ed è un volume in 8° piccolo di 147 pagine, pei tipi del Fibreno: l'altra chiude taluni Canti di Nicola Sole, e forma un volume in 8° grande di 145 pagine, pei tipi di Gaetano Nobile. Splendida edizione è quest'ultima adorna del ritratto dell'autore, dipinto da Raffaele d'Auria, ed è veramente bella per caria, nitidezza di caratteri e correzione.

Questi ultimi canti del Baldacchini e del Sole sono una prova dippiù del loro grande amore alle Muse; ma non così delle Muse verso di essi. Intendo dire che i versi dell'ultima raccolta del Baldacchini son di minore eccellenza delle due prime (L'Ideale e L'Erato): e i canti del Sole inferiori assai agli altri pubblicati undici anni fa (l'Arpa lucana). Il primo giustificò quasi la raccolta, e prevenne il giudizio della critica onesta e sincera col titolo Riposi ed Ombre, l'altro fece bene e male ad un tempo nel ristampare e porre a frontespizio, per cosi dire, del libro il bellissimo canto Al Mare Ionio, corda armoniosa strappata all'arpa Lucana. Fece bene, perché questa è la miglior poesia della raccolta, e rivela uno stupendo ingegno poetico; fece male, perché grande e doloroso è il divario che passa tra questa e le altre poesie che seguono, nelle quali vi è pure il Rosignolo delle amene valli del Sinni, che armonizzò si dolce la sua melodica voce al libero arpeggio del bardo assiso all'ombra della chiomata rovere montana di Foy e della Potentina boscaglia consecrata a Pallade.

Ma se poco cortesi tornerebbero le osservazioni di una rigida critica al Baldacchini, che questa volta si è voluto riposare non sulla fresca verdura del Parnaso, ma all'ombra di esso; mentre le spalle del calle erano

Vestite già da' raggi del pianeta

Che mena dritto altrui per ogni calle;

sarebbero ingiuste poi pel poeta di Lucania che consecró l'opera sua in benefizio di coloro che furon fatti miseri dal tremuoto del 16 dicembre 1857, e fece aperto il suo pensiero nel sonetto di dedica al direttore Bianchini, e assai più nella prefazione. Accettino per tanto, ei disse, i gentili e generosi soscrittori la più sincera protesta di riconoscenza, che io loro possa fare a nome di due belle e sventurate provincie. Ha quando vedranno questo libro, non riguardino, con lo scontento de' delusi, alla povertà di esso; lo accolgano sibbene cortesemente, come il dono di un uomo che viene a retribuirli, nel modo che egli pub meglio, dei benefizi fatti alla sua terra natale. E con grande cortesia per vero dire è stato accolto non solo da' soscrittori, ma eziandio dai giornali e giornalisti di questa Napoli umanissima.

Nel secolo passato il patriziato napolitano onorò grandemente le scienze morali e politiche, e dolcissima ancor torna ai buoni Italiani la cara e gloriosa memoria di Gaetano Filangieri, di Troiano Spinelli duca di Aquara, del marchese Giuseppe Palmieri, del marchese Domenico Caracciolo, del duca Domenico di Gennaro, del marchese Domenico Grimaldi, del principe di Strongoli, del principe di Migliano, di Carlo Ligny principe di Caposele, e di altri egregi che si affaticarono ad onorare la vita e la patria con opere d'ingegno, gloriandosi di meritare il nome di statisti, economici, giurisperiti e politici, anziché portar quello di principi e marchesi. I luttuosi avvenimenti del 99 rovesciarono un secolo di lumi e di glorie, e la dominazione straniera falsò quel nobile indirizzo di opere e di studi sodi e fruttuosi;


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sicché al miracolo della Scienza della Legislazione, alle Riflessioni sulla pubblica felicità e sulla Ricchezza Razionale, al Piano Economico di pubblica sussistenza, al Saggio di Economia campestre, ai Ragionamenti economici, politici e militari, seguirono i romanzetti galanti, le poesie arcadiche, le investigazioni su gli antichi titoli di nobiltà, ed altre frascherie ed inettezze adulatrici dei Napoleonidi! Il patriziato scomparve nella vera nobiltà dei nomi desunti dalle opere d'ingegno; e si contentò belare il panegirico, direbbe la grand'anima di Giuseppe Giusti, degli stemmi gentilizi e delle insegne blasoniche. Ma ira i moltissimi persuasi e fermi nel credere che i soli titoli gentilizi bastassero a farli onorare, ve ne fu uno che si persuase del contrario, e cosi fin dal principio che la voce nobile vien da notabile, e presuppone che l'uomo così qualificato sia noto per virtuosa fama e desti vaghezza nell'universale di conoscerlo presenzialmente (1). Per la qualcosa egli volle onorar se e la sua vita con le opere della mente, e non con gli scudi aristocratici. Quindi, giovinetto ancora, raccolse con animo grato il legato officioso del vecchio patriziato sapiente, e coltivò con ardore e successo le scienze morali e politiche, non discompagnate dalle umane lettere e dalla poesia. Quest'uomo aveva il titolo di duca di Ventignano.

Alle armi francesi era sottentrata una più terribile invasione, quella degli scritti idrofobi e corrompitori che la Francia c'inviava. Finallora le nostre città si deliziavano nelle rappresentazioni delle tragedie dell'Alfieri, del Maffei, del Monti e del Foscolo; delle commedie di Goldoni, dei melodrammi del Metastasio, e il teatro parea tutta cosa nostra, italiano e nazionale. Ma ecco invadere le nostre scene una farragine indigesta di commedie e drammi francesi, classici (se mi si permette il vocabolo) soltanto per turpitudine, paradossi e sinistre esagerazioni, aventi a protagonisti parricidi, fratricidi, omicidi, cannibali, incestuosi, carnefici, donne di male affare, e tutti immorali. II teatro nazionale, ch'è scuola di civiltà, allora diventò per noi palestra di barbarie: il teatro nazionale, che serve a propagare la buona lingua, divenne per noi corrompitore del linguaggio: il teatro nazionale, eh' è scuola di morale, diventò focolare d'immoralità: il teatro nazionale infine, che serve eziandio a distendere la influenza di un popolo sull'altro, ed a rappresentare tutta una nazione complessivamente nell'individualità drammatica, per noi divenne miserabile schiavo dell'altrui influenze, senza niuno esercizio delle proprie.

Gl'ingegni nascenti, vaghi di onori e di plausi, non trovarono modi migliori per meritarli, anzi strapparli ad un pubblico già guasto nel gusto, che d'imitare servilmente e spesso riprodurre tutte le sconcezze e le turpitudini del teatro francese. Il Ventignano, ad arrestare l'irrompente foga della più balorda imitazione straniera, si levò magnanimo e fiero quasi a vendicar l'onor nazionale, e scrisse tragedie e commedie di concetto, di stile, di sapore italiano, e quando in Italia non vi era più un solo che si ricordasse di Goldoni e della commedia. Nel glorioso campo lo seguirono lo Sperduti, il Genoino, il Ruffa, il Campagna, Gregorio d'Alessandria, troppo presto rapito ai viventi, il Michitelli; ma l'esempio di costoro non valse a debellare la giovine schiera degli autori de' cosi detti colpi di scena capitanati dal barone Giancarlo Cosenza, e scoraggiati quasi dal freddo accoglimento del pubblico, indietreggiarono e tacquero. Solo ilVentignano, come un guerriero del medio evo coperto di celata e morione, continuò a combattere per l'onor delle armi nazionali, e fu si valoroso da rimanere in campo


(1) Gioberti, Prolegomeni.


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e strappar l'applauso col comico da un pubblico avvezzo ad inchinarsi con riverenza e rispetto di scolaro a tutto ciò che sapea di straniero e di strano. I pochi maschie severi ingegni lodavano gli sforzi magnanimi del Ventignano, e non vedendoli seguiti od emulati piangevano in disparte le sorti del nostro teatro; perché cosi in questa com'in ogni altra cosa, quando è tornato vano ogni sforzo a migliorar gente corrotta, non altro rimane al sapiente cittadino, all'amico dell'umanità che il pianto, il silenzio, od il martirio!

Di quanti drammi, commedie e tragedie pazzamente applaudite sul nostro teatro di prosa, ora non conservasi e giustamente più memoria! Oggetti di riso o di plauso in un'ora, passarono col riso e col plauso di un'ora. Infelici autori, giovani traditi, ingegni concultati, io lo so, la colpa non fu tutta nostra; ma d'altra banda non posso non lamentare i cinquantanni perduti tra garrule dispute, frivole gare e basse imitazioni servili. Or dopo lunghe lotte, chiarito in parte il vero, sottentrato un certo periodo di riflessione, i giovani ingegni per la mercé di Dio sonosi accorti che la via prescelta dal Ventignano era da seguitare e migliorare, e già con animo vigoroso rinnegando il passato s'ingegnano ad apparecchiare un fausto avvenire al teatro italiano. Questo accade non solo a Torino, a Milano, a Firenze, ma eziandio a Napoli, ove eletti ingegni sono intesi ad emancipare il nostro teatro delle produzioni straniere. Fra costoro sono da lodare con amorevole affetto nella parte tragica Tommaso Arabia, autore della Saffo, Domenico Bolognese, autore della Cleopatra, e Francesco di Prato, duca dell'Albaneto, per la sua Gaspara Stampa, pel dramma il Lopez e il Riccio negli ultimi lavori; per la commedia il marchese Laviano Tito, autore del Giorno di Patini e di altre commedie.

Ma non sono soltanto questi gli eletti coltivatori della drammatica appo noi; ve ne ha molti altri che apparecchiano lavori tragici e comici per l'avvenire del nostro teatro, tra i quali mi piace ricordare Camillo Caracciolo, marchese di Bella, e Luigi Gudelli. Equi mi gode l'animo significare come il nostro teatro siasi grandemente migliorato per opera di tutti codesti giovani ingegni; e una gran lode è dovuta segnatamente al Prato e al Laviano Tito, i quali per elezione di soggetti, per gentilezza di modo e di affetti, per italianità di sentire rivelarono se stessi nelle opere loro, sicché vedemmo i galantuomini veri nella manifestazione dei pensieri e nell'opera dell'ingegno. Io dico questo con infinita soddisfazione dell'animo mio, e faccio voto che il giovine patriziato napolitano l'imiti in siffatte cose, cioè in opere d'ingegno e di studi. «Errano molti credendosi nobili perché di «nobile casato; il quale errore in molti modi può ribattersi. E primieramente, se si consideri la causa creatrice, Iddio col farsi autore di nostra schiatta, la nobilita tutta; se la causa seconda è creata, i primi padri da cui discendiamo sono gli stessi per tutti, tutti ne ricevettero eguale nobiltà e natura. La medesima spica dà il fior di farina e la crusca; questa gettasi ai porci, quella sale alla mensa dei re: così dal medesimo tronco potranno nascere due uomini, uno vile, nobile l'altro. Se ciò che viene ' da un nobile ne ereditasse la nobiltà, gl'insetti del suo capo e le naturali  superfluità in lui generate diverrebbero nobili del pari. Bello è il non deviare dagli esempi de' nobili avi, ma più bello l'aver illustrato un simile nascimento con grandi azioni. Ripeto dunque con San Girolamo, che in questa nobiltà pretesa ereditaria nulla merita invidia, se non l'essere i nobili obbligati a virtù per vergogna di dirazzare. Nobiltà vera è quella sola dell'animo.» Per avventura non è farina del mio sacco, ma ciò scriveva un uomo non sospetto, e quando un feudatario valeva quasi quanto un re; lo diceva un pronipote di Federico Barbarossa, un cugino di Enrico VI


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e di Federico II, un discendente per madre dei principi Normanni, in breve un Tommaso dei conti d'Acquino, oggi adorato in sugli altari.

Io ho detto che per opera di taluni eletti ingegni la nostra drammatica si è migliorata e promette migliori successi. Ma avremo un teatro nazionale e tale da varcare il confine napolitano, e aprirsi una via fin tra lo straniero? No, finché le condizioni materiali del nostro teatro saranno sempre quelle che oggi sono, facendo pure astrazione degli altri elementi che valgono a creare un teatro nazionale. Baldo, pieno di fuoco e ardimento, il giovine ingegno napolitano si slancia nell'arena drammatica non sognando che corone e plausi; con una ostinazione ammirevole segue la sua via fino a trent'anni, cade e risorge, combatte e vince. Egli allora non vive che al sorriso della gloria, alle gioie della speranza d'un plauso lusinghiero, all'eccitamento della lode d'un giornale; sicché abbandona tutto, ed ogni suo pensiero concentra nel teatro. Ma arriva l'età di metter su una famiglia, di aprir casa, di mantenersi da sé; i bisogni indeclinabili della vita lo stringono d'appresso; i genitori che pensavano ad alimentarlo e vestirlo sono morti; ei non ha una professione da esercitare, una carica da sostenere, un uffizio da cui possa cavare i mezzi di sussistenza; si volge al teatro, e il teatro non gli offre che ricordanze più o men liete, quand'egli ha bisogno di campare onestamente la vita; allora un fiero sdegno s'impossessa di lui, il disinganno più terribile lo invade; ei quasi maledice all'ingegno e al teatro, agli studi e all'amor del sapere e dell'arte, e pensa ai casi suoi. Non è forse questa la dolente storia de' numerosi ingegni che coltivarono la drammatica tra noi da cinque lustri in qua? Perché scomparvero dall'arena teatrale Rubino, Mastriani, Cucciniello, Coppola, Coletti, Adolfo De Cesare, Capecelatro, Giacinto Bianco, Spagnolio, Sesto Giannini, Pouchain, Colucci, Avitabile, Corsi, Gervasi, tutti viventi, e tant'altri buoni ingegni, il cui novero sarebbe lunghissimo? Non scrissero parecchi tra costoro eccellenti lavori? Perché dunque disertarono il teatro? Perché il teatro non offri loro alcun mezzo di onorevole sussistenza. E per vero dire un autore drammatico, dopo aver percorso un lungo stadio di crudeli sofferenze morali, riesca o no il suo dramma, la sua tragedia, la sua commedia, egli è costretto a farne un dono, a spogliarsi della sua proprietà, perché ella rimanga nel repertorio del teatro. Qual premio adunque, dirò con Carlo De Cesare, qual frutto coglie lo scrittore drammatico dai suoi lavori Se l'opera e riprovatati fischi e il sarcasmo; se è applaudita, gli articoli di lode dei giornali (1).

Eppure noi abbiamo un teatro di prosa privilegiato, godente d'una sovvenzione governativa annuale di 5000 ducati, con ricco provento d'appalto, e per soprassello esonerato dal miserabile premio di ducati quaranta che prima si accordavano ad un buon lavoro drammatico dato per concorso. Per la qual cosa tutte le sofferenze son dell'autore drammatico, tutti i guadagni dell'impresario, ed appo noi gl'impresari si fan tosto ricchi. Per la qual cosa, finché il nostro teatro sarà mantenuto a spese delle produzioni francesi, dei lavori del Giacometti, del Ferrari, di Gherardi del Testa, del Montanelli, di Marenco e di altri onorevoli ingegni italiani; finché il nostro teatro sarà palestra de' novizi e dei dilettanti letterarii desiderosi di lode, e a forza di crudeli disinganni ed angoscevoli delusioni, allontanerà dal suo recinto gli scrittori già saliti in qualche fama, noi non giungeremo mai alla restaurazione dell’arte drammatica, non avremo giammai un teatro italiano e nazionale. Ma qual sarebbe il mezzo efficace per raggiungere cotanto scopo? Un solo; quello di tutelare la proprietà intellettuale, mercé ordinamenti interni e convenzioni internazionali.


(1) Della proprietà intellettuale, pag. 40, Napoli 1858.


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Tranne questo, ogni altro provvedimento d'incoraggiamento diretto e indiretto sarà vano; non frutterà che lodevoli tentativi, e già se ne fecero moltissimi senza niun pro per l'arte e per la fondazione d'un teatro nazionale.

Non meno fecondi di nuovi romanzi e romanzieri furon per noi questi ultimi due lustri. Filippo Volpicella ci diede la Ceccarella Carafa, che voi, signor Direttore, pubblicaste nel 1855 nel Cimento; Francesco di Prato, La Figlia dello Spagnoletto, stampata in Firenze; Giuseppe Lazzaro, un romanzo intitolato Luigia, Virginia Pulli Filotico, il Carlo Guelfi; Emilia De Cesare, Le Due Sorelle, e un secondo romanzo intitolato Manina, episodio della ultima guerra d'Oriente; e l'instancabile Francesco Mastriani, la Cieca di Sorrento, Matteo l'idiota, ecc., ecc. Ciascun lavoro non manca di qualità, vuoi per eletti studii storici,per fantasia, per vivezza di dialogo; vuoi per colorito locale delle scene dipinte e per bontà di scopo; ma un romanzo nei termini dell'arte in tutti codesti scritti non trovi. In quanto al romanzo storico, l'errore dei nostri romanzieri sta in questo, cioè nel credere che il fondamento dei fatti costituisca il vero romanzo storico. Ma non nei fatti, i quali il più delle volte non sono niente storici, sibbene nella rappresentazione dei tempi sta il romanzo storico.

Esempio unico e stupendissimo il Manzoni. il quale riusci in un modo insuperabile così Dell'animare di poesia la storia, come nel ritrarre con fedeltà i tempi ed i costumi di tutto un secolo. Gli è perciò che i Promessi Sposi riescono immensamente utili anche per la cognizione storica. I romanzieri napolitani invece (parlo de' migliori) non seppero discostarsi dal fatto storico, né questo vollero o seppero rendere poetico, sicché riescirono storici e non romanzieri. In quanto poi alla dipintura de' tempi presenti, cioè al cosi detto romanzo intimo, l'Italia in generale manca di questo genere di romanzi. I tentativi fatti da taluni sono da lodare per lo scopo morale, ma non per esecuzione e magisterio d'arte, non essendoci niente in essi che rivela il secolo penetrato tutto dallo spirito filosofico, e lo rappresenta com'è serio in tutte le sue parti. In generale però i nostri scrittori di romanzi si tennero lontani dall'imitare il romanzo francese, ch'è un vero reato contro la morale e l'umanità, non ostante l'invasione continua degli scritti francesi originali e volgarizzati. Perciocché in Italia molti editori e librai di secondo ordine, e segnatamente quelli del Regno, non amano, ovvero non sanno far di meglio che ristampare tradotti tutti i romanzi ch'escono alla giornata in Francia, e diffonderli dall'un capo all'altro della penisola come oro di coppella; mentre si desidera dai buoni e dai dotti una edizione completa degli scritti immortali sparsi qua e là in parte originali e in parte stampati di Cataldo Jannelli, una edizione di tutte le opere del Genovesi ordinatamente fatta, di Melchiorre Delfico, di Giuseppe Galanti, del Granala e di altri valent'uomini testé rapiti da morte. Invece si stampano e ristampano più volte i romanzi francesi che più parlano ai sensi, che ostentano la purezza dell'adulterio e della prostituzione, l'eroismo del suicidio e delle più detestabili passioni, e così s'insinua dilettevolmente la scontentezza del proprio stato nelle donne, lo scetticismo satirico nei giovani, il dispregio della società nell'individuo, l'immoralità in tutti. Per vili guadagni anche gli editori e i librai cospirano a danno della presente e delle future generazioni!

Chiudo questa lettera col ciglio coperto di lagrime. Ma come si fa a non lagrimare, quando le anime più elette ad una ad una ci abbandonano? Ahi! pur troppo è vero che quando Iddio vuol punire un popolo gli toglie la mente, e mente di tutta una nazione sono i suoi sapienti. In soli dieci anni un secolo di glorie si è rapidamente ecclissato per la nostra infelice Italia, un secolo di onesti principii in potenti ed oneste individualità. Quante perdite, sommo Iddio, in soli due lustri, quanti dolori, quante lagrime!


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Ed ora al pietoso novero di Pasquale Borrelli, Teodoro Monticelli, Francesco Maria Avellino, Cataldo Gannelli, Pellegrino Rossi, Giovanni Berchet, Giuseppe Giusti, Vincenzo Gioberti, Cesare Balbo, Gaetano Recchi, Giacinto Collegno, Giuseppe Siccardi, Silvio Pellico, Tommaso Grossi, Luigi Carrer, Giuseppe De Cesare, Domenico Capitelli, Vincenzio Moreno, Giulio Genoino, Giovanni Guarnii, Nicola Nicolini, aggiunger debbesi, con doloroso ufficio, un Carlo Trova! Ei spirava il 28 luglio, alle 3 mattina.

Nella prima parte di questa mia corrispondenza, ch'io avea scritta prima della di lui morte, io parlai con libera parola delle sue opere e della sua profonda dottrina, e temendo dispiacere alla sua somma modestia quasi verginale, mi restrinsi a discorrere del solo potente scrittore che creava in Italia una novella scuola storica.

Ma Carlo Trova non era solamente l'autore del più magnifico inno cantato finora al trionfo della sapienza italica, il rivelatore della presente civiltà qual figlia legittima della Greco-Itala, lo storico profondo dì Roma vincitrice dei barbari, la quale recò all'ultimo settentrione il Vangelo, e con esso l'intelletto e le arti di Grecia e di Roma, l'idea vivace del bello e il tempio cristiano, le discipline liberate dal fetore dei sagrificii, sì che l'agreste tempio di Satana videsi trasformato in isplendide cattedrali, e tutta la Germania di Tacito sentì la forza della nuova luce. Al brillar della quale le antiche selve si cangiarono in ricche e popolose città; che che potessero averne pensato i Cauci di Plinio, che che possano dirne i presenti lodatori della vita ferina o selvaggia. Benefica, onde la Germania di Tacito va debitrice all'Italia, poiché l'Europa d'oggidì è Greco-Itala per l'intelligenza, e le forme del bello uscirono (per quanto ci fu tramandato) dai tempi vetusti d'Ardea, di Lanuvio e di Cere; poscia il concetto di quel bello si allargo tra' Greci e vinse i Romani, che d'età in età doveano propagarlo in tutta la terra. E Roma impose a tutta l'arte, ed imporrà di parlare o di ammirar la sua lingua; in guisa che nelle più inospite contrade s'abbiano a leggere, e si leggeranno certamente, i libri di Virgilio e di Livio, al pari di quei d'Omero e d'Erodoto; né Arminio vive nelle bocche degli uomini se non per opera di Tacito (1).

Egli non solo seppe penetrare, sfolgorante di nuova luce, nelle tenebre dell'età di mezzo, e chiarire la storia d'Europa, e con singolarissimo amore e indefesso studio aprire i tesori del poema nazionale d'Italia; ma più dei libri scritti era egli stesso un gran libro vivente, in cui si leggevano a chiare note le virtù e le miserie, le glorie e le sventure, i trionfi e i delitti, i dolori e le colpe, i pregi e i torti cosi dell'antica come della moderna penisola italiana, ed a fianco di essi i rimedi giusti, ragionevoli, onesti, efficaci.

Nel memorabile anno 1848 tenne per quarantadue giorni il potere siccome capo del Gabinetto Napolitano, e ne usciva simile al poeta di Platone, non ostante i luttuosi accadimenti del maggio di quell'anno, cioè coronato di fiori e lodato da' buoni per la sua somma moderazione e docile sincerità, la quale non è solamente la misura della modestia, ma eziandio del nobile carattere e dell'ingegno.

Carlo Trova non si annunzio alla vita, ma si rivelò. Egli ebbe appena il tempo d'essere fanciullo; non fu mai giovinetto; ma uomo sempre e della scuola de' saggi fin dalla sua prima età. Di nobile intelligenza, di cuore eccellente, buono, giusto, onesto, la sua vita fu quella del galantuomo vero, dell'uomo dabbene; e per questo pregiò sempre l'amicizia dei buoni,


(1) Trova, Storia, vol. I, p. IV, pag. 404.


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 dei giusti e degli onesti. Abborrente dall'orgoglio e dalla vanità delle lettere presenti (confessione dolorosa!), in tutte le sue investigazioni non si pro poneva che il vero, senza curarsi di coloro che cercano fama per quante vie l'irrequietezza umana sa aprirsi. Egli segnava invece un cammino di verso a se medesimo, ed invocava voglie meno assurde e tempi migliori. Niuno più di lui però sapea pregiare l'ingegno maschio e vigoroso ove gli era dato incontrarlo; niuno più di lui amava la virtù; niuno più di lui adorava la patria. Visse e mori da cristiano sapiente. Un modesto corteggio funebre accompagnò la sua salma all'estrema dimora, e i frati dell'inclito ordine Benedettino, ch'egli cotanto celebrò nei suoi scritti immortali, pregarono pace alla sua grand'anima. Or alla sua tomba dirò con un poeta àppulo:

Convenga ognor la gioventù pensante, Qual convenia la greca gente in armi Di Maratona ai bianchi avelli innante L'ossa dei prodi consultando e i carmi, E interroghi le ceneri sue sante Per una nuova età


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RIVISTA CONTEMPORANEA

FILOSOFIA — STORIA — SCIENZE — LETTERATURA POESIA — ROMANZI — VIAGGI CRITICA — ARCHEOLOGIA — BELLE ARTI


VOLUME DECIMOQUINTO

ANNO SESTO

TORINO,

TIPOGRAFIA ECONOMICA DIRETTA DA BARERA

Via della Posta n. 1,

1858.



CORRISPONDENZA DELLE DUE SICILIE


Compio con questa in breve esposizione delle condizioni presenti delle lettere nella parte continentale del Regno. Discorrerò poi di quelle della Sicilia propriamente detta.

Con Giordano de' Bianchi, Basilio, Puoti, Giuseppe ili Cesare, Nicola Nicolini e Carlo Trova perdeva il Regno in questi ultimi due lustri non solamente i più illustri letterati, giuristi e storici, ma eziandio i più sapienti filologi. Giambattista Vico dimostrò che la lingua latina nacque da una lingua itala antichissima, che i nostri avi formarono da se stessi, secondo lo svolgimento naturale del sentimento del bello, del bene e del vero, senza mistura di dettati stranieri che ne affrettassero, ritardassero o ne corrompessero l'andamento. E come gli Etruschi furono senza contrasto i popoli più avanzati dell'antichità per riti religiosi, ordine civile, architettura e milizia, cosi dottissima dovette infine riuscirne la lingua (1). L'intiero vocabolario latino può dirsi d'avere le sue radici nelle voci antichissime che il buon senso italiano ritenne e conservò anche dopo la caduta della dominazione etrusca. Glorioso privilegio della Toscana! Anche il nuovo idioma italiano, nato fra noi, si fissò depurato sull'Arno, che ne colse il più bel fiore, per cui la lingua toscana fu salutata e riconosciuta reina fra tutti gli italiani dialetti.

Questa scuola Vichiana di cavar dalla generazione delle voci la generazione delle idee, non fu disertata mai dai nostri maggiori ingegni, e valse a mostrare come dalla filologia nasca la filosofia, e questa si giovi nei suoi avanzamenti di quella. E gran lustro e vantaggio, oltre agli scrittori citati di sopra, recarono alla lingua, alle lettere e alla filosofia italiana gli strini filologici di Raffaello Liberatore, Pasquale Borelli e Paolo Emilio Imbriani. Le lezioni filologiche di quest'ultimo sopra Dante sono gemme preziosissime, e peccato che finora non sia venuto in mente a niuno editore di raccoglierle e stamparle insieme in un volume. Or di questa potente scuola filologica tra noi non rimangono che singoli uomini, come sparsi fuochi di deserto campo,


(1) Vico, De antiquiss. ital. sap. nel proemio e nelle risposte alle censure e se ne fecero.


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e primo fra tutti per debito di coscienza è da ricordare Giovanni Chiaia, discepolo del Montrone, e autore del Montevergine, nel quale, senza entrare nel concetto e nelle intenzioni del poeta, si leggono ottave di si squisita fattura e sparse di cotanta dolcezza e sapore di lingua, che in questi ultimi due lustri non si scrissero le eguali in tutta Italia.

I semi sparsi dal Puoti e dal Greco in fatto di grammatica non lasciarono di fruttare, ed eccellenti grammatici abbiam noi cosi per le scuole preparatorie, che di prima e seconda classe, in Bruto Fabbricatore, in Rodino ed Emanuele Rocco. Ma ima lingua non si apprende colla grammatica, né questa costituisce l'essenza di quella; solamente ne agevola la via coi precetti. La lingua invece si attinge nelle pure fonti de' classici scrittori, e segnatamente in quelli del trecento e del cinquecento. A questo provvede eziandio il Fabbricatore con la ristampa delle opere del Puoti, del Fornaciari, degli aurei trecentisti e delle scritture di Daniello Bartoli, nonché il Rocco con altri scritti di eccellenti dettatori.

Compiono questi nobili sforzi per una buona istituzione nelle anguste sfere del nostro insegnamento Domenico Anselmi e Francesco Prudenzano, autori di trattati di estetica; Vito Fornari e Raffaello Masi, l'uno autore di un'opera intitolata l'Arte del dire, non ancora pubblicala per intiero, e l'altro di un Trattalo estetico e pratico di eloquenza. Costoro non lasciarono di giovarsi dei concetti e degli scritti del Puoti, del Giordani, del Rosmini, del Gioberti, del Tommaseo, del Selvatico, del Bianchetti, e secondo la mente degli autori alternarono il metodo sintetico con l'analitico, a misura che l'uno parve più acconcio dell'altro alle particolari vedute di ciascun scrittore, ed alle ricerche dello spirito nella ragione suprema del bello e dell'arte. Lode "---sincera è dovuta a questi scrittori, i quali sostituirono al guazzabuglio delle slombate rettoriche libri più consentanei al bisogno comune, e rispondenti fino a un certo punto allo svolgimento delle moderne discipline; sebbene l'impronta dell'antico insegnamento rettorico non fosse stato interamente disertato dagli orrevoli scrittori di cui è parola.

Oppositrice dell'attuale insegnamento, delle rettoriche e de' citati scrittori che non disertarono del tutto le antiche istituzioni, ora sorge una schiera di giovani ingegni, la quale per vero dire è frutto dei semi sparsi dai forti intelletti di Stefano Gusani, Ottavio Colecchi, Francesco Trincherà e Francesco De Sanctis. Costoro furon primi a riformare la istituzione letteraria e filosofica, e primi a traspiantare dalla Germania in questo Stato le dottrine estetiche. Giudicati dalla critica follicolare, come smaccati seguaci dei Tedeschi, furono detti vent'anni or sono trascendentali; ora i discepoli di quelli son chiamati dai giornalisti e dai seguaci degli antichi melodi col nome di estetici ed hegeliani, e son quasi derisi dalla insipiente moltitudine. Ma il torlo non è degl'insipienti e dei prevenuti, io l'attribuisco agli stessi estetici, i quali avrebbero dovuto finora manifestare alla moltitudine degli scrivacchiatori che l’estetica è codice di dottrine puramente germanico; che Sulzer di Wintertliur fu primo a dare la teorica universale delle arti belle, col proposito di richiamarle al vantaggio della società, ed a formare ottimi cittadini per via del bello; che Baumgarten diede forma sistematica alla teoria dell'arte del bel pensare, e la fece dipendere dalla morale; che Mendelsohn ed Eberhard la renderono indipendente e parte nello stesso tempo della filosofia; che il Kant fece soggettiva l'idea del bello, e creò per questo un sistema proprio;


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che Fickte sottopose l'arte alla morale, e la fece rappresentante della lotta dell'uomo contro la natura, e del trionfo della libertà; che Schelling coll'accordo del finito coll’infinito, dell'esistenza fatale coll'attività libera, della vita e della materia, della natura e dello spirito rivelò l'arte come la più alta manifestazione dello spirito; che Hegel infine ne determinò meglio i confini, la sottopose alla religione e alla filosofia come rappresentante il vero sotto forme sensibili, e arrivante allo spirito per mezzo de' sensi e dell'immaginazione; che studiatala poi nella storia, diede la teoria delle arti particolari, determinò i principii e le forme di ciascuna arte, e in lai guisa formò un compiuto sistema che tutta rivela la potenza del più forte intelletto dei tempi moderni.

Oltracciò avrebbero dovuto manifestare eziandio l'evoluzione scientifica della Germania in questi ultimi tempi dietro lo svolgimento delle dotlrine Hegeliane, e parlare di Strauss che grida al cristianesimo morto, di Feuerbach e Slirner rivelatori di nuove dottrine, di Ruge, Vauwerck, Vngt, Grùn, Michelet di Berlino, Rosenkranz, Holho, Gabler, Marheinecke, di E ruiauno Fichte, Chalvbaens e Maurizio Carrière, nonché dei giovani Hegeliani francesi, belgi, inglesi e italiani; formolai e rettamente le loro «teorie, spogliarle del falso, mettere in luce la parte di vero che chiudono, e tutto ciò in libri, con sodi ragionari, con profondità di critica. In tal guisa, a parer mio, si accredita una dottrina, si fa valere una scuola, si fa progredire la scienza, s'illuminano le moltitudini, e non col gridare all'eccellenza delle dottrine del maestro, senza manifestarle, senza mostrare di saperle e averle profondamente studiate. E ciò può farsi anche per quelle dottrine che non incontrano difficoltà tra noi, come le estetiche, nella discussione dei sislemi, nella storia filosofica; ma appoggiarsi ai sommi tedeschi in critiche provocatrici, più simili ad attacco di partito, che a discussione scientifica, malmenare e bistrattare gli avversarli anche quando meritano elogio, far professione di critico senza cuor retto, senza criterio sicuro, senza buona coscienza, senza profondità di studi, questa è per lo meno arte da ciarlatano; e molti sventuratamente ne abbiain noi che senza aver neanche veduto i grossi volumi di Giorgio Hegel e gl'innumerevoli scritti dei suoi discepoli, si affibbiano la giornea di critici saputi, e parlano a strazio del genere umano, spesso citando opinioni che il gran senno di Hegel e suoi seguaci non sognaron mai di dire. Ai bravi giovani Hegeliani adunque incombe il dovere di spazzare questa lutulenta polvere che ora ammorba il campo letterario del nostro Regno, e rivendicare cosi le vere dottrine del più gran filosofo de' tempi moderni, non ostante i suoi errori, grandi quanto il suo ingegno e i suoi profondissimi studi. Io dico incumbe il dovere, perché quelli che ora diconsi Hegeliani Ira noi non hanno fatto ancora nulla pur la scienza, nemmanco giustificato il titolo che assumono. Scaturisce da ciò la sentenza degli oppositori nel chiedere continuamente: ma le opere de' nostri Hegeliani dove sono? Che hanno scritto e pensato costoro finora? Come possiamo noi crederli e averli in conto di letterati, di filosofi e di pensatori, se la loro impotenza è chiarita dal fatto loro stesso? Non è forse l’ingegno addottrinalo, attivo, operoso, ardito con saviezza, conscio delle proprie forze, scopritore nel presente de' germi futuri? E l'ingegno mediocre per lo contrario e di mediocre coltura non è per ordinarlo verboso, maligno, procacciante, nemico del fare, perché non fa o non sa fare, invidioso, malevogliente, pusillanime di spirito? Come rovesciare queste giuste dimande? In un sol modo; col produrre opere eccellenti, con lo scrivere libri e non giornali, col manifestar dottrine e non giudizi poco considerati.


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E bene è il tempo di farlo, perché tra gli Hegeliani si contano uomini di trenta e quaranta anni di vita, i quali finora non hanno l'atto nulla, proprio nulla per la scienza e per le lettere.

La storia ci rammenta che gli antichi domani dovettero la loro grandezza al pensare, al fare ed alla coscienza del proprio valore; e allora incominciarono a declinare, quando si fecero ad imitare le discipline forestiere, gli usi, i costumi e perfino le mollezze. Ma se questo è vero da un lato, dall'altro non bisogna confondere la bassa e servile imitazione con lo scambio reciproco degli studi, delle cognizioni, delle invenzioni, dell'umana coltura tra popolo e popolo; che anzi io stimo di grande incitamento, emulazione e profitto gli esempi stranieri nel perfezionamento del vivere Civile. Laonde fanno male coloro che si sbracciano a maledire tutti i libri che ci vengon di Germania, e con sistematica opposizione vogliono dare ad intendere che non v'ha cosa migliore di quelle di casa nostra. Questo è per lo meno un atto di puerile millanteria, di vana superbia, quando leggiamo in quello stesso Hegel cotanto imprecato la confessione d'avere i Tedeschi per lo passato ricevuto tutto dal mondo romano. Or perché non confessare anche noi con la stessa magnanimità di sentire e pensare che l'elevazione scientifica de' tempi moderni prende capo dal mondo germanico? Perché non dire che la vena speculativa per noi inaridi dopo il Vico, e il campo dei sommi statisti si chiuse con fra Paolo Sarpi? Questa confessione forse diventerebbe incitamento, e in luogo di citare le glorie passate, ci sforzeremmo a crearne delle nuove, ed emulare quella dotta Germania, che ha ben altri torti verso l'Italia, che non son quelli de'suoi libri e del suo processo scientifico!

La donna per missione provvidenziale fu chiamata a presiedere ai principii delle cose, onde una letteratura nazionale non comincia senza che le donne ne siano in parte madri e mitrici. E, per vero dire, l'opera faticosissima della civiltà non s'incomincia, né M compie, senza l'opera della donna, la quale grande influenza esercitò mai sempre ne'costumi e nelle leggi delle nazioni. E qual felice prodromo dei grandi fatti che seguirono apparve una egregia schiera di valorose donne in tutte le provincie italiane dal 1X20 al 1848; le quali con le doti della mente e del cuore, con le lettere, le poesie, le arti e l'educazione della prole rammorbidirono i costumi, fecero modesti e decorosi i matronali portamenti delle spose italiche, ed al frequente folleggiare delle antiche sottentrò l'impero della onestà e della domestica pace. La Guacci ch'ebbe l'intelletto e il cuore virili, la Taddei che come improvvisalrioe non cangiò l'arte in basso mestiere, la Oliva Mancini che ci fece assaporare la cara mestizia dell'elegia e calzò il coturno lodevolmente coll’Ines de Castro; la Ricciardi che scrisse canzoni popolari da far venire i rossori al volto di parecchi poeti amanti di colai metro, la PulliFilatico che scrisse e pensò come molti, che chiamansi scrittori, non sanno dire e pensare; la Fantastici Hossellini che tentò la grande impresa di un poema (['Amerigo); la Ferrucci che sciolse il gran problema della migliore educazione delle donne, e tenne con magnanimo ardimento all'invito del Leopardi che la preconizzava all'Italia; la Saluzzo che vesti di patetiche note i più nobili sentimenti dell'animo; la Paladini che disegnò la via d'una buona educazione per le donne, e aiutò l'opera bellissima della Ferrucci; l'Angela Veronese che seppe meritarsi il nome di Saffo campestre; l'Albarelli-Vordoni che seguitò l'opera del Gozzi e del Parini; la Malvezzi, l'AIbrizzi, la Masino di Mornbello,


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la Giampieri, la Gentilomo, la Confortini, la Turrisi-Colonna, la Curti si presto rapita da interni affanni alle muse italiane, e la Trivulzio, di libero e fortissimo ingegno, fiorirono quasi tutte ad un tempo siccome nunziatici di un bellissimo avvenire per la nostra patria adorata. Di questa eletta schiera d'anime care e belle or poche ne rimangono sopravvissute ai grandi dolori delle famiglie e delle cento città italiane; e in quanto a noi parvero tutte ecclissate dopo il quarantotto. Silenziosa allora la voce di tutti gli scrittori, parve che tutti fossero morti; mentre gli animi chiedevano almeno il dolce conforto delle umane lettere. Allora comparve una donna, e tutte evocò l'ombre dei grandi nomi d'un'epoca lontana, e ci parlò di Tacito, di Livio, di Cesare, di Sallustio, di Macchiavelli, ili Guicciardini, e poi di Grossi, di Pellico, di Carrer, ili Giusti; rovinò Melfi e ci parlò della storia e dei monumenti perduti di quella lillà, scritto quasi per intero inserito in seguito nella Relazione dei tremuoti di Basilicata del 1851 fatta dal dottor Giacomo Maria Paci per incarico del Reale Istituto d'incoraggiamento; scrisse pure un romanzo in cui rappresentò le condizioni morali ed economiche della Basilicata, e additò i mezzi come migliorarle: un romanzo il cui concetto ora vediamo più ampiamente svolto dal Rapet nel Manuale di murale, ecc., opera che ha conseguito in Francia il premio di 10,000 franchi; dettò infine un volume di versi, in cui non prese a cantare i mirti e i fiori, la luna del camposanto e i sdolcinati amori arcadici con frasi vuote di senso e di concetti; ma invece ella cantò i grandi amori della patria e dell'ingegno, e la sua musa pigliò a soggetti Galileo Galilei, Angelo Mai, Vittorio Alfieri, Giacomo Leopardi, Giordano de' Bianchi Doltula, Basilio Puoti, Teresa Confalonieri, Matilde Dembokschi, ecc. Le anime ardenti de' giovani si ridestarono, furono tutti presi da entusiasmo per questa donna, a cui piovvero lodi spontanee e sincere da tutte le Provincie, da tutti i giornali, non esclusi quelli degli altri Stati italiani che riportarono i suoi scritti. 1 molti ruppero il ghiaccio e incominciarono a parlar d'arte e di lettere, e fu un gran bene, quasi arrossendo che una donna insegnava loro a rifare il cammino; una lodevole gara, una nobile emulazione si cacciò pure nelle donne, e molti nomi novelli si lessero, su per i giornali, di letterate e poetesse, della Papa, della Bonucci, della d'Auria, della Lattieri d'Aquino, della Frascani, della Cimino, della Brancaccio, della Falliero-Palmieri e di molte altre che ora scrivono versi e prose.

Ma chi è codesta donna che si chiama Emilia de Cesare, ove sta, chi l'ha veduta, chi l'ha educata? Fu questa la domanda che fecero molti, ed a Giulio Genuino si disse ch'era un canonico vestilo da donna, a Filippo Volpicella un Clodio, ad Emidjo Cappelli una donna di sessant'anni, a Baldacchini e Baffi una fanciulla avvenente di diciotto anni. Ma che imporla indagar tulio questo? 11 moderno Tacito d'Italia, Vincenzo Cuoco, non disse forse che la storia gioverebbe assai più ove si scrivesse senza nomi di persone? Niuno ha veduto finora la Emilia de Cesare, ma esistono le sue cose; la dicono del Barese, ma in tutta lena di Bari non esiste persona ili questo nome; Giannina Milli cercò di lei in Trani, e niuno seppe dille ove fosse. Ed ecco in breve satisfallo il desiderio di parecchi valentuomini della Toscana, del Lombardo e del Piemonte nel voler sapere alcunché di quest'araba fenice letteraria:

«Che vi sia ognun lo dice,

«Ove sia nessun lo sa.


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«I giornali letterari!, che sarebbero la rivelazione del senso estetico di una nazione e i materiali per le storie avvenire, non si elevarono ancora intatta a quella dignità, che giudica senza scopo di vituperare o d'adulare; che pondera il merito, anziché accattar servilmente il prezzo corrente che è prezzo di riporto; ed esaminando da punto elevato, non distano soltanto i difetti, ma fa gustar le bellezze. Epperò la critica di profondità laboriosa nell'esercizio del pensiero, di pazienza nella pratica, di quella potenza idealista che permette sempre di discernere il fondo dalla forma, e di cogliere l'unità dello spirito sotto la varietà della lettera,peri davanti alla follicolare moltitudine, troppo spesso adulatrice, sempre miope, la quale però trionfa perché i fogli si leggono e i libri no.» Il fatto in generale prova ad esuberanza la sentenza del Cantò; ma per debito di coscienza è da confessare che da un lustro a questa parte la stampa periodica napolitana in parte se non raggiunse il suo vero scopo, mostra d'intenderlo, ed è, per quanto

10 permettano le nostre condizioni, assai bene inteso da taluni giornali. Questo miglioramento è venuto dai valentuomini che onorano di loro scritture i giornali, mentre prima i dotti tenevano in non cale le effemeridi, e molti le sprezzavano; ma dacché si accorsero che abbandonare le classi che più si piacciono della lettura dei giornali a giornalisti destituiti di ogni soda coltura era se non un fallo, certo un male, padroneggiarono l'antica ripugnanza e scesero nel campo della stampa periodica. Per la qual cosa L'Omnibus, il Diorama, L'Epoca e

11 Nomade, giornali volanti, spesso vanno onorati dei nomi e delle scritture di Saverio Baldacchini. Filippo Volpicella, Giovanni Manna, Luigi Blanch, il duca di Ventignano, Gaetano Trevisari, Ernesto Capocci, Raffaele Napoli, Achille Bruni, Placido de Luca, Errico Pessina, Domenico Giella e di altri buoni ingegni, segnatamente 11 Diorama diretto dal bravo Antonio Capecelatro. Gli stessi scrittori in gran parte onorano pure 11 Museo diretto da Stanislao Gatti, L'Antologia di Bruto Fabricatore e  Parini, tutti giornali a fascicolo e mensuali. Il Giambattista Vico, compiuto l'anno, cessava dalle sue pubblicazioni. Ma il buono indirizzo di questi pochi giornali è guasto da molti di niun conto rinascenti sempre, i quali non si occupano d'altro che di cantanti e ballerine, e per iscritti letterarii intendono gli articoli conditi d'insulsaggini, di scipitezze, maldicenze e spropositi battezzati col nome di umorismo, frase di moda per tutt'i giornaletti e giornalacci d'Italia. E cosi scambiano il comico in che sta il vero umorismo col triviale, con le frasi da taverna e bettola, con le immagini più strane, le idee più avventate e contorte, le improntitudini più sfacciate; senza intendere che il presentare i fatti della vita sotto l'aspetto comico non è cosa da pigliare a gabbo, e richiede versatilità d'ingegno, vivacità di spirito, fantasia poetica, profondità di analisi, erudizione vastissima, esatta conoscenza della propria lingua e dell'arte in guisa da poter guardare le cose obbiettivamente come presso gli antichi, e subbiettivamente come presso i moderni. Furono queste le qualità che rendettero celebri tra gl'inglesi Sterne, Swift, Butler, Fielding, Smallet e il vivente Dickens; tra francesi, Montaigne, Rabelais, Pascal, Diderot, Scarron, Rousseau, Le Sage e Voltaire; fra i tedeschi, Weilland, Kostner, Wall, Leng, Pfeffel, Tick, Hoffmann e il sommo Giampaolo Richter. In Italia questo genere di presentare dal lato ridicolo ogni fatto della vita non allignò mai, e quel che per gl'inglesi, i francesi e i tedeschi fu umorismo, per noi fu satira e commedia. Sotto questo aspetto si può dire che umoristi saggi e regolati furono l'Ariosto, il Macchiavelli, il Rosa, il Menzini, il Gozzi, il Goldoni, il Parini, Teresa Albarelli Vordoni, Alfieri e l'inimitabile Giuseppe Giusti.


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Quai nomi gloriosi e immortali non sono mai questi! Dopo ciò parlerò dei presenti scolarelli che chiamansi umoristi in Italia destituiti d'ogni coltura e spesso anche di grammatica? Eppure i sedicenti umoristi che ora scrivono ti a noi, almeno i giovanetti avevano due graziosi e gentili modelli da imitare in Pierangelo Fiorentino e Achille De Lauzières, i quali non lasciarono mai la veste del galantuomo nel farsi giornalisti, e per questo le loro scritture riescono saporitissime. L'antico poeta dicea:

….........temperatae suaves sunt argutiae,

Immodicae offendunt.

Ma i moltissimi sventuratamente scambiano l'arguzia con l'insulto, la maldicenza, e spesso con la calunnia, e questa chiamano umorismo. Un solo ora dice cose graziose tra noi, sebbene qualche volta per soverchio desiderio del bene pubblico e della dignità delle lettere trasmodi, ed è Giuseppe Orgitani, il quale ha l'ingegno e l'arte di cavar sempre uno scopo morale e vantaggioso dalle cose che argutamente dice.

I giornali umoristici, al modo come sono oggi scritti in Italia, non solo fanno male alle lettere, ma feriscono il vivo eziandio il decoro nazionale e la dignità delle italiane sventure. Io parlo in generale, e non credo di fare la satira a nessuno. Indecorosi sono gli insulti che i giornaletti e i giornalacci volanti scagliano continuamente contro i grandi uomini non solo del proprio paese, ma degli stranieri, confondendo eziandio l'individuo con In nazione. Rivendicare le glorie patrie, difendere la fama d'un grande indegno, d'un cuore eccellente a torto giudicalo o calunniato, spargere anche il proprio sangue per mantenere incolume l'onor nazionale e il decoro della patria, è cosa, non dirò magnifica, generosa, altissima, ma da uomo e cittadino; è un dovere più che un atto di generosità, massime per gli scrittori che sono o dovrebbero essere le vigili sentinelle alle porte della società. Ma far molto romore, gridare allo scandalo, scagliare invettive e insulti a tutto un popolo, sol perché un giornalista ignorante o incauto, uomo sempre di poco o niun conto nella egregia falange dei pensatori d'una nazione, abbia pronunziato un motto sdegnoso e irragionevole contro un paese straniero, è cosa più da cerretano che da scrittore. All'insulto il valentuomo risponde con Mirabeau, non l'accetto: alla calunnia con un sol motto, mentite: alla critica, sia pure ingiusta, parziale, mordace, con garbo di galantuomo e con vittoriosi argomenti. Rispondere ad Eugenio Aroux come fece Cesare Cantò in difesa di Dante accusato di eresia: ad Alfonso de Lamartine per lo stesso soggetto, come praticò indirettamente in questa Rivista Francesco DeSanctis; cioè rivelando in modo bellissimo il profondo argomento della Divina Commedia: a Giorgio Santi come praticarono Daniele Manin e Girolamo Ulloa, è cosa onorevole e da pregiare. Ma insultare balordamente alla Francia, perché Giulio Janin ventilò uno sproposito contro Vittorio Altieri; dir male di tutto il gran popolo francese, perché Eugenio Sue, Alessandro Dumas ed altri romanzieri introdussero in qualche loro romanzo un Cagliostro italiano, un impostore, un brigante, un cattivo soggetto; o perché un Valérv parla a sproposito di Michelangelo Ruonarotli; un deputato francese colloca l'Adriatico sotto alle mura di Firenze; Vernet insulta al valore italiano con la dipintura di un quadro, è impresa dissennata e niente civile. Perciocché non solamente bisogna discernere l'individuo dal popolo,


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addentrare le riposte intenzioni degli autori, l'anima loro, il fine che si proposero; a riscontro bisogna collocare eziandio ciò che la nobilissima schiera dei dotti francesi pensa e scrive di noi; quel che ne dicono molti atri scrittori di bella fama, filosofi, storici, politici, statisti, economici, agronomi, botanici, geologi, che sono la espressione più viva e più onorevoli di tutta quanta una nazione; e gli stessi romanzieri e poeti, che in altre occasioni e luoghi scrissero di noi benevolmente. Che non disse in nostra lode Alfonso ile Lamartine alla tribuna parlamentare nel febbraio del 1818? Ben altri e più gravi sono i suoi torli verso l'Italia del motto di Terra dei morti regalato alla patria nostra, e d'un giudizio erroneo, ma di buona fede, sopra Dante! Che non dettarono in favore degli Italiani i forti e nobili intelletti di Lammenais, Blanqui, Chevalier, Cousin, Thiers, Michelet,Guizot, Henrv, Marlin, Sand, Laforge, Karr, Gauthier, Perrens, Musset, llheal, Ralisbonne, Cormenin, e molli altri valentuomini di quella valorosa nazione? Ma non è solamente del popolo francese che inconsideratamente parlano a sproposito i non pochi giornalisti italiani; eglino con Ironie di bronzo sentenziano di tutto e di tutti. Sicché colui che ieri scrisse delle gambe di una danzatrice, dei trilli di un'agile gola, con la stessa facilità oggi ventila grossi spropositi su i più illustri scrittori tedeschi, e crede far dello spirito; mentre si arma da paladino poi se un suo confratello di Francia e di Germania insipiente come lui osa dire anche il suo sproposito sopra baule, Macchiavelli, Alfieri, Gioberti e Trova. Che dirò poi di quelli che ogni nostro vanto fan consistere in cantanti e suonatori di violino e pianoforte? Fortuna che i giornali volanti non sono letti in Francia, in Germania e altrove se non dai pochi giornalisti che se li scambiano; diversamente farebbero credere al mondo civile che non altra gloria ci rimane che la musica; non altro bene che cantanti e comici; non altro pensiero che quello delle agenzie teatrali; non altra cura che di consumare le forze dell'animo e del corpo nell'ozio più abbietto. Avverso a questa stampa eunuca o chiacchierona, è debito di ogni buono e saggio italiano di protestare apertamente; cosi salverassj almeno alla patria nostra la lode dell'ingegno e la dignità delle italiane lettere.

Uopo ciò mi è forza conchiudere con la domanda che facea Napoleone I a David: Quanti pittori numerale in Francia? — Forse un sei mila. — Seimila per avere un artista, un David?

Infinito è il numero di coloro che scrivono appo noi; ma quanti sono i letterati veri? Quali e quante sono le opere letterarie e poetiche che in questi ultimi  dieci anni hanno avuto l'onore di più edizioni; che hanno fallo, non dirò il giro del mondo, ma d'Italia; che si sono tradotte e ristampate altrove? Quali e quanti sono i libri stampali in un decennio che a noi mancavano, libri falli per insegnare qualche cosa, o per ingentilire l'animo e nobilitarlo? Ove sono le opere intese n correggere gli errori presenti dei quali è ingombra la mente dei più, che sognano in pieno giorno aver noi Napolitani una grande preminenza nelle opere dell'ingegno non solo sulle altre provincie italiane, ma sulle altre nazioni d'Europa?

L'infinita turba dei poetuzzi destituiti d'ogni coltnra risponderanno a questo, che l'aridità della scienza ha distrutto il gusto nell'universale per i fiori della poesia. E allora come si giustificano le. cento edizioni degli Inni Sacri del Manzoni, le dieci edizioni delle poesie del Prati, e il desiderio universale di leggere i canti del veronese Aleardo Aleardi testò uscili in luce? Non ascriviamo all'avanzamento delle scienze i difetti del nostro ingegno e dei nostri studii, perché la scienza ha sempre nudrito i grandi poeti e gli illustri scrittori.


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Esiodo, Virgilio, Lucrezio, Dante, Petrarca, Tasso, Parini, Leopardi, Manzoni, ecc. prima di scrivere poemi, canzoni e sonetti, erano già filosofi, politici, teologi, versati nelle storie e nelle migliori discipline.

I moltissimi poi diranno senza dubbio che le nostre condizioni sono tali da impedire gli slanci dell'ingegno e la creazione di opere eccellenti. Questo è per lo meno un pretesto dei mediocri ingegni. Cesare Balbo c'insegnava che si può fare il bene scrivendo, in ogni tempo, e sotto qualsiasi dura condizione; e la sentenza del dotto uomo io trovo storicamente vera. Nel secolo in cui la Grecia riformava violentemente la saggia costituzione di Solone, e dalle mani di Pericle ella passava in quelle di venti demagoghi indegni di succedere a quel grande uomo; nel secolo in cui la Grecia passò per tutti gli eccessi dell'oligarchia e del dispotismo, ella creava capolavori inimitabili cosi nelle lettere come nelle arti; allora scriveva l'Edipo re, e innalzava il Partenone. Nel secolo in cui Ottaviano Augusto rovesciava la repubblica e fondava l'impero, fiorirono Caio Catullo, Albio Tibullo, Sesto Aurelio Properzio, Publio Ovidio Nasone, Quinto Orazio Fiacco, Publio Virgilio Marone, Marco Manilio, il comico Fondanio, il tragico Pollione, ecc., ecc. Nel secolo in cui le discordio, le brighe civili, le guerre tra lo scettro e il pastorale laceravano l'Italia, Dante scrivea la Divina Commedia, Petrarca le Canzoni, Boccaccio il Decamerone, Tommaso d'Aquino la Somma, ecc. Al tempo della restaurazione in Francia si sviluppò lo spirito pubblico, si emancipò la letteratura, la storia, il teatro, l'industria, l'istruzione. Con ciò non si giustifica né si scusa il dispotismo da chiunque venga esercitato; ma si rivela la Provvidenza la quale, allorché manda un flagello, ha nello stesso tempo la misteriosa cura di raddolcire il male, e di ripararlo con miracolosi avvenimenti. E per vero dire, le dure condizioni (e non ve n'ha una peggiore del dominio straniero) non impedirono al Manzoni la creazione dei Promessi Sposi, al Grossi il Marco Visconti, e le novelle poetiche, al Tommaseo gli aurei scritti sulla educazione, al Cantò la Margherita Pusterla e la Storia Universale, al Poli le scritture: filosofiche ed economiche. Le dure condizioni non impedirono al Giusti di esercitare il suo stupendissimo ingegno poetico; al Guerrazzi di farci lacrimare sul memorabile Asssedio di Firenze; al Niccolini di presentarci la figura viva e parlante di Arnoldo da Brescia. Le dure condizioni infine non vietarono al Trova di scrivere la immortale Storia del medio evo, che è miracolo di sapienza e di erudizione; e al Manieri, al Galluppi, ai fratelli Puoti, a Michele Baldacchini, al Blanch e a tanti altri valorosi l'esercizio del forte ingegno in opere eccellenti e plaudite. Ma ora i giovani, invece di scrivere libri, vogliono fare giornali; invece di fare opere di cui più abbisogna l'Italia vogliono per forza scrivere sonetti; sicché oggidì tra noi sono assai più i giornalisti e i sedicenti poeti, che i lettori di versi e di giornali. Ingegni ne abbiamo sì, perché della celeste fiammella tuttora propizio e liberale è con noi ii cielo; ma dove sono gli indizi almeno nei giovani di poter occupare il seggio lasciato vuoto per morte e per esigli dai tanti eccellenti scrittori che ora non sono più con noi? E quando avremo perduto (che ciò sia lontano) il Gussone e il Zenone, già settuagenari, per la botanica, il Tacci per le scienze esatte, il Minervini, il Quaranta, il Fiorello e il Grimaldi di Catanzaro per l'archeologia; ove sono i giovani matematici, botanici, agronomi, archeologi, ecc., che accennino almeno di poter degnamente occupare il posto dei nominati? Intanto i giornali ci rompono il capo con le adulazioni e col gridare alla nostra preminenza nelle opere dell'ingegno sulle altre nazioni.


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L'avevamo certamente; ma ora per gloriarcene dobbiamo faticar di più a riacquistarla, e vantarla meno; che i vanti non giustificali indicano impotenza e debolezza. Si, miei cari concittadini, dobbiamo lavorare di più, produrre opere fruttuose e sode, libri, e non giornali chiacchieroni e leggieri; dobbiamo rifare il nostro cammino in tutti i rami dell'umano sapere, e ciò per servir bene la patria e le lettere. Niuno si abbia a male questo mio linguaggio, perchò esso procede dal grandissimo amore che io porto ni vero, non essendo uso a scambiare il patriottismo con l'adulazione, la verità con la menzogna, ed a credere, per servirmi d'una bella frase di Giuseppe Massari, che gli Italiani sono immuni da pecche, e non hanno nessuna colpa dei mali che li travagliano!

O. E. E.








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