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Ringraziamo il Direttore Goffredo Fofi e la Redazione de "Lo Straniero" per averci autortizzato a riprodurre i seguenti articoli:

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Buona lettura!


Fonte:
https://www.lostraniero.net/ - Numero 86/87 - agosto, settembre 2007

I bambini che soffrono e i curatori di professione        

di Luigi Monti

Scriveva Fernand Deligny in “I vagabondi efficaci”: “E ci sono dei tribunali per minorenni, ci sono degli psicologi. Ci sono quelli che dicono: ‘Mostrami il tuo Rorschach e ti dirò chi sei.’ Pescatori in acque basse.” E scrive J.G. Ballard in “Un gioco da bambini”: “In una società totalmente sana, l’unica libertà è la follia.”

E ancora: “Non chiedere – Perché più felici i tempi antichi? – Non è domanda intelligente”, ammoniva il Qohélet. Se si pensa poi che il Novecento doveva essere “il secolo dei fanciulli”, possiamo immaginare che di tempi felici, per i giovani, non ce ne siano stati molti. E ai ragazzi importa poco sapere se i loro coetanei di due generazioni fa stavano male quanto loro.

Che stiano male è un dato evidente. D’altra parte anche la specie cui appartengono, la terra che abitano, la cultura e i prodotti dello spirito delle comunità in cui nascono non se la passano troppo bene. Perché loro dovrebbero costituire un’eccezione?

I bambini che soffrono e i curatori di professione

Ma frequentando consigli di classe, servizi sociali, master planning, leggendo sentenze dei tribunali minorili, cartelle cliniche, certificazioni scolastiche si ha l’impressione che difficilmente il senso che psicologi infantili, giudici, assistenti sociali, educatori, logopedisti, neuropsichiatri, amministratori di cultura e educazione danno al termine “disagio” possa discostarsi più profondamente dalla natura reale del malessere vissuto da bambini e ragazzi. Una miopia, nella maggior parte dei casi, così goffa da non meritare niente più che l’invettiva e un corpo a corpo proporzionale alla volgarità di certe analisi. Se non fosse che – e siamo sempre lì – nello scollamento creato fra “ordine del discorso” ed esperienze realmente vissute dai ragazzi, le pratiche messe in campo per sostenere e curare il disagio non solo non riescono a intercettare il problema, ma diventano sempre più pericolosamente parte in causa.

La sofferenza particolare su cui è urgente iniziare a interrogarsi, se non altro per la frequenza con cui viene chiamata in causa ogni volta che un bambino pensa o si comporta diversamente dalla norma, non è direttamente generata dal malessere della specie umana, ma le è strettamente correlata. Essa si riferisce appunto a bambini e ragazzi e prende il nome confuso, inflazionato e suadentemente iatrogeno di disagio psichico. Coniata negli anni sessanta dalla psichiatria adulta allo scopo, nobile, di evitare etichette più stigmatizzanti, la categoria del disagio psichico, viene utilizzata oggi con chi si trova nella fase evolutiva della propria vita in modo così ambiguo da allargare a dismisura i suoi confini semantici, tanto da abbracciare potenzialmente l’intera classe degli adolescenti. La stessa leggerezza con cui nelle ricerche e nei documenti ufficiali (emblematico è il caso di molti accordi provinciali per l’integrazione scolastica) vengono usati indifferentemente i termini “disagio” e “disturbo” rivela tutta la profonda crisi epistemologica in cui si trovano le scienze della mente. O più probabilmente la cospirazione di una pletora di operatori del disagio che, con un semplice gioco linguistico, si autoinvestono di tutto il potere di un feudo medico derivato.

In tutte le province dell’Emilia Romagna – ma la percentuale varia solo per eccesso in ogni modello di società ad alto funzionamento dei servizi – i minori in carico alla neuropsichiatria infantile sono in media il 6%. Il che significa che in alcune aree e in alcune fasce d’età la percentuale sale a 10. Nella sola provincia di Modena, nell’ultimo anno il numero dei minori raggiunti dalla neuropsichiatria è aumentato di circa il 10% e galoppa verso quel drenaggio di minori a rischio psichiatrico che l’Organizzazione mondiale della sanità pone al 25%. Secondo una recente ricerca presentata dalla Sinpia (Società italiana di neuropsichiatria), circa 13 mila fra giovani e giovanissimi soffrirebbero, solo in Emilia Romagna, di disturbi come ansia, depressione e fobia. Ma quello che inquieta gli estensori della ricerca (e a noi sinceramente inquieta la loro inquietudine) non è tanto la cifra impressionante, che se rispondesse al vero, rivelerebbe che un ragazzino su dieci tra i 9 e i 16 anni sarebbe invischiato in uno stato di sofferenza tale da compromettere una crescita libera, intensa e partecipe, quanto che secondo loro solo pochissimi vengono diagnosticati dagli specialisti e ricevono cure adeguate. Cosa intendano poi per cure adeguate, forse è meglio non chiederselo.

Per fugare ogni equivoco, confesserò subito il punto di partenza e di arrivo di queste brevi note: nel loro complesso, i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze che soffrono e che mostrano – a volte in modo molto visibile e disturbante, a volte in modo pericolosamente silenzioso – i segni di questa sofferenza sono molto semplicemente, coloro che, con più intensità e per ragioni diverse (a volte anche chiaramente psicopatologiche), vivono contraddizioni cui tutti siamo sottoposti. La differenza è che loro, nel complesso, le subiscono, noi, nel complesso, ne siamo gli artefici. E se da una parte sono più esposti a fratture psicologiche, esistenziali e sociali in certi casi francamente disabilitanti, hanno tuttavia una reazione più coerente a una crisi che in realtà riguarda tutti.

Che una dimensione del loro malessere sia anche anagrafica, relativa cioè alla fase evolutiva che stanno attraversando, è evidente. Che una parte crescente delle difficoltà di un intero pezzo di questa generazione sarà costretta a esiti anche marcatamente psicopatologici è purtroppo molto probabile. Ma rispondervi “di rimbalzo” con interventi tecnici, neuropsichiatrici, psicoterapeutici rischia di innescare un meccanismo perverso paragonabile, in termini psicanalitici, alla rimozione di un sintomo. Il danno così provocato è duplice, insieme individuale e collettivo. Individuale perché un sintomo soffocato, è un sintomo che riemerge, prima o poi, con una virulenza molto maggiore; collettivo, perché nasconde la profonda dimensione di critica sociale di cui la sofferenza psicologica è sempre, anche, portatrice.

Sarà che i ribelli contro la psichiatria borghese e di regime sono arrivati, in tutto il Centro-nord, ai gangli del potere, ma da vent’anni a questa parte ogni riferimento alle parole d’ordine, alle analisi e al fermento politico che hanno portato, alla fine degli anni settanta, alla riforma basagliana, sembra pressoché completamente scomparso. Eppure ogni serio ragionamento sulla sofferenza psicologica dei bambini, sugli spazi di azione, gli strumenti e la cultura dei saperi che afferiscono alla psichiatria infantile incrocia oggi – in misura forse maggiore della salute mentale degli adulti – la storia e l’evoluzione della riforma psichiatrica. E l’incrocia con lo stesso disagio provato di fronte alla storia di tutte le grandi rivoluzioni libertarie del secolo passato: un complesso di idee potenzialmente eversive e liberatorie, fallite perché hanno avuto troppo successo. Con le dovute eccezioni, sembra che il contenuto più importante e radicale della riforma si sia inesorabilmente liofilizzato: la problematizzazione del confine fra salute e malattia, l’abbattimento della separazione fra il “malato” e il contesto sociale visto insieme come causa e possibile terapia, la convinzione che la malattia mentale fosse anche un problema politico.

Siamo passati forse da una rozza e primitiva individuazione del “diverso” a una visione più complessa del disagio, ma tutto sommato ancora marcatamente medica e assistenzialistica, di fatto ricondotta a “casi”, isolati dalle fratture del contesto sociale. Poco importa se a una interpretazione biologica si è sostituita una “psicologia del disagio”: le analisi della sofferenza dei ragazzi sempre più spesso e sempre più profondamente vengono allontanate dal terreno (politico) del rapporto tra contraddizioni sociali e sofferenze individuali. Lo spazio tecnico in cui avveniva questo sequestro (manicomi, elettroshock, terapie psicofarmacologiche selvagge…) era, negli anni del fermento anti-psichiatrico, più violento, visibile e volgare di quello di oggi e quindi più identificabile e attaccabile. Qualcosa di paragonabile, in ambito neuropsichiatrico, alla tendenza, “ferma” da tempo ma sempre a rischio di esplosione, di una sconsiderata e generalizzata somministrazione di psicofarmaci ai bambini.

Esistono però altre strategie e altri meccanismi oggi più efficaci e striscianti per isolare la sofferenza di un ragazzo in ambiti estranei al contesto che l’ha originata. Penso in particolare a certe pratiche, “dolci”, psicoterapiche (counceling, gruppi di apprendimento e di empowerment, terapie familiari e sistemiche…) o all’abbraccio a volte mortale fra servizi sociali e servizi sanitari. Per non parlare della connivenza con cui alcuni circoli didattici sfruttano la certificazione e il sostegno scolastici per riversare sui ragazzi “disabilità” per lo più imputabili al sistema-scuola.

Capita sempre più spesso, a chi lavora nell’ambito dell’assistenza al disagio, di trovarsi nella situazione di dover “proteggere i ragazzi dai loro protettori”. Ciò che complica terribilmente le cose è che non ci riferiamo soltanto ai volenterosi servitori del sistema. Di fianco alla categoria degli operatori “incoscienti”, inetti, cinici, corporativi, ne esiste una seconda, ben rappresentata, di “curatori di ferite”, professionisti o volontari coscienziosi, che si limitano, con la tenacia di chi sente di incarnare una missione, ad alleviare le cause più immediate ed evidenti delle difficoltà dei ragazzi che di volta in volta si trovano di fronte. Una contraddizione d’altra parte che viviamo più o meno tutti, soprattutto chi di noi lavora all’interno delle istituzioni. Ricattati dalla filosofia del mattone dopo mattone, schiacciati solo sul piano della relazione con chi soffre, quello che sinceramente preoccupa è la refrattarietà che molti di noi mostrano, chi per cinismo e disillusione, chi per mancanza di tempo e di forze, chi per bruciature di esperienze passate, ogni volta che la storia di un ragazzo li costringe a tentare di inserire le loro fatiche quotidiane in un contesto d’analisi più ampio, che comprenda anche una dimensione sociale e politica, sanamente populistica. Ogni sforzo di rieducazione e cura non sostenuto da una ricerca e una rivolta, diceva Deligny, sa troppo rapidamente di biancheria per imbecilli.

Guardando la questione dal punto di vista della società, l’analisi del disagio è banale quanto inattuale. Certo determinismo sociologico ha insistito fin troppo sull’influenza del contesto (ma tornare a incrociare con sguardo meno acritico i dati del disagio con quelli del ceto o dell’area geografica di appartenenza restituirebbe vecchie e scontate verità accantonate forse troppo in fretta). Dal punto di vista della persona potremmo scoprire invece che la sofferenza psicologica, più che con i manuali diagnostici e statistici, ha a che fare con la definizione weiliana del sacro: c’è nell’intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene... Certo è che se il discorso dominante, le politiche sociali e il senso comune continueranno a incardinarsi su risposte reattive, riuscendo a immaginare e a proporre solo soluzioni specialistiche, tecniche e “terapeutiche”, porteranno a compimento tutta l’incosciente cospirazione di un generazione suicida disposta a mutare i propri figli, nel corpo e nella mente, pur di non mutare le contraddizioni profonde alla base del loro malessere.













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