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Rubrica - Osservatorio meridionale

Fenomenologie della Camorra. 

Lo sguardo dell’antropologo sulla criminalità organizzata

Gianluca Limatola

Paolo Graziano

Proteo

Gli spari di Secondigliano, i morti ammazzati a Scampia non sono la realtà. O meglio non sono tutta la realtà. Di essa sono l’eco assordante che costringe a prestare ascolto, che precede le parole di cordoglio e giustificazione, ma è un’eco venuta da lontano, distorta e amplificata fino a rendere irriconoscibile la sua fonte. Perché il clamore di queste truci giornate di fine anno sorge dal mormorio continuo e impercettibile con cui si stipulano affari, si spartiscono territori, si decidono destini nelle stanze segrete - ma sono poi così segrete? - delle periferie metropolitane meridionali. È questo lavorio calmo e silenzioso, che condiziona profondamente l’esistenza quotidiana di milioni di persone, allignando come una mala pianta negli interstizi del tessuto sociale, dove si alimenta della connivenza e - forse ancor di più - dell’inerzia che impedisce qualsiasi inversione di rotta e induce una comunità a procedere nel solco tracciato dalla sua parte peggiore.

Della pervasività della cultura dell’illecito in alcuni segmenti della società meridionale, della difficoltà di circoscrivere con linee nette il comportamento camorristico parla, nell’intervista che segue, Luigi Maria Lombardi Satriani, professore di Etnologia presso l’Università di Roma “La Sapienza”, senatore e membro della Commissione d’indagine sul fenomeno della mafia nella scorsa legislatura. Come antropologo di lungo corso, che condivide le convinzioni demartiniane circa la responsabilità dell’osservatore, diffida delle prospettive che separano con linee nette il proprio dall’altrui, tanto più se tali confini vengono arbitrariamente tracciati all’interno di una specifica comunità. Quando parla delle varie forme assunte dalla criminalità organizzata nel meridione, dunque, passa rapidamente dal problema dei comportamenti, dove salta agli occhi la differenza tra chi spara e chi no, a quello dei valori, in cui le distinzioni si fanno più sfumate. Per questi motivi, nel ragionamento di Lombardi Satriani la parola “camorra” indica spesso una realtà più ampia e insidiosa di quella di cui parlano i giornali, che richiede un paradigma interpretativo della complessità, auspicabile per le ricerche dell’Osservatorio Meridionale di Cestes-Proteo. E poi, in seconda battuta, il termine “camorra” è usato perché in questi giorni ci risuona ossessivamente nelle orecchie, e non potrebbe essere altrimenti. Ma la ribalta occupata da vendette e omicidi perde presto valore di fronte alla prassi sfuggente e pervasiva delle contiguità e connivenze quotidiane con la cultura criminale, che si registrano in molte parti della società meridionale.

No, davvero i colpi di pistola alla periferia di Napoli non sono il vero problema. Fanno solo più rumore delle loro cause profonde.

Una cosa interessante è la prospettiva che lei propone come vincolo metodologico, ovvero l’adozione del punto di vista dell’osservatore per un fenomeno che comunque è interno alle comunità in cui viviamo e spesso impastato con le strutture portanti della società meridionale. Che cosa significa assumere un’ottica antropologica nell’analisi della camorra?

Innanzitutto sgombrare il campo dai luoghi comuni che condizionano la nostra visione delle organizzazioni criminali meridionali, e in particolare accantonare la rappresentazione della camorra come escrescenza, cancro da estirpare, che si serve di una terminologia medico sanitaria in cui si oppone un corpo sano ad una parte malata. Si delinea così la figura del mostro, ovvero ciò che è assolutamente diverso e irriducibile alla “normalità”. Ne deriva un’antropologia della contrapposizione che separa il nostro dal loro e rischia di essere molto fuorviante.

C’è bisogno di altro, soprattutto di uno sguardo che ci coinvolga, che sottolinei il fatto che questa è una nostra realtà, è anche il nostro volto. Ciò non vuol dire che siamo tutti camorristi, non propongo un meccanismo auto-flagellatorio: piuttosto penso che tutti dobbiamo assumere il problema di come questa società, per una serie di ragioni storiche, economiche, politiche, si sia sviluppata essenzialmente come società dell’illegalità. In tale contesto la produzione del camorrista si configura come una produzione “necessaria”. Non che non ci siano margini per scelte diverse, altrimenti bisognerebbe incrociare le braccia e arrendersi all’ineluttabile, ma si deve assumere la percezione del nostro coinvolgimento nel problema: quando parliamo di camorra parliamo anche di noi, non come individui ma come intera società. Altrimenti ci riuscirà difficile anche individuare linee d’azione efficaci per incidere sulla questione e ci limiteremo ad estemporanee manifestazioni di buona volontà, a periodiche crociate che durano lo spazio di un momento e poi passano.

C’è in Madre courage di Brecht un episodio in cui un soldato protesta per un’ingiustizia subita e madre courage gli chiede se lui sente una rabbia forte, perché la rabbia forte è destinata ad esaurirsi in breve tempo: quello che gli ci vuole invece è una rabbia lunga, che lasci emergere l’indignazione e sappia trasformarla in impegno etico politico. Per affrontare la camorra ci occorre questo: se la rabbia non ci aiuta ad assumere i dati della realtà, ad acuire la capacità di analisi del fenomeno, non basteranno i buoni sentimenti o lo slancio missionario.

Consideriamo dunque ciò che emerge dall’analisi: quali sono le caratteristiche peculiari della “moderna” camorra?

La camorra come le altre organizzazioni criminali similari ha una tendenziale onnipervasività e una capacità di adeguare i campi di interesse dove volta a volta si delinea la possibilità del maggiore profitto. Settori precedentemente trascurati perché inesistenti o irrilevanti possono diventare oggetto principale di attenzione: il fenomeno delle ecomafie connesso al business dell’occultamento delle scorie radioattive, ad esempio, non si poneva con le dimensioni con cui si manifesta attualmente; la pratica sistematica dell’usura come strumento per riciclare, e non solo aumentare, i profitti è in costante crescita; lo sfruttamento della prostituzione delle straniere si regge su nuovi equilibri e specializzazioni etniche concordati con le organizzazioni criminali estere. Non possiamo conservare l’idea di una mafia o di una camorra immobile che, una volta analizzata, stia lì pronta a ricevere i nostri colpi. È un’entità sfuggente che si adegua continuamente e richiede pertanto ai suoi antagonisti la stessa mobilità.

Quindi una prospettiva essenzialmente storicistica, che lega la conoscenza delle organizzazioni criminali a quella delle loro origini può essere fuorviante.

È bene che ci siano questi studi che contribuiscono alla conoscenza del fenomeno. Ma bisogna aver chiaro il fatto che le origini non spiegano fino in fondo le evoluzioni e le configurazioni attuali: le mafie non si attestano su rendite di posizione. Sono anzi tra le multinazionali più efficienti che operano in Italia. Sottolineo: multinazionali perché necessitano di ramificazioni e collegamenti in tutto il mondo e hanno la cultura dell’impresa che sa dove investire, o quando e come affrontare la riconversione delle attività produttive.

E quali sono i soggetti che garantiscono il successo di quest’impresa?

Qui veniamo ad una questione centrale, cioè quella delle competenze: perché la camorra attuale fonda le proprie strategie d’azione sull’impiego di competenze specialistiche. La figura un po’ cinematografica del boss, caratterizzato da un aspetto peculiare e certi atteggiamenti inconfondibili, abituato a far uso delle tradizionali leve d’influenza della camorra, non rappresenta adeguatamente l’attuale volto della criminalità organizzata. La parte più pericolosa delle organizzazioni è quella che entra nel mondo delle professioni, utilizza il sistema bancario, interviene nel meccanismo degli appalti con propri rappresentanti: i figli della camorra si laureano, possono far parte dell’amministrazione pubblica, possono fare concorsi in magistratura. Non voglio delineare uno scenario apocalittico, ma sottolineare la versatilità delle associazioni criminali e, soprattutto, il fatto che non si tratta di entità separabili dal resto del corpo sociale. Come si diceva prima, la camorra non è una società dell’“altro” ma una società del “noi”.

È proprio questa inclusione “forzata” dell’individuo nelle maglie delle relazioni camorristiche a rappresentare la maggiore anomalia del tessuto sociale meridionale: in certi luoghi il cittadino ha a che fare, più o meno volontariamente, con due ordini sociali, quello dello Stato e quello della criminalità organizzata, che si scambiano i ruoli e diventano di volta in volta protettore e persecutore. Si tratta di una condizione assolutamente schizofrenica...

...piena di ambiguità e contraddizioni. Che, peraltro, non possono essere comprese se non si procede ad un’analisi del quadro di valori in cui si sviluppa l’agire camorristico. Bisogna verificare se non si tratti, per avventura, dello stesso sistema di valori che governa l’agire quotidiano dei cittadini non camorristi. E qui veniamo al problema dei comportamenti diffusi: la riduzione sistematica dello spazio concesso agli altri, la violazione delle regole della convivenza, l’idea che un vantaggio per sé o per la propria famiglia valga il sacrificio del patto di coesione sociale costituiscono il brodo di coltura della mentalità camorristica. Se tale cultura è analoga a quella dell’organizzazione criminale vera e propria, si produce una contiguità tale che il comportamento realmente delinquenziale non verrà isolato, perché in qualche modo risulta omogeneo ai nostri valori. Tra questi mi sembra giochi un ruolo rilevante la percezione - ormai diffusa - che il successo economico giustifichi qualsiasi cosa: è il contenuto di una parte dei messaggi politici cui siamo oggi sottoposti. C’è sempre più una legittimazione culturale della sopraffazione, purché premiata dal successo. È un supporto esterno alle logiche criminali che si manifesta, naturalmente, sul piano culturale più che su quello comportamentale, ma porta ad una pericolosa corruzione del tessuto sociale. In epoca liberale un uomo politico semplicemente sospettato di qualche colpa era costretto a dimettersi perché perdeva il consenso: nel processo di dismissione dei valori tipico di questi ultimi anni, invece, quale politico non dico sospettato ma persino condannato per reati contro la cosa pubblica si farebbe da parte? È questa la radice della schizofrenia di cui parlate: ecco perché, pur pensando che ci siano ancora molti margini d’azione, ritengo che l’attuale fronte della lotta alla criminalità sia notevolmente indebolito.

Dal rapporto con il cittadino a quello con il potere: anche qui le modalità d’azione della criminalità organizzata tendono a confondere le acque, a creare ambiguità...

Ma l’ambiguità è evidentemente strutturale, quando i valori di riferimento non sono così lontani. Certi strati delle istituzioni, talvolta, non manifestano una distanza dai valori camorristici tale da legittimare una lotta efficace alla criminalità. Per quanto riguarda il livello delle modalità, l’intersezione tra la sfera della criminalità e quella dello Stato si manifesta in due modi: da un lato c’è la marcia - avviata da tempo - dei malavitosi nelle istituzioni; dall’altro il movimento di alcuni membri delle istituzioni in territori ideali contigui a quelli frequentati dalla camorra. In questo caso, certo, ognuno continua a fare il suo mestiere: non c’è identità tra il funzionario e il mafioso ma non c’è, magari, neppure una differenza qualitativa sostanziale sul piano dei valori. Non parlo dei funzionari corrotti che pure ci sono, parlo di un livello di “collaborazione” più ampio e sfumato, che si traduce, talvolta, nell’incapacità di percepire il problema da parte dell’istituzione. Quando l’amministratore non ha una cultura diversa da quella del camorrista, perché dovrebbe essere sensibile alla lotta alla camorra? Così si sviluppano situazioni di connivenza che non richiedono neanche la trasgressione esplicita delle regole: in un contesto inquinato un appalto può essere attribuito all’impresa designata senza alcun abuso procedurale, perché le altre aziende non parteciperanno neppure alla gara, certe che a loro toccherà una diversa fetta della torta.

Ne viene fuori l’immagine di una criminalità organizzata che non ha bisogno della violenza per condizionare la società.

La violenza esplicita non è una caratteristica fondamentale dell’agire camorristico. Ne è solo la forma estrema. Prima di giungere a tale ratio ultima, la camorra ha presumibilmente realizzato i suoi scopi per altra via: la strategia del consenso è di gran lunga più efficace di quella della sopraffazione. Per questo i periodi di relativa tranquillità, in cui tacciono le armi da fuoco, non devono far pensare che le organizzazioni criminali siano in recessione.

Pur di fronte ad un quadro così complesso, che coinvolge a diversi livelli l’intero corpo sociale, lei parlava di possibili margini d’intervento nella lotta alla camorra. Quale strada percorrere?

Innanzitutto contrastare l’attuale efficienza e specializzazione della camorra con un analogo sviluppo delle nostre competenze nell’affrontare la questione. Questo significa, entro certi limiti, tornare ad analizzare con attenzione il fenomeno. Non sono d’accordo con quelli che dicono: basta con le parole, passiamo ai fatti. I fatti non illuminati da parole sensate possono ridursi ad azioni vitalistiche ed estemporanee in fondo inefficaci, capaci di toccare soltanto la superficie del problema. Certo, bisogna contrastare gli effetti dei comportamenti criminali, ma soprattutto individuarne le cause. E questo può essere realizzato solo con una specializzazione nell’osservazione delle associazioni malavitose. Perciò avremmo bisogno di comitati di studio, di produzioni sistematiche sul tema, di osservatori impegnati in un’analisi di più ampio respiro degli stessi dati che gli inquirenti utilizzano magari per indagini circoscritte. Soltanto una valutazione sistematica degli elementi che emergono da condotte illecite spesso estremamente diverse, può aiutarci a tracciare una mappa - indispensabile - delle fenomenologie camorristiche e ad individuare l’attuale dislocazione degli interessi della criminalità organizzata. Per questo direi - non senza intenti provocatori - che proprio oggi la lotta alla camorra richiede forse meno fatti e più parole.












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