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Giuseppe_Butta_Un_viaggio_da_Boccadifalco_a_Gaeta

A MIA SORELLA ANNETTA

Altri dedicano le opere dell'ingegno a' grandi della terra: io dedico a te questo mio libretto qualunque siasi. Tu avendomi sempre amato saprai più di tutti compatirmi.

In queste Memorie nulla troverai di nuovo ch'io non ti abbia raccontato e che tu non abbia ascoltato con grande interesse.

Tu vedesti le catastrofi di Monreale e di Palermo, e sei stata tu pure una delle vittime della rivoluzione. Leggendo queste pagine, in più luoghi, anche tu potresti esclamare col poeta Mantovano: Quaequae ipsa miserrima vidi.

Accogli, diletta sorella, questa mia dedica: essa è un pubblico attestato di quell'affetto che ha sempre nutrito per te

Il tuo aff.mo fratello Giuseppe Buttà

Napoli, Maggio del 1875


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Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta (Giuseppe Buttà) - 2^ parte
Dedica 17
Prefazione 19
EPOCA la DELLE BANDE SICILIANE CAPITOLO I 23
Rivolta siciliana e sua repressione - SECONDA EPOCA DELLA RIVOLUZIONE I GARIBALDINI - CAPITOLO II 31
Sbarco dei Mille a Marsala Battaglia di Calatafimi inseguimento di Garibaldi entrata al Pioppo e in Parco - CAPITOLO III 37
Arrivo alla Piana de' Greci incontro con Annetta - CAPITOLO IV 41
Garibaldi al Trivio della Ficuzza divisione della truppa garibaldina Meckel insegue Orsini a Corleone - CAPITOLO V 45
Garibaldi entra a Palermo e si proclama Dittatore atteggiamento ambiguo del Generale Lanza - CAPITOLO VI 54
L'armistizio e le sue conseguenze l'esercito abbandona Palermo - CAPITOLO VII 59
Prime diserzioni Lanza è sottoposto a un Consiglio di Guerra Buttà si imbarca verso Messina - CAPITOLO VIII 65
In Sicilia divampa la rivoluzione primi decreti di Garibaldi Francesco II concede la Costituzione il colonnello Bosco a Milazzo -CAPITOLO IX 74
Diserzione della fregata Veloce Battaglia di Milazzo Buttà catturato dai garibaldini sua fuga - CAPITOLO X 86
Bosco è rinchiuso nella Fortezza con le sue truppe Clary gli ordina di capitolare giudizio sul generale Clary - CAPITOLO XI 93
Capitolazione di Milazzo Buttà incontra Garibaldi il governo garibaldino in Sicilia Buttà si imbarca per Napoli - CAPITOLO XII 105
Arrivo a Napoli Don Liborio si allea con la Camorra anarchia nella Capitale - CAPITOLO XIII 113
Garibaldi prepara lo sbarco in Calabria tradimento di Alessandro Nunziante - CAPITOLO XIV 120
Funerali di Guglielmo Pepe gli zii del Re cospirano contro di lui rissa tra soldati napoletani e piemontesi - CAPITOLO XV 125
Comportamento dei generali inviati in Calabria - CAPITOLO XVI 129
Garibaldi sbarca in Calabria - CAPITOLO XVII 136
Reggio è presa a tradimento - CAPITOLO XVIII 143
Tradimento dei Generali in Calabria - CAPITOLO XIX 151
Il Generale Briganti è ucciso dai propri soldati il generale Ghio consegna le proprie truppe le camicie rosse entrano a Cosenza - CAPITOLO XX 157
Reazioni politiche a Napoli l'atteggiamento del Conte di Siracusa - CAPITOLO XXI 164
Il Regno nel caos, tra rivoluzione e reazione - CAPITOLO XXII 172
Il Re lascia Napoli tradimenti nella flotta l'esercito è spostato da Salerno al Volturno - CAPITOLO XXIII 181
L'esercito è riorganizzato a Capua proclama di Francesco II reazioni nel Regno e nell'esercito - CAPITOLO XXIV 192


PREFAZIONE

Essendomi trovato diverse fiate a ragionare de' fatti maravigliosi di Garibaldi, compiti nel Regno delle Due Sicilie, ho notate moltissime inesattezze ne' racconti militari, che s'odono ripetere da coloro che si credono saperli assai meglio degli altri. Ho letto storie, memorie, articoli di giornali, scritti da Garibaldini e da Borbonici; ed ho trovato sempre le stesse inesattezze e menzogne. I miei amici conoscendo che fui testimone oculare di quasi tutte le vicende guerriere di que' tempi di rivoluzione e di invasione straniera, mi han consigliato a scrivere ciò che vidi, osservai ed intesi da persone degne di fede, di quella disastrosa campagna, che durò dal 3 aprile 1860 al 13 febbraio 1861.

Io non iscrivo queste memorie per la vanità di parlar di me; sono un uomo oscuro, e tale desidero rimanermi. Solamente io voglio di buon animo acconsentire alle premure insistenti degli amici, perché non paia scortese. Però, badi il lettore, il mio stile non sarà elegante, né forbito, e di ciò lo prego di compatirmi: tenga conto solamente dei fatti che racconto.

Quali si siano i miei antecedenti ed i miei principii politici, in queste memorie m'ingegnerò di scrivere senza passioni, le quali dopo circa tre lustri si sono ammansite notabilmente, in me soprattutto.

Io non entrerò nella vita privata di quei personaggi ch'ebbero parte alle vicende guerresche e civili di que' tempi, ma ragionerò schietto e franco sulla vita pubblica de' medesimi. Chiamerò le cose e le persone col proprio nome, non risparmierò quelle qualità che meritino lode e biasimo. E se altri poco accorto si lagnerà, sarò pronto a giustificare pubblicamente quello che io dico ed affermo, ed aggiungendo pure quello che ora taccio per prudenza, non essendo necessario alla Storia. Io non perdonerò ad amici né a nemici; né vorrò contenermi anche di sacrificare la più cara amicizia, ch'io mi abbia, affinchè di quello, chiunque sia, ond'io tolgo a ragionare, e i presenti e i posteri conoscano, non meno che le virtù, i vizi ed i difetti. Massimamente trattandosi della caduta di uno de' più antichi troni dell'Europa, la quale produsse così notabile cangiamento nella vita de' popoli.


Divido queste memorie in tre epoche distinte. 

1a Epoca, delle squadre o sia bande Siciliane. 2a Epoca, de' garibaldini. 3a Epoca, dell'invasione piemontese.



EPOCA DELLE BANDE SICILIANE

Da Boccadifalco a Carini

CAPITOLO I

Si è scritto e ripetuto come un fatto incontrastabile, che la rivoluzione di Sicilia del 1860 cominciasse il giorno 4 aprile con lo squillo della celebre campana del Convento della Gancia. Senza occuparmi del merito o demerito dei quei famosi Padri e compagni, debbo avvertire, che il primo grido di guerra rivoluzionario scoppiò il 3 aprile in Boccadifalco, piccolo paese sopra Palermo, di là non più lungi che due o tre miglia. Le prima bande comparvero quel giorno sopra i monti di quel paese, e propriamente sul versante della valle di Baida, ove si tirarono le prime fucilate, tra la truppa ed i rivoluzionari ed ove si versò il primo sangue. Difatti, due Compagnie del 9° battaglione, comandate dal Capitano Simonetti, investirono e dispersero quelle bande dopo non poca resistenza.

Il 4 aprile avvenne il fatto tanto celebrato da' rivoluzionari, la rivolta della Gancia. Eccone i particolari.

Un certo Francesco Riso fontanaio avea preso in affitto un magazzino del Convento della Gancia. Il pretesto era di mettervi arnesi del suo mestiere, ma la vera ragione si era d'introdurre in quel Convento armi e munizioni, essendo stato designato dai congiurati rivoluzionari come base della rivoluzioni che dovea scoppiare. Il magazzino era situato dalla parte opposta del Convento, cioè dalla parte del giardino, il quale guarda all'oriente e d'onde, essendo vicine le viuzze del quartiere la Kalsa, la fuga de' congiurati sarebbe stata più facile in caso che fossero stati scoperti o sorpresi. La maggior parte de' frati di quel Convento faceano parte della congiura.

Frate Michele da S. Antonino, anche de' minori Osservanti, ch'io poi conobbi a Roma, si recò dal Direttore di polizia Maniscalco e gli svelò la congiura. Questi il 3 aprile mandò il Chinnici, capitano d'armi a visitare il Convento della Gancia. Il Chinnici nulla trovò che gli desse indizio di prossima rivolta, dapoichè quei frati avvisati della visita domiciliare, aveano occultato le armi e le munizioni. Solamente si rinvenne sotto una tettoia uno scheletro di donna senza testa, forse da sei mesi estinta. Questo fatto dimostra che sorta di gente si fossero quei fraticelli della Gancia, tanto encomiati poi dai rivoluzionari.

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La sera del 3 aprile si vedeva in Palermo un via vai che accennava a prossima rivoluzione: tutti facevano provvisioni di viveri, parlandosi all'orecchio. Già si sapea che, sopra Monreale, Boccadifalco, S. Maria di Gesù, ed ai Colli, scorazzassero delle bande armate, pronte a scendere a Palermo al primo segnale di rivolta. Maniscalco, e il generale Salzano Comandante la piazza di Palermo, non contenti della visita fatta dal Capitano Chinnici al Convento della Gancia, ben sicuri che frate Michele avesse lor detto la verità, la sera stessa del 3 aprile fecero appostare il Chinnici co' suoi compagni d'armi nelle vicinanze di quel Convento, e segnalarono al Re, che Palermo si rivolterebbe il giorno seguente.

La notte i ribelli, uno per volta, circa 60 di numero, s'introdussero nel Convento della Gancia: gli ultimi venuti, avvedendosi che erano sorvegliati dalla forza pubblica, diedero indietro. Nondimeno que' 60 sostenuti da molti frati, alle cinque del mattino cominciarono a suonar le campane a stormo, e tirar fucilate dalle finestre e da' tetti sopra i compagni d'armi. Accorse subito il 6° di linea comandato dal Tenente-Colonnello Perrone. Un obice posto dirimpetto la porta del Convento, sfondò questa e la barricata che vi era dietro. I soldati inondarono il Convento e diedero addosso a' faziosi. Di questi ne morirono 19 e un frate, ed anche Antonio Riso figlio del fontanaio, il quale condotto moribondo allo Spedale, svelò tutta la congiura ed i congiurati.

I regii ebbero due morti e nove feriti. I frati che quasi tutti aveano combattuto, fuggirono dalla parte del giardino. Due non veduti si ascosero nelle sepolture tra i morti, d'onde scapparono dopo tre giorni da una finestra, cui poscia la rivoluzione trionfante appellò buca della salvezza, e more solito, vi posero una lapide commemorativa.

Nel Convento si trovarono armi, munizioni, e due Cannoni, uno di ferro e l'altro di quercia.

Quel Convento preso d'assalto andò sossopra e il popolaccio palermitano ne compì il sacco. La Chiesa non fu saccheggiata perché lo impedì la truppa.

La città non rispose al segnale della campana della Gancia, ed è falso quanto si è detto, cioè che quella campana diede il segnale della rivolta di Palermo: questa città il dì 4 aprile non fece alcun tentativo di rivoluzione.

Salzano lo stesso giorno 4 dichiarò Palermo in istato di assedio, ed ordinò che i cittadini consegnassero le armi.

La rivolta soffocata sul nascere in Palermo, divampava assai ne' paesi circonvicini: Bagaria, Misilmeri, Carini, S. Lorenzo e Capaci, si rivoltarono. In Termini fu un tentativo di rivolta, ma contenuto dalla presenza della guarnigione di quel Castello.

Il giorno 7 per ordine di Salzano - per cui poi ne acquistò odio il Maniscalco - furono arrestati in casa di Monteleone sette individui del comitato rivoluzionario: cioè il Barone Riso, il Principe Niscemi, il Principe Giardinelli, gentiluomini di camera del Re; e così il Duchino di Cesarò, il Principe Antonio Pignatelli Monteleone, il cavaliere S. Giovanni, Ottavio Lanza sacerdote, e con esse un certo Lacroix cameriere. Furono tutti menati prima in carrozza, poi a piedi al forte di Castellammare.

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Da Castellammare furono condotti in seguito alla Vicaria, e divisi. Ebbero però con decreto sovrano un assegno mensile di ducati 90 ciascuno. Non era un fondo un gran male; chi sa se altri meno ricchi di cotesti signori non avessero desiderata quella prigionia, che poi fruttò fama, onori e trionfi!

I congiurati della Gancia presi con le armi alle mani, forse avrebbero ottenuto perdono, se non in tutto, almeno in parte. Però il giorno 13 aprile si riunirono in Palermo molti rivoluzionari, e vi fecero una dimostrazione con grida sediziose, e furono dispersi dalle truppe. Già si parlava di un'altra rivolta imminente: in effetto la sera del 15, fu scoperto un deposito d'armi, granate, e munizioni presso la chiesa della Mangione. Le bande armate scorrazzavano sempre ne' dintorni di Palermo. Il Governo costretto a dare un esempio terribile, fece giudicare ed eseguire la sentenza di morte contro quelli che furono presi con le armi alle mani nel combatti mento della Gancia. Erano 13 infelici artigiani e villani.

Gli umanitari liberali riempirono di lamenti il mondo per quella giustizia fatta dal Governo. Quanta umanità abbiano poi essi mostrata in simili casi ed altri quando afferrarono il potere, non è bisogno ch'io lo dimostri: si conosce da tutti; e nel corso di queste Memorie il benevolo lettore ne troverà qualche saggio terribile e selvaggio.

Io mi trovava in Monreale piccola città distante quattro miglia all'ovest di Palermo: era cappellano del 9° battaglione cacciatori, il quale fu attaccato il giorno 6 aprile dalle bande condotte da un certo Santanna. Erano masse di gente disordinata, ma temeraria, che non dubitò assalirci quasi dentro i quartieri. Il maggiore Ferdinando Bosco allora comandante di quel battaglione, alla testa di quattro compagnie, si spinse contro quei rivoluzionari. L'azione ebbe luogo non più lungi di mezzo chilometro da Monreale, e propriamente sulla strada che conduce a Partinico. Le masse, quantunque audacissime e numerose, furono rotte e disperse in breve tempo. I soldati le inseguirono in que' burroni e su' monti; e ricordo, che inseguendole, non usassero più il fucile, perocchè aveano già capito che combatteano un nemico poco pericoloso. Invece di tirar fucilate, lanciavano pietre quanto meglio potevano. Quindi quella giornata finì di mettere di buon umore i soldati.

In quel fatto d'armi vi fu poco danno: si trovarono due cadaveri de' rivoluzionari, e non so quanti feriti si ebbero. Del 9° Cacciatori venne ferito seriamente un soldato, e quando lo portammo a Monreale, quella popolazione mostrò il più grande sdegno contro i ribelli. Eppure, dopo non più di un mese, la canaglia di quella stessa popolazione, saccheggiò i quartieri de' soldati, e le case degli uffiziali - non esclusa la mia - al grida di viva l'Italia!

Il 12 aprile fummo di nuovo assaliti da' ribelli. Apparvero su' monti che circondano da vicino Monreale: e se ne vedeano pure nella valle sottoposta. Un gran numero di rivoluzionari si erano fortificati in una casina detta di Buarra, non più lungi di un chilometro dalla città. Metteano banderuole tricolori sulle cime di alcuni alberi, perché i soldati le vedessero. Quando vedevano qualche uffiziale, gli gri davano da lungi: Sig. uffiziale venite con noi, vi daremo una onza  al giorno - 12 lire e 75 cent.

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Il maggiore Bosco li lasciò scorrazzare dalla mattina sino a mezzo giorno, forse per accertarsi di quelle a che intendeano riuscire. Verso l'una cominciò qualche scambio di fucilate tra gli avamposti. Attaccati in seguito dalla truppa e particolarmente quelli fortificati in Buarra, in breve tempo furono scacciati dalle loro posizioni, e messi in fuga.

In quest'altro fatto d'armi, non avemmo che pochi soldati feriti, solo un milite a cavallo fu ucciso. Si arrestò qualche rivoluzionario con le armi alle mani, e fu trattato come soldato di nazione belligerante.

I ribelli soffrirono qualche danno non lieve, poichè vidi alcuni cadaveri che sembravano di giovani di civile condizione, caduti in que' burroni: e mi si spezzava l'anima pensando al dolore de' miseri genitori.

La casina di Buarra, ove si fortificarono una gran parte di quella bande, fu intieramente saccheggiata, e con più accanimento una Cantina. Ricordo questo, perché i rivoluzionarii spacciarono che fu saccheggiata da' soldati. Se non che quelli de' soldati che assalirono la casina, profittando che tutto era a soqquadro, che le botti erano spillate, e il vino allagava la cantina, ne bevvero a sazietà. Avendolo inteso il Bosco, li punì severamente, perché era rigorosissimo, trattandosi della più piccola appropriazione che i soldati avesser fatta.

Nel fatto d'armi del 12 aprile il 9° Cacciatori fu coadiuvato da un tenente di artiglieria che comandava il maneggio di due cannoni di montagna; dalla compagnia d'armi di Palermo comandata dal capitano Chinnici; e dal capitano Luvarà dello Stato Maggiore.

Le bande rivoluzionarie disperse ed inseguite ne' dintorni di Palermo, si riunirono il 16 aprile, e piombarono sopra Caini, piccola città, 18 miglia distante da Palermo, ove si fortificarono nelle case.

Carini giace sopra una collina con una estesa pianura a piè, dalla parte dell'est. Fu attaccata il 18 dalla parte della pianura con forze venute da Palermo, comandate dal Cataldo e Torrebruna. Il 9° Cacciatori non entrò in azione in quella giornata, ma rimase in posizione sopra i monti della Torretta, piccolo paese all'oriente di Carini.

Io vidi dalla sommità di una collina l'attacco ed i risultati.

Le bande rivoluzionarie dirette da Rosolino Pilo opposero una forte resistenza, perché erano abbastanza fortificate nel piano e dentro la Città; erano anche moltissimo agevolate dalla condizione de' luoghi. Le truppe dopo due ore di combattimento fuori Carini, entrarono a viva forza, e dovettero conquistare ad una ad una le case fortificate. Le bande non potendosi più sostenere, fuggirono dalla parte dell'ovest. Quindi il 9° cacciatori non valse ad impedire quella ritirata.

Si disse, che le truppe bruciarono parecchie case in Carini, e quindi si gridò al vandalismo e peggio. Ma, se i ribelli si fortificarono nella case, donde tiravano sopra i soldati, si pretendea forse che restassero incolumi quelle fortificazioni improvvisate? Si pretendea forse che i soldati si fossero fatti ammazzare per non danneggiarle?

Queste accuse e queste pretensioni si rinnovarono per tutto il tempo della guerra: ed io in appresso dovrò ritornare su quest'argomento.

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Il 9° Cacciatori non entrò in Torretta, ma quegli abitanti ci mostrarono molta simpatia: ci mandarono pure, senza richiesta, abbondanti viveri, di che Bosco rimandò con ringraziarli, facendo loro gentilmente intendere, che invece ne fruissero i poveri del paese.

Dopo il 18 aprile non comparve più alcuna banda rivoluzionaria. Nella Provincia di Palermo sembrava finita la rivoluzione. Le città, i paesi, le campagne ripresero l'aspetto della consueta calma. Solamente vi era qualche comitiva di briganti, residuo de' più facinorosi delle distrutte bande rivoluzionarie, i quali sotto la maschera del patriottismo scorrazzavano in armi le campagne, e rubacchiavano. In pochi giorni la truppa e i compagni d'armi furono sopra quelle masnade, le dispersero, ed arrestarono non pochi individui che le componevano.


SECONDA EPOCA DELLA RIVOLUZIONE

I GARIBALDINI

Da Carini a Parco

CAPITOLO II

L'epoca seconda di queste memorie non sarà creduta da' posteri. Io racconterò fatti incredibili, ma veri. Ora cominciano le diserzioni dei soldati e degli uffiziali, la viltà e le inesplicabili ritirate de' Generali, ove non si vogliano chiamare vergognosissimi tradimenti. Un'anima nobile e dignitosa rifugge da queste rimembranze: è troppo tristo ricordare come una prode armata di circa 100,000 uomini fosse stata distrutta non già dal nemico, ma da varii dei capi stessi, i quali disonorarono il proprio paese, e quella divisa gallonata, che con tanta burbanza indossavano. La striscia di sangue che bagnò la via da Boccadifalco a Gaeta sgorgò solamente dalle vene de' soldati, i figli del popolo, e dell'ufficialità subalterna e se non fosse stato per questi, l'onor militare del disgraziato Regno di Napoli sarebbe rotolato nel fango. Gli scrittori garibaldini descrissero pugne omeriche; ma la storia imparziale dirà, che le bande garibaldine sarebbero valse meno delle bande siciliane, se non fosse stata l'ignavia, la viltà, e il tradimento di alcuni duci napoletani. I fatti che racconterò saranno una splendida prova del mio asserto.

Dopo le vicende guerresche di aprile, la truppa era rientrata ne' quartieri, e riprendea le sue abitudini, e tutto sembrava quieto.

Il 13 maggio, corse voce, che Garibaldi fosse sbarcato in Marsala con 600 uomini di truppa piemontese. Questa notizia fu tenuta per una favoletta, una spiritosa invenzione. Tutti dicevano: l'hanno detta assai grossa. Conciosiachè le relazioni diplomatiche tra Torino e Napoli fossero cordiali, e quindi non era da supporre che quel Governo volesse tentare un'invasione in un Regno amico, senza alcuna ragione, almeno apparente, e senza intimazione di guerra, come si usa ne' paesi civili. Tuttavia la sera di quel giorno 13, la notizia venne confermata ufficialmente, ma corretta in questo modo: che Garibaldi fosse sbarcato in Marsala con più di 1000 volontari vestiti con camicia rossa: che i legni di guerra napoletani, cioè la fregata Partenope, e i due vapori Stromboli, Capri, non avessero potuto impedire lo sbarco di quei volontari, perché protetti da due legni di guerra inglesi, l'Intrepido l'Argo, partiti due giorni prima dalla rada di Palermo: che Garibaldi non venisse in Sicilia a far la guerra per ordine del Governo Sardo, ma per aiutare la rivoluzione siciliana.

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Queste notizie furono accolte con entusiasmo dalla truppa; tutti desideravano essere condotti a Marsala per combattere Carlobardi, così i soldati chiamavano Garibaldi farsi onore ed ottenere decorazioni e gradi militari. Vi era pure un certo dispetto, che uno straniero si venisse ad immischiare nelle nostre lotte politiche. Garibaldi, in Marsala, non trovò cordiale accoglienza. Il Municipio andò via, i marsalesi agiati fuggirono, le vie erano deserte. Di che fortemente indignato fece occupare le porte della città dai suoi volontarii, e dichiarò lo stato di assedio.

È necessario qui notare, che Garibaldi appena toccata la terra siciliana, che dovea redimere dalla schiavitù, per primo atto del suo inqualificabile potere dichiarò lo stato di assedio in una città non ostile, ma riservata e indifferente alla libertà e redenzione che volea largirle.

Il 14 maggio, Garibaldi ed i suoi volontarii partirono per Salemi, paese 20 miglia dentro l'isola, ove fu incontrato dal celebre padre Pantaleo di Castelvetrano, frate de' Minori osservanti, oggi ammogliato e libero pensatore.

Alcuni duci gallonati di Palermo invece di attendere ed arrestare la marcia di Garibaldi, si bisticciavano tra loro: aveano perduta la bussola prima di mettersi in mare. Nondimeno dovendosi decidere a qualche cosa, si decisero pessimamente, cioè mandarono il generale Landi a combattere Garibaldi. Il Landi era stato comandante del 9° cacciatori, ed io non avea inteso buone notizie intorno alla sua delicatezza amministrativa e capacità militare.

Landi partì per Alcamo; il 14 maggio radunò in quella piccola città più di 3000 uomini di truppa scelta, avidissima di battersi: avea cannoni, cavalleria, e tutto quello che fa di bisogno ad un piccolo corpo di esercito in campagna. Il contenersi del Generale in Alcamo era come se si trattasse di una passeggiata o parata militare, in che riuscivano mediocri non poca parte de' duci napoletani. Landi non prendeva alcuna precauzione, non dava quegli ordini che si richiedevano, avendo il nemico quasi di fronte: stava inoperoso. Spinto dagli ordini urgenti del Luogotenente Castelcicala, si partì d'Alcamo per Calatafimi. Il 15 maggio anche Garibaldi con i suoi volontari, e le squadre siciliane, che avea raccolte, si spinse verso Calatafimi.

Garibaldi si fermò prima di giungere a Calatafimi, e sembrava incerto di ciò che si dovesse risolvere. Vedendo la truppa di fronte, cercò scansarla; lasciò la via e prese i monti.

Landi per mostrare di far qualche cosa, prima che comparisse Garibaldi, avea spinto verso Salemi il maggiore Sforza comandante l'8° cacciatori, ma con quattro sole compagnie, per fare una ricognizione militare, e se attaccato, ritirarsi.

Giunto lo Sforza non più lungi di un tiro di fucile da' garibaldini, vide che lasciavano la via e prendevano i monti per evitare un combattimento. A questo i soldati non si contennero e si diedero a gridare che volevano battersi ad ogni costo. Il comandante Sforza protestò che avea altri ordini dal Generale, ma lo scambio delle fucilate cominciava, e lo Sforza finì di secondare il desiderio de' suoi soldati, spingendosi alla loro testa ed attaccò vigorosamente i garibaldini. La mischia fu terribile: i garibaldini si erano appiattati a terra, ed in quella

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posizione facevano un fuoco ben nutrito. Prevalse però la bravura e disciplina delle quattro compagnie, e le bande rosse furono sgominate ed inseguite. Menotti Garibaldi che portava una magnifica bandiera tricolore, venne ferito ad un braccio, ed obbligato di consegnarla ad uno de' suoi compagni. Questi fu ucciso da un soldato napoletano di nome Angelo de Vito, il quale s'impadronì della bandiera che poi fu portata a Palermo. Era certa la disfatta di Garibaldi; de' suoi, chi fuggiva, chi combatteva in disordine. Il Landi, che certamente tutto vedea ed osservava da lungi, invece di spingere altri battaglioni che avea disponibili per compiere la non dubbia vittoria, diede l'ordine della ritirata, e cominciò a retrocedere verso Alcamo, senza avvertire il maggiore Sforza, il quale inseguiva i garibaldini. Costui avvertito che la colonna si ritirava verso Alcamo, non volle crederlo; quando poi si accertò con i suoi propri occhi, credè prudente anch'egli di ritirarsi, chè già cominciava a difettare di munizioni.

I garibaldini vedendo quella inesplicabile ed inattesa ritirata della colonna Landi, presero animo: coadiuvati dalle squadre siciliane che non aveano preso parte in quel combattimento, diedero addosso a' regii, e la scena cambiò totalmente.

In quella disordinatissima ritirata della truppa cadde una mula che portava un obice. I soldati lo buttarono in un burrone, e di colà fu poi raccolto da' garibaldini che ne menarono gran vanto.

Nella ritirata di Landi fu grandissima confusione. I battaglioni disorganizzati marciavano alla ventura, mischiati con carri, artiglieria o cavalleria: vi era un caos! Giunti ad Alcamo furono attaccati da' ribelli che tiravano fucilate dalle finestre e da' balconi: i soldati risposero con incendiare molte di quelle case ove si facea fuoco vivissimo. Lo stesso avvenne al passaggio di Partinico. Il Landi fuggiva alla testa di quella truppa che avea disorganizzata, e demoralizzata, e cambiava strada appena avea notizia di qualche piccola banda che lo inseguiva.

Fu il primo ad arrivare a Palermo, ove fu seguito poi dalla sua colonna in massimo disordine ed affamata.

Garibaldi a Calatafimi perdette centodieci volontari. Se le sole compagnie dell'8° Cacciatori, equivalenti a meno di cinquecento uomini, lo sbaragliarono e gli fecero quel danno, qual sarebbe stata la fine della temeraria impresa del futuro dittatore delle Due Sicilie, se Landi si fosse battuto con tutti i suoi? Ma Garibaldi avea forse certezza che il duce napoletano si sarebbe condotto come realmente si condusse, ove si volesse ammettere come vera la notizia non mai smentita, e che io come semplice cronista riporterò: cioè che Landi avesse ricevuto da Garibaldi per prezzo della sua condotta, una fede di credito di quattordicimila ducati, che il Banco di Napoli trovò poi falsa, cioè, era di soli ducati quattordici; e che ne morì di dolore sorpreso da un colpo apoplettico.

Il fatto d'armi di Calatafimi segnò la caduta della Dinastia delle Due Sicilie; imperocchè il generale Landi non fu chiamato a dar conto della sua vergognosissima con dotta, ed inesplicabile ritirata; ma quello che fa più meraviglia si è, che rimase al comando della brigata che avea disorganizzata e demoralizzata. Questo esempio incoraggiò i duci, o vili o traditori, a tradire impunemente.

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Dopo Calatafimi, Garibaldi ingrossando sempre le sua bande di nuovi rivoluzionari, marciò per Alcamo, Partinico, e fece alto in un piccolo villaggio detto il Pioppo, tre miglia incirca sopra Monreale, meno di sette da Palermo, ove si trovavano ventimila uomini di buona truppa, e benissimo equipaggiata.

Dopo il fatto d'armi di Calatafimi il Luogotenente Castelcicala si dimise dall'alta sua carica e partì per Napoli. Corse voce nell'armata che si sarebbe recato a Palermo con l'alter ego il Conte generale Giuseppe Statella. Questa notizia fu accolta con entusiasmo, dapoichè il nome degli Statella era popolarissimo in tutta l'armata. Quel Generale nato da una famiglia assai distinta, e di una antichissima aristocrazia siciliana, oltre di essere sufficientemente istruito, avea quelle qualità che si richiedevano alle condizioni dell'Isola: fedeltà incrollabile a' Borboni, ereditaria nella famiglia Statella, un coraggio da reggere a qualunque prova, attivissimo, una fermezza di carattere ammirabile, severissimo per la disciplina militare: del resto uomo semplice e cordiale. Era un uomo che non sarebbe venuto meno in qualsiasi difficoltà militare o diplomatica, perché in que' casi avrebbe operato sempre alla soldatesca; oso affermare che avrebbe disubbidito al proprio Sovrano, se costui gli avesse dato un ordine da compromettere la Dinastia, o la dignità militare. Lo Statella si sarebbe fatto condannare da un alto consiglio di guerra anzichè eseguire un ordine pregiudizievole al Regno, alla sua dignità di gentiluomo e di Generale. Oh! se il generale Statella fosse andato a comandare l'armata di Sicilia con pieni poteri, oggi Garibaldi non si chiamerebbe da' suoi ammiratori liberatore e redentore dell'Italia Meridionale. Ma la setta che circondava il giovine sovrano, invece di mandare in Sicilia uno de' pochissimi Generali che avrebbe salvata la Dinastia e il Regno, scelse il generale Lanza, che finì di uccidere l'armata di Palermo.

Il 20 maggio giunse in Monreale il colonnello Won Meckel col 3° cacciatori esteri, detti svizzeri, ma erano un'accozzaglia di svizzeri, francesi, boemi e bavaresi, de' quali molti aveano combattuto sotto Garibaldi nel Varese. Giunsero altri battaglioni e si formò una brigata sotto il comando di Meckel con i seguenti battaglioni: 3° esteri, 2° cacciatori, comandato dal maggiore Murgante, 9° cacciatori comandato dal maggiore Bosco, quattro compagnie del 5° di linea comandate dal maggiore Marra, quattro cannoni di montagna, pochi cacciatori a cavallo, e la compagnia d'armi di Palermo comandata dal capitano Chinnici. Tutti incirca quattromila uomini. In Monreale rimasero altri tre battaglioni sotto il comando del colonnello Buonanno.

Il 21 maggio la brigata Meckel marciò sul Pioppo. Sopra la Casina di Buarra trovammo gli avamposti di Garibaldi, erano bande siciliane. Appena cominciò il fuoco coteste bande si ritirarono sopra la montagna. Io vidi due soldati esteri che conducevano, anzi strascinavano un prigioniero, un uomo già disarmato, e tra loro vi era un diverbio animatissimo. Temendo che quel prigioniero patisse qualche sinistro, chiamai due soldati napoletani e corsi ad incontrare que' tre. Il malcapitato era un uomo su' 30 anni, senza cappello, in gran disordine. Gli aveano strappato il fucile, e se l'avea preso uno dei soldati esteri:

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gridava come un energumeno, dicendo: vili satelliti della tirannide, lasciate libero un cittadino che combatte per la libertà della sua patria, ed altre parole diceva, contro i soldati e contro il Sovrano. Fortuna per lui che i soldati esteri neppure intendevano l'italiano, sebbene i due soldati napoletani capivano benissimo il dialetto siciliano, ed uno di questi alzò il fucile per darlo in testa al prigioniero: io lo contenni. Seppi che quel prigioniero faceva la professione di notaio in un paese vicino, ebbi a pregarlo e minacciarlo perché tacesse. Egli cercava di convertire i soldati e me con essi: io gli dissi di nuovo di tacere, altrimenti l'avrei abbandonato al suo destino, perché i soldati napoletani cominciavano a mormorare contro di me. Persuasi i soldati esteri a cedermi il prigioniero, lo ricondussi alla retroguardia raccomandandolo ad un uffiziale mio amico. Forse altri direbbe, quel notaio prigioniero essere un gran patriota, ed io affermo ch'era un gran fanatico, un gran pazzo da catena.

La brigata Meckel si avanzava baldanzosa contro il Pioppo. Una compagnia di cacciatori, comandata dal capitano Giudice, spiegata da fiancheggiatori, era giunta sopra l'alta collina che domina il Pioppo. Io vidi che i garibaldini fuggivano in disordine verso Partinico, e vidi che più di 50 carri di equipaggi aveano presa la stessa via. In quella sento la nostra tromba battere a ritirata. Io non volea credere né ai miei occhi, né a' miei orecchi. Ritirata...! e perché? Vedo venire Bosco con una faccia che mettea paura: martirizzava il cavallo su cui montava, era al colmo dell'irritazione. Io che non era soggetto alla disciplina militare quanto erano soggetti gli uffiziali, ed avendo molto confidenza col Bosco, gli dissi: ritirarci, e perché? mi rispose con parole sdegnose ed inintellegibili e passò via.

Non ho avuto mai sicura certezza della vera causa di quella inesplicabile ritirata. Il Meckel non potea esser sospetto né di viltà né di tradimento; quindi non si parlò che di un ordine superiore venuto da Palermo, cui tutti attribuivamo quella ritirata che sembrava inesplicabile.

Intanto i soldati mormoravano e cominciavano a profferire la parola tradimento, e non si faticò poco a farli ritornare alla volta di Monreale.

Il capitano del Giudice mi dicea: dal sommo della collina, ove mi trovavo, avrei potuto distruggere la metà de' garibaldini, facendo scorrere delle grosse pietre sopra di loro, ed avrei potuto benissimo tagliar la ritirata sopra Palermo: ma fu necessità ubbidire e ritirarmi.

Si giunse in Monreale; e lasciato tranquillo il nemico più pericoloso, che ormai avevamo nelle mani, si risolvette di mandare il capitano del Giudice con la sua compagnia a sorvegliare la valle di S. Martino ch'è dietro i monti di Monreale al Nord-Est. Costui giunto in quella valle fu assalito da una moltitudine di bande siciliane guidate da Rosolino Pilo, il quale fu ucciso in quel conflitto.

Garibaldi al Pioppo aspettava la rivoluzione di Palermo, e vedendo che non iscoppiava, come gli aveano promesso, trovandosi seriamente minacciato da' regii, la notte del 21 maggio, riunì i suoi già dispersi per la paura che aveano avuta del tentato attacco della colonna Meckel, prese la via de' monti a destra e marciò verso


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Parco, piccolo paese fabbricato a metà della costa di una gran montagna, dirimpetto Monreale dalla parte del Nord-Est. Fece una divisione in due colonne, una comandata da lui accampò sull'alta montagna in un luogo detto Pizzodelfico, l'altra comandata dall'ungarese Turr occupò Parco.

In Monreale era molta truppa e stava in ozio, perché si attendeano gli ordini da Palermo. Intanto i soldati erano condannati a stare a bracciarmi in quella che vedeano i garibaldini a Parco o su la montagna, occupati pacificamente alle manovre militari. Le mormorazioni de' soldati cominciavano ad inquietarci, e non avvenne una rivolta militare perché né Bosco, né Meckel poteano cadere in sospetto di tradimento. Questa condizione di cose durò tre lunghi giorni. Se quello fu un tempo prezioso per Garibaldi, io lo lascio pensare a quelli che conoscono i raggiri della setta, e l'attività del duce nizzardo.

Finalmente la sera del 23 venne l'ordine da Palermo di attaccare i garibaldini. La brigata Meckel marciò la mattina seguente per la via di Renna per prendere i garibaldini di rovescio. Il generale Colonna partì da Palermo con un'altra brigata per attaccarli di fronte. Verso le 6 del mattino i soldati di Meckel avevano raggiunto Pizzodelfico, e si scagliarono contro i garibaldini, ma questi non opposero che piccola resistenza, e fuggirono inseguiti sulla cima della montagna, ove soffersero non poco danno a causa de' luoghi alpestri e scoscesi: i soldati erano avvezzi a quelle marce, vantaggio che non aveano i nemici.

Un grosso distaccamento entrò in parco dalla parte dell'ovest: Turr e i suoi fuggirono sulla montagna. Il generale Colonna era intanto alle mani con le bande siciliane fortificate nella semipianura sotto Parco, dalla parte di Palermo; dopo di avere fugate quelle masse di gente armata che combattea da dentro le case di quella campagna, si avanzò su Parco, ove non trovò più nemici da combattere.

In cambio d'inseguire un nemico che fuggiva in disordine, e tanto più che le bande siciliane cominciavano a sciogliersi, e dar la volta verso i loro paesi, si diede ordine che la truppa restasse lì ove era; e così il nemico ebbe il tempo di riaversi e riordinarsi. Si vide che il generale Lanza che comandava da Palermo non volea far davvero.

Io entrai in Parco, e trovai che il paese era stato manomesso da' garibaldini e dalle bande siciliane. La maggior parte degli abitanti erano fuggiti all'arrivo de' garibaldini. Le povere donne e i fanciulli rimasti si erano rifugiati nelle Chiesa madre, altre donne e fanciulli nell'unico monastero che vi era in quel paese.

Mi diressi a quelle poche persone che incontrai, e seppi ove si erano rifugiate le donne ed i fanciulli. Mi recai alla Chiesa, trovai uno spettacolo tristo: il sacro tempio era gremito di quegli infelici spaventati e piangenti. Io feci di tutto per confortarli, e li persuasi a seguirmi, assicurando loro che li avrei ricondotti nelle proprie abitazioni. In fatti mi convenne far molti viaggi per condurli in diversi punti del paese. Le povere monache mandarono una persona a pregarmi che mi recassi subito al monastero, ove trovai un'altra scena desolante. La maggior parte di quelle donne, riparatesi nel monastero, erano ammalate, quali svenute, tutte spaventate.

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Molte di quelle donne mi seguirono, ed io le condussi alle proprie case. Però le derelitte monache stavano sempre in gran paura, perché la sera precedente si era tentato scalare le alte mura del monastero. Io a volerle difendere da qualunque aggressione, me ne andai subito a pregare il comandante Bosco che mi assegnasse un distaccamento di soldati da me scelti per guardare quel monastero, per quietare la paura delle monache. Il Bosco non se lo fece dire, mi diede subito 30 soldati, ed un sergente di mia fiducia, i quali si posero a far la guardia intorno al monastero.

Ne' tre giorni che i garibaldini dimorarono in Parco, furono scassinati non pochi magazzini, in particolarità quelli che conteneano vino, e tutto era stato messo a saccheggio. Ladri del paese, garibaldini e squadre siciliane, tutti aveano saccheggiato, chi più chi meno.

Qui debbo avvertire che i soldati della brigata Colonna, i quali rimasero nel paese commisero azioni indegne non solo di chi veste una divisa militare, ma di chi è nato in paesi civili. Quei soldati istigati da' ladri del paese, e sommamente digiuni, perché la truppa tante fiate restava digiuna per la incuria de' comandanti, finirono di saccheggiare magazzini già saccheggiati, e ne saccheggiarono altri. Alcuni compagni d'armi rubavano pure nelle case deserte de' proprietarii. La sera del 24 maggio il Parco era un disordine indescrivibile. I soldati della brigata Colonna erano quasi tutti ubbriachi, e non sentivano più né preghiere né minacce. Io mi rivolsi a molti uffiziali perché mi aiutassero a mettere a dovere i soldati, ma nulla ottennero. Il male lo fecero i duci, i quali lasciarono così affamata la truppa in un paese mezzo saccheggiato. Io non credo di errare se dico, che alcuni duci napoletani fomentassero indirettamente que' disordini per disonorare la causa del proprio sovrano, che fingevano di difendere.

Fortuna per le povere monache che il distaccamento datomi da Bosco, vegliò intorno al monastero per tutta quella infausta notte.

Io addolorato e vergognoso di que' disordini che vedea, e che non potea impedire, uscì dal paese salì un poco la montagna, e mi recai al Camposanto, ov'era accampato il 9° cacciatori, ed ivi passai la notte coricato sopra le sepolture.

La mattina del 25 di buon'ora battè la generale, e tutti partimmo per la piana de' Greci. La truppa si riunì tutta sulla montagna, cioè tra le due brigate di Meckel e l'altra di Colonna, e da lì marciò in ordine di battaglia.


Dal Parco a Corleone

CAPITOLO III

Verso mezzo giorno, arrivammo alla Piana de' Greci. È questo un piccolo paese fabbricato in una pianura che guarda il mezzogiorno, sul versante opposto alla gran montagna del Palco. È molto frumentario, e vi è non poca pastorizia.

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Alla piana de' Greci parlano il greco moderno corrotto, e il dialetto siciliano simile a quello di Palermo. I suoi abitanti discendono da una colonia greca, di quegli albanesi che ivi si trovarono al tempo di Maometto II nel secolo XV, e parte sono di origine siciliana onde due riti vi siegue il culto, il greco ed il latino, e con due Parrocchie. La Parrocchia greca è ammirabile per le pitture bellissime del Monrealese, e la Parrocchia latina per una magnifica scalinata; la Piana de' Greci contiene circa 8000 abitanti la maggior parte coltivatori di quelle terre feraci.

Mentre la truppa accampava in un prato, e si disponevano gli avamposti, io volli fare un giro entro il paese. Restai meravigliato di non vedere un'anima vivente. Tutte le aperture erano ermeticamente chiuse, e quel paese senza abitanti facea sgomento. Dopo essermi aggirato non poco, mi corse l'occhio alla finestra di una piccola casa che si chiudeva lentamente, ma non vidi alcuno. Non mi convenne penar molto per trovare la porta di quell'abitazione; salì pochi scalini, e picchiai la prima, la seconda, la terza volta: e nessuno rispose. Allora sospettai il vero, cioè che gli abitanti della Piana dei Greci temessero i soldati. Non volendo bussare, dissi dietro la porta: non temete delle truppa ch'è arrivata, essa non fa male ad alcuno, anzi è qui per proteggere la buona gente. Io sono un prete, cappellano de' soldati, e vi assicuro che potete uscire senza timore alcuno per ripigliare le vostre abituali occupazioni.

Non avea finite queste ultime parole, che la porta di aperse bruscamente, ed ecco sulla soglia una fanciulla diciottenne, scarmigliata, spaventata, abbattuta. Si teneva, con una mano stretta al seno, una figura dell'Addolorata: piega le ginocchia a terra e dice: eccomi qui: uccidetemi se vi dà cuore. Io non ho fatto male ad alcuno, non ho fuggito con gli altri perché carità mi strinse di non abbandonare la povera vecchia di mia nonna ammalata. Eccomi qui: uccidetemi...! Io morrò con questa madre Addolorata sul mio cuore.

Quella fanciulla avea le chiome nere, lunghissime e crespe, come se fossero state fatte dal ferro del parrucchiere. Gli occhi avea nerissimi, eloquenti, allora nuotanti nelle lacrime: la bocca designata al sorriso anche nel dolore: naso profilato alla greca: il colorito piuttosto pallidetto: insomma tutte le sue fattezze, e movimenti erano degni del pennello del grande Urbinate. Questo tipo di bellezza s'incontra ad ogni piè sospinto ne' paesi montuosi della Sicilia.

La vista di quella derelitta, e più di tutto la sua fede nella gran Madre de' dolori, mi commossero alle lagrime. Io non valsi ad articolare le prime parole, con difficoltà esclamai: ma alzatevi, ve ne prego, per quella fede che avete in questa bella Madre Addolorata che vi stringete al seno. Io uccidervi! e perché? io, che mi sottometterei a qualunque prova per vedervi tranquilla! Io son venuto per darvi coraggio, per assicurarvi che i soldati non fanno male ad alcuno, per dirvi che vi proteggerò se occorresse. E quella dolente, confortata dalla mie parole si alzò e mi disse: giacchè sentite tanta pietà della povera gente, entrate venite, ve ne supplico, a consolare la povera vecchia di mia nonna, l'unico essere affettuoso che mi resta sulla terra: ella è per morire della paura. La sentite? già mi chiama! Di fatti si sentiva una voce sepolcrale, che chiamava: Annetta, Annetta.

39eccellenza, Entrai in quella casa. In una cameretta appresso la sala, vidi sopra un letto una donna che sembrava ottuagenaria, con viso lungo e scarno che mi guardava con occhio di idiota. Mi avvicinai al letto, vi fu un momento di silenzio; ci osservavamo l'un l'altro. La vecchia rompe il silenzio e dice: è vero,  che verranno i turchi per ammazzarci tutti? Dovetti fare un grande sforzo in me stesso per contenermi da uno scoppio di risa a quella fatua ed ingenua domanda. Chi vi ha detto, buona donna, che verranno i turchi per ammazzarvi tutti? essa rispose: me l'ha detto una mia vicina, che l'ha inteso da' soldati vestiti di rosso che son passati di qui. La mia indignazione fu estrema, vedendo che si abusava dell'ignoranza e della credulità della povera gente per ispaventarla, mettere in odio la truppa, e farla fuggire. Non temete, buona donna, le dissi, non è tempo più di turchi: quelli che sono ora giunti alla Piana, son soldati di un Re religiosissimo che è figlio di una santa... È vero, è vero, disse, interrompendomi la vecchia, l'ho pure inteso dire tante volte. I soldati che son qui, le dissi, si sentono la santa Messa, si confessano, la sera recitano il santo Rosario, la Domenica ascoltano la predica, in somma sono buoni cattolici, e quindi buona gente. Vi prego dunque di non temere né per voi né per vostra nipote: io vi dò la mia parola di onore, che i soldati non faranno male alla gente pacifica, come voi siete. A queste parole la vecchia volle a forza la mia mano per baciarla e ribaciarla.


Mi rivolsi ad Annetta, e le dissi, suppongo che vi sia qui vicino della gente chiusa in casa, e spaventata come eravate voi poco prima. Vi prego, uscite, chiamate tutti, assicurateli delle buone intenzioni de' soldati, e direte, che se hanno de' viveri da vendere li portino nel campo, che i soldati li pagheranno ben cari. Annetta non se lo lasciò dire: in due salti uscì di casa, e cominciò a chiamare e parlare in quella lingua loro, della quale io non capiva una parola. Dopo cinque minuti mi trovai in mezzo alla strada, circondato da più di cento persone, tra vecchi, donne, e fanciulli, e tutti mi voleano baciar la mano. Povera gente! piangeva di consolazione e di allegrezza. Dimandai se nel paese si trovasse un Prete: mi additarono una casa vicina, e mi dissero che ivi forse si troverebbe Papa Ignazio occultato. Io mi diressi a quella volta. Il prete era alle vedette, venne ad incontrarmi, e mi disse: non posso mai credere che i soldati di un Re religiosissimo, diretti da' cappellani curati, ci vogliano fare del male. Io gli risposi, il vostro semplice sospetto non vi fa onore. Egli cercò giustificarsi, raccontandomi tante calunnie sparse dai garibaldini, i quali furbescamente spacciavano azioni di cannibali perpetrate dalla truppa in tutti i paesi per cui era passata. Io lo pregai di venire con me, che l'avrei condotto dal Generale, cui mi premea di mettere in relazione con una persona influente nel paese, la quale facesse rientrare la popolazione nelle proprie case, e lo mettesse in grado di fornirgli i viveri per la truppa, assicurandolo che tutto sarebbe pagato a pronti contanti. In effetti lo condussi dal colonnello Meckel, e dopo un breve colloquio, il prete uscì tutto allegro, e spedì in diverse direzioni molte donne, che accettarono con piacere la missione ricevuta.

Dopo un'ora, era un piacere a guardare quei prati e quelle collinette gremite

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di gente che ritornava al paese, conducendo seco masserizie, animali domestici, e sventolando bianchi lini.

La sera le strade principali della Piana, e l'accampamento de' soldati erano divenuti un abbondante mercato, ove si vendeva, pane, vino, formaggi d'ogni qualità, agnelli, galline, conigli domestici in Sicilia sono anche i conigli selvaggi che vivono ne' boschi frutti secchi ed altro. I soldati non solo pagavano, ma generosamente: e que' poveretti si compensarono della paura avuta.

Siccome si dovea partire la mattina del giorno seguente, io volli ritornare alla casa di Annetta accompagnato da un chirurgo, mio ottimo amico. Trovai la ragazza in miglior toletta: gaia e sorridente, ma sempre modestissima. Il chirurgo osservò la vecchia e le prescrisse alcuni conforti. La nonna e la nipote voleano a forza regalarci due belli capponi, ma noi ricusammo cortesemente, dicendo loro, che non avevamo né il tempo, né gli utensili di apparecchiarli. In cambio accettammo volentieri un canestro di bellissime ciriege e nespole del Giappone.

Quella sera, Annetta mi raccontò con molta grazia, che la mattina io ero stato veduto dai suoi vicini ed amici, quando giravo in cerca di un'anima vivente. Siccome non aveano mai veduto cappellani militari, neppure sospettarono che io fossi un Prete; invece facevano tante supposizioni curiose e strane sul mio vestire, e sulla nazionalità della truppa. Annetta non volle dirmelo, ma io sospetto che mi presero per un turco che andava in cerca di persone per ammazzarle tutte.

La mattina seguente, Annetta accompagnata da una sua zia, e da una vispa ragazzina, venne al campo, per baciarmi, come essa dicea, la mano per l'ultima volta. Era abbigliata con le vesti della domenica: e quel costume mezzo greco, mezzo siciliano, aggiungeva infinite grazie a quella graziosissima giovanetta. Io desiderava lasciarle un religioso ricordo, e per quanto pensai non trovavo un oggetto ben degno di lei. Profittando che Annetta parlava col chirurgo, mi rivolsi alla mia ordinanza, e gli spiegai il mio desiderio. Questi, dopo avervi un poco sopra meditato, mi disse: potresti darle era un ottimo giovane del Barese, che dava a tutti del tu potresti darle, se non ti dispiacesse, quel reliquiario che ti porti sempre con te, è lì nel sacchetto di pelle. Ah! bellissima idea, esclamai: bravo Giuseppe, tu sei la mia piccola Provvidenza: io te ne sarò gratissimo. Quel piccolo reliquiario, in forma di croce, l'ebbi in Roma nel 1851: vi erano le reliquie de' dodici Apostoli, col nome del'apostolo scritto ad ogni reliquia: era lungo circa otto centimetri, e di argento detto Christofle. Era stato benedetto e toccato dalle mani del Santo Padre Pio IX. Io lo portava sempre con me per tante ragioni, specialmente perché avrebbe potuto servire di lapide, dovendo dir la Messa sopra un altare provvisorio, come spesso accadeva trovandoci in campagna con la truppa. Quel reliquiario, senza esagerazione, non l'avrei regalato ad una regina, ma con sommo piacere il diedi ad Annetta. Questa buona e pia fanciulla, quando glielo diedi, divenne muta per la gioia, e per la riconoscenza: di che la zia la riprese. Però i suoi sguardi, il suo atteggiarsi erano il più eloquente e sincero ringraziamento ch'io avessi ricevuto in vita mia. Mi disse solamente: Vi prometto, sinchè durerà la guerra, di recitare ogni sera il S. Rosario alla vostra intenzione,

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e pregherò i SS. Apostoli di liberarvi da ogni male. Son sicuro che quella pia adempì la promessa.

Già la truppa avea sfilato alla volta di Corleone, e ci dividemmo inteneriti come se fossimo stati de' vecchi amici.

Quella popolazione della Piana de' Greci, quanto di spavento avea provato all'arrivo de' soldati, tanto dispiacere mostrò nel vederli partire. Moltissimi uomini, donne, e ragazzi ci accompagnavano per più di un miglio, gridando: Viva il Re, viva la truppa.

I ragazzi già fatti amici de' soldati, voleano portar loro il fucile o il sacco, e quelli che ottenevano tanto favore, si pavoneggiavano col fucile in spalla, e il sacco sul dorso. Di Annetta non ebbi più notizia. Nel 1864, dopo più di quattro anni, trovandomi in Roma, nel mese di ottobre di quell'anno, m'incontrai in un avvocato monrealese di mia antica conoscenza, il quale bazzicava spesso alla Piana de' Greci, ove avea non poche proprietà, e molta clientela. Appena gli domandai di una certa Annetta orfana, che conviveva con la nonna, l'avvocato esclamò: ah! siete voi che avete regalato un reliquiario a quella ragazza! io l'avea indovinato! come voi sapete? gli dissi, voi la conoscete? Se la conosco! rispose: suo marito e suo suocero sono miei clienti - Suocero, marito! esclamai, dunque Annetta è maritata? Di grazia, ditemi ciò che sapete di quella buona fanciulla. Il mio amico mi raccontò che nel 1862 Annetta si era maritata con un bel giovanotto, figlio unico di un mugnaio, possessore di un molino, ed una masseria: quindi un ricco di quel paese. Che nel 1863 avea perduta la nonna, la quale abitava sempre con lei; che Annetta avea un bambino; che il reliquiario che io le avea dato fu un vero avvenimento per quel paese, che tutti gli amici, vicini, e conoscenti, vollero vederlo e baciarlo: anche per la grande ragione ch'era stato benedetto e toccato dalle mani del Santo Padre Pio IX. Quella pia e cara fanciulla si teneva per persona di grande importanza, e specialmente perché posseditrice di quel reliquiario. L'avvocato conchiuse con dirmi: Siccome Annetta fu il modello delle fanciulle, oggi è il modello delle spose e delle madri. Ed io esclamai, che Iddio la benedica, e la faccia santa.

CAPITOLO IV

Dopo la rotta di Parco, Garibaldi, la stessa notte del 24 arrivò alla Piana de' Greci. In questo paese dimorò sino alle otto del mattino del 25, con intendimento di raccogliere i suoi volontari, ristorarli alquanto, e poi dopo corse diritto alla Ficuzza, ch'è un sito reale, ove si trova un trivio. Una strada mette alla Piana de' Greci, un'altra scende a Palermo scorrendo per Marineo e Misilmeri, la terza conduce a Corleone.

Prima che Garibaldi giungesse a quel trivio, dichiarò a' suoi confidenti, Turr, Sirtori, Orsini e Crispi, che egli era deciso a internarsi nei monti dell'Isola, imperrochè non avrebbe potuto sostenere co' soli volontari tutto il peso della rivoluzione; già abbandonato dalla maggior parte delle squadre siciliane, e con una colonna militare alle spalle che si battea valorosamente.

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Quindi altra salvezza non vedea che gittarsi su' monti, aspettando un sollevamento generale dell'Isola, o il tempo, o il modo di mettersi in mare e ritornare sul continente. Questo progetto di Garibaldi fu oppugnato dal Turr e dal Crispi, i quali gli fecero osservare, che i popoli medesimi che l'aveano acclamato vincitore in Calatafimi, gli darebbero addosso se lo vedessero perseguitato dalla truppa sui monti. Quindi consigliavano audacia, unica salvezza. In questo consiglio fu stabilito di cacciarsi audacemente dentro Palermo per la via di Marineo e Misilmeri, ed ivi tentare la sorte. Nel caso di un rovescio, almeno i capi avrebbero ove rifugiarsi, trovandosi nel porto le navi sarde ed inglesi. Per ingannare la truppa che lo perseguitava, ma lentamente, fu commesso ad Orsini di proseguire per la via dei monti, lasciandogli i cannoni, un piccolo distaccamento di garibaldini, e le squadre siciliane, che gli erano rimaste dopo la rotta di Parco.

Tutto quello che si disse nel consiglio garibaldesco della Ficuzza, ed altre cose in seguito, fu poi pubblicato dagli stessi amici di Garibaldi. Le determinazioni di Garibaldi e degli altri suoi amici, se non tutte in parte vennero a conoscenza de' duci Meckel e Colonna. Quindi si disegnò che costui con la sua brigata ripiegasse sopra Palermo per la via di Villabate, e si opponesse a Garibaldi di fronte, e che Meckel lo inseguisse senza tregua per attaccarle alle spalle. Il prode ma testardo allemanno Meckel fece andare tutto a vuoto quel disegno strategico che sarebbe stato fatale a Garibaldi.

Giunta la colonna Meckel al trivio della Ficuzza, il guardiano di quel sito reale, confermò le notizie che già si sapeano, cioè che Garibaldi era disceso verso Marineo, e che Orsini avea presa la via de' monti. Meckel si mostrò indeciso di seguire la marcia di Garibaldi, perché avea un desiderio matto di impadronirsi degli innocui cannoni di Orsini. Chiamò a consiglio i capi de' battaglioni, ed in mezzo alla strada si pose con essi a ragionare: io mi trovavo presente, ed eravamo forse allo stesso luogo ove Garibaldi avea tenuto pure consiglio.

Il Meckel era di opinione, che si dovesse inseguire Orsini, per togliergli i cannoni, e distruggere le torme rivoluzionarie da lui condotte, le quali avrebbero potuto divenir pericolose lasciandole alle spalle. Non temeva della marcia di Garibaldi sopra Palermo, perché sarebbe stata sufficiente la brigata Colonna che si era distaccata da noi per attenderlo all'entrata di Palermo, e stritolarlo. Bosco gli fece osservare che Palermo si leverebbe a rivoluzione al comparire di Garibaldi; che la vera guerra sarebbe colà ove fosse costui; che fosse necessità di guerra inseguirlo, ove occorresse entrare in Palermo combattendolo alle spalle. Che le bande Orsini, ed i suoi cannoni fossero un affare di pochissimo momento, potendosi tenere a segno con mezzo battaglione distaccato dalla nostra brigata, e che si scioglierebbero immediatamente all'annunzio della disfatta di Garibaldi.

A questo parere del Bosco fece eco il capitano di Stato maggiore Luvarà. Meckel volle eseguire il suo progetto dicendo: "prenderò tutto su di me".

Questo sbaglio enorme del Meckel fu una delle principalissime cause del trionfo della rivoluzione cosmopolita. Ed è da osservare, che a quel trivio ignorato, per ben due volte si decisero i destini della rivoluzione mondiale,

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il trionfo di Garibaldi, la rovina del Regno di Napoli e della dinastia de' Borboni.

Si disse che Garibaldi finse di farsi battere a Parco per cacciarsi poi audacemente dentro Palermo, eludendo la vigilanza de' duci regi con attirarli in altri luoghi ov'egli non andasse. Tutte queste dicerie sono falsissime: Garibaldi giudicava perduta la sua causa e quella della rivoluzione, e ce lo rivelano le parole dette ai suoi amici al trivio della ficuzza; fu Crispi e Turr che lo consigliarono di non gettarsi sui monti come un brigante, ed invece cacciarsi dentro Palermo per tentar la sorte: ed egli eseguì quel consiglio de' suoi amici, direi quasi, per disperazione.

La decisione del testardo colonnello Won Meckel di inseguire Orsini, lo salvò dalle conseguenze fatali della sua troppo temeraria entrata in Palermo.

Oggi si alza alle stelle quella tanto temeraria azione di Garibaldi, perché la maggior parte degli uomini giudica sempre in queste circostanze col criterio de' risultati. Se Garibaldi fosse stato battuto o preso all'entrata di Palermo, se si fosse salvato nel porto sopra qualche legno estero, oggi si direbbe dagli stessi uomini che lodano la sua temerarietà, che fu un presuntuoso, un pazzo, e peggio.

La colonna Meckel avea fatto alto al trivio della Ficuzza, ove Meckel tenne consiglio e proseguì la marcia alla volta di Corleone.

Circa due miglia prima di arrivare a questa città, dalla parte del Nord, vi è un gran torrente, che a sinistra forma un gran dirupo, sopra del quale vi è un'estesa pianura levigata ed incolta senza alberi, e senza grosse pietre, circondata da colline dalla parte del Sud.

Appena noi fummo alla destra del torrente, apparvero le bande Orsini fortificate con due cannoni sopra quelle colline, e propriamente sopra le colline di centro. La posizione scelta da Orsini era ottima; per attaccarlo si dovea traversare la pianura sotto il fuoco de' cannoni, e poi della fucileria. Purnondimeno nacque una onorevolissima gara tra il 2° e il 9° cacciatori, volendo l'un l'altro essere scelti ad attaccare quelle bande, e prendere loro i cannoni, tanto desiderati da Meckel. Da questi fu preferito il 9° cacciatori, dal quale corsero 4 compagnie ad investire con uno slancio degno di miglior nemico. Si aspettava che i cannoni e la fucileria di Orsini avessero recato molto danno nelle fila di que' prodi, se bene fossero disposti da Bosco in ordine aperto; ma non ne fu nulla. Orsini tirava a palla piena con que' cannoni mal disposti, e mal diretti, e le palle passavano sulla nostra testa all'altezza per lo meno di due metri: la fucileria fu debolissima.

Vedendo l'Orsini che il capitano del Giudice si avanzava alla corsa colla sua compagnia, inchiodò i cannoni, e fuggì. Quel capitano alla testa di quelle quattro compagnie s'impossessò dei cannoni. Erano due, uno era quello stesso che i garibaldini aveano trovato nel burrone dopo il fatto d'armi di Calatafimi, l'altro era un cannone fuso in Livorno che avea portato Garibaldi. I soldati s'impossessarono di tutto l'equipaggio: erano molti carri, di viveri, di munizioni, di sigari, di abbigliamenti. Fra le altre cose si trovarono oggetti sacri di Chiesa, cioè ostensori e calici. Quest'ultimi furono consegnati il giorno seguente a'

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Rettori di Chiesa di Corleone, con la preghiera di mandare una circolare a' Parrochi di que' paesi ov'erano passati i garibaldini e le squadre, e restituirli alle Chiese onde erano stati involati.

Le bande Orsini furono inseguite per molte miglia da' compagni d'armi e da Bosco e da pochi soldati, ed essendosi divise e disperse, Bosco non le curò più ed entrò in Corleone.

Le perdite di quel fatto d'armi furono lievissime, tre soldati feriti, uno mortalmente.

Dopo il combattimento la brigata continuò la marcia, e prima di entrare in Corleone, fu incontrata dal clero in processione con la croce innanzi. A veder questa i soldati di avanguardia s'inginocchiarono. Fu questo un segno non dubbio delle religiosità della truppa e fu ritenuto da' corleonesi come di buon'augurio per quella città.

Il Meckel assicurò il clero che non veniva a Corleone per far male a' buoni cittadini, e che si stessero senza paura e tranquilli. Solamente desiderava che la brigata fosse fornita di viveri, i quali si sarebbero pagati a pronti contanti.

Corleone o Coriglione è una città circa trentaquattro miglia sud-ovest di Palermo, con sedicimila abitanti. Trovasi presso la sorgente del Belici, sul declivio di una collina, che va a discendere in una bella pianura.. Questa città è assai ben fabbricata, racchiude molti edifizi bellissimi, un collegio reale, ed altri utili istituti. Il suo territorio dà tanto grano, olio e lino, da farne molta esportazione. Ne' dintorni di Corleone evvi una sorgente minerale. Questa città fu conceduta da Federico II imperatore ad una colonia di Longobardi, la seconda che passasse in Sicilia.

I corleonesi fuggiti nelle campagne all'approssimarsi della truppa, ritornarono fiduciosi in città, e ci accolsero cordialmente. Tutti quei proprietari facevano a gara perché uno o più uffiziali alloggiassero nella propria casa. Io ebbi diversi alloggi di ecclesiastici e secolari: preferii il convento di S. Domenico ove trovavasi un frate mio antico compagno di studio.

In Corleone non successe alcuna cosa importante in quelle 22 ore che vi dimorammo. Solamente alcuni ladri corleonesi forse per dare un attestato a modo loro che non erano rivoluzionari scassinarono e saccheggiarono un palazzo di un ricco proprietario, che si trovava con Garibaldi, ed avea mandata la famiglia in altro paese.

Non appena il Meckel ebbe contezza di quel saccheggio, mandò una compagnia di soldati, la quale disperse que' saccheggiatori e saccheggiatrici, salvando quella roba che ancor restava. I magazzini di vino, olio e miele, furono orribilmente devastati; que' tra liquidi mischiati andavano a formare in un vasto magazzino un lago che traboccava al di fuori, e creava un piccolo torrente. Era uno spettacolo disgustante vedere tante megere con pentole, brocche ed altri vasi, riempirli di quel triplice liquido, e poi urtarsi, imbrattarsi, gridare e bestemmiare.

La sera del 27 maggio la passammo in Corleone. Il 28 alle quattro della sera riprendemmo la via ond'eravamo venuti; dappoichè s'incominciava a buccinare


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che Garibaldi era entrato in Palermo. Alcuni si mettevano con l'orecchio a terra ed assicuravano di sentir tuonare il cannone dalla parte del NordEst.

Da Corleone a Palermo

CAPITOLO V

Partiti da Corleone invece di camminare a marcie forzate, come richiedeva il bisogno, si fece alto alla Ficuzza, poche miglia distante da Corleone, ed ivi si passò la notte del 28 maggio.

Meckel era un prode soldato, onestissimo, devoto alla causa del Re, cui serviva, però avea il gran difetto, non raro negli allemanni, di essere testardo, e freddo nelle operazioni militari. Fu questa la causa della disgrazia del Regno e della Dinastia: sebbene la maggior parte de' duci regii non tradirono, pur nondimeno coadiuvarono la causa della rivoluzione col contenersi ora da presuntuosi, ora da vili, da inetti sempre.

La mattina del 29, alle 7 del mattino, con tutto il nostro comodo, la brigata si mosse, facendo alto ogni momento. Si giunse a Marineo a mezzo giorno, ove si dimorò molto senza ragione alcuna. La marcia da questo paese a Misilmeri fu lenta ed uniforme. La sera, a tarda ora si giunse a Villabate, tre miglia lontano da Palermo al sudest, e si ristette in quelle campagne.

La notizia della rotta a Parco di Garibaldi, sgomentò i rivoluzionarii di Palermo. I così detti liberali di quella città, tronfii dopo Calatafimi, abbassavano la cresta dopo i fatti di Parco: e taluni più prudenti tacevano e si nascondevano. Lanza venne in loro aiuto colla sua inerzia, e con la sua inesplicabile condotta. Costui giunto a Palermo si chiuse nel Palazzo reale, ed era invisibile come un Imperatore del celeste impero. Era però circondato da' suoi parenti di Palermo, i quali erano in voce di liberali. Lanza andava in fama di pessimo amministratore, di mentre grossa, e tuttavia si credeva che sapesse menar le mani, e le facesse muovere a' soldati.

E davvero per domare la rivoluzione siciliana non si richiedeva un Generale strategico e di grande istruzione, come un Satriano: sarebbe stato sufficiente un militare qualunque sia, anche un borghese, il quale non avesse impedito a' soldati di battersi ed inseguire il nemico. Alla naturale inettezza di Lanza si aggiungevano le liberali insinuazioni de' suoi parenti, i quali istillavano il loro liberalismo a quel gallonato fanciullone. È questa la sola ed unica ragione che si potrebbe addurre per ispiegare la condotta tenuta in Palermo nel tempo della sua luogotenenza con l'alter-ego.

La truppa che difendeva Palermo era spartita a' Quattroventi, a Castellammare, alle Finanze, ed al Palazzo reale: non contando i battaglioni ch'erano in Monreale, e la brigata Meckel andata in cerca di Garibaldi. Lanza non pensò a fornire la truppa di viveri, onde provvedere a tutto quello che suole avvenire in tempo di guerra.

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Egli, invisibile nel Palazzo reale, qualche volta cacciava il naso dalla sua camera e domandava al suo stato maggiore: "che si fa? che si dice?" Bel tipo di Generale in capo! se se ne avesse uno per ogni Stato sarebbe la delizia de' rivoluzionari. Lanza, il solo ordine che diede appena giunse in Palermo fu quello che si togliessero dal Banco settecentomila ducati: trattandosi di danaro è un altro affare, l'attività non manca mai, tanto a' codini, quanto, e più di tutti a' liberali.

Il 28 maggio giunsero a Palermo due battaglioni esteri, i quali appena toccato il porto voleano sbarcare con animo di battersi. Il Comandante Migy si recò subito da Lanza e lo pregò a dar l'ordine che la sua gente sbarcasse, esprimendogli il desiderio ed il valore che aveano que' soldati di contenere un tentativo, che avrebbero potuto fare gli invasori. Il Lanza si ricusò assolutamente, e lasciò que' soldati a bordo che poi fece sbarcare il giorno appresso per adunarli attorno al Palazzo reale, permettendo che restassero inoperosi, come inoperosi erano ivi tutti gli altri battaglioni napoletani. Si disse che il maggiore Migy avesse rotta la spada in faccia al Luogotenente generale Lanza, quando questi lo condannò all'inazione.

Lanza fu avvertito da molte persone degne di fede, che Garibaldi marciasse sopra Palermo, che entrerebbe per Porta di Termini la mattina del 27 maggio, e che la città si leverebbe a rivoluzione.

La sera del 26 si leggeva pubblicamente per le vie di Palermo una lettera di Garibaldi diretta al Barone Cozzo, presidente del Comitato rivoluzionario, con la quale lo avvisava come egli entrerebbe in città dalla Porta di Termini il giorno seguente sull'alba, come volea trovar barricate pronte, e sentire le campane sonare a stormo in segno di generale rivoluzione.

Lanza sapea tutto e a nulla volea provvedere.

A chi gli facea osservare come non dovesse tenere oziosi tanti battaglioni intorno al Palazzo reale, ma spingerli contro Garibaldi, egli rispondeva: "Lasciatelo scendere a Palermo che tel concerò io per le feste."

Il generale Colonna, che si era distaccato da Meckel con la sua brigata alla Piana de' Greci per opporsi a Garibaldi nell'entrare a Palermo, ebbe ordine da Lanza, appena giunto a Villabate, di lasciare quella posizione e ritirarsi nel piano del Palazzo reale ov'era altra truppa accampata e che stava in ozio; perocchè Villabate era il punto strategico per difendere Palermo dalla parte del Sud, da dove si attendeano i garibaldini e le bande siciliane. Lo stesso generale Colonna pregava Lanza di mettere de' soldati nelle strade principali della città, essendo certo ed imminente lo scoppio della rivoluzione; e costui rispondeva: "Non voglio far nulla, se si rivoltano bombardo.

Il generale Marra fece leggere una lettera al Lanza scritta da un signore devoto al Re, il quale lo preveniva, e lo assicurava, che nella prossima notte sarebbe scoppiata la rivoluzione, e che Garibaldi sarebbe entrato in Palermo sull'alba del giorno seguente. Il Generalissimo Lanza dopo di aver letta quella lettera, la restituì a Marra, e gli disse freddamente: «Bombarderò» Sciagurato! Era egli ben invaso dalla bombardomanìa? Bombardare una popolosa e monumentale città senza scopo militare,

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mentre avea tutti i mezzi di impedire la rivolta popolare, e l'entrata di Garibaldi in Palermo, è il maximum del delitto, dell'infamia e della pazzia. Però, Lanza non era pazzo, egli sapea quel che facea: col bombardare Palermo raggiungeva lo scopo di far odiare l'innocente e tradito sovrano. Di fatti l'esecutore di quello scellerato bombardamento fu il colonnello Briganti conveniunt rebus nomina saepe suis -

il quale comandava allora il Forte di Castellammare: quello stesso Briganti, poi generale, che mentre in Calabria comandava una brigata, andava giornalmente a confabulare e pranzare con Garibaldi, e fu ucciso da' soldati non potendo costoro sopportare un traditore tanto audace.

Era questo traditore l'amico e il confidente del generalissimo Lanza, l'esecutore de' più tenebrosi delitti. Io anticipo gli avvenimenti, acciò si sappia da tutti, che Francesco II non ordinò punto il bombardamento di Palermo, e quando gli fu annunziato l'atroce e pazzo agire del generalissimo Lanza, si mostrò oltre ogni dire adirato e dolente, e disapprovò altamente quel bombardamento di già consumato. Quel giovane e pio Sovrano - che i popoli ebbero la disgrazia di non conoscere - per riparare il danno che avea sofferto quella città, invece di ordinare poi di conquistarla insanguinandola, si contentò di ritirare le truppe ed abbandonarla a Garibaldi: esempio sublime, unico nella storia de' popoli. Oh! i popoli, maledicono sempre il vinto e lo calunniano ingiustamente. Ma che Palermo intanto non ignori, come la principale anzi l'unica ragione per la quale Francesco II abbandonò a Garibaldi quasi l'intera Isola fu quella di non insanguinarla di più di quanto l'avea insanguinata furbescamente il generalissimo Lanza. Cessi dunque la meraviglia che 24 mila uomini di buonissima truppa abbandonassero una città già conquistata, e si ritirassero in sembianza di vinti sul continente napoletano.

Lanza, attese le notizie che avea ricevute, in cambio di rinforzare Porta di Termini, e l'altra vicina di S.Antonino, la sera del 26 maggio, quando Garibaldi si trovava vicino a quelle porte, richiamò la metà della truppa che le guardava. A Porta S.Antonino lasciò 260 reclute, giudicate inabili a seguire il 2° cacciatori che trovavasi con Meckel: a Porta di Termini 59 soldati del 9° di linea. È pur troppo evidente, Lanza preparava la facile entrata di Garibaldi in Palermo per la mattina del 27.

Garibaldi dopo la confabulazione tenuta al trivio della Ficuzza, importunato da' suoi amici si avviò a malincuore verso Palermo per la via di Marineo e Misilmeri. Udito che la brigata Meckel non l'inseguisse, prima di giungere a Marineo si ascose con i suoi in una foresta sotto la Ficuzza ove passò la notte.

La mattina del 26 scese a Marineo, indi si avanzò sino a Misilmeri. In questo paese fu incontrato da parecchi membri del comitato rivoluzionario di Palermo, e da un certo Ebar inglese corrispondente del magno giornale il Times,

residente pure in Palermo, il quale Eber fu poi il duce di una divisione garibaldina.

Garibaldi ad onta de' consigli di Crispi e di Turr, tuttochè si trovasse a poche miglia lontano da Palermo, non avea cuore di avventurarsi alla temeraria impresa, di cacciarsi dentro questa città. Ma i membri del comitato rivoluzionario di Palermo, e lo stesso Eber lo persuasero a compiere la cominciata opera, avendogli

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descritto le posizioni che occupava la truppa, e che a Porta Termini e a quella di S.Antonino si trovassero pochissimi soldati. Forse gli rivelarono le loro relazioni con qualche duce regio, e le promesse che da costui avevano ricevute. In fine gli assicurarono che la popolazione di Palermo sarebbe tutta per lui, appena apparissero le bande garibaldine.

Si erano riunite nelle vicinanze di Misilmeri molte bande siciliane, una, condotta da La Masa era venuta da Mezzoiuso, un'altra condotta da Fuxa della Bagaria, ed altre condotte da' fratelli Mastricchi.

Garibaldi animato da tutto quello che avea inteso dal comitato rivoluzionario di Palermo, purtuttavia volle passare a rivista le bande di La Masa, di Fuxa e de' fratelli Mastricchi, e persuaso che quelle bande erano desiderose di battersi e seguirlo dovunque, si decise a buttarsi sopra Palermo la mattina seguente, giorno 27 maggio.

La notte del 26 maggio, Lanza e gli altri duci napoletani dormivano tranquillamente come ne' beati tempi di perfetta pace; la soldatesca naturalmente l'imitava. I garibaldini però vegliavano ed operavano energicamente; essi si unirono alle bande siciliane, e tutti formarono un'armata di circa 4000 uomini. Quella stesa notte del 26 si avanzarono sulla sponda destra del piccolo fiume Oreto, e si divisero in due colonne. Quando appena spuntava l'alba del 27 maggio, una colonna si slanciò per ponte dell'Ammiragliato, l'altra pel ponte delle Teste. La prima colonna assalì i soldati di porta S. Antonino, la seconda quelli di Porta di Termini.

Le reclute che guardavano Porta S.Antonino destate improvvisamente, se bene in disordine, purtuttavia fecero il loro dovere, e respinsero per più fiate gli assalitori. Il loro capitano, non so se vile o compro della setta, fingendosi ferito, con parole e grida sconfortò tutti, e li abbandonò poi per recarsi a Porta di Termini, e sconfortare con i suoi piagnistei quegli altri soldati. L'avanguardia garibaldesca era guidata da un certo Tukery inglese, che si avanzava in mezzo a' carri per assalire Porta S.Antonino: nondimeno sofferse gran danno; Tukery fu poi ucciso, e surrogato da Nino Bixio. Le reclute dopo di aver fatta una valida resistenza, abbandonate dal proprio Capitano, e sopraffatte dal numero degli assalitori, si ritirarono combattendo verso il Palazzo reale.

A Porta di Termini succedeva la medesima scena con piccole differenze. Que' 59 soldati del 9° di linea, fecero pure una vigorosa resistenza, ma sempre in disordine; ed oppressi dal numero de' nemici, attaccati alle spalle da' rivoluzionari della città, furono costretti di ripiegare alla volta del Palazzo reale.

Lanza, duce supremo, Luogotenente del Re con alter ego,

dormiva saporitamente, invece di di vigilare per non farsi sorprendere da un nemico audace, che già si sapeva essere alle porte di Palermo. Egli, destato dal rumore, fece capolino dalla sua ben munita stanza, e domandò con voce rauca a qualcheduno del suo stato maggiore: «Che si dice? che si fa? «E mentre facea quest'insulsa domanda, egli forse sapea meglio di tutti quello che si dicesse e si facesse in quella notte, ed in quella mattina memoranda. Sollecitato a dare i suoi ordini per respingere quel nemico che

49dovea acconciare per le feste,

esitò, e furbescamente fece passare assai tempo per risolversi. Costretto a prendere una risoluzione per acquietare la soldatesca che gridava e strepitava, perché volea correre per dare addosso a' rivoluzionari e agli invasori, di tanti battaglioni disponibili che avea ne mandò uno solo, con quattro cannoni comandati dal capitano de Sauget: però giunsero troppo tardi. I garibaldini si erano di già intromessi nella città, riuniti ai rivoluzionari di dentro, e tutti uniti, ergeano ripari, barricate e prendevano posti ne' palazzi per fulminare la truppa senza essere né offesi né visti.

Il capitano de Sauget con i suoi quattro cannoni tirò parecchie cannonate ove non si trovavano nemici, e poi si vantava di essere stato l'unico che avesse offeso il nemico invasore; mentre né pure gli torse un capello.

Dopo che i garibaldini si erano fortificati, il Lanza, sul tardi, fece avanzare Landi con una brigata, e il Tenente colonnello Marulli col 9° di linea, il primo per i quattro cantoni della Città, il secondo per Porta Macqueda. L'eroe di Calatafimi, Landi, appena vide il nemico, come dovea prevedersi, diede indietro frettolosamente senza far tirare un colpo di fucile a' suoi soldati, lasciando scoperto e compromesso il Marulli a Porta Macqueda, il quale assaltava le barricate col suo reggimento. I garibaldini vedendosi liberi d'altri nemici diedero tutti addosso al Marulli, fulminandolo non visti da tutti i punti. Costui si difese energicamente, ma avendo poca forza, ed essendo stato ferito assieme ad altri suoi dipendenti, diede indietro e si ricoverò al Palazzo reale.

Il generale Bartolo Marra che avea il comando di quelle scaramucce fu pure costretto ritirarsi al solito porto di salute creato dal generalissimo Lanza, cioè il piano del Palazzo reale, ed il vicino piano di S.Teresa.

Quando la strada di Porta Termini fu sicura d'ogni pericolo, Garibaldi montato a cavallo, entrò da quella porta. Ecco la parte del pericolo che si scelse l'eroe de' due mondi, il duce supremo della rivoluzione cosmopolita, del quale si raccontarono, e tutt'ora si raccontano maraviglie della sua entrata in Palermo la mattina del 27 maggio del 1860.

La rivoluzione leva alla stelle i suoi duci per raccogliere sotto le sue bandiere i giovani creduli ed entusiasti, e sacrificarli poi per i suoi inqualificabili fini.

Garibaldi entrato in Palermo, fu spettatore dell'incendio di un Palazzo ove abitava un certo Mistretta, creduto delatore di polizia. Il duce rivoluzionario reputò quel vandalismo, sfogo di popolo.

Il colonnello Meckel non reputò nel medesimo modo il saccheggio della casa del rivoluzionario di Corleone, al contrario impedì e perseguitò i saccheggiatori per quanto le circostanze glielo permisero. Intanto Garibaldi è un eroe, Meckel un vandalo e peggio.

Il giorno 27 maggio ci furono per la Città parecchie scaramucce tra soldati e rivoluzionarii, ma senza scopo e risultati. Lanza invece di mettersi alla testa di tutta l'armata e rovesciarsi sugl'invasori, mandava truppa a piccoli drappelli per combattere il nemico. Egli usava questa tattica per togliere a' soldati la possibilità di vincere, e di scoraggiarli con continue ritirate.

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Se poi qualche battaglione diretto bene ottenesse qualche vantaggio sopra i nemici, il Generalissimo gli mandava subito l'ordine di ritirarsi, come accadde diverse volte, e specialmente quando fu assaltato e preso il bastione di Montalto da' soldati. Quel giorno 27 maggio si pugnò alla villa Filippino, al Giardino inglese, a Ballarò, ma senza disegno e senza scopo; erano sempre gli stessi soldati che correano da un punto all'altro, il resto della truppa stava oziosa intorno al duce Lanza. Questo inqualificabile generale, non contento di tutta quella truppa che tenea ammassata ed oziosa intorno a sè, mandò l'ordine a Buonanno che comandava tre battaglioni in Monreale di ritirarsi in Palermo, già s'intende intorno al Palazzo reale. Lo stesso ordine mandò alla truppa la quale guardava la interessante posizione de' quattro venti, togliendosi la comunicazione col mare.

Lanza, dopo la rappresentazione di quelle commedie guerresche da lui bene organizzate, giudicò che la pienezza de' tempi fosse giunta: tutto avea egli operato col senno - non già con la mano - per raggiungere lo scopo suo premeditato e prediletto; per soddisfare la sua smania di bombardar Palermo, e così compromettere nell'opinione pubblica Colui che gli avea dato danari, onori e potenza. Sul tardi di quel giorno 27, segnalò al suo amico Briganti accovacciato nel Forte di Castellammare, che avesse cominciato a bombardar la città. Costui non se lo fece dire due volte, eseguì subito l'ordine dell'amico. Vano mezzo di guerra! maggiormente quando non è seguito dall'assalto della truppa alla città bombardata. Il modo come Lanza si condusse nel bombardar Palermo servì solo a far detestare ingiustamente l'innocente e tradito sovrano, a spaventare le donne ed i fanciulli innocenti, mentre i caporioni della rivolta sapeano risparmiarsi in luoghi sicuri, sapeano ove andasse a finire quel barbaro mezzo di guerra.

Briganti per dar meglio ad intendere al suo amico Lanza, com'egli eseguisse bene gli ordini di lui, e sapendolo rincantucciato ne' segreti penetrali del Palazzo reale, spesso spesso mandava qualche bomba alla volta dell'amico, la quale cadendo in mezzo a' soldati molti ne uccideva o feriva.

La flotta napoletana stava inoperosa nel porto di Palermo, ed una sola fregata si mosse più per far male a' soldati anzichè a' rivoluzionari: mentre Briganti bombardava, quella fregata si collocò dirimpetto porta Felice, e tirò così bene i suoi colpi lungo il Cassero che valse benissimo ad uccidere tre soldati, e ferirne sette nel piano del Palazzo reale. Quella disgraziata truppa non sapea più da chi guardarsi!

Garibaldi dopo di aver goduto lo sfogo del popolo,

coll'incendio della casa di Mistretta, corse ad impossessarsi del Palazzo di città, detto Pretorio. Di là caccio il municipio, che disciolse, e lo ricostituì con elementi rivoluzionari. Dichiarandosi Dittatore - come già si era dichiarato a Salemi - emanò un diluvio di ordini e decreti per tutta la Sicilia. Arringò il popolaccio palermitano: nominò segretario di Stato, Crispi, già cospiratore siciliano, poi ministro di Finanze, delle quali il povero rivoluzionario avea tanto di bisogno: aprì le carceri della Vicaria, e diede la libertà a mille e cinquecento facinorosi. Lupo non mangia lupo.

Garibaldi non vedendosi seriamente molestato, ed ingrossate bene le sue bande, il 29 maggio prese l'offensiva contro i regii.

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Fu sempre battuto da' soldati, ma questi si ritiravano ogni volta che il Lanza il volesse, cioè tutte le volte che battevano bene i garibaldini.

La gente pacifica di Palermo, in que' giorni era in uno stato deplorevolissimo: oltre di trovarsi in mezzo a due fuochi, era rubata ed assassinata dalle squadre, e principalmente da' facinorosi usciti dalla Vicaria: tanto che lo stesso Garibaldi decretò la pena di morte a quelli che rubassero. Vano decreto! non essendoci chi lo facesse eseguire.

Sebbene i garibaldini fossero padroni della città e tutto sembrasse loro favorevole, ciò non ostante aveano provato il valore de' soldati, e sapeano che da un momento all'altro il duce in capo Lanza potesse essere surrogato da un generale prode, e fedele al Re, e quindi tale da sospingere loro addosso circa 24 mila uomini di buona truppa. Essi che già difettavano di munizioni e di armi, come avrebbero potuto superare un attacco serio, anche col terzo delle truppe? Sapeano che Meckel con la sua brigata marciava sopra Palermo, ed aveano fatta esperienza a Parco che quel duce si battea davvero, e non era uomo da farsi trascinare alla causa della rivoluzione. Quindi le buone condizioni di Garibaldi e dei suoi erano precarie, e l'uno e gli altri stavano di mal animo.

Lanza che tutto avea calcolato, venne in soccorso de' nemici del Re. La sera del 29 maggio, essendogli stato segnalato da Castellammare che la brigata Meckel era per piombare sopra Palermo, finse di non crederlo: corse l'uffiziale telegrafico Agostino Palma, e gli fece vedere con gli occhi propri la colonna Meckel che marciava verso Palermo: ma egli fingeva sempre nulla vedere, e nulla credere: a chi lo consigliava di spingere battaglioni a sorreggere Meckel, rispondeva negativamente. Lanza riflettendo che l'arrivo della brigata Meckel gli avrebbe guastato i suoi rei disegni, trovò subito il rimedio. Dopo una confabulazione col colonnello del Genio Gonzales, si affrettò a scrivere una lettera a Garibaldi, lettera che mandò con un prigioniero sardo. Lanza, che dovea conciar per le feste

Garibaldi, lo pregava

a concedere un armistizio, e lasciar libero il passo al generale Letizia già carbonaro del 1820 per recarsi da Mundy comandante la flotta inglese, avendo scelto costui intermediario de' patti che doveano stabilirsi per la sospensione d'armi.

Garibaldi, che altro non desiderava, finse di farsi pregare, e Lanza lo pregò per la seconda volta: allora si piegò a lasciar libero il passo al Letizia, e si recò egli pure a bordo presso Mundy, ove fu stabilito, di cessare le ostilità la sera medesima di quel giorno 29, e discutere il giorno appresso i patti dell'armistizio.

Questa vergognosa condotta del Lanza, uno scrittore garibaldino la chiama colossale stupidità,

ma si dovrebbe chiamare diversamente. Di fatti quell'armistizio fu fatto la sera del 29 per legare le mani a Meckel, il quale era già arrivato con la sua brigata alle porte di Palermo.

Il Meckel appena giunto a Villabate mandò a Lanza un sergente siciliano travestito, con una lettera nella quale gli dicea, che la mattina seguente avrebbe assalito la città dalla parte di Porta di Termini e della Villa Giulia, detta la Flora.

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Di quel povero sergente siciliano non si ebbe più notizia: chi sa se Lanza l'avesse fatto sparire, per evitare il cimento di confessare poi che avea ricevuta quella lettera.

Sin dal mattino del 30 tutta la brigata Meckel occupava la riva diritta del piccolo fiume Oreto. Tra Bosco comandante il 9° Cacciatori, e Morgante comandante il 2° ebbe luogo un'altra gara di onore, imperocchè tutti e due voleano marciare all'avanguardia dell'assalto di Porta di Termini, ed entrare i primi in Palermo. Voleva giustizia che si preferisse il Morgante, dapoichè Bosco era stato preferito all'impresa di prendere i cannoni ad Orsini sulle colline di Corleone. Invece il Bosco fu destinato ad investire la Flora, che rimane dalla parte del mare, coadiuvato da quattro compagnie del 2° Cacciatori. Alla Flora si erano fortificate un grandissimo numero di squadre.

Il 3° battaglione estero, quattro compagnia del 2° cacciatori, e due cannoni furono destinati allo assalto di Porta di Termini. Le quattro compagnie del 5° di linea rimasero di riserva. Tutta la forza che investì Porta di termini non oltrepassava mille e quattrocento uomini. Io fui destinato a Porta di Termini; e ne fui contentissimo, poichè sapevo che ivi la zuffa sarebbe stata più terribile, come in effetto avvenne.

Prima che si passasse il Ponte delle Teste avvenne un vivissimo scambio di fucilate con gli avamposti garibaldini, che si ritirarono facendo continuamente fuoco.

Passato il Ponte vi è una lunga e larga strada diritta, fiancheggiata allora di piccoli palazzi, la quale conduce a Porta di Termini, e di là prosiegue sempre diritta e larga fino alla piazza della Fieravecchia. Dal Ponte delle Teste sino a questa piazza corre poco più di mezzo chilometro. Quella via era tutta barricata, e le barricate erano state fatte di bellissimi mobili. Imperocchè i palazzi di quella strada furono abbandonati dagli abitatori; i garibaldini e le squadre li scassinarono, si servirono dei mobili per alzare barricate, e de' balconi di que' palazzi fecero tante fortezze con materassi di lana, con sacchi pieni di terra, in mezzo a' quali fecero le feritoie, donde poteano ferire i soldati senza essere veduti.

La truppa che assaltò Porta di Termini fu disposta in questo modo: i soldati marciavano ad uno ad uno alla distanza di due palmi, quasi radendo le mura de' Palazzi di diritta e di sinistra: quelli di diritta tiravano a' balconi di sinistra, e così viceversa. I due piccoli cannoni di montagna stavano al centro e batteano le barricate con grossa mitraglia: queste barricate aveano pure le feritoie, dietro le quali erano appiattati i garibaldini.

Descrivere tutti gli accidenti di quel sanguinoso combattimento, sarebbe andarmene troppo per le lunghe. Dirò in generale, che sul cominciare l'assalto caddero non pochi soldati tra morti e feriti, maggiormente a Porta di Termini ove le fortificazioni erano più spesse, e difese da molta gente: ivi il conflitto fu più sanguinoso. I soldati cadevano senza colpire, o vedere il nemico che li decimava. Fu a quel punto che la truppa si determinò dar fuoco a' palazzi fortificati per isnidare i rivoltosi. Questo mezzo riuscì facile a' soldati e fatale ai garibaldini: i quali se fossero usciti da quelle fortificazioni sarebbero stati uccisi, ed ove fossero rimasti sarebbero stati abbruciati. Da quel momento le sorti del combattimento cambiarono, i soldati non


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furono più colpiti da invisibili nemici, e questi cessarono di far fuoco, pensarono a salvarsi, per lo che alcuni più fortunati poterono fuggire dalla parte opposta, permettendolo la peculiare costruzione de' palazzi: altri o furono vittime delle fiamme,

0furono uccisi, o fatti prigionieri.

L'artiglieria intanto si avanzava rovesciando le barricate: i guastatori erano pronti a togliere gli impedimenti per dare via al corso delle ruote sulle quali erano posati i cannoni.

Si gridò alla barbarie e peggio de' soldati, perché incendiarono que' Palazzi: ma di chi fu la colpa? de' garibaldini sicuramente. Questi in cambio di fortificarsi nelle abitazioni altrui, perché non uscirono fuori la città per attaccare in quelle pianure la brigata Meckel? poteano venire la notte precedente ad assalirci con grande vantaggio. Nessun uomo di buon senso potrebbe pretendere che i soldati si fossero fatti ammazzare da un nemico invisibile e sicuro, per la sola ragione che non pregiudicassero quelle abitazioni trasformate in terribili fortezze.

I garibaldini che si trovavano dietro la barricate, retrocedendo sempre, giunti alla Piazza della Fieravecchia si diedero a precipitosa fuga. I soldati giunti in quella Piazza, già si slanciavano ad invadere il resto della Città per la strada che conduce a' Cintorinari, dall'altra a sinistra delle Pentite, e dal vicoletto che sbocca a S. Cecilia. Non vi erano più nemici da combattere, ed altro non si sentiva che voci le quali chiedeano pietà, e pietà ottenevano poichè i soldati non incrudelivano contro coloro che abbassavano le armi.

Nella Piazza della Fieravecchia in un Palazzo a sinistra venendo da Porta di Termini, erano racchiusi più di cento soldati fatti prigionieri ne' giorni precedenti.

I garibaldini che faceano loro la guardia, appena intesero che la truppa si avanzava, si disposero a fuggire; ma i soldati prigionieri loro diedero addosso, li disarmarono, e fecero prigionieri i propri guardiani.

Ora nel punto che la vittoria sorrideva alla truppa napoletana, questa si avanzava sul resto della città senza trovar più alcuna resistenza: moltissimi paesani sventolavano bianchi lini, e gridavano: Viva il Re.

In quella si vede sbucare dalla strada delle Pentite un uomo in uniforme del 6° Reggimento di Linea, addetto al comando generale: era il Capitano Nicoletti, il gridava a' soldati; «Per ordine di Sua Eccellenza, il Luogotenente del Re, il generale Lanza, rimanete qui, poiché la rivoluzione è abbattuta e sottomessa: evitiamo gli orrori di una città presa di assalto e in breve entrerete nel resto di Palermo, ma, per ora, rimanete qui. Signori ufficiali, impedite a' soldati che si avanzino più oltre.

A questa consolante e insperata novella che ci recò il Capitano Nicoletti mandato da Lanza, tutti gli uffiziali impedirono a' soldati di avanzarsi più oltre, ed io stesso volli molto cooperarmi assieme agli uffiziali.

Il Nicoletti quando trovò il momento di parlare a solo con Meckel gli disse: «Ho detto a' soldati che la rivoluzione è sottomessa, è vero. A voi debbo comunicare che gli ordini di Sua Eccellenza, quali sono: Ier sera Sua Eccellenza il Luogotenente del Re conchiuse un armistizio con Garibaldi. Non mettendo in conto che il vostro

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attacco è contrario all'armistizio, sarebbe slealtà militare proseguire le ostilità. Date ordine alla truppa che si trova alla Flora, di cessare il fuoco e ritirarsi.»

Il prode e leale Meckel era per morir di dolore a quell'annunzio: credea di aver riparato il suo errore commesso di non avere inseguito Garibaldi dalla Ficuzza a Palermo; il vedersi sfuggire di mano la vittoria già riportata fu per lui un colpo di fulmine. Ma fu necessità ubbidire agli ordini del Generale in Capo. Alla Flora succedevano le stesse scene delle Fieravecchia. I rivoluzionarii erano stati snidati anche dall'Orto botanico e messi in fuga, e da ogni parte si udivano grida di Viva il Re,

e le preghiere di far cessare il fuoco di un vapore napoletano, il quale da sotto la Casino di Cotò, tirava cannonate a palla sopra i rivoltosi.

Bosco e Morgante al sentire l'ordine di Lanza, trasecolarono, e se lo fecero ripetere più volte, non credendo alle proprie orecchie.

Ecco quali sono le vittorie di Garibaldi tanto celebrate! Egli invece di battersi alla testa dei suoi volontari a Porta di Termini, se ne stava nelle bellissime camere di Palazzo Pretorio, ch'è nel centro della Città. E dirò nell'altro capitolo quello ch'egli fece all'annunzio della disfatta e fuga de' suoi volontari.


CAPITOLO VI

La Masa che si trovava nel combattimento di Porta di Termini, vedendo i soldati, quantunque decimati, avanzarsi imperturbabili, corse al Palazzo Pretorio, e disse a Garibaldi, che tutto era perduto, le squadre ed i volontari del continente tutti in fuga, i soldati avanzarsi senza più trovare ostacoli, tra breve invadere tutta la Città, e quindi il loro pericolo di essere fatti prigionieri, imminente. Il Dittatore che stava dubbioso sulla sorte de' suoi, perché avea inteso il fuoco della moschetteria sempre avvicinarsi a lui, udendo le notizie che gli recava la Masa, ex abundantia cordis,

esclamò: «Tradimento! mi hanno tradito! «Stava per uscire dal Palazzo Pretorio per mettersi in salvo, forse sopra qualche legno sardo o inglese che si trovavano nel porto; e veramente a quelle persone che gli si paravano innanzi anelante domandava: «Qual'è la strada più vicina che conduce al Porto? "

Però, prima di fuggire, consigliato dagli amici che lo circondavano, volle tentare di nuovo la fortuna con ottenere qualche cosa dal generale Lanza, cui mandò subito una persona fidata. Questo tristissimo Generale che era inaccessibile ed invisibile a tutti, ricevè immediatamente il messo di Garibaldi. Fu allora che il Lanza spiccò l'ordine a Meckel di cessare dalle ostilità, e non avanzarsi di più nella città: e non contento di avere mandato quest'ordine col capitano Nicoletti, temendo che questi potesse avere del male in quella baruffa, ne spiccò un altro simile e lo mandò anche a Meckel col capitano Bellucci. Quanta premura e prevvidenza quando si trattava di agevolare il nemico!

Garibaldi rassicurato dagli ordini dati da Lanza al Meckel, si atteggiò nuovamente a Dittatore della Sicilia, ad eroe da commedia.

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La penna mi cade dalle mani scrivendo questi fatti che non hanno esempi nella storia delle umane malvagità. Quella sospensione d'armi non solo fu il crollo della monarchia de' Borboni, e della autonomia secolare del Regno delle Due Sicilie, ma inoltre fu inesauribile fonte di lagrime e di sangue. Oh! la caduta de' Troni legittimi schiaccia sotto i suoi rottami e popoli e Regni!

Garibaldi mandò un altro messo al Lanza per affrettare la discussione de' patti e la firma dell'armistizio. Il Lanza che in tutto e per tutto volea contentare il duce rivoluzionario, mandò i generali Letizia de Chretien a sottoscrivere in suo nome.

I due generali si recarono al Lazzaretto, ove trovarono Garibaldi in mezzo al suo Stato maggiore, e tutti montarono su l'Annibale

legno inglese, ed ivi alla presenza di Mundy abborracciarono senza discussione una tregua di 24 ore.

Letizia portava alta la testa, si vantava delle sue passate prodezze, pretensione che fece ridere tutti.

Firmata la tregua i due Generali tornarono da Lanza orgogliosi e baldi come se avessero vinta una grande battaglia. Regno disgraziato servito da simili Generali!

Garibaldi stremato di forze, battuto dentro Palermo, circondato da un esercito di circa ventiquattromila uomini, in procinto di fuggire all'entrata della sola brigata Meckel che si batteva per davvero, e che si era raccomandato a Lanza per esser salvo, ed ottenere la tregua, dopo i fatti di Fieravecchia, annunziava all'attonita Sicilia di aver conceduta quella tregua per mera umanità.

Palermitani però non credeano che veramente il Lanza avesse concesso un armistizio. Essi, dopo tutto quello che aveano veduto, non poteano credere che il duce della rivoluzione avesse ancora qualche autorità in Palermo. Aveano veduto i soldati avanzarsi senza ostacolo nella città, i garibaldini fuggire per ogni dove, le squadre sparite per incanto: la notizia di quell'armistizio chi la giudicava una favola garibaldesca, chi un'astuzia del Lanza.

Tenente Savino, e il Capitano Nicoletti, i quali traversarono la città immediatamente dopo aver firmato l'armistizio, mi raccontarono più volte, che ricevettero da' Palermitani moltissimi segni di profonda riverenza e proteste di sottomissione.

Io sono testimone, che moltissimi Palermitani d'ogni condizione, dopo firmato l'armistizio, venivano nel campo della Fieravecchia a raccomandarsi a me, facendo a tutti proteste di devozione alla causa dell'ordine e del Re.

Si era stabilito che il giorno seguente si dovesse assalire la città con tre colonne: una comandata da Wittembach dalla parte del Papireto, la seconda comandata da Sury dalla parte di Ballarò, la terza dal celebre Landi di Calatafimi per la via del Cassero. L'essere stato quest'ultimo scelto all'operazione più difficile, dimostrava chiaro che non si voleva vincere.

Il Tenente-Colonnello Buonopane intimo del Lanza, fece di tutto affinchè non avvenisse quell'assalto che si era designato: fece osservare che la città non si sarebbe potuta assalire, conciosiachè fosse stata barricata da' garibaldini: quindi proponeva un prolungamento d'armistizio d'altri tre giorni: Lanza approvava un consiglio cotanto sapiente.

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Vedete, lettori miei, quanta insipienza e stupidaggine! Se in una notte la città fu barricata in un modo che la truppa ne avrebbe patito gran danno assaltandola, con altri tre giorni di tregua Palermo non sarebbe divenuto inespugnabile? Intanto così ragionavano que' duci gallonati, privi di quel buon comune che fa difetto né pure agli idioti: se poi non si volesse ritenere di buona fede, meriterebbero quegli epiteti che voi sapete.

È legge di guerra che nella tregua nessuna delle parti belligeranti possa fare opera di fortificazioni qualunque siano: tuttavia i garibaldini ne faceano quanto più poteano, ed i soldati spettatori di quelle opere che servivano a loro danno non poteano impedirle per divieto de' loro duci. I garibaldini fecero di più: contrariamente a' patti della tregua impedirono alla truppa di fornirsi di vettovaglie, impossessandosi de' carri pieni di viveri destinati a' soldati. Lanza e gli altri generali della sua qualità non trovavano nulla da osservare a queste infrazioni dell'armistizio.

Il generalissimo Lanza facendo tesoro delle ragioni sciorinate dal Buonopane contro i progetti di assalire la città, mandò il solito Letizia al palazzo Pretorio, acciocchè chiedesse a Garibaldi un prolungamento d'armistizio.

Ecco i patti del novello armistizio firmato da Crispi come segretario di Stato del Dittatore: art. 1° Consegna del Banco di Palermo con tutti i danari (bravo Crispi); art. 2° Prolungamento della tregua per tre giorni; art. 3° libero passaggio de' viveri dall'una e l'altra parte; art. 4° Imbarcarsi i feriti regi con le famiglie; art. 5° Scambio di prigionieri d'ogni garibaldino con due regi.

Avete mai letto nelle storie delle guerre che, nella conchiusione di una tregua solo profittevole al vinto, si consegnassero a questo i danari dello Stato? Io non l'ho mai inteso dire né letto, e suppongo che una simile cosa non sia mai stata al mondo. I duci napoletani, ignoranti, inetti, e, com'è in voce presso tutti, traditori, non contenti di accordare al nemico tutti i vantaggi possibili per distruggere quell'armata ch'essi medesimi comandavano, consegnarono allo stesso nemico il danaro dello Stato e de' privati, per metterlo nella posizione più comoda e sicura di far la guerra ad oltranza, come possessore di quell'attraente metallo che tutto può e vince.

Il Crispi, creato allora ministro delle Finanze, trovò nel Banco (attento Crispi), cinque milioni di ducati, moneta sonante già s'intende, perché il Regno delle Due Sicilie non era Regno di carta che spesse volte diventa stomachevolmente sudice.

Si vuole che il vero scopo dell'armistizio fosse stato la cessione di quel Banco a Garibaldi, dapoichè vi era da far contenti e quelli che davano, e quelli che riceveano. Fu detto e stampato che Lanza, di que' cinque milioni rosicchiò per parte sua ducati sessantamila. Io me ne lavo le mani, vi racconto, lettori miei, quello che solamente si disse e si stampò in que' tempi: e trattandosi di danari, è un affar serio; quid non mortalia pectoria cogit auri sacra fames?

Ai soldati si era imposto con inganno, l'ordine di non avanzarsi nella città, dico con inganno, non solo perché si disse che la rivoluzione era abbattuta e sottomessa, ma perché l'armistizio vantato e protestato dal Lanza al Meckel, non era stato ancora né firmato né discusso, ma in parola, e Meckel potea misconoscerlo: e quando essi intesero il secondo armistizio,

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e i vergognosi patti, inviperirono di un modo che mettea paura. Già cominciavano a disubbidire, gridavano al tradimento, e a qualunque costo voleano slanciarsi contro i rivoluzionari.

La notte di quel giorno che si firmò il secondo armistizio, parecchi capi di reggimenti e di battaglioni erano dello stesso avviso de' soldati. Ma ecco il genio malefico del Tenente Colonnello Buonopane, mandato da Lanza, a perorare la causa della tregua, or con preghiere, or con minacce, mettendo sempre in mezzo i voleri del Re. La truppa educata ad una severa disciplina, se per un momento la dimenticava, tosto se ne correggeva, specialmente udendo il nome del Re, cui idolatrava, si sottomettea a tutto, ma non senza fremere di rabbia.

Dopo la firma del secondo armistizio, i soliti intimi del Lanza, Buonopane e Letizia partirono per Napoli. Questi due tristi militari fecero al Re una descrizione della truppa la più sconfortante, ed un'altra brillantissima dello stato de' garibaldini in Palermo. Que' due volponi consigliarono a quel giovine e buon sovrano - il quale né pure sospettava la nequizia di que' due tanto beneficati - di approvare assolutamente l'armistizio, ordinare la ritirata della truppa a' Quattroventi, e prolungare per un termine indefinito l'armistizio. Il Re per allora approvò il solo armistizio.

Il 2 giugno questi stessi ritornarono trionfanti a Palermo: prima di recarsi dal Lanza si abboccarono con Garibaldi: pretendeano di avere pieni poteri dal Re: quindi opponevano qualche contrasto al Generale in capo Lanza: e tutto questo perché trasportati dal grande desiderio di cedere la città a Garibaldi in nome proprio.

Essi ripartirono subito per Napoli, e consigliarono al sovrano di cedere Palermo a Garibaldi, facendogli osservare che la città era divenuta inespugnabile, che i soldati erano demoralizzati, non ubbidivano, e non voleano battersi menzogne ed infamie!

Il giovin Re, pio e aborrente dal sangue, diede loro ordine di condurre la truppa a' Quattroventi, e di là imbarcarsi e lasciare Palermo in balia di Garibaldi e dei suoi. Letizia e Buonopane il 5 giugno ritornarono a Palermo sul vaporetto la Saetta,

e spacciarono come un gran trionfo gli ordini carpiti al tradito sovrano.

È indescrivibile il furore de' soldati e degli uffiziali all'annunzio che si dovesse abbandonare Palermo. Io mi aspettava da un momento all'altro una rivoluzione soldatesca.

Nel tempo che si rimaneva inoperosi alla Fieravecchia, le diserzioni de' soldati ed uffiziali erano già cominciate largamente: però all'annunzio di dar Palermo a Garibaldi e della nostra partenza da quella città, le diserzioni aumentarono in un modo allarmante. Alcuni uffiziali diceano di essere tentati a quel vergognoso passo per non sopportare la maggiore vergogna di ubbidire e servire sotto Generali inetti, vili, e traditori. Questi furono i pochissimi, i quali nella guerra aveano fatto il loro dovere, la maggior parte disertarono, adescati dal danaro (era quello del Banco), che spargeano i messi Garibaldi, pel desiderio di ottenere gradi maggiori nell'armata rivoluzionaria, e riposo, perché erano vili. Questi uffiziali disertori, salvo pochi, erano stati lo scandalo della truppa: in pace burbanzosi e fieri, in guerra si nascondeano in faccia al nemico.

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Chinnici Capitano della compagnia d'armi di Palermo disertò al nemico, ma questi invece di premiarlo lo mandò alla Vicaria, d'onde dopo poco tempo fuggì e riparò a Malta: e si potrebbe dire di quel Capitano, «a Dio spiacente ed a' nemici sui».

Il 6 giugno, il generale Letizia e il Tenente Colonnello Buonopane ottennero il favore tanto desiderato di trattare con Garibaldi lo sgombro della truppa dalla Città, presenti gli ammiragli francese ed inglese. Ecco quanto si stabilì. Lo esercito dovea ritirarsi per mare con armi, bagagli e tutti gli animali di tiro che si trovassero nell'armata.

Liberi gli uffiziali di imbarcarsi con le loro famiglia e roba. Scambio di prigionieri.

Liberazione de' prigionieri politici.

Si disse che Lanza, Letizia e Buonopane per far cosa grata a Garibaldi gli avessero promesso che avrebbero fatto consegnare i fucili a' soldati, e gli avrebbero lasciato l'artiglieria: però questa promessa non l'adempirono perché il contegno degli uffiziali fedeli e de' soldati era poco rassicurante.

Si gridò tanto e si grida ancora contro l'armata napoletana per avere bombardato Palermo, saccheggiati ed uccisi molti cittadini, abbruciati palazzi e case con dentrovi intiere famiglie.

Lord Palmerston si fece scrivere tutto questo dal suo Ammiraglio Mundy, e i giornali inglesi lo strombazzavano a' quattro venti della terra, ed erano poi ricopiati dal giornalismo europeo ed americano come oracoli di fede. Io, qual testimone oculare, dirò coscienziosamente quello che vi è di vero e di calunnioso.

Circa il bombardamento di Palermo ho già detto che non fu ordinato dal Re, ma provocato e voluto da' suoi perfidi Generali per discreditare la causa del proprio sovrano. Di fatti fu un bombardamento senza scopo militare, non essendo stato seguito dall'assalto della truppa alla città, come si dovea secondo le leggi di guerra. Fu detto pure quali case e palazzi fossero arsi dai soldati, e di chi fosse la colpa, cioè de' rivoluzionarii, i quali in cambio di battersi a campo aperto, si fortificavano nelle abitazioni altrui ed ivi non veduti faceano fuoco sulla truppa. È assolutamente calunnioso il dire che vi furono intiere famiglie bruciate vive. L'incendio de' palazzi accadde a porta di Termini: ora que' palazzi erano stati già abbandonati da' loro abitatori quando li occuparono i garibaldini, quindi nessuna famiglia fu vittima dell'incendio. Concesso pure che qualche famiglia fosse stata bruciata nella propria abitazione, dovea darsene la colpa a' soldati? no certamente, bensì a' rivoluzionarii: conciosiachè i soldati non aveano il potere di ordinare al fuoco che abbruciasse i soli nemici e perdonasse alle famiglie innocenti, le quali si contennero malissimo rimanendo in quelle abitazioni trasformate in fortezze, ove non potea essere sicurezza né quiete. Dopo l'assalto di porta di Termini, io girai pe' palazzi

incendiati con lo scopo di recare soccorso a qualche disgraziato moribondo, ove mi toccò vedere de' cadaveri a' quali ancora rimanea qualche lembo di camicia rossa, ma non vidi alcun vestigio né di ragazzi né di donne consumate dal fuoco. Del pari è calunnioso che i soldati saccheggiarono que' palazzi: i proprietarii,

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prima di abbandonarli, si crede fermamente avessero portato seco le cose migliori che aveano: in seguito vennero le squadre e i garibaldini, che non erano tutti fior di onestà, e lo provano i decreti di Garibaldi il quale condannava in que' giorni i ladri alla morte. I mobili di que' palazzi servirono alle barricate, il resto fu consumato dal fuoco: ai soldati rimanea di saccheggiare le sole mura. Voi lo vedete, io qui non difendo i soldati napoletani con passione, vi dico fatti: in Parco ove la brigata Colonna saccheggiò i magazzini di vino fu trattata come meritava: ma ne' palazzi della Fieravecchia e porta di Termini, se i soldati avessero voluto saccheggiare loro sarebbe mancata la materia. Mi si dirà che i soldati saccheggiarono alcuni palazzi ove non entrarono i rivoluzionarii, ed io rispondo che que' palazzi furono saccheggiati da' ladri palermitani. In fatti la notte veniva molta gente nella strada di porta di Termini e della Fieravecchia, e si annunziava a' soldati padrone di tale o tal altro palazzo; saliva, facea fagotto, e via.

Meckel, di ciò avvisato, diede ordine a' soldati, che faceano la sentinella nella strada, di non fare entrare in alcun palazzo tutti coloro che si spacciassero padroni. Purnondimeno i ladri palermitani trovarono un altro mezzo per rubare, cioè nella notte faceano un buco alla parte opposta di quelle abitazioni, e vi si introduceano senza che le sentinelle se ne accorgessero. Spesso, que' ladri entravano in un palazzo e da questo passavano a quello contiguo, forando il muro intermedio.

Il solo saccheggio che si può imputare alla truppa - se tale potesse chiamarsi - fu quello di aver tolto a sè campi intieri di pomi di terra che erano nelle vicinanze di porta di Termini, e di aver falciato il grano ancor verde per darlo a' cavalli e muli. Ciò fu permesso da Meckel per la ragione della mancanza de' viveri.

Fuori di porta di Termini, dalla parte di mare, vi era un deposito di vini esteri e nostrani: le squadre e i garibaldini lo aveano scassinato e mezzo saccheggiato; i soldati quando sopraggiunsero fecero anche la loro parte. Meckel, onestissimo e rigoroso qual era, impedì non solo quell'atto a' soldati, ma punì costoro, fece serrare le porte del magazzino, e stabilì una sentinella per guardarlo.

Del resto, nelle guerre civili, ed anche in quelle di eserciti regolari, accadono sempre simili saccheggi; avvengono spesso incendii e altri mali peggiori. Basta aprire la storia di tutte le guerre per accertarsi che questa piaga sociale esiste da per tutto, eziandio negli eserciti che si vantano tra i più civili d'Europa.

Lord Palmerston, quando calunniava il Re di Napoli e l'armata napoletana vedeva il fuscello negli occhi altrui e non vedeva la trave nei suoi. Il mondo sa come erano trattati da' soldati inglesi i poveri indiani. Quindi calunniare in quel modo un'armate infelice e tradita non è onesto e generoso.

CAPITOLO VII

Il giorno 8 giugno giunse l'ordine che la truppa si trasferisse a' Quattroventi e al Molo. La brigata Meckel si mosse in bell'ordine, prese la via della Flora,

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continuò per la strada Marina, o Foro borbonico, Doganella, Borgo, e si condusse al Molo. La truppa della Fieravecchia, e porta di Termini marciava con la testa alta, e con baldanza militare sotto gli occhi di un gran popolo, perché avea la coscienza di aver vinto tutte le volte che pugnò contro i rivoluzionarii. Quel popolo era maravigliato di veder quel numeroso e fiorente esercito abbandonare vergognosamente una città che avea vinta. Si rechi a lode di quella popolazione il contegno dignitoso e circospetto: né un gesto, né una parola ella disse che avesse potuto offendere i soldati.

Prima che la truppa del palazzo reale e piano di S. Teresa partisse alla volta de' Quattroventi, Lanza montò a cavallo - l'unica volta dopo che venne in Palermo - e mosse verso il Molo; non isdegnando di farsi accompagnare da' garibaldini, invece di mettersi alla testa della truppa.

Poichè l'armata fu tutta riunita a' Quattroventi e al Molo, Bosco scelse tre uffiziali del 9° cacciatori, de' quali anch'io facea parte, con l'ordine di recarsi a Monreale, e condurre al Molo di Palermo le famiglie de' militari rimaste in quella città. Siccome fummo accompagnati da due garibaldini, uno de' quali si facea chiamare Capitano, e l'altro pure in camicia rossa che riconoscemmo per un soldato disertore del 3° esteri, traversammo la città occupata da' garibaldini. Ivi tutto era baccano e saturnali; e il delirio era al colmo. Tutti si abbracciavano con gioia disordinata, e gridavano: «Siamo liberi italiani, ora saremo ricchi, ora cammineremo sul danaro: l'argento (era quello del Banco), già comincia a scorrere per la città come moneta di bronzo. Viva la libertà! viva l'indipendenza! viva Garibaldi!» Oh fallacia degli umani giudizi! Oh fatale disinganno! Godi, io dissi, o Palermo; io non vorrei turbare la tua ebbrezza, non t'invidio, né t'ammiro, anzi ti compiango troppo credula città. Oh quanto ti costeranno cari questi momenti di gioia sì disordinata! Guai a quel popolo che crede farsi libero con le braccia dello straniero.

La strada che da Palermo conduce a Monreale era gremita di popolo scomposto, e vi era lo stesso baccano, la medesima ebbrezza della città. Se qualcuno osava insultarci, un solo cenno sdegnoso de' garibaldini che ci accompagnavano facea tornare tutti al dovere.

In Monreale trovammo le famiglie de' militari saccheggiate ed atterrite: si erano ricoverate nel monastero de' padri Benedettini, ove l'aveano raccolte que' buoni e caritatevoli religiosi, e con affettuosa cura le consolavano e proteggevano. Anche noi alloggiammo in quel monastero per una notte, e perché nella sventura, fummo trattati con più cordialità del solito.

Io fui visitato da un tale che abitava al primo piano della mia casa; era quasi intieramente vestito degli abiti miei, che aveami saccheggiati assieme a pochi mobili del mio alloggio. Vedete che impudenza! Però a' rivoluzionarii è tutto lecito, perché tutto fanno pel bene e la gloria della patria. Povera patria!

La mattina del giorno seguente ritornammo al molo di Palermo conducendo le famiglie dei militari, e quella pochissima roba che aveano potuto salvare dalle unghie de' patriotti.


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L'aiutante maggiore del 9° cacciatori, capitano Marotta, non volle seguirci ad onta dell'ordine del comandante Bosco e delle nostre calde preghiere.

Quel tristo, incapace capitano, si era dato per ammalato per non seguire il battaglione quando partì per Parco; si negò assolutamente di seguirci a Palermo, perché da gran tempo avea fatto comunella co' rivoluzionarii di Monreale; neppure volle far partire con noi cinque soldati che avea presso di sè. Quel capitano morì dopo qualche anno, e mi si dice, che la sua numerosa famiglia viva di stento.

I 24 mila uomini di truppa erano tutti riuniti tra i Quattroventi e Molo di Palermo. In tutti i fatti d'armi combattuti sino ad allora, erano morti 4 uffiziali e 204 soldati; feriti 33 uffiziali e 529 soldati.

Garibaldi appena s'impossessò del Banco, tra le altre cose, cominciò la propaganda di far disertare i soldati. Lanza lasciava libero il passo a' propagandisti che venissero nel campo. Ai soldati esteri prometteano 40 ducati se avessero disertati con armi e bagaglio, 30 se senz'armi, di più il viaggio franco se avessero voluto ritornare in patria. Ai soldati ed uffiziali napoletani si prometteano onori,

danaro, e gradi militari.

Dal campo de' Quattroventi e del Molo disertarono molti soldati esteri e napoletani. Disertò pure qualche chirurgo di battaglione, e due cappellani militari, che non voglio nominare. Questi ultimi, cioè i chirurgi e i cappellani, sono i più riprovevoli di tutti, maggiormente i cappellani dapoichè non poteano attenuare la loro fellonia col solito detto allora in moda; cioè che disertavano perché non si voleano battere contro i fratelli.

I chirurgi e i cappellani dell'esercito non erano parti belligeranti: quelli aveano una missione umanitaria, e questi oltre di quella missione, ne avean un'altra più sublime, la carità evangelica, la quale non fa distinzione tra amici e nemici qualunque siano. Io l'ho già detto che gli uffiziali disertori sono la feccia degli eserciti, e che il nemico che li riceve in cambio di far guadagno fa perdita. I disertori degli eserciti sono come i cattolici che si fanno protestanti e d'altra setta, cattivi cattolici, pessimi settarii. Un militare di onore se ha principi diversi da quelli del governo che serve, non faccia il militare volontario, e se si trovi, si dimetta non già in tempo di guerra, che sarebbe una viltà, ma in tempo di pace. Gli uffiziali e sottouffiziali non son tenuti a servire per forza, ma possono dare la dimissione quando lo vogliano.

Nel campo de' Quattroventi e del Molo, avvennero de' piccoli fatti poco piacevoli al generalissimo Lanza.

I soldati guardavano biechi costui, e non lo salutavano in quelle rare volte che si facea vedere. Un giorno un soldato gli disse: «E bene, Eccellenza, non vede quanti siamo? dobbiamo darla vinta a quelli straccioni?» Lanza con la faccia di un cadavere, gli rispose: «Zitto ubbriacone...» e si affrettò ad andar via. Un altro giorno che il maggiore Bosco avea fatto schierare il 9° cacciatori sotto l'abitazione di Lanza, costui trovandosi al balcone, quel maggiore arringò a' soldati, e disse delle parole assai amare sulla guerra mal diretta, e pessimamente finita. Il generalissimo credendosi insultato fece giungere al Re le sue doglianze contro Bosco: ma il Re invece di punire il supposto reo, lo fece per allora

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colonnello in compenso della condotta tenuta in quella guerra.

In certo modo era piacevole di vedere in quel campo tanti Generali, che in tempo di pace io avea veduti altieri, burbanzosi, atteggiati a gradassi, e tali che pareano distruggere tutti gli eserciti d'Europa al solo brandire la propria spada, andare umiliati, avviliti, abbattuti da muovere non sò s'io mi dica sdegno o pietà. Oh! dopochè io vidi que' Generali in atteggiamento tanto umiliato, quando poi ho veduto altri due atteggiati a rodomonti e ne ho veduti di diverse nazioni ho detto tra me e me: vi vorrei vedere nel ballo a tuono de' cannoni.

La truppa de' Quattroventi e del Molo di giorno in giorno diminuiva, e la maggior parte s'imbarcò per Napoli. Il 19 giugno partì Lanza insieme al suo Stato maggiore, e gli altri duci gallonati.

Giunti nel porto di Napoli, fu loro comunicato l'ordine del Re di recarsi ad Ischia prigionieri. Il Re ordinò una giunta composta de' generali Ritucci, Vial, Casella, e Delcarretto, perché si togliesse ad esame la condotta di que' duci, e sottoponesse i rei al Consiglio di guerra.

Ma le sopravvenute calamità del Regno, conseguenza dell'abbandono di Palermo, giovarono a que' Generali, a' quali non si attese più oltre.

Fece però nausea il sentire il modo che tentarono nel difendersi. Nel fare il male tutti gareggiarono e furono uniti, nel difendersi poi delle ricevute imputazioni, si gettarono la colpa l'un l'altro. Lanza accusava Letizia e Buonopane, questi accusava Letizia e l'altro a vicenda. Chi sa, se una giustizia opportuna e sollecita non avesse ancora salvato il Regno? Io l'ho detto a proposito de' fatti di Calatafimi, che l'impunità de' Generali sarebbe stato un dannevole esempio. Il governo del Piemonte dopo la rotta di Novara del 1849 fece fucilare un generale, e questi non era tanto reo quanto i generali che vollero abbandonare Palermo a Garibaldi.

È qui necessario far conoscere le ragioni che Lanza espose al Re Francesco con la lettera del 13 giugno 1860, per giustificare la sua condotta tenuta in Palermo in quella disgraziata guerra. Dirò le ragioni ch'egli credeva più convincenti.

Dice, che Colonnelli e Generali invece di ubbidirgli, faceano ubbidirsi da lui Lanza si dichiarò inetto, ma dovea dichiararsi tale quando accettò la missione di recarsi a Palermo per abbattere la rivolta e rimettere l'ordine nel regno. D'altronde in tutta la sua vita si era mostrato ignorante, imbecille mai. Dice riuscito vano il bombardamento di due giorni contro Palermo. - Questa discolpa che adduce è il suo maggior torto, perché bombardare una popolosa città senza ordine del Re, e senza scopo militare, era infamare sè stesso, e la causa che fingeva di difendere. Accusa Meckel perché costui non inseguì Garibaldi dalla Ficuzza a Palermo. - Ed egli che avea 20 mila uomini di buonissima truppa - mentre Meckel ne avea 4 mila - perché li lasciò oziosi quando entrarono i garibaldini in Palermo? Perché non lasciò il generale Colonna con la sua brigata nella posizione che minacciava il nemico, ma in cambio lo chiamò al palazzo reale per lasciarlo ivi inoperoso? Bene osservò Meckel, il quale disse che sarebbe stato sufficiente il generale Colonna, che si

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battea davvero, per impedire non solo all'oste garibaldina di buttarsi dentro Palermo, ma di stritolarla. Dice, che Meckel giunse a Palermo dopo che la tregua era firmata. È questa una di quelle sfacciate menzogne di cui furono prodighi molti generali napoletani, come appresso vedremo. Meckel giunse a Marineo il 29 maggio a mezzogiorno; Lanza fu subito avvertito, ma finse di non crederlo. Più tardi l'uffiziale telegrafico Agostino Palma gli fece vedere la brigata Meckel che marciava in ordine di battaglia sopra Palermo, e già a poche miglia distante di questa città. Fu allora che il Lanza, dopo di avere confabulato col colonnello Gonzales, spedì un prigioniero sardo a Garibaldi per chiedergli una tregua: quale tregua non era stata né discussa né firmata, ma in parola, quando Meckel investì Palermo e vinse e disperse i rivoluzionari annidati e fortificati in questa città.

Quella tregua si potea misconoscere ad onta che Lanza si mostrasse tanto tenero e scrupoloso con un nemico non riconosciuto per parte belligerante. Si sa poi come Garibaldi avesse adempito alla sua parola, trattandosi di tregua fatta col nemico, ed in queste memorie ne accennerò qualche esempio. Lanza solamente potea lasciar distruggere la rivoluzione dal braccio del solo Meckel senza mancare alla sua parola, giacchè ne faceva tanto conto trattandosi solamente di agevolare un nemico che assaliva proditoriamente. Egli al più avrebbe potuto dire a Garibaldi: io non mi muovo per assalirti, però dovrai vedertela tu con Meckel il quale non sa nulla della nostra tregua, e non ne vuole sapere affatto; ed io non voglio e non posso impedirlo con mettermi al pericolo di un conflitto tra soldati dello stesso re, o espormi ad una rivolta militare, dapoichè i soldati sono inviperiti contro di te.

Con questa risposta Lanza avrebbe salvato Re e trono.

Dice, che protrasse la tregua per suggestioni di Letizia e Buonopane. Ciò dimostra sempre la sua affettata imbecillità. Confessa che Palermo sarebbe caduto senza la tregua, sgominata e vinta la rivoluzione. Perché dunque domandar la tregua al nemico? Lanza risponde che la domandò per provvedere a' feriti. Bella ragione in verità! Si getta nel fango l'onor militare, si perde un Regno per provvedere a pochi feriti, i quali non aveano bisogno della tregua per essere provvisti. Conchiude, essere avvelenato di dispiacere, desiderare la morte, e che morrà di dolore protestante la sua innocenza. Ma Lanza potea cercar la morte onoratamente combattendo i nemici del suo Re; egli invece si nascose nel palazzo reale, solo visibile a' messi di Garibaldi: e non morì di dolore, anzi si ammogliò per la seconda volta dopo la catastrofe della dinastia e del Regno, e vide scorrere tante lagrime e tanto sangue versato da' suoi concittadini, ed egli ne era stata la causa prossima. Che Lanza non tradisse lo dica a Dio solamente che scruta i cuori degli uomini, ma gli uomini scrutano i fatti e giudicano il valore di questi. La storia è inesorabile, non ammette simili proteste. Epperò, Lanza confermò la sua indecorosa condotta tenuta in Palermo, con la visita che fece a Garibaldi il dì 7 settembre di quell'anno. Egli non era tenuto in nessun modo a visitare il suo avversario di Palermo, eppure fu uno de' primi che visitò il Dittatore delle Due Sicilie, appena costui giunse a Napoli e prese stanza nel palazzo d'Angri, ove fu ricevuto cordialmente. Non è dunque colpa degli

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uomini e della storia se abbiam messo alla gogna il generale Lanza, e dichiaratolo uno de' cinque uomini fatali, che disonorarono il Regno, rovesciando Re e trono, involgendo nella ruina i popoli innocenti.

Il colonnello Polizzy capo dello Stato maggiore di Lanza, non isfuggirà al severo giudizio della storia circa i fatti di Palermo del 1860. Egli, uffiziale onorato e prode, avrebbe dovuto abbandonare quel posto nel quale tutto dovea sapere e vedere; e svelare al suo sovrano gl'intrighi che si ordivano, e le infamie che si commettevano. Fu una tale disgrazia! anche gli uomini onesti e devoti al Re, contribuirono con la loro inerzia alla catastrofe dell'invidiato Regno delle Due Sicilie.

Però è necessario sapersi, che il colonnello Polizzy, poi generale, si condusse bene in tutto il resto della campagna militare, e che fu uno de' capitolati di Gaeta, ove prestò segnalati servigi.

Il generale Letizia e il colonnello Buonopane furono giudicati abbastanza nella pretesa discolpa che al Re il generalissimo Lanza; io non ho detto tutte le vergogne che costui addebitasse a quelli. Gli altri generali che si trovavano in Palermo, non tutti fecero poi il loro dovere, come appresso dirò. Ma tutti questi duci lasciarono sì trista e vergognosa fama in Sicilia, che tuttavia i più benigni Siciliani li chiamarono: Generali, teste di cartone.

Il 9° cacciatori fu destinato a Messina con altri battaglioni: e fu l'ultimo ad imbarcarsi sull'Etna,

vapore mercantile comandato dal capitano Caracciolo della marina militare.

Lo confesso ch'ebbi la vanità di volermi imbarcare l'ultimo di tutti. Aspettavo che si fosse imbarcato l'ultimo de' soldati; quando vidi dietro di me il capitano del Giudice, il quale si era molto distinto in tutti i fatti d'armi, e meritò poi le grazie del Re. Io invitai il capitano a volersi imbarcare prima di me: però questi che avea indovinata la mia vanità, nò, mi disse, tocca a me imbarcarmi l'ultimo: voi non siete parte belligerante. Io non lo feci finire, saltai nella barchetta. Il capitano dato uno sguardo di inestimabile cordoglio alla città e al campo già vuoto di soldati, si lanciò nella barchetta con un viso che mettea paura.

Quando ci avvicinammo al Piroscafo, mi disse: guardate dalla parte della Dogana. Io mi voltai e vidi una masnada di uomini sudici in camicia rossa ed armati che occupavano i posti della Dogana.

Per deviare un poco i tristi pensieri del mio amico, e non trovando da dire altro in quel momento gli feci osservare la burlesca figura che faceano que' garibaldini, i quali portavano in testa un berretto simile a quello che usano i lazzaroni di Napoli.

L capitano mi rispose con voce roca: voi, guardate le strane fogge, io penso che quegli straccioni lì sono i nostri vincitori, e se l'avessero voluto...! questa mia spada, io...! l'avrei dovuta consegnare in quelle mani...! Si alzò con furia, si coprì il viso con ambe le mani, ed esclamò: oh vergogna! questo pensiero mi avvelena, e temo che mi faccia perdere la ragione. Oh! se io non avessi la certezza di una rivincita... non mi sarei imbarcato... e mi sarei fatto saltare le cervella...! Io, quantunque in grande agitazione, mirando lo stato di quel prode ed onorato militare, purnondimeno mi

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toccò riprenderlo de' suoi sentimenti poco cristiani: indi feci di tutto per consolarlo, ed egli abbassò il capo e non disse più motto.

Non appena imbarcato l'ultimo della truppa, il forte Castellammare alzò bandiera tricolore. Fece il medesimo il fortino del Molo, il vapore di Florio, il Corriere Siciliano,

il quale era a terra perché dovea restaurarsi. Le Campane di Palermo e quelle del Molo suonavano a stormo per festeggiare la partenza della truppa.

La nostra navigazione da Palermo a Messina fu lunga e trista, dappoichè l'Etna

tirava dietro di sè due Paranzelli carichi dell'equipaggio della truppa, e giungemmo in Messina il domani sul tardi, giorno 20 giugno.

Da Palermo a Milazzo
CAPITOLO VIII

Dopo i fatti di Palermo le città e i paesi della Sicilia alzarono la bandiera della rivoluzione, e riconobbero il governo dittatoriale. Io oso affermare che gli abitanti di quell'Isola, nello stato in cui erano ridotti, non aveano altro da scegliere. Conciosiachè 24 mila uomini di truppa abbandonarono Palermo, dopo aver vinto, e l'abbandonarono per ordine sovrano; i Siciliani senza comunicazione col governo del Re, e finalmente minacciati da' rivoluzionari, non doveano essi difendersi sia pure con una forma di governo per garentire il meglio che fosse possibile, gli averi e la vita? In quel tempo gli uomini più attaccati alla causa del Re, per salvarsi la vita si atteggiavano a fieri liberali unitari. Vi furono, è vero, tanti impiegati e funzionari che realmente si buttarono con la rivoluzione, e si coprirono di vergogna perché abbruciarono quello che aveano adorato, ed adorarono quello che aveano abbruciato; ma vi furono Giudici circondariali, Sottintendenti ed Intendenti, i quali sebbene alzarono la bandiera di Garibaldi avrebbero strozzato ed annientato costui in secreto. Che potea fare la gente onesta e pacifica quando la forza del legittimo governo l'abbandonava in balìa della rivoluzione?

I Distretti e le Province ove rimase la truppa proseguirono a riconoscere il governo del Re, e non già per paura de' soldati, ma perché si credevano abbastanza garentiti contro la intemperanza de' ribelli. Le truppe intanto si ritirarono da que' Capoluoghi, e fu allora che la Sicilia tutta dovette riconoscere il governo dittatoriale.

I duci napoletani invasi dalla manìa di retrocedere sempre rendevano il più gran servizio alla rivoluzione. Il generale Clary alla testa di una brigata vinse e sottomise Catania, ed immediatamente l'abbandonò senza alcuna ragione, e si ritirò a Messina.

La truppe regie, avendo abbandonate le città, si riunirono nelle piazze forti di Siracusa, Augusta, Milazzo, e Messina.

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I rivoluzionarii messinesi esaltati da' fatti di Palermo, e dalla propaganda settaria che faceano francesi, inglesi, ed agenti sardi, principalmente i Consoli, si sarebbero sollevati ad onta che la terribile Cittadella mettesse loro paura. Avendo però l'esempio di Palermo sotto gli occhi, ove Garibaldi avea vinto magicamente, aspettavano.

Quando la truppa di Palermo giunse a Messina gli abitanti di quella città ci guardavano come se fossimo gente da nulla: ritenevano i soldati quali fantocci che ad un cenno di Garibaldi avrebbero preso quell'atteggiamento o contegno che allo stesso sarebbe piaciuto. Trista condizione del governo di Napoli! I fatti di Palermo aveano tolto a questo Governo la forza morale tanto necessaria a reggere i popoli. I messinesi non si contentavano di dirci altamente quello che ne pensavano de' soldati e del Re.

Garibaldi, lasciato libero padrone della Sicilia, non se ne rimaneva in ozio. Abolì gl'Ispettori di polizia nel nome, ma vi aggiunse anzi attribuzioni illimitate. Tutte quelle calunnie inventate contro la polizia borbonica, gl'inventori l'usarono essi pubblicamente, accrescendole contro i borbonici con quanto settaria ira può di turpe. Prima l'arte della spia era infame, e la faceano pochi di bassa mano; però allora diventò arte gloriosa e da patriotti: quindi migliaia d'occhi a spiare: quindi accuse, calunnie, e carcerazioni. La polizia borbonica era reissima perché avea carcerati i rivoluzionari; a questi poi parea atto glorioso togliere la libertà, ed anche la vita, a chi non la pensasse come la pensavano essi: ed a queste tristizie davan nome di libertà e redenzione.

A queste ed altre nefandezze perpetrate dai rivoluzionari, già al potere, i giornali prodigavano elogi sperticati e nauseabondi. E l'Europa rivoluzionaria risuonava delle gesta redentrici, del senno civile, della magnanimità garibaldesca.

Garibaldi creò un Ministero: Orsini alla guerra, Crispi all'interno, Ugdulena, canonico, a' culti, Perenna, già tesoriere de' Borboni, alle finanze, Pisani siciliano agli esteri, l'ostetrico Raffaele Siciliano nativo di Naso, a' lavori pubblici. Era il Raffaele, come disse La Farina, borbonico al 1847, repubblicano al 48, deputato a Filangieri per la sottomissione di Palermo al 49, membro del Municipio borbonico nello stesso 49, e per ultimo, l'aver inventato la cuffia del silenzio

per calunniare i Borboni gli meritò il Ministero sotto Garibaldi.

Abborracciato quel Ministero che durò poco, e fu seguito d'altri ancora, Garibaldi pensò ad impinguare la cassa delle finanze, non bastandogli i danari che avea trovato nel Banco oramai sfumati. Primo per ingraziarsi i Siciliani, abolì il dazio sul macinato, tanto molesto ed aborrito in quell'isola feconda di grano, detta un tempo il granaio di Roma; prolungò le scadenza delle lettere di cambio: e poi ordinò che le opere di beneficenza e luoghi pii - che sono patrimonio del povero - trasmettessero nel tesoro quanto danaro avessero, da servire al sollievo de' Patriotti.

Il Garibaldi non volendo mostrarsi degenere rivoluzionario, a modo di tutti i governi ammodernati, ordinò la emissione della carta de' buoni del Tesoro per quattrocentomila ducati, di modo che, in agosto di quell'anno 1860, il debito pubblico siciliano era aggravato d'altri sedici milioni di ducati!

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Col danaro che Garibaldi ricavò dalle libere tasche de' Siciliani, oltre a quello che sparì in quel modo che Lafarina ci lasciò scritto, comprò armi, arruolò francesi, inglesi, alemanni, ungaresi, polacchi, americani, africani; un'armata cosmopolita destinata alla redenzione d'Italia dello straniero, e lo straniero erano i Borboni che aveano cacciati gli stranieri dal Regno di Napoli, ed il Papa, l'unica ed invidiabile gloria che sia rimasta all'Italia dopo il naufragio dell'Impero Romano.

Il governo piemontese che pubblicamente chiamava Garibaldi filibustiere, gli spediva soldati della truppa sarda vestita alla garibaldina, facendo le viste, che que' soldati aveano ricevuto il congedo illimitato, o che erano disertori.

Garibaldi comprò tre legni, a' quali impose i nomi di Washington, Franklin, Oregon, e questi son nomi celebri, ma sarebbe stato più conveniente imporre nomi di celebri uomini siciliani, che nelle storia di quel popolo non fanno difetto. Ma l'italianità di quel duce Dittatore si fondava nelle adulazioni straniere, mentre si argomentava di cacciare dall'Italia non già lo straniero, come esso enfaticamente dicea, ma i veri italiani, che han fatta ed esaltata l'Italia. Que' tre legni secondo la proposta di Bixio furono consegnati a Persano, di che il medesimo Bixio se ne vantò poi in Parlamento.

Il Dittatore dopo di aver riunito un'armata che chiamava regolare la quale parlava tutte le lingue ed i dialetti d'Europa e di America, si consigliò spedire a Barcellona di Messina una avanguardia comandata dal Medici, ch'era arrivato allora da Genova con circa 300 garibaldini. Barcellona è una città 30 miglia distante da Messina dalla parte dell'Ovest.

Passando più oltre dovrei qui raccontare le conseguenze del governo dittatoriale, e quindi lo stato deplorevole di Palermo e del resto della Sicilia in vera anarchia, in cui si commettevano estorsioni di danaro e di averi, ruberie, incendii, stupri, e tutti i più turpi delitti, assai più di quello che calunniosamente si era attribuito alla truppa napoletana. E tutte quelle scelleratezza erano viste e celebrate dal romanziere Alessandro Dumas, venuto per quest'ufficio, ed alloggiato principescamente nella Regia di Palermo; come a bella posta uscivano in luce due giornali l'Unità Italiana

e il Precursore,

diretti quello da' fratelli Capitò, l'altro da Crispi.

Andrei troppo per le lunghe se volessi raccontare tutto quello che si perpetrò in Sicilia sotto il così detto governo della Dittatura. Dirò solamente di un certo La Porta, il quale in aprile di quell'anno avea accozzata una banda nella provincia di Palermo, era ito sempre fuggendo i soldati, taglieggiando le famiglie ricche, dicendole borboniche, era entrato in Ventimiglia sua patria, ove assieme a' suoi scherani, commise saccheggi ed orribili insulti al pudore. Fu necessario accorressero i garibaldini da Palermo per mettere fine a tante nefandezza. La Porta fuggì, e fece spergere la voce di essersi imbarcato; ma il suo luogotenente Meli correa le terre, agguantava altresì fanciulli e donne, cui vituperava ed uccideva. Finalmente arrestato il Meli, gli si fece processo, e provatogli di aver rubato in poco tempo molto danaro, e di aver commesso tanti nefandi e selvaggi delitti, dovea essere giudicato. Se non che, (incredibilia sed vera!)

in quella, fatto dal Garibaldi ministro di sicurezza pubblica, la Porta,

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costui trovò modo di liberare il Meli, con iscandalo degli stessi garibaldini. La Porta nel tempo che fu ministro si tenne vicino il Meli. Questi due per ingraziarsi il Dittatore secondavano l'ira dittatoriale contro i Gesuiti e i Liguorini: ma arruffando alla dirotta, il Garibaldi che avea bisogno esso di danari, andò in furia, ed ordinò che si arrestasse La Porta e Meli; però costoro fuggirono a tempo col bottino.

Passo sotto silenzio le scandalose gare tra Garibaldi e la Farina, perché non è mio divisamento raccontare le lotte tra rivoluzionarii e rivoluzionarii, tra rossi verdi e misti: dirò solamente che quella povera Sicilia che per ironia si chiama redenta, era un osso che tanti cani si disputavano ad oltranza.

Il Dittatore conseguente a' suoi principii - quando avea da fare co' deboli - avendo decretato in Calatafimi l'abolizione della benemerita Compagnia di Gesù, e de' Liguorini, diede principio all'esecuzione.

I Gesuiti avendo in Palermo molti collegi, convitti in gran numero, e moltissimi allievi, speravano nell'amor popolare per non essere molestati, avendo meritato quell'amore pe' benefizii spirituali e materiali prodigati al popolo.

Que' buonissimi religiosi della Compagnia non aveano presa alcuna parte alle vicende politiche; anzi in quelle ultime fazioni erano stati di aiuto e di scudo agli infermi e feriti garibaldini. Aveano nelle loro case aperti forni, davano pane a' poveri per metà del prezzo che correva in piazza, porgevano soccorsi di danaro e di robe a' bisognosi, davano loro case in città per ricovero di chi per le incendiate case aveano perduta la propria abitazione. Accoglieano nelle Chiese e nelle loro case tutti i fuggitivi famelici e feriti: ed eglino ed i loro novizii ed allievi accorrevano ov'era uopo a salvar vecchi, donne e malati.

Tutti questi meriti della Compagnia di Gesù acquistati con tanti sacrifizii non valsero a salvarla dall'ira settaria: fu accusata di lesa patria, e si pubblicò il decreto di Calatafimi. Si sequestrarono tutti i beni di que' Padri, si suggellarono musei, biblioteche, gabinetti di fisica, e sin le camere de' religiosi.

Il decreto che colpiva i Liguorini ed i Gesuiti portava la data del 17 giugno, con questo considerando: «I due ordini (Gesuiti e Liguorini) essere stati i più gagliardi sostegni del dispotismo durante lo sventurato periodo della borbonica occupazione.

Che ve ne sembra, lettori miei? si chiama occupazione borbonica, una cospicua Dinastia che regnò in queste belle contrade per lo spazio di 126 anni, dopo di aver cacciato i tedeschi dal Regno, e ridonata l'autonomia che ci avea data il normanno Ruggiero. Che i rivoluzionarii si annettano le nostra tasche, che ci mettano in car cere perché non la pensiamo come loro, vi è qualche tornaconto per essi, ma qual vantaggio possono ricavare con sciorinare simili corbellerie storiche?

A due ore dopo mezza notte una turba di scherani, dicentesi guardie di pubblica sicurezza, assaltò le case de' Gesuiti e de' Liguorini, sfondarono le porte, entrarono nelle camere di quei padri e li dichiararono in arresto. Che grandi prodezze!

Quei padri si tennero per quattro giorni in arresto chiusi nelle loro celle quasi digiuni, mentre le guardie di pubblica sicurezza saccheggiarono tutti il ben di Dio

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che trassero dalle cucine e dalle cantine. il 28 giugno furono imbarcati sopra un legno francese e mandati a Napoli. Si vedeano vecchi venerandi strappati dalle braccia de' parenti, e da' luoghi dov'erano nati; senza danaro, né arnesi, per tapinare un tozzo di pane, ed in tarda età cercare un tetto per coprirli in estranea terra! Non valse certificato di medico per gli infermi, giungendo fino ad espellere un vecchio di 84 anni.

La Porta, allora ministro di S. pubblica, il 4 luglio affisse un ordine alle cantonate di Palermo, nel quale dicea: «che qualunque Gesuita stesse ancora dopo 24 ore sul suolo siciliano, sarebbe fuor di legge, e abbandonato A furore popolare,»

Cioè al furore de' suoi sgherri. Lo stesso Ammiraglio francese scrisse a Garibaldi, acciò costui moderasse i suoi ordini contro i Gesuiti e i Liguorini.

Nelle Province ove non erano garibaldini, nulla soffrirono que' buoni padri, partirono, ed ebbero il tempo di regolare i loro affari, ed abbracciare i parenti. A Modica dove si trovava il garibaldino Fabrizi soffersero moltissimo.

E così il Dittatore potè incassare altro danaro con la espulsione de' Gesuiti e de' Liguorini.

Intanto in Messina si riuniva truppa quanto più si potea, molti battaglioni cacciatori che erano negli Abruzzi ed in Gaeta furono mandati in quella città, ove si riunirono circa 24 mila uomini in truppa di linea, di cui la maggior parte non si erano ancora battuti co' rivoluzionarii, aveano gran desiderio di battersi.

La rivoluzione trionfante avea però timore che il sovrano fosse consigliato di mettere alla testa di que' soldati qualche generale onesto e prode, e che facesse davvero. Conciosiachè capiva benissimo che una rotta toccata al Dittatore sarebbe stata la perdita assoluta di quanto avesse egli acquistato sino a quel tempo. Tutto questo era ben conosciuto e facea paura alla rivoluzione debaccante, e a que' governi esteri che si fingevano amici di quello di Napoli, ma che aveano desiderio ed interessi che fosse smantellato il Regno de' Borboni. Quindi pensarono che la via più facile e breve come disse il vecchio generale Carascosa sarebbe stata quella di consigliare il giovine re a dare una costituzione politica a' popoli delle Due Sicilie. Quella trista volpe di Napoleone III diede principio alla poco onorevole campagna diplomatica di costringere Francesco II a dare una costituzione, e far lega col Piemonte, promettendogli la sua valevole intermediazione per mettere ordine a' rivolgimenti del Regno.

Il re discusse in consiglio di ministri e di generali la proposta di Napoleone. Gli uomini devoti alla Dinastia furono di contrario parere, dicendo che nelle guerre civili principalmente, il Sovrano dovrebbe sospendere la costituzione se ve ne fosse, anzichè darla. Ma il re consigliato e importunato dalla zio conte di Siracusa, e da Brenier ministro di Napoleone a Napoli, credendo di far cosa grata a' suoi popoli, e di acquietare la rivoluzione, diede quella fatale costituzione che venne firmata in Portici il 25 giugno 1860, con la quale si tolse dalle mani quella poca autorità che ancora gli rimanea tanto necessaria in que' tempi fortunosi. Quella costituzione, com'era da prevedersi, non contentò nessun partito. I popoli fedeli al re previdero


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la catastrofe della Dinastia e del Regno, riguardando quella costituzione come un atto inopportuno: i rivoluzionarii dicevano pubblicamente che non voleano franchigie da' Borboni, perché voleano l'Italia con Vittorio Emmanuele re del Piemonte.

I re sono come le donne quando si mettono sulle vie delle concessioni: essi si rovinano per un sentimento di paura, come le donne si perdono per un sentimento di compiacenza e di curiosità, retaggio fatale ereditato dalla bella virago madre del genere umano. Guai a' re e alle donne quando cominciano a concedere, la catastrofe è vicina ed inevitabile!

La costituzione già promulgata con real decreto, se bene non fosse accettata da' rivoluzionarii, nondimeno arrecò in mezzo a loro il contento e la gioia, perché sin d'allora si tenne come sicuro il loro trionfo, e la caduta della Dinastia.

La truppa di Sicilia intese subito i tristi effetti della promulgata Costituzione. Da quel momento non si dovea più ragionare de' voleri del re, ma di quelli de' ministri, e qualunque dimostrazione a favore del Sovrano era giudicata reazionaria.

I soldati non ne capivano un acca di costituzioni, ma il buon senso naturale facea veder loro un tranello sotto quella maschera di costituzione; e le diffidenza de' medesimi giunsero a segno, che i duci di Sicilia non credettero prudente chiamarli per giurare quella costituzione.

Il ministero costituzionale esordiva con ordinare al Clary generalissimo di tutte le forze siciliane, di starsi sulla difensiva, e di non ispargere sangue italiano, mentre già negoziavasi della lega col Piemonte. Quest'ordine ministeriale si dava mentre i garibaldini ingrossavano a Barcellona. La costituzione legava le mani a' regii, e lasciava i rivoluzionarii liberi di congiurare impunemente, e di assalire a loro talento la truppa. A questo appena si concedea la grazia di difendersi ove mai fosse attaccata, però con moderata e prudente difesa.

Fu sotto questi influssi costituzionali che si organizzò la spedizione di Milazzo, non già per muover guerra a' garibaldini, ma per garentire quella Fortezza ritenuta come un baluardo destinato a proteggere Messina dalla parte di Barcellona.

Il Clary non si mosse quando il re gli ordinava di spingersi verso Barcellona: allora trovava mille scuse e difficoltà; quando poi il ministero costituzionale gli vietava di agire, si mostrava premuroso di munire Milazzo e tenere a segno i garibaldini di Barcellona.

Il colonnello Bosco amato dalla truppa, e stimato siccome prode e devoto al re, si offerse al Clary di assalire e distruggere i rivoluzionarii di Barcellona con soli cinque o sei battaglioni. Il Clary sulle prime promise che l'avrebbe mandato, indi si negò. Disgraziatamente tra i duci napoletani si accendeva la gelosia di mestiere.

Riconosciuto però l'urgente bisogno di opporre un argine all'irrompente rivoluzione che imperversava da Barcellona a Messina, fu necessità mandare il Bosco con tre battaglioni a solo scopo di difendere Milazzo.

Da' rivoluzionarii si dissero mirabilia

sulle strabocchevoli forze che conduceva Bosco nella spedizione di Milazzo, e tutt'ora da moltissime persone niente rivoluzionarie, si crede e si sostiene questa menzogna.71

Si giunse a dire e si stampò, che le forze del Bosco condotte a Milazzo ammontassero a venticinquemila uomini, con battaglioni svizzeri e bavaresi: i meno esagerati ne contarono 10 mila, mentre in quella piccola colonna non sin contavano che meno di duemila e seicento uomini. Componevasi di 800 uomini per ciascun battaglione, cioè il 1°, 9°, quattro compagnie dell'8°, la batteria a schiena num. 13 con otto obici da 12 centimetri, uno squadrone di 50 cacciatori a cavallo, e un distaccamento di 40 pionieri. E per far tacere tanti cicaloni, voglio trascrivere qui una riservatissima istruzione scritta dal Clary diretta al colonnello Bosco:

«Il Comandante superiore delle truppe riunite e della provincia e real Piazza di Messina N° .... Messina 13 luglio 1860.

A mente delle superiori prescrizioni le quali ingiungono di non attaccare l'inimico, ma di attendere che esso venga ad attaccare, vedendo che questi si è reso baldanzoso a segno di voler respingere la sfera di azione formando degli attruppamenti considerevoli alla distanza minore di cinque giorni di marcia da Milazzo a Messina, locchè è contrario allo stabilito nelle reali ordinanze di Piazza, ho disposto quanto appresso: 1° Le seguenti truppe formeranno una brigata d'operazione sotto i suoi ordini - 1° battaglione Cacciatori - 8° battaglione Cacciatori - e 9° battaglione Cacciatori. - La batteria a schiena N.° 13 - uno squadrone di Cacciatori a Cavallo - un distaccamento di 40 pionieri - una sezione d'ambulanza (per i feriti), - un Commissario di guerra. - Saranno addetti poi presso di lei il signor alfiere Acciardi del 2.° lancieri, ed un distaccamento di compagni d'armi - Ogni uomo dovrà essere fornito di 80 tiri a palla sopra di sè; altra piccola quota di cartucce sarà con la batteria 2.° Queste truppe muoveranno da Messina alla 8 p.m. di quest'oggi, ed avranno due giorni di viveri nel sacco: altri due giorni della stessa cibaria sarà trasportata per cura del Commissario di guerra.

3.° Giunto che sarà sulle posizioni di Colle S. Rizzo e Gezzo rileverà col 1.° battaglione Cacciatori il 5.° della stessa arma, e darà le istruzioni al Comandante del 1.° che avea dato a quello del 5.°: salvo le modifiche o aggiunzioni che potessero rendersi indispensabili, ora che una brigata di operazione si mette in avanti; il 5.° battaglione Cacciatori quindi farà parte integrale della brigata di suo Comando.4.° Scopo del suo movimento si è di garentire la minacciata piazza di Milazzo da un blocco, assedio o colpo di mano; quindi occuperà la Città la quale stando nel dominio del raggio d'investimento, è di dritto sotto la dipendenza del Forte occupato dalle reali truppe. Ma comecchè tra Gesso e Milazzo vi è una distanza considerevole e tale da potersi girare la posizione di Milazzo, così crederei che si piazzasse un distaccamento a Spadafora con un antiguardo ad Archi che è il trivio tra Messina, Milazzo e Barcellona.

Questo antiguardo ove mai fosse respinto, facendo parte integrale del distaccamento di Spadafora stessa, o se la distanza fosse troppo considerevole, ripiegherebbe sopra Milazzo ov'è il corpo principale. - S'intende bene, sig. Colonnello, che quanto ho detto o dirò in appresso è idea generale; ma ella a seconda dei casi e delle circostanze è facoltata a modificare le presenti istruzioni in quella parte che credesse, purchè tenga in mente lo scopo

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da conseguirsi ch'è quello di non essere attaccato alla sprovvista. A Milazzo resta a lei di mettersi di accordo col comandante di quella piazza riguardo all'andamento del servizio, ed alla cooperazione che la piazza stessa può dare allo sviluppo delle sue militari operazioni. Attenderà dopo di essersi militarmente piazzato, di essere attaccato, ma tenga per fermo che l'attacco in qualunque punto, le dà il diritto di sloggiare l'inimico dalle sue posizioni; ed ove mai, come spero, dal di lei valore e conoscenze, le riuscisse di respingere l'aggressione,

sappia ch'è mia intenzione che ella non debba per ora passare Barcellona ove si fermerà come in accantonamento militare attendendo miei ulteriori disposizioni. -

8° Se l'inimico non si curasse di Milazzo e marciasse invece per Archi e Spadafora, ella deve attaccarle alle spalle, mentre il posto di Spadafora ripiegherebbe a Gesso, ove tutta la truppa colà stanziata ed in quella posizione vantaggiosa l'attaccherebbe di fronte. Non è fuori proposito farle notare che l'inimico potrebbe evitare Milazzo e Spadafora, ed anche Gesso, spuntando per S.Lucia e Saponara e Colle S.Rizzo. Spetterebbe al distaccamento qui stanziato il sostenersi, finchè la truppa del Gesso e Castanea sopraggiungesse e mettesse l'inimico in due fuochi. È anche interessante il farle presente che per audace che sia, l'avversario non potrebbe mai presentarsi a Colle S. Rizzo in forze tali da potere oppugnare quelle dei nostri distaccamenti così ben piazzati.

Egli è perciò che resta a lei lo spiegar bene al Comandante del 1° cacciatori che rileverà il 5° dell'arma stessa, tutte queste svariate circostanze; e che s'infonda bene nell'animo de' singoli distaccamenti, e massime de' loro comandanti: che non si cede la propria posizione se non quando si sarà perduta metà della propria gente: che ciascun soldato rammenti aver l'Europa tutta, rivolto lo sguardo su di noi, che santa è la causa del Re, che fedeli furono sempre i militi al loro giuramento, che bello infine è l'incontrare gloriosa morte, anzi che cedere un sol passo. Le raccomando in ultimo, sig. Colonnello, di tenermi a giorno, e quanto più spesso si può, di tutte le operazioni, delle notizie che potessero raccogliere, nonchè de' lumi che può fornirmi nell'interesse del servizio del Re (N.S.). All'oggetto ella ha un distaccamento di compagni d'armi non solo, ma si accompagneranno con lei degl'impiegati telegrafici per far riattivare il telegrafo di Spadafora abbandonato, ma fortunatamente non distrutto. Con le popolazioni, sig. Colonnello, uopo non è qui dirle qual sia il temperamento a prendere. Ella è un Cavaliere così distinto che sarebbe ardimentoso di darle de' suggerimenti sul modo che si debba con esse comportare. Ricordi però che sono traviate dal retto sentiero, ma sono sempre figli del migliore tra i padri: tuttavolta quando le forme e le maniere gentili non raggiungano la desiata meta, ritenga che il contegno militare esige che si debba essere rispettati. - Farà rispettare eziandio le autorità, e funzionari regi, e li consideri sempre nel rispettivo ramo come parte della suprema autorità reale. - In qualunque ebbrezza di truppa non permetterà il sacco e le ruberie. Non mi dilungo su questo capitolo perché conosco pur troppo i di lei sentimenti in proposito.

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Mi giova però renderla sicura che qualunque disposizione sia ella per dare affine di punire qualche trasgressore, sarà da me approvata.Firmato

Generale Clary»

La spedizione di Bosco con una brigata in miniatura era un tranello, dappoichè si sapea che in Barcellona erano immense forze rivoluzionarie, e che se ne aspettavano ancora. Si comprendea pure che, se si fosse data sufficiente forza a quel colonnello, costui si sarebbe gettato sopra i ribelli, ed avrebbe ottenuto quello che non si volea né dal Ministro Pianelli, né da Clary, cioè la disfatta della rivoluzione. Difatti, il Clary nel documento sopra riferito, inibisce assolutamente al Bosco di oltrepassare Barcellona nel caso che avesse vinti i rivoltosi adunati in quella città.

Bel sistema di guerra, voler la vittoria a metà, e non inseguire un nemico ad oltranza! quando si avea già la esperienza che questi si organizzasse subito dopo la disfatta, come avvenne dopo la rotta di Parco.

Mandando Bosco a Milazzo con poca forza si conseguivano due fini, uno quello di costringerlo alla semplice difesa, l'altro di farlo battere da' rivoluzionarii, e così fargli perdere quel prestigio che meritamente si era acquisito nell'armata, togliendosi da mezzo un duce prode e fedele al Re, che volea combattere davvero contro la rivoluzione.

In Messina restavano più di ventimila uomini, in luogo di scaglionarli sulla via di Messina a Barcellona, e al bisogno soccorrere la brigata di Bosco, il Clary li lasciava oziosi nella città. Non si potea dire che vi fosse alcuna minaccia dalla parte opposta di Catania; niente affatto: non vi era alcuno indizio di bande armata. Del resto il Clary, a qualunque costo volea tenersi attorno a sè in Messina solamente, tutta quella truppa che ivi si trovasse. Ed invero, dal surriferito documento d'istruzioni, diretto al Bosco, si rileva, che qualunque strategia avessero usata i garibaldini, egli non avrebbe mosso un sol soldato da Messina; ordinava invece che sostenessero tutto il peso della rivoluzione cosmopolita, aiutata da' battaglioni sardi, i soli tre piccoli distaccamenti in posizione al Gesso, a S.Rizzo e Spadafora, i quali erano poco più poco meno di mille e duecento uomini, e senz'artiglieria.

Il 13 Luglio si partì da Messina alla volta di Milazzo per la via di Gesso, piccolo paese sulle montagne all'ovest di Messina. Quando fummo in questo paese si ebbe l'ordine da Clary di non cambiare il 1° Cacciatori col 5° della stessa arma, ma proseguire la marcia senza effettuire quel progettato cambiamento. Bosco si mostrò dolente ed irritato di questa prima infrazione dei patti stabiliti con Clary, e continuò la marcia. Giunti a Spadafora che dista 7 in 8 miglia da Milazzo, fu necessità lasciare in questo paese quattro compagnie dell'8° Cacciatori; e così la brigata Bosco si ridusse a due battaglioni e mezzo, cioè 1° Cacciatori, 9° Cacciatori, e quattro compagnie dell'8° Cacciatori. E con sì poca forza si proseguì la marcia sopra Milazzo.

Clary, che avea magnificata al Re la forza rivoluzionaria di Barcellona, avendo scritto a Napoli che in quella città oltre delle innumerevoli squadre siciliane e garibaldine,

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vi erano 4000 uomini di truppa piemontese vestita alla garibaldina; egli che si dichiarava debole di forze in Messina ove avea allora 24 mila uomini, e la Cittadella di rifugio in caso di bisogno o di sventura, non avea difficoltà di gettar Bosco con una microscopica

brigata, quasi sicura preda, nelle fauci della rivoluzione cosmopolita, coadiuvata da forti battaglioni sardi.

Ecco come agivano alcuni duci napoletani: se non li volete chiamare traditori chiamateli almeno vili ed inetti. Que' duci, quando erano obbligati dalla forza delle circostanze a far qualche cosa, la faceano sempre da sciocchi e da balordi, e se vi fosse stato qualche scopo ragionevole, sarebbe stato sempre pel vantaggio del nemico.

Che scopo avea la brigata Bosco? mi si risponderà, guardar la fortezza di Milazzo. Ma ciò non impediva ai garibaldini di marciare sopra Messina, non essendosi date al Bosco le forze necessarie per impedirlo. Del resto Milazzo resta lungi dalla strada che da Barcellona corre a Messina.

Il Clary, se avesse voluto comportarsi sinceramente, e da uomo di guerra, avrebbe dovuto mettersi alla testa di tutta l'armata e piombare sopra Barcellona. Messina che avrebbe lasciata alla spalle, non potea darle molestia perché sarebbe stata tenuta a dovere dalla Cittadella, e da pochi soldati. Dalla parte di Catania non avea alcun timore non essendovi minaccia alcuna di bande rivoluzionarie. In fine, l'occhio sagace di un Generale dovea vedere che i rivoluzionarii di Messina e della provincia, aspettavano l'esito della gran lotta tra' regii e la rivoluzione cosmopolita radunata a Barcellona: distrutta questa o sgominata, la riconquista della Sicilia si sarebbe ridotta ad una passeggiata militare. Voi lo sapete: i popoli festeggiano sempre il fortunato vincitore, e guai a' vinti, qualunque essi si siano.

Se mi si dicesse che questo disegno di guerra sarebbe stato pericoloso, perché toccando a' regi una sconfitta non avrebbero avuto alcuna ritirata, io risponderei: che 24 mila uomini si aprono sempre una ritirata, maggiormente a fronte delle masse armate: e dato pure che non avessero potuto mandarla ad effetto, sarebbe stato meno disonorevole abbassar le armi che abbandonar poi Messina senza vedere il nemico.

La brigata Bosco giunse a Milazzo sul vespro del 15 Luglio ed accampò nel piano di S. Pipino.

Le primarie famiglie di Milazzo, la maggior parte borboniche, aveano lasciata la Città, forse prevedendo l'entrata dei garibaldini che erano più potenti della meschina brigata che conducea il colonnello Bosco.

CAPITOLO IX

Milazzo, l'antica Mila, fabbricata da' Zanclei secondo Strabone, i quali le diedero il nome dal fiume Mila che le scorre vicino; Milazzo è celebre per la prima vittoria navale riportata da' Romani sopra i Cartaginesi. Oggi è una piccola Città di 12 in

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13 mila abitanti, e dista 25 miglia da Messina, 7 da Barcellona. È fabbricata in un sito delizioso: giace a piè di un promontorio ch'è il principio di un istmo, il quale si allunga nel mare per tre miglia in circa dal Sud al Nord. Questa Città ha un mediocre porto che guarda la parte dell'est: dalla parte del sud vi sono deliziose ed estese pianure, ben coltivate, ed interrotte da case e bellissimi casini. Sopra Milazzo vi è il forte o castello costruito alla maniera antica; è dominato da una collina, d'onde di possono colpire con palla di fucile i difensori fin dentro il forte. Non vi sono opere esterne, solamente due bastioncelli ad orecchione, ed un rivellino informe. Vi è una sola batteria con cannoni antichissimi, forse de' primi che si fusero: non vi è polveriera, e la polvere si conservava in un magazzino facile a prender fuoco.

Quel forte era presidiato dal 1° di Linea comandato dal Colonnello Pironti; il quale perché più anziano di Bosco, volle rendersi indipendente da questo per non prendere parte alla pugna col suo reggimento. E fu questa un'altra inettezza o malizia del Clary, il quale mandava un colonnello di presidio in una Città ove dovea giungere un altro Colonnello Comandante una brigata di operazioni meno anziano del primo.

L'altra sventura dell'esercito napoletano era quello, che anche ne' tempi di guerra, si dovea tener conto più dell'anzianità anzichè del merito.

È qui necessario raccontare la diserzione della fregata napoletana il Veloce,

la quale prese parte nel fatto d'armi di Milazzo contro i napoletani.

Amilcare Anguissola, nato di onesta famiglia molto beneficata da' Borboni, era Comandante della fregata il Veloce,

legno comprato dal governo rivoluzionario di Sicilia nel 1848, allora chiamato Indipendente.

Dovendosi l'Anguissola recare a Milazzo onde scortare un legno mercantile, il quale conducea il 1° di linea, vi si recò, e di là volse a Palermo. Egli avea già corrotto due uffiziali di bordo, il S. Felice e l'Afflitto: però alla ciurma della fregata disse che sarebbe andato a Palermo con bandiera parlamentare per una missione del Governo. Giunto nel porto di quella Città, smontò subito a terra. Indi a poco salì sul Veloce

molta gente armata e cambiò la bandiera con quella della rivoluzione. Garibaldi salì pure dopo cambiata la bandiera: arringò la ciurma, e disse i soliti suoi paroloni di Patria, di libertà, di benessere di tutti. La maggior parte de' marinari dichiararono che servivano il Re, e che non voleano disertare. Questi fedeli marinari furono chiusi in una stalla e lasciati digiuni. Garibaldi, persuaso che né l'arringa, né la prigionia, né il digiuno scuotevano que' prigionieri dalla loro costanza ed opinione, li mandò a Napoli, ove furono rimunerati dal Sovrano.

L'Anguissola, per farsi merito con la rivoluzione, il dì 11 Luglio uscì da Palermo sul Veloce,

e predò due vaporetti mercantili, il Duca di Calabria

e Y Elba.

Sopra uno di questi vaporetti si trovava il Maggiore Raffaele Riario Sforza, con altri uffiziali; egli si recava in Messina per affari di servizio: condotto dall'Anguissola in Palermo volle parlare con Garibaldi, al quale protestò la sua cattura e quella de' suoi compagni come contraria al diritto delle genti, e al libero commercio. Il dittatore invitò lo Sforza a rimanersi con lui offrendogli gradi maggiori e lusinghe; ma

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costui rispose che domandava in prova di lealtà di essere restituito alla sua bandiera. L'indomani Garibaldi noleggiò un vapore genovese e rimandò a Napoli Sforza, i suoi subalterni, e l'equipaggio del vaporetto. Questo fatto onora Garibaldi, il quale nel tempo della campagna del 1860 più volte si mostrò giusto e generoso verso i nemici, sia per calcolo sia per bontà d'animo.

Garibaldi italianissimo

volle cambiare il nome della fregata Veloce

in quello estero di Tukery, mentre si poteva ridonare il nome d'Indipendente,

ma la Sicilia anche in questo dovea servire di commodino.

La Marina Napoletana fece arrivare al Re un indirizzo per mezzo del Conte d'Aquila, col quale deplorava la fellonia d'Anguissola. Giovanni Anguissola Maggiore al 4° di linea, e Cesare Anguissola Colonnello, fratelli di Amilcare, scrissero al Clary che voleano partire con la brigata Bosco per battersi da semplici soldati, e cancellar l'onta e il vituperio del fratello Amilcare che avea sparso sulla propria famiglia. Clary li ringraziò, e disse loro che la diserzione del fratello non avea potuto macchiare l'onore della famiglia Anguissola tanto onesta e fedele al Re, e che i presenti ed i posteri avrebbero condannato all'esecrazione il solo Amilcare.

Il Colonnello Bosco, giunto a Milazzo con la sua piccola brigata, dispose gli avamposti: e prima di tutto fece occupare da due Compagnie di soldati due mulini onde non mancasse di farina. Per ubbidire agli ordini di Clary - il quale comandava da Messina senza conoscere la condizione de' luoghi - mandò il Maggiore Maring al trivio d'Archi con le 4 Compagnie dell'8° Cacciatori, due cannoni e 25 cacciatori a cavallo.

Il 17 Luglio il Maring fu assalito da una moltitudine di garibaldini. Egli non solo li respinse, e li mise in fuga, ma fece 22 prigionieri tutti piemontesi, tra' quali un sergente e un capitano. Fu trovato addosso a questi prigionieri il congedo militare accordato dal Governo di Torino.

Medici, generalissimo di tutte le forze riunite in Barcellona, credendosi attaccato dalla parte d'Archi, vi corse con istrabocchevole forza contro Maring. Questi non potendo lottare con un nemico dieci volte maggiore, si ritirò a Milazzo conducendo seco i 22 prigionieri piemontesi.

Bosco rampognò Maring di aver abbandonato il trivio d'Archi, e lo mise agli arresti. In cambio mandò il Tenentecolonnello Marra con sei compagnie del 1° Cacciatori, quattro cannoni, e 25 cacciatori a cavallo. Il Marra assalì il nemico, il quale cercava di circondarlo. Si versò sangue dall'una parte e dall'altra: però i soldati vinsero e fugarono le bande garibaldine, e la sera Marra e i suoi restarono sul campo di battaglia.

Bosco temendo che il Marra fosse attaccato da forze maggiori, e tagliato fuori Milazzo, la notte accorse in aiuto di lui, ma con pochi soldati non potendo torre via da Milazzo tutta la forza che avea.

Medici con un ordine del giorno strombazzò la ritirata di Maring essere stata una disfatta, mentre egli era stato battuto per ben due volte.

Bosco per non tenere i soldati divisi, si ritirò a Milazzo, avendo già inteso che

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Medici l'avrebbe assalito con tutte le sue forze, poichè voleva cancellare l'onta delle patite disfatte.

Medici, seguendo il costume di Garibaldi, mandò al Bosco un certo Zirilli

milazzese, con la missione d'invitarlo ad un abboccamento. Bosco rispose all'ambasciatore del Medici che i soldati del Re non si abboccano co' nemici, ma li combattono. Il Medici conoscendo che Bosco non era un duce compiacente all'insidie rivoluzionarie, in fretta segnalò a Palermo, e disse a Garibaldi la sua posizione poco rassicurante ad onta che avesse assai più forza di quelle del nemico. Garibaldi udita la gravità del fatto d'armi d'Archi, nominò Sirtori Prodittatore, radunò tutta quella gente che avea, l'imbarcò sul Veloce

e sull'Eberdeen,

sopra altri legni, e partì egli medesimo assieme a quell'armata cosmopolita. Giunto in Patti, ove sbarcò, passò a rassegna le sue bande, e dichiarò che il fatto d'armi d'Archi fosse stata una grande vittoria garibaldina, e per meglio farlo credere creò generale il Medici, chiamandolo benemerito della patria; il Carini, il Cosenza e Bixio anche creò generali. Ciò fatto si prese a forza la carrozza del Vescovo di Patti allora Monsig. Celesia, e partì per Barcellona con quattro divisioni, per assalire Milazzo con tutte le sue forze, e quelle del Medici.

Mentre Garibaldi, senza mistero, si preparava ad una decisiva battaglia assalendo con tutte le forze della rivoluzione cosmopolita, aiutata da' battaglioni sardi, la piccola brigata di Bosco, a questi giungevano ordini a furia di starsi sulla difensiva. Il generale Pianelli ministro costituzionale della guerra scriveva al Clary di vietare al Bosco di assalire i garibaldini, sciorinandogli la grande ragione del trattarsi che si faceva in que' tempi la lega italica tra Napoli e Torino: appena lasciava al Bosco la libertà di difendersi e ritirarsi sul forte di Milazzo nel caso che fosse attaccato da Garibaldi.

Bosco che ben conoscea le forze e le intenzioni del dittatore, segnalava a Clary di mandargli rinforzi di truppa, almeno due battaglioni: conciosiachè con la sua piccola brigata, né pure avrebbe potuto sostenersi sulla difensiva a fronte di tutta la rivoluzione cosmopolita, la quale da un momento all'altro gli sarebbe piombata addosso.

Clary or si negava di mandar truppa a Milazzo, adducendo la ragione che non convenisse sguernire Messina, ov'erano 22 mila uomini inoperosi, or dicea che la voleva mandare, ma che gli mancavano i trasporti per la via di mare, mandarla per la via di terra, dicea essere imprudente e pericoloso. Finalmente si decise a mandare il Capitano Fonzeca con sette uomini per la via di terra! Si vede proprio che il Clary tra le altre sue inqualificabili azioni, volea burlarsi di Bosco, uno de' pochi duci che col suo coraggio, e con la sua devozione alla Dinastia avrebbe salvato questa e il Regno dalla vicina catastrofe, se fosse stato nella posizione medesima del Clary. Se il Capitano Fonzeca giunse a Milazzo per la via di terra accompagnato da soli sette uomini, non era dunque imprudente e pericoloso di mandare per terra due o più battaglioni. Era poi falsissimo che il Clary non avea legni onde mandar truppe per la via di mare. Dapoichè il Governo di Napoli, per la sicurezza della bandiera, avea affittato nove battelli a vapore francesi i quali gli costavano circa mezzo


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milione di franchi al mese, oltre il carbone. La maggior parte di que' legni si trovavano nel porto di Messina quando Clary scriveva a Bosco non aver trasporti per mandare truppe a Milazzo per la via di mare. Bosco convinto che Clary volea sacrificarlo alla rivoluzione col rifiutargli i richiesti rinforzi di truppa, non si perdè d'animo, ed animoso qual'era, si rassegnò a lottare con tutta la rivoluzione mondiale riunita in Barcellona, opponendogli nel caso che fosse attaccato un pugno di prodi soldati.

Il Bosco dicea: sarò vinto, ma la vittoria dovrà costar cara al nemico: i presenti ed i posteri diranno, che s'io avessi avuto il doppio de' soldati che comando, avrei sbaragliata e vinta la rivoluzione.

La mattina del 20 Luglio, fatto giorno, dissopra il forte di Milazzo si vedeano le pianure de' paesetti Merì e S.Pietro brulicare di armati, i quali si avanzavano verso Milazzo. Garibaldi oltre i battaglioni piemontesi vestiti in camicia rossa, ed oltre i volontari continentali, avea innumerevoli bande armate di siciliani, molti de' quali faceano quel mestiere per cercar fortuna in qualunque modo. Egli, e il Medici si avanzarono con due divisioni al centro del punto di attacco; un Melenchini con un'altra divisione all'ala sinistra; un Simonetti con una quarta divisione alla destra. Cosenza e Fabrizi furono lasciati di riserva tra Merì e S.Pietro. In sull'ore sette del mattino investirono la fronte de' regii dell'uno all'altro mare diviso dall'istmo, il quale in sul principio si allarga di molto. Il Veloce

sostenendo il fianco sinistro, sbarcava uomini e munizioni. A causa della sua vergognosa condotta la squadra navale napoletana fu lasciata inoperosa nel porto di Napoli, laddove sarebbe essa stata il colpo di grazia contro il nemico nel fatto d'armi di Milazzo. In effetto i regii erano minacciati di uno sbarco di garibaldini alle spalle, e propriamente da quella parte dell'istmo che guarda il Nord. Fu quindi necessario dividere le poche forze regie e mandarle alla punta dell'istmo, ove si sospettava che avvenisse quello sbarco.

Bosco in sul mattino divise l'artiglieria in quattro sezioni, una sulla spiaggia presso S.Giovanni, una seconda a Casa Unnazzo, una terza al ponte delle Grotte, e la quarta sulla strada maestra destinata a proteggere i mulini. Lasciò una piccola riserva della quale avea il comando il Tenentecolonnello Marra, ed egli alla testa di non più di mille uomini, uscì fuori di Milazzo e si distese nella pianura per opporsi al nemico che si avanzava. Avuto riguardo alla grandissima ineguaglianza delle forze, quella lotta sembrava quella del pigmeo col gigante. Purtuttavia il Bosco assalì con tale slancio e si difese con tale destrezza come se avesse avuto 10000 uomini sotto il suo comando.

L'assalto cominciò al centro, poi sulla diritta, in seguito fu generale. L'artiglieria di otto piccoli cannoni fu chiamata sul campo di battaglia, e seminò la morte nelle falangi dei garibaldini. I soldati napoletani vedendo il loro duce sempre alla loro testa e sfidare qualunque pericolo, combatteano da valorosi. Si slanciavano in mezzo alle numerose e serrata schiere garibaldine, direi non più con l'ordinario coraggio comune a' buoni soldati, ma con quello dell'entusiasmo e della più sublime abnegazione.

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Io avea veduto più volte il Bosco combattere con quel coraggio che tutti avevamo ammirato, ma nella giornata di Milazzo oltrepassò i limiti di quella prudenza dalla quale un duce, che comanda in capo, non dovrebbe mai allontanarsi.

Io lo vedea montato sopra un suo favorito e focoso cavallo, quell'uomo di statura gigantesca, saltar fossati, accorrer là ove la pugna era più micidiale, animare i sol dati con la voce e con l'esempio, dir loro piacevolmente de' frizzi che sono abituali in quell'uomo, roteando la spada arrecare lo scompiglio e la morte nelle file nemiche. Io lo guardava, e mentre mi entusiasmava a tanto coraggio, temeva tuttavia non dovesse ad ogni momento stramazzare e soccombere. Questo caso non avvenne. Spesso nelle battaglie muoiono e rimangono feriti i vili che fuggono o si nascondo no; gli animosi che, baldi ed intrepidi, combattono sotto il fuoco nemico si salva no; perché hanno tanto impero sopra sè stessi di saper quel che fanno, e tanto san gue freddo da scansare i colpi per quanto è possibile.

L'ala diritta de' garibaldini rotta e gettata indietro, quantunque soccorsa di nuova gente, fu di nuovo respinta. Allora il Medici chiamò la riserva di Cosenz. Questi, antico uffiziale napoletano, disertore del 1848, assaltò con gente straniera i suoi connazionali ed antichi compagni d'armi. La divisione Cosenz fu caricata da 50 cacciatori a cavallo, comandati dall'intrepido Capitano Giuliano, il quale, dopo aver messo lo scompiglio e l'esterminio nelle file di questa divisione, cadde da eroe, e con esso il Tenente Faraone.

La pugna era generale d accanita; si combattea corpo a corpo tra regi e soldati piemontesi, mentre i garibaldini faceano fuoco sulla truppa dalle case vicine, che se ne trovavano molte in quella pianura. Bosco vedendo sboccare il fresco nemico dalla strada maestra, che conduce a Milazzo, giudicando compromessa la posizione de' due capitani Purman e Fonzeca, i quali opponevano un vigoroso ostacolo alle forze strabocchevoli del nemico, che facea di tutto per girare la posizione de' regi, e tagliare la ritirata sopra Milazzo, ordinò che si fosse avanzata la riserva di Marra; e però questi, sin dal principio della lotta, non avendo potuto raffrenare l'impeto de' soldati, si era messo loro innanzi, e buttato nella mischia de' combattenti. Bosco che avea gran bisogno di gente fresca per opporla alle traboccanti falangi dei nemici, mandò al Forte dal Colonnello Pironti il quale, come ho detto si era dichiarato indipendente da Bosco come più anziano, che gli spedisse almeno 300 uomini. Pironti si negò, e solamente spedì circa 100 soldati senz'armi a soccorrere i feriti e condurli al Forte.

Il Medici e gli altri capi di divisione, compensando le perdite sofferte col numero dei combattenti che aveano disponibili, si spinsero sul centro de' regi, e sulle due ale per intercluderli. Già i soldati napoletani erano stanchissimi, e di sete ardenti, aveano combattuto otto ore senza interruzione, e non vi erano forze che potessero surrogarli. Bosco che tutto questo conoscea, vedendosi assalito da forze numerosissime e fresche, ordinò una ritirata lenta e sempre combattendo. Avea bene avuta la previdenza di cambiare i tocchi delle trombe, perché non si comprendessero da' disertori pugnati nelle file nemiche. Sicchè a loro insaputa fece stringere la linea di

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battaglia, e a poco a poco indietreggiando sempre, condusse a Milazzo i soldati.

Nella ritirata, per incuria di un Aiutante di artiglieria ma che si era ben condotto in tutta quella giornata fu abbandonato sul campo di battaglia un obice, che sul tardi raccolsero i garibaldini, e al solito, ne menarono gran vanto.

Garibaldi fin dal principio della lotta avea lasciato il Medici al centro, e si era ricoverato sul Veloce,

a vedere da quel luogo sicuro la condizione e le vicende di quella pugna. Nella giornata di Milazzo, Garibaldi si espose pochissimo, e solamente al cominciare del combattimento. Garibaldi dal Veloce

vedendo la ritirata de' regii, si avvicinò alla spiaggia, e cominciò a mitragliare Milazzo. Il Forte tirò più colpi di cannone a palla, e lo fece ritrarre. Bosco giudicando poco sicuro lasciare i soldati dentro Milazzo, ove la notte poteano essere mitragliati dal Veloce,

ordinò la ritirata nel Forte.

I Garibaldini scrissero e strombazzarono che cacciarono i regi in quel Forte con la baionetta alle reni. Qui debbo dire, che quante volte vidi combattere i garibaldini e la truppa piemontese, mai non vidi far uso della tanto celebrata baionetta. A' garibaldini li vidi sempre combattere da dietro i ripari, e mai allo scoperto. Intanto gli stessi garibaldini scrissero e spacciarono che i napoletani si batteano nascosti dietro i fichi d'India, e dietro i canneti; mentre furono essi che combatteano da dietro le mura de' giardini, e da dentro le case ed i casini, ove i soldati andavano spesso a trovarli. I soli soldati sardi e pochi garibaldini furono quelli che sostennero la pugna corpo a corpo, gli altri combatteano non visti.

I garibaldini rimasero più di un miglio lontani da Milazzo; dopo che la truppa entrò nel forte, temeano di entrare perché i cannoni di quel Castello li avrebbero decimati appena si fossero mostrati al principio dell'istmo.

Erano già corse due ore dacchè i regii si erano ritirati; quando i garibaldini cominciarono a farsi vedere in piccoli drappelli a tiro di cannone. Veduto che non si tirava contro di essi presero animo, e al cadere del giorno, a poco a poco, se ne entrarono in Milazzo, ad onta di qualche cannonata a palla piena che Bosco fece tirare ad pompam;

avendo le sue ragioni di attirare il nemico dentro la Città, conciosiachè sperava sempre che Clary, o si fosse mosso da Messina con buon nerbo di truppa, o avesse mandato de' battaglioni per attaccare Garibaldi dalla pianura, ed egli uscire dal Forte per metterlo tra due fuochi. Il Clary però pensava a tutt'altro.

I regi dopo otto ore di guerra sotto la sferza del Sole di Luglio, combatteano uno contro dieci senza mai riposare, senza né mangiare né bere, mostrarono che valeano assai quando erano condotti alla pugna da duci non vili o non compri. Perderono tre uffiziali e 38 soldati, 83 feriti, e 21 prigionieri.

Questo poco danno della truppa nella giornata di Milazzo di debbe ascrivere all'abilità del come dispose e condusse i soldati il duce Bosco. I prigionieri della truppa piemontese, ormai Garibaldini, ci dicevano essere diecimila tra soldati sardi, garibaldini del continente ed esteri, oltre alle bande siciliane.

Alcuni garibaldini ci dissero che aveano perduto mille e cinquecento compagni nel grosso fatto d'armi di Milazzo. Il Bertani in un proclama a volontarii, scrisse: i mille caduti a Milazzo.

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Garibaldi disse al comandante del Vapore francese il Protis,

come avesse ottomila uomini tra soldati del Piemonte e garibaldini, oltre alle bande siciliane, e come ne avea perduti ottocento de' più prodi.

Sulla giornata di Milazzo ho detto coscienziosamente ciò che vidi ed osservai. Intanto su quella giornata si spacciarono menzogne iperboliche, e s'inventarono episodii e duelli simili a quelli della Gerusalemme liberata. Bosco e Garibaldi si fecero venire a singolare tenzone. Chi vide Garibaldi? Costui da uomo prudente e preveggente, sin dal principio della pugna, se ne andò sul Veloce:

e buon per lui se fosse venuto a duello col Bosco!

Venne a Milazzo il romanziere Dumas, a cui Garibaldi, sotto lo specioso titolo che avesse comprato 1500 fucili, avea dato delle lettere per esigersi dal tesoro di Palermo centomila franchi. Il sindaco Verdura non volle pagarli, il Prodittatore ne pagò sessantamila. Il Dumas inebbriato di quella non lieve somma, scrisse e stampò sul fatto d'armi di Milazzo menzogne sperticate, cose delle Mille ed una notte.

Descrisse Garibaldi un Orlando furioso per la forza, un Federico II di Prussia e un Napoleone 1° per la strategia militare. Fra le altre cose narrò che avea veduto innumerevoli schiere di soldati napoletani combattere in Milazzo contro duemila e cinquecento ragazzi garibaldini. Fu questo un fenomeno ottico prodotto da que' be' sessantamila franchi, perché non erano di carta straccia, ma luccicavano, ed aveano la immagine del tiranno

di Napoli.

Anche il Francese Visconte de Noë volle spezzare una lancia contro l'Esercito delle due Sicilie, e particolarmente contro i prodi difensori di Milazzo scrivendo un opuscolo col titolo: Trente jours à Messine par Monsieur le Vicompte de Noë.

Il sig. Visconte allucinato come il Dumas, ma per altre ragioni che sono quelle di questo cicalone, vide pure lui in Milazzo 25,000 napoletani, bene armati, bene disciplinati, ben equipaggiati, inseguiti da Garibaldi sul loro cammino con pochi battaglioni di ragazzi. Alla visione del Visconte Noë rispose trionfalmente il distinto uffiziale superiore de' Torrenteros con un opuscolo in forma di lettera, che compose a Roma e stampò in Firenze

nel 1861.

Opuscolo raro e prezioso, e per me preziosissimo, perché nello stesso trovai de' documenti che invano avea cercato in altri libri.

In quella lettera il cav. de' Torrenteros racconta in succinto molti fatti, e specialmente di Milazzo, che sono la storia fedele di quelli avvenimenti. Egli tratta il sig. de Noë con molta politezza nella forma, ma gli dice delle scottanti verità. Non voglio defraudare il lettore del seguente brano: «Sicchè, o signore, gli dice il sig. de' Torrenteros: Voi che tanto vi scandalezzate de' nostri rovesci militari, mercè una tal quale estasi ricavata dalla passeggiata trionfale di Garibaldi per la Sicilia e le Calabrie, Voi, quale persona versata nella storia militare di Europa, e specialmente in quella che si liga ai rinomati nomi di Luigi XVI, di Federico II, di Maria Teresa, e di Napoleone I, potreste rinvenire glorie e catastrofi più clamorose della Napoletana d'oggi!

«Ed altrove parlando de' Generali: Meno que' Generali Napoletani comprati in oro ed ai quali gl'italianissimi non potran mai consegnar loro una spada che gli cadde di mano il giorno, che seppero stringere invece una borsa di monete!..

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Nei brani di questa lettera il sig. de Torrenteros, ha messo, come suol dirsi, il dito, anzi direi, il ferro rovente sulla piaga, ed è uno splendido argomento per far cessare la maraviglia a quel Visconte circa i rovesci Napoletani del 1860 e 1861. E se questo uffiziale superiore di Stato maggiore avesse scritto dieci anni dopo a de Noë, cioè dopo Metz e Sédan? ah! non gli avrebbe potuto citare che le sole catastrofi, le quali paragonate con quelle napoletane, queste si potrebbero dire trionfi! Ma dopo Sédan il francese Visconte non avrebbe scritto in quel modo: Dio ci manda spesso delle tribolazioni per nostro maggior bene, cioè per fiaccare la nostra superbia, ch'è un bruttissimo peccato capitale, o meglio, come disse, in un discorso, l'immortale nostro Santo Padre Pio IX, è la base degli altri peccati capitali.

Io mi ero assunto l'incarico di scrivere gli avvenimenti del mio Battaglione e di tutti quelli ai quali questo si univa. Spesso io scriveva sul campo di battaglia in mezzo all'esterminio e la morte; e non di rado l'erculee spalle della mia ordinanza mi servirono di scrivania. Io ebbi l'agio di osservare tante particolarità essendo più libero degli uffiziali; e il desiderio di tutto vedere ed osservare da vicino, spesso mi spingeva in luoghi pericolosissimi, e di ciò ne fui più volte rimproverato da' miei amici.

Dopo che compilai alla meglio il mio itinerario da Boccadifalco a Gaeta esso restò meritevolmente per 14 anni gettato in mezzo a tante altre carte inutili; e non avrebbe veduto la luce se non fosse stata la benevola insistenza degli amici, come già ho detto nella Prefazione. Quell'itinerario lo coordinai; e feci quelle aggiunte necessarie per farne, direi, quasi un racconto completo di tutti gli avvenimenti della guerra del 1860 e 1861. Fra tante altre cose osservai che nelle file garibaldine erano de' giovani distintissimi per nascita, per ricchezze, per istruzione, e per isquisitezza di forme e maniere, i quali operavano individualmente sempre da perfetti cavalieri. Parecchi di questi giovani trascinati da un falso entusiasmo che oggi molti di essi deplorano credendo in buona fede rendere un gran servizio alla patria, erano quelli solamente che si batteano da valorosi. Ma in quelle stesse file erano dei così detti garibaldini avanzi di galera, e di tutte le piaghe sociali che ardivano scimmiottare gli altri, atteggiandosi a fratelli liberatori, mentre perpetravano nefandezze degne de' più volgari briganti. Il seguente episodio, che mai potrò dimenticare, farà conoscere che sorta di gente si trovasse nelle falangi garibaldesche. Questo episodio lo trovo registrato nel mio itinerario da Boccadifalco a Gaeta: non era mia intenzione pubblicarlo, ma gli amici mi hanno obbligato. Io lo do alle stampe quale lo trascrissi nel Castello di Milazzo il 22 Luglio 1860, riparato vicino una troniera, mentre mi fischiavano attorno le palle nemiche.

La mia missione sul campo di battaglia, era missione di umanità e di carità evangelica, cioè assistere i feriti materialmente e confortarli nello spirito. Io andavo sempre col chirurgo, ed insieme raccoglievamo i feriti amici e nemici, e li assistevamo senza alcuna distinzione; poichè caritas non quaerit quae sua sunt,

ci avverte S. Paolo. Nella giornata di Milazzo, sul tardi, i feriti erano molti, e non potevamo assisterli e medicarli in mezzo a' campi. Si mandò al forte e si fecero venire molti pagliaricci:

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si aprì un magazzino alla distanza di un miglio in circa da Milazzo, e s'improvvisò un ospedale quasi sul campo di battaglia, per darsi i primi e più urgenti rimedii a' feriti. De' feriti della truppa, quelli che non erano proprio moribondi si mandarono all'ospedale del forte, e rimasero 50 garibaldini feriti, che avevamo raccolti in quello stato sul campo.

Quando Bosco ordinò la ritirata, io e il chirurgo fummo avvertiti di andar via. A me si straziava il cuore all'idea di lasciare que' feriti senza assistenza o cura. Vi erano molti garibaldini che richiedeano un pronto soccorso, maggiormente quelli che soffrivano di emorragia cagionata dalle ferite; abbandonarli in quella trista condizione sarebbe stato condannarli ad una morte inevitabile. Pregai il chirurgo di rimanerci ivi sino a che fossero giunti i garibaldini, a' quali avremmo affidato la cura e l'assistenza de' propri compagni. Io in poche ore mi ero affezionato a que' giovani infelici, i quali prevedendo prossima ed inevitabile la loro fine, si disponevano a morire santamente; a me sembrava che presso di essi facessi le parti de' loro parenti, dei loro genitori, e questo pensiero mi animava, mi fortificava, non mi faceva sentire la mia stanchezza, i miei bisogni. Io dicevo al dottore, noi non siamo parte belligerante: noi siamo qui per soccorrere l'umanità sofferente, noi non facciamo distinzione da amici a nemici. Non dovete poi credere che i garibaldini che tra breve verranno qui siano bestie feroci; vi assicuro che non ci faranno alcun male, piuttosto ci faranno ritornare a Milazzo, e ci ringrazieranno perché abbiamo assistiti i loro compagni. Oggi, io dicea, le guerre si sono incivilite, e si usano tra nemici tutte quelle cortesie necessarie pel bene ed il sollievo dell'umanità sofferente. A provar questo, citavo alcuni fatti della guerra di Crimea. Io m'ingannavo, ma quella mia cicalata persuase il buon dottore di rimanere presso a que' feriti. Si mandarono a Milazzo le nostre ordinanze, pel timore ch'esse non rimanessero prigioniere, noi due soli ci sommettemmo a prestare tutti que' servizi necessari a 50 garibaldini feriti.

Verso le sei e mezzo della sera giunsero i primi garibaldini; io mi tenni perduto. Appena mi videro, esclamarono ad una voce: Oh..! un prete borbonico..! Quelli sciagurati imbestialirono, e più di dieci mi furono sopra a calata baionetta. Fu quello il più terribile momento della mia povera vita: io già sentiva la fredda lama di quell'acciaio entrare nelle mie viscere, ed esclamai, in manus tuas Domine commendo spiritum meum..!

Chi mi salvò? gli stessi garibaldini feriti! Essi vedendo l'atteggiamento ostile de' propri compagni, saltarono da' pagliaricci e mi fecero scudo co' loro corpi insanguinati, gridando, strepitando che risparmiassero la mia vita, e dicendo a que' manigoldi il poco bene che io loro avea fatto.

Gli stessi garibaldini moribondi si rizzarono a metà ed implorarono grazia per me con le supplichevoli mani; quest'atto mi fece dimenticare il mio pericolo, ed i miei occhi si riempirono di lagrime di ammirazione e di riconoscenza per que' traviati, ma in fondo buonissimi giovani. I garibaldini che voleano assassinarmi, rimproverarono i feriti che si erano fatti borbonici, perché difendevano un prete borbonico. Ed io notai che invece di condolersi co' compagni feriti, li guardavano biechi per la ragione che aveano impedito di uccidermi.

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Que' garibaldini imbestialiti contro di me, è vero che mi diedero in dono la vita, come essi diceano, ma commisero atti contro di me, e contro il povero dottore, il quale tremava in un angolo del magazzino, che avrebbe fatto ridere in altre circostanza che mi fecero conoscere benissimo che razza di ladri si fossero, e gente abbietta. Innanzi tutto mi strapparono i gigli del soprabito, e l'oriuolo: avea trenta ducati nelle saccocce, me li tolsero. Mi presero il vasetto di argento dell'Olio Santo, e non vollero darmi la bambagia intrisa di quel santo Olio: anzi se l'applicavano sopra alcune parti del corpo.

Non trovando altro nelle mie saccosse che due fazzoletti tutti intrisi di sangue, se li presero pure. S'impadronirono di un sacchetto di pelle, ove restava un poco di biancheria per mio uso, dappoichè la maggior parte mi era servita per fasciare le ferite degli stessi garibaldini. Un garibaldino, volea a forza tirarmi un buon paio di stivali che io avea ai piedi, e lasciarmi come que' devoti che si recano a qualche santuario a sciogliere il voto: un caporione garibaldino lo impedì con un «lascialo quel pretaccio» Il dottore fu pure rubato di tutto quello che avea.

Ci fecero prigionieri, e poi ci consegnarono ad altri garibaldini, i quali, per maggiore cordoglio, mi divisero dal dottore.

La sera tardi mi condussero dentro Milazzo.

Io dicevo tra me, sta a vedere! te la sei scappata da' nemici, sarai ucciso da qualche amica cannonata dal Forte! Mi condussero al palazzo Cassisi. Prima di giungere percorrendo un tratto di strada ove scorrea del vino, il cui odore ristorava in parte le mie abbattute forze. I garibaldini, i primi entrati in Milazzo, aveano scassinato la grande cantina del Palazzo Cassisi, ed aveano fatto da prodi tutta una scarica di fucilate contro le borboniche botti piene di vino. I garibaldini miei conduttori si metteano carpone, e bevevano quel vino che ci scorrea tra' piedi. Io ero assetato e digiuno, e dovetti fare un grandissimo sforzo sopra di me per non imitarli.

Giunto al palazzo Cassisi, lo trovai in grandissimo disordine. Non vi era più un mobile il quale non fosse stato rotto dai garibaldini; tutto era in pezzi: mobili, quadri, porte, finestre, balconi, le stesse mura che mostravano i fieri insulti del vandalismo. Quel palazzo era pieno di garibaldini, che aveano acceso lumi e luminarie, e faceano un baccano d'inferno. In quel palazzo io era nelle stesse condizioni e peggio di D. Abondio descritto dal Manzoni nella valle dell'Innominato. I visi arcigni di que' garibaldini mi sembravano dicessero ogni momento «fagli la festa a quel prete! «Vi era molta roba da mangiare, suppongo che l'abbiano trovata in quel palazzo: e quella grazia di Dio era gettata sopra i mobili distrutti e per terra.

Io volea dire a' garibaldini che mi dessero un poco di pane ed acqua, perché mi sentiva venir meno. Però avendo timore di attirare la loro attenzione sopra di me, che io sempre mi studiava di allontanare, mi contenni di chiedere alcuna cosa.

Ciò non ostante la fame e la sete sono cattivissime consigliere. Destramente ghermii un pezzo di cacio, mi ritirai in un angolo oscuro, e senza pane lo divorai. Il bisogno della sete divenne insopportabile. Con sufficiente accortezza, mi condussi in quella generale confusione vicino un gran vaso di latta pieno di vino, vi tuffai le labbra, e bevvi nel modo che fanno i quadrupedi:

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mi dissetai a sazietà. Dopo meno di un quarto d'ora, la testa mi girava, il suolo sembrava mancarmi sotto i piedi, la camera voltar sotto sopra; mi accovacciai dietro alcuni mobili distrutti, ove non potevo essere tanto molestato da quelli ch'erano più brilli di me, e grazie a Dio, mi addormentai profondamente.

Quello che avvenne in quel palazzo nelle tre in quattro ore che io dormii, nol so. Innanzi di far giorni mi svegliai. Appena mi resi conto dello stato cui ero condotto, non tenendomi obbligato a nulla, pensai alla mia liberazione. Nella oscurità in cui mi trovavo, sentivo solamente russare nella stessa Camera, sentiva parlare nella strada sotto il palazzo.

Non conoscevo la disposizione delle camere di quel palazzo. La sera però avea osservato che la camera ov'io era comunicava con una altra, e questa col giardino. Almanaccai un poco e mi diressi a quella volta. Apersi leggermente la porta mezzo distrutta della camera, passai nella seconda, e con due salti fui nel giardino. Albeggiava appena, ed io non sapevo se avessi veduto il tramonto di quel giorno; la liberazione che avea intrapresa era assai pericolosa. Le mura del giardino era alte, mi sconfortavano. Salii sopra un albero di arancio lunghesso il muro, ma non fu possibile afferrarne la sommità. Discesi e feci un giro entro il giardino; non vi erano scale, né altri oggetti che mi avessero potuto agevolare l'uscita e la fuga. Mi avvidi che vi era un sedile di pietra addossato al muro colla spalliera alta anche di pietra. Vi montai sopra, afferrai la sommità del muro, il quale finiva a lama di coltello, tanto mi sforzai con quella ginnastica, che giovanetto avea esercitata con successo, che pervenni a voltar l'anca, e giù abbasso dalla parte sottoposta, senza guardare l'altezza. Cascato a terra, ebbi una scossa terribile da sentirmi spezzare le ossa. Pur nondimeno ebbi forza di alzarmi, e mi diressi verso il forte. Temevo di essere riconosciuto ed inseguito; prendermi allora alla corsa non era tanto facile, ma ero certissimo che mi avrebbero raggiunto con le palle del fucile. Mi comportai in modo di giungere al forte senza alcuna molestia. Io conoscevo le diverse strade che conducevano a quella fortezza, e scelsi quelle che supponeva meno frequentate. Il mio tricorno di felpa lo nascosi sotto il soprabito, e via diritto, or rapido ora lento.

L'imbroglio serio era che mi sarebbe potuta arrivare qualche brava schioppettata dalle sentinelle avanzate della Fortezza: quindi giudicai prudente accovacciarmi in un fossato ed aspettare che si facesse giorno chiaro. Quando mi parve opportuno uscii dal mio nascondiglio, aggiustai il tricorno, e me lo misi in capo. Guardai ov'era la sentinella più vicina e gridai, sono il cappellano vostro, non tirare sentinella, bada... Oh, che momento..! fammi aprire subito. Immediatamente si affacciarono molti soldati dalle mura, ed altro non s'intese: «oh!.. u cappellano nuosto!"

Quando entrai nel Forte i soldati mi condussero in trionfo; a dire il vero, io avea più desiderio di bere e riposarmi che di essere festeggiato.

Gli uffiziali miei amici mi oppressero con dimande senza aspettar la risposta; alcuni però, meglio ragionevoli mi prepararono delle limonate ch'io dimandava. Dopo che mi dissetai, dissi a quelli amici quello che mi era successo all'ospedale del


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campo, ed in quella notte per me memoranda. Quei buoni militari fremeano di sdegno al mio racconto, ridevano sgangheratamente per la parte buffa che mi toccò in sorte al Palazzo Cassisi.

Il dottore mio compagno fu condotto al Convento de' domenicani, e gli si diede da mangiare e da bere, ma restò prigioniero. Egli avea in Napoli una numerosa famiglia: quindi era dolentissimo della sua prigionia. Lo condussero poi a Messina, ed ivi ottenne da Garibaldi la libertà ed il permesso di partire per Napoli. Noi ci rivedemmo e ci abbracciammo in Caserta; il buon dottore non mi portava il minimo rancore per tutto quello che avea sofferto per me. Però tutte le volte che alla truppa era ingiunto di ritirarsi, egli era sempre il primo a lasciare i feriti e mettersi in salvo. Io più di una volta lo consigliai a restare, e ciò solo a fine di vederlo arrovellarsi. Ed egli mi dicea parole accompagnate da un gestire tanto buffo che mi facea ridere saporitamente.


CAPITOLO X

Il Colonnello Bosco appena entrato nel Forte, segnalò a Clary lo stato delle cose guerresche di Milazzo, e domandò truppa dalla parte dell'istmo, ed egli dalla parte della Fortezza sarebbe piombato sulla città. Il Clary avea avuto facoltà da Napoli di far uso di tutte le sue forze contro Garibaldi; egli invece scriveva al Ministero della guerra che Bosco fu troppo avventato a rompere guerra, ed avea fatto malissimo di chiudersi nel Forte. Menzogne e contradizioni degne di un Clary. Costui si vantava di essere restato sulla difensiva, perché di ciò fu lodato dal console inglese, e dal sardo. Pianelli Ministro della guerra scriveva al Clary: «nel caso vostro andrei risolutamente a Milazzo ad investire il nemico alle spalle. Messina si difende coi bastioni: voi dovete spiegare energia e coraggio ". Clary faceva il sordo: esagerava le forze nemiche, dicea essere minacciato dalla parte di Catania, la via di Messina a Milazzo essere gremita di bande rivoluzionarie, e che il funesto colpo di Milazzo echeggiasse in Messina. Era sfacciata menzogna la minaccia dalla parte di Catania, e l'affollarsi della bande sulla strada da Messina a Milazzo: queste si erano riunite tutte in quest'ultima città.

Il Clary si dichiarò codardo scrivendo a Napoli che temea le bande, che scorrazzavano tra Messina e Milazzo. Egli, Generalissimo con una forza imponente di 22 mila uomini, con cavalleria ed artiglieria, temea che le bande rivoluzionarie gli potessero dar molestia sulla via!?!

Clary si fece sfuggire di mano la fortuna, e la rinomanza che avrebbe acquistata vincendo la rivoluzione cosmopolita adunata in Milazzo. Egli che ne avea i mezzi e non ne fece uso, fu vile o traditore, da qui non si esce. In quanto poi al Ministro della guerra Pianelli, invece di dar consigli al Clary potea dargli degli ordini.

Il Clary il 22 luglio riunì un consiglio di uffiziali graduati, e in quel consiglio esagerò le forze del nemico: descrisse con tetri colori lo stato dell'armata e,

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pur chiedendo consiglio conchiuse dicendo che avea risoluto di non mandare soccorsi a Bosco, e di cominciare la ritirata sul continente. E così senza vedere il nemico, l'indomani si ordinò la ritirata verso le Calabrie. I primi a ritirarsi furono due battaglioni di lancieri, il reggimento di carabinieri a piedi, e il 4° di linea.

Mentre si combattea a Milazzo, il Re in consiglio di ministri dicea, che il Governo Sardo avea mancato di parola, che in cambio di stringere la lega italica tra Napoli e Torino, mandava soccorsi a Garibaldi, e che la bandiera Sarda copriva le navi garibaldine: e conchiudeva: «Abbia sua parte la nostra real dignità, e la salvezza della patria: val meglio incontrare i rischi della guerra aperta che rimaner vittima della rivoluzione: perciò è mio avviso darsi i Passaporti al Ministro Sardo Villamarina.»

A questo discorso dignitoso del sovrano i ministri liberali non poteano far buon viso, perché voleano consegnare la Patria alla rivoluzione senza ostacoli e senza onorate prove di resistenza. Il Nunziante ed il Pianelli, non so se tutti e due, ma il primo già venduto alla setta, pensavano trarne alto profitto e intendersi col Piemonte sulle condizioni a loro favorevoli. Quindi a rintuzzar Garibaldi opinavano che si dovessero mandar truppe a Milazzo, costringere Clary a farsi avanti, e chiudere tra due eserciti la rivoluzione trionfante.

Questi disegni di guerra furono oppugnati da S.A. il Conte d'Aquila, zio del Re, il quale osò dichiarare che sarebbe stato grande disonore alla flotta napoletana recar soldati a Milazzo per combattere i fratelli, i quali si battean per l'unità nazionale. Fra il Conte d'Aquila e Nunziante corsero animatissime parole; quegli volea la rovina del nipote per effettuire le sue utopie e il suo tornaconto, l'altro volea la rovina del Regno a modo suo per ottenere personali vantaggi.

Dopo tutte queste poco onorevoli lotte e diversità di opinioni, che erano tutte contro il giovine e tradito Sovrano, si decise di mandar legni Mercantili a Milazzo per imbarcare la truppa a ricondurla a Napoli.

Il Pianelli mandò a Clary un dispaccio telegrafico nel quale gli dicea: «Le do facoltà in tutto: se crede tornare sul continente, il faccia senza esitare,» Ma Clary rimase in Messina per avere il tristo onore di capitolare e cedere in suo nome Messina a Garibaldi.

Era una mania; non pochi duci napoletani riponevano nella capitolazione e nel cedere tutto al nemico in proprio nome, l'ideale dell'onor militare.

E qui necessario fare una riflessione, la quale potrebbe ridurre nei giusti limiti la troppa ammirazione che si ha di Garibaldi circa i fatti di Milazzo. Si sa da tutti che costui non era affatto né scemo né pazzo, quindi l'essersi buttato imprudentemente a capofitto sopra Milazzo con un Forte di fronte, ed una brigata di soldati de' quali avea sperimentato il valore; con una armata alle spalle di 22 mila uomini, e col timore che il Ministero avesse potuto mandare altra truppa da Napoli, dimostra come il duce supremo della rivoluzione fosse certo del fatto suo.

Il Colonnello Bosco aspettava invano i richiesti aiuti di truppa. Il forte non potea sostenersi, mancava di tutto: e dal colle che lo domina, i soldati erano assai molestati dal nemico con fuochi di fucileria; essi erano uccisi o feriti mentre dormivano

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o mangiavano. La fortezza di Milazzo si costruì quando non vi erano armi a fuoco, quindi quel colle dominante non potea allora nuocere a' difensori più tardi co' nuovi mezzi di guerra quello a nulla o a poca cosa valeva. Vi erano scarsi viveri, acqua pochissima e mescolata di vermini.

Bosco dopo che tenne un Consiglio di uffiziali graduati, dispose che agli uomini ed agli animali si desse la metà della loro razione. In questo modo si potea durare per quindici giorni. Intanto il ministero della guerra avea assicurato il Re che la fortezza di Milazzo fosse in buono stato di difesa.

Il giorno 22 luglio arrivarono nel Porto di Milazzo tre legni francesi mercantili tolti a nolo dal Governo di Napoli. Garibaldi per mezzo di Salvy comandante d'uno di quei legno chiamato il Protis,

fece sentire a Bosco che si rendesse con tutta la guarnigione, altrimenti passerebbela tutta a fil di spada. Bravo Garibaldi! Con questa tua fanfaronata hai mostrato quanto sei civile ed italiano. Tu vuoi passare a fil di spada una prode guarnigione perché non si rende vilmente? Oh! ti sei troppo scoperto: non sono i preti roba del medio-evo o de' secoli barbari, ma sei tu che volevi rinnovare in Milazzo i tempi di quelle guerre barbare, che al leggerle solo ci fan fremere di santa indignazione.

Bosco rispose che cederebbe la piazza a condizioni onorevoli, e con la sanzione sovrana, o combatterebbe da disperato, e volendolo la circostanza, farebbe saltare in aria il forte, e forse la stessa Milazzo: quindi si preparò alla difesa.

Clary che si era mostrato or vile, or menzognero, or contraddittorio, negli ultimi momenti oprò da buffone e da matto. Di fatti, quando meno l'aspettavamo, spiccò al Bosco il seguente telegramma:

«Telegramma Corrispondenza del R. Corpo Telegrafico il Maresciallo Clary al Colonnello Bosco.Sospendete le trattative. - Rinforzi positivi sono partiti - altre poche ore sarete salvo -

L'uff. telegrafico Fir. Caffiero.»

Un grido di trionfo echeggiò per la fortezza, il nemico intese ed allibbì: conciosiacchè i rivoluzionarii temeano sempre che giungesse qualche soccorso o da Messina o da Napoli, e non ignoravano che il telegrafo ad asta funzionava tra Messina e Milazzo.

La guarnigione comandata da Bosco, dopo la ricevuta notizia del pronto soccorso, si preparò a sortite dal Forte e piombare sul nemico. Tutto era preparato. I soldati frementi di battersi, aguzzavano lo sguardo sul mare e su' monti del Gesso per iscoprire il soccorso promesso da Clary.

Ma costui che avea telegrafato a Bosco, essere già partiti i rinforzi da Messina, in quel momento confabulava col Medici, il quale era stato mandato da Garibaldi a Messina per mettersi di accordo col duce regio.

La mattina del 23, il Clary fece giungere a Milazzo un altro dispaccio, non più diretto a Bosco, ma al Colonnello Pironti. Ecco il dispaccio:

«Telegramma - Corrispondenza del R. Corpo Telegrafico - Milazzo 23 luglio 1860 - ore 7 ant. Rapporto Telegrafico - Il Maresciallo Clary al Comandante la Piazza di Milazzo (a Pironti).

89Questa mattina arriverò costà un Ministro

(sic) plenipotenziario del Re, con quattro fregate napoletane e tre vapori, per trattare la vostra resa.

Messina ore 7 a. L'uffiziale telegrafico

Firmato Francesco Cafiero.»

Era un perdere la testa con questi ordini e contrordini! I soldati trasecolavano e ripetevano il solito ritornello di quei tempi: non si capisce più niente!

Sul tardi di quel giorno arrivò nel porto di Milazzo il Colonnello di Stato Maggiore Anzani con tre fregate regie e stipulò una capitolazione brevissima, la quale importava che tutta la truppa del forte uscisse con armi e bagagli, ed onori militari, e fosse trasportata sul continente.

Quelli che mandarono l'Anzani con potere di cedere il forte di Milazzo a Garibaldi, resero il più grande servizio al Colonnello Bosco, poichè questi avea fatto conoscere quanto valessero i soldati napolitani diretti da duci né compri né vili, e che l'ideale dell'onor militare di Bosco non era quello di tanti altri duci, cioè di capitolare e cedere tutto in proprio nome al nemico. Quindi sembra che il Ministero abbia mandato Anzani per capitolare, e risparmiare al Bosco il dispiacere di cedere in suo nome a Garibaldi la fortezza di Milazzo. Alcuni però ritennero come certo, che Garibaldi non volendo trattare col Bosco, perché sapea che non l'avrebbe trovato pieghevole, avesse scritto o telegrafato a' suoi amici di Napoli, che circondavano il Re, sollecitandoli a mandare un altro per conchiudere la capitolazione.

Garibaldi volle due cavalli di Bosco, mentre agli altri uffiziali superiori furono lasciati quelli che aveano: fu questa una bassa vendetta del dittatore che onora Bosco!

Mentre si capitolava in Milazzo, altre viltà avvenivano in Napoli e Messina. Il Ministero liberale di Napoli scriveva un manifesto ai Gabinetti d'Europa dicendo, Garibaldi aver riaccesa la guerra civile con assalire Milazzo, e il Re per troncarla essere disposto a qualunque sacrifizio, purchè s'imponesse al nemico di cessare le ostilità.

Ministero senza decoro e senza patria! Abbattendo un trono secolare né pure volea salvare quell'onore del quale andava tanto altiero Francesco I di Francia nella sua disfatta e prigionia. Un Ministero che avea i mezzi di stritolare il nemico in pochi giorni, ricorreva all'Europa per ottenere la grazia ch'ella lo salvasse dalle ostilità di Garibaldi! e di più, promettea sottomettersi a qualunque sacrifizio, mettendo in mezzo la sacra persona del Re!

La rivoluzione, una sola cosa ha fatto di buono, cioè ha respinto quegli uomini e quei Generali che vendettero vilmente la Dinastia e il Regno. Ha fatto però due eccezioni, una per Alessandro Nunziante, l'altra per Pianelli Ministro delle guerra di Francesco II. Al primo lo gettò tra gli stracciumi del cenciaiuolo, dopo essersene servito; il secondo ora si trova ad uno de' cinque comandi generali dell'Italia, ma respice finem!

E si sappia da chi avesse interesse saperlo, che il Pianelli, se bene oggi si atteggia a liberale, nell'armata napoletana era chiamato il terrorista; conciosiachè

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usasse le verghe della tirannide, percuotendo i soldati per una piccolissima mancanza con 50 o 100 legnate, per modo che i miseri pazienti rimaneano mezzo morti sotto quel martirio di barbari, e spesso li rendeva inutili al servizio militare e al lavoro. Ancora ho presente il Pianelli, al quartiere di Pizzofalcone a Napoli, con quanta voluttà facea battere i soldati a colpi di verghe per lievissime mancanze. Allora io ero un liberale, un rivoluzionario secondo Pianelli, perché volea impedire quegli atti di vera barbarie. Cosa è ora il Pianelli? è un liberale, uno de' primi generali del Regno d'Italia: ed io sono un clericale,

un misero mortale, che stento la vita, perché non mi giuocai la coscienza e l'onore nel 1860. Ma posso alzar altiero la fronte, e dire in faccia a chicchesia ho fatto il mio dovere:

ecco la più bella ricompensa a' patiti disastri, e all'attuali non floride condizioni in cui mi trovo. Potete dire lo stesso voi, signor ex ministro Pianelli circa i fatti del 1860?

Clary il 24 Luglio, scriveva al segretario del Re: «Ora il signor Garibaldi si vorrà divertir con me; venga; mi trova giusto...! vi dico che balleremo bene!»

Spiritoso quel balleremo bene col signor Garibaldi, attesa la figura grottesca di Clary! Chi conosca costui, e prenda letteralmente la frase, balleremo bene

non potrebbe fare a meno che ridere sgangheratamente. Egli, il Clary, volea ballar bene

con Garibaldi dopo i fatti di Milazzo? Mentre pochi giorni prima fingeva, o realmente si mettea paura delle bande armate che vi erano sulla strada da Messina a Milazzo. Però il giorno stesso il Clary scriveva a Pianelli e gli chiedeva la facoltà di cedere Messina a Garibaldi. Avete mai letto simili studiate contraddizioni di un Generale in capo? Clary, negli ultimi avvenimenti della rivoluzione di Sicilia, si mostra indefinibile quanto colpevole. Una volta dice che si vuole battere, immediatamente cambia pensiero, ritorna poi a dire, che vuol ballare bene con Garibaldi, nel mentre scriveva al Ministero della guerra per ottenere la facoltà di ritirarsi nelle calabrie, senza colpo ferire. Codardo!

Il Pianelli dimenticandosi di avere già scritto al Clary, come se si fosse trovato nella costui condizione, avrebbe investito Garibaldi a Milazzo, con tutta energia e coraggio; dopo due giorni, senza essere cambiate le circostanze, scriveva al medesimo Clary: «Resto convinto (sic!!!) che non potevate marciare sopra Milazzo, potete ritirarvi sul continente, valendovi di navi francesi». E così si fecero amici Erode e Pilato!...

Il Clary, facendo tesoro delle pieghevolezze e compiacenze di Pilato, cioè del Pianelli confabulando col Medici in casa del console sardo, ove si facea accompagnare dal suo amico e confidente, il capitano Ayala, il quale disertò poi al nemico il 7 settembre, ed ivi contrattarono. E per mostrarsi sino all'ultimo bugiardo scrisse altra lettera al Segretario del Re, ove gli dicea: «I nostri avamposti saranno oggi assaliti, speriamo bene». Quello stesso giorno dava l'ordine a quegli avamposti ripiegassero sopra Messina non ancora veduto il nemico!...

Non la finirei più se volessi raccontare tutte le male arti che usarono Pianelli e Clary per cedere la Sicilia a Garibaldi, e per dare a costui tutta quella importanza che non avea.

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Garibaldi, da vero profeta il 25 Luglio, secondo avea detto, fece occupare Messina dai suoi: e la truppa, parte si ritirò nella cittadella, parte passò sul continente.

Epperò che appena segnato quell'inatteso ed esizialissimo contratto che prostrava cuore ed onore di quel corpo d'Esercito, ad alcuni fedeli balenò l'idea d'un colpo audace, che se da una parte offendeva i doveri di disciplina, pure avrebbe, chi lo sa, dall'altro salvato il Regno e la Dinastia. Taluni impetuosi avrebbero voluto persino uccidere Clary e d'Ayala, altri imprigionarli, e trovare tra i graduati chi li avesse condotti incontro a Garibaldi, e così finirla per sempre. Sappiamo che nella notte istessa l'animoso Cav. de' Torrenteros, allora Capitano di Stato Maggiore, pur non soffrendo quell'onta d'una nuova ritirata, senza cimento e senza sconfitta, si condusse sollecito dal Generale Marchese Palmieri, che immediatamente seguiva Clary per anzianità e grado, e fidente nel chiaro nome di Lui, e nella nota sua fede ai Borboni, franco disse come andavan le cose; che se quello non era alto tradimento del Maresciallo Clary, certo era viltà riprovevole alla quale bisognava provvedere. Il distinto sig. Palmieri se ne mostrò sorpreso ed addoloratissimo. Cavaliere e soldato onesto era già in prevenzione dell'equivoco procedere del Clary, ma sia per serbar salda la vacillante disciplina, sia per non affrontare mali maggiori, disse al Torrenteros che ne avrebbe scritto subito al Re; ma che bisognava serbare alta ubbidienza, per salvare il Maresciallo e soprattutto l'ordine disciplinare, facendo sentire ai più intolleranti non porsi al caso d'incorrere ne' possibili d'un consiglio di Guerra...

Clary fu salvato; l'ordine fu mantenuto; ma la rovina di tutto metteva più salde radici.

Gli infelici soldati napoletani, affamati, affranti di fatighe e patimenti, disprezzati dai duci stessi, erano da tutti incitati a disertare; e qualcuno disertò per la disperazione, e per non servire sotto condottieri che li martirizzavano senza scopo e senza utile del servizio del Re, e della Patria.

Il Clary il 26, giusta la convenzione fatta col Medici cedeva Messina con lo specioso pretesto di volersi contenere dal versar sangue, ed imbarcare i soldati senza molestia. A' regi rimanessero la Cittadella, il Forte D. Blasio, La Lanterna, e il Salvatore, con venti metri di zona neutrale intermediaria. Fu stabilito ancora che la Cittadella restasse inoffensiva sino alla fine della guerra, e rispondesse ove mai fosse attaccata.

Si obbligarono di rispettare le navi con le bandiere de' belligeranti.

Questa convenzione era, al solito, tutta a favore de' garibaldini e contro i regi, poiché quelli vollero la neutralità della Cittadella affinchè da Messina avessero libero il passo di gettarsi nelle Calabrie. A' regi si legavano le mani, a' garibaldini tutta la libertà d'azione.

Clary dopo di aver fatta tutta la convenzione verbale cedendo tutto al Medici, mandò a Napoli il Capitano Canzano per chiedere la facoltà di sottoscrivere la tregua. Il Ministero liberale rispose: «Si facesse tregua senza ledere i diritti del Re sulla Sicilia, serbandosi la Cittadella. Il Governo sebbene potrebbe (sic) continuare la

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guerra, rinunzia alla lotta fratricida per facilitare l'alleanza sarda, (ancora questa alleanza!) e liberare l'Italia dal Tedesco.»

Nella convenzione di Messina sembra che vi siano stati patti segreti, dappoichè il 28 luglio si ordinava l'abbandono delle altre fortezze che restavano a' regi in Sicilia: Augusta e Siracusa. Si era ivi recato il celebre bombardatore di Palermo, il generale Briganti, per eseguire l'ordine. Il Re vietò un'altra gloria a quel generale di cedere quelle fortezze in suo nome. Il Clary prevedendo il contrordine avea scritto a Briganti che facesse presto

la cessione di Augusta e Siracusa: questa volta però non furono fortunati nel cedere: l'ordine sovrano giunse a tempo.

Eseguita la ritirata della truppa da Messina, rimase comandante della Cittadella il generale Fergola, soldato onoratissimo e fedele al Re. I soldati frementi di rabbia per l'onta che aveano ricevuta, intesero che i garibaldini volessero sorprendere il forte D. Blasco. La sera udito un colpo di fucile, cominciarono un fuoco ben nutrito di avamposti, e gli artiglieri sfondarono le porte ov'era la munizione. Corse il Clary, e volea punire il custode di quelle munizioni; ma i soldati gli dissero: siamo stati noi che abbiamo abbattuto le porte del magazzino, perché il nemico ci assale, e noi abbiamo i fucili scarichi. Un soldato salutandolo alla militare, si piantò innanzi a quel Generale, e gli disse: «Se un soldato qualunque ci tradisce, gli daremo un bagno con una grossa pietra ligata al collo.»

La sera di quel giorno vi fu un altro baccano: gli artiglieri e i pionieri caricarono i cannoni. Clary volea mettere ordine a quel disordine cagionato dalla sua cattiva condotta: i soldati perciò gli gridarono: fuori il traditore!

Clary scrisse questo fatto al Ministero, dicendogli che gli artiglieri e i pionieri smaniavano di assalire i garibaldini per saccheggiare Messina. Sempre menzogne, e contradizioni! Con queste menzogne e contradizioni, Clary tradiva la sua condotta militare tenuta sino allora. Se i soli soldati rimasti nella Cittadella avessero potuto respingere i garibaldini in guisa da restar loro il campo libero per saccheggiare Messina, che non avrebbero fatto 22 mila uomini ben diretti? è chiaro, secondo lo stesso Clary, avrebbero stritolato il nemico. Intanto avea capitolato dichiarandosi debole di forze militari.

Clary che era in procinto di essere ucciso da' soldati da un momento all'altro, fu chiamato a Napoli; comunicò l'ordine occultamente al Fergola, e partì. In Napoli fu ricevuto malissimo da tutti, cioè dagli amici, e dai nemici. Il Re non volle riceverlo. Pianelli che si era dimenticato del frasario di Pizzofalcone, il frasario terrorista, cioè l'avea conservato per altre circostanza, ne avea improntato un altro all'infretta, ricevè il Clary, e gli disse: «La Patria ha molto a dolersi di voi,» Ma Clary poco curandosi di tutti i frasarii di Pianelli, si affrettò a presentare a costui qual Ministro della Guerra, un conto di diciotto mila ducati che avea anticipato nel tempo della sua amministrazione militare di Messina. Diciotto mila ducati, avete capito? Clary anticipava diciotto mila ducati! Del resto, io l'ho già detto, trattandosi di danaro mi lavo le mani, e faccio punto.

Eppure il Banco pagò sempre regolarmente in Messina, e lo sa il signor Lello Console Piemontese colà.

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Questo Generale non sò se abbia pregiudicato al regno più di quello che non abbia fatto il generale Lanza: il certo si è che questi iniziò la perdita della Sicilia, quegli completolla.

Clary dopo la catastrofe della Dinastia e del Regno, andò in esilio a Roma: mi si dice che siasi giustificato presso il Re. Io dico solamente ch'è facile giustificarsi con un sovrano detronizzato ed in esilio!


CAPITOLO XI

Ritorno agli ultimi fatti di Milazzo, avendo lasciato il racconto alla conchiusa capitolazione, e al conseguente abbandono di quella piazza.

I soldati prima di uscire del Forte, posero in pezzi i bellissimi fucili di nuovo modello detti Stuzen che aveano presi a' garibaldini, e li buttarono ne' pozzi: getta rono pure i viveri che restavano e molta polvere.

Il 25, Bosco uscì dal Forte e si diresse alla Marina per imbarcarsi, accompagnato dal suo stato maggiore. Garibaldi permise a' suoi di fischiare quel prode ed onorato duce, figlio di quella Sicilia che volea rigenerare. Quei fischi plateali furono il più bel trionfo del Colonnello Bosco: perciocchè indicavano il dispetto della rivoluzio ne per non aver potuto trarre a sè quel Colonnello; indicavano la rabbia pel danno che quel prode avea recato nelle file garibaldine.

Qualche scapato rivoluzionario censura Bosco perché si battesse contro quelli che voleano unificare l'Italia, e renderla nazione libera, indipendente, e ricca. Io, senza ragionare del vantaggio o svantaggio di questa unità, e degli altri accessorii, non che degli uomini che la faceano, dirò solamente che un militare onorato non deve impigliarsi di politica; il suo sguardo non si dovrà spingere più oltre del tiro dell'arme che porta o comanda.

In forza della capitolazione restarono a Garibaldi 43 cannoni, roba da Medioevo, 93 tra muli e cavalli.

La batteria a schiena della brigata Bosco fu imbarcata; mancava un cannone, quello che fu lasciato in mezzo alla strada per incuria di pochi artiglieri quando costoro si ritirarono in Milazzo, dopo il combattimento del 20 luglio.

Quando uscimmo in bell'ordine dal Forte, con grande difficoltà potevamo avanzarci verso il porto, tanta era la piena degli armati in quella Città. Vidi de' preti vestiti mezzo alla garibaldina con fucile, pistole, pugnali, sciabola, e un Crocifisso sul petto! Quel giorno vidi poi Padre Pantaleo appena io uscii dalla fortezza, egli mi si avvicinò tosto con modi cortesi, e mi pregò a rimanermi con Garibaldi. Io lo ringraziai anche cortesemente, supponendo che quella preghiera me l'avesse fatta in buona fede, e per mio vantaggio, e gli dissi che «i miei principii non era non quelli di Garibaldi: ch'io non era belligerante, ma che esercitava una missione di carità, tanto necessaria allora a quei soldati miei filiani; e che in fine era ligato da un giuramento a seguire le bandiere del mio sovrano a qualunque costo».


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Si appiccarono diverse questioni di teologia morale, e di dritto canonico tra me e il reverendo Padre garibaldino, già vestito ancora con la tonaca con camicia rossa, pistole, e il solito Crocifisso.

In quelle questioni teologiche e di dritto canonico ebbi a notare che il Padre Pantaleo, oltre di professare principii di libero pensatore, per tutt'altro ne sapea meno di me; ignorava i primi rudimenti della morale teologica, del dritto canonico, della storia sacra e della profana; in breve lo scoversi una assoluta nullità: e mi meravigliai non poco quando seppi ch'egli non avea rossore di predicare a modo suo nelle principali chiese di Sicilia e di Napoli

Disceso dentro Milazzo, fui circondato da tanti conoscenti ed amici della mia giovinezza, tutti armati, e molti in camicia rossa. Costoro da principio mi pregarono, poi mi trascinarono da Garibaldi; la forza era nelle loro mani, e fu necessità cedere alla violenza. Il Dittatore si trovava in un piccolo palazzo sulla marina, stava al balcone per vedere l'imbarco della truppa napoletana, e il baccano che facevano i suoi, i quali strappavano i fucili di mano a' soldati, ed impedivano a questo o a quello d'imbarcarsi, strascinandoli seco loro. Condotto con la violenza da Garibaldi, vidi per la prima volta questo eroe de' due mondi, il duce supremo della rivoluzione cosmopolita, il Dittatore della Sicilia! Non sò se mi sia ingannato, l'aspetto di Garibaldi non mi annunziava la sua celebrità. Trovai un uomo di statura media, di un insieme piuttosto ordinario, ma semplice e cortese ne' modi. Difatti, senza che io gli avessi detta una parola, mi strinse la mano. I miei amici parlarono a modo loro per me. Garibaldi, dopo di avermi stretta di nuovo la mano, disse: «L'accetteremo per nostro fratello, e lo destineremo a' Cacciatori dell'Etna,»

Meno male, io dissi tra me e me: ho inteso un nome siciliano col quale hanno battezzato qualche squadra di garibaldini!

Uscito dalla camera di Garibaldi, senza che io avessi profferita una parola, incontrai nella sala un caporale del 9° Cacciatori, il quale si avvicinò a me tutto allegro, mi offerse la sua fiaschetta, e m'invitò a bere alla gloria di Garibaldi. Io respinsi quella fiaschetta, e soggiunsi: tu sei un vile disertore... e più volea dire, se non che i miei amici e conoscenti mi diedero furibondi sulla voce, minacciandomi del loro sdegno, e rimproverandomi che io non era andato dal Dittatore, con sentimenti di un sincero italiano. Io risposi loro: quando mai vi ho detto che sarei venuto qui con sentimenti d'italiano, quali voi intendete? Siete stati voi che mi avete condotto qui con la violenza; io voglio partire con la truppa... No, dissero ad una voce, resterai qui non da fratello, ma da prigioniero. E bene, io risposi, torrò in pace quest'altro abuso della forza.

Intanto appena usciti sul porto, i miei guardiani voleano si notasse da Garibaldi, che stava al balcone, ch'essi unitamente agli altri si affaticavano per la santa causa strappando fucili dalle mani de' soldati che si imbarcavano, e strascinandone alcuni con loro.

Io che tutto osservava, mi avvidi di essere poco sorvegliato, e siccome restavano pochi soldati ad imbarcarsi,

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noi potevamo bene avvicinarci alla banchina del porto. Io mi feci a poco a poco dalla parte ove si trovava una barchetta piena di soldati. Per non cadere in sospetto di quello ch'io avea disposto di fare, invece di guardare la barchetta, guardavo verso la città, e propriamente verso il balcone ov'era il Dittatore, quasi che mi fossi entusiasmato al solo mirarlo; intanto con passi indietro mi avvicinavo più alla mia meta. Quando mi parve il momento meno pericoloso, mi voltai, e spiccando un lungo salto dalla banchina alla barchetta, mi accovacciai in mezzo a' soldati; non sicuro tuttavia, ma in dubbio che mi venisse da quegli amici e conoscenti qualche fraterna schioppettata, che mi aveano già promessa ov'io avessi tentato di fuggire. Fortunatamente nessuno de' miei guardiani si avvide o finse di non avvedersene. Mi lasciarono tranquillo, e dopo dieci minuti, salii sopra una delle tre fregate regie, ove trovai tutti gli amici dolentissimi della mia assenza.

Giunto sulla fregata, il primo sentimento che provai fu il piacere di essermi liberato da tanti pericoli, e direi quasi miracolosamente. Ringraziai la Provvidenza la quale visibilmente mi avea protetto. Il pensiero però ch'io aveva lasciata la dolce terra della Sicilia, e che tra breve sarebbe questa sparita dagli occhi miei, mi cagionò il più vivo dolore ch'io avessi potuto sentire. Io lasciava quella terra a me tanto diletta! Io desiderava unicamente la sua felicità. Ahi, vano desiderio! Ella invece era ravvolta nella più desolante anarchia, che io credevo con sicurezza non dover essere passaggiera ma di lunga durata; e credevo che finita l'anarchia popolare comincerebbero altri guai non meno terribili. Mi si affollava alla mente quel poco che avea letto circa le rivoluzioni antiche e moderne, e mi ricordava che queste ultime principalmente, promettitrici sempre di libertà, di fratellanza e di ricchezza, finiscono col proclamare in fatto il più degradante servaggio, condurre i cittadini a scannarsi l'un l'altro, e condannarli alla miseria con ingiusti ed esorbitanti balzelli. In quel momento mi si schieravano al pensiero i fatti terribili e selvaggi della rivoluzione francese dal 1789 al 1794, e temevo ch'e' non si rinnovassero in quella infelice e cara Sicilia che io avevo abbandonata. Almeno in quella nazione francese, dopo tanto sangue e tante inaudite vicende, sorse un prode e avventuroso soldato, il quale, se bene la facesse schiava al fulminar dalla sua spada, la strappò ciò non ostante al furore atroce dell'anarchia, cui atterrò ed oppresse. E non acquietandosi a questo, arricchì cotesta nazione di un codice, che oggi è in vigore presso i popoli più culti d'Europa: l'arricchì delle spoglie opime di tanti popoli soggiogati, e la rese la più temuta in tutto il mondo. Ma cosa io potevo sperare di buono per la povera Sicilia sempre reietta ed oppressa da tutte le dominazioni? Io non m'ingannava. Mentre guardavo quelle incantevoli spiagge, quelle feraci pianure, que' monti pittoreschi, ond'io già mi dipartiva, le città, i paesi, le campagne erano in preda all'anarchia, la quale infuriava con atroce energia contro tutto e contro tutti.

I funzionarii del caduto Governo erano perseguitati a morte perché aveano servita l'abbattuta Dinastia, o perché aveano impedito a' ladri di rubare, a' manigoldi di assassinare, a' rivoluzionarii di congiurare contro l'ordine pubblico. Tutte le passioni erano sbrigliate, ogni scelleratezza prendea aspetto di gloria liberale. Assassini e

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ladri correano campagne e paesi, rubavano, metteano taglie, perpetravano nefandezza ch'è bello tacere.

Ho accennate le sanguinose rapine del La porta e del Meli. Un Biondi, capo di masnade dichiarò guerra all'agiatezza e all'onestà: uccise in pochi giorni molti cittadini, donne e fanciulli. Quando costui incontrava una persona sconosciuta, la invitava a leggere, ed ove questa di leggere s'intendesse la dichiarava della classe borghese, la rubava e l'uccideva. Il Biondi rimase impunito, e se ne andava trionfante per paesi e città.

Molti paesi della Sicilia insorgeano per saccheggiare ed uccidere i ricchi e notabili, o insorgevano per abbattere quelle caste che si formavano per rubare ed opprimere le popolazioni.

In Trecastagne, S. Filippo d'Argirò, Castiglione nella provincia di Catania, avvennero scene di sangue per i suddetti motivi. Anche a Mirto, ad Alcara, a Caronia nella provincia di Messina uccisero i più notabili di quei paesi con modi selvaggi né pure risparmiarono i garzoncelli e le donne. Nella Piazza di Mirto, e nella Casina di compagnia di Alcara, avvennero fatti atroci. Sarei troppo prolisso se volessi raccontar tutte le ruberie, scene cruente e rappresaglie che avvennero in que' tempi in parecchi paesi e città della Sicilia. I mali della Sicilia cagionati dall'anarchia giunsero a tale, che un Saia liberalissimo disse al Prodittatore Depretis: «Questo vostro modo di governare ci fa desiderare il Maniscalco,» Io che ritornai in Sicilia nel maggio del 1861, sentiva la gente del popolo domandarsi con ansia: «ma quando metteranno la legge

com'era sotto il passato Governo?»

A tutti questi mali di quella disgraziata e sempre oppressa Isola, se ne aggiungeva un altro non meno terribile, le rappresaglie insensate e crudeli che facevano i duci garibaldini contro i paesi in rivolta. Di tanti fatti di simile natura ne racconterò un solo, e ciò per non essere troppo prolisso in queste memorie. Questo fatto servirà a lettori come un modello per conoscere la sciagurata condizione di que' paesi e città della Sicilia, e delle maniere ond'erano i siciliani trattati da coloro che si dicevano liberali, e liberatori dalla schiavitù borbonica.

Il 1° agosto di quell'anno 1860, i popolani di Bronte, grosso paese nella provincia di Catania, si levarono a tumulto a causa dei demanii di quel paese: gridarono repubblica, e moschettarono non pochi borghesi. Ad alcuni di costoro arsero le case, altri buttarono da' balconi, non esclusi bambini e donne.

Accorsero sei compagnie di soldati piemontesi, e poi Nino Bixio con due battaglioni cacciatori, quello dell'Etna,

e l'altro delle Alpi,

i quali entrarono in Bronte tirando fucilate alla cieca. Il Bixio con la burbanza e col dispotismo di un generale moscovita in Polonia, chiamò a sè il Sindaco, l'arciprete, ed altri notabili del paese. Dichiarò a costoro che Bronte era reo di lesa umanità, ed impose una multa di lire trecento per la prima ora, di cinquecento per la seconda, di mille per le sussequenti, sino a che si svelassero i ribelli. La paura di queste multe indusse a scoprire i rei della ribellione. Bixio ne fece fucilare ventiquattro immediatamente nella pubblica piazza, indi riscosse le multe di guerra da quelle stesse famiglie ch'erano state saccheggiate ed assassinate: legò i meno rei e li menò a Catania.

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È certo che que' popolani di Bronte, i quali commisero que' terribili delitti, erano rei di morte. Ma non si devono fucilare gli uomini senza neppure un giudizio sommario. Secondo Bixio bastava la semplice denunzia per fucilare un cittadino, non avendo riguardo a que' tempi di terrore e di funestissime passioni. Difatti tra quegli infelici fucilati vi furono degli innocenti designati come ribelli per isbaglio, o per vendette private.

E poi un Bixio fucilare i ribelli e gli assassini! egli il primo ribelle ed istigatore dei massacri de' poliziotti di Palermo! L'entrata di Bixio in Bronte, le sue taglie di guerra alla turca, e a danno di quegli stessi che furono vittima della rivolta, e le fucilazioni senza giudizio, mostrano un bestiale rivoluzionario in trionfo.

Qual conto poi si facesse Bixio della umanità, da lui dichiarata lesa in Bronte, lo dimostra pure il seguente fatto. Un uomo di civile condizione di Bronte si avvicina a Bixio o per difendersi, e per difendere gli altri, o per altre ragioni: il Bixio infastidito, trasse la rivoltella e freddò quell'uomo a' suoi piedi!

Bixio morì ancora non vecchio, in estraneo e lontano paese, e gli sia lieve la terra che lo ricopre. Noi cattolici, speriamo che l'infinita misericordia di Dio gli abbia ispirato il pentimento e l'orrore de' suoi delitti, e che l'avesse perdonato, ad onta che avrebbe voluto gettare nel Tevere il Senato cattolico, cioè tutti i Cardinali!

La Sicilia riboccava di avventurieri che piombavano a stormi d'ogni parte dell'Europa; i quali si affannavano a cercar fortuna, ed accrescevano i mali dell'Isola, perché la facevano da redentori e padroni.

I partiti si dilaniavano e si combatteano a morte tra loro, ognuno avea i suoi luridi giornali: chi volea la repubblica, chi l'annessione condizionata, chi incondizionata. Chi si dichiarava per Cavour, chi per Garibaldi. Chi volea l'autonomia col Principe di Genova, chi col conte di Siracusa, chi col Principe Napoleone. Vi era il partito puro borbonico, però questo si faceva piccino piccino e si nascondea in que' momenti poco propizii per lui. In questo caos di ruberie, di nefandezze, di assassinii, di rappresaglie selvagge, e partiti lottanti ad oltranza, chi avea carpito un buono e lucroso impiego, gridava che tutto andava a maraviglia, e che fossero ritornati i be' tempi dell'età dell'oro.

Intanto i rivoluzionarii italiani dal 1860, figli legittimi e naturali di quelli di Francia del 1789, si slanciavano contro le chiese, saccheggiavano monasteri, capitoli, mense, vescovili, luoghi pii, imponendo taglie, vettovaglie e danari.

Nel clero di Sicilia era un poco di fradicio, si trovarono Preti e frati i quali coadiuvarono allo spoglio. Quali preti e frati già in toletta garibaldina con tuniche rosse, mischiando pistole e pugnali e crocifissi, salian su i pergami a predicare anarchia, eresie, ed infamie contro la vera ed unica gloria italiana, il nostro S. Padre Pio IX. Essi beffeggiavano tutto quello che vi è di più sacro nella religione santissima de' nostri padri, e si ridevano delle scomuniche. Giunsero a tal punto le bestemmie, l'eresie, ed i saturnali di que' preti spretati, di que' frati sfratati, da meritare gli elogi di Garibaldi, il quale dichiarò che in Palermo avea trovato un clero progressista.

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Ma Garibaldi confondeva una fazione di ecclesiastici senza contegno e senza coscienza, col resto del clero di Palermo, il quale è e sarà sempre dignitoso, esemplare, e tutto per la Romana chiesa, madre e maestra di tutte le chiese del mondo.

Però questa vergogna del garibaldesco elogio toccò pure a Monsignor Giambattista Naselli Arcivescovo di Palermo, siccome il primo Prelato italiano che rendesse visita a Garibaldi. Il Naselli era di poco ingegno, gli eran piaciute sempre la buona vita, e le comodità, ed era facile strumento degli astuti. Consigliato dal suo Segretario Casaccio, ch'è una vera cosaccia, dall'astuto de Francisci Provicario, e forse da' suoi parenti, commise azioni poco degne di un Prelato.

Il de Francisci poi, già Parroco e Provicario, per far dimenticare la sua amicizia col Direttore di Polizia Maniscalco, che chiamava compare innanzi a chi non volea sentirlo, che vantava protezioni, e che minacciava arresti ad ogni piè sospinto, si fece rivoluzionario di occasione: consigliava male l'Arcivescovo, e per quanto avea scandalizzato con la protezione di Maniscalco, altrettanto e più scandalizzò con fare il sanculotte.

Quel povero Arcivescovo mal consigliato da que' volponi in sostanza, andò e tornò dall'Olivuzza alla Casa pretoria, ove abitava Garibaldi, e con turpi onoranze, tra suoni e bandiere, era sempre accompagnato dal segretario Casaccio, e dal Parroco Provicario de Francisci.

Arrivò a tale la condiscendenza del Naselli, con la rivoluzione, ch'egli Arcivescovo intervenne ad una buffonata di Garibaldi.

I re di Sicilia per ispeciale privilegio erano Legati apostolici della S. Sede, ed il giorno di S. Rosalia Protettrice di Palermo, soleano intervenire alla Messa solenne, e far uso di quelle prerogative che aveano. Garibaldi nel 1860, il giorno di S. Rosalia, dopo di aver fatto il pellegrinaggio al monte di questa Santa, volle fare da sovrano, ad onta di tutta quella democrazia che ci ha sempre imposto. Intervenne nel Duomo alla Messa solenne, montò sul trono reale in camicia rossa, e all'Evangelo snudò la spada, come a mostrar di difendere la fede cattolica secondo il cerimoniale prescritto in quella solennità dai sovrani di Sicilia. L'arcivescovo Naselli diede poi le incensate prescritte a Garibaldi atteggiato a sovrano!...

Il canonico Ugdulena, liberale dal 1848, poi graziato e premiato da' Borboni, nel 1849 si era col Pontefice scolpato de' suoi trascorsi e si era mostrato pentito. Nel 1860, rifattosi liberale, salì a ministro garibaldino. E più meritò promovendo le schiere rivoluzionarie, schiccherando lettere a' vescovi contro le canoniche discipli ne, e la libertà della Chiesa, ed approvando quel diluvio di protestantesimo che inondò l'Isola di Sicilia.

Nondimeno moltissimi furono gli ecclesiastici che rimasero illibati dal contagio rivoluzionario, e principalmente i vescovi dell'Isola, i quali spregiando calunnie, esilii e carceri, si alzarono impavidi a sostegno dei dritti della Chiesa manomessa.

Il Vescovo di Caltanissetta Monsignor Guttadauro dichiarò pubblicamente non parteggiare affatto pe' rivoluzionarii, e severo ai suoi lo inibì. Monsignor Criscuolo Vescovo di Trapani, minacciò sospensioni e scomuniche a qualunque sacerdote che facesse comunella co' garibaldini.

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Monsignor Celesia, allora Vescovo di Patti, che non fa patti perché non volle giurare fedeltà a Garibaldi, e perché inibì a' sacerdoti della sua diocesi a fare da

sansculottes,

minacciando le censure ecclesiastiche, fu perseguitato, strappato dalla sua sede. Prima fu mandato a Palermo, ove l'Arcivescovo Naselli lo rimproverò perché non avesse giurato fedeltà al nuovo ordine di cose; indi fu mandato in Firenze, e poi a Roma ove dimorò circa cinque anni.

Monsignor Natoli, Vescovo di Caltagirone, sofferse che una schiera di garibaldini entrassero nelle sue stanze, per istrapparlo dal palazzo e dalla sua diocesi. Monsignor Papardo Vicario Generale di Messina con una Pastorale avea detto: «I garibaldini essere predoni nemici di giustizia,» Garibaldi per vendicarsi lo chiamò a Palermo. Ei si negò, e fu tradotto colà con la forza per essere giudicato e condannato da una giunta speciale, la quale non trovò nulla da condannare; in cambio gl'intimò l'esilio. Ma il Vescovo Papardo protestò che non partirebbe se non a forza, e a forza fu sbandito dalla sua terra natale e dalla Sicilia.

E così i sedicenti liberali, i quali riempivano il mondo di lamenti e piagnistei quando il passato Governo esiliava qualche rivoluzionario, il quale avea attentato all'ordine pubblico, e che era stato giudicato da' tribunali a pene maggiori; non appena ghermirono il potere, non si fecero e non si fanno scrupolo di maltrattare ed esiliare i Guardiani del gregge dell'Uomo-Dio; uomini tutti preclari per iscienza e per virtù, rispettati ed amati dal popolo; e li trattavano in quel modo, o perché difendevano i sacrosanti diritti della Chiesa, che aveano giurato difendere sino al martirio.

Garibaldi, sebbene avesse esordito scacciando i Gesuiti e i Liguorini, avvedendosi di essere cattolica la Sicilia, si moderava ad affettata devozione: egli volea scimiottare altri conquistatori. I suoi dicevanlo santo, inviato da Dio (come Maometto), visitava monasteri fingendo devozioni, dicendo non voler molestare le vergini del Signore, aver per pura necessità cacciato i Liguorini e i Gesuiti. Si inchinava a' santi, e faceva strombazzare a' suoi che facesse pellegrinaggi al Monte di S. Rosolia. Però, il Garibaldi con la sua santa

devozione personificava la favola del lupo, il quale per ingannar le pecore si coprì di una pelle di pecora, e siccome questa non era sufficiente a coprirlo tutto intiero, or gli apparivano gli orecchi, ora il muso ed ora la coda di lupo, ad onta che facesse tutti gli sforzi per occultarli. Di fatti avendo egli creato un collegio pei figli del popolo però ogni alunno dovea pagare tre carlini al giorno - fecero Direttore il Mario, celebre repubblicano, il quale col permesso del devoto

Garibaldi stampò nel programma le seguenti parole: «L'educazione (nel collegio), non sarà quella de' preti, non s'insegneranno ridicolaggini di confessione, di comunione, di Papa, ma invece dottrine accomodate ai tempi, alle nuove condizioni della Italia rigenerata,» Ed in fine, Garibaldi conchiuse e coronò la sua devozione mostrata a Palermo col chiamare il Papa ch'è la vera gloria d'Italia: sozzura, cancro d'Italia, vergogna di diciotto secoli.

Ed in seguito: metro cubo di letame.

Mi spiace tra le altre cose, che Garibaldi non abbia letto Monsignor della Casa. Leggilo, caro exdittatore, se negli ozii tuoi ozio ti resta

e tu grande italiano amerai certamente que'

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libri che sono testo di lingua italiana, e nel Galateo di Monsignor della Casa troverai bellissimi avvertimenti anche per te che sei l'eroe de' due mondi.

I garibaldini versavano a piena voce la miscredenza e la depravazione nel popolo. Alcuni giornalacci, in capo la Forbice

di Palermo, schizzavano idee sovversive, cele bravano l'anarchia alla Marat, la scostumatezza alla Aretino. Metteano in burla preti, vescovi, e Papa: metteano in caricatura i Santi, l'Immacolata, e Iddio stesso. La Sicilia fu inondata di libri d'ogni tristizia pieni; commedie, racconti, storiacce, filosofie empie, catechismi guasti e corrotti, almanacchi osceni, storie galanti, poesie luride, e compendii di protestantesimo, scritti da preti e frati ai quali facea incomodo la sottana, e tra gli altri, in capo l'ex-domenicano ex Parroco de Santis. E quei libri che stillavano veleno nei cuori, sofismi ne' pensieri, voluttà ne' sensi, che emancipavano il figlio imberbe da' genitori, la moglie dal marito, che assassinavano la società, si appellavano libri rigeneratori, capilavori di senno e di scienza, e chiamavano tiranno, nemico dell'intelligenza il Governo Borbonico perché li avea proibiti.

Intanto correano tempi di chi piglia piglia. Da' ben de' Liguorini e Gesuiti si volsero ducati diciottomila annui all'istruzione pubblica, il resto non si sa a quale uso fossero stati impiegati. Si ordinò una sovraimposta del due per cento sul valore di tutti i bei del clero, da pagarsi in tre rate.


Da tutte le parti del mondo erano arrivati sussidii ed oblazioni per la

santa causa della rivoluzione,

fatta questa vincitrice non si tenne conto di que' danari; e si obbligò il tesoro siciliano a pagar milioni per armi, munizioni, vestiarii, cavalli, spie, ed altri compensi a' compatrioti, non essendosi costoro satollati ancora, essendo simili alla lupa di Dante.
Si erogarono ducati settecentomila, prezzo di quattro decrepiti legni a vapore, che la rivoluzione comprò più per ingraziarsi gl'inglesi che per vero bisogno.

Il Dittatore, non contento di tutte queste spese, dettò in ottobre allo Scrivano di razione il seguente ordine:

«Rimborserà il tesoro generale di un milione e quattrocentomila ducati per estinguere cambiali all'estero, senza darne conto,

ponendo l'esito al capitolo delle spese nello Stato discusso.»

Vi era attorno a quest'ordine la firma di Domenico Peranni allora ministro di finanze.

Per quanto io sappia, nessun sovrano assoluto diede mai un simile ordine nell'erogare il danaro de' contribuenti, neppure Luigi XIV di Francia, il quale dicea: Lo Stato son io.

Ma a' rivoluzionari è tutto lecito, e principalmente a Garibaldi, ed adepti.

Di tanto male, di tanto danno che ha sofferto, soffre e soffrirà la Sicilia, chi fu la cagione primaria? quella camerilla che circondava Ferdinando II, a capo della quale era il Duca di Mignano, Alessandro Nunziante; e poi i componenti di quella camerilla, quali abbandonarono quali tradirono il giovine ed innocente Francesco II.

Causarono la rivolta e le disgrazie della Sicilia tutti que' napoletani che bazzicavano in Corte,

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la maggior parte oriundi della Sicilia stessa che odiavano e deridevano i siciliani; consigliavano Re Ferdinando a non visitar mai quell'Isola, ad averla come terra di conquista, e a trattare i siciliani come i Lacedemoni trattavano gli Iloti, se non in tutto almeno in parte.

I Siciliani non pativano molto relativamente a pagar tributi, ne pagavano meno de' napoletani, e questi erano i meno vessati di tasse in confronto agli altri Stati d'Italia. Ma, non in solo pane vivit homo.

I napoletani andavano in Sicilia e trattavano quelli isolani come un popolo schiavo, e quel che più monta, li disprezzavano.

Si era chiusa la comunicazione tra l'Isola e Napoli, era proibito ad un siciliano recarsi alla Capitale dei due regni riuniti, ove risiedea la Corte e il sovrano. Per ottenere un passaporto erano così lunghe le pratiche e le molestie che si doveano sostenere, che metteano un grande scoraggiamento anche a' più volentierosi. I siciliani che venivano a Napoli erano sorvegliati e molestati da una trista e sciocca polizia che mai li lasciava tranquilli. Io che, per concorrere a Cappellano militare, fui chiamato a Napoli con ufficio del Cappellano maggiore, il quale era un Arcivescovo, un Capo di Corte, e faceva l'ufficio di Ministro col Portafoglio, penai non poco per ottenere il passaporto, ed in Napoli fui tanto vessato ed insultato dalla polizia, che stava per ritornarmene in Sicilia, senza neppure presentarmi al cappellano maggiore. Fu un mio compattriota che mi animò a rimanere, e mi ottenne dalla polizia la grazia

di trattenermi in Napoli sino al giorno del concorso, e partire subito, senza che io avessi potuto sapere i resultati.

Nell'organico del 1849, fu stabilito che gli impiegati siciliani nelle diverse amministrazioni della Capitale doveano essere la terza parte: in realtà appena erano la decima parte. Due soli preti siciliani chiedemmo di concorrere al posto di cappellani militari, fra trentadue altri candidati napoletani, e neppure ci voleano ammettere. Convenne che facessimo delle pratiche per non essere esclusi.

Tutto questo offendea l'orgoglio siciliano, ma questa offesa era niente a petto di quella che i Siciliano era erano visitati dal Re, essendo Palermo la vera sede della monarchia de' due regni riuniti. È vero che Ferdinando II nel suo lungo regno visitò qualche volta la Sicilia, ma le sue visite furono sì rapide che pochissimi siciliani poteano vederlo, mentre si facea avvicinare da chiunque lo desiderasse.

La real Famiglia prodigava le sue beneficenze in Napoli: il Re, i principi, le principesse reali, e la Regina Maria Teresa, tanto calunniata anche di avarizia, pagavano di propria borsa senza ostentazione e millanterie migliaia di pensioni mensili a semplice titolo di soccorsi a' bisognosi. Io conosco oggi tante famiglie napoletane cadute nella più desolante miseria, che allora viveano co' soccorsi della real Famiglia. Napoli era la prediletta de' Borboni, la Sicilia meno amata per intrighi di nemici. I Siciliani non invidiavano i Napoletani, come diceano e dicono tutt'ora coloro che rovinarono la Dinastia. Un popolo generoso qual'è il Siciliano, è difficile ad esser vinto dalla trista e bassa passione dell'invidia. Il popolo siciliano potea dire al napoletano: non invideo miror magis.

I Siciliani, per essere contenti, desideravano poco: e fu un grande errore non averli contentati a tempo opportuno.


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Difatti so con certezza che Francesco II e qualche altra persona della real Famiglia, conobbero il male che si era fatto senza colpa loro e se ne dolevano poi in Gaeta e nell'esilio di Roma.

I veri Siciliani per essere contenti non desideravano quello che pretendono i rivoluzionari di tutti i regni del mondo, cioè franchigie, o costituzioni politiche ammodernate come mezzo di afferrare il potere, dissanguare i popoli, ed infine detronizzare i re. I veri ed onesti cittadini siciliani non desideravano né costituzioni politi che, né franchigie astratte, vuote di senso e dannose al vivere civile. Essi desidera vano di avere in Palermo la Corte almeno per più mesi dell'anno: e si sarebbero pure contentati di un Vicerè della real Famiglia, che risiedesse in Palermo. Desideravano un'istruzione elementare tanto necessaria ne' piccoli paesi, il commercio, l'agricoltura agevolata, e le opere pubbliche proporzionate a quelle di Napoli.

Sotto i Borboni, le finanze e la sicurezza pubblica, che sono il perno sul quale si aggira la civile società, nulla lasciavano a desiderare; e credo difficile il ritorno di quei tempi qualunque studio facesse l'attuale ordine di cose, anche sforzandosi ad operare con tutta la buona fede possibile; que' tempi di ottimo regime e di personale sicurezza, resteranno un desiderio non solo per la presente generazione, ma chi sa per quante altre che verranno appresso di noi.

Il Governo passato era detto da' rivoluzionarii il Governo della tirannide

e della negazione di Dio.

Ma non governò mai con lo stato di assedio e con leggi eccezionali, eccettuati pochi mesi nel 1849: intanto non vi erano tutti que' ladri, mafiosi

ed assassini che vi sono oggi. Difatti mentre pubblico queste memorie, già si dibatte nel Parlamento di Roma una legge speciale di Sicurezza pubblica per regalarla alla Sicilia qual manicaretto de' più appetitosi: come se non esistesse il Codice penale e la legge di pubblica Sicurezza per infrenare l'audacia di pochi ladri, mafiosi

e simile gente! È una vergogna per questo Governo, il quale si proclama liberalissimo e riparatore, e poi ad ogni momento ricorre alle leggi eccezionali per istrascinare la sua malaugurata esistenza. Per infrenare pochi ladri ed assassini non ha rossore di chiedere leggi draconiane, che in effetto colpiscono i buoni cittadini mettendoli in balìa di Proconsoli desiderosi di distinguersi con efferate rappresaglie. Non contento di ciò il Governo manda de' Prefetti che insultano quella classica terra, e calunniano gli abitanti dichiarandogli ingovernabili, barbari e peggio..! Oggi la Sicilia non è più l'Isola progressista, la terra delle grandi iniziative,

sol perché non soffre in pace le prepotenze e le giunterie de' Proconsoli continentali. Badate signori Proconsoli! e ricordatevi come i Siciliani trattarono i Savoiardi nel principio del secolo passato regnando V. Amedeo II di Savoia.

Il Conte Maffei allora Vicerè della Sicilia vi potrebbe servire di salutare esempio. Io ve lo avverto per vostro bene.

In Sicilia sotto i Borboni l'istruzione pubblica elementare ne' piccoli paesi lasciava a desiderare, ottima invece nelle Città ove erano collegi della tanto benemerita e calunniata Compagnia di Gesù, ed altri istituti e collegi tenuti da religiosi.

L'Agricoltura specialmente e il commercio dell'isola erano poco prosperi.

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Fortuna che quella terra è ferace, e che potentemente suppliva al bisogno del paese. Il commercio era ristrettissimo a causa delle poche comunicazioni con continente. né pure nell'interno dell'Isola il commercio potea avere un sufficiente sviluppo, in quanto che si mancava di strade e particolarmente di ferrovie.

Difatti lo sventurato Re Francesco II, che volea la prosperità di quell'isola, appena salì sul trono de' Padri suoi, decretò una rete ferroviaria per la Sicilia assegnando i fondi corrispondenti. Ma le sopravvenute calamità del Reame impedirono a quel benefico Sovrano di effettuare le sue leali e vantaggiose risoluzioni a prò della Sicilia e del resto del Regno.

In Sicilia la giustizia era amministrata da magistrati dotti ed integerrimi. Vi era qualche eccezione, e questa bisogna imputarla alla debolezza dell'umana natura più che al Governo.

Il popolo siciliano è di cuore ardente: o vi ama con entusiasmo, o vi odia a morte: trattatelo con franchezza e lealtà, ed esso si gitterà per voi se occorresse anche nel fuoco. Difatti i siciliani furono il baluardo della monarchia de' Borboni dal 1789 al 1815. Ma se lo trascurate, se lo disprezzate, vi farete un nemico pericoloso che presto o tardi si vendicherà rabbiosamente.

Se mi si dicesse da qualche traditore che bazzicava in Corte, e che tutt'ora si vanta borbonico: «qual guadagno han fatto i siciliani ribellandosi contro i Borboni? ««Nessuno, risponderei, anzi han perduto quello che loro restava, ed han fatto malissimo a rivoltarsi contro il legittimo Sovrano, maggiormente che Francesco II sebben non ebbe il tempo di effettuare alcuna riforma avea tutta la buonissima volontà di contentare i Siciliani ».

Il popolo siciliano fu messo alla disperazione solo da coloro che tradivano il Re ed il paese, ed ingannato dai mestatori della rivoluzione cosmopolita; e si può ad esso applicare il bel verso da tutti ripetuto: incidit in Scyllam cupiens vitare Charibdim.

Vi ho detto però che il Siciliano o tosto o tardi si vendica. Io non esprimo de' desiderii, né voti, desidero solamente che si ricordino i casi avvenuti in Sicilia sul finire del Secolo XIII quando si disse: Quod Siculis placuit sola Spirlinga negavit.

Il popolo siciliano è ora senza mezzi, ma la sua storia è là per assicurarvi, che senza millanteria potrebbe ripetere col suo antico ed illustre compatriota Archimede: Da mihi punctum caelum terramque movebo.

Simili riflessioni io facevo mentre la fregata salpava e si avviava alla volta di Napoli. Oh Dio! io mi sentiva stringere il cuore da una mano di ferro nel vedermi allontanato da quella terra infelice ma troppo cara per me. A me giovava di starmi sull'estrema poppa del naviglio, perché mi sembrava in questo modo essere più vicino alla diletta mia Patria. Le mie braccia erano conserte al seno, i miei occhi erano pregni di lagrime. Addio, esclamai, o Patria mia, chi sa.... se ti rivedrò mai più...! forse lascerò queste mie travagliate ossa in qualche Campo di battaglia.

La fregata solcava quel mare tranquillo e trasparente con una rapidità non ordinaria.

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Io guardavo verso il Sudovest, e lontano lontano vedea le amene spiagge, e i cari monti che mi videro nascere, ed ove passai la mia infanzia e la mia adolescenza. Quelle spiagge e que' monti mi sembrarono troppo angusti e meschini nella mia prima giovinezza, ed ora desidero la pace di quella solitudine. Quelle spiagge e que' monti, oh quante care e dolci memorie suscitavano nell'anima mia!

Ivi io era cresciuto, ardito e baldo, ignaro a' mali della vita. Ivi sopra quelle spiagge e que' monti mi deliziava con giuochi fanciulleschi, e faceva prove di nautica e ginnastica abilità.

Ivi mi appresero a conoscere ed amare il Creatore, i parenti, il prossimo. Ivi mi beavo nelle carezza e ne' consigli de' miei affettuosissimi genitori. Oh! ad un uomo volgare, queste rimembranze sembreranno miserie: ma nelle anime sensibili, si identificano, direi quasi, con lo spirito istesso e formano la gioia e il dolore. Nello stato in cui mi trovava, quelle care rimembranze mi cagionavano un dolore che ha pari, e bene potevo io dire con la Francesca da Rimini di Dante: «Nessun maggior dolore - che ricordarsi del tempo felice - nella miseria.

Io aguzzava lo sguardo, e mi sembrava vedere la sommità di un monte. Oh! là io lasciava il padre mio, vecchio paralitico, dolente de' pericoli che io correva, ma contento della mia condotta: io temeva di non rivederlo mai più. Lo rividi dopo un anno, ma ohime! per poco: la ferocia rivoluzionaria mi strappò dal seno paterno e mi obbligò all'esilio. E quando il mio vecchio padre spirò l'estremo sospiro della vita, a me tolse il destino di sentire le ultime benedizioni che impartiva sul mio capo.

Cosa potete darmi di più, uomini che morrete? l'esilio, la prigione, il distacco dal più caro degli esseri che avea sulla terra? me li avete già dati! Ma voi mi avete onorato: voi, mi conduceste in quella stessa prigione che fu onorata dall'illustre Arcivescovo Monsignor Francesco Saverio Apuzzo!

Io lasciava in que' luoghi, affettuosi fratelli, sorelle ed amici. Non pochi di quest'ultimi, uniti a qualche mio parente, giudicandomi nella sventura, mi rinnegarono e mi perseguitarono.

Ma io mi sono vendicatoSì! li perdonai, e feci loro del bene, secondo i subli mi precetti del Divino Maestro, e le naturali tendenze del mio cuore.

Già le spiagge della Sicilia erano scomparse: i più alti monti sembravano a fior di acqua: a poco a poco si confusero con la gran volta celeste... sparirono...!

Ed io, abbattuto, addolorato mi prostrai e pregai il Dio delle misericordie per la salvezza e la prosperità di quell'isola che più non vedea, ma che mi parlava potentemente nella memoria e nel cuore.

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Da Milazzo a Napoli

CAPITOLO XII

La mattina del 26 Luglio, fatto oramai giorno, entrammo per le bocche di Capri nel golfo di Napoli. Qual sublime spettacolo della natura e dell'arte! Quel golfo è una delle migliori vedute del mondo: sembra creato per dare la grande idea del suo Creatore. Ivi è riunito quanto è di bello, di grande, e di stupor degno in tutto l'universo: altro non mancherebbe che la veduta di un maestoso fiume; eppure, il Canale di Procida te ne dà un'idea simile all'Amazzone, all'Eufrate, al Nilo, al Po. A sinistra, tu vedi un mare ceruleo e trasparente, seminato d'incantevoli isole ed isolette, un tempo dolci e quiete agli antichi Romani dopo le lotte del Foro. Il capo Miseno, ove fu sepolto Miseno, il diletto compagno di Enea - Monte sub aërio, qui nunc Misenus ab illo - dicitur -

Quel Capo si tende maestoso nel mare con quelle rocce fantastiche, e forma quella deliziosa Baia sormontata da belle pianure e variate colline; sulle quali ad ogni piè sospinto vedi un'antichità romana, un luogo descritto da Orazio o da Virgilio: vedi il lago Lucrino, quello di Averno, le ruine di Cuma, la grotta della Sibilla, -...horrendaeque procul secreta Sybillae - antrum immane...

Vedi lo Stige degli antichi, creduto uno delle porte del Tartaro. Vedi i Campi Elisi, i templi di Febo, di Diana, di Venere, di Mercurio; vedi i bagni di Nerone, il Palazzo di Giulio Cesare; vedi tanti altri luoghi celebri, visitati e carissimi a' due preclari padri della Chiesa, S. Girolamo e S. Agostino. Sopra quelle ruine, o guardandole anche da lontano, si affollano alla tua mente grandi e dolci memorie, e ti corrono spontanei sulle labbra i versi di quegli immortali poeti, Orazio e Virgilio.

A destra vedi Sorrento, patria dell'infelice Torquato Tasso, la quale sembra quasi uscire da un mazzolino di fiori orlato de' sempre verdi aranceti. Più in là giace Castellammare, l'antica Stabia, sopra la quale si ammirano quegli ameni colli lussureggianti di verdura, ov'è il Borgo di Quisisana: luoghi tutti deliziosi, pregni d'aria purissima e salutifera, imbalsamata dagli odorosi profumi di que' boschetti ed aranceti. Più in là vedi Pompei ed Ercolano: il mondo non ha spettacolo che a questo si uguagli.

Ivi più facilmente che in altra parte si sente il tedio o l'indifferenza per le umane grandezze, quando si pensa che un solo momento distrusse sì nobili e superbe città, e tolse a tanta gente la luce del giorno e la vita. All'aspetto di quella vasta tomba ove tante umane creature furono sepolte vive, non può l'uomo inorgoglire di quel pugno di polvere ond'è formato, e sente la potenza di un Essere onnipossente. Quelle Città si mostrano quasi quali l'aveano lasciate i suoi abitatori dopo diciotto secoli: le vie diritte, selciate di lastre di lava, le case di un sol piano, il vasto Teatro, le Terme, e i templi, ti trasportano il pensiero ad evocare gli antichi abitatori: e per le vie, su' vestiboli, nelle piazze sembra che dovessero comparire da un momento all'altro, e ripopolare le deserte città. Pompei ed Ercolano dissotterrate dalla

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mugnificenza di Carlo III di Borbone, sono un monumento unico nel mondo; e il viaggiatore che per osservarle si muove dell'estreme parti del mondo, conoscerà di non aver gettato il tempo e le fatiche. Più in là vedi Torre Annunziata, Torre del Greco e Portici che han sofferte tante sciagure a causa del Vesuvio.

In fondo del golfo sorge Napoli: questa magica reina del Mediterraneo sembra una Nereide emergente dalle onde. Che singolare panorama! Questa città guardata dal golfo sembra estendersi da capo Posilipo a Castellammare, i paesi intermedii paiono riunirsi e comporre più di diciotto miglia di superbi palazzi succedentesi difilatamente. La posizione di Napoli è tanto incantevole e poetica, che non ha eguale in Europa; la sola Costantinopoli può starle a fronte. È sormentata dagli ameni colli di Posilipo, di Mergellina, dell'Arenella, del Vomero, dell'Infrascata, di Capodimonte; e sopra questi torreggia il monte de' Amaldoli. Alla sinistra di Napoli si vedono estese e feraci pianure, ed in questa direzione, lontano lontano, si levano i maestosi monti degli Appennini, spesso carichi di neve.

La natura, per compiere questo maraviglioso quadro, volle aggiungere il non comune spettacolo di un monte di forma fantastica che erutta spesso fuoco o fumo, il Vesuvio! Napoli è il centro di tutte queste sorprendenti maraviglie: posta tra tante stupende delizie; tra il fremito dell'onde e l'ignivomo Vulcano; tra le amene ville ed i rumorosi passeggi; tra i ruderi di tanti monumenti e distrutte Città, ha d'intorno la distruzione e la vita!

A quella vista da me sempre ammirata, e sempre nuova, salve, esclamai eccelsa regina del Mediterraneo, salve diletta ed indivisibile sorella della mia cara Sicilia: tu sei ricca, tu sei bella, e questi doni che la natura e gli uomini ti largirono sono stati e saranno sempre la tua rovina: oh qual sorte ti attende fra non guari! Tu forse cadrai dalla tua invidiata grandezza, e la tua splendida corona regale sarà gittata e strascinata nel fango, infranta e dispersa! Tu diverrai donna di provincia disprezzata e derisa!

Un grido fragoroso udissi sopra le tre fregate alla vista di Napoli: erano i soldati che salutavano questa Città tanto cara agli abitanti del continente napoletano, ove dimorava il loro amato Sovrano. E que' prodi, dopo di avere intonato a coro: A te consacro Patria diletta - questo mio brando, questo mio cor,

giurarono ahi nobile e vano giuramento! difendere la grande Metropoli e il suo Re, sino a versare l'ultima goccia del proprio sangue.

Le fregate in luogo di dirigere la prora verso Napoli, la voltarono a destra dalla parte di Castellammare, ove sbarcammo; e dopo più di due ore, si partì in ferrovia per Caserta. Si giunse la sera stessa, e la brigata Bosco alloggiò al magnifico quartiere militare di Altifredo. Quella brigata rimase in Caserta sino al 13 agosto. In tutto quel tempo io dimorai quasi sempre in Napoli, ov'ebbi tutto l'agio di vedere ed osservare le fasi della rivoluzione, la quale di giorno in giorno ingigantiva in un modo spaventevole. Io non conoscea più Napoli; questa Città tanto tranquilla, allegra, ma di una allegrezza senza disordini o provocazioni; quella Napoli tanto rispettosa a' funzionarii, tanto ossequente alle leggi non era più riconoscibile; ed io potea

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dire di Napoli quel che disse Enea di Ettore: Hei mihi, qualis erat! quantum mutatus ab illo.

In Napoli è la setta così chiamata de' Camorristi;

e per quelli che non la conoscono è necessario che ne abbiate un'idea, imperocchè di questa setta se ne servirono i liberali per far popolo, rumore, dimostrazioni, e detronizzare il Re Francesco II.

La setta de' Camorristi

è antica in Napoli; alcuni sostengono che sia comparsa con la dominazione spagnuola. Difatti l'origine del nome Camorrista

è di Camorra,

in ispagnuolo vuol dire querela.

Altri poi dicono che Camorrista

viene da Morra

ch'è un giuoco ove si commettono suprusi e giunterie. Ed invero, i Camorristi

traggono de' guadagni sopra i giuochi leciti ed illeciti. Camorrista,

in Napoli suona ladro, giuntatore, galeotto, accoltellatore, usuraio, guappo

o sia spacconaccio.

I Camorristi

generalmente vestono giacca di velluto, calzoni stretti a' ginocchi, larghi sul piede. Per cravatta usano un fazzoletto a diversi colori annodato al collo molto largo, con lunghe punte; gilè aperto, berretto o cappello pendente sempre da un lato della testa, capelli lisci, canna d'India in mano e ben lunga, e sigaro in bocca, che chiamano siquario.

Quando parlano e si vogliono atteggiare a guappi,

o appoggiano un fianco sopra la canna d'India, o aprono e chiudono le gambe abbassando il corpo.

Per essere ammesso tra' Camorristi,

è necessario, come essi dicono, essere onorato.

Prima fanno il noviziato, ed imparano a maneggiare bene il bastone ed il coltello, ed usare bene il linguaggio furbesco. Quando sono giudicati idonei dal Caposquadra,

passano al grado di Sgarra,

indi a quello di Contaruolo,

ch'è una specie di contabile e di cassiere. Per essere Caposquadra

un Contaruolo

dovrà battersi col coltello con dieci persone separatamente, ferirne almeno tre, e non aver mai rifiutata alcuna sfida.

Quando rubano si dividono il bottino secondo i gradi che occupano. Vi sono quelli destinati a fabbricare chiavi false, quelli a fare i borsaiuoli, i rapinatori, i manutengoli, e gli accoltellatori. Vi sono poi quelli destinati a fare il palo,

cioè la spia per avvertire i ladri nell'atto che rubano, se mai occorresse pericolo di essere veduti o arrestati. Vi sono i pedinatori,

i quali sieguono colui che esce di casa o del proprio negozio che dovranno essere rubati: il pedinatore

se vede colui che dovrà essere rubato dirigersi verso la casa o il negozio innanzi che il furto si compia, allora corre avanti ed avvisa i colleghi che rubano, e li fa scappar via con quello che ha potuto aggraffare.

I Camorristi

puniscono la insubordinazione sfregiando col rasoio l'insubordinato. Chiamano infame chi fa testimonianza contro qualunque ladro o assassino. Del resto tra di loro si proteggono a maraviglia: soccorrono con particolarità i loro compagni carcerati, e pagano l'avvocato per difenderli. Qualche volta i Camorristi

difendono i deboli contro i forti, e fanno da pacieri in qualche diverbio o rissa tra persone a loro non appartenenti.

La gente onesta e pacifica teme i camorristi,

non li accusa alle autorità, e per lo più si sottomette alle loro giunterie per non essere accoltellata da quelli che restano in libertà.

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Vi sono pure in Napoli e dapertutto de' Camorristi in frak

e guanti gialli, spesso si appiccano qualche qualità, e sono questi i più pericolosi, specialmente per la borsa; perché fanno debiti per non pagarli mai; vivono facendo lusso, e facendo i cavalieri d'industria. Guai se loro domandate il vostro credito, vi dicono male parole, e vi minacciano. I liberali si servirono di questi Camorristi aristocratici

per creare la classe pensante, come essi dicono.

Questa esiziale piaga del camorrismo

è stata e sarà sempre il terrore della Città di Napoli. Tutte le dominazioni che si sono succedute hanno accusate le precedenti perché non hanno distrutta la setta dei Camorristi,

e poi esse medesime han finito di tollerarla, e qualche volta se l'ha fatta alleata.

Proclamata la Costituzione, il Ministero liberale fece Prefetto di Polizia D. Liborio Romano, nativo delle Puglie. Era costui un avvocatuccio infelice, o come suol dirsi, avvocato storcileggi:

fu carbonaro, massone, mazziniano, e nel 1850 fu messo in carcere, ed in ultimo esiliato. Il 22 aprile del 1854 D. Liborio mandò da Parigi ove si trovava allora, un'umile supplica al Re Ferdinando II, nella quale protestava: «Devozione e attaccamento alla sacra persona del Re: e se mai l'avesse offesa inconsapevolmente,

promettea in avvenire una condotta irreprensibile,»

Re Ferdinando lo fece ritornare nel Regno.

D. Liborio Romano Prefetto di polizia liberale, si circondò di tutta la Camorra

napoletana, ed altra ne fece venire poi dal Regno, e dal resto dell'Italia. Di alcuni di quei Camorristi non so che novelli poliziotti abbia fatto; ad altri diede l'onorevole mandato di far la spia alla gente onesta designata sotto il nome di borbonici; altri infine, ed erano i più facinorosi, destinò a soffiare nel fuoco della rivoluzione, in mezzo al popolaccio napoletano. Le prime prodezze dei Camorristi sempre diretti da D. Liborio prefetto di polizia furono gli assalti dati agli ufficii della vecchia polizia, essendo stata questa troppo curiosa di conoscere i fatti della gente poco onesta, e come intorbidatrice della pace de' Camorristi e de' settarii.

Il 27 e 28 Giugno, dopo due in tre giorni che si era proclamata la Costituzione, vi furono due assembramenti di Camorristi, di lenoni, di monelli e di cattive donne, tra le altre la de Crescenzo, e la celebre ostessa detta la Sangiovannara:

tutti pieni di fasce e nastri tricolori, con pistole e coltelli, gridavano libertà ed indipendenza, e a chi non gridasse in quel modo, parolacce e busse.

Il 27 assalirono i due commissariati di polizia, quello dell'Avvocata, e l'altro di Montecalvario. Un certo Mele, capo di quelle masnade, che giravano in armi in cerca della vecchia polizia, ferì a Toledo l'Ispettore Perrelli: costui fu messo in una carrozzella per essere condotto all'ospedale: potea vivere, ma il Mele lo finì nella stessa carrozzella a colpi di pugnale. In compenso di quella prodezza, il Mele fu Ispettore di Polizia sotto la Dittatura di Garibaldi. Giustizia di Dio..! l'anno appresso il Mele fu accoltellato da un certo Reale, altrimenti bello guaglione,

e fu messo in carrozzella, ma prima di giungere all'Ospedale, esalò l'anima in mezzo la via.

Il Prefetto D. Liborio vedendo che tutto potea osare impunemente per lui e pe' suoi Camorristi, il 28 riunì un più grande assembramento di que' suoi accoliti; e

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loro impose di assaltare gli altri commissariati della vecchia polizia.

Le scene ributtanti, e i baccanali di questa seconda giornata oltrepassarono di gran lunga quelli operati nella precedente. Quella accozzaglia assalì i commissariati al grida di muora la polizia; viva Carlibardi -

così alteravasene il nome dalla plebaglia . La truppa che tutto vedea e sentiva, fremea di rabbia, ed era obbligata da' duci a starsene spettatrice indifferente.

Gli assalitori de' Commissariati gettarono da' balconi tutte le carte, il mobilio, le porte interne, e ne fecero un falò in mezzo alla strada. Un povero poliziotto del Commissariato di S. Lorenzo, si era occultato in un credenzone, e così com'era fu gittato da un balcone in mezzo la strada. Intorno a quel falò si ballava, si bestemmiava, si cantavano le canzone le più oscene.

Il solo Commissariato della Stella non fu invaso e distrutto per quella giornata, perché i vecchi poliziotti di guardia si atteggiarono a risoluta difesa e tennero lontani i camorristi e compagnia bella. Ma que' difensori del Commissariato vedendo che il Governo volea la loro distruzione, la sera abbandonarono il posto, e quindi quello fu l'ultimo ad essere distrutto.

Dopo che i camorristi fecero quelle prodezze, andavano attorno con piatti nella mani a domandare mercede per la buona opera che aveano fatta. E il liberali trovarono giustissimo quanto aveano operato i camorristi, poichè secondo la loro logica, la Costituzione proclamata importava uccidere i cittadini, i quali aveano servito l'ordine pubblico ed il Re.

Sarebbero state sufficienti queste prime scene inqualificabili, perpetrate da' Camorristi capitanati da D. Liborio, Prefetto di Polizia liberale, per far conoscere anche agli sciocchi, e principalmente a chi potea e dovea salvare la Dinastia e il Regno, che la proclamata Costituzione serviva come mezzo sicurissimo per abbattere Re e trono. Ma si proseguì sulla medesima via de' cominciati disordini, i quali si accrescevano giorno per giorno, ora per ora con selvaggia energia, ed a nulla si dava riparo.

Ciò dimostra la tristizia e l'infamia degli uomini che allora aveano afferrato il potere e la dabbenaggine di colore che si dicevano, ed erano realmente tutti pel Re e per l'autonomia del Regno.

Se mi si dicesse che nulla potea farsi, perché operando in contrario alla proclamata costituzione sarebbe stato lo stesso di compromette il Re in faccia all'Europa, la quale non avrebbe ritenuto come un atto sincero del Sovrano le date franchigie costituzionali; risponderei in primo, che reprimere i disordini interni di uno Stato è dovere d'ogni Sovrano, sia assoluto o costituzionale, maggiormente quando i ministri sono fedifraghi: in secondo che i Sovrani d'Europa guatavano biechi il nuovo ordine di cose proclamato a Napoli, e que' baccanali giudicavano forieri di disordine europeo. Ad eccezione di qualche parvenu,

tutti avrebbero approvato e fatto plauso ad una pronta ed energica repressione di que' disordini, ad un solenne colpo di Stato: e lo stesso Napoleone III, il quale avea furbescamente consigliato a Francesco II quella fatale ed inopportuna costituzione, almeno in apparenza,


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si sarebbe mostrato contento al pari degli altri Sovrani. Del resto, è un assioma, che di due mali si debba sempre evitare il maggiore: or proseguendo i disordini e le fellonie cagionate dalla costituzione, la caduta della Monarchia era inevitabile; al contrario il colpo di stato l'avrebbe assodata; solamente avrebbe fatto braitare un poco i settarii, ma si sarebbe salvato Re, Regno e benessere de' Popoli; risparmiando in prosieguo tante lagrime e tanto sangue che si è versato: a tempo opportuno, Re Francesco avrebbe potuto rimettere la costituzione, se l'avesse giudicata buona pe' suoi popoli.

Mi si potrebbe anche dire: che dopo i fatti compiuti è facile schiccherar sentenze a proposito ed a sproposito; ed io rispondo, ma quando i fatti e le condizioni interne ed esterne del reame di Napoli fossero - ed erano tali - quali io le ho raccontate fin qui, il voler persistere in alcune idee senza base né di logica, né di storia, non sarebbe il solito ripiego de' peccatori ostinati?

Brenier, ministro di Francia presso la Corte di Napoli, era stato il fabbro principale della proclamata Costituzione, della quale ebbe tuttavia un saggio niente piacevole. Egli usciva in carrozza dal Palazzo del Nunzio Apostolico; il cocchiere sferzava i cavalli per farli andare di trotto; il popolo già sovrano se ne risentì e bastonò il cocchiere. Il Brenier levandosi in piedi, disse al popolo il suo nome e la sua carica, si aspettava scuse e plausi, in cambio si ebbe due mazzate sull'onorevole capo, e così malconcio e pieno di sangue ebbe a gran fortuna di potersene andar vivo a casa sua, ove fu poi visitato da due aiutanti di campo del Re e di S. A. il Conte d'Aquila.

L'aggressione di Brenier non credete che fosse un puro accidente, ma essa fu bene una premeditazione de' rivoluzionarii per fare impedimento e dispetto al Re. In effetti si spacciò come notizia certa di essere un borbonico colui che diede le due busse al ministro di Francia, ma si finì di metterlo in libertà sotto il governo che successe a quello di Francesco II.

Si fece al Brenier un indirizzo a nome del popolo, firmato da tre anziani,

in cui si deplorava l'insulto ed il male che gli aveano recato, gettando la colpa sopra i borbonici fedeli al Re. Don Liborio, da uomo politico, facea stampare quell'indirizzo nel giornale uffiziale.

Il Brenier rispose all'indirizzo il 4 Luglio, e dicea: «Essere convinto del rispetto dei Napoletani al rappresentante di un Sovrano che avea compiuto fatti mirabili pel bene dell'Italia. »

Brenier avea provato pure gli effetti di quei mirabili fatti compiuti dal suo padrone in Italia. La sua testa rotta dalle mazzate popolari, ne era una mirabile prova, mai vista o intesta in que' tempi quando ancora non si erano compiuti i mirabili fatti napoleonici in Italia.

Il Ministro della guerra, Leopoldo del Re, devoto e fedele al Sovrano, in vista dell'anarchia sempre crescente a causa de' camorristi diretti e sostenuti da D. Liborio Prefetto di polizia liberale, tolse dal comando della Piazza il generale Polizzi, il quale non avea fatto impedire da' soldati que' baccanali; e quegli eccessi perpetrati da' camorristi, e dal resto della bruzzaglia napoletana. In cambio nominò il Duca S.111

Vito, e costui proclamò lo stato di assedio. Si proibì ogni assembramento maggiore di dieci persone, e l'esportazione d'armi e di grossi bastoni. S. Vito uomo risoluto e secondo l'ordinanze di Piazza, volea procedere al disarmo. D. Liborio però si oppose energicamente, conciosiachè disarmando i camorristi, egli Prefetto di polizia liberale rimaneva senza armata e senza prestigio: e sostenuto come era dalla setta e da' traditori che circondavano il Re, la vinse; ed i camorristi rimasero padroni di Napoli, cioè erano costoro la sola autorità dominante.

D. Liborio non contento ancora di avere a sè i camorristi, volle pure che costoro fossero riconosciuti e pagati dal Governo; di fatti ottenne un decreto in data del 7 luglio col quale si aboliva l'antica polizia, e se ne creava una nuova di camorristi, con nuovo uniforme, e nuovi principii, già s'intende.

Fu uno spettacolo buffonesco quando si videro in Napoli i camorristi dalla giaccia di velluto, vestiti da birri, o sia da guardie di pubblica sicurezza, e i loro caporioni vestiti da Ispettori. Que' custodi dell'ordine pubblico faceano paura agli stessi liberali, e molti di questi si dolsero con D. Liborio, il quale rispose di aver fatto benissimo, dappoichè i camorristi doveano essere compensati e protetti a preferenza, per la grande ragione de' servizii che aveano resi, e di quelli che doveano rendere ancora: diversamente, si sarebbero buttati co' reazionarii.

E disse, ch'egli si augurava di fare tanti onesti impiegati governativi di que' camorristi sino allora (che peccato!) negletti e perseguitati; ed essere suo divisamento cavare l'ordine dal disordine. Queste massime antipolitiche ed antisociali, specialmente pel modo come l'applicava D. Liborio, erano imitate dallo stesso Ministero negli altri rami amministrativi, cacciando via gli impiegati antichi ed onesti, surrogandoli con gente o ignorante, o dubbia o disonesta.

Il ministro liberale per effettuire i suoi piani di sovversione, che tendeano sempre ad abbattere la dinastia ed il Regno, indusse il Re a destituire tutti quelli impiegati e funzionarii che gli erano devoti e fedeli: ed in cambio furono innalzati uomini ignoti a tutti, solo conosciuti dalla setta. Si videro pubblici funzionarii con missioni delicatissime, giovani imberbi, e giovani che mai aveano visitato le Università, ma invece aveano bazzicato tra bische e luoghi di corruzione; si videro innalzati a pubblici funzionari degli Speziali, de' Parrucchieri, de' tavernai e simile genìa, e tutti con la missione di congiurare contro il Re e contro l'autonomia del Regno. Il ministero liberale con la firma del Re, scrollò tutto l'antico edifizio, e ne ricostituì un altro con elementi anarchici tendenti ad abbattere l'augusto Trono e la dinastia.

Non dee far maraviglia dunque se in poco tempo tutto andò a rotoli, anzi dee far maraviglia che la durò per altri sette in otto mesi. E si può francamente asserire che l'antico governo resse dal 25 giugno 1860, giorno della proclamata Costituzione, al 13 febbraio giorno della Capitolazione di Gaeta, perché i soldati figli del vero popolo, e la gran maggioranza degli uffiziali, erano veramente devoti al Re, ed amavano l'autonomia del Regno. E l'esercito napoletano avrebbe salvato trono e dinastia, anche dopo che il Re abbandonò Napoli se i traditori non gli avessero legate le mani.

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I soldati di guarnigione in Napoli fremevano contro la rivoluzione, ma ubbidiva no. È vero che i camorristi vedendo un buon numero di soldati, gridavano: viva la truppa,

ma non gridavano: viva il Re,

e per questo i soldati s'indegnavano, e facea no progetti poco rassicuranti per la rivoluzione. I liberali poi aveano l'impudenza di esaltare e mettere in cielo Garibaldi sotto i baffi de' soldati, i quali odiavano costui a morte; quindi nascea quell'antagonismo foriero di baruffe e disastri.

II15 luglio, sorta a caso una rissa lungo la strada del Carmine, tra soldati e camorristi, quelli gridarono viva il re,

questi viva Garibaldi. I soldati dopo di aver dato a camorristi una lezione alla soldatesca, corsero per la via della marina e pe' bassi quartieri sino a Toledo, ove ruppero alcune vetrine di magazzini, e sfogarono l'ira contro i ritratti di Garibaldi, e di altri personaggi amici di costui. Questo fatto spaventò i rivoluzionari, i quali dimostrarono un sacro orrore alla profanazione perpetrata da' soldati, e pieni di santa indignazione, dissero: - ma sotto voce - i soldati sono reazionarii!....

Veramente ell'era una peregrina scoperta che aveano fatta!

In Napoli era allora lecita qualunque sfrenatezza liberale, si potea dir male di tutto e di tutti, ma non era libero alcuno dir male di Garibaldi, sarebbe stato accusato come reazionario. Si potea gridare viva Garibaldi

con tutte le altre appendici, ma guai a chi avesse gridato, viva Francesco II! D. Liborio l'avrebbe imprigionato qual reazionario, qual sanfedista, qual brigante.

La stampa liberale, sorta in quel tempo infamava tutte le oneste riputazioni: nulla vi era di sacro: tanto che un uomo politico inglese dicea: «Se in Inghilterra vi fosse la libertà di stampa simile a quella di Napoli, la Regina Vittoria sarebbe stata detronizzata in poco tempo,» Quella stampa liberale, oltre di essere un continuato libello famoso contro tutto quello che avea di bello e di buono Napoli ed il regno, esaltando sempre le cose del Piemonte, oltre d'infamare il Re, e far splendere le nefandezze de' tristi, mentiva spudoratamente sù di tutto.

Io, quando giunsi a Napoli, immediatamente dopo i fatti di Milazzo, non volea credere agli occhi miei leggendo i giornali di quei tempi, specialmente il Lampo

e il Tuono,

i quali altro non istampavano che sfacciate ed insussistenti menzogne circa i fatti guerreschi di Sicilia; e sarebbe bastato un poco di buon senso per riconoscere false tutte quelle notizie insulse ed inverosimili che spacciavano.

I Napoletani erano allora quali esaltati, quali preoccupati del rapido svolgersi degli avvenimenti, perché vedeano realizzate cose impossibili, i tristi perché aveano ottenuti trionfi non isperati. Quindi si credeva a tutto quello che raccontavasi di più strano.

Tante persone buone e cattive mi raccontavano con grande sicumera un mondo di sciocchezze successe a Milazzo, e voleano che io le credessi come un quinto evangelo, ignorando di che parte io venissi.

Quando poi lo seppero, alcuni mi guardavano con occhi stupidi, altri biechi, e quasi tutti mi diedero del bugiardo e del reazionario; avvertendomi i buoni che mi astenessi di raccontare i fatti di Sicilia quali io l'avea veduti.

Napoli era divenuto un pandemonio: in quei giorni non si ragionava più, e chi avesse un poco ragionato avrebbe corso pericolo di vita.


CAPITOLO XIII

Intanto Garibaldi non restava inoperoso. Avendo veduto che la truppa che si era ritirata sul continente non era stata vinta ma tradita, e che fremea di cancellare le patite onte, pensò ad ingrossare la sua armata con altri garibaldini esteri o del continente dell'alta Italia. Era per lui una necessità spingersi avanti, ma la forza che avea allora non era sufficiente per tentare il passaggio nelle Calabrie, temendo sempre d'incontrare qualche regio duce che facesse davvero. Si determinò avvalersi di nove mila volontarii che capitanava il medico Bertani in Toscana.

Egli non ignorava che costui volea scimiottarlo con buttarsi sullo Stato Pontificio, e quindi non avrebbe ceduto tanto facilmente que' volontarii. Si risolvette di recarsi in Toscana e persuadere il Bertani a cederli perché gli erano necessarii alla spedizione di Calabria.

Non è mio compito raccontare le commedie diplomatiche tra Torino e Napoli riguardo alla lega italica, nel disegno di precludere a Garibaldi il passaggio sul continente napolitano.

Lo scambio delle Note di que' tempi, non che i viaggi de' diplomatici tra le due Corti, erano, come ho detto, una vera commedia. E non dico questo per parte di Francesco II, il quale agiva lealmente, ma riguardo a Cavour che d'altro non si occupava che di usare qualunque mezzo per impadronirsi del Regno di Napoli. Basterebbe il solo diario di Persano per far conoscere di quali mezzi subdoli e disleali si servisse Cavour per rovinare il Re e il Regno di Napoli. Que' mezzi faceano arrossire e nauseare gli stessi liberali onesti e di buona fede. Intanto quel ministro piemontese salì in gran fama, non già nell'opinione degli uomini onesti, ma presso i rivoluzionarii, i quali si deificano tra loro per allucinare gli uomini di poca mente: o meglio, come disse non ha guari uno spiritoso pubblicista: «Son venuti in fama per effetto della nota società di mutua ammirazione.»

Garibaldi ricevette, o finse di ricevere una lettera del Re V. Emmanuele allora Re del Piemonte, in cui questi lo pregava di non portare la guerra sul continente napoletano.

In que' fortunosi tempi quella lettera si leggeva a piè di quasi tutti i ritratti del dittatore della Sicilia, che si metteano allora in mostra nella via Toledo.

In effetto, Garibaldi spacciò di aver ricevuto quella lettera, e che si recherebbe a Torino per rispondere a voce al Re. Però il vero scopo del suo viaggio era quello di recarsi a Castellammare di Napoli per impadronirsi di un vascello che trovavasi in armamento in quel Cantiere, e forse poi continuare il viaggio in Toscana, e pigliarsi i novemila volontarii comandati del Bersani.

Garibaldi lasciò all'ex prete Sirtori i suoi poteri dittatoriali, e gli ordinò di preparare la spedizione delle Calabrie. Il 12 agosto si imbarcò sul Tukery

già Veloce

con molti disertori napoletani appartenenti a questa fregata, e si diresse alla volta di Napoli. Arrivò nel golfo di questa città la notte del 13; egli vi era stato altra volta, il 4 dello stesso mese, e si vuole che avesse confabulato in Posilipo col generale Alessandro Nunziante.

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Il vascello in armamento nel Cantiere di Castellammare era il Monarca,

e lo comandava allora il capitano di vascello signor Vacca. Questi un mese prima comandava la fregata l'Ettore Fieramosca.

Il Vacca la sera dell'otto giugno trovandosi nella rada di Palermo si recò dal vice ammiraglio piemontese, Persano, che trovavasi pure in quella rada, e trovò a bordo della Maria Adelaide

anche La Farina, e tutti e tre confabulavano a lungo. Vacca s'impegnò d'inalberare la bandiera piemontese sulla fregata che comandava: ma quest'offerta non ebbe allora effetto, perché Persano desiderava un pronunciamento generale della marina napoletana, anzichè piccole defezioni.

Or questo Vacca, comandante del Monarca,

il giorno 13 agosto avea dato ordine a' marinai si togliessero via le catene che assicuravano a terra il vascello, e si lasciassero solamente le gomene di canape.

Imarinai eseguirono l'ordine del Vacca, ma o fosse inavvertenza, o perché si era già tardi lasciarono una catena.

A notte avanzata il Tukery

entra nel porto di Castellammare, e sbarca a terra de' marinai che segassero le gomene, e salissero sul vascello. Vi era poca vigilanza, e tutto potea riuscir facile a Garibaldi attesa la complicità del Vacca. Però la catena di ferro, che si era tolta, e che assicurava a terra il vascello, impedì per questa volta un tentativo garibaldesco. Lo scricchiolare della catena destò la sentinella, la quale vedendo un nuovo legno a vapore senza fanali, gente estranea sul lido che segava le gomene, ed altra gente che saliva sul vascello, ruppe in un grido di allarme. Destati i marinai diedero di piglio alle armi, accorsero soldati di terra e si attacca una zuffa sul lido ed un'altra sul vascello. Alcuni soldati corrono al fortino, detto Pozzano, caricano i cannoni e tirano cannonate alla cieca. Il Tukery

fugge riparato d'altri legni del porto, e protetto dal buio della notte, prende il largo, e non è colpito d'alcun proiettile.

Fu catturata una barchetta appartenente al Tukery,

ed un'altra se ne trovò affondata vicino Vico Equense.

Sul vascello furono feriti due marinai, e uno fu ucciso. Fu ferito lievemente il Capitano in secondo Acton: forse costui si trovò accidentalmente nella zuffa, stantechè dopo poco tempo disertò al nemico dal quale ebbe premi.

IITukery ebbe varii feriti nell'attacco del Vascello.

Vacca, dopo il tentativo di Garibaldi, fuggì e riparò sopra una nave inglese. Egli il giorno 12 agosto avea confabulato col Persano, ed avea assicurato costui che tutto era preparato per agevolare la impresa di Garibaldi: e si era pure offerto di recarsi a bordo del Vascello per farlo rapire con più facilità.

L'insuccesso di Garibaldi si mutò in trionfo pe' liberali di Napoli e per la stampa rivoluzionaria; si dissero e si stamparono cose mirabili sul tentativo di Garibaldi; tutto era grande, tutto era magnifico anche gli insuccessi

di costui.

La gente onesta e pacifica di Napoli si commosse all'udire il tentativo di Castellammare, e cominciò ad emigrare, dappoichè si dicea che Garibaldi sarebbe entrato in Napoli per sorpresa come entrò in Palermo.

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Il Dittatore, dopo il fallito tentativo di rapire il vascello, tirò diritto in Toscana per pigliarsi i nove mila volontari comandati da Bertani.

Immediatamente dopo il fatto di Castellammare si riunì molta truppa nei dintorni di Napoli. La brigata Bosco, della quale io facea parte, da Caserta fu traslocata a Napoli e destinata a' Granili: e si attivò la difesa litorale del golfo.

Il Re, che facea sempre bene quando agiva senza consiglieri liberali, rimunerò Bosco dei servizii prestati in Sicilia, particolarmente a Milazzo, lo fece Generale di brigata. Questa promozione fu accolta con piacere dalla truppa, dappoichè quel Generale era popolarissimo, nell'esercito, e giudicato prode e fedele al Re.

Mentre la brigata Bosco si trovava a' Granili, il Re venne e visitarla, e si fece avvicinare e parlare da tutti quelli che lo desideravano.

Lodò molti soldati sottuffiziali ed uffiziali, e diede gradi, decorazioni e soccorsi di danaro. fece a preferenza Aiutante Maggiore del 9° Cacciatori il Capitano del Giudice, il quale si era bene distinto in tutti i fatti d'armi di Sicilia, e gli regalò un magnifico cavallo delle scuderie reali.

Tra gli altri lodò la bravura del 1° Sergente Gennaro Ventimiglia, il quale si era sempre distinto, ed era stato il primo ad avventarsi contro i cannoni di Orsini in Corleone. Quel Sergente avea un gusto matto di assaltare i cannoni de' nemici mentre questi tiravano a palla o mitraglia: nel tempo della campagna del 1860 soddisfaceva a maraviglia quel suo gusto soldatesco ed io non so come sia rimasto in vita.

Il Sergente Ventimiglia, di bello aspetto, era religiosissimo, e quindi di buona morale: mi aiutava molto ad istruire le reclute nel Catechismo, e da' soldati era chiamato «il Sotto Cappellano».

È qui necessario ch'io faccia una breve digressione per rintuzzare tutti coloro che vogliono far credere che il Cristianesimo, e principalmente la nostra santissima religione Cattolica infiacchisse gli animi, e quindi riducesse il soldato Cattolico senza slancio, senza coraggio e senza brio militare. I nemici del Cattolicismo quando vogliono calunniare o mostrare difettosa questa divina istituzione, non possono far di meno che mettersi in contraddizione con la storia, con la logica e col senso comune. Io potrei qui citare innumerevoli esempi in contrario, cominciando dalla Legione tebana sino ai Zuavi pontificii; mi limito solamente a dire, che sentiva somma consolazione nell'osservare, che i soldati i quali si batteano con gran coraggio ed abnegazione erano quelli stessi che non bestemmiavano, che tenevano una buonissima condotta, e che frequentavano i Sacramenti. Io ammetto delle eccezioni, ed ammetto pure che tanti duci in Capo e subalterni scostumati o atei si sieno battuti valorosamente: ma il principio movente di costoro è diverso di quello del soldato; essi sacrificano la loro vita per la rinomanza e per la gloria mondana, sperando di far passare i loro nomi alla posterità, dopo di essere stati glorificati da' contemporanei. Al contrario, il povero soldato cade sul campo di battaglia non curato, non visto; e spesso i suoi stessi compagni ignorano le sue bravure, e il suo sacrifizio fatto a quel principio per cui combatte. Il vero soldato, generalmente si batte, e si fa uccidere pel dovere; e non esiste dovere senza Dio, e senza una santissima religione rivelata dallo stesso Dio.

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Bosco avea raccontato al Re quello che mi era accaduto in Milazzo. Quel buono e clemente Sovrano ebbe la degnazione di farmi chiamare a sè, e con benevola e simpatica maniera m'invitò a raccontargli quei fatti. Io, per non tenerlo impedito, cercavo disbrigarmi in poche parole, ed Egli all'opposto m'invitava a dire tutte le particolarità che io volea omettere. Più volte si fece serio al mio racconto, e spesso gli venne il riso sulle labbra.

Fu quella la prima volta che io ebbi l'onore di parlare al mio Sovrano a lungo, e direi quasi confidenzialmente. Da quel giorno mi rimase una grande devozione a quell'ottimo e sventurato Principe, devozione che finirà con la mia vita: e dovunque Egli si trovi, o nella felice, o nell'avversa fortuna io farò sempre voti pel suo benessere e per la sua felicità.

Io, che mai in vita mia avea avuto il bene di accostare i Borboni, e da' quali né io nulla mai ho ricevuto, né pure i miei parenti ed antenati, che anzi io avea ricevuti de' torti dalla polizia Borbonica; non di meno per essere stato accolto una sola volta benignamente da Francesco II, sarò sempre ligato a questo cavalleresco e nobile Sovrano d'imperitura devozione. Non sò quindi capire come tanti uomini di troppa modesta origine, che furono da' Borboni innalzati alla prime cariche del Regno, onorati, arricchiti, e fatti amici e confidenti del Sovrano: come tanti nobili che videro nascere Francesco II, che li crebbe sopra i ginocchi e che in Corte erano i prediletti, abbiano potuto dimenticare in un giorno i ricevuti onori, i benefizii, l'affetto, l'amicizia, e tradire vilmente la dinastia.

Negli ultimi mesi del Regno di Francesco II si videro diserzioni di uomini che un anno prima sarebbe stata una follia sospettarle.

Ho promesso di non ragionare della vita privata di alcuno, essendo questo il dovere d'ogni storico qualunque siasi, ma ho pure promesso di ragionare schietto e franco della vita pubblica di tutti coloro che ebbero parte nella catastrofe della dinastia e del Regno. Mi duole è vero, nominar le loro magagne e la loro slealtà: fossero duchi, principi, altezze reali, io non potrei occultare la verità; dappoichè è necessario che ognuno sappia le cagioni della caduta di un trono secolare, e di una delle prime dinastie del mondo.

Tristo compito è quello di scrivere gli avvenimenti contemporanei, però se non si scrivessero per umani riguardi mancherebbero a' posteri gli elementi di scrivere la storia de' nostri tempi.

Del resto, coloro de' quali ragionerò si fecero vanto de' loro tradimenti quando credevano averne profitto. Oggi però, o perché negletti o perché disprezzati, vorrebbero stendere un velo sul passato, ed imporre il silenzio a coloro che osassero svelare la verità a' presenti ed a' posteri. Costoro prima di fare il male doveano riflettere che la loro condotta sleale sarebbe stata giudicata dall'imparziale e severissimo tribunale della vera storia; giacchè fecero il male, ricevano ora rassegnati il guiderdone a loro dovuto.

E necessario al bene sociale, e per sicurezza di tutti i governi, che si mettano alla gogna tutti i traditori e specialmente quelle de' re. Ciò serve di salutare esempio a'117

presenti e a' posteri perch'eglino si astengano di tradire i Sovrani da' quali han ricevuto onori e ricchezze, e perché siano leali a' governi costituiti da' quali ritraggono vita e potere.

La famiglia Nunziante poco conosciuta sino alla fine del secolo passato comparve gloriosa la prima volta su' campi delle patrie battaglie combattute contro la così detta repubblica Partenopea del 1798, che altro non era che una schiava della Francia, e contro i Napoleonidi del primo impero.

Vito Nunziante, nato nella città di Campagna del Principato Citeriore, da onesti ed agiati genitori, ancora giovanetto, nel 1798 si ascrisse alla regia milizia del Reggimento detto Lucania; dopo due anni meritò il grado di alfiere. Vito si distinse sempre per l'attaccamento alla causa de' Borboni, e per la sua bravura in molti fatti d'arme: in poco tempo raggiunse il grado di generale meritamente datogli da Ferdinando IV, divenne poi Tenente Generale, e Quartier Mastro generale.

Vito è lo stipite della nuova famiglia aristocratica de' Nunziante: e questa famiglia può alzare altiera la fronte in faccia all'antica nobiltà del Regno, perché vanta la vera nobiltà del merito pe' servizi resi alla patria napoletana e alla dinastia de' Borboni, mentre non tutte le famiglie aristocratiche potrebbero vantare simili o altri servizi.

Il generale Vito Nunziante, nell'ottobre 1815, ebbe da Ferdinando I la trista missione di far giudicare e fucilare al Pizzo l'infelice e cavalleresco Gioacchino Murat, al quale si applicarono le stesse leggi che costui avea fatte contro gl'invasori del Regno. Vito adempì tanto bene quella difficile missione, che lo stesso storico arrabbiato Murattiano Pietro Colletta, nulla trovò a dire contro Vito Nunziante, anzi sembra lodarlo.

Ferdinando Nunziante figlio di Vito, anche generale, uomo probo e fedele a Borboni, rese a questi e alla patria segnalati servizi nella rivoluzione delle Calabrie del 1848.

La famiglia Nunziante amata e beneficata meritamente de' Borboni, brillò in Corte, ed ebbe onori e poteri. La maggior parte degli individui di questa famiglia, chi più chi meno fecero il loro dovere nel 1860 e 1861. Un solo nonpertanto, nelle cui vene il sangue di Vito Nunziante si era corrotto ed ammorbato all'alito di qualche funesta passione, fece di tutto per contaminare il suo già illustre nome che porta, ma contaminò solamente sè stesso.

Il generale Alessandro Nunziante figlio di Vito, poi duca di Mignano, fece la parte d'Iscariota nel gran regicidio politico di Napoli; non son'io che lo dico, leggete il Diario dell'ammiraglio piemontese Conte Persano, ed ivi troverete fatti da farvi rabbrividire, perpetrati dal duca di Mignano a danno del Re e del disgraziato Regno di Napoli, dopo la proclamata Costituzione del 25 giugno 1860; basta leggere le stesse lettere del Nunziante, dirette al pregevole Conte.

Ed io sono costretto a raccontare in parte quei fatti nel corso di queste memorie.

Persano, forse, ha creduto rendere un gran servizio al suo amico generale Nunziante, dipingendolo un gran patriota italiano, un instancabile cospiratore contro i Borboni:


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ma non pensò qual posto avea costui occupato nella Corte di Napoli, e quanto era stato beneficato da' Borboni stessi contro i quali cospirava rabbiosamente: e quindi invece di esaltarlo lo ricoperse di fango.

Alessandro Nunziante, sotto il Regno di Ferdinando II raggiunse l'apogeo degli onori e della potenza. Chi volea favori, avendo amico il Nunziante tutto potea osare ed ottenere. Era costui l'amico, il confidente di Ferdinando II, era capo di quella gente di Corte che facea odiare quel Sovrano; si attribuiva a lui tutto quel male che i rivoluzionari addebitavano al Re. Si disse allora, e lo ripete il chiarissimo storico de Sivo, che Ferdinando II volea far grazia della vita ad Agesilao Milano, ed Alessandro Nunziante lo persuase a mandarlo al supplizio.

Quest'uomo o perché guadagnato dalla setta o perché vide la monarchia vacillante, con la maschera del patriottismo - che tanto avea perseguitato - cominciò a congiurare contro i suoi benefattori, i Borboni. Di fatti si legò in grande amicizia col ministro inglese a Napoli, Elliot, col ministro Sardo Salmour, e poi con Villamarina gente che la veste diplomatica cospirava contro la monarchia delle Due Sicilie.

Alessandro Nunziante il dì 8 giugno era stato nominato duce supremo di un corpo di esercito di 24 mila uomini: Re Francesco nulla gli negava, poichè nessuno può mettere in dubbio essere il Nunziante un mediocre Generale, ed un buon organizzatore di truppa. Avea costui meditato un disegno di attacco per riprendere Palermo dalle mani del filibustiere -

così anch'egli chiamava Garibaldi - con due sbarchi contemporanei in quell'Isola. Però proclamata la Costituzione cambiò pubblicamente livrea. Cominciò a credersi offeso dal Re: ed egli che avea goduto de' pingui soldi in tempo di pace, il 2 Luglio chiese la dimissione sotto pretesto che fosse odiato dal partito pre borbonico, e dagli annessionisti. Bel pretesto per un Generale in tempi di guerra! Il 17 dello stesso mese ebbe il ritiro con la paga di Generale, ed il permesso di andarsene all'estero. Ma non partì perché Persano e Cavour ne aveano bisogno in Napoli per far disertare in massa i Battaglioni Cacciatori su' quali si supponea che avesse molta influenza. In seguito fu chiamato a Torino da Cavour, che di già erano corse importanti intelligenze tra questi due personaggi. Giunto a Torino scrisse una lettera al Presidente de' ministri di Napoli; nelle quale dice: «Non poter egli portare sul suo petto decorazioni di un governo che confonde uomini onesti, retti, e leali, con chi merita disprezzo; però restituiva i diplomi degli ordini conferiti. »

Il Persano, che sapea essere stata scritta questa lettera sotto la dettatura di Cavour, per dare una lanciata non già al Ministero di Napoli, ma al Re Francesco, la chiama nobilissima lettera, egli soldato di un altro re! Ma Nunziante invece di restituire quegli inutili diplomi al Re di Napoli, avrebbe dovuto restituire tutto quello che avea ricevuto dai Borboni, se veramente fosse stato uomo onesto, retto e leale!...

Nunziante, uomo onesto, retto, e leale,

fu mandato a Napoli da Cavour sulla fregata piemontese la Maria Adelaide

con una lettera diretta al Persano, nella quale il Cavour dicea: «La presente le sarà consegnata dal generale Nunziante, lo faccia scendere a terra quando e come desidera, ed agisca secondo le istruzioni che le mando col telegrafo.»

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Le prime istruzioni che mandò Cavour col telegrafo a Persano sono brevi e compendiate, eccole: «Approvo. Nunziante stasera parte per Genova, faccio conto su di lui, e ancorpiù, su di lei.»

Cavour avea ragione di contare più sopra Persano che sopra Nunziante; poichè temea forse un congiuratore contro una dinastia dalla quale tutto avea ricevuto, non avesse nessunissima difficoltà di tradir lui che nulla gli avea dato, e conoscealo da poco tempo.

Alessandro Nunziante, soldato onesto, retto e leale;

appena gli fu ordinato da Cavour, mandò un tenero addio in istampa ai Battaglioni Cacciatori e alla guardia mobile Napoletana. Ecco l'addio: «Vi lascio, dicea, per santo pegno dell'amor mio l'esortazione di mostrarvi degni della gloriosa patria italiana: valorosi verso i nemici d'Italia, e generosi nella nuova via di gloria destinata dalla Provvidenza a tutti i figli della gran patria comune.»

In fede mia, coteste belle fasi di patria italiana,

di patria comune,

in bocca di Alessandro Nunziante, istigatore della fucilazione di Agesilao Milano, consigliere di persecuzioni contro i liberali, quello stesso che chiamava filibustiere

colui che combattea per la gran patria comune,

sembrano una stomachevole caricatura, un vero controsenso. Tant'è, erano questi gli uomini di cui si serviva la rivoluzione per fare la gran patria comune!

Alessandro Nunziante è uno di que' cinque esseri fatali, (quasi cinque piaghe), che prima afflissero ed ammorbarono il Reame di Napoli, e poi nel 1860 fecero di tutto per farlo cadere disonoratamente.

La moglie di Alessandro Nunziante, nata dalla più distinta aristocrazia napoletana, tanto bene accolta ed onorata in Corte, volle pure spezzare una lancia contro i Borboni.

Scrisse al Re Francesco una letterina, dicendogli: «Il posto di dama di Corte non mi appartiene,

le restituisco il brevetto,» (Forse perché si rammentò di essere stato condannato un suo parente in Inghilterra?) Chi l'avrebbe mai detto un anno prima, quando cotesti signori e signore strisciavano in Corte, e faceano tremare il Regno sotto l'egida dei Borboni? E pure, quella letterina della nobile signora manifesta una gran verità; non la pubblico perché con le donne principalmente, è bella la generosità; del resto, le donne non hanno alcune importanza politica, esse sono quasi sempre le vittime de' mariti.

Vito e Riccardo Nunziante, figli del generale Ferdinando, nelle cui vene scorre immacolato il sangue del prode e fedele avolo Vito; nel 1860, benchè allora giovanetti, ben facile ad essere sedotti dalle idee speciose ed allucinanti che predicava la rivoluzione, e dall'esempio dello zio Alessandro, pur tuttavia si contennero da veri e leali gentiluomini verso la dinastia, confermando su' campi di battaglia la tradizionale bravura e fedeltà del nome illustre che portano.

Il Tenente Colonnello Antonio Nunziante, fratello di Alessandro, non ismentì il nome che porta: fu Comandante dell'8° Cacciatori, e fece sempre il suo dovere in tutta la campagna del continente Napoletano. In Gaeta fu sottomesso ad un

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Consiglio di guerra, dal quale risultò innocente. La causa di quel Consiglio di guerra fu una lettera di un suo collega disertore, il Tenente Colonnello Pianelli, il quale lo invitava a disertare come lui al nemico col battaglione che allora comandava, come dirò appresso ragionando dei fatti di Gaeta.

Mi duole non poter dire lo stesso dell'altro fratello di Alessandro, Francesco Nunziante, comandante il Reggimento Marina, anzi costui merita ogni biasimo, perché avrebbe dovuto condurre a Capua quel Reggimento, e secondare il desiderio de' soldati suoi dipendenti, come dirò tra non guari.


CAPITOLO XIV

Il dì 8 agosto, nella Chiesa de' Fiorentini di Napoli, si fecero i funerali al generale Guglielmo Pepe, famoso ribelle del 1820 e 1849; que' funerali delinearono il vero stato di Napoli. Conciosiacchè i rivoluzionarii aveano stabilito recarsi in Chiesa in processione, uscendo di S. Chiara colla bandiera repubblicana di Venezia, in memoria del defunto, il quale avea difesa quella repubblica nel 1849, e con altra bandiera portante il cavallo sfrenato in segno della redenta Napoli. Il Ministro liberale avrebbe tutto permesso, ma temendo sempre che i soldati facessero qualche diavolìo alla vista di quella processione, e di quelle bandiere, proibì queste e permise i funerali.

La Chiesa de' Fiorentini fu parata con emblemi repubblicani, e tante persone nemiche del Pepe, quelle che l'aveano abbandonato in Venezia, quelle che aveano logorato le anticamere de' ministri di Ferdinando II, intervennero a que' funerali, atteggiandosi a rivoluzionarii ed amici del defunto. Io vidi in mezzo agli altri notabili il de Sauget col figlio Gugliemo, il quale smentiva così le proteste di innocenza, che avea stampate circa il suo ritirarsi dall'impresa di Sicilia nel 1848.

Assisteva pure a quel funerale demagogico il Conte di Siracusa, Leopoldo di Borbone, zio del Re Francesco II. La stampa liberale napoletana lodò sua Altezza reale, che onorava un rivoluzionario disertore. Quella stampa però gli rese un brutto servizio, che io non so se fosse andato a sangue del real Conte, cioè lo paragonò a Filippo d'Orleans égalité,

regicida, il quale votò nella Convenzione nazionale di Francia nel 1792 per la morte del suo benefattore e parente, Luigi XVI, Re di Francia, e che poi lo stesso Filippo d'Orleans, égalité,

fu impiccato dagli stessi rivoluzionari suoi amici.

Il generale Guglielmo Pepe non avea altro merito verso i rivoluzionari, se non quello di avere rivoluzionato l'esercito nel 1820: e pure quella gloria rivoluzionaria non dovrebbe darsi al Pepe, dappoichè costui non fu l'iniziatore di quella rivolta, ma ne profittò e ne seguì la corrente. L'altra gloria rivoluzionaria del Pepe si era di avere abbandonato il corpo di esercito napoletano da lui comandato sul Po, destinato a cacciare i tedeschi dal Lombardo-Veneto. Se non che, Re Ferdinando II fu costretto a richiamare a Napoli quel corpo di esercito, perché i liberali dopo che

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ottennero la Costituzione si servirono di questa per fare il 15 maggio; ed aveano pure in fretta detronizzato quel sovrano, quando ancora non aveano alcun mandato del popolo. Pepe invece di seguire l'esercito che comandava, disertò, e andandosene a Venezia prese a difendere quella repubblica che poi fu distrutta da' tedeschi nel 1849.

Il Pepe era stato un pessimo militare. Lo storico Pietro Colletta, nella storia del Reame di Napoli al libro ottavo Capo III, descrivendo la battaglia di Rieti, e lo sbandamento dell'esercito napoletano ad Antrodoco, ove era generale in Capo il Pepe, dice di questo generale in capo delle cose poco lusinghiere. Racconta che il Pepe volendola fare da presuntuoso gradasso, attaccò i tedeschi quando non era né il tempo né il luogo; che appena essi si avanzarono, egli, il Pepe, fuggì vilmente lasciando disperso l'esercito nella valle di Antrodoco, e fuggì senza fermarsi né ad Aquila, né a Popoli, né a Solmona; chè nol ritenne il bisogno di riposo o di cibo, ed incalzato sempre della paura giunse il primo a Napoli.

Non son'io che dico tutte queste vergogne del Pepe, è il liberalissimo Pietro Colletta; di quel Pepe, di cui i liberali del 1860 onoravano i funerali come di un prode Generale e benemerito della patria. È troppo vero, la rivoluzione esalta e mette in gran fama non solo i traditori de' Sovrani, ma eziandio la gente più meschina e più vile, purchè le appartenga o la secondi.

I rivoluzionarii dovrebbero mostrarsi meno inverecondi quando ci vogliono costringere ad onorare le gesta o la memoria de' loro eroi:

leggessero prima le storia scritte dai medesimi settarii, e non ritenessero il rispettabile pubblico come una mandria di bestie.

Gli zii del Re, il Conte di Siracusa e quello d'Aquila, faceano a gara a chi avesse potuto meglio opprimere e disonorare il proprio casato. Eglino forse immemori della grande rivoluzione francese del 1789 e de' suoi terribili effetti, imitavano la politica del famoso Filippo d'Orleans égalité,

e della aristocrazia francese, che si unirono a' danni dell'infelice Luigi XVI. Conciosiachè questo Filippo d'Orleans, e l'aristocrazia, prima costrinsero il Re a convocare gli Stati generali, poi fecero lega con la borghesia, e per mezzo di questa, il primo volea impossessarsi del Regno di Francia con qualsiasi titolo, l'aristocrazia per ottenere maggiori privilegi feudali, ed insieme si metteano d'accordo, ottenuto l'intento di sbarazzarsi della nuova alleata ed opprimerla. La borghesia però istruita e pratica delle sêtte giovò a que' signori per acquistare quell'importanza che allora non avea; e quando si vide forte abbastanza, fece quella radicale e terribile rivoluzione, rovesciò aristocrazia e trono, mandò al patibolo il Re, il duca d'Orleans égalité,

assassinò aristocrazia e clero, imperocchè quest'ultimo, se non tutto in parte si era pure alleato a' danni del Re.

Il Conte di Siracusa e quello d'Aquila voleano essere reggenti o vicerè del Regno per mezzo della rivoluzione. Questa, al solito, finché trovò il suo tornaconto li blan dì e lodò: quando poi non ebbe più bisogno di loro, perché forte abbastanza per far da sè, diede un calcio, fece una pertinace persecuzione a quell'Altezze reali, e non li mandò al patibolo perché i tempi non lo permetteano.

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Il Conte di Siracusa congiurava apertamente contro il proprio nipote: il suo palazzo alla Riviera di Chiaia era divenuto un club

di giacobini e di cordiglieri, ove intervenivano i Robespierre, i Marat, i Danton in sedicesimo: ivi si congiurava da un Borbone contro i Borboni con la garenzia delle stesse armi borboniche.

Il 4 agosto l'ammiraglio Persano è condotto da Villamarina nel gran palazzo del Conte di Siracusa; costui ricevè Persano con deferenza ed amorevolezza. si dichiara ammiratore delle politica di Cavour, come quella che dovea salvare l'Italia dall'anarchia e dall'intervento straniero. Ei parla con ossequio del Re Vittorio Emmanuele, solo dei principi italiani che si sia mantenuto nazionale, per condurre l'Italia all'unificazione sotto il suo scettro. Conchiuse esser dolente del Re suo nipote, ed amaramente esclama: la colpa è sua. Persano a questo discorso rimane attonito. Il Conte di Siracusa si recò parecchie volte a bordo della nave piemontese la Maria Adelaide

per visitare Persano, e sopra quella nave ammirava e lodava tutto quello che era piemontese, e dicea male di tutto quello che era napoletano, e principalmente contro suo nipote il Re Francesco II. Questo real conte scrisse al Re una lettera, che appresso trascriverò in queste memorie. Con quelle lettera, Egli indegno nepote di Carlo III, si rivela ipocrita e settario: ma il suo disinganno fu terribile.

Tuttavia il Conte di Siracusa non arrecò al sovrano e al Regno tutto quel male che fece l'altro fratello, Luigi, Conte d'Aquila; essendo costui capo della flotta napoletana, la disonorò disertando, e facendola disertare al nemico, fatte poche eccezioni di alcuni uffiziali, e di tutti i marinai. Questo real conte d'Aquila da più anni si atteggiava a Filippo égalité.

Nel 1859, quando D. Liborio Romano era cercato dalla polizia il real conte, lo ascose nella sua villa di Posilipo. Fu egli che assieme agli altri sospinse il giovine sovrano a dare quella inopportuna Costituzione proclamata il 25 giugno 1860. Fu egli, che credendo D. Liborio ligio a' suoi voleri ed ordini, il sollevò al Ministero dell'interno, e gli creò quella potenza che poi facea tremare la stessa Corte. Ma D. Liborio, afferrato il potere, sentendosi forte abbastanza, cominciò a rivoltarsi contro il suo protettore ed insidiarlo, come quegli che volea liberarsi da un inciampo alle sue evoluzioni rivoluzionarie.

Il Conte d'Aquila si accorse, ma tardi, del mal fatto proteggendo D. Liborio, e dell'abisso che avea scavato sotto i suoi piedi. Per la qual cosa, cercò di riparare. Radunò armi ed armati, corse al Re e lo persuase a chiamare il Marchese Ulloa e il fratello Girolamo per formare un ministero liberale e dinastico, porre Napoli in vero stato di assedio, sciogliere la polizia de' camorristi capitanata da D. Liborio, di rifare la guardia nazionale, e cacciare da Napoli tutti quelli che aveano passaporto piemontese. Egli era cotesto un vero colpo di Stato.

Il Conte d'Aquila credeva vicino il suo trionfo, e commise il grande errore di confidare i suoi disegno al ministro de Martino che credea suo amico. Costui svelò tutto a D. Liborio, il quale giudicando che quel colpo di Stato sarebbe stata la sua rovina, e quella della rivoluzione unitaria italiana, corse frettoloso al Re, e gli scoperse tutte le trame di suo zio, il Conte d'Aquila, Gli disse di aver sequestrato armi ed arnesi di guerra de' quali il Conte dovea servirsi per rovesciare il trono e dichiararsi Reggente del Regno:

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e gli fece vedere centinaia di fotografie del medesimo Conte la fascia sul petto segnata dalla parola Reggente.

D. Liborio, non sicuro ancora della vittoria, chiamò a conciliabolo tutti i ministri ed espose il pericolo che li minacciava e propose di esiliare il Conte d'Aquila. I ministri considerando il pericolo che correvano assieme a tutta la rivoluzione, già da essi bene avviata, decretarono l'esilio del real Conte. Quel decreto fu presentato al Re per essere da lui approvato. Francesco II, memore di tutto quello che si era detto contro suo padre nel 1849, si contentò di perdere piuttosto l'occasione di salvarsi, anzi che rigettar quel decreto degno della Convenzione nazionale francese. Quindi diede la sua sanzione sovrana.

L'ordine di partire fu comunicato al Conte d'Aquila dal ministro Garofalo, creatura del Conte stesso; ed era in quel decreto la clausola di arrestarlo ove non ubbidisse.

D. Liborio, facendo uso di tutto quel potere che avea nelle sue mani, interdisse al Conte al vista del Re, temendo che gli potesse tuttavia nuocere. Il Re, forse non convinto della reità dello zio, gli scrisse il 13 agosto una lettera affettuosa di commiato, e questi rispose dal legno ove si trovava imbarcato protestando innocenza e sensi di devozione al Re, e alla patria italiana.

Vero peccatore, ostinato, ancora Patria italiana!

Il real Conte, o non lo capì, o non volea capirlo d'onde venisse la sua rovina e quella della sua famiglia. Il Giornale uffiziale,

all'uso dei governi rivoluzionarii che mai non dicono la verità, il 14 agosto pubblicò che il Conte d'Aquila si recasse a Londra per una missione.

Lo stesso giorno 14, con ordinanza del Comandante della Piazza, generale Ritucci si proclamò lo stato di assedio, ma per guarentigia della rivoluzione, e non per tutelare l'ordine pubblico, imperocchè era il Ministero che temeva continuamente di essere abbattuto dalla reazione.

Il Ministro Pianelli, o Pianell come oggi si fa chiamare per le ragioni che tutti sanno, divenuto ad un tratto da terrorista qual'era, tenero delle libere istituzioni, ingiungeva ai soldati di stringersi fraternamente alla Guardia nazionale, e proteggere il nuovo ordine di cose. Egli intanto non vedea e non badava di vedere la sfacciata propaganda che si facea in Napoli per corrompere i soldati e farli disertare al nemico. Giornali, opuscoli, libercoli, tutti predicavano la diserzione del soldato come una virtù patria. Il Tenente De Benedictis, un Marsilli, l'Ayala, scrivevano e pubblicavano libelli secondo il bisogno, e il Fisco non trovava nulla da condannare. Solamente i funzionarii pubblici di allora comprimevano anche i sospiri de' così detti reazionarii, i quali erano in realtà i veri amici del Re e dell'ordine pubblico.

La setta tenea pubblica bottega conosciuta da tutti, ove si dispensava denaro e promesse per acquistar soldati e sott'uffiziali dell'esercito: il solo D. Liborio, Ministro dell'interno, e Pianelli Ministro della guerra non aveano occhi per vedere quella pubblica indegnità.

Vi erano delle adunanze degli uffiziali dell'esercito, i quali faceano di tutto per demoralizzare i soldati e non farli battere contro il nemico. Questi uffiziali osarono

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presentare al Ministero della guerra una petizione firmata onde si persuadesse il Re di lasciare il regno senza muover guerra a Garibaldi. Il Pianelli che dovea subito arrestare e mettere sotto consiglio di guerra que' felloni e vili uffiziali, si contentò di respingere quella petizione, e la respinse forse perché il tempo non gli sembrava ancora propizio di agire in conformità de' petenti. Or io sarei tanto indiscreto di chiedere al sig. generale Pianelli, oggi a capo di uno de' cinque comandi generali dell'Italia; che cosa fareste ora se vostri subalterni militari vi presentassero, non dico una petizione simile a quella che vi presentò la melma degli uffiziali napoletani, ma qualunque preghiera opposta alla disciplina e alla lealtà militare? Sono sicurissimo che fareste subito arrestare i petenti mettendoli sotto consiglio di guerra, com'è vostro assoluto dovere, e di qualunque duce. E perché non usaste lo stesso rigore quando eravate Ministro della guerra di Re Francesco II nel 1860? Vi prego, sig. generale, di non rispondere colle solite frasi di patriottismo, e di circostanze e tempi diversi, vuote di senso per un vero militare. Dite francamente ch'eravate traditore e settario. Voi lo sapete meglio di me, che un soldato leale non deve far mai di politica qualunque siano i governi, i tempi e le circostanze. Un leale soldato, se volesse far di politica che non fosse quella del governo che serve, fosse questo ancora quello del crudele Nerone, si dovrebbe dimettere, ma in tempo di pace.

Per voi, sig. generale Pianelli - a cui non si può negare né istruzione né coraggio - non si può del pari ammettere alcuna giustificazione circa la vostra vita politica e militare del 1860, sarà questa registrata nella storia di quel tempo con tinte e qualifiche incontestabili.

Il Piemonte avea nel porto di Napoli delle navi con due battaglioni di bersaglieri a bordo, sotto pretesto di tutelare i sudditi sardi. Il 20 agosto sbarcarono da quelle navi una gran quantità di bersaglieri ed uffiziali, e si diedero a predicare le beatitudini che sarebbero per venire al Regno di Napoli, appena si proclamerebbe l'annessione al Piemonte.

Que' bersaglieri uniti a molti rivoluzionarii facean di più, cioè quando vedeano i soldati napoletano li sberteggiavano. Sul ponte della Sanità avendo incontrato sei tiragliatori della guardia, come aveano per costume, cominciarono a canzonarli: però i tiragliatori non soffrirono l'insulto, cavarono le daghe e diedero addosso a bersaglieri piemontesi ed a quelli che li accompagnavano. I bersaglieri furono difesi da' Camorristi; ma furono tutti ben picchiati e malconci; si salvarono con la fuga lasciando due de' loro feriti, ed un Camorrista mezzo morto. In quel tafferuglio accorsero le guardie nazionali, simulando di far da pacieri, ma diceano a' piemontesi: date, date a questa carne venduta.

Così chiamavano i proprii connazionali, i coscritti napoletani.

I feriti Sardi furono condotti all'ospedale. i due tiragliatori napoletani lievemente feriti, quelli che avean tolta una daga a' bersaglieri, furono arrestati e condotti alla Granguardia. A Cavour dispiacque questa zuffa, perché egli desiderava attirar questi alla causa del Piemonte. Villamarina significò al Persano per parte del Conte di Cavour «che sarebbe stato meglio non far scendere i bersaglieri a terra,». Nel medesimo tempo

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spiccò il seguente telegramma al Cavour: «Bersaglieri scesi a terra, in piccolo numero, assieme alla divisione che andava in permesso, di cui fan parte.

Era utile, perché prendessero pratica della Città pel caso di sbarco.

V. E. viva tranquilla, non sarò mai io che la comprometterò.»

Intanto il Villamarina in qualità di Ministro Sardo accreditato presso Re Francesco II, chiese clamorosamente soddisfazione dell'infame

attentato contro i bersaglieri piemontesi, e il Ministero liberale diede a' due feriti sardi ventimila lire. Suppongo che questi due feriti abbiano benedette le mazzate napolitane.

Il Ministro della Guerra Pianelli mandò Moschitti alla Granguardia, creato allora giudice per processare i tiragliatori, e schiccherò un ordine del giorno lodando que' bersaglieri piemontesi quali eroi di Palestro e S. Martino.


CAPITOLO XV

Già Garibaldi faceva strombazzare da tutta la stampa settaria, che sarebbe passato sul continente napoletano dalla parte di Reggio di Calabria; ed in effetto in Messina si lavorava alacremente a questo scopo.

In Napoli correano voci allarmanti credute da tutti, perché i fatti precedenti di Sicilia erano un esempio poco rassicurante per la gente pacifica; e qualunque audacia di Garibaldi sembrava facile, maggiormente che il Ministero liberale non prendeva alcuna energica misura per impedire l'invasione del resto del Regno, ed infrenare l'audacia del duce rivoluzionario.

In quel tempo cominciarono le prime emigrazioni all'estero. Il tenente generale Filangieri fu il primo a darne l'esempio. De' negozianti ricchi, alcuni emigrarono, altri si misero in salvo sopra i bastimenti che stavano nel porto di Napoli.

Parte dell'aristocrazia napoletana, già borbonica, sin da quel tempo cominciò a muovere per l'estero, lasciando il Re, senza assistenza ne' più terribili perigli, altra parte non sò se sciocca o trista, fingendo sentir paura non già della rivoluzione ma de' soldati, muoveva pure per l'estero.

Però, l'aristocrazia affezionata e fedele alla dinastia restò impavida attorno al Sovrano, dividendo i pericoli dell'imminente e certa catastrofe, dopo di aver fatto tutto per iscongiurarla. Alcuni di questi signori, è vero che partirono per l'estero attese le particolari circostanze, ma resero grandi ed amorevoli personali servizi, ed altri poi raggiunsero la Corte, quali a Gaeta, quali a Roma, e questi ultimi non tutti si mostrarono all'altezza de' tempi. Per alcuni signori sarebbe stato meno disonorevole se fossero rimasti sin dal principio in mezzo alla rivoluzione, che poi riconobbero, e dalla quale trassero profitto in tutti i modi e sotto varii rapporti. Il movente di questi signori non fu principio di riconoscenza verso la dinastia, che lor fece seguire a Roma Francesco II, ma solamente il calcolo. Di fatti, finchè sperarono una pronta restaurazione si mostrarono caldi borbonici, quando poi cominciò loro a venire meno questa speranza, si dichiararono partigiani del nuovo ordine di cose, e

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si sarebbero dichiarati anche sanculottes

e maomettani se vi avessero trovato tornaconto, ch'è spesso lo scopo di tutte le evoluzioni politiche e religiose. Questi uomini, sebbene discendenti dai magnanimi lombi, talvolta sono la gente la più abbietta, quelli stessi dipinti a maraviglia dal poeta Giusti nel Brindisi di Girella

dedicato al sig. Talleyrand, buon'anima sua.

Conosciuto il grande bisogno di guarentire le Calabrie da un colpo di mano garibaldesco, il Ministero della guerra fu costretto a mandare della truppa in quelle province.

In tutte le Calabrie erano disseminati circa 20 mila uomini divisi in quattro brigate: una comandata dal generale Ghio in Monteleone, un'altra in Cosenza comandata dal generale Caldarella, un'altra in Reggio comandata dal generale Bartolo Marra, e la quarta comandata dal generale Melendez occupava diversi paesi nella provincia di Reggio. In Catanzaro era un battaglione del 2° di linea, comandato dal Maggiore de Francesco sotto gli ordini del Colonnello Lo Cascio Comandante della Provincia.

Comandante in capo di tutte le forze delle Calabrie fu scelto il Maresciallo Giovanbattista Vial. Non era costui un gran generale, ma avea fama di essere fedele al Re. A capo dello stato maggiore del Vial fu destinato il Colonnello Bertolini.

Fu scelto per quartier generale Monteleone quasi centro delle tre Calabrie, d'onde potevasi accorrere ove il bisogno il richiedesse.

La maggior parte de' generali e capi di corpi mandati in Calabria a combattere Garibaldi, erano poco conosciuti da' soldati, e non ispiravano alcuna fiducia nell'esercito. Vi erano dei liberali, ma nullità militari, e quindi da non potersene fidare. Un generale Gallotti avuto per liberale e per militare da nulla, fu destinato a comandare la Piazza di Reggio luogo allora tanto interessante. Di fatti il Marra da generale accorto conobbe la difficile posizione in cui si trovasse la truppa nella provincia di Reggio, e si rivolse al generale in capo Vial, il quale si cullava nelle promesse del Ministero. Quando vide che il Vial a nulla provvedeva, scrisse al Ministro della guerra e gli fece notare, che le brigate erano malamente ripartite, che i soldati mancavano di tutto, e che alcuni duci ispiravano poca fiducia, e principalmente il Gallotti. Il ministero della guerra fece il sordo alle giustissime osservazioni fatte dal generale Marra. Fra questo generale e il ministro Pianelli vi fu uno scambio di lettere, dalle quali si rileva, da una parte le ragioni di un accorto ed onorato Generale, all'altra un borioso Ministro intollerante, perché gli si scoprivano le sua magagne e il suo sleale procedere; ed abusando di quel posto che indegnamente occupava, osò minacciare castighi esemplari ad un duce accorto ed onesto.

Il generale Bartolo Marra fu l'unico ch'ebbe il coraggio e l'occasione di dire la verità in faccia ad un prepotente e sleale Ministro. Ecco quello che gli scrisse ufficialmente: «Ed infine, a quanto mi sembra, manca la buonafede,

onde mi decido al passo di chiedere l'esonerazione di un così lusinghiero comando. Se i miei onorati servizii meritano una considerazione, spero una seconda classe, se ciò non si crede, la mia dimissione.

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Che far potea di più il generale Bartolo Marra? Egli dopo di aver fatto di tutto con la sua preveggenza ed osservazioni militari per salvare le Calabrie dall'imminente invasione garibaldesca, per non macchiare il suo onore di gentiluomo e di soldato, rinunzia ad una onorata e laboriosa carriera, quando era giunto ad un posto lucroso e rispettato!

10non ho conosciuto da vicino il generale Bartolo Marra; lo vidi qualche volta in Palermo prima del 1860 e mai ebbi l'occasione di avvicinarlo: dopo che scrisse quel le lettere al Pianelli, avrei avuto un gran desiderio di esternargli la mia ammirazio ne per la sua condotta tenuta in Calabria nel 1860; oggi però, che sento con vero dolore dell'animo mio essersi egli suicidato con un colpo di pistola al cuore, per dis sesti privati, gl'invoco da Dio perdono e consacro in queste memorie l'onorato suo nome!

Mio Dio! anche l'altro distintissimo generale Bartolini si uccise, e l'uno e l'altro ancora nella età della vigoria morale e materiale. Imperscrutabili decreti della Provvidenza, chi può mai rendersene ragione?

Il Pianelli risentito come una femmina da trivio, intollerante come un liberale, volle vendicarsi del leale e franco general Marra. Il 7 agosto spedì appositamente a Reggio il Pompei,

recando ordine di arresto al Marra, ed appena giunto a Napoli lo chiuse nel forte di S. Elmo passandolo alla terza classe. Il Marra già sapea anticipatamente i fulmini che doveagli scagliare il ministro Pianelli; dappoichè l'avea saputo da persona proveniente da Messina, che dicea averlo inteso dallo stesso Garibaldi. Lo che dimostra, come di ogni disposizione, che il ministero emanava ne era, primo d'ogni altro, informato il nemico.

Intanto il Marra in compenso della sua nobile condotta tenuta in Calabria, non assistette alle vergogne militari che poi ivi successero, né perdè quell'onore del quale era tanto geloso e giustamente altiero.

Il Pianelli dopo di aver tolto dal comando della brigata di Reggio, l'importuno

generale Marra, mandò invece il celebre Briganti, il bombardiere di Palermo, fatto già brigadiere; in seguito vedremo la condotta che tenne questo sfacciato traditore e qual fu la sua miseranda fine.

Il 13° di linea, supponendosi rilasciato nella disciplina, fu mandato in Puglia, il suo Colonnello Torrebruna mandato alla seconda classe, mentre questo colonnello consigliava i suoi compagni a seguire il Re dietro il Volturno: così il ministro Pianelli trattava i militari fedeli al Re, esaltando i bombardatori ed i traditori. Invece fu mandato a Reggio il 14° di linea comandato dal colonnello Dusmet, e forse per isbaglio del Ministro; fu questa un'ottima scelta, dappoichè il Dusmet fece onore al proprio nome ed all'esercito. Intanto si davano ordini e contrordini per fatigare i soldati con marce e contromarce. Difatti si mandò un battaglione del 4° di linea a Catanzaro per rilevare il 2°; poi fu questo mandato di nuovo a Catanzaro, ed il 4° mentre stava per giungere a Nicotera, ebbe avviso per telegrafo, che tre compagnie colà fossero rimaste sotto il comando del maggiore Anguissola, e le altre tre si fossero recate a Palmi. Come ho detto, vi erano circa ventimila uomini di truppa disseminati in tre estese province,


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in modo che al bisogno non si sarebbero potuti riunire, e divisi erano debolissimi a sostenere un men che vigoroso assalto. Vi era un altro svantaggio per la truppa, che tutte le autorità delle Calabrie erano settarie, e che gli amici del Re erano stati destituiti e sostituiti dalle creature di D. Liborio Romano. Conciosiachè il D. Liborio avea tutto preparato in Calabria al facile trionfo di Garibaldi.

In Reggio era rimasto a reggere la provincia il Segretario generale signor Cammarota, e sebbene unitario, pur tuttavia, onesto com'era, non volea tradire il Re, intanto avrebbe voluto contentare i rivoluzionari. Si rivolse a domandar consigli al Ministero, ma questo volea esser compreso senza spiegarsi. Cammarota non volendo tradire il Re, né contrariare il partito rivoluzionario, si finse ammalato e lasciò fare: ed in questo modo credè salvare il suo onore, e non opporsi ai rivoluzionarii. Nondimeno ciò non piacque a D. Liborio, il quale volea traditori attivi ed energici, quindi il 10 luglio nominò Intendente di Reggio il cav. Giuseppe Dentice Accadia, illustre giureconsulto già Sottointendente di Gaeta. Nonpertanto costui tenuto per liberale era autonomico, e quindi fedele alla causa del Re. Quest'uomo avrebbe potuto guastare i piani rivoluzionarii; ma il comitato di Reggio spedì un certo Rognetta a D. Liborio, facendogli nota la lealtà del sig. Dentice e l'errore d'averlo colà inviato; esser necessario di toglierlo da quel posto allora tanto interessante, e sostituire un rivoluzionario senza coscienza politica. D. Liborio, considerando la gravità del suo sbaglio, con decreto del 27 luglio esonerò il Dentice da Intendente di Reggio, e lo mandò al ritiro, nominando invece l'avvocato la Russa di Catanzaro, ma questi non accettò.

Vacando quel posto, il pittore Demetrio Salazaro Capo del Comitato rivoluzionario di Reggio, antico emigrato ed amico di Manin e del marchese PallaviciniTrivulzio, si diresse a D. Liborio e gli espose la gravità del fatto, proponendogli ad Intendente di Reggio lo stesso sindaco Bolani. D. Liborio, ministro liberale dell'interno, che in tutto volea contentare i suoi amministrati, cioè i comitati rivoluzionarii, nominò tosto il Bolano Intendente. Fu questo un vero trionfo pel partito rivoluzionario. Bolani si annunziò a' suoi concittadini con un programma equivoco, essendo egli in fondo un federalista, ma circondato dai più furbi settarii, i quali gli sottraevano pure le carte le più interessanti, di tal che finì di divenire un arnese di setta secondando in tutto e per tutto il comitato rivoluzionario.

Le guardie urbane furono disarmate, e da allora in poi divennero più facili e più frequenti le comunicazioni con Messina, d'onde le armi s'inviavano senza ostacolo di sorta, e si depositavano in luoghi pubblici. Così tutto era pronto, solo si aspettava Garibaldi; ed affinchè il passaggio di costui sul continente non sembrasse un'invasione, una eletta di giovani dei più influenti del partito, si recò a Messina ed invitò il Dittatore a passare sul continente dalla parte di Reggio.

Vi erano poi in tutte le Calabrie anche ne' piccoli paesi, comitati rivoluzionari, protetti già s'intende dal ministero liberale, e specialmente da D. Liborio, i quali raccoglievano danaro pubblicamente per agevolare la Santa Causa

e per far disertare i soldati. Aveano pure la missione di far mancare i viveri alla truppa, di spacciare false notizie com'è costume de' rivoluzionarii

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per animare il partito sovversivo, e scoraggiare gli animi degli amici del Re e dell'ordine pubblico, i quali erano spiati e perseguitati senza tregua.

Ho già detto che il Conte d'Aquila, zio del Re, Capo della flotta napoletana, avea fatto di questa un tristo arnese di setta. Vi era, è vero, qualche eccezione, e propriamente in qualche comandante di legni subalterni, ma poi quasi tutti o pel cattivo esempio, o perché adescati dal Piemonte si fecero trascinare dalla corrente rivoluzionaria, e finirono col disonorarsi. Le ciurme eran fedeli e devote al Re, ma erano sempre giuocate ed ingannate da' proprii superiori.

Nel tempo che Garibaldi preparava il suo passaggio sul continente reggino, comandava la squadra del Faro il generale di Marina Vincenzo Salazar; era costui in fama di uomo energico e fedele al Re, ma la sua condotta dimostrò essere falsa quella fama che godea, resta dubbio se fosse stato traditore o inetto. Io vorrei crederlo inetto solamente, avendo riguardo che era poco ubbidito da' subalterni, e perché operò senza energia e senza senno militare tanto nel guardare il Faro, quanto nell'impedire a Garibaldi lo sbarco sul continente calabro.

Anche Garibaldi volle organizzare una flottiglia di barcacce, non già per opporla a quella napoletana, ma per far passare i suoi militi sul continente reggino. L'organamento della flottiglia l'affidò al Siciliano Salvatore Castiglia, che fu comandante de' legni siculi nel 1848, ed uno de' mille che avea comandato il Piroscafo Piemonte

nella traversata da Quarto a Marsala.

Il Castiglia energico ed intraprendente com'era, dopo di aver organizzata in Palermo una flottiglia di barcacce, il 28 luglio comparve nel Faro di Messina, senza che i legni napoletani ne avessero impedita la traversata.

Il giovine Capitano Ruggiero Besio, Comandante l'Avviso Aquila,

fedele al Sovrano e tenero dell'onor suo, mostrava francamente di vergognarsi a rappresentare quella commedia riprovevolissima, e, ardito com'era, domandò che gli si accordasse il permesso di cimentarsi con la flottiglia garibaldesca, che col suo piccolo legno avrebbe bruciate quelle barcacce o affondate.

Ma l'energico e fedele

Generale di Marina Vincenzo Salazar comandante la squadra del Faro, impedì al Besio di molestare il nemico.

Salazar per far credere che volesse operare qualche manovra alla Nelson, o che non volesse restare inoperoso, scrisse al Ministero di Napoli che sapea negarsi sempre ad ogni provvedimento favorevole alla causa del Re - e lo pregava di mandargli de' lancioni, non potendo egli accostare con grossi legni alla rada per isgominare le barcacce nemiche. I lancioni furono armati, ma non uscirono mai dal porto di Napoli.

CAPITOLO XVI

Garibaldi assicurato da' suoi corrispondenti del Reggino che tutto era preparato per riceverlo, e probabilmente assicurato dal ministero di Napoli, il 6 agosto annunziò

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a' Messinesi la sua partenza pel continente calabro, e quel giorno stesso mandò i suoi proclami alla truppa napoletana; la quale sempre più s'indispettiva al sentire quelle cicalate, nelle quali era sistematico il vanto di protezioni straniere, d'indipendenza, e di benessere universale, infine il continuo magnificare le forze e le prodezze garibaldine. Garibaldi era anche sicuro che la squadra napoletana l'avrebbe fatto passare sul continente senza molestarlo, e che sarebbe stato protetto all'occorrenza dalla squadra sarda che trovavasi allora nel Faro comandata dal conte Albini. Egli non ignorava che Cavour avesse dato al Persano il seguente ordine: «Aiuti le mosse del generale Garibaldi con le regie navi (Sarde), ch'ella ha nel Faro.»

Il giorno 9 agosto lo stesso Cavour scriveva a Persano la seguente lettera, dalla quale si rileva quanta nequizia usò quell'uomo fatale per rovesciare il trono di Napoli. Ecco la lettera.

Sig. Ammiraglio. Appunto perché Napoli è un osso duro

sta a lei, che ha buoni denti, masticarlo. Saprò tuttavia tener conto delle immense difficoltà ch'ella deve superare;

e se non riesca dirò che riuscire era impossibile.

Il problema che dobbiamo sciogliere è questo: aiutare la rivoluzione, ma far sì che al cospetto d'Europa appaia come atto spontaneo.

Ciò accadendo, la Francia e l'Inghilterra sono con noi, altrimenti non so cosa faranno «- Infine della lettera dice: «Mi si assicura d'altronde che il Generale (Garibaldi) non troverà ostacolo durante lo sbarco, stante il contegno della marina napoletana.

Persano scrive nel suo Diario: «Siamo sicuri della marina reale (napoletana); fatto di massima importanza, dappoichè isola il Re, e ci rinforza, ove occorra, contro l'Austria,» Difatti Lissa n'è una gran prova!

Nelle acque di Messina il Persano avea mandato tre legni della squadra Sarda, il Governolo comandato dal Marchese d'Aste, il Carlo Alberto comandante cav. della Mantica, il Vittorio Emmanuele comandante il Conte Albini, Capo di quella piccola squadra, il quale avea le solite istruzioni, cioè «stretta neutralità apparente, protezione di fatto occorrendo. »

Il Persano scriveva a Cavour: «La nostra presenza basterà ad impedimento dei legni napoletani perché non agiscano, i quali anche facendolo, non sarebbero che per forma, preparati a togliersi dall'azione al primo inciampo, almeno così è l'accordo con alcuni dei Comandanti.»


Rustow, duce e scrittore garibaldino molto veritiero, nelle sue Rimembranze d'Italia, edizione di Lipsia 1861, enumera tutte le forze di Garibaldi, e le fa montare a trentaseimila uomini in circa prima che passassero il Faro di Messina. In quell'esercito la maggior parte erano stranieri, pochissimi siciliani, dieci in dodici mila tra garibaldini del continente italiano e truppa piemontese vestita in camicia rossa; il resto erano uomini che parlavano tutte le lingue e i dialetti d'Europa, e vi erano pure affricani ed americani.

I duci comandanti di divisioni erano la maggior parte stranieri. Eccoli: Turr, Milbiz, Csudafy, de Flotte, Thorrena, Rustow, Eber, Pogam, Ebherard, e tanti altri stranieri che doveano liberare l'Italia dallo straniero, cioè dal Re di Napoli, e dal Papa!

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La flotta garibaldina era composta di legni predati e di quelli comprati col danaro siciliano, e la maggior parte aveano stranieri nomi, e questi erano:

Tukery, Ferret, Annita, Washington Orong, Aberdeen, Franklin, Indipendente, Torino, Duca di Calabria ed Elba,

questi ultimi due predati.

Garibaldi, la sera dell'8 agosto, montato sul vapore Aberdeen

volle godere della partenza della prima spedizione de' suoi militi che doveano invadere la provincia di Reggio. Erano 25 barcacce, con 200 uomini comandati da Rossi, Cattabene, Musolino, e duce in capo Missori. Di quelle 25 barcacce se ne smarrirono alcune e tornarono indietro: sulla Costa Calabra col favor delle tenebre, sbarcarono soli 150 uomini vicino Cannitello, luogo sguernito di truppa. Questi pochi uomini aveano la missione d'impadronirsi di sorpresa di Torrecavallo, e d'introdursi nella provincia di Reggio, sollevare le popolazioni ed attaccare i regi alle spalle. A Cannitello era una compagnia del 1° di linea, e se il Capitano che comandava quella compagnia avesse fatto il suo dovere, sarebbe finita male per quegli argonauti moderni. Quel Capitano invece di attaccare vigorosamente i garibaldini sbarcati e perseguitarli senza restare, si contentò impossessarsi delle barcacce vuote. Alcuni soldati solamente scambiarono con gli invasori parecchie fucilate, fecero cinque prigionieri de' quali uno ferito.

Missori con la sua gente non inseguito affatto, tirò diritto ad Aspromonte percorrendo tre miglia nell'interno, e giunse ad unirsi con alcuni rivoltosi condotti da Plutino, e tutti non era più di trecento.

Missori appena si unì colla gente di Plutino, volea subito tentare un colpo ardito, ma questi vi si oppose, facendogli riflettere che aveano poche forze, e che sarebbe stata imprudenza attirarsi addosso le regie truppe. Que' 300 rivoltosi rimasero quattro giorni occultati ne' boschi. Ma il Missori che era l'avanguardia dell'esercito di Garibaldi, conduceva con sè pochi militi, li avea scelti però tra' giovani i più intelligenti, valorosi, ed impazienti di battersi contro i regi. Quindi si decise di tentare un colpo ardito.

Il generale in Capo Vial che comandava da Monteleone, avea sperperata la brigata del generale Melendez, riducendola un vero cordone sanitario, debole in tutti i punti.

Sull'alba del 13 agosto Missori accompagnato dal capitano de' nazionali del piccolo paese di Bagnara, ruppe il filo elettrico, e tentò un colpo di mano sopra questo paese, ove i regi aveano mezza batteria, e pochissimi soldati. Egli attaccò il posto del telegrafo. La prima fucilata ferì la sentinella, e fu il segno dell'allarme pe' soldati e per gli abitanti, i quali spaventati dell'imminente pericolo che li minacciava, donne e fanciulli cominciarono a gridare e fuggire, arrecando scompiglio e confusione in mezzo a que' pochi soldati.

Per fortuna, e più per previdenza, giungevano da Palmi in quel critico momento quattro compagnie comandate dal tenente colonnello Cedrangolo, le quali furono divise in tre piccole colonne, e quella guidata dal Capo dello Stato maggiore de Torrenteros, si spinse in modo che già stava per accerchiare i nemici.

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Missori veduto il pericolo di restar prigioniero con tutta la sua gente, ordinò la ritirata, la quale si ridusse ad una precipitosa fuga verso Solano, maggiormente per le masse condotte da Plutino.

Pur tuttavia il de Torrenteros fece 17 prigionieri, molti garibaldini furono uccisi in quello scompigliato conflitto. Un giovane vestito con eleganza, era un signore ravennese, giaceva a terra ferito: il de Torrenteros corse per soccorrerlo e scansarlo da qualche sinistro, facile a succedere in simili combattimenti; ma quel signore garibaldino, supponendo forse che gli si volesse fare qualche male peggiore, tirò a questi un colpo di pistola quasi a brucia pelo, ma non così al segno. Nondimeno il de Torrenteros lo salvò dallo sdegno de' soldati, lo disarmò, e gli largì tutti i possibili soccorsi. Que' 17 prigionieri guide di Garibaldi furono trattati generosamente, e poi mandati nella Cittadella di Messina. E da questi prigionieri, il Console inglese volle consegnato un certo Eduardo Telling suddito brittannico.

Il generale Melendez non inseguì i fuggiaschi perché avea poca forza, e temeva di essere attaccato alle spalle dalla Guardia Nazionale già in atteggiamento ostile; invece usò un altro mezzo per disfarsi di Missori. Trovandosi quel Generale alloggiato in casa del signor Patania, conosciuto agente di Garibaldi, costrinse questo signore a mandare una persona al Missori per indurlo con minacce a ritornare a Messina. Missori, trovandosi con poca forza, perché i rivoltosi calabresi gettavano le armi per ritornare alle proprie case, ed alcuni venuti da Messina cercavano imbarcarsi a Scilla, aderì all'ingiunzione di Melendez, e scrisse a questo generale, che se ne ritornerebbe subito a Messina, col patto però che non fosse molestato nella sua ritirata.

Dopo poche ore scrisse un'altra lettera al Melendez, e gli dicea, che, avendo ricevuti altri rinforzi da Messina ritirava la sua promessa e che sarebbe pronto a battersi contro le regie truppe. Intanto andava internandosi tra boschi e valli per iscansare l'incontro de' regi.

La seconda lettera di Missori non era affatto menzognera; di fatti quel giorno stesso 13 agosto, erano sbarcati altri garibaldini a Bianco e a Bovalino. Le regie fregate, il Fulminante

e Y Ettore Fieramosca

in crociera nel Faro ove passarono le barcacce cariche di garibaldini, nulla videro, perché nulla vollero vedere.

La notizia del primo sbarco garibaldesco sul lido calabro, suscitò una grandissima indignazione nella gente onesta e devota al Re contro il ministero liberale di Napoli. Pianelli ministro della guerra, forse per salvare le apparenza, spedì in Calabria altri due battaglioni cacciatori, il 1° e il 5° i quali sbarcarono in Bagnara lo stesso giorno 13 agosto. Di questa nuova truppa leggiera coll'aggiunta poi dell'1 1° cacciatori, si formò una altra brigata indipendente dalle altre, ed ebbe l'incarico d'inseguire i garibaldini sui monti. Il comando di questa quinta brigata delle tre Calabrie fu dato al Colonnello Ruiz de Ballestreros il quale non si era condotto male in Catania, ma tra breve vedremo quanto danno facesse alla campagna militare di Calabria.

Giambattista Vial generale in capo di tutte le forze delle tre Calabrie, uomo probo e fedele al Re, si cullava sempre nelle promesse di un ministero fedifrago; ed invece di accorrere sul teatro della guerra, comandava da lontano, e non era ubbidito da tutti i duci suoi dipendenti.

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Ruiz ebbe l'ordine d'inseguire e sgominare i garibaldini rifuggiti sopra le montagne e ne' boschi, ma nulla fece. Briganti che restava inoperoso in Reggio, per la sola causa del Re alle sollecitudini di Vial che gli ordinava di agire, rispondea: il paese essere tranquillo, disarmati e domi i ribelli!

I buoni calabresi vedendo che la truppa non agiva o debolmente contro gl'invasori, si presentarono a' duci napoletani ed esposero loro che voleano essi attaccare i garibaldini: voleano però armi e mezzi qualunque si fossero per combatterli. I duci settarii non accolsero quell'offerta de' Calabresi, e la rifiutarono con burbanzose minacce. Il solo generale Melendez telegrafò al Ministro Pianelli, e gli significò l'offerta de' calabresi, per sentirne il parere. Pianelli rispose: «Che temeva più la reazione che i garibaldini,» Ora il sig. generale Pianelli se ne potrebbe fare un vanto di questa risposta data a Melendez. Ma si potea allora vincere con un sì fatto Ministro di guerra? Garibaldi è in fama di gran Generale, di Scassatroni,

di eroe de' due mondi; tutto questo lo sarà, non voglio metterlo in dubbio; anzi, se vi piace, lo chiameremo pure eroe di tre mondi includendo quello della luna. Però, i suoi ammiratori non dovrebbero negare che tutto quello ch'egli operò e compì di maraviglioso nel Regno delle due Sicilie, l'avrebbe operato e compito un uomo qualunque se avesse avuto i mezzi e gli aiuti del nostro eroe: chi sa..! anche io o qualunque di voi, miei benevoli lettori, avremmo operato quella specie di eroiche e miracolose gesta!

Sicuro Garibaldi del Comandante delle armi in Reggio, generale Gallotti, e dell'Intendente Bolani, si decise di passare sul continente calabro ed impossessarsi di quella città. Lasciò a Torre del Faro molte barcacce e molta gente per attirare in quel luogo l'attenzione de' regi, e mosse per Taormina al sud di Messina; alla spiaggia de' Giardini si imbarcò sul Franklin

la sera del 18 agosto, e vi s'imbarcò pure Bixio sul Torino,

conducendo duemila garibaldini distribuiti sopra le due navi a vapore. La notte era oscura e il mare grosso, forte soffiava il vento, e cadea pioggia leggiera, sicchè si tennero per più ore nel canale onde non urtare negli scogli della costa calabra; ma finalmente al primo spuntar dell'alba, abbonacciandosi il mare drizzarono le prue verso Melito ed ivi approdarono sulla spiaggia di Rombolo, presso la Chiesa di Portosalvo, a circa due miglia dall'abitato.

Prima che le due navi garibaldesche approdassero, furono scoperte dall'uffiziale telegrafico di Melito, il quale non diede informazioni alle autorità. Più tardi furono anche scoperte dall'altro uffiziale di Capo d'armi, e questi segnalò subito a Reggio la loro presenza in quei paraggi.

Lo sbarco de' garibaldini sulla spiaggia di Rombolo, fu rapido ma in grande confusione. Bixio fece dare a secco il Torino

per isbarcare al più presto, e il Franklin

si accostò al Torino

per servirsene come di ponte a fare scendere la propria gente.

Garibaldi volle tentare, ma inutilmente, di tirare a galla il Torino

col Franklin,

che poi rimandò a Messina per metterlo in salvo, e chieder soccorso alla marina sarda.

Appena sbarcati gl'invasori, prima cura di Garibaldi fu quella d'impossessarsi del telegrafo, onde impedire che si fosse dato avviso alla truppa del già avvenuto sbarco;

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ma Carmelo Massa uffiziale telegrafico di Melito, andò incontro al Dittatore e lo riconobbe qual nuovo padrone.

Egli suggerì a Garibaldi di passare regolarmente i dispacci al Capo d'armi per non dare alcun sospetto, ma costui non volle fidarsi di un nuovo traditore che ancora non conoscea. Però dal Capo d'armi, come ho già detto, s'era dato avviso alle autorità di Reggio, e queste, forse, sapeano anticipatamente tutto quello che dovea accadere la mattina del 19 agosto; onde aspettavano gli avvenimenti senza curarsi d'altro.

I garibaldini accamparono nella pianura di Rombolo, ma privi di tutto, tanto che taluni militi e graduati dovettero requisire le cose di prima necessità presso i naturali di Melito indifferenti affatto per loro.

Le autorità di Reggio con tutto il comodo possibile diedero avviso dell'avvenuto sbarco garibaldesco al Salazar Comandante la squadra napoletana nel Faro; quel giorno si trovavano due soli legni il Fulminante,

e l'avviso Aquila.

Gli altri comandanti de' piroscafi della real marina napoletana adducendo sempre mille scuse non fecero mai il loro dovere. Or diceano che non aveano carbone, perché consumato: ora mancavano di àncore: ora la macchina era guasta: le artiglierie inutilizzate, e con queste ed altre scuse otteneano facilmente di farsi mandare a Napoli, quando aveano le migliori fregate della flotta; restavano dunque in Reggio, come ho già detto, due sole navi sotto il comando di Salazar.

Quando il Salazar seppe che le navi nemiche si avvicinavano alla cosa Calabra, cioè dalla parte di Melito, ch'è l'ultimo paese della penisola italica del Sud, si dispose a partir da Reggio per opporsi allo sbarco garibaldesco. Secondo lo storico de Sivo, il Salazar in luogo di affrettarsi a correre contro il nemico fece passar molto tempo, e volle prima sentirsi la S. Messa. Però il sig. Cesare Morisani abitante di Reggio, accuratissimo e fedele storico de' fatti di Calabria del 1860, dice che Salazar non tardò ad accorrere col Fulminante

e con l'Aquila

sul luogo dello sbarco. Quindi noi benignamente ammetteremo come certa la notizia del sig. Morisani, ed in simili casi potremmo dispensare il Salazar e compagni di sentirsi la S. Messa. Mentre Salazar corre incontro al nemico, cosa facevano Bolani intendente, e il generale Gallotti comandante le armi in Reggio? Invece di mandar truppa sul luogo dello sbarco, o disporsi ad una valida difesa, sorvegliavano con più accuratezza i Borbonici; pensavano ad infrenare le dimostrazioni favorevoli al Re. Erano solamente solerti a reprimere le dimostrazioni contro Garibaldi e punire con energia i così detti reazionarii, come avvenne ne' moti di Cerchiara, ove mandarono la Guardia Nazionale per distruggere e fucilare senza misericordia tutti quelli che aveano gridato: Via Francesco II, morte agl'invasori!

Bolani e Gallotti si baloccavano a perseguitare gli sventurati poliziotti di Messina riparatisi in Reggio, avendo loro scatenato addosso i settari, e quegli infelici per campar la vita corsero in mezzo a' gendarmi: i quali furono puniti dal Gallotti, perché li difesero. Il Bolani mandò a Napoli que' poliziotti con la rea nota di borsaioli. D. Liborio ministro liberale dell'interno approvava, già s'intende, ed encomiava la condotta di Bolani e di Gallotti.

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Salazar mentre correva verso la spiaggia di Melito, incontrò il Franklin,

questo alzò bandiera americana, ed egli lo fece passare senza alcuna molestia, sol perché lo vide vuoto di garibaldini. Il medesimo storico de Sivo afferma che sopra il Franklin

si trovasse Garibaldi, il quale andava a Messina per chiedere aiuto alla squadra sarda contro quella napoletana, e per mettere a galla il Torino,

e che poi udito il cannoneggiamento de' legni napoletani indovinò che il Salazar, novello D. Chisciotte era alle prese col Torino,

vuoto di garibaldini, e che fosse sbarcato sulla spiaggia calabra per riunirsi a' suoi. Sembra qui che il chiarissimo storico de Sivo non sia stato bene informato su questo fatto, perché molti scrittori, testimoni oculari, dicono che Garibaldi in quel momento si trovasse nella pianura di Rombolo assieme alla sua gente. È certo però che il Salazar commise il più grande errore, avendo fatto passare liberalmente il Franklin

già conosciuto per legno garibaldesco. Egli, forse, avea la smania di fare la seconda edizione di Marsala, ove i suoi colleghi cannoneggiarono il piroscafo Piemonte

dopo che i garibaldini erano già sbarcati sulla spiaggia. Difatti giunto con i due legni all'una e mezzo p. m. nella riva di Melito, fece prima fuoco contro il Torino

vuoto, poi lo fece abbruciare: in seguito aprì il fuoco contro i garibaldini che stavano accampati nella pianura di Rombolo.

Tutta l'oste garibaldina si sbandò immediatamente e cercò sicuro riparo, non solo per salvarsi dalle cannonate dei regi legni, ma perché temea la truppa che supponeva avesse da sbarcare. Salazar perseguitò a colpi di palla di cannone quegli sbandati, finchè furono a tiro dell'artiglieria, e ne uccise molti. I cadaveri de' garibaldini restarono sulla spiaggia insepolti per più giorni: sessanta feriti furono raccolti e trasportati a Melito, ove la maggior parte moriva. Lo stesso Garibaldi corse gran pericolo: essendosi egli rifugiato nella Casina del sig. Ramirez; appena si affacciò al balcone fu riconosciuto dal Capitano Besio comandante dell'Aquila,

e costui gli diresse parecchie cannonate. Quella casina fu danneggiata, ed una palla si conficcò nel muro laterale al balcone ov'era affacciato il Dittatore. Questi veduto il pericolo, assieme a Bixio e Massa, uffiziale telegrafico, riparò fuori tiro del cannone in una casa campestre del signor Alati; ivi passò la notte, accontentandosi di uova e pane bruno per cena. Quando Salazar fece scendere nelle barchette i marinai per abbruciare il Torino,

si suppose da' garibaldini e da' Calabresi che già cominciasse lo sbarco de' soldati per inseguire i nemici. In effetto si sparse la voce per quelle contrade che la truppa fosse sbarcata e tutti si misero in salvo.

Missori, che facilmente avea sfuggita la brigata di Ruiz, avendo inteso lo sbarco di Garibaldi, corse alla volta di Melito per riunirsi a costui. Egli conducea con sè molti borbonici arrestati, tra gli altri l'arciprete ed alcuni preti del paese di S. Lorenzo: avendo incontrato il sig. Ramirez ed appreso da costui che i regi erano già sbarcati, fuggì in fretta sopra quelle scoscese montagne, ed abbandonò gli arrestati: meno male! La sua gente si sbandò, e que' garibaldini per non essere conosciuti gettavano la camicia rossa.

Quando poi si seppe che la truppa non si era mossa da Reggio, Missori, con alcuni suoi uffiziali, penò non poco a raccogliere i suoi militi. Obbligò con la forza gli


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abitanti di que' luoghi a dargli viveri, trasporti, e danaro come anticipo di fondiaria: ma tutti lo fuggivano, e neppure potè sfamare la sua gente.

Lo stato de' garibaldini condotti dal Dittatore era peggiore di quelli condotti da Missori, e quando costui, la mattina seguente, raggiunse il duce supremo della rivoluzione facevano tutti pietà. Erano affamati, pallidi, scoraggiati, perché le popolazioni fuggendoli loro mostravansi ostili. Garibaldi però, sicuro delle promesse di alcuni duci napoletani suoi fedeli alleati, non si mostrò più indeciso, e sbaldanzito come al trivio della Ficuzza in Sicilia, confortò i suoi, e diede loro facili speranze.

Il giorno stesso che sbarcò Garibaldi a Rombolo, il Conte Albini Capo della squadra sarda, spedì da Messina il Carlo Alberto

per tirare a galla il Torino,

e per assicurarsi se gli affari garibaldeschi andassero bene, o abbisognasse aiuto. Della Mantica comandante di quella nave, trovò il Torino

abbruciato, ma seppe con grande sua soddisfazione che gli affari di Garibaldi andavano benino: quindi ritornò a Messina ed assicurò il suo caposquadra dei buoni risultati, e questi proseguì a recitare la commedia della solita neutralità.


CAPITOLO XVII

L'annunzio dello sbarco di Garibaldi produsse una grande commozione in Reggio. I rivoluzionari speravano un prossimo trionfo: e sebbene erano certi della fellonia de' duci, temeano de' soldati e degli uffiziali sapendoli fedeli al Re. I Borbonici prevedevano sciagure e fellonie atteso tutto quello che era succeduto in Sicilia. Quindi ognuno facea di tutto per mettersi in salvo, ed occultare quanto avea di più prezioso; dapoichè si era sparsa ad arte la voce, che vincendo i soldati avrebbero costoro saccheggiata la città.

Intanto, i settari si davano da fare per preparare la facile entrata de' garibaldini in Reggio: preparavano armi, spargevano false notizie, sorvegliavano le mosse della truppa, e ne informavano Garibaldi.

L'Intendente Bolani, dopo di aver preparato tutto al facile trionfo de' settari, accompagnato da tre cittadini di Reggio, si recò da Salazar, e lo pregò che rispettasse la città in caso di un conflitto. Costui rispose: Non temete, noi non siamo croati.

O Salazar! la dicesti troppo grossa: volesti usare una frase allora di moda per mostrarti all'altezza dei tempi, e dicesti un grande sproposito. E quando mai i poveri Croati sono stati marinai bombardatori?

Avresti dovuto nominare qualche altra nazione non lontana, la cui flotta avea bombardato pochi anni prima una nobile città italiana perché si era ribellata per riprendere quello che le aveano ingiustamente tolto, e che possedea da secoli. Avresti potuto dire: Noi non siamo Briganti accovacciato in qualche castello regio che bombarda senza scopo militare, ma per infamare se stesso e la causa che finge difendere.

Il generale Gallotti, appena intese che Garibaldi si avvicinava a Reggio, diede una137

cordiale stretta di mano a' componenti il comitato rivoluzionario e si chiuse nel castello, lasciando quasi in ostaggio la sua famiglia a quel comitato.

Il generale Melendez avea già riferito al ministero della guerra la condotta sleale di Gallotti, e lo pregava che lo togliesse via da quel posto tanto importante. Pianelli, al solito, facea il sordo; fu per Melendez una fortuna il non essere chiamato a Napoli, e trattato peggio del leale ed accorto general Marra.

Era in Reggio il marchese di Beaullieux Colonnello Antonio Dusmet Comandante del 14° di linea, che facea parte della brigata del generale Briganti. Quel Colonnello ebbe offerti ducati trentamila da un vecchio settario in toletta da signore, mandato da Garibaldi. Dusmet, tipo di gentiluomo e di vero militare, disse a quel vecchio settario: «non ti rispondo con la punta de' miei stivali, perché voglio rispettare la tua canizie, vecchio imbecille!»

Bisogna riflettere che Garibaldi offriva trentamila ducati ad un semplice Capo di Reggimento; figuratevi che altre somme pagò a superiori che lo secondarono!...

Era proprio una manna celeste per tutti coloro che non aveano né onore né coscienza. Ma era il popolo ingannato che pagava tutto!

Briganti, convinto che Dusmet era uomo d'onore, e che volea battersi davvero, ordinò che le 4 compagnie scelte del 14° Reggimento raggiungessero la sua brigata in S. Giovanni: al Dusmet rimasero otto compagnie di soldati. Purnondimeno questa forza sotto gli ordini di un prode ed onesto militare fu giudicata anco pericolosa per la rivoluzione; quindi il generale Gallotti comandante della Piazza di Reggio, ordinò che altre quattro compagnie del 14° di linea entrassero nel Castello per rinforzare quella guarnigione. Del Reggimento dunque che il Dusmet comandava, rimasero 4 compagnie con le quali dovea prestare il servizio di Piazza, e la guardia alle carceri.

Il 20 agosto, per ordine di Gallotti, quel Colonnello, con circa 300 soldati del 14° Reggimento, un pelottone di Lancieri, e quattro obici, uscì da Reggio in cerca del nemico. Ma Gallotti lo mandò ove sapea ben certo che non trovasse garibaldini. Dusmet si fermò sul ponte del torrente Colapinace, mandò pochi soldati per eseguire una perlustrazione, e costoro si avanzarono sino al torrente di S. Agata.

L'Intendente Bolani, temendo lo zelo di Dusmet, cioè che si avanzasse troppo, spediva alcuni villici suoi cagnotti, i quali fingevano che venissero da Melito, e passando in mezzo a' soldati, assicuravano tutti che Garibaldi si fosse internato nelle montagne dalla parte opposta di Reggio.

Il Gallotti, per due giorni intieri avea fatigato que' poveri soldati con marce e contromarce: la sera del 20 li fece rientrare in città, ed ordinò che bivaccassero nella piazza del Duomo. Il Dusmet gli fece osservare che quel luogo era male indicato per la sicurezza di pochi soldati stanchi di tante fatighe, e proponeva che la sua gente bivaccasse sulla spianata del Castello per essere sicuro alle spalle, e correre con facilità ove il bisogno lo richiedesse. Il Gallotti si negò, e facendo uso di quel malaugurato potere che avea, obbligò il Dusmet a bivaccare nella Piazza del Duomo. E fece di più: per meglio ingannarlo gli assicurò che avea notizie sicurissime che Garibaldi

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non si era ancor mosso dal luogo dello sbarco, quindi che potea star tranquillo, e che il generale Briganti sarebbe giunto tra non guari in Reggio alla testa della sua brigata. Dusmet fu pure assicurato dalla guardia nazionale, che Garibaldi era ben lungi, e che avea presa la via opposta de' monti. Vedete quante infamie si perpetravano da un generale traditore, per assassinare un prode ed onesto subalterno, perché costui volea difendere la propria bandiera.

Ad onta di tutte le assicurazioni, il Dusmet, da militare accorto, giudicando sempre pericoloso il luogo ove bivaccava, dispose gli avamposti, e con particolarità sulla strada di S. Filippo ch'è ben lunga, e mena alla campagna. Dispose inoltre una pattuglia di lancieri, acciò percorressero quella strada, e le diede l'ordine di avvertirlo di tutte le notizie necessarie alla sicurezza del bivacco.

Dopo che il Dusmet tutto dispose per la sicurezza de' suoi soldati, verso mezzanotte si adagiò sopra una sedia sotto il portone del Palazzo Ramirez e si trovavano con lui altri uffiziali, ed il suo giovanetto figlio Francesco, già 2° sergente del 14° di linea.

A notte avanzata furono spenti i fanali, e tutto fu involto nel buio. Dusmet fatigatissimo dormicchiava assieme agli altri uffiziali che lo circondavano.

S'intese un chi va là

dalla parte della strada di S. Filippo, ed immediatamente un colpo di fucile. Il Dusmet balza in piedi, e supponendo che qualche sentinella per un malinteso zelo avesse voluto tirare quella fucilata senza necessità, si affrettò a verificare personalmente la causa di quella novità. Si diresse allo sbocco della strada S. Filippo, ove vide una pattuglia di Guardia nazionale che si avanzava verso la piazza del Duomo. Allora disse a' suoi subalterni che stessero tranquilli a' loro posti, dappoichè non erano quelli nemici, ma Guardie nazionali. E per meglio assicurare i suoi dipendenti si spinse verso la pattuglia; ma dietro di questa erano un buon numero di garibaldini, ed altri se ne trovavano lì vicino comandati da Bixio, introdotti nella città dalle stesse Guardie nazionali con l'intesa dell'Intendente e del Generale Gallotti.

Dusmet fu circondato da garibaldini, i quali gl'intimarono di arrendersi: ma costui rispose con fierezza militare, quindi ne nacque una lotta tra il colonnello ed i suoi assalitori. In quella giunge il giovanetto Dusmet con l'arma in pugno per difendere suo padre: ma pria che avesse dato addosso a' nemici stramazza semivivo colpito da una palla di fucile! Corsero allora alcuni soldati per guarentire il proprio Colonnello il quale si difendeva energicamente, per non restar prigioniero, e per vendicare il diletto suo figlio moribondo. I garibaldini vedendo la risoluta resistenza di quel prode, gli tirarono una fucilata a bruciapelo che gli perforò il fianco destro e lo fecero cadere anche semivivo accanto al figlio..!

Oh! l'idea di questi due martiri del proprio dovere mi lacera il cuore, ma il mio spirito si rinfranca, perché in tanta corruzione e tanti tradimenti trova almeno ove riposarsi, su due uomini di valore antico e di meritata lode, qual fiore esotico nel deserto..! apparent rari nantes in gurgite vasto.

Gloria a' prodi ed onorati figli di questa bella Napoli!

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La distinta famiglia Dusmet acquistò quest'altro titolo verso i suoi concittadini, quello cioè di poter vantare due martiri immolati pel migliore e più cavalleresco de' sovrani, Francesco 2°.

Questa famiglia illustre è originaria dal Belgio, e seguì la sorte di Filippo V: e per dimostrare che i Dusmet sono stati sempre tipi di gentiluomini e fedeli alla propria bandiera, ci piace qui tradurre dal francese un brano dell'Opuscolo in 8° col titolo Quattro Reggimenti Valloni

al servizio del Re delle due Sicilie, notizie del Generale Guillaume. Bruxelles 1869 M. Kayer.

Tipografo dell'Accademia Reale del Belgio. Pagine 20 e nota S. Pagine 41.

«... Così disparvero gli ultimi avanzi di Quattro Reggimenti Valloni, Borgogna,

Namur, Hainaut e Anversa; che s'illustrarono in un gran numero di battaglie avendo portato con onore il nome Belga fino all'estremità dell'Europa. Il loro attaccamento Monarchico, lor fece dividere la sorte di Filippo V, e le vicende della politica l'inviarono a morire al servizio di un paese, ove nulla poteva ricordar loro la patria assente.

Ma almeno costoro lasciavano nel Regno di Napoli, i migliori ricordi, ed i loro discendenti che tutt'ora esistono sono sempre superbi della buona reputazione dei loro padri, e nelle occasioni la seppero giustificare.

Allorchè gli avvenimenti, che contribuirono qualch'anno addietro alla caduta della Monarchia di Napoli, vi erano ancora de' Belgi nell'armata di questo paese; e più di uno occupava delle posizioni elevate nello Stato militare del Re Francesco II, e fra gli altri si distinse nel 1860 Antonio de Smet (ovvero Dusmet) Colonnello del 14° Reggimento di Linea, che nel medesimo anno morì gloriosamente nel combattimento di Reggio. Egli era un discendente dell'antico Colonnello del Reggimento d'Anversa Marchese Giuseppe de Smet Signore de Beaulieux, Originario di Alost, ove esistono ancora più membri di questa famiglia che dava alla Spagna, ed al Regno di Napoli, un gran numero di valorosi Officiali.»

L'assassinio del Colonnello Dusmet fu raccontato con circostanze diverse, anche dal sig. Morisani abitante di Reggio, ed accuratissimo storico de' fatti guerreschi di Calabria del 1860. Ma io ho apprese le circostanze di quell'assassinio da uno stretto parente dello stesso Colonnello Dusmet, il quale assistette costui ed il figlio pria che morissero; quegli cessò di vivere il 31 Agosto, e questi l'8 Settembre. I due moribondi raccontarono essi stessi il fatto come io già l'ho narrato.

Dopo che i garibaldini si sbarazzarono dei due Dusmet, si avventarono contro i soldati che dormivano nella Piazza del Duomo. Costoro svegliati dal rumore delle fucilate, corsero in confusione a prendere le armi col solito grido di Viva il Re,

e si atteggiarono disperata difesa. Le Guardie nazionale appena subodorarono il pericolo fuggirono, ma la lotta era sempre disuguale. Que' pochi soldati presi alla sprovvista erano fulminati da tutti i punti; nondimeno si difendevano col coraggio della disperazione. In quel disordinato conflitto fu ferito il Maggiore Aletta mentre riordinava i soldati per opporli al nemico. Il distinto Capitano Ahinlè supplisce Aletta ferito, riordinando i soldati li spinge contro il nemico al grido di Viva il Re.

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Il vecchio e venerando Tenente colonnello Zattera salva la bandiera uccidendo colui che se l'avea presa. Si combatte sempre in disordine, ed i soldati sopraffatti dal numero sempre crescente de' nemici, i quali faceano fuoco da tutti i punti, si ritirarono alla volta del castello conducendo seco i quattro obici. Gallotti non volle aprire le porte del castello, e lasciò i suoi dipendenti esposti al fuoco del nemico.

I garibaldini, dopo la ritirata dei soldati, si lanciarono nella città ed alzarono barricate. Nel castello erano circa mille soldati freschi i quali fremevano di battersi. Il generale Gallotti pregato dagli uffiziali e da' soldati, perché si risolvesse ad uscire dal Castello e dare addosso a' nemici in disordine, si negò assolutamente. I garibaldini rassicurati che Gallotti non li molestasse, presero l'offensiva contro il castello.

Gallotti non dava alcun ordine, stava nella camera del custode sdraiato sopra un materasso, e si fingeva addolorato per la sorte della sua famiglia, che avea lasciata in Reggio in mano al Comitato rivoluzionario, come pegno della sua fellonia. Il Maggiore Iannuzzi, comandante del Castello, uomo intelligente ma timido, ligio alle formalità, non dava alcun ordine perché dipendeva dal generale Gallotti. Gli uffiziali di artiglieria Masone Colonnello, Barca Capitano, invece di animare e dirigere i soldati, se ne stavano nel magazzino de' viveri, assieme al Commissario di guerra Bozza, e al maggiore del Genio Renner.

Il generalissimo Vial, da Monteleone avea dato ordine al generale Briganti di correre con la sua brigata sopra Reggio, e a Melendez di soccorrere costui in caso di bisogno; Briganti che dovea condursi subito a Reggio rimase a Villa S. Giovanni: spinto però dagli ordini pressanti di Vial, e dagli Uffici di Melendez, radunò la sua brigata e partì. Non volle condurre con sè quattro obici che avea, dicendo che erano solamente buoni per la parata di Piedigrotta. Il capitano di artiglieria Vincenzo Reggio perché gli rispose, che quegli obici erano stati buoni in Catania, ne ebbe rimproveri ed insulti. La brigata Briganti partì da S. Giovanni il 20 agosto, mentre dovea partire il 19, marciò lentamente, ad ogni momento faceva alto; giunse a Reggio la mattina del 21, quando già i garibaldini si erano impossessati della Città, ed aveano munita questa di barricate. Villa S. Giovanni dista poche miglia da Reggio, e Briganti impiegò un giorno ed una notte per percorrere quella via: costui tutto avea ben calcolato per favorire il nemico!

Giunta la brigata sul ponte dell'Annunziata, il Briganti non dava alcun ordine di attacco, ma due compagnie del 14° di linea, condotte dal capitano Gagliani per impazienza ed impeto attaccarono la Città. Briganti fece di tutto per farle ritornare indietro, però quelle si avanzarono, presero barricate e scompigliarono il nemico.

Quel tristo generale, degno del nome che portava, in luogo di sorreggere quelle due compagnie lanciandosi con tutta la brigata sopra i nemici, volle imitare il Landi di Calatafimi. Ordinò la ritirata di tutta la colonna, lasciando quelle due compagnie alle prese con circa tremila garibaldini, le quali dopo di aver combattuto ed arrecato non poco danno al nemico, vedendosi abbandonate, traversarono Reggio sempre combattendo, e ripararono nel Castello, ch'è alla parte opposta.

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Il Briganti, come se avesse fatta una passeggiata militare, rifece la via, e riposò tra Gallico e Catona, lasciando la brigata senza avamposti come se fosse in tempo di pace.

Allora si videro de' garibaldini scorrazzare per quelle campagne, ed a' soldati era proibito dar loro addosso. Si videro pure de' messi di Garibaldi in camicia rossa andare e venire da Reggio a Catona, e confabulare in grande intimità col Briganti.

Mentre si combattea in Reggio, la squadra napoletana forte di quel giorno di sette legni, comparve minacciosa di fronte alla Città: prima stette inoperosa. Alla vista però di una bandiera rossa issata nel castello dal Capitano Ahinlè, il quale suppliva la inerzia di Gallotti, il duce Salazar, volendola fare da Croato,

lanciò alcuni proiettili innocui ai garibaldini, e che solamente devastarono l'alveo del torrente Colapinace. Eseguita quest'opera degna di soldati guastatori, il Salazar come se avesse avuto altri ordini da eseguire, lasciò il lido reggino e si diresse con tutta la squadra verso il Faro di Messina, e più non comparve.

Si erano combattute diverse scaramucce dai soldati del Castello: era già tempo che il Gallotti desse compimento a quella tragicommedia. Questo Generale in cambio di uscire dal Castello con i suoi mille uomini, e mettere in due fuochi il nemico, mentre le due compagnie del 14° combatteano i garibaldini dentro Reggio, appena vide la ritirata di Briganti, alzò bandiera bianca

e trattò la resa del Castello con una persona sconosciuta, la quale era andata più volte a visitarlo misteriosamente. Il Castello avea viveri per un mese, di ciò Gallotti non tenne conto, come non tenne conto di tutte le ordinanze di piazza. Nel cedere quel Castello era stato convenuto tra Gallotti e Garibaldi, che i soldati dovessero lasciare le armi. Però i soldati stavano in sul ribellarsi all'udire una tale vergognosa condizione, e già voleano lanciarsi sulla Città per attaccare i garibaldini. Fu allora che Garibaldi pel suo meglio, si contentò della cessione del Castello, ed elesse di lasciare le armi ed il bagaglio a' soldati. I regi in tutti que' fatti d'armi perdettero circa 50 uomini tra morti e feriti, i garibaldini ne perdettero 147.

I soldati feriti restarono senza soccorso nelle strade della città. Il colonnello Dusmet fu lasciato nel palazzo arcivescovile ove fu trasportato sulle braccia de' suoi soldati; indi in casa della sorella assieme al figlio moribondo.

Il popolaccio reggino, invase e saccheggiò il Castello: i primi arrivati voleano vendere il bottino, ma i sopravvenuti, non tennero conto del dritto del primo occupante. Saccheggiarono il collegio de' Gesuiti, e l'ospedale militare destinato a' feriti.

Padre Gavazzi, in camicia rossa, fece erigere una tribuna nel largo del Duomo ed arringò il popolo. Spifferò le solite cicalate di Roma, Venezia, di libertà e redenzione dei popoli, cose tutte che oggi mostrano l'inganno e la caricatura. Però, criticò il bando garibaldesco che esiliava tanti cittadini come retaggio e fomite di vendette, e disse essere indegno di un popolo civile. Si mostrò sorpreso del numero de' proscritti, e soggiunse che in tutta Toscana due soli individui erano stati espulsi. Conchiuse con dare un buon consiglio al popolo, cioè di distruggere immediatamente il Castello. Ma ciò non piacque né a Garibaldi, né a liberali caporioni: questi signori

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chiamano le fortezze nidi di tirannide finchè sono queste in potere de' re legittimi; quando poi le conquistano essi, in qualunque modo, dicono che sono buone per la difesa del Popolo.

Al consiglio di Gavazzi, il popolo accorse al Castello; il comandante garibaldino, già istruito di tutto, promise la sua cooperazione per distruggere quel Castello, ma disse, che prima fosse necessario togliere la polvere ivi depositata: e così il popolo appena salito sul trono, fu ingiustamente e grossolanamente corbellato da' suoi redentori. Il Castello di Reggio è ancor lì, pronto a dare a' Reggini una lezione all'occorrenza, simile a quella che diede la flotta Sarda, e i liberati castelli della città di Genova a questa stessa città nel 1849.

I Reggini fecero i soliti baccanali, conseguenza necessaria del trionfo della rivoluzione debaccante, o come li chiamerebbe Garibaldi: sfogo di popolo.

Tutti erano fidenti nelle promesse strombazzate da' settari, che sarebbero aboliti i dazii, la leva, e che sarebbero oramai tutti ricchi. Si vedeano garibaldini vestiti in mille fogge, abbracciarsi coi popolani, soldati, e sott'uffiziali disertori fatti già uffiziali. Ed in mezzo a quel baccano, si vedeano pure generose,

preti e frati dimentichi della loro dignità con coccarde tricolori, con pistole e crocefissi; e tutti gridavano: siamo fratelli, viva la libertà, viva Garibaldi!

Tutti coloro che si erano occultati nell'ora del pericolo, uscirono burbanzosi ed armati, col vestito in affettato disordine, raccontando le loro prodezze ed episodii immaginarii, che aveano inventati quando stavano occultati nel fieno sotto le catapecchie.

Garibaldi prese stanza nel palazzo d'Intendenza, e formò un governo provvisorio. Fece governatore della Provincia Antonio Plutino, uno de' mille, coadiuvato dal fratello Agostino. Il Bolani che avea tradito il suo giuramento, e che tanto si era cooperato con la sua fellonia pel trionfo di Garibaldi, restò a denti asciutti, e se ne lagnò poi amaramente in una sua lettera diretta al sig. Salazaro, scritta il 22 luglio 1862.

I primi decreti del governatore Plutino, furono che tutte le casse pubbliche stessero a sua disposizione; ciò è troppo naturale: perché dunque si fa la rivoluzione? Indi destituì in massa tutti gl'impiegati, e fece occupare i posto vacanti da' suoi parenti ed amici.

In ultimo atteggiandosi a Silla o a Mario, pubblicò le liste di proscrizione contro distinti cittadini per nascita, per lucroso patrimonio, o perché aveano occupato alte cariche. E così questo novello tiranno in caricatura, si svelenì del sofferto e meritato esilio di 12 anni, e delle sue penurie.

Il 23 agosto i soldati s'imbarcarono per Napoli, ma Garibaldi non volle consegna re i fucili a' soldati infermi giusta la capitolazione.

Il Generale Comandante la piazza di Reggio, Carlo Gallotti si condusse pure a Napoli, ove stette nascosto finchè il Re non lasciò la capitale. Giunto Garibaldi uscì dal suo nascondiglio e si presentò a costui. Il Dittatore lo presentò a D. Liborio factotum,

e gli disse: Vi raccomando costui è uno dei miei migliori amici.

Fu nominato ispettore delle guardie doganali con un soprassoldo mensile.

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All'entrata de' Piemontesi in Napoli fu collocato al riposo, e fu ricevuto con mal garbo e maltrattato dal ministro della guerra, perché senza essere stato riconosciuto avesse indossato la divisa di Generale piemontese.

O presto o tardi, è questa la meritata sorte di tutti i traditori.

Nella provincia reggina furono consumate molte vendette private, e cominciarono sin dal 21 agosto di quell'anno, appena Garibaldi entrò in Reggio. I fratelli Morgante assassinarono per vendette private, e con modi atroci quattro individui della famiglia Imerti ed un Calzolaio. Il vecchio Prete D. Francesco Imerti ed un nipote Carlo, si salvarono miracolosamente da que' cannibali riparando in mezzo la Brigata Melendez.

Nel 1864, s'istituì un regolare processo contro i fratelli Morgante, la sezione di accusa di Catanzaro ritenne che tal reato era assolto da un decreto di Garibaldi, e tal sentenza fu convalidata dalla Cassazione di Napoli!


CAPITOLO XVIII

Medici e Consenz si erano avveduti dal Faro che in Reggio si combattea; imbarcarono in fretta quanti più garibaldini poterono sopra barche e barcacce e passarono

10Stretto. Quest'altra spedizione fu incontrata dalla regia fregata Fulminante,

la quale prima permise che approdasse al lido calabro, e poi al solito, braveggiò con tro le barcacce vuote dei garibaldini. Però Castiglia con tre barcacce riparò in un luogo detto le Pietrenere, sotto Palmi, ed una più vicino a Bagnare fu assalita da un distaccamento del 4° di linea, che arrestò 18 garibaldini, sicchè di quelle tre barcacce se ne salvarono due.

Fra quelli garibaldini che sbarcarono era un battaglione di francesi comandati dal vecchio settario de Flotte, ed avea preso terra tra Scilla e Bagnara; non lungi vi era il generale Briganti con la sua brigata, il quale non si mosse. Sul luogo dello sbarco di quei francesi accorsero due compagnie mandate da Ruiz; costui invece di accorrere con tutta la sua brigata, si contentò mandare sì poca forza contro circa mille garibaldini. Quelle due compagnie assalirono gli invasori comandati da de Flotte, e gli fecero gran danno. Ma accortosi costui del poco numero di soldati, tentò circon darli, per la qual cosa i regi, mancando di munizioni e sopraffatti del numero, retro cessero a Bagnara, senza che il nemico l'inseguisse. Ruiz, che non si mosse per soc correre le due compagnie, ebbe il coraggio di rimproverare il comandante delle stes se, perché si era ritirato. In quel conflitto fu ucciso de Flotte, e seppellito a Solano. Pogam surrogò nel comando de Flotte, e Garibaldi volle che quel battaglione por tasse il nome dell'estinto comandante.

Cosenz con tutti gli sbarcati, dopo aver sostenuto qualche scaramuccia con i regi, si spinse sulle alture di Villa S. Giovanni facendosi vedere da Briganti. Costui che potea combattere con vantaggio, e in caso di perdita ripiegare sulla brigata Melendez, fingendosi attorniato da' nemici trattò subito la resa con Garibaldi,


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il quale era andato a bella posta con pochi garibaldini. Per allora si stabilì tra Briganti e Garibaldi una tregua di 24 ore.

Il duce rivoluzionario che mai disse una verità ne' suoi proclami ed ordini del giorno, ecco quello che fece stampare e pubblicare in un bollettino immediatamente dopo la tregua stabilita con Briganti.

Le due brigate comandate da Briganti e Melendez si sono rese a discrezione; siamo padroni delle loro artiglierie, animali e del Forte del Pezzo. Quelle due brigate non si resero, ma per sola opera di Briganti finirono poi di sciogliersi. Tutti que' fatti d'armi del Reggino furono una vera tragicommedia combinata tra Garibaldi, Bolani, Gallotti, e Briganti. Intanto si sacrificarono centinaia d'uomini dall'una e dall'altra parte!

Prima di lasciare il lido reggino, credo necessario far noto a' lettori un fatto che basta solo a dimostrare la fellonia de' Capi della flotta napoletana, la fedeltà e la bravura dei marinai, e il modo di governare dei Ministri liberali di Napoli. Il capitano Guillamat, comandante la fregata Ettore Fieramosca,

trovandosi nel Faro di Messina diede forte sospetto che avesse tradito il suo mandato. I marinai lo chiusero con essiloro nella stiva, e volsero a Napoli, ove credeano ottenere giustizia contro que' traditori. Guillamat e gli altri uffiziali furono dichiarati innocenti e messi in libertà, dalla quale abusando disertarono al nemico, e furono poi i più caldi garibaldini. I marinai furono chiusi in Castel Sant'Elmo come insubordinati e felloni. Furono poi ricondotti in libertà da Garibaldi venuto in possesso di Napoli; ed invitati e pregati di servire la rivoluzione, si negarono, e fuggirono in Gaeta, ove si fecero bombardare e mitragliare sopra le batterie di quella fortezza per difendere l'amato e legittimo Sovrano.

Garibaldi inorgoglito sempre più a que' facili trionfi che avea ottenuti con l'opera de' duci regi, pubblicò un decreto in cui ordinava un governo Prodittatoriale per dirigere l'insurrezione Calabra e fece capi di quel governo un Mignogna e un Albini, assistiti da cinque segretari. Indi con tutte le sue forze corse ad opprimere Melendez l'unico duce che non avea guadagnato alla rivoluzione, mentre nel bollettino di Reggio avea detto che la brigata Melendez si era resa a discrezione.

Melendez quando intese le vergogne di Gallotti, di Ruiz e di Briganti, come più anziano di questi due ultimi, scrisse loro e li rimproverò della condotta che aveano tenuta, e l'invitava a ripiegare sopra Melia per ricongiungersi a lui, affinchè unite le tre brigate, - che ancora non si erano disciolte - dessero addosso al nemico.

Que' due duci risposero che approvavano il disegno di guerra del Melendez, e che avrebbero operato conformemente a quello.

Poco stante giunsero nel Campo di Melendez molti uffiziali delle brigate di Briganti e di Ruiz e raccontarono che queste erano circondate di nemici e disordinate. Sul tardi comparvero Briganti e Ruiz; quando furono in consiglio con Melendez, corse affannoso il Tenente Fiore ad annunciare che i garibaldini erano al villaggio vicino di Campi, e che tra poco avrebbero occupata Melia. A quell'annunzio il Consiglio de' tre duci si sciolse, Briganti e Ruiz finsero di correre per radunare la loro gente.

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Melendez mandò a verificare se il Tenente Fiore avesse detto la verità. Gli venne riferito che non si vedevano garibaldini nel villaggio di Campi, e come il Tenente Fiore fosse stato imbeccato da Briganti per spacciare quella notizia allarmante, affinchè non si conchiudesse nulla nel Consiglio dei tre duci.

Sulle ore vespertine del 22 agosto giunse a Melendez un biglietto di Briganti, il quale dicea: «Garibaldi è a Catona; or ora l'ho veduto.

Ruiz guarda Cosenz a Solano: io impedirò l'assalto alla tua destra: non ti turbare, che avrai tempo sino a domani,»

Melendez, come già ho detto, trovavasi con la sua brigata al Piale, ed aspettava i soccorsi di Briganti e di Ruiz, quando fu assalito improvvisamente da tutte le forze di Garibaldi la mattina del 23 agosto: egli però le respinse e le sbaragliò ai primi colpi di cannone. Il mattino stesso si presentarono Menotti Garibaldi e un certo Corrao con bandiera bianca e dissero voler parlare con Melendez. Costui dopo averli ricevuto ed intesi, mandò al Dittatore il giovane e distinto capo del suo Stato Maggiore Giovanni de Torrenteros.

Nel benemerito giornale il Contemporaneo

N. 390 del 1872, trovo una lunga e circostanziata lettera del de Torrenteros, con la quale risponde ad alcuni giudizii inesatti del distinto avvocato sig. Cesare Morisani, storico fedele dei fatti di Calabria di agosto 1860. In quella lettera il Capo dello Stato Maggiore di Melendez, rivela alcuni fatti ignorati sin'ora dagli scrittori che giudicarono in diverso modo gli avvenimenti Calabri, e lo sbandamento delle stessa brigata Melendez, e gettano molta luce su' combattimenti di quei tempi e sugl'intrighi di alcuni duci, che io ho raccontati, e proseguirò a raccontare. Quindi non voglio defraudare i lettori di alcuni tratti della lettera di de Torrenteros.

L'opera del sig. Morisani, dice Torrenteros, giudico di grande interesse, per molte preziose rivelazioni che accompagnarono le onte e le vergogne di alcuni de' Capi militari in Calabria, ed ai quali era affidata l'indipendenza della Patria felice.

Morisani si mostra dotto delle mille ragioni che travolsero nel nulla gli sforzi degli uomini di onore, ma desse non fanno pondo nei giudizii di lui, ove risulti malanno: tutto è fellonia e malafede!

Dice la spiccata convivenza d'un Ministero alla rivoluzione venduto, e le lave dell'onda popolare innebriata e potente. Enumera tanti altri dolorosi ricordi di quell'epoca nefasta ironicamente detta di patrio risorgimento e poi si mostra negli appreziamenti a sufficienza ingiusto. Per esempio a Pag. 97 scrive: Dusmet morì compianto e non maledetto dai suoi commilitoni, e almeno non vide il tradimento di Briganti, la defezione

(?) di Melendez, la fuga di Vial, e la vergognosa umiliazione di Ghio. - Avrei aggiunto, e più che un tradimento, l'inqualificabile condotta di Ruiz de Ballestreros; il grave errore di Morisani (padre dello Storico Cesare), che lo sostituì nel comando; l'indegno incredibile procedere di Caldarelli; e così di seguito nominato avrei lo stuolo esecrato e maledetto di tutti coloro che fecero codazzo al settario Landi in Calatafimi!

Ma tra Generali dell'ultimo esercito delle due Sicilie, se mancò uno che dominasse i sopraggiunti avvenimenti, pure vi erano modelli di onore e coraggio, ancora oggi rispettati avanzi di una fede antica.

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Morisani sa che le tre brigate Briganti, Melendez e Ruiz erano sperperate lungo una spiaggia che, da oltre Reggio a guisa di cordone sanitario si estendevano sino a Palmi. Che quei Generali, indipendenti tra loro, ubbidivano agli ordini del Maresciallo Giovan Battista Vial in Monteleone. Non nasconde il distinto autore quale trepidanza era discesa negli animi di tutti, dopo la gloriosa lotta due mesi sostenuta, e 'l voluto abbandono di Palermo; e poi Messina, senza colpo ferire pei turpi maneggi del Maresciallo Clary....

Chiarisce il Morisani, con prove irrefragabili, il tradimento di Briganti, e la colpevole marcia in ritirata di Ruiz, quando lo si pregava, lo si spingeva, gli si ordinava soccorrere Melendez che abbandonato sul Piale, fu il capro espiatorio dell'altrui infamia e malvolere.

Gli ordini del maresciallo Vial a Melendez erano che, nell'occorrenza appoggiasse Briganti, e custodisse la sicurezza de' Forti che guardano il Faro. Briganti nulla chiese a Melendez, il quale marciato da Bagnara a Villa San Giovanni, dopo di aver raccolto per via le artiglierie dolosamente lasciate dallo stesso Briganti, bivaccò a Ponticello sulla via di Altafiumara la sera del 21 agosto, stando in sull'avviso per gli sbarchi garibaldini, avvenuti segnatamente nella spiaggia di Favazzina. Briganti, mancato alla sorpresa di Reggio, era stato già da Pentimele ributtato a Gallico, da dove si divertiva spedire a morte sicura, la propria gente, ordinando assaltarsi per compagnie barricate e case in Reggio, parate a difesa dell'audace fortunato nemico.

In vero, qual Capo dello Stato Maggiore di Melendez, avendo dovuto sostenere grave parte in quella sciagura militare, non posso ristarmi, nello interesse del vero, far riflettere all'autore di quel libro, ciò che egli assolutamente ignora, onde con quella generosa lealtà che gli è propria corregga l'errore nel quale è incorso, credendo alla defezione di quel Generale.

Per coloro che s'interessano agl'immeritati rovesci di quel tradito esercito, giova sapere che Melendez adempì scrupolosamente a quella parte del piano di attacco da la sera del 21, sotto i suoi ordini redatto. Egli senza consultare altra ragione, se non quella del proprio dovere, dimostrò essere estraneo agli errori ed alle colpe de' suoi colleghi in Calabria.

Ecco in succinto i fatti. All'alba del 23 agosto rimarcato avendo, non senza spiacente sorpresa essere la posizione elevata di Melia occupata da' garibaldini, quando la doveva essere dalla truppa di Briganti; ordinò immediatamente all'artiglieria aprire il fuoco,e quindi anche dalle quattro compagnie del 5° Cacciatori, che bellamente disposta in tiragliatori, dipendevano dall'aiutante Maggiore Musitani.

I Garibaldini non risposero, come avrebbero dovuto a tanta provocazione, e pur soffrendo perdite serie spiegarono replicatamente bandiera parlamentare. Garibaldi era più che certo del fatto suo!

Dopo buon'ora di azione, ed ucciso persino un parlamentare nemico, Melendez fece cessare dal trarre, ed ordinò che avanzato mi fossi per conoscere il perché sventolar si facesse quel segno.

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L'autore (Morisani) a pag. 127 del suo libro, con chiarezza espone quel che avvenne e dice pure che furono decorosamente respinte le ingiunzioni a rendersi. Ed a fè di Dio, che oggi per allora, e sempre, il mio cuore di soldato non ebbe, né ha avuto mai altri palpiti, che per la fede e per l'onore.

Dall'ingrato abbandono nel quale il Governo riparatore

à con me condannati militari onestissimi, di quell'Esercito slealmente vinto; io sento sì, come altri, di aver subito un'immensa sventura; ma senza tema di fallo, gloriosissima.

Torno all'assunto.

Nella polemica avuta con Garibaldi, costui mi disse: aver Bixio e Cosenz già circondata la poca forza della brigata Melendez; quindi vana la resistenza, bisognava arrendersi; al che con fierezza risposi esservi di contro all'uno, Briganti, all'altro, Ruiz; oltre del Maresciallo Vial che avanzavasi da Monteleone. Garibaldi solo all'udir Vial mostrò pensarvi, e fattosi al versante nord di Meli cercava scoprire da lungi se Truppa regia venisse, interrogandomi: Dov'è questo Vial?-

Ma nel mentre egli era intento ad osservare il fatto suo, io non mancai studiare il mio!...

Briganti avea ceduto la dominante Melia, e Ruiz non era al posto assegnatogli. Che si passò allora nel mio spirito è difficile a descriversi. Dissimulai tanta iattura! Garibaldi avea artiglieria e masse di gran lunga superiori in numero alla parva forza di Melendez. Concepii in un baleno ciò che ci restava a fare, e dissi: Il mio Generale non può accogliere niuna proposizione fuori che quella di battersi, e, con lui, quei che gli dipendono il faranno sino all'ultimo sangue, tanto più che Vial dal quale dipende è in nostro soccorso.

Garibaldi allora un po' impaziente ed indeciso, volle assicurarsi della marcia di questo Generale, e propose che un uffiziale del suo Stato Maggiore, unito ad altro del nostro campo, recati si fossero ad incontrarlo; quindi stabilita venne una tregua di sol tre ore; tregua che l'autore de libro condanna dalle tranquille pareti del suo studio, dopo dodici anni di quello sciagurato avvenimento!

Quella tregua fu imposta da supreme considerazioni, e bastevole per mandare ad effetto quello che mi passava per la mente, e che or ora ripeterò.

All'uffiziale di Garibaldi si unì il colonnello Andrea Marra, ed a questi si accompagnò spontaneamente l'Alfiere Giordano, quello stesso che lasciato avea il mattino il proprio Generale Briganti, per seguire la sorte dell'altro Melendez.

Marra non ebbe niuno incarico fuori che quello di rinvenire Vial, dirgli la posizione nella quale era ridotta la brigata Melendez per colpa di Briganti e di Ruiz; prendere i suoi ordini, ed informarsi pure della sorte dello stesso Ruiz.

Ecco ora quale era il mio piano e che Melendez si piacque di approvare. Lasciare il campo con avvedutezza e marciare sul Forte di Scilla. Scorsa la tregua, ordinare a Musitani ricominciare il fuoco, sostenendo la ritirata della colonna, la quale avrebbe scelta posizione più adatta a fronteggiare il nemico, unendosi alla brigata Ruiz.

Marra nel suo tragitto sa la posizione di questa brigata, e, per mezzo di

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Giordano invia la lettera che l'autore (Morisani) trascrive a pag. 134 e che adesso giova ricordare:


Bagnara 23 agosto 1860. Signor Colonnello. Per ordine del sig. Generale Melendez, mi son recato questa mane in Scilla, indi in Bagnara, per rinvenire il generale Vial, ma infruttuosamente. Ora sento che Ella è accampata al Piano della Corona con frazioni di diversi

corpi; quindi le spedisco il Tenente Giordano, per conoscere lo stato della Truppa, e quale sia l'itinerario da Lei tracciato.

La Brigata del Generale trovasi quasi circondata dalle truppe garibaldine, le quali trovansi sopra i monti di Melia e Campi. Il resto lo sentirà a voce il Colonnello Andrea Marra.

Questa lettera diretta a Ruiz l'ebbe Morisani che sostituito l'avea nel comando, poichè quegli era stato obbligato dimettersi, scoverta falsa l'accusa, fin dal giorno precedente che avea rapportato al Re e al Ministro della guerra essere la brigata Melendez di accordo con Garibaldi!...

Morisani letta quella lettera di Marra, perché non marciare subito in aiuto di Melendez? Quel dettato non gliene imponea l'obbligo immediato, santissimo? Quale dubbio? "

Morisani si fece, senza volerlo, trarre in inganno da Giordano, il quale gli disse che avea la missione di arrestare la sua brigata, perché tra Melendez e Garibaldi era stata convenuta una tregua, mentre questi avrebbe potuto opprimere quello; e quindi che Garibaldi non avrebbe assaltato Melendez fintantocchè non parlasse con Vial. In ultimo il Giordano gli ordinava, che la brigata invece di soccorrere Melendez, si fermasse sulle alture di Bagnara. E questi ordini a richiesta di Morisani, il Giordano scrisse al margine dell'ufficio di Marra, firmandosi uffiziale dello Stato Maggiore di Melendez. In forza di questo falso ordine, il colonnello Morisani credette ubbidire, lasciando Melendez senza soccorso.

Per la qual cosa soggiunse il sig. de Torrenteros nella lettera sopra citata: «Mio Dio! Giordano non era un uffiziale di Stato Maggiore, né adibito presso Melendez, com'egli si sottoscrive. Ciò che si permettea disporre era in aperta contradizione alla lettera di Marra, agli ordini di Vial, del ministro della Guerra, del Re, e perfino del l'obbligo supremo tra fratelli d'armi in una guerra, il soccorso! Ma che! Quando si delibera tra il coraggio e il disonore, si finisce necessariamente coll'appigliarsi al partito più vile! Morisani stette: tutto fu perduto!»

Il sig. de Torrenteros con inesorabile logica militare giudica lo apparente torto del Colonnello Morisani, padre dell'esatto storico degli avvenimenti di Calabria del 1860. Noi sappiamo però, che il Colonnello Morisani fu sempre nella sua lunga carriera un distinto e fedele militare; e che in quella difficile e dolorosa congiuntura, fu certamente sopraffatto dagli occulti nemici del Re; poichè ove avesse proseguita la sua marcia in avanti da lui già disposta, e non l'avesse arrestata pel falso ordine di Giordano, forse il sig. de Torrenteros non sarebbe stato cotanto severo nel giudicare quel benemerito Colonnello; e quel che più interessa si è che il Generale Melendez sarebbe stato ancora opportunamente soccorso.

Torrenteros prosegue!!

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«Garibaldi frattanto ordina l'avanzarsi dei suoi e, chiudere intorno, con forze preponderanti, la piccola Brigata Melendez, e senza perder tempo, spicca con un nuovo parlamentare la seguente ingiunzione.


Il 23 Agosto 2 p.m. il Maresciallo Vial marcia per Napoli, le forze di Bagnara hanno la stessa direzione; io vi impongo dunque di rendervi a discrezione con la vostra colonna. In caso di risposta negativa, io vi attaccherò alle 3 p.m. di questo stesso giorno.

Con considerazione Garibaldi.

Melendez impone nuovamente recarmi da Garibaldi per chiamarlo all'impegno verbale della tregua, ma questi cui tardava l'ora di finirla, quando s'avvide che a nulla valevano le seduzioni e le minacce, fece stringere i regi, e circondarli, dichiarando tutti prigionieri di guerra.»

Ecco, io soggiungo, ecco come Garibaldi adempiva i patti della tregua con un Generale regio! Intanto si trovano ancora de' Colonnelli in partibus,

amici ed esecutori degli ordini del generalissimo Lanza, i quali dicono, che costui agì secondo l'onor militare, arrestando il vittorioso Meckel alla Fieravecchia di Palermo, sol perché avea convenuta una tregua verbale con lo stesso Garibaldi non riconosciuto per parte belligerante; tregua, ed onor militare,

che cagionarono i facili trionfi del Dittatore delle Due Sicilie, e tutti i rovesci dell'esercito napolitano, del Re, del trono, e de' popoli, non solo nel Regno di Napoli ma di altri d'Europa.

Melendez, vedendosi col fatto circondato dai nemici, senza soccorsi, senza munizioni, senza viveri, dappoichè il Commissario Mario Laezza gli scriveva non poter mandar viveri perché i posti erano chiusi da' garibaldini, si mostrò disanimato. Di più sapea che il battaglione che doveva sbarcare a Scilla non si vedea, e sapea pure che la brigata Briganti era in mezzo a nimici in piena dissoluzione, e che costui pranzava con Garibaldi e con Clerc Colonnello dell'artiglieria Piemontese.

In vista di tutte queste serie ed esiziali contrarietà, il Melendez chiamò gli uffiziali, e fece pubblico l'abbandono e il tradimento de' suoi colleghi.

Quel discorso di Melendez passando d'un labbro all'altro fu alterato e suscitò nel campo, direi quasi una rivoluzione soldatesca: chi bestemmiava, chi minacciava, chi rompea le armi per non consegnarle al nemico, e nessuno intendea rassegnarsi a quell'evento.

In questo mentre si presenta sul campo Garibaldi, e grida: «Chi vuol venire meco è il benvenuto, chi nò, può andar libero!

In verità, questa maniera di condursi di Garibaldi genera maraviglia ed ammirazione. Egli in mezzo ad una soldatesca che l'odiava a morte, dice parole generose, e con dignità esemplare, sono tratti davvero magnanimi, e 'l negarli, sarebbe viltà, e basso partigianismo; del resto, Garibaldi si comportò sempre in modo di raggiungere la sua meta. Egli spacciava menzogne, e le faceva spacciare a' suoi, perché erano utili alla sua causa, approfittava della viltà e del tradimento de' duci napolitani, e traeva a sè i titubanti, perché così richiedeva il suo sistema di guerra. Io credo che un Generale di eserciti regolari non debba sdegnare cotesti mezzi, (escluse però le

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menzogne che sono sempre condannabili) non avendone altri per vincere un forte nemico.

O per valore o per ingegno

Sempre di lode il vincitor è degno!

I soldati di Melendez, appena udirono le parole di Garibaldi, raddoppiano le imprecazioni contro que' duci che li aveano ridotti in quello stato di umiliazione, e gridavano: tradimento! siamo traditi!

La disciplina è allora scossa; chi getta le armi, chi le rompe. Un battaglione con arme e bagaglio esce dal campo, e non impedito, volge a Monteleone: altri lo sieguono alla spicciolata, di questi ne furono arrestati molti da' garibaldini, e non v'è soldato che volontariamente resti con Garibaldi. Ciò basti per sbugiardare il falso telegramma di Ruiz, e l'asserto di altri.

Dal Generale Melendez, come dice il signor de Torrenteros nella citata lettera, all'ultimo Alfiere, furono tutti tradotti sotto scorta a Villa S. Giovanni, ristretti in una casa a pian terreno, ed ivi da sentinelle custoditi. L'indomani accompagnati a Reggio, e da Plutino fatti imbarcare per Napoli, vigilati sempre dal Capitano Consonni dello Stato Maggiore di Cosenz. Melendez e Vial furono i soli due Generali che non tradirono in Calabria, di costui ragionerò tra non guari, di quello dico che fu giuocato e tradito da Ruiz e Briganti.

Melendez non è una notabilità militare come dice lo stesso signor de Torrenteros, ma non tradì, né difezionò come afferma il chiarissimo storico sig. Morisani: ed io non l'avrei fatto sfuggire al meritato biasimo se l'avessi trovato vile o traditore. Di fatti, il generale Melendez si lasciò poi giudicare in Gaeta da un Consiglio di guerra, e non solo risultò innocente di tutto quello che gli addebitava circa i fatti d'armi di Calabria, ma il Re gli diede il comando del Castello di Gaeta in quel glorioso assedio: esempio unico tra tutti quelli che subirono Consigli di guerra, e che risultarono innocenti, il solo Melendez ebbe un nuovo comando, ed un comando in Gaeta!...

Quasi tutti gli uffiziali dipendenti da Melendez furono ben ricevuti e trattati dal Re, a' quali Francesco II, diede poi degl'incarichi di somma importanza, che adempirono a maraviglia, e principalmente al Capo dello stato maggiore di quel Generale, Giovanni de' Torrenteros, che più tardi s'ebbe gradi a preferenza e meritò la croce dell'insigne Ordine di S. Ferdinando, e da Cavaliere di dritto di S. Giorgio fu elevato ad uffiziale dell'istesso ordine. - Lo sbandamento della Brigata Briganti, e la sorte toccata all'altra di Melendez cagionarono la cessione de' due Forti del littorale al solo apparire de' garibaldini. Il Castello di Scilla, atto a valida difesa, con 22 cannoni, la maggior parte de' quali batteano la strada regia era presidiato da una compagnia del 1° di linea, e da 50 soldati zappatori minatori, oltre degli artiglieri; il comandante Capitano Polistina, lo cedè quasi obbligato da' suoi subalterni introdotti in quel forte da Briganti di cui dipendeva. Il Polistina seguì poi il Re a Capua.


CAPITOLO XIX

Il generale Briganti dopo che sacrificò la propria brigata, andava attorno predicando, che era inutile la difesa, e che il meglio sarebbe darsi a Garibaldi. E fece di tutto per far disertare al nemico il proprio figlio che era capitano d'artiglieria in Calabria.

Ruiz che non volle combattere con la sua brigata nonostante gli ordini di Vial, fu chiamato a Napoli, ove in cambio di castigo ebbe premio dal Ministero Pianelli. In seguito vedremo come il Ruiz è sempre quello di Calabria, cagione non ultima della perdita della battaglia del 1° Ottobre!

Il generale Vial figlio del prode ed onesto Tenente Generale G. Croce Pietro, dopo i fatti di Melia e Piale retrocede con le sue fresche genti, ed entra come fuggitivo in Monteleone, senza che avesse veduto il nemico. Tutti i duci scusavano la loro indegna condotta, dicendo che i soldati fossero indisciplinati. A dir vero ne' soldati si era in certo qual modo rilasciata la disciplina, perrocchè essi aveano notato la viltà ed i tradimenti di alcuni de' loro capi, ma si facevano condurre ciecamente da quei superiori che aveano sperimentati prodi e fedeli al Re.

Di fatti di tanti prodi uffiziali benemeriti della truppa, piace a me nominarne due - non potendoli tutti mentovare - il prode Aiutante Maggiore Giuseppe Musitani che si distinse in tutti i fatti d'armi di Calabria, e godeva tutta la fiducia de' soldati. Il distinto Capitano del 15° Reggimenti di linea Ferdinando Rodogno, il quale dopo i disastri del Piale riunì parte di quel Reggimento conducendolo a Mileto. I soldati lo seguirono volentierosi perché lo aveano sperimentato fedele a' suoi doveri e al proprio Sovrano. Fu il Rodogno che cercò di salvare il generale Briganti al presentarsi di costui nel suddetto Comune di Mileto, e se vi fu assassinato, come di presente dirò, lo deve al suo ostinarsi di percorrere le file di que' traditi soldati perché gli premea di persuadere il figlio a darsi a Garibaldi con tutta l'artiglieria.

La maggior parte de' Generali e de' Capi di Corpo, voleano un pretesto per non compromettersi col nemico e finire la guerra comodamente: essi voleano buttar la colpa sopra i soldati dichiarandoli indisciplinati; la tenacità del soldato alla patria bandiera guastava i loro piani. Difatti quella truppa a scaloni e quasi in ordine raggiunse il punto di Monteleone.

Il generale Briganti, dopo tutte quelle fellonie che avea commesse, doveasi ritirare nel Campo garibaldino, e guardarsi di comparire in mezzo a' soldati napoletani. Forse egli, non contento di aver fatto capitolare ed operato in modo da inutilizzare tre brigate, voleva rendere altri servizii a Garibaldi. Già sapeano i soldati ch'egli, la sera del 24 agosto avesse fatto un telegramma in cifra al ministro Pianelli; di che stavano fortemente indegnati, e ne avesse ricevuta la risposta anche in cifra non conosciuta dallo stesso Vial.

Briganti la mattina del 25 si presentò a cavallo in Mileto, senza segno del suo grado, con un sotto uffiziale di fanteria, di cognome Giardina anche a cavallo_ giunto nella piazza della Fortuna ove erano due battaglioni, uno del 4° di linea, l'altro del 15°, e molti avanzi delle disciolte brigate; al suo apparire i soldati corsero alle


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armi gridando: Viva il Re; fuori il traditore.

Egli per un momento rimase perplesso, ma subito senza dir parola s'allontanò da Mileto, dirigendosi per Monteleone. Accorse immantinente il Comandante di quella colonna e rimproverò a' soldati la sediziosa accoglienza fatta al Generale, e sembrava che tutti fossero rientrati nell'ordine. Dopo mezz'ora comparve di nuovo Briganti. Come fu conosciuto, gli uffiziali per non salutarlo entrarono in un caffè; i soldati gridarono di nuovo: Viva il Re, fuori il traditore.

Briganti cercò di arringare la truppa: però in quel momento una scarica di fucilate lo fece cadere estinto assieme col cavallo. Vuolsi l'uccisore vero fosse stato il Tamburo maggiore del 4° di Linea della Brigata Melendez. Le carte che avea addosso furono raccolte dal 1° Tenente Fragola, e consegnate poi al Re, vi era pure un ufficio di Pianelli. Così ebbe fine il bombardatore di Palermo «a Dio spiacente ed a' nemici sui!

Io vidi una sola volta il generale Briganti. Trovandomi in Messina dopo la cata strofe di Palermo, il 26 giugno fui invitato a pranzo dal Colonnello Bosco all'Albergo della Vittoria, ove costui alloggiava. Mentre eravamo sul finire del pranzo, fu annunziato il Colonnello Briganti, poi generale.

Il Briganti tutto allegro annunziò al Bosco, che il Re avea dato la Costituzione. Bosco, che sapea come io la pensassi circa il bombardamento di Palermo, per divertirsi un poco, e com'era naturale, cominciò a parlare de' fatti di Palermo e del bombardamento.

Briganti, sapendo che il suo amico Lanza era sotto consiglio di guerra, parlò male del suo protettore e complice di Palermo. Io dissi qualche parola perché Bosco mi obbligava con le sue insistenza. Quando Briganti ci liberò della sua presenza, il Colonnello mi disse: mi sembravate un novizio cappuccino alla presenza del suo superiore. Ah! voi vi mettete paura di quell'uomo, mentre dietro le spalle dite male, perché bombardò Palermo.

Io risposi, il sig. colonnello sa ch'io non mi faccio tanto facilmente dominare dalla paura: ma la vista di quell'uomo mi fa male: quel suo ceffo brigantesco, i suoi sguardi truci ov'è scritto tradimento ed infamia, mi strozzano le parole in gola, non per sentimento di paura, ma di orrore che mi desta la presenza di quel colonnello degno del nome che porta. -

Ed in verità, il Briganti era di statura alta con le spalle assai larghe; viso bronzino, occhi truci, sguardi affascinanti; quando parlavate in sua presenza, vi guardava in modo, come se volesse scrutare i vostri più occulti pensieri: il suo esteriore era il ritratto fedele dell'anima sua.

Dopo quella terribile giustizia sommaria fatta contro Briganti, i soldati lasciarono Mileto, e muti si diressero a Monteleone.

Tutta la truppa sbandata si riunì in Monteleone, ov'erano due brigate intatte, alle quali riunita potea ancora combattere con facile successo contro Garibaldi. I Generali e Capi di corpi, alcuni vili, altri traditori, e quasi tutti desiderosi di finire quella guerra, consigliarono, anzi obbligarono il Vial ad ordinare la ritirata alla volta di Napoli: e poichè temevano che fossero molestati nel loro cammino, divisarono di fare una convenzione con Garibaldi, e per questo modo liberarsi da qualunque timore che aveano. Il Vial, avvilito più degli altri, e dubitando che i soldati facessero la festa anche a lui,

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come l'aveano fatta a Briganti, approvò ogni cosa. Il 26 Agosto mandò il colonnello Bertolini da Garibaldi a trattare a convenzione.

Nel medesimo tempo arrivava al Pizzo, sul piroscafo Eugenia,

il maggiore Ludovico de Sauget mandato dal ministro Pianelli per vedere lo stato delle cose, ed avvisare se la truppa dovesse ancora combattere o ritirarsi. Il Vial che avrebbe dovuto chiamare a se il de Sauget, credette bene recarsi egli medesimo a bordo dell'Eugenia...

Corse allora voce tra' soldati che Vial andasse a trattare con Garibaldi sopra quel piroscafo, altri diceano che volesse disertare: l'ira e l'accecamento de' soldati non ebbe più freno. Un drappello del 12° di linea lo inseguì, e trasse molte fucilate da lontano contro il Vial, ma senza colpirlo.

La soldatesca, credutasi davvero abbandonata dal Generale in capo, diede in eccessi, scassinò i magazzini de' viveri, e li disperse per non lasciarli ai garibaldini.

La sera del 27 ritornò Bertolini e portò la convenzione con Garibaldi, con la quale si era stabilito, che i regi da Monteleone potessero ritirarsi a Napoli o per terra o per mare, senza essere molestati dai garibaldini. Come poi Garibaldi adempì quella convenzione, lo vedremo tra breve.

Vial dall'Eugenia

passò sull'altro piroscafo Protis,

e mandò un itinerario alla truppa, nel quale erano segnate le tappe sino a Salerno, ove questa dovea giungere il 10 settembre. Egli poi, che avea a bordo la Cassa militare avrebbe seguito l'esercito lungo la costa. Ma udito che Garibaldi era già a Monteleone, che a Paola si era proclamato il governo provvisorio e questi gli domandava la Cassa militare; vedendo che gli volteggiava intorno qualche legno della marina regia del Piemonte, navigò direttamente a Napoli, ove arrivò il 30 agosto; salvò la Cassa militare, ma fece perdere la truppa delle Calabrie a lui affidata. Il generale Ghio, tanto beneficiato da' Borboni, prese il comando in capo di tutta quella truppa; avea dodicimila uomini, quattrocento lancieri, dodici cannoni, ed ordinò la ritirata alla volta di Napoli.

Garibaldi non tenendo conto della convenzione fatta col Bertolini, molestava ed attaccava spesso i regi per impedire la ritirata. Bertolini si mosse di nuovo con l'intenzione di richiamarlo ai patti; però gli tolsero il mezzo di vederlo.

Ecco come Garibaldi adempiva i patti convenuti in suo vantaggio con i duci regi! Che ne dicono ora i propugnatori dell'onor militare,

quelli che ancora lodano il generalissimo Lanza, perché impedì a Meckel di distruggere la rivoluzione quasi distrutta in Palermo?

Forse risponderanno, che il mancar di parola di Garibaldi, non è una ragione, perché dovessero mancare i duci regi. Benissimo: ma io ho già detto, che Lanza non avrebbe mancato alla sua parola, se avesse lasciato libero il braccio di Meckel, perché Garibaldi non era stato riconosciuto parte belligerante, e perché la tanto vantata tregua del 29 maggio 1860, non era stata né discussa né firmata. D'altronde se i teneri dell'onor militare,

cioè, se quelli che difendono Lanza, perché costui rispettò quella fatale tregua, volessero ancora ostinarsi, direi: ebbene, cullatevi tuttavia in quell'onor militare, ma sappiate che quell'onor militare

fu la causa vera della sventura napoletana,

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dell'esercito messo in dileggio nell'attonita Europa, e del trionfo della rivoluzione, che rovesciò Re e trono con tutte le conseguenze

accessorie; e che infine ridusse voi, signori dell'onor militare,

a soffrire l'obblio, l'onta e il pubblico biasimo.

Giunta la colonna Ghio al piano Bevilacqua, ebbe luogo una scaramuccia tra soldati e garibaldini, la quale, al solito, finì con isvantaggio di questi ultimi. Un parlamentare si recò a secreto colloquio col generale Ghio. Allora si videro intorno a costui i garibaldini ed altri rivoluzionari calabresi.

La sera del 29 agosto la truppa giunse a Sovaria-Mannelli. Ghio fece accampare i soldati due miglia prima di giungere a questo paese, ov'è un'aperta campana e attorno si elevano alte montagne, che formano una gola, luogo bene scelto per far opprimere un esercito con pochi uomini.

Lo stesso garibaldino e scrittore Rustow si maraviglia che il generale Ghio abbia potuto condurre i suoi soldati in quella trappola, quando potea farli accampare in luoghi alti e strategici, che non ne mancavano in quelle vicine contrade.

Ghio disse ai soldati che stessero allegri, e facessero festa, perché Garibaldi era morto: Che Generale buffone...!

Fece dividere a' soldati poco pane e carne cruda, e non già per compagnie com'è uso, ma per persone. I soldati che si trovavano stanchi ed affamati, furono costretti a lasciare i fucili, e cercar legna per cuocersi la carne. Quel campo fu lasciato senza esploratori e senza avamposti.

Garibaldi e i suoi aveano seguito i soldati da vicino, come gli orsi bianchi affamati sieguono gli uomini stanchi nelle regioni polari per dar loro addosso al primo momento propizio. SovariaMannelli era il luogo destinato da Ghio a compiere la più atroce perfidia che mai soldato avesse potuto ideare.

Fin dal mattino del 29 le alture di Sovaria-Mannelli erano occupate da uomini in armi, come se avessero saputo che in quel luogo il Ghio avesse stabilito di sugellare la sua vita militare col suggello del tradimento e dell'infamia.

Alle otto del mattino chiama gli uffiziali superiori ed espone loro la difficile posizione della truppa; essere circondati da numerosissimi nemici, impossibile la ritirata, perché rotti i ponti e sbarrate le strade con alberi ed altri materiale; mancanti i viveri, e popolazioni avverse, i soldati indisciplinati; chiedere consiglio pria di decidersi ad un partito. Il colonnello Koënig dice che declina ogni responsabilità, perché non può contare sul suo reggimento; lo stesso ripetono Guarini, Marquez e Morselli. Il tenente colonnello de Lozza comandante l'11° cacciatori indegnato di tanta viltà e fellonia, dice che il suo battaglione è disciplinato e bravo, e quindi con i soli uomini sotto il suo comando avrebbe affrontato il nemico, per aprirsi la via con la forza; lo stesso dissero i maggiori Capasso, de Liguori, Armenio, e il Comandante la batteria. Ghio li accomiata senza esternare la sua opinione.

Mentre i soldati erano in isciopero, e che pensavano a cuocersi la carne, dalle altura si vede scendere un uomo barbuto con mantello bianco, seguito da due uomini vestiti alla calabrese, ed avendo incontrato il bravo capitano Campanino dell'11°

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cacciatore, dice a costui che egli era il capo dello Stato maggiore di Garibaldi, e chiedeva voler parlare col Generale in capo. Ghio che stava alle vedette si fece incontrare a pochi passi distante.

Il garibaldino con pronunzia che sembrava inglese disse a Ghio: «Generale nello scendere i monti i soldati hanno gridato: viva Garibaldi -

Questo non può essere, rispose Ghio... Glielo assicuro, ripetè il garibaldino, additando colla mano le alture, di là ove noi stiamo.... Ma, interrompe il Generale, là voi non dovete sta.... e tronca a mezzo la parola accorgendosi che stavano attorno a lui de' soldati che ascoltavano quel dialogo, e bruscamente dice loro: «Signori miei se volete farci parlare..!»

Tutti si allontanarono. Bisogna convenire che Brigati fu meno fortunato di Ghio, mi fa maraviglia come i soldati non abbiano fatto la festa anche a costui!

Nel medesimo tempo che Ghio confabulava con i garibaldini si udirono diverse scariche di fucilate sopra le colline, e per la via che conduce a Napoli. Fu allora che si rinnovarono fatti del Piale; i soldati corrono alle armi e succede una grande confusione, tutti gridano: siamo traditi.

Koënig e Guarini cercavano di confortare i soldati consigliandoli a darsi a Garibaldi, e fu una fortuna per quei due traditori se si salvarono la vita fuggendo. I soldati vedendosi senza guida, traditi e circondati da nemici, rompono le armi e si allontanano a drappelli e prosieguono la via di Napoli. Nessuno volle rimanere con Garibaldi, ad eccezione di un sol chirurgo di battaglione. Alcuni soldati ritornarono alle proprie case, la maggior parte de' Calabresi, non badando ai luoghi che li videro nascere, sprezzando le preghiere e le minacce degli amici e de' parenti, si diressero alla volta di Napoli. Giunti in Capua, dopo lunghi stenti, ed innumerevoli pericoli, si fecero incorporare in altri reggimenti e battaglioni, e nel resto della campagna si mostrarono bravi e fedeli soldati.

Le casse de' reggimenti furono quali saccheggiate da' garibaldini, quali destinate da Garibaldi al tesoro garibaldesco. La Cassa dell'11° Cacciatori se la prese un R.mo Prete garibaldino, e poi si seppe, che facesse il pubblico usuraio.

Garibaldi, Cosenz, e Stocco si presentarono agli uffiziali, e li confortarono dicendo che non erano vinti, e quindi serbassero la propria spada per difendere la patria dallo straniero: finirono con invitarli a rimanere con essi; però nessuno accettò quell'offerta. Quegli uffiziali in numero di 260 furono imbarcati sopra un legno garibaldino e mandati a Napoli.

I garibaldini raccolsero in Sovaria-Mannelli migliaia di fucili, parte rotti o guasti, 400 tra muli e cavalli, e otto cannoni, erano dodici, degli altri quattro non si sa che ne facessero gli artiglieri, forse l'abbiano occultati.

Il generale Ghio non si fece più vedere in Sovaria-Mannelli; se ne andò al Pizzo accompagnato da' garibaldini: e così questo militare ricompensò i Borboni dell'aver lo fatto capitano appena nato. Egli, al 1858, si distinse alla testa del 7° cacciatori nel fatto d'armi di Sapri, ove distrusse le bande sbarcate allora in que' siti, e ne arrestò i superstiti. In mezzo agli altri venne ucciso Pisacane, ed arrestato Nicotera il quale ebbe poi il perdono da Ferdinando II, ed oggi è deputato al Parlamento italiano.

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Garibaldi raggiante di gioia annunziava enfaticamente a' suoi amici: «dite al mondo che con i miei bravi calabresi ho fatto deporre le armi a 14 mila uomini,» Ossia fece deporre le armi a Ghio ed a tutto il codazzo de' traditori. E Ghio se sfuggì la sorte di Briganti, dopo 15 anni di rimorsi inconsolati, ne' primi di quest'anno si trovava ucciso ne' fossi de' ponti rossi in Napoli; chi crede siasi suicidato, e chi il crede assassinato; che Iddio perdoni all'anima sua!

Quella stessa sera, Garibaldi entrò in Cosenza ove fu acclamato sino al delirio da quelle popolazioni immaginose ed entusiasmate dai tanti facili trionfi riportati dal supremo duce della rivoluzione. Egli dal balcone della Prefettura arringò il popolo con quelle sue cicalate di patria e libertà, e con le solite promesse, che oggi son volte in caricatura. Il giorno 31 agosto partì per Castrovillari lasciando governatore di quella Provincia, Donato Morelli.

Il generale Caldarelli volle pure essere annoverato tra i Landi, Clary, Gallotti, Briganti e Ghio: trovandosi con una brigata in Cosenza, fece disarmare i suoi gendarmi e proclamare il governo provvisorio.

Fece dippiù, il 26 agosto, sottoscrisse obbligo con quel governo di non combattere contro la rivoluzione, e di non ostacolare l'unità italiana; e tutto questo per la vigliaccheria di assicurarsi la ritirata senza molestia sino a Salerno. Quel Generale comandante di una brigata, senza che questa avesse veduto il nemico, partì da Cosenza lo stesso giorno 26 Agosto, prima che fosse succeduta la catastrofe di Sovaria-Mannelli. Riposò più giorni a S. Lorenzo la Padula, aspettando che si avanzassero i garibaldini per far disarmare la sua gente.

Siccome temea di essere ucciso da' suoi soldati, scrisse a Garibaldi, e lo pregò di affrettarsi; costui gli spedì la Masa. Il Caldarelli circondato d'alcuni uffiziali felloni, e dal La Masa, poco mancò che non fosse trucidato assieme con quelli che lo circondavano.

La brigata Caldarelli si sbandò secondo i desiderii di costui, ma tutti i soldati si diressero a Salerno, e poi a Capua per raggiungere il resto della truppa ed il Sovrano. Il Caldarelli avrebbe ben dovuto essere riconoscente ai Borboni; ma chi è riconoscente non si brutta di viltà giammai!

Le vergogne di Calabria furono necessaria conseguenza di quelle di Sicilia. I Generali ed uffiziali superiori vili, vedendo che poteano salvarsi la pelle senza essere sottoposti ad un consiglio di guerra e fucilati, scelsero la parte più comoda di non far nulla. I traditori avendo osservato che Landi, Lanza, e Clary se la passarono liscia, osarono imitarli, maggiormente che erano appoggiati e protetti dal Ministero liberale. Quelli poi titubanti opagnottisti

si fecero trascinare dalla corrente; e tutti svergognarono la divisa che indegnamente portavano, facendo maravigliare l'Europa con le loro inettezze, co' loro turpi e triviali tradimenti. Sarebbe stato meno disonorevole per essi se avessero imitato i Generali toscani, ma disgraziatamente per loro trovarono il soldato napoletano fedele alla Patria bandiera. Oggi questi uffiziali superiori e Generali, quali inetti, quali vili, quali traditori, dopo di essere stati onorati, temuti ed arricchiti sotto il passato Governo, o son morti, o disprezzati, o vivono caduti nella più degradante abbiettezza.


CAPITOLO XX

Re Francesco, vedendo prossima la totale catastrofe della dinastia e del regno, volea sguainare la spada e mettersi alla testa dei soldati per salvare l'una e l'altro, e fare di se un sacrifizio alla patria già pericolante. I traditori che lo circondavano usarono tutte le arti per rimuoverlo da sì patriottica ed eroica risoluzione: essi gli faceano osservare, l'esercito niente valere, i tre battaglioni esteri essere pronti a ribellarsi, e correre sopra Napoli e saccheggiarla insanguinandola: promuovere la guerra civile continuare le ostilità contro Garibaldi, atto eroico il cedere.

D. Liborio per cattivarsi la fiducia del Sovrano, si mostrava avverso all'unità italiana; e facea leggere al Re alcune lettere di Dragonetti, il quale gli raccomandava l'autonomia del Regno. Egli, avvocato, patrocinava la due cause avverse; scrivendo pure bozze di proclami nell'interesse della dinastia. Quando però vide Garibaldi sul continente, e senza ostacoli marciar sopra Napoli, cercò di distogliere il Sovrano da qualunque difesa. Per la qual cosa il 20 agosto gli presentò un indirizzo firmato dal Ministero ove si dicea: L'opinione pubblica essere avversa alla dinastia, i Ministri non poterla cambiare in favore, essendo tale la diffidenza tra popolo e principe che nessuna potenza umana avrebbe potuto distruggerla o mitigarla. Non potersi contare sull'esercito perché indisciplinato e in dissoluzione. La marina regia, rotto ogni freno di subordinazione, aspettare il momento per dichiararsi avversa al trono, e ligia alla causa nazionale italiana. Alle interne difficoltà aggiungersi quelle esterne. Sorgere innanzi un'Italia riunita nemica de' Borboni, e guidata da un vessillo italiano sorretto dalla più antica dinastia della penisola italiana. Il Piemonte ispirare fiducia e simpatia alle due grandi potenze, Francia ed Inghilterra, che, per ragioni diverse e diversi fini gli stendeano le braccia protettrici, e Garibaldi essere semplice strumento di questa politica innipossente.

L'indirizzo conchiudea: «Unico consiglio è che V.M. si allontani, e lasci Reggente un Ministro onorato (come D. Liborio), e capace di universale confidenza, ma capo di esso, non porrà un Principe reale: ei non avrebbe la fiducia pubblica, né garentirebbe gli interessi della Monarchia. Vi porrà un uomo che sia generalmente conosciuto virtuoso, e che meriti la vostra e l'universale fiducia. (Ma a far che?) E la Maestà vostra allontanandosi volgerà al popolo parole leali e magnanime, testimoni del suo cuore paterno, e della nobile decisione di risparmiare gli orrori della guerra civile: invocherà il giudizio dell'Europa, aspetterà dal tempo e da Dio il trionfo del dritto. Questo consiglio diamo con franchezza e buona coscienza (coscienza di D. Liborio!) ed è il solo che possiamo dare.

Siamo certi che lo accoglierà: ed ove per isventura il respingesse, noi sentendo non aver meritato la fiducia del nostro Re, dovremmo rinunziare all'alto ministero che ci fu affidato.


Questo indirizzo è degno di chi lo scrisse, cioè di d. Liborio, uno de' cinque uomini fatali alla dinastia e al Regno di Napoli. Questo indirizzo si giudica da sè stesso, ove al Re si consiglia viltà sotto lo specioso pretesto di risparmiare gli orrori della guerra civile, che fomentava lo stesso ministero, per consegnare il Regno a stranieri

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parlanti tutte le lingue d'Europa, che famelici si avanzavano dalle Calabrie, potenti solamente nella corruzione.

Era poi una sfacciata calunnia il dire al Re, non potersi contare sopra l'esercito perché indisciplinato; Capua, il Garigliano, e Gaeta dimostrarono splendidamente il contrario: e così il resto dell'indirizzo ov'è pervertito il senso de' vocaboli, chiamandosi magnanimità la dabbenaggine, eroismo la viltà, ed infine virtù il vizio.

Il Re non rispose a quel subdolo ed insultante indirizzo di un ministero fedifrago. Egli però avrebbe dovuto rispondere con mettere sotto processo que' ministri, i quali tradivano la Monarchia, calunniavano il popolo e l'esercito, e disonoravano l'alta loro missione.

Per il modo di contenersi del Re, D. Liborio e compagni invece di ritirarsi dal ministero, come aveano promesso nell'indirizzo istesso, rimasero in carica per meglio congiurare contro il sovrano e la patria!

Intanto Cavour da Torino fremea d'impazienza e di rabbia perché Napoli non insorgesse a rivoluzione. Egli avrebbe desiderato che Francesco II fosse stato costretto a lasciar Napoli per ragione di una rivolta popolare, anzi che partirsene per un atto generoso, risparmiando alla Capitale gli orrori della guerra civile. Ecco cosa sono cotesti sedicenti redentori di popoli, venuti in fama di grandi politici: vada pure a soqquadro l'Universo purchè la loro trista volontà sia fatta!

Cavour scriveva a Villamarina, ministro sardo accreditato presso Francesco II, ed al Comitato rivoluzionario, detto dell'ordine,

rimproverandoli che non aveano saputo creare un simulacro di sommossa popolare.

Il Comitato se ne scusava allegando la mancanza delle armi; e Cavour ne affidava l'incarico ad una casa inglese con l'obbligo di sbarcarle a Napoli. Però a Napoli non mancavano le armi per un tentativo di rivoluzione, mancavano gli uomini. Quel Ministro piemontese, benchè fosse certo della caduta del Regno di Napoli, nondimeno per mistificare l'Europa, non aveva scrupolo di sacrificare tutto e tutti, ed insanguinare una delle principali Metropoli d'Europa. Sono questi gli uomini che celebra la rivoluzione!

Cavour, fisso nella barbara idea di arrecare la rivoluzione nel Regno e nella Capitala prima che partisse Re Francesco, mandò 3000 fucili sul Piroscafo la Dora

comandato dal marchese del Carretto. Nisco era stato pure mandato a Napoli da Cavour per agevolare lo sbarco di que' fucili in tre diversi punti; cioè in Mondragone, in Salerno e in Calabria. Nisco adempì il suo incarico, ma i fucili sbarcati a Mondragone furono sequestrati: di tutte queste turpi manovre gli attori erano Villamarina e Persano, e quest'ultimo se ne dà pure vanto nel suo diario.

D. Liborio, presentato al Re l'indirizzo riportato di sopra, e vedendo che questi non rispondeva temette di essere arrestato insieme coi colleghi. Egli si giudicava da sè stesso, come fanno i reprobi! Reputando assai difficile suscitare in Napoli almeno un simulacro di rivoluzione per sollecitare la partenza del Re, affrettò l'arrivo di Garibaldi.

Trovavasi allora nel porto di Napoli a bordo del battello a vapore Emma

il romanziere

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Dumas mandato da Garibaldi per ispargere proclami, menzogne, e calunnie contro i Borbonici; D. Liborio la notte del 23 agosto si recò presso quel vendifrottole del Dumas, e lo pregò di scrivere al Dittatore perché costui affrettasse la sua marcia sopra Napoli; ed egli intanto qual ministro liberale del Regno delle due Sicilie avrebbe dichiarato (questa è proprio buffa), Francesco II traditore della patria! ed andrebbe ad incontrare Garibaldi riconoscendolo Dittatore delle Due Sicilie, ed antesignano dell'annessione del Regno al Piemonte.

Il previdente ma niente leale D. Liborio conchiudeva, che in caso contrario sarebbe stato costretto lasciare le pratiche incompiute, e salvarsi sopra un legno inglese. Oh!... recedat a nobis et fiat Pontifex -

(del diavolo). D. Liborio e Dumas mandarono due messi a Garibaldi uno de' quali oggi fa il borbonico!.., con l'incarico di recarsi in Calabria e sollecitare la marcia del Dittatore. In quello stesso tempo il de Martino ministro degli esteri, mandò pure in Calabria un'altra persona antica conoscenza di Garibaldi, con la missione di offrire a costui dieci milioni di lire, il passaggio libero sul Napoletano per recarsi a Roma, ed ivi far guerra al Papa, e così lasciar libero il Regno di Napoli.

Questa politica del de Martino è la più sciocca e la più malvagia di quante allora se ne immaginarono: intanto il messo da lui mandato non giunse a parlare con Garibaldi, perché fu arrestato in Basilicata per ordine del comitato diretto da D. Liborio; ed essendo stato costui ben servito da' generali Gallotti, Briganti, Caldarelli, Ghio, e Colonnello Ruiz, respirò più libero sentendo prossimo l'arrivo del Dittatore a Napoli.

Il Re ebbe notizia della visita notturna di D. Liborio fatta al Dumas, e stava per farlo arrestare. Quello il seppe, e con quella audacia e sfrontatezza che nessuno poteagli negare, si presentò a Francesco II, e confermò la sua visita fatta al Dumas, con lo scopo, dicea, di far desistere Garibaldi dalla sua impresa mediante offerta di danaro: D. Liborio si attribuiva in parte la malvagia politica alla Cavour, messa in pratica dal de Martino.

Tutte queste indegnità ed infamie furono poi pubblicate dagli stessi rivoluzionari e traditori; da alcuni per farsene un vanto, e da altri per accusare o vituperare i complici.

In quanto poi al romanziere Dumas, il quale si mostrava tanto tenero dell'unità italiana, ecco quello che scrisse l'ammiraglio Persano nel suo Diario parte II, pag. 66, edizione di Torino 1870:

Restituisco la visita all'insigne scrittore A. Dumas, a bordo del suo bastimento di piacere. Si entra tosto in discorso sulle cose nostre. Mi dice di una sottoscrizione per guadagnare un reggimento alla causa dell'indipendenza italiana. Mi presenta l'incarico di ritirare l'ammontare di ciascuna sottoscrizione; ed egli senza più depone una forte somma del suo, che mi è parso salire alcune migliaia di franchi - Colto all'improvviso, m'impegno a soscrivere anch'io. Restituitomi al mio bordo parlo con alcuni dei rifugiati politici, a cui avevo dato asilo, di tale mia promissione; e da essi mi vien detto, che quel danaro passerebbe probabilissimamente in mani tutt'altro che


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amiche. Bell'affare avrei fatto davvero, se avessi corse le poste senza assumere informazione! -

Risolvo quindi di non dare un quattrino, e di lasciare che si dica di me quel che si voglia; chè si possono fare minchionerie col proprio danaro, ma non mai con quello d'altrui.»

In mezzo a queste ignominie, cattivi negozii, e tradimenti, ove si facea sentire alto Italia una,

anche Luciano Murat figlio secondogenito di Gioacchino, dopo 45 anni di silenzio, volle alzare la sua voce e reclamare i suoi diritti

sul Trono di Napoli. Con una lettera diretta a persona innominata, cioè ad un Caro Duca,

promettea tutte le delizie, e il ben di Dio al travagliato popolo delle due Sicilie. «Forte, egli dicea, dell'assenso dell'imperial Cugino Napoleone III, io porterei l'alleanza francese, sola e certa sicurtà d'indipendenza.» Bravo sig. Pretendente..! Gl'Italiani non ignorano in qual senso intendano i Napoleonidi l'alleanza dell'Italia con la Francia; se alla vostra strombazzata indipendenza

aveste tolta la prima sillaba, almeno sareste stato ammirato per la vostra franchezza. Quella sfinge di Napoleone facea stampare nel Moniteur

del 1° Settembre: «Il Governo francese approvare

la lettera (di Murat); ma non in quello di potere Murat andare a Napoli con l'assenso,

e il braccio della Francia; questo l'Imperatore non volere, e respingere ufficialmente la proposizione. «Mi pare che approvare

e poi non dare l'assenso

fanno a calci! Napoleone III si facea distinguere per questi delfici responsi - ibis et redibis, NON, morieris in bello -

ecco come rispondeva quel grand'uomo quando voleva corbellare o rovinare una persona ed un regno!

Nessuno comprese la lettera di Murat, e la sibillina nota del Moniteur.

In quel tempo apparve un'altra lettera, la quale arrecò maraviglia e sbalordimento. Il Conte di Siracusa zio del Re Francesco II, diede l'ultimo colpo alla Monarchia fondata dal suo illustre antenato Carlo III di Borbone, disonorando il nome che indegnamente portava. Il Real Conte udito lo sbarco di Garibaldi sul continente e le prime vittorie di costui, invitò a lauto pranzo gli ufficiali della flotta sarda, ove, inebbriato di vino e di plausi, fece brindisi a Garibaldi e ad altri corifei dell'unità italiana.

Il 24 Agosto Leopoldo di Borbone, figlio terzogenito di Francesco I di Napoli, e fratello di Ferdinando II, scrisse al Re suo nipote dicendogli, avergli altra volta consigliato che scongiurasse il pericolo, e non essere stato udito; ora fatto grande il sentimento dell'unità, non più possibile la lega col Piemonte; le stragi

di Sicilia destare orrore; la casa Borbone segno di universale riprovazione; la guerra sul continente strascinare la monarchia a rovina; le inique arti de' Consiglieri perversi aver da lunga mano preparata alla discendenza di Carlo III la rovina. - Ed è quest'ultima la sola verità detta in quella famosa lettera. - Il Conte conchiuse: «Sire, salvate, che ancora ne siete in tempo, salvate la nostra casa dalla maledizione di tutta Italia! seguite il nobile esempio della nostra Regale Congiunta di Parma, che, allo irrompere della guerra civile, (cioè allo irrompere della guerra franco-sarda), sciolse i sudditi dall'obbedienza, e li fece arbitri de' loro destini.» (Menzogna degna di chi la scrisse.)

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Questa lettera tutta intiera è trascritta nella 2a parte del Diario di Persano pag. 58.

Il Real Conte scrisse quella lettera per ordine di Cavour, costui il 15 agosto telegrafò a Persano, e gli disse: «Veda di far

scrivere dal Conte di Siracusa una lettera al Re suo nipote nel senso di quello che mi scrive Nisco. Sarebbe cosa utile.»

Il Real Conte non si fece pregare da Persano, anzi si dichiarò pronto a tutto. Egli scrisse quella lettera dopo di un abboccamento con D. Liborio Romano. Difatti quella lettera del 24 Agosto, e l'indirizzo di D. Liborio al Re del 20 dello stesso mese, sono figli dello stesso malvagio pensiero. Persano intanto osa scrivere nel suo Diario: «Checchè si pensi, questo scritto altamente onora il Principe Patriota.»

Principe Patriota, Leopoldo di Borbone! Che sempre avea pensato come rovinare la patria ed abbattere il trono; protestava amore all'unità italiana nello scopo di farsi egli stesso tiranno di Napoli col titolo di Reggente o Vicerè di Cavour, e cogliere il momento per proclamarsi re indipendente. Il patriottismo di questi cadetti di Casa Borbone si sà ove vada a finire; ne troviamo qualche esempio in quelli di Francia e di Spagna.

Quella lettera amareggiò l'ottimo cuore di Re Francesco, il quale in un momento di malinconia, esclamò: «Se non fossi Re responsabile della Corona al mio popolo e alla mia famiglia, già da gran tempo ne avrei gettato lungi il fardello.»

Il Conte di Siracusa, Persano, Villamarina, D. Liborio, ed Alessandro Nunziante tutti travagliavano e congiuravano alacremente a creare ostacoli al Re per farlo partire subito da Napoli.

Il real Conte si serviva del suo credito, svelava il debole della Corte di Napoli. Persano in qualità di ammiraglio Sardo mandava armi coi piroscafi piemontesi sul littorale delle Calabrie, e del Salernitano, aiutato dal napoletano Nisco, e da parecchi uffiziali della flotta napoletana. Villamarina con l'alta carica di ministro Sardo accreditato

presso Francesco II, intrigava diplomaticamente con arti settarie. D. Liborio capo di fatto del ministero liberale, dava braccio forte a tutti, avendo la polizia settaria nelle sue mani, e i camorristi

a sua disposizione. In fine il Nunziante tenuto a Napoli da Cavour per far succedere un pronunziamento militare, e direttamente ne' battaglioni cacciatori a favore del Piemonte, faceva l'arte di Satana. Egli albergava in un quartino matto del Palazzo Le Fevre

alla riviera di Chiaia, in compagnia del sig. Filioli, ed andava spesso a bordo alle navi Sarde per confabulare con Persano, ma timoroso sempre di essere arrestato, e più di tutto di essere riconosciuto da' soldati, i quali certamente gli avrebbero fatto subito la festa. Ad onta delle sue arti di settario e traditore nulla ottenne, e per legittimarsi con Cavour, disse che il ministro Pianelli avea tramutato tutti i capi di battaglioni ed uffiziali di sua fiducia. Disse pure che avrebbe potuto ottenere delle defezioni parziali ne' battaglioni cacciatori, ma che neppure avea speranza di buon successo; tanto più che scorgea poca fiducia nel Comitato d' ordine.

La vera ragione di tutti gl'insuccessi del Nunziante era che tutti lo abborrivano: pessimo assolutista, e più che schifoso settario! Alessandro Nunziante non tenendosi più per sicuro nel quartino matto del palazzo Le Fevre,

andò ad alloggiare in quello ove abitava Ciccarelli, mandò una persona di

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sua fiducia al Persano avvertendolo che era minacciato dalla polizia, ma forse più di tutto da' soldati che volea far disertare, dapoichè D. Liborio non avrebbe mai arrestato il suo più fedele complice. Persano si trovava in teatro quando gli giunse il messo di Nunziante; chiamò alcuni uffiziali suoi dipendenti, e che giudicava bravi, e li mandò a S. Lucia per disporre la fuga di Nunziante sulle navi Sarde. Egli poi si recò al palazzo Ciccarelli, ove trovò Nunziante contraffatto mercè di una finta barba e di occhiali verdi! Lo fece montare in carrozza, lo condusse a S. Lucia avendolo fatto passare davanti il palazzo reale; e da S. Lucia, lo trasportò a bordo con una lancia sarda.

Bravo, sig. Alessandro Nunziante, fa proprio piacere che vi siete vestito in maschera nel mese di agosto con la vostra statura ed andamento! Oh! voi tanto rispettato e temuto sotto l'egida de' Borboni, vostri benefattori, appena vi siete ribellato a costoro, per traversare una strada di Napoli e mettervi in salvo sopra navi straniere, fu necessario vestirvi da Pagliaccio, e farvi scortare da coloro che insidiavano i vostri concittadini, un vostro fratello di sangue, ed i vostri nipoti che allora combatteano onoratamente! Diteci di grazia, quando passaste abbigliato con quella ridevole toletta sotto il palazzo reale, che era allora tutto sfolgorante di lumi, come dice Persano, non ricordaste «La gloria che passò «? Mi auguro però che in questo punto, muto penserete «all'ultima - ora dell'uomo fatale». Non temete: Colui che volea perdonare Iscariota, può anche perdonar voi. Approfittatene, giacchè non vi resta che la sola misericordia di Dio.

Il Conte di Siracusa si credea vicino ad afferrar la Reggenza del Regno, o simile titolo; e promettea a' suoi amici il suo prossimo innalzamento. Però il real Conte e Cavour giuocavano all'onore per vincersi e ribellarsi a vicenda: la vinse costui perché più furbo, e perché avea più mezzi; ma tutti e due fecero grandissimo sciupo in quel giuoco..!

Quando Cavour giudicò inutile l'appoggio del Conte di Siracusa, lo fece partire per Torino, mercè alcuni consigli che gli fece suggerire da D. Liborio ministro liberale. Ecco una lettera del real Conte diretta a Persano in cui si rivelano tante iniquità.

Lunedì 27 agosto 1860 Caro Persano,

Sono in questo momento con D. Liborio Romano, il quale mi sembra deciso di servir bene la causa italiana con Vittorio Emanuele. Il Mazzinismo prende piede in grandi proporzioni, e non vi è tempo da perdere. Romano mi consiglia

a partire al momento per andare a Torino ad esporre al Re e al Cavour la posizione del paese. Io son pronto a farlo. Non vi è sagrifizio che io non incontrerei per salvare l'Italia, e questa povera Napoli dall'anarchia. - Se voi l'approvate,

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io potrei partire con vostro piroscafo avviso, quest'oggi stesso per Genova. Se volete parlare con D. Liborio sarà da me al tocco.

Il vostro amico Firmato Leopoldo Conte di Siracusa.

Il disinganno di questo Conte fu terribile, e la sua fine miseranda. Egli partì per Genova sulla nave la Costituzione

della marina reale Sarda la sera del 31 agosto, e fu accompagnato a bordo da Persano e Villamarina. Giunto a Torino ebbe fredda accoglienza da chi aspettava ringraziamenti, plausi e potere. Sconfortato per quella accoglienza, andossene a Parigi, ove fu fischiato appena conosciuto, e nel teatro gli gridarono: «Le Bourbon, qu'il aille défendre Gaete»

- il Borbone vada a difendere Gaeta. - Ritornò in Italia con un solo cameriere e si fermò in Pisa, ove morì il 4 dicembre dello stesso anno, abbandonato da tutti. Il cameriere giunto nel porto di Napoli fu arrestato, e gli sequestrarono le carte del Conte. Da quelle carte furono sottratte due lettere scritte da un altro personaggio: il rimanente fu restituito.

Francesco II, quando intese la morte dello zio, trovavasi in Gaeta bombardato: pure ordinò il lutto di Corte.

Il cadavere del real Conte di Siracusa Leopoldo di Borbone rimase nel Camposanto di Pisa come l'ultimo de' miseri mortali. Nel giugno del 1863 la vedova nata Principessa Carignano, ottenne a stento di trasportare a Napoli il cadavere dello sposo.

Chi potrebbe descrivere lo stato di Napoli in que' tristissimi giorni dell'agonia del regno de' Borboni?

Non vi era più freno alcuno: le passioni irrompevano e metteano spavento. Tutti faceano a gara per distruggere e vilipendere la monarchia, e tutto quello che era napoletano. Quelli che erano stati gli umili servitori de' Borboni in tempo di prosperità, e che aveano strisciato per le loro anticamere, per far dimenticare il passato, e per non perdere quella importanza che immeritatamente aveano acquistata, si mostravano i più fieri nemici della dinastia e del Regno.

I comitato rivoluzionarii agivano apertamente e prima che Francesco II partisse, erano il vero governo riconosciuto. La stampa era divenuta intollerabile eziandio a rivoluzionari ai quali rimaneva ancora un poco di pudore. Esaltava le vittorie di Garibaldi, l'appellava novello Messia: al contrario chiamava i soldati coi nomi i più odiosi, calunniava e minacciava la real famiglia e il Re, chiamando costui Caino..A

Lo stato della sventurata Napoli faceami ribrezzo; ovunque io mi rivolgessi altro non mirava che spettacolo di dolore, e non udiva che oscene bestemmie e disprezzi per le cose e le persone più degne di rispetto. Io non potea capire come mai una Città così beneficata da' Borboni, anche a scapito della Sicilia, fosse divenuta in poco tempo più provocante e nemica di quell'Isola a' proprii benefattori. Napoli mi fece dimenticare i baccanali di Sicilia. Non potea capire come la prima Città d'Italia, forse la quarta d'Europa, Capitale di un Regno di circa dieci milioni di abitanti,

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ricca, onorata e protetta, con una delle più ricche e splendide Corti del mondo, volesse diventar donna di provincia, rinunziando alla propria indipendenza ed autonomia secolare, e rendersi vassalla di un piccolo paese a piè dell'Alpi,

non ricco, né bene governato.


Mi si potrebbe rispondere, che i Napoletani (cioè i rivoluzionarii) sacrificavano tutto per l'amore dell'unità italiana. Benissimo rispondo: ma perché tanta viltà, tante fellonie, tanta degradazione, non poteano contenersi come si contennero i Toscani in simile circostanza? E dico questo non volendo tener conto che doveansi contentare dell'unione italica che si trattava allora tra il Re di Napoli e quello del Piemonte; di quella unione riconosciuta in Zurigo come la più conveniente a' veri interessi d'Italia. Però, l'unione italiana sarebbe stata utile al popolo italiano, e non si volle effettuare perché non era utile alla setta de' petrolieri.

Io andavo a zonzo per la Città mentre mi erravano in capo que' tristi pensieri, e per confortarmi un poco mi diressi verso il Palazzo Reale. Quel magnifico edifizio opera di tanti splendidi sovrani, mi sembrava mesto, muto e derelitto, quasi un mucchio di informi ruine; e in mezzo a queste mi parea vedere sorgere le gigantesche figure di Ruggiero il Normanno e di Carlo III di Borbone, non più calmi e benigni in volto, ma accigliati e sdegnosi, lanciare una terribile maledizione all'ingrata a sconoscente Città. Ed io trasportato dalla mia fantasia, non so se riverente mi prostrai alla vista di que' grandi, e dissi: salvete potentissimi e benefici monarchi, onore e gloria di queste amene e ricche contrade italiane; deh! non maledite tutti i vostri posteri, e i vostri lontani nepoti: essi non sono tutti colpevoli, ma infelici: maledite que' Giuda che vendono la patria allo stranierio, e que' Caini che ci disonorano, e ci assassinano..!

CAPITOLO XXI

Il 24 Agosto, la brigata Bosco, alla quale io apparteneva, mosse da' Granili per Salerno, ove si riunirono circa dodici mila uomini di buona truppa con artiglieria di montagna e di campagna, e cavalleria; vi era l'intero Reggimento Cacciatori a cavallo. Vi erano due brigate di fanti, una comandata da Bosco, l'altra da de Mekel: comandante in capo delle due brigate era stato scelto dal Re il ministro Pianelli. Questi temporeggiava sempre a recarsi al suo posto di onore, e fu in sua vece mandato il Maresciallo Gaetano Afan de Rivera.

Il Pianelli che simulatamente spacciava di voler combattere Garibaldi, ora in Calabria ora in Salerno, imbarcava i suoi cavalli, divulgando prossima la sua partenza pel Campo: quando poi sentiva una vittoria di Garibaldi, correa a sbarcarli. Questo imbarco e sbarco di cavalli lo rinnovò più volte, per modo che ne' soldati quando si volea rimproverare ad un tale che non adempiva le sue promesse, o le procrastinava, si dicea: tu imbarchi e sbarchi cavalli!

Il Pianelli condotto a termine quello che sanno i nostri benevoli lettori, mentre i

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suoi fratelli d'armi si batteano contro il nemico, il 2 Settembre si dimise da Ministro, e il 5 andò a Roma; il Papa lo cacciò.

Potea bene andarsene a Capua o Gaeta, ove lo chiamava il suo onore e il suo dovere militare: ma egli si contentò andarsene prima in Francia, e poi a Torino per ottenere il posto che gli apparteneva. Il generale Pianelli tutt'ora afferma che si resse con lealtà nella catastrofe della dinastia e del Regno delle due Sicilie. Io ripeto quello che dissi a proposito del generale Lanza: che gli uomini e la storia giudicano de' fatti, dell'interno dell'anima nostra giudica il solo Iddio. Gli uomini e la storia, metteranno il generale Pianelli assai beneficato da' Borboni ne' cinque uomini fatali alla dinastia e al Regno delle Due Sicilie.

Salerno, Città Capo-luogo di provincia, si vuole che avesse avuto cotesto nome da due piccoli fiumi, i quali bagnano il suo territorio, Sele ed Erno.

Salerno dista 30 miglia da Napoli ed è abitata da circa trentamila anime, e giace sul golfo del suo nome: le sue strade sono strette e selciate di lava del Vesuvio: vi è però una bellissima passeggiata alla marina ed è considerevole il palazzo

dell'Intendenza.

È celebre per la tomba di S. Gregorio VII, per la sua università fondata da Roberto Guiscardo nel secolo IX, e per l'antica scuola di Medicina, dalla quale uscirono uomini illustri ed opere insigni. È patria del celebre filosofo Antonio Genovese. Questa Città abbonda d'ogni ben di Dio, e la sua posizione è amena e ridente.

Al Campo di Salerno si aggiunsero altri piccoli campi di truppe intermedie, cioè a Cava, a Nocera di Pagani ed una brigata ad Avellino.

Salerno era allora una città esaltata, e direi anche rivoluzionaria, però con non poche eccezioni. Ciò nonostante rimasero tutti tranquilli; e non fecero mancare i viveri alla truppa.

I soldati di Salerno erano spettatori dolenti del passaggio de' compagni d'armi che ritornavano dalle Calabrie. Quegl'infelici erano disarmati, laceri e digiuni, non pochi feriti e si strascinavano a stento, che era una pietà a vederli. Quella vista sconfortava ed opprimeva gli animi già costernati del resto della truppa, la quale dovea battersi tra poco. Però le due brigate di Salerno aveano una grande fiducia ne' loro capi Meckel e Bosco. Questa fiducia le faceva ardite ad affrontare un nemico che vinceva a furia di tradimenti.

Dalle Calabrie assieme alle catastrofi militari giungevano le notizie de' governi provvisorii stabiliti in quelle province, ove si bruciavano archivii, si pubblicavano liste di proscrizione contro i cittadini più rispettabili, si tassavano i ricchi, e si sorvegliavano tutti coloro che non si mostrassero intieramente devoti alla rivoluzione: a quest'anarchica tirannia, al solito, si dava il nome di libertà e di redenzione. Quello però che più spaventava le popolazioni, erano le vendette private perpetrate da' malvagi contro le persone oneste.

I fatti di Calabria commossero il Regno: i rivoluzionarii di tutte le province si davano a lavorare a favore di Garibaldi: ove non erano soldati si proclamarono il

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governo provvisorio; e lo proclamarono pure in que' paesi ov'era la truppa con capi vili o felloni, come avvenne a Potenza.

Giovanni Matina e il modenese Luigi Fabrizi, accozzarono un duecento tra rivoltosi, e gente che si presta a tutto, e si recarono in Basilicata, ove gridarono Garibaldi Dittatore. Il Sottointendente di Sala, Luigi Guerritore, con solenne atto del 30 agosto riconobbe il governo provvisorio, e dichiarò di mettere nelle mani del colonnello

Matina e del cittadino Fabrizi tutti i poteri militari e civili. Questi due si dichiararono il primo Prodittatore, (non gli bastò l'essersi fatto colonnello), il secondo capo dell'insurrezione. S'impossessarono, già s'intende, del danaro pubblico: fecero un'ordinanza pel disarmo dei cittadini, e minacciarono fucilazioni a chi non avesse sostenuta la rivoluzione.

Ribassarono il sale, e misero in libertà tutti i carcerati per qualunque siasi delitto.

Un Lorenzo Curzio, il 27 agosto proclamò Garibaldi Dittatore in S. Angelo di Fasanella nel distretto di Campagna.

Stefano Passero fece lo stesso il 31 agosto a Vallo, e s si fece comandante di esercito, creando governi a Gioj, a Stio, a Laurino. Tutti i governi provvisorii erano seguiti da spoliazioni di pubbliche casse; difatti alcuni maligni non cantavano più «la case d'Italia son fatte per noi, - ma le casse

d'Italia sono fatte per noi.» In seguito venivano le persecuzioni agli impiegati e funzionarii che si mostrassero aderenti alla rivoluzione: in ultimo lo sfogo di popolo,

cioè le vendette private.

In terra di Lavoro i rivoluzionarii aveano poco da fare, perché la truppa era vicina, e quelle popolazioni erano poco disposte a novità. Pur nondimeno l'Intendente Conte Viti servitore ed adulatore de' Borboni con parole e con iscritti, coadiuvato dal Giudice Ruspoli spedito da D. Liborio, riunì sul Matese un trecento giovani e li mandò a Garibaldi.

Nelle Puglie furono rivolture e reazioni. A Matera si uccisero i liberali, a Bari si gridò viva Francesco II, si assalì la Guardia Nazionale faziosa, e si scacciarono i ribelli dalla Città. Però il Ministero liberale mandò soldati per opprimere coloro che non volessero l'unità italiana, e che erano fedeli al Re. Ad Ariano, il 4 settembre scoppiò la reazione, si uccisero molti liberali, ed altri fuggirono.

In Foggia, il 17 Agosto accadde un moto rivoluzionario.

Ivi erano due squadroni del 2° Dragoni comandati dal maggiore Maresca; costui lasciò fare senza opposizione alcuna. Il maresciallo Flores, che poi si diede alla rivoluzione, trovandosi allora in Bari, e sentendo i moti di Foggia, mandò soldati per soffocarli: ma un ordine ministeriale li fece tornare addietro.

In Ostuni ne' primi di Settembre si stabilì il governo provvisorio. Tutta la truppa che trovavasi nelle Puglie fu chiamata in Capua ne' primi di settembre, e quelle Province proclamarono il governo provvisorio.

I soli lontani Abruzzi stavano cheti. Vi era però il generale de Benedictis che comandava quelle province, e nutriva il fuoco sotto la cenere per farlo divampare a tempo opportuno. Di questo generale tanto beneficato dai Borboni ne parlerò a lungo tra non guari, essendosi distinto tra la classe de' felloni e traditori.

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Mentre le Province del reame erano in quello stato che abbiamo detto, in Napoli le sorti della Monarchia andavano sempre di male in peggio.

Si diceva che il Campo di Salerno era una utopia, che que' soldati non si sarebbero battuti contro Garibaldi, e che costui sarebbe entrato in Napoli senza tirare un colpo di fucile. Difatti lo stesso Garibaldi, che sapea quel che diceva, dalle Calabrie profetava che il dì 8 settembre dovesse funzionare da Sovrano in Piedigrotta. Gli amici del Re non si davano pace riflettendo, che, un Regno fornito di tutti i mezzi possibile a far la guerra, dovesse cadere inonoratamente al solo comparire di pochi avventurieri!

In que' giorni fu tolto Ritucci dal comando della Piazza, e messo in sua vece Cutrofiano; Ischitella prese il comando della Guardia nazionale. Il Cutrofiano, in onta all'opposizione de' ministri, proclamò il vero stato di assedio, minacciando giudizii militari a' contravventori. Si capì che quegli ordini erano contro i rivoluzionari, e quindi maledizioni e calunnie a danno del generale Cutrofiano.

Ciò spiacque al ministero perché volea ordinanze draconiane contro i soli amici del Re. Ad aggravare i sospetti contro quel comandante della Piazza di Napoli, il 29 agosto apparve a' cantoni della Città un indirizzo col titolo: Appello di salute pubblica - Il popolo napoletano al suo Re Francesco II.

Questo appello dicea, pregarsi il Re di liberare il suo popolo e la monarchi dall'estrema ruina, e dall'imminente schiavitù sotto il dominio di avventurieri che famelici si avanzavano sopra la Capitale, e che avrebbero distrutta l'indipendenza del Regno, la ricchezza, e la religione. «Sire, continuava, salvate il vostro popolo in nome di tutti que' diritti e doveri che avete verso questo Regno, sguainate la spada di Carlo III vostro predecessore, e liberateci dagli stranieri, come quegli liberò i nostri padri dal giogo tedesco. Sire, la patria pericolante vi chiede quattro provvedimenti: 1° Il ministero è traditore: discacciatelo. Chiamate alla potestà uomini onorati e devoti al popolo, alla corona, alla costituzione 2° Molti stranieri cospirano contro il trono e la nazione: espelleteli 3° In Napoli sono molti depositi d'armi: si sequestrino 4° Tutta la polizia è del nemico: mettete invece di essa una polizia onesta e fedele. Sire, questo vi chiede il popolo napoletano. L'esercito è devoto: sguainate la spada, e salvate il paese. Quando è per voi il diritto e la giustizia, è Dio con voi.»

La setta, se bene trionfante, nondimeno, a quell'indirizzò impaurì, segno non dubbio della sua debolezza.

Si cercò l'autore dell'indirizzo, e si seppe per mezzo di un tale Diana garzone della tipografia Ferrante, l'autore essere un Prete francese, Ercole Sangliers, che abitava via S. Teresa. Il Prete Francese fu arrestato, ma non era stato egli l'autore dell'indirizzo. I realisti napoletani sapendo per prova come erano trattati dalla polizia settaria, si servirono di quel prete straniero per istampare l'indirizzo e pubblicarlo.

D. Liborio in persona si recò alla Tipografia Ferrante, ove sequestrò ottomila copie di quell'indirizzo. D. Liborio e Pianelli, pieni di sacro orrore dell'attentato de' realisti, si recarono dal Re, e gli dissero che il trono e la patria aveano oramai ottenuta salvezza, essendo state sequestrate ottomila copie dell'indirizzo che gli aveano fatto i sanfedisti.


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Il Re rispose poche parole, ma che riassumevano mirabilmente lo stato di Napoli, e la politica di que' due ministri. Ecco testualmente le parole di Francesco II: «Siete più bravi a scoprire cospirazioni realiste che settarie.»

I ministri e i liberali accusarono il fedele ed energico Cutrofiano, e l'ottimo Conte di Trapani zio del Re, come autori di quell'indirizzo. Intanto la sera del 1° settembre al Teatro Nuovo si gridò viva Garibaldi, e tutto il seguito: né D. Liborio né Pianelli trovarono nulla da osservare sopra quella dimostrazione antidinastica, e contro l'indipendenza del Regno.

Cavour avea mandato a Napoli il generale Alessandro Nunziante, credendolo onnipossente nell'armata napoletana, e costui nulla ottenne dopo tanti conciliaboli tenuti con Persano, con Villamarina, con Carrano uffiziale dello Stato maggiore di Garibaldi, col Conte di Siracusa, con D. Liborio, con Nisco, con Poerio, e con alcuni uffiziali traditori. Cavour restò scornato, e forse dolente di essersi insudiciato in un uomo che avea tradito i suoi benefattori. Nondimeno volle tentare l'ultima prova, scrisse a Persano e gli ordinò che facesse dar fuori una proclamazione al generale Nunziante per far disertare i battaglioni napoletani: costui ossequente ai nuovi padroni schiccherò la seguente proclamazione.

«Compagni d'arme, già è pochi dì, lasciandovi l'addio, vi esortava ad esser forti contro i nemici d'Italia, e dar prove di militari virtù nella via aperta dalla Provvidenza a tutti i figli della patria comune. Ora è giunto il momento. Da voi lontano si è accresciuto in me il pensiero della vostra gloria e prosperità; e studiate le italiche ed europee condizioni, forte mi sono convinto non esservi altra via di salute per voi e per cotesta bella parte d'Italia che l'unirsi sotto il glorioso scettro di V. Emmanuele: di questo ammirevole monarca, già dall'eroico Garibaldi annunziato alla Sicilia, e scelto da Dio per costituire a grande nazione la nostra patria indegnamente spogliata.

Tal pensiero mi ha condotto a voi, e mi spinge a compiere fraternamente il santo mandato di cui ne' supremi bisogni della patria ciascuno è investito. Sinchè Dio volle l'Italia divisa, fui più che altri fido alla causa che mi trovava avere abbracciata. Ma quando l'Onnipotente tende ad unirla, chiunque non ne siegue l'impulso è traditore della Patria. Questa santa verità si rivela da sè alla coscienza e vi spinge a diserzioni parziali. Ma tal via è funesta all'Italia. Vittorio, nel quale è l'Italia incarnata, ha bisogno di aver tutti uniti per rivolgere le vostre braccia contro lo straniero.»

Questa proclamazione ottenne un risultato contrario a quello che si sperava il Nunziante e consorti. I soldati la respinsero conoscendo esserne l'autore un Alessandro Nunziante, prima consigliere di tirannide, or fatto arnese di setta per migliorare le proprie condizioni. Egli avea l'impudenza di proclamare il Regno delle due Sicilie indegnamente spogliato da' Borboni! egli fatto ricco sotto i Borboni! ed osava chiamar traditori coloro che non tradissero come lui! Buon per lui che non si fece vedere dai soldati, ma invece si facea condurre per Napoli vestito da pagliaccio.

In quel pandemonio napoletano anche quel gran galantuomo di Napoleone III fece sentire la sua voce chioccia per accrescere il baccano.

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Dimandò riparazione delle libere bastonate largite al suo ministro Brenier; egli che non avea niente da notare contro l'arresto del prete francese Sanglier perché questi era amico de' realisti; volea poi soddisfazione dal governo del re per quelle bastonate largite al suo ministro, da quel popolo ch'egli volle a forza sovrano. Quel crimine coronato (come lo chiamò poi il Re di Prussia), per mezzo del suo ministro degli esteri Thouvenel, domandò pure il ristoramento di tutti i danni sofferti da' francesi in Sicilia; come se que' danni fossero stati arrecati dalla sol truppa. Il ministero liberale si affrettò a pagar tutto col danaro dello Stato, e mandò a Parigi il duca di Caianello con autografo del Re diretto al Sire francese. Dopo queste e tante altre scelleraggini commesse da quel tristo imperatore a danno della dinastia e del Regno, vi furono degli uomini così detti dotti, eminenti e politici, che ancora si vantano borbonici, i quali consigliavano re Francesco a sperare in Napoleone III anche nell'esilio di Roma!

Il generale Cutrofiano comandante della Piazza di Napoli, per mantenere l'ordine avea messo soldati nelle strade di questa Città. Il Ministero corse al Re ed accusò Cutrofiano, pregandolo il cacciasse da Napoli. Il Re per contentare que' traditori, si decise di sacrificar tutto anzi che negarsi, ed acquistare la nota di reazionario. In cambio andò comandante della Piazza il generale Cataldo. Ischitella lasciò il comando della Guardia nazionale, e fu surrogato dal generale de Sauget. Il Ministero e la stampa proclamarono Cataldo e de Sauget degnissimi di quei posti, e que' due Generali non ismentirono gli elogi de' settarii. E così il Ministero respirò libero con tutta la setta che rappresentava e capitanava.

I Capi della Guardia nazionale furono dal Re assicurati, che in Napoli non vi sarebbe guerra: e il Ministro degli esteri de Martino avea fatta la proposta di fare Napoli neutrale per salvarla dagli orrori della guerra civile.

Il Re, dovendo tentare la sorte delle armi per salvare la Monarchia, il 29 agosto invitò il Ministero a risolvere come difendere Napoli da un conflitto. I ministri risposero, che, se volea continuar la guerra, Napoli non si sarebbe potuta salvare dalla guerra civile: unico mezzo, dissero, lasciare il Regno a Garibaldi, e andarsene in esilio che gioia di Ministero..! Il Re accomiatò que' ministri, e disse che andrebbe a combattere, e penserebbe ad evitare il sangue nella capitale.

Re Francesco avea già ben capito cosa volesse quel Ministero, e come durando al potere quegli uomini, nulla avrebbe potuto fare a vantaggio del popolo e della Monarchia. Si argomentò di fare un nuovo ministero liberale ma dinastico. Chiamò Ischitella, Falcone, Cenni, Gigli, e Lauria, ma tutti trovarono difficoltà ad imbarcarsi in quel mare procelloso. Alcuni bene accetti in corte, nella bufèra trepidarono ad accettare un posto che era stato il più bello ideale della loro vita. La gloria non si può acquistare senza vincere le grandi difficoltà, e quanto queste sono più grandi altrettanto è il merito di averle superate. Essi accettando, dopo di avere usati tutti i mezzi convenienti, se non avessero potuto salvare la dinastia ed il Regno, la loro caduta sarebbe stata un insigne trionfo. Spesse volte la gloria rifulge più smagliante sul capo del vinto che su quello del vincitore.

Fu chiamato in ultimo il Marchese Pietro Ulloa, per formare un nuovo ministero,

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e costui consigliò il Re di lasciare il ministero Spinelli come trovavasi quantunque fedifrago; imperocchè, dicea con la rovina del Regno peserebbe più terribile l'infamia sul capo di quei ministri traditori. Dimostrò inoltre, la questione essere puramente militare, e voler formare in que' momenti un ministero onesto, e dinastico si sarebbe ritenuto come un colpo di Stato.

Questo consiglio si ritenne arguto e sapiente, ed io mi sottoscrivo in quanto all'infamia non peritura toccata in retaggio a quel ministero senza Patria e senza Dio.

Intanto la dinastia cadde, il paese divenne tributario d'altre province, tutto si perdè fuor che l'infamia del ministero liberale..! Che monta pel benessere e la vita di un popolo? L'obbligo di un re non è quello di perdere un Regno per infamare i suoi nemici, e i traditori, ma egli dee pagar questi con la stessa moneta che spacciano. I nemici operavano con audacia, con altrettanta si dovea a loro rispondere: si dovea dar bando a quegli scrupoli di un così detto colpo di Stato. I colpi di Stato, con l'aggiunta d'insanguinare le città, sono forse leciti a' soli rivoluzionari coronati e senza corona? Si dovea prima pensare a salvare la dinastia e il Regno, e poi il Re potea mostrare la sua clemenza mantenendo la Costituzione, giacchè la giudicava utile a' suoi popoli.

Irivoluzionari hanno un'altra sciocca pretensione, cioè che i sovrani costituzionali debbono essere ligi alla giurata Costituzione; essi poi si possono servire di questa per congiurare, infamarli, e detronizzarli: e se i sovrani si difendono, sono proclamati reazionarii. Difatti nel 1848 si servirono della Costituzione per riunirsi al palazzo Gravina in Napoli e fare quella buffonata detronizzando Ferdinando II, dopo che questo sovrano avea mandato un corpo di esercito sul Po contro i Tedeschi. Perché costui si difese, e sospese la Costituzione, ancora si grida contro quel Re, come se il giuramento obbligasse i soli sovrani; mentre mancando una parte contraente, l'altra non è più obbligata ad adempiere il giuramento.

Mi si dirà che un colpo di Stato fatto nel 1860 da Francesco II, avrebbe insanguinata Napoli: non lo credo; anzi sono di avviso che questa Città sarebbe rientrata nella sua calma abituale. Componendo il Re un Ministero onesto, dando il comando della Piazza ad un Generale di sua fiducia, sciogliendo la Guardia nazionale, e la polizia de' Camorristi,

arrestando o cacciando i comitati rivoluzionari, e tutti gli stranieri settarii; distruggendo quella stampa immonda, Napoli sarebbe divenuta un cenobio. L'audacia dei rivoluzionari era fondata sulla indecisione della Corte e sulla protezione del Ministero Spinelli, principalmente sopra D. Liborio, Ministro dell'interno, e capo di fatto di tutto il Ministero.

IIRe avea tutti i mezzi di fare quel così detto colpo di stato; la gran maggioranza della popolazione era con lui, la truppa gli era fedelissima, ed io che vissi in mezzo alla stessa, e che godea la fiducia di tutti, posso assicurarlo francamente; Capua, il Garigliano, e Gaeta confermarono quanto io asserisco. Sarebbe stato sufficiente un sol battaglione di soldati per mettere a dovere tutti que' cicaloni di Napoli, che faceano tanta paura agli imbecilli. Non mi si dica che quei soldati avrebbero profittato171

gittandosi al saccheggio, ed avrebbero costretti i cittadini alla resistenza e quindi alla guerra civile e al sangue. Ripeto che io conoscea bene i soldati, e posso assicurare essere questa una vera calunnia spacciata da' rivoluzionari o nemici del Re. E concesso pure che i soldati avessero saccheggiato, e che Napoli fosse stata teatro di guerra civile e di sangue, quando con questi sacrifizi si fosse salvata la Monarchia, e il benessere di molti e del Regno, questi mali sarebbero stati di gran lunga minori al saccheggio che ha sofferto il reame, ed al sangue che si versò poi. La guerra è un gran flagello, ma spesso è necessaria per evitare mali maggiori.

Infine mi si potrebbe opporre la marcia trionfale di Garibaldi sopra la Capitala: baie! Tolto a questo duce rivoluzionario la base della sua forza che era il Ministero Spinelli ed i suoi aderenti, il distruggerlo era la cosa più facile. Abbiamo già veduto il come vincesse quel condottiero di rivoluzionati, cioè con le solite tragicommedie guerresche disarmava o scioglieva intieri corpi di eserciti, perché in Napoli invece di comandare Francesco II, comandava Garibaldi sin dal momento che questo Sovrano diede la Costituzione, e che afferrarono il potere D. Liborio Romano e il generale Pianelli.

Alla monarchia rimaneano cinquantamila buoni soldati desiderosi di cancellare le patite onte. A capo di que' soldati si sarebbe dovuto mettere un Generale di fiducia del Re, e di quegli onesti e prodi che non ne mancavano, ed ove fossero mancati, sarebbesi potuto creare da un semplice uffiziale. Si doveano formare due o tre corpi di eserciti, e scagliarli addosso a que' disordinati garibaldini. Il primo successo non della truppa avrebbe distrutta irreparabilmente l'opera tragicomica di Garibaldi, avrebbe fatto abbassar la cresta a' rivoluzionati di tutto il Reame, ed alzare agli amici della dinastia: il resto veniva da se. La guerra cruenta sul Volturno, benchè i soldati fossero più abbattuti moralmente, e che Garibaldi avesse acquistata altra forza morale e materiale, prova che si potea battere e distruggere costui facilmente nelle pianure di Salerno.

Restava a provvedere per la flotta. I comandanti settarii e traditori della flotta napoletana al sentire che Napoli non era più dominata da D. Liborio e compagnia, avrebbero pensato al proprio interesse; avrebbero riflettuto che in Napoli aveano le famiglie, che i cannoni de' forti erano nella mani degli amici del Re, e che le ciurme erano fedeli al proprio sovrano; e tutta questa salutare meditazione avrebbe loro impedito di far pazzie e fellonie. E così l'ammiraglio sardo Persano sarebbe rimasto col desiderio d'impossessarsi a qualunque costo

della flotta napoletana, ad onta che avesse gettata una grossa àncora all'imboccatura del porto militare e messa la fregata Carlo Alberto

in quel luogo fingendo di pescarla; ma la vera ragione era per impedire i legni regi di uscire dal porto. Persano avrebbe dovuto mutar tattica e politica secondo gli ordini del suo padrone Cavour, ed avrebbe dovuto scrivere a costui, che tutto era perduto anche l'onore!...

La setta s'impossessò di Napoli e del Regno, non per le sole fellonie de' traditori, ma principalmente pel modo di operare degli stessi amici e devoti al Re, i quali nel momento della crisi perdettero la testa non ragionarono più, non ebbero né senno

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né cuore di dare al giovine sovrano appoggio, e consigli energici tanto necessarii in quelle difficili circostanze. Gli uomini di stato si conoscono nelle crisi sociali, come i buoni piloti nelle tempeste. Speciosa fu poi l'osservazione fatta dal Marchese Pietro Ulloa, cioè che la monarchia cadde perché non si trovò un generale per sorreggerla: ed io aggiungo, cadde perché non si trovò un uomo politico di cuore per salvarla, dapoichè questi avrebbe trovato il Generale che si desiderava.


CAPITOLO XXII

Re Francesco consigliato e spinto da' nemici e dagli amici, si risolse a lasciar Napoli in balìa della rivoluzione, mosso dalla grande e generosa idea di non insanguinare con la guerra civile

questa sua diletta patria. Il 5 settembre chiamò i Ministri, e disse loro, che uscirebbe da Napoli il dì appresso. Diede incarico al Presidente Spinelli di scrivere una proclamazione: questi la commise a D. Liborio, il quale l'avea scritta da più giorni; e il Dumas assicura di averla letta il 2 Settembre. Ecco la proclamazione.

«Fra i doveri prescritti a' re, quelli dei giorni di sventura sono i più solenni, ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso, quale si addice al discendente di tanti monarchi.

A tale scopo rivolgo ancora una volta la mia voce al popolo del mio Regno, da cui mi allontano col dolore di non aver potuto sacrificare la mia vita per la sua felicità e la sua gloria.

Una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei Stati, nonostante che io fossi in pace con tutte le potenze europee. I mutati ordini governativi, la mia adesione ai grandi principii nazionali non valsero ad allontanarla, che anzi la necessità di difendere l'integrità dello Stato trascinò seco avvenimenti che ho sempre deplorati. Ond'io sollennemente protesto contro tale invasione, e ne faccio appello alla giustizia di tutte le nazioni incivilite.

Il corpo diplomatico residente presso la mia persona seppe fin d'allora di quali sentimenti era compreso l'animo mio verso questa illustre metropoli del Regno. Salvare dalla rovine e dalla guerra i suoi abitanti e le loro proprietà, gli edifizi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni d'arte, e tutto quello che forma il patrimonio della sua civiltà e della sua grandezza, e che, appartenendo alle generazioni future, è superiore alle passioni di un tempo.

Questa parola è giunta l'ora di profferirla. La guerra si avvicina alle mura della Città, e con dolore ineffabile io mi allontano con una parte dell'armata, trasportandomi là dove la difesa de' miei diritti mi chiama - L'altra parte di questa nobile armata resta, per contribuire all'inviolabilità e incolumità della capitale, che, come un palladio sacro raccomando al ministero, al Sindaco, e al comandante della guardia nazionale. La prova che chiedo all'onore e al civismo di essi è di risparmiare a questa patria carissima gli orrori dei disordini interni e i disastri della guerra vicina,

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a qual uopo concedo loro tutte le necessarie e più estese facoltà di reggimento.

Discendente di una dinastia che per 126 anni regnò in queste contrade continentali, i miei affetti son qui. Io son napoletano; né potrei senza grave rammarico, dirigere parole di addio a' miei amatissimi sudditi.

Qualunque sarà il mio destino, prospero od avverso, serberò per essi forti ed amorevoli rimembranze. Raccomando loro la concordia, la pace, i doveri cittadini, e che uno smodato zelo per la mia sorte non diventi face di turbolenze.

Quando alla giustizia di Dio piacerò restituirmi al trono de' miei maggiori, quello che imploro è di rivedere i popoli concordi e felici.»

Napoli, 5 settembre 1860

Francesco II

Non dee recar meraviglia se in questa proclamazione s'incontrano idee false, dapoichè, come ho già detto fu scritta dal celebre D. Liborio Romano.

Il ministro degli esteri de Martino, scrisse a nome del Re una protesta per mandarla a tutte le potenze: non vale la pena trascriverla, perché altro non dice che la storia dell'invasione garibaldina aiutata dal Piemonte, la partenza del Re per non insanguinare la Capitale, e che Costui si riserbava tutti i titoli, ragioni, e diritti garentiti da' trattati.

Un'altra proclamazione della polizia settaria comparve il giorno 6 settembre su i cantoni della città: e siccome è l'espressione del ministero Spinelli, che già si levava la maschera per operare apertamente, mette conto trascriverla in queste pagine. La proclamazione della polizia, scritta da D. Liborio, è degna di chi la scrisse. Eccola:

«Cittadini, il Re parte. Fra un'altra sventura che si ritira e un gran principio che si avanza trionfante non potete star dubbiosi. L'una vi impone il raccoglimento al cospetto della maestà eclissata, l'altra vuole il buon senso, l'abnegazione, la prudenza, il coraggio civile. Nessuno di voi turberà lo sviluppo degli eroici destini d'Italia. Nessuno dilanierà la patria con mani vendicatrici e scellerate. (D. Liborio si mettea paura per sè?) Attendete calmi il memorabile giorno che schiuderò al vostro paese la via di uscire da' perigli, senza altre convulsioni e senza spargere sangue fraterno.

Esso è vicino, ma, aspettandolo, la città sia calma.

Il commercio continui confidente; ciascuno duri nelle consuete bisogne; tutte le menti si uniscano nel sublime accordo della pubblica salute. Per vostra sicurezza la polizia è in permanenza; la Guardia nazionale veglia sull'armi. In tal guisa, cittadini voi non renderete inutile il lungo e paziente sagrifizio di quelli che sfidarono le incertezze degli eventi, e si sono sagrificati al governo della cosa pubblica, e che stogliendo i pericoli minaccianti la vostra libertà, e l'indipendenza della nazione, ne furono i vigili e fermi guardiani.

Eglino proseguiranno il nobile mandato (ne siamo persuasi), e sono certi che la vostra concordia e condotta aiuteranli ancora a sormontare le ultime difficoltà, e che non saranno sforzati a convocare la severità delle leggi contro le insensate agitazioni de' partiti estremi. (questo lo sappiamo pure che è riservato a voi solamente).

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Così compieransi i nostri destini; (con la severità delle leggi?!) e la storia che terrà conto del patriottismo (e delle fellonie) di quelli che la governano, dispenserà del pari la gloria alla salvezza civile di questo popolo veramente italiano.»

Si divulgò subito in Napoli la notizia che il Re partisse. Gli onesti, gli amici della dinastia previdero ruine; e trionfi de' tristi, per allora paurosi si chiusero in casa, e quelli che aveano mezzi presero la via dell'esilio.

La setta sentì sicuro il suo trionfo, e diede il motto d'ordine di cessare l'agitazione fittizia popolare, difatti Napoli rientrò in una specie di calma che facea paura più che qualunque agitazione, perché faceva vivere nell'incertezza la più desolante.

Il ministero si valse dell'ore estreme della monarchia per infamarla, e togliere qualunque odio contro i rivoluzionarii, avendo costoro stabilità di rovinare tutte quelle famiglie che non aveano voluto parteggiare per la setta. Difatti si fecero firmare innumerevoli decreti da Francesco II con i quali si destituivano onesti ed antichi uffiziali non che impiegati civili, e se ne creavano dei nuovi solo conosciuti da' settarii. Chi volea un brevetto di nomina regia dopo la partenza del Re, l'ottenea con l'antidata, ma (vedi rigenerazione!) con dar delle mance. Ne' primi dieci giorni del governo di Garibaldi, il giornale uffiziale usciva ogni giorno pieno di decreti firmati dal Re Francesco!...

Il ministero Spinelli che fingeva patire inopia di tutto, quando il Re volea combattere Garibaldi, per la partenza del Sovrano avea tutto pronto. Carri, armi, vettovagli pe' soldati, e le strade ferrate pronte. Si chiesero danari per tre mesi di soldo, finse non negarsi, e poi non li diede. Compiangevasi la sorte del Sovrano, e lo si aiutava in tutto a partir subito. Negli ultimi momenti del Regno, quel fedifrago ministero trattava Francesco II, come l'avrebbe dovuto trattar sempre, se gli uomini che lo componevano fossero stati davvero onesti e patrioti.

Sulle ore 3 pomeridiane del 6 settembre, i Ministri si presentarono al Re. Questi loro rivolse brevi e dignitose parole, manifestando i pericoli che correa l'autonomia del Regno, e i mali imminenti che ne derivavano. Francesco II diede loro una lettera scritta di proprio pugno con la quale comunicava la facoltà amplissima di reggere la cosa pubblica, con far qualunque sacrifizio per evitare alla sua diletta Napoli gli orrori della guerra civile. Esempio unico nella storia! Poi voltandosi piacevolmente a D. Liborio Romano, gli disse: «Voi D. Liborio, cercatevi un passaporto per assicurarvi il capo.» All'onestissimo Sindaco Principe d'Alessandria, e al de Sauget capo della Guardia nazionale, raccomandò le tutela di questa Città che i rivoluzionarii dicevano che Egli odiasse.

Ov'erano allora i cortegiani de' tempi felici? Infamia! Alcuni imbecilli si nascondevano perché aveano abusato dei favori della Corte, e per quanto si mostrarono burbanzosi ne' tempi di prosperità, tanto codardi e vili si mostrarono nella sventura. Altri paurosi delle prepotenze che aveano fatte presero la via dell'esilio per salvarsi la pelle. Altri infine non coraggiosi ma impudenti, per non perdere la pagnotta

e il potere, si preparavano a ricevere il nuovo padrone Garibaldi.

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Però ho detto di sopra, che la classe più distinta dell'aristocrazia napoletana seguì il Re nell'esilio, ma non tutti pel principio borbonico, molti per ispeculazione, come poi lo dimostrarono co' fatti. È questa la sorte di tutte le dinastie che tramontano!

Oh! come avrei contentato il mio cuore se avessi potuto classificare i nomi di tutti, additandoli alla posterità: ma non è possibile, e debbo attenermi a giudizi generici.

Re Francesco II, il discendente di tanti sovrani, mentre lasciava la splendida Reggia di Napoli e si avviava all'esilio, depositando la più bella e ricca corona d'Italia per non insanguinare la sua diletta patria, era accompagnato dalla giovanetta sposa, Maria Sofia Amalia di Baviera, da quattro soli personaggi napoletani, e dalla Duchessa di S. Cesario dama di onore della Regina; oltre del segretario Ruiz, de' quali terrà conto la storia sino alla più tarda posterità. Que' quattro personaggi fortunati sono: il maresciallo Duca Riccardo de Sangro! basterebbe questo sol nome, superiore a qualunque encomio per dimostrare di quali uomini fu circondata la dinastia borbonica nella sventura. Riccardo de Sangro, il fervente cattolico, era il prototipo della più distinta e ricca aristocrazia del Reame: onorato ed amato in Corte, e da' suoi concittadini per le sue non comuni virtù, e per la sua fedeltà a tutta prova verso la Patria e verso il suo Re. Egli lasciava le sue ricchezze, i suoi comodi, la sua diletta famiglia..! e seguiva la sventura! La sua fine gloriosa di gentiluomo e di soldato sarà da me scritta quando ragionerò de' fatti di Gaeta, dappoichè ebbi l'alto onore di assisterlo, per ordine di Francesco II, sotto la casamatta regia nelle ore estreme della sua vita esemplare.

Gli altri uomini illustri che accompagnarono la Maestà eclissata, sono: il Duca S. Vito, il Principe Ruffano, l'ammiraglio Federico del Re. Oggi tutti e quattro tra il numero de' trapassati, chi in Gaeta, chi in volontario esilio; avendo lasciato alle proprie famiglie la più bella gloria «che forse non morrà «acquistata con nobilissima risoluzione il 6 settembre 1860!

Il Re in quel giorno scendea della Reggia e saliva sulla Saetta

piccolo battello a vapore napoletano, comandato dal fedele Tenente Vincenzo Criscuolo, e partiva sull'imbrunire per Gaeta. Seguivano sopra altro legnetto a vapore, il Delfino,

i cinque signori sopra nominati.

Francesco II lasciò ne' banchi trentatre milioni di ducati moneta sonante:

lasciò ricchissimi Musei, Reggie suntuose, arsenali, e tanti monumenti e ricchezze che sarebbe lungo a descrivere: e tutte cose retaggio degli avi suoi: dapoichè si sà come trovò il Regno l'avolo suo Carlo III dopo che cacciò i Tedeschi da queste contrade italiche. Il Re partiva! ed ognuno si domandava, qual sarà la nostra sorte e quella del Regno?!

Quando passò la Saetta

in mezzo alla flotta napoletana, le ciurme di questa gridarono: Viva il Re.

La flotta avea avuto l'ordine di seguire il Sovrano a Gaeta, e tutti i comandanti di quei legni aveano promesso di ubbidire. Intanto il giorno precedente, il Persano, Ammiraglio Piemontese, avendo confabulato con gli ufficiali traditori, avea fatto togliere alcune valvole dalle macchine, ed i franelli delle barre de' timoni, ed avea


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fatto eseguire altri simili guasti alle macchine de' piroscafi da inutilizzarli a potersi muovere nel porto. Il Persano vanta nel suo Diario queste fellonie..! I marinari voleano seguire il Re, ma gli uffiziali che si erano venduti alla rivoluzione, dissero loro che il sovrano l'avrebbe mandati a Trieste per servire l'Austria, e che non sarebbe più permesso loro di ritornare a Napoli. Le ciurme non rimasero persuase di quello che diceano furbescamente gli uffiziali traditori: e mancò tra quelle ciurme un uomo ardito per mettersi alla testa de' fedeli marinari, e seguire il Re, trascinando la flotta a Gaeta in qualunque modo. Però que' marinari non vollero poi servire né Garibaldi, né il Piemonte, e più di seicento si recarono alla spicciolata in Gaeta, ove i distinsero da riuscire i più prodi in quella Piazza.

La Saetta,

che conduce il Re a Gaeta incontrò diversi legni della flotta napoletana: tutti ebbero l'ordine di volgere a Gaeta, ma nessuno ubbidì; il solo generale Pasca comandante la fregata a vela Partenope,

che si trovava in rada, seguì la Saetta.

Persano dice nel suo Diario, che avrebbe voluto ritenere a forza la Partenope,

ma si astenne per non produrre cattivo effetto. L'Etna

ritornava da Ponza, e il comandante Viguna, non sapendo quello che fosse successo, entrò nel porto di Gaeta. Volle dimettersi, si dimisero eziandio gli uffiziali della Partenope,

e ritornarono a Napoli. Indicibile, viltà d'animo ingratissimo!

Il Re, per tutelare Napoli, oltre di aver dato ample facoltà al Ministero, lasciò nella città seimila uomini divisi in questo modo. Il colonnello de Liguoro col 9° di linea, al Castel Nuovo; il colonnello Perrone col 6° di linea diviso ne' Castelli del Carmine, dell'Uovo e S. Elmo; il Maggiore Golisani col 13° battaglione Cacciatori a Pizzofalcone; e finalmente Francesco Nunziante colonnello del Reggimento Marina nella Darsena. Il 9° di linea e il 13° Cacciatori voleano recarsi a Capua; il Re volle che restassero in Napoli sino a che consegnassero i Banchi, e poi si recassero a Gaeta.

Francesco II per non far saccheggiare il danaro depositato ne' Banchi che poi se lo prese Garibaldi perdette quasi per intiero il 13° Cacciatori, e tutto il reggimento Marina, ad eccezione di pochi soldati che fuggirono in Capua, come dirò tra non guari.

Appena partito il Re da Napoli, i ministri voltarono faccia, e mutarono livrea; degli ordini che loro avea lasciati il Sovrano nessuno ne adempirono; neppure vollero accusar ricevuta di un telegramma spedito da Gaeta. Il Fonzeca, tanto beneficato da' Borboni, non volle ricevere una lettera con la quale gli si ordinava di mandar le casse militari, preparate per Capua e Gaeta. Disse solamente: «sono stanco di ricevere ordini di lordure siffatte.

Molto comoda questa maniera di rispondere per coloro che debbono dar danaro! e se ne trovano molti i quali usano simili frasi, e cercano di infamarvi, se loro domandate il vostro danaro!

Il solo Salvatore Barone Carbonelli di Letino direttore de' lavori pubblici, scrisse al Re, e lo supplicò che l'ammettesse a Gaeta, e l'ottenne.

De' Ministri esteri accreditati presso la Corte di Napoli, si recarono a Gaeta, il

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Nunzio Apostolico, il Ministro di Russia, quello di Austria, di Prussia, del Brasile: quello di Spagna li avea preceduti. Villamarina, Ministro del Piemonte, com'era da aspettarsi, rimase in Napoli per dirigere i comitati rivoluzionarii, e ricevere Garibaldi. I Ministri di Francia e d'Inghilterra dissero che non poteano recarsi a Gaeta perché attendeano istruzioni de' proprii Governi. Però non appena videro le parate di Garibaldi, ritornarono a' loro paesi.

La partenza del Re da Napoli fu la causa di non combattersi in Salerno. Intanto su questa unica e principale causa se ne spacciano altre insussistenti e maligne da quelli stessi che si diceano e si dicono ancora amici del Re. Anzi, costoro asseriscono che il Re parti da Napoli, perché non si volle combattere in Salerno, cioè la causa la fanno effetto e viceversa.

Dopo le catastrofi delle Calabrie, il re fidava sopra quattro Generali come i più istruiti e i più valenti dell'esercito, cioè sopra Ischitella, Pianelli, Won Meckel, - o Mechel come altri scrivono - e Bosco. I tre primi furono contrarii a formare un campo in Salerno per arrestare la marcia di Garibaldi. Solo il Bosco e il giovine Colonnello Matteo Negri, furono a ciò favorevoli.

Ischitella prevedeva ruine e peggio al campo di Salerno dicendo: se i soldati vincessero, non sarebbe vittoria definitiva per l'ostilità del popolo; se perdessero, retrocederebbero sopra Napoli insieme al nemico, recando incendii, rapine e stragi. Meglio sarebbe, dicea, per carità di patria sciogliere l'esercito.

10già l'ho detto, che coloro i quali si diceano amici e devoti al Re, nell'ultima crisi del Regno aveano perduta la testa, ed uno di costoro era il generale Ischitella. Se tutti i Generali ammettessero simili principii e si facessero imporre dalle riflessioni insussistenti di costui, appena un Regno fosse assalito dal nemico, dovrebbe mette re giù le armi, e sciogliere gli eserciti per lo specioso pretesto della carità patria, quando sarebbe carità di patria la difesa ad oltranza per evitare mali maggiori. D'altronde i giudizii del generale Ischitella erano solamente un effetto della sua fan tasia. Il certo si è che il Regno avea ancora cinquantamila uomini che fremeano di battersi; Garibaldi non avea che un'accozzaglia di uomini che chiamava esercito. È poi assolutamente falso che il vero popolo fosse ostile alla Monarchia; al più il popo lo de' Camorristi

avrebbe, non già combattuto, ma acclamato il vincitore qualunque esso fosse. Nel caso poi che la truppa avesse perduta una battaglia nelle pianure di Salerno, non sarebbe stato né conveniente né necessario ritirarsi a Napoli, avrebbe potuto ripiegare sopra Capua.

Del generale Ministro Pianelli, non ritenendosi leale il suo consiglio, è meglio tacere.

Il Meckel disapprovava pure quel campo, e il 29 Agosto scriveva al Re, che il nemico potea girarlo dalla parte di Benevento, e che non si potea fidare sopra i tre battaglioni esteri. In effetto uno di que' battaglioni avea gridato: Viva Garibaldi,

e Meckel lo avea fatto retrocedere a Nocera. Questo Generale consigliava al Re di riti rare tutto l'esercito dietro il Volturno. Solo il generale Bosco consigliò al Re che si desse battaglia a Garibaldi nelle pianure di Salerno.

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Il Re, cui aveano fatto capire che nell'esercito di Salerno erano degli uffiziali traditori, ordinò a que' duci di scandagliare le disposizioni politiche e morali di quegli uffiziali. Afan de Rivera Gaetano, comandante in Capo l'esercito si Salerno, e Meckel comandante una brigata, risposero alternando assicurazioni e dubbi sulla fedeltà e sulle disposizioni di alcuni uffiziali. Bosco indagato lo spirito della sua brigata, il 5 settembre mandò a Napoli il Capitano Luigi Dusmet per assicurare il Re sulla buona disposizione de' suoi dipendenti, meno alcuni uffiziali dell'8° cacciatori, consigliava però di darsi battaglia nelle vicinanze di Salerno.

Tali differenti pareri tenevano il Re indeciso se avesse dovuto lasciare o togliere il campo di Salerno.

Per mezzo del ministro di Spagna Bermudez de Castro ne interrogò Girolamo Ulloa militare di gran mente, emigrato, e poi rimpatriato con l'amnistia (altri dicono il de Sauget)!

Ulloa il 5 settembre con una scritta consigliò levarsi il campo di Salerno, e ritirarsi tutto l'esercito dietro il Volturno; non potendosi sostenere colà, ritirarsi sul Garigliano; e però quando il bisogno lo richiedesse entrare in Gaeta. Però essere sempre necessaria LA PRESENZA DEL RE IN MEZZO ALL'ESERCITO.

In quanto a Napoli consigliava che i soldati rimanessero in possesso de' Castelli. Il Re seguì il parere di Girolamo Ulloa. Garibaldi in possesso della ricca capitale acquistò forza, prestigio, e mezzi per continuare la guerra, e tanto di più per quanto ne perdette la Monarchia.

Giunto l'ordine della ritirata, le due brigate di Salerno, il 6 settembre, retrocessero a Cava, Nocera di Pagani, Sarno, e Capua, ove si giunse la sera dell' 8.

Le popolazioni stupefatte e quasi atterrite, vedendo tornare indietro quella florida truppa guardavano con sospetto i generali ed i colonnelli.

La sera del 5 settembre il generale Bosco fu assalito da un dolore a' lobi, ch'egli suole soffrire ad intervalli, e per evitarlo facea continuo moto, anche esercitandosi alla scherma col sergente del 9° Cacciatori, Gennaro Ventimiglia, famoso schermitore.

Trovandosi in quello stato, e temendo che fosse sorpreso dal nemico che si avanzava, la sera innanzi che la truppa retrocedesse, si fece condurre a Napoli in casa de' suoi parenti.

Entrato Garibaldi nella Capitale, Bosco fu tradito da una sua ordinanza, la quale andò a riferire al Dittatore che egli giaceva a letto, incapace di muoversi abitando dalla propria sorella alla riviera di Chiaia. Garibaldi ordinò l'arresto del Generale. Però, per intermissione di alcuni amici e del cognato sig. Zir liberale, si stabilì che Bosco dovesse lasciare il Regno appena guarito, ed obbligarsi a non combattere per tre mesi contro la rivoluzione. Di fatti, ligio alla parola data, come si guarì, mosse per Parigi.

Il generale Bosco è una delle figure storiche di que' tempi, sul quale il pensiero potrà fissarsi senza essere funestato da ricordanze di viltà e di tradimenti. Egli operò sempre da uomo onesto e prode soldato. Quelli che mi conoscono non tutti ignorano

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come io dal Bosco non avessi ricevuto mai favori: anzi fu egli la causa di una mia grave malattia, della quale risento ancora le conseguenze per avermi inconsideratamente dato un gran dispiacere. È vero che se ne pentì poi, e cavaliere qual'è mi presentò le sue scuse: ma il male alla mia salute era già fatto! Ho voluto accennare questa particolarità per avvertire che, s'io difendo Bosco, e fo' degli elogi alla sua condotta militare, non è simpatia o riconoscenza che mi spinge a farlo, ma l'amore del vero.

Alcuni invidiosi uffizialotti degeneri in tutto dell'illustre nome che portano, i quali faceano la Corte al Bosco, non solo in Napoli anche in Roma, e buoni solamente a passeggiare un tempo davanti il Palazzo reale facendo i bellimbusti, dandosi oggi gran merito come designatori di certi balli in carnevale, mentre in tutto il tempo della guerra non intesero né l'odore della polvere né il rombo del cannone; e quando giunsero a Mola di Gaeta, si affrettarono a raggiungere lo Stato Pontificio. Questi uffizialotti oggi ardiscono ancora asserire che il campo di Salerno si tolse per opera del generale Bosco, e che costui fosse stato la causa principale dell'abbandono di Napoli.

Che il campo di Salerno non si tolse per opera di Bosco, l'ho già dimostrato, anzi ho detto che egli era il solo Generale che consigliava il re di darsi ivi battaglia a Garibaldi

A. S. R., il conte di Trani fratello del Re, scrisse al Bosco una lettera confidenziale, chiedendogli notizia sullo spirito delle due brigate di Salerno. Bosco rispose con un'altra lettera confidenziale, e gli dicea, che non poteasi fidar molto sopra alcuni uffiziali dell'8° cacciatori, e che parecchi soldati esteri aveano gridato Viva Garibaldi.

Forse che questa notizia non rea conforme a quanto aveano scritto al Re i due generali Meckel e de Rivera? Eppure i detrattori di Bosco vogliono attribuire a quella lettera la causa dell'abbandono del campo di Salerno, e della catastrofe della dinastia e del Regno! Bosco interrogato confidenzialmente da quel Principe reale, non potea rispondere diversamente, perché disse la pura e semplice verità, conosciuta da tutti quelli che allora si trovavano in Salerno.

Mi si potrebbe dire: poichè Bosco avea opinione che non si potesse fidare di alcuni individui della truppa di Salerno, perché consigliava il re di dare ivi battaglia a Garibaldi? Rispondo: che un semplice sospetto intorno alle buone disposizioni di alcuni uffiziali di un battaglione, e di pochi soldati esteri, non dovea far perdere l'occasione di tentare la sorte della armi, trattandosi massimamente di abbandonare Napoli al nemico, il maximum degli errori che si commisero in quel tempo malaugurato! Che Bosco non s'ingannasse nel consigliare di darsi battaglia in Salerno, ad onta de' sospetti espressi nella lettera diretta al Conte di Trani, lo prova la lodevole condotta tenuta in Capua da quelle due stesse brigate che volea spingere allora contro Garibaldi.

Mi fa poi maraviglia che il Marchese D. Pietro Ulloa pubblicò in Roma nel 1863 alcune lettere scritte in francese, dirette a' ministri de' più potenti gabinetti di Europa, ed in una delle quali dicea, che la causa della ritirata di Salernofu la lettera

180di Bosco scritta al Conte di Trani;

mentre egli non dovea ignorare che era stato suo fratello Girolamo il quale avea consigliato il Re di non darsi battaglia in Salerno, di abbandonare Napoli e ritirarsi con l'esercito dietro il Volturno. Quelle lettere furono pubblicate dopo che Bosco avea lasciato il soggiorno di Roma, e si trovava in Parigi!

Gli uffizialotti bellimbusti (oggi in parrucca) che si dicono cattolici ed intanto combinano duelli, accusano eziandio Bosco di essere stato fedele alla Convenzione fatta con Garibaldi, e dicono: «invece di recarsi a Parigi e rimaner lì per circa tre mesi, dovea andarsene immediatamente a Capua, o a Gaeta presso il Re.» Questa proposizione è degna di chi l'ha detta. Garibaldi non era un generale riconosciuto di diritto come belligerante, e disgraziatamente lo riconobbero di fatto que' generali napoletani vili o traditori; i quali fecero tante convenzioni con quel duce della rivoluzione approvate poi dal ministero liberale; e tutti le adempivano scrupolosamente. Si pretendea che il solo Bosco avesse mancato alla sua parola per una promessa personale, dopo che avea ricevuta la libertà dal nemico, il quale avrebbe potuto - sebbene ingenerosamente ed ingiustamente - farlo marcire in un castello, invece di farlo partire per Parigi? Bosco non contrattò con Garibaldi come persona pubblica, ma accettò come un semplice particolare una offerta, che in quella eccezionale circostanza, non solamente davagli mezzo di liberarsi della prigionia, ma gli lasciava la speranza di raggiungere il suo Sovrano sopra i campi di battaglia. Quindi secondo noi era in obbligo come semplice gentiluomo di adempiere alla sua promessa fatta a Garibaldi.

Bosco, non appena finiti i tre mesi della convenzione fatta, quando non vi era più speranza alcuna di salvare la dinastia, nei primi giorni della seconda quindicina di dicembre, si recò a Gaeta; e come dirò appresso, rese segnalati servizii in quella fortezza, disegnando tre sortite contro il nemico, e salvando così l'onore di quella guarnigione, dapoichè i Generali che si trovavano in Gaeta parte si rifuggirono sotto le case matte, e parte si erano solamente ristretti a difendere la Piazza.

E quando Bosco in Gaeta esponeasi a tutti i pericoli e disagi di un terribile assedio, ov'erano gli uffizialotti suoi detrattori? Erano in Roma in seno alle proprie famiglia ricevendo decorazioni ed onori immeritati; e che da veri sibariti godeano tutti i comodi ed i piaceri della vita che suole apprestare una grande Metropoli...!

Il campo di Salerno si tolse perché Francesco II fu costretto ad abbandonare Napoli, ed abbandonò questa Città perché non trovò un uomo politico di mente e di cuore che l'avesse aiutato a liberarsi del Ministero Spinelli. Stando al potere que' Ministri settarii e fedifraghi tutto dovea andare a soqquadro. Taluni, che a tempo opportuno si mostrarono politici da nulla, o pessimi militari, oggi atteggiandosi a grandi uomini sputano sentenze, e criticano, per lo meno, di inesatto chi sopra le loro magagne.

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Da Salerno a Capua

CAPITOLO XXIII

L'antica Capua era fabbricata nel luogo oggi chiamato Santa Maria delle Grazie; tre quarti di lega lontana dalla moderna. Capua antica era rinomata per le sue delizie e la sua possanza, tanto che la comparavano a Roma e Cartagine. Alcuni la vogliono fondata dai Tirreni quando furono cacciati da' Galli dalle sponde del Po; secondo Plinio e Virgilio le danno per fondatore Capys compagno di Enea: Cicerone la chiama il più bel patrimonio del Popolo romano. L'antica Capua è circondata di terre classiche e feraci ove si produceano i vini più squisiti, tra gli altri il rinomato Falerno. Nelle guerre tra Annibale ed i Romani, Capua abbracciò il partito di Annibale avendo questi promesso innalzarla a capitale dell'Italia. Da ciò si vede che simili seduzioni e promesse non son nuove alle città italiane. Però i Romani si vendicarono; dopo che assediarono e presero Capua, ridussero schiavo il popolo vendendolo all'incanto; flagellarono a colpi di verghe i Senatori e poi li decapitarono.

In seguito fu Capua distrutta da' Vandali, e rifabbricata da Narsete; e poi distrutta di nuovo da' Longobardi.

Delle antiche grandezze di Capua non resta che il magnifico anfiteatro, il quale è ancora decorato meglio di quello di Roma, ed è fabbricato con lo stesso gusto, ma con differenti ordini di architettura.

La novella Capua venne fondata nel secolo IX; è una piccola città di 12 in 13 mila abitanti, situata quasi a piè del Monte Tifata, oggi detto S. Nicolò.

Dalla parte del Nord e nordest è bagnata dal fiume Volturno, e si entra in città passando sopra due opposti ponti. Vi sono due poligoni spaziosi uno a destra l'altro a sinistra. Le fortificazioni di questa città sono opera del celebre Vauban; erano bastanti per lo passato ad arrestare per lungo tempo un forte esercito nemico che marciasse dalla parte di Roma sopra Napoli: oggi però, co' nuovi mezzi di guerra, Capua può resistere per un tempo brevissimo. È rimarchevole la Cattedrale di questa città con le sue colonne di granito tolte agli antichi edifizii, ed ove si ammirano alcuni quadri di Solimene e sculture di Bernini. Ma Capua come piazza fortificata ha troppi stabilimenti, chiese, monasteri ed ospedali; vi è pure la sala d'armi, e il laboratorio delle capsule fulminanti. Tutto questo ingombro affanna e scoraggia i difensori, maggiormente se bombardati. Capua oggi potrebbe chiamarsi un arsenale anzichè una Piazza forte.

Il fiume Volturno che scorre a lato di Capua nasce sul confine del Chietino, e scende tra Isernia e Venafro; volge verso Amoroso ove si congiunge con l'altro fiume il Calore che viene da Benevento; rigira e scorre tra Caiazzo e il Monte Tifata, e giù per Capua e Mondragone. Il Volturno dopo che si congiunge col Calore diviene molto profondo e non è più guadabile, se non in alcuni punti eccezionali e nelle stagione estiva.

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Come già ho detto, le due brigate di Salerno giunsero a Capua la sera dell'8 Settembre, e restarono più di due ore sul poligono dalla parte destra del fiume. Alle 10 della sera giunse l'ordine che quelle due brigate marciassero alla volta di Teano, paese dodici miglia al Nord di Capua. Quella notte fu orribile pe' poveri soldati, a quali convenne lottare con gli elementi scatenati contro di loro. Non appena partiti dal poligono, furono assaliti da un temporale che io non avea visto mai in vita mia l'eguale. Una oscurità perfetta rischiarata spesso ed orribilmente da' fulmini che ci scoppiavano vicinissimi; l'acqua cadea a secchi da farci perdere il respiro; e per maggior disagio un torrente o fiume uscì dal suo letto, e si traboccò sulla strada rotabile ove noi camminavamo. Quella strada era fiancheggiata da alte mura, quindi andavamo innanzi con l'acqua sopra i ginocchi! I soldati non perdettero la pazienza, anzi diceano de' frizzi molto spiritosi, che ci faceano ridere anche nello stato in cui ci trovavamo.

La mattina sul tardi si giunse in Teano, e in quale stato, senza che io lo dicessi, si potrebbe immaginare. Tutta la truppa rimase fuori l'abitato esposta ad una pioggia continua e senza mangiare; a sera molto tardi si ebbe un poco di pane.

Il Maresciallo Gaetano Afan de Rivera comandante di quella truppa, la sera invitò al suo alloggio gli uffiziali suoi dipendenti, e fece un discorso tanto poco militare, condito di notizie insussistenti che indegnò e fece ridere anche i più ottimisti. Il sig. Maresciallo comandante in capo di quelle due brigate, invece di pensare al benessere de' soldati, avea quella sera altri affari al suo alloggio!

Tutta la truppa che rimanea al Re si riuniva dietro il Volturno, ed era disseminata in tutti que' paesi di Teano, Pignataro, Bellona, Formicola, Pontelatone, Caiazzo, ed altri paesetti. Ve ne era parimente dentro Capua, e questa era la più fortunata.

Si pensò a riordinare l'esercito ed incorporare ne' Reggimenti e Battaglioni que' soldati che giungeano a torme dalle Calabrie, dagli Abruzzi, e dalle Puglie. Era uno spettacolo affliggentissimo vedere tanti prodi soldati la maggior parte disarmati, laceri, scalzi, defatigati pel lungo cammino fatto, affine di schivare i luoghi occupati da' garibaldini e raggiungere il Re; però animavansi appena giunti in mezzo a' loro compagni; e pria di chiedere del pane, essendo affamati, chiedevano un'arme per cancellare le patite onte. Se qualcheduno domandava a que' prodi e fedeli soldati; perché siete venuti fin qui? potevate andarvene alle case vostre. Rispondeano: «Il nostro Re è qui, e qui ci chiama il nostro dovere.» Se io per mia disgrazia fosse Re, sarei il sovrano più prodigo verso quei soldati! Non senza ragione lo stesso Garibaldi disse: «Con la truppa napoletana andrei dovunque.

Il colonnello piemontese Mella prorompendo in una triviale bestemmia, dando un forte pugno sul tavolino esclamò: «Ma se a questi soldati si spacca il cuore di trova l'effigie del loro Re! «Guai a te o colonnello Mella, e alla tua patria, se nel tuo cuore di soldato, ed in quello dei tuoi compagni d'armi non vi fosse l'effigie del vostro Re! Oh, qual conto dovranno rendere a' loro concittadini, e a Dio, que' Generali napoletani che fecero di tutto per ricoprire d'onta e di vituperio tanti onorati e prodi figli della bella patria napoletana...! Il re partendo da Napoli avea lasciato l'ordine,

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che tutti gli uffiziali che si trovassero in questa città e non appartenessero a' Reggimenti che occupavano i castelli, dovessero raggiungere immediatamente l'esercito dietro il Volturno. Alcuni non vollero obbedire, altri ingannati da' proprii superiori rimasero in Napoli, e tra gli altri il distinto maggiore di Stato Maggiore, Raffaele Riario Sforza, e non già ingannato dal generale del Balzo, presso cui era destinato, come asserisce il Capitano dello Stato Maggiore Tommaso Cava nella

Difesa Nazionale;

pag. 107. Altri uffiziali credendo allo scioglimento dell'esercito, accorsero in Capua con la speranza di ritornare a Napoli in poco tempo.

Questi ultimi dovettero servire contro voglia nel rimanente della campagna, e si dimostrarono i più cattivi e sleali soldati. La maggior parte o disertarono, o faceano di tutto di persuadere i propri dipendenti di non battersi contro il nemico e di disertare. La gran maggioranza però degli uffiziali volenterosi seguì l'esercito, sacrificando tutto, com'era loro di assoluto dovere. Essi splendono oggi come chiari tra le fosche ombre d'un dipinto.

Dietro la diritta riva del Volturno, si cominciò il riordinamento dell'esercito in tre divisioni di fanti, ed una di cavalli. La prima divisione comandata dal generale Filippo Colonna, con due brigate condotte una dal brigadiere Barbalonga, altra dal colonnello la Rosa. La seconda divisione comandata dal maresciallo Gaetano Afan de Rivera, anche con due brigate col brigadiere Won Meckel, e col colonnello Polizzy, della quale io faceva parte. La terza divisione comandata dal generale Luigi Tabacchi in tre brigate condotte da' colonnelli Marulli, d'Orgemont e Giuseppe Ruiz de Ballestreros, l'eroe

di Calabria!

Il generale Giuseppe Palmieri comandava la divisione di cavalleria in tre brigate condotte da' brigadieri Echanitz, Sergardi, e dal colonnello Russo. Generale in capo di tutto l'esercito il Maresciallo Giosuè Ritucci. Era costui un distinto militare, il suo stato di servizio è brillante, e più di tutto nel 1848 si era ben distinto, principalmente quando re Ferdinando II mandò un corpo di esercito in Lombardia per coadiuvare i Piemontesi a cacciare i Tedeschi dall'Italia. Egli da semplice maggiore in Venezia, mostrò una ammirevole fermezza civile e militare per infrenare la tracotanza del Generale in capo Guglielmo Pepe, e le gherminelle del Governo Sardo. Nel 1860, sia l'età, sia la farraggine delle politiche vicende non si mostrò all'altezza de' tempi e delle circostanza; sembrò non essere più il Ritucci di Venezia. La fatale e inopportuna Costituzione ammodernata del 1860, tolse energia, coraggio e buon senso a tanti eminenti uomini politici e militari, devoti al Re e alla Patria napoletana.

Ritucci mostrossi fiacco ed indeciso quando fu destinato al comando della Piazza di Napoli sotto il ministero liberale Spinelli. Egli, a quel posto invece di proclamare lo stato di assedio quale lo volle il ministro fedifrago, avrebbe dovuto proclamarlo in senso che lo proclamò il duca generale S. Vito, o Cutrofiano. È pur vero che costoro furono vinti dalle mene e dalla potenza di D. Liborio, ma almeno fecero quello che doveano fare gli uomini onesti e fedeli al Re.

In Capua, il Ritucci da Generale in capo non fece quanto si aspettava da lui. Era


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egli dominato da una idea incompatibile al posto che occupava, cioè quella di volere vincere la rivoluzione senza versar sangue. Io non voglio e non posso censurarlo per questa sua strana idea; dico solamente, che non dovea accettare quel posto.

Ho letto con attenzione i Comenti Confutatori

che il Generale in capo Ritucci fece alla storia del Cav. de Sivo, e la corrispondenza di questi due personaggi circa i fatti guerreschi di Capua. Le confutazioni e le ragioni di quel Generale mostransi deboli per distruggere tutta la critica che fa questi distinto storico. Quegli allega teorie spesso astratte, questi accenna fatti incontrastabili in opposizione alle teorie. So che mi si potrebbe dire, che né io, né de Sivo siamo giudici competenti a giudicare la strategia, il modo di contenersi di quel Generale in Capo nella campagna militare sul Volturno del 1860. Io rispondo che lo storico fa poco conto delle teorie guerresche, maggiormente, quando queste sono contrarie alle circostanza, e quando sono state oppugnate d'altri uomini distinti nell'arte della guerra. Le ragioni del Ritucci han sempre l'impronta della indecisione: - e quindi il fatale temporeggiare che fece tanto danno a quella campagna militare: - la supposizione che Napoli e il Regno intiero fossero contro la causa del Sovrano; - e quindi la peritanza di agire contro la supposta opinione pubblica: - ed infine la credenza che Garibaldi fosse un generale assai strategico e forte da contrastare al valore del residuale esercito delle due Sicilie: - e quindi l'altra perdita di tempo nella discussione del suo disegno di guerra, e dell'altro proposto dal Ministero di Gaeta. E perché si scelse quest'ultimo, il Ritucci lo mette a base della perdita della battaglia del 1° ottobre, e si atteggia a vittima predestinata. Ritucci non volle adottare il consiglio del generale francese Changarnier il quale invitato a fare un disegno di guerra per combattere Garibaldi, rispose: un disegno di guerra si fa contro un Generale, contro un Garibaldi il miglior disegno è andarlo ad assalire dove si trova.

Ritucci, ne' sopraccennati Comenti,

suppone il de Sivo soggetto all'influenza dei suoi nemici per destinarlo qual capro espiatorio degli errori commessi nella campagna militare di Capua. Io, che nell'esilio di Roma, ebbi l'onore di essere amico di questo distinto storico, al quale comunicai non poche notizie sulla guerra del 1860 e 1861, posso assicurare, che scrisse sopra i documenti datigli da S.M. Francesco II, e quelli che il Ritucci chiama suoi nemici, non solamente non influivano sull'indipendente storico, ma non erano guardati di buon occhio da costui.

De Sivo fervente cattolico e legittimista puro non era uomo di farsi sedurre da chicchessia. Coloro, che Ritucci chiama suoi nemici, proteggevano ed imbeccavano sotto il pseudonimo di Lucio Vero.

I difensori del Ritucci dicono, che costui non avea libertà di azione, perché lo Statuto costituzionale vigente allora gli legava le mani. Ciò non è vero; anzi, come appresso vedremo, il Ministero Costituzionale di Gaeta lo spingeva sempre ad operare energicamente contro Garibaldi; ed egli volea sempre rimanere sulla difensiva. Io altra difesa non trovo pel Ritucci, se non quella, che i mutati ordini politici del Regno, gli fecero perdere quell'energia che avea sempre dimostrata. Quest'incubo fatale non fece più né operare né pensare, come si dovea, a tanti uomini distinti,

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fedeli al Re e all'autonomia del Regno. Tutti questi uomini non vollero capire, che, con le costituzioni ammodernate è necessario operare con grande energia, e l'esempio ce l'han dato e ce lo danno ogni giorno gli stessi rivoluzionarii o liberali, tanto teneri di Costituzioni e di Sovranità popolare.

Ritucci a giustificar e la sua inerzia, si sa che fece di tutto per essere ucciso il 1° ottobre e non vi riuscì.

Dietro il Volturno ed in Gaeta si ricomponevano i Reggimenti ed i Battaglioni con i soldati sbandati che giungevano da diversi punti del Regno.

Furono ricomposti il 1° di linea in Gaeta, ed altrove il 2° 4° 11° 12° 13° e 15°. De' Battaglioni Cacciatori il 1° 3° 11° 12° 13°.

Intanto, i duci napoletani non trascuravano la gran tattica militare seguita sino allora, cioè defatigare i soldati inutilmente con marce e contro marce: que' duci in pochi giorni ci fecero girare tutti que' paesi che si trovano tra Capua, Caiazzo e Teano.

Il numero de' combattenti riuniti dietro il Volturno ascendeva a quaranta mila uomini. Vi erano buone artiglierie, e quarantacinque squadroni di Cavalieri che ancora non aveano sguainata la sciabola; i soli pochi cacciatori a cavallo si erano battuti da valorosi in Sicilia.

Il Generalissimo Ritucci asserisce ne' suoi Comenti Confutatori,

che tutto l'esercito di Capua non oltrepassava i ventotto mila uomini: ciò non dee far maraviglia, è sistema de' comandanti in capo ridurre sempre il numero de' combattenti, e specialmente quando la fortuna loro è stata contraria nelle battaglie. Oppure egli valuta quelli soltanto impegnati il 1° Ottobre.

I mezzi per mantenere quella truppa erano scarsissimi, sia perché il Re quando lasciò Napoli era indeciso se dovesse sciogliere l'esercito e prendere la via dell'esilio, o tentare la sorte delle armi e riconquistare quello che avea perduto: sia perché le casse militari preparate per Capua e Gaeta furono trattenute in Napoli da' tradito ri. Però i giovanetti fratelli del Re Francesco, il Conte di Trani e l'altro di Caserta, i quali accompagnarono l'esercito a Capua, avendo osservato che tutti i soldati erano frementi di battersi e cancellare le patite e non meritate vergogne, corsero a Gaeta, e consigliarono al fratello e Sovrano di non abbandonare il Regno, e tentare la sorte delle armi.

Il Re conosciuto l'errore ove l'aveano condotto tutti quei traditori che avea tanto amati e beneficati, stracciò la proclamazione con la quale dava l'addio a' suoi ama tissimi popoli, e si decise a mostrare il viso al nemico, mettendosi alla testa del suo fedele esercito. Ciò avvenne appena giunto a Gaeta; immediatamente decretò il riordinamento dell'esercito, e diede fuori un ordine del giorno, ch'è il seguente.

«Soldati. È tempo che la voce del vostro Re s'oda nelle vostre file, di quel Re che crebbe tra voi, che tutte le cure vi prodigò, e che ora viene a dividere la vostra sorte. Non sono più tra noi gli illusi e i sedotti che hanno immerso il Reame nel lutto; però fò appello all'onore ed alla fedeltà vostra, perché fatti gloriosi cancellino l'onta della codardia e de' tradimenti. Siamo ancora tanti da fiaccare un nemico combattente con le armi delle seduzioni e degl'inganni.

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Volli sin'ora molte città risparmiare, ma ridotti sul Volturno e sul Garigliano, aggiungeremo altri umilianti ricordi alla nostra condizione di soldati? Permettereste che il vostro Sovrano lasciasse il trono e vi abbandonasse all'infamia imperitura? No, in questo supremo momento raccogliamoci attorno alle bandiere per difendere i diritti, l'onore, e il nome napoletano, già scemati. Che se ancora v'hanno seduttori che v'additano a modello gli sciagurati, corsi per viltà al nemico, ricordate invece que' bravi che seguendo le sorti del Ferdinando IV, s'ebbero lodi universali, e regia gratitudine e beneficenza. Quel bell'esempio vi sia di gara generosa; il Dio degli eserciti proteggerà la giusta causa nostra.

Quest'ordine del giorno, o proclamazione del Sovrano, fu accolta con indescrivibile entusiasmo dell'esercito: la commozione all'udirla fu generale. E come non commuoversi alla proclamazione di uno sventurato giovinetto re, tanto benefico, tanto cavalleresco, indegnamente tradito, che ci additava la via dell'onore e della gloria...? Ed io dopo tre lustri nel ricopiarla dal mio itinerario, sento contrarre le mie fibre, il sangue di Giovanni da Procida che scorre nelle mie vene accendesi.... vi confesso, che ho lanciato un anatema a' tutti traditori di quel Re, oggi tanto disprezzati e maledetti..!

L'esercito napoletano altro non desiderava che di essere guidato alla pugna per cancellare le onte patite; e la voce dell'amato Sovrano giungeva cara al cuore di que' soldati; i quali finalmente apprendevano, da chi non potea ingannarli, che la diserzione è sempre una viltà, che il combattere un nemico il quale invade il Regno è un dovere, un eroismo patrio. Sentimenti che il soldato sentiva nell'anima sua, e che si era tanto lavorato per isnaturarli o estinguerli.

Parecchi uffiziali, udendo quella proclamazione, chi per viltà, chi per non perdere l'avvenire che speravano dal nemico, la notte disertarono: e sarebbe stata una gran fortuna, se se ne fossero andati a la malori tanti altri vili e traditori che ci accompagnarono anche nell'esilio in Roma!

Il maresciallo Raffaele Pinedo era comandante la Piazza di Capua, ed avea avuta la compiacenza di promettere a Garibaldi la sua cooperazione per farlo entrare in quella Piazza senza colpo ferire, e fu egli la causa di quell'imprudente assalto che diedero i garibaldini il giorno 19 settembre, a' quali costò tanto sangue. Il Pinedo vedendo che l'esercito invece di essere sciolto, combatteva valorosamente, anzi guerreggiava il nemico, si diede per ammalato; scoperte in tempo le sue magagne fu sostituito dal generale de Corné, poi dal generale Salzano. Fu ordinato il suo arresto per essere sottoposto ad un Consiglio di guerra, ma si ebbe la dabbenaggine di fargli sentire la bufèra che lo minacciava, e gli si diede il comodo di fuggire in S. Maria di Capua, ov'era il nemico, in veste da camera e pianelle, conducendo seco tutta la sua famiglia. Tra la specialità de' disertori, è da rammentare quella di Giovanni Garofalo, uffiziale superiore di Stato maggiore che fuggì colla divisa e perfino montato: egli è uno dei beneficati dai Borboni....

All'entrata di Garibaldi in Napoli, il ministero lasciato da Francesco II si sciolse, rimase il solo D. Liborio,

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e fu ministro di Garibaldi: degli altri ministri chi tornava a vita privata, chi lasciò il Regno, ed andò all'estero. Il Re profittando delle rinunzie di quei ministri, creò a Gaeta un nuovo ministero, così composto: il generale Casella ministro della guerra e presidente. Il marchese Pietro Ulloa ministro dell'interno e giustizia; Canofari degli esteri, Carbonelli delle finanze lavori pubblici e culto. Indi chiamò a direttore della guerra Antonio Ulloa. Cotesti ministri non era concordi in fatto di politica.

Il nuovo Ministero di Gaeta, in forza dell'articolo 67 dello Statuto Costituzionale, sciolse la Guardia nazionale di Teano, Pignataro, e Capua dichiarando queste Città sede di guerra, e il dì 11 Settembre si proclamò lo stato di assedio.

Si fondò in Gaeta la Gazzetta ufficiale,

direttore il benemerito sig. Michele Farnerari, dopo che il noto storiografo Mauro Musci credè declinare dall'onorevole incarico, forse per pochezza d'animo. Il primo numero uscì il 14 Settembre.

Con decreto del 10 Settembre si concesse alle vedove ed orfani dei militari morti in battaglia le pensioni uguali al soldo de' loro defunti. A premiare tutti quelli impiegati civili, non che tutti gli uffiziali che aveano passato il Volturno dopo la partenza del Re dalla capitale, si decretò che la durata del loro servizio si contasse doppia, cioè fossero dispensati di servire per 40 anni, non si tenesse conto de' 65 anni di età, e de' due anni dell'ultimo grado, ma ricevessero il soldo intiero al ritirarsi di ufficio, e l'onore di un grado in più.

Al 14 dello stesso mese, una lettera del Ministro della Guerra, Casella, dichiarava disertore chi de' militari chiedesse licenza, o si fosse allontanato dalla bandiera: a soldati poi si dava il congedo appena avessero finito il tempo, ma furono pochissimi que' soldati che ne approfittarono: quasi tutti diceano: «quando il nostro Re non ha più bisogno di noi, allora ritorneremo alle nostre case.»

Il Generale de Benedictis comandava gli Abbruzzi. Si vuole che questo Generale si fosse creduto offeso ed umiliato quando nel 1859 lo si propose al Pianelli nel comando del Corpo di esercito che occupava allora gli Abbruzzi. Non è questa una ragione per far diventare settario e traditore un Generale. Il certo si è, che il de Benedictis si mostrò fedele al Re nel principio della rivoluzione, e pianse quando intese la diserzione di suo figlio Biagio, il quale fu uno de' primi disertori dalle bandiere ne' fatti d'armi di Sicilia: non sappiamo però se quel pianto era simile a quello di Giulio Cesare (come alcuni vogliono) alla vista della testa del suo rivale Pompeo. De Benedictis tanto ossequente e cortigiano, appena vide la rivoluzione trionfante, cambiò livrea e linguaggio. Prima domandò la dimissione, e il giorno 10 Settembre scrisse a Napoli al Ministero della guerra di Garibaldi:

Pochi militari dementi e perfidi di cui le dirò i nomi

vogliono avvelenare il tripudio universale. Ho riparato pel Forte d'Aquila, per Pescara si minaccia la mia vita e quella del comandante (Colonnello Piccolo). I nazionali non bastano contro la truppa, mandate un battaglione

per mare ad Ortona a tener Chieti.» Infine svelava il numero de' soldati e le condizioni in cui si trovavano costoro ed il Forte. Che ne dite, lettori miei, di un Generale che fa la spia contro i proprii soldati, e che domanda maggiori forze al nemico per opprimerli?

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Simili fatti non si riscontrano nelle storie della umane malvagità, era riservato ad un de Benedictis darci questo ributtante spettacolo di fellonia nel secolo che si dice incivilito. Un de Benedictis che servito avea lunghi anni sotto del Carretto, e tanto che fu prescelto per riorganizzare la Gendarmeria, e la Polizia in Toscana, per cui compensato venne con gradi ed onori! Egli, che oggi fa il progressista!

Il Forte di Pescara, ben presidiato e munito ebbe a cadere, non solo pei tradimenti del de Benedictis, ma per le manovre settarie del Colonnello Piccolo, il quale prendeva l'imbeccata da quel tristo Generale. Costui per ingannare i soldati, vedendoli tenaci alla patria bandiera, fece dire a costoro che il Re avea abbandonato il Regno, e che avea sciolto l'esercito. Il Tenente colonnello Pirelli comandante di sette compagnie del 12° Battaglione cacciatori avrebbe dovuto condurle o a Capua o a Gaeta, ma poi volle essere ligio alle ordinanze di Piazza, le quali erano un controsenso giacchè tendevano a sciogliere la disciplina, e disconoscere il proprio sovrano. Lo storico de Sivo accusa Pirelli come unito al Comandante Piccolo per togliere al Re quelle soldatesche: il certo si è che Pirelli patì arresti, ma si legittimò, e fu poi promosso regolarmente. Molti uffiziali di quelle sette compagnie, si dichiararono per la rivoluzione, il resto per l'onor militare e pel Re.

I due aiutanti Maggiori Giacomo Ditta ed Escamard, uniti ad altri uffiziali si opposero agli ordini ed alle mene di Piccolo e di de Benedictis; ma costoro la vin sero con fare sciogliere quelle sette compagnie. Nondimeno i due Aiutanti Maggiori sullodati, coadiuvati da altri onesti uffiziali, raccolsero quattrocento soldati, e vol sero a Capua, ove furono ancora riorganizzati come 12° Cacciatori: ed il benemeri to Giacomo Ditta fatto Maggiore fu destinato a comandare quel battaglione. Gli uffiziali di Pescara, quelli felloni, corsero a Napoli e riconobbero il governo di Garibaldi, e così s'assicurarono i soldi, scopo principalissimo delle loro gesta.

Il Maresciallo Flores, come ho già detto, si trovava in Bari con una brigata, che poi condusse a Bovino. Il Maggiore Maresca, dopo di aver favorita la rivoluzione di Foggia, ebbe ordine da Flores di raggiungerlo a Bovino, ma il Maresca andò invece a Lucera e proclamò il governo di Garibaldi, dal quale fu fatto Colonnello e pro mossi gli altri uffiziali compagni del Maresca.

Il Flores, in luogo di continuare la marcia alla volta di Capua per unire la sua brigata al resto dell'esercito, rimaneva in Bovino, ed aspettava gli avvenimenti per mettere giù la maschera. Ricevuti due telegrammi in cifre, il 9 settembre tira diritto ad Ariano ove era trionfante la reazione, ed ove i soldati furono accolti ed acclamati. Il Flores senza giovarsi del favore di quelle popolazioni, anzi contrariato di trovarle fedeli al proprio sovrano, scrive la seguente lettera al brigadiere Buonanno suo dipendente:

Vi consiglio e vi comando,

pel bene dei bravi soldati di porvi nelle file del Dittatore: lasciate qualunque incertezza: ditelo al Trigona e al Cosenza, e a tutti i Capi di Corpo, io assumo la responsabilità avanti all'Europa. Altra speme non ha la misera Patria che vedervi fedeli soldati dell'eroico uomo della Provvidenza, e

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servire a lui con reprimere le reazioni popolari che sanno di barbarie. Decidetevi da italiani.»

Fanno veramente nausea questi duci pieni di galloni e di gingilli, i quali fecero gli assolutisti ed i terroristi in tempo di pace, inchinandosi sino a terra al solo sentire nominare un servitore de' Borboni, e poi ad un tratto cambiano livrea e linguaggio, predicando Patria ed italianità che non vollero mai riconoscere: e tutto questo per non perdere il comando, e la Santa

pagnotta..!

Bonanno, che dovea subito condurre a Capua la brigata, si contentò di leggere a soldati le proteste del Re; e tenuto un consiglio, decise dare il congedo a chi il volesse. Vedete quanta sapienza in quest'altro duce: mentre legge le proteste del Re contro la rivoluzione che volea abbattere, scioglie una brigata! Tutti i soldati rifiutarono il congedo, e Bonanno fu costretto a prendere la via di Capua. Però, sopraggiunsero alcuni soldati sbandati - forse mandati da Flores - dissero essere tutto finito, il Re già partito per la Spagna. Allora la brigata Buonanno cominciò a sbandarsi; i primi furono i gendarmi, poi il 13° di linea. Due uffiziali rubarono le casse de' reggimenti e fuggirono per farsi liberali. Il maggiore Cosenza aiutato da molti uffiziali riunì un gran numero di soldato, e si decise condurli a qualunque costo a Gaeta; Buonanno li seguiva come un automa.

Ariano in completa reazione turbava Garibaldi. Costui spedì Turr con illimitata potestà di punire quel paese. Gli uffiziali disertori della brigata Buonanno raccontarono a Turr lo stato di quella brigata. Questi avea pochi garibaldini, propone patti di resa, e Buonanno da vero buonuomo

accetta, mentre avrebbe potuto continuar la marcia verso Capua o Gaeta. I soldati però non vollero sottomettersi a' patti della resa, e continuarono la marcia alla volta di Gaeta, condotti sempre da' maggiori Trigona e Cosenza. Lungo la via, gli uffiziali traditori fecero in modo che quella brigata si sciogliesse di nuovo, ed ottennero lo scopo. Cotesta truppa lasciò sulla via 150 tra muli e cavalli, che furono raccolti dal nemico.

Il Buonanno in Gaeta patì arresti ed un giudizio militare, ebbe la benigna sentenza di non essere colpevole; è certo però che fu sciocco e vile.

Con futili pretesti fu tolto da Siracusa il comandante Rodriquez, perché non accetto a' rivoluzionarii, e gli fu surrogato il generale Locascio. Costui appena s'insediò in quella fortezza, unito al colonnello Galluppi comandante l'1 1° di linea, sin dal 29 agosto cominciò a spargere la notizia che il Re fosse partito da Napoli per Trieste, e quindi che i soldati doveano affratellarsi co' rivoluzionarii. Intanto il 31 dello stesso mese scriveva al generale Fergola comandante la Cittadella di Messina, da cui dipendea, che la fortezza era aperta, e che i soldati stavano in contatto con le truppe italiane,

conchiudeva con domandargli danari per continuare la difesa di Siracusa. Fergola gli rispose indegnato, e gli disse che il suo dovere era prescritto nell'art. 142 delle ordinanze, ma gli mandò ducati diecimila e cinquecento col vapore francese l'Assirien;

e gli uffiziali di tesoreria che portarono quel danaro in Siracusa assicurarono la guarnigione che il Re era a Napoli, e che fidava sul valore e lealtà dell'esercito. A questa notizia, i soldati gridarono Viva il Re,

e dissero male del generale Locascio.

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Intanto questo altro ingrato generale fraudolentemente avea mandato a Napoli suo figlio, già tenente dello stato maggiore, e suo aiutante di campo per prendere informazioni sullo stato delle cose. Il tenente Locascio ritornò da Napoli ne' primi giorni di settembre, e fu ricevuto in trionfo dal colonnello Galluppi, da tutti li uffiziali di stato maggiore e da' rivoluzionarii siracusani, perché recava quelle notizie che costoro desideravano: e tutti organizzarono una dimostrazione rivoluzionaria. Trovavasi quel giorno alla Granguardia il tenente Andrea Pisani Massamormile, e conosciuto che il proprio Colonnello era il Capo de' dimostranti, disse al generale Locascio che si sarebbe opposto a que' vergognosi baccanali militari qualunque si fossero gl'individui. Locascio rispose: «fate quello che credete, io non ho più potere, già il reggimento si è dato a' rivoluzionarii.» Quel reggimento non si era dato punto a' rivoluzionarii, ed era una studiata calunnia di quel generale per appropriarsi i diecimila e cinquecento ducati che avea ricevuti per somministrare le paghe a' soldati: ed in effetto se li appropriò; forse poi li consegnò a Garibaldi.

La dimostrazione si fece; ma il tenente Pisani alla testa de' soldati della Granguardia prese un atteggiamento ostile verso i dimostranti: tanto che il Colonnello Galluppi comandante di que' soldati, e gli ufficiali dello stato maggiore conduttori di quella plebaglia briaca che gridava viva e morte,

ebbero l'umiliazione di scansare il posto della Granguardia pel timore di essere trattati secondo il loro merito.

Tutto quel giorno si fece festa, e delle botti di vino furono messe a disposizione dei dimostranti.

Dopo que' saturnali, il Galluppi volle capitolare, consegnò la Fortezza a' garibaldini, e condusse i suoi soldati fuori porta di Mare, e tenneli ivi sette giorni, provveduto di vettovaglie fornite dal Comandante garibaldino; il quale suscitava in tutti i modi la diserzione degli uffiziali, e soldati, per incorporarli ne' Cacciatori delle Alpi.

La guarnigione di Siracusa fu imbarcata parte per Reggio, parte per Napoli, ove giunse il 15 Settembre. Il generale Ghio quello di SovariaMannelli Comandante garibaldino della Piazza di Napoli, per far cosa grata a Garibaldi, fece pubblica mostra per la via di Toledo di que' traditi soldati allora giunti da Siracusa. Indi li fece condurre nel largo di S. Giovanni a Carbonara, ed un Colonnello Garibaldino invitò tutti a rimanersi col Dittatore, promettendo gradi maggiori di quelli che aveano. Nessuno volle rimanere: i soldati lasciarono i fucili e presero la via di Capua scortati a vista dal tenente Andrea Pisani, dall'Alfiere Lorenzo Fisichella, e d'altri sottuffiziali vestiti alla borghese. Giunti a Capua, il tenente Pisani fu destinato a comandare la frazione dell'11° Reggimento; e rimase a quel posto tanto onorifico, dovuto al suo coraggio e alla sua fedeltà, ad onta che fossero poi sopraggiunti due Capitani dello stesso corpo.

La Fortezza di Augusta si rese per la vigliaccheria del Colonnello comandante Pietro Tonson Latour, e si vuole per le mali arti del maggiore Ardanese comandante le compagnie del 15° di linea. Latour scrisse a Fergola che il popolo di Augusta

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domandava la Fortezza, ed era giusto,

dapoichè dovea essere trattato come quello di Siracusa. Fergola gli rispose, che studiasse le ordinanze, e facesse il suo dovere. Latour, senza essere minacciato, fece un contratto col Municipio di Augusta per imbarcarsi e restituirsi a Napoli. Il dì 17 Settembre partì, il Console francese volea farlo tornare addietro, ma si oppose il Comandante del Vapore il Protis.

Giunti a Napoli i soldati di Augusta in numero di 549, furono interrogati se volessero rimanere con Garibaldi; tutti si negarono: 190 vollero andare alle loro case, e 359 s'imbarcarono sul Protis

e furono condotti a Gaeta.

Tutto il Regno era in potere di Garibaldi, Francesco II possedea la sola linea da Capua a Gaeta.

Rimaneano tre sole Fortezze in tutto il Regno, cioè Baia, Civitella del Tronto e la Cittadella di Messina. In quest'ultima, come ho già detto, era Comandante il brigadiere Fergola, il quale si mostrò sino alla fine fedele e prode soldato.

Era egli spesso tentato dal Console sardo Lella a tradire il Sovrano, e si liberò da quel cicalone con modi cortesi ed insieme dignitosi.

Non ostante la convenzione, i garibaldini attaccavano spesso gli avamposti regi, ed i soldati rispondeano senza esitare, anzi sempre più si scaldavano nella difesa.

Il 10 settembre il Fergola mandò a Gaeta sul piroscafo francese Assirien

una deputazione, a capo della quale il distinto Colonnello Conte Cesare Anguissola. Il Re l'accolse benignamente; lodò l'Anguissola, e gli altri uffiziali e soldati componenti la suddetta deputazione, che era di sette uffiziali, e due soldati di ciascun corpo della guarnigione della Cittadella, e mandò il seguente ordine del giorno: «Gaeta 14 settembre 1860. Soldati. Lontano da voi, e da' vostri bravi uffiziali, sento il bisogno di manifestarvi di esser pago del contegno e valore della guarnigione. Le fatiche durate, e l'avvenire accresceranno a voi la gloria, all'armi napoletane onore. Ubbidire a superiori, questo è il primo movente della vittoria. Ricordate che sono Re e soldato, che, cresciuto tra voi, palpito di gioia udendo i vostri bei fatti; ricordate di difendere una fortezza di storica rinomanza, e che i miei pensieri sono per voi. Benedica il cielo le armi vostre, e un dì ciascuno di voi potrà dire: io nel 1860 fui tra' difensori della Cittadella di Messina.»

Al ritorno della deputazione, Fergola pubblicò l'ordine del giorno del Sovrano, il quale crebbe l'entusiasmo de' soldati. Fu promosso a Maresciallo il Fergola, e furono promossi a brigadieri i Colonnelli Aldanese, Martino, Cobianchi ed Anguissola. Quest'ultimo è fratello di Amilcare, quello che diede il primo esempio della diserzione della Marina Napoletana. Quale differenza tra questi due fratelli! Allorquando ragionerò della resistenza e resa della Cittadella, dirò pure i segnalati servizii che rese a quella fortezza il distinto ed istruito generale Conte Cesare Anguissola!

Il 15 ottobre cominciò a mancare il danaro e le vettovaglie: i soldati volentierosi si sottomisero ad un cibo più parco, e tutti, uffiziali e soldati, offersero al Maresciallo Fergola i loro risparmii che ammontarono alla bella somma di quattordicimila ducati. I soldati napoletani, calunniati da Palmerston, da Billaut, ministro di Napoleone III, e d'altri settarii, quali saccheggiatori ed avversi alla causa di


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Francesco II, soffrivano quasi la fame, rinunziando a' soldi, e co' loro risparmii soccorreano la cassa militare per continuare la difesa patria a vantaggio del Sovrano, che nel tempo di pace non pagavali a centesimi, e sì splendidamente li vestiva! Iddio però, a causa dell'infame condotta de' Napoleonidi, ha dato alla generosa nazione francese, una punizione esemplare; e chi sa se un'altra più terribile non ne riserva all'Inghilterra de' Palmerston e de' Gladstone.


CAPITOLO XXIV

Gli animali feroci quando insieguono la preda, tutti insieme s'intendono e si aiutano per afferrarla: però, non appena l'hanno ghermita, si dilaniano rabbiosamente tra loro o per averla tutta intiera come il leone della favola, o per averne la maggiore o la miglior parte. Così fecero i rivoluzionarii della predata Napoli dopo la partenza di Re Francesco. Si unirono in casa del presidente Spinelli, e chi volea darsi a Cavour, e chi a Garibaldi; e sempre col fine di avere o intiera o la maggior parte della preda. D. Liborio Romano volea che si proclamasse il governo piemontese, in questo modo i suoi personali interessi sarebbero stati meglio garentiti: il comitato dell'ordine

facea eco a D. Liborio. Però, il comitato di azione

volea Garibaldi Dittatore. Lo Spinelli che volea dare un colpo più da maestro contro la dinastia, disse che il ministero di Francesco II non dovea fare adesione né a Cavour, né a Garibaldi. Il Municipio napoletano, che non era opera di D. Liborio, unanimemente deliberò di non aderire alla rivoluzione, se non che, da 24 eletti, i soli quattro aggiunti aveano deliberato a favore di Garibaldi, e furono cacciati via da' colleghi. Il principe d'Alessandria, Sindaco di Napoli, fu chiamato in casa del presidente Spinelli, e consigliato a proclamare un governo provvisorio, quel Sindaco si negò risolutamente.

Mentre si discuteva tra ministri e sindaco, si presenta il Villamarina accompagnato dal marchese d'Afflitto, lasciando fuori molti suoi cagnotti per essergli utili se occorresse. Questo settario in veste diplomatica volea obbligare il Sindaco a proclamare il governo piemontese, descrivendo i mali che sarebbero piovuti sulla Città e sul Regno, se si fossero negati. Egli avea sulle fregate sarde de' bersaglieri, e dicea che avrebbe potuto chiamarli a terra, e con essi tenere a segno i faziosi,

e provvedere al buon ordine. Ministri e Sindaco si negarono. L'illustre e benemerito principe d'Alessandria disse a Villamarina: Napoli ha il suo Re, non volerne altro: e se ne uscì da quel conciliabolo.

Rientrato in casa sua, questa fu circondata da' cagnotti di Villamarina, ed egli fu chiamato fuori. Appena uscì sulla strada gli si presentò il Pisanelli, e gli disse, egli essere il Presidente del Comitato dell'ordine, e

pregarlo a nome dell'umanità

di creare un governo provvisorio, riconoscendo lo Statuto piemontese. Il principe d'Alessandria si negò dignitosamente anche questa volta, e disbrigossi eziandio di Pisanelli. A costui, tanto tenero dell'umanità, come Bixio in Bronte, gli tardava di

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regalare a' suoi concittadini le leggi eccezionali di sicurezza pubblica, e darle il suo nome. Villamarina ed i suoi aderenti erano allarmati, perché Bertani Segretario intimo di Garibaldi consigliava questi a non proclamare il Governo piemontese, ma invece dichiararsi Dittatore delle due Sicilie, proseguire la marcia sopra Roma, e poi pensare alla forma del Governo che dar si dovesse all'Italia. Il Bertani era conosciuto per caldo repubblicano, e il suo consiglio, oltre di guastare i piani di Cavour e consorti, compromettea l'Italia rivoluzionaria, dapoichè in Roma stavano i francesi, a capo de' quali non vi erano né Landi, né Lanza, né Clary, né Gallotti, né Briganti, né Ghio, e que' capi non aveano un ministro di guerra simile a Pianelli; quindi benissimo dice il Persano nel suo diario: «L'avanzare contro Roma ci porterebbe indietro di dieci anni almeno nella nostra unificazione ed indipendenza nazionale, se anco non sarebbe la rovina d'Italia.

Villamarina partì subito per Salerno sul piroscafo Sardo l'Authion

per abboccarsi con Garibaldi e Bertani, e persuaderli di arrestare la loro marcia e proclamare il governo piemontese.

Garibaldi, che sapea non essere Roma osso per i suoi denti, promise a Villamarina che non marcerebbe contro quella metropoli, ma che si sarebbe proclamato Dittatore indipendente delle due Sicilie, ed indi penserebbe ad annettere questo Regno al Piemonte.

Il telegrafo tra Napoli e Torino travagliava a maraviglia, Persano e Villamarina rapportavano tutto a Cavour, e da costui ricevevano l'imbeccata.

D. Liborio, che volea subito proclamare in Napoli il governo piemontese, subodorata la conferenza tra Villamarina e Garibaldi, scrive subito a questo, e gli dice: «Napoli aspetta con ansietà l'invincibile dittatore delle Due Sicilie, e a lui confida i suoi destini.»

D. Liborio oltre di essere un valente cortigiano con le sue stomachevoli adulazioni, da vero avvocato strascinafaccende,

sapea pur far bene due parti in commedia! Intanto in Napoli Villamarina, Persano e il Comitato dell'ordine

intrigavano sempre a proclamare il governo piemontese, supponendosi tutti l'espressione della volontà popolare; ma si opponeva l'altro Comitato di azione

che avea le stesse pretensioni ed optava per la dittatura assoluta di Garibaldi. Nondimeno il Persano proclamò un governo provvisorio schiccherando il seguente manifesto o decreto, come lo chiama il Persano. Italia e Vittorio Emanuele.

«In nome del generale dittatore, e fino al momento del di lui arrivo nella capitale, i sottoscritti, a tale uopo invitati

(da chi?) si costituiscono governo provvisorio di Napoli, sia per tutelare l'ordine pubblico, sia per rendere più manifesta la volontà del paese.

Napoli 7 Settembre 1860, ore 11 a.m.Firmati

G. Ricciardi - Giuseppe Libertini - Filippo Agresti - Camillo Caracciolo - Andrea Colonna - Raffaele Conforti - Giuseppe Pisanelli.

Sebbene quel manifesto del Comitato dell' Ordine

metteva innanzi il nome del Generale Dittatore, e i firmatarii dichiaravano un governo provvisorio sino all'arrivo di Garibaldi, costui subodorò la manovra Cavourriana, cioè che gli si volea far

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trovare il posto occupato, ed immediatamente ordinò l'arresto di que' sei del governo provvisorio. Ma il Dittatore, considerando poi che egli non avrebbe potuto lottare col Piemonte, senza del quale non sarebbe stato più Xinvincibile Dittatore:

i Cavourriani considerando pure che non aveano forza, e che il Re legittimo si trovava di poche tappe lontano, tutti si rabbonirono ed accomodarono in modo le divergenze da dividersi pacificamente la conquistata preda. Fu dunque convenuto che i garibaldini doveano dare il primo assalto alla pingue preda, e poi il Piemonte e i piemontizzati si poteano spolpare le ossa, e rodersele pure all'occorrenza. Però l'operare di Garibaldi in questa circostanza non fu secondo i principii che volea rappresentare: egli si mostrava umanitario e liberale finchè lo secondassero; appena si stabiliva un governo provvisorio ov'egli ancora non era giunto, e perché questo governo non facea totalmente i suoi interessi, subito scaraventava un arresto alla Musulmana!

Il Comitato dell'ordine

assicurava che solamente esso rappresentava la volontà del popolo; l'altro Comitato d'azione,

con altri principii, affermava la stessa cosa: chi de' due comitati avea ragione? né l'uno, né l'altro! Le pretensioni e le gare di que' due Comitati erano proprio come le questioni teologiche tra Luterani e Calvinisti, i quali si scomunicavano a vicenda senza averne l'autorità. Son tutti figli dello stesso padre, né dobbiamo meravigliarcene.

Ora cominciano i proclami e le dicerie che si stamparono e si affissero sulle mura, prima e dopo l'arrivo di Garibaldi a Napoli. Que' proclami e dicerie dànno chiara certezza degli uomini e delle circostanze di quei tempi, quindi non voglio defraudare i miei benevoli lettori di quelle cicalate per esilararli un poco.

La prima proclamazione è del sempre distinto Caposquadra D. Liborio, già ministro dell'interno di Francesco II, e quando la scrisse funzionava ancora a nome del Re. Si dovrà notare nella seguente proclamazione lo stile basso e cortigianesco del liberalissimo D. Liborio Romano; ecco la proclamazione in forma di lettera.

«All'invittissimo general Garibaldi Dittatore delle Due Sicilie Liborio Romano ministro dell'interno.

Con la maggiore impazienza Napoli attende il suo arrivo, per salutare il Redentore d'Italia, e deporre nelle sua mani i poteri dello Stato e suoi destini. In questa aspettativa starò saldo a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica; la sua voce già da me resa nota al popolo, è il più gran pegno di successo di tali assunti. Mi attendo ulteriori ordini, e sono con illimitato rispetto. Di Lei Dittatore invittissimo, Liborio Romano; 7 Settembre 1860. »

L'instancabile Don Liborio scarabocchiò un'altra proclamazione al popolo; eccola:

«Cittadini, chi vi ricorda l'ordine e la tranquillità in questi solenni momenti, è il Generale Giuseppe Garibaldi. Osereste non esser docili a quella voce, cui da gran tempo s'inchinano tutte le genti italiane? No, certamente. Egli arriverà tra poche ore in mezzo a voi, e il plauso che ne avrà chiunque avrà concorso al sublime intento, sarà la gloria più bella cui cittadino italiano possa spirare. Io quindi, miei buoni

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cittadini, aspetto da voi quel che il Dittatore Garibaldi vi raccomanda ed aspetta. Il Ministro dell'interno e polizia Liborio Romano.»

Garibaldi, prima di partire da Salerno per Napoli, mandò la seguente proclamazione al popolo napoletano:

«Alla cara popolazione di Napoli. Figlio del popolo, è con pari rispetto ed affetto ch'io mi presento dinanzi a questo nobile ed importante centro di popolazione italiana, cui secoli di dispotismo non hanno potuto umiliare, e ridurre a piegare il ginocchio avanti la tirannia. Il primo bisogno d'Italia era la concordia per realizzare l'unità della grande famiglia italiana: oggi la Provvidenza ci dà questa concordia, giacchè le province sono unanimi e lavorano con magnifico slancio alla ricostituzione nazionale. Quanto all'unità la Provvidenza ci ha dato Vittorio Emmanuele, che in questo momento

noi possiamo chiamare vero padre della patria italiana. Vittorio Emmanuele, modello de' sovrani, inculcherà ai suoi discendenti i doveri che dovranno adempiere per la felicità di un popolo che lo ha scelto per Capo con ossequio entusiastico. I Preti italiani (ci siamo!) che han la coscienza della loro missione, han per garenzia del rispetto col quale saranno trattati, lo slancio, il patriottismo, l'attitudine veramente cristiana de' loro confratelli; i quali dai degni monaci della Gancia sino a' generosi preti del continente napoletano, noi abbiamo veduti alla testa de' nostri soldati, sfidare i più grandi pericoli delle battaglie.

(Proprio come quel R.mo prete che in Sovaria-Mannelli si rubò la cassa militare dell'11° Cacciatori, con dentro 1500 ducati, e poi facea l'usuraio!)

Lo ripeto la concordia è il più gran bisogno d'Italia.

Noi dunque accoglieremo come fratelli coloro che non pensavano come noi in altri tempi, e che vorranno oggi sinceramente portare la loro pietra all'edifizio patriottico. Infine noi rispettiamo la casa altrui, ma vogliamo esser padroni in casa nostra, piaccia o non piaccia a' dominatori della terra.Giuseppe Garibaldi.»

Il Dittatore partì da Salerno la mattina del 7 settembre e giunse alla stazione della ferrovia di Napoli sul mezzogiorno. Era egli accompagnato da soli dieci garibaldini, il de Sauget ed altri pochi giovani napoletani andati a riceverlo a Salerno, tra gli altri il principe di Fondi, ed era costui il solo appartenente all'aristocrazia napoletana. Giacchè Garibaldi osò avventurarsi ad entrare in Napoli senza le sue squadre garibaldesche, ci fa pensare che facea a fidanza col comandante della truppa regia.

D. Liborio sempre il primo a far mostra di sè trattandosi di trovarsi in contraddizione col mandato che aveagli dato Francesco II, aspettava alla stazione della ferrovia il Dittatore, insieme ai direttori Giacchi, de Cesare e Badari Prefetto di polizia. Alla stazione era eziandio un battaglione di Guardia nazionale, gran numero di camorristi, ed altro popolaccio attirato da' poliziotti e della curiosità.

Appena Garibaldi entrò nella stazione, D. Liborio gli si presentò facendo una smorfia,

e quattro salamelecchi;

cavò una scritta compilata e firmata da lui, e da' due direttori, la lesse a Garibaldi in nome del ministero di Francesco II, che più non potea e non dovea rappresentare, non avendo certamente avuto questo mandato:

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«Generale. Vi è innanzi il ministero di Francesco II: ma noi ne accettammo la potestà, per far di noi un sacrifizio al nostro paese, (con pigliarci i bei soldi dovuti ai ministri, che n'aveano tanto di bisogno!) L'accettammo in difficile momento, quando il pensiero dell'unità italiana con Vittorio Emmanuele, che da gran tempo agitava gli spiriti napoletani, sostenuto dalla vostra spada, era già onnipotente; quando era cessata ogni fiducia tra sudditi e sovrano; quando antichi rancori, e diffidenze riprodotte dalla ridate liberà costituzionali, faceano che il reame stesse angosciato per tema di nuove violenti dimostrazioni. Accettammo il potere nel fine di mantenere l'ordine pubblico (a modo nostro) e salvare lo stato della guerra civile, (e renderci fedifraghi). Il paese comprese questo nostro intento, (e chi nol comprese!) e ne apprezzò gli sforzi (di fellonia). A noi non mancò la confidenza de' nostri concittadini; (cioè de' camorristi) e noi dobbiamo al loro concorso l'aver preservata questa città dagli atti di violenza e distruzione, fra tanti odii di partiti, (da noi suscitati). Generale, tutti i popoli del Regno, sia per sollevazioni aperte, sia per istampe, ed altri modi, han manifestato chiaramente la volontà di far parte della gran patria italiana, sotto lo scettro di Vittorio Emmanuele, voi siete il simbolo più alto (simbolo alto!) di questa volontà e di questo pensiero; però in voi si girano tutti gli sguardi (de' nuovi pagnottisti) in voi tutte le speranze sono poste. E noi depositarii della potestà, noi pure cittadini italiani, trasmettiamo il potere (che più non abbiamo) nelle vostre mani, certo che il terrete con vigore, e che saprete menare la patria (alla miseria) verso il nobile scopo ch'è scritto nelle vostre vittoriose bandiere, impresso ne' cuori di tutti: Italia e Vittorio Emmanuele.»

Dopo che D. Liborio finì di leggere la sua tiritera, Garibaldi lo ricompensò con una stretta di mano, chiamandolo (traditore) salvatore di Napoli, e confermandolo ministro dell'interno!

Quando Garibaldi usciva dalla Stazione, alcuni artiglieri del forte del Carmine gli voleano tirare addosso, ma gli uffiziali li trattennero secondo gli ordini ricevuto dal generale Cataldo comandante la Piazza di Napoli. A questo proposito voglio qui trascrivere quello che dice il Capitano di Stato Maggiore

Tommaso Cava nella

Difesa nazionale napoletana,

pag. 63. Napoli 1863;

«Il giorno che giunse in Napoli il Generale Garibaldi, io mi ritrovava tuttavia per disbrigare alcuni urgenti affari di famiglia, e fui spettatore di tutto quello che avvenne. Raggiunsi le bandiere il giorno seguente, e fui l'indomani dal Re in Gaeta, il quale consapevole della mia residenza in Napoli il giorno 7 Settembre, volle sapere i particolari di quello che era avvenuto; e mentre io gliene faceva la narrazione, un zelante uffiziale si permise di osservare con rammarico, che nessun soldato tirò al Generale Garibaldi di dentro il Forte del Carmine, per esservici passato d'innanzi tanto lentamente per come io riferiva. Avreste dovuto star lì signori detrattori, per sentire con quanto dignità il Re rimproverò l'espressione di quei sentimenti a quel fanatico ciarlone, dicendogli che si meravigliava come fra gli uffiziali del suo Esercito, vi era ancora chi nutriva bassi sentimenti di traditore; che Garibaldi si combattea in campo aperto, e non si assassinava, poichè esso seguiva l'impulso di un principio politico:

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quindi trattomi più in disparte si fece raccontare il resto, e quando mi congedò perché avessi raggiunto il mio posto, mi lasciò dicendomi: ora che abbiamo adempito al dovere di padre dei popoli, risparmiando la Capitale dal flagello di una guerra civile, adempiremo a quello di Re e di soldato.

Non trovate, signori detrattori, qualche differenza fra i sentimenti di Francesco II verso il suo nemico Garibaldi che venne a detronizzarlo, e quelli di un Rattazzi, di un Petitti ec. che l'hanno talvolta chiamato bandito e trattato come tale? E ciò dopo di averne ricevuto in dono due regni in uno, ossia dopo di avere ricevuto ventidue province, coll'annessione pura e semplice al Piemonte?

Il Dittatore dopo la diceria di D. Liborio, montato in carrozza assieme a Bertani e 'l De Sauget in abito di Guardia Nazionale.... si levò in piedi in camicia rossa, e con lo storico fazzoletto al collo, rispondea viva

agli evviva,

levando alto il cappello con code di cappone. Passò impunemente sotto le bocche de' cannoni regi del Carmine, e si disse che una sentinella regia gli avesse fatto il segno di onore con le armi.

Seguivano la carrozza di Garibaldi altre carrozze; si distingueva quella di Villamarina, Ministro Sardo accreditato

presso Re Francesco II, costui smentiva ufficialmente tutte le proteste del Piemonte contro Garibaldi, facendo la corte a chi il suo Padrone Cavour avea chiamato filibustiere anche ufficialmente. Indi seguiva quella del celebre Padre Gavazzi vestito mezzo prete mezzo garibaldino; avea accanto una donna con camicia rossa, tunica verde e bianca veste. il Dittatore in trionfo col suo corteo prese la via del Piliero, marciando lentamente: giunto nel Piano del Palazzo Reale, smontò di carrozza, salì nel Palazzo della Foresteria, e dal balcone disse: «Giusto è il vostro entusiasmo in questo dì che cessa la tirannia e comincia (la legge eccezionale) la libertà.» Fu poco udito, moltissimo acclamato. Si presentò Ayala con altri che si diceano deputati della Città, e fece a Garibaldi un ampolloso discorso, indi gli chiese un bacio dicendo: «Voi date questo bacio a cinquecentomila abitanti di questa Città» anche a' Preti?!?...

È indescrivibile il baccano che si fece all'entrata di Garibaldi in Napoli; qualunque penna non potrebbe darne un'idea approssimativa. Quel baccano superò l'altro di Palermo. Quelli però che applaudirono il Dittatore erano stranieri, camorristi, donne di cattivo odore in toletta di signore;

gente avida di novità, sfaccendati speranzosi di ghermire una pagnotta, e gente prezzolata. Si disse che D. Liborio erogasse in quella giornata ventiquattromila ducati dello Stato per suscitare que' saturnali indecentissimi. La nobiltà napoletana quasi tutta avea preso la via dell'esilio, il clero sparito per incanto, l'onesta borghesia serrata in casa propria, le botteghe chiuse: il campo restò libero a' camorristi, alla comprata plebaglia. Tutta questa gente girava in armi la città, a piedi e in carrozza, gridando Italia una,

con tutte l'altre appendici, costringendo i curiosi spettatori a gridare nel modo medesimo, se no busse e coltellate. Questa gente buttava fiori sopra Garibaldi redentore;

e gridò tanto Italia una

che perdette la voce, e fu costretta alzare il dito indice della mano destra per indicare quell'una

senza neppure intendere cosa si fosse. D. Liborio fu ben servito da que' gridatori,

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egli da uomo scaltro avea fissato il prezzo corrispondente a gridi ed ai chiassi di ciascuno.

Preti spretati e monaci apostati, irti d'armi e di crocifissi, faceano anche numero in quel baccano. Più di cento cinquanta uffiziali di artiglieria, del genio, e d'altri corpi, disertori chi per codardia, chi per non perdere l'impiego, tenendo perduta la causa del Re, faceano anche numero fra quel popolaccio scomposto e briaco.

Faceano numero in quell'orgie tanti stranieri venuti a Napoli a bella posta per far popolo ed applaudire Garibaldi. Anche antichi impiegati rimasti per amor del proprio bene in officio, sperando promozioni applaudivano. Questi ultimi si atteggiavano a liberali per quanto si erano mostrati assolutisti e provocanti: si vantavano, chi liberale del 1820, chi del 1848, raccontando persecuzioni che non avano mai sofferte da' Borboni. Anche le spie della polizia borbonica in quel giorno memorando vestivano aspetto di liberali, e si protestavano congiuratori e vittime del passato Governo.

Quel giorno, invece di essere il trionfo di Napoli, come lo chiamarono i così detti liberali, fu giorno che rivelò l'ingratitudine e la bassezza di non pochi napoletani, da far vergognare ogni anima onesta. Era rivoluzione: e non dobbiamo maravigliarci, se la feccia era venuta su. Così avviene in tempestosa marea, torna a galla ciò che in fondo giace.

Quasi in tutte le strade di Napoli succedevano que' tripudii satanici, ed i promotori erano per lo più quelli beneficati da' Borboni, o gli stessi condannati da' tribunali per fellonie perpetrate nel 1820, nel 1830 e 1848, e a cui Ferdinando II non solo avea fatto grazia, ma aveali rimessi ne' perduti impieghi. Questa gente facea di più, aizzava i camorristi e compagnia a perseguitare gl'innocui cittadini, o perché designati come borbonici, o perché non voleano far parte di quelle orgie. Quel giorno alla via della Marinella avvennero fatti indegni e selvaggi a causa di una cannonata a polvere tirata dal forte del Carmine, perché i camorristi ferirono una Sentinella;

quella cannonata fu il segnale contro la gente tranquilla. Supponeano i camorristi che si avesse voluto reagire; e quindi guai a tutti coloro che non aveano aspetto di briganti, che non erano armati, e che non gridavano Viva Garibaldi. Un nostro conoscente, il Chirurgo del 13.° Cacciatori Achille Corcione, il quale passava in quell'istante per la via della Marinella, vestito in uniforme, perché andava alla ferrovia per recarsi a Capua a raggiungere l'esercito, si trovò compromesso in mezzo a quelle baruffe, e vide scene poco degne d'un popolo festante.

Volendosi salvare da que' selvaggi briachi cercò ricovero nella Caserma della Guardia Nazionale di S. Pietro Martire: fu accolto dal Comandante di quella guardia; ma qual non fu la sua sorpresa nell'osservare che sotto la divisa di Guardie nazionali vi erano non pochi volgari assassini, che martirizzavano gli onesti cittadini, o perché non gridavano a modo loro, o perché li credevano borbonici e reazionarii! Il mal capitato Chirurgo Corcione, ebbe a gran fortuna fuggire da quella caserma, contentandosi di sfidare l'innebriata onda popolare che facea aspro governo contro tutti coloro che non le rassomigliassero.

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Garibaldi discese dal palazzo, si pose in carrozza, smontò dopo poco innanzi il Caffè d'Europa, e di là si diresse con gli altri in processione verso il Duomo per la via di Toledo. Egli andò al Duomo per visitare il Patrono della Città, e da italianissimo scimmiottare il francese Championnet. Avealo preceduto il padre Pantaleo; quantunque si fosse ordinato di preparare e disporre tutto quello che occorresse per ricevere il Dittatore, nondimeno si trovò tutto chiuso e fu necessario scassinare i cancelli, e senza riguardo si sfondarono le porte della sagrestia, ove non si trovarono arredi sacri. I camorristi devenuti accoliti del Reverendo Pantaleo, bastonarono il custode del Duomo, come quello che non avea eseguito gli ordini

ricevuti. Corrono alla vicina chiesa de' Gerolomini, battono coloro che si negano dare gli arredi sacri, sfondano le porte di quell'altra sagrestia, e rapiscono quegli arredi che abbisognavano a quella specie di sacrilegio.

Giunto il Dittatore al Duomo con tutto il suo seguito, il padre Pantaleo sale in pergamo vestito ancora con l'abito di frate e con camicia rossa, cinto d'armi, e con l'ostensorio in mano, prorompe in triviali bestemmie, e tra le altre bestiali empietà dice: «Dio, prima diè la legge a Mosè, poi la mandò più perfetta pel Cristo suo figliuolo redentore, ora l'inizia perfettissima per Garibaldi redentore novello.»

E tutti applaudirono non escluso Garibaldi redentore.

Infine il padre Pantaleo intuona il Tedeum

e dà la benedizione. Intanto nel Duomo, come in Mercato, si vendeva, si comprava, si mangiava, si beveva, e si bestemmiava! Oh! la setta che odia e perseguita la santissima religione fondata dall'uomo-Dio, vuol poi costringere i ministri del Santuario a celebrare i suoi eccessi, e ringraziare Iddio delle sue consumate nefandezze contro il Cristo medesimo!

Garibaldi, uscito di Chiesa, montò in carrozza con l'amico D. Liborio, si fermò a Toledo allo Spirito Santo, e a dispetto del proprietario s'impossessò del palazzo del principe d'Angri, e con lo scopo di scimiottare ancora i francesi duci Championnet e poi Massena che alloggiarono in quel palazzo. Il Dittatore occupò il piano superiore, il piano nobile fu occupato dal suo corteo. Quindi si potrà supporre in quale stato il principe d'Angri abbia trovato l'elegante mobilio al suo ritorno che fece da Parigi.

Il Padre Pantaleo, come cappellano maggiore di Garibaldi, e lo stato maggiore di costui, s'impadronirono dell'altro palazzo del Principe S. Antimo fuggito a Parigi; ove alloggiarono da grandi aristocratici. Si vede che a que' democratici non dispiacevano i comodi e gli agi principeschi.

Garibaldi al palazzo d'Angri cominciò a ricevere visite da' felloni e traditori, e segnatamente ricevè la visita del generale Lanza bombardatore di Palermo, ed avversario in maschera al Dittatore nella guerra di quella città. Lanza fu ricevuto cordialmente; ed invero, senza millanteria avrebbe potuto dire a Garibaldi: «inchinati innanzi a me, io avrei potuto stritolarti: il tuo trionfo, e il posto che occupi sono tutti opera mia.

Quel giorno stesso il Dittatore fu visitato dall'ammiraglio Sardo Conte Persano vestito in grande uniforme per dar più importanza a quella visita, e per far persuaso

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il popolo che l'ammiraglio Sardo sarebbe stato pronto a sostenere l'opera del duce rivoluzionario con tutte le sue forze.

L'incontro di Persano con Garibaldi fu cordiale; si abbracciarono da veri amici, e si comunicarono le loro idee guerresche e politiche. Però questi intendea proseguir la marcia sopra Roma e Venezia, e quello disapprovava tale risoluzione giudicandola inopportuna, e quindi pericolosa.

Il Dittatore, di moto proprio, disse a Persano che volea dargli il comando di tutte le forze navali del Regno, e senza più dettò il seguente decreto che rimise a quell'Ammiraglio:

«Il Dittatore decreta. Napoli 7 Settembre 1860.

Tutti i bastimenti da guerra e mercantili appartenenti allo Stato delle Due Sicilie, arsenali e materiali di Marina sono aggregati alla squadra del Re d'Italia Vittorio Emmanuele, comandata dall'Ammiraglio Persano.

Firmato G. Garibaldi.»

Trovavasi ancora in Torino il Ministro di Francesco II accreditato presso quella Corte, e Persano senza alcuno scrupolo, anzi slealmente, s'impossessò della marineria regia, arsenali e materiali di marina, frutto di cinquanta anni di spese e lavori fatti dalla Casa Borbone.

Il Persano volea mandare subito in Sardegna la flotta napoletana, ma non potea mancandogli i marinari per guidarla. Il 13 Settembre uscì un manifesto col quale si prometteano venti ducati d'ingaggio, sei ducati al mese di soldo, e il vitto a bordo a quei marinari napoletani che avessero voluto servire il Piemonte. Nessuno si presentò, e Persano dovette usare la forza per averli, e per mandare in Sardegna la flotta napolitana! Quale virtuosa differenza tra l'ufficiale settario e 'l fedele soldato!

Lo stesso giorno 7 Settembre, a richiesta del Persano, il Dittatore firmò il seguente decreto:

Il Capitano di Vascello Vacca, (quello del Monarca)

e il Capitano di Vascello Barone, i Capitano di fregata Vitagliano, sono confermati nel loro grado; siccome tutti gli uffiziali di Marina che diedero le loro dimissioni (cioè che tradirono il proprio Sovrano), per servire la causa italiana. Firmato G. Garibaldi; «Gloria eterna ai Vacca, ai Baroni ed ai Vitagliano!

La sera del 7 Settembre passò tranquillamente: si vedeano molte bandiere, poca gente, meschina illuminazione festiva, e questi apparenti segno di giubilo erano opera di D. Liborio e de' Camorristi.

Il giorno seguente festa di Piedigrotta, tanto rinomata in Napoli, il Dittatore disse volervi intervenire per devozione

assieme al suo indivisibile D. Liborio. Però i maligni dissero che vi fosse andato per far le veci di Sovrano: egli tanto democratico?! In mancanza di preti autorizzati, supplirono Pantaleo e Gavazzi, i quali vestirono la Madonna co' tre colori, e presentarono a Garibaldi il mazzo di fiori benedetti come si dava a' re; e il Dittatore baciava que' fiori, e li baciucchiavano pure i Camorristi che faceano corteggio alla novella Sovranità garibaldesca. E con queste profanazioni e pagliacciate credeano corbellar il popolo! Al ritorno di questa pagliacciata Giove Fluvio ricompensò tutto il corteo garibaldesco con una pioggia niente piacevole.












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