Eleaml - Nuovi Eleatici


DELLE

RECENTI AVVENTURE

D'ITALIA,

PER

IL CONTE ERNESTO RAVVITTI.

"La società ha bisogno di grandi scosse, o di tristi prore, per ricondurla agli eterni principii d'ordine e di governo."

CAPEFIGUE.

LE CAUSE.

VENEZIA,

TIPOGRAFIA EMILIANA.

1864.

Vol. 01C
01_A - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1864 HTML ODT PDF
01_B - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1864 HTML ODT PDF
01_C - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1864 HTML ODT PDF
02_A - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 HTML ODT PDF
02_B - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 HTML ODT PDF
02_C - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 HTML ODT PDF
02_D - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 HTML ODT PDF
La Civiltà Cattolica, 1866 - Delle recenti avventure d'italia di Ernesto Ravvitti HTML ODT PDF


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CAPITOLO UNDECIMO.

Orsini e Plombières.

Tra due fuochi. - Tibaldi e consorti. -

L'amico della birreria.

- Napoleone III. ritorna ad esigere riforme per lo Stato pontificio. - II 14 gennaio 1858 a Parigi. - L'attentato spiegato da Felice Orsini. - L'istinto della conservazione dell'individuo. - Primi sintomi rivelati da Giulio Favre. - Testamento politico dell'Orsini. -

Veraci sensi italiani

di Napoleone encomiati dal regicida. - Uno schiarimento che abbuia. - L'amor di patria spinto al delirio, secondo Cavour. - Circolare sarda del 1.° aprilo 1858. - L'artefice loda l'opera. - Storia arcana d'una spedizione. - 11 segreto della politica di Cavour delineato da Mazzini. - Napoleone III. e Cavour a Plombières. -

Lasciamo star la morale.

- Mazzini nella perfezione del vuoto, e Donati nella perfezione del desiderio. -I badalucchi forieri delle battaglie. - Smentite e conferme, - L'

Italia contemporanea

di Edmondo Àbout. - Buloz, Vidalin, Achard e la

Tireuse de cartes.

- Uno sguardo all'Europa sul chiudersi del 1858.

Non appena Napoleone III. aveva cinto il diadema imperiale, ei s'era trovato tra due fuochi» e la sua vita insidiata per una parte dai socialisti francesi, per l'altra dai mazziniani italiani. E questi e quelli accusandolo reo di defezione e di tradimento, non mai gli avrebbero perdonato gli uni i suoi giuramenti alla repubblica calpestati ed infranti, gli altri i giuramenti del 1830 che teneano posti del tutto in non cale, l'inganno degli scopi mutati della spedizione di Civitavecchia, la morte della romana repubblica, la commedia della lettera ad Edgardo Nev, lasciata, ai lor occhi, cadere in dimenticanza. E ognuno per proprio conto, quantunque sempre operanti per reciproca intelligenza, e quelli e questi eransi accinti al lavoro, dato di piglio alle tenebrose armi della vendetta; i socialisti francesi seguendo le inspirazioni di LedruRollin, i mazziniani italiani guidati dal Mazzini, tutti sotto l'alta direzione del Comitato rivoluzionano europeo, iustituito in Londra, nel quale LedruRollin rappresentava la Francia, Mazzini l'Italia, Ruge la Germania, Darasz la Polonia, ed il cui scopo era dinotato dalle formule generali: repubblica universale, fratellanza, solidarietà delle nazioni.

LedruRollin trasse in campo le società massoniche intitolate consigli del popolo ed II cordone sanitario,

210 CAPITOLO UNDECIMO.

affratellatesi insieme per tor di vita nel 1853 l'Imperatore, prima all'Ippodromo, poi all'Opetti comica; la setta massonica che si nomò La Marianna, e via via. Mazzini venne fuori coll'attentato di Pianori nel 1855. Ma la piega insperata che Napoleone III. aveva fatto prendere al Congresso di Parigi, proprio in quella che le Conferenze stavano per finire, e ormai parea quasi affatto ita in dileguo ogni speranza che la questione italiana vi avesse a dar fuori, avevano, non già disarmato, ma tenuto sospeso il braccio de' sicarii. Se non che quando videro che la questione napoletana dopo assai di rombazzo, ed affoltarsi di Note diplomatiche, ed infuriare di minaccie, e scorazzare di Ministri, e muovere di flotte, era stata lasciata cadere nella realtà in nonnulla; che la questione romana, intavolata con tanto romore, non sembrava avanzare di un passo; che l'Imperatore de' Francesi si mostrava assai soddisfo di quanto di buono andava operando l'Austria nel Lombardo-Veneto; che le relazioni fra le Corti di Parigi e di Vienna continuavano a correre sul miglior piede di amicizia e concordia; che la rivoluzione, s a lungo vaticinata ed attesa, non poteva dar fuori nella Penisola; che il Piemonte, dopo avergli lasciato agio a tanto dire e a tanto fare, era stato costretto stringere i freni a quel modo, e ogni dì più allentarli; vennero in pensiero tutto quel fuoco fatuo non essere stato in vero più che una gherminella di Napoleone, quasi un'altra maniera di Colpi di Stato. Allora tornarono ad affilare i pugnali, ed approntare polvere e palle.

Nel giorno 13 del giugno 1857 tre uomini venivano arrestati in Parigi, mentre s'apprestavano ad eseguire un attentato contro la vita dell'Imperatore. Erano: un Paolo Tibaldi, nato a Longo in Piemonte; un Paolo Grilli di Cesena, nello Stato pontificio; un Giuseppe Bartolotti, bolognese. Si trovarono in possesso di quindici pistole a doppia canna, cariche a palla e pronte a far fuoco, pistole a rivolta, molti pugnali avvelenati. Una delle pistole, di una forma affatto particolare, colle due canne sovrapposte l'una all'altra, era del tutto eguale alla pistola di cui si aveva servito Pianori il 28 dell'aprile 1855. I documenti e le lettere rinvenute sulle persone dei tre congiurati, le lettere sequestrate alla Posta di Parigi, le confessioni di Grilli e Bartolotti, posero in piena luce che la trama, incominciata a Londra, continuata a Parigi, era stata ideata, organizzata, diretta e pagata da Mazzini; che Tibaldi era l'agente principale del delitto a Parigi,

ORSINI E PLOMBIÈRES. 211

Grilli e Bartolotti i sicarii prezzolati, arruolati a Londra per conto di Mazzini, spediti a Parigi con danaro dato da Mazzini, lieti di avere nelle tasche mille franchi loro esborsati per prezzo anticipato del colpo che non dovevano compiere. LedruRollin, messo a parte del disegno, erasi offerto pronto a spesare quelli che volevano attuarlo.

Congiurati col Mazzini nella trama, e da esso dipendenti, erano altri due italiani, Massarenti e Campanella. Gaetano Massarenti, altro bolognese, a Londra scannamaiali, era quello che aveva l'incarico d'ingaggiare gli assassini nelle osterie di Londra; ed aveva fatto ritornare da Yorck, in Inghilterra, dov'erasi recato, Bartolotti, minacciandolo dell'indignazione di Mazzini per avere abbandonato il suo posto. Federico Campanella, genovese, il noto scrittore nel giornale Italia e popolo, uno de più fedeli ed operosi seguaci di Mazzini, sostituiva a Londra nella direzione della trama il Mazzini, sinché questi si fosse trattenuto in Genova.

Mazzini scriveva, il 10 giugno, da Genova a Massarenti in Londra, che se Grilli e Bartolotti avessero «bisogno di qualche denaro, se andrete dall'amico della birreria, ve ne darà per essi; io gliene ho dato l'ordine.» A Campanella nello stesso giorno scrive: «Domanda denaro a James, cui ne do avviso, ed a cui l'indirizzo. Il portafoglio di Tibaldi spiegò chi fosse l'amico della birreria e James. Quel portafoglio conteneva l'indirizzo: «James Stansfeld, birraio, Londra, 2 Brompton. Nell'udienza del 6 agosto, della Corte di Assise della Senna, il presidente pose in evidenza che «James Stansfeld, birraio in Londra, è il banchiere e il depositario dei capitali di Mazzini.» Non molto più tardi quello stesso James Stansfeld, eletto a membro della Camera de' Comuni, sedeva nel Gabinetto britannico in compagnia di lord Palmerston!

Napoleone III. parve non darsene per inteso, e nello stesso mese di giugno inviava a Vienna un piano di riforme, ch'egli intendeva, col concorso dell'Austria, proporre alla Santa Sede in relazione a quanto sopra questo argomento era stato detto al Congresso di Parigi. Codesto progetto può essere riassunto cosi: «Secolarizzazione del potere amministrativo colla formazione di un Consiglio di Stato, composto esclusivamente di laici,

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il quale avesse l'incarico di esaminare e discutere le leggi. Rappresentanza di tutti gl'interessi del paese per mezzo di una Consulta scelta direttamente dai Consigli provinciali. Controllo efficace delle spese locali col mezzo di Consiglieri provinciali, che dovessero ricevere la loro delegazione dai Consigli municipali. Riforma giudiziaria colla pubblicazione di un Codice civile sul modello del Codice Napoleone o del Lombardo-veneto. Esazione regolare delle pubbliche rendite colla organizzazione degli Ufficii ch'esistono in Francia. Finalmente riconciliazione di tutte le classi e di tutte le opinioni, con un illuminato e paterno reggimento di mitezza verso tutti quelli che si assoggettassero riverenti al Sommo Pontefice».

Il Gabinetto austriaco presentò talune osservazioni intorno al progetto francese. Il Governo di Francia lasciò allora cadere la cosa. Per tal modo Napoleone III. stabiliva un precedente, onde all'occasione poter dire, che se nulla di quanto egli si avrebbe bramato era riescito a conseguire rispetto agli Stati pontificii, non punto sua ne era stata la colpa, ma sibbene unicamente dell'Austria, senza il concorso della quale, così tornava utile affermare senza posa, quantunque nella realtà non esatto, nulla avrebbe potuto succedere in tutta Italia all'infuori del Piemonte.

Siamo al 14 di gennaio 1858. Nel teatro dell'Opera in Parigi v'avea una rappresentazione straordinaria a benefizio di un attore, Massol, che ritiravasi dalle scene. Era noto che l'Imperatore vi si avrebbe recato. Nel momento in cui la carrozza imperiale giungeva davanti il peristilo del teatro, tre bombe l'una dopo l'altra scoppiavano dappresso e sotto la carrozza stessa. In un istante la carrozza è frantumata da settantasei proiettili; dei due cavalli della muta, l'uno colpito da venticinque ferite muore sul colpo, l'altro poco appresso. Il cocchiere, un Generale che sedeva sul dinanzi della carrozza, i tre valletti che stavano nella parte di dietro, sono feriti. Centocinquantasei persone, delle quali nove muoiono, offese da cinquecentoundici ferite. Dei ventiquattro cavalli di lancieri della scorta imperiale, che venivano presso alla carrozza, cinque muoiono, gli altri son tutti feriti. L'Imperatrice è lievemente offesa al volto. L'Imperatore, pure ferito alla faccia, ha il cappello trapassato da parecchi proiettili, e per la terza volta è salvato da certa morte per la provvidenziale cotta di maglia d'acciaio,

ORSINI E PLOMBIÈRES. 213

che non abbandona mai, e sulla quale, attraversati gli abiti, erano venute a fermarsi due scheggie di bomba.

Già tempo egli si attendeva ad alcun che di simile. Sino dal giugno del 1857 gli agenti secreti della Polizia, ch'egli teneva in Yersey ad ispiare i fuorusciti francesi colà rifugiati, gli aveano fatto conoscere che in Inghilterra si tramava una vasta congiura contro la sua vita. «La congiura, aveano scritto (1), consiste nella fabbricazione di granate fulminanti. Esse sono d'una potenza sconosciuta fino al presente; e dovranno essere gettate sotto la a carrozza di Sua Maestà Imperiale, dove il loro semplice urto contro il lastricato provocherà la loro esplosione, e la distruzione della carrozza.»

Si arrestano quattro persone, ben presto riconosciute autori o complici del misfatto. Erano quattro italiani: Felice Orsini, nativo di un paesello presso Imola, negli Stati pontifìcii; Giuseppe Pieri, di Lucca; un de Rudio, di Belluno; un Gomez, di Napoli. Gomez aveva militato nel 1848 in Lombardia contro gli Austriaci, Rudio nel 1849 a Roma sotto Garibaldi, Pieri nello stesso anno aveva comandato in Toscana un battaglione di bersaglieri volontarii. Orsini, affratellato della Giovine Italia sino dal 1842, uno fra i più caldi apostoli del Mazzini sino alla fine del 1856, dalla qual epoca si era separato intieramente da lui; capitano in un battaglione pontificio nel 1848, combattente contro gli Austriaci a Vicenza, a Treviso, a Venezia; nel 1849 Deputato all'Assemblea costituente romana, commissario straordinario della Repubblica a Terracina, poi ad Ancona; comandante le spedizioni mazziniane di Sarzana nell'agosto del 1853, e alle foci della Magra nel maggio 1854; dal principio del 1857 a null'altro aveva pensato che a preparare l'attentato del 14 gennaio.

Nel 1857 Orsini aveva mandato alle stampe un libro, violento atto d'accusa contro Mazzini, quasi ad ispiegare preventiva mente il perché lascierà più tardi la testa sul palco dei parricidi. Per lui, Napoleone III. è il più grande nemico d'Italia, la spedizione di Roma una gherminella, la lettera ad Edgardo Nev una baratteria, i volteggiamenti di Walewski al Congresso di Parigi nulla più che polvere negli occhi de' gonzi.

(1) Le Moniteur Universel, del 16 di gennaio 1857.


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214 CAPITOLO UNDECIMO.

Aveva accarezzato il Piemonte, incuorato ad osare, aizzato, lasciato fare, per poi dannarlo a morire d'inanità. Per lui, evidente che Napoleone non mai avrebbe ardito pigliare risolutamente, senza secondi fini, senza mutazioni di scena, le parti della rivoluzione in Italia.

«Nel 1848, egli scrive (1), i popoli già si scuotevano, quando apparve Luigi Napoleone. Egli, collegatosi colle classi interessate al vecchio ordine di cose, profittò degli errori delle nazioni, e arrestò momentaneamente il progresso della causa. Egli è quel desso, che oggi appunto sorregge l'attuale assetto politico dell'Europa, basato sulla forza, sul despotismo; e tutti isovrani fanno capo a lui. Questo sistema è artificiale; pende dalla vita di un uomo, che tiene compressa con una mano di ferro l'Europa intiera. Lui caduto, che avverrà? Stupidaggine di tentare in Italia dei meschini moti, di cinquanta, di cento, di duecento individui. Perché fossevi speranza di riuscita bisognerebbe che Italia, come un sol uomo, ciò che non è possibile, si levasse tutto ad un tratto, la qual cosa darebbe forse animo ai Parigini di rovesciare il loro tiranno.

Noi perdemmo. Ma sotto la nostra caduta sta celato un gran fatto morale, le cui conseguenze si faranno ben presto sentire; voglio dire del Papato, portatoci sul collo e tenutoci dalle armi del traditore che regge oggi la Francia (2).»

Nel breve giro di cinque anni, dieci altri attentati alla vita dell'Imperatore de' Francesi avevano preceduto il delitto di Orsini. Tre volte Napoleone III. aveva mirato in faccia la morte; questa fiata ei si tenne senz'altro perduto, qualora realmente non avesse mutato cammino, e data una soddisfazione vera alle formali promesse ed ai solenni impegni per lo addietro contratti. Senza dubbio, se a quelle promesse e a quegl'impegni egli non avea sino allora stimato conveniente, per le mutate circostanze degl'interessi suoi personali del momento, di fare onore a quel modo che si avrebbe voluto, non per questo aveva egli pensato potersene tenere del tutto prosciolto; che anzi vedemmo com'ei divisasse trame partito a migliore opportunità. Certo la Carboneria più non esisteva come corpo da sé; ma tuttora vivevano, nel 1858,

(1)

Orsini, Memorie politiche, Parte II., capit. XV., pag. 323324.

(2) Memorie politiche, Parte I., capit. V., pag. 85.

ORSINI E PLOMBIÈRES. 215

due di que' cinque alti buoni cugini nelle cui mani aveva egli giurato nel dicembre 1830 in Roma; ma la Giovine Italia, comunque dispersa e risorta sotto altri nomi ed aspetti, sempre si era piccata, da buona figliuola, di essere rappresentante ed erede legittima della Carboneria stessa (1).

Egli vide quanto gli sarebbe stato agevole mandare alcuni uomini al patibolo, tagliare alcune braccia al Briareo, di cui egli medesimo era un fortunato figliuolo, ma vide eziandio come il mostro vivrebbe sempre, e contasse a centinaia le braccia. Poiché bensì si uccidono gli uomini, non i principii, bene spesso il sangue di regicidi è seme di altri regicidi. Non la era più questione di opportunità, non questione di tempo, se non in quanto si riferisse al tempo strettamente indispensabile per preparare la Francia all'idea della guerra, per apprestare le armi, per far sorgere i pretesti ad incominciare la lotta, per accozzare gli amici, per seminare zizzania nei campi degli avversarii presumibili. L'istinto della conservazione dell'individuo ben presto prevalse ai freddi calcoli della politica; e la rivelazione della conseguita prevalenza non tardò guari.

Nel mentre che il Moniteur officiale pubblicava tra gl'indirizzi dei Cardinali, dei Vescovi e dei magistrati francesi l'indirizzo presentato all'Imperatore dalla Framassoneria di Francia, nel quale, fra le altre cose, dicevasi «che il Grande Architetto dell'Universo non ha permesso che anime perverse si aprissero la via verso l'Imperatore a traverso della pace del mondo;» l'Orsini tratto dinanzi alla Corte d'Assise della Senna, all'udienza del 25 febbraio, dichiarava: «I miei pensieri, tutte le mie azioni, non ebbero che un oggetto, che una meta, la liberazione della mia patria. Era convinto ch'egli è inutile disporre a far fucilare

(1) Il colonnello Rustow (Guerra d'Italia del 1859, Parte I., Capit. I.) scrisse: «Dicesi che l'attentato di Orsini abbia richiamato assai vigorosamente alla memoria dell'Imperatore quei tremendi giuramenti coi quali erasi nel 1830 legato alla Giovine Italia, e gli obblighi verso l'Italia che gl'imponevano gli stessi giuramenti.» È una leggiera inesattezza che non meriterebbe un appunto speciale in un libro per molti riguardi eccellente, se forse tutti quei pochi, che dissero alcuna parola delle obbligazioni settarie contratte da Napoleone III. in gioventù, non parlassero sempre di Giovine Italia, setta fondata, siccome fu detto (pag. 28), sul principio del 1832.

216 CAPITOLO UNDECIMO.

dieci o venti uomini, come fa indarno Mazzini da lungo tempo.» Esaminando le condizioni politiche di tutti i Governi d'Europa, mi sono fissato nell'idea, che vi era un uomo solo in grado di sottrarre il mio paese all'occupazione dello straniero; che questo uomo era Napoleone III., il quale è onnipotente in Europa. Ma tutto il suo passato mi dava la convinzione, ch'egli non vorrebbe fare quello ch'egli solo poteva fare. Confesso dunque francamente, che l'ho considerato come un ostacolo. E allora dissi fra me, che bisognava toglierlo di mezzo.»

Nell'udienza del d successivo, Giulio Pavre, che l'Orsini avea prescelto a suo difensore, venne a dire, senza che il pubblico Ministero si facesse in modo alcuno ad avversarlo: «Italiano, Orsini lottò tutta la sua vita contro lo straniero, che opprime la sua patria. Questo amore di patria lo ha ricevuto col sangue di suo padre; ha succhiati col latte di sua madre i principii, pei quali si è sacrificato. Oh! lo chieggo al procuratore generale:Italiano, forsechè non sentirebbe il male che rode la sua patria? Forsechè non sentirebbe il peso delle catene, in cui ella si dibatte? Il pensiero, a cui Orsini si è consacrato, fu quello di Napoleone I., che voleva l'unità d'Italia, che molto fece per riescirvi, e che sapeva che la prima cosa da farsi era la distruzione del potere temporale del Papa. Ecco a quale idea Orsini ha tutto sacrificato. Ciò ch'ei volle si fu rompere le catene ribadite alla sua patria, far cessare l'oppressione sotto cui essa geme. Ah! che sappiam noi, o signori, delle cose e dei disegni della Provvidenza? Udite, egli ha lasciato il suo testamento, la sua preghiera, in uno scritto, diretto dalla sua prigione all'Imperatore; scritto ch'io vi leggerò, dopo averne ottenuta licenza da colui stesso a cui venne indirizzato.

Ecco com'è concepito:

A Napoleone III. Imperatore de Francesi.

«Le deposizioni ch'io feci contro me medesimo in questo processo politico, mosso in occasione dell'attentato del 14 gennaio, sono sufficienti per mandarini a morte; e la soffrirò senza domandare grazia, s perché io non mi umilierò giammai dinanzi a colui che uccise la libertà nascente dell'infelice mia patria, e si perché nello stato, in cui mi trovo, la morte è per me un benefizio.

ORSINI E PLOMBIÈRES. 217

Presso alla fine della mia carriera, io voglio nondimeno tentare un ultimo sforzo per venire in soccorso all'Italia, la cui indipendenza mi fece fino a quest'oggi sfidare tutti i pericoli, affrontare tutti i sacrificii. Essa fu l'oggetto costante di tutte le mie affezioni; ed è questo ultimo pensiero, che io voglio deporre nelle parole che rivolgo a Vostra Maestà.

» Per mantenere l'equilibrio presente dell'Europa è d'uopo rendere l'Italia indipendente, o restringere le catene sotto di cui l'Austria la tiene in servaggio. Domando io forse per la sua liberazione che il sangue dei Francesi si sparga per gl'Italiani? No, io non vado fin là. L'Italia domanda che la Francia non intervenga contro di lei, domanda alla Francia che non permetta all'Alemagna di sostenere l'Austria nelle lotte, che stanno forse tra breve per impegnarsi. Ora è appunto ciò che Vostra Maestà può fare, quando voglia. Da questa volontà dipendono il benessere o le sciagure della mia patria, la vita o la morte di una nazione, a cui l'Europa va in gran parte debitrice della sua civiltà.

» Tale è la preghiera che dal mio carcere oso dirigere a Vostra Maestà, non disperando che la mia debole voce sia intesa. Io scongiuro Vostra Maestà di rendere alla mia patria l'indipendenza, che i suoi figli hanno perduta nel 1849, per colpa appunto dei Francesi.

» Vostra Maestà si ricordi, che gl'Italiani, fra i quali era mio padre, versarono con gioia il loro sangue per Napoleone il Grande, dovunque piacque a lui di guidarli; si ricordi che gli furono fedeli sino alla sua caduta; si ricordi che la tranquillità dell'Europa e quella di Vostra Maestà saranno una chimera, sino a tanto che l'Italia non sarà indipendente. Vostra Maestà non respinga la voce suprema di un patriota sui gradini del patibolo, liberi la mia patria, e le benedizioni di venticinque milioni di cittadini vi seguiteranno nella posterità.

» Dalla prigione di Mazas, 11 febbraio 1858.

» Felice Orsini.»

» Tale è, conchiudeva Favre, l'ultima parola di Orsini. Senza dubbio si può dire ch'è grande temerità la sua di dirigersi a quegli stesso, la cui vita era un ostacolo all'effettuazione delle sue idee.

218 CAPITOLO UNDECIMO.

Dall'orlo del suo sepolcro ei si rivolge a colui che può essere il salvatore della sua patria, e gli dice: Principe, voi vi gloriate di essere uscito dalle viscere del popolo, dal suffragio universale. Ebbene! ripigliate le idee del vostro glorioso predecessore. Principe, siate grande e magnanimo, e sarete invulnerabile.»

Il giorno 11 del marzo la Corte di Cassazione respingeva l'appello di Orsini, Pieri e Rudio, contro la sentenza che li aveva condannati alla pena di morte. Lo stesso giorno Orsini scriveva una seconda lettera all'Imperatore, che incominciava così: «Lo avere la Maestà Vostra Imperiale permesso che la mia lettera scritta l'11 febbraio sia resa di pubblica ragione, mentre è un argomento chiaro della sua generosità, mi addimostra che i voti espressi in favore della mia patria trovano eco nel cuore di Lei; per me, quantunque presso a morire, non è al certo di piccolo conforto il vedere come la Maestà Vostra Imperiale sia mossa da veraci sensi italiani.»

L'ambasciatore d'Austria in Parigi si affrettò a visitare il Ministro sopra le cose esteriori di Francia, onde interpellarlo intorno al senso che il Gabinetto di Vienna dovesse attribuire al fatto della pubblicazione della lettera di Orsini, e della stampa nel Monitore officiale di tutto quanto il discorso di Favre. Al che il Ministro si tenne pago a rispondere, avere bensì l'Imperatore medesimo permesso all'avvocato Favre di leggere quella lettera alla pubblica udienza delle Assise, ma eziandio ordinato che non fosse permesso divulgarla colle stampe in Francia; essere stato mente dell'Imperatore, che ai giudici dell'Orsini nulla fosse tenuto nascosto di quanto avesse potuto valere a sua discolpa, quasiché avesse potuto essere passibile di scusa l'Orsini, solo e vero autore dell'attentato del 14 gennaio, quantunque egli avesse operato di piena intelligenza con Luigi Blanc e LedruRollin, i quali dal loro canto aveano tutto disposto affinché in caso di riescita la rivolta alzasse il capo la notte stessa in Parigi. Questa risposta, tutt'altro che rassicurante, era più che bastevole per aprire gli occhi al Gabinetto di Vienna.

Giulio Favre spediva intanto al conte di Cavour le lettere, che abbiam riferito, il quale, già fatto appieno sicuro dal marchese Villamarina, Ministro di Sardegna in Parigi, del nuovo indirizzo

219 ORSINI E PLOMBIÈRES.

che Napoleone III. stava per dare alla sua politica rispetto all'Italia, ne ordinò la stampa nella effemeride ufficiale del Regno sabaudo (1), facendovi andare innanzi queste parole, ch'egli medesimo scrisse (2): «Riceviamo da fonte sicura gli ultimi scritti di Felice Orsini. Ci è di conforto il vedere com'egli sull'orlo della tomba, rivolgendo i pensieri confidenti all'Augusta volontà, che riconosce propizia all'Italia, mentre rende omaggio al principio morale da lui offeso, condannando il misfatto esecrando a cui fu trascinato da amor di patria spinto al delirio, segna alla gioventù italiana la via a seguire per acquistare all'Italia il posto che ad essa è dovuto fra le nazioni civili.» Era come alzare il labaro d'una nuova agitazione in Italia; era un ammettere svelatamente nell'Imperatore de' Francesi l'intenzione di violare, col porsi a capo di ardenti cospiratori, tutti i Trattati più solenni per servire alle viste degli ambiziosi e dei sovvertitori; era un volere evidentemente contribuire a rialzare la fama dell'Orsini, che un altro giornale torinese, devoto a Cavour e notoriamente da lui stipendiato, aveva appellato pochi giorni prima un grand'uomo; era un indiretta apologia dell'attentato stesso del 14 gennaio, che il Cavour si provava ad onestare con dirlo effetto di amore di patria spinto al delirio. La Gazzetta di Vienna organo ufficiale del Governo austriaco, per solito sommamente riserbata e temperante nelle forme, esciva pochi dì appresso, in un articolo che aveva tutti i caratteri soliti a far distinguere i comunicati governativi, con una virulenta risposta alla ufficiale Gazzetta di Torino. Per tal modo la guerra, che nell'aprile del 1859 insanguinava i campi lombardi, si accendeva nella realtà sino dall'aprile del 1858.

Il dì successivo a quello in cui gli ultimi scritti di Orsini avevano nella Gazzetta Piemontese gli elogii e i commenti che dicemmo, il primo dell'aprile, Cavour, certo ormai che questa volta Napoleone non si avrebbe limitato a sole buone parole pel futuro, indirizzava ai Ministri di Sardegna presso le Corti straniere un Dispaccio circolare, in cui, enumerate le principali conseguenze dell'attentato contro la vita dell'Imperatore de' Francesi, proseguiva con dire: «In vista di tali fatti, s spesso rinnovatisi,

(1) Gazzetta Piemontese, num. 77, del 31 marzo 1858.

(2)

N. Bianchi, II conte di Cavour, pag. 54.

220 CAPITOLO UNDECIMO.

Aventi tutti uno scopo finale a un dipresso eguale, cioè un cangiamento nelle condizioni attuali dell'Italia, si domanda se in fondo non esista nelle popolazioni di certi Stati della Penisola qualche causa profonda di scontento, ch'è nell'interesse di tutta l'Europa di distruggere. Questa causa esiste realmente. È l'occupazione straniera, è il malgoverno degli Stati del Papa e del Regno di Napoli, è la preponderanza austriaca in Italia. Il Governo del Re ha segnalato questi mali all'Europa in una circostanza memorabile, nel seno del Congresso di Parigi. Sventuratamente gli attentati di Parigi, di Genova, di Livorno, di Napoli, di Sicilia, di Sapri, sono venuti a confermare troppo presto in solenne maniera le previsioni dei plenipotenziarii sardi. Il Governo del Re spera che i Gabinetti d'Europa, in uno scopo d'ordine e di conservazione, si decideranno finalmente a portare un rimedio efficace a un tale stato di cose. Le Legazioni di Sua Maestà dovranno dal loro canto cooperare a codesto risultamento con tenere un linguaggio conforme a questo del Governo del Re.»

Cavour citava a conferma di quelle, che a lui bene stava chiamare «le sue previsioni,» gli attentati di Parigi, di Napoli, di Sicilia, di Sapri, di Livorno! Di Parigi, dopoché l'Orsini era venuto a confessare pubblicamente nel 25 febbraio, dinanzi la Corte d'Assise della Senna, che poco prima di mandare ad effetto l'attentato regicidio aveva scritto allo stesso Cavour: «che il suo patriottismo non consisteva solamente in parole, ma anche in fatti; ch'egli sarà sempre pronto a combattere lo straniero; che gli offeriva la sua audacia e la sua energia.» Di Napoli, dopo l'onesta parte che vi aveva avuto Cavour. Di Sicilia, dopoché Cavour aveva chiamato a sé il Bentivegna, guidatore di quel moto, per dargli istruzioni e mezzi in Torino. Di Sapri, diretto da Mazzini, capitanato da Pisacane, dopoché Cavour aveva fatto promettere in suo nome al Mazzini in Londra, venisse in Genova a sopraintendere, vi starebbe a tutt'agio, avrebbe armi e denari, e Mazzini vi era venuto e rimasto dal 15 maggio al 3 luglio 1857; dopoché il Pisacane, per la sua spedizione salpata da Genova sopra un naviglio della Compagnia Rubattino, aveva ricevuto da Camillo di Cavour quegli stessi argomenti di persuasione che tre anni più tardi Giuseppe Garibaldi, per la sua spedizione salpata da Genova

ORSINI E PLOMBIÈRES. 221

sopra navigli della Compagnia Rubattino, riceveva dal medesimo Camillo di Cavour.

Curiosissima la storia secreta di quella spedizione del Pisacane; nella quale Cavour si era valuto di Mazzini per sommuovere le Sicilie, pensando ingraziarsi Napoleone III., e Mazzini si era valuto di Cavour per sommuovere le Sicilie, pensando ad un tempo toglier di vita Napoleone III. Quando Cavour ebbe veduto come tutti gli sforzi per condurre l'Italia meridionale a ribellione erano caduti a vuoto, e i popoli voleano pace vera, non sapendo meglio dove dare del capo per giungere a mantenere la promessa che aveva data al Bonaparte, si volse a riappiccaro le trame, pigliatosi ad ausiliare il Mazzini. Pisacane uscì il 25 giugno da Genova sul Cagliari, per lasciare la vita il 2 del seguente presso Sanza nel Regno di Napoli. Il 29 giugno si ripeterono a Livorno le magne gesta degli accoltellatori di Milano nel 1853, e nello stesso giorno Mazzini tentava un colpo di mano su Genova. Quest'ultimo episodio era una gherminella di Mazzini a Cavour, ch'egli si doveva ingoiare in santa pace per tema che Mazzini, e ben n'era capace, spiattellasse tutto. Morto il Pisacane; dispersa, uccisa o prigione, la sua masnada; preso il Cagliari da una fregata napoletana; fu forza al Cavour far viso arcigno. Fatto fuggire il Mazzini, provvide all'arresto della White e d'un cinquant'altri, a perquisizioni e sequestri di armi, a gran strepiti a parole. Poco appresso la White era messa in libertà per ordine espresso di Cavour. Fu d'uopo, a salvare le apparenze, porre in piedi un processo; e non lo avesse mai fatto! Ogni giorno nuove pubbliche confessioni degl'incolpati, nuove arringhe degli avvocati difensori dimostravano la perfetta scienza e complicità del Ministero. Da ogni parte, nel Parlamento, dalla diplomazia, si alzarono alte accuse di connivenza al Cavour ed al Rattazzi, Ministro dell'Interno, sì che questi fu costretto dimettersi. Alla fine uscì la sentenza. Mazzini ed altri cinque, tutti contumaci, condannati a morte; pochi in galera, molti messi in libertà.

Allora Mazzini scrisse: «Il Governo piemontese si fece, e dura, riuscendovi o no, nemico a un tempo e maneggiatore dell'elemento rivoluzionario, cospiratore e persecutore. Cospiratore ogni qualvolta ei teme gli sfugga di mano il partito italiano; ogni qualvolta egli intravvede probabile un moto in altra parte d'Italia;

222 CAPITOLO UNDECIMO.

cospiratore quanto basti, da un lato a sviare dietro a una qualche illusione l'ardore, dall'altro a poter dire il di dopo, se l'ardore si traducesse in fatto: io era dei vostri, e impadronirsi del moto. Persecutore ogni qualvolta un tentativo fallito gli porge il destro per indebolire più sempre quella frazione di partito che non gli è dato dirigere, e per accattarsi favore dai governi assoluti, ai quali esso accennava minaccia il dì prima. È questa l'obliqua machiavellica tattica seguita dagli uomini di governo, inetti e codardi; la politica ministeriale oscillante e malfida, tormentata d egoismo e di vanità (1).

» La cospirazione ministeriale si è unita con pretendenti stranieri, e potrei nominare l'uomo che fu mandato con commendatizie del conte di Cavour a creare un partito per l'avventuriere Murat in Savoia. Il Ministero era in contatto cogli uomini che stavano preparando una spedizione armata, che poco dopo ebbe luogo nei territorii d'uno Stato italiano. Mi fece delle proposte. Io trovavami, con piena cognizione del Governo, in Genova. Mi domandò concessioni, probabilmente con intenzione di poscia calunniarmi come disertore dei miei principii. Promisi di tenere nascosto il nome de' suoi mezzani, e manterrò la mia parola (2).

» Voi, conte di Cavour, adoratore materialista del fatto più assai che d'ogni santo eterno principio, non siete voi, signore, presto a cedere, con vero tradimento al paese, il mezzogiorno d'Italia a Murat, purché l'Impero del Bonaparte v'assicuri compenso di una zona di terreno al di là della vostra frontiera? Partito d'opportunisti, adoratori dei fatto, voi non potete assumere veste di sacerdoti di moralità. La vostra scienza vive sul fenomeno, sull'incidente dell'oggi. Le vostre alleanze non posano su nozioni di giusto e d'ingiusto, ma su nozioni di un utile materiale immediato. Materialisti col nome di Dio sulle labbra, nemici in core, e veneratori a parole del Papa, obbedite alle intimazioni del Bonaparte.

(1) Lettera di Giuseppe Mazzini ai Membri della Corte d'Appello di Genova, stampata nell'Italia del Popolo del 24 marzo 1858, num. 85, dichiarata non colpevole dai giurati di Genova.

(2) Parole di Mazzini, nel Weekly Register del 3 aprile 1858, num. 453.

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Congiurando col tiranno della Francia, e cedendo Napoli, per quanto è in voi (1), a un dominio straniero, voi tradite deliberatamente l'Italia, ripetendo la parte di Lodovico il Moro, chiamando la tirannide straniera al di qua delle Alpi, e dando assenso ad un nuovo dominio e ad una potente influenza (1).» Così raffermava la sentenza che aveva dettata: «Conte di Cavour! Il giorno in cui l'Europa avrà scoperto,come noi l'abbiamo da un pezzo, il segreto della vostra politica,essa torcerà il guardo da voi.»

Premunitosi contro l'eventualità di perigli per parte de socialisti, nell'interno della Francia, mediante la legge di pubblica sicurezza, i grandi comandi militari, e consimili provvedimenti; rinfocolati gli spiriti guerrieri coglindirizzi dell'esercito; sedate le ire contro «la perfida Albione, sicuro covo e rifugio de più efferati assassini;l'Imperatore de' Francesi nel luglio del 1858 si ritrasse a' bagni di Plombiéres, facendo pretestare bisogno di curare la sua salute, ma nella realtà all'unico oggetto di fermare definitivamente, nei silenzii d un luogo appartato, lungi dagli occhi de' curiosi, i suoi divisamenti intorno alla discesa delle armi di Francia in Italia, che aveva deliberato. Compressa la Francia colla legge di sicurezza, di una guerra aveva egli ormai necessità vera, ben veggendo come gli sarebbe difficilissimo mantenerla per abbastanza lungo tempo sotto il giogo di tanto dispotismo, se una qualche grande intrapresa al di fuori non fosse venuta a distrarne l'attenzione. A Plombières, chiamatovi dal Bonaparte, accorreva Cavour, dopo lunga aggirata, quasi a volere se ne perdessero le treccie, viaggiando con passaporto di finto nome. Di là, rimastovi trentasei ore ravvolto nel più profondo mistero, scriveva il 21 di quel mese al marchese Villamarina in Parigi (3): «Ho passate quasi otto ore testa a testa coll'Imperatore. Egli fu sì amabile quanto mai possibile, mi testimoniò il più vivo interesse, e mi ha dato l'assicurazione ch'egli non ci abbandonerà giammai.»

(1)

Nel primo numero del Pensiero ed Azione, del 1.° settembre 1858, Mazzini ripete l'accusa. «Noi sappiamo, egli dice, avere nello scorso mese di agosto il Ministero sardo tollerato e favorito un imbarco d'armi fatto in Genova dagli esuli muratiani.»

(2)

Lettera di Mazzini al conte di Cavour, pubblicata nell'Italia del Popolo, giugno 1858, giudicata non colpevole dai giurati di Genova.

(3)

N. Bianchi, 77 conte di Cavour, pag. 57.

224 CAPITOLO UNDECIMO.

Si trattava di fissare le condizioni della guerra. Fu convenuto che si avessero a condurre le cose per guisa che l'Austria, intorno alla primavera del 1859, avesse a venire essa ad una aggressione armata al Piemonte, affinché agli occhi dell'Europa potesse la Francia giustificare il suo intervento in Italia siccome necessario soccorso al debole ingiustamente assalito. A cementare l'alleanza il principe Napoleone Girolamo Bonaparte disposerebbesi alla maggiore delle figliuole di Re Vittorio Emanuele. Riuscita la guerra propizia alle armi collegate, sarebbesi costituito per la Casa di Savoia un Regno d'intorno a dodici milioni d'abitanti, dalle Alpi ali Adriatico, col Regno Lombardo-veneto, e i Ducati di Modena e di Parma (1). In compenso la Francia riceverebbe la Savoia e Nizza. La Toscana, ricostituita in Regno d'Etruria, aggrandita delle Legazioni, e più tardi dell'Umbria e delle Marche, sarebbe data al principe Napoleone; il Regno di Napoli all'inevitabile Luciano Murat. Un patto federale legasse gli Stati italiani fra loro, sotto la presidenza d'onore del Papa. Rispetto a Roma, intanto, ferme le basi della lettera ad Edgardo Nev. La Sardegna, la Liguria e i versanti francesi delle Alpi da cedersi alla Francia nel caso di maggiori ampliamenti per Casa di Savoia. Il resto agli eventi. Nulla fu stipulato per iscritto. Abbisognando del massimo secreto, le pratiche più dilicate dovessero essere proseguite affatto all'infuori dei rispettivi Ministeri e delle Legazioni di Francia e di Sardegna in Torino e Parigi, direttamente tra l'Imperatore, Vittorio Emanuele e Cavour. Questi richiese che il Villamarina, Ministro sardo a Parigi, fosse messo a parte d'ogni cosa, e fu accordato.

Arduo problema l'Imperatore de' Francesi aveva dato a risolvere allo scaltro conte di Cavour, condurre l'Austria alla suprema

(1) II 23 gennaio 1859 fu pubblicata in Londra una carta geografica della nuova divisione territoriale d'Italia, quale avrebbe dovuto essere nel 1860. Porta a capo lo stemma di Savoia, col motto aggiuntovi: In hoc signo vinces. In essa il nuovo regno dell'Italia superiore stendesi a tutto il Lombardo-veneto; al Nord comprende il Tirolo italiano, sino e compreso Bolzano; al Sud i Ducati di Modena e di Parma. Conchiusa la pace di Villafranca, ritiratosi egli dal Ministero, Cavour ebbe a confessare quella carta essere stata ordinata da lui, pagata dalla Legazione di Sardegna, ed il Regno dell'Alta Italia, escluse Savoia e Nizza, apparirvi tracciato nei limiti convenuti a Plombières. Ne ho sott'occhio un esemplare.


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necessità di muovere, checché avvenga, ad assalir la Sardegna. Non peranco aveva egli riposto piede in Piemonte, che già i giornali all'estero e nel Regno, che stavano a' suoi stipendii, annunciarono decise le sorti d'Italia a Plombières, e il giorno e l'ora Vaticinando della guerra che la Sardegna cogli aiuti di Francia avrebbe mossa, ad udirli, nella vegnente primavera all'Austria. Tosto adunò nella sua villa di Lerì una eletta di fidati; lor disse, Napoleone avergli promesso di venire, essere giunto il momento di dar opera davvero a mettere l'Italia a soqquadro, e spiegò il suo programma del da farsi allora e poi. Uno della brigata, forse tuttavia rimasto un pò onesto, osservò: ammirabile il senno del Ministro: ma per verità non troppo morali i mezzi. Cavour lo interruppe stizzito; lasciamo star la morale, risposegli.

A preparare il terreno, con ardore sconosciuto fu posto mano a ogni mezzo. La Società Nazionale, retta e guidata per mano dal Cavour, avea prosperato. Voltate le spalle a Giuseppe Mazzini, il massimo numero dei repubblicani poco a poco era venuto a seguire l'esempio di diserzione, che Daniele Manin avea dato. Fra i più influenti di quel partito la prima soscrizione era stata quella di Garibaldi, a lungo consideratone il capo militare, siccome Mazzini ne era stato il capo spirituale.

Mazzini non avea posto tempo in mezzo ad osteggiare in tutti i modi e con ogni suo potere la nascente Società Nazionale, accusandone i promotori di voler addormentare i liberali italiani, pittare in braccio a Casa Savoia ed alla diplomazia ogni più bella speranza, impedire una rivoluzione colle vane lusinghe di una guerra che non verrebbe mai, tutto compromettere, tutto rovinare, tutto sacrificare con sospingere in una via pericolosa e fatale. Ma da buon tempo intorno a lui erasi formato il vuoto perfetto, assoluto. In Londra Emilia Ashurst Hawkes, con cinque o sei altre costituenti il devoto cenacolo, che per poco non lo venerava col culto misterioso che i Tibetani professano al Gran Lama; l'ex avvocato, poi birraio, poi membro della Camera dei Comuni d'Inghilterra e del Ministero presieduto da lord Palmerston, James Stansfeld, di cui l'Orsini scrisse: «Il nominare costui in queste carte sarebbe troppo onore» (1); Federico Campanella,

(1) Memorie politiche, Parte II., Capit. XII., pag. 310.

226 CAPITOLO UNDECIMO.

Aurelio Saffi, Bezzi, Maurizio Quadrio, Angelo Brofferio, Filippo de Boni, e due dozzine d'altri in Italia, era tutto quello che allo stringer de' conti rimaneva del potere del capo della Giovine Italia. Allora, era nell'agosto, riesciva a dar vita ad un nuovo giornale italiano, che s'intitolò Pensiero ed Azione, si stampò in Londra stessa, ed ebbe vita dal primo del settembre 1858 al 23 maggio 1860. In uno dei primi numeri comparve un nuovo indirizzo del Mazzini. Questa volta ei lo volgeva a Vittorio Emanuele, come in altro tempo un indirizzo aveva rivolto a Carlo Alberto.

Or mentre Mazzini giostrava, siccome quell'ucciso che, «non se n'essendo accorto, andava combattendo, ed era morto,» nel dicembre 1858 un italiano, certo Donati, veniva arrestato in Parigi sotto l'incolpazione di complotto contro la vita dell'Imperatore; quasi a rammentare a Napoleone III. ch'egli aveva occulti doveri da satisfare in Italia, che Felice Orsini, l'11 febbraio 1858, gli avea scritto: «Vostra Maestà si ricordi che la tranquillità della Maestà Vostra sarà una chimera, fino a tanto che l'Italia non sarà indipendente. Messo alle strette dall'evidenza, Donati confessò il suo disegno, e fu obbligato a riconoscere l'ispirazione a cui aveva obbedito. Nei mesi di maggio e di giugno di quell'anno egli aveva avuto con Mazzini, a Londra, più abboccamenti nella birreria dello Stansfeld. Là erano stati presi gli opportuni concerti per condurre a bene l'attentato, determinato il luogo ed il tempo, tutto quanto valesse ad assicurarne l'esecuzione. Quando parve a Mazzini, fece partire per Parigi il Donati; ed ei stava per ritentare quanto non era riescito a compiere l'Orsini, allorché cadde in mano della Polizia. Donati s'uccise nella sua prigione nel gennaio 1859, dando così una triste guarentigia della sincerità delle sue rivelazioni (1).

In questo mezzo i giornali di Francia, e più quelli che maggiormente stavano alla dipendenza del Governo, gettavano lentamente, ma eziandio senza posa, l'agitazione negli animi e la confusione nelle menti. Un dì parlavano di vaghi timori, un di di guerra, di guerra possibile, di guerra forse prossima, di guerra coll'Austria. Poi venivano le smentite, ma smentite che o non dicevano nulla, o lasciavano chiunque leggeva incerto e perplesso

(1) Corte d'Assise della Senna. - Udienza del 30 marzo 1864.

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che cosa si avesse voluto veramente smentire. Un giorno una effemeride riferiva parole belligere che il Re di Sardegna, arringante le sue truppe nel Campo di Marte in Torino, aveva proferite; un altro giorno sì affermava ricisamente che quelle parole non mai furono dette, eppure lo erano state certissimamente. I gazzettieri battagliavano fra loro con epigrammi e con satire, quasi a modo di badalucco foriero della grossa guerra, cui gli eserciti silenziosamente apprestavansi, quando un giornale semiufficiale () parve affrettarsi ad assicurare il commercio, che se ne risentiva, con dire, «non esservi, per ora, niuna questione pendente tra la Francia e l'Austria, donde possa uscire in un tempo vicino nulla di grave, che possa lasciare prevedere un conflitto tra i gabinetti di Parigi e di Vienna.» Le quali parole, lasciando intravedere chiarissima appunto la possibilità di un conflitto in un tempo meno vicino, lungi dal tranquillare gli animi, servirono anzi a turbarli viemeglio. In fine, l'Austria avendo domandato se il Governo di Francia, tanto permettendo, assumeva la responsabilità di tutti quei gridori, fu fatto parlare l'oracolo del Monitore ufficiale, e disse (1), che «le serie inquietudini non erano giustificate dalle relazioni della Francia colle Potenze straniere, e che l'opinione non doveva lasciarsi guidare da una discussione che sarebbe atta ad alterare le relazioni della Francia con una Potenza alleata.»

A chi però avesse tenuto dietro con sottile attenzione a tutto quel tramestio, che chiunque pure vedeva come dovesse avere uno scopo, saltavano agli occhi, tra mezzo alle apparenti contraddizioni, due fatti evidenti e non equivoci. L'uno, che, nel mentre in Piemonte vi era un gran parlare di guerra, ed i diarii di quel Regno con somma franchezza annunziavano che nella prossima primavera la Francia e la Russia sarebbero venute a combattere contro l'Austria per toglierle la Lombardia e la Venezia e darle al Piemonte, in Francia la stampa periodica tendeva chiaramente a predisporre gli animi agli eventi, ed in sostanza alla possibilità appunto della guerra coll'Austria. L'altro, che nel tempo stesso che si finiva con ammettere la probabilità della guerra tra il Piemonte e l'Austria,

(1) Le Constitutionnel, del 20 novembre 1858.

(2) Le Moniteur Universel, del 2 dicembre 1858.

228 CAPITOLO UNDECIMO.

e della parte che in essa guerra poteano prendere e la Francia e la Russia, molte effemeridi francesi, e tra esse quelle medesime che notoriamente ricevevano l'inspirazione dal Governo, si occupavano, senza che mai ne conseguissero una smentita, nel descrivere certe scissure che, secondo loro, esistevano a que' dì tra la Santa Sede ed il Governo di Francia; si descrivevano conversazioni vivaci, pungenti, che si dicevano succedute fra rappresentanti dell'uno e dell'altro Governo, e non aveano punto avuto luogo.

Con universale sorpresa il Monitore ufficiale francese, sempre sì guardingo e sì grave, sino dal mese di maggio aveva dischiuse le colonne delle sue Appendici ad una serie di scritture sotto il titolo d? Italia contemporanea, dettate da Edmondo About, l'intimo delle Tuilerie, notoriamente inviato a Roma per comando dello stesso Imperatore de' Francesi ad iscrivervi quel libro; nelle quali, con modi sprezzanti e parole di romanziero, versavansi a piene mani l'ingiuria grossolana, il sarcasmo, il ridicolo, sulle istituzioni romane, sul Governo pontificio, sui Cardinali, sul Papa, su tutto quanto avea pertinenza con Roma, quasiché fosse unica missione dello scrittore porre tutto in falsa luce, in iscredito, in derisione ed in beffa. Gli articoli firmati dall'About portavano sì evidente l'impronta della malevoglienza, dell'animosità, della falsità, che si poté osservare (1), senza che alcuno si arrischiasse replicar verbo, come «la relazione che passa tra quegli articoli e la storia contemporanea è quella stessa che corre tra l'esagerazione, la menzogna e la calunnia colla verità. Il Nunzio pontificio in Parigi richiese il Ministro sopra le cose esterne di Francia che si dovea pensare il Governo della Santa Sede di quella pubblicazione, della quale si domandava sino a qual punto il Governo imperiale assumeva la responsabilità. Alle stringenti lagnanze fu dato ordine che il Moniteur sospendesse la stampa degli articoli che rimanevano, i quali videro tosto la luce in un giornale del Belgio, nel Nord di Brusselle. Ma quando più tardi il Governo pontificio, pensando essere tuttora in casa sua padrone almeno di fare un giorno quanto Napoleone III. faceva tutto dì in sì larga scala a casa propria, sequestrava alla Posta i numeri del Nord che contenevano gli articoli dell'About,

(1) Giornale di Soma, del 19 giugno 1858.

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il generale Govon, comandante le truppe francesi in Roma, mandò i suoi gendarmi alla Segreteria di Stato pontificia, si fece rilasciare i numeri del giornale sequestrati, e li volle distribuiti a colora cui erano diretti.

L'About mandava per le stampe un altro libro intitolato La questione romana, opera chiamata dallo stesso Nord un piccolo capolavoro d'empietà. Ogni fatta insulti e falsità potevano liberissimamente pubblicare a Parigi contro il Governo della Santa Sede, e Buloz e Vidalin nella Revue des deux monde, ed Amedeo Acbard nel Journal des Débats. Napoleone III. sapeva bene impedire coi consigli, cogli avvertimenti e colla forza, che la stampa dicesse motto contro di lui e contro il suo Governo; ma non muoveva mai una parola per opporsi alle pubblicazioni contro la Santa Sede, se non era quando l'opporvisi poteva valere a ringagliardirne l'importanza con accrescerne la pubblicità e lo spaccio. Mentre il suo Governo fingeva di nulla vedere, l'Imperatore faceva le mostre di nulla udire, né dallo studiato riserbo egli esciva, se non anzi per darvi tal fiata approvazione colla sua presenza medesima, come in occasione del dramma La tireuse de cartes, che sul teatro villanamente offendeva il Papa e la Chiesa, dramma fatto scrivere al Moquard, segretario particolare ed amico intimo dell'Imperatore, alla cui rappresentazione Napoleone stesso volle assistere e pubblicamente dare il segnale degli applausi alle scene nelle quali vi avea pia abbondanza l'ingiurie e decisioni alla Chiesa e al Pontefice. Sicché, arguendo dalla malevolenza che ornai traspariva evidente, se ne poteva con assai ragionevolezza sino da allora inferire che quando mai una guerra, fosse per avvampare in Italia, la sarebbe riescita a' danni della Santa Sede non meno che dell'Austria.

L'anno 1858 chiudevasi, lasciando le grandi Potenze d'Europa ben diversamente aggruppate di quando i loro rappresentanti sedevano intorno al tavolo verde al Congresso del 1856. Nelle Conferenze aperte nel 22 maggio di quello stesso anno 1858 in Parigi, per dare definitivo assettamento alle cose de' Principati danubiani, l'unione de' due Principati, che n'era il punto capitale, era stata gran tema di dibattimenti; dappoiché la Turchia, sostenuta in ciò dall'Austria, con ragione temendone gravissimo pericolo alla propria sovranità, fu saldissima nel combatterla, laddove la Francia,

230 CAPITOLO UNDECIMO.

la Russia e la Sardegna, allegando soprattutto il desiderio manifestato dai popoli, la esigevano con assai persistenza. L'Inghilterra e più ancora la Prussia presero una via di mezzo. Finalmente, colla Convenzione del dì 19 agosto 1858 si venne ad un compromesso.

All'avvicinamento amichevole della Francia alla Russia, che, appena deposte le armi, era stato il fenomeno più sorprendente durante il Congresso di Parigi, molti fatti palesi erano susseguiti ad attestare l'intimità stabilitasi fra le due Corti. Già dopo le dilicatissime cortesie usate in Pietroburgo al conte di Morny, inviato francese alla incoronazione dello Czar, si era parlato misteriosamente di un'alleanza offensiva e difensiva tra i due Imperi, parendo quasi si volessero risuscitare le idee accarezzate un momento dai primi Napoleone ed Alessandro. Nello stesso tempo che la Russia, per vendicarsi dell'Austria, si accostava alla Francia, si era fatta, per lo stesso motivo, amicissima del Piemonte. In maggio del 1857, mentre il Granduca Costantino di Russia si recava a Parigi, il principe Napoleone era ito a Berlino. Nel settembre Napoleone III. e lo Czar avevano avuto segretissimi colloquii alla Corte di Wurtemberg, dove il Bonaparte aveva condotto seco Luciano Murat; né a dissipare le apprensioni valse il convegno che il di 1.° ottobre ebbero gl'Imperatori d'Austria e di Russia in Weimar. Pochi giorni appresso, a Dresda il Conte di Trapani, fratello del Re di Napoli, s'incontrò collo Czar, in solenne adunanza di principi a Corte. Alessandro, chiamatolo in segreto, l'avvisò di guerra in Italia; ma ch'egli, memore dell'antica e leale amicizia, soccorrerebbe i Borboni delle Due Sicilie con atti diplomatici, danaro, e, se abbisognasse, soldati. Partecipaselo uffizialmente al Re suo fratello. Rientrati in sala, gli replicò, presenti gli altri, scrivesse uffizialmente. Il conte di Trapani uscendo, un principe tedesco gli si avvicinò per dirgli all'orecchio: «Credo che lo Czar vi abbia promesso di soccorrervi in caso di guerra. Non lo sperate. Già a Stuttgard egli ha dato l'Italia in balla di Napoleone.» Alla fine del settembre 1858 il principe Napoleone si dipartiva da Parigi per recarsi a visitare l'Imperatore Alessandro in Varsavia. Nello stesso tempo la Sardegna concedeva gratuitamente alla Russia il porto e l'edifizio del bagno di Villafranca per uno stabilimento marittimo.

ORSINI E PLOMBIÈRES. 231

D'altro canto, mano a mano che dava fuori il fantasma della pressione, cui i due Imperatori di Francia e di Russia sembravano avviati ad esercitare sopra l'Europa, tanto più l'Inghilterra, alleatasi colla Prussia, si era stretta all'Austria, a farvi contrappeso. Smesso ogni pensiero d'indipendenza della Sicilia e di mutamento di dinastia a Napoli, dal momento che aveva dovuto convincersi come il più grande vantaggio ne avrebbe tratto Murat, ed indirettamente la Francia; affatto contraria, come in sostanza fu sempre, al volere dar mano, comunque fosse, ad arrecare importanti lesioni ai Trattati del 1815, supremo scopo cui per lo contrario chiara cosa era che incessantemente mirava l'Imperatore. de' Francesi; l'Inghilterra, appena uscente dalla tremenda lotta che aveva dovuto sostenere per conservare il suo dominio nelle Indie, era alienissima da qualunque mutazione in Italia, specialmente se la mutazione dovesse farsi a profitto della Francia e della Russia. Il Ministero presieduto da Palmerston era caduto a cagione della legge che aveva proposta contro i fuorusciti sul suolo britannico, succedutogli un Ministero conservatore sotto la direzione del lord Derby. Ned era a stupire se l'Inghilterra non mirava con piacere il Piemonte dar la mano alla Russia, e staccarsi per ciò sempre più da lei, che però non aveva molto meritata la sua amicizia, dopo essersi alleata coll'Austria, e averlo sì male servito nell'affare del Cagliari. La Prussia, umiliata allora allora dal Bonaparte pel Trattato segnato in Parigi il dì 27 maggio 1858, per cui era stata costretta a cedere senza compenso il suo diritto di possesso sopra il Principato di Neuchatel, erasi di molto avvicinata all'Austria; il che mostrava significare che la Confederazione germanica sarebbe unita contro chi avesse voluto toccare uno dei territorii federali.

Incominciato con trovare l'Europa tuttavia immersa in una crisi economica, in cui l'aveano gettata le scompigliate esagerazioni del credito, la smodata fidanza sopra ricchezze fittizie, figlio della immaginazione più che della produzione e del lavoro, e le imprese iniziate assai più che non si valesse a condurne a termine; il 1858 veniva a fine lasciando negli animi conturbati e commossi un sentimento vago ed universale di ansiosa incertezza, e tutti intesi a vedere da qual parte dell'orizzonte politico fosse per apparire la nube nel cui grembo stava nascosta la folgore.

232

CAPITOLO DUODECIMO.

Il capo d'anno.

Parodia del 13 marzo 1803 alle Tuilerie. - Dichiarazione del

Monitore

ufficiale. - L'Austria spedisce in Italia un Corpo d'esercito. - II 10 gennaio Vittorio Emanuele apre la sessione del Parlamento di Sardegna. - Il principe Napoleone Bonaparte impalma Clotilde di Savoia. - Trattato francosardo del dì 19 gennaio 1859. -

l'Imperatore Napoleone III. e l'Italia,

opuscolo dell'Imperatore Napoleone III. e La Gueronnière. - Inghilterra e Germania. - Pensieri di Napoleone I. rispetto all'Italia. - La protezione delle guardie francesi a Roma. - Gli abusi ed i rimedii nello Stato pontificio, secondo l'opuscolo programma. - Secolarizzazione, Consulta di Stato, controllo delle spese, il Codice, le rendite, la riconciliazione. -Il Piemonte e lo

statu quo.

- La Confederazione italiana sotto la presidenza del Papa. - Diritto scritto e diritto morale. -

Alla vigilia di una guerra far ciò che si farebbe il giorno dopo una vittoria.

Il primo giorno del 1859 i diplomatici stranieri, accreditati presso l'Imperatore de' Francesi, si recavano alle Tuilerie per offerirgli, giusta il costume, gli augurii pel capo d'anno. Napoleone III. entra nella sala di ricevimento il volto atteggiato, pili ancor che l'usato, a serietà, quasi a profonda, mestizia. I diplomatici erano schierati in una sola riga, secondo l'ordine di grado e di anzianità di soggiorno. A capo della riga stava il Nunzio pontificio. Questi, giuntogli l'Imperatore dappresso, gli presenta le congratulazioni In nome di tutti. Il Nunzio personificando in so l'intero Corpo diplomatico, Napoleone, alzata la voce in maniera da essere udito da tutta l'adunanza, risponde: «Spero che l'anno, il quale comincia, sarà buono al pari di quello ch'è terminato;e che, restringendo i vincoli tra le Potenze, esso consoliderà la pace generale.»

Era di consuetudine che, dopo ciò, il monarca passasse dinanzi al circolo, soffermandosi per iscambiare alcune parole coi principali Legati. L'Imperatore abbassa gli occhi a terra, passa in tale atteggiamento davanti al Nunzio senza indirizzargli né un motto né uno sguardo, rivolge nel tuono della conversazione e con aspetto d'affabile cortesia alcune parole all'ambasciatore d'Inghilterra, che stava alla destra del Nunzio, e continua passando

IL CAPO D'ANNO. 233

innanzi a capi di Missione. Giunto dinanzi il barone di Hubner, ambasciatore d'Austria, si arresta, compone il volto ad austerità, rinforza la voce, come se avesse voluto essere inteso da tutti, e gli dice: «Mi spiace, signor barone, che le nostre relazioni col vostro Governo non siano così buone come per lo passato; ma vi prego di dire ali Imperatore che i miei sentimenti personali per lui non sono cambiati.» II tuono più aspro e più accentato, i gesti più. vivi, ch'ei non costumasse, con cui aveva profferite ed accompagnate quelle parole, rammentarono agli astanti la scena che il primo console aveva fatta, il dì 13 marzo 1803, al rappresentante della Gran-Bretagna, lord Withworth,poco prima della rottura della pace d'Amiens. Poi, ripigliato il giro del circolo, lo compie sollecitamente, e soffermatosi davanti al Ministro di Portogallo per dare a lui eziandio un rabbuffo, si ritira lasciando gli astanti nella sorpresa e nello stupore.

Se vero è il proverbio che dal mattino si conosce il giorno, l'alba del 1859 sorgeva siccome preludio di guerra. E fu in questo senso che lo intese il commercio. Laddove per la guerra d'Oriente le Borse appena se ne erano commosse, appunto perché era guerra approvata dall'universale che aveva fiducia nella buona riuscita di essa, non appena le parole dell'Imperatore, portate per tutta Europa colla celerità del fulmine, accolte dovunque siccome una minaccia e quasi una dichiarazione guerresca, interpretate anzi dai più. non soltanto siccome semplice annunzio di guerra, ma piuttosto quale intimazione di guerra generale, i corsi dulie carte dei pubblici valori in Francia, già scossi alle sole prime voci di guerra generalmente avversata, e ritenuta perigliosa ed incerta, rapidamente risentirono così spaventosa scossa, che l'Imperatore reputò necessario di comandare avesse il Monitore a tranquillarle tantosto con una Nota ufficiale, che diceva (1): «Da alcuni giorni l'opinione pubblica è agitata da voci allarmanti,alle quali è debito del Governo mettere un termine, dichiarando che nulla nelle nostre relazioni diplomatiche autorizza i timori,che quelle voci tendono a far nascere.»

Ma niuno prestò fede a quelle dichiarazioni. Ormai era palese, che rispetto alle questioni esterne il sistema di politica dell'Imperatore

(1) Le Moniteur Universel, del 7 gennaio 1859.

234 CAPITOLO DUODECIMO.

s'appoggiava sopra quello stesso giuoco, che aveva adoperato ali epoca del Colpo di Stato del 2 dicembre, della caduta della repubblica e della Costituzione. Anche allora la medesima astuzia, anche allora si era lasciato temere e sperare, si avea negato e si aveva operato. L'Austria non poteva più illudersi, né s'illuse. Lo stesso giorno in cui l'organo officiale del Governo francese pareva inteso ad attenuare l'effetto prodotto dalle parole dell'Imperatore Napoleone, in uno straordinario Consiglio tenuto dall'Imperatore d'Austria fu determinato che colla possibile prestezza tutto il terzo Corpo di esercito, stanziato in Vienna e nei suoi contorni, fosse inviato nel Lombardo-veneto, prendendo il suo posto altre truppe che verrebbero dalle parti settentrionali dell'Impero. L'ordine fu eseguito con tanta celerità che quattro giorni bastarono perché le teste dei varii corpi si trovassero già in Italia,

In questo mezzo il Re di Sardegna, il d 10 gennaio aprendo la nuova sessione del Parlamento piemontese, afforzava le speranze e i timori di guerra. «l'orizzonte, diss'egli, in mezzo a cui sorge il nuovo anno, non è pienamente sereno. Confortati dall'esperienza del passato, andiamo incontro risoluti alle eventualità dell'avvenire. Questo avvenire sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, sull'amore della libertà e della patria. Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei consigli dell'Europa, perché grande per le idee che rappresenta, per la simpatia ch'esso inspira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché mentre rispettiamo i Trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi. Forti per la concordia, fidenti nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della divina Provvidenza.»

Mentre il Governo di Torino addensava tra Alessandria e Casale truppe che stavano a quartiere in Sardegna, Nizza e Savoia, i secreti patti di Plombiéres ricevevano solenne conferma di avviata esecuzione. Una delle precipue condizioni di quel convegno stava per divenire un fatto, quella che nell'ordine cronologico prestabilito doveva precedere alle altre, arra di leale eseguimento delle pattuizioni residue, l'alleanza di famiglia dei Bona parte con Casa di Savoia, a cementare e per così dire a guarentire l'alleanza di Francia e Sardegna. Giunto a d 15 gennaio il principe Napoleone in Genova,

IL CAPO DANNO. 235

al Sindaco della città, recatosi ad incontrarlo, rispose: «Posso assicurarvi che, come sono unite le due dinastie, saranno unite le due nazioni nella buona e nella cattiva fortuna. Poi, il giorno 20, ai superstiti sardi delle armate napoleoniche, adunati nel cortile della reggia torinese, dichiarò: «La Francia e il Piemonte sono e saranno sempre stretti per l'avvenire come lo sono le nostre dinastie.» Il 30 dello stesso mese Torino vide il matrimonio del Bonaparte con Maria Clotilde di Savoia, la maggiore figliuola di Re Vittorio Emanuele.

In questo mezzo il conte di Cavour ed il generale Niel, inviato straordinario dell'Imperatore Napoleone, avevano segnato nel 19 gennaio in Torino un Trattato secreto di alleanza offensiva e difensiva. Del che l'Indépendanee belge, giornale di Brusselle, avendo avuto certa notizia, e nel pubblicarne il giorno della sottoscrizione avendo soggiunto che il matrimonio del principe Napoleone colla principessa Clotilde si collegava strettissimamente a quel Trattato, fu dato ordine d'inserire nel Moniteur una Nota con cui sdegnosamente affermatasi (1): «Duole d'avere a notare e smentire una simigliante asserzione, tanto falsa, quant'è ingiuriosa. L'Imperatore dee desiderare che le sue alleanze siano d'accordo colla politica tradizionale della Francia, ma non farà mai dipenderei grandi interessi del paese da un'alleanza di famiglia. E intanto, mentre il Governo imperiale proclamava in Francia pubblicamente falso il fatto avvenuto, fuori di per d veniva vieppiù meno la fede nelle più solenni affermazioni de' suoi organi ufficiali, come presso le Corti straniere nelle dichiarazioni de' suoi documenti diplomatici. Singolare condizione quella in cui s'avvolgeva il sovrano d'una grande nazione, a lungo negli internazionali rapporti leale ed onesta, sino al punto in cui, eretta la menzogna politica a fondamento di sistema di governo, a veruno fosse più dato discernere quando il vero si affermasse od il falso, ed il vero per ordinario si trovasse piuttosto in quello che fosse dichiarato per falso, e il falso precisamente in quello che fosse proclamato per vero.

Sullo scorcio di quel mese usciva in luce a Parigi un opuscolo anonimo, sotto il titolo: L'Imperatore Napoleone III, e Viva l'Italia, destinato a levare alto romore di sé.

(1) Le Moniteur Universel, del 24 gennaio 1859.


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236 CAPITOLO DUODECIMO.

Taluno volle tosto vedervi nulla più che uno di quei soliti ballons d'essai che in Francia, il paese per eccellenza dei globi aerostatici, si prova il bisogno di gonfiare di tempo in tempo e di lanciare per la via delle nuvole a fin di vedere ciò che diranno gli allocchi e le persone sensate. Ma il Monitore ufficiale ne annunzio la pubblicazione con ispeciale nota, ciò che costituiva già un fatto significantissimo, dando credito alla voce più comune, che in esso si contenesse il programma imperiale in ordine all'Italia. I più ne dicevano autore il visconte de La Gueronnière, altri lo stesso Imperatore dei Francesi. Erano nel vero coloro che lo affermavano lavoro d entrambi. Esposte da Napoleone le sue idee al visconte, si estese la scrittura, che dall'Imperatore corretta e ricorretta fu mandata a stampare alla tipografia imperiale.

Esordiva con dire: «Ognuno dovere starsi al suo avviso, essere la questione italiana tale da non potersi assopire, né soffocare. Il meglio adunque che si possa fare essere di studiarla, maturarla, tranquillarla. La questione italiana comprendere due elementi affatto diversi, l'elemento rivoluzionario e l'elemento nazionale. L'elemento rivoluzionario essere incompatibile coll'ordine europeo, coll'interesse della religione e coll'indipendenza politica del Papato. La rivoluzione sarebbe oggi in Italia soltanto un cominciamento debole e dannoso. Isolata in Europa,in nessun luogo troverebbe un appoggio; condannata dall'opinione pubblica, vinta dalla forza, il suo tentativo sarebbe una semplice avventura. L'elemento nazionale presentare al Papato una parte importante e gloriosa.

» L'Inghilterra, continuava, non potere certamente abbandonare l'Italia. Il suo Governo, i suoi uomini di Stato, le sue tribune, i suoi giornali, sino dal 1848 averla incoraggiatae sostenuta. Quale influenza ha la Germania in tale questione?Quale nazione è più che la Germania interessata al rispetto delle nazionalità? A ragione essa è gelosa della propria. Dal 1815 essa tende sempre più a compiere la sua unità. Or bene. La nazionalità tedesca porta in sé una cagione di debolezza, una falsificazione del suo diritto e del suo principio, l'elemento straniero, cioè, che la deforma, stando attaccato al grande corpogermanico un brano della nazionalità italiana.»

IL CAPO D'ANNO. 237

Ma allora la nazionalità francese eziandio portava in se una falsificazione del suo diritto e del suo principio, l'elemento straniero che la deformava in Corsica, in Alsazia, nella Bassa Lorena, stando attaccati al grande corpo della Francia brani delle nazionalità italiana e tedesca. Se è ingiusto che un principe straniero abbia sovranità sopra altra nazione, perché la Francia non abbandonava l'Algeria?

«Essere questa,» proseguiva,» una inconseguenza contro la quale si rivoltano e il suo criterio e il patriottismo della Germania. Ma, d'altra parte, il Piemonte aveva fatto bloccare dalla; sua flotta il porto di Trieste. Uomini caldi parlavano persino di unire all'Italia alcuni distretti del Tirolo meridionale. La Confederazione Germanica si credette minacciata nella sua indipendenza. Finalmente ufficiali tedeschi assicurarono che la linea del Mincio per rispetto strategico era necessaria per la Germania,ed aveano essi sparsa l'opinione che l1 Austria dovesse ritenere in ogni caso il paese tra quel fiume e l'Adriatico, come baluardo necessario. La Prussia essersi fondata su questo per proporre alla Dieta una specie di accordo, che mostrava almeno le sue simpatie per la causa italiana e nello stesso tempo la sua cura degl'interessi germanici. Secondo questo progetto, l'Austria deve ritenere la linea del Mincio come punto strategico, ma il paese che rimaneva entro ai confini dell'Impero austriaco doveva prender parte ad una Lega italiana. Progetto respinto dal Parlamento germanico.»

Domandava in appresso: «Che vuole la Francia? Vuoi essa,come sotto la Repubblica e il primo Impero, ricostituire l'Europa per dominarla, mutare le frontiere, spezzare le nazionalità,deporre i Re, fondare nuove dinastie? 0 vuoi essa semplicemente consolidare e raffermare il presente ordine europeo, adoperando la sua potenza a sciogliere le difficoltà che possono minacciarlo o comprometterlo? Crediamo che la questione così sia presentata chiaramente.» Chiarissimamente infatti. Napoleone III. voleva semplicemente una cosa dall'Europa, un nonnulla, adoperare la forza della Francia a sciogliere le difficoltà che potessero insorgere in Europa. A udirli, bastava accordare a Napoleone III. questo universale sindacato, questo supremo arbitramento, e Napoleone III. consoliderebbe e raffermerebbe il presente ordine europeo! Quanta ipocrisia!

238 CAPITOLO DUODECIMO.

«Durante il primo Impero,continuava,l'annessione del Piemonte alla Francia, quella di Parma, della Toscana, di Roma, non doveano essere che temporanee, né aveano altro scopo da quello in fuori di sorvegliare, guarentire ed estendere l'educazione nazionale degl'Italiani. L Imperatore avere fatte Francesi la Germania e l'Italia solo per prepararle ad essere un giorno Tedesca ed Italiana. Se la Francia, che vuole la pace, fosse costretta a far guerra, l'Europa dovrebbe certo essere commossa, ma non inquieta. Non si tratterebbe della sua indipendenza. La guerra, per fortuna non verisimile, quando pur si rendesse necessaria, non avrebbe altro scopo che di prevenire rivoluzioni con giuste soddisfazioni che si accorderebbero coi bisogni dei popoli, e per la protezione e la guarentigia dei principii riconosciuti e dei diritti autentici della loro nazionalità. Napoleone I. essersi tenuto obbligato a conquistare le nazionalità per liberarle; se il suo successore avesse mai a difenderle, ciò sarebbe per liberarle senza conquistarle. La questione italiana doversi esaminare affinché l'opinione dell'Europa trovisi in istato di decidere se sia possibile di mantenere le presenti condizioni delle cose in Italia, o se non sarebbe più prudente, più politico,prevenire più serie inquietudini, che lasciarsi sopraffare dagli avvenimenti.

A Roma il Papa essere sotto la riverente e devota protezione delle guardie francesi Questa occupazione militare essere un fatto anormale, ma insieme necessario; se oggi cessasse, domani noi vedremmo procedere in nostro luogo l'Austria o la rivoluzione. Sfortunatamente irruppe la rivoluzione, che trascinò i popoli, atterrì i principi, e riempì il cuore di Pio IX. di disinganno, non lasciandogli altro rifugio che l'esilio, ed altra salute che la spada della Francia. Questa posizione preparare al Papa tre gravi difficoltà. La prima essere il sistema d'amministrazione dello Stato della Chiesa, che non è altro se non l'autorità cattolica applicata agl'interessi dell'ordine temporale. Le leggi della Chiesa non permettere la discussione. Il diritto canonico, inflessibile come il dogma, essere immobile nel mezzo del movimento dei secoli. Tale tristo stato di cose risvegliare uno spirito, che non viene tenuto in freno se non dalla presenza dei nostri soldati. Per parte della Francia diventare essa responsabile di ciò

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che protegge, e la sua occupazione potere, se dovesse durare in tali circostanze, consumarsi e dare un crollo alla influenza della Francia. Risguardato sotto il rispetto politico, il carattere esclusivamente clericale del Governo della Chiesa essere un controsenso, una fonte perenne di malcontento, e per conseguenza una causa della debolezza del Papa medesimo. La seconda difficoltà per il Papa consistere nella questione nazionale; la terza nell'assoluta impossibilità in cui egli si trova di formare nelle circostanze attuali un esercito italiano.»

Ma poiché la Francia aveva voluto compiere da sé sola il conquisto di Roma, aveva essa per questo il diritto di ordinare al Santo Padre il da fare, e tenerlo sotto perpetua tutela ammantata in aspetto di riverente e devota protezione? Falsissimo che alla influenza della Francia avrebbe dato un crollo la protezione collettiva delle Potenze cattoliche in Roma. Quella formola «dell'autorità cattolica applicata agl'interessi dell'ordine temporale» non potendo significare se non questo, che le norme eterne della giustizia, spiegate ed applicate dall'autorità cattolica, preseggano all'amministrazione degl'interessi temporali, come se ne poteva, in questo senso, l'unico possibile di quella formola, fare un carico al Governo pontificio, quando essa è la condizione indispensabile perché qualunque Governo vada a bene, quand'essa fu quella norma che fece l'Europa civile? Falsissimo che l'autorità ecclesiastica non ammetta discussione. Quando pure ciò fosse, che farebbe egli questo alla discussione delle cose di pubblica amministrazione e di giustizia? Forse che negli Stati pontificii per esaminare le leggi e giudicare le cause eranvi Concilii in permanenza, che facessero altrettanti dommi delle une e delle altre? Fosse pure così, non ne sarebbe per ciò la discussione sequestrata, come non fu mai sequestrata dai Concilii. Singolarissima l'ignoranza de' fatti, per la quale si voleva dare a credere che Roma si governasse col solo diritto canonico; singolarissimo l'errore del principio, onde si ostentava supporre che il diritto canonico sia in ogni sua parte inflessibile ed immutabile come il domma. Certamente eravi in quel diritto una parte dommatica, la quale è, per conseguenza, immutabile; ma questa non ha nulla affatto che fare colle disposizioni pratiche della legislazione e della giudicatura. Ciò che regola alcune appartenenze di quella e di questa è la sua parte, quasi a dirsi,

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disciplinare; e da quando mai questa parte disciplinare del diritto canonico era immutabile, quando mai lo era stata, quasi che l'autorità pontificia, che l'ha sanzionata, non potesse all'occorrenza modificarla, quasi che non vi si avessero arrecati moltissimi temperamenti, quasi che le disposizioni canoniche non fossero anche a' nostri giorni ora sospese, ora cangiate, ora abrogate da chi ha autorità di farlo?

In quanto a Roma, dichiaravasi «esservi tre urgenti bisogni:conciliare il Governo della Chiesa con un reggimento politico-legale e regolare negli Stati romani; rendere il Papa indipendente dalle questioni di nazionalità, di guerra, di armamenti, di difesa interna ed esterna; formare un esercito di nazionali, e sostituire alla occupazione francese la tutela d'una distinta e capace forza italiana.» Cosi esposta, la questione era almeno posata con ogni desiderabile chiarezza. Ben di rado un Sovrano indipendente era stato sì ruvidamente accusato di non governare né legalmente, né regolarmente. Il programma imperiale si faceva a spiegare quanto abbisognasse onde rendere il governo degli Stati Pontificii e legale e regolare. Cosa incredibile! Quanto quel programma si faceva a quest'uopo a richiedere, era già fatto quasi per intero.

Cose da riformare, abusi da togliere, vantaggi da introdurre, certamente vi aveano nello Stato pontificio; tutto questo si può scontrare in ogni governo nel pratico della sua amministrazione; tutto questo, qual più, qual meno, si scontra presso ogni popolo; tutto questo vi è da per tutto. Non vi ha Governo il quale, poco più presto o poco più tardi, non abbisogni di riforme; che non si trovi nella necessità di rivedere di tempo in tempo i suoi ordinamenti di amministrazione e di reggimento, e di tenerli a livello colle oneste esigenze di una civiltà progrediente. È un fatto però incontrastabile, che, come l'aversi immischiato la diplomazia negli affari interni del Governo pontificio fu la causa, per parte di talune Potenze straniere certamente del tutto involontaria, ma senza dubbii principale, che gli Stati della Chiesa mai più dal 1831 si spigliarono affatto dalla malsania provocatavi e sostenutavi dalle sètte; cos, supponendo a quella malsania ragioni e motivi che non aveva in effetto, dandole un'apparenza che da sé sola giammai avrebbe potuto conseguire, si confusero gli effetti

IL CAPO D'ANNO. 241

colle cause, ed abusi attribuibili ad uomini, furono attribuiti alle istituzioni.

Ma che pensare di un sovrano che con tanta sicurezza per anni ed anni proclama ali9 universo, siccome cose da eseguirsi in futuro per suo eccitamento, una serie di provvedimenti risguardanti l'interno reggimento di uno Stato straniero, di rimedii a far cessare il mal governo di un altro sovrano, e quelle cose, ch'egli non ben sapeasi se recasse in mezzo più a guisa di amichevole consiglio o d'imperiosa costrizione, già erano state eseguite da lunga pezza? Il programma imperiale enumerava codesti rimedii, codesti provvedimenti, codeste cose da farsi. Erano quelle stesse che l'Imperatore de' Francesi aveva fatte inserire nel progetto che inviò a Vienna nel mese di giugno 1857.

E prima la secolarizzazione del potere amministrativo per mezzo della formazione di un Consiglio di Stato, composto di laici, incaricato di esaminare e discutere le leggi. Ma se nella lettera ad Edgardo Nev Luigi Napoleone intendeva nel 1849 per la famosa secolarizzazione dell'amministrazione, quello che Napoleone III. spiegava contali parole nel 1857 e 1859, questo appunto era fatto, ed anche più. Ancora da Napoli, il 2 settembre 1849, Pio IX. aveva instituito un Consiglio di Stato, cui commise non solo di esaminare e discutere le leggi, ma eziandio di prepararle, decidere questioni di competenza, esaminare regolamenti provinciali, dar voto in ogni cosa che riguardi la gestione de' pubblici affari. Il 10 settembre 1850 vi aggiunse una sezione pel contenzioso amministrativo. Nel giro de' nove anni dacché esisteva, il Consiglio di Stato aveva esaminato e discusso un gran numero di proposte di leggi nuove, riforme di leggi antiche, interpretazioni di leggi dubbie. Tutti i consiglieri ordinarii, ad eccezione di un solo, erano laici; laici tutti gli altri impiegati del Consiglio.

ÀI primo gennaio 1850 gl'impiegati governativi degli Stati pontificii sommavano a 6978, non compresi in questo numero i professori delle Università, dei Licei, dei Ginnasii, ed altri istituti di educazione, perla maggior parte laici; né 179 cappellani, addetti esclusivamente al culto presso la milizia, negli ospedali, nelle carceri, nelle case di condanna, e via dicendo, i cui uffizii neppure in Francia o nel Piemonte non erano occupati da laici, uffizii in cui nemmeno La Guéronnière o Cavour avrebbero potuto

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collocarvi un avvocato od un medico. Di questi 6978 impiegati, 6854 erano laici, 124 ecclesiastici, vale a dire gli ecclesiastici stavano ai laici nella proporzione d'uno a cinquantasei. Che se si sottraevano tra i quattordici ecclesiastici impiegati nel Ministero della Segreteria di Stato gli undici Nunzii o rappresentanti della Santa Sede all'estero, e tra gl'impiegati degli altri Ministeri i funzionarii di tribunali superiori della capitale aventi una giurisdizione esclusivamente ecclesiastica, il numero degli ecclesiastici impiegati in tutti quanti i rami dell'amministrazione si trovava nella realtà ristretto a soli quarantuno, stando così gli ecclesiastici ai laici nella proporzione di uno a centosessantasette.

Se adunque per secolarizzazione s'intendeva quello che ogni cristiano ed onesto può volere, cioè il chiamare i laici a partecipare della pubblica cosa, questo era già fatto al di là di quanto si saria potuto desiderare. E se maggior numero di provincie non ebbe presidi laici, di chi la colpa? Documenti ufficiali attestavano che le provincie stesse chiedevano Prelati; più che probabilmente avranno avuto le loro buone ragioni ad insistere nel domandarlo. Che se secolarizzare il Governo voleva dire in sostanza costringere la Santa Sede a riconoscere l'assurdo principio che gl'impieghi devono adattarsi alle persone, non le persone agl'impieghi, tutt'altra cosa era, né questo la Santa Sede avrebbe fatto.

Del resto, in quel celebre suo Rapporto del 14 maggio 1856, il conte di Rayneval, afferrando e giudicando con singolare criterio il concetto della secolarizzazione pontificia, non aveva temuto di scrivere al sovrano stesso che di quel concetto s'era fatto il più ostinato propugnatore: «Gli avversarii del presente regime non osano spingere la loro audacia fino a dire che non vogliono più Papa; l'espressione di siffatto desiderio porgerebbe occasione d'un troppo grave spavento. Si contentano perciò di dire, che non vogliono più preti nel Governo degli Stati della Santa Sede.» Questa formola così mitigata ha il doppio vantaggio di fare appello alle simpatie di quelle popolazioni, che non conoscono altri preti infuori di quelli che celebrano la Messa, o che montano sul pulpito; e in pari tempo mena un colpo a seconda de loro intendimenti affine di preparare la rovina del potere temporale del Papa. Coloro che per convinzione ed interesse sono i difensori del presente ordine di cose essenzialmente collegato col

IL CAPO D'ANNO. 243

mantenimento dell'unità cattolica, e col principio d'autorità nel mondo, debbono star bene in sugli avvisi e premunirsi contro queste apparenze, facendo giusta stima dell'esagerazione degli avversarii ardenti delle istituzioni più grandi e più feconde che ci abbiano legato i secoli.»

Poi si voleva la rappresentanza di tutti gl'interessi del paese in una Consulta eletta direttamente dai Consigli provinciali, o almeno scelta dal Papa sulle liste dei candidati presentate da quei Consigli, e chiamata a deliberare su tutte le leggi e a votare il preventivo. Ma la Consulta di Stato, a rappresentare tutti gl'interessi del paese, creata nel 12 settembre 1849, esisteva sino dal 28 ottobre 1850, funzionava regolarmente, era composta di deputati di tutte le provincie, scelti dal Papa sulle liste dei candidati presentate dai Consigli provinciali, rivedeva e sindacava il bilancio, dava voto su quanto interessi le finanze e il commercio, i suoi lavori e il bilancio erano fatti ogni anno di pubblico diritto colla stampa delle Tabelle preventive generali, pieno prospetto della pubblica economia; dalle quali il visconte di La Guéronnière avrà appreso come la Consulta, scelta dai contribuenti, non di rado accrebbe di qualche cosa le spese proposte dai rispettivi Ministeri, e come il Pontefice ha, con ben rare e lievi modificazioni, sempre accettato ed approvato il voto della Consulta in confronto del parere del suo proprio Ministro.

Proseguiamo: Controllo efficace delle spese locali, per opera dei Consigli provinciali, che ricevano la loro delegazione dai Consigli municipali, i quali essi medesimi siano nominati dagli elettori conforme all'editto del 24 novembre 1850. Questa volta la domanda usciva dai limiti consueti della ridicolezza di chiedere cose già fatte, per vestire le più briose forme del lato comico, il programma imperiale citando persino la data della legge, per cui conseguenza quanto veniva richiesto era appunto stato eseguito, e si eseguiva di continuo. Sino dal 12 settembre 1849 Pio IX. aveva consentite sì larghe basi al sistema rappresentativo comunale, che i Comuni nelle cose proprie acquistarono tale autonomia quanta certo non aveano nel resto d'Italia. Ben pochi altri Stati in Europa ebbero una costituzione municipale così larga e liberale, come era la vigente ir gli Stati pontificii dopo la legge del 24 novembre 1850. Ogni Comune aveva un Collegio elettorale.

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Gli elettori nominavano i Consigli comunali. Ogni provincia, per legge del 22 novembre 1850, aveva un Consiglio provinciale affatto laico, d'uomini della provincia, a cui erano accordate le più estese attribuzioni, voto in ogni cosa che tocchi il bene del paese, controllo efficace delle spese locali. Ogni Comune nominava tre candidali, fra i quali venivano scelti i membri dei Consigli provinciali.

Si esigeva: Riforma giudiziaria per la promulgazione di un Codice di leggi civili, foggiato sopra il Codice Napoleone, o sopra quello del Lombardo-veneto o di Napoli. Qui vi avea evidente progresso. Nella lettera ad Edgardo Nev il Presidente della Repubblica francese voleva il Codice Napoleone; cosi nel 1856 al Congresso di Parigi. Nel giugno 1857 Napoleone III. faceva scrivere a Vienna che il Santo Padre doveva dare o il Codice Napoleone, o il Codice Lombardo-Veneto. Nel gennaio 1859 i Codici, sull'uno o sull'altro dei quali aveva a foggiarsi il nuovo dello Stato pontificio, erano tre.

A Roma sino dal 1817 l'insigne giureconsulto Bartolucci, per ordine di Pio VII. aveva impresa l'attuazione del Codice Napoleone, emendandolo solo in quei punti in cui tocca la Chiesa, dove la stessa Nota verbale sarda del 27 marzo 1856 consentiva l'emenda. Il foro di Roma, forse il primo per conoscenza del Diritto Romano, di cui il Codice Napoleone medesimo non è che un sunto, esitò molto se giovasse introdurlo. Sotto Gregorio XVI. fu deciso di conservare il Diritto Romano, e pubblicato un regolamento, che determinava alcuni punti controversi, e dava norme di procedura. Pio IX. migliorò quel regolamento, poi riprese il progetto del Codice civile, il quale nel gennaio del 1859 era già stato riveduto pressoché per intero, e si trovava sotto i torchi, quando sopraggiunsero gli avvenimenti del settembre 1860.

Fu osservato, che negli Stati della Chiesa si voleva attuato il Codice Napoleone e in nome della libertà, e in nome della tranquillità pubblica; e non esservi Codice, che tanto sacrifichi la libertà, quanto appunto il Codice Napoleone. Il concetto dominante in quel Codice si ò il concentrare tutti i poteri, i domestici, i civili, i religiosi, nelle mani dello Stato; tutta la legislazione risguardante la famiglia, i municipii, la Chiesa, offende i diritti più legittimi e naturali di questi tre consorzii in una società cristiana.

IL CAPO D'ANNO. 245

La sola società politica è veramente libera, perché può tutto. Ma questa libertà piena della società politica è tutta a scapito della libertà più giusta della società domestica, della società civile, della società religiosa. «Può giudicarsi fino a qual segno siano o ciechi o semplici questi uomini di Stato forestieri, ben disse un illustre scrittore (1),quando pensano che ogni cosa sarebbe ristorata e consolidata negli Stati pontificii col nolo introdurvi il Codice francese. Le disposizioni di questo Codice sono in vigore nella Francia sino dal 1789. Ebbene: qual cosa v'hanno esse o ristorata o consolidata? Han forse tolto a questo paese il vedere quattro o cinque dinastie rovesciate l'una sopra le ruine dell'altra? di sostenere una dozzina di rivoluzioni e di colpi di Stato? e di temer sempre che quello del 1851 non sia stato l'ultimo? Potrà questo Codice fare in Roma quei miracoli,che non riesci a fare in Francia?»

In appresso si veniva a richiedere la percezione regolare delle pubbliche rendite per mezzo di un organamento di riscossioni, identico a quello ch'è stabilito in Francia. Era un'aggiunta alle primitive pretese dovuta all'iniziativa del cugino di Napoleone III., il Pepoli. Secondo esso, il Governo pontificio lasciando divorare una parte cospicua delle rendite dello Stato dalle spese di percezione, queste assorbivano quasi il terzo di tutte le rendite; e se così fosse stato, certamente giustissima la grave accusa. Se non che era stato agevole dimostrare, cogli irrepugnabili documenti ufficiali alla mano, già in precedenza resi dal Governo anno per anno di pubblica ragione, che il Pepoli s'era lasciato condurre troppo fuori della verità, le spese di percezione costando, non il trenta, ma il quattordici per cento (2).

Infine l'imperiale programma pronunziava doversi riconciliare tutte le dossi e tutte le opinioni, per l'uso provvido e paterno della clemenza verso tutti coloro ohe volessero fare una sommissione rispettosa al Romano Pontefice. Dopo gli avvenimenti del 1849 Pio IX. aveva concesso larghissimo e pieno perdono a quanti eransi fatti rei di fellonia, esclusi dall'amnistia i soli membri del Governo provvisorio,

(1) Ventura de Raulica, Essai sur le pouvoir public, pag 602.

(2) Risposta alla Lettera del marchese Pepoli al conte Costa della Torre sul debito pubblico pontificio, pag. 3032.

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del triunvirato, dell'Assemblea costituente, e una classe di capi militari, in tutto 283 persone. Di queste, Mazzini, Garibaldi, ed altri 19, erano stranieri per nascita e domicilio, 36 fra i membri della Costituente e 24 fra i capi militari avevano da allora in poi richiesto ed ottenuto il ritorno in patria; sicché vi sarebbero stati tuttora, al primo gennaio 1859, se tutti fossero in vita, solo 202 sudditi pontificii fuori dello Stato, uno per ogni 15,469 abitanti.

Rispetto poi alla milizia, al primo del gennaio 1859 l'esercito pontificio annoverava 16,295 uomini, di cui 3532 esteri e 12,763 nazionali volontarii, i quali venivano ad ismentire la veracità delle parole di La Guéronnière: «assoluta impossibilità in cui il Papa si trova di formare nelle circostanze attuali un esercito italiano.» Che se ebbe negli ultimi decenni tre o quattro migliaia di Svizzeri al suo stipendio, chi dava l'accusa ben sapeva come tutto il merito di tale provvedimento fosse dovuto esclusivamente ai Carbonari.

Affermava l'opuscolo, «il Piemonte avere acquistato molto in importanza ed in gloria; però, onde rassodare la sua potenza del tutto nuova, il suo Governo dovere soddisfare a due interessi che soffrono entrambi, l'interesse nazionale e l'interesse religioso. L'idea italiana essere dal 1847 la molla e la ragione d'essere di tutti gli atti della politica piemontese. Questa idea aver prodotto tutto ciò che le era dato produrre nelle presenti circostanze, riguardata sotto l'aspetto delle cose militari e delle manifestazioni politiche contro l'Austria. Non poter essa andare più oltre senza riescire alla guerra. Ma il Piemonte non potere d'altronde rimanere senza gravi pericoli al punto in cui trovavasi, non poter egli essersi posto senza pericolo a capo del movimento, per poi ritirarsi dopo aver levato tanto romore. Dover egli assolutamente trovare modo di appagare le speranze che ha destate, se non voleva esporsi a perdere qualsivoglia influenza in Italia, ed essere sopraffatto da passioni che la sua popolarità teneva in freno. L'interesse religioso patire in Piemonte, come il nazionale; perciò essere da desiderare che il dissidio colla Corte di Roma, serio pericolo pel Governo, non duri più a lungo. Se il Piemonte mantiene lo statu quo, condur esso senz'altro alla guerra come effetto politico, ed allo scisma come


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IL CAPO D'ANNO. 247

effetto religioso, due grandi pericoli, che minacciano non solo il Piemonte, ma tutta l'Italia e l'Europa.

» E lo statu quo, ch'è si difficile a mantenere a Roma ed a Torino, potrà durare a Milano, a Napoli, a Firenze? Investigate, dal suo punto di vista, le condizioni delle cose nel rimanente d'Italia; ricordato il progetto francese spedito a Vienna nel giugno 1857 riguardo allo Stato pontificio, posto in luce come queste trattative infruttuose faranno almeno testimonianza del sincero desiderio da cui è animato il Governo dell'Imperatore per sovvenire ad una condizione dannosa alla quiete dell'Europa ed agl'interessi della civiltà, che rimane all'Italia, chiedeva,fra l'impossibilità di una riforma ed i minaccianti pericoli dello statu quo. Come si dovrà trarre da questo dilemma? Forse col mezzo disperato di una rivoluzione? Noi poniamo per principio,senza timore d'essere contraddetti da nessun uomo competente,che quand'anche tutta l'Italia dal golfo di Taranto alle Alpi fosse in rivoluzione, l'esercito austriaco potrebbe bensì senza dubbio soggiacere a parziali sconfitte, ma a lungo andare non gli sarebbe difficile d'impadronirsi di bel nuovo della Penisola.» Dimostrava come, quando pure tutto il resto del territorio le fosse stato tolto, l'Austria, finché avesse avuto in mano Verona, il Tirolo e le Alpi Carniche, avrebbe potuto mai sempre ricuperare il perduto; e conchiudeva: «Conseguita adunque per chiunque s'intenda qualche cosa di guerra un'incontrastabile verità, cioè che la nazionalità ed indipendenza italiana non possono mai essere l'opera di una rivoluzione, ma solo di una guerra ordinatamente combattuta coll'appoggio di un'altra nazione di primo ordine.»

» Se lo statu quo è pericoloso, se le riforme sono impossibili come la rivoluzione, per quali combinazioni dovranno i popoli ed i Governi della Penisola evitare le conseguenze della condizione anormale e minacciante, che pesa sopra di loro? Dee farsi dell'Italia un solo Regno? La storia, la natura stessa, si levano contro questa soluzione. l'unità italiana non potrà costituirsi se non dopo molti e lunghi conati colla grandezza militare o colla illuminata dittatura, onde distruggere le pretensioni municipali e livellare le disuguaglianze di stirpe, di costumi, di dialetti, che fecero già desiderare per l'Italia un Cesare Borgia o un Luigi XI.

248 CAPITOLO DUODECIMO.

» Dalle Alpi alla Sicilia la penisola italiana presenta profonde differenze, che sono sensibili anche in quelle parti in cui si manifestano originali particolarità. Fu necessario ai Romani per signoreggiare la Penisola e ridurla ad unità trasportare altrove intere popolazioni; né misero minor tempo a compiere questa conquista di quanto ne abbiano impiegato per soggiogare l'orbe terracqueo. E come fecero violenza al mondo,fecero violenza ali Italia. Nessuno potrebbe oggi osare di rialzare la corona ferrea caduta dalla fronte di Napoleone I. Essa sarebbe altrettanto grave a portare, che difficile a conquistare. Devesi dunque tendere, non all'unità assoluta, ma all'unione federativa.»

Poi veniva a schiarire lo sviluppo storico della idea di un'unione italiana, ricordava le pratiche in senso federativo nel 1847 e nel 1848, ed al quesito: «Che cosa mancava a quell'epoca perché questa idea si raffermasse e divenisse una durevole realtà?», risponde: «Mancava ciò che ora noi possediamo, una Francia tranquilla, forte e capace di far sentire la sua voce in Europa, e di difendere una politica in Italia che fu sempre la sua. La politica francese ha tradizioni che non può rinunziare perché convengono ai perenni interessi della sua influenza. Una di queste tradizioni consiste in ciò che le Alpi, le quali sono per la Francia un baluardo, non possano divenire una fortezza armata contro la sua potenza.

» Si può al presente condurre ad effetto ciò che falli nel 1848 per cagioni generali, che ora, grazie al cielo, non esistono più?Nell'attuale condizione d'Italia, è egli possibile di farvi una Confederazione come in Germania, e fondare così una Potenza italiana che risvegli in Italia una vita nazionale? Il punto più difficile è Roma pel carattere misto della sua autorità in cui si uniscono il potere temporale ed il potere spirituale. E quale sarà l'effetto d'una Lega italiana rispetto al Papa? A nostro avviso questo effetto si può riassumere brevemente così: Una Lega italiana innalzerà la forza morale e la riputazione del Papato, e rallenterà il nodo troppo stretto che unisce il Principe al Gran Sacerdote. Ora, come undici anni addietro, non si può immaginare altro che una Lega italiana, il cui centro sarebbe Roma, e Capo il Papa. La supremazia di Roma sulle altre città della Penisola ha ricevuta

IL CAPO D'ANNO. 249

la sua sanzione dal tempo, dalla gloria, dall'ammirazione e dalla pietà di tutti i popoli. Ricevendo il Papa questo accrescimento d'influenza morale, e vedendosi rivestito di un tale protettorato sopra tutta l'Italia, egli senza discendere può diminuire la sua potestà temporale, ed alleviare la sua responsabilità politica. Tutto ciò ch'egli perde in privilegi guadagna in importanza: invece di reggere un popolo immobile,egli stende le sue mani sopra tutta l'Italia per benedirla e dirigerla. Egli è il Capo irresponsabile ed onorato di una Lega di ventisei milioni di cristiani, i quali, benché appartenenti a Stati diversi, concorrono però tutti verso il centro, in cui ha sede l'attività e la grandezza d'Italia.

» In vero al Papa è destinata una bella parte. Ma anche quella degli altri Stati non ha nulla da desiderare per la loro ambizione e per la loro dignità. La Sardegna avrebbe il vantaggio di uscire dalle sue interne ed esterne difficoltà. Essa prenderebbe nella Lega il posto importante che gode in Italia ed in Europa. Oli Stati italiani confederati tra loro tornano il medesimo che un'Italia a cui sia data la pace, significano un'Europa liberata da un reale pericolo, che può seriamente danneggiarla. L'interesse generale accenna dunque alla soluzione. Ma vi è un impedimento fuori d'Italia, cioè la posizione dell'Austria nel Lombardo-veneto. Che dunque ai farà? Deesi piegare il collo al veto che viene da Vienna? Deesi andare più oltre? Può un appello alla forza o un appello all'opinione pubblica trionfare di questa resistenza, e condurre ad una soluzione offerta nell'interesse universale? Questa è l'ultima questione che dobbiamo sciogliere.»

Proclamato che «i Trattati, che legano i Governi, potrebbero essere immutabili solo se fosse immutabile il mondo», si faceva a distinguere tra diritto sortito, che s appoggia sulla fede ai Trattati, e diritto morale, che secondo l'opuscolo programma concederebbe d'infrangere qualunque più solenne stipulazione, dacché ad alcuno dei contraenti tornasse meglio il farlo; e conchiudeva: «Dunque, se egli è dimostrato che la condizione degli Stati italiani sia non solamente una causa di sofferenza per quel paese,ma eziandio una causa d'inquietezza, di malsania e forse di rivolture per l'Europa, la lettera dei Trattati sarebbe invocata vanamente;

250 CAPITOLO DUODECIMO.

essa non potrebbe valere contro la necessità della Politica. Che dunque si farà? Deesi appellare alla forza? Noi dobbiamo appellare all'opinione pubblica.

» Noi non abbiamo inimicizia alcuna con l'Austria. L'Italia è l'unica causa della difficoltà che potrebbe sorgere tra l'Austria e la Francia. Noi rispettiamo la sua posizione in Germania, che non ha nulla a temere da noi al Reno. La soluzione della questione italiana avrebbe per effetto di rimuovere qualunque occasione di dissidio tra la Francia e l'Austria. Il miglior mezzo per assicurare la pace è di prevenire le complicazioni che potrebbero condurre alla guerra. Minacciano pericoli in Italia, noi richiamiamo l'attenzione sopra di essi. Si devono dare ivi guarentigie per essenziali interessi, e noi vogliamo queste guarentigie. Vi sono delle cose che non possono estinguersi al mondo, la causa d'Italia è una di esse. Dio compartirebbe senza dubbio una bella parte di gloria a chi compisse questa guerra. Il desiderio di gloria non ci attrae; noi abbiamo gloria abbastanza nella storia del passato, come negli avvenimenti del presente, per poterne far senza. Noi desideriamo perciò vivamente che la diplomazia alla vigilia d'una guerra possa far ciò che farebbe il giorno dopò una vittoria. Possa l'Europa unirsi energicamente per la causa della giustizia e della pace!»

Programma politico e manifesto di guerra ad un tempo, specie di ultimatum spedito indirettamente al Papa ed all'Austria, seconda edizione di disegni già antichi, non potuti attuare prima, ed ora riprodotti sotto altra forma, lo scritto L'Imperatore Napoleone III. e l'Italia, comunque condotto con grande artifìcio, poteva nella realtà chiamarsi l'apologia dell'inconseguenza. La sua prima parola era: veniamo per tranquillare, non per allarmare, non per irritare; la sua ultima: abbiamo allarmato e irritiamo. Cominciava in sembianza d'investigazione amichevole, dichiarando: è uno studio; finiva con dire: vogliamo. Veniva innanzi col ramoscello d'ulivo e la protesta: la Francia vuole la pace; si ritirava tenendo in mano allumata la fiaccola della guerra. Predicava l'osservanza rigorosa e il rispetto dei Trattati; e poi soggiungeva subito che questi si debbono disfare quando sono occasione, o piuttosto pretesto di turbolenze. Si sforzava a distinguere in teoria due elementi, che certamente ognuno riconosceva, a patto nondimeno di non

IL CAPO D ANNO. 251

confondere né l'uno né l'altro colla nazione, l'elemento che chiamava nazionale e l'elemento rivoltoso; fingeva poggiarsi esclusivamente sul primo, ben sapendo come, eccitato questo, si eccitava il secondo, sì che nella pratica, non che il nazionale escludesse il rivoltoso, diveniva impossibile tenerli l'uno dall'altro disgiunti. Proclamava il Piemonte si fattamente inoltrato, che oggimai non poteva più ritirarsi; e ne traeva la conseguenza che la Francia, pur attestandosi affatto aliena da riposti interessi, doveva accorrere in suo soccorso, «la politica francese avendo tradizioni cui non può rinunziare, perché convengono ai perenni interessi della sua influenza.» Di ogni arma faceva fascio; voleva acquietate le coscienze, e per provare al mondo la necessità di soddisfare l'elemento nazionale in Piemonte, poneva in prospettiva, se questo non fosse reso pago, insino alla possibilità del pericolo di uno scisma in Italia e in Europa.

Frattanto a chi, spremendone l'essenza, si faceva ad osservare più da vicino, tra mezzo al trionfo della inconseguenza, che ad ogni pagina, sotto apparenza di agognato trionfo dell'indipendenza, sovrastava a tutte argomentazioni, quattro cose, che si volevano, venivano per verità in non dubbia luce, e queste erano: forma avvenire di reggimento politico dell'Italia, che dovrebbe esser quella di una Confederazione generale; supremazia di fatto che avrebbe conseguito il Piemonte nella Penisola; restrizione essenziale della potestà temporale del Papa; restrizione essenziale d'influenza, se non forse esclusione assoluta di possesso territoriale dell'Austria in Italia.

Dal Papa sembrava bensì a prima giunta, che circostanziando a lungo riforme, nulla più che riforme si domandasse. Ma proclamando la necessità di rendere il Pontefice indipendente dalle questioni di nazionalità, di guerra, di armamenti, di difesa interiore ed esteriore; ammonendolo a sminuire il suo potere temporale, sotto sembianza di alleviarne la politica responsabilità; dichiarando senz'ambagi coin'egli da quel momento, anziché reggere un popolo, lo si volea destinato a stendere le Bue mani sopra tutta Italia per benedirla; era manifesto che in sostanza quanto agognavasi non erano guari riforme, ma spogliazione, che della potestà temporale dei Papi si volea riserbata a Pio IX. una sovranità di solo nome, apparente, illusoria.

252 CAPITOLO DUODECIMO.

Da quinci innanzi il Pontefice, ridotto ad essere il Vescovo di Roma, aveva a starsi pago a conseguire, in compenso del perdutola folla parte di una Presidenza altrettanto nominale, apparente, illusoria. Riguardo al Papa, all'Austria, a tutti, all'infuori del Piemonte, l'opuscolo programma imperiale tracciava nettamente il da farsi. Una bagattella, di cui ognuno si avrebbe con tutta prontezza persuaso, tant'era facile e naturale: «Alla vigilia d'una guerra far ciò che sarebbero astretti a fare il giorno dopo una sconfitta.» Nulla in vero di più naturale e più semplice che spodestarsi di piano alla prima apertura di un avversario palese o del nemico velato sotto la maschera del falso amico. Così ogni dì più veniva fuori evidente come nella guerra aperta, che a palesi note appressava, Napoleone III. sarebbe disceso a combattere non l'Austria sola, ma il Papato non meno, se pure il Papato non si aveva d'attendere, relativamente, qualcosa di più che l'Austria medesima. L'idea, infatti, che spiccava più chiara in tutto l'opuscolo era questa: che l'Austria, quando non si potesse far altro, e la Francia dovessero mettersi d'accordo per violentare moralmente e come che sia il Santo Padre, sì che volesse chiudersi in Vaticano a pregare e benedire; e dove questo si faccia, le cause di dissidio sarebbero tolte, e se l'Austria volesse acconciarsi a tali patti, a dar mano a codeste prepotenze, se essa si piegasse a mercare un po' di tregua a patto di aiutare i nemici del Papa nella divisata opera di spogliazione e di esautoramento, se volesse accontentarsi di assistere impassibile spettatrice a nuove rivolture contro la Chiesa Romana, in tal caso, per ora, la si lascierà in pace. Altrimenti bisognerà costringerla con la forza dell'opinione, come diceva; delle armi» come si sottointendeva, e si faceva capire. Sotto questo riguardo, la conclusione finale veniva fuori evidente; che non avendovi giammai luogo a sperare di togliere al Papato la potestà sua temporale, se prima l'Austria non fosse vinta e fiaccata, ne veniva di necessità, per poter privare il Pontefice delle sue provincie, togliere all'Austria le fiorenti sue provincie italiane.

253

CAPITOLO DECIMOTERZO.

I pacieri.

Il precursore del Trattato di Zurigo in Moldavia ed in Valaclria. - Napoleone III. all'apertura della sessione legislativa nel 7 febbraio 1859. - La Francia vuoi pace. - I rapporti dei Prefetti. - Imprestito di cinquanta milioni a Torino. - Beauregard e De Viry. - L'Inghilterra si pronuncia risolutamente avversa alla guerra. - Influenza del taglio dell'istmo di Suez. - Gran-Bretagna ed Austria alleate naturali nel Mediterraneo. - Missione di lord Cowley a Vienna. - Primi quattro punti di negoziazione. -

Memorandum

sardo del l'° marzo. - Pio IX. invita Francia ed Austria a ritirare lor truppe da' suoi Stati. - I Trattati austro-italiani. - Il

Monitore

di Francia del 5 marzo. - Russia propone un Congresso delle grandi Potenze.- Inghilterra accetta, ponendo innanzi altre quattro condizioni. - Nota austriaca del 23 marzo. - Il 31 marzo Austria domanda che Sardegna disarmi e licenzi i Corpi Franchi.

Meentre ad occidente le cose pigliavano una piega affatto ostile all'Austria, non meglio volgevano ad oriente. L'unione dei due Principati danubiani, che pella Convenzione del 19 agosto 1858 non doveva aver luogo, si era per converso compiuta. Eletto nel 12 gennaio 1859 il colonnello Cuza ad Ospodaro della Moldavia, il 5 febbraio lo fu ad Ospodaro della Valachia. Cuza era creatura di Napoleone, che lo avea chiamato misteriosamente a Plombières, quasi ne' giorni che il Cavour. Quella doppia elezione, riescita a bene per le mene combinate della Francia e della Russia, era già nella realtà una prima battaglia vinta sull'Austria, un fatto di altissima rilevanza in quanto che, sostituita alla santità de' Trattati internazionali la prevalenza di qualsiasi più astuta gherminella, alla forza del diritto la forza del fatto, inaugurava il gran mezzo rivoluzionario, la teoria del fatto compiuto, resa per questo illusoria qualsivoglia più solenne pattuizione. Russia e Francia naturalmente si affrettarono a riconoscere la doppia elezione, Turchia ed Austria dovettero starsi paghe ad una sterile protesta, che la prima appoggiò coll'invio di un esercito al Danubio, l'Austria avendo a rivolgere tutta la sua attenzione all'Italia. L'innalzamento del Cuza al duplice seggio principesco, a dispetto della lealtà e della buona fede, primo frutto di un anno la cui memoria rimarrà imperitura nei fasti della politica del tranello, fu

254 CAPITOLO DECIMOTERZO,

degno precursore della Pace di Villafranca e del Trattato di Zurigo.

Intanto, tra il caos del dire e disdire del giornalismo ufficioso ed ufficiale, si andavano chetamente preparando alla guerra. Allo spirare del gennaio, in mezzo ad un festino alle Tuilerie, Napoleone disse chiaro, ch'egli voleva la pace, sapendola necessaria alla prosperità della Francia; che dove gli venisse fatto di crescere viemeglio codesta prosperità, crederebbe aver compiuto impresa gloriosissima pel sovrano di un popolo che da leggi alla civiltà. Il 7 febbraio, all'apertura della sessione legislativa, dichiarò: «Da qualche tempo lo stato dell'Italia e la sua situazione anormale, ove l'ordine non può essere mantenuto che a mezzo di truppe straniere, inquietare giustamente la diplomazia. Questo non esser punto, nullameno, un motivo sufficiente per credere alla guerra. Che gli uni la invochino con tutti i loro voti senza legittime ragioni; che gli altri, ne' loro esagerati timori, si compiacciano a dimostrare alla Francia i pericoli d'una nuova coalizione, restar egli irremovibile nella via del diritto, della giustizia, dell'onore nazionale; il suo governo non lasciarsi né trascinare né intimidire, perocché la sua politica non sarà giammai né provocatrice né pusillanime. Lungi da noi questi falsi allarmi, queste ingiuste diffidenze, questi interessati sgomenti!» Sperare che la pace non sarà turbata.»

Voleva quetare? Voleva allarmare? Gli amici della pace, come gli amici della guerra potevano pigliarvi quelle parole che più lor fossero a grado. Se per la prima volta accennava a pericoli di una nuova coalizione, per la prima volta eziandio parlava schiettamente di una condizione anormale, non più degli Stati pontificii soltanto, ma di tutta Italia. Così il vero discorso della Corona ognuno si raffermava a cercare nell'opuscolo programma, pubblicato poco prima, che bandiva i diritti delle nazionalità e la necessità della revisione dei Trattati. Intanto la Francia vedeva compere enormi di cavalli e di munizioni da guerra, provvisioni di letti e medicine per malati e feriti, quantità straordinarie di panni e d'attrezzi da soldato, circa seicentocinquanta pezzi d'artiglieria tratti dalle officine, giorno e notte incessante il lavorio nelle fabbriche di polveri e negli arsenali di terra e di mare, armamento d'un numero tragrande di navi, accumulate immense provvigioni da guerra

I PACIERI. 255

nei suoi porti meridionali, conchiusi nei porti di Tolone e di Marsiglia misteriosi contratti per grandiose somministrazioni di biscotto e di vittuaglie per la primavera e l'estate, accumulati sempre nuovi rinforzi delle più scelte truppe dall'interno alle divisioni che per solito stanziavano lungo il confine delle Alpi ed il Mediterraneo, tratti dall'Algeria i più agguerriti reggimenti e quelle truppe eziandio che soltanto in tempo di guerra ne venivano allontanate. E più che alle parole dell'Imperatore la Francia a questi fatti credeva.

Colà, ad eccezione forse dell'esercito, che in ogni paese di questo mondo desidera la guerra per amore dell'arte, e dei pochi cortigiani interessati ad inchinarsi senza ragionare alle volontà del padrone, ognor più impopolare l'idea della guerra, unanimemente avversata da ogni ordine di persone. Cominciando da' Ministri stessi dell'Imperatore, dal Corpo legislativo fino ai Comuni più remoti dalla capitale, tutti lasciarono intendere, per quanto le circostanze lo comportavano, che ciò che la Francia desiderava dall'Imperatore era la realtà di quella celebre parola: l'Impero è la pace. La stampa periodica seguiva la corrente; per un giornale che mostrava d'inclinare col desiderio alla guerra, cento sorgevano a gridar pace. Tanto ripugnavano ad ogni disegno guerresco lo moltitudini degli operai e dei commercianti, che la ministeriale Patrie si dolse, quasi come d'un insulto alla dignità del Governo e della nazione, che si andasse divisando dall'ordine dei mercanti un indirizzo all'Imperatore per esporgli il loro desiderio ed il comune bisogno della pace. Il Ministro Delangle mandò attorno segretissimamente una circolare ai Prefetti degli Spartimenti per esortarli a rincuorare i popoli, impedire ogni segno di volere troppo ardentemente la pace più che la guerra, esplorare i veri sentimenti delle popolazioni, ed a lui rapportarne. Tutti i Prefetti, niuno eccettuato, scrissero: dovunque contraria la pubblica opinione al pensiero di guerra presentanea, contrarissima a guerra in Italia. «Se gli Italiani, dicevano (1), vogliono la guerra, la» facciano essi: i Francesi non hanno gli stessi interessi che gli» Italiani. La guerra all'Austria, che non ci offende, non può esse» re che arbitraria ed illegittima, non ostante i bei colori di generosità

(1) Revue des deux Monde s, del 1.° aprile 1859, pag. 737.

256 CAPITOLO DECIMOTERZO.

con cui ce la vogliono dipingere. L'immensa maggioranza dei Francesi 9i separa da coloro che, sia in Francia, sia in Italia, cercano di condurci ciecamente alla guerra.»

A d 4 febbraio il Governo di Torino si fece a richiedere alla Camera dei Deputati facoltà di contrarre un nuovo imprestito di cinquanta milioni di lire, addotto a pretesto gli armamenti dell'Austria. Il conte Solaro della Margarita coraggiosamente rispose: «In faccia al mondo intero noi abbiamo ben più l'aspetto di aggressori che di aggrediti. l'Austria provvedere alla tutela de' suoi dominii.» Un Deputato della Savoia, il marchese Costa di Beauregard, disse: «Cavour vuole la guerra, e farà gli estremi sforzi per provocarla; ma la guerra recare per la Savoia la sua separazione dal Piemonte.» Cavour non osò smentirlo. Un altro Deputato savoiardo, il conte De Viry, ripete, svolge, commenta le parole del Beauregard. I ministeriali vogliono forcarlo al silenzio, per togliere d'impiccio il Cavour. De Viry sostiene un mondo di vituperii colla dignità del patrizio, e protesta niun rumore poter impedirgli di esprimere il proprio voto. Allora un diavoleto. Chi impreca, chi mostra i pugni, chi batte, chi fischia; la Camera pare il mare in burrasca. Battezzi, presidente, vuoi sospendere la seduta, e non trova il proprio cappello per porselo in capo. Un vicino gli offre il cappello del conte di Cavour; Rattazzi l'accetta, e resta coperto fino al mento. Cavour ebbe i cinquanta milioni, la pili gran parte impiegati a comperare altrove felloni.

Allora l'Inghilterra pensò intromettersi. Già, nel giorno stesso dell'arrivo del principe Napoleone a Torino, il conte di Cavour aveva ricevuta una Nota del Gabinetto di Londra, del 13 gennaio; gravissimo documento, intorno alle disposizioni bellicose della Sardegna ed alla condotta che la Gran-Bretagna dovrebbe, con suo rammarico, seguire nel caso di ostilità contro l'Austria, che accusava il Governo piemontese di terribile colpa: «La Sardegna, non assalita da alcuno, provocava guerre europee, indirizzandosi a sudditi altrui. Questo l'Inghilterra dovere dichiarare all'Europa. Rimanere la Sardegna responsabile de' suoi atti a' suoi alleati, e più ancora a Dio.» Poi, il 3 febbraio, il conte di Derby, primo Ministro, dichiarava alla Camera dei Lordi: «Protestare di non sapere, che vi fosse tra le Potenze europee veruna questione, che

I PACIERI. 257

possa anche leggerissimamente giustificare il fatale arbitrato della guerra. Per ereditaggio, per lungo possesso, per la fede dei Trattati, la cui violazione cagionerebbe all'Europa danni inestimabili; in virtù di tutti questi vincoli consacrati dal tempo, l'Austria avere acquistato sopra le sue provincie italiane dei titoli, di cui né altri né noi potremmo spogliarla sotto verun pretesto. La Sardegna dovere affidarsi alla fede dei Trattati che a lei guarentiscono i suoi possedimenti, e che sono gli stessi Trattati precisamente in virtù dei quali l'Austria occupa le sue provincie italiane. Non potersi credere che in tali congiunture, e salvo il caso di aggressione per parte dell'Austria, l'Imperatore de' Francesi voglia sancire, fosse pure col solo concorso morale, la guerra ingiustificabile che la Sardegna fosse per imprendere contro l'Austria, violando codesti Trattati. Il Governo inglese avergli rappresentata l'importanza di non lasciare che la Sardegna abbia fiducia nell'aiuto di lui pel caso, in cui essa si gittasse in una guerra aggressiva; ed i dispacci ricevuti dal Gabinetto francese annunziare, che finché l'Austria si terrà nei suoi confini, Sardegna non dover sperare alcun'assistenza dalla Francia.» Sentenza accolta dagli unanimi applausi della Camera, pronunziata quel giorno medesimo in cui la Regina Vittoria, nel discorso d'apertura della Sessione, aveva proclamato: «Mantenere inviolata la fede dei pubblici Trattati tale è lo scopo della incessante mia sollecitudine.» Nel Parlamento britannico tutti ad una voce eransi dichiarati contro la guerra; che «l'Austria possedeva il Lombardo-veneto in virtù di Trattati, cui nessuna Potenza poteva arrogarsi di violare, come disse lord Palmerston; e che perciò l'Inghilterra riserbavasi piena facoltà di operare secondo che l'interesse suo, l'onore ed il dovere avrebbero richiesto,» come soggiunse lo stesso Derby.

Il linguaggio della stampa periodica non era meno schietto, né meno pacifico. È un fatto essere la Gran-Bretagna il solo paese d'Europa in cui la pubblica opinione si renda sicuramente manifesta per mezzo de' suoi giornali. Il sistema dell'abbonamento anticipato, in uso nel continente europeo, non essendo popolare in Inghilterra, né mai avendovi potuto prender piede, è costume generale colà di comperare le gazzette di per dì, o di provvedersene settimanalmente. Il giornalista misura con certezza le tendenze del pubblico


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258 CAPITOLO DECIMOTERZO.

dal numero cresciuto o menomato degli avventori; e quando codesto infallibile barometro segna il ribasso, non di rado spaventoso dall'ieri al posdomani, frettoloso il giornalista muta tuono, e segue la corrente per far ritornare lo spaccio. Il fenomeno, sì singolare agli occhi di coloro che ignorano le consuetudini di quegl'isolani, di vedere oggi un diario levare a cielo precisamente quello che alcuni giorni prima vituperava con ogni energia, è un enigma di facilissima spiegazione.

In addietro i fuorusciti italiani, e più tardi gli uomini della rivoluzione in Piemonte, erano bensì riesciti colle interessate declamazioni a forviare ne' paesi stranieri le menti così intorno all'Austria ed a' suoi procedimenti nel Lombardo-veneto e nella Penisola, come rispetto agli altri Governi italiani; ma la pazza immoderanza, con che s'erano messi in codesta bisogna, lor nocque sì che, all'infuori de' più esaltati avversarii degli esistenti ordini di cose, niuno in Europa quasi prestava più loro credenza. In Inghilterra, ove le informazioni politiche concernenti le provincie austro-italiche pervenivano tutte pel canale del Piemonte, tante e tante erano state le menzogne propalate, che oramai quelle informazioni non venivano più lette se non che con un sorriso d'incredulità e con impazienza. Cominciando dai giornali ministeriali o semiuffiziali, non essendovi colà alcun vero organo ufficiale del Governo, tutta la stampa periodica si trovava d'accordo nel riprovare incoraggiamenti a sovversive passioni in Italia, e nel dichiarare il suo appoggio essere esclusivamente riservato al sostegno dei Trattati ed al mantenimento dell'equilibrio europeo. E la dimostrazione a prò della pace e della repressione d'ogni tentativo di sconvolgimento in Italia, che vera dimostrazione la si doveva chiamare, era stata così poderosa, così imponente, così eloquente, da cagionare gradita sorpresa agl'Inglesi medesimi.

Da tempo il gran disegno di tagliare l'istmo di Suez, e mettere per esso in comunicazione il Mar Bosso col Mediterraneo, nella Gran-Bretagna turbava tutte le menti. A codesto disegno là cui prima origine risale fino a trenta secoli fa, rimesso in campo sullo scorcio del passato secolo dal generale Bonaparte, ripigliato nel 1847 dall'Enfantin, l'opinione pubblica nella massima parte d'Europa erasi già altamente dichiarata per le centomila voci delle sue effemeridi non solo favorevole, ma bramosissima di vederlo

I PACIERI. 259

quanto prima condotto ad esecuzione, ed ora godeva vedendo che i suoi voti stavano in sul compiersi. Mentre Napoleone III. dava di spalla con ogni potere al francese Ferdinando di Lesseps, venuto a capo della Compagnia costituita per il taglio dell'istmo, la sola Inghilterra vi si mostrava pertinacemente avversa, non già perché non abbia a sperarne anch'essa ricchissimi profitti pel suo commercio delle Indie, ma per quell'egoismo mercantile, che, come tutti sanno, è la molla suprema della politica britannica.

Dovendo l'apertura dell'istmo tornare più vantaggiosa alle nazioni che siedono sul Mediterraneo, che non a lei rilegata nell'Oceano, l'accresciuta prosperità di queste potendo così ridondare in suo danno e scemarle forse quella signoria dei mari di cui è sommamente gelosa, ella temeva, né certamente del tutto a torto, che non incontri a lei per l'apertura dell'istmo quel che avvenne a Venezia per lo scoprimento del Capo di Buona Speranza. La Francia con porti felicissimi sul Mediterraneo, colla Corsica, con tutta la sua conquista dell'Algeria che si stende fin sulle porte dell'Egitto, attingerebbe tanto più largamente ai tesori dell'Asia pel canale di Suez quanto più è vicina alle sorgenti; mentre l'Inghilterra colle sue quantunque importantissime stazioni di Malta e di Gibilterra non potrebbe forse alla fine avvantaggiarsene altrettanto. Di qui la necessità per l'Inghilterra di osteggiare tutto quanto potesse influire ad estendere la potenza e l'influenza della Francia sul Mediterraneo, ed a realizzare quella immensa, ma non guari impossibile se non venisse seriamente attraversata a tempo, aspirazione di rendere il Mediterraneo un lago francese. L'aprimento dell'istmo egiziano, per poco che se ne considerino le conseguenze, quantunque un'opera la quale a primo aspetto non sembra esser altro che un lavoro idraulico gigantesco, ed una questione di commercio di altissimo valore pei trafficanti, è nella sostanza questione di suprema importanza politica per la Gran-Bretagna.

La situazione però veniva a cangiare dal momento che da tutte le apparenze scorgevasi il proposito di respingere l'Austria da prima dalla Venezia, poi, riuscendovi, anche dall'Istria e dalla Dalmazia, vale a dire da tutte le coste dell'Adriatico. L'idea di espellere l'Austria dall'Adriatico collegandosi intimamente a

260 CAPITOLO DECIMOTERZO.

quella del taglio dell'istmo di Suez ed al disegno di escludere l'Inghilterra dal Mediterraneo, ne conseguita che Austria e Inghilterra diventano nel Mediterraneo necessarii alleati naturali, e devono passar sopra a que' svantaggi secondarii che possono risultare da tale alleanza, onde potervisi reciprocamente sostenere. Francia e Russia alleate, espulsa l'Austria dall'Adriatico, ricostituita l'Italia per opera e sotto la protezione della Francia, con un naviglio da guerra proporzionato alla vasta estensione delle sue coste ed alla ampiezza delle marittime sue risorse, con Venezia e l'Istria al Regno dell'Alta Italia sotto l'immediata influenza della Francia, con Livorno ed Ancona al Regno di Etruria posseduto da un principe francese, col Regno di Napoli governato da un altro principe francese, colla Liguria e la Sardegna alla Francia; la Russia acquisterebbe il dominio dell'ingresso del Mar Nero, e per lo meno il protettorato sopra tutti i popoli slavi nella penisola del Balcan, acquisterebbe colla cooperazione della Francia quanto la Francia le aveva impedito di acquistar da sola; la Francia otterrebbe l'assoluto e supremo dominio nel Mediterraneo, e preponderante influenza, là dove non si estendesse l'effettivo suo protettorato, su tutte le schiatte latine. Allora l'esclusione della Gran-Bretagna dal Mediterraneo sarebbe un fatto; a fronte della cui possibilità anche la più remota, per qualsivoglia inglese, sia pure il Gran Maestro della Massoneria universa, sfuma ogni altra velleità, ogni altra simpatia va in dileguo, quando mai quelle velleità e quelle simpatie potessero, comunque fosse, cooperare a conseguire risultamenti sì fatti. La cessione della stazione navale di Villafranca alla Russia aveva alienato dalla Sardegna tutte le residue simpatie inglesi.

Lord Cowlev, ambasciatore della Gran-Bretagna a Parigi, legato personalmente d'amicizia con Napoleone e col conte Buoi, Ministro austriaco pegli affari esterni, parve al Gabinetto inglese il più acconcio per tentare, se ancor fosse tempo, un accomodamento; mentre da Berlino al barone di Werther, ambasciatore prussiano in Vienna, b' ingiunse di assecondarlo. A Londra in vero s'illudevano. Napoleone III. aveva sempre evitato a grande studio di fare cosa alcuna, che potesse trarlo a cozzare di fronte coll'Inghilterra, e per contro aveva fatto di tutto per viemeglio rassodare con essa i vincoli dell'alleanza. Ancora il 7 febbraio, nel discorso della Corona, avea detto:

I PACIERI. 261

«A fine di raggiungere questo scopo cosi utile alla pace del mondo, ho calpestato in ogni occasione le memorie irritanti del passato, gli assalti della calunnia, e gli stessi pregiudizii nazionali del mio paese.» I fatti, eziandio i più. recenti, rispondevano perfettamente alle parole. Cessata la controversia del Charles et Georges, che tanto guaio aveva cagionato al Portogallo, la Francia erasi affrettata di evitare ogni occasione di nuove querele della Gran-Bretagna, ordinando ricisamente d'impedire qualsiasi reclutamento di lavoratori negri. Or l'Inghilterra domandando a gran voci quella pace che l'Imperatore de' Francesi affermava di volere, si lusingavano ch'egli avrebbe finito con arrendersi ai voti della sua alleata d'oltre la Manica, ned altro ei desiderasse che di ottenere alcune concessioni dall'Austria, tanto per dare questo zuccherino in bocca a chi, per essergli stato fedele alleato in altre cause, pensavano non meritasse però che la Francia gli si avesse a fare alleato nella causa della rivoluzione.

Abboccatosi con Napoleone e col Walewski, lord Cowley, chiamato a Londra dal Ministero, fu di là fatto partire il 24 febbraio per Vienna, ove giunse il 27. Vi andava senza istruzioni ufficiali del suo Governo, con incarico di scandagliare le intenzioni dell'Austria sopra quattro punti che si proporrebbero a base di negoziazioni. Erano: «Sgombro degli Stati pontificii dalle truppe austriache e francesi. Rinuncia ai Trattati segnati dall'Austria in seguito del Trattato del 1815 coi principi italiani, e rinuncia all'occupazione delle città della Toscana e del Ducato di Modena, che non sono designate nei Trattati del 1815 come doventi ricevere guarnigioni austriache. Impegno preso dall'Austria di non intervenire, in qualsivoglia caso, nemmeno dietro invito dei» sovrani rispettivi, nei loro Stati. Impegno preso dalle Potenze» europee di preparare le riforme sollecitate dai popoli italiani.» Ammettendo, domandò l'Austria, che le Potenze giungessero ad intendersi sopra le concessioni richieste, queste concessioni le assicurerebbero nel futuro il tranquillo possesso de' suoi possessi italiani, all'infuori de' sconvolgimenti che potessero sopravvenire?

L'Inghilterra allora richiese intorno a ciò schiarimenti alla Sardegna. Poiché, come aveva detto il Manzoni nei Promessi Sposi, le guerre senza ragione si chiamano ingiuste, e le guerre ingiuste niuno vuoi farle,

262 CAPITOLO DECIMOTERZO.

Napoleone III. e Cavour avevano già pensato ad una ragione da metter fuori per farla apparire giustificata. Or rispondendo all'invito inglese, con un Memorandum in data del 1.° marzo (1), Cavour pose innanzi codesta ragione, la quale era i Trattati conchiusi in addietro dall'Austria con altri Stati d'Italia. Pretesto scelto con somma abilità qaell'intimare con piglio alto all'Austria di rinunziare a Trattati liberamente passati tra lei ed altri Stati indipendenti. Se l'Austria cedeva, si avrebbe avuto cura di dire che cedette per paura; diminuita la sua forza, accrescerebbe di altrettanto quella della rivoluzione; la quale, soffiata da chi ci aveva interesse dentro e fuori d'Italia, non avrebbe temuto più. di essere repressa che dai Congressi; e questi, se non avevano fatto paura ai Moldovalachi, come il fatto compiuto del Cuza ben attestava, ne avrebbero fatto anche meno agli italianissimi, che si sapeano apertissimamente protetti dal Bonaparte. Se poi l'Austria non cedeva, la diplomazia mostrando di non ammettere una ragione cosi cruda come quella della nazionalità, ecco trovata finalmente la ragione della guerra.

Un altro pretesto, che si teneva in serbo per momento opportuno, era venuto meno prima ancora di potere dar fuori. Ritenevano per indubitato che l'Austria, cosi stando le cose, non mai avrebbe voluto aderire a ritirare le truppe che teneva nelle Romagne, sia per considerazioni strategiche, sia per riguardi dinastici rispetto a Toscana e Modena, che da di là tutelavano ai fianchi. Ma Pio IX., subodorato quanto si andava mulinando, li prevenne con fare che il cardinale Antonelli dichiarasse il dì 22 febbraio agli ambasciatori d'Austria e di Francia, che «il Santo Padre, senza pretendere di essere forte abbastanza da bastare alla propria sicurezza, giacché la presenza di truppe francesi ed austriache nello Stato pontificio potea dare qualche occasione a dissapori tra Potenze cattoliche, esso non voleva mostrarsi loro ingrato dell'aiuto prestatogli, fino a richiederlo ancora, quando ciò non poteva essere senza loro impaccio. Per questo, desiderare si ritirassero. Affidarsi egli alla Provvidenza, la quale certamente non lo avrebbe abbandonato.» Ma checché dicesse il Papa, Napoleone, troppo premendogli che i Francesi rimanessero in Roma, fé il sordo;

(1) Memorie per la storia de' nostri tempi, Serie II., Vol. I., pag. 3339.

I PACIERI. 263

né gli Austriaci avendo voluto andarsene soli, tutti rimasero ove si trovavano.

Antiquati erano cedesti Trattati, che ora si posero in iscena siccome punti palesi di controversia; la maggior parte conchiusi quando Napoleone ritornò in Francia dall'isola di Elba, ed allo scopo d'impedire un risorgimento del Regno d'Italia. Altri poi eransi contratti non tanto dall'Austria, quanto dalla Santa Alleanza, nel Congresso adunato prima a Troppau, e poi a Lubiana. Il primo Trattato fu stipulato nel 1.° luglio 1815 col Granduca di Toscana, il secondo col Re di Napoli nel 12 luglio dello stesso anno. Per esso l'Austria obbligavasi a difendere il Regno co' suoi eserciti, Napoli a dare per le guerre austriache venticinquemila uomini, poi ridotti a dodicimila por nuova Convenzione del di 4 febbraio 1819; patto non mai eseguito per parte di Napoli, eseguito per parte dell'Austria sino al 1817, poi dal marzo 1821 al febbraio 1827, e da quel tempo mai più. Al Trattato stava annesso un articolo segreto, con cui venne stabilito che «le obbligazioni contratte affine di assicurare la pace interna d'Italia imponendo il dovere di preservare gli Stati e sudditi rispettivi da imprudenti innovazioni, il Re delle Due Sicilie, ripigliando il governo del suo Regno, dichiarava che non v'introdurrà cambiamenti, i quali non potessero conciliarsi sia colle antiche instituzioni monarchiche, sia coi principii adottati dall'Imperatore d'Austria nel reggime interno delle sue provincie italiane.» Stipulazione che dava all'Austria nel 1821 ogni diritto di esigere la Costituzione di Cadice non fosse promulgata nel Regno di Napoli; tutti patti, ch'erano semplice conseguenza dei Trattati di Vienna del 1815, patti in sostanza lasciati cadere, come se non fossero, da ben trentadue anni.

Più di recente due altri Trattati erano stati conchiusi il 24 dicembre 1847 con Modena e Parma (1). In un momento, in cui non poteva più esser dubbio come tutti quei ribollimenti ad altro non sarebbero riesciti che a mettere Italia tutta in fiamme, nulla di più naturale che Austria e Ducati si alleassero più strettamente, a fronte della prossimità di un pericolo comune, e stipulassero

(1) Recueil des Traités, conventions et actes diplomatiques concernant l'Àutriche et l'Italie, 17031859, pa$. 197, 390, 418.

264 CAPITOLO DECIMOTERZO.

reciproco aiuto ed assistenza, sia contro nemici dal di fuori, sia contro interne sollevazioni.

Or in quel Memorandum, epilogo di tutte accuse per lo addietro messe in campo contro l'Austria, ed in cui Cavour confessava «non potersi contestare che il possesso dell'Austria nel Lombardo-veneto è conforme ai Trattati e legale,» si esigeva schiettamente: i due Trattati del 24 dicembre 1847 con Modena e Parma si annullassero; gli Austriaci si ritirassero dalle Romagne, dei Francesi a Roma e Civitavecchia non parlandosi, liberi di rimanervi a lor grado; il principio del non intervento fosse proclamato e rispettato; i forti staccati costrutti a Piacenza si distruggessero; l'Austria costituisse un Governo nazionale separato per la Lombardia e la Venezia; i sovrani di Modena e di Parma dotassero i loro Stati d'istituzioni conformi a quelle ch'esistevano nel Piemonte; il Granduca di Toscana ristabilisse la Costituzione del 1848; le provincie dello Stato pontificio al di qua degli Apennini fossero separate in conformità delle proposte comunicate nel 1858 ai Gabinetti di Londra e di Parigi. Queste le condizioni alle quali «sarebbero scongiurati i pericoli di una guerra o di una rivoluzione, e sarebbe temporaneamente assopita la questione italiana.»

A Vienna il conte Buoi presentò a lord Cowlev questi Trattati austroitaliani; e pur protestando non poter l'Austria convenire che s'impugnasse da chi che sia il diritto di qualsivoglia Stato sovrano di conchiudere Trattati con altri Stati sovrani, dichiarò però l'Austria non opporrebbesi acciocché codesta vertenza fosse discussa in un Congresso, quando alcune condizioni si adempissero. Tra queste quattro precipue: trovassero uno spediente atto a mantenere in altra guisa la quiete in Italia, né Sardegna potesse accampare pretese quasi grande Potenza italiana; tutte le altre Potenze, che prendessero parte al Congresso, dovessero presentare i loro Trattati cogli Stati italiani; tutte le trattative si appoggiassero sull'Atto finale del Congresso di Vienna del 1815, il quale non avrebbe dovuto andar soggetto a veruna modificazione.

In questo mezzo, ogni giorno aggravava la situazione. Grandissimo numero di giornali, specialmente di Germania, ed in coro gl'Inglesi, senza posa accusavano altamente l'Imperatore Napoleone di appoggiare il partito della rivoluzione in Italia, nella speranza di riescire alla guerra. Fu fatto parlare ancora il Monitore ufficiale:

I PACIERI. 265

«Lo stato delle cose in Italia, disse (1), aver preso in questi ultimi tempi un carattere di gravità che doveva naturalmente colpire l'Imperatore. Animato d'uno spirito di prudenza ch'ei sarebbe colpevole di non aver avuto, preoccuparsi egli con lealtà dello scioglimento ragionevole e giusto che potrebbero ricevere questi difficili problemi. L'Imperatore nulla avere a nascondere, nulla a disapprovare, sia nelle sue preoccupazioni, sia nelle sue alleanze. L'interesse francese dominare la sua politica e giustificare la sua vigilanza. Rimpetto ad inquietudini malfondate, così amare di crederlo, che commossero gli animi in Piemonte, avere l'Imperatore promesso al Re di Sardegna di difenderlo contro ogni atto aggressivo dell'Austria; non aver egli promesso nulla di più, e sapersi ch'ei terrà parola. Son questi sogni di guerra? Da quando in qua non era pili conforme alle regole della prudenza il prevedere le difficoltà più o meno prossime e pesarne tutte le conseguenze? Questo essere quanto vi avea di reale nei pensieri, nei doveri, nelle disposizioni dell'Imperatore; tutto ciò che le esagerazioni della stampa vi aveano aggiunto, essere immaginazione menzogna e delirio.» Così Napoleone III. faceva confessare essere una verità quel Trattato di alleanza, che quando era stato annunciato conchiuso, aveva fatto dichiarare, il 24 gennaio, asserzione falsa e ingiuriosa

Si comprende agevolmente che a Napoleone non poteva garbare punto una mediazione inglese, la Gran-Bretagna anelando sinceramente a conservare la pace, egli volendo fermamente la guerra, la Gran-Bretagna tendendo a mantenere immutato in Italia lo stato di possesso territoriale giusta i Trattati del 1815, egli a distruggervi ogni base di diritto e rimescolar quello Stato. Per questo il Bonaparte senza por tempo in mezzo fece sollecitare il Gabinetto di Pietroburgo perché senza più, appoggiandosi alle deliberazioni del Congresso di Parigi, venisse fuori colla proposta di una nuova riunione delle cinque grandi Potenze. In effetto, nella sessione del 14 aprile 1856, i plenipotenziarii adunati in Parigi avevano espresso il voto che gli Stati, tra i quali s'elevasse un serio dissenso, accettassero la mediazione d'una Potenza amica prima di avere ricorso alle armi.

(1) Le Moniteur Universel, del 5 marzo 1859.

266 CAPITOLO DECIMOTERZO.

Così allorquando lord Cowley il 16 marzo fu di ritorno da Vienna a Parigi, rimase sorpreso in udire che durante la sua assenza aveva avuto luogo vivissima corrispondenza tra il Governo francese ed il russo, raccordo intervenuto, la proposizione del Congresso già fatta dalla Russia, ed essere già stato, per mezzo dell'ambasciatore francese in Londra, avvertito lord Malmesbury, Ministro inglese degli esteri, di codesto passo del Governo moscovita, colla dichiarazione che la Francia era disposta ad accettarne la proposta.

La proposizione della Russia, così com'era formulata, escludeva il Piemonte dal pigliar parte al Congresso. Il Gabinetto di Torino si affrettò a protestare contro tale esclusione, affermando suo diritto incontestabile il pigliar parte a deliberazioni sopra argomento che, a suo dire, interessava la sua propria esistenza. Austria, Inghilterra, Prussia, non meno che Russia e la Francia medesima, tennero fermo in escluderlo.

Discreta e giusta era la domanda dell'Austria, che, quand'essa producesse i suoi Trattati cogli Stati italiani, eziandio le altre Potenze al Congresso producessero i loro Trattati. Ma anche domande giuste e discrete possono riescire incomode a chi sia chiamato a rispondervi. Come poteva il Governo francese presentare il suo Trattato di alleanza colla Sardegna, del 19 gennaio 1859, dopo che ne aveva il 24 gennaio ufficialmente negato la esistenza, dichiaratolo asserto ingiurioso? La proposizione del Gabinetto di Pietroburgo pel Congresso toglieva di mezzo questa difficoltà con far passare l'intromessione dalle mani della Gran-Bretagna in quelle della Russia. Or l'Inghilterra non voleva un Congresso, ma colla Prussia soltanto, e in segreto, una mediazione. La proposta russa pose in grande imbarazzo il marchese di Malmesbury, uomo di Stato forse non di assai perspicacia. Non credendo di potere, a motivo della missione di lord Cowley, rifiutare la proposizione moscovita, né d'altra parte volendo lasciare affatto libero il campo alla Russia, s'appigliò ad un mezzo termine. Acconsentì alla proposta, ponendo innanzi però da parte sua quattro condizioni, che dovessero servire di base ai lavori del Congresso. Erano: Determinare i mezzi pei quali la pace potesse essere mantenuta tra Austria e Sardegna; stabilire come potesse meglio attuarsi lo sgombro delle truppe austro-francesi dagli Stati pontificii, esaminare se convenisse introdurre riforme

I PACIERI. 267

nell'intera amministrazione di questi e degli altri Stati italiani, e quali dovessero essere codeste riforme; ricercare un mezzo di sostituzione ai Trattati speciali dell'Austria cogli Stati italiani; non doversi toccare alle sistemazioni territoriali ed ai Trattati del 1815.

Già il 22 marzo l'ambasciatore di Russia a Londra dichiaravasi d'accordo su queste condizioni, mentre il giorno prima l'ambasciatore russo a Vienna, Balabine, presentava al conte Buol la proposta uffiziale pel Congresso, già accettata dal Gabinetto di Berlino. Perfettamente all'oscuro delle quattro condizioni costituenti la controproposta inglese, Buoi rispose il 23 marzo alla Nota di Balabine: «Austria avrebbe preso parte al Congresso. Unica questione scabrosa essere, agli occhi del Gabinetto di Vienna, il contegno della Sardegna nelle sue relazioni coll'estero. A questo doversi avvisare prima di tutto. Se si portassero altre questioni innanzi al Congresso, queste dover essere precisate in precedenza. Se si avesse a discutere sopra le condizioni di qualunque altro Stato sovrano, questi Stati non potervi prender parte se non secondo i principii sanciti al Congresso di Aquisgrana nel 1818. Conferenze e deliberazioni sotto lo strepito delle armi e dei preparativi di guerra essere non solo materialmente pericolose, ma eziandio moralmente del tutto impossibili. Dovere la Sardegna, secondo le viste dell'Austria, disarmare prima che un Congresso generale possa adunarsi.»

Addi 28 marzo lord Loftus, inviato inglese, rimise a Buol le controproposte inglesi. Il Ministro austriaco rispose il 31: «Austria felicitarsi della dichiarazione fatta dall'Inghilterra, voler essa intendersi col Governo francese per agire di concerto a Torino onde il Piemonte smetta la sua attitudine minacciosa. Austria sperare nell'azione anglo-francese a Torino, essere però ben decisa a non prender parte al Congresso prima del disarmo e del licenziamento dei Corpi Franchi in Piemonte. Quando questi due fatti fossero compiuti, Austria prendere impegno formale e solenne di astenersi da ogni atto aggressivo contro il Piemonte, purché questi rispetti il territorio austriaco e quello degli Stati alleati dell'Austria.

» Riguardo alle quattro condizioni proposte dall'Inghilterra» siccome programma del Congresso:

» Convenire nel primo così: abbia ad esaminare il Congresso

268 CAPITOLO DECIMOTERZO.

» quali possano essere i mezzi per ricondurre Sardegna ali adempimento de' suoi doveri internazionali, ed occuparsi delle misure da prendersi per evitare il ritorno delle complicazioni attuali.

» La questione dello sgombro degli Stati pontificii poter essere discussa; ma il Congresso dovere abbandonare ai tre Stati direttamente interessati la cura di occuparsi dei dettagli di esecuzione. L'altra questione delle riforme amministrative in alcuni Stati italiani poter essere agitata, ed addivenirsi ad un accordo sui consigli da dare; ma la loro adozione definitiva dover essere abbandonata alla decisione degli Stati direttamente interessati.

» La validità dei Trattati speciali dell'Austria cogli Stati italiani non poter essere discussa. Ma se tutte le Potenze rappresentate al Congresso convenissero fra loro di produrre i proprii Trattati politici cogli Stati italiani, Austria farebbe egualmente. Dichiarare che l'Austria si porrà d'accordo coi Governi italiani interessati, per poter presentare que' Trattati al Congresso, e per esaminare dentro quali limiti la loro revisione potrebb'essere riconosciuta utile.

» Essere perfettamente d'accordo coll'Inghilterra in ciò che non si abbiano a toccare alle sistemazioni territoriali ed ai Trattati del 1815, né a quelli che furono conchiusi in esecuzione dei medesimi.

» Austria richiedere si aggiunga al programma una quinta condizione: accordo di un disarmo simultaneo a cui procederebbero tutte le grandi Potenze.

» Infine trovar conveniente, che, in luogo dei principii seguiti al Congresso di Aquisgrana, i Governi italiani mandino degli agenti nel luogo ove si tenesse il Congresso. Questi agenti non fossero in corrispondenza ufficiale col Congresso, ma dovessero essere consultati confidenzialmente, ciascheduno sugli affari che interessassero il proprio Governo.»


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CAPITOLO DECIMOQUARTO.

I volontarii e la Lombardia.

Sgomenti a Torino. - Le istruzioni del

Diritto.

- Cavour ritorna da Parigi portando con sé

le poisson d'avril.

- Gli annoiamenti e gli arruolati della

Società Nazionale.

- Giuramento dei

volontarii.

- Comitati di Lombardia. - Presidenti dei Comitati. - Resa de' conti. - Instituzioni dei

Cacciatori delle Alpi.

- Garibaldi Maggior generale piemontese. - L'alleanza dell'uomo col cavallo definita da Mettermeli. - Opra di sètte rimane opra di sètte. - La Lombardia sotto l'Austria secondo Cantù, Dal Pozzo, Vitalini, Mazzini. - L'organamento provvisorio nel Lombardo-Veneto, - L'Imperatore d'Austria in Italia nel 185657. - I popoli e la setta. - Buoni effetti del viaggio imperiale. - II senatore Plezza sfrattato da Milano. - Rottura delle relazioni diplomatiche tra Austria e Sardegna. - L'Arciduca Ferdinando Massimiliano, Governatore generale nel Lombardo-veneto. - Primi atti del suo governo. - Importanti provvedimenti. - I soldati richiamati ed i coscritti in Lombardia nel marzo 1859.

La notizia ch'eziandio la Francia dichiarava, Sardegna non poter pretendere d'intervenire al Congresso, in Torino aveva gli animi profondamente commossi, turbato e sconvolto Cavour. Sicché questi al La Farina, il quale stava nel suo gabinetto allorquando ricevette il dispaccio che gliene dava la conferma ufficiale, non seppe tenersi dal dire: Per Dio Vi sono dei quarti d ora in cui bisogna pur confessare che non si capisce più niente Napoleone , e qui dava in quella sonora risata che gli era consueta, ma chi diavolo arriverà mai a conoscerlo Già il Cavour si doleva amarissimamente, che il Governo piemontese fosse venuto a sapere del Congresso nel tempo stesso che gli altri mortali, e di non esserne stato, comunque fosse, consultato. Molti temevano che il Congresso potesse benissimo impedire la guerra, e lo stesso Cavour non era rimasto affatto inaccessibile a codesta paura. In sulle prime il fatto riesci a lui così strano, che non sapea credervi, e ne fece anzi negare ricisamente la nuova dalla ministeriale Opinione, in forza d'informazioni, affermava, avute da sicure fonti. Intanto aveva richiamati sotto le bandiere i soldati di riserva della prima categoria e di una parte della seconda, date l'ultime disposizioni per l'armamento delle fortezze e delle nuove opere di fortificazione erette in parte per proteggere le ferrovie.

270 CAPITOLO DECIMOQUARTO.

Giunta la notizia dell'esclusione dal Congresso, Cavour adunò tosto i Ministri a Consiglio sotto la presidenza del Re. Fu tempestosissima conferenza. Cavour voleva a ogni patto che si abbracciasse un partito disperato, e si passasse il Ticino come nel marzo 1848. Allora, diceva, voglia o non voglia, stabilito o no, Napoleone dorrà pur venire ad assisterci, Lanza, Bona, Paleocapa, Ministri, già avevano ceduto. Vittorio Emanuele propendeva evidentemente per l'opinione di Cavour, cui La Marmora, Ministro della guerra, opponeva strenuamente: «Insufficiente, non abbastanza preparato l'esercito, per ogni riguardo inferiore all'austriaco; pazzia voler cozzare di fronte con Napoleone, che un colpo di testa doveva inasprire; gravissimi pericoli correre il Piemonte, se venissero meno o troppo tardi gli aiuti di Francia,che poteano mancare». Quand'ecco un dispaccio telegrafico vien porto a Cavour. Era Napoleone che lo faceva chiamare tosto tosto a Parigi, dissero affine d'indorargli la pillola. Due ore dopo, la sera stessa del 24 marzo, Cavour poneva la via tra le gambe. Il Diritto (1) giornale della sinistra, gli mandò dietro le sue istruzioni: «Non mendicate elemosine, non accettate condizioni che umiliano. Dite che nelle condizioni presenti una ritirata della Francia sarebbe fatale non meno all'Italia, che alla Francia stessa; dite che la politica dell'Imperatore perderebbe ogni prestigio tanto dinanzi ai popoli, quanto dinanzi alla diplomazia; dite che questa sconfitta metterebbe a gran repentaglio le sorti stesse del suo trono.»

Napoleone III., infatti, titubava maledettamente in que' dì. L'avversione generale, assoluta, della Francia a codesta guerra; il silenzio dei Deputati al messaggio di apertura del Corpo legislativo; il discorso di Morny, personalmente ostilissimo a questa belligera politica italiana di suo fratello (2); la freddissima accoglienza ond'era stata ricevuta in Francia la principessa Clotilde; i rapporti unanimi dei Prefetti; l'incendio stesso del magazzino dei foraggi di Vincennes, che si diceva non dovuto al caso; l'Inghilterra

(1)

Nel numero del 25 marzo 1859.

(2)

E notissimo come il conte ed ora Duca di Morny sia fratello uterino di Napoleone III. (E. Sue; Les Mystères du monde, Vol. III., pag. 15). Morny e Fould, in allora presidente del Corpo legislativo il primo, e Ministro di Stato il secondo, erano a capo de più ardenti avversarii della guerra.

I VOLONTARI E LA LOMBARDIA. 271

che proclamava a' quattro venti, intangibili dover essere i Trattati del 1815, immutabili i confini degli Stati in Italia, ingiustificabile la guerra, oggi mediatrice per un componimento a lui sgradito, quasiché domani potesse finire con volgersi del tutto contro la Francia; la Prussia poco sicura ed ognor assai sospettosa; la Germania che strepitava altamente, e quasi affatto concordemente, perché si avesse ad accorrere in soccorso dell'Austria; la Russia, che bensì parea ben disposta, ma in sostanza poco zelosa di armare, niente vogliosa di battersi; erano tutti argomenti capacissimi d'impensierirlo e farlo oscillare, anche a fronte della memoria di Orsini vendicatore. Il primo giorno di aprile Cavour ritornò in Torino, portando con sé da Parigi quello che i Francesi chiamano: le poisson Atrii; la promessa del Bonaparte, che ove realmente il Piemonte non potesse prendere alcuna parte alle deliberazioni del Congresso, conserverebbe libertà piena ed intiera di risoluzioni e di movimenti. Ma portava con sé eziandio la più ingrata reminiscenza del soggiorno in Parigi, ove all'infuori del principe Napoleone, dell'ex-re Girolamo, di Luciano Murat, di Walewski, e d'una dozzina di minori satelliti, aveva trovati tutti contrarii alla guerra; e dove aveva egli detto allo Sterbini, «che era molto stupito dello stato degli animi in Francia, ove anche i borghesi non capivano niente del grande interesse che ha la Francia alla libertà italiana.» A rialzare gli spiriti abbattuti, la sera del suo ritorno in Torino, Cavour si faceva fare una dimostrazione d'onore, cui però la folla convenne molto meno numerosa di quella che si aveva avuta attorno la sera del 18 ottobre 1854 (1).

(1) Nel 1854 grande la scarsezza del raccolto di frumento in Piemonte, accusato da tutti il Cavour di avere acquistato, in onta alle leggi che lo proibivano, enormi quantità di grano per farlo salire di prezzo e arricchire. La sera del 18 ottobre il popolo di Torino lo accolse a fischi e sassate per via; salvatosi in casa, fra mille vituperi gli spezzarono i vetri delle finestre, e si apprestavano ad appiccare il fuoco al palazzo, quando gran nerbo di truppe accorse da ogni parte, alla cieca tirando colpi nel più folto, molti uccise, molti ferì. Quando Cavour venne a morte, stavano ancora a luogo le grosse sbarre che avea fatto apporre d'allora alle sue porte e finestre, sicché pareva dimorasse in fortissimo carcere, non in signorile magione. Dalla bigoncia Angelo Brofferio provò con atto di notaio, che Cavour entrava per novanta azioni nella Società dei molini di Collegno,

272 CAPITOLO DECIMOQUARTO.

La condizione, esplicitamente richiesta dall'Austria, del disarmo generale e simultaneo, e del rifiutarsi a prender parte al Congresso se prima il Piemonte non procedesse al disarmo ed al licenziamento dei Corpi Franchi, complicava singolarmente le cose. Avvicinandosi la guerra, Cavour aveva convertiti in ufficii di arrotamento ad uso dell'esercito sardo i Comitati della Società Nazionale, saliti al principio del 1859 al novero di centosei, dei quali novantaquattro in Italia, dodici in Isvizzera, Isole Jonie, Grecia ed America. Oziosi, malviventi e viziosi, allettati dal luccicare delle quattro monete che si vedeano passare sotto gli occhi, dalle tante promesse, dalla credenza di cogliere per brevi giorni di stenti tutta una vita di rose e un perpetuo dolce far niente; deboli di mente, inebbriati di desio d'avventure, inetti a distinguere il bene dal male, il vero dal falso, il probabile dall'impossibile; giovani di ci vii condizione, sopraesaltati da quell'incessante udirsi parlare di nazionale indipendenza, che può essere generosa aspirazione e virtù, quanto sogno di mente inferma e delittuosa follia; ragazzi a sedici anni, guasti da una educazione quasi sempre studiatamente falsata, vuoti di esperienza quanto pieni di credulità, pe' quali la proposta di mutar cielo faceva l'effetto che all'uccelletto il vedersi dischiuso l'usciolino della gabbia; varia la pania al variare delle condizioni e dell'età, chi per interesse, chi per insipienza, chi per vanità, i più per inganno e pur che finirla d'essere fatti segno a molestie, vedeansi un bel d disertare i paesi. Qui era un padre che piangeva la fuga dell'unica prole, colà una vedova madre il maggiore dei figli, altrove una tenera orfana il solo fratello, quinci una giovane sposa diserto il talamo maritale, quindi svanite speranze, illusioni distrutte, sostegni mancati, carriere mozzate, e fra dolori veri, e sventure talora irreparabili, qua e là alcun genitore fuori di sé pella gioia di avere lui stesso mandato il figliuolo su libera terra, come il matto, che dopo avere appiccato il fuoco alla casa, batte le mani per l'allegria di vederla abbruciare.

Prima della partenza gli arruolati giuravano agli ingaggiatori:

la quale era stato capo nello stesso tempo che sedeva Ministro del Regno. Il giornale L'Indipendente, che aveva scritto: «Aprisse i suoi granai per isfamare i poveri col grano comperato immoralmente,» e per questo colpito di sequestro e processo, andò assolto dal giurì.

I VOLONTARI E LA LOMBARDIA. 273

«Benedetta l'arma del valoroso italiano; essa è la redenzione della patria; maledetto chi non osa impugnarla. Io che la impugno, la bacio, e colla mano al cuore giuro al Dio degli oppressi che non la deporrò finché l'Italia non sia una, indipendente e libera; che la mia speranza è Vittorio Emanuele ed il suo forte esercito, la mia fede politica il suo trono costituzionale. Io voglio la libertà, prezzo della vittoria, e non la licenza a prò dei nemici del nostro risorgimento. Io voglio la dittatura del Re Guerriero, finché un Austriaco siavi sulla nostra terra. Noi difenderemo l'ordine, la proprietà e la giustizia, che il dispotismo distrasse e contaminò. La mia bandiera è la tricolore italiana» colla croce di Savoia; il mio grido di guerra: Viva l'Italia! Viva il suo Re Vittorio Emanuele!» I Comitati diceano di pensare a tutto; pensavano infatti a' luoghi di accolta e di rifugio ne' primi momenti, a' modi di travestimento, a' mezzi di trasporto, a guide sicurissime per vie fuor di mano, a case di ricovero ove posare il giorno e dormire durante il viaggio, al passaggio sicurissimo de confini, quando per fidatissimi battellieri, quando per viottoli noti solo a' contrabbandieri, talora corrompendo le stesse guardie poste a custodia de' confini.

Fra tutti operosissimi i Comitati della Lombardia, sì che dei trentamila volontarii che a tanti vorrebbero avessero sommato i passati per tal modo in Piemonte, intorno a due terzi sarebbero pervenuti di colà (1). I Comitati nei luoghi di partenza davano ad

(1) Vincenzo De Castro (Storia aneddotica, politico-militare della guerra dell'indipendenza italiana, Vol. I., pag. 115), scrivendo da parti piano arrabbiato al soldo del Piemonte, afferma che «i tre Comitati di Milano mandarono oltre 5600 volontarii, quelli di Pavia 2650, di Corno 2320, di Cremona 2800, di Brescia 8500, di Bergamo 1600, di Sondrio 1500.» È però spampanata evidentissima. Risulta dalle tabelle ufficiali che nel semestre da I. novembre 1858 a tutto il mese di aprile 1859 da tutta la provincia di Brescia emigrarono in Piemonte 1347 maschi dai 15 ai 40 anni di età, e dalla provincia di Cremona 983 fra gli stessi estremi di tempo e di età. Lavorando poi a compilazione informe e senza criterio, lo stesso De Castro, spesso contraddicendosi, pone in luce l'esagerazione. A pagina 358 narra che il deposito dei Cacciatori delle Alpi formato a Cuneo, e che passò a costituire il primo Reggimento sotto gli ordini del tenente-colonnello Cosenz, giunse al numero 1104; a pagina 359 che il secondo deposito di Savigliano, poi secondo Reggimento comandato dal tenente-colonnello Medici, comprese 1313 arrotati; a pagina 364 dice che il I. Reggimento era forte

274 CAPITOLO DECIMOQUARTO.

ogni ingaggiato una scorta di danaro, e buoni per somme determinate da pagarsi al loro arrivo in Piemonte. Quei ottoni e quegli arrolamenti furono un vero ben di Dio per quasi tutti i Presidenti di que' Comitati. À guerra finita i popoli poteron ammirarne gli effetti. Un oscuro avvocato, che prima la pubblica voce accusava di avere più debiti che capelli in testa, e ancor in gennaio del 1859 pagava il noleggio delle mobiglie del suo studio, comperava in ottobre dello stesso anno una possessione pagata per atto di notaio con 192,000 franchi alla firma del contratto; un ingegnere che da quattro anni doveva 950 lire ad un meccanico per istromenti somministrati ad uso di livellazioni, acquistava nel 1860 una bella abitazione in città, un elegante casino in villa e molti terreni. L'avvocato non si è veduto più salire le scale del Tribunale, né più l'ingegnere a livellare le acque.

Per lo spendio degli arrolati non bastando a lunga pezza i

di 1064 uomini, il II di 1185, per cui sarebbero rimasti al deposito di Cuneo 40 uomini del L, ed a quello di Savigliano 128 del II. Reggimento, Nel II Volume a pagina 91 confessa che il 22 maggio tutto il corpo dei Cacciatori delle Alpi sommava a 3200, ed è un fotte che mai superarono codesto numero; eppure a pagina 357 del I. volume aveva stampato «Tutti i volontarii, e furono quasi novemila, che non poterono essere accolti nei reggimenti dell'esercito piemontese, si riunirono in deposito a Cuneo per essere ordinati in compagnie o battaglioni.» Ma se i Cacciatori del Garibaldi non mai giunsero, per sua stessa confessione, a più che 3200, degli altri quasi 5800 che ne avvenne? È un fatto, che non ammette eccezioni, accertato dai documenti ufficiali, che a tutto 30 aprile 1859 i volontarii ammessi nell'esercito regolare sardo, provenienti da tutte le parti d Italia, non toccarono il numero 8360. Aggiunti a questi i 3200 del Garibaldi e i 430 del deposito di Acqui, che costituirono poi il nodo dei Cacciatori degli Appennini, è certo che al 30 aprile il numero dei volontà rii razzolati da ogni parte d'Italia non superava gli 11,990, numero molto inferiore alla metà di quello asserito dal De Castro, che a pagina 116 del I. volume stampò: «Il numero dei volontarii al cominciare delle ostilità sommava a circa 30,000.» Così egli o fu grossolanamente ingannato o volle grossolanamente ingannare. Del resto, il Maggiore Francesco Carrano, che fu Capo di Stato Maggiore dei Cacciatori delle Alpi, scrisse Cacciatori delle Alpi nella guerra del 1859, pag. 1711: «Furono quasi novemila i volontarii anelati nei reggimenti dell'esercito piemontese, e quelli che non furono accolti nei corpi suddetti, andarono riuniti in deposito per essere ordinati in compagnie o battaglioni speciali, tutti di volontarii». Forse, nella pressa del copiare, il De Castro costruì su queste parole il brano che abbiam riportato (Vol. I., pag. 357).

I VOLONTARI E LA LOMBARDIA. 275

proventi che i Comitati ritraevano dai socii contribuenti, ciascun Comitato toglieva danaro a prestanza. I marchesi Giorgio Pallavicino Trivulzio, e Giuseppe Arconati Visconti, ed il conte Francesco Annoni spesero più di mezzo milione di lire. Cavour provvedeva al resto. Più tardi, quando per formalità vennero alla chiusa de conti, che si avrebbero dovuto rendere al Comitato direttore di Torino, e in sostanza non si resero ad alcuno se non per estendere le passività da rimborsare ad altrui, risultarono somme enormi da pagare. Il Comitato di Broscia, presieduto da un avvocato Antonio Legnazzi lasciò scoperta in soli buoni non soddisfatti la somma di oltre centottantamila lire. Poi vennero le croci cavalleresche de' Santi Maurizio e Lazzaro a pareggiare le partite.

Pegli arrolati i disinganni cominciavano appena posto piede in Piemonte, ove si vedean dato il ben venuto coll'essere consegnati alla Polizia, raccomandati a guardie di pubblica sicurezza, accolti dovunque dalle popolazioni con freddezza, indifferenza e peggio. Allora per la prima volta molti si accorgevano che alla gracilità del corpo non poteva affarsi l'aspro mestiere del soldato. I più idonei per robustezza si accoglievano nell'esercito regolare; in appresso la più gran parte in Corpi Franchi, che si adunarono in Cuneo, Acqui e Savigliano. Garibaldi, chiamato in Torino ai primi del gennaio da Cavour, tenutovelo presso di sé, fatto vicepresidente e capo apparente della Società Nazionale, nominato da Re Vittorio Emanuele il 17 marzo Maggior generale, fu incaricato del comando di questi corpi, ch'ebbero nome di Cacciatori delle Alpi, affidatane l'organizzazione ed istruzione al generale Enrico Cialdini.

La Marmora, Ministro della guerra, avversava grandemente la formazione di codeste milizie, sia perché le reputava di dubbia utilità se non d'impaccio in guerra, ed in pace fonte di noie e vano dispendio; sia perché evidentemente doveano riescir disaccette, sotto la guida di un tale capo, agli alleati di Francia. Inquietissimi, infatti, nelle città in cui si accoglievano, sì che intorno alla metà del marzo il sindaco di Cuneo, ove furono radunati nel maggior numero, dovette recarsi in Torino a richiedere al Governo un rinforzo di truppe, affine di guarentire la città in caso di alcun loro ammutinamento, tratti talora a tumultuare per avere scarpe e camicie. E come un capitano di esercito regolare dove

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con ragionevolezza in corpi s fattamente accozzati temere un fòmite di disordini militari, non a torto La Marmora vedeva in essi una causa di disordini politici. Chiaro era che Napoleone III. dovea tollerare di malissimo animo la possibilità che domani le necessità della guerra forzassero generali francesi a battersi a fianco del Garibaldi, un dì mozzo di bastimento in Liguria, oggi rivestito dell'uniforme di generale piemontese; quando fabbricatore di candele a New York, quando capitano di ventura in Lombardia ed in Tirolo; a Montevideo ieri maestro d'algebra, domani comandante della flottiglia di guerra contro gli Argentini, posdomani dittatore di Montevideo; venditore di vino a Genova, uffiziale del bey a Tunisi; cercatore d'oro in California, capitano di mare a Rio Janeiro; mercante di guano per ingrassare la terra in China, deputato al Parlamento di Torino; in America capo di corsari e di filibustieri, di gauchos e di torerost di contrabbandieri, di banditi, di cacciatori di bestie feroci, a Roma generale della repubblica di Mazzini. Naturalissima l'avversione del Bonaparte al pensiero che soldati di Francia potessero dover presentare in campo le armi al sardo generale Garibaldi, a colui che avea fatto scorrere tanto sangue di soldati francesi, quel Garibaldi fra tutti i suoi personali nemici il suo forse più implacabile e mortale nemico in Italia.

Se il lavoro della diplomazia fosse venuto ad attraversargli il cammino, o Napoleone, stretto da qualsivoglia cagione, avesse per avventura accennato di voler dar addietro davvero, divisava Cavour di sospingere i Corpi Franchi del Garibaldi sulle creste dell'Appannino modenese. «L'Austria, ei diceva., sarebbe intervenuta; ed ecco principiato il ballo, e Napoleone costretto a galoppare.» In codesta alleanza franco-sarda, Napoleone III. e Cavour traevano del continuo a rammentare l'alleanza dell'uomo col cavallo definita dall'acuto Metternich; piccantissima storiella narrata in una lettera curiosa del conte di Saint-Aulaire, allora ambasciatore di Francia a Vienna, al duca di Broglio, in que' d Ministro francese per gli affari esteri, e riferita dal D'Haussonville (1). Era il 1835. Scrive Saint-Aulaire: «Il principe di Metternich mi disse: Nimicarsi coll'Inghilterra! sarebbe come se noi ci nimicassimo colla Russia,

(1) Histoire de la politique extérieure du gouvernement français, depuis 1830 jusqu'à 1848.

277 I VOLONTARI E LA LOMBARDIA.

Badate però; nulla è più utile dell'alleanza dell'uomo col cavallo. Ma bisogna essere l'uomo, non il cavallo,»

Si menò gran vanto di quell'accorrere di arrolati in Piemonte, come del numero di coloro che diedero il loro nome alla Società Nazionale. Opra di sètte rimane opra di sètte. Non diversamente nel 1820 nella sola città di Napoli furono novantacinque Vendite di Carbonari, ed una Boia annoverò ventottomila socii, non diversamente i più ascritti per fuggir molestie. l'ebbero insino a femmine carbonaresse, ammesse con nome di Giardiniere. Allo schiudere del 1821 furono non meno di centoquarantamila legionarii, che accorrevano a sciami, non per desio di combattere, sospinti da paura della setta. Come allora nel Regno di Napoli, non mancarono nel 1859 ogni fatta seduzioni e minacce Grandi in ogni età i miracoli di queste, grandi i miracoli delle promesse, grandissimi i miracoli dell'oro; che da per tutto e sempre vi hanno e vi avranno genti oziose e plebi inquiete, pronte a venderai a chiunque ha danaro per pagarle, come illusi di buona fede, anche in civile stato ed agiata condizione. Già dal 1853 il Ministro dell'interno, Ponza di San Martino, aveva cinicamente spiegato in Parlamento (1) qual fosse la segreta molla della politica sarda in Italia, con dire: «L'oro fa talora dei miracoli, e pochi vi resistono». Facilmente accensibili le menti de giovani, poco tolleranti di riflessione; incapaci di ragionare freddamente, se accese. Le fantasie si cullavano nelle illusioni. Respingere l'Austria al di là delle Alpi in sempiterno, doveva essere, dicevano, opera breve; delitto di leso amore di patria dubitarne, orrenda bestemmia pensare che si potea mutar servitù, quasi che nel libro aperto della storia i secoli non avessero scritto dura ma ahi! troppo vera sentenza: «Italia serva, o vincitrice o vinta».

Quanto più i luoghi dappresso ai confini del Piemonte, vie più forte la pressione della setta del Cavour. Così nulla di singolare che fra i volontarii nel 1859 fossero in assai grande proporzione i lombardi. Fu in Lombardia che si aveano senza posa concentrati i maggiori sforzi; niente di più naturale che nel momento decisivo se ne cogliessero pure, in paragone, più larghi effetti. E nondimeno nulla di più falso se quel fatto si avesse voluto ad

(1) Camera dei Deputati, sessione dei 25 aprile 1853.

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durre a prova di una di quelle manifestazioni che attestano Podio, concorde e invincibile di tutto un popolo.

«Se un Governo possa essere buono quantunque non nazionale, veniva il comprendere, perché tutt'altro che odiati fossero nella Lombardia austriaca Maria Teresa, Giuseppe II, Leopoldo IL, quando ai popoli non regalavasi la libertà politica, ma si lasciavano le libertà naturali; quando i migliori ingegni si offri vano sostegni, lodatori, difensori del trono, e lo coadiuvavano a concentrare in sé i poteri dapprima sparpagliati fra autorità paesane. La rivoluzione ruppe quell'accordo» (1). «Pure, caduto Napoleone, furono gli stessi Lombardi che quell'accordo desiderarono ristabilito. Nobili, preti, e il grosso della popolazione propendeano per l'Austria, rimpiangendola»(2).«Francesco I., riassumendovi il governo, non si condusse né da conquistatore, né da scimunito despota, ma da savio sovrano. Il Governo austriaco nel Regno Lombardo-veneto rispettò fino allo scrupolo ogni maniera di diritti acquistati sotto il governo allora cessato» (3).«Restava in piedi il mirabile sistema comunale, derivato dagli antichi municipii, sopravvissuto alle rovine rivoluzionarie, e felicemente combinato col censimento, talché bastò a mantenere la vita, e favoriva il prosperamento del pinguissimo paese. L'amministrazione camminava regolare e robusta, come in paese da gran tempo avanzato; pronta e incorrotta la giustizia, a norma di un codice compilato colle intenzioni moderne, e in molte parti migliore del napoleonico, più mite nelle pene, più espanso nell'eguaglianza. ,

» Un'eletta d'ingegni acquistava a Milano il titolo di Atene italica: che se il Governo né li favoriva né li conosceva, la stampa v'era men inceppata che altrove, sebbene contro censori o ignoranti o maligni bisognasse spesso reclamare a Vienna, donde le decisioni venivano assai meno ignobili. Pure in questo Regno si producevano e si ristampavano opere nel resto d'Italia proibite, e attivissimo correva il commercio di libri forestieri; i Congressi scientifici, spauracchio altrove, qui furono accolti ben tre volte.

(1)

C. Cantù; Storia degli Italiani.

(2)

C. Cantù; Storia degli Italiani, Libro XVI., capitolo 182.

(3)

Dal Pozzo; Della felicità che gli Italiani possono dal Governo austriaco procacciarsi,, cap. XXII., pag. 79.

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L'istruzione vi era animata, diffuse le scuole fin nei minimi villaggi; se quelle di mutuo insegnamento si proscrissero perché servite di velo ai Carbonari, si ammisero gli asili dell'infanzia quand'anche tutt'altrove proibiti, e il loro introduttore, mal visto a Torino, otteneva onori e decorazioni in Lombardia. Esclusa quell'educazione de' claustrali che si diceva l'arsenico degli altri paesi; quand'anche i Gesuiti qui presero stanza, furono sottomessi alle autorità, né esercitarono ingerenza a fronte di un clero illuminato e di vescovi assennati. Non frati, o pochissimi, non eccezione di fori, non intrighi di sacrestia; il partito religioso era rappresentato nella idea da eminenti» ingegni, nelle azioni da una società, che fra le beffe e la denigrazione compiva una beneficenza stupendamente grandiosa. Le prime associazioni per strade ferrate si formarono qua sino dal 1837, e non fu colpa del Governo se si svamparono in risse e municipali battibugli. Qua fiorentissime le casse di risparmio, qua imprese sociali per le Diligenze, per assicurazioni contro gl'incendii, per filature del cotone e del lino. Molteplici e ben sistemate le strade; con dispendio assai maggiore le Comunità compivano una rete di comunicazioni. Si profondea per regolare i laghi ed i fiumi che l'improvvido divellamento delle foreste rende più sempre gonfi e rovinosi. A Venezia dal 1816 al 1841 in sole opere stradali interne si spese meglio di sei milioni.

» Lo straniero che fosse calato in Lombardia, credendo, sopra i giornali e le odi, vedervi braccia scarnate nel mietere solo a vantaggio dello straniero sire, e sbandito il riso, e signor dei cuori il sospetto, stupiva a trovare su questa opima campagna i coltivatori agiati e conscii della propria dignità, i braccianti o non più miserabili che altrove, o solo per colpa dell'indigena avidità; Milano nuotar nella pinguedine e nel lusso; i suoi negozianti pareggiare in destrezza i più famosi, in credito i più ricchi; fra' principali commerci figurarvi quello de' teatranti, e agli spettacoli d'un teatro de' primi in Europa affollarsi un mondo elegantissimo, come a' suoi corsi uno sfarzo di carrozze,che sì elegante non hanno Vienna e Parigi. Certamente il Lombardo-veneto avrebbe potuto farsi esempio di savia amministrazione agli altri d'Italia (1).

(1) C. Canta; Storia degli Italiani, capitolo 192.

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Tale era, per confessione degli scrittori medesimi i più avversi all'Austria, la condizione della Lombardia allo schiudere del 1848, quando, al dire dello stesso Cantù, «in Italia imputava all'Austria d'ogni male; e chi non voleva i fischi del volgo ricco e dotto, forza era ne dicesse ogni vitupero, chiamasse vile il suo esercito, i capi suoi non vogliosi che di opprimere, il governo non intento che a smunger il paese ed immolarne gl'interessiai transalpini.» E qual fosse il volpo ricco e dotto, di cui parlava lo storico illustre, ognun sa. In Torino medesima, nel 1851, un emigrato bresciano, pur dichiarando di abbonare l'Austria con tutto il suo cuore e con tutta la sua anima,non si peritava di affermare (1): «Noi lombardi s lodiamo il suo magistrato integerrimo nella giustizia, la sua organizzazione colossale, la sua milizia disciplinata, l'uffìzialità istrutta, gl'impiegati manierosi ed affabili; ma non sono della nostra famiglia. Diciamo anche che, trattandosi di confronti, noi preferiamo il governo austriaco al governo francese, perché più leale, più costante, più fermo nelle sue ordinazioni; ma non è governo nostro. Diciamo ancora che fra gl'Italiani dominati dall'Austria gli studii sono più promossi, e più universalizzati, che in qualunque altro Stato della nostra penisola; ma adopera tutte le arti per attrarsi gli affetti e le simpatie dell'Italia, mostrandosi miglior governo di quanti altri ne avesse, e più naturali, e più patriottici.»

E miglior governo dovea ben essere se Mazzini ne avea scritto (2): «Convinto che la verità, di qualunque specie sia, non saprebbe nuocere alla causa della mia patria, sostengo che il Regno Lombardo-veneto sotto l'Austria non ha in verun modo peggiorato. Egli è avverato dai più illuminati patriotti di quel Regno, che se anche il loro paese, dacché è austriaco, non ha fatto grandi né morali né intellettuali progressi, non cessa però di esser vero che non é rimasto indietro di nessuno degli Stati indigeni. Anzi è riconosciuto da tutti, che certe influenze retrograde, le quali pesano gravemente sulla vita intellettuale del popolo negli Stati indigeni, sono affatto estranee agli Stati austriaci. E quanto agli ordini materiali ed amministrativi del

(1)

Carlo Vitalini; L'ancora d'Italia, pag. 111 (Torino, 1851).

(2) L'Italia nelle sue relazioni con la moderna civiltà, Vol. L, Sez. II.,cap. I., pag. 143.

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paese, nessuno certamente vorrà dire in tal riguardo il Regno Lombardo-veneto inferiore agli Stati del Papa, alla Toscana o al Regno di Napoli. Ciò non di meno sarei più contento di vedere la Lombardia infelicissima sotto governo indigeno, che bastantemente felice sotto il giogo straniero.»

Tenne dietro un periodo di tempo in cui ogni più importante disposizione si diceva d'organamento provvisorio; tutto veniva fuori a brandelli, e talora non si aveva peranco fornito un tutto, ebe uscivano altre disposizioni provvisorie a modificare le prime, sicché gli avversarii lo diceano il provvisorio del provvisorio. Sistema che non parea bello in vero, da cui i nemici dell'Austria traevano astutamente partito per tutto porre in derisione e in discredito, naturalmente ben guardandosi dal rimirare l'esempio che tutto giorno venivano dallo Stato modello, il Piemonte. Così, se nel Lombardo-veneto si riorganizzava una Università, ed oggi era una Facoltà, dopo un anno un'altra, due anni appresso una terza, ne facevano le più grasse risa; mentre in Piemonte la Babele dell'insegnamento torreggiava insuperabilmente, e l'enorme somma di trecento ventiquattro leggi, decreti, circolari, regolamenti, istruzioni, in un solo decennio, dal 19 di gennaio 1848 al 23 dicembre 1857 (1), in cui assommando gli articoli, le disposizioni, le norme, i precetti contenutivi oltrepassavano i diecimila, portava il caos della pubblica istruzione ad un apice mai più veduto, ed anziché guarire l'infermo, lo riducevano al pollo pesto.

Quando dal Governo militare, conseguenza delle passate rivolture, a lungo durata, il Regno Lombardo-veneto era passato al civile, e da un transitorio ad uno stabile ordinamento, venne a risiedervi Governatore generale del Regno l'Arciduca Ferdinando Massimiliano, dopo che l'Imperatore da Vienna erasi recato a visitare le sue provincie italiane, e vi avea dimorato dal 25 novembre 1856 al 10 marzo 1857. Francesco Giuseppe vi venne per pronunziare una parola magnanima: Ho tutto dimenticato, portatore di larghezze e di grazie. Ristabilite le Congregazioni Centrali a Milano ed a Venezia, supreme rappresentanze del paese, con più estesi attributi (2). Appena posto piede in Venezia, condonò a

(1)Annuario dell'istruzione pubblica per Vanno scolastico 185758, pag.243267. (Torino, Stamperia Reale).

(2)

Ordinanza imperiale del 2 novembre 1856.


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quella città ed ai Comuni dell'estuario la somma tuttora residua di tredici milioni e cinquantaduemila ottocento lire del debito verso lo Stato a cagione della carta monetata dell'ultima repubblica del 1848-49 (1). Il 2 dicembre, anniversario del suo avvenimento al Trono, rimise interamente la pena a settanta condannati per alto tradimento od altre azioni criminose contro l'ordine pubblico, e tolse totalmente il sequestro cui dal 13 febbraio 1853 erano assoggettate le sostanze dei profughi politici del Regno. Ai possidenti della provincia di Brescia più colpiti dalla malattia delle uve accordò una remissione d'imposta per oltre quattrocentomila lire. Da Milano ordinò condonata l'intera pena inflitta a quanti regnicoli senza eccezione erano detenuti tuttora per crimini d'alto tradimento, lesa maestà, perturbazione della pubblica quiete, rir volta e sollevazione, tutti ridati ad immediata libertà; soppressi tutti i processi pendenti per i crimini sopraccennati, rimandati liberi dalle carceri tutti i detenuti per tali titoli; cessata da quel l'istante e disciolta la Corte speciale esistente a Mantova (2). Immenso benefizio senza restrizioni e senza condizioni, che vuotò le prigioni politiche, troncò ogni politico processo, ed i popoli colpi di meraviglia e stupore. Stanziò a favore del Comune di Milano la somma di un milione di lire, ond'essere esclusivamente impiegata nell'ampliare ed abbellire i pubblici giardini. Moltissime le con? cessioni pecuniarie ai Comuni, le decretate opere edilizie di pubblica utilità o di pubblico abbellimento.

L'Imperatore d'Austria, venuto senza verun corteggio mili tare in un paese travagliato da istigazioni straniere e da interne agitazioni, in massima parte conseguenza di quelle; dove anche i nemici più astuti e fanatici avevano libero accesso, dove l'idea rivoluzionaria si diffondeva nella società per giornali, per libri, per contatti domestici; dove le occulte conventicole avevano destri agenti che attribuivano alla Polizia i loro proprii tranelli; aveva abbandonato con illimitata fiducia alla popolazione quanto avea di più prezioso al mondo, la sua primogenita, la sua sposa, scese in Italia con lui, e la propria vita; e fu fiducia veramente mirabile, perché precedette gli atti della grafia sovrana.. Tanta

(1)

Decreto del 28 novembre 1856,

(2) Motuproprio del 25 gennaio

I VOLONTARI E LA LOMBARDIA. 283

fiducia, la gioventù, la bellezza, benefizii inaspettati e benedetti da tutti, vinsero i cuori delle moltitudini, comunque Cavour avesse posto in opra ogni mezzo ad impedir che ciò fosse, spediti emissarii che seguivano l'Imperatore in ogni città ove si avea a soffermare, speso molt'oro, instituiti un Comitato centrale della Società Nazionale in Milano ed altri secondarii, fra cui zelantissimi quelli di Padova, Vicenza e Brescia.

Brescia e Milano erano le città di Lombardia, che, secondo l'opinione dei sovvertitori, avrebbero dovuto accogliere colla massima indifferenza e freddezza il monarca. Fu tutto l'opposto. A Brescia l'accoglienza fu veramente affettuosa ed entusiastica, a Milano superò ogni espettazione. A Milano la sera del 25 gennaio, giorno in cui fu pubblicata la generale amnistia, tutta la città fu illuminata spontaneamente e nel raggio di quattro miglia all'intorno, con tale unanimità che persino i più avversi e lo stesso presidente del Comitato, per paura di dar troppo nell'occhio, misero fuori i lumi. Non vi fu mezzo d'intimidazione cui non si avesse avuto ricorso; le lettere anonime, gli avvisi misteriosi fioccavano senza posa. Minacce ai nobili che si fossero presentati ad ossequiare l'Imperatore, in qualche città di provincia coronate in parte di successo, disprezzate altrove; molto numeroso il drappello che se ne presentò a Milano, sì che l'Imperatore con benigne parole se ne dichiarava apertamente sorpreso. Minacce a coloro che avessero mandato le proprie carrozze a corteggiarlo, minacce a chi avesse addobbate le finestre, a chi avesse applaudito, a chi fosse andato al teatro, quand'egli vi andava, irrise spesso, del tutto disobbedite in particolare a Milano.

Pure qua e là manifeste l'opre di parte, specialmente nelle minori città di Provincia. In una città del Veneto, il giorno dell'arrivo dell'Imperatore, il Comitato Nazionale aveva ordinato che il maggiore numero possibile di carrozze cittadine si trovasse alla Stazione della Ferrovia, ed al giungere del convoglio imperiale in fretta si allontanassero per recarsi tutte a ritrovo di passeggio dal lato opposto della città; ne andò un certo numero, che l'ordine appuntino eseguirono. In altra, pure delle provincie venete, il Comitato aveva disposto che le carrozze andassero, attendessero sinché la Coppia imperiale salisse in cocchio alla Stazione della Ferrovia, mostrassero di avviarsi a farle corteggio, poi d'improvviso,

284 CAPITOLO DECIMOQUARTO.

pigliate strade laterali, lasciarono sole le carrozze della Corte e dei funzionarii del seguito. Altrove sciami di monelli, pagati dal Comitato, invadevano la via, circondavano d'ogni intorno la carrozza dell'Imperatore, si cacciavano fin sotto a' piedi dei valletti, che stavansi ritti al di dietro e lasciavano fare per malintesa indulgenza, interrompevano la comunicazione fra la carrozza imperiale e quelle del seguito. Altrove, senza causa apparente, uno dei cocchi del seguito rimaneva addietro a soffermare forzatamente il restante corteo, sicché si vedeva giungere l'Imperatore con appena una seconda carrozza, poi dopo un paio di minuti, alcun'altra; lo si attribuiva ad un cavallo che si aveva aombrato, poi il cocchiere, preso dal vino, confessava agli amici di avere ricevuto un marengo per farlo. Talvolta gruppi di socj nazionali, o di miserabili da essi pagati, ingombravano il passaggio, fermi, impassibili, guardando il Sovrano che transitava, senza scoprirsi il capo. A Venezia un petardo di carta pesta e filo di ferro era fatto scoppiare in Piazza S. Marco sotto le finestre dell'Imperatrice. Bambolinaggini degne d'una fazione che di nazionale null'altro teneva se non il nome, manifestazioni di dispetto più ancora che d'impotenza, delle quali niuno certamente si sarebbe sognato tener responsabili i popoli.

I buoni effetti innegabili del viaggio imperiale avevano ferito nel più vivo del cuore il partito della rivoluzione in Piemonte. Già sin dalle prime grazie largite da Francesco Giuseppe a Venezia un giornale di Torino scriveva (1), che «tra tutte le armi del la tirannide, questa della vistosa clemenza è la più tremenda.» La stampa quotidiana con inusitato ardore diedesi ogni giorno a chiamare usurpature il dominio dell'Austria nel Lombardo-veneto, l'Austria «causa di tutte le sventure d'Italia,» ad eccitare a ribellione i Lombardi, ad insultare l'Imperatore, a tessere l'apologia del regicidio e dell'assassinio politico. La stampa ministeriale, più veemente nel vile procedere, dava diritto di accusare per lo meno di connivenza il Ministero, che intanto dichiarava accettare da sudditi austriaci offerte per erigere opere di fortificazione e monumenti in odio all'imperiale Governo. In Torino in cento luoghi su pe' muri scrivevano: Fuori il barbaro Viva l'Italia

(1) II Risorgimento, numero del 13 dicembre 1856.

I VOLONTARI E LA LOMBARDIA. 285

TI momento è supremo. L'ora è suonata; e simili ciarlatanerie. I Torinesi guardavano, ridevano, si stringevano nelle spalle, e proseguivano il loro cammino. Cavour aveva mandato a Milano, fra gli altri, il senatore Plezza ad inanimare gli aderenti e tentare alcun'opra nefanda. Le autorità imperiali, avutone certo sentore, lo sfrattarono su due piedi. S'impegné uno scambio di Note diplomatiche fra i due Governi. In breve, verso la fine del marzo 1857, il conte Paar, Ministro austriaco in Torino, fu richiamato dalla sua Corte, i sudditi austriaci affidati alla Legazione prussiana; il marchese Cantono, inviato sardo a Vienna, fu parimenti richiamato, ed i sudditi sardi rimasero sotto la protezione dell'ambasciatore di Francia. né mai più da allora le relazioni diplomatiche fra i due Governi furono ripigliate.

Giovane di svegliatissimo ingegno, cuor d'oro, ardentissimo del meglio, capacissimo di far bene e conscio di saperlo fare, di modi semplici e sciolti, di parole brevi, ma pensate e feconde, degnissimo di reggere un popolo, attissimo a conquistarne e conservarne l'amore, l'Arciduca Ferdinando Massimiliano, fratello all'Imperatore, inaugurò la sua amministrazione con un documento, da per sé solo bastevole ad onorare qualsivoglia reggitore. «Desiderare la spontanea cooperazione degli amministrati per con seguire gl'intenti del suo Governo, per assicurare cioè lo svolgimento morale e materiale di tutte le forze utili e degne del paese; voler dirigere questa azione senza dominarla, volerla preservare dagli abusi senza incepparla; voler promuovere la prosperità di tutti e di ciascuno, ed associare le forze di molti per conseguire fini di maggiore importanza; esortare i pubblici uffiziali ad assecondarlo, adempiendo con vigore e lealtà i loro doveri, applicando con giustizia le leggi, esponendo le cose con sincerità, trattando gli amministrati con modi degni di chi rappresenta il potere sovrano; dichiarare di non voler patire che per incapacità o trascuranza sia recato detrimento al paese e pregiudicato l'onore del suo reggimento.» E tenne largamente parola. Clemenza e perdono generale, assoluta dimenticanza del passato, saggia amministrazione, provvide leggi, rispetto alle legittime tradizioni della nazionale grandezza, tendenza a riunire nel bene tutte le classi sociali all'ombra del principato, tutte le carriere aperte all'ingegno accompagnato dalla lealtà del carattere

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e dalla eminenza del merito, libertà amplissima e buon mercato di comunicazioni nell'interno e coll'estero, erano benefizii che i popoli apprezzano e riconoscono; sicché in breve tempo videsi mutato lo spirito pubblico a modo, che l'opera del rinsavimento andava ogni giorno a vista d'occhio immegliando.

L'Arciduca, assai ricco del proprio, piantò la sua Corte, numerosissima, con lustro veramente regale, sì che molte e molte Case sovrane non potevano vantarne l'eguale. Le sue splendidezze e la sua generosità diedero un primo e benefico impulso alle arti ed alle industrie, percosse e derelitte. Ne' primordii del suo Governo, aspre inondazioni del Ticino e del Po desolarono largo tratto delle provincie di Pavia e di Lodi, ed egli accorrere dall'Adriatico con meravigliosa sollecitudine sui luoghi, a confortare e soccorrere le povere popolazioni rimaste senza tetto e senza pane; recatosi a visitare i tre più rimoti distretti della Valtellina, dove molte famiglie versavano in estrema miseria per la scarsezza dei raccolti e l'inclemenza della stagione, consolò, sovvenne, e sì caldamente sollecitò presso l'Imperatore che questi li sorprendeva col dono di trecentomila lire. Dovunque si mostrava il bisogno, fu sempre veduto l'Arciduca affrettarsi a lenire con generose largizioni del suo privato peculio le piaghe dell'infortunio e dell'indigenza. Mecenate delle lettere e delle arti belle, ne onorò ed incoraggiò con doni, con distinzioni, con incarichi, con commissioni d'ogni specie i più illustri cultori.

Avidissimo di conoscere a fondo i bisogni veri del paese alla sua solerzia affidato, l'Arciduca esaminò diligentemente egli stesso lo stato delle amministrazioni, scoperse abusi, conobbe bisogni, studiò riforme, spesso direttamente giovandosi dei lumi privati degli uomini suoi più eminenti per sapere e franchezza. Ogni utile proposta, ogni voto ragionevole trovò sempre in lui il più caldo e fermo sostegno; e non fu al certo per lui ne qualche desiderio, quand'anche giustissimo in sé stesso, per ragioni di un ordine superiore, non fu creduto potersi soddisfare. Ben pochi preposti al reggimento d'un popolo possono additare con giusto orgoglio prove più luminose di cure costanti e largamente liberali, quanto quelle ch'egli lasciava, nel giugno del 1858, in un ammirabile documento, sopravvissuto alle vicende de' tempi siccome monumento della saggezza e dell'amore del Principe che lo

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dettava. Sotto auspicii ed impulsi sì fatti, e l'impero di più larghi principii, le pubbliche istituzioni del Regno si svolgevano più ampiamente, in onta ad ogni arte della setta del Cavour, risorgendo quasi a vita novella.

Gran numero d'opere di pubblica utilità, intese a favorire i materiali interessi delle popolazioni con promuovere l'agricoltura, asciugando paludi, migliorando porti e canali, favorendo le più pronte comunicazioni a beneficio del commercio, in breve volger di tempo avviate o mandate ad effetto, furono dovute alla intelligente iniziativa od alla zelosa protezione dell'Arciduca. Aperti alla flotta canali e porti nel Veneto, che in passato non poterono ricevere navi da guerra, se non prive affatto del loro armamento; attuato l'Istituto di Corte del Palasio, che riempieva s gran vuoto nell'istruzione agraria lombarda; le bonificazioni lungo la laguna, nel Polesine, nelle grandi Valli veronesi ed ostigliesi; regolata la sorte de' medici condotti; protette le marche dei prodotti interni con apposita legge; abolito il privilegio fiscale pei crediti privati del Regio Tesoro; sottoposta la legge di coscrizione a molti e radicali cambiamenti, e per quella parte di essa, che aveva destato timori, provveduto onde fosse applicata con ogni mitezza.

Tolte in massima parte, spesso per intero, quelle sconcezze che erano state occasione di accusa all'austriaco reggimento, e pel Cantù oggetto di un vero capolavoro di maldicenza (1). Tolto ciò che questi avea detto «il vizio radicale di quel Governo, di» limitarsi all'amministrare e constatare i fatti colla statistica,» anziché dirigere il movimento,» sicché, dopo la rivoluzione del 1848, il conte Hartig, uno di quelli che aveano avuto mano al governo precedente, scrisse: «Erasi dimenticato di regnare, con» tentandosi di amministrare.» Tolta quella ritrosia «ad esaminare il meglio, ad esporlo, ad implorarlo,» con dare, a chi ne aveva il diritto, più larga «voce per esporre le domande, e coraggio per volerne la risposta.» Le Congregazioni centrali, «che, sebbene composte di rappresentanti dei nobili, dei non nobili e delle città in paese ove questi non formano corpi distinti, rappresentavano realmente gl'interessi universali, e poteano rimostrar

(1) Cantù; Storia universale, Libro XVIII., Cap. XIX. e XXV.; Storia degli Italiani, Libro XVI., Cap. 182, e Libro XVIIL, Cap. 189. -Le parole virgolate nel testo, essenza delle accuse, son sue.

288 CAPITOLO DECIMOQUARTO.

al sovrano i bisogni del paese, e distribuire l'imposta, diritti preziosi se si fosse saputo farli valere,» questi diritti, nei due anni da cui furono restaurate, largamente esercitavano, alzando sopra vitali argomenti franca e dignitosa la voce, prendendo la iniziativa, portando direttamente al trono le domande delle provincie; come nel 1858 con impetrare l'esame, che si stava agitando, in confronto dei loro rappresentanti, della importantissima questione di perequazione dell'imposta prediale fra il Lombardo-veneto e gli altri domini della monarchia. Se non larghissimi, sotto pochi rapporti, furono i poteri dell'Arciduca Governatore, si era tolto per grandissimo numero di argomenti «che ogni cosa dovesse mandarsi fino a Vienna, donde tardissimi arrivavano i provvedimenti e spesso disopportuni per ignoranza delle circostanze.» Limitatissimo il numero de' magistrati tedeschi, a paragone degli italiani; e se di quelli si avea sempre avuti, colpa, in parte, era stata di noi medesimi. Cessata già da tempo prima, ogni maniera di censura preventiva sulla stampa, più ristretti gli attributi della Polizia; concessa pubblicità nei giudizii, ed ai difensori degli accusati piena libertà orale nei pubblici dibattimenti.

Ancora oggidì non è raro di udire ripetere: «Se l'Austria avesse conceduto a' tempi dell'Arciduca Massimiliano maggiori larghezze, non avrebbe perduta la Lombardia.» Avesse pure l'Austria accordato a que' dì quanto per avventura non poteva allora concedere senza scombuiare tutto l'edifizio politico della restante monarchia, avesse pure accordato l'impossibile, non la era più ormai questione di riconciliazione piena e perfetta di un popolo, che senza dubbio l'Imperatore e l'Arciduca avrebbero reso appieno soddisfo, se le sètte l'avessero lasciato tranquillo; non la era più. tenzone fra l'Austria e i fuorusciti rifuggiti in Piemonte, e protetti dal Governo di Torino; ma in sostanza lotta impegnata colla rivoluzione italiana capeggiata di nascosto da un Imperatore di grande e potente nazione. In condizioni siffatte, il possesso dei piani lombardi, aperti da tutte parti, senza naturali difese, senza fortezze importanti, non poteva dipendere che dall'esito di una battaglia campale, vinta o perduta. A tempi tranquilli senza dubbio alcuno l'Arciduca avrebbe ottenuto molto ancora; e nullameno i primi frutti del suo governo aveano prodotto in generale sii buon effetto nel Regno, che gli emigrati politici ricoverati negli

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Stati sardi altamente se ne adombrarono, riconoscendo quanto quegli atti di buon reggimento doveano far prosperare il paese e assicurarne la morale conquista. Già tra essi altri avevano cercata grazia all'Imperatore per metter fine al proprio esigilo, molti più. si apprestavano a chiederla. Cavour vide il rude colpo che gli soprastava; e mentre dai giornali della setta in Piemonte faceva screditare ad ogni modo le riforme lombardo-venete, qualunque si fossero, e il Governo dell'Arciduca, si sforzava d'impedire a qualunque costo il ritorno in patria degli emigrati titubanti. Pure, ad onta d'ogni maggior potere di Cavour e della Società Nazionale, allorché ancora la guerra stava per divampare, l'immensa maggioranza delle popolazioni lombarde stavasi paga al bene reale che possedeva.

Certamente vi aveano, a parte i settarii di professione e gli incontentabili per natura, uomini di buona fede desiosi di novità; tal fu sempre l'umano cuore, ciò ch'esiste l'annoia. Come però la pensasse il vero popolo, proprio in que' giorni in cui maggiormente fervendo il lavorio della setta, più gravitava la pressione delle istigazioni, delle seduzioni, delle promesse, delle minacce, lo provò il fatto che, richiamati a' loro reggimenti i soldati lombardi che trovavansi in permesso alle proprie case, in pochi dì, alla fine del marzo 1859, intorno a trentacinque mila uomini raggiunsero le loro bandiere in Austria, non ostante le infinite arti adoperate loro intorno perché si recassero piuttosto in Piemonte. In que' medesimi giorni del marzo ebbe luogo, come al solito di tutti gli anni, la coscrizione. E a Milano e in tutto il Lombardo-veneto, in onta agli sforzi della Società Nazionale ed al molto oro che Cavour profondeva a quest'uopo, vidersi i coscritti, allegri e contenti, cantando per le vie le loro solite canzoni, accorrere e consegnarsi ai reggimenti. La città di Milano, malgrado di tutte le facilitazioni usate dal Governo coll'esentare molti dalla leva, dichiarandoli sostegni di famiglia, saldò il suo contingente colla sola prima classe, della quale ne avanzarono ancora più che trecento abili. A fronte di cedesti fatti l'arruolamento de' volontarii lombardi rientrava nel più modesto suo vero valore, di semplice sapremo conato di setta, diverso tanto da spontanea e verace manifestazione di popolo quanto il dì dalla notte.

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CAPITOLO DECIMOQUINTO.

Dichiarazione di guerra.

Gli

Amici della grande Alemagna

ed i

Prussiani specifici.

- Manifestazioni in Germania a favore dell'Austria. - Il

Moniteur

del 15 marzo, - II Governo di Berlino ed il popolo prussiano. - Nota prussiana del 12 febbraio. - Divieto d'esportazione dì cavalli dai territorii tedeschi. - Dichiarazioni del Governo di Prussia nel 9 marzo. - Austria propone il disarmo generale prima della riunione del Congresso; Francia accetta condizionatamente. -Nuova proposta della Gran-Bretagna per un disarmamento simultaneo. -

lì Congresso è una macchina di guerra.

- Missione dell'Arciduca Alberto a Berlino. - Ultime dichiarazioni del Governo inglese al Parlamento. - II 19 aprile parte da Vienna la richiesta dell'Austria alla Sardegna di porre l'esercito sul piede di pace e licenziare i volontarii. - Inghilterra, Russia e Prussia protestano. - Trattato d'alleanza franco russo del 22 aprile. - Armamenti germanici decretati il 23. - Consegna

dell'ultimatum

austriaco a Torino. - Estremo tentativo dell'Inghilterra. - Gli Austriaci varcano il Ticino.

Il buon tempo due grandi partiti disputansi in Alemagna il primato od almeno la preponderanza, gli Amici della Grande Alemagna ed i Prussiani specifici. Tutti e due tengono per indubitato, la condizione attuale dell'Alemagna essere contro natura, né poter durare senza farla scapitare ogni giorno più di potenza, di grandezza e di prosperità, finché non divenga facile preda di potente avversario; necessaria quindi una modificazione non lieve. Sopra questo però la discrepanza è compiuta. Gli Amici della Grande Alemagna vogliono in realtà un'Alemagna grande, dalla quale non venga escluso niuno che abbia diritto di appartenervi, in cui i piccoli Stati non siano assorbiti dai grandi; che il Governo centrale della Confederazione divenga più vigoroso, largamente provveduto d'ogni mezzo necessario a farsi rispettare al di dentro, come al di fuori, e proteggere efficacemente ogni comune interesse della lega; che l'Austria prenda il primo posto e pongasi innanzi ogni altro a capo della Confederazione, di guisa che l'Alemagna possa non temer più né della Francia né «della Russia. I Prussiani specifici invece vorrebbero che l'Alemagna settentrionale si distaccasse dalla meridionale, escludendo dalla nuova lega germanica l'Austria, la quale non mai si potrà mettere a rimorchio della Prussia,

DICHIARAZIONE DI GUERRA. 291

e ponendo a capo la Prussia medesima; né potendo questa loro vagheggiata Alemagna, piccola per vastità, inceppata per postura geografica, debole per forze, reggersi per sé stessa, vorrebbero poi l'alleanza o per meglio dire il protettorato della Russia.

L'azione reciproca di codesti due grandi partiti più che mai evidente erasi manifestata allorquando la questione orientale venne a turbare l'Europa. I Prussiani specifici s'attennero alla politica che dissero di aspettazione, la quale era tutto quel più che la Russia poteva ottenere da essi, incapace di darle assistenza efficace. L'Austria per lo contrario avrebbe voluto che l'Alemagna operasse come Potenza indipendente e valevole a tutelare in caso di bisogno i proprii interessi. Da prima, onde ottenere un'azione comune di tutta Germania, l'Austria cercò a tutto potere di collegarsi colla Prussia. Quando però poté scorgere che questa non sarebbe a patto veruno uscita dalla sua pretesa neutralità, né mai avrebbe preso un partito decisivo indipendente dalla Russia; quando anzi vide che la Prussia attraversava tutti gli spedienti a che essa s appigliava per assicurare all'Alemagna una giusta ma tutto propria influenza, allora determinossi ad operare da sé sola, ciò che ebbe per effetto l'ultimatum spedito a Pietroburgo, l'accettazione della Russia, e la conclusione della pace. Fedele a codesta politica veracemente germanica e nazionale, l'Austria richiese e conseguì che la Prussia fosse invitata ad inviare suoi rappresentanti al Congresso di Parigi; domandò ed ottenne che la Prussia avesse parte all'ordinamento dei Principati danubiani; riesci a rendere il Danubio fiume alemanno, aprendo per le sue acque alla Germania il cammino dell'Oriente, e lo sgorgo naturale e vastissimo delle patrie derrate e manifatture; assicurò quegli altri non lievi vantaggi morali e materiali che dal Trattato di Parigi derivano a tutta l'Alemagna.

Tra per il fatto che l'assunto patrocinio degl'interessi germanici entrò per gran parte nella condotta seguita dall'Austria durante la guerra d'Oriente, condotta che se le valse dappoi in assai larga misura la nimistà della Russia, d'altra parte le aveva cattivato vie più il favore di quanti tedeschi vedevano nell'Austria l'elemento più naturale e più efficace di prosperità nazionale; e tra per il fatto, egualmente incontestabile, che l'Austria protegge

292 CAPITOLO DECIMOQUINTO.

e difende nel Lombardo-veneto l'estremo fianco sinistro dell'Alemagna, non appena fu posto in prospettiva il pericolo d'una guerra all'Austria in Italia, che la Germania parve essere concordissima in questo che il suo interesse medesimo la chiamasse a sostenere l'Austria. Sino dal principio dell'anno nella Germania meridionale, ed al nord specialmente nell'Annover e nell'Oldemburgo, la pubblica opinione erasi già pronunziata tutt'affatto in favore dell'Austria. Sovrani, Ministri, Parlamenti, giornali, popoli,tutti si accordavano in una voce: La causa dell'Austria è la causa della Germania. Ciò che l'Austria perde è perduto per la Germania. In breve non vi ebbe giorno in cui o dai Governi in documenti diplomatici, o dalle Camere legislative alla tribuna, o dalla stampa quotidiana ufficiale o non ufficiale, non venisse alcuna nuova patriottica manifestazione in questo senso, nella Baviera, Sassonia, Annover, Wurtemberg, Baden, Assie, Weimar, Oldemburgo, Nassau ed altri. Non mai dal 1813 in poi erasi veduta in Alemagna una tale concitaione di animi, una tale concordia di sentimenti, un tale ardore bellicoso.

Già, intorno alla metà del marzo, i Ministri della guerra di quegli Stati tedeschi, che danno contingenti per l'ottavo Corpo d'esercito federale, Sassonia, Wurtemberg, Baden, AssiaDarmHtadt, eransi riuniti in conferenza nel castello di Bruchsal; nel mentre si proclamava: «L'unanimità non manca nel popolo tedesco. Ci armiamo, perché anche nei Gabinetti tedeschi si è deciso di respingere gli attacchi contro l'Austria.» Fra tutti caldissima per l'Austria ed operosissima negli armamenti la Baviera, al cui Governo i giornali francesi davano anzi la colpa di aver predicato la crociata tedesca contro la Francia. Appena letta la Nota del Moniteur dei 5 marzo, che i semplici credeano pacifica, il Gabinetto di Monaco pose il giorno dopo in istato di guerra la cavalleria e l'artiglieria, facendo dire a tal proposito che questa era la miglior risposta da dare a quell'articolo.

Fu allora che al Monitore si diede a stampare un «Comuni» cato ufficiale,» inteso a quietare gli animi di là del Reno (1). «Una parte della Germania, diceva, offrire oggidì uno spettacolo,» che rattristava e sorprendeva la Francia. Una questione vaga,

(1) Le Moniteur Unitemi, numero del 15 marzo 1839.

DICHIARAZIONE DI GUERRA. 293

indeterminata, che tocca i problemi più delicati, sorgere improvvisamente nel mondo politico. Il Governo francese vedervi un soggetto di esame ed un dovere di vigilanza. Non preoccuparsi egli della situazione inquietante dell'Italia se non per risolverla di concerto co' suoi alleati e a prò del riposo dell'Europa. Esser egli possibile di attestare un desiderio più sincero di sciogliere pacificamente le difficoltà, e di prevenire le complicazioni, che risultano sempre dalla mancanza di previdenza e di risolutezza? Tuttavia, una parte della Germania rispondere a tale contegno s tranquillo co' più sconsiderati allarmi. Sopra una semplice presunzione, che nulla giustificava e tutto ribatteva, ridestarsi i pregiudizii, propagarsi le diffidenze, scatenarsi» le passioni; una specie di crociata contro la Francia essere intrapresa nelle Camere e nella stampa di parecchi Stati della Confederazione. Incolparsi la Francia di nutrire ambizioni che ella disconfessò, di preparare conquiste di cui non ha bisogno, ed adoperarsi con tali calunnie a spaventare l'Europa con aggressioni immaginarie, delle quali non mai erasi avuto nemmeno il pensiero. Gli uomini, che traviavano in codesta guisa il patriottismo tedesco, essersi addormentati nel 1813, e ridestarsi, dopo un sonno di mezzo secolo, con sentimenti e passioni se polte nella storia, per difendere assolutamente ciò che nessuno pensava ad attaccare. L'Imperatore de' Francesi, che avea saputo dominare tutti i pregiudizii, doversi attendere che ei non venissero invocati contro di lui. La Francia non essersi commossa finora per quegli ingiusti attacchi, non render essa responsabile tutta la Germania dell'errore o della malevolenza di alcune manifestazioni, rispondenti meglio a meschini risentimenti che a gravi timori. La Germania nulla aver a temere dalla Francia per la sua indipendenza; la Francia doversi attendere dalla Germania altrettanta giustizia per le sue intenzioni, quanta simpatia essa Francia aveva per la nazionalità alemanna. Col mostrarsi imparziale, la Germania aversi a mostrare previdente, e servir meglio la causa della pace. La Prussia averlo compreso, ed essersi unita all'Inghilterra per far sentire a Vienna buoni consigli, nel momento stesso in cui alcuni agitatori cercavano di appassionare e far collegare contro la Francia la Confederazione germanica.»


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294 CAPITOLO DECIMOQUINTO.

Assai diversa, in fatti, appariva la posizione che il Governo di Prussia si era deciso a pigliare sino da bel principio, quasi che avesse voluto attestare una volta di più al mondo quella eterna rivalità contro l'Austria, per cui ogni qual volta trattavasi di un reciproco appoggio, sapeansi trovare mille motivi per rifiutarvisi, mille argomenti di recriminazioni, de' quali si potrebbe certamente citare infinito numero di esempi, quando, come ben disse il Rustow, vogliansi riandare gli abissi di storie antiche. Senza dubbio, di codesta rivalità erano a ricercare le cause principalissime nella essenza stessa delle origini, della natura, dei principii dei due Stati. Piuttosto sarebbe difficile a comprendersi come la Prussia, Stato conquistatore, le cui basi storiche, per le sue tradizioni e le geografiche sue necessità, gl' impongono le conquiste, uno Stato che, portando scritta sulla sua bandiera la conquista, non ne fa mistero, possa procedere di comune accordo coli Austria, Stato eminentemente conservativo, conservativo in ispecialità quanto al territorio, avente ogni interesse di non lasciar cambiare le condizioni territoriali in Europa, particolarmente in Germania, ogni interesse a tener lontane le conquiste della Prussia. D'altronde, se la Prussia aveva considerato in addietro e considerava sempre la linea del Mincio necessaria all'Austria dal punto di vista dell'interesse di difesa tedesco, risguardava il possesso della Lombardia, paese aperto da tutte parti, sprovveduto di fortezze e di naturali munizioni, affatto indifferente secondo quel punto di vista. In relazione a questa maniera di considerare le cose, Piacenza e Ferrara erano, agli occhi della Prussia, due posizioni avanzate, due blockhaus staccati, indipendenti dal sistema generale di difesa, dei quali affatto inconcludente le pareva il possesso relativamente a codesto sistema.

Poiché però questa guerra minacciosa, allo stringer de' conti, sovrastava a tutti i popoli alemanni, il Governo prussiano doveva questa volta, più agevolmente che in qualunque altra, fare con franchezza causa comune coll'Austria; e tanto più lo doveva, che già era manifestissimo come questo fosse desiderio e volontà di ogni popolo germanico. Verosimile che tale linea di condotta poteva decidere a ciò anche l'amica Inghilterra; sommamente probabile che, se si fosse decisamente opposta coalizione sì fatta alle pretese di Napoleone, egli si sarebbe trovato indotto forse a

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smettere od almeno a procrastinare il suo attacco. Non emancipatosi punto dalle incessanti velleità d'egemonia alemanna, stretto dalle sollecitazioni della Russia che in sostanza a Stuttgard aveva lasciato mano libera al Bonaparte in Italia contro l'Austria, circuito da Napoleone che gli faceva dare di continuo assicurazioni e promesse onde si avesse a mantenere neutrale, non sembrandogli forse il pericolo né così presente né tanto prossimo, il Governo di Prussia, allo unirsi schietto e pronto all'Austria, preferì avvicinarsi al Gabinetto inglese nell'opera della mediazione, con che nella realtà si staccava dall'Austria e dalla Germania per dichiararsi, ciò che agognava l'Imperatore de' Francesi, neutrale. Presa una tale posizione, il Governo prussiano vedeva nella questione pendente, non già una questione germanica, bensì una questione interna austriaca, anzi più propriamente una semplice questione italiana, la quale si dibatteva tra l'Austria e la Francia, ambe Potenze con cui la Prussia manteneva le stesse relazioni; né i suoi obblighi verso la Confederazione germanica riguardando minimamente un attacco de' possedimenti dell'Austria in Italia, la Prussia come Potenza germanica non trovava alcun dovere d'immischiarsene.

Una volta messosi in questa via, il Governo di Berlino credette di dover evitare ogni passo che non fosse conforme alla più rigorosa neutralità, ed ogni manifestazione per l'una o per l'altra delle due grandi Potenze che tutto induceva a credere sarebbero ben presto venute alle mani. Già sino dal 12 febbraio aveva indirizzato a' suoi rappresentanti presso le Corti tedesche una Nota, nella quale, quantunque dichiarasse «la Prussia voler serbata la loro forza ai Trattati e la sua validità allo stato presente delle cose,» apparivano le due idee principalissime, la voglia d'impedire la guerra col dare consigli di pace, e la determinazione di conservare l'amicizia di tutti. Peraltro, più che neutralità, deciso malanimo addimostrò verso l'Austria in occasione del divieto della esportazione dei cavalli, di cui un gran numero si comperava dalla Francia. Governi alemanni gagliardamente insistevano perché codesta proibizione si decretasse al più presto; al che occorreva un convegno degl'interessati nella Lega che per affari doganali stringeva tra loro i Governi tedeschi. Quando alla perfine, a' 5 del marzo, la Lega doganale ordinò l'interdizione; purché

296 CAPITOLO DECIMOQUINTO.

raggiungere che la Francia non si avesse ancora a rifornire di cavalli, fu forza agli altri Governi germanici assentire alla prete sa della Prussia che ciò fosse per tutti i confini della Lega medesima, in guisa che non si poterono esportare cavalli neppure nell'Austria.

Le popolazioni prussiane per lo contrario apertamente sino dalle prime inclinavano a ciò che senza reticenze si dichiarasse fatta propria la causa dell'Austria. Niuno dubitando che, chi volesse violare i Trattati in faccia agli Austriaci sul Po, non fosse poi per fare altrettanto in faccia alla Germania sul Reno, generale nel popolo di Prussia l'opinione che impossibile sarebbe la guerra, se francamente avesse preso un partito, concorde e compatta, la Confederazione germanica, la quale poteva disporre di un esercito ben agguerrito di più che un milione e dugentomila baionette. Quella parte della stampa periodica prussiana, che da principio avversava di dare appoggio all'Austria, ben presto, riconosciuta la maggiore profondità della questione, aveva pigliata altra via.

Alla fine il Gabinetto di Berlino, pensando dover cedere alquanto alla pubblica opinione, ruppe il silenzio con dichiarare il 9 di marzo, alla Camera dei Deputati: «In mezzo all'agitazione manifestatasi in tutte le altre parti della Germania, il Governo prussiano avere bensì conservato un contegno pieno di mode:razione, in paragone della effervescenza generale degli animi. Il Governo non poter avere un solo istante di dubbio sulla missione che la Prussia deve dare a sé stessa, la quale era di assicurare ai Trattati europei il rispetto che è loro dovuto, ed a quanto esiste il valore dei diritti acquisiti. Inghilterra e Prussia intimamente legate, aversi intromesse per conservare la pace. Ma la Prussia, nelle sue cure per giovare, come grande Potenza europea, allo scioglimento d'una grave complicazione europea,non dimenticherà mai la sua missione tedesca. Il Governo prussiano attendere con calma, ma eziandio con ferma risoluzione,quanto addurrà l'avvenire poiché, qualunque fosse questo avvenire, esso troverà sempre ed in tutte le congiunture l'antica Prussia al suo posto.»

Frattanto, alle sollecitazioni dell'Inghilterra e della Russia, le quali offerendo la propria guarentigia al Piemonte contro ogni

DICHIARAZIONE DI GUERRA. 297

aggressione dell'Austria, instavano perché esso prima disarmasse, il Governo di Torino recisamente aveva negato di assentire, quando non fosse ammesso, e sullo stesso piede delle altre Potenze, al Congresso. Alla proposta dell'Inghilterra alla Francia, che si associasse nel dare alla Sardegna una tale garanzia collettiva, Francia si rifiutò. «Ma poiché a tirarlo nella rete tesagli, bisognava possibilmente stancare il Gabinetto di Vienna con transazioni di scarso valore, e non mostrarsi riluttanti a qualunque siasi accordo, il conte di Cavour fece all'Inghilterra e alla Prussia la proposta d'una Convenzione, per la quale i due eserciti, austriaco e piemontese, si terrebbero ad una eguale distanza dalla frontiera a prevenire qualunque aggressione accidentale (1).»

In allora l'Austria formulò un'altra proposizione, un disarmo generale di tutte le parti prima della riunione del Congresso. Francia dichiarò che accettava questo spediente, solo in quanto se ne ammettesse prima del Congresso il principio, riservata espressamente al Congresso medesimo la facoltà di determinare i modi di porre esso disarmo in esecuzione. Alla quale controproposta il Governo di Vienna non poté accondiscendere, non avendo codesta manovra francese evidentemente altro intento che quello di porre l'Austria, nella questione del disarmo, sullo stesso piede della Sardegna, addossando ad ambedue obblighi eguali, anziché su quello della Francia, la quale avrebbe intanto conservato la medesima posizione delle altre grandi Potenze non interessate, e si sarebbe tenuta adatto in disparte.

(1) N. Bianchi; Il conte di Cavour, pag 62. - A bello studio abbiamo riportate le parole medesime del Bianchi, il più entusiastico lodatore di Cavour, che scrisse il suo libro sulle stesse carte e memorie del definito Ministro. È un'autorevole testimonianza di più sopra un fatto, che, del resto, oggidì non è più mistero per alcuno. Prima e durante la guerra, come dappoi qualunque volta tornasse utile il farlo, non vi era documento diplomatico, scrittura, circostanza, in cui Cavour ed il coro dei pedissequi, non ripetessero su tutti i tuoni l'eterno ritornello dell'Austria provocatrice alla guerra. Riescita a buon fine l'impresa, ecco Cavour e pedissequi congratularsi a vicenda perché l'Austria è caduta nella rete. Forse i posteri avrebbero potuto starsi in dubbio se l'Austria fosse stata essa nel vero la causa reale della guerra; convien dire non abbian voluto che questo dubbio si potesse conservare nemmeno dai contemporanei.

298 CAPITOLO DECIMOQUlNTO.

All'Inghilterra che calorosamente si adoperava affinché il Gabinetto di Torino aderisse ali ultima proposizione austriaca, del disarmo generale prima della riunione del Congresso, Cavour rispose: «Ove non si fosse persistito nel volere esclusa la Sardegna dal Congresso, essa avrebbe potuto seguire l'esempio di Francia. Ma avendola condannata all'isolamento, questo stato vietarle di assentire a tale proposta. Tuttavia proporre, che ove l'Austria s'impegnasse a non inviare nuove truppe in Italia, il Governo di Torino non chiamerebbe sotto le armi le sue milizie di riserva (1), non porrebbe sul piede di guerra il suo esercito, e lo manterrebbe fermo nelle posizioni in che stava da tre mesi.» Nuova impossibilità d'intendersi, e nuovi sforzi per indurre il Piemonte a maggior arrendevolezza. Il Gabinetto di Londra pertanto dichiarò al Governo di Torino: che un plenipotenziario sardo assisterebbe al Congresso, ma unicamente per trattare la questione del disarmamento. Cavour rigettò anche questa proposta, affermandola umiliante e offensiva la dignità del suo Re e del suo paese.

Il tempo passava, senza che per le Potenze mediatrici si presentasse verun raggio di speranza di poter avvicinare le opinioni divergenti dei Gabinetti di Vienna, di Parigi e di Torino. Fu allora che la Gran-Bretagna tentò un ultimo sforzo, dopo il quale, se non riesciva, si sarebbe ritirata dalle pratiche. La nuova proposta consisteva «nel disarmamento simultaneo prima del Congresso. Il disarmamento sarebbe stato regolato da una Commissione militare e civile, indipendente dal Congresso, nella quale avrebbe avuto parte un commissario sardo. Appena raunata e cominciati i suoi lavori, il Congresso si sarebbe raccolto a discutere le quistioni politiche. I rappresentanti degli Stati italiani sarebbero stati invitati al Congresso, come in quello di Lubiana nel 1821.» Prussia e Russia acconsentirono sul momento, tosto appresso la Francia. «Non potendo l'Imperatore Napoleone III. rifiutare una tale proposizione senza confessare apertamente al cospetto di tutta l'Europa ch'egli voleva la guerra ad ogni costo, un dispaccio laconicamente imperioso

(1) Le quali aveva già richiamate, ad eccezione della minor parte dei soldati di riserva della seconda categoria (pag. 269).

DICHIARAZIONE DI GUERRA. 299

venne da Parigi a Torino per dire: accettate immediatamente le condizioni preliminari del Congresso e rispondete per mezzo del telegrafo. Il conte di Cavour, riparandosi dietro il pretesto che» gli bisognava consultare la Corte di Pietroburgo, non diede la immediata risposta, s la fece in senso affermativo addì 17 aprile, nel qual giorno veramente per una comunicazione ricevuta da Napoli (1) egli era reso consapevole: che l'imperatore Francesco Giuseppe eia fermamente risoluto di togliersi da quel dannoso temporeggiare, nel quale egli diceva di non vedere che il trionfo degli astuti maneggi del Piemonte e della Francia (2).» Per tal guisa, pienamente appariva giustificata la frase: Il Congresso è una macchina di guerra, che s'inventò quando la Russia venne fuori colla proposta di questo. Approfittare delle conferenze per aver tempo di condurre a fine gli armamenti; adoperare le stesse trattative pel Congresso onde irritare l'Austria, isolarla, e poi da ultimo addossarle la colpa di avere provocato la guerra;

(1) A questo luogo Nicomede Bianchi appose la Nota, che riportiamo: «Pubblicherò in altro tempo più opportuno l'onorato nome di colui che diede tale confidenzialissima notizia al conte di Cavour. Basta per ora l'accennar qui su tale pratica un Memorandum del Ministro degli affari esteri, Carafa, per S, M. il Re Ferdinando II., 15 aprile 1859: archivio degli affari esteri di Napoli. In quello scritto il Ministro Carafa rapportava al Re: che dietro comunicazioni ricevute dall'ambasciatore austriaco, l'Austria aveva stabilmente deciso di attaccare il Piemonte, ove esso non cedesse all'intimazione diretta del disarmo.» Così anche questo punto di storia resta debitamente schiarito: se cioè Cavour ignorasse affatto la presa risoluzione dell'Austria allorquando il Piemonte aderì all'ultima proposta inglese, siccome sino a poco fa sostenevano gli apologisti cavouriani; o se per converso, già conoscendola, vi avesse assentito nel 17 aprile all'unico scopo di far apparire vie più odiosa l'intimazione dell'Austria,che sarebbe stata diretta al Piemonte, mentre questo, apparentemente ignaro di tutto, aveva diggià in precedenza annuito a quanto £li era stato richiesto. Così è confermato che la prima notizia della determinazione austriaca venne a Torino da Napoli; ove già nell'aprile 1859 la corruzione era tale che un segreto di Stato, passato fra il Re, il Ministro degli esteri ed un Ministro di Potenza straniera ed amica, era partecipato tosto tosto per telegrafo al Ministero di Torino, prima ancora che questi ne avesse potuto sapere alcun che nemmeno dal suo alleato e protettore di Francia. Intanto nella storia rimarrà esecrato l'onorato nome di colui che vendeva al Re suo nemico i segreti del suo Re.

(2) N. Bianchi; Il conte di Cavour, pag. 63.

300 CAPITOLO DECIMOQUINTO.

in apparenza cedere sempre qualche cosa, però mai troppo, e quando la Francia cedendo sembrasse manifestare il suo amore per la pace, in allora dovesse la Sardegna porre in campo nuove obbiezioni; astringere per tal modo l'Austria a tenere in piedi grossi eserciti, con che era a lusingarsi di minare affatto le sue tutt'altro che fiorenti finanze, e poteva anzi sperarsi d'indurla per questo motivo medesimo ad attaccare, conseguendo così l'opportunità vagheggiata di rimuovere da sé l'odiosità dell'aggressione, rinversatane sull'Austria ogni responsabilità; erano concerti, sino allora pienamente coronati di successo, presi tra Napoleone III. e Cavour. L'Austria, infatti, intimamente ormai convinta come da ultimo non avrebbe potuto evitare una guerra che Napoleone voleva assolutamente; persuasa ch'era sempre meglio incominciare la lotta quanto più presto fosse possibile, piuttosto che lasciare assorbire dall'esercito per una fracida pace enormi tesori; forse eccessivamente fiduciosa di aversi in ogni caso alle spalle, pronti alla riscossa, gli eserciti di Germania; forse di soverchio credente, dovere la Prussia, che pur sempre parlava di rispetto al possesso territoriale, seguire la corrente delle manifestazioni tedesche in suo favore; illusa forse dalle incessanti proteste del Governo britannico intorno alla intangibilità dei Trattati del 1815; l'Austria, spinta agli estremi, s'era appigliata all'estremo partito di intimare direttamente al Piemonte il disarmamento immediato o la guerra.

Senza dubbio, nel pigliare sì grave risoluzione il Gabinetto di Vienna aveva a tenere più che tutto a cuore di assicurarsi possibili alleati. Sino allora tra le grandi Potenze alleati veri non aveva trovato, ma solo amichevoli mediatori; i quali, quantunque potesse dirsi che non d'altro volessero in sostanza saperne fuorché della loro mediazione, pel proprio interesse medesimo poteano benissimo essere tratti ad unirsi più strettamente all'Austria. Importava sommamente accertarsi sino a qual punto si potesse effettivamente contare sulla Prussia. A questo effetto l'Imperatore d'Austria inviava l11 aprile in Berlino l'Arciduca Alberto, Governatore generale d'Ungheria. Opportunissima la scelta. Uomo di alti sensi e di gran cuore, dotto ed appassionatissimo militare, uno de' più abili generali dell'Austria, l'Arciduca s'era coperto di onore il 21 marzo 1849 sotto Mortara, ed il 23 presso Novara aveva

DICHIARAZIONE DI GUERRA. 301

quasi solo colla sua Divisione sostenuto con sommo valore il combattimento, dalle dieci del mattino sino alle quattro del pomeriggio, contro tutto il grosso dell'esercito piemontese, sinché Radetzky poté accorrere per decidere in suo favore la giornata.

Accolto con peculiarissima distinzione dalla Corte di Prussia, mentre, il 18 aprile, l'Arciduca ispezionava il battaglione d'istruzione, stanziato in Potsdam e composto di tutti i reggimenti dell'esercito" prussiano, fu distribuita, precisamente durante la rivista, la parola d'ordine Novara. Ma quando l'Arciduca avea fatto parola dell'intimazione che l'Austria intendeva dare al Piemonte, fu sconsigliata nel modo il più assoluto in Berlino. Si promise vagamente un qualche appoggio, questo però soltanto nel caso che l'Austria lasciasse alla mediazione libero corso senza ultimati e simili comminazioni da parte austriaca. Oli dissero, comprendersi benissimo tutta la difficoltà ed il disagio della posizione che si avea formata all'Austria, e la giusta sua impazienza ad escirne; non poter però convenire in niun modo con essa nel pensiero di presentare al Piemonte la scelta di un alternativa, che conducendo inevitabilmente alla guerra, avrebbe fruttato all'Austria di farsi addossare dall'avversario tutta la responsabilità ed odiosità del primo passo, responsabilità ed odiosità che pensavano si dovesse lasciare tutta ed a qualunque costo al solo Imperatore dei Francesi. L'Arciduca non poté ottenere altra assicurazione se non quella che la Prussia avrebbe pensato per la difesa dei confini germanici al Reno. In conformità il Gabinetto di Berlino dichiarava per mezzo della Gazzetta prussiana: «La Prussia, mentre operava a prò della pace come grande Potenza, non avere dimenticati i suoi doveri di Potenza tedesca; e, come tale, avere già presi i provvedimenti necessarii a quel tempo di guerra che si avvicinava. Credere poi il Governo prussiano essere giunto il momento di proporre alla Confederazione germanica un provvedimento generale, ed intanto aver fatto porre in assetto di guerra tre corpi di esercito. Ciò non impedire che la Prussia rimanga, come fu, neutrale, finché la Confederazione stessa non venga assalita.»

Da ultimo nel Parlamento inglese il Governo aveva fatte importantissime dichiarazioni. «La Sardegna,» disse il Ministro Malmesbury, avere da qualche tempo dimenticato i suoi doveri,

362 CAPITOLO DECIMOQUINTO.

Austria possedere i suoi territorii coi medesimi diritti Con cui l'Inghilterra possiede i suoi. Riguardo all'Austria i sentimenti del popolo inglese essere stati tempre quelli di antichissimi alleati. Gran-Bretagna avrebbe sempre difesi i Trattati del 1815, e non vedersi punto per qual filo di raziocinii il capo del Governo francese fosse stato condotto a persuadersi di dover intervenire nelle lotte di altri popoli. Inghilterra non intendere perché la Francia, Potenza forestiera, voglia entrare in questo litigio. Derby, capo del Gabinetto, osservò: «In Inghilterra tutti i partiti essere d'accordo nel voler salvi i Trattati del 1815. La Russia avere imbrogliate le cose. Se la guerra scoppiasse, l'Inghilterra non potrebbe vedere mutate le sorti dell'Adriatico e del Mediterraneo, e starà attenta contro ogni impresa possibile di qualunque Potenza. Inghilterra si terrà in neutralità armata, ed in ogni caso farà quello che l'onore, la giustizia e la dignità le saran per dettare.» Però codeste spiegazioni ufficiali in sostanza perdevano assai della loro importanza pei discorsi parlamentarii dei Palmerston, Clarendon, Russell e Gladstone, che vi fecero risposta con dire in molte cose tutto il rovescio di quello che avevano detto i Ministri a cui voleano succedere, accusandoli anzi di parzialità per l'Austria. Poi il di 1.° aprile il Ministero Derby aveva avuto contro di sé la maggioranza della Camera dei Comuni a proposito della importante questione del Bill di Riforma parlamentare. Per ciò la Regina aveva decretato la dissoluzione del Parlamento, e il fu il 23 aprile. Ma dalle prossime elezioni potevano ottenere una Camera più inchinevole alle viste politiche del Palmerston, il quale, quantunque avesse dichiarato che si dovevano mantenere i Trattati di Vienna, era notoriamente assai propenso al Bonaparte. Questa sconfitta del Ministero conservatore poteva essere forse non senza influenza per precipitare la guerra.

Così stavano le cose allorché a di 19 aprile spedivasi da Vienna una Nota del conte Buoi a Cavour, dichiarante: «Austria essersi affrettata di accedere alla proposta della Russia di riunire un Congresso per cercare di appianare le complicazioni sopravvenute in Italia. Convinta tuttavia della impossibilità d'intavolare con probabilità di successo deliberazioni pacifiche in presenza del rumore delle armi, aver domandato che l'esercito sardo fosse messo sul piede di pace, e licenziati i Corpi franchi italiani.

DICHIARAZIONE DI GUERRA. 303

Gran-Bretagna aver trovata questa considerazione sì giusta e sì conforme alle esigenze della situazione, che non esitò ad appropinarsela, dichiarandosi pronta ad insistere sul disarmo immediato della Sardegna, offerendo in iscambio contro ogni attacco da parte austriaca una guarentigia collettiva. Sembrare che il Governo di Torino a codesto invito ed offerta di guarentigia abbia risposto con un rifiuto categorico. Questo rifiuto inspirare un rammarico tanto pi il profondo dacché non permise di porgere, colla dislocazione delle truppe imperiali stanziate nel Lorobardo-Veneto, una prova di più eh esse non vi sono raccolte in uno scopo aggressivo contro la Sardegna. Austria tentare direttamente uno sforzo supremo per far rinvenire il Governo sardo dalla decisione cui pareva si fosse fermato. Buoi pregare il conte di Cavour di fargli sapere se il Governo di Torino consente,sì o no, a mettere senza indugio il suo esercito sul piede di pace ed a licenziare i volontarii italiani. Il portatore della lettera avere l'ordine di attendere per tre giorni la risposta. Se allo spirare di questo termine egli non ricevesse risposta alcuna, o questa non fosse completamente soddisfacente, Austria dover ricorrere alla forza delle armi. »

Non appena ne aveano avuto contezza, Inghilterra, Russia e Prussia non indugiarono a protestare presso il Gabinetto di Vienna contro sì fatta determinazione. Il 22, Venerdì Santo, dopoché la Russia erasi studiata con ogni mezzo di combinare la riunione di un Congresso delle Potenze anche colla esclusione dell'Austria, nel che non aveva potuto riuscire per le energiche opposizioni della Prussia e della Gran Bretagna, Francia e Russia segnarono un Trattato secreto d'alleanza offensiva e difensiva; il quale, per la indiscretezza d'un diplomatico sardo trapelatane tosto la notizia, la Russia, che per quanto adagio, come sempre, faceva già misteriosamente apprestamenti di guerra, non potendo negare che esistesse, si provò far negare che fosse stato conchiuso. Se non che il Governo inglese, cui per nulla garbava acconciarsi alla misticità di codesta singolare maniera di negare fatti innegabili, e aveva già veduto ne' primi giorni dell'anno la Gazzetta ufficiale di Pietroburgo dichiarare sciolta la Santa Alleanza e l'Austria non dover contare che sulle proprie forze, indirizzò al barone di Brunnow, ambasciatore di Russia in Londra, una domanda diretta

304 CAPITOLO DECIMOQUINTO.

e categorica per sapere se era vero che, in certe contingenze, le clausole di quel Trattato fossero ostili agl'interessi della Gran-Bretagna; al che il principe Gortschakoff, primo Ministro di Russia, rispose (1): «Non nego che possa esistere un impegno scritto tra la Francia e la Russia; ma posso farri la più positiva assicurazione, che quell'accordo niente contiene che, neppure colla più estesa interpretazione, possa costituire un'alleanza ostile all'Inghilterra. Se lord Malmesbury è interrogato su questo punto, egli può rispondere con tutta fiducia nel senso sopraindicato, e vi do, come uomo d'onore, la mia personale garanzia che questa dichiarazione non sarà smentita dai fatti.» Una delle più importanti clausole di quel Trattato pattuiva che la Russia avesse ad appostare intanto corpi di osservazione ai confini della Gallizia e dell'Ungheria, e ad uscire dall'asserita neutralità tosto che le altre Potenze, e singolarmente la Germania, non avessero serbato più a lungo lo stesso contegno.

Il 23 la Prussia presentò alla Dieta germanica in Francoforte la proposta di ordinare che tutti i contingenti della Confederazione si tenessero pronti a marciare, e senza indugio si armassero le fortezze federali; dalla quale gravissima proposta, nel dì medesimo elevata dall'Assemblea a decisione federale, non avendo evidentemente per iscopo soltanto motivi di difesa del territorio della Lega alemanna, si poteva forse con abbastanza di ragionevolezza inferire che in quel torno la Prussia fosse realmente disposta a rinunziare alla sua neutralità in favore dell'Austria. Lo stesso giorno 23, alle cinque e mezzo del pomeriggio, il barone di Kellersberg consegnava al conte di Cavour l'ultimatum austriaco. Tre giorni appresso, il 26, alle cinque e mezzo del pomeriggio, ora per ora, Cavour faceva rimettere al barone di Kellersberg in Torino la risposta del Governo sardo: «La questione del disarmo della Sardegna essere stata oggetto di numerose negoziazioni,che avevano dato luogo ad una proposta formulata dall'Inghilterra, cui avevano aderito Francia, Prussia e Russia. Sardegna averla accettata senza riserve. L'Austria non potendo ignorare né la proposta dell'Inghilterra, né la risposta della Sardegna,

(1) Dispaccio telegrafico in cifra, pervenuto al barone di Brunnow in Londra nel mattino del 29 aprile.

DICHIARAZIONE DI GUERRA. 305

questa non poter nulla aggiungere per farle conoscere le intenzioni del suo Governo intorno alle difficoltà che si opponevano alla riunione del Congresso.» Tre quarti d'ora dopo, rinviato austriaco lasciava Torino.

Già sino dal mezzogiorno del 25, seconda Festa di Pasqua, le prime truppe francesi erano penetrate sul territorio sardo per Chamberv, altre sbarcavano a Genova nel 26; gli Austriaci si tenevano pronti a varcare i confini del Piemonte nel mattino del 27, quando un dispaccio telegrafico da Vienna, giunto al comando supremo dell'esercito nella sera del 26, sospese l'ordine. L'Inghilterra, quasi all'ultima ora, aveva fatto ancora un tentativo di pace. Ripigliando la sua prima proposta, offerse nel 26, nello stesso giorno in cui la Francia faceva annunziare a Vienna che considererebbe il passaggio del Ticino per parte degli Austriaci siccome dichiarazione di guerra a sé medesima, ai Gabinetti di Parigi e di Vienna la propria mediazione, instando per l'immediato generale disarmo ed il componimento delle sussistenti differenze in via di negoziati diretti fra i Governi francese ed austriaco. L'Austria tosto aderì. Napoleone rifiutò recisamente di prendere in veruna considerazione la nuova profferta. Egli aveva ormai conseguito tutto quanto s'era proposto di conseguire: aveva la guerra nel momento ch'egli l'aveva voluta, e condotto l'Austria al punto a cui aveva voluto condurla, a pigliarsi essa la responsabilità della prima aggressione. Sicché al Cesare avventuroso si poteva ben dire: «So che tu puoi quello che vuoi.»

Convintissimo di non potere, più presto o più tardi, in niun modo evitare la guerra che il Bonaparte a qualunque costo voleva, il Gabinetto di Vienna forse nell'ultimo momento si rammentò le parole di Metternich, quando, la Francia protestando nel 1831 contro l'intervento austriaco in Romagna, se si ha a morire, disse, tanto vale un'apoplessia, quanto l'essere soffocati a fuoco lento. Faremo la guerra. Durante i negoziati l'Austria aveva già ceduto in molti punti, moltissimo poi, colla dichiarazione del 31 marzo a lord Loftus, intorno alla questione principalissima de' suoi Trattati speciali cogli Stati d'Italia. Condotta una volta l'Austria ad inviare l'ultimatum del 19 aprile, rimaneva nella storia un documento attestante da qual parte veniva la prima effettiva e diretta provocazione a rimettere la decisione del litigio alla sorte delle armi.


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306 CAPITOLO DECIMOQUINTO.

Le negoziazioni del 26 aprile rimasero inavvertite e pressoché ignorate. Eppure a chi spetterebbe maggiormente l'odiosità del primo atto materialmente ostile, della prima infrazione vera dello statu quo, la responsabilità della prima reale provocazione alla guerra? All'Austria che, accettando senza restrizioni nel 26 la mediazione e le proposte dell'Inghilterra, considerava già in fatto siccome non avvenuto l'ultimatum del 19; od alla Francia che, rifiutando, obbligava l'Austria a dar corso alla sua intimazione al Piemonte? All'Austria che non aveva peranco fatto varcare il confine ad un solo de' suoi soldati, od alla Francia che sino dal 25 da terra, ed il 26 da mare, invadeva la Sardegna?

Gli Austriaci varcarono il Ticino dopo il mezzogiorno del 29 aprile. La guerra era incominciata.

EPILOGO.

La guerra, che veniva innanzi,aveva avuto cause prossime, dirette, palesi, apparenti, e cause remote, indirette, occulte, reali. A causa prossima e diretta riconosceva invero l'intimazione austriaca del 19 aprile alla Sardegna. Ali ultimo istante all'Austria, tirata pe' capegli, gravissimamente oltraggiata nelle sue finanze astrette a mantenere un enorme assetto di guerra per menzognere sembianze di pace, fece diffalta la virtù della pazienza e dell'annegazione, il coraggio di attendere che la forza degli eventi provocati dagli avversarii, l'inesorabilità del destino che sospingo ed incalza, gli avversarii medesimi astringessero ad assalirla. E nullameno dello scoppio della guerra l'Austria non n'era stata più che l'ultima causa palese. All'Austria Napoleone III. aveva tesa intorno intorno con finezza somma una rete, perché almeno il torto della provocazione finale avesse ad apparire colà dove sino allora stava nella realtà la ragione del buon diritto. No, della guerra, che stava per divampare, l'Austria non fu guari la causa reale, la causa effettiva, la causa vera.

Il tempo, che pari a torrente nelle vorticose onde travolge cogli odii di parte le stolte menzogne, lascia alla storia imparziale ed onesta il compito di sceverare dalla esagerazione, che passa, la realtà, che resta. In pieno 1859, sotto il premere d'una fazione, insofferente perché interessata, ben si poteva arditamente gridare a' quattro venti l'Austria violatrice in Italia dei Trattati del 1815 nella forma e nella sostanza, d'ogni patto, d'ogni stipulazione; bandire l'Austria da quarantaquattr'anni tutta intesa ad annientare l'indipendenza degli Stati italiani;

308 EPILOGO.

Imprecare al vassallaggio imposto dall'Austria ai sovrani della Penisola, ai soprusi degli austriaci interventi, alle usurpazioni dell'Austria, alle prepotenze dell'Austria, alle provocazioni dell'Austria, all'equilibrio istrutto dall'Austria per l'Italia in Europa; ben si poteva acclamare ai mali d'Italia e ai gridi di dolore, come a mal governo di principi. In pieno 1864 ripetere tutto questo sarebbe falsare la storia, e ad un tempo amara e vigliacca ironia a non meritate sventure di principi, e di popoli non meno che di principi.

Costituita dalla forza medesima degli avvenimenti, che accompagnarono la caduta del primo Impero francese, naturale custode de' nuovi ordinamenti politici in Italia, difenditrice dei diritti de' principi quanto di quelli dei popoli, guardiana d'ordine e di tranquillità al di dentro come d'indipendenza e di sicurezza esteriore, se nel 1815 o nel 1847, al domani di una grande vittoria, o alla vigilia di vaste rivolture e d'una aggressione sleale, l'Austria strinse Trattati d'alleanza con Napoli e con Toscana, con Modena e con Parma, a parte pure quel primo fondamento giuridico quale è il diritto che ha ogni Stato di farne come e con chi crede, essa, Potenza italiana per possesso nella Penisola, li strinse per lo meno col diritto medesimo con cui la Francia, Potenza straniera affatto all'Italia, si alleò nel 1859 alla Sardegna. A Firenze ed a Modena regnavano principi di Casa d'Austria. Sulla Toscana, sugli Stati Estensi, sulla massima parte degli Stati di Parma l'Austria aveva diritti di riversibilità ormai secolari, riconosciuti e guarentiti da tutta Europa, dalla Francia e dalla Sardegna stesse. Minacciata dalla guerra, che si voleva evidentemente imprendere, ne' suoi possedimenti italiani, nelle sue seconda e terzagenitura, in tutta la sua posizione nella Penisola, se prima non fossero stati conchiusi, l'Austria li avrebbe avuti anzi a conchiudere per diritto e più ancora per dovere.

Per sua natura eminentemente conservatrice, l'Austria, mandataria dell'Europa, se chiamata, intervenne a difendere l'interna sicurezza e tranquillità degli Stati contro manifestazioni di sètte, con diritto certamente almeno eguale a quello per cui la Francia, essenzialmente sovvertente ed invaditrice, non chiamata e senza altro mandato se non quello ch'essa medesima si attribuiva, pur proclamando il principio di non intervento, stava per intervenirvi

EPILOGO. 309

a proteggere opre di sètte. Se la Francia vi s'immischiava per distruggere, ben poté l'Austria intervenirvi per conservare. Se la Francia per interessi francesi, per estensione d'influenza come per estensione di territorio; se Napoleone III. per occulti disegni, per interessi dinastici ed interessi personali, inoltrava in Italia, ben poté l'Austria venirvi innanzi senza secondi fini, senza preconcetti divisamenti, non mai cercandovi eccezionali vantaggi per sé, non mai ampliandovi i suoi possedimenti d'un palmo di terreno.

Risoluta d'impedire i movimenti) l'Austria vegliava in armi a Bologna e ad Ancona per quello stessissimo diritto per cui la Francia era a Roma ed a Civitavecchia. Truppe austriache stavano in una parte degli Stati pontifìcii per effetto di que' medesimi convegni di diritto pubblico internazionale pe' quali truppe francesi erano in un'altra parte di quegli Stati. Che se l'equilibrio in Europa si trovava sistemato e mantenuto pei Trattati di Vienna del 1815, l'Austria tutelando gli ordinamenti sanciti da cedesti Trattati in Italia, ben poteva quell'equilibrio afforzare, sconvolgere e distruggere non mai. Libera dai pregiudizii e dalle violenze del momento, la posterità non darà che una sola risposta: no; l'Austria, conservando l'equilibrio in Italia, l'equilibrio europeo non poté turbare, né turbò.

Fole il vassallaggio dei sovrani italiani. Non appena a Roma, a Napoli, a Torino, a Firenze, ancorché il Granduca fosse fratello dell'Imperatore d'Austria, erano ristabiliti i Governi legittimi, che si abbandonarono all'idea che l'Austria assumerebbe su tutta Italia una specie di supremazia. «Da ciò nacque non tanto nei principi, quanto nei loro Ministri, una gelosia portata sino all'assurdo. Ogni di lei desiderio, ogni domanda, eccitava sospetti e timori, che crebbero sempre più quando videro come il Governo austriaco forastiero era più italiano che il loro. L'esercitare una qualunque influenza sulle Corti colla gelosia che rodeva il cuore dei Ministri sarebbe stato impossibile, se anche si avesse voluto esercitarla (1). A Napoli «Ferdinando II. senza finezze diplomatiche si tenne indipendente dall'Austria sino a non volere con essa Trattato di commercio, né di proprietà libraria (2).»

(1)

C. Catinelli; Sopra la questione italiana, pag. 184185.

(2)

C. Cantù; Storia degli Italiani, Libro XVIII., Cap. 189.

310 EPILOGO.

Accade non di rado che l'amicizia tra un grande ed un piccolo Stato vesta con somma facilità le sembianze di vassallaggio; è il gigante che affoga il nano ne' suoi amplessi, come argutamente diceva il primo Bonaparte al Direttorio, a proposito dell'antica alleanza della Repubblica francese del 1799 col Granduca Ferdinando III. di Toscana. Nulla di ciò più facile avrebbe potuto essere nella Toscana, a Modena, a Parma, minori Stati d'Italia per estensione e i più strettamente legati per vincoli di sangue alla Corte di Vienna. Pure Cesare Cantù, notoriamente scrittore all'Austria ostilissimo, ma anzi tutto uomo onesto, confessava (1): «A Firenze l'Austria potea pretendere a una specie di supremazia parentale, ma nel governo non ne avea alcuna.» Né alcuna ne aveva a Modena. E se a Parma forse eravi stato un tempo in cui si avrebbe potuto sostenere l'accusa sino ad un certo grado non del tutto destituita di fondamento, la morte di Maria Luigia aveva già ridato lo Stato ai Borboni di Spagna.

Certamente niuno avrebbe voluto sostenere, che tutto quanto si era fatto in ogni epoca dall'Austria in Italia fosse il meglio che far si potesse. Giusta piuttosto la sentenza del Catinelli (2), esservi stato tempo in cui, come «le Corti non conoscevano il vero stato delle cose italiane, non lo conosceva neppure l'Austria.» - «Ma in Italia, aveva confessato lo stesso Cantù, imputavasi l'Austria d'ogni male. E chi non voleva i fischi del volgo ricco e dotto, che al grande storico costrizioni del momento avrebbero tolto coraggio e potere di scrivere i fischi delle sètte, forza era ne dicesse ogni vitupero.»

L'Austria, bensì causa ultima della materiale provocazione alla guerra, della guerra non fu la causa reale, la causa efficiente, la causa vera. La guerra l'Austria non aveva da lunga mano vagheggiata, predisposta, apprestata; ne abborriva l'Inghilterra; la Russia la vedeva impigliarsi, senza essere corsa essa medesima a cercarla davvero; non la bramava la Prussia, non la desiderava la Germania. La Francia, nazione, la vera Francia, non la voleva. Dai Pirenei a Dunkerque, da Brest a Frejus, quanto a Parigi stesso, l'idea della guerra in Italia era malissimo veduta, affatto impopolare, unanimemente avversata.

(1) Storia degli Italiani, Libro XVIII., cap. 189.

(2) Sopra la questione italiana, pag. 325.

EPILOGO. 311

Nell'Italia medesima era guerra avversata dall'immensa maggioranza delle popolazioni, nello stesso Piemonte del tutto avversata dalla gran maggioranza; avversata dai nobili, che aveano veduto di sì mal occhio il matrimonio della figliuola del Re col principe Napoleone sino ad aversi astenuto dall'avvicinare lo sposo; avversata dai preti, che ben vedeano la guerra al Pontefice sotto la maschera della guerra all'Austria; avversata dai possidenti, sopraccarichi di balzelli; avversata da' commercianti, paurosi dell'avvenire; in Torino medesimo avversata così, che quando, il 21 marzo, quel Sindaco mise fuori un proclama per l'arrotamento volontario dei militi della Guardia Nazionale per la guerra imminente, e disse: «Vittorio Amedeo IL, a chi minacciava di opprimere il Piemonte col numero dei nemici, replicava: batterò la terra col piede e ne usciranno eserciti di combattenti,» dopo un appello si fattamente caloroso i volontarii, che risposero all'invito, furono due. Un numero d'ambiziosi e d'avventurieri, uno stuolo di emigrati, i sodi paganti inscritti sui ruoli della Società Nazionale, non mai niuno vorrà credere che costituissero l'Italia, che rappresentassero una nazione, un popolo di ventisei milioni d'abitanti.

Oggidì non è tempo di far vedere il nero pel bianco. Causa vera della guerra, chi l'aveva voluta, preparata, conseguita, erano Napoleone III. in Francia, e in Italia, ormai sorretto da esso, Cavour messo a capo della Società Nazionale Italiana.' un sovrano, settario italiano egli medesimo in sua gioventù, che da per sé stesso si avea chiamato un parvenu, un uomo oscuro che ha fatto fortuna (1); un Ministro, il più scaltro cospiratore de' tempi moderni; e una società secreta, una setta, accozzamento di tutte le società segrete e di tutte le sètte passate e attuali d'Italia, di antichi Carbonari, di vecchi affratellati della Giovine Italia, di redivivi Framassoni, di Unitarii, d'uomini di tutte le credenze, di tutti i partiti, di tutti i colori, di tutte le screziature, collezione di tutte le capacità sovvertitrici e di tutte le forze rivoluzionarie della Penisola, per la prima volta accozzate in un pensiero comune, per la prima volta ordinate e dirette da un Governo monarchico, regolare, riconosciuto, legittimo.

(1) Parvenu. Homme obscur qui a feit une grande fortune. Il ne se dit guère qu'en mauvaise part. - Dictionnaire de l'Académie francane; J. - Ph. Barberi, Grand dictionnaire francaisitalien, Tom. I., pag. 756.

312 EPILOGO.

Tutti, niuno eccettuato, i movimenti che dal 1815 per quarantaquattr'anni avevano avuto luogo in Italia, erano prodotti di setta; non diversamente nel 1859 Italia tutta stava per andare a soqquadro per opra esclusiva di setta.

Napoleone III. voleva una guerra in Italia, perché la entrò sempre ne' suoi calcoli, sino dal giorno in cui era salito alla presidenza. Felice Orsini non aveva fatto che affrettarla, persuadendolo com'ei non l'avrebbe potuta evitare, quand'anche avesse temuto intraprenderla. Cospiratore d'altri tempi, la doveva per isciogliere antichi e solenni giuramenti: napoleonide, la voleva per istrappare una pagina ai Trattati del 1815; per vellicare tradizioni francesi, aspiranti all'italiana penisola, e tradizioni di famiglia; per ripigliare con altri mezzi e per altre vie l'opera di Bonaparte primo console in Italia e di Napoleone I. a Roma. Quest'opera Carlo Luigi Bonaparte l'aveva incominciata nel 1849 a Roma sotto il nome di Luigi Napoleone, l'aveva proseguita a Parigi sotto il nome di Napoleone III. Generale, console o Imperatore, Napoleone Bonaparte aveva voluto la distruzione del potere temporale del Papa. Principe scaduto, presidente o Imperatore, Carlo Luigi Bonaparte non altrimenti aveva voluto e voleva. La Francia in Italia nel 1859 si spiega colla Francia a Roma nel 1849.

Togliere il dominio al Pontefice non mai si avrebbe potuto se non calpestando la destra spezzata dell'Austria. Per tal modo la guerra all'Austria diveniva una necessità, quanto per abbattere la signoria imperiale nel Lombardo-veneto. La questione politica ammantava la questione religiosa, perocché, come dodici anni prima aveva scritto Guizot (1): «La guerra in Italia all'Austria, grande Potenza cattolica in Europa e grande Potenza nella Penisola, non è solamente lo scompiglio d'Italia e la rivoluzione in Europa, ma l'indebolimento del cattolicismo.» Così mentre Guizot, protestante, proclamava (2), che «il Governo francese

(1)

Dispaccio del sig. Guizot, Ministro degli affari esteri a Parigi, al conte Rossi, ambasciatore francese a Roma, del 27 settembre 1847. (Martens; Guide diplomatique. - Correspondance sur les affaires d'Italie 1846-47. - Chap. IV., pag. 420421).

(2)

Dispaccio del Ministro Guizot al barone di Bourgoing, incaricato d'affari di Francia a Torino, del 18 settembre 1847.

EPILOGO. 313

si crederebbe colpevole se colle sue azioni o colle sue parole» spingesse l'Italia sopra un tale pendio;» Napoleone III., cattolico, si sarebbe creduto colpevole se sopra siffatto pendio non l'avesse alfine sospinta. Dietro all'Austria, messa innanzi a causa palese, stava la trasformazione, non riformazione, del Papato; dietro a questa, causa occulta, scopo finale, lo scisma, di cui già si aveva evocato il nome, e l'ombra schifosa aggettavasi confusamente sul lontano orizzonte.

Ornai sui campi di battaglia il diritto della forza e la forza del diritto scendevano a troncare il nodo a colpi di cannone, contro la conservazione la rivoluzione proclamante amor di patria e di nazionale indipendenza; inalienabile sentimento, e generoso, e giusto, e santo, a patto che giammai si confonda con fellonia e con nequizia, a patto che la felicità della patria non muti nella mina della patria. È un sofisma la nazionalità? La nazionalità, no certo; ma le idee che talvolta ne corrono, e le sconsigliate tutele che talor ne son prese. «Le belve istesse amano la loro tana e sanno anche morire per la difesa de' loro covaccioli (1).» Quei covaccioli, dicevano, erano fatti ludibrio dello straniero. Ed ecco Cavour tornare alla parte di Lodovico il Moro, chiamare altri stranieri, ond'altri avesse a ripetere: «Il nuovo signore s'aggiunge all'antico, l'un popolo e l'altro sul collo ci sta.»

Ed ora agli effetti.

(1) Vitalini; L'Ancora d'Italia, pag. 32.

INDICE.

Proemio Pag. 7

LIBRO PRIMO. Quarant'anni di preludio » 13

Capitolo primo. - La Carboneria in Italia » ivi

» secondo. - Carlo Luigi Bonaparte » 34

»

terzo. - La Francia a Soma » 48

»

quarto. - Mediazione napoleonica a Gaeta

» 69

»

quinto.-Le prime armi di Cavour » 87

»

sesto. - La Sardegna in Crimea » 107

LIBRO SECONDO. I patti secreti » 132

Capitolo settimo. - I primi concerti » ivi

»

ottavo. - La questione italiana al Congresso

» 153

»

nono. - L intervento settario » 170

»

decimo. - Fatti delle Due Sicilie » 192

»

undecimo. - Orsini e Plombières» 209

»

duodecimo.- Il capo d anno » 232

»

decimoterzo. - I pacieri » 253

»

decimoquarto. - I volontarii e la Lombardia... » 269

» decimoquinto. - Dichiarazione di guerra... .

» 290

Epilogo » 307




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Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)












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