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STORIA DOCUMENTATA
DELLA

DIPLOMAZIA EUROPEA IN ITALIA
DALL' ANNO 1814 AL L'ANNO 1861
PER

NICOMEDE BIANCHI
VOLUME VII.
Anni 1851-1858
DALLA SOCIETÀ L'UNIONE TIPOGRAFICO EDITRICE
TORINO
Via Carlo Alberto, N° 33
casa Pomba 1870 NAPOLI (Deposito)
Strada Nuova Monteoliveto, N° 6



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IV.

L'ambigua e subdola politica in cui il Gabinetto di Vienna s'era avvolto nelle cose orientali e germaniche, avevagli fruttato di rendersi avverse la Prussia, la Russia e la Francia. All'Austria rimaneva l'alleanza inglese; ma da che sul Gabinetto di Londra imperava l'opinione pubblica liberale, per non perdere anche questo sostegno i ministri austriaci negli ultimi mesi del 1856 si determinarono a seguire i consigli di lord Clarendon per un Governo più civile e umano nelle provincie italiano dell'impero. L'opera riparatrice fu inaugurata col ripristinamento delle Congregazioni centrali della Lombardia e della Venezia, col prosciogliere dal sequestro i beni dei profughi politici, col rimettere ne' diritti della cittadinanza austriaca i fuorusciti che la impetrassero, col condonare la pena a tutti i condannali per reati politici, 

PARTE 3

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IX.

Memoriale relativo agli accordi con Roma per il ministero degli affari ecclesiastici in Firenze del comm. Baldasseroni, presidente del Consiglio dei ministri granducali.

Il sottoscritto presidente del Consiglio dei ministri, accompagna al ministero degli affari ecclesiastici nel suo originale, l'atto da esso passato in Roma il 25 aprile ultimo decorso, con l'eminentissimo signor cardinale prosegretario di Stato di Sua Santità, e nel quale sono rimasti frattanto concordati alcuni articoli, fra quelli sopra i quali esisteva divergenza fra la Santa Sede ed il Governo granducale.

Ai termini dell'ultimo articolo dell'atto medesimo esso è sottoposto alla ratifica delle Alte parti contraenti, ed il cambio delle ratifiche deve farsi in Roma entro un mese dalla data dell'atto, e così dentro il 25 maggio corrente.

Siccome poi l'atto del quale si tratta non provvede radicalmente a tutte le differenze che esistevano, e per alcune di quelle alle quali provvede, rimane sotto l'influenza di concerti verbali che hanno avuto luogo, così il sottoscritto trova necessario d'informare il ministero degli affari ecclesiastici, delle cose che appresso: 1° Mentre coll'articolo II è stato convenuto che i vescovi son liberi nelle pubblicazioni relative al loro ministero, è rimasto altronde concordato che tutte le volte che si tratti di pubblicazioni da farsi con l'affissione fuori delle chiese di stampe o manoscritti, i vescovi prenderanno col Governo gli opportuni concerti. E si è rimasti d'accordo fra le parti che di ciò sarebbero istruiti i vescovi medesimi dalla Santa Sede, nel Breve che sarà loro dalla medesima diretto in proposito della convenzione.

2' Circa l'articolo III è da avvertirsi che dopo tutte le gravi e prolungate discussioni avvenute, nulla più è stato sostanzialmente convenuto di quello che resulta dalla lettera dell'articolo medesimo, la quale è in perfetta coerenza col disposto dell'articolo 5 dello Statuto fondamentale toscano, e con quanto si prescrive nella vegliante legge sopra la stampa.

Bensì è rimasta, senza veruno esplicito impegno, l'intelligenza fra le parti che, quando mai per avventura si verificasse che la censura preventiva in materia di stampa, pel sopraggiungere di nuove leggi,

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fosse per ricevere nel granducato una maggiore estensione, il Governo granducale terrebbe conto dei desiderii esternati dal Santo Padre per meglio tutelare la religione, accordando maggiore influenza ai vescovi nella censura di opere che senza interessare assolutamente il dogma, possono pure aver rapporto colle materie religiose ed ecclesiastiche. Ma giova anche una volta ripeterlo, nessuno impegno formale è stato preso, né è accaduto, o è per accadere il cambio di qualsiasi nota diplomatica su questo articolo.

3° Nell'articolo IV è stato semplicemente espresso - che i vescovi saranno liberi di affidare a chi meglio stimeranno l'uffizio della predicazione evangelica. - Ma è convenuto fra le parti che i vescovi debbano dare preventiva comunicazione al Governo del nome degli esteri ai quali volessero affidare l'ufficio della predicazione, affinché il Governo possa informarsi se vi siano motivi per escluderne alcuno sotto rapporti personali, e non in ragione dell'ufficio del sacro ministero. E di questo accordo fu stabilito che sarebbe dato avviso ai vescovi anco dalla Santa Sede, nel Breve di cui è fatta sopra menzione.

4° A due importanti considerazioni e spiegazioni richiama il disposto dall'articolo V, secondo il quale, - tutte le comunicazioni dei vescovi, e dei fedeli colla Santa Sede saranno libere. - Prima di tutto la vera intelligenza di questo articolo, si è che i vescovi ed i fedeli possano rivolgersi alla Santa Sede senza bisogno alcuno di preventiva licenza per parte del Governo, ma non già che venisse con questo derogato al diritto del regio exequatur per tutte le bolle ed atti della Santa Sede che debbono aver valore ed effetto nel foro esterno, secondo le consuetudini oggi veglianti in Toscana. La Santa Sede ha certamente dichiarato che non può per parte sua riconoscere, né concordare esplicitamente, nel Governo secolare il diritto avvertito, ma a ciò lo scrivente opponeva l'autorità di papa Benedetto XIV, che all'occasione di un concordato trattato col Piemonte nel 1727 e posto poi in esecuzione nel 1742, aveva espresso essere l'exequatur una di quelle materie sulle quali la Santa Sede non può che tollerare. E la Santa Sede tollerò di fatto allora con il Piemonte, siccome ha tollerato, e tollera verso il regno di Napoli anco dopo il concordato del 1818, nel quale furono solamente svincolate dalla prescrizione liceai scribere le comunicazioni dei vescovi, clero e popolo colla Santa Sede, su tutte le materie spirituali.

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Onde è che lo scrivente ha dichiarato, fino all'ultimo, alla Santa Sede che il Governo granducale nel pubblicare il concordato darebbe all'articolo y del medesimo la limitativa interpretazione sopra avvertita, e lo farebbe conoscere ai vescovi, ed a chiunque altro facesse di bisogno contestualmente alla pubblicazione accennata.

La seconda osservazione da farsi su questo articolo, è quella che nulla si è inteso innovare dirimpetto alla subiezione dei regolari verso i loro superiori generali. Questa materia fu già regolata d'accordo nel 1815 nella circostanza che vennero ristabilite le corporazioni religiose in Toscana, ed una circolare ai vescovi fu allora diretta dalla segreteria di Stato con cognizione ed intelligenza della Santa Sede medesima.

Il ministro pontifìcio riconobbe la verità di quanto gli veniva asserito, e desiderò che, rimanendo le cose nei termini nei quali furono poste, appunto nel 1815, non se ne facesse menzione esplicita nel concordato, siccome appunto anche in quell'epoca fu la Santa Sede informata della relativa disposizione, senza impegnarsi a darle una esplicita sanzione. Dietro di che rimase convenuto che niuna innovazione sarebbe stata fatta in proposito, e che il Governo granducale lo avrebbe espresso contemporaneamente alla pubblicazione del concordato.

5° Quanto si è disposto nell'articolo XIV attorno all'amministrazione dei vacanti non abbisogna di particolari spiegazioni. Bensì per l'esecuzione dell'articolo medesimo sarà necessario un regolamento che, sviluppando i principii in esso enunciati, provveda alla conveniente loro applicazione. Vi è luogo di credere che si terrà forse più al decoro dell'autorità vescovile, che ad attenuare di troppo nella sostanza l'influenza del Governo nell'amministrazione dei vacanti, e forse interessando fin da principio nella compilazione del regolamento medesimo qualche vescovo prudente ed esperto, si otterrà più facilmente di portare la cosa ad effetto con soddisfazione di tutte le parti.

Finalmente il sottoscritto deve rassegnare al ministero degli affari ecclesiastici due diverse note state cambiate fra il marzo e l'aprile 1818 infra il cardinale Vizzardelli, e monsignor Buoninsegni, il quale prendeva la qualifica di plenipotenziario granducale per convenire sul migliore regolamento degli affari ecclesiastici.

Queste note dovevano fin d'allora formar corredo e complemento al concordato al quale monsignor Buoninsegni aveva apposta la sua firma.

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Fu richiesto anco al sottoscritto di concordarle in corredo all'atto testé passato. Ma come la domanda fu affacciata quasi al momento della sottoscrizione dell'atto, lo scrivente poté riceverla soltanto ad referendum, né contrasse impegno veruno sul subbietto delle note medesime trattato. Ritiene bensì che, anche su questo proposito sia necessario di dare alla Santa Sede una qualche soddisfazione, e sembragli remissivamente esser cosa facile e di nessuna conseguenza, perché il soggetto delle note avvertite ha in alcune parti perduto, oggi, assai d'importanza, ed in altre come in quella che si referisce alle leggi sulle manimorte, non si farebbe in sostanza se non che ripetere una promessa già data nel 1815, e fedelmente di poi mantenuta cioè, che il sovrano di Toscana, avrebbe secondo le circostanze dei casi moderato con grazie speciali il rigore delle leggi accennate, tutte le volte che avesse creduto di poterlo fare senza danno dei privati.

Rimane in ultimo a dire dell'intelligenza in cui sono rimaste le parti sopra tutti gli altri articoli di legislazione toscana non contemplati nella convenzione che per avventura non armonizzassero colle leggi canoniche.

La Santa Sede ha fino all'ultimo dichiarato che non poteva impegnarsi a dare alle leggi o pratiche toscane nella subietta materia, una esplicita e generale sanzione, tanto più che asseriva non esserle neppur note in tutta la loro estensione.

Bensì si è rimasti d'intelligenza che sarebbe stata continuata in proposito la tolleranza praticata in addietro, e che i vescovi dirigendosi al Santo Padre in tutti quei casi nei quali avessero vista divergenza fra le leg'gi civili e le canoniche, avrebbero ottenute le facoltà e le istruzioni necessarie, onde far procedere tranquillamente le cose nelle rispettive loro diocesi.

Circa poi al modo con cui più particolarmente chiarire i vescovi, ed in specie quello di Lucca, su questo oggetto interessantissimo, il sottoscritto ha insistito perché il breve pontificio da circolarsi ai vescovi per annunziare ai medesimi il concordato, sia esplicito ed efficace a procurare al governo toscano l'intento che si è proposto, e che ha diritto di conseguire.

Il sottoscritto ha anche insistito perché il Breve suddetto sia comunicato al ministro toscano, avanti il cambio delle ratifiche, per devenire alle quali occorre che l'atto qui annesso venga sollecitamente sottoposto alla sovrana approvazione.

Li 7 maggio 1851.

G. Baldasseboni.

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X.

Lettera di 8. S. Pio IX a Leopoldo II Granduca di Toscana.

Altezza Imperiale e Reale,

Torna in Firenze il ministro di V. Altezza, ed io mi provalgo di questa circostanza per farle pervenire la presente, colla quale intendo di mettere in chiaro lo stato della situazione della S. Sede con il Governo di V. A. E prima di tutto debbo dichiarare che i motivi che hanno tenuto in Roma il cardinale Corsi e che gli hanno fin qui impedito di recarsi a Pisa sono apprezzabili, prescindendo affatto dal pagamento della nota pensione, circa la quale non si fa ora questione alcuna. Egli non vorrebbe mettersi in opposizione col Governo di V. A., quantunque per coscienza troverebbesi obbligato a farlo per cagione della inosservanza di alcuni articoli di quelli concordati fin qui tra la S. Sede e V. A. I. e R. Essendo perciò necessario che in tal punto le cose siano messe in regola, furono da me fatti consegnare al di lei ministro alcuni fogli nei quali erano notate le discordanze che dicevasi esistere tra le cose convenute e le pratiche in uso costì alle quali s'intese rimediare con la convenzione. Dal Ministero di V. A., che prese cognizione dei detti fogli, vennero fatte alcune osservazioni per le quali si negavano in parte alcuni abusi ed in parte si confermavano, ma si dicevano non contemplati nella convenzione.

Si è replicato alle predette osservazioni con altro foglio che è stato passato al lodato sig. ministro Bargagli, il quale potrà informarne a voce V. A., ed è in grado di farlo per essersi trovato presente alle conferenze nelle quali vennero formulati li articoli convenuti.

Confidandomi nella ben nota esimia pietà di V. A., spero che le cose saranno portate ad una felice soluzione ed anche con qualche sollecitudine, onde rimuovere l'apprensione che produce nel pubblico l'assenza cosi prolungata del card. Corsi dalla sua Archidiocesi, apprensione che dà luogo a commenti disgustosi.

Riceva l'Apostolica benedizione, che con effusione di nuovo comparto a V. A., all'augusta Consorte e famiglia, ed a tutti i suoi sudditi.

Datum Romae apud S. Petrum, die 10 augusti 1854.

Plus PP. IX.

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XI.

Lettera del granduca Leopoldo II a S. S. Pio IX.

Beatissimo Padre,

Firenze, 22 settembre 1854.

Una gravissima disgrazia domestica del mio ministro presso la Santa Sede ha fatto sì, che la venerata autografa di V. S. del 10 agosto, la quale egli doveva personalmente consegnarmi, mi è stata da esso inviata molto tempo più tardi.

Nel porgergli la risposta alla lettera della Santità Vostra, mi è grato di significarle che le repliche, le quali furono date dal suo Governo alle nostre prime osservazioni sul noto argomento degli articoli convenuti, vennero prese in matura considerazione dal mio ministro, e che questo ha già inviati alla di lei Corte gli schiarimenti opportuni, i quali mi lusingo che siano tali da schiarire i dubbi insorti e da rendere soddisfatti i desideri di Vostra Beatitudine.

Un'altra notizia io son lieto inoltre, Santo Padre, di poterle comunicare nella certezza che l'animo suo religiosissimo ne proverà consolazione: ed è, che una nuova legge sulla stampa da pubblicarsi in Toscana è stata già compilata da una Commissione che scelsi io stesso, ed a cui diedi le norme d'un sistema di censura il più strettamente preventivo, e che questa legge, la quale porrà un freno efficace ed. esemplare alla licenza degli scritti, dopo essere stata esaminata con tutto lo studio che si meritava il gravissimo subbietto, è ora certamente in via di sollecita risoluzione.

E nell'implorare dalla S. V. l'apostolica benedizione su me, e sulla mia famiglia, raccomandando alle sue preghiere in tanta calamità di tempi l'amato mio popolo, e passo a ripetermi con profondo sentimento di affezione e di riverenza.

Leopoldo.

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XII.

Due dispacci di Massimo d'Azeglio, presidente del Consiglio dei ministri in Torino al marchese Spinola, Incaricato (L'affari per la Sardegna in Roma.

Pregiatissimo signor Marchese, Torino, il 14 gennaio 1851.

Tra le diverse incumbenze state affidate al sig. commendatore Pinelli, all'epoca della sua missione straordinaria a Roma, era compresa anche quella di conferire al S. Padre in proposito dell'abolizione delle decime nell'isola Sardegna, a tenore del principio già stato adottato nella Camera dei deputati nella scorsa sezione parlamentare, ed al quale il Senato del regno sarà probabilmente per uniformarsi nell'attuale sessione, quando la legge, già stata votata dall'altra Camera, formerà il soggetto dello sue discussioni.

Le circostanze politiche che hanno addotta la necessità di aumentare le contribuzioni prediali, il cui peso diverrebbe soverchiamente grave, se con equa ripartizione non venisse imposto a tutti i cittadini, la somma convenienza di recare ad effetto le conseguenze della fusione legislativamente ordinata di tutti gl'interessi della Sardegna con quelli del continente, il dovere di parificare tutti i Regi sudditi mediante un sistema uniforme di pubbliche imposte, ed in vista del quale il parlamento ha risolto di abolire le decime, col cui mantenimento gli abitanti della Sardegna si vedrebbero assoggettati a gravezze sproporzionate e maggiori di quelle a cui vanno sottoposte le altre provincie; mentre hanno indotto il governo del re ad unirsi alla maggioranza della Camera per l'adozione di una legge avente per iscopo di attuare quell'uguaglianza fra i singoli cittadini che è voluta dallo Statuto, gl'imporranno conseguentemente l'obbligo di promuoverne l'eseguimento, appena essa sarà rivestita di tutti i caratteri che la rendono obbligatoria.

Tra la sanzione definitiva della legge in questione e la sua pratica esecuzione dovrà trascorrere un intervallo più o meno notevole, che verrà fissato nel testo stesso della medesima, durante il quale il potere esecutivo si farà a raccogliere tutti

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quei dati ed elementi che saranno giudicati abili all'uopo, onde provvedere al decoroso mantenimento del clero e del culto, al quale oggetto sono attualmente destinate, oltre ad altri beni di vario genere, le prestazioni medesime.

Trattandosi di un assestamento d'interessi dal quale può dipendere il maggior bene della Chiesa sarda, il Consiglio dei ministri, fedele ai sentimenti di religiosa deferenza verso la S. Sede, ha stimato opportuno di dichiarare fin d'ora quali siano le sue intenzioni in proposito, onde vengano esternate col mezzo di lei all'Eni, cardinale prosegretario di Stato, al cui benevole interessamento egli si propone di rivolgersi, allorché avrà raccolti i documenti all'uopo richiesti, e sarà in grado di rassegnare all'illuminata attenzione di S. Santità un apposito progetto, capace di conciliare i bisogni religiosi dell'isola di Sardegna colle condizioni politiche ed economiche dello Stato.

Nell'indirizzarle questo dispaccio, acciò ne dia comunicati S. Eni. Rev. il Cardinale Antonelli, passo a rinnovarle, ecc.

Azeglio.

Pregiatissimo sig. Marchese,

Torino, 26 marzo 1851.

Dietro la linea di condotta, ch'ella stessa aveva indicata, come conforme alle intenzioni del ministero pontificio col suo dispaccio N. 104, e che riesci parimente consentanea alle vedute del Gabinetto che ho l'onore di presiedere, e a tenore di quel dispaccio noi dovevamo occuparci dei fatto delle riforme come di cose volute dalla natura dei tempi, e dalla strettezza della pubblica finanza, anziché entrare in discussioni di principi, in ordine ai quali possono insorgere amare contestazioni colla Corte di Roma. Tal fu appunto il nostro procedere dal dì che la S. V. ricevette la comunicazione del 14 gennaio, onde parteciparla a nome del governo del re all'Eccell. cardinale prosegretario di Stato. A tal fine io ebbi cura di renderla avvertita delle varie fasi a cui andò soggetta la presentazione del progetto della Leg'ge sulle decime al Parlamento, affinchè così ella fosse in grado di rimuovere ogni sospetto che simili vicissitudini parlamentari avessero uno scopo di pressione o potessero trasformarsi in mano del Governo in altrettante minacele di coazione, per servirmi della locuzione stessa adoperata dalla S. V. Ill.

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Non si poteva conseguentemente per parte mia mostrare maggior deferenza per le suscettibilità d'ogni specie, facendomi ad antivenire e a dissipare i timori ch'ella mi manifestava, e spiegar quindi maggior desiderio d'evitare contrasti.

Pel ministero la questione delle decime è questione di finanza, è questione d'un miglior riparto delle pubbliche imposte, è necessità di pareggiare tutti i sudditi con un sistema regolare ed uniforme di contribuzioni. Le conseguenze d'un tal sistema venendo a toccare alle relazioni tra lo Stato e la Chiesa sarda, alla quale le prestazioni delle decime somministrano i mezzi di sussistenza, il Governo aveva due obblighi da adempiere, quello cioè di rassicurare gli attuali possessori di esse, che avrebbero avuto un onesto e decoroso sostentamento, in luogo di quello che veniva loro tolto colla soppressione delle Decime, e di dichiarare, come appunto ha fatto, alla S. Sede che, nel pigliare quella o quell'altra misura riguardo al clero si sarebbero presentati a S. S. gli opportuni progetti in proposito e procacciato il suo concorso per la loro effettiva adozione.

Il Governo adempì a questi due obblighi - al primo nel testo stesso della legge, la quale in fin dei conti non avrà effetto, fuorché nel 1853. - Al secondo incaricando V. S. Illustrissima di far le successive comunicazioni al cardinale Antonelli che ella ha fatte. L'azione del Governo non poteva andar più oltre, attesoché, nel caso contrario, sarebbe stato necessario di aver sotto mano positivi dati statistici, risultati pratici già ottenuti dalle due Commissioni di Sardegna e del Piemonte che si occupano di raccogliere tutti gdi elementi, sui quali debbesi appunto formulnre uno o più progetti, e quindi un tal quale cadastro, in cui siano specificamente designate tutte le prestazioni decimali, dalle quali trae il Clero sardo attualmente una parte della sua sussistenza. Se la schiettezza e la lealtà delle nostre intenzioni esige che noi non ci presentiamo alla S. Sede fuorché coll'appoggio di progetti seriamente elaborati, e tali da convincere della necessità e dell'opportunità di appositi concerti, la buona fede esige pure che la Corte di Roma non metta intempestivi ed inutili ostacoli a questo nostro ossequioso intendimento, e non c'imputi a colpa, od a mancanza se non possiamo tuttavia far progetti particolareggiati e definitivi sull'attuale circostanza. Ma se questo ci riesce impossibile, egli è impossibilissimo d'intendersela sin d'ora in massima, e nel modo confidenziale dalla S. V. accennato, e ciò nel senso da me indicato nel dispaccio particolare annesso alle istruzioni inviatole sotto la data del 3 marzo,

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La saviezza di cui la S. Sede ha fatto prova in tutti i tempi, m'induce facilmente a credere ch'ella non possa trarre un serio argomento d'opposizione dalle varie discussioni parlamentari in ordine alla legge sulle decime, e dalle opinioni individuali di questo o quell'altro oratore. Le prerogative e la libertà di cui godono i Parlamenti, facendo parte degli ordini politici, onde è retto il paese non possono conseguentemente formare oggetto di fondata querela, per parte della Corte pontifìcia.

Su ciò che concerne l'art, inserito nel Giornale di Roma poiché il cardinale Antonelli dichiarò, che non è ufficiale, e che egli era affatto ignaro in ordine al suo contenuto, io debbo in tal caso conghietturare che esso sia stato il risultato d'uu zelo eccessivo, onde attraversare le buone disposizioni di Sua Eccellenza stessa riguardo al nostro paese.

Il presente dispaccio tracciando in modo esplicito alla S. V.

111. ma la linea di condotta che tener debbe, ed essendole di norma e guida positiva nelle ulteriori conferenze, che le raccomando di attivamente coltivare colla prefata E. S. circa a questo affare delle decime, per conseguire un preventivo confidenziale concerto in massima per la loro soppressione, ella procurerà di ben penetrarsene, e di coglierne lo spirito, onde valersene nei relativi colloquii.

Gradisca, ecc.

Azeglio.


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XIII.

Dice dispacci di Massimo d'Azeglio al ministro sardo in Parigi.

Eccellenza,

Torino, li 3 aprile 1851.

Fin dall'epoca della missione del cav. Pinelli a Roma, egli aveva l'ordine (in caso del buon accoglimento per parte del S. Padre) di entrare seco lui in trattative generali sopra le riforme da introdursi nei regi Stati, e per le quali fosse necessario il concorso della S. Sede. La soppressione delle decime nell'isola di Sardegna già stata votata dalla Camera dei deputati, doveva essere una tra le prime trattative da iniziarsi col papa, onde evitare gl'inconvenienti già prodottisi per la soppressione del fóro ecclesiastico.

Lo scopo della missione del cav. Pinelli essendo stato frustrato, conveniva cogliere la prima favorevole occasione a fine di ottenere lo stesso risultato.

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Il M. Spinola venne esortato ad adoprare tutti i mezzi che erano in sua facoltà, per preparere la via a disposizioni concilianti presso il Vaticano, coll'incarico di riferirne in proposito, quando fosse giunto il momento propizio per entrare in trattative.

Col dispaccio 14 gennaio, di cui già le inviai copia, il ministero addivenne alla comunicazione che da molto tempo desiderava di fare alla Corte pontificia. La risposta a questo dispaccio (25 gennaio), di cui pure l'È. V. possiede copia, esprime qual sia stato l'accoglimento che la S. Sede ha fatto alle nostre entrature.

Due cose sono da notarsi in questo dispaccio: l°Che la Corte pontificia desidera che si evitino le discussioni di principii, e preferisce che si parli del fatto delle riforme. In altri termini; Roma ama meglio di aderire al fatto della necessità, anziché cedere sulla questione di diritto in ordine ad una proprietà che essa considera come ecclesiastica. Il ministero credette di entrare tanto più facilmente in questo arringo, in quanto che, avendo esso dichiarato più volte che non voleva impadronirsi dei beni ecclesiastici, non trovava conseguentemente né utile né opportuno di sollevare tale questione riguardo alle decime.

La seconda cosa che deve notarsi nel dispaccio in discorso si è che la Corte di Roma sarebbe disposta ad un preventivo confidenziale concerto quand'anche la legge fosse g'ià votata dalla Camera, purché non fosse ancora ridotta a legge definitiva ed obbligatoria mediante la R. sanzione.

I successivi dispacci inviati da Torino a Roma tendono tutti a mostrar per parte. nostra franco desiderio di accordi, e le istruzioni mandate in proposito sotto la data del 3 marzo indicano quali siano le vedute del ministero relative alle progettate riforme; 1° Una più equa ripartizione de' beni ecclesiastici; 2° La soppressione delle decime in Sardegna mediante un conveniente assegnamento agli attuali provvisti; 3° Una nuova circoscrizione delle diocesi in Sardegna, e la riduzione di alcuni canonicati ne' varii Capitoli; 4° La diminuzione di qualche convento nell'isola. Col dispaccio 4 marzo unito alle istruzioni, invitavasi il M. Spinola a circoscrivere le sue trattative in riguardo alle decime, ed a non estenderle agli altri punti, onde non complicarle, e così procacciare l'accordo preventivo sulla soppressione di esse mediante l'assegnamento fissato nella legge stessa, ed il cui quantitativo sarebbe ulteriormente determinato quando i lavori delle commissioni della Sardegna e del Piemonte avessero fissate le positive basi, sulle quali si doveva fondare.

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A queste proposizioni rispose il cardinale Antonelli ne' suoi colloquii col M. Spinola, mostrando buone disposizioni in genere per una conciliazione, osservando che si riservava di rispondere specialmente ai singoli capi quando si fossero presentati progetti specifici, ad avvertendo intanto che il numero dei vescovati non gli pareva soverchiante in Sardegna, non si pronunziò tuttavia assolutamente contrario alla riduzione dei medesimi; che in ordine ai benefizi, trattavasi di materia delicata, ma che del resto in certe circostanze particolari non era insolito che si fosse addivenuto a qualche temperamento in proposito.

Dopo queste risposte sopraggiunse improvvisamente alla Camera il richiamo della legge sulle decime a cagione della discussione riguardante l'imposta da stabilirsi sulle successioni, al quale proposito la Camera chiese che si sospendesse la disamina di questa legge, finché non fosse preceduta la definitiva deliberazione sopra quelle delle decime, che doveva procedere di concerto con quella, onde introdurre un sistema equo ed uniformo di tributi per l'isola di Sardegna.

Il ministero avvertì il marchese Spinola di questo incidente onde raggiungere la Corte di Roma in ordine alla nostra persistenza nelle già manifestate intenzioni di concerto preventivo e con preghiera di sollecitare questo concerto in massima prima che la legge fosse definitivamente adottata.

Il M. Spinola rispose a tale dispaccio indicando che Roma continuava nelle buone disposizioni a riguardo nostro, tuttoché mostrasse una tal qual diffidenza in seguito alla discussione avvenuta in Senato sulla legge in discorso. Segno di questa diffidenza il M. Spinola lo ebbe in un articolo inserito sul giornale di Roma, di cui le unisco copia. Chiese al cardinale alcune spiegazioni in proposito. S. E. allegò che non era ufficiale, e ch'egli era ignaro del suo contenuto. Sulla domanda; se un tale articolo fosse uscito dal gabinetto particolare del papa, attesoché in esso adoprasi l'espressione siamo autorizzali, il cardinale rispose ciò poter essere opera del giornalista medesimo, poiché alludevasi a fatti che erano noti ad ognuno. A questi dispacci si rispose con quello del 26 marzo, la cui copia è nelle mani dell'E. V.

Tali erano le nostre relazioni con Roma quando si presentò al ministero il sig. De Butenval facendo le osservazioni che ella conosce.

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Gli si diede lettura dell'intiera corrispondenza consistente in undici dispacci scambiati tra Roma e Torino e gli si provò con essi che, avuto riguardo alla posizione tutta particolare fatta dalla S. Sede al Governo del re, esso non poteva fare miglior prova di buon volere e dar maggiori saggi di franco ed efficace desiderio di conciliazione. Si fece osservare al ministro di Francia, che noi eravamo nelle disposizioni stabilite nelle disposizioni stabilite nel dispaccio 25 gennaio, cioè che negoziavamo sopra una legge non ancora rivestita della R. sanzione, che, così stando le cose, non potevamo renderci conto del motivo che aveva determinato l'art. 18 marzo inserito nel [Giornale di Roma suddetto, la cui tendenza manifesta era, di far credere che noi volessimo volontariamente tenerci nelle stesse condizioni; che avevamo offerta, non giustificata l'occasione di pronunciare l'allocuzione concistoriale del 1° novembre.

Il sig. De Butenval promise di scrivere a Parigi in questo senso. L'È. V. giudicherà per qual motivo egli abbia messo una pronunziata insistenza onde per noi si soprassedesse dall'andar oltre nella pubblicazione della legge sulle decime.

Intanto il consiglio dei ministri decise di chiamare in fretta il M. Spinola da Roma onde conoscere il vero stato delle cose, e munirlo immediatamente di quelle istruzioni che saranno del caso. La relazione sulla legge delle decime è stata fatta ieri alla Camera dei deputati, Il ministero farà quanto da lui può dipendere per conciliar tutte le convenienze, ma esso non può differire al di là d'un tempo determinato di soddisfare ai voti, ed ai bisogni della nazione, che da tre anni a questa parte vengono espressi al Parlamento.

Dal succitato racconto delle attuali nostre trattative con Roma in aggiunta a quanto ebbi occasione di comunicarle ieri sullo stesso soggetto, l'È. V. potrà essere in grado d'informare il sig. Brennier sulle cose nostre e quindi trarre argomento in ordine agli uffizii, che il sig. DeButenval disse di voler fare in nostro favore.

Gradisca l'Eccellenza Vostra gli attestati della mia distintissima considerazione.

Azeglio.

Eccellenza,

Torino, 3 marzo 1853.

Con dispaccio del 3 marzo 1831, rispondendosi agli ultimi fogli del regio rappresentante in Roma, coi quali era dimostrata la probabilità che si potesse venire colla Santa Sede

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ad opportuni temperamenti, relativamente all'assesto degli affari ecclesiastici del Regno, mentre si esortò il marchese Spinola a procurare di mantenere e promuovere quello spirito di conciliazione che tanto può conferire ai vantaggi della Chiesa e dello Stato, si espresse pure l'impossibilità, in cui per ora si è, di trasmettere a Roma progetti particolareggiati, specifici e definitivi circa ai provvedimenti, che le condizioni del paese, ed i voti del Parlamento altamente reclamano, onde l'effettuazione di essi riesca senza offesa di veruno di quei riguardi, che il ministero intende di rispettare, e per cui è d'uopo che le basi si desumano da ben chiariti elementi di fatto intorno alla entità ed alla natura dei beni che compongono il patrimonio ecclesiastico dello Stato.

Quindi si accennarono i principali progetti, sui quali versano i divisamenti del Governo, onde colla dovuta prudenza il marchese Spinola potesse richiamare l'attenzione del Governo pontificio, premettendo essere il Governo del re alieno da qualunque atto tendente a spropriare il clero per convertire i beni a profitto del Demanio, e s'invocarono a questo fine le ripetute dichiarazioni fatte dal ministero dinanzi al Parlamento su tale proposito, mosso come è dal desiderio della conservazione della proprietà ecclesiastica.

Che conseguentemente le cure del Governo sarebbero rivolte: 1° Ad un'equa e ben ordinata distribuzione dei beni ecclesiastici, così nel continente come nella Sardegna, per modo che il clero venga ad essere sufficientemente e decorosamente provvisto senza che ne risulti ulterior carico allo Stato ed ai Comuni, in vista massime che gli elementi già fino ad ora raccolti danno fiducia al ministero che il Patrimonio del clero, bene ed equamente compartito, possa di per sé bastare al congruo e conveniente suo mantenimento, e che si verrà per tal modo a togliere i motivi dell'insistenza con cui si rinnovarono e rinnoveranno le istanze per l'incameramento di essi beni, promosse dalla necessità in cui si trova lo Stato di gravare di nuovi pesi la nazione, onde sopperire agli straordinari bisogni della pubblica finanza; 2° Alla soppressione delle decime in Sardegna consigliata e voluta siccome conseguenza dell'uniforme suo ordinamento colle province continentali riguardo alle pubbliche imposte, che le disposizioni dello Stato rendono di una necessità non solo evidente, ma anzi inevitabile ed assoluta. Su questo proposito il Governo comunicherà, allorché sarà in grado di farlo, a

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Santo Padre gli elementi raccolti, ed i provvedimenti che si crederanno utili a migliorare la condizione del clero sardo, il quale nei gradi inferiori, trovasi in tali strettezze ed angustie da meritare l'interessamento di Sua Santità. A raggiungere tuie scopo si spera che la Santa Sede, siccome il marchese Spinola ebbe ad inferirne dai colloquii avuti, non vorrà frapporre ostacolo, e che la sua almeno tacita adesione, agevolerà al Governo la via di venire con essa a definitivi e compiuti temperamenti; 3° Alla riduzione di un conveniente numero di vescovati e di altri benefizi ecclesiastici, i quali non sono in rapporto col numero della popolazione, massime in Sardegna ove per circa 500 mila anime contansi undici vescovati; lo stesso dicasi pei Capitoli cattedrali il di cui rispettivo numero di canonicati è eccessivo, constando il solo Capitolo cattedrale di Cagliari di 30 canonici, non compresi gli altri beneficiati. E riconosciuto non esservi Stato in Europa, ove, serbata la stessa proporzione nella popolazione, s'incontri a gran pezza il medesimo eccesso. Mediante tale riduzione si avrebbero i mezzi di provvedere a tutte le classi del clero, ed in ispecial modo dei parroci, dando loro così con che campare decorosamente, ed esercitarsi in quelle opere di beneficenza che tanto sono atte a nobilitare il clero. Allorché si verrà alla compilazione del relativo progetto il ministero non commetterà di procurarsi eziandio i lumi dei più riputati ed eminenti ecclesiastici dello Stato, disposto com'egli è a giovarsi dei loro consigli in ciò che riflette le sue relazioni colla Chiesa; 4° Il Governo ha pure dovuto tener conto dell'opinione, quasi perfettamente unanime che si manifesta riguardo all'eccedente numero degl'Istituti regolari e monastici, e mentre il ministero è ben lungi dal disconoscere l'utilità di taluni di essi nel servizio religioso, pel sollievo che prestano al clero, e più specialmente ai parroci, e per l'opera loro nell'educazione, in ispecie per l'elementare, per cui procacciaronsi e si mantengono la riverenza e l'affetto delle popolazioni, ha pure dovuto convincersi che i locali e le rendite di alcuni non sono in ragionevole proporzione con lo scarso numero attuale o sperato dei claustrali, ed in moltissimi luoghi sì del continente, che della Sardegna la inutilità di tali Istituti è universalmente manifesta, ed un deplorabile difetto di disciplina e di morale condotta di alcuni tra i membri di essi li resero invisi alle popolazioni, le quali con incessanti reclami al Governo ed al Parlamento ne richiedono la soppressione.

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Il Governo è intimamente persuaso che, soddisfacendosi con matura cognizione di causa a tali voti, con diminuire con giusta e temperata misura il numero dei conventi, si toglierebbe di mezzo la cagione di gravi inconvenienti.

S'indicarono al regio incaricato d'affari presso la Santa Sede i summentovati progetti, affinché presentandosi l'opportunità, se ne valesse, e procurasse di far persuaso il Governo pontificio delle vere intenzioni del ministero sardo, le quali sostanzialmente sono di mantener saldo, con tutti i mezzi e contro tutti gli assalti il principio cattolico, a preservare il quale nulla può maggiormente conferire quanto il procedere gradatamente a. quei miglioramenti che la nuova condizione politica del paese altamente riclama, e che pel Governo sono una necessità irreçusabile, e per cui esso attende con fiducia la benevola cooperazione della Santa Sede, onde coi mezzi che da essa dipendono si possano portare a compimento.

Gradisca l'Eccellenza Vostra gli attestati della mia distintissima considerazione.

Azeglio.

XIV.

Istruzioni pel cav. Bertone di Sartibuv Inviato straordinario ministro plenipotenziario di S. M. il re di Sardegna a Roma.

Torino, 29 ottobre 1851.

La missione alla S. V. illustrissima affidata è la più importante che possa incontrarsi nel corso della carriera diplomatica, non meno per le materie sovra le quali essa deve aggirarsi, quanto per l'abilità, la scaltrezza ed il proverbiale accorgimento dei singoli negoziatori di cui si valse in ogni tempo la Corte di Roma, colla quale si tratta appunto d'entrare in immediate negoziazioni, onde veder modo di appianar con essa, le differenze insorte col Governo di S, M., e così provvedere ed ai veri e permanenti interessi della nostra sacrosanta cattolica religione, non che alla tranquillità e prosperità dello Stato.

Cotesta missione acquista una particolare importanza dall'indole dei tempi in mezzo ai quali deve attuarsi, come quelli

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che, avendo messo in campo principii e teoriche di libertà impossibili, hanno per natural conseguenza addotto una reazione nei principii e nelle teoriche della parte opposta, e così portato la Corte di Roma a rimettere in campo certe pretese e massime che possono sembrare quasi rinnovate dai secoli della supremazia romana, non solo nelle cose di religione, che nissun Stato cattolico potrà mai contestarle, ma altresì nei negozii civili medesimi, e che quindi furon causa di quelle lotte tra il sacerdozio e l'imperio onde son piene le istorie.

Procedere di buon accordo colla Corte di Roma onde modificare alcuni capi del diritto pubblico ecclesiastico del Regno, e farlo armonizzare colle istituzioni costituzionali che ci reggono, riesce una trattazione assai delicata per se stessa, ed oltremodo difficile con chi si sforza di far prevalere i principii della libertà assoluta della Chiesa, non che della sua indipendenza dal potere civile, e considera come altrettante concessioni e favori, e, direi quasi, siccome effetto di semplice tolleranza, le prerogative ed i diritti che i varii Stati hanno dovuto successivamente rivendicare per se medesimi, e qual parte essenziale ed inalienabile della sovranità territoriale, onde regolare in modo efficace e permanente le mutue relazioni delle due potestà.

Mentre le parti e le passioni politiche hanno, come in giornata (sic), una larga influenza nelle cose religiose e mentre col savio e lodevole intendimento d'appuntellare il principio d'autorità notabilmente vulnerato, e messo a repentaglio in tutta l'Europa continentale, si tende per avventura ad esagerarlo, e si corre il pericolo di non dargli altro appoggio tranne quello della forza materiale e dell'assolutismo governativo, conviene alla S. V. di procedere con somma prudenza e con estrema riservatezza prima di entrare in certe discussioni generali di principii, o lasciarsi condurre sopra sì sdrucciolo terreno; e sarà quindi miglior consiglio lo attenersi intanto allo stato di possesso, alle consuetudini antiche, ed al fatto esistente, anziché dar opera a pericolose controversie e formolo principii di cui si possa quindi prender atto dal canto dei negoziatori pontifìcii onde compromettere le massime che il Governo sardo ha finora seguitato nelle sue relazioni colla Corte di Roma. Questa avvertenza è sopratutto necessaria allorché la S. V. dovrà rediger note, processi verbali di conferenze, od addivenire a quegli atti che appartengono alla parte scritta de' negoziati.

Dalle letture dei dispacci ministeriali e dalle corrispondenze

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del nostro incaricato d'affari a Roma la S. V. si è potuto formare un'idea esatta delle differenze insorte colla Santa Sede in seguito alla promulgazione della legge del 9 aprile non che degli argomenti e delle ragioni politiche che indussero il Governo di S. M. ad adottarle, e quello di S. S. a combatterle ed a desiderarne la rivocazione.

Gli argomenti addotti dal ministero onde giustificar l'operato, e difendersi dalle proteste e dalle pubblicazioni d'ogni maniera, colle quali la Corte di Roma cercò di compromettere la nostra dignità, e di nuocere alla buona riputazione, onde ogni Governo deve mostrarsi sollecito non meno in faccia al paese, quanto in faccia agli Stati esteri, trovansi sostanzialmente compendiati nei due dispacci 3 giugno e 24 luglio dello scorso anno, ambedue comunicati a S. E. il cardinale Antonella e poscia pubblicati nei giornali; dopo essere stati altresì trasmessi alle principali Potenze estere (NB. La Corte di Roma cercò di procurare un intervento estero nelle cose nostre, allegando la violazione dei trattati per giustificarla. V. Corrispondenza, conf. di Parigli).

Importa che la S. V, si penetri ben bene del loro contenuto, sia perché in essi la questione è trattata sotto l'aspetto del diritto pubblico Interno ed esterno, sia perché l'Europa non può altrimenti giudicarla, attesoché non ha altri documenti ufficiali e stampati sui quali possa fondare un'opinione qualunque in ordine alle nostre vertenze colla Corte di Roma.

I due dispacci suddetti essendo appunto quelli sopra i quali il cardinale Antonelli voleva elevare una questione preliminare prima d' indursi ad accettare le trattative dirette e che poscia abbandonò, almeno per nota, di formulare, il Governo di Sua Maestà deve considerar questo tratto come un vero segno di intenzioni concilianti per parte della Corte di Roma, epperciò tenere il più gran conto di un precedente dal quale se na possono trarre le più utili conseguenze.

II primo vantaggio che si può ricavare dal dispaccio 24 luluglio consiste nel poter limitare ad esso le discussioni riguardo alle anteriori trattative colla Corte di Roma, e così impedire che si risalga al passato onde esaminare se vi furono sì o no vere trattative, e se queste sieno state più o meno formali ed abbastanza spinte o protratte onde riescire a qualche utile conclusione.

Il dispaccio stabilisce che vi furono trattative, e che vi fa un controprogetto scritto marni propria dello stesso Cardinale Antonelli, e siccome questo porporato non ismentì il fatto, esso

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rimane perciò acquistato alla discussione, e rende inutile ogni attuale indagine in ordine alle trattative medesime, appunto perché trascorsero 15 mesi dacché la Corte di Roma avrebbe dovuto tornar sulla stessa questione, quando avesse stimato opportuno di farlo.

In ordine alla differenza tra i concordati ed i trattati in essi dispacci accennata, converrà starsene sui generali, sia perché non sembra che la Corte di Roma abbia molta propensione od interesse ad entrare seriamente nel merito della questione (motivo questo che pare averla indotta ad abbandonar la questione preliminare), sia perché noi fummo costretti a ricorrere alla medesima piuttosto per difenderci dalla violazione della fede internazionale che ci veniva apposta in faccia all'Europa, anziché coll'intendimento di pigliar l' iniziativa d'una questione che può venir variamente considerata e risolta, a seconda dei pubblicisti ai quali si ricorre, ed in ordine alla quale è più spediente d'intendersela all'amichevole, e sciogliendola in fatto secondo i casi speciali, anziché deciderla con una decisione formale di massima, a cui la dignità del Governo e la politica prudenza non gli consentono di addivenire.

Lo stesso dovrà dirsi sulla clausola rebus sic stantibus, sostenuta in essa nota, circoscritta peraltro e spiegata col fatto della necessità, e della quale si valsero, senza però formularla, alcuni mesi dopo di noi i pubblicisti viennesi medesimi onde giustificare in faccia all'Europa il progetto d'incorporazione delle Provincie non tedesche alla Confederazione germanica, e invocarono a tal uopo l'appoggio della costituzione del 4 maggio siccome quella che dava facoltà al Governo austriaco di modificare i trattati esistenti, anzi l'equilibrio europeo medesimo, e tal quale venne stabilito col trattato di Vienna.

Se il Piemonte intendesse operare riguardo allo Statuto quello stesso che venne testé operato dall'imperatore d'Austria, esso non potrebbe certamente invocare con efficacia il principio di diritto pubblico sul quale insiste, per la stessa ragione con cui persiste nel voler conservare lo Statuto fondamentale, e con esso tutte le conseguenze che ne derivano.

Un altro vantaggio che può ricavarsi da opportune e ben condotte discussioni verbali in materia, consiste nel dar minori proporzioni alle nostre vertenze colla Santa Sede, e nel cercar di sottrarle, per quanto sarà possibile, alle influenze della diplomazia estera, collo scopo di ridurle in tal modo ad una discussione particolare tra la Santa Sede e la Corte di Sardegna onde regolar di concerto alcuni punti di disciplina ecclesiastica.

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All'articolo xi del progetto sulle decime, venendo fatto cenno di Bolle da emanarsi dalla Santa Sede ed in seguito alle quali il Governo del Re promuoverà apposite leggi per parte del Parlamento, incontrerà probabilmente dal lato del plenipotenziario pontificio un'analoga domanda riguardo alle medesime, quasiché si voglia starsene ad esse soltanto, e non addivenir piuttosto ad un nuovo e generale concordato.

La S. V. dovrà tenersi molto riservata su questo punto, e senza mostrarsi avversa ai concordati, non vincolarsi neppure con formale promessa a questo riguardo. Previe le ragioni canoniche che inducono la necessità di parlar di Bolle, ella farà sentire che il ministero si limitò a parlar di esse sole onde dar tempo all'opinione pubblica oggidì non molto favorevole a siffatte stipulazioni, affinché avesse agio d'illuminarsi e di meglio predisporsi in proposito, e per poter quindi cogliere il momento propizio, onde stabilire la forma più acconcia e più conveniente, nella quale dovrà ridursi il risultato totale e definitivo dei negoziati.

Siccome però gli affari ecclesiastici nella Sardegna sono i più urgenti, per la ragione che le verrà ulteriormente indicata, parve al ministero che il modo di provvedere ai medesimi possa intanto trovarsi mercè l'emanazione di relative bolle, e ciò senza pregiudizio delle altre riforme da introdursi nelle cose ecclesiastiche di tutto lo Stato, non che della forma del pubblico atto, in cui dovranno essere consegnate dalle altre parti contraenti onde renderle obbligatorie.

Per attivare la trattazione sulle decime sarà mestieri che la S. V. faccia capo dal promuovere la nomina della Commissione di cui vien parlato all'art, ix del progetto del 2 maggio, affinché essa possa riunir senza indugio gli opportuni materiali, e raccoglier tutte le notizie, informazioni ed elementi che alle medesime si riferiscono, e sopra i quali si dovranno poscia stabilire gli articoli speciali delle riduzioni e dei compensi da sottomettersi alla definitiva approvazione di Sua Santità.

Nello stesso modo con cui le nostre note 3 giugno e 24 luglio sono specialmente designate all'attenzione della S. V., per le ragioni sovra espresse è altresì utilissimo che Ella non dimentichi la contronota del cardinale Antonelli del 19 luglio, responsiva alla nostra del 3 giugno, ed in cui le pretese della Corte romana sono messe in tutta la loro luce. Un commentario a questa contronota stessa trovasi in una dissertazione stampata a Parigi dal Didot col seguente titolo: Della natura e carattere essenziale dei Concordati.

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Il suo scopo è di combattere la nostra nota del 24 luglio che s'incrocicchiò per via colla contronota suddetta.

L'Univers e l'Osservatore Romano cercarono di dare la maggior possibile pubblicità a cotesta dissertazione, la quale per altro non si credette di dover stampare in Roma, né con nome d'autore conosciuto onde non assumere la responsabilità diretta di tutte le dottrine nella medesima propugnate. Nel qual fatto non si può a meno di non riconoscere la politica prudenza del Gabinetto Pontificio.

Dalla natura delle pubblicazioni che le vengon particolarmente indicate si può facilmente scorgere quanta della essere la di Lei circospezione onde evitar discussioni di principii, o rinnovare polemiche inutili sulle cose passate, e come sia all'incontro di reciproca convenienza lo attenersi piuttosto alle circostanze straordinarie dei tempi che le hanno originate, onde dedur poscia dalle medesime un modo conveniente ed acconcio di soluzione.

Ciò premesso e per tornare alle trattative che più particolarmente dovranno intanto preoccupare la S. V., ne avrà la norma nelle istruzioni seguenti tali quali vennero formulate dal mio collega al dicastero di Grazia e Giustizia.

Azeglio.

(Annesso).

Istruzione del ministro

dì Grazia e Giustizia al conte Bertone di Sambuy.

Nella nota confidenziale che fu trasmessa nello scorso mese di maggio all'incaricato d'affari presso la Santa Sede, e di cui si unisce copia, essendosi già indicate distintamente tutte le materie che devono formare il soggetto delle trattative che ora vanno ad essere aperte, ed essendosi in essa nota esplicitamente manifestato le intenzioni del Governo del re sovra ogni argomento, e svolte le ragioni che giustificano le desiderate riforme, non occorrono nuove e più speciali istruzioni al signor plenipotenziario.

Egli può attenersi a quanto è espresso in detta nota, salvo a chiedere ulteriori direzioni qualora nel corso delle negoziazioni si rendessero necessarie.

Senonchè il progetto, della legge sul matrimonio e sullo stato civile, della quale è fatta menzione nel capo 3 della suddetta nota, essendo ora ultimato, né potendo il Governo più oltre ritardarne la presentazione al Parlamento, converrà che

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l'egregio plenipotenziario nella prima conferenza ponga questa circostanza a cognizione del cardinale Antonelli e procuri di predisporre gli animi in favore di quella legge, onde la stessa non sia per eccitare il malumore degli eminentissimi cardinali.

Egli potrà a tal uopo dichiarare che la legge sul matrimonio e sullo stato civile non potendo né dovendo essere oggetto di negoziati, come già si faceva sentire nella medesima nota, e come lo riconosceva il cardinale Antonelli; egli si limiterà a notificare che la Commissione, la quale era stata nominata per elaborare il relativo progetto, avendo compiuto il suo lavoro, la legge sarà presentata nella prossima sezione.

Non essendo poi conveniente né possibile di comunicare il testo del progetto, atteso il ritardo che potrebbe derivarne basterà che il signor plenipotenziario ne riferisca la sostanza dicendo: che trattandosi d'una legge puramente civile, né altra potendo farne il Governo, esso si limita a regolare il matrimonio in ciò che concerne li suoi effetti civili e nelle sue relazioni colla legislazione civile, lasciando intatti i doveri che la religione impone, e proteggendo ad un tempo l'osservanza dei medesimi e la libertà della coscienza.

Dell'affare Nuitz il miglior partito sarà di non parlarne: e se il cardinale Antonelli od il Santo Padre ne facessero parola, il signor plenipotenziario si limiterà a rispondere che il Governo del re ha veduto con rincrescimento che siasi proceduto alla condanna dei trattati di quel professore, la maggior parte dei quali fu stampata previa licenza dei revisori ecclesiastici, non certamente sospetti alla Santa Sede, senza alcuna previa ammonizione all'autore, onde eccitarlo ad emendare le proposizioni che si credevano erronee, e più ancora senza alcuna previa partecipazione al Governo.

Riguardo alle sedi archiepiscopali di Torino, Genova e Cagliari è conveniente che il signor plenipotenziario non si affretti di toccare quest'argomento, ed aspetti che se ne parli dal cardinale Antonelli o dal Santo Padre.

In questo caso si applicherà a dimostrare come monsignor Fransoni sia divenuto assolutamente impossibile a Torino, e come pel bene della religione sarebbe necessario che il Santo Padre interponesse la sua influenza per eccitarlo a rinunziare alla sua sede, e che in caso diverso si addivenisse provvisoriamente alla nomina di un amministratore apostolico.

S'invocherà forse qualche più o meno esplicita promessa fatta in principio delle discussioni di consentire

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al ritorno di monsignor Fransoni in Torino almeno per dieci o dodici giorni.

In questo caso il signor plenipotenziario risponderà che i fatti che si sono succeduti e lo stato dell'opinione pubblica al riguardo di quel prelato non permetterebbero più al Governo di consentire in oggi al desiderio dello stesso, pel timore che la di lui presenza, quand'anche momentanea, fosse per eccitare qualche grave tumulto che mettesse in pericolo la di lui persona e che il Governo non potesse reprimere che mediante spargimento di sangue.

Quanto a monsignor Marongiu, il ritorno alla sua sede, quando sia assestato l'affare delle decime, non presenterebbe così insuperabili difficoltà, purché si sottomettesse espressamente a rispettare le leggi dello Stato.

Riguardo alla sede arcivescovile di Genova il signor plenipotenziario potrà far sentire che quantunque siansi già respinte due nomine senza addurne alcun motivo canonico, tuttavia Sua Maestà è disposta a procedere ad altra nomina.

Per ciò che concerne il calice d'oro importa di far osservare che la soppressione di quella spesa, la quale non poteva rigorosamente dirsi obbligatoria, come ebbe a riconoscerlo il Consiglio di Stato, non fu dettata da alcun motivo di sfregio verso il Santo Padre, e che è stata una conseguenza di tutte le riduzioni che le Camere hanno fatto nei bilanci, attese le strettezze delle finanze.

Non vi sarebbe però inconveniente nello aggiungere, per modo di conversazione, che anche quest'affare potrà accomodarsi con reciproca soddisfazione, venendo assestate le altre differenze.

Del resto non fa neppur mestieri di notare che una delle prime e principali cure dell' egregio plenipotenziario sarà di applicarsi a cancellare le prevenzioni sfavorevoli che possono aversi in Roma sul Governo del re e sulle spirito delle popolazioni, ed a persuadere le persone influenti che il Governo non è alcunamente avverso al Santo Padre ed alla Chiesa; che anzi deplora le esorbitanze che lo stato attuale delle cose produce talvolta nella stampa, e che appunto S. M. desidera che possa prontamente addivenirsi ad una conciliazione con reciproca soddisfazione, perché è persuasa che stabilita la buona armonia, cesserà da per sé quel rincrescevole stato di cose, e l'opinione pubblica stessa verrà ad ogni modo in aiuto al Governo per reprimere gli eccessi dei giornali; giacché il reato di stampa dovendo a termini della legge essere giudicato dai giudici del fatto, y opinione pubblica influisce grandemente sull'esito di simili giudizii.

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Non devesi infine dimenticare a termini della legge soppressiva delle decime nell'isola di Sardegna, che queste cessano di pien diritto al 1° gennaio 1853, così che se a quell'epoca non fossero assestate le vertenze colla Santa Sede, il Clero si troverebbe privo affatto dei mezzi di sussistenza, circostanza questa sulla quale convien chiamare in ogni opportunità l'attenzione della Santa Sede onde attivare le negoziazioni.

BONCOMPAGNI.


vai su


XV.

Cinq dépêches de 31. le chevalier Maculine d'Azeglio à 3L le comte de Revel à Vienne.

Monsieur le Comte, Turin, 1 juin 1852.

En continuant à vous tenir informe de l'État de nos rapports avec les puissances étrangères, j'ai peu de chose à modifier ou à ajouter à ce que j'ai eu l'honneur de vous mander dans mes dépêches précédentes, et je me borne à vous donner à ce sujet les indications suivantes.

Le Gouvernement pontifical était tombe d'accord avec nous qu'il ne serait mis de notre part aucune difficulté au retour de M. Marongiu, archevêque de Cagliari, dans son diocèse; que M. Charvaz, ancien archevêque de Pignerol, soit nommé au siège vacant de Gènes et qu'on désignerait un administrateur apostolique pour le siège de Turin.

Le roi avait propose pour ce poste un respectable évêque, et ce choix avait rencontré la pleine approbation du souverain pontife. Maintenant, sans qu'on sache préciser la raison de ce changement subit dans les dispositions de la Cour de Rome, nous apprenons qu'en continuant à se montrer disposée à sanctionner le choix de M. Charvaz pour l'archevêque de Gènes et à accepter la proposition de réintégrer M. Marongiu à Cagliari, elle ne peut se résoudre à nommer un administrateur à l'archevêque de Turin, parce qu'aux veux du souverain Pontife ce serait, dit-on, infliger une espèce de blâme à la conduite passée de M. Fransoni (conduite que le St. Siège a cependant désapprouvée à l'occasion de la mort du comte de Santa Rosa), et le St. Siège prétend aujourd'hui que cet archevêque s'est tellement gagné

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l'estime publique, que depuis son éloignement il a acquis un si haut mérite aux veux des fidèles qu'il serait peu convenable de prendre une semblable détermination en ce moment. Il est cependant à remarquer que cette raison existait déjà lorsque fut convenue la triple combination que je viens de vous faire connaitre.

Agréez, etc.

Azeglio.

Monsieur le Comte,

Turin, 22 septembre 1852.

J'ai reçu régulièrement les dépêches que vous m'avez fait l'honneur de m'écrire le 14 et le 15 courant.

Je ne puis qu'approuver complètement le langage que vous avez tenu à M. le comte Buol au sujet de nos différends avec la Cour de Rome.

Nous avons toujours apporté dans les négociations qui ont été ouvertes depuis bientôt deux ans, pour en venir à un arrangement, les dispositions les plus conciliantes et rien n'est plus vrai, comme vous en avez fait la juste observation, qu'elle a été retardée par des causes indépendantes de notre volonté.

Je n'ignore pas qu'on nous fait le reproche d'y avoir mis un obstacle de plus par la présentation de la loi sur le mariage civil. Mais les personnes qui nous font ce grief, ne savent pas que le souverain pontife lui même, avait dit à M. le comte de Sambuy, qu'une loi destinée à régler les effets du mariage civil, ne devait point être un objet de négociation entre les deux Gouvernement et que dans une note adressée plus tard par le plénipotentiaire sarde au sujet des autres points que nous avons à régler avec le St. Siège, la question du mariage civil en était exceptée.

La difficulté d'une loi sur cette matière est connue de tout le monde; personne n'ignore combien il est difficile de séparer tellement la matière civile de la matière religieuse, que les dispositions qui se rapportent à l'une soient absolument distinctes de celles qui se réfèrent à l'autre. C'est le défaut qu'on a reproché à la loi que le ministère a présente au Parlement.

Dos que nous avons su qu'elle avait cause une fâcheuse impression sur l'esprit du St. Siège, nous lui avons fait proposer de nous indiquer les points sur lesquels il pensait qu'il serait désirable qu'elle fut modifiée pour la rendre plus conforme

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à ses vœux, en lui offrant d'user notre influence dans ce but.

Mais le plénipotentiaire de S. S. n'y a répondu que par des observations mal fondées qui pouvaient en dernière analyse se résumer par la proposition du retrait de la loi. Je n'ai pas besoin de répéter ici les raisons à l'aide des quelles j'ai montré que ce moyen n'était ni dans les intentions du Gouvernement, ni dans l'ordre des choses possibles et compatibles avec l'état de cette question. Elle en était là lorsque les journaux ont publié la lettre du cardinal Antonelli à M. l'archevêque de Chambéry.

Si le roi s'était laissé aller au juste sentiment qu'avait excité dans son esprit un langage aussi offensif pour la nation piémontaise et pour le Parlement, il aurait été parfaitement en droit de protester hautenient auprès du souverain pontife, contre une appréciation aussi inconvenante que celle que s'était permise le cardinal prosécrétaire de S. S., d'un acte d'administration intérieure de notre pays et contre la tendance qu'il laissait paraitre d'exciter le mécontentement et la désobéissance.

Mais S. M. n'a pas voulu sortir de la voie de modération et de déférence qu'elle s'est pressente dans les rapports avec le StPère et elle a cru devoir éloigner cette fois encore une discussion qui aurait pu avoir de fâcheuses conséquences. Elle s'est bornée à faire témoigner sa surprise au Gouvernement pontifical, elle s'est contentée de l'excuse, très peu croyable du reste, qu'on a donne, que la lettre du cardinal devait rester tout-à-fait confidentielle et qu'elle a été livrée à la publicité à l'insu du StSiège.

Quoiqu'il en soit, il ne reste pas moins évident, aux veux de tous, que le retard qui pourra résulter pour les négociations devra encore être imputé à la Cour de Rome. Nous n'en ferons pas naitre la cause sans motif, mais on ne sera certainement pas étonné qu'après une publication aussi peu convenable, le Gouvernement du roi ne mette pas à renvoyer M. de Sambuy à Rome l'empressement qu'il y aurait mis sans ce désagréable incident.

Agréez, etc.

Azeglio.

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Monsieur le Comte,

Turin, 2 octobre 1852.

Depuis que j'ai eu l'honneur de vous écrire ma dépêche de 22 septembre, nous avons appris que le cardinal Antonelli a témoigné de vifs regrets de la publication qui a eu lieu, de la lettre qu'il avait adressée à l'archevêque de Chambéry. Il °n a montré autant plus d'étonnement que son contenu a été tronqué et publié d'une manière tout à fait inexacte et incomplète.

Tout en appréciant cette sorte de satisfaction qui nous est donnée par cette déclaration, comme aussi par les paroles de reproche que cette indiscrétion a provoqué de la part de Son Éminence, nous serions cependant en droit de n'y pas trouver une excuse suffisante d'un procède aussi peu convenable, car, l'abus qu'on a pu faire de la lettre du cardinal, ne laisse pas moins subsister la pensée qui l'a dictée. Nous aurions donc eu toute raison de nous servir nous mêmes de la voie de la publicité pour nous défendre d'une injuste accusation.

Mais nous n'en suivons pas moins la ligne de modération et de respectueuse déférence dont nous nous sommes fait une régie et un devoir, dans nos rapports avec le StSiège, et nous montrerons encore en cette occasion, combien nous avons à cœur de les user davantage.

Nous avons du reste la satisfaction d'apprendre que plusieurs hommes d'État et diplomates étrangers, ont sévèrement blâme la lettre du cardinal Antonelli et donne des éloges à l'esprit de modération dont le Gouvernement à fait preuve, en présence des dispositions peu bienveillantes que nos désirs de conciliation ont trouvé auprès de la Cour de Rome.

Agréez, etc.

Azeglio.

Monsieur le Comte,

Turin, 30 novembre 1852.

Vous savez qu'une loi a étendu à la Sardaigne le système d'impôt foncier qui existe dans les provinces da terre ferme, et que cette loi a eu pour conséquence nécessaire l'abolition des dimes, afin de ne pas assujettir les habitants de l'ile à une doublé imposition. Aussi la loi du 15 avril 1851, a-t-elle

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dèclarè que la prestation des dimes cesserait à dater du l ei janvier 1853, et que le Gouvernement assumerait l'obligation de pourvoir à l'entretien du clergé et aux frais du culte en Sardaigne.

Avant la présentation de cette dernière loi et depuis lors, la disposition qu'elle contient a été l'objet de négociations avec la Cour de Rome, mais comme à cette question se rattachait la réduction du clergé de l'ile, et d'un autre coté le StSiège avait désiré de la rendre connexe aux autres questions ecclésiastiques, la marche des négociations en a été ralentie, et aucun accord n'a pu jusqu'ici intervenir à ce sujet. L'époque du 1° janvier 1853 étant imminente le Gouvernement du roi s'est trouvé dans la nécessité de prévenir les graves inconvénients qui seraient inévitablement résultés de la cessation du pavement des dimes, s'il ne s'était mis en mesure de pourvoir d'une manière convenable à l'entretien du clergé. Le ministère a en conséquence jugé à propos, en attendant que les négociations avec Rome puissent aboutir à un résultat définitif, de présenter au Parlement un projet de loi destine à satisfaire provisoirement aux besoins du culte dans l'ile de Sardaigne.

Par cette démarche le Gouvernement n'a voulu chercher en aucune manière à influencer la marche, ni préjuger l'issue des négociations suivies avec le StSiège, mais il a entendu remplir un devoir en assurant l'exercice du eulte et l'existence du clergé. Il a eu soin pour éviter toute fausse interprétation à cet égard, d'énoncer dans le projet de loi soumis aux Chambres, le motif de sa détermination et son caractère purement provisoire.

Il m'a paru convenable de vous faire part de cet état de choses, afin que vous puissiez expliquer le véritable sens de la pensée du Gouvernement du roi, dans le cas où la mesure dont il s'agit, donnerait lieu à des commentaires erronés. La lecture des articles du projet de loi, que j'ai l'honneur de vous transmettre ci-joint et du rapport qui le précède, vous fournira au reste le moyen de démontrer la nécessité d'une disposition, d'ailleurs provisoire, qui, je le répète, était urgente et qui n'a été inspirée que par un sentiment de bienveillance autant que de justice.

Agréez,

Azeglio

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Monsieur le Comte,

Turin, 1 février 1853.

Monsieur le comte de Pralormo a quitte Turin ces jours passés pour se rendre à son poste à Rome. Son départ aurait eu lieu plutôt si des circonstances particulières n'avaient pas force ce chargé d'affaires à le différer et à retourner auparavant à Berlin pour mettre ordre à ses affaires particulières.

Les modifications que nos rapports avec le StSiège ont dû subir par suite de la présentation aux Chambres du projet de loi sur le mariage et de celui qui a pour objet d'accorder un traitement supplémentaire au clergé de Sardaigne, eu égard a l'abolition des dìmes supprimées à dater du commencement de cette année, ont engagé le Gouvernement du roi à nominer monsieur le comte de Pralormo simple chargé d'affaires, se réservant de le munir plus tard des pleins pouvoirs nécessaires pour suivre efficacement les négociations entamées par M. de Sambuy, s'il peut parvenir à faire accepter les nouvelles bases que la force des circonstances et l'intérêt reciprocale des deux pouvoirs, paraissent conseiller d'adopter.

Le plénipotentiaire de la Cour de Rome avant subordonnó jusqu'ici la marche des négociations à la rédaction preliminare d'un préambule qui s'accorderait difficilement avec les limites du pouvoir dans lesquelles se meut un Gouvernement constitutionnel, il en est résulté des lenteurs et des retards qui ont empêche les deux Cours de s'entendre. Pour obvier à cet inconvénient et mettre M. de Pralormo en mesure d'arriver au résultat satisfaisant que nous désirons, le Cabinet de S. M. s'est étudié à éloigner des instructions données à ce' chargé d'affaires tout ce qui pouvait être de nature à embarrasser sa marche, à entraver le cours des négociations et à mettre obstacle à ce qu'il pût enfin obtenir une solution à nos difficultés avec la Cour de Rome.

Aussi pour parer autant que possible à ces difficultés et répondre en même temps aux exigences de la situation, le Gouvernement du roi a prescrit à M. de Pralormo d'appeler une sérieuse attention de la part du StSiège sur la nouvelle direction qu'il serait convenable et avantageux d'imprimer aux négociations. Ainsi il doit tacher d'obtenir que chaque matière soit traitée séparément et successivement, et que l'on pourvoye à chaque exigence d'un coté par des Brefs et des Bulleset de l'autre par des lois, selon la nature particulière de l'objet.

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Nous aimons en conséquence à nous flatter que la Cour pontificale pourra faire un bon accueil à nos ouvertures et qu'elle se montrera d'autant plus conciliante, que ces ouvertures sont conformes d'ailleurs à des précédents et se rattachent en outre, en ce qui concerne la Sardaigne, à des négociations antérieures, dont les bases ont déjà été acceptées en partie.

Afin de fournir à M. de Pralormo un moyen d'opérer dans tous les cas un rapprochement avec la Cour de Rome et de mieux la disposer à notre égard, le Gouvernement de S. M. l'a chargé d'entamer avec le StSiège trois autres négociations qui, sans aucune connexion avec les matières ecclésiastiques, présentent plus de facilité et sont en outre dans l'intérêt réciproque des deux pays. Ces négociations ont pour l'objet de stipuler une convention de commerce, une autre de poste et une troisième destinée à assurer dans l'un des deux États l'exécution des sentences judiciaires rendues par les tribunaux de l'autre.

Agréez, etc.

Azeglio.

XVI.

Dépèche confidentielle de IL le general Alfonse Della Marmora (1) à 31. le conte Dorìa à Paris.

Monsieur le Comte, Turin, 5 août 1852 9 J'ai reçu les dépèches confidentielles que vous m'avez adressées en date du 30 et du 31 juillet, pour me rendre compte des entretiens que vous avez eu avec M. Brenier au sujet du projet de loi relatif au mariage civil.

Nous savons le meilleur grè à ce haut fonctionnaire du sentiment d'intérêt et de bienveillance qui l'a porte à nous faire parvenir ses conseils sur cette importante question, et je vous prie de le lui témoigner, de même qu'à M. le ministre des affaires étrangères. Mais je désire qu'en même temps vous leur exposiez le véritable état des choses, afin de les mettre a même de comprendre et d'apprécier, je l'espère, la marche que le ministère du roi a suivie dans la conduite de cette

(1) Incaricato tempovariamente dal Ministero degli affari esteri per breve malattia di Massimo d'Azeglio.

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affaire, et dans celle des questions religieuse en general.

Avant tout je rappellerai ici que pendant 30 ans, le Picraont a été place sous la pression du parti politique clérical, pression qu'a excité pendant ce temps une irritation qui n'a pu se manifester ouvertement qu'après la publication du Statut.

Pouvait-on présumer avec quelque raison que le pays avant un moyen legal de se soustraire à cette pression, l'aurait negligé? Évidemment non. Dès lors le Gouvernement devait prendre l'initiative sous peine de la laisser a l'opposition.

Celle ci aurait inévitablement entrainé la Chambre et le pays: quelle eut été alors la position du Gouvernement? S'il eût cherché à y mettre obstacle, il aurait indubitablement échoué, s'il eut accepté cette nécessité il aurait perdu toute la force morale, et l'opposition devenant en quelque sorte maitresse de la situation, on aurait du naturellement s'attendre à bien autre chose qu'à la loi du 9 avril 1850, qui a prononcé l'abolition du for ecclésiastique. La loi du 9 avril contenait la réserve de la présentation d'une loi sur le contrat civil du mariage. Les difficultés que présentent une matière si délicate et le souvenir de celles dont avait été la source la loi dont je viens de parler, ont été la cause du retard que le ministère a mis jusqu'à présent à présenter au Parlement la loi sur le mariage. Mais cette présentation n'aurait pu etre retardée plus longtemps sous peine de voir la Chambre des députés (comme la chose eut déjà lieu vers la fin de la dernière session) prendre l'initiative de cette mesure avec le projet d'une loi dont les dispositions auraient été tellement lésives des droits de l'Église, qu'elle aurait indubitablement donne lieu aux plus sérieuses complications dans nos rapports avec la Cour de Home.

Le roi d'ailleurs en avait pris l'engagement dans le discours par lequel il avait ouvert la session législative de 1852, et il n'aurait pu manquer à sa promesse. Dès le commencement de l'année dernière, époque à laquelle nous avons ouvert nos négociations avec le StSiège pour l'arrangement des affaires religieuse, nous nous étions en effet réservé plutôt comme offre, qu'à titre de promesse, de donner connaissance au Gouvernement pontifical du projet de loi sur le mariage civil, lorsque les bases en auraient été arrêtées. Mais dans un entretien que le chevalier de Sambuy, envoyé plus tard en qualité de ministre plénipotentiaire a Rome, eùt il y a quelques mois avec le souverain pontife lui même, S. S. qui dit qu'une loi

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sur le mariage civil ne devait pas donner lieu à des négociations avec le StSiège, persuade qu'il était qu'elle ne toucherait pas à certains intérêts religieux qu'il avait à cœur de sauvegarder. Le projet, dont la difficile compilation avait été confié à une Commission composée de magistrats aussi sages qu'éclairés, n'était pas alors complètement élaboré encore, et il a été successivement modifié ou augmenté par les trois ministres des affaires ecclésiastiques qui malheureusement se sont succédés dans le court espace d'une année. M. le chevalier Boncorapagni à qui ce portefeuille a été confié dans la dernière composition ministérielle, y a fait lui-même quelques changements et le Conseil, persuade que selon l'opinion qu'avait émise le StPère, cet acte de législation intérieure ne devait pas faire le sujet de négociations avec le StSiège, a déterminé de le présenter au Parlement afin d'éviter la prolongation d'un retard qui commençait à exciter des observations, dont les conséquences auraient pu devenir fâcheuses pour l'esprit même de la loi.

Le souverain pontife avait témoigné, il est vrai, l'espoir qu'elle ne toucherait pas à certains intérêts religieux, et cette promesse, il prétend aujourd'hui qu'elle n'a pas été tenue; mais c'est là que gìt toute la question. A son point de vue le StSiège croit que ses intérêts sont lésés. Le Gouvernement du roi pense le contraire. Ce point, s'il eut été abordé d'avance, aurait été le sujet d'une grave discussion et l'expérience nous a trop montré combien la moindre négociation sur ces matières est difficile avec le StSiège, pour ne pas être persuadés que celle ci eùt été trainée indéfiniment en longueur. En effet, dans les négociations dont M. Sambuy a été chargé par le passe, plus nos offres ont été raisonnables, plus elles ont été empreintes d'une esprit de modération, moins elles ont eu de solution et de succès.

Du reste, dès que nous avons connu l'impression que le projet de loi a produit à Rome, nous avons chargé le plénipotentiaire de S. M. de faire connaitre au StSiège, que dans un désir de conciliation et de déférence, le ministère mettra volontiers à profit son influence avant que la loi ne soit soumise à l'approbation du Sénat et à la sanction du roi, pour y faire introduire quelque modification qui puisse la rendre plus conforme aux vœux de S. S. Si le StSiège est anime de dispositions conciliantes et d'un véritable désir de travailler aux intérêts de la religion, nous espérons qu'il accueillera ce moyen de concilier les exigences réciproques.

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Si, au contraire, la Cour de Rome le repoussait, il faudrait penser alors que dans l'opposition qu'elle persisterai à faire au Gouvernement de S. M., il y aurait bien plus d'intention de lui créer des embarras, que de concourir au but qui est aussi le notre, de sauvegarder des intérêts qui nous sont également chers, comme il, le sont à notre roi et h la nation toute entière.

Veuillez faire part de ces réflexions à M. le ministre des affaires étrangères, il y puisera, j'espère, la conviction que non seulement le retrait de la loi n'est pas possible, mais que si le roi pouvait s'y décider, une autre loi serait immédiatement proposée par l'opposition, car il faut le reconnaitre, le pays ferait plutôt le sacrifice des intérêts auxquels il est le plus sincèrement attaché, que de renoncer aux lois qui l'ont délivré de cette pression cléricale dont je parlais en commençant cette dépéche. Veuillez aussi rassurer le Gouvernement français contre des craintes qu'il parait avoir conçues. Nous avons témoigné le désir et nous avons la meilleure intention de discuter et de nous entendre avec la Cour de Rome. La violence des journaux qui s'écrivent sous l'influence de certaine partie du Clergé, les protestations inconvenantes de l'Épiscopat que le Gouvernement français à si fort désapprouvées lui même, peuvent être un obstacle momentané à ce résultat. Mais nous espérons que la Cour de Rome comprendra que plus leur attitude et leur langage seront violents, plus ils éloigneront le but qu'ils cherchent à atteindre.

Si le Gouvernement français, avec cette bienveillance et cet intérèt dont nous avons déjà reçu de lui de si nombreux témoignages, voulait se servir de la juste influence qu'il a acquise sur les conseils du souverain pontife pour lui faire entendre encore des conseils de modération, nous avons tout espoir que son obligeante entremise aurait les meilleurs résultats. Il réussirait, nous espérons, a faire comprendre au StPère combien il serait plus désirable pour le bien de la religion de voir s'établir en Piémont d'un commun accord, plutòt que par la force de la nécessité, une législation qui ne saurait sans injustice rencontrer une si vive opposition à Rome, puisqu'elle est bien plus restreinte que celle de tant d'autres pays catholiques, où elle existe sans inconvénients et d'accord avec l'église.

Je vous prie d'en exprimer le vœu à M. Drouin de Lhuys, au nom du Gouvernement du roi, et je vous renouvelle, etc,

La Marmoka.

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XVII.

Lettera del marchese Centurione, segretario della legazione sarda in Roma al conte Bertone di Sambuy.

Pregiatissimo signor Conte,

Roma, li 4 novembre 1852.

Giusta quanto avevo l'onore di annunziarle nel mio foglio di ieri spedito per la posta, mi presentai questa mattina al mezzogiorno all'udienza di S. Santità. Questa udito il motivo che mi conduceva presso di lei fin dalle prime parole mi diede dei segni di benevolenza e sembrò gradire l'oggetto della mia Commissione. Mi lasciò lungamente spiegare le diverse cause della crisi ministeriale sino all'ultima sua fase, e di tempo in tempo m'interrompeva con delle osservazioni, le quali se non accusavano in lui una profonda e seria estimazione delle ardue condizioni in cui noi versiamo, certo dinotavano un benigno interesse tanto per gli uomini, come per le cose di cui io gli veniva mano mano parlando. Lungo tempo e molta pertinacia ci volle dal canto mio per esaurire quel tanto che io doveva far conoscere al Santo Padre. Giacché egli andava facendo delle digressioni ad ogni tratto, e sembiava principalmente preoccuparsi delle diverse vicissitudini e della natura delle forme costituzionali in Europa, in Italia e da noi, idee queste le quali non erano forse così lontane dal tema del nostro discorso, e che anzi da questo gli venivano suggerite.

Tralascio di far menzione delle idee del S. Padre a questo proposito perché veramente poco gioverebbero al nostro assunto, e mi terrò a dirle che egli mi dichiarò che il popolo nostro era il solo, a suo avviso, tra gli italiani popoli che si potesse reggere a costituzione. Ma per corrispondere alla sua giusta impazienza vengo a darle ragguaglio del punto principale cioè delle sue risposte alle interpellanze da me mossegli a nome del conte Balbo. Egli mi disse che in quanto al conte Balbo lo conosceva per un buon cattolico, avea con lui avuto intime conversazioni a Gaeta, e certo avea in esso grande fiducia. Che in quanto poi alla quistione della convenzione da farsi gli pareva che tutta la difficoltà consistesse nello sciogliere l'urgente problema delle indennità da corrispondersi per le decime, e qui lungamente mi trattenne sopra lo diverse difficoltà che vi hanno rapporto, ed io ne tolsi occasione per fargli vedere

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quanto queste si accrescessero per la natura delle proposizioni avanzate da Santucci nel suo preambolo, nel tempo medesimo che per noi si faceva ogni sforzo per diminuirle, sia accedendo ai desideri del pontificio plenipotenziario in certe cose, sia accogliendo dei partiti che le eliminassero in altre parti: come il ritiro della nota di La Margherita sui vescovi, la Commissione residente in Genova, lo scambio di note relativo alle differenti controversie di cui non si dovesse far parola nel preambolo.

A queste mie osservazioni che ascoltò con molta attenzione, il S. Padre replicò attestando il suo desiderio di vedere la convenzione presto conchiusa, e mi disse che per la parte che lo riguardava non g'ii si avrebbe mai da muovere rimprovero per ritardi ed incagli frapposti, ma che sibbene a noi toccava ora di rispondere, e di intenderci col suo plenipotenziario.

Insomma egli generalmente mi accertò delle sue buone disposizioni, ma non entrò a discorrere di alcun particolare, né perciò a mostrare di voler cedere sopra un determinato punto delle pendenti trattative. Venendo ora alla questione principale che è quella della nomina di un amministratore alla diocesi di Torino egli si mostrò questa volta perfettamente consono a quanto più e più volte ne disse a monsignor Charvaz, giusta quello che io ne riferii nei miei dispacci confidenziali, ma vi mise una grandissima tranquillità e pacatezza, quasi che mi volesse, in una così grave circostanza, far conoscere che per esso non poteva stare se i desideri del re, del conte Balbo, e suoi non potevano soddisfarsi: molte ragioni addusse a difesa di questo suo fermo e invariabile proposito nel rifiuto, e certo non posso negare che in ogni sua parola traspirava non già il pensiero di avversare le nostre domande, ma anzi la voglia di compiacerle e il rammarico dell'impossibilità in cui se ne trovava. A tutte le mie istanze, a tutte le mie riflessioni, più e più volte e a diverse riprese ripetute, egli mi oppose questa impossibilità fondata sopra quelle stesse considerazioni che avea fatto valere presso monsignor arcivescovo di Genova. Finalmente riassumendosi egli mi disse: mi si trovi un mezzo termine qualunque, si faccia in qualunque modo sentire a monsignor Franzoni l'utilità che si ritiri, si veda di indurvelo, e io profitterò di qualunque suo moto o parola per accogliere la sua rinuncia, e ci avrò piacere.

Questa è la sostanza delle cose che mi disse il papa, ed aggiungerovvi la favorevole impressione in lui prodotta

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ogni qualvolta io veniva parlandogli del re, dei suoi atti e delle determinazioni prese da esso. Se debbo tuttavia esprimere tutto quanto il mio pensiero, il Santo Padre non mi parve molto commosso della gravità delle circostanze, dell'importanza delle risoluzioni che io sollecitava, e mi sembrava guardare con occhio meno atterrito le conseguenze prevedibili di un'infausta riuscita degli sforzi dei nemici del trono e della religione in Piemonte. Queste conseguenze io gliele rammentai, lo supplicai di penetrarsene, ed egli mi ripeté costantemente che sua non ne sarebbe la colpa. Aggiunse anzi che già sapevamo per prova che nel caso che le vertenze religiose non si potessero comporre, egli tuttavia non avrebbe mancato di provvedervi pel bene della religione e dei fedeli, che avrebbe agito come agì per le leggi Siccardi, dando istruzione ai vescovi, che non avrebbe abbandonato nessuno, e quanto in lui stava di fare avrebbe fatto.

Alla domanda che io gli esposi a nome del conte Balbo di fargli conoscere i suoi sentimenti, e le sue disposizioni per mezzo di uno scritto del cardinale segretario di Stato o un altro modo qualunque, domanda che io volli palliare sotto l'aspetto di non grande fiducia che da loro signori si avesse della mia memoria e della fedeltà delle mie relazioni, assennatamente mi rispose che siccome verbale e indiretta era stata la interpellanza, così che altrimenti che verbale non potrebbe essere la risposta; scrivessi io una nota, un promemoria, una copia non segnata delle mie istruzioni, e vedrebbe di contentarmi. Io gli offersi di leggergli la di lei lettera tale qual era, ma egli proseguì il discorso ed io per non impegnare su questo punto me stesso verso il S. Padre gli dissi ne avrei parlato al cardinale Antonelli. Conchiudendo questa parte della mia relazione dell'udienza avuta dal papa, mi occorre il dirle, signor conte, che se migliori e più esplicite dichiorazioni io non sono riuscito a strappare dal papa, ciò si deve a che egli non volle dire di più, e non già a che io mancassi a fargli conoscere con ogni miglior modo quanto urgente e importante fosse che egli desse delle maggiori e più chiare assicurazioni.

Preso congedo dal S. Padre vidi che senza muovere e persuadere il cardinale segretario di Stato, sarebbe impossibile non che di guadagnar nulla sull'animo del Sommo Pontefice, ma neppure di potere ottenere una risposta da lui. Ed appunto per concorrere a indurre quella a noi favorevole persuasione

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nello spirito del cardinale, e ad ottenere un validissimo appoggio nelle mie pratiche, era giunta a tempo la di lei lettera all'ambasciatore di Francia la quale era fatta per metterlo dalla parte nostra, e che ottenne un buon risultato. Dopo, adunque, l'udienza del papa pensai a concertarmi e ad esplorare anzitutto le disposizioni del mio potente ausiliario, e trovai il conte di Ravneval (che io non vedeva più da molto tempo per la scarsezza di istruzioni a suo riguardo) intieramente convertito a nostro favore, pieno di buona volontà, senza troppo mostrare tuttavia di voler prendere la haute main in questa faccenda.

Troppo poco tempo mi resta per raccontarle il lungo colloquio che io ebbi con lui, il che nemmeno importerebbe in sommo grado per il presente. Questo basti che egli mi promise vedere domani il cardinale Antonelli: dopo dimani Sua Santità e difendere la nostra causa. Udite tutte le spiegazioni che io gli diedi sulla reciproca nostra posizione rimpetto alla Santa Sede, egli molto ce ne lodò, e disse questa volta la Corte di Sardegna essere sul buon terreno, e la ragione stare con essa. Bene avvertendo due essere le questioni che interessavano il conte Balbo, l'una cioè di fiducia verso esso stesso e perciò di probabilità, d'impegni, di desiderii, di riuscita delle trattative, e l'altra di avere un'arra di alleanza con la nomina di un'amministrazione a Torino, fecemi osservare come, così interpellato, mai il papa avrebbe intorno alla prima questione potuto altrimenti rispondere di quello che avea risposto, cioè: che farebbe quanto gli fosse possibile; che egli (M. de Rayneval) non ravvisava (al punto in cui ne stanno ridotte le cose) grandi difficoltà a conchiudere una convenzione, con un po' di buon volere che ci si metta, e che certo questa sarebbe segnata, senza che il papa avesse da prenderne altro impegno, che per la seconda questione dell'amministratore a Torino lì stava l'osso duro delle difficoltà da vincersi e che ad ottenere questo risultato avrebbe lavorato con tutte le sue forze. Quello che più lo preoccupava si era di trovare quel tale mezzo termine per far mordere all'amo monsignor Luigi senza compromettere né il papa né il Governo: e come io gli dissi che il papa mi avea detto che p. e. il cardinale di Bonald avrebbe potuto essere un uomo addatto a far l'ambasciatore presso l'accorto e ostinato arcivescovo di Torino. M. de Rayneval mi disse che previo concerto col cardinale ne avrebbe scritto a quel prelato. Sull'affare dell'avere uno scritto in cui fosse una risposta al conte

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Balbo, egli mostrò credere ciò fosse inconciliabile cogli usi e colla dignità del papa, essere meglio contentarsi di una verbale spiegazione data da monsignor Roberti, nel modo stesso che io qui avea mosso delle interpellanze verbali al papa; che d'altronde non gli pareva nemmeno fosse troppo conveniente ad un futuro presidente del Consiglio dei ministri, di insistere sopra una specie di dichiarazione di un estero potere, sopra cui fondare l'edifizio del suo ministero.

Esaurita così la conversazione coll'ambasciatore, presi le mie misure per poter a bell'agio conferire col cardinale Antonelli il che fortunatamente mi avvenne per un buon tratto di sei quarti d'ora questa sera. In questa circostanza fatta leggere o piuttosto data lettura di una parte della lettera di lei dei 29 a S. E. R.ma, il discorso si portò sopra tutti quanti i soggetti delle nostre trattative, passando in rivista tutte le passate e presenti difficoltà, e i mezzi per vincerle e rimediarvi. Trovai il cardinale sempre consentaneo a se stesso e sempre prudente a nulla azzardare, ma nel tempo stesso in buone e simpatiche disposizioni: tenendo gran conto di tutto, vedendo il bene e il male di tutto, e cogliendo con occhio esperto nel giusto segno delle questioni. La natura di questa scrittura non esige che vada in lungo a narrarle quanto egli a me disse, e quanto io dissi a lui; giacché trovai facilità di ragioni e di parole con lui e gli potei far sentire tutto quello che non mi era riuscito di dire al papa. Mi limito a dirle che per quello che riguarda il conte Balbo, egli mi disse che ne faceva il più gran caso come uomo privato e come uomo pubblico - (Non s'aspetti per questo a qualche grande slancio di gioia o di trionfo, che non è mai così che si accolgono appunto quelli che ci hanno resi più grandi e fedeli servigi - e il conte Balbo è troppo buon filosofo per non saperselo). - Sul proposito delle trattative mi ripeté quello che disse a me ed a lui più volte che se la questione delle decime si accomodasse a modo suo, tutto si finirebbe fra breve, altrimenti non se ne vedrà mai più il termine. - Ed a me pare che abbia tanta ragione che io vorrei avere le facoltà ed aggiustarla prima che Santucci sia qui, col cardinale, senza darci nessuna importanza - insomma fare a modo suo in questo, soddisfarlo nel suo amor proprio; e poi lasciare che più tardi si facciano testa, coda, preambolo, tutto quello che si vorrà a bell'agio, e con esaurire le necessarie formalità. Ma di tutta questa pratica che lei conosce a meraviglia bisognerebbe che io gliene scrivessi a parte, ovvero che ne parlassi a voce.

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Torno però a dire che bisognerebbe prendere il cardinale in parola ed essere pronto ad accettare le sue proposte ed i consigli suoi. Da quanto me ne disse il cardinale, il conte Balbo si può assicurare che tutte le pretese eccessive si ridurranno, e che le difficoltà si vinceranno, quando si spogliassero dei vizi di forma, il che dev'essere opera tutta sua, caro signor conte.

Veniamo ora all'affare dell'amministratore. Il cardinale me ne parlò già chi sa quante volte, e sempre nello stesso modo.

Oggi più ampiamente che mai mi dimostrò che non vi è nulla da sperare su questo punto. Non ne dico di più perché sarebbe ripetermi. Parlando poi della forma da darsi alle risposte del papa mi disse che egli non poteva che verbalmente rispondere a me come io verbalmente parlava a lui - che però mi avrebbe risposto per iscritto quando io avessi steso per iscritto le interpellanze mosse al S. Padre, in guisa di promemoria e senza firma. Io gli risposi che prima avrei aspettato da lui, come avesse preso gli ordini del S. Padre, una risposta verbale; e che se la risposta fosse favorevole appieno, gli avrei fatto quante memorie e note scritte avesse voluto - se no, era inutile scrivere per sapere quello che già sappiamo. - D'altronde da tutti i discorsi del S. Padre, e dopo anche tutte le mie riflessioni e rappresentanze fattegli a quest'uopo non è da intendersi che egli ceda od abbia preso impegno di darmi ulteriori risposte. Con quanto egli mi disse egli crede di aver soddisfatto a quanto si richiedeva da lui.

Se otterrò qualche novella risposta, o qualche più favorevole annunzio, sarà tanto di guadagnato a cui assolutamente il conte Balbo non si deve aspettare.

La risposta adunque alle interpellanze, ai dubbi espressi nella di lei lettera dei 29 e da me fedelmente riportata al Santo Padre, è da trovarsi nelle pagine precedenti.

Questa risposta sarà essa tale da scoraggire la savia mente di S. M. e il cuore generoso del conte Balbo; pensa egli che si potesse ottenere altro dal papa e dal suo cardinale segretario di Stato; che in altre disposizioni d'animo, il Santo Padre si sarebbe potuto indurre a darci delle maggiori arre di buon volere di quello che finora ci ha dato? S'inganni o no il papa, certo è a mio avviso, e lei signor conte sarà dello stesso parere, che nello stato attuale del suo spirito, delle sue convinzioni, della sua coscienza, e del suo temperamento alieno dalle grandi e dispotiche rivoluzioni,


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il papa non potrà cambiare cioè: sul punto delle trattative non potrà che aspettare che esse abbiano una regolare esplicazione per di lei mezzo e di Santucci quando si saranno di bel nuovo abboccati: su quella dell'amministratore egli non avrà il coraggio che ci vuole da ciò e persisterà in un inerte rifiuto.

Ma dunque per questo il conte Balbo si ritirerà dall'assumersi l'incarico di formare un ministero? - Come verrebbe egli al potere altrimenti che portato dalle idee, dai principii della destra, e portandoveli a sua volta? - Quest'è il risultato di un'esigenza parlamentare. Ora, come mai l'idea di avere un amministratore a Torino dovrebb'ella formare necessariamente la condizione dell'accettazione o no di un ministero della destra? Siamo sinceri, la destra ha mai elevato una simile pretesa per lo passato? come adunque il conte Balbo giacché è pronto a compire il grande sacrificio non si passa egli delle condizioni suddette? Come non potrà egli governare anche senza che gli si dia l'amministrazione? Purché egli sia fedele e conseguente alle idee, al principio della parte politica della Camera che rappresenta, che si presenti al paese con una buona convenzione sulle decime, e sul passato, chi gli vorrà domandare se ha o non ha quest'amministratore. Purché Franzoni non ce lo faccia tornare, sarà tutto quello che gli si chiederà. La diocesi non ne anderà né peggio né meglio, lo Stato né meglio né peggio; e se peggio andrà la diocesi ci penserà il papa che non vuole. Ammesso il fatto di un ministero della destra, tutti ne ammetteranno la conseguenza, che vi sia o non vi sia l'amministratore. Dove si farà il difficile sarà nella legge sulla stampa e non sull'amministratore.

Si faccia adunque coraggio il bravo conte Cesare, e conti sull'animo del papa, ma non cerchi di forzarlo a dare ciò che togliererebbe forse più tardi - e accetti anche senza quella condizione.

Queste cose le dico a modo di sfogo a lei signor conte, perché troppo mi dorrebbe di vedere che per quello che io dovetti riferire a lei quest'oggi il conte Balbo lasciasse il re ed il paese nell'imbarazzo. Se avrò migliori notizie le manderò col più presto e veloce mezzo possibile. Ora poi dopo aver lavorato il giorno a parlare e la notte a scrivere, mi riposerò soddisfatto d'aver compito conscienziosamente il mio dovere.

Suo devot. obbl. servitore

Centurione.

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XVIII.

Dépéchecirculaìre conjidentielle de M. le general Dabormida ministre des afaires étrangères du roi de Sardaigne.

Monsieur,

Turin, 22 aoùt 1853.

Le journal français y Univers a publié, le 3 de ce mois dans, son N. 210, un article, où à propos de la célébration de la fète de StPierre à Rome, il fait la remarqne que le pape, en pareille occasion, est dans l'habitude de protester contre les princes qui se sont soustraits à d'anciennes prestations de redevances ou tributs au StSiège. Après avoir fait mention de la protestation de S. Sainteté contre le roi de Naples pour le refus de l'koinmage de la cJrinea, ce journal affirme que cette année le pape a protesté aussi contre le roi notre auguste souverain, dans le but de revendiquer les deux mille écus romains portés par la Convention et la Bulle de 1741 et qui depuis trois ans n'ont plus été pavés par le Gouvernement sarde.

L' Univers ajoutait que le comte de Pralormo étant intervenu avec les autres membres du Corps diplomatique aux cérémonies de la féte de StPierre, avait dù entendre de ses propres oreilles cette protestation, qu'il en avait sans doute informe le cabinet piémontais dont le silence devenait dès lors inexplicable, puisqu'il ne pouvait légitimement ignorer ni le fait de la protestation, ni les conséquences.

Bien que, d'après des documents officiels déposés auprès de mon département, je fusse à même de démentir sans autres l'assertion de y Univers, attendu que les termes d'une note du cardinal Antonelli du 30 juin dernier excluent pour cette année, la possibilité d'une pareille protestation, j'ai cru toutefois devoir attendre, avant de prendre une détermination à ce sujet, les rapports du chargé d'affaires du roi à Rome.

Par ces rapports le comte de Pralormo m'a rendu compte de l'impression de surprise qu'a produite l'article de l'Univers, dans lequel on affirme un fait complètement ignoré de lui et de ses collègues, quoiqu'ils fussent présents dans l'Église de StPierre le jour où la protestation aurait eu lieu.

Il m'a fait connaitre aussi que s'étant immédiatement rendu auprès du cardinal secrétaire d'État pour lui demander jusqu'à quel point le journal en question était autorisé à tenir un langage

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aussi positif et circonstancié que celui de l'article qu'il lui présentait, son Em. avait résolument nié le fait et qu'elle s'en était montré aussi peu informée que son interlocuteur.

Le comte de Pralormo lui demanda alors s'il ne croyait pas que ce fùt le cas de le démentir officiellement; mais le cardinal prit du temps pour y réfléchir, en se réservant aussi de consumer le StPère à ce snjet.

Quelques jours après et lorsqu'il eùt pris les ordres de sa Sainteté, le cardinal Antonelli nia nouvellement le fait de la protestation telle qu'elle avait été raccontée par l'Univers. Il dit qu'un acte de cette nature n'aurait d'aucune manière pu échapper à son attention, puisque à raison de la dignité il se trouvait, dans la cérémonie dont il s'agit, place presqu'aux flancs du StPère à l'Église de S. Pierre. Il ajouta que, si la protestation avait eu lieu, elle n'aurait pas manqué d'être connue de tous, d'autant plus qu'il était nécessaire de la faire avec les formalités voulues pour pouvoir dresser un acte et le conserver dans les archives de la Chambre apostolique.

Le cardinal Antonelli a en conséquence dementi verbale ment les assertions du journal français; il a même invité le comte de Pralormo à informer officiellement le cabinet de S. M. de ce dementi, en ajoutant que le StSiège ne pouvait assumer la responsabilité des assertions de l' Univers, qui n'avait jamais été et ne serait jamais son organe.

C'est dans ce sens et dans ces termes que je vous engagé M........ à vous exprimer soit avec vos collègues, soit avec les personnes influentes, si l'on venait à vous parler de la nouvelle protestation du StSiège contre le Gouvernement sarde.

Je crois toutefois à propos d'ajouter, pour votre information particulière, que, en présence des dénégations formelles du cardinal Antonelli, il y aurait encore des personnes qui affirmeraient que la protestation a eu lieu effectivement, qu'elle a été faite d'une voix basse et à peine intelligible, de telle façon qu'une personne placée à cinq pas de distance du StPère n'aurait pu l'entendre; qu'elle a été un acte spontané et pour aussi dire improvisé du pape et que par conséquent le secrétaire d'État a pu ignorer peut être de bonne foi les intentions précises de sa Sainteté, jusqu'au moment où elle les a manifestées par la protestation dont il s'agit.

Quoiqu'il en soit de ces informations que je tiens aussi de Rome et d'une bonne source, nous devons naturellement nous

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eu tenir au dementi officiel donne par le cardinal Antonelli à l'article de l' Univers, et nous borner à regretter la publicité prématurée d'un article touchant une affaire qui formait aussi un sujet de négociations entre les deux Gouvernements, publicité qui en attendant ne servira qu'à ajouter aux difficultés d'un arrangement équitable, auquel le Gouvernement du roi s'est constamment propose d'arriver avec la Cour de Rome.

Agréez,

Dabormida.

XIX.

Dèpéclie confidentielle de M. le comte Camille Benso de Cavour, wèsident du Conseil des ministres, ministre des afaires étrangères au marquis Pès Salvator de Villamarina, ministre sarde à Paris.

Monsieur le Marquis,

Tunn, 3 févner 1855.

Le StPère vient de lancer un monitoire contre le projet de loi relatif aux Corporations religieuses, soumis actuellement aux délibérations de notre Parlement. Je vous en envoie ci-joint un exemplaire. La Cour de Rome a publié en même temps le récit de nos négociations avec le StSiège, et l'a accompagné des pièces échangées entre les deux Gouvernements. Je vous en ferai également la transmission dès que j'aurai reçu les copies que j'en ai demandées à Rome.

Il est possible que le Cabinet français ait déjà été informe et même mis en possession de ces documents par son envoyé auprès du StSiège. Je vous invite cependant à communiquer sans retard à M. Drouyn de Lhuys le monitoire. Vous en prendrez occasion pour lui faire observer que S. S. ne borne point ses récriminations à la loi sur les couvents, mais qu'elle se répand en plaintes vives et sévères contre ce qui a été fait depuis 1847, pour introduire dans nos lois civiles et politiques les principes d'égalité et de justice qui dominent depuis longtemps dans la législation d'autres pays. C'est un véritable réquisitoire contre les principes de 1789, que la France a conservés avec tant des soin et de vigueur, et contre les maximes dont s'est inspiré le Code civil de Napoléon, que les nations les plus éclairées ont tenu à imiter, contre la législation en un mot de tous les pays civilisés.

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A la lecture même de cette publication, on ne peut s'empêcher de reconnaitre la précipitation avec laquelle on Fa faite, pour profiter de l'impression de douleur et d'abattement produite par la mort d'une reine justement regrettée. Ce but trop visible, pour qu'on puisse se méprendre, a été manqué par rapport au roi, qui, profondément convaincu que la loi ne sort point des attributions du pouvoir civil, est ferme à maintenir les droits de sa couronne et de la nation. Il n'a pas non plus été atteint à l'égard de la Chambre des députés dont la majorité est incontestablement acquise aux principes proclamés et aux mesures proposées par le projet quelle est appelée à discuter. Mais on ne saurait disconvenir que la menace des censures du StSiège, la manière dont il présente, en les tournant à son point du vue, les négociations qui ont eu lieu, pourraient faire quelque effet sur le Sénat, où pour des causes et des considérations diverses, la condamnation prononcée par le StPère et la crainte de ses conséquences pourraient fournir une arme à l'opposition, et détourner des votes qui seraient d'ailleurs favorables à la loi.

Il est urgent, M. le M M et je suis persuade que M. Drouyn de Lhuys partagera notre opinion dans l'intérêt de la religion, d'arrêter la Cour de Rome dans la voie de violence où elle veut entrer, et qui, quels qu'en soient les résultats, ne peut qu'affaiblir, en suscitant des passions et des scandales, le sentiment religieux au sein des populations, et nuire à l'autorité salutaire que dans le spirituel il importe, et que nous avons à cœur de conserver à l'Église. La France est plus que tout autre gouvernement en mesure d'employer son influence avec succès dans ce but, et je crois qu'elle rendrait un véritable service à la religion et accomplirait une œuvre digne de l'influence légitime que lui donnent ses titres nombreux à la reconnaissance du StSiège, en signalant au Gouvernement pontifical les graves inconvénients de ses procédés envers le Piémont, et en lui faisant entendre des conseils de modération et de sagesse.

Nous avons toute raison d'espérer que, si le Cabinet de S. M.

l'Empereur veut bien donner des instructions précises dans ce sens à M. de Rayneval, ses démarches ne demeureront pas infructueuses. Maiscomme, par des motifs qu'il ne nous appartiendrait pas d'apprécier, il pourrait arriver que le Gouvernement français ne jugeàt pas convenable d'intervenir dans cette question auprès de la Cour de Rome,

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vous vous bornerez, M. le Marquis, à faire comprendre à M. Drouyn de Lhuys tout le prix que nous attacherions à cette marque d'amitié, sans toutefois lui adresser une instance formelle à cet effet.

Veuillez m'informer au plutót possible des dispositions que vous aurez rencontrées dans le ministre des affaires étrangères, et agróez, etc.

C. Cavour.

XX.

Dispaccio circolare del conte di Cavour alle R. Legazioni all'estero.

Illustrissimo Signore,

Torino, addì 15 febbraio 1855.

Avrà la S. V. Ill. ma avuto prima d'ora notizia della pubblicazione fattasi in Roma, per ordine di S. Santità, dei documenti relativi ai nostri negoziati colla Corte pontificia. Il Governo del Re non ha creduto per ora di dover far altro, salvochè procacciare la ristampa di codesti documenti insieme colla allocuzione del 22 gennaio scorso, riserbandosi di mandar fuori a suo tempo, e quando gli parrà necessario, una relazione di quei negoziati più compiuta ed esatta che non è per avventura quella ufficialmente compilata dalla Curia romana, e posta in capo al presente volume.

Il Gabinetto che ho l'onore di presiedere, porta sentenza che la sola lettura di queste carte e la spassionata disamina dei fatti debbano chiarire l'opinione pubblica intorno ai veri termini della questione, e somministrare agli uomini politici gli argomenti più acconci por giustificare la condotta del Governo del Re. Io raccomando perciò alla S. V. di leggere diligentemente le diverse scritture firmate ora dal Cardinale, segretario di Stato, ora dal Plenipotenziario pontificio, notando e ponendo mente alle massime, alle pretese ed ai principii in esse professate, ed ella scorgerà di leggieri come vengano da Roma posti in contestazione i fondamenti più inconcussi del diritto pubblico interno degli Stati e negati i più essenziali attributi della sovranità. Ella ravviserà inoltre che non solamente si osteggiano le recenti riforme da noi introdotte, ma eziandio, e direi quasi più accesamente, le leggi antichissime della Monarchia, le pratiche secolari dei nostri magistrati e le tradizioni della patria giurisprudenza.

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Ora siccome queste leggi e queste pratiche non sono tanto particolari del nostro regno che non lo siano molto più dei maggiori Stati d'Europa, io mi affido che la nostra causa parrà collegarsi, come veramente si collega, con quella di tutti i Governi civili. Laonde il Gabinetto sardo non può non saper grado alla S. Sede di aver pubblicati codesti atti dai quali, mentre risulta autenticata la moderazione delle domande della Corte di Sardegna congiunta colla più sincera deferenza verso la suprema podestà ecclesiastica, consta parimenti della ripugnanza da ogni partito conciliativo e della rigidezza inflessibile del Vaticano. Ed in verità, se il Ministero che ho l'onore di presiedere ha sempre resistito al desiderio, che pure era in lui naturale, di provocare il pubblico giudizio, dando alla luce il testo delle negoziazioni, il fece per riguardo particolare verso la persona del S. Padre, e perché le già rimesse speranze di amichevoli componimenti non venissero per fatto nostro troncate.

Commettendo impertanto al senno di V. S. quelle induzioni che sorgono spontanee dalla lettura dei documenti, io mi restringerò per ora a due avvertenze, concernenti l'una la materia, l'altra il processo dei negoziati. La S. V. considererà primieramente che fin qui le trattative versarono tutte intorno a materie giurisdizionali soggette di lor natura alla potestà civile, su cui per conseguente era lecito al Governo di fare liberamente le necessarie provvisioni senza l'intervento di Roma. D'onde appare che l'aver avuto ricorso alla Sedia Apostolica vuolsi ritenere come testimonianza di riverenza e di rispetto verso il Capo della cattolicità, e come prova del desiderio da noi costantemente nutrito di procedere di buon accordo con esso nella riforma delle temporalità ecclesiastiche.

In secondo luogo la S. V. porrà speciale attenzione sul contro progetto di monsignor Santucci del 18 settembre 1852, che forma il nodo di tutto il negoziato. Ella scorgerà quali fossero le condizioni veramente incredibili poste dal Plenipotenziario pontificio, e come per noi non si potessero per alcuna guisa accettare, se non si voleva far gettito delle più preziose prerogative della Corona, lacerare le antiche e nuove leggi dello Stato, violare infine lo Statuto. Prendendo notizia dalle nostre repliche, Ella vedrà che gli uffìcii indefessi e le istanze più vive degl'inviati di S. M. furono indarno per espugnare codeste pretensioni,

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e di tal forma le sarà aperto sovra chi debba ricadere la responsabilità del presente stato di cose.

Io le faccio facoltà, anzi le raccomando di dare la maggiore pubblicità ai documenti in discorso.

Gradisca, ecc.

Cavour.

XXI.

Trois dépêches de M. le chevalier Maxime d'Azeglio au comte Gratina, ministre sarde à Paris.

Monsieur le Comte,

Turin, le 4 mars 1851.

Le comte de Pralormo m'annonce que, d'après des informations qu'il a puisées à d'excellentes sources, il est à même d'affirmer que des dépêches arrivées de Vienne à Paris, dans ces tout derniers jours, disent plus explicitement que jamais, que le prince de Schwarzenberg exige à grands cris des mesures de rigueur contre la Suisse et contre le Piémont, et qu'il veut en finir avec ce qu'il considère, dit-il, comme un sujet d'alarme et d'appréhension pour l'Europe entière.

Il parait que c'est sur l'inexécution du traité de Milan que le Cabinet de Vienne se fonderait pour formuler ses demandes. On va même jusqu'à dire qu'il exigerait de nouveau la remise entre ses maius d'un gage comme Alexandrie.

Il est évident que le reproche de n'avoir pas exécuté le traité de Milan n'est qu'un vain prétexte; car nous en avons au contraire rempli toutes les conditions avec la plus fidèle et la plus scrupuleuse exactitude. Mais c'est nos institutions constitutionnelles qu'on veut renverser et comme on ne peut pas avouer hautement cette intention, on cherche quel qu'autre raison apparente pour intervenir dans nos affaires. M. de Pralormo me mande en même temps que M. de Butenval arrive ici avec des instructions formelles pour le cas éventuel où l'Autriche donnerait suite à ses projets menaçants contre nous. Dans ce cas il doit protester, et s'opposer de toutes ses forces à l'entrée de' autrichiens sur notre territoire, comme à toute autre mesure contraire à notre indépendance.

Mais ce qui parait malheureusement positif c'est que le président de la République croit et s'obstine dans la pensée qu'une invasion

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autrichienne ne serait pas pour la France un casus belli.

Le prince Napoléon est persuade que ce pays ne veut pas la guerre, qu'il ne peut pas la faire, et qu'il ne s'y laissera pas entrainer. Mais, tout en se déclarant ainsi impuissant à faire la guerre, il ne se fait pas faute de croire qu'il saurait y trouver un équivalent, et il a déclaré que, si l'Autriche intervenait, il prendrait immédiatement des mesures pour parer à ce coup.

Le comte de Pralormo croit, d'après ce qu'il a su d'un ami du prince, pouvoir traduire ainsi ces paroles, c'est à dire que, aussitôt que l'intervention autrichienne serait consommée, la France occuperait la Savoie et même le comté de Nice pour s'assurer un contrepoids à l'occupation présumée de Génes par les Anglais.

Ce langage est bien différent des assurances positives que le ministre des affaires étrangères de France donnait au mois de juin dernier au ministre de S. M. à Paris; il lui disait alors formellement que, si le Piémont, sans y avoir donne lieu par une provocation directe, venait à être menacé dans son indépendance, ou si son territoire était envahi, la France interviendrait sur le champ, d'abord par la vote diplomatique, et puis elle aviserait ensuite aux moyens les plus efficaces d'assurer l'existence et l'interdite du royaume de Sardaigne.

Nous n'aurions pas dù nous attendre à une résolution différente de la part du Cabinet français qui, en tout temps, avait senti et déclaré que l'existence indépendante du Piémont était nécessaire à l'équilibre européen. Nous devions d'autant mieux compter sur une semblable politique qu'elle devait être appuyée par l'Angleterre; car lorsque nous fìmes auprès du Cabinet britannique à la même époque une démarche pareille, il nous donna les mêmes assurances que celui de Paris, et les deux gouvernements de France et d'Angleterre s'étant réciproquement communiqués leurs réponses, elles se trouvèrent identiques et parfaitement d'accord.

Vous voudrez bien, monsieur le Comte, aussitôt que vous aurez pris l'exercice des hautes fonctions qui vous sont confiées, entretenir le président de la république et le ministre des affaires étrangères de France de cette grave et importante question.

Vous leur rappellerez les assurances explicites qui nous furent données à l'époque que je viens d'indiquer, au nom du gouvernement Français; vous leur témoignerez l'extrême regret que nous éprouvons en pensant qu'un pays, dans l'intérêt et dans l'amitié du quel nous avons toujours place une si entière confiance,

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et dont nous avons reçu tant de preuves de sympathie, semble dispose à nous abandonner dans un moment où nous sommes menacés d'un si grand danger.

Vous leur direz que le roi, son gouvernement et la population toute entière de notre pays sont vivement et sincèrement attachés aux institutions constitutionnelles; que le roi et sa brave armée sont fermement déterminés à. la dernière extrémité; que le pays est résolu à faire tous les sacrifices pour en conserver les bienfaits à notre patrie; et que nous nous soumettrions aux plus dures nécessitées plutôt que d'obéir aux injustes exigences de l'Autriche et à nous courber à son influence. Vous direz au président que nous ne pouvons croire que la France veuille renoncer à la juste influence qu'elle a toujours exercé sur les affaires de l'Italie, et l'œuvre d'absorption à laquelle elle travaille depuis deux années; que nous espérons donc avec la confiance que nous plaçons dans les promesses que j'ai rappelées plus haut, que le jour, où nous serions de la part de l'Autriche l'objet d'une injuste agression, la France enverrait un corps d'armée à notre secours; mais que si des considérations, contre lesquelles il ne nous appartient pas d'insister, déterminaient le gouvernement français à ne pas prendre part à une guerre, nous demandons au moius qu'il ne réalise pas le projet, qu'on lui suppose, d'occuper dans ce cas la Savoie et le Comté de Nice.

Vous ferez comprendre, monsieur le comte, que cette mesure ne pourrait avoir aucun des résultats que la France pourrait s'en promettre. Elle n'empêcherait pas l'invasion ennemie et n'arrêterait point l'Autriche dans ses projets de destruction de nos libertés; qu'une armée française, qui resterait au delà des Alpes, ne lui serait pour nous d'aucun secours matériel ou moral, qu'au contraire elle serait une cause de découragement pour notre armée et pour nos populations qui n'y verraient qu'une mesure dictée par la politique et l'intérêt de la France, et non point cette assistance utile qu'elles avaient espérée d'une ancienne et fidèle alliée. Si, au contraire, au lieu de l'occupation de ces provinces, qui présenterait ces graves inconvénients sans avoir pour nous aucun but d'utilité, le gouvernement français prenait la détermination d'envoyer à la Spezia une escadre avant à son bord un corps d'armée de 12, 15 ou 20 mille hommes de débarquement, il remplirait le doublé but d'un contrepoids qu'il voudrait donner à une occupation autrichienne, et d'un secours vraiment efficace à notre armée et à la résistance qu'elle opposerait aux troupes impériales.

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La position de la Spezia est bien connue de la marine française. Nous n'avons pas besoin d'en expliquer les avantages au Cabinet de l'Élysée sous le doublé rapport de sa situation stratégique et de la sureté qu'elle offre à une station navale. Il est hors de doute en effet que le maréchal Radetzkv, voyant un corps d'armée française place sur ses derrières, en position de donné la main à celui qui occupe Rome et de se faire renforcer sans obstacle par de nouvelles troupes envoyées au besoin du litoral français, y penserait à deux fois avant de s'engager dans le cœur du Piémont, d'où il pourrait être si facilement coupé de ses forces restées en Lombardie.

Je me borne à ces courtes indications, monsieur le comte, persuade que Votre Excellence saura y suppléer par les arguments que lui fourniront ses connaissances locales et son appréciation des avantages que je viens d'indiquer.

Le Cabinet du roi désire qu'Elle les utilise avec tout le zèle et le dévouement qu'il lui connaît dans le but de faire changer la résolution supposée du gouvernement français, contre la mesure autrement avantageuse et efficace qu'elle est chargée éventuellement de lui proposer.

Il me reste à vous tracer la marche que le gouvernement de S. M. désire vous voir suivre dans cette affaire qui est pour nous d'un si haut et si grave intérêt.

Nous sommes loin de penser qu'il faille prendre à la lettre les menaces du prince de Schwarzenberg et les résolutions éventuelles qu'elles paraissent avoir provoquées de la part du gouvernement français. Nous savons que la colere souvant factice, qui est dans les habitudes de ce ministre, se calme à l'ordinaire d'autant plus aisément qu'elle a éclaté sous des apparences plus vives. Il peut très bien se faire que le prince n'ait montré autant de résolution que pour tâcher de nous effrayer et de faire l'essai du puissant mobile de la crainte sur l'esprit du Cabinet français.

Vous devrez donc, monsieur le comte, vous attacher avant toutes choses, et je vous aiderai dans ce soin de toutes les informations que je recevrai, à vous bien assurer si réellement les intentions de l'Autriche sont de réaliser les menaces qu'elle a fait entendre, car les instructions qui précèdent ne vous sont données que pour cette éventualité. V. E. comprend que c'est une résolution trop grave que celle de livrer une partie quelconque de notre territoire à une occupation étrangère pour en venir à ce point sans la plus pressante nécessité.

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Ce n'est donc que dans ce cas, et lorsqu'il vous serait bien constate, que vous devriez suggérer au gouvernement français l'idée d'un débarquement à la Spezia. Si cette éventualité devait se réaliser, nous voudrions en informer auparavant le Cabinet britannique.

À quelle nuance qu'appartienne l'administration qui sera à la tète des affaires, il est hors de doute, à notre avis, qu'elle ne saurait rester paisible spectatrice d'une invasion autrichienne en Piémont.

Nous pensons de plus que les résolutions de la France à cet égard, peuvent être très efficacement déterminées et soutenues par les encouragements et les conseils du Cabinet de Londres.

Je crois donc devoir instruire le marquis d'Azeglio de l'ensemble des présentes instructions, en le chargeant de savoir quelles sont les dispositions du Cabinet anglais quel qu'il soit, dans la prévision d'une invasion autrichienne. Je le charge de faire de pressantes instances pour que le gouvernement britannique concerte sur ce point ses dispositions avec le Cabinet français, mais je lui recommande expressément de ne faire aucune mention dès à présent de l'idée d'un débarquement de troupes françaises à la Spezia. Il ne devra en parler que dans le cas où les circonstances en seraient venues à ce point que vous seriez obligé, monsieur le comte, d'en faire la proposition au gouvernement français. Alors vous voudriez bien en prévenir à l'avance le marquis d'Azeglio, afin qu'il en informât le Cabinet anglais.

Nous devons prévoir le cas très probable où le gouvernement britannique, en apprenant l'exécution de cette mesure de la part de la France, se déterminerait à envoyer lui même un escadre à Génes. Nous ne nous dissimulons pas, monsieur le comte, que la plus dure des nécessités qu'un pays puisse subir, est celle d'une occupation étrangère; ce n'est donc qu'avec un profond regret que nous verrions se réaliser ces mesures de la part de la France et de l'Angleterre, mais il n'est aucun sacrifice que nous ne soyons résolus à faire pour préserver notre pays de la domination autrichienne. La présence des troupes impériales en Piémont amènerait la destruction de nos libertés; elle serait le commenceraient de cette honteuse dépendance dont l'idée seule nous est insupportable et d'un retour vers un régime auquel nous sommes trop heureux de nous être soustraits pour nous exposer encore au danger de le voir rétablir.

Veuillez agréer, monsieur le comte, la nouvelle assurance de ma haute considération.

Azeglio.

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Monsieur le Comte,

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Turin, 1 octobre 1851.

Vous savez que l'on a souvent reproché au Gouvernement du roi les écarts de la Presse en Piémont et les offenses que quelques uns de nos journaux se permettent quelque fois envers des Puissances voisines. Ce reproché nous a surtout été adressé par l'Autriche qui ne tient pas assez compte de la liberté de la presse qui existe dans notre pays, et sans que le Gouvernement qui, plus que personne, en regrette vivement les écarts, ait toujours des moyens suffisants pour les réprimer.

Mais il n'en est pas de même du Gouvernement autrichien, qui a proclamé l'état de siège dans presque toutes ses provinces et chez lequel en conséquence, non seulement la presse n'est pas libre, mais rien ne s'imprime sans l'autorisation préalable de l'autorité. C'est donc avec un juste étonnement que l'on a vu la Gazzetta ufficiale de Milan publier, dans son N. du 28 septembre dernier, un sonnet injurieux pour la mémoire du roi Charles Albert et pour notre armée. Vous trouverez ci-jointe une copie de cette pièce dont l'insertion dans un journal officiel, au moment même où le Gouvernement de S. M. faisait acte de courtoisie envers l'empereur et l'envoyait complimenter par un des premiers personnages de la Cour, a non seulement lieu de surprendre mais peut difficilement se justifier. Aussi remarquerez-vous dans la Gazette Piémontaise d'aujourd'hui quelques réflexions suggérées par la circonstance dont je viens de parler.

Veuillez agréer, etc.

Azeglio.

Monsieur le Comte,

Turin, 2 janvier 1852.

J'ai reçu ce matin la dépêche confidentielle que V. E.m'a fait l'honneur de m'adresser, en date du 28 décembre dernier, et en vous offrant tous mes remercìmens pour le contenu de cet intéressant rapport, je m'empresse d'y répondre pour ce qui concerne la question des réfugiés.

Le Gouvernement du roi n'a pas de raison de modifier l'opinion, dans laquelle il a été jusqu'à présent, que la présence de l'émigration italienne en Piémont n'offre de dangers réels ni

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pour la tranquillité intérieure de notre pays, ni pour celle des États voisins. Il comprend cependant tonte la convenance de prendre dans la plus sérieuse considération les observations amicales et bienveillantes qui lui ont été faites dans un sens contraire par quelques Cabinets étrangers.

Il est en conséquence déterminé a prendre l'initiative de quelques mesures qui puissent être de nature à calmer les craintes, quoique peu fondées à son avis, qu'on lui exprime touchant le séjour d'un certain nombre de ces émigrés dans notre pays.

Le Gouvernement s'occupe en ce moment de former une liste de ceux qui par leurs antécédents peuvent avoir excité quelque appréhension de la part des États étrangers; mais cette mesure devra nécessairement se borner à un petit nombre d'individus. Nous pourrions bien, par exemple, fréter à nos frais un bâtiment qui pourrait en transporter une centaine en Amérique; mais dans les circonstances actuelles du trésor, ce serait déjà là une forte dépense et le Gouvernement n' a absolument pas les moyens à sa disposition pour faire davantage.

Ce n'est pas d'aujourd'hui que nous avons fait l'essai d'envoyer des réfugiés, mais toutes les frontières leur sont fermées et les agents diplomatiques et consulaires de tous les pays leur refusent leur visa.

La mesure dont nous nous occupons maintenant et qui présente déjà par elle même une extrême difficulté, deviendrait impossible si nous n'étions pas aidés par les États voisins et particulièrement par la France et par l'Angleterre, dans l'accomplissement de ce dessein.

Ainsi donc, pendant que nous nous occuperons ici avec activité des moyens d'appliquer cette mesure, je dois prier V. E. de vouloir bien renouveler encore, auprès du Gouvernement français, la demande qu'elle a déjà faite dans le but de l'engager à nous aider de tous ses moyens pour pouvoir ensuite la mettre en exécution. Je fais faire en même temps une semblable demande auprès du Gouvernement britannique.

Quant à l'idée de transporter les émigrés des États sardes à Cayenne et dont il est question dans la dépêche de V. E. du 21 décembre, ainsi que vous l'avez vous même très justement observé, cette idée ne serait pas exécutable pour nous comme elle l'est pour le Gouvernement de la république. Car en France il s'agit de gens qui ont conspiré contre leur propre gouvernement, qui ont excité des émeutes, des socialistes et autres individus en general qui se sont portés aux plus coupables excès.


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Tandis que les émigrés, qui ont cherché un asile en Piémont, sont pour la plus grande partie des personnes qui se sont trouvées mêlées aux événemens de leur pays, qui ont été victimes des événements politiques, mais qui ne se sont rendues coupables d'aucun délit, ni chez eux, ni en Piémont. C'est au contraire un hommage à rendre à la vérité, que de dire que si quelques uns se sont trouvés mêles un peu trop à la politique, la presque totalité de l'émigration a tenu constamment une conduite sage et tranquille et n'a jamais fait naître la crainte d'aucun danger.

Je crois de voir rappeler ici les explications que nous avons données il y a quelque temps au Gouvernement français touchant le nombre et la conduite des réfugiés étrangers en Piémont et les difficultés de toute sorte que le Gouvernement du roi a constamment rencontrées toutes les fois qu'il a cherché à en diminuer le nombre. Ces explications sont contenues dans une dépêche que j'ai adressée au ministre du roi à Vienne le l er février de l'année dernière et dont j'ai transmis une copie au comte de Pralormo.

Le gouvernement du roi en se déterminant à prendre une mesure contre ceux parmi les réfugiés qui peuvent être un objet de crainte pour les États étrangers, peut bien les renvoyer du pays si on lui en facilite les moyens; mais ni les lois du pays, ni les principes qu'il professe en matière d'asile ne pouvaient lui permettre de les déporter à Cayenne. Je vous prie donc, M. le comte, de vouloir bien revenir sur cette matière avec M. Turgot et faire de pressantes instances auprès de lui pour l'engager à concerter avec nous quelque autre moyen de faciliter la mesure dont il s'agit. Dans tous les cas elle ne pourrait être mise à exécution qu'après que la loi de la presse aura été discutée dans le Parlement, et il est aisé de comprendre combien une question semblable serait de nature à augmenter les difficultés déjà très grandes, que ce projet de loi à rencontrées jusqu'à présent.

Veuillez agréer, monsieur le Comte, la nouvelle assurance de ma haute considération.

Azeglio.

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XXII

Dépêche confidentielle et réservée de M. le chevalier Maxime d'Azeglio à M. le marquis Pès Salvator de Villamarina, ambassadeur de S. M. le roi de Sardaigne à Paris.

Monsieur le Marquis,

Turin, le 11 octobre 1852.

La parfaite connaissance que vous avez de la politique du cabinet du roi, l'expérience que vous avez acquise dans le maniement des affaires, et les entretiens que nous avons eus sur les principaux objets de la mission de haute confiance dont S. M. vous a chargé auprès du Prince Président de la République Française, peuvent me dispenser de vous tracer des instructions détaillées pour son accompagnement. Je crois cependant devoir vous donner quelques indications générales à ce sujet, mais plutôt comme un souvenir des directions que je vous ai tracées verbalement. Votre haute capacité et votre dévoument au service du Roi suppléeront du reste aisément à ce que ces instructions pourront avoir d'incomplet.

La première question dont je dois vous parler, celle vraisemblablement qui vous occupera aussi la première, est la proclamation de l'empire. Lorsque cette éventualité était encore incertaine, j'ai donne, sous la date 6 mai de cette année, à M. de Collegno quelques directions pour la conduite qu'il aurait à tenir, dans le cas où le Prince Napoléon aurait pose la couronne impériale sur sa tète. Il lui était prescrit de déclarer, dans ce cas, qu'il était encore sans instructions, afin de donner ainsi le temps au Cabinet du Roi de se régler en cette circonstance d'après ce que feraient d'autres Puissances. En attendant, M. de Collegno devait exprimer la persuasion que la nouvelle de cet évènement serait parfaitement accueillie par le Roi notre auguste souverain. Mais aujourd'hui que la proclamation de l'empire n'est plus qu'une question de temps, puisque le projet en est avoué par les ministres du Prince eux mêmes, il n'est plus possible d'admettre qu'un agent diplomatique puisse être sans instructions éventuelles pour un évènement prévu depuis aussi longtemps; et l'hésitation ne pourrait plus être que d'un très fâcheux effet auprès du Gouvernement français.

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Ainsi donc, monsieur le Marquis, le jour où l'empire sera proclamé en France, vous vous empresserez de témoigner votre satisfaction particulière pour cet évènement, et de donner l'assurance que le Roi et son Gouvernement, à qui vous allez vous faire un devoir de l'annoncer, en recevront la nouvelle avec un véritable plaisir, puisqu'une plus grande stabilité assurée au Gouvernement de la France est une garantie d'ordre et de tranquillité que l'Europe ne peut accueillir qu'avec le plus vif intérêt. Je m'empresserai de mon coté de vous faire parvenir la lettre royale renfermant les félicitations de S. M. pour le nouvel Empereur.

Vous savez que, depuis l'existence de la République, et notamment depuis l'avènement du Prince Napoléon à la présidence, nous n'avons cesse de recevoir de lui et de son Gouvernement, les assurances les plus bienveillantes. Immédiatement après les évènements du 2 décembre, le Prince nous fit donner, par M. de Butenval, l'assurance la plus formelle que le coup qu'il venait de frapper, pour arrêter la France, et l'Europe peut être, au bord du précipice où elles pouvaient être entrainées, ne devait aucunement impliquer l'idée d'un mouvement réactionnaire; que le désir du Prince et de son Gouvernement était, au contraire, de voir maintenir et prospérer les libertés dont nous jouissons depuis 1848. Nos rapports ont continue à être aussi bienveillants qu'avant ce grand évènement. Toutefois une circonstance est survenne, qui, sans les troubler précisément, est venue apporter quelque complication dans les Communications toujours si calmes et si amicales que nous avions eues jusqu'alors avec les autorités et le Gouvernement français. Je veux parler des émigrés, qui, à la suite des évènements du 2 décembre, se sont réfugiés à Nice, et du langage de quelques uns de nos journaux dans leur appréciation de la conduite et des actes du Prince Président, dans la marche qu'il a suivie depuis lors. Je vous remets ci joint la copie d'une lettre dont je vous ai déjà parie. Son contenu vous fera connaitre mes réflexions et ma pensée sur l'incident dont il y est question. Je ne les développerai pas davantage ici, et je me borne à vous prier d'y conformer, en general, votre langage, et de me tenir bien exactement informe de tout ce que vous serez à même de recueillir qui soit de nature à fixer, autant que possible, mon jugement sur la question qui est posée dans la lettre dont il s'agit. Je dois vous confier, pour votre information particulière, que je me propose de faire au Cabinet Britannique et à celui de Bruxelles une communication très réservée

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de ce qui fait l'objet de la lettre ci-dessus indiquée, afin d'appeler dès-à-présent leur attention sur la possibilité d'une pression qu'on pourrait chercher à exercer sur les pays voisins de la France pour les obliger, peut être, à modifier leurs institutions. Cette intention du Gouvernement français, si elle existe réellement, est d'une trop haute importance pour l'avenir de notre pays, pour que nous ne devions pas dès à présent y attacher toutes nos prévisions.

C'est donc un des points sur lesquels il nous importe d'être le plus exactement et le plus minutieusement renseignés et celui sur lequel je réclame une sollicitude toute particulière de votre part.

Je vous ai parie dans mes entretiens particuliers des conséquences que pourrait avoir la proclamation de l'empire, et je l'ai considérée sous le doublé rapport du maintien de la paix et des velléités d'envahissement et de conquêtes vers lesquelles elle pourrait entrainer le nouveau souverain de la France. La première de ces alternatives est, je n J ai pas besoin de vous le dire, celle pour laquelle nous faisons tous nos vœux, puisque le maintien de la tranquillité en Europe nous laissera plus libres de vouer aux affaires intérieures de notre pays les soins et les efforts nécessaires pour développer et consolider nos nouvelles institutions.

Dans cette première hypothèse, tout votre zèle devra être dirige vers les moyens de maintenir nos rapports actuels avec la France dans l'état le plus amical et le plus bienveillant. Tout ce que l'honneur et la dignité nous permettront de faire à l'intérieur, dans le but d'éloigner des prétextes de plaintes ou de réclamations de la part du Gouvernement français, nous le ferons avec la bonne volonté que nous avons mise, par exemple, dans la question des émigrés. Mais si le Gouvernement français cherchait à l'obtenir par la pression, ou par des apparences de menaces, nous lui déclarerions sans hésiter qu'il mettrait par ces procédés l'obstacle le plus réel à l'accomplissement de notre désir de lui être agréables. - Dans la tâche qui vous est confiée de concourir au maintien des bons rapports, ce sentiment de déférence et de dignité devra aussi régler votre conduite; mais vous devrez mettre le plus grand soin à ce que votre manière d'agir soit aussi éloignée d'une susceptibilité exagérée, que d'une trop grande condescendance. Si malheureusement le prince Napoléon, cédant peut être à de funestes conseils, venait à exciter, de la part des Cabinets de l'Europe, de justes appréhensions pour le maintien de la paix, il en résulterait nécessairement

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une complication générale, qui, nous l'espérons, ne se réalisera pas, mais qui cependant doit appeler dès à présent les prévisions et la plus sérieuse attention de la part du Cabinet du Roi. Il lui importera donc au plus haut point d'être bien exactement informe de tout ce qui serait de nature à lui faire prévoir cette déplorable éventualité, ou à le rassurer, au contraire, sur le maintien de la paix. C'est un des points sur lesquels j'appelle la sollicitude la plus vive et la plus soutenue de votre part, avec l'intime confiance qu'elle sera proportionnée à l'extrême importance de son objet.

Vous savez, monsieur le Marquis, que le Cabinet du Roi a essayé à plusieurs reprises de rétablir avec la Cour de Russie les rapports diplomatiques qui ont été interrompus depuis les événements de 1848. Je crois utile que vous connaissiez exactement l'état de cette question, et à cet effet je vous prie de vous faire mettre sous les veux les dépêches confidentielles que j'ai adressées à M. de Collegno, en date des 21 février et 6 mars dernier.

Vous y verrez que, d'après une réponse de M. le comte de Nesselrode, dont le contenu a été communiqué au comte de Revel, l'empereur Nicolas désirait ne pas se départir, à notre égard, du principe qu'il a adopté de ne jamais accréditer de ministre auprès d'aucun souverain qui retiendrait à son service des sujets rebelles qui auraient été précédemment à celui de l'Empereur; on ajoutait que les rapports, qui étaient parvenus à S. M. Impériale, sur l'état du Piémont et sur la politique de ce pays, l'engageaient à ne pas y faire d'exception en cette circonstance.

Nous ne contestons point à S. M. Impériale le droit de maintenir ce principe et nous respectons sa susceptibilité; mais nous ne saurions admettre, comme une raison acceptable, comme une cause valable de refus, l'appréciation que S. M. Impériale a pu faire, sur des rapports certainement inexacts et peu bienveillants, de la politique du Roi et de son Gouvernement. Au reste, après cette réponse de l'Empereur, le Cabinet du Roi a pensé qu'on ne pouvait donner suite à ses précédentes démarches qu'avec une extrème réserve, afin de ne pas exposer la dignité du Roi notre souverain; et les choses en sont restées jusqu'ici à ce point. Mais si l'Empereur, mieux informe, revenait à des sentiments plus équitables, nous serions disposés encore, comme nous l'avons toujours été, à renouer nos relations avec son Gouvernement. D'ailleurs il ne reste plus à notre service que trois officiers polonais, et très vraisemblablement il s'écoulera fort peu de temps avant qu'ils l'aient eux mêmes quitte.

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Je crois devoir vous donner ces notions afin que, si une occasion favorable se présentait de vous exprimer dans ce sens, vous puissiez le faire dans la mesure de la réserve et de la dignité qu'il nous convient d'observer, après la réponse de l'Empereur dont je vous ai parie.

Je vous engagé, M. le Marquis, à prendre lecture des instructions que j'ai adressées a M. le chevalier de Collegno, le 11 janvier dernier, au moment où il allait occuper la mission de Paris. Je ne vous en prescris pas rentier accomplissement, puisque bien des circonstances ont changé depuis lors, mais il est bon que vous en avez connaissance afin que vous connaissiez la pensée du Cabinet du Roi sur les différents points qui y sont traités. Veuillez également prendre lecture de la dépêche confidentielle que je lui ai adressée le 26 février suivant. Elle pourrait, en attendant que vous eussiez pris les ordres du roi, vous servir de régie dans le cas, peu probable du reste, où l'on vous parlerait plus tard à Paris de l'idée de conclure un traité d'alliance avec nous. Vous connaissez en general l'état assez satisfaisant de nos rapports avec les diverses puissances de l'Europe, et je crois superflu de vous donner de plus amples indications à cet égard.

Il n'en est pas de même de nos différends avec la Cour de Rome, sur lesquels il est essentiel que vous soyez bien exactement informe. Vous trouverez dans les archives de la Légation du roi à Paris plusieurs dépêches que j'ai adressées à ce sujet à vos prédécesseurs; mais afin de vous éviter la lecture de toutes ces correspondances, dans les premiers moments de votre séjour à Paris, je vous remets ci-joint - B - une note dans laquelle est résumée l'historique de cette discussion et indiqué aussi le point où elle se trouve maintenant.

La loi, que le miniature a présentée à la Chambre des Députés pour régler les effets du contrat civil du mariage, a donne lieu, il y a quelques semaines, à des observations, amicales et bienveillantes du reste, de la part du ministre des affaires étrangères de France. Je lui ai fait donner quelques explications propres a lui indiquer l'origine de nos différends avec la Cour de Rome, provoqués par la mesure si juste et en même temps si nécessaire de l'abolition du for ecclésiastique; l'engagement que le Roi avait pris dans la loi du 9 avril 1850 de régler les effets civils du mariage, et l'obligation qui en était résultée de présenter au Parlement la loi qui excite aujourd'hui de si vives réclamations de la part du StSiége.

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En même temps je fis informer M. Drouin de Lhuys que, aussitôt que nous avions cu connaissance du mauvais effet que cette loi avait paru produire à Rome, nous avions fait déclarer au cardinal prosecrétaire d'État, que le Gouvernement du Roi était dispose à user de son influence pour tacher de faire introduire dans cette loi, qui n'est encore qu'à l'état de projet, les modifications qui pourraient la rendre acceptable à la Cour de Rome. La dépêche confidentielle que j'ai adressée à ce sujet à M. le comte Doria en date du 5 août dernier se terminato en exprimant la confiance, dans laquelle j'étais, que si, en présence de ces bonnes dispositions de notre part, le Gouvernement français, usant de son influence sur le St. Pére et sur les membres de son Gouvernement, leur faisait entendre quelques conseils de modération et de conciliation, cette affaire pourrait être aisément terminée à la satisfaction des deux Gouvernements.

M. Drouin de Lhuys parait avoir trouvé dans cette simple expression d'un vœu tout naturel une demande de conseils et, en quelque sorte, d'intervention, et il a fait entendre au chargé d'affaires du Roi, comme il nous l'a fait déclarer par M. de Butenval, qu'il ne se chargerait d'être l'intermédiaire d'une entente, qu'autant que le Gouvernement du roi se déciderait à laisser tomber cette loi ou à la retirer. Il n'est ni dans l'intention du Gouvernement, ni dans l'ordre des choses convenablement possibles, d'en venir à un moyen semblable, qui du reste serait immédiatement rendu inefficace par la présentation de quelqu'autre projet bien plus lésif des droits de l'Eglise, dont l'initiative serait prise par quelque membre de la Chambre. J'ai donc cru devoir couper court à une plus longue correspondance sur ce point, en déclarant, qu'avant la réouverture des Chambres, nous ne pouvions prendre aucune détermination à ce sujet.

Les choses en sont restées là; mais comme le moyen propose parie Gouvernement franais'ne doit et ne peut être adopté, que nous nous sommes convaincus que l'entremise de la France, au lieu d'avoir lieu à notre avantage, pourrait, au contraire, nous être défavorable et compliquer la question, nous avons résolu de l'éluder de fait en nous abstenant de lui faire d'autres Communications à ce sujet. Nos avons l'espoir qu'en traitant seuls nos affaires avec Rome, nous obtiendrions plus aisément un résultat, tout en nous déliant des obligations que nous nous imposerions en acceptant une espèce de médiation sous le nom de bons offices.

Ainsi, monsieur le Marquis, toutes les fois qu'on vous parlera

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de nos différends avec Rome, car vous éviterez toujours de prendre l'initiative sur ce point, vous vous expliquerez de manière a montrer que le Cabinet du Roi est reconnaissant de l'intérêt dont celui de l'Elisée et l'ambassadeur de France à Rome ont fait preuve pour la solution de cette question; mais, vous vous abstiendrez, à moins d'instructions contraires que vous recevriez plus tard, de réclamer l'intervention ou les bons offices du Cabinet français.

Vous connaissez la longue contestation à laquelle donne lieu depuis 1848 la résolution par laquelle les communes de Mentone et Roquebrune ont déclaré le vœu d'être annexées aux États du Roi X. S. Vous trouverez à Paris une longue correspondance qui a eu lieu à ce sujet entre le ministère et la légation de S. M.

Je vous remets ci-joint une note qui résumé celle qui a été échangée en dernier lieu avec M. le general de Collegno. Vous y verrez que le prince de Monaco, à qui nous avions propose, par l'entremise du Gouvernement français, à titre d'indemnité, une rente annelle de 15 mille francs pour la cession définitive de Mentone et Roquebrune, qui sont du reste d'anciens fiefs de la Maison de Savoie, a répondu en y mettant quelques conditions auxquelles nous devons encore une réponse.

Je me réserve de vous mettre incessamment à même de l'affaire; mais en attendant je dois vous dire que la nature même des propositions du prince montre évidemment qu'il n'est pas dispose à en venir à un arrangement raisonnable, car il doit bien penser que dans ancun cas nous ne saurions renoncer, comme il le demande, à tenir garnison à Monaco (car ce serait renoncer en même temps à la protection de la principauté, qui nous a été déférée par les traités), ni lui paver un capital au lieu d'une rente annuelle.

Lorsque les pourparlers actuels ont commencé, avec l'entremise du Gouvernement français, le prince Napoléon nous a fait dire: «Proposez au prince une indemnité convenable, et, s'il ne «se montre pas lui même raisonnable, j'abandonnerai sa «cause». Or nos propositions ont eu ce caractère, et nous ne nous serions pas même refusés à augmenter le chiffre de la rente annuelle, si cette concession avait pu faciliter un arrangement.

C'est donc de son fait que cette négociation n'aura pu aboutir, et dès lors nous avons droit de penser que le Prince Président n'opposera plus de difficulté au maintien de l'état de choses actuelles, ni aux dispositions qui auraient pour but de compléter l'annexion des deux communes.

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Nous avons d'autant plus de raison de le croire, que dans la réponse que le Prince Président a faite aux félicitations, qu'une députation de Mentone et Roquebrune est allée lui porter au nom de ces populations pendant son récent voyage, il a déclaré qu'il ferait tout ce qui dépendrait de lui pour seconder leur vœu d'être unis à l'intéressante nation piémontaise. Ces faits et cette disposition du Prince, je crois devoir vous les indiquer, monsieur le Marquis, afin que vous puissiez en faire votre profit quand vous recevrez, et même, si l'occasion s'en présente, en attendant la réponse, que je vous mettrai incessamment à même de faire aux conditions posées par le Prince de Monaco.

Vous connaissez le programme que le Gouvernement du Roi a publié pour faire connaitre son projet de construire un chemin de fer de Modane à Chambéry, et de ce point à la frontière suisse en passant près d'Annecv. La Légation du Roi à Paris a été chargée de le communiquer au Gouvernement français, en lui faisant connaitre que nous étions tous disposés à relier cette ligne avec les chemins de fer de France par un embranchement qui de Chambéry irait directement à Lyon par S. Geuix, et même par un autre embranchement qui de Chambery irait vers la frontière du département de l'Isère sur Grenoble. Nous n'avons pas encore reçu de réponse à cette proposition, et vous devrez solliciter celle qu'on nous a promise déjà depuis quelque temps. En attendant vous étudierez avec soin cette importante question, au moyen des pièces que vous trouverez à Paris, afin de la posséder parfaitement pour les discussions que vous aurez à ce sujet. Vous y verrez que le Gouvernement du Roi se refuse positivement à l'idée de rejoindre à Culoz un chemin de fer français qui pourrait être établi de Lyon à Genève sur la rive droite du Rhóne, et qu'il insiste péremptoirement sur son projet d'une ligne qui relie la frontière suisse par Annecy. et la voie ferrez de France par St Genix. Quel que soit le langage qu'on vous tiendra, vous devrez, monsieur le Marquis, en vous appuyant sur les raisons que je vous ai indiquées et que vous trouverez avec plus de développement dans la correspondance qui existe à la Légation, déclarer bien explicitement que le Gouvernement est dans la nécessité comme dans la plus ferme intention de ne pas se départir du projet d'établir sur le territoire sarde la ligne telle qu'elle est indiquée dans le programme dont j'ai parie et de la relier au chemin de fer de Lyon par le point de StGenix.

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Nous attendrons, du reste, la réponse officielle du Gouvernement français pour vous donner des instructions ultérieures.

Tels sont, monsieur le Marquis, les points sur lesquels j'ai voulu fixer plus particulièrement votre attention, ceux que je recommande plus essentiellement à votre zèle. Je n'ai pas besoin de vous dire que toutes les fois que vous aurez à me demander des directions sur ces affaires, comme sur d'autres, je m'empresserai de vous les donner.

La manière si satisfaisante dont vous avez rempli la mission difficile qui vous était confiée à Florence, votre capacité, votre dévouement bien connu pour le service du roi, donnent à S. M. et à son Gouvernement la pleine confiance que vous ne mériterez pas moins d'éloges, que vous n'aurez pas moins de succès dans celle, si importante et si délicate, que vous allez remplir auprès du Gouvernement français.

C'est dans cette confiance que j'aime à vous en féliciter d'avance, et que je vous prie d'agréer la nouvelle assurance de ma considération la plus distinguée.

Azeglio.

XXIII.

Deux lettres de monsieur le chevalier Maxime d'Azeglio à monsieur le marquis Pès Salvator de Villamarma, ministre sarde à Paris.

Mon cher ami,

Turin, 3 octobre 1852

Dans un entretien que j'ai eu hier avec M. de Butenval, et qui roulait principalement sur l'affaire Dameth, internement, etc. le ministre de la république a trouvé, ou peut être cherché l'occasion de me parler de certaines éventualités probables, en des termes qui seraient susceptibles de plus d'une interprétation. Il importe trop au gouvernement du roi de connaitre au juste la pensée du ministère français, pour que je ne juge pas indispensable de provoquer des explications nettes et franches, telles qu'on doit les attendre d'un gouvernement ami, et d'un état aussi puissant que la France.

Voici en quels termes s'est exprimé M. de Butenval.

Après m'avoir fait observer, comme pour donner plus de poids à ses paroles, qu'il venait de quitter le prince président, avec lequel il avait cu de longs entretiens au sujet du Piémont, il ajoutait:

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vous vous souviendrez sans doute qu'à l'époque du 2 décembre, je déclarai hautement que le coup d'état ne devait pas être regardé comme un acte réactionnaire, comme un coup porte aux libertés des états constitutionnels. Que la France avait fait ce qu'elle croyait nécessaire à son intérêt politique, mais qu'elle n'entendait nullement se mêler des affaires de ses voisins etc. etc. Ce que je vous disais alors, je vous le confirme aujourd'hui, Nous aimons le Piémont constitutionnel, nous préférons même qu'il le soit; mais je dois vous prévenir d'une chose: votre journalisme se livre à des attaques continuelles contre le chef de notre gouvernement. Cela nous déplait, et si cet état de choses continue, il en résulterait de la froideur dans nos rapports. Vous me direz: le journalisme est une affaire toute intérieure. D'accord. Nous ne voulons pas nous mêler de ce qui se fait chez vous. Cela ne nous regarde pas; mais je vous le répète, attendez vous à ce que nos rapports s'en ressentent etc. etc.».

A ce langage déjà passablement clair par lui même, et au quel M. de Butenval semblait vouloir donner encore plus de portée par la manière dont il accentuait chaque phrase, voici d'abord ce que j'ai répondu; je te dirai ensuite ce que j'ai pensé.

J'ai répondu «que nous regrettions plus que personne les attaques dont il me parlait; que cela tenait à l'état de notre législation, au sujet de laquelle je m'étais exprimé trop explicitement au Sénat - disant qu'il n'entrait pas dans les ; vues du ministère actuel de toucher aux lois organiques - pour pouvoir me déjuger. Qu'au reste, ce qu'il n'était pas en mon pouvoir de faire, pouvait être fait par un autre, qui n'aurait pas pris les mêmes engagements. Que je lui faisais observer pourtant qu'en Angleterre, en Belgique, en Suisse, en Prusse, les mêmes attaques se reproduisaient journellement, et qu'à mon avis, les meilleures armes à leur ft opposer étaient l'indifférence et le mépris - méthode du reste que pour mon compte j'avais toujours suivie, et dont je m'étais parfaitement trouvé. Après ces observations j'ai pourtant ajouté que ce qu'il venait de me dire était trop grave pour que je crusse pouvoir me dispenser d'en parler non seulement à mes collègues, mais au roi lui même, auquel est dévolue, comme de raison, la plus haute des responsabilités».

Voici maintenant ce que j'ai pensé: il me semble que nous n'avons rien négligé jusqu'ici pour témoigner notre bon vouloir au président et à son gouvernement.

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Sur la question de l'internement je venais d'exprimer a M. de Butenval le désir de la résoudre à la satisfaction du gouvernement français, malgré les difficultés qu'amène toujours, dans un état libre, toute mesure de ce genre non évidemment justifiée, et dont la nécessité dans le cas actuel n'est rien moins qu'avérée, grâce au peu de confiance qu'inspire la manière de juger en pareille matière du consul français à Nice.

Devais-je m'attendre après cela à une communication qui peut être interprétée tout simplement comme l'intention d'exercer une pression en l'appuyant d'une menace? J'aime à croire que M. de Butenval n'a pas été l'interprète fidèle de la pensée du gouvernement de la république. On doit savoir que la présentation d'une nouvelle loi de presse amènerait des crises qui pourraient ébranler cet édifice constitutionnel auquel pourtant, d'après les paroles de M. de Butenval lui même, le gouvernement français prend un si vif intérêt.

Le caractère du roi et des populations du Piémont est assez connu pour qu'on ne puisse conserver le moindre doute sur les déterminations qui seraient prises dans le cas où l'indépendance du pays serait compromise, ou menacée d'une manière quelconque. D'un autre coté, les attaques de quelques mauvais journaux sont, je le répète, fort regrettables, mais elles partent de si bas, elles sont si peu dangereuses (témoin le succès complet qui n'a cesse de couronner toutes les entreprises du prince président) qu'en vérité on ne saurait comprendre qu'elles pussent être la cause d'une altération quelconque dans les bons rapports de nos deux gouvernements.

Dès lors, il n'y a que deux explications possibles: ou M de Butenval n'a pas exprimé la véritable pensée du ministère français; ou celui-ci a une raison plus puissante et non avouée de pendre avec nous l'attitude qui resulterai de la communication de son ministre. Je croirais faire injure au gouvernement français en admettant comme possible cette dernière explication; je m'en tiens clone à la première. Mais je n'en désire pas moins qu'elle me soit confirmée. et c'est dans ce but que je te prie de voir M. Drouyn de Lhuys, afin d'obtenir de lui une déclaration nette de la ligne qu'il entend suivre à notre égard. Je n'ai pas l'honneur de connaitre personnellement M. Drouyn de Lhuys; mais la loyauté de son caractère m'est trop connue pour que je puisse craindre de ne pas rencontrer chez lui autant de franchise que j'en mets de mon coté dans cette démarche. Je crois du reste m'apercevoir que nous nous entendons mieux et plus vite

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lorsque nous nous adressons directement à Paris.

J'ai jeté sur le papier mes idées en germe - Je te laisse le soin de les développer. Je n'ajouterai que ceci. Il serait important qu'on comprit à Paris qu'avec des gens comme nous on est parfaitement libre assurément d'être ami ou ennemi; mais que si on veut être ami, et c'est ce que nous désirons ardemment, on obtiendra beaucoup mieux le résultat en évitant tout ce qui peut tenir de l'intimidation. Il serait par conséquent à désirer qu'on prescrivit au ministre résidant à Turin de s'abstenir de tout ce qui pourrait y ressembler. Tu es des nôtres, et tu me comprends.

Tout à toi

Azeglio

Mon cher ami,

Turin, le 20 octobre 1852.

J'ai lu avec attention et avec l'intérêt le plus vif, si non avec une entière satisfaction, le récit détaillé de ton entretien confidentiel avec M. Drouyn de Lhuys. Voilà, me suis je dit, le langage d'un homme loyal et en même temps d'un homme bien élevé: langage qui sans deute peut être le sujet de quelques observations, mais que du moins on peut entendre sans avoir le droit de s'en sentir blessé. Combien ne serait il pas à désirer pour la réussite des affaires, qu'on eùt toujours des interlocuteurs tels que M. le ministre des affaires étrangères!

Tout en rendant sincèrement hommage à la haute distinction de ses formes ainsi qu'à la loyauté de ses intentions, ou mieux encore, à cause de ces qualités mêmes, je crois important, pour écarter toute possibilité de malentendu entre nous, de te fournir quelques éclaircissements, que je te prierai de lui soumettre dans notre intérêt commun. M. Drouyn de Lhuys déclare avant tout que le prince président et son Cabinet aiment le Piémont et le Piémont constitutionnel et qu'ils préfèrent y voir ce mode de gouvernement, ce qui ne peut signifier autre chose si non qu'il est dans les vues et de l'intérêt de la France qu'il mantienne chez lui ces formes politiques. Dès lors il faut admettre qu'il y aurait contradiction si, au moment même où l'on fait une déclaration aussi explicite, ou conseillait au gouvernement du roi certains actes qui mettraient nos institutions en danger, où qui, pour être plus exact, amèneraient probablement leur renversement. Voyons d'abord comment ce résultat serait a peu près infaillible; nous verrons ensuite de quelle manière il ferait les affaires de la France.

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Le ministère actuel avec ses antécédents, ne pourrait présenter au Parlement une loi répressive telle qu'il la faudrait pour obtenir le but qu'on se propose. J'ai pour mon compte répété à satiété que je n'ai pas foi dans les lois de la presse, et franchement, les exemples qui passent sous mes veux ne sont guère de nature à me faire changer d'avis.

Les lois de septembre ont elles empêche Louis Philippe de tomber? Quatre ans de débordements et d'attaques contre le prince président l'ont ils empêche d'obtenir 8 millions de votes et d'être acclamé empereur? A mon avis on tue le mauvais journalisme par des actes bien mieux que par des lois. A preuve que le roi Victor Emanuel, qui montant sur le trône était le Traditore di Novara, est maintenant l'idole de son peuple, y compris le petit nombre de républicains survécus à la destruction de leur parti en Piémont. Et si quelqu'un voulait soutenir que le journalisme n'a pas été assez mauvais chez nous, M. le ministre des affaires étrangères est là pour le démentir. Quoiqu'il en soit, il est constate que le ministère actuel ne pourrait pas fausser son programme en présentant des lois répressives, sans perdre toute considération et toute force pour le présent et pour l'avenir.

Si une pression étrangère mettait le pays en danger il devrait donc résigner ses pouvoirs, et supposant, ce qui est plus que douteux, que le roi ne se révoltât pas contre l'idée de subir une influence dans l'exercice de sa souveraineté, il n'aurait d'autre partì à prendre que de charger un membre de l'extrême droite de la formation du nouveau Cabinet.

Cette administration ne pourrait se soutenir 8 jours devant la Chambre actuelle. Elle devrait la dissoudre.

Le pays consulte dans des circonstances pareilles, blessé dans ses affections et dans ses sentiments les plus chers - son honneur et ses libertés - enverrait les députés les plus avancés siéger à la Chambre: et il faudrait forcément la dissoudre de nouveau au bout de 15 jours.

Après, c'est l'inconnu, c'est les ordonnances, c'est le trouble: que sais je! lei se présente naturellement la seconde question. Quel fruit en retirerait la France? Ce n'est pas long à expliquer. Le fruit qu'elle en retirerait serait d'avoir mis le Piémont entre les mains d'un parti qui se jetterait lui même entre les bras de l'Autriche. Nul doute à cet égard.

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L'influence française serait par là chassée du dernier refuge qu'elle ait en Italie. Voilà ce que la France y aurait gagné! Et un résultat si désastreux pour les deux pays devrait avoir pour cause quelques mauvais articles de journaux? Dans tout cet exposé je n'exagère rien; j'en appelle du reste à ton témoignage. Il peut y avoir du plus ou du moins; la marche que je trace d'avance aux événements peut être plus ou moins précipitée, mais tous les hommes sérieux auxquels j'ai parie de ces éventualités reconnaissent avec moi que ce trace expose fidèlement ce qui, selon toutes les probabilités, devrait arriver.

Je n'entends nullement dire avec cela qu'il nous soit absolument impossible de faire la moindre chose pour brider nos mauvais journaux. Le problème est difficile sans doute, mais n'est peut être pas insoluble; on peut tourner l'obstacle sinon l'attaquer de front: et le ministère qui ne s'aveugle nullement sur la gravite des circonstances actuelles, s'imposera cette tàche et la poursuivra par tous les moyens qu'il a à sa disposition: mais que le Cabinet français à son tour ne se fasse pas illusion sur la portée des actes auxquels il voudrait brusquement amener le Gouvernement du roi. Il serait la ruine du système représentatif en Piémont, et de l'influence française en Italie.

Il me reste à dire un mot sur la comparaison dont s'est servi M. Drouyn de Lhuys en citant l'exemple du voisin qui brille etc.

Franchement, peut on regarder le Piémont comme un voisin en flammes et le représenter comme un brûlot? Je comprends parfaitement qu'en ce moment-ci surtout, M. le ministre n'ait pas le loisir d'étudier notre position intérieure; cependant, sans aller trop minutieusement aux informations, n'existe-t-il pas une série de faits qui sont connus de toute l'Europe, et qui déposent hautement contre une appréciation aussi sévère? Nous avons le bas journalisme détestable, d'accord. Il existe une tutte entre le parti clérical et le parti qui soutient le pouvoir civil. C'est encore vrai. Mais où est le désordre, où est l'émeute, où est la révolution, où est l'incendie? A part la révolte de Génes en 49, qui a été étouffée en 24 heures, at on jamais en Piémont élevé une barricade ou tire un coup de fusil dans les rues? Le roi n'a-t-il pas été acclamé avec enthousiasme, il y a un an, dans cette ville même qu'il avait fait réduire par le canon? Qu'on me cite un autre État du continuent où on ait vu


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les troupes vider entièrement la capitale comme cela arrive tous les ans à Turin et à Gènes, à l'époque des manœuvres sans qu'il en résulte le moindre désordre. Et qu'on me nomme un autre pars où après de si grands désastres et de si profondes commotions morales, l'ordre et la tranquillité se soient plutôt rétablies; où le commerce, l'industrie, l'aisance aient fait de plus rapides progrès: où les haines des partis se soient plutôt calmées; où [la confiance entre Gouvernement et gouvernés soit plus illimitée; où le principe monarchique ait eu un triomphe plus complet.

Et c'est un tel état de choses qu'on voudrait assimiler a un incendie qui menace les voisins et qu'ils doivent s'empresser d'étouffer à tout prix? S'il en est ainsi, je n'ai plus rien a dire; aussi en ai-je assez dit.

La franchise de mon langage ne saurait blesser un homme tel que M. Drouyn de Lhuys, et je crois indispensable qu'il connaisse le véritable état des choses. Ainsi tu peux lui lire cette lettre. Quelque soit l'impression que sa lecture produise sur l'esprit du ministre des affaires étrangères, j'aurai du moins rendu tout malentendu impossible, et j'aurai rempli mon devoir. Dieu me donnera la force de le remplir jusqu'au bout, Tout à toi Azeglio.

XXIV.

Deux dépêches de M. Drouyn de Lhuys ministre des affaires étrangères à M. le due de Guiche, ministre de France à Turin,

Monsieur le Due,

Paris, 6 mars 1854.

Monsieur le marquis de Villamarina a été invité par son Gouvernement à profiter d'un moment opportun pour m'entretenir d'un article publié récemment par le Moniteur, et où il est dit que, dans le cas où l'Autriche coopérerait avec nous sur le Danube, nous ne permettrions pas qu'on nous divisât sur les Alpes.

Le ministre de S. M. le roi de Sardaigne est allé très-franchement à son but et sans user de détours; il a cru que l'occasion la plus prochaine serait la meilleure pour me donner connaissance de la dépêche, d'ailleurs fort amicale, qu'il avait reçue de sa Cour à ce sujet.

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J'ai félicité M. de Villamarina d'autant plus sincèrement de sa franchise que je ne pouvais de mou côte hésiter à lui donner toutes les assurances propres à le satisfaire.

Il est évident, en effet, M. le Due, que s'il y avait un avertissement sous les paroles qui ont été remarquées à Turin, il ne pourrait s'adresser à un Gouvernement dont nous apprécions si bien les intentions et la prévoyance. En s'exprimant comme il l'a fait, le Moniteur n'a eu en vue qu'un parti dont le Cabinet de Turili condamne comme nous les projets et les plans, et qui n'a jamais rèussi qu'à compromettre et à perdre les intérêts qu'il prétendait servir. Le Cabinet piémontais a donne trop de preuves de son dévouement à la cause de l'ordre social pour ne pas comprendre qu'en travaillant à décourager ce parti, par la netteté de notre langage, nous lui évitons à lui même des embarras qu'il ne peut qu'avoir à cœur de prévenir.

Je n'ai pas craint d'ailleurs, M. le Due, dans mon entretien avec M. de Villamarina d'aller plus directement au fond des préoccupations que je pouvais lui supposer en me rappelant l'histoire des dernières années. Et sans lui cacher l'intérêt que certaines questions nous inspirent, j'ai dû lui déclarer que, dans les circonstances présentes, des questions plus générales, plus urgentes dominaient nécessairement notre politique. Le Cabinet de Turin est lui même trop évidemment intéresse à ce que les ambitions et les influences, que nous avons en ce moment à combattre, ne triomphent point, il a trop de raisons de désirer qu'un grand Gouvernement, ennemi de toute indépendance et de toute liberté, n'acquière pas dans le Levant le moyen de faire la loi à l'Occident, pour ne pas reconnaitre que toutes les forces des grandes Puissances doivent aujourd'hui se concentrer sur un seul point. En présence de ce devoir commun à tonte l'Europe, les circonstances assignent a l'Autriche un rôle de premier ordre, et toute diversion qui viendrait la détourner de l'Orient, où la France et l'Angleterre nourrissent l'espoir de l'engager avec elles, serait gravement préjudiciable a la cause de tous et de chacun.

Si, d'ailleurs, le Cabinet de Turin veut bien se rendre compte des conséquences que peut avoir cette politique, indépendamment de ce grand avantage européen de repousser les am

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bitions redoutables pour toutes les idées qui lui sont chères, il en pourra pressentir de plus directs eucore et de plus favorables à ses vues propres.

Quand le Cabinet de Vienne, obéissant à des considérations puissantes, dirige son attention du coté du Levant, quand il ombrasse une politique qui tend a porter son action sur le Danube et la Mer Noire, ce n'est point, ce nous semble, au Piémont à l'en distraire. Plus les intérêts de l'Autriche s'étendront dans ces contrées, plus aussi elle voudra peser sur les affaires du Levant, et moius qu'aucun autre Gouvernement, celui de Sardaigne pourrait se plaindre du cours nouveau que prendrait le mouvement d'expansion de cet empire.

Je me borne, M. le Due, à vous indiquer très sommairement les raisons principales qui doivent, selon nous, non seulement rassurer le Cabinet de Turin sur nos intentions, qui ne sauraient lui être hostiles, mais encore lui faire désirer avec nous que l'Autriche, en s'associant étroitement à notre politique en Orient, reste libre de ses mouvements sur les Alpes. Il remarquera, j'en suis sur, a coté des nécessités générales qui lui en font un devoir, les avantages particuliers qui le lui conseillent. Nous n'avons jamais conçu de doutes à ce sujet, et en exprimant au Cabinet de Turin l'entière confiance que nous avons dans sa sagesse et sa prévoyance, vous ne ferez que traduire les sentiments que j'ai sincèrement exprimés à son ministre à Paris.

Recevez, monsieur le Due, etc.

Drouyn de Lhuys.

Monsieur le Due,

Paris, le 11 mars 1854.

J'ai l'honneur de vous accuser réception de votre correspondance jusqu'au 8 de ce mois et au n° 119.

En faisant connaitre par la voie du Moniteur? la ligne politique qu'il s'était éventuellement tracée par rapport à l'Italie dans le grand conflit qui se prépare en Orient, le Gouvernement de Sa Majesté a dû s'attendre à ce que sa pensée, quoique nettement et loyalement exprimée, fût diversement interprétée.

Vous l'avez parfaitement comprise, monsieur le Due, et vous avez devancé les explications contenues dans ma dépêche du 6 de ce mois, quand vous avez fait observer au general Dabormida que notre déclaration s'adressait, non au Gouvernement

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piémontais, mais a l'esprit et au parti révolutionnaire en Italie.

Loin de là, nous reconnaissons hautement la sagesse et la prudence, l'intelligence vraiment politique qui inspirent le roi Victor Emmanuel et son Gouvernement dans les graves conjonctures du moment, et en avertissant, comme nous l'avons fait, les chefs et les impatiens d'un parti dangereux en tous pays et pour tous les Gouvernements, nous croyons, je n'hésite pas à le dire, venir en aide au Piémont lui même et contribuer à lui éviter peut être de grands embarras.

Je n'ai pas besoin d'ajouter que le Gouvernement autrichien n'a réclame de nous, comme le bruit en a circulé, et que nous ne lui avons promis aucun gage matériel aux dépens du Piémont. C'est dans la complète liberté de notre pensée politique que nous avons jugé utile et loyal d'émettre une déclaration qui, tout en étant un avertissement donne aux autres partis de la révolution à tout prix, était en même temps pour l'Autriche une récompense de ce qu'elle avait déjà fait en faveur de l'alliance de la France et de l'Angleterre, et un encouragement à entrer dans une voie où tous les États amis du droit et de la civilisation en Europe doivent tendre à se réunir dans un but commun de résistance aux exigences et aux entreprises de la Russie. Le Gouvernement de Sa Majesté Sarde est trop éclairé pour prendre aucun ombrage d'une politique aussi nette, et si complètement conforme à l'intérêt qui doit dominer aujourd'hui dans les conseils des Cabinets. C'est en vue de cet intérêt supérieur que, si l'Autriche combat avec nous en Orient, nous considérerons comme une diversion suscitée contre nous mêmes les mouvements que le parti révolutionnaire provoquerait en Italie.

Telle est, monsieur le Due, la conduite qui nous est présentement dictée par la loyauté ainsi que par l'intérêt de la France. Quant à l'avenir, il est dans la main de Dieu; mais nous comptons sur la sagesse des peuples comme sur celle des Gouvernements pour ne pas le compromettre. Et si la crise actuelle aboutissait jamais à un remaniement de la carte de l'Europe dans un congrès, on peut être assuré qu'en travaillant au maintien ou au rétablissement de l'équilibre européen, nous défendrons la cause de nos alliés avec un zèle d'autant plus empressé qu'ils auront plus franchement seconde les efforts que nous faisons pour conjurer un danger commun.

Recevez, monsieur le Due, l'assurance de ma haute considération.

Drouyn de Lhuys.

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XXV.

Quatre dépêches de M. le general Dabormida, ministre des affaires étrangères, à M. le marquis de Villamarina, ministre sarde à Paris.

Monsieur le Marquis,

Turin, le 19 mars 1854.

Ainsi que vous me l'annonciez, M. le due de Guiche est venu me donner lecture d'une dépêche de son Gouvernement, destinée à confirmer les explications si franches et si amicales que vous aviez déjà reçues de M. Drouyn de Lhuys, et dont vos rapports du 6, 7 et 12 courant m'ont rendu un compte exact.

Le Ministre m'a en même temps fait connaitre le contenu d'une autre dépêche, où le Ministre des affaires étrangères de S. M. l'Empereur, en approuvant la manière dont M. de Guiche avait interprète lui même le sens des déclarations du Moniteur relatives à l'Italie, développe, avec une évidence à laquelle je m'empresse de rendre hommage, les motifs qui dirigent dans ces graves conjonctures les délibérations de la France. Je ne saurais assez vous témoigner, M. le Marquis, toute la satisfaction que m'a cause l'adhésion explicite et entière donnée, au nom du Gouvernement français à notre conduite, par un homme d'État aussi compétent que M. Drouyn de Lhuys.

Le langage loyal et bienveillant de ces Communications, doit certainement nous encourager à persévérer dans un système qui, s'inspirant aux principes d'ordre et de sage liberté, en harmonie avec les besoins réels de notre pays, pourvoit au maintien de la tranquillité intérieure, et donne en même temps les garanties de sécurité dans nos relations internationales.

Vous connaissez trop bien les sentiments du Gouvernement du Roi pour douter aucunement qu'il ne s'associe de cœur a la pensée généreuse qui engagé la France à soutenir au prix d'immenses sacrifices la cause de la civilisation et du bon droit contre d'injustes agressions.

Notre sympathie pour une politique si noble et si intelligente est d'autant plus complète et plus sincère, que dans l'accord des grandes Puissances pour un but commun de conservation, et dans les dispositions du Gouvernement de l'Empereur,

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nous ne pouvons que trouver un gage rassurant pour notre propre indépendance, et un indice consolant de l'appui que nos intérêts légitimes ne manqueraient point de rencontrer lorsque dans les conseils des Puissances on jugerait le moment venu d'asseoir sur des bases plus solides l'équilibre de l'Europe.

Aussi je ne peux pas avoir besoin de déclarer que, loin de fonder une espérance quelconque dans les intrigues d'une politique tortueuse, ou dans les machinations des partis révolutionnaires, nous repoussons avec toute l'énergie d'une conviction profonde, des moyens qui répugnent à notre loyauté, et que nous reconnaissons être contraires à nos propres intérêts.

Tous nos soins et tous nos efforts ne sont dirigés qu'à améliorer par l'application sincère et raisonnée de nos institutions, les conditions morales et matérielles de notre pays, à fortifier le respect et l'attachement pour un souverain qui a tant de titres à l'affection et à la reconnaissance de ses peuples, pour une dynastie, dont l'histoire est identifiée avec la destinée de ses États, à éloigner et réprimer enfin toute cause d'agitation et de désordre.

Je ne terminerai pas cette communication sans vous informer que le conseil des ministres partage entièrement ma satisfaction, comme il partage les vues que je viens de vous exposer. Sa Majesté, à qui j'ai cru, à raison de leur importance, devoir faire connaitre les explications et les témoignages contenus dans les dépêches de M. Drouyn de Lhuys, les a également agréés. Le Roi a bien voulu m'assurer que de semblables manifestations seraient propres à accroitre, s'il était possible, son estime pour le Gouvernement français et son amitié vers S. M. l'Empereur.

Recevez, je vous prie, monsieur le Marquis, les assurances réitérées de ma considération très distinguée.

Dabormida.

Monsieur le Marquis,

Turin, le 4 mai 1854.

Il y a à peu près un mois, que M. Hudson nous donnait confidentiellement connaissance d'une dépêche que M. Scarlett, ministre de S. M. Britannique à Florence, avait adressée à Lord Clarendon et do la réponse de ce ministre des affaires étrangères.

Dans la dépêche de M. Scarlett, il était dit que Florence on s'occupait beaucoup de l'attitude qu'aurait prise l'Autriche dans la question d'Orient;

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qu'on paraissait douter que le Gouvernement autrichien pût prendre part à la guerre coutre la Russie, à cause des inquiétudes que lui inspirait l'esprit révolutionnaire en Italie et de ses défiances sur la politique du Piémont; qu'on pensait qu'il ne se serait décide pour l'alliance offensive avec les puissances occidentales sans avoir des garanties solides pour ses possessions italiennes.

M. Scarlett ajoutait que le maréchal Radetzkv avait même parie de l'occupation de la citadelle d'Alexandrie.

La réponse de lord Clarendon exprimait d'abord la persuasion que l'Autriche ne pouvait avoir des motifs sérieux de supposer au Piémont des intentions agressives ou déloyales. Que la conduite et les intérêts mêmes du Gouvernement sarde devaient éloigner toute préoccupation à cet égard.

Lord Clarendon déclarait ensuite que l'Angleterre n'aurait jamais toléré que l'Autriche mit le pied sur le territoire piémontais et moins encore qu'elle occupât Alexandrie. Les appréciations et les vues exposées dans cette réponse m'avait paru satisfaisantes sous tous les rapports, je n'eus que peu de mots à ajouter aux remerciements que j'en adressai à M. Hudson. Il était évident que l'explication donnée par les partisans de l'Autriche à ses tergiversations n'était pas sérieuse en nous attribuant même l'intention, que nous répudions, de saisir toutes les occasions favorables pour susciter des embarras au Gouvernement autrichien; il est absurde de penser que nous pourrions donner suite à nos projets lorsqu'il serait allié avec la France et l'Angleterre.

M. Hudson fut parfaitement d'accord avec moi. En attendant, je ne vis dans cette communication confidentielle qu'une nouvelle preuve du vif intérêt que ce diplomate porte à notre pays; je pensais qu'il voulait me faire connaitre les faux bruits qu'ont propageait sur notre compte pour nous mettre en garde, et nous engager à persévérer dans la conduite prudente et ferme que nous avons adoptée. Mais soit que M. Hudson eut reçu l'ordre de mieux approfondir les vues de notre Cabinet, soit que de son propre mouvement il voulut se procurer quelque donnée sur l'accueil que rencontreraient des propositions formelles d'une participation du Piémont à la guerre contre la Russie, comme moyen de rassurer l'Autriche, il ramena dans une entrevue avec M. de Cavour, la conversation sur ce même sujet.

M. de Cavour remarqua, comme je l'avais fait, que les bruits rapportés par M. Scarlett manquaient de toute espèce

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de fondement, et qu'il ne doutait pas que, si l'Autriche eût mis en avant ses craintes et ses soupçons à notre égard, les Puissances occidentales n'auraient pas de difficulté à en démontrer l'absurdité. Cependant M. Hudson, tout en convenant que ce n'est pas de bonne foi que l'Autriche pourrait se prévaloir d'un tel argument pour justifier son refus d'entrer en action avec les alliés en Orient, dit à M. de Cavour que le Gouvernement sarde pouvait aisément ôter tout proteste de cette nature au Cabinet de Vienne, en offrant d'envoyer lui même un contingent de troupes en Turquie lorsque l'Autriche aurait tourné elle même ses armes contre la Russie. Quand l'Autriche verra, dit-il, que vous vous engagez à éloigner du Piémont une partie de vos forces, elle n'osera plus vous représenter comme une menace permanente.

M. de Cavour, ne voulant laisser peser aucun doute sur notre loyauté, répondit: que le jour dans lequel l'Autriche aurait pris part d'une manière irrévocable à la guerre d'Orient, il serait personnellement dispose à conseiller au roi d'envoyer 15,000 hommes en Orient: mais, ajoutât-il, je ne pourrais donner un tel conseil sans avoir acquis la conviction que ce concours ne peut compromettre d'aucune manière nos propres intérêts. - Le ministre anglais demanda alors s'il pouvait faire part de ces bonnes dispositions à son Gouvernement, et sur la réponse affirmative de M. de Cavour, il s'empressa de consigner dans une dépêche la conversation qui venait d'avoir lieu entre eux.

Toutefois, avant d'expédier sa dépêche, M. Hudson vint me la communiquer et me demanda si je partageais les vues de M. de Cavour et si j'approuvais le contenu de la note. Après l'avoir lue attentivement, j'avouai franchement à M. Hudson que le président du Conseil m'avait informe de l'entretien, et qu'il me paraissait que sa pensée n'était pas bien rendue. Il résulterait, lui dis-je. de votre dépêche que M. de Cavour offre un contingent aux Puissances alliées; vous annoncez, il est vrai, quo cette offre est subordonnée à deux conditions essentielles: que l'Autriche entre en action, et que nos intérêts soient garantis; mais ça n'a pas moins l'apparence d'une offre: ca ne peut pas moins faire croire à votre Cabinet que nous sommes impatients de prendre part à la guerre; tandis que M. de Cavour a voulu mettre en évidence la futilité du prétexte allégué pour nous nuire dans l'esprit des deux grandes Puissances, sans entendre lier son Gouvernement, ni prendre lui même un engagement quelconque.

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M. Hudson ne trouvait pas mes craintes fondées, et m'assurait qu'il ne voyait point qu'il y eut, d'après la dépêche, le commencement d'un engagement. Il consentit cependant, avec la loyauté qui lui est ordinaire, à me laisser la note, en m'autorisant à la relire avec M. de Cavour. Le président du Conseil reconnut avec moi quo M. Hudson n'avait pas bien saisi sa pensée: il se chargea en conséquence de lui restituer la déprécie et de le prier de la modifier dans le sens précis de sa pensée, que j'ai rendu plus haut. M. Hudson, cédant aux observations de M. de Cavour, brùla sa dépêche et promit de n'écrire qu'une lettre particulière, dans laquelle il se bornerait à répéter ce que M. de Cavour lui avait dit, sans donner a ses paroles une portée qu'elles ne pouvaient avoir.

Cet incident paraissait termine, lorsque le due de Guiche reçut de son Gouvernement une note qu'il porta à ma connaissance.

M. Drouyn de Lhuys y mandait, «qu'il avait appris par la a correspondance de l'ambassadeur de S. M. Imp. à Londres que des ouvertures auraient été faites au Cabinet de Turin par le ministre de S. M. Britannique pour inviter le Pièce mont à adhérer au traité. d'alliance que la France venait «de signer avec l'Angleterre dans le cas où l'Autriche prêterait son concours aux Puissances occidentales contre la Russie; que Lord Cowley l'en avait déjà entretenu de son coté et qu'il paraitrait que M. de Cavour n'aurait pas hésité à répondre que le Gouvernement sarde entrerait dans l'alliance, et pourrait contribuer sans difficulté pour un contingent de 15,000 hommes à la guerre d'Orient. M. Drouyn marquait son étonnement que le due de Guicbe n'eut pas été instruit de ces pourparlers ni par M. Hudson, ni par moi.

«Et après quelques considérations à ce sujet il concluait qu'il serait bien aise de connaitre si le Cabinet partageait les vues de M. de Cavour».

Le due de Guiche montra a son tour quelque regret de n'avoir rien appris d'une affaire qui, ajoutât-il avec raison, intéressait autant la France que l'Angleterre. Je me suis empressé de raconter à l'envové de France ce que je viens d'exposer, et de lui faire remarquer que, précisément pour ne pas donner aux paroles de M. de Cavour, l'importance qu'il n'avait pas voulu leur attribuer, on avait pensé de n'en pas parler. La dessus M. de Guicbe m'objecta que d'après la dépêche de son chef, dont il me lut quelques passages, la question paraissait plus sérieuse, que je ne semblais le penser, et que

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dans son opinion il nous croyait engagés jusqu'à un certain point. Je convins avec lui que la dépêche dormait aux paroles de Mi de Cavour une signification qui ne répondait pas entièrement à sa pensée, mais je lui représentai que, s'il voulait bien considérer ce que je venais de lui dire, il serait convaincu qu'on ne pouvait voir dans ce qui s'était passe un engagement quelconque. Aucune proposition ne nous a été faite, ajoutai-je; le jour qu'on nous en ferait une, nous la discuterions au Conseil, nous prendrions les ordres du roi et nous délibérerions. Nous avouons hautement nos sympathies pour les Puissances occidentales, nous avons en elles la plus grande confiance, mais nous ne pourrions prendre une détermination qui nous imposerait de graves sacrifices et compromettrait la responsabilité du Cabinet envers le Parlement et le pays, sans avoir pris les ordres du Roi et avoir acquis la certitude que cette détermination sauvegarde nos intérêts bien entendus.

M. de Guiche d'avant pas l'ordre de faire une proposition, la chose n'eut pas d'autre suite.

Il revint cependant le lendemain, après avoir conféré avec M. Hudson et M. de Cavour, dont les éclaircissements confirmèrent en tous points ce que je lui avais fidèlement exposé et se montra aussi parfaitement satisfait de mes explications que convaincu que rien ne s'était passe, où l'on put trouver le moindre manque d'égards envers le Gouvernement français et son représentant.

Vous concevez, M. le Marquis, qu'il serait également impossible que superflu de rendre tous les détails de ces conversations. J'ai taché toutefois d'en rapporter exactement, et en leur conservant leur nuance et leur caractère, les circonstances et les considérations plus essentielles.

Il ne sera pas difficile sans doute à votre sagacité de puiser dans le récit de ces pourparlers les notions qui peuvent vous être nécessaires pour bien juger de nos intentions et pour y conformer votre langage dans le cas que vous seriez amené sur ce terrain.

Ces intentions se résument à nous tenir en dehors du conflit tant que nous ne serons pas appelés par des intérêts directs à y participer.

Si des ouvertures vous étaient faites, je vous invite à vous charger simplement de me les transmettre, tout en assurant que nous apporterons à leur examen le plus sincère désir de seconder les veux des Puissances alliées.

Vous donnerez en attendant les assurances les plus formelles

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que le Gouvernement du Roi ne se départira point de la ligne de conduite qu'il a suivie jusqu'à ce jour, et évitera tout ce qui pourrait compliquer à l'intérieur ou au dehors la situation.

Recevez, M. le Marquis, les nouvelles assurances de ma considération très distinguée.

Dabormida.

Monsieur le Marquis,

Turin, le 15 xbre 1854

(Particulière et confidentielle).

M. Hudson nous a communiqué avant hier deux lettres particulières de Lord Clarendon et de Lord John Russell par lesquelles il lui a été enjoint de sonder les dispositions du Gouvernement sarde à fournir un corps de troupes pour l'expédition de la Crimée, soit en le mettant à la solde de l'Angleterre, soit en l'envoyant pour son propre compte, par suite de l'accession qu'il donnerait au Traité de 10 avril 1854.

Après avoir pris les ordres du roi, nous avons répondu à M. Hudson que jamais nous n'aurions mis une partie quelconque de l'armée de S. M. à la solde d'une Puissance étrangère, que cette armée étant composée, d'après la constitution, de citoyens désignés par le sort pour paver le tribut du sang à la patrie, on ne pouvait leur demander le sacrifice de la vie que pour la défense ou dans l'intérêt direct de leur pays.

Nous avons ajouté que nous étions prête à faire accession au Traité à des conditions équitables. Les lettres communiquées par M. Hudson portent la date du 29 novembre et on ne sait par quelle fatalité elles ne sont arrivées à leur destination que le 13 du courant. Elles étaient très pressantes.

Aussi M. Hudson est-il venu dans la journée d'hier nous donner communication d'une dépêche officielle qu'il venait de recevoir de Lord Clarendon et dans laquelle il lui était prescrit de nous faire la demande formelle d'accéder au Traité du 10 avril, en nous annonçant que M. de Guitaut était chargé par son Gouvernement d'une démarche semblable.

Bien que les intentions de S. M. nous fussent déjà connues, nous nous sommes empressées de lui soumettre la nouvelle préposition explicite qui nous était faite et, en suite de la délibération prise dans le Conseil des ministres tenu en sa présence, j'ai pu répondre

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dès hier au soir aux deux représentants de l'Angleterre et de la France, dans les termes qui sont consignés dans une note rédigée par M. de Guitaut, dont vous trouverez ci-joint la copie.

Connaissant nos sympathies pour les deux Puissances qui ont pris à soutenir avec tant de générosité la cause de la civilisation, vous n'aurez pas lieu d'être surpris de l'importante détermination que je viens vous annoncer aujourd'hui, mais vous n'aurez pas non plus de peine à reconnaitre, M. le marquis, qu'en même temps que nous secondons nos sentiments amicaux pour les deux grandes Puissances, nous prenons le seul parti qui puisse assurer notre indépendance, sauvegarder nos institutions et contribuer à un meilleur avenir de l'Italie.

Nous avons toujours répudié les utopies mazziniennes qu'on se plaît à répandre contre nous.

En relisant la note écrite par M. de Guitaut je m'aperçois que nous avons oublié une condition essentielle, posée par le roi comme question préliminaire; c'est une déclaration de la part des deux Puissances que, dans leur dernier traité avec l'Autriche, il n'y a pas d'article secret qui soit de nature à léser les intérêts matériels ou moraux du Piémont, ou préjuger la question politique de l'Italie.

Comme cette déclaration ne doit pas faire partie du Traité, nous sommes à temps de la demander avant la signature de l'accession; vous pouvez en toucher un mot adroitement à M. Drouyn de Lhuys, c'est une question de dignité et de bonne foi.

Je connais trop votre prudence, M. le marquis, pour avoir besoin de vous recommander le secret sur une négociation d'une si haute importance. Faites moi connaitre librement votre avis, et agréez en attendant les nouvelles assurances de ma considération très distinguée.

Dabormida.

(Annexé).

Le Gouvernement sarde désire adhérer simultanément au Traité du 10 avril d'alliance offensive et défensive entre les Gouvernements de France et d'Angleterre, en même temps qu'il signera une convention par laquelle il s'engage à fournir un contingent de 15,000 hommes à des conditions qui seront stipulées et dont la première serait un emprunt de 2 millions

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de livres sterlings à 3 p. 0|0 d'intérêts, remboursables a la paix à des conditions à convenir après.

Les deux Puissances occidentales déclareraient qu'il sera tenu compte au Gouvernement sarde, à la conclusion de la paix, des services rendus à la coalition et des sacrifices en hommes et en argent que le dit Gouvernement serait appelé à faire.

Par ce Traité le Gouvernement sarde entre dans le concert Européen, prend part aux négociations et intervient au Congrès avant pour objet le rétablissement de la paix et l'affermissement de l'équilibre européen.

Articles secrets.

Art. 1. Les deux Puissances occidentales s'engagent à faire tous leurs efforts pour faire lever par l'Autriche le séquestre sur les propriétés des sujets sardes frappés par le décret du 13 février 1853.

Art. 2. Les hautes parties contractantes prendront en considération l'état de l'Italie au rétablissement de la paix.

Monsieur le Marquis,

Turin, le 21 xbre 1854.

(Confidentielle et très réservée).

J'ai reçu l'importante communication que vous m'avez envoyée par l'entremise de M. Chapperon. Je vous remercie de l'empressement que vous avez mis, soit à sonder l'opinion de monsieur Drouyn de Lhuys et de lord Cowley, soit à m'en faire connaitre les résultats.

La réponse que vous avez donnée aux objections sur le séquestre a toute mon approbation.

C'est un point d'honneur et de force morale sur lequel nous ne pouvons absolument pas céder.

Mais les autres conditions relatives à la sécurité de notre position et aux intérêts éventuels de l'Italie n'ont pas moins d'importance pour nous. Nous trahirions nos devoirs les plus sacrés si nous nous laissions aller a la dérive des événements sans pouvoir justifier nos sacrifices par un espoir fonde de résultats avantageux au pays.

Malheureusement je crains que nos propositions, toute modérées, tout équitables qu'elles soient, ne rencontrent de plus graves difficultés que n'en faisaient prévoir les bonnes dispositions attestées par les ouvertures que nous avons reçues.

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Vous trouverez la raison de mes doutes dans la dépêche télégraphique de M. d'Azeglio dont je vous envoie ci-joint la copie.

Je vous transmets en même temps les réponses que je lui ai adressées, soit par la dépêche télégraphique chiffrée, soit par la dépêche ordinaire ci-jointe.

Aussitôt que vous aurez pris lecture de la dépêche ordinaire, vous aurez la complaisance de la lui faire tenir de la manière la plus prompte et la plus sure.

A la vérité les questions, dont il s'agit, sont tellement connues de M. d'Azeglio et de vous même, les motifs de notre politique vous sont tellement familiers, et nous nous trouvons si parfaitement d'accord, qu'il aurait dû me paraitre superflu de répéter des arguments désormais usés.

Mais sous l'impression pénible que m'ont cause les objections tout à fait inattendues de lord Clarendon je n'ai pu me défendre du besoin de donner encore une fois un libre cours à ma pensée.

Nous sommes petits et il n'est que trop vrai que les intérêts des petits sont facilement placés en seconde ligne. Mais nous devons tenir peut être encore davantage à notre honneur, a notre dignité, parce que, si nous les compromettons une fois, nous aurons difficilement le moyen de les reconquérir. Nous devons être d'autant plus soucieux de notre position qu'elle n'aurait pas en elle même une force suffisante pour se relever, si jamais elle recevait quelque atteinte.

Ce que j'écris à M. d'Azeglio vous expliquera clairement nos vues sur la direction que doivent prendre les négociations, sur le lieu où elles peuvent ótre utilement suivies. Mais si vous n'avez pas à agir directement pour discuter ou fixer les conditions que nous avons proposées, vous pourrez rendre d'excellents services en éclairant le Cabinet des Tuileries sur notre situation, sur l'importance des sacrifices que nous serions disposés à faire, sur le prix enfin de notre alliance.

Veuillez, M. le marquis, me tenir au courant des opinions qui vous seraient manifestées et des dispositions que vous pourriez reconnaitre, en un mot de tout ce qui vous paraitrait de quelque utilité pour guider les décisions que nous devrons prendre.

Agréez aussi mes remerciements pour les détails consignés dans vos lettres particulières et les nouvelles assurances de ma considération très distinguée.

Dabormida.


vai su


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XXVI.

Dépêche de M. le general Dabormida à M. le marquis Emanuel d' Azeglio, ministre sarde à Londres

Monsieur le Marquis,

Turin, 21 décembre 1854.

Les objections, dont vous m'avez informe par votre dépêche télégraphique d'hier, m'ont surpris. Si on nous refuse toute sorte de satisfaction dans quel but aurions nous donc à nous engager ù de graves sacrifices d'hommes et d'argent? Pourquoi nos soldats auraient ils à verser leur sang? N'est-il pas aussi pénible qu'inexplicable qu'un pays qui a déjà fait tant de sacrifices aux intérêts de l'Europe, qui a subi avec courage tant de malheurs, qui a donne tant de preuves de sa modération et d'égards à ses alliés, au moment où il se montre prêt à unir ses efforts pour le succès d'une lutte dont les résultats ne lui offriraient aucun intérêt ni médiat ni immédiat? N'est-il pas juste qu'on lui tienne compte des dangers qu'il irait courir par une réparation faite à son honneur, par l'assurance que sa position ne sera point compromise par des stipulations avec une autre puissance, et que ses légitimes espérances d'avenir seront coordonnées aux combinaisons qui peuvent sortir de la guerre? Lorsqu'on nous proposa d'entrer dans l'alliance, d'envoyer en Crimée un corps considérable de troupes, de nous exposer à des charges et à des périls incalculables, nous avons montré un empressement qui témoigne de la franchise de nos sympathies et de sentiments généreux. Mais si nous ne devions en attendre aucun avantage, si au contraire nous avions raison de prévoir des résultats préjudiciables à nos intérêts, nous croirions manquer à tous nos devoirs envers le pays en contractant des engagements qui seraient en pure perte.

Les conditions que nous avons posées sont de toute justice et de toute équité; c'est là notre intime conviction. La levée du séquestre est pour nous absolument indéclinable. Si au lieu de l'exiger d'une manière catégorique, nous nous sommes bornés à demander les efforts communs des Puissances, c'est que nous avons une entière confiance dans l'énergie et dans l'efficacité de leurs efforts. Il est du reste de toute évidence quo le Piémont ne peut devenir même indirectement l'allié de l'Autriche, sans qu'elle fasse auparavant cesser l'injure sanglante qui a dû mettre un terme à leurs rapports politiques.

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Comment la Sardaigne pourrait elle en effet siéger dans le congrès destine à régler les conditions de la paix, qui serait probablement tenu à Vienne, comment, dis-je, pourrait elle honorablement y siéger à coté d'une puissance qui a foulé aux pieds ses droits, qui lui a jeté un défi pour la provoquer à la guerre ou pour donner au monde le spectacle de son humiliation? Ce défi subsiste toujours, et si le Piémont ne l'a pas recueilli c'est pour l'amour de la tranquillité de l'Europe, c'est pour la haine des révolutions, c'est aussi pour des considérations de prudence qu'il serait inutile de rappeler. Si l'Autriche est de bonne foi, ne doit-elle pas reconnaitre que les prétextes, qu'elle empruntait à la sécurité de ses états à cause de la politique piémontaise, n'auraient plus aucune valeur du moment où le Piémont se dégarnirait volontairement d'une partie considérable de ses troupes, qu'il embrasserait décidément la cause pour laquelle l'Autriche se déclare disposée à combattre, et entrerait dans le concert des Puissances dont elle fait part? Alors sa persistance ne serait elle pas une provocation gratuite, un obstacle qu'elle mettrait à cette réunion de forces désirée par le alliés, un service qu'elle rendrait à la Russie? Si les Puissances craignent qu'en contentant les justes réclamations du. Piémont, elles peuvent éloigner d'elles l'Autriche, il faut convenir que le lien, qui les tient unies, est bien fragile; elles sembleraient croire que leur nouvel allié n'attend qu'un prétexte pour donner cours à ses sympatries russes: et dans ce cas ne vaut-il pas mieux qu'elle ôte son masque le plus tôt, pour qu'elles puissent sortir elles mêmes de cet état d'indécision dans lequel l'Autriche les a tenues jusqu'à présent? Quant au second article secret, l'assurance que l'état de l'Italie serait pris en considération à la conclusion de la paix, le sens m'en parait aussi clair que sa portée est modérée. Il n'y a rien là de menaçant pour l'Autriche. Le Piémont ne vise point à la supplanter; mais si les vicissitudes de la guerre amenaient des remaniements territoriaux, il est manifeste qu'il ne pourrait consentir d'en être tenu en dehors: il est tout aussi évident que ces sacrifices, pour être justifiables, doivent produire des effets utiles au pays. Si à la paix tout le monde conserve ce qu'il a, l'article n'engage à rien les puissances sous le rapport matériel, elles n'auraient qu'à s'occuper de la marche des gouvernements Italiens, et l'Angleterre ne peut disconvenir qu'il y a bien matière a exercer une influence légitime pour faire disparaitre

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par de sages concessions a l'opinion publique et a l'esprit des temps, la cause permanente des mécontentements et les dangers incessants d'explosions révolutionnaires.

Je ne prolongerai pas davantage cette discussion, soit parce que vous connaissez aussi bien que moi les arguments qu'on peut faire valoir, soit parce que vous n'avez pas à la soutenir pour le moment avec lord Clarendon.

Comme je vous l'ai mandé par ma dépêche télégraphique, il y aurait nécessairement de la confusion si les négociations devaient être conduites à Londres, à Paris, à Turin, en plusieurs endroits à la fois. C'est à Turin que les propositions ont été faites par les représentants de l'Angleterre et de la France. La discussion ne peut être suivie avec unité de pensée, avec chance d'un prompt résultat qua Turin où les deux gouvernements peuvent envoyer à leurs ministres les instructions qu'ils auraient combinées d'accord.

Et aussi, en vous communiquant ces observations, n'ai je fait que céder à la juste douleur que m'ont cause les objections du Ministre des affaires étrangers, et tâcher de toujours mieux vous convaincre que, ne pouvant traiter, vous devez éviter avec soin de vous engager dans des débats qui pourraient donner lieu de croire que nous soyons disposés à renoncer en tout ou en partie aux bases essentielles que nous avons formulées.

Agréez, monsieur le Marquis, la nouvelle assurance de ma considération très distinguée.

Dabormida.

XXVII.

Protocole de la conférence tenue le 10 janvier 1855 à Turin pour l'accession de la Sardaigne au traité du 10 avril 1851.

Les soussignés, le ministre des affaires étrangères, président du Conseil des ministres de S. M. le Roi de Sardaigne; Envoyé extraordinaire et ministre plénipotentiaire de S. M. l'Empereur des français; Envoyé extraordinaire et ministre plénipotentiaire de S. M. la Reine du royaume uni de la Grande Bretagne et d'Irlande, se sont réunis le 10 janvier 1855 à Turin chez S. E. le Président du Conseil et ont délibéré sur l'invitation faite à S. M. le Roi de Sardaigne d'accéder au traité du 10 avril 1834.

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Lecture avant été donnée de l'acte d'accession annexé au présent protocole sous le N° 1 le ministre des affaires étrangères, président du Conseil, exprime le désir de son Gouvernement d'accéder au traité du 10 avril et regrette de voir que, d'après les Communications qu'il a reçues des ministres de France et d'Angleterre, leurs instructions s'opposent à ce qu'ils puissent signer aucune note secrète ou publique par laquelle leurs Gouvernements promettraient d'employer leurs bons offices pour engager le gouvernement autrichien à lever les séquestres des biens situés sur son territoire et appartenants à des sujets sardes. Il désirerait savoir, avant de lier la Sardaigne à la France et à l'Angleterre par un traité d'alliance aussi intime, si quelques circonstances nouvelles, en modifiant la politique de ces Puissances, ont motivé la réserve dans laquelle se renferment leurs représentants.

Le ministre de S. M. Britannique, prenant la parole en son nom personnel et au nom de son collègue le ministre de France, répond que les Gouvernements alliés, loin d'entretenir vis-à-vis du Gouvernement sarde des sentiments moins amicaux que par le passe, croient au contraire lui donner une preuve nouvelle de leur amitié, en l'invitant à entrer dans leur alliance. En ce qui concerne la question des séquestres, ils ont souvent déjà, mais toujours en vain, interpose leurs bons offices près du Gouvernement de S. M. l'Empereur d'Autriche. Il est évident que si les Gouvernements de France et d'Angleterre, dans un traité public ou secret avec la Sardaigne, signaient quelque article qui eut rapport à cette question, cette démarche, en blessant l'Autriche dans son honneur, rendrait la mesure désormais impossible et éloignerait à jamais peut être la réalisation du but que poursuit le Gouvernement sarde.

L'alliance du Gouvernent sarde aux Gouvernements de leurs Majestés promet au contraire un ensemble de circonstances dans lesquelles les bons offices des Puissances pourront se produire avec de meilleures chances de succès.

Les Ministres de France et d'Angleterre ont ensuite demandé à S. E. le ministre des affaires étrangères de S. M. le Roi de Sardaigne s' il était autorisé par son auguste souverain à signer en son nom le dit acte d'accession. Et sur la réponse affirmative, les soussignés sont convenus de prendre de concert un jour prochain, pour procéder en due forme a la signature dudit acto

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d'accession et à la remise des actes d'acceptation de leurs Cours respectives, dès qu'ils auront reçu a cet effet les pleins pouvoirs nécessaires.

Aussitôt après, les ministres de France et d'Angleterre ont propose à S. F. le ministre des affaires étrangères de S. M. le Roi de Sardaigne de souscrire une convention militaire dont la teneur est également annexée au présent protocole, sous le N° 2, et, sur la réponse affirmative, il a été arrêté quo ladite convention serait signée simultanément avec Facto d'accession au traité du 10 avril 1854.

En foi de quoi, les soussignés ont appose leurs signatures au bas du présent protocole.

Turin, le 4 janvier 1855.

C. Cavour - Guiche - James Hudson.

XXVIII.

Dépêche confidentielle de M. le chevalier Jean Antoine Louis Cibrario, ministre des affaires étrangères, au marquis Villamarina à Paris et au marquis d' Azeglio à Londres.

Monsieur le Marquis.

Turin, 1 Juin 1855.

Dès que le Gouvernement anglais (français) a admis en principe le droit qu'a incontestablement la Sardaigne de prendre part aux négociations qui pourraient être continuées ou réouvertes pour la conclusion de la paix, je crois qu'un échange de notes est la forme la plus convenables et la plus usitée pour constater la reconnaissance de ce droit. Le Roi nommerait ensuite un plénipotentiaire dont la présence au Congrès, tout en sauvegardant les intérêts et la dignité de notre nation, tout en donnant satisfaction à la susceptibilité légitime de l'opinion libérale constitutionnelle qui s'est montrée si favorable a l'alliance Anglo-Francaise, fournirait encore un auxiliaire utile aux Puissances occidentales, puisque leur cause est la notre et nous combattons pour les mêmes principes.

Le Gouvernement du Roi ne pense pas qu'il soit facile ni convenable de définir a priori l'extension des pouvoirs du plénipotentiaire sarde et sa participation plus ou moins directe dans les négociations selon la nature des questions à discuter.

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Tout ce qui tendrait à établir une distinction entre les plénipotentiaires des grandes Puissances et celui de Sardaigne placerait ce dernier dans une position équivoque et pènible et produirait le plus mauvais effet en Piémont.

Il suffira, je pense, de déclarer que le Gouvernement du Roi reconnait que le droit de prendre une part directe et efficace aux discussions doit être réglé sur la mesure des intérêts moraux ou matériels qui nous concernent dans les questions à traiter. Je vous prie donc, monsieur le Marquis, d'achever l'œuvre que vous avez si bien commencée et d'insister auprès du Cabinet anglais (français) afin d'obtenir le plus tôt possible la reconnaissance formelle du droit dont il s'agit.

Vous êtes autorisé à donner lecture et au besoin à laisser copie de la présente à lord Clarendon et à lord Palmerston (à Mr. le comte Walewsky).

Agréez en attendant les nouvelles assurances, etc.

Cibrario.

XXIX.

Dépêche confidentielle de M. le chevalier Cibrario à M. le marquis d' Azeglio à Londres.

Monsieur le Marquis,

Turin, le 7 juin 1855.

Je suis bien aise d'ouvrir avec vous une correspondance confidentielle qui, comme vous l'observez très bien, est non seulement utile mais nécessaire, vu l'importance des questions que vous êtes appelé à traiter, et dans lesquelles j'aime à reconnaitre que vous avez toujours, monsieur le Marquis, apporté le zèle éclairé qui vous anime pour les intérêts du Roi et du pays.

Mr. Hudson vous aura peut être parie de la manière dont j'envisage la question, qui à mes veux n'en est pas une, de l'admission d'un plénipotentiaire sarde au Congrès qui pour rait s'ouvrir pour négocier soit la paix, soit des préliminaires de paix.

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Dos le moment que, par l'effet de notre accession au traité du 10 avril, nous sommes en guerre avec la Russie, nous avons incontestablement le droit de ne pas rester étrangers à toute négociation quo les Puissances occidentales consentent à entreprendre pour régler les bases d'un futur accord.

Le lieu où s'ouvriraient les négociations est une circonstance tout à fait secondaire et qui ne peut en aucune manière ni infirmer ni modifier nos droits. Ce principe pose, si la finesse bien connue du Cabinet autrichien, ou la force des choses déterminaient encore une fois les Puissances occidentales à choisir la ville de Vienne pour siège du Congrès, nous avons le droit d'y envoyer un plénipotentiaire qui discute en commun avec les Puissances occidentales nos propres intérêts, soit que nos relations diplomatiques avec l'Autriche aient été remises sur l'ancien pied, soit que, comme à présent, un simple chargé d'affaires soit accrédité auprès du Gouvernement autrichien, car vous comprenez parfaitement qu'il n'est pas du tout nécessaire que le même fonctionnaire soit chargé de représenter la Sardaigne auprès de S. M. I. et auprès du Congrès. Si le système contraire était admis, le mauvais vouloir, ou même tout simplement les lenteurs habituelles et systématiques de l'Autriche suffiraient pour nous exclure à perpétuité de prendre part aux délibérations du Congrès. Ce système serait aussi absurde que peu honorable pour nous et pour les Puissances alliées, et la Sardaigne n'y consentira jamais.

Veuillez régler d'après ces données le langage que vous aurez occasion de tenir avec les membres du Cabinet de Saint James, en y ajoutant les développements ultérieurs que votre sagacité et votre habitude des affaires pourront vous suggérer, et agréez, etc.

CIBRARIO.

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XXX.

Lederà riservala del cavaliere Luigi Cibrario, ministro degli '[Fari esteri di 8. M. il re di Sardegna al presidente del Consiglio dei ministri di 8. A. I. il granduca di Toscana.

Eccellenza,

Torino, li 4 settembre 1855.

Non ho mancato di chiamare ad accurato esame tutte le fasi della spiacevole vertenza occorsa costì tra il Ministero toscano ed il marchese Sauli, ministro residente del Re, mio Signore, presso S. A. I. e R. il Granduca, relativamente alla nomina del cav. Casati ad applicato alla Legazione sarda in Firenze.

Ponderati minutamente i rapporti che ho sott'occhio, ho acquistato la convinzione che, dopo le spiegazioni scambiate a questo proposito tra il marchese Sauli e l'E. V. ed il commendatore Fornetti, l'officiale partecipazione della nomina del cavaliere Casati e la risposta di V. E., la presentazione del detto Cavaliere al Ministro degli affari esteri e la restituzione della visita, il Ministro di Sardegna avea fondamento di credere che il Governo toscano avesse accettato quella nomina se non con intera soddisfazione, almeno con condiscendente rassegnazione.

Ed in tal senso me ne scrisse appunto il marchese Sauli, ed io, tenendo conto di tale condizione di cose, e del desiderio espresso dal Governo toscano che venisse data al Casati un'altra destinazione, bramando di conciliare per quanto fosse possibile le ripugnanze della Corte granducale colla dignità del Governo del Re, senza neppure indagare se tali ripugnanze apparissero giustificate, poiché gli appunti che si potrebbero muovere non riguardano che il Casati padre, aveva già disposto perché fra non molto s'inviasse il cav. Casati in altra Legazione, autorizzando il marchese Sauli a darne un cenno confidenziale a V. E.

Ma, primachè giungesse alle mani del R. Ministro la mia lettera, era intervenuto un fatto inaspettato e grave. V. E. in una nota ufficiale aveva dichiarato che, se il cav. Casati non era richiamato immediatamente, S. A. I. R. si vedrebbe obbligata ad astenersi dall'invitarlo agli ufficiali ricevimenti di Corte. Questa minaccia, che accompagnava la prima ufficiale dichiarazione da cui risultasse d'un positivo dissenso del Ministero toscano circa alla nominai del Casati,

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non ha potuto a meno di essere considerata come altamente lesiva alla dignità del Governo del Re. Per ciò appunto, piucchè per le inesattezze d'essa nota, il M. Sauli credette di doverla respingere con una sua nota verbale.

Non avendo V. E. creduto conveniente di ritirare essa nota, nel qual caso il marchese Sauli avrebbe ritirata la sua nota verbale e tutto si sarebbe aggiustato, intervenne un nuovo fatto, che, per quanto sembri dimostrar fiducia nel Ministro che regge il Dicastero degli affari esteri in questo Stato, non tralascia però di essere insolito e altamente lesivo del decoro del R. Rappresentante a Firenze, dalla cui persona prescindendo totalmente e non considerandolo più in certo modo come ministro, l'E. V. si rivolse direttamente a me, esponendomi lo stato delle cose, lagnandosi della nomina del Casati, del rinvio della nota fattole dal marchese Sauli, ed esprimendo l'opinione che il detto marchese non potesse più avere per l'avvenire col Ministero toscano quelle amichevoli relazioni che v'erano state finora.

Questa serie di fatti minutamente rassegnata a S. M. in consiglio dei ministri ha persuaso il Re ed il Consiglio che la R. Legazione sarda non potesse più rimanere in Toscana senza compromettere la propria dignità e quella del suo Governo; e ciò tanto più perché, avendo da assai tempo il Re a Firenze un suo Rappresentante rivestito del grado di ministro, la Toscana non ha mai usato alla M. S. il riguardo di deputar a Torino nemmeno un semplice incaricato d'affari; perciò il marchese Sauli ha ricevuto l'ordine di chiedere i suoi passaporti e di ritirarsi con tutto il personale della Legazione.

Duole vivamente al Governo del Re ed a me in particolare, che una questione, che per sé avea dapprima ben poca importanza, siasi, per una combinazione di malaugurati accidenti, ingrandita al punto da motivare una risoluzione di tal fatta. Ma, se il Governo del Re non è mai disposto a transigere col proprio decoro, esso accetterà ben volontieri quei mezzi di conciliazione che gli venissero in seguito offerti, e che, salvandone la dignità, lo ponessero in grado di rannodare una corrispondenza stata lungo tempo amichevole e gradita.

Ho l'onore di presentare a V. E. gli atti del mio distinto ossequio.

CIBRARIO.

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XXXI.

Due lettere del cavaliere Luigi Cibrario al marchese Sauli ministro sardo in Firenze.

Illustrissimo signor Ministro,

Torino, li 30 luglio 1855.

Non posso a meno di encomiare grandemente il linguaggio da V. S. Ill ma tenuto col commendatore Fornetti, in proposito della nomina del conte Casati. Questi era ragazzo quando si combatteva la guerra dell'indipendenza, e ad ogni modo la parte che vi avrebbe potuto prendere non sarebbe stata che secondaria e dovuta all'influenza paterna. Del rimanente ella ha osservato benissimo che tanti scrupoli nel Granduca, il quale ha partecipato così direttamente al gran moto italiano, sono inconcepibili. Si vorrebbe forse risuscitare in favore dell'Austria la costituzione imperiale romana, che nei reati di Stato proscriveva anche la famiglia e la discendenza dei colpevoli! e dico colpevoli al punto di vista austriaco, che non è, come ben può immaginare, il nostro.

Che i figliuoli d'emigrati nelle Legazioni sieno sino ad un certo punto un imbarazzo pel Governo del Re, io l'accordo. Ma il Governo doveva andar guardingo nello ammetterli nella carriera diplomatica. Ora che ci sono dee proteggerli, finché servono con prudenza e fedeltà.

Gradisca, ecc.

Cibrario.

Illustrissimo signor Ministro,

Torino, li 23 agosto 1855.

Ella ha veduto con qual prontezza il Governo di S. M. ha corrisposto all'invito del Governo granducale, relativamente ai noti Petrelli e Mini. Ella sa parimenti quali prove di deferenza abbia costantemente usate il Governo di S. M. verso il Governo di Toscana e come abbia sempre adoperato attiva sorveglianza, energici provvedimenti contro le mene dei mazziniani, nemici capitali d'ogni regolare governo, e più ancora del nostro governo costituzionale.

Dopo ciò non ci saremmo aspettato che il Ministero toscano avesse creduto necessario d'interporre

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(per una questione così semplice, com'è l'internamento di due individui sospetti di trame rivoluzionarie) i buoni ufficii di Francia e d'Austria, cercando in tal modo di porci quasi in aspetto di diffidenza verso quelle due grandi potenze.

Io la incarico, signor marchese, di manifestare a codesto Ministero il giusto risentimento del Regio governo per questo poco amichevole suo procedere, e d'assicurarlo che, ogniqualvolta il Governo granducale c'indirizzerà domande che noi possiamo favorevolmente accogliere, ci faremo una premura di soddisfarlo; che se poi le domande fossero di natura tale che il Governo di S. M. non giudicasse di poterle appagare, l'interposizione d'altra Potenza non sarà mezzo adattato a far variare le nostre determinazioni.

Circa al Casati, per evitare che gli si usino mancanze di riguardo, che tornerebbero a disdoro della R. Legazione, vedrò di destinarlo altrove. V. S. Ill. ma può dunque rispondere a Baldasseroni che non credo urgente di concedergli un congedo, ma che mi riservo di provvedere fra non molto alla di lui surrogazione.

Mi creda ecc.

CIBRARIO.

XXXII.

Dépêché confidentielle de M. le chevalier Cibrario à M. le marquis Cantono à Vienne.

Monsieur le Marquis,

Turin, le 9 octobre 1855.

J'ai lu avec beaucoup d'attention votre dépêche confidentielle du 3 courant, dans laquelle vous me rendez compte d'une communication verbale, qui vous a été faite par Mr. le comte Buol, au sujet de notre différend avec la Toscane.

Le Gouvernement du Roi est heureux de se trouver d'accord avec le Gouvernement impérial dans le désir que ce dernier vous a exprimé de voir rétablis sur l'ancien pied les rapports entre la Toscane et la Sardaigne. Animé de cet esprit de conciliation, que le compte Buol veut bien lui reconnaitre,

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le Gouvernement du Roi s'est empressé d'accepter la médiation offerte par l'Angleterre, et il a lieu d'espérer que, grâce à l'intervention de cette Puissance et aux bons offices de la France, on parviendra à une solution équitable et acceptable.

Mais le Cabinet de Turin est loin de pouvoir admettre l'appréciation des faits et des droits qui en résultent telle qu'elle a été formulée par le comte Buol. Ce Ministre n'en sera pas étonné s'il veut bien réfléchir qu'en déclarant hautement que l'Autriche était intéressée dans la question, il nous a autorisé à ne pas accorder une entière confiance à son impartialité.

Il y a un autre point qui nous a frappés dans votre rapport.

C'est la conclusion du discours du Ministre impérial, qui, après avoir déclaré qu'il ne peut ni veut fixer un terme pour l'arrangement de ce différend (déclaration du reste bien superflue), il s'empresse d'ajouter que, si après un certain temps ce différend n'est pas arrangé, c'est alors que le Gouvernement impérial devrait le regarder comme une affaire personnelle et il se verrait force de prendre des déterminations en conséquence.

Si Mr. le comte Buol s'est écarté de sa prudence et de sa modération habituelles au point de vous tenir ce langage, vous auriez dû, monsieur le Marquis, relever ce qu'il y avait de blessant dans la forme et d'inadmissible dans le fond, et demander entre autres choses au comte Buol, si, malgré les traités existants et le droit public européen, la Toscane a cesse d'être un état indépendant.

Vous donnerez lecture de la présente dépêche à Mr. le comte Buol, et, dans le cas que ce Ministre persiste dans l'espèce de menace qui nous a justement étonnés, vous aurez soin de lui faire comprendre que cette menace ne sera d'aucun poids dans nos délibérations relatives à l'arrangement de nos affaires avec la Toscane.

Après vous être acquitté de cette commission, vous pourrez profiter du congé quo je vous ai accordé.

Recevez, etc.

Cibrario.

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XXXIII.

Lettre particulière de M. le chevalier Louis Cibrario aie marquis Villamarina à Paris et au marquis d'Azeglio à Londres.

Monsieur le Marquis,

Turin, le 10 octobre 1855.

Vous aurez vu par les pièces que je vous ai envoyées hier que l'Autriche montre enfin le bout de l'oreille.

Pressée par les Puissances occidentales à prendre un parti, fortement engagée à faire cesser l'odieuse mesure des séquestres, elle cherche une mauvaise querelle au Piémont à propos de la Toscane, afin d'avoir un prétexte pour se tirer d'affaire et continuer sa politique tortueuse traditionnelle. Je n'ai pas manqué de communiquer le rapport de Cantono au due de Grammont et cà sir,T. Hudson qui ont été indignés du langage du comte Buol, insultant pour la Toscane, menaçant et provocateur pour nous.

Remarquez bien, cher Marquis, que l'affaire Casati a passe par les phases suivantes:

1° Nomination de Casati à la suite de vives instances du pére qui venait de perdre un fils en Crimée et qui désirait ardemment de voir l'autre fils Antonio dans un poste plus rapproché de la famille.

2° Sauli informe de cette nomination en causa avec Casigliano aux bains de Lucques. Le due répond: Sta bene, questi non è un rifugiato.

3° Baldasseroni se montre peu satisfait de cette nomination. Il demande si Casati est un émigré; s'il a pris une part romorosa à la révolution de 4848. Sauli quelques jours après répond a Fornetti, secrétaire general des affaires étrangères, quo le chev. Casati est naturalisé sarde; qu'en 1848 il n'avait que 18 ans. Fornetti répond: Ecco quanto basta a Baldasseroni.

4° Sauli écrit officiellement à Baldasseroni pour annoncer la nomination de Casati. Baldasseroni répond en remerciant.

5° Casati porte des cartes a Baldasseroni et k Hùgel. Ces visites sont rendues dans les 24 heures.

6° Sauli présente Casati à Baldasseroni qui le reçoit très bien.

7° Après avoir reçu les ordres de Vienne, Baldasseroni se rend chez Sauli, déclare qu'il s'est compromis par un excès de condescendance;

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dit que le Grand Due, en sa qualité d'archiduc d'Autriche, ne peut pas recevoir Casati, l'engagé à faire donner un congé à cet attaché et à lui procurer plus tard une autre destination.

Sauli combat cette proposition, mais il rend compte au ministre à Turin de cette conversation. Le ministre répond que, ne voulant pas exposer un membre de la Légation de Sardaigne à des avanies, il donnera fra non molto une autre destination à Casati et charge Sauli d'en informer confidentiellement Baldasseroni.

8° Avant que la réponse de Cibrario soit parvenue à Sauli, ce dernier reçoit de Baldasseroni une communication officielle avec instance de donner d'abord un congé, ensuite une autre destination à Casati, en déclarant, dans le cas contraire, que le Grand Due ne l'admettrait point dans les réceptions de cour.

Cette instance était, n'en déplaise au comte Buol, une véritable sommation, polie dans la forme, impérative dans le fond. On ne voulait pas tolérer, pas même pour quelques jours, la présence d'un attaché qu'on avait reçu officiellement peu de temps avant. Cette note ne pouvait pas être acceptée. Sauli l'a renvoyée avec une note verbale qui accusait Baldasseroni d'avoir été inexact dans l'exposé des faits. Il aurait peut être mieux fait d'engager verbalement Baldasseroni à reprendre sa note. Mais il a offert le lendemain à Fornetti de reprendre, lui Sauli, sa propre note, si Baldasseroni retirait la sienne.

Baldasseroni a refusé, quoique Fornetti eût trouvé le parti acceptable.

Voilà la série des faits qui ont amené la rupture. Ajoutez que Baldasseroni, en m'écrivant à moi, ne demandait plus le simple rappel de Casati, mais il me faisait comprendre en même tems que le marquis Sauli ne pouvait plus rester à Florence.

Les détails de cette malheureuse affaire ont été tellement défigurés dans les correspondances de plusieurs journaux, que j'ai cru nécessaire de vous faire connaitre à fond le véritable état de choses, afin que vous soyez à même de faire apprécier la conduite toujours loyale, digne et mesurée du Gouvernement du Roi, en écartant les préventions que les insinuations des agents de l'Autrice pourraient avoir suscitées. Je compte sur votre zèle éclairé et sur votre adresse et perspicacité ù éventer les intrigues.

Agréez, etc.

Cibrario.

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XXXIV

Lettre de M. le chevalier Cibrario au marquis d'Azeglio à Londres.

Monsieur le Marquis,

Turin, le 14 octobre 1855.

Sir James Hudson a dû informer lord Clarendon du rôle que joue dans la médiation sardo-toscane lord Normanby. Le fait est que le noble lord se pose en avocat de la Toscane et de l'Autriche, plutôt qu'en juge impartial. Mais si S. S. compte que notre condescendance ira jusqu'au point de compromettre la dignité du Gouvernement du Roi, elle se trompe bien certainement. L'esprit de modération qui a toujours préside aux délibérations du Gouvernement sarde ne s'est pas dementi un seul instant. Dans ma lettre à Baldasseroni j'ai laissé ouverte la voie à des propositions d'accommodement. J'ai déclaré que le Gouvernement désirait pouvoir bientôt renouer les anciens rapports diplomatiques avec la Toscane. Plus tard, malgré les renseignements très inexacts publiés par les journaux et surtout par les organes de l'Autriche sur l'origine du différend, nous nous sommes abstenus d'insérer même une simple rectification dans le journal officiel, et ce pour ne pas rendre plus difficile la tâche des médiateurs. Nous avons accepté avec empressement la médiation offerte par l'Angleterre. Mais nous étions persuadés que lord Normanby envisagerait la question sous son véritable point de vue, et qu'il n'avait pas de parti arrêté d'avance. Maintenant de tout ce qui nous revient nous devons conclure que ce ministre n'a de sympathies que pour la Toscane et, quant à nous, les alliés de l'Angleterre, il craint de nous traiter en enfant gâtés, et se dispense de nous montrer le moindre égard. De notre coté, nous ne sommes nullement disposés de céder aux exigences de l'Autriche et de la Toscane, quand même elles seraient patronnées par lord Normanby.

Une phrase que vous m'avez rapporté de lord Clarendon m'a beaucoup étonné. Ce ministre aurait dit que la nomination de Casati pouvait être considérée comme une espèce de provocation. Tout le monde sait ici que cette nomination a été faite par un égard de pure commisération pour Casati père qui avait perdu son autre fils en Crimée. La Toscane ne l'a pas considérée comme une provocation, puisqu'elle a adhéré à cette nomination.

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L'acceptation de Casati par la Toscane est un fait que le comte Buol lui même ne conteste pas (V. la dépêche de Cantono) et d'ailleurs-je comprendrais que l'envoi du fils d'un émigré pût être considéré comme une offense si on l'avait accrédité auprès de l'empereur d'Autriche. Mais est ce que tous ses cousins et petits cousins, souverains d'États indépendants, (d'après les traités et sur la carte) sont solidaires, doivent être solidaires de toutes les petites rancunes autrichiennes? Voilà ce que je ne crois pas établi.

Veuillez vous prévaloir, monsieur le Marquis, avec votre zèle et votre sagacité bien connues, de ces observations auprès de lord Palmerston et de lord Clarendon, et me tenir au courant de leurs dispositions à notre égard.

Agréez, etc.

Cibrario.

PS. Ce que je vous ai écrit sur lord N. est pour votre information seulement. Du reste vous jugerez avec moi qu'il ne convient peut-être pas de formuler des plaintes qui pourraient blesser la fierté britannique. Mais dans le cours de la conversation vous pourrez vous prévaloir des renseignements que je vous transmets.


vai su


XXXV.

Dépêche de M. le chevalier Cibrario au M. le marquis Villamarina à Paris et à M. le marquis d'Azeglio à Londres.

Monsieur le Marquis,

Turin, le 15 octobre 1855.

Le Gouvernement du roi, après avoir accepté la médiation de l'Angleterre, avait indiqué, à la demande de sir James Hudson, un projet d'arrangement. Nous avions propose: 1° Le retrait simultané des notes de Baldasseroni et de Sauli qui ont occasionné la rupture des rapports diplomatiques; 2° le retour de Sauli à Florence avec tout le personnel de la Légation, y compris Casati, et destination contemporaine d'un ministre ou chargé d'affaires de Toscane à Turin;

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3° Le rappel de Casati après une quinzaine de jours. Cette proposition était basée sur les considérations suivantes.

Casati avait été accepté officiellement par la Toscane. Quelques jours après l'avoir agréé, le comm. Baldasseroni a demandé verbalement au marquis Sauli qu'on voulut bien donner a cet attaché d'abord un congé, ensuite une destination. Cette instance verbale du ministre toscan me fut communiquée par Sauli.

Le Gouvernement du roi n'a jamais eu l'intention de contester le droit qu'a un État indépendant de refuser un agent diplomatique ou consulaire, lorsqu'il y a des motifs légitimes pour ne pas l'admettre. Mais il aurait dit contester qu'on ait le droit de demander le rappel d'un agent quelques jours après l'avoir accepté, et sans qu'un fait nouveau ait surgi, qui explique et justifie une démarche si extraordinaire.

Néanmoins, avant égard aux conditions spéciales de la Toscane, le Gouvernement du roi a consenti à donner à Casati une destination sous peu de temps (fra non molto), mais il a refusé de lui donner un congé, parce qu'il ne pouvait tolérer que cet attaché fût, pour ainsi dire, chassé de la Toscane du jour au lendemain, après avoir été agréé, et qu'il eut à subir un traitement si indigne sans qu'il y eût de sa faute.

Baldasseroni n'attendit pas ma réponse à ses demandes verbales, mais il renouvela ses instances d'un ton impératif et par écrit dans la note qui lui fut renvoyée par Sauli, accompagnée d'une note verbale dont le Cabinet toscan s'est plaint.

Retirons les deux notes, et replaçons le choses in statu quo.

Xous avons Sauli et Casati à Florence; demande verbale de Baldasseroni pour qu'on donne un congé et ensuite une autre destination à Casati. Réponse du Cabinet de Turin, que Casati n'aura pas de congé, mais qu'il recevra bientôt une autre destination.

Supposons que Baldasseroni n'eut pas écrit la note, le Gouvernement toscan aurait appris qu'on se disposait à donner une autre destination a Casati et il aurait été satisfait. C'est ce que nous allons faire maintenant. Nous renvoyons Casati pour quelques jours, pour qu'on ne puisse pas dire qu'il a été chassé après avoir été accepté et sans qu'il eût donne lieu à aucune plainte pendant qu'il est reste à Florence; parce que, si nous ne le renvoyons pas, ce sera le Piémont qui aura l'air de faire amende honorable à la Toscane, et la (lignite du Gouvernement du roi serait compromise.

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Car l'envoi d'une légation toscane à Turin n'étant qu'une réciprocité qui nous était due depuis longtemps, ne peut ni ne doit entrer en ligne de compte.

Notre proposition paraissait bien simple. Replacer les choses dans l'état où elles étaient au moment de la rupture. Retirer des deux cotés les notes qui ont occasionné la rupture. Donner une autre destination à Casati quinze jours après son retour a Florence.

Monsieur J. Hudson n'a pas hésité à communiquer cette proposition à Florence à son collègue et co-médiateur lord Normanby, auquel il a même envoyé un secrétaire de Légation, M. Erskine, chargé de compléter les explications de vive voix.

Hier M. Hudson est venu me dire que notre proposition avait été repoussée purement et simplement.

Le Gouvernement du roi ne regrette pas de l'avoir faite; il a donne une preuve de plus de l'esprit de conciliation qui l'anime. Mais il est décide de son coté à repousser tout projet qui compromettrait son honneur, de quelque coté qu'il lui parvienne, quelque soit l'appui dont on cherche à l'étayer.

Le Cabinet de Turin, si attentif à ne pas manquer aux égards qu'on doit aux autres États, ne permettra pas que la Toscane, soutenue par l'Autriche, retrouve dans sa propre faiblesse non seulement la raison, mais la légitimation de ses procédés envers nous. Nous n'oublierons jamais ce que nous devons à la dignité du Roi et de la nation.

Je vous prie de donner lecture de cette dépêche à M. le comte Walewski (à lord Clarendon), et s'il le désire vous lui en laisserez copie.

Agréez, etc.

Cibrario.

XXXVI.

Dépêche de M. le chevalier Cibrario à M. le marquis Villamarina, ministre sarde à Paris.

Monsieur le Marquis,

Turin, le 23 octobre 1855.

D'après le rapport du marquis Cantono, tel qu'il nous est parvenu, le Gouvernement du roi ne pouvait envisager les paroles du comte Buol que comme une véritable menace, d'autant plus grave,

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que, restant dans le vogue et ne spécifiant rien, elle prenait le caractère d'une tentative d'intimidation. Justement indigné d'un procède si malveillant et si peu mérité, le Gouvernement du roi a répondu, de la manière qu'il répondra toujours aux menaces et aux provocations.

Cantono, dont le rapport incomplet, si non inexact, avait excité le ressentiment du Gouvernement du roi, reconnaissant qu'il s'était mal expliqué, ou qu'il ne s'était pas suffisamment expliqué, avait le droit et le devoir de suspendre la communication de la dépêche dont je lui avais prescrit de donner lecture au comte Buol; c'est ce qu'il a compris et, en s'aidant des conseils des représentants de France et d'Angleterre, il m'a demande de nouvelles instructions, en complétant son rapport et m'exposant des faits nouveaux qui donnent aux paroles prononcées par le comte Buol une toute autre portée, quoique une idée de menace éventuelle perce toujours dans le langage du ministre impérial, à cause d'une prétendue solidarité qui ne saurait exister, tant que la Toscane sera un État indépendant.

Maintenant que notre honneur n'est plus en jeu, nous nom empressons d'accéder au désir du Gouvernement français en autorisant le marquis Cantono a ne pas tenir compte de la première dépêche et en lui prescrivant par de nouvelles instructions, dont copie est ci-jointe, le langage qu'il doit tenir au comte Buol en réponse à la communication verbale du 9 du courant.

Veuillez assurer le comte Walewski que le Roi et son Gouvernement connaissent et apprécient hautement les sentiments si bienveillants et si amicaux, et les excellentes disposition de S. M. I. et de son Gouvernement à l'égard de la Sardaigne, qu'animés constamment d'un esprit de prudence, de modération et de conciliation, nous évitons soigneusement de susciter à nos alliés des embarras, et d'entraver les ménagements qu'ils croient devoir observer envers telle ou telle autre Puissance; mais que nous ne sommes pas les maitres de prévenir les effets du mauvais vouloir de nos adversaires, qui, en faisant surgir des incidents regrettables, nous placent quelquefois dans la nécessité de recourir à des mesures énergiques pour ne pas compromettre notre honneur.

Le projet d'accommodement entre la Sardaigne et la Toscane, propose par M. de Florian, et que le comte Walewski a bien voulu vous communiquer, en reconnaissant le droit que nous avons d'insister pour l'admission temporaire de Casati,

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nous parait bien plus près de l'équité que les autres dont nous avons entendu parler vaguement jusqu'ici. Veuillez en remercier le comte Walewski et lui faire comprendre que, la Toscane avant rejeté le projet raccommodement que nous avions propose et qui avait été transmis à Florence par sir J. Hudson, c'est à la Toscane maintenant à envoyer un projet pour lequel elle pourrait très bien se servir de l'intermédiaire de M. de Florian et du due de Grammont dont nous avons aussi désiré les bons offices.

Je vous autorise à donner communication de la présente dépêche au comte Walewski ainsi que de celle adressée au marquis Cantono.

Agréez, etc.

Cibrario.

XXXVII.

Lettre de M. le comte Camille Benso de Cavour a S. E. M. le comte Walewsky.

Monsieur le Comte,

Turin, le 21 janvier 1856.

S. M. l'empereur, dans sa haute et bienveillante sollicitude pour l'Italie, a bien voulu m'inviter, la dernière fois que j'ai eu l'honneur de le voir, à lui exposer d'une façon tout-à-fait confidentielle mon opinion sur ce qu'il pourrait faire dans l'intérêt de ce pays.

Pour répondre à cette preuve si honorable de confiance, j'ai essayé de tracer un tableau fidèle de l'état actuel de l'Italie en indiquant les moyens d'améliorer son triste sort dans toutes les éventualités que la grande question qui se débat entre l'Orient et l'Occident pouvait présenter. Ce travail trop long, je le sens, et non encore achevé, avant été entrepris avant que la dernière démarche tentée par l'Autriche eût amené un résultat décisif, les conséquences auxquelles il doit aboutir se ressentent de l'incertitude qui régnait dans les régions politiques. Il ne pouvait en être autrement, car si les sentiments généreux de l'empereur pour l'Italie ne sauraient varier, son action en sa faveur doit se modifier, selon les rapports existants entre la France et les autres grandes Puissances européennes, l'Autriche en particulier.

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Au moment où mon travail allait être achevé, la nouvelle apportée par le télégraphe do l'acceptation par la Russie des propositions agréées par les Puissances occidentales et de la prochaine ouverture des conférences pour conclure la paix sur les bases posées par ces propositions, a fait cesser toute incertitude enfixant d'une manière nette et précise le point de vue d'après lequel il faut envisager la question italienne. D'après cela il me faudrait modifier ou refondre mon long travail et arriver à des conclusions plus pratiques. Je n'hésiterais pas à le faire s'il s'agissait d'une pièce officielle; mais comme cet mémoire tout confidentiel a été demandé à l'homme plutôt qu'au ministre, je préfère le laisser subsister tel qu'il était, parce que, embrassant les différentes phases que la politique peut parcourir, il me parait devoir donner une idée plus complète et plus exacte de l'état de l'Italie et de la direction permanente qu'il convient à la France d'imprimer à la politique dans l'intérêt commun des deux pays.

Toutefois, comme, en politique, il faut surtout éviter le vague et préciser autant que possible la marche à suivre dans un moment donne, j'ose espérer que l'empereur ne me saura pas mauvais gré, si je lui soumets d'avance, par l'entremise de V. E., un résumé précis et succint de ce qui me parait que S. M. puisse faire en faveur de l'Italie, une fois les préliminaires signés, les conférences ouvertes.

C'est ce que je me permets de faire en adressant cette lettre à V. E. et en la priant de la mettre sous les veux de son auguste souverain. Je me réserve de lui faire parvenir plus tard le mémoire complet.

L'Autriche avant eu une si grande part dans les derniers événements; devant erre considérée, par une fiction diplomatique, comme avant rendu un service signalé à l'Europe, il faut bien partir de la base qu'on ne lui demandera, pour le moment du moins, aucun sacrifice territorial en Italie. C'est sur cette base, triste pour nous, mais que, en homme pratique, il faut bien accepter, que je m'en vais indiquer les bienfaits que ce pays peut attendre de l'action forte et bienveillante de l'Empereur.

En premier lieu, en renonçant a réclamer de l'Autriche une modification du Traité de Vienne conforme aux véritables intérêts de l'Europe, la haute influence acquise sur elle par l'Empereur nous parait pouvoir obtenir qu'elle rende justice au Piémont, et qu'elle adopte envers ses sujets italiens un régime moins oppresseur et plus tolérable.

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Après les gages que la Sardaigne a donnés à la cause de l'ordre en envoyant ses soldats combattre en Crimée, l'Autriche n'a plus même l'ombre d'un prétexte pour violer à son égard les principes de l'équité, et les engagements formels qui ont reçus une nouvelle sanction dans le traité conclu entre ces deux Puissances en 1851, en maintenant les séquestres sur les biens des citoyens devenus sardes après avoir été déliés des liens qui les attachaient à leur ancienne patrie. Elle n'a plus de prétexte pour se refuser à l'union des chemins de fer de deux pays stipulée par une convention formelle et pour entraver par toute sorte de mesures de police le relations commerciales et personnelles des sardes et des lombards.

La cessation du régime militaire qui opprime depuis 8 ans les populations du royaume lombard-vénitien, serait un bienfait réel pour elles, sans exposer l'Autriche, pour le moment du moins, à aucun danger véritable. Des concessions, faites au moment où cette Puissance signe une paix avantageuse, ne sauraient être interprétées comme un acte de faiblesse. Si elles ne rattachent pas les italiens au Gouvernement de Vienne, elles auront pour effet de diminuer l'irritation des esprits, et de rendre moins précaire l'état de choses en Lombardie pendant la période de paix ou de trève que nous allons traverser.

Ce que l'empereur peut obtenir de l'Autriche par des conseils amicaux, il peut l'imposer au roi de Naples. Il peut, maintenant que les préoccupations de la guerre ne rendent plus dangereuse toute action diplomatique vigoureuse, exiger de ce prince qu'il cesse de rendre odieux le principe monarchique par une conduite aussi absurde que violente. En le forçant à ouvrir les cachots où gémissent depuis si longtemps tant d'illustres et innocentes victimes; en le contreignant à ne plus livrer l'administration du pays à des agents de police aussi méchants que corrompus, la France lui rendra un véritable service, dont l'Autriche elle-même ne saurait se plaindre ou s'inquiéter.

Ce 'serait se faire une étrange illusion que d'espérer que le beau royaume de Naples puisse jamais sous le sceptre des Bourbons jouir des bienfaits d'un bon Gouvernement; mais du moins l'empereur peut lui procurer un adoucissement à ses maux, en forçant le roi Ferdinand à respecter un peu plus les lois de la justice et de l'humanité.

L'état des choses dans les provinces que l'Autriche possédé en Italie, aussi bien que celui du royaume de Naples étant conforme

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aux stipulations du Traité do Vienne, auxquelles pour Io moment les Puissances occidentales, l'Angleterre du moins, ne veulent pas toucher, on est force de convenir quo l'action de la France à leur égard est restreinte à d'étroites et infranchissables limites. Il n'en est pas ainsi par rapport à une portion importante de l'Italie, je veux parler des États du pape et spécialement des provinces comprises entre les Apennins, l'Adriatique et le Pò.

Ces provinces, de nom, sont encore sous la domination du souverain pontife; de fait elles appartiennent à l'Autriche, et cela contrairement à la lettre et à l'esprit du Traité de Vienne, qui a assigné la rive gauche du Po comme dernière limite aux agrandissements territoriaux qu'il lui a accordés.

La domination autrichienne dans les légations et la Romagne, transitoire d'abord, est devenue permanente; aucun indice ne fait présumer que, si l'Europe ne prend à cet égard un parti décisif, elle doive cesser dans un avenir plus ou moins rapproché.

Cela étant, si un Congrès se réunissait sans qu'il en fût question, ce serait sanctionner presque officiellement un état de choses aussi fâcheux pour l'Italie que dangereux pour les Puissances occidentales.

Je considère donc comme d'un intérêt suprême pour la France et pour l'Angleterre, comme une tâche glorieuse digne des souverains à qui l'Europe doit l'abaissement de la Russie, de faire cesser l'occupation par l'Autriche des plus belles provinces de l'Italie centrale.

On ne contestera guère cette proposition, mais ou me demandera comment la mettre en exécution? Je suis trop franc pour oser conseiller à l'Empereur de forcer l'Autriche à retirer ses troupes des Légations et de la Romagne, si la condition administrative et politique de ces contrées doit rester telle qu'elle est. Il est évident que le Gouvernement sacerdotal subsistant, la retraite des autrichiens serait le signal des plus graves désordres, de la plus complète anarchie.

Or ni la France, ni nous ne voulons ni désordre, ni anarchie nulle part, et moins en Italie que partout ailleurs.

L'occupation militaire des Légations et de la Romagne est une conséquence forcée du régime auquel ces provinces sont soumises; si on veut la faire cesser, il faut nécessairement le réformer radicalement.

Pour peu qu'on réfléchisse a l'état des esprits en Europe, cette vérité n'a rien do surprenant.

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Ce que les peuples moderne supportent le moins, ce qu'il a détestent le plus, c'est l'immixtion des prêtres dans la politique et dans l'administration. Ce sentiment est aussi fort en France qu'en Italie. La sort de Charles X l'a bien prouvé. Partout ori préfère le régime du sabre à celui de la soutane. Et l'on a bien raison, car le régime sacerdotal, vu de près, présente toute espèce d'inconvénients sans aucun avantage. Il n'y a pas d'illusion à se faire: abandonner le Gouvernement papal à ses propres forces dans des régions toutes imprégnées des idées que la France y a semées, c'est le condamner à une destruction immédiate et certaine. L'Autriche peut bien avec ses troupes les gouverner au nom du pape: mais je la défie, dût-elle les occuper pendant un siècle, de parvenir à façonner les esprits au point de leur rendre le régime sacerdotal acceptable.

Cette vérité établie, et l'Autriche elle même ne saurait sérieusement la contredire., on est force de reconnaitre la nécessité de réformer l'état des choses dans les Légations et la Romagne. Le seul remède efficace, durable, consisterait à les placer sous le régime d'un prince temporel. Et comme on ne saurait vouloir augmenter le fractionnement de l'Italie, il faudrait les donner soit au due de Modène, soit au grand due de Toscane. Cette combination nullement anti-autrichienne donnerait lieu à un remaniement territorial, dans lequel le Piémont pourrait trouver une juste compensation aux sacrifices qu'il a faits.

Sans être bien enthousiaste des gouvernements de Toscane et de Modène, de ce dernier surtout, je dois avouer qu'ils sont sous tous les rapports préférables au Gouvernement papal.

A Florence, à Modène on est plus on moins bien gouvernés, h Bologne et Ancóne ou ne l'est pas du tout. Dans ces malheureuses contrées on subit tous les maux de la domination étrangère, du despotisme et de l'arbitraire, en même temps que de l'anarchie populaire. La substitution d'un prince temporel, même de la famille d' Autriche, au Gouvernement papal n'équivaudra pas certainement pour ces pays à une émancipation complète, mais ce sera toutefois pour eux et pour l'Italie un immense bienfait qui fera bénir le nom de l'empereur de ce côté-ci des Alpes.

Si cette combination, qui me paraît acceptable, même au point de vue autrichien, rencontrait des difficultés insurmontables, il faudrait chercher une solution qui permette d'atteindre au moins provisoirement le but que la France doit se proposer, le retrait des troupes autrichiennes sur la rive gauche du Pò.

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Cotte solution consisterai dans la sécularisation absolue du Gouvernement des Légations et de la Romagne, sous la domination suprême du souverain pontife. Pour cela il faudrait organiser un grand centre administratif à Bologne, à Ravenne, ou quel qu'autre ville du littoral adriatique, et donner à ces provinces une organisation analogue à celle qu'on entend établir dans les Principautés danubiennes. Les provinces continueraient à faire partie des États romains, elles demeureraient soumises à la haute domination du StSiège; elles concourraient financièrement dans de certaines limites au maintien de la Cour de Rome, mais elles seraient administrativement indépendantes. Par cet arrangement, si l'on n'aura pas pourvu d'une manière définitive à l'avenir, du moins on aura assuré tant bien que mal le présent.

En me résumant, je conclus, que, dans les circonstances actuelles, tout en admettant la nécessité de ménager l'Autriche, l'empereur peut rendre d'immenses services à l'Italie pour laquelle il a déjà tant fait,

1° En amenant l'Autriche à rendre justice au Piémont et à tenir les engagements qu'elle a contractés avec lui;

2° En obtenant d'elle un adoucissement au régime de fer qui pèse sur la Lombardie et la Vénétie;

3° En forçant le roi de Naples à ne plus scandaliser l'Europe civilisée par une conduite contraire à tous les principes de la justice et de l'équité;

4° Enfin, en rétablissant l'équilibre en Italie tel qu'il a été établi par le Traité de Vienne, en rendant possible le retrait des troupes autrichiennes des Légations et de la Romagne, soit en plaçant ces provinces sous un prince séculier, soit en leur procurant les bienfaits d'une administration laïque et indépendante.

En renouvelant la prière de le mettre sous les veux de l'empereur, j'oserai demander encore à V. E. de vouloir bien solliciter son indulgence pour un travail rédigé à la bâte sous l'impression des nouvelles que le télégraphe nous a apportées de St-Pétersbourg, et assurer S. M. que, quelque soit le jugement que portera son esprit éminent sur les opinions que j'ai pris la liberté de lui soumettre, je conserverai toujours une profonde et inaltérable reconnaissance pour une preuve de confiance si honorable pour moi, et qui témoigne du généreux intérêt qu'elle accorde à notre pauvre Italie.

J'ai l'honneur d'être, etc.

C. Cavour.

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XXXVIII.

Mémoire de M. le comte de Cavour sur les moyens propres à préparer la reconstitution de l Italie.

I.

Que peut-on faire pour l'Italie?

Telle est la question que nous adresse S. M. l'empereur, avec autant de netteté, que de bienveillance. Y répondre d'une manière absolue ne serait peut-être pas difficile: mais ce serait superflu.

De simples théories, quelques fondées qu'elles puissent être en principe ne peuvent fixer l'attention des hommes d'État qu'autant qu'elles sont susceptibles d'une application pratique.

En conséquence la réponse ne saurait être que relative; prenant pour base les faits existants.

Tels qu'ils se présentent aujourd'hui dans le champ politique, offrent-ils des gages suffisants de sécurité dans l'avenir pour qu'il soit possible d'en déduire une ligne de conduite déterminée?

Il est permis d'en douter.

Il est clone opportun de traiter la question au doublé point de vue.

Da Cas d'entente de l'Occident avec l'Autriche, ou de la neutralité de cette Puissance; et du cas de rupture.

Avant d'entrer dans l'examen des deux éventualités il ne sera pas hors de propos d'établir quelques points préliminaires qu'en rattachant la question italienne à la question générale des intérêts de l'Occident, amènent naturellement la solution qu'on cherche.

Depuis la première révolution deux principes divisent l'Europe. S'il y a eu trêve entre eux, jamais il n'y a eu paix sincère; comme jamais elle ne sera possible tant que les intérêts nouveaux crées par ces principes n'auront trouvé leur assiette naturelle.

De ce conflit sont nées toutes les coalitions qui depuis Pitt et Cobourg jusqu'à la guerre actuelle, ont amené soit les triomphes, soit les désastres de la France, qui furent en même temps les triomphes et les désastres de l'Occident, l'Angleterre comprise.

Car, l'Angleterre en soutenant l'Orient, au lieu de s'entendre avec Napoléon I, tout eu élevant pour quelques années sa puissance, n'en savait pas moins sa véritable base, et se préparait de graves difficultés pour l'avenir.

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Sou alliance actuelle avec Napoléon III, prouve le progrès de l'esprit public chez les deux peuples, aiusi que la haute clairvoyance de leurs souverains. Elle constitue en même temps la meilleure des garanties pour l'avenir de l'Europe.

Depuis 1793 - ou ne doit pas s'y tromper - la coalition est en permanence contre le principe et coutre l'intérêt de la Fraace, qui est la représentation la plus importante du principe et de l'intérêt de l'Occident.

Réduite à une action purement diplomatique après les grandes guerres de l'empire, la coalition s'abstint sous la restauration: elle reparut pendant le règne de Louis Philippe, - en 1840 surtout - et un moment troublée par les évènements de 18484!), qui amenèrent l'émeute aux portes de ses chancelleries, elle profila de son triomphe, ainsi que des rudes leçons qu'elle venait de recevoir pour resserrer le nœuds qui l'unissent, et pour se reconstituer de manière à pouvoir braver désormais et attaquer au besoin son ancien ennemi.

La France de sou coté, a dû sentir - et ce qui se passe sous nous veux suffirait à le prouver - que la coalition sous telle forme qu'elle se présentât est irréconciliable.

Il faut dès lors, ou la combattre, ou la dissoudre, ou lui opposer un contrepoids qui la rende impuissante.

Les forces dont peut disposer la France, l'Angleterre et la Sardaigne au moment actuel, sont-elles suffisantes pour la combattre sur les champs de bataille? Si on les croit suffisantes, ce serait peut être le cas d'examiner s'il ne serait pas préférable d'aller au devant d'un changer inévitable par une grande et énergique initiative, plutôt que de l'attendre et de risquer de devoir l'affronter plus tard, lorsque par l'effet d'une longue guerre les finances et les forces de l'Occident se trouveraient épuisées.

Si par contre on ne se croit pas en mesure de pouvoir adopter ce moyen extrême, il s'en présente un autre celui de parvenir la dissoudre.

Est-il probable qu'on y parvienne en détachant d'elle l'Autriche, qui en est le membre le plus important? Les efforts de toute la diplomatie de la France et de l'Angleterre y ont échoué jusqu'à ce jour, et il n'est guère probable qu'ils parviennent à décider le Cabinet de Vienne à réunir sérieusement ses forces aux armées des alliés.

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Et cela par la meilleure des raisons, parce que son intérêt le plus vital s'y oppose.

Arrêtons nous un instant à examiner ce point qu'il est le véritable gardien de la situation actuelle: Quelle est la raison d'être de l'empire autrichien? Pourquoi l'Autriche existe-t-elle? Par la force de cohésion que donne le sentiment national? - Non.

Par le prestige traditionnel du titre impérial, si puissant depuis Charlemagne jusqu'à Joseph II? - Non.

Par l'attachement de tout un peuple à une dynastie qui se soit montrée constamment digne et bienfaisante? - Non.

L'Autriche assise sur trois races différentes de mœurs, d'origine et de langue, races séparées d'intérêts comme de tendances, hostiles les unes aux autres, ne peut maintenir son unité, ni former un tout compact, elle n'existe en un mot, qu'en vertu d'un pouvoir centrai, unique et indiscutable, qui tienne réunies dans sa puissante étreinte les différentes fractions de son empire, qui naturellement seraient portées à se disjoindre. C'est dire que pour elle l'ennemi le plus à craindre, le dissolvant le plus dangereux, c'est le principe et l'intérêt de l'Occident.

Le principe de l'Orient par contre, le principe russe, est sa vie, son existence, son seul espoir de conservation.

La politique suivie par le Cabinet de Vienne, depuis la première révolution prouve combien ses hommes d'État furent toujours pénétrés de cette vérité. Leur conduite et leurs actes - il faut en convenir - se trouvèrent constamment ce qu'ils devaient être d'après cette conviction qui est devenue le symbole politique de la chancellerie imperiale.

Le Gouvernement de l'Autriche, entre tous les Gouvernements de l'Europe, est celui qui a fait preuve de plus de fermeté et de plus de conséquence dans sa ligne de conduite.

Guide par cet instinct de conservation qui ne trompe jamais autant que par les lumières de ses hommes d'État, il a toujours et en toute occasion subordonné toute autre considération au maintien du principe qui fait sa force. Il s'en est constitué le premier défenseur chez lui, chez les voisins, partout où il a pu, soit par ses armes, soit par sa diplomatie, sans jamais reculer même devant les plus grands sacrifices.

Les Gouvernements après assis le même principe ont toujours pu compter sur lui, sans jamais avoir a éprouver de sa part ni hésitation, ni tiédeur.

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Cette conduite conséquente et ferme, que l'Italie doit déplorer plus que tout autre, a eu son prix mérité. Elle a valu à l'Autriche sa puissance intérieure, son immense influence auprès tous les Gouvernements qui partagent sa politique et qui suivent le même principe qu'elle: elle lui a valu le bonheur inouï de se trouver au moment actuel le seul Gouvernement, qui, après avoir assisté les bras croisés à deux ans d'une lutte colossale, puisse se vanter d'avoir gagné au lieu d'avoir perdu, et de tenir dans sa main la balance dans laquelle attendent leur destinée les nations les plus puissantes, comme les grands principes, dont le long antagonisme a agite le monde, depuis bientôt un siècle.

Arrivés à cette conclusion, comment imaginer que le Cabinet impérial voulût tout-à-coup s'écarter d'une voie qui l'a conduit à des résultats, si non brillants, du moins des plus positifs? - renier les traditions de son passe? Abandonner les amis qui Font soutenu dans les moments de détresse parce que ils étaient sûrs à leur tour de ne jamais en être délaissés au jour du péril? Comment imaginer, en un mot, que ce Cabinet si circonspect puisse jamais tourner ses armes contre le seul véritable point d'appui qui lui reste en Europe? Contre la.

Russie, à laquelle le tient la vieille complicité du démembrement de la Pologne, la communauté des principes, et mieux que cela, l'impossibilité absolue d'exister à dater du jour où il s'en serait écarté? A dater du jour où la Russie se trouverait, - ne disons pas détruite - seulement pas trop amoindrie? L'Autriche comprend parfaitement que, tels avantages et telles espérances qu'elle puisse trouver dans sa participation avec l'Occident a une guerre contre la Russie, rien ne saurait balancer le danger immense qui la menacerait à l'affaiblissement de son principe vital, comme de son plus Mèle appui.

Malgré des différences dans la forme, les Gouvernements de l'Occident sont tous, quant au fond, établis sur le même principe.

Un même esprit, un même soufflé les anime.

Et pour l'Autriche, le soufflé de l'Occident c'est la mort.

Aussi qu'a-t-elle fait jusqu'ici en définitive? Elle a couvert - ou devrait dire, défendu - la frontière sud-ovest de la Russie, aidée en cela par la Prusse, dont le Gouvernement est anime du même principe. Elle a ménage a la Russie la possibilité d'une grande concentration de ses forces sur les bords de la Mer noire. Elle a retenu en gage les Principautés.

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Et lorsque la diplomatie de l'Occident se réclame du traité du 2 décembre, elle va peut être rappeler son ambassadeur de St-Pétersbourg, se réservant avant de passer outre, d'en référer à la Diète! D'après ces considérations, auxquelles la clairvoyance de l'empereur nous dispense de donner tout le développement dont elles seraient susceptibles, il semblerait superflu de compter désormais sur la possibilité de jamais détacher l'Autriche de la coalition.

Et si contre tous les calculs elle s'en détachait sincèrement - car aujourd'hui il ne faut jamais oblier de faire la part de l'impossible - nous le disons hardiment, elle aurait commis une grande faute.

Mais le Cabinet impérial ne nous a guère accoutumés jusqu'ici à lui en voir commettre de pareilles.

Les deux premiers moyens se trouvent par là écartés. Il en reste un dernier, celui d'opposer coalition à coalition, en organissant à l'occident de l'Europe une alliance assez puissante pour braver les forces de l'Orient.

Le remaniement important de la politique plus encore que de la carte de l'Europe se trouve heureusement inauguré par l'alliance de la France et de l'Angleterre, comme par l'accession de la Sardaigne.

Le traité récent avec la Suède, les pourparlers avec l'Espagne sont la preuve qu'un même instinct de conservation, ainsi qu'une sage prévoyance, avertit successivement les Gouvernements de l'Occident que, sous la question politique, origine de la lutte actuelle, couve une grande question de principes, et que sous peine d'être ou asservis par l'esprit russe, un entraiués par l'opinion publique, le moment est venu d'aviser sérieusement aux moyens de conjurer ce doublé danger.

On ne saurait voir de salut pour l'Europe, comme pour la Sardaigne et l'Italie, hors d'une complète actuation de ce vaste système d'alliances qui, dans sa puissante solidarité, pourrait défier également la coalition, comme le socialisme. Et voici où trouve naturellement sa place la question de l'Italie et du Piémont.

L'Europe étant, comme il a été dit plus haut, partagée en deux camps, il doit s'en suivre naturellement que ses forces soient partagées, et que l'avantage reste au principe dominant.

Aussi avons nous vu la coalition au traité de Vienne, - qui ne fut que l'organisation d'un grand système d'hostilité contre la France, - disposer des États de l'Europe de manière à avoir pour soi la force numérique ainsi que la force des positions.

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Il été conséquent d'après ce pian que l'Italie et le Piémont occupassent dans ce Système la place qui convenait a la coalition.

L'Autriche, richement partagée en Italie, dut avoir aussi la haute main sur ses États indépendants. La frontière du Piémont, ouverte du côte de la Lombardie, dut se hérisser de forteresses vers la France.

On poussa les précautions jusqu'à vouloir empêcher la Sardaigne d'ouvrir une route de Gênes a Nice par la Corniche.

Tout cela était déplorable au point de vue de l'Italie, non moins qu'à celui des véritables intérêts de l'Europe; mais tout cela était parfaitement logique.

Ou voulait se défendre contre la Franco et se mettre en mesure de lui faire la loi le cas échéant; on prenait le chemin le plus directe et le plus sur.

Mais du jour où les rôles sont changés du jour où non seulement la France, mais tout l'Occident de l'Europe, menacé par la coalition plus encore que par la Russie, doit songer à sa défense et à sa sureté, ne s'en suit-il pas, come conséquence nécessaire, qu'il commettrait une énorme faute en laissant les positions comme les ressources de l'Italie augmenter les forces du camp ennemi? L'Italie qui, dans l'intérêt surtout de la France, devrait menacer le flanc de la coalition, dans son état actuel, sert par contre de pont à ses troupes pour atteindre en quelques marches la frontière française.

Le Piémont, sans doute, a assez prouvé qu'il n'a guère l'habitude de compter le nombre de ses ennemis, et on pourrait attendre de lui toute la résistance qu'une bonne armée peut opposer sur une frontière ouverte: mais ne vaut-il pas mieux choisir son champ de bataille au cœur de l'ennemi, plutôt que de l'avoir a sa porte? Et ce n'est pas tout. Ce n'est pas seulement de l'éventualité d'une attaque à main armée que l'on doit se preoccuper. L'action politique a tout autant d'importance: et ses effets pour être moins apparents, n'en sont pas moins à redouter.

L'Italie, telle qu'elle est aujourd'hui, est pour l'Autriche le terrain le plus propice à ses intrigues. Il n'y a sorte de machination qu'elle n'emploie pour troubler la Sardaigne dans sa marche intérieure. comme pour maintenir les autres Gouvernements de la péninsule attachés à leur vieille foi dans son principe; les réduisant par ce moyen à ne chercher leur sécurité que dans ses forces et dans leur soumission à ses volontés.


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Cet état de choses est tout gain pour la coalition d'un coté, et toute perte de l'autre pour l'Occident.

En dernier lieu, et ce n'est pas la considération la moins importante, il serait dangereux de se tromper sur la véritable cause du calme qui règne actuellement en Italie. Qu'on n'imagine pas qu'elle ait accepté l'arrêt de 1849. L'Italie attend.

Mais elle s'étudie elle même, elle étudie son ennemi: elle reconnait ses erreurs; et l'extintion presque totale du parti républicain, comme le mouvement general des esprits vers la politique du Piémont, prouve qu'elle a su profiter à l'école de l'adversité. Le malheur au lieu de l'avilir. l'a retrempée; et, comme on vient de le dire, elle attend.

Mais si cette attente était trompée, si au jour d'un arrangement définitif des affaires de l'Europe, elle se vit oubliée, on aurait tort d'espérer qu'elle se soumit. Le tableau des misères morales et matérielles que supportent des millions d'hommes en Italie ne saurait trouver ici sa place. Il suffira d'établir - et l'on peut se porter garant de l'exactitude de ce qu'on avance - que si une reconstitution de la péninsule italienne ne s'opère pas au jour de la liquidation de la question d'Orient, le sentiment qui dominera en Italie, - même chez les hommes les plus éclairés et les moins enclins aux désordres - pourra se résumer ainsi: € Troublons la paix de l'Europe, puisque l'Europe ne veut «pas que nous avons la paix chez nous».

L'Europe, en effet, n'a jamais su arranger les affaires de l'Italie, et n'a jamais permis qu'elle les arrangeat elle même.

Les convulsions intestines des petits États de la péninsule ne constitueraient sans doute pas un danger sérieux pour les grandes Puissances. Mais sans compter que de nos jours on ne sait trop d'avance quelles peuvent être les suites d'une étincelle qui s'allume dans n'importe quelle partie du continent, toujours est-il que la nécessité de répressions violentes, comme d'interventions inévitablement dévolues à l'Autriche rendront l'Italie inutile pour le moins à l'alliance de l'Occident, au lieu de permettre qu'elle lui apporte les avantages de ses ressources et de sa position.

Si en 1849 on eût songé à l'Italie, peut être aujourd'hui, au lieu de 18 mille hommes du Piémont, l'Occident en aurait; sa disposition 50 mille, avec des ports, des entrepôts commodes, des subsistances, etc.

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Si on troupe que les considérations qu'on vient d'exposer soient fondées en fait et en principe, on peu regarder comme acquis à la discussion le résumé suivant.

La coalition est le véritable danger qui menace la France, ainsi que l'Occident.

Si on reconnait l'impossibilité de la soumettre par les armes comme de la dissoudre, il ne reste à l'Occident d'autre parti sauf celui d'opposer coalition à coalition.

L'Italie est nécessaire à ce système d'alliances.

Il importe, en conséquence, de l'y adjoindre et de la reconstituer.

II.

Arrivés à cette conclusion qui assigne à l'Italie la place qui lui appartient dans la question d'intérêt general, le moment est venu de passer à l'examen des mesures pratiques qui doivent être adoptées dans le but de gagner la péninsule à la cause de l'Occident.

Vu qu'en politique il n'y a de sérieux que le positif, on cherchera à être explicite autant que le permet l'appréciation toujours si difficile de pareilles questions dans lesquelles l'imprévu, et bien des fois l'inconnu, jouent un si grand rôle.

La haute intelligence à laquelle ces pages sont destinées, a soutenu elle-même de glorieuses luttes contre les plus grandes difficultés politiques; elle en connait les écueils.

La sollicitude qu'elle témoigne en ce moment pour la Sardaigne et pour l'Italie fait preuve en moine temps de toute sa bienveillance envers son alliée. A de telles avances on ne saurait répondre que par la confiance la plus entière et par la plus complète francbise.

Dans une entreprise qui demande des moyens compliqués, beaucoup de temps, et une volonté inébranlable, telle que la reconstitution de l'Italie, il importe d'abord d'arrêter un pian.

Son exécution plus ou moins immédiate peut dépendre des circonstances, comme de l'étendue des moyens qu'on a a sa disposition; mais l'essentiel est de poursuivre toujours le même but, sans jamais le perdre de vue. On peut s'arrêter,.mais jamais on ne doit faire, fausse route.

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Polir cela il est nécessaire d'abord de s'assurer des bases véritables, sur lesquelles l'édifice puisse être solidement assis. Toute méprise sur ce point serait fatale; elle uè saurait aboutir qu'à de cruelles mécomptes dans un avenir plus ou moins rapproché.

Or dans l'état actuel des esprits, rien de solide, rien de durable ne saurait-être établi, s'il ne repose sur le principe de la nationalité.

Le principe qui a acquis de nos jours tant de puissance et d'étendue, se pliait plus facilement autrefois aux exigences de la politique, aux ambitions des souverains et aux sentiments de fidélité chevaleresque pour leur personne. Mais alors, - L'histoire est là pour l'attester. - Les princes et les hautes classes comptaient seules dans les calculs politiques. La bourgeoisie et le peuple n'étaient jamais consultés et ne demandaient nullement à l'être. On pouvait alors changer à plaisir la face de l'Europe, pourvu qu'un traité rait d'accord les parties. On échangeait des provinces comme des lots de terre; les hautes classes prêtaient un nouveau serment; et tout était dit.

Aujourd'hui, - il serait superflu d'en énumérer les causes, - la société tout entière, du haut en bas de l'échelle, s'intéresse et s'agite dans l'attente de ses destinées. On peut sans doute les lui imposer par la force. Mais un Gouvernement se condamne par là à une lutte en permanence: et, - contraindre - admettant même qu'il soit toujours vainqueur, n'est pas gouverner. Pour gouverner il n'y a d'autre moyen aujourd'hui''bui que l'acceptation de la part des gouvernés, et cette acceptation, en Italie surtout, ne peut s'obtenir que par une juste satisfaction donnée au sentiment de la nationalité.

Nul pouvoir humain ne pourrait évidemment donner une telle satisfaction, ni complétement ni dans un bref délai. Mais c'est là le but qu'il ne faut jamais perdre de vue. Pour peu qu'on obtienne, pourvu que ce soit en harmonie avec ce principe, ce sera toujours un pas de fait sur une route sûre. Tout ce qu'on pourrait tenter dans un sens différent, ne serait que peine perdue, ne servirait qu'à préparer de fâcheuses complications.

Ceci une fois admis, arrive la question des moyens pratiques à adopter pour en obtenir tous les résultats désirables; et c'est le moment de revenir à la division qui nous a servi plus haut pour fixer les deux éventualités que présente la situation|actuelle de l'Europe: Éventualité d'une rupture avec l'Autriche.

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Éventualité d'une entente avec cette Puissance, ou de sa neutralité.

Évidemment le premier cas n'exige pas un long examen.

Si la guerre continentale venait à éclater entre l'Occident et l'Orient, - ce qui n'est pas impossible par la force des évènements, en dépit de toute la bonne volonté des hommes, - l'Italie se trouverait être nécessairement l'un d( s champs de bataille. Les armes décideraient de son sort; et sa complète indépendance serait le prix des efforts communs, ainsi quo de la sagesse et de l'énergie dont elle aurait su faire preuve en cette occasion décisive.

Il serait superflu d'anticiper sur les arrêts de la providence: d'autant plus superflu que des deux éventualité, celle-ci est la moins immédiate.

Passons à la seconde; le cas où l'Autriche réussisse à se maintenir dans l'état de neutralité douteuse, dans lequel elle a su rester jusqu'ici, et dans le cas même d'une entente ouverte. Dans ces deux cas la tâche de l'Occident devient plus compliquée: elle exige autant d'habilité que de persévérance, et sans jamais s'écarter de son but, tous les efforts de sa diplomatie doivent être employés à refaire dans un sens contraire le travail, par lequel depuis 1815 l'Autriche a réussi à étendre son autorité, des provinces Lombardo-Venitiennes, qui lui appartiennent d'aprèsles traités, h tous les États indépendants de l'Italie, le Piémont excepté.

L'arrêt de l'Europe condamna, au Congrès de Vienne, Milan et Venise à subir le joug Autrichien. Soit. Mais l'Europe n'a jamais dit à l'Autriche: «Je te livre l'Italie; et telle ne pouvait être la pensée des grandes Puissances, - de la France moins que de tout autre. Elle ne pouvait l'être, pour le moins, dans la mesure que l'Autriche a su lui donner. Effectivement, qu'est-il advenu? Le voici: Des 40 ans qui séparent 1815 de 1856 ou en compte 24 pendant lesquels les armées impériales ont occupé militairement les États de la péninsule. Indépendamment de l'occupation matérielle, l'occupation morale demeurait en permanence; le souffle de la chancellerie impériale pénétrait dans les conseils de tous les États italiens, qui se faisaient les humbles instruments de la police autrichienne.

On pourrait objecter que les troubles continuels, dont l'Italie était le théâtre, exigeaient ces mesures sévères.

Mais d'abord, était-ce d'une bonne politique d'admettre que l'Autriche seule eût le droit de maintenir

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l'ordre au de là de sa frontière? Et ne serait-il pas juste après cela d'examiner quelle était la nature et l'origine de ces troubles, et à qui il serait appartenu de les prévenir comme de les apaiser? Des réformes opportunes, et des Gouvernements honnêtes auraient satisfait des désirs qui n'étaient rien moins qu'exorbitants (1) et bien des maux auraient pu s'éviter.

Les grandes Puissances, par leur memorandum - si célèbre en Italie - de 1831, témoignèrent du désir qu'elles éprouvaient de mettre fin à cette succession de folles tentatives suivies de cruelles répressions. Cet acte prouve que leurs Cabinets sentaient le danger de la position que ces alternatives malheureuses faisait à l'Autriche dans la péninsule. L'Autriche, malgré la participation publique au memorandum, le

(1) V. «Le manifeste des populations de l'État romain aux princes et aux peuples de y Europe, en 1845» On peut lire ce document dans l'annuaire historique de '1845, pag. 136 de l'appendice. Voici en résumé les demandes qui y étaient formulées.

1. Amnistie à tous les prévenus politiques depuis 1821.

2. Octroi d'un code civil et criminel modelé sur ceux des autres peuples de l'Europe, consacrant la publicité des débats, l'institution du jury, l'abolition de la confiscation, et de la peine de mort pour les délits de lèse majesté.

3. Abolition de la juridiction du Saint-office sur les laïques, et soustraction de ceux-ci à la juridiction des tribunaux ecclésiastiques.

4. Jugement des causes politiques par les tribunaux ordinaires.

5. Élection libre des Conseils municipaux par les citoyens et approbation des choix par le souverain; élection par ces Conseils des Conseils provinciaux sur liste triple: et nomination du Conseil d'État par le souverain sur les listes présentées par les Conseils provinciaux.

6. Conseil d'État avant la haute surveillance des finances et de la dette publique, avec voix délibérative sur les budgets, et voix consultative sur les objets généraux.

7. Les emplois civils et militaires conférés aux séculiers.

8. L'instruction publique, hors l'instruction religieuse, ôtée au clergé.

9. La censure de la presse limitée à prévenir les injures à la Divinité, à la religion catholique, au souverain, et à la vie privée des citoyens.

10. Renvoi des troupes étrangères.

11. Institution d'une garde urbaine.

12. Mesures générales pour adopter les améliorations réclamées par l'esprit du siècle, et pratiquées par les autres Gouvernements de l'Europe.

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combatif en secret, surtout eu ce qui se rapportai! aux élections communales (1).

La Cour de Rome appuyée de ce vote, tergiversa. Suivirent des transactions, qui elles-mêmes se trouvèrent éludées au

(1). Memorandum de 1831.

Art. 1. Il parait aux représentants des cinq Puissances que, quant à l'État de l'Église, il s'agit dans l'intérêt general de l'Europe de deux points fondamentaux:

1. Que le Gouvernement pontifical soit assis sur des bases solides par les améliorations médita et annoncées par S. S. elle-même dès le commencement de son règne.

2. Que ces améliorations, lesquelles, selon l'expression de l'édit de S. Em. le Cardinal Bernetti, fonderont une ère nouvelle pour les sujets de S. S., soient par une garantie intérieure mises a l'abri des changements inhérents à la nature de tout Gouvernements électif.

Art. 2. Pour atteindre ce but salutaire (ce qui à cause de la position géographique et sociale de l'État de l'Église, est d'un intérêt européen) il parait indispensable que la déclaration organique de S. S. parte de deux principes vitaux: a) De l'application des améliorations en question non seulement aux provinces où la révolution à éclaté, mais aussi à celles qui sont restees fidèles, et à la capitale.

b) De l'admissibilité générale des laïques aux fonctions administratives et judiciaires.

Art. 3. Les mêmes améliorations paraissent devoir d'abord embrasser le système judiciaire et celui de l'administration municipale et provinciale.

a) Quant à l'ordre judiciaire, il parait que l'exécution entière et le développement conséquent des promesses et principes du Motu-proprio de 1816 présente les moyens les plus sûrs et efficaces de redresser les griefs assez généraux relatifs à cette partie si intéressante de l'organisation sociale.

b) Quant à l'administration locale, il parait que le rétablissement et l'organisation générale de municipalités élues par la population, et la fondation de franchises municipales qui referaient l'action de ces municipalités dans l'intérêts locaux des communes, devrait être la base indispensable de tonte amélioration administrative. En second lieu l'organisation de Conseils provinciaux, soit d'un Conseil administratif permanent destine à aider le Gouvernement da la province dans l'exécution de ses fonctions, avec des attributions convenables, soit d'une réunion plus nombreuse, prise surtout dans le sein des nouvelles municipalités, et destinée à être consultée sur les intérêts les plus importants de la province, parait extrêmement utile pour conduire à l'amélioration communale, pour répartir les impôts et pour éclairer le Gouvernement sur les véritables besoins de la province.

Art. 4. L'importance immense d'un état réglé des finances, et d'une telle administration de la dette publique qui donnerait la garantie si

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moment de l'exécution. Et tout retomba bientôt dans la vieille ornière, dont un des jalons devait être la grande rescousse de 1848.

Alors comme aujourd'hui, avant comma après, l'Autriche et ses partisans n'ont cesse d'exprimer leurs terreurs des révolutionnaires italiens. Ces terreurs contrastent singulièrement avec la conduite de la police autrichienne à l'égard de ces hommes (1) proclamés si dangereux.

Il n'est pas de la nature de cet écrit d'approfondir de semblables détails. Qu'il suffise de faire remarquer que, à chaque mouvement révolutionnaire, l'Autriche a avance d'un pas en Italie; qu'elle se trouve établie en ce moment depuis les Alpes jusqu'à Terracina; et que, malgré l'occupation française qui est à Rome depuis 7 ans, il serait difficile de décider si l'esprit du Cabinet autrichien ait aujourd'hui moins d'influence au Vatican, de ce qu'il en a eu dans le temps passe.

désirable pour le crédit financier du Gouvernement, et contribuerait essentiellement à augmenter ses ressources et assurer son indépendance , parait rendre indispensable un établissement centrai dans la capitale, chargé comme Cour suprême des comptes, du contrôle de la comptabilité, du service annuel de chaque branche de l'administration civile et militaire, et de la surveillance de la dette publique, avec des attributions correspondantes au but grand et salutaire qu'on se propose d'atteindre. Plus une telle institution portera le caractère d'indépendance et l'empreint de l'union intime du Gouvernement et du pays, plus elle répondrait aux intentions bienfaisantes du souverain et à l'attente générale.

Il parait pour atteindre ce but, que des personnes y devraient siéger, choisis par les Conseils locaux, et formant avec des conseillers du Gouvernement une junte ou Consulte administrative. Une telle junte formerait, ou non, partie d'un Conseil (l'État, dont les membres seraient nommés du souverain parmi les notabilités de naissance, de fortune et de talent du pays. Sans un ou plusieurs établissements centraux de cette nature, intimement liés aux notabilités d'un pays si riche d'éléments aristocratiques et conservateurs, il parait que la nature d'un Gouvernement électif ôterait nécessairement aux améliorations, qui formeront la gloire éternelle du Pontife régnant, cette stabilité dont le besoin est généralement et puissamment senti, et le sera d'autant plus vivement, que les bienfaits du Pontife seront grands et précieux.

(1) X de Florence, correspondant actuel de la Gazette officielle de Milan.

X rédacteur de la même feuille et de la Bilancia.

X rédacteur de la Sferza de Brescia.

Tous démagogues ardents en 1848, sans parler de tant d'autres qui, au retour des Autrichiens, furent vus se promenant dans le rues avec leurs officiers, et riant aux nez des bonnes gens qui les avaient écoutés

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L'on ne se trompe pas: ce n'est nullement les insurrections que l'Autriche redoute eu Italie: ce serait de l'ingratitude de sa part. Elle redoute bien plus les bonnes réformes qui les préviennent et les rendent impossibles.

On abuse étrangement du mot «révolution et révolutionnaire». Cet abus de langage est tout naturel chez les hommes de la coalition. Mais il l'est beaucoup moins dans le camp de ses adversaires politiques.

En cette matière, quoiqu'on dise l'Autriche et son parti, le Piémont n'est pas suspect. L'énergique répression de l'insurrection de Gènes en 1849 comme le soin Constant qu'il a mis à déjouer les équipées révolutionnaires qui se tramaient sur sa frontière, lui donnent le droit de s'élever contre la confusion qu'on jette à dessein dans cette question.

En effet quel nomine sensé pouvrait mettre sur la même ligne le Chef des Rebeccaites, Ledru-Rolliu, Mazzini, Kossuth, à coté du malheureux Poerio, de Ruggero Settimo, de Minghetti, de Capponi, et de tant d'autres? Les journées de juin, a coté des journées de Palerme et de Milan? Les associations ténébreuses de ces éternels exploiteurs des instincts les plus ardents comme les plus dépravés du pauvre peuple, à coté d'une nation entière qui ne demande autre chose que de pouvoir vivre en paix a la place que Dieu lui a assignée sur la terre? De ne pas livrer ses mœurs, son or, le sang de ses enfants, les facultés les plus précieuses de leur intelligence, à un pouvoir qui les emploie contre elle? à un pouvoir qui, pour ôter à sa proie tout moyen de lui échapper, infuse dans ses veines tous les poisons de la corruption?

Si une province de la France ou de l'Angleterre se trouvait sons le joug étranger, les Français et les Anglais, qui chercheraient à les briser, seraient-ils des révolutionnaires? Alfred le Grand, Duguesclin, les Espagnols combattant les Maures pendant 8 siècles, Guillaume le Taciturne, etc. etc. était-ce là des révolutionnaires? C'est pourtant de ce nom seul qu'il faudra les appeler, si on persiste à l'appliquer aux Italiens aspirant à leur indépendance et à leur nationalité.

Rendre odieux ceux qu'on dépouille, est le vieux stratagème de tous les oppresseurs. Mais il est temps de dévoiler cette ruse grossière, et ou ne saurait assez le répéter: les attaques ouvertes contre un pouvoir établi, quelqu'injuste qu'il puisse être, amènent des conséquences dont tous sentent d'instinct la terrible gravite. Si un petit nombre d'hommes qui espèrent sortir de leur obscurité par le désordre, les affronte légèrement ,

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jamais la masse De s'y jette, avant que ses souffrances ne soient devenues réellement intolérables, tel est le cas de l'Italie: et à ceux qui devant tout projet de réforme évoquent le fantôme de la révolution, que l'on demande si les barricades s'élèvent, si le sang* coule en Piémont, depuis la grande réforme politique? Si en Lombardie et dans la Véuétie elles-mêmes, en 1848, on a eu à déplorer de g-rands débordements révolutionnaires, ou communistes? Qu'on leur demande, si aux premières réformes initiées en 1847 par les souverains de l'Italie, aux premières libertés accordées à leurs sujets, on a vu ceux-ci tourner contre leurs bienfaiteurs les armes et les nouvelles institutions qu'ils en avaient obtenues? An lieu de cela le Piémont est le seul pays de l'Europe qui n'ait pas eu à traverser une révolution: comme Turin est la seule Ville qui n'ait pas vu de barricades. En Lombardie et dans la Vénétie le suffrage universel élevait sur son pavois un roi! Les réformes du midi et du centre de l'Italie, accueillies avec un immense cri d'allégresse, n'étaient souillées d'aucun désordre.

L'arbre do la papauté poussait de nouvelles racines. La religion était respectée; et pour les cœurs droits le scepticisme devenait un poids et presqu'un remords.

Il n'est quo trop -vrai que 1848, et, dans la suite, 1849 surtout, ne tinrent aucune des promesses de 1847; que le sang coula à Naples en mai: qu'en novembre les balles révolutionnaires sifflaient dans les salles du Quirinal aux oreilles de Pie IX; que de basses menées poussaient le grand due de Toscane à de funestes démarches; et qu'au palais Greppi enfin le roi Charles Albert, traqué par une poignée de factieux ne devait la vie qu'an dévouement de quelques officiers.

Tout cela malheureusement n'est que trop vrai.

Mais entre 1847 et 1849 l'Europe entière prenait feu. Paris, Vienne, Berlin propageaient au loin l'incendie. Un de ces coups de foudre qui rendent vains tous les calculs, qui paralysent toutes les forces, qui renversent tout sur leur passage, avait éclaté sur l'humanité: quel privilège avait l'Italie pour échapper seule à son atteinte? Ce fut alors quo la bande des exploiteurs de peuples, poussée par les exemples comme par les instigations d'outre-monts, arracha des mains qui l'avaient arbore le drapeau des réformes et de la nationalité italienne, et le sang de Rossi en fit le drapeau rouge de la révolution.

Oui, tout cela est vrai. Mais serait-il sensé d'affirmer que si les réformes de 1847 n'avaient pas été initiées, rien de cela ne serait arrive?

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Oserait-on dire que sans les réformes la tourmente qui fondit sur l'Europe entière aurait épargné l'Italie'?

Que les sourdes et vieilles colères de la Sicile, de la Romagne, et de la Lombardie n'auraient pas pris feu à coté d'un tel incendie? On a tout lieu de croire par contre que la conduite des souverains de l'Italie en 1857, faisant oublier aux peuples leur conduite passée, émoussa l'irritation générale, et fut leur meilleure sauvegarde au jour de péril. Aussi, même dans les moments les plus critiques, aucune de ces vengeances sauvages, - le meurtre de Rossi excepté - qui en d'autres pays ont imprimé leur tâche sur des populations entières, n'a souillé le caractère italien.

Ce n'est donc pas aux réformes qu'il faut s'en prendre, si le mouvement des esprits dégénéra. Post hoc, ergo propter hoc, est la plus mauvaise des argumentations. Mais si l'Italie, au lieu d'être tranquille, ne présente qu'un calme trompeur; si de terribles haines bouillonnent dans sou sein: si enfin à la première occasion elle deviendra le théâtre de nouvelles agitations, ce ne sera pas les réformes de 1847 qu'il faudra en accuser; on devra bien plutôt regretter de ne pas en avoir introduites en 1849, au moment où la victoire étant demeurée aux Gouvernements, ils pouvaient sans faiblesse, comma sans danger, revenir sur d'anciennes erreurs, et réparer dans un port sur les avaries causées par la tempête.

Or ne saurait douter que la France et l'Angleterre ne sentent dès à présent qu'il y avait quelque chose de mieux à faire de ce qu'on a fait en 1849. De toute manière, la postérité, enlisant l'histoire de notre temps, se rendra difficilement raison d'un fait qui se passe sous nos yeux: elle se demandera comment les Gouvernements, après avoir reconnu hautement la réalité des causes qui avaient amasse tant de calamités sur l'Italie, ont pu croire que le meilleur parti était de les aggraver! La proposition d'un pian qui aurait pour but de refaire en sens oppose l'œuvre de l'Autriche dans les États italiens, a rendu indispensable de donner de l'étendue aux considérations qui précèdent. L'Autriche s'est emparée de l'Italie en gagnant ses Gouvernements à sa politique et à sou principe. Pour détruire son influence il faut donc les attacher à une politique et à un principe opposés, à la politique et au principe de l'Occident.

Le Seul moyen d'y arriver c'est de ramener les Etats italiens au système des réformes, interrompu, mais nullement condamné, par les excès de 1848-49.

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Or l'objection spécieuse, dirons mieux, l'épouvantail dont le parti de la coalition effraye les Gouvernements, aussitôt qu'un projet de réforme parait, c'est la menace de la révolution.

Et nous croyons avoir assez démontré: 1. Que les désirs et les demandes de l'Italie n'ont rien de révolutionnaire.

2. Qu'en tout cas, la politique de l'Autriche appelle elle-même les révolutions, tandis que les réformes les rendraient impossibles.

Cela admis, revenons aux moyens qui devraient être adoptés pour substituer à l'influence de l'Autriche l'influence de l'Occident.

1. Les ministres de France, d'Angleterre comme ceux de la Sardaigne résidant à Naples, à Rome, et à Florence, devront avoir pour instructions de saisir toutes les occasions qui se présenteront de prêter, dans la mesure permise par la loyauté de leurs Gouvernements respectifs, leur appui le plus formel à tout projet de réforme politique ed administrative dans le sens du principe de l'Occident.

2. Ils devront pour cela tenir aux souverains et à leurs Conseils un langage franc et respectueux, dont les idées soient autant que possible identiques dans les différentes résidences: s'appliquant à mettre en évidence la nécessité des réformes, les avantages qui en résulteront pour les souverains, ainsi que pour les peuples - témoin le Piémont, - et s'attachant surtout à démontrer que si les grandes Puissances de l'Occident désirent attacher l'Italie à leur politique, c'est autant dans leur propre intérêt que dans celui de la péninsule et de ses Gouvernements eux-mêmes.

3. Les ministres résidents se mettront en rapport, ouvertement et sans mystère, avec les hommes les plus intelligents, les plus distingués, avec ceux surtout dont le caractère est le plus généralement estimé, connus pour professer les principes de l'Occident et la politique des réformes légales. Ils les accueilleront, les soutiendront dans tous les actes, tels que publications, pétitions, adresses, réunions, etc, qui auraient pour but d'obtenir des réformes utiles de leur Gouvernement; sous la réserve expresse: 1° que lesdits actes revêtent un caractère tout à fait pacifique; 2° Que bien qu'accomplis avec prudence, ils ne soient enveloppés d'aucun mystère et ne puissent être taxés de conspiration.

4. Les ministres résidents se tiendront mutuellement au courant soit de létat de l'esprit public, comme des progrès

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qu'on aurait à signaler dans les États respectifs, soit des intrigues du parti de la coalition, tendant à les arrêter, afin de trouver, d'accord, le moyen de les déjouer.

5. Les Gouvernements de l'Occident mettront le plus grand soin dans le choix de leurs représentants. Une fois fixés sur la ligne politique quils entendent suivre, il est indispensable que les hommes chargés de l'exécution professent les mêmes opinions et agissent dans le sens de leur propre conviction; qu'ils possèdent eu outre autant que possible les qualités qui peuvent les rendre propres à inspirer une égale confiance aux gouvernants comme aux gouvernés; que ces hommes enfin connaissent bien l'Italie, ses maux, ses désirs, les événements, les personnes marquantes etc. Car les Italiens se servent souvent de cette phrase pittoresque: - Questi medici voglion sempre curar l'Italia, sema toccarle il polso.

6. Les Gouvernements de la France et de l'Angleterre prêteront leur appui au Piémont dans le but de renouer les négociations relatives à la formation d'une ligne douanière entre les différents États de la péninsule. L'efifectuation d'une telle mesure, tendante à renverser d'un coup les nombreuses barrières de Douanes qui entravent la libre circulation des personnes et des marchandises, et présentent par là des obstacles réels aux relations de toute espèce qui doivent naturellement exister entre des peuples liés entre eux par l'identité de race, de langue, de traditions et d'intérêts, aura des résultats de la plus haute importance. Le développement de cette idée, surtout en ce qui concerne les États qu'il faudrait comprendre dans l'association et les moyens d'exécution, ne saurait trouver ici une place opportune. Il suffira de faire remarquer que l'idée d'une association douanière italienne fait partie du système de réformes inauguré en 1847, et qu'elle avait déjà été sanctionnée en principe par une convention formelle signée par le Piémont, le St.-Siège et la Toscane.

Rien ne s'oppose à ce que les mesures qu'on vient d'indiquer ne soient adoptées immédiatement. Quoiqu'elles puissent paraitre peu efficaces à quelques esprits impatients, il y aurait erreur à imaginer qu'elles resteront sans résultats.

Le parti des réformes légales est compose de l'élite de la nation: mais il est découragé par l'abandon où l'ont laissé les Puissances de l'Occident; notamment, - qu'il nous soit permis de le dire avec franchise, - l'Angleterre, qui après avoir envoyé lord Minto en 1847 pour lui donner un appui aussi public que loyal, le livra sans défense aux hommes de la coalition,

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qui le craignent et le haïssent bien plus que le parti de l'insurrection.

Le parti de réformes, obtenues au moyen d'une opposition ferme, mais en même temps paisible à la politique actuelle, peut, une fois relevé de son abattement, rendre de grands Services.

C'est ce parti que le premier, en 1845, se montra au grand jour, proclamant le danger des révolutions et le devoir en même temps d'affronter les persécutions des polices, pour faire parvenir aux oreilles des souverains des avis respectueux, autant qu'explicites, sur la nécessité d'une réforme.

Le programme exécuté avec un ensemble remarquable, amena promptement les résultats qu'on attendait. Les réformes s'accomplirent successivement, et on comprend que si l'Europe, suivant sa marche régulière eut pu maintenir dans ses digues, le courant de ce mouvement, il n'y aurait en aucune raison pour craindre qu'il sortit de son Ut. Dieu en avait décide autrement. L'embrasement general de 1848, que le parti des réformes ne pouvait prévoir en 1845, puisque personne en Europe ne l'avait encore prévu la veille, déjoua tous les calculs.

Mais aujourd'hui, au moment où tous les Gouvernements sout armés et sur leurs gardes, où les symptômes révolutionnaires ont fait place à un besoin general d'ordre et de tranquillité, rien ne s'oppose à ce que l'idée d'une réforme ne soit reprise, et dans ce but il est important de relever le parti qui en a fait son programme, en commençant d'abord par les mesures ci-dessus, au moyen desquelles, comme nous le disions, si on marche lentement, on ne fait pas du moins fausse route.

Une politique qui sait bien préparer et bien attendre, sans jamais s'écarter du bon chemin, manque rarement son but.

Ces mesures une fois adoptées, une autre s'en présente d'une plus grande portée, ainsi que d'un effet plus immédiat, pour l'exécution de laquelle la haute sagacité de S. M. l'Empereur aurait à choisir le moment qu'il croirait opportun.

Elle est le corollaire des précédentes, et consiste dans la reprise, modifiée d'après la différence des deux époques, du Memorandum de 1831.

Les fautes du Gouvernement pontifical, ainsi que l'agitation qui en est la conséquence, ouvrent la véritable brèche par laquelle l'Autriche s'est toujours introduite au cœur de l'Italie. Si on parvenait à la lui fermer, un grand résultat serait obtenu.

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On n'y purviendra que le jour où l'agitation des populations n'aura plus de motif; du jour où elles auront un Gouvernement honnête et qui tienne compte de leurs véritables besoins.

La question romaine, la plus difficile peut-être de toutes celles qui mettent aujourd'hui à de si rudes épreuves la capacité des hommes d'État, se complique tous les jours davantage.

Les inextricables problèmes qu'elle renferme, out jusqu'ici défié les efforts des intelligences les mieux douées.

Le moment ne serait-il pas arrivé de se demander si eu abandonnant par découragement cette question à elle-même, on ne se prépare p9,s dans l'avenir d'autres difficultés dont il sera bien autrement épineux de trouver l'issue? Si l'occupation autrichienne, et l'occupation française qui ne lui sert que faiblement de contrepoids, sout déclarées définitivement la condition normale des États romains'? De se demander si la considération et la juste influence de la France ne reçoivent pas une grave atteinte de la position secondaire que l'esprit autrichien a su faire en Italie à l'esprit français? Du moment où la réponse à ces questions ne se trouverait pas satisfaisante, il résulterait que la nécessité d'attaquer de front cette difficulté est désormais évidente.

On ne saurait aller à la racine d'un mal si invétéré sans une grande précision d'idées et une égale netteté de langage.

Qu'il nous soit permis en conséquence d'exprimer notre pensée sans réticence ni détour.

Le Gouvernement du pape, sa domination comme souverain temporel a cesse d'exister à dater du jour où il a été démontré qu'elle n'existe qu'en vertu d'une doublé occupation étrangère: et il est évident aujourd'hui que si l'occupation venait à cesser, ce Gouvernement n'aurait pas une semaine de vie.

On se demande comment la domination de la caste cléricale qui a, si non réussi, du moins pu vivre pendant si longtemps a dégénère si rapidement pendant les 30 dernières années et s'est enfin brisée contre une impossibilité absolue? La cause d'un tel fait se trouve dans la transformation qui s'est opérée au sein de la caste dominante qui dans le temps passe était composée de l'élite des pays catholiques, tandis qu'aujourd'hui elle ne se recrute que d'hommes fort au dessous de leurs liantes fonctions. Jusqu'à la fin du siècle dernier la carrière de la Prelatura offrait des avantages qui ont complètement disparu. On y trouvait pouvoir, considération, richesse:

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dès lors les capacités, les noms illustres, les nobles ambitions y accouraient de tous les points de la catholicité, et une telle réunion de lumières, d'influences, d'individualités honorables, imprimait à la domination cléricale, ce cachet de douceur mêlée de finesse, ennoblie par le talent, relevé par la foi religieuse, qui a caractérisé pendant si longtemps la Cour pontificale.

On n 'a qu'à jeter les veux sur les listes des noms de ses membres vers la fin du XVIII siècle et au commencement du XIX pour se convaincre de l'exactitude d'une telle appréciation. On j voit figurer les Caprara, les Somaglia, les Consalvi, les Mai, les Albani, les De Gregorio, les Morozzo, les Doria, les Mezzofanti, ecc. qui tous de manière ou d'autre apportaient au trône pontifical l'appui d'un titre, d'un nom, d'un mérite qui leur était personnel. Le Gouvernement, les lois n'étaient assurément pas bonnes, d'immenses abus étaient à déplorer, mais alors la publicité n'avait pas encore appris à tout individu a discuter les questions politiques, alors les torts des institutions, corrigés par le caractère, par les sentiments d'honneur et de responsabilité personnelle des gouvernants, étaient moins sensibles: aussi les tribunaux jouissaient, même à l'étranger, d'une considération qui souvent amenait à la barre de la Cour Suprême de la Rota les plaideurs des États catholiques: alors les légèreté de conduite étaient pardonnées grâce au bon goût et à l'élégance des formes; et par toutes ces causes réunies les populations de l'Église auxquelles était d'ailleurs laissé une grande latitude dans les administrations provinciales et communales, ainsi que la jouissance de leurs vieilles immunités, sans avoir de grandes raisons d'aimer leur gouvernement, l'acceptaient pourtant, et par là le rendaient possible.

Aujourd'hui tout cela a changé.

L'opinion publique initiée à la discussion des questions politiques, s'est jetée avec ardeur dans la controverse, et le Gouvernement pontifical, ses lois, ses traditions, sont tombés pièce a pièce sous sou examen.

Rome a vu tarir la source de sa richesse, tomber son prestige, s'évanouir l'auréole de considération qui entourait ses dignitaires. Les fautes de sa politique, ainsi que l'aveuglement ou la prévarication de ses administrations ont excité au dernier point la haine et le mépris chez ses administrés. Ses prélats aujourd'hui sont regardés comme des ennemis publics, et gouvernement comme une calamité.


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Rome n'a plus ìi o f!r i t ti ceux qui viendraient lui prêter leur concours ni grandes richesses, ni position, ni estime publique. Quoi de plus naturel dès lors que les hommes possédant une distinction quelconque dirigent ailleurs leurs moyens comme leurs espérances? Qu'il ne lui arrive, - à la place de ceux-ci, - que des individus pour les quels est encore assez bonne la part quelle peut leur taire? Qui n'ont aucune des qualités qui pourraient corriger et rendre tolérables de mauvaises institutions? Qu'on compare la liste des cardinaux comme des prélats du jour avec celles que nous avons citées tantôt, qu'on lise les biographies des uns, qu'on s'efforce de tirer de leur obscurité les antécédents des autres, qu'on lève le voile qui couvre l'histoire secrète des hommes qui depuis 30 ans administrent la chose publique, et - tout en faisant une part, trop faible malheureusement, à d'honorables exceptions, - on compressible facilement alors comment la domination cléricale a pu vivre dans des conditions différentes, et comment dans ses conditions actuelles elle a dû mourir.

Une considération, une bien triste considération se présente ici.

Les aventuriers - de quel autre nom les appeler? - de l'État du pape, du royaume de Naples, de la Sicile, de la Corse et des autres parties de l'Italie, qui accourent s'enrôler sous la bannière de l' Egli se, sont appelés successivement par la nature ecclétique de son Gouvernement à des emplois de plus eu plus élevés, jusqu'à ce qu'enfin la plus part - sauf quelque grande faute, ou uu manque absolu d'adresse, ce qui est peu commun - obtiennent le chapeau de cardinal. L'élection du pontife, on le sait, ne sort pas du sacre collège. Comment ne pas envisager sana une véritable inquiétude, quel sera nécessairement dans quelques années le choix des candidats qui sera offert aux électeurs forcés de choisir parmi eux celui qui deviendra le souverain de trois millions d'hommes, le chef de la chrétienneté! Si le tableau qu'on vient d'esquisser est fidèle, et si les faits sont exacts. il devient évident que non seulement la domination temporelle a cesse d'exister virtuellement; mais en outre qu'elle n'a en elle-même aucun élément qui permette d'espérer qu'elle puisse jamais revivre.

Il n'y a dès lors de possible que l'acceptation d'un fait accompli, ainsi que de ses conséquences inévitables.

Le Gouvernement papal avant cesse d'exister, et nul pays civilisé ne pouvant être laissé en proie à l'anarchie, on doit

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chercher à substituer à l'ancien Gouvernement un Gouvernement nouveau.

La reprise qu'on propose du mémorandum de 1831 pourrait amener ce résultat sans secousse comme sans danger. La sécularisation en est la base: c'est la seule sur laquelle ou puisse désormais asseoir le nouvel édifice avec quelque chance de durée.

Deux grandes oppositions - il faut s'y attendre - s'élèveront contre l'exécution de ce pian. Celle de l'Autriche comme celle de Rome elle-même.

L'autorité de la France et de l'Angleterre, auxquelles pourrait se joindre la voix d'autres cabinets, ainsi que l'évidence des raisons et des faits, viendraient aisément à bout de ces oppositions, si l'urgence d'une telle réforme une fois démontrée, et même si son exécution une fois admise, tout était obtenu.

Mais ce qui se passa en 1831 ne manquerait pas de se renouveler en 1856. On admettrait tout ou presque tout en théorie, sauf à tout éluder au moment de l'exécution.

Si on est fermement déterminé d'atteindre le but, il faudra résolument adopter les moyens qui y conduisent. et une fois tombés d'accord sur le projet, en surveiller sévèrement l'exécution, prenant d'avance les plus grandes sûretés.

Mais, objectera ton, au bout de votre pian, qui ferait la meilleure part à l'élément laïque, est la suppression totale du Gouvernement temporel? Nous n'hésitons pas à en convenir.

Mais nous demandons à notre tour, si une telle suppression peut faire une question désormais? Et si la seule, la véritable question n'est pas de savoir comment on pourra régler les con séquences d'un fait virtuellement accompli On ne saurait s'y tromper, la sollicitude des publicistes, ainsi que des hommes d'États, n'est pas à la recherche des moyens qui pourraient rendre à la vie un corps quelle a abandonné sans retour; mais bien plutôt elle cherche en vain comment on se débarrassera du cadavre.

Nous croyons que la solution de ce problème se trouve dans le pian propose. L'élément laïque se substituira successivement à l'élément cléricale], cela est hors de question: - mais ce changement inévitable s'opèrera sans désordre, le vieil édifice, au lieu de s'écrouler sur la tète de ces habitants, sera démoli pièce à pièce, et on aura épargné à la révolution sa funeste besogne.

Une triste vérité désormais reconnue par tous les esprits justes, comme par les hommes les plus religieux: le Gouvernement tempo

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rel, ce grand foyer de corruption, a détruit le sens moral, et rendu - triste à dire - impossible le sentiment religieux dans le centre et le midi de l'Italie, surtout. Sans le pouvoir temporel, bien des plaies de l'Église pourraient être guéries! Le clergé lui-même, dans sa partie la plus éclairée, partage cette opinion, - témoin le cardinal Pacca, qui pose hardiment la question dans ses mémoires et la résout comme il appartient à un cœur droit et à un caractère désintéressé.

Inutile de s'occuper de la vieille objection: Le chef de l'Eglise pour avoir la pleine liberté de ses actes doit être en mime temps prince temporel. En présence d'une doublé occupation et des régiments suisses ce serait là une dérision pas trop amère.

Faisons plutôt observer a ceux qui croiraient exorbitante la prétention de transformer le Gouvernement romain par l'introduction de l'élément laïque, qu'on devrait par contre regarder comme fort heureux que cette mesure pût suffire. Un grand nombre d'esprits sérieux pense tout le contraire, et croit probable que par la force irrésistible des choses l'autorité du pape devra bientôt se renfermer dans les murs de Rome avec une dotation fournie par les États catholiques, et une administration municipale. Ont ils raison? Ont ils tort? C'est le secret de l'avenir.

III.

Il nous reste maintenant à examiner brièvement une dernière question qui sous un court délai pourrait devenir flagrante par suite des événements de la guerre actuelle; - La question des principautés et des bourbes du Danube, dans ses rapports avec les intérêts de l'Occident et de la reconstitution de l'Italie.

Le Cabinet de St. Pétersbourg, partagé entre ses anciens projets sur l'Empire ottoman, et la nécessité de les accomplir de manière à ne pas effrayer l'Europe, a dù adopter la politique tantôt aggressive, tantôt patiente, mais constamment habile, que l'Occident suit d'un œil inquiet depuis le règne de Catherine, et qui reçoit aujourd'hui le juste châtiment d'avoir un instant démentie sa vieille réputation de prudence et d'adresse.

La France et l'Angleterre, constamment sur leur gardes, depuis bientôt un siècle, ont veillé à ce que la Russie ne pût

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jamais arriver à portée de son faible ennemi, qu'elle aurait accablé sous sa force prépondérante.

C'est là du moins, d'après toute apparence, le but que devait avoir la politique des deux Cabinets.

Un moyen d'y arriver promptement et de mettre pour toujours l'Empire ottoman à l'abri du danger, a sans doute été aperçu par les hommes d'État des deux pays; on doit supposer que de graves raisons, ou le cours des événements, en auront rendu l'adoption impraticable.

Le moyen consiste à rendre impossible le choc de deux Empires, en plaçant entr'eux un corps assez solide pour n'en être pas lui même renversé.

Le corps ne pourrait être autre que l'Autriche.

Les mémoires du temps du prince Eugène nous apprennent qu'on s'est alors préoccupé de la question de savoir s'il n'aurait pas été utile à l'Autriche de trourner ses efforts du coté de la Mer Noire, s'étendant sur le Danube et substituant à ses vues sur l'Alemagne le pian de la formation d'un Empire Slave.

Cette même idée reparut, dit-on, à l'époque des négociations de Tilsitt, mise en avant par un abbé italien, aventurier politique, homme remuant et d'esprit.

Le projet n'eut pas de suite alors: mais il serait possible qu'il fut repris à la paix.

L'idée d'un protectorat collectif des principautés a déjà trouvé sa place dans les calculs de l'avenir. Si elle était adoptée, il est évident que le voisinage, les Communications, les rapporta de commerce, et surtout les tendances envahissantes du Cabinet de Vienne, - témoin ce qui est arrivé en Italie - rendraient bientôt l'Autriche exclusivement influente dans les principautés, et ce serait là une augmentation de puissance dont l'Occident aurait raison d'être inquiet.

L'entière possession du cours du Danube, ou du moins une sorte de suzeraineté sur les États riverains, semblable h 'celle qu'elle a su se donner sur les États italiens, donnerait a l'Autriche la formidable prépondérance que l'alliance actuelle s'efforce d'enlever à la Russie. On aurait substitué à un ennemi éloigné, dont les sujets sont en partie barbares, dont les opérations manquent souvent d'ensemble à cause du climat, du défaut de Communications, des déserts, de l'étendue de ses possessions, on aurait substitué à celui ci, disons nous, un ennemi qui est solidement établi au centre même de l'Europe, dont les populations sont presque toutes en pleine civilisation,

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qui possédé des Communications faciles, et qui est intimement lié aux Gouvernements, aux partis et aux hommes influents qui professent les principes de la coalition.

Avec tous ces avantages, maitre du cours du Pò comme de celui du Danube, établi sur la Mer Noire ainsi que sur l'Adriatique, l'Empire autrichien aurait doublé ses ressources et sa force. Tandis que l'Occident, au lieu d'avoir établi sur une base solide la prépondérance de son principe, se trouverait après une guerre dispendieuse et meurtrière plus que jamais menacé par la coalition.

En même temps le Piémont, pour prix du loyal concours qu'il a prête à l'Occident, n'obtiendrait qu'une augmentation de charges et serait place dans une position plus que jamais menacée; car il se trouverait relativement affaibli. En effet, un agrandissement de l'Autriche n'aurait-il pas pour lui des résultats équivalents à la perte d'une de ses provinces? Sans parler du reste de l'Italie qui serait reliée à la coalition plus solidement que jamais.

D'après ces considérations il paraitrait qu'on dût renoncer à toute idée d'agrandir l'Autriche sur le bas Danube, si une nécessité d'une importance majeure - celle d'élever un mur d'airain entre l'Empire russe et l'Empire ottoman - ne l'emportait sur toute autre considération.

Mais si une telle nécessité est regardée comme absolue, il reste un moyen pour conjurer le danger d'un agrandissement de l'Autriche menaçant pour l'Occident; celui de l'affaiblir sur le Pò de l'équivalent de ce qu'elle gagnerait sur le Danube.

Le Cabinet de Vienne qui accueillerait sans doute avec empressement toute idée d'un accroissement de puissance sur le bas Danube, quelle que fùt sa nature et sa forme, se refuserait formellement - c'est également certain - à une diminution quelconque dans ses possessions italiennes.

Le choix des moyens par lesquels on pourra l'amener à consentir à un pareil arrangement, dépend trop des événements de la guerre, ainsi que de la position qu'auront su prendre successivement les différents États, pour qu'il ne soit pas prématuré de les discuter maintenant; et le moment arrivé, S. M. l'Empereur en sera incontestablement le juge le plus compétent.

Mais on peut, même au moment présent, examiner si, sans toucher aux possessions actuelles de l'Autriche en Italie, d'autres projets ne seraient pas admissibles, qui tout en avant moins d'efficacité, prépareraient pourtant l'avenir, et seraient toujours un pas important de fait sur la bonne voie.

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Le projet de l'annexion des duchés de Parme et de Plaisance au Piémont a non seulement été prise eu considération déjà par les hommes politiques, mais il est désormais du domaine de l'opinion publique.

Leurs populations sont en première ligne panni celles qui sympathisent essentiellement avec le Piémont, qui de son coté les pave d'une entière réciprocité.

Malgré les difficultés de tout genre que présente généralement en politique le fait d'un changement de souveraineté, ce fait a eu de nos jours de nombreux exemples. Le changement de dynastie en Suède, les médiatisations de différents États allemands (1) se sont accomplis sous l'empire de nécessités, ou de convenances généralement senties: et dans l'intérêt de l'Europe on n'a eu nullement à regretter depuis de semblables changements.

Les calculs d'une sage prévoyance devraient convaincre les Bourbons de Parme, que l'avenir pourrait leur préparer des éventualités qui leur fissent regretter de ne pas avoir voulu se prêter à un arrangement de ce genre. La veuve de feu le due Charles Ludovic fait son possible, on ne saurait le nier, pour réparer le mal qu'avait produit l'administration ruineuse de son mari. Mais rien ne saurait donner le change au besoin de nationalité dont brulé l'Italie, qui d'ailleurs éprouve une répulsion invincible pour le nom des Bourbons.

En effet, soit la branche ainée, soit la branche d'Orléans, ne lui ont constamment témoigné qu'indifférence ou dédain.

Des Bourbons de Naples il est superflu de parler. Tout le monde est témoin de la déconsidération où est tombe ce Gouvernement, non seulement en Italie, mais dans le monde entier.

Les deux derniers Bourbons de Lucques et de Parme, dénués de toutes les vertus comme de toutes les qualités qui peuvent faire estimer ou chérir un prince, sont disparus de la scène sans inspirer ni intórùt, ni regret.

Un autre motif encore plus puissant concourt à rendre peu populaire en Italie le nom des Bourbons.

Les Bourbons n'ont régné et ne règnent, depuis 1815, que de par la coalition; et la coalition est 1 irréconciliable ennemie de l'Italie.

Mais autant la branche de Parme est sans espoir de jamais

(1) V. les traités de Paris 12 juillet 1806 et de Vienne 181 5.

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par venir à subjuguer les volontés de ses sujets, qu'elle gouverne uniquement grâce à l'Autriche, autant ceux-ci seraient heureux de se soumettre à la maison de Savoie, dynastie italienne depuis 800 ans, séparée à tout jamais da la coalition, et le seul espoir des plus chères aspirations des Italiens.

Les populations des duchés ont assez montré en 1848 l'esprit qui les anime lorsque libres d'exprimer leur vœu, elles se jetèrent les premières entre les bras du Piémont donnant ainsi h son roi le plus sur comme le plus irrécusable des titres, celui de l'acceptation spontanée, exprimée par le suffrage universel.

Les avantages d'une telle annexion seraient importants pour l'Italie, non moins que pour l'alliance de l'Occident.

Avant de les exposer, disons un mot de ce que les ennemis de l'Italie appellent la soif d' agrandissement de la Maison de Savoie. Qu'on change l'expression et nous admettrons le fait.

Au lieu de soif d'agrandissement, qu'on dise: aspiration vers la nationalité: aspiration qui ne s'est jamais démentie depuis le jour où Humbert, Comte de Maurienne, épousa la Marquise de Suse (1003), et acquit par là son droit de bourgeoisie dans la Péninsule italienne. Qu'on dise que les princes de la Maison de Savoie, guidés par cette idée ont toujours su conserver une fière indépendance au milieu du choc de voisins puissants, prendre vaillamment parti dans toutes les guerres, à la tète des populations enthousiastes de leur bravoure: que ces princes, dépouillés de leurs États, se sont souvent trouvés avec leur courage, et leur seule épée au poing pour tout espoir, sana jamais faiblir ni désespérer de la noble pensée traditionnelle dans leur famille - la délivrance de l'Italie du joug étranger. - Qu'on dise, si on veut, qu'avec les qualités de leur race, ils eurent parfois les torts et les défauts de leur époque, et que dans leur marche ferme et toujours conséquente, l'ambition personnelle eut peut-être autant de part que les sentiments d'un patriotisme élevé. Nous admettrons tout cela, mais nous disons en moine temps que ce fut là la plus heureuse comme la plus noble des ambitions; qu'elle doit être rangée parmi ces grandes traditions dynastiques, transmises fidèlement d'âge en âge, et qui triomphant enfin de tous les obstacles, firent de l'Angleterre, de la France et d'autres nations de l'Europe, ce qu'elles sont de nos jours. Nous disons que les intérêts de cette ambition se confondent avec ceux de l'Italie: et nous ajoutons, sans hésiter, qu'au point où en est l'Europe, ils sont les mêmes que ceux de la France et de l'Occident.

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Ce dernier point de vue sera sans doute conteste par l'école politique qui a long temps professe l'opinion que la formation d'un État considérable en Italie était contraire aux intérêts de la France.

Au temps où le désir, naturel à tout Gouvernement, d'étendre ses possessions, n'avait à consulter que les forces dont il pouvait disposer, mises en balance avec celles qui lui seraient opposées, sans avoir à s'occuper des difficultés que pouvait lui susciter l'opinion publique ou l'esprit de nationalité: au temps où la politique se croyait sage en faisant de grands sacrifices pour conserver à la France le marquisat de Saluces ou le royaume de Navarre, alors sans doute plus les voisins étaient faibles plus on s'estimait heureux. Mais aujourd'hui, nous le demandons, de quel avantage pourraient être à la France des possessions dans la péninsule? Et l'Italie fût-elle puissante et réunie sous un souverain unique, qu'aurait elle à envier à la France? Outre les traités politiques qui lieraient à l'alliance comme aux intérêts communs de l'Occident, un bon traité de commerce facilitant les échanges dont la convenance réciproque résulte de la différence des climats, ferait droit à toutes les exigences raisonnables; et on ne voit pas en vérité comment l'étendue plus ou moins considérable d'un État italien pourrait en rien faire du tort à la France. On pourrait soutenir au contraire, que plus un État est puissant et bien administré, plus il produit et mieux on fait ses affaires avec lui. Si l'Italie était dans son plein rapport, quel important marche n'ouvrirait elle pas aux produits de la France et de l'Angleterre? Ce que nous venons de dire n'est du reste que par pure mention et pour ne nous dissimuler aucune des objections possibles. Mais nous éprouvons en même temps le besoin de nous faire pardonner des remarques qui, adressées à la haute intelligence de S. M. l'empereur, doivent en vérité paraitre par trop oiseuses.

Revenant à l'examen des conséquences comme des avantages de l'annexion des duchés à la Sardaigne, le plus important de tous serait sans contredit la diminution notable qu'une telle annexion amènerait dans l'influence de la coalition en Italie.

Cette nouvelle délimitation de l'État Sarde serait loin sans doute de remplir toutes les conditions désirables pour établir de ce coté un bon système de frontières. Mais elle se prolongerait sur la gauche des possessions autrichiennes, elle fermerait une des grandes routes militaires

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que traversera la péninsule et serait un premier pas de fait pour arriver à séparer entièrement le midi de l'Italie de l'État où les partisans de la coalition trouvent toujours prête leur formidable réserve.

Une condition est toutefois indispensable, si on ne veut pas que de tels avantages soient perdus, ou du moins considérablement compromis, savoir: la possession de Plaisance. L'Autriche qui pour ses projets sur l'Italie sentait l'importance d'avoir toujours ouvertes ses Communications avec les États situés sur la droite du Pò, a conserve sur ce fleuve deux magnifiques tètes de pont, - Plaisance et Ferrare (1).

L'évacuation de la première de ces deux places, pour le moins devrait être posée comme condition. sine qua non de tout arrangement. On doit s'attendre à des refus obstinés de la part de l'Autriche. Mais ou il faut renoncer à rallier l'Italie ìi la cause de l'Occident, ou il faut qu'une telle évacuation soit obtenue à tout prix.

Ici se présente naturellement une réflexion. Si pendant les 40 dernières années on n'avait pas laissé l'Autriche planter l'étendard de la coalition sur les meilleures positions de la péninsule, si une sage prévoyante avait pu lire dans l'avenir,

(1) Les droits de la maison de Savoie sur le duché de Plaisance ont leur source dans la cession que lui en faisait par le traité de Worms (1743) Marie Thérèse d'Autriche, qui pavait ainsi l'utile alliance de Charles Emmanuel dans la guerre de succession.

A la paix d'Aix-la-Chapelle, cinq ans après, le duché était adjugé à D. Philippe d'Espagne, mais la réversion en était expressément réservée à la Sardaigne, dans le cas où la descendance masculine de l'Infant viendrait à se éteindre ou fût appelée à d'autres couronnes.

Les mêmes stipulations se trouvent consignées dans la convention de Paris du 10 juin 1763.

Une considération de stricte justice aurait exigé qu'à l'époque du Congrès de Vienne on eût pour le moins sanctionné ces droits dans leur plénitude. Mais l'Autriche, qui voulait se ménager en toute occasion le libre passage du To, trouva moyen alors d'obtenir la cession éventuelle de la ville de Plaisance et du territoire environnant, moyennant une compensation à accorder plus tard a la Sardaigne.

Cette compensation - qui n'en est pas une, tant s'en faut - a été réglée par le traité de Florence du 28 novembre 1844, par le quel est réservée, dans le cas prévu par les traités, la réversibilité d'une portion insignifiante de la Lunigiana faisant partie maintenant du duché de Parme.

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et avoir le pressentiment d'une époque qui tôt ou tard devait arriver - de l'époque où les deux grandes principes qui divisent le monde auraient leur jour de bataille définitive - on ne se trouverait pas acculé aujourd'hui dans une position ouverte et menacée de tous cotés; on n'aurait pas devant soi la terrible tâche qui se présente à ceux qui sans avoir la responsabilité de précédents éloignés, doivent pourtant en supporter toutes les conséquences.

Mais tout pourra être réparé du jour où les grands États qui sont à la tète de l'Occident, convaincus de la nécessité d'adopter un système politique qui les affranchisse pour toujours de la vieille prépondérance de la coalition, auront pris la détermination d'entrer résolument dans la voie qui peut seule conduire à la solution de la question italienne.

Une longue expérience des affaires de la péninsule nous donne la conviction que les trois mesures proposées dans cet écrit - Protection au parti des réformes pacifiques, - reprise du memorandum de 1831 - et annexion des duchés à la Sardaigne - pourront préparer sans de trop grandes difficultés les résultats qu'on désire.

L'Italie, instruite par le malheur à bien distinguer dans ses aspirations ce qui est désirable de ce qui est possible, aidera, nous l'espérons, sans impatience comme sans mollesse l'œuvre bienfaisante de ses alliés.

Il a été dit par un homme d'État: Les Italiens se plaignent toujours, mais personne ne me dit jamais ce qu'il faut aire.

On aurait pu répondre: les avez vous jamais consultés ou écoutés? Grâce à la bienveillante sollicitude de S. M. l'empereur ce reproche serait désormais de l'ingratitude dans la bouche des Italiens. Quel que soit le sort que leur prépare la Providence, tout homme de cœur se souviendra toujours qu'il a été le premier à leur demander:

Que peut on faire pour l'Italie?

Turin, février 1856.

C. Cavour.

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XXXIX.

Trois dépêches de HI. le chevalier Cibrario à M. le marquis Villamarina. à Paris et au marquis d'Azeglio à Londres.

Monsieur le Marquis,

Turin, le 29 décembre 1855.

Dans la réponse, qu'au nom du Gouvernement du Roi je me suis empressé de faire à la communication, que la France et l'Angleterre nous ont faite, des propositions que l'Autriche a été autorisée de présenter a la Russie, j'ai cru devoir me borner à indiquer, sans m'y arrêter, les conséquences que la paix conclue sur ces bases devait avoir sur la position faite à l'Autriche et sur le sort de l'Italie.

Je crois maintenant de mon devoir d'appeler sur ce point d'un intérêt vital non seulement à notre point de vue, mais à celui de l'équilibre européen, l'attention sérieuse du Gouvernement intéresse au plus haut degré à ce qu'une guerre, qui a exigé des efforts et des sacrifices sans précédents dans l'histoire, n'aboutisse à un résultat fatal à la cause de la civilisation et du progrès, qui est celle de l'Angleterre.

Les propositions autrichiennes, pour ce qui a rapport aux Principautés Danubiennes, établissent:

1° L'abolition complète du protectorat russe, auquel serait substituée une espèce de garantie ou protectorat collectif des grandes Puissances européennes;

2° L'agrandissement des Principautés par l'adjonction d'une portion considérable de la Bessarabie, qui comprendrait toute la rive du Danube jusqu'à son embouchure.

Ces propositions, sous le point de vue des rapports de l'Europe avec la Russie, méritent, à notre avis, la plus entière approbation. En l'éloignant des bords du Danube et du Bug, on la prive de toute communication directe avec les populations Slaves placées sous l'Empire Ottoman, sur lesquelles elle exerçait une influence si dangereuse; en lui enlevant le midi de la Bessarabie, on la refoule bien loin du but que son ambition voulait atteindre, et on la force en quelque sorte à rétrograder jusqu'un point de départ, de la marche que suivent depuis un siècle, les ambitieux successeurs de Pierre le Grand.

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Mais si ou considère les conséquences que ces propositions doivent avoir par rapport à l'Autriche, on ne saurait méconnaitre qu'elles doivent exciter au plus haut degré les préoccupations des Puissances occidentales.

Si, en abolissant le protectorat russe sur les Principautés, on parvenait à y substituer réellement un protectorat collectif des grandes Puissances, sans donner à aucune d'elles une influence prépondérante ou exclusive, il n'y aurait pas d'objection fondée à faire à l'arrangement projeté. Mais il ne saurait en être ainsi. Les traités peuvent bien stipuler en droit ce protectorat collectif; en fait l'influence russe demeurant détruite, le protectorat appartiendra exclusivement à l'Autriche.

La France et l'Angleterre sont sans rapports directs avec les Principautés; elle n'ont avec elles que de faibles rapports commerciaux. Leur position géographique et les stipulations du traité de paix les empêchent de rapprocher des frontières de ces États leurs armées et leurs flottes; comment dans ces circonstances pourraient elles aspirer à exercer sur eux une influence réelle'?

L'Autriche, au contraire, touche aux Principautés par une frontière extrêmement étendue; elle les enveloppe en quelque sorte; ses Communications avec elles sont assurées dès à présent par le plus grand fleuve d'Europe, et elles deviendront bien plus faciles lorsque le réseau des chemins de fer hongrois et transylvanien sera complète par son extension jusqu'à Bukarest. L'Autriche, ainsi placée, doit donc acquérir tout ce que la guerre aura fait perdre à la Russie.

On se ferait une complète illusion si on imaginait que l'irritation produite par la conduite de l'armée autrichienne dans les Principautés fût un obstacle durable à la réalisation du fait que nous venons de signaler. Car les peuples sont oublieux de leur nature; et il est impossible de méconnaitre que, si les généraux de l'Autriche n'ont pas le don de captiver les populations soumises temporairement à leur autorité, ses diplomates excellent dans l'art d'acquérir l'influence sur les États secondaires, qui sont placés dans des rapports de dépendance vis-à-vis d'elle. Qu'on ne s'y trompe pas; peu de temps après le retrait des troupes autrichiennes des Principautés, le Cabinet de Vienne, grâce au protectorat dont il s'agit de l'investir, ne tardera pas à y acquérir, à Jassy et à Bukarest, une influence analogue à celle qu'elle exerce maintenant à Parme, Modène et Florence, et même ù Rome et à Naples.

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Les stipulations diplomatiques demeurent impuissantes, elles deviennent des lettres mortes lorsqu'elles ont pour objet d'empêcher ce qui est une conséquence inévitable de la nature môme des choses. Si on annulle l'influence russe dans les Principautés, il faut s'attendre à ce que l'Autriche en devienne l'arbitre absolu, la véritable souveraine. Quelque forme qu'on donne au traité de paix, il faut se résigner à voir étendre sa domination sur tout le cours du Danube jusqu'à son embouchure dans la Mer Noire.

Un tel accroissement de la puissance autrichienne ne peut à moins que d'exciter en France et en Angleterre les plus graves préoccupations, car, non seulement il devient menaçant pour l'équilibre européen, mais il constitue un danger réel pour la politique éclairée, dont les deux nations sont les principaux représentants.

En effet, qu'on songe à ce que sera l'Autriche lorsqu'elle exercera une puissance incontestée du Tessin à la Mer A'oire, d'Ancone a Ibrail; lorsqu'elle sera maitresse absolue du cours du Danube, comme elle ne l'est déjà que trop du cours du Pò.

Souveraine de l'Adriatique, dominant toute la frontière septentrionale de l'empire ture, elle sera en mesure d'exercer à Constantinople une influence bien plus complète, bien plus irrésistible que celle qu'a jamais possédé la Russie.

Mais ce n'est pas seulement la puissance matérielle de l'Autriche qui sera augmentée par la paix stipulée sur les bases posées à St-Pétersbourg; elle aura pour effet d'accroitre immensément son influence politique sur l'Allemagne et sur l'Italie.

En effet, si la guerre actuelle, à laquelle l'Allemagne et l'Autriche sont demeurées a peu près étrangères, qui ne leur a impose aucun sacrifice, a pour résultat principal d'étendre d'une manière si considérable la sphère d'action de l'Autriche, et de la rendre maitresse absolue du principal fleuve de l'Europe, il est évident que le prestige qu'elle exerce sur les puissances secondaires de la Confédération Germanique deviendra irrésistible. L'influence prussienne étant complètement annulée par la politique incertaine, faible et timide du roi Frédéric, il s'ensuit que l'empereur François devient l'arbitre absolu de l'Allemagne, et qu'il ne tiendra qu'à lui de réaliser le fève des patriotes d'outre Rhin en rétablissant l'Empire germanique, qui, lorsqu'il s'étendrait des bouches du Danube et du Po jusqu'aux rivages de la mer du Nord et de la Baltique, serait sans contrepoids en Europe.

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Quant à l'Italie, l'adoption pure et simple des propositions de paix, ce serait la condamner à devenir définitivement un annexe de l'empire autrichien. Les gouvernements et les peuples de la péninsule, en voyant tous les efforts des Puissances qui représentent la cause du progrès et de la civilisation avoir pour unique résultat la substitution en Europe de la prépondérance autrichienne à la prépondérance russe, et la consolidation chez eux de la domination étrangère, en voyant les immenses avantages obtenus par l'Autriche, tandis que les sacrifices généreux de cette fraction de l'Italie, qui, libre de toute pression germanique, s'est dévouée à la cause commune, demeureraient stériles, les gouvernements et les peuples de la péninsule, dis-je, devraient nécessairement désespérer de leur sort, et considérer désormais le joug autrichien comme une nécessité fatale à laquelle il faut se résigner.

L'influence de la France et de l'Angleterre disparaitrait de l'Italie; l'Autriche seule y dominerait; l'obstacle qu'elle rencontrait dans le Piémont serait détruit; ce pays, abandonné par ses alliés, perdrait toute influence sur les autres provinces italiennes, et aurait bien de la peine à se soustraire lui-même à la pression hostile, que chercherait à exercer sur ses propres habitants découragés et abattus, son malveillant voisin.

Est-ce là le résultat d'une guerre si glorieuse, mais qui a entrainé tant de sacrifices, que peuvent vouloir la France et l'Angleterre? Nous ne saurions le croire; ces Puissances ne peuvent consentir à ce que la paix, que leurs succès leur ont donne le droit de dicter, ait pour unique résultat d'agrandir l'influence autrichienne aux dépens de l'influence russe, en pendant plus déplorable encore la position de l'Italie.

Si la paix avec la Russie doit être stipulée sur les bases posées par y ultimatum présente dernièrement a St-Pétersbourg; si la nécessité de mettre un frein aux projets ambitieux du Czar exigent l'extension de l'influence autrichienne jusque sur les bords de la Mer Noire; l'intérêt des Puissances occidentales, l'intérêt de l'Europe toute entière exigent de leur coté que la puissance de l'Autriche soit restreinte et limitée en Italie; qu'on réclame d'elle en cette contrée des limitations et des restrictions équivalentes aux extensions qu'elle obtiendrait en Orient.

Si par des considérations de prudence on ne croyait pas pouvoir demander à l'Autriche des sacrifices territoriaux, tant qu'on n'annexerait pas les Principautés à l'empire, on doit du moins exiger d'une manière absolue qu'elle cesse d'étendre sa domination au delà des frontières que le traité de Vienne lui a assignées on Italie;

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on doit faire en sorte que la rive droite du Pò ne soit plus gouvernée par des espèces de préfets autrichiens; on doit la contraidre a retirer ses troupes de la Romagne et des Légations, où elle a établi depuis huit ans une domination permanente.

Le Gouvernement du Roi a trop de confiance dans l'esprit de sagesse et d'équité qui anime les Cabinets de Londres et de Paris, pour douter que les considérations que je viens de tracer ne soient pas prises par eux en sérieuse considération, et ne les déterminent à agir dans les conférences qui précéderont le traité de paix, par rapport aux affaires d'Italie, d'une manière conforme à ce que réclament également et les principes de justice et les véritables intérêts de l'Europe.

S'il en était autrement, si la guerre à laquelle nous avons pris une part si active n'avait d'autres résultats pour l'Italie que d'y accroitre la puissance autrichienne, nous le disons avec une profonde et douloureuse conviction, la paix consacrerait une grande injustice, elle serait éminemment immorale.

Car l'Angleterre et la France accorderaient une énorme récompense à la grande Puissance qui a refusé de les aider, de s'unir à elles à l'heure du danger; et elles feraient moins que rien pour l'allié qui n'a pas hésité de tirer l'épée en leur faveur, lorsque la fortune paraissait vouloir s'éloigner un moment de leurs drapeaux; elles le laisseraient affaibli, déchu de sa force morale en présence d'un voisin hostile devenu plus puissant et plus exigeant.

Quelle terrible leçon pour les Puissances de second ordre si cela arrivait! Mais l'Angleterre et la France ne le permettront pas; ces Puissances voudront que l'exemple du Piémont exerce dans l'avenir une grande influence sur la détermination des États qui pourraient être appelés à prendre part aux grandes luttes européennes.

Je vous invite, monsieur le Marquis, à donner lecture de cette dépêche à Mr.... et à en lui laisser copie.

Agréez, ecc.

Cibrario.

Monsieur le Marquis,

(Confidentielle). Turin, le 1er février 1856.

Au commencement de janvier des conférences étaient tenues à Constantinople auprès du Grand Vizir avec l'intervention du ministre


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des affaires étrangères de la Porte et des ministres de France, d'Angleterre et d'Autriche. Ces conférences avaient pour but le quatrième point des propositions acceptées par la Russie, c'est-à-dire l'organisation future des Principautés Danubiennes. Surpris de se voir exclus de ces réunions, le Ministre du Roi, M. le baron Tecco, s'adressa d'abord verbalement aux représentants des Puissances alliées de la Sardaigne pour réclamer son admission; et sa demande n'ayant obtenu aucun résultat, il crut devoir leur remettre la protestation dont vous trouverez ci-joint la copie.

Il y a deux jours, M. le due de Grammont est venu m'entretenir de cotte démarche du baron Tecco, et m'exprimer, au nom de son Cabinet, le désir que le Gouvernement du Roi se décidât à la désavouer.

Je résumerais brièvement les argumens dont il s'est servi, et les réponses que je lui faites.

Les conférences, me dit-il, qui ont eu lieu à Constantinople n'avaient d'autre caractère que de simples pourparlers diplomatiques. On ne rédigeait pas de protocole. Elles ne portaient que sur des questions locales, auxquelles la Sardaigne ne saurait être particulièrement intéressée. Or, dans les réponses de la France et de l'Angleterre aux notes par lesquelles le Cabinet de Turin avait vivement réclame l'admission de plénipotentiaires sardes aux négociations qui auraient lieu, ces deux Puissances avaient reconnu à la Sardaigne le droit de signer le traité general de paix, et d'intervenir aux conférences dans toutes les questions dans lesquelles elle serait particulièrement intéressée. Pour les autres questions les alliés s'étaient uniquement engagés à tenir le Gouvernement sarde exactement informe de ce qui serait traité dans les conférences et des décisions qu'on y aurait arrêté. Et comme ou savait que le baron Tecco, en protestant, avait agi sans instructions, il semblait nature! qu'il dût être désavoué par le Gouvernement du Roi.

Vous sentirez facilement qu'il m'eût été impossible d'admettre et le principe qu'on posait, et les conséquences qu'on voulait en tirer. Dans les conférences tenues a Constantinople, répondis-je à M. de Grammont, il s'agissait de préparer les bases d'un point très essentiel de la paix à intervenir. Ce n'étaient donc pas, a mon avis, de simples pourparlers, mais bien de véritables conférences, dont les résultats se rattachaient nécessairement aux stipulations définitives de la paix.

Ces conférences portaient en outre sur un point qui ne saurait

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être indifférent a la Sardaigne, soit du coté politique, soit da coté commercial. Le baron Tecco n'avait donc pas tort en s'étonnant de ne pas y être appelé; et quant à moi je suis persuade que si dans cette circonstance on n'a pas témoigné a la Sardaigne tous les égards qui lui sont dus, ce sont des considérations personnelles au baron Tecco qui ont cause cet oubli.

J'ai indiqué déjà le doublé intérèt que la Sardaigne avait dans la question des Principautés Danubiennes. Eu effet, de la manière dont sera constitué le régime de ces contrées il dépendra ou de créer un État autonome et assez fort pour échapper à toute influence étrangère, ou de substituer tout simplement de fait et sans en avoir l'intention, le protectorat autrichien au protectorat russe, en augmentant la force de cette Puissance déjà si menaçante pour nos libertés, et si hostile à l'indépendance des petits États d'Italie. A ce seul point de vue la Sardaigne doit attacher une haute importance aux dispositions qui pourraient être prises.

Tout ce qui concerne la liberté de la navigation du Danube et de la Mer Noire a, d'autre part, un intérêt direct et très grave pour le commerce sarde, dont les transactions sont très étendues dans ces régions, et relativement plus étendues encore que celles de la France.

La Sardaigne en conséquence ne peut aucunement, ni sous le rapport commercial, ni sous le rapport politique, rester étrangère à aucun des points dont on a fixé les bases dans les préliminaires de paix. Ainsi le rôle de la Sardaigne dans les conférences est défini par la nature même des questions qui y seront traitées et qui toutes se rattachent de très près à nos intérêts les plus chers.

Notre admission pleine et entière aux conférences ne serait donc pas contraire à la réponse qu'on nous a faite d'abord et qui a été rappelée par M. de Grammont, quand même cette réponse n'eiit pas été depuis considérablement modifiée en notre faveur par le langage unanime de la presse officielle et de la diplomatie. Ce qu'il y a de certain, c'est que le pays serait justement et profondément blessé si, après tant de sacrifices si noblement supportés, nos alliés nous contestaient ou nous marchandaient l'honneur de coopérer librement et sans restrictions à l'œuvre de la paix. Notre droit est sacre; il découle du fait même de notre alliance, et du sang que nous avons verse pour la cause commune.

Ces considérations, qui m'ont paru, du reste, faire sur l'esprit de M. de Grammont une impression favorable, vous diront assez, monsieur le Marquis, quelle fut ma conclusion.

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Te déclarais au ministre de France, que je ne voyais ni la nécessité ni l'opportunité du désaveu qu'on nous demande.

Le baron Tecco, ajoutais-je, aurait peut être mieux fait si, avant de protester formellement, il nous avait demandé des instructions précises. Mais nous ne saurions méconnaitre que dans le fond il a agi dans l'intérêt de son Gouvernement.

Je trouverais, d'ailleurs, d'autant moins convenable ce désaveu, du moment que le baron Tecco a été rappelé de Constantinople.

Si je vous ai communiqué ces observations, monsieur le Marquis, ce n'est pas dans le but que vous avez à provoquer de la part de nos alliés des déclarations nouvelles sur notre droit d'être représentés sans distinctions à toutes les négociations qui peuvent avoir lieu. Ce droit nous le regardons comme incontestable, comme entièrement conforme à l'esprit et à la lettre du traité auquel nous avons accédé, comme une conséquence légitime et irrécusable de notre participation à la guerre.

Le but de ma communication est de vous mettre à même de bien préciser, dans toutes les conversations que vous aurez avec les ministres ou d'autres personnages importants, nos convictions et nos vues à cet égard. Nous croyons que ce ne serait pas faire acte d'une politique généreuse ni bien habile et prévoyante que d'établir en cette circonstance des distinctions non nécessaires entre les Puissances de premier et de second ordre, et rabaisser son unique et fidèle allié aux veux de l'Europe. Nous croyons que la Sardaigne ne doit être exclue des conférences en aucune occasion, et quelle doit être traitée dans les négociations sur un pied de parfaite égalité.

C'est dans ce sens que se sont manifestées dans le sein du Parlement et au dehors les opinions de tous le partis. Si le cas contraire se vérifie, si on venait à manquer envers notre pays aux égards qu'exige sa généreuse coopération, le Gouvernement se trouverait certainement place dans de graves embarras.

Agréez, etc.

CIBRARIO.

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Monsieur le Marquis,

(Confidentielle). Turin, le février 1856.

Hier le due de Grammont est venu me donner lecture d'une dépêche de M. Walewsky relative à la position des plénipotentiaires sardes aux conférences qui vont s'ouvrir à Paris.

La substance de cette communication, conçue du reste dans les termes les plus bienveillants, c'est qu'avec les précédente sanctionnés k d'autres congrès et à l'état actuel des relations politiques, on croirait dangereux d'établir en principe une égalité parfaite entre les grandes Puissances et les Puissances de second ordre. Cela pose, M. Walewsky s'empresse de protester de toutes les sympatries de la France et de l'empereur pour le Gouvernement du roi et pour notre pays. Il nous donne enfin l'assurance que, sans proclamer un principe nouveau, en se fera une loi d'user envers les plénipotentiaires sardes des plus grands égards, de rendre leur position au Congrès honorable et satisfaisante, de témoigner en toute circonstance une haute considération pour la Sardaigne, de nous traiter en un mot non seulement en bons alliés, mais en amis.

J'ai répondu à M. de Grammont que j'entendais avec plaisir ce que ces sentiments contenaient de rassurant et de flatteus pour nous. Que nous ne demandions pas une déclaration solennelle de principe; mais que nous croyons avoir en effet et pratiquement parlant un intérêt directe et réel dans toutes les questions que d'après les bases convenues, on aurait à discuter dans les conférences Que nos plénipotentiaires se rendraient au Congrès appuyés sur les bonnes dispotions qu'on nécessoit de nous témoigner, confians dans l'amitié de nos alliés et persuadés qu'on tendrait à prouver par leur admission pleine et entière à toutes les discussions le prix que l'Angleterre et la France attachent aux services que nous avons rendus à l'alliance et l'attention que méritent à leurs veux l'honneur et l'intérêt de la Sardaigne. Mais que si, contre tout ce que nous avons raison d'espérer et d'attendre il se produisait aux conférences quelque chose de blessant pour la dignité de notre Couronne, je ne croyais pas devoir lui dissimuler que nos plénipotentiaires auraient ordre de protester et de se retirer du Congrès. Je m'empresse, monsieur le Marquis, de vous faire part de cette conversation dont M. le due de Grammont aura probablement rendu compte à son Gouvernement afin que vous puissiez, si l'occasion vous en est offerte,

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conformer votre langage aux résolutions que je viens d'énoncer.

Recevez, je vous prie, la nouvelle assurance de ma considération très distinguer Cibrario.

XL.

Instructions de M. le chevalier Cibrario à M. le comte de Cavour et à M. le marquis de Villamarina, ministres plénipotentiaires de Sardaigne aux conférences de Paris.

Monsieur,

Turin, 8 février 1856.

Monsieur le comte de Cavour sent mieux que personne la délicatesse et l'importance de la mission que le Roi vient de lui confier. Connaissant comme il connait toute la pensée du Roi et du Cabinet, peu de mots suffiront pour lui rappeler la régie de conduite qu'il doit suivre en sa qualité de ministre plénipotentiaire de S. M. au Congrès de Paris.

La première question qui se présente concerne l'admission limitée ou illimitée des plénipotentiaires sardes au Congrès.

Dès le mois de mai, le droit incontestable que nous avions de prendre part aux conférences était admis en principe par la France et l'Angleterre. Le 1er juin le Gouvernement du Roi insistait pour qu'on eût à constater officiellement la reconnaissance de ce droit. Il ajoutait que «tout ce qui tendrait à établir une distinction entre les plénipotentiaires des grandes Puissances et celui de Sardaigne placerait ce dernier dans une position équivoque et pénible, et produirait le plus mauvais effet en Piémont».

Le Gouvernement du Roi admettait seulement que «le droit de prendre une part directe et efficace aux discussions devait être réglé sur la mesure des intérêts moraux ou matériels qui nous concernent dans les questions a traiter». Mais il indiqua clairement que le plénipotentiaire du Roi devait assister à toutes les conférences, observant que par ce moyen la France et l'Angleterre auraient un auxiliaire de plus.

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On nous répondit alors que la Sardaigne signerait le traité de paix, serait admise aux conférences dans toutes les questions dans lesquelles elle serait particulièrement intéressée et qu'on la tiendrait au courant dea délibérations prises dans les séances auxquelles son représentant n'aurait pas assisté. Nous n'avons ni accepté ni repoussé cette déclaration, soit parce-que nous étions persuadés qu'il n'y avait aucune question dans laquelle nous ne fussions intéresses sous le rapport politique ou commercial, soit parce-que nous attendions du succès de nos armes en Crimée une solution plus favorable. En effet le langage diplomatique et celui des journaux officiels ou semiofficiels ne tarda pas a nous reconnaitre des droits égaux à ceux des grandes puissances, et même à nous laisser entrevoir l'espérance de récompenses matérielles pour la générosité et le dévouement avec lesquels nous avions embrassé la cause des Puissances occidentales.

Tout récemment l'Angleterre s'est déclarée piète à considérer comme non avenue la limitation apposée à notre intervention aux conférences dans les notes du mois de juin; et la France, dans une note dont M. de Grammont a donne hier lecture au soussigné, tout en parlant de la difficulté d'établir en principe que les Puissances de second ordre doivent jouir des mêmes prérogatives que les grandes Puissances, promet tant d'égards à la Sardaigne, qu'il est à espérer qu'on ne soulèvera pas la question de principe et que de fait nos plénipotentiaires seront appelés à toutes les discussions et pour toutes les questions dans lesquelles nous avons un intérêt direct ou indirect; et que par conséquent l'honneur de la Couronne et de la nation Piémontaise n'aura pas à subir le moindre échec. S'il en était autrement, MM. les plénipotentiaires sont autorisés à se retirer du Congrès, et M. de Cavour à quitter Paris après avoir protesté.

Pour ce qui concerne les questions qui doivent être discutées au sein du Congrès, nous sommes intéressés, il est bon de le répéter, dans toutes les questions ou du coté commercial ou du coté politique.

M. de Cavour, ministre du commerce, connait si bien la masse de transactions que notre marine marchande opère dans la Mer Noire et dans la Mer d'Azow, et le développement que ce trafic ne manquera pas de prendre dès que la Mer Noire sera neutralisée, qu'on doit juger tout k fait superflu de l'entretenir sur cet argument.

La question politique est tout entière dans le principe sous

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l'égide duquel les Puissances occidentales se sont placées pour commencer la guerre et la justifier, celui de l'équilibre européen.

Peut-on parler d'équilibre européen sans s'occuper de l'Italie dont l'injuste oppression, l'état misérable et anormal sont connus de tout le monde; dont la France et l'Angleterre ont témoigné plusieurs fois l'intention d'améliorer le sort, sans avoir jamais rien fait pour elle? On ne peut consciencieusement nourrir l'espoir de travailler à une paix durable si on laisse subsister une cause de désordre puissante et permanente en maintenant l'Italie dans l'état actuel. La guerre de Crimée en a momentanément tempère la mauvaise influence parce-que l'opinion libérale modérée y a repris une certaine autorité en s'appuyant aux principes d'équilibre, de justice et d'indépendance proclamés par les Puissances occidentales et qu'elle espérait d'autant plus voir triompher en Orient et en Italie, quelle voyait la Sardaigne déployer dans cette lutte son drapeau national.

Mais il ne faut pas se faire d'illusion. Si on ne fait rien pour l'Italie, si les sacrifices supportés par la Sardaigne n'auront d'autre effet que d'assurer la prépondérance autrichienne en Orient; si l'Autriche, qui n'a pas tire l'épée, qui a prolongé par son attitude plus que douteuse la résistance de la Russie, devient plus formidable que jamais, et continue en Italie, contre la lettre et l'esprit des traités, à fortifier Plaisance, à occuper les Légations, à disposer arbitrairement des biens des Lombardo-Vénitiens qu'elle-même a déliés de la qualité de sujets autrichiens et qui sont devenus citoyens sardes; si le Pape et le Roi de Naples peuvent persévèrent impunément dans un système de gouvernement qui serait tout simplement le pire des anachronismes, s'il n'était en même temps contraire à la justice et aux droits de la nation; si c'est là, dis-je, la conséquence d'une guerre de laquelle on attendait de si beaux résultats, le parti subversif reprendra le dessus, et nous aurons à déplorer de nouveaux désordres et plus graves peut-être que ceux qui se sont vérifiés jusqu'à présent.

Monsieur de Cavour aura soin d'émettre et de développer ces idées lorsqu'il en reconnaitra l'opportunité, avec cette mesure et cette prudence qui seules peuvent lui assurer quelque succès.

Si l'Angleterre tient la promesse qu'elle a faite de mettre sur le tapis la question italienne;

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si l'Empereur, qui nous a promis de s'en occuper et qui parait anime dos meilleurs sentiments à l'égard de la Péninsule, ne se laisse pas effrayer par des obstacles qu'on peut surmonter, nos efforts n'auront pas été totalement infructueux.

Ces instructions s'appliquent également, et de point en point à M. le marquis de Villamarina, second ministre plénipotentiaire au Congrès.

CIBRARIO.

XLI.

Quatre dépêches de M. le chevalier Louis Cibrario à M. le comte de Cavour ministre plénipotentiaire de Sardaigne aux conférences de Paris.

Monsieur le Comte,

Turin, le 25 février 1856.

Je vous remercie des informations que vous avez bien voulu me donner sur la conversation que vous avez eue avec l'Empereur des Français. Quand vous n'auriez obtenu que la promesse formelle que la question d'Italie sera mise en avant et discute au Congrès, vous auriez par cela seul, M. le Comte, bien mérité du Roi et de la nation; puisqu'il était si facile de répondre par une fin de non recevoir aux ouvertures que vous avez faites à ce sujet. Mais il parait, d'après ce que vous me mandez, qu'on ne s'arrêtera pas en si beau chemin et que des projets d'un arrangement plus ou moins définitif seront proposés et discutés.

Je ne m'étonne nullement de la répugnace..............

Voilà pourquoi je pense qu'on aurait déjà vaincu une grande difficulté si ou pouvait décider l'Empereur à vouloir l'autonomie à peu-près complète de la Romagne et des Légations.

Voilà pourquoi je crains qu'on se borne, comme ou l'a fait si infructueusement en 1831, à agir sur le Saint Siège par une pression diplomatique, qui serait encore plus infructueuse que l'ancienne, pour que le Saint Siège ait à reformer lui même son Gouvernement, ce qu'il ne peut faire sans se suicider.

Je me réjouis fort que l'idée que nous a vous mise eu avant d'envoyer les ducs de Modène et de Parme en Valachie et Moldavie, et de réunir les duchés au Piémont ait pria racine dans la pensée de l'Empereur.

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Votre haute perspicacité vous aura déjà fait entrevoir, monsieur le Comte, les granes obstacles qu'il s'agit de surmonter. Ou objectera que l'Autriche a un droit de réversibilité ou au moins des prétentions anciennes sur les duchés. En effet l'Empereur prend les titres de Due de Modène, Parme, Plaisance et Guastalla. On ajoutera que les ducs sont de droit, si non de fait, des souverains indépendants.

Or, si on leur donne en toute souveraineté les Principautés Danubiennes, il faut compenser la Porte du droit de suzeraineté qu'elle vient à perdre, si non, on finirait par dépouiller un allié de ces mêmes provinces dont l'occupation violente par la Russie a mis les armes à la main aux puissances occidentales. Ensuite la Russie voudrait elle consentir à augmenter la prépondérance de l'Autriche à qui elle a voué certainement une haine profonde, en plaçant deux lieutenants de l'Autriche à Bukarest et à Jassy? Il faut encore se préoccuper du cas où l'Autriche pressée par la France et l'Angleterre, consentirait au déplacement des souverains de Modène et de Parme, mais demanderai que l'état de Modène fut annexé au grandduché de Toscane. Eu désespoir de cause nous pourrions encore nous contenter de ce résultat qui serait assez beau eu égard à notre position actuelle.

Te me suis permis, Mr. le Comte, de vous indiquer sommairement ces questions principales; beaucoup d'autres surgiront dans la discussion qui pourraient amoindrir, ou même pour le moment dissiper nos légitimes espérances.

Mais dans tous les cas la nation apprendra plus tard que le Gouvernement du Roi, et le premier de ses fonctionnaires n'ont pas oublié un seul des précieux intérêts dont la défense leur était confiée.

Agréez, etc.

Cibrario.

Monsieur le Comte,

(Confidentielle). Turin, le 7 mars 1856.

Le chargé d'affaires d'Autriche sort en ce moment de mon Cabinet. Il est venu me dire qu'il était autorisé à me communiquer officieusement le texte de l'amnistie signée par l'Empereur. Mais, ajouta-t-il, je n'ai reçu d'autre texte que l'allemand, et sur mon observation qu'il pouvait le faire traduire, il me déclara qu'il croyait ce travail inutile, car il pouvait m'assurer que le décret était exactement conforme aux dispositions reproduites, d'après la Gazette des Postes de Francfort, dans le N" l e ' mars de l'Opinione.

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En ce cas, réponds-je a M. le comte Paar, je suis force de vous déclarer que nous ne saurions y trouver le moindre symptôme de rapprochement, comme, sur la foi des premières notions que votre Cabinet nous en avait donne verbalement, je m'étais en presse de le faire, tout en formulant quelques observations et en réservant nos droits. Loin de là je dois, à mon regret, y reconnaitre une persistance à nier la situation et les droits qui dérivaient pour nous du fait de l'émigration légale accordé par l'Autriche aux réfugiés que nous avions naturalisés, à refuser toute valeur à notre naturalisation, à maintenir, en un mot, un principe et des résolutions qui non seulement répugnent à la justice, mais qui sont absolument contraires au droit public, aux traités existants, aux lois même de l'Autriche.

Qu'est-ce que nous trouvons en effet dans le texte du décret tel qu'il est rapporté dans le journal de Francfort, dont vous reconnaissez l'exactitude? Que la condition générale imposée aux émigrés est de rentrer. Mais cette condition ne suffit pas.

Le Gouvernement impérial exige que ceux qui out perdu les droits de sujets autrichiens demandent à être réintégrés dans cette qualité. Or une pareille exigence met à néant les droits créés par les lettres de naturalisation que nous avons délivrées à des individus que l'Autriche avait déliés des devoirs de ses sujets. Elle place les émigrés dans la nécessité ou de renoncer a invoquer les bénéfices de l'amnistie, ou de renier la nationalité sarde qu'il ont légalement acquise. D'ailleurs l'obligation de vendre les biens ne formerait plus, aux termes du décret, une espèce d'exception qui ne serait appliquée que dans quelques cas très rares, ainsi que le portait la communication verbale de M. De Buol à noti e chargé d'affaires; mais elle figurerait au contraire comme une disposition à peu près générale, et le Gouvernement imperial se réserverait de juger de la validité des motifs mis en avant par les émigrés qui voudraient rester k l'étranger. Or si, comme exception, l'obligation de vendre les biens constituerait déjà une atteinte assez grave aux droits que nous garantissent les traités, cette disposition en se généralisant serait de plus en plus attentative à nos droits.

M. Buol avait en outre assuré au marquis Cantono qu'il suffirait que la demande des émigrés fût conçue en termes convenables;.Te vois maintenant qu'ils doivent faire un acte formel de soumission, et signer la promesse de tenir dorénavant une conduite loyale,

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ce qui impliquerait nécessairement que par le passe ils ont manqué de loyauté. Cela ne peut que répugner à leur caractère et à leur honneur.

Ainsi, je conclus, aucun des griefs envers nous n'est levé. Aucune disposition n'est faite pour mettre à l'abri nos droits et notre dignité, pour amener franchement la solution du différend soulevé par les séquestres.

Avant de terminer man entretien je demandais k M. Paar, qui s'était réservé d'en écrire à son Gouvernement, s'il avait reçu l'autorisation de communiquer aux émigrés les conditions du décret. Il me répondit que non, et que peu d' émigrés s'étaient adressés à lui. Et comme il avait l'air d'insinuer que les réfugiés ne se présentaient pas en plus grand nombre, parce-que nous les dissuadions d'une telle démarche; Vous vous trompez, lui dis je, nous n'avons empêché aucunement ni nous n'empêcherons jamais les émigrés de faire ce qu'ils peuvent croire convenable. Mais, comme je vous l'ai déjà déclaré, le Gouvernement doit rester complètement étranger à toute espèce de démarches, soit parce-qu'il ne doit pas légitimer par son intervention des mesures qui portent atteinte à ses droits, soit parce-qu'il ne peut pas honnêtement conseiller aux émigrés d'invoquer des dispositions qu'ils ne connaissent pas officiellement, mi de se soumettre à des conditions qu'ils peuvent croire à juste titre blessantes pour leur dignité.

Je ne cachais pas enfin à M. Paar, que j'étais péniblement affecté en reconnaissant les différences essentielles qui existaient entre les dispositions qu'on avait communiquées au marquis Cantono, et que nous avait également transmises le Ministre de France à Turin, et les clauses réelles du décret. Qu'on avait pu espérer jusqu'ici que le texte du décret serait plus libéral, plus généreux que le sommaire: mais que désormais toute illusion était détruite. Je ne lui dissimulai non plus que je remarquais avec quelque surprise que, tandis qu'on n'avait pas hésité à donner la plus grande publicité à la mesure extralégale des séquestres, on couvrit maintenant d'un voile les dispositions que l'Autriche voulait adopter pour taire cesser ces rigueurs.

L'empereur d'Autriche, lui dis-je, en signant le décret actuel, avait certainement la conviction d'être pleinement dans son droit; j'ai une trop haute idée de l'élévation de son caractère pour me permettre le moindre doute à cet égard. Mais dans ce cas, pourquoi ne pas en appeler au jugement de l'Europe, comme nous n'avons jamais craint de le faire.

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Je ne sais, M. le Comte, l'effet que peuvent avoir produit cefi arguments; M. Paar se borna a exprimer l'espoir qu'à Paris, où tant d'autres questions devaient être résolues, celle des séquestres pourrait aussi recevoir une solution convenable. Vous verrez toujours mieux en attendant qu'il a été très sage de notre part de taire au décret un accueil fort réservé, et d'attendre, pour nous prononcer définitivement, de le connaitre plus en dotai!. Demain j'écrirai dans le sens qui précède, quoiqu'en adoucissante un peu les nuances, au marquis Cantono, en le chargeant de faire connaitre nos regrets à M. de Werner; et je compte aussi d'informer de ces nouveaux renseignements nos Légations, afin qu'elles puissent s'expliquer, le cas échéant, en pleine connaissance de cause, sur la portée véritable de l'amnistie et sur le fondement de nos objections.

Agréez, etc.

Cibrario.

Monsieur le Comte,

Turin, le 25 mars 1856

J'ai à vous accuser réception et à vous remercier de vos dépêches N° 22 et 23 ainsi que de la confidentielle en date du 19 courant et de leurs annexes.

Cette dernière m'a appris toutes les difficultés que vous avez dù surmonter pour obtenir que le Congrès soit saisi de la question des Étata romains, ce minimum auquel des obstacles infranchissables vous out force de réduire pour le moment l'œuvre de régénération que tant de veux et des besoins si réels et si forts appellent en Italie. Si l'on ne recherchait que dans la raison et la justice d'une cause les coéditions du succès, si les grandes Puissances pouvaient se déterminer à porter leur vues au delà des intérêts ou des craintes du moment nous pourrions à peine douter de l'heureuse issue de ces propositions. Mais avec l'empressement qui s'est manifeste pour la paix il y a lieu d'appréhender que le désir du repos, la tendance à éviter tout sujet de débats avec l'Autriche ne fasse surseoir a ces projets comme aux autres.

Vous n'en aurez pas moins dignement rempli la tâche qui vous était confiée, et d'autre part si vous avez réussi, comme je le crois, à bien pénétrer l'Empereur du danger qu'il y aurait a abandonner l' Italie a son état actuel, des motifs très puissants pour l'équilibre de l'Europe et les intérêts même de la France,

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qui conseillent de taire au Piémont une position assez forte pour qu'il puisse conserver une attitude indépendante en face de l'Autriche et contrebalancer son influence, on peut encore espérer que l'Empereur, dont la sagesse et la ténacité sont connues, sache préparer les moyens à la réalisation des plans qu'il se serait, en quelque sorte, appropriés.

Votre langage dans l'affaire des séquestres a été tel qu'il convenait à notre dignité et à la situation. Il est bon qu'on ne compte pas trop sur notre patience. Sans me prononcer aussi nettement, attendu la différence des positions, j'avais moi même parlé dans ce sens a M. Paar et écrit au marquis Cantono à Vienne.

La question du retour de nos troupes et de l'amnistie ont été soumises aux délibérations du conseil du Roi. Dans la journée j'adresserai à M. Hudson la demande formelle d'inviter son Gouvernement à mettre à notre disposition les moyens dont nous manquerions pour les transport des troupes.

L'amnistie est convenue. Le Roi y a donne son consentement avec la magnanimité et la bonne grâce qui sont propres de son caractère confiant et généreux. Dieu veuille que cet exemple soit imité, que les recommandations éventuelles du Congrès rencontrent autant de facilité et de déférence chez les autres souverains d'Italie.

J'ai fait à M. de St.Simon la commission dont vous m'avez chargé. Il s'en est montré reconnaissant. Les bons services de l'Autriche ne l'ont pas trop surpris. Il parait que la Prusse n'en est pas, sur ce chapitre, à sa première leçon. Je pense que vous n'aurez pas manqué d'édifier là dessus, et avec plus d'autorité, M. de Manteuffel.

PS. Je viens de recevoir de M. le comte Rignon votre dépêche N° 24 en date du 21. On s'attendait ici à la proclamation de la paix d'un instant à l'autre. Je vois que des questions de détail en retarderont encore la conclusion. N'en surgira-t-il punit qui la mettent en doute à la dernière heure? La chose me parait peu probable, mais pas impossible. Il est regrettable en attendant que la question Italienne doive passer par de nouveaux ajournements, et je comprends votre impatience. Si nous pouvions compter sur des amis surs et décidés, ces délais ne seraient peut-être pas préjudiciables. Mais je crains que l'amitié des uns ne soit pas à la hauteur de l'animosité ou de la froideur des autres. Je ne me suis jamais dissimulé le mauvais vouloir de M. Walewsky, mais

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j'ai quelque peine à concevoir comment la volonté si ferme et si énergique de l'Empereur s'en laisserait influencer. Au milieu de tout cela, ce qui me rassure c'est que, s'il y a quelque chose d'utile à essayer, vous saurez mieux que personne comment vous y prendre.

Recevez, etc.

Cibrario.

Monsieur le Comte,

Turin, le 3 avril 1850.

La note que vous avez remise à M. Walewsky et à Lord Clarendon est rédigée avec autant de vérité que de tact.

Vous avez place la question sur un terrai n qui n'admet pas d'objection sérieuse. Je vous remercie de cette démarche.

Quelles que puissent être les intentions ou les vues du jour, c'est un germe que le temps et les événements ne manqueront pas de développer. Vos craintes et vos regrets de ne pas voir sortir immédiatement des conseils des Puissances quelque résolution, conforme aux besoins que vous avez si bien signalés, témoignent de votre ardent dévouement à une noble cause, de votre zèle éclairé pour tout ce qui peut contribuer à la grandeur et à la sécurité de notre pays.

Mais pour juger sainement de notre conduite, pour apprécier correctement l'importance des résultats que nous avons retirés de la lutte qu'on vient de finir, il faut examiner, et tous les esprits sensés seront assez justes pour le faire, quelle eût été la position du Piémont s'il s'était tenu à l'écart du conflit, quelle est au contraire la position que lui a donnée son concours.

Le système d'abstention nous aurait assurément prive de toute influence dans le concert des grandes Puissances, il aurait gravement compromis notre position en Italie. Nous aurions perdu cette vitalité d'action que la Maison de Savoie et la nation Piémontaise out su acquérir et exercer depuis longtemps sur la Péninsule et que les avantages du régime libéral ont encore augmentée. Ce devait être notre première pensée comme notre devoir de conserver cette position, de l'améliorer, s'il était possible, au prix de tous les efforts.

Avant tout il s'agissait de conjurer les dangers, d'éviter les dommages qui la menaçaient. C'est ce que nous avons voulu et que nous avons fait en prenant part à la guerre. Et quand nous n'aurions obtenu

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que de maintenir à la hauteur, où elle se trouvait avant la guerre, notre situation politique, nous devrions, en songeant aux périls de cette crise, le considérer comme un résultat qui justifie assez nos sacrifices. Mais heusement nous n'en sommes pas restés là. Nous avons immensément grandi dans l'estime de nos alliés. Nous avons conquis des droits positifs à leur reconnaissance. Et ce n'est pas seulement nos alliés qui nous accordent leur sympathies. Comme vous le remarquez très-justement, M. le Comte, la loyauté de notre conduite nous a gagné les sympathies mêmes de nos adversaires, de la Russie et de la Prusse.

Notre participation à la guerre a encore eu pour effet de mettre entièrement à nu la mauvaise foi de l'Autriche, de réduire à l'isolement, pour ce qui concerne au moine ses projets hostiles au Piémont, un ennemi qui ne saurait plus désormais se parer contre nous de ces prétextes qui lui faisaient trouver des appuis. Enfin la Sardaigne reçue au moine titre et au même rang que les grandes Puissances dans les conseils de l'Europe, admise à traiter sur un pied de parfaite égalité les plus importantes questions européennes se trouve aujourd'hui dans une position, elle est entourée d'une prestige, que la Maison de Savoie et notre pays n'avaient peut-être plus obtenus depuis un siècle.

Ces résultats sont si certains à la fois et si considérables que des passions aveugles pourraient seules les contester ou méconnaître la politique dont ils sont le fruit. La faveur que la France et l'Angleterre ont accordée a ces projets nous font espérer qu'ils ne seront pas livrés à l'oubli. C'est un grand succès que les questions relatives aux États italiens regardées par le passe et écartées comme des velléités révolutionnaires aient pu se produire sous leur vrai jour et captiver l'attention bienveillante de nos alliés; que les hommes d'état se soient enfin persuadés de la nécessité et de la possibilité de changer les conditions actuelles de la péninsule. Si les effets de cet examen et de ces convictions ne peuvent pas être immédiats il est dans l'ordre naturel des choses que, une fois les principes admis, on peut en retarder mais non en éluder les conséquences.

L'opinion libérale, en attendant, les hommes animés d'un patriotisme sincère, sauront gré au Piémont d'avoir pose ces questions devant les Puissances. Ils comprendron que nous avons bien dû supporter quelque peine et braver même quelque péril pour soutenir ouvertement les intérêts de l'Italie au milieu de circonstances qui ne paraissaient


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guère favorables à de pareilles discussions.

Ces résultats doivent nous consoler; ils le doivent d'autant plus que les grandes Puissances avant mis pour base de leur alliance de ne viser à aucune espèce d'avantage particulier ou d'agrandissement, la susceptibilité la plus ombrageuse ne pourra pas croire qu'il y ait déshonneur ou mécompte pour le Piémont si le concours qu'il a apporté à la guerre ne lui aura pas immédiatement valu des récompenses matérielles.

Vous me pardonnerez, monsieur le Comte, d'avoir passé en revue les résultats incontestables que nous avons obtenus dès à présent de la guerre et des conférences. Ils n'auront sans doute pas échappé à votre perspicacité. Mais c'est à vous qu'en revient la plus grande part. Le Roi et le pays vous seront reconnaissants d'avoir soutenu si noblement et si dignement l'honneur et les intérêts de la Sardaigne, d'avoir si puissamment contribué par votre zèle, par votre adresse et par la haute opinion que vous avez su inspirer, à nous assurer une position brillante et à préparer de légitimes espérances pour l'avenir.

Je suis charmé, monsieur le comte, de vous rendre un témoignage que les adversaires même de bonne foi ne peuvent que confirmer.

Ce matin j'ai reçu votre dépêche 31 mars, contenant la copie de lettre que vous avez adressée à Lord Clarendon pour l'engager à appuyer au Congrès la proposition de l'amnistie, et la copie de la proposition elle même, ainsi que les annexes au protocole N° XVI, et les protocoles des séances du 28 et 29 mars, N° XVII et XVIII.

J'ai lu avec plaisir le leading article du Morning Post, que je vous remercie de m'avoir envoyé. Il n'est pas moins bien pensé que bien écrit. S'il a été sous les veux des plénipotentiaires il n'aura pas été sans influence sur le jugement qu'attendent vos propositions.

Recevez, etc.

CIBRARIO.

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XLII.

Dépêche de M. le comte Cavour à M. le chevalier Cibrario, ministre des affaire étrangères.

Monsieur le Ministre,

Paris, le 29 mars 1856.

Dans la séance d'hier le Congrès a adopté les derniers articles du traité de paix.

Les questions, auxquelles l'évacuation du territoire ottoman pouvait donner lieu, auraient exigé une ou deux séances pour erre résolues. On a par conséquent mieux aimé d'en faire l'objet d'une convention particulières stipuler après la signature du traité de paix; et l'on s'est borné à poser le principe de l'évacuation sans aucun développement.

Les russes voulaient que les anciens traités, en tant qu'ils n'étaient pas contraires au traité actuel, seraient conservés en vigueur. Nous étions très disposés à appuyer cette proposition; mais les turcs l'on combattue avec acharnement; les anglais les ont soutenus et on a fini par déclarer, qu'en attendant la stipulation de nouveaux traités, les Russes et les Turcs recevraient dans les deux pays le traitement de la nation la plus favorisée.

En dernier lieu l'Autriche renouvela la demande que la Convention spéciale relativement aux iles d'Aland, stipulée entre la Russie d'une part et la France et l'Angleterre de l'autre, fût annexée au traité general.

Cette proposition donna lieu à une apostrophe très amère du comte Orloff: «M. de Buol, vous n'auriez jamais dû faire une telle proposition». -Et pourquoi? demanda celui-ci. - «Par des raisons que je ne dirai pas, parce-que cela me mènerait trop loin». Cet incident n'eut pas de suite.

A la fin de la séance, je fis la proposition que le blocus fût immédiatement levé après la signature de la paix dans l'intérêt du commerce et spécialement dans celui des céréales.

Cette proposition, qui fit le plus grand plaisir à la Russie, fut prise ad referendum par lord Clarendon, qui nous donna l'assurance de l'appuyer auprès de son Gouvernement.

Si nous n'avons pas pu dans le cours cette longue négociation obtenir aucun avantage

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direct pour notre pays, nous avoir conquis l'amitié et la sympathie de plusieurs Puissances, de la Prusse et de la Russie en particulier. En effet le baron Manteuffel quoique fort réservé de sa nature, nous témoigne en toutes les occasions des sentiments d'estime et d'amitié. Son collègue, le comte de Hatzfeldt, va plus loin et parie de l'identité de la position de nos deux pays, des causes de plaintes que l'Autriche donne à l'un et à l'autre, sous une forme qu'on peut considérer comme de véritables avances.

Quant aux russes, ils sont très explicites. Le comte Orloff affecte une grande amitié pour nous. La baronne de Secbach, fille de Nesselrode, fait nos éloges au dépens des plénipotentiaires autrichiens, et le baron Brunow nous prodigue ses meilleures phrases.

Hier enfin, le comte Orloff m'a dit en me serrant la main: «J'ai écrit ce matin à l'Empereur que nous avions excessivement à nous louer des plénipotentiaires sardes.

Ce n'est pas là de brillanta résultats, qui se traduisent en avantages immédiats et matériels; mais ce sont des germes de futurs événements, qui doivent aider notre pays à atteindre la glorieuse mission à laquelle la Providence la destiné.

.le joins à cette dépêché le protocole N° XVI.

Agréez, monsieur le Ministre, les nouvelles assurances de ma considération très distinguée.

C. Cavour.

XLIII.

Due lettere del conte Camillo Cavour al commendatore Michelangelo Castelli.

Mon cher Castelli.

Paris, 17 mars 1856.

Vous devez me trouver bien négligent pour avoir tarde si longtems à répondre à la bornie lettre que vous m'avez écrite en revenant de votrecourseù Bologne. Ne crovez pas qu'il y ait eu oubli de ma part, ou un peu de mauvaise humeur causée par les tristes vóritós que vons m'avez adressegt;s. Non: ni oubli. ni humeur; seulement une multitude d'occupations

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qui ne m'ont pas laissé jusqu'ici un moment de reprit.

Je ne sais si ma mission aboutira à quelque chose, mais ci cela arrive ce ne sera pas faute de m'être remué dans tous les sens. Malgré cela, je n'en serai pas moins condamné par tous les partis. J'v suis résigné d'avance. Les fatigues du grand monde auxquelles je suis condamné, m'ont admirablement prédispose à gouter les douceurs de la vie champêtre.

Ainsi je vous prie, mon cher ami, de ne pas vous inquiéter si, à mon retour, une entorse donnée par la Chambre me force à me retirer. Après cinq ans et demi de ministère et trois ans de journalisme le repos ne peut qu'être le bien venu.

Je vois souvent Bixio qui vous est reste attaché. Il aime l'Italie comme nous. Nous parlons souvent de vous.

Minghetti est ici et nous travaillons ensemble, c'est un homme charmant. Quel excellent ministre il ferait. Dites à Rattazzi qu'hier je lui ai écrit al irato sur une fausse nouvelle qui m'avait été donnée. Je suis redevenu calme aujourd'hui.

Adieu, mon cher Castelli, écrivez-moi et ne m'en voulez pas si je tarde à vous répondre.

Votre ami

C. Cavour.

Caro Castelli,

Parigi, aprile 1856.

Non posso qui entrare in molti particolari, ma l'assicuro che non ho a lagnarmi dell'imperatore. La Francia voleva la pace, egli dovette farla ed invocare per ciò il concorso dell'Austria. Non poteva quindi trattare questa Potenza conio nemica; anzi sino a un certo punto era costretto a trattarla come alleata. In una tale condizione non poteva nella questione italiana adoperare le minaccie; le esortazioni erano sole possibili. Queste furono adoperate e tornarono vane. Il conte Buol fu irremovibile nelle grandi come nelle piccole cose.

Questa tenacità che torna a danno presente, risulterà a vantaggio futuro dell'Italia. L'imperatore n'è irritatissimo e non lo nasconde. L'altra sera mi disse: «l'Autriche ne veut se prêter à rien; elle est prête à faire la guerre plutôt que de consentir à la cession de Parme en votre faveur; or en ce moment je ne puis pas lui poser un casus belli, mais

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tranquillisez vous, j'ai le pressentiment que la paix actuelle ne durera pas longtemps».

L'imperatore ha proposto all'Austria di prendere i Principati danubiani e di abbandonarci la Venezia e la Lombardia, ed in mia presenza disse a Clarendou: «c'est la seule solution raisonnable des affaires d'Italie». Ciò basti a provarle le buone disposizioni dell'imperatore e la necessità di non irritarlo con epigrammi che a nulla giovano e possono fare gran male (1). Mi creda C. Cavour.

XLIV.

Sei lettere del conte Camillo Cavour ad Urbano Rattazzi.

Caro Collega,

Parigi, 10 aprile 1856.

In un lunghissimo dispaccio diretto a Cibrario, riferisco minutamente le sedute del Congresso di ieri, in cui si trattò la questione d'Italia. Poco ho da aggiungere al mio racconto ufficiale. Valewski era evidentemente imbarazzato a parlare del Governo del papa, fu debolissimo nelle sue repliche alle energiche proteste di Buol. Fu molto più esplicito rispetto a Napoli, ne parlò con parole di aspra censura. Andò troppo oltre forse, poiché impedì ai Russi di unirsi alle sue proposte.

Clarendon fu energico quanto mai, sia rispetto al papa, sia rispetto al re di Napoli; qualificò il primo di quei governi siccome il peggiore che avesse mai esistito; ed in quanto al secondo, lo qualificò come avrebbe fatto Massari.

(1) Allude a un diario, il quale villaneggiava e derideva di continuo l'Imperatore. Michelangelo Castelli, egregio cittadino assai benemerito all'Italia, era invitato dal conte Cavour a persuadere amichevolmente la direzione del diario a desistere. «I nostri nemici, scriveva il conte nel brano di questa lettera che abbiamo sospeso di pubblicare per non venir mono a personali riguardi, mandano a Parigi tutti i numeri che contengono qualche allusione all'Imperatore, e questi cadono tutti sotto i suoi occhi. Si sfoghi il giornale sui ministri, su di me: non me ne lamento, ma lasci stare colui che volere o non volere ha la chiave della politica nelle mani».

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Credo, che convinto di non potere arrivare ad un risultato pratico, giudicò dovere adoperare un linguaggio extraparlamentare.

Avremo ancora una seduta animata quando si tratterà dell'approvazione del protocollo; Clarendon mi disse riservare la sua replica per quella circostanza.

Nell'uscire, gli dissi: Mvlord, lei vede che non vi è nulla da sperare dalla diplomazia, sarebbe tempo di adoperare altri mezzi, almeno perciò che riflette il re di Napoli. Mi rispose:

Il faut s'occuper de Naples et bientót. Lo lasciai dicendogli: J'en viens causer avec vous.

Credo potere parlargli di gettare in aria il Bomba. Che direbbe di mandare a Napoli il principe di Carignano? O, se a Napoli volessero un Murat, di mandarlo a Palermo? Qualche cosa bisogna fare. L'Italia non può rimanere nelle condizioni attuali. Napoleone ne è convinto e se la diplomazia fu impotente, ricorriamo a mezzi extralegali. Moderato d'opinioni, sono piuttosto favorevole ai mezzi estremi ed audaci. In questo secolo ritengo essere soventi l'audacia la migliore politica.

Giovò a Napoleone, potrebbe giovare a noi.

Dica al re che uscirei cento volte dal ministero, anziché consentire ad affidare la più delicata di tutte le missioni a X....

I soli adattati al posto di Pietroborgo sarebbero, Cesare Alfieri e Pralormo. Li proponga al Consiglio. Dovremo mandare un inviato straordinario ad assistere alla coronazione dell'imperatore. Sarà bene scegliere il principe di Carignano, se altri principi ricevono analogo mandato.

Spero poter partire martedì o mercoledì venturo.

Mi creda, ecc.

Suo affezionatissimo

C. Cavour.

Caro Collega,

Parigi, 11 aprile 1856.

Mando un corriere a Chambery onde poterle scrivere senza reticenza..................................................................................................

Vengo ora al secondo argomento della mia lettera ed e il più importante.

Convinto che l'importanza della diplomazia e. del congresso produrrà funesto conseguenze in Italia e collocherà il Piemonte in condizioni difficili e pericolose,

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ho creduto bene di vedere se non vi fosse mezzo di arrivare ad una soluzione compiuta con mezzi eroici: le armi. - Epperciò ieri mattina feci da lord Clarendon la seguente conversazione.

«Mvlord: Ce qui est passe au Congrès, prouve deux choses: 1° Que l'Autriche est décidée à persister dans son système d'oppression et de violence envers l'Italie: 2° Que les efforts de la diplomatie sont impuissants a modifier son système.

Il en résulte pour le Piémont des conséquences excessivement fâcheuses. En présence de l'irritation des partis d'un coté et de l'arrogance de l'Autriche de l'autre, il n'y a que deux partis à prendre: ou se réconcilier avec l'Autriche et le pape; ou se préparer à déclarer la guerre à l'Autriche dans un avenir peu éloigné. Si le premier parti était préférable, je devrais à mon retour à Turin conseiller au roi d'appeler au pouvoir des amis de l'Autriche et du pape. Si au contraire la seconde hypothèse est la meilleure, nos amis et moi nous ne craindrons pas de nous préparer à une guerre terrible où à une guerre à mort: The vouar to the Knife, la guerre jusque avec les couteaux. lei je m'arrêtai. Lord Clarendon sans montrer ni étonnement, ni désapprobation, dit alors: «Je crois que vous avez raison, votre position devient bien difficile, je crois qu'un éclat devient inévitable, seulement le moment d' en parler tout haut n'est pas venu».

Je répliquai: Je vous ai donne des preuves de ma modération et de ma prudence, je crois qu'en politique il faut être excessivement réservé en paroles et excessivement décide quant aux actions.

Il y a des positions ou il y a moins de dangers dans les partis audacieux, que dans un excès de prudence. Avec La Marmora je suis persuade que nous sommes en état de commencer la guerre, et pour peu qu'elle dure, vous serez bien force de nous aider». Lord Clarendon répliqua avec une grande vivacité; «Oh! certainement si vous êtes dans l'embarras vous pouvez compter sur nous, et vous verrez avec quelle énergie nous viendrons à votre aide».

Dopo ciò non spinsi più oltre l'argomento e mi ristrinsi a parole amichevoli e simpatiche per Lord Clarendon e l'Inghilterra. Ella giudicherà quale sia l'importanza delle parole dette da un ministro che ha fama di essere riservatissimo e prudente.

L'Inghilterra, dolente della pace, vedrebbe, ne son certo con piacere, sorgere l'opportunità di una nuova guerra, e di

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una guerra cotanto popolare come sarebbe quella che avesse per iscopo la liberazione d'Italia. perché adunque non approntare di quelle disposizioni e tentare uno sforzo supremo per compiere i destini della Casa di Savoia e del nostro paese? Come però si tratta di questione di vita o di morte, è necessario di camminare molto cauti; egli è perciò che credo opportuno di andare a Londra a parlare con Palmerston e gli altri capi del Governo. Se questi dividono il modo di vedere di Clarendon, bisogna prepararci quetamente, fare l' imprestito di 30,000,000 ed al ritorno di Lamarmora dare all'Austria un ultimatum ch'essa non possa accettare, e cominciare la guerra.

L'imperatore non può essere contrario a questa guerra; la desidera nell'intimo del cuore. Ci aiuterà di certo, se vede l'Inghilterra decisa a entrare nella lizza.

D'altronde farò all'imperatore prima di partire un discorso analogo a quello diretto a lord Clarendon. Le ultime conversazioni che ho avuto con lui e co' suoi ministri, erano tali da preparare la via ad una dichiarazione bellicosa. Il solo ostacolo ch'io prevedo è il Papa. Cosa farne nel caso di una guerra italiana? Io spero che dopo aver letto questa lettera, ella non mi crederà colpito da febbre cerebrale, o caduto in uuo stato d'esaltazione mentale. Tutt'altro, sono in una condizione di salute intellettuale perfetta; e non mi sono mai sentito più calmo.

Che anzi mi sono acquistato una grande riputazione di moderazione. Clarendon me lo disse spesso; il principe Napoleone m'accusa di difettare d'energia, e persino Walewski si loda del mio contegno. Ma veramente sono persuaso che si possa con grande probabilità di buon esito adoperare l'audacia.

Com'ella può essere persuasa, non assumerò nessun impegno, né prossimo, né remoto, raccoglierò i fatti, ed al mio ritorno il re ed i miei colleghi decideranno il da farsi.

Anche oggi non vi è conferenza. Il processo verbale della burrascosa tornata di martedì non è preparato. Lord Clarendon è dispostissimo a riappiccare la zuffa con Buol, ma forse questi cercherà di evitarla col non fare osservazioni sul protocollo. Intanto Clarendon ha spedito lord Cowley da Hubner onde gli dicesse: «che l'Inghilterra tutta sarebbe sdegnata delle parole pronunciate dal ministro austriaco quando le avrà conosciute.

Ho visto il martire, mi ha manifestato la più intera approvazione della mia condotta al Congresso.

Mi ha dato una patente d'italianissimo, e si è dichiarato

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fautore ardente della nostra politica. Il povero uomo si animò e s'intenerì al punto di spargere lacrime abbondanti.

…..................................................................................................

La prego a tenere la parte politica di questa lettera per lei solo.

Suo affezionatissimo

C. Cavour.

Caro Collega,

Parigi, aprile 1856.

Ho visto l'Imperatore, gli tenni un linguaggio analogo a quello di cui m'ero servito con Clarendon, ma un po' meno vibrato. Egli lo accolse benissimo, ma soggiunse, che sperava ricondurre a più miti consigli l'Austria. Mi raccontò avere al pranzo di sabbato, detto al conte Buol, ch'egli lamentava di trovarsi in diretta contraddizione coll'imperatore d'Austria sulla questione italiana; che in seguito a queste dichiarazioni, Buol era andato da Walewski onde protestare del desiderio dell'Austria di compiacere in tutto l'imperatore; soggiunse non avere questa altra alleata della Francia, epperciò essere per essa una necessità di conformare la sua politica ai suoi desideri.

L'imperatore pareva soddisfatto di questa protesta d'affezione, e mi ripeté che se ne varrebbe per ottenere concessioni dall'Austria.

Mi dimostrai incredulo, insistetti sulla necessità di assumere un contegno deciso, e per cominciare gli dissi avere preparata una protesta che darei il domani a Walewski. L'imperatore parve esitare molto. Finì col dire: andate a Londra, intendetevi bene con Palmerston ed al vostro ritorno tornate a vedermi.

Deve infatti l'imperatore aver parlato a Buol, poiché questi al finire della seduta venne a me, e mi fece mille proteste sulle buone intenzioni dell'Austria rispetto a noi; mi disse voler vivere in pace; non osteggiare le nostre istituzioni ed altre simili corbellerie. Gli risposi che di questo desiderio non aveva date prove durante il suo soggiorno a Parigi; partire convinto essere i nostri rapporti peggiori di prima; la conversazione fu lunga ed assai animata; troppo lungo sarebbe il riferirla minutamente; molte verità furono scambiate, in modo però urbano e gentile. - Nel lasciarci, disse: parto col rincrescimento di vedere le nostre relazioni politiche peggiorate,

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ciò non toglie ch'io spero che conserverete grata rimembranza al pari di me delle nostre relazioni personali. Mi strinse affettuosamente la mano, dicendomi, lasciatemi sperare che anche politicamente non saremo sempre nemici.

Da queste parole conchiudo essere Buol spaventato delle manifestazioni dell'opinione in nostro favore, e forse anche delle parole che l'imperatore gli avrà detto.

Orloff mi fece mille proteste d'amicizia, riconobbe meco essere lo stato d'Italia insopportabile, e mi lasciò quasi intendere che il suo Governo avrebbe volentieri cooperato per migliorarlo. Anche il prussiano disse male dell'Austria. Insomma se non si è guadagnato nulla praticamente: rispetto all'opinione pubblica la vittoria è piena.

Buol mi disse avere presentato una richiesta onde fosse fatto un processo all'Espero per un vecchio articolo. Sarebbe bene che il giornale fosse condannato, il che renderebbe più efficaci le parole sull'Austria e gli altri Stati d'Italia, ch'io dovrò pronunciare nel seno del Parlamento.

Questa lettera doveva esserle portata da Sommeiller, ma non avendo potuto terminarla la consegno al signor Nigra che ritorna direttamente a Torino.

Credo opportuno di fare stampare alla stamperia Reale, il trattato di pace, con tutti i protocolli, per farli distribuire alle Camere tostochè la notizia dello scambio delle ratifiche sarà giunta in Torino. Piacciale accertarsi che Cibrario faccia ciò eseguire.

Scrivendomi, mi diriga le sue lettere a Parigi sotto fascia coll'indirizzo di Villamarina, Mi creda con affettuosi sensi Suo amico C. Cavour.

Caro Collega, Parigi, 14 aprile 1856.

Ieri essendo a pranzo dal principe Napoleone col conte Clarendon, ebbi con questi due personaggi una lunga conversazione. Entrambi mi dissero avere tenuto il giorno prima lunghi discorsi coll'imperatore sulle cose d'Italia, nei quali gli avevano dichiarato, che la condotta dell'Austria collocava il Piemonte in una condizione talmente difficile, che era una necessità l'aiutarlo ad uscirne. Lord Clarendon disse schiettamente che poteva essere condotto a dichiarare la guerra all'Austria, e che in questo caso sarebbe stata una necessità l'assumere le sue parti.

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L'imperatore parve assai colpito, rimase sopra pensiero, e manifestò la volontà di conferire meco.

Io spero di poterlo fare capace dell'impossibilità assoluta di rimanere mila condizione che ci viene fatta dalla condotta ostinata e provocante dell'Austria. Conoscendo le sue simpatie per l'Italia e per noi, riconoscendo la necessità di agire, lo farà colla risoluzione e la fermezza che tanto lo distinguono.

Se il Governo inglese divide i sentimenti di lord Clarendon l'appoggio della Gran Bretagna non ci farà difetto. Questo ministro incontrando Buol dall'imperatore gli disse: «voi gittate il guanto all'Europa liberale, pensate ohe potrà essere raccolto e che vi sono Potenze che quantunque abbiano fermata la pace, sono pronte, e vogliose di ricominciare la guerra».

Discorrendo meco dei mezzi di agire moralmente ed anche materialmente sull'Austria, gli dissi: mandate alla Spezia i vostri soldati sopra legni da guerra, e lasciate lì una vostra flotta.

Mi rispose tosto; l'idea è ottima. Il principe Napoleone fa quanto può per noi. Dimostra apertamente la sua antipatia per l'Austria: al pranzo di ieri tutti i plenipotenziari erano invitati meno i tedeschi. Richiesto del motivo di quest'esclusione rispose: «Parce que je ne les aime pas, et que je n'ai aucun motif de cacher mon antipathie».

Il Congresso si raduna quest'oggi, e fors'ancora mercoledì. Giovedì partirò per Londra ove mi fermerò il meno possibile.

Ma dovrò forse al mio ritorno fermarmi per vedere l'imperatore.

Avendoci pensato bene, credo che ella possa senza inconvenienti comunicare le mie lettere a Durando, la cui freddezza, fermezza e retto senso m'inspirano molta fiducia.

Mi creda

Suo affezionatissimo amico

C. Cavour.

Caro Collega,

Giovedì, 6 di sera.

Sul punto di partire per Londra e di affrontare la Manica che dicono cattiva, le scrivo per parteciparle avere avuto una lunga conversazione con Clarendon che si era trattenuto quest'oggi due ore coll'imperatore.

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Clarendon essendosi dimostrato con questi afflitto della sterilità degli sforzi tentati a favore dell'Italia, l'imperatore gli disse: vi autorizzo a dichiarare al Parlamento essere la mia intenzione di ritirare le mie truppe da Roma, e di costringere l'Austria a fare altrettanto parlando, occorrendo, tres-haut.

Disse avergli Buol fatte le più belle promesse, e finalmente s'impegnò ad unirsi all'Inghilterra per chiedere al re di Napoli un'amnistia, in modo da non potere essere ricusati; cioè minacciandolo dell'invio di una squadra.

Clarendon mi disse che gli parve essere l'imperatore di buona fede; e che sicuramente se l'Austria non cambiava od almeno non modificava il suo sistema, fra un anno la Francia e l'Inghilterra l'avrebbero costretta a farlo, anche colle armi, occorrendo.

È certo che i plenipotenziari austriaci sono abbattuti e malcontenti. Anch'essi si lamentano di Walewski, e si burlano della sua incapacità.

L'imperatore mi ha regalato un vaso di porcellana di Sèvres di un grandissimo valore. Se X......... lo sa, poveretto me; mi accuserà di avere venduta l'Italia.

La lascio per avviarmi verso la strada di ferro.

Mi ami e mi creda

Suo affezionatissimo amico

C. Cavour.

Caro Collega,

Eccomi in Londra da quasi tre giorni senza aver fatto gran cosa. Ho trovato lord Palmerston in gran tutto per la repentina morte del figlio primogenito di sua moglie, lord Cowper; così che tutte le combinazioni di Azeglio andarono a monte.

Vidi però lord Palmerston ma non potei addentrarmi molto nell'argomento che avrei avuto a trattare. Dissemi che un'ultima lettera di lord Clarendon recava migliori notizie, e che non bisognava disperare. Vedo bene che sino all'arrivo di lord Clarendon non potrò avere conversazioni serie.

La regina m'invitò a pranzo il giorno dopo del mio arrivo, fu meco gentilissima e mi manifestò la più calda simpatia per gli affari d'Italia. Anche il principe Alberto fu non poco esplicito, persino rispetto all'Austria. La regina m'invitò ripetutamente a rimanere per vedere la grande rivista navale che avrà luogo mercoledì.

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Non potei ricusare giacché gl'Inglesi danno un gran peso a queste dimostrazioni delle gigantesche forze da essi riunite. Partirò quindi giovedì sera o venerdì mattina; assai dispiacente di avere fatto questa corsa. Certo se la notizia della disgrazia accaduta a lord Palmerston mi giungeva in Parigi, rivolgeva i miei passi nella direzione di Torino.

Ho già visto molti uomini politici. Tutti si dichiarano favorevoli alla nostra causa. I tory paiono non meno decisi dei whig, i più animati sono i zelanti protestanti capitanati da lord Shaftesburv. Se si desse retta a questi, l'Inghilterra farebbe una crociata contro l'Austria.

Non le scriverò più da Londra salvo succedesse qualche cosa di straordinario.

Mi creda

Suo affezionatissimo amico

C. Cavour.

XLV.

Dispaccio circolare del commendatore Carafa ministro degli affari esteri di S. M. il re di Napoli alle regie legazioni all'estero.

Signor....................,

Napoli, 8 novembre 1856.

La partenza della missione di Francia e d'Inghilterra che con mio dispaccio circolare del 27 dello scorso ottobre, N° 48, la informai d'avere ricevuti i domandati passaporti, ha avuto effettivamente luogo la mattina di martedì?A del prossimo passato, nel qual giorno i capi di tali missioni presero la direzione di Roma per imbarcarsi a Civitavecchia lasciando l'incarico dei passaporti, non che la custodia degli archivi, a' rispettivi consolati, i quali prima presero cura di fare abbassare gli stemmi dei due Governi dalla porta dell'abitazione dei due rappresentanti partiti.

Rimangono da tale atto interrotte lo diplomatiche relazioni di quei due Governi con questo del R. nostro signore, contro del quale niuna ostilità si è intesa esercitare, come ci ha spiegato il Monitore francese del giorno 20 p. p.

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Come potrà da fatti giudicarsene ancora meno ostili e senza la minima alterazione, si conservano i nostri rapporti con quelle due Potenze, dappresso alle di cui Corti i regi rappresentanti non verranno richiamati.

Oltre le ulteriori corrispondenze, delle quali ha già ricevuto copia, è venuto opportuno il Monitore francese del 25 ad offrire a ciascuno il diritto e la facilità di giudicare da qual lato sia il diritto, ed ha reso inutile che il R. Governo manifestasse in prova della propria lealtà e delle varie specie d'attacco di cui si è soggetto, la natura delle pretese delle due Potenze occidentali ed i mezzi con cui si sono fatte a sostenerle; dando alle prime il nome di amichevoli consigli, e giustificandoli coll'asserito unanime consentimento di tutte le altre Potenze europee, ad adottare de' provvedimenti atti ad allontanare il pericolo di veder compromessa la pace dell'Italia dal nostro sistema governativo.

La parte dai rappresentanti le grandi Potenze riuniti in Congresso a Parigi presa a' protocolli degli 8 aprile è un documento incontrastabile della ricusata adesione delle grandi Potenze, tanto all'iniziativa proposta del Congresso, quanto all'applicazione di misure provocanti, ma dalle sole due Potenze occidentali mandate ad effetto.

L'attitudine del Governo del re non poteva, né può altrimenti inspirarsi che nel proprio diritto e nell'esistenza di stato indipendente, per respingere colla ragione e con la guida della giustizia della propria causa qualunque pretesa d'ingerenza estera nell'interna amministrazione, ed opporre la moderazione a' passi con che le due Potenze hanno senza volontà ostile spinta la loro attitudine a riguardo di una Potenza amica.

I fatti, più convincenti di tutte le assicurazioni, provano ad evidenza l'insussistenza dei motivi su' quali si è dichiarato fondarsi l'ingiusto procedere delle due grandi Potenze verso di noi; cioè il rigore del Governo pe' condannati politici, e l'agitazione mantenuta in Italia dal nostro sistema governativo.

Il numero delle grazie politiche dal re N. S. fatte, e che non cessa quotidianamente di fare, ormai note a tutta l'Europa, risponde in modo da distruggere il primo de' motivi; e la tranquillità che regna in tutti i dominii del re N. S., e che speriamo vorrà continuare, ad onta di quanto sperasi dagli agitatori per vederla alterata; profittando delle attuali differenze, sarà la più potente risposta ad oppugnare il secondo motivo.

Al Governo del re non rimane quindi che conservarsi nella

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attuale posizione senza menomamente smuoversi a quanto possa esser detto o verrà fatto, per tentare di falsare sul conto nostro la pubblica opinione, con attribuirci cause di pericoli, di cui malagevole è riuscito pure l'inventare pretesti per farli credere.

Nel persistere però in una tale linea di condotta, il Governo del re N. S. vedrà con piacere offrirgli si l'occasione dalle due Potenze occidentali di ristabilire le diplomatiche relazioni preesistenti, e che esse hanno voluto interrompere.

Belle cose qui sopra esposte sulla condotta sinpra serbata dal real Governo, e sull'attitudine che intende mantenere verso le Potenze occidentali, Ella se ne varrà senza darne veruna comunicazione, ma soltanto per sua propria norma ne' discorsi che potranno esserle mossi da codesto Governo sulle insorte divergenze, conformandovi il suo linguaggio, ed il suo contegno.

Carafa.

XLVI.

Lettre confidentielle de M. Carafa ministre des affaires étrangères de S. M. le roi de Naples à M. le comte de Bernstorff ministre de S. M. le roi de Prusse à Londres.

Monsieur le Comte,

Naples, ce 2 février 1857.

J'ai reçu votre dépêche confidentielle du 15 janvier, par la quelle vous avez bien voulu m'informer de la conversation et de ses plus importants détails eue avec lord Clarendon, et monsieur de Persigny sur la position que les deux Puissances occidentales nous ont faite dans un but bien contraire à celui qu'elles ont cru pouvoir faire valoir.

Le langage du ministre des affaires étrangères d'Angleterre est évidemment le même qu'il a tenu des le commencement de la question, quoique les faits en aient détruit les prétextes.

Le langage d'ailleurs de l'ambassadeur de France a été dans un esprit, quoique de justice et de vérité, à l'endroit de la politique suivie par le roi mon maitre, cependant bien loin de pouvoir convaincre que notre dignité en serait sauvée, et la


vai su


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tranquillité du royaume garantie, si nous accordions ce qu'on nous demande incessamment.

Sans vous répéter les motifs qui nous imposent tous les jours davantage de tenir ferme dans la ligne de conduite que nous nous sommes tracée dès le commencement de la vertence avec les deux Puissances occidentales, je me bornerai à vous faire connaître comme l'état actuel de ce royaume justifie nos prévisions sur l'esprit public, et sur les effets de la pression, sous laquelle, quoiqu'on en dise, nous nous trouvons toujours.

Le but de la conférence de Paris est bien prouvé de n'avoir jamais été celui de calmer les esprits, pour éviter une révolution, comme on l'a dit, et nous n'avons jamais cesse, dès le premier moment, de prévenir que le contraire serait arrivé par la protection déclarée par l'Angleterre et la France en faveur de nos révolutionnaires de toute espèce.

Les conséquences en effet ne s'en sont fait attendre, dans les états continentaux ainsi qu'en Sicile, où l'état d'émotion révolutionnaire bien violente n'a pas tarde à se manifester, ce qui a rendu au Gouvernement du roi impossible de poursuivre dans la voie de la clémence, en lui imposant le devoir le plus absolu d'adopter des mesures de rigueur, et de prévoyante fermeté pour sauvegarder l'ordre public et garantir les paisibles et honnêtes sujets du roi de la malignité des pervers.

On ne doit pas oublier que l'assassinat et la destruction sont à l'ordre du jour, et le but auquel on vise c'est de bouleverser l'ordre social, et avant tout de miner la religion. De la visite domiciliaire exécutée dans l'habitation du prêtre Angona, qui a commis un attentat contre la vie de l'archevêque d'Acerenza et Matera dans le royaume, il est résulté la saisie du protestantisme de Jacques Balmes dont ce prêtre faisait sa lecture préférée.

La main des assassins cependant est dirigée et poussée par des personnes qui jouissent de leur pleine liberté sur le territoire anglais ou français, où, en abusant de l'hospitalité qu'on leur accorde, elles y conspirent en toute sécurité.

Assurément s'il se trouvait dans les États du roi des individus qui conspiraient contre la vie de la reine d'Angleterre ou de l'empereur des français, non seulement on ne le permettait pas, mais aussi on en informerait les Gouvernements de ces deux souverains; il est notoire que l'horrible événement du 8 décembre avait été publiquement préconisé à Londres; et dans quelque imprimé français même, avant que l'attentat fût commis, on y écrivait feu le roi de Naples».

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Si on croit excuser la presse inconvenante en Angleterre par La mauvaise raison qu'elle y est libre, il est impardonnable en France où on connait de quelle liberté elle y jouit, et où elle est toutefois de la plus patente provocation, Dieu sait dans quel but; mais dont le résultat avéré c'est de pousser à la révolte l'Italie et surtout ce royaume.

C'est un fait notoire aussi, la protection qu'accordent les bâtiments qui sont dans notre rade à tous ceux qui veulent fuir, et la vente qu'ils font d'aimes et de munitions: chaque fois qu'un nouveau bâtiment arrive, l'exaltation du soi-disant libéralisme est immédiate.

Quoiqu'on ait dit que des bâtiments anglais seraient venus ici de temps à autre pour la protection de leurs connationaux, la frégate Malacca, est ici depuis le mois de novembre sans se faire scrupule de vendre la poudre à qui que ce soit, et en s'occupant d'encourager les partis contre le Gouvernement et en débitant des nouvelles de l'arrivée d'autres bâtiments.

Les agents des deux Puissances dans plusieurs points des provinces, au lieu d'inspirer des sentiments de calme, provoquent la plus grande exaltation.

En Sicile par Bentivegna et ses consorts il a été constamment crié pour exciter à la rébellion: «Que les Anglais étaient débarqués.

«Que les Anglais les protégeaient.

«Que les Anglais les auraient défendus».

Le Gouvernement royal n'ignore pas les fortes sommes d'argent qui arrivent ici de l'étranger.

Une grande partie des gens des deux pays conspirent ici ouvertement, en trahissant de la sorte l'hospitalité qu'on leur donne, parce qu'ils se croient garantis, comme ils le sont effectivement, par leurs Gouvernements; le nommé Vincenzo Sproviero Calabrais, condamné en contumace à 25 années de fers pour crimes politiques, s'est embarqué sur le vapeur anglais le Wanderer, protégé par les officiers, et il a été transporté à Malte, d'où sur le pyroscaphe postai fiançais le Vatican, avec un passeport piémontais, il est revenu dans le port de Naples, et est allé à Gènes.

Avec une telle conduite on prétend obtenir des grâces, et par dessus le marche, accorder une manifeste protection pour les principaux agitateurs nationaux? et pourquoi? parce qu'ils ont été l'instrument des vues des deux Cabinets étrangers!! En protégeant ces gens là les deux Puissances ne veulent pas le bien general, mais si bien augmenter le nombre des

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individus au parti de la révolution et qui bouleversent le pays.

Il y a longtemps qu'on travaille, surtout du coté des individus français, à corrompre par d£ l'argent la troupe royale.

Cela est inadmissible et dopasse les bornes de toute tolérance! Il y en a plus de ce qu'il en faut pour que le Gouvernement du roi ne fasse plus aucune concession: qu'il en advienne ce qui pourra.

Qae dire de la calomnieuse invention qui aux veux du ministre anglais a besoin d'un certificat négatif pour n'y prêter aucune confiance, de la prétendue atrocité exercée sur Poerio, lorsqu'il aurait fallu lui faire une opération chirurgicale au dos par suite de tumeurs causés par les chaines qu'il portait, et qu'on n'aurait permis que ces chaines lui fussent ótées pendant l'opération?

Tout cela est faux, il n'a jamais été question d'opération quelconque, et si elle eût été nécessaire, on n'aurait jamais refusé ce que le chirurgien eût demandé pour pouvoir opérer.

De tout cela lord Clarendon a été déjà informe d'autre part.

Il faut pourtant que ces deux Gouvernements fassent bien attention, et surtout la France qui de la manière qu'elle en a agi à remué des éléments bien dangereux non seulement chez nous, mais aussi dans la plupart de l'Italie, sans aucune utilité pour elle, qui ne doit pas se faire illusion sur les conséquences de l'esprit révolutionnaire qui a été réveillé en France même, où le parti de l'assassinat et de la destruction de tout ordre social se couvre sous les spécieux titres de Marianna et de Socialismo.

Voici, monsieur le Comte, que je m'acquitte des ordres reçus après avoir soumis au roi mon maitre, votre dépêche confidentielle à laquelle j'ai l'honneur de répondre, et je profite de cette occasion pour vous renouveler les assurances de ma plus parfaite estime et de ma considération la plus distinguée.

Carafa.

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XLVII.

Deux lettres ile M. le Comte de Cavour

à M, le marquis de Villamarina à Paris.

Mon cher Marquis,

Turin, 18 février 1857.

Le comte Paar, le lendemain de son retour de Milan est venu me lire une dépêche que le comte de Buol était censé lui avoir adressée à Turin; mais qu'en effet il avait emportée dans la poche. Je vous en trasmets une copie ci-joint.

Vous verrez par la lecture que le comte de Buol dans un style qui rappelle les articles de la Gazette de Milan contre nous, sans articuler de nouveaux griefs bien saillants en vient presque à des menaces. Dans la longue conversation que j'ai eue avec M. de Paar, ce diplomate n'a pas ajouté grande chose aux arguments contenus dans la dépêche. Il a surtout insisté sur le monument que des Milanais voudraient élever à l'armée piémontaise, et sur les attaques de la presse contre la personne de l'empereur.

J'ai répondu à M. de Paar que le Gouvernement n'avait pas voulu accepter pour son compte l'offre que lui avait été faite au noni d'individus à lui méconnus, mais se disant Milanais, d'un monument à l'armée; mais qu'il n'avait pas pu empêcher la municipalité de recevoir un don pour un objet qui n'avait rien de blâmable en lui; que je ne connaissais pas en détail le pian du monument en question, mais j'étais certain qu'il ne contenait aucune allusion offensive à l'Autriche et à son armée: que ce monument étant destine à rappeler les souvenirs de la part que les troupes piémontaises avaint prise à l'expédition de Crimée, je ne voyais pas comment l'Autriche pouvait y voir un acte injurieux pour elle.

Quant à la presse, je lui ai déclaré que je déplorais les attaques personnelles contre l'empereur, que j'étais prêt à les blâmer, non seulement en particulier, mais en public comme j'avais blâmé devant les Chambres les tentatives révolutionnaires, mais que je n'avais pas le moyen de les faire cesser si l'Autriche ne s'y prêtait pas en faisant les instances voulues pour que le Gouvernement pût poursivre les journaux contenant des articles injurieux pour l'empereur.

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Comme il me rappelait la faible condamnation dont Espero avait été frappé; je lui répondis, que les tribunaux se montrent indulgents pour une première offense; qu'en cas de récidive la peine aurait été certainement beaucoup plus sévère. Que d'ailleurs dans le cas indiqué, l'indulgence était en grande partie motivée par le large espace de temps que le Gouvernement autrichien avait laissé écouler entre la publication de l'article et l'instance faite pour la poursuite.

Après cette déclaration, j'ai rappelé à M. de Paar la violence de la presse autrichienne officielle et non officielle à notre égard, en lui observant que la personne du roi comme celles des membres de la famille royale n'étaient pas plus ménagées que celle de l'empereur ne l'est dans nos journaux non censurés.

Après avoir répété à peu-près les mêmes choses sur des tons divers pendant près de 2 heures, j'ai fini par déclarer à M. de Paar que je me réservais de répondre à une communication officielle aussi grave par l'entremise de M. le marquis Cantono notre chargé d'affaires à Vienne.

La note, ainsi que je vous l'ait fait observer, est conçue dans un ton qui indique un parti pris dans le Cabinet autrichien de tâcher de nous intimider. Je puis bien vous assurer qu'il n'y réussira pas; nous ne sommes nullement disposés à céder devant des menaces, quand même nous serions certains qu'elles seraient suivies de faits positifs. La seule chose que nous redoutions c'est l'effet qu'elles peuvent produire sur les Cabinets de Paris et de Londres, ce dernier surtout qui est en train de cajoler l'Autriche dans ce moment. Nous regrettons anxieusement que l'un ou l'autre de nos alliés crut dans l'intérêt exagéré de la paix nous adresser des conseils qu'il nous serait impossible de suivre; c'est ce qu'il nous importe à tout prix d'éviter surtout à l'égard de la France avec laquelle nous sommes liés maintenant par des liens bien plus intimes qu'avec l'Angleterre.

M. de Paar en me quittant s'est rendu successivement chez Grammont et Hudson, et il leur a déclaré que la réponse que je lui avais annoncé n'était pas pleinement satisfaisante, il était certain que l'Autriche retirerait sa légation de Turin et qu'il en suivrait une interruption complète, absolue de relations diplomatiques entre les deux pays. M. de Paar a ajouté que cette résolution du Gouvernement impérial avait été portée à la connaissance des Cabinets de Paris et de Londres. J'ai une trop grande confiance dans l'élévation de vue de l'empereur et dans son amitié envers nous pour douter un instant qu'il veuille dans cette circonstance nous conseiller le moindre acte de faiblesse, ce qui

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serait pour nous un véritable suicide moral, mais je crains que Walewsky soit par légèreté, soit par crainte de soulever de nouvelles difficultés, ne se laisse aller à donner à Graniraont des instructions plus ou moins favorables aux prétentions de l'Autriche. C'est pourquoi, mon cher Marquis, il est de la plus haute importance que l'empereur soit prévenu directement de ce qui se passe, et du mauvais tour que l'Autriche, comptant sur l'appui de l'Angleterre, a l'intention de nous jouer. Il serait bien à désirer que vous puissez avoir un entretien à cet égard avec l'empereur: s' il vous était impossible de l'obtenir il faudrait lui faire parvenir des renseignements précis par un canal sur, soit par notre ami le D. C, soit par le roi Jerome qui certes ne nous refuserait pas son concours dans ce moment si grave pour nous.

Ce qu'on demande avec instance à l'empereur c'est que la France ne donne aucun appui aux prétentions de l'Autriche; c'est que Grammont n'ait pas à donner un concours quelconque à Paar. Un acte, une démarche qui pourrait être interprétée dans un sens favorable à l'Autriche, aurait les conséquences les plus fâcheuses, je ne dis pas seulement pour le ministère, mais surtout dans l'intérêt de l'alliance française que depuis quatre ans nous travaillons à rendre populaire dans le pays.

Je vous le répète, nous ne voulons pas céder devant des provocations et des menaces. Nous le voudrions, que nous ne pourrions pas le faire; car un seul acte de faiblesse dans les circonstances actuelles nous ferait perdre la force morale sur laquelle repose l'édifice tout entier du Gouvernement.

Dans ces derniers temps nous avons donne à la France et à l'empereur des preuves nombreuses de notre amitié. Nous lui sommes demeurés fidèles malgré les menaces de l'Angleterre.

L'empereur ne voudra certainement pas se joindre maintenant à nos ennemis parce-que l'appui du Cabinet britannique risque de nous faire défaut, Il est possible que ce que le comte de Buol répète au surjet du régicide fasse quelque impression sur l'empereur. Si cela était, vous observerez que le Gouvernement a blâme sévèrement les articles que quelques journaux ont publiés sur l'attentat de Milano; mais qu'il a cru en atténuer l'effet de la manière la plus efficace, non en leur faisant des procès qui auraient eu un retentissement fâcheux; mais en stygmatisant leurs doctrines publiquement, hautement du haut de la tribune, a la face du pays et de l'Europe. Les faits ont prouvé que nous ne nous étions pas trompés. Jamais la répulsion que le régicide inspire

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n'a été plus grande qu'elle n'est maintenant en Sardaigne; la secte du seul journal républicain l'Italia e popolo réduit à 300 abonnés, les démonstrations universelles d'amour et de dévouement pour le roi témoignent de la manière la plus évidente des progrès immenses que le sentiment monarchique a fait parmi nous.

Il est de même de la sympatie pour la France et l'empereur. Les attaques de quelques journaux, loin de l'affaiblir Font augmenté. A cet égard il y a un changement complet. Après le coup d'État, vous le savez aussi bien que moi, l'opinion populaire était très prononcé contre la France et contre Napoléon.

Et bien, maintenant il y a un revirement complet. L'alliance française a l'approbation de l'immense majorité du pays; et l'empereur est respecté et je dirais même aimé par tous les gens éclairées. Si la France nous abandonnait dans ce moment, ce résultat serait perdu. Nous résistions malgré cela, soyez en certain. Mais que nous vainquions ou que nous succombions, il n'en résulterait pas moins dans le pays un ressentiment dont les traces ne s'effaceraient pas pour une ou deux générations.

Grammont m'a paru bien envisager la question. Il est persuade comme moi que l'empereur nous est tout-à-fait favorable; mais il redoute la première impression de Walewsky. Il croit cependant qu'il doit être facile de prévenir une démarche précipitée de sa part, attendu que les dépêches de Bourqueney laissent peu de doutes sur les véritables sentiments de l'Autriche vis-à-vis de la France et surtout de l'empereur. Le baron de Suback est arrivé, son langage ne saurait être plus amical à notre égard, et vis à vis de l'Autriche il reflète jusqu'à un certain point les sentiments qui animent les Russes qui vivent au milieu de nous.

Plein de confiance dans votre zèle et notre activité, je ne doute pas que vous n'avez bientôt des bonnes nouvelles à me transmettre pour le télégraphe.

Votre très dévoué

C. Cavour.

PS. Rappelez vous bien que notre demande se borne k ce que la France ne prête aucun appui moral à l'Autriche.

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Mon cher Marquis,

Turin, 21 février 1857.

Je profite du départ de M. Lumbev pour vous transmettre la dépêche ot les instructions que je viens mander à Cantone Je ne doute pas que vous ne les trouviez empreintes d'un grand esprit de modération et de conciliation. Aux insolences et aux menaces du comte Buol nous n'opposons que des faits incontestables et des raisonnements solides. Nous nous montrons disposés pour rapport à la presse et au monument à faire tout ce qu'il est possible dans le cercle de nos attributions; nous ne saurions aller plus loin d'une seule ligne.

J'espère que le Gouvernement français et surtout l'empereur apprécieront à leur juste valeur notre parfaite modération, et qu'ils s'abstiendront de nous demander des concessions qu'il 'nous est absolument impossible de faire.

Quelque soit mon désir de seconder les vues de la France, je ne saurais conseiller au roi le moindre acte de faiblesse vis à vis de l'Autriche. Un tel acte détruirait tout l'édifice que nous avons, avec tant de peine, élevé, fonde sur l'union intime du principe monarchique et des idées libérales.

Si l'Autriche donne suite à ses menaces et retire la légation de Turin, nous n'y voyons pas d'inconvénients, pourvu que la France ne donne pas son approbation à cette mesure. Elle pourrait produire une certaine excitation dans les esprits, mais elle ne donnerait lieu a aucun désordre. Nous sommes parfaitement maitres de la situation.

Si l'Autriche allait plus loin et nous menaçait de recourir aux armes nous ne prendions pas l'offensive, mais nous serions prêts à lui faire une bonne réception. L'armée et le pays sont animés du meilleur esprit. Guide par le roi et Lamarmora nos soldats repousseraient, j'en suis certain, une armée triple de la notre. Ce qui arriverait alors c'est ce que moi ni personne ne pouvons prévoir. Mais je pense que nous sommes encore loin de cette éventualité extrême, et que l'Autriche hésitera longtemps à tirer le coup de canon qui doit réveiller en Europe la grande cause des nationalités.

Quant'à moi, je pense que l'Autriche n'à pas en vue la possibilité de la guerre; mais qu'elle a cru le moment bien choisi pour nous intimider et obtenir de nous un acte de faiblesse qui détruirait entièrement le prestige moral que nous exerçons non seulement en Lombardie, mais dans tonte l'Italie.

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Pour atteindre ce but, elle à joué envers nous un jeu perfide.

A Paris et à Londres elle s'est montrée très-désireuse de rétablir des relations diplomatiques avec nous; elle nous a fait donner des conseils dans ce sens par Grammont et par Hudson.

Par condescendance nous suivons ces conseils et nous envoyons des instructions tout-à-fait conciliantes à Cantono. C'est justement alors que le Cabinet de Vienne change d'attitude, nous fait attaquer avec une violence extrême par la presse officielle et nous adresse une note qui frise l'inconvenance et a un vernis d'insolence très prononcé!

Il est possible, même probable que M. de Buol comptant sur l'appui de l'Angleterre ait cru m'intimider. Il a pensé, que me voyant prive de la sympathie du Gouvernement britannique, je n'oserais pas lui résister. Il se trompe étrangement s' il me croit si timide et anglomane à ce point. Quelque soit ma sympathie pour le peuple anglais, vous savez, mon cher marquis, que j'ai toujours mis en première ligne l'appui de la France ou pour mieux dire de l'empereur. Pourvu que Paris ne se joigne pas à Vienne, je ne m'inquiéterai guère de ce qui viendra de Londres. Vous pouvez le faire entendre aux Tuilleries avec une prudente réserve.

Je n'entre pas en grand détail sur le monument. Du moment qu'on ne permettera pas de lui apposer d'inscription qui constate avoir été élevé par des Milanais, je ne pense que l'Autriche ait raison de s'en plaindre. Elle pourrait aussi bien adresser des remontrances à la France sur la colonne de la Place Vandóme ou sur l'are de triomphe de l'Étoile. Mais ce qu'il m'importe de vous dire, c'est que le nom qu'on a donne à l'ancienne rue d' Italie, n'est pas celui de l'assassin du roi de Naples, mais simplement le nom de la ville de Milan. Il n'v a dans cette substitution rien d'offensif pour l'Autriche. Il y a longtemps qu'on trouvait ridicule qu'il y eut à Turin une rue et une porte qui portassent le nom d' Italie comme si le Piémont et sa capitale eussent été dans une autre contrée de l'Europe. Le Conseil municipal a voulu faire cesser cette anomalie et il a donne le nom de Milan à la rue qui est en communication directe avec la grande route qui s'appelle Strada reale di Milano; mais jamais il n'est passe par la tète de nos honnêtes municipaux, les hommes les plus monarchiques du globe, de célébrer un régicide.

Je vous prie de faire parvenir ma réponse à Buol et à l'empereur.

Cavour.

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XLVIII.

Circulaire de M. le comte C. Cavour, président du Conseil des ministres, ministre des affaires étrangères aux chefs des légations de 8. M. le roi de Sardaigne.

Monsieur,

Turin, le 1er avril 1857.

Dans le but de donner aux légations du roi des directions constantes et uniformes, propres à régler leurs actes et leur langage dans uu même sens, et d'après les vues du Gouvernement j'ai pensé de renouveler l'usage d'envoyer des circulaires h tous les chefs des légations. Ces circulaires qui seront transmises par trimestre, auront pour objet non seulement l'énumération des faits dont la connaissance peut intéresser notre diplomatie, mais encore en certains cas l'indication de la manière dont ces faits doivent être envisagés et appréciés. Nul doute que l'action de notre diplomatie deviendra plus efficace et plus utile à mesure que ses efforts seront tournés vers le même but, dirigés par la même pensée, soutenus par le même langage.

Une autre raison non moins concluante me conseille la reprise de ces circulaires. Notre pays, nos institutions, la conduite du Gouvernement, out été très souvent en butte à des calomnies de toute espèce. Les faits les plus simples ont donne lieu à des interprétations fâcheuses et injustes. Il n'est pas rare d'entendre des jugements inexacts et quelquefois absurdes à notre égard, prononcés par les organes le plus accrédités de la presse étrangère, et même par des hommes qui par leur position sont en mesure de connaitre à fond nos institutions, notre pays et la conduite du Cabinet. Toutefois on doit reconnaitre que depuis quelque temps, une modification sensible s'est opérée dans l'opinion publique en notre faveur. Les faits ont parlé plus haut que la malveillance et la prévention des partis qui nous sont plus ou moins hostiles. Il s'agit maintenant de compléter ce revirement, d'en tirer parti, et d'empêcher qu'à l'avenir nos démarches et nos actes soient aussi mal interprétés, aussi étrangement dénaturés qu'ils l'étaient fréquemment pour le passe.

Le commencement de Tannée courante a été marqué par

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un fait de la plus haute importance, la réouverture des conferences de Paris.

Le traité du 30 mars 1856 avait passe sous silence plusieurs points qu'il était important de bien définir. En outre l'article 20 donnait lieu à des interprétations différents et contestées. La nouvelle conférence de Paris était appelée à mettre fin par une décision sans appel aux débats, qui s'étaient engagés entre les grandes Puissances signataires de la paix, et qui avaient failli de compromettre les résultats de cet acte mémorable. Il s'agissait de bien déterminer la ligne de frontière qui devait séparer les pays cédés à la Moldavie des possessions russes, de décider à qui devait appartenir la possession de l'ile des Serpents, dont le traité n'avait pas fait mention, et enfin de régler aussi la possession du Delta du Danube.

La plus importante de ces questions était sans doute celle de Bolgrad.

L'art. 20 du traité de paix portait, que la nouvelle frontière qui devait séparer la Russie dei Principautés danubiennes serait déterminée par une ligne qui après avoir suivi le val de Trajan passerait au sud de Bolgrad pour remonter ensuite le fleuve Ialpouk.

Les interprétations différentes auxquelles a donne lieu cet article sont provenues de l'existence de deux Bolgrads, un plus ancien et moins important, appelé Bolgrad Tabac, l'autre situé plus au sud sur le bord du lac Ialpouk, chef lieu des populations bulgares, pour lesquelles la Russie avait montré tant d'intérêt dans le premier Congrès. L'Angleterre, l'Autriche et la Turquie soutenaient que c'était du premier Bolgrad que l'Article 20 avait parie; par contre la Russie, appuyée par la France et par la Prusse, prétendait que le Bolgrad du traité ne pouvait être autre que le chef lieu de la colonie bulgare, dont elle avait réclame la conservation.

La correspondance qui s'échangeait sur cette question entre les différents Cabinets avait pris un ton d'aigreur insolite, et on était arrivé au point que l'Angleterre avait cru devoir envover une flotte dans la Mer Noire, et l'Autriche s'était refusée d'évacuer les Principautés.

La Sardaigne placée entre les parties contendantes avait d'abord décide de se maintenir tout à fait étrangère à ces débats. Elle n'avait pas jugé convenable de se faire représenter dans la commission chargée de la délimitation. Mais interpellé formellement par l'Angleterre d'abord, et ensuite parla Russie et la France, le Cabinet de Turin s'inspirant des sentiments

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de concorde et de conciliation qui avait préside a la conclusion de la paix, a essayé avant de placer la question sur le terrain de la stricte légalité, de faire adopter un système d'arrangement propre a satisfaire tous les intérêts légitimes.

Prévoyant ensuite le cas ou ce moyen aurait été exclu, il n'a pas hésité à aborder dès le principe la question légale, et il en proposa la solution, selon les maximes de droit sans exclure pourtant en voie subordonnée les considérations non moins importantes de l'équité et de la convenance.

Comme l'arrangement du différend dépendait du vote de la Sardaigne, et ce vote avant été formule par elle avec la plus grande impartialité et à l'aide de raisons irrécusables, les Puissances intéressées avaient fini par l'admettre en principe, en se soumettant en quelque sorte à l'arbitrage du Gouvernement sarde. La conférence fut en effet décidée et elle se réunit h Paris le 31 décembre 1856.

Le 6 janvier suivant fut signé le protocole qui mit fin à ces longues et pénibles discussions.

Par cet acte, le point conteste, le nouveau Bolgrad fut réuni:'i la Moldavie; on assigna en compensation à la Russie la vallée de Komrat avec un territoire déterminé sur la rive droite du fleuve Valpoutk. Le Delta du Danube fut replacé sous la souveraineté immédiate comme une dépendance de l'embouchure du fleuve, et dut en suivre la destination. On détermina que la délimitation des frontières devait être achevée le 30 mars courant, c'est-à-dire, un an, jour pour-jour, après la signature de la paix, et qu'à cette même époque devait aussi être accomplie l'évacuation de la Mer Noire par la flotte anglaise et des Principautés par les troupes autrichiennes.

Le rôle important qu'a joué le plénipotentiaire sanie en cette occasion, la manière dont la Sardaigne a contribué à concilier des intérêts très opposés à la satisfaction de toutes les parties, ont démontré une fois de plus combien l'intervention d'un État aussi favorablement place au milieu de l'Europe, et si justement estimé par ses principes et pas sa conduite pouvait être utile en tout temps et en certains cas nécessaire.

Une autre occasion de prouver l'utilité de l'intervention de notre pays dans les questions européennes, se présenta presque en même temps, par suite de la tentative des royalistes de Neuchâtel, et du différend auquel elle donna lieu entre la Prusse et la Suisse, ainsi qu'entre les Puissances signataires du protocole de Londres de 1852. Le Gouvernement du roi accédant aux désirs de quelques une d'entre les Puissances intéressées dans ce conflit,

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donna pour instruction à son ministre à Berne des le mois de septembre dernier de prêcher au Conseil fédéral la modération, la clémence et le pardon envers les royalistes compromis dans le mouvementé de Neuchâtel. Le ministre du roi, qui jouit auprès du Conseil fédéral d'une considération méritée, s'acquitta de cette tàclie d'une manière parfaite et jusqu'à un certain point avec succès. La France elle-même a reconnu l'avantage des Conseils donnés par la Sardaigne. et elle a engagé le Gouvernement du roi à s'unir dans un but de conciliation aux Puissances intéressées au maintien de la paix. Enfin la Suisse, se décidant à écouter les observations amicales qu'on lui avait fait parvenir de tonte part, ordonna l'élargissement des prisonniers, et le renvoi des troupes fédérales qui se dirigeaient à marches forcées sur la frontière. Cette mesure en simplifiant la question par la satisfaction donnée àia Prusse prépara le terrain pour une entente prochaine, qui forme en ce moment l'objet des délibérations de la conférence réunie à Paris entre les représentants des Puissances intéressées, et de celles qui ont signé le protocole de Londres.

Les commissaires des Puissances signataires de la paix, chargés par le Congrès de Paris de s'enquérir de l'état des Principautés danubiennes, et de proposer les bases de leur organisation future, viennent darriver à Bucarest. Le firman de convocation des Divans a été publié, et les troupes autrichiennes viennent de quitter le pays. La population roumaine, délivrée de toute pression étrangère, pourra ainsi s'occuper de l'accomplissement de la plus grande tâche qu'un peuple puisse être appelé à remplir, celle de manifester librement ses vœux sur ses intérêts les plus chers, sur les conditions de sa propre existence.

L'opinion publique dans les Principautés, même celle des Bojards, parait tout-à-fait favorable en ce moment à l'union de la Moldavie et de la Valachie sous un prince étranger, avec un Gouvernement constitutionnel et la liberté de la propriété.

Le Gouvernement du roi conséquent à ces principes en fait de nationalité, s'est déclaré pour l'union dans le sein même du Congrès de Paris par l'organe de ses plénipotentiaires. Cependant il a donne pour instruction à M. le chevalier Benzi, son commissaire dans les Principautés, de borner son action à l'objet de sa mission, telle qu'elle a été déterminée par le traité du 30 mars, c'est-à-dire, à veiller à ce que la manifestation des vœux des populations roumaines soit faite régulièrement, et qu'elle soit possiblement l'expression sincère des besoins et de la volonté de la nation.

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C est ce même langage que les légations du roi à l'étranger devront tenir sur cette question pendant l'accomplissement de l'oeure confiée à la Commission européenne, et s'abstenant surtout de manifester une opinion quelconque sur l'opportunité de placer à la tète du Gouvernement de ces pays un prince étranger.

La Commission composée par les délégués des Puissances signataires de la paix, établie par l'article 16 du traité de Paris, et chargée de designer et de faire exécuter les travaux nécessaires pour la navigation du bas Danube, poursuit régulièrement ses études sur les lieux. Le Gouvernement du roi y est représenté par le marquis d'Aste, l'un des officiers les plus distingués de la marine royale. Un bâtiment de guerre a été envoyé stationner aux embouchures du Danube, d'après le contenu de l'article 19 du traité, et il a été mis sous les ordres, et à la disposition du délégué sarde.

Le mémoire que j'ai adresse à toutes les légations du roi, concernant les questions soulevées par le prince de Monaco par suite de l'annexion de Menton et de Roccabruna aux États sardes, présente tous les éléments nécessaires pour étudier et bien apprécier ce différend. Je m'abstiens en conséquence de répéter ici des considérations que je ne pourrai rapporter que d'une manière fort incomplète. Je désire seulement faire observer aux chefs de légation, afin qu'ils soient à même de le faire remarquer à leur tour aux hommes politiques avec lesquels ils seront en rapport, que le Gouvernement du roi en replaçant la question de Menton et de Roccabruna sur son véritable terrain, d'où elle avait été écartée par le passe, a eu surtout en vue de bien déterminer un point de départ propre à fournir les bases pour établir au moyen d'une transaction équitable les indemnités, qui peuvent être dues au prince de Monaco.

Le comte Paar, chargé d'affaires d'Autriche à Turin, à peine de retour de son voyage à Milan, où il était allé complimenter son souverain, et lorsque le Gouvernement du roi par suite de la levée des séquestres se déclarait prêt à remettre sur l'ancien pied la légation sarde à Vienne, est venus me donner lecture d'une dépêché du comte Buol, datée de Milan le 10 février dernier. Par cette dépêche, dont j'ai envoyé copie, en son temps, à toutes les légations du roi, le Ministre des affaires étrangères d'Autriche se plaignait, en des termes très amers, des attaques de la presse piémontaise, des manifestations qu'il disait être provoquées dans les autres parties de l'Italie en faveur d'une politique qui était désapprouvée par le Gouvernement impérial,

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et enfin de l'acceptation d'un monument qu'il affirmait avoir été offert par les Milanais à l'armée sarde.

Le comte Buol rendant le Gouvernement piémontais responsable de ces faits, lui faisait connaitre le ressentiment qu'ils avaient fait éprouver à l'empereur d'Autriche, demandait des garanties pour la conduite future de la Sardaigne, et terminai par annoncer que le Cabinet de Vienne aurait réglé ses délibérations sur la réponse de celui de Turin.

J'ai répondu par une dépêche au marquis Cantono, chargé d'affaires du roi à Vienne, en date du 20 février, dont j'ai également envové une copie à toutes les légations.

Il serait superflu de répéter ici les arguments développés dans cette pièce, qui a été publiée, discutée et commentée par la presse de toute l'Europe. Elle était comme dans des termes calmes et très convenables. Évidemment elle n'avait pas été influencée par le ton irritant et par les menaces de la dépêche autrichienne. Mais en même temps elle était ferme et digne, ainsi que devait l'être la réponse d'un Gouvernement qui tout en respectant les droits d'autrui n'est nullement dispose a faire bon marche de ses propres droits, et de la raison lorsqu'elle est de son coté.

Celle dépêche a été communiquée au comte Buol, lors de son retour à Vienne, le 27 février. Ce ministre s'est abstenu de toute appréciation en cette circonstance et il a cru devoir réserver a l'empereur lui-même le jugement définitif de la communication qui lui a été faite par le marquis Cantono.

En attendant le Gouvernement du roi, voyait avec satisfaction que sa réponse obtenait l'approbation générale, non seulement de l'opinion publique soit dans le pays, soit à l'étranger, mais encore de la plus part des Cabinets de l'Europe.

A ce sujet je dois rapporter ici un incident assez singulier.

Le comte Buol induit en erreur par une dépêche du comte Esterhazy, s'était empressé d'affirmer d'une manière catégorique que dans ce différend le Cabinet de St. Pétersbourg, en donnant son approbation à la conduite de l'Autriche, avait ouvertement désapprouvé la répons du Gouvernement du roi.

Cette assertion était complètement contraire à toutes les assurances que le Gouvernement impérial de Russie nous avait fait parvenir. Aussi à peine le prince Gortchakoff a-t-il été informe du rôle qu'on lui faisait jouir à Vienne, il s'est empressé de démentir par l'entremise du marquis Sauli, ministre du roi à S. Pétersbourg, et du comte Stackelberg ministre du czar a Turin, de la manière la plus formelle, les propos


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qu'on attribuait à son Gouvernement, en déclarant de nouveau qu'il n'hésitait pas à approuver la conduite de la Sardaigne.

Mais l'empereur d'Autriche étant rentré dans la capitale de ses États, le cabinet impérial fut en mesure de faire parvenir au comte Paar les décisions qu'on avait jugé convenable de prendre à Vienne sur cette question. Le 22 mars le charme d'affaires d'Autriche me donna lecture d'une dépêche dans laquelle son Gouvernement lui donnait l'ordre de quitter Turin avec toute la légation. En vain les ministres de Prusse et d'Angleterre et surtout l'ambassadeur de France à Vienne avaient engagé, par ordre de leurs Gouvernements respectifs, le ministre impérial des affaires étrangères, à ne pas donner cours à une mesure semblable. Le parti était pris d'avance.

Le comte Paar demanda ses passeports. Le ministre impérial des affaires étrangères motivait cette détermination par la réponse peu satisfaisante du Gouvernement sarde aux griefs formulés par l'Autriche. Il déclarait en même temps que le rappel du comte Paar n'était qu'une simple marque de mécontentement du Gouvernement autrichien, qui n'aurait aucune autre conséquence, et que la légation du roi à Vienne pouvait rester à son poste, si le Cabinet de Turin le jugeait convenable; enfin il engageait le comte Paar à lui faire des nouvelles déclarations, que j'aurais été dans le cas de lui faire.

J'ai répondu au comte Paar, qu'en présence d'un fait tel que le rappel de la légation impériale de Turin, je n'avais aucune déclaration à faire, mais simplement des regrets à exprimer pour une mesure que le Gouvernement du roi avait la conscience de n'avoir pas provoquée, et que par conséquent je me bornais à lui donner acte de sa communication en me réservant de prendre les ordres du roi pour le rappel de la légation sarde à Vienne.

En effet le 23 mars avant pris les ordres de sa Majesté, le rappel du marquis Cantono avec toute la légation de Vienne a été décide par le roi sur la proposition de son Conseil des ministres.

L'ordre de S. M. a été aussitôt transmis par le télégraphie à Vienne, et il fut confirmé le jour suivant par une dépêche de Cabinet envoyée par courrier an marquis Cantono. Le 23 mars, après avoir reçu la dépêche télégraphique du ministère, le chargé d'affaires du roi à Vienne communiqua l'ordre de rappel au ministre impérial des affaires étrangères.

En attendant la presse étrangère se livrait a toute sorte de

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commentaires sur la rupture survenue entre ]es deux Cabinets.

La conduite du Gouvernement du roi fut généralement appréciée. Il faut naturellement en excepter la presse autrichienne qui redoubla de fiel et de virulence coutre le Piémont. Dans le but d'atténuer la mauvaise impression que la conduite de l'Autriche avait produite en Europe, les journaux dévoués au Cabinet impérial n'hésitèrent pas à répandre le bruit que le rappel du comte Paar avait été dépouillé de tout caractère hostile au point qu'il n'avait pas été accompagné par la demande de passeports. Là dessus ces feuilles établissaient une distinction absurde entre le rappel avec demande de passeports, et le rappel pur et simple. Mais le fait est que le comte Paar demanda itérativement ses passeports, et que le Gouvernement du roi les lui envoya sur son instance formelle.

En même temps que le marquis Cantono recevait l'ordre de quitter les États autrichiens, le Gouvernement du roi par l'entremise du marquis de Villamarina, ministre de Sardaigne à Paris, sollicitait la protection de l'ambassade de France à Vienne pour les sujets sardes demeurant en Autriche de même que la légation de Prusse à Turin avait été autorisée à accorder sa protection aux sujets autrichiens demeurant dans les Étals sardes.

L'empereur des français accueillit avec sa bienveillance accoutumée notre demande, et S. E. monsieur le baron de Bourqueney, ambassadeur de France près la Cour d'Autriche requit des instructions dans ce sens par le Gouvernement impérial.

Le comte Paar a quitte Turin le 28 mars. Le marquis Cantono quittera Vienne dans les premiers jours d'avril.

Il résulte de l'examen de ce différend que l'Autriche a fait de son mieux pour pousser à bout le Gouvernement sarde pour l'amener, soit à consentir à des concessions incompatibles avec sa dignité, soit à commettre des imprudences compromettantes, et que par contre lu Gouvernement sarde redoubla de calme, de convenance, de modération et de fermeté, à mesure que le langage et les actes du Cabinet de Vienne devenaient plus acerbes et plus menaçants.

Maintenant l'interruption des rapports diplomatiques entre les deux cours est un fait accompli. Il ne nous reste plus qu'à attendre avec calme le jugement des personnes honnêtes et impartiales, et de rejeter d'avance sur le compte de l'Autriche les conséquences d'un état de choses qu'elle a voulu.

La Cour de Rome fait tous ses efforts auprès du grand due

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de Toscane et des ses ministres pour la conclusion d'un concordat favorable à ses prétentions. A cet effet a-t-on expédié à Florence monseigneur Franchi Nonce du Saint Siège, l'un des agents les plus habiles de la Cour de Rome. Celle-ci encouragée par la facile victoire remportée sur l'Autriche palle concordat ruineux qu'elle a su imposer aux ministres impériaux, n'a pas perdu tout espoir d'amener le Cabinet de Florence a des concessions plus ou moins étendues, cependant le commandeur Baldasseroni président du Conseil des ministres, a déclaré à plusieurs reprises au représentant du roi, que les lois léopoldines en matière ecclésiastique, quoiqu'on en dise, n'auraient pas été changées.

Le chevalier Lenzoui, auparavant ministre grand ducal à Vienne, a été nomine ministre des affaires étrangères h Florence.

Le prince héréditaire a fait son entrée dans les États du grand due en compagnie de son auguste épouse, madame Anne Marie de Saxe. Le couple impérial et royal a été reçu en Toscane avec des démonstrations assez générales de sympathie.

Il est difficile de se former une idée exacte sur les opinions du prince héréditaire appelé à exercer bientôt une grande influence sur les destinées de son pays. Si quelques personnes se flattent de trouver en lui des tendances plus libérales et moins autrichiennes, d'autres également bien informés persistent à croire que ces espérances n'ont aucun fondement réel.

Si l'on porte des jugements divers sur le prince héréditaire on est d'accord pour considérer le Gouvernement de Toscane actuel comme faible et déconsidéré; et comme dénué de toute force morale soit à l'intérieur, soit à l'étranger.

Sa Sainteté, pour fêter le premier jour de l'année a accordé la grâce à un condamné politique et a diminué la peine à six autres. En même temps le cardinal Antonelli secrétaire d'État, désapprouverait l'amnistie n'ayant point d'inculpés politiques.

En attendant un fait douloureux venait démentir l'assertion de son éminence. Les détenus politiques renfermés dans les prisons du château de Paliano, poussés à bout par les mauvais traitements du nouveau gouverneur M. Trasmondi, ont fait une tentative d'évasion qui avorta. Les insurgés furent bientôt cernés par les gardes, qui n'hésitèrent pas de faire feu sur des hommes désarmés, et placés dans l'impossibilité matérielle de s'échapper. Quatre prisonniers massacrés et sept blessés furent le résultat de cette honteuse campagne.

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L'état des choses dans Rome et dans les provinces est toujours le même. Le Gouvernement y est généralement déconsidéré. Les communes ont fait quelque tentative bien modérée dans le but d'obtenir des améliorations matérielles. Mais il parait que jusqu'à présent elles ont échoué dans leurs démarches.

Après l'inique attentat de Milano sur la personne du roi de Naples, la police a repris ses anciennes habitudes, qu'elle paraissait avoir peu modifiées par suite de l'entrée du chevalier Bianchini au ministère. Le 9 janvier trois cent personnes ont été arrêtées. Les visites domiciliaires et les vexations de toute espèce vont leur train. L'armée a été soumise à une enquête dans le but de la purger des mauvais éléments qui pourraient s'y être introduits. Dans les jours suivants les arrestations continuaient au point qu'on les faisait monter au chiffre de mille. Mais après quelques jours de détention la plupart des arrêtes ont été remis en liberté. En même temps 17 lieux publics, tels que cafés, restaurants, billards etc. out été fermés.

L'esprit du roi parait être frappé d'une espèce de terreur.

S. M. s'est abstenue d'aller au théâtre, selon l'usage, le jour de sa fête. Les ordres pour les arrestations et pour les visites domiciliaires sont donnés directement par le roi à son préfet do police, à l'insu du ministre.

Cependant le roi sent la fausse position où il a été place ensuite du différend avec la France et l'Angleterre. Il voudrait en sortir sans pourtant avoir l'air de plier sous la pression étrangère. A cet effet il imagina la déportation des détenus politiques dans l'Amérique du sud, et il a conclu dans ce but une convention avec la confédération Argentine dont les journaux ont rapporté les clauses.

Les ministres de Prusse et de Russie ne cessent de conseiller au Gouvernement napolitain la nécessité de faire quelque concession aux Puissances occidentales.

Au commencement du carême un ordre supérieur prescrivait aux soldats les exercices spirituels, et l'obligation de présenter les certificats constatant qu'ils avaient rempli les devoirs religieux.

La condition des condamnés politiques n'a pas changé. On avait d'abord assuré qu'on leur avait use quelques ménagements; mais d'après des lettres des prisonniers eux-mêmes il résulte qu'ils trainent encore la chaîne aux pieds.

Un fait singulier est venu mettre eu émoi ces jours derniers la police de Naples.

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Le 4 mars on lisait affiché sur les murs un décret avec les signatures ordinaires, présentant toutes les marques extérieures de l'authenticité la plus parfaite, par lequel le roi Ferdinand II rétablissait la constitution, concédait une amnistie générale, et nommait vicaire du royaume le due de Calabre, prince héréditaire.

Naturellement le décret était apocryphe et il ne servit que provoquer de nouvelles arrestations.

A Modène la maladie du due régnante donnait lieu a des appréhensions pour les complications auxquelles peut donner lieu sa succession.

A Parme le Gouvernement de la duchesse régente est entré dans une voie d'amélioration. Aussi a-t-il gagné dans l'opinion publique. Son refus de continuer de faire partie de la ligue douanière de l'Autriche est un bon présage d'un meilleur avenir pour ce petit pays.

Après avoir rapidement esquissé le résumé historique de ce qui est arrivé de plus marquant dans les autres États de la péninsule, je crois convenable d'ajouter quelques mots pour indiquer la politique du Gouvernements sarde en Italie. Elle peut se résumer de la manière suivante.

Démontrer avant tout, et toujours, des dangers de l'influence autrichienne sur les États de la péninsule. Combattre cette influence avec tous les moyens honnêtes et légaux.

S'opposer ouvertement à tout empressement de l'Autriche contraire aux traités. - Détacher de l'Autriche les Gouvernements italiens, pour les faire entrer dans les vues du Gouvernement sarde; vues conformes à leurs intérêts ainsi qu'à ceux de toute l'Italie. Prêcher par la parole et par l'exemple les réformes, et les améliorations politiques et civiles. - Démentir hautement l'accusation de révolutionnaire portée au Gouvernement sarde. - Flatter le sentiment d'indépendance des États italiens.

Soutenir le parti libéral modéré qui s'efforce d'obtenir paisiblement des concessions de la part des Gouvernements. - Démontrer l'avantage d'une union soit douanière, soit politique avec le Piémont.

Le 7 janvier fut un jour solennel pour notre pays. La troisième session de la cinquième législature venait d'être inaugurée par le roi au sein du Parlement réuni.

Le discours de la Couronne, après avoir payé une dette de reconnaissance envers l'armée, qui avait si bravement soutenu la gloire de la nation, faisait mention du Congrès de Paris,

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et de la paix que la Sardaigne avait contribué à conquérir, et qu'elle avait signée a coté des plus grandes Puissances de l'Europe. Pour la première fois, y était-il dit, dans un Congrès européen les intérêts de l'Italie avaient été soutenus par une Puissance italienne; et pour la première fois on avait montré à l'évidence la nécessité d'améliorer le sort de la péninsule pour le bien, et dans l'intérêt de tout le monde. Passant ensuite aux questions intérieures, le discours de la Couronne annonçait pour la première fois l'équilibre du budget ordinaire entre les revenus et les dépenses; et terminait par mentionner les réformes dans l'administration provinciale, dans l'organisation judiciaire et dans celle de l'instruction publique, dont le Parlement allait être saisi.

Le discours ne pouvait qu'être approuvé par tous ceux qui prennent à cœur la gloire et les intérêts du pays, et il le fut en effet sans exception.

Le Parlement commença aussitôt ses travaux, et il fut successivement saisi de plusieurs projets de loi, dont je me bornerai à mentionner les plus importants.

Les projets suivants on été présentés, entre autres, dans le trimestre courant.

1: Compétence des tribunaux administratifs du royaume.

2. Abolition du taux de l'intérêt conventionnel.

3. Réforme de l'organisation administrative et économique du culte israélite.

4. Réforme des prisons judiciaires.

5. Organisation de l'ordre des avocats.

6. Budget actif et passif pour l'exercice de 1858.

7. Statistique de la population en 1858.

8. Concession du chemin de fer de l'Ossola et du Chablais.

9. Administration supérieure de l'instruction publique.

10. Nouveau code pénal militaire.

11. Service des ports de l'État.

12. Institution de tribunaux de commerce à Cagliari et à Sassari.

13. Institution des chaires publiques de littérature française, de géographie et statistique et de philosophie de l'histoire dans l'Université de Turin.

14. Établissement de la marine royale à la Spezia.

15. Construction d'un chemin de fer sur le littoral de la Ligurie depuis le Var jusqu'à la frontière du duché de Modène.

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Enfin plusieurs projets concertants des chemins, des lignes télégraphiques, et autres travaux d'utilité publique.

Le projet présente par monsieur le Garde-des-sceaux pour modifier en quelques points les dispositions du code pénal, projet qui vient d'être approuvé par une grande majorité h la Chambre des députés, est digne d'une remarque spéciale. Ces modifications consistaient dans l'abolition de la peine de mort en plusieurs cas. La discussion à laquelle ce projet à donne lieu, a été l'une des plus remarquables de la session. Les discours qui ont été prononcés à cette occasion se distinguent autant par l'élévation des sentiments et des principes théoriques, que par le sens pratique et la connaissance parfaite de la matière.

La sévérité de la législation antérieure, déjà devenue en partie inapplicable dans la jurisprudence des tribunaux, a été sagement mitigée par ce projet. Pendant le cours de la discussion le ministre de grâce et de justice a eu l'occasion de prouver les chiffres à la main, la diminution successive des délits dans les États du roi, due en grande partie à la bienfaisante influence du système de sage liberté qui régit notre pays.

Le 16 mars dernier après une discussion de deux jours, qui malgré le terrain ardent sur lequel elle était placée, se fit avec beaucoup de calme et de modération, la Chambre des députés vota à la presque unanimité le bill d'indemnité, demandé par le ministère pour les fortifications d'Alexandrie. Ce vote a produit un excellent effet dans le pays. Mais il est bon d'ajouter, qu'il n'a nullement influé sur les délibérations du Cabinet de Vienne pour le rappel de la légation impériale, qui avaient été arrêtées d'avance.

La discussion sur les fortifications d'Alexandrie et le vote de la Chambre ont été l'objet d'une circulaire, que j'ai envoyée aux légations en date du 17 mars.

S. M. l'impératrice douairière de Russie est sur le point de quitter Nice, ou elle passa l'hiver pour rétablir sa sante. L'auguste princesse a été entourée de prévenances par le roi, qui alla lui rendre visite, après son arrivée, et qui est allé ces jours derniers prendre congé d'elle, avant qu'elle quitte les États sardes. S. M. impériale avait déjà reçu la visite de son fils, le grand due Michel; et elle vient de recevoir celles de son autre fils le grand due Costantin, et de son frère le prince Charles de Prusse; du prince et de la princesse royale du Wurtemberg. Les deux grands ducs et le prince Charles sont venus à Turin rendre visite à S. M. dont ils ont pu apprécier les hautes qualités, et le noble caractère.

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Je me félicite de toutes ces visites, parce qu'elles contribuèrent à redresser beaucoup de jugements mal fondés sur notre pays, et à le faire mieux connaitre dans la sphère la plus élevée de la société européenne. Notre pays a tout à gagner à être vue de près.

Le choix des États du roi pour le séjour de l'auguste veuve de l'empereur Nicolas est une réponse à ceux qui n'ont cesse de représenter notre pays comme le foyer des troubles et des révolutionnaires.

C'est avec satisfaction que j'annonce aux légations du roi que S. M. le roi de Saxe vient d'accréditer auprès de notre Cour un envoyé extraordinaire, et ministre plénipotentiaire.

La Cour de Saxe est unie à celle de Sardaigne par les doubles liens d'une amitié sincère et du sang. En outre la Sardaigne avait accrédité depuis longtemps auprès de la Cour de Saxe son ministre à Berlin. C'étaient là des raisons très plausibles pour décider le Cabinet de Diesde à user envers la Sardaigne la mesure de réciprocité qu'il vient de prendre. Le Gouvernement du roi se félicite d'autant plus de cette détermination, que le choix qu'on a fait de la personne destinée à représenter le roi Jean à la Cour de Turin, ne pouvait être ni plus flatteur, ni plus agréable pour lui. En effet M. le baron de Seebach, qui est accrédité dans la même qualité de ministre plénipotentiaire près la Cour des Tuileries réunit toutes les qualités qui font apprécier l'homme d'État aussi bien que l'homme privé.

Le Gouvernement des pays Bas vient aussi d'accréditer un Chargé d'affaires auprès du Gouvernement du roi dans la personne de monsieur le baron Van der Duyn. Autrefois la légation Néerlandaise près la Cour de Sardaigne résidait ù Home. Nous voyons avec plaisir que le Cabinet de la Have, ait jugé plus convenable de fixer à Turin la résidence de sa legation.

Monsieur Pastor Diaz ancien ministre d'Espagne à Turin avant été appelé à la direction du département des affaires étrangères dans son pays il vient d'être remplacé par l'un des membres les plus distingués des Cortes, monsieur de Castro, ancien gouverneur de Barcelone et de Madrid.

La Turquie vient de remplacer récemment par Rusten Bey monsieur Mussurus, son faisant fonctions de chargé d'affaires, appelé à une autre destination.

Le mouvement du corps diplomatique sarde se résumé dans

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la nomination du marquis Sauli, ancien ministre du rei à Florence, au poste d'envové extraordinaire en Russie, celle du general Durando en la même qualité à Constantinople, en remplacement du chevalier Mossi mis en retraite, et celle du chevalier Buoncompagni dans la même qualité à Florence.

Le l. er janvier entra en vigueur au ministère le réglement du service intérieur. Ce réglement fait en dépendance de la loi du 23 mars 1853, et des décrets rovaux du 23 et 30 octobre de la même année, détermine les attributions et les devoirs des emplovés, et de chaque section ou division du ministère; établit les conditions d'admission dans la carrière; et ordonne l'institution d'un Conseil perrnanent du ministère et celle d'un Conseil du contentieux diplomatique, dont je me promets d'excellents resultata.

C'est enfin pendant ce trimestre que le projet de loi pour la réorganisation des consulats, présente au Conseil d'État, y a été examiné et discutè. Ce projet si important, et si attendu sera présente au Parlement aussitót qu'il sera sorti des bureaux du Conseil d'État.

C. Cavour.

XLIX.

Lettre de M. le comte Camille de Cavour à M. le marquis Villamarina à Paris.

Mon cher Marquis,

Turin, 17 janvier 1858.

Le télégraphe vous a appris la modification que le ministère vient de subir. Vous aurez été étonné de voir que j'ai quitte les finances pour me charger de l'intérieur.

Ce changement m'a été impose par la nécessité de relever le murai de l'administration provinciale abattue par une suite de fâcheuses circonstances. Je ne sais si je parviendrai à le faire.

J'y consacrerai toutes mes forces et tous mes moyens intellectuels. Nous avons pensé qu'il ne convenait pas introduire un élément nouveau dans le cabinet, qui aurait pu laisser croire que le ministère inclinait à gauche ou a droite, tandis qu'il persiste dans la voie qu'il a suivi jusqu'ici, sans en dévier d'une ligne.

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Maintenant que Rattazzi est sorti du ministère, il est temps que la vérité se fasse jour sur son compte, et qu'on commence à lui rendre justice Vous qui le connaissez à fond, vous pouvez contribuer à cette œuvre réparatrice.

Rattazzi a succombé sous une série de circonstances malheureuses, qu'il n'était pas en son pouvoir de conjurer. Il a été victime de fausses apparences, sur lesquelles ses ennemis ont élevé un édifice de calomnies inoules, On l'accuse de tendances révolutionnaires, d'opinions exagérées. Rien de plus contraire à la vérité Rattazzi a toujours été le membre le plus conservateur du cabinet, le partisan le plus décide du principe d'autorité. Le roi, la monarchie, la cause de l'ordre n'ont pas de partisan plus sincère, plus dévoué que lui. Il est libéral par conviction; intelligence de l'ordre le plus élevé, il a l'esprit juste et fin. Personne ne faisait plus vite et mieux que lui une affaire; et il est difficile qu'il se trompe dans ses appréciations soit des questions politiques, soit des questions administratives.

Tout ce que Rattazzi a fait lui-même a été bien fait. Toutes les choses dont il dû confier l'exécution à d'autres ont été de travers. Si l'occasion se présente, tàcbez de rectifier l'opinion que l'Empereur s'est formée de Rattazzi. Répétez lui de ma part, que si dans tous les pays il y avait beaucoup d'hommes de sa trempe, la cause de l'ordre ne courrait plus aucun danger. La sortie de Rattazzi m'a cause un profond chagrin. Non seulement parce-que j'ai pour lui une vive et sincère amitié; mais parce qu'il est triste de voir succomber un homme qui a tant de mérites, et qui a rendu de si véritables services à son pays. Vous devez avoir reçu à cette heure quelques copies de la lettre de Farini à Gladstone. Elle a fait grand effet ici. Je suis curieux de voir ce qu'en diront les journaux français. Le journal des Débats ferait mieux de s'en occuper, que de continuer la polémique sur l'enquête ordonnée par la Chambre. Au fond je ne regrette pas l'attitude qu'il a prise dans cette question, car c'est à elle que nous devons que toute la Presse européenne l'ait pris si fort à cœur. C'est beaucoup d'avoir occupé toute l'Europe de nous.

J'attends avec impatience la solution de l'affaire Monaco.

Croyez à mes sentiments dévouées.

C. Cavour.

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Dépêche de M. le comte Walewsky à M. le prince de la Tour d'Anvergne, ministre de France à Tu ria.

Monsieur le Prince,

Paris, 22 janvier 1858.

Parmi les sentiments que l'attentat du 14 janvier a provoqués et dont les correspondances des envoyés de l'Empereur m'apportent de toutes parts l'expression, il n'en est pas qui se manifeste avec plus de force et d'unanimité que celui des dangers que ce crime odieux a fait courir a l'Europe entière.

Jamais les Gouvernements n'ont mieux apprécié qu'en ce moment la solidarité qui les unit, ni plus hautement déclaré combien le maintien de l'ordre en France importe aux intérêts généraux.

C'est au nom de cette solidarité que le Gouvernement de l'empereur se croit autorisé à réclamer le concours du Cabinet de Turin pour conjurer les dangers dont le dernier attentat vient de montrer l'étendue.

Ce n'est pas la première fois, vous le savez, que la Légation de S. M, a été chargée de représenter au Gouvernement piémontais combien il était désirable pour la sécurité des États voisins, comme pour la sienne propre, qu'il pût mettre un terme aux entreprises où aux démonstrations démagogiques dont son territoire est le foyer ou même le théâtre. Les événements de Gènes sont venus justifier nos appréhensions, mais si un doute subsistait encore dans quelques esprits sur les desseins de la démagogie italienne, il ne serait plus possible aujourd'hui. Ce ne sont pas les partisans d'opinions politiques plus ou moins ardentes et hostiles aux constitutions existantes que les Gouvernements ont en présence; ce sont les adeptes d'une doctrine sauvage et antisociale, professant ouvertement le régicide et l'assassinat. De tels hommes se placent d'eux-mêmes en dehors de tout ordre politique ou social, et ne sauraient en invoquer la protection, quand ils en méconnaissent toutes les lois.

M. le comte de Cavour, j'en suis convaincu, se rend un compte exact de cette situation, et je ne doute point qu'il soit déjà préoccupé des obligations qu'elle impose à tous les Gouvernements, et plus particulièrement à ceux qui ont jusqu'à présent exercé le droit d'asile avec le plus de libéralité.

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Je vous invite toutefois à entretenir M. le Président du Conseil et à lui représenter combien il serait regrettable que les États Sardes et particulièrement la ville de Gènes continuassent d'offrir un abri aux ennemis de la société européenne, et que le chef principal de ces hommes pervers, Mazzini, pût venir impunément dans cette ville, comme il l'a fait impunément tant de fois et en ce moment même, réchauffer le zèle de ses adeptes.

Nous n'avons aucune mesure particulière a suggérer au Gouvernement du roi Victor Emmanuel. Nous nous eu remettons à sa prudence et à sa loyauté du soin de prendre celles qui lui paraitront les plus propres à atteindre ce but, persuadés qu'il ne faillira pas à la tache que lui recommandent à la fois les conseils d'un Gouvernement ami, la propre dignité, et, je puis le dire, l'opinion publique de l'Europe entière.

Le Cabinet de Turin, nous en avons la confiance, portera en même temps sa sollicitude sur le criminel abus que certain journaux font de la liberté de la presse dans les États Sardes.

11 en est un surtout, L'Italia del popolo, dont l'existence parait un continuel outrage à la conscience publique. Il est notoire en effet, que cette feuille est l'organe de Mazzini, et qu'il a coutume d'y publier les manifestes qui préparent ses conspirations ou qui en font l'apologie. Il y a peu de jours encore, l'Italia del popolo, fidèle à son rôle infâme, n'a pas craint d'ouvrir ses colonnes à une publication émanée de la même plume, et destinée à donner le mot d'ordre aux démagogues italiens, en prévision de l'attentat du 14 janvier. Ce seul fait suffirait sans doute, pour faire comprendre la nécessité d'aviser aux moyens de supprimer une feuille dans laquelle, comme du haut d'une tribune toujours ouverte, Mazzini et ses complices, peuvent se livrer aux attaques les plus coupables contre les Gouvernements et à la prédication de leurs détestables doctrines.

Je vous prie, Prince, de lire la présente dépêche à M. le comte de Cavour et d'en laisser copie a S. E.

Recevez, etc.

Walewski.

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LI.

Dispaccio del conte Cavour al conte Della Minerva, incaricato d'affari della Sardegna in Roma.

Signor Conte,

Torino, 11 febbraio 1858.

Devo chiamare l'attenzione della S. V. lll.ma sopra un argomento assai grave intorno al quale occorre sollecitare dal Governo di S. S. le opportune provvidenze.

Trovansi nei regii Stati non pochi sudditi pontificii 1 quali, provvisti dal proprio Governo di passaporti limitati a brevi scadenze, e buoni per l'uscita dal loro paese non possono farsi ripagare regolarmente, perché gli agenti di S. S. accreditati nel nostro Stato ricusano d'autorizzarne il ritorno, a legando che i medesimi sono esiliati e che il passaporto e valido soltanto per l'uscita. Detti agenti, e specialmente il console generale di S S. a Genova, fecero più volte tali dichiarazioni alle autorità amministrative del regno, e se ne ha conferma nella lettera qui unita per copia del console generale predetto, diretta all'intendente generale di Genova il 5 giugno scorso, dalla quale appare inoltre come il Governo pontificio si rifiutasse d'incorrere in alcuna spesa per trasportare in altro paese il suddito di S. S. ivi menzionato.

In altri casi di non dissimile natura, mentre il console generale confermava il diniego per parte del suo Governo di riammettere codesti sudditi di S S. sul territorio pontifico dicevasi però esso autorizzato a prendere concerti col R. intendente generale a Genova, per mandar altrove tali persone, offrendo qualche limitato soccorso quando si trattasse d individui miserabili e tapini. Risulta ciò specialmente da lettera che qui pure s'unisce per copia, diretta dallo stesso console generale pontificio all'intendente di Genova in data del 7 agosto scorso, relativa al Giuseppe Ponzi di Roma.

Che s» in altra circostanza il consolato pontificio a Genova acconsenti a pagare le spese di trasporto a Buenos Ayres di un suddito di S. S. certo Domenico Leva di Ancona, non e men vero però che anche in questo caso fu rifiutato il rimpatrio.

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Risulta da tali fatti che dall'un lato il Governo di S. S. si ricusa positivamente d'annuire al ritorno nel loro paese dei proprii sudditi, sebbene provvisti del passaporto pontificio, e dall'altro egli tenta d'abbandonare al Governo del re la cura di provvedere all'invio di questi individui in estranee regioni, sottoponendosi con difficoltà al pagamento delle spese di viaggio.

Questo sistema d'espulsione dai proprii Stati esercitato su larga scala dal Governo pontificio, giacché nel solo nostro territorio i sudditi di S. S. così espulsi sommano a più centinaia, non può a meno d'avere le più funeste conseguenze.

L'esiliato per sospetti o per men buona condotta non è sempre uomo corrotto o affiliato indissolubilmente alle sètte rivoluzionarie. Trattenuto in patria, sorvegliato, punito ove d'uopo, potrebbe emendarsi, o per lo meno non diverebbe uomo grandemente pericoloso. Mandato invece in esiglio, irritato da misure illegali, costretto di vivere all'infuori della società onesta, e spesso senza mezzi di sussistenza, si mette necessariamente in relazione coi fautori delle rivoluzioni. Quindi è facile a questi l'aggirarlo, sedurlo, affigliarlo alle loro sètte. Così il discolo diventa in breve settario, e talora settario pericolosissimo.

Onde si può con ragione asserire che il sistema seguito dal Governo pontificio ha per effetto di somministrare di continuo nuovi soldati alle file rivoluzionarie. Finché durerà in esso, tutti gli sforzi dei Governi per disperdere le sètte torneranno vani, perché a mano a mano che s'allontanano gli uni dai centri pericolosi, altri vi convengono in certo modo spediti dal proprio Governo. A ciò si deve attribuire la vitalità straordinaria del partito mazziniano, e vi contribuiscono in gran parte le misure adottate dal Governo di S. S.

In ogni caso il Governo pontificio non può giustamente pretendere che quello di S. M. deva accogliere nel suo territorio qualsiasi individuo gli piaccia mandare alla nostra frontiera, a condizione di rinunzia al ritorno; come il Governo di S. M.

non vuole, né può assumersi la grave responsabilità e l'incarico, ad un tempo malagevole ed odioso, di deportare in lontani paesi i sudditi altrui., Se fu sempre difficoltà al R. Governo l'operare simili trasporti d'emigrati, ora gdi ostacoli divennero di gran lunga e più numerosi e più gravi, sia pei recenti tentativi di Genova, Livorno, Napoli e Parigi, sia perché spesso accade che fra gli emigrati trovansi individui espulsi per reati comuni. Si può

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diffatti asseverare che uè Francia, né Svizzera, né altri paesi del continente europeo sono disposti ad ammettere tali individui. Gli Stati Uniti dell'America settentrionale già opposero gravi ostacoli, e l'America meridionale cerca coloni ed agricoltori, anziché emigrati, massime se processati od espulsi per reati comuni.

Incarico perciò V. S. 111. ma di recare queste cose a notizia dell'eminente segretario di Stato, e di domandare che voglia dare le opportune direzioni agli agenti pontificii, accreditati nei R. Stati, affinché pongano il visto pel ritorno ai passaporti dei numerosi loro connazionali qui domiciliati, e siano questi ammessi al rimpatrio. Tali disposizioni Ella invocherà naturalmente anche per l'avvenire, ed intanto il ministero le manderà la nota degli individui intorno a cui si chiedono ora le opportune provvidenze. Ella osserverà a S. Em. che il R. Governo ha fiducia nella saviezza ed amicizia del Governo di S. S. pel pronto esito della presente domanda. Il Governo del re sarebbe spiacentissimo se si vedesse stretto dalla necessità a mandare alla frontiera pontificia i sudditi predetti di S. S.

Gradisca.

C. Cavour.

LII.

Deux dépêches de M. le comte de Cavour, président du conseil des ministres, Ministre des affaires étrangères de S. 31. le roi de Sardaigne, à M. le marquis Emanuel d'Azeglio, ministre sarde à Londres.

Monsieur le Marquis,

Turin, le 30 avril 1858.

.le vous envoie ci-jointe la copie d'une dépêche qui a été adressé a sir James Hudson par lord Malmesbury le 24 du courant destinée à servir de réponse à vos notes du 22 et du 24 mars dernier. S. E. le principal secrétaire d'État pour les affaires étrangères croit devoir discuter longuement sur la valeur réelle de la note de sir James Hudson du 5 janvier, sur l'interprétation quo le Gouvernement du roi lui a donnée ainsi que sur les notes échangées entre la légation du roi et le Foreign office le 23 et le 24 mars.

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Au lieu de discuter les appréciations de S. E. je crois convenable de rappeler sommairement les faits et indiquer les causes qui ont guide la marche du Gouvernement du roi.

Avant de faire de la question du Cagliari l'objet d'aucune communication diplomatique méme à l'Angleterre, le Gouvernement de S. M. avait cru devoir réunir tous les éléments nécessaires pour s'en former une idée exacte et la soumettre à l' examen des hommes de loi les plus compétents, formant le comité du contentieux diplomatique.

Sur ces entrefaites sans qu'aucune démarche préalable eût eu lieu de la part de la Sardaigne, sir James Hudson est venu me donner lecture d'une dépêche de L. Clarendon du 29 décembre dernier. Cette dépêche produisit une grande impression sur le Gouvernement du roi. Il cru v voir non seulement la manifestation précise de l'opinion du Gouvernement anglais sur l'illégalité de la capture du Cagliari, mais encore le conseil de protester contre cette capture.

En effet, lorsqu'une Puissance qui a autant d'autorité que l'Angleterre, surtout dans les questions maritimes, vient spontanément faire connaître à un Gouvernement ami sa manière de juger une question qui l'intéresse au plus haut degré, c'est là a. mou avis, un mode courtois de donner un conseil, et je ne saurais interpréter autrement une semblable démarche. Si je me suis trompé, je crois que bien des ministres et des diplomates qui se fussent trouvés dans ma position, se seraient trompés comme moi.

L'impression produite par la lecture de la dépèche précitée fut tellement grave que je crus devoir prier sir James Hudson d'en faire l'objet d'une communication écrite. Ce ministre m'adressa alors la note de 5janvier, objet de tant decommentaires, et de fàcheuses discussions.

lei, je dois ledéclarer franchement, la note de sir James Hudson ne modilìait pas l'impression qu'avait produite la lecture de la dépèche de lord Clarendon. La note indiquait il est vrai, d'une manière précise, que l'Angleterre avait l'intention de protester contre la capture du Cagliari, ce qui n'était pas dans la dépèche, mais le Gouvernement du roi, connaissant combien le Cabinet anglais est jaloux de l'iionneur national, avec quelle sollicitude il veillo à la défense des droits de ses concitovens et avec quelle promptitude il poursuit la réparation des torts qu'ils peuvent souffrir, n'avait pas hésité un instant, lorsque sir James Hudson avait fait connaìtre l'opinion de lord Clarendon sur l'illégalité de la capture du Cagliari, h en conclure qua


vai su


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l'Angleterre protesterai contre ce fait afin d'avoir le droit de réclamer l'élargissement immédiat des deux mécaniciens anglais Watt et Park.

Je ne conteste pas que la Légation britannique à Turin n'ait commis une erreur, qu'elle n'ait dépassé ses instructions. Mais ce qui est certain, c'est que cette erreur n'a pas modifié les dispositions du Cabinet du Turin, qui; tort ou à raison avait attribué a la dépêche du 29 décembre un sens à peu près identique à celui de la note du 5 janvier. Convaincu de l'identité de vues du Cabinet de Londres avec le notre sur la question légale, je n'ai pas cru nécessaire de faire traiter cette question a Londres: lord Malmesbury paraît s'en étonner; mais s'il réfléchit que l'ouverture avait été faite à Turin par une note de la Légation britannique. s'il veut bien noter que lord Clarendon chargeait sir James Hudson de le renseigner sur ce qui se passait à Naples, et nous engageait par son entremise, à donner à notre chargé d'affaires dans cette ville, M. le comte Groppello, l'ordre de se mettre en rapports intimes avec le consul d'Angleterre M. Barbax, il devra convenir qu'il n'était pas extraordinaire que nous fussions portés à croire que le Gouvernement anglais désirait que cette question fut traitée à Turin plutôt qu'à Londres. Agissant d'après cette donnée le Gouvernement du roi a tenu sir James Hudson au courant de tout ce que nous faisions. Il lui a communiqué l'avis érais par le Conseil du contentieux diplomatique et lui a donne connaissance de la correspondance du comte Groppello. Enfin dans de fréquents entretiens, je lui ai fait connaitre, pour ainsi dire, jour par jour la marche que nous suivions.

La mission confiée à M. le chevalier Carutti avant pour but de fournir au Gouvernement britannique et à ses avocats tous les renseignements nécessaire sur la question, prouve que le Gouvernement sarde était persuade que celui de S. M. Britannique voulait agir d'accord avec lui. En attendant afìn de dissiper tous les doutes, le Gouvernement du roi avait cru devoir interroger les avocats les plus distinguées de l'Angleterre.

Il demanda l'avis de M. Phillemore dont les écrits sur le droit maritime font autorité non seulement dans le royaume Uni, mais en Europe, et celui de M. Travers Turist jouit également d'une grande réputation légale. Je n'ai pas besoin de faire remarquer que ces démarches, loin d'être destinées à contrarier ou à embarrasser le Gouvernement britannique n'avaient d'autre but que d'éclairer la question légale, de mettre en évidence notre bon droit, et d'y ajouter le poids inhérent à l'autorité des hommes les plus compétents dans la matière.

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En même temps les conseillers légaux de la Couronne d'Angleterre donnaient leur avis sur la question. Cet avis d'ailleurs fort peu explicite, ne fut pas communiqué à la Légation du roi à Londres. d'Ile ci aurait donc pu l'ignorer, mais admettant moine que cet avis fut connu par elle (quelle que pût être sa teneur) la Légation et le Gouvernement du roi ne persistaient pas moins à croire que le Gouvernement de la reine dans les limites du droit, avait l'intention d'agir de concert avec lui dans une question qui impliquait évidemment un intérêt commun.

Survint alors la crise ministérielle qui eut pour résultat la constitution du Cabinet préside par le comte de Derby. Quelque temps après vous avez adressé à lord Malmesbury votre note du 22 mars, par laquelle, en vous fondant sur la note du 5 janvier de sir James Hudson, vous demandiez formellement, par ordre et au nom de votre Gouvernement, le concours et au besoin la coopération du Gouvernement britannique.

Vous avez interprète, monsieur le marquis, la réponse qui vous a été faite le 23 mars par S. E. le principal secrétaire d'État pour les affaires étrangères, comme un indice que le Gouvernement britannique ne voulait pas agir de concert avec la Sardaigne, mais aussi sans inférer un manque d'intérêt de sa part vis-à-vis d'un Gouvernement allié et ami.

Les sentiments auxquels tette interprétation a donne lieu et qui ont dicté votre note du 24 mars ne sauraient être considérés comme blessants. Lord Malmesbury doit trouver tout naturel que nous regrettions que l'Angleterre, tout en nous conservant un véritable intérêt, ait séparé sa cause de la notre.

La simple exposition de ces faits doit convaincre S. E. de la parfaite loyauté, de la modération et de la dignité du Gouvernement du roi, ainsi que de la marche droite et correcte qu'il a cru devoir suivre dans la question qui préoccupe en ce moment les deux Cabinets.

Je passe maintenant à la seconde partie de la dépêche de lord Malmesbury. S. E. après avoir annoncé que le Gouvernement de la reine doit suivre l'opinion de la majorité des conseillers légaux de la Couronne, établit que cette opinion est favorable aux demandes de la Sardaigne quant à ce qui a rapport à l'arrestation et à la détention de l'équipage du Cagliari et de la condamnation de ce bâtiment comme prise maritime, mais qu'elle est contraire à nos conclusions, ainsi qu'aux considérations contenues dans la dépêche de lord Clarendon du 29 decembre pour ce qui concerne la légalité de la capture du navire en pleine mer.

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Lord Malmesbury propose ensuite la division des différents points qui se rattachent à cette controverse, en deux questions principales dont l'une exclusivement sarde, et l'autre avant un caractère general de nature à intéresser toutes les Puissances maritimes.

S. E. conseille une action séparée pour ce qui concerne la libration de l'équipage et l'indemnité à réclamer en faveur de celui-ci et des propriétaires du Cagliari: «Il parait, dit-il au Gouvernement de la reine, que le Gouvernement de Sardaigne, sans rien sacrifier de l'honneur national peut traiter simplement la question sarde de libération de l'équipage sarde, ainsi que de l'indemnité à réclamer pour celui-ci et pour les propriétaires du Cagliari, de la même manière que le Gouvernement de la reine a traité la question des mécaniciens britanniques. En entrant dans les détails pécuniaires dont il s'agit, le Gouvernement sarde aura l'avantage de pouvoir soutenir ses demandes en se référant à l'avis des avocats britanniques de la couronne, sur les deux points de l'emprisonnement prolongé de ses nationaux et de la condamnation de son navire. Il pourra se refuser également à la marche que conformément à cet avis le Gouvernement britannique a adopté à l'égard des mécaniciens anglais».

Quant à la seconde question, S. E. annonce que le Gouvernement de la reine dans l'intérêt commun de toutes les nations maritimes, accorder à la Sardaigne ses bons offices, et son appui moral, à l'effet d'obtenir la restitution du Cagliari qui, selon l'expression de la dépêche anglaise, ne pouvait pas ètre légalement confisqué par le Gouvernement de Naples. S. E. désire ardemment que les représentations qu'on sera dans le cas de faire au roi de Naples pour obtenir ces deux objets soient couronnées de succès et elle exprime avec une vive sollicitude l'espoir qu'en cherchant ce résultat le Gouvernement du roi agira avec prudence et avec modération, mettant ainsi de son coté toutes les grandes Puissances maritimes qui sont également jalouses que la Grande Bretagne de maintenir intacts les droits maritimes des nations, mais qui formeraient des vœux aussi vifs que ceux du Gouvernement de la reine pour éloigner toute mesure violente qui en allumant une guerre entre deux États italiens étendrait probablement ce fléaut à un espace de territoire et de temps incalculable.

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Qu'il me soit permis, avant de terminer l'exposé de la seconde partie de la dépêche de lord Malmesbury, de constater ici bien positivement que si le Gouvernement du roi pendant le cours de cette controverse, a tenu un langage ferme et digne, conforme au sentiment de son bon droit et de son honneur, il n'a d'autre part pas prononcé une parole ni fait une démarche qui soient de nature à faire accroire qu'il veuille recourir à des mesures violentes, avant d'avoir épuisé tous les moyens pacifiques et honorables.

Lord Malmesbury conclût en mettant hors de doute que, si malgré les bons offices de l'Angleterre, on ne parvenait pas à arranger le différend, le Gouvernement du roi se conformerait au vœu consigné au 23me protocole du Congrès de Paris, portant «que les États entre lesquels s'élèverait un dissentiment sérieux, avant d'en appeler aux armes, eussent recours, en tout ce que les circonstances l'admettraient, aux bons offices ce d'une Puissance amie.

S. E. n'hésite pas à donner l'assurance que si le Gouvernement sarde suivra cette marche, il pourra compter sur l'appui décide du Gouvernement de la reine.

Je vous charge, monsieur le marquis, de répondre au principal secrétaire d'État que: 1. Le Gouvernement du roi ne saurait admettre à son point de vue la convenance de la division des deux questions, telle qu'elle a été proposée par lord Malmesbury. Mais en admettant même cette division, le Gouvernement du roi est d'avis qu'une action combinée des deux Gouvernements pourrait avoir pour résultat une solution plus prompte et plus satisfaisante des deux questions. Par conséquent nous persistons dans l'espoir que le Gouvernement de S. M. britannique se décidera à agir de concert avec nous sur tous les points.

2. Si le Cabinet de Jt James par des considérations qu'il ne nous appartient pas d'apprécier, se refusait d'agir de concert avec nous, et de nous donner un concours effectif, le Gouvernement du roi est loin de repousser les bons offices de l'Angleterre.

Il les accepte avec reconnaissance; il ne méconnait pas l'autorité de l'opinion que le Gouvernement britannique peut émettre, ni l'influence morale qu'il exerce.

Toutefois le Gouvernement du roi ne se fait pas illusion.

Il prévoit les obstacles qui peuvent surgir soit par le fait de l'État actuel des relations diplomatiques entre la Grande Bretagne et les Deux Siciles, soit par la ténacité du Cabinet de Naples.

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Il doit donc se préoccuper du cas possible où le Gouvernement sicilien se montrerait inaccessible aux avis de l'Angleterre, où les moyens moraux que cette Puissance emploierait, demeureraient stériles.

Eu acceptant les bons offices que le Gouvernement de la reine vient de lui offrir, le Gouvernement de S. M. se conforme au vœu consigné au protocole N. 23 du Congrès de Paris, auquel j'ai donne au sein des conférences, au nom de mon Gouvernement, une adhésion pour le moins tout aussi cordiale que celle donnée par les autres plénipotentiaires.

Mais vous ferez remarquer à lord Malmesbury qu'après avoir accepté les bons offices de l'Angleterre, après avoir ainsi rempli le vœu du protocole de Paris, le Gouvernement du roi ne saurait en cas d'insuccès, s'adresser à une autre Puissance sans manquer à ce qu'il se doit à, lui-même, sans manquer aux égards dus au Gouvernement de la reine. Les moyens pacifiques se trouvant ainsi épuisés, d'après cette hypothèse sans aucun résultat, le Gouvernement du roi, exprime l'espoir que l'Angleterre n'abandonnerait pis la Sardaigne à ses seules ressources.

Notre bon droit n'est pas douteux; s'il peut s'élever des doutes sur la question de la capture, si sur ce point les juréconsultes britanniques ne sont pas d'accord, si malgré l'autorité de sir Fitzcoz Nellv, et des MM. Phillemore et Turiss, on ne veut pas donner à leur opinion une valeur prépondérante il n'est pas moins vrai que sur l'illégalité de la prise, et sur les autres points il v a unanimité de conclusion. A cet égard MM. Cirey et Xardinge sont autant, si non plus, explicites que le Procureur general de la reine, le bon droit de la Sardaigne étant évident, pourquoi l'Angleterre refuserait elle un concours efficace à son ancienne et fidèle alliée? L'Europe, nous n en doutons pas, ne tirerait pas l'épée pour aider le roi de Naples à commettre une flagrante injustice.

Si le Gouvernement britannique ne croit pas pouvoir s'engager dès à présent en faveur de notre cause, qui est aussi la sienne, du moins qu'il ne se hâte pas à déclarer qu'il ne fera rien quoiqu'il puisse arriver, de ce qui dépasse les limites d'une simple action morale. Par cette déclaration prématurée le Cabinet de St-James diminue d'avance l'efficacité de cette moine action morale qu'il est dispose à exercer en faveur de la Sardaigne, et encourage le Gouvernement napolitain dans son déni de justice.

3. Il se pourrait qu'avant que le contenu de cette dépêche fut porte à la connaissance de lord Malmesbury, le Cabinet anglais, par suite d'un refus de ses demandes au Gouvernement napolitani,

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se trouvât lui-même dans le cas d'exécuter le vœu exprimé par le protocole de Paris, et d'avoir ainsi recours aux bons offices d'une Puissance tierce: en ce cas vous témoignerez également, monsieur le marquis, notre désir et notre intention d'agir de concert avec la Grande Bretagne, et d'accepter conjointement les bons offices de cette même Puissance.

Je vous charge, monsieur le marquis, de soumettre le contenu de cette dépêche à la bienveillante attention de S. E. le principal secrétaire d'État pour les affaires étrangères. Vous pourrez vous acquitter de cette tache, soit en adressant une note que vous rédigerez dans le sens de cette dépêche à lord Malmesbury, soit en lui donnant lecture et copie de la dépêche elle même.

Agréez, etc.

C. Cavour.

Monsieur le Marquis,

Turin, 18 mai 1858.

Le 15 mai courant, sir James Hudson est venu me donner lecture et m'a remis une copie de la dépêche ci-jointe du principal secrétaire d'État pour les affaires étrangères de S. M. britannique portant la date du 11 du même mois et concernant la question du Cagliari. Je vous charge de remercier lord Malmesbury des explications contenues dans la première partie de sa dépêche, conçue dans un esprit amical et bienveillant que j'ai apprécié au plus haut degré.

Vous témoignerez à S. E. la satisfaction que le Gouvernement du roi a éprouvée en voyant que le Cabinet britannique est dispose à accepter en principe les propositions contenues dans ma dépêche du 1er de ce mois.

S. E. déclare en effet que le Cabinet britannique consent a une action combinée entre les deux Gouvernements de Sardaigne et d'Angleterre, dans le but d'obtenir de la part du Gouvernement de Naples non seulement la restitution du Cagliari v mais encore la mise en liberté de son équipage. S. E. ajoute que dans le cas où les rémonstrances présentées conjointement à Naples demeureraient inefficaces, les Gouvernements sarde et britannique devraient faire appel à une Puissance amie et se conforme! au protocole 93 du Congrès de Paris.

En prévision de cette même éventualité S. E. propose indistinctement comme médiateurs ou arbitres les États suivants, savoir la Suède, la Hollande, le Portugal et la Belgique.

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La seule question que le Gouvernement britannique ne consentirait pus a traiter conjointement avec la Sardaigne c'est la questions des indemnités. Sur ce point le Gouvernement de la reine croit convenable de tenir sa cause séparée de la notre.

Lord Malmesbury déclare qu'il ne conviendrait pas à l'Angleterre d'entrer dans les détails concertants les souffrances de chaque individu de L'équipage, ou de s'immiscer dans les demandes des propriétaires du bâtiment. Il se refuse en conséquence à joindre ses réclamations à celles de la Sardaigne.

A l'exception de ce point la conduite suggérée par le principal secrétaire d'État pour les affaires étrangères de S. M. britannique étant conforme en conclusion à DOS propositions précédentes, je vous charge, monsieur le marquis, de déclarer à S. E. que le Gouvernement du roi v donne son adhésion.

Passant maintenant à l'application concrète des idées qu'on vient d'exposer, je vous engagé à soumettre à la haute appréciation du principal secrétaire d'État pour les affaires étrangères les propositions suivantes.

1° Le Gouvernement du roi croit convenable qu'une note collective soit adressée au Gouvernement napolitain par les Cabinets de Turin et de Londres pour demander la libération de l'équipage et la restitution du navire. La demande devra être fondée sur les arguments qui excluent la complicité de l'équipage et des armateurs dans les faits regrettables de Ponsa et de Sapri.

2. Dans le cas où le Gouvernement de Naples répondrait à cette demande par un refus, le Gouvernement du roi propose à celui de la reine d'annoncer conjointement au Cabinet de Naples que la Sardaigne et la Grande Bretagne en se conformant au protocole de Paris entendent avoir recours aux bons offices d'une Puissance amie dont elles invoqueraient la médiation dans l'espoir et dans le but de parvenir par ce moyen a résoudre le différend d'une manière pacifique et honorable.

3. Le Gouvernement du roi, dans eette éventualité, accepte volontiers la médiation de la première Puissance mentionnée dans la dépêche de lord Malmesbury. - La Suède. - Ce choix serait très convenable sous tous les rapports, non seulement parce qu'on peut avoir une foi entière dans le Gouvernement impartial et éclairé du roi de Suède et de Norvège, mais en outre parce qu'un tel médiateur ne saurait être qu'agréable

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au roi de Naples qui entretient de bons avec le Cabinet de Stockolm et vient de conclure récemment avec les Royaumes Unis, un traité de commerce et de navigation.

4. Pendant les négociations et la médiation il serait de toute urgence que l'équipage du Cagliari fut mis en liberté, en donnant, le cas échéant, les garanties et les cautions nécessaires. Le Gouvernement du roi insiste formellement sur cette demande, et il invoque à cet égard d'une manière tout aussi formelle le concours de l'Angleterre. C'est là non seulement une question de justice, mais une question d'humanité. Après un emprisonnement long et cruel, après les souffrances endurées jusqu'ici, les sujets du roi ne sauraient rester plus longtemps enfermés dans les tristes cachots de Naples et de Salerno sans courir les plus graves dangers pour leur sante et pour leur vie. Au nom donc de l'humanité et de la justice, le Gouvernement du roi propose à celui de la reine de réclamer conjointement, en même temps que l'on annoncera au Gouvernement de Naples le recours à une médiation, en faveur de l'élargissement immédiat de l'équipage sous caution.

5. Le Gouvernement a la question de l'indemnité, du moment où le Cabinet britannique insiste à ce qu'elle soit traitée séparément par les deux Gouvernements, nous consentons dans un but de conciliation et par déférence à l'opinion du Gouvernement de la reine, à suivre la marche qu'il vient de tracer. Par conséquent nous présenterons séparément nos demandes d'indemnité, soit en faveur de l'équipage, soit en faveur des armateurs du Navire.

Je ne terminerai pas cette dépêche sans vous renouveler la prière de remercier lord Malmesbury d'avoir consenti à agir de concert et conjointement avec nous sur les points les plus essentiels de cette grave question. Vous exprimerez également à V. E. notre foi et notre espoir dans le concours efficace qui vient ainsi de nous être assuré de la part d'une Puissance que nous sommes habitués depuis des siècles à regarder comme une ancienne et fidèle alliée.

Je vous charge de porter le contenu de cette dépêche à la connaissance du ministre des affaires étrangères de S. M. britannique et de lui en laisser copie.

Agréez, etc.

C. Cavour.

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LIII.

Dispaccio del conte Cavour al conte di Gropello, incaricato d'affari della Sardegna in Napoli.

Illustrissimo Signore,

Torino, 4 giugno 1858.

La S. V. Ill. ma venne informata che il commendatore Canofari, incaricato d'affari di S. M. siciliana, m'ha dato a suo tempo comunicazione di detta risposta fatta dal signor commendatore Carafa al mio dispaccio del 18 marzo ultimo scorso relativo alla cattura del Cagliari.

In questo documento che porta la data del 15 scorso aprile, il commendatore Carafa ripete che la questione pendente è di sola competenza dell'autorità giudiziaria dello Stato, che ha operato la cattura del legno, e che perciò essa non può venir trattata in via diplomatica. Entrando piemieramente nella disamina della legalità della cattura fatta in alto mare, il Gabinetto napoletano riconferma le precedenti sue dichiarazioni e conchiude ricusando di far ragione alla domanda del Governo del re per la restituzione del bastimento e rilascio dei prigionieri.

Se il prolungare siffatta dissenzione fosse conforme alla dignità del Governo e delle speranze di qualche soddisfacente risultamento, io potrei agevolmente dimostrare che l'apparato dottrinale di cui si veste la risposta napoletana non vale ad infermare i principii da me svolti, giacché le molteplici autorità allegate in contrario, contemplando uno stato di guerra solenne o per lo meno mista, non hanno alcuna riferenza coi delitti ordinari di cui sonosi resi colpevoli gli autori dell'attentato di Ponza e di Sapri.

Che se il Gabinetto napoletano col suo ragionamento pretende inferire che, attese le circostanze di tempo e di luogo, le fregate di S. M. siciliana si credevano autorizzate d'arrestare il legno sardo, divenuto istrumento di un atto criminoso, quantunque per fatto di violenza patita dal suo capitano e dall'equipaggio, io debbo osservare che, dove anche la cortesia delle nazioni [comitas gentium) possa ciò consentire o tollerare, da un somigliante atto di cautela e di previsione

- 674 -

non prenderebbe radice il diritto alla preda, tanto meno poi ne conseguirebbe il diritto di confiscare il legno, e di sottoporre il capitano e l'equipaggio alla giurisdizione dei tribunali napoletani. L'unanime parere dei più eminenti giureconsulti ha pronunziato su questo punto, ed il Governo britannico, la cui autorevole opinione fu già invocata dal commendatore Carafa, ha dichiarati tali atti ingiustificabili secondo il diritto.

Eppure undici e più mesi sono trascorsi dacché trovasi nelle acque di Napoli sequestrato un legno che non si ha il diritto di condannare, e da più di undici mesi languono nelle carceri di codesto regno l'equipaggio ed i passeggieri innocenti, che non sono mai legalmente caduti nella giurisdizione siciliana.

Dopo il rifiuto del Governo di Napoli di far ragione ai giusti riclami della Sardegna, il Governo di S. M. sarebbe in diritto d'aver ricorso ai mezzi più efficaci per vendicare gli offesi suoi diritti.

Ma il Governo di S. M. desidera di porgere a tutte le nazioni incivilite una prova sincera della sua moderazione e dei suo rispetto al principio registrato nel protocollo delle conferenze di Parigi del 14 aprile 1856, principio al quale il Governo napoletano ha pure aderito. Mosso da questo sentimento il Governo di S. M. è disposto di sottoporre la questione pendente alla mediazione di una Potenza amica.

Il Governo di S. M. si attiene tanto più volentieri a questo moderato procedere in quantochè riputerebbe altamente deplorevole una collisione fra due Stati italiani, che dovrebbero comunicare in concordia d'intendimento a benefizio della patria comune.

Per gli esposti motivi il Governo di S. M., concorrendo eziandio al parere del Gabinetto britannico, col quale è stato in corrispondenza durante il corso di questa spiacevole vertenza, propone al Governo napoletano d'invitare la Svezia ad assumere la mediazione in discorso, purché le autorità napoletane pongano intanto in libertà, sotto cauzione, l'intero equipaggio ed i passeggieri arrestati sul Cagliari e detenuti a Salerno.

Il Governo di S. M. cordialmente d'accordo colla Gran Bretagna nel fare questa proposizione, nutre speranza che essa varrà ad antevenire e causare quegli ulteriori procedimenti che è suo desiderio d'evitare.

- 675 -

Se il Governo napoletano non vi aderisse, egli solo sarà imputabile delle conseguenze del suo rifiuto.

La S. V. Ill. ma darà comunicazione e lascierà copia di questo dispaccio al signor commendatore Carafa, pregandolo di darle una categorica risposta fra dieci giorni.

Gradisca i sensi della mia ben distinta considerazione.

C. Cavour.

FINE DEL VOLUME SETTIMO.

INDICE DELLE MATERIE


Capitolo

primo

Pag.

5

»

secondo

»

31

»

terzo

»

88

»

quarto

»

118

»

quinto

»

157

»

sesto

»

189

»

settimo

»

249

»

ottavo

»

290

»

nono

»

314

»

decimo

»

375


DOCUMENTI


I.

Lettre confidentielle de M. le marquis Emmanuel d'Azeglio au président de la République française …..................................»

445

II.

Lettre confidentielle de M. le marquis Victor de Saint Marran à M. le chevalier Maxime d'Azeglio, président du Conseil des ministres à Turin ….........................................................»

446

III.

Lettera confidenziale del marchese Vittorio di San Marzano a S. A. R. il duca di Genova …..»

448

IV.

Lettera del principe Felice di Schwarzenberg a S. A. R. il duca Francesco V di Modena …......»

450

V.

Lettera di S. A. R. il duca Francesco V di Modena al principe Felice Schwarzenberg, presidente del Consiglio dei ministri in Vienna ….........................................................»

453

VI.

Lettera di S. A. R. il duca Francesco V di Modena a S. M. l'imperatore Francesco Giuseppe d'Austria..........................................»

455

VII.

Lettera del conte Buoi a S. A. R. il duca Francesco V di Modena …...............................»

457

VIII.

Lettera di S. A. R. il duca Francesco V di Modena al conte Buoi, ministro degli affari esteri in Vienna …...........................................»

458

IX.

Memoriale relativo agli accordi con Roma per il ministero degli affari ecclesiastici in Firenze del commendatore Baldasseroni, presidente del Consiglio dei ministri granducali …..........»

461

X.

Lettera di S. S. Pio IX a Leopoldo II granduca di Toscana …...................................................»

465

XI.

Lettera del granduca Leopoldo II a S. S. Pio IX ….................................................................»

466

XII.

Due dispacci di Massimo d'Azeglio, presidente del Consiglio dei ministri in Torino, al marchese Spinola, incaricato d'affari per la Sardegna in Roma …................»

467

XIII.

Due dispacci di Massimo d'Azeglio al ministro sardo in Parigi ….............................................»

470


678


XIV.

Istruzioni per il cav. Bertone di Sambuy, Inviato straordinario, ministro plenipotenziario di S. M. il re di Sardegna a Roma......................................................... Pag.

476

XV.

Cinq dépèches de M. le chevalier Maxime d'Azeglio à M. le comte de Revel à Vienne ….»

484

XVI.

Dépèche confidentielle de M. le general Alfonse Della Marmora à M. le comte Doria à Paris................................................................»

490

XVII.

Lettera del marchese Centurione, segretario della legazione sarda in Roma, al conte Bertone di Sambuy......................................... »

494

XVIII.

Dépèche-circulaire confidentielle de M. le general Dabormida, ministre des affaires étrangères du roi de Sardaigne …...................»

501

XIX.

Dépèche confidentielle de M. le comte Camille Benso de Cavour, président du Conseil des ministres, ministre des affaires étrangères, au marquis Salvator Pes de Villamarina, ministre sarde à Paris …...........»

503

XX.

Dispaccio circolare del conte di Cavour alle regie Legazioni all'estero

505

XXI.

Trois dépèches de M. le chevalier Maxime d'Azeglio au comte Galina, ministre sarde à Paris.................................................................»

507

XXII.

Dépèche confidentielle et reservée de M. le chevalier Maxime d'Azeglio à M. le marquis Salvator Pes de Villamarina, ambassadeur de S. M. le roi de Sardaigne à Paris................... »

515

XXIII.

Deux lettres de M. le chevalier Maxime d'Azeglio à M. le marquis Salvator Pes de Villamarina, ministre sarde à Paris t>

523

XXIV.

Deux dépèches de M. Drouyn de Lhuys , ministre des affaires étrangères, à M. le due de Guiche, ministre de France à Turin ….......»

529

XXV.

Quatre dépèches de M. le general Dabormida, ministre des affaires étrangères, à M. le marquis de Villamarina, ministre sarde à Paris .... »

533

XXVI.

Dépèche de M. le general Dabormida à M. le marquis Emanuel d'Azeglio, ministre sarde à Londres

543

XXVII.

Protocole de la conférence tenue le 10 janvier 1855 à Turin pour l'accession de la Sardaigne au traité du 10 avril 1851............................... »

545

XXVIII.

Dépèche confidentielle de M. le chevalier Jean Antoine Louis Cibrario, ministre des affaires étrangères, au marquis Villamarina à Paris et au marquis d'Azeglio à Londres …....»

547

XXIX.

Dépèche confidentielle de M. le chevalier Cibrario à M. le marquis d'Azeglio à Londres …....................................................................»

548

XXX.

Lettera riservata del cavaliere Luigi Cibrario , ministro degli affari esteri di S. M. il re di Sardegna, al presidente del Consiglio dei ministri di S. A. I. il Granduca di Toscana …..»

550

XXXI.

Due lettere del cavaliere Luigi Cibrario al marchese Sauli, ministro sardo in Firenze …..»

552

XXXII.

Dépèche confidentielle de M. le chevalier Cibrario à M. le marquis Cantono à Vienne ...»

553

XXXIII.

Lettre particulière de M. le chevalier Louis Cibrario au marquis Villamarina à Paris et au marquis d'Azeglio k Londres »

555

XXXIV.

Lettre de M. le chevalier Cibrario au marquis d'Azeglio à Londres ….....................................»

557


679 —



XXXV.

Dopoché de M. le chevalier Cibrario à M. le marquis Villamarina à Paris et a M. le marquis d'Azeglio à Londres …..................Pag.

558

XXXVI.

Depòche de M. le chevalier Cibrario à M. le marquis Villamarina, ministre sarde à Paris.................................................................»

560

XXXVII.

Lettre de M. le comte Cannile Benso de Cavour à S. E. M. le comtc Walewski …..........»

562

XXXVIII.

Mémoire de M. le comte de Cavour sur les moyens propres à préparer la reconstitution de l'Italie ….....................................................»

568

XXXIX.

Trois dépèches de M. le chevalier Cibrario à M. le marquis Villamarina à Paris et au marquis d'Azeglio à Londres ….......................»

599

XL.

Instructions de M. le chevalier Cibrario à M. le comte de Cavour et à M. le marquis de Villamarina, ministres plénipotentiaires de Sardaigne aux conférences de Paris …............»

608

XLI.

Quatre dépèches de M. le chevalier Louis Cibrario à M. le comte de Cavour, ministre plénipotentiaire de Sardaigne aux conférences de Paris …...................................»

611

XLIl.

Dépèche de M. le comte Cavour à M. le chevalier Cibrario, ministre des affaires étrangères........................................................»

620

XLIII.

Due lettere del conte Camillo Cavour al commendatore Michelangelo Castelli …........»

621

XLIV.

Sei lettere del conte Camillo Cavour ad Urbano Rattazzi …..........................................»

623

XLV.

Dispaccio circolare del commendatore Carafa, ministro degli affari esteri di S. M. il re di Napoli, alle regie Legazioni all'estero............ »

631

XLVI.

Lettre cofidentielle de M. Carafa, ministre des affaires étrangères de S. M. le roi de Naples, à M. le comte de Bernstorff, ministre de S. M. le roi de

633


Prusse à Londres............................................


XLVII.

Deux lettres de M. le comte de Cavour à M. le marquis Villamarina à Paris ….......................«

637

XLVIII.

Circulaire de M. le comte C. Cavour, président du Conseil des ministres, ministre des affaires étrangères, aux chefs des Légations de S. M. le roi de Sardaigne......... »

613

XLIX.

Lettre de M. le comte Cannile de Cavour ù M. le marquis Villamarina à Paris …...................»

657

L.

Dépèche de M. le comte Walewski à M. le prince de la Tours d'Auvergne, ministre de France à Turin................................................ »

659

LI.

Dispaccio del conte Cavour al conte della Minerva incaricato d'affari della Sardegna in Roma …...........................................................»

661

LII.

Deux dépèches de M. le comte de Cavour, président du Conseil des ministres, ministre des affaires étrangères de S. M. le roi de Sardaigne, à M. le marquis Emanuel d'Azeglio, ministre sarde a Londres …...........»

663

LUI.

Dispaccio del conte Cavour al conte di Gropello incaricato d'affari della Sardegna in Napoli …..........................................................»

673














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