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DELLE

RECENTI AVVENTURE

D'ITALIA,

PER

IL CONTE ERNESTO RAVVITTI.

"La società ha bisogno di grandi scosse, o di tristi prore, per ricondurla agli eterni principii d'ordine e di governo."

CAPEFIGUE.

LE CAUSE.

VENEZIA,

TIPOGRAFIA EMILIANA.

1864.

Vol. 01B
01_A - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1864 HTML ODT PDF
01_B - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1864 HTML ODT PDF
01_C - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1864 HTML ODT PDF
02_A - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 HTML ODT PDF
02_B - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 HTML ODT PDF
02_C - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 HTML ODT PDF
02_D - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 HTML ODT PDF
La Civiltà Cattolica, 1866 - Delle recenti avventure d'italia di Ernesto Ravvitti HTML ODT PDF

CAPITOLO SESTO.

La Sardegna in Crimea.

La guerra d'Oriente ridesta speranze, che il Moniteur del 82 febbraio 1854 ammorza. - Alleanza dell'Austria e della Prussia. - Trattato austroanglofrancese del 2 dicembre 1854. - II Piemonte cede all'Inghilterra 15,000 uomini per la guerra di Crimea. - II soccorso sardo giudicato da lord Palmerston. - Una vita che non corre nessun pericolo. - Molestie d'un Concordato inconcordevole. - Tribolazioni della Chiesa cattolica in Piemonte. - Propaganda protestante. - Antipapali, antipapisti, evangelici riformati. - Combattere il Papa è combattere l'Austria. - Il 28 dicembre 1855 il Governo piemontese inaugura l'intervento diplomatico in Italia. - Fine della guerra d'Oriente. - A che andare al Congresso per esservi trattati come fanciulli? - Le tre Irlande del Piemonte. - Epilogo.

Lo schiudersi del 1854 un esercito russo aveva già passato il Pruth, ed invase due provincie dell'Impero ottomano. In breve Francia e Inghilterra fecersi innanzi a soccorso della Turchia. La speranza che l'Austria fosse involta nella lotta arrideva al conte di Cavour, cui tale evento pareva render possibile il tentativo di un'altra riscossa in Italia. Si soffiò nel fuoco quanto mai era dato. Con atto ufficiale, solenne, l'indirizzo in risposta al discorso della Corona, ammesso senza discuterlo, la Camera dei Deputati in Torino formalmente dichiarò, col presunto consenso del Re, di violare i Trattati dell'Europa ufficiale, abusare il diritto pubblico e delle genti, rifare la carta politica della Penisola, ritentare il cimento delle armi. Vittorio Emanuele, accettandolo, l'autenticò di sovrana sanzione. Ad un preludio di parole, il cui valore non poteva essere equivoco, al cartello dei Deputati, consentito dal Be, non poteva succedere che un'intimazione di guerra all'Austria; quando Porgano ufficiale del Governo francese, il Moniteur del 22 febbraio 1854, venne fuori a dire:

«Pubblicando i documenti relativi alla questione d'Oriente, il Governo dell'Imperatore diede una nuova prova della lealtà delle sue intenzioni. Il potere che ha per base la volontà nazionale, e per soli moventi l'onore e l'interesse della Francia, non può seguire quella politica tortuosa, la cui unica forza consiste negl'intrighi e nel mistero. Le sue armi sono la sincerità e la franchezza.

108 CAPITOLO SESTO,

La luce non saprebbe mai nuocergli; e però non deve lasciar isfuggire occasione di prevenire gli equivoci e di avvertire ognuno di ciò, che realmente deve temere o sperare. La lotta, che scoppiò in Oriente, questo conflitto, in cui si può dire che tutte le Potenze del Continente sono, apertamente o tacitamente, impegnate contro la Russia, non offrirebbe alcun pericolo, se non si avessero a temere complicazioni provenienti dallo spirito rivoluzionario, il quale farà prova forse, in queste circostanze, di manifestarsi in qualche punto. È dovere imperioso del Governo dell'Imperatore di dichiarare lealmente a coloro, che volessero approfittare delle circostanze presenti per eccitare turbolenze, sia in Grecia, sia in Italia, eh essi si porrebbero in opposizione diretta coli interesse della Francia, perché, come dicevamo già, il Governo non avrà mai una politica a doppia faccia, e nella stessa guisa che, difendendo l'integrità dell'Impero ottomano a Costantinopoli, non potrebbe soffrire che questa integrità fosse violata da aggressioni partite dalla Grecia, cosi non potrebbe permettere, se le bandiere di Francia e dell'Austria si unissero in Oriente, che si cercasse di dividerle sulle Alpi.»

Napoleone III, infatti, inteso, com'era con ogni suo mezzo in que' dì, ad attrarre possibilmente l'Austria nell'orbita dell'alleanza anglofrancese, non poteva sinceramente tollerare più a lungo le manifestazioni fantastiche che avevano luogo in Piemonte, le quali a questo solo di serio poteano condurre, di allontanare vie più la politica della Corte di Vienna dalla politica delle Potenze occidentali, La Gran-Bretagna, per bocca de' suoi Ministri, si affrettò a dichiarare che concorreva pienamente nell'opinione della Francia, esposta dal Moniteur; Daniele Manin, già capo del Governo repubblicano a Venezia nel 1848, rifugiatosi in Francia, avendo fatto pubblicare in un giornale di Parigi (1) un'ardente sua lettera contro la proclamazione di lord John Russell, Ministro inglese, che nulla sarebbe più dannoso agl'Italiani del muoversi contro l'Austria, Napoleone diede ordine ohe il Manin fosse sfrattato immediatamente dalla Francia, ed il giornale, in cui era avvenuta la prima pubblicazione di quello scritto, severissimamente ammonito, «perché faceva opposizione diretta contro il Governo francese,

(1) La Presse del 22 marzo 1854.

LA SARDEGNA IN CRIMEA. 109

seminando diffidenze contro Potenze unite per un grande fine.» E così dopo avere ad alta voce manifestato che, dovunque si alzasse la bandiera della rivoluzione, fosse all'Alpi od al Tauro, egli ed i suoi alleati l'avrebbero abbattuta, il fecero col reprimere poco appresso la Grecia, la quale pure aveva confidato in quel trambusto di alzarsi.

Con tali venti fu forza a Cavour di ammainare le vele. Senza punto allentare l'occulto lavoro, diede pertanto opera perché ulteriori ufficiali od ufficiose provocazioni all'Austria non venissero a peggiorare la situazione, ed i giornali, che ricevean da lui l'imbeccata, avessero poco a poco a rimettere da quel sistema di quotidiane invettive e d'ogni fatta contumelie, e dai minacce voli pronostici, cui egli li aveva sospinti, ma dietro cui or vedeva un avvenire lontano da tutte le contingenze di verificazione probabile. L'Austria non un le sue bandiere a quelle di Francia, e neppure a quelle di Russia. Strinse invece colla Prussia, con Trattato segnato a Berlino il 20 aprile 1854, alleanza offensiva e difensiva per tutta la durata della guerra dichiarata fra la Russia da un lato, la Turchia, la Francia e la Gran-Bretagna dall'altro. Con esso Austria e Prussia, cui dovevano accedere ed accedettero infatti gli Stati della Confederazione germanica, si guarentivano reciprocamente il possesso dei loro territorii tedeschi e non tedeschi, per modo che ogni attacco, diretto contro il territorio d'uno di essi, da qualunque parte fosse derivato, sarebbe stato considerato siccome impresa ostile contro il territorio dell'altro. Si obbligavano a mantenere una parte delle loro forze sopra un perfetto piede di guerra, e prendevano impegno di non conchiudere con verun'altra Potenza, per la durata di esso Trattato, niuna alleanza, che non fosse perfettamente in accordo colle basi poste nel medesimo.

Questo convegno sperdeva al vento le illusioni del conte di Cavour, ed ogni sua speranza della possibilità di prossimi rimestamenti in Italia. Se l'Austria si fosse stretta alla Russia, l'impresa di Crimea sarebbesi tramutata in una guerra di nazionalità risorgenti; un attacco al Lombardo-veneto e la combustione della Penisola ne sarebbero state le conseguenze immediate. Dichiarandosi neutrale, e pronto a tutto ad un tempo, il Governo di Vienna, stretto alla Germania, consegui che la guerra rimanesse locale, e  preservò l'Europa da incalcolabili sventure. Piuttosto che ingrata verso l'Imperatore Nicolo, poté dirsi l'Austria essere stata previdente. E quanto aveva fatto la Russia per l'Austria nel 1849, l'Austria lo aveva fatto per la Russia nel 1813 dopo la battaglia di Bautzen. Minacciata, non meno di altri Stati, ne' suoi proprii ed essenziali interessi, l'Austria ha persistito in un contegno d'aspettazione e di mediazione, per approfittare, pel bene generale, d'ogni piega degli avvenimenti favorevole al ristabilimento della pace.

L'occupazione della Valachia e della Moldavia eseguita dall'Austria in dipendenza della Convenzione segnata il di 14 giugno 1854 a Costantinopoli, ratificata il 30 dello stesso mese a Vienna, fu un nuovo disinganno pel conte di Cavour. Per quella Convenzione l'Austria, rendendo possibile lo sgombero dei Russi dai Principati senza umiliazione e senza sangue, allontanava la lotta dal campo primitivo della guerra e dai confini dei proprio Impero, per limitarla ad un punto remoto dell'Impero moscovita. l'Austria con ciò vie meglio abbatteva le lusinghe di sollevazioni de' popoli contermini, accelerando ad un tempo di almeno un anno la pace.

Il Trattato d'alleanza dell'Austria colla Francia e coll'Inghilterra, sottoscritto a Vienna il 2 dicembre di quell'anno, diede il colpo di grazia alle ultime lusinghe di Cavour e della propaganda rivoluzionaria. Infatti, stretto appena quel convegno, era impossibile pensare che l'Imperatore de' Francesi fosse per permettere al Piemonte cosa veruna capace di dar molestia al Governo di Vienna, mentre questo diminuiva il novero dei soldati posti a presidio nelle provincie di Lombardia e Venezia. Per lo contrario, con una Convenzione segreta, segnata il 22 dicembre 1854, la Francia guarentiva all'Austria l'inviolabilità de' suoi possessi italiani. Al Governo di Torino fu forza fare di necessità virtù. Rigorosi provvedimenti contro i giornali recalcitranti e l'espulsione di parecchi rifugiati mazziniani accennarono ad un ravvicinamento del Piemonte all'Austria.

Sino da quando il Trattato d'alleanza anglofrancese del dì 10 aprile 1854 venne a cognizione del conte di Cavour, eragli balenata alla mente l'idea che il Piemonte avesse ad associarsi alla Francia ed all'Inghilterra, per prendere al loro fianco attiva parte alla guerra.

LA SARDEGNA IN CRIMEA. 111

Cosa fatta capo ha, ripeteva egli a sé stesso. Una volta che i soldati del Piemonte si fossero trovati in battaglia a fianco dei soldati di Francia, ben potrebbero più agevolmente avere più tardi comuni altrove con essi gli stenti e le imprese. Tutto stava nel potere arrivare a rompere il ghiaccio. L'articolo quinto di quel Trattato veniva in buon punto; esso determinava che Francia ed Inghilterra «riceveranno volentieri nella loro alleanza, per cooperare allo scopo specificato nell'articolo primo, quelle fra le altre Potenze d'Europa, che vi vorranno entrare.» Il Trattato fu comunicato a Torino come agli altri Governi. La Corte di Sardegna si affrettò quindi a dichiarare ai Gabinetti di Francia e d'Inghilterra, ch'essa non solo consentiva nello scopo e nelle basi dell'alleanza, ma era eziandio pronta ad aderirvi totalmente, cooperandovi con forze di terra, in numero da determinarsi. Francia e Inghilterra, prendendo atto di questi sentimenti del Governo piemontese, rifiutarono però schiettamente di entrare in pratiche ulteriori.

Allorché il Gabinetto inglese trovossi indotto a confessare l'insufficienza dei suoi mezzi militari terrestri, e domandare al Parlamento l'autorizzazione di prendere gli esteri al servizio inglese, Cavour ricordò a Londra le proposte già fatte e non accolte, insistendone per l'accettazione. Il Governo britannico rispose che gradirebbe l'aiuto di un determinato numero di soldati, i quali a proprie spese invierebbe e manterrebbe in Crimea a rinforzo del corpo di esercito comandato da lord Raglan. Così non poteva garbare a Cavour, e non ne fu nulla.

Sopravvenne intanto il Trattato di Vienna del 2 dicembre 1854, pel quale andava in dileguo ogni barlume di speranza che Francia ed Inghilterra, o annoiate della neutralità dell'Austria o indisposte se per avventura questa volgesse più tardi verso la Russia, potessero favorire comunque il Piemonte. Allora il Governo sardo pose innanzi un disegno di Convenzione, per il quale il Piemonte sarebbe entrato nell'alleanza pari alle due grandi Potenze nelle eventualità e nei diritti, e l'aiuto finanziario dell'Inghilterra veniva invocato non a titolo di sussidio, ma come imprestito. Si finì con intendersi, ed il 26 gennaio 1855 furono segnati in Torino il Trattato di adesione alla Convenzione del 10 aprile 1854, e due Convenzioni annesse.

112 CAPITOLO SESTO.

Col Trattato di adesione il Re di Sardegna, in virtù dell'articolo quarto della Convenzione del 10 aprile, «mosso dal desiderio di mantenere l'equilibrio europeo, e non agognando a nessun altro scopo interessato, rinunciava già fin d'ora a ritrarre alcun vantaggio particolare dagli avvenimenti che potranno succedere.» Così gli speculativi, che ad ogni costo voleano vedere una opportunità di riparare in Crimea le rotte di Carlo Alberto, e nella pace già speravano concessa al Piemonte l'ambita Lombardia, scorgevano le illusioni svanite, e Vittorio Emanuele, non che dar mano a rimpastare i territorii, concorrere a saldare di nuovo i Trattati del 1815. Vanamente Cavour erasi provato di insinuare che a guerra finita si mutassero le condizioni d'Italia, e Francia ed Inghilterra s'intromettessero per far togliere dall'Austria i sequestri, già soggetto di lunghe controversie. In quanto al primo oggetto, Francia e Inghilterra, accordatesi fra loro, risposero: l'Italia essere divisa in parecchi Stati sovrani autonomi, e non vedere esse in virtù di quale mandato il Governo piemontese intendesse trattare per tutti. E quanto al secondo, dissero, ch'esso si riferiva ad un atto di politica interna, in cui gli estranei non potevano mischiarsi, ne' esse volevano punto ingerirsi.

Colla Convenzione militare poi il Re di Sardegna si obbligava a fornire un corpo d'armata di quindicimila uomini, a mantenerlo a tale somma coll'invio successivo e regolare dei rinforzi necessarii, ed a provvedere al soldo ed alle sussistenze delle truppe; e l'Inghilterra e la Francia garantivano l'integrità degli Stati di Re Vittorio Emanuele, e s'impegnavano a difenderli contro ogni attacco, durante la durata della guerra. Infine coll'altra Convenzione supplementare fra il Piemonte e la Gran-Bretagna, questa si assumeva di anticipare al primo, a mezzo di un prestito, la somma di un milione di lire di sterlini, e se la guerra non fosse finita al termine di dodici mesi dopo il pagamento della prima metà del prestito, di anticipargli un secondo milione. Con quest'ultimo atto l'Inghilterra s'incaricava eziandio del trasporto gratuito delle truppe sarde. La Francia non aveva voluto partecipare, né direttamente, né indirettamente, all'anticipazione delle somme occorrenti, al trasporto delle truppe, od a qualunque provvedimento che potesse rendere pel Governo di Torino meno gravosa la cooperazione de' suoi soldati.

LA SARDEGNA IN CRIMEA. 113

Per giungere a codesti risultamenti il conte di Cavour si scontrò in opposizioni vivissime. La prima lotta, ch'ebbe a sostenere, fu nel seno del suo Gabinetto, che da principio trovò tutto contrario ad impegnare il paese in una guerra tanto lontana, cosi incerta, ed affatto estranea ad ogni interesse sardo e ad ogni interesse italiano. Il Re stava per Cavour, il quale a lungo andare riesci a tirare dalla sua due Ministri; gli altri tre osteggiarono que' convegni sino agli estremi, e nulla valse a smuoverli dal loro no. Il Ministro per gli affari esterni, generale Dabormida, si ritirò dal Governo per non avere a porre le mani in stipulazioni, strappate colla violenza ben più che assentite di buona grazia; e Cavour assunse l'ufficio di Ministro degli esterni, non trovando alcuno che si volesse addossare si grande malleveria nello stato in cui si trovava il paese. Mai forse, infatti, erano state più miserevoli le condizioni del pubblico erario, ed il Piemonte piombato in un mare di debiti e di guai, cui per soprassello erano venuti ad aggiungersi la carestia ed il cholera. Quando poi furono rese pubbliche quelle stipulazioni, fu tale la violenza con cui nel Parlamento e nella stampa quotidiana si prese a combatterle, che parve avesse il Cavour a soccombere sotto il peso degli attacchi e delle contumelie. Il Parlamento finì con dare causa vinta al Ministro, facendo le mostre d'esser pago di vedervi un'opportunità di addestrare sulla Cernaia i soldati, che potrebbero più tardi adoperarsi sul Po.

Poco appresso però, nella occasione del Messaggio Reale relativo al prestito sardo, lord Palmerston, capo del Ministero, nella sessione della Camera dei Comuni del 26 marzo 1855, chiariva la vera portata della spedizione piemontese in Crimea, con queste parole: «Sua Maestà britannica, avendo esaurite le risorse offerte dalla milizia, aveva dovuto ricorrere ad un alleato; e la Sardegna aveva promesso di fornire 15,000 uomini per cooperare con le armate d'Inghilterra e di Francia. L'Inghilterra, dal suo canto, si è impegnata di fare alla Sardegna un prestito. Non bisogna disdegnare questo soccorso. L'alleanza interessa egualmente l'Inghilterra e la Sardegna; e mentre è per l'Austria un pegno di sicurezza al Nord dell'Italia, essa è ad un tempo pel Piemonte un pegno di sicurezza dalla parte del Sud.» L'alleanza per verità, non interessava guari egualmente l'Inghilterra e la Sardegna.

114 CAPITOLO SESTO.

L'Inghilterra aveva bisogno di soldati; la Sardegna non aveva bisogno di guarentigia d'integrità di territorio, perocché niuno pensava ad invaderla. Per lo contrario, era la Sardegna che si struggeva di voglia d'invadere altrui, e non trovava alcuno che a ciò le volesse dar mano. Mandando nel. 1855 il fiore delle sue truppe nella remota Crimea, la Sardegna rinnegava ufficialmente le ufficiali sue velleità guerresche del gennaio 1854. Il suo Trattato d'accessione alla lega anglofrancese equivaleva ad un solenne Trattato di pace coll'Austria. La Sardegna dava all'Inghilterra il sangue de suoi soldati, e ne riceveva in concambio la garanzia che l'Austria non avrebbe fatto verso di essa ciò che l'Inghilterra, e l'universo mondo con questa, perfettamente sapevano che l'Austria appunto neppure si sognava di fare. L'Austria, che si sforzava spegnere un incendio a levante, non certamente quella poteva essere la quale cercasse appiccare nello stesso tempo un altro incendio a ponente.

Il di 28 aprile 1855 l'Imperatore dei Francesi muoveva per Parigi a cavallo, senza scorta, seguito da due ufficiali. Un uomo si avanza sulla carreggiata, e giunto a tre o quattro passi da Napoleone, impugna rapidamente una pistola, spara due colpi, l'uno dietro l'altro, quasi a bruciapelo. L Imperatore non è ferito. Una palla, deviando, trafora il suo cappello; l'altra lo colpisce alla regione del polmone sinistro, lasciandovi una leggera ammaccatura. La palla si era schiacciata sulla cotta di maglia d'acciaio, ch'egli aveva l'abitudine di portare sotto la camicia; di lavoro tanto squisito e di tale finezza da poter reggere al paragone d'un fino tessuto, e nullameno capace di possentissima resistenza. Poco prima, quando il prefetto di Polizia aveva fatto andare a vuoto, mediante mezzi segreti, il progetto dei demagoghi, i cui fautori volevano far balzare in aria Napoleone III., uno de' sicarii, che non ebbe tanta fretta di fuggire come gli altri, aveva trovato un momento di dargli un colpo di pugnale, ma la lama omicida si era rotta contro la cotta di acciaio.

Il regicida è arrestato. Era Giovanni Pianori, di Faenza, negli Stati pontificii. Dinanzi la Corte d'Assise della Senna il procuratore imperiale dice: «Chi è costui? Un incendiario, un assassino, un fuggito dal carcere. Era tutto ciò prima del 1848. Allora, ed era giusto a coronare le sue opere, ei doveva far parte delle torme del Garibaldi,

LA SARDEGNA IN CRIMEA. 115

mettersi al servigio di quell'ammasso di scellerati, che assassinarono Rossi, cacciarono il Papa, intronizzarono la schifosa rivoluzione sulla cattedra di S. Pietro. Nel dicembre 1854 giunge a Londra. A Londra fu immaginato il delitto, a Londra si fecero le compere d'armi, a Londra Pianori contrasse i legami, che gli armarono il braccio, a Londra dove impunemente si può professare i dogmi dell'insurrezione e dell'assassinio politico; e ciò nel momento in cui i due grandi popoli dell'Occidente, impigliati in immensa lotta, pongono in obblio la loro rivalità secolare. Sicario risoluto e pagato, Pianori da un mese lasciò Londra, quel centro de' più audaci agitatori, di quegli uomini, che la rabbia della sconfitta spinge sino al furore, e che sono giunti al punto che il ricorso al delitto è per essi il solo mezzo di giovare gli ambiziosi loro disegni, i loro materiali appetiti, i loro bisogni di potere. Pianori spiega il suo delitto con dire, che ha in odio l'Imperatore a causa della spedizione di Roma, che ha, egli dice, rovinato il suo paese.»

Napoleone III. ostentò grande indifferenza; ed al Senato, recatosi a rallegrarsi con lui, rispose: «Non temo niente dai tentativi dei sicarii. Ci son vite, che sono istromenti dei decreti della Provvidenza. Finché non avrò compiuta la mia missione, non corro nessun pericolo.» Tuttavolta, allorché negli ultimi giorni del novembre 1855 il Re di Sardegna fu a Parigi, l'Imperatore, conversando con Vittorio Emanuele sulle cose italiane, lasciò cadere le parole: Che si può fare per l'Italia? (1). Quando poi, due giorni appresso, il conte di Cavour, venuto in Francia al seguito del suo Re, si provò ricordare codeste parole a Napoleone, questi si affrettò a rispondere: «Sì certamente, converrebbe fare qualche cosa a Napoli. Se si potesse fare qualche cosa nelle Legazioni!» Ma allorché Cavour nominò Austria e Sardegna, l'Imperatore finse di non capire a che propriamente ei volesse parare, e mutato prestamente il discorso, si mise a lodare il Concordato di recente conchiuso fra la Santa Sede e la Corte di Vienna, e a dimostrare al capo del Gabinetto di Torino l'urgenza che il Re di Sardegna pure venisse ad una conciliazione col Papa.

Abbagliandolo con mille attenzioni e le più squisite cortesie,

(1) N. Bianchi, Il conte di Cavour, pag. 32.

116 CAPITOLO SESTO.

solleticandone la vanità con ogni fatta dimostrazioni d onore, l'Imperatore tese a quest'uopo intorno a Vittorio Emanuele ed al suo Ministro la rete con sì sottile arte, che l'astuto conte, per isbrogliarsene, si fece a scongiurare il Re di affrettare la sua partenza per Londra. Se gli fosse riescito di appianare le differenze fra le Corti di Torino e di Roma, in modo soddisfacente a questa ultima Corte, Napoleone sperava che il Santo Padre aderisse alla sua preghiera di recarsi a Parigi a fin di battezzare il figlio che gli era per nascere. Dopo il battesimo, il Pontefice avrebbe di sua mano incoronato l'Imperatore de Francesi, e questi accompagnato Pio IX. a Roma, nella quale occasione avrebbe fatta al Re di Sardegna in Torino una visita, che suggellerebbe lo scioglimento delle difficoltà colla Santa Sede. E Napoleone III. si affaccendava a riescirvi con interessamento s fatto, che il padrone del Piemonte, poiché ben tale ornai potea dirsi divenuto il conte di Cavour, per non urtare troppo di fronte il padrone della Francia con un rifiuto assoluto, e lasciargli intanto travedere una qualche possibilità di componimento avvenire, si chiuse nelle sue stanze a scrivere un lungo articolo sulla necessità di un Concordato con Roma, il quale da Parigi stesso inviò tosto a stampare nella Gazzetta Ufficiale di Savoia

Infatti, simulando di emancipare lo Stato dalla Chiesa, le condizioni della Chiesa cattolica nel Piemonte erano divenute di servitù progrediente. Concessa la libertà della stampa a tutti, fuorché ai Vescovi, le cui pubblicazioni doveano venire assoggettate alla censura politica (1). Legge sull'insegnamento, con cui é vietata qualsivoglia sorveglianza di qualsivoglia ecclesiastica autorità sopra qualsivoglia scuola, pubblica o privata, anche in ciò che si attiene all'istruzione religiosa ed ai maestri di religione e direttori di spirito (). Il Ministro della pubblica istruzione nomina direttori spirituali per istituti di educazione, ad insaputa dei Vescovi (3); ed invano il Vescovo di Tortona gli scrive: «Pare che in un Governo, in cui lo Statuto riconosce la religione cattolica per religione del paese, non si possa ricusare a' Vescovi la piena libertà nel provvedere pei bisogni spirituali della gioventù cattolica; mentre nella Francia stessa, ove si riconosce

(1) Ottobre 1847. - (2) 4 Ottobre 1849. - (3) 23 Ottobre 1848.

LA SARDEGNA IN CRIMEA. 117

la piena libertà dei culti, lasciasi esclusivamente ai Vescovi la destinazione dei cappellani nei collegi di educazione cattolica.» Nel 1850 venne la legge Siccardi (1). In uno Stato, in cui le facoltà del Governo e del potere ecclesiastico erano sin allora nella realtà tanto avviluppate, poteva apparir naturale che s'imprendesse di uscire da tale stato di cose, e di precisare ed assicurare i proprii diritti verso la Chiesa. Non era quindi di soverchio singolare che la legge Siccardi si facesse a togliere le immunità ecclesiastiche, ad assoggettare, entro certi limiti, le persone ed i beni del clero ai tribunali ordinarii, ed a proibire ai tribunali ecclesiastici d'infliggere pene civili. Ma imponendo alle corporazioni ecclesiastiche una incapacità quasi assoluta di acquistare, stabilendo il numero dei giorni festivi, mettendo in prossima prospettiva una legge civile sul matrimonio, avvenendo tutte queste determinazioni unilateralmente per parte dello Stato, senz'avere sentiti i Vescovi del paese, senza l'assenso del Papa, o piuttosto ad onta della solenne protesta del Papa e dei Vescovi; questi fatti bastavano da per sé stessi a destare la presunzione che una legge, la quale colle pretensioni della Chiesa attaccava in pari tempo i suoi diritti ben fondati, doveva avere uno scopo diverso da quello ostensibile di riforma interna, l'opposizione premeditata contro Roma. E la persistenza con cui si respinsero le proposte tendenti, non a rigettare la legge, ma soltanto a far riaprire le pratiche colla Corte romana, siccome richiedeano i Concordati sussistenti, il Concordato del 1841, giurato dal Re di Sardegna il fede e parola di Re, e la fretta con che si aveva volata ammessa la legge, rivelavano come il Governo sardo non avea voluto davvero ottenere dal motore d'ogni riforma in Italia, da Pio IX., quanto altri Papi aveano in analoghe circostanze assentito.

Il 15 gennaio 1851 Angelo Brofferio diceva nella Camera dei Deputati: «Non avendo potuto sopprimere gli Austriaci, almeno» sopprimiamo la Compagnia di S. Paolo.» E la Compagnia di 8. Paolo, che una Commissione governativa, esaminatane l'indole e le opere, aveva dichiarata meritevole di tutta la pubblica riconoscenza,

(1) Presentata alla Camera dei Deputati il dì 25 febbraio 1850, approvata il 9 aprile; seguita dalla protesta e partenza del Nunzio Pontificio da Torino.

118 CAPITOLO SESTO.

venne spogliata del possesso de' suoi beni e soppressa (1). Si aggravano i beni della Chiesa di una imposta particolare, detta di manomorta (2). Arcivescovi illustri, Vescovi pii e benemeriti, processati, o tenuti in arresto o in esilio. I giornali quotidianamente vilipendono il clero, aizzangli contro le plebi, impunemente bestemmiano il Cattolicismo e il Papato, con un linguaggio, che in impudenza non trova forse il suo eguale se non nella bordelliere letteratura della grande rivoluzione francese. Pio IX. è chiamato un miserabile, un barbaro, un infame, il Vicario di Satana; né in ciò certamente vi avea del nuovo; molti anni addietro, Voltaire aveva elevata la bandiera dell'empietà gridando: schiacciamo l'infame, e l'infame, nel suo concetto, era Cristo! Così il conte di Cavour, il 5 febbraio 1852, a chi si faceva a chiedere provvedimenti, nella Camera dei Deputati, rispondeva: «La religione nostra ha tali basi e tali fondamenta da poter resistere a ben altri pericoli che non siano gli attacchi della nostra stampa.» AI chiudersi del 1853, le condizioni della Chiesa cattolica in Piemonte erano sì fatte, che Pier Carlo Boggio, servile Deputato ministeriale, creatura di Cavour, di cui era intimo e fervente ammiratore e lodatore, non si poté tuttavia trattenere dal confessare (3), che «prima lo Stato tacciava la Chiesa di usurpazione; ora la Chiesa ha tutte le apparenze, e un pochino anche la sostanza della ragione, accusando alla sua volta lo Stato di oppressione.»

Una legge è proposta ed ammessa per sopprimere le Corporazioni religiose, salvo pochissime eccezioni, ed incamerarne i beni (4); e Cavour dichiara alla Camera (5): «Noi comincieremo dal sopprimere gli Ordini religiosi più ricchi.» AI che un deputato, il conte Revel, risponde (6): «Dalla dichiarazione del presidente del Consiglio dei Ministri risulta che la moralità della soppressione dei conventi sta nel togliere i beni alle corporazioni più ricche.» Poco appresso Cavour diceva al Senato del Regno (7): «Io credo di dover dichiarare che tutti gli Ordini religiosi,

(1) 17 gennaio 1852. - (2) maggio 1851.

(3) La Chiesa e lo Stato in Piemonte, Vol. I., pag. LXIII. (Torino, 1854).

(4)

Presentata alla Camera dei Deputati nel 28 novembre 1854; approvata dal Senato il 22 maggio 1855, dal Re il di 29. - (5) 22 febbraio 1855. -(6)Atti Ufficiali del Parlamento, num. 482. - (7) 9 maggio 1855; Atti ufficiali, num. 147, pag. 515.

LA SARDEGNA IN CRIMEA. 119

i quali riposano sul principio della mendicità, sono radicalmente inutili, sono dannosi.» Una somma di lire 928,412:30 era annualmente assegnata sull'erario pubblico per ispese ecclesiastiche, congrue e supplementi di congrue delle provincie di terraferma. Cavour ne propose la soppressione e la ottenne (1), conservato però nel bilancio l'assegnamento ai seguaci delle dottrine di Pietro Valdo, affinché provvedessero alle spese del loro colto.

Intanto, turbata e sconvolta la guarentigia suprema de' civili consorzii, la religione, profanato l'asilo inviolabile della coscienza, il Piemonte divenuto un mercato e la capitale de' popoli sardi un emporio di apostasia, la propaganda protestante, incoraggiata, protetta e sorretta dal Governo di Torino, faceva sforzi disperati. Aveva fondato proprie efemeridi: La Buona Novella, giornale della evangelizzazione italiana; l'Eco di Savonarola, ch'ebbe origine nel 1847. L'Opinione, caporano de' diarii ministeriali, e dietro ad essa la coorte de' periodici allo stipendio o sotto l'influenza del Governo, la Gazzetta del popolo ed altre molte davano tutto giorno di spalla con accordo mirabile. Somme ingenti, in parte destinate a quest'uopo dalla Società biblica anglicana, in parte tolte in Torino da fondi segreti, erano dispendiate per comperare proseliti, massime fra gli operai e la schiuma della minuta plebaglia. A mezzo il 1853 potevano calcolarsi ad ottomila i disgraziati che in Torino già avevano scambiato per poca moneta il tesoro della cattolica fede. Ove a convincere non bastasse il danaro, promesse, minacce, ogni mezzo di seduzione era posto in opera. La sfacciataggine di cedesti apostoli di eresia crescendo in proporzione della calcolata tolleranza di chi avrebbe dovuto opporvisi, non era da meravigliare se giungeano sino a presentarsi di pieno giorno nelle case a richiedere senza reticenze le famiglie di fare solenne abiura delle superstizioni papistiche. Nelle provincie si lavorava a tutt'uomo, molto a Genova, a Nizza più che mai. A Nizza un ex-frate napoletano, apostata, la scialava da patriarca della setta, beccandosi seimila franchi all'anno, che gli erano fatti passare dalla Società biblica.

Tre partiti generali componevano il movimento protestante

(1) Fu cancellata dal bilancio del 1855, e in appresso.


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120 CAPITOLO SESTO.

in Piemonte: il partito antipapale, il partito antipapista, il partito evangelico-riformato. Il giornale del protestantesimo italiano, l'Eco di Savonarola (1), definì l'indole, le tendenze, gli scopi, i mezzi di codesti partiti con ischiettezza, con sincerità, con verità s fatte che mai non potremmo noi meglio, né mai le parole nostre potrebbero trovare presso il lettore quella fede che non si può a meno di aggiustare al Moniteur officiale della propaganda stessa.

«Coloro che compongono il partito antipapale,» scrive adunque l'Eco di Savonarola, «non vogliono che i Papi ritengano il potere temporale, ma lo spirituale soltanto. Riconoscono gli uni in buona fede, gli altri per convenienza, nel Pontefice di Roma il successore degli Apostoli, il Capo della Chiesa, il Vicario di Gesti Cristo, il rappresentante di Dio sulla terra, ma non lo accettano come Monarca. Il motivo per cui si oppongono al Papa Re si è unicamente perché veggono in lui il più grande ostacolo al conseguimento dell'unità italiana. Per dare al loro scopo politico un po' di tinta religiosa, si avvalgono di tatti quei passi della Bibbia, che condannano il possesso temporale, e soprattutto del celebre detto di Gesù Cristo: mio regno non è di questo mondo. Il partito antipapale è quello dei nostri moderati; vi appartengono i nostri Ministri e tutti i loro giornali.» Già la Buona Novella aveva avuto a dire ch'essi obbediscono ad una direzione più o meno protestante,

Il secondo partito, che fu chiamato partito antipapista, «è composto di quelli che si sono apertamente separati dalla Chiesa Romana. Costoro odiano a morte il Papismo, e lo combattono con tutte quelle armi di cui possono provvedersi. Gli antipapali non vogliono il PapaRe, ma dicono di venerarlo Pontefice; gli antipapisti noi riconoscono né Pontefice, né Re. A prima vista voi li credereste sinceri protestanti, ma se discorrete un tantino con essi, se farete loro talora di quelle domande, che non ammettono risposte oblique, né mezzi termini, voi, oltre al trovarli antipapisti per eccellenza, li troverete parimenti increduli per eccellenza. Questo secondo partito è il più numeroso.»

Il terzo partito abbraccia quelli che ragionan cosi: «Noi siamo filosofi; quindi potremmo benissimo fare a meno di religione.

(1) Nel numero 1° del giugno 1856.

LA SARDEGNA IN CRIMEA. 121

Ma il popolo non è filosofo; dunque ha bisogno d'una religione. La società senza religione non può sussistere. Se all'Italia togliamo il Papismo, perché opposto al nostro scopo politico, fa d'uopo che gli sostituiamo qualche altra cosa. Fra tutte le religioni che esistono, il cristianesimo riformato ci sembra la migliore.» Questo, a detta dell'Eco, è il ragionamento dei protestanti in Italia, i quali vogliono rendere il popolo protestante, cioè o evangelico riformato o valdese, perché riconoscono impossibile di lasciarlo incredulo. Se dipendesse da loro, direbbero ai popoli: Non credete nulla. Ma il popolo non essendo filosofo, veggonsi obbligati al protestantesimo.

Sicché, riassumendo quanto aveva detto l'Eco di Savonarola sin qui, se ne poteano dedurre le importantissime confessioni: che in Italia favorivano il protestantesimo coloro che combattono il dominio temporale del Papa; che favorivano in Italia l'incredulità coloro che vi promuovono il protestantesimo; eh erano finti e menzogneri coloro che vorrebbero protestante il popolo, e predicano soltanto l'eterodossia, perché non hanno coraggio di predicare l'ateismo. E così ben a ragione fu osservato (1), che «gli antipapali e gli antipapisti, cioè i moderati del Piemonte, non sono né cattolici, e neppure protestanti, ma atei, ingannatori, ipocriti che nulla rispettano, nulla credono, e nulla temono; e chi non crede e non teme Iddio, è incapace di vera onestà e capacissimo di tutto.»

Senza fine pertanto le cause di malumore fra le Corti di Roma e di Torino; mentre Cavour scriveva (2): «Se noi ci mettiamo in relazione diretta con Roma, roviniamo da capo a fondo l'edificio politico che da otto anni duriamo tanta fatica ad innalzare. Non è possibile il conservare la nostra influenza in Italia, se veniamo a patti col Pontefice.» Dal suo punto di vista, Cavour aveva ragione. Sulla via in cui da otto anni si erano tanto affaticati a porre il Piemonte, in cui egli avea tanto sudato a mantenerlo, un Concordato con Roma era impossibile, era un suicidio. Sarebbe stato la negazione di tutto il suo sistema politico, il quale in questo si compendiava: combattere senza posa l'Austria, combattere senza posa Roma.

(1) Armonia, num. 135, del 12 giugno 1856.

(2)

Berti, Rivista contemporanea, fasc XCVIII, pag. 18.

122 CAPITOLO SESTO.

Quando Cavour diceva (1), che «combattere il Papa era combattere l'Austria,» era ripetere ciò che aveva scritto Montanelli (2): «La rivoluzione italiana, se non sia il Papa che la faccia, come avevamo creduto possibile gridando capopopolo Pio IX., convien si faccia contro di lui, e conseguentemente contro gl'interessi europei, che gli mantengono signoria in Italia.» Il tentativo di dominare la Penisola dall'alta Italia, infrangendo il potere pontificio, non era nuovo: undici secoli prima lo fecero i Re Longobardi, e andò fallito. Il programma di Cavour era la formola medesima di Mazzini, come la formola di Mazzini era stata la formola stessissima dei Carbonari: «fuori d'Italia l'Austria, fuori d'Italia il Papa.» Solamente all'azione delle sètte, Cavour aveva voluto ed era giunto a sostituire l'azione direttrice di un Governo costituito, regolare, monarchico.

L'11 dicembre Re Vittorio Emanuele ed il conte di Cavour furono di ritorno in Torino. Vi tornava questi pieno il capo delle parole dell'Imperatore de' Francesi: Che si può fare per l'Italia? Converrebbe fare qualche cosa a Napoli. Se si potesse fare qualche cosa nelle Legazioni! Vi tornava lieto di aver trovato nella famiglia imperiale di Francia un valido appoggio nel principe Napoleone, cugino dell'Imperatore; deciso ad approfittarne, e per nulla sgomentato pel malumore, che si avean lasciato dietro alle Tuilerie per non aver voluto dar mano alla desiata riconciliazione con Roma. E già il 28 dicembre egli indirizzava ai rappresentanti di Francia e d'Inghilterra presso la Corte di Sardegna una Nota verbale, nella quale diceva:

«Siamo indotti a credere che la Sardegna, dopo avere divisi i pericoli e la gloria della guerra di Crimea, sarà, nelle conferenze che si vanno ad aprire, abbastanza fortunata per vedere l'attenzione delle grandi Potenze rivolgersi non meno sopra lo stato dell'Italia; sopra l'impossibilità di conservarvi un ordine di cose, il quale ripugna, in certe parti, alle più semplici nozioni della giustizia e della equità; sopra la necessità di sollevarne la condizione e di alleviarne le sofferenze, per poco che si desideri di soffocare i germi delle turbolenze che minacciano incessantemente il riposo dell'Europa,

(1)

Berli, Rivista contemporanea, fase. XCVIII., pag. 13,

(2)Memorie sull'Italia, Vol. IL, pag. 424.

LA SARDEGNA IN CRIMEA. 123

ed assicurare a tutto il mondo per lungo tempo i beneficii della pace. Secondo il progetto d'accomodamento, che ci fa comunicato, l'Austria, la quale non prese punto parte alla guerra, terrebbe ad acquistare definitivamente una grande preponderanza in Oriente, sostituendo, se non di diritto almeno di fatto, la sua propria influenza all'influenza russa. È più particolarmente a suo profitto che avrebbe luogo l'annessione ai Principati danubiani della metà della Bessarabia e delle bocche del Danubio. Il tempo è adunque venuto, ancorché non si volesse inspirarsi che agli Atti del Congresso di Vienna, di regolare la posizione di questa Potenza in Italia, se si vuole che l'equilibrio europeo, pel quale si presero le armi, sia conservato.»

Fu questo il primo documento, il primo atto, con cui il Governo piemontese inaugurava l'intervento diplomatico in Italia. La Nota non ebbe seguito. Se non che, pigliando argomento da un'espressione lasciata cadere alle Tuilerie, il conte di Cavour, intorno alla metà del gennaio 1856, in un Memoriale indirizzato all'Imperatore Napoleone, si faceva a spiegare a che cosa propriamente il Gabinetto di Torino intendesse alludere là dove diceva, nella Nota verbale del 28 dicembre 1855, della impossibilità di conservarvi un ordine di cose, che ripugnava in certe parti alla giustizia ed all'equità; il quale Memoriale potea dirsi contenesse pare la risposta al quesito: Che si può fare per l'Italia? Esso conchiudeva cosi: «L'Imperatore può rendere immensi servigi all'Italia, primieramente conducendo l'Austria a far giustizia al Piemonte, ed a mantenere gl'impegni seco presi; secondariamente ottenendo da essa un addolcimento al regime, che pesa sulla Lombardia e sulla Venezia; in terzo luogo forzando il Re di Napoli a non più scandalizzare l'Europa civile con un contegno contrario a tutti i principii di giustizia e di equità; in quarto luogo ristabilendo l'equilibrio in Italia, così come era stato stabilito dai Trattati di Vienna, cioè a dire rendendo possibile lo sgombro degli Austriaci dalle Legazioni e dalla Romagna, sia ponendo queste provincie sotto un principe secolare, sia procurando loro i benefizii di un'amministrazione laica e indipendente.»

In questo mezzo posavano le armi, la Russia aderendo alle aperture di pace. Un Congresso, convocato in Parigi, doveva porre termine alla guerra.

124 CAPITOLO SESTO.

Così si chiudeva quella gran lotta, di cui la questione d'Oriente era stata il pretesto, non però punto la causa. Russia e Turchia aveano somministrata l'occasione di venire alle mani; ma le file dei combattenti erano rimaste confuse, e vidersi amici ed eterni nemici combattere a fianco. Si aveva pugnato, e non se ne avea saputo dire il perché. Ora era pei Luoghi Santi, ora per la libertà religiosa; ora per l'indipendenza della Turchia, ora contro la preponderanza russa. Ad ogni fatto d'arme la guerra mutava nome. Fu una serie di contraddizioni mai più udite; tra le quali il Piemonte, mentre incatenava i cattolici in casa sua, muoveva a prosciogliere i cristiani in Oriente, e mentre affermava d'esse re sceso in campo perché la Russia aveva voluto intervenire in casa d'altri, a null'altro pensava se non ad intervenire egli medesimo, il Piemonte, in casa altrui.

La guerra d'Oriente aveva costato al Piemonte presso ad ottanta milioni di lire, e de' 17,584 uomini spediti in Crimea, 2532 morti. Il modo con cui erasi chiusa mandava definitivamente a picco le migliori delle speranze, che ancora nudriva il conte di Cavour. Sino all'ultimo, in fatti, esso si avea lusingato che la guerra potesse divenire generale; e allora le pattuizioni precorse, di non aversi a trarre alcun vantaggio alla fine della lotta, poteano essere benissimo passibili di modificazioni. Deposte le ire, nel momento in cui le relazioni fra la Francia e l'Austria erano informate a' sentimenti della più stretta intimità, non che farneticare incoraggiamenti alle sue tendenze d'ingrandimento, era evidente che il Governo sardo non poteva aspettarsi dal Gabinetto delle Tuilerie se non, nel migliore degli eventi, dei buoni ufficii.

Conchiuso l'Armistizio fra i belligeranti in Crimea, un uffiziale superiore russo, trovandosi con un generale sardo, gli dicea sorridendo: «Voi altri piemontesi, con questa vostra spedizione di Crimea, avete preso una strada ben lunga per far capo in Lombardia.» Al che il piemontese: «Lunga sì, ma forse più sicura.» Ma intanto indicibile la scontentezza in Piemonte, dove i liberali ripeteano: «Noi dicevamo noi che ci esponevamo a pure perdite, per mero vantaggio d'altre Potenze?»; e tutti guardavano con isgomento l'erario esausto, l'entrate indebitate, e tante ansietà e sofferenze, per null'altro se non perché un Ministro sardo apponesse la sua firma ad un Trattato europeo.

LA SARDEGNA IN CRIMEA. 125

Neanche era certo in qual modo la Sardegna sarebbe ammessa nelle conferenze di pace. Napoleone III., che sino allora aveva mostrato dì osteggiare e la politica spavalda ed avventuriera del conte di Cavour, e la spedizione sarda in Crimea, aveva pure lasciato vedere di accogliere assai freddamente e la Nota verbale del 28 dicembre 1855, ed il Memoriale del gennaio 1856. Si sapeva che l'Imperatore aveva detto alla presenza di molte persone: «Si preoccupano del modo di procedere, che adotteranno i plenipotenziarii. Hanno torto. Le cose aneleranno presto e bene. Non permetterò che la facciano da avvocati (1).» Sicché, nel suo disappunto, Cavour non poté trattenersi dal dire: «A che andare al Congresso per esservi trattati come fanciulli? (2).

Napoleone III. erasi dimostrato insensibile persino alle profferte dilettevoli, che il conte di Cavour aveva destramente insinuate, di cessioni territoriali alla Francia: la Savoia, ed al caso eziandio la Sardegna o la Liguria. Il proposito di dare la Savoia ad offa non è idea di Cavour. Nel maggio 1848, mentre tutta l'Europa era in preda a febbrili rivolgimenti, quando il Piemonte avea tratta la spada per combattere l'Austria, ed a Torino si accoglieva la speranza di poter approfittare dell'incendio generale per mettere la Corona di ferro sul capo di Carlo Alberto, allorché in Parigi stava al timone dello Stato un Governo ultrarivoluzionario, i cui membri, la più parte socialisti, poco rispetto nutrivano pel diritto di proprietà e per le esistenti divisioni territoriali, si avea creduto facile di giungere ad un accordo col Governo provvisorio di Francia, e meditato di risarcire il soccorso francese con la Savoia.

Carlo Alberto aveva bensì detto: l'Italia farà da sé; ma i combattimenti del 6 maggio a Santa Lucia e Crocebianca sotto Verona erano venuti ad incominciare a disperdere le illusioni, e far già comprendere che senza aiuto straniero tutti gli sforzi sarebbero rimasti impossenti a rendersi padroni delle grandi fortezze di Mantova e Verona. Nella carta geografica, compilata ad uso officiale al Ministero dell'Interno di Torino in quel mese di maggio 1848, nella quale fu tracciato il Regno dell'Alta Italia sognato da Carlo Alberto, la Savoia non figura.

(1) «Je ne souffrirai pas que l'on avocasse». Traducendola, la parola perde d'espressione.

(2) N. Bianchi, Il conte di Cavour, pag. 33.

126 CAPITOLO SESTO.

Mazzini possedeva un esemplare di quella carta sino dal 1849, e già dal maggio del 1851 era noto per le stampe (1) questo fatto, che veruno in Torino si attentò di negare. Dell'aiuto francese per allora non se ne fece nulla, perocché Lamartine, capo del potere esecutivo, aveva aderito al sistema di Bastide e dei repubblicani del National, i quali non ammettevano l'ingrandimento della Monarchia di Casa Savoia, ma la formazione di un sistema federativo di repubbliche italiane, un vero MedioEvo repubblicano (2).

Cavour non fece che ripigliare il concetto altrui. La prima offerta di cessione della Savoia alla Francia egli mise in prospettiva nel 1854, durante le pratiche cui la questione di Oriente avea dato origine. Allorché il Trattato di Torino del 26 gennaio 1855 fu messo innanzi all'approvazione del Parlamento sardo, nella tornata del 10 febbraio della Camera dei Deputati uno dei rappresentanti della Savoia, il De Virv, venuto in certa cognizione di quelle aperture, ebbe il coraggio di manifestare, che nelle conferenze fatte durante i negoziati erasi accennato alla possibilità di congiungere la Savoia alla Francia, la quale possibilità con calde parole lamentò.

Sino da allora, di tanto in tanto, e come a saggio di esplorazione, Cavour faceva dire in qualche giornale, estero o del paese, che il Piemonte aveva tre Irlande, delle quali sarebbe stato opera buona disfarsi, e queste Irlande erano la Savoia, la Sardegna, la Liguria. La Savoia considerava sempre come francese; la Sardegna odiava di tutto cuore, né mai si diede la minima cura di nascondere la costante sua antipatia per essa; la Liguria, che mai aveva cessato un istante di nudrire indicibile ripugnanza alla sua aggregazione al Piemonte, non amava, anche perché a lui personalmente ostilissima. Trascurare, disgustare, molestare, tormentare, angariare, dispregiare, umiliare, avvilire, insultare, vilipendere, ingiuriare, offendere, opprimere, prostrare la Savoia e la Sardegna era invariabilmente presso il conte di Cavour un merito, e farne mal governo un sistema, che entrava nei segreti calcoli della sua politica. Gli stessi benefizii rivolti a danno. La Savoia era stata colla e tomba a' suoi Re;

(1) Allgemeine Zeitung, di Augusta, num. 147, del 27 maggio 1851.

(2) Capefìgue, La société et un gouvernements d'Europe depuis la chute de Louis Philippe jusqu'à la présidence Louis Napoléon Bonaparte,p 83 (1849).

LA SARDEGNA IN CRIMEA. 127

la Sardegna aveva dato rifugio alla dinastia di Savoia, cacciata dal Piemonte. A venderla Cavour non mai cessava, né mai cessò, di pensare. E quanto alla idea d'unità italiana pure allora scherzava come di sogno di mente inferma, che tenea possibile quanto la Repubblica di Platone, la Monarchia di Senofonte, la Repubblica del Sole di Tommaso Campanella, il Governo del paese d'Utopia, descritto da Tommaso Moro.

La questione italiana stava ormai per entrare in una fase novella. Da quarantanni, dal 1815 allo schiudersi del 1856, essa, alla fin fine, non mai era stata più che allo stato di preludio, di prova, di esperimento; anzi, più propriamente parlando, sino al 1848 una questione italiana nella realtà non esistette. Dal 1815' al 1831 avrebbe dovuto denominarsi questione Carbonara, poi questione Mazzini, poi questione Balbo Gioberti. Non mai in tutto quel lungo periodo gli avvenimenti escirono dalla portata di semplici manifestazioni violente di sètte contro poteri legalmente costituiti. I grandi fatti, che accompagnarono la caduta del primo Impero francese, avevano formata all'Austria una posizione in Italia, pella quale la forza stessa delle cose la obbligava, volere o non volere, a farsi tutrice degli ordini legittimamente riconosciutivi. Giammai anzi il Gabinetto di Vienna si dissimulò le difficoltà conseguenti dal compito complesso impostole dagli eventi medesimi. L'Austria, se chiamata, intervenne; e se intervenne, l'Europa adunata a Troppau, a Lubiana, a Verona, le ne avea dato facoltà, anzi più che questa, il dovere. Intervenne, non tanto contro avversarii suoi proprii, contro avversarii del momento, bensì contro elementi intolleranti gli assettamenti sanciti dal Congresso di Vienna, contro elementi sopravvissuti alle vicende del 1815, contro quegli elementi stessissimi surti in Italia giusto nel tempo in cui l'Austria non vi possedeva più nemmeno un palmo di territorio, contro elementi che osteggiavano oggi l'Austria e i legittimi sovrani italiani come jeri aveano osteggiato Napoleone Re d'Italia e Murat a Napoli. Dal lato politico era lotta tra il principio monarchico e il principio repubblicano; dal lato religioso tra il principio cattolico ed irreconciliabili nemici del cattolicismo.

Solamente nel 1848 si appresentò una questione italiana rispetto all'Europa, una quistione d'indipendenza nazionale rispetto all'Italia;

128 CAPITOLO SESTO.

quantunque neppure in allora e da allora si potesse propriamente chiamarla questione italiana e questione nazionale, ma più esattamente dovesse dirsi semplice questione sarda. La questione romana, politicamente parlando, non era essa medesima in ultima analisi che una conseguenza della questione sarda. Dacché la guerra sorda, latente, guerra di sètte, fu convertita in una guerra di aperta aggressione all'Austria ne' suoi possedimenti medesimi, questa Potenza si trovò in posizione ben differente da quella in cui sino allora era stata tenuta. Da soccorritrice altrui l'Austria divenne difenditrice dello stesso suo territorio. Sino a quel momento, per l'Italia la vera questione era di aversi l'Austria in favore o l'Austria contro; perciocché, sia che l'Austria vi possegga più o meno di territorio, sia che per una cagione qualsiasi si trovi rincacciata al di là delle Alpi, come ben disse Ferdinando Dal Pozzo (1), per l'Italia «un'Austria neutra non vi sarà mai, e bisogna essere cieco affatto per non vedere una così radiante verità.»

Quella Casa Savoia, ambiziosa, perseverante, tenace, naturale ed eterna nemica dell'Austria, avea creduto questa, più che conquisa, morente; propizio, più che mai potesse essere, il momento; sicura la riescita. Uomini anche assennati ed onesti nel secondare l'ardir generoso del cuore non sempre compresero la necessità di farlo precedere dai dettami della ragione. Intanto non mai forse la storia aveva accumulato in un solo istante più varie, più singolari, più gravi peripezie. L'Europa intera parve gravitare ormai verso la democrazia; ma la veemenza dello scoppio aveva gettati i popoli al di là di questa. La causa della libertà onesta e del progresso moderato e saggio si trovò separata un momento da tutto ciò che costituisce la sicurezza e la dignità della società e del Governo. La demagogia aumenta le sue pretensioni in ragione delle proprie vittorie, le esigenze sfrenate producono la reazione, un secondo periodo incomincia, e ad un anno di violenza vittoriosa tien dietro un anno di ritorno verso il diritto e d'inevitabile espiazione. Carlo Alberto è battuto, e l'Austria si fa ancora una volta ad attestare al mondo com'essa goda da secoli di un privilegio ben raro, quello di risorgere, dopo i maggiori disastri e le crisi più dolorose, più sempre possente.

(1) Della felicità che gli Italiani possono e debbono dal Governo austriaco procacciarsi, Capo X.

LA SARDEGNA IN CRIMEA. 129

In quel mezzo alle questioni politiche viene a complicarsi la questione religiosa. Allora due Potenze straniere all'Italia, Francia e Spagna, fanno intervenire le loro armi nel centro d'Italia; la Spagna all'unico scopo di ristabilire l'indipendenza del Capo della Cristianità, la Francia con fini molteplici e i più disparati. Il Pontefice riacquista il territorio perduto. La Spagna ritira le sue truppe; la Francia rimane, e sedici anni pili tardi la si trova ancora a Roma. Da allora, se il possesso territoriale, fatta pure astrazione dai Trattati di Vienna, e dai convegni di Lubiana e Verona, assicurava ad una Potenza, per altri e maggiori possessi, non italiana una preponderante influenza sulla Penisola, una seconda influenza affatto straniera all'Italia era venuta a piantarvisi sopra durevoli fondamenta.

Posate le armi, una terza influenza, preesistente, ma sino a quel momento mal ferma, sconnessa, vagante, veniva ad organizzarsi e piantare tenaci radici in Piemonte, l'influenza rivoluzionaria. Alla incerta opera delle sette erasi sostituita la direzione più lenta, ma più sicura, di un Governo costituito, regolare, legittimo. Cosi mentre in Francia la democrazia coronata apprestava nel silenzio le armi del secondo Impero, un uomo astuto e ambizioso con franca mano afferrava nel regno sabaudo le redini del potere, che non abbandonerà, se non a brevissimo intervallo, mai più; riesce indirettamente a rialzare in un estremo lembo d'Europa il vessillo dei vinti di Custoza e di No vara, e ad assuefare il mondo a vedere quel vessillo sui campi di guerra a fianco della bandiera francese; e colla perseveranza della formica apportando materiali al suo edifizio, muove di soppiatto, non meno che al Papato, all'Austria, nelle sue provincie italiane, per tutta la Penisola, per tutta Europa, una guerra occulta, incessante, con finissime arti condotta.

D'altro canto, nei quarantanni di prove a sommuovere l'Italia contro l'ordinamento politico sancito coi Trattati di Vienna, dal 1815 al 1856, sia per opera della Carboneria, sia di sètte che la susseguirono, sia di Casa Savoia, non mai la rivoluzione italiana «a riescita a conseguire un appoggio reale presso veruna Potenza straniera. Poco ancora, e lo troverà daddovero.

LIBRO SECONDO.

I PATTI SEGRETI

DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 ALLO SCOPPIO

DELLA GUERRA D'ITALIA NEL 1859.

SOMMARIO.

VII.I primi concerti.- VIII.La questione italiana al Congresso.- IX.L'intervento settario.- X.Fatti delle Due Sicilie.- XI.Orsini e Plombières.- XII.Il capo d'anno.- XIII.pacieri- XIV.volontarii e la Lombardia.- XV.Dichiarazione di guerra.Epilogo.

CAPITOLO SETTIMO.

I primi concerti

I conforti di Villamarina. - Disegni di Napoleone III. - Suoi modesti progetti sull'Italia. - Savoia, Aosta, Nizza, Genova, Sardegna, Elba la Francia. - Pensieri pel riordinamento d'Italia ideati da Bonaparte primo console nel 1802. - II più ghiotto boccone. -

Chi mai giungerà a capire quest'uomo?

- Murat e Saliceti. - La Memoria di Marco Minghetti. - Prime aperture dell'Imperatore de' Francesi a Cavour. - I Duchi di Modena e di Parma in Moldavia ed in Valachia. -

Allora Francia e Inghilterra ben sarebbero costrette ad assisterci.

- Promesse reciproche. - n

minimum

conseguito. - Nota sarda del 27 marzo 1856. - 11 Vicariato apostolico nelle Legazioni. - Perché del Trattato di Tolentino. - La secolarizzazione degli Stati pontificii messa a nudo dal conte di Rayneval. - Luigi Napoleone in novembre 1850 e Napoleone III. in aprile 1856. - L'arte di fare il morto.

A mezzo il febbraio 1856 il conte di Cavour pigliava la via di Parigi, a rappresentarvi la Sardegna al Congresso. Vi andò di assai malavoglia, né vi si era deciso se non quando Massimo d'Azeglio, dopo di avere accettato l'offertogli incarico di primo plenipotenziario sardo, d'improvviso rifiutò di portarvisi.

132 n CAPITOLO SETTIMO.

Nella «ingrata missione,» siccome allora chiamavate (1), aveva voluto a compagno il marchese Pes di Villamarina, a que' Ministro del Piemonte presso la Corte delle Tuilerie. Giunto nella capitale della Francia, Villamarina lo trovò, forse la prima volta in sua vita, profondamente sfiduciato, incerto nei propositi, perplesso sopra ogni questione, restio a parlare di cose italiane coll'Imperatore, stizzito con esso, cui attribuiva gl'impacci della difficile condizione in cui versava il Governo di Torino. Questa volta toccò al Villamarina illuminare il Cavour. Infatti, nel mentre stesso ch'egli s'incamminava a Parigi, Villamarina aveva buono in mano per credere come, ben lungi dal volervisi attraversare, Napoleone III. avrebbe anzi voluto la questione italiana avesse a far capolino nelle Conferenze che stavansi per aprire.

Bacche Carlo Luigi Bonaparte ebbe il potere in mano, egli dovette evidentemente avere uno scopo generale da conseguire: la rivinta di Waterloo, da pigliarsi mediante l'annullazione dei Trattati del 1815. Problema era questo irto di difficoltà innumerevoli, che non si potevano superare se non con immensa destrezza, e che non era dato risolvere se non infuggendo al pericolo di coalizione europea e di universale conflagrazione. Colla guerra d'0riente, mai dimentico della più importante delle massime di Machiavelli dividere per regnare, egli aveva raggiunto lo scopo che soprattutto sta vagli a cuore: l'amicizia delle Potenze nordiche turbata e sconnessa. Per riedere colla Francia a' desiati confini; l'Alpi ed il Reno, era d'uopo premettete lungo e sottile lavorio, gli antichi amici inimicare fra loro, annodare altre alleanze. Per giungere al Reno abbisognava prima pervenire sulle Alpi; per insediarsi su queste era necessario staccare la Prussia dall'Austria, assicurarsi che la Russia, all'epoca della guerra d'Italia, quando pure non fosse venuta ad allearsi colla Francia, sarebbe rimasta semplicemente neutrale, giusto come, all'epoca della guerra d'Oriente, occorreva accertarsi dell'alleanza od almeno della neutralità dell'Austria. Per riconquistare la sinistra sponda del Reno facea mestieri che l'Austria si trovasse nella impossibilità di accorrere in aiuto de' confederati alemanni: né questo forse potevasi altrimenti conseguire se non col concorso delle nazionalità risorgenti,

(1) Lettera di Cavour a Villamarina, del 16 febbraio 1856.

I PRIMI CONCERTI. 133

al nord lo Scandinavismo, ad oriente la Polonia, l'Ungheria, la Moldavia, la Valachia, la Servia, la Boema, il Montenegro, a mezzogiorno l'Italia; e l'Austria, avviluppata in una cerchia di fuoco, minacciassero al cuore.

A ciascuno il suo momento; dopo la Russia l'Austria, dopo l'Austria la Prussia, dopo la Prussia, solo allora, sarebbe stato possibile tentare alcun che contro l'Inghilterra. Tutta l'arte doveva consistere in far si che l'uno, nel dì del pericolo, non avesse a muovere in soccorso dell'altro. La Russia era vinta; non restava che farsela amica. Ora veniva la volta dell'Austria. La Francia abbisognava di pace, e di tempo per riparare alle conseguenze di una grande guerra; e Napoleone eziandio abbisognava di tempo lungo abbastanza per apprestarsi alla seconda gran guerra, e di un addentellato per quando avessela creduta opportuna. A questo addentellato poteva prestarsi benissimo il Congresso di Parigi.

Rispetto all'Italia, erano questi a quel tempo i primitivi suoi divisamente. Quattro o cinque Stati, confederati tra loro, sotto il protettorato della Francia, a un dipresso cosi come Napoleone I. aveva costituito il Protettorato della Confederazione del Reno. Al nord un grande Regno per Casa Savoia, comprendente gli Stati sardi di terraferma, meno la Savoia, il Ducato d'Aosta, Susa, la Contea di Nizza e Genova colla riviera di ponente, la Lombardia, la Venezia, i Ducati di Modena e di Parma, e le Legazioni. La Toscana ricostituita in Regno d'Etruria, per investirne suo cugino, il principe Napoleone Girolamo, figliuolo di Girolamo Bonaparte, già Re di Westfalia. Roma, frattanto, col rimanente degli Stati pontificii, sulle basi della lettera dell'8 agosto 1849 ad Edgardo Nev; più tardi, alla prima occasione propizia, 1? Umbria e le Marche avrebbero dovuto essere riunite all'Etruria. Il Regno di Napoli col Ducato di Benevento ed il Principato di Pontecorvo per Luciano Murat, figliuolo di Gioachino. La Sicilia a Regno indipendente, per una secondogenitura di Casa Savoia. La Savoia, il Ducato d'Aosta, Susa, la Contea di Nizza, il Principato di Monaco, Genova colla più gran parte della Liguria, la Sardegna e l'isola d Elba alla Francia, un'Italia francese in buona e debita forma.

Figli delle Alpi, i Savoiardi amavan la Francia come quelli che lingua e costumanze aveano con essa comuni, e abitavano entro uno stesso recinto di montagne.

134 CAPITOLO SETTIMO.

Intesi quali erano ad attraversare quanto mai fosse dato la via alla Francia se un di avesse voluto spingere ancora i suoi eserciti fino alle sue naturali frontiere verso l'Italia, l'alta catena delle Alpi, i vincitori avevano al Congresso di Vienna provveduto affinché, qualunque volta le Potenze vicine alla Svizzera si trovassero in istato di aperta od imminente ostilità, le truppe del Re di Sardegna dovessero ritrarsi dalle provincie dello Sciablese e del Fossignì, e da tutto il territorio savoiardo al nord di Ugine, dichiarati facienti parte della neutralità della Svizzera; e nessun'altra truppa armata di qualsiasi altra Potenza potesse attraversare né stanziare in quelle provincie e territorii, salvo quelle che la Confederazione elvetica credesse a proposito di tenervi.

Tutta la valle d'Aosta, presa in mezzo tra la Savoia e il Vallese, il Novalese, le valli dei Valdesi, quelle cedute da Luigi XIV. nel 1713 a Vittorio Amedeo di Savoia, più della metà delle valli subalpine del Piemonte alla loro origine, erano paesi francesi, necessarii alla Francia, sia per comunanza di lingua e costumi, sia per la ragion de versanti, sia per assicurare la pronta venuta in ogni tempo degli eserciti francesi, i quali potevano sboccare o dalla Savoia o dalla Provenza nel Piemonte, per le vie del Cenisio o del Monginevro. Signora degli sbocchi delle Alpi e della strada del colle di Tenda, quando si avesse aggregato il contado di Nizza, ben disse lo storico del Consolato e dell'Impero (1), come «la Francia tenga in pugno l'alta e la media Italia, e signoreggi colla sua influenza il resto della Penisola. Essa poteva inviare a Roma ed a Napoli ordini meno palesi, ma non rispettati meno che in Piemonte od in Lombardia.»

Venuta Nizza una volta in potestà della Francia, abbisognava a Napoleone III. il paese da Oneglia almeno a Rapallo. Perocché, siccome Adolfo Thiers (2) rammenta, in quello che a ragione fu detto (3) inesorabile panegirico di Napoleone e della forza, «unendo il porto di Genova e la popolazione delle Due Riviere all'Impero francese, Napoleone si regalava, dal Texèl sino al fondo del principale golfo del Mediterraneo, una stesa di coste ed una quantità di marinai,

(1)

Thiers; Histoire du Consulti et de l'Empire, Tona. IL, Livre XIII.

(2)

Thiers; Hist. du Con, et de l'Emp., Tom. III., Livre XXI.

(3)

Cantù; Storia universale, Tom. XII.,«Ep. XVIII., Parte L, cap. XI.

I PRIMI CONCERTI. 135

che poteano, col tempo e colla perseveranza, renderlo, se non eguale, almeno rispettabil emulo della» Inghilterra sul mare.»

Alla Sardegna sempre Napoleone III. aveva pensato, ben sapendo come per essa sarebbe assicurata alla Francia col predominio del Mediterraneo la soggezione perpetua dell'Italia. Date la Sardegna alla Francia, e potrà stendere una catena, come nella bocca d'una darsena, da Genova ad Algeri o a Biserta, se un giorno le venisse fatto di estendere la sua conquista all'agognato Pascialato di Tunisi. Casa Savoia, con un reame continentale aggrandito del doppio di quanto possedeva, ben avrebbe potuto cedere la Sardegna con intorno a 540,000 abitanti in iscambio della Sicilia accordata alla sua secondogenitura, con oltre 1,700,000 abitanti; come nel 1720 Vittorio Amedeo II. di Savoia aveva ceduto la Sicilia per la Sardegna e pel titolo di Re. E rispetto all'isola d'Elba, non meno che per le ricche sue miniere di ferro, l'avrebbe ambita piuttosto a maniera di rivendicazione di famiglia, siccome accordata nel 1814 al primo Napoleone.

Questo disegno di riordinamento d'Italia ritraeva nella essenza assai di que divisamenti che passarono per la mente di Bonaparte primo console sullo schiudere del 1802, e amiamo riferirlo colle parole medesime dello storico illustre (1) che ne fece più accurata menzione (2).

«Era tempo alfine,» dice adunque Thiers, «di dar sesto alle cose d'Italia, ricostituendo la Cisalpina. Talleyrand disfavoriva tale creazione. Diceva che troppe erano le figlio della Repubblica francese, né altra se ne aveva creare; onde proponeva un principato o un regno come quello d'Etruria, che si desse a un principe amico o aderente della Francia.

(1)

Thiers; Hist. du Cons. et de l'Emp., Tom. II., Livre XIII.

(2)

È bene che il lettore tenga predente come fosse in que' dì ripartita l'Italia. Il Piemonte era definitivamente aggregato alla Francia. La Repubblica Cisalpina comprendeva la Lombardia, Mantova, il Ducato di Modena e le Legazioni. L'Austria possedeva, le provincie venete sino all'Adige. Il Duca di Parma, non avendo voluto accettare il baratto proposto coll'Etruria, restò padrone del Ducato fino alla morte. Della Toscana si era già fatto il Regno d'Etruria per Lodovico di Borbone. Genova e Lucca si regolavano a repubblica indipendente. Pio VII. reggeva lo Stato pontificio,depauperato delle Legazioni. I Borboni regnavano nelle Due Sicilie.

136 CAPITOLO SETTIMO.

Una forte ragione era certamente quella di rendere più tollerabile all'Europa la grandezza della Francia, e di accrescere la stabilità della pace conchiusa. Quando la Francia aveva il Reno e le Alpi a suoi limiti: quando stavano l'Olanda, la Svizzera, la Spagna e l'Italia sotto l'immediata sua influenza; quando teneva in sua mano il Piemonte; quando era salita a tanto di grandezza, la politica più moderata era da quel giorno la migliore e la più giudiziosa. Per questa parte Talleyrand aveva ragione. Ma, dopo tutto ciò che erasi fatto, un obbligo assoluto forzava a costituire l'Italia; e poiché era stata ritolta all'Austria, si dovea pensare a torgliela irrevocabilmente; il che non poteva ottenersi se non col costituirla in maniera indipendente e forte.

Nel qual sistema era da rinunciarsi al possesso del Piemonte; perocché se gl'Italiani preferiscono i Francesi ai Tedeschi, non amano però né gli uni né gli altri per essere stranieri. È questo un sentimento naturale e legittimo da rispettarsi. Proteggendo l'Italia senza possederla, se ne acquistavano i Francesi tutta la benevolenza, e rendeano più difficile per loro quel subitaneo mutamento di animi, di cui essa diede l'esempio tante volte, dacché combattuta fra i Tedeschi e i Francesi, non avea fatto se non che cambiare di dominatore. Giusta quei di segno, non sarebbesi dovuto dar l'Etruria ad un principe spagnuolo. Riunendo allora la Lombardia, il Piemonte, i ducati di Parma e di Modena, il Mantovano, le Legazioni e la Toscana, si componeva uno stato bellissimo, che distendevasi dalle Alpi marittime fino all'Adige, e dalla Svizzera fino allo Stato romano. Bisognava unire quelle varie provincie sotto un governo federativo, nel quale fosse costituito fortemente il potere, acciò gli riuscisse agevole raunare prontamente le sue forze, e dar tempo ai Francesi di portargli soccorso. Imperocché alleanza strettissima doveva essere tra il nuovo stato e la Francia, in cui solo avrebbe sostegno; e la Francia, dal canto suo, doveva essere molto e sempre interessata a tutelarne l'esistenza.

Uno stato italiano di dieci o dodici milioni di abitanti, con le più belle frontiere, costeggiato da due mari, colla probabilità di accrescersi, alla prima guerra d'esito felice, degli Stati veneti, allargandosi sino alle naturali frontiere dell'Italia, che son le Alpi Giulie, potendo in appresso con un semplice legame federativo


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I PRIMI CONCERTI. 137

che a ciascuno lasciasse la propria indipendenza unire a se la repubblica ligure, i domini del Papa colle condizioni necessarie alla sua esistenza politica e religiosa, il Regno di Napoli; un tale stato in tal maniera costituito, e coi futuri possibili incrementi, era il principio della rigenerazione italiana, dando all'Europa una terza confederazione, che aggiunta alle due già esistenti, l'elvetica e la germanica, dovea tornare di utile immenso all'equilibrio generale.

In quanto alla difficoltà di governar bene l'Italia, potea risolversi col protettorato della Francia, che stendendosi, per tutto un regno, sovra di essa, la condurrebbe a mano nelle prime vie d'indipendenza e di libertà. Del resto, il disegno che in quel momento seguivasi, non escludeva si belle speranze, avvegnachè il Piemonte poteva un giorno restituirsi al nuovo stato italiano, e così il Ducato di Parma alla morte, non lontana forse, del Duca regnante; e la stessa Etruria gli si poteva, bisognando, riunire. Facile dunque era il tornar poi su questo disegno, e ben era gittarne un primo e largo fondamento il costituire in repubblica indipendente la Cisalpina. D'altra parte era forse buon consiglio in quel momento non palesare l'intero concetto d'una rigenerazione italiana, per non isgomentare l'Europa.

Bonaparte dava adunque alla Cisalpina tutta la Lombardia fino all'Adige, le Legazioni, il Modenese, tutto ciò insomma che aveva essa ottenuto pel Trattato di Campoformio. La Cisalpina,a quel modo costituita, era coperta nell'innanzi dalle Alpi e dall'Adige; a sinistra aveva il Piemonte, divenuto francese; a destra l'Adriatico; a tergo la Toscana che dipendeva dalla Francia; onde era cinta da ogni lato dalla francese protezione. Vaste opere militari, ordinate dal primo console con quella sua perspicacia ed esperienza de' luoghi, che niuno a tal grado mai possedette, doveano serrarne l'ingresso agli Austriaci, e darle abilità di essere sempre in tempo soccorsa dalla Francia. Perciò due piazze forti erano state scelte, e si adattavano a quel fine con gran dispendio, l'una alla sboccatura del Sempione, l'altra a quella delle tre vie del Cenisio, del Monginevro e del Colle di Tenda. Dove a questa costruirsi ad Alessandria, punto riconosciuto pel più favorevole alle grandi operazioni militari di cui l'Italia poteva esser teatro. I lavori d'Alessandria si dovettero eseguire a spese della Francia;

138 CAPITOLO SETTIMO.

tutti gli altri si condussero col danaro della Cisalpina.»

Per questo Napoleone III. avrebbe in sommo grado bramato di potere unire alla Francia il Piemonte sino alla Dora Battea, da Aosta al Po, a Casale, Valenza, Alessandria e Novi; il Piemonte che Napoleone Bonaparte, in onta alle ripetute sollecitazioni dell'Inghilterra e più particolarmente della Russia, non mai aveva voluto restituire al Re di Sardegna, né più tardi cedere al Regno d'Italia, mosso dalla ragione (1), «essere il Piemonte la più desiderevole delle provincie italiane per la Francia, come quella che gli dava abilità dello scendere a sua voglia in Italia, e di tenervi sempre un esercito; quindi il Piemonte diveniva per la Francia quello che il Milanese era stato gran tempo per l'Austria.» Ma quanto più ghiotto il boccone, tanto maggiori vedeansi le difficoltà per raggiungerlo. Ragionevol era presumere che assai di mal animo, mai forse se non per costrizione o violenza, un principe savoiardo, dopo avere ceduto Chamberv, l'antica capitale de' suoi antenati, Altacomba cogli avelli dei conti di Savoia, sarebbe venuto ad abbandonare con Superga, tomba degli avi, Torino, la città fedele a' suoi Re. Ma evidente eziandio che, se il sagrifìzio commisurassesi dal vantaggio, nulla avrebbe potuto impedire più tardi che, come dianzi, fossersi dati due per ricever otto, si concedessero quattro per ottenere sedici.

In codesta seconda ipotesi, per Torino e Alessandria ridotte a scompartimenti francesi ben potevansi smettere le idee di annessione della Sardegna e di Genova. Allora ad un Regno d'Etruria non più avrebbesi potuto pensare. La Toscana, l'Umbria, le Marche, sarebbero passate a costituire colla Liguria, col Novarese, colla Lombardia, coi Ducati di Parma e di Modena, e colle Legazioni, il Regno dell'Alta Italia; ed era questo ancora assai bello appannaggio per Casa Savoia. Milano, città di frontiera, non potendo aspirare al vanto di capitale del nuovo stato, questa si avrebbe dovuto stabilire più al centro, a Firenze. In tal caso la Sicilia verrebbe data a Napoleone Girolamo Bonaparte.

Comunque fosse, il più grande imbarazzo vedeva sempre nel Papa. Supposto pure che non gli si avessero a togliere l'Umbria

(1) Thiere; Hist. du Cotu. et de l'Emp., Tom. IL, Livre XI.

I PRIMI CONCERTI. 139

e le Marche, poteasi sperare di saper ridurre la Santa Sede ad acconciarsi di buon grado ad una seconda edizione del Trattato di Tolentino, all'accettazione pura e semplice del programma contenuto nella lettera ad Edgardo Nev? L'Europa bensì a lui s'inchinava, come ai più sfrenati elementi di sovversione bensì teneva egli stretto il bavaglio; ma quand'anche egli, sollevato al potere mercé l'appoggio e l'influenza del clero per lo meno altrettanto che per l'appoggio e l'influenza della Massoneria e dei socialisti, avesse voluto tentare sino all'estremo le sorti, era prudente, era savio, nella Francia in cui tuttora vedeva sì vivo presso la ghiande maggioranza il sentimento della cattolica fede, alienarsi l'animo dei molti per satisfare alle esigenze dei pochi? Così la mente senza volerlo riandava colla memoria le avventure di quei trentotto Pontefici che in dodici secoli vennero espulsi violentemente da Roma, e le trentotto volte che i Papi vi erano ritornati, e le ore di vittoria ingannevoli concessevi alla Repubblica del Direttorio, all'Impero del primo Bonaparte, alla Repubblica del Mazzini.

Chiaro pertanto che i vasti intendimenti sulla Penisola Napoleone HI. avrebbe voluto incarnare poco a poco; questo, anzi tutto, dipendendo dalla fortuna delle guerre coll'Austria, dall'attitudine dell'Europa, dai comportamenti dei partiti. Poi, quanto la tenacità, altrettanto è nel suo carattere la lentezza. Nel 1839, mentr'ei si chiamava Napoleone Luigi Bonaparte, ed era inteso a spiegare a suo modo le cause della caduta di Napoleone L, aveva scritto (1): «L'Imperatore è caduto perché ha compiuto troppo presto l'opera sua. Napoleone non è caduto se non perché egli volle in dieci anni d'impero compiere l'opera di molti secoli.» Poi non certamente avrebbesi potuto porre all'azzardo il tutto per circostanze di una parte; arrischiare il trono, lui figlio del caso, per darsi alquanto più di prestezza, e alcuna provincia di più o di meno alla Francia, giammai.

Sino allora egli non aveva creduto che fosse giunto il momento d'iniziare il Gabinetto di Torino a veruno de' suoi pensieri italiani. Al principio della guerra d'Oriente, allorché lo spauracchio della futura grandezza della Russia aveva sbalordita ogni mente,

(1) De idées napoléoniennes, chap. VI., pag. 154156.

140 CAPITOLO SETTIMO.

e tatti volean dar addosso allo Czar, proclamato ambiziosissimo, turbatore della pace del mondo; ' allorché, tra quelle eie? che vertigini che avean travolte le menti di principi e di popoli, l'Austria titubava fra la memoria di una lega che avea ridata al mondo la quiete, il sentimento del benefizio recente, la voce dei suoi proprii interessi molteplici, il timore di un aggrandì mento smodato, e il pericolo di una alzata d insegne rivoluzionarie e di nazionalità risorgenti; Napoleone aveva di sottomano spinto il Piemonte a fare gran strepito di minaccio all'Austria, per poi tosto ed in segreto e in palese ammonire che quel fuoco egli volea si smorzasse. Quanto più l'Austria aveva accennato a tentennare, tanto maggiormente del Piemonte s'era servito per ispaurirla col fantasma della rivoluzione. Più l'Austria stava contegnosa, più spingeva il Piemonte a minacciarla di rivolture in Italia; più l'Austria si lasciava trar dalla sua, più le prometteva soccorso contro rivolture in Italia. Un dì punzecchiava di sottecchi il Piemonte perché osasse pure; un dì dava un calcio al Piemonte perché si arretrasse. Un dì faceva aprire segrete pratiche, perché il Piemonte prendesse parte alla guerra; se avessero bisogno di danaro, egli ne avrebbe fatto dare. Un dì mandava a dire al Pie monte: la Francia aver soldati a bastanza, non contassero sul soccorso di una lira.

Condotta l'Austria a dirsi neutrale, spintala all'alleanza del 2 dicembre, astrettala, coi pugni al viso, a minacciare l'amico; spezzata la lega che aveva tenuto quarant'anni in pace l'Europa; quando l'Austria, già affatto caduta nel laccio delle orditure tramate da' suoi nemici e in suo danno, non facea più paura, né più poteva voltarsi a Russia senza evocare guerra europea, la guerra agognata dalla rivoluzione, ecco Napoleone invitare a Parigi il Re di Sardegna, che allora allora usciva di grave malattia, parlargli d'Italia, di mali da rimediare; chiamare Cavour che non aveva seguito sì tosto il suo Re, per ravvivarne con vaghe speranze la mente, eccitarlo a parlare, chiedergli progetti sulle Legazioni, lasciar cadere sibilline parole, l'Austria spaurare da capo perché rimanga legata tuttora al suo carro. L'Austria assonna, e Napoleone fa un altro voltafaccia al Piemonte; lascia Cavour, proprio quando questi credeva averlo meglio compreso, con un palmo di naso, e lo trae ad esclamare:

I PRIMI CONCERTI. 141

«Chi mai giungerà a capire quest'uomo? Egli è un milione di volte più astuto di tutti noi!»; mette alla disperazione quanti credevano poter pescare nel torbido in Italia, sinché giungessero a dirgli (1): «Se Pianori falliva il colpo, un altro può assicurarlo.»

Però vi aveano due punti intorno ai quali Cavour ormai si teneva pienamente autorizzato a credere di ben conoscerne i più riposti intendimenti: i progetti su Murat per Napoli, e la separazione totale, o quasi totale, di almeno le Legazioni dagli Stati della Santa Sede. Per questo, dei quattro punti enunciati nel Memoriale da lai rimesso, siccome si disse, all'Imperatore nel gennaio di quell'anno, il terzo ed il quarto si riferivano alle cose di Napoli e delle Romagne, certissimo essendo di toccare argomenti intorno ai quali in questo solamente potea rimanersi tuttora dubbioso, se Napoleone fosse a trovarvi, quanto all'intavolarle più apertamente, l'opportunità del momento.

Riguardo a Napoli, Luciano Murat non aveva atteso sino a que' dì per farsi innanzi a richiedere il trono. Salito ormai a' più alti gradi della Massoneria francese, che resse in qualità di Gran Maestro, egli si era messo attorno, per codesta bisogna di pretendente, quell'abruzzese Aurelio Saliceti, «uomo d'ambizione furibonda» (2), fatto professore all'Università ed indi giudice dai Borboni delle Due Sicilie; prima tra i più operosi caporani della Giovine Italia in segreto, e in palese tra i più stomachevoli strisciatori del potere sinché durò la monarchia assoluta in Napoli, sempre tra' piedi del Ministro di Polizia Del Carretto, amplissimo suo protettore; poi, il 6 marzo 1848, Ministro di giustizia di Re Ferdinando II. costituzionale, poi iniziatore di barricate a Napoli; poi compilatore della Costituzione della Repubblica romana e trìunviro in Roma: ed ora monarchico muratista. Con questo segretario il Murat aveva già stampata una lettera al giornale di Londra, il Times, in cui si proclamava apertamente aspirante al trono napoletano, senza nuocere all'unità italiana, dichiarando volersi anzi a quest'uopo collegare con Casa Savoia. Aveva bensì il Moniteur officiale dichiarato che l'Imperatore Napoleone non approvava quella lettera; ma lo si era fatto in guisa, che i ciechi

(1) Gazzetta delle Alpi, 1856, num. 47.

(2)

de' Sivo; Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Vol. I., pag. 242.

142 CAPITOLO SETTIMO.

soli poterono credere fosse altra cosa che lustre per darla a bere alla diplomazia.

Rispetto poi alle Legazioni, Cavour apprese da Villamarina come l'Imperatore de' Francesi avesse fatto buon viso ad una Memoria, ch'egli medesimo gli aveva richiesto sopra questo argomento. Cavour non ne sapeva degli affari di que' paesi più di quanto gliene era stato detto dagli amici, e aveva bisogno di un uomo che conoscesse in tutte le sue minuzie l'organizzazione del Governo pontificio. Farini gli propose Marco Minghetti, bolognese, già Ministro dei lavori pubblici nel primo Ministero laico di Pio IX. nel 1848. Minghetti la scrisse e rimise a Cavour; questi al marchese Gioachino Napoleone Pepoli, cugino di Napoleone III., essendo nato da una figlia di Gioachino Murat; ed il Pepoli direttamente nelle mani dell'Imperatore.

Il dì 25 di febbraio i plenipotenziarii al Congresso per la prima volta si adunarono in conferenza, ammessavi con piede eguale la Sardegna. Tre giorni appresso, l'Imperatore accolse Cavour "a lungo e segreto colloquio. Rinfrancato da Villamarina, il Ministro sardo abbordò risolutamente i quattro punti svolti nel suo Memoriale, toccando ad un tempo ogni altra corda che non dubitava al Sire la più gradita. Il quale, men contegnoso del consueto, lasciato intendere alcun che più. di quanto Cavour nella realtà si aspettasse, gli fé capire come anzi tutto importava ch'egli si fosse vie meglio fatto certo sino a qual punto si potesse contare sulla connivenza e sull'appoggio dell'Inghilterra (1). Il dì successivo Cavour scriveva al Ministro Rattazzi in Torino: «Ho reso conto in un Dispaccio riservato della conversazione, che ho avuto jeri coll'Imperatore. Posso assicurarla che realmente l'Imperatore avrebbe volontà di fare qualche cosa per noi.» Così, s'incominciava a trovare la base di una solida e durevole intelligenza fra Parigi e Torino; e da quei momento Cavour pili propriamente era a dirsi ornai divenuto, quello che fu sì lungamente dappoi, semplice, quantunque talora indocile, strumento nelle mani di Napoleone III.

Lo scopo del Congresso era uno solo; quello di por fine alla guerra colla Russia. Sette Potenze vi erano rappresentate:

(1) Dispaccio riservatissimo del conte di Cavour al conte Cibrario, Ministro degli affari esteri in Torino, del 28 febbraio 1856.

I PRIMI CONCERTI. 143

Austria, Francia, Gran-Bretagna, Prussia, Russia, Sardegna e Turchia. I plenipotenziarii delle due Potenze che non avevano preso parte alla guerra, Austria e Prussia, e quelli di due «delle cinque Potenze belligeranti, Russia e Turchia, non ebbero mai altri poteri che relativamente all'unico scopo del Congresso. Fino a che nelle Conferenze erasi trattato di stabilire il piano generale detta pace, il conte di Cavour conservò abilissimamente un contegno modesto e riserbato; come però fu posta innanzi la discussione sull'assetto definitivo de' Principati danubiani, ei si fece propugnatore caloroso della loro unione. Fu allora ch'egli si arrischiò di proporre per istraforo, che la sovranità dei due Principati fosse devoluta in perpetuità ai Duchi di Modena e di Parma, con che i loro Stati in Italia sarebbero venuti ad allargare il Piemonte. Ma l'Inghilterra, quella appunto che Cavour avea lusinga non gli fosse per essere affatto contraria, non pose tempo in mezzo a dichiarare che non permetterebbe neppure si parlasse di tale scambio; la Francia, il cui signore sperava insediare colà una creatura tutta sua, e tutte le altre Potenze dissero essere proposta sì fattamente irta di difficoltà insormontabili da non potersi pensare a farla davvero. Frattanto Cavour non ristava dal dipingere ai plenipotenziarii inglesi quali conseguenze sarebbero venute se nelle Conferenze non si fosse fatto udire neanco il nome d'Italia. L'Austria avrebbe dato a un tale silenzio assoluto il valore d'una sanzione legale alla propria politica riguardo alla Penisola. Il partito rivoluzionario, reso ardito dalla sconfitta diplomatica del Piemonte, prenderebbe il dominio sulle agitate popolazioni. Nell'interno stesso dello Stato piemontese l'azione moderatrice del Governo sarebbe impotente ad infrenare le avventataggini. La questione d'Oriente avere ridestate per tutta Italia speranze, e formata al Governo di Torino una situazione, che invano questo si sforzerebbe padroneggiare quel giorno in cui si vedesse ita ogni illusione in dileguo. Tutto ciò non poter condurre che ad una nuova guerra, sia che questa si accendesse per aggressione dell'Austria al Piemonte, sia che la suprema necessità della propria conservazione spingesse il Piemonte ad assalire l'Austria. «Allora, conchiudeva Cavour, Francia e Inghilterra ben sarebbero costrette ad assisterci.»

In questo mentre l'intelligenza sopra alcuni punti principali erosi stabilita tra Napoleone III. e Cavour, piena, compiuta, per

144 CAPITOLO SETTIMO.

fetta. Fu convenuto che la questione italiana sarebbe posta in campo nelle Conferenze sotto l'aspetto restrittivo di referimento a due questioni speciali, questione delle Romagne e questione napoletana; che la questione delle Romagne sarebbe più specialmente intavolata dal Piemonte, la questione napoletana dalla Francia. Questo quanto al presente. Riguardo all'avvenire: il Governo di Torino prometteva di favoreggiare con ogni suo mezzo i maneggi di Luciano Murat, cui passerebbe a suo tempo il regno di Napoli; Napoleone III. assicurava in massima la formazione,, a momento opportuno, di un grande Regno a settentrione d'Italia in favore della Casa di Savoia, verso compensi territoriali alla Francia.

Le basi di accordo siffatto, quanto al presente, Cavour poté annunziare a Torino solamente nel 24 di marzo (1); al che il Ministro Cibrario rispondeva (2): «Accuso ricevimento dei vostri dispacci num. 22 e 23, e della vostra lettera confidenziale in data del 24. Apprendo da quest'ultima tutte le difficoltà che avete dovuto superare per ottenere che il Congresso fosse intrattenuto della questione degli Stati romani, questo minimum, cui ostacoli insormontabili hanno forzato di ridurre per ora l'opera di rigenerazione in Italia. Se le grandi Potenze potessero determinarsi a portare le loro vedute al di là degl'interessi e dei timori del momento, noi non avremmo a dubitare del felice esito di queste proposte. Ma, colla premura che si è manifestata perla pace, vi ha luogo a temere che il desiderio di riposo, la tendenza ad evitare ogni soggetto di discussione coll'Austria, non facciano soprassiedere a questi progetti pure, come agli altri. Credo che sarete riescito a ben penetrare l'Imperatore del pericolo che vi avrebbe con abbandonare l'Italia al suo stato attuale, come dei motivi sì possenti per l'equilibrio d'Europa e gl'interessi medesimi della Francia, i quali consigliano di fare al Piemonte una posizione abbastanza forte da potere conservare un'attitudine indipendente rimpetto all'Austria, e contrabbilanciare la sua influenza. Si può sperare che l'Imperatore, di cui la saggezza e la tenacità sono conosciute, saprà preparare le vie per la realizzazione dei piani ch'egli si sarebbe in qualche modo appropriati.»

(1)

Dispaccio riservatissimo del conte di Cavour al Conte Cibrario, Ministro degli affari esteri in Torino, del 24 marzo 1856.

(2)

Dispaccio del conte Cibrario, Ministro degli affari esteri, al conte di Cavour in Parigi, del 26 marzo 1856.

I PRIMI CONCERTI. 145

Pertanto il 26 del marzo fu data a Cavour facoltà di rimettere, e lo fece nel dì successivo, ai primi plenipotenziarii di Francia ed Inghilterra, Walewski e Clarendon, una Nota verbale, in cai circostanziatamente esponevansi i progetti divisati intorno agli Stati pontificii; e la quale in sostanza, e pressoché alla lettera, esponeva le idee svolte nella Memoria che, come dicemmo, il marchese Pepoli aveva rimessa all'Imperatore. Le Legazioni, vi era detto, tolte al Papa nel 1797 pel Trattato di Tolentino, erangli state ridate solamente dopo la battaglia di Waterloo, nel che affermare, del resto, si cadeva in un grande scerpellone storico, dappoiché le Legazioni furono restituite alla Santa Sede pell'Articolo 103 dell'Atto finale del Congresso di Vienna, segnato il 9 giugno 1815, e la battaglia di Waterloo non avvenne che nove giorni dopo, cioè al 18 di giugno. Da quel tempo, proseguiva, l'Austria essere intervenuta tre volte per ristabilirvi l'autorità del Pontefice. La Francia al secondo intervento austriaco aver risposto coll'occupazione di Ancona, al terzo colla presa dì Roma.

L'Imperatore Napoleone III., continuava la Nota, avere perfettamente afferrata e nettamente indicata, nella sua lettera al colonnello Nev, la soluzione del problema: secolarizzazione, codice Napoleone. Essere evidente che la Corte di Roma lotterà sino all'ultimo momento contro l'esecuzione di questi due progetti. La Corte di Roma comprendere troppo bene che l'introduzione della secolarizzazione e del codice Napoleone in Roma stessa, colà ove riposa l'edifizio del suo potere temporale, lo scalzerebbe dalle fondamenta e lo farebbe crollare. Se nullameno non si può sperare d'introdurre tali riforme al centro medesimo, potersi benissimo introdurre almeno in una parte dello Stato, purché questa parte sia separata, per lo meno amministrativamente, da Roma. Per tal modo potersi formare delle Legazioni un Principato apostolico sotto l'alta dominazione del Papa, retto con leggi proprie, avente tribunali proprii, finanze a parte, armata a parte. Senza lusingarsi che simile combinazione possa durare eternamente, credere nondimeno che potrebbe bastare abbastanza lungo tempo allo scopo contemplato. E perciò la Sardegna proporre:

Le provincie dello Stato pontificio situate fra il Po, l'Adriatico e gli Appennini,

146 CAPITOLO SETTIMO.

dalla provincia di Ancona sino a quella di Ferrara, pur restando soggette all'alta dominazione della Santa Sede, sarebbero completamente secolarizzate ed organizzate sotto il rapporto amministrativo, giudiziario, militare e finanziario, in modo affatto separato ed indipendente dal resto dello Stato. I soli rapporti diplomatici e religiosi rimarrebbero esclusivamente sotto il dominio della Corte di Roma.

L'organamento territoriale ed amministrativo di questo Principato apostolico sarebbe stabilito in conformità a quanto vi esisteva sotto il regno di Napoleone I. sino all'anno 1814. Il codice Napoleone vi sarebbe promulgato, salvo le modificazioni necessarie riguardo alle relazioni fra la Chiesa e lo Stato.

Un Vicario pontificio laico governerebbe queste provincie con Ministri proprii ed un Consiglio di Stato a parte. La posizione del Vicario, nominato dal Papa, sarebbe guarentita per la durata delle sue funzioni, la quale durata dovrebbe essere di almeno dieci anni. I Ministri, i Consiglieri di Stato e tutti gl'impiegati indistintamente sarebbero nominati dal Vicario. Le provincie del Principato dovrebbero concorrere al mantenimento della Corte di Roma ed al servigio del debito pubblico attualmente esistente. Una truppa indigena sarebbe immediatamente organizzata mediante coscrizione militare. Oltre i Consigli comunali e provinciali, vi avrebbe un Consiglio generale per l'esame ed impiego del bilancio.

L'esecuzione del progetto, conchiudeva la Nota, doversi confidare ad un Alto Commissario da nominarsi dalle Potenze. Se l'occupazione straniera dovesse cessare senza che queste riforme fossero poste in esecuzione, esservi ogni motivo di ritenere prossimo il rinnovamento di torbidi e di agitazioni politiche. Non esser quindi se non con condizioni siffatte che il Governo sardo concepiva la cessazione dell'occupazione straniera, la quale avrebbe ad eseguirsi cosi: I Francesi lascierebbero Roma, gli Austriaci le Legazioni; ma le truppe francesi, rientrando in patria per la via di terra, si arresterebbero nelle provincie secolarizzate durante il tempo necessario alla formazione della nuova truppa indigena, che vi si organizzerebbe col loro concorso.

Colla lettera dell'8 agosto 1849 Luigi Napoleone apponeva tre condizioni alla continuazione del potere temporale del Papa: secolarizzazione dell'amministrazione, codice Napoleone, governo

I PRIMI CONCERTI. 147

liberale. Patimenti colla Nota verbale del 27 marzo 1856 il Re di Sardegna, per bocca de' suoi Ministri, e col consenso dell'Imperatore de' Francesi, si facea innanzi con tre condizioni: secolarizzazione dell'amministrazione, codice Napoleone, governo liberale. Nel 1849 come nel 1856 si volea che la bandiera di Francia si facesse a proteggere e mallevare l'attuazione di quelle tre condizioni, che il diritto della forza avrebbe imposto alla forza del diritto. Solamente che nel 1849 le si volevano estese a tutto lo Stato, nel 1856 sembrava si stesse paghi ad introdurle in una porzione di questo. Nel 1849 era mantenuta l'integrità dello Stato; nel 1856 si creava uno Stato nello Stato, un Principato che rispetto alla Santa Sede si sarebbe trovato in condizione analoga a quella dei Principati danubiani rispetto alla Turchia, un Principato che sarebbe concorso al mantenimento della Corte di Roma allo incirca come la Moldavia e la Valachia pagavano un tributo alla Corte di Costantinopoli, con un Vicario posto sotto l'alta dominazione del Pontefice presso a poco come gli Ospodari di Bucarest e di Jassv stavano sotto l'alta dominazione del Sultano. Niuno definì meglio la vera significanza della Nota verbale del 27 marzo, di quanto lo abbia fatto una effemeride sarda in que' dì (1): «Quella Nota, disse, è un programma di guerra al Papato temporale e spirituale.» E lo era in realtà.

Confessando, in quella Nota, che l'introduzione della secolarizzazione e del codice Napoleone nello Stato pontificio scalzarebbe dalle fondamenta e farebbe crollare l'edifizio del potere temporale del Papa, il Governo di Torino rendeva manifestissima la tristizia de' riposti suoi intendimenti: sbalzare dal trono il Pontefice. Strappata che fosse una volta al Santo Padre una parte del suo potere, nulla infatti impediva che più tardi gli si potesse pur togliere tutto il rimanente. Sicché poco più tardi, il 6 di maggio, Angelo Brofferio disse, e questa era logica, alla Camera dei Deputati in Torino (2): «Vorrebbero secolarizzato il governo pontificio nelle Legazioni? E perché nelle Legazioni soltanto, e non in tutto il Romano Stato?»

Per verità, il perché lo aveva già detto Napoleone I., mentre ancor era il generale Bonaparte.

(1) La Maga, num. 59, del 15 maggio 1856.

(2) Atti Ufficiali del Parlamento, num. 255, pag. 956.

148 CAPITOLO SETTIMO.

La Repubblica francese, surta dall'empietà, non certamente nel Sommo Pontefice pensava di trovarsi un amico. Il Direttorio pertanto scriveva a Bonaparte in Italia il 3 di febbraio del 1797, che: «riflettendo su tutti gli ostacoli, che si opponevano al consolidamento della Costituzione francese, pareagli che il culto romano fosse quello, di cui gli inimici della libertà potevano fare dopo lungo tempo l'uso più dannoso. La religione romana sarebbe sempre stata nemica irreconciliabile della Repubblica. Il Governo avrebbe cercato i mezzi di diminuirne insensibilmente l'influenza nell'interno; ma un punto essenziale per giungere a questo scopo desiderato, sarebbe stato di distruggere, essendo possibile, il centro dell'unità romana. Spettare a lui di farlo, se lo giudicasse eseguibile. Invitarlo dunque a fare quanto potesse (senza compromettere la sicurezza dell'esercito, e senza accendere in Italia la fiaccola del fanatismo, invece di estinguerla per distruggere il Governo papale. Si mettesse quindi Roma sotto di un'altra Potenza, oppure si stabilisse una forma d'interno reggimento, che rendesse dispregevole ed odioso il Governo dei preti, di modo che il Papa ed il Sacro Collegio non potessero più concepire la speranza di risiedere in quella città, e fossero costretti di andare in cerca d'un asilo in altro luogo (1).»

Bonaparte colse nel segno, o rispose il 15 di febbraio al Direttorio: «Accorderebbe la pace al Papa se cedeva le Legazioni e le Marche, pagava 18 milioni di lire, scacciava Colli con tutti gli Austriaci, e consegnava le armi ed i cavalli dei reggimenti formati dopo l'armistizio. Roma poi, non potendo sussistere per lungo tempo spogliata delle sue migliori provincie, avrebbe formato una rivoluzione da so sola (2)». Ma, giunto avviso che l'Arciduca Carlo era a Trieste, e gli Austriaci accorrevano da ogni parte a rinforzare l'armata d'Italia, Bonaparte modifica il suo primitivo disegno, cessa dal chiedere le Marche, e scrive a Joubert, che comandava nella Valle dell'Adige: «essere a tre giornate da Roma, trattare però co' pretazzuoli; il Santo Padre avrebbe per allora salvato la sua capitale, cedendo i suoi migliori Stati e denaro.

(1) Correspondance de Napoléon L, publiée par ordre de Napoléon HI.;Tome II., pag. 518.

(2) Correspondance de Napoléon, Tome IL. pag. 540-543.

I PRIMI CONCERTI. 149

Fra pochi giorni ritornerebbe all'esercito, dove» stimava necessaria la sua presenza (1)».

Segnato nel 19 febbraio il Trattato di Tolentino, immediatamente dopo Bonaparte scrisse al Direttorio, il I.° ventoso anno V. «Io credo che Roma, privata che sia una volta di Bologna, Ferrara e delle Romagne, e di trenta milioni, che noi le caviamo, non possa più esistere; questa vecchia macchina si sfascerà da se stessa.» Le parole di Bonaparte al Direttorio ben chiariscono l'idea di coloro che nel 1856 volevano formare delle Legazioni un Principato a parte, sotto l'alta dominazione nominale, per allora, della Santa Sede. La totale esautorazione del Pontefice da ogni governo temporale sarebbe venuta più tardi.

Rispetto alla secolarizzazione degli Stati della Chiesa in particolare, un memorabile Rapporto ufficiale, indirizzato da Roma, il 14 maggio 1856, al Gabinetto delle Tuilerie dal conte di Rayneval, rappresentante di Francia presso la Santa Sede, il quale era stato interrogato segretamente in proposito dall'Imperatore Napoleone, attesta che nel 1856 nelle diciotto provincie pontificie il numero degli ecclesiastici impiegati dal Governo non eccedeva il numero di quindici. «Uno per provincia, dice questo Rapporto, e tre provincie non ne aveano alcuno. Erano Delegati, o come noi diciamo, Prefetti. I tribunali, i Consigli, ed in una parola gl'impieghi d'ogni sorta, erano coperti da laici, che ascendevano fino al numero di 2933, cioè 2313 per le funzioni civili e 620 per le giudiziarie. Nella somma totale gli ecclesiastici impiegati nell'interno dello Stato arrivavano a 98, i laici a 5059.» Diffalcando i funzionarii dei tribunali superiori della capitale, in mezzo ai quali qualcuno, come il Tribunale del Vescovo, non ha che una giurisdizione esclusivamente ecclesiastica, il numero degli ecclesiastici impiegati, in tutti quanti rami dell'amministrazione dello Stato, non oltrepassava il numero di 36.»

Dopo gli avvenimenti del 1849, dopo la lettera al colonnello Nev, quand'egli, ancora Presidente della Repubblica, parlò alla Francia nel suo secondo Messaggio del 12 novembre 1850, Luigi Napoleone avea detto:

(1) Correspendance de Napoleoni, Tome II., pag. 544.

150 CAPITOLO SETTIMO.

«Dopo il mio ultimo Messaggio, la nostra politica esterna ha ottenuto in Italia un grande successo. Le nostre armi hanno rovesciata a Roma quella turbolenta demagogia, che in tutta la penisola italiana aveva compromessa la causa della vera libertà, e i prodi nostri soldati hanno avuto l'insigne onore di rimettere Pio IX. sul trono di S. Pietro. Lo spirito di partito non riuscirà ad oscurare questo fatto memorabile, che sarà una pagina gloriosa per la Francia. Lo scopo Costante dei nostri sforzi fu d'incoraggiare le intenzioni liberali e filantropiche del Santo Padre. Il potere pontificio prosegue a mettere in atto le promesse contenute nel Motuproprio del mese di novembre 1849. Delle leggi organiche, alcune furono già pubblicate;e quelle, che devono completare l'insieme della organizzazione amministrativa e militare degli Stati della Chiesa, non tarderanno ad esserlo. Giova l'asserire che il nostro esercito, necessario ancora al mantenimento dell'ordine a Roma, lo è altresì alla politica nostra influenza». Dopo codeste parole, che parean quasi rivelare l'uomo soddisfo, immemore di quanto aveva scritto a Nev, era venuto il silenzio, un silenzio di sei anni.

In un libro, in cui lo spirito di parte abbevera di fiele la storia, odii sfrenati velano l'equità, la violenza della passione ottenebra l'intelletto, e pagine improntate di un'ammirabile verità, illuminate dai più splendidi sprazzi di luce, annegano in un mare d'immoderanze, di esagerazioni, d'ingiurie, di bassezze, di trivialità, uno de più potenti ingegni di Francia, lasciò scritto (1): «II gran talento di Luigi Napoleone è il silenzio. Fare il morto, è questa la sua arte. Egli resta muto ed immobile, guardando da un'altra parte, finché l'ora sia suonata. Allora egli gira la testa, e piomba sulla sua preda. La sua politica vi comparisce improvvisamente al momento inaspettato, con la pistola in pugno. Ma sino allora nessun movimento che possa svelarla. Vi fu un momento, nei tre anni della sua presidenza, in cui lo si vide di fronte a Changarnier, il quale pure meditava un'intrapresa. Ibant obscuri, come diceva Virgilio. Presso l'uno e presso l'altro lo stesso contegno misterioso, la stessa tattica d'immobilità. Bonaparte non profferiva un motto, Changarnier non faceva un gesto; l'uno non si moveva, l'altro non respirava. Entrambi sembravano giocare a chi farebbe meglio la statua.

(1) Victor Hugo; Napoléon le petit, Livre I,, chap. VI., pag. 2325.

I PRIMI CONCERTI. 151

Intanto, Luigi Bonaparte rompe qualche volta quel silenzio..... Annunzia un'intenzione onesta? Badate. Afferma?......... Diffidate.......... Annunziare un'enormità di cui il mondo si commuove, sconfessarla con indignazione, e poi, nel momento in cui si è sicuri e si ride dell'enormità in questione, eseguirla. Così egli ha fatto per il Colpo di Stato, così pei Decreti di proscrizione, così per la spogliazione dei principi d'Orléans, così farà per l'invasione del Belgio e della Svizzera, e per il resto. È questo il suo modo di procedere; pensatene ciò che vorrete, egli se ne serve, lo trova ottimo, ciò lo riguarda.

» Se si forma parte della sua intima conversazione, lascia travedere un progetto, che sembra, non immorale, ma stolto e pericoloso, pericoloso per lui medesimo. Si elevano obbiezioni; egli ascolta, non risponde, cede qualche volta per due o tre giorni, poscia riprende la sua idea e fa la sua volontà. Egli tiene nel suo gabinetto un tavolo con un tiratoio sovente semiaperto. Ne cava una carta, la legge ad un Ministro; è un decreto. Il Ministro approva, o resiste. Se resiste, Bonaparte gitta la carta nel tiratoio dove trovansi molte altre carte, sogni di uomo onnipotente, chiude quel tiratoio, ne prende la chiave, ed esce senza dir motto. Il Ministro saluta e si ritira, soddisfatto della deferenza. L'indomani il decreto si legge nel Moniteur, qualche volta con la firma del Ministro.

» Grazie a questo modo di agire, egli ottiene sempre il suo scopo, mercé la sorpresa.»

Non mai Napoleone III., infatti, smette per intero un idea a lungo accarezzata. In quel torno chi s'aspettava da lui un ritorno serio alla lettera ad Edgardo Nev? Solamente, il 1856 non comprendendo fra' suoi di il giorno in cui fosse dato vestirla di forma e di corpo, ei voleva il baleno che precede la folgore, non la folgore stessa; ei voleva che, agli occhi dell'Europa, il baleno apparisse dal lato del Moncenisio, non da quello delle alture di Montmartre. Vedemmo che per un momento egli si era lusingato colla speranza di abbagliare con un altro mezzo le menti, ed era di far che il Pontefice per poco scendesse dal suo trono, e si conducesse in Parigi per compiere la sua incoronazione, tenendo ad un tempo al sacro fonte il figliuolo, che gli nasceva in que' dì. E questo successo considerava come una gran vittoria, che nulla più gli lasciava a desiderare in quanto a legittimità.

152

CAPITOLO OTTAVO.

La questione italiana al Congresso

II Ministro Walewski nell'8 aprile alle Conferenze, - Questione romana e questione napoletana. - Lord Clarendon. - Un triplice sentimento, di fanatismo, d'ignoranza, di riconoscenza. - Le minacce d'un irritabile. - Un Re inclemente. - Gli ultimi spedienti. -

Guerra a morte, guerra a coltello.

- L'Imperatore de' Francesi sembra volgere alla guerra. - Nota sarda del 16 aprile 1856. - II Congresso è sciolto. - Cavour a Londra. -

Più tardi, vedrò.

-

Beaucoup trop.

- La fiaccola della guerra sotto il pretesto della pace. - Interpellanze di maggio alla Camera de' Deputati in Torino. - Una semenza di denti di drago. - Sedativi di Walewski e Clarendon a Cavour. - Terzo calmante amministrato da lord Palmerston. - 11

Morning Posi

del 25 maggio 1856. -

Giano mercante e traditore.

Le Conferenze s'avvicinavano al loro termine, già segnato il Trattato di pace nel dì 30 marzo. Napoleone III. aveva ordinato al Walewski che la firma vi si dovesse apporre in quel giorno, anniversario della presa di Parigi nel 1814, quasi a rammentare ai tre alleati di un tempo quanto grande fosse il divario dal di in cui, in quella medesima città, avean essi coronato il loro trionfo sul primo Napoleone. Stavano i plenipotenziarii, in attesa delle ratifiche de i Sovrani, occupati a discutere sui blocchi, sugli armistizii ed altre questioni accessorie di secondaria importanza, allorché l'Imperatore de' Francesi al suo Ministro sopra gli affari esterni ingiunse di trarre in campo la questione italiana nella ventesima seconda sessione del Congresso, addì 8 di aprile.

Il conte Walewski incominciò con esporre il desiderio «che i plenipotenziarii, prima di separarsi, scambiassero le loro idee sopra differenti argomenti, che abbisognavano di soluzione, e di cui potrebbe essere utile occuparsi onde prevenire nuove complicazioni.» Avvertì che, «quantunque riunito per regolare la questione d'Oriente, il Congresso potrebbe rimproverare a sé stesso di non aver approfittato della circostanza, che poneva in presenza i rappresentanti delle principali Potenze d'Europa, per ischiarire certe questioni, stabilire certi principii, esprimere intenzioni, fare infine certe dichiarazioni, sempre ed unicamente nello scopo di assicurare per l'avvenire il riposo del mondo,


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LA QUESTIONE ITALIANA AL CONGRESSO. 153

dissipando, prima che fossero divenute minacciose, le nubi, che tuttora si vedevano spuntare sull'orizzonte politico.

Non si potrà disconvenire,continuava,«che la Grecia non sia in una situazione anormale. La Francia e l'Inghilterra si trovarono obbligate ad inviare delle truppe al Pireo. Il Congresso non ignora che lo stato, in cui la Grecia trovasi oggidì, lontano dall'essere soddisfacente. Non sarebb'egli quindi utile che le Potenze rappresentate al Congresso manifestassero il desiderio di vedere le tre Corti protettrici prendere in matura considerazione la situazione deplorabile del Regno, ch'esse hanno creato, avvisando ai mezzi di provvedervi?

Egualmente gli Stati pontificii, diss'egli, «sono in una situazione anormale. La necessità di non abbandonare il paese in preda all'anarchia ha determinato la Francia, come anche l'Austria, ad acconsentire alla domanda della Santa Sede, facendo occupare Roma dalle sue truppe, nell'atto che le truppe austriache occupavano le Legazioni. La Francia aveva un doppio motivo di deferire senza esitanza alla richiesta della Santa Sede,come Potenza cattolica e come Potenza europea. Il titolo di figlio primogenito della Chiesa, di cui si gloria il Sovrano della Francia, fa un dovere all'Imperatore di prestare aiuto e sostegno al Sommo Pontefice. La tranquillità dello Stato Romano, e quella di tutta l'Italia, toccano troppo da vicino il mantenimento dell'ordine sociale in Europa, perché la Francia non abbia un interesse maggiore ad assicurarla con tutti i mezzi che sono in suo potere. Ma, d'altro canto, non si potrebbe disconoscere ciò che vi ha di anormale nella situazione d'una Potenza,che per mantenersi ha bisogno d'essere sostenuta da truppe straniere.» Essere a desiderare, per l'equilibrio europeo, che il Governo romano si consolidi abbastanza fortemente perché le truppe francesi ed austriache possano sgombrare, senza inconveniente per la tranquillità interna del paese e l'autorità del Governo pontificio, gli Stati della Santa Sede; e doversi credere che un voto, espresso in questo senso, potrebbe non essere senza utilità. Non dubitarsi, in ogni caso, che le assicurazioni, che fossero date dalla Francia e dall'Austria circa le loro vere intenzioni a questo riguardo, non esercitassero una favorevole influenza.

Poi il conte Walewski domandava a sé stesso se non era da

154 CAPITOLO OTTAVO.

augurare che certi Governi della penisola italiana, con atti ben intesi di clemenza, e chiamando a sé gli spiriti traviati e non pervertiti, ponessero termine ad un sistema in contraddizione col proprio scopo, ed il quale, anziché colpire i nemici dell'ordine pubblico, tendeva piuttosto ad indebolire i Governi ed a rinforzale la demagogia. Renderebbesi, secondo la sua opinione, un segnalato servigio al Governo delle Due Sicilie, non che alla causa dell'ordine nella penisola italiana, illuminando il Governo sulla via in cui s'è posto. Pensava che avvertimenti, concepiti in questo senso e provenienti dalle Potenze rappresentate al Congresso, sarebbero tanto meglio accolti dal Governo napoletano, in quanto che questo non potrebbe mettere in dubbio i motivi che li avrebbero dettati. E chiudeva, parlando delle condizioni della stampa nel Belgio, colle parole, che tanto bene si poteano applicare ad alcun atto indirizzato da Parigi a Roma: «Le rimostranze al più debole, dirette dal più forte, rassomigliano troppo alla minaccia; ed è ciò che noi vogliamo evitare.»

La Francia adunque metteva sul tappeto due questioni, la questione romana e la questione napoletana, allo scopo enunciato «di prevenire nuove complicazioni, dissipando, prima che fossero divenute minacciose, le nubi che si vedeano spuntare sull'orizzonte.» Riguardo alla questione romana, si dichiarava che gli Stati della Santa Sede si trovavano in una condizione anormale, e potersi credere che un voto espresso dal Congresso, che le troppe francesi ed austriache possano abbandonare quegli Stati senza lasciarsi addietro inconvenienti, fosse per essere utile a consolidare abbastanza fortemente il Governo pontificio. Però nessuna proposta concreta, valevole a conseguire lo scopo contemplato dal voto da esprimersi, fu posta innanzi. Della Nota verbale sarda del 27 marzo, dei progetti in essa contenuti, nemmeno una parola.

Fu detto come a quel punto l'Imperatore dei Francesi volesse unicamente stabilire un precedente acconcio a tenere aperte le questioni pel momento opportuno, e non più. Laonde, per sedare alquanto le apprensioni delle Potenze cattoliche, comandò al Ministro "Walewski di non mai, per quanto il conte Cavour ne lo ricercasse, riconoscere in verun modo il ricevimento della Nota rimessagli dai plenipotenziarii sardi (1), ciò che in diplomazia equivale

(1) Debrauz, Le Traité de Paix du 90 mars, Chap. XI., pag. 298.

LA QUESTIONE ITALIANA AL CONGRESSO. 155

ad una assolata riprovazione del contenuto del documento ricevuto; per questo quella Nota verbale neppure è accennata nel Protocollo ventesimo secondo, né figura tra gli Atti ufficiali del Congresso. Quanto alla questione napoletana, si proponeva un consiglio di clemenza.

Nella discussione, che tenne dietro alle parole di Walewski, il conte di Clarendon, primo plenipotenziario inglese, ribadendo il discorso del Ministro francese, si fece ad insinuare, senza menzionare neppur egli la Nota sarda del 27 marzo, e siccome problema che a suo dire era urgente di risolvere, la secolarizzazione del Governo pontificio; la quale riforma, pure ammettendo che avrebbe presentato forse a Roma stessa, in quel momento, certe difficoltà, egli pensava che facilmente potrebbe compiersi nelle Legazioni. «Costituendo in quella parte degli Stati romani, diss'egli,un reggimento amministrativo e giudiziario laico, ed in un separato, ed ordinandovi una forza armata nazionale, si può sperare che la sicurezza e la confidenza vi si ristabilirebbero rapidamente, e le truppe austriache potrebbero ritirarsi fra poco,senza che si avesse a temere il ritorno di nuove agitazioni. La è per lo meno una esperienza che, secondo lui, si dovrebbe tentare, e questo rimedio, offerto a mali incontestabili, dovrebbe essere sottoposto dal Congresso alla seria considerazione del Papa.»

Lord Clarendon, così parlando, obbediva ad un triplice sentimento, di fanatismo, d'ignoranza, di riconoscenza. Rappresentante di un Governo acattolico, anglicano egli medesimo, benché abbastanza tollerante nelle sue massime religiose, di che la di lui condotta in Irlanda aveva fatto fede in più occasioni, egli si risentiva di que' pregiudizii contro il Papato, nei quali era stato allevato dalla più tenera età, di quell'odio succhiato col latte per cui ogni traversia, che incolga il Pontificato Romano, è argomento di esultanza per la Chiesa d'Inghilterra. Volgeva allora allora il triennio dacché Pio IX. aveva ristabilito in Inghilterra la cattolica gerarchia ecclesiastica; e se la necessità della guerra d'Oriente aveva posto il Governo inglese, per cagione dell'assoluto bisogno dell'alleanza colla Francia e del concorso delle armi dei cattolici irlandesi, nella impossibilità di tartassare con nuove persecuzioni i cattolici, non per questo quel Governo meno in cuor suo ribolliva di acerbe ire verso la Santa Sede.

156 CAPITOLO OTTAVO.

Posto dalle circostanze in istato di attignere ogni sua informazione intorno alle cose d'Italia sempre alle stesse fonti e sempre a fonti di una medesima derivazione, egli mostrava di credere che l'agitazione rivoluzionaria che serpeggiava o si diceva serpeggiasse nello Stato pontificio, fosse necessaria conseguenza di malgoverno; mentre sino da quando le Potenze rappresentate al Congresso di Vienna, non di certo istrutte dei veri disegni dei Carbonari, unici autori delle sommosse, così nelle Legazioni, corno a Napoli ed a Torino, avevano ridato al Papa le Romagne, le società secreto avevano eletto appunto le Legazioni a principale campo della loro operosità. E se realmente malgoverno vi avea, l'agitazione rivoluzionaria poteva benissimo esserne non già l'effetto, ma bensì la causa. Tratto in errore sulla genesi del male, lord Clarendon doveva cadere necessariamente in errore anche sui mezzi di rimediarvi.

Facendo poi suo il pensiero di secolarizzare le Legazioni, messo innanzi nella Nota sarda del 27 marzo, il primo plenipotenziario inglese pagava l'obbligo di riconoscenza della Gran Bretagna pel soccorso prestatole dal Piemonte in Crimea, nel tempo stesso che cementava la politica inaugurata dal Gabinetto di Londra rispetto al Regno sabaudo. Da tempo la tendenza ostile alla Chiesa, delle idee della rivoluzione italiana capeggiata dal Governo di Torino, era più che abbastanza palese. In quella tendenza aveva avuto parte l'Inghilterra, la quale non mai aveva cessato di più o meno fomentare di sottomano la rivoluzione nella Penisola. Le strette relazioni del Governo inglese col Piemonte non erano un segreto per alcuno. Così il Governo britannico pagava eziandio l'obbligo di riconoscenza, che professava verso il Governo sardo per la efficace volonterosità con cui avea dato mano a cooperare alla creazione di un partito anglo-piemontese.

Fu in quella medesima ventesima seconda sessione, che, divenuta acre e tempestosa la discussione, lord Clarendon, diplomatico cortese, ma carattere irritabile, interpellato vivamente il conte Buoi, plenipotenziario austriaco, sulle intenzioni del Gabinetto di Vienna per rapporto all'Italia, alla risposta avutane in modo da togliergli ogni speranza che l'Austria fosse disposta ad entrare in linea su quel terreno, replicò con gran fuoco (1):

(1) Dispaccio riservatissimo del cav. Nerli, Ministro di Toscana presso la Corte delle Tuilerie, al Ministro degli affari esteri a Firenze, del 15 aprile 1856.

LA QUESTIONE ITALIANA AL CONGRESSO. 157

«Se vostra intenzione è realmente di non fare alcuna promessaci non prendere alcun impegno riguardo all'Italia, ciò sarebbe gettare il guanto all'Europa liberale, che potrebbe più tardi raccoglierlo.» Questa questione sarebbe allora decisa con mezzi più energici e più vigorosi. È un grande errore il credere che le nostre forze siano esaurite.» Né queste parole, né altre non meno gravi e violente, pronunziate nella procellosa Conferenza dell'8 aprile si incontrano nel vigesimosecondo Protocollo, intorno al quale il conte Walewski si adoperò lungamente affinchè negli Atti ufficiali del Congresso non avesse a rimanere traccia degli angoli, degli spigoli, delle invettive, dei risentimenti di quella seduta.

Chiuse la discussione il conte Walewski, felicitandosi di avere impegnati i plenipotenziarii a comunicarsi le loro idee sulle questioni che vennero discusse. «Aveva in animo,disse, che si sarebbe potuto, forse utilmente, pronunziarsi in modo più completo sovra alcuni punti, sui quali si fermò l'attenzione del Congresso. Ma tal quale, lo scambio delle idee, che si effettuò,non è privo d'utilità. Ne emerge in fatto, che i plenipotenziarii dell'Austria si associarono al voto, espresso dai plenipotenziarii della Francia, di vedere gli Stati pontificii sgombri dalle truppe francesi ed austriache, appena si potrà fare senza inconvenienti per la tranquillità del paese e la consolidazione dell'autorità della Santa Sede; e che la maggior parte dei plenipotenziarii non negarono l'efficacia che avrebbero misure di clemenza abbracciate in modo opportuno dai Governi della penisola italiana, e soprattutto da quello delle Due Sicilie.»

Quanto a queste misure di clemenza, che i più dei plenipotenziarii mostrarono di desiderare dal Re Ferdinando II., si poteva ricordare che, se i delitti politici non mancarono, non mancò nemmeno la clemenza del Sovrano. Dal 1851 al 1854 il Re fé' grazia a 2,713. Delle quarantadue pene capitali, cifra totale delle condanne a morte pronunziate dalle grandi Corti, Ferdinando II. ne commutò diecinove nell'ergastolo, undici a trent'anni di ferri, e dodici ad altre pene minori. Per lo che, conchiudeva Cantalupo (1): «in Napoli verificavasi un fatto unico in tutta Europa, quello cioè

(1) Sul progresso morale delle popolazioni napoletane. Napoli 1856.

158 CAPITOLO OTTAVO.

di non esservi stata esecuzione capitale per reati politici; ed altri poté dire a lord Palmerston (1): «Sapete voi che nelle Sicilie non è conosciuta punto la misura speditiva della deportazione, né Botany-Bay, né Lamhessa, né Caienna, né altre tombe simili di sventurati viventi? Dal 1830 al 1854, dacché regnava Ferdinando II., si erano distinti sempre i reati politici semplici dai reati politici misti. Egli aveva costantemente voluto che non si versasse il sangue umano per motivi di lesa maestà, quando questi reati, come nella causa di Rossaroll e complici, ed in altre di simil natura, non erano misti a reati di scorrerie armate, di omicidii o di altri delitti comuni. Rispetto a reati comuni il Re di Napoli dal 1851 al 1854 aveva fatte 7,181 grazie, che sommate colle grazie pei reati politici danno un totale di 9,894 grazie regie. Ma, come scriveva un napoletano in quel torno (1), «quelli delle Due Sicilie hanno un torto, di cui lor tocca ogni giorno soffrirei tristi risultati, quello di non manifestare coi mezzi della pubblicità quanto di bene presso di loro si opera.»

Nell'uscire da quella Conferenza il conte di Cavour disse a lord Clarendon: Milord, ella vede che dalla diplomazia nulla vi ha da sperare; laonde sarebbe tempo di mettere in pratica altri mezzi, almeno per quanto riflette il Re di Napoli. - Certamente bisogna occuparsi di Napoli, rispose l'inglese. - Cavour lo lasciò dicendogli: Verrò a parlarne seco. - Vi andò infatti nel mattino dell'11 aprile, a portar legna al fuoco. Gli disse (3): «Da ciò che è passato nel Congresso risultano per il Piemonte conseguenze eccessivamente funeste. In presenza dell'irritazione de' partiti da un lato, e dell'Austria dall'altro, non vi sono che due partiti a prendere: o riconciliarsi coll'Austria e col Papa, o prepararsi a dichiarare la guerra all'Austria in un avvenire poco lontano. Se il primo partito fosse preferibile, io dovrei, al mio ritorno a Torino, consigliare il Re di chiamare al potere gli amici dell'Austria e del Papa. Se al contrario la seconda ipotesi è la migliore, i miei amici ed io non avremmo punto timore di prepararci ad una guerra terribile,

(1) Question italienne. - A Mylord Palmerston et Whigs premier mentente. - Des Siciles. - Agosto 1856.

(2)

Benedetto Cantalupo, Sul progresso morale delle popolazioni napoletane, pag. 30.

(3)

Lettera di Cavour al Ministro Rattazzi, del 12 aprile 1856.

LA QUESTIONE ITALIANA AL CONGRESSO. 159

ad una guerra a morte, the war to te knife la guerra a coltello. - Senza dar segno di stupore o di disapprovazione, il Ministro inglese rispose: Credo che abbiate ragione; la vostra posizione diventa ben difficile. Capisco che uno scoppio diviene inevitabile; soltanto non è peranco venuto il momento di parlarne a voce alta. - Penso, soggiunse Cavour, che in politica bisogna essere eccessivamente riservati in parole, ed eccessivamente decisi nelle azioni. Ora vi sono delle posizioni nelle quali havvi meno pericolo in un partito audace, che in un eccesso di prudenza. Con La Marmora io sono persuaso che noi siamo in istato di principiare la guerra, e per poco ch'essa duri, voi sarete ben forzati ad aiutarci..- Certamente sì, replicò Clarendon, se vi trovaste in imbarazzo, potete contare sopra di noi, e vedrete con quale energia noi verremo in vostro aiuto.»

Un giorno appresso a questo colloquio, lord Clarendon, conversando coll'Imperatore, dissegli con tutta franchezza che il Piemonte poteva essere strascinato a dichiarare la guerra all'Austria, e che in tal caso sarebbe stato una necessità l'assumere le sue parti. Napoleone erasi mostrato colpito a queste parole, e rimasto alquanto sopra sè stesso, aveva esternato la volontà di conferire col conte di Cavour. Il quale, recatosi alle Tuilerie, tenne all'Imperatore un linguaggio analogo a quello di cui s'era servito con Clarendon, solo un po' meno vibrato. Napoleone ascoltò, poi disse che sperava ne' miti consigli dell'Austria, da cui aveva ricevuta in que' di una protesta di affezione, della quale parea soddisfatto; e ripetè che se ne varrebbe per ottenere concessioni da questa Potenza. Cavour si dimostrò incredulo, ed insistette sulla necessità di assumere un contegno deciso, e per cominciare gli disse avere preparata una protesta che avrebbe data il domani al conte Walewski. L'Imperatore parve esitare molto; finì con dire: «Andate a Londra, intendetevi bene con Palmerston, e al vostro ritorno tornate a vedermi» (1).

La protesta, annunziata all'Imperatore, venne infatti consegnata, sotto forma di Nota verbale, il 16 aprile, dal conte di Cavour ai Ministri Walewski e Clarendon. In essa, deplorato come,

(1) Dispaccio del conte di Cavour al Ministro Rattazzi in Torino, del 11 aprile 1856.

160 CAPITOLO OTTAVO.

malgrado il buon volere dell'Inghilterra e della Francia, fosse 'abortita la speranza di vedere la questione italiana presa in seria considerazione nel seno del Congresso, si faceva la più triste pittura delle condizioni d'Italia, e ogni fatta accuse ed invettive lanciavansi all'indirizzo dell'Austria.

Allorché gl'Italiani, vi era detto, conosceranno il risultato negativo del Congresso di Parigi, non è dubbio che l'irritazione assopita si ridesterà fra essi più violenta che mai. Convinti di non aver più nulla ad attendersi dalla diplomazia e dagli sforzi delle Potenze che s'interessarono alla lor sorte, si getteranno con un ardore meridionale nei ranghi del partito rivoluzionario e sovversivo, e l'Italia ritornerà un focolare ardente di cospirazioni e di disordini, che sarà forse compresso mediante un raddoppiamento di rigore, ma che la minima commozione europea farà scoppiare nella pili violenta maniera.

Lo svegliarsi delle passioni rivoluzionarie in tutti i paesi contermini al Piemonte espone questo a pericoli d'una eccessiva gravita. Un più grande pericolo ancora per la Sardegna è la conseguenza dei mezzi che l'Austria impiega per comprimere il fermento rivoluzionario in Italia. Turbato all'interno dall'azione delle passioni rivoluzionarie, minacciato dalla estensione di potenza dell'Austria, il Governo del Re di Sardegna può da un istante all'altro essere da una inevitabile necessità costretto ad adottare misure estreme delle quali è impossibile calcolare le conseguenze. I sottoscritti plenipotenziarii di Sua Maestà il Re di Sardegna non dubitano punto che un tale stato di cose non ecciti la sollecitudine dei Governi d'Inghilterra e di Francia, non solamente in causa dell'amicizia e della simpatia che queste Potenze professano per il Sovrano che, solo fra tutti, nel momento in cui il successo era il più incerto, s'è dichiarato apertamente in loro favore, ma sopra tutto perché esso costituisce un vero pericolo per l'Europa.

Se la Sardegna soccombesse esausta di forze, abbandonata da' suoi alleati, se essa pure fosse costretta di subire la domi nazione austriaca, allora la conquista dell'Italia da parte di questa Potenza sarebbe completa. E l'Austria, dopo avere ottenuto,senza che ciò le costasse il minimo sacrificio, l'immenso benefizio della libertà della navigazione del Danubio e della neutralizzazione del Mar Nero, acquisterebbe una influenza preponderante in Occidente.

LA QUESTIONE ITALIANA AL CONGRESSO. 161

Ciò è quello che la Francia e l'Inghilterra non saprebbero volere, ciò è quello ch'esse non permetteranno giammai. Così i sottoscritti sono convinti che i Gabinetti di Londra e di Parigi, prendendo in seria considerazione lo stato dell'Italia, avviseranno di concerto colla Sardegna ai mezzi di apportarvi un rimedio efficace.»

Quello stesso giorno, 16 aprile, i plenipotenziarii si erano adunati per l'ultima volta; impossibile quindi che di cose italiane più si facesse parola nel seno delle Conferenze. Come della prima Nota del 27 marzo, di questa seconda eziandio il Governo francese non mai volle riconoscere, comunque fosse, il ricevimento. Ma intanto, e perché le contraddizioni non avessero a mancare sino all'ultimo, il Congresso di Parigi, che dovea provvedere unicamente a tutelare l'indipendenza della Turchia, era finito improvvisamente, senza provocazione e senza l'ombra d'un legame qualsiasi tra la guerra colla Russia e le idee italiane della Sardegna, con una dichiarazione contraria all'indipendenza del Papa e del Re di Napoli.

Il conte di Cavour era fermo in credere che l'Inghilterra, alquanto imbronciata per essere stata presa a rimorchio dalla Francia nella conchiusione della pace colla Russia, avrebbe veduto con piacere sorgere l'opportunità di una guerra. «Perché adunque,scriveva egli da Parigi (1), non approfittare di queste disposizioni, e tentare uno sforzo supremo per compiere i destini della Casa di Savoia? Come però si tratta di questione di vita o di morte, è necessario di camminare molto cauti. Egli è per ciò che credo opportuno di andare a Londra a parlare con Palmerston e gli altri capi del Governo. Se questi dividono il modo di vedere di Clarendon, bisogna prepararsi segretamente, fare l'imprestito di trenta milioni, ed al ritorno di La Marmont dare all'Austria un ultimatum ch'essa non possa accettare, e cominciare la guerra. L'Imperatore non può essere contrario a questa guerra; la desidera nell'interno del cuore. Ci aiuterà di certo,se vede l'Inghilterra decisa ad entrare nella lizza. Le ultime conversazioni, che ho avuto con lui e coi suoi Ministri, erano tali a preparare la via ad una dichiarazione bellicosa.

(1) N. Bianchi; II conte di Cavour, pag. 41.

162 CAPITOLO OTTAVO.

Il solo ostacolo che io prevedo, è il Papa. Cosa farne nel caso d'una guerra italiana?»

Se non che, giunto in Londra, fu forza bentosto a Cavour di rinunziare ad ogni più bella speranza concepita sul conto del Governo britannico. Dai colloquii avuti con lord Palmerston e con gli altri membri più influenti del Ministero di San Giacomo, dovette ben presto convincersi che, se l'Inghilterra sarebbesi mostrata pronta ad attraversare movimenti ostili dell'Austria a' danni del Piemonte, era però del tutto aliena dal voler sostenere il Piemonte in una lotta aggressiva. Di ritorno a Parigi trovò l'Imperatore più che mai rinchiuso nella usata sua taciturnità, e niente affatto per allora disposto ad assecondare più in là i progetti e le voglie guerresche del Ministro sardo. Fu congedato con dirgli: «Bisogna persuadersi, non è il momento. Apparecchiate cautamente i popoli. Siate prudenti coll'Austria. Lavorate a Napoli. Più tardi vedrò (1).»

Pertanto Cavour scriveva a Torino (2): «La Francia voleva la pace. L'Imperatore ha dovuto farla, ha dovuto per ciò invocare il concorso dell'Austria. Egli non poteva dunque trattare questa Potenza da nemica, e anche, sino ad un certo punto, era obbligato a trattarla da alleata. In tale stato di cose egli non poteva punto impiegare le minacce nella questione italiana. Le esortazioni erano soltanto possibili. Esse sono state fatte, e non hanno valso a nulla. Il conte Buoi è stato inamovibile, così nelle grandi, come nelle piccole cose. Questa tenacità, che volge a danno dell'Italia per il momento, le sarà più vantaggiosa più tardi.» Cavour si affrettò a rientrare in Torino. E a quietare le apprensioni, com'egli lasciò Parigi, il Ministro Walewski si diede a ripetere ai rappresentanti dei Governi italiani presso la Corte delle Tuilerie (3): «Il signor di Cavour ha fatto molto imbarazzo, beaucoup trop.»

Cavour era giunto a credere d'essere divenuto, riguardo all'Italia,

(1) «Plus tard, j'aviserai» È una maniera di dire che pare abituale, in gravi negozii, all'Imperatore de' Francesi. Avremo occasione in appresso di vederla adoperata in altre circostanze.

(2)

Bianchi; lì conte di Cavour, pag. 42.

(3)

Dispaccio riservato del cav. Nerli, Ministro di Toscana a Parigi al Ministro degli affari esteri a Firenze, del 9 maggio 1856.

LA QUESTIONE ITALIANA AL CONGRESSO. 163

arbitro della situazione, di aversi in pugno i soccorsi di Francia e d'Inghilterra, ed una aggressione delle armi sarde all'Austria, e l'insurrezione da provocarsi nella Penisola, doversi trar dietro per necessaria conseguenza, anche indipendentemente dai segreti convegni con Napoleone III., queste due Potenze nella lotta. I fatti erano, che Clarendon si aveva lasciato andare a parole più innanzi di quanto nella realtà il Governo inglese volevasi, e piuttosto per cogliere, se fosse dato, gli occulti divisamenti dell'Imperatore de' Francesi; che la Gran-Bretagna non era disposta di dare al Piemonte né un uomo, né uno scellino; che Napoleone III., quando pure l'Inghilterra fosse venuta nella determinazione di correre le sorti della guerra in Italia, voleva per allora la pace, sicché, al rivedere al ritorno da Londra Cavour, aveva sentito il bisogno d'infrenarne l'audacia. Ornai l'Imperatore de' Francesi aveva conseguito quanto era sua mente di conseguire in que' di, di porre in piedi, cioè, l'addentellato che potesse valere, secondo le contingenze, tanto per uno di que' provvisorii indefiniti, quanto siccome punto di partenza, a migliore opportunità, per più vasti e determinati intendimenti. Napoleone III. voleva, e in vero ne avea ben donde, guidare, non essere guidato; far muovere altrui e allorché a lui solo meglio piacesse, non da altri essere tratto, suo malgrado, a rimorchio, e meno che mai a rimorchio di uno Stato piccolo, debole e avventuriero.

Cosi intanto, nella realtà, il Congresso di Parigi sotto il pretesto della pace accendeva la fiaccola della guerra. Il Protocollo dell'8 aprile 1856, in fatti, biasimando i Governi della Penisola che resistevano alla rivoluzionaria politica sarda, era una prima e vera soddisfazione all'ambizione piemontese. Quelle discussioni in seno del Congresso non avrebbero avuto alcun inconveniente se fossero state tenute in segreto, siccome è cosa necessaria ed usuale costumanza nelle grandi questioni che interessano la pace degli Stati, e trattano dei loro affari interni. Ma dacché furono ufficialmente fatte pubbliche, e lo stesso Gladstone, notissimo avversario del Papa, del Re di Napoli e d'altri Sovrani d'Italia, non poté a meno di confessare dinanzi al Parlamento d'Inghilterra: «Dubito grandemente della prudenza di ciò che si è fatto. È questione molto grave, ed anzi credo che sia una totale innovazione nella Storia de' Congressi di pacificazione, l'occuparsi di tali argomenti

164 CAPITOLO OTTAVO.

in Conferenze ufficiali, e rendere di pubblica ragione le risoluzioni prese; da quel momento non vi avea più bisogno di molto ingegno per intendere che l'Italia doveva diventare il teatro di gravi avvenimenti, e la questione era ridotta più propriamente semplice questione di tempo.

Allorquando videsi la Sardegna prender parte alla guerra in Crimea, senza veruna causa impellente che ve la astringesse, avendo per lo contrario ogni motivo di risparmiarla allo Stato già di soverchio carico di debiti, saltava agli occhi che soltanto per la forza di un occulto pensiero ciò potesse avvenire. Chiuso il Congresso di Parigi, lo scopo occulto era palese. Se non avea conseguito di trasportare la guerra in Italia, ingrandimento di territorio, e l'aiuto materiale della Francia e dell'Inghilterra, il Governo di Torino aveva però raggiunto l'aiuto morale di codeste due Potenze sino ad un certo grado almeno, ed era pervenuto ad insinuarsi scaltramente nel consiglio delle grandi Potenze, e rappresentarvi in apparenza gl'interessi d'Italia, in sostanza quelli di Casa Savoia. Il Ministro Cavour col parlare nelle Conferenze unicamente contro l'occupazione austriaca nelle Legazioni, contro la tendenza dell'Austria ad estendere sempre più la sua influenza nella Penisola, del pericolo che ne risultava per la Sardegna e del pregiudizio che ne risentiva, era giunto nella realtà ad iniziare al cospetto dell'Europa una questione italiana, a porre in certa qual guisa in prospettiva l'abbozzo di un quadro, in cui la Francia figurerebbe siccome soccorritrice e liberatrice a fronte dell'Austria invaditrice e oppressante.

Con tali risultamenti egli poteva in vero presentarsi con fronte abbastanza alta al Parlamento sabaudo, ed agli esaltati che non si sapevano capacitare come l'ottenuto fosse già più di quanto si avesse potuto ragionevolmente sperare. Così, in occasione delle interpellanze promosse nella Camera dei Deputati intorno al Trattato di pace, nei primi giorni del maggio, diedesi a ripetere pubblicamente quel cumulo di contumelie, d'invettive, di minacciose frasi che aveansi affastellate contro l'Austria nelle due Note da lui rimesse in Parigi durante il Congresso. «Se il linguaggio,» diss'egli (1), «del plenipotenziario francese non fu del tutto simile

(1) Atti Ufficiali della Camera, num. 254, pag. 954.

LA QUESTIONE ITALIANA AL CONGRESSO. 165

a quello del plenipotenziario inglese, havvi per ciò una gravissima ragione, di cui, io penso, tutti voi vi farete capaci. Pel Governo francese il Sommo Pontefice non è solo il capo temporale di uno Stato di tre milioni d'abitanti, ma è altresì il capo religioso di trentatre milioni di francesi; questa condizione impone a quel Governo particolari riguardi rispetto al Sovrano Pontefice. Se si pon mente, come si richiede, a questa speciale circostanza; se si tien conto dell'influenza che ogni passo fatto a Roma può avere sulla politica interna della Francia, io credo che il paese, che l'Italia tutta proveranno pel Governo francese non minore riconoscenza di quello che ne meriti il Governo inglese.»

Poi a queste parole s gravi ch'erano una intera rivelazione, e secondo l'espressione pittoresca d'un giornale italiano furono come una semenza di denti di drago, Cavour aggiungeva: «Se da un lato abbiamo da applaudirci di questo risultato, dall'altro debbo riconoscere ch'esso non è scevro d'inconvenienti e di pericoli. Noi dobbiamo confessare che i plenipotenziarii della Sardegna e quelli dell'Austria, dopo aver seduto due mesi a fianco, si sono separati coll'intima convinzione, essere inconciliabili i principii dall'uno e dall'altro paese propugnati. Questo fatto è grave, non conviene nasconderlo; questo fatto può dar luogo a difficoltà, può suscitare pericoli, ma è una conseguenza inevitabile, fatale di quel sistema liberale, deciso, che il Re Vittorio Emanuele inaugurava salendo al trono, di cui il Governo del Re ha sempre cercato di farsi l'interprete. La lite potrà esser lunga, le peripezie saranno forse molte; ma noi aspettiamo con fiducia l'esito finale.» E l'impressione prodotta da questa dichiarazione fu tale che il deputato Lorenzo Valerio (1) ebbe a dire: «Le nostre parole, le parole del Presidente del Consiglio, di tanto più importanti delle nostre,» non istaranno sicuramente chiuse in questo ricinto, o serrate nei» confini che segna il Ticino. Le frontiere, le baionette, i Commissari di Polizia, i birri, nelle altre provincie italiane, che sono da noi divise, non potranno tener lontano il suono di tali parole. Queste varranno a ridonare coraggio agli animi abbattuti, e faranno audaci gli animi coraggiosi; e l'audacia ed il coraggio,

(1) Atti Ufficiali della Camera dei Deputati, num. 257, pag. 963.

166 CAPITOLO OTTAVO.

che ne verrà ai nostri fratelli del rimanente d'Italia, non istarà lungo tempo senza farsi sentire.»

L'Imperatore de' Francesi, cui premeva addormentare l'Austria, finì con mostrare d'impazientirsi, e un poco infatti lo era; ed al suo Ministro agli affari esterni diede ordine di spedire senza indugio al rappresentante di Francia in Torino, perché lo rimettesse al Gabinetto di Sardegna, un dispaccio in cui con energiche parole manifestavansi i sentimenti del Governo imperiale relativamente alle Note piemontesi ed all'attitudine presa nel Parlamento dal conte di Cavour dopo il suo ritorno da Parigi. In esso Walewski disapprovava onninamente quest'attitudine, e manifestando che il Gabinetto francese intendeva usare di tutta la sua influenza per conseguire dal Governo di Torino moderazione nel linguaggio e modificazione nelle idee, dichiarava l'assoluta opposizione del Governo di Francia, nell'interesse della pace generale e dell'Italia stessa, qualora si meditasse di passare dalle parole ai fatti, siccome il calore delle parole medesime ne avrebbe raffermato il dubbio. Nello stesso tempo al rappresentante francese in Vienna fu inviata copia del dispaccio trasmesso a Torino, affinché ne facesse comunicazione al Gabinetto austriaco. Giammai, infatti, erano parse, meglio che allora, più amichevoli le relazioni fra i Governi di Parigi e di Vienna. In que' giorni medesimi l'Arciduca Massimiliano, fratello dell'Imperatore d'Austria, erasi recato a Parigi per fare personalmente testimonianza del buon accordo esistente fra le due Corti; mentre, a solenne attestazione di stretti legami, i rappresentanti della Francia in Vienna e dell'Austria in Parigi, assumevano, in luogo del carattere d'Inviato straordinario e Ministro plenipotenziario, quello più elevato di Ambasciatore.

Né a ciò tenendosi pago Napoleone III., volle che dei passi fatti presso il Gabinetto di Sardegna fosse reso consapevole il Ministero inglese, e ricercato premurosamente di operare in egual modo, reputando urgentemente necessario di togliere il Governo piemontese e gl'Italiani dalla pericolosa illusione che le Potenze d'Occidente volessero per allora promuovere daddovero la rivoluzione nella Penisola. L'Inghilterra, la quale, soddisfa che l'Imperatore dei Francesi per nulla volesse addentrarsi più innanzi di quanto egli aveva concesso al Congresso di Parigi, non poteva né voleva punto inspirare speranze,

LA QUESTIONE ITALIANA AL CONGRESSO. 167

che Napoleone III. credeva opportuno ammorzare, si affrettò a tenere in Torino un linguaggio non meno fermo e deciso, lieta piuttosto di dover gittare acqua sul fuoco, ch'essa medesima aveva contribuito ad accendere.

Cavour aveva sollecitato da lord Clarendon qualche risposta alle sue Note verbali. Questi, dopo essere a lungo stato saldo nel negargli questo segno di adesione alla politica piemontese, colse il destro del momento, in cui alle Tuilerie pareano mal disposti verso il Governo di Sardegna, per mostrare di credere che il Gabinetto britannico faceva anche troppo scrivendo una noterella gelata al suo ambasciatore a Torino, e permettendogli di comunicarla al conte di Cavour. In essa veniva a dire che il Governo piemontese non aveva ad attendere promesse, che non gli si potevano fare; altre spiegazioni essere inutili. Così, tirandosi bel bello fuori dello spinaio e dell'impiccio, dichiarando che bastava per l'Italia e per Cavour quello che s1 era detto nel Congresso di Parigi, conchiudeva essere bensì desiderabile che si ponesse fine alla occupazione straniera dell'Italia centrale, ma essere tuttavia altrettanto vero che ciò non potrebbe farei senza pericolo tutt'ad un tratto.

Allorché poi, nella sessione del 19 maggio alla Camera dei Comuni, Disraeli disse che, prima di sancire l'anticipazione di una nuova somma di un milione di lire di sterlini alla Sardegna, si voleano schiarimenti «sulle relazioni misteriose, che in riguardo all'Italia sembravano correre fra l'Inghilterra e la Sardegna, parendo che l'Inghilterra incoraggi con una mano la Sardegna ad intraprendere una crociata di liberalismo italiano, mentre coll'altra s'impegna a mantenere la dominazione austriaca in Italia,» lord Palmerston rispose: «Quanto all'essere l'Inghilterra entrata in un progetto secreto colla Sardegna per mettere in rivoluzione l'Italia e rovesciare i Governi sussistenti in altre parti di quel paese, ella è questa una supposizione che non ha il più leggier fondamento, un'accusa che non ha ombra pur di motivo. Quando un paese prende parte, come la prese il Piemonte, ad un'alleanza siccome quella della Francia e dell'Inghilterra, e si impegna nella guerra de' suoi alleati, v'ha considerazioni d'onore e di amicizia, le quali sottintendono, che se il Piemonte fosse minacciato da una Potenza nemica, avrebbe diritti ad essere protetto dall'Inghilterra e dalla Francia.


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168 CAPITOLO OTTAVO.

Ma non entrò mai certamente nella mente del Governo dell'Inghilterra, né di quello della Francia, l'idea che tale alleanza, fondata sulla lealtà, servir dovesse per aiutare il Piemonte ad imprendere una crociata aggressiva contro verun altro Stato.» E poco appresso soggiunse: «Il progetto di legge sull'imprestito al Piemonte non è introdotto per dare al Governo sardo i mezzi di rivoluzionare l'Italia. Se mai il Governo sardo fosse animato da progetti di aggressione, il Governo inglese farebbe uso di tutta la sua influenza per distoglierlo da una tale condotta.»

E come se tutto ciò non bastasse, a togliere da ogni incertezza Cavour, lo stesso lord Palmerston mandò a stampare nel suo organo il Morning Post del di 25 maggio: «Certi politici focosi vorrebbero gittarsi tosto all'intervento in Italia: ma quante sono le questioni da sciogliere prima di arrischiare un tal passo! Ciascuno degli Stati italiani ha le sue specialità in interessi, in relazioni sociali e politiche, in forme costitutive, in attinenze internazionali. Ogni Stato adunque vuoi essere trattato secondo la sua condizione. Mitigare i tribunali in Napoli e le passioni in Toscana, definire i limiti del potere spirituale negli Stati pontificii, sono opere d'immensa difficoltà e delicatezza. Nella differenza di opinioni sarebb'egli giusto ricorrere alle armi? Poi la massima delle difficoltà viene dall'Italia medesima, in cui disposti alla emancipazione non sono se non i rivoluzionarii. Or le Potenze europee vorranno mai fomentarne gli sforzi? Bisognerebbe prima che gl'Italiani si sprigionassero dalla schiavitù dei settarii, abbandonassero la morale del pugnale, rinunziassero alla crociata dell'anarchia: da tutto questo che rende impossibile ai loro amici il promuoverne la libertà. Finché tutte codeste quistioni non sono chiarite, l'Inghilterra non può provocare una crisi che sarebbe per noi un rimorso, per gl'Italiani uno sterminio.»

Questo, quasi a dirsi, voltafaccia dell'Inghilterra, scatenò nei giornali del Piemonte un nembo delle peggiori villanie contro il Governo di Londra, contro il conte di Clarendon, contro lord Palmerston, che chiamarono Giano a doppia faccia, e mercante, e traditore, sinché uno tra essi (1) conchiudeva disperatamente

(1) Unione, di Torino, num. 172, del 23 di giugno 1856.

LA QUESTIONE ITALIANA AL CONGRESSO. 169

una lunga pittura del primo Ministro britannico e della sua politica con dire, che oggidì «la migliore e Tunica politica possibile» è di rompere la testa ai sovrani.» Intanto tutti gli altri Governi d'Italia avevano indirizzato alle Potenze riunite nel Congresso di Parigi proteste, nelle quali si respingeva il diritto arrogatosi dal conte di Cavour di parlare in nome dell'Italia ed in nome di tutti gli Stati indipendenti, senza averne avuta missione alcuna; e l'Austria s'era indirizzata alle altre Corti d'Italia, rinegando alla Sardegna il diritto a quel protettorato sulla Penisola, ch'essa anelava bensì di volersi afferrare, ma che non peranco veruna Potenza era realmente disposta a concederle.

Così ai reggitori della somma delle cose in Piemonte non era lasciato dubbio intorno alla urgente necessità d'infrenare l'azione governativa ufficiale, diretta e svelata, quanto più diveniva operosa l'azione governativa ufficiosa, indiretta e coperta, alla quale sola conveniva ormai rivolgere tutto quel maggiore impulso che dar si potesse.

170

CAPITOLO NONO.

L'intervento settario.

Il Grande Oriente della Massoneria italiana in Torino. -

Logge

esterne. - Idea d'una setta cavouriana. - Giuseppe La Farina e Daniele Manin. - Fondazione della

Società Nazionale Italiana.

-

Se sarò molestato, la rinnegherò come Pietro.

- Il

Piccolo Corriere

ed i Comitati. - Le corrispondenze e gli affigliati. - Le beatitudini dei contribuenti. - La stampa periodica. - Un campo di battaglia a Parma. - Imprese mazziniane. -Una rappresentazione in quattro atti ed un prologo. - La

Società della Gioventù

di Carrara. - Decezione cavouriano-mazziniana negli Stati estensi. -

Il Piemonte può qualche volta.......ignorare; se no, non si muoveranno mai.

- Cavour si decreta indirizzi di ringraziamento, medaglie,busti. - La protesta dei Romani. - Cento cannoni, e la sottoscrizione

per bagnare la meliga.

- Diecimila fucili; l'Italia

viva persona politica,

e il Re sardo sulle Alpi capitano di 500,000 combattenti, - Clarendon e Palmerston nel Parlamento inglese.

Fino dal 1848 la Massoneria italiana, che sempre avea continuato ad esistere nella Penisola, ritemprate novelle forze negli avvenimenti di quell'epoca, era venuta a far capo a Torino, instituitavi la Loggia del Grande Oriente d'Italia. La Carboneria riformata, la quale dopo lo sperpero della Carboneria italiana, in seguito ai disastri toccati nel 1831, si era provata a raccozzare le fila della setta, non avea potuto far fortuna, ed era venata meno per isfinimento. La Massoneria italiana, ricostituendosi con antichi fratelli, coi residui delle cessate Carbonerie, con affratellati della Giovine Italia, aveva ripigliato per sé il primitivo scopo lo cale dei Carbonari italiani, l'indipendenza della Penisola; ed usufruttando per proprio conto quello stato di cose che gli eventi aveano creato, deliberava, a raggiungere il supremo suo scopo religioso e politico, stringersi a Casa Savoia e valersene sinché Casa Savoia fosse stata per l'indipendenza e l'unione d'Italia.

Con tali propositi aveva dato opera ad organizzare peculiari maniere di Logge esterne (1) che si annunziava, come a termine

(1) Nella Massoneria sonvi due categorie di gradi, esterni ed interni. I primi gradi si nominano esterni, perché coloro, che vi appartengono, si trovano in contatto col mondo esterno, che chiamasi profano, e perché essi non sono che gli stromenti dei gradi superiori, i semplici soldati destinati ad eseguire ciecamente gli ordini della divisione interna.

L'INTERVENTO SETTARIO. 171

finale, mirare alla libertà d'Italia ed alla unione intorno a Casa di Savoia.» Nel 1850 piantava uno de centri di queste (1) a Parma, un altro a Livorno; nel 1851 a Bologna e nella maggior parte della Penisola; nel 1853 a Roma. Nello Stato pontificio, ove, come abbiam detto, la Carboneria aveva preso dal 1815 al 1831 maggiore estensione, la novella istituzione si allargò, relativameute, più che altrove. Ridestate le speranze per la guerra d'Oriente, nel 1855 si ordinarono in tre centri sotto l'addirizzamento di un unico capo; Roma comprendeva il Patrimonio, l'Umbria, la Marittima e il Lazio; Ancona le Marche; Bologna le Romagne.

Già in più d'una occasione Cavour aveva fatto suo prò di que' nodi, che, per quanto in lui stava, aveva sempre protetti e favoreggiati, siccome quelli che valevano a punto di raccozzamento del partito piemontese al di fuori, di appoggio a lui al di dentro; ma i quali ei ben vedeva come gli sarebbe stato nullameno difficile padroneggiare assolutamente, sinché il centro di tutti i centri, la direzione universale, fosse rimasta in mani non sue. Stando quelli nella realtà alle dipendenze di una setta, la quale bensì in allora affermava di voler stare con Casa Savoia finché questa fosse stata con essa, ma che in fatto a superiore scopo politico anelava alla repubblica, egli capiva benissimo come non sempre si avrebbe potuto farne tutto quello che peculiari interessi del momento avrebbero potuto per avventura richiedere.

Per questo sino da quando egli era venuto in lusinga che la guerra d'Oriente avesse a convertire l'Italia in campo di altre pugne, andava mulinando come poter porre in piede una setta governativa; una setta, cioè, che alla organizzazione, agl'intendimenti ed a' mezzi di secreta conventicola accoppiando la dipendenza esclusiva dal potere centrale di Torino, desse opportunità di raccogliere

(1) Ebbero nomi diversi, a seconda de' tempi e de' luoghi: Associazioni Unitarie, Circoli e Comitati del partito dell'alta Italia, Circoli e Comitati del partito piemontese, Associazioni e Circoli nazionali, al di fuori; nell'interno degli Stati sardi, Società nazionale, Società operaie, Società dei carabinieri italiani. I Carabinieri italiani dovettero alla protezione speciale del conte di Cavour e del Ministro degl'Interni, Urbano Rattazzi, l'essere costituiti in corpo vasto, bene organizzato, bene armato, costituendo una milizia indipendente dal Re e dal potere esecutivo, in perfetto disaccordo collo spirito e colla lettera dello Statuto del Regno.

172 CAPITOLO NONO.

sopra un terreno comune il maggior nerbo possibile delle forze della rivoluzione disperse nei varii Stati della Penisola; una setta, che pur potendo operare e operando quanto la Carboneria, e la Giovine Italia e la Massoneria avevano oprato, laddove queste aveano tratta a rimorchio la potestà regia, potesse docilmente essere tratta essa a rimorchio da regia potestà; una setta che si potesse maneggiare, guidare, senza lasciare chi vi si affidasse in quelle incessanti paure che un bel dì imbizzarrisse per proprio conto, siccome sempre vi avea pericolo e sempre era accaduto co' Carbonari e co' framassoni; una setta, in somma, che risolvesse il problema di essere nello stesso tempo e un punto d'appoggio al potere di dentro, e uno stromento di ribellione al di fuori.

Dopo gli avvenimenti di Parigi, dopo quanto s'era passato al Congresso, dopo i precorsi concerti, le incertezze ed i nuovi incoraggiamenti dell'Imperatore de' Francesi, di una setta si fatta Cavour sentiva più che mai pressante il bisogno. Le parole da lui prouunziate l'8 aprile nelle Conferenze, le Note verbali che aveva rimesse, erano l'appello alla rivolta. Dopo l'appello alla rivolta facea di mestieri venisse la preparazione alla rivolta, dopo l'intervento diplomatico l'intervento rivoluzionario, a predisporre con esso il terreno pel giorno in cui potesse appresentarsi l'intervento armato.

A Cavour occorreva anzi tutto un uomo atto a servire ad un tempo da automa e da macchinista, da marionetta e da direttore di scena; altrettanto acconcio ad essere diretto, quanto a dirigere altrui; buono così da farsi riconoscere caposetta, come da riconoscere a proprio caposetta Cavour. Diogene cercava un uomo al lume d'una lanterna, Cavour all'ombra di un salvadanaio; e trovò La Farina. Giuseppe La Farina, siciliano, prima avvocato e affratellato della Giovine Italia, sfrattato da Messina, nel 1848 de' più arrabbiati in patria, Deputato al Parlamento, poi Ministro alla Istruzione pubblica, poi, buono a tutto, uomo non militare, Ministro della Guerra, era rimasto intrattabile repubblicano unitario sino al 1852, allorché partì per Torino. «Qui, scrive Petruccelli della Gattina (1), il repubblicano si svaporò, e ne sbucciò fuori il piemontese; dal piemontese, inaffiato dalle carezze del conte di Cavour,

(1) I moribondi del palazzo Carignano, pag. 142.

L'INTERVENTO SETTARIO. 171

germogliò il conservatore, e poi, via via, il resto.» Era l'uomo che gli voleva, perocché «attivo nell'intrigo, dominatore per carattere quando trovi uomini che pieghino avanti lui, s'impone su loro, e ardito allora lavora di frusta e di sprone per condurli a suo modo (1).» E così il faccendiere capo fu fatto.

Durante il Congresso di Parigi le segrete conferenze coll'Imperatore, col principe Napoleone, coll'ex-re Girolamo, coi Ministri francesi ed inglesi, non aveano impedito al Cavour d'intrattenersi con assai di frequenza co' fuorusciti italiani, massime col Manin e collo Sterbini, quegli che nella sera del 14 novembre 1848, nel teatro Capranica in Roma, aveva presieduto alla estrazione a sorte de' sei assassini destinati a freddare Pellegrino Rossi. Daniele Manin, che avea cospirato tutta la vita co' mazziniani, e postosi a capo del Governo repubblicano di Venezia, era stato contraddittore del Piemonte, ora a Parigi aveva mutato sentenza; e come si divertiva a scrivere tratto tratto lettere politiche, quasi a dar norme dietro cui regolare le sorti avvenire, una di recente ne avea scritta a prò del Piemonte, in cui affermava dovere ormai l'Italia valersi di questo braccio, salvo a far repubblica dopo. Quand'egli avesse messa da parte codesta condizione del poi, tenuto, com'era, in una certa riputazione fra i rivoluzionarii, se ne avrebbe potuto fare un idoneo caposetta apparente. Cavour seppe tirarlo affatto dalla sua, e sì bene l'esule veneziano rappresentò la sua parte, che per assai tempo la congrega, cui Cavour diede nome di Società Nazionale Italiana, si soleva chiamare la Società promossa dal Manin, la Società di Manin, quantunque il Manin nell'idearla vi avesse avuto quella parte stessa che s'ebbe nello inventare i vocaboli unificare ed unificazione, i quali dissero sempre e dicono coniati di pianta da lui, adoperati però dal Mazzini sino dal 1848 (8). Il marchese Giorgio Pallavicino Trivulzio, uomo facoltoso, fu fatto entrare terzo nel sinedrio fondatore, quasi ad indicare ch'ei stava lì a far di spalla colla borsa.

(1) L. Pianciani; Dell'andamento delle cose in Italia, rivelazioni, memorie e riflessioni, pag. 55-56.

(2) Programma dell'Associazione Nazionale Italiana, del marzo 1848.Abbiamo già detto come negli ultimi tempi Mazzini avesse cangiato il nome della Giovine Italia in quello di Associazione Nazionale Italiana. La simiglianza della denominazione fra la setta di Mazzini e la setta di Cavour

174 CAPITOLO NONO.

Reduce appena a Torino il Cavour, Manin, Pallavicino e La Farina annunziarono instituita la Società. Il programma mandato alle stampe nel mese di maggio, portava il testo de' quattro articoli costitutivi: «1.° Che intende anteporre ad ogni predilezione di forma politica, e d'interesse municipale e provinciale, il gran principio dell'indipendenza ed unificazione italiana; 2.° Che sarà per la Casa di Savoia, finché la Casa di Savoia sarà per l'Italia, in tutta l'estensione del ragionevole e del possibile; 3.° Che non predilige tale o tal altro Ministero sardo, ma che sarà per tutti quei Ministeri che promuoveranno la causa italiana, e si terrà estraneo ad ogni questione interna e piemontese; 4.° Che crede alla indipendenza ed unificazione dell'Italia sia necessaria l'azione popolare italiana, utile a questa il concorso governativo piemontese (1).» Al La Farina, che si faceva a richiederlo sin dove giungerebbe la sua protezione se mai i Governi italiani, scoperto il bandolo, alzassero la voce contro la Società Nazionale, Cavour rispondeva: «Italia diverrà una nazione una, secondo il concetto della Società, non so se tra due, o tra venti, o tra cento anni. Ella non è Ministro; faccia liberamente, ma badi che se sarò interpellato nella Camera, o molestato dalla diplomazia, la rinnegherò come Pietro.» E a queste parole dava in quel forte scroscio di risa che gli era consueto (2). Il La Farina aveva risposto: «Se occorre mi cacci via, o mi processi.»

Sino dal 26 maggio esci va per le stampe il primo numero del Piccolo Corriere Italiano, giornaletto fondato dalla Società per

fu cagione che spesso uomini profani alle secrete conventicole scambiassero l'una coll'altra. La Società Nazionale fondata in Torino nel mese di settembre 1848 e presieduta dal Gioberti, sotto colore di compire l'unione federativa, in sostanza tendeva a bandire la Costituente italiana, che favoreggiasse l'unità.

(1)

Gli encomiatori del Cavour portano alle stelle la fondazione della Società Nazionale, siccome irrepugnabile prova della sua costante volenza di unità italiana. È falsissimo, provato da mille documenti, dal programma stesso della Società da lui redatto. Il programma parla sempre d'unione, mai d'unità, ciò ch'è diversissimo; parla di stare per la Casa di Savoia, non per stare sotto lo scettro di Casa Savoia. Cavour voleva unione, non unità; aveva promesso a Napoleone di rivoltare Napoli per Murat, promesso di risarcire il soccorso francese con territorii italiani, e il mantenere la promessa era per lui questione di essere o non essere, to be or not to be.

(2)

N. Bianchi; Il conte di Cavour, pag. 65.

L'INTERVENTO SETTARIO. 175

servire agli scopi della setta al di fuori del Piemonte, impresso sopra carta sottilissima e di piccolo sesto, sicché poteva spedirsi in un involto a maniera di lettera. Comitati, sotto il nome di Comitati Nazionali, si dovevano istituire nel maggior numero possibile delle più grandi città, sotto la dipendenza di Comitati centrali da stabilirsi in tutte le capitali italiane. A capo a tutti il Comitato direttore di Torino. E Comitati centrali furono sollecitamente instituiti prima a Parma, poi a Firenze, a Modena, a Milano, a Roma, a Napoli. Ovunque vi aveano diplomatici sardi accreditati presso Corti italiane, questi divennero i capi naturali dei Comitati ed organi intermediarii tra essi ed il Comitato direttore in Torino. Così il marchese Giovanni Antonio Migliorati, investito dell'uffizio d'Incaricato del Governo sardo presso la Santa Sede, ed il conte Groppello, Ministro di Sardegna presso la Corte delle Due Sicilie, si trovarono a reggere i Comitati centrali di Roma e di Napoli. Calpestando il diritto delle genti, le case intangibili dei legati sardi, schiuse ad asilo de' Comitati, mutaronsi in covi di malcontenti, in fucine di accuse e calunnie ai Governi, in templi di ribellioni. Di là risollevavansi le speranze, stuzzicavansi gl'inerti, eccitavansi le classi operaie. Poi oro, e corruzioni di magistrati e di militari.

I plichi contenenti i numeri del Giornale, gli opuscoli, le proclamazioni, i manifesti rivoluzionarii, le circolari, le corrispondenze più gelose, passavano dal Comitato direttore torinese al Ministero pegli affari esteri di Sardegna, ed all'ombra della inviolabilità dei suggelli ufficiali varcavano impunemente i confini degli Stati. Per la stessa via il Comitato direttore riceveva dal di fuori i rapporti periodici dei Comitati esterni. In tal modo chi stava a capo dell'associazione era tenuto fedelmente a giorno di quanto avveniva di più importante, o per essa più utile a sapersi, negli altri Stati della Penisola; né dappoi mancarono talora uomini in posto, guadagnati alla setta, che comunicassero a Torino persino copie di segretissimi documenti d'ufficio.

Al di fuori del Piemonte mezzi di trasmissione secondarii, regolari e fidatissimi, si ordinarono con tanto accorgimento che non mai o quasi mai i Governi poterono averne in mano le prove. Non appena fosse dato raccogliere un nodo in una qualche città, si doveva dare sistema alle leghe, addestrare i faccendieri,

176 CAPITOLO NONO.

costituire i maestri, assoldare gli arrolatori, e specialmente i procacci in gonna ed in farsetto, per tenersi con rapidità e sicurezza in istrettissimo commercio con tutti i membri della trafila. In sulle prime gli affigliati avessero a limitarsi al secondare gli eventi, dei quali si doveva stare in aspettativa, col cercare frattanto la persuasiva negl'intendimenti, col propagare la corruzione, col bandire massime contrarie alla legittimità ed alla religione, col venire disponendo il popolo a ricevere una nuova forma di Governo, ed a desiderarlo sotto l'aspetto di una segnalata miglioria; avviate le matasse, dovessero dar opera con ogni artifizio a maneggiarsi nel senso più avverso al Governo legittimo, cercando con tutti i modi la turbazione dell'ordino, la diffamazione e il discredito, per quanto le forze di ciascuno il comportassero.

Poi vi fosse una classe di affigliati non diretta all'azione, ma per la sola contribuenza, semplici socii solventi, che si doveano tenere e si tennero sempre appagati con ciance, colle notizie le più inconcludenti del Piccolo Corriere senza che mai sia stato ad essi in alcun tempo manifestato ciò ch'era andamento della Società o dell'alta politica; classe beata di dovere tagliarsi la barba a quel modo, vestire quei panni, quelle tele, di quei colori; portare tale cappello, di quella stoffa, di quella forma, e in un altro; leggere tali giornali, sfuggire tali altri, tali persone, tali Caffè, tali ritrovi, tali passeggi; non accogliere in casa tali indi videi, non tener conversazioni, non ballare né lasciar ballare, non andare né lasciare andare a teatri, non spassarsi né lasciar spassare; classe felicissima di pagare e ubbidire, ed ubbidire e pagare.

Carboneria, Giovine Italia, Unitarii, tutte sètte surte col rannodare le sperperate fila delle precedenti, imponevano al candidato, prima di legarsi, di dover sottostare a prove; poi giuramenti solennissimi di assoggettarsi, caso tradisse il segreto o venisse meno all'obbedienza, a morir di pugnale senza remissione, come a far morir qualsivoglia persona venisse designata a morte. Sètte destinate per la loro essenza a vivere di terrore, intese alla distruzione di tutti senza eccezione i Governi d'Italia per sostituirvi una repubblica, doveano temere naturalmente da tutte parti la luce. La Società Nazionale del Cavour, diretta a distruggere tutti i Governi della Penisola, uno solo eccettuato, per sostituire possibilmente sé agli altri, doveva insinuarsi colla persuasione, prosperare

L'INTERVENTO SETTARIO. 177

più colle lusinghe che colla paura, senza i terribili giuramenti. Una semplice promessa poteva bastare, e bastò; più che sufficiente l'incessante timore di cadere sotto le unghie delle Polizie, non da per tutto sempre egualmente vigili, talora mal servite, altre volte ingannate, alcuna fiata esse medesime guaste, ma pur sempre pericolosissime.

Larghe promissioni di lucri e d'onori, a cosa finita, ai più operosi assicurava il Cavour; allora il premio aversi a commisurare in proporzione al merito di zelo e sacrificio patito. Nelle congreghe, a dar coraggio ed ingenerar sicurezza, non si cessasse dall'accertare, Napoleone III. essere della partita, la Francia verrebbe a dar di mano per rincacciare l'Austriaco; predisponendo ogni cosa pel grande dì, doversi attendere con dignità e con fermezza il momento che l'Imperatore pel bene d'Italia giudicherà più opportuno; preparassero, disponessero, e vedrebbero. Intanto si creava uno Stato negli Stati, con governo proprio, con ufficii proprii, co' suoi cassieri, co' suoi esattori, colle sue Poste, colla sua Polizia secreta, egregiamente organizzata ed informatissima, colle sue spie d'ambo i sessi, col suo Libro d'oro per iscrivervi i nomi dei benemeritissimi, col suo Libro nero per annotarvi i più influenti e pericolosi avversarii.

Della setta, invigorita col gran nerbo della sua fazione «piemontese,» dei suoi modestissimi moderati Cavour aveva tantosto pigliato in mano il supremo reggimento. Allo spuntare d'ogni giorno, prima di volgere a verun altro pensiero la mente, accoglieva in sua casa il La Farina, ben presto divenuto suo fidatissimo e sagace esecutore delle più dilicate incombenze, e posto a parte d'importantissimi secreti diplomatici. Così disposto, si accinse all'opera; dopo avere con insigne malafede rese pubbliche (1) le Note rimesse in Parigi, del 27 marzo e 16 aprile, e fatti senza indugio stampare, e diffondere a migliaia di esemplari pel rimanente d'Italia i discorsi ch'egli ed il Buffa avevano profferito nella Camera dei Deputati.

Alla stampa quotidiana avea già data l'imbeccata: «Il protocollo dell'8 aprile sarà la scintilla d'un irresistibile incendio,» disse perciò il suo giornale, il Risorgimento.

(1) Atti Ufficiali del Parlamento, num. 257, pag. 964965.

178 CAPITOLO NONO.

«Per la prima volta un Congresso diplomatico ha riconosciuti i torti dei Governi e giustificati i fremiti delle popolazioni», esclamò l'Opinione di Torino, giornale ministeriale. «Camminiamo di nuovo davanti alla rivoluzione. Le Note verbali del conte di Cavour hanno dato un impulso gagliardo all'agitazione; a noi tocca mettere in opera ogni mezzo per fare che quest'agitazione si mantenga viva finché giunga il giorno decisivo,» gridava il Cittadino d'Asti, num. 59, altro giornale ministeriale. «L'Italia non deve aspettare più dalla diplomazia, né più dai Governi europei l'aiuto per sollevarsi,» scriveva un quarto giornale ministeriale (1). «Se gl'Italiani sentono di potervisi acconciare, tal sia di loro; se no, insorgano,» diceva il Diritto di Torino (s). «Imparino gli Italiani a non transigere col potere contro cui insorgeranno, sotto qualunque formasi presenti,» raccomandava un'effemeride genovese (3).

Uno de' grandi giornali di Parigi, che a que' giorni conseguiva dal conte di Cavour assai grasso stipendio per essere portavoce e propugnatore della sua politica sovvertitrice, s'incaricò di ammaestrare quale si era il punto della Penisola, da cui, nella mente del Ministro sardo, doveva allora partire la prima scintilla del grande incendio. «Un campo di battaglia,» diceva il giornale parigino (4), «chiudesi in Oriente, un altro è sul punto di riaprirsi in Italia. Parma può divenire, da un momento all'altro, il teatro, non più d'una lotta diplomatica, ma tra l'Austria e la Sardegna. Una successione aperta in questo momento, o una nuova rivoluzione interna a Parma, apporterebbero infallibilmente un intervento reciproco e forse un conflitto inevitabile. In veruna parte d'Italia incontrasi una eventualità di sconvolgimento si prossima, in veruna parte soprattutto vi si trova posata una questione come questa di riversione, che può scoppiare domani, che può domani sollevare tra l'Austria e la Sardegna una formidabile questione d'intervento e di partaggio, e che in ogni caso non può mancare di scrollare l'Italia sino dalle sue fondamenta.»

(1) Tempo, di Casale, num. 8, del 22 aprile 1856.

(2) Diritto, num. 88, del 23 aprile 1856.

(3) Italia e Popolo, num. 113.

(4} La Presse del 23 maggio 1856.

L'INTERVENTO SETTARIO. 179

Tre giorni dopo, la Gazzetta Piemontese (1), il giornale ufficiale del Regno sabaudo, pur non trovando una parola sola per protestare contro le intenzioni d'intervento infallibile che la Presse attribuiva al Governo di Re Vittorio Emanuele, approvava pienamente il linguaggio del pubblicista parigino, predicando «la necessità di arrecare gli opportuni miglioramenti alle attuali condizioni di Parma per impedire mali maggiori.»

A Parma il Duca Carlo III., freddato da compro pugnale, aveva chiusi i suoi giorni il 27 marzo 1854, lasciati due figliuoli, Roberto ed Enrico. Pei Trattati esistenti la riversione dello Stato parmense all'Austria ed alla Sardegna non poteva avverarsi se non in caso di estinzione della linea maschile della famiglia regnante. Il pericolo di prossimità d'una lotta per partaggio non esisteva realmente, né poteva avverarsi, se non qualora altri si fosse caritatevolmente sobbarcato al carico di toglier dal mondo i due giovani principi. Il mite e clemente governo della Reggente Luisa aveva assicurato a suo figlio l'amore e la fiducia de' sudditi. Il tentativo di muovere a ribellione Parma nel 22 luglio 1854, promosso e posto in atto da repubblicani, non avea avuto seguito.

Tutte le imprese, che qua e là erano venute a funestare un momento la quiete in Italia dal 1849 in appresso, si doveano a Mazzini ed a' suoi. Appena giunto a Londra, dopo la presa di Roma per parte de' Francesi, Mazzini vi aveva costituito un centro direttivo sotto il nome di Comitato Nazionale Italiano, che nel settembre del 1850 emise cartelle di un prestito, appellato Prestito Nazionale, e fosse fede o timore di nuove rivolture in Italia, per tal modo gli venne fatto di porre insieme qualche danaro. In sul principio del 1853, Mazzini, «e questo,» come scrive la sua lancia spezzata, l'Orsini (2), «fu il momento in cui toccò l'apice di sua potenza, credendo che ad un suo cenno l'Italia sarebbe insorta in massa, volle tentare la rivoluzione, che doveva portare la riforma civilizzatrice, unitaria e religiosa a tutta Europa.

Il movimento doveva incominciare a Milano; e Bologna, Ancona, e le principali città d'Italia avrebbero dovuto seguirlo, alla notizia che fosse riuscito.

(1) Gazzetta Piemontese del 26 maggio 1856.

(2) Memorie politiche, Parte L, Capit. VI., pag. 8894.

180 CAPITOLO NONO.

Quanto alle armi, pugnali e coltelli, poiché era stato quasi impossibile l'introdurre de' fucili; sen trovava nullameno un piccolo numero unitamente a qualche granata, ma sì meschina la quantità, che non valeva la pena di parlarne. Due non lombardi, ignari della località, del far» del popolo, e senza influenza, furono incaricati dell'esecuzione del progetto in Milano. La massa della popolazione nulla sapeva di quanto tramavasi; la classe media non ne sospettava nemmanco, e pochi giovani civili soltanto avevano qualche segreta pratica. Mazzini in questo mentre stavasi a Lugano, donde non si mosse mai. Il dì 6 febbraio 1853 si venne al tentativo in Milano, e tutto limitavasi a pugnalare alcuni soldati che trovavansi tra via, sicché in un lampo ogni cosa sfumata. Andato in fallo il tentativo di Milano, nulla fu possibile di effettuare nelle altre città d'Italia.

Conseguenze dell'accaduto: il partito repubblicano andò in piccolissimi frantumi; Mazzini perduto nell'opinione, e abbandonato dai migliori; accuse contro di lui d'incapacità pratica; scioglimento del Comitato Nazionale Italiano, le cui operazioni aveano finito con una disfatta senza esempio, dando a vedere tenuità di mezzi, difetto di tatto politico nello scegliere la opportunità del moto; il repubblicanismo rimasto un nome; perdita di prestigio; arresti e trasporti in massa di fuorusciti dal Piemonte;» perocché l'Imperatore de' Francesi, quand'ebbe notizia che a Broni e Stradella erasi accozzata una grossa schiera di fuorusciti in armi, capitanati da uffiziali ungheresi e veneti allo stipendio del Piemonte, ed avviatisi al Po con animo di passare sul territorio lombardo e correre in aiuto degli accoltellatori di Milano, e seppe come il Governo di Torino aveva mandati lor dietro alcuni squadroni di cavalleria, che li arrestarono, solamente nel giorno 8 e quando era notissimo il mal esito del tentativo di Milano avvenuto nel 6, fece significare al Ministero sardo essersi dati al Maresciallo Castellane gli ordini opportuni, affinché al primo tumulto o movimento d'insurrezione che si manifestasse in Piemonte, egli movesse da Lione, e facesse occupare dalle truppe francesi la Savoia e Nizza.

Conseguenza eziandio que' sequestri imposti dall'Austria sulle sostanze degli emigrati lombardo-veneti, di cui si è fatto dianzi parola. Misura severa, che colpiva eziandio molti innocenti,

L'INTERVENTO SETTARIO. 181

provocata dalle mene incessanti de' fuorusciti, dalla mala fede e dalla tracotanza del Governo di Torino, ma della quale misura il Governo sardo medesimo aveva nella realtà la maggior colpa, l'Austria essendo stata dal suo contegno tratta a credere, che dietro Mazzini e i sicarii di Milano, e le bande armate pronte ad irrompere dal suolo piemontese, stesse quel Governo e l'esercito di Vittorio Emanuele, come dietro agl'insorti di Milano stavano nel 1848 i soldati di Carlo Alberto.

«Da quel momento in poi,» confessa il suo biografo (1) «Mazzini, anziché capo di un'associazione politica esistente, non dee più considerarsi che come un privato; ei non rappresenta più un corpo morale qualunque, ma le sole sue idee individuali.» Mazzini, «tornato a Londra, stampò Enrico Montazio (2), voleva riabilitarsi, come un impresario, a cui fa fiasco uno spettacolo teatrale, tenta ingraziarsi di nuovo il pubblico con uno spettacolo più degno, in faccia al partito a cui aveva promesso un grande incendio, e il quale non avea visto che una breve favilla,» quantunque nel tentativo di Milano fosse stata impiegata la più gran parte delle somme provenienti dai prestito nazionale. Il nuovo spettacolo, predisposto dal Mazzini, messo in scena dall'Orsini, venuto perciò espressamente da Londra, ebbe luogo, nella notte dal primo al due del settembre di quello stesso anno 1853, presso a Sarzana, lungo i confini modenesi. Ventinove uomini, con quattordici fucili e pochissime munizioni (3). La sola notizia, che si avvicinava una compagnia di bersaglieri piemontesi, bastò a mandare attori e tutto in dileguo.

Nel 1854 terza rappresentazione, in quattro atti ed un prologo. - Prologo: In un proclama colla data di Londra, 7 marzo 1854, Mazzini annuncia la strategica necessità che un luogo abbia a prevenire gli altri nella sommossa, agli insorti di ovunque promessa la comparsa di pronto e potente soccorso. «Garibaldi sarà nel Mediterraneo sulla costa italiana.» - Primo atto: Il 26 marzo, assassinio del Duca di Parma. - Secondo atto: Il 10 maggio, sbarco di pochi individui, guidati anche questa volta dall'Orsini, presso le foci della Magra, fra la Spezia e Sarzana.

(1) E. Montazio, Biografia di Giuseppe Mazzini, pag. 89.

(2) Biografia di Felice Orsini, pag. 33.

(3)

F. Orsini, Memorie politiche. Parte I., Capit. VI., pag. 9899.

182 CAPITOLO NONO.

Fugati da tre finanzieri, non colle armi, ma colle grida, parecchi cadono prigioni, degli altri non si ode più parlare. - Terzo atto: il 12 giugno, Antonio Gabbi, il Giudice incaricato d'istruire il processo riguardante l'assassinio del Duca Carlo III., è pugnalato in Parma. Egli era giunto a spannare le fila dell'infame matassa. - Quarto atto: II 22 luglio, tentativo d'insurrezione a Parma; dopo due ore tutto è finito. - Impresario e direttore di scena: Mazzini. Dalle lettere di costui, cadute in mano dei gendarmi piemontesi, allorché arrestarono l'Orsini, risultava che per la messa in scena dell'Atto secondo, il più spettacoloso, Mazzini «non aveva potuto disporre di più di ottomila franchi, settemila dei quali erano stati rimessi all'Orsini (1).» Cosi Mazzini era riescito a giustificare il giudizio portato su lui da Vincenzo Gioberti, che lo avea chiamato perpetuo fanciullo, di politica vile e scellerata, il cui nome giungerà abborrito ed esecrato alla posterità.

Ma dal giugno del 1856 in avanti è d'uopo distinguere tra i moti rivoluzionarii o direttamente ideati, e sottomano predisposti e pagati dal conte di Cavour, o ideati bensì da altri, anco di diverso partito politico, ma apertamente tollerati e favoreggiati da lui; ed i moti intrapresi per conto tutto proprio dai mazziniani puri. Perocché questi diffidando sempre del Governo di Torino, ed in ispecialità di Cavour che sospettavano venduto alla Francia e dall'Inghilterra, ne conseguitava che, quando Cavour o non cospirava d'intesa con essi, o cospirava meno, giacché, quanto a cospirare, cospirava sempre, cospiravano per sé medesimi.

Una rivoluzione in Italia era stata vaticinata da Cavour nella Nota del 16 aprile, in cui si affermava che in tutta la Penisola, eccettuato solamente il Piemonte, «le popolazioni erano in uno stato d'irritazione costante e di fermento rivoluzionario.» Nelle discussioni alla Camera de' Deputati in Torino, dei giorni 6 e 7 di maggio, Cavour aveva posto innanzi un dilemma, che si poteva riassumer così: 0 Francia e Inghilterra pensino a dar mano al Piemonte per cacciare l'Austria al di là delle Alpi e tutti i Governi legittimi d'Italia; o scoppierà nella Penisola una rivoluzione tale da mettere in pericolo tutta Europa. Si attese un po' di tempo per vedere come la diplomazia comportasse l'ardito linguaggio.

(1) F. Orsini, Memorie politiche, Parte 1., Capit. VI., pag. 100.

L'INTERVENTO SETTARIO. 183

Ma Francia e Inghilterra aveano ormai parlato in modo da dover credere che alla fin fine la diplomazia avrebbe sempre lasciata l'Italia qual era.

Allora venne di necessità la seconda parte del dilemma di Cavour, la rivoluzione. Il Ducato di Modena era, per confessione degli avversarii medesimi, uno Stato de' meglio retti della Penisola. Saggio, provvidentissimo, moderato il Governo. Mitissime le pubbliche gravezze. Àmatissimo il Duca da tutte classi de' soggetti, considerato piuttosto qual padre che Sovrano, e buon cristiano; e perciò doppiamente odiatissimo dagli uomini della rivoluzione. Però Carrara, posta affatto dappresso al confine sardo, era città guasta assai pel concorso degli artisti, ohe dal di fuori vi convenivano per ragione delle cave dei marmi. Sino dal 1850 certo Calzolari vi aveva fondata un'associazione segreta sotto nome di Società della Gioventù, specie di particolare sottosetta massonica, sanguinaria e feroce, che col terrore si aveva largamente diffusa tra i cavatori (1).

(1) Giovanni Calzolari, soprannominato il vecchio genovese, nativo di Lerici, uomo di triste vita anteriore, era stato spedito a Carrara nel 1850 per mandato del Grande Oriente della Massoneria Italiana. Da principio le solite promesse di lucri e di felicità, asserito unico scopo della Società essere l'introduzione di ordini costituzionali nello Stato, da cui doveva con seguitare ogni bene. Poi i giuramenti, sopra due stili incrociati, «di ammazzare preti, cardinali, sovrani, padre, madre, fratelli, sorelle, chiunque fosse contrario al Governo costituzionale;» di rassegnarsi alla morte ove si rendessero spergiuri, mancassero al segreto, non eseguissero prontamente le sentenze di morte di cui fossero incaricati. Minaccio di morte a chi si rifiutasse appartenervi, talora mandate ad effetto. Tenevano dietro pii ammaestramenti dei modi più acconci di vibrare i colpi alle vittime designate, delle parti del corpo cui doveasi di preferenza portare il pugnale. Fra gente rozza e montana, tutto d occupata negli aspri lavori delle cave, niuna meraviglia se con tali mezzi la setta raggiunse assai d'estensione. Pochi minuti bastavano a porre in salvo gli assassini in Piemonte, sempre accoltivi, soccorsi, provveduti, protetti. La sicurezza dell'impunità spinse a tal segno d'audacia la setta, che colla più selvaggia indifferenza i più orribili delitti si perpetravano sulla pubblica piazza, di pieno giorno, fra il maggior concorso di popolo. Niuno avrebbe osato neppure accennare di disapprovarlo, certo essendo che tanto ardimento avrebber punito di morte. Cavour spinse la negazione d'ogni sentimento d'onestà e d'onore sino al punto di pigliare apertamente le parti degli assassini carraresi, in un carteggio diplomatico col Governo del Duca di Modena.

184 CAPITOLO NONO.

Spediti suoi fidati a prender qualche concerto con taluno de' caporani, parve a Cavour che niun luogo potesse aversi di quello più acconcio per iniziare un'impresa, e nulla più facile che usufruttare per proprio conto una setta, affatto locale, non appena gli affigliati vedessersi soccorsi d'uomini e di danaro.

Per fermo, furono tra le più memorabili peculiarità della vita politica del conte di Cavour i volteggiamenti e le metamorfosi, con cui piegandosi alle politiche più disparate ed opposte, propugnando e combattendo a vicenda i medesimi principii, e secondo Futile suo stringendosi in lega ora coi liberali della scuola di Balbo e di Revel, ora coi discepoli di Mazzini e coi settarii del 1833, seppe con tanta morbidezza acconciarsi ai servigi d'ogni fazione per averla amica o neutrale, e serbare in sua mano lo scettro d'un potere poco men che assoluto. Mazzini, su cui pesava sempre la proscrizione dagli Stati di Sardegna, era in quel torno a Genova, tutto inteso a disporre le cose per la riuscita d'un suo progetto. Quella volta per Mazzini «non trattavasi di combattere il Governo costituzionale del Piemonte, ma sibbene d'impadronirsi degli elementi militari ch'erano in Genova, e di spingerlo alla guerra contro l'Austria. Egli diceva: Non andrà né manco un colpo di fucile; le truppe sono pronte di lasciare i forti senza resistenza (1).» Nel vero, quanto a questo proposito delle truppe, di porre Genova in sua mano, ella era una delle solite allucinazioni, proprie esclusivamente di lui solo. Cavour, sciente del luogo da cui Mazzini tramava e di che tramava, gli fece proporre che aiutasse un movimento sopra Massa e Carrara, da cui diceano ripromettersi una sollevazione generale dello Stato Estense; la quale sollevazione quando fosse riescita, se l'Austria si facesse a reprimerla, il Governo di Torino assicurava che sarebbe intervenuto a sua volta. Mazzini cadde nel laccio; la sua scaltrezza stava a lunga pezza al disotto di quella del Ministro sardo, e Garibaldi poté ripetere ciò che aveva detto altra volta, siccome afferma il Gualtiero, «Mazzini è un uomo, che guasta tutto quello che tocca.»

Pertanto nella notte dal 25 al 26 del luglio un sessanta armati, raccoltisi sul territorio piemontese, ed in parte vestiti dell'assisa della Guardia Nazionale di Sarzana, penetrarono nel tenere di Carrara;

(1) Orsini, Memorie politiche, Parte II. Capit. XII., pag. 300.


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L'INTERVENTO SETTARIO. 185

nel mentre stesso che l'Espero, giornale che si pubblicava in Torino con sussidio pecuniario del Governo, direttamente sotto gli auspica e la protezione di Urbano Rattazzi, a que' dì Ministro degl'Interni, stampava che «già da venerdì a sera correva voce d'un moto scoppiato od imminente a Massa e Carrara, e del riunirsi che facevano taluni nello Stato nostro per poi passare dalla frontiera di Levante sul Modenese. Alcuni anzi partivano contale intento da Torino. Avendo visto i nostri carabinieri alla frontiera, taluno di loro gridò: Viva la Costituzione! Rispettate» i carabinieri » Ed i carabinieri sardi, cui era stato dato ordine di nulla vedere, fatte le mostre di eziandio nulla udire, aveanli lasciati comodamente transitare.

Ma il Corriere Mercantile di Genova dovette ben presto confessare come «il moto era finito col ritorno di quelli, che dietro fallaci promesse e piani immaginarii avevano passato il confine. Ventiquattr'ore dopo aver cominciata la loro escursione sul territorio estense, perdevano ogni speranza di continuare; la popolazione non si moveva, né armati incontravano, uè armi. Di Toscana nessuna notizia; e pertanto non osarono progredire verso la città, e si ritirarono. Si lagnano assai d'essere stati ingannati dagli agenti ed ordinatori della spedizione.» Trenta individui, che Mazzini aveva nello stesso tempo spediti da Genova sulle sponde toscane presso Orbitello, non aveano potuto fare di meglio che farsi arrestare.

In vero, quel movimento era andato così a vuoto da non riuscire a compromettere neppur uno tra i sudditi estensi. La Società della Gioventù di Carrara, la quale alla fin fine non era mai stata un associazione con intendimenti politici più estesi che ai luoghi in cui era sorta, e aveva terminato con degenerare in semplice stromento di passioni private, non avea voluto prender parte al tentativo. Le popolazioni medesime diedero di piglio alle armi per iscacciare i sopravvenuti, e quando un po' di truppa ducale mosse alla loro ricerca, non fu possibile accostarli neppure a tiro di fucile, tanto fu precipitosa la fuga cui, gettate le armi, si diedero per porsi in salvo al di là del confine piemontese. Per dove erano passati, avevano sparso un proclama, sotto la data del luogo cui non avevano potuto pervenire, di Carrara, composto e stampato sveltamente in Torino, semplice parafrasi poetica della famosa

186 CAPITOLO NONO.

Nota del conte di Cavour, del 16 aprile, al chiudersi del Congresso di Parigi, ed il quale finiva così: «Al grido di guerra e di vita che noi mandiamo dalle vette del nostro Apennino, grido di vita nazionale, italiana, grido di guerra all'Austria, e a quante tirannidi straniere e domestiche ci contendono l'avvenire, risponda concorde, rapido, audace il grido di quanti hanno in cuore l'Italia, e l'Italia sarà.»

Affinché poi non avesse a rimanere, nella mente di alcuno, qualsivoglia sorta di dubbio sull'interesse che il Governo di Torino portava a quel tentativo, alle parole di un diario genovese, l'Italia e Popolo, organo uffiziale di Mazzini (1): «Il Governo sardo incoraggiò per mezzo de' suoi emissarii quegli abitanti, e si sa che le parole Viva Vittorio Emanuele si scrivevano dai partigiani piemontesi sui muri e sulle porte delle case a Carrara. Lusinghe ancora più esplicite vennero date agli andati espressamente a Torino»; il conte di Cavour, egli medesimo, fece stampare nel suo giornale: «Se la rivoluzione è il solo rimedio ai mali d'Italia, è pur ovvio che non la possano osteggiare coloro che hanno essi stessi constatato il male, e stimolato popoli e Governi a recarvi rimedio. Il Piemonte non deve far nulla che sia una provocazione all'Austria, ma può qualche volta ignorare.... In conclusione: la rivoluzione non si farà mai in Italia, finché non possano le popolazioni italiane far certo assegno sul concorso del Piemonte. Importa quindi mantenere viva in esse la persuasione che dietro i popoli insorti sta l'esercito piemontese (2).»

E il giorno appresso: «Le discussioni di Parigi, di Torino e di Londra, gli eccitamenti continui de' giornali, che, malgrado di tutta la vigilanza delle Polizie, riescono tuttavia più. o meno a passar le frontiere, agitando gli spiriti, affrettano gli eventi. l'effetto di queste varie cause non può essere dubbio. Verrà momento in cui in una o in altra parte d'Italia scoppierà un'insurrezione; quella sarà la prima favilla dell'incendio universale. l'Austria vorrà intervenire, e il Piemonte avrà diritto d'intervenire anche esso, per impedire lo eccessivo estendersi della influenza austriaca, e non interverrà egli solo. Questa crediamo sia la sola possibile soluzione della questione italiana.

(1) L'Italia e Popolo, num. 210, del 30 di luglio 1856. (2) Risorgimento, num. 1658.

L'INTERVENTO SETTARIO. 187

Ma affinché essa si avveri, conviene che il primo moto si manifesti in paese altro che quelli dominati dagli Austriaci. Una rivoluzione che scoppiasse nel Lombardo-veneto non giustificherebbe il nostro intervento; ma se i Ducati siano o la Toscana che si levino in armi, allora il Piemonte e i suoi alleati avranno ragione d'ingerirsi. Dato questo primo segnale, si muoveranno anche i popoli soggetti all'Austria, e l'Italia sarà. Ma se dee la rivoluzione cominciare negli Stati non posseduti dall'Austria, che sono i più piccoli e i più deboli, importa che possano fare assegno sicuro sull'aiuto nostro; se no, non si muoveranno mai (1).»

Come di metodo, giornali piemontesi dissero, il moto di Carrara essere stato predisposto da emissarii austriaci; e questo nel mentre che in Piemonte tutto d strombazzavano a' quattro venti, essere il Ducato di Modena lo Stato in cui, più che in qualunque altro d'Italia, l'Austria comandava a bacchetta, ciò che del pari era falso. Se fosse riescito, se ne sarebbero altamente lodati. Ma era costume di Cavour fare accasare di tutto l'Austria, perché sempre la si sentisse accusata. Non vi era garbuglio, torbido, moto, tumulto, sollevazione, in qualunque luogo della Penisola fosse fatto dar fuori, che non se ne facesse tosto dire promovitrice l'Austria, persino ne' suoi dominii, persino il fatto de' pugnalatoli di Milano del febbraio 1853. Il più bello si fu che il Cavour s'era affrettato offerire soccorso di armati al Duca di Modena, che dignitoso rifiatò, assicurando non aver punto bisogno di aiuto. Cavour faceva la scimia a Gioberti, che aveva esibito assistenza al Papa per beccarsi le Legazioni e ficcarsi in Roma.

Cavour aveva spediti emissarii a Roma, a Napoli, a Firenze, per tutta Italia, perché cercassero sottoscrizioni ad indirizzi di ringraziamento, per medaglie commemorative, per busti di lui e per lui; ed indirizzi, e medaglie, e busti gli vennero a Torino senza fare gran viaggio, giacché da Torino partivano colle diverse date di Napoli, di Roma, di Firenze, di Modena, di Milano, di Corno, e via via; e intanto Cavour coi danari assegnati alle spese secrete del Ministero pagava e lo spendio dei messi, e il costo degli oggetti d'arte che si aveva fatti offerire. Lo che non impediva

(1) Risorgimento, num. 1659.

188 CAPITOLO NONO.

che da parte delle popolazioni venissero in luce incomode proteste. Così, quando il medico Luigi Carlo Farini, il Mamiani, e due altri nativi degli Stati pontificii emigrati in Piemonte e domiciliati in Torino, si presentarono al Cavour spacciandosi per deputati dei Romani, ad offerirgli una medaglia d'oro, fatta coniare a Torino col suo ritratto da un lato, e dall'altro l'iscrizione - Per la difesa - dei popoli italiani oppressi - assunta - nel Consiglio di Parigi 1856 - Roma riconoscente -, e un indirizzo colla data di Roma, 13 giugno 1856, scritto notoriamente in Torino, in Roma stessa un giorno prima, il 12 giugno, veniva in luce codesta protesta: «I nemici del Papa sono i nemici di Roma e dei Romani. Noi ricordiamo ancora la cattività babilonica, l'occupazione francese, la repubblica del 1849. Il trasferimento della Sede Apostolica in Avignone diminuì la popolazione di Roma sotto i trentacinquemila abitanti. L'invasione francese ne fece una città di provincia, e da 135,000 abitanti la ridusse a 123,000. Prima della repubblica noi eravamo 179,000, e nel 1849 appena 166,000. Chi combatte il Papato, combatte Roma, la sua tranquillità, la sua prosperità, il suo lustro. Epperò protestiamo contro il conte di Cavour, che osò immischiarsi in casa nostra, protestiamo contro i suoi progetti di separazione; francamente gli diciamo, che se i Piemontesi amano le sue delizie e le sue quattordici imposte, non le amano certamente i Romani.»

Dato a segnare al Re un decreto perché si aumentassero senza indugio le fortificazioni d'Alessandria, Cavour, inesauribile nell'arte di far romore ed agitare, fece iniziare dalla Gazzetta del Popolo una sottoscrizione volontaria per porre insieme la somma occorrente all'acquisto di cento cannoni per quelle fortificazioni. Porgendone l'annunzio, quel giornale scriveva (1): «Alessandria per ora è come la parola d'ordine per gl'Italiani, e il simbolo dell'Unione.» La ufficiale Gazzetta Piemontese si affrettò ad approvare la sottoscrizione e farla sua. Le oblazioni voleansi ricevere da tutta Italia. Il giornalismo si adoperò colle mani e coi piedi perché avesse a riescire; eppure non andava. Gl'impiegati sottoscrissero, perché avrebbero pericolato l'impiego se non lo avessero fatto. Si mandavano per la posta lettere con minacce a coloro che non firmavano.

(1) Gazzetta dei Popolo, num. 177, del 26 di luglio 1856.

L'INTERVENTO SETTARIO. 189

Per indurre il popolo a dare il suo nome ed il suo obolo, si disse che la sottoscrizione doveva servire a bagnare la meliga, giacché in que giorni soffriva assai per la siccità. Quando si vide che i privati non sottoscrivevano, si pensò far sottoscrivere i municipii.

I mazziniani non vollero essere da meno, ed il loro giornale, l'Italia e Popolo, disse che apriva una seconda sottoscrizione nazionale per l'acquisto di diecimila fucili «destinati alla prima provincia italiana che insorgerà contro il comune nemico;proclamando che «l'Italia deve insorgere; questo dovere non si discute, si sente, e tristo quell'italiano che non ne avesse coscienza. E intanto correva per le mani una specie di Manifesto stampato in Torino, che diceva: «Al primo romore di popoli italiani chiedenti il Regno d'Italia colla dinastia di Savoia e lo j Statuto piemontese, il Parlamento e l'esercito in Piemonte leveranno il medesimo grido, ed eccoti l'Italia viva persona politica. Il Re sardo si mostri sulle Alpi capitano di 500,000 combattenti, e la diplomazia, benché a mal in cuore, si affretterà a riconoscere il fatto compiuto.» Ma un bel giorno, il 30 agosto, il fisco di Genova sequestrò e il giornale, che aveva aperta la sottoscrizione, e le liste dei soscrittori. La diplomazia ne aveva fatta al Governo di Torino intimazione sì ricisa, che Cavour pensò non poter starsi in forse. Fu finzione. Per regola, dietro il sequestro doveva venire il processo; e Cavour provvide che il processo appunto non avesse a venire, e non venne.

Mentre queste cose avvenivano, l'Inghilterra versava acqua fresca a piene mani. Il Ministero avendo provocate in ambe le Camere interpellanze sugli affari d'Italia, cui si dichiarò pronto a rispondere nelle sessioni del 14 luglio, il conte di Clarendon si fece a dire nella Camera dei Lordi: «Abusi non potrebbero essere corretti da una pressione esterna, ma solo dagli stessi Governi italiani. Mi sono sforzato di raccogliere tutte le informazioni che ho potuto sullo stato presente dell'Italia, e dichiaro che la rivoluzione, se pure momentaneamente trionfante, non potrebbe divenire il fondamento d'una durevole prosperità. È il nostro più vivo desiderio che le popolazioni dell'Italia sappiano approfittare d'una esperienza recente, e rinuncino a mezzi, il cui effetto sarebbe di rendere peggiore la loro condizione.

190 CAPITOLO NONO.

Nulla venne fatto dal Governo di Sua Maestà per provocare o per eccitare la rivoluzione. Io sento che sarebbe insieme ingiusto e crudele di eccitare speranze, che non potrebbero effettuarsi, o piuttosto speranze che noi stessi non siamo disposti a realizzare. Se eccitassimo le speranze d'una parte d'Italia, se la inducessimo ad attendersi da noi soccorso e protezione, saremmo impegnati a renderle questi servigi. Con questo spirito, col desiderio di procurare un pronto sgombro delle truppe straniere dall'Italia, tale argomento venne portato innanzi al Congresso. Si è fatto tutto ciò che poteva venire intrapreso. Le questioni di riforma degli Stati pontificii, e la partenza da quegli Stati delle truppe straniere, hanno pure preoccupato le Potenze; e malgrado l'incredulità del mio nobile amico, lord Lyndhurst, debbo dire che il Governo austriaco desidera esso pure richiamare le sue truppe. Ora, non si è mai fatto esperienza della fiducia che si poteva avere nei popoli romani, poiché le ottime riforme del Papa attuale sono state travolte dal torrente rivoluzionario del 1848. Se si mettesse oggidì in pratica il proclama del Papa, dato fuori nel 1849, al suo ritorno in Roma, si potrebbe ovviare nell'amministrazione della giustizia a tutti gli abusi indicati.»

Udiamo lord Palmerston alla Camera dei Comuni: «Dicesi che se l'occupazione degli Stati romani avesse a cessare, essi diverrebbero teatro di rivoluzioni e disastri. È difficile, a tanta distanza, profferire un'opinione intorno al valore di tali congetture: ma, ragionando secondo i principii generali, convien credere che tali previsioni siano esagerate, e che un Governo come quello del Papa, alla cui testa è un uomo del quale conosciamo le intenzioni benevole, e di cui il passato dimostra l'alto senno, sarà capace di reggere lo Stato per modo da allontanare le cagioni di malcontento, che sole producono sconvolgimento negli Stati. Il Governo di Sua Maestà non trascurerà cosa alcuna, che possa essere efficace, e che sia d'accordo coll'indipendenza delle nazioni, per assicurare ai Governi dell'Italia la libertà d'azione necessaria alla loro prosperità.»

Cosi quello stesso Clarendon, che l'8 aprile 1856 s'era lasciato dire nel Congresso di Parigi: il governo del Papa esser onta all'Europa, soli tre mesi più tardi proclamava ottime le riforme di Pio IX., bastevole a tutti gli abusi indicati il Motu-proprio di Gaeta;

L'INTERVENTO SETTARIO. 191

e questo dopo avere con ammirabile candore confessato la vera causa impellente dell'alto romoreggiare dell'Inghilterra a quel Congresso intorno agli Stati pontificii, romoreggiare precipuamente inteso nella realtà a conseguire che Francesi ed Austriaci se ne avessero a ritirare. Sempre l'Inghilterra aveva veduto di malissimo occhio la bandiera francese sventolare su terra italiana; e ben sapeva che il Bonaparte avea mandato a porre uà piede in Roma, e ve lo teneva, non per il Papa, ma per fini suoi. Chiuse le Conferenze di Parigi, date giù le scarmanelle del Clarendon, egli medesimo non aveva durato fatica a convincersi che l'Austria avrebbe lealmente ritirate le poche truppe che teneva in Bologna ed Ancona, nel mentre stesso che la Francia ritirasse le sue da Roma e Civitavecchia. Ma, messo al muro, questo appunto Napoleone III. s'era rifiutato di fare, accattando pretesti che aveano posto in tutta luce com'egli volevavi stare, Dio sa fin quando. Per tal modo la Gran-Bretagna, deviava gli sguardi dall'Italia centrale per volgerli più ancora verso l'Italia meridionale.

192

CAPITOLO DECIMO.

Fatti delle Due Sicilie.

Inghilterra rispetto a Sicilia. - Nimistà di lord Palmerston contro il Re di Napoli. - Onorevole missione di Guglielmo Gladstone. - II barone Poerio. - Fabbrica di grandi martiri a quindici centesimi la riga. - Tre avversarii ad un tempo. - Comitato muratiano in Torino. - Gli

avvertimenti

di Napoleone III. al Re di Napoli. - Lezione data dalla Russia. - Francia e Inghilterra rompono le relazioni diplomatiche con Ferdinando II. - La bufera s'acqueta. - Tiro volpino del Cavour. - Francesco Bentivegna eccita a rivolta la Sicilia. - Tentativo di regicidio a Napoli. - I vaticinìi della

Vespa.

- Agesilao Milano ed il generale Alessandro Nunziante. - Un

Unitario

mandato a morte da un altro

Unitario.

- Scoppio della polveriera e del

Carlo III.

a Napoli. - Apoteosi di Milano il regicida. -

Due Santi!

- Cavour

Farinata, Ferruccio, Cola di Rienzo.

- La volpe che lascia star l'uva. - L'Inghilterra abbandona la protezione della rivoluzione in Italia. - Il negoziante di San Giacomo sul sacco di lana. -

Quietatevi e quietate.

radizionale politica d'Inghilterra mirare, meglio che ad altre parti d'Italia, a Sicilia, agognata sempre; inveterata abitudine scialarla da protettrice con essa. Non mai lasciando sfuggire veruna occasione per porvi il piede, prevalendosi talora delle condizioni d'Europa, talora degl'interni dissidii per padroneggiarla, fin dal Trattato d'Utrecht aveala tolta alla Spagna per darla a Casa Savoia, cui avrebbe potuto più agevolmente ritoglierla. Dal 1805 al 1814 gl'Inglesi erano riesciti ad occuparla militarmente, promossavi, affine di perpetuarvi la loro signoria colla discordia, la Costituzione del 1812. Poi, perduta ogni speranza di trovare pretesti a rioccuparla, il marchese di Londonderry venne a dichiarare (1): «Non essere stato che per assicurare la felicità della Sicilia che le truppe inglesi vi si piantarono dal 1805 al 1814.» Amore di tarlo che rode i crocefissi.

Sopraggiunsero nel 1836 le brighe per gli zolfi, sendo Ministro Palmerston; ed egli, che l'avea spuntata per forza, quantunque insino a' suoi giureconsulti gli avessero dato torto, già invelenito col Re Ferdinando per non aver questi voluto accogliere a

(1) Sessione della Camera dei Comuni, del 21 giugno 1821.

PATTI DELLE DUE SICILIE. 193

cognata la Penelope Smith, sua parente, da quel momento astiava il monarca di Napoli, sì da non più rimettere sinché gli bastasse la vita. Se lo promise a sé stesso, alla parola non venne meno. Mandò in settembre 1847 lord Minto a porgli in fiamme il reame, e Ferdinando senza stranieri soccorsi vinceva la durissima prova. Ed odii s'accumularono ad odii nel cuore del terribil massone britanno.

La potenza dell'Inghilterra posa sull'industria e sul commercio, donde la necessità di largo spaccio alle sue manifatture. I Borboni avevano fatto mutar faccia al Regno, che Ferdinando II. portava a non aver quasi bisogno dell'estero, eccetto che per poche inezie di lusso. Altra causa, e principalissima, di rancori inglesi. Era mestieri arrovesciare quell'edifìcio di pace e di prosperità. La Gran-Bretagna è nella necessità di far male per aver bene. Le sventure altrui sono condizione essenziale della sua propria esistenza. Ma i popoli delle Due Sicilie stavano pel loro Re, e le ribellioni aveano fatta mala prova. Allora allora usciti da si grandi rivolture, impossibile porre in piedi tostamente una nuova, non restava che ricorrere all'arma de' vili e degli abbietti, la calunnia. Non era stato detto: calunniate, calunniate sempre, che qualche cosa ne resterà?

Lord Palmerston, nel cui animo alle ragioni di setta, agli odii personali, alle nimistà d'interesse britannico, eran venuti ad aggiungersi il disappunto e la stizza per la rivoluzione del 1848 di cui egli era stato istigatore principalissimo, e Re Ferdinando causa primaria di non riuscita, come aveva sulla fine del 1847 spedito lord Minto in Italia per spingerla a sollevarsi, spedì sulla fine del 1849 a Napoli sir Guglielmo Gladstone coll'onorevole incarico di spiare e calunniare. Spiato, Gladstone lanciava, sotto forma di lettere al conte Aberdeen a di 11 e 14 luglio 1851, due libelli accusatori Ferdinando II. boia de' sudditi; e vi esordiva con dire: «Non descrivo severità accidentali, ma la violazione incessante, sistematica, premeditata, delle leggi umane e divine; la persecuzione della virtù, quand'é congiunta a intelligenza, la profanazione della religione, la violazione d'ogni morale, sospinte da paure e vendette; la prostituzione della Magistratura per condannare uomini i più virtuosi ed elevati, e intelligenti, e distinti, e culti; un vile selvaggio sistema di torture fisiche e morali.

194 CAPITOLO DECIMO.

Effetto di tutto questo è il rovesciamento d'ogni idea sociale, è la negazione di Dio eretta a sistema di Governo.»

Travolse tutto, svisò tutto, calunniò tutto; e non potendo meglio, accentrò le ire sulle infamie e le torture delle carceri di Re Bomba, di queste affermando rivelare i vituperii, le sozzure, le busse, i tormenti, le sevizie, le atrocità. E le menzogne espose con arte si fatta da non potersi credere parlasse un menzognero. Lord Palmerston, per dare a' libelli del Gladstone aria di scrittura uffiziale e quasi a conferma di verità, calpestando affatto ogni convenienza diplomatica ed ogni pudore, ne mandò esemplari a tutte le Corti d'Europa. Ma la foga soverchia del desiderio di nuocere nocque al bugiardo. Alla sorpresa del primo momento tenne dietro ben presto la coscienziosa investigazione. Lo Aberdeen, che aveva accettato la dedica delle lettere, si affrettò a rigettarne la solidarietà, e si dichiarò abbindolato. Gladstone, che in sostanza aveva dovuto starsi alle parole dei settarii di Napoli, coi quali soli si era trovato in rapporto, ne aveva affastellate tante e sì sperticate, che, stretto dalla voce della verità, per salvare almeno una parte delle calunnie, dovette egli medesimo, nell'aprile del 1852, disdirsi di molte cose, e confessarsi in buona parte ingannato. Favole confessò i diecisette ammalati uccisi a Precida, le torture ed i ferri al Settembrini, le confessioni svelate da' sacerdoti, e tant'altre bugie. Favole le quattro a cinque migliaia di accusati pel processo del 15 maggio, che erano, per atto già prima reso pubblico, trentasette; favole le confische, che non ve n'era stata neppur una, e i cinque sequestri di rendite a fuorusciti, ordinati dalle autorità cui spettava per legge, erano stati tolti subito per grazia regia. Per contrario, Gladstone aggiungeva accuse nuove, provate false dappoi.

Ma intanto raggiunto nullameno in parte lo scopo del qualche cosa ne resterà, radicantesi nelle menti di popoli ingannati la credenza di alcun che esservi pure di vero negli orrori delle carceri delle Due Sicilie. Gladstone a capo di quegli uomini i più virtuosi ed elevati, e intelligenti, e distinti, e culti, che disse vittime di un vile selvaggio sistema di torture, aveva posto un barone Carlo Poerio, elevato a tipo di martire. Carlo Poerio, prima mazziniano, arrestato nel 1847 siccome cospiratore, impiegato regio al principio dell'anno seguente,

FATTI DELLE DUE SICILIE. 195

il 6 marzo 1848 Ministro di Re Ferdinando II. pella pubblica Istruzione, poi capo per le Calabrie negli Unitarii (1), era stato condannato il 1.° febbraio 1851 a ventiquattro anni di ferri, mentre avrebbe dovuto lasciare la testa sol palco, se il Re tiranno non avesse ordinato che, ove più rei fossero dannati nel capo, si designasse uno o due soli più meritevoli di patibolo. Bisognò aspettare che giungesse il 1860 perché il mondo avesse ad apprendere che i martirj di Poerio erano una invenzione, perché potesse dar fuori la confessione:

«Quando noi agitavamo l'Europa e la incitavamo contro i Borboni di Napoli, avevamo bisogno di personificare la negazione di quell'orrida dinastia; avevamo bisogno di presentare ogni mattina, ai creduli leggitori dell'Europa libera, una vittima vivente, palpitante, visibile, cui quell'orco di Ferdinando II. divorava cruda ad ogni pasto.

Inventammo allora Poerio Poerio era un uomo d'ingegno, un galantuomo, un barone.

(1) Sulla fine del 1848 s'era costituita nel Regno di Napoli, cogli avanzi delle sètte preesistenti, una peculiare associazione massonica, sotto il nome di Società dell'Unità Italiana. Il suo Statuto dice, che «la gran Società dell'Unita Italiana è la stessa che la Carboneria e la Giovine Italia, instituita per liberare l'Italia dalla tirannide de Principi e degli stranieri, e farla unita ed indipendente.» Supremo suo scopo politico l'unione di tutta la Penisola in una sola repubblica; lo scopo segreto de' Carbonari e lo scopo palese di Mazzini e della Giovine Italia. Prove erano imposte prima di esservi ammessi. Poi giuravano sul vangelo, sul crocifisso e sul pugnale segretezza ed ubbidienza cieca; di sottoporsi a certa morte ove mancassero al giuramento; non parentela, non amicizia, non fede, non patto, tenere contro gli ordini de' superiori. Allora ricevevano il motto, il segno e la medaglia. Si univano in Circoli retti da Consigli, questi di cinque gradi, comunali, distrettuali, provinciali, generali, e in capo a tutti l'Alto Consiglio risiedente in Napoli, che fu presieduto prima da Filippo Agresti, poi da Luigi Settembrini, poi da Michele Pironti. L'Alto Consiglio dipendeva dal Grande Oriente della Massoneria Italiana, instituito a Torino, della quale la setta napoletana non era nella realtà che una dipendenza informata a maggiore semplicità, per renderla più consentanea a' tempi ed a' luoghi. Primissima cura degli Unitarii quella di tirare a sé i militari, onorarli, muoverli a stabilire Circoli nei Reggimenti, e corrispondere con quelli dei paesi ove han guarnigione. Promettendo premio o pena secondo i meriti, i renitenti schernendo, calunniando, in tutte guise perseguitando, lor rendendo dannoso il vivere secondo la legge, molti allucinarono, molti intimidirono. Per l'attentato del Faucitano del 16 settembre 1849, da cui consegui la scoperta degli Unitarii, sconvolte le fila, ma non punto spezzate, ben presto si riannodarono, e la imbecillità o la tristizia delle Polizie o non si accorse di nulla, o lasciò fare.

196 CAPITOLO DECIMO.

Portava un nome illustre, era stato Ministro di Ferdinando, complice suo in talune gherminelle del 1848. Poerio era stato Deputato. Ci sembrò dunque l'uomo più opportuno ed acconcio per farne l'antitesi di Ferdinando.

E il miracolo fu fatto! La stampa inglese e francese stuzzicò l'appetito di quel distinto filantropo ed uomo di Stato d'Inghilterra, che è Sir Gladstone; il quale, recandosi a Napoli, volle vedere da vicino quella specie di nuova maschera di ferro. La vide. Si mosse a pietà. E Gladstone fece come noi: magnificò la vittima, onde rendere sempre più odioso l'oppressore; esagerò il supplizio, onde commuovere a maggior ira la pubblica opinione.

E Poerio? Il Poerio, che oggi si mescola ad ogni nostra minestra, fu da noi creato da cima a fondo. Il Poerio reale ha preso sul serio il Poerio fabbricato da noi per dodici anni continui, in articoli di giornali e a quindici centesimi la riga! L'hanno preso sul serio coloro che lessero di lui, senza conoscerlo da presso. L'ha preso sul serio quella parte della stampa, che si era fatta complice nostra, credendoci sulla parola. Ma capperi! Quello che più sorprende è che l'abbia preso sul serio anche Cavour!

POERIO È UNA PRETTA INVENZIONE CONVENZIONALE RIVOLUZIONARIA DELLA STAMPA ANGLO-FRANCESE E NOSTRA!

Poerio! (1) Dio ne ha fatto un monumento della fragilità umana: che la mano di Dio sia rispettata! Poerio è una reliquia. Lo s'imbandisce nelle tavole ministeriali, come un soggetto di curiosità e di appetito ben conservato, perché la poca forza che resta a questo gran martire si è conservata nelle mascelle, mascelle potenti. Quanto al cervello, Poerio l'ama meglio à la sauce blanche, che nella sua testa. Colpa senza dubbio di quello scellerato di Re Borbone, il quale assiderò quest'uomo di Plutarco nelle prigioni di Montesarchio; ovvero di quel burlone di Gladstone, il quale creò questo grand'uomo all'uso di John Bull, come Caracalla creò console il suo cavallo. Colpa di questi o colpa di quegli, l'illustre barone Poerio non luce più.»

E chi queste cose scriveva di un napoletano e d'un cospiratore di grido, era un altro napoletano ed un cospiratore suo simile;

(1) F. Petruccellì della Gattina; I moribondi del palazzo Carignano, pagg. 183-184. [riferimento errato]

FATTI DELLE DUE SICILIE. 197

era Ferdinando Petruccelli della Gattina, prima mazziniano, poi ribelle aperto in Sicilia nel 1848, minacciatore di regicidio a Napoli, infine Deputato al Parlamento di Torino, seduto su que' medesimi scanni su cui sedeva Deputato il Poerio. I tardi nepoti dureranno fatica a credere, fra tante infamie tramandate alla posterità, non che a sì alto grado abbia potuto a dì nostri salire il cinismo della menzogna, ma che a sì fatto apogèo abbia potuto toccare il cinismo della rivelazione della menzogna. Ferdinando II. avean sospinto nell'avello, e al suo figliuolo rubato corona, dominio e insino agli averi privati. La commedia non aveva più scopo, e nella ebbrezza dell'insperato successo, lasciato compiere dall'Europa svilita il vitupero del ladrocinio, neppure ebbero la rassegnazione di attendere che la verità si alzasse a vendicare gli obbrobrii sulle tombe de' calunniatori.

Giunto il 1856, Ferdinando II. s'era trovato a fronte di tre avversarii ad un tempo, nemici segreti e palesi, per nimistà antica o novella, tutti insieme congiurati ad isbalzarlo dal trono. Da una parte Palmerston, inteso a conseguire almeno l'indipendenza della Sicilia sotto il protettorato dell'Inghilterra; dall'altra Napoleone III., rivolto ad insediare il cugino Murat a Napoli sotto la protezione della Francia. E tra i due, Cavour infervorato a sdebitarsi degnamente della promessa già data al Bonaparte, perché il Bonaparte degnamente si avesse a sdebitare più tardi delle buone parole a lui dette. Né avea tardato un minuto nel porsi all'opera per ingraziarsi il padrone (1).

(1) La parte, e grandissima, che il Cavour ebbe nelle mene muratiane a Napoli, è il momento della sua vita politica che più da nei nervi ai tanti suoi apologisti. Intesi ad esaltarlo creatore della Unità Italiana, la sua operosità pel Murat manda inesorabilmente a picco tutte le più ingegnose loro argomentazioni. I più tacciono prudentemente; altri masticano quattro parole sconnesse. Alcuno cerca scusarlo, adducendo necessità del momento. Così Nicomede Bianchi afferma (Il conte di Cavour, pag. 46): «Cavour, come trovo attestato in documenti autentici, fu sempre personalmente avverso al maneggi di Luciano Murat. Che se in un certo tempo, a salvare interessi maggiori, si vide costretto a non contrariarli, si trovò però contento di poterlo fare, passata la necessità sovramenzionata. Assai curiosi e istruttivi sono i documenti, che in ordine ai maneggi muratiani di alquanti fuorusciti napoletani si conservano nell'archivio degli affari esteri di Napoli.» Il fatto è, che Cavour alla possibilità di unità italiana non pensò mai, né sino all'ultimo vi credette mai.

198 CAPITOLO DECIMO.

Già parecchi napoletani, stati prima mazziniani, poi Unitarii, e perciò emigrati in Piemonte, avevano costituito un Comitato muratiano in Torino. Subito intavolarono pratiche cogli antichi confratelli di Napoli, ma in sulle prime la cosa non fu intesa troppo bene. Il Grande Oriente della Massoneria francese raccomandò caldamente al Grande Oriente della Massoneria italiana, che appoggiasse il Murat, gran dignitario massone, e gli Unitarii di Napoli si volsero ad ubbidienza. Cavour pagò le spese d'un viaggio a Ginevra che fu fatto imprendere a Giannandrea Romeo, al generale barone Francesco Stocco ed a Tito Saliceti, per concertarsi col futuro Re Luciano I. Fu fermato che Napoleone spingesse l'Inghilterra ad inviare una flotta nel golfo di Napoli insieme ad altra francese, per dare opportunità di ribellare, e gli Unitarii prometteano ribellerebbero. Fu preparata una Costituzione alla francese, stabilito il Ministero, eletto insino il Viceré di Sicilia in persona di Gioachino Pepoli, il cugino del Murat II e di Napoleone III.

Allora fu posto fuoco alle mine. Prima Napoleone, con Nota del 21 maggio 1856 del suo Ministro Walewski, venne a dare avvertimenti al Re di Napoli, sottosopra com'egli soleva praticare coi giornalisti del suo Impero. Palmerston, da bel principio ben d'accordo, mandò dietro altra Nota, più gagliarda, testimone dell'amore inglese per la Sicilia, che dichiarava questa «essere mal compressa, volere sfogo il sentimento nazionale.» Cavour, resi più mansueti gli Unitarii faceva spargere per Napoli manifesti

Cospiratore inarrivabile per isbalzare dal trono i sovrani d'Italia, ed usurpare l'altrui, ei non isperò mai più che allargare quanto maggiormente fosse dato i confini dei dominii di Casa Savoia. Sicurissimo di nulla poter tentare senza Napoleone, si tenea altrettanto certissimo che mai Napoleone avrebbe dato Napoli ad altri che a Murat; sicché aiutava questo coll'intima convinzione che mai si avrebbe potuto conseguire di meglio. Quanto è vero consiste in questo, che codesta maniera di soluzione nel fondo dell'animo non gli andava per niente a grado, ed ebbe a dire che Luciano Murat a Napoli gli faceva l'effetto di un caporale francese camuffato da re italiano. Ma non per questo aveva fede in italiana unità. Posso aggiungere, che assai curiosi e istruttivi sono i documenti, che in ordine ai maneggi cavouriani per Murat si conservano nell'archivio degli affari esteri di una Corte. Sono dispacci riservatissimi che un Ministro accreditato presso il Re Ferdinando II. inviava al suo Governo. Credo che saranno pubblicati a tempo e luogo opportuno, ciò che oggidì non si potrebbe fare, certamente non a cagione di Cavour o di Murat, ma di altrui.

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di eccitazione alla rivolta, stampati a Torino. Austria, Toscana, Russia, s'interposero; questa per proclamare altamente (1): «Non è lecito dimenticare in Europa che i Sovrani sono eguali fra loro, e che non l'estensione del territorio, ma la santità dei diritti di ciascheduno regola le relazioni che possono esistere tra essi, il voler ottenere dal Re di Napoli concessioni riguardo al regime interno de' suoi Stati per via comminatoria e con dimostrazioni minacciose, è voler governare in sua vece, è proclamare senza maschera il diritto del forte sopra il debole.» Il rimprovero era pungente, ma giusto,

Al 10 ottobre Francia e Inghilterra minacciarono: «richiamerebbero i lor Ministri da Napoli, ma terrebbero flotte armate a Tolone ed a Malta, e navi sulle coste napoletane, per accorrere a' cenni de' Consoli risiedenti nel Regno.» Ed i Ministri partirono; e da Parigi e da Londra tornarono a Napoli quelli del Re. La flotta francese si raccolse ad Aiaccio in Corsica, pronta a partire per Napoli; ma Palmerston non volle più che i vascelli inglesi si avessero a muovere, e la bufera quetò. Walewski aveva detto all'Antonini, Ministro del Re di Napoli a Parigi: «Il Regno delle Due Sicilie deve sapere che soffrirà sempre una pressione francese o una pressione inglese, e deve manovrare in guisa da girare le difficoltà che non può risolvere, e impedire che le due pressioni si congiungano.» Ferdinando II, pigliato in mezzo tra due colossi, che nulla risparmiarono per impaurirlo, prudente senza debolezza, quanto coraggioso senza temerità, seppe non piegare il collo né al giogo della pressione francese, né al giogo della pressione inglese, giustificando la sentenza che un suo avversario, Mariano d'Avala, poco prima aveva scritta in Torino: «E noi siamo intanto sicuri, che saprà anche con arte meravigliosa guardare impassibile le minacce di Portsmouth e di Aiaccio.» Come sdegnò la calunnia, respinse la prepotenza; forte del suo buon diritto, rispose Note alle Note, proteste alle proteste, pronto a rispondere guerra alla guerra. Egli sarebbe caduto sotto la forza maggiore; ma, caduto, avrebbe almeno potuto ripetere con. giusto orgoglio: tutto è perduto, fuor che l'onore.

(1) Nota del principe Gortschakoff, Ministro degli affari esteri, in data di Mosca, del 21 agosto (2 settembre) 1856.

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Walewski aveva vaticinato: se il Re di Napoli non fa quanto gli chiediamo, una rivoluzione è imminente. Era la parte che si aveva assunto Cavour. Ma la rivoluzione non diede fuori. I popoli delle Due Sicilie poco sapevano di quei brogli, e niente affatto ne voleano sapere. Gli scontenti, fatto sacrificio d'ogni questione alla grande questione della dignità e della indipendenza vera del paese, si unirono ai contenti in un solo pensiero, quello di lasciare a Ferdinando II tutta la sua forza, tutta la sua libertà d'azione; e questi, accusato sempre di ubbidire all'Austria, provava infatti di non ubbidire punto né all'Austria, né ad altri, ma sì solo al suo dovere e all'utile della sua patria. Agli stessi Unitarii, in generale, non dispiaceva troppo che, mancata la promessa di appoggio nella venuta delle flotte, lor venisse meno l'occasione d'insorgere a prò del Murat, la cui candidatura pei più tra essi suonava segnale di servaggio vero a principe straniero e di dipendenza dalla Francia. Altro, dicevano, era disfarsi dei Borboni di Napoli per utile proprio, altro disfarsene per solo utile di signoria forestiera.

Mentre Francia e Inghilterra volgevano addietro, non punto si dava per vinto il Cavour; e intanto che con tiro volpino, quasi a volersi far credere immaculato e purissimo, si accostava in sembianza di amico al Governo napoletano, gli apprestava altre insidie in segreto. Il dì 22 del novembre Cavour si recava dal Canofari, rappresentante di Ferdinando II. presso la Corte di Torino, per dirgli: «Il vostro Sovrano ha fatto un assai bella figura, ha ben profittato delle circostanze, ha sciolto a suo profitto un nodo assai intricato. Ora dovrebbe vendicarsi delle Potenze che lo hanno annoiato, come di quelle che io hanno mollemente assistito, e ravvicinarsi al Piemonte. Napoli e Piemonte ben uniti darebbero la legge all'Italia.»

Quel giorno medesimo 22 del novembre, un barone Francesco Bentivegna, che aveva per questo viaggiato allora allora dalla Sicilia a Torino, e ricevuto da Cavour danaro e larghe promesse, inalberò il vessillo tricolore non lungi da Palermo, al grido: Viva l'indipendenza della Sicilia! Come aveano pattuito, navi da guerra francesi ed inglesi volteggiavano presso alla costa; ma il popolo finse di non vederle, in nessun luogo si unì alla sua banda, i villani gli diedero addosso gridando: Viva il Re! Cinto da ogni parte, in breve ora cadde in mano delle truppe reali.

FATTI DELLE DUE SICILIE. 201

Quell'ombra d'insurrezione non valse che a dimostrare qual fosse nella realtà lo spirito degli abitanti verso il Governo, che invano eransi tanto sforzati dipingere avuto in odio dalle popolazioni, Francia e Inghilterra alleatesi in un pensiero di vendetta, non convenute prima alla partizione, venute ora in gelosia e in diffidenza, Cavour si lusingava sempre accordare con far che la Sicilia stesse indipendente per un principe di Savoia sotto il patronato dell'Inghilterra, insediata a Messina, lasciato Napoli a Murat.

Pareva ormai non restasse che ad un solo mezzo a ricorrere, e vi ricorsero. Ferdinando II. era un ostacolo, che facea di mestieri rimuovere. L'8 dicembre, mentre, in occasione d'una solenne festa militare, le truppe sfilavangli dinanzi, un soldato, uscito con rapido movimento dalle file, lanciavasi sul Re, avventandogli un colpo di baionetta. Ferdinando, col braccio schermendosi, affievolì il colpo, non quanto bastasse per non averne ferita, innocua e poco profonda, in una costola a manca. Il mattino del dì successivo un giornale di Genova (1), stampato nello stesso giorno 8, e ognuno ricorda che a quell'epoca non vi aveano telegrafi elettrici, conteneva un articolo intitolato: Povero Bomba!, che incominciava così: «Se vi saltasse mai, o lettori, di pregare ad un vostro nemico, un malanno, ma di quei buoni, augurategli la posizione privata e pubblica del povero Bomba; e vi assicuro non vorrei esser io la Regina di Napoli. Appresso: «Di dietro poi, ed anche tutto all'intorno, il pericolo imminente di una botta sul cranio.» E chiudeva con feroce ironia: «Dunque vedete, lettori carissimi, se non è un brutto impiccio quello del povero Bomba! É come uomo alla vigilia della mola paga. Veh umana fortuna! Un Re sì devoto, sì santo, con tanti milioni di benedizioni addosso, doverla finire così malamente! Se io fossi, povera Vespa, un po' più ardita, vorrei andargli all'orecchio e dirgli: Maestà, siete in grazia di Dio, date una volta bando alle cure del mondo, lasciatevi mettere nel Calendario de' Santi!» Non nuova codesta abilità di scrivere vaticinii siffatti proprio il giorno in cui si compieva l'attentato; questa abilità la aveano avuta pure in Roma nel 1848 il Don Pirlone ed il Contemporaneo, quando profetizzarono si appuntino, il giorno avanti l'assassinio, la morte di Pellegrino Rossi. Da mesi mani misteriose spargevano ed appiccicavano

(1) La Vespa, num. 7, del 9 dicembre 1856.


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202 CAPITOLO DECIMO.

di notte tempo nelle vie di Napoli proclamazioni eccitanti a ribellione, mentre in Piemonte i giornali stampavano negli stessi giorni gli stessi proclami. Le popolazioni indifferenti ne facevano grasse risa; eppure ignoravano che que' medesimi, che nei diarii del Piemonte facevano stampare quegli appelli alla rivolta, aveano fatto stampare in Piemonte eziandio le proclamazioni medesime che comparivano sulle cantonate di Napoli in giorni stabiliti in precedenza a Torino.

L'assassino era un soldato del 3.° battaglione di cacciatori, Agesilao Milano. Nel 1848 aveva combattuto nella fila dei ribelli; fattosi Unitario, nel 1853 vantatosi che ucciderebbe il Re, sotto posto a giudizio, n'era uscito con sentenza significante non abbastanza chiaro il reato. Da sei mesi entrato nell'esercito con carte false, quel giorno 8 usciva la prima volta col battaglione. Arrestato e tradotto al quartiere del battaglione per sottostare a Consiglio di guerra, v'accorse tosto col tenente Carlo Bertini quale Commissario del Re, altro Unitario, il generale Alessandro Nunziante, comandante de' cacciatori nell'esercito, presidente di circolo nella setta degli Unitarii, pretestando volergli senz'altro testimonio parlare. Al Nunziante chiedentegli il perché del delitto, rispose ghignando: Tu meglio dei saperlo, che sul tuo braccio poteva cadere la sorte. Il Nunziante, il quale nelle centodiecisette ore che corsero fra l'attentato regicidio e il supplizio, meno sette ad otto ore di assenza per necessità inevitabile di servigio, stette sempre nel quartiere, dispose che a niun altro venisse concesso accostarsi al Milano, fatto guardare a vista da due sentinelle e da un uffiziale di guardia; e qualunque dei soldati s'attentò saperne qualcosa, fu incontanente spedito in lontana prigione. Fece che il giudizio seguisse nel quartiere medesimo, ed a presiedere il Consiglio di guerra fosse l'aiutante maggiore Enrico Pianelli, esso pure Unitario; poi, dannato nel capo il colpevole, tanto si adoperò presso il Re, già deliberato a commutargli la pena, che la sentenza fu lasciata correre. Fu osservato lo stato d'inquietezza febbrile cui era in preda il Nunziante in que' di, ed il sorriso di mal celata soddisfazione che gli balenò in viso allorquando vide fatto cadavere il Milano; ma tenuto pel più fedele, com'era il più beneficato, il credettero effetto d'indegnazione e di zelo. Altri assicurava che il Nunziante aveva misteriosi convegni notturni col Ministro di Sardegna in Napoli;

PATTI DELLE DUE SICILIE. 203

intanto Nunziante lodava molto al Re ed al Ministro della Guerra il Pianelii e il Bertini. Quattro anni più tardi, vedremo, accumulate fellonie a fellonie, tradimenti a tradimenti, quel Nunziante passare a Vittorio Emanuele, proclamando (1): «Chi non segue il suo esempio è traditore della patria;» quel Pianelii e quel Bertini disertare dinanzi a Gaeta.

Poco appresso in Napoli un processo assicurò alla giustizia dieci complici del Milano; ma il Re comandò non si facesse alcun romore di nuovi giudizii. Fu provato che i congiurati attendevano la nuova dell'uccisione di Ferdinando per dare di piglio alle armi in Calabria, e spingere i popoli a ribellione. Qual voluttà pel figliuolo di Gioachino I. vendicare il padre, fucilato a Pizzo il 13 ottobre 1816, sul cadavere del nipote di Ferdinando I.! Sul mezzodì del 17 dicembre in Napoli scoppiava la polveriera sul molo militare avanti la reggia; perirono diciassette persone, gittate all'aria gran parte dell'edilìzio ad assai distanza, franti i vetri della reggia e di gran parte della città molto addentro. Il 4 gennaio 1857, nel cuor della notte, sulla bocca stessa del porto militare davanti la reggia una grossa nave da guerra, la fregata Carlo III., scoppiava con orrendo fracasso, mentre stava per avviarsi a Palermo, carica di molta polvere. Morte trentotto persone, spenti i fanali di tutte le strade propinque, spezzato ogni vetro in città. Entrambi opre infami d'infame consorteria, riescite a bene per mezzo di certi fuochi artificiati per segnali di navi in mare, ordinati dal Conte d'Aquila, fratello del Re, fatti costruire a Palermo, confezionati a tal maniera che dopo un dato tempo dovevano arder da soli. Se ne erano posti e nella polveriera e nel Carlo III.; gli altri, chiusi in una riservetta al Granatello, dopo alcuni giorni arsero da sé.

In questo mezzo lunga serie di turpezze venivano dal Piemonte a ribadire la bella frase del Salvandy (2): «Un gusto particolare della nostra epoca, un carattere di questa corruzione artificiale che la società intera rinnega, ma che la penetra, l'impregna, la dissolve per gradi, è la predilezione e in certa guisa la concupiscenza del regicidio.» Appena pervenutavi notizia dell'eroismo del Milano,

(1) Proclama ai soldati dell'esercito napolitano, del 15 agosto 1860.

(2) Vingtmois, ou la révolution et le parti révolutionnaire, liv. VI. 503.

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vi ebbe chi proclamò il regicidio un diritto (1). Ancor nel dicembre il Municipio di Torino, il quale decretava che la Via d Italia, si chiamasse Via di Milano, cambiò avviso, e sulla lastra di marmo bianco fece incidere Via Milano in onore dell'assassino. Il diario di Mazzini scriveva (2): «Il conte di Cavour, nella sua qualità di diplomatico, ha ripudiato simpatia per quel fortissimo uomo, che si chiamò Agesilao Milano. Per parte nostra dichiariamo che desideriamo avere per figli e per amici uomini che gli somiglino. Quando l'Italia libera potrà esprimere la propria opinione, si vedrà a chi darà ragione, se a Cavour o ad Agesilao Milano. Curvatevi pure, o servi della diplomazia, sino a rinnegare i migliori figli d'Italia.» I giornali ministeriali del Cavour annunciarono che la fossa del Milano si era trovata vuota un bel mattino, ed il cadavere rubato da non si sapeva chi; come ne' secoli addietro i Cristiani sottraevano a' persecutori i corpi de' martiri! «Una soscrizione veniva aperta in Torino per rizzare un monumento ali assassino. La nota di questa sottoscrizione girò nella Camera dei Deputati, ed ebbe alquante firme, che Battezzi, Ministro agl'Interni, conosceva (3). Biografie lodative giravano liberamente in Piemonte, ove ancora era un Re. Un emigrato napoletano, Giuseppe del Re, scriveva un carme encomiastico, ed i tribunali di Torino dichiararono il poeta innocente. Coniarongli una medaglia, che dissero (4) fatta con nobil pensiero, per raccomandare quel valoroso alla memoria de posteri; pella quale (5) l'artefice ha lavorato col cuore, e il Milano ha ricevuta la palma del martirio.» Poi altra medaglia con da una parte l'effige di Bentivegna, dall'altra quella del Milano, col laccio al collo e la palma del martirio, e le parole: Solo in piena luce a viso aperto si levò contro l'empio accampato e potente, redentore civile. Poi il panegirico della medaglia, che incominciava (6): «La storia scrive nel libro de' buoni i nomi di Milano e di Bentivegna caduti;

(1) Gazzetta del popolo, numero dell'11 dicembre 1856.

(2) Italia e popolo, num. IO, del 19 gennaio 1857.

(3)

Giorgio Briano; La congiura di Genova ed il Ministro Rattazzi,pag. 13. (Torino 1857).

(4) Il Diritto di Torino, numero del 29 marzo 1857.

(5) Gazzetta del popolo, numero del 30 marzo 1857.

(6) Almanacco nazionale per il 1858, pubblicazione della Gazzetta del popolo, anno IX., pag. 7175.

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registra fra quello de' scellerati il nome del Borbone che tuttora vive come un fenomeno strano di natura;e finiva colle parole: «Popoli d'Italia, inginocchiatevi davanti a Bentivegna e davanti ad Agesilao Milano. Italiani, baciate i due Santi. Proposero d'innalzare sul luogo (1) una cappella alla Vergine in rendimento di grazie. Chi sa che invece in quella cappella abbiansi a depositare col tempo le sacre reliquie di Agesilao,» Ed il conte di Cavour vietava fosse impedito che i due Santi fossero esposti alla venerazione degl'Italiani, vietava si facesse processo ai due redattori dell'Almanacco nazionale, adoperavasi con ogni zelo perché quei due, che aveano santificato Agesilao Milano e il Bentivegna, riescissero eletti a Deputati al Parlamento in Torino, e lo furono. Povero Piemonte, se a tutto un popolo si avessero ad ascrivere le colpe di alcuni, quanta vergognai Fu forza a Cavour avvedersi che il giuoco non gli riesciva; e come, fallitogli il compito del rivoluzionario, realmente non gli rimanesse di meglio che riedere a mascherarsi vie più colla ipocrita veste del moderato. Aspre querele gli movevano d'ogni intorno coloro cui aveva promesso monti e mari; sinché nella Camera dei Deputati, il 15 di gennaio 1857, Angelo Brofferio venne «a chiamare a confronto le fastose parole del signor Ministro e de' suoi colleghi colle vane opere che ne sono risultate,ed a rimbrottarlo acremente perché non s'era servito dell'insurrezione di Sicilia, né dell'attentato contro la vita del Re di Napoli. «Al guerriero appello del conte di Cavour, diss'egli, faceva eco il Piemonte; in ogni parte si parlava di prossimi incontri,e di guerre, e di vittorie. La stampa imboccava la tromba, e suonava a riscossa. Si sottoscriveva alla proposta dei cento cannoni d'Alessandria, molto bene completata dall'altra proposta dei diecimila fucili di Genova. Piovevano le manifestazioni; l'emigrazione si costituiva in comitati per essere pronta ad accorrere in compatta schiera verso il commosso suolo natio, e tanta era l'ansia del supremo momento, che le più cospicue città dell'Italia affrettavansi ad attestarla al signor Presidente del Consiglio con patriottiche felicitazioni, e coll'invio di sculti marmi, di effigiati metalli. E chi lo chiamava Farinata, e chi Ferruccio,

(1) Dove fu tentato l'assassinio del Re di Napoli.

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e chi Gola di Rienzo (Ilarità generale). Ed intanto che faceva il Signor Ministro? I suoi compagni che facevano? Come si scioglieva questo strepito d'armi? All'italico entusiasmò come si corrispondeva? Come?»

Un altro deputato, Giorgio Pallavicino, si fece a soggiungere: «Se il Governo subalpino, lasciò scritto quell'altissimo ingegno di Vincenzo Gioberti, si ferma nella via degli avanzamenti, se tituba, trepida, s'inginocchia, screditerà il principato e lo perderà, se mai accada che sia messa sul tavoliere la posta fatale e attrattiva della Repubblica. Con quali forze lotteremo noi coll'esercito austriaco? Colla rivoluzione, ficco l'alleato ed il solo alleato sul quale possa far disegno il Piemonte italiano. Implorare il patrocinio de' potentati forestieri sarebbe una viltà;sperare in quello, demenza. La diplomazia, che ha buona memoria, non ha dimenticato il quarantotto; essa diffida, e diffiderà sempre del Piemonte, fino a tanto che il Piemonte farà sventolare nelle sue città e nelle sue terre la bandiera tricolore. Questa bandiera, inalberata in Italia dalla rivoluzione, significa rivoluzione, né altro potrebbe significare. La diplomazia lo sa,che la diplomazia non è stolta.»

«Le nostre parole, gli rispondeva Cavour, la nostra politica non tendono ad eccitare ed appoggiare in Italia moti incomposti, vani ed insensati tentativi rivoluzionarii. Rispetto a Napoli, il deputato Brofferio ha ricordato fatti dolorosissimi, scoppio di polveriere e di navi da guerra con perdita di molte vite, ed un attentato orrendo. Egli ha parlato in modo da lasciar credere che quei fatti sieno opera del partito Italiano. Io li ripudio. No, questi non sono fatti che si possano apporre al partito nazionale; sono fatti isolati di qualche disgraziato illuso, che può meritare pietà e compassione.» Era la favola della volpe, che lasciò stare l'uva, dicendola immatura, perché non poteva coglierla.

Gravissimi argomenti obbligavano senza più il conte di Cavour ad inchinarsi docilmente alle mutate condizioni de' tempi. Fino da quando fu pronunciata la prima volta la parola di pace, non mai l'Imperatore de' Francesi aveva cessato di avere i più grandi riguardi per la Russia. Lo studio evidente di conciliarsene le simpatie a forza di deferenza e di cortesia, ed al fine di conseguirne l'amicizia e l'alleanza, non aveva tardato a porre in serio sospetto

FATTI BELLE DUE SICILIE. 207

il Gabinetto britannico, il quale tanto più si era avvicinato all'Austria, quanto maggiormente si faceva palese l'intimità stabilitasi fra le Corti di Parigi e di Pietroburgo. Sinché, nel febbraio del 1857, il barone Antonini, Ministro del Re di Napoli presso la Regina d'Inghilterra, poté annunziare a Ferdinando II. (1): «Il Gabinetto inglese, stretto com'è attualmente all'Austria, non ammette cambiamento di dinastia nelle Due Sicilie, ha abbandonata la protezione della rivoluzione in Italia, e rinuncia alle sue idee sull'indipendenza della Sicilia. Lord Clarendon me ne ha fatto assicurare come gentleman.»

Le assicurazioni date in que' dì dal conte di Clarendon alle Corti di Napoli e di Vienna non erano nella realtà menzognere. Calcolatrice fredda come un negoziante, l'Inghilterra seduta sul sacco di lana tratta i principii, che commuovono più profondamente l'Europa, siccome una mercé, che viene pagata a caro prezzo o rifiutata, secondo il guadagno che se ne aspetta. È la base irremovibile della politica esterna britannica il cui andamento non può riconoscersi con sicurezza se non in quanto si possa seguire il filo degl'interessi inglesi. Tutte le rappresentazioni nel suo Parlamento, tutte le declamazioni della sua stampa, non mai hanno altro valore se non in quanto il filo di quegl'interessi concede l'antico volgare proverbio: commercio non è amicizia, si applica perfettamente alle relazioni esteriori del grande negoziante dei Gabinetto di San Giacomo, sia che il capo del Ministero si chiami Grey, Melbourne, Russell, Aberdeen, Derby, Palmerston.

L'Inghilterra ha indispensabilmente bisogno dell'amicizia di un grande Stato nel centro del Continente europeo. L'Austria le parve sempre l'alleato più naturale, sia per la sua geografica posizione, sia per l'andamento costante della sua politica. Giammai, d'altronde, essa dimenticò «che l'Austria aveva salvato gl'Inglesi» col passare l'Inn nel 1805, allorquando Napoleone s'apprestava a varcare lo stretto di Calais; ch'essa era venuta a salvarli ancora una volta con impedire a Napoleone d'inseguirli in persona sino alla Corogna; ch'essa così a due riprese aveva impedito il trionfo della Francia sulla sua rivale (2).» Motivo di tutti i dispiaceri e tormenti,

(1) Dispaccio riservatissimo del 21 febbraio 1857.

(2) Thiers, Rist. du Con, et de l'Emp., Tome X., livre XXXIV., pag. 92.

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preparati dall'Inghilterra all'Austria, fu quello soltanto di far conoscere agli uomini di Stato austriaci il valore e la necessità dell'alleanza inglese. In Italia la politica britannica accese o smorzò il fuoco, secondo che in altri punti della politica europea andavasi o non andavasi d'accordo coll'Austria. Divenuto questo pensiero in Inghilterra carne e sangue, lord Palmerston avrebbe potuto impunemente confessare d'avere, per quel motivo, temporaneamente inviato nell'esilio in Crimea il fiore dell'esercito sardo, più per far piacere all'Austria, che per la necessità militare di quelle truppe sul teatro della guerra.

In corrispondenza a quel motivo i sagrifizii della Sardegna ebbero premio al Congresso di Parigi. E quando, la sera del 12 di febbraio 1857, nella Camera dei Comuni lord Palmerston sorse dal suo seggio verde, ove sembrava addormentato, e, senza che nessuno se lo aspettasse, senza preamboli, senza abbellimenti oratorii, dichiarò che esisteva in fatti, ed era stata sottoscritta, la Convenzione secreta tra l'Austria, la Francia e l'Inghilterra, concernente l'impegno preso dalle due ultime d'impedire ogni ostilità della Sardegna verso la prima, della quale Convenzione erasi già parlato in due sedute, e eh egli stesso aveva negata; alle altissime recriminazioni di coloro che lo accusavano di aver tradito le speranze degli uomini della rivoluzione in Italia, egli poteva con pari disinvoltura, sempre in corrispondenza a quel motivo, replicare che quelle speranze a nulla avrebbero servito all'Inghilterra, tosto che avesse avuto bisogno in altro luogo della cooperazione dell'Austria. L'Inghilterra poteva benissimo mandare accorti emissarii in Italia per dare lusinghe, per vezzeggiare partiti, per favorire e proteggere la propaganda anticattolica; ma non avrebbe fatto mai altro; ed il liberalismo italiano in ogni tempo s'ingannava a partito, se altro sperava dall'Inghilterra elio incoraggiamenti e voti.

Così, sentendosi mancare sotto a' piedi il terreno, fu forza al conte di Cavour sostituire daddovero al motto d'ordine: Agitateti ed, agitate, quello: Quietatevi e quietate.




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Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)












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