Eleaml


Fonte:
N. 2003-2-3
Rubrica - Osservatorio meridionale

La fantasia e il potere: società e territorio 

nel racconto di tre scrittori meridionali

Paolo Graziano

Proteo

1. Il drammatico dilemma del Meridione

Una provincia da troppo tempo in costruzione e una città ormai sull’orlo della distruzione: in quella, un solitario pilone di cemento armato che dovrebbe reggere una bretella autostradale e invece regge solo l’aria diventa il nascondiglio perfetto per la merce di contrabbando; nell’altra un ospedale viene raso al suolo per edificare una riproduzione dell’anfiteatro romano, mentre una chiesa barocca lascia il posto ad un raffinato locale con gli antipasti a buffet disposti sull’altare maggiore.

Se un’immagine letteraria ha la facoltà di esprimere una verità - sia pure provvisoria e secolare - su un luogo e un momento della realtà, essa può farlo soltanto “fuori [...] da posizioni ideologiche già pronte e consolidate” che “si rivelano inevitabilmente dei corpi allogeni nel contenuto dell’opera, dei prosaicismi, delle tendenziosità” [1].

La letteratura infatti, soprattutto nei generi afferenti al dominio del fantastico, si manifesta secondo Blanchot nelle forme dello scompaginamento, dell’ironia, del distanziamento dalla materialità del referente: anche quando adotta i toni edificanti, la parola unilateralmente ideologica, “questo impegno si risolve ugualmente nella modalità del disimpegno” [2].

Le modalità conoscitive delle forme letterarie moderne, segnatamente del romanzo, privilegiano piuttosto la malagevole coesistenza di punti di vista e l’obliquo percorso attraverso le distonie e le contraddizioni del reale, lasciando emergere “in ogni voce [...] due voci discordanti, in ogni espressione, l’incrinatura e la disposizione a passare ad un’altra, opposta espressione” e mettendo così a nudo “la profonda equivocità e plurivocità di ogni fenomeno” [3].

È questo sentore dei contrasti che dà alle storie di Giuseppe Montesano, Antonio Pascale e Antonio Franchini un potere di descrizione del Meridione superiore a quello di molta trattatistica sociologica. Come nelle immagini iniziali, tra l’altro, il conflitto tra due tendenze opposte eppure coesistenti e persino talvolta funzionali l’una all’altra, meglio di altre figure rappresenta il drammatico dilemma che affligge il Meridione, sospeso tra un volenteroso impulso alla ricostruzione e al progresso e una irrefrenabile pulsione verso il disfacimento, che si confondono nella reiterata ambiguità di un luogo dove la realtà si trasforma ma non evolve, le parole sono tradite dai fatti e i progetti traviati dal contesto, finché le cose sottratte alla loro naturale funzione lentamente cambiano destinazione d’uso.

2. Il mostruoso volto del potere

Nel racconto Mi vidi di schiena del casertano Antonio Pascale la trasformazione del ceto medio meridionale si manifesta con l’erezione di muri intorno alle case, un gesto di ostilità e di chiusura al territorio piuttosto che di apertura: “fra qualche anno avrebbero messo un cancello e più tardi un muro al posto del cancello, un muro destinato a diventare ogni anno più alto, con i cocci di bottiglia, poi il filo spinato, poi due telecamere” [4]. È un segnale poco appariscente ma rappresentativo del cambiamento che, nel corso degli ultimi vent’anni, ha mutato il volto di un ceto proveniente dal mondo rurale ed emancipato dalla crescita economica del dopoguerra che rivendica, con sempre maggiore audacia, la centralità del proprio ruolo produttivo nella società meridionale. Con puntigliosa precisione Pascale afferma di aver percepito l’avvenuta trasformazione “alle ore 15.00 del 22 aprile 1982” [5], irrilevante momento di un ricordo d’infanzia che cade, tuttavia, in un periodo di rilevante trasformazione della società italiana: gli anni ‘80. In quel decennio l’effimera ascesa di un gruppo sociale privo di una forte identità collettiva, permeato da aspirazioni individuali ed esclusive al progresso economico, si salda definitivamente con le forme clientelari della politica locale e - in certe fasi e in alcune zone - con le strutture di poteri sommersi, generando “un amalgama difficilmente districabile fra potere economico e potere politico, fra risorse sociali comunitarie e di parentela, risorse economiche e risorse direttamente politiche” [6].

Il modello evolutivo praticato dai componenti di questo gruppo sociale, con alcune variabili specificamente meridionali, è quello dominante nel periodo iniziale del “modernismo” all’italiana: passaggio all’iniziativa privata, aggiramento delle regole, alleanza con la politica. Sono queste azioni che, nel racconto di Pascale, permettono il repentino cambiamento di un membro del ceto medio di provincia: “In quegli anni il ceto medio di mia conoscenza si è allungato, poi si è scisso. Il signor Nappi lavorava in ufficio e appunto faceva quello che facevamo noi, poi di punto in bianco si mise in proprio e cambiò lavoro. Il lavoro che svolgeva si chiamava import-export, ed era tra le cose più misteriose di quegli anni. Si sapeva che aveva un ufficio a Napoli, a via Petrarca. Con otto stanze stranamente vuote e una grande anticamera piena di segretarie [...]. Con quel lavoro Nappi faceva molti soldi. In pratica, alla fine degli anni Novanta, si sarebbe poi scoperto che import-export significava raccogliere tangenti. Il signor Nappi metteva in collegamento politici e ditte, poi ditte e sub-ditte” [7].

Gli effetti evidenti di questa rapida trasformazione di una componente della società meridionale provocano, appunto, la lacerazione del tessuto connettivo di un gruppo prima omogeneo: “Dicevamo che i Nappi se n’erano andati di testa, però quanto li invidiavamo, quanto eravamo disposti a partire pure noi con la testa. Fra noi c’era una tensione imprecisata, la stessa che si stabilisce tra due poli che prima erano insieme poi si sono separati. In mezzo si conservava una scia di appartenenza. Una specie di patto venuto meno”  [i].

Dietro la spinta poderosa del miraggio di una crescita senza confini prestabiliti, la concorrenza e l’emulazione diventano così le uniche modalità di relazione tra individui che si sono disfatti di qualsiasi forma di identità collettiva: “il mondo, le cose, gli oggetti, i consumi vari che l’ex ceto medio mostrava all’attuale ceto medio, non solo entravano di soppiatto e chiedevano di essere valutati e presi, ma mettevano in discussione tutta la vita finora vissuta” [8].

Quando l’avventura individuale di alcuni componenti della borghesia meridionale diventa pietra di paragone e modello operativo per un intero gruppo, essa si traduce in un’etica che assume come unico metro di valutazione il successo individuale, ancor più ricco di prestigio sociale in una comunità come quella meridionale che, secondo Thomas Belmonte, “fino a non molto tempo fa [...] era una società fatta di due sole classi in cui il ruolo della plebe era servire i signori e raccogliere le briciole cadute sotto la tavola” [9]. Così il personaggio di Pascale, Nappi, ne enuncia il verbo: “la classe media, quella salariata, era fatta da schiavi. Per tutta la vita avrebbero compiuto gli stessi movimenti. Rappresentavano in sostanza un blocco sociale senza fantasia, e dunque con poco spirito d’iniziativa. Posto fisso, parassiti. Tutti, sosteneva Nappi, avrebbero dovuto provare il gusto di azzardare, per il bene proprio, della propria famiglia e, per proprietà transitiva, della società”  [10].

Nella paradossale vicenda narrata dall’ultimo romanzo di Montesano, Di questa vita menzognera, la formula etica di questo ceto in ascesa si trasforma in una delirante estetica dell’arrivismo e della rapina, svincolata da qualsiasi principio morale esterno: “E tu non dicevi sempre che quelli che oggi sono chiamati criminali, chi lo sa, domani saranno santi? [...] E comunque l’estetica è superiore all’etica, Carda’, nun è accussì?”  [11]. A far ricorso al principio di Wilde della superiorità dell’estetica su qualsiasi norma morale è uno dei Negromonte, la famiglia di affaristi meridionali che meditano di realizzare il più grande affare della storia trasformando Napoli in Eternapoli, un immenso parco tematico della cultura e del divertimento dove la storia, l’arte e le stesse vite degli abitanti della città sono vendute ai turisti. Metà clan mafioso e metà lobby imprenditoriale, il genotipo sociale dei Negromante si palesa soprattutto nel desiderio di adeguamento del gruppo in trasformazione ad uno status superiore, rintracciabile in alcune manìe come quella di mantenere dei precettori al servizio per educare se stessi e i figli al nuovo rango o il vezzo di uno pseudo-stemma gentilizio impresso sui telefonini di famiglia per accreditare una presunta diversa appartenenza. L’ascesa di questa mostruosa incarnazione del nuovo ceto imprenditoriale meridionale, infatti, necessita di una legittimazione della condizione e del dominio acquisito, attuata dai Negromante con il “programma di elevazione sociale” [i], destinato a giustificare e consolidare - come in una rêverie feudale - il dominio dei nuovi ricchi sul territorio: “qua’ nobiltà d’ ‘o cazzo? Noi siamo moderni, e simme nuie, ‘a nobiltà! ‘A nobiltà d’ ‘e figlie ‘e zoccola [...] quella che non schiatta mai!” [i].

3. Le mani sul territorio

Il progetto di totale controllo e capitalizzazione del territorio, nel romanzo di Montesano, è partorito dalla mente di un personaggio dalle significative ascendenze letterarie: ‘o Calebbano. Sin dal nome, questo diabolico figlio naturale del vecchio Negromante richiama la figura di Calibano, il selvatico e mostruoso servo abbagliato dal desiderio di diventare padrone de La Tempesta di Shakespeare. Dalla più moderna mostruosità del faccendiere rampante - cintura borchiata, camicia bianca con le iniziali ricamate, occhiali scuri e computer portatile sempre acceso - appare caratterizzato il Calebbano, che tuttavia conserva, del personaggio shakespeariano, l’insaziabile desiderio di dominio, di un regno. Da conquistare o, se necessario, da edificare ex novo.

Il folle progetto di Eternapoli, con cui quest’icona di certa imprenditoria criminale meridionale medita di rendere qualsiasi cosa ed ogni esistenza funzionale alla produzione di profitti, nasconde la formula applicata da decenni per esercitare il dominio su vaste aree del meridione: controllo del territorio e saccheggio delle risorse. In accordo con gli estremi sviluppi dell’economia capitalista, però, le risorse più redditizie diventano quelle immateriali, infinitamente valorizzabili, potenzialmente inesauribili: “Si vendevano tutto il Sud, ma con la gente dentro, come in un immenso parco tematico. L’idea del Calebbano, o quello che riuscivo a capirne, era di far diventare Napoli la ‘grande capitale’ della nuova economia [...] la nuova epoca stava diventando sempre più immateriale, e il capitalismo si era finalmente trasformato in quello che per millenni si era chiamato spirito. Nella nuova era non si sarebbero vendute soltanto cose, ma idee. [...] Tutti ripetevano che la vera ricchezza del Sud era il turismo, ma la loro era una visione vecchia, già sorpassata. Sì, bisognava vendere il cibo e i monumenti, ma soprattutto mettere in commercio ‘la vita stessa’ [...] Noi ci dobbiamo vendere la vita della gente...!” [i]. Così il novello Colosseo in cemento armato sorto al posto del Policlinico, l’osteria ospitata nella chiesa di San Gregorio Armeno, le botteghe artigiane che sostituiscono ogni abitazione costituiscono soltanto la scenografia su cui viene esposta la vera merce in vendita: la vita delle persone trasformata in spettacolo, una immensa rappresentazione della storia della città ad uso dei turisti, in cui l’esibizione di ogni attimo dell’esistenza dei dominati costituisce, per i dominatori, ad un tempo strumento di controllo e occasione di profitto: nella apocalittica ma tutt’altro che irrealistica formula di Eternapoli si compie la trentaquattresima tesi di Guy Debord, secondo cui “lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine” [12].

Lo sfruttamento del territorio secondo modalità così pervasive è stato reso storicamente possibile, come emerge da queste rappresentazioni letterarie del Sud, dall’alleanza del potere centrale con la potestà delle organizzazioni e dei comitati d’affari locali, che spesso si manifesta nelle forme di un diradamento e di uno svuotamento della presenza statale nel Meridione: come osserva Fotia, nei centri territoriali preposti all’esercizio dell’autorità legittima “si ritrovano [...] soprattutto le tracce del potere, senza che queste vengano vivificate da un concreto esercizio di esso”  [13]. La delega - finora occulta - firmata dall’autorità centrale ai gruppi di potere locali diventa, nel progetto Eternapoli, esplicito mandato alla gestione del potere economico e politico, non più compiutamente distinguibili nell’epoca della globalizzazione: “Il potere centrale, l’esercito e le televisioni nazionali restavano nelle mani del Presidente, il governo dava il Sud in concessione ai Negromante e agli altri imprenditori, e in cambio riceveva la massima fedeltà. Era una forma di outsorcing, no? [...] L’Italia in outsorcing avrebbe realizzato il passaggio definitivo a una società in cui chi produceva la ricchezza si assumeva anche il peso di governare” [14].

In realtà le funzioni “di governo” del territorio sono già esercitate di fatto, da tempo, dai comitati d’affari locali, a vario titolo intrecciati con gli interessi della politica e le istanze della criminalità organizzata. E si tratta di funzioni assolte con puntigliosa efficienza, di gran lunga superiore a quella esprimibile dall’autorità statale, nei suoi passaggi fondamentali: controllo (anche fisico) del territorio, gestione diretta o indiretta delle attività produttive, pianificazione dello “sviluppo” e delle trasformazioni. In Qui le chiacchiere stanno a zero, Pascale descrive minuziosamente le azioni corrispondenti a tali fasi del governo di vaste aree del Sud: “girare continuamente in macchina per tastare il territorio [...] Ricordarsi poi di delimitare i cantieri, i terreni, quelli soggetti a speculazione edilizia, lungo i quali verranno innalzati i tralicci della luce, o che saranno interessati da scavi per metanodotti, sui quali verranno tracciate linee ferroviarie, sistemi fognari, scoli di acque reflue, esaminare in anticipo lo stato d’uso dell’appezzamento, la sua valutazione mercantile, consultare come se fosse il vangelo il prezzario civile per i pubblici lavori, conoscere l’estimo, le formule di anticipazione del capitale, la stima dei frutti pendenti, essere pronti e informati, in prima posizione, sul posto prima ancora degli altri [...]. Per questo stendere una rete di conoscenze, tracciare la mappa dei luoghi dove ci si lascia andare a pettegolezzi, magari perché si mangia bene, o si beve, insomma sistemare in ogni punto nevralgico un amico, o un parente, che sia fidato” [15].

La conoscenza, la relazione, la fiducia sono elementi fondamentali delle forme di controllo esercitate sul territorio meridionale, che risultano efficaci solo in quanto prevedono, prima di tutto, il controllo delle persone. Le varie forme assunte dal rapporto gerarchico tra individui basato sul muto scambio di favori - dalla tradizionale clientela alle moderne versioni di mass patronage [16] - sono state usate in ampie aree del Sud per praticare il controllo degli individui, in maniera così pervasiva da rappresentare ciò che è stato definito un “clientelismo organizzato di massa” [17]. Il vincolo di dipendenza, abolendo qualsiasi altra misura del valore, subordina tutti gli individui ai detentori del potere politico ed economico. Nell’ultimo romanzo di Montesano, anche gli intellettuali Cardano e Roberto sono di fatto al servizio dei Negromante, per i quali scovano nei classici della letteratura e della filosofia frasi ad effetto utili a sostenere il progetto Eternapoli.

Il meccanismo clientelare che disinnesca anche la coscienza potenzialmente critica dell’intellettuale inglobandolo nel sistema è ben descritto ne L’abusivo di Antonio Franchini, un romanzo in cui i ricordi personali di un aspirante giornalista si intrecciano alla tragica vicenda di Giancarlo Siani. Nella speranza di ottenere finalmente un lavoro come giornalista - la cui libertà è già da quest’atto ipotecata - il protagonista si procura un “referente”: “mia madre mi aveva detto di andare. Don Pasquale con lei era stato perentorio: ‘Signo’, che vo fa’ ‘o figlio vuost’? ‘O giornalista? Nun ce sta problema, s’apprisentasse...’ e comunicò la data e l’ora dell’appuntamento col segretario del politico. [...] Stavo lì seduto e aspettavo, come dal medico al terzo piano, come dal dentista al secondo, come se la cartella coi miei articoli sulle ginocchia fosse il sintomo di una malattia che la raccomandazione avrebbe lenito. [...] stavo lì e attendevo, immobile, evitando di pensare, senza alzarmi e andarmene, come avrei dovuto fare per rispetto di me stesso dopo la prima ora di inutile attesa”  [18].

Ma il sistema non presenta smagliature, per cui “alzarsi e andarsene” significa essere esclusi dalle necessarie relazioni produttive e talvolta costretti, per costruirne di alternative, ad abbandonare il territorio.

4. Lontano da dove?

L’alternativa possibile, per il protagonista del libro di Franchini, è Milano, percepita nel confronto con il Meridione come una realtà “ora più rispettabile, ora più sottilmente spietata” [i]. Nel racconto Spettabile Ministero di Pascale, i due impiegati meridionali emigrati a Roma confrontano il luogo della propria attuale esistenza con il territorio di provenienza a partire da un dato banale della quotidianità: “chi avrebbe mai pensato di stendere i panni non fuori, al sole e al vento, ma dentro casa. In qualche bagno angusto, su stenditoi affacciati sui cortili profondissimi e bui” [19].

La lontananza dal Meridione, per chi vi è nato ed ha successivamente scelto di vivere in un qualsiasi altrove, produce una distanza anche mentale da pensieri e pratiche prima condivisi, trasformando lo sguardo sapiente e consapevole dell’autoctono in quello curioso e stupito del forestiero: non a caso il narratore del precedente libro di Pascale, La città distratta, adotta il registro stilistico del reportage, genere praticato usualmente dall’inviato speciale in un luogo straniero [20]. E il protagonista di Franchini mescola i ricordi ormai frammentari della propria infanzia alle asettiche cronache giornalistiche e giudiziarie con cui compone uno spaccato di un Sud irrimediabilmente lontano.

Con tale atteggiamento, capace di osservare e analizzare ma non di trasformare la realtà, questi personaggi di Franchini e Pascale tornano a frequentare il Meridione dopo aver costruito la propria vita altrove. Per Montesano, invece, il luogo della costruzione di un’alternativa non solo individuale ed esistenziale ma collettiva e politica alle attuali dinamiche socio-economiche del Sud resta lo stesso territorio in cui tali tendenze si manifestano. Il manipolo di personaggi che si oppone all’avanzante programma di Eternapoli, guidato dall’archeologo Scardanelli, si dilegua nei vicoli, si nasconde nella “dynamis sfuggente e inarticolabile” [21] della vasta cittadella sotterranea che, a Napoli, presenta forme speculari a quelle della città, cui il sottosuolo ha fornito nel corso dei secoli i materiali di costruzione.

Ecco, dunque, un’immagine capace di rappresentare le contraddizioni, le due voci contrastanti del Meridione, di cui si diceva in apertura: una superficiale affermazione di criteri di sfruttamento criminale di questa regione secondo le direttrici economiche indicate dai processi di globalizzazione e una sotterranea resistenza allo stravolgimento e alla strumentalizzazione delle relazioni tra individui e dei loro rapporti con il territorio. Di fronte al dilagare di un pensiero unico in tema di rapporti sociali ed economici, il rifiuto avanzato da questi personaggi allude alla necessità di una resistenza più ampia e profonda, quella che si oppone alla cancellazione della memoria, alla manipolazione dei fatti, al deterioramento delle idee e dei valori.

Dai microfoni di una radio clandestina, la voce di Scardanelli ricorda ai plagiati abitanti di Eternapoli il senso delle cose: “una rosa è una rosa, il pane è il pane, la verità è la verità...”  [22].


[1] P. N. Medvedev, Il metodo formale nella scienza della letteratura. Introduzione critica a una poetica sociologica [1928], Dedalo, Bari 1977, p. 84.

[2] M. Blanchot, De Kafka à Kafka, Gallimard, Paris 1981, p. 92, traduzione nostra.

[3] M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e linguistica [1963], Einaudi, Torino 1968, p. 44. A proposito della relazione tra realtà e finzione letteraria, Bachtin sottolinea che “Scrittore [...] è chi possiede il dono del parlare indiretto” (M. Bachtin, Il problema del testo nella linguistica, nella filologia e nelle scienze umane. Un’analisi filosofica [1959-60], in A. Ponzio (a cura di), Bachtin. Semiotica, teoria della letteratura e marxismo, Dedalo, Bari 1977, p. 206).

[4] A. Pascale, Mi vidi di schiena, in La manutenzione degli affetti, Einaudi, Torino 2003, p. 93.

[5] A. Pascale, Il ceto medio, in La manutenzione degli affetti, cit., p. 35.

[6] M. Fotia, Il territorio politico. Spazio, società, stato nel Mezzogiorno d’Italia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1998, p. 247.

[7] A. Pascale, Il ceto medio, cit., p. 38.

[i] Ivi, p. 37. La lacerazione, nella narrativa di Pascale, si manifesta con la creazione di una distanza persino visiva tra individui prima contigui nella composizione sociale. Dopo l’edificazione dei muri “nessuno avrebbe più visto la villetta. E neppure i Nappi” (A. Pascale, Mi vidi di schiena, cit., p. 93).

[8] A. Pascale, Il ceto medio, cit., p. 40.

[9] T. Belmonte, Una Gerusalemme secolare (conversazione con M. Niola), in M. Niola, Totem e ragù, Pironti, Napoli 1994, p. 160.

[10] A. Pascale, Il ceto medio, cit., p. 39.

[11] G. Montesano, Di questa vita menzognera, Feltrinelli, Milano 2003, p. 102.

[i] Ivi, p. 50.

[i] Ivi, p. 82.

[i] Ivi, pp. 38-39.

[12] G. Debord, La società dello spettacolo [1967], Baldini & Castoldi, Milano 2002, p. 64.

[13] M. Fotia, op. cit., p. 256.

[14] G. Montesano, op. cit., pp . 82-83.

[15] A. Pascale, Qui le chiacchiere stanno a zero, in La manutenzione degli affetti, cit., pp. 81-83.

[16] Per l’applicazione del modello clientelare anche alle organizzazioni politiche dei paesi caratterizzati da processi industriali avanzati, cfr. M. Schefter, Patronage and its opponents. A theory of some european cases, Cornell University - Center for European Studies, Ithaca (N. Y.) 1977.

[17] L. Musella, Amici, parenti e clienti. I professionisti nelle reti della politica, in Storia d’italia. Annali, vol. X (I professionisti), Einaudi, Torino 1996, p. 606.

[18] A. Franchini, L’abusivo, Marsilio, Venezia 2001, pp. 162-163.

[i] Ivi, p. 105.

[19] A. Pascale, Spettabile Ministero, in La manutenzione degli affetti, cit., p. 120.

[20] Cfr. A. Pascale, La città distratta, Einaudi, Torino 2001.

[21] M. Niola, Sui palchi delle stelle. Napoli, il sacro, la scena, Meltemi, Roma 1995, p. 3.

[22] G. Montesano, op. cit., p. 185.













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