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Fonte:
 “Il SUD Quotidiano” del 5/7/97

Terremoti e ricostruzioni d’altri tempi

di Roberto Maria Selvaggi

  Nel primo pomeriggio del 13 agosto 1851 uno spaventoso terremoto colpì la Lucania, radendo al suolo la città di Melfi, tale fenomeno fu avvertito anche in Capitanata ed in Terra di Bari.


    Calabria e Basilicata furono flagellate, prima di allora nel 1783, da un terremoto che sconvolse persino l’orografia di quelle terre. Anche allora, tenendo conto delle ben diverse condizioni di viabilità, si mobilitò l’intero Regno per soccorrere le popolazioni colpite.


    Nel 1826 un altro sisma distrusse interamente la città di Tito, ma mai la furia devastatrice sconvolse come nel 1851 quei disgraziati paesi. I morti furono 671, dei quali 444 nella sola Melfi; i danni alle proprietà pubbliche e private ammontarono a 1180000 ducati, cifra enorme per l’epoca, considerando che l’intero bilancio dello stato contava su 30 milioni di ducati di entrate.


    Il sottintendente di Melfi, De Filippis, fu il primo ad avvertire del disastro la Capitale con un dispaccio inviato al Ministero dell’Interno, Salvatore Murena: immediatamente fu inviato a Melfi, dove giunse il 18, un intendente, oggi prefetto, per coordinare i primi soccorsi, ma già sul posto tutti concorsero per disseppellire i vivi dalle macerie e dare sepoltura ai morti.


    Tutti gli ingegneri civili della Provincia furono mobilitati, ed i fondi disponibili per opere di assistenza vennero distribuiti ai più poveri. Ferdinando II, che si trovava con la famiglia a Gaeta, emanò subito una serie di provvedimenti: liberò 4000 ducati dalla sua cassa privata, ed altri 6000 li fece assegnare dai ministeri delle Finanze e dei Lavori Pubblici; nominò una commissione incaricata dell’esatto computo dei danni e del buon esito delle spese occorrenti, composta dall’Intendente, dal vescovo di Melfi Monsignor Ignazio Sellitti, e da due proprietari di Melfi che in passato avevano dato prova di efficienza e solidarietà nei confronti del prossimo, don Luigi Aquilecchia e don Francesco Pocchiari. Infine deliberò di aprire una colletta in tutto il Regno, tutto questo al fine di evitare il ricorso alle tasse.


    Le autorità locali si misero al lavoro: un ospedale da campo fu allestito col concorso delle truppe che stanziavano in Puglia e Basilicata, i medici furono dirottati sulla zona dall’intera Provincia, e da Napoli giunsero i migliori specialisti dell’ospedale degli Incurabili.


    I carcerati di Melfi, fuggiti il giorno del sisma, rientrarono tutti in città per offrire volontariamente le loro braccia. Molti di loro furono poi graziati dal Re, ed a tutti fu diminuita la pena. Il Re, che per un mese aveva coordinato l’avvio di tutto il programma di aiuti, il 14 settembre, con il fratello Conte di Trapani, ed il quindicenne Duca di Calabria (questo era il titolo spettante all’erede al trono), partì per Lacedonia accompagnato dal Ministro Giustino Fortunato, nativo di Rionero pure colpito dal sisma, e da Salvatore Murena allora direttore del ministero dell’Interno, vero responsabile di tutta l’organizzazione degli aiuti. Il 16 giunse nella martoriata città lucana.


    Così disponeva il Sovrano: “I soccorsi alimentari devono limitarsi ai veri poveri che non possono lavorare. Alimentare gli oziosi significherebbe sprecare le somme raccolte. Dove il lavoro mancasse sarà compito dell’autorità crearlo in qualunque modo con i fondi stessi di soccorso. Nel caso i lavoratori avessero perduto gli strumenti di lavoro, e non avessero i mezzi per riacquistarli, saranno loro forniti direttamente. Mai consegnare loro denaro per farlo. In caso di assegnazione di case all’uopo costruite, dovranno essere consegnate completate senza dare il denaro per farlo”.


    L’intera popolazione superstite si strinse intorno al Re, che per sei giorni e sei notti percorse tutta la regione colpita, occupandosi personalmente anche dei casi dei singoli cittadini che volevano parlare con lui.


    Prima di lasciare Melfi, il Re ordinò che fossero censiti i terreni demaniali e che subito vi fossero costruite 80 abitazioni in legno, che si iniziasse la costruzione della strada da Melfi a Bisaccia, “perché fosse immediatamente dato lavoro agli operai dei comuni danneggiati”.


    Rientrato a Napoli stabilì l’istituzione di 5 consigli edilizi, modernissime commissioni che sovrintendevano tutte le costruzioni nelle città seguendo criteri di rispetto ambientale ed architettonico, in altrettanti comuni danneggiati.


    Con un decreto del 15 aprile 1852 istituì a Melfi una banca per prestiti agrari e commerciali, che permettessero all’economia disastrata di riprendere il suo cammino.


    Il 24 maggio venivano assegnati gratuitamente a 704 famiglie di poveri contadini 2266 tomoli di terra fertile, e per quella data i paesi colpiti furono completamente ricostruiti.


    I fondi della colletta nazionale ammontarono a 142000 ducati, che furono spesi con intelligenza ed onestà, ed il resoconto fu pubblicato sul Giornale delle Due Sicilie. Il Re e la famiglia Reale donarono 10000 ducati tratti dal patrimonio personale, il Papa 4000, 23000 furono tolti dai fondi di varie amministrazioni, 20000 giunsero dai funzionari ed impiegati dello stato, quasi 50000 dalle province, 33000 da singoli cittadini.


    Non un ducato fu imposto sulle già poche tasse che si pagavano nel regno.


    Come disse Giacomo Savarese, liberale ma tenace meridionalista del tempo, “giorno verrà che la storia farà giustizia di un Re che volle la prosperità del suo popolo, e che fu condannato alla più acerrima denigrazione accomunato, nei luoghi comuni e nelle menzogne, proprio ai suoi amatissimi sudditi”.


Da “Il SUD Quotidiano” del 5/7/97



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