Non sono uno studioso dei sistemi linguistici regionali italiani, ma credo che, all’interrogativo del titolo di questa nota, si possa tranquillamente rispondere: nessuno. Molto spesso usiamo i termini dialetto e vernacolo come se l’uno valesse l’altro, mentre sappiamo che non è così, considerando che la loro semantica non è identica, intendendosi per dialetto la lingua parlata dai residenti di una regione o area geografica e, per vernacolo, quella propria di un paese che si differenzia dal dialetto comune.
Senza contare le parlate grecaniche e albanofone ancora in uso in
alcuni centri calabresi, in Calabria non si profilò e non
s’impose mai alcuna parlata come dialetto regionale, e ciò
perché in nessuna area territoriale calabra di una certa
consistenza si usò o si usa una parlata tale da essere
prevalente rispetto alle altre. Abbiamo, addirittura, paesi limitrofi
dove da tempo si avanzano ipotesi di conurbazione, le cui parlate
paesane si differenziano l’una dall’altra in maniera
sensibile. Un tipico esempio, ma non è l’unico, lo abbiamo
sulla costa dei Gelsomini. Ce lo danno centri come Siderno e Marina di
Gioiosa Jonica, o come Caulonia e Roccella Jonica i quali,
urbanisticamente, non hanno soluzione di continuità, eppure, le
rispettive parlate sono marcatamente distinte tanto da far individuare
il paese d’appartenenza dalla parlata, la qual cosa non si
osserva solo in questi centri, ma in molti altri della zona e della
regione in generale.
E’ chiaro, dunque, che la Calabria ha una folta serie di
vernacoli, ma non un proprio dialetto. Come mai si è potuto
verificare tutto questo? La risposta non è facile. La formazione
di una parlata locale, alla quale concorrono elementi diversi, richiede
un tempo quantificabile in secoli che è pressocché
impossibile esaminare compiutamente, non tanto per la durata, quanto
per l’assenza di documenti che consentano di risalire alle
origini e trovare tracce dell’evolversi e del divenire della
stessa.
Si può solo tentare qualche ipotesi che, a mio parere, potrebbe
essere quella che segue. Se si tiene conto: dell’orografia
particolarmente accidentata della nostra regione; dell’estensione
in lunghezza dei suoi quindicimila e più chilometri quadrati
bisognevoli di una adeguata rete viaria che non ebbe mai e che tuttora
rimane carente; delle secolari dominazioni; delle incursioni
piratesche, prima saracene e poi turchesche che flagellarono,
soprattutto, gli abitanti del litorale ionico soggetto, altresì,
ad endemie malariche, debellate dal DDT introdotto durante
l’ultima guerra dalle truppe alleate, si può immaginare
quali furono le traversie che per secoli travagliarono le genti di
questa terra, lasciate intatte, se non peggiorate,
dall’unità d’Italia e, scandalosamente, anche dai
governi repubblicani. Tutti questi elementi che fecero buon gioco al
sistema medievale, bisognoso, per sopravvivere, di cristallizzare una
forma di vita subalterna e funzionale alla perpetuazione della classe
egemone, rinserrarono nel retroterra dei litorali i residenti,
inducendoli, in origine, a scegliere luoghi abitativi aspri e
inaccessibili perché meglio difendibili e sicuri. E’,
perciò, da supporre che, l’assenza di strutture viarie e
di altri mezzi di comunicazione che, per secoli, tennero isolati e
lontani d’ogni progresso gli abitanti della maggior parte delle
contrade di questa regione, consentirono, assieme all’indigenza
storica, il formarsi di costumi, tradizioni, linguaggi, folklori e
quant’altro andò a caratterizzare le varie comunità
locali<. Fino a determinare, per varie ragioni, una loro esclusiva
identità, che iniziò a confrontarsi con le altre, persino
le più vicine, con un ritardo astronomico, ove si pensi che
l’elettricità, per sempio, giunse in moltissimi luoghi
della Calabria, quando altri ne fruivano già da un secolo e
passa.
L’avvento della civiltà dei consumi che, in breve spazio
di tempo sbaragliò quella contadina, rivoluzionò, per
molti aspetti in meglio, il vivere civile di queste zone, imponendo
modifiche sostanziali nei costumi e nella mentalità, oltre che
nella conduzione economica, incidendo anche sul linguaggio locale che,
per una serie di motivi, andò ad archiviare molti termini
riguardanti, soprattutto, utensili di uso comune tra i contadini, resi
fuori uso dal progresso scientifico e tecnologico, e a modificare,
italianizzandone molti altri (nessuno, per fare solo qualche esempio,
chiama più carzi i pantaloni, broccia la forchetta o custumi il
vestito), con evidente danno per il patrimonio vernacolare, i cui segni
restano ancora tangibili e palpabili, grazie alla produzione letteraria
popolare del passato e del presente, i cui valori meriterebbero essere
meglio apprezzati, difesi e valorizzati.
Non c’è dubbio che l’assenza di un dialetto
regionale, o meglio, di una lingua non ufficiale parlata ad ampiezza
molto più vasta, non fu e non è un fatto positivo
soprattutto per la produzione poetica vernacolare, considerato che
più ampia è la base parlata, maggiore è la
diffusione e, quindi, il suo assetto nel mondo della cultura,
così come venne a verificarsi per le parlate dialettali vere e
proprie e, in particolare, per quelle romanesche, napoletane e
siciliane. La qualità, ovviamente, non risente della maggiore o
minore estensione territoriale della parlata locale, atteso che un
componimento poetico è la somma di molti fattori peculiari
all’autore, che prescindono dalle latitudini e dagli ambienti
sociali, peculiarità che non mancarono e non mancano ai poeti
vernacolari calabresi, per cui, se la produzione vernacolare regionale,
non raggiunse la rinomanza e la risonanza di tante altre, la ragione va
ricercata non nella qualità, come ci dimostrano i versi di
Conia, Padula, Pane, Martino, Ammirà, Patari, Butera, Milone,
Chiappetta, De Nava, Ciardullo, Vitale e tantissimi altri che sarebbe
lungo elencare, che nulla hanno da invidiare ai più blasonati
cultori della musa dialettale italiana, senza contare i tanti bravi e
interessanti poeti vernacolari viventi. Credo che oggi, il patrimonio
vernacolare calabrese risenta anche della disattenzione da parte di
coloro che dispongono degli strumenti giusti per farlo contare nel
mondo culturale per ciò che veramente vale, valore che non trova
la funzione e il merito nei concorsi indetti in occasione di feste e
manifestazioni varie estive che non sottovàluto, ma che di rado
vanno oltre i confini del folklore, mentre dovrebbe altrimenti essere
vivificato.
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