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Fonte:
https://www.lavoce.info/ - 29-04-2004

La lezione di Melfi

di Tito Boeri

A Melfi si è consumato il fallimento di un progetto coltivato non solo dalla Fiat, ma soprattutto da chi ha gestito le politiche nel Mezzogiorno in questa legislatura e sul finire di quella precedente: l'idea di decentrare la contrattazione salariale con accordi a livello territoriale, anziché azienda per azienda. Un sogno nutrito troppo a lungo e responsabile anche di molti sprechi. Perché un ingrediente base di questi "contratti di programma" è stata anche l'iniezione di denaro pubblico, messo di volta in volta a disposizione dal Governo per incentivare gli accordi.

Non consola certo sapere che parte di questo denaro veniva dalle casse dell' Unione europea. Sempre di soldi dei contribuenti si è trattato.


Differenziali fra aziende più che all'interno delle aziende 

Anche in paesi con bassi livelli di sindacalizzazione e una forte dispersione nel ventaglio retributivo, i differenziali salariali sono molto contenuti all'interno di ciascuna azienda.
La dispersione nei livelli salariali si genera soprattutto con divari fra aziende diverse, anche se appartenenti allo stesso settore. Vi sono diverse ragioni per questo.
Primo, forti differenziali nella stessa azienda possono scatenare rincorse salariali interne, minare la coesione nell'impresa e la cooperazione fra i dipendenti. È molto difficile che un'organizzazione sindacale possa interiorizzare retribuzioni diverse per persone che timbrano lo stesso cartellino e sono addette alle stesse mansioni. Ci vorrebbero più sindacati, in forte competizione fra loro, nella stessa azienda. Un incubo.
Secondo, per imporre trattamenti diversi a lavoratori della stessa azienda occorrono più fasi di contrattazione, con costi di negoziazione elevati anche per il datore di lavoro. Terzo, spesso è l'intera azienda a contribuire alla produttività di alcuni reparti o impianti del gruppo, concentrando i propri investimenti in fasi strategiche del processo produttivo. Giusto che questi guadagni di efficienza vadano dunque a vantaggio di tutti, non solo dei lavoratori nei reparti "avanzati".


A Melfi, invece, si è voluto creare un divario nel gruppo, per giunta al contrario.

Il nuovo stabilimento, quello più efficiente e cruciale per la produzione nel gruppo, quello con manodopera più giovane e qualificata e, per tutti questi motivi, in grado di raggiungere livelli di produttività superiori che in tutti gli altri stabilimenti del gruppo (a partire da Mirafiori), ha per ben dieci anni (!) pagato i propri dipendenti circa un quinto in meno dei lavoratori degli impianti meno efficienti del gruppo.

Si dirà che è un differenziale contenuto quando si tenga conto delle differenze nel costo della vita fra Torino e Melfi. Ma negli accordi della Fiat non è previsto alcun aggiustamento per il costo della vita a livello locale. E anche i lavoratori di Termini Imerese guadagnano di più di quelli di Melfi, nonostante il costo della vita in Sicilia sia anche più basso che nel centro lucano. Inoltre, il taglio delle retribuzioni a Melfi è stato ottenuto togliendo ai dipendenti del gruppo proprio quella componente delle retribuzioni che, in linea di principio, potrebbe giustificare differenziali retributivi all'interno della stessa azienda, vale a dire il premio di produttività.

Date queste premesse, è davvero sorprendente che l'accordo abbia retto così a lungo. Quando i lavoratori di Melfi hanno, dalla loro, anche il forte potere contrattuale derivante dalla possibilità di bloccare la produzione nel resto del gruppo. In dieci giorni di picchetti hanno ritardato la produzione di ben 21mila vetture.


Retribuzioni, produttività e disoccupazione

Mentre a Roma si cerca faticosamente di trovare un accordo, per fortuna lontani dai riflettori e dalla politica, è bene guardare più in là del gruppo Fiat.

La ragione per cui il nostro mercato del lavoro ha bisogno del decentramento della contrattazione è che bisogna generare più occupazione al Sud, incentivando al contempo una maggiore produttività del lavoro. Questo significa permettere al salario, al contempo, di essere più basso dove c'è carenza di lavoro e più alto dove mancano i lavoratori e di premiare al contempo miglioramenti della produttività del lavoro. 


In Italia, a differenza che negli altri paesi Ocse, i salari sono poco rispondenti alle condizioni del mercato del lavoro locale: non sono marcatamente più bassi nelle regioni ad alta disoccupazione che in quelle vicino al pieno impiego (vedi Hernanz Pellizzari).  Al contempo, la componente delle retribuzioni legata alla produttività è molto contenuta (attorno al 3% del salario viene determinato con premi di produttività) e presente quasi solo nelle grandi imprese del Nord.  Solo la contrattazione aziendale può tenere conto delle condizioni del mercato del lavoro locale e, al tempo stesso, premiare incrementi di produttività. Perchè nel caso della produttività i divari Nord-Sud non operano a senso unico. Se la produttività del lavoro è mediamente più bassa al Sud che al Nord, non è infatti detto che la produttività debba essere in tutti gli stabilimenti del Mezzogiorno più bassa che in tutti gli stabilimenti del Nord. Melfi docet.


E' inoltre sbagliato pensare che possano essere gli aiuti di Stato a  far sì che la contrattazione salariale tenga conto del fattore disoccupazione, come nella logica dei contratti di programma. Si tratta di interventi selettivi e transitori.  Invece del fattore "d", si finirà per riflettere solo il fattore "p", la politica, fonte di distorsioni, iniquità e divisioni fra gli stessi lavoratori perchè alimentano gruppi di pressione locali e burocrazie che hanno l'unico scopo di procacciarsi gli aiuti.  Per legare il salario al territorio meglio affidarsi a meccanismi automatici, tipo l'aggancio delle retribuzioni a indici del costo della vita regionali (quando l'Istat si deciderà a pubblicarli?) e alla competizione sul versante delle assunzioni, che potrebbe essere favorita introducendo sgravi fiscali e contributivi per i salari più bassi. La riduzione del costo del lavoro e l'aumento dei salari netti per chi entra nel mercato del lavoro incentiverebbe infatti l'emersione di attività sommerse e una maggiore partecipazione al mercato del lavoro, riducendo al contempo il potere contrattuale di chi un lavoro ce l'ha già.

A pensarci bene, questa è una scelta obbligata. Le Regioni del nostro Mezzogiorno, la Basilicata in primis, si avviano a perdere l'accesso a quei fondi strutturali della Parlamento europeo, il Consiglio dell’ Unione europea, la Commissione europea, la Corte di giustizia e la Ue in nome dei quali era stata lanciata l'operazione dei contratti di programma e dei patti territoriali.  Se non vogliamo aggiungere miopia a miopia, bene allora pensare all'unico modo di decentrare la contrattazione, azienda per azienda, e spingere le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro a prepararsi a gestire le nuove forme di contrattazione, cercando a livello locale occasioni per riunire ciò che la politica ha diviso.

Fonte: https://www.lavoce.info/ - 29-04-2004


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