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Mettiamo a disposizione degli amici e dei naviganti un alltro volume (SECONDA SERIE) delle Memorie di Giacomo Margotti, un autore da cui non si può prescindere se si vuole capire come avvenne la unificazione dell'Italia.

Zenone di Elea – 26 Febbraio 2011

MEMORIE PER LA STORIA de' NOSTRI TEMPI

DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI

SECONDA SERIE

TORINO,

STAMPERIA DELL'UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE

1864.

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Questi articoli estraiti dal Giornale L'Armonia vengono ristampati

sotto la responsabilità del gerente GIO. BATTISTA CLARA

MEMORIE PER LA STORIA DEI NOSTRI TEMPI

(SERIE SECONDA)


Confortati dal benevolo accoglimento fatto ai primi due volumi di queste Memorie, mettiamo mano ad una seconda serie, che tratterà delle cose avvenute dal 1859 ai nostri giorni. Nel congresso di Parigi covavano i semi della guerra e della rivolta. Colà, oltre le sette potenze, era convenuta un'ottava, e questa, com'ebbe a dire Angiolo Brofferio il 7 maggio 1856 nella Camera dei Deputati di Torino, ai chiamava la rivoluzione (1). E la rivoluzione, preceduta dalla guerra, scoppiò tre anni dopo, e dura tuttavia. Non ci stimiamo abbastanza liberi per iscriverne la storia, e dobbiamo però restringerci a semplici riproduzioni, confessioni, rivelazioni, statistiche, appunti. A suo tempo uno storico imparziale si gioverà della nostra raccolta, giudicando con giustizia inesorabile i fatti e le persone.

Volendo abbracciare con un solo sguardo tutto lo spazio che corre dal principio del 1859 a' giorni nostri, pare a noi che questo tratto di tempo possa dividersi in sei periodi come segue:

1° Periodo. - Dalle parole dette il 1 gennaio 1859 d all'imperatore dei Francesi Napoleone III al barone di Hubner ambasciatore austriaco, fino alla dichiarazione di guerra, e al proclama del 3 di maggio indi rizzato al popolo francese. In questo tratto di tempo si fanno dalla parte dell'Austria, della Francia e del Piemonte grandi preparativi di guerra; la diplomazia s'agita, l'Inghilterra si adopera per la pace, lord Cowley va a Vienna, la Russia propone congressi, Napoleone III fa pubblicare articoli dal suo Moniteur, e libretti dal suo La Guéronnière, il conte di Cavour stringe matrimonii, e scrive Memorandum,

(1) Atti uff. della Camera n° 256, pag. 961.

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il Piemonte ascolta il grido di dolore delle altre parti d'Italia, e dopo quattro mesi di continue incertezze, e di reciproci inganni, la sera del 23 aprile 1859 il barone Kellersperg arriva in Torino latore dell' Ultimatum dell'Austria.

2° Periodo. - Dalla dichiarazione di guerra alla pace di Villafranca. Il 3 di maggio Napoleone III avverte i Francesi che scende in Italia per restituirla a sé stessa, fa larghe promesse al Papa che vuoi difendere in tutti i diritti di sovrano temporale e Giulay invade il Piemonte; il 14 maggio Napoleone è in Alessandria, il 20 combattimento alla Sesia, il 30 battaglia di Palestro, il 24 giugno battaglia di Solferino e di San Martino; 18 luglio armistizio, e il 12 la pace di Villafranca che stabilisce una Confederazione di tutti gli Stati d'Italia sotto la presidenza d'onore del Romano pontefice. La guerra finisce, e la rivoluzione trionfa.

3° Periodo. - Dalla pace di Villafranca all'annessione della Savoia e della contea di Nizza alla Francia. Si da l'ultima mano alle rivoluzioni di Parma, Modena, Romagna e Toscana scoppiate al rompere della guerra. A Firenze il gran duca era stato costretto a partire fin dal 27 di aprile. Ricasoli comanda a bacchetta, il dottor Farini governa a Modena, poi a Parma ed a Bologna; si vota, si ciancia, si compra, si vende; Torino impresta milioni e soldati; il trattato di Zurigo è prima stracciato che sottoscritto, ma il Moniteur di Parigi protesta, Napoleone III manda nell'Italia centrale il signor di Reiset e il principe Poniatowski per perorare in favore de' principi, il ministro Thouvenel il 24 febbraio 1860 dichiara che assolutamente la Francia non può approvare in Italia un movimento unitario: tuttavia il 24 marzo il conte di Cavour sottoscrive la cessione di Nizza e Savoia alla Francia, ed allora avviene dalla parte di Napoleone III un totale cambiamento di scena.

4° Periodo. - Dall'annessione della Savoia e di Nizza alla Francia all'invasione delle Marche e dell'Umbria. L'11 e 12 marzo 1860 la Toscana risponde al plebiscito, e vuole unirsi col Piemonte; dall'11 al 25 di marzo viene legalizzata l'annessione dei quattro Stati dell'Italia centrale; Te Deum, banchetti e luminarie; il 2 aprile si radunano in Torino i nuovi deputati di Firenze, Bologna, Modena e Parma; nel maggio Garibaldi parte per la Sicilia; Camillo di Cavour minaccia d'inseguirlo e lo soccorre; pubblicamente lo condanna, segretamente lo difende; dalla Sicilia Garibaldi passa sul continente, ed entra in Napoli; i soldati Piemontesi corrono in suo soccorso, invadono le Provincie Pontificie senza dichiarazione di guerra ed entrano nelle Napoletane dopo d'essere passati sui cadaveri dei cattolici difensori di Pio IX.

5° Periodo. - Da Castelfidardo alla proclamazione del regno d'Italia ed alla morte del conte di Cavour. Le Marche e l'Umbria, Napoli e Sicilia rispondono liberamente e concordemente come Toscana,

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Romagna, Modena e Parma; nel gennaio 1861 si convocano i comizii elettorali, e vengono nominati i deputati di tutta Italia che si radunano in Torino il 18 febbraio. Il 15 di marzo luminarie per la proclamazione del regno d'Italia; il 27 di marzo dichiarazione che si vuole andare a Roma a?accordo colla Francia, per proclamare sul Campidoglio libera chiesa in libero stato. Tutto fin qui era proceduto a seconda di rivoluzione, quando incominciano i rovesci, colla morte inaspettata del conte di Cavour.

6° Periodo. - Dalla morte del conte di Cavour alla presente agonia. Questo ultimo periodo non è che una serie di casi meschini, di spavalderie libertine, di badalucchi parlamentari, di vani e ridicoli sforzi per conquistare Roma, di ministri che partono, e di ministri che arrivano e fanno tutti pietà, di basse apostasie, d'invasioni di conventi e spogliazioni di monache e di frati, di vescovi processati e condannati, e di cardinali e di vescovi imprigionati senza processo e senza condanna, frattanto che scoppia in Napoli una guerra civile atrocemente combattuta da ambe le parti.

DIARIO dell'anno 1859.

Gennaio 4. -Nel ricevimento del corpo diplomatico l'imperatore Napoleone III disse al barone Hubner, ministro austriaco a Parigi le seguenti parole: «Sono dolente che le nostre relazioni col vostro governo non sieno pia cosi buone come per lo addietro; ma vi prego di dire al vostro Imperatore che i miei sentimenti personali per lui non sono cangiati». (Constitutionnel, 4 gennaio 1859).

7 detto. - Il Moniteur smentisce le bruits alarmants fatti nascere dalla pubblicazione delle parole precedenti.

40 detto. - Vittorio Emanuele II inaugurando la sessione legislativa delle due Camere pel 1859, pronuncia un discorso nel quale dichiara e di non essere insensibile al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi».

21 detto. -La Camera dei deputati di Torino vota la legge per la mobilizzazione della Guardia Nazionale, dichiarando obbligatorio l'uniforme. Il deputato Casalis propose 3 mesi di carcere a chi mancasse al servizio!

29 e 30 detto. - Sponsali e matrimonio della principessa Clotilde col principe Napoleone, vincolo d'alleanza del Piemonte colla Francia. Grandi feste in Torino ed in Genova. Il municipio Taurino presenta alla sposa un candelabro!

4 e 9 febbraio. - La Camera di Torino fra gli applausi delle gallerie approva un imprestito di 50 milioni. Ai quattro di febbraio il conte di Cavour aveva indirizzato alle Corti una circolare sullo stesso prestito per dissipare i timori di guerra. Questo prestito fu aperto dal ministro Lanza il 1° successivo marzo al tasso del 79 p. 0|0.

95 detto. Risposta del conte Buoi alla nota del conte di Cavour indirizzata al gabinetto inglese sulla vertenza austro-piemontese.

5 marzo. -Il Moniteur pubblica un articolo diretto a dimostrare che la gravità della situazione in Italia ha destato l'attenzione dell'Imperatore, e la sua preoccupazione sulle alleanze conformi agli interessi della Francia. L'imperatore ha promesso al re di Sardegna di difenderlo contro qualunque atto aggressivo per parte dell'Austria e nulla pia; e terrà la sua parola. Nega che la Francia faccia armamenti, essa non ha aumentato l'effettivo del suo piede di pace. Sei lavori degli arsenali hanno avuto in questi ultimi tempi un impulso straordinario, gli è perché c'era tutto il materiale dell'artiglieria da cangiare e tutta la flotta da trasformare. I preparativi della marina si riducono all'armamento di quattro fregate e di quattro trasporti per le diverse eventualità.

6 detto. - Abolizione delle monete austriache, ed amnistia a tutte le pene incorse dai militi della Guardia Nazionale per infrazioni al servizio ed alla disciplina.

7 detto. - Memorandum del conte di Cavour alle Corti d'Europa sulla crisi italiana. Dice doversi combattere l'Austria perché ha stretto un Concordato colla S. Sedei (Vedi più innanzi pag. 32 e seg. ).

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9 detto. -Manifesto del Comando militare di Torino per la chiamata straordinaria dei provinciali in congedo illimitato dietro dispaccio del ministro della guerra dello stesso giorno.

15 detto. - Nuova nota del Moniteur in cui è detto che una parte della Germania presenta uno spettacolo che affligge e sorprende. "Se la Francia si preoccupa della situazione inquietante dell'Italia gli è per risolverla, d'accordo cogli alleati, nell'interesse del riposo dell'Europa. È impossibile mostrare un desiderio pili sincero di sciogliere pacificamente le difficoltà, di prevenire le complicazioni che risultano sempre dalla mancanza di previdenza e di decisione. Prova tale diffidenza di una parte della Germania essere irriflessiva, ingiusta, offensiva per la Francia, essere un attentato contro la sua indipendenza e la sua politica. La vita di una grande nazione, come la Francia, non essere circoscritta nei suoi confini; essa si manifesta in tutto il mondo col mezzo della sua azione salutare che essa esercita a profitto della sua potenza nazionale e a vantaggio della civiltà.

21 detto. - Proclama del signor Sindaco di Torino per l'arruolamento volontario dei militi della Guardia Nazionale per l'imminente guerra. Si notò l'energia delle seguenti espressioni: Vittorio Amedeo II,» chi minacciava di opprimere il Piemonte col numero dei nemici, rispondeva: batterò la terra col piede e ne usciranno eserciti di combattenti». E dopo un proclama cosi caloroso i volontari che risposero all'appello municipale, furono due!!

25 detto. - Adesione dell'Austria alla riunione di un Congresso proposto dalla Russia. - Partenza del conte di Cavour per Parigi, dopo aver il 17 dettata una nota al marchese d'Azeglio, ambasciatore a Londra, in risposta ad altra del conte Buoi in data delli 14, con cui promette che il Piemonte non attaccherà l'Austria durante il Congresso.

1 aprile. - Sconfitta del ministero tory a Londra nella Camera in seguito ad una mozione di lord John Russel.

3 detto. - Grande rassegna militare passata a Parigi dall'Imperatore.

10 detto. - Inaugurazione in piazza Castello del monumento dei Milanesi all'esercito Sardo.

17 detto. - L'arciduca Massimiliano parte da Milano con tutta la sua casa.

23 detto. - Varcano la frontiera sarda del Ticino i signori Ernesto barone di Kellersperg, vicepresidente della Luogotenenza di Milano e il cavaliere Ceschi di Santa Croce, intendente generale presso l'esercito austriaco in Italia, latori di dispacci che non devono aprire che in Torino. Giunti a Torino verso le tre pomeridiane, nel momento appunto che il conte di Cavour disponessi ad andar alla Camera, domandano per mezzo della Legazione di Prussia, incaricata di proteggere gli interessi austriaci in Piemonte, un'udienza al ministro degli affari esteri che è loro accordata per le cinque e mezzo di sera. Presentati dal conte Brassier di S. Simon, ambasciatore di Prussia, all'ora scelta dal conte di Cavour, gli rimettono l'ultimatum del governo austriaco.

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23 detto. - II conte di Cavour da atto agli inviati austriaci della presentazione dell'ultimatum, riserbandosi a prendere in proposito gli ordini di S. M. - Il barone di Kellersperg rimane a Torino fino allo spirare del terzo giorno per ricevere la risposta.

- Comunicazione del governo alla Camera dei deputati, ed approvazione della legge dei pieni poteri.

24 detto. - Regio decreto di chiusura delle Università in Terraferma.

25 detto. - Il Senato ad unanimità approva la legge dei pieni poteri.

26 detto. - Risposta del conte di Cavour alla nota austriaca.

27 detto. - Enciclica di Pio IX per la pace.

27 detto. - Funzione religiosa in Torino. Sulla porta della Chiesa di S. Giovanni leggevasi questa iscrizione: II Re, l'Esercito, l'Italia al Dio che regge la sorte delle battaglie. - I Francesi sbarcano in gran numero a Genova e passano le Alpi. Si inondano le pianure del Novarese e del Vercellese. - Proclama del Re Vittorio Emanuele alle truppe.

27 detto. - Nomina di S. A. il principe Eugenio a Luogotenente del Re. -Moti in Firenze, in seguito ai quali il Granduca è obbligato a partire con tuttala famiglia, e proclamasi la Dittatura di Vittorio Emanuele.

28 detto. - Pubblicazione della legge sulla stampa durante la guerra, e decreto d'amnistia per i reati politici e di stampa.

29 detto. - Arrivo del maresciallo Canrobert e del generale Niel in Torino e loro partenza col Re verso Chivasso.

30 detto. - Primo arrivo dei Francesi in Torino [Chasseurs de Vincennes,divisione Bruat). - Gli Austriaci sbarcano ad Arona, passano il Ticino ad Abbiategrasso ordinandosi a Cassolo. - Ingrossano sul Piacentino. - Si concentrano a Pavia, dove trovasi lo stato-maggiore generale. - Gli avamposti di cavalleria erano alla mattina a Vespolate e Cerano; grosse colonne si avanzavano sopra Mortara. - Un drappello di cavalleria nella notte precedente inoltrasi sino a Gropello e Zinasco. - Massa e Carrara proclamano la dittatura del re Vittorio Emanuele. Essendo quella popolazione minacciata da una colonna di truppe estensi, il governo, considerandosi in istato di guerra col duca di Modena, ha spedito delle forze militari per proteggerle e mantenere la pubblica tranquillità. Il duca di Modena protestò contro quest'invio di truppe perla sua dichiarazione di neutralità nell'imminente guerra.

1 maggio. - S. M. il Re, col suo stato-maggiore, è partito alle ore 9 per assumere il comando dell'esercito. - II giorno prima alle 3 pomeridiane Novara era stata occupata dagli Austriaci che si avanzavano verso Vercelli. - Ad Arona gli Austriaci ruppero i fili elettrici e ripartirono. Si sono ingrossati a Vigevano, tenendo gli avamposti sul ponte del Terdoppio a San Marco. .

- 15,000 Austriaci giunsero a Sannazzaro: il generale Swarzemberg passò la notte a Luniello. Fu ordinata una forte requisizione in Mede; ed il sindaco fu legato e condotto al quartier generale per non aver potuto consegnare in tempo tutte le vettovaglie richieste.

2 detto. - Continua il movimento delle truppe austriache verso la Sesia.

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Il generale Giulay ha pubblicato un proclama ai popoli sardi, nel quale rap«presenta il Piemonte come oppresso dalla violenza di un partito sovvertitore, dal quale egli viene per liberarlo. Contemporaneamente impone alla città di Novara una forte requisizione di vettovaglie e foraggi, pena, in caso di non consegna, di una multa eguale al quintuplo del valore. Gli Austriaci hanno occupato Vercelli, e si apparecchiano a gii tare un ponte sulla Sesia. Il grosso dell'armala nemica rimane sempre concentrato sulla sinistra del Po. Il Bollettino ufficiale dice: «Le truppe e i cittadini di Parma si sono pronunciati per la causa nazionale e per la dittatura di Vittorio Emanuele. La Reggente è par. tita, nominando una reggenza, la quale ha ceduto i poteri in mano di un Commissario provvisorio in nome di Vittorio Emanuele». Pontremoli si è sollevala al grido d'Italia e di Vittorio Emanuele. Gli Austriaci entrano in Modena e Reggio.

3 detto. - Gli Austriaci passano un ramo del Po a Cambiò, tentano di gettare un ponte sulla Sesia; ma le cresciute acque del fiume sono loro di impedimento. Costruiscono i ponti su due bracci del Po, uno dei quali detto Tartaro, perché letto antico del Tanaro. I ponti si costruiscono sulla strada nazionale che da Tortona conduce a Mortara. 150 Austriaci varcano la Sesia a Caresana, e 6i portano a Villanuova di Casale, dove si fermano alcune ore;quindi si ritraggono al di là del fiume. Verso sera un picchetto giunge a Terranuova, e fa una forte requisizione di vettovaglie e di carri. Cannoneggiano nella direzione di Valenza senza alcun effetto, s'inoltrano da Cambiò verso Sale;sulla sinistra del Po si avanzano verso Trino.

Fatto d'armi di Frassinetto. - Verso le ore 4 1 4 pomeridiane il nemico operò una forte ricognizione offensiva sulla sponda sinistra del Po' jn faccia a Frassinetto con tentativo di passare sulla ripa destra. Esso spiegò le sue forze all'altezza di Terranova dietro l'argine del fiume, aprì un fittissimo fuoco di moschetteria e di razzi contro i nostri avamposti. Le truppe del 47° reggimento fanteria colla 11. a batteria poste a guardia di quel sito, sostennero con intrepidezza il vivo fuoco del nemico. Il maggior generale cavaliere Cialdini, avvertito dal fragore del cannone, usciva con premura da Casale col 15° reggimento fanteria, con due squadroni di cavalleggieri Monferrato e la 3. a batteria di battaglia, per venire in aiuto delle truppe di Frassinetto e ricacciare il nemico al di là del fiume, qualora fosse riuscito a tragittarlo; prima però del suo arrivo colà a notte oscura, il nemico avea già cessato il fuoco, ed erasi ripiegato.

4 detto. - Nella notte dei 3 al 4, verso l'una e mezzo, il nemico tentò la costruzione di due ponti a barche in faccia a Frassinetto, ma, bersagliato da un vivo fuoco delle nostre batterie, dovette rinunciare il suo progetto, e verso le 8 del mattino di nuovo ritirarsi. Nello stesso mentre un altro corpo austriaco costrusse una batteria al ponte della ferrovia presso Valenza, è verso il mattino aprì un vivissimo fuoco contro le posizioni piemontesi. L'ottavo battaglione Bersaglieri e la 18. a batteria di battaglia che stavano a guardia e difesa di quel posto segnalaronsi per coraggio ed intrepidezza, e dopo tre ore di cannoneggiamento, costrinse il nemico a cessare il fuoco.

- Arrivo degli Austriaci in numero di 4000 a Castelnuovo Scrivia.

5 detto. - Gli Austriaci si avanzano fino a Tortona, abbracciando sette«reni del ponte di legno sul!» Scrivia, e fanno saltare colle mine il ponte della

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ferrovia sul medesimo fiume. Ordine a Milano di consegnare le armi fra tre giorni. Ritorno della duchessa reggente di Parma fra gli applausi della popolazione.

6 detto. - Ritiro degli Austriaci verso Vercelli. - Sgombro di CastelnuovoSeri via dirigendosi sopra Casei, Gerola e Pontecurone. - Sgombro di Vogheràe di Pontecurone. - Ricognizione alla testa di ponte di Gasale. - il generale Cialdini eseguisce una sortita dalla piazza di Gasale, e prende al nemico un grosso convoglio di bestiame ch'esso aveva raccolto; sono 64 buoi, 283 vacche, 51 manzi, 54 vitelli, 2 montoni, 6 tori, IO cavalli: in tutto 470 capi di bestiami. In questa sortita rimasero feriti un ufficiale e tre soldati. Fucilazione a Biella di Enrico Dossena di Pavia, spia austriaca.

7 detto, - Ristabilimento del ponte di legno sulla Scrivia. 'Direzione degli Austriaci verso Buronzo. Ordine. d'embargo posto sulle navi austriache nei porti dei R. Stati.

8 detto. - Breve occupazione di Biella, direzione del nemico verso Ivrea per Mongrando. Ricognizioni verso Cigliano. Gli Austriaci si ingrossano verso Valenza facendo saltare i due,'primi archi del ponte dalla sponda sinistra. Il governo incarica il generale Sonnaz della difesa di Torino.

9 detto. - Sgombro degli Austriaci da Tronzano.

10 detto È instituita la reggenza dell'Imperatrice di Francia. Essa si conformerà agli ordini scritti dall'Imperatore, di cui S. A. I. il principe Gerolamo, i presidenti dei Corpi dello Stato, i membri del Consiglio privato e i ministri prenderanno conoscenza. S. M. L'imperatore dei Francesi con S. A. I. il principe Napoleone parte da Parigi alle 5 pomeridiane. Giunto a Marsiglia, si imbarca sullateina Hortenseì meriggio del giorno seguente, e salpa alle ore due.

Il detto. - Proclama del principe Eugenio alla Guardia Nazionale di Torino.

Il detto. - Il quartier generale austriaco è a Mortara stendendosi a Palestro ed a Robbio. Il cardinale Antonelli in nome del Papa partecipa a tutti i funzionali del governo della Santa Sede che il S. Padre ha Avuta ampia ed esplicita dichiarazione dalla Francia e dall'Austria, che la neutralità dichiarata dalla Santa Sede verrà in ogni modo rispettata.

12 detto. - Trasferimento del quartier generale Sardo da San Salvatore ad Oocimiano. L'Austriaco ingrossa a Castel S. Giovanni sulla strada da Piacenza a Stradella. L'Imperatore dei Francesi è sbarcato a Genova poco dopo le 8. Erano andati al suo incontro il principe Eugenio, il conte di Cavour, i Ministri Bona e Nigra e il principe Latour d'Auvergne. Proclama dell'imperatore Napoleone.

13 detto. - Gli Austriaci ad un'ora e mezzo del mattino in numero di 200 entrarono in Bobbio. Gran movimento di truppe austriache presso il ponte della Stella a sinistra del Po. Alcune loro pattuglie sono andate a Broni,Argine e Gatteggio.

14 detto. - L'Imperatore de' Francesi ha trasferito il suo quartier generale ad Alessandria. S. M. attraversò la città a cavallo, accompagnato dal maresciallo Canrobert, e seguito da molti generali francesi e sardi. L'arrivo dell'Imperatore fu festeggiato con molte dimostrazioni di onore e di pubblica gioia. Un arco di trionfo portava l'iscrizione: All'Erede del Vincitor di Marengo.

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- S. M. il Re, giunto contemporaneamente ad Alessandria, andava all'incontro dell'Imperatore.

15 e 16 detto. - Ordine del giorno dell'Imperatore Napoleone all'armata d'Italia.

17 detto. - Il Moniteur pubblica il rapporto sul prestito francese. Il numero dei sottoscritti fu dì 525,000, II capitale sottoscritto è di due miliardi, 307 milioni, di cui 80 milioni in sottoscrizioni da 10 franchi caduna.

18 detto. - Primo saggio dei cannoni rigati francesi presso il ponte di Valenza. Detti cannoni a 2600 metri di distanza impedirono agli Austriaci di fortificare un casamento sulla riva sinistra del Po.

20 detto. - Gli abitatori di Casteggio fino dal 18 avevano barricate le vie e respinto tre piccoli assalti degli Austriaci, uccidendo un uffiziale e ferendo parecchi soldati.

- 11 colonnello De Sonnaz copriva da parecchi giorni la destra degli alleati sino a Casteggio. Alle 11 due forti colonne nemiche assalirono i nostri cavalleggieri, che dopo d'avere opposta resistenza, si ripiegarono[su Fossagazzo, ove trova vasi qualche corpo di fanteria francese. 1 nostri cavalleggieri, sei volte ritornando alla carica, ritardarono l'avanzarsi dell'inimico. Parte della divisione Forey entrò allora in linea, e combattendo alla baionetta, sostenuta da impetuose cariche della nostra cavalleria, al grido di «Viva l'Imperatore» e «Viva il Re» riprese Genestrello e Montebello, dove i nemici si erano trincierati nelle case e nel cimitero. Il combattimento durò sei ore; i nostri inseguirono fino in Casteggio i vinti, i quali lasciarono un gran numero di morti sul terreno, e 200 prigionieri, tra i quali 140 feriti. Gli alleati hanno avuto cinquecento tra morti e feriti. Rimasero uccisi il colonnello Morelli, t tenenti Blonav, Scassi, Govone; rimasero feriti il capitano Piola, i tenenti Ghiglini, Salasco, Milanesio, e il sottonente Mavr. il generale Sonnaz riportò una leggiera contusione al viso.

Combattimento alla Sesia. - II generale Cialdini, volendo impadronirsi del capo sinistro del ponte di Vercelli, rotto dagli Austriaci, e proteggere la costruzione di un altro ponte sulla Sesia, mise in movimento due colonne, le quali passando il fiume, convergessero al medesimo punto. Una di queste colonne si spinse ad Albano, dove passò a guado la Sesia. Assalita da forte numero di nemici imboscati, sostenne un vivo combattimento verso Villata, e fatto impeto, li mise in rotta e giunse a stabilirsi a Borgo Vercelli con poca perdita dei nostri. L'altra colonna guadò la Sesia ai Cappuccini Vecchi, sorprendendo due compagnie nemiche, e vi si stabilì.

La perdita dalla nostra parte fu lieve: considerevole quella degli Austriaci, i quali lasciarono nelle nostre mani prigionieri e salmerie. Si segnalarono in questo fatto d'arme i bersaglieri, due squadroni de' cavalleggeri di Alessandria, il reggimento Piemonte reale ed un battaglione del 10.

21 detto. - Ritirata dei nemici su Stradella. - Gli Estensi abbandonarono Aulla, Fivizzano, Fosdinovo e paesi vicini, e si sono ritirati per la via del Cerreto. Fu proclamata la dittatura del Re Vittorio Emanuele. La bandiera tricolore sventola in tutta la Lunigiana.

22 detto. - Ricognizioni dirette dal Re sulla Sesia, occupazione per parie»delle regie truppe dell'isolotto in faccia a Terranova. - Sorpresa fatta dal 1°

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fanteria al Torrione. - Partenza del principe Napoleone per Livorno ed arrivo il giorno seguente. - Dichiarazione della Garfagnana per la rivoluzione.

- Trasferimento del quartier generale austriaco a Garlasco. - Proclama del generale Giulay, col quale prescrive a tutti gli abitatori dei paesi occupati dalle truppe imperiali la consegna, nel termine di due giorni, di tutte le armi da fuoco e da taglio, sotto pena della fucilazione.

23 detto. - Fucilata dei Piemontesi contro Palestro. - Garibaldi passa il Ticino, -II battello austriaco, il Ticino, si appressò ad Intra, intimando si consegnassero due individui ritenuti in prigione come spie. Fu battuta la generale, furono suonate le campane a stormo; accorse la guardia nazionale in gran numero, anche dai paesi vicini; allora il Ticino si allontanò, facendo fuoco contro l'isola di S. Gioanni e contro la Castagnola. Nessuno dei nostri fu offeso.

detto. - Arrivo del generale Garibaldi a Varese. Grande entusiasmo. -Dichiarazioni pel re Vittorio Emanuele.

detto. - Attacco degli Austriaci a Sesto Calende.

detto. - Battaglia di Varese. - Entrata dell'Imperatore in Vercelli.

28 detto. - Entrata in Corno di Garibaldi e del generale Ribotti in Parma. Interruzione della corrispondenza del Piemonte colla Lombardia. Destituzione del Sindaco di Castelletto sopra Ticino. Destituzione ed arresto del Commissario provvisorio di Arona. Gli Austriaci occupano Bobbio.

detto. - Fucilazione in Vercelli di certo Speirani Angelo da Pavia, spia austriaca. Entrata del Re a Vercelli.

detto. - Battaglia di Palestro. - Proclama del Re alle truppe.

Si detto. - Seconda battaglia di Palestro ottenuta col concorso degli Zuavi. Si presero al nemico otto cannoni, di cui 5 dai Zuavi, e 3 dai nostri bersaglieri. Il Re espose a pericolo più volte la sua vita, e per il sommo coraggio dimostrato i Zuavi lo nominarono loro Caporale.

2 giugno. - Gli Austriaci sgombrano precipitosamente Novara e Mortara, e si ritirano oltre il Ticino.

5 detto. - Battaglia di Magenta, vinta dai Francesi capitanati dall'Imperatore. Il generale MacMahon si guadagnò il nome di Duca di Magenta. Grand ifeste a Parigi ed a Torino per questa vittoria.

6 detto. - Sgombro degli Austriaci da Pavia. - Milano è libera, e gli Austriaci hanno sgombrato la città e il castello. - Una deputazione del Corpo municipale di Milano ha consegnalo a S. M. il re Vittorio Emanuele, in presenza di S. M. l'imperatore Napoleone III, un indirizzo.

8 detto - Entrata trionfale del re e dell'imperatore in Milano - Vittoria di Melegnano, conseguita dai] francesi. - Gli austriaci abbandonano Laveno, riparandosi coi vapori nelle acque svizzere. Molti materiali e viveri furono dal nemico abbandonati. - La guardia nazionale d'Intra, il commissario della RegiaDogana ed un distaccamento dei Cacciatori delle Alpi presero possesso di Laveno.

- Proclama dell'Imperatore Napoleone III agli Italiani.

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9 detto - Proclama di S. M. Vittorio Emanuele ai popoli della Lombardia. 9 detto - Nuova partenza della duchessa reggente da Parma.

Il detto - Gli Austriaci sgombrano Bologna - Gli Austriaci hanno abbandonato la cittadella di Piacenza, distruggendo le fortificazioni ed abbandonando una gran quantità di vettovaglie, di cannoni e di munizioni.

12 detto - Gli Austriaci abbandonano la fortezza di Pizzighettone e lasciano libere Cremona e Brescia.

17 detto. - Gli Austriaci occupano Montechiari.

detto - Enciclica di S. S. Pio IX ai patriarchii primati, arcivescovi, vescovi, ecc.

24 detto. -Battagliaci Solferino e S. Martino.

25 detto - Proclama dell'Imperatore ai soldati.

4. luglio Investimento di Peschiera dal lago di Garda al Mincio. Tutto l'esercito francese passa il Mincio. 8 detto - Armistizio tra i due imperatori. 10 detto- Ordine del giorno dell'Imperatore Napoleone 111.

12 detto - Dopo un abboccamento tra i due imperatori a Villafranca, conchiusero la pace e ne firmarono i preliminari: Napoleone ne diè annunzio all'esercito con un proclama.

detto - Dimissione del ministero Cavour. Ritorno di S. M. il Re in Milano, ove pubblica un proclama.

15 e 16 detto - Arrivo delle LL. MM. Vittorio Emanuele e dell'Imperatore a Tonno alle 5 1|2 pomeridiane del 15. Era giorno di venerdì, l'accoglienza doveva essere e fu magra, perché i liberali non sapevano comprendere i precipitali preliminari di Villafranca. Partenza dell'Imperatore alle ore 6 del mattino seguente per la ferrovia di Susa. Si notò nell'Imperatore una fisionomia pia allegra, e nella popolazione una maggior simpatia. - Nel suo tragitto per la Savoia ebbe le più vive dimostrazioni. A Modane, in ispecie, gli abitanti tutti in abiti da festa l'andarono a salutare, ed un fanciullo offrì a S. M. un mazzo di fiori per portarlo al principe imperiale. A Saint Michel una vecchia si ò avanzata verso il convoglio imperiale ed offrì a S. M. alcune bottiglie di vino vecchio di San Giuliano ed un cacio del paese. L'imperatore gradì assai si l'una come l'altra offerta.

19 e 20 detto - Costituzione del nuovo ministero Lamarmora-Rattazzi.

28 detto - II governo ritira dai Ducati, dalla Toscana e dalle Legazioni le autorità sarde. -Il dottor Farini, governatore a Modena, rassegnò i suoi poteri ai municipii, ed il popolo di Modena raccolto sulla gran piazza del palazzo ducale lo acclamò Dittatore. - Il dittatore parlando al popolo di Modena tra le altre cose disse: Vi raccomando il rispetto alla religione, alle persone ed alle cose sacre; chi non rispetta le leggi di Dio piega più facilmente il collo alla tirannide.

Massimo d'Azeglio che era ritornato a Torino, appena seppe la conclusione dei preliminari di Villafranca, mandò anch'esso sotto la stessa data, 28, un proclama ai popoli delle Romagne col quale si dimetteva dalla carica di Commissario straordinario. (Leggi a pag. 45 certe parole di D'Azeglio nel 1849).

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3. agosto 11 commendatore BonCompagni già ambasciatore presso la Corte di Toscana, poi Commissario straordinario del Re di Sardegna per la Toscana, parte con insolito cerimoniale da Firenze passando per la via dei Cerrettani e ritorna in Piemonte.

8 detto. - Prima conferenza a Zurigo per il trattato di pace nell'albergo Baucr.

15 detto. -Feste in Torino, Genova, Parigi e Roma per l'onomastico dell'imperatore.

detto - L'assemblea Toscana vota la decadenza della dinastia di Lorenae la annessione al Piemonte.

17 detto- Dittatore Farmi accetta anche la Dittatura di Panna e Piacenza.

20 detto - L'assemblea di Modena vota la decadenza di Francesco V e l'annessione al Piemonte.

3 settembre Arrivo della Deputazione Toscana in Torino. Questa deputazione è composta dei signori conte Ugolino Della Gherardesca, conte Scipione Borghesi, dottore Rinaldo Ruschi, professore G. B. Giorgini e banchiere Pietro Adami. - Alle 4 pom. la deputazione fu ricevuta dal Re, il quale rispose di accoglierò il voto dell'assemblea di Firenze, e prometteva di propugnare la causa della Toscana davanti il Congresso delle potenze Europee.

7 detto - L'assemblea Bolognese dichiara che i popoli delle Romagne vogliono l'annessione al regno costituzionale di Sardegna sotto lo scettro di Vittorio Emanuele II.

9 detto - Il Moniteur fa mostra di rimproverare gli Italiani perché coi loro voti respingono il ritorno dei duchi e degli arciduchi. Dice francamente, che il solo mezzo per ottenere quel che vogliono, sarebbe la guerra ma «l'Italia sa che in Europa una sola potenza può far la guerra per un'idea, e questa è la Francia ma la Francia ha fatto il suo compito».

Il detto - L'assemblea Parmense vota un indirizzo di ringraziamento a Napoleone III e la decadenza della dinastia Borbonica. .

12 detto - La stessa assemblea di Parma vota l'annessione al regno sardo.

14 detto - Arrivo a Torino della Deputazione Parmense Modenese, la quale fu accolta dal Re che promette, valendosi dei diritti che gli sono conferiti dalla deliberazione dell'assemblea, di propugnare davanti alle grandi potenze la causa dei Ducati.

24-25 detto - Arrivo in Milano della Deputazione delle Legazioni il 23 e il 24 fu ricevuta dal Re a Monza - La deputazione è composta dei signori Giuseppe Scarabei li, vicepresidente dell'Assemblea delle Romagne - Conte Giovanni Bentivoglio - Conte Giovanni Gozzadini - Marchese Luigi Tanarì - Conto Vincenzo Salvoni - Conte Lodovico Laderchi e signor Angelo Maresootti.

26 detto - Allocuzione del Sommo Pontefice Pio IX nel concistoro segreto di tal giorno, in cui riprova e dichiara pienamente irriti e nulli gli atti dell'assemblea del governo Bolognese commessi contro l'ecclesiastica potestà e immunità, contro il dominio temporale della S. Sede, contro le potestà, il principato e la giurisdizione pontificia ed aggiunge inoltre che tutti coloro i quali nelle predette provincie

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prestarono la loro opera, il loro consiglio, o il loro assenso, o per qualunque motivo fornirono appoggio, sono incorsi nelle ecclesiastiche censure e pene.

28 detto - II governo Sardo spedisce un memorandum alle Corti estere por chiamar l'attenzione dei Gabinetti Europei sulle deliberazioni dell'Italia Centrale in favore del Piemonte.

Ottobre 1. Il Papa conosciuta la risposta del Re di Sardegna alla deputazione Bolognese, fa consegnare i passaporti al conte della Minerva, incaricato d'affari sardo, il quale chiede di poter differire la partenza sino al fine della settimana per combinare una dimostrazione in suo favore, la quale però viene impedita dal generale Govon.

5 detto. -Assassinio del colonnello Anviti a Parma. Quest'infelice viene arbitrariamente, alla stazione della ferrovia di Parma, arrestato da due volontari e consegnato ai carabinieri; il popolaccio di Parma lo toglie a forza dalla caserma, gli mozza il capo che colloca sopra una colonna cantando e schiamazzando, quindi strascina il monco cadavere per tutte le vie della città, tinche dopo quattro ore di baccano la forza accorsa pone rimedio a tanto scandalo senza però arrestare alcuno degli assassini. -

L'Eccelso di Modena (che tale fu il titolo assunto dall'umile Dittatore)

Farini

!) ringrazia per telegrafo la guardia nazionale pel suo patriotico comportamento!! - Il governo di Francia avuta notizia di questo assassinio da ordine al console francese a Parma di abbandonare il posto se giustizia non sarà fatta. Intanto l'intendente Cavallini da fuori un proclama in cui dice che l'ucciso era un miserabile e che l'offeso era il popolo, ma che toccava solo alla legge il punirlo, e scusa il delitto colla febbre della vendetta. - Farini si reca il 20 a Parma e promette con un proclama di fare severa giustizia, ma passano intiere settimane, passano intieri mesi, e non si da esempio contro chi commise questo spaventevole misfatto. -Massimo D'Azeglio altamente sdegnato scrisse un articolo sulla Gazzetta Piemontese del 14 ottobre, in cui fulminando quell'eccesso di ferocia, disse che la responsabilità di quel fatto s'aggravava sul governo, e che il non punirlo era opera da traditore. Ma quell'articolo cadde come corpo morto cade, e dell'Anviti non si parlò più.

12 detto. - Partenza per Parigi del generale Dabormida, ministro degli affari esteri, per dare spiegazioni sull'andamento della politica di Torino e prender consiglio sulla condotta da tenersi in avvenire.

20 detto. - Partenza del generale Dabormida da Parigi coll'incarico di consegnare al Re una lettera di S. M. l'Imperatore dei Francesi al Re Vittorio Emanuele. (Vedi questa lettera a pag. 42 e seguenti).

detto. - La Gazzetta Piemontese pubblica un decreto reale che autorizza un prestito di 100 milioni.

26 detto. - Morte, in seguito ad un colpo apopletico, del conte Colloredo, plenipotenziario dell'Austria al Congresso di Zurigo. Fu surrogato in quel posto dal conte Karoli.

2 novembre. - Apertura della soscrizione del prestito di 100 milioni all'80 per cento.

7 detto. - Le quattro assemblee di Parma, Bologna, Modena e Toscana, nominano a reggente dell'Italia centrale, S. A. R. il principe di Carignano.

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- Leonetto Cipriani si dimette da governatore delle Romagne, e quell'assemblea elegge a governatore il dottore Farini.

10 detto. - Si firma in Zurigo il trattato di pace.

13 detto. - 11 cavaliere Minghetti presidente dell'assemblea delle Romagne ed il cavaliere Peruzzi ministro della Toscana in Torino, offrono a S. A. R. il principe di Carignano il voto delle assemblee dell'Italia centrale e la pregano ad accettarne la reggenza. - S. A. R. si degnava rispondere nei termini seguenti:

«Io sono profondamente commosso, e ringrazio le assemblee e i popoli dell'Italia centrale, che mi hanno dato una prova così grande di, fiducia. Più che al merito mio l'attribuisco alla devozione loro verso il Re, e agli spiriti non solo liberali e nazionali, ma eziandio d'ordine e monarchici di cui sono animati.

«Potenti consigli e ragioni di politica convenienza nel momento in cui si annunzia prossima l'apertura del Congresso, mi tolgono, con mio grande rincrescimento, di poter recarmi in mezzo a loro per esercitarvi il mandato commessomi. Avrei ambito, lo confesso, di dare questa prova del mio affetto all'Italia; pure mi conforta il pensiero che anche coll'astenermene, il mio sacrificio tornerà maggiormente utile alla patria comune.

«Nondimeno, valendomi di quella stessa fiducia di cui mi onorano, ho stimato di fare un atto di grande interesse e vantaggio loro, designando il commendatore Carlo BonCompagni, perché assuma la reggenza dell'Italia centrale.

«Siate, o signori, interpreti di questi miei sentimenti verso le popolazioni. Dite loro che perseverino in quella condotta che ha meritato le simpatie di tutta l'Europa, che confidino pur sempre nel Re che propugnerà i loro voti, e non abbandonerà chi con tanta fede si è commesso alla sua lealtà».

15 detto. - Garibaldi viene a Torino e da le sue dimissioni. Egli volea portar la rivoluzione nel resto degli Stati Pontificii e nel Napolitano; ma era troppo presto.

17 detto. - II Re firma a Torino il trattato di pace.

20 detto. - Questo giorno è memorando in Piemonte per la quantità di leggi (47) che il ministero, valendosi ancora dei pieni poteri, presenta alla firma del Re; leggi che cambiarono tutto l'ordinamento del Regno: fu un vero colpo di Stato. L'Opinione, giornale ministeriale fino al midollo, disse che dubitava poter il parlamento in cinque anni far quello che ha fatto il ministero in cinque settimane, e farlo meglio. La Gazzetta del Popolo ne ricavò da questo che l'Opinione predicava l'inutilità del Parlamento. - Partenza da Torino del cavaliere BonCompagni per l'Italia centrale, e scambio in Zurigo delle ratifiche del trattato di pace.

22 detto. -

La Gazzetta Piemontese pubblica il trattato di pace di Zurigo.


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UN CONGRESSO

proposto nel Marzo 1859

PER IMPEDIRE LA GUERRA.

(dall'Armonia, n. 69, SS aprile

Il principio d'un Congresso è accettato dalle cinque grandi Potenze, e su questo punto tutte le notizie concordano perfettamente. Ma di che cosa dorrà occuparsi il Congresso? «Dorrà prevenire, dice il Moniteur, le complicazioni che lo stato d'Italia potrebbe far sorgere, di natura da turbare il riposo dell'Europa». Va bene. Ma quali sono queste complicazioni che il Congresso dovrà prevenire? Qui incominciano i punti di dissenso, e le grandi Potenze durano fatica ad intendersi nello determinare le complicazioni possibili.

Questa incertezza dipende da quel medesimo carattere indeterminato, che ha la quistione italiana. Fateti ad interrogare coloro che vogliono scioglierla: - Di grazia, signori, in che cosa consiste questa quistione?- E non troverei» due che vadano d'accordo.

Uno vi risponde: -La quistione italiana! Chi non lo vede? Essa consiste nel dominio straniero, che abbiamo in Italia, e non può essere sciolta altrimenti elio colla cacciata dell'Austriaco dalla Lombardia e dalla Venezia.

Un altro ripigliai -Lo straniero in Italia è una parte della questione italiana, ma non è tutto; ma non è la parte principale. Il nodo della questione cono siste nel dominio temporale dei Papi, che da tanti secoli si opposero alla grandezza, potenza, unità della Penisola.

Entra un terzo e dice: - Voi siete esagerati; e la questione italiana può essere sciolta anche restando gli Austriaci in Italia, purché cessi l'influenza Austriaca che pesa sulla Penisola. L'abolizione dei trattati austriaci con Napoli, colla Toscana, con Modena, con Parma: ecco la quistione italiana.

Un quarto soggiunge: - L'abrogazione dei trattati austro-italiani è la prima parte della quistione italiana; ma viene poi subito la seconda, che è quella delle riforme nello Stato pontificio; cioè secolarizzazione, codice Napoleone, coscrizione e simili.

- Non vene intendete un frullo, salta a dire un quinto. Questi trattati, questo riforme sono altrettanti accidenti della quistione italiana, la quale sostanzialmente consiste nell'unità d'Italia, che dee essere congiunta in un solo Governo come la Francia.

Ma un sesto gli taglia a mezzo la parola, ed osserva: - Forse che la Francia, anche unita in un solo Governo, non da luogo a complicazioni? Avete dimenticato il 1848 e il 1851? Non conoscete i sedici Governi che s'alternarono in Francia in questi ultimi sessantanni?

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Perché l'Europa abbia pace è necessario che sia tutta repubblicana, e l'Italia non quieterà se non si regga a repubblica.

- Taci lì, tristo mazziniano, grida un settimo: l'unità ci vuole, siamo d'accordo, ma l'unità sotto di un re, e questo re sia Vittorio Emanuele, re d'Italia, Per isciogliere la quistione italiana è necessario che le cinque Grandi Potenze gridino a coro: Viva Verdi! -

Un ottavo osserva, che questo sarebbe un pretendere l'impossibile; -Bisogna rispettare tutti i diritti, perché justitia cedificat gentes. L'unità italiana può ottenersi benissimo, restando in Italia diversi principi, purché sieno stretti in lega sotto la presidenza del Sommo Pontefice. -

E se noi volessimo continuare l'interroga torio, ascolteremmo forse ancora altrettante risposte, tutte diverse dalle precedenti, perché su nessun altro punto, come sulla quistione italiana, si verificò mai alla lettera quell'adagio: Quot capita, tot sententiae.

Or bene, quali complicazioni vorrà prevenire il Congresso? Le complicazioni che possono far nascere gli unitarii repubblicani, o gli unitarii monarchici, o i federalisti, riformisti o i parlamentari, o i riformisti alla due Dicembre è gli avversarii della dominazione austriaca o i semplici nemici dei trattati austro-italiani, o i fautori della secolarizzazione del Governo pontificio, o coloro che oppugnano il dominio temporale del Papa? Tutti questi elementi si contengono nella quistione italiana, e il Congresso che cosa farà? Soddisferà gli uni, e si opporrà agli altri? Ma allora le complicazioni nasceranno dalla parte non soddisfatta, e il Congresso non avrà raggiunto il suo scopo.

Presto detto: Io propongo un Congresso. Prestissimo risposto: io l'accetto. Però il Congresso che cosa dovrà fare? Quali argomenti discutere? Hoc opus, hic labor. Prima che le Potenze si radunino conviene sceverare il positivo dal controvertibile. Convien determinare i punti che sono fuori d'ogni questione, e quelli intorno ai quali si ammette la disputa.

Se la diplomazia riesce a fermare questi punti, se le cinque Potenze restano d'accordo preventivamente intorno alle quistioni da agitarsi nel Congresso, oh allora si possono nutrire grandi speranze su di un aggiustamento pacifico tra diplomatici e diplomatici, ma mai e poi mai, intendiamoci bene, tra i Governi e la rivoluzione.

Che se il Congresso proposto ed accettato non si potesse radunare perché non si potò prima stabilire l'essenza della quistione italiana, che cosa allora dovremmo dire d'una guerra che si rompesse alla cieca senza sapere perché, né con quale intendimento?

In quale città si radunerà il Congresso? 11 Moniteur ci disse che la Russia ha proposto di radunarlo in una città neutra; e il Times aggiunse che questa città sarebbe Londra o Berlino. Ma intorno a ciò siamo ancora sull'incerto, e i giornali disputano sul significato della città neutra. Altri vogliono che questa città non appartenga né all'impero austriaco, né al francese, e quindi accennano Berlino o Londra. Altri però intendono la neutralità più ampiamente, e dicono che la città dove dee radunarsi il Congresso non può appartenere a nessuna dello cinque Potenze che vi convengono; epperò parlano di Ginevra o di Brusselle.

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Un dispaccio ricevuto dal Morning Herald nomina l'Aia; ma per ora nessuno ne sa niente. Aspettiamo prima la risposta officiale che l'Austria, la Prussia e l'Inghilterra accettarono il Congresso. Aspettiamo poi la notizia più importante delle basi su cui i diplomatici stabiliranno le loro discussioni. Preme poco che il Congresso si raduni in ultimo o in Inghilterra, o in Olanda, o in Prussia, o nel Belgio, o in Isvizzera; purché si raduni, e riesca a buon termine.

LETTERA

DI

NAPOLEONE I A NAPOLEONE III.

(Dall'Armonia, n. 69, 25 marzo 1859).

Carissimo Nipote,

In questi gravi momenti stimo necessario di scrivervi due linee d'avvertimento, affinché giovino a voi, carissimo nipote, la mia esperienza e le mie disgrazie.

Pace, o mio Luigi, pace. Monarca e padre sappiate che la pace serve alla sicurezza de' troni ed a quella delle famiglie (1). La guerra è un giuoco serio nel quale si compromette la propria riputazione, le proprie truppe ed il proprio paese (2). Ed io che ho fatto per troppo tempo la guerra, all'ultimo per lo ristabilimento della pace in Europa ho dovuto dichiarare e che rinunziava per me e per i miei eredi al trono della Francia e dell'Italia (3)».

Ah! che importerebbe che noi conseguissimo vittorie, quando poi fossimo odiali nella nostra patria? (4). Il est à souhaiter lasciatemelo dire in francese, il est à souhaiter actuellement que l'on ne fasse pas la bascule, et que l'on ne se jette pas dans le parti contraire. Colla saviezza soltanto e con una grande moderazione di pensiero si può assicurare in una maniera stabile la felicità della Francia (5). Voi finora potete dire come io diceva a Sant'Elena: «Ho chiuso la voragine dell'anarchia e dissipato il caos (6)». Deh, per parte vostra, non ritorni quel caos, e non rinasca quell'anarchia!

Approvo che la Francia resti costantemente nell'atteggiamento che gli Ateniesi diedero a Minerva: le casque en téte, et la lance en arrét (7). Ma questo per mantenere la pace, non per provocare la guerra; per conservare l'ordine e l'equilibrio in Europa, non per metterla in conquasso; per difendere il proprio dominio, non per usurpare l'altrui.

(1) Al Corpo legislativo, il 49 dicembre 1819.

(2) Lettere al Principe Eugenio. Thiers, Le consulat et l'empire.

(3) Atto d'abdicazione dell'41 d'aprile 1814.

(4) Lettera al Direttorio, 26 fruttidor, anno V.

(5) Lettera ad Augerau, del 2 vendémiaire, anno VI.

(6) Mémorial de St Héléne.

(7) Moniteur, 6 brumaire, anno XI.

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Ricordatevi, carissimo nipote, ciò che io diceva degli ideologi, e non vi lasciate accalappiare dall'ideologia. Chi vuole rigenerare uno Stato deve seguire principii totalmente contrarii (1). Voi non dovete portare in Italia quello che avete distrutto in Francia, ne lasciarvi allucinare dalle utopie. Non si va contro la natura, ed io ho dettato a S. Elena, che la configurazione [singolare della penisola italiana ha incontestabilmente contribuito ai destini di questo bel paese (2).

Traitez toujours avec le Pape comme s'il avait cent mille hommes derrière lui. Io mi scordai in seguito di questa grande sentenza, ma ne pagai lo scolio, come osservava nel 1849 un certo Massimo d'Azeglio, in un suo libretto che ho potuto leggere soltanto due giorni fa (3). Trovai con piacere in questo libretto che il Papa è il più inviolabile di tutti i Principi, e che Pio IX «sarà sempre per l'Europa, pel mondo l'uomo della bontà, del perdono e della clemenza».

Il Papa è necessario; ed è non solo una necessità religiosa, ma anche una necessità politica. Io l'ho sentito, ed ho detto: il me faut le vrai Pape, catholique, apostolique et romain celui qui siège au Vatican. II Papa non può stare che a Roma, in questa vecchia Roma lungi dalla mano dogli imperatori d'Alemagna, da quella dei Re di Francia e dei Re di Spagna, e tenendo la bilancia tra i sovrani cattolici, con uno Stato né troppo grande né troppo piccolo e perfettamente neutrale, Ce sont les siècles qui ont fait cela, et ils l'ont bien fait (4).

Voi avete, carissimo nipote, ripetuto pia d'una volta ai Vescovi della Francia ciò che io diceva al Vescovo di Nantes: Monsieur l'Évêque, soyez sans inquiétude, la politique de mes États est intimement liée avec le maintien et la puissance du Pape il me faut qu'il soit plus puissant que jamais; il n'aura jamais tant de pouvoir que ma politique me porte à lui en désirer (5). Fate quello che ho detto io ed avete ripetuto voi, e guardatevi dal commettere gli errori di vostro zio.

Io ho dato a mio figlio, duca di Reichstad, il titolo di Re di Roma, e non potei mai essere tranquillo sul suo avvenire. Temeva che lo assassinassero fisicamente o moralmente, capiva che quel titolo era un mio delitto segnato in fronte al figliuolo, come i figli degli Ebrei portano in fronte il sangue da padri imprecato, e gridava: Et sì enfin il échappait à l'assassinai physique et à l'assassinat moral; si sa mère et sa nature venait à le sauver de tous ces dangers, alors!...alors!...alors!... e ripeteva sovente questa parola senza potere

giammai terminare la frase, ed esprimere ciò che presentiva (6). Quanto meglio la pensaste voi, ora io nipote, che al vostro figliuolo deste per padrino il Santo Padre!

Non vi dipartite per carità da que' principii che v'hanno condotto ad un trono cKera follia sperare. La rivoluzione v'ha promesso la popolarità se la servite. Qu'est ce que la popularité? La débonnaireté ho risposto io un bel giorno.

(1) Moniteur, 24 dicembre

(2) Mémorial de StHélène.

(3) Ai suoi elettori, Massimo d'Azbglio, pag. 80.

(4) Thibrs, Le conmiai et Vempire.

(5) Mimoires de Napoleon.

(6) Mémorial de StHélène.

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Badate bene che il più gran torto che possa avere un principe è quello d'essersi lasciato corbellare. Voi vi trovate oggidì ad una grande altezza, ed alla sommità dell'arco. Avvertite, o mio nipote, di non muovervi, perché non potete far altro che discendere.

Lealtà, franchezza, rispetto degli altrui diritti, non ambizione, non ciarlatanismo, non millanteria; ecco le cose che vi raccomanda dall'altro mondo.

Il vostro aff. mo zio

Napoleone I.

DI

UNO SCRITTO FALSAMENTE ATTRIBUITO

A

GIUSEPPE DE MAISTRE

(Dall' Armonia, n. 77, del 5 aprile 1869).

Dietro preghiera del conte Rodolfo DeMaistre, degnissimo figlio del conte Giuseppe, e che da lui ereditò la nobiltà dell'animo, la sodezza dei principii, la purità della fede, l' Armonia di sabbato dichiarava, che lo scritto pubblicatosi testé a Parigi ed a Lione col titolo: Pian d'un nouvel équilibre politique en Europe, ouvrage publié en 1798 sous le voile de l'anonime par Joseph de Maistre. non era opera di Giuseppe DeMaistre, laonde veniva a lui falsamente attribuito. Questo servizio da noi reso contemporaneamente alla critica bibliografica ed all'amor figliale ci chiamò addosso le solite villanie dell' Unione, la quale il 3 di aprile scriveva così:

«In testa all' Armonia d'oggi (sabbato) leggonsi queste parole: «È stata ristampata ultimamente in Francia un'opera intitolata: Antidote au Congrès de Rastadt sotto il nome del conte Giuseppe DeMaistre. Siamo pregati di dichiarare che il conte Giuseppe DeMaistre non è autore di questo libro, falsali mente perciò a lui attribuito».

«Noi, a nostra volta, dichiariamo, essere pregatila dichiarare, che il conte DeMaistre è l'autore di questo libro, falsamente finora attribuito all'abate de Pradt. e Quando D. Margotti ci dirà da chi fu egli pregato, noi pure gli diremo da chi fummo pregati noi.

«Intanto, a che meschine risorse è mai ridotta l' Armonia? alle falsificazioni più impudenti!»

Lo stesso giorno però, mentre l'Unione accusavaci di ricorrere alle più impudenti falsificazioni, l'Opinione ci rimproverava in certo in certo d'aver detto cosa che tutti sanno, e portato così civette ad Atene, e frasconi a Vallombrosa. Ecco le parole dell'Opinione.

«L'Armonia d'oggi dichiara che l'opera - Antidote atf Congrès de Rastadt -non è del conte DeMaistre.

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«In un assonnato articolo, il Journal des Débats aveva già non dichiarato, ma dimostrato, che quell'opera non era del DeMaistre.

e: Essa è dell'abate de Pradt, al quale è stata finora a buona ragione attribuita, ed il signor de Chantelauze, volendola affibbiare al conte DeMaistre, ha preso un granciporro.

Noi protremmo essere paghi della risposta che l'Opinione ha dato all' Unione;ma vogliamo soggiungere, a scusa del signor de Chantelauze, che attribuì a Giuseppe DeMaistre l' Antidote au Congrès de Rastadt, che, vivente ancora quel chiarissimo personaggio, altri cadde nel medesimo abbaglio. Ma essendo stato recato l' Antidote alla signora Huber Allèon in Ginevra, e dettole che era uscito dalla penna di Giuseppe DeMaistre, essa che ne conosceva i propositi, dichiarò che lo scritto non era suo. Non, ce rìest pas vrai! E di questa dichiarazione Giuseppe DeMaistre ringraziava la signora HuberÀllèon in sua lettera, colla data di Pietroburgo 26 settembre 1806, che leggesi nel primo volume delta Lettres et opuscules pag. 112.

«Vous qui écoutez toujours mes pensées, scriveva il DeMaistre a madame Huber Alléon, comment pourriez vous ne pas les entendre? Une fois vous m'avez rendu justice pleinement contre toutes les apparences. On eut beau vous montrer le livre, vous eûtes la constance de dire: Non, ce n'est pas vrai. En disant cela vous me rendiez justice, et je vous en ai su un gré infini: vous avez été juste à mon égard, et moi, madame, je serai aussi juste que je dois l'être envers votre justice

Ciò serva a provare quanto valgano le critiche dell' Unione: e noi da gran tempo le stimiamo per quello che valgono.

L'univers del 3 di aprile pubblica la lettera seguente:

«Turin, 1er avril 1859.

«Monsieur

«J'ai lu dans le Journal l' Union deux articles littéraires sur l' Antidote au Congrès de Rastadt, ouvrage attribué à mon pére, et que l'on a même hardiment imprimé sous son nom. Sans porter aucun jugement sur cet écrit, et simplement pour rendre hommage à la vérité, j'affirme que le comte Joseph DeMaistre n'est point l'auteur de ce livre.

«Je vous serai reconnaissant si vous voulez bien accorder a ma réclamation une place dans votre journal, et je vous offre, avec mes remerciments anticipé, l'assurance de ma considération très distinguée».

Le Comte Rodolphe DeMaistre.

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GUAI A CHI OFFENDE IL PAPA

(Dall'Armonia, n. 79, del 7 aprile 1859. )

I nostri lettori conoscono il Padre Félnc, celebre oratore Gesuita, profondo come il Bourdalou, eloquente come il Ravignan, coraggioso come un apostolo. Egli da alcuni anni detta conferenze quaresimali nella chiesa di NotreDame a Parigi, e secondo il costume de' suoi predecessori, ha preso a svolgere un solo argomento. Il tema prescelto da lui è il progresso cattolico, quel progresso che il Redentore predicava al mondo quando diceva ai suoi discepoli: Siate perfetti, com'è perfetto il Padre mio.

Quest'anno il Padre Félix entrò a discorrere dell'autorità, base essenziale del progresso, dimostrando in Gesti Cristo la sorgente d'ogni autorità nel cristianesimo; e confrontando riguardo all'autorità l'opera della Chiesa e l'opera della società moderna.

Nell'ultima sua conferenza per far toccare con mano l'ideale dell'autorità secondo il cattolicismo, la mostrò personificata in tre tipi, nel padre, nel sacerdote, nel re. E poi in ultimo, riassumendo bellamente il suo discorso, presentò ai proprii uditori un tipo unico di queste tre autorità nel Papa, in cui si concentra l'autorità paterna, sacerdotale, regia.

Tale argomento toccato a Parigi in questi giorni richiedeva un coraggio apostolico, e non fallì al Padre Félix che predica Gesù Cristo Crocifisso. Parlando dell'autorità sacerdotale egli aveva detto poco prima: «Fra breve, sceso da questa cattedra, io non sarò più che un uomo debole, e così debole da tremare anche davanti a un fanciullo. Qui io mi credo ambasciatore di Gesti Cristo, e sento che nulla mi potrebbe impedire di proclamare davanti a tutti i diritti del mio Sovrano .

Solenni parole indirizzò l'oratore a coloro che, combattendo il Papato, combattono ad una volta l'autorità del padre, del sacerdote, e del re, e mirano a scassinare contemporaneamente la famiglia, il cattolicismo, l'impero.

«Il Papato, esclamava il padre Félix, ah 1 non è solo la chiave della volta dell'edilìzio sociale, non è solo il più forte riparo che protegga l'ordine contro l'anarchia, e la società contro la rivoluzione; il Papato, sostenuto attraverso i secoli dall'obbedienza, dal rispetto e dall'amore dei popoli cristiani, si è più che un riparo che ci difende, più che uno scudo che ci ricuopre, è come un carro che ci porta; è il carro trionfale che porta con noi medesimi, da diciannove secoli in qua, il progresso e la civiltà del mondo cristiano».

Guai a chi offende il Papa! Egli è un parricida, un sacrilego, un fellone. «Io non esito a dirlo altamente, tuonò l'oratore, chiunque cospira contro il Papato, cospira contro l'umanità medesima, chiunque l'assale, assale voi che volete la società, l'ordine, la civiltà, il progresso; e ogni autorità sulla terra che cerca di avvilirlo e di spiantarlo, non fa che spiantare ed avvilire se stessa».

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E colla voce d'un profeta il padre Félix proseguì: «Ogni potente, qualunque egli sia, console, re o imperatore, che oserà abbassare, per ingrandire se stesso, quest'alta maestà, sentirà con vendicatrici ripercosse le rappresaglie della collera divina e dell'umano disprezzo ricadere sulla sua fronte. Laddove ogni Potenza che darà a questa autorità collo scudo della sua forza, e colla devozione del proprio cuore l'omaggio del suo rispetto e della sua obbedienza, sentirà discendere sopra di sé col prestigio della pili grande autorità, le benedizioni unite della terra e del cielo».

E la profezia s'è già avverata ne' tempi andati, e si avvererà ne' futuri. Napoleone I, che per ingrandire se stesso, tentò avvilire e spiantare il Papato, e imprigionò Pio VII, non riuscì che ad offuscare la propria gloria, ad impicciolire la sua grandezza, a crollare l'impero appena nato, a fabbricarsi quelle catene che lo tennero prigione a S. Elena per tutto il tempo della sua vita. Guai a chi lo imitasse nella vanità e nel sacrilegio, giacché dovrebbe infallantemente seguirlo nell'avvilimento e nella rovina!

Un imperatore de' Francesi che rompesse guerra al Papa, segnerebbe in quel giorno Tatto della sua abdicazione. Imperocché l'impero in Francia non può che essere cattolico. Il padre Félix molto a proposito ricordò che i fondatori della più grande dinastia dei re, Carlo Magno e Pipino s'inchinarono davanti una dinastia più grande ancora «e non si sentirono umiliati da una prostrazione che li elevava assai più delle loro vittorie .

Non mai in Francia sorse l'impero senza l'intervento del Papa. Cario Magno è grande, perché s'inchina a Leone IH; Napoleone 1 sente di non poter essere imperatore se Pio VII non Io consacra; Napoleone III non pensa all'impero se non dopo la benedizione di Pio IX, che avea ricondotto nella sua Roma.

E non s'è ancora accorto il presente imperatore dei Francesi, come il solo sospetto, vogliamo credere ingiusto, ch'egli siasi raffreddato in quella religione che professava, n'abbia già immensamente indebolito il potere? Come i suoi nemici vogliano appunto strascinarlo alle ostilità contro Roma, perché ne hanno giurato la rovina?

Ah! tolga ogni lusinga ai rivoltosi, e mostri d'essere persuaso di questa grande sentenza dell'oratore di Notre Dame; chi offende il Papato offende la società, l'ordine, la civiltà, il progresso.

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AVVERTIMENTI

DI

GIUSEPPE DE MAISTRE

ALLE CINQUE GRANDI POTENZE

(Dall'Armonia, n. 80, del 9 aprile 1869).

Si le Congrès ne s'attache pas fortement aux grands principes H ne fera que semer les dents du dragon et ce sera à recommencer».

De Maistre.

Giacché, per ammirabile disposizione della Provvidenza, sono ornai riconosciuti i meriti del già tanto bestemmiato Giuseppe De Maistre, e coloro che prima sorridevano di compassione al solo udir nominarlo, ora l'accettano come un oracolo, tocca a noi invocarne spessissimo l'autorità e manifestarne i principii a' suoi nuovi ed inaspettati ammiratori.

Nelle Lettres et opuscules di Giuseppe DeMaistre, tom. i, pag. 296, troviamo una lettera che egli scrisse da Pietroburgo il 16 (28) ottobre 1814 al marchese di San Marzano a Vienna, la quale pare fatta a bella posta pei tempi nostri. Il marchese avea scritto al conte DeMaistre che sarebbe forse stata resa giustizia al re di Sassonia. Il conte gli rispondeva così:

t Voi mi avete levato un peso che mi stava sul cuore, lasciandomi travedere la sola possibilità che giustizia sia resa al re di Sassonia. Un re spodestato da una deliberazione e da un giudizio formale de' suoi colleghi 1 è un'idea mille volte più terribile di tutto ciò che siasi detto mai alla tribuna dei Giacobini; perché i Giacobini facevano il loro mestiere. Ma quando i più sacri principii sono attaccati dai loro naturali difensori, allora bisogna vestire a corrotto. Lorsque les principes les plus sacrés sont attaqués par leurs défenseurs naturels, il faut prendre le deuil».

Per parte nostra, Io confessiamo ingenuamente, ci spaventa assai pia la rivoluzione del 1859 che quella del 1848, perché questa veniva dal basso, e la prima scende dall'alto; perché l'una era rivoluzione di plebe, e l'altra è rivoluzione di diplomatici: perché nel 1848 il disordine era provocato dai mestatori, dai comunisti, dai felloni, ed ora parte dai difensori naturali dell'ordine, e pretende di mascherarsi sotto questo intendimento.

De Maistre supponeva alla peggio che il re di Sassonia avesse torto, e affermava che nessuno avea il diritto di chiedergli conto della sua condotta. «Se la sovranità può tradursi davanti qualche tribunale essa non esiste più. Si la souveraineté est amenable devant quelque tribunale elle n'existe plus. Se i re hanno il diritto di giudicare i re, a pili forte ragione questo diritto appartiene ai popoli.

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Perché no! Dall'altra parte la cosa riesce allo stesso; imperocché siccome ogni giudice legittimo può sempre essere invocato da ogni parte lesa; così se i re sono giudici legittimi d'un altro re, ogni popolo ha il diritto d'invocare ogni sovrano contro colui del quale questo popolo avrà a lagnarsi. Allora noi vedremo delle belle cose 1»

A giudizio di Giuseppe DeMaistre, coloro che tradurranno davanti un Congresso i principi italiani, sono tante rei, quanto coloro che tradussero Luigi XVI davanti un tribunale popolare e rivoluzionario; e giustificano, se non la finale sentenza, almeno il sacrilego procedimento contro il migliore dei re. Ah! il faut prendre le deuil! Che cosa sarà dell'Europa, se la logica rivoluzionaria spinge il principio alle sue ultime conseguenze?

Il conte DeMaistre ricordava un fatto degno della più grande ammirazione, e che potrebbe servire di sublime esempio al Congresso. «Fu un grande e magnifico spettacolo, così egli, estremamente ammirabile, e così poca ammirato, quello che noi vedemmo nel 1782, allorquando la Francia, la Savoia, e la Svizierà accorsero per mettere all'ordine una piccola repubblica in convulsione, calmarono le sue insolenti tempeste, e poi ritiraronsi senza toccare il suo territorio, senza rosicchiare le sue fortificazioni, senza imporle altro comando che d'essere felice. Se si considera la superiorità delle tre Potenze riunite sopra quella di Ginevra, ed anche la superiorità della Francia sulle due altre alleate, si troverà difficilmente nella storia un più magnifico omaggio reso ai principii». Queste parole non abbisognano di commento. Tutti veggono l'enorme differenza che passa tra il 1782 e il 1859, tra l'Italia e la repubblica di Ginevra!

«Oggidì, scriveva DeMaistre nel 1814 alludendo al re di Sassonia, oggidì noi potremmo vedere un sovrano venerabile per l'età e per la condotta, celebre per le sue virtù domestiche e religiose, amato e compianto dal suo popolo; noi potremmo vederlo, dico, dopo un regno paterno di più di mezzo secolo, giudicato e deposto dai suoi fratelli, e contro il voto espresso de' suoi sudditi, per essersi ingannato intorno ad una quistione di morale e di politica la più dilicata e la più importante!» E fatte poche modificazioni, principalmente sulla natura del delitto, ognuno troverà parecchi nomi da dare a questo sovrano nel 1859!

Il conte DeMaistre spingeva più innanzi la sua ipotesi. Aveva supposto colpevole il re di Sassonia, ma trovava incompetente il tribunale che voleva giudicarlo. Ora da un passo di più e suppone la competenza di questo tribunale. e Ecco dunque, egli dice, un re colpevole di un orribile misfatto, quello di non aver pensato come gli altri. Che cosa faremo noi? Daremo i suoi Stati ad un'altra famiglia. Questa è nuova! Perché un padre di famiglia si regola male, e perché il Senato l'interdice, bisognerà consegnare a' stranieri i propri beni in pregiudizio de' suoi eredi naturali! È una superba giurisprudenza». Potrà forse parere a taluni che questo non quadri a capello ai tempi nostri; ma lasciale che le cose facciano il loro corso, e vedrete applicarsi questa superba giurisprudenza.

Intanto il nostro illustre concittadino dolevasi col marchese di San Marcano, scrivendogli: «Io sarei desolato, signor marchese, se la più augusta assemblea,

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la quale potrebbe chiamarsi un Senato di re, venisse a giudicare come una loggia di framassoni svedesi.

Si è in questo momento più che mai, che lo spirito dei popoli, totalmente corrotto da venticinque anni di latrocinio, ha bisogno d'essere guarito colla nobile e santa politica dei Sovrani. Non ci parlino più di re spodestati, di divisioni, di convenienze, e nemmeno di grandi e di piccoli sovrani. La sovranità non è né grande piccola, essa è ciò che è». E conchiudeva manifestando il desiderio «che la Provvidenza, la quale ha coronato l'imperatore delle Russie di tante glorie, gli accordasse ancora quella di rimuovere il più grande degli scandali politici Se il Congresso non si attiene fortemente ai grandi principii, non farà che seminare i denti del dragone, e saremo da capo (1 )».

E quali sono i grandi principii? De Maistre gli ha accennati in questa sua magnifica lettera:

1° La sovranità non è traducibile davanti nessun tribunale; 2° Gli interventi debbono essere disinteressati, gratuiti, e non violare mai l'indipendenza dei Governi; 3° Le alleanze debbono stringersi, non secondo la grandezza dei Potentati, ma la posizione e l'influenza de' loro regni; 4° La sovranità non è né grande, né piccola, non si misura col metro, né si pesa colle bilancie. L'esprit des peuples totalement corrompu par vingt-deux ans de brigandage, a besoin d'être rassaini par la noble et sainte politique des Souverains.

(1) Il Congresso non farà che seminare i denti del dragone. DeMaistre allude alla favola di Cadrao, che strozzò un dragone, e per consiglio di Minerva ne seminò ì denti, donde nacquero uomini armati che si batterono disperatamente fra loro con grandissima strage.

GLI

ORRORI DELLA GUERRA

(Dall' Armonia, n. 84, del 9 aprile 1859).

Guerra, sul crin vipereo

Ti strìda l'ira eterna,

Guerra ti danni all'Èrebo

La folgore supèrna.

La guerra, canto lirico di Giuseppe Regaldi, Torino, stamperia Reale 1833.

Da buona pezza si lavora in Francia per indurre quella nazione a desiderare la guerra, ma è un tórre a mattonare il mare, che i Francesi sono fermi a detestarla; e una voce comune si leva da tutte le classi della società in favor della pace. I nostri lettori avranno avvertito le gravi parole delle Reme des DeuxMondes riferite nell'Armonia di ieri; e nella stessa sentenza parlano od hanno parlato pressoché tutti i diarii della capitale e de sparti meo ti, che dichiarano arbitraria la'guerra, e vogliono concordi la pace.

E noi troviamo che i Francesi hanno ragione. Mauro Macchi in un suo scritto intitolato La pace, e stampato in Genova nel 1856, dopo la guerra d'Oriente, a pag. 99 reca il computo d'un pubblicista francese delle guerre sostenute dalla sola Francia dal secolo decimoquarto in poi. Questo computo è molto più convincente di tutti gli articoli presenti delle Patrie, e futuri del Courrier de Paris. Eccolo.

Nel secolo XIV la Francia patì la guerra civile per anni, 5

Id. portata all'estero

» 13

ld. sostenuta sul territorio patrio

» 25

In tutto anni 43

Nei quali ebbero luogo quattordici grandi battaglie, e segnatamente quelle di Gonrtrav e di Poitiers. - E senza alcun benefico risultato.

Nel secolo XV guerra civile per anni 43

Id. all'estero

» 15

Id. nell'interno

» 43

In tutto anni 71

Nei quali ebbero luogo undici grandi battaglie, come quelle di Azincourt, di Castillon e di Montlérv. - E senza alcun benefico risultato.

Secolo XVI guerra civile e religiosa anni 33

Id. all'estero

» 44

Id. nell'interno

» 8

In tutto sono 85

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Nei quali si diedero ventisette battaglie campali. - E senza alcun benefico risultato.

Secolo XVII guerra civile e religiosa anni 17

Id. all'estero

» 52

In tutto anni 69

Con trentanove grandi giornate. - E senza alcun benefico risultato.

Secolo XVIII guerra civile e religiosa anni 7

Id. all'estero

» 51

In tutto anni 53

Con novantatré importanti combattimenti. - E senza alcun benefico risultato Laonde riassumendo si ebbero in cinque secoli nella sola Francia

Di guerra civile e religiosa anni 75

Id. all'estero

» 175

Id. nell'interno

» 76

In tutto anni 326

E da questi trecento ventisei anni di guerra, conchiude il pubblicista francese,e da queste cento ottantaquattro battaglie tra vinte e perdute, dicano di graziai fautori della guerra, che guadagno hanno fatto l'Europa e l'umanità?

Venne osservato che l'entusiasmo guerriero e rivoluzionario va scemando continuamente in Francia. L'entusiasmo del 1848 fu molto inferiore all'entusiasmo del 1830, il quale non fu che l'ombra dell'entusiasmo del 1789. La poesia che è il più infallibile termometro degli ardori de' popoli ne rende testimonianza. Nel 1789 i fervori francesi scoppiarono nella Marscitlaisc, nel 1830 trasforniaronsi nella Parisienne, e nel 1848 caddero nel ritornello dei Lampions (1)».

La Francia ha sempre guadagnato nella pace, ed anche vincendo ha sempre perduto nella guerra. Essa perciò ha salutato Imperatore il Bonaparte, perché le promise, e le diede la pace.

E Napoleone III non può dimenticare come la maggior parte di coloro i quali oggidì cercano tutti i mezzi per ispingerlo ad una guerra in Italia, amaramente lo criticassero d'aver intrapreso uria guerra in Oriente senza alcun vantaggio per la Francia. È opportuno ricordare parecchie di queste critiche.

Victor Hugo nel 1856 mandava da Guersnev il suo obolo in favore dei Francesi che erano stati vittima della straordinaria inondazione nel maggio di quell'anno, e servendosi di un atto di beneficenza per uno scopo rivoluzionario scriveva: « La guerre folle de Crimée, caprice de Monsieur Bonaparte, a conte deux milliards à la France. Avec deux milliards on eût; la science sociale le démontre, endigué les fleuves, commencé le reboisement restauré le regime des eaux, rendu les inondations impossibles».

Un altro scrittore francese citato da Mauro Macchi, con fervida eloquenza riassumeva in questi termini i frutti della guerra di Crimea: Un lago di sangue all'Alma- un fiume di sangue a Balaclava- un torrente di sangue ad Inkermann - un mare di sangue a Malakoff:

(1) Vedi la Presse del 19 di aprilo 1855.

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- gambe rotte, coscie stiacciate, cranii infranti, ventri aperti, esseri umani caduti in putrefazione prima che morti,

devastazioni, rovine, bombardamenti, incendii; imposte a milioni, prestiti a miliardi - miserie all'infinito; coscrizioni ordinarie, leve straordinarie; recluto d'uomini in Russia, in Turchia, in Francia, in Inghilterra, in Piemonte.

E poi chi paga? trascriviamo letteralmente dal libro di Mauro Macchi (1): Chi muore? Chi resta mutilato e ruinato? son forse gli imperatori o i loro ministri? No: sono i poveri soldati, il misero popolo; sono i contadini e gli operai. E quale delitto hanno essi perpetrato, per meritarsi d'essere spinti a simile cecidio? Nessuno. Piacque ad un principe di allargare i proprii dominii, tentando di usurpare gli altrui. Ed è per soddisfare a questa ambizione, che un mezzo milione d'uomini venne immolato .

Il sig. Vincjard dopo la guerra d'Oriente scrivea: «Se per consenso di tutti, antichi e moderni, imperatori e re, uomini di Stato e uomini di studio, predicatori e tribuni, filosofi e pubblicisti la pace è un bene e la guerra ò un male, a chi tocca la risponsabilità di questo male? La guerra non si fa già da se medesima, né si muove da popolo a popolo; ma viene dichiarata da Governo a Governo. Se i Governi non si lasciano mai fuggire l'occasione di volgere in ridicolo i rivoluzionarii che pretendono stabilire la libertà col terrore, i rivoluzionarii ben più a ragione potrebbero prendersela coi Governi i quali pretendono stabilir la pace colla guerra... Quanto a me debbo dichiarare, che se fossi mai stato fautore della guerra, a farmela prendere del tutto in orrore basterebbe non tanto la devastazione che sparge, o il sangue che versa, o i milioni che costa, quanto la manifesta prova della sua impotenza (2)».

Il Piemonte, padre dell' Indipendente, che ne ha raccolto l'eredità e il numero della serie, dopo la guerra d'Oriente riferendosi, colla Rivista d'Editnburgo, ai calcoli d'un giornale americano, stabiliva che le guerre napoleoniche costarono 40 mila milioni di dollari. «Ora gl'interessi annui di questa somma, al 5 per cento, sono due mila milioni di dollari i quali basterebbero quasi per Sé soli a fare scomparir la miseria dalla faccia di tutta Europa (3)».

La stessa Gazzetta del Popolo, che oggidì incensa l'imperatore dei Francesi, e s'inchinava testé davanti al Principe suo cugino, il 21 di gennaio del 1856 lanciava una freccia avvelenata contro Napoleone III perché aveva fatto la guerra d'Oriente, ed esclamava: «Duecento mila soldati, e pia miliardi, spesi per uno di quei risultati orientali che Luigi Filippo otteneva con meri protocolli!»

Tutto questo non può avere dimenticato l'imperatore Napoleone, il quale perciò si guarderà ben bene dal mettere in mano ai suoi nemici una nuova arma per combatterlo. Quanto alla Francia essa non vuole la guerra, perché, tra le altre cose, si ricorda delle osservazioni fatte dai giornali piemontesi, ed ama meglio che il suo denaro venga adoperato per fare scomparire la miseria dalla faccia dell'Europa.

(1) La Pace, di Mauro Macchi, Genova 1856, pag. 24.

(2) Impuistance de la guerre, Della Presse del 42 aprile 1855.

(2) Piemonte, n, 33, 7 febbraio 1855.


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UN SEMPLICE CONFRONTO

SUL MEMORANDUM DEL CONTE DI CAVOUR

(Dall'Armonia, n. 83, del 2 di aprile 1859).

Pubblichiamo più innanzi il Memorandum che il conte di Cavour indirizzò al Governo britannico ed al Governo prussiano. Se godessimo piena libertà lo giudicheremmo come merita, ma per ora vogliamo restringerci al seguente confronto tra due documenti di due ministri dell'interno amendue liberalissimi, uno pubblicato nel 1848, e l'altro nel 1859.

«Per un certo lasso di tempo la condotta ferma e indipendente del Governo austriaco verso la Corte di Roma temperava i sinistri effetti della dominazione straniera. I Lombardo-Veneti si sentivano emancipati dall'impero che la Chiesa esercitava nelle altre parti della Penisola sugli atti della vita civile nel santuario medesimo delta famiglia; e questo era per loro un compenso, a cui attribuivano una grande importanza. Questo compenso venne loro tolto in forza dell'ultimo Concordato, il quale, com'è notorio, assicura al Clero una maggiore influenza e più ampii privilegi! che in qualunque altro paese, anche in Italia, eccettuati gli Stati del Papa. La distruzione dei savii principii introdotti nelle relazioni dello Stato colla Chiesa da Maria Teresa e da Giuseppe 11 finì per far perdere ogni forza morale al Governo austriaco nello spirito degli Italiani». (Conte di Cavour, Memorandum del 1° marzo 1859. )

«Si tratta di difendere le nostre istituzioni, e in particolare la Monarchia della Casa di Savoia dallo straniero che la minaccia, imperocché se l'Austria prevalesse in Italia, il suo dominio nocerebbe non solo alle libertà nostre, ma ai diritti dei nostri Principi. Inoltre la religione cattolica ne soffrirebbe non poco, essendo noto che l'Austria fu sempre nemica delle prerogative della S. Sede, e intende a diffondere nei suoi Stati e in quelli, su cui ha qualche influenza, principii e massime e regole di disciplina e di culto poco ortodosse, e contrarie alla sovrana autorità della Chiesa. Oltre che se l'Imperatore vincesse in Lombardia egli non si contenterebbe più degli antichi domimi: torrebbe al Papa le legazioni; distruggerebbe la sua indipendenza politica con grave danno della libertà ecclesiastica... Tali sono le considerazioni che debbono indurre tutti i buoni cittadini ed i buoni cattolici ad aiutare la guerra lombarda con ogni loro sforzo». (Plezza, ministro dell'interno, Circolare del 1° agosto, 1848. )

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Si noti che Plezza e Cavour sono ora perfettamente uniti, e le opinioni dell'uno possono considerarsi come le opinioni dell'altro. Sicché nel 1848 noi dovevamo far la guerra perché l'Austria, era poco ortodossa; e nel 1859 dobbiamo farla perché è troppo ortodossa; nel 1848 dovevamo combatterla perché si opponeva alla sovrana autorità della Chiesa; e dobbiamo egualmente combatterla nel 1859, perché ha riconosciuto alla Chiesa una sovranità maggiore che nelle altre parti della Penisola. L'Austria nel 1848 era rea perché professava i principii di Giuseppe li, ed è rea nel 1859 perché ha d'istrutto quei principii.

È utile frattanto avvertire che, mentre si accusa l'Austria di aver usurpato i diritti sovrani del duca di Modena, di Parma e di Toscana, e di esercitare una stragrande influenza nei loro domimi, si accusa contemporaneamente d'aver accordato nei proprii Stati una soverchia influenza alla sovrana autorità della Chiesa. .

Tuttavia la diversità tra il linguaggio che il ministro Plezza teneva nel 1848, e quello che il conte di Cavour tiene nel 1859 si spiega facilmente, avvertendo, che il primo scriveva ai molto reverendi sigg. parrochi, e l'altro scrìsse a due Governi protestanti, il prussiano ed il britannico. Scrivendo ai parrochi, bisognava manifestare un grande affetto ai diritti ed alle prerogative della Chiesa cattolica: e scrivendo ai protestanti è necessaria dichiarare che si vuoi far la guerra ai Papa, e a chi ne sostiene il dominio.

TESTO DEL MEMORANDUM

DEL

CONTE DI CAVOUR

AL

GOVERNO BRITANNICO E PRUSSIANO

(Dall'armonia, n. 83, pàg. 326).

«Il Governo di S. M. Britannica, animato da benevola sollecitudine per la sorte d'Italia, a fine di evitare le cagioni che addurre potessero gravi perturbazioni in Europa, ha invitato il Governo di S. M. il re di Sardegna ad esporre quali sono, a suo avvisò, i gravami che gli Italiani potrebbero far valere contro l'Austria, tanto a motivo della sua dominazione sulle provincie che possiede in virtù dei trattati, quanto in conseguenza dei suoi rapporti cogli Stati dell'Italia centrale, la Jui condizione anormale è riconosciuta da tutti i Gabinetti.

«Per rispondere a siffatto invito in modo chiaro e preciso, il Gabinetto di Torino stima necessario rispondere partitamente. alle due domande che gli sono dirette, spiegandosi anzitutto sulle condizioni della Lombardia e della Venezia, e poscia sui risultamenti della politica austriaca rispetto all'Italia centrale.

«Qualunque Biengi i risultati della cessione del Lombardo-Veneto fatta all'Austria nel 1814, non si potrebbe contestare che il possesso che la medesima tiene su di essi sia conforme ai trattati; imperocché in questi trattati non si è dato gran pensiero della sorte dei popoli di cui disponevano.

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Noi per conseguenza non avremmo tirato in campo una quistione che non porrebbe risolversi senza una modificazione dei trattati esistenti, se il Governo britannico non ne avesse impegnati ad aprirgli intero il nostro pensiero tanto su codesto punti), quanto sugli altri.

«Noi riconosciamo pertanto che la dominazione dell'Austria sui paesi tra il Po, il Ticino e l'Adriatico è legale; ma ciò non impedisce che ella non abbia prodotto conseguenze deplorabili, e prodotto uno stato di cose che non ha riscontro nella storia moderna.

«Gli è di fatto che la dominazione austriaca ispira un'invincibile ripugnanza all'immensa maggioranza degli Italiani che vi sono soggetti, e che i soli sentimenti che provano per coloro che li governano sono l'odio e l'antipatia,

«Da che proviene ciò? Il modo di governare dell'Austria vi ha senza dubbio contribuito; le sue pedanterie burocratiche, le vessazioni della polizia, le imposte opprimenti dalla medesima stabilite, il sistema di leva più pesante di qual~ siasi altro d'Europa, i rigori e le violenze, perfino contro le donne, hanno avuto l'effetto più tristo sui sudditi italiani; ma non è questa la causa principale dei fatti accennati.

«L'istoria ne fornisce parecchi esempi di Governi peggiori di quello dell'Austria, eppure meno in odio all'universale del, suo.

«La vera causa del profondo malcontento dei Lombardo-Veneti si è di essere governati, signoreggiati dallo straniero, da un popolo col quale non hanno veruna analogia, di stirpe, di costumi, d'inclinazioni, di favella.

«A misura che il Governo austriaco ha applicato più completamente il suo sistema di incentramento amministrativo, questi sentimenti sonosi accresciuti. Ora che cotesto sistema è giunto all'apice, che l'incentramento è divenuto in Austria più assoluto che nella istessa Francia, ora che essendosi spenta qualsivoglia azione locale, il più umile cittadino è in contrasto per la menoma cosa con dei funzionarii pubblici, da esso né rispettati né amati, la ripugnanza e l'antipatia pel Governo sono divenute universali.

«Il progresso dei lumi, la diffusione dell'istruzione, che l'Austria non può impedire intieramente, ha contribuito a rendere più sensibile queste popolazioni alla triste lor sorte. I Milanesi ed i Veneti che ritornano nei proprii paesi, dopo di aver visitati i popoli che godono di un Governo nazionale, sentono più vivamente l'umiliazione ed il peso del giogo straniero.

«Per un certo lasso di tempo, il contegno fermo ed indipendente del Governo austriaco verso la Corte di Roma rattemprava i tristi effetti della dominazione estera. I Lombardo-Veneti si sentivano liberati dell'impero che la Chiesa nella altre parti della penisola esercita sugli atti della vita civile, nel santuario istesso della famiglia: era questo per essi un compenso al quale davano gran peso.

«Codesto compenso fu tolto loro da) Concordato, che, siccome è notorio, guarentisce, al Clero una più grande influenza, privilegi più ampli che in qualsivoglia altro paese, eziandio in Italia, eccettuatine gli Stati del Papa.

«La distruzione de' savii principii introdotti nei rapporti dello stato colla Chiesa da Maria Teresa e Giuseppe II ha finito per far perdere

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nell'opinione degli Italiani ogni forza morale al Governo austriaco.

«Per effetto delle cagioni testé esposte, le provincie Lombardo-Venete presentano lo spettacolo più triste, e che, siccome venne più sopra osservato, non ha simile nella storia. Gli è quello di un popolo intero che assunse a fronte dei governanti un'attitudine apertamente ostile, che minaccio e carezze non valgono a domare o a scemare.

«Basta percorrere la Lombardia e la Venezia per convincersi che gli Austriaci non sono stabiliti, bensì stanno accampati in quelle provincie. Tutte le case, dalla più umile capanna al più sontuoso palazzo, son chiuse agli agenti del Governo. Nei luoghi pubblici, ai teatri, nelle strade vi è separazione assoluta tra essi e gli abitanti di cotesto paese, che direbbesi una contrada invasa da esercito nemico, resosi inviso per la sua tracotanza e superbia. E tale uno stato di cose non è un fatto transitorio prodotto da circostanze eccezionali di cui possa prevedersi più o men vicino il termine. Esso dura ed aggravasi da mezzo secolo in qua, ed è certo che «e il moto civilizzatore d'Europa non si sofferma, non farà che peggiorare.

Una tale condizione non è contraria ai trattati, come è dichiarato più sopra, ma essa è contraria ai grandi principii d'equità e di giustizia, sui quali si fonda l'ordine sociale; essa è in opposizione col precetto dalla civiltà moderna proclamato, che non vi è Governo legittimo fuori di quello che i popoli accettano, se non con riconoscenza, almeno con rassegnazione.

«Ora, se ci si domanda qual rimedio la diplomazia pila arrecare a codesto stato di cose, risponderemo con franchezza che, se non si perviene ad indurre l'Austria a modificare i trattati, non si riuscirà ad una soluzione definitiva e durevole; bisognerà contentarsi di palliativi. Bisogna che l'Europa si rassegni ad assistere impassibile al doloroso spettacolo che offrono la Lombardia e la Vene' aia, sino a che la rivoluzione che cova costantemente sotto la cenere in quelle contrade, profittando di circostanze favorevoli, non ispezzi violentemente il giogo che la conquista e la guerra hanno loro imposto.

«Tuttavia questo spettacolo sarebbe men doloroso. , e lo stato dei Lombardo-Veneti più tollerabile, se l'Austria si mostrasse fedele alle promesse che rivolgeva agli Italiani, quando nel 1814 li eccitava a sollevarsi contro la dominazione francese, e se conformemente al proclama del comandante in capo delle sue armate, il gen. Bellegarde, costituisse al di qua delle Alpi, se non un Governo, un'amministrazione interamente nazionale, con un'armata indigena stanziata in Italia, e comandata da uffiziali italiani, e stabilisse istituzioni fondate sul principio rappresentativo. Sarebbe un palliativo, ma un palliativo che darebbe un po' di pazienza a popolazioni assuefatte a soffrire, ed allontanerebbe i pericoli che preoccupano si giustamente la opinione pubblica in Europa.

«La diplomazia, consigliando al Gabinetto di Vienna di seguire la via indicata, farà opera prudente e meritoria, benché noi non possiamo sperare che ottenga i risultati che si propone. L'esperienza di 45 anni non l'ha dimostrato che troppo.

«L'Austria non fa più assegnamento che sulla forza per mantenere la sua dominazione in Italia.

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«Passando alla seconda quistione che gli è stata rivolta, cioè sugli effetti della politica austriaca sull'Italia, il Governo del Re si restringerà nel limite che i trattati e il diritto pubblico europeo tracciano alla diplomazia. Posto su questo terreno, esso non si limiterà ad indicare gli atti illegali dell'Austria, esso indicherà alla sua volta le transazioni europee violate dall'Austria, e domanderà l'esecuzione delle misure necessario per rimediare ai mali che sono stati la conseguenza di codesta violazione. È suo diritto, suo dovere.

«Il trattato di Vienna ha dato molto all'Austria in Italia. Quadruplicando presso a poco il numero de' suoi antichi sudditti, aggiungendo al ducato di Milano, che le apparteneva prima della rivoluzione, la Valtellina, i possedimenti del Papa situati sulla riva sinistra del Po, e tutti gli Stati della Repubblica di Venezia, esso ha distrutto l'equilibrio che esisteva nel passato secolo. Il Piemonte, malgrado l'annessione di Genova, non è stato pili in condizione da formare un contrappeso all'impero, il quale, padrone del corso del Po, dell'Adige, dei principali fiumi dell'Italia settentrionale, era riuscito ad unire i suoi possedimenti italiani co' suoi stati ereditarii.

«Esso si è trovato a fronte d'una Potenza che contava maggior numero di sudditi di lui in Italia, e che disponeva di forze immensamente più considerevoli delle sue.

«Tuttavolta, se l'Austria si fosse mantenuta nei limiti che i trattati le assegnavano, il rimanente dell'Italia avrebbe potuto partecipare ai progressi che si sono fatti in Europa, dopo che cessarono le guerre dell'impero, e formare col Piemonte una barriera efficace contro le influenze straniere nella penisola.

«Ma l'Austria si è sforzata sin dai primi anni che seguirono la Restaurazione con tutti i mezzi che erano in suo potere, ad acquistare in tutta la penisola una influenza preponderante.

«Atteggiandosi a patrona dichiarata di tutti i Governi italiani, per quanto cattivi fossero, intervenendo con forze irresistibili, ogniqualvolta un popolo tentava di ottenere miglioramenti e riforme dal proprio Governo, essa è giunta ad estendere la sua dominazione morale molto al di là delle sue frontiere.

«Noi non riferiremo la storia degli ultimi 40 anni, essa è troppo nota: ci limiteremo a constatare k) stato di cose attuali, dovuto all'opera perseverante della politica austriaca.

«I ducati di Parma, di Modena e di Toscana sono diventati veri feudi dell'impero.

«La dominazione dell'Austria sui due primi è stabilita dalla Convenzione 24 dicembre 1847.

«Questa convenzione dandole il diritto di occuparli colle sue armate, non solo quando lo rìchiegga l'interesse di Parma e di Modena, ma eziandio ogni qualvolta ciò possa essere vantaggioso alle sue operazioni militari, rende l'Austria padrona assoluta di tutta la frontiera orientale della Sardegna, dalle Alpi al Mediterraneo. E non si dica che questa è una vana minaccia, un pericolo immaginario, giacché sono appena tre anni, quando il Congresso di Parigi risuonava ancora delle proteste formulate dal Piemonte, e sostenute dall'Inghilterra contro l'intervento estero in Italia, furono vedute sotto un futile pretesto truppe austriache occupare non solo Parma,

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ma le parti più lontane del ducato, ed accamparsi sulla vetta dogli Appenini, donde dominavano la sponda del mare appartenente alla Sardegna.

L'Austria si considera talmente padrona di fare quello che le convengane gli Stati di Parma, che in ispregio dei trattati, che le danno il solo diritto di presidiare la cittadella di Piacenza, essa ha fatto costruire, e sta ora armando, fortilizi! Staccati dalla cerchia della città, destinati a trasformare Piacenza in un vasto campo trincerato, capace di porre in sicuro un'armata vigorosa.

«Non è meno reale, né meno forte, quantunque meno apparente, il legame che unisce la Toscana all'Austria. Si ignora se esista fra i due Stati un trattato segreto, ma ciò che è certo, si è, che da una parte il Governo toscano può far assegno in ogni tempo ed in ogni circostanza sull'armata dell'Austria per contenere i suoi popoli, e che dall'altra l'Austria è sicura di poter occupare la Toscana se questo le fosse consigliato per caso da un interesse strategico.

«Quanto agli Stati romani il modo di possedere dell'Austria è stato più semplice. Essa li ha occupati ogniqualvolta turbolenze politiche le fornirono un pretesto per farlo. Dopo il 1831 essa già ha passato per ben tre volte il Po, e messo guarnigione nelle città della Romagna. L'ultima occupazione, più compiuta delle precedenti perché si estende fino ad Ancona, dura da 40 anni. Quantunque il Governo romano, abbia testé domandato l'allontanamento delle truppe estere, noi non crediamo che questo provvedimento basti a far cessare le condizioni anormali degli Stati della Santa Sede.

«Se l'allontanamento di queste truppe non è preceduto da radicali riforme in tutti i rami dell'amministrazione, lascierà il campo libero alla rivoluzione. L'anarchia si sostituirebbe all'occupazione straniera, perché si ricorra ben presto e necessariamente a quest'ultima.

«Così l'intervento dell'Austria nel paese ha un tale carattere di permanenza, che si è autorizzati a dire che queste provincie, le quali debbono appartenere ad uno Stato indipendente, sono di fatto sotto il dominio straniero.

«Una sì grande estensione della Potenza austriaca in Italia eccedente le stipulazioni dei trattati, costituisce un pericolo grave per il Piemonte, pericolo contro cui il suo Governo ha diritto di protestare. L'Austria, padrona assoluta del corso del Po, da Pavia sino all'Adriatico, creando sulle nostre frontiere una piazza di guerra' di primo ordine, libera di occupare quando le pare e piace i monti che dovrebbero servirci di baluardo, minacciandoci da ogni parte, ci obbliga a mantenere le nostre forze in un accrescimento rovinoso, sproporzionato alle nostre risorse finanziarie.

«Si osserverà forse che la presenza delle truppe francesi a Roma neutralizza le fona dell'Austria, e diminuisce i pericoli del Piemonte. Nulla di meno esatto. Al punto di vista politico, l'occupazione di Roma per parte della Francia può avere una grande importanza. Sotto il punto di vista militare non ne ha alcuna, per quanto si riferisce alla Sardegna. Se in caso di un'aggressione noi dovessimo fare appello all'appoggio della Francia, le truppe che questa Potenza ha aquartierate nella Provenza ed a' pie' delle Alpi, ci sarebbero d'un soccorso assai più efficace, che non quelle che, isolate a Roma, non potrebbero agire in nostro favore che imbarcandosi a Civitavecchia.

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«Noi pensiamo pertanto che la presenza dei. Francesi a Roma, la quale d'altronde vivamente desideriamo veder cessata, nulla toglie al valore delle lagnanza della Sardegna contro la politica invaditrice dell'Austria. Se l'Austria, soddisfacendo a questi giusti richiami, riconoscesse l'indipendenza assoluta degli altri Stati della Penisola, le condizioni dell'Italia centrale non tarderebbero a migliorarsi considerevolmente. I Governi di coteste contrade, non essendo più. sostenuti dagli eserciti austriaci, sarebbero costretti per necessità a soddisfare ai voti più legittimi delle popolazioni. Ma nell'interesse dell'ordine e [del principio di autorità, affinché codeste concessioni inevitabili non siano loro strappate da disordini e da moti popolari, è necessario che al tempo stesso che si proclamerà il principio del non intervento dell'Austria, i princìpi dell'Italia centrale modifichino profondamente il sistema politico da essi per così lungo tempo seguito, mercé l'appoggio delle baionette straniere.

«Il Gabinetto di Torino è convinto, che sarebbe evitato ogni pericolo di rivoluzione nei ducati di Parma e di Modena, qualora essi fossero dotati di istituzioni conformi a quelle di cui da undici anni gode il Piemonte. L'esperienza di questo paese dimostra che un sistema saviamente liberale, ed applicato con buona fede, può funzionare in Italia nel modo il più soddisfacente, assicurando nel tempo medesimo la pubblica tranquillità ed il regolare sviluppo della civiltà.

«Riguardo alla Toscana, esso crede necessario il ristabilimento della Costituzione del 1848, giurata dal Granduca, e rivocata precisamente allorché, fondandosi sulle istituzioni da lei assicurate, il Granduca veniva instaurato sul suo trono, da cui un moto rivoluzionario lo aveva rovesciato.

«Per quanto concerne gli Stati Pontificii, il Gabinetto di Torino non saprebbe dissimulare che la quistione presenti difficoltà assai più gravi.

«La doppia qualità che nel Sommo Pontefice concorre di capo della Chiesa cattolica e di sovrano temporale, rende quasi impossibile (nei suoi Stati) il sistema costituzionale. Egli non potrebbe acconsentirvi senza correre pericolo di trovarsi sovente in contraddizione con se stesso, e di essere costretto a scegliere tra i suoi doveri come pontefice ed i suoi doveri come principe costituzionale.

Tuttavia, mentre riconosce che è forza rinunziare all'idea di assicurare la tranquillità degli Stati del Papa con un reggime costituzionale, il Gabinetto di Torino pensa che il medesimo scopo si potrebbe quasi ottenere, adottando il progetto, che i plenipotenziarii di S. M. il Re di Sardegna al Congresso di Parigi hanno svolto nella nota del 27 marzo 1856, indirizzata ai ministri di Francia e di Inghilterra. Quésto progetto, che ricevette la piena approvazione di lord Palmerston, si fonda sulla completa separazione amministrativa delle provincia dello Stato Romano, situate tra l'Adriatico, il Po e gli Apennini, e sullo sviluppo presso di esse delle istituzioni municipali e provinciali, che se non furono messe in pratica, vennero tuttavia stabilite in principio dal Papa medesimo al suo ritorno da Gaeta. Questo progetto dovrebbe ora essere completato con lo stabilimento a Roma di una Consulta nominata dai Consigli provinciali, ed a cui sarebbero sottoposte le quistioni relative agli interessi generali dello Stato.

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«Le idee fin qui esposte sono una risposta chiara e precisa alla domanda indirizzata dal Governo di S. M. Britannica al Gabinetto di Torino. Riassumendole risulta che, a suo avviso, sarebbero scongiurati i pericoli di una guerra o di una rivoluzione, e sarebbe temporaneamente assopita la quistione italiana alle condizioni seguenti:

«Ottenendo dall'Austria, non in forza dei trattati, ma in nome dei principii di umanità e di giustizia eterna un Governo nazionale separato per la Lombardia e la Venezia;

«Esigendo, secondo lo spirito e la lettera del trattato di Vienna, che cessi la dominazione sugli Stati dell'Italia centrale, ed in conseguenza ohe i forti staccati costrutti all'infuori del recinto di Piacenza sieno distrutti: che la convenzione del 24 dicembre 1847 sia annullata; che cessi l'occupazione della Romagna; che il principio del non intervento sia proclamato e rispettato;

«Invitando i duchi di Modena e di Parma a dotare i loro Stati di istituzioni conformi a quelle che esistono in Piemonte, ed il granduca di Toscana a rista bili re la Costituzione da lui liberamente accordata nel 1848.

«Ottenendo dal Sommo Pontefice la separazione delle provincie al di qua degli Apennini, in conformità delle proposte comunicato nel 1856 ai Gabinetti di Londra e di Parigi;

«Possa l'Inghilterra ottenere l'adempimento di queste condizioni. L'Italia sollevata e pacificata la benedirà, e la Sardegna che tante volte ne invocò l'aiuto ed il concorso a prò degli sventurati suoi concittadini, le sarà riconoscente per sempre.

Torino, 1° marzo 1859.

«Firmato: C. CAVOUR».

L'articolo del MONITEUR

sui

TIMORI DELLA GERMANIA

(Dall' Armonia del 859, pag. 330).

Pubblichiamo per intiero l'articolo del Moniteur del 10 aprile 1850. Invece delle nostre osservazioni, crediamo più importante di far conoscere ai nostri lettori i commentarii fatti a quest'articolo da un altro giornale ufficiale, cioè la Gazzetta di Milano Ognuno potrà così notare quale contrasto vi sia tra il linguaggio pacifico dei due giornali ufficiali, ed il furore guerresco dei diarii ministeriali del Piemonte. Facciamo però osservare, che la Gazzetta di Milano parla del sunto dell'articolo ricevuto per telegrafo, e non dell'articolo stesso, che non poteva ancora conoscere. Ecco l'articolo del Moniteur.

«Il Governo francese, quanto qualsivoglia altro, comprende e rispetta le suscettività nazionali. Se con le sue intenzioni o con la sua condotta avesse dato alla Germania motivo di timore per la sua indipendenza, invece di non curare lo slancio e gli allarmi del patriottismo germanico, li troverebbe nobili e leggittimi.

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Ma noi non sapremmo credere facilmente ad un partito preconcetto d'ingiustizia contro di noi dalla parte di coloro ai quali non abbiamo dato nessun motivo di sospetto.

La nostra confidenza nell'equità degli altri Stati non è se non l'effetto della lealtà della nostra politica. Quando sono state fatte manifestazioni in alcuni punti della Confederazione Germanica, noi le abbiamo accolte senza commozione, perché confidavamo che la parte sana ed illuminata della Germania riconoscerebbe ben presto che quelle violenze non avevano cagione reale.

«Questa fiducia non è stata delusa. L'agitazione provocata nella stampa e nelle Camere di parecchi Stati tedeschi, invece di propagarsi, tende a calmarsi. Noi siamo lieti di prendere nota di questo fatto.

«Per rendere sospetto il Governo francese si erano fatte risalire sino adesso risponsabilità indirette, attribuendogli una parte nelle opinioni ostili all'indipendenza della Confederazione Germanica, e liberamente pubblicate sotto l'egida di una legislazione la quale non autorizza nessun esame preventivo. Queste opinioni, le quali non impegnano se non i loro autori, sono risuonate in Alemagna con una minaccia; propagate dalla malevolenza, esse hanno seminato l'allarme, ed accreditato forse errori rincrescerli intorno alle intenzioni del Gabinetto delle Tuilerie.

«Quando non si vuole altra cosa se non la giustizia, non si tema la luce. Il Governo francese non ha nulla a nascondere, perché esso è sicuro di non avere a ripudiare nulla. Il contegno da esso preso nella quistione italiana invece di autorizzare le diffidenze dello spirito germanico, deve al contrario ispirare ad esso la pili grande sicurezza. La Francia non saprebbe attaccare in Germania ciò che vorrebbe tutelare in Italia. La sua politica, che ripudia tutte le ambizioni di conquista, non mira ad altro scopo se non a quello di ottenere le soddisfazioni e le guarentigie reclamate dal diritto delle genti, la felicità dei popoli e l'interesse dell'Europa. In Germania, come in Italia, la Francia vuole che le nazionalità riconosciute dai trattati possano mantenersi ed anche fortificarsi, poiché essa le considera come una delle basi essenziali dell'ordine europeo.

«Rappresentare la Francia come ostile alla nazionalità alemanna non è dunque solamente un errore, ma un controsenso. Da dieci anni il Governo dell'imperatore ha sempre adoperato la sua parte d'influenza ad appianare le difficoltà che sorgevano, e a scioglierle dal punto di vista dell'equità e della giustizia. In Ispagna esso ha costantemente sostenuto il trono costituzionale della regina, esercitando una vigilanza disinteressata sui rifuggiti che le rivoluzioni successive avevano gettato sulle nostre frontiere. - In Isvizzera la sua mediazione officiosa ha contribuito ad assestare la vertenza di Neuchatel, la quale poteva produrre complicazioni con la Prussia. - Nella stessa Italia la sua sollecitudine ha anticipato le difficoltà attuali, e dopo avere ristabilito il Papa nella sua autorità, non ha ispirato dovunque se non pensieri di moderazione. - A Napoli, d'accordo con la sua alleata la regina d'Inghilterra, ha cercato di persuadere il Governo delle Due Sicilie a fare riforme, le quali lo avrebbero consolidato. -In Germania, a proposito deUa quistione delicata che era insorta intorno ai Ducati fra la Confederazione e la Danimarca, ha compreso, malgrado le sue simpatie verso la Danimarca, la giusta suscettività del patriottismo tedesco

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per provincie che per tanti legami sono strette al corpo germanico, e non ha fatto ascoltare a Copenaghen altri consigli se non di conciliazione. - Nei principati Danubiani si è sforzato di far trionfare i voti leggittimi di quelle provincie ad oggetto di assicurare anche in quella parte d'Europa l'ordine basalo sugl'interessi nazionali soddisfatti.

La politica della Francia non saprebbe avere due pesi e due misure: essa pesa con la stessa equità gli interessi di tutti i popoli. Ciò che essa vuole farri spettare essa medesima in Alemagna. Non saremo noi che saremmo, minacciati dall'esempio di una Germania nazionale, la quale conciliasse il suo ordinamento federativo con le tendenze unitarie, il cui principio è stato già posto nella grande unione commerciale dello Zollverein. Tutto ciò che nei paesi vicini sviluppa le relazioni creale dal commercio, dalla industria, dal progresso, torna a profitto della civiltà, e tutto ciò che ingrandisce la civiltà innalzala Francia».

La Gazzetta di Milano così si esprime intorno a questa nuova dichiarazione del Moniteur : «Checché si voglia pensare dei disegni dei Governo francese, certo si è che negli ultimi tempi alcuni suoi alti vennero spiegati in un, senso che, agli amici dei pacifico progresso in Europa, fu motivo di apprensione. Noi, i nostri lettori lo sanno, non abbiamo unita mai la nostra voce al grido onde una parte della stampa di diversi paesi - vogliane credere che lo facesse io buona fede - pareva. sforzarsi di rendere a tutto potere malagevoli ai Governi le vie di conciliazione, ed evocare sull'Europa le furie della guerra. E pure adesso crediamo che un accomodamento non solo sia ancor possibile, ma di più che non sia tanto difficile quanto forse può sembrare, purché da ogni parte concorra buon volere e ponderata moderazione, e tengasi un linguaggio chiaro ed aperto.

«In quest'ultimo riguardo non possiamo abbastanza lodarci dell'attuale articolo del Moniteur, dove Francia dichiara senza ambagi, chela sua politica sconfessa ogni ambizione, ogni conquista, e mira a ciò solo che impone il diritto delle genti. Men chiaro all'incontro è quanto l'articolo soggiunge, esigere l'interesse d'Europa in Germania come in Italia, che possano mantenersi ed avvigorirsì le nazionalità riconosciute dai trattati. DalPun canto ci sono sconosciuti i trattati cui qui è fatta allusione; d'altra parte non sappiamo che vi siano tendenze, le quali possano avventurare ij mantenimento della nazionalità italiana; ma senza dubbio si avvigorirà questa soltanto mercé la benefica azione della pace; di una vera pace, non di un latente stato di guerra, quale si ebbe finora in causa dell'agitazione diffusa per anni dal Piemonte.

Era però necessario che, invece di quella esposizione, capace d'interpreta zioni opposte, si fossero adoperati più precisi termini. Ma tutto insieme, colle dichiarazioni che precedono, e con l'altre che vengono appresso, nulla trovasi in quelle parole che faccia co richiudere a complicazioni, le quali non si possano sciogliere nella via di transazioni diplomatiche».

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LETTERA DI NAPOLEONE III

AL

RE DI SARDEGNA,

(Dall' Armonia, n. 80 del, 3 novembre 1859).

Il generale Dabormida reduce da Parigi recava alla Maestà del Re Vittorio Emanuele II una lettera dell'imperatore Napoleone 1)1, che i nostri lettori troveranno più innanzi. Da questa lettera risulta che il governo francese ed iì sardo andarono d'accordo nella loro politica riguardo all'Italia dal Congresso di Parigi fino alla pope di Villafranca. Ma poiché Napoleone III e Francesco Giuseppe d'Austria s'abboccarono insieme e sottoscrissero i famosi preliminari, allora i due Imperatori s'intesero, restando invece uno screzio tra la Sardegna e la Francia.

Egli pare che il nostro governo abbia fatto udire qualche lagnanza all'Imperatore dei Francesi sulla pace di Villafranca, dacché Napoleone III esordisce la sua lettera, avvertendo che «ora non si tratta di sapere, se egli facesse bene o male nel conchiudere questa pace». Il Bonaparte stabilisce gli accordi di Villafranca come un assioma, che non si può discutere, ma dee servire di base a nuovi accordi tra lui ed il Re di Sardegna.

€ Vi scrivo per concertarmi con voi sulla condotta che dobbiamo seguire in futuro», die» Napoleone III al Re Vittorio. Ma taluno potrebbe chiederei perché l'Imperatore de' Francesi non consultava il nostro Re prima di 'stipulare gli accordi coU'Imperatore d'Austria? Perché non gli parlava nel luglio passato, quando amendue trovavansi in Lombardia? Perché aspettò a scrivergli oggidì, che è giuocoforza acconciarsi alle prestabilite determinazioni?

Forse Napoleone III è dolente d'avere stipulato i preliminari di Villafranca senza farne prima una parola al nostro Re, e per non ricadere nella medesima trascuratezza, oggidì lo consulta sulla via da tenersi davanti il prossimo Congresso. Lo consulta però alla sua maniera, tracciando un programma che dee essere seguito concordemente dalla Francia e dalla Sardegna. Se no, no.

Questo programma ha per base la Confederazione italiana sotto la presidenza onoraria del Papa. Qui è il fondamento, e, come a dire, l'idea archetipa di tutto il disegno: unire l'Italia, e unirla sotto la benefica influenza del papato. Attorno a così grande principia si raggruppano alcune idee secondarie e ben diverse dalla principale; ma noi per ora le dissimuleremo.

Le cose sembrano perciò [ridotte a questi ultimi termini: o il governo Sardo vuole unirsi col Francese nel promuovere la Confederazione italiana sotto la presidenza onoraria del Papa; e l'alleanza continua nelle sale della diplomazia, come già sui campi di battaglia.

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Ovvero non piacciono a' governanti del Piemonte le idee napoleoniche, e la Francia si ritira perché ha soddisfatto al suo compito, come già disse lo stesso Napoleone III in un arti» colo del Moniteur.

Osserva il Diritto che quell'articolo e questa lettera sono un atvertimentot e dice bene. Ma che cosa rispondere all'avviso? 11 governo Sardo trovasi a questo bivio, o promuovere la Confederazione italiana sotto la presidenza del Papa ed essere assistito dalla Francia, o fare divorzio da lei, e stringersi colla rivoluzione. La prima cosa è raccomandata da Napoleone III, la seconda dalla maggior parte de' nostri giornali, e fra gli altri dal Diritto di Torino dal Progresso di Milano.

Mostriamoci fieri ed arditi, dice il Diritto del 1° di novembre: e Spesso l'ardimento salvò le nazioni . E questa fierezza e quest'ardimento vuole che noi mostriamo contro Napoleone III, la cui lettera è l'ultima parola d'una cieca avversione alla costituzione d'un regno di dodici milioni di Italiani».

Il Progresso del 38 di ottobre esclama: «L'unità d'Italia non può emergere che dalla rivoluzione E Io Statuto sardo non è un germoglio della rivotazione?... . L'Italia ha un Papa e un collegio di Cardinali da imbarcare a Napoli per l'Irlanda».

Il governo Sardo oggi s'asside arìntro tra la parola di Napoleone III e la parola della rivoluzione. Il primo grida - Confederazione italiana sotto la presidenza del Papa; - e la seconda Unità italiana, e disfarsi del Papa. - Che cosa risponderà il nostro governo? Vorrà continuare l'alleanza colla Francia, o separarsene per collegarsi colla rivoluzione?. Oppure troverà modo di tener a suo servizi» la rivoluzione e la Francia? I fatti risponderanno.

« Mio signor Fratello,.

«Io scrivo oggi» V. M. per esporte la situazione presente degli affari, per rammentarle il passato e per «mettermi d'accordo con lei sulla condotta, che deve essere tenuta per l'avvenire. Le circostanze sono gravi; è necessario lasciar da parte le illusioni e gli sterili rimpianti, e di esaminare accuratamente la reale situazione degli affari. - Così, non si tratta oggi di sapere se io abbia bene o male operato nel conchinder la pace a Villafranca, ma piuttosto di ottenere dal trattato i risultati più favorevoli per la pacificazione dell'Italia e per il riposo dell'Europa.

«Prima di entrare nella discussione di questa questione, io desidero vivamente rammentare ancora una volta a V. M. gli ostacoli che resero tanto difficile qualunque negoziazione e qualunque trattato definitivo.

«In punto di fatto, la guerra presenta spesso minori complicazioni che la pace. Nella prima due soli interessi stanno a fronte l'uno dell'altro: - l'attacco o la difesa; in questa al contrario si tratta di conciliare una moltitudine di interessi, sovente di opposto carattere. È questo precisamente che avvenne al momento della pace. Era necessario conchiudere un trattato che assicurasse nella miglior possibile maniera la indipendenza dell'Italia che soddisfacesse il Piemonte ed i voti della popolazione, e che pertanto non ledesse il sentimento cattolico, od i diritti de Sovrani, per i quali l'Europa provava un interesse.


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«Io quindi credetti, che, se l'Imperator d'Austria desiderava venire ad un leale accordo con me, allo scopo di ottenere questo importante risultato, le cagioni di antagonismo, che per secoli avevano diviso i due Imperi, sarebbero scomparse, ó la rigenerazione d'Italia si sarebbe effettuata di comune accordo e senza nuovo spargimento di sangue.

Indicherò ora quali, a mio credere, sono le condizioni essenziali di questa rigenerazione:

«L'Italia dev'essere formata di pili Stati indipendenti, uniti da un vincolo federale.

«Ciascuno di questi Stati deve adottare un particolare sistema rappresentativo, e delle riforme salutari.

«La Confederazione allora ratificherà il principio della nazionalità italiana; avrà una sola bandiera, un solo sistema di dogane ed una sola moneta.

«Il centro direttivo sarà a Roma, e si comporrà di rappresentanti nominati dai Sovrani sopra una lista preparata dalle Camere, affinché, in questa specie di dieta, l'influenza delle famiglie regnanti sospette di una inclinazione verso l'Austria, venga controbilanciata dall'elemento risultante dall'elezione.

«Coll'accordare al Santo Padre la presidenza onoraria della Confederazione, il sentimento religioso dell'Europa cattolica sarà soddisfatto, l'influenza morale del Papa sarebbe accresciuta in tutta l'Italia, e gli sarebbe permesso di dar concessioni conformi ai voti legittimi delle popolazioni. Ora, il piano che io ho formato al momento di conchiudere la pace, può ancora essere eseguito, ove V. M» voglia impiegare la sua influenza a promuoverlo. Inoltre si è già fatto un passo considerevole in questa direzione.

«La cessione della Lombardia con un debito limitato è un fatto compiuto.

«L'Austria ha rinunciato al suo diritto di tenere guarnigioni nelle fortezze di Piacenza, Ferrara e Cornacchie

«1 diritti dei Sovrani furono, è vero, riservati, ma fu pure guarentita l'indipendenza dell'Italia centrale}, essendo stata formalmente rigettata ogni idea di intervento straniero; ed infine, Venezia dovrà diventare, una provincia puramente italiana. È cosa di reale interesse di V. M. , come pure di quello della Penisola, il secondarmi nello svolgimento di questo piano» allo allo scopo di ottenerne i migliori risultati, perché V. M. non può dimenticare che io sono legato dal trattato; e nel Congresso, che va ad aprirei, io non posso ritirarmi dai miei impegni. La parte della Francia è tracciata già avanti.

«Noi domandiamo che Parma e Piacenza siano unite al Piemonte, perché quel territorio gli è indispensabile dal punto di vista strategico. . «Noi domandiamo che la duchessa di Parma sia chiamata a Modena. .

«Che la Toscana, aumentata, forse, da una porzione di territorio, venga restituita al Granduca Ferdinando.

Che un sistema di saggia libertà venga adottato in tutti gli Stati d'Italia,e Che l'Austria si sciolga francamente da cagioni incessanti d'imbarazzi per l'avvenire,

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consenta a completare la nazionalità della Venezia, creando non solamente una rappresentanza ed un'amministrazione separata, ma anche un'armata italiana.

«Noi domandiamo che Mantova e Peschiera debbano essere riconosciute fortezze federali.

«E, finalmente, che una Confederazione basala sui reali bisogni, come sulle tradizioni della Penisola, ad esclusione di qualunque influenza straniera, abbia a consolidare l'edificio dell'indipendenza d'Italia.

«lo nulla tralascierò onde ottenere questo grande risaltato. Si convinca V. M. che i miei sentimenti non cangieranno, e che, in quanto non vi si oppongano gli interessi della Francia, io mi chiamerò sempre felice di servire la causa, per la quale noi abbiamo combattuto insieme». Palazzo di Steloud, 20 ottobre 1859.

GLI SLEALI INGRANDIMENTI

SECONDO MASSIMO D'AZEGLIO

(Da A rmonia, n. 195, del 6 novembre 1859).

Nel 1849 l'illustre politico Massimo d'Azeglio, che il Progresso di Milano beffardamente chiama Maximus Asellus, era presidente del Consiglio dei ministri, e pubblicava un suo programma che noi abbiamo già accennato, e che gioverà oggi ripetere e attentamente esaminare.

t Una triste esperienza, diceva il cavaliere d'Azeglio, ha dimostrato in Italia che le antipatie municipali rendono impossibili le fusioni, che ad ogni modo sarebbero viÉtate dall'Europa. Conviene rassicurare gli Stati italiani contro progetti di sleali ingrandimenti, e persuaderli che la vera politica d'Italia è la benevolenza non l'invidia, l'unione non la discordia».

Se il cavaliere d'Azeglio non avesse scritto nessuno de' suoi romanzi, né dipinto nessuno de' suoi bellissimi paesaggi; se non si fosse segnalato altrimenti in Italia né per la commedia, né per la tragedia, né per la musica; se non fosse stato militare, ministro, giornalista, senatore; se non avesse scritto che le poche linee riferite testò, queste basterebbero, a nostro avviso, per procacciargli riputazione immortale d'uomo perspicace, coraggioso ed onesto.

Il cavaliere d'Azeglio non è uno di que' politici fantastici che non tengono conto del passato, ma come uomo positivo va a scuola dall' esperienza e ricava profitto dalle sue lezioni. E che cosa gli ha insegnato l'esperienza in Italia ed in Europa? Gli ha insegnato due cose: 1° Che in Italia non sono possibili le fusioni; 2° Che ad ogni modo sarebbero viÉtate dall'Europa.

Un mese fa, certuni stavano per dar la baia al cavaliere d'Azeglio, e rimproverarlo d'avere sbagliato, perché tutta l'Italia centrale fondevasi unanimemente col Piemonte, e parea che l'Europa applaudisse. Lo stesso cavaliere $fassimo dubitava della veracità delle sue affermazioni, e proponeva al governo di affrettare le fusioni.

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Ma i risultati dell'esperienza non falliscono mai. Oggidì noi tocchiamo con mano che le fusioni in Italia sono impossibili. Gli stessi liberali lo confessano, e chiedono eoi Momento che ai lasci la vita propria alla Lombardia, e proclamano col Progresso, che «pessimo fra tutti i pensieri, sarebbe quello di equiparare la capitale della Lega Lombarda a Biella o ad Ivrea, la patria del Ferraccio a Vercelli eda Novara, la capitale del mondo Romano a Cuneo o ad Acqui, la regina delle Lagune a Mondo vi od a Saluzzo».

E il nostro ministero convinto dì questa verità ha deciso di stabilire nello Stato contemporaneamente tre capitali, Torino, dove risiederà il Re ed il Parlamento; Milano sede principale dell'ordine giudiziario, e Genova centro della marina militare.

Il ritrovalo è buono, perché finora non abbiamo che tre grandi città storione, e degne del maggiore riguardo. Ma che cosa si potrebbe poi dare a Parma, a Modena, a Bologna, a Ferrara, a Firenze, a Pisa, a Lucca? Massimo d'Azeglio si è apposto: le fusioni ih Italia non sono possibili.

E se fossero possibili pel genio e per le tradizioni de' popoli italiani, lo sarebbero poi pel consentimento dell'Europa? L'esimio pubblicista d'Azeglio nel 1849 rispose di no, ed oggidì nel 1859 si verifica la sola previsione. Nessuna delle primarie Potenze europee vuole che il Piemonte s'allarghi straordinariamente in Italia. Francia stessa, che pure ha sposato le nostre parli, vi si oppone. II Congresso se dovrà radunarsi, sarà unanime contro l'annessione di Toscana, Modena, Romagna alla Sardegna.

Ora posti questi due principii, che in Italia non sieno possibili le fusioni, né per riguardo alla Penisola, né per riguardo all'Europa, il cavaliere Massimo d'Azeglio con potenza di logica ne derivava una conseguenza pratica per la politica piemontese, e dicea: Conviene rassicurare gli Stati italiani contro progetti di sleali ingrandimenti.

Chi sa che cosa intendeva il cavaliere Massimo per ingrandimenti sleali? Se taluno nel 1849 si fosse fatto ad interrogarlo, dicendogli: - Cavaliere, l'annessione della Toscana al Piemonte a danno del Granduca, è un ingrandii mento leale? E l'annessione del Ducato di Modena a' pregiudizio del duca Francesco V, è un ingrandimento leale? E l'annessione delle Romagne in seguito alla spogliazione del Papa è un ingrandimento leale? E l'annessione di Parma contro la volontà del legittimo Principe è un ingrandimento leale? A questa domanda mettiam pegno che il cavaliere d'Azeglio avrebbe risposto, no.

Ed oggi credete voi che il Cavaliere possa rispondere sì? Quel Cavaliere che ha rimproverato due coscienze a non sappiamo più qual ministro; quel Cavaliere che giorni fa conchiudeva un suo articolo, dicendo: l'Europa giudicherà tra l'asserzione dei Gesuiti e di Massimo d'Azeglio, applicando a se stesso il tanto nomini nullum par elogium; quel Cavaliere pensate voi che possa sti mare leale nel 1859 un ingrandimento che dichiarava sleale nel 1849?

Non è possibile: Massimo d'Azeglio non muta, ed oggi ancora è pronto a ripetere ai ministri, ed osiamo noi dirlo in suo nome certi di non essere smentiti: Conviene rassicurare gli stati italiani contro progetti di sleali ingrandimenti.

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Conviene dire alla Casa di Lorena: la Toscana è vostra; alla Cast d'Este: Modena è vostra; ai Borboni: Parma è vostra; a Pio IX: le Romagne sono vostre. Allora tutti diranno che il Piemonte e la Lombardia sono nostri; che la Savoia e il Nizzardo sono nostri; che nostre sono la Liguria e la Sardegna.

Rassicurati così gli Stati italiani, Massimo d'Azeglio piantava le basi della vera politica subalpina, e procedeva in questo con doppio metodo, negativo escludendo, positivo affermando. La politica dell'invidia, che aspira al dominio altrui, non è buona; la politica della discordia che suscita la rivoluzione in casa altrui, è pessima. Dunque il Piemonte dee rigettarla.

La vera politica d'Italia, secondo il nostro esimi pubblicista, dee essere la benevolenza e l'unione; benevolenza verso i popoli italiani, unione coi legittimi Principi. Nel 1849 il nostro Massimo ebbe l'eroico coraggio di proclamare che in Italia bisogna mutare i popoli e non i principi. Dunque la politica piemontese, ben lungi dallo spodestare i principi, dee aiutarli a migliorare i popoli.

AL

PRINCIPE DI CARIGNANO

PROCLAMATO REGGENTE D'ITALIA CENTRALE

(Dall'armonia, q. 498, del 40 novembre 1860).

Altezza Reale,

Uffizio del giornalismo è non solo di raccontare e giudicare i fatti che avvengono, ma eziandio di impedire per quanto è possibile, quelli che stanno per arrivare, disapprovandoli anticipatamente, e mostrandone la reità e i pericoli, E noi, Altezza Reale, per soddisfare al debito nostro, finché non abbiate accettato la Reggenza dell'Italia centrale, che Vi venne offerta di questi giorni, Vi esporremo francamente le ragion», per cui non può essere accettata.

La prima di tutte, Augusto Principe, è questa, che coloro i quali Vi offrono a Reggenza non ne hanno l'autorità, e vogliono darvi ciò che loro non appartiene. Non ne hanno l'autorità, perché non sono vacanti i troni di Toscana, di Modena, di Parma e delle Romagne, ma esistono i loro legittimi Principi, che non rinunziarono finora, né intendono di rinunziare ai proprii diritti.

Non ne hanno l'autorità, perché le quattro Assemblee non rappresentano il popolo, essendo state elette da una semplice minoranza, mentre il più dei cittadini con ammirabile fedeltà si astennero dal pigliar parte ad una votazione, la quale ingiuriava i Sovrani col solo mettere in forse l'inviolabile loro potere.

Non ne hanno l'autorità, perché le quattro Assemblee già offerirono fa corona dell'Italia centrale al re Vittorio Emanuele II. Ora noi diciamo: o tale offerta venne accettata, o rifiutata. Se accettata, tocca al Re nominare il Reggente non a que' di Modena, di Parma, di Toscana o di Romagne; se rifiutata, perché cercare il Reggente quando manca tuttavia il Re?

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Noi osiamo, Augusto Principe, sottoporre alla Vostra saviezza e prudenza una semplice considerazione. Se Genova nel 1849, quando si sottrasse al liberale e paterno dominio di Carlo Alberto, avesse offerto se stessa al Duca di Modena, o al Granduca di Toscana, o al Papa, avrebbero essi accettato? Rispondiamo francamente del no, e tutti sentono nel loro cuore la verità di questa risposta, e Voi pi ti di tutti, o Principe, la sentite.

Anzi riguardo al Papa Pio IX è un fatto positivo, e ne abbiamo in prova l'Allocuzione del 29 di aprile 1848. A que' giorni i rivoluzionari voleano creare il Romano Pontefice Re d'Italia ed allargare di molto i confini del suo Principato, spodestando gli altri Sovrani. E che cosa rispose Pio IX a tale offerta?

Uditene, Altezza, ed ammiratene le parole:

«Quanto a Noi, di bel nuovo dichiariamo che il Romano Pontefice adopera tutti i suoi pensieri, cure, studi, affinché ogni giorno il regno di Cristo, che è la Chiesa, riceva sempre maggiori incrementi; e non già perché si dilatino i confini di quel eitile Principato di cui la divina Previdenza volle arricchita la S. Sede, per sostenere la sua dignità, ed il libero esercizio del supremo Apostolato. Pertanto errano a gran partito coloro che si danno a credere poter l'animo Nostro venir sedotto dal desiderio di una più ampia temporale dominazione, e farsi che Ci gettiamo perciò in mezzo al. tumulto delle armi .

Permetteteci, Altezza Reale, di notarvi qui due cose del maggior rilievo: La singolare mobilità dei rivoluzionari, i quali ora spogliano quel Principe che dodici anni fa non solo volevano conservare, ma eziandio arricchire delle spoglie altrui; e il sublime disinteresse di Pio IX, che amò meglio patire gli insulti e le persecuzioni onde da tanto tempo è fatto segno, che usurpare un palmo dei possedimenti degli altri principi della Penisola.

E mentre il Sovrano Pontefice si fé' pubblico difensore dei diritti di Casa Savoia, e predicò solennemente ai popoli obbedienza e docilità ai loro Sovrani, sarà egli possibile che Voi, Altezza Reale, Vi rechiate nelle Romagne a pigliare il suo posto? Deh1 perdonate a coloro che furono così temerari da farvi una simile proposizione. Essi non conobbero né la Vostra religione, né la bontà dell'animo Vostro, né il Vostro amore al Piemonte ed all'Italia.

SI, augusto Principe, dove fosse accettata l'offerta che Vi venne fatta della Reggenza dell'Italia centrale, riuscirebbe a gravissimo danno del Piemonte e della intiera Penisola. Tale accettazione scioglierebbe necessariamente la lega sardo-franca, poiché Napoleone III, avendo dichiarato di voler la ristaurazione degli Arciduchi, ed il mantenimento di Pio IX in tutti i suoi diritti di Sovrano, non potrebbe in veruna guisa rimaner collegato con chi si opponesse tanto chiaramente a' suoi disegni.

E poi indisporrebbe contro il Piemonte il Congresso Europeo, che sta per radunarsi, mentre renderebbe nulla l'opera sua, abbracciando anticipatamente una risoluzione che fu riservata alle grandi Potenze.

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E finalmente getterebbe in Italia il seme di nuove ed eterne discordie religiose e politiche, e potrebbe accendere una guerra fratricida, con grandissimo danno della patria nostra, che si troverebbe ridotta all'ultimo eccidio, quando sognava un nazionale risorgimento.

La voce della religione, Augusto Principe, la voce della giustizia, la voce della patria, concordi Vi dicono di non accettare la Reggenza che Vi venne offerta. Non potrebbe mai più esser felice un dominio sorto a danno del Papa, e che, invece di riscuotere le benedizioni di Dio, sfidasse le censure della Chiesa. Nessuno de' vostri gloriosi antenati, o Altezza, nessuno si presterebbe ad occupare un trono tolto ai legittimi principi, e Voi non sarete degenere.

Perdonate, o Principe, la libertà di queste parole: e forse un giorno riconoscerete quanto fossero savie e benevole verso di Voi. E fin d'ora potete far ragione che chi ha il costume di spogliare i sovrani e trasferire i regni, è di difficile contentatura, e toglie di leggieri quello che ha dato. Laddove chi per amor della giustizia piglia a sostenere le parti di principi forastieri, esuli e spodestati, con ciò solo dimostra con quanto zelo e con quanto affetto saprebbe in ogni caso sostenere le parti del proprio Sovrano.

QUARANTA MILIONI

PER

L'ITALIA CENTRALE.

(Dall'Armonia, n. 244, del 25 novembre 1849).

Il Principe di Carignano, enniniziando, il 14 di novembre, al commendatore Carlo BonCompagni d'averlo «designato al nobile uffizio di recarsi nell'Italia centrale, e di reggere quelle provincie», dichiarava che il governo piemontese non rifiuterebbe, entro il limite del possibile, di venire in aiuto di quei poeti per facilitar loro la contrattazione di un prestito, ove fosse necessario.

I Ricasoli ed i Farini non sei fecero dire due volle; presero in parola il Principe e il ministero, e domandarono al ricchissimo Piemonte un prestito per provvedere alle urgenti necessità. La somma dapprincipio era straordinaria, e si parlava d'un cento milioni; ma poi, come avviene tra chi negozia, le parti modificarono i loro desiderii, e caddero d'accordo, che il governo piemontese avrebbe procacciato all'Italia centrale un prestito di quaranta milioni l

E il 21 del corrente novembre eccoti il foglio ufficiale annunziare, che un R. Decreto, sottoscritto il 20, conteneva alcune disposizioni finanziarie per la Toscana» Era una sciarada, che dai sciaradisti dell'Opinione venne spiegata così: «Per provvedere a qualunque emergenza finanziaria si tratta d'un imprestito di quaranta milioni». Ma la Gazzetta Piemontese avea parlato solo della Toscana, e l'Eccelso Farini andò sulle tane. Come? scritte egli: Tatti i quaranta milioni per la Toscana? E nulla per me? Per il povero Farini nulla? Folla per Modena? Nulla per Panna? E per Bologna, e per le Romagne nulla?

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Un'errata-corrige venne a consolare l' Eccelso; il foglio officiale, conservando il suo misterioso stile, avvertì ohe le alcune disposizioni finanziarie si riferivano eziandio alle altre provincie dell'Italia centrale; poi si mandò per un banchiere, s'intavolarono negoziati, e a giorni, sotto la risponsabilità del Piemonte, ossia a carico de' Piemontesi, i spediranno nei recenti domini del Boncompagni quaranta milioni per provvedere a qualunque emergenza!

Facciamo qualche riflessione economica e politica su questo fatto, sia per riguardo alle provincie soccorse, sia per riguardo al paese che soccorre. Così sotto l'uno, come sotto l'altro rispetto questo nuovo avvenimento dei quaranta milioni è eloquentissima.

Fidatevi dei rivoluzionari I Due giorni fa pubblicavano i loro bilanci, e davano a credere ai gonzi d'avere ristorato le finanze con una scrupolosa amministra ione, e di trovarsi, come talvolta gli Stati Uniti d'America, negli impicci dell'abbondanza, e nei soverchio dell'oro.

Invece risulta ohe sono nella miseria, e che hanno bisogno del Piemonte per andare innanzi. E questa è forse l'unica verità che abbiano detto que' signori. Il Times ce l'aveva già pronunziata, giacché, sotto la data di Firenze, 10 di novembre, scrivea le seguenti parole: e La moltiplicità delle funzioni, e l'aumento de' salari e delle pensioni giunsero a tal punto nell'Italia centrale, e sopratutto nei Ducati e nelle Legazioni, che il Reggente, se mai prende possesso del potere, scoprirà essere quasi impossibile di ristabilire l'ordine dal lato economico».

Il BonCompagni, essendosi recato nell'Italia per l'ordine, era mestieri che ci andasse con un po' di danaro. E il provvido nostro Ministero inviollo con quattro segretari e quaranta milioni. E a che cosa serviranno questi quaranta milioni? Oh bella! siete di sì corta memoria? Avete dimenticato come un mese fa il dispaccio telegrafico dicesse: «Le condizioni finanziarie dell'Italia centrale sono tali che, se non si provvede, il ritorno dei Duchi è inevitabile? Questo ritorno provocherebbe disordine, e il BonCompagni per mantenere l'ordine si è armato di quaranta milioni.

L'oro fa miracoli, ha confessato nella Camera dei Deputati l'ingenuo e candidissimo ex-ministro Ponza di S. Martino, e se lord Normanby nella lettera che, l'11 di settembre, indirizzava al

Morning-post, disse il vero, pare che il taumaturgo BonCompagni conosca l'arte di operar miracoli nella Toscana, e vi si sia esercitato fin dall'aprile dell'anno corrente.

Del resto il prestito di quaranta milioni, che ora fa il Piemonte all'Italia centrale, prova tre cose: 1 che i governi rivoluzionati sono tristamente scialacquatori; 2 che i governi dell'Italia centrale non sono secondati dal voto e dall'affetto delle popolazioni; 3 che questi medesimi governi hanno perduto ogni credito in faccia all'Europa.

La rivoluzione francese ha preso tre bilioni al Clero, cinque bilioni agli emigrati, l'argenteria delle Chiese, i beni della Corona, le campane, le gioie, impose tasse, imprestiti forzati, creò tanti assegnati per lire 33,430,484,023. Nel 1798 la tesoreria nazionale pubblicava gli stati officiali per rendere conto di novantasei bilioni spesi dopo il principio della rivoluzione. E il 36 di settembre del 1797

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lo Stato facea pubblicamente una bancarotta di cinquanta bilioni (1).

Credete voi che, se le cose continuano, i quaranta milioni basteranno all'Italia centrale? Nonostante il BonCompagni e i suoi quattro segretari, tenete per certo che quando i legittimi principi ritorneranno (e ritorneranno 1), le finanze troverannosi sotto sopra come quelle di Francia, quando Napoleone I vi giunse reduce dalla spedizione dell'Egitto. Allora, ci racconta Bourienne nette sue Memorie, che il Bonaparte non poté rinvenire nell'erario lire 4,600 per mandare un corriere in Italia.

Ma se i governi di Toscana, Modena, Parma e Romagne sono spiantati, perché non ricorrono al patriottismo dei cittadini? Ben sappiamo questo perché. Gli esperimenti fatti coi primi imprestiti riuscirono così a male da toglier loro la voglia di tentare una seconda prova. E ciò vuoi dire che le popolazioni non amano quei governi. In Piemonte s'invoca Io straordinario concorso al prestito" come una dimostrazione nazionale; epperò l'impossibilità di un prestito per parte dei governi dell'Italia centrale devesi interpretare come dimostrazione antinazionale, intesa la nazione nel senso dei rivoluzionari.

Che razza di governo popolare è quello in cui i Deputati non sono eletti nemmeno da un terzo degli elettori, i Consiglieri municipali non possono venire eletti in nessun modo, e piuttosto che dare un soldo i cittadini lasciano che la barracca vada in aria. E mentre ciò avviene nell'Italia centrale i giornali ci dicono che il Duca di Modena trovò un vistoso imprestiti) nella stessa città di Milano!

Finalmente, notate Io scredito incili i governi rivoluzionari di Toscana,Romagne, Parma, e Modena sono presso tutti i banchieri d'Europa, compresi quelli che vivono nelle stesse città rivoltato. Essi non vogliono imprestare nulla, perché temono di non poter più riavere un centesimo. E faranno benissimo i governi legittimi, se a suo tempo lasceranno che chi ha contratto i debiti li paghi. Il pontificio, tra gli altri, ha dovuto sudare otto anni per rimettere in ordine le finanze depauperate dalla repubblica mazziniana. Ed ora che era riuscito felicemente al suo scopo, ecco nuove rivolte, nuovi scialacqui, nuovi debiti!

Che diremo poi del Piemonte, il quale aggrava se stesso per l'Italia centrale? I Rattazzi e compagnia continuano nel 1859 ciò che hanno intrapreso dieci anni fa, quando votavano sussidii per Venezia, la gran mendica. E dove riuscirono que sussidii? Ad accrescere la cifra de' nostri debiti, e non ad altro.

In meno di un mese la libertà ci costò cara! Cento milioni da pagare all'Austria pel debito della Lombardia; chi sa quanti milioni da pagare pel Monte Lombardo; sessanta milioni d'indennità alla Francia; quaranta milioni per le fortificazioni; quaranta milioni per l'Italia centrale; cento milioni di prestito per noi, aumento di stipendio ai ministri e a tutti i maggiori impiegati;

governatori con grassi stipendii e grassissime spese di rappresentanza

; spese straordinarie, e nuove e maggiori spese da aggiungersi ai bilanci passati, pensioni da pagare agli antichi impiegati dell'Austria, dove andremo a parare?

- C'è la Lombardia, soggiungono i ministri. Le nostre rendite raddoppieranno, grida il signor Oytana, e si frega le mani alla maniera del conte di Cavour.

(1) Granier de Cassagnac, Histoire du Directoire, 1. 1, parte II.

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Poveri Lombardi! Come vi fanno i conti addosso! Noi risponderemo ai calcoli dei ministri sulla Lombardia colle parole stampate dal deputato Borella nella Gazzetta del Popolo del 17 di novembre, N» 304:

«Un momento, o ministri. La Lombardia è stata aggiunta al Piemonte, ma con i conti di Zurigo, senza le sue naturali fortezze, e con un passeraio d'impiegati, doppio del necessario da intrattenere per loro vita natural durante. Cosicché per quanto sia ricca la Lombardia, io sospetto fortemente che le sue entrate locali bastino ai bisogni locali.

«Comunque, io vi domando se abbiate già fatto sopra di essa il bilancio attivo presuntivo, o almeno almeno se abbiate già incominciate colà le operazioni preparatorie per impiantarvi le nostre imposte. No, voi non le avete ancora cominciate, che diversamente i guaiti dei giornali milanesi ce ne avrebbero già avvertiti. Dunque voi aumentate le spese a casaccio, all'uso dei prodighi».

I TRATTATI DI ZURIGO

E LE

CORPORAZIONI RELIGIOSE

(Dall'Armonia, n. 214, del 29 novembre 1859).

Nei trattati di Zurigo parlasi per ben quattro volte de' frati e dell'inviolabile loro proprietà, e si appongono condizioni alla cessione della Lombardia, affinché, passata questa sotto il governo de' nostri ministri, le corporazioni religiose non abbiano a patire la iattura de' loro beni.

Si parla de' frati all'art. 16° del trattato conchiuso tra l'Austria e la Francia, che dice così: e Le corporazioni religiose stabilite in Lombardia potranno liberamente disporre delle loro proprietà mobili ed immobili, nel caso in cui la nuova legislazione, sotto cui esse passano, non permettesse il mantenimento da' loro stabilimenti».

Si parla de' frati all'articolo 2° del trattato conchiuso tra la Francia e la Sardegna, col quale questa accetta gli oneri assuntisi dalla Francia, e le condizioni sotto cui venne ceduta la Lombardia, e principalmente quella di lasciare alle corporazioni religiose la libera disposizione delle loro proprietà.

Si parla de' frati all'articolo 9° del trattato collettivo tra la Sardegna, l'Austria e la Francia, dove dichiarasi che e le corporazioni religiose, le quali avessero versato somme a titolo di guarentigia, o depositi e consegne nelle casse della Lombardia, saranno esattamente rimborsate dal governo sardo».

Si parla finalmente de frati nell'articolo 16° di questo medesimo trattato, che è del seguente tenore: e Le corporazioni religiose stabilite in Lombardia, la cui esistenza non fosse autorizzata dalla legislazione sarda, potranno liberamente disporre delle loro proprietà mobili ed immobili.

Francia ed Austria capirono che i frati e le monache, passando sotto il governo di Urbano Rattazzi e le inquisizioni della Gazzetta del Popolo, non venivano a sdraiarsi su di un letto di rose.

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Videro invece la nostra Gassa Ecclesiastica colla bocca spalancata per ingoiare le proprietà delle corporazioni lombarde, e stimarono conveniente di mettere al cerbero ben quattro musoliere.

Ne siamo lieti pei frati, e dolenti per noi. Sì, dolenti per noi, giacché i quattro articoli citati non ci fanno onore. Sotto uno Statuto che dichiara la proprietà inviolabile, e la religione cattolica, sola religione dello Stato, non avrebbe dovuto essere necessario che Francia ed Austria' assicurassero con tre trattati e quattro articoli i beni mobili ed immobili delle corporazioni religiose della Lombardia.

Quest'assicurazione per parte dell'Austria e della Francia è una splendida ritrattazione del passato di queste due nazioni, e un bell'omaggio che resero amendue ai principii ed alle dottrine della Chiesa cattolica.

L'Austria sgraziatamente ci avea preceduti nell'istituzione della così detta Cassa Ecclesiastica; imperocché gli Italianissimi non seppero far altro finora che raccogliere i cenci altrui e vestirsene a festa.

Giuseppe II disfaceva duemila ventiquattro monasteri, aboliva gli ordini di vita contemplativa; Certosini, Carmelitani, Olivetani, Camaldolesi, Clarisse, Cappuccine, traendone al fisco i beni; e più tardi sopprimeva anche i Benedettini, Premonstratensi, Domenicani, Paolotti, Trini tari, Cistercensi, Serviti, Francescani. Del loro patrimonio formava un fondo di religione, che dicea destinato a dotare nove parrocchie.

Le usurpazioni di quell'Imperatore parte furono castigate dalla giustizia di Dio, durante ancora la sua vita, parte pesano oggidì terribilmente sui suoi successori. Ma noi siamo lieti di questa solenne riparazione, che l'Austria da alla Chiesa, assicurando le proprietà delle corporazioni religiose in quella medesima Lombardia, dove già sacrilegamente Giuseppe II le incamerava.

Una simile riparazione ha dato alla Chiesa la Francia, contribuendo ad assicurare in Lombardia i beni ecclesiastici, ed indirettamente dichiarando che le corporazioni religiose ne hanno il pieno e perfetto dominio. Imperocché tutti sanno che i grandi principii dell'ottantanove stabilivano un'altra dottrina, e considerando come proprietà nazionale i beni del Clero, ne spogliavano i legittimi proprietarii per darli al fisco.

Oggidì un Napoleonide, in quella che si dichiara fautore di quei grandi principii, tuttavia a fatti ne impedisce l'applicazione, e contribuendo a guarentire i possedimenti mobili ed immobili delle corporazioni religiose in Lombardia, riesce a condannare quei governi che spogliarono in Francia queste corporazioni medesime.

Che diremo ora del Piemonte e del suo plenipotenziario? Il cavaliere Des-Ambrois è quello che ha proposto nel Senato del Regno il ripiego della Cassa Ecclesiastica, la quale produce frutti così ubertosi! Anzi è ancora oggidì uno dei primi della Commissione di sorveglianza della Cassa Ecclesiastica, di cui diremo domani come sorvegli!

Il 6 di luglio del 1850, il cavaliere Des-Ambrois sottoscriveva una Relazione assegnata al Re sullo Stato e sulle operazioni di questa Cassa, e nello stesso mese partiva per Zurigo, dove il 10 di novembre sottoscriveva due trattati, nei quali, dichiarandosi le corporazioni religiose padrone assolute del fatto proprio,

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si condannava il principio, sul quale la Cassa Ecclesiastica erasi stabilita.

O il signor Des-Ambrois credeva che lo Stato per diritto di vacanza, secondo la frase memoranda del conte Sclopis, avesse il diritto d'impossessarsi dei beni dei convenire dei monasteri; e allora perché ha sottoscritto due trattati che apertamente violano questo preteso diritto dello Stato?

Oppure il signor Des-Ambrois crede che le corporazioni religiose possano liberamente disporre delle loro proprietà mobili ed immobili, ed allora perché ha proposto al Senato la Gassa Ecclesiastica? Perché ha accettato di far parte della Commissione di sorveglianza? Perché non si prevale dell'iniziativa parlamentare affine di mettere in armonia le leggi del Piemonte coi trattati di Zurigo?

Intanto dopo questi trattati le corporazioni religiose piemontesi, sarde, liguri, savoine dovranno faticar molto per difendersi da un riflesso che si affaccia spontaneo alla mente. Il riflesso è questo: - se le dette corporazioni invece di godere in beneficio dello Statuto, che dichiara inviolabili le proprietà d'ogni genere, avessero appartenuto agli Stati austriaci, oggidì Gesuiti, Oblati, Domenicani) Filippini, monache di S. Croce, e via dicendo, potrebbero disporre liberamente dette toro proprietà mobili ed immobili!

Lungi però dalla mente un tal riflesso, e parliamo d'altro. Parliamo della Provvidenza di Dio, che trae cosi sapientemente il bene dal male! Ed è un bene immenso questa ricognizione della proprietà ecclesiastica in tre trattati pubblici, da tre Potenze, come Austria Francia e Sardegna. La diplomazia non ci aveva avvezzati a simili dichiarazioni, e solea per lo innanzi considerare i frati e le monache come un fuor d'opera.

. E non vi pare che gli articoli dei trattati di Zurigo si possano a fortiori ap~ plicare alla questione romana? Sì certamente. Se le corporazioni religiose hanno un pieno diritto sui loro antichi possedimenti, il romano Pontefice non avrà un diritto pienissimo su suoi antichissimi Stati? Se Francia ed Austria assicurarono a' frati ed alle monache il possesso dei loro beni, perché non assicurarono al Papa ed alla Chiesa que' dominii onde ha tanto bisogno il cattolicismo? E il Piemonte obbligato a rispettare, ad esempio, un convento di Cappuccini, non dovrà con molta maggior ragione riverire le Romagne, e lasciarle a Pio IX?. E poiché siamo entrati a parlare del Papa facciamo un'altra riflessione. Quando discutevasi nel nostro Parlamento sulla sorte dei beni della Chiesa in Piemonte, noi dicevamo che nulla potevasi risolvere senza il consenso del Papa. -11 Papa? gridavano i nostri avversar!: è una Potenza straniera, che non s'ha ad immischiare in casa nostra: non dobbiamo e non vogliamo dipendere da lui; lo Stato è sovrano, e dispone delle cose a suo talento.

Ebbene, che cosa è avvenuto? Voi che non avete voluto dipendere dal Papa nelle questioni relative ai frati ed alle monache, doveste o dovrete dipendere dall'Austria e dalla Francia. Quei quattro articoli scritti ne' trattati di Zurigo offriranno occasione ai governi francese ed austriaco d'ingerirsi nelle nostre questioni, e quind'innanzi, se toccherete i beni delle corporazioni religiose in Lombardia, dovrete temere qualche cosa di più sensibile che una scomunica.

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Quanto a noi avremmo amato meglio di obbedire alla forza morale dei concordati, che farci legar da' trattati diplomatici guarentiti dalla forza dei battaglioni.

______________

I Genovesi offerirono ai Romani due cannoni, che vennero lavorati nella regia fonderia di Torino. Sono fregiati dalla tiara e delle chiavi di S. Pietro, e portano l'arma di Genova. All'uno fu imposto il nome di S. Pietro ed all'altro di Pio IX. Il loro calibro è da otto libbre, e l'affusto è colorito in azzurro. Perché il lettore non prenda abbaglio, l'avvertiamo che questa notizia ha la data del gennaio 1848. Nel novembre del 1859 il Consiglio Municipale di Genova compra fucili contro il Papa, e questo Papa è Pio IX.

LEGGI E DECRETI

PER

COMPIERE LA RIVOLUZIONE ITALIANA

DAL 26 APRILE 1859 AL 5 MARZO 1863.

26 aprile 1859. R. Decreto col quale S. A. R. il Principe Eugenio di Savoia-Carignano è nominato luogotenente generale di S. M. nel regno durante la sua assenza dalla capitale (3,347) (1).

8 giugno 1859. R. Decreto che provvede all'amministrazione delle provincie lombarde (3,425).

Il id. R. Decreto che estende il corso obbligatorio dei biglietti della Banca Nazionale a quelle parli di territorio Lombardo-Veneto e dei ducati di Parma e Modena che saranno occupati dalle truppe franco-sarde (3,427).

id. id. R. Decreto che istituisce temporaneamente presso il ministero degli affari esteri una direzione generale per gli affari riguardanti le provincie unite o poste sotto la protezione di S. M. (3,428).

14 id. R. Decreto che ordina pubblicarsi nelle provincie della Lombardia ed in quelle che verranno sottoposte al R. Governo le leggi e regolamenti relativi alle amministrazioni postali e telegrafiche ivi menzionate (3,444).

id. R. Decreto che provvede al reggimento temporaneo delle provincie Parmensi (3,440).

id. id. R. Decreto che provvede al reggimento temporaneo delle provincie Modenesi (3,441).

16 id. R. Decreto che scioglie le congregazioni centrali e provinciali della Lombardia (3,442).

17 id. R. Decreto col quale è rimessa in vigore, salve alcune modificazioni ed aggiunte, la patente sovrana del 18 dicembre 1820, concernente la coscrizione militare nel regno Lombardo-Veneto (3,432).

(1) Le cifre chiuse fra parentesi infine del capoverso indicano il numero d'ordine della Raccolta delle leggi.

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20 id. R. Decreto col quale si mantengono in vigore le imposte dirette ed indirette nelle provincie Parmensi (3,478).

id. id. Idem per le provincie Modenesi (3,476).

24 id. R. Decreto che abolisce l'obbligo d'inserire nella Raccolta Ufficiale la traduzione dal francese degli atti del governo che riflettono le provincie italiane annesse ai Regi Stati (3,473).

30 id. R. Decreto che scioglie i corpi H truppe parmensi e provvede per i militi che vi appartengono (3,533).

2 luglio id. R. Decreto col quale si danno provvedimenti per l'acquisto di buoni del Tesoro e pel loro pagamento nelle provincie annesse (3,484).

5 id. R. Decreto che istituisce nella Lombardia e nei ducati di Parma, Piacenza e Modena, comandi generali di divisioni militari (3,559).

9 id. R. Decreto che abolisce le linee doganali interne tra le antiche e le nuove provincie ed estende a queste ultime la tariffa doganale sarda (3,493).

24 id. Legge che istituisce in Milano un tribunale di terza istanza per gli affari che erano di competenza della Corte suprema in Vienna (3,573).

31 id. R. Decreto col quale viene ordinato che cessino i pieni poteri conferii al governatore di Lombardia (3,537).

15 settembre id. R. Decreto col quale è fatta facoltà al ministero dei lavori pubblici di chiamare due fra gli ingegneri in servizio nelle provincie lombarde a sedere temporariamente nel congresso permanente d'acque e strade con voce deliberativa (3,616).

1 ottobre id. Legge che approva un nuovo codice penale militare (3,692).

7 id. R. Decreto contenente disposizioni relative ai rapporti giuridici tra le nuove e le antiche provincie del regno (3,627).

id. id. R. Decreto col quale si danno provvedimenti relativi all'esecuzione nei Regi Stati delle sentenze dei tribunali toscani, degli atti pubblici, delle citazioni ed intimazioni di sentenze e di atti giudiziarii fatti in Toscana (3,628):

10 id. R. Decreto che approva la sospensione delle linee doganali fra le provincie piemontesi e lombarde ed il territorio piacentino, parmense e modenese (3,635).

19. id. R. Decreto contenente disposizioni relative all'esecuzione nei Regi Stati delle sentenze, ecc. dei tribunali di Parma, Modena e Romagna (3,688).

23 ottobre 1859. Legge relativa alla nuova circoscrizione provinciale e comunale. (3,702).

27 id. R. Decreto col quale vien ordinato che la sede della Corte di cassazione sia trasferita a Milano (3,703).

30 id. Legge colla quale è istituita una Corte de' conti (3,706).

id. id. Tregge sull'ordinamento del Consiglio di Stato (3,707).

13 novembre. Legge sulla contabilità generale dello Stato (3,747).

id. id. Legge sull'ordinamento dell'amministrazione centrale (3,746).

id. id. Legge sull'ordinamento dell'amministrazione di pubblica sicurezza (3,120). id. id. Legge sull'amministrazione di pubblica istruzione (3,725).

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20 id. Legge che autorizza il governo a prendere alcune disposizioni finanziarie riguardo alla Toscana ed alle provincie dell'unione doganale (3,788).

id. id. Legge sull'ordinamento del servizio delle opere pubbliche (3,754).

id. id. R. Decreto portante l'anticipazione della spesa straordinaria di L. 425,000 per l'adattamento della Camera dei deputati (3,775).

id. id. Legge portante riforma della legge elettorale (3,778).

id. id. Legge speciale che ordina di presentare al Parlamento nella prima sua riunione un progetto di legge per unificare i Codici civili vigenti nelle antiche e nelle nuove provincie, e contenente altre disposizioni relative alle stesse nuove provincie nel caso in cui la summenzionata legislazione civile non sia identificata e posta in esecuzione al tempo in cui andranno in esecuzione le altre leggi (3,788).

id. id. R. Decreto con cui i contratti stipulati nella Toscana e le sentenze proferite dai tribunali toscani sono dichiarati efficaci a produrre ipoteche sopra i beni situati nei Regi Stati (3,789).

1 dicembre. R. Decreto che autorizza il governo del Re a dar piena ed intiera esecuzione al trattato conchiuso tra la Sardegna e la Francia, e quello tra la Sardegna, l'Austria e la Francia sottoscritti a Zurigo il 10 novembre ultimo scorso (3,811).

18 marzo 1860. R. Decreto col quale le provincie dell'Emilia sono unite allo Stato (4,004).

id. ' id. R. Decreto che ordina la convocazione dei collegi elettorali nelle provincie di Bologna, Ferrara, Forlì, Massa Carrara, Modena, Parma, Piacenza, Ravenna e Reggio (4,005).

19 id. R. Decreto che provvede all'amministrazione finanziaria nelle provincie dell'Emilia (4,006).

22 id. R. Decreto col quale le provincie della Toscana sono unite allo Stato (4,014).

id. id. R. Decreto col quale è ordinato che il decreto 46 corrente del R. Governo della Toscana per la convocazione dei collegi elettorali faccia parte degli atti del governo (4,015).

23 id. R. Decreto col quale S. A. R. il principe di Savoia-Carignano è nominato luogotenente di S. M. in Toscana (4,020).

25 id. R. Decreto che dichiara cessati i ministeri stati istituiti per il governo delle provincie dell'Emilia, e da disposizioni per gl'impiegati e funzionali di quelle provincie (4,021).

15 aprile. Legge che autorizza il governo del re a dare esecuzione al R. Decreto del 18 marzo relativo all'annessione delle provincie dell'Emilia (4,059).

id. id. Idem per la Toscana (4,060).

29 id. R. Decreto col quale viene stabilito come debbano intestarsi le sentenze pronunciate dalle autorità giudiziarie della Toscana (4,075).

14 maggio. Idem per le provincie dell'Emilia (4,085). id. id. R. Decreto col quale si danno disposizioni per coordinare l'applicazione ai militari già appartenenti all'esercito toscano della legge 27 giugno 1850 per le giubilazioni militari e del R. Decreto 25 marco 1860, con cui l'esercito toscano venne incorporato in quello del regno (4,099).


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11 giugno. Legge che autorizza il governo del re a dare esecuzione al trattato conchiuso tra la Sardegna e la Francia per la cessione della Savoia e del circondario di Nizza (4,108).

9 luglio. Legge che ordina la promulgazione nell'Emilia e nella Toscana di alcuni articoli del codice penale sardo e della legge sulla competenza del Consiglio di Stato (4,142).

11 id. R. Decreto contenente disposizioni intorno alla esposizione italiana che avrà luogo in Firenze nell'anno 1861 (4,201).

id. Legge che autorizza il governo a contrarre un imprestito di 450 milioni (4,475).

14 id. R. Decreto col quale si danno disposizioni in materia giudiziaria relative alle parti della Savoia e della provincia di Nizza rimaste allo Stato (4,179).

14 agosto. R. Decreto che ordina pubblicarsi nelle provincie toscane le leggi, decreti e regolamenti sulla guardia nazionale vigenti nelle antiche provincie (4,274).

12 settembre. R. Decreto che nomina il marchese Gioachino Pepoli regio commissario generale straordinario nelle provincie dell'Umbria (4,304).

id. id. R. Decreto che nomina il sig. Lorenzo Valerio regio commissario generale straordinario nelle provincie delle Marche (4,302).

29 id, R. Decreto col quale S. A. R. il principe Eugenio di Savoia-Carignano è nominato luogotenente del Re durante la temporanea assenza di S. M. (4,322).

13 ottobre. R. Decreto che ordina l'esecuzione dell'atto finale della delimitazione dei nuovi confini austro-sardi, parte integrante del trattato di Zurigo del 40 novembre 1859,(4,377).

27 id. Legge per l'abolizione del concordato austriaco nelle provincie della Lombardia (4,381).

6 [novembre. R. Decreto con cui il cavaliere Farmi à nominato luogotenente generale delle provincie napoletane (4,407).

17 id. R. Decreto con cui gli ufficiali della Marina militare napoletana sono incorporati nello stato maggiore generale della regia marina (4,420).

21 id. R. Decreto col quale si stabilisce che il litorale delle Marche formerà un circondario marittimo avente per capoluogo Ancona (4,437).

26 id. R. Decreto contenente disposizioni per l'attuazione del codice penale nell'Emilia (4,453).

2 dicembre. R. Decreto col quale il marchese Massimo Cordero di Montezemolo è nominato luogotenente generale nelle provincie siciliane.

3 id. Legge colla quale il governo del Re è autorizzato ad accettare e stabilire per regi decreti l'annessione allo Stato delle provincie dell'Italia-centrale e meridionale (4,497).

17 id. R. Decreto che ammette le provincie napolitano a far parte integrante dello Stato italiano (4,498).

id. id. Idem per le provincie siciliane (4,499).

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id. id. Idem per le provincie delle Marche. (4,500).

id. id. Idem per le provincie dell'Umbria (4,501).

id. id. R. Decreto che scioglie la Camera dei deputali (4,504).

24. id. R. Decreto che fissa l'epoca della cessazione dei poteri stra ordinali concessi ai Commissari generali delle Marche e dell'Umbria (4,502).

3 gennaio 1861. R. Decreto che ordina la convocazione dei collegi elettorali

7 id. R. Decreto col quale S. A. R. il principe Eugenio di Savoia-Carignano è nominato luogotenente generale in Napoli (4,572).

10 id. R. Decreto che sopprime i ministeri di marina in Napoli e Sicilia (4,588).

16 id. R. Decreto col quale venne prescritto l'eseguimento della legge 1«ottobre 1859 portante pubblicazione di un codice penale militare nelle provincie napoletane e siciliane, non che l'attuazione del codice suddetto nell'Umbria (4,616).

27 id, R. Decreto col quale è stabilita una sola divisa per tutta la guardia nazionale del Regno (4,606).

12 febbraio. R. Decreto che concede agli acattolici delle provincie di Sicilia tutti i diritti civili e politici che spettano agli altri cittadini. (4,642).

14 id. R. Decreto che abolisce l'autonomia amministrativa delle Toscana (4,638),

id. id. R. Decreto col quale i poteri straordinari conferiti al luogotenente generale delle provincie napoletane s'intendono cessati col 18 corrente mese (4,609). id id. Idem per le provincie siciliane (4,630).

17 marzo. Legge colla quale vien conferitola S. M. e suoi successori il titolo di Re d'Italia (4,671).

29 id. R. Decreto con cui l'amministrazione centrale delle provincie napoletane presso la luogotenenza generale viene divisa in 4 dicasteri 4,689)

1 a prile R. Decreto con cui è autorizzato lo stabilimento di un tiro «segno in ogni comune o riunione di comuni (4,698).

id. id. R. Decreto che autorizza l'ordinamento generale della marina militare dello Stato (4,825).

A id. R. Decreto d'istituzione di comandi militari nelle provincie napoletane e siciliane, delle Marche e dell'Umbria (4,816).

Il id. R. Decreto che contiene disposizioni intorno ai corpi dei volontari italiani (4,818).

14 id. R Decreto che dispone circa l'amministrazione delle provincie siciliane (4,757).

18 id. R. Decreto che provvede al riordinamento amministrativo delle frazioni della Savoia e circondario di Nizza rimaste allo Stato (4,792).

21 id. Legge che stabilisce la formola con cui debbono essere in testati tutti gli atti intitolati in nome del Re (1).

28 id. R. Decreto che stabilisce un comitato centrale per l'esposizione universale di Londra nel 1862 (23).

2

maggio. R. Decreto che stabilisce l'impronta delle nuove monete d'oro e d'argento (16).

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5 id. Legge per l'istituzione di una festa nazionale (7).

id. id. R. Decreto che determina gli affari da spedirsi immediatamente dalla luogotenenza generale in Napoli e quelli spettanti all'amministrazione centrale (11).

id, id. Idem su la Sicilia (42).

id. id. R. Decreto che sopprime il segretariato generale dei lavori pubblici in Napoli (40).

10 luglio. Legge colla quale è instituito il gran libro del debito pubblico del Regno d'Italia (94).

17 id. Legge che autorizza il regno a fare un imprestito di 500 milioni dì lire (98).

23 id. R. Decreto che proroga la sessione legislativa (102).

28 id. Legge che approva la convenzione per la costruzione di ferrovie nelle provincie napoletane e siciliane (155.

A agosto. Legge sull'unificazione dei debiti pubblici d'Italia (174).

8 settembre, R. Decreto che chiama la guardia nazionale a somministrare corpi distaccati per servizio di guerra (213).

id. id. R. Decreto che ordina il censimento della popolazione del Regno d'Italia (227).

9 ottobre. R. Decreto col quale sono delegate ai capi di provincia varie attribuzioni sinora esercitate dal ministro dell'interno (251).

id. id. R. Decreto che sopprime la luogotenenza generale di Napoli ed il governo della Toscana, e si danno analoghi provvedimenti (271).

3 novembre. R. Decreto che fissa il giorno di convocazione del Parlamento Nazionale (300).

8 dicembre. R. Decreto che pubblica il regolamento per l'esecuzione del codice penale nel Napoletano (353). id, id. Idem per la Sicilia (354).

22 id. Legge che accorda al governo la facoltà di occupare per ragioni di pubblico servizio le case delle corporazioni religiose (384).

13 gennaio 1862 R. Decreto di approvazione del regolamento generale per le case di pena del Regno (414).

19 id. Legge relativa all'attuazione nelle provincie napoletane del codice di procedura penale e del nuovo ordinamento giudiziario (420).

id. id. . Idem nelle provincie siciliane (421).

23 marzo. Legge che ammette al corso legale in tutto il Regno la moneta decimale in oro (506).

27 id, R. Decreto contenente disposizioni relative alla fusione del corpo dei volontari italiani nell'esercito regolare (508).

21 aprile. R. Decreto col quale si mandano a pubblicare nelle provincie napoletane le regie patenti, decreti e convenzioni internazionali che regolano la proprietà letteraria ed artistica (566).

21 aprile 4862. Legge sulla tassa di registro (585).

id. id. Idem sul bollo (586).

id. id. Idem per le tasse sui redditi dei corpi morali e stabilimenti di manomorta (587).

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id. id. Idem per le tasse sulle società industriali e commerciali e sulle assicurazioni.

5 maggio id. Idem sulla riforma postale (604).

6 id. Idem sulle tasse ipotecarie (593).

id. id. Decreto che approva il regolamento per l'eseguimento della suddetta legge (594). 13 id. Legge sull'ordinamento delle guardie doganali (611).

13 luglio id. Legge colla quale si mandano a pubblicare ed attivare nelle provincie napoletane le leggi, decreti e regolamenti sulla leva militare (695).

id. id. Legge sulla privativa dei sali e tabacchi.

31 id. Legge sulle tasse universitarie (719).

3 agosto id. Idem sull'amministrazione delle opere pie (7j3).

14 id. Idem per l'applicazione dell'aumento del 10 per cento a titolo di sovrimposta di guerra alle leggi sulle tasse di registro, bollo, manimorte ed ipotecarie (762).

21. id. Legge che abolisce le immunità dei tributi e pensioni vitalizie, che ancora concedevansi ai genitori di 12 figli viventi (785).

24 id. Legge sull'unificazione del sistema monetario (788).

id. id. R. Decreto circa l'ordinamento degli uffizi ipotecarii del Regno e le retribuzioni assegnate ai conservatori delle ipoteche (801).

21 settembre id. Legge sul bollo delle carte da giuoco (965).

9 ottobre id. R. Decreto che istituisce un uffizio del contenzioso finanziario in Torino, Milano, Bologna, Firenze, Napoli, Palermo e ne determina le attribuzioni (915).

30 id. R. Decreto sull'ordinamento delle dogane (953).

id. id. R. Decreto col quale sono approvate le istruzioni disciplinari per l'applicazione del regolamento doganale (979).

9 novembre id. R. Decreto sull'ordinamento e circoscrizione delle direzioni del tesoro (960).

27 id. R. Decreto col quale è approvato il regolamento per l'esecuzione della legge 3 agosto 1862 sull'amministrazione delle opere pie (1,007).

28 dicembre id. R. Decreto concernente la graduazione e parificazione del soldo degli uscieri, commessi ed inservienti addetti alle prefetture, sottoprefetture del Regno ed agli archivi governativi centrali e provinciali dipendenti dal Ministero dell'interno (1,082).

5 marzo 1863. R. Decreto contenente le norme per l'uniforme esercizio dell'exequatur in tutte le provincie del Regno (1,169).

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INTERPELLANZA

AI SIGNORI

DES-AMBROIS, MAZZA-SALUZZQ, MAMELI, MONTAGNINl, TONELLO, VEGEZZI, POCCARIN

componenti la Commissione di sorveglianza della Cassa Ecclesiastica.

(Dall'Armonia n. 219, 4 novembre 1859).

Domandiamo alcune spiegazioni intorno all'ultimo conto dell'amministrazione delta Cassa Ecclesiastica, pubblicato dalla Gazzetta Piemontese del 16 settembre 1859.

Domanda 1.a Perché il conto del 1855 ce l'avete dato in diverso modo nella relazione del 22 ottobre 1868, e nella relazione del 16 settembre 1659; siede nell'ottobre del 1858 dicevate di aver riscosso nel 1855 L. 1,839,000: e invece nel settembre del 1859 dite di non aver riscosso nello stesso anno 1855 che sole L. 1,798)000? Perché questa diversità, perché?

Domanda 2.a Percbè nella relazione della Commissione della Cassa Ecclesiastica si afferma verificato nel 1858 un aumento del reddito e una diminuzione delle spese; laddove i conti annessi alla relazione medesima dimostrano che vi fu un aumento di spesa ed una diminuzione di rendita? Perché tale contraddizione,perché?

Domanda 3.a Perché essendosi venduti dalla Cassa Ecclesiastica nel 1857 per quasi tre milioni di stabili, non cessarono le imposte e le spese di manutenzione che si pagavano per questi stabili medesimi; anzi queste spese e queste imposte crebbero dal 36 al 50 per cento? Perché questo strano fenomeno, perché?

Domanda 4.a Perché la quota di concorso pel 1858 recata in conto per lire

182,187,

nel riepilogo generale dello stesso conto diventa invece di lire

226,000

? Perché questo giuoco di bussolotti, perché?

Ci contentiamo per ora dì queste quattro domande. La Staffetta che accusa l' Armonia di non badare al signor Farini e a' suoi documenti, badi essa alle cose di casa nostra, e ci aiuti a uscire da questo ginepraio che sono i conti della Cassa Ecclesiastica. E se non vuole badarci la Staffetta, badateci voi, illustrissimi Signori, che componete la Commissione di sorveglianza della Cassa Ecclesiastica, voi che avete sottoscritto la relazione al Re, stampala il 16 di settembre; voi, signori Des-Ambrois,Mazza-Salùzzo, Mameli,Montagnini, Tonello, Vegezzi, Poccardi che siete risponsali dell'amministrazione dei beni ecclesiastici. Mentre il povero Clero della Sardegna patisce, sospirando il tozzo, non è soverchia pretesa la nostra di conoscere dove va il patrimonio della Chiesa. A questa interpellanza non fu mai data nessuna risposta.

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BILANCIO DEI CULTI

IN FRANCIA

Dall'Armonia, n. 66, del 3 marzo 1859.

Da un lavoro sul bilancio dei culti in Francia del signor Carlo Jourdain leviamo le seguenti notizie statistiche:

Per l'esercizio del 1859 le spese di tutti i culti fatte dal Tesoro ascendono a 47,432,136 fr. Il culto cattolico figura in questa cifra per 44,773,700 fr.; i culti protestanti per 1,406,436 fr.; il culto israelitico per 189,400 fr. , l'Algeria per 330,200 fr.

La spesa più considerevole pel culto cattolico è quella del clero parrocchiale che comprende 3,424 parrocchie e 30,000 succursali autorizzato, delLe quali però sole circa 29,000 saranno occupate: questa spesa è fissata per previsione 33,613,500 franchi. Il soprappiù della spesa concerne l'amministrazione centrale che costa 203,400 fr.; l'episcopato 1,507,500 fr.; i capitoli cattedrali e metropolitani 1,537,900 fr.; il capitolo di S. Dionigi e dei cappellani di S. Genovesi 177,600 fr.; le borse nei seminarii 1,034,200 fr.; j soccorsi personali, alle congregazioni religiose, ai Comuni per le loro chiese e curo; finalmente i lavori di riparazione e di costruzione degli edifizii diocesani che assorbiscono non meno di 4,423,000 fr. compresi i lavori delle cattedrali di Parigi, di Marsiglia e di Moulins.

I culti protestanti contano 772 pastori retribuiti dallo Stato, di cui 587 appartenenti alla chiesa riformata, e 135 alla confessione d'Augusta; i loro stipendii sono fissati a 4,192,436 fr. , e aggiungendovi i soccorsi personali ai pastori ed alle loro vedove, e il mantenimento delle borse, la spesa ascende a franchi 1,292,436. Le spese d'amministrazione del direttorio generale della confessione d'Augusta, e le spese del materiale, formano un totale di 116,000 fr. Le spese pel culto israelitico comprendono lo stipendio di 116 rabbini e ministri offizianti, cioè circa 125,400 fr.; le indennità e soccorsi personali 12,000 fr. , le spese della scuola rabbinica di Metz 22,000 fr.; le spese d'amministrazione e di manutenzione delle sinagoghe 30,000 fr. , totale 189,400 fr.

Finalmente 545,200 fr. sono assegnati all'Algeria per gli stipendii dei ministri dei differenti culti, e 285,000 fr. per le spese del materiale, specialmente per la costruzione del palazzo episcopale, del seminario e della cattedrale.

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LA PAZZIA

SEGNO DI CIVILTÀ

(Dall'Armonio, n. 69,25 marzo 1859).

Nell'appendice del Journal des Débats del 17 di marzo leggiamo una risposta assai curiosa ad un'asserzione dell'lnton, la quale aveva ascritto al protestantismo il numero stragrande di pazzi in Inghilterra. L'appendicista, cita il corrispondente parigino del Globe, il quale, lungi dal negare il fatto, lo conferma, e se ne tiene come di cosa onorevole: «L'ordine, dice, più alto degli animali, il cane, il cavallo, l'elefante, sono soli soggetti alla follia; ma chi mai si è scontrato in un asino, la cui mente fosse stravolta ( dont l'esprit fut derangé), un vitello in demenza o un lumacone fuor di senno?» Poscia il Journal des Débats soggiunge: «Quest'uomo spiritoso ne conchiude con ragione che la follia in una società incivilita è in proporzione della sua attività, e, per così dire, del suo uso dell'intelletto: thè amount of intellectual wear and tear, come si dice mirabilmente io quell'energica ed intraducibile lingua. II nostro caro Parigi fa dunque un bel consumo d'intelligenze, come è mestieri di molta legna ad un fuoco fiammante». I nostri complimenti al caro Parigi ed alla cara Londra, che fanno un così bel consumo di teste! Vogliamo dire che il termometro della civiltà in un paese sarà il suo manicomio! Più vi sono pazzi, più il paese è civile. A dirla schietta, anche noi ce n'eravamo accorti. Imperocché nel nostro manicomio di Torino, dacché siamo entrati nella via della civiltà, i pazzi sono aumentati di un quarto, se non di più: a segno che fu necessaria la succursale di Collegno. Se andiamo di questo passo, tra breve il nostro fuoco sarà fiammante tanto quanto quelli di Londra e di Parigi, giacché le legna sono consumate in quantità sì grande. D'altro lato l'uso e l'abuso che tra noi si fa dell' intelletto è proprio modellato sui figurini che ci vengono da Parigi e da Londra.

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IL CONTE DI CAVOUR

DIPINTO DA' SUOI COLLEGHI

Siccome in queste Memorie s'incontra soventi volto il nome di Camillo Cavour, così, prima d'andare innanzi, stimiamo ben fatto di scrivere poche parole sul suo conto. E quantunque egli sia morto t e le opere sue e la sua persona appartengano interamente alla storia, tuttavia ci restringeremo a dipingere il conte di Cavour colle testimonianze de' suoi medesimi colleghi.

Il conte di Cavour fu per dodici anni un cospiratore. Questa sentenza uscì dalla medesima sua bocca nella Camera dei Deputati, il 27 marzo del 1861. Il deputato Giuseppe Ferrari, il 26 di marzo alludendo al conte di Cavour, avea detto: «Non critico i cospiratori che hanno sBdato le atroci polizie dei cessati governi, e non intendo neppur di biasimare chi si associa loro anche dal seggio di una presidenza (1)» . li giorno dopo il Conte di Cavour rispose così: € L'onorevole deputato Ferrari ha voluto farmi l'onore di annoverarmi fra i cospiratori, lo ne lo ringrazio e colgo quest'occasione per dichiarare alla Camera che fui per dodici anni cospiratore (2)».

Marco Minghetti ha dichiarato poi parimente nella Camera che il conte di Cavour era il primo rivoluzionario, e il 27 di giugno 1860 così rispondeva al deputato Ferrari: «Quando l'onorevole Ferrari ci gridava: siate rivoluzionarii, io mi sentiva tentato di rispondergli: ma lo siamo tutti e il conte di Cavour pel primo (3)». La quale sentenza fu tosto approvata e confermata da Carlo Luigi Farini, che"il 29 di giugno del 1860, ripigliò: «lo credo potersi affermare come diceva il mio onorevole amico, il deputato Hinghetti, che qui siamo tutti, o quasi tutti rivoluzionarii (4)».

La prima cospirazione del conte di Cavour fu d'intrudersi destramente nel ministero (faufiler droitement) (5). Vincenzo Gioberti pronunziò che e nell'indirizzo politico dato dal conte Cavour alle cose piemontesi, mi par d'avvisare... uno dei maggiori pericoli che sovrastino alla monarchia (6)». Lo stesso Gioberti chiamava il Cavour «pei sensi, gli istinti, le cognizioni quasi estraneo, da Italia, anglico nelle idee, gallico nella lingua».

La Gazzetta del Popolo Io derideva, dicendolo in italiano Caburro, in inglese Keveur (1).

(1) Atti Ufficiali della Camera, n. 40, pag. 144, col. 2.

(2) Atti Ufficiali della Camera, a. 43, pag. 155, col. 1.a

(3) Atti Ufficiali della Camera, n. 108, pag. 421, col. 3.a

(4) Atti Ufficiali della Camera, n. 112, pag. 438, col. 1.

(5) Paulo Collet, Silhouette del conte di Cavour, pag. 31.

(6) Rinnovamento civile d'Italia, vol. 15, pag. 222.

1) Gazzetta del Popolo, n. 130 del 14 novembre 1848.

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Sineo nella Camera dei Deputati accusò il conte di Cavour d'un brutto delitto, e n'ebbe un

lei mente per sola risposta. Avigdor lo punse in altro modo, e sfidaronsi a duello amendue. Qualche giornale venne fuori coi

Molini di Collegno, appuntandolo di fatti intorno a cui i nemici medesimi del conte di Cavour furono i primi a dichiararlo innocente. Una bella sera

il popolo sovrano lo prese a fischi ed a sassate. A Tortona un poeta democratico, Eugenio Bianchi lo chiamò

novello Nerone. E il deputato Boggio scrisse che il conte di Cavour dopo d'essersi servito degli amici gettavali lungi da se come

aranci spremuti.

Angelo Brofferio nel Diritto (2) pubblicò un appendice dove dipinse fra le altre virtù del conte Cavour la sua portentosa scienza economica, e Egli esordì, così Brofferio, spacciandosi grande finanziere, e promettendo ai Piemontesi il ristauro delle desolate finanze. Per rimetter sangue nelle vuote vene del pubblico erario, che cosa trovò egli di nuovo? Quale peregrina invenzione scaturì dal suo cervello? Per versar danaro nelle casse dello Stato egli studiò di pigliarlo nelle tasche dei contribuenti: tasse oggi, tasse domani, tasse dopo domani I Ecco la sua grande scoperta! ed era proprio il caso di dirgli, come taluno gli disse in Parlamento, che qualunque semplice mortale avrebbe saputo Tare altrettanto.

«Ma da questo sterminio di tributi, sotto il peso dei quali ha incurvato le spalle il povero Piemonte, ne risultò almeno la promessa ristaurazione?

«Il conte Cavour, in una ben nota relazione disse che le finanze erano quasi instaurate: manco male che v'era un quasi: ma fatto sta che anche il quasi era di troppo, e che le rabbiose imposizioni cavouriane sono come erano ieri, e come immancabilmente, se non un po' peggio, saranno domani.

«E perché ciò? perché le imposte del signor Conte voglionsi dividere in tre classi: la prima contiene le imposte che si poterono mai eseguire, come, per esempio, quella delle gabelle esercitate dai municipii; la seconda entra nel novero di quelle che si eseguirono e non produssero mai altro che tormentose molestie, come l'imposta sulle successioni, colla tortura dei debiti ereditali: la terza è di quelle che si eseguiscono e producono, ma lasciano per via più che due terzi del prodotto nelle unghie degli esattori ed altri uccellarci di rapina della medesima specie. Tali sono le glorie finanziarie del conte di Cavour, che fu proclamato un economista senza pari, un finanziere per eccellenza, un nuovo Bastiat, un altro illustre Cobden».

Nel gennaio del 1862 il professore Domenico Berti pubblicava uno scritto intitolato Lettere inedite del conte di Cavour (3), e da questo leveremo i seguenti particolari. Il professore Berti esordisce con una raccolta d'epigrammi tolti dalle lettere o da' discorsi del conte di Cavour. Ecco il primo riferito colle parole del professore Berti: i Mentre (il conte di Cavour) era al Congresso di Parigi, vennegli fatto dall'Imperatore il presente di un bellissimo vaso di porcellana di Sèvres: egli nel darne contezza al suo collega ministro sopra l'interno, aggiunge - Se X Io sa (ed era questi un deputato), povero me, mi accuserà d'aver venduto l'Italia».

2)N° 219, 18 ottobre 1856.

3) Rivista contemporanea, gennaio 1862, fascicolo XCVIII.

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Cotesto poteva essere un epigramma nel 1856, ma dopo la cessione della Savoia e della Contea di Nizza non lo pare più!

Ecco un altro epigramma del conte di Cavour raccolto in sull'esordio dal professore Berti: e Dopo la presa di Sebastopoli esortava il suo collega a far cantare il Te Deum se non altro per aver il piacere di far fare delle brutte smorfie a' nostri canonici» (Rivista, pag. 4). Ognun vede quanto sale ci fosse in queste parole, quanta bontà, quanta religione, quanto rispetto per la Chiesa e pe' sacerdoti 1 Almeno sappiamo, perché talvolta i ministri usano alle chiese e chiedono le funzioni religiose!

Raccoglieremo un terzo epigramma, che servirà d'indovinello ai nostri lettori. Il conte di Cavour annunziava: «Scrivo una lettera studiatamente impertinente ad un nostro collega, per non avergli a dire in faccia: andatevene, siete incapace di fare il ministro»; e la scriveva, soggiunge il professore Berti, senza frapporre indugio e scuse, e senza moderare la frase. Ai rimproveri che gli venivano da altro suo collega su di ciò rispondeva: «Ho caricato un po' troppo, me ne duole, gli riscriverò, non per ritenerlo, ma per placarlo» [Rivista, pag. 7). Ora indovinino i nostri lettori chi fosse questo ministro, che venne così gentilmente espulso dal ministero! Noi crediamo d'averlo indovinato. Il Berti nota che sono cinquanta e più i colleghi, che entrati con lui (Cavour) al ministero, o da lui si congedarono, o furono congedati (Rivista p. 8).

Celebrata la vena epigrammatica del conte di Cavour, il Berti passa a raccontare i tratti del suo coraggio: e Un giorno nella Camera, quando ancora non aveva acquistalo quella supremazia, per cui comandava il silenzio agli amici ed agli avversarii, le tribune lo interruppero coi fischi. «Quanto a me i e fischi non mi muovono punto: io li disprezzo altamente, e proseguo senza «darmene cura, lo ho ascoltato religiosamente il deputato Brofferio, quantunque non professi le sue dottrine; ora ringrazio, non le tribune, di cui e non mi curo, ma la Camera e la parte che mi siede a fronte della benigna e attenzione, che ba prestato alle mie risposte». Queste parole che servivano al conte di Cavour per disprezzare certi fischi delle tribune, serviranno per noi affine di giudicare egualmente certi applausi.

Un altro tratto di coraggio del conte di Cavour è questo: «Gli era venuto per lettera da Ginevra che la polizia di quella città avea denunziato al nostro console essersi in una congrega colà tenuta divisato il suo assassinio. Egli senza punto turbarsi scrive al suo amico: «Mi rido della notizia che mi vien data, giacché se morissi sotto i colpi di un sicario, morirei forse nel punto il più opportuno della mia carriera politica». E se la notizia è vera prova che l'assassinio del conte di Cavour non si divisava a Roma, ma a Ginevra, ed è una circostanza da tenersene conto.

Il professore Berti a pag. 10 avverte che fin dal 1848 il conte Cavour scriveva contro la Giovine Italia, scriveva in francese e chiamava le sue dottrine les doctrines subversives de la Jeune Italie, ed aggiungeva non esservi in Italia «qu'un trèspetit nombre de personnes sérieusement disposée» a metterne in pratica gli esaltati principii. E chi avrebbe pensato che tra questo piccolissimo numero sarebbesi trovato di poi lo stesso conte di Cavour!

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Imperocché, quanto oggi vediamo avvenire in Italia è proprio alla lettera ciò che insegnava e divisava Giuseppe Mazzini.

Siccome spesso il conte di Cavour parlava contro i clericali, così è utile sapere che cosa intendesse sotto questo nome. Cel dirà il professore Berti: - Un giorno che nella Camera l'avvocato Brofferio discorrendo contro la parte clericale, asseriva che non volevasi quella confondere colla Chiesa, rispondeva il conte di Cavour le seguenti parole: «Se il partito clericale consta di tutti i sacerdoti che sono racchiusi nei chiostri e frequentano le sacristie, dove avremo noi da cercare quei pochi, quegli eletti che rappresentano quella morale cristiana, di cui ha così eloquentemente parlato l'onorevole oratore? Io veramente non saprei dove trovarli, a meno che egli volesse indicarci quei pochi sacerdoti che disertati i templi ed abbandonati gli ufficii del pio ministero, credettero campo più opportuno per esercitare il loro nuovo apostolato i circoli politici ed i convegni sulle piazze [Rumori ed agitazione a sinistra),a o che egli volesse indicare come nuovi modelli di questo spirito evangelico,«di questa carità cristiana quei pochi che seco lui associarono i loro sforzi per mantenere costantemente un centro di agitazione nella città di Torino ( Bisbiglio alla sinistra). Se ciò fosse, io dichiarerei senza esitazione all'onorevole«deputato Brofferio, che i miei amici politici ed io intendiamo ben altrimenti«lo spirito di religione e di morale cristiana».

Le quali parole contraddette poi da altre parole e da molti fatti, noi vogliamo dedicate a quei pochi sacerdoti, che danno tanto scandalo in Italia, ed anche a colui che forse fu comperato a danari contanti dallo stesso conte di Cavour!

Giunto a questo punto il professore Berti viene a dirci che il conte di Cavour avea due avversari da combattere, il Papa e l'Austria. È la formola del Mazzini che dichiarava guerra al Papa ed all'Imperatore! Il Cavour in un brano di lettera confidenziale diceva: «Se noi ci mettiamo in relazione diretta con Roma, € roviniamo da capo a fondo l'edificio politico che da otto anni duriamo tanta «fatica ad innalzare. Non è possibile il conservare la nostra influenza in Italia, «se veniamo a patti col Pontefice (1)». Ed in un'altra lettera soggiungeva: «Se l'attuale nostra politica liberale italiana riuscisse pericolosa e sterile, in e allora il Re 'potrà, mutando ministri, avvicinarsi al Papa ed all'Austria, ma fintantoché facciamo Memorandum e Note sul mal governo degli Stati del Pontefice, non è possibile il negoziare con lui con probabilità di buon successo». Ed un giorno il conte di Cavour diceva, come attesta il professore Berti: «L'Austria è d'uopo combatterla così in Venezia ed in Milano, come in «Bologna ed in Roma (2)».

Le quali cose furono svolte dal conte di Cavour nel suo Memorandum alla Prussia ed all'Inghilterra in cui protestava che. gli Italiani volevano combattere l'Austria, perché aveva riconosciuto i diritti della Chiesa col Concordato; e mostrava che la guerra divisata da lui e da' suoi era principalmente contro il Papa. Imperocché l'influenza austriaca in Roma non esisteva menomamente, e se qualche cosa poteva imputarsi al governo pontificio, era forse d'essere stato troppo arrendevole all'influenza francese. E questo basti per ora sul conto di Cavour.

(1) Rivista contemporanea, pag. 12.

(2) Rivista contemporanea, pag. 13.

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IL TRATTATO DI TOLENTINO

(Dall'Armonia, n. 118, 22 maggio 1856).

I plenipotenziari sardi, nella Nota verbale presentata il 27 di marzo 1856 ai ministri di Francia e d'Inghilterra, ricordarono il trattato di Tolentino del 1797, col quale le Legazioni Pontificie vennero tolte al Romano Pontefice, e incorporate alla Repubblica francese. L'Opinione ha il coraggio di lodare quel trattato, e di prenderlo come norma di diritto. Così certi italianissimi amano l'Italia, e intendono la giustizia 1

Ma l'Opinione, senza avvedersene, ci ha reso un servizio somministrandoci l'occasione d'un utilissimo confronto. Noi discorreremo le ragioni, che indussero nel 1797 a togliere le Legazioni al Papa, e ci sarà manifesto, per quale motivo oggidì i rivoluzionali intendano allo stesso scopo.

La repubblica francese era nata dall'empietà, e nel Romano Pontefice non potea certamente trovare un amico. Il Direttorio pertanto scriveva a Bonaparte in Italia il 3 di febbraio del 1797, e che, riflettendo su tutti gli ostacoli, che si opponevano al consolidamento della Costituzione francese, pareagli che il culto romano fosse quello, di cui gli inimici della libertà potevano fare dopo lungo tempo l'uso più dannoso. La Religione Romana sarebbe sempre stata nemica irreconciliabile della repubblica. Il governo avrebbe cercato i mezzi di diminuirne insensibilmente l'influenza nell'interno; ma un punto essenziale, per giungere a questo scopo desiderato, sarebbe stato di distruggere, essendo possibile, il centro dell'unità romana. Spettare a lui di farlo, se lo giudicasse eseguibile. Invitarlo dunque a fare quanto potesse (senza compromettere la sicurezza dell'esercito, e senza accendere in Italia la fiaccola del fanatismo, invece di estinguerla) per distruggere il governo papale. Si mettesse quindi Roma sotto di un'altra Potenza, o pure si stabilisse una forma d'interno regolamento, che rendesse dispregievole ed odioso il governo dei preti, di modo che il Papa ed il Sacro Collegio non potessero più concepire la speranza di risiedere in quella città, e fossero costretti di andare in cerca d'un asilo in altro luogo». (Correspondance de Bonaparte, voi. li, pag. 518).

Ecco dunque il disegno del Direttorio: la repubblica è nemica del cattolicismo; il cattolicismo nemico della repubblica. Il Direttorio può spiantare la religione nell'interno della Francia, non all'estero. Per riuscire in quest'ultima impresa si dee combattere il governo del Papa; o cacciarlo da Roma, o togliergli il me glio del suo regno, impoverirlo, rendergli impossibile di ben governare, e così chiamare l'odio e il disprezzo sul governo dei preti.

Bonaparte colse nel segno, e rispose il 15 di febbraio al Direttorio: e Accorderebbe la pace al Papa se cedeva le Legazioni e le Marche, pagava diciotto milioni di lire, scacciava Colli con tutti gli Austriaci, e consegnava le armi ed i cavalli dei reggimenti formati dopo l'armistizio... Roma poi non potendo sussistere per lungo tempo spogliata delle sue migliori provincie avrebbe formato una rivoluzione da se sola». ( Correspondance de Bonaparte, vol. II,pag. 540 a 543).

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Notate bene questa ragione scritta da Napoleone. Egli credeva che, tolte le Legazioni al Papa, sarebbe stata inevitabile una rivoluzione. Il progetto della famosa nota verbale tende allo stesso scopo; toglie al governo legittimo le sue migliori provincie, le costituisce in un'amministrazione affatto separata, e si consola col pensiero, che Roma formerà così una rivoluzione da se sola.

Mentre tali cose rivolgeva in mente il Bonaparte, gli giunge l'avviso che l'arciduca Carlo è a Trieste, e gli Austriaci accorrono da ogni parte a rinforzare Tarmata d'Italia. Allora egli modifica il suo disegno primitive, cessa dal chiedere le Marche, e scrive a Joubert, che comandava nella Valle dell'Adige, «essere a tre giornate da Roma, trattare però co' pretazzuoli; il Santo Padre avrebbe per allora salvato la sua capitale cedendo i suoi migliori Stati e denaro. Fra pochi giorni ritornerebbe all'esercito, dove stimava necessaria la sua presenza». (Corresp. , loc. cit. , pag. 544).

E Napoleone addì 19 di febbraio 4797 dettava ai plenipotenziari del Papa il trattato di Tolentino, il cui articolo 7° dicea: «Il Papa rinuncia in perpetuo, cede, e trasferisce alla repubblica francese tutti i suoi diritti sui territori conosciuti sotto il nome di Legazioni di Bologna, di Ferrara e di Romagna: non sarà però fatto nessun pregiudizio alla religione cattolica nelle suddette Legazioni».

Da quest'articolo l'Opinione ne argomenta la legittimità dell'atto, e la regola del diritto, come chi scrivesse un codice sotto il pugnale del masnadiere Ma il dabben giornale non è andato innanzi nella storia di quei tempi, e si fermò al 19 di febbraio 1797. Se, continuando, avesse letto fino al 9 di dicembre 1798, v'avrebbe trovato un documento di Carlo Emanuele IV, che dice così: S. M déclare renoncer à l'exercice de tout pouvoir, et avant tout elle ordonne à tous ses sujets, quels-qu'ils pussent être, d'obéir au gouvernement provisoir, qui va être établi par le general français.

L'Opinione ed i plenipotenziari sardi, che invocano l'epoca del trattato di Tolentino, e vogliono ritornarci a quei tempi, non riflettono, che insieme col Papa venne spogliata pure Casa Savoia, e col medesimo diritto. E la difesa che essi stampano d'un atto, si estende di necessità anche all'altro.

Il portavoce del ministero spinge la sua semplicità fino a riferire ti brano di una lettera, che Bonaparte Borisse al Direttorio il 1° ventoso, anno V, immediatamente dopo la sottoscrizione del trattato. Ecco le parole citate dall'Opinione: «lo credo che Roma, privata che sia una volta di Bologna, Ferrara e della Romagna, e di trenta milioni, che noi le caviamo, non possa più esistere: questa vecchia macchina si scomporrà da se stessa». L'Opinione non ha creduto di estendere di più la citazione; ma in questa medesima lettera avrà letto che Bonaparte dice ancora al Direttorio: e Clarke, che è appena partite, portasi a Torino per eseguire i vostri comandi... .». Colla spogliazione del Papa va di conserva la spogliazione di Casa Savoia!

Le parole di Napoleone al Direttorio ben chiariscono l'idea di chi vuoi togliere le Legazioni al Papa. Questo progetto non può avere di mira, in politica, che la totale esautorazione del Pontefice da ogni governo temporale; ed in religione, che la distruzione finale del cattolicismo. Sono due punti che appariscono evidentemente dai brani delle corrispondenze che ci vennero citati.

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Ma L' Opinione va pili innanzi, e per difendere il trattato di Tolentino invoca l'autorità del Cardinale Chiaramonti, che fu poi Pio VII, il quale «allora Vescovo d'Imola, in occasione delle feste di Natale del 1799 non solo giustificò questa cessione, ma fece persino l'apologia del reggime democratico, anzi repubblicano, introdotto nei paesi ceduti dalla S. Sede».

L'Opinione sbaglia la data. L'omelia che venne attribuita al Chiaramonti, è intitolata: Omelia del cittadino Cardinale Chiaramonti, Vescovo d'Imola, nel giorno del SS. Natale. , Vanno 1797. Mentre il giornale torinese invoca quest'omelia indifesa del governo democratico, bisogna sapere che altri F hanno già invocata per aizzare i Francesi contro i Cardinali) spargendo voce che in quest'orazione i Francesi erano chiamati lupi divoratori e cani sanguinavi!

Quest'omelia non venne interamente scritta dal Chiaramonti. L'Opinione, che cita la Storia di Pio VII del cavaliere Artaud, non avrebbe dovuto omettere le seguenti parole relative all'omelia: «È evidente che il Cardinale Chiaramonti ne ha composto una parte, ma è pur certo che alcuni passi del tutto inutili ci furono intrusi».

Inoltre il testo medesimo dell'omelia venne ancora corrotto colla traduzione francese, che ne fe' Grégoire, il quale corresse, tagliò, variò coi pretesto di evitare i pleonasmi italiani. L'Opinione avrà potuto leggerlo nel l'Artaud.

Finalmente ammettiamo che la cosa sia come disse l'Opinione. A chi si dovrà credere per ben conoscere la disciplina della Chiesa? Al Chiaramonti, Cardinale, o a Pio VII, Papa? Pio VII Papa ha dichiarato e mostrato co' fatti,co' patimenti e col martirio, che egli non potea cedere un palmo solo di quel terreno dove comandava.

L'atto finale del Congresso di Vienna, art. 103, dichiarava che la S. Sede «rientrerebbe in possesso delle Legazioni di Ravenna, di Bologna e dì Ferrara, tolta la parte del ferrarese esistente sulla riva sinistra del Po. L'imperatore d'Austria però ed i suoi successori «vesserò il diritto di presidio nelle piazze di Ferrara e di Comacchio». Il Cardinale Consalvi, plenipotenziario Pontificio al Congresso, con nota del 14 di giugno, indirizzata ai ministri che avevano sottoscritto il trattato di Vienna, dichiarò e di trovarsi nella necessità di guarentire i diritti imprescrittibili della S. Sede col protestare contro la dismembrazione del patrimonio della medesima, della provincia d'Avignone, del contado Venesino e della porzione del Ferrarese, esistente sulla riva sinistra del Po, non che contro il diritto di presidio dato all'Austria nelle piazze di Ferrara e di Comacchio». (Vedi Allocutio Pii VII, habita in Concistorio diei 4 sept. 1815; e Schoell, Congrès de Vienne, tom. V, pag. 347356).

Tornando del resto al trattato di Tolentino, noi non ci saremmo aspettati mai di udirlo lodare da ministri e da penne italiane. Fu quello il più grave insulto ai due culti che onorano l'Italia: il culto della religione e delle arti. Esso tolse al Papa i suoi dominii, ed alla Penisola le sue glorie ed i suoi tesori. La Biblioteca Vaticana fu svaligiata, e perdette la Bibbia greca e il Dione Cassio del quinto secolo, il Virgilio del sesto, il Terenzio dell'ottavo. La Trasfigurazione di Rafaello, il S. Gerolamo del Domenichino, l'Apolline e il Laocoonte andarono ad arricchire Parigi. Promuovete, o signori italianissimi, le idee del secolo passato,


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chiamate voi pure gli stranieri in Italia, ed in nome del risorgimento noi morremo del tutto. Se questa terra infelice gode ancora un po' di lama, è perché qui sta la sede del Papato. Fate che Pio IX parta da Roma, e nessuno più penserà a noi, se non per ispogliarci, o per deriderci, o per compatirci.

LE LEGAZIONI E IL PIEMONTE

NEL 1849 E NEL 1856.

(Dall'Armonia n. 121, 27 maggio 1856).

. In sul cominciare del 1849, governando in Piemonte il ministero democratico con Buffa, Rattazzi e Vincenzo Gioberti presidente, gli italianissimi Subalpini offerivano al Papa, esule in Gaeta, aiuto, mediazioni, soldati e cose simili. A tale uopo spedivano presso Pio IX il conte Enrico Martini, che oggidì è uscito dalla diplomazia e dalla politica, e si è molto sensatamente riabbracciato coll'Austria. In quel tempo taluno dei rappresentanti delle Potenze cattoliche presso il Papa ebbe a ricordare il timeo Danaos et dona ferente di Virgilio, e pare che il principe di Cariati, che stava in Francia, giungesse perfino ad accusare i democratici del Piemonte di voler togliere al Papa le Legazioni, mentre faceano vista, di portargli soccorso.

Ecco come racconta la cosa Carlo Luigi Farini: «La Corte di Napoli ponevaopera solerte a risvegliar i sospetti, ed accrescere i timori nell'animo suo (delPapa), e faceva diligenza per dare ad intendere che tutto le profferte del Piemonte velavano il disegno d'impadronirsi di gran parte dello Stato della Chiesa. I ministri napoletani affermavano averne le prove, e lo stesso principe di Carialine spargeva la notizia, e ne facea testimonianza non pure in Napoli ed in Gaeta,ma in Francia».

A que' dì trovavasi in Napoli ministro pel Piemonte il senatore Plezza, più tardi console dei Carabinieri italiani; e il governo partenopeo lo tenea a bada,e non ne avea ancora voluto riconoscere il grado e la qualità. Quando venneagli orecchi del ministero democratico in Torino l'accusa del principe di Cariati,volle tosto richiamato da Napoli il senatore Plezza, e spedì i passaporti all'inviato napoletano, che risiedeva in Torino, interrompendo ogni uffizio diplomatico.

«Questa nostra deliberazione (scriveva il Gioberti, ministro degli affari esteri)fu cagionata non solo dal rifiuto arbitrario, che il gabinetto di Napoli fece di accettare il sig. Plezza, non allegandone alcuna ragione valevole (essendone state smentite quelle, di cui aveva fatto menzione), e i poco garbati trattamenti recati al medesimo, ma più ancora l'indegna calunnia spacciata in Francia dal principe di Cariati, colla quale ci attribuiva Sofferta di togliere al Papale Legazioni.

«Spero, continuava scrivendo il Gioberti, che il sospetto di tanta infamia. non anniderà per un solo istante nell'animo del Pontefice. Essa dovrebbe bensì giovare a mostrargli qual sia il carattere del gabinetto che l'ha inventata. L'animo candido e leale di Pio IX può essere illuso dalle moine di certi personaggi, i quali fanno i mistici in Gaeta, e si burlano in Napoli della religione e del Capo augusto che la rappresenta. Ella procuri di mettere nel Papa la fiducia nel Piemonte».

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Perché non venga il Risorgimento a chiederci l'Originale di questa lettera, affrettiamoci a dire che noi abbiamo trascritto le citate parole da un libro che merita tutta la sua confidenza, ed è lo stato Romano dall'anno 1815 al 1850 per Carlo Luigi Farini; Firenze, Felice Le Monnier 1851, volume III, capo X; Accuse contro il Piemonte, pag. 190, 191.

Or bene nel 1849 voler togliere le Legazioni al Papa era un'infamia. Tale la dichiarava il ministero democratico, cioè Gioberti, Rattazzi, Buffa e compagni, i quali erano nonostante combattuti dal conte di Cavour come empi e demagoghi. Questo pensiero non s'era mai affacciato alla mente de' ministri subalpini, e chi ne li accusava, rendevasi reo d'indegna calunnia. Il governo piemontese prendeasi tanto a cuore quell'accusa, che spediva i suoi passaporti all'inviato di Napoli.

Siamo nel 1856, e che cosa veggiamo? Veggiamo tanta infamia, non che pensala dai ministri piemontesi, da essi promossa con una Nota verbale indirizzata ai rappresentanti di Francia e d'Inghilterra, dove, proponendosi per le Legazioni un governo pienamente separato dal Pontificio, e nel Papa un semplice dominio di parole, si riesce l' offerta di togliere al Papa le Legazioni.

Questo fatto ha molla gravita in quanto dimostra che il conte di Cavour, dopo il connubio coi democratici, li ha sorpassati nelle loro idee rivoluzionarie, ed osa dare opera ad un progetto, che i democratici medesimi riputavano infame, Ed inoltre da ragione al governo pontificio d'aver fatto divorzio nel 1849 dal nostro; imperocché se ha la baldanza presentemente di intromettersi nelle faccende romane, e proporre la frazione del regno, che cosa non avrebbe fatto, se v'avesse tenuto guernigione, o qualche titolo gli desse diritto d'intervenirvi?.

Il governo di Napoli può cantare vittoria, e mostrare la sua sagacia con in mano la nota del 27 di aprile. Esso ha ben donde recarsi al Papa, e dirgli: «Beatissimo Padre, nel 1849 il conte Martini pretendeva, che noi avessimo indegnamente calunniato il Piemonte ch'egli rappresentava, allora quando dicevamo che intendeva di togliervi le Legazioni. Vedete oggidì se era calunnia la nostra! Questa nota parla assai chiaro, e vi dice, che le Legazioni fanno gola ai rivoluzionari subalpini; e, oltre la Nota, vi sono le parole del conte di Cavour, riferite dal Nord, secondo le quali si pretende, a suo tempo, d'incorporare al Piemonte le Legazioni tolte al legittimo dominio di Vostra Santità».

Ma ci pare, che le Potenze europee dovrebbero anche trar profitto da simili ravvicinamenti, persuadendosi che la rivoluzione, non che essere cessata tra noi, progredisce, e il potile di Cavour, o da senno o da burla, è il primo a darle di spalla. Di fatto la schiuma della demagogia è col Presidente del nostro ministero, e la Maga di Genova, che, pochi giorni fa, metteva tutte le sue speranze nella Marianna, idolo del suo cuore, ora ne ripone anche una parte nel conte di Cavour, e dichiara senza ambagi, che questo suo progetto, di separare da Roma le Legazioni, è la prima opera buona ch'egli abbia fatto.

Donde ci pare lecito inferire, o che realmente fin dal 1849 i democratici del Piemonte divisavano di togliere al Papa le Legazioni, e in questo caso èrano ipocrite e menzognere le dichiarazioni contrarie,

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e verissime sagaci le accuse e le avvertenze di Napoli; ovvero, che nel 1856 il ministero piemontese ha progredito d'assai, e, presieduto dal conte di Cavour, attende a fare quello che non ardiva sotto la presidenza di Vincenzo Gioberti, riputandolo un'infamia. la quest'ultima supposizione dovremo conchiudere, che i moderati sono ancora peggiori dei democratici.

RESTITUZIONI DELLE LEGAZIONI

AL PAPA

(Dall'Armonia, n. til, 38 maggio 1866).

Nella famosa Nota verbale, rimessa dai plenipotenziarii sardi ai ministri di Francia e d'Inghilterra il 27 di marzo 1856, si leggono le seguenti parole: «Nel Congresso di Vienna si esitò per lungo tempo a rimettere le Legazioni sotto il governo del Papa. Gli uomini di Stato, che vi. sedevano, quantunque preoccupati dal pensiero di ristabilire dappertutto l'antico ordine di cose, s'accorgevano nondimeno, che si lascierebbe di questa guisa un focolare di disordini nel mezzo £ Italia. La difficoltà nella scelta del Sovrano da darsi a queste provincie, e le rivalità che insorsero pel loro possesso, fecero traboccare la bilancia in favore del Papa, e il Cardinale Consalvi ottenne, ma solo dopo la battaglia di Waterloo, questa non (sperata concessione i.

Qui il conte di Cavour, autore principale della Nota, accenna un fatto, cioè, che le Legazioni vennero restituite al solo legittimo dominio del Romano Pontefice dopo la battaglia di Waterloo. Donde di due cose l'una; o che la battaglia di Waterloo avvenne dopo il Congresso di Vienna, oppure che nell'atto del Congresso di Vienna non furono restituite al Papa le Legazioni. Ricerchiamo nella storia le date, e veggiamo fin dove arrivi la scienza del conte di Cavour.

La battaglia di Waterloo, lo sanno perfino i bimbi, avvenne it 18 di giugno 1815. In quel giorno Iddio Onnipotente vendicava il Romano Pontefice dei sofferti dolori. Napoleone in fuga attraverso morti e morenti portava a Parigi la nuova della propria disfatta, esclamando: io non posso rimettermi: ho disgustato i popoli. Stolto! Dovea esclamare: io non posso rimettermi: ho tormentato un Pontefice; ho disgustato Iddio. La Corona pontificia è la sola, di cui a buon diritto può dirsi: guai a chi la tocca.

È egualmente celebre e nota a tutti la data dell'Atto del Congresso di Vienna. Esso fu segnato il giorno 9 di giugno del 1815, vale a dire nove giorni prima della battaglia di Waterloo. Laonde, se noi proveremo, che nel Congresso di Vienna furono restituite le Legazioni al Papa, sarà manifesto, che il conte di Cavour ha preso nella sua Nota verbale uno scappuccio storico solennissimo.

Apriamo dunque il trattato. Cesare Cantù lo pubblicò nel vol. XIX della sua Storia Universale tra gli Schiarimenti al libro XVIII, L'articolo 103, primo alinea, dice:

«La Santa Sede rientrerà in possesso delle Legazioni di Ravenna, di Bologna e di Ferrara». Dunque fin dal 9 di giugno le Legazioni erano già state restituite al Papa.

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La battaglia di Waterloo non avvenne che nove giorni dopo cioè al 18 di giugno. Come pertanto poté dire il conte di Cavour, che le Legazioni non furono restituite al Papa, che dopo la battaglia di Waterloo?

Il poverino adunque, o non conosce, o travisa la storia, e la storia contemporanea. Noi amiamo meglio attenerci alla prima parte, e accusarlo piuttosto d'ignoranza, ohe di malizia. Ma l'accusa è sempre grave, imperocché trattasi d'un ministro degli affari esteri, che presenta una nota diplomatica; e intanto mentre parla del Congresso di Vienna e della battaglia di Waterloo, non sa che questa fu posteriore a quello.

L'anacronismo è tanto pia colpevole, in quanto che il conte di Cavour si appoggiò molto su questa inversione di date. Egli, parlando al ministro del nipote di Napoleone III, gli volle far capire, che si tentennò nel restituire al Papa le Legazioni, finché lo zio non era ancora pienamente caduto, e vi venne a questa determinazione allora soltanto, che la sua causa fu intieramente perduta a Waterloo.

Questa astuta allusione non ha altro appoggio, che una superlativa ignoranza storica, giacché i libri c'insegnano come il Congresso dì Vienna avesse già compiuto un atto solenne di giustizia, quando Napoleone I poteva ancora ritornare in campo, come di fatto vi ritornò.

Sta vero che nel Congresso di Vienna taluno non volea che venissero restituite al Papa le Legazioni: ma il conte di Cavour avrebbe dovuto aggiungere che la Francia principalmente si adoperò, affinché non fosse commessa tanta ingiustizia.

Ecco come un diplomatico racconta la cosa: e La Francia, colla sua raccomandazione, contribuì a fargli rendere (al Papa) le tre Legazioni di Bologna, Ferrara e Ravenna, nelle quali la Prussià avea da principio proposto di trasferire il re di Sassonia». (Histoire du Congrès de Vienne par l'auteur de l'histoire de la diplomai, francane, tom. Il, Paris, 1819, pag. 119).

Il Cardinale Consalvi avea messo in sodo i diritti del Pontefice. Nella sua Nota, indirizzata nell'agosto del 1814 alle Corti di Parigi, di Londra e di Vienna sollecitava la reintegrazione di Sua Santità in tutti i suoi possessi: a non per motivi temporali, ma per l'osservanza dei prestati giuramenti, fatti dal Sovrano Pontefice al momento della sua esaltazione, giuramenti, secondo i quali egli non potea nulla alienare dei domini della Chiesa, di cui non era che usufruttuario».

E siccome anche a que' dì s'invocava, come a1 giorni nostri, il trattato di Tolentino, così in un'altra Nota del 30 d ottobre dicea molto assennatamente il Cardinale Consalvi: «Che un assalto non provocato contro uno Stato debole, e che avea proclamato la sua neutralità, non potea venir chiamato guerra, e che un trattato, conseguenza di un simile assalto, era essenzialmente nullo, e come non avvenuto». (Vedi l'opera succit. , pag. 118).

Se quindi nel Congresso di Vienna si esitò alcun poco nel restituire al Papa il fatto suo, si fu perché anche in quell'assemblea parlavano le tristissime passioni della cupidigia e dell'ambizione; e se in ultimo si udirono le ragioni del legittimo proprietario, non ci potea entrare per nulla la battaglia di Waterloo, che già era avvenuta conchiuso il Congresso, e sottoscritto Tatto famoso.

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Converrebbe cercar modo da scusare questo granchio preso dal conte di Cavour. Noi ne lasciamo il pensiero all'Opinione ed al Risorgimento. Imperocché ne scapita di troppo la fama del nostro plenipotenziario, e perdono assai di peso i suoi progetti Se negli esami di magistero, che si danno nella nostra Università, un giovinotto di primo pelo vi mette il Congresso di Vienna posteriore alla battaglia di Waterloo, i professori lo rimandano indietro, e non l'ammettono ai corsi universitari. E che cosa sarà d'un ministro degli affari esteri, che vuole riordinare l'Italia, e poi cade in errori così marchiani?

Il povero conte di Cavour nelle discussioni del Congresso di Parigi avea attribuito all'Austria l'intervento in Napoli nel 1821, il ministro austriaco gl'insegnò che quell'intervento non era solo opera dell'Austria, ma delle cinque grandi Potenze radunate nel Congresso di Lavbach. Alla quale osservazione egli arrossì, e non seppe che cosa ridire.

Ora egli dovrebbe egualmente vergognarsi di avere in una nota verbale messo il Congresso di Vienna posteriore alla battaglia di Waterloo. Francia ed Inghilterra gli avranno riso al naso: e se gli rendessero risposta, per lo meno dovrebbero dirgli: andate prima a studiare per un anno sotto il signor Èrcole Ricotti, professore di storia nell'Università di Torino, e poi verrete nel Con grosso di Parigi a riordinare il governo Pontificio.

Coloro che in questi ultimi tempi scrissero in Piemonte alcuna cosa contro il Papa, furono condannati a dire i più strani spropositi in folto di storia. Eccovi Nuytz professore di diritto canonico, ohe confonde l'abate Fleury col cardinale Fleury, Eugenio Hi con Eugenio IV, il Concilio di Costanza celebrato nel secolo XV con S. Bernardo morto nel secolo XII, e ci da gli articoli organici come approvati dal Papa, e mette Bonifacio Vili contrario a S. Bernardo in quelle parole che sono di San Bernardo medesimo. Eccovi P. C. Boggio, che, scrivendo contro il Romano Pontefice la storia Piemontese, fa tornare Carlo Emanuele IV alla reggia natta dopo Waterloo; mentre il Re Sardo, avea abdicato lo scettro fino dal 1802, e gli era succeduto Vittorio Emanuele. Eccovi finalmente il conte di Cavour, che fa dare al Papa le Legazioni dopo Waterloo, mentre già prima gliele avea restituite il Congresso di Vienna.

La diversità delle opinioni, l'audacia e la temerità della politica, si scusa colla diversità dei partiti; ma quale scusa ritrovare all'ignoranza dei primi elementi della storia in persone che stanno in sul mille, e pretendono di dar lezione all'universo?

Del resto il conte di Cavour, discorrendo del Congresso di Vienna, affermò, che le Potenze tentennarono nel rendere le Legazioni alla S. Sede, avendo ben capito, che queste sarebbero un focolare di turbolenze atteso nel bel mezzo dell'Italia.

Qui noi lascieremo l'incarico della risposta al Giornale di Francoforte, che si esprime in questa sentenza; e le Potenze rappresentate al Congresso. di Vienna non erano di certo istrutte dei disegni dei Carbonari, i veri autori delle sommosse, tanto nelle Legazioni, quanto a Napoli ed a Torino. Il conte Cavour, che ebbe le mani nella prima rivoluzione Piemontese, conosce certamente meglio quei disegni, e sa che

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quella società segreta avea eletto le Legazioni a principale campo della sua operosità. Chi ciò sapeva, poteva antivedere, che le Legazioni sarebbero fatte un covo di turbolenze; ma noi poteano sapere le Potenze» che non conoscono se non le manifestazioni di gioia, con cui si salutò nelle Legazioni la caduta della dominazione francese, ed il ritornò di Pio VII. »

IL CONGRESSO DI PARIGI

E

LE SOCIETÀ' SEGRETE

(Dall'Armonia, n. 123, 29 maggio 1856)

Il lavoro delle società segrete continua principalmente in Francia. Ad ogni momento qualche giornale ne parla. Ora sono arresti di persone, che diedero nome alle società; ora scoperte di documenti terribili, che dimostrano il loro scopo, e di giuramenti, che legano gli affiliati. Eppure non si sa il centesimo di quanto avviene nella oscurità delle congiure! Imperocché e le società secrete e il governo francese s'accordano nel desiderare il silenzio. Lo desiderano le prime perché odiano la luce, e hanno bisogno delle tenebre, come del loro demento essenziale per vivere. Lo desidera il secondo, perché non iscemi il concetto nella sua fortezza, e perché la notizia del male non riesca ad aggravarlo. Ma il segreto è piuttosto un aiuto, che un rimedio; e serve perché s'addormentino e popoli e governi.

Però il silenzio fu rotto nel Congresso di Parigi dal conte Walewskv, il quale, nella tornata dell'8 di aprile, fortemente rimproverava il Belgio, perché i suoi giornali hanno osato di preconizzare la società detta la Marianna, di cui sono note le tendenze e lo scopo. Nella" medesima tornata il plenipotenziario francese criticava il governo pontificio, come che lo facesse con gran riserbo, e dopo di avere dichiarato, che l'imperatore dei Francesi pregiavasi del titolo di figlio primogenito della Chiesa.

Il Congresso di Parigi fu chiuso. Ma in sostanza che cosa fece contro le società segrete? Nulla. Soltanto ne parlò, e questo servì per rendere più colpevole chi non ha fatto nulla. Un perfetto silenzio avrebbe lasciato supporre o disprezzo o ignoranza del male; supposizione, che ora non è pia possibile. Si conobbe il pericolo, si dichiarò, e non vi si appose riparo, o per difetto di coraggio, o per qualsiasi altro motivo. Anzi ci duole di dover dire di più: nel Congresso di Parigi si fé qualche cosa, non contro, ma in favore delle società segrete, e la tornata dell'8 di aprile ha fatto ridere anche i figli della Marianna e della Militante.

Questo almeno apparve manifesto, che né l'una, né l'altra si vollero schiantare dall'Europa. Imperocché, se Francia avesse proprio voluto farla finita una volta, ad esempio, colla Marianna, qual dovea essere il compito suo? Ricercare per prima cosa dove fosse stabilita. Ci vuoi altro che scatenarsi contro i giornali del Belgio, che la preconizzano!

Bisogna prendersela contro que governi che le danno asilo, che l'accarezzano, che forse la promuovono; contro que governi,

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che scendono quasi a patto con lei, e le dicono: Salvami, e ti do licenza di rovinare liberamente gli altri.

Ora, dove ha sede k Marianna? Lascieremo parlare un giornale, che è forse il più competente a risponderci, e questo è l 'Homme. Il quale, parlando del Congresso di Parigi, scrive: «È un grande onore per la Marianna Tessere stata menzionata in un sì augusto cenacolo. Vuoi dire che si teme; e se si teme, dunque è una potenza, una grande potenza! Ma perché attribuirne la colpa al povero Belgio, che adopera a tutta sua possa te forbici, e non accusare piuttosto t Inghilterra t dove la Marianna tiene tm centro di propagande ben più formidabili?»

L'Homme, osserva un giornale conservatore, sotto questo rispetto ha completa ragione. Se non fosse l'impunità, di che la propaganda rivoluzionaria gode in Inghilterra, la propaganda sua, assai pili mite nel Belgio, non esisterebbe, come l'effetto non esiste, quando è tolta la causa.

È in Londra il cuore della rivoluzione, lo spirito delle società segrete. Si rifletta seriamente su questa corrispondenza della Gazzetta Universale: e II comitato centrale della Marianna risiede in Londra, sotto il nome di Comune rivohuùmario. Sua cura è, che in ogni spartìmento della Francia s'istituiscano comitati figli, sotto nomi diversi. Questi però non si conoscono reciprocamente e sono in relazione diretta soltanto col comitato centrale. Se venisse a scoppiare una rivoluzione, questi comitati debbono costituirsi come altrettante convenzioni dipartimentali rivoluzionarie, che avranno la direzione suprema detta rivoluzione, e dovranno prestarsi assolutamente agli ordini del comitato residente in Parigi. Ogni comitato figlio deve mandare ogni mese al comitato residente in Londra una relazione sopra certi fatti e particolarità, e uno stato dei numero delle troppe, de' gendarmi, de' depositi d'armi, delle casse pubbliche, informazioni sui presunti nemici della rivoluzione, ecc».

Non è l'Austria, non Napoli, bob lo Stato Pontificio, il focolare della rivoluzione europea. Londra l'accoglie, e le lune rosse, per adoperare una frase del Mamiani, che s'aggirano intorno al sole di Londra, sono quelle che la soccorrono. Nel Belgio, come già disse il conte Walewsky, i giornali preconizzano la Marianna; ed in Piemonte la Maga esclama: «La signora Marianna è la preferita, la signora Marianna è l'idolo del nostro cuore... non abbiamo altra speranza, che nella signora Marianna... non possiamo aver fede che nella signora Marianna... non possiamo far altro che raccomandarci alla signora Marianna». (Maga N° 56 dell'8 di maggio).

Dicevamo che il Congresso di Parigi, ben lungi dal fare qualche cosa contro le società segrete, le ha involontariamente soccorse; e questo si dimostra per due capi: 1 perché non ebbe il coraggio di affrontarle e snidarle dal luogo dove hanno la loro sede naturale, occupandosi invece di bazzecole che nulla o quasi nulla influiscono sulla Pace del mondo; 2° perché co' suoi progetti e coi suoi discorsi le palpò cortigianescamente spianando la strada all'esecuzione dei loro progetti.

Udite ancora la Maga: e Quando leggiamo i protocolli del Congresso di Parigi, e vediamo che cosa significhi civiltà occidentale, nazionalità ed indipendenza;quando vediamo che i pasticci di quattro diplomatici plenipotenziarii

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hanno forza di legare per le mani è pei piedi cinquecento milioni d'uomini; che a Parigi si è disputato delle ore per un palmo di terreno di più o di meno ad Ismail od a Jatka, e si è passato all'ordine del giorno sulla questione italiana, noi non possiamo far altro, che raccomandarci alla signora Marianna».

Questo pensiero è capace d'una giusta interpretazione, e direbbe certamente il vero chi dicesse: quando vediamo che nel Congresso di Parigi non si fecero che ciance, e non si stabilì un grande e solenne principio, e non si osò cozzare di fronte colla rivoluzione, e si spese un tempo preziosissimo in forinole insignificanti, in cerimonie ridicole, nella penna dell'aquila viva, nelle serate, nei pranzi, nelle conversazioni; noi tremiamo pei governi, per gli imperii, e la Marianna ci spaventa!

Ma taluni si valsero del Congresso di Parigi per declamare contro del Pai»; e questo fu un soccorso recato alle società segrete. I giornali ci diedero poco fa il programma della Marianna, e il quinto capitolo diceva: «La Chiesa, questa tiranna dell'umanità, sarà abolita, e tutti i sacerdoti del paese saranno espulsi». Ora esaminate tutti gli altri programmi libertini, e vedrete che col» limano a questo scopo. Il conte di Cavour che cosa disse in sostanza nella sua nota verbale? Egli volle secolarizzare i governo pontificio. E che differenza ci passa tra secolarizzare il governo, ed espellere i sacerdoti? Non v'è che una semplice differenza di nome. Cavour moderato vuole espellere i sacerdoti dalle Legazioni: gli altri vorrebbero espellerli da tutto il mondo. Ammettiamo che il primo abborra dai mezzi de' secondi: ma lo scopo finale è il medesimo; e raggiunto in una parte dello Stato Pontificio, si cercherà di raggiungerlo anche nelle altre parti e negli altri Stati.

Il Congresso di Parigi (ebbe torto nel somministrare materia all'Inghilterra e al Piemonte, di declamare contro del Papa. Con ciò, noi lo diremo francamente, non fé' che aiutare la Marianna. Questa è l'ultima conclusione delle idee moderne. Se poteste leggerle nel cuore, ben la vedreste ridere per ciò che s'è fatto. Ride quando vede i governi discordi tra loro; ride vedendo Napoli odiare i Gesuiti, e accarezzare Tanucci; ride se sente divinizzati i principii dell'89, e proclamata l'indipendenza e la. tolleranza nel senso libertino. I gabinetti fino al giorno d'oggi hanno fatto più in favore che contro le società segrete. Il vero e unico nemico di queste è la Chiesa, che le ha fulminate t epperò la dichiarano nemica dell'umanità, e ne giurano l'esterminio.

Non è da ieri che la Chiesa disse solennemente ai principi, ciò che il conte Walewsky proclamò nel Congresso di Parigi. Clemente XII, Benedetto XIV, Pio VII, Leone XII, da buona pezza li avvertirono e scongiurarono di tenersi in guardia contro le società segrete.

«Con ardentissima istanza, dicea l'ultimo Pontefice, domandiamo anche il vostro appoggio, o cattolici Principi, dilettissimi nostri figli in £risto, che noi amiamo con singolare e veramente paterno amore. Vi rammentiamo perciò le parole adoperate da leeone Magno, al quale siamo succeduti in questa dignità, e di cui abbiamo indegnamente ereditato il nome, in una sua lettera all'imperatore Leone. Dovete con ogni sollecitudine avvertire come la reale podestà ti fu conferita non solo per governare il mondo, ma anche e principalmente per tutelare la Chiesa,

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affinché, repressi gli attentati degli empi, difendiate le buone istituzioni, e ristabiliate la pace tò, dove fu turbata. Sebbene tanto critica è attualmente la condizione delle cose, che, non solo per difendere la religione cattolica, ma anche per tutelare la incolumità vostra e dei popoli al vostro dominio soggetti, voi dovete reprimere coteste sètte». È fin dal 12 di marzo del 1825, che Leone XII dava a' governi questi ammonimenti, e colore che li disprezzarono, sono oggidì vittima delle società segrete; mentre gli altri che restano, pretendono di dar norma di buon reggime alla S. Sede, che mostrò sempre di così ben conoscere le mene e gli attentati degli empi e de' demagoghi. Invece di scrivere memorandum, dovreste, o Principi, aprire gli occhi e pensare a voi stessi. Dovreste badare che chi medita l'esterminio della Chiesa, vuole nello stesso tempo il vostro «sterminio, e quindi riparare in quest'arca benefica, che vi salverà dal naufragio. L'imperatore d'Austria vi ricorse, e non se n'è ancora pentito, né avrà da pentirsene giammai. Iddio lo benedisse; egli già trionfò nella guerra d'Oriente, ed ora è presso a trionfare nella egualmente pericolosa pace di Parigi.

L'APPELLO ALLA RIVOLTA

DEI

PLENIPOTENZIARI PIEMONTESI AL CONGRESSO DI PARIGI

(Dall'Armonia. 124, 29 maggio 1856).

La rivoluzione esiste nel mondo, anzi esiste in Europa, anzi esiste particolarmente in Italia; ma questi pretendono che stia di casa in un luogo, e quelli in un altro. Facciamo qualche ricerca, e moviamo qualche interrogazione.

Signori plenipotenziari sardi al congresso di Parigi, dove sta di casa la rivoluzione? Essi ci rispondono nella loro. nota indirizzata a lord Clarendon e al conte Walewski il 16 di aprile del 1856: La Sardaigne est le seul État de l'Italie qui ait pu élever une barrière infranchissable à l'esprit révolutionnaire. In tutte le parti d'Italia v'è la rivoluzione, eccetto in Piemonte.

Signor deputato Buffa, dove sta di casa la rivoluzione? Egli ci risponde: «Le condizioni dei vari popoli italiani sono più o meno intollerabili, ma tutte infelici. Ad essi è negata non solo ogni libertà, ma anche quella onesta larghezza, ch'egli stessi governi assoluti oggidì, purché civili, non sogliono negare... Tutto questo non fa che alimentare lo spirito di rivoluzione, che, sorgendo l'occasione,può diventare un grande pericolo, come per l'Europa intiera, cosi più specialmente per noi lo spirito rivoluzionario si manifesta e si svolge in tutti i paesi, dove sono stanziate le truppe austriache».

Il conte di Cavour adunque e il deputato Buffa, uniti insieme, danno piena risposta alla nostra domanda. Il primo dice dove non è la rivoluzione; il secondo dichiara dove si trova. A detta dell'uno non è in Piemonte; a detta dell'altro trovasi nel resto d'Italia.

Ora, interrogati gli uomini, passiamo ad interrogare i fatti.

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I primi affermano gratuitamente; i secondi provano senza ammettere replica. Noi non faremo commenti, ma reciteremo soltanto le parole de' giornali.

Il Movimento di Genova del 13 maggio, N° 129, scrive: «Ieri dalle guardie di pubblica sicurezza venne stracciata una carta affissa ad uno dei pilastri del teatro Carlo Felice contenente intimazioni e minacce per ragioni politiche».

Il Cattolico di Genova del 13 maggio, N° 1990: «Ad un banchetto di studenti fu gridato: Viva all'Italia unita, e ieri mattina un po' di gente raccolta intorno al mortaio di Porteria innalzò alcuni gridi più o meno consimili».

Il Diritto del 14 maggio, N° 115, stampa un brano d'una lettera di Genova che dice così: cleri sera (12) fu trovato affisso vicino alla Posta un cartello anonimo, minacciarne il console austriaco».

La Maga jji Genova dell'8 di maggio, N° 56, scioglie un inno alla signora Marianna, che è l'idolo del suo cuore, e dice: e Quando pensiamo al cavalletto di Roma, alle legnate di Napoli, allo stato d'assedio di Parma, al martirio della Sicilia, ai Croati che governano a Milano, alle migliaia di emigrati e di giustiziati in Italia, a repubblicani francesi deportati a Cajenna ed a Lambessa, ai dolori della Polonia; ai gemiti dell'Ungheria, ai fremiti della Germania, non abbiamo altra speranza che nella signora Marianna».

Ciò che è avvenuto recentemente in Torino ed a noi in ispecie, tutti sanno, e non c'è permesso di scriverlo liberamente. Basti solo ricordare un principio di legalità formolato il 19 di ottobre 1853 dal sig. Gallali ni intendente reggente la questura, poiché il conte di Cavour avea avuto egli pure l'onore d'una dimostrazione:

«Atti legali non sono le manifestazioni tumultuose della piazza, e quali se furono represse con energia al primo apparire, lo sarebbero con tutto il rigore assentilo dalle leggi qualora si rinnovassero».

Si ricorderanno eziandio le parole, le aspirazioni, i voli fatti testé in Parlamento, ed in ispecie ciò che disse il deputato Valerio nella tornata del 7 di maggio:

«Le nostre parole, le parole del sig. Presidente del Consiglio di tanto pili importanti delle nostre, non istaranno sicuramente chiuse in questo recinto, o serrate nei confini che segna il Ticino... Queste varranno a ridonare coraggio agli animi abbattuti, e faranno audaci gli animi coraggiosi, e l'audacia ed il coraggio che ne verrà ai nostri fratelli del rimanente d'Italia, non istarà lungo tempo senza farsi sentire».

La Gazzetta Austriaca, parlando della famosa Nota, scrive: e La Nota del 16 di aprile sottoscritta dal conte di Cavour e dal marchese Villamarina, è un appello alla rivolta».

Colla Gazzetta Austriaca conviene il Diritto del 28 maggio, N° 126, e dice: «La conseguenza è quella che ne trae la Gazzetta Austriaca, perocché dire ad un popolo come l'Italiano, ancora di vita gagliarda ed indomata: - i tuoi patimenti sono senza nome, i tuoi oppressori senza umanità, né v'ha chi possa toglierti di dosso il giogo, colpa la perfidia dell'Austria, - vuoi significare che lo si incita a disperati tentativi, che la legge della propria conservazione consiglia e suggerisce un tenace amore alle proprie tradizioni; vuoi significare infine che gli si addita qual è l'antico, l'inconciliabile avversario d'ogni suo bene - l'Austria -, e gli si dice:

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INSORGI CONTRO ESSA! Parliamo francamente: è un vero appello alla ricolta».

Aggiungete a questo l'epistolario di Daniele Manin, che stampa in Piemonte, dove dice agli Italiani: Agitatevi, ed agitate. «L'agitazione non è propriamente l' insurrezione, ma la precede e la prepara», e parla di punture di spille, di larghe ferite di spada, esimili; sommate tutto insieme, e molte altre cose, che sarebbe troppo noioso e pericoloso dire, e voi avrete facilissimamente trovato dove stia di casa la rivoluzione.

La rivoluzione sta di casa, dove si può cospirare contro la pace e la tranquillità degli Stati vicini, comandandovi e regolandovi le sommosse, quando coll'aiuto di Note verbali, quando con discorsi pronunziati dalle tribune parlamentari, e quando finalmente con lettere e con articoli di giornali.

La rivoluzione sta di casa, dove i cittadini sono guardati a viste per le loro idee politiche, e minacciati e designati alla vendette coloro che vogliono pensare eolla propria testa, ed hanno il coraggio, nel paese della libertà, di non voler sottostare alle altrui opinioni.

La rivoluzione sta di casa, dove il giornalista non si lascia libero ne' suoi giudizi, ma ode il tumulto presso al suo uffizio, e prima di recarsi davano al tribunale, è obbligato a sostenere un processo sulla pubblica piazza.

La rivoluzione sta di casa, dove il ministro dichiara illegali le manifestazioni tumultuose, che si fanno sotto le proprie finestre, e le vuole represse con tutto il rigore, mentre per contrario tollera le manifestazioni, che ban luogo sotto alle finestre altrui.

La rivoluzione sta di casa, dove la natura e gravita dei reati... trova indulgenza chi porte un titolo, e rigore chi mostra un titolo diverso, qualunque del resto sia la qualità del delitto.

La rivoluzione sta di casa, dove il ministero s'intromette nelle faccende di Stati indipendenti, e pretende, sebben forestiero, di governarli come padrone, sottraendoli al legittimo dominio di chi ha solo il diritto di comandarvi.

La rivoluzione sta di casa, dove si accorda pienissima tolleranza alle società segrete, e vanno impuniti coloro, che, sotto il nome di Marianna, giungono perfino ad invocare la ghigliottina,

La rivoluzione sta di casa, dove i processi contro gli assassini si protraggono a mesi e ad anni, e ad un povero giornale, che descrisse le feste dello Statuto, non si lascia neppur tento tempo per prepararsi alla difesa.

La rivoluzione sta di casa E perché dovremo noi continuarci ancora in queste dolorosa enumerazione? Quella Note medesima, che diceva avere il nostro ministero opposto un argine insormontabile allo spirito rivoluzionario è dichiarate dal Diritto stesso un vero appello alla rivolta

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MOVIMENTO PROTESTANTE IN ITALIA

(Dall'Armonia, n. 135, 12 giugno 1856).

Tra i giornali, che ci giungono oggi da Londra, uno ve n'ha con questo indirizzo: A»'Armonia, giornale Papista. Il giornale è la famosa Eco di Savonarola,' morta da un anno, ma risorta nel giugno del 1856. Ascoltiamo dall'Eco la storia della sua morte e della sua risurrezione.

L'Eco di Savonarola ebbe origine nel 1847. « II numero degli abbonati non è mai giunto a coprire intieratnente le spese. Alla fine d'ogni anno ci siamo sempre trovati con un piccolo deficit. Così di piccolo deficit in piccolo deficit, ne) marzo del 1855 il nostro deficit era montato a lire 70 (sterline)» .

L'Eco di Savonarola è scritta da rinnegati italiani. Lo dirige un certo Salvatore Ferretti, e vi pigliano parte Luigi Desanctis, Teodorico Rossetti, e qualche altro della stessa risma. Costoro non trovano amici nemmeno tra le file degli Anglicani; gli stessi protestanti li conoscono e li disprezzano , e dove vive e prospera ogni giornale, essi non riescono a raggranellare tanti abbonati per coprire interamente le spese!

L'Eco moriva perciò d'inedia nel 1855. Ma risorgeva poi nel giugno del 1856 per un caso che racconta in questo modo: «Un cristiano scozzese, amico d'Italia e degli Italiani, così ci scrive: Vi somministrerò i fondi pef pubblicare 4 numeri, cioè L. 40. Non lo farei, se non mi sentissi fiducia nei vostri principii cristiani per il modo conseguente, con cui da sì lungo tempo perorate per la causa della verità, secondo i semplici insegnamenti della Bibbia» .

Coll'aiuto adunque delle L. 40 l' Eco è risorta, e i suoi scrittori dicono: «Riprendiamo la sospesa pubblicazione dell'Eco nella speranza, che i nostri lettori vorranno procurarci degli abbonati, onde proseguire quest'opera d'evangelizzazione, e sgravarci a poco a poco dell'insopportabile deficit delle fare 70» . Bella cosa è la Bibbia; stupendo il Vangelo e l'Evangelizzazione; ma le lire 70 stanno molto più sul cuore degli apostati dell'Eco!

Noi vogliamo però essere giusti, e confessare che l' Eco di Savonarola racchiude qualche verità, e involontariamente rende qualche servizio a quel cattolicismo che combatte. Tra i dieci articoli di questo suo primo numero, che ci sta sotto gli occhi, uno ve n'ha, di cui ci affrettiamo a fare tesoro. Esso s'intitola: Movimento Protestante in Italia, ed è scritto dal suo direttore Salvatore Ferretti.

Secondo il quale quattro grandi elementi, ossia quattro partiti generali compongono il movimento protestante in Italia, e tutti, sebbene con armi diverse e per fini diversi, stati combattendo dai quattro lati il colosso non più temuto del Vaticano» . Sono questi il partito antipapale, il partito antipapista, il partito protestante, il partito evangelico.

Il partito antipapale è quello dei nostri moderati. «Coloro che lo compongono, non vogliono che i Papi ritengano il potere temporale, ma lo spirituale soltanto. Riconoscono gli uni in buona fede, gli altri per convenienza, nel Pontefice di Roma il successore degli Apostoli, il Capo della Chiesa, il Vicario di Gesù Cristo,il rappresentante di Dio sulla terra, ma non lo accettano come Monarca.

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Il motivo per cui si. oppongono al Papa-re, ei è unicamente perché veggono in lui il più grave ostacolo al conseguimento dell'unità italiana, desiderio divenuto ornai universale fra noi. Per dare al loro scopo politico un po' di tinta religiosa, si avvalgono di tutti quei passi della Bibbia, che condannano il potere temporale dei preti, e sopratutto del celebre detto di Gesti Cristo: H mio regno non è di questo mondo .

Ecco adunque i primi ausiliari de' protestanti in Italia: coloro che combattono il governo temporale del Papa. Lo dice l'Eco di Savonarola, che se he intende. Non monta ch'essi professino devozione al potere spirituale del Pontefice. Accusandolo di opporsi al Vangelo, già si fan protestanti, sottraendo alla Chiesa l'unica autorità di interpretare magistralmente la Bibbia. Né solo aiutano il protestantesimo coloro che combattono il totale dominio del Papa; ma quelli pure che vorrebbero diminuirlo, o nella sua estensione, o nella sua maniera di governo. Imperocché l'indipendenza politica del Papa riflette sulla sua indipendenza religiosa, e, violatala prima, diminuisce anche la seconda, almeno nel concetto de popoli.

Siccome a questa schiera appartengono i nostri ministri, e tutti i loro giornali; cosi la Buona Novella ebbe già a dire, che essi obbediscono ad una direzione più, o meno protestante, che è la sentenza ripetuta in altri termini dall' Eco. E se l'anglicanismo fa buon viso alla nostra politica, non è peraltro motivo, se non perché là soccorre nella sua guerra al Papa. In questo senso spiegaronsi sempre le società protestanti ne' loro indirizzi al nostro governo, tanto che il nostro Re in una sua risposta dovette protestar del contrario.

Noi vorremmo che, queste confessioni aprissero gli occhi a quelli de' nostri concittadini, che sono ancora in buona fede. Badino che la questione politica è ornai inseparabile dalla religiosa, e l'una non serve che di mantello all'altra. Se hanno caro il cattolicismo, si separino per carità da un partito, che lo combatte più o meno apertamente. Un buon cattolico non parlerà mai contro il Romano Pontefice. Forse che non si farebbe coscienza un anglicano di parlar contro la regina Vittoria, od uno scismatico moscovita di prendersela contro lo Czar? E come poi chi professa il cattolicismo, ed è figlio della Chiesa, oserà levarsi contro Pio IX?

Il secondo partito, che favorisce il protestantesimo in Italia, vien chiamato dall'eco di Savonarola partito antipapista. È composto di quelli, che si sono apertamente separati dalla Chiesa Romana, e Costoro odiano a morte il Papismo, e lo combattono con tutte quelle armi, di cui possono provvedersi». Gli antipapali non vogliono il Papa-re, ma dicono di venerarlo Pontefice; gli antipapisti noi riconoscono né Pontefice, né re. Dunque sono essi dichiarati protestanti? No, risponde l' Eco. e A prima vista voi li credereste sinceri protestanti, ma se discorrerete un tantino con essi, se farete loro taluna di quelle domande, che non ammettono risposte oblique, né mezzi termini, voi, oltre al trovarli antipapisti per eccellenza, li troverete parimente increduli per eccellenza». Questo secondo partito, dice l' Eco, è il più numeroso.

Notate bene, che anche costoro favoriscono il protestantesimo, e lo favoriscono senza credere a nulla. Di qui argomentate dell'indole e natura di una setta, la quale si vantaggia dell'incredulità. Le parole scritte dall'eco di Savonarola riduconsi


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a dire, che come chi combatte il Papa pel suo governo temporale, viene anche a combatterlo nella sua spirituale podestà; così chi lo combatte come re e come Pontefice, è d'ordinario incredulo per eccellenza.

Questo fatto innegabile dimostra il nesso logico che passa tra le verità, per cui negato un vero si giunge a negar l'altro, e a romper quella catena che tiene ferme le menti in qualche cosa di reale e di positivo. Laonde l'errore chiama Terrore, e l'abisso l'abisso. Il freddo cattolico non rispetta il Papa, poi Io combatte re, poi lo disprezza Pontefice, e si getta finalmente nello scetticismo e nella incredulità.

Il partito degli increduli, detti molto saviamente dall'Eco antipapisti, è il più numeroso. E noi aggiungeremo che lo ingrossano d'assai i fautori del protestantesimo, e t nemici del cattolicismo, giacché non v'è termine di mezzo tra Tessere atei, e Tessere cattolici. La ricognizione di un Dio giusto, provvido, onnipotente, vi conduce fino al Papa, e la guerra mossa al Papa vi mena d'errore in errore fino all'ateismo.

La quale sentenza può essere verificata colla pratica, e addentrandosi un po' nell'animo di coloro, i quali sono antipapisti, si conoscerà di leggieri che o essi nulla credono, o vivono come se non credessero nulla.

Il terzo elemento che riconosce in Italia l' Eco di Savonarola, è il partito protestante. Questi la ragionano così: e Noi siamo filosofi, quindi potremmo benissimo fare a meno di religione. Ma il popolo non è filosofo, dunque ha bisogno d'una religione. . La società senza religione non può sussistere. Se all'Italia togliamo il papismo, perché opposto al nostro scopo politico, fa d'uopo che gli sostituiamo qualche altra cosa. Fra tutte le religioni che esistono, il cristianesimo riformato ci sembra la migliore».

Questo, a detta dell'Eco, è il ragionamento dei protestanti in Italia. I quali vogliono rendere il popolo protestante, cioè o valdese o evangelico, perché riconoscono impossibile di lasciarlo incredulo. Se dipendesse da loro, direbbero ai popoli: Non credete nulla. Ma il popolo non essendo filosofo, veggonsi obbligati ad ascriverlo al protestantesimo. Donde risulta, che nel concetto di costoro essere protestanti ed essere increduli vale presso a poco lo stesso; che essi mentiscono, e s'infingono allora quando vogliono pervertire le popolazioni, e che non solo cessarono di essere cattolici, ma anche onesti.

Ecco finalmente il quarto ed ultimo elemento, ed è H partito evangelico, il più piccolo di tutti. Che cosa creda, e che cosa voglia questo partito, il giornale di Londra noi dice. È il partito che esso propugna, e vorrebbe diffuso in Italia. Ma da una stazione missionaria degli Stati Sardi gli scrivono: Sono già 48 mesi che lavoro in questa città, e non abbiamo che quattro persone convertite. e Belle erano le speranze sul principio della mia missione, avendo udienze numerose, e sembrava esservi eccellenti disposizioni, sia nella parte colta della città, sia nelle autorità governative che proteggevano, secondo lo Statuto, a spada tratta l'opera che mi era stata affidata. Ma come tutto si è ora disperso!»

Questa desolazione dell'Eco di Savonarola è molto consolante per noi. Ornai increduli, protestanti, evangelici, riconoscono che è impossibile strappare l'Italia al cattolicismo. Negli Stati Sardi le autorità governative proteggono a spada tratta

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l'opera loro, ma inutilmente. In 18 mesi hanno fatto quattro proseliti, e che proseliti!

Ora, riassumendo ciò che ha detto l'Eco fin qui, noi ne possiamo dedurre Je seguenti confessioni importantissime: 1° In Italia favoriscono il protestantesimo coloro che combattono il dominio temporale del Papa: 2° Favoriscono in Italia l'incredulità, coloro che vi promuovono il protestantesimo; 3° Sono finti e menzogneri coloro che vorrebbero protestante il nostro popolo, e predicano soltanto l'eterodossia, perché non hanno coraggio di predicare l'ateismo; 4 Gli Evangelici e i Valdesi, quantunque assistiti e protetti a spada tratta dalle autorità governative negli Stati Sardi, pure non riescono a nulla, e le loro' speranze andarono disperse.

Dopo di ciò noi ringraziamo l'Eco di Savonarola d'averci spedito questo suo preziosissimo numero, la ringraziamo d'aver chiamato l' Armonia giornale Papista, e ringraziamo l' Espero del signor Rattazzi, che ci chiama così sovente giornale del Papa. Gli antipapali e gli antipapisti non sono né cattolici, e neppure protestanti, ma atei, ingannatori, ipocriti che nulla rispettano, nulla credono, e nulla temono. E ohi non crede e non teme Iddio, è incapace di vera onestà e capacissimo di tutto.

PIO IX E GLI INONDATI DI FRANCIA

NEL 1856.

(Dall'Armonia n. 156,13 giugno 1856).

Un dispaccio telegrafico di Parigi ieri ci annunziava la carità di quindici mila franchi fatta da Pio IX in vantaggio degli inondati di Francia. Questa notizia ci die argomento di parecchie gravissime considerazioni parte proprie a quest'angelico Pontefice, parte generali al Papato, parte relative alla città di Roma, che noi vogliamo sottomettere al giudizio de' nostri cortesi lettori.

Abbiamo dapprima pensato al gran cuore di Pio IX, vero padre de' fedeli, che tiene in conto di proprie le disgrazie de' figli. Chi può dire a mezzo le opere di beneficenza che compie? Nessun ricorre inutilmente a lui, nessuno piange ai suoi piedi senza dipartirsene consolato. Sebbene egli usi d'ogni industria per nascondere i suoi atti di carità, ad ogni modo sono già tali e tanti, che tutta Roma li conosce in parte e li benedice. Si calcolavano mesi sono a novecento mila scudi romani le elemosine erogate già da Pio IX in danari proprii, ch'egli in buona coscienza potea ritenere per sé. Questa somma è enorme, massime se si considera la ristrettezza della sua lista civile.

Della quale noi abbiamo già parlato, ma molto saviamente quel cattolico e dottissimo uomo, che è il signor Bowyer, volle discorrere nella Camera dei Comuni d'Inghilterra il 6 di maggio. Egli disse agli Inglesi chi fosse il Papa, ed il Papa presente. Il Papa tenea spalancate le porte del suo palazzo, Ognuno potea passeggiare attraverso ai suoi magnifici appartamenti, senza essere fermato od altrimenti interrogato.

Nessun altro Sovrano Europeo era meno protetto nella persona che S. Santità, la quale in una recente occasione scese dal Vaticano in S. Pietro seguito da quattro guardie svizzere, e da tre suoi ciambellani,

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e vi amministrò la comunione a 400 de' suoi sudditi.

Durante il colera, diceva il signor Bowyer, il Papa servì gli ospedali ed assisté ai malati ed ai moribondi ai pari del prete più, umile e devoto. Venne coniata una magnifica medaglia in commemorazione della visita fatta da Pio IX ai colerosi dell'ospedale di S. Spirito, e chiama sugli occhi le lagrime vedere questo grande Pontefice affratellarsi cogli appestati, e benedirne gli ultimi momenti. La medaglia porta la leggenda: Ad Sancii Spirititi lue laborantibns intuii XI hai. sept. a. MDECCLIV.

La lista civile del Papa, soggiungeva il Bowyer, ammonta a sole 1,500 lire sterline all'anno. E, l'Ordine, giornale di Malta, avverte, che è quanto il salario d'un segretaro e mezzo dei governo maltese. E qui noi prevediamo una facile obiezione. Ci diranno: come mai Pio IX, che ha sì poco, può aver erogato tanto in opere di carità? Pio IX, egli pure ha goduto della carità cattolica. Un giorno si trovò privo anche di queste 1,500 lire sterline, privo del trono, della patria, ed esule in terra noe sua. Ne l'aveano privato coloro, a cui Pio IX ave» dato tutto, prima la vita, e poi un» parte del suo potere. Allora la carità dei fedeli accorse generosa a sussidiare lo spogliato Pontefice col danaro di San Pietro, ed egli volle spendere in opere di carità ciò che dalla carità gli era provenuto. Sublime alternativa e gara di beneficenza tra H padre ed i figli, che resterà nella storia a lode del secolo nostro memorando per grandi scelleratezze, ma viva Dio 1 memorando anche per grandi virtù,

Noi Piemontesi abbiamo doveri di riconoscenza verso Pio IX, che a molti de' nostri estende anche la sua carità. V'ha in Roma chi venne espulso dal nostro regno, e spoglialo di tutti quanti i suoi beni in nome delle libere istituzioni, fi costui come potrebbe vivere conforme ai suo stato, se il Pontefice non sovvenisse costantemente a suoi bisogni? Sì, Pio IX, a cui il nostro mini» stero negò quella misera offerta, che gli era dovuta a titolo di giustizia, benefica continuamente il Piemonte nella persona de' suoi concittadini; e se mai avvenisse, che i nostri ministri dovessero porgere la mano, noi siamo certi, che il taro primo benefattore sarebbe quel Papa, al cui trono stanno insidiando «on tanto livore.

Boom è la città di tutti, e nessuno vi è straniero, come il suo Re è il padre universale, e tutti gli sono figlia e forse più cari i più traviati. In quale altra città trovasi un'istituzione simile quella fondata dal Papa Alessandro VII, che ha per iscopo di visitare nelle locande e negli alberghi i forestieri infermi, soccorrerli di limosine se sieno poveri, prestar loro tutti i servizi onde abbisognano, custodirne le cose per renderle ai parenti ed agli eredi, qualora venissero a morire? Voi andate a Roma, e se vi coglie un'infermità, o ricco o povero, o cattolico o eterodosso, siete certi della maggior assistenza. Il cattolicismo veglierà sa di voi col cuore d'una tenerissima madre. La Chiesa è gelosissima di questa sua ammirabile istituzione, e il cardinal Vicario di Roma DellaPorta Rodiant, il 3 agosto del 1841, pubblicava, un editto, minacciando pene contro tutti i locandieri, albergatori ed osti, che tralasciassero di dare avviso quando avessero forestieri inalati.

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Per lo che a noi non recò veruna sorpresa la notizia data dal telegrafo, che Pio IX fosse così generosamente accorso in sollievo degli inondati di Francia. È cosa naturale in un Papa, naturalissima in Pio IX, che tanto sente le altrui sventure. 1 Francesi diedero aiuto a lui esule in Gaeta, ed egli non lardò a sovvenire i Francesi infelici, e l'avrebbe fatto egualmente senza la spedizione di Roma, perché la carità considera soltanto la miseria, e non pensa ad altro. I nostri giornali libertini, che spargono la loro bava sulle cose più auguste, non hanno tardato a calunniare anche questo fatto di Pio IX; ma gli uni operano e scrivono da libertini, e l'altro da Pontefice. Quei tristi non intendono pili in là dell'egoismo, dell'interesse, del calcolo, e in conseguenza bestemmiano quello che non capiscono.

Lasciamoli dunque in disparte abbaiare a loro talento, e ritorniamo alla gran Roma dei Papi. Quantunque un professore progressista in un suo corso circostanziato di geografia abbia tentato di togliere a Roma perfino il Tevere, per darlo al regno di Napoli, tutti sanno però che questo fiume attraversa l'eterna città, e di tanto in tanto la contrista colle sue inondazioni. Tito Livio ne conta dodici nel solo anno di Roma 565. Ma la moderna città v'è meno soggetta, essendo il suo piano di tre a sei metri più alto dell'antica. Talvolta però essa fu vittima degli straripamenti del Tevere, come nel gennaio del 1606, in cui le acque elevaronsi più di 12 metri sopra il pelo ordinario, nel febbraio del 1637, nel novembre del 1660, nel dicembre del 1702, e nel gennaio del 1742. Si può vedere negli Studi statistici su Roma, del conte di Tour non, la storia di queste inondazioni.

Ora la carità cattolica ha pensato ad una istituzione tutta particolare per soccorrere gli inondati. Una distribuzione di pane ai bisognosi ha luogo in Roma quando il Tevere esce dal suo letto. Il segnale del principio di tal dispensa è quando il fiume gonfiatosi per dirotte pioggie o per nevi disciolte, si affaccia dinanzi al Pantheon, e giunge al ciglio della colonnetta all'angolo destro del vestibolo di quel tempio. Allora l'Annona provvede subito il pane, i presidenti ragionari allestiscono carri e barchette, e si reca il pane agli abitanti fuori le porte por tese, ostiense, angelica e flamminia, e se il bisogno lo richiede, per le vie interne del recinto israelitico, di ripetta, dell'ora, e di borgo, e in qualunque altro luogo della città. Finché dura l'inondazione, coloro che trovansi in mezzo alle acque non mancano mai del pane necessario, e nel 1831 e 1836 il pubblico erario vi spese buonissime somme; e v'assegna in media 600 scudi per ogni anno.

Noi non sappiamo se v'abbia qualche cosa di simile in quelle città della Francia, che vanno soggette agli straripamenti de' fiumi. L'imperatore Napoleone nella sua visita in Lione pensò ai provvedimenti da abbracciarsi per impedire nuove inondazioni; ma mentre invocasi l'aiuto dell'arte, se noi scrivessimo in Francia proporremmo l'istituzione di società cattoliche nelle diverse città esposte ai rischi delle inondazioni, affinché lungo l'anno raccogliessero fondi in elemosina da valersene poi all'uopo. E tra i Francesi, così nobili di sentimento e così generosi di roano, tali società prospererebbero, essendo una nuova gloria pel cattolicismo che le inspira, e per Roma che ne die il nobile esempio.

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L'UNITA' DEL CLERO

E L'ANARCHIA DEI LIBERTINI

(Dall'Armonia, n. 141, 29 giugno 1856).

«Et vous vous étonnez non je vous donne en exemple le spectacle de l'indépendance et de l'union du clergé, lorsque vous ne nous donner en exemple que le spectacle de votre anarchie !

Est-ce que vous vous entendez entre vous dans la presse, sur la patrie, les élections, l'organisation du travail, les fortifications, renseignement, la presse? Quant a la religion, pour vous c'est la nuit, et pour nous c'est le jour. En fait de religions vous ne savez opposer a la grande Église du Catholicisme que toute sorte de petite Église, qui se culbutent les unes par dessus les autres, et dont chacun de vous est le dieu, le prêtre et l'autel».

Cormenin - Feu ! Feu !

Il Piemonte dividesi in due parti: la parte cattolica e la libertina. Tutti coloro che non appartengono alla prima, entrano nella seconda. Capo dei cattolici è il Papa, poi vengono i Vescovi, poi i fedeli, che credono ed obbediscono. 1 libertini non hanno capo, perché sono incapaci di ordine, di governo, di concordia. Noi riputiamo utilissimo dipingere in brevi parole lo spettacolo che presentano le due parti contendenti nel nostro paese.

Il contegno della parte cattolica venne descritto nella circolare ministeriale del 9 di giugno. Quivi si dice che i nostri mostrano un carature sistematico, unito, solidario. Ed è verissimo. Ciò che fa l'Arcivescovo Fransoni in Torino, fa l'Arcivescovo Marongiu in Cagliari. Ciò che fanno amendue, approvano tutti quanti i Vescovi dello Stato. Pio IX parla, è la sua santa parola è legge per tutti. 1 parrochi senza preventivi accordi s'intendono e predicano lo stesso. I confessori serbano un eguale contegno in qualsiasi parte più remota dello Stato. Una è la loro fede, uno il loro capo, una la loro morale, una la loro pratica. S'intimano ritrattazioni per ogni dove, e si negano concordemente i sacramenti ai contumaci. Migliaia di ecclesiastici che mai non si videro, mai non s'intesero, rispondono ad una voce: non licet. Perfino i giornali cattolici vanno perfettamente d'accordo. Quello che dice l' Echo du Mont-Blanc in Annecv, afferma contemporaneamente il Courrier des Alpes in Ciani beri, V Armonia in Torino, il Cattolico in Genova, l' Unità in Casale, l' Iehnusa in Sardegna. Non mai un dissenso fra toro nelle questioni capitali.

Dissero bene i ministri Rattazzi e Deforesta: il contegno dei cattolici ha un carattere sistematico unito, solidario. Essi trovano nella loro fede un sistema di dottrine, che seguono costantemente, che professano anche a costo della propria vita; e mediamela carità vivono uniti fra loro e solidari, soccorrendosi e difendendosi a vicenda.

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Non si potea lare di noi e de' nostri migliore elogio, i dee ministri hanno ripetuto de' cattolici Piemontesi quello che fu scritto del cattolici di Gerusalemme: Multitudinis autem credentium erat cor unum et anima una. Oh, sieno ringraziati della cara confessione Deh, che mai e poi mai non si rompa il vincolo della fede e della carità, che ci unisce e ci rende formidabili ai nostri nemici!

Osserviamo invece la parte libertina. Essa non si sa mettere d'accordo né quanto alle dottrine, né quanto alle persone. Tra i cattolici non vi hanno né divisioni, né suddivisioni; e invece tra' libertini questi è repubblicano, quegli moderato; uno segue Manin, l'altro Mazzini; chi vuole casa di Savoia, e chi no. Da una parte s'invoca la diplomazia, dall'altra si maledice. Chi desidera la rivoluzione, chi l'agitazione legale; a costoro piace il presente ministero, coloro vorrebbero vederlo sbalzato dal trono. Nemmeno i tribunali riescono a giudicare concordemente; chi da ragione alla Cassa Ecclesiastica, chi ai conventi; oggi si assolve il parroco di Verrès, domani si condanna; in Savoia si giudica in un modo, e in Torino si sentenzia in modo affatto opposto. La Corte di Cassazione si sbraccia nell'annullare sentenze, e i Magistrati inferiori persistono ne' loro giudizi. L'intendente di Genova non si sa capire con Urbano Rattazzi, e rinunzia. Lorenzo Valerio si oppone a Rattazzi, e lo combatte. Berti e Melegarì contraddicono a Lanza e lo proscrivono. Cavour, secondo il Diritto, ha tratto in inganno la nazione. Lanza, secondo il Risorgimento, è nemico della libertà, e Rattazzi non ha convinzioni. Durando, secondò la Gazz. del Popolo, è meschinissimo ministro, e secondo l' Unione, un bigotto, che merita il titolo di Monsignore. Di qui gridasi guerra, di là rìpetesi pace e v'ha perfino chi non vuole né pace, né guerra, Daniele Mania condanna la teoria del pugnale, e al Diritto non ne garba la lettera, e la Gazzetta delle Alpi denunzia Mania come apostata. Ma chi grida agli Italiani: insorgete; v'ha chi loro raccomanda di star tranquilli, e aspettare altri tempi. Alcuni rivoluzionarii dicono ai patrioti'. Riparate sogli Apennini per combattervi le guerriglie alla maniera degli Spagnuoli; ed altri rivoluzionali ripetono: le guerriglie non fanno per voi, e sugli Apennini morreste di lame. Melegari e compagni convengono, che s'abbia da dare la Kbertà d'insegnamento; Borella e Bottero non la vogliono. Valerio e i suoi pretendono l'imposta unica sulla rendita; Cavour è i ministeriali la negano. I plenipotenziari sardi supplicano Francia e Inghilterra di separare le Legazioni dal governo Pontificio, e Massimo d'Azeglio dichiara in Senato, che questa sarebbe la peggior pensata. Il senatore Montezemolo trota agitato il Piemonte, è il Presidente del ministero lo vede e lo dichiara tranquillo. Non s'intendono nemmeno sullo stato del paese, in cui vivono!

I giornali libertini sono cani e gatti. La Gazzetta del Popolo se la piglia contro il giornale di Nicoletto, il giornale di Nicoletto contrai! Risorgimento, il Risorgimento contro l' Espero, l'Espero contro l'Italia e Popolo, l'Italia e Popolo contro l'Unione, l'Unione contro l' Opinione, il Fischietto contro tutti. Si riveggono l'un l'altro le buceie il meglio di questo mondo. Volete sapere, che cosa è la Gazzetta del Popolo? Vi risponderanno, ohe fa schifo; e Brofferio ve la dipingerà nella Voce del progresso. Volete sapere che cosa è il Fischiettai

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Vi risponderà il professore Mancini, che lo fece bravamente condannare per diffamazione.

Volete sapere da chi sia scritta l'Unione, che celebra il venerando Libri? Vi risponderanno il Popolo Sovrano, il Messaggiere Torinese, ed il Risorgimento. La Maga vi parlerà del Corriere Mercantile, e questo della Maga, regalandosi l'un l'altro i migliori epiteti, mentre i buoni, ohe assistono a questa guerra villana di giornali e giornalisti, vi ripeteranno quei due versi d'un noto epigramma:

Questo solo, o lettore, io ti so dire,

Che li credo incapaci di mentire.

Né [meglio trattano i libertini le loro persone. Vincenzo Gioberti chiama Mazzini perpetuo fanciullo, di politica vile e scellerata, il cui nome giungerà aborrito ed esecrato alla posterità, Guerrazzi nella sua Apologia dichiara i mazziniani inetti a creare, e troppo ardenti a distruggere. Secondo Luigi Farini, il demagogo genovese è uomo mediocre, solo potente nel fare il male; secondo Bianchi-Giovini è un ciarlatano; secondo Garibaldi, citato dal Gualterio, è

un uomo, che guasta tutto quello che tocca.

Il Risorgimento del conte di Cavour vi dirà, che Bianchi-Giovini è una cosa sola con Mazzini; Enrico Misley vi racconterà come gli mostrasse lo scudiscio; da Brofferio e Bagutti saprete il resto. Viceversa potrete chiedere di Brofferio a Romani, a Bianchi-Giovini ed a Demarchi, che vel dipingeranno di buon inchiostro; mentre Brofferio alla sua volta vi dipingerà e Demarchi e Romani e Govean, e la Gazzetta del Popolo.

Il

Rinnovamento civile d'Italia è un classico libro per le pitture che fa degli uomini della rivoluzione. Qui Gioberti chiama Pinelli

oscitante, incapace,

ostinato, reo dell'eccidio

italico. Dice Urbano Battezzi poco veridico, che ha

giuocato la patria, il trono e la vita di Carlo Alberto. Appicca al generale Dabormida la taccia di

maldicente, raggiratore, amico dell'Austria. Accusa Massimo d'Azeglio d'avere

trascurato l'egemonia, gli aiuti, la dignità patria. Rimprovera Melegari di professare opinioni degne d'essere stampate a Vienna, non in Italia; mette Farini a fascio coi dottorelli, che insegnano quel che non sanno, e dichiara che Cavour,

puntellando i rovinatoti d'Italia,

si rendette partecipe egli stesso di tal ruina.

Ma chi è intanto questo Vincenzo Gioberti, che sparla degli uomini della rivoluzione? Un altro rivoluzionario cel dipinse, e per farne il ritratto più somigliante vi consumò un libro di 372 pagine. È Mauro Macchi, che scrisse Le contraddizioni di Vincenzo Gioberti, dichiarandolo superbo, sleale diffamatore, menzognero.

Andando innanzi noi troveremo Montanelli, che dice Farini spirito acre, passionato, bislacco, sempre violento, e Farini che da del furibondo allo Slerbini; e Pigli, che richiama contro le calunnie del Guerrazzi; e Guerrazzi, che accusa di peculato Pigli, e via discorrendo.

Questo è lo spettacolo, che danno di sé i libertini nel Parlamento, nel giornalismo e ne' libri. Disuniti nel fine, nei mezzi, negli affetti, non sono concordi che nell'ambizione per cui vorrebbero gli uni salire sopra gli altri, e nella guerra che muovono alla Chiesa ed all'ordine. Veri protestanti in politica, vanno soggetti a tutte le fasi ed a tutte le variazioni del protestantesimo, e non si conoscono se non per le loro negazioni,

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e per le congiure contro la tranquillità degli Stati.

Se fosse vera la sentenza di quell'antico ex privati odiis respublica crescita oggimai l'Italia sarebbe la più grande nazione del mondo.

Ma noi crediamo che dall'odio non possa mai nascere l'unione, né dall'anarchia degli spiriti il buon governo degli stati. Noi crediamo che l'Italia non verrà mai grande né rinomata sotto il governo di certuni detti da Gresset

Esprìts bas et jaloux,

Qui se rendent justice en se méprìsant tous.

UNA CIRCOLARE DEL GUARDASIGILLI DEFORESTA

E DI

RATTAZZI MINISTRO DELL'INTERRO

(Dall' Armonia n. 139,17 giugno 1856).

Sotto questo titolo leggiamo nel Cittadino d'Asti del 15 giugno, N° 74: «Poco tempo fa noi riferivamo parecchi fatti esorbitanti di una parte del clero, e domandavamo se, a fronte di essi, il governo poteva tollerare e tacere. Siamo lieti ora di poter dire, che non tollerò e non tacque. Il guardasigilli, con vigoroso e dignitoso linguaggio si rivolse agli avvocati generali, dando loro in proposito le pili energiche istruzioni. Il ministro dell'interno faceva altrettanto cogli intendenti e cogli uffiziali di pubblica sicurezza. Ecco la circolare del ministro Rattazzi, la quale inchiude in sé pur quella del ministro Deforesta:

Torino, 9 giugno 1856.

La condotta di alcuni membri del clero verso il governo e le sua istituzioni torna da qualche tempo ad eccitare l'attenzione del paese.

«Avversa questa parte, fortunatamente non molto numerosa, del clero a tutte quelle leggi che tutelano o rivendicano l'indipendenza del potere civile, e che sono la necessaria conseguenza, l'applicazione e lo svolgimento dello Statuto, va oggi specialmente rivolgendo le sue armi contro coloro, che più o meno direttamente, per ragione dei proprii uffizii e di dovere, presero parte all'esecuzione della legge del 29 maggio 1855.

«Il suo contegno ostile era da principio individuale ed isolalo, sicché doveva bensì deplorarsi dai sinceri amici della religione; ma coi lumi, ond'è ricca la civiltà presente, poteva senza pericolo lasciarsi in noncuranza, tanto più che tale contegno era disapprovato dalla parte più assennata, la quale ben sa come primo apostolato della religione sia quello di predicare colla parola e coll'esempio il rispetto e la sommessione alle leggi. Ha oggi quegli atti di avversione e di ostilità dapprima singolari incominciano ad assumere tale un carattere sistematico, unito e solidario, che riesce affetto intollerabile coll'autonomia e coi diritti del potere civile. Le feste Pasquali e quelle dello Statuto hanno principalmente somministrata l'occasione a questi nuovi atti di ostilità.

«E invero, le relazioni che da varie parti dello Stato pervengono al governo, rivelano tali fatti, a cui l'autorità non può e non deve più rimanere indifferente.

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«Or è il rifiuto del battesimo e degli atti, che sono il fondamento e la prova dello Stato civile delle persone, ora è il rifiuto della sepoltura ecclesiastica. Al tribunale della penitenza s'inquietano le coscienze, e si fanno eccitamenti inconciliabili colla qualità e coi doveri delle persone che vi si accostano. Non è la pace delle famiglie rispettata, né si rifugge dall'usufruttuare perfino le domestiche sventure. Coloro che presero parte all'esecuzione della legge, sono additati al letto di morte, e in quei supremi istanti, in cui la mente dell'uomo vacilla, si domandano e s'impongono ritrattazioni manifestamente ingiuriose al governo.

«Neppure la disciplina dell'esercito e della forza pubblica è da certuni rispettata. Stazioni intiere di Carabinieri reali furono respinte dalle pratiche religiose in occorrenza delle feste pasquali, perché obbedendo al dovere, alla voce del superiore, alle leggi proprie, le quali, in caso di rifiuto, loro minacciano la più pronta e la più severa repressione, assistettero gli ufficiali amministrativi alla presa di possesso dei beni dei conventi. In più luoghi il parroco, o con uno o con altro pretesto si è rifiutato d'intervenire personalmente, o d'intuonare i soliti canti in occasione della festa dello Statuto. S'insultano i sentimenti dell'intiera nazione, omettendo frequentemente, e non sempre a caso le preghiere pel capo dello Stato, per quel principe leale e generoso, pella di cui conservazione s'innalzano al Cielo i voti di un popolo intiero.

«Per dirla in breve, ora qua ed ora là, ora con parole ed or con fatti, creando un conflitto tra il cristiano ed il cittadino sotto il manto della religione, ed a nome della Chiesa, si va da quella parte del clero insinuando è promovendo la resistenza agli ordini dell'autorità, la ribellione alle leggi, il disprezzo ed il malcontento contro il governo.

«Ragioni di convenienza, ragioni di dignità, ragioni di necessità sociale, comandano ormai un freno a questo sconsigliato procedere; ed è per ciò che il ministro di grazia e giustizia chiamò sovr'esso con recente circolare l'attenzione dei signori avvocati fiscali generali.

«Le esorbitanze del clero fin dai più remoti tempi furono sempre frenate con energici provvedimenti. Non tutti i mezzi. una volta posti per ciò in opera sono ancora oggidì attuabili. Quelle stesse istituzioni che la parte del clero, alla quale alludiamo, va con tanta pertinacia osteggiando, la proteggono contro qualunque atto meno legale; né sarà mai il governo che vorrà contro chiunque siasi e per qualsivoglia motivo eccedere i confini della legalità, ma egli crede che la nostra legislazione e le tradizioni nostre somministrano ancora i pezzi più che sufficienti a frenare ogni eccesso.

«La legge del 5 luglio 1854, l'articolo 200 del Codice penale, ed il noto rimedio economico dell'appello ab abusu, contemplano quasi tutti i casi e i modi con cui so glionsi manifestare le ostilità lamentate.

«Colla detta legge infatti si puniscono i ministri del culto, i quali, nell'esercizio dei loro ministero, con discorsi o scritti pubblici censurino le leggi dello stato, ovvero provochino alla disobbedienza di esse o degli atti dell'autorità; e con essa si provvede pure perché non siano eseguiti senza l'assenso del governo i provvedimenti vegnenti dall'estero.

«L'art. 200 del Codice penale reprime i discorsi pubblici eccitanti il malcontento, il disprezzo contro il governo e gli scritti o fatti della stessa natura. E la giurisprudenza della Corte di Cassazione spiegata nel processo contro il parroco di Verres, cui s'imputava d'aver rifiutato come padrino l'esattore che aveva concorso alla presa di possesso dei beni di quel convento, non permette più di dubitare che la disposizione di quest'articolo, appunto perché generale ed assoluta, e perché tende evidentemente a mantenere il rispetto e l'obbedienza all'autorità ed alle leggi, obblighi tutti i cittadini senza differenza di classi, di uffici, o di gradi.

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Né fa d'uopo che il fatto o Io scritto, con cui s'infrange il divieto della legge, sieno pubblici come il discorso; e il rifiuto in ispecie di fare un atto del proprio ministero qualunque siasi, o di ammettere altri nell'esercizio di un diritto o all'adempimento di un dovere, è meritamente considerato come un fatto e come un'infrazione al detto articolo del Codice penale.

«Finalmente l'appello ab abusu viene in sussidio alla legge penale per reprimere tutti quegli eccessi e quegli attentati alla sovranità civile che, comunque non sieno reato secondo le leggi ordinarie, pure non sono mai da sopportarsi in nessun tempo e da nessun governo.

«Nulla dunque può sfuggire all'azione della giustizia, e si hanno sempre in pronto le armi legali per reprimere ogni aggressione.

«Grave ella è questa condizione di cose, doloroso è il dovere che la medesima impone; ma il governo né può, né deve, né vuole venir meno al proprio compito. perciò suo intendimento che si proceda energicamente ogni qualvolta ne ò offerta l'occasione.

«Appena occorre poi di avvertire che, se è volontà ben decisa del governo che non si soffrano attacchi di aorta contro le leggi dello Stato e l'autorità del governo, ò però del pari intenzione sua che la religione e di ministri dell'altare sieno rispettati da chiunque, e che ricevano dalle nostre leggi e dai nostri magistrati tutta quella protezione che loro è accordata pel libero e tranquillo esercizio del sacro ministero.

«Il governo riprova il sacerdote, il quale, trascendendo i limiti della propria missione, condanna o censura le leggi, attenta ai diritti del potere, perturba le famiglie o l'ordine sociale; ma egli a sua volta non vuole mai che s'invada il campo puramente dommatico e spirituale. Quel confine, oltre il quale l'autorità religiosa non può faro un passo senza offendere le leggi e gl'inviolabili diritti dello Stato, deve egualmente esistere per l'autorità civile in faccia alla Chiesa.

Le surriferite considerazioni faceva il Guardasigilli a signori avvocati fiscali generali, invitandoli a dare in proposito le più particolari ed appropriate istruzioni agli avvocati fiscali;

«All'oggetto poi che le autorità amministrative e politiche vengano in sussidio alle autorità giudiziarie, si presero dal ministero di grazia e giustizia gK opportuni concerti collo scrivente; e quindi il ministero interni credette opportuno di recare a cognizione dei signori intendenti, sindaci ed altri uffiziali di pubblica sicurezza i savi rilievi come sovra svolti dal Guardasigilli, affinché servano di norma seconda dei casi.

«Pertanto i signori intendenti faranno sollecitamente conoscere ai sindaci ed altri uffiziali di polizia giudiziaria tali disposizioni con invito di vegliare con tutto lo zelo all'applicazione dei principii sovra accennati.

«I signori intendenti dal loro canto procureranno per tale fatto di tenersi nel massimo possibile accordo coi signori avvocati fiscali, sicché dall'attività non mai sia disgiunta la prudenza e riserva, che sono necessario in questa delicata materia.

«Occorrendo qualche dubbio, si rivolgeranno al ministero per le opportune istruzioni, e daranno un cenno di aver ricevuto la presente».

Poche parole di commento, giacché il fisco non ci permetterebbe scriverne di più. I Siccardi ed i Sfanno resero un servizio segnalato al ministero. Il signor Rattazzi non tardò ad invocare la giurisprudenza della Corte di Cassazione!

Lagnasi il ministro dei sacerdoti, che al tribunale della penitenza inquietano le coscienze. Vorrebbe il signor Rattazzi avere la bontà di scrivere un elenco dei casi riservati al ministero, e dei casi in cui i parrochi in Piemonte possono dare o negare l'assoluzione?

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Ciò che fanno i preti tra noi, a detta del signor Rattazzi, non è individuale ed isolato ma ha un certo carattere sistematico, unito, solidario. Noi vorremmo, che s'interpretasse l' unanimità del clero come suole interpretarsi l' unanimità del Parlamento.

Il signor Rattazzi si lagna, perché stazioni intere di carabinieri furono respinte dalle pratiche religiose in occasione delle feste pasquali.

Farebbe bene il signor ministro a mandare ai parrochi la nota di coloro, che si debbono ammettere di necessità alla comunione pasquale.

Il signor Rattazzi accusa il clero d'avere creato un conflitto tra il cristiano ed il cittadino. Questo conflitto non esisteva qualche tempo fa, e non sappiamo che cosa facesse il clero per crearlo. Se oggidì esiste, si cerchi altrove, chi l'abbia creato.

Il signor Rattazzi raccomanda il noto rimedio economico del?appello ab abusu. Un ministro liberale, che parla di rimedio economico! Saremmo curiosi di vedere come si applicherà in una causa di negata assoluzione 1 11 fisco potrà procedere con coraggio, perché l'accusato non dirà mai una parola in sua difesa.

Ora viene il bello. È volontà ben decisa del governo, che i ministri dell'altare sieno rispettati da chiunque, e che ricevano dalle nostre leggi e dai nostri magistrati tutta quella protezione che loro è accordata pel libero e tranquillo esercizio del sacro ministero.

Se il ministero volesse sinceramente che i ministri dell'altare fossero rispettati, darebbe buon esempio, e li rispetterebbe. Non li rispetta quando li fa codiare dalla polizia.

Se il ministero volesse che i ministri dell'altare fossero liberi nell'esercizio del saero ministero, non s'immischierebbe in ciò che fanno, amministrando il Battesimo, la Penitenza, e predicando la parola di Dio; in breve, non avrebbe pubblicato la sua circolate.

Noi ne appelliamo al conte di Cavour. Chiediamo a lui se gli par liberale il procedere del suo collega; gli chiediamo se lo reputa vantaggioso al Piemonte ed Alla libertà. Voi, signor conte di Cavour, voi stesso chiamiamo giudice della circolare del signor Rattazzi. Avete mai visto in Inghilterra qualche cosa di simile?

Prima di finire vogliamo congratularci col nostro clero, non già perché abbia violato la legge dello Stato, ohe questa è una calunnia, ma di avere osservato concordemente le leggi della Chiesa.

Coraggio, sacerdoti di Dio! Unitevi coi Vescovi, obbedite al Sommo Pontefice nell'esercizio del vostro spirituale ministero, e confidate nella Provvidenza; ecce judex iad januam assistit. (Jaeobi Ep, cap. V, vero. 9).

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IL RIMEDIO ECONOMICO

DELL'APPELLO AB ABUSU

(Dall'Armonia, n. 144, 22 giugno 1856).

Chi l'avrebbe creduto mai? Dopo nove anni di libertà s'invoca in Piemonte un rimedio economico. E chi l'invoca? 11 liberalissimo ministro Rattazzi. E quando l'invoca? In un momento, in cui più si grida contro i giudizi economia del ducato di Parma! Si, un ministro liberale in questi giorni, in questo paese, raccomanda alla polizia il noto rimedio economico dell'appello ab abusu! E la stampa liberale più assennata, a detta dell'Impero, applaude!

Noi crediamo, che l'appello ab abusu sia già stato abbastanza confutato nella stessa circolare del signor Rattazzi. È un rimedio economico, «ciò basta per dover conchiudere, che non può esistere sotto un governo costituzionale. Rimedio economico vuoi dire un'eccezione alla legge, e la legge non può patire eccezioni, dove è uguale per tutti. Rimedio economico significa difetto delle volute guarentigie per gli accusati, e questo difetto è assurdo dove si godono le guarentigie costituzionali. Rimedio economico nei giudizi vale economia di giustizia, come dicevasi nel 1848 nella Camera dei Deputati, ed è assurdo, che in uno Stato modello si faccia economia di giustizia, mentre non si fa economia di denaro. Rimedio economico significa qualche cosa di simile a legge stataria, a stato d'assedio, ed indica un governo tirannico. L'appello ab abusu è un rimedio economico; dunque è assurdo.

Confortiamo questa nostra asserzione con due autorità, che non ammettono replica. Sia l'una l'avvocato Persoglio, e l'altra l'ex-ministro Siccardi.

L'avvocato Persoglio, in una circolare confidenziale indirizzata agli avvocati fiscali sotto la data del 5 di maggio 1850, scriveva: «Nei giudizi criminali la norma unica da seguirsi è quella tracciata dal Codice di procedura criminale... Da nessun altro fonte si possono attingere le regole di condotta salvo dalle disposizioni del Codice di procedura criminale, e dalla legge sulla stampa, quando si tratti di reato di stampa, perché fuori della legge non vi è più legalità».

L'appello per ad abusu è fuori della legge, giacché, al dir del medesimo signor Rattazzi, è un rimedio economico, cioè un rimedio extralegale. Dove il nostro Codice di procedura traccia le norme per giudicare il confessore che nega l'assoluzione, o il parroco che non ammette alla comunione pasquale? Dunque, a giudizio dell'avv. Persoglio, è un'assurdità sotto il nostro governo. Confrontate di fatto colla circolare Persoglio la circolare Rattazzi. Nulla di più chiaro ed evidente per mettere in mostra la tristizia de' libertini.

La circolare Rattazzi dice: «l'appello ab abusu viene in sussidio alla legge penale per reprimere tutti quegli eccessi e quegli attentati alla sovranità civile, che, comunque non siano reato secondo le leggi ordinarie, pure non sono mai da sopportarsi in nessun tempo e da nessun governo».

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Ma se al dir del Persoglio da nessun altro fonte si possono attingere le regole di condotta salvo dalle disposizioni del Codice, come mai, signor Rattazzi, invocate un sussidio alla legge penale? Dunque non basta in Piemonte sfuggire alle leggi penali? Vi sono dei sussidii per «istigare chi non piace ai ministri? E in questo beato paese si castigano anche quegli atti che non sono reato secondo le leggi ordinarie? E come si chiama ciò se non arbitrio e dispotismo?

Ora ascoltiamo l'ex-ministro Siccardi. Egli perorava in Senato il 5 di aprile 1850 in favore della sua legge, che pretendeva propizia ai chierici, e dicea cosi:

«Ma vi ha di pia, o signori: questa legge non è solamente opportuna, è necessaria. E qui vi prego di andare persuasi che il mio pensiero è alienissimo dal recare una qualunque benché menoma offesa alla dignità del clero. Ma quando ai parla di leggi e di governo, è impossibile di non parlare altresì di repressione. Or bene, il clero si trova a questo riguardo, presso di noi, in una condizione del tulio anormale, dissimile da quella, io cui siasi trovato giammai in questa monarchia.

«Prima dello Statuto la legalità non colpiva sempre gli ecclesiastici, ma il potere economico li poteva colpire sempre. È cosa singolare, o signori; le immunità, che sottraevano un ecclesiastico all'azione della giustizia civile, non lo proteggevano contro gli arbitrii del potere, ed ima carcerazione che non poteva essere infinta colle solennità di un giudizio da un tribunale civile, veniva ordinata, e talora a tempo indeterminato, con un provvedimento economico. Si diceva in allora che si voleva evitare lo scandalo, come se Io scandalo stesse nella pena e non nel delitto, e specialmente nel delitto impunito.

«Era questa in allora quasi una necessità legale. Siccome a governare bene o male è indispensabile qualche mezzo di repressione, quando mancavano i mezzi legali, sj ricorreva a' mezzi economici. Ora non si potrebbero adoperare questi mezzi senza una flagrante violazione dello Statuto; e noi francamente e lealmente applichiamo agli ecclesiastici le franchigie da quello statuite. Non è men vero però che in questa condizione di cose vi ha una lacuna, e questa lacuna sarà riempita colla legge di diritto comune, che è presentata alle vostre deliberazioni»,

Il noto rimedio economico è dunque qui condannato solennemente dal signor Siccardi, Dopo la sua legge il potere economico non può più colpire i chierici; non può più essere permesso in Piemonte un provvedimento economico. La legge Siccardi ha messo il clero sotto il diritto comune, dunque ha abolito l'appello ab abusu, che, a detta del signor Rattazzi, è un rimedio economico.

Questo rimedio economico è frutto del più sfrenato assolutismo. Chi io ammette, dee riconoscere le massime da cui deriva. Avete il coraggio di ammetterle queste massime, signori ministri?

Udite. Nella Spagna il re Alfonso pretendea di avere il diritto dell'appello ab abusu; ma prima dichiarava que el Rev es vicario de Dios en el imperio. Siete pronti, o ministri, ad ammettere questo principio assoluto di diritto divino?

Soggiungeva il re Alfonso, che non dipendeva da nessuno, por que segun natura el signoria no quiere compatterò. Che ve ne pare? Siete pronti ad abolire lo Statuto, per cui il Re si associò compagno nella sua signoria il Parlamento?


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L'appello ab abusu, secondo Salgado, era qualitas infixa ossibus ac substantiae diademata. Vi piace questo diadema in carne ed otsai Siete pronti ad ammettere i principii del Salgado, e le sue dottrine sulla monarchia?

Il noto rimedio economico derivava dalla massima di Luigi XIV, che il Renon dipenda da altri che da Dio e dalla sua spada. Vi garba questo assioma?0 voi l'accettate, e allora addio a' grandi principii del 1789! Eccoci alla monarchia assoluta di Francesco I e d'Enrico II. 0 lo rigettate, e il vostro appello ab abusu cade da sé.

Che se volete rinunziare alle libertà costituzionali, e ritornarci a' tempi d'Emanuele Filiberto, siate almeno giusti, e dateci intero il regolamento del 3 di aprile 1560. Sapete che cosa diceva il paragrafo 1° di questo regolamento? Diceva che le appellazioni ab abusu e peuvent avoir lieti, non seulement si la juridiction ecclésiastique entreprend sur la laique, mais mime lorsque la Inique entreprend sur Veeclésiastique». Siete pronti, o signori, a sottomettere ad un Concilio ecumenico le vostre leggi d'imposta? Se no, e perché volete sottomettere al giudizio dei tribunali civili le leggi della Chiesa? Dunque non vi troveremo mai logici, mai leali? Farete sempre e dovunque monopolio di tutto, monopolio dell'insegnamento, monopolio della giustizia, monopolio della libertà?

Spesso s'accusa il clero di non paleggiare pei governi costituzionali, d'avere, per esempio, maledetto il governo di Luigi Filippo, e di benedire il governo di Napoleone III. E forse che il clero non ha molta ragione? Badate come fu tormentato in Francia negli anni costituzionali di Luigi Filippo.

Al 25 settembre 1830 appello per abuso contro il Desservant di Frèche, per avere celebrato un matrimonio. Al 16 dicembre dello stesso anno affare Pezeux per rifiuto di Sacramenti. Al 28 marzo 1831 affare Casaulong per rifiuto dì battesimo. Al 15 di luglio 1832 affare Lienhart per una sentenza d'interdetto. Al 7 novembre 1834 affare Droz, e sua destituzione da curato. Al 16 novembre 1835 rivocazione del vicario Martin dalle sue funzioni. Al 4 febbraio, 16 marzo, 9 agosto condanna di altri curati, per aver esercitato liberamente il proprio ministero. Al 27 di marzo 1837 condanna dell'Arcivescovo di Parigi. Al 21 dicembre del 1838 condanna del Vescovo di Clermont, che rifiuta la sepoltura al conte di Montlosier. Al 9 di marzo del 1845 la famosa condanna del Cardinale di Bonald. E così si continua d'anno in anno fino al 1847, in cui si condannano a questo modo il curato di Thann, e il Desservant di Dampière.

Quaranta processi economici contro il clero per appello ab abusu furono girati a' Vescovi ed ai preti francesi sotto il costituzionale governo di Luigi Filippo. Cormenin e Dupin ne hanno levato la lista. E sotto il governo di Napoleone III quanti processi v'ebbero di questo genere? Quale meraviglia adunque che il primo fosse detestato, e benedetto il secondo?

Volete che il clero benedica in Piemonte le libere istituzioni e canti il Te Deum di cuore? Non lo spogliate, non Io infamate, non lo perseguitate. Fategli vedere la differenza che corre tra i tempi passati e i presenti. Introducetelo nel banchetto della libertà, e lasciatelo libero di fare il bene, come lasciate liberi tanti nel fare il male.

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I GRANDI ED I PICCOLI

(Dall' Armonia, n. 145, 24 giugno 1856).

«Io sono riconoscentissimo a Sua Santità il Papa Pio IX perché egli si compiacque d'essere patrino del figlio, che la Provvidenza mi ha accordato. Domandandogli questa grazia ho voluto chiamare in modo speciale sopra mio figlio e sulla Francia la protezione del Cielo. lo so che uno dei mezzi più sicuri per» meritarla, si è d'attestare tutta la mia venerazione per il Santo Padre, che è il rappresentante di Gesti Cristo sulla terra .

Così parlava Luigi Napoleone III, imperatore dei Francesi, al Cardinale Costantino Patrizi, il 13 di giugno 1856 in pubblica udienza.

«Vi ringrazio, o illustri Prelati, di quanto operaste nelle vostre conferenze in vantaggio della Chiesa e dello Stato. Vi prometto, come bo già promesso al Papa ed a Dio l'osservanza fedele del Concordato, e fo voti, che i popoli possano godere dei beni temporali senza perdere i beni spirituali i.

Cosi parlava Francesco Giuseppe, imperatore d'Austria, ai Vescovi austriaci raccolti a Vienna il 16 di giugno 1856 nell'udienza di congedo.

«Le esorbitanze del clero, fio dai più remoti tempi, furono sempre frenate con energici provvedimenti. La legge del 5 luglio 1854, l'art. 200 del Codice penale, ed il noto rimedio economico dell'appello ab abusu, contemplano quasi tutti i casi, li governo né può, né deve, né vuole venir meno al proprio compito: è perciò suo intendimento, che si proceda energicamente ogni qual volta ne è offerta l'occasione».

Cosi parlava Urbano Rattazzi ministro dell'interno in Piemonte agli sgherri della polizia sotto il giorno 9 di giugno sguinzagliandoli contro i Vescovi, i parrocbi, i confessori, i predicatori.

L'imperatore dei Francesi potente e grande si inchina a Pio IX, reputa una grazia segnalata l'averlo avuto a patrino di suo figlio, proclama l'intervento della Provvidenza nei casi di quaggiù, invoca sulla propria famiglia la protezione del Cielo, e attesta la sua venerazione al Vicario di Gesù Cristo sulla terra. E Napoleone parla cosi, perché è potente e grande.

L'imperatore d'Austria riconosce i diritti della Chiesa, corregge gli errori de' suoi predecessori, chiama i Vescovi in Vienna, e loro commette l'ordinamento delle cose ecclesiastiche, li accoglie con riverenza, li congeda con affettuosa venerazione, e loro promette fedeltà alla data parola, e dichiara che la felicità temporale dei popoli dee andare congiunta colla loro spirituale santificazione. E Francesco Giuseppe parla così perché è grande e potente.

Il ministro dell'interno in Piemonte calunnia i chierici, cerca di renderli odiati dal popolo, li consegna alle fiere del giornalismo, alle ire ed alle vendette de' proprii nemici, toglie ai parrochi la libertà de' sacramenti e della parola, s'addentra perfino ne' recessi del confessionale, comanda assoluzioni sacrileghe, invoca rimedi economici, e consegna alla polizia Vescovi e preti. E Urbano Rattazzi parla cosi, perché è debole e piccolo.

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L'empietà indica sempre bassezza d'animo, e la persecuzione contro l'inerme significa debolezza di braccio, di mente e di cuore. L'imperatore dei Francesi ba saputo vincere la Russia, smantellare Sebastopoli, conquidere la rivoluzione, schiacciare il parlamentarismo, e uno ad uno strascinare riverenti al suo trono i suoi nemici. Egli vede Inghilterra e Sardegna genuflettere davanti a lui, e implorare mercé, dopo avere tanto bestemmiato il 2 dicembre. E quest'uomo in mezzo a tanta gloria, a tanta potenza, a tanta cortigianeria, venera il Santo Padre, che è il rappresentante di Gesù Cristo sulla terra.

Francesco Giuseppe ha saputo riordinare uno Stato immenso, sconvolto dalla rivoluzione e dal febronianismo, vincere schiere innumerevoli di pregiudizi inveterati, trionfare nella guerra d'Oriente senza trarre un colpo di fucile e perdere un uomo solo, sedere per tanti mesi arbitro della pace e della guerra, riconciliare le più ostili Potenze d'Europa, mettere un termine allo sconsigliato spargimento di sangue e di denaro, e nel colmo della sua gloria e del suo potere s'inchina al Papa, ne riconosce i diritti, e vuole accordare ai suoi popoli i beni temporali senza che perdano gli spirituali.

Urbano Rattazzi, che ha sulla fronte il marchio di Novara, e presso i buoni e gli onesti la rinomanza che merita, Urbano Rattazzi, che non sa liberare il Piemonte nemmeno dal ladri e dagli assassini, che vede sotto il suo ministero popolarsi sempre più le prigioni; che sente i fischi non solo degli uomini antichi, ma anche de' nuovi; che è riuscito a scandolezzare perfino il Risorgimento, e a chiamarsene addosso le torsolate, ebbene egli vuoi rendersi celebre col contristare di bel nuovo il Santo Padre, coll'inferocire contro a' poveri parrochi, inermi, spogliati, ricchi solo di zelo, di pazienza e di carità.

Anime piccole! Quando rientrerete in voi stesse per fare senno una volta? Credete voi di durare a lungo, perché avete il coraggio della persecuzione e l'impudenza dell'empietà? Oh via, cantate trionfo, perché sapeste affliggere il Pontefice, e lacerare l'anima di vostro Padre! Andate pettoruti per le vie, perché in questi momenti trovaste ancora il mezzo di bestemmiare Iddio, e crocifiggere Gesti Cristo nella persona de' suoi sacerdoti! Napoleone vi mostra Sebastopoli caduta. Francesco Giuseppe v'additala pace conchiusa, e voi mostrate una circolare alla polizia contrai preti. Voi v'illustrate smantellando la sacristi a, penetrando nei confessionali, invadendo i pulpiti. Queste sono te vostre viatorie, e per conseguirle abbisognate ancora di rimedi economici!

Ognun vede l'enorme differenza che passa tra il procedere de' grandi imperatori e de' piccoli nostri ministri, ed ognuno ne sente il perché. Erostrato, non sapendo altrimenti procacciarsi fama, incendiava il tempio di Diana in Efeso. Si vuole ad ogni costo far parlare di noi, e non potendo riuscirvi colle grandi imprese, si cerca d'ottenere l'intento colle solenni ingiustizie. Il clero è condannato a pagare le spese di alcuni bimbi che nabissano, ed a servir di sgabello alle loro vanità. Ma almeno non si rimproveri questo clero, se in mezzo alle sue amarezze ed a' suoi dolori getta uno sguardo sugli imperi francese ed austriaco, e si compiace che là regnino due imperatori amici alla Chiesa, e benedetti da Pio, e fa voti per la prosperità de' loro Stati e delle loro persone. Il clero, lo dicemmo già tante volte, non parteggia per veruna maniera di governo,

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e si acconcia a tutti, purché buoni. E la loro bontà argomenta unicamente dalla bontà degli uomini che governano, e dalla libertà che accordano alla Chiesa. Perciò canta di gran cuore il Te Deum nel tempio di Nostra Donna di Parigi, ed in quello di S. Stefano di Vienna. Ma in S. Giovanni di Torino non può cantare il Te Deum, se non pensando che anche le tribolazioni dipendono da Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola; non può cantarlo se non ricordando la pazienza di Giobbe, e com'egli benedicesse il Signore anche in mezzo alle calunnie ed alla miseria.

LA MEDAGLIA A CAVOUR E L'INDIRIZZO DEI ROMANI

(Dall' Armonia, n. 145, 25 giugno 1856).

La medaglia a Cavour e l'indirizzo dei Romani. - Secondo il Risorgimento del 22 giugno, i Romani hanno offerto a Cavour una medaglia e un indirizzo: «La medaglia d'oro di grande dimensione ha da un lato il ritratto del conte di Cavour, e nell'esergo ha la seguente iscrizione: - Per la difesa - dei popoli italiani oppressi - assunta- nel Consiglio di Parigi 1856 - Roma riconoscente». L'indirizzo poi, secondo il Risorgimento, era concepito così!

«Eccellenza,

«Quando con la firma di un trattato il Piemonte entrava nella lega occidentale per opera vostra, noi fummo persuasi, che l'ardito divisamento era mosso da alte ragioni e sperammo che giovasse all'Italia, conoscendo che l'Italia v'era nel cuore.

«Noi seguimmo con inquieto amore le armi piemontesi in Crimea, ed allorquando, combattendo da forti, fecero onorata fra genti straniere la bandiera d'Italia, noi palpitammo di gioia, e inorgoglimmo delle laudi tributate a quei prodi perché italiani.

«Ora poi, che in forza di un diritto acquistato a prezzo di sangue sedeste tra coloro che reggono le sorti d'Europa, rappresentaste degnamente, non che il Piemonte, l'intera nazione, facendo udire per la prima volta in un consesso di potenti il sacro nome d'Italia, e protestando altamente per i suoi conculcati diritti.

«Roma, fidando nell'iniziativa del Piemonte per l'italica rigenerazione, applaude ai vostri sforzi fatti a prò della patria comune; e sentendosi degna di aspirare a quel civile governo, che per indole, genio e senno politico all'intera nazione si conviene, desidera che i mezzi scelti dall'avveduto diplomatico affrettino il compimento de' voti dell'italiano cittadino.

«E a testimonio durevole del glorioso avvenimento Roma v'invia una medaglia, che rammenti ai posteri il nostro generoso operato. Accettatela, non come un premio pari al merito vostro, ma come segno della nostra riconoscenza,

«Roma, 43 giugno 1856.

«I Romani».

Noi potremmo qui seguire l'esempio del Risorgimento e dirgli che mostri l'originale. Ma essendoci burlati altra volta di questa pretesa nei signori del Risorgimento, non vogliamo al ;erto contraddirci, imitandoli. Soltanto ci affretteremo a pubblicare la seguente protesta, la quale por lo meno vale tanto quanto l'indirizzo del Risorgimento.

Protesta.

I nemici del Papa sono i nemici di Roma e dei Romani. Noi ricordiamo ancora la cattività babilonica, l'occupazione francese, la repubblica del 1849. Il trasferimento della Sede apostolica in Avignone diminuì la popolazione di Roma sotto i 35jm. abitanti.

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L'invasione francese ne fece una città di provincia, e da 165m. abitanti la ridusse a 123 mila. Prima della repubblica noi eravamo 479m. , e nel 1849 appena 166m. Chi combatte il Papato, combatte Roma, la sua tranquillità, la sua prosperità, il suo lustro. Epperò protestiamo contro il conte di Cavour, che osò immischiarsi in casa nostra, protestiamo contro i suoi progetti di separazione, francamente gli diciamo,che se i Piemontesi amano le sue delizie e le sue quattordici imposte, non le amano certamente

I Romani

Roma, 12 giugno 1856.

I TORINESI ANTICHI E MODERNI

(Dall'Armonia, n. 149, 29 giugno 1856).

Ieri ricorreva la festa di S. Massimo, il grande Apostolo di Torino, il nostro vero rigeneratore, e, secondo il solito, celebravasi solennemente nella nuova parrocchia di Borgo Nuovo, intitolata al santo Vescovo. Noi in quel giorno abbiamo aperto le omelie di san Massimo, raccolte per cura di Pio VI, e dedicate da questo Pontefice a Vittorio Amedeo HI, e v'abbiano fatto sopra un po' di lettura, e se i nostri concittadini cel permettono, diremo loro liberamente ciò che abbiam letto, e ciò che abbiamo pensato.

Leggendo dei Torinesi antichi, e pensando ai Torinesi moderni, ne abbiamo fatto un po' di confronto; abbiamo paragonato cioè i figli coi padri, e trovato, che se i padri erano buoni, i figli sono tre volte buoni; e che Torino fu ed è sempre quale la dipingeva Giuseppe Scaligero:

Terra ferax, gens lotta hilurisque, addieia choreis, Nìl curans quidquid crostino luna ferat.

1 Torinesi antichi avevano in costume di mascherarsi. San Massimo, nella sua omelia in Kalend. Jan., si scatena contro questa pratica, e dice: «Quale vanità più intollerabile che difformare quel volto, che si degnò il Signore Iddio fabbricare colle proprie mani?» I Torinesi moderni tollerano un po' troppo le maschere, e credono a chi s'acconcia una faccia da liberale, da democratico, da patriota, mentre in suo cuore bestemmia la (patria, il popolo, la libertà.

I Torinesi antichi erano dati all'idolatria, e veneravano gli Dei falsi e bugiardi; anzi quantunque convertiti a Cristo, nelle loro case e campagne conservavano gli Idoli. Del che a buon diritto sdegnavasi san Massimo nella sua omelia: De idoli tollendis de propriis possessionibus. E noi pensiamo, che quell'omelia potrebbe ancora oggidì venir recitata dal pulpito di san Giovanni, giacché un'altra idolatria domina in Torino, l'idolatria degli uomini, ne' quali troppo si crede, l'idolatria delle speculazioni, l'idolatria delle sibille magnetiche che s'interrogano, l'idolatria delle tavole parlanti che si consultano.

Ne' sacrifici che gli antichi Torinesi facevano ai loro idoli, il sacrificatore colla testa piena di vino trinciava con affilato coltello le proprie carni, sperando che l'idolo sarebbe verso lui tanto più pietoso, quanto più egli si dimostrasse crudele verso se stesso. S. Massimo ci dipinge questo insensato, nudo il petto e le braccia, coperte col pallio le coscie, con in mano un gran coltello, sicché egli avea più l'aria di gladiatore che di sacerdote.

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Ebbene, non ridiamo de' nostri padri. Anche i figli per sacrificare agli idoli politici oggidì si svenano crudelmente, o si lasciano svenare, e non hanno una parola da proferire contro l'indegno sacrifizio che si fa della propria patria!

I Torinesi antichi lasciavano fare essi pure, ed in vista di molte iniquità e persecuzioni serbavano un vergognoso silenzio. S. Massimo in alcune omelìe che disse ad onore de' santi Alessandro, Sisinio e Martirio, trucidati dai villani idolatri presso a Trento, acremente rimproverolli di tanta indolenza, esortandoli ad imitare que' Santi, e dicendo loro, che col tacere si rendevano colpevoli, se non col fare il male, almeno coll'assentirvi dissimulandolo, e Né vale il dire, soggiungeva il santo Prelato, che ciò a voi non s'appartiene; imperocché la causa di Dio è causa di tutti, onde ne viene, che il peccato di uno è punito in molti, ed il male dagli altri commesso tocca voi, mentre racchiudesi nella vostra coscienza».

Si lamenta S. Massimo in queste omelie, perché nella sua Torino sieno più obbediti i comandi de principi che quelli di Dio, vedendosi che più può il terrore degli editti di quelli che la devozione dell'Altissimo. E sul conchiudere da una buona strigliata ai magistrati, i quali, da quanto pare, in quei tempi barbari e feroci pigliavansi poco a cuore la causa della religione.

Contro gli eretici, che infestavano queste nostre contrade, tuonava San Massimo colla voce, ed impugnava la penna: voce tonai, calamo fulgurat, come dice un'antica iscrizione, ed inseguiva Gioviniano, Vigilanzio, Nestorio, Eutiche, Pelagio, confutandone gli errori, e screditandone le persone. Né ci venne mai fatto di leggere, che gli antichi Torinesi lo trovassero troppo acre, o gli raccomandassero di essere più moderato. Lo zelo della Casa di Dio divoravalo, ed egli gridava contro i lupi usciti a disperdere ed uccidere la sua greggia; né ci consta; che S. Massimo sia mai stato condannato per appello ab abusu.

Eppure egli disse un intero sermone per ispiegare quelle parole di Cristo: Rendete a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio. ciò che è di Dio; osservando che molti sogliono scusare Ji proprii peccati a titolo del loro uffizio; scusa raeschinissima, poiché, quando altro comandano gli uomini, ed altro Iddio, a Dio e non agli uomini convien obbedire.

Tra gli scritti di S. Massimo, uno dei più importanti è la sua orazione De defectu lunae. Eccone l'occasione e l'argomento.

Un giorno S. Massimo avea predicato un'efficace sermone contro l'avarizia. Ritiratosi in casa, dove attendeva allo studio ed all'orazione, sente a due ore di sera un tafferuglio, uno schiamazzo per le pubbliche vie; manda i suoi famigli a sapere che cosa sia, e costoro gli recano in risposta, che, essendosi oscurata la luna per un eclissi, pensava il popolo di compatirla e soccorrerla quasi si trovasse in grandissimo travaglio: Dixerunt mihi, quod laboranti lunae vestra vociferalio subteniret, et defectum ejus suis clamoribus adiutaret.

Il santo Vescovo ne fu stordito ed addolorato e là prima volta che salì sul pulpito, prese a dire ai Torinesi: e Otr genti stolte ed ignoranti! e fino a quando vi andrete voi cangiando al pari della luna? Ritornerà ben essa prestamente alla sua pienezza, e non ritornerete voi mai alla vera sapienza?

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Perde la luna per alcun poco la sua luce, e voi vorrete ancora perdere il lume di vostra salvezza?»

A. scusa de nostri padri si può dire che questo loro pregiudizio era comune a que dì a molti popoli. Secondo il Baronio, nell'Africa si facea baccano quando eclissavasi la luna, per soccorerla nel suo travaglio, ed abbiamo su questo argomento un sermone di. S. Agostino. Osserva Vives ne suoi commenti alla Città di Dio, che anche gli eruditi tra i gentili temevano che i pianeti stessero per morire eclissandosi, e li soccorrevano col suono di cembali e di tamburi; onde Giòvenale nella stia sesta satira (442) ebbe a dire della loquacità delle donne:

tam nequo tubas, atque aera fatiget;

Una laboranti, polerit succurrere lunae.

Se Giòvenale fosse vissuto a' tempi nostri, direbbe altrimenti. Direbbe cioè, che per soccorrere la luna in travaglio, non è mestieri né di trombe né di bronzi, ma basta un solo deputato, massime se appartiene al centro sinistro. Egli farà co' suoi eterni discorsi fracasso sufficiente per soccorrere tutti quanti i pianeti.

Poverini! I nostri padri si davano a credere che la luna morisse, e che col rumore se le potesse portar soccorso. E tra i figli non v'hanno parecchi egualmente imbecilli? Non sono capocchi coloro che temono o sperano, ad esempio, che possa morire il Papato, poiché Rattazzi e Deforesta lo combattono? Non sono mestoloni quegli altri, i quali si persuadono di portare aiuto all'Italia io travaglio coi tamburi dei memorandum, colle trombe dei giornali, e coi pifferi delle note verbali? Non sono citrulli quegli altri che credono di liberare dallo straniero il Lombardo-Veneto collo scrivere semplicemente sotto i portici di Po morte alt Austria! Viva il Re d'Italia? Non sono finalmente baggiani coloro che confidano in Palmerston e in Luigi Napoleone, e sperano che l'Inghilterra e la Francia aiutandoli, si daranno della zappa sui piedi?

Non ci scandalizziamo de' nostri padri. Se essi furono credenzoni, buona parto dei figli lo sono al pari di loro, e l'omelia di S. Massimo a' dì nostri non perderebbe proprio nulla della sua opportunità.

PROTEGGETE LA MONARCHIA SABAUDA

(Dall'Armonia, n. 149, 29 giugno 1856).

In Piemonte, nel breve giro di poche settimane, si videro fatti inesplicabili in materia di processi per delitti di stampa. Si vide condannata la Gazzetta delle Alpi a 15 giorni di carcere per avere augurato un nuovo Pianori all'Imperatore dei Francesi; si vide l' Espero condannato a sei giorni di prigione per avere dato del ladrone all'Imperatore d'Austria; si vide l' Armonia condannata a diciotto mesi di carcere per aver detto, che nella Festa dello Statuto molle cose e molte persone mostravansi inzaccherate; si vide condannata la Maga di Genova per aver parlato men riverentemente delle gambe di una ballerina; e in mezzo a tante condanne ecco un'assoluzione, un'unica assoluzione. Il fortunato giornale è l' Italia e Popolo, l'organo ufficiale di Giuseppe Mazzini, il quale chiamato in giudizio il 25 di giugno, venne rimandato assolto. Il fatto è grave assai, e merita la spesa di un articolo.

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Il 25 di aprile di quest'anno l' Italia e Popolo, Num. 117, discorreva del governo piemontese e della questione dell'intervento, ed esordiva così: «Quale è il concetto della Monarchia Savoiarda in fatto d'intervento?

È nozione ormai divenuta popolare, che il tentennare, l'irresolutezza fra la cupidigia di nuovi acquisti e la pusillanimità nell'operare, caratterizzano la politica della famiglia di Maurienne.

Chi volesse rappresentarla grottescamente, la dipingerebbe sotto il simbolo dell'asino di Buridan, che se ne sta digiuno fra due misure di avena, per non sapere da qual parte principiare».

Il fisco si scandolezzò di queste parole dell'Italia e Popolo. Trovò la Monarchia Savoiarda chiamata in campo, mentre la persona del Re è sacra ed inviolabile, e non si può parlare di Monarchia, cosa astratta, senza accennare al Monarca, Trovò offensiva la frase, che si riferisce alla famiglia di Maurienne, la quale assumeva un peggiore significato per l'indole del giornale, che la stampava; trovò indegna la similitudine dell'asino di Buridan paragonato alla Monarchia Savoiarda, alla famiglia di Maurienne.

E la reità dell'articolo parve al fisco di Genova così chiara, cosi evidente, che esso non dubitò di punire il gerente dell'Italia e Popolo prima ancora che fosse condannato; mandò per lui. lo strascinò in prigione, e vel tenne per due mesi; cosa che certo non avrebbe fatto, quando avesse menomamente messo in dubbio la sua condanna.

Invece, che cosa avvenne? La causa fu sottomessa al giudizio dei giurati, e questi pronunziarono l'innocenza del gerente, e non videro veruna sconvenienza, veruna illegalità nelle frasi dell'articolo. E in quel medesimo momento, in cui i giurati assolvevano l'Italia e Popolo il suo gerente stava in prigione, onde il tribunale dovette ordinarne il rilascio!

L'Italia e Popolo oggi canta vittoria, e scatenasi contro del fisco. Canta vittoria perché i suoi difensori poterono mostrare come la politica del tentennare sia inviscerata negli atti e nelle abitudini della Monarchia Savoiarda; e si scatena contro del fisco, perché punì l' innocenza, si rese reo d'arbitrio solenne, e le cagionò danni, che dovrebbe, ma non può riparare.

E sono giusti gli inni e le lagnanze del giornale mazziniano. Ammessa l'infallibilità de' giurati (e non si potrebbe negare, senza pericolo di processo) è certo che all'Italia e Popolo venne usata una vera soperchieria, una grande ingiustizia, una letterale persecuzione; ed essa oggidì può vantare un trionfo contro quella Monarchia di Savoia, che tanto disprezza, e ripetere, come pur troppo ripete, essere la famiglia di Maurienné l'asino di Buridan.

Se le nostre parole potessero danneggiare in qualche modo la causa dell' Italia e Popolo continueremmo a tacere; ma poiché il giudizio è finito, e nessun danno può provenire all'accusato dai detti nostri, ci crediamo in debito di protestare solennemente contro di un fatto, che da ansa ai repubblicani, e che sminuisce di molto il rispetto dovuto alla Monarchia. La protesta non è senza pericolo; ma trovandoci tra i giurati e la Casa Sabauda, non esitiamo nella scelta.

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Molti pericoli abbiamo già corso per essere sorti in difesa dei nostri Re, e ci abbiamo attirato sul capo tant'odio e tanta vendetta; ma non per ciò ci viene meno il coraggio, e, soldati fedeli della Monarchia, non sarà mai, che abbandoniamo il nostro posto.

L'Italia e Popolo si difese dicendo, che essa non avea sparlato della persona del Monarca sibbene della Monarchia; e quest'argomento prova agli occhi nostri la maggiore importanza della cosa. Il giornale mazziniano bada ai principii, e non cura le persone; noi, potendolo, difendiamo le persone» e sempre ed in qualunque caso il principio.

La Monarchia, e la Monarchia Sabauda è per noi inviolabile, e le offese che se le recano, ci vanno all'anima. In religione il Papa, in politica il Re; tutto il Re, tutto il Papa, ecco il nostro programma.

Ora potremmo noi non essere contristati di ciò che avviene in Piemonte? Potremmo tacere vedendo, che l'insulto recato all'Imperatore dei Francesi è punito, punito l'insulto che vien fatto all'Imperatore d'Austria, e non c'è verso per castigare chi si professa apertamente nemico della nostra dinastia, e la deride, e l'insulta con villano confronto? Potremmo non gemere vedendo in Genova quasi contemporaneamente assolto chi getta lo sprezzo sulla famiglia di Màurienne, e condannato chi si rise d'una ballerina? Potremmo dissimulare mentre si crede che le istituzioni libere possano patire d'un epigramma dell'armonia, e poi non si può castigare qualche cosa di più che un epigramma.

La guerra ai troni incomincia sempre coi frizzi, e poi va a finire coi processi. L'opposizione scherzava in Ispagna contro Maria Cristina; ora l'accusa di peculato e di peggio, e la vuole condannata. Tutto è il primo passo, e se questo si può dare impunemente, guai alla Monarchia!

Si dice che i giurati rappresentano l'opinione pubblica. Non vogliamo negarlo solennemente per evitare le conseguenze che deriverebbero dal verdict dei giurati di Genova. Questi hanno assolto l'Italia e Popolo, ma l'opinione pubblica, ossia l'opinione onesta, l'opinione intelligente, la condanna. Il suo scritto, le sue allusioni, il suo confronto, hanno qualche cosa che fa ribrezzo. Certo non istara pano nel cuore di chi legge un buon concetto della Monarchia Sabauda.

Una volta tra noi le offese recate ai governi esteri ed alle persone dei loro Sovrani venivano sottoposte al giudizio dei giurati, come le offese e gli insulti fatti al. nostro Re. Le Potenze straniere non istimarono la legge buona guarentigia contro gli scrittori spudorati, e vollero una riforma. La riforma fu compiuta per opera del ministro Deforesta, e questi giudizi vennero sottratti ai giurati, e sottoposti ai tribunali ordinari.

Si fu per ciò che l' Espero e la Gazzetta dette Alpi toccarono una condanna. Se i giudici del fatto fossero stati chiamati a pronunziare sulla reità di questi due giornali, noi possiamo mettere pegno, che amendue venivano assolti.

Di qui ne nasce, che in Piemonte oggidì è più protetto l'onore delle Monarchie estere che della Monarchia nostra, e che si corre maggior pericolo celiando sull'Imperatore dei Francesi e sull'Imperatore d'Austria che sulla nostra Famiglia Reale. E questa, come ognun vede, è un'assurdità che dee cessare.

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Noi domanderemo ai ministri e ai loro giornali; diteci, in grazia, se i tribunali di Genova avessero giudicato l'Italia e Popolo, sarebbe essa stata assolta? Ci risponderanno francamente, che i tribunali genovesi avrebbero condannato il giornale di Mazzini. Dunque, ripigliamo noi, in Piemonte altro sogliono sentenziare i giurati, altro i tribunali ordinari. Di che, o gli uni o gli altri hanno torto, solennissimo torto, ed è mestieri, che questa contraddizione cessi, perché ripugna a un buon governo, alla retta amministrazione della giustizia.

Mentre Urbano Rattazzi scrive una circolare draconiana per tormentare i parrochi, calunniandoli come se non pregassero per la persona del Sovrano, in Genova si assolve chi rassomiglia la famiglia di Màurienne all'asino di Buridan.

Staremo un po' a vedere quali misure abbraccierà il signor Rattazzi, che sì dimostra così tenero dell'onore della Monarchia. Egli già venne accusato da Vincenzo Gioberti d'avere giuocato a Novara il trono e la vita di Carlo Alberto. Pensa forse di darci una replica? Cel diranno i fatti.

Quanto a noi, veggiamo ovunque pericoli per la Monarchia; pericoli nella licenza che si permette, nella libertà che si nega; pericoli negli inetti e nei tristi; pericoli nelle condanne e nelle assolutorie, e stimiamo debito nostro esclamare: MINISTRI DEL RE, PROTEGGETE LA MONARCHIA SABAUDA!

L'INGHILTERRA

E

LA RIVOLUZIONE ITALIANA

(Dall'Armonia, n. 150, 1° luglio 1856).

Se tanto si parlò in Inghilterra d'Italia e di Piemonte, si fu perché noi siamo andati a chiedere elemosina agli Inglesi, e costoro prima di darci il denaro addimandato, vollero discutere sull'uso che noi saremmo per farne. Uno dei punti principali, che dava gravi timori ai conservatori inglesi, si era, che il Piemonte fosse per valersi de milioni britannici per mettere in soqquadro l'Italia. Lord Palmerston disse su questo argomento memorande parole, che vengono cosi compendiate dal Daily News:

«Lunedì scorso lord Palmerston dichiarò cortesemente al rappresentante di Pio IX e del Re di Napoli nella Camera inglese dei Comuni, che il progetto di legge sull'imprestito sardo non era introdotto per dare al governo sardo i mezzi di rivoluzionare l'Italia Lord Palmerston accompagno la sua dichiarazione con un'avvertenza, sulla quale i liberali inglesi hanno diritto di chiedere alla lor volta qualche schiarimento. Disse lord Palmerston, che il governo di S. li. era bensì desideroso di sostenere il governo sardo in quel procedimento illuminato (sic) e liberale (sic, sic), che ha tenuto finora in modo cosi onorevole (sic, sic, sic); ma che se avesse ad accadere, ciò che per ora non è, che il governo sardo fosse animato da progetti di aggressione, il governo inglese farebbe uso di tutta la sua influenza per distoglierlo da una tale condotta».

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Queste parole sono gravi, gravissime in bocca di lord Palmerston, e in questi momenti. Il ministro inglese in certo modo canta la palinodia, e parlando cortesemente al rappresentante di Pio IX, fa ammenda d'avere anteposto il governo provvisorio di Roma al governo legittimo del Papa; getta acqua sul fuoco, che esso stesso ha acceso nei nostri rivoluzionarii, e quasi quasi dice ai libertini piemontesi, che se essi tentassero di usurpare le Legazioni, o conquistare il Lombardo-Veneto, la prima Potenza che si troverebbero contro, sarebbe appunto l'Inghilterra. Ciò che viene a spiegare la fredda risposta di lord Clarendon alla nota dei nostri rappresentanti nel Congresso di Parigi, e i rimproveri contenuti nell'ultimo dispaccio del conte Walewsky si nostro governo.

L'Inghilterra in certo modo protesta per mezzo di lord Palmerston, che se da qualche milione al Piemonte, lo fa per pura compassione, giacché il conte di Cavour, nelle note indirizzate a lord Clarendon, si lagnò vivamente delle oberate finanze, ma che essa è lontanissima dal voler con ciò sostenere la rivoluzione in Italia, o dare ansa alle mire aggressive de' ministri piemontesi; anzi, qualora essi rinnovassero le pazzie del 1848 e 1849, il governo britannico farà uso di tutta la sua influenza per distarglieli da una tale condotta.

Che cosa volete di più chiaro e risoluto? Chi dopo tali parole oserà ancora confidare in Palmerston o nell'Inghilterra? Questo governo si pronunzia apertamente per l'Austria, e vuole il Piemonte qual è, né più grande, né pili piccolo. Non vcl diceva il conte Solaro della Margherita fin dal 6 di maggio? Non vel profetizzò, che là stessa Inghilterra non sarebbe mai più stata con voi? E perché noi voleste credere? Uomini nuoti, inchinatevi agli uomini antichi, ed imparate da costoro a conoscere lo stato dell'Europa, la politica dei gabinetti, e le conseguenze degli eventi.

Il Daily News da cui abbiamo tolto il sunto delle parole di lord Palmerston, ne apprezza tutta l'importanza, e, giornale rivoluzionario qual è, se ne lagna altamente col ministro inglese. Se ne lagna perché lord Palmerston ha fatto supporre, che il governo sardo potesse quandochessia essere animato da progetti d'aggressione; se ne lagna, perché ha confermato la vece già corsa, che la Sardegna non fosse più sostenuta dalla Francia e dall'Inghilterra nella sua politica; se ne lagna, perché le parole di lord Palmerston dovranno naturalmente diminuire l'influenza della Sardegna nei Consigli degli Stati italiani.

«Per ciò che concerne lord Palmerston stesso, dice il Daily News, non abbiamo verun dubbio intorno ai suoi intendimenti ed ai suoi desiderii, che sono riguardo alla Sardegna ed all'Italia, degni di un uomo di Stato inglese. Ha ci duole d'essere indotti, per amore di verità, a dichiarare, che non riponiamo la medesima fede nei suoi col leghi. E peggio ancora abbiamo troppo buone ragioni per credere, che il gabinetto inglese, in questo momento, riceva le sue informazioni relativamente agli affari d'Italia da una sorgente impura».

Ed ecco qui nuovi motivi per gli italianissimi di dolore e di disperazione. Tutti i colleghi di lord Palmerston non sono amici della Sardegna, né vogliono sostenerla nelle sue idee e nei suoi divisamenti. Lord Palmerston, o finto o sincero, ha parlato nella Camera dei Comuni nel senso dei suoi col leghi,

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e poco monta ciò che egli pensi internamente. In fine, gli stessi agenti diplomatici della Gran Bretagna, che sono in Italia, danno addosso al liberalismo. La presenza di lord Normanby a Firenze fa un male infinito, secondo il Daily News. La notoria sua devozione all'Austria ed alla Corte di Parma ispira a tutti i sanfedisti la piena fiducia, che la Corte ed il gabinetto d'Inghilterra sono dalla parte loro».

Donde conchiude il giornale di Londra: «Se non si prendono misure immediate e risolute per opporsi a questa fatale impulsione, le conseguenze ne saranno oltremodo disastrose». Le uniche misure sarebbero di cambiare in Italia i diplomatici inglesi, che vi sono presentemente, e di cacciare i colleghi di lord Palmerston dal ministero. Ma finché non sono abbracciate queste due misure, noi siamo licenziati dal Daily News a dire, che l'Inghilterra non è pei nostri ministri, né pei nostri italianissimi, ma invece pei sanfedisti, e per l'Austria.

Ora facciamo un po' i conti, e ricerchiamo chi stia in questo momento coi nostro ministero. Non ci sta certamente l'Austria, perché tra la sua politica e la nostra vi corre un abisso. Non ci sta la Francia, e oltre tanti altri argomenti, l'ha dimostrato l'ultimo dispaccio del conte Walewsky al nostro gabinetto. Non ci sta la Russia, perché essa è benissimo coll'Austria, checché ne sia detto in contrario, e ben lo dimostra la dimora di Gorschakoff a Vienna, e le sue ottime relazioni col conte Buoi. Non ci sta la Prussia, ed essa già lo protestò in termini; in un suo foglio, dicendo che, Potenza conservatrice, e Potenza germanica, non potrebbe far comunella con chi grida al tedesco, e promuove la rivoluzione. Chi sta adunque con noi? L'Inghilterra? Leggeste poco fa le parole di lord Palmerston. La Spagna? Ha da pensare a se stessa, ed alle sue colonie. L'Olanda? S'è gettata testé in braccio ai reazionari groenisti. Il Belgio? L'ha data vinta ai clericali nelle passate elezioni. Dunque chi sta con noi? Il ministero nostro è solo, e dee fare da sé.

Ma guai al solo! Vae soli! leggiamo nelle sante scritture. E perché? Quia si cetiderit non habet sublevantem se. E noi già lo provammo a Novara, dove cademmo, e non ci fu chi ci sostenesse. L'avere amici, se è buono per gli individui, è necessario per gli Stati. Si quispiam praevaluerit contra unum, duo resistunt et. E l' Ecclesiaste alludeva alla politica, perché soggiunge: Melior est puer pauper et sapiens rege sene et stulto, qui nescit praevidere in posterum. Se i nostri avessero avuto un po' di previdenza, certo non si troverebbero oggidì in così fatale isolamento.

Guardatevi Intorno, o ministri: chi è con voi? Nessuno. Ministri italiani, avete Balia nemica. Nemici vi sono i principi, de' quali insidiate il trono, nemici i popoli de' quali insidiale h pace. In tutto il resto d'Europa le maggiori potenze hanno ribrezzo di associarsi con voi ne' vostri divisamenti. Voi siete soli, e soli anche in Piemonte, dove le popolazioni guardano con indifferenza i vostri spropositi, e ridono delle vostre castronerie. Vae soli! Guai a voi, o ministri! La vostra caduta è inevitabile: avete seminalo il vento, e dovrete di necessità raccogliere tempesta. Avete fatto lega colla rivoluzione, e questa vi strozzerà', e non vedrete una mano amica sostenervi nel vostro pericolo,. né una voce pietosa compiangervi nella vostra caduta.


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L'AUSTRIA IN ITALIA

E

L'AVVOCATO FERDINANDO DAL POZZO

(Dall'Armonia, n. 155, 6 luglio 1856).

«Sarà sempre di Dal Pozzo onorata la memoria.»

Brofferio, Storia del Piemonte, parte 1, capo VII, pag. 104, Torino, 1849.

Il conte Ferdinando Dal Pozzo, già referendario nel Consiglio di Stato di Napoleone, e primo presidente della Corte Imperiale, uomo amantissimo di libertà, dettava nel 1833 uno scritto divenuto oggidì rarissimo e intitolato:. Della felicità che gli Italiani possono e debbono dal governo austriaco procacciarsi. Lo scritto veniva stampato in Parigi presso Ab. Cherbuliez, libraio, e portava la seguente epigrafe: II giusto, il ver, la libertà sospiro. Angelo Brofferio nella sua Storia del Piemonte, dopo di aver raccontato i benefizi resi alla libertà italiana dal conte Dal Pozzo, e detto che ne sarà sempre onorata la memoria, viene particolarmente a parlare di questo scritto da noi citato, e si esprime così: «Né io dirò che l'antico ministro del 1821, affievolito dall'età e dalle sventure, fosse nel vero e nel giusto: dico soltanto che oneste erano le sue intenzioni» (parte III, cap. H, pag. 145). Speriamo che nessuno vorrà attribuire trista intenzione all'armonia, che crede ben fatto di pubblicare alcuni capitoli del conte Dal Pozzo. Grandi disgrazie furono già chiamate sulla povera patria nostra dagli utopisti, i quali però non cessano dall'abbindolare gli Italiani, e spingerli alle più pazze intraprese. V'hanno certi principii che costoro ci impongono di credere, senza nemmeno permetterci di poterli richiamare ad esame. Poiché noi troviamo che uomini della loro scuola li barino esaminati essi stessi, e giunsero a conseguenze affatto contrarie a quelle che se ne deducono oggidì, chi ci vieterà di valerci del loro lavoro, di rimetterlo in luce, di dire, ad esempio, ai nostri concittadini: Ecco come la pensava un avvocato liberalissimo; leggetelo e giudicatelo! Noi dunque pubblichiamo parecchi capitoli dell'opera del conte Dal Pozzo, sottomettendo i suoi ragionamenti al giudizio ed alle critiche di chi la pensasse altrimenti da lui.

CAPO VIII.

Lo accomodarsi allo stato presente delle cose è il più savio consiglio,

a cui gli Italiani possano appigliarsi.

Dissi che io primo luogo è pazzia il non sottomettersi alla necessità delle cose; ma non esaurii questo argomento; ed è nondimeno opportunissimo che io il faccia.

L'Italia, come ognun sa, dalla caduta dell'Impero romano, cioè da tredici secoli in qua, fu dominata da genti straniere, Bruzi, Ostrogoti, Lombardi, Francesi, Tedeschi e Spagnuoli. A malgrado di un fatto cosi patente, e così lungamente costante, udiam sempre decantare l'italico valore, la nazionalità e l'unione italiana, ed altamente predicarsi, esortarsi, minacciarsi, l'espulsione degli stranieri. L'invasione di questi si attribuisce ora ai Papi, che li fecero venire, ora ad altre cagioni, ed ogni invasione si descrive come un'accidente.

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Egli è un voler chiudersi gli occhi per non vedere una verità storica e politica, brutta sì quanto mai si possa dire, ma pur chiara come il sole, cioè che l'Italia dalla caduta dell'Impero romano fu sempre debole, divisa, e che per ritornarla all'antico stato, non ci vorrebbe meno che ricomporre l'antico Impero di Roma, ricacciar nel settentrione i popoli forti, che ne uscirono, e i loro discendenti, non che distruggere tutti gli effetti della loro dominazione, e. gli effetti degli effetti, il che è impossibile. Egli è poi facile l'intendere come, mentre l'Italia andava gradualmente infievolendosi, e decadeva (quanto alla potenza militare e politica, intendiamoci, poiché quanto allearti, alle scienze all'industria, non solo risorse, ma rifulse), altre potenti nazioni siensi formate, conglobate, ingrandite, cioè la gallica, alcune nazioni germani che, e la monarchia austriaca specialmente; ed è in questa situazione di cose che alcuni pensano a far rinascere in oggi un'Italia politicamente poderosa, e forte, e libera da qualsivoglia soggezione straniera. Si adducono in prova della possibilità, anzi della facilità di riuscire in quest'alta impresa, d mirabili fatti delle piccole repubbliche italiane, delle magnifiche frasi di poeti ed oratori sullo stato d'Italia; si fa valere il suo primato incontestabile (almeno in origine) nelle arti e nelle scienze, e confondendo l'Italia antica colla moderna, le scienze ed arti di pace con quelle della guerra, le qupli ultime sole per altro essenzialmente decidono dei destini politici delle nazioni, si fanno castelli in aria, si compongono degli eloquenti scritti, delle poesie sublimi, e si crea fantasticamente un'Italia, che né esiste, né esisterà mai; ed intanto si prepara a questa si bella contrada, cosi dalla natura favorita de' suoi doni, un'infelicità o una servitù, che gl'Italiani potrebbero evitare, o almeno soavizzare, se sapessero da saggi accomodarsi allo stato presente delle cose, ed anzi pigliare da questo le mosse, onde giunger ratto ad assai migliori destini, e levarsi anche a libertà. Numquam liberto gratior exstat quam sub rege pio, diceva Claudiano.

CAPO IX.

Il dominio austriaco, secondo tutte le apparenze attuali, è per gli Italiani un'inscampabile necessità. L'idea di espellerlo è la più fantastica

e la più assurda che mai si possa da taluno di non sana mente concepire

Conviene che gl'Italiani, calmando là loro fantasia, e considerando pacatamente lo stato politico attuale d'Europa, la lega dei governi europei divenuta pressoché indissolubile, l'amor [della pace prevalente più che mai, tanto ne' governi moderni, quanto nel grosso delle popolazioni, donde nasce anche un odio alle rivoluzioni, le quali da un'imperiosissima necessità non erompano, massime seda niuna o lievissima apparenza di successo accompagnate; ciò tutto freddamente meditando, gl'Italiani si persuadano, che il dominio austriaco è per loro una necessità ioscarapabile;-il che io conscienziosamente reputo a gran ventura per essi, e ne dirò in appresso le ragioni; ma per ora basta al mio intento, che si convincano della verità di questa asserzione.

Il presente dominio austriaco, congiungendolo, come è d'uopo, coi precedenti governi di vàri secoli, da cui esso deriva, e di cui non ò che una continuazione, pose si salde e si profonde radici in Italia, che niun evento, né italico, né europeo, - nemmeno la rivoluzione di Francia, che fece cambiar d'aspetto a tante cose politiche, -fu da tanto, da onninamente e per sempre schiantarlo. Due volte, e ad intervallo, parve sbarbato, - e veramente il fu per alcuni anni; -si estolse quindi più vegeto ancora e rigoglioso che mai non sia stato, sfidando i venti e le tempeste. Se le tante vittorie di Napoleone, - non parlo delle insurrezioni, che non furono che piccoli soffi,- non lo abbatterono per sempre, come mai i debolissimi

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e divisissimi Italiani d'oggidì, quali li ho sopra descritti, bì possono lusingare di riuscire in questa grande impresa? Pure un gran numero di liberali italiani parlano di scacciare gli Austriaci dall'Italia, come della cosa la più facile del mondo, dimenticandosi, che essa e fra le prime Potenze continentali, divenuta ancora più gigantesca e più guerriera che non quando Napoleone la combatté - l'alleata là più necessaria all'Inghilterra -unitissima di spirito colle altre Potenze continentali nell'intrapresa di soffocare le rivoluzioni, poco o nulla avente a temere della Francia, governo fresco, che abbisogna di consolidarsi, e non va per l'interesse degl'Italiani a misurarsi coll'Austria.

CAPO X.

Benché riuscisse agl'Italiani di discacciar gli Austriaci, il più verisimile è che ritornino. - Che cosa sarebbe contro l'Italia un'Austria espulsa pretendente?

Un'altra osservazione importantissima è a farsi, la quale si è, che, dato per ipotesi che una rivoluzione di un grandissimo successo, o altra combinazione politica, agevolasse questo cosi desiderato discacciamento degli Austriaci dall'Italia, in modo anche a parere un'impossibil cosa il loro ritorno, - e questi impossibili quante volle non si realizzano in politica! Perciocché pareva, nel 1810, per esempio, un impossibile la caduta di Napoleone, un impossibile la ristorazione de' Borboni, un impossibile il ritorno della Casa Savoia in Piemonte, ecc. ecc, e questi impossibili pareano generalmente tali a tutti i Principi d'Europa, a tutti i popoli, a tutti gl'individui, il che, dalla loro condotta di quel tempo, chiarissimamente si dimostra, qualunque cosa in contrario siasi poi detto e protestato dopo il fatto:-dato dunque per ipotesi che gli Austriaci sieno si ben fugati dall'Italia, che il loro ritorno si potesse riguardare come il sommo impossibile,- egli è da avvertire che, a meno che l'austriaca Potenza si estingua affatto, e sparisca dalla scena del mondo, un tal Impossibile non entrerà mai nella testa dei Principi della Casa d'Austria, di modo che, anche dopo un mezzo secolo o un secolo, questa Casa avrà sempre un pretendente, e un terribile pretendente sulle provincie italiane, che possedeva.

Esso pretendente mediterà invasioni, susciterà guerre estere ed interne, favoregierà cospirazioni; i suoi fautori trameranno insidie, corromperanno ministri e deputati, in sostanza quelli e questi faranno il diavolo, come tutti i pretendenti hanno fatto e fanno, né lascieranno mai in pace quel governo italiano, che i liberali antiaustriacissimi avrebbero fondato. Non mai potrebbe far presa e consolidarsi. Non si è veduto quello che fecero gli Stuarts nella Gran Bretagna, e che cosa non hanno tentato in Francia i Cariigli colla duchessa di Berry a nome di Enrico V?

E se questi pretendenti esuli e senza forze loro proprie, hanno tante potuto iquielare, ed i Cartisti chi sa fin quando; - se non di continuo, almeno di tempo in tempo, e profittando di tutte le circostanze, - mineranno il governo francese di luglio 1830, cosa non potrà fare l'Austria espulsa, pretendente, colle forze grandissime che sempre le rimarranno contro l'Italia?

Conchiudiamo dunque, che l'Italia coll'Austria congiunta ed inviscerata,-coll'Austria fatta ancora più liberale, che nono, dallo spirito e dall'amor degli Italiani; questa Italia potrà sorgere si alto da comandare a quasi tutto il mondo, ed a rendere i suoi abitatori felicissimi; laddove Italia dall'Austria sceverata, ed in competenza colle altre gigantesche Potenze Europee, non sarà mai che un precario e debole Stato. Nella bilancia de' suoi destini, quale differenza di peso non debbo apportare un'Austria ra favore od un'Austria contro I Perciocché un'Austria neutra non vi sarà mai per lei. Bisogna essere cieco affatto per non vedere una cosi radiante verità.

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GARIBALDI

VIEN FUORI DOPO IL CONGRESSO DI PARIGI

(Dall'Armonia, n. 166, 19 luglio 1856).

Giuseppe Garibaldi, che è la spada d'Italia, come Giuseppe Mazzini ne è l' idea, da qualche tempo in qua va asolando sul nostro litorale marittimo, tenendo, per così dire, un piede in mare e l'altro in terra, per essere pronto ad ogni evento; o di scendere in terra al rompere della guerra, o di pigliar il largo se il vento spira contrario. Ora secondo un giornale genovese, si è stabilito nell'isoletta Caprera, attendendo con guerresca impazienza il non lontano giorno di un nuovo e sensato rivolgimento italiano. Ma sia residuo delle passate fatiche, o noia dell'ozio involontario, il Garibaldi non istà troppo bene in salute, e recossi il 9 di questo mese allo stabilimento idroterapico di Voltaggio per curarsi de' suoi mali. E là appunto doveva aver luogo una di quelle dimostrazioni, che sono tanto in uso nel nostro paese per tenere a bada i pascibietola. Il Garibaldi adunque, e tanto nel paese, quanto nello stabilimento de' bagni, fu con molto onore e piacere ricevuto, ed alla sera si radunarono sotto le sue finestre molti del paese, i giovani specialmente, e con «una serenata tanto più bella, quanto più poco attesa in quel luogo, dove «la bella dea della musica non istà al certo di casa, gli porsero splendido attestato d'amore e di venerazione». (Movimento, n. 193).

L'animo di Garibaldi non poté essere insensibile a tanta gentilezza della bella dea della musica ed il giorno dopo, con una lettera tutta spirante le grazie della dea e l'estro della serenata, così ringraziava i cittadini:

«Ai cittadini di Voltaggio,

«Accenti di musica deliziosa bearono questa notte gli abitatori di questo stabilimento, e mi venne detto, che i cittadini di Voltaggio vollero in me onorare il principio italiano.

«Io accetto intenerito e riconoscente questo omaggio d'un popolo benemerito, ed auguro da queste e da altre non equivoche manifestazioni la prossima liberazione del nostro paese. - Si, giovani della crescente generazione, voi siete chiamati a compire il sublime concetto di Dio, emanato nell'anima dei nostri grandi di tutte le epoche: l'unificazione del gran popolo, che diede al mondo gli Archimedi, i Scipioni, i Filiberti. - A voi, guardiani delle Alpi, viene commessa oggi la sacra missione; non vi è un popolo della penisola, che non vi guardi, e che non palpiti alla guerriera vostra tenuta, alle vostre prodezze sui campi di battaglia. - Campioni della redenzione italiana, il mondo vi contempla con ammirazione, e lo straniero, che infesta l'abituro de' vostri fratelli, ha la paura e la morte nell'anima.

«Gli Italiani di tutte le contrade sono pronti a rannodarsi al glorioso vessillo che vi regge, ed io, giubilante di compire il mio voto all'Italia, potrò, Dio ne sia benedetto 1 darle questo resto di vita. «Dallo stabilimento idroterapico dei signori Ansaldo e Romanengo.

«Giuseppe Garibaldi ».

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Come potete ben immaginare, i Voltaggiesi risposero alla lettera dell'eroe d'Italia. Dopo aver enumerato le gloriose gesta del campione d'Italia, i Voltaggiesi, prostrati a' piedi di quel grande, «vi ammiriamo altamente, gridano, e facciamo da questo momento solenne sacramento, per quanto debolezza e pochezza nostra il consentono, di proporvi a nostro esemplare». A que' poveretti però due timori sopravennero a turbare l'anima: l'uno è, che quelle loro parole fossero una bassa adulazione, e che il Garibaldi stesso (che non è poi un citrullo) se ne pigliasse beffe. Quindi soggiungono: e Né crediate con «ciò, che noi vogliamo adularvi, che ben conosciamo, per isterici fatti e mec morabili tradizioni, quanto sia aliena da ciò la vostra grand'anima».

L'altro timore si è, che gli austro-clericali ridano di quella commedia. «Gli e austro-clericali rideranno, siccome sempre son usi a fare, di queste nostre e espressioni, fortunati noi, se saranno considerate per parti di menti esaltate, siccome a piena gola decantano». Oh ohe crudeli son mai quegli austro-clericali! ridere di cose così serie? e trattare da parto di menti esaltate parole dette nel massimo buon senno? Veramente sono da compatire gli austro-clericali, perché anche nel manicomio, con tutta la compassione che altri sente per que' cattivelli, tal volta le dicono così madornali e sbardellate, ed insieme mostrano tanta gravita e un tale far da senno, che riesce impossibile di contenere le risa.

Il Garibaldi partiva il 4 5 da Voltaggio (pare che il male non fosse così grave, se guarì in cinque giorni), e giunto a Gavi, fu salutato dai concenti della banda e dai fragorosi evviva dì quella popolazione, e dimostrato con brevi parole quanta fosse la sua riconoscenza per quella inaspettata dimostrazione di simpatia, accompagnato per un tratto di strada dalla musica e da quei bravi terrazzani, proseguì il viaggio.

Bisognerebbe non aver occhi in testa per non vedere che la cura idropatica non fu che un pretesto, sapendosi che tali cure non si fanno in cinque giorni! Il Garibaldi volle fare una passeggiata trionfale, non tanto per raccogliere fumo, e suono, e applausi, quanto per attizzare il fuoco italianissimo, e forse per disporre i suoi fili a qualche impresa delle usate. Del resto, non è nostro intendimento di penetrare ne' consigli segreti de' cospiratori. Per noi basta il sapere che queste dimostrazioni, la cui risponsabilità cade naturalmente sopra il ministero, sono sempre nuovi fomiti di dissapori e di ire che straziano la povera Italia, e, peggio ancora, rovinano il nostro paese, il quale non può aspettarsi da queste commedie e da siffatti uomini altra che pianto e miseria.

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ANNIVERSARIO

DELLA MORTE DI CARLO ALBERTO

(Dall'Armonia, n. 174, 99 taglio 1856).

Oggi è giorno di gravi e solenni pensieri, perché ricorre l'anniversario della morte di Carlo Alberto. Preghiamo requie al nostro Re; e in questi momenti, che hanno tanta rasaomiglianza coi giorni dei 1848 e 1849, non dimentichiamo la sua tristissima fine.

Carlo Alberto compariva sulla scena politica nel 182é, e a Novara si celebrava il prologo della grande tragedia. Molti anni dopo, cioè nel 1849, nella stessa Novara assistevano i Piemontesi alla dolorosa peripezia.

Il 23 di marzo del 1848 si dichiarava all'Austria la guerra fatale, e il 23 di marzo del 1849 lo sventurato Carlo Alberto abdicava in Novara la corona, e si condannava ad un volontario esilio in Oporto.

Chi ha perduto Carlo Alberto? L' hanno perduto que medesimi che ora stanno intorno a suo figlio. Un di questi, il signor Bufia, sottraeva dalle Poste di Genova una lettera indirizzata a persona amicissima di Carlo Alberto, e la sottraeva poco prima della catastrofe di Novara.

Questo signor Buffa medesimo il 26 di marzo 1849 annunziava nella Camera dei Deputati l'opera sua, e l'opera de' suoi colleghi, dando pubblica lettura d'una lettera scritta al ministero dal ministro Cadorna, che aveva assistito all'abdicazione di Carlo Alberto. . Recitiamo alcuni periodi di questa lettera.

«La battaglia cominciata alle 11 e mezzo del giorno 23, volgeva in bene per noi sin verso le quattro e mezzo. Da quest'ora piegò in basso la nostra fortuna, perdemmo le posizioni, i nostri reggimenti dovettero lasciare il campo l'un dopo l'altro, l'Austriaco venne quasi alle porte di Novara.

«S. Me Carlo Alberto stette sempre esposto al fuoco, ov'era maggiore il pericolo; le palle fischiavano del continuo sul di lei capo; molti caddero morti vicino a lui; anche a notte egli continuava a stare sugli spalti della città, ove era ridotta la nostra difesa.

«II generale Giacomo Durando dovette trascinarlo pel braccio, perché cessasse di correr ormai inutilmente rischi terribili.

t - Generale, rispose il Re; è questo il mio ultimo giorno; lasciatemi morire. -

«Quando il Re vide lo stato infelice dell'esercito, e gH parve impossibile di resistere ulteriormente, e quindi necessario chiedere una sospensione d'armi, e forse di accettare condizioni cui ripugnava l'animo suo, disse, che il suo lavoro era compito, ch'ei non poteva più rendere servizio al paese, cui da diciott'anni avea consacrato la sua vita; che avea invano sperato di trovar la morte nella battaglia; che ih seguito a maturo riflesso avea deciso di abdicare.

«Erano presenti i Duchi di Savoia e di Genova, il ministro Cadorna, il generale maggiore e gli aiutanti di S. M. Alle vive istanze fattegli, perché rivocasse la detta decisione, Carlo Alberto vivamente soggiunse: - lo non sono più Re: il Re è Vittorio mio figlio -.

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«Abbracciò e baciò tutti gli astanti, ringraziando ciascuno dei servigi resi a lai ed allo Stato. Dopo la mezzanotte partì accompagnato da due soli domestici».

Così finiva lo sventurato Monarca che i rivoluzionari voleano Re d'Italia. Pensiamoci. Demetrio di Falera, come racconta Plutarco, voleva che quanto non ardiscono dire gli amici ai Re loro, si trovasse scritto ne' libri». Ebbene i migliori consigli stanno scritti nella biografia di Carlo Alberto. Questa insegua a conoscere i tempi, i luoghi, le cose, gli uomini. Per carità, la vita e la morte di Carlo Alberto non ci sfuggano dalla memoria.

I nostri Senatori l'hanno chiamato magnanimo. Ha scrisse Vincenzo Gioberti nel suo Rinnovamento, tom. 1, pag. 518: 1 Senatori di Torino si consigliavano più col giuBtoae recente dolore, che colla storia; e loro non sovveniva che il dar soprannomi non perituri appartiene solamente ai popoli arbitri della gloria e della loquela. Imperocché, se magnanimi, al dire d'Isocrate, non sono quelli che abbracciano piò, che non possono tenere, ma quelli che hanno propositi moderati, e facoltà di condurre a perfezione le cose che fanno, soprastando ai meschini e volgari affetti; non so se i posteri giudicheranno che Carlo Alberto sia stato tale nella sua vita».

E i posteri già incominciano a formolare il giudizio, giudizio severo, perché spoglio dall'adulazione, e dicono Carlo Alberto reo di due colpe: debolezza e ambizione. Le purgò amendue a Novara, dove con fortezza d'animo sopportò la sventura.

Se egli dipoi fosse vissuto, e avesse regnato, certo la disgrazia sarebbe stata utile a lui ed a noi. Ma poiché Novara gli avea aperto gli occhi, sopraggiunse la morte inesorabile, che glieli chiuse eternamente.

ATTENTATI RIVOLUZIONARI IN ITALIA

NEL 1856. (Dall'Armonio, n. 176, 31 luglio 1856).

Una rivoluzione in Italia era stata vaticinata fin dal 16 di aprile dì quest'anno, nella nota che il conte di Cavour indirizzò a lord Clarendon ed al conte Walewsky. Allora diceva il plenipotenziarie sardo, che in tutta Italia le popolazioni erano in uno stato d'irritazione costante, e di fermento rivoluzionario. Ne eccettuava però il Piemonte, ti solo Stato d'Italia che abbia saputo opporre allo spirito rivoluzionario un argine insormontabile!!!

Questo pensiero veniva svolto e commentato nelle tornate della Camera dei Deputati dei giorni 6 e 7 di maggio, durante le quali furono recitati caldissimi discorsi, che si riducevano a dire così: - O Francia ed Inghilterra pensino a cacciare l'Austria e tutti i governi legittimi della Penisola incorporandola col Piemonte; oppure scoppierà in Italia una rivoluzione tale da mettere in pericolo tutta Europa. -

Si attese un po' di tempo per vedere come si comportasse la diplomazia a riguardo nostro. Lorenzo Valerio aveva conchiuso i suoi discorsi nella Camera colla seguente tirata: «Le nostre parole, le parole del signor presidente del Consiglio, di tanto più importanti delle nostre, non istaranno sicuramente chiuse in questo ricinto, o serrate nei confini che segna il Ticino.

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Le frontiere, le baionette, i commissari di polizia, i bini, che ricingono le altre provincie italiane, le quali sono da noi divise, non potranno tener lontano il suono di tali parole. Queste varranno a ridonare coraggio agli animi abbattuti, e faranno audaci gli animi coraggiosi, e l'audacia ed il coraggio che ne verrà ai nostri fratelli del rimanente d'Italia, non istarà lungo tempo senza farsi sentire». ( Att. Uff. , N°257, pag. 963).

Però e nella Camera dei Deputati e nel Senato del Regno s'era raccomandata pazienza agl'Italiani per qualche settimana; affinché la grande quistione potesse fare liberamente il suo corso. L'Italia obbedì. Ma la Francia non tardò guari ad attaccare, come suoi dirsi, al campanello dell'uscio ogni pensiero relativo alle cose nostre; e l'Inghilterra ne fé' tema di qualche discorso nel Parlamento, di qualche articolo nel giornalismo, ma tutto in fin dei conti si risolse in turno. Le illusioni scomparvero e tutti riconobbero che la diplomazia avrebbe sempre lasciato l'Italia qual è.

Allora veniva di necessità la seconda parte del dilemma piantato dal medesimo conte di Cavour, cioè la rivoluzione. Si aspettavano le cinque giornate in Lombardia, e nulla. Si vociferava una rivoluzione in Messina, e nulla. Speravasi che la repubblica levasse il capo in Roma o nelle Legazioni, e nulla. 1 Lombardi dicevano, che si erano lasciati infinocchiare una volta, e n'aveano assai. 1 Romani ridevano di buon cuore delle illusioni subalpine, e andavano dicendo, che non sono così gonzi da scambiare il Santo Padre coll'avvocato Rattazzi e coll'esattore Cavour. I Siculi davano uno sguardo alle finanze proprie, ed un altro sguardo alle finanze piemontesi, e ripetevano: chi è tanto mestolone da voler posporre la farina alla crusca! Fatto è che chi per questa, chi per quella ragione, nessuno degli Italiani muoveva una paglia.

Dicevasi bensì, che in Napoli nella via di Toledo s'era ritrovato un proclama rivoluzionario; ma l' Osservatore Tortonese ci avvertiva, che quel proclama era stato fabbricato in Torino. Il Risorgimento stampava un preteso indirizzo dei Romani al conte di Cavour. Ma i Romani dell'Italia e Popolo di Genova protestavano contro quell'indirizzo, sacramentando, che Romani non ne erano gli autori. Di Toscana giungeva un busto al nostro presidente del ministero, ma non si trovava chi potesse far sicurtà, che Cantillo di Cavour non avesse pagato di sua borsa quel busto medesimo. E frattanto la minacciata rivoluzione non appariva.

Quando eccoti sequestrate in Novara alcune casse di fucili, di stili e di cartuccie, e scoppiato sui nostri confini di levante un moto rivoluzionario. Siccome dopo il dettb nella Camera dei Deputati un tumulto era necessario in Italia, così si tentò in quella parte della Penisola, che più si prestava all'uopo.

Il Ducato di Modena è degli Stati meglio governati, e i nostri giornali ben di rado sanno inventare calunnie contro del Duca. Però Carrara è città difficilissima, e guasta assai pel concorso degli artisti, che vi convengono per ragione delle cave dei marmi.

E d'ordinario i cultori delle arti belle sono intinti di pece rivoluzionaria, cospirando contro se stessi, perché non v'ha peggior nemico delle arti, quanto la rivoluzione.

Ed ogni qualvolta noi veggiamo un artista fare il demagogo, ci par di veder un pazzo suicida, che pensa a togliersi dal mondo.

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Carrara adunque e i vicini paesi prestavansi doppiamente per un tentativo rivoluzionario, sia per la vicinanza di que' luoghi allo Stato Sardo, dove si può impunemente cospirare, sia per la natura di quelle popolazioni alquanto guaste dal concorso de' forestieri, e da spettacoli che presentano molti studi di scultori, troppo spesso dimentichi di quel dette del Petrarca, che «senza onestà non fùr mai cose belle».

E in Carrara fu tentata la rivolta che fortunatamente non riuscì. Lo stesso Risorgimento ci dichiarò, che le popolazioni non aderirono all'insurrezione, e que' pochi che la promossero, vennero ben presto arrestati, o mossi in fuga. La cosa fu incominciata e finita nello stesso giorno, e tutto rientrò nell'ordine con una speranza di meno pei demagoghi, i quali incominciano a convincersi, che il 1848 non può tornar più per la grande ragione, che è già avvenuto una volta. E se gli uomini nuovi dimenticano la storia, non la sanno dimenticare le popolazioni, che vivono d'esperienza, e raccolgono perciò, ne' proverbi la loro dottrina.

Come adunque si vide, che la tentata monizione non era riuscita, i nostri giornali ministeriali si affrettarono ad addossarla all'Austria, od alla parte Mazziniana. L' Espero del signor Rattazzi disse, che i rivoluzionari di Carrara e di Massa erano agenti austriaci. Ma ne fu rimbeccato dall'Unione di Torino e dall'Italia e Popolo di Genova. Era di fatto un'assurdità tale, che non se ne intese mai una simile sotto la cappa del sole.

Se non sono però gli agenti austriaci, sono i Mazziniani, soggiunsero gli altri giornali del ministero, e incominciarono a deridere Mazzini ed i suoi. Si legga questa brano della Gazzetta del Popolo:

«La frittata mazziniana è stata realmente fatta, ma si fece qualche cosa di più: s'è fatto un fiasco solenne, ed è il millesimo uno, e non sarà l'ultimo, Gnché vi saranno illusi, che presteranno fede a certi altitonanti responsi, che emanano da una non so qual bottega (ormai screditata), che ha qualche rassomiglianza coll'antro di Trofonio.

«Vi dissi che stavasi preparando il pian terreno del manicomio, e mi pare di non aver detto un'eresia. Ma lasciamo le iperboli. Il nuovo tentativo mazziniano, concertato con tanta segretezza, che ne parlavano perfino le donnicciole, ebbe quel risultato che se ne poteva aspettare, e buon per quei poveri ingannati, che poterono riparare nel territorio del dinastico Piemonte, che altrimenti le loro teste avrebbero pagatolo scotto.

«Vuolsi che il quartiere generale dei 400 insorti fosse a Santerenzo, e che il Mazzini vi si trovasse sotto le spoglie di un padrone di fìluca di Lerici, ma è però positivo che non è marciato alla testa della banda che passò i confini.

«In verità che sono tali farse, da dare argomenti per un avvio al Fischietto, e se le conseguenze non fossero funeste, vi sarebbe a smascellar dalle risa.

«Persona giunta or ora da Sarzana racconta i fatti a un dipresso come vennero accennati dall'Opinione, solo fa ascendere il numero degli insorti a cento circa, molti dei quali dei nostri paesi confinanti col ducato estense, i quali ritornarono sdegnati ed inveleniti contro gli agenti di una certa setta, che avevano loro prometto mari e monti; circa una trentina erano stati arrestati dai nostri carabinieri senza che opponessero la menoma resistenza. Forse non sembrava loro vero di non essere caduti negli artigli

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dei dragoni (birri del duca), i quali non li avrebbero forse portati vivi a Carrara.

«A Sarzana starasi in grande ansia, ma la popolazione è stata tranquilla. Vi era giunta buona mano di bersaglieri, i quali avviavansi a vigilare i confini onde non venissero violati da chicchessia».

Queste parole fanno stomaco. La Gazzetta del Popolo riderebbe dei moti di Carrara, se avessero avuto un esito felice? Oh no, per davvero In che cosa dunque fa essa consistere là moralità? Nella riuscita soltanto. E questa dottrina è liberale e civile, o non piuttosto tristissima ed infame?

Noi diremo francamente chi cagionò i tentativi di Massa e Carrara. Non furono né agenti austriaci, agenti mazziniani. Furono invece agenti ministeriali; e Mazzini, se operò realmente in questa circostanza, fu ministerialissimo. Egli sostenne la nota verbale e la protesta del conte di Cavour nel Congresso di Parigi; egli obbedì alla parola d'ordine pronunziata dalla tribuna piemontese; egli cercò che non fosse smentito il vaticinio del ministero, che avea pronunziato una rivoluzione nella Penisola. I ministeriali che lo deridono, son perciò ingiusti ed ingrati. Tutti coloro che vennero arrestati in Sarzana, o sui confini, meritano la croce dei Ss. Maurizio e Lazzaro.

Il Risorgimento questa volta fa logico ed" onesto nel giudicare il tentativo. Esso lo riconobbe una conseguenza legittima della politica piemontese. L'Italia s'ha da liberare, egli disse: solo modo, una buona rivoluzione interna aiutata dal Piemonte. Se non si ammette un tale principio, tutto quello che fanno, i ministri non ha più né scopo né significato di sorta. Dunque, posto che Mazzini sia l'autore dei moti di Massa e Carrara, i ministeriali. debbono sapergliene grado, e dire ch'egli ha continuato l'opera della redenzione italiana incominciata da Camillo di Cavour nel Congresso di Parigi.

Le popolazioni è vero non corrisposero. Ma Mazzini non potea supporre tale e tanta indifferenza. I ministri non gli dicevano per mezzo dei loro organi che tutta Italia bolliva ed aspettava il segnale? Lorenzo Valerio non avea dichiarato che le parole del Presidente del Consiglio avrebbero ispirato coraggio ed audacia ai popoli, e quel coraggio e quell'audacia non istarebbero lungo tempo senza farsi sentire? Se Mazzini dunque si è ingannato, non lo deridete: compatitelo, e tanto più dovete compatirlo, perché l'avete ingannato voi.

Raccogliamo le fila: 4 L'attentato rivoluzionario di Carrara e Massa fu una conseguenza della politica e delle esortazioni del ministero piemontese; 2° Mazzini e Cavour non si possono ornai distinguere nel volere una rivoluzione in Italia, perché svanite le speranze nella diplomazia, debbono convenire amendue nella necessità d'una rivolta: 3° I giornali ministeriali sono necessariamente infinti nel disapprovare l'ultimo tentativo; 4 La sede della rivoluzione non è che in Piemonte, e solo dal Piemonte partono gli eccitamenti alla rivolta; 5° Le popolazioni anche più guaste della Penisola guardano i mestatori che cercano di levarle a tumulto, e non corrispondono ai tentativi; 5° Quanto i plenipotenziari sardi hanno asserito nel Congresso di Parigi è solennemente smentito dai fatti.

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INTERVENTO DEL PIEMONTE

NEL DUCATO DI MODENA

(Dall'Armonia, n. 177, 1» agosto 1856).

La stagione delle messi è giunta, ei nostri ministri raccolgono ciò che hanno seminato dopo il Congresso di Parigi. Essi si sono costituiti accusatori de' governi italiani, e patroni di tutti quanti i rivoltosi della Penisola, onde ne avvenne di necessità, che avessero la piena confidenza de' mestatori, e fossero in sospetto ed in ira ai governi legittimi.

Abbiamo toccato il primo punto nell'articolo precedente, dimostrando che gli attentati rivoluzionari di Carrara erano stati conseguenza naturale della politica del ministero. I demagoghi non si sarebbero mossi, oltrepassando i confini, se non avessero confidato nel soccorso del Piemonte, se quel soccorso non fosse stato promesso nelle Camere dallo stesso conte di Cavour.

Oggi diremo brevemente dell'altro punto: della diffidenza cioè che debbono avere del governo nostro gli altri governi d'Italia, e del dauno che ci recherà codesto essere stimati capaci di sinistre intenzioni.

Nella corrispondenza di Massa ducale, da noi pubblicata nel nostro numero di ieri, raccontavasi siccome il ministero piemontese avesse offerto al Duca di Modena due mila uomini di truppa per combattere la rivoluzione. Il governo estense ringraziava, dicendo di non averne bisogno, e di bastare a se stesso.

Se la cosa è vera, ci meravigliamo altamente che il ministero abbia. osato fare una simile offerta. Come? Vi dichiaraste a Parigi nemici e accusatori del governo di Modena, ed ora gli esibite la vostra mano per sostenerlo? Una delle due: o non foste verìdici allora, o non siete sinceri presentemente. Imperocché voi fate due parti, che cozzano fra loro. Se l'estense è buon governo, non dovevate gettarlo a lascio cogli altri d'Italia, e riprovarlo; se è tristo, non vi conviene dargli di spalla, e mantenerlo in vita.

Questo ragionamento è naturalissimo, e lo avrà fatto certamente il governo di Modena. Il quale ha rifiutato l'aiuto piemontese per non averne bisogno; ma l'avrebhe rifiutato egualmente qualora ne avesse abbisognalo, perché tutto dava a sospettare, che l'offerta fosse mossa da tristissimi fini. Noi vogliamo credere che le intenzioni sieno state onestissime; ma queste le conosce Iddio soltanto, laddove gli uomini giudicano dai fatti, e i fatti precedenti consigliano i governi italiani a considerare il piemontese come il loro più sfidato nemico.

Vaglia il vero. Nel 1849 s'esibì pure l'aiuto nostro al Santo Padre esule in Gaeta. Ma lo scopo n'era sincero? A que' dì il ministro di Napoli avvertiva il Pontefice, che il Piemonte, intromettendosi nelle cose dello Stato Pontificio, mirava ad impossessarsi delle Legazioni, e sebbene allora si protestasse altamente contro questa voce, più tardi si vide che era tutt'altro che una calunnia, quando il conte di Cavour con una temerità senza pari osò chiedere al Congresso di Parigi che sottraesse le Legazioni al governo della S. Sede.

Il Duca di Modena non avea egli il diritto di temere che se gli volesse recare

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un aiuto di questo genere? Dove i nostri avessero messo piede nel Ducato, se ne sarebbero partiti così facilmente? V ha un fatto che dice molto contro de' nostri ministri, ed è quello del principato di Monaco. Noi eravamo pure, in virtù de trattati, protettori del Principe, col diritto di tener soldatesca in casa sua per essere meglio apparecchiati a prenderne le partì. Ebbene, come usammo di questo diritto, e quale fu il valore del nostro patrocinio? Mentone e Roccabruna vi rispondono chiaramente.

Non dimentichiamo la scusa di questo fatto enormissimo, recata da Camillo di Cavour nel Congresso di Parigi. Là egli sorridendo disse, che i popoli di Mentone e Roccabruna non volevano più il Principe. Ma perché non avrebbe ripetuto lo stesso, affine d'incamerare il Ducato di Modena? Oh, i popoli si fanno parlare così facilmente, massime quando il potente trovasi faccia a faccia col debole!

L'offerta del nostro governo all'estense fu ridicola per quattro capi; 1 perché il Duca di Modena avea buono in mano da cavare il ruzzo dal capo ai rivoltosi; 2° perché questi rivoltosi medesimi erano partiti dal Piemonte, ed avevano avuto ricetto da quel governo che offeriva aiuto; 3° perché tutti i Principi italiani sanno ciò che il ministero nostro fece al Principe di Monaco, e dove andasse a parare l'aiuto che gli prestava; 4° perché è troppo fresca la memoria del brutto tiro, che il conte di Cavour tentò di fare al Papa nelle Legazioni.

Ci dicono, che il governo estense rìse del tentativo di Carrara, certo come egli è dell'affetto delle popolazioni. Ma sapete quando non ne avrebbe riso? Non ne avrebbe riso qualora i Rattazzi e i Cavour fossero volati in suo aiuto, e gli avessero accordato il loro patrocinio. Da quel punto l'affare sarebbe divenuto ben serio, perché di certa gente non è buona che l'inimicizia.

Frattanto noi possiamo essere persuasi che, come «i comportò il Duca di Modena, così si comporteranno col governo nostro gli altri Principi italiani. Essi temeranno il ministero subalpino, come temono i rivohizionarii; e finché non cangi politica, non sarà mai che ne accettino l'intervento. I fatti non possono contraddire alle idee, e queste essendo rivoluzionarie, rivoluzionario pure dee essere il soccorso. Accettarlo sarebbe un suicidio.

Ma per altra parte è ben doloroso, che i nostri ministri, in nome della unità italiana, abbiano gettato il Piemonte in tale isolamento, da farlo temere come il peggiore nemico d'Italia e de' suoi legittimi governi. Si raggiunse uno scopo diametralmente contrario a quello che s'intendeva; giacché, volendosi paralizzare nella Penisola l'influenza austriaca e sostituirvi la piemontese, s'ottenne invece, che i Principi italiani considerassero come loro leale confederato l'austriaco, e dichiarato avversario il Piemonte.

Ecco dovè ci condussero gli uomini nuovi Ecco la bella unità italiana che ci regalarono! li Papa, il Re di Napoli, il Granduca di Toscana, il Duca di Modena, si danno fraternamente la mano congiunti in un solo pensiero; ed il Piemonte sta solitario sulle Alpi tenuto in conto, non di forestiero soltanto, che sarebbe già molto, ma inoltre di nemico!


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E la parte sostenuta dai pieni potenziali sardi nel Congresso di Parigi a chi portò danno? Non certo ai governi italiani, che essi accusavano, i quali restano padroni in casa propria, e si ridono bravamente degli accusatori.

Ma invece recò danno a noi, che, obbligati "a ricercare la protezione straniera, non possiamo' godere dell'amicizia interna.

Che se voi foste sinceramente italiani, dovreste sentire tutto il peso di un simile castigo. Imperocché non si può dare né dolore, né onta più grande di quella, che tocca ad un membro della medesima famiglia, il quale è confinato alla porta, e tenuto continuamente in sospetto di attentare alla pace domestica.

I CENTO CANNONI PER ALESSANDRIA

(Dall'Armonia , n. 181, 6 agosto 1856).

«ALESSANDRIA per ora è come la parola d'ordine per gli Italiani, e il simbolo dell'Unione», grida oggi la Gazzetta del Popola (1). Ma la poverina, o ignara, o dimentica della storia nostra, non sa che Alessandria ci ricorda un PAPA, UN CONTENTO, UNA SCOMUNICA.

Un Papa. Alessandria piglia il nome da Papa Alessandro III, a cui gli Italiani la consacrarono» in riconoscenza del suo patrocinio. Federico Barbarossa, il Cavour de' tempi antichi, agognava al patrimonio di S. Pietro, e rompeva guerra indegna al Pontefice. Dolente che il Cardinale Bandinelle» fosse stato eletto successore d'Adriano, per ambizione politica tentava scindere l'unità cattolica, e ad Alessandro contrapponeva tre antipapi. Questi soprusi eccitavano l'indegnazione negli Italiani. Essi, che non si muovevano ancora ai lamenti de' Milanesi erranti di città in città, si mossero agli insulti recati al triregno. Que' nostri padri erano grandi, perché erano cattolici. Figli affettuosi, sentirono i dolori del loro beatissimo Padre, operarono prodigi di valore, si strinsero in lega, giurarono e mantennero un giuramento. Ma dove giurarono?

Un convento. Ecco la seconda memoria di Alessandria. Nel convento di Pontida gli Italiani deposero gli odii e le gelosie, e giurarono la lega.

(1) La Gazzetta del Popolo allude alla seguente lettera che leggevasi nel suo n° 477 del 26 di luglio 1856 (Vedi Armonia n° 473, settembre 5).

«Amico,

«Susa, 23 luglio 1856.

«Un'idea mi è venuta per la testa, mio caro Govean; tocche prova due cose: e che ho una testa, e che ho delle idee! Dite un po': a quel modo che si è aperta una sottoscrizione per un ricordo alle nostre truppe in Crimea, non si potrebbe egli aprirne un'altra per sussidiare il governo nella santa opera di fortificare Alessandria? Come vedete, lo scopo è lo stesso, trattandosi anche qui, non tanto di spremere ingenti somme dalle tasche degli oblatori, quanto dì dimostrare a chi di ragione che l'idea del generale La Marmora ha un'eco nella nazione tutta quanta, e in altri siti. Trattasi, insomma, di far cicare l'Austria. Ora figuratevi quanto non cicherà essa, quando veda che non solo il Piemonte, ma l'Italia tutta, ma le lontane Americhe, ed ogni popolo incivilito, portino la loro pietra a questo sacrosanto edificio 1 Oh l provate, vi dico, che sarà un bel ridere».

« Tutto vostro N. Rosa».

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In quell'inchiostro, che ricordava la santità delle promesse fatte in nome di Dio, i Veronesi, Vicentini, Padovani, Trivigiani, cogli altri popoli della Lombardia e della Romagna, si giuravano aiuto reciproco, compensarsi l'un l'altro dei danni che patissero a tutela della libertà, non soffrire che esercito tedesco scendesse in Lombardia, e ricuperare i diritti che possedevano a' tempi di Enrico III.

Il Barbarossa avea contristato il Vicario di Cristo, obbligandolo a rifuggirsi in Francia. Guai a chi cozza coi Papa! e guai a Federico! Alessandro nell'esilio vide i Re di Francia e d'Inghilterra camminare allato al suo cavallo, tenendogli le staffe, come noi vedemmo a' tempi nostri Francia, Austria, Spagna e Napoli stringerei intorno all'Esule di Gaeta, facendo a gara a chi potesse più presto rimetterlo sul trono pontificale. E poi Federico Barbarossa fu rotto nella pianura di Legnano, e non ne campò la vita, che nascondendosi sotto un mucchio di cadaveri. Ma con quali armi combatterono gli Italiani il feroce?

Una scomunica è la terza memoria, che ci ricorda Alessandria. L'esule Alessandro III mandava di Francia i suoi conforti e le sue benedizioni alla lega, e lanciava contro Federico la scomunica, in cui, come «Vicario di S. Pietro, costituito da Dio sopra le nazioni e i regni, assolveva gli Italiani e tatti dal giuramento di fedeltà, con cui a quello eran legati per l'impero o per il regno. Co 11'autorità di Dio proibiva, ch'egli avesse mai più forza nei combattimenti, o riportasse vittoria sopra i cristiani, o in parte veruna godesse pace e riposo, sinché non facesse frutti degni di penitenza».

E la scomunica operava i suoi meravigliosi effetti. Il l°di agosto del 1177 Federico serviva in Venezia da mazziere innanzi al Papa, allontanando «olla verga la folla, e dopo il Credo della Santa Messa, assolto dalla censura, andava a baciare il piede del Pontefice e Care l'offerta, e poi lo accompagnava per mano fino alla porta della chiesa, gli teneva la staffa, menandolo per la briglia fino al palazzo.

Qui raccontano storici accreditatissimi, che Alessandro III ponesse il piede sul capo all'umiliato Imperatore, esclamando: Super aspidem et basiliscum ambulabis et conculcabis leonem et draconem.

Or bene, voi dite: e Alessandria per ora è come la parola d'ordine per gli Italiani». Ma, di grazia, dove sta il Papa, che vi conforti e vi benedica? Dov'è il convento, entro cui vi sia dato rinnovare il giuro di Pontida? Chi pronunzierà la scomunica, che tante volte sbaragliò gli eserciti e fo' cadere le armi di mano ai soldati del primo Napoleone?

Voi siete divenuti oggidì gli eredi degli odii, degli insulti, delle calunnie, de soprusi, delle ingiustizie del Barbarossa. Voi tentate al pari di lui di rompere l'unità cattolica. Voi volete allontanare il Papa un'altra volta dalla sua sede, e ricacciarlo in esilio. Il successore di Alessandro IH non è con voi, ma voi per contrario siete contro Pio IX. È vostro studio amareggiare continuamente l'animo paterno di questo gran Papa. Siete divenuti (oh vergognai) ghibellini e Tedeschi, e i Tedeschi sono guelfi ed Italiani.

Sì, voi combattete il Papa, e l'Austria lo difende. Voi vi ribellate alla Santa Sede, e l'Austria si sottomette. Voi disprezzate Pio IX e l'Austria Io rispetta. E avete il coraggio di nominare Alessandria, e di parlare della Lega Lombarda? Se questa lega si potesse e dovesse stringere, gli altri Italiani la stringerebbero contro di voi,che raccolte le rancide

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leggi Giuseppine, le gettaste (coraggiosi davvero!) contro il trono pontificale.

E dov'è, o imbecilli, il convento di Pontida per riconciliarvi, riunirvi ed emettere il sacro giuramento? Andrete a giurare in Altacomba, che avete profanato? 0 nella Certosa di Collegno, che avete convertito in manicomio? 0 nel monastero di Santa Croce di Torino, ridotto ad ospedale militare? 0 nella casa dei Serviti d'Alessandria, che tenete vuota, per lasciar senza tetto que' poveri frati? 0 in altri conventi deserti di monaci, e abitati da gente, che noi ci vergogneremmo perfino di nominare?

La sola parola convento dice eloquentemente agli altri Italiani chi siete voi, che cosa volete, quale amore portate al popolo, che religione avete in cuore, come rispettate la legalità, gli statuti, la giustizia. Nei tempi delle gare intestine furono i frati che riconciliarono e riunirono l'Italia, i frati riamicarono i Milanesi in Parabiago; fra Venturino da Bergamo compose i popoli discordi della Valtellina e del Comasco; i Senesi fra Bernardino e fra Silvestre), chiamati in Milano, diedero assetto allo scompigliato governo. Fra Gherardo pacificò Modena; fra Latino, Bologna; e fra Bartolomeo da Vicenza istituì l'ordine militare di Santa Maria Gloriosa per mantenere in calma le città italiane.

Questi frati che tanto bene recarono alla patria, voi li avete spogliati, li tenete prigioni nel loro convento, li obbligate a spendere quell'obolo che loro lasciaste, per premunirsi davanti i tribunali contro le vostre ingiustizie. Essi piangono giorno e notte, e le loro lagrime, i loro lamenti ascendono quotidianamente al Cielo, e chiamano vendetta. E in mezzo a tanta desolazione voi ricordate il giuramento della Lega Lombarda, il convento di Pontida, la riconciliazione degli Italiani?

Imitate prima quei nostri padri. Essi fondavano i monasteri, e voi li distruggete. Essi largheggiavano di elemosine verso i frati, e voi li dispogliate. Essi ne udivano con riverenza la santa parola, e voi la volgete in ridicolo. Essi vestivano la cocolla, e voi ne usate per la caricatura. Essi erano cattolici, e voi siete atei. E l'empio è incapace di amare la patria, di sentire la forza del dovere, di stringersi in amicizia, di operare qualche cosa di buono. La pietà è utile a tutto, e gli Italiani non furono mai grandi se non quando furono pii.

E la scomunica! Qui pure vi vogliamo, o signori d'Alessandria, o fautori della nuova Lega Lombarda. Voi pigliate a gabbo le censure ecclesiastiche. Ma Alessandria vi dice che sono tante volte più efficaci di cento e di mille cannoni. La scomunica, come v'abbiamo insegnato, nel secolo XII trasse il Barbarossa in Venezia a' piedi d'Alessandro III, e i cento cannoni non impedirono nel 1849 che gli Austriaci entrassero vittoriosi nella cittadella di Alessandria. Noi vi citeremo migliaia di casi, in cui i cannoni non servirono a nulla, e intanto vi sfidiamo a citare un caso solo, in cui la scomunica tardi o tosto non producesse il suo effetto, a cominciare dall'incestuoso di Corinto fino a quella lanciata contro il Bonaparte e contro la repubblica Romana.

Insomma gli italianissimi, evocando le memorie d'Alessandria della Paglia, non (anno che confutare le opere loro. Volendo rompere guerra al Papato, hanno scritto sopra la propria bandiera una città che ebbe nome da un Papa. Non v'è gloria italiana a cui non vada congiunto il ricordo di un Pontefice, mentre i nemici

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dei Papi segnano l'epoca del nostro fatale scadimento e della nostra miseria. Ogni buon cittadino non pronunzia che con immenso dolore i nomi di Crescenzio, d'Arnaldo da Brescia, di Nicolo di Lorenzo, di Francesco Baroncelli, di Stefano Poreari. «1 Ghibellini antichi, scrisse lo stesso Gioberti, furono la causa principale della ruina d'Italia: i Ghibellini moderni continuano l'opera loro». Gli Italiani dei bassi tempi fiorirono di libertà, di commerci, di arti, di lettere, d'armi, e furono gloriosi mentre adoravano la paternità spirituale del primo cittadino italiano: ma col disprezzo di essa sottentrò la servitù. E la servitù del vizio, che è la pessima di tutte, si allargherà ancora, se non si ritorna alla religione antica. La vita, cioè la libertà, la potenza, l'unione, la civiltà di un popolo, dipendono dal vigore del suo spirito, e il vigore spirituale dell'individuo, dello Stato, della società in universale, ha le sue radici nella religione. Gli Italiani saran grandi quando saranno cattolici, quando saranno col Papa. Senza cattolicismo e contro del Papa non saranno che miseri, e peggio che miseri: Saranno ridicoli.






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