A causa della mancanza di motivazioni linguistiche, il separatismo meridionale (che si è costituito nel 1972 in Movimento dei contadini e dei proletari del Mezzogiorno e delle isole) oscilla tra il nazionalismo e il cosiddetto sub-nazionalismo.
Si veda quanto si dice a proposito della sub-nazione meridionale
conquistata, colonizzata e sfruttata dalla sub-nazione settentrionale
(nella quale soltanto si ritrovano i caratteri salienti della
società italiana, e che pertanto sarebbe più coerente
chiamare Italia, indicando il resto del paese, il quale presenta
caratteri fondamentalmente diversi, con un altro nome)... (Nicola
Zitara, L'unità d'Italia: nascita di una colonia, Jaca Book,
Milano 1971, p. 14) e si confronti con quest'altra affermazione:
«La questione meridionale, nella misura in cui è questione
di dominio coloniale sulla nazione meridionale, nella stessa misura
dovrebbe essere scontro tra Sud e Nord, in vista della emancipazione
del Meridione » (Nicola Zitara, Il proletariato esterno, Jaca
Book, Milano 1972, p. 36). Si rilevi, se non altro come indice di uno
stato d'animo, la ventilata rinuncia del nome Italia, che una volta era
proprio dell'estremo sud della penisola, in favore di quella parte del
paese una volta nota come Gallia, sia pure Cisalpina. Da notare che
esiste pure un microscopico separatismo (o, meglio, autonomismo
radicale) di segno opposto.
Nato in Piemonte come MARP (Movimento Autonomista Regionale Piemontese)
con un certo successo elettorale, si trasformò poi in Movimento
Autonomista Regionale Padano, mantenendo la stessa sigla. La sua
partecipazione alle elezioni politiche fu un fiasco e il MARP si
dissolse. E'però sorto al suo posto un minuscolo nuovo Movimento
Autonomista Libera Padania con centro, stavolta, a Milano, senza
motivazioni linguistiche, ma con un certo odio economico-culturale
verso gli immigrati meridionali. Il nome Italia sembra così non
piacere nemmeno ai padani.
Per quanto riguarda invece una motivazione linguistica cosciente
nell'ambito dei dialetti alto-italiani, si è ancora segnalato, e
da tempo, il Piemonte. Già negli anni Venti, un sodalizio di
ispirazione felibristica, la Companìa dij Brandè
(Compagnia degli Alari) operò una normalizzazione ortografica e
grammaticale del piemontese, rifacendosi a tentativi
sette-ottocenteschi, ed esprimendo due poeti di buon livello, Nino
Costa e Pinin Pacòt. Nel secondo dopoguerra, l'opera del
sodalizio è continuata portando fra l'altro alla costituzione
della neo-felibristica Escolo dòu Po che ha raccolto occitani,
franco-provenzali e piemontesi devoti agli idiomi materni.
L'associazione, assai benemerita, sembra essersi dissolta a causa delle
spinte centrifughe provocate dalle sue tre componenti linguistiche.
Oggi esiste comunque una microkoinè piemontese perfettamente
unitaria, con i suoi vocabolari, la sua grammatica (Gramàtica
Piemontèisa di Camillo Brero, Torino 1967) che ha già
avuto diverse edizioni e ristampe, le sue pubblicazioni periodiche (il
mensile Musilcalbrandè e l'almanacco annuale Ij Brandè),
il suo istituto di cultura (Ca dë Studi Piemontèis), la sua
vivace letteratura poetica (Giuseppe Gastaldi, Gustavo Buratti,...) e
che corre addirittura il rischio di essere insegnata in tutte le scuole
del Piemonte secondo una recente proposta di legge regionale del
socialista Calsolaro (la quale ha scatenato però l'opposizione
degli occitani, dei francoprovenzali, dei lombardi occidentali e dei
liguri settentrionali che fanno parte della regione Piemonte ma che non
riconoscono ovviamente il piemontese come lingua materna).
Questo acceso piemontesismo linguistico ha prodotto perfino, in questi
anni, due piccoli movimenti politici a rigida motivazione
etnico-linguistica: a destra, Assion Piemontèisa (Azione
Piemontese), sorto nel 1972, che si riallaccia in certo senso al filone
del MARP per la larvata polemica contro gli immigrati meridionali e la
marcata apologia della voglia di lavorare e di produrre ricchezza dei
piemontesi i cui frutti vengono dilapidati dallo stato italiano; a
sinistra, ALP (che vuol dire Alpi ma è anche la sigla di
Associassion Liber Piemònt), nato nel 1973, che è
marxista-leninista e vuole esprimere le rivendicazioni terzomondistiche
della montagna e delle campagne piemontesi tanto contro lo stato
italiano quanto contro la metropoli regionale (Torino), capitalistica e
depiemontesizzata, ricercando altresì un'alleanza organica con
gli immigrati meridionali. La destra e la sinistra piemontesiste si
distinguono anche per l'uso di due diversi vessilli: Assion
Piemontèisa sventola infatti la croce di Savoia col lambello a
tre gocce mentre ALP inalbera il tricolore giacobino della nassion
piemontèisa (1798-1799) che è rosso-azzurro-arancione.
Entrambi i movimenti pubblicano omonimi organi di stampa dove usano la
microkoinè.
Il movimento piemontesista respinge la definizione di dialetto per la
propria parlata materna e usa al suo posto il termine di lingua
regionale che è mutuato dalla francese legge Deixonne. Altri
dialetti alto-italiani (dal ligure al romagnolo), pur producendo una
letteratura pregevolissima, non mostrano invece, almeno finora, smanie
di affermazione politico-culturale.
E' però appena sorto, sull'esempio piemontesista, un
raggruppamento lombardista che per ora agisce come sezione Lombardia,
Ticino e Grigioni Italiani dell'AlDLCM e sembra perseguire due
finalità: costituire una microkoinè lombarda valida sia
in Italia che in Svizzera in tutti i territori dello stesso segno
dialettale e porsi successivamente come nucleo costitutivo di una
nazionalità padana la cui coscienza linguistica sta esprimendo i
primi incerti vagiti (si parla di etnia padana o gallo-italica
escludendo per ora le parlate venete e riducendola quindi a piemontesi,
lombardi, liguri, lunigiani, emiliani, romagnoli e marchigiani
settentrionali). Si veda in proposito il benevolo articolo di Federico
Formignani sul «Giornale della Lombardia» (a. IV, n. 2, 10
febbraio 1974), un periodico abbastanza vicino al consiglio regionale
lombardo. Da parte loro, i veneti stanno codificando la lingua veneta e
la sperimentano sulla rivista Popolo Veneto il cui primo numero
è uscito a Mogliano nel 1974.
A proposito della lingua padana che ci si prefigge, sia pure a lunga
scadenza, di costituire (un po' sull'esempio degli arpitanisti
valdostani) non è inutile rammentare queste parole autorevoli di
Gerhard Rohlfs: «La stretta parentela esistente fra il tipo
linguistico occitanico e quello della lingua "lombarda" degli Italiani
settentrionali doveva conferire alla loro lingua una "aura" naturale e
letteraria.
Molto tempo prima dell'influsso poetico esercitato da Dante e
Boccaccio, nell'Alta Italia si era sviluppata una koinè padana
(di tipo veneto-lombardo) di ampio uso letterario. Nel corso del
Duecento questa koinè era già sulla via di assurgere a
lingua letteraria nazionale.
Essa veniva già sentita, e non di rado, come una lingua romanza
indipendente, allo stesso livello delle lingue francese e
"toscana"» (Studi e ricerche su lingua e dialetti d'Italia,
Sansoni, Firenze 1972, pp. 157-158). Giacomo Devoto, nel suo Il
linguaggio d'Italia (Rizzoli, Milano 1974, pp. 238-239) sembra d'avviso
leggermente diverso: «Se anche si deve rinunciare alla ipotesi
accarezzata da qualcuno in passato di un principio di lingua letteraria
comune a tutta l'Italia padana, si deve riconoscere nei testi
"franco-veneti" questa aspirazione a uscire dal campanile per guardare
a una più ampia regione».
La nascita mancata di una lingua padana è ricondotta,
intelligentemente, da Devoto, a questa causa: l'Italia settentrionale
non ebbe fino al pieno XIII secolo [...] l'aiuto di un potere politico,
sensibile al prestigio culturale...». Peccato che l'illustre
glottologo aggiunga quest'altra motivazione psico-climatica:
«...nè la spontaneità appartata dell'ambiente umbro
cosi caldo e genuino».
A questo punto, noi vogliamo significare al lettore che ci limitiamo a
trasmettergli alcune informazioni su eventi che accadono in ambiti
minimi e che ci sembrano tuttavia sintomatici. Non ci esprimiamo,
quindi, sulla fondatezza teorica delle rivendicazioni piemontesiste e
padaniste. Se da un lato è indubbio che i tratti caratteristici
dei dialetti alto-italiani sono abbastanza simili tra di loro e
divergono notevolmente tanto dall'italiano ufficiale quanto dai
dialetti del centro e del sud della penisola (ma ne divergono quanto il
catalano dallo spagnolo o quanto l'aragonese dal castigliano?), da
altro lato ci pare che l'italianizzazione del territorio alto-italiano
(e delle sue parlate) sia in una fase davvero avanzata,
irrimediabilmente segnata, poi, dalla massiccia immigrazione di
italiani del centro e, soprattutto, del meridione.
Piemonte e Lombardia presentano, da questo punto di vista, una
situazione opposta a quella del Friuli e della Sardegna (che sono
regioni di forte emigrazione e di bassa immigrazione di diverso segno
linguistico). Sono, probabilmente, irricuperabili alla parlata materna.
Quelli dell'ALP cercano di aggirare l'ostacolo puntando sulle smilze
aree depresse ed emarginate che contornano le grandi oasi del benessere
(ormai convertite alla lingua di stato e dove, spesso, la maggioranza
della popolazione proviene da altre regioni): ma ci sembra che puntino
su di un cavallo tanto nobile quanto zoppo. Il padano, del resto,
è di là da venire anche nelle aree alto-italiane
all'estero (Ticino, Grigioni italiani, Istria) dove la popolazione
difende la propria identità linguistica adottando (a torto o a
ragione) proprio l'italiano ufficiale.
Se si passa a esaminare la situazione dei dialetti basso-italiani,
dovremo fare considerazioni del tutto diverse. Queste parlate, assai
più simili all'italiano di quelle settentrionali (a parte
piccole aree arcaiche), appaiono abbastanza ben conservate sul loro
territorio a causa del sottosviluppo economico, dell'isolamento
socioculturale, dell'emigrazione massiccia e dell'immigrazione
irrisoria, al punto da presentare caratteri vistosamente propri. A una
pregevole produzione letteraria deliberatamente dialettale (abruzzese,
napoletana, lucana, siciliana) non si affianca però nessuna
rivendicazione cosciente di tipo linguistico-politico, all'infuori di
un tentativo neo-sicilianista per ora circoscritto in ambito assai
limitato. Il siciliano ha, del resto, a dispetto dei suoi caratteri
decisamente italiani, una tradizione autonoma illustre che è
durata a lungo nel tempo.
Oggi, spentisi gli echi della rivolta separatista dell'immediato
dopoguerra, alcune istanze nazionali siciliane (tanto politiche quanto
linguistiche), sono avanzate dal movimento Sicilia Nostra, che ha
provveduto a una nuova codificazione della lingua dotandola di una
nuovissima ortografia. Il movimento si appoggia a un istituto
culturale, il Centro Studi Storico-Sociali Siciliani che sta
approntando una poderosa Storia della nazionc siciliana in cinque
volumi, l'ultimo dei quali è significativamente intitolato
«Il secolo della dominazione attuale (1860-1960)».
Anche i dialetti centro-italiani sono scossi dalla ventata della
rivendicazione micro-etnica: sta infatti formandosi una lingua corsa
(appena ammessa dal governo francese ai piccolissimi benefici della
legge Deixonne) ma le sue vicende si svolgono fuori dai confini dello
stato italiano. Torniamo dunque al nostro discorso: piemontesi e
siciliani, o meglio alto-italiani e basso-italiani, fanno o meno parte
di comunità per le quali si configura l'ipotesi di minoranze
linguistiche? Dal punto di vista della costituzione, che è
quello che conta, la risposta è chiara: no. Anche se i linguisti
parlano dell'italiano come maggioranza di minoranze» (Pellegrini)
e sostengono che «gli italiani sono bilingui, nel senso che
parlano tanto l'italiano quanto il loro dialetto particolare (Gregor),
è evidente che la costituzione distingue nettamente tra lingue e
dialetti.
Il regime linguistico italiano tutela infatti i sud-tirolesi in quanto
cittadini di lingua tedesca e non per il loro dialetto bavaro-tirolese,
i valdostani in quanto di lingua francese e non per il loro dialetto
arpitano orientale, gli sloveni in quanto di lingua slovena e non di
dialetto krasko, i ladini in quanto ladini e non in quanto gardenesi e
badiotti. Ferma restando la possibilità e l'opportunità
di compiere correzioni all'interno del sistema (ad es.: i dialetti
friulani possono e devono essere aggregati agli idiomi ladini e
svincolati dalla loro presunta italianità linguistica) non
è tuttavia nè opportuno nè possibile prescindere
dalla dicotomia lingua-dialetto (cioè tutela-non tutela) senza
prescindere dall'attuale ordinamento costituzionale. A noi (e non solo
a noi) sembra inoltre che friulano e sardo, ad esempio, divergano assai
più dall'italiano di stato che non il piemontese o il siciliano.
Ciò non significa che i particolari valori, anche linguistici,
di tutte le comunità regionali o sub-nazionali dello stato
italiano non vadano salvaguardati e incoraggiati pur senza ricorrere
all'art. 6: anche all'interno delle stesse minoranze linguistiche dove
esistono preziose peculiarità dialettali che è bene non
sacrificare, per quanto è possibile, alla lingua di cultura cui
sono subordinate.
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