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MEMORIE PER LA STORIA de' NOSTRI TEMPI

DAL CONGRESSO DI PARIGI NEL 1856 AI GIORNI NOSTRI

SECONDA SERIE

TORINO,

STAMPERIA DELL'UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE

1864.

(2)

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IL RE DI NAPOLI E IL SUO GOVERNO

(Dall'Armonia, n. 188, 14 agosto 1856).

«Noi delle Due Sicilie abbiamo un torto, di cui ci tocca ogni giorno soffrirne i tristi risultati, quello di non manifestare coi mezzi della pubblicità quanto di bene presso di noi si opera.

Cantalupo, Sul progresso morale delle popolazioni napoletane. Napoli 1850, p. 30.

Come alla maggior parte de' giornali torinesi, così a noi pure venne spedito da Brusselle un foglio intitolato: Question italienne- A Mvlord Palmerston et Whigs premier memento. Les Siciles. Lo scritto porta la semplice data: agosto 1856. Lo scrittore promette altri memento, e concbiude dicendo a lord Palmerston: Nous vous dévoilerons prochainement.

Dobbiamo accettare con benefizio d'inventavo questa difesa del Re di Napoli. Vi sono certi tocchi che ci mettono un po' in sospetto. l'Italia e Popelo di Genova, che è giornale di Mazzi ni, ne ebbe le primizie. E poi difendendo il Re Borbone, s'accusa il Sommo Pontefice, e si giunge all'eccesso di mettere a fascio l'angelico Pio IX, con que1 monarchi e imperatori d'Europa, che hanno ordito de» piéges contre ce roi.

D'altra parte l'apologià del Re di Napoli va fino all'apoteosi. Egli è detto non solo le plus légitime et le plus ancien monarque sur te tròne; ma perfino le successeur du Christ. Coloro che infinocchiano così il Re Ferdinando, quantunque gè gli dichiarino amici e gli stieno a' fianchi, sono però i suoi più tremendi avversari. Meglio una nota ostile di Francia e d'Inghilterra, che una smaccata adulazione!

Però nel Memento di Brusselle vi sono alcuni fatti, e noi dobbiamo raccoglierli per presentarli ai nostri lettori. Li sommeremo insieme colle cifre che si leggono nel recente scritto del cav. Benedetto Cantalupo sul Progresso morale delle popolazioni napolitano.

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Nel regno delle Due Sicilie non si trovano debiti, non aggravi, non ladri. Le finanze napolitane sono le più prospere dell'Europa. Si reputano fortunati coloro che posseggono qualche cartella del Debito pubblico partenopeo, giacché si negoziano a L. 112 nelle borse principali. Non corre anno in Piemonte senza che si contraggano imprestiti; e il Re di Napoli non domanda mai danaro a nessuno!

Le imposte sono modicissime. L'isola di Sicilia non patisce l'imposta di sangue, che chiamasi coscrizione militare; ed essa non va soggetta ai più ordinari e comuni balzelli, come sono quello del sale, l'altro del tabacco, il terzo della polvere, e il quarto della carta bollata. In Piemonte non si possono scrivere due linee ufficiali ad un ministro senza spendere 50 centesimi pel bollo della carta!

Raramente avvengono grassazioni nel regno di Napoli, e i nostri giornali, che vanno sempre in cerca di calunnie contro l'amministrazione di quello Stato, non seppero ancora accusarla sotto questo rispetto.

Il cav. Cantalupo ci die la statistica criminale napoletana, incominciandola dal 1848, anno di vertigine e di suprema calamità per l'Italia. In quell'anno la cifra de' misfatti nel regno di Napoli fu spaventosa. Nel 1849 ascesero alla somma enorme di 18,855. Nel 1850 toccarono ancora la cifra di 18,826. Nel 1851 s'ebbe una grande diminuzione, e diminuì del diciottesimo il numero de' delitti dell'anno antecedente. Nel 1854 la diminuzione fu ancora maggiore, sebbene vi avessero cause straordinarie di delinquere: 1° nel caro del pane; 2° nell'invasione del colera; 3° nella guerra d'Oriente, che eccitava le passioni.

I magistrati napoletani amministrano la giustizia con attività e con coscienza. Eccone la prova. Nel 1854 si porse querela da privati, o da pubblici accusatori contro 27,181 individui. Ne furono condannati solo 5,767, e gli altri messi in libertà, in aspettazione di prove più ampie e di lumi maggiori.

Le cause solennemente discusse nel 1854 furono 5,010, e si udirono perciò 60,275 testimoni. Ciò dimostra come si proceda nelle condanne col calzare di piombo, e non si neghi all'imputato nessuna guarentigia.

Nel 1854 non vi ebbe neppure un caso di rimedio per ritrattazione. Eppure in quell'anno, osserva il cav. Cantalupo, i collegi di Francia e del Belgio, che sono tra i più reputati d'Europa, ne offerivano di strepitosi, ne' quali notatasi, che molti innocenti furono condannati a pene gravissime per falsi testimoni, o per falsi documenti. Tra noi nessuno ha ancora dimenticato il fatto dei coniugi Alessio prima condannati a morte, e poi rimessi in libertà!

Una gran piaga sociale è il duello, e il Piemonte ne deplora di molti, che per lo più restano impuniti. Anche in Napoli un giorno, per pretesti di verun conto, davàsi di mano alla spada. Il Re vi rimediò, pareggiando le offese in duello alle premeditate, rendendole di competenza ordinaria benché tra militari, e punendo i rei col laccio. Nel 1854 non vi fu un solo duello!

I delitti politici non mancarono; ma non mancò nemmeno la sovrana clemenza. Dal 1851 al 1854 il Re fé' grazia a 2,713. Delle 42 pene capitali, cifra totale delle condanne a morte pronunziate dalle grandi Corti,

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il Re ne commutava 19 nell'ergastolo, 11 a 30 anni di ferri; e 12 ad altre pene minori.

Per lo che, conchiude il cav. Cantalupo, consigliere della suprema Corte di giustizia, in Napoli verificavasi un fatto unico in tutta Europa, quello cioè di non esservi stata esecuzione capitale per reati politici. L'apologista di Brusselle dice su questo proposito a lord Palmerston: Savezvous que dans les Siciles rìest pas eonnue la mesure expéditive de la déportation, ni BotanvBay, ni Lambessa, ni Cavenne, et autres tombeaux semblables des vivants malheureux?

È opportuno qui osservare collo statista di Napoli, che dal 1830 al 1854, dacché regna Ferdinando 11, si distinsero sempre i reati politici semplici dai reati politici misti. Questa distinzione, che si è tanto dibattuta nella Camera Elettiva del Belgio in occasione della legge di estradizione, vigeva già nel regno di Napoli. Il Re «ha voluto decisamente, risolutamente, ed a qualunque costo che non si versasse il sangue umano per motivi di lesa maestà, quando questi reati, come nella causa di Rossaroll e complici, ed in altre di simile natura, non erano misti a reati di scorrerie armate, di omicidio di altri attentati comuni».

Quanto ai reati comuni il Re di Napoli dal 1851 al 1854 ha fatto 7,181 grazia, che sommate colle grazie pei reati politici danno un totale di grazie regie di 9,894. Ed è questo il Re tiranno!

Passiamo ad altro. Noi Piemontesi abbiamo una prova lampante dello stato delle scienze e della condizione degli studi nel regno di Napoli. Re Ferdinando ci ha mandato i migliori professori della nostra università. Scialoja, Mancini, Melegari, Ferrara, appartengono al Re di Napoli, e furono educati sotto quel governo, che si accusa di favorire le tenebre e l'ignoranza.

Chi scrive i nostri diari? Sono in massima parte gli emigrali napolitani, che hanno preso le redini del Piemonte, e vi formano l'opinione pubblica. I Piemontesi, diciamolo a nostra somma vergogna, obbediscono ed imparano, o fanno mostra d'imparare. Ma intanto, chi ha formato i nostri maestri? È re Ferdinando. Egli ha dato avvocati al nostro foro, professori alle nostre scuole, pubblicisti ai nostri giornali!

L'apologista di Brusselle scrive: «I primi uomini di Stato d'Italia si consacrano alla politica di re Ferdinando. Filangeri, duca di Satriano, il figlio di Gaetano, la prima spada, la più vasta capacità amministrativa d'Italia; i Principi di Carini, di Castelcicala, di Fortunato, di Antonini, di Serracapriola, per ogni maniera di ragioni hanno dato e danno all'Europa diplomatica lezioni di sapere e d'ardimento governativo».

E la beneficenza? Quando il terremoto di Basilicata gittò quelle genti nella desolazione, il Re e la Regina diedero del proprio 10m. ducati; i ministri e i loro dipendenti 21m. ducati, e gli altri ne seguirono gli esempi, e le obblazioni ascesero a 142m. ducati.

Quando la carestia afflisse il regno di Napoli, come gran parte d'Europa, furono per tutto lo Stato aperti forni di

panificazione, commessi in Odessa carichi di grano, e proibita l'esportazione all'estero dei generi necessari alla sussistenza.

Quando il lavoro mancava al popolo, si ordinarono lavori pubblici, e nel solo anno 1854 si spesero 3,556,670 ducati in opere di pubblica utilità militari ed idrauliche.

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E l'esercito? «Il primo esercito italiano, risponde l'apologista di Brusselle, è l'esercito delle due Sicilie, riordinato con vent'anni di lavoro da Ferdinando II. Dopo le antiche legioni romane, giammai l'Italia non ebbe un esercito così numeroso, e nello stesso tempo così ordinato ed istrutto.

La prima flotta, dopo la flotta francese, che veleggi nel Mediterraneo e nell'Adriatico, venne interamente creata dallo stesso Re».

Questi sono fatti e non parole. Il Risorgimento di ieri va a cercare chi sia l'autore della difesa del Re di Napoli partita da Brusselle. È ricerca inutile. Dovrebbe invece adoperarsi per ribattere tutte le cifre e tutte le verità che ci vennero accennate.

Provi, che in Napoli v'è una stampa empia e rivoluzionaria come la nostra. Provi, che non sieno Napoletani coloro, che presentemente illuminano il Piemonte. Provi, che il governo di Napoli viva d'imprestiti come noi. Provi, che obbedisca a Francia e Inghilterra come noi; che abbia venduto il suo commercio agli Inglesi come noi; che abbia dovuto accettare gli Austriaci nelle sue fortezze come noi; che tenga in permanenza le forche come noi; che abbia tanti ladri come noi; che trascuri così poco il popolo come noi. Attendiamo dal Risorgimento questa importantissima dimostrazione.

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A pag. 35 del primo quaderno di queste Memorie tra le tribolazioni della Chiesa in Piemonte venne ommessa la legge del 29 di maggio 1855 pubblicata negli Atti Ufficiali del Governo, n° 878 pag. 741, la quale dice: «Cessano di esistere quali doti morali riconosciuti dalla legge civile le case poste nello Stato degli Ordini religiosi, i quali non attendono alla predicazione, all'educazione, od all'assistenza degli infermi» . Secondo questa legge moltissimi Ordini religiosi doveano essere conservati, e furono distratti per volontà de' ministri.

L'art. 4° diceva: «I beni ora posseduti dai corpi ed enti morali verranno applicati alla Cassa Ecclesiastica da stabilirsi». La Cassa Ecclesiastica fu stabilita, ma il deputato Angelo Brofferio il 30 aprile 1858 osservava alla Camera: «Una volta avevamo i Frati, ma almeno non avevamo la Cassa; ora abbiamo la Cassa ed abbiamo i Frati. È un po' troppo! ( Ilarità prolungata) Atti Ufficiali della Camera, n° 183, pag. 693. - Lo stesso Brofferio parlando della stessa legge avvertiva: e Una legge che in due anni ha prodotto più di 600 liti, che razza di legge può essere?» (loc. cit. ). E il deputato Borei la nella stessa tornata chiamava la medesima legge ambigua, equivoca, diplomatica.

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RE PER LA GRAZIA DI DIO

O RE PER LA GRAZIA DEL POPOLO?

(Pubblicato il 7 settembre 1859).

I.

A Milano apparve testò un nuovo giornale popolare intitolato la Bandiera Italiana, il quale, nel suo secondo numero del 2 di settembre, venne fuori con una proposta relativa al nome del nostro Re ed ai titoli che dee prendere negli atti pubblici. Eccone le parole:

«Sarebbe ingiusto ed impolitico che lo Stato, aumentato di pili del doppio, continuasse ad appellarsi Regno Sardo. Casa Savoja, che prima era soltanto ducale, diventò regia coll'acquisto della Sardegna; se pur non avesse quest'isola, ora l'annessione di Lombardia, di Toscana, di Romagna, di Parma e di Modena, non basterebbero a fare una Gasa Reale? Equal altro titolo si potrebbe dare al nuovo Stato se non quello di Regno d'Italia? Senza risalire ad Arduìno e a Berengario, Napoleone I non prese egli questo titolo, senza avere neppure la Toscana?

«E per tramandare in perpetuo la santa origine e l'indole democratica del nuovo Stato, noi domandiamo (e speriamo essere appoggiati nella nostra domanda da tutto il giornalismo italiano) noi domandiamo che Vittorio Emanuele, dal momento che accetterà la fusione, si intitoli solennemente in tutti gli atti pubblici:

RE D'ITALIA PER LA GRAZIA DI DIO E DEL POPOLO.

Su di un punto noi siamo pronti ad appoggiare la Bandiera Italiana, e concorriamo con lei nell'avviso che in tutti gli Atti pubblici s'abbia a dire: Re per la grazia di Dio. Fino a mezzo il 1854 questa denominazione fu presa dai nostri Re; ma poi per una deliberazione del Parlamento venne abbandonata, ed oggidì negli Atti pubblici non si parla più della grazia di Dio.

Eppure la sovranità non può venire che dal Cielo, e lo ammettono perfino coloro che professano la dottrina del popolo sovrano. Un solo ha potuto dire: È data a me ogni podestà in Cielo ed in terra, ed egli solo può dispensarla a chi più gli piace.

La ragione istessa così insegna, e tale fa la persuasione universale anche de' pagani. Callimaco cantava che i Re vengono da Dio, e Omero li chiama replicatamente figli di Dìo, e Tacito nel terzo degli Annali dichiarava: Prineipes imperium a Deo habent.

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Il P. Gioachino Ventura nella sua ultima opera pubblicata in sul principio di quest'anno col titolo: Saggio sul potere pubblico, ha raccolto le testimonianze della Sinagoga, della Chiesa e dell'intera umanità sull'origine divina del potere.

Egli prova che a' tempi di Salomone era comune non solo nella Palestina, ma pure nell'Asia e nell'Africa, la credenza esser Dio solo che faceva i Reì come scriveva Iram, re di Tiro, e la Regina di Saba.

Plutarco chiamava il Re l' imagine viva di Diot e Plinio nel suo Panegirico di Traiano dichiarava che i Principi vengono da Dio, che li costituisce suoi vicarii presso il genere umano: Principem dai Deust qui erga genus humanum vice sua fungitur.

Secondo Diodoro di Sicilia, gli Egiziani credevano che i Sovrani ottenessero la suprema autorità per intervenzione divina. Gli Assiri e i Medi, a detta di Filostrato, adoravano la sovranità; e Sallustio ci attesta che presso tutti i popoli d'Oriente era santo il nome del Re.

I quali principii predicati dagli Apostoli vennero poi confermati dai Padridella Chiesa; e Tertulliano chiamava l'onore al Re reUgio secundae maieslatis;e S. Ireneo dicea: terrenum regnum positum a Deo; e S. Gregorio di Nazianzoavvertiva un imperatore cristiano, che governava l'impero con Cristo, e che daIvi aveva ricevuto la spada.

La ragione medesima, abbiamo detto, prova l'origine divina del potere. Se la società è una istituzione divina, perché Dio ha creato l'uomo sociabile, non dee dirsi divino anche il potere per cui la società sussiste?

Il Re che cosa rappresenta nello Stato? Il grande ufficio della paternità. Imperocché gli Stati non sono che ampie famiglie, e il Re ne è il capo ed il padre. Ora la paternità non può venire che da Dio, padre universale, creatore di tutto;e non s'è inteso mai assurdo peggiore di quello che sostiene essere i figli che formano il padre!

Finalmente il diritto di vita e di morte che riconoscono nel Re anche coloro che ammettono i principii òeV ottantanove, il diritto di grazia che gli riservano, sono confessioni implicite dell'origine divina del potere.

Questa dottrina è nel cuore medesimo dell'uomo, e tutti sentono che chi offende il Re, chi l'insulta, chi si ribella alla sua autorità, chi lo spoglia, non solo commette un atto di fellonia, ma un sacrilegio, perché il Re è cosa sacra, perché egli non può venire che da Dio.

Ed è utile ai popoli ed ai Re che questo sia predicato; perché gli unì non abusino della propria autorità, e gli altri la rispettino; giacché sarebbe eguale sacrilegio ribellarsi all'autorità di Dio, e abusare di quel potere che Dio ha concesso.

I liberali mostrano tanto impegno onde nelle chiese sia recitato l' Oremus pel Re. Ora in questo si dice apertamente che Vittorio Emanuele II è Re per grazia di Dio, e che per divina misericordia mscepit regni gubernacula. Perché dunque non ripeterlo negli atti pubblici? Lo scrive Napoleone III, e perché non!o scriverà il nostro Sovrano?

Dunque su questo primo punto andiamo d'accordo colla Bandiera Italiana, e stimiamo che debba tornarsi all'antica denominazione dicendo Re per la grazia di Dio.

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Ma s'avrà egli ad aggiungere anche per la grazia del popolo? Sarebbe un pleonasmo ed una contraddizione: forse che la grazia di Dio non basta? E dopo la grazia di Dio è necessaria la grazia del popolo? Ritorneremo un'altra volta su questo punto, mostrando quanto sia falso, ridicolo, assurdo, fatale il principio di coloro che vogliono i Re nati dal popolo.

II.

La Bandiera Italiana, giornale che si pubblica a Milano, ha proposto, che il nostro Re s'inscriva negli atti pubblici: Re per la grazia di Dio e per la grazia del popolo. Noi in un articolo precedente abbiamo approvato la. formola Re per la grazia di Dio, smessa da cinque anni; ma in questo riproviamo solennemente la seconda parte: Re per la grazia del popolo.

E dapprima chiediamo, perché tale novità nella dinastia di Savoia? Essa regnò per nove secoli, amata bensì da' suoi popoli, ma non in grazia di loro. E perché dovrà mutare stile oggidì, e dichiarare che riconosce dall'elastica parola popolo tutta la sua autorità?

Finora si diedero molte lodi a Carlo Alberto, che nato sovrano - fratello si f$ come dice una canzone: ossia che partecipò al popolo una parte della sua sovranità, promulgando lo Statuto, e chiamando i cittadini ad eleggere i proprii legislatori. Ma perché la Bandiera Italiana vuoi oggi invertire le parti, e stabilire che non è il Re, il quale abbia chiamato il popolo all'esercizio d'una parte della sovranità, ma il popolo che ha fatto sovrano il Re?

E poi, volete scrivere negli atti pubblici un'assurdità? Dire Re perla grazia del popolo è un solennissimo assurta. La quale proposizione saprà male ai libertini, ma noi ci affretteremo a provarla colle ragioni è colle parole di Gioberti, a cui testé s'è elevata una statua in Torino.

«Che l'uomo faccia un sovrano, scrive Gioberti, è tanto assurdo, quanto che il figlio generi il padre, e la causa nasca dall'effetto i. Che cosa direbbe la Bandiera Italiana se in una famiglia i figli imponessero al padre d'intitolarsi padre per la grazia de' figliuoli? Forse che i figli potrebbero a meno di non riconoscerlo per padre?

«L'effetto, sogginnge Gioberti, non può fare la causa; ma l'uomo è effetto del sovrano; dunque l'uomo non può fare il sovrano». II sillogismo è preciso. E oserete dire che quel filosofo, a cui innalzaste un monumento, sbagliasse la maggiore, la minore, o la conseguenza?

«Acciò l'uomo creasse il sovrano dovrebbe essere tale egli stesso, niuno potendo dare ciò che non possiede». E chi vorrà asserire che l'uomo sia sovrano? E se non è sovrano un uomo, lo saranno due, tre, cento, mille, un milione d'uomini?

«Il sovrano è autonomo rispetto ai sudditi, e se ricevesse da loro l'autorità sua, non sarebbe veramente sovrano; poiché i titoli ripugnerebbero alla sua origine». Dunque la formola Re per la grazia del popolo involge contraddizione ne' termini; perché la parola Re esclude la grazia del popolo; e la grazia dei popolo ripugna colla parola Re.

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«La sovranità non può scaturire dai sudditi, ma vuoi nascere da un altro sovrano, finché si giunga alla sovranità assoluta», cioè a Dio. Epperò quando si è detto Re per la grazia di Dio, non s'ha più da aggiungere sillaba, restando completamente determinato il fonte, la regola e lo scopo della sovranità.

«Ogni sovranità attuale deriva da una sovranità anteriore, e questa da un'altra, finché si giunga di mano in mano all'origine divina (1)». Il figlio d'un re è sovrano perché è succeduto al padre; il padre fu sovrano perché succeduto all'avo, e così di mano in mano finché si arrivi allo stipite che fu re per grazia e volontà di Dio.

Avverta bene la Bandiera Italiana, che tutti questi argomenti non sono nostri, ma li abbiamo imparati ieri ad uno ad uno in piazza Carignano dalla statua del sommo filosofo

E insieme colle precedenti ragioni abbiamo imparato in piazza Carignano di molte altre importantissime verità, che sarà utilissimo inculcare in questi gravi momenti.

Abbiamo imparato che «quando un popolo è civilmente costituito, egli non è più padrone di mutare radicalmente e sconvolgere il suo stato politico per vie tumultuarie e violenti». E questo vorremmo che fosse predicato a Bologna, a Modena, a Parma ed altrove.

Abbiamo imparato che e il violare la signoria stabilita sarebbe un disordine assai maggiore di ogni bene che se ne potesse ottenere; imperocché la sovranità civile essendo la base del vivere comune, da cui ogni altro bene dipende, vien meno se può violarsi da' suoi vassalli». Colle quali parole il sommo filosofo dall'alto del suo piedestallo di piazza Carignano fulmina i Bolognesi, i Modenesi, i Parmigiani, ecc.

Abbiamo imparato che la sovranità è inviolabile, e che, e se si ammette un solo caso in cui la rivolta contro il sovrano sia lecita, si distrugge l'essenza della sovranità stessa; oltre che, lasciando all'arbitrio di ciascun privato la facoltà di giudicare in pratica, quando si verifichi tale eccezione, ai apre la via ad infiniti disordini». Ottima ragione anche questa che noi vorremmo infondere nelle teste dittatoriali dei Farini, Ciampini, Manfredi e compagnia.

Abbiamo imparato che e l'obbligazione verso il sovrano deve essere assoluta, altrimenti è nulla. Quindi ne nasce quello stoicismo politico che interdice in ogni caso la ribellione contro gli ordini stabiliti». Capite? In ogni caso.

Abbiamo imparato «che un popolo essendo popolo in virtù della sua organizzazione sociale, non può insorgere contro di essa, senza rendersi micidiale di sé, e cadere nell'anarchia, ultimo e sommo degli infortuni civili; la quale, ancorché altri la voglia corta ed innocente, può divenire lunga e sanguinosa; non essendovi uomo al mondo che possa promettersi di misurare e signoreggiare a suo senno gli effetti di un subito e impetuoso rivolgimento».

Abbiamo imparato che, come diceva l'apostolo San Paolo, la podestà è ordinata e procede da Dio.

(1) Introduzione allo studio della filosofia. Capolago 1846, cap. VI, art. 6°, pag. 89, 90, 92, 93.

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«Dove avverti che vengono espresse le due doti del potere legittimo; per l'una delle quali è ordinato, cioè organico; per l'altra divino (1)».

Tutti questi insegnamenti escludono il Re per la grazia del popolo, principio che «fu provato assurdo più volte dai discorsi dei savi e dalle esperienze dei popoli, e non può esser tenuto per valido da chi non si risolva a dismettere affatto i documenti della storia e della pratica, i precetti della religione, i principii della soda filosofia, i progressi della scienza politica, e a ripetere i sofismi vieti e puerili del Rousseau, avvalorandoli coi prestigi! della fantasia, e colle passioni della moltitudine (2)».

I documenti della storia sono il principale argomento contro la pretesa sovranità del popolo; imperocché questi c'insegnano dove riuscisse in Francia tale sovranità sotto il regno dell'ottimo Luigi XVI.

Il popolo è sovrano, diceasi allora. «V'ha un principio, declamava il conte d'Anlraigues, il 2 di settembre del 1790, v'ha un principio, che dee servirci di guida in tutte le nostre discussioni. Ogni autorità risiede nel popolo, ogni autorità viene dal popolo, ogni potere legittimo emana dal popolo».

E questo popolo sovrano ha esercitato il suo potere nelle giornate del 14 luglio, del 6 e del 7 di ottobre del 1789, del 10 di agosto, del 2, del 3, del 4 di settembre del 1792; l'ha esercitato contro Luigi XVI, divenuto re per la grazia del popolo, contro Napoleone I, contro Carlo X, contro Luigi Filippo, contro diciotto o venti governi, che si succedettero in Francia dopo la proclamazione della sovranità popolare.

Noi disapproviamo pertanto non solo la proposta in sé della Bandiera Italiana, ma anche l'averla fatta in questi momenti, in cui, essendo tale e tanta l'unione tra popolo e re, era, per dir poco, inopportuno sostenere che l'uno sia re per grazia dell'altro. E siccome ci par di vedere in Lombardia il principio democratico levar la testa, così abbiamo creduto debito nostro di stenderci alquanto su questo punto, dettando questo e il precedente articolo.

(1) Introduzione, ecc, toc. cit. , pag. 445, 447.

(2) Essendo noi fatti segno alle intolleranze libertine, dobbiamo il più delle volte parlare colle parole altrui, e così nei nostri articoli ci serviamo e ci serviremo spesso di citazioni, massime di quelle del Gioberti, che non ammettono replica, poiché gli venne elevato un monumento.

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IL PAPA, L'ASSEMBLEA DI BOLOGNA

LA GAZZETTA PIEMONTESE

(Pubblicalo il 41 settembre 1859).

La così delta Assemblea di Bologna il 5 di settembre pronunziava all'unanimità «che i popoli delle Romagne, rivendicato il loro diritto, non vogliono pia governo temporale del Papa» e la nostra Gazzetta Piemontese s'affrettava a pubblicare questa dichiarazione con tutti i considerando che la precedono.

Noi crediamo che il nostro sia il solo foglio officiale in Europa che abbia dato questo gravissimo scandalo di pubblicare con evidente compiacenza le sentenze di morte politica, proferite contro i Sovrani d'Italia. Quando muore un re o un parente di re le Coiti pigliano il tutto, e non sarebbe soverchio il pretendere che in circostanze analoghe, quando i re Bono cacciati, esautorati, infamati, almeno i fogli officiali serbassero il silenzio.

E v'aveano molte ragioni che consigliavano alla Gazzetta Piemontese di tacere: 4 Perché la sentenza di Bologna era doppiamente sacrilega, in quanto offendeva la sacra maestà di un Re, e contristava la santità di un Papa; 2 Perché essa era figlia della più nera ingratitudine, e veniva proferita in una città prediletta a Pio IX, e tanto da lui beneficata; 3 Perché prima di pronunziarla coloro che governano Bologna stiparono la città d'armi e d'armati, tennero il popolo tra le tenebre, e non lasciarono penetrare nelle Romagne che quel giornalismo, che è venduto alla rivoluzione e ne sostiene la causa.

Due anni fa, nel giugno del 1857, il cav. Carlo BonCompagni, quest'uomo che ebbe il compito doloroso d'incoronare quasi tutte le vittime della presente rivoluzione, recavasi in Bologna, e inginocchiato a' piedi del Papa, come rappresentante del nostro governo, Io salutava Pontefice e Re. Ed oggi quegli uomini stessi, che spedivano il BonCompagni a Pio IX, tanno registrare sul foglio officiale la sua esautorazione!

Ma dichiarando che questa fu pronunziata all'unanìmità, indicano abbastanza in qual conto si debba tenere. Imperocché mentre negli altri casi l'unanimità del voto aggiunge forza al medesimo, nel nostro lo rende assurdo e ridicolo.

Non è molto le Romagne, e principalmente Bologna, accoglievano Pio IX con ogni dimostrazione di festa e di riverenza. Ed ora volete dirci che tutti quegli applausi fossero ipocrisie, e che il Papa non conservi più un solo amico, dove, nel 1857, riscuoteva tanti omaggi ed un così affettuoso ossequio? Ma allora che cosa significa il voto del popolo?

Questa unanimità è prova che l'Assemblea non rappresenta né Bologna né le Romagne, ma solo la rivoluzione, la quale è davvero unanime nell'odiare il Re ed il Pontefice.

Questa unanimità è prova che il paese non prese parte alle sacrileghe votazioni, ma lasciò i mestatori operare a loro talento, serbando un contegno puramente passivo, e rimettendosene alla giustizia di Dio.

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Questa unanimità è prova che la libertà manca, perché nelle grandi e radicali questioni NON MAI, notate bene la parola, non mai furono unanimi i voti delle Assemblee quando furono libere.

Ma esaminiamo un po' i considerando della così detta Assemblea di Bologna. Tre sono i principali: il consenso de' popoli, la moltiplicità delle insurrezioni, l'occupazione straniera.

I popoli delle Romagne furono nel 1845 senza il loro consenso posti sotto il governo temporale Pontificio» E di quali popoli fu chiesto il consenso in quell'anno? Forse di que' posti sotto il governo di Francia, d'Austria, di Prussia,di Russia, d'Inghilterra, di Sardegna? Ammettete dunque che tutte queste nazioni ed altre ancora, alle quali non fu chiesto il consenso, possano ribellarsi alla loro legittima autorità?

Ma la storia smentisce l'asserzione della sedicente Assemblea di Bologna. Le feste fatte a Pio VII reduce ne' suoi stati, e l'Orazione di Pietro Giordani per le Legazioni riacquistate provano che il governo temporale Pontificio nel quindici fu ristorato con grande soddisfazione delle popolazioni.

La storia delle Romagne d'allora in poi fu una dolorosa vicenda di rivoluzione e di reazioni. Vedete come ragionano costoro! Prima promuovono le sommosse, e poi ne traggono argomento per giustificarle!

Ma se questa ragione valesse nelle Romagne, varrebbe molto più in Francia, dove, dopo i principii dell'ottantanove, le rivoluzioni si avvicendarono in una maniera assai più spaventosa, e meglio di venti governi si succedetteio in seguito ad altrettante guerre intestine!

Questi principii medesimi, recati dalla Francia nelle Romagne, vi produssero que' molteplici attentati, per cessare i quali non si bada esautorare il governo, non separarlo, non dividerlo, ma fortificarlo.

Il Papa abdicò la sovranità, invocando l'aiuto dell'Austria, per la conservazione dell'ordine. Questa ragione dimostra, che dopo le Legazioni si vuoi togliere al Papa anche Roma, e dopo l'Austria verrà la volta della Francia.

Ma Pio IX, invocando l'aiuto delle armi cattoliche, non abdicò la sovranità, sibbene l'esercitò; l'esercitò come Cavaignac nelle giornate di giugno, l'esercitò come Luigi Napoleone il 2 dicembre; l'esercitò proteggendo i suoi popoli contro i sommovitori, l'esercitò coll'aiuto de' cattolici che sono pure i suoi figli, perché il Principe della pace non tiene al suo soldo le numerose schiere della Francia e dell'Austria.

Voi vedete che i considerando dell'Assemblea di Bologna sono i luoghi comuni di tutti i rivoluzionari, e se Victor Ugo, Felice Pyat, Luigi Blanc e compagnia domani si potessero costituire in Assemblea a Parigi, li ripeterebbero uno ad uno contro l'Imperatore Napoleone III, dicendo che abusò della forza delle armi, che corruppe il popolo, che infierì colla reazione, e cose simili.

Ma una solenne contraddizione noi troviamo nei considerando dell'Assemblea di Bologna, uno dei quali dice che il governo pontificio portò nelle Romagne pervertimento del senso morale delle popolazioni. Come mai? Invocate il suffragio delle popolazioni, e dichiarate che il loro senso morale è pervertito?

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Vi dite gli eletti del popolo, e tacciate di pervertimento questo popolo stesso? Qui v'é una confessione; voi sentite d'avere il popolo contro di voi, sebbene parliate in suo favore, epperò lo accusate di pervertimento morale.

Noi non ci cruciamo gran fatto ne delle decisioni dell'Assemblea di Bologna, né del patrocinio che trovano nella Gazzetta Piemontese. Le Romagne resteranno del Papa, e sotto il Papa, e una parola di Pio Nono, una sola parola basterà a riacquistarle.

Ricordi la Gazzetta Piemontese, e ricordino con lei tutti gli altri fogli, che il 12 di febbraio del 1848, un giornale di Bologna, Felsineo, scritto forse da coloro che ora dichiarano di non volere pili governo temporale del Papa, esclamava: i Oh se il generoso e magnanimo Pio levasse la voce e chiamasse al suo tribunale i potenti della terra, e domandasse conto delle opere loro! Se loro mostrasse la legge evangelica e dicesse che il codice è un solo, ed uno per tutti, tanto pei piccoli chepei sommi, tanto pei popoli che pei Rei Se mostrasse che non vi può essere una legge di giustizia per gli individui ed un'altra per la politica delle grandi nazioni! Se questo facesse Pio Nono, quale rivoluzione stupenda non recherebbe in Europa! t

E quando sarà giunta l'ora, Pio Nono parlerà e chiamerà al suo tribunale la sedicente Assemblea di Bologna, e le domanderà conto delle sue opere. Dirà ai Sovrani che il codice è un solo, ed uno per tutti, tanto pei piccoli che pei sommi, e così vale spodestare un piccolo Principe, come un grande Imperatore. Dirà, che chi spoglia gli individui pecca, e pecca molto più chi spoglia un Re ed un Papa. Dirà ciò che suoi dire Pio Nono, ispirato da Dio, e vedrete allora che rivoluzione stupenda non recherà in Europa!

IL PASSATO, IL PRESENTE E L'AVVENIRE D'ITALIA

SECONDO IL MONITEUR

(Pubblicato il 43 settembre 1859).

Pubblichiamo il testo nell'articolo sulle cose italiane, stampato dal Moniteur di Parigi, il 9 di settembre. Il telegrafo non ce ne trasmise che un piccolo sunto, ed è bene averlo sotto gli occhi per intero.

Quest'articolo ha l'importanza d'un documento storico pel passato, e d'un vaticinio per l'avvenire. Esso rivela dapprima le cause gravissime, che provocarono la pace di Villafranca, e dice a quegli Italiani che tengono questo trattato in conto di sventura, che dovrebbero considerarlo come un segnalato benefizio.

Nel luglio passato le probabilità della vittoria erano sottosopra eguali per l'esercito francosardo e per l'austriaco; e Napoleone trovavasi alla vigilia di ritirare le sue truppe dalla riva dell'Adige per guidarle sul Reno. A vece di aiutare l'Italia, stava per essere costretto a difendere la Francia.

Non volendosi esporre a questo cimento, né spendere ancora trecento milioni e il sangue di cinquanta mila soldati, offrì all'Imperatore d'Austria la pace, e l'ottenne a ottime condizioni.

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«Non è certamente, bisogna riconoscerlo, senza un sentimento di profonda simpatia, che l'Imperatore Napoleone vide con quanta franchezza e risoluzione l'Imperatore Francesco Giuseppe rinunziava nell'interesse della pace europea» alla Lombardia, e ad una politica pericolosa forse, ma non senza gloria.

Ecco dunque il passato descritto dal Moniteur. 1° Dubbiezza di nuove vittorie; 2° probabilità di un'invasione in Francia; 3° pericoli che correvano in Italia i paesi conquistati, 4° necessità della pace; 5° bontà e larghezza di questa; 6° simpatia profonda tra l'Imperatore Francesco Giuseppe e l'Imperatore Napoleone 111; 7° meriti del primo per la pace europea; 8° lodi della passata politica austriaca in Italia, dangereuse peut étre en tout cas non dépourvue de gioire.

Quanto al presente abbiamo dall'articolo del Moniteur grandi lagnanze sugli uomini che tengono in pugno i destini d'Italia; e perché non vi fosse luogo ad equivoco, poche linee dopo il diario officiale del governo francese soggiunse che è il Piemonte, il quale rappresenta più particolarmente la causa italiana. Dunque la Francia è scontenta de' ministri piemontesi.

E perché? Perché questi non badano all'avvenire della patria comune; sono dì viste meschine, d'idee ristrette, e si tengono paghi di piccoli trionfi parziali. Di sotto mano fanno la guerra all'Imperatore dei Francesi, si oppongono ai patti ch'egli ha stipulato a Villafranca, e mentre dovrebbero svolgerne le conseguenze, mettono tutto il loro studio nell'attraversarle.

Avrebbero dovuto per amor di patria entrare in franchi ed amichevoli negoziati coll'Imperatore d'Austria, e invece continuano ad averlo in uggia; avrebbero dovuto favorire il ritorno degli Arciduchi in Modena ed in Toscana, e invece lo combattono, e cercano di rènderlo sempre più difficile; avrebbero dovuto contentarsi dell'auménto considerevole del Piemonte, e dar opera allo Stabilimento della Confederazione Italiana, e invece o l'odiano, o la deridono, o la trascurano.

Ecco dunque il presente d'Italia secondo il Moniteur: 1° ministri miopi che non veggono più lungi d'una spanna; 2° ministri egoisti, che pospongono il bene comune ad un vantaggio parziale; 3° ministri ingrati, che attraversano l'opera di Napoleone III, che li ha sì generosamente favoriti; 4° ministri antiitaliani, che si oppongono al vero bene della Penisola; 5° ministri antipiemontesi, che mettono a rischio i guadagni e le sorti dello Stato.

Passiamo all'avvenire. II Moniteur lo prevede assai tristo. L'Imperatore d'Austria, inquiÉtato da dimostrazioni ostili sulla destra del Po, si manterrà in istato di guerra sulla sinistra; e invece d'una politica di conciliazione e di pace, ai vedrà rinascere una politica di diffidenza e di odio, che apporterà nuovi tumulti e nuove disgrazie.

Perciò alla guerra passata, tardi o tosto succederà nuova guerra; e il Piemonte che ebbe già i soccorsi della Francia, non può sperarli una seconda volta, perché la France a accompli sa tache. E la Francia è la sola Potenza in Europa,che faccia la guerra per un'idea. |

Si spera su di un Congresso, o sebbene il governo francese, a sua volta, lo

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desideri ardentemente, tuttavia non se ne ripromette gran che in favore d'Italia; perché il Congresso non potrebbe domandare all'Austria se non ciò che è giusto, e non sarebbe giusto chiederle importanti concessioni senza offerirle equi compensi.

Le quali parole del Moniteur provano, che in un Congresso la Francia starebbe per l'Austria, vuoi per la profonda simpatia tra i due Imperatori, vuoi pei grandi sacrifizi che Francesco Giuseppe ha già fatto per la pace europea.

Ecco dunque l'avvenire d'Italia; 1 un Congresso inutile; 2° una nuova guerra probabile; 3° grandi tumulti inevitabili, 4° nel Congresso, la Francia starebbe per l'Austria; 5 nella guerra, Austria e Italia combatterebbero sole; 6 nei tumulti, Francia ed Austria unite finirebbero forse per dettarci la legge.

In tutti questi giudizi e profezie non v'ha nulla del nostro: sono chiose che noi abbiam fatto all'articolo del Moniteur senza compiacenza e senza la menoma approvazione. Le nostre interpretazioni sono giuste od erronee? Il lettore giudichi, giacché appunto per ciò gli mettiamo sotto gli occhi il

Testo dell'articolo del Moniteur

«Allorquando parlano i fatti per se stessi, sembra, a tutta prima, superfluo il volerne dare una spiegazione. Tuttavia, allorché la passione o il broglio mutano aspetto alle cose anche le più sempiici, diventa indispensabile di ristabilirne la verità, perché possa ognuno apprezzare con cognizione di causa il corso degli avvenimenti.

«Nel mese di luglio scorso, quando gli eserciti francosardo ed austriaco si trovavano di fronte tra l'Adige e il Mincio, le probabilità erano uguali, a un dipresso, dalle due parti: perocché, se l'esercito francosardo aveva la morale preponderanza delle conseguite vittorie, Tarmata austriaca era numericamente più forte, e s'appoggiava, non solo a fortezze formidabili, ma a tutta la Germania, pronta, al primo segnale, a mettersi con essa. Avverandosi questo caso, l'Imperatore Napoleone era costretto a ritirare le sue forze dalle rive dell'Adige per trasportarle sui Reno, ed allora la causa italiana, a favore della quale erasi rotta la guerra, restava, se non perduta, almeno grandemente compromessa.

«In queste gravi circostanze, l'Imperatore pensò che sarebbe stato assai utile, per la Francia anzi tutto, quindi per l'Italia, di far la pace, semprecbé le condizioni fossero conformi al programma che si era tracciato, ed utili alla causa cui voleva servire.

«Anzi tutto dovevasi sapere se l'Austria cederebbe per trattato il territorio già conquistato: poi, se francamente avrebbe rinunziato alla, supremazia che avea ottenuta su tutta la penisola, riconosciuto il principio della nazionalità italiana, acconsentendo ad un sistema di federazione: se finalmente avrebbe annuito a concedere alla Venezia delle instituzioni che ne facessero una vera provincia italiana.

«Quanto al primo punto, l'Imperatore d'Austria cedette senza difficoltà il territorio conquistato: rispetto al secondo, promise per la Venezia le più larghe concessioni, consentendo a darle, nel suo futuro ordinamento, la posizione del Lussemburgo rispetto alla Confederazione germanica; ma a siffatte concessioni egli aggiungeva, come condizione sine qua no», il ritorno degli arciduchi ne' loro Stati.


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«Per tal modo la questione era nettamente posta a Villafranca in questi termini: o l'Imperatore non doveva nulla stipulare a favor della Venezia, e limitarsi ai successi conseguiti colle armi, ovvero, allo scopo di ottenere importanti concessioni e il riconoscimento del principio di nazionalità, dovea dare il suo assenso al ritorno degli arciduchi. Il buon senso adunque tracciava la sua condotta, poiché non trattavasi punto di ricondurre gli arciduchi colla forza delle truppe straniere, ma invece di farli rientrare dietro sincere guarentigie, per la libera volontà delle popolazioni, alle quali si sarebbe fatto comprendere, quanto quel ritorno convenisse agli interessi della grande patria italiana.

«Ecco in poche parole la storia esatta dei negoziati di Villa franca. Per ogni uomo imparziale, egli è evidente che l'Imperatore Napoleone otteneva col trattato di pace quanto, e forse ancor più di quello che avea conquistato colle armi. Non è certamente, bisogna riconoscerlo, senza un sentimento di profonda simpatia che T Imperatore Napoleone vide con quanta franchezza e risoluzione l'Imperatore Francesco Giuseppe rinunziava, nell'interesse della pace europea e nel desiderio di ristabilire amichevoli relazioni colla Francia; rinunziava non solo ad una delle più belle sue provi nei e, ma eziandio a quella politica, pericolosa forse, ma non senza gloria, che avea assicurato all'Austria il dominio dell'Italia.

«Infatti, se il trattato era sinceramente osservato, l'Austria non era più per la penisola quella Potenza nemica e formidabile, che combatteva tutte le tendenze nazionali da Parma fino a Roma, e da Firenze a Napoli: ma diveniva invece una Potenza amica, dappoiché consentiva di buon grado a non esser più Potenza germanica al di qua delle Alpi, ed a favorir essa stessa la nazionalità italiana fino alle rive dell'Adriatico.

a Da quanto si è esposto è facile lo scorgere che, se dopo la pace i destini dell'Italia fossero stati confidati ad uomini più preoccupati dell'avvenire della patria comune che dei piccoli successi parziali, lo scopo dei loro sforzi avrebbe dovuto esser quello di sviluppare e non di attraversare le conseguenze del trattato di Villafranca. Che cosa infatti v'era di più semplice e più patriotico che il dire all'Austria: voi volete il ritorno degli arciduchi? sia così; ma allora eseguite lealmente le vostre promesse riguardo alla Venezia: abbia questa una vita propria; abbia un'amministrazione ed un esercito italiani; in una parola, l'Imperatore d'Austria non sia, al di qua delle Alpi, che il granduca della Venezia, come il re dei Paesi Bassi non è, per la Germania, che il granduca di Lussemburgo.

«È anche possibile che in seguito a negoziazioni franche ed amichevoli si fosse potuto indurre l'Imperatore d'Austria ad adattare combinazioni più consentanee ai voti espressi dai ducati di Parma e di Modena.

«L'imperatore Napoleone, dopo ciò che era accaduto, doveva confidare nel buon senso e nel patriottismo dell'Italia, e credere ch'essa avrebbe compreso il movente della sua politica, che si riassume in queste parole: invece di cimentarsi ad una guerra europea, ed arrischiare per conseguenza l'indipendenza del suo paese; invece di spendere ancora 300 milioni, e spargere il sangue di 60 mila dei suoi soldati,

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l'Imperatore ha accettata una pace che sancisce per la prima volta, dopo secoli, la nazionalità della Penisola.

«Il Piemonte, che rappresenta più particolarmente la causa italiana, trova la sua potenza, considerevolmente aumentata, e se la Confederazione ha luogo, esso ne farà la parie pili importante. Ma una sola condizione è posta a tutti questi benefizi, ed è il ritorno delle antiche case sovrane nei loro Stati.

«Questo linguaggio, noi speriamo, sarà compreso dalla parte ragionevole della nazione, perocché, che accadrebbe mai senza ciò? - Il governo francese l'ha già dichiarato: gli arciduchi non saranno ricondotti nei loro Stati da forze straniere, ma una parte delle condizioni stipulate a Villafranca non essendo eseguite, l'Imperatore d'Austria si troverà sciolto da tutti gli impegni assunti a favore della Venezia.

- InquiÉtato da dimostrazioni ostili sulla destra del Po, egli si manterrà in istato di guerra sulla riva sinistra, e in luogo d'una politica conciliativa e di pace, vedrassi rinascere una politica di diffidenza e di odio, che condurrà nuovi torbidi e nuove sventure.

«Sembra a taluni che mollo si debba sperare da un Congresso. Noi stessi l'invochiamo di tutto cuore, ma dubitiamo assai, che un Congresso ottenga migliori condizioni per l'Italia.

«Un Congresso chiederà solo ciò che è giusto; e sarebb'egli giusto di chiedere ad una grande potenza concessioni importanti senza offrirle in cambio equi compensi?

«Il solo mezzo che resterebbe è la guerra; ma, l'Italia non si illuda, v'ha una sola potenza in Europa che faccia la guerra per un'idea; questa potenza è la Francia, e la Francia ha già compito il suo compito».

CHE COSA NE DICESSERO I GIORNALI

DEL PRECEDENTE ARTICOLO DEL MONITEUR

Il DIRITTO, 12 settembre, N° 195: e Che cosa è la nota del Moniteur? Rispondiamo fermamente: è una burla crudele all'Austria; un'ammonizione amara e sprezzante all'Italia, uno stratagemma imperiale

«Il primo scopo dell'articolo del Moniteur, ad evidenza quello di far credere all'Austria, che il governo francese ha adempiuto rigorosamente le convenzioni scritte e le promesse verbali dei preliminari della pace. E sotto questo aspetto la nota è, come dicemmo più sopra, una burla crudele all'Austria.

«Ma egli è chiaro, che l'articolo di cui discorriamo, non ha solo questo fine. È evidente che vi ha qualche cosa nelle votazioni dell'Italia centrale, che deve aver urtato il governo francese. Non sarebbero le annessioni al Piemonte? Noi abbiamo ragione di crederlo: del resto le parole dispettose contro i governi dell'Italia centrale, il disprezzo affettato delle votazioni, gli auguri sinistri e infine l'abbandono della Francia, hanno un significato incontestabile. È evidente che le votazioni hanno attraversato i disegni imperiali; è evidente che a Parigi avevansi altri progetti sull'Italia centrate, i quali sono stati scompigliati dal suffragio

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delle Assemblee dell'Italia centrale; è evidente che sperasi o tentasi almeno di paralizzare i voti concordi dell'Italia centrale, insinuando che è impossibile la loro effettuazione. Se ne tenga ben bene avvertita l'Italia centrale; questo è, per dir così, il secondo significato, il secondo fine dell'articolo del Moniteur:

«Confortiamoci: l'articolo contiene una parola preziosa per noi Italiani: ci è la dichiarazione ufficiale del non intervento nell'Italia centrale. È una importante dichiarazione, che i piccoli nostri successi hanno strappato al governo francese. L'Italia centrale se ne rallegri; essa ha ottenuto una splendida e fruttuosa vittoria, e dopo ciò può perdonare al diario ufficiale di Francia il suo beffardo linguaggio».

L'ITALIA, 11 settembre, N° 215: «La nota del Moniteur che ieri destava stupore, oggi, meglio considerata, deve assicurare i timidi e porger maggior solerzia agli animosi. La Francia ha fatto il suo compilo ( dichiara il Moniteur). L'Italia farà il suo: e avanti».

E in un altro articolo, parlando alla Toscana, l'Italia dice: e Armi e danaro Uomini che reggete la Toscana, il dado è gettato! Avanti e avanti! Avete domandato il vessillo di Savoia! La sacra bandiera sventola già in mezzo a voi: guai, guai se non la saprete difendere. La parola della minaccia vi è scagliata d'oltre Alpe. È il tempo di mostrare che non la meritiamo .

L'OPINIONE, 12 settembre, N 254: e Per quanto potente sia la Francia e immensa la sua influenza in Italia dopo le vittorie di Magenta e Solferino, essa non riescirà mai di conciliare gli animi degli Italiani col sistema politico di Viila franca. Ciò può essere una sventura, almeno agli occhi della Francia; ma non toglie il fatto della ripugnanza degli Italiani ai patti di Villafranca».

La GAZZETTA DEL POPOLO, 42 sett. , N° 238: e L'articolo del Moniteur, (è pitiche benevolo per l'Italia) soggiunge che migliori condizioni non sono da sperarsi da un futuro congresso, ma conferma tutto ciò che è fatto. Cominciamo adunque a ringraziare Napoleone per quanto ha fatto e per quanto ci ha lasciato fare; in quanto al congresso se non darà alla Venezia 'delle condizioni migliori, per lo meno le darà sempre la vesta da camera di Lussemburgo!»

Il CITTADINO, il sett. , N 99 «Ciò a cui nessuno attendevasi, è la forma di linguaggio adoperata dal Moniteur, la quale torna tanto più dolorosa dacché succede a così breve distanza al discorso di risposta di Re Vittorio Emanuele nell'atto che accoglieva il voto dell'Assemblea toscana. A spiegare codesto linguaggio affatto insolito in una comunicazione ufficiale, altra spiegazione non vi può essere che questa: - che cioè l'Austria, dopo conosciuta la risposta data dal Governo piemontese agli Ambasciatori toscani, e dopo aver saputo che a Modena promulgossi lo Statuto piemontese, abbia minacciato di rompere le negoziazioni di Zurigo, e che la Francia abbia voluto impedirlo. -

«La nota del Moniteur conchiude col dire che un solo mezzo potrebbe all'uopo astringere ancora l'Austria a larghe concessioni, - la guerra; - ma che la Francia non vuol pili farla, avendo già fatto abbastanza. - E qui crediamo che il Moniteur abbia pienamente ragione. La Francia non vuoi la guerra. Infatti, se così non fosse, non si Darebbe arrestata al Mincio, non avrebbe lasciato incompiuto il programma

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del suo Imperatore e senza risultati la sua gloriosa giornata di Solferino. Ma il Moniteur non ci dice se dal suo canto l'Austria vorrebbe ancora la guerra.

i Come però in quelle ultimo parole del giornale ufficiale francese v'è un avviso ed una minaccia, gl'Italiani, speriamo, non vorranno dimenticare né l'uno né l'altra. - La minaccia è della guerra rinnovata; l'avviso è che, in caso di guerra, ci verrebbe meno il soccorso di Francia. - Uomo avvisato è monco salvato. L'Italia sei terrà per detto; e confidiamo che non obbliera che, a fronte dell'avvertimento del Moniteur, due soli mezzi possono in ogni caso salvarla e mostrare col fatto immeritate le accuse lanciatele contro, - le armi e la perseveranza».

Il NIZZARDO, 10 settembre, N° 297: «Il Moniteur ci manda una risposta al discorso indirizzato dal Re alla deputazione toscana. La risposta è amara, e gli Italiani potevano senza presunzione sperare che il sangue generoso sparso a Solferino sarebbe più fecondo in risultati».

L'OSSERVATORE TORTONESE, del 10 di settembre, numero 7: a Noi saremo buoni non dubitate, signori pubblicisti Parigini!!! Insultateci pure nel vostro Moniteur offendendo gli uomini che ci governano, vantatevi pure che la Francia ha fatto il suo compito, voi avete la forza, e perciò tutto vie lecito».

I DISCORSI DI FARINI

DITTATORE A BOLOGNA

(Pubblicato il 14 settembre 1859).

Lo stile è l'uomo, dicea Buffon, e siccome l'Eccelso Farini non ha né mente, né cuore da principe, così, sebbene viva ne' palazzi ducali, e viaggi, e balli sfarzosamente come un Duca, quando parla però è sempre messer Farini.

Esaminate i discorsi officiali che si dissero dappertutto e in quaisiasi tempo, e voi non ne troverete alcuno, in cui il governo vincitore abbia detto al vinto tante insolenze e villanie, quante uscirono dalla bocca del dittatore di Modena e di Parma.

Noi abbiamo deliberato di assumerci il doloroso incarico di raccoglierne alcune in questo articolo, e metterle sotto gli occhi del lettore Benza una parola sola di confutazione, perché gli insulti non si vogliono confutare. Ci restringeremo a due soli discorsi.

Il 6 di agosto, inaugurando l'Assemblea dei rappresentanti di Modena, il dittatore Farini prese a dire

I Principi d'Ente non tennero fede;

Francesco IV spregiò l'ingegno e il sapere;

Ebbe cara l'ignoranza e la selvatichezza;

Mitriò l'ipocrisia; dannò la tolleranza;

Molto avere guadagnò; sola legge la sua cupida ed ostinata volontà.

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Sotto Francesco IV fu macchiato il trono, profanato Voltare; e v'ebbero giudizi aspri e repenti, supplizi, confische, proscrizioni a causa o pretesto di re ligione e di Stato.

Francesco V continuò con mola signoria, prima timida, temeraria poi;

Regnò e governa colle verghe;

Fu nemico d'ogni civile incremento;

Fu pauroso e promise, poi mancò di parola;

Fuggì perseguitato dalla mala coscienza;

Fu ladro, crudele, costrinse a scellerata guerra, ecc. , eco.

Tutto questo per gli Estensi. Il 7 di settembre, venne la volta dei Borboni di Parma. Inaugurando l'Assemblea, l'Eccelso Farini disse:

Carlo II procurò danno allo Stato prima di salire al trono.

Conchiuse trattati ad ingiuria e danno d'Italia;

Sgovernò Parma, servo di Vienna;

Fu pauroso di tutto, fuorché del dare esempio di paura;

La sua condotta fu indegna di cavaliere e di Principe;

Principe di prestanza, non seppe combattere;

Ebbe regno vagabondo come la sua mente.

Carlo Hi preceduto da cattiva fama, superolla;

Fu scapestrato, violento, inverecondo;

Bastonava per barbaro capriccio;

Commise insanie sovversive dell'ordini sociale;

Sotto la Duchessa reggente fu sparso il sangue;

I governanti furono imprudenti e millantatori, non sentivano dignità di franco Stato, e temevano di farsi un merito coll'Italia.

Mostrarono ostinazione, cecità di mente, passione d'animo.

Nel maggio del 1859 ricondussero la reggente fuggita di Parma ad incitamento di licenza soldatesca, ed a ludibrio di autorità di regnante, e della dignità di donna».

Furono insincere le parole del suo governo:

Peccò contro le regole e l'antica cavalleria (1);

In dieci anni di regno in Parma, il costume del popolo fu alterato per mali esempi, per bandi feroci, per battiture, per supplizi, per giudizi repenti, per prepotenza di soldati stranieri, ecc. v ecc.

Che cosa ne pensa il lettore di questo stile così eccelso? Noi gli diremo che cosa pensassero di altri scritti e libelli del Farini tre liberatorii, Montanelli, Guerrazzi, Mavr.

«Farini, scrisse Giuseppe Montanelli, ba delle eccellenti qualità, ma non può essere uno storico contemporaneo. Spirito acre, passionato, bislacco, resterà

(1) L' eccelso Farini nel 1856 lodava la Duchessa reggente di Parma. In un suo scritto intitolato: La diplomazia e la quistione italiana, lettera di Luigi Carlo Farini: Torino, tipografia scolastica di Sebastiano Franco a figli, 1856, pag. 56, scriveva: «La Duchessa e gli nomini onesti che le stanno in fede, non volendo prosternarsi del tutto a Diedi dell'Austria, tono vittime a compiangere anziché colpevoli ad ammonire.»

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sempre violento, quantunque si sia fatto battezzar moderato [Lettera di Montanelli nella Voce nel Deserto, N° 20, 10 di ottobre 1851).

Il Guerrazzi nella sua Apologia , dopo di aver dimostrato che la storia del Gualterio è libro di parte, destinato a favoreggiare il Piemonte ed esaltare i moderati (pag. 813), passa a dire del Farini: «Il suo libro si manifesta dettato nel medesimo spirito… ma con manco di generosità e più piglio di procuratore»

(Apologia della vita politica di F. D. Guerrazzi, scritta da lui medesimo. Firenze 1851, pag. 814).

Il Guerrazzi nella storia del Farini trova soverchie tumidezze e bugie: Bugia le sommosse fiorentine represse dalle bande livornesi; bugia l'essermi io (Guerrazzi) ridotto co' Livornesi in castello; bugia essermi mostrato pronto a pigliare posto nella provvisoria congregazione del governo; bugia il mio girare nel manico per accettare la restaurazione, ecc.» (76. , pag. 817).

Finalmente il Guerrazzi rimprovera al Farini di aver gittato addosso ad altrui accuse pessime per iscivolar via, lasciando dietro una traccia di bava a mo' di lumaca; e gli ricorda che «la storia scrivono gli storici, non gli scoiattoli [Ib. , pag. 815).

Il liberale avv. Francesco Mayr, presidente che fu di Ferrara, ed ora membro dell'Assemblea di Bologna, scrisse: e Finora il pubblico ba giudicato che la storia del Farini è superficiale e leggiera; e si può aggiungere, senza tema di andare errati, che bene spesso è sleale. Si direbbe che non altro si è proposto, che di vendicarsi de' suoi nemici, e d'incensare i suoi amici e benevoli: troppo spesso ha dimenticato che uno storico dee fare un sacrifizio sull'altare delle verità delle proprie affezioni e dei personali risentimenti».

Decidano i lettori se i due discorsi del Dittatore non confermino questi giudizi, e se Farini spirito acre, appassionato, bislacco, come dicea Montanelli, non voglia lasciare in Parma ed in Modena una traccia di bava a mo' di lumaca, secondo la frase del Guerrazzi.

UTILI PAROLE DI MASSIMO D'AZEGLIO

INTORNO A PIO IX.

(Pubblicato il 45 settembre 1859).

Nel 1846, addì 2 di ottobre, Massimo d'Azeglio scriveva da Genova una lettera sul Papa Pio IX, che veniva stampata in Italia senza nome di tipografia; e nella quale dipingeva a' sudditi pontificii l'animo fermo e saldo del Papa, e li avvertiva di non chiedere più di quello ch'egli potesse concedere. Pare a noi che le cose scritte allora da Massimo d'Azeglio possano venir ripetute oggi che molto e troppo si pretende dal Papa, e se ne strazia crudelmente il cuore e la fama.

Il d'Azeglio dopo d'aver premesso: verba utilia quaesivit mandava fuori parole € lungamente pensate, sinceramente credute vere, spogliate d'ogni passione e d'ogni privalo interesse, volte al solo scopo del comun bene».

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E queste parole erano che non si dovea desiderar troppo dal Papa, ma aver fiducia nel suo carattere, giacche Pio IX «è uomo di gran mente, e d'alto cuore, di saldo e risoluto animo, franco, aperto e leale nel suo operare».

Fin dal cominciare del suo pontificato il Papa disse a Pietro Renzi ed all'avvocato Galletti di Bologna, e che de desiderii loro, delle domande espresse replicatameli le da sudditi pontificii, parte le stimava ragionevoli, e si sarebbe ingegnato di soddisfare, parte non stimava poterle concedere, e si togliessero di speranza di ottenerle».

Questa dichiarazione veniva molto lodata da Massimo d'Azeglio, che osservava: e lo conosco in tali parole il segno delle più preziose doti che possono far degno veramente un principe della sua corona, la fortezza e la lealtà». E coloro che oggi ci vengono adire che il Papa ha fallito alle sue promesse, mentiscono per la gola; imperocché ben si vede che fin da' primi giorni del suo pontificato protestò, che certe domande e desiderii non avrebbe soddisfatto mai, perché empi e dannosi.

Pio IX, continuava il d'Azeglio, come tutti coloro cui diede Iddio eletta e potente natura, conobbe «che l'esser franco ed aperto nel concedere come nel negare frena le ingiuste pretese, invece di dar loro eccitamento; perché questi modi mostran fortezza, e la fortezza genera stima e rispetto; e chi si rispetta e si stima, si teme anco sempre di quel timor salutare che toglie ogni pensiero di trascorrere oltre il giusto e l'onesto».

Ma Pio IX è nel 1859 quello stesso che era nel 1846 pronto a concedere ciò che stima ragionevole e buono, e risoluto a negare fino all'ultimo ciò che reputa illecito e dannoso: «forte di sua giustizia, conosce che il concedere non gli sarà tenuto a fiacchezza, come il negare non gli sarà tenuto a rigidità».

Massimo d'Azeglio innamorato di tali benevole e in pari tempo ferme disposizioni del Papa, scriveva: € Al considerar riunite in un sol uomo, ad un tal grado, bontà, giustizia e fortezza, io benedico l'opera più bella che potesse uscire dalle mani di Dio». E queste benedizioni di Massimo d'Azeglio nascevano non solo da ciò che il Papa era disposto a concedere, ma anche da quello che dichiarava risolutamente di voler negare.

E continuando a scrivere le parole utili che avea cercate e ritrovate, il cavaliere Massimo avvertiva che Pio IX e ha fatto più per l'Italia in due mesi, che non hanno fatto in vent'anni tutti gl'Italiani insieme»; che il diffidare del Papa era piò stoltezza che ingratitudine; ohe il combattere il dominio temporale pontificio tornava inutile, perché si troverebbe presto più saldo ed inespugnabile che mai fosse; che dovevamo ringraziar Dio d'averci dato Pio IX invece di travagliarlo o frapporre ostacoli al suo cammino; e guardarci ben bene dal voler troppo dal Papa; non accrescergli la bisogna e la difficoltà, ma dargli aiuto e non impaccio.

E andava innanzi il nostro Massimo d'Azeglio con parole e consigli veramente utili, lodando l'alto e nobil cuore di Pio IX, la cui esaltazione fu una bontà e misericordia di Dio, e levava la voce rimbrottando amaramente il partito € che si oppone al vivente Pontefice, lo disubbidisce, e, ove creda poterlo fare a man salva, lo lacera con calunnie, ne schernisce gli atti, e li chiama pazzie». Pieno di rispetto per le somme Chiavi, Massimo d'Azeglio domanda: Non è forse vero Papa Pio IX? Quasi volesse indicare essere tristo e scellerato cotal che osa sparlare del Pontefice.

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Oh! fremeva il nostro Massimo contro il partito che dice: «Facciamo ogni opera per rendere odioso il Papa, per eccitar sospetti sulle sue intenzioni, per falsare i suoi decreti, toglier merito ed essenza a' suoi benefizi, comprometterlo colle potente maggiori; epperciò spargiamo calunnie, tentiamo tumulti, tentiamo d'accendere qua e là sdegno ne popoli». Che tristo, che ribaldo partito è mai questo, signor Cavaliere? Si merita l'esecrazione di tatti i buoni cattolici, di tatti gli onesti Italiani, non è egli vero?

Verissimo, risponde il signor Massimo; questo partito stolto ed abietto s'è ora scempiamente e chiaramente smascherato merita sprezzo, e lo giudicherà la coscienza pubblica, per quanto può entrare in quest'opera tenebrosa, ma beo saprà ad ogni modo giudicarlo Iddio».

Ora a noi, cavaliere Massimo d'Azeglio. Voi avete scritto questa lettera e le utili parole, che noi ne abbiamo estratto, il 2 di ottobre del 1846. Poniam caso che in quell'anno già si fosse cominciato a pubblicare questo giornale, e che sui primi di novembre v'avesse risposto così:

Signor cavaliere, questo gran Papa, che voi tanto celebrate, e meritamente, questo virtuoso Pontefice, strumento della divina misericordia, quest' opera più bella ohe potette uscire dalle mani di Dio, questo prezioso dono del Cielo, di cui ora ammirate la calma serena, la bontà, la dignità, la fortezza, Veletta § potente natura, la giustizia, la sapienza, il sicuro operare, l'amor d'Italia, la generosità, la mansuetudine, la ragionevolezza, la prudenza, la maturità di consigliò, le alte e potenti facoltà, il nobil cuore, la lealtà, e via discorrendo; ebbene sarà uno de' Pontefici che più avranno a padre dai liberali.

Voi vi burlate di quegli illusi, che al solo nome di libertà liberale rabbrividiscono, tenendoli per sinonimi d'empietà, rivoluzione armata, sconvolgimento», e noi vi diciamo che tutto questo si avvererà fra breve in Italia e negli Stati Pontificii. Voi vedrete questo gran miracolo di Papa, secondo la frase di Pietro Giordani, ingiuriato, offeso, disobbedito; vedrete ucciso il suo ministro e il Monsignore che gli sta a fianco; vedrete puntati i cannoni contro il sue palazzo; lo vedrete obbligato a prendere la foga, e a ricorrere alle nazioni cattoliche per riavere quel potere, di cui non si servì che per perdonare e beneficare.

Vedrete di più, sig. Cavaliere, vedrete che gli amnistiati saranno i primi nemici del Papa, che metteranno al suo posto Giuseppe Mazzini, che lo dichiareranno triumviro di Boma, che, esautorato il Pontefice, dall'alto del Campidoglio proclameranno la repubblica.

Vedrete di più sig. Cavaliere. Dopo che le valorose e cattoliche schiere della Francia avranno ricondotto il Papa nella sua capitale, vedrete ordirti la tela di nuove rivoluzioni, aizzarsi le ire della popolazione contro il Gran Sacerdoti e benefico Principe, impedirne l'opera ristoratrice, accasarne il governo davanti le Potenze protestanti e scismatiche, per bocca d'un ministro della cattolica Casa di Savoia.

Vedrete di più, sig. Cavaliere, Le Romagne insorgeranno una seconda volte contro Più IX, e voi ohe tanto lo lodato ed ammirate, voi che predicato la gratitudine

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ai Romani ebbene voi stesso andrete commissario a Bologna per dirigerne la rivoluzione, e nel Monitore Bolognese ve ne farete l'apologista.

Se nel novembre del 1846 si fossero dette tali cose a Massimo d'Azeglio, in risposta alla sua lettera dell'ottobre, come ne avrebbero destato le ire e provocato i richiami! Ma oggidì siamo nel settembre del 1859, e ciò che tredici anni fa sarebbe stata profezia incredibile, ora è storia irrefragabile.

LE SETTE MARAVIGLIE

dell'Italia centrale

(Pubblicato il 16 settembre 1859).

Oggi il telegrafo ci annuncia che l'Assemblea nazionale di Parma ha compiuto l'ultima sua votazione, approvando all'unanimità ciò che le era stato proposto. Con questo compiesì l'opera incominciata in Italia dopo la pace di Villafranca, e condotta a termine in un mese da quattro Assemblee venute su quasi improvvisamente, e vere creazioni del genio pelasgico; cioè l'Assemblea Toscana che fu la prima! la Modenese che venne di poi, la Bolognese che fu la terza, e finalmente la Parmigiana che coronò l'opera.

Ora è bene che noi diamo uno sguardo complessivo alle operazioni di queste quattro Assemblee. Considerando come nascessero, come si costituissero, come votassero, noi siamo sorpresi da un senso d'altissimo stupore, e ci pare che nel mese d'agosto l'Italia centrale abbia fatto cose ben più meravigliose che gli Orti pensili e le mura di Babilonia, che il colosso di Rodi, che le piramidi d'Egitto, che il giove olimpico di Fidia, che il mausoleo e il tempio di Diana.

Anzi esaminando le varie fasi delle quattro dette Assemblee, e le loro diverse operazioni, troviamo che esse diedero all'Italia, all'Europa, al mondo sublime spettacolo, e produssero sette grandi meraviglie, che resteranno memorande nella istoria, e che sembrano incredibili ai contemporanei; pensate se noi parranno agli avvenire 1 Enumeriamole una ad una.

Marmàglia K La compilazione delle liste elettorali. - Un bel giorno, prima quei di Firenze, poi gli altri di Modena, Bologna e Parma, vista la pace di Villafranca, risolvono di convocare quattro Assemblee costituenti; e detto fatto, improvvisano il catalogo degli elettori. Quantunque nuovi al governo, e taluni anche forestieri nel paese, sanno a menadito chi abbia il diritto di eleggere, e chi no; stendono le liste, e in poche ore fanno il becco all'oca.

In Piemonte e negli altri paesi, dove si riconosce il diritto elettorale, queste compilazione delle liste è lavoro assai lungo, che si suoi fare co» molta cautela e ponderatezza, esponendo anche in pubblico per un dieci giorni il cataloga degli elettori affinché ognuno possa presentare i suoi richiami e fa valere la proprie ragioni.

Ma son queste cose da popoli bambini. In Toscana, nelle Romagne, e nei Ducati di Panna e di Modena non si va tanto pel sottile, le liste si improvvisano come le leggi, come i governi, come i governanti, e tutto va egregiamente. Oh maraviglia!

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Maraviglia 2. Le operazioni elettorali. - Chi non ha inteso parlare degli sconci e dei disordini che avvengono continuamente in tutti i paesi dove si compiono le elezioni? In Inghilterra non è mai che si eleggano i membri della Camera dei Comuni, senza che qua e colà si abbiano a deplorare risse, scandali, mercimoni, violenze. Nel Belgio le ultime elezioni furono compiute con parecchie gravi irregolarità, e due giorni fa se ne parlava ancora nelle Camere di Brosselle. Del Piemonte non occorre dire ai nostri lettori che in grandissima parte saranno stati testimoni di veduta. Che più? Nella Francia stessa imperiale dove è sì poca libertà e tanta polizia, pure le ultime elezioni non si fecero senza dare luogo a gravi lagnanze, che provocarono inchieste.

Ma nulla di tutto ciò nell'Italia centrale. Cento settanta Deputati si eleggono in Toscana, e tutto procede a battuta di musica. Un centinaio e più a Modena, e gli elettori depongono devotamente i loro voti nell'urna un dopo l'altro come novizi cappuccini. Ordine perfetto in altrettante votazioni che si fanno nelle Romagne, e nel ducato di Parma, sicché pare rinato in quei felicissimi paesi il secolo di Abele. Oh maraviglia delle maraviglie!

Maraviglia 3.» Verificazione dei poteri. - Vi ricordate o lettori, quanto tempo si è speso nel 1858 dalla nostra Camera subalpina per esaminare i verbali delle elezioni? Ci vollero due buoni mesi; le innumerevoli prescrizioni della legge trovavansi ad ogni punto violate, molte schede male scritte, le proposte venivano in grandissima copia al ministro dell'interno; accuse di qua, lagnanze di là, era una vera Babilonia.

Noi non vogliamo dire, che non vi fosse allora alcuna cosa di straordinario, ma potete fare ragione, che una parte di quelle difficoltà si presentino così nel nostro come in qualunque altro Parlamento del mondo, allora quando si ha da verificare se i Deputati siano stati regolarmente eletti. Per lo che questa verificazione esige sempre una quindicina di giorni.

Ma nell'Italia centrale fu un altro paio di maniche; La verificazione dei poteri si fé' in pochi minuti, e non in una sola, ma in tutte le quattro Assemblee, e fu cosa così di poco conto, che nelle relazioni delle tornate non se ne die il menomo cenno, perché, già s'intende, tutto era proceduto in numero, peso e misura.

Nessuna protesta, nessuna lagnanza: gli articoli della legge in cinquecento e più elezioni osservati colla massima scrupolosità, la libertà degli elettori rispettata dappertutto dai governanti; non calunnie, non minacele, non corruzioni: breve ciò che non avviene, e non avverrà mai, ne in America, né in Inghilterra, né in Prussia, né nel Belgio, né in Piemonte, è avvenuto nelle Romagne, nella Toscana, e nei Ducati di Parma e di Modena. E chi non resterà trasecolato in vista d'un avvenimento così singolare?

Maraviglia 4. Approvazione delle elezioni. - In tutte quattro le Assemblee dell'Italia centrale non trovammo che una sola elezione annullata, e questa dall'Assemblea Toscana per una minuzia. L'eletto aveva conseguito centoquaranta voti, mentre gli elettori erano settanta!

Siccome il fatto era avvenuto nella prima Assemblea che si congregasse, cosi temevamo che potesse riprodursi nella costituzione delle altre Assemblee;

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ma fortunatamente non ne fu nulla.

Anzi, tranne quella volta, si riputò inutile dire a Firenze, Bologna, Modena e Parma, quanti elettori fossero iscritti, quanti votassero, e che numero di voti conseguisse l'eletto. In momenti di tanta poesia che ci hanno a fare le cifre? Esse tarpano le ali, e impediscono i voli pindarici, e ornai l'Italia ha strisciato abbastanza, e vuoi volare 1

Noi vi sfidiamo a trovarci un'Assemblea, meno le quattro dell'Italia centrale, che abbia riconosciuta legittima l'elezione di tutti i suoi membri.

Parecchie elezioni si annullano sempre e dappertutto, vuoi perché gli eletti non hanno i requisiti, vuoi perché le elezioni non si fecero a dovere; ma nessuna annullazione avvenne a Bologna, nessuna a Modena, nessuna a Parma, perché gli elettori si governarono come altrettanti Platoni, e diedero il loro suffragio a personaggi nati fatti per la deputazione. E in vista di questo fatto, si può frenare un'esclamazione di maraviglia?

Maravìglia 5. Principi antichi non hanno un amico. - Cosa egualmente straordinaria si è che nelle discussioni gravissime intavolatesi dalle quattro Assemblee dell'Italia centrale non vi fosse un oratore, che dicesse verbo in difesa de' Principi che voleansi esautorare. Il più tristo malfattore trova davanti i tribunali un avvocato, ma noi trovò Leopoldo li a Firenze, né il Papa a Bologna, né Francesco V a Modena, né la Duchessa reggente a Parma. Si lesserò e recitarono di molte accuse contro a loro, e non v'ebbe un solo che sorgesse a sposarne le parli, o per principio di giustizia, o per sentimento di gratitudine.

La causa più disperata trovò sempre nelle Assemblee oratori che la sostennero, e ogniqualvolta principalmente i Parlamenti costituironsi in Corti di giustizia per giudicare, non fu mai senza difensore colui sul quale pesava il giudizio. Invece indifesi restarono i quattro grandi accusati davanti le quattro Assemblee in discorso, ed erano tre Principi ed un Papa!

Né si creda che ciò avvenisse, perché non v'avea libertà di parola, ma unicamente perché que' governi non trovarono in cinquecento e più oratori un solo amico che ne pigliasse a cuore la causa, e volesse farsene protettore. Cosicché non può dirsi, propriamente parlando, che in Firenze, Bologna, Modena e Parma siavi stata discussione, supponendo questa una contrarietà di pareri, e un avvicendarsi di disputanti. Laddove nelle Assemblee suddette v'ebbe concordia perfetta nel sostenere le fatte proposte, e proporre ed approvare fu tutt'uno,

Maraviglia 6. Il Piemonte non ha un avversario. - Esautorati i Principi antichi, si propone in tutte le quattro Assemblee dell'Italia centrale l'annessione al Piemonte; proposta che avrebbe dovuto necessariamente trovare qualche difficoltà. Non vogliamo già dire, che si dovessero riprodurre le scene del 1848 riguardo alla Capitale; ma certo è che fra cinquecento e più deputati dovea esserci o qualche retrogrado, o qualche mazziniano, o qualche municipale, che mettesse in dubbio la felicità del Piemonte, e chiedesse qualche guarentigia pel proprio paese.

Cesare Balbo nelle sue Speranze d'Italia, cap. II, parag. V, lasciò scritto: «Uomini, Città o Stati non diminuiscono di condizione mai,

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se non per forza, non mai per accordo di buon volere ne per uno scopo eventuale. Sogno è sperar da una sola città capitale che voglia ridursi a provinciale; maggior sogno che sei si riducono sotto una; sogno massimo che s'accordino le sei a scegliere quell'una».

E ciò che a Balbo pareva un sogno, e sogno massimo, ora s'è avverato. L'accordo fu perfetto: ci mancano ancora Roma e Napoli, ma verranno! In Piemonte ci furono sempre degli scontenti, ma in Toscana, Bologna, Parma, Modena, tutti furono contentissimi del Piemonte. Ammirabile accordo!

Maraviglia 7. Venti votazioni all'unanimità. - t Non vi è luogo a separazione di voti giacché son tutti favorevoli»: ecco la formola che s'udì ripetere dai presidenti delle quattro assemblee. La Camera subalpina votò sussidii per la guerra, e furonvi un da trenta voti contrarii, votò la dittatura, e ve n'ebbero ventisei; in dieci anni ne avvennero delle votazioni in Torino! Eppure nessuna all'unanimità, e invece nell'Italia centrale tutte unanimi! (1)

Dicono che il nostro professore di diritto costituzionale sia ben addolorato di questa unanimità di voti. Imperocché egli insegnò essere il governo costituzionale la guerra civile incruenta. Ora come può aver luogo questa guerra se tutti dicono di sì? Se non v'é che un esercito solo, e nemmeno un tamburo dalla parte contraria?

Ci sia permessa una seconda citazione di Cesare Balbo, e questa la leveremo dalla Rivista Italiana! vol. I, pag. 337: e Una delle più arcadi che semplicità, scriveva egli, di quegli anni beati (del 1846 e 1847) fu per certo questa: che da un capo all'altro della nostra Penisola, ed anche delle Isole, si andava gridando la croce contro alle parti politiche, si andava dicendo e scrivendo, non doversi aver parti se non una sola, quella dell'Italia dell'utile e pro di lei. Come se fosse possibile, che quest'utile si vedesse al medesimo modo dall'un capo all'altro della penisola e delle isole, da ventitré milioni d'abitanti 1 Come se le parti fossero altro che opinioni diverse sull'utile della patria I Come sé fosse possibile impedire tale diversità! Come se fosse bene! Come se le espressioni libere di queste diversità non fossero tra i primi e più utili risultati di tutte le libertà nazionali!»

Se Cesare Balbo vivesse ancora toccherebbe con mano che tutte queste diversità scomparvero, che il bene d'Italia fu visto da tutti e dappertutto nel medesimo modo, che in venti votazioni e in quattro Assemblee apparve una meravigliosa ed inudita unanimità!

In tutto questo certunì pretendono che vi sia sotto qualche storia greca che si risolverà in qualche diavoleria, e parlano di carbonari, di società segrete, di commedie e tragedie. Ma noi non siamo di costoro, e lasciando tempo al tempo, ci contentiamo di vedere puramente e semplicemente nei fatti accennati le sette maraviglie dell'Italia centrale.

(1) La stessa Gazzetta del Popolo ne fa oggi le meraviglie: «Le Assemblee di Modena, di Parma e Piacenza, di Toscana, e di Bologna votarono all'unanimità la decadenza dei passati governi, all'unanimità la loro annessione al Piemonte. - Non mai, sia in un senso, che nell'altro, un SOLO voto discorde. Non vi ha argomento contrario che possa reggere a questa maravigliosa logica».

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CHI DISSE LA VERITÀ

IL MONITEUR O LA DEPUTAZIONE MODENESE?

I nostri lettori conoscono l'articolo del Monitor, le sue promesse e le sue minaccie. Esso è chiarissimo e non lascia luogo a nessuna storta interpretazione ( Vedi più sopra a pag. 138).

La Gazzetta di Modena, del 12 di settembre, N° 84, ci reca invece un documento stampalo a lettere di scatola che cozza affatto colle dichiarazioni dell'articolo del Moniteur. Eccolo:

Ai Deputati dell'Assemblea Nazionale

nelle provincie modenesi.

Li sottoscritti si recano ad onore e dovere di partecipare ai loro onorandi colleghi, che in virtù di mandato dittatoriale, in evasione del Decreto dell'Assemblea, si sono resi a St-Sauveur di Francia in qualità di Deputati dell'Assemblea stessa, presso la maestà di Napoleone III, per farle omaggio dell'indirizzo che essa votò per acclamazione tosto che si fu costituita.

Li sottoscritti sono lieti dì annunziare altresì che la Deputazione, appena giunta a St-Sauveur, venne accolta colla massima benignità, e che l'augusto Sovrano degnò accertarla e che nessuna forza straniera contrasterebbe ai voleri dì «questo paese nell'intento di imporci il Principe esautorato che, per molti ric spetti, ò ormai riconosciuto impossibile da tutti».

Quel Magnanimo protettore nostro e della patria comune, degnandosi rispondere all'indirizzo da noi rassegnatogli, ci diede l'onorevole e grato incarico di dire all'Assemblea: e Che egli era grandemente commosso dalla confidenza in e lui riposta, che se qualche difficoltà si opponesse ancora al pieno adempì mento dei nostri voti, non ci sarebbe mai venuta meno la sua protezione, e «che farebbe sempre quanto potesse pel bene. dell'Italia in generale, e di «queste provincie in particolare».

presidente Il deputato

Giuseppe Malmusi Camillo Fontanelli

Ora noi domandiamo: a chi credere? Al Moniteur di Parigi, o alla Deputazione modenese? Chi dice il vero? L'uno e gli altri non è possibile, stante che sono in perfetta contraddizione. Dunque? dunque?,... noi... non sappiamo tirare la conseguenza.

Un giornaletto di Milano pretende che la falsità stia dalla parte del Moniteur, e sotto la data del 13 di settembre scrive così:

«L'Istituto nazionale di scienze, lettere ed arti propone ogni anno dei quesiti da risolvere, più. o meno inutili. Io propongo ch'esso proponga pel p. v. concorso un'opera di alta importanza scientifica, politica e morate, da intitolare!


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LE CONTRADDIZIONI UFFICIALI

OVVEROSIA

LE BUGIE DEI GOVERNI.

«I concorrenti dovrebbero avere sempre sottocchio il Moniteur rivolgendo precipuamente i loro studi al secondo.......».

«Il 20 aprile 1859 il Moniteur dichiarava: e Tutto fa presumere che se pur tutte le difficoltà non sono per anco appianate, raccordo definitivo non indugi era a stabilirsi, e che nulla più si opporrà alla riunione del Congresso». Il 22 aprile 1859 il Moniteur annunciava la guerra contro l'Austria. Chi si fiderà dopo di ciò negli articoli ufficiali?»

LE DEPUTAZIONI DI PARMA E DI MODENA

RICEVUTE IN TORINO

DA VITTORIO EMANUELE II

Ecco come un supplemento della Gazzetta Piemontese, pubblicato il 15 settembre del 1859, rendeva conto dell'arrivo, del ricevimento e della risposta del Re alle suddette Deputazioni:

Stamane alle ore 12 e 1|2 sono giunte in Torino fé Deputazioni di Parma e di Modena. La prima è composta dei signori march, avv. Giuseppe Mischi - conte Jacopo Sanvitali - cav. maestro Giuseppe Verdi - professore avv. Carlo Fioruzzi - e marchese Gian Carlo Dosi. La seconda dei signori conte Luigi Ancini - avv. Enrico Brizzolati - avv. consigliere Pietro Muratori - professore Francesco Selmi - aw. professore Luigi Zini - e dottore Giacomo Sacerdoti.

Alla stazione della ferrovia di Genova le Deputazioni erano ricevute dal Sindaco e dai rappresentanti del Municipio di Torino, e da molti Senatori del Regno e Deputati al Parlamento nazionale.

La popolazione che si affollava per le vie, che dalla piazza Carlo Felice menano in piazza Castello, salutava con festevoli acclamazioni i Rappresentanti di Parma e di Modena. Gli applausi raddoppiavano allorché i Deputati scendevano all'albergo Trombetta. A nome di essi ringraziava il conte Jacopo Sanvitali.

Alle ore 3 pom. tre carrozze di Corte si recavano all'albergo Trombetta e conducevano i Deputati al Palazzo Reale. Ivi essi avevano l'onore di essere introdotti presso S. M. il Re dal marchese di Breme, senatore del regno e gran mastro delle cerimonie. Erano presenti i Ministri del Re ed i Dignitarì di Corte. L'avvocato Pietro Muratori dava lettura dei due seguenti indirizzi:

Sire,

Nell'anno 1848 i popoli Modenesi e Parmensi, acquistata libertà, decretarono

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l'unione col vostro Regno; nel 1849, rimessi in servitù dalle armi austriache, si votarono a Voi sulla santa tomba di Re Carlo Alberto.

In dieci anni di governo onesto, furono per Voi, o Sire, vinte le fazioni colla libertà; per Voi fu creata colla fede nazionale la nuovissima Monarchia italiana.

Nei momenti di pericolo pel vostro antico Stato, numerosi accorsero i soldati volontari a raffermare sui campi di battaglia i voti decenni santificati dalle comuni sventure.

Nei giorni d'incertezza, che tennero dietro a maravigliose vittorie, questi popoli, o Sire, dato mirabile esempio di concordia e di forti proponimenti, affermarono nuovamente il vostro e il diritto della Nazione.

È quindi di grande consolazione all'animo mio devotissimo alla M. V. , che mi sia toccato in sorte il mandarvi, coi decreti della volontà nazionale, gli Oratori di questi popoli costanti, i quali nel Monarca di loro elezione rendono omaggio di sudditanza al leale Mantenitore delle pubbliche libertà, al Primo Soldato dell'Indipendenza italiana. Modena, 13 settembre 1859.

Dev. mo ed Obb. mo Servo e Suddito

Farini

Sire,

Le parole dell'insigne uomo di Stato che la M. V. inviava già a reggere le nostre provincie, al quale nell'arduo momento del ritirarsi della Regia Autorità noi demmo unanimi la nostra fede, e concordi prestammo intera osservanza, non hanno mestieri di conferma, né di esplicazione. Egli interpretò fedelmente i sentimenti del Popolo Modenese che vi ama, Sire, come vi amano tutti gli Italiani. Egli vi espose il voto solenne della nostra Assemblea, la nuova consacrazione di un patto suggellato undici anni sono, non cancellato, né da sciagure, né da violenze, e scritto in caratteri indelebili nel cuore di tutti noi.

Sire, i Deputati del Popolo e dell'Assemblea delle Provincie Modenesi vanno lieti e superbi di essere primi ad offerire alla M. V. omaggio di sudditanza. Piacciavi, Sire, benignamente accettarlo da vostri novelli sudditi: piacciavi fare assegnamento sulla fedeltà, sulla devozione nostra al Vostro Trono costituzionale sul nostro amore per la Sacra Vostra Persona, e per la Vostra gloriosa Dinastia.

Firmati: Avv. consigliere Pietro Muratori.

Cav. prof. Francesco Selmi.

Conte Luigi Ancini.

Avv. Enrico Brizzolati.

Dott. Giacomo Sacerdoti.

Avv. Luigi Zim.

Quindi il conte Jacopo Sanvitali leggeva quest'altro indirizzo:

Maestà

Al Capo Augusto dell'eroica Famiglia di Savoia, al Vindice della libertà, al lealissimo de Monarchi non si conveniva per fermo altro omaggio da questo

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che recano appiè del Trono riferenti e commosti i Rappresentanti del popolo delle provincie di Parma e Piacente, a cui ho l'onore di presedere: dico la piena unanimità dei voti dell'Assemblea Nazionale che dall'urna uscirono senza macchia.

Ardente era ed antico il desiderio di porre, come facciamo oggi confidentissimi, nelle vostre mani integerrime i nostri destini in pace ed in guerra.

Ma Voi disdegnate le incivili conquiste degli animi, aspiraste e l'avete ottenuta, o Sire, colla rettitudine e col valore. Oh questa è vera gloria! Cbè glorioso e caro suona su tutte le labbra com'è in tutti i cuori il nome di Vittorio fimanuele: bramosi che siam tutti di crescere riputazione e Stato al Re guerriero, che fece balenare alle italiche menti l'alta speranza di una patria grande, forte, libera, indipendente

Marchese Avv. GnrStfru Mischi.

Sanvitali Conte Jacopo.

Verdi Cavaliere Giuseppe.

Fiorgzzi Avv. Prof. Carlo.

Dosi Marchese Gian Carlo.

Sua Maestà il Re rispondeva:

Le popolazioni di Modena e di Parma, libere di se stesse, hanno confermato con solenne unanimità di voleri quei voti che, or sono undici anni, avevano in pari condizioni espresso all'Augusto mio Genitore.

lo sento vivamente nell'animo questa dimostrazione di affetto, ed accolgo il voto dei popoli di cui voi, o Signori, siete gli interpreti verso di me, come una novella manifestazione del fermo loro proposito di sottrarre il natio paese alle dolorose conseguenze della soggezione straniera.

Per raggiungere questo generoso intento, niun mezzo ravvisaste più acconcio di quello di collegare i vostri coi destini del mio Regno, innalzando così una barriera che assicuri all'Italia il possedimento di se? stessa.

Mentre come Principe italiano ve ne ringrazio in nome mio ed in nome de1 miei popoli, voi già comprendete con quali modi io debba procurare l'adempimento del vostro voto.

Valendomi dei diritti che mi sono conferiti dalle vostre deliberazioni, io non fallirò al debito di propugnare innanzi alle Grandi Potenze la giusta e nobile vostra causa.

Confidate, o Signori, nel senno dell'Europa, confidate nell'efficace patrocinio dell'Imperatore Napoleone, che, capitanando le invitte legioni di Francia, combatté vittoriosamente pel riscatto d'Italia.

L'Europa ha già riconosciuto ad altri popoli il diritto di provvedere alla propria sicurezza coll'elezione di un Governo che ne tuteli la libertà e la indipendenza.

Essa non sarà, io lo spero, né meno giusta, né meno generosa verso queste italiane provincie che nulla chiedono fuorché di essere governate colle leggi di quella monarchia temperata e nazionale, a cui già sono unite per la giacitura geografica e per la comunanza di stirpe e d'interessi»

Io non vi dirò di perseverare concordi nella intrapresa via; il voto che le

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vostre Assemblee hanno rinnovato e i soldati volontaria che nel giorno delle battaglie mandaste numerosi sotto le mie insegne, resero testimonianza che nei popoli di Modena e di Parma la fermezza nei propositi è virtù provata e suggellata col sangue.

Ben mi congratulerò con voi dell'ordine e della civile moderazione, di cui porgeste così splendido esempio; voi pure avete dimostrato all'Europa che gli Italiani tanno governare se stessi e sono degni di essere cittadini di una libera nazione»

IL FASTO DELL'ECCELSO FARINI

DITTATORE DI MODENA.

L'Opinione ci accusa di gettare il ridicolo sul dittatore Farini chiamandolo Eccelso, Ripetiamo all'Opinione ciò che abbiano detto alla Staffetta: è il Farini che si cuopre di ridicolo, perché egli si fa dare il titolo d'Eccelso, come risulta dalle relazioni ufficiali, dove si parla dell' 'Eccèlso Dittatore. Del resto, sul contegno che tiene il Sig. Farini in Modena, si leggano i seguenti particolari, che scrivono da Modena al giornale l'Italia, e che esso pubblica nel suo N 807 del 3 di settembre.

«Modena. 1 settembre.

«Ho letto ciò che voi diceste, pochi giorni sono, riguardo al nostro Dittatore. Avete scherzato sovra un tema serio. Il lusso delle feste e dei banchetti nel palazzo, che pare tuttavia abitato dal Duca, è amaro a noi, che misuriamo tutta la gravità dei bisogni del paese, e sappiamo la esiguità dei olezzi pecuniarìi, che ci rimangono per soddisfarli. 1 Modenesi................ essi non ponno a meno di deplorare, che il sig. Farini abbia circondato di tanto inutile fasto un ufficio, che sarebbe stato a mille doppi più splendido nella severa modestia dei nobili costumi rivoluzionari. Il codazzo delle livree e degli staffieri; l'onda delle guardie, il numero dei cavalli per tirare le ricche vetture dell'antica Corte, sono argo,menti buoni ad aumentare la parte passiva del magro bilancio, non a raffermare la fede del popoIo nel trionfo di quella giusta causa, che si sta dibattendo fra lai e la diplomazia.

«Quando il popolo sa, per esempio, che il signor Farini non viaggia sulla strada ferrata, perché non vi hanno carrozzoni abbastanza decorati e appariscenti, credete che non lo assalga un tristo pensiero? un senso di dubbio e di scoraggiamento? U popolo ha la sua logica anch'esso; ed è peccato soltanto che la chiuda così di spesso nel baule dei suoi poveri panni»

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GUERRA SFACCIATA

DELLA

RIVOLUZIONE CONTRO IL CATTOLICISMO

(Pubblicato il 18 settembre 1859).

La così detta Assemblea di Bologna, votando testé la spogliazione del Papa, dichiarava di voler tuttavia rimanere cattolica, e di professare obbedienza all'autorità spirituale pontificia, essenzialmente e storicamente distinta dal potere temporale. Di siffatta dichiarazione servivasi in Francia la Patrie per dimostrare che gli spogliatori del Papa erano sante persone, tutte pietà, tutte cattolicismo, e da mettersi ben presto in sugli altari.

Noi ci contentavamo di accennare un fatto semplicissimo, la concordia degli eretici coi rivoluzionari, gli applausi dei protestanti di Londra ai Deputati di Bologna, i consigli che mandava a costoro lord Palmerston, e gli aiuti d'armi e di denari che radunava pei Romagnoli il presidente delle società bibliche d'Inghilterra. E poi, addentrandoci alquanto nell'essere e nello scopo della rivoluzione, non ci riusciva difficile dimostrare come questa si collegasse col protestantesimo, sicché a diversi intervalli s'erano visti in Italia i rivoluzionari farsi protestanti, e i protestanti rendersi rivoluzionari.

A tali nostre considerazioni rispondendo il giornale l'Italia, il 16 di settembre, ci diceva sinceramente così:

Il Piemonte. Armonia accusa la rivoluzione di essere protestante, di volersi sbarazzare della Chiesa Cattolica Romana.

«Qual sarebbe il male se ciò fosse? 11 solo mezzo concesso all'Italia di sbarazzarsi del Papato senza fastidio e lotte, sarebbe appunto quello di adottare le riforma italiana di Socino, Burlamacchi, o almeno quella del Sinodo Pistoiese preseduto da Monsignor De Ricci».

Voi vedete adunque che abbiamo colto nel segno. L'Italia rivoluzionaria vuole sbarazzarsi del Papato, cioè del cattolicismo. Questo è il grande scopo: schiacciare l'infame, come diceva Voltaire, e come Ausonio Franchi ripeteva nella Ragione di Torino, nella Terra Promessa di Nizza, e nella Gente Latina di Milano. «Il solo mezzo concesso all'Italia di sbarazzarsi del Papato sarebbe appunto quello di adottare la riforma italiana di Socino, Burlamacchi, o almeno quella del Sinodo Pistoiese, preseduto da Monsignor De Ricci . Questo è un parlar chiaro, e se l'Italia ha qualche difetto, non ha certo il vizio dell'ipocrisia.

Esaminiamo brevemente le riforme che essa ci suggerisce. La prima è la riforma di Socino. E qui vuoi sapersi che l'Italia non fa che ripetere le idee di Gioberti, il quale nel Gesuita moderno aveva fatto li panegirico di Lelio Socino, e vendicato alla nostra Penisola l'onore di aver messo al mondo il progenitore di Lutero. Uditene e studiatene bene le parole:

«Il predominio del discorso sulle potenze inferiori essendo il carattere proprio dell'ingegno italico, l'evoluzione logica dell'eresia protestante dovea uscir dalla patria

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di Dante e di Machiavelli, anziché da quella del Taulero e del Cuano. E così avvenne di fatto; che il vero creatore del razionalismo moderno

fu un concittadino di Catterina Benincasa (S. Caterina da Siena). , Lelio Socino sovrasta per ingegno a tutti i novatori del suo tempo; e però appunto parve minore di molti, e sovratutto di Luterò, perché questi pareggiavano il secolo ed egli lo superava (1)».

Che elogi ai protestanti! Gioberti, nel libro dove si leggono tali parole, accusa Bossoet e Sant'Alfonso di non essere arrivati a capire il loro secolo, ma loda Luterò d'averlo pareggiato, e Lelio Socino d'averlo superato, e osa paragonare S. Catterina da Siena coll'Archimandrita dei sociniani!

Dopo di ciò vi sarà facile comprendere il giornale l'Italia , quando viene a dirvi che la nostra Penisola per isbarazxarsi del Papa dovrebbe adottare la riforma italiana di Socino. A questo si pensava fin dal 1846, quando levavasi a cielo il Papato e inneggiarsi a Pio IX!

Che cosa sia il socinianismo ha detto testé Gioberti medesimo: è il razionalismo moderno, ossia il moderno protestantesimo. Nel 1540 Lelio Socino assisté alla famosa conferenza di deisti e di atei, che si tenne a Vicenza, e nella quale si convenne del modo di spiantare la religione di Gesti Cristo (2). A tal fine Socino ruppe guerra al sopranaturale, negò tutti i dommi, e introdusse l' art de decroire, l'arte di miscredere, come ben osserva uno scrittore francese.

Il socinianismo è ornai lo stato presente del protestantesimo, e se andate a Ginevra nella chiesa nazionale di San Pietro voi sentirete negata sfacciatamente la divinità di Cristo, la necessità del Battesimo, e tutti i dogmi delle Sante Scritture, compresa. la stessa ispirazione della Bibbia. Sicché dire agli Italiani che debbono adottare la riforma di Socino, è un invitarli a professare il protestantesimo dei radicali di Ginevra, a negare ogni specie di rivelazione, a non credere più né al Papa, né alla Chiesa, né a Dio.

Se non vi piace però Socino, il giornale l'Italia vi propone di adottare la riforma del Burlamacchi; e questo torna lo stesso, perché il Burlamacchi, sebbene originario di Lucca, nacque a Ginevra, e professò il calvinismo, insegnando il diritto in quella città.

Ma il curioso sta in ciò, che, mentre l'Italia ci suggerisce le dottrine del Burlamacchi per isbarazzarsi dal PapaRe, ignora o dissimula che queste dottrine mirano ad introdurre tanti Re-Papi quanti sono i governi degli Stati 1 Citiamo le precise parole del pubblicista ginevrino;

«Siccome la maniera di pensare dei cittadini o le opinioni ricevute possono influire molto al bene e al male dello Stato, bisogna necessariamente che la società comprenda il diritto di esaminare le dottrine che si insegnano nello Stato, affinché non si detti pubblicamente se non quello che è conforme alla verità, al vantaggio, e alla tranquillità della società. Quindi proviene, che spetta al Sovrano lo stabilire i dottori pubblici, le accademie, e le pubbliche scuole; e che il sovrano potere, trattandosi di religione, gli

(1) Gesuita Moderno, Tom. III, pag. 459, 460.

(2) Vedi le opere: Le Voile levé, la Conspiration contre l'Eglise Catholique, le Journal hist. et litter., 4 giugno 1792, pag. 474.

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appartiene per diritto; io quanto almeno la natura della cosa può permetterlo (1)».

Adottata adunque la riforma del Buri smacchi, addio libertà di coscienza, libertà di stampa, libertà d'insegnamento; noi non avremo più per Papa Pio IX» ma oggi Urbano Rattaai e domani Angelo Brofferio!

Il Burlamacchi (osserva bellamente Luigi Taparelli d'Àzegìio) ha creato u Europa una moltitudine di Papa-Re destinati ad assicurarci della verità, ed obbligarci a praticare la vera religione. Sarebbe però stato spediente ohe codesto saperficialissimo autore si fosse internato alquanto nel suo soggetto, e ci avesse fatto sapere se ogni sovrano conosce infallibilmente la verità, o se ha diritto di dichiararla senza conoscerla, di credere e di far credere ogni sua dottrina, ancorché falsa o incerta. Qualunque delle due proposizioni sarebbe stata degni» «ima della sua filosofia e della sua libera e liberatrice riforma (2)».

Il giornale l'Italia ci propone la riforma del Burlamacchi, e non sa che questi condannava ogni innovazione negli Stati, e rigettando il diritto divine toglieva anche il diritto popolare 11 citato giornale colla sua proposta mostra di odiare assai più il cattolicismo, di quello non ami la libertà.

Ma se non vi garba né Socino, né Burlamacchi, l'Italia vi propone almeno la riforma del Sinodo Pistoiese presieduto da Monsignor De Bicci. Ed anche questa non è una novità. Da buona pezza i rivoluzionari fanno all'amore colla memoria di Scipione Ricci e col Sinodo di Pistola. Gabriele Rossetti in quella che voleva liberare l'Italia dal giogo dommatico che la degrada, si facea comparire in visione Scipione Ricci, e dicea: a lui dinnanzi

«Caddi in ginocchio e gli baciai la mano».

Introduceva il Pio Pastore a gridare contro l'empia Roma] contro il falso tribunal di Penitenza, contro l'infallibile Santa Madre Chiesa e Cattolica Apostolica, Romana (3)». Epperò, la riforma del Ricci, che l' Italia) giornale, propone all'Italia, nazione, è l'apostasia dal Cattolicismo.

Il meglio è che, mentre sull'Arno si grida la croce alla dinastia di Lorena, sulla Dora si glorifica Pietro Leopoldo, sotto il cui regno fiorì il Ricci, e si tenne il sinodo di Pistoia. Mettetevi almeno d'accordo, o rivoluzionari!

1 Principi ornai dovrebbero vedere dove mirano le riforme religiose, ad a che cosa riescono. Scipione Ricci facea dir in volgare i salmi, mutava qualche parola nell'Ave Maria, levava gli ornamenti preziosi delle Chiese, i Brevi e le Memorie d'Indulgenze, ecc. , ecc. Pietro Leopoldo acconsentiva.

Si celebrava la pseudosinodo di Pistoia, dove si emettevano cinque proposizioni eretiche e settanta scismatiche, erronee, scandalose, calunniatrici, maliziose, come vennero qualificate dal Papa Pio VI nella Bolla Auctorem fidei; ma la Casa di Lorena non se ne dava gran pensiero né allora, né poi.

E venne la rivoluzione, questa grande ministra della giustizia di Dio, e furono castigati solennemente alla presenza dell'Europa gli scandali

(1) Diritto politico, parte I, cap. 8, § 6.

(2) Saggio teoret. à éiritt. nat. , Napoli, 1856, pag. 643.

(3)

il Veggente in solitudine, giorno VIII, Italia 1846.

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e le usurpazioni Leopoldine, ed ora si mostra chiaro a' Sovrani dove mirino coloro che li invitano ad incatenare la Chiesa, a combattere il Papa, ad abbracciare la Rì» forma.

L'Italia vorrebbe vedere altre Case dove è oggi la Casa di Lorena, epperò propone almeno la Riforma del Sinodo Pistoiese, se non si vuole adottare quella di Socino e di Burlamacchi. Principi e popoli, capitela una volta. La rivoluzione v'odia tatti di gran cuore; agli uni vuol togliere (la Corona, agli altri la fede. Perché ha tanto sublimato il trono di Pietro Leopoldo? Per farlo più rovinosamente cadere sotto Leopoldo 11. Sono gli apologisti delle leggi Leopoldine, che strapparono la Corona al Granduca di Toscana.

IL CONTE DI CAVOUR E NAPOLEONE III

Con questo titolo, la Gazzetta di Augusta del 14 settembre 1859 pubblicava:

« Parigi, 40 settembre. A Napoleone III venne l'idea dell'armistizio di Villafranca, principalmente perché profondamente disgustato della politica del conte Cavour. Quest'uomo di filato e l'Imperatore de' Francesi parvero per lungo tempo di accordo, perché andavano di accordo nel pensiero di fiaccare la potenza austriaca in Italia. Ma non mai venne in mente all'Imperatore dei Francesi di dividere l'Italia in tre parti: una pel Re di Piemonte sino alle porte di Roma; una per la città di Roma e suo territorio onde includervi il Papa; ed una pel Re di Napoli.

«Questo però fu il pensiero di Cavour, e da anni ne erano già di accordo perfettamente e convenivano in quest'alleanza i capi della nobiltà Bolognese e Toscana e i professori delle Università. Cavour lo dissimulò all'Imperator dei Francesi, e a lui come anco a Mazzini e suoi seguaci giuocò questo tiro alle spalle. Ma subito dopo che per le battaglie di Magenta e di Solferino le cose d'Italia erano state risolte nel principale dalla spada di Napoleone, in Toscana, a Parma, a Bologna, indi a Modena e in una gran parte allo Stato ecclesiastico si svolse così mirabilmente la politica e l'attività di Cavour, che l'lmperatore ne sentì del disgusto e nella sua mente furono risolte le trattative di Villafranca. Giammai pensò egli di permettere che l'Italia si costituisse senza il suo consiglio, la sua volontà e la sua cooperazione, col puro aiuto delle sue armi, e sotto la condotta di Cavour»

«Questa questione già difficile in sé, e sempre più difficile per la situazione in cui si vuole mettere il Papa come principe della Chiesa, lo diviene anco più in vista della politica del gabinetto inglese (Palmerston-Russell), ohe a Cavour ed a' suoi disegni è personalmente amica. La questione principale non è più l'Austria e la sua posizione nel Veneto, e neppure la Casa di Lorena in Toscana e Modena, ma da una parto è il papato e la situazione del Papa, e dall'altra la potenza e l'ingrandimento della Casa di Piemonte. La potenza austriaca in Italia è infrante, perone essa ha contro di so lo spirito popolare di tutta l'Italia, meno

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i contadini nel Veneto e nella Lombardia, come anco quelli di Toscana, tuttavia affezionati al vecchio Granduca. Ma il contadino italiano non costituisce, come il francese, una forza popolare.

«Se il Piemonte possieda l'attitudine politica di incorporarsi elementi così indipendenti quali sono quelli della Lombardia, Bologna, e Toscana, lo deciderà il tempo. Finora Cavour non si è mostrato se non per una testa politica; ora egli è fuori di servizio, intanto che Vittorio Emanuele raccoglie quanto è stato seminato. Il reame di Piemonte deve trovare un nuovo centro alla sua potenza onde questa grande sua ambizione corrisponda ad una causa non più piemontese, ma puramente italiana».

Noi riproduciamo, scrive l' Unione, questo articolo senza commenti, facendo soltanto osservare, che la Gazzetta di Augusta invece di collocarlo sotto la rubrica delle corrispondenze di Parigi, lo ha stampato come primo articolo in capo al giornale.

L'UNANIMITÀ DEL POPOLO

E

LE CIRCOLARI DEL GOVERNO TOSCANO

(Pubblicato il 20 settembre 1859).

Quantunque il governo della Toscana abbia dichiarato a' suoi concittadini: il re Vittorio Emanuele ha accolto i nostri voti, - epperò sa la dichiarazione fosse vera il Granducato debba fare parte del regno sardo, nonostante continua ad esserne distintissimo, ed anzi così diviso, che un toscano decorato della croce dei Ss. Maurizio e Lazzaro dal nostro re non potè portare l'assisa di cavaliere, se prima non ne ebbe ottenuta dal governo proprio speciale licenza.

Inoltre sul Monitore Toscano noi veggiamo quotidianamente comparire nuove leggi e nuovi decreti, che non sono dell'assoluta necessità, e partono da un governo, il quale, posta l'accettazione del voto dell'Assemblea, dovea tosto cessare, o almeno abbisognava d'una pubblica conferma, per continuare nell'esercizio de' suoi antichi poteri.

Da questo fatto noi argomentiamo che nel concetto dei governanti tanto Piemontesi, quanto Toscani non basti la cosi detta volontà del popolo per esautorare e creare i Sovrani, ma si richiegga qualche cosa di più, che contemporaneamente si aspetta dalla Toscana e dal Piemonte. Del che abbiamo buona ragione per rallegrarci, come eravamo affitti allora quando la vita delle dinastie faceasi dipendere dal mobile avviso della plebe.

Ma nell'Italia centrale, e principalmente nella Toscana insorsero due questioni: l'una di diritto, l'altra di fatto. !ji quistione di diritto era, se bastasse la volontà del popolo per esautorare la Gasa di Lorena; e pare che non basti, poiché le cose continuano nell'incerto e nel provvisorio, come abbiamo detto, nonostante l' unanimità dell'Assemblea e la supposta accettatone del Piemonte.

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La questione di fatto era ed è tuttavia questa: se proprio il popolo toscano voglia ciò che l'Assemblea ha deliberato all'unanimità.

Chi ci ha indotto a dubitarne sono le circolari che di giorno in giorno scrive e pubblica il governo di Firenze, circolari che, posta quella concordia di voleri ed unanimità di voti, dovrebbero dirsi inutili ed assurde.

Di fatto il Monitore Toscano del 24 di agosto incominciò a pubblicare una circolare alle autorità ecclesiastiche, civili, politiche e militari dello Stato, dove diceva:

f Qualunque dubbiezza nella legittimità del governo e ogni esitanza a seguirlo nella strada aperta dal vero bene della patria comune, non solo sarebbe Atto di ribellione «dia suprema autorità dello Stato, ma sarebbe ancora atto di tradimento contro tutta la nazione. Il governo è risoluto a impedire e troncare qualunque macchinazione, a reprimere qualunque attentato, a punire qualunque siasi cospiratore e perturbatore, senza distinzione veruna di nascita, di grado, di officio».

Come mai tali minaccio quando tutto il popolo è unanime? Perché guastare una così bella concordia con principii tanto severi, come quelli che proibiscono qualunque dubbiezza ed ogni esitanza? Perché supporre probabili atti di ribellione alta suprema autorità dello Stato, quando il governo è figlio dell'unanime volontà del popolo? Perché parlarci di macchinazioni e di attentati, di cospiratori e di perturbatori, quando tutti sono d'accordo, e quando l'Assemblea, che rappresenta il popolo senza distinzione veruna di nascita, di grado, d'ufficio, «bbe una sola mente, un eoi cuore ed un sol suffragio?

Il 25 di agosto l'avvocato Vincenzo Salvagnoli, ministro degli affari ecclesiastici, pubblicava nel Monitore Toscano un'altra circolare agli Arcivescovi e Vescovi del Granducato, nella quale li invitava ad «inculcare pubblicamente ai suoi sottoposti il dovere di ubbidire alla suprema potestà dello Stato», ed a rammentare e esplicitamente che qualunque atto settario di qualsiasi ecclesiastico lo sottoporrebbe alle leggi ed ai giudici, e non potrebbe dolersi se ne risentisse i più gravi effetti, e fosse riprovato come vero autore della pubblica perturbazione».

Deus et natura nil frustra maoliuntur, dice un celebre assioma, e pare a noi eoe uo governo dovrebbe seguire l'ordine indicato da Dio e dalla natura e non spendere il suo tempo in cose inutili. Se tutto il popolo toscano vuole ciò che l'Assemblea ha risoluto all'unanimità, tale pure dee dirsi il voto del clero, giacché il clero (or«a parte del popolo; e se il clero è concorde come tutti gli altri cittadini Dell'approvare le avvenute mutazioni di governo e di dinastia, perché si chiede a' Vescovi di inculcare pubblicamente a' preti i loro doveri e di minacciare ohi accendesse le passioni? Lasciate che abbraccino tali misure i rettori degli stati divisi in parli, dove tenzonano opinioni opposte e contrari desiderii, ma in Toscana, dove regna tale e tanta unanimità, scusateci, queste circolari sono corbellerie.

Né meno assurda è una terza circolare pubblicata nel Monitore Toscano dei 25 di agosto, e indirizzata ai signori Prefetti, nella quale, ricordato il volere nazionale, raccomandasi di non omettere veruna diligenza preventiva di tutto

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quanto potesse attentare l'ordine pubblico», e poi specialmente si incute ai Prefetti d'invigilare « instancabilmente gli ecclesiastici cattolici e ì ministri delle altre religioni», e tener d'occhio qualunque società o aggregazione religiosa, e procurare che tutti obbediscano pienamente alla suprema autorità della Stato.

E qui nói ripetiamo sempre il solito ritornello: Se la Toscana è unanime con voi, e deve esserlo, se l'Assemblea rappresentava la nazione, perché tali ingiunzioni ai Prefetti, perché tante paure, perché presentire tanti pericoli raccomandare una vigilanza instancabile e una diligenza preventiva così scrupolosa.

Né finiscono qui le ci scolari del governo Toscano. Il signor Enrico Poggi, ministro di grazia e giustizia, scrisse pure la sua ai presidenti e procuratori generali delle Corti d'Appello, ed ai presidenti e procuratori del Tribunale dì prima istanza, ed adoperò parole e raccomandazioni così calde, cene quelle già adoperate dall'avv. Salvagnoli scrivendo agli Arcivescovi e Vescovi.

«Ogni contrarietà, scrisse il signor Poggi, ed opposizione manifesta al volere del paese sarebbe riprovevole in chiunque, riè potrebbe essere tollerata, s'adoprino adunque i magistrati affinché il loro esempio e la loro operosità riesca di sgomento ai tristi insidiatori del nuovo ordine di cose».

Ma dove sono, se il Cìel vi salvi, dove sono questi tristi insidiatoti, poiché il popolo è unanime? Son forse cosi pochi che non riuscissero a mandare un deputato all'Assemblea nazionale? E allora perché averne tanta paura? Un governo così forte, così concorde, fondato sul volere nazionale, ha egli a temere un pugno di mestatori, o di faziosi, come ora volete chiamarli voi? Lasciate in pace i magistrati, e se sta vera l'unanimità del popolo, chi insidiasse il nuovo ordine di cose, sarà represso dal popolo istesso, e ne uscirà col danno e colle beffe.

Ma non pare che di ciò sia persuaso il governo toscano, giacché abbiamo ancora una circolare pubblicata dal Monitore il 1 di settembre, e indirizzata ai Prefetti, dal Presidente dei ministri, barone Ricasoli. signor barone ribadisce il chiodo, e dopo d'aver parlato dei voti della Toscana, continua dicendo «Chiunque contrastasse a quei voti sotto qualunque pretesto, chiunque innalzasse una bandiera che non fosse la bandiera italiana, oramai fatta nostra troverà nell'autorità pronta e severa repressione, e nella pubblica opinione mai anticipata condanna».

Ci duole all'anima che il governo toscano con tutte queste circolari, ripetizioni e minacce di severe repressioni, abbia dato luogo ai maligni di rivooare in dubbio l'unanimità proclamata dall'Assemblea' Imperocché le male lingue potrebbero dire che in tutte le classi dei cittadini della Toscana vi sono molte persone scontente e contrarierai nuovo ordine di cose. Ve ne sono tra cittadini privati, giacché si riputò necessaria una circolare minacciosa contro loro, indirizzata alle autorità civili; ve ne sono tra gli;ecclesiastici cattolici e i ministri delle altre religioni, giacché venne imposto ai Prefetti di invigilare instancabilmente sulla loro condotta ve ne sono tra i militari, perché anche a coloro che presiedono alle milizie fu ricordato con apposita circolare ohe qualunque dubbiezza nella legittimità del governo sarebbe atto di ribellione e di tradimento. .

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La Toscana è unanime e tatti i ministri sono in faccende per sorvegliare e raccomandar sorveglianza! Sorvegliano i Presidenti delle Corti d'Appello, sorvegliano i Procuratori generali, sorvegliano i Presidenti e i Procuratori del Tribunale di prima istanza, sorvegliano i Prefetti; si chiede agli Arcivescovi e Vescovi ohe sorveglino alla loro volta; breve, si raccomanda sorveglianza alle autorità ecclesiastiche, civili e militari dello Stato.

Ma Napoleone III non crede di avere unanime la Francia per sé, e tuttavia non raccomanda tanta sorveglianza. Non tutti sono unanimi in Inghilterra, né amano lord Palmerston, eppure, egli sì farebbe coscienza di scrivere una serie di circolari come quelle da noi accennate; anzi non ne scrisse neppure un terzo il governo stesso di Leopoldo II, comechè, a detta del Monitore Toscano e a giudizio dell'Assemblea, avesse tutto il popolo unanime centro di lui»

Quale è dunque la conseguenza di tutto ciò?... Noi scriviamo, o lettori, le premesse, ma certe conseguenze è meglio che le tiriate voi.

PROTESTANTISMO E RIVOLUZIONE

(Pubblicato il 20 settembre 1859).

Abbiamo già annunziato che lord Shaftebury, genero di lord Palmerston ed uno de' più sfegatati nemici del Cattolicismo, stava per assumere la protezione di quel movimento che si ò manifestato da pochi mesi in qua nell'Italia centrale, e principalmente nelle Romagne, confortando i rivoluzionari co' suoi consigli, col suo nome, e coi denari e colle armi inglesi.

Questo fatto è assai importante, e noi dobbiamo recarne i documenti che troviamo nel Times di Londra, tradotti dal Diritto del 19 di settembre. Lord Shaftebury non si decise da sé a pigliare il patrocinio dell'Italia centrale, ma venne spinto a ciò da alcuni Italiani che trovansi in Londra, i quali a questo caldo protestante, a questo presidente delle Società Bibliche raccomandarono il trionfo delle proprie idee e dei loro desiderii colla seguente lettera:

1 Leinster, terrace, Hvde Park 3 settembre.

Milord, - La simpatia addimostrata dalla nazione inglese per la causa italiana, e più specialmente per la quistione dell'Italia centrale, ha dato a' sotto scritti l'idea di rendere questo sentimento, per il quale mi trono la più viva gratitudine, efficace colla formazione d'un comitato, alla cui testa dovrebbe figurare un nome di grande autorità in Inghilterra.

E il none che si presentò immediatamente alla nostra mente fu il vostro.

Noi chiediamo questo nome, milord, e ci mettiamo sotto la vostra direzione in ogni rispetto. Piacciavi, per conseguenza, intraprendere la formazione di questo comitato, in cui è nostro desiderio l'elemento inglese prevalga.

È naturale che gl'Italiani s'interessino all'emancipazione d'Italia, ma è generoso per l'Inghilterra il mostrare una sì calda simpatia per essa,

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e risulterebbe di un gran servizio agl'Italiani, se questa grande nazione, che precedeva ogni altra nella via della libertà, esprimesse codesta sua simpatia in modo efficace. Noi confidiamo in voi, milord, e permettete che conserviamo una tale fiducia.

Gli obbeditissimi vostri servi

G. T. Avesani - G. Devincenzi - L. Serena

- B. Fabbriconi - J. B. Rocca.

Lord Shaftebury die una lunga risposta, che è un'apologia della rivoluzione italiana, nella quale fin dal principio tocca la quistione religiosa che in Italia si concatena colla politica, come in Inghilterra, In sostanza questo messere dice agli Italiani che per avere la libertà e l'indipendenza debbono abbandonare il Cattolicismo come fecero gli Inglesi. Il vostro, egli dice, caso è umilissimo al nostro, e accenna al beneficio di civili e religiose libertà. Noi riferiamo per intero la risposta di lord Shaftesbury che è la seguente:

«Signori, - La lettera da voi ricevuta conferiva su me il più grande onore.

«Se io potessi avere la stessa opinione che voi avete della mia alta posizione ed influenza, io non esiterei un istante ad accettare il posto che dalla vostra confidenza mi viene offerto. I diritti, dirò di più, le giuste esigenze d'Italia, sulla simpatia e cooperazione degli Inglesi, sono tali, che sembra impossibile ad ognuno, sia in alto o basso stato, di ricusare qualsiasi assistenza che potesse essere in poter suo di dare. Il vostro caso è sìmilissimo al nostro; noi pure lungamente ed ardentemente desiderammo il beneficio di civili e religiose libertà. Per ottenerle noi ci liberammo dei nostri colpevoli governanti; scegliemmo i loro successori e consolidammo una forma di governo tanto poco diversa, quanto era possibile, da quella alla quale eravamo abituati, e tutto questo fu fatto senza spargimento di sangue, senza saccheggio, senza confusione, ed anche senza il minimo disordine nella pubblica esistenza, e semplicemente per il volere di un popolo unito determinato a voler esser libero.

«La vostra condotta è stata la medesima. Ma grande come era la nostra, la vostra è stata, presentemente, anche più grande. Noi avevamo per lungo tempo goduto la forma e spesso l'esercizio di libere istituzioni; il principio, la pratica di essi erano a noi famigliari. Ma la libertà cadde su voi simile ad uno scoppio di tuono; eppure trovò voi tutti ordinati, pacifici, pronti ai benefizi che essa imparte, ai doveri che essa impone, come se educati foste dall'infanzia a libertà. Così intenso è l'effetto che semplicemente l'amore di nazionale libertà può produrre sulle intelligenze e sui cuori degli uomini.

«Gli fu detto che voi eravate indifferenti alla libertà e non avevate coraggio per asserirlo. Ci fu detto che eravate incapaci di governarvi da voi medesimi, e che le baionette austriache erano necessario per salvare il vostro bel paese dal sangue, dal saccheggio e dall'anarchia dello stesso vostro popolo. Ci fu detto che il vostro mutuo odio e le mutue vostre gelosie eran tali, che niuno Stato, in una città andrebbe d'accordo fra loro. Che cosa non dissero a vostro detrimento e disonore? Molti credettero a codeste asserzioni, lo pure vi posi ascolto un tempo, ma chi potrebbe maravigliarsene? Quali precedenti aveva la storia d una sì apparente, subitanea capacità per l'esercizio del più grande ministero umano,


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l'esercizio delle civili e religiose libertà? Una nazione parve esser nata in un giorno, nata ad un tratto nella sua piena e morale grandezza con tutto il potere di sapersi da se medesima governare, senza cui non fuvvi e non vi sarà mai una vera e durevole libertà.

«Or bene, se tali cose come queste non commovono il cuore dell'intera razza anglosassone in qualunque parte del mondo trovasi un suo membro, io non saprei quale altra cosa lo potrebbe commuovere.

«Ma sicuramente, voi non dovete dubitarne un istante. Voi conoscete i sentimenti ed avete udita l'eloquenza di alcuni nostri uomini di Stato. I popoli, parlando per l'organo della stampa, mostrano sicuri segni dell'evidente loro simpatia; né essi vorrebbero, ove fossero chiamati, rimaner più a lungo silenziosi ed inoperosi nell'adottare quelle misure, che meglio potrebbero dare effetto ai loro sentimenti.

«Voi avete suggerito la formazione d'un comitato, consistente d'uomini nati in ambo i paesi, in cui l'elemento inglese debba preponderare. Questo comitato, io aggiungo, dovrebbe valere a ricevere quella contribuzione che il popolo inglese può essere indotto a dare onde assistere gli sforzi del popolo dell'Italia-centrale, a mantenere i loro diritti e difendersi contro ogni forma di aggressione.

«Questa linea di condotta è buona e giusta, poiché qualunque errore siasi potuto commettere prima del risultato di codesta politica, o riguardo la speranza di combattere per la libertà, le cose sono ora compiute, e l'Imperatore de' Francesi, leale e sincero, come crediamo egli sia ai principii espressi ed al risultato da lui bramato, bisogna si rallegri di vedere il sano ed indipendente atto di un popolo la cui liberazione ridonda a sua gloria.

«Io non veggo niuna obbiezione al vostro progetto. In qualunque modo vi si contribuirà, sarà riguardato dagli Italiani più come un segno di simpatia, che come un aiuto materiale nelle difficoltà in cui versano. La scelta dunque del preside del comitato sia differita. è a desiderarsi che venga nominato uno che meglio possa conciliare gli animi e farsi amici tra tutte le classi, e disarmare qualunque opposizione. Se, dopo le debite ricerche, niun altro uomo meglio di me potrà essere da voi scoperto che potesse servire al vostro nobile disegno, io allora sarò pronto ad accettare, tenendo per fermo che Dio benedirà a' vostri sforzi e farà che essi abbiano una felice soluzione, in armonia col loro incominciamento».

Lord Shaftesbury è così giusto ne' giudizi che reca sulle cose d'Italia, come è veridico nelle allusioni che fa alla storia inglese. Egli dice che l'Inghilterra compì la sua rivoluzione e la sua apostasia senza spargimento di sangue! Eppure chi ignora come gl'Inglesi andassero ben innanzi a' Francesi nell'uccidere il loro Re, e non istrappassero il popolo britannico dal grembo della Santa Chiesa se non per mezzo di prigioni e di patiboli che rinnovarono nel secolo decimosesto le crudeli persecuzioni di Nerone e di Diocleziano?

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LA MALATTIA DEL SILENZIO

NELL'IMPERO FRANCESE

(Pubblicato il 21 settembre 1859).

«Le Moniteur en rétablissant les vrais principes de celte question importante (la libertà della stampa) donne un nouveau gage à la stabilité et la sureté publique».

Pays, 19 settembre.

I Parlamentaristi del Journal des Débats due giorni fin lagnavansi presso l'Imperatore Napoleone 111 di una malattia che affligge la Francia, la malattia del silenzio, la quale, a detta loro, avea spiato la società francese ad una specie di atonia, e «lasciava l'Imperatore nel vuoto, il solo operante, il solo pensante, il solo parlante in mezzo ad una folla, che a poco a poco si disavvezzo della briga di agire e pensare da se stessa .

I Parlamentaristi del Journal des Débats supplicavano Napoleone III di guarirà la povera silenziosa, restituendole la libertà della parola, e lasciavano capire che, se l'Imperatore si fosse convertito al parlamentarismo, quei signori dei Débats, gettandosi dietro le spalle le memorie antiche, sarebbero divenuti sinceramente imperiali.

La malattia del silenzio consiste nella legge del 17 febbraio 1852. Imperocché 'Imperatore Napoleone per dar pace, forza, grandezza alla Francia, fl due dicembre del 1851 aveva reputato necessario imprigionare un buon numero di deputati, e sospendere un buon numero di giornali (1). Passato il pericolo, i deputati in gran parte vennero rimessi in libertà; ma i giornali furono assoggettati ad una legge particolare.

Secondo il conte di Morny6 e il suo discorso detto alla presenza del Consiglio generale del Puy-de-Ddme, questa legge non sottometteva la Francia a nessuna misura preventiva; ma secondo il Journal des Débats «non si potea trovare sistema più preventivo di quello che obbliga lo scrittore a studiarsi di evitare il casuale dispiacere dell'amministrazione sotto pena di avvertimenti, di sospensione ed anche di soppressione del giornale in cui scrive».

Il Moniteur del 18 di settembre rispose all'invito ch'era fatto al governo premettendo) che i partiti ostili vorrebbero maggior libertà per agevolare i loro

(1) I giornali di Parigi chela mattina del 2 dicembre ricevettero l'ordine di sospendere le loro pubblicazioni furono dodici, cioè l' Union, l'Assemblèe Nationale, l'Opinion Publique, le Messager, le Corsaire, l'Ordre, le Siede, le National, l'Avénement du Peuple, la République, la Révolution, le Charivari. Le stamperie e litografe furono guardate a vista da militari, e fu stabilito un ufficio di stampa nel ministero dell'interno coll'ordine di sopprimere ogni polemica ostile.

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assunti contro la Costituzione (1). Però l'Imperatore stava fermo nel mantenere la legge del i 852 come che preventiva. «Il governo, soggiungeva il Moniteur , non si scosterà dal sistema, che lasciando vasto campo allo spirito di discussione, di controversia e di analisi previene gli effetti disastrosi della menzogna, della calunnia e dell'errore».

La malattia del silenzio durerà adunque nelle ossa della Francia con gran do lare non della Francia stessa, ma del Journal des Débats. Il quale tuttavia non potrà lamentarsi ripetendo una sua frase commerciale applicata alla politica, che la libertà sta divenuta in Francia un solo oggetto di esportazione, imperocché dopo la calata dei Francesi in Piemonte venne introdotto tra noi il sistema delle sospensioni, malattia che però colpì i soli giornali conservatori, l'Armonia, acattolico, il Covrrier des Alpe e l' lndépendant d'Aosta.

Per parte nostra stiamo col Moniteur, e riconosciamo la verità del principio, che una legge sulla stampa e dee prevenire gli effetti disastrosi della menzogna, della calunnia e dell'errore». Questo principio non è dei grandi principii dell'ottantanove, ma appunto perciò ci piace, e l'approviamo in generale, dovesse pure costarci cara la nostra approvazione. È il principio stabilito dalla Chiesa subito dopo l'invenzione della stampa; è il principio ripetuto da Gregorio XVI nella sua celebre Enciclica del 15 di agosto 1832, dove diceva: «Taluni, oh dolore! si lasciano trascinare a tale impudenza da sostenere che il diluvio di errori è ben compensato da un libro che forse spunti per difendere la verità!»

Obbligo dei governi è, non pare verso se stessi, ma terso la società, prevenire gli effetti disastrosi della menzogna,. della calunnia e dell'errore. La legge repressiva non basta, imperocché la repressione è inutile, e talvolta aggiunge maggior forza all'errore perché, reprimendolo, invoglia a conoscerlo, e porge occasione di ripeterlo. Un processo contro un giornale era in Francia sotto Luigi Filippo on vantaggio pel giornale, e un danno pel governo, giacché mostrava la debolezza di questo, e accresceva la pubblicità e gli associati di quello; laonde spessissimo i giornali si procuravano il benefizio d'un processo, ed erano a nozze quando sentivansi il fisco ai fianchi.

Ma. qui taluno verrò fuori dicendoci: Se approvate il principio emesso dal Moniteur di Parigi, perché poi vi lagnate che l'Armonia sia stata sospesa in Torino? Voi vi date della zappa in sui piedi. - Scusateci; siamo pienamente d'accordo con noi medesimi.

(1) Ecco il testo officiale dell'importantissima nota del Moniteur sulla legge della stampa:

Plusieurs journaux ont annoncé la prochaine publication d'un décret modifiant la législation de 1852 sur la presse.

«Celle nouvelle est complétement inexacte.

«La presse, en France, est libre de discuter tous les actes du gouvernement et d'éclairer ainsi l'opinion publique. Certains journaux, se faisant, à leur insu, les organes de partit hostiles, réclamant une plus grande liberté, qui n'aurait d'autre but-que de leur faciliter les attaques contre la constitution et les lois fondamentales de l'ordre social. Le gouvernement de l'Empereur ne se départira pas d'un système qui laissant un champ assez vaste à l'esprit de discussion, de controverse et d'analyse, prévient les effets désastreux du mensonge, de la calomnie et de l'erreur».

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Imperocché dovete sapere che l' Armonia venne sospesa appunto perché il ministero del conte di Cavour non volle accettare il principio del Moniteur.

Se siamo bene informati, e crediamo di esserlo ottimamente, la Direzione dell'Armonia, convinta dell'impossibilità di fare una guerra fortunata restando la stampa libera, non solo aderì sul giornale alla legge del 28 aprile, ma recossi al ministero, supplicandolo di nominarle un censore acni sottometterei proprii scritti prima di mandarli alle stampe. La Direzione dell'Armonia protestava di non voler nulla scrivere che fosse contro il governo, epperò desiderava di averne quotidianamente gli avvisi e i consigli. Ma non poté ottenere quanto domandava, epperò in fin dei conti venne sospesa.

Certo è che là malattia dei silenzio in certi tempi principalmente diviene una dolorosa malattia, ma noi crediamo che sia minor male della malattia dell'errore, della menzogna e della calunnia. Può darsi il caso però, in cui il silenzio sia solo contro la verità, e la parola venga lasciata libera alla calunnia, alla menzogna ed all'errore; ma questo allora è uno Stato di persecuzione, di despotismo, di tirannia, e una simile condizione di cose non si discute.

Ma che, generalmente parlando, il sistema preventivo vada innanzi al repressivo è un vero che tutti debbono vedere e riconoscere. L'uomo è di fuoco alla menzogna, e di ghiaccio alla verità, come diceva un francese, e in questo mondo corrotto saranno sempre maggiori i trionfi del bugiardo che del veritiero, dell'empio che del pio, del rivoluzionario che del conservatore. Se uno stamperà che è lecito il furto, e l'altro che non è lecito, cento staranno col primo e dieci appena col secondo; e la repressione, quantunque fortissima, non farà mai che quella scelleratezza non sia stata stampata.

In tutte le cose che presentano pericoli i governi abbracciano sistemi preventivi. Nella vendita dei farmachi e dei veleni, nell'esercizio della medicina, nello stesso insegnamento orale non si vuol concedere assoluta libertà; e si ritiene che la repressione non basti; e potrà bastare nell'esercizio dell'arma più micidiale che si conosca qual è la stampa?

Né vengano a dirci che non si può dare civiltà, progresso, forza e grandezza, se non si lascia libera la manifestazione del pensiero; perché la Francia prova solennemente il contrario, giacché dall'ottantanove in poi non conseguì mai quel grado di forza che ha presentemente, ed ottenne in pochi anni, col sistema di un moderato silenzio. Voglia Iddio che l'Imperatore non abusi della sua potenza!

Noi possiamo però confidare che avendo riconosciuto in Francia necessario di tenere incatenati i partiti ostili al governo, non vorrà imporre agli altri governi di scioglierli e metterli in libertà, né di mutare il sistema che previene gli effetti disastrosi della menzogna, della calunnia, e dell'errore.

Tra i tanti articoli del Moniteur, che apparvero nell'anno corrente, questo del 18 di settembre ci pare il più importante, come quello che non si raggira su di un fatto, ma intorno ad una dottrina, e condanna solennemente uno de' grandi principii dell'ottantanove.

Ora non ci resta che a far voti, perché in Francia sieno prevenute tutte le menzogne, tutti gli errori, tutte le calunnie; perché il governo non badi solo a se stesso,

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e a ciò che personalmente lo riguarda, ma si ricordi che le menzogne si concatenano, che una calunnia ne chiama un'altra, e che l'empietà è ad una volta un errore, una menzogna ed una calunnia.

UN PO' DI STATISTICA

SULLE VOTAZIONI DELL'ITALIA CENTRALE

(Pubblicato il 23 settembre 1869).

Non abbiamo finora dati statistici officiali sulle votazioni avvenute a Bologna, Firenze, Modena e Parma, quantunque i giornali francesi ed italiani li abbiano ripetutamente domandati per poter profferire un fondato giudizio.

Posammo tuttavia raccogliere qua e colà alcune cifre, le quali ci dimostreranno quanto sia falso che le diverse Assemblee dell'Italia centrale rappresenti tasserò ed esimessero il voto delle popolazioni.

Incominciando dalle Romagne, il Giornale di Roma del 10 di settembre ci dichiarò questi due punti della maggiore importanza:

1° Nelle Romagne si compilarono le liste elettorali a capriccio, e si tralasciò d'inscrivere tra gli elettori un gran numero di coloro che, secondo la legge, dovevano godere del diritto elettorale.

2° Più di due terzi degli elettori inscritti si sono astenuti dal prendere parte alla votazione, protestando tacitamente colla toro condotta che non volevano mettere in dubbio i diritti legittimi del governo del Santo Padre.

Nessun giornale né officiale, né officioso ha osato smentire queste due asserzioni, che non possono altrimenti smentirsi che con una statistica particolareggiata e convalidata da documenti.

Finché dunque non ci viene provato il contrario noi possiamo conchiudere:

Che io Romagna an decimo appena della popolazione fu ascritta tra gli elettori;

Che due terzi degli inscritti rifiutarono di prender parte ad una votazione che riusciva ad offendere il Santo Padre;

Che il terzo dei votanti non fu tutto pei Deputati eletti, ma n'ebbero molti contrari e ancora favorevoli al Papa.

Fatto bene il calcolo si troverà che quanto spacciasi nelle Romagne come voto delle popolazioni non è nemmeno il voto d'una trentesima parte del popolo!

Passiamo io Toscana. Il signor Leopoldo Galleotti, volendo supplire al silenzio del Monitore, ci ha dato' qualche cifra ohe noi veggiamo riferita nei Nord di Brusselle. Le cifre saranno precise? Supponiamolo e ragioniamo.

Il compartimento di Firenze ha trentaquattro collegi elettorali, nei quali vennero iscritti 30,227 elettori; e di questi votarono soli 14,669. Dunque più della mela degli elettori del compartimento di Firenze si astennero dal votare. Ma i quattordicimila che volarono furono tutti pei deputati eletti? No, altrimenti avrebbero ottenuto tutti l' unanimità, ciò che non venne mai detto, e non era possibile. Dunque dai quattordicimila votanti dovranno sottrarsene almeno un quattromila,

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che non furono per gli eletti, e perciò troveremo che appena un terzo degli elettori toscani nominarono l'Assemblea, la quale dee dirsi perciò l'espressione della minorità, e non della maggioranza del popolo.

Il compartimento di Lucca, conta tredici collegi; gli elettori iscritti furono 10,930, ma non presero parte alla votazione che 5,464.

Quanti elettori votarono pei deputati spediti all'assemblea? Il signor Galleotti noi dice, e sarebbe ben necessario saperlo. Ad ogni modo più della metà degli elettori iscritti nello scompartimento di Lucca non ha voluto votare, cioè non ha stimato di avere il diritto di mutare la dinastia del Granducato.

Il compartimento di Pisa novera undici collegi, dove vennero iscritti 6,969 elettori, e di questi votarono un po' più della metà, cioè 3,966. Ma chi vi dice che molti non abbiano votato per lo steso Granduca? Nella votazione per la Costituente Romana nel 1849, tra que' pochi che votarono, non si rio vennero anche voti pel Santo Padre, pei Cardinali e per Monsignori? Lo «tesso si può supporre del compartimento di Siena nel quale vennero iscritti 6,828 elettori,e votarono 4,068.

Nel compartimento di Arena abbiamo dieci collegi, 8,372 elettori, e soli 3,836 votanti. In quello di Grosseto cinque collegi, 2,112 elettori, e soli 1440 votanti. Finalmente nel compartimento di Livorno sono cinque collegi, 2,873 elettori e 1,907 votanti.

In sostanza tra gli ottantasette collegi che tono in Toscana, cinquantasette gli elettori iscritti che votarono, furono minori degli elettori iscritti che tralasciarono di votare; e i votanti in tutto non sommarono ohe a 35,240. Nell'aprile del 1854 la popolazione del Granducato era di 1,815,686 abitanti. Diteci un po' se non è tirannia superlativa imporre la volontà di trentacinquemila a quasi due milioni?

Ma c'è anche un'altra osservazione da fare sulle votazioni in Toscana. Nella scelta degli elettori si adottò la legge del 1848. Ora il Guerrazzi attestò che; secondo questa legge, la Camera non palesava il voto della più parte del paese. Eppure allora le elezioni erano legali, correva la luna di miele ed i più vi pigliavano parte. Ma che dovrà dirsi nel 1859, quando appena la metà degli iscritti votarono, laddove,la Camera non avrebbe palesata la volontà del paese, dato pure il caso che tutti gli iscritti avessero preso parte alla votazione?

Dicono che la legge del 1848 comprende cosi ampio numero di elettori, che quasi equivale al suffragio universale. Questo non e vero, e la diplomazia lo sa meglio di voi» Goal il Guerrazzi (1).

Diciamo ora una parola dell'Assemblea di Modena. L'eccelso Ferini pubblica i documenti del duca Francesco V, ma non ha pubblicato finora nessun documento relativo alle votazioni, al numero degli iscritti e dei votanti la Gazzetta di Vienna ha accusato messer Farini di aver escluso deliberatamente dalle elezioni la popolazione della campagna,e l' Eccelso zitto!

(1) Al Popolo toscano, Ricordi dell'avv. F. D. Guerrazzi. Torino 1859, pag. 121

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Nonostante queste esclusioni, fu provato ohe tuttavia nel ducato di Modena avrebbero dovuto esservi 73,660 elettori. Ma di questi, quanti hanno preso parte alle operazioni elettorali? Appena quattromila? E questi quattro mila dovranno dunque vincolare la volontà di tutti gli abitanti del ducato di Modena?

Conchiudiamo. Nelle Romagne si escludono arbitrariamente i buoni dalle elezioni; tuttavia degli iscritti due terzi si astengono dal votare». In Toscana le liste elettorali sono compilate secondo una legge che non comprende tra gli elettori la somma del popolo Nonostante degli iscritti tota un po' più della metà, gli altri s'astengono.

Nel Modenese dovrebbero esserci 72,000 elettori, e non ci Bono statiche quattromila votanti!

Bastano perciò, a nostro avviso le votazioni passate per dimostrare che la volontà del popolo dell'Italia centrale è diametralmente opposta alle decisioni delle Assemblee.

GIOVANNI ANTONIO MIGLIORATI

A FERRARA

(Pubblicato il 23 settembre 1859).

Il così detto intendente Migliorati, che oggidì ha piantato le tende nel castello di Ferrara e comanda a bacchetta in quella provincia, sta agli Stati Pontificii sottosopra, negli stessi termini e nelle medesime proporzioni, come il cav. BonCompagni stava alla Toscana; e se lord Normanby parlando di queste non disse verbo di quello, fu perché il suo nome e le sue gesta non arrivarono fino a lui.

Il Migliorali esordì la sua carriera, andando nel 1848 volontario in Lombardia. I Genovesi attestano ch'egli partisse, ma ohe arrivasse in faccia al nemico non si sa certo. Reduce mostrava tuttavia alcune spoglie tolte ai Croati, e che erano i trofei d'una sua. vittoria. Però la carriera delle armi non gli piacque, e le antepose la carriera della diplomazia.

Non tardò ad essere mandato a Roma applicato a quella Legazione, e neppur egli sognava di doverci restar come capo. Ma partitosi dall'Eterna Città il nostro ministro, e interrottasi dal Piemonte ogni nasiera di relazioni colla Santa Sede, rimase in Roma il sig. Migliorati per segnare i passaporti.

Tale noi crediamo che fosse il solo incarico affidatogli dal nostro ministero; però l'ex-volontario di Lombardia non se ne tenne pago, e, valendosi di quei mezzi straordinarii che gli procacciava la sua carica, prese a fare opposizione al governo pontificio, e favoriva le corrispondenze che venivano in Piemonte a' giornali nemici dalla Santa Sede, e dava consigli, incoraggiamenti e protezione ai liberali del Tevere.

I ministri del Santo Padre conoscevano per filo e per segno le cose del Migliorati, ma lo compativano, conciossiachè non avesse studialo mai il diritto delle genti. Però ne fece una al conte di Rayneval, ministro francese presso la Santa Sede, e questa non gli fu perdonata. Il conte di Rayneval poco dopo il Congresso di Parigi avea indirizzato al conte Walewski quel memorando dispaccio, che il Pays a buon diritto, chiamava una stupenda apologia del governo di Pio IX; e dicono che il Migliorati,

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avendo avuto cognizione, lo mandasse pubblicare su pei giornali, con grande dispetto dell'inviato e del governo francese. Checché ne sia, è un fatto che il Migliorati venne poco di poi richiamato da Roma, e spedito lontano lontano fino all'Aia. Ma scoppiata la guerra, egli lasciò l'Olanda per venire in Piemonte; e il conte Cavour che Io conosceva, e sapevalo addentro alle cose dei liberali degli Stati Pontificii, avvenuta la ribellione di Ferrara, spedi il Migliorati in Ferrara come commissario piemontese.

Egli vi tenne per un po' di tempo questa carica conservando pure quella d'incaricato d'affari all'Aia, giacché il decreto che lo dispensa dall'uffizio diplomatico non data che dal 7 di agosto. Quando poi il nostro governo si lavò le mani in faccia all'Europa delle cose di Romagna e disse: - lo sono innocente di tutto ciò che avviene e avverrà in quelle contrade, - allora il sig. Migliorati continuò nella sua carica in qualità di intendente.

Il nostro giovinotto vistosi nel castello e col bastone del comando in mano, prese a scrivere decreti si rompicollo. È cosi dolce il decretare) La Gazzetta Ferrarese non ci arriva mai senza recarci un da quattro o cinque decreti sottoscritti Migliorati a lettere di speziale. Noi che conosciamo H sig. intendente, orniamo talvolta rappresentarcelo in sontuosa veste da camera, sdraiato su di una poltrona, col sigaro in bocca dettare al segretario i suoi ukasi, e non possiamo a meno di esclamare: Fortunati Ferraresi!

«Oh, se Torquato e Lodovico al rio e

Silenzio si togljesser di que' marmi»,

invece di Goffredo e delle audace imprese, canterebbero il signor Migliorati.

L'ingresso in Ferrara del sig. Giovanni Antonio Migliorati fu il 22 di loglio la quel giorno egli parlava ai suoi popoli così:

«Abbiate, popoli Ferraresi, fiducia in me, come io l'ho in voi; troverete in me l'uomo franco e leale. Serrò con voi nell'ora del consiglio per dare un indirizzo fermo alle idee ed agli spiriti degli uomini amanti veri di libertà e d'indipendenza, sarò con voi nell'ora in cui il pericolo sarà maggiore per ispirare ai difensori della patria quella unione che fa la forza delle nazioni.

«Vengo fra voi a rispettare le opinioni di tutti i cittadini, ma combatterò inesorabilmente, e senza distinzione alcuna di ceto i delitti di leso patriottismo, dichiarando tutti ugualmente risponsabili delle loro azioni, e soggetti a severa punizione».

E il 26 di agosto il signor Giovanni Antonio per rispettar tutte te opinioni pubblicava un proclama contro ti clero, chiamando i preti nemici dell'ordine, della libertà, dell'incivilimento dei popoli, che spargono ree ed insane calunnie, che tentano sedurre le cosciente, che ingannano sotto mentiti pretesti, che sono ipocriti perturbatoti, che calpestano la retta ragion di Staio ed il principio cristiano, che e impongono agli uomini pesi intollerabili e li spingono a spezzare ogni treno, e gettarsi fra le braccia della rivoluzione»

Per rispettare tutte le opinioni, uno dei primi decreti del sig. Giovanni Antonio fu contro la libera stampa, e il 10 di agosto, «considerando che la libera stampa non può concedersi senza la guarentigia di altre istituzioni che ne reprimano la licenza,

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e che fin'ora per l'eccezionalità dei tempi non poterono stabilirsi in queste provincie;

«Che in tale condizione il governo dev'essere più che mai severo in prevenire le manifestazioni del pensiero, che, destando incautamente o malignamente le passioni, turbano quella dignitosa concordia, da cui solo può essere assicurato il nostro avvenire decretava:

«1° È proibito pubblicare, diffondere, affiggere scritti, stampe, litografie, incisioni, ecc. , senza una preventiva autorizzazione della Direzione di pubblica sicurezza e dj uno dei membri della. Commissione di revisione composta dei signori ingegnere Carlo Pastega, dottor Giuliano Gramigna Giuseppe Zanetti.

«2° I tipografi, librai, e chiunque altro si rendesse contravventore a questa disposizione, sarà punito col sequestro dei libri, stampe ed altro con una multa dagli Se. 10 agli Se. 50, ed anche coll'arresto a norma delle circostanze».

Prima il nostro signor Giovanni Antonio avea fatto un caldo appello a' suoi popoli, perché dessero denari. Ecco un saggio del suo indirizzo pubblicato il 28 di luglio:

«Popoli della provincia di Ferrara

«Il Governo dovendo provvedere agli urgenti bisogni in cui versa il paese, ha fatto appello al vostro patriottismo ricorrendo francamente al credito pubblico.

«Il Governo ha mostrato, una fiducia illimitata in queste popolazioni, dando e la preferenza ad un prestito volontario piuttostoché ricorrere ad altre misure.

«Permettetemi, o Ferraresi, di dirvi soltanto quanto sia necessario che tutte «le classi de' cittadini concorrano al successo del Governo in questa operazione e finanziaria: da questo successo dipenderà il trionfo della libertà e dell'indipendenza delle provincie di Romagna.

«La spontaneità nel dare il vostro concorso al Governo in questa e circostanza sarà il sapremo de' voti di vostra indipendenza, ohe l'Europa dovrà rispettare e sanzionare».

La spontaneità dei popoli nel dare non fu molta e il signor Giovanni Antonio fu costretto due o tre volte a prorogare il termine delle sottoscrizioni. Di che se il prestito delle Romagne si ha ad interpretare come la manifestazione del supremo dei voti; il signor Giovanni Antonio sta fresco!.

Tra i decreti emanati dal signor Migliorati tre meritano un cenno, particolare. L'uno è un decreto del 31 di agosto contro i zolfanelli fosforici che vennero proibiti in tutta la provincia di Ferrara, dove restano permessi soltanto i zolfanelli amorfi. In Piemonte, dopo dieci anni di libertà, noi non abbiamo, avuto ancora un decreto simile!

Dopo i solfanelli, le carte da giuoco chiamarono l'attenzione del signor Giovanni Antonio, e il. 16 di settembre si scatenò contro il contrabbando che si fa coll'introduzione di carte da giuoco, falsificando in alcune anche i bolli legittimi e minacciò tutto il rigore contro chi avesse usato carte da giuoco non bollate dal sig. Giovanni Antonio.

Finalmente il signor Migliorati pensò ai poveri, pubblicando mi decreto del 13 di settembre, di cui ecco per, saggio il primo articolo: La Direzione di pubblica sicurezza rimetterà al Comune, cui spettano, o fuori del confine, se esteri,

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tutti i mendici che non sono di questa città per nascita o per domicilio legale».

Dopo tutto ciò era ben naturale che il signor Giovanni Antonio venisse aggregato alla nobiltà e patriziato ferrarese, e cosi avvenne, e in tale aggregazione il signor Minorati umilmente riconobbe ima imam luminosa proto dei sotto patriottismo onde è animala la città di Ferrara!!!

LA FRANCIA, IL DUCA DI MODENA E LA VOCE DELLA VERITÀ

(Pubblicato il 23 settembre 1859).

Farini continua la sua crociata contro il duca di Modena, Francesco V; ma siccome pare che gli sieno venuti meno i documenti, cosi die mano ad un giornale che pubblica vasi in Modena fin dal 832 col titolo: la Voce della Verità. Rovistando nella collezione di questo giornale l' eccelso dittatore s'imbatté in un articolo, stampato il 97 di marzo 1882; in cui si parla fortemente della Francia rivoluzionaria, della Francia di Luigì Filippo, e si chiama pettegola, intemperante, selvaggia, e via dicendo. La Gazzetta di Modena del 18 settembre stampa in capo al suo numero 90 questo articolo della Voce della Verità!

Ognuno vede quanto sia ridicola l'arte, a cui l' eccelso ricorre pel» concitare l'odio de Francesi contro il Duca di Modena. Se questi volesse rendere la pariglia al signor Farini, non avrebbe d far altre che prendere tra le nani il Mi sogallo, Prose e Rime di Vittorio Alfieri d'Asti, stampato nel 1640 a spese dell'editore Giovanni Grondona, libraio, strada Carlo Felice e piazza San Luca in Genova, coi tipi dei forando. Nella prima pagina dì questo libro il Farini troverà più ingiurie contro i Francesi che non in tutta la collezione della Voce della Verità.

I Francesi son detti e sempre insolenti-coi re Impotenti - sempre ridenti - coi re battenti - talor valenti - ma ognor serventi». ~ E queste parole stanno scritte sotto un ramo allegorico, dove si vedono qua le galline uccidete i galli, là i galli a vicenda uccidere le galline; altrove i galli fra loro e cosi fra le galline spennacchiarsi ed uccidersi. In lontananza poi vedesi posato un gufo sopra d'un albero, il quale gufo dando fiatò in una lunghissima è sottilissima trombarne fa uscire il motto francese: Ils s'organisent:

Tutto il libro è pieno d'ingiurie di questo gusto, e Vittorio Alfieri non lo ha scritto in Modena, tìia vi ha posto là data di Firenze 789. E parla all'Italia passata, presente è futuro, dicendole contro la Francia cose che noi non amiamo ripetere alternando la prona coi versi, ride sui galli, c he han falso orecchio e seminaso; che son sempre stati fantoccini, e impreca fa Gallia vite, e i Francesi che rubano tutto agli Italiani.

Questo libro dei Misogallo venne ristampato e mesto intensità fra noi dopo la spedizione di Roma, e i rivoluzionarii ne ripetevano concetti e le parole nei loro diarii, e se avessimo pazienza di andare a' rovistare negli scritti e nei giornali dell'eccelso Farini, forse ci troveremmo da fare degli estratti sottosopra simile a quelli che il suo giornale tolse dalla Voce della Verità.

«Ad ogni modo ognun vede che se le parole d'un giornale conservatore possono Invocarli contro Francesco V,

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contro gli Italianissimi gli scritti dell'Alfieri e le ristampe fattesi recentemente in che non comandava ancora quando quelle parale furono stampate con molto maggior ragiono potrebbero invocarsi Piemonte di questi medesimi scritti. Cessi Iddio che noi vogliamo servirci di questa ragione! Noi l'accenniamo soltanto per far vedere quanto sia piccola la mente e piccolo il cuore dell' eccelso di Modena ;

Il quale avrebbe dovuto sapere che due giorni fa fu elevato in Torino un monumento a Vincenzo Gioberti con una iscrizione per di dietro, e non dimenticare quanto il Gioberti istesso il 27 di giugno 1848 scriveste a' Fiorentini contro i Francesi. Gioberti diceva: «lo confesso candidamente, che temo i Francesi amici più ancora dei Tedeschi nemici», ed esclamava: «Oh sappiamo valerci degli acerbi «terribili ammaestramenti dell'esperienza, e ricordiamoci di ciò che avvenne in età poco lontana, quando i Francesi ci liberarono dai Tedeschi per ricondurli di nuovo più fieri ed odiosi di prima», e conchiudeva: «Se si dovesse scegliere fra i due infortuni, non voglio dissimulare che amerei meglio i Tedeschi soli che i Francesi, e poi ancora i Tedeschi non solo in Lombardia,ma nelle Legazioni; e torrei piuttosto di cadere sotto il ferro barbarico, ohe di essere rimesso al giogo per opera di un popolo gentile avremo a chiamarsi nastro amico, liberatore e fratello».

E siccome la Gazzetta di Modena cita il nome e la data di ciò che scrisse contro i Francesi la Voce della Verità, così noi diremo all'eccelso Farini, che le parole dette dal Gioberti contro i Francesi si trovano nelle sue Operette politiche a pagina 119 e 120, dove è pure registrata una dichiarazione che nel 1848 un ministro francese fé' nell'Assemblea nazionale, dichiarazione che vuoi essere ricordata oggidì» massime dopo il famoso articolo del Constitutionel.

La dichiarazione è questa, che «la Francia non saprebbe assistere senza alcun provvedimenti ad una ricomposizione di territorio; né potria tollerare che un accrescimento di Stato presso i suoi vicini, senza compenso per essa, indebolisse la sua potenza».

Oltre l'articolo contro i Francesi, la Gazzetta di Modena né pubblica un altro tolto dalla Voce della Verità numero 945, giovedì, 6 luglio 1837, e siccome trattasi di un documento storico» e vogliamo dare un saggio delle famose citazioni dell'eccelso, così ristampiamo, questo articolo colle note che vi si riferiscono,. Vedrà il lettore ohe il Duca di Modena, Francesco V, dopo simili pubblicazioni avvenute nel Ducato prima che egli fosse Duca, può andarsi a riporre.

DON PIETRO BONAPARTE (1)

(Dalla Press)

Il Corriere degli Stati Uniti pubblica la lettera seguente del Principe Pietro Napoleone Bonaparte, figlio del Principe di Canino, il quale arrivato alla Nuova Jorck pochi giorni dopo il di lui cugino, il Principe Luigi Napoleone:

«Nuova Jorck 5 maggio, Sig. Redattore; Finché sono stato prigioniero a Castel Sant'Angelo mi è stato impossibile di ribattere le calunnie di cui sono stato l'aggetto.

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Ora che io sono in un paese di libertà credo dover esporre ai miei concittadini l'infame oltraggio di cui sono stato la vittima.»

«Il governo pontificio, malcontento di vedermi correre con mio fratello per e pianure di Roma onde godere dei piaceri della caccia, avea formato il progetto di arrestarmi (2) ma gli agenti del Santo Padre non ardivano attaccarmi francamente (3). Un giorno ventre io altra versava il villaggio dì Canino, un officiale de' gendarmi mi si appressò con modi affatto amichevoli (4). Egli discorreva meco famigliarmente, quando trenta soldati sopraggiunsero all'improvviso uno dei quali armato di pistola, tirò contro di me ma il colpo mancò (5). Io gli portai un colpo vigoroso col mio coltello da caccia, e lo ferii gravemente. L'officiale avea la sciabola alzata per colpirmi ma lo stesi morto a' miei piedi; disarmai un altro soldato; e gli alti presero la foga facendo fuoco sopra di me, io ricevetti una palla in testo, e caddi; allora mi ferirono con molti colpi di baionetta, e si portarono a Castel Sant'Angelo. Se non fossi stato ferito gli avrei messo in fuga, eppure sarei morto da soldato francese versando sia l'ultima goccia del sangue mio(6). Un tribunale speciale mi giudicò. La sentenza era pronta; la Corte di Roma volea sfogare sopra di me l'odio che nutre per la mia stirpe (7). Io avrei subito una morte ignominiosa senza l'intervento della mia famiglia, e particolarmente del Cardinale Fescb, il quale biasimò energicamente dinanzi al Papa la condotta, dei suoi agenti (8) Il Papa stesso ha confessato di essere stato ingannato da rapporti falsi. Dopo una prigionia di nove mesi sono libero, e il primo mio atto è difendere il mio onore (9).

Note del Redattore della Voce della Verità

(1)

Intorno a questo fior di virtù si può rivedere il nostro numero 747.

(2)

Se il signor principe Piero si fosse contentato. di passeggiare, di andare alla caccia potevano forse trovarsene malcontente le lodole e le cornacchie, ma pochi crederanno che il semplice passeggio, di Sua Eccellenza potesse mettere di malumore il governo di Roma.

(3)

Il governo del Papa è un governo di pace, e perciò suoi soldati non sono accostumati a grandi battaglie; i malfattori però ed i birichini si attaccano e si arrestano tuttodì francamente, anche nello Stato del Papa.

(4)

Questo bravo e sventurato officiale provò con la propria funesta esperienza che i modi amichevoli e cortesi non sono fatti per i birbanti.

(5)

Ognuno è obbligato a credere sulle semplici parole di Sua Eccellenza che il Governo pontificio spedisse un officiale e trenta soldati con ordine di ammazzarlo a tradimento a forza di schioppettate, e ciò non per altro motivo se non perché gli dispiaceva che andasse a caccia.

(6)

Anche Pulcinella, se lo avessero lasciato fare, avrebbe ammazzati un dopo l'altro, tutti quanti gli sbirri colla sua mazzuola.

(7)

La sua riverita stirpe sa quali sono i suoi meriti, complessivi verso la Corte di Roma ; ma Roma anche per questa pericolosa stirpe è stata ed è la città del ricovero e della pazienza.

(8)

Il Cardinale Pesch non fu capace di questa stravaganza, ma si raccomandò e venne esaudito, in prova dell'odio che cova la Corte di Roma contro la stirpe di Sua Eccellenza:

(9)

Difatti l'onore dei malfattori e degli scapestrati, non si può difendere che con la sfacciataggine e la calunnia.

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VISITA DEL RE CARLO EMANUELE IV A PIO VI.

Ecco i particolari della visita fatta da Carlo Emanitele IV di Sardegna al glorioso ed invitto ponteficie Pio V[, che togliamo dai cenni dettati dalla erudita ed elegante penna del P. Carlo Grossi, della Compagnia, di Gesù, intorno alla vita della venerabile Clotilde di Francia, regina di Sardegna (1):

«Correva l'anno 1799, funesto all'Italia, funesto a Roma ed alla Chiesa. Pio VI, principe per alti sensi e generoso animo superiore ad ogni lode, pontefice massimo, di riverenza degno anche pei barbari, dopo i gravosi patti e la menzognera pace ch'era stato forzato a firmare colla Repubblica francese veniva crudelmente tolto al soglio ponteficalé, al governo dei suoi Stati, e guardato soldatescamente qual prigioniero e preda di guerra nella Certosa di Firenze. Non prima i reali di Sardegna furono giunti nella capitale di Toscana, e seppero di avere sì vicino il padre comune, per tante sventure commessi glorioso, sentirono in quella loro tribolazione sovrabbondare in cuore una gioia celeste, e arsero di desiderio di presto vederlo e tributargli gli omaggi di figliale venerazione.

«Furono alla Certosa al giorno e all'ora fermata. Il Pontefice, benché per la gravita e per la debolezza del corpo abbatuto dalle malattie e dagli affanni, volle levarsi dalla sedia, e sorretto da due aiutanti di camera, che non potea reggersi in pie, andò ad incontrarli in abito papale fino alla soglia della stanza. Vedutolo appena i due reali personaggi, si gittano ambi ginocchioni, si prosternano al suolo, imprimono baci e poi baci sui piedi dell'invitto confessore di Cristo, e ad alta voce benedicono alle loro sventure, che li fan degni e porgon loro occasione d'essere a' piedi del Vicario di Cristo, benedicono a Dio, che in quelle angustie da loro la inaspettata consolazione di goder la presenza del Capo visibile della Chiesa, del supremo pastor dei fedeli. Si commosse il cuore di Pio di paterna tenerezza, e tenendo bassi e affissati gli occhi su quelli Augusti, sentiva meno il carico dell'età e della sventura e pregavali ad entrare ì primi nella camera ove si compiaceva di accoglierli. Quel subito atto di umiltà e di fede con che si atterrarono innanzi al venerando vecchio, quell'iterato baciare dei piedi, quelle infocate parole di consolazione e di gaudio colpirono gli astanti di maravigliosa pietà, fino a trarre loro dagli occhi le lagrime; e quello stesso repubblicano Chipault dato guardiano e carceriere ai due principi, ne' moli del sembiante e degli occhi non potè celare l'interno commovimento d'affetti onde era agitato.

«Ritirati i due cortigiani del re e della regina, il Nunzio Apostolico, il Maestro di Camera, l'Arcivescovo di Corinlo, l'aiutante francese e alcuni monaci Certosini, che tutti erano stati presenti a quella tenera scena, rimasero Carlo Clotilde e Pio per un'ora in istretto colloquio. Ohi chi avesse potuto penetrare là entro, e udire le sante parole,

(1) Sono stampati nella dispensa del 15 agosto 1859 dell'ottima Collezione dei buon libri a favore della Religione cattolica. 12


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e l'amoroso consolarsi a vicenda, e il confidare in Dio, e il raccomandarsi e il promettersi di scambievoli preghiere, e il piangere sui mali della Chiesa, e il conghietturare sui futuri destini, e il pregare e lo scongiurare dei due pi issimi principi il Santo Padre a volersi tragittar seco loro in Sardegna, ove un pane solo che loro rimanga saranno lieti di partirlo con lui!

«Il dividersi, il distaccarsi non fu men commovente; invitati il re eia regina dal priore a voler vedere la magnifica postura, il magnifico edifizio della Certosa, non vollero, che solo eran venuti, risposero, a tributare il loro ossequio ed ubbidienza al Santo Padre, e tutti i lor voti e desiderii erano adempiti, né aver più che bramare mentreché avevano ottenuto ciò che da lungo tempo anelavano.

«Restò profondamente impressa nella mente e nel cuore di Pio la immagine di tanta pietà e religione, e commemorava di poi le loro molte virtti, e ricordava quella invitta ed esemplare rassegnazione alle disposizioni della Provvidenza in tanta crudeltà di fortuna. E credo io che salito egli dopo non molli mesi al coro dei martiri per ricevere da Cristo la corona a' suoi patimenti dovuta si sarà tosto lodato di loro a Dio, e per essi e per la Reale Casa avrà ferventemente pregato».

GLI INVIATI DELLE ROMAGNE

A

VITTORIO EMANUELE II

Leggevasi nella Gazzetta ufficiale Piemontese del 25 settembre 1859, quanto segue:

Questa mattina alle ore 11 la Deputazione incaricata di presentare a S. M. il Re nostro Augusto Sovrano i voti delle popolazioni delle Romagne ha avuto l'onore di essere ricevuta dalla M. S. a Monza.

La Deputazione è composta dai signori Giuseppe Scarabei li, vicepresidente dell'Assemblea delle Romagne - conte Giovanni Bentivoglio - conte Giovanni Gozzadini - marchese Luigi Tanari - conte Vincenzo Salvoni-conte Ludovico Laderchi - signor Angelo Mareacotti.

La Deputazione era introdotta presso S. M. il Re, in presenza dei Ministri e dei Dignitari di Corte che accompagnavano la M. S.

Il signor Scarabelli dava lettura del seguente indirizzo:

Sire!

I popoli delle Romagne, rivendicato il loro diritto, proclamarono, per voto unanime dell'Assemblea legalmente costituita, l'annessione loro ai Regno di Sardegna.

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I pregi che l'Italia tutta ama ed ammira in V. M. , la sua lealtà in pace, il suo valore in guerra, conquistarono tutti gli animi, e fu la più nobile delle conquiste quella dell'influenza morale. Ma questo voto di annessione non fu solo uno slancio di entusiasmo, fu ancora un calcolo di matura ragione. Le Romagne travagliate per quarantanni dalie discordie civili anelano di chiudere l'era delle rivoluzioni, e di posare in un assetto stabile e definitivo. E mentre professano piena riverenza al capo della Chiesa Cattolica, vogliono un governo che assicuri la eguaglianza civile, la nazionalità italiana, l'ordine e la libertà.

La Monarchia costituzionale di V. M. è la sola che possa darci questi beni.

Le tradizioni di Casa Savoia, che seppe identificarsi colle aspirazioni de' suoi popoli, la natura armigera del Piemonte, la sua forte organizzazione, le sue libere istituzioni, i sacrifizi fatti per la causa italiana, sono pegno sicuro che nella intima unione colle altre vostre provincie noi troveremo quel finale ordinamento che si accorda coll'indipendenza nazionale e coi destini della patria comune.

Accogliete, o Sire, i nostri voti: propugnandoli dinanzi all'Europa, compirete un'opera nobilissima, ridonerete la pace e la prosperità a quelle provincie che pia lungamente soffersero per l'amore d'Italia.

Sua Maestà il Re rispondeva.

Sono grato ai voti dei popoli delle Romagne, di cui voi, o Signori) siete gli interpreti presso di me. Principe cattolico, serberò in ogni evento profonda ei inalterabile riverenza verso il Supremo Gerarca della Chiesa. Principe italiano, debbo ricordare che l'Europa riconoscendo e proclamando che le condizioni del vostro paese ricercavano pronti ed efficaci provvedimenti, ha contratto con esso formali obbligazioni.

Accolgo impertanto i vostri voti, e forte del diritto che questi mi conferiscono, propugnerò la causa vostra innanzi alle grandi Potenze. Confidate nel loro senno e nella loro giustizia. Confidate nel generoso patrocinio dell'Imperatore dei Francesi, che vorrà compire quella grande opera di riparazione, alla quale pose sì potentemente la mano, e che gli ha assicurata la riconoscenza dell'Italia tutta.

La moderazione che informò i propositi vostri nei più dolorosi momenti dell'incertezza, dimostrò colla irrecusabile prova dei fatti, che nelle Romagne la sola speranza di un nazionale reggimento bastava ad acquetare le civili discordie.

Abbiatevi i miei ringraziamenti, o Signori. Quando nei giorni della lotta nazionale mandavate numerosi volontari, che mostrarono tanto valore sotto le mie bandiere, voi comprendevate che il Piemonte non combatteva per se solo ma per la patria comune: ora serbando unanimità di volere e mantenendo incolume l'ordine interno, fate l'opera la più grata al mio cuore, e quella che può meglio assicurare il vostro avvenire, l'Europa sentirà che è comune dovere, come è comune interesse di chiudere l'era dei rivolgimenti italiani, procurando la soddisfazione ai legittimi voti dei popoli.

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LA DIPLOMAZIA PIEMONTESE

ANTICA E MODERNA

(Pubblicato il 27 settembre 1859).

Gran fama in Europa avevasi conciliato l'antica diplomazia piemontese, e i ministri del Re di Sardegna erano dappertutto rispettati per la nobiltà della mente, la gentilezza dei modi e l'onestà dei procedimenti.

Lord Stanhope, nelle sue celebri lettere, dice al proprio figlio: «Come giovane politico voi comincerete a meraviglia recandovi dapprima a Berlino, per passare di poi a Torino dove troverete il più abile Sovrano dopo il Redi Prussia» (Lett. 141).

Ed altrove gli ripete: «lo non so che in tutto il corso di vostra vita voi possiate passare sei mesi più fruttuosi di quelli che voi andate a vivere a Torino [Lett. 148).

E in una terza lettera lord Stanhope dice nuovamente a suo figlio: € È mio desiderio che il vostro soggiorno a Torino sia il periodo pili segnalato, e come la corona della vostra educazione» (Lett. 150).

In altre lettere gli raccomanda di stringere relazioni principalmente cogli ambasciatori della Corte di Sardegna, promettendogli che dal loro esempio e dai loro consigli ricaverebbe grandissimo vantaggio.

In questi ultimi tempi un altro lord ha parlato della moderna diplomazia piemontese, e questi è lord Normanby, il quale in un suo discorso alla Camera dei Lordi, ed in una sua lettera al Morning-post si occupò del cav. Carlo Boncompagni, già ministro del Piemonte presso la Corte del Granduca di Toscana.

Il discorso di lord Normanby è assai conosciuto, ma poco se ne conosce la lettera, e noi vogliamo riferirla, sia per contrapporre i giudizi di lord Normanby a' giudizi di lord Stanhope, sia per invitare il cav. Boncompagni a discolparsi di gravissime accuse che gli sodo gettate contro, alla presenza dell'Europa.

Gioverà tuttavia ricordare la cosa da' suoi cominciameli ti, affinché i lettori dell'Armonia possano farsene un'esatta idea e recarne un giusto giudizio.

Lord Normanby, il 7 di giugno di quest'anno, parlava nella Camera dei Lordi d'Inghilterra della rivoluzione toscana, che avea espulso il Granduca, e di questo misfatto accagionava principalmente il cav. Carlo Boncompagni.

L'oratore inglese, premettendo che conosceva per filo e per segno le cose avvenute in Toscana, dichiarava che il Boncompagni si era disonorato, come diplomatico, cospirando contro il Sovrano, presso del quale era accreditato, ed asseriva «che le truppe toscane aveano mancato al loro dovere, sotto l'influenza di agenti corruttori adoperati dal Boncompagni medesimo».

All'udire tali orrendità, lord Stratford di Redeliffe domandò di parlare, e dichiarò all'Alta Camera della Gran Bretagna e che il Granduca di Toscana avrebbe avuto il diritto non solo di far incatenare il cav. Carlo Boncompagni, ma di farlo impiccare all'inferriata del suo palazzo».

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Queste parole vennero dette il 7 di giugno, e fino al settembre non si lesse una linea di risposta per parte del Boncompagni. Soltanto nei primi di questo mese il Morning-Post venne fuori stampando una lettera del nostro cavaliere, che secondo il giornale inglese, era stata scritta fin dal 19 di luglio, ma se n'era ritardata la pubblicazione per gravi considerazioni politiche.

Il cavaliere Carlo Boncompagni racconta le cose così:

«A misura che la guerra tra il Piemonte e l'Austria diveniva imminente, io ho compreso che una rivoluzione in Toscana era inevitabile, se il governo ricusava d'associarsi al movimento nazionale. Da quel momento io ho fatto pratiche presso del ministero per indurlo ad entrare nell'alleanza francosarda, ed anche nella domenica di Pasqua, il 24 aprile, due giorni prima della rivoluzione, ho rimesso al sig. Lenzoni, ministro degli affari esteri, una nota, colla quale io domandava al suo governo di unirsi all'alleanza, mostrandogli il pericolo della posizione nella quale egli si era posto.

Nello stesso tempo ch'io dava questi consigli al governo, usai di tutta l'influenza ch'io poteva esercitare sui capi del partito liberale, per raccomandar loro di astenersi da qualunque atto illegale, da ogni moto rivoluzionario, da ogni esigenza a riguardo della politica interna, da ogni recriminazione sul passato, che avrebbe potuto somministrare alla Corte o al Governo pretesti per diffidare del partito nazionale. Quando vidi che in seguito dell'ostinazione del governo la rivoluzione era sul punto di scoppiare, esortai i capi del movimento, con cui era in relazione, ad impedire ogni spargimento di sangue, e tutto ciò che poteva essere un disonore del paese.

«Il 27, durante l'insurrezione, rivolsi un discorso al popolo che si era radunato sotto le mie finestre, e adoperai tutti i mezzi che erano in mie mani per impedire ogni eccesso, affinché la famiglia Ducale, abbandonando Firenze di pieno giorno e in mezzo di un popolo in rivoluzione, potesse trovare i riguardi dovuti alla sua posizione ed alle sue sventure. Grazie al buon senso del popolo fiorentino e degli uomini che lo dirigevano, mi fu agevole il riuscire 1»

In queste parole il cav. Carlo Boncompagni con una ingenuità e schiettezza lodevolissime ha detto quali fossero le opere sue verso il governo Toscano, ed ha confessato che era in relazione coi capi del movimento, e che potea esercitare influenza sul partito rivoluzionario.

Noi crediamo che se lord Stanhope scrivesse oggidì, non direbbe a suo figlio che un diplomatico dee fare comunella coi rivoluzionari, o imporre la guerra o la pace ai governi, presso i quali compie il proprio uffizio. Lord Stanhope non manderebbe suo figlio a scuola dal Boncompagni.

Pensate se lord Normanby lasciasse senza risposta la lettera del nostro cavaliere! Appena ne venne in cognizione, mandò tosto al Morning-Post due linee piene di pepe, che i nostri giornali e que' di Firenze si guarderanno ben bene dal pubblicare. Ma noi le stampiamo pel meglio del Boncompagni medesimo. Eccole:

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«Londra, 11 di settembre.

«Signore. - Siccome io leggo assai di rado il Morning-Post, fu soltanto Del ricevere il vostro giornale dell'8 di settembre, che venni in cognizione di una lettera del signor Boncompagni diretta al giornale suddetto, e nella quale commentava il discorso che io diressi alla Camera dei Lordi, il dì 7 di giugno trascorso. In questa tarda replica pertanto io non trovo che il Sig. Boncompagni contradica seriamente alcuno dei fatti da me segnalali sul conto suo. Esso ammette di avere nella domenica di Pasqua diretto una Nota al signor Lenzoni, nella quale eccitava il governo toscano a stringere una lega tra la Toscana, la Sardegna e la Francia nello scopo di muovere guerra all'Austria. È possibile che tra i doveri diplomatici del signor Boncompagni fosse pure quello di chiedere ad un sovrano indipendente la rottura di trattati, vi quali esso aveva impegnato la propria fede; ma ciò, di cui non si ha esempio anteriore, si è come il signor Boncompagni si prevalesse del suo carattere diplomatico per accordare nella legazione sarda ogni sorta di proteggimene alla cospirazione organizzata contro il governo toscano, presso il quale esso era accreditato. Che ciò sia vero è bastantemente provato da un fatto che egli non oserebbe negare, dall'avere cioè arringato dal proprio balcone una turma di rivoluzionali, ai quali diresse parole di ringraziamento per quanto avevano operato, come non potrebbe negare che quanto d'illegale accadde in quello stesso giorno, fosse in conseguenza dei consigli da lui dati nella ufficiale sua residenza.

«E fu in seguito di tutto questo e per assecondare i disegni concepiti da lui medesimo, che il marchese di Lajatico, allorché il Granduca affidavagli l'incarico di comporre, d'accordo con una commissione, un nuovo ministero, rispose al proprio Sovrano col domandargli la sua abdicazione. Egualmente non può il signor Boncompagni negare di essere stato quindi pubblicamente nominato ministro degli esteri del paese stesso, presso il quale era accreditato come agente diplomatico di un altro sovrano, e che, riconoscendo l'assurdità di questa duplice posizione, egli risolvette di rinunciare nominalmente a quell'incarico, concentrando però nelle sue mani ogni potere. A tale proposito il sig. Boncompagni asserisce essere io stato male informato da coloro coi quali ho comunicato nel paese stesso; ma siccome io sono intimamente convinto di non avere esposto che la semplice verità, così non dubito di asserire, che se tutta l'influenza sarda e gli agenti sardi fossero stati esclusi dai Ducali; se, come a tutta ragione s'esprimeva il Moniteur, 4 destini dell'Italia fossero stati affidati ad uomini che avessero avuto più a cuore l'avvenire della patria comune, che piccoli e parziali successi, il risultato di tutte le attuali complicazioni sarebbe riuscito assai più favorevole all'Italia medesima. Ed infatti se fosse stata in Toscana accordata piena libertà di manifestare il vero in tutta la sua schiettezza, assai strane rivelazioni si sarebbero avute intorno a quanto si è fatto in quel paese nei quattro ultimi mesi trascorsi, e specialmente intorno alle turpi macchinazioni adoperate perché particolari ed interessate speculazioni di una turbolenta minorità avessero il carattere dì una volontà universale, non che intorno all'irregolare maneggio del denaro pubblico, del quale il signor Boncompagni ha disposto tal volta con assoluta influenza,

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e di sovente senza veruna responsabilità. Il medesimo frattanto si meraviglia ingenuamente della severità con cui vennero giudicate le sue azioni da coloro stessi che trassero vantaggio dalla confusione a cui esso dette opera; ma il signor Boncompagni non s'illuda: nessuno ignora che una cospirazione diretta da un diplomatico estero contro quel sovrano istesso, presso il quale è accreditato, è una infrazione di tutti quei prinoipii di buona fede, sui quali soltanto possono mantenersi le relazioni internazionali.

«Poiché voi, signore, avete nel vostro giornale accordato alla lettera del signor BonCompagni una pubblicità maggiore di quella che poteva ottenere, spero che vorrete usare a questa mia la cortesia medesima. Sono sempre

«NOBMANBY».

Molte gravissime accuse si contengono in questa lettera, e noi per l'onore della diplomazia piemontese chiediamo al cav. Boncompagni che se ne scolpi.

È accusato: 1° d'essersi servito del suo carattere diplomatico per accordare nella Legazione sarda ogni sorta di proteggimene alla cospirazione.

È accusato: 2° d'aver arringato dal proprio balcone una turma di rivoluzionari, ringraziandoli di ciò che aveano operato esautorando il Granduca.

È accusato: 3° d'esser egli stato l'autore della rivoluzione toscana «in conseguenza di consigli dati nella ufficiale sua residenza».

È accusato: 4 d'avere indotto il marchese di Lajatico, incaricato dal Granduca di comporre un nuovo gabinetto, a recarsi al proprio Sovrano per domandargli la sua abdicazione.

È accusato: 5° d'aver operato per mezzo d'agenti sardi tutto ciò che è avvenuto in Toscana, e si attribuisce all'unanimità del popolo.

È accusato: 6° di turpi macchinazioni, di particolari ed interessate speculazioni.

È accusato: 7° di avere disposto del pubblico denaro della Toscana «talvolta con assoluta influenza e di sovente senza veruna risponsabilità!»

È accusato: 8° di avere fallito «a tutti quei principii di buona fede, sui quali soltanto possono mantenersi le relazioni internazionali».

Noi non diciamo che tali accuse sieno giuste; ma esse sono ripetute in faccia all'Europa da un nobile lord della Gran Bretagna, il quale si dichiara testimonio degli avvenimenti.

Il cav. Boncompagni si discolpi di questi appunti, che sono molto più duri della tavola di pietre dure, che già apparteneva al Granduca e gli venne ultimamente regalata da coloro che governano in Toscana.

Senza una trionfante discolpa la carriera diplomatica del Boncompagni è finita. Quale Sovrano vorrà mai più accettarlo alla sua Corte?

Ma non ci duole soltanto del danno che ne potrebbe patire il Boncompagni in particolare, sibbene di quello sfregio che può ricadérne su tutta quanta la diplomazia piemontese.

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I Giuseppe De Maistre, i De La Tour, i San Marnino, i Revel, i San Martino d'Aglio, i Della Margarita, i Pralormo, i De Sales, i Brignole Sale resero rispettabilissima la nostra diplomazia, e non vorremmo che fosse per perdere in un punto quella fama che godé per tanti secoli.

Noi pretendiamo che dei diplomatici piemontesi si possa scrivere ciò che lord Stanhope diceva nelle sue lettere al proprio figlio: e mai e poi mai ciò che lord Normanby e lord Stratford di Redcliffe dissero all'alta Camera del Parlamento inglese.

Noi pretendiamo che quando un diplomatico piemontese si presenta ad un Corte, debba essere considerato come un amico, e non possa venire il sospetto che vi si trafori come un cospiratore.

Il cav. Boncompagni ha incominciato la sua difesa: la continui oggidì per l'onor suo, e per l'onore del suo nome e del suo paese. Se ha buone ragioni da addurre, questo giornale gli offre le proprie colonne; ma badi di non darai la zappa sui piedi, come nella lettera precedente.

IL PROTESTANTESIMO IN TOSCANA

NEL 1859.

Abbiamo alcuni importanti documenti, che mostrano l'alleanza in Toscana del protestantesimo colla rivoluzione, e spiegano l'affetto degli anglicani per l'Italia centrale. Questi documenti ci sono recati dall'Eco di Savonarola, giornale protestante che pubblicasi in Londra, e di cui oggi ci arriva il N° 9, del 15 di settembre.

Rileviamo adunque da questo foglio, che, appena espulso il Granduca, i cristiani evangelici presentarono al governo provvisorio della Toscana una e Dichiarazione di alcune massime religiose professate dai cristiani evangelici, che in questi tempi si sono manifestati in Toscana .

Il lettore può immaginarsi che cosa professano costoro! Essi conchiudono la loro dichiarazione cosi:

«Ora che al Signore Iddio è piaciuto di far sorgere per la nostra cara Italia tempi migliori, distruggendo un dispotico governo, e ponendo le redini del paese in mano di uomini giusti, generosi e liberali, gli evangelici hanno creduto di presentare a Vostra Eccellenza questa compendiata professione di fede, onde ella possa ponderare, con cognizione di causa, quanto è da farsi, acciocché non rimanga lesa la libertà religiosa degli esponenti; giacché sono ben certi, che il giorno è giunto, in cui la nostra patria nel suo seno vedrà lo sviluppo di ogni onesta libertà.

«I sottoscritti, incaricati in nome dei loro fratelli, si dichiarano dell'Eccellenza Vostra

«Servi umilissimi

«Cablo Solaihi, - Scipioni Babzìii».

Inoltre l' Eco di Savonarola reca i seguenti due documenti:

Al Ministro dei Culti.

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« Eccellenza,

«Il sottoscritto in forza dell'ari. 2 del Regolamento Costituzionale del 1848, richiamato in vigore con decreto del maggio 1859 dal governo provvisorio di Toscana, crede di essere in diritto di esercitare quella religione, di cui la sua coscienza è convinta. Perciò, appartenendo esso alla religione evangelica, ed essendogli nata una bambina fino dal 15 andante; vietandogli la sua religione di sottométtersi ad istituzioni ad essa contrarie, ed imponendogli di rispettare altamente le leggi puramente civili, ricorre alla saviezza ed autorità di V. E. onde gli additi il mezzo di porre ai libri dei nati la sua creatura, senza sottoporsi a riti e cerimonie contrarie alla propria convinzione.

«Della Eccellenza Vostra

« Umilissimo servo Agostino Poli».

Risposta del Ministro

Ordinanza.

«Visto la istanza di Agostino Poli, che professa la religione evangelica con la quale chiede il modo d'iscrivere al libro dei nati un figlio neonato, senza essere astretto a ciò che non è consentaneo alla religione da esso professata;

«Considerando che lo stato civile dei cittadini deve essere legalmente accertato indipendentemente dalla religione professata da ciascuno di essi,

«Decretiamo:

«1° Che Agostino Poli produca all'uffizio dello Stato Civile la fede che il neonato è figlio della sua moglie, e suo, specificando il sesso e il giorno della nascita; una dichiarazione legalizzata, nella quale sia deposto che il detto Poli e sua moglie professano la religione evangelica, e qual nome ambedue abbiano imposto al neonato stesso;

«2° Che il segretario dello Stato Civile, sull'appoggio dei predetti documenti, registri nel libro dei nati il figlio nato da detto Agostino Poli e dalla sua moglie, specificando la fede che professano, e quanto altro, ecc.

«Il segretario, capo della sezione ministeriale di Stato Civile, ecc, curerà l'adempimento della presente ordinanza, ed il prefetto di Firenze darà in coerenza le opportune partecipazioni.

«Dato dal ministero degli aff. eccles., il 20 luglio 1859.

« Al Prefetto di Firenze,

«V. Salvagnoli, - F. Giagoni».

Non faremo lunghe osservazioni a questi documenti. Basti il notare che, appena scosso Tordi ne sociale per opera della rivoluzione, il protestantesimo salta fuori, ed erge orgoglioso il capo. Quando si agita e si commuove l'acqua, la feccia viene a galla.

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EDIZIONE COMPIUTA

DELLE OPERE DI MACHIAVELLI

A SPESE DELLA TOSCANA

(Pubblicato il 28 settembre 1859).

I signori che sgovernano la Toscana hanno trovato utile ed opportuno ordinare che «a spese dello Stato sia fatta in Firenze un'edizione compiuta delle opere di Nicolò Machiavelli». Capite? Un'edizione compiuta; cioè dal Principe fino alla Mandragora, dal libro più empio e tiranno alla più laida delle commedie, che, come scrisse Giambattista Corniani, tende a stabilir l'adulterio permanente e tranquillo!

Questo decreto dei signori della Toscana serve a mostrarci sempre meglio il genio della rivoluzione: ce ne mostra la leggierezza, non essendovi cosa più ridicola oggidì che pensare a ristampe e a nuove edizioni di opere; ce ne mostra l'empietà, essendo uno dei principali meriti del Machiavelli aver insegnato la strada a Gian Jacopo Rousseau, deridendo la Bibbia e mordendo i Pontefici; ce ne mostra il dispotismo, perché il Segretario Fiorentino ne ò ramoso maestro a governanti, e massime a governanti nuovi, a' quali dice di non si curar dell'infamia di crudeli, giacché «al Principe nuovo è impossibile fuggire il nome di crudele, per essere gli Stati nuovi pieni di pericoli. Onde Virgilio per bocca di Didone e scusa l'inumanità del suo regno, per esser quello nuovo, dicendo:

Res dura, et regni novità me tatia cogunt Moliri, et late fine$ custode tueri.

Noi diremo brevemente a' nostri lettori chi fosse il Machiavelli, quali le opere sue ed i suoi insegnamenti, affinché giudichino l'indegno abuso che si fa dei denari dello Stato da coloro che li amministrano in Toscana Ma siccome taluno potrebbe avere in sospetto i nostri giudizi, così invocheremo l'autorità di Cesare Balbo, del quale il sedicente governo toscano decretava il ritratto, nel tempo stesso in cui ordinava l' edizione compiuta delle opere di Machiavelli.

Il Balbo adunque ne' suoi Pensieri sulla Storia d'Italia, oltre al chiamare anticittadina, antipopolana, antinazionale la parte a cui il Machiavelli servì, scrisse:

«Machiavello e Guicoiardini storici tutti e due....., ammirabili per l'arte, sono poi per la indifferenza loro ai vizi ed alle virtù narrate, la mancanza assoluta d'ogni senso del bello, del grande e del giusto, per le lodi loro serbate alla sola riuscita con qualnnque mezzo e più coi più artifiziosi e più perfidi, sono, dico, i più miserandi, i più scellerati storici che sieno stati mai».

Ora il Balbo è annoverato dai signori della Toscana «tra gli Italiani illustri morti in questo decennio, che promossero cogli scritti il nazionale risorgimento». Eppure questo grande e sincero italiano chiamava perfido, miserando, scellerato il Machiavelli.

Che dire adunque di coloro che a spese dello Staio ordinarono un'edizione compiuta delle sue perfide, miserande e scellerate opere?

- 187 -

Il giudizio del Balbo è comune a tutti i liberali onesti, e nelle Memorie dell'abate Morellet, per M. Lemontey, leggesi una lettera di Pietro Verri, ove dice: Qual altro paese che il nostro ha prodotto un Machiavelli e un Fra Paolo Sarpi? Due mostri in politica, la cui dottrina è tanto atroce quanto falsa, e che mostrano freddamente i vantaggi del vizio, perché ignorano quelli della virtù». E pensare che sì atroce ed infame dottrina sarà ristampata in Firenze a spese dello Stato!

Il decreto dello sgoverno toscano può venire considerato dal lato della politica, della religione e del buon costume. Il Machiavelli in politica non conosce altro principio che il tornaconto, e cerca di formare i governanti per guisa che riescano mezzi uomini e mezze bestie. Esso insegna scopo dei governi essere il durare, né ciò potersi che coll'incrudelire, «perché gli uomini sono generalmente ingrati, simulatori e riottosi, tal che convien tenerli colla paura della pena». Insegna (e i terroristi del novantatrè l'impararono!) che «nelle esecuzioni non vi è pericolo alcuno, perché chi è morto, non può pensare alla vendetta». Insegna che Romolo non va disapprovato dell'aver ucciso Tazio e il fratello Remo. Insegna che «la vittoria arreca gloria, non il modo»; e che se una città si ribella al Principe, egli non ha altro rimedio che spegnerla, altrimenti e è tenuto o ignorante o vile!»

Sappiam bene che da Rousseau fino al Foscolo, s'è andato divulgando dagli ammiratori del Machiavelli, aver egli dettato il Principe con questo intento, d'insegnare a' Principi l'iniquità, affine di renderli odiosi ai popoli e così procurare la loro rovina. Ma oltre che tale intendimento non discolperebbe il Machiavelli, questa supposizione non regge alla buona critica, e l'ha mostrato pochi anni fa Giuseppe Frapporti in un suo pregievole lavoro sugli intendimenti di Nicolò Machiavelli nello scrivere il Principe.

Tra gli altri argomenti che reca il Frapporti, v'è questo convincentissimo, che le massime contenute nel Principe sono in sostanza le stesse che s'inculcano in tutti gli altri scritti del Machiavelli , e che i consigli ch'egli porge in quel suo libro a' Principi, per rispetto all'interna amministrazione dello Stato, tendono anzi a non dar motivo né di malcontento, né di ribellione ai loro soggetti, benché per mezzi disonesti e malvagi. E noi tuttavia nelle sentenze del Machiavelli arrecate testé per saggio della sua politica, lasciammo da parte il Principe, attingendole ad altre sue opere.

Come storico pertanto il Machiavelli è scellerato, testimonio il Balbo che se n'intendeva; come politico è atroce, testimonio il Verri, e meglio ancora testimonii i suoi libri.

Da' quali anche risulta che cosa pensaste in fatto di religione, insinuando che la religione cristiana non sia gran fatto appropriata a promuovere la libertà e la grandezza dei popoli» Cercava perciò di retrospingere la società al paganesimo, e questo è tutto il suo sistema; sicché scrisse giusto chi definì il Machiavelli un'anima pagana gettata per caso attraverso i secoli cristiani»

Ma una parola diciamo, della scostumatezza sua, la quale risulta e dagli storici e dai suoi medesimi libri. Il Varchi racconta che al Machiavelli era universalmente portato odio grandissimo, e ciò, fra le altre ragioni, perché era e licenzioso della lingua,

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e di vita non molto onestà e al grado suo disdicevole». Sono così sudicie le lettere del Machiavelli al Vettori del gennaio e febbraio 1513; che, scrive Cesare Cantù, è già troppo l'accennarle. E queste lettere verranno stampate a Firenze a spese dello Stato, e messe in mano della gioventù toscana!

Giambattista Corniani ne' suoi Secoli dilla letteratura italiana ha fatto piuttosto il panegirico che non la critica del Machiavelli, e nonostante lo giudica così dal lato dei costumi:

«Lo spirito libertino del Machiavelli apparisce largamente nelle sue opere di piacere, vale a dire nelle commedie: nell'Asino d'oro, nei Canti Carnascialeschi, eoe. Anche negli ultimi anni della sua vita si occupava con geniale impegno in promuovere la rappresentazione della laidissima Mandragora. A quest'epoca ancora... Non ci è lecito trascrivere nemmeno il racconto del Corniani. Eppure le particolarità che raccoglie risultano tutte dalle lettere del Machiavelli, che verranno stampate a Firenze a spese dello Stato!

Non possiamo però tenerci dal mostrare come costui amasse l'Italia. Lo dice assai chiaro una sua lettera a Francesco Guicciardini sotto la data del 13 di marzo 1525, nella quale, dopo avere annunciato il pericolo dell'Italia di divenire interamente preda delle armi dell'imperatore Carlo V, passa poi di slancio a ragionare della sua Barbara, soggiungendo che questa dava a lui molto più fastidio dell'Imperatore !

Oh buoni amministratori del pubblico denaro sono davvero i signori di Firenze, che lo spendono in una edizione compiuta delle opere del Machiavelli! La gioventù imparerà dalle sue lettere come egli fosse amatore dei piaceri della tavola, e mangiatore lauto e smodato; e dalla sua vita come morisse in età di soli 58 anni per atroci dolori di ventre, cagionatigli dalla sua abituale intemperanza.

Ci resterebbe ancora qualche cosa da dire su tale argomento, ma forse ci ritorneremo domani. Intanto ne abbiamo detto abbastanza per dimostrare come lo sgoverno toscano colla edizione compiuta delle opere del Machiavelli a spese dello Stato amministri le finanze, provveda al buon costume, alla sana politica, alla verace libertà, ed all'educazione della gioventù !

LE GIUSTIZIE DI S. PIETRO

AVVERTIMENTI AI PEPOLINI DI BOLOGNA (1)

(Pubblicato il 29 settembre 1859).

Nelle lettere dei Papi ai Re Franchi e nelle cronache del Medio Evo spesso s'incontrano nominate le giustizie di S. Pietro, e queste parole generalmente si usano per significare ciò che apparteneva di diritto alla Chiesa Romana, e se le dovea restituire.

(1) Pepolini chiamavano a Bologna nel 1859 i seguaci della rivoluzione promossa principalmente dal marchese Napoleone Popoli.

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A cagione d'esempio una lettera del Papa al Re de' Francesi è indirizzata Ad Domnum Regem invitandum prò iustitia Sancii Petri super Desiderium regem; e Anastasio, parlandoci di Carlo Magno che chiedeva al Re dei Longobardi le terre del Papa, dice ch'egli voleva pacifice iustitias B. Petri recipere.

Questa maniera di favellare racchiude in sé varii insegnamenti. Dapprima dinota il carattere sacro di tutti i beni dello Stato Pontificio, onde chi li tocca si rende reo di sacrilegio, perché offende S. Pietro, e questo grande Apostolo saprà farsi restituire a suo tempo, come l'ha saputo da dieci secoli in qua.

Di poi indica che il Papa non può alienare nessuno dei diritti che gli competono come Re temporale, perché egli non è padrone assoluto, ma amministra e governa il patrimonio di S. Pietro, che dee rimettere intero al suo successore, come intero l'ha ricevuto da chi lo precedeva.

Finalmente dichiara quanto sieno solenni i diritti della Santa Chiesa e legittimi i possedimenti del Papa, dacché assumono per antonomasia il nome di giustizie.

Alessandro Manzoni stima che questo nome di giustizie di S. Pietro sia stato ricavato da quel testo d'Jsaia, dove il Signore per bocca del suo Profeta dice: Sono mie le giustizie e l'impero. E ciò vorrebbe dire che il Papa, accennando alle sue terre, può, con più ragione del Bonaparte a Milano, esclamare: Dio me le ha date, e guai chi le tocca

Tutti coloro che violarono le giustizie di S. Pietro, tardi e tosto se n'ebbero a pentire, e tra questi disgraziati la storia ci mostra principalmente un imperatore antico ed un imperatore moderno, Federico Barbarossa e Napoleone I.

Il Barbarossa che voleva togliere il suo al Papa e stenderei! proprio dominio in Italia, fu sbaragliato nella pianura di Legnano, e pili tardi in Venezia baciava il piede del Pontefice Alessandro che conculcava il leone ed il dragone. Raccontano che Federico dicesse al Papa: non Ubi sed Petro; ed il Papa a lui: et mihi et Petro!|

Il Bonaparte che avea convertito lo Stato Pontificio in uno spartimento francese, rideva di San Pietro, e scriveva al Viceré d'Italia, che i tempi erano cangiati, ch'egli non era un Luigi il Débonnaire, che le scomuniche non farebbero cadere le armi dalle mani de' suoi soldati, e via via.

E il giorno in cui il Papa veniva imprigionato, era il giorno della vittoria di Wagram! Del che si consolavano gli empi, risultando a' cattolici ed a S. Pietro; il quale però ben presto colla sua spada sbaragliò queste innumerevoli falangi, e ricondusse glorioso Pio VII nella sua Roma, mentre il superbo capitano andava a morire sullo scoglio di Sant'Elena.

Il conte Giuseppe de Maistre in una sua lettera osservava: «Giammai nessun sovrano ha messo la mano su di un Papa qualunque, e potè vantarsi in seguito di un regno lungo e felice». E l'illustre pubblicista veniva citando una serie di esempi, dai quali risultava che le giustizie di San Pietro non vennero mai calpestate impunemente.

Questo grande fatto storico fu visto e confessato dall'empio Proudhon, il quale nelle sue Confessioni d'un rivoluzionario al § 19 scrisse: e La sovranità levandosi contro il Papato cominciò da quel punto a correre Terso la sua rovina».

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Pepolini, Pepolini, voi siete peggiori dei barbari. I barbari temevano S. Pietro e ne rispettavano le giustizie. Attila, il nipote del gran Nemrod, vide il Pontefice Leone, e al suo fianco l'apostolo S. Pietro, e indietreggiò.

Totila, dice Procopio, andò nel tempio di San Pietro non per invaderlo e spogliarlo, ma precandi grafia; e i Goti, durante la guerra di Roma, riverirono e si guardarono sempre dall'offendere menomamente la casa contacrata a San Pietro.

Sono treiitotto i Pontefici che vennero perseguitati ed espulsi violentemente da Roma, o per forza straniera, o per tumulto popolare. E San Pietro non mancò mai di difendere le sue giustizie. Difese Innocenzo li, Eugenio 111, Adriano IV, Alessandro III, Lucio III, Gregorio IX, Innocenzo IV, Urbano IV, Bonifazio IX, Innocenzo VII, Pio VI, Pio VII, Pio IX, i quali, o per se stessi, o nelle persone de' loro successori, finirono sempre per conquistare i proprii dominii.

Federico II nell'Antimachiavello scrisse: o Venne cento volte in testa ai moderni Romani di cangiar sovrano; ma portano nel petto una remora che li trattiene». E a' tempi di Pio VII un incredulo esclamava: «II Papa riacquistai suoi Stati, e questo accade nel secolo filosofico! Dopo di ciò, signori filosofi, studiate pure, accumulate argomenti su argomenti; il Papa distruggerà in un giorno quello che voi appena in vent'anni avete edificato».

Nel Papa, considerato non solo come Capo della Chiesa, ma anche come Principe temporale, v'ha qualche cosa di sovrannaturale, che Federico II chiamava una remora, e il cattolico medio evo dicea le giustizie di S. Pietro.

Noi abbiamo oggidì la più grande certezza della vittoria del Papa, e solo ci duole dell'offesa di Dio, del danno dei popoli. Se questo non fosse, vorremmo quasi godere della nuova occasione che gli empii offrono a S. Pietro, di far lampeggiar la sua spada, e ai poeti di cantare più. tardi col nostro Manzoni:

Bella, immortal, benefica,

Fede ai trionfi avvezza

Scrivi ancor questo; allegrati:

Che più superba altezza

Al disonor del Golgota

Giammai non si chinò.

LA DEMOCRAZIA

DELL'ECCELSO DITTATORE FARINI.

L'Italia di Torino è il solo giornale democratico che giudichi come vi il liberalismo del sig. Farini, il quale s'è messo al posto del duca di Modena, a danza, e detta, e diluvia a due palmenti in nome dell'Italia una e indivisibile.

Tra le altre cose l'Eccelso pranza sempre con sei servitori in gran livrea e calze di seta, e non sappiamo quante guardie d'onore nell'anticamera. Su questo proposito l'Italia del 30 di agosto scrive così:


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«Carnillo, Dittatore, era un omicciattolo tagliato alla buona, che si serviva da sé. Cincinnato, Dittatore, faceva andare i buoi e teneva l'aratro. Giulio Cesare, Dittatore, mangiava spesso al rancio dei soldati; e quando traversava il Mediterraneo, si gettava in un battelluccio senza un servitore. Cromwell, Dittatore, vestiva una giachettaccia di pelle di bufalo, e conservava le abitudini del birraio.

«I Triumviri, quasi dittatori di Roma nel 1849, scendevano dal Quirinale alla prima osteria per pranzare a due franchi a testa. Filopemene, generale in capo dei Greci, spaccava da sé la sua legna da bruciare. Washington, Dittatore, non depose mai il suo modesto costume di possidente campagnuolo. Il Viceré Beauharnais, comandante supremo dell'esercito d'Italia scendeva tal fiata alla legnaia del palazzo Canossa a prendersi le fascine da scaldarsi e se le portava sotto il braccio.

«Tutta questa gente non infendeva la importanza delta Autorità.

«Kibolus Alotsius I, por la gracia dfe Dios, che la sa più lunga, quando ha due galantuomini alla sua tavola, vi tiene 6 cariatidi attorno in gran livrea e calze di seta (storico), per cambiare i piatti ai convitati (1).

Mercantonio ed altri grossi uomini direbbero: -Questo si chiama comprendere la sua carica, i suoi tempi... e il perché del perché!!!».

LETTERA

DEL DUCA DI MODENA AL GRANDUCA DI TOSCANA

NEL MARZO DEL 1859.

Pare che la Nazione di Firenze non sia stata soddisfatta degli autografi del Duca di Modena, Francesco V, pubblicati dell'Eccelso Farini; laonde il giornale fiorentino intraprese, a sua volta, la pubblicazione di altre lettere del Duca che dichiara d'avere trascritte dall'autografo. Noi ne daremo un saggio, pubblicando la seguente, che è nella Nazione del 29 d'agosto, e sarebbe stata indirizzata al Granduca di Toscana:

Caro Cugino,

Vi sono ben riconoscente di avermi pur voluto rispondere in mezzo alla vostra ben giusta e gravissima afflizione in data del 19 febbraio, lettera che ricevetti però solo tre giorni fa. Non ritorno sul tristissimo caso, giacché vi ho nell'altra mia espressi i miei sentimenti, che saranno inalterabili anche in seguito, essendo stato il caso troppo impreveduto e lacrimevole spezialmente per chi ha conosciuto l'ottima defunta vostra nuora. Colgo poi l'occasione per ringraziarvi per quanto m'avete scritto in data 20 gennaio da Roma, e Te ne esprimo tutta la mia riconoscenza per questo tratto di amico e buon vicino. Nel momento tutto è quieto sul confine fra il mio Stato e il Sardo; molti rifuggiti sono stati mandati a Torino e mèssi in reggimenti di linea, cosa che ha raffreddato l'entusiasmo, giacché la vita licenziosa, che menavano a Sarzana, loro confaceva di più.

(1) Mancano le parrucche, ma sono già ordinata a Parigi.

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Benché io non creda ad un attacco di corpi franchi massime isolati, cioè senza un nucleo di truppa attiva sarda, pare se ciò dovesse accadere sono certo che le vostre, le mie e le truppe parmensi saprebbero dar loro una buona lezione; cosa, che se avvenisse, farebbe un effetto grandissimo, e proverebbe che gli Stati Italiani, dipinti come incapaci di resistenza, hanno usa relativa forza sufficiente per contenere la minorità turbolenta interna e resistere anche ad attacchi di bande irregolari esterne. Contro attacchi più serii non è vergogna se non si può tener testa da sé; ma spero in Dio che, se ciò accade, anche noi troveremo degli amici potenti che ci sosterranno; e d'altronde la giustizia della nostra causa, che si riduce alla difesa di casa propria contro l'assassino che ci vuoi togliere il nostro, deve darci molta fede nell'avvenire e raddoppiare il nostro coraggio ed il desiderio di difenderci il meglio possibile, locché aumenterà pure le simpatie di tutti gli uomini d'ordine in Europa, per chi agisce così.

Scusate questa mia cicalata, ma credo che in questi momenti è bene che ognuno dica francamente e senza reticenza come vede le cose, ed intanto pregandovi a rammentarmi ai vostri tutti, mi dico di cuore

Vostro Aff. Cugino ed Amico

Francesco.

Modena, 3 marzo 1859.

ALESSANDRO MANZONI

SENATORE NEL 1859

RIFIUTAVA LA DEPUTAZIONE NEL 1848.

Nella tornata del 17 ottobre 1848 il Presidente della Camera dei deputati di Torino leggeva la seguente lettera:

Illustrissimo signore, - Chiamato da troppo iudulgenti suffragi all'alto onore di sedere in codesto consesso, mi trovo nella dolorosa necessità di protestarmi inabile a sostenere il difficile incarico che va unito con un tale onore, anzi ne è il fondamento. La conoscenza di me medesimo m'avverte troppo chiaramente che mi manca più d'una qualità essenziale a un deputato. È un dovere impiegare le proprie forze in servizio della patria, ma dopo averle misurate; e il lasciar libero un posto importantissimo a chi possa più degnamente occuparlo, è una maniera di servirla: povera e trista maniera, ma l'unica in questo caso.

«Voglia presentare alla Camera il reverente e sincero omaggio del mio dispiacere, e si degni di gradire in particolare l'attestato del profondo ossequio, col quale ho l'onore di dirmi

«Di V. S. Illustrissima

«Lesa, 13 ottobre 1848.

« Umilissimo Devotissimo servitore

«Alessandro Manzoni».

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IL MONASTERO DELLA NOVALESA

NEL 719, NEL 1856 E NEL 1863.

L'Armonia del 12 e 13 di novembre 1856 (n. 262 e 263) pubblicava due articoli intitolati: Nuova invasione de' Saraceni nel monastero della Nova lesa. Siccome di questi giorni si tornò a parlare della Novalesa, dove non è più un monastero, ma, come dicono, una casa di sanità, ossia un ospedale pei pazzi, così noi incominceremo

il quarto quaderno

delle Memorie per la storia de' nostri tempi ristampando que' due articoli.

I.

I Saraceni erano barbari, usciti da Sara nell'Arabia, che fin dai tempi di S. Gerolamo, come egli scrive nel lib. Il delle sue epistole In vita Marci, devastavano i paesi, e vivevano di rapine. Se sono giusti i calcoli di Cesare Balbo nella Storia d'Italia, essi valicarono i Pirenei nel 719, e si diffusero nelle provincie meridionali della Gallia. Entrati nella Provcnza, presero la via di Sospello, e guadagnate le Alpi marittime discesero a devastare il Piemonte. Un povero Vescovo d'Asti, mentre visitava la sua diocesi, fu fatto a pezzi da que' barbari. Il monastero di Pedona, il castello, la chiesa, il borgo, soggiacquero all'empia devastazione. Ma il peggio incolse ai poveri monaci della Novalesa.

La Novalesa è un villaggio del Piemonte su quel di Susa, che dee tutta la sua rinomanza all'antichissimo monastero, che vi venne eretto. Fin dal secolo X questo monastero era celebre per la coltura delle scienze, e dai dotti si cita anche oggidì come una gloria non solo del Piemonte, ma dell'Italia, e come una prova del primato italico, in fatto di coltura, su tutta l'Europa nei secoli più tristi della barbarie.

Ludovico Antonio Muratori, nel tom. I Rerum italicarum, parte II, riferisce, secondo la cronaca dell'Abbadia della Novalesa, il mal governo che fecero i Saraceni del monastero e de' monaci. Beni sacri e profani, le chiese, le case, gli armenti, le vettovaglie e le persone caddero sotto i feroci artigli di quella gente brutale. Due vecchi monaci eransi lasciati alla custodia del monastero, ed amendue battuti e feriti vennero stesi boccone sul pavimento. Quei barbari, vergogna dell'uman genere, non conoscevano altro termine alla loro voracità, che la forza propria e la miseria altrui. Torino, città fortificata, dove Gnglielmo era Vescovo, accolse i monaci della Novalesa sfuggili alla morte.

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I quali, cercando di salvare la propria vita, cercavano egualmente di salvare le scienze, e recavano in Torino, secondo il Pingonio, ben 6,666 codici preziosissimi.

Ora usciamo dal medio evo per entrar nell'evo della libertà, del progresso, delle Costituzioni, dei principii dell'89. La scena si rappresenta ancora in Piemonte; il monastero della Novalesa è di bel nuovo conquistato, e vengono dispersi i monaci. Ma i conquistatori non sono più foraatieri, non Saraceni, non barbari; sono Italiani, sono Piemontesi, sono liberali che violano il domicilio altrui, che cacciano i padroni dalla casa propria: Italiani e Piemontesi che distruggono le loro glorie, e cancellano le nobili memorie che illustrano la propria storia.

Il 10 settembre del 1856 il reverendo Padre Pereno, priore del monastero dei Ss. Pietro ed Andrea della Novalesa, riceveva la lettera seguente:

Susa, 10 settembre 1856.

Il sottoscritto, desiderando di essere in grado di riscontrare prontamente ti superiore ufficio sull'importante oggetto infrascritto, si fa debito di trascrivere il dispaccio dell'Amministrazione centrale della Gassa Ecclesiastica direttogli 18 corrente, del tenor seguente:

«In riscontro al foglio in margine distinto, il sottoscritto partecipa al signor Insinuatore di Susa, che quest'Amministrazione, debitamente autorizzata, è disposta a corrispondere tanto ai sacerdoti quanto ai laici del monastero di Novalesa il maximum della pensione previsto dall'articolo 9 della legge 29 maggio 1855, che è di L. 500 per gli uni, e di L. 240 per gli altri, e tuttoché abbandonino il chiostro per vivere al secolo.

«Vorrà, per conseguenza, il signor Insinuatore compiacersi di tal cosa notificare prontamente ai religiosi predetti e di eccitarli a far conoscere con «sollecitudine le loro determinazioni in proposito, onde aver norma nelle disposizioni a darsi in ordine ai concentramenti e ad indicare nel tempo stesso l'epoca, in cui, per effetto dell'uscita loro dal chiostro, sarà disponibile il locale da essi attualmente occupato ad uso di monastero.

«Occorre nel tempo stesso, che venga indicato il luogo del domicilio a scegliersi da ciascun religioso, e ciò pel conveniente recapito di mandati a spedirsi in avvenire».

Firmato all'originale: Direttore generale Ottana.

L'Insinuatore A. Dattieb.

Il Padre Priore rispondeva, tre giorni dopo, all'Insinuatore di Susa nei seguenti termini:

« Ill. mo signor Insinuatore,

«Novalesa, il 13 settembre 1856.

«I sottoscritti religiosi nel monastero di Novalesa, in riscontro alla nota del 10 corrente settembre, debbono osservare all'ill. mo signor Insinuatore, come avendo emesso voto di stabilità in detto monastero, dal quale non trovansi dispensati dalla S. Sede, non possono coscienziosamente aderire all'infilo loro fatto d'abbandonare il chiostro per venire al secolo:

- 195 -

In pari tempo dichiarano, che per solo dovere di coscienza tono entrati nella suespressa risoluzione, quale si fanno carico di partecipare al signor Insimtatore, cui presentano i loro ossequii.

Firmati: D. Romano Persno

D. Michele Blànc

1.

Antonio Macchia.

2.

Il 22 di settembre giunge una nuova lettera al Padre Priore. Non è più Insinuatore che scrive, ma il ministro di grazia e giustizia, signor Deforesta. Ecco il dispaccio:

«Torino, addi 22 settembre 1856.

«In eseguimento delle disposizioni della legge 29 maggio 1855, il Go«verno ha determinato che il Reverendo Padre Priore del monastero dei Benedettini Cassine»! di Novalesa, ed il Padre Macchia, monaco appartenente alla stessa famiglia religiosa, debbano passare, prima dello spirare del prossimo venturo mese di ottobre, nel monastero dello stesso Ordine di Savigltane; e, ritenuto poi lo scopo delle menzionate disposizioni, non che le speciali circostanze, in cui si trovano gli altri religiosi esistenti attualmente nel monastero sovra menzionato, ha pure determinato, che abbiano essi a godere fuori chiostro la pensione loro rispettivamente assegnata dall'articolo della precitata legge, con che lascino codesto monastero fra tutto il prossimo mese di ottobre.

«Il sottoscritto, nel partecipare quanto sovra al Reverendo Padre Priore del monastero dei Benedettini della Novalesa, lo prega di accennargli, se desidera provvedere esso, mediante rimborso delle spese, al trasferì mente di lui e del Reverendo Padre Macchia nell'indicato monastero di Savigliano, ovvero se preferisca, che l'Amministrazione della Cassa Ecclesiastica vi provveda essa medesima direttamente, per cui sta attendendo un sollecito riscontro per quelle altre determinazioni, che potessero essere del caso.

«E mentre il sottoscritto mitre fiducia, che il prelodato Reverendo Padre Priore ed i membri della sua famiglia saranno per uniformarsi a queste determinazioni del Governo, e che vorranno dal loro canto procurare, che la cosa segua colla dovuta convenienza, si vale dell'opportunità per esternargli i sensi della distinta sua considerazione.

«Il ministro Deforesta.

A questo dispaccio ministeriale il Priore del monastero della Novalesa rispose così:

« Eccellenza,

«II sottoscritto non avendo riscontro da suoi Superiori alla comunicazione del dispaccio N° 4 d'ordine, in data del 22 settembre, dell'Ecc. V. , sul che fare riguardo all'uscita da questo monastero di Novalesa, e d'altronde considerando il giuramento prestato nell'atto di sua professione col voto di stabilità in questo monastero, ha il dovere di osservare all'Ecc. V., che non può dipartirsene,

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che quando venga messo fuori, ed allora sarà in grado di passare in quello di Savigliano; ed in pari tempo coi sensi di tutta stima e considerazione si protesta

Dell'Ecc. Sua

« Um. mo servo D. Romano Pereno.

«Novalesa, il 1° di ottobre 1856».

Dopo questa risposta, nulla di nuovo fino al 21 di ottobre, quando la polizia minaccia que poveri monaci. Ecco la lettera dell'Intendente di Susa:

«Susa, addì 21 ottobre 1856.

«Dopo quanto lo scrivente ebbe l'onore di significare avoco alla S. V. TU. ma e molto Rev. ma, Ella non può ignorare, che per incarico del Ministero di grazia e giustizia, deve, chi scrive, dare le occorrenti disposizioni, perché a termini della legge 29 maggio 1855, i RR. PP. Benedettini abbiano a lasciar libero il convento di Novalesa entro tutto il corrente ottobre.

«Preciso ed imprescindibile essendo un tale ordine, il sottoscritto è in dovere di farlo eseguire; e poiché riuscirono vane le persuasioni usate per mezzo di rispettabile persona a lei spedita, onde risolverla ad uscire spontaneamente; vedesi, chi scrive, costretto con suo rincrescimento ad usare di tutti i mezzi legittimi, e quindi anche della forza, se ne fosse il caso, per ottenere l'intento.

«Fermo nel proposito di adempiere il proprio dovere, ma pur volendo usare colla S. V. III. ma, e suoi Compagni, i riguardi col medesimo compatibili, pregiasi chi scrive di far conoscere alla S. V. Ill. ma e RR. suoi Compagni, queste definitive, estreme, inevitabili risoluzioni, onde evitar loro ogni sgradevole sorpresa all'arrivo costì degli agenti di pubblica sicurezza, incaricali di accompagnarla coi reverendi suoi Compagni nel convento di Savigliano.

« L'Intendente Tholosano».

Detto fatto, il mattino del 25 di ottobre giungono alla Novalesa tre agenti di pubblica sicurezza e due delegati della Cassa Ecclesiastica, si presentano nella cella del Priore, e gli mostrano l'ordine che hanno ricevuto di sfrattare lui ed i suoi dal proprio monastero. Il Padre Priore legge la protesta collettiva, in presenza dei suoi compromessi, e tutti soggiacciono alla forza. Il Padre Priore, ultimo a partire, viene accompagnato per breve tratto dalle persone, che avevano avuto il nobile incarico di cacciar via i monaci. Le quali poi ritornarono nel monastero, per toglierne subito i quadri, che la bugiarda Gaz zetta del Popolo avea detto trafugati dai monaci fin da un anno fa. Ecco la protesta del Padre Priore. Egli la consegnava al delegato di pubblica sicurezza, che recavala in Susa al suo superiore. E poi il giorno medesimo, 25 di ottobre, questo delegalo ricercava in Susa il ramingo Padre, e restituivagli la protesta, dicendogli che il suo superiore non poteva accettarla. Se non l'accettò il Ministero l'accetteranno i Piemontesi, per giudicare a suo tempo i nuovi Saraceni; l'accetterà l'Europa civile, per correggere i barbari che infieriscono contro i deboli e gli inermi; e in qualunque caso l'accetterà il Signore Iddio, nel cui nome fu scritta, e non tarderà a vendicare la sua causa ed i suoi servi. La protesta diceva adunque così:

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«In nomine D. N. J. C. Amen.

«Il sottoscritto, come Superiore prò tempore del Monastero dei Santi Pietro ed Andrea di Novalesa, a nome proprio ed a nome della Comunità d idetto Monastero, non che a nome pure del Rev. mo Priore abate D. Arsenio Rosset-Carel, membro anche egli di questa monastica famiglia, benché assente per motivo di suo ufficio di ubbidienza, dichiara che tanto esso, che i singoli individui componenti questa monastica famiglia trovansi vincolati alla Congregazione Cassinese, e segnatamente al Monastero dei Santi Pietro ed Andrea di Novalesa per voti solenni da loro emessi liberamente e volontariamente in faccia a Dio onnipotente fino dalla loro gioventù: perciò senza farsi rei di apostasia non possono liberamente abbandonare questo Monastero a meno che vi concorra il consenso della Santa Sede, o la licenza dei Superiori della detta Congregazione, per la qual cosa si vede nella dura necessità di protestare a nome proprio, ed a nome dei suddetti, come protesta che nel sortire da esso Monastero cede soltanto e puramente alla forza, come pure protesta che intende serbare tutti i diritti che i suddetti hanno sopra al sullodato Monastero, riserbandosi a farli valere ove di ragione.

«Dato dal Monastero de' Santi Pietro ed Andrea di Novalesa, il 25 ottobre 1856.

«D. Romàno Pereno, Priore ed Amministratore».

II.

CONSIDERAZIONI

Riguardo alla nuova invasione dei Saraceni moderni nel celebre monastero della Novalesa, da noi esposta coi documenti alla mano, quattro punti sono da considerarsi: 1° il genio distruttore della rivoluzione, che non la perdona alle cose più preziose ed alle istituzioni più benefiche; 2° la generosità straordinaria della Cassa Ecclesiastica; 3° il piglio altero del signor Deforesta e dei suoi; 4° finalmente l'immoralità del Ministero e la sua tirannia nel costringere i monaci al sacrilegio ed allo spergiuro. Veggiamo il tutto parte a parte.

La rivoluzione è il Nihilum armatum. Tallevrand, nella sua relazione dell'11 di febbraio 1790, dichiarò la sua impresa in queste parole: Tout ditruire afin de tout refaire; impresa, che i tempi giustificarono solo nella prima parte; laonde a buon diritto Proudhon la corresse così: Tout détruire et ne rien refaire.

Uno sguardo a questa rivoluzione dominante in Francia. Nell'ordine religioso distrugge l'antica disciplina della Chiesa, sopprime cinquanta Vescovadi trecento Capitoli, ducento istituzioni religiose, abolisce i Sacri voti, gli Ordini della cavalleria, sopprime le Congregazioni insegnanti dell'uno e dell'altro sesso, le Accademie, i Collegi, i Seminarile perfino quegli Istituti, che si consacrano iti nome della carità al sollievo degli infermi e dei poveri. Nell'ordine politico distrugge la Francia antica, l'aristocrazia, la Monarchia, Luigi XVI e la sua famiglia,

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i nomi perfino delle città e le più belle memorie della storia francese, quelle che ricordano i vincitori di Bouvines, di Damietta, di Tolemaide, di Gerusalemme, di Denain, di Fontenov.

Nell'ordine scientifico saccheggia pili di ottanta mila biblioteche. Gli uffizi ali municipali corrono a emmagasiner i libri, come dicevano, li misurano a piedi ed a tese, e li vendono per la maggior parte ai droghieri. «Noi abbiam visto, dice un testimonio oculare, dei zuccherini avvolti in fogli del S. Atanasio di Monlfaucou, magnifica opera, che costerebbe oggidì tre o quattrocento franchi». (Mémoires de la Révol. , pag. 424). Nell'ordine artistico, manda in malora i capi d'opera di scultura e di pittura, i quadri delle chiese diventano insegne delle botteghe dei venditori di vino. La tela, purifiée de ses couleurs, è adoperata per vestire i piccoli sansculottes. Si vide un soldato che facea bollire la marmitta con pezzi d'un quadro dorato, ed avea un grembiale da cucina formato con una tela del Guido, del valore di trentamila franchi [ib. f pagina 4Ì8).

Ora uno sguardo alla rivoluzione medesima in Piemonte. Essa non fa che abolire. Abolizione dei Gesuiti; abolizione delle dame del Sacro Cuore; abolizione del foro ecclesiastico; abolizione della Compagnia di San Paolo, della Compagnia della Misericordia, delle dame della Compassione; abolizione dell'accademia di Soperga; abolizione delle collegiate: una cosa sola non abolisce, le imposte, che invece aumenta di continuo. Ma da questa parte edificare equivale a distruggere.

V'era in Piemonte un monastero celebre nelle nostre cronache, che contava una vita di dieci secoli almeno, che aveva reso immensi benefizii alle città ed ai cittadini, alle arti ed alle scienze, il monastero della Novalesa, ed anche questo fu distrutto il 25 di ottobre 1356. Già ne furono conquistati i quadri, invasi gli archivi, e chi sa a quale uso verrà destinato il locale! 0 Vandali, o Saraceni, ed è a questo modo che intendete promuovere la civiltà? II vostro delitto non è solo di lesa religione, ma di leso onor patrio. Non chiamale barbaro il medio evo; barbari voi, che avete distrutto quello che in quel tempo era nato!

I documenti dì quest'atto vandalico da noi riferiti dicono, che la Cassa Ecclesiastica e il signor Oytana si mostrarono questa volta generosi co' monaci. Dicbiararoasi prontissimi a pagar loro intiera la pensione a patto che abbandonassero il monastero ed uscissero nel secolo Perché questa strana generosità? Come si concilia colla fame che si fa patire a tante povere monache?

I rivoluzionarii amano la pecunia, ma odiano ancora di più la religione. Essi sarebbero pronti a sborsare larghe somme, se riuscissero al trionfo dell'empietà. L'abolizione dei conventi nasce bensì in parte dalla fame, che s'ha dei loro beni, ma principalmente dall'odio, che si nutre contro il cattolicismo. Se i frati si sfratano da loro, quest'odio è soddisfatto, e la piaga recata alta Chiesa diviene più sanguinosa. Ecco il perché di questa generosità inaudita della Cassa Ecclesiastica. Le duole all'anima di dover pagare sussidii a coloro che restano frati; e quindi assottiglia il più che può le sovvenzioni. Ma se la qualità di frate cessa, allora largheggia, e paga di buonissima voglia. Rimettiamo ai nostri concittadini il giudizio della moralità del fatto: se la Cassa Ecclesiastica ha ancora bricciolo di cattolicismo, non può a meno di andar persuasa,

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che il frate, il quale abbandona il suo Ordine senza le necessarie dispense, commette una scelleratezza. E come osa acconsentire a questa azione? Come osa anzi eccitarla, e promuoverla con promessa di guadagno?

Pongasi pure, che tra' frati trovisi taluno, il quale, vuoi per ignoranza, vuol per tristizia, sia pronto a commettere tale delitto; la Cassa Ecclesiastica dovrebbe impedirlo, negando invece i pagamenti. Ciò sarebbe secondo lo spirito della legge medesima del 29 di maggio 1855, che volle lasciare i frati nel chiostro, e impedirne la dispersione. E perché la Cassa Ecclesiastica vuoi essere ancora pio... . della legge, che la creava? Perché il signor Oytana vuol vincere in... . il ministro Rattazzi? Che cosa è mai questa gara d'incredulità e di audacia?

Ma la risponsabilità dei fatti e degli scritti pesa principalmente sul signor Deforesta e su tutto il ministero. Abbiamo visto di questi giorni con quanta dolcezza si trattassero i regicidi: ed ora veggiamo con quanta crudeltà si trattino i monaci. La nostra polizia è tutta in movimento, gli intendenti scrivono, i de«legati viaggiano, le guardie si armano, Ma a che fare? A reprimere i delitti? Eh no, che gli assassini son fatti in Piemonte cavalieri dei Ss. Maurizio e Lazzaro. La polizia corre, vola a cacciar via i frati dalle case proprie, ed adopera le sue armi per fare violenza ai Padri Priori. E volete che benediciamo que sta politica?

Sig. Deforesta, voi siete ministro di grazia e giustizia, e ben ci date a vedere come sapete amministrare la giustizia e la grazia. Le grazie vostre sono pei Gallenga e pei Melegari. Verso di loro voi vi mostrate tutto viscere di clemenza e di compassione; ma a riguardo dei frati, siete inesorabile. Avete stabilito il termine del mese di ottobre, perché i Monaci della Novalesa abbandonassero il monastero; e non voleste ritardare nemmeno d'un giorno. 1 vostri Sgherri compivano l'ordine, eseguivano l'ukase fin dal 25 di ottobre!

E notate che in quel tempo il P. Superiore dei Monaci trova vasi assente per dovere d'obbedienza; notate che chi ne sosteneva le veci, aveva ragguagliato il ministro di tale assenza, e d'aver scritto a' suoi per riceverne le opportune istruzioni. Tutto fu inutile, ed il sig. Deforesta non volle patire indugio di sorta. J ministri transigono coi partiti politici, fanno il connubio coi repubblicani: ma stanno fermi come un termine in faccia ai frati.

Essi sanno, gli sciagurati, che i frati non rovesciano ministeri, sanno che le Potenze estere pensano bensì ai Poerio di Napoli, non ai Monaci della Novalesa: sanno che il conte Walewski trova solo anormale la condizione degli Stati Pontifici, dove sono rispettate le proprietà di qualunque natura; sanno che nei conventi non si pronunziano i giurì della Giovine Italia, che là non si trovano i pugnali col manico di lapislazzoli; e certi di tutto ciò, giuocano sul sicuro, impennano, minacciano, adoperano la forza, e mostrano fermezza!

Finalmente noi dobbiamo fulminare l'immoralità commessa dal ministero riguardo ai Monaci della Novalesa. I quali trovatisi in una condizione differente da quella dei membri degli filtri Ordini religiosi, non essendosi soltanto obbligati per voto all'Ordine, ma anche a quel particolare monastero. Essi giurarono sui sacri altari restare alla Novalesa per tutto il tempo della loro vita, e il ministero li trascina fuori

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della propria casa, e li rende involontariamente apostati e spergiuri!

Questo delitto di spergiuro e di apostasia non pesa già sulla coscienza di que' monaci, che hanno dovuto cedere alla forza, ma pesa tutto sull'anima vostra, o ministri, e dovrete renderne conto agli uomini ed a Dio. In qua! concetto avete il valore d'un giuramento, se con tanta facilità costringete gli altri a violarlo? E non rispettando i giuramenti altrui possiamo sperare che siate per avere maggior rispetto pei giuramenti vostri? Se tenete in non cale il voto, dei PP. della Novalesa, vorrete dirci che vi farete infilzare per impedire più tardi la repubblica, e sostenere la monarchia costituzionale?

Quest'ultimo punto è gravissimo, e noi lo raccomandiamo alle meditazioni del Re e del paese. Non vi corre nessun divario tra voto e voto, tra giuramento e giuramento. Se taluno dei monaci della Novalesa avesse cercato d'abbandonare il chiostro, un buon governo avrebbe dovuto opporsi a questo disegno. Invece no; dapprima il ministero eccita i frati all'apostasia e dipoi ve li costringe!

E dov'è quella libertà di coscienza che tanto ci decantate? Che differenza passa ornai tra voi, o ministri, che obbligate i frati a violare i loro voti, e i primi persecutori della Chiesa che obbligavano i cristiani a rinnegare la loro fede? A nostro avviso ci passa questa sola differenza, che quelli dicevansi pagani, e voi vi spacciate cattolici. L'empietà e la tirannia è la medesima: solo gli antichi erano sinceri, e voi siete mascherati.

III.

Espulsi i Monaci dal loro monastero di Novalesa ne prese possesso la Cassa Ecclesiastica, che avendo bisogno di danaro, non tardò a metterlo in vendita. Pochi avventori si presentarono, e nessuno Io volle pagare quella poca moneta che la Cassa richiedeva: ma un medico, trovato che il monastero della Novalesa sarebbe acconcio per una casa di pazzi, lo comperò e convertì in tale uso, sicché il Piemonte ebbe un monastero di meno, e un manicomio dì più. Già il governo stesso avea convertito in Manicomio la Certosa di Collegno tolta a' Certosini, e l'esempio del governo fu seguito da un privato riguardo al monastero della Novalesa. Or sapete chi fu dei primi a doversi recare in questa nuova Casa di Sanità? Fu il cavaliere Carlo Luigi Farini, presidente del Consiglio dei ministri.

Nel precedente quaderno delle nostre Memorie abbiamo notato come il Farini con decreto del 9 dicembre 4862 fosse nominato presidente del Consiglio dei ministri. L'Opinione del 24 di marzo 1863, N° 83 annunziava: «Il cavaliere Farmi, presidente del Consiglio ha rassegnate le sue dimissioni, ed è partito per Novalesa presso Susa, affine di ristabilir la sua salute».

Del Farini e delle opere sue parleremo a suo tempo. La nostra storia non giunse finora che al 1856. Tuttavia poiché i fatti ei condussero a nominare il Farini non sarà inutile un cenno biografico su quest'uomo, cenno spoglio d'ogni giudizio e ristretto semplicemente ai fatti. Questi fatti sono tolti da una biografia, o meglio da un panegirico intitolato Luigi Carlo Farini per Vittorio Bersezio, Torino, Unione Tipografico Editrice 1862.

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Luigi Carlo Farini nacque in Russi, provincia di Ravenna, il 22 di ottobre 1812. Studiò medicina in Bologna, e fu laureato in quell'università nel 1831. Pigliò parte alla rivoluzione di quell'anno insieme collo zio, Domenico Farini. Questi era nominato dal governo provvisorio direttore della polizia nella provincia di Forlì, e conduceva qual segretario il nipote Carlo Luigi. Ma egli sdegnando tale uffizio di segretario, si unì coi volontarii che volevano muovere alla conquista di Roma, La rivoluzione fu vinta facilmente, e Farini, prevalendosi dell'amnistia, tornò in Bologna collo zio a terminarvi i suoi studii pratici di medicina. Esercitò da medico prima a Montesudo, piccolo paese dell'Apennino nelle Romagne, indi a Ravenna. Lo zio Domenico Farini fu barbaramente assassinato, ed il nipote Carlo Luigi andò medico primario nel suo paese natio, e pose la sua dimora in Russi. Die il suo nome alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini, e combinò un'insurrezione pel luglio del 4843. Scoperto abbandonava gli Stati Pontificii rifugiandosi in Toscana, donde, venne espulso, e mosse per Parigi. Vivendo mal volontieri fuori d'Italia tornò chetamente in Toscana, e stette ora a Lucca, ora a Firenze. Quivi ordì l'insurrezione di Rimini nel 1845, e scrisse il manifesto degli insorti. Ma quel moto non ebbe seguito; nessun'altra città la assecondò, ed appena cominciato dovette in ire.

Pio IX, generosissimo e clementissimo Pontefice, appena assunto ai Pontificato die l'amnistia. A que' dì Farini era medico del figlio di Gerolamo Buonaparte, e stava in viaggio coll'augusto infermo. Ma, morto il Principe, si valse tosto dell'amnistia e rientrò nello Stato Romano. Gli fu offerta la carica di medico primario in Osimo e l'accettò. Più tardi andò a Roma, perché Gaetano Becchi, ministro degl'interni nel gabinetto del 10 marzo 1848, l'avea eletto suo sottosegretario. Poi coree in Lombardia al campo di Carlo Alberto, e dopo l'armistizio d[ Milano tornò a Roma, e fu deputato al Parlamento per Russi sua patria. Sotto il ministero del conte Rossi, Farini venne nominato direttore della sanità pubblica e degli ospedali, e restò nell'uffizio fino alla repubblica. Durante il dominio mazziniano visse in Toscana, e rientrava in Roma coi Francesi riprendendo l'abbandonato uffizio, da cui fu licenziato poco dopo, riparando in Torino colla famiglia, Qui nel 1850 scrisse un giornaletto intitolato La Frusta, e difese il ministero d'Azeglio, aiutando le leggi Siccardi. Lavorò nel Risorgimento e conobbe e si fece conoscere dal conte di Cavour. Stanco del giornalismo, dettolo Stato Romano dall'anno 1844 al 1850, opera in quattro '"volumi. Tornò a lavorar ne' giornali, e ne fondò uno dandogli il nome di Piemonte. Se ne stancò nuovamente e divisò una storia d'Italia in continuazione di quella del Botta, di cui non iscrisse che due volumi. Fu creato cittadino piemontese, poi deputalo, poi ministro sopra la istruzione pubblica dal Si ottobre 1851 al 21 maggio del 1852. Nel 1859 andò in Modena commissario straordinario del Re di Sardegna; ma dopo Villafranca rinunciò a questa carica per essere nominalo dittatore prima di Modena, poi di Bologna e di Parma che riunì chiamandole provincie dell'Emilia, il 18 di marzo 1860 cessava dalla dittatura, recava in Torino le tre Corone, e ne otteneva il collare della SS. Annunziata. Fu poi a Ciamberì con Cialdini prima dell'invasione delle Marche e dell'Umbria; accompagnò il Re a Napoli e sottoscrisse il famoso proclama d'Ancona (9 ottobre 1860); restò anzi nel reame luogotenente del Re,

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ma sul Sebèto perde prima il genero ammogliato di fresco, poi fa sanità, e non si riebbe mai più. Il 9 dicembre 1862 Tu eletto presidente del ministero, vi durò pochi mesi, e sfinito di forze rassegnava il portafoglio addì 24 marzo del 1863.

PERCHÉ SI ODIANO

I FRATELLI DELLE SCUOLE CRISTIANE?

Abbiamo sotto gli occhi la relazione letta al Consiglio Municipale di Torino nella tornata del 27 dicembre 1855 sui Fratelli delle Scuole Cristiane dal cavaliere Nepomuceno Nuvtz, vicesindaco, professore della facoltà legale, e rettore dell'Università. Il Conte di Revel ne procurò la stampa, e u'eUbe molti rimproveri dal giornale ['Opinione. Tanto studio nel voler tener celata questa relazione ò indizio, che dalla sua. pubblici là dovea venirne largo vantaggio alla causa nostra; e di fatto non v'ha nulla di meglio per difendere i buoni Fratelli, e condannare i municipali, che li bandirono.

Una, Commissione venne nominata per esaminare le scuole dei Fratelli, e questa componevasi dei consiglieri Sineo, Valerio e Nuvtz. L'ultimo rende conto del fatto esame nei seguenti termini:

«Le, informazioni riuscirono quali siamo per riferirle, ed in gran parte ad elogio.

«I Padri Ignorantelli, edotti dai clamori sollevatisi nell'addietro pei modi villani di taluni di loro, hanno procurato di farli sparire, essi si sono avvicinati all'affabilità e alla dolcezza.

«Sapendo di non essere bene nell'opinione di molli del popolo, ed adocchiati, essi hanno pur fatto ogni loro sforzo per dare buon frutto del loro insegna mento: e pur essi, fuori delie ore, in cui insegnano, con apposite scuole, in cui si fanno imparanti, cercano di abilitarsi a bene insegnare; somma è por la loro pazienza nel dirozzamene dei ragazzi loro mandali: e quindi avviene, che nelle parti più materiali, come la lettura e la scrittura, essi riescano ottimamente, e forse meglio che molli altri dei nostri insegnanti.

«Nell'esecuzione del loro dovere essi sono esattissimi. Non mai una loro scuoia va circondotta, provvedendosi prontamente dal superiore alla supplenza degli impediti. La scuola comincia con precisione all'ora stabilita, e continua sino al suo legai termine; ed è condotta con ordine: cosa questa, a cui molto conferisce la cieca obbedienza, che i Padri Ignorantelli debbono al loro Superiore, il quale ha ben altri mezzi di coercizione, e più pronti, che non possiamo aver noi verso i nostri insegnanti, quando non compiono al loro dovere, o, svogliati, cercano pretesti per so tirarsi ad esso: e massimamente ciò avviene, perché presiede al governo della Congregazione il Padre Thóoger, persona di cui ogni informato delle loro cose fa sommi elogi». [Relazione, Torino, tipografia di G. Pelazza, 1$56, p. 5).

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Ebbene, la conseguenza di ciò è, che i Fratelli delle Scuole Cristiane debbano essere licenziati! Così argomenta il rettore dell'Università di Torino! Voi siete buoni, utili, esatti, virtuosi, docili: dunque andate via. E il Municipio di Torino ha potuto sancire questo nuovo genere di logica? E noi fummo riservati a vedere un simile scandalo? Consolatevi, o buoni Fratelli» Ciascun di voi può ripetere: De bonis operibus lapidatus sum. V'hanno ascritto a colpa le vostre virtù. Vi trovarono troppo buoni, troppo santi pel sistema che vige tra noi, e per le persone che ci governano.

Nuytz dopo d'aver celebrato le doti dei Fratelli delle Scuole Cristiane, passa a discorrere due accuse, che vennero fatte ai medesimi; l'una che formassero allo spionaggio i fanciulli, l'altra che insinuassero massime avverse alla libertà. Ed ecco le sue parole:

«Dello spionaggio i membri della vostra Commissione, non avendo potuto venire in chiaro, essi non ne parlano, sebbene esso si supponga connaturale alla regola dell'Ordine, che tra essi lo pone; generalmente lo pongono le regole di simili Ordini.

«Sulle massime che possono aver tratto all'ordinamento nostro politico, e e sull'insegnamento religioso dato dai Fratelli della Dottrina Cristiana, i membri della Commissione non hanno a presentarvi falli speciali venuti a loro notizia.

«Possono essi dirvi soltanto, che i Fratelli della Dottrina Cristiana insegnano, quanto alla religione, il catechismo della diocesi da voi conosciuto; e che a questo altro ne aggiungono chiamato Catechismo di perseveranza, fatto da un canonico francese, scritto da lui nella natta tua lingua, tradotto in italiana favella, pervenuto a mie mani, e restatovi pel breve tratto di un'ora.

«Questo catechismo, per nulla corrispondente al suo titolo, è un miscuglio di Storia sacra e di profana, di nozioni geografiche e fisiche, di botanica e di altro vario sapere, congiunto con nozioni religiose. Esso tende a dare ai ragazzi una nozione di tutto.

«Esaminatolo celermente, io non potei scoprirvi alcunché di pericoloso. A mio avviso questo è un libro abbastanza buono, il quale ha per altro il difetto di essere fatto per interrogazione e risposta; metodo questo che accresca senza prò, anzi con danno di chi debbe imparare, il numero delle parole, ed è inconciliabile colla sintesi, cbe, coll'ordinare e concentrare in poco le cose, tanto giova alla memoria». ( Relaz. % p. 6).

Che cosa dite del modo d'accusare del Nuytz e della Commissione? Questa non parla dello spionaggio, perché non ne sa nulla. Lo suppone pro connaturale alle regole dell'Ordine. Ma queste regole le ha viste? Signori, no; il relatore se la cava dicendo; generalmente lo pongono le regole di simili Ordini.

Adoperando questo metodo ricerchiamo se Nuytz sia un demagogo. «Della demagogia di Nuytz l'Armonia non ne parla; ma però la suppone connaturale alla sua professione. Generalmente sono demagoghi i professori dell'Università». Che direste d'un ministero clericale che mettesse alla porta Nuytz, fondandosi soltanto su di un simile raziocinio?

Il professore Nuytz, dettando diritto, insegna che nemo supponitur malus nisì probetur.

E perché egli poi viola questo canone a danno dei Fratelli delle Scuole Cristiane?


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Come i suoi scolari possono dar retta alle sue parole se vi disdicono così palesemente le opere?

Quanto all'avversare i principii di libero governo, i membri della Commissione, dice il Nuytz, non hanno a presentarvi fatti speciali venuti a loro notizia. Notiamo questa dichiarazione, che ci verrà in taglio più innanzi.

Ora ascoltiamo la relazione sul punto economico. Il professore Nuvtz ne parla ne' seguenti termini:

«Sotto il rapporto del civico erario, la Commissione riconobbe che certamente tra l'avere le scuole nelle mani dei Fratelli della Dottrina Cristiana, e l'averle nelle mani di persone viventi al secolo, vi è un sensibile divario.

«Dei Fratelli della Dottrina Cristiana, i quali vivono in comune, e segregati dal mondo, pochi sono i bisogni; poca perciò è la retribuzione che essi domandano.

«Giusta i dati graziosamente fornitici dall'egregio vicesindaco e collega cavaliere Baricco, attualmente le scuole da essi dirette ci costano L. 25,200, senza che si abbia più a pensare ad altro.

«Le stesse scuole affidate ad altri ci costerebbero la spesa di L. 43,000, e così di L. 17,800 di più; in fuori ancora delle giubilazioni dei maestri e professori divenuti inabili all'insegnamento». (Relaz. , p. 8).

La considerazione era grave abbastanza. Eppure nulla potè sull'animo del Nuytz, nulla sull'animo della Commissione, nulla sull'animo del Municipio. Si priva Torino d'ottimi istitutori, e si aggrava l'erario per soprappiti! Ma dove siamo noi? Chi governa le cose nostre? S'imparò forse l'amministrazione da quel simbolo, che sta per impresa della nostra città?

Fratelli d'Italia, o voi della lega italiana: venite, e vedete: la città di Torino ha ottimi maestri, e li licenzia; la città di Torino può risparmiare migliaia e migliaia di lire, e le scialacqua! Dovea certo preludere a questi fatti, quando Gioberti asseriva, che in Torino si vive come nel secolo d'Abete, il quale fu anche il secolo di Caino, e che non è facile a vivere in Torino a chi è nato dopo il diluvio!

Una delle ragioni, per cui voleva il Nuvtz, che si licenziassero i Fratelli delle Scuole Cristiane, si era perché questi parevano figli prediletti dei Gesuiti. Uditelo t

«Gli Ignorantelli sono figli prediletti di quell'altra corporazione, che voleva pure il bene sì civile che religioso, ma che per avere fallita la via, la quale vi conduce, tante ire e tanto odio concitò contro di sé; e pretendendo al comando, dovunque riuscì ad averlo, tanto ebbe cattive le sorti. Pertanto gli Ignorantelli, massime che debbono essere ottusi per ragione della loro origine, cioè perché presi in età non più tenera tra persone non istate ancora dirozzate, non possono non avere le stesse mire, gli stessi pregiudizi gli stessi desiderii, che quell'altra corporazione, a cui accenno, era in fama di avere. Non illudiamoci: gli Ignorateli, sebbene desiderosi del vero bene, sia per le limitate loro idee e cognizioni, sia per istituzione, vedranno sempre questo bene nell'abbassamento dell'impero civile e nell'esaltazione viceversa di quell'ecclesiastico potere, che oggidì in tutto il mondo disputa audace ai civili governi i diritti di impero, e vorrebbe persino avere a sua disposizione la spada, e ricondurci, se potesse,

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sotto l'inquisizione, ignaro che la nostra religione, libera, inerme, priva di civile influenza, ed a sé abbandonata, fa i martiri, i grandi, gli eroi; armata ed elevata a civile influenza, da gli ipocriti e da i traditori. Gli lgnorantelli vedranno pertanto il bene sempre più nel dispotismo, a cui è foggiato il loro reggime, e sotto di cui possono sperare favore, che nelle libere istituzioni, più adatte a mantenere al governo civile i suoi diritti di impero, e più fermo nell'opporre un argine a tutte le invasioni. Perciò per essi tutto quello che suona dispotismo e abbiezione del potere civile con elevazione dell'ecclesiastico a sfera non sua, tutto quello che importa potenza per questo potere e per danaro e per comando, deve essere religione: irreligione viceversa tutto quello che suona libero ed oculato reggime, possesso pel governo civile dei suoi diritti, riduzione al contrario del potere religioso ai limiti suoi legali statigli fissati ab eterno dalla natura, e indi dal sacro deposito della rivelazione, col divieto non osservato di non trascenderli» (p. 11).

Se gli Ignorantelli debbono essere ottusi per ragione della loro origine dopo d'aver letto questa pastoccbiata siamo quasi tentati di credere che il Nuytz origini dagli Ignorantelli. Egli ha detto testé, che le scuole dei Fratelli danno buon frutto. Ora, ci dichiara, che debbono essere ottusi. Ma dunque un ottuso maestro può produrre buon fruito e fai fiorire una scuola? E voi siete rettore dell'Università, e date in tali castronerie?

Quanto al resto tutta la relazione del Nuytz si raggira sul sospetto. Si hanno dei sospetti a carico de Fratelli, sospetti smentiti dai fatti; ma non monta: quei sospetti bastano per condannarli. E poi si ha il coraggio di parlare dell'inquisizione? Prendete i tempi più tristi dell'inquisizione spagnuola, e trovateci una relazione tirannica come la vostra?

Abbiatevene un ultimo saggio in quest'altre parole del Nuytz, che sono in sul fine della sua scrittura:

«Noi vediamo, è vero, nella nostra solennità dello Statuto la vispa nostra gioventù guidata dai Padri Ignorantelli passeggiare nelle nostre vie al seguito del tricolore vessillo, acclamare festante con porto di bandiere, che sono. simbolo del nostro civile progresso; ma queste esteriorità, anziché rallegrarci, contristare ci debbono. L'Ordine avendo altre tendenze, o quanto meno una gran parte dell'assennata nostra popolazione essendone profondamente persuasa, questa scena si risolve nel cattivo, nel pessimo esempio dato a tutta quanta una popolazione di una detestabile simulazione, la quale scandalizza invece d'intenerire, e demoralizza lungiché elevare ad onestà, a franchezza di procedere, a nobiltà di sentimento. È dover nostro di far cessare questo cattivo esempio o vero o supposto» (Relaz. , p. 14).

Che cosa ne dite, o persone oneste, o galantuomini di qualunque parte, d qualsiasi opinione? Se i Fratelli delle Scuole Cristiane non conducessero i loro alunni alla festa dello Statuto, sarebbero rei di lesa libertà. Perché ve li conducono, sono egualmente rei d'ipocrisia. Come dunque potevano regolarsi costoro? Doveano avere necessariamente torto, ed essere licenziati da voi. E li licenziaste, ma colla ragione dei tiranni, coi pretesti dei lupi, colle arti dei libertini, non come usano le persone civili. Li licenziaste;

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ma meglio è assai ricevere simili insulti, che farli, e chiunque onesto amerebbe piuttosto d'essere coi Fratelli mandati via, che con coloro che li bandirono.

La relazione di Nepomuceno Nuytz resterà negli archivi del nostro Comune per ìspiegare ii deliberato del Municipio, per dire ai posteri in mano di chi, in questi anni dolorosi, era caduto U governo della nostra Città.

ASSASSINIO DI MONSIGNOR SIBOUR

ARCIVESCOVO DI PARIGI.

(Dall'Armonia, n. 4, 6 gennaio 1857).

Per dimostrare dove a poco a poco conduce la ribellione de$preti ai propri superiori, e per parlare coll'eloquente linguaggio dei fatti ad alcuni preti apostati che disonorano se stessi e l'Italia, ristampiamo i seguenti articoli sul?assassinio dell'Arcivescovo di Parigi, avvenuto il 3 gennaio del 1857.

Il 27 di ottobre dell'anno 1848 Domenico Augusto Sibour, Arcivescovo di Parigi, dopo di avere celebrato solenni funerali pel riposo dell'anima di Monsignor Affre suo predecessore, s'avviò a piedi insieme con due suoi vicarii generali e col suo segretario per visitare nel sobborgo di Sant'Antonio i luoghi, dove l'illustre martire delle barricate avea trovato la morte. Circondato dalla folla che lo seguiva religiosamente commossa, fermossi dirimpetto alfa casa, donde il S. Prelato era stato ferito, e indirizzò agli assistenti queste nobili parole: «lo la cedo a colui, che voi piangete, in scienza e in virtù, ma non gli cedo in amore per voi, miei diletti fratelli: a Dio non piaccia, che io abbia l'occasione di versare il mio sangue come lui, perché allora nuove sventure cadrebbero sul vostro capo! Ma sono disposto a morire affranto dalla faticalo mezzo alle opere di carità». E la folla, lagrimando, rispondeva: Viva il nostro Arcivescovo!

Ebbene, domenica il telegrafo ci annunziava che Monsignor Sibour avea Versato il suo sangue corno Monsignor Àffre, e che egli pur era morto assassinato. E chi Tavea assassinalo? Un prete, risponde gongolante di gioia la Gazzetta del Popolo, ma un prete interdetto, soggiunge il telegrafo veridico. Monsignor Affrè e Monsignor Sibour caddero amendue vittime del proprio zelo nell'adempimento del loro ministero. Monsignor Àffre fu vittima della carità, Monsignor Sibour vittima della giustizia episcopale. L'uno fu ucciso, perché in mezzo alle ire fratricide pronunziava la parola di pace; l'altro venne morto, perché giustamente severo cacciava. dai santi altari l'indegno ministro. Il primo riscosse l'odio del rivoluzionario, il secondo la rabbia del sacrilego; amendue illustrano la Chiesa francese, amendue nobilitano l'Episcopato e il clero cattolico.

Non possiamo esprimere a parole il dolore che ci recò la morte di Monsignor Sibour. Dopo il caso di Giuda, non ci ricorda d'avere mai letto un caso simile nelle storie, d'un prete cioè che assassinasse il suo Vescovo per averlo interdetto. Finora ci mancano i particolari dell'avvenuto; ma siccome la Gazzetta del Popolo non li attese per ingiuriar noi, per pascersi del nostro dolore, così noi pure non li attenderemo per darle la meritata risposta.

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E vogliamo ricordare dapprima come il medesimo principio che armò la mano di Agesilao Milano contro il Re di Napoli, armasse pure quella del prete interdetto contro l'Arcivescovo di Parigi. È il principio dell'insubordinazione, dell'indipendenza assoluta, che si ribella contro l'autorità. Un prete sta ad un vescovo, come un suddito ad un sovrano. Il sovrano imprigiona il suddito fellone; il vescovo interdice il sacerdote traviato. Amendue si ribellano, resistono, ed in fin dei conti giurano morte al proprio capo.

Ora chi cerca gettare l'insubordinazione nel clero dopo avere sparso il seme dell'anarchia nella società? Noi siamo obbligati di ricordare alla Gazzetta del Popolo una memoria di famiglia. La smemorata dimentica le glorie sue, d non bada a raccogliere il frutto de' suoi lavori. Questa gazzette nel 1850 stabiliva in Torino un comitato di preti interdetti collo scopo di proteggere il clero contro il despotismo vescovile; apriva le porte del suo uffizio a quattro sacerdoti sospesi, e cedeva lo spazio delle sue colonne nei loro indirizzi. Dopo di aver detto ai sudditi: Voi potete fare a mimo della cottola spesa di un Re; diceva ai preti: Voi dovete fare a meno della noiosa sorveglianza di un Vescovo! Uno dei preti della Gazzetta del Popolo progredi nella carriera lubrica della resistenza all'Episcopato, e si rese protestante!

Se l'indegno sacerdote di Parigi si fosse trovato in Torino nel 1850, senza dubbio sarebbe andato a bussare alle porte della Gazzetta del Popolo, facendosi scrivere tra' membri del suo comitato contro il despotismo vescovile. Trovandosi invece in una diocesi dove non sapea come sfogare il suo mal animo né colle calunnie, né cogli improperii, ricorse al pugnale. Oh la scelleratezza è inaudita! Un sacerdote del Dio della pace, che s'arma di coltello, che uccide il suo Vescovo! Ma noi possiamo fulminarla; la Gazzetta del Popola, no, perché questa è una conseguenza dei suoi principii. 1 sacerdoti interdetti non lodano certo l'Armonia, e nessuno vorrà obbligarci ad addurne le prove, come a Parigi non leggono al certo né l' Univers, L'Ami de la Religion. I sacerdoti interdetti leggono que' giornali che deprimono l'episcopato, che dividono il clero in due parti, ed aizzano di continuo quello che chiamano basso contro quello che dicono alto clero; che combattono ogni maniera d'autorità, ed eccitano al disprezzo della disciplina de' canoni.

Badate un po' che differenza immensa corre tra l' Univers ed il prete assassino! Monsignor Sibour nel 1850 interdice l'U nivers; e gli scrittori dell' Univers non indugiano un istante solo a far atto di sommessione al suo decreto, promettendo di riparare in avvenire quello in cui avessero potuto errare. Lo stesso Arcivescovo il 3 di ottobre scrive ai redattori dell'Univers: «L'omaggio che voi rendete all'autorità episcopale mi riempie il cuore di consolazione per l'onore che ne ridonda alla religione ed alla Chiesa». Monsignor Sibour interdice un prete; e questi, ben lungi dal sottomettersi alla sua sentenza, la disprezza, ed assassina il suo pastore!

Gli scrittori dell'Univers sono laici. Dunque, dirà taluno, v'hanno laici migliori dei preti? Francamente soggiungeremo', che non v'hanno esseri peggiori de1 preti cattivi. Corruptio optimi pessima. Il prete che da nel reprobo, non sente più nessun freno, e cade in piena balìa delle proprie passioni. È debito nostro avvertirne

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i nostri concittadini, e lo facciamo colla massima ingenuità. Guardatevi dai preti cattivi, cioè dai preti che non obbediscono ai loro Vescovi, dai preti che non Vestono il loro abito, dai preti che sono interdetti dall'esercizio del loro ministero. Meglio un secolare pessimo, che un prete cattivo. L'esperienza l'ha tante volte dimostriate E il prete voi lo dovete riconoscere facilmente per le sue relazioni col Vescovo. 0 si comporta con lui da figlio devoto ed amorevole, e dite pure che è buon prete; o lo denigra, l'offende, o semplicemente gode delle offese, che gli fa il giornalismo libertino, ed abbiate per certo, che è un pessimo prete, e fuggitelo, fuggitelo per carità!

Dèi resto noi non crediamo, che v'abbiano pusilli al punto da patire scandalo d'un prete assassino. Questo fatto invece dimostra come i preti sieno sorvegliati, e rimossi dai divini ministeri gli indegni; la qual cosa dee ingenerare maggiore confidenza nel popolo. D'altra parte la storia di Giuda è antica, e tu pure un Apostolo che tradì con un bacio il divino Maestro! Noi non sappiamo, se taluno de' nostri giornali vorrà uscire in difesa dell'assassino dell'Arcivescovo di Parigi; questo sappiamo, che Giuda lscarìota fu già difeso in Torino da un scrittore libertino, e non solo in un articolo del suo giornale, ma in un'opera di due volumi; e quest'opera è la Critica degli Evangeli, e questo scrittore non abbiamo il coraggio di nominare.

PARTICOLARI SULL'ASSASSINIO DI MONSIGNOR SIBOUR

(Dall'Armonia, sup. n 4, 7 gennaio 1857).

I giornali francesi riboccano di particolari su questo esecrando delitto, che commosse tutta Parigi. Riportiamo gli estratti dei principali!

Il Moniteur scrive: - «Un delitto orribile fu commesso oggi (3) nella chiesadi 5. Stefano del Monte. Dopo la processione, e mentre s'avvicinava alla sacristia, Mona Arcivescovo di Parigi fu colpito di stile da un prete di nomeVergès, testé interdetto.

«L'Arcivescovo fu portato negli appartamenti del parroco di S. Stefauo, dove morì immediatamente. L'assassino fu subito arrestato.

«Non potremmo dipingere a parole la profonda commozione dei numerosi fedeli, che si trovavano riuniti in chiesa, e la dolorosa impressione che la morte dei virtuoso Prelato produsse questa sera in tutta Parigi».

La Gazette des Tribunaux aggiunge:

«Oggi, sabato 3 gennaio, festa di S. Genoveffa, si cominciala novena che si celebra annualmente a S. Stefano del Monte in onore della protettrice di Parigi. Monsignor Arcivescovo, secondo il consueto, presiedeva a questa funzione. A 4 ore, nel momento in cui la processione s'avanzava nello navata della chiesa, un uomo vestito di pastrano nero uscì improvvisamente dalla folla, che s'inchinava divota, s'avventò contro il Prelato, e sollevando con una mano i sacri abiti pontificali, coll'altra gli conficcò nel cuore un pugnale catalano.

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Il movimento dell'assassino fu così rapido da render impossibile ogni tentativo d'impedirlo, e quando gli astanti si argomentarono di aggrancirlo, lo sventurato Prelato cadeva agonizzante tra le braccia dei sacerdoti che Io circondavano.

«L'assassino si lasciò arrestare senza resistenza, e consegnò egli stesso a chi l'arrestava lo stiletto cruento. Monsignore fu trasportato subito in sacristia: ma tutte le. cure furono inutili: morì subito. Lo stile gli aveva passato il cuore. L'assassino fu condotto in prigione tra le imprecazioni della folla indignata per questo orribile sacrilegio. Il fisco, rappresentato dal procuratore imperiale de Cordoén, dal sostituito Moignon e dal giudice d'istruzione Treilbard, si recò sulla faccia del luogo, e cominciò l'istruttoria. L'assassino rispose con calma a tutte le interrogazioni.

«È un prete di nome Vergès, di 31 anno. Prima addetto come semplice prete alla parrocchia di S. Germano: in seguito appartenne alla diocesi di Meaux, come curato nel circondario di Melun. Là avea meritato più volte i rimproveri dei suoi superiori ecclesiastici, e recentemente era stato interdetto per un suo sermone, in cui impugnava violentemente il domina dell'Immacolata Concezione. Era ricorso contro questo interdetto (del Vescovo di Meaux) alla giurisdizione dell'Arcivescovo, che credette dover mantenere la decisione. Da quell'epoca Vergès s'era fatto notare per altri atti, che aveano chiamato su lui l'attenzione dell'autorità giudiziaria.

«Interrogato sui motivi del suo delitto, rispose che non avea nessun odio personale contro l'Arcivescovo: ma volle, ammazzandolo, protestare contro il domina dell'Immacolata Concezione, e molte volte ripete: Non voglio Dee! Dichiarò aver comprato ieri il pugnale, e non negò d'essersi recato in chiesa coll' intenzione d'uccidere l'Arcivescovo.

«All'udire questa risposta, nasce il dubbio, se quest'uomo conosca la gravita del suo delitto.

«Però, verso la fine dell'interrogatorio, pianse, e quando gli fu detto che avea commesso un delitto enorme, soggiunse: Sì veramente enorme l»

«Il Constitutionnel:

«Vergès non appartiene alla diocesi di Parigi; fu ordinato sacerdote a Meaux; ma interdetto 5 volte, ed assoluto dietro le sue istanze e promesse. Fu eziandio addetto per breve tempo alla cappella imperiale in qualità di crocifero; ma venne licenziato pei suoi violenti trasporti.

«È un uomo di statura mezzana, un po' magro, aveva al momento del delitto un cappotto nero ed un pastrano.

«Alle otto di sera il cadavere del Prelato fu trasportato al palazzo arcivescovile.

«L'avviso seguente venne affisso alle porte della chiesa:

Monsignor Arcivescovo essendo staio morto da mano scellerata nella chiesa di S. Stefano, oggi, alle 5 di sera, la chiesa rimane interdetta fino alla cerimonia espiatoria che sarà ulteriormente annunciata.

«Firmato: E. Borie, Curato. 14

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«Oggi domenica, la chiesa, ove fu commesso l'atroce delitto, venne esterna mente coperta di drappi neri. In tutte le altre chiese e cappelle di Parigi non vi fu messa solenne. Si celebrò una messa piana, dopo la quale furono recitati i salmi penitensiali.

«Molte carte scritte e stampate si trovarono nelle tasche di Vergès, come pure una lettera sigillata. La maggior parte di tali scritti conteneano ingiuria contro i superiori di lui o attacchi contro alcuni dommi. Del resto tutto dinota in questo assassino un turbamento delle facoltà intellettuali. Or ha qualche tempo, diede uno scandalo alla Maddalena, ponendosi alla porta principale con un cartello affisso sul petto, in cui v'era scritto; lo sono un prete interdetto e muoio di fame.

«Una folla considerabile si recò oggi a S. Stefano: ma trovando le porte chiuse, i pellegrini, venuti da lontano, si recavano a S. Genoveffa, dove furono portate ed esposte le reliquie della Santa. Il domani Vergès dovea essere arre stato per un suo scritto contro una sentenza del magistrato». (Vedi a questo proposito quanto sopivo il Droit riferito qui appresso).

L'Univers : «Prima d'ora Vergès era stato denunciato alla polizia per le sue minaccio contro un rispettabile curato di Parigi, da cui aveva ricevuto beneficii: ma non avea mai lasciato trapelare nessun cattivo disegno contro Monsignor Arcivescovo. Era ritornato dalla sua diocesi il 94 di dicembre, ed avea preso alloggio via Racine, N° 2. Passava, dicono, i suoi giorni a studiare nelle biblioteche, e lo stesso dì, 3, vi s'era pure recato. Frattanto covava il suo progetto, e spiava l'occasione di eseguirlo. Comprò lo stile dal col teli aio della via Dauphine».

L'Univers aggiunge che Vergès nacque a Parigi nella parrocchia di 8. Sulpino, ma Ai ordinato prete a Meaux, alla qual diocesi appartiene. Lo stesso Univert scrive correre voce che il padre, la madre ed un fratello di Vergès sieno morti per suicidio: i primi, ha qualche anno: l'ultimo, da soli pochi mesi. Secondo gli uni, nell'atto dell'assassinio avrebbe gridato (scrive sempre l' Univers): Non si lascia morire di fame un prete! Secondo altri: Non voglio Deet alludendo all'Imniftoolata Concezione.

Omettiamo ulteriori ragguagli dell' Univers, perché in tutto conformi a quelli dei giornali già riferiti.

Il Droit scrive: «L'assassino è un prete che rimase impassibile, collo stile in mano grondante sangue, vicino alla sua vittima che vide venir meno con gioia satanica. A Melun Vergès prese con sommo impegno a difendere una donna accusata di veneficio contro suo marito. Venne condannata alla galera in vita. Vergès protestò, dicendo in pubblico che la era innocente; fece stampare la sua protesta: ma il fisco la sequestrò. Era scritta con modi ingiuriosi contro i magistrati che avevano pronunciato la sentenza; l'autorità ecclesiastica credette doverlo interdire, e Vergès manifestò una grande esasperazione.

Gli fu chiesto se aveva dato più d'una stilettata a Monsignor Arcivescovo? No, rispose, una sola! Perché io aveva ferito il cuore e sapea che il colpo era mortale. « Perché, gli fu ancora domandato, avete gridato ferendo: abbasso le Dee! Perché non credo all'Immacolata Concezione, sulla quale mi sono spiegato chiaramente in pulpito; volli protestare una volta di più contro questo culto empio.

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Perché avete commesso questo massimo delitto? Perché fui interdetto; e mi venne annunciato questa volta che l'interdetto non sarebbe tolto.

«La calma di quest'uomo, dopo un si grande delitto, le stesse circostanze tra le quali lo commise, sembrano indicare che non avesse l'intelletto sano; «fa d'uopo credere, per l'onore dell'umanità, ohe quest'uomo insignito delle acre funzioni di prete, è un matto e non un mostro».

Tali sono i ragguagli che troviamo di questo tristissimo avvenimento nei giornali di Parigi sopracitati, un po' confusi, incerti e contraddittorii nelle circostanze di minor levatura, come suole succedere nei primi momenti. Ommettiamo il racconto d'altri giornali minori, perché in tutto conformi al riportati. Solo aggiungiamo queste circostanze:

L'assassino non era vestito da prete, ma da secolare nell'atto di commettere il delitto. L'Arcivescovo, appena trafitto, guardò in volto il suo carnefice, ed esclamò: Ah! lo sventurato (malheureux)! L'ab. Surat, vicario generale, diede subito l'assoluzione al moribondo Prelato. Il cadavere dell'Arcivescovo fu imbalsamato ed esposto il 4 nell'aula dell'arcivescovato: non pare morto, ma dormente. Non è ancora fissato il di dei suoi funerali. Egli era senatore dell'Impero.

CONDANNA DELL'ASSASSINO

ARCIVESCOVO DI PARISI

(Dall'Armonia, n. 18 , 22 gennaio 1857).

L'assassino dell'Arcivescovo di Parigi è condannalo a morte. Coloro ohe assistettero ai dibattimenti, avvocati, magistrati incanutiti nell'esercizio del foro e della magistratura, attestano non aver mai assistito a spettacolo pili schifoso, più doloroso, e reso più orribile da quel non so che di comico, che il ciarlatanismo dell'accusato vi andò mescolando. L'audacia, la svergognatezza, il cinismo, e la pretesa di darsi l'aria d'importanza, congiunta con un sacrilego misticismo, formano un complesso di tragico e di comico, che vi strazia i nervi, alternandosi nell'animo l'orrore che ti fa raccapricciare, e l'ilarità che ti nuove, tuo malgrado, a riso: orrore e riso del pari molesti e dolorosi.

Noi tenteremo di darne qualche cenno, togliendo parola per parola dagli atti del processo. Dall'atto di accusa consta che il Vergès fu trattato colla massima dolcezza e colla massima accondiscendenza, sia dal Vescovo di Meaux, sia dall'Arcivescovo di Parigi, come pure da' suoi colleghi nella cura delle anime, coi quali ebbe relazioni. Ammesso per la carità d'una Suora di Carità nel piccolo Seminario di Saint Nicolas du Chardonnet, ne fu cacciato nel 1844 pour faute òù la probité était compromise. Dopo essere stato ordinato prete, non contento alla cura delle anime in campagna, recossi a Parigi, ove il parroco di Saint Germain l'Auxtrrois lo accolse in casa. Essendo il Vergès carico di debiti, il buon parroco gli diede 800 fr. per pagarli. Per riconoscenza il Vergès, vedendo che il parroco non soddisfaceva a tutte le sue brame, corrispose con abbominevoli calunnie contro il suo benefattore.

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Nel 1855 l'Arcivescovo lo sospese dalle sue funzioni. Il Vergès passò sette mesi a Parigi, importunando ora l'Arcivescovo, ora i tribunali con calunnie contro il suo benefattore, il parroco di S. Germano. Finalmente il Vescovo di Meaux, per le preghiere dell'Arcivescovo di Parigi, lo accolse di nuovo in diocesi. Ma nel dicembre 1856 il Vescovo dovette sospendere il Vergès per i seguenti motivi: e 1° Per avere scritto un libello ingiurioso contro una sentenza della Corte d'Assise di Móiun; 2 per predicazioni fatte nella sua parrocchia contro il domma dell'Immacolata; 3° per uno scritto avente per titolo: Testamenti pieno di violente invettive contro i dommi della religione, e contro l'autorità diocesana». Partì per Parigi il 26 dicembre 1856, ed il 3 di gennaio 1857 eseguiva il sacrilego assassinio.

L'assassinio però era già dal Vergès deliberato fin dal 31 di gennaio 1856, quasi un anno prima dell'esecuzione: perché uno scritto con quella data trovato tra le carte dell'assassino termina così: «Solo ho premeditato, ho commesso, e fatto il colpo scagliato contro l'Arcivescovo di Parigi». Interrogato dal giudice istruttore, Vergès rispose: e Questa carta fu scritta da me; è vero che l'anno scorso quando mi trovava senza mezzi di sussistenza, perché eranmi state tolte le facoltà, ho deliberato di uccidere Monsignore: rinunciava a questo divisamento quando ebbi la speranza d'essere di nuovo collocato nella diocesi di Meaux, lo ripigliai e l'eseguii eco. Fin qui l'atto di accusa.

Nei dibattimenti abbiamo due deposizioni di testimoni presenti al colpo, e che contribuirono all'arresto dell'assassino, da cui risulta che questi, dopo il colpo fatale, brandendo il coltello, gridò: via le deesse! Il Vergès nulla oppose a questa deposizione.

Inoltre abbiamo la deposizione del sig. Montandon, pastore della chiesa riformata che dice essersi a lui presentato il Vergès, dicendo aver molto a lagnarsi de' suoi superiori, e che voleva farsi protestante. Il Vergès risponde: «Dopo aver visto, ho rinunciato a' cattolici come a' protestanti, perché ho riconosciuto che sono tutti nell'errore .

Del resto poi il Vergès insulta e sbeffeggia i testimoni, il fisco, il presidente, tutto il tribunale. Diffama presenti ed assenti, e vuole che si leggano i suoi scritti, diffamatorii e calunniosi. E perché il presidente lo fa tacere, e nega di far leggere quelle calunnie, il Vergès infuria, impreca, maledice. Dice all'abate Bautain, vicario generale di Parigi, uno dei testimoni: «Voi siete uno scellerato innanzi a Dio ed agli uomini». Al presidente, che gli rimprovera l'abbominevole sua proposizione, in cui diceva che non gli restava più che ad uccidersi da se stesso, Vergès risponde: «Menzogna, menzogna mille volte al presidente! Anatema I 11 presidente, voltosi ai giurati, dice: e Non si può a meno che aver pietà di siffatta esaltazione; vuole giustificare il suo, delitto con orribili dottrine». Il Vergès di ripicco: a Menzogna, signor presidente, menzogna!».

L'assassino tenta di spargere schifose calunnie contro due Vescovi, ed il Presidente gli intima silenzio. L'assassino si volge all'uditorio, e grida: e Vedete! Non sono libero». Finalmente il furore dell'assassino monta al colmo, ed il Presidente lo minaccia di farlo condurre via, ed egli risponde furibondo: «La porta, o la ghigliottina! Non temo nulla.

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Mi riderò della morte, come mi rido del tribunale: siete una mano di miserabili. Non temo che Dio»: e così dicendo, si contorce, si dimena, e mugghia come un indemoniato. Il Presidente ordina che sia condotto via; allora grida: e Popolo, difendimi 1» A queste parole un immenso grido si leva dall'uditorio, e tra lo schiamazzo, s'intendono da ogni lato le grida: e No, no!! Assassino! Assassino!».

Ricondotto di nuovo innanzi al tribunale, l'accusato vuole impedire il fisco di pronunziare la requisitoria, e Voi tremate, grida, avendo a fronte un così terribile avversario! Sì, avversario, signore: sono vostro avversario. Voi non parlerete, non voglio che parli. Gli tolgo la parola; voi me l'avete tolta. Non parlerà; noi permetterò». Non c'è modo, né verso: per terminare il dibattimento bisogna condur via quell'energumeno. La sentenza gli è letta da un segretario in prigione.

Da questi rapidi cenni risulta, che il Vergès è ribelle alla Chiesa contestandone i dorami, è ribelle ai Vescovi negando di riconoscerne l'autorità, è ribelle allo Stato attaccando la parte più sacra, quale è l'amministrazione della giustizia. Quindi, non solo non è più cattolico, ma venne rifiutato perfino da protestante: ed esso, irritato da questo rifiuto, maledisse a' cattolici ed ai protestanti.

Dove siete ora, signor Risorgimento, che con tanta compiacenza ascriveste il Vergès tra gli ammiratori dell'Univers e del partito clericale? Traete innanzi, e diteci un po' a qual parte appartenga questo mostro. Noi possiamo dire che non è dei nostri, giacché da noi uscì, ma non era de' nostri. «Sono usciti di tra noi (dice l'Apostolo S. Giovanni, parlando di certi anticristi, cioè di Cerinto, di Ebione, ecc. ), ma non erano de' nostri; perché se fossero stati de nostri, si sarebbon certamente rimasi con noi; ma si dee far manifesto che non tutti sono de' nostri». (I. loan. Il, 19).

Né si potrà dire che la durezza dei Vescovi spinse questo smurato al mal passo. Se havvi colpa ne' Vescovi, potrebbe essere di troppa indulgenza per i costui falli, e già qualche giornale, sebben timidamente, mise innanzi quest'accusa. Ipocriti! Se i Vescovi tengono testa a' preti che non sono de nostri, voi li accusate di rigidezza, e sopra dei Vescovi riversate la risponsabilità della colpa del prete malvagio, come appunto fece l'Opmtone, accusando l'Arcivescovo di Parigi dell'assassinio di cui fu vittima, perché. Io avea punito. Che se i Vescovi, imitando il Signore, il quale è multae misericordiae et patiens, soffrono lungamente i discoli colla speranza di ridurli a migliori sentimenti, allora inveite contro i Vescovi perché proteggono l'iniquità dei loro chierici.

Vedete adunque, o signori, che non sono le dottrine dell'Univers e dell' Armonia, che armano la mano del sacrilego assassino. Sono le dottrine di coloro che esaltano Milano come forassimo uomo, che ne fanno l'apoteosi: sono coloro che trattano da giovani generosi gli assassini di Carlo Alberto, e ne patrocinano la causa ne' giornali.

Verger è prete, è vero: ma è prete come vuole i preti il Risorgimento ribelli all'autorità della Chiesa; come li vuole la Gazzetta del Popolo, né cattolici, né protestanti, ma senza fede e senza legge; come li vuole il ministero, sempre pronti a ribellarsi a Roma ed al Vescovo. Eccovi il prete assassino dell'Arcivescovo di Parigi. Se lo pigli chi lo vuole: nostro non ré. Esso medesimo ci ha rinnegali; ed i fatti suoi lo rinnegarono per nostro.

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LA MEDAGLIA DEL CONTE DI CAVOUR

I ROMANI DI TORINO

(Dall'Armonia, n. 11, 15 gennaio 1857).

I signori Farmi, Mamiani, Ercolani, Zenocrate Cesari, componenti la deputatone, che presentò al conte di Cavour una medaglia d'oro in nome delle popolazioni romane per averle difese a viso aperto nel Congresso di Parigi, ci mandano due lettere in una, indirizzate la prima al nostro Direttore, e l'altra al nostro corrispondente o corrispondenti di Roma, chiedendoci d'amendue la pubblicazione in cortesia, e, bisognando, a termini della legge. I termini della legge forse non favorirebbero affatto que' signori, ma alla nostra cortesia non i ricorrerà mai inutilmente. Ecco adunque la prima lettera.

Signor direttore dell'Armonia,

Torino, il 13 di gennaio 1857.

«Nel foglio dell'41 di gennaio del suo diario, sotto il titolo di Smentite ai giornali nelle cote di Roma, si legge una corrispondenza particolare, in cui è scritto ohe, la deputazione, la quale presentò il conte di Cavour di una medaglia, ed il generale Lamarmora di una spada, in nome delle Romagne e della Marca, H erette arbitra dell'opinione del paese, ti arrogò il diritto di parlare a nome di «a milione e meno di abitanti; e pid sotto, che sì fatte dimostrazioni tono un motto d'ordine fatto partire da Torino, o dato a Torino, e qui eseguito.

«Non avendo noi altro modo di mandare una risposta al suo anonimo corri spendente di Roma, invitiamo Lei, sig. Direttore, a pubblicare, in cortesia, e, bisognando, a termini della legge sulla stampa, la seguente lettera».

Qui segue la lettera al nostro corrispondente a corrispondenti; ma affinché il lettore posta «vere sotto gli occhi la proposta e la risposta, vi premetteremo quel brano di corrispondenza, a cui i signori della deputazione della medaglia d'oro rispondono, o pretendono di rispondere. La corrispondenza diceva adunque cosi:

«Sul principio del passato anno fu presentata al conte di Cavour, che si disponeva a partire pel Congresso di Parigi, una memoria, che si fece credere senti dai Romani. Essa fa fatta a Firenze (ed il signor marchese Gualterio ne potrebbe fare testimonianza), e portata in Roma fa sottoscritta da alcuni; ma nondimeno venne pubblicata poi come se quanto conteneva fosse l'espressione dei sentimenti delle popolazioni degli Stati Pontificii. Ora la Correspondance Italienne, e dopo lei gli altri giornali, fanno noto, che una deputazione delle Romagne presentò al signor conte di Cavour una medaglia d'oro fatta coniare dagli abitanti delle Legazioni e delle Marche,

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per eternare la memoria del Congresso di Parigi; e a nome degli stessi abitanti presentò una spada d'onore al generale Alfonso Lamarmora. Ella è pur cosa strana veder un pugno d'emigrati erigersi arbitri della opinione di un paese, e parlar a nome di popolazioni, di cui la più parte ignorano che siasi coniata a spese loro una medaglia, e consegnata al degno oratore di Vittorio Emanuele, specchio dei Re. Infetti, la deputazione, secondo i giornali, che ne hanno dato contezza, era formata del medico Carlo Farini, di Rossi di Biancoli, ed Ercolani bolognesi, e di lfamiam di Petaro, tutti emigrati (eccetto il Farini che non ebbe esilio), che ti arrogano il diritto di parlare a nome di pia che un milione e mezzo di abitanti, e di farlo essere riconoscente a Camillo Cavour, perché nel Congresso di Parigi propugnò i diritti dell'Italia conculcati. Il degno oratore mi sembra che doveva quasi vergognare nel riceverà la deputazione che presentò la medaglia; ma la Correspondance Italienne ci fa sapere al contrario, che accolse con riconoscenza questa lusinghevole testimonianza della profonda simpatia che la politica del governo del re Vittorio Emanitele inspira alle popolazioni d'Italia. Anche i Napoletani ed i Lombardi (è un motto d'ordine fatto partire da Torino, o dato a Torino, e costì eseguito) hanno fatto altrettanto, e sono certo che il degno oratore ogni deputazione avrà accolto con riconoscenza, vedendo che gli presentata una moneta d'oro, la quale da un ministro delle finanze non è cosa da disprezzare. Peccato, che le nuove conferenze di Parigi abbiano chiusa la via a nuovamente chiacchierare sull'Italia! 11 signor conte di Cavour stimolato da tanto lusinghevoli accoglienze, sarebbe volato sulla Senna a dire il resto; e sono persuaso che qualche patriota napoletano rifuggito in Piemonte lo avrebbe pregalo a giustificare..... »

Ora ecco la risposta dei signori della deputazione:

Al corrispondente od ai corrispondenti particolari dell'Armonia a Roma

Le persone dalle quali ricevemmo la commissione di presentare il coste di Cavour di una medaglia, ed il generale La Marmora di una spada, sono tante e coi) spettabili, che ci rechiamo ad onore di esserne stati i mandatarii

«Si vorrebbe forse che ne pubblicassimo 1 nomi?

«Per ora non possiamo appagare di questo pio desiderio i romani corrispondenti dell' Armonia

«Noi abbiamo già dato a chi si conveniva i debiti documenti.

«Non abbiamo bisogno di documentare a chi ci incaricò dell'onorevole ufficio, come sieno pienamente false le insinuazioni stampate nella corrispondenza particolare del 2 gennaio.

«Del rimanente ogni onesta e discreta persona dello Stato Romano, la quale, grazie all'imprudenza dei corrispondenti particolari dell'Armenia, leggerà quatta nostra risposta, sarà capace dei motivi, per cui non possiamo pubblicare quei nomi.

«Accenneremo soltanto alcuni di siffatti motivi ai galantuomini d'altri paesi, i quali per avventura non conoscessero abbastanza le condizioni politiche degli abitanti dello Stato Romano.

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«1° II governo papalino condannò agli arresti ed in denaro i Bolognesi che in principio del ristauro osarono pubblicamente chiedere qualche guarentigia di vivere civile.

«2° Colle circolari riservate distrugge anche i motupopri del Papa, dando ad intendere all'Europa che questi sono pienamente effettuati.

«3° La polizia mette e tiene in prigione chi vuole, poi da l'esilio perpetuo a coloro che i tribunali mandano assolti dalle sue accuse.

«4° Gli Austriaci per conto proprio fanno inquisizioni ed arresti, e danno la tortura nelle carceri.

«Queste poche avvertenze basteranno a spiegare la ragione per la quale noi a malincuore manchiamo di urbanità, non appagando la legittima curiosità dei corrispondenti romani all'Armonia.

Luigi Carlo Farini,

Terenzio Mamiani,

G. Battista Ercolini,

Zenocràte Cesari, altro della Deputazione, dimenticato dal corrispondente romano.

Noi qui potremmo lasciare l'incarico al nostro corrispondente (numero singolare) di replicare ai signori della medaglia; ma costoro radunando tutte le possibili accuse contro il governo pontificio, non riuscirono a mettere fuori che quattro punti, ai quali non è difficile rispondere stans pede in uno. Epperciò, lasciando al nostro corrispondente pienissimo il diritto di parlare o di tacere, come stimerà meglio, da parte nostra pubblichiamo la seguente replica:

Ai signori della medaglia presentata al conte di Cavour in Torino.

Il conte di Cavour difese l'Italia a viso aperto; i Romani, che voi dite di rappresentare, difendono il loro paese colla maschera sul volto,

I mandanti a detta vostra sono tanti e spettabili. Riguardo ai tanti, voi, che non credete al governo pontificio, pretendereste che credessimo a voi? Riguardo agli spettabili, non ci pare che questo epiteto quadri a chi cospira contro il proprio legittimo sovrano Pio IX, e si nasconde fra le tenebre.

Vincenzo Gioberti era della nostra opinione quando nel 1846 scriveva «Lodar Roma sotto Pio non è gran merito, poiché oggi solo i ribaldi e gli stolti la maledicono». (Gesuita Moderno, voi. I, pag. 290).

Noi non pensiamo del resto che il nostro corrispondente abbia desiderato mai che voi pubblicaste i nomi de' vostri mandanti. Per avere un nome bisogna esistere.

E voi, o signori della medaglia, ci imboccate la risposta quando dite: «Non abbiamo bisogno di documentare a chi c'incaricò dell'onorevole ufficio come sieno pienamente false le insinuazioni stampate nella corrispondenza particolare del 2 gennaio».

Trascrivendo le vostre parole, possiam dire a nostra volta: Non abbiam bisogno di documentare come sieno pienamente false le accuse che si danno dai signori della medaglia al governo Pontificio.


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Eppure vogliamo essere più larghi di voi, e sottoporre al giudizio d'ogni onesta e discreta persona, non solo dello Stato Romano, ma di tutto l'universo, una nostra semplicissima osservazione.

Voi in sostanza, signori della medaglia, dite che non volete pubblicare i nomi de' vostri mandanti, perché ne incoglierebbe loro la peggio per parte del governo, e citate a prova i Bolognesi condannati agli arresti e in danaro, perché in principio del restauro osarono pubblicamente chiedere qualche guarentigia di vivere civile; e la polizia che tiene in prigione chi vuole, e gli Austriaci che danno la tortura nelle carceri.

Non vi chiederemo nomi e documenti; ci rispondereste: per ora non vi possiamo appagare di questo pio desiderio. Abbiamo già dato a chi si conveniva i debiti documenti. Solo vi ricorderemo due numeri della Gazzetta Piemontese, l'uno del 31 luglio, e l'altro del 6 di agosto 1856.

Nel primo si raccontava che il Consiglio comunale di Bologna avea discusso delle spese dell'occupazione militare austriaca, ed espresso apertamente un voto che, rimesse le cose nel suo staio normale, cessasse il più presto possibile.

Ciò prova, signori della medaglia, due cose contro di voi; l'una, che i Bolognesi possono pubblicamente chiedere qualche guarentigia di vivere civile, senza essere condannati agli arresti ed in danaro, giacché non sappiamo che il Consiglio comunale di Bologna sia stato in corpo, o tassato, od arrestato. L'altra, che non regna nello Stato Romano tutta quella tirannia che voi dite, ma che i Municipii possono anche a suo tempo fare un po' d'opposizione.

Voi ci venite contando, che gli Austriaci fanno inquisizioni ed arresti, e danno la tortura. Nessuno però del Municipio di Bologna, che per sentenza della Gazzetta Piemontese avea chiesto lo sfratto degli Austriaci, patì, che sappiam noi, o tortura, od arresto, od inquisizione.

L'altro articolo della Gazzetta Piemontese diceva: «Ci scrivono da Ravenna, in data del 2 corrente (agosto): il Consiglio Municipale di questa Città ha imitato l'esempio dato da quello di Bologna. Otto fra i più ragguardevoli componenti del Consiglio hanno presentato una memoria ragionata, nella quale si domandano Consigli municipali elettivi, perché i veri bisogni ed i giusti desiderii delle popolazioni vengano conosciuti».

Nessuno di questi fu, o tassato, o torturato, o arrestato. Dunque, signori della medaglia, è falso che il governo papalino condanni agli arresti ed in danaro chi osa pubblicamente chiedere qualche guarentigia di vivere civile.

Di qui non si sfugge: o non sono vere le notizie che i vostri scrissero sulla Gazzetta Piemontese di cinque mesi fa, o non reggono le accuse che fate stampare presentemente nell'Armonia. In certi casi, signori della medaglia, è indispensabile una buona memoria.

Voi date la taccia d'imprudenza al nostro corrispondente, perché v'ottenne la facoltà di far giungere questa vostra risposta negli Stati Pontificii. Ma se le cose che dite sono vere, non vi giungerà nulla di nuovo! Come dunque ve ne rallegrate?

Sapete che cosa si dirà negli Stati Pontificii ed in Piemonte

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dalle oneste e discrete persone,

che leggeranno queste linee? Si dirà che quando vi torna a conto, voi Tate parlare e protestare i sudditi Pontificii, e quando questo non vi riesce, ve ne uscite pel rotto della maglia, dicendo che tacciono perché non possono parlare 1 Di questa guisa avete sempre ragione.

Signori della medaglia, quando i sudditi del Papa seppero [che voi avevate fatto coniare nella zecca di Torino una medaglia al conte di Cavour e offertagliela coll'indirizzo in loro nome, sapete ohe cosa dissero? Esclamarono ridendo: Dove eravamo noi quando queste cose pensavamo e scrivevamo?

E poiché avranno letto questa vostra risposta, sapete che cosa diranno? Diranno: Dove eravamo noi quando ci tassavano, ci arrestavano ci torturavano

L'Armonia però stima conveniente di rendere avvertiti i sudditi Pontificii d'una cosa che forse ignoreranno, ed è ohe se un municipio in Piemonte, sotto il governo del conte di Cavour, avesse fatto quello, che a detta della Gazzetta Piemontese fecero i municipii di Bologna e di Ravenna, a quest'ora sarebbe stato sciolto. Invece que due municipii continuano a governare a loro bell'agio.

Questo basti per ora. Quanto alle circolari riservate non sappiamo che il governo pontificio n'abbia mai scritto di quelle per raccomandare il noto rimedio economico. In fatto di circolari i ministri di Roma avrebbero molto da imparare dai ministri di Torino, e non impareranno mai più.

Signori della medaglia, accettate i complimenti ed i ringraziamenti

Della vostra serva

L'Armonia.

IL CONTE DI CAVOUR

SI FINGE NEMICO DELLA RIVOLUZIONE

(Dall'Armonia, n. 14, 18 gennaio 1867).

Le interpellanze avvenute nella Camera de deputati il 15 di gennaio versarono principalmente su questo argomento, che gl'interpellanti A Brofferio e Giorgio Pallavicini pretendevano dal ministero che si facesse il campione della rivoluzione; ed il ministero, per mezzo del conte di Cavour, dichiararsi antirivoluzionario. Intorno alta qual cosa sono da esaminarsi i seguenti due punti: 4 II ministero avea dato sufficienti speranze a Brofferio ed a Pallavicini perché potessero pretendere da lui un abbraccio cordiale alla rivoluzione? 2 Non volendo i ministri dichiararsi rivoluzionari, furono conseguenti ai loro principii ed ai loro fatti, o non piuttosto s'inchinarono docilmente alla mutata condizione de' tempi? Veggiamo questi due punti.

Il deputato Brofferio incominciò le sue interpellanze col ricordare le parole dette dal conte di Cavour dopo il suo ritorno dal congresso di Parigi. In quel tempo il Presidente del Consiglio dei ministri credeva d'aver l'Italia in tasca. Lord Clarendon e lord Palmerston gli avevano promesso Roma e toma, e gli pareva d'esser a cavallo. Epperò, senza tanti complimenti aperte l'animo suo non tanto moderato come nel 1857.

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Ecco su questo proposito come parlò il deputato Brofferio:

«Il signor Cavour, interpellato dal signor Buffa a dichiarare quali fossero le intenzioni degli alleati a favor nostro, rispondeva con queste precise parole che bo letteralmente trascritte:

«Il plenipotenziario della Gran Bretagna, disse egli, mostrò tanta simpatia per la causa d'Italia, un cosi vivo desiderio di sollevarla dai mali ohe l'affliggono, da meritare la riconoscenza non solo dei Piemontesi, ma di tutti gli Italiani.

«Il plenipotenziario della Francia, soggiunse il signor ministro, tenne un identico linguaggio, e dimostrò eguale simpatia per la sorte dei nostri concittadini; e le sue parole furono tali da meritare il plauso di tutti gli Italiani».

«Poscia, assumendo più esplicito linguaggio, conchiuse:

«Sebbene il Congresso non sia arrivato ad un atto definitivo, è però lecito il credere che i consigli, di cui discorriamo, avvalorati come sono dall'autorità della Francia e dell'Inghilterra, sieno per riuscire talmente potenti ed efficaci da sortire quei risultati che da essi ci ripromettiamo».

«Né qui si conchiusero le parole del ministro; altre ne ascoltammo, e son queste:

«Le negoziazioni di Parigi non hanno migliorato le nostre relazioni con l'Austria»; e come se queste parole così gravi non dicessero abbastanza, soggiungeva: e essere la politica dei due paesi più lontana che mai dal mettersi d'accordo, essere inconciliabile la politica dell'uno e dell'altro paese»; e conchiudeva fra generali applausi, che da lotta potrebbe esser lunga, che molte potrebbero essere le peripezie; ma noi, esclamava egli con ardito accento, fi denti nella giustizia della nostra causa, aspettiamo con fiducia l'esito finale». E qui gli applausi e le acclamazioni diventarono più fragorose che mai.

«Commossi da queste parole alcuni oratori dalle più opposte parti della Camera, e fra essi i deputati Valerio e Revel, sorgevano dicendo, che coteste parole avrebbero avuto eco in Italia, la quale non sarebbe stata lungo tempo senza farsi sentire, e chiedevano dinanzi ad avvenimenti che credevano prossimi, che vedeano gravi per noi, e più gravi ancora per le altre parti d'Italia, quale sarebbe stato il contegno del Piemonte.

«Al che rispondeva fieramente il ministro: «La via che seguirà il governo, sarà sempre quella che più direttamente conduce al maggior bene dell'Italia».

A questo guerriero appello del ministro faceva eco tutto il Piemonte; in ogni parte si parlava di prossimi incontri e di guerre e di vittorie; la stampa imboccava la tromba, e suonava a riscossa; il popolo sottoscriveva con unanime slancio alla proposta dei cento cannoni di Alessandria, mollo bene complÉtata dall'altra proposta dei 10m. fucili di Genova; piovevano le manifestazioni a favor nostro da tutte le capitali dell'Europa; l'emigrazione si costituiva in comitati per essere pronta ad accorrere quando che fosse in compatta schiera verso il commosso suolo natta; e tanta era l'ansia del supremo momento, che le pili cospicue città dell'Italia affrettavano ad attestarla al signor Presidente del Consiglio con patriottiche felicitazioni e coll'invio di sculti marmi, di effigiati metalli. E chi lo chiamava Farinata, e chi Ferraccio e chi.........Cola di Rienzo (Ilarità generale). Ed intanto, che faceva il signor ministro?

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I suoi compagni che facevano? Come si scioglieva questo strepito d'armi? All'italico entusiasmo come si corrispondeva? Come?».

Le parole dette dal Presidente del ministero nel maggio del 1856 erano pienamente rivoluzionarie, come sostiene il deputato Brofferio, e chiaramente apparisce. Il conte di Cavour pronunciandole sperava che Sicilia e Napoli, Roma e Toscana, sarebbero insorte come un sol uomo, e venute ad unirsi col Piemonte. Ma egli fé' i conti senza l'oste. Imperocché i Napoletani benedissero il loro Re, e lo benedicono ancora oggidì con continui indirizzi, che leggiamo nel Giornale ufficiale delle Due Sicilie; ed anzi, pensano di levargli un monumento. I Siciliani si tennero fortunatissimi d'essere uniti con Napoli, e di vivere sotto il governo del Borbone. I Romani si chiarirono contentissimi del Romano Pontefice, e pregarono Dominedio di liberarli dalle imposte, dalle vessazioni, dalle lotte innocenti del liberalissimo Piemonte, che contava perfino i regicidi tra i suoi legislatori. I Toscani restarono fedeli al Granduca; fedelissimi i Modenesi ed i cittadini del Lombardo-Veneto accolsero l'Imperatore d'Austria colla devozione di sudditi, e colla gioia e l'affetto di figli.

Tutti i mezzi adoperati dai nostri ministri e dai nostri ministeriali per levare l'Italia a tumulto non valsero. Il Barone Bentivegna, che viaggiava dalla Sicilia a Torino, e da Torino alla Sicilia, fé' fiasco. Il Piccolo Corriere Italiano, spedito clandestinamente in tutti gli Stati d'Italia, non riuscì a nulla. I discorsi detti nel Parlamento Subalpino da Cavour, da Marni ani, da Buffa, nel maggio del 1856, raccolti e sparsi per tutta la Penisola, furono un buco nell'acqua. Le sottoscrizioni pei cento cannoni d'Alessandria, si ridussero a somme di nessun conto. Le medaglie, i busti, gli indirizzi giungevano a Torino senza far gran viaggio, giacché da Torino partivano colle diverse date di Roma, Firenze, di Modena, di Corno, e di Milano, ecc.

Il ministero non tardò ad avvedersi, che il giuoco non gli riusciva; e fallitogli il compito del rivoluzionario, indossò la veste del moderato. Brofferio rimproverò i ministri, perché non s'erano serviti dell'insurrezione di Sicilia, né dell'attentato contro la vita del Re di Napoli. Ma perché questo rimprovero? - Perché i ministri col loro contegno, e principalmente il conte di Cavour colle sue parole, avevano lasciato sperare ai Brofferio e compagni, che di simili mezzi si sarebbero a suo tempo servili.

Il deputato Giorgio Pallavicini nella stessa tornata stimolava il ministero colle seguenti parole:

«Il Piemonte, Stato italiano, deve seguir costantemente le nobili e sante inspirazioni della politica italiana, la quale, fino al giorno del nostro riscatto, non può essere che rivoluzionaria, prudentemente sì, ma sinceramente rivoluzionaria. Non si cancellano i fatti compiuti, e noi dobbiamo accettarne le conseguenze. È scritto lassi) che l'Inghilterra colorisca il disegno provvidenziale nelle Indie, la Francia in Africa, la Prussia in Germania ed il Piemonte

«........................ Nel bel Paese

« Che Apennin parte e il mar circonda e l'Alpe».

Volerei opporre al natural andamento delle cose egli è un cozzare nel decreto di Dio, e non si cozza impunemente ne decreti di Dio!

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«Se il governo subalpino (lasciò scritto quell'altissimo ingegno di Vincenzo Gioberti), se il governo subalpino dismette il pensiero d'Italia, se si ferma nella via degli avanzamenti, se tituba, trepida» s'inginocchia... entrerà in disaccordo coi tempi, che traggono irrevocabilmente al trionfo delle nazioni: avvilirà la Gasa Sarda: screditerà il principato, e lo perderà, se mai accada che sia messa sul tavoliere la posta fatale e attrattiva della Repubblica».

«E soggiungea: e Le vie di mezzo nei tempi forti rovinano gli Stati».

«Ma che dovrà fare il governo piemontese nelle presenti congiunture? Apparecchiarsi, ma seriamente, alla lotta suprema con quel governo, nostro vicino, i cui principii, disse il signor Presidente del Consiglio, sono inconciliabili coi nostri.

«Ma con quali forze lotteremo noi coll'esercito austriaco? Con quelle che l'Austria e gli aderenti suoi ci vengono preparando per sommo beneficio della Previdenza, colla rivoluzione.

«De tels moyens de gouvernement (dicevano i nostri oratori al Congresso di Parigi), de tels moyens de gouvernement (rapine, carceri, patiboli!) doivent nécessairement maintenir les populations italiennes dans un état d'irritation constante et de fermentation révolutionnaire».

«La rivoluzione! Ecco l'alleato ed il solo alleato sul quale possa far disegno, ragionevolmente, il Piemonte italiano. Implorare il patrocinio de potentati forestieri sarebbe una villa; sperare in quello, demenza.

«Le grandi soluzioni, o signori, non si operano colla penna. La diplomazia è impotente a cambiare le condizioni dei popoli; essa non può, al più, che sancire i fatti compiuti e dare ad essi forma legale».

«Così diceva, non è molto, l'uomo illustre che presiede ai Consigli di Vittorio Emanuele. Ma se le grandi soluzioni non si operano colla penna, se la diplomazia è impotente a cambiare le condizioni dei popoli... perché il ministero sardo s'appoggia sulla diplomazia ed avversa la rivoluzione?».

Il conte di Cavour, rispondendo ai deputati Brofferio e Pallavicini, dichiarò francamente che egli ed i suoi colleghi volevano cessare dall'essere rivoluzionarii; che mai più non si sarebbero appigliati a questo genere di politica.

«L'onorevole deputato Brofferio ci ha fatto rimprovero di non aver mandato un naviglio in Sicilia, ma i motivi appunto che egli ha addotto per provare che avevamo avuto torto in questa circostanza, ci avrebbero consigliato a non farlo quando fossimo stati in forse di spedire navi su quelle coste. Le nostre parole, la nostra politica non tendono ad eccitare od appoggiare in Italia moti incomposti, vani ed insensati tentativi rivoluzionarii.

«Noi intendiamo in altro modo la rigenerazione italiana, e ci asteniamo da tutto quello che può tendere ad eccitare simili rivolgimenti. Noi abbiamo sempre seguito una politica franca e leale, senza linguaggio doppio; e finché saremo in pace cogli altri potentati d'Italia, mai non impiegheremo mezzi rivoluzionarii, non mai cercheremo di eccitare tumulti o ribellioni.

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Se ci fossimo proposti lo scopo, cui accenna l'onorevole Brofferio, se avessimo voluto mandare un naviglio per suscitare indirettamente moti rivoluzionarii, prima di farlo avremmo rotto la guerra e dichiarato apertamente le nostro intenzioni.

Quindi lo dichiaro altamente, io mi compiaccio del rimprovero che l'onorevole Brofferio mi ha rivolto.

«Rispetto h Napoli, egli è con dolore che io rispondo all'onorevole Brofferio. Egli ha ricordato fatti dolorosissimi; scoppio di polveriere e di navi da guerra eoo perdita di molte vite, ed un attentato orrendo. Egli ba parlato ia modo da lasciar credere che quei fatti sieno opera del partito italiano: io lì ripudio, li ripudio altamente, e ciò nell'interesse stesso dell'Italia. (Vivi segni d'approvazione).

«No, o signori, questi non sono fatti ohe si possano apporre al partito nazionale italiano; sono fatti isolati di qualche disgraziato illuso, che può meritare pietà e compassione, ma ohe devono essere stimatizzati da tutti gli uomini savii, e massimamente da quanti hanno a onore l'onoro e l'interesse italiano. ( Bravo! Benissimo).

È questa la favola della volpe, che lasciò stare l'uva, dicendola immatura, perché non poteva coglierla? Oppure noi possiamo davvero congratularci col conte di Cavour e coi suoi colleghi convertiti pienamente dalla inala via, per cui s'erano incamminati? Non sapremmo ben dire se le parole conservatoci del Presidente del ministero sieno figlio della disperazione o della conversione. Certo noi abbiamo onde goderne, e ne godiamo di cuore. Godiamo che il conte di Cavour non voglia rivolgimenti in Italia, e speriamo che quindi innanzi egli si asterrà da tutto ciò che possa provocarli. Speriamo che egli sia, a suo tempo, per infrenare la stampa, reprimerne la licenza, dar pace al Piemonte. Bravo, signor Conte, seguite questa via, e ci avrete de' vostri. Noi per lo innanzi vi giudicavamo rivoluzionario, perché tale vi dichiaravano i fatti e le parole. Ora protestate di non esserlo, e noi accettiamo le vostre proteste; le quali vogliamo credere, che saranno pia consentanee coi bui posteriori, che non furono conformi coi detti ooi fatti precedenti. Voi non siete rivoluzionario? Ebbene ricordatevi le parole del deputato Giorgio Pallavicini: e La diplomazia, che ha buona memoria, non ha dimenticato il quarantotto: essa diffida, e diffiderà sempre del Piemonte, fino a tanto che il Piemonte farà sventolare nelle sue città e nelle sue terre la bandiera tricolore. Questa bandiera, inalberata in Italia dalla RIVOLUZIONE, SIGNIFICA RIVOLUZIONE, né altro potrebbe significare: la diplomazia lo sa, che la diplomazia è trista, ma non è stolta».

APOTEOSI DI MILANO IL REGICIDA

(Dall'Armonia, n. 19, ti gennaio 1866).

Oggimai niuno più si deve maravigliare se i regicidi hanno gli oneri dell'apoteosi nel nostro sventurato paese. Il Municipio di Torino, in sul cadere dell'anno 1856, decretava che la Via d'Italia venisse chiamata Via di Milano. Immediatamente fu dato l'ordine di eseguire il decreto. Ma quale fu Io stupore de' cittadini, i quali videro sulle nuove lastre di marmo bianco scritto non

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Via di Milano, ma Via Milano! Tutti domandarono se era Milano la città, o Milano il regicida? Oggi la Gazzetta del Popolo, N° 20, interprete e guida del Municipio, risponde col seguente epigramma;

Dunque la Via d'Italia (un sacrestano

Dicea) si chiamerà Via di Milano?

Ma di quale Milano, in cortesia,

Delle Calabrie o della Lombardia?...

Sì dell'uni che dell'altro,

Risposi al prete scaltro;

E il prete scaltro mi voltò il codino,

Cicando e borbottando: È un libertino!

N. R.

Dunque la risposta è chiara alla domanda qual è il Milano inciso sulle nuove lastre? Non il Milano città, perché dovea dirsi Via di Milano, come decretò il Municipio. È dunque il Milano regicida, come fece incidere il Municipio, appunto come diciamo Via Carlo Alberto, Via Socchi, via lagrange. Perciò non ci meraviglie™ che domani si decreti e si scriva Via Gallenga in vece di Via Carlo Alberto) Via, Vergè invece di Via dell'Arcivescovato, Tanto più che corre voce per Torino che si aspettano le ossa di Agesilao Milano per innalzargli un monumento, non sappiamo in qual luogo, ma si dice che sarà sulla piazza reale. Già i nostri giornali ministeriali annunciarono che la fossa del Milano si è trovata vuota un bel mattino, ed il cadavere rubato da non si sa chi. Non ci stupiremo se domani i giornali annunceranno che le ceneri di quel generoso frementi nell'urna sepolcrale, giunsero felicemente a Genova per essere trasportate a Torino.

Intanto ecco ciò che scriveva l'Italia e Popolo de] 10 di gennaio, N° 10, a proposito delle interpellanze di A. Brofferio, e della risposta del conte di Cavour: «Una sola osservazione e una protesta. Il conte Cavour nella sua qualità di diplomatico, ha solennemente ripudiato per sé, e pel partito ch'egli rappresenta, ogni simpatia per quel fortissimo uomo, che si chiama Agesilao Milano. Sia pure; noi prendiamo atto di quella dichiarazione. Per parte nostra dichiariamo che desideriamo avere per figli e per amici uomini che gli somiglino. Quando l'Italia libera potrà esprimere la propria opinione, si vedrà a chi darà ragione, se a Cavour e ai signori dell'Opinione], o ad. Agesilao Milano. Curvatevi pure, o servi della diplomazia, fino a rinnegarci migliori figli d'Italia. Il paese vi giudicherà)

L'iscrizione per il nuovo monumento è semplice, ma sublime,

Ad Agesilao Milano

Il miglior

dei figli d'Italia

I... riconoscenti.

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PROCESSO CONTRO IL CATTOLICISMO

NELLA CAMERA DEI DEPUTATI

(Dall'Armonia, n. 23, 24, 25, del 29, 30, 31 gennaio 1857).

Spesse volte toccammo del carattere eterodosso ed empio della rivoluzione; ma oggidì è giunto il tempo di discorrerne di proposito. Nella nostra Camera dei deputati, lo sappiano i Piemontesi, sei sappia l'Italia, si gira un processo, non più all'Arcivescovo di Torino od al Clero di Aosta; ma alla medesima religione cattolica. Da due giorni si discute se il cattolicismo debba essere conservato, se possa stare colla libertà, ovvero se non sia meglio distruggerlo, e sulle rovine della croce piantare la bandiera tricolore. Ed il presidente della Camera dei deputati Carlo Cadorna dichiara che ognuno nella Camera può esprimere liberamente le proprie opinioni! (Atti uff. ; N° 36, pag. 137). Raccontiamo la storia di questo assalto dei pigmei contro del cielo.

Il deputato Alessandro Borella il 26 gennaio 1857 ingaggiò la battaglia contro il cattolicismo. E il Borella era degno di capitanare l'impresa. Egli aveva già fatto nella Gazzetta del Popolo una supplica al Papa, affinché lo scomunicasse; uscito da una malattia poco pericolosa, avea dichiarato con empio cinismo che non s'era confessato, ed osò perfino chiamare l'Ostia santissima un gnocco volante. Nonostante venne eletto deputato al Parlamento, ed il collegio di Saluzzola è quello che fé' questa scelta preziosa. Elettori, gloriatevi pure del vostro buon criterio!

Discutevasi da qualche giorno la legge sul pubblico insegnamento, allora quando si venne a trattare del seguente articolo: La religione cattolica sarà il fondamento dell'istruzione e dell'educazione morale, che lo Stato farà dare nelle scuole degli istituti pubblici. Vi potea essere qualche difficoltà nell'accettare questo articolo? Lo Statuto dichiara che la religione cattolica è la sola religione dello Stato. Dunque lo Stato negli istituti pubblici dee insegnare la religione cattolica. Così l'aveva intesa perfino il ministro Lanza.

Imperocché nel primitivo progetto ministeriale sull'istruzione non parlavasi né punto né fiore d'insegnamento religioso. Ma a parve al Senato, disse il ministro Lanza, che la prima volta, in cui una legge sulla pubblica istruzione veniva discussa in pieno Parlamento, fosse necessario, od almeno conveniente, di sancire il principio dell'istruzione religiosa». E il ministro Lanza s'era arreso al voto de' Senatori, proponendo il suo progetto ai deputati in guisa che toccasse della religione cattolica come base dell'insegnamento. Ma la Giunta incaricata di esaminare il progetto eliminò tosto quell'articolo. Del che si dolse fortemente quel valentissimo oratore e fervente cattolico che è il deputato Tola, ed ottenne dal ministro Lanza che sostenesse: «Negli istituti e nelle scuole pubbliche la religione cattolica è fondamento dell'educazione morale o dell'istruzione religiosa».

Lorenzo Valerio, uno de' caldi patroni della Repubblica Romana, prese tosto a dire: e Mi pare, che l'emendamento proposto dal signor Ministro sia troppo grave, perché si possa votare così a prima giunta». Intendete, o Piemontesi, il latino?

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É troppo grave dichiarare che noi siamo cattolici, che il Parlamento è cattolico, che lo Statuto piglia le mosse dalla religione cattolica, che i nostri figli saranno cattolicamente educati? È troppo grave? A noi pare che sia troppo grave il solo mettere in discussione quest'articolo, perché è mettere in dubbio i fondamenti medesimi della nostra libertà.

Il deputato G. B. Michelini, caldo democratico, andò più innanzi di Lorenzo Valerio, e disse ricisamente: «lo intendo oppormi all'articolo proposto dal signor Ministro, come a qualunque altro che avesse simile significazione». E subito dopo pigliando la parola il deputato Borella, sostenne una test, che in sostanza si può ridurre alla seguente: nelle nostre scuole non solo non si dee insegnare la religione cattolica, ma anzi combattere. Si avverta come si proceda a passo a passo in questa faccenda. Valerio dice: Andiamo adagio nello stabilire il cattolicismo come base dell'insegnamento. Michelini soggiunge:

Il rigetto questa base. Borella conchiude: Io voglio l'insegnamento anticattolico.

Ecco come esordiva il deputato Borella: e Signori, la quistione vi fu proposta in questi termini: che la religione cattolica, apostolica e romana debba essere il fondamento della morale delle nostre scuole ufficiali; ed io vengo a dirvi, e spero di provarvi, che lo Stato non deve mettersi nell'impegno d'insegnare la religione cattolica, apostolica e romana nelle sue scuole, a meno che si voglia deliberatamente e scientemente mettere in questo pericolo, o di dare un insegnamento religioso contrario allo Statuto, o di dispensare un'istruzione religiosa avversa al diritto canonico».

E poi entrava a provare, che il nostro Statuto era avverso al cattolicismo, e

Il cattolicismo al nostro Statuto. Se l' Armonia avesse emesso una proposizione simile, il fisco non avrebbe tardato un minuto solo a sequestrarla. Invece il presidente Cadorna, non solo non richiamò all'ordine il deputato Borella, ma rispose al deputato Tola: Ognuno nella Camera può. esprimere liberamente le proprie opinioni.

L'opinione adunque del deputato Borella è, che lo Statuto si opponga nel suo 1 articolo al cattolicismo, perché tollera i falsi culti, mentre la religione cattolica li proscrive, e Gregorio XVI riprovò le dottrine dell'Avenir intorno alla libertà dei culti; vi si opponga nell'articolo 24, che vuole tutti i regnicoli eguali in faccia alla legge, mentre il cattolicismo dichiara che i laici non sono preti, né i preti laici; nell'articolo 25, che vuole tutti i cittadini obbligati di contribuire in proporzione dei loro averi ai carichi dello Stato, mentre il cattolicismo dichiara inviolabili i beni ecclesiastici; finalmente nell'articolo 28, che lascia libera la stampa, mentre Gregorio XVI ha esecrato la tristissima licenza dei torchi.

Per comprendere tutta l'empietà di questa pretesa dimostrazione conviene apprezzarne le conseguenze. Supponiamola conforme alla verità, che cosa ne deriva? Ne deriva che, essendo lo Statuto opposto diametralmente al cattolicismo, bisogna decidersi o per l'uno o per l'altro; professarsi o costituzionali, o cattolici. Ne deriva che la Camera, esistendo in forza dello Statuto, pena la vita, è obbligata a dichiararsi nemica mortale della S. Chiesa Cattolica. Ne deriva in ultimo, che, volendo i deputati nelle nostre scuole un insegnamento

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conforme alla Costituzione, debbono di necessità esigere un insegnamento avverso al cattolicismo, perché l'ima e l'altro non. possono conciliarsi.

Se noi fossimo avversi allo Statuto, come ci dipingono, presenteremmo le nostre congratulazioni al deputato Borella, dicendogli: vero, verissimo; lo Statuto e il cattolicismo non possono stare insieme; la croce e la bandiera tricolore si escludono a vicenda; o una cosa, o l'altra: o costituzionali, o cattolici. Piemontesi, eleggete. E noi saremmo certi della scelta. Ma non essendo noi liberticidi, proveremo invece contro il deputato Borella, che la libertà e la religione cattolica non sono dichiarate nemiche.

E dapprima il signor Borella non credeva la libertà in opposizione col cattolicismo quando nel 1848 chiamava Pio IX un angelo e il primo redentore «l'Italia (Gazzetta del Popolo, N° 16, 4 luglio), e scatenavasi contro quella genìa che tenne in non cale l'autorità del Pontefice, l'autorità di Pio IX (t'6. ) e dichiarava ohe lo spirito del Pontefice avea formato l'Europa novella (N° 26, 13 luglio), e volea aggiungere al grido di viva Carlo Alberto, quello di viva Pio IX, cioè alla forza che vince, la santità che consacra (N° 33, 24 luglio).

Nel 1848, signor Borella, il cattolicismo, ben lungi dall'essere opposto alla libertà, le recava vantaggio; ed ora invece a vostro avviso è la sua rovina. Voi siete adunque in perfetta contraddizione con voi medesimo: o ipocrita allora, o imbecille oggidì, scegliete.

E i nostri lettori forse v'appiccheranno e l'uno e l'altro titolo. Imperocché ci vuole un'insipienza superlativa per rilevare un contrasto tra la dottrina cattolica e. la tolleranza stabilita dallo Statuto verso alcuni eretici. Lo Statuto w ciò non variò in nulla il Codice civile, e lasciò le cose nei termini medesimi in cui si ritrovavano prima del 1848. E pretendereste che il Codice civile fosse contrario al cattolicismo?

La tolleranza verso gli eretici non è la connivenza. Questa verrà sempre condannata dal cattolicismo, e non quella. Forse che il Papa non tollera gli ebrei negK Stati Pontificii? E voi stesso, signor Borella, non avete citato le parole dette dal Cardinale Pacca a Lamennais in nome di Gregorio XVI, che la prudenza esige in certe circostanze di tollerare certe dottrine come un male minore f Dunque la tolleranza prudente non è contraria al cattolicismo, e voi vi deste dell'Accetta sui piedi»

Contraria al cattolicismo è la libertà dei culti, perché trae con sé l'indifferenza in materia di religione. Ma questa è egualmente contraria al nostro Statuto; e voi avete parlato di Statuto e di cattolicismo senza conoscere né l'uno né l'altro.

Ci duole, signor Borella, di non essere stati deputati il 26 gennaio, perché avremmo voluto dirvi nella Camera due semplici parole. Ve le diremo in pubblico, e sarà ancor meglio. Voi osate fare il processo d'intolleranza al cattolicismo, voi? E non iscrivete forse la Gazzetta del Popolo? E qual è la vostra tolleranza in quel giornale? La tolleranza forse delle stangate e dei capestri? Non vi ricordate più come una volta abbiate desiderato d'essere dappresso al generale d'Avieraoz, che manifestava liberamente una sua opinione, per mettergli due dita alla gola, e piantargli un coltello nei cuore?

Voi volete che il cattolicismo faccia a pugni collo Statuto.

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Ma il primo articolo di questo dichiara la religione cattolica sola religione dello Stato. Dunque se la vostra sentenza è vera, lo Statuto fa pugni collo Statuto. E voi avete giurato questo Statuto, il cui primo articolo cozza fra sé, ed inoltre cogli articoli 21, 25, 28? Qual è il vostro criterio? Perché osate giurare le contraddizioni? E qual peso hanno i vostri giuramenti?

Posto ohe gli articoli successivi si opponessero al primo, certo è che lo Statuto si dovrebbe coordinare colla sua base, che è il cattolicismo, e spiegare, in modo consentaneo. Ma nessuno pretenderà mai che la nostra Costituzione abbia violato la proprietà ecclesiastica, che anzi dichiara inviolabile; o preteso di dare al deputato Borella la patente di confessione a titolo d'eguaglianza; 0 permesso la bestemmia e l'eresia in nome della libertà.

L'onorevole deputato Revel diè il fatto suo al Borella. Egli lo avverti che la Camera non era la Gazzetta del Popolo, e si lagnò vivamente perché egli avesse osalo di gettare la derisione e lo sfregio su una religione, che lo Statuto dichiara essere la sola religione dello Stato, e ohe è quella dell'immensissima maggioratila della nazione.

II.

In sul finire della tornata del 16 di gennaio il deputato Revel, rispondendo ad Alessandro Borella, osservava molto a proposito: «Domando io se, ove taluno da questo lato avesse parlato della religione protestante od ebraica nel modo con cui il preopinante ha discorso della religione cattolica, non sarebbero sorti dai banchi dove egli siede, molti mormorii contro quanto sene sarebbe detto?» ( Atti Uffic. del Parlamento, N» 36, p 138).

Verissimo. Se un deputato cattolico avesse ricordato le crudeltà dei prole testanti, e riletto solo nella Camera ciò ohe ne dice il protestante Cobbet nelle sua lettere, noi vi accertiamo ohe il presidente Cadorna gli avrebbe dato sulla voce, avvertendolo ohe votanti rispettare tutto le religioni. Invece, poiché il deputato Borella assaliva, il cattolicismo, e gettava lo sfregio sulla disciplina cattolica, il presidente, a luogo di richiamarlo all'ordine, disse; «Ognuno nella Camera può esprimere liberamente le proprie opinioni. Ciò prova ohe i rivoluzionarii non odiano altra religione all'infuori del cattolicismo, e se non avessimo altri argomenti, questo solo proverebbe che la religione cattolica è ]a vera.

Continuiamo la storia degli assalti che patì nella Camera dei Deputati il 27 di gennaio. Il signor Chenal ci dichiarò perché non volessi ne' collegi l'istruzione religiosa: «La religion de Rome imposée dans les collège a pour conséquence de l'être à toute la société». (Atti Uffa, del Pari. , N° 38, pag. 145). La piega che prende la pianta da polloncello, la mantiene poi fatta albero. Ciò capiscono i rivoluzionarii, e quindi con Rousseau vorrebbero per ora ohe alla gioventù non si parlasse di religione, salvo pili tardi a discorrergli lungamente d'empietà.

Il Piemonte è cattolico, diè il demagogo, perché ha imparato il cattolicismo nei collegi. Sopprimiamo adunque in questi l'insegnamento religioso, e sarà un buon ripiego per iscattolicinare il paese. Così sottosopra ragionò il signor Chenal. Il quale fra i molti errori disse una verità ai ministri ed è la seguente;

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«Si le catholicisme doit être la religion de TÉtat, soavec vous mémes; adoptez la politique de Rome, celle de M. Solaro della Margherita, mille fois plus logique que la votre. (Ilarità). Jusque-là vos subtilités, votre éclectisme politico-reiigieux, votre doctrinarisme dogmatique ne satisferont ni le catholique romain, ni les homme» qui veulent que la religion soit indépendante de la politique, qui regardent la liberté de la conscience comme un droit sacre.

«Avec vos principes hvbrides, qui s'annihilent les uns les autres, la pensée est hésitante; elle ne sait oli se reposer; elle n'est ni catholique, ni philosophique; elle est sans force comme le doctrinarisme, dont elle est] l'expression; elle est impuissante à rien fonder. C'est une négation, si vous le préférez, un compromis des plus compromettants. (Ilarità). Avec elle l'on n'arrive qu'à un pastiche sabaudo-catholique (ilarità), qu'à une monstruosité morale».

Il deputato Moia fu tra i libertini dei pili espliciti, dei pio franchi nel dimostrare la sua avversione al cattolicismo. Tra lui e il deputato Borella non sapremmo a chi dare la preferenza. Egli disse, che se il Piemonte è cattolico, ciò proveniva dacché la religione cattolica eragli stata imposta; e, forse alludendo a se stesso, dichiarò che non tutti i cattolicamente battezzati sono veramente cattolici. Ci permettano i nostri lettori di riferirne le parole, quali si leggono negli Atti Uffa, del Pari. , N° 39, pag. 148:

«Dopo che, in segnilo agli avvenimenti del 1814, fu restaurato nel nostro paese tutto ciò che dell'antico reggi me si poteva ancora instaurare, la religione cattolica fu dalla legge, dal braccio secolare, dalla forza pubblica imposta a tutti coloro, i quali non erano nati in qualcuno dei culti tollerati. Lo stato civile essendo in mano dei preti, il padre era obbligato a presentare al battesimo i suoi figli. Nelle scuole l'insegnamento religioso essendo obbligatorio, non essendo nelle scuole ammesso nessuno che non sapesse il Credo ed il Pater noster, bisognava che i padri e le madri un po' colle dolci, un po' colla severità, con qualche ciambella (si ride), e con molte scoppole, insegnassero ai loro figli il Credo ed il Pater noster.

«Poi, se volevate presentarvi all'esame, ci voleva l' admittatur firmato dal direttore spirituale, il quale non ve lo firmava se non avevate seguiti assiduamente tutti gli esercizii religiosi, e non eravate muniti del biglietto mensile di confessione.

«Così la società, lo Stato, il governo, che al vostro nascere, e senza il vostro consenso, vi aveva imposto il Battesimo, v'imponeva la Cresima, la Penitenza e l'Eucaristia. Usciti dalle scuole, intrapresa una professione qualunque, se volevate condurre una sposa legittima, e dare uno stato legittimo ai vostri figli, la legge vi ordinava di andare in chiesa a far benedire il vostro connubio; e la legge v'imponeva un altro sacramento, il Matrimonio.

«Giunto al termine della sua mortale carriera, quando sembrerebbe che l'uomo dovesse riunire in sé tutte le forze dell'animo, e giacché non gli fu permesso di vivere a sua voglia, potesse almeno morire secondo le sue convinzioni, anche allora, il cimitero e le pompe funebri essendo nelle mani del clero, se voi volevate che la vostra spoglia riposasse in luogo che non potesse essere profanata, se voi volevate che le vostre ossa riposassero accanto a quelle dei padri vostri,

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era necessario di sottomettervi all'ultimo dei sacramenti, all'estrema Unzione, perché se il prete non veniva al vostro capezzale di morte, non potevate sperare gli onori della sepoltura.

«Dopo di questo venite a dirci che la maggioranza del paese è cattolica? Sicuramente; questa religione gliel' avete imposta, come può essere altrimenti?».

Queste parole sono importantissime. Tutti i nemici del cattolicismo partono dal principio, che la Religione si succhia ne' collegi, che il Piemonte è cattolico, perché tale lo creò l'insegnamento. In conseguenza, secolarizzato l'insegnamento, vogliono scompagnarlo da ogni principio di religione. Lo stesso ministro Lanza osservò, che gli oratori da noi citati aveano rivelato evidentemente il pernierò di non volere che vi sia istruzione religiosa negli istituti e nelle scuole pubbliche; e prese a con fa tare gli avversarii dal lato del tornaconto:

Vi domando, o signori, se credete possibile, che possano sussistere dei convitti pubblici, entro i quali gli alunni sieno intieramente affidati alle cure dej direttori dei convitti medesimi, senza che vi s'impartiscano principii di morate e di religione. Cornee possibile, che un padre di famigliasi risolva a collocare un suo figlio in uno stabilimento, in cui non s'insegni assolutamente alcuna religione? Ne verrebbe per conseguenza, che, contemporaneamente all'adozione di questa massima, di non insegnare nessuna religione negl'istituti de governo, si dovrebbero chiudere tutti i convitti pubblici, e di limitare l'insegnamento dello Stato unicamente alle scuole per gli allievi esterni».

Questa discussione ha sempre più. dimostrato la necessità, in cui trovasi il Piemonte di avere la libertà d'insegnamento. Concentrala l'amministrazione dell'istruzione pubblica nelle mani del ministro, quale guarentigia resta ancora ai padri di famiglia? Domani saranno ministri i Moia, i Chenal, i Borella, i Valerio, i Michelini, ed allora in nome della tolleranza staranno freschi i cattolici! Per esempio, oggidì che il ministro Lanza pare spedito dai medici, già si annunzia, che il deputato Buffa gli succederà nel ministero. Ora il Buffa è di coloro che vogliono eliminare dai collegi l'insegnamento religioso. Mettete nelle sue mani ogni potere sull'istruzione, e poi mandate, se vi basta l'animo, i vostri figli alle scuole pubbliche!

Se il cattolicismo venne così rabbiosamente assalito nella Camera dei Deputati, da eloquenti e coraggiosi oratori fu pure difeso. Noi. ne registreremo a lode i nomi, e taluna delle sentenze.

Il deputalo Tola. «Lo Stato non può, non debbe occuparsi delle verità religiose... . ! È ben vero. Né allo Stato, né a nessuno si aspetta, ma alla Chiesa, alla Chiesa sola, sedere donna e maestra delle verità religiose. Ma poiché lo Stato è l'espressione governativa della nazione, poiché lo Statuto proclama solennemente ebe la religione cattolica è la religione nazionale, lo Stato è costretto ad accettarla, ed a professarla e riconoscerla colle sue verità. Lo Stato, o signori, ente complessivo, rappresenta i cittadini, che hanno ciascuno individualmente anima e fede. Se dunque lo Stato proclama la religione e la fede dei cittadini, e ne professa eziandio il culto esteriore, non può non attuarla nel pubblico insegnamento senza tradire la nazione,


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e senza professare l'ipocrisia. E voi, dottrinati del silenzio legale in fatto di religione, non volete lo Stato né ipocrita, né traditore.

«Voi non volete la religione e fondamento dell'istruzione e della educazione nelle scuole pubbliche dello Stato. Ma non sapete voi, che nel pubblico insegnamento lo Stato è il mandatario della paternità e della famiglia? 0 volete forse far rivivere le teorie proclamate da Robespierre e da Danton nel Comitato di salute pubblica? le nefande teorie, che, strappando i figliuoli dal paterno tetto, li dicevano nati allo Stato, anzi che ai parenti, per coniarne l'anima cittadina? Teorie luttuose e bestiali, contro cui finalmente si sollevò la Francia insanguinata, e la voce libera e potente, non già del Clero, che gemeva e soffriva, ma dello stesso Condorcet, di Talleyrand, e di Chaptai? Non la volete questa religione per informare l'intelletto ed il cuore della giovane generazione che sorge, della vergine generazione che corre vogliosa a dissetarsi alle fonti del pubblico insegnamento. Ma questa fu già la dottrina insensata dello scetticismo, che sul finire del passato secolo s'incarnò nelle menti stravolte di uomini, che di uomini ebbero soltanto la figura e l'accento.

«E l'illustre Troplong ancora vivente, sublime intelletto, e di tutte umane leggi solenne duca e maestro, la fulminò dottamente ragionando, non sono molti anni, al cospetto dell'Accademia francese. lo voglio, egli dicea, io voglio la religione negli avamposti del pubblico insegnamento, per aprire lo spirito dei fanciulli e dei giovani, per impossessarsi del loro cuore, e per dirigere la loro ragione»».

So libo della Mìrgarita non tardò ad unirsi col deputato Tola per proto» stare contro la malaugurata opposizione che in un Parlamento cattolico vide sollevarsi con motto suo dolore contro un articolo che alta religione si riferisce.

Il deputato Gastiuelli, «Io non posso più assistere silenzioso al dibattimento della quistione, né mi è più libero il voto stesso. Perciocché, essendosi spinta la discussione sino ad insinuare che la religione cattolica sia ostile allo Statuto, lo Statuto ostile alla religione cattolica, io dichiaro ingenuamente che, ridotto a questo stremo, non mi è più lecito oltre discutere, ma io debbo solennemente votare per l'aggiunta del ministero; percioccché io debbo protestare in faccia agli elettori, io debbo protestare in faccia alla nazione, siccome protesto in faccia alla Camera, contro ogni ombra di dubbio che lo Statuto sia ostile alla religione cattolica, questa allo Statuto.

«Poiché di fatto, o signori, la maggioranza immensa della nazione è cattolica: dire alla maggioranza della nazione, o lasciar sospettare soltanto che la sua rei igione non possa conciliarsi collo Statuto, vede la Camera a quali conseguenze ne conduca. Per me non reputo certamente che sia questo né punto, né poco patrocinare le nostre libere istituzioni, qualora si tenti insinuare chele medesime sieno contrarie alla religione che la maggioranza del paese professa .

Costa Della Torre. Fondamento di pubblica, non meno che di privata morale, la Religione, o signori, non può, checché se ne dica, andar disgiunta dalle precipue cure di qualunque civile governo, che non voglia cadere in dissoluzione e rovina. Essa è d'interesse generale di ogni popolo congregato in civile società, non altrimenti che è d'interesse della società famigliare e dello stesso individuo.

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Quindi fu sempre studio principale e fondamentale di tutti i legislatori di appoggiare le loro leggi alla Religione come maestra di morale, senza il cui sussidio riconobbero sempre vana od inefficace ogni legge a qualunque ordine di cose essa volga; e questa è una necessità posta dall'Antere stesso della natura nel mondo, perché l'uomo nel Creatore solo riconoscesse e venerasse il fonte, il distributore e il conservatore d'ogni bene, d'ogni meglio.

«Sia dunque lode e gratitudine al Re Carlo Alberto, che, largendo al suo popolo, una legge statutaria, perché si conservasse, progredisse e migliorasse, l'ha fondata sul principio religioso professato dalla grandissima maggioranza della nazione, senza neanche dimenticar quello che nelle minime sue parti si fonda su diverse credenze, condannando per tal modo implicitamente il rovinoso sistema, che la Religione debba essere relegata nel puro e semplice giudizio, nel piro e semplice interesse dell'individuo».

Il deputato Polto. «il sentimento generale della nazione, il quale e quello che, non solo sospinge, ma forza anzi la legge a dare quei provvedimenti che gli sono più consenzienti, e che maggiormente lo appagano, niun dubbio è, o signori, che questo sentimento generale, se potesse matematicamente comprovarsi (ciò che non è, perché ciò che si sente non sempre si dimostra), l'insegnamento religioso non dovrebbe per certo mai andare disgiunto dall'insegnamento ufficiale, E per verità, quanti noi qui siamo padri di famiglia, ed io sono tra questi, la mano sul petto, desidereremmo noi che i nostri figliuoli acquistassero quelle cognizioni che sono utili bensì in ordine alle scienze, alle arti,, all'industria, ma non avessero poi quell'indirizzo interno morale e religioso, nel quale appunto si distingue il carattere del credente da quello del cittadino? lo francamente rispondo che nessuno di noi in sua coscienza rifiuterebbe l'insegnamento religioso, nissuno non lo vorrebbe».

III.

Iddio detesta e casHga il male, ma lo permette perché rientra nell'ordine della sua Provvidenza, e ne sa trarre il bene. Pereto è necessario che gli scandali avvengano, che le eresie insorgano, giacché da queste derivano sempre tragrandi vantaggi, le verità si chiariscono, le finzioni cessano, ed i ciechi aprono gli occhi e veggono. Si è questa la ragione per cui noi, deplorando gli scandali e Iti bestemmie proferite nella nostra Camera dei Deputati il 26 ed il 27 di gennaio, vogliamo tuttavia farne il nostro prò, raccogliendole ed offrendole agli Italiani come saggio di quella rigenerazione, che i libertini preparano alla nostra patria.

Italiani, che non godete le beatitudini del Piemonte, leggete e meditate queste pagine, e vi sarà manifesto che cosa i Borella, i Mellana, i Moja, i Valerio, ecc. , intendono sotto il nome di libertà. Essi vogliono spiantare dalle nostre contrade la fede cattolica. Sono divisi m tre drappelli, e tutti diretti contro il cattolicesimo. Il 1° drappello assale il dominio temporale del Papa ed il suo governo per togliere ti Capo della Chiesa quell'indipendenza che è tutta la sua vita. Il 2° drappello si fa patrocinatore delle dottrine protestanti, e vuole sostituire al principio d'autorità il fuoco fatuo del libero esame.

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Il 3° drappello, pi franco e più impudente, assale di fronte al cattolicismo, e non vuole né fede, né legge: oggi nega il Papa, e domani rinnegherà Iddio.

Nel numero precedente abbiamo visto l'intolleranza dei libertini contro i cattolici, l'odio che essi nutrono contro l'insegnamento religioso, ed in questo vogliamo raccontare come accordino il loro favore agli empi, e sieno tutt'affetto verso gli eretici.

Il deputato Mellana il 27 di gennaio volea che si sancisse per legge che nelle pubbliche scuole non si darebbe l'istruzione cattolica ai figli contro la volontà dei parenti. Vi sono in Piemonte molti e molti padri, che senza far contro il governo costituzionale raffazzonato alla piemontese, pura noi possono amare. S'è mai pensato a stabilire per legge che non si parlerebbe di politica italianissima ai figli contro la volontà dei parenti? No, per certo. Anzi, i parenti furono sempre costretti a fare il sacrifizio delle loro opinioni politiche, ed a mandare i propri figli nelle Università e nei collegi a ricevere le lezioni del professore Melegari. Perché dunque tanta libertà vuolsi accordare in fallo di religione, e così poca in punto di politica?

Eppure, il ministro dell'istruzione pubblica si adagiò subito alla pretesa del deputato Mellana. e lo credo (così egli) che non si possa assolutamente contestare questa proposizione dell'onorevole deputato Mellana. Non ai può violentare la volontà dei padri di famiglia per dare a loro controgenio un'istruzione religiosa ai loro figli; ma in tal caso essi ne assumono la risponsabilità. Questo l'ho già detto più volte, ed è quello che si è d'altronde praticato dal 1848 in qua. Se poi si vuole che sia inserito nella legge, io non ci ho difficoltà, giacché credo che non si possa assolutamente fare in modo diverso». (Atti Uff. del Parlamento, N° 39, pag. 150).

Che tenerezza pei padri empi 1 Ma perché non si manifesta eguale tenerezza pei padri anticostituzionali e pei padri cattolici? Perché volete obbligare i padrifamiglia a mettere nelle mani dei loro figli le famose antologie, dove si parla sempre d'odio ai pretesi tiranni, e di pretesi risorgimenti d'Italia? Perché, e questo è molto più importante, perché non accordate piena ed intiera libertà d'insegnamento, affinché un padre possa affidare cui vuole il proprio figliuolo, senza neppur mandarlo all'Università, basta che in fin dei conti sia in grado di dar prova del suo sufficiente sapere?

La ragione della tolleranza su di un punto, e dell'intolleranza sull'altro è chiara. Si amano i padri empi, e si vogliono proteggere con legge; «detestano i padri religiosi, e si cerca di tiranneggiarli. Basta non essere cattolico per ottenere il patrocinio di certi deputati, per ottenere da loro perfino un articolo di legge l

L'onorevole deputato della Motta osservava egregiamente al ministro della pubblica istruzione:

«Se un genitore di testa strana, mettendo il suo figlio in un convitto, non vorrà che partecipi all'educazione ed alle pratiche religiose dello stabilimento, sarà autorizzato a pretenderlo. Dunque ne verrà per conseguenza, che nei convitti ci saranno dei giovani, che se così piace ai loro genitori, non avranno veruna sorta d'istruzione religiosa. Ora domando io, se questo possa sancirsi in verun modo, e se possa nemmeno comporsi colla disciplina e buon ordine dei convitti, rispetto anche agli esami

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e diverse altre conseguenze? Per le scuole questa libertà la capirei possibile, mai pei convitti...».

E il ministro Lanza diceva e disdiceva nel medesimo tempo. Conciossiachè, messo alle strette dalla giusta osservazione del conte Della Motta gli rispondeva così:

«Quanto ai convitti, è impossibile di ammettervi giovani che rimangano destituiti di qualsiasi istruzione religiosa. Per la disciplina stessa dei convitti questo sarebbe impossibile. Quando fra gli allievi di un convitto vi fossero degli alunni, i quali non attendessero a veruna pratica del culto, i quali non ricevessero alcun insegnamento religioso, i quali non soffrissero che si potesse loro dirigere una parola, che riflettesse un principio di religione, io domando, se sarebbe possibile, che questi alunni potessero convivere cogli altri. Non sarebbe questo uno scandalo per tutti gli altri allievi, e un fomite continuo d'indisciplina? Io consento ben di buongrado, che in quanto agli esterni i. padri di famiglia, tuttavolta che vogliano assumersi l'educazione e l'istruzione religiosa dei loro figliuoli, la possono assumere liberamente; questo è il modo di rispettare la libertà di coscienza. ma non potrò mai [ammettere, che ciò si faccia a riguardo degli alunni interni, dei convittori» ( (Atti Uff. della Camera, N° 39, pag. 150).

A questa dichiarazione sorse il deputato Valerio, e parlò nei seguenti termini:

«L'onorevole deputato Mellana propone che sia tutelata la libertà dei padri di famiglia, che non vogliono che i loro figli sieno soggetti a quella istruzione religiosa che si vuoi rendere obbligatoria, non solamente nei presente, ma anche nell'avvenire, negli istituti del governo. Il sig. ministro accetta: il deputato Della Motta chiarisce quante contraddizioni tal cosa possa arrecare, ed il signor ministro viene a dire che i figli dei padri che non vorranno assoggettarsi all'insegnamento religioso ufficiale non saranno accettati. Bella libertà davvero che voi accordate ai padri di famiglia! Voi negate loro quella libertà che concedete agli ebrei ed ai protestanti. I protestanti e gli ebrei collocano i loro figli nei nostri convitti

Voci. No, no!

Berti. Sono ammessi alle scuole, non ai convitti,

Valerio. Come! non sono ammessi?

Lanza, ministro, Ma no, è viÉtato dalla legge.

«Valerio. Allora, Io dico altamente, bo vergogna per il mio paese che i protestanti e gli ebrei non sieno accolti nei convitti, che quei cittadini col loro danaro contribuiscono a mantenere, ed a cui han diritto di mandare i loro figli 1 Questo chiaro appalesa qual sia la libertà, l'eguaglianza civile che è nelle leggi vecchie, e che si vuole statuire in quelle che si preparano!

«lo affermo che cattolici, ebrei e protestanti hanno diritto di essere accettati nei collegi convitti, e di non venire assoggettati a quell'insegnamento religioso ufficiale, che volete rendere obbligatorio; perché accanto al collegio convitto sta la parrocchia, nel paese ove vi sono ebrei esiste la sinagoga, in quello ove vi sono famiglie protestanti v'è il loro tempio, e gli allievi possono quindi attingere l'educazione religiosa, come stimano i loro parenti, o nella parrocchia, o nel tempio protestante, o nella sinagoga». (Atti vffic. t loc. cit. )

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Or bene, voi vedete, che zelo, che tenerezza, che calore pei padri empi, per' gli eterodossi e pei loro figli! I a nostra libertà è questa: permettere ai buoni di diventar tristi, ai tristi di rendersi peggiori, e impedire che i cattolici rimangano cattolici, e possano rassodarsi nella loro fede, e professare liberamente il proprio culto! Si fa in Piemonte quotidianamente violenza agli onesti padri di famiglia, che sostengono un qualche impiego, e si obbligano a cooperare a certi fatti dalla Santa Sede solennemente riprovati, e nessuno de' libertini dice una parola nella Camera, affinché sia lasciata a questi la liberti di coscienza. E invece si sposano così caldamente le parti dei padri, che vorrebbero uccidere i loro figli, ucciderli nell'anima, che è la più grande scelleratezza, che si possa commetterei

Questa discussione, a nostro avviso, fu un insulto ai padrifamiglia subalpini, perché suppose che tra loro bì potessero trovare persone così empie e scellerate; fu una contraddizione tra la politica e la teologia de' nostri libertini; fu una prova in favore della libertà d'insegnamento; fu un assalto indiretto contro la religione cattolica.

BILANCIO TOSCANO

PEL 1857.

(Dell'Armonia, a. 25, del 31 gennaio 1851).

In Piemonte il conte di Cavour prima ci disse che le nostre finanze erano guati ristorate. E quel quasi durò due anni. Poi aggiunse che le finanze erano ristorate, e pareggiate le entrate colle spese. Ma avvertì che intendeva parlare delle spese ed entrato ordinarie. Finalmente presentò il suo famoso bilancio pel 1868) e trovammo che in quel bilancio pareggiato v'ha ancora un deficit di tre milioni di franchi. In Toscana il Monitore pubblicò il bilancio pel 1857, che è molto più semplice!

Entrate L. 38,048,500

Spese » 38,000,200

Dunque un avanzo di L. 48,300

UNA CURIOSA POLEMICA

TRA LA GAZZETTA UFFICIALE DI MILANO E LA GAZZETTA PIEMONTESE

NEL FEBBRAIO DEL 1857

La Gazzetta ufficiale di Milano nel suo N° 34 del 9 di febbraio 1857 pubblicava il seguente articolo ristampato dall' Armonia N° 34 dell'11 di febbraio dell'anno medesimo.

» Lo storico Botta descrive minutamente le pratiche mosse nel 1797 dal conte Balbo, ambasciatore a Parigi, e sostenute col molto danaro mandatogli doliti zecca o voltato a quella dita dai banchieri più ricchi di Torino, per entrare più facilmente di sotto al Direttorio di Francia, colla cui protezione e amicizia combattere l'Austria io Italia ed aggregare ai Piemonte la Lombardia. Queste piemontesi insinuazioni che tendevano

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(son parole del Botta), secondo il costume dei tempi, a spodestare altrui, erano attritissime. L'ambasciatore della Sardegna usava ogni opera a Parigi, e con ragioni forti e con mezzi più forti ancora delle ragioni, acciocché il trattato d'alleanza (conchiuso il dì 5 d'aprile dell'anno suddetto) si apprestasse per la ratificazione dal Direttorio ai Consigli, che finalmente lo autenticarono.

«A che crudeli espiazioni gli ambiziosi statisti d'allora serbassero i popoli di quella Corona, a quale catastrofe il Principe, l'atto di sua abdicazione 9 di dicembre 1798 sommariamente il dimostra. Piemontesi non sapeano più (afferma il Botta) né che cosa sperare, né che cosa temere, né che cosa desiderare, stanteehé i cambiamenti di dominio non producevano un cambiamento di fortuna. Maledicevano il destino che gli aveva fatti piccoli fra due grandi.

«La politica di sentimento non involge che un termine dell'idea infinitamente complessa, la quale, abbracciando ogni forma di reggimento, si denomina Stato. 1 politici della realtà, in ogni parte da prendere, consultano l'esperienza, alle cui norme risolvono le deliberazioni del presente, misurano le probabilità del futuro.

«Gli uomini del potere in Piemonte, rinnovando le prove dei loro antenati, non che avventurare il paese agli stessi ludibrii della fortuna, hanno contro di sé il fondamento d'ogni riuscibile impresa politica, la consonanza col genio dei tempi.

«I Priocca ed i Balbo pescavano allora nel torbido. La Francia repubblicana avea scosso le basi dei troni d'Europa, e scatenato il turbine della rivoluzione a invanente le menti dei popoli. Le effimere nostre repubbliche sappiamo qual frutto ne raccogliessero. Il 18 di brumaire la fece finita coi saturnali dell'anarchia; il 18 di maggio inaugurò il primo Impero francese. Col 2 di dicembre, rivendicando il trionfo dell'ordine, Napoleone III instaurava esso Impero, e, conoscitore sperimentato dei tempi, lo intitolò dalla pace.

«Il 30 di marzo suggellava una guerra, combattuta dallo stesso Piemonte, per difendere il debole dai sorprusi del forte. La pace conchiusa colla partecipazione dei ministri sardi a Parigi, consacrando il principio della inviolabilità dei trattati, è una minaccia, logicamente implicita, del concerto europeo contro chi s'arrischiasse d'infrangerli.

«In tale assetto di tranquillo avvenire dei governi e dei popoli, i periodici interpreti della politica subalpina, e gli uomini del potere che, complici o conniventi, la inspirano, snaturando i fatti e calunniando la fede degli occidentali, cavillano pretesti per eludere la coscienza pubblica, e simulare l'Inghilterra e la Francia ausiliarie alle mire d'ingrandimento della Sardegna. Prestano all'Occidente la maschera della loro doppiezza, e disuguali al cimento coll'Austria, ma ostinati a sfidarla, coonestano l'insufficienza delle armi loro coll'appoggio illusorio delle anglofrancesi.

«Il 30 di marzo rassodava a Parigi l'equilibrio europeo. L' enfant gaté della pace di Utrecht e del Congresso di Vienna, dopo di aversi augurato colla guerra d'Oriente novelle ampliazioni, non sa rassegnarsi al disinganno delle Conferenze parigine. Jl contegno della sua stampa e de' suoi statisti è dì una temerità incomparabile negli annali della diplomazia e del giornalismo.

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Ogni longanimità ha il suo confine. Se le delusioni della politica sarda all'uscire dell'ultimo secolo, o le recenti, non bastano ad insegnarle moderazione in tempo ancor utile, gioverà ricordarle, pronostico d'un avvenire possibile, l'ammonizione, che il Guicciardini raccolse dal senno pratico dell'antica Venezia, e Nelle cose degli Stati è somma infamia quando l'imprudenza è accompagnata dal danno. La penitenza di chi ti ha offeso sia tale esempio agli altri che non ardiscano provocarti».

La Gazzetta Piemontese non lasciò senza risposta quest'articolo, e così scriveva nel suo N° 36 dell'11 di febbraio 1857, in capo al giornale, e con caratteri straordinarii (Arm. 12 febbraio 1857, N° 35).

«La Gazzetta di Milano in parecchi articoli, che portano evidente impronta, ufficiale, prende a combattere con insolita acrimonia il Piemonte e gli uomini di Stato, che vi reggono il potere. Mettendo in campo i dubbi servizi resi dall'Austria alla causa dell'Occidente, ostentando la pretesa riconquistata amicizia dell'Inghilterra, contro a cui si scatenava, non è guari, come a fomite della rivoluzione europea, valendosi di argomenti tratti dalla nostra storia per di mostrare i pericoli ed i danni, che derivar possono al Piemonte da una cieca fiducia nell'alleanza francese, il foglio ufficiale austriaco rivolge al governo sardo rimproveri, contumelie e minacele con forme non solite ad impiegarsi da chi è considerato qual organo ordinario di un regolare governo.

«Senza voler impegnare colla Gazzetta di Milano una polemica, che sarebbe in certo modo fare scendere la diplomazia nell'arena del giornalismo, crediamo dovere alle sue provocazioni una breve ed unica risposta.

«Poiché il foglio austriaco ci ha tratti sul terreno della storia, invitandoci ad attingere da essa utili insegnamenti, accettiamo l'invito, e ne' fatti passati cercheremo la luce per rischiarar le vie dell'avvenire. Nel ricordar la catastrofe del 1797, la Gazzetta di Milano v con maligna e perfida allusione, assomigliando l'attuale governo napoleonico al corrotto regime direttoriale, ci addita i risultati che sortirono gli sforzi del Priocca e del Balbo per istringere un'alleanza colla Francia a danno dell'Austria. Giacché ricorda quei tempi, noi noteremo che questi più d'ogni altra cosa dimostrano i frutti delle alleanze austriache. Congiunto nel 1790 coll'Austria, il Piemonte profuse sulle Alpi tesori e soldati a prò d'un alleato, che, senza aver serbato mai le fatte promesse e gli assunti impegni, lo abbandonò, al primo rovescio, a sicura rovina. Le guerre della rivoluzione francese hanno insegnato all'Europa, ed al Piemonte in ispecie, ciò che valga l'amicizia austriaca. Non ha d'uopo lo scrittore ufficiale di ricordarcelo. Gli scarsi aiuti datici nei primi anni, la precipitosa ritirata dopo le battaglie di Montenotte e di Dego, i patti di Campoformio, i tentativi per impedire il ritorno della Gasa di Savoia ne' suoi Stati quando vennero riconquistati coll'aiuto principale delle armi russe, sono fatti che gli statisti del Piemonte non dimenticheranno mai.

«Ma perché ricorrere agli avvenimenti del secolo scorso? Assai più efficaci tornano gl'insegnamenti ricavati dai fatti accaduti sotto gli occhi nostri.

«La distruzione della repubblica di Cracovia, l'occupazione della città di Ferrara, l'arbitraria misura dei sequestri c'insegnano qual sia il rispetto dell'Austria per i trattati, quale il suo interesse per la causa dei deboli minacciati dai forti.

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«Gli eventi dell'ultima guerra ci somministrano materia a più serie considerazioni. Dalla condotta dell'Austria verso la Russia, a cui va debitrice della propria esistenza, ben si può argomentare come essa intenda la riconoscenza, e qual prò si ricavi dal renderle i più segnalati servizii.

«Il lungo suo esitare fra le parti contendenti, e la posizione militare da essa presa per potere a seconda degli eventi rivolgere le sue armi contro l'una parte o l'altra, mentre furono cagione che la lotta diventasse più lunga e più sanguinosa, posero anche in chiaro il suo vantato amore per la causa della giustizia.

«Quali risultati debbansi attendere i governi europei da una politica proclive a seguire i consigli del gabinetto di Vienna, ed a subirne l'azione, lo dimostrano le presenti condizioni di parecchi Stati d'Italia. L'Europa oramai edotta su questo argomento potrà giudicare, se male o bene abbia operato il Piemonte battendo una via affatto opposta a quella seguita dalle altre italiane provincie.

«Illuminati dalle lezioni della storia del passato e del presente secolo, dagli antichi e dai nuovi esempi, gli statisti, a cui la Gazzetta di Milano rivolge le amare sue parole, sono decisi a proseguire nella via intrapresa.

«Reggitori di uno Stato italiano, essi sanno che loro incombe il dovere, come spetta loro il diritto, di promuovere con ogni onesto mezzo il bene d'Italia. Da questo proponimento non li distoglieranno né le ingiurie, aè le minaccio che scagliano contro di essi i fogli ufficiali d'oltre Ticino. Fidenti non nella longanimità dell'Austria, ma nella lealtà delle loro intenzioni, e nella giustizia dei mezzi da essi impiegati; appoggiati all'amicizia dei loro alleati, alla simpatia dell'Europa intiera: essi non si lasceranno smuovere da comminati pericoli, che saprebbero, all'occorrenza, affrontare con animo risoluto, e convinti ohe oramai non dal solo numero dei soldati, o dall'estensione dei territorii, dipende l'esito delle lotte impegnate a nome dei grandi principii della civiltà e della giustizia».

LE LODI DI FERDINANDO II

RE DI NAPOLI

DETTE NEL PARLAMENTO INGLESE IL 3 FEBBRAIO DEL 1857.

(Dall'Armonia, n. 35 e 36, dell'11 e 12 febbraio 1857).

I.

Quest'oggi le lodi di Ferdinando II l 'intrepido (tale è il nome che gli riserva la storia spassionata e verìdica!) non le canteremo noi, ma le sentiremo cantare in Inghilterra, in Londra, nel Parlamento inglese dai membri della Camera dei Lordi e dei Comuni. Le canteranno il conte Derby, lord John Russe!, sir Gladstone, il signor d'Israeli e Milner-Gibson. Ascoltiamoli, Lord Derby parlò in questa sentenza alla Camera dei Lordi il 3 di febbraio: «Noi avevamo fatto al Piemonte promesse, che ci era impossibile di mantenere, e per uscire da questa difficoltà ci siamo imbarcati in una politica d'intervento, e sotto il pretesto di conservare la pace dell'Europa,

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noi abbiamo elevato la pretesa d'immischiarci nel governo interno del regno delle Due Sicilie». Sostiamo un momento.

Secondo queste parole di lord Derby, l'Inghilterra ha mostrato la luna nel pozzo al semplicissimo Piemonte, e dopo d'essersi preso giuoco del fatto suo, voleva giuocare il Re di Napoli. Ma Ferdinando II sto bene in sugli avvisi, e non si lasciò corbellare. Ed ecco qui la prima lode che gli tocca; di non essersi cioè fidato di lord Palmerston, né lasciato gabbare dalla politica inglese.

«Voi dite, soggiungeva lord Derby, che la condizione del regno delle Due Sicilie era un pericolo, ima minaccia per la tranquillità generale novellamente stabilita. Ma io sarei curioso di vedere il nobile lord, che rappresenta qui il governo di Sua Maestà, sorgere e dire seriamente a quest'assemblea, che i suoi colleghi e lui hanno paventato per un momento solo, che la condotta seguita dal Re di Napoli riguardo ai suoi sudditi potesse arrecare il benché menomo disturbo alla pace d'Europa... Non era questo che un pretesto, e un pretesto senza alcun fondamento».

Ed i gabbiani si lasciarono accalappiare e bevettero grosso, stimando proprio che i politici inglesi dicessero quello che sentivano. Ma il Re di Napoli si ricordò che la politica era l'arte di mentire il proprio pensiero per mezzo della parola, e sventò i pretesti e lo cabale altrui. Lode adunque a quel Re che dimostrò molta saviezza e perfetta conoscenza dei diplomatici e delle arti della diplomazia.

«Voi non siete intervenuti negli affari di Napoli, continuò lord Derby, che per obbedire alla necessità di rimanere fedeli a certe dichiarazioni che avevate anteriormente fatte, e sospinti nel medesimo tempo da quella infelice mania d'intervento, da cui il nobile Visconte che sta alla testa del governo trovasi così potentemente posseduto».

E il re di Napoli fu uno dei pochi che coraggiosamente resistettero all' infelice mania di lord Palmerston, e mentre questi erasi Osso in capo di voler ad ogni costo comandare nel regno delle Due Sicilie, quegli si ostinò a voler solo governare in casa propria. Avea ragione, e fé benissimo.

Avea ragione, e lo dimostrò lord Derby, dicendo ai ministri inglesi: «Se taluno dei sudditi della Regina avesse avuto a lagnarsi degli atti del governo di Napoli, o di qualche altro governo d'Italia, il vostro dovere era d'intervenire e di difenderlo. Ma, quanto a ciò che avviene tra un sovrano ed i suoi proprii sudditi, io dico, che secondo tutte le regole del diritto internazionale qualche rappresentanza è tutto ciò che possa essere permesso. E rompere ogni relazione amichevole con un sovrano per la sola ragione ch'egli rifiuta di accettare i vostri consigli relativi all'amministrazione del suo regno, è una condotta che non, può essere difesa da chiunque abbia la menoma conoscenza dei principii di diritto internazionale».

I ministri inglesi pretendevano di violare il codice delle nazioni, ed il Re di Napoli coraggiosamente si oppose a questa violazione. Egli resisté ai potenti, e con ciò non solo sostenne la causa sua, ma la causa di tutti i Principi italiani, la causa di tutti i deboli. Lode al Re di Napoli, a! difensore del diritto internazionale!

«Io penso, conchiuse lord Derby, che l'intervento dei ministri di S. M. a Napoli

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fu indegno della politica del nostro paese, ed io credo che questo affare, incominciato con un assalto ingiusto, si terminerà con una conclusione senza onore».

E viceversa possiamo dir noi, che la condotta del Re di Napoli fu degnissima d'un Principe italiano che vuole l'indipendenza propria, la dignità del proprio governo, l'autonomia del suo regno e la sua resistenza, incominciata tra l'universale ammirazione, si terminerà tra generali e vivissimi applausi.

Beniamino d'Israeli fé nella Camera dei Comuni eguali elogi al Re di Napoli lo stesso giorno del 3 di febbraio. Egli disse così: e Ila come possiamo noi spiegare la condotta del primo ministro quando domandava l'anno passato l'appoggio della parte liberale in ragione delle sue simpatie per l'Italia? Conseguenza della sua politica fu un aggravarsi di tutti i mali onde si lagnano gli Italiani. V'ebbero orribili assassina e tentativi d'insurrezione intanto che il Re di Napoli si rideva delle nostre minaccio».

Questo, ripetiamo, è un grande elogio a Ferdinando II. Imperocché se la politica di lord Palmerston riuscì infesta agli Italiani, per la ragione dei contrarii dovette tornar loro vantaggiosissima la politica del Re di Napoli diametralmente opposta alla prima. Laonde questi fu tanto benemerito della Penisola, quanto quegli se le dimostrò nemico.

«Il ministero, proseguì d'Israeli, ha minacciato il Re di Napoli. E quale ne fu il resultato? Il Re di Napoli si rise delle nostre minacele».

Se il Piemonte fosse una volta sola minacciato dall'Inghilterra, avrebbe il coraggio di resistere e riderle in faccia? Oh no per fermo, e ben lo vedemmo quando ci venne imposto di prendere parte alla guerra d'Oriente. Allora chinammo il capo e cedemmo. Noi liberi, siamo legati agli Inglesi, e il Re di Napoli non si volle lasciar legare per verun conto. Lode al Re di Napoli!

Conoscete, o lettori, sir Gladstone? E chi noi conosce? E' egli colui che gettò la prima pietra contro il Re di Napoli nelle sue lettere a lord Aberdeen. Ebbene sir Gladstone ha dovuto ammirare la fermezza di Ferdinando II, e riconoscere che l'Inghilterra era dalla parte del torto.

Nella tornata della Camera dei Comuni del 3 di febbraio sir Gladstone si espresse cosi: «Durante gli ultimi sei mesi, noi siamo stati continuamente in lite. È strano, che, quando lord Palmerston trovasi alla testa degli affari, noi abbiamo dieci volte più di liti che negli altri tempi. Incominciamo sempre dal menare molto scalpore, e dal mettere innanzi grandissime pretese, e terminiamo in ultimo col cadere sottosopra d'accordo colle pretese dei nostri avversarii».

Questo bel frutto, che raccoglie l'Inghilterra della politica di lord Palmerston, era già stato indicato fin dal 1861 dal Time$ il quale dicea: «La sua politica ha lasciato l'Inghilterra senza pure un alleato, e forte sena un solo amico in Europa». Il 3 di febbraio del 1857 ripeté la sentenza, oltre tir Gladstone, anche lord Derby nell'Alta Camera, dicendo: e lo credo sinceramente, e me ne duole, che la politica seguita in questi ultimi tempi abbia tolto al nostro paese ogni amicizia, meno quella della Francia». E mentre la condotta di lord Palmerston indispettiva contro l'Inghilterra, quella del Re di Napoli acquistatagli sempre più un maggior numero di amici.

Sir Gladstone dichiarava:

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«lo non so comprendere con quale diritto i plenipotenziarii si sieno occupati nelle conferenze della condizione interna d'un paese che non vi era rappresentato». E con ciò dava ragione al Re di Napoli, che non volle piegare alle pretese straniere.

E per verità, notate quale enorme contraddizione! Si critica il governo napoletano pel modo che tiene nell'amministrazione della giustizia, e nel medesimo tempo si commette in suo danno un'ingiustizia infinitamente maggiore. Il Re di Napoli quando vuoi condannare taluno, lo chiama in giudizio, gli gira un processo, ne ascolta le difese. Invece nelle Conferenze di Parigi venne accusato e condannato il governo partenopeo senza citazione, senza processo, senza avvocato difensore! Che cosa si direbbe se un tale metodo fosse stato applicato ad un semplice individuo? E che cosa dovremo dire vedendolo applicato ad un governo, che merita maggiori riguardi dell'individuo?

Questo possiamo affermare francamente che i plenipotenziarii di Francia e d'Inghilterra commisero una flagrante ingiustizia, e che il Re di Napoli ha dato loro una buonissima lezione, ed ebbero la sorte de' pifferi della montagna, che andaron per suonare e furono suonati.

Ci resta ancora a parlare dei discorsi di lord Russali e di Milner-Gibeoo, e ne parleremo in un secondo articolo.

II.

Sir J. Ramsden, facendo nella Camera dei Comuni il 3 di febbraio la mozione d'un indirizzo in risposta al discorso del Trono, disse: € Quanto alla Sicilia, da ciò che la Monarchia di Napoli sia debole, non ne segue che essa non presenti un'importante questione». Noi aggiungeremo che la questione napoletana è appunto importante per la debolezza del Monarca che sta da una parte, e la forza delle Potenze che gli mossero querela. La sua importanza è grandissima anche per noi, perché tardi o tosto potrebbe venire la nostra volta, e al Piemonte essere intimato di mutare registro. Basterebbe un cambiamento di Ministero in Inghilterra, e una politica più spiccata in Francia. E i ministeri e le politiche si variano a' nostri giorni cosi facilmente!

Laonde noi stimiamo di fare un'opera buona pigliando le difese del Re di Napoli, e celebrando un Principe che in tanta prostrazione d'animi e servilità di persone sa resistere e difendere il diritto.

Ma i deputati d'Inghilterra ci furarono le mosse, ed essi prima di noi recitarono il panegirico di re Ferdinando; così che non ci resta altro da fare, che raccogliere le loro sentenze con qualche parola di commento a suo luogo. E questo abbiamo già fatto nel numero precedente, e ci accingiamo oggidì a compir l'opera, senza curarci delle strìdule cicale.

Il sig. Milner Gibson trovò che l'Inghilterra non avea indirizzato al Re di Napoli quelle rimostranze che era in diritto di porgergli, «e che la risposta fu quale il Re avea diritto di farla, la causa dell'umanità e della libertà, egli disse, sarebbe meglio servita astenendosi completamente dallo spedire richiami simili a quelli che vennero presentati».

Dunque noi abbiamo dal canto del Re di Napoli un sovrano che si prevale di un suo diritto, che rispetta l'Inghilterra, e pretende a ragione di essere rispettato, che non s'intromette nel regno della Gran Bretagna,

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e non vuole che gli Inglesi s'intromettano nel regno delle Due Sicilie. Viceversa abbiamo il ministero britannico che col nome della libertà e dell'umanità in bocca offende l'umanità e la libertà. Così almeno la pensa Milner-Gibson.

Il quale accennando a' suoi prosieguo: «Noi non interveniamo che per tradire, noi non facciamo promesse che per mancare alla nostra parola». Gravissima sentenza non già scritta su di un giornale, ma pronunziata in un Parlamento! Ora il Re di Napoli potea egli permettere ne' suoi Stati l'intervento di coloro che non intervengono se non per tradirei Non fé' bene, egregiamente a respingerlo con tutte le sue forze? Non rese un segnalato servizio al suo Stato?

Oh si, ripiglia lord John Russell: «Il Re di Napoli ha creduto che fra due pericoli la migliore risoluzione fosse quella di rigettare le fattegli proposte, ed io debbo soggiungere che molte persone, le quali non avevano avuto considerazione per re Ferdinando, lo stimarono dappoi per la fermezza da lui dimostrata in simili circostanze».

La Gazzetta Piemontese che ha riferito un brano del discorso di lord John Russell, si guardò ben bene dal ridire ai Piemontesi queste parole, come anche le precedenti dove il lord inglese dichiara, che se Francia ed Inghilterra non avessero voluto fare un solennissimo fiasco, avrebbero dovuto andar d'accordo col l'Austria.

Lord John Russell tributò elogi all'animo conciliatore del Re di Napoli, e sostenne che se fé due grandi Potenze avessero preso altra via e dato consigli veramente amichevoli, il Re avrebbe immediatamente acconsentito perché il suo onore era salvo. Invece col metodo che tennero, col mezzo termine che adottarono, lasciarono al Re ogni possibilità di rifiuto, e per soprappiù gli offerirono il destro di farne un argomento di onore e di orgoglio.

Ognun vede da sé quanta lode si racchiuda in queste parole. Se noi le sommeremo con quelle dette da Milner-Gibeon, da sir Gladstone, da lord Derby, e dal sig. d'Israeli, ne avremo il più stupendo panegirico che possa intessersi ad un sovrano. Ne avremo che il Re di Napoli non è cocciuto nelle sue idee, né festereccio, ma solo zelante del proprio onore e della propria indipendenza; ch'egli, perfetto conoscitore degli uomini e delle cose, non si lasciò accalappiare da futili pretesti'; che guardò in faccia i proprii nemici, e li umiliò col suo coraggio; che sorse difensore del diritto nazionale, mentre si cercava di stracciarne il codice; che fu benemerito del suo popolo, opponendosi all'intervento di coloro che intervengono per tradire.

Simili confessioni dovrebbero produrre due effetti; primo mortificare un po' gli Italianissimi, e mandarli ad imparare l'indipendenza, l'onoratezza, l'amor patrio, il sentimento italiano dal Re di Napoli; dipoi indurre l'Inghilterra «mettere le pive in sacco, a lasciar da parte l'Italia, e pensare a se stessa.

L'Inghilterra ha da pensare al proprio popolo che muore di fame, ed alle sue imposte che scorticano i contribuenti. Frotte di operai (150 mila!) traversano di questi giorni le vie di Londra gridando: All out of work; tutti senza lavoro.

I Napoletani saranno, se volete, senza libertà, ma hanno pane; mentre il popolo inglese non ha pane, e senza pane la libertà è una ciancia.


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I MINISTRI, I CIARLATANI

(Dall'Armonia, n. 49,18 febbraio 1857)

La Camera dei Deputati, nella tornata del 25 di febbraio, trattò dei tre punti apposti per titolo ai presente articolo. Dalla relazione ufficiale, N° 101, pagine 884, 385, rileviamo che in quella tornata il deputato Polto ci disse, che il ciarlatanismo in Torino si è fatto all'ordine del giorno; il deputato Revel ci raccontò come i ministri propongano i loro disegni di legge, come dovrebbero proporli; e il conte di Cavour c'intrattenne de' fatti suoi come giornalista, dichiarando come si regolerebbe qualora dal portafoglio. dovesse ritornare al giornale. Il lettore sarà curioso d'avere su questi tre temi qualche citazione, e noi ci affrettiamo a. compiacerlo. E incominciamo dai ciarlatani.

I preti trovano nella nostra Camera pochissimi amici; ma i farmacisti ne rinvennero in buon numero. E non ce ne duole; anzi ci piace, che la causa della giustizia sia caldamente sostenuta; giacché questa è la medesima, qualunque sia la classe dei cittadini che protegge. Tra i difensori dei farmacisti fuvvi il deputato Polto, il quale, rispondendo a chi avea toccato dei larghi guadagni degli speziali, entrò a parlare così:

«Del resto, quali possono essere poi questi tanti guadagni, che possono fare ancora i farmacisti in un paese, in una città come la nostra, dove il ciarlatanesimo si è fatto all'ordine del giorno? (Ilarità). Dove si vendono le pillole e le tavolette dai droghieri, dai confettieri e dai liquoristi? [Nuova ilarità). Dove mi tutti gli angoli della città si vedono e si espongono affissi per rimedi, specifici per tutti i mali? Ma come potete voi ancor credere che, a fronte di questa immensa e libera concorrenza, che si fa tuttogiorno sotto gli occhi del governo, possano ancora i farmacisti realizzare questi immensi beneficii?

«Dirò di più: il giornalismo stesso si presta, e persino la Gazzetta uffiziale, a far concorrenza agli speziali ( nuove ma); e poiché l'onorevole signor presidente del Consiglio si ride di questo, io gli dirò che, anche il suo figlio primogenito, il Risorgimento, fin dalle prime sue comparse coadiuvava la concorrenza fatale. (Ilarità generale e applausi dalle tribune).

«Io sono dolente di dover accennare a tutte queste particolarità [in questo recioto le quali d'altronde mi piace che eccitino un po' d'ilarità; ma doveva accennarle appunto perché non bisognava che passassero inosservate le parole del presidente del Consiglio, il quale diceva l'altro giorno che i signori farina cisti facevano dei lauti guadagni, e che era giustizia che venissero tassati, lo allora ho pensato all'espressione del deputato Sineo, cioè che le parole che partono da quel banco non sono tutt'ero d'orpello; e queste osservazioni che ho fatto sono osservazioni di esperienza, di pratica e di buon senso, le quali Ilo creduto appunto dovere addurre in seguito al principio emesso dal presidente del Consiglio. nell'ultima tornata, e da cui io inaugurava il mio dire».

Noi non sapremmo quale ampiezza il deputato Folto abbia inteso di dare alla sua sentenza, che in Torino il ciarlatanismo si è fatto all'ordine del giorno! Supponendo ch'egli non abbia voluto uscire dalla cerchia della medicina,

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noteremo come la mortalità sia tra noi aumentata in proporzione della moltiplici là dei rimedi, delle pillole e delle tavolette! Il conte di Cavour rise dell'osservazione del deputato Pollo, ma forse non è tale da prendersi a gabbo. La povera gente viene tra noi squattrinata dai ciarlatani, tra' quali tengono il primo luogo i magnetizzatori, e converrebbe apporci un qualche rimedio.

Il nostro presidente del ministero die la seguente risposta al deputato Polto:.

«Poiché ho la parola, debbo rispondere alle allusioni ed alla interpellanza dell'onorevole deputato Pollo, alla quale avrei dovuto immediatamente replicare chiedendo la parola per un fatto personale. (Si ride). Egli mi ba fatto due gravi appunti: il primo, di avere esagerato i guadagni dei farmacisti; il secondo, di avere cooperato e di cooperare tuttora ad assottigliare loro questi profitti, tollerando che nei fogli pubblici vengano annunciate le vendite di rimedii, nella efficacia dei quali esso non ba maggior fede, che alcuni da' suoi colleghi avevano nei rimedii che vantava l'altro giorno l'onorevole suo collega il deputato Demaria. (Viva ilarità).

« Polto (interrompendo). Non ne ho fatto colpa a questo, perché farei colpa..... alla libertà della stampa; bisogna rettificare le espressioni.... io non mi sono... espresso in questo modo..... (Interruzioni).

«Presidente del Consiglio (ridendo). Ha detto che ha cooperato non solo come ministro, ma come giornalista

«Polto. Dissi che In concorrenza ai farmacisti era anche coadiuvata dai giornali, e che fra questi ci era l'antico Risorgimento.

«Presidente del Consiglio. Ha invocato penino dinanzi a me l'ombra del l'antico Risorgimento. (Ilarità).

«lo ricordo con soddisfazione e compiacenza i tempi nei quali dirigevo quel giornale; ho Incontrato allora molte risponsabilità, e forse, se io facessi il mio esame di coscienza come giornalista, dovrei riconoscere d'avere, come tutti i giornalisti, commesse delle imprudenze, e qualche volta, involontariamente, fors'anche delle ingiustizie; ma, a dir vero, pensando seriamente alle ricette (ilarità), pubblicate nella quarta pagina del Risorgimento, io non mi sento rimordere la coscienza né punto, né poco (nuova ilarità); e se mai il caso facesse che io ritornassi nelle file dei combattenti nella stampa periodica, dichiaro che avrei una grande tolleranza per gli annunzii d'ogni genere di rimedii e di ricette».

Il conte di Cavour vuoi dunque la libertà degli empiastri, la libertà dei ciarlatani, la libertà de!le ricette, tutte le libertà trovano difensori nei nostri ministri, e difensori tanto più caldi, quanto le libertà sono più balzane e pericolose. Sola a chierici è negata la libertà del pulpito, la libertà del confessionale, la libertà di dirigere il culto divino!

L'onorevole presidente del ministero, facendo il suo esame di coscienza come giornalista, ha riconosciuto d'avere commesso qualche imprudenza, forse tinche delle ingiustizie. In che cosa teme il conte di Cavour d'essere stato ingiusto quando scriveva il Risorgimento! Forse nel combattere il ministero di Novara? Nel dare addosso ai Boffia, ai Rattazzi, ai Cadorna, a cui presentemente stringe la roano?

Questi però sono pettegolezzi. Veniamo al punto maggiore l'importanza,

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che è il metodo tenuto dai ministri nel proporre i loro disegni di legge. Essi dicono ai deputati: votate, e non danno ai medesimi gli schiarimenti neoessarii per emettere un voto secondo coscienza. Si tratta presentemente di approvare una legge che riuscirà d'aggravio al governo, d'aggravio ai contribuenti, e si cammina al buio, e non si conoscono le conseguenze di quello che si discute. Sta per votarsi una legge, e gli uni dicono che importerà un peso di quattro milioni, e gli altri soggiungono che saranno invece sei milioni, ed i terzi ripigliano che saranno otto milioni, ed i quarti perfino aggiungono che si tratterà d'una spesa di dieci milioni. Nessuno ne sa il netto, mancano gli stati, mancano i documenti, e si discute da dieci giorni! Lo sconcio è gravissimo, e così lo rivelò il deputato Revel:

«Signori, in questa discussione che dura da tanti giorni, e che con qualche punto di ragione l'onorevole presidente del Consiglio ha accennato in una delle antecedenti tornate che dovesse essere spinta con maggior alacrità, noi, convien dirlo, camminiamo a tentoni.

«La legge ha due scopi: l'uno morale e, direi, politico, che è quello di dare la libertà all'esercizio di parecchie professioni che ora sono privilegiate; l'altro è economico sotto doppio aspetto, vale a dire della spesa che il governo incontra nel liquidare queste piazze, e del vantaggio die ritrarrà dal sottoporle al pagamento del diritto di patente.

«Quanto allo scopo morale politico, la è una questione di apprezzamento, sulla quale ognuno può farsi un criterio, e dire se convenga o no che l'esercizio di queste professioni sia o non libero: ma quanto alla quistione economica finanziaria, io non veggo che noi abbiamo mezzi sufficienti per potercene fare un'idea.

«Io ho però inteso su questo punto taluni accennare che il risultato di quest'operazione sarà un peso al governo di quattro milioni, di sei, di otto, e vi è persino chi lo porta a dieci milioni: ma intanto sappiamo noi realmente qual gravame andiamo ad incontrare? No, certamente. E potevamo saperlo? Sì, signori, noi potevamo saperlo, se il ministro della giustizia, che ha iniziata questa proposta di legge, fosse andato un po' più d'accordo con quello delle finanze, che ne doveva subire le conseguenze.

«Io credo, o signori, che sarebbe stato agevolissimo il fare la Camera ed il paese capaci della portata economica di questa legge. Il governo conosce il numero dei professionisti, le cui piazze si tratta di liquidare; esso doveva unire al progetto di legge uno stato, in una colonna del quale si dicesse: vi sono tanti procuratori presso il tribunale A, tanti presso il tribunale B, e così di seguito pei liquidatori, pei farmacisti, pei venditori di robe vive, in sostanza per tutti i provvisti di piazze: in un'altra colonna doveva indicarci quale è il prèzzo che è stato originariamente pagato per ciascuna di queste piazze; e da quanto ci viene via via dicendo l'onorevole commissario regio, noi vediamo che questi documenti erano nelle mani del governo; in un'altra colonna doveva additare quale sarebbe stata la somma che, secondo la proposta ministeriale, si sarebbe conceduta a titolo di liquidazione a questi varii professionisti: in una quarta colonna esso doveva accennare quale è il prezzo corrente attualmente di queste piazze, prezzo che poteva desumere dagli ufficii d'insinuazione nella guisa stessa

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che ha desunto quello delle farmacie di Torino; finalmente avrebbe potuto ancora in una quinta colonna palesare i pesi che gravitano su queste piazze; ed in una sesta avrebbe dovuto indicare quale era il provento che egli si proponeva di ricavare dalla tassa patenti applicata a tutti questi professionisti.

«Così avremmo veduto qual carico dalla proposta del ministero veniva adsato alle finanze, e per conseguenza calcolare gli effetti degli aumenti e delle diminuzioni che la Camera portasse a quella proposta; avremmo veduto qual capitale rappresentasse la liquidazione di queste piazze, e confrontandolo colla rendita al cinque per cento che essa ci costava, avremmo potuto giudicare del benefizio che lo Stato sarà per ritrame. Allora la Camera avrebbe veramente saputo fin dove andare, dove arrestarsi; invece ora si discute più o meno sottilmente, si vaga sulla materia, ma in ultima analisi non sappiamo quale effetto pratico avrà questa legge».

Il conte di Cavour si lagna spesso della lunghezza della discussione, e teme che il paese ne patisca scandalo. Il paese, signor Presidente del ministero, si scandalizza, ed a ragione, che i progetti di legge sieno dati da preparare agli avvocati diciottenni, con una mesata di L. 250; il paese si scandalizza che i progetti di legge sieno presentati alla Camera senza gli opportuni schiarimenti; il paese si scandalizza che vogliano obbligarsi i deputati a giuocare a mosca cieca, e a decidere al buio dei milioni dei contribuenti; il paese si scandalizza che dopo dieci tornate spese dalla Camera intorno ad una legge, un deputato sia costretto ad alzarsi per insegnare ai ministri come si debbano proporre le leggi al Parlamento !








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