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Presentazione

Tempo fa abbiamo pubblicato di Biagio Cognetti “Passato e presente nel reame delle  due Sicilie - 1862”.  Avevamo anche questo libro (PIO IX ED IL SUO SECOLO DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE... – II volume) che oggi mettiamo a disposizione degli amici della rete, ma non vi avevamo dato molta importanza, ritenendolo tagliato soprattutto sulla storia della chiesa. Poi un giorno fummo contattati da un discendente dei Cognetti che ci sottolineò l’importanza del testo. In effetti aveva ragione, si tratta di una opera matura che non lascia spazio alla ideologia di parte ma offre al lettore una valutazione razionale degli avvenimenti.

Interessante la definizione che egli da di Liborio Romano come il “Cavour delle due Sicilie”. In effetti persona di straordinaria intelligenza politica il Romano è stato sempre considerato, anche ad chi scrive, un essere abbietto, uno dei tanti che vendettero il loro paese per un pugno di lenticchie.

Oggi dopo anni di ricerche e decine di libri letti la nostra opinione è cangiata. Era un personaggio del suo tempo le cui doti gli avrebbero potuto permettere di offrire grandi servigi al suo paese, ma appartiene ad uno stato che è stato spazzato via e i cui territori sono devastati da criminalità e sottosviluppo. Se non fosse scoppiata la guerra civile e se il sud  non fosse finito in miseria probabilmente Romano sarebbe passato alla storia come il salvatore della capitale, come l’abile politico che aveva evitato a Napoli un bagno di sangue.

E se Cavour non appartenesse ai vincitori oggi sarebbe considerato un volgare ladro ed un accaparratore.

Avremmo voluto riportare il messaggio che il discendente dei  Cognetti ci ha inviato qualche mese fa e in cui delineava la storia della propria famiglia all’indomani della unità d’Italia, ma non siamo ancora stati autorizzati alla pubblicazione.

Zenone di Elea – 25 Marzo 2010


Ringraziamo il Dott. Cognetti per averci autorizzato alla pubblicazione di questa lettera inviataci qualche tempo fa. Per completezza di informazione riportiamo la nostra email, in cui chiedevano di scriverci delle note biografiche sulla sua famiglia. Si tratta di uno squarcio di luce sulle persecuzioni poliziesche a cui furono sottoposti molti napolitani nella neonata Italia.

Mino Errico - 1° Dicembre 2012


PIO IX
ED IL SUO SECOLO
DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE DEL 1789
ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA
PER
BIAGIO COGNETTI
DOTTORE IN TEOLOGIA
TIRTEO FRA GLI ARCADI, PIO METELLO
FRA I PELLEGRINI AFFATICATI.

SOCIO DELL'ACCADEMIA dei TRASFORMATI.
DELLA COSENTINA. etc. etc.
Vol. II.
NAPOLI
STABILIMENTO TIPOGRAFICO DI P. ANDROSIO
Cortile San Sebastiano, 51
1868
(1)

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LIBRO VI.

DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA

AL VIAGGIO DI PIO IX NELLO STATO PONTIFICIO

CAPITOLO I.

Persecuzione della Chiesa in Spagna Vendita del beni ecclesiastici La Catatogna in stato l'assedio. Il Nunzio Pontificio chiede i suoi passaporti Tentativo socialista a Barcellona Il matrimonio civile in Svizzera Incameramento del beni ecclesiastici in Piemonte - Indirizzo del Vescovi - Discussione al Parlamento - Breve del S. Padre (Probe memineritis) - Tumulti a Val d'Aosta - 19 Sacerdoti arrestati - Ii Conte di Cavour e le fraterie del mendicanti - Le figlie della Carità difese da Cavour - Proposta dell'Episcopato Piemontese - È rigettata - Il maresciallo Della Torre al Senato di Torino - Soppressione dell'Accademia di Superga - Allocuzione del Papa per gli affari di Spagna - Anatema al governo Piemontese Concordato con l'Austria - Le quattro proposizioni dell'Arcivescovo di Parigi - L'Hatti - Humaioun del Gran Sultano.

Gravissimi sono i tempi, di cui imprendiamo a parlare, e per la politica degli Stati, e per la Chiesa, che non contò forse nei suoi annali epoca più di questa travagliativa; gravissimi per gli avvenimenti, che come preludio prepararono la campagna del 1859, eia rivolta del 1860.

Napoleone III. Cavour, Plombiéres, Villafranca, Nizza e Savoia, e la proclamazione del Regno d'Italia sono avvenimenti ancor palpitanti, di cui siamo stati disavventurosamente testimoni.

Il Pontefice espoliato del suoi possedimenti; i Principi d'Italia miseramente spodestali l'un dopo l'altro; la Toscana, i Ducati, e le Province pontificie che si ribellano; Garibaldi elio con mille uomini invade le Due Sicilie, sostenuto dall'inqualificabile intervento delle truppe Piemontesi; la battaglia di Castelfidardo, ed il plebiscito sono gli alti del gran dramma.

2 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1855)

Tesser la storia di fatti sincroni è ardimento periglioso, avvegnacchè vivessero gli autori e gli allori del dramma politico. Noi però non tememmo di accingerci all'opra, facendoci scudo dell'onesta imparzialità del nostro racconto, non dettato da spirito partigiano, sibbene messo a base di documenti irrefragabili. Che la rivoluzione abbia agito potentemente, chi niega? Che questa rivoluzione sia stata attizzata in Piemonte, chi smentirà, se è dichiarato con Alti Ufficiali?Chi niega, che nelle Due Sicilie l'oro, le promesse, e il tradimento sorpresero le popolazioni, e sbandarono un esercito di 90 mila uomini?

Noi raccontiamo avvenimenti su cui molto si è scritto, ma non sempre con verità: alcuni falsarono la storia per manco di documenti - , altri per dare alla rivoluzione un carattere, che non ebbe. Noi abbiamo coscienza di non poter essere da alcuno contestati, perciò scrivemmo per tutti.

L'anno 1855 si apriva funestissimo per la Chiesa Cattolica. La rivolta compiuta da O'Donnei in Spagna (luglio 1854), per cui era salilo a capo del Ministero di Madrid Espartero duca della Vittoria, fece riaccendere in quel regno la più aspra persecuzione contro la Chiesa. Il Concordalo, che nel 1851 era stato stabilito con la S. Sede, fu violalo; come nemici perseguitali i cattolici; i Vescovi o prigionieri, o fuggitivi, o esiliali; scacciate le fraterie, dispogliate del beni; manomesse le Chiese; derubali gli argenti ed i sacri arredi. Potea dirsi di bel nuovo la Spagna esser caduta nello stato di convulsione. Neanche agli studi ecclesiastici volte perdonarsi; e nelle Cortés, benché renitente e contrario il voto del Ministero, fu fatta mozione, ed a maggioranza approvalo, che fossero soppresse nei seminari le Cattedre di filosofia e di teologia, e proibito ai Vescovi, sino a nuove disposizioni, il conferire ordini sacri. È sventura inqualificabile, che in tutte le rivoltare politiche, la prima battaglia che aspramente s'ingaggi, fosse contro la

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0 appartenenti allo Stato, al Clero, ai Comuni ed alle corporazioni di a beneficenza, e di pubblica istruzione». La vendila fu universale! Religione, beneficenza, e pubblica istruzione eran cose superflue per i rivoltuosi di Spagna!

La Regina Isabella, involta in quel vortice tremendo, troppo debole per resistere, senza avere un partito forte e compatto, che avesse potuto sostenerla e moderare le strane pretese del rivoltuosi; senza la confidenza delle truppe, le quali in Spagna è pernoto essere le prime ad alzare il vessillo delle rivolte, dové a contracuore cedere a tutte le istanze, e confermò anche la proibizione ai Vescovi di conferire ordini Sacri, sino a che non fosse stabilito e concordalo un generale regolamento del Clero provinciale. Le proteste dell'Episcopato e del partito Cattolico, non che la stessa ripugnanza della Regina, non più libera della sua volontà e della autorità regia, non furon dighe sufficienti a raffrenare il torrente della rivolta Cattolica; i beni del Clero furon messi in vendila, e la Regina sanzione la legge fatta all'uopo dalle Cortès.

Grave scontentamento destarono tali enormità nella Catalogna; ed i Cattolici, pria con pacifiche dimostrazioni, e poi con dimostrazioni armate, fecero man bassa sui capi più noti delle selle; ma il tumulto fu sedalo con la forza; quella Provincia fu messa in stato di assedio, perseguitato l'Episcopato ed il Clero senza distinzione; e molti sacerdoti bistrattati, fatti segno ad ogni sorta di tormento.

4 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1855)

Resi vani i

La Spagna vedeasi minacciata da imminente sfacelo, poiché la rivolta non s'avventava centra le gravezze del Governo, o contro la tirannide del governanti, poiché lo stato reggevasi a libertà costituzionale; ma svolgevasi nel senso socialista, per abbattere di un colpo tutte le civili istituzioni, e manomettere i beni e le proprietà private. Il primo tentativo fecesi a Barcellona, e la plebe sollecitamente si associò ai settari. Qual possa non ha l'oro nel cuore umano? Qual polente leva non è desso a manomettere e capolevare diritto, leggi e società? A stento, e con grande spargimento di sangue poté frenarsi questo movimento; ma fu represso, non spento. La Spagna sin d'allora si è dibattuta miseramente tra le tanaglie della rivoluzione, che non diè mai più tregua ai governanti.

Nella Svizzera è pur troppo storico, che di tanto in tanto aspreggiasse la persecuzione cattolica; i pochi momenti di pace, che potean godersi, eran susseguiti sempre da più feroci tempeste, come se in quella simulata quiete gli animi si allenassero a riprendere con maggior violenza le ostilità. E questa volta ne fu causa la sanzione che il gran Consiglio del Ticino diede alla legge sul matrimonio civile. L'Incaricalo della S. Sede risiedente in Lucerna protestò vivamente al Consiglio alto federale della Svizzera contro tale ordinamento «non per restringere i diritti che lo Stato ha sui cittadini, ma perché fossero lasciati anche intatti i diritti della S. Sede»; poiché con quella legge veniasi ad impedire il libero esercizio della Religione cattolica, che era stato già stabilito della Costituzione federale.

Né in Piemonte procedevan meglio gli affari della Chiesa. La grave quistione che agitavasi in Parlamento, era la soppressione delle Comunità Religiose (1). Tempestose furono le sedute, come sempre avviene,

(1) Atti del Parlamento (9 genn. 1855).

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quando si tratti d'interessi così gravi, nei quali anche la maggioranza assoluta delle Camere non rappresenta la maggioranza delle popolazioni. In fatti non eran soli gli Arcivescovi, i Vescovi, i Vicari Capitolari, e i Capi degli Ordini Religiosi che protestavano contro quelli legge, accusandola d'ingiusta, d'illegale, di anticattolica, e di sacrilega: ma un numero imponente di petizioni firmate da ogni ceto di cittadini premurava il Parlamento a rigettarla (1).

Grande fu la contesa per la presentazione di tali petizioni, in contrarietà di altre che chiedevano l'attuazione dell'incameramento del beni ecclesiastici, la riduzione del Vescovadi, l'abolizione del conventi, e il sottoporsi i chierici alla leva militare; ma il Presidente del Consiglio, conte di Cavour, tolse le divergenze facendo stabilire che le petizioni di ogni specie venissero presentate; e ciò perché, diceva egli, «forniranno ai difensori della legge i loro più validi argomenti. Desidero quindi (aggiungeva) che queste sieno fatte di pubblica ragione; che sia loro data la massima pubblicità, perché con quelli stessi documenti alla mano sarà facile ai miei colleghi ed amici di dimostrare ad evidenza l'indispensabilità della riforma da noi promessa».

Notabile è l'indirizzo, che all'uopo fece unanime l'Episcopato di Sardegna. In esso il progetto è accusato come Ingiusto, poiché usurpa un dritto che non gli spetta; invade proprietà che non sono di sua pertinenza: Illegale; e si poggia sui seguenti articoli del Codice Civile. Art. . La Religione Cattolica è la sola Religione dello Stato, quindi riconosce e protegge le proprietà e le istituzioni di essa. Art. 26. È garantita la libertà individuale. Art. 29. tutte le proprietà sono senza veruna eccezione inviolabili... Art. 32. Tutti i cittadini hanno il diritto di adunarsi liberamente: ANTICATTOLICA, e fonda le argomentazioni sui diritti della Chiesa: ANTISOCIALE; basi della Società sono la proprietà, la giustizia, e la religione... la legge progettata

(1) Tutte le parole in corsivo sono attinte dagli Atti Ufficiali.

6 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1855)

attaccandole tutte violentemente, non potrebbe essere più, nefasta alla Società medesima.

Significativo e di somma importanza fu il discorso che all'uopo profferì in Parlamento il Deputato Bon - Compagni, che non può essere certamente sospetto di clericalismo. Riportiamo il paragrafo che concerne l'incameramento del beni Ecclesiastici.

«... In quanto a me (parla egli), o Signori, non fui mai propenso alla proposizione dello incameramento, perché non la vedo né accolta né proposta da alcuna parte un pò ragguardevole di uomini di Stato, là dove pose profonde radici la libertà....

«La Chiesa si trova, come io diceva già una volta alla Camera, nella condizione di ogni grande istituto di beneficenza; e quale beneficenza è maggiore, che propugnare le più importanti verità, che consolare tutti i dolori della vita umana? (Parole scolpite e solenni, che testimoniamo, come nel cuore del Bon - Compagni non fosse estinta la vivida facella del principio religioso; testimonianza bastevole a rigettare le accuse di oziosità, che si fanno alle cattoliche istituzioni). La Chiesa, come gl'istituti di beneficenza, ebbe le sue sostanze dalla liberalità del privali. Ora sarebbe partito liberale il togliere ad un istituto, ad un'associazione qualsiasi, ciò che le fu dato, e supplirvi con un assegno fatto dalla potestà pubblica, determinalo a suo talento? Qual'è il modo più semplice, più naturale alle necessità del culto?

«È questo il sistema, che si seguiva dai primitivi cristiani, sistema che ancora adesso si osserva nelle Chiese non numerose dell'America, il sistema cioè delle spontanee oblazioni: ora se voi ammettete le oblazioni spontanee, come potete voi contrastare la libertà di fare una oblazione maggiore, un'oblazione che sollevi il popolo dal carico, che gli lascerebbe la Chiesa improvveduta per l'avvenire?

«Io combatterei risolutamente la proposizione dell'incameramento.... perché io la credo una emancipazione di quel sistema, che intende a sostituire in ogni cosa l'attività del Governo all'operosità del

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In sostanza però l'On. Bon Compagni ammetteva la legge, ma - con modificazioni. Il partito acattolico non accettava modificazione alcuna, e voleva che scomparisse ogni proprietà di manomorta, e che il elencato si asservisse. Il Deputato Brofferio, capo di questo partito, restringeva tutta la quistione su di un'argomentazione, che era obbligato di sostenere a forza di destare l'ilarità. Unumquidcue dissolvitur eodem modo quo colligatum fuit; diceva egli, volendo dimostrare che la legge civile, la quale per sua disposizione ha permesso queste istituzioni, può con altra disposizione distruggerle. Quanto valga l'argomentazione non spelta allo storico ribattere. È notevole però il modo, col quale il Bon Compagni rinfacciava al conte di Cavour l'istantaneo mutamento di opinioni e di politica. Dopo aver ricordato, che verso la metà del 1848 fu proposta la medesima legge, incolpa una voce potente, che, malgrado la giustizia e l'opportunità della proposta, sorgeva a combatteva. Questa voce potente (sono le parole del Brofferio) era quella del signor conte Camillo di Cavour, che diventato presidente del Consiglio propone oggi l'abolizione di una parte del conventi (1).

Nel mentre che così dibattevasi nel Parlamento Subalpino la causa delle Corporazioni Religiose, il Santo Padre, per dare a tutto il mondo cattolico e politico una lucentissima prova dell'ingiustizia delle accuse scagliale contro la Chiesa, imputata di ostinazione, e di voler intrudersi ad ostacolare gli ordinamenti civili dello Stato Sardo, fece pubblicare un libro contenente l'istoria diplomatica delle trattative fatte tra la S. Sede ed il Piemonte, non che tutto ciò che da quel governo erasi perpetralo contro ogni diritto a danno della Chiesa. Il libro ha per titolo «Esposizione corredata di Documenti sulle incessanti it cure della Santità Sua a riparo del gravi mali, da cui è afflitta a la Chiesa Cattolica nel Regno di Sardegna».

(1) Atti del Pari. Seduta del 10 gen. 1855.

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Questo libro fu dispensalo a tutti i Cardinali; ed il Pontefice l'accompagnò con una breve ed affettuosa allocuzione (2). «Venerabili Fratelli.

«Vi sovverrete certamente con quanto cordoglio dell'anima nostra spessamente in questo luogo stesso insieme a Voi ci dolemmo sui gravissimi danni, con cui da più anni la Chiesa Cattolica, nel Regno di Sardegna, è afflitta e vessala.

«Indubitabilmente nulla ommettemmo di sollecitudine, di cura, e di longanimità per arrecar sollievo a tanti mali, come lo richiede dovere del Nostro Apostolico Ministero, desiando ardentemente di poter un giorno darvi la lieta novella, che il vostro e nostro dolore in qualche parte fosse lenito. Ma vane tornarono le nostre premura, e a nulla valsero le iterale domande fatte per lo mezzo del Cardinale, nostro incaricalo per i pubblici affari, e i mezzi adibiti per l'altro Cardinale nostro Plenipotenziario, e le lettere familiari che indirizzammo al nostro Carissimo Figlio in Gesù Cristo, l'illustre Re di Sardegna.

«A tutto il mondo son noti i molti fatti e decreti, coi quali quel governo, con sommo dolore ed indignazione di tutti gli onesti cittadini, calpestando in ogni parte i concordati stabiliti con questa Santa Sede, non peritò ogni di più sempre perseguitare e sacri ministri, e Vescovi. e famiglie religiose; ledere, e violare, l'immunità e la libertà della Chiesa, e i suoi venerandi diritti; usurparne i beni; scagliar contumelie, ed in ogni modo addimostrar dispregio contro la Chiesa, e contro l'autorità suprema, e nostra, e della S. Sede. Ed in vero di recente, come a voi è nolo, altra legge è stata proposta, ripugnante non solo al naturale e divino diritto, ma anche allo stesso diritto sociale; legge grandemente avversa al bene dell'umana società, che senza dubbio favoreggia i perniciosi e funestissimi errori del socialismo e del comunismo, in forza della quale tra le altre cose si propone la totale soppressione di quasi tutte le famiglie monastiche, e religiose dell'uno e dell'altro sesso, le chiese collegiale, ed i bene

(2) Probe Memineritis (22.hen. 1855).

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M semplici, non esclusi quelli di Regio Patronato, assoggettando e incamerandone i beni e le rendite all'amministrazione ed all'arbitrio del potere civile. Di più col medesimo progetto di legge si tribuisce alla potestà civile l'autorità di prescrivere condizioni, a cui soggiacer debbano quelle altre famiglie religiose, che furono risparmiate.

«Manca a noi la parola per disvelare tutta l'amaritudine che internamente ci trafigge, nel vedere perpetrati fatti di perversità appena credibili, e perpetrarsi ogni giorno contro la suprema ed inviolabile Autorità di questa S. Sede in quello stesso Reame, ove esiste si gran numero di egregi cattolici, ed ove la pietà sopra tutto del Principi, la loro religione e la loro osservanza verso questa Cattedra di S. Pietro e del suoi, successori vigeva e rifioriva come d'esempio agli altri.

«Ma son giunte le cose a tale stato, che non basta deplorare i danni arrecati alla Chiesa, se non ponessimo tutto lo studio e tutta l'opera nostra a scongiurarli; adempiendo perciò alla parte del dovere, che eincombe, in mezzo di sì solenne Consesso anche una volta estolliamo con libertà Apostolica la nostra voce, e non solo tutti e singoli decreti già approvali da quel Governo a detrimento della Religione, della Chiesa, del diritti e dell'Autorità di questa S. Sede reprobiamo e condanniamo, ma tutti li dichiariamo irriti e di niun valore.

«In oltre gravissimamente ammoniamo così coloro nel nome, per cura e comando del quali li su menzionati decreti sono stati di già promulgali, che quelli i quali non han temuto di favoreggiare, approvare, e sanzionare in qualsiasi modo l'ultimo progetto di legge, di pesare maturamente con la mente e con l'anima, le pene e le censure che sono fulminale dalle Costituzioni Apostoliche, e del Sacri Concilii, specialmente del Indentino, (Sess. xxu. Cap. xi.°) contro coloro che predano o profanano le cose sacre, contro i violatori della libertà e potestà Ecclesiastica, e contro gli usurpatori del diritti della Chiesa, e della Santa Sede.

«E - perché il mondo cattolico sappia tutto quanto da noi fu fatto per difender la causa della Chiesa nel Regno di Piemonte,

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e nel medesimo tempo la condotta tenuta da quel Governo, abbiamo comandato di porsi a stampa una speciale esposizione di tutti questi fatti, perché ognuno di voi ne abbia un esemplare (1)».

Conchiude lodandosi del contegno dell'Episcopato, il quale si era opposto con virtù e costanza ammirevole a quelle leggi per sostenere l'onore e i diritti della Chiesa.

Intanto che nel Parlamento di Torino con accanimento da alcuni difendevasi, da altri tentavasi di mandare a vuoto il progetto di legge per la soppressione degli ordini religiosi; dal Ministero spedivasi una Circolare (2) agli Intendenti, da parteciparsi anche ai Sindaci con ordini precisi e severi d'invigilare i parrochi, affinché nelle loro prediche non avesser pubblicalo né fatta allusione all'allocuzione Pontificia di sopra riportata. Gravi tumulti ebbero a deplorarsi nel Ducato di Val d'Aosta. Incolpatisi gli Ecclesiastici come fomentatori di movimento reazionario, ben s dici ne furono arrestati e posti sollo accusa come convinti rei; ma niuno fu condannato, avendo potuto i tribunali, dalle testimonianze, costatare, che non ad altro fine, se non a raffrenare gl'insorti fossero intervenuti quei Sacerdoti. Dell'articolo fatto pubblicare sul proposito da Massimo D'Azeglio sulla Gazz. Piemontese, con cui s'accusava il cardinale Antonelli come promotore di quel disordine, nulla diciamo; poiché gratuitamente asserto, niuno vi prestò fede.

Non pertanto, benché la maggioranza avesse per sé il Conte di Cavour a riguardo di tal legge, pure gravissima era l'opposizione, che incontrava in uomini di alta levatura e per grado e per ingegno; per cui non fuvvi eloquenza, che non mettesse in opera per ribatterne i ben lucubrati ragionari.

Parlandosi dei mendicanti sopratutto, Cavour spiegava la sua facondia; dal che può desumersi non esser la sola idea dell'interesse pecuniario, che a quel passo lo spingesse,

(1) Parla del libro che annunciammo nel periodo che precede questa Allocuzione.

(2)

Febbraio 1855.

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ma il principio di una riforma radicale per far scomparire, per quanto più gli era possibile, il tipo delle fraterie. Su tal proposito riportiamo un brano del discorso da lui detto in Senato (1).

«... Nei tempi, nelle condizioni presenti (dic'egli) nessuna società civile può prosperare, può mantenersi nello Stato, se non dà opera a favorire lo sviluppo del lavoro, a renderlo più efficace, a renderlo stimato e rispettato.

«Ora, o signori, gli Ordini puramente contemplativi, come gli Ordini mendicanti, si trovano in opposizione diretta contro questo principio, sopra il quale riposa la società moderna.

«Mentre è obbligo del governi illuminali di rendere rispettato ed onorato il lavoro, di fare che il lavoro sia consideralo come dovere, quasi direi, universale; come volete che non sieno nocivi quegli istituti, i quali associano all'idea di santità quella dell'inoperosità? (Cavour parta sempre con convinzioni umane, e materiali semplicemente, senza dire che avrebbe dovuto aver presenti le fondazioni di quelli istituti per ravvisarvi, che sono i più operosi fra gli altri). Segue a parlare il conte di Cavour.

«Bisognerebbe, o signori, negare la potenza dell'associazione dell'idea per voler contrastare, che l'esistenza di questi Ordini non produca un effetto morale funesto sulla Società, in mezzo alla quale esistono; per riconoscere che questi Ordini sono un ostacolo, ed un ostacolo grave allo sviluppo economico della società...» Poi viene a dimostrare, come il mezzo di vita di queste fraterie, che egli chiama accattonaggio, sia funesto alla società.

«Come potete sperare, son sue parole, voi, o signori, che si consideri l'accattonaggio come atto riprovevole, quando tanti stabilimenti, che sono considerati come rispettabili, e che debbono, finché esistono, essere rispettati, quando, dico, tanti stabilimenti sussistono col principio dell'accattonaggio? Io credo, che i fatti dimostrino, come le corporazioni Religiose, di cui io parto,

(1)

Atti del Senato del Regno, 9. mag. 1853.

12 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1855)

lungi dall'essere giovevoli alla società civile, sono alla società religiosa altrettanto dannose, quanto lo sono alla Società Civile».

Chiunque legge le arringhe di Cavour potrà, freddamente e pacatamente esaminandole. trovarvi la debolezza degli argomenti compensata da un'arte finissima di colorire il tutto con squisito garbo per sostenere l'insussistenza delle sue tesi; univa l'aspro al dolce, e faceva sempre campeggiare il benefizio che ne sarebbe devenuto allo stato ed alle finanze; argomento convincentissimo per tutti, atteso il dissesto finanziario in cui era caduto il Piemonte sin dal 1848. Non tralasciava mai di aggrandire l'utilità della libertà sociale secondo le sue vedute politiche: e perché non gli si dasse taccia d'irreligioso, teneva sempre in pronto un formulario di risposte, dinanzi a cui bisognava cedere, per non essere accusato o deriso di clericale, di reazionario, e peggio.

Né mancò in alcune occasioni parlare ed operare in modo da far credere che egli non agiva per spirito di opposizione alla religione; sibbene per gl'immegliamento del paese.

Di fatti nella discussione che nel Parlamento facciasi intorno alla quistione in parola, il Deputato Valerio parlando in favor della legge, satirizzava il Ministero, che nella soppressione avea eccettuali alcuni istituti, che definiva monachismo francese (1) militante; e sostenne virulentemente che più a questo dovea badarsi, che alle reliquie del vecchio monachismo italiano.

Prese la parola il conte di Cavour per rispondergli, giacche per monachismo francese il Valerio intendeva parlare delle figlie della Carità, fondale da S. Vincenzo de Paoli. Interessante è la difesa, ch'egli ne fece, e noi con piacere la riportiamo, come giusto tributo di laude a questo beneficentissimo istituto.. Eccone le parole.

«Signori, a mio giudizio la soppressione delle Suore della Carità sarebbe il massimo degli errori: io ritengo questa istituzione come una di quelle, che maggiormente onorano la religione, il cattolicismo e la stessa civiltà.

(1)

Atti del Parlamento 22 febb. 1855

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Io ho vissuto molti anni in paesi protestanti, ho avute relazioni con gli uomini più liberali appartenenti a quella religione, e li ho più volte uditi invidiare altamente al Cattolicismo l'istituzione delle Suore della Carità.

«Laonde ripeto, o signori, che quantunque desideri di veder portato lo spirito di riforma nelle istituzioni monacali, quantunque reputi che le necessità presenti, l'interesse della civiltà, i bisogni del secolo richieggano questa riforma, quando essa dovesse estendersi alle Suore della Carità, vi rinunzierei piuttosto, che portare su di questa istituzione la mano sacrilega.

«E a questo punto debbo... invocare l'esempio degli stabilimenti, in cui queste suore esercitano l'opera loro. Io ritengo, che non solo essi possono sostenere il confronto con qualunque fra quelli, in cui non sono ammesse, ma anzi ho l'intima convinzione che l'opera di queste suore abbia portato un miglioramento grandissimo in tutti quelli a cui furon chiamali.... Invoco in favore dell'efficacia dell'opera delle Suore della Carità negli ospedali la testimonianza della Nazione inglese.

«Aprite i giornali di quel paese, e vedrete come tutti i whigs, e tories e radicali rendano giustizia agli immensi servizi che le Suore della Carità hanno reso negli Ospedali militari d'Oriente, come tutti proclamino l'immensa superiorità degli Ospedali scelti dalle Suore della Carità a petto di quelli eretti a molto più caro prezzo dall'Amministrazione inglese.

«Di più, signori, ritengo che queste suore esercitino la carità, come dev'essere esercitata nel secol nostro.»

Nel frattempo che caldissima era ancor la discussione, il Vescovo di Casale, a nome di tutto l'Episcopato del Regno, fece la proposta di offerire a S. M. il Re Vittorio Emmanuele ed al suo governo, la somma di L. 928,112,30, la quale era stata cancellata dal bilancio di quell'anno, e che prima trovavasi assegnata per congrue e supplementi di congrue delle province di terra ferma.

14 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1855)

La proposta fu presentata dal Senatore di Calabiana; ma il conte di Cavour, eccependo la pregiudiziale, poiché cambiava perfettamente l'indirizzo della discussione, fecela aggiornare, dicendo non pertanto: «di riconoscere nella proposta una nuova prova del sentimenti di pattriottismo, che anima l'Episcopato» (1).

La proposta trovò moltissimi fautori nel Senato, e presentivasi che sarebbe stata accettata, locchè distruggeva la legge della soppressione. Il conte di Cavour quindi dichiarò di non poterla ammettere, e ne fece quistione di Gabinetto: e siccome la sua minaccia non produsse l'effetto che desiderava, il Ministero si dimise in massa.

I momenti erano difficilissimi in Piemonte; scarso l'erario; divisi gli animi in partili; 1''opposizione forte e compatta; il repubblicanismo minaccioso; la rivolta sempre pronta a scoppiare. Il Conte di Cavour avea saputo dominar la posizione, mettere in buon aspetto il Piemonte, e moralmente rialzarlo dalla sconfitta di Novara. Si parlava anche di un Congresso da tenersi a Parigi, e ben sapevasi come Cavour tentasse il modo d'intervenirvi per scagliare la prima pietra contro l'edificio del regni italiani, che egli diceva rosi e tarlati!-Dunque era un uomo politicamente necessario. Il Re richiamollo, ed il Ministero fu ricostituito. L'Episcopato, ben si comprende, dovea essere il capro emissario brucialo in olocausto al conte di Cavour; e la proposta fu rigettata per condizione prima ed essenziale. Riapertasi la discussione, e modificala in molte parli la legge sulla soppressione, nel 22 maggio con 53 voti su 43 contrari fu approvata in Senato. Supremi sforzi fece il partito moderato conservatore per ostacolarla, ma fu impossibile. La volontà del Conte di Cavour imperava come legge suprema.

Non possiamo qui non dare un giusto tributo di lode al Maresciallo Senatore Della Torre, che energicamente difese i diritti della religione. Egli non cedè; fu sopraffallo da una maggioranza asservita: ma quando vide rigettato e combattuto ogni argomento di diritto sociale e morale, con un impelo che decora il soldato, il quale affratella la Croce

(1)

Senato del Regno. Tornala 26 aprile 1855.

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alla spada esclamò: «Io dico che questa legge è imprudente, e voi, t (parlava a Cavour) non avete date mai prove di....; io non pronunzierò questa parola. Voi ponete un'idea, l'adottale con calore, non e calcolando che le palle (1); quando vi si danno delle palle bianche, voi dite - ho vinto: -ma queste palle bianche non vi afforzano al di fuori. Non si è mancalo di avvertirvi: ma giacchè volete esporvi a tentare 8 giuochi pericolosi, questo spelta a Vol. In quanto a me io me ne dolgo pel mio paese, pel mio Sovrano, e pel Senato, se si renderà colpevole di tanta imprudenza». Il Parlamento ritenne le modificazioni fatte dal Senato alla legge, e l'adottò nel 28 Maggio; e in quel giorno stesso fu con Decreto Reale sanzionala la soppressione per ventun Ordini religiosi d'uomini, e per quattordici di donne.

Con altro decreto del medesimo giorno, promulgalo dietro rapporto di Urbano Rattazzi, fu soppressa la R. Accademia Ecclesiastica dì Superga, una delle più rinomate e dotte che vantasse, dopo Roma, l'Europa. Gran perdita fece con essa il Clero, poiché era in quell'Istituto che i giovani sacerdoti ritiravansi, e gratuitamente alimentali, attendevano allo studio delle Ecclesiastiche discipline. A custodia di quell'immenso edificio, e della R. Basilica, dove riposano le salme del Re Savoiardi, fu nominalo un Cappellano posto sotto la dipendenza immediata del ministro Guardasigilli, salva l'autorità dell'Ordinario Diocesano nelle materie dì sua giurisdizione.

Come, dolorose giungessero tali notizie a Pio IX, ognuno potrà immaginare; eran ferite sopra ferite; martirio a martirio. Gli affari, che anche in Spagna rincartano sulla sorte dell'Episcopato, decisero il S. Padre a pubblicare un'altra Allocuzione (Nemo vestrum 26 luglio 1855), in cui narra le scempiaggini rivoltuose perpetrale contro la Religione, l'Episcopato, e la S. Sede. Altra allocuzione (27 luglio) pronunziò il dì appresso, breve, concisa, solenne, per protestare contro gl'inqualificabili soprusi, che perpetravansi in Piemonte. In essa, dopo aver ricordalo tutto quel che fu già detto nell'Allocuzione del 22'gennaio;

(1)

Senato del Regno. Tornala 22 maggio 1855, pag. 50.

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l'aver cioè riprovato, condannato, e dichiarato nullo quanto antecedentemente erasi fatto nel Regno Sardo a detrimento della Religione, della Chiesa, e del diritti della S. Sede, e specialmente riguardo al progetto della legge per la soppressione degli Ordini Religiosi; e ricordato pure ai promulgatori e fautori di essa legge di pensare alle pene, che loro per tale attentato i Canoni ed i Concili infliggono, dice aver nutrita fiducia che essi fosser venuti a migliori consigli, ed un lume di speranza aver serbalo nelle promesse fatte ai Vescovi medesimi; ma aver veduto con dolore che il Governo Piemontese non avea voluto prestare ascolto ai reclami del Vescovi, ed alle sue parole. Fatta quindi la narrazione degli oltraggi sacrileghi commessi contro la Chiesa, alza di bel nuovo e definitivamente la voce Apostolica, e riprova, condanna, e dichiara nulli tutti i decreti da quel Governo promulgati in dànno della Chiesa e del suoi diritti: Ecco l'anatema.

«Siamo forzati a dichiarare (è il Pontefice che paria) con gran cordoglio dell'anima nostra, che tutti coloro i quali non han temuto di proporre, approvare, e funzionare negli Stati Sardi i decreti, e la legge... contro i diritti della Chiesa, e della Santa Sede, come anche gli autori, i fautori, i consiglieri, gli aderenti ed esecutori, sono incorsi nella scomunica maggiore, e nelle altre censure e «pene ecclesiastiche inflitte dai sacri Canoni dalle Costituzioni Apostoliche, e dai Concilii Generali, sopratutto dal Santo Concilio di Trento (sess. XXII, Cap. XI)».

Conchiude pregando il Signore a sparger lume di grazia su coloro, che aveanlo offeso e bistrattato, e raccomanda, ed inculca sempreppiù all'Episcopato ed al Clero di esser di cuore legali alla Cattedra di S. Pietro, e sopra loro implora la benedizione di Dio, perché li fortifichi nella feroce lotta.

Pio IX ha un'arma potente da controporre ai nemici; la preghiera! L'anima sua bella. ispirala alla Croce del Cristo, non sa che pregare, e perdonare!!

Però ai tanti dolori del cuore suo Iddio dava il conforto delle vittorie.

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La religione e la Chiesa, che in Austria sin dal Regno di Giuseppe II. era stata svilita, riprese tutto l'antico splendore col Concordalo del 18 Agosto 1855.

Da quel tempo la Chiesa nell'Austria poté rifiorire nella sua duplice vita morale scientifica, ed intellettuale. Anche in Francia, dove le dottrine del razionalisti corrompevano le menti. l'Arcivescovo di Parigi pubblicò quattro proposizioni dottrinali, approvate dalla S. Sede, per porre termine alle dispute insorte intorno al tradizionalismo, ed al razionalismo. Ed infine il Sultano di Costantinopoli pubblicò un Hatti - Humaioun concedendo ai Cristiani di tulio l'Impero l'emancipazione tanto desiderata!

La Religione conculcala in Italia... facea splendido trionfo nella casa di Maometto! Oh! quanto son grandi i giudizi di Dio!

CAPITOLO II.

Lamennais Dottrine del settari - I regicidi - Attentato contro Napoleone III. Agesilao Milano!! - Stampa Piemontese Vittorio Emanuele e Cavour a Parigi - L'Imperatore gl'insinua la pace col Pontefice - Cavour fa partire il Re - Nota Circolare del Piemonte alle Potenze - Lettera di Cavour all'Imperatore del Francesi - II Piemonte invitato al Congresso - Progetti di Napoleone sull'Italia Progetti di Cavour - I due progettisti si avvicinano - Una lettera di Luciano Murat - Il Moniteur la sconfessa - Aurelio Saliceti.

«Il romoreggiar confuso e il movimento interno del popoli sono i" segno precursore della tempesta, che passerà tra non molto sulle nazioni tremanti.

«State pronti, che i tempi appressano.

«In quel giorno san nno grandi grida e terrori, quali non s'intesero dopo il diluvio.

e I Re ruggiranno dal Trono: si sforzeranno di ritenere con ambe le mani la corona portata dai venti, e saranno trabalzati con quella.

«I ricchi ed i potenti usciranno ignudi dai palagi, per non essere sotto le rovine sepolti.

«Si vedranno, erranti sulle vie, domandare ai passaggeri un cencio

18 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1855)

per coprire la propria nudità, un tozzo di pan nero per placare la fame; e se l'otterranno, non sè...» (1).

Così ci lasciava scritto Felice Roberto de Lammenais, che apostata e rivoltuoso, moriva proibendo a tutti che sul suo feretro si mettesse la Croce (2). Son parole desse, che mostrano i disegni che nutrivano le sette nel 1856, e come avessero già ordita in modo la trama da esser certi, che tra non poco la tempesta sarebbe passata sulle Nazioni.

I settari, conseguenti alle loro dottrine, sono come la bufera che, se passa celere e non schianta l'arbusto, che tremante si curva sul suo debole gambo, s'apprende forte e vigorosa sulle annose querce, in cui trova resistenza: le squassa, le agita sino a tanto che cadono divelle dalle radici. Il principio di guereggiare i più potenti, fu la base delle dottrine che il Rousseau spiegò nelle dichiarazioni fatte al Tribunale del 1189!

Art. 1. Gli uomini nascono e restano eguali in diritto. Art. 2. 1 diritti dell'uomo sono la libertà, la sicurezza, e la resistenza all'oppressione...»

Da queste teorie i settari fan discendere due conseguenze; esser cioè tiranni tutti coloro che oppugnano civilmente le massime sovvertivo al diritto; e non piegano ai loro principi: e l'esser lecito, anzi utile e meritorio di lode il regicidio. Brofferio, parlando del regicidi diceva: «noi desideriamo avere per figli e per amici uomini, che gli somiglino...» e contro coloro che non parteggiano per le sue idee esclamava: «curvatevi pure, o servi della diplomazia, fino a rinnegare i migliori figli d'Italia (3).

Due attentati di regicidio furon consumali nel 1856, e li riuniamo, per non essere obbligati di rivenire sullo stesso argomento. Il primo a Parigi, il secondo a Napoli: l'uno su di Napoleone III. Imperatore

(1) Parole di un credente §. XXIV.

(2) Rohrbacher, loc. cit. annati pag. 113, v. 16.

(3) Italia e Popolo 10 genn. 1857, n.° 10.

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del Francesi; l'altro su Ferdinando II. Re delle Due Sicilie. Di entrambi fu opera la sella, e non può dubitarsene, dopo le confessioni del mandatari Giovanni Pianori e Agesilao Milano.

L'Imperatore del Francesi passeggiava a cavallo accompagnato da due soli ufficiali, senza scorta alcuna; quando in men che non si dicesse, un individuo avvicinatoglisi di quasi tre o quattro passi, come se partar gli volesse, gli sparò contro due colpi di pistola, l'uno del quali gli forò il cappello, e l'altro lo scalfisse leggermente sulla parte superiore del petto. L'assassino fu arrestato! Chiamavasi Giovanni Pianori, nativo di Faenza, città dello Stato Pontificio. Costui era uno degli accaniti mazziniani, che preser parte all'assassinio di Pellegrino Rossi. Noi ignoreremmo la storia di questo infelice venduto al delitto, se non avessimo sotto gli occhi l'atto di accusa presentato dal Procuratore Imperiale dinanzi alla Corte d'Assisie della Senna; eccone le parole.

«... Chi è costui? Un incendiario, un assassino, un evaso dalle galere! E tutto ciò prima del 1848. In quella epoca, a coronar le sue opere, fece parte delle. Lande di Garibaldi, e si arruolò fra la turba di scellerati, che assassinarono Rossi, scacciarono il Papa dal o suo Trono, facendo sedere sulla Cattedra di S. Pietro una sciagurata rivoluzione. Nel dicembre 1854 recossi a Londra. Là fu stabililo il delitto, là comperaronsi le armi; a Londra il Pianori contrasse quei perfidi ligami, che lo spinsero ad armarsi il braccio; a Londra, ove i dommi della insurrezione e dell'assassinio politico impunemente possono professarsi: e ciò compievasi in un momento solenne, quando cioè le due più grandi potenze occidentali, smesso l'antico livore di rivalità, unite sostenevano una lotta gigante. Sicario risoluto e prezzolato, Pianori, egli è un mese, partì da Londra, dal centro ove son raunati i più audaci agitatori, gli uomini, che sospinti a furore dalla rabbia della sconfitta, non trovano altro mezzo per appagare la ciurmante libidine del loro disegni d'ambizione, della loro sfrenatezza, della smania di potere, che ricorrere al delitto...»

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Pianori non confessò chi fossero i suoi complici: disse soltanto detestare l'Imperatore, il quale con la spedizione armata fatta a Roma, e con la restaurazione del Pontefice avea rovinata l'Italia. Erano le stesse parole di che Mazzini erasi servito nei proclami emanali nel 1849 e 1850'dalla Svizzera, dove erasi rifuggiate. E niuno fuvviche non vedesse in Pianori un emissario mazziniano.

Eran scorsi sette anni dagli avvenimenti di Roma; Luigi Bonaparte avea contro di sé il partito radicale; avea fatto il colpo di stato del 2 dicembre, e con tutto ciò sempre inerme passeggiò per Parigi, con poca o niuna scorta; due volte viaggiò nelle province. Quali occasioni di queste migliori per attuare il nefando disegno, se si fosse voluto vendetta su lui? Ma non era così. Assassino che fosse il Pianori, non avrebbe rischiata la vita; e non l'arrischiò, se non dopo essere andato a Londra, dove il magnetismo del serpente della rivolta lo strinse sconciamente entro le sue spire!

Nell'anno stesso (8 Die.) mentre Ferdinando II. di Napoli passava in rivista le sue truppe al campo di Marte, un soldato a nome Agesilao Milano, uscito dalle file lo investì con la baionetta, producendogli una leggiera scalfittura sulla coscia. Anche questo colpo andò fallito, e Milano come Pianori fu impiccato. Questo secondo tentativo di regicidio fu opera della setta, che detestava in Ferdinando II. l'uomo forte, che più volle, avea sconfuse le fila del rivoltuosi.

Anticipiamo qualche idea; e ci sia permesso, richiedendolo il racconto, dare, per quanto è possibile, una spiegazione sull'allentato di Agesilao Milano.

Mariano D'Ayala, emigrato politico Napolitano, nel 1856 volte anch'egli portare all'edificio della rivoluzione morale la sua pietra, e pubblicò la Vita del Re di Napoli. Percorrendola vi troviamo alcune confessioni, che il d'Ayala non poté sconfessare. Giudicando sul carattere fermo di Ferdinando scrisse: «Credo che non si lasciò apertamente menare a voglia di nessuno, sia Imperadore d'Austria, sia Regina d'Inghilterra, Re in antico, ed anche Imperadore moderno

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Queste parole che ben rivelano il concetto che si avea della fermezza di Re Ferdinando, presso cui non mancavano i fautori della rivolta unitaria, furono luce che chiarirono sin dal principio, che l'allentato di Agesilao Milano fosse sortito dalla stessa fucina del Pianori.

E che guerra sleale gli si facesse nel Piemonte dal Comitato Nazionale, rilevano gli articoli di cui rigurgitavano quotidianamente i giornali piemontesi. Ci piace darne una pruova. Ecco come scriveva la Vespa di Genova num. 1, col titolo. Povero Bomba.

«Se vi saltasse mai (dice il giornalista) o lettori, di pregare ad un. vostro amico un malanno, ma di quei buoni... augurategli la posizione privata e politica del povero Bomba; e vi assicuro, che in «quanto a me non vorrei essere io la Regina di Napoli! Figuratevi un uomo come quello,. che ha contro tulio l'universo, che è detestato da tutti i Re, da tutte le nazioni, come può vivere tranquillo nella sua Reggia.... DI dietro poi, ed anche tulio all'intorno ha nemici, il fermento del popolo, le imprecazioni, i lamenti del torturali, le larve delle vittime, e il pericolo imminente di una botta a sul cranio». La Vespa, che era uno degli organi della setta, cercava cosi di preparare il terreno a compiere quellegemonia piemontese nell'Italia, tanto agognata da Vincenzo Gioberti; e non trovando a dir vero, ricopiava le pur troppo note geremiadi di Lord Gladstone, che negli anni di poi confessò aver scritto per ricevute false ispirazioni. Che sotto il governo di Ferdinando nel dodicennio si fosse fatta giustizia sugli imputati politici, non è a niegare; ma dove furono mai le torture, le morti? dove le stigmati del cavalletti e delle tanaglie, se i tanto vantali martiri li vedemmo poi lietamente pasciuti governare ed imporsi, tutt'altro che costituzionalmente, sulle nostre città?

Basterebbe riandare per poco sul Diritto, sul Popolo d'Italia, sull'Unità Italiana, sul Dovere e su altri giornali del partito liberale per farne il vero e leale concetto.

La sospensione delle ostilità, la pace seguita fra la Russia e gli An

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che parlando confidenzialmente, e col suo solito sorriso sardonico diceva: «non è niegarsi; siamo all'epoca degli scacchi, ma la partita non è perduta».

Ed infatti già ideava un altro piano di attacco diplomatico, che maturamente ponderava; dipendendone la riuscita dallo stesso gabinetto delle Tuileries. Era difficile; e Cavour, che già ne avea sondate le acque politiche, erasi avveduto che fosser troppo profonde per lui.

Allorché Re Vittorio Emanuele, nel cadere dello scorso anno (1853), volte fare una gita a Parigi ed a Londra, il conte di Cavour lo accompagnò, a condizione che anche seco loro andasse Massimo d'Azeglio, il quale rappresentando l'opinione del conservatori, tenesse in sicuro i gabinetti europei, che il Piemonte non fosse infetto da labe rivoluzionaria (1). Giunto a Parigi, abilissimo com'era, seppe a tempo ed a luogo lanciar parete smozzicale sulla tirannide austriaca in Italia, e sulle speranze degli italiani; sicchè tutto Parigi in pochi giorni echeggiava delle tirannidi, che si commetteano dai Borboni, e dagli altri Principi della penisola;ed il Principe Napoleone, che sin dal primo momento avea osservalo nel Conte tendenze eguali, o prossimamente alle sue eguali, gli era di gran conforto, dandogli agio a popolare l'idea d'una necessaria riforma d'indirizzo politico nelle cose d'Italia.

Distinte sovramodo furono le accoglienze, che ebbe in Francia Re Vittorio Emanuele; ed un di in un colloquio confidenziale, l'Imperadore gli domandò: «que peut - on faire pour l'Italie?» Vittorio Emanuele poche e monche parole rispose, senza lasciarsene scappare una sola che avesse potuto ingenerar sospetto sulle idee del suo ministro.

Quelle parole non sfuggirono al conte di Cavour, che fatto ritorno da Londra, ed avuto l'agio di rimanere a solo con l'Imperadore, lo ricordò della fatta domanda al Re «que peut - on faire pour l'Italie». Fece cosi cadere il discorso sullo stato di Napoli e Sicilia. L'Imperatore tacque; ma quando Cavour, prendendo per buon augurio quel silenzio,

(1)

Binnchi Nic. Il conte di Cavour pag. 32.

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scivolò a parlare delle Romagne, e della Lombardia, Napoleone fingendoci astratto, gli troncò la parola sulle labbra, dandogli notizia del magnifico Concordalo, che s'era stipulato tra il gabinetto di Vienna e la S. Sede; manifestandogli in tal modo, clic il Piemonte avrebbe fatto bene ad imitarne l'esempio. Il colpo era stato abilissimamente dato, e Cavour perdette quella presenza di spirito, che tanto rinomato lo faceva in Piemonte. Il pericolo era imminente; Cavour avea compreso che l'Imperatore desiderava la riconciliazione del Piemonte col Papa. Sapea bene, che Vittorio Emanuele avea nelle vene il sangue Cattolico del Savoia, e facilmente avrebbe aderito alle premure del Bonaparte; per cui non vide altro scampo, che decidere il Re a lasciar Parigi, affinché gli si togliesse ogni occasione di parlarne con l'Imperatore. Cavour presentiva, che le insinuazioni imperiali sarebbero state una spinta potente al cuore del Re: ciò che voleva evitare; poiché quando si fosse trattato di note Diplomatiche e di garbugli politici, a lui non sarebbe mancalo mezzo di ricorrere ai soliti mezzi di mentir francamente.

Come già si parlava di Congresso, e pochissima parte, benché onorevole, avesse avuta in Crimea la Sardegna. Cavour temeva di vedersene escluso; tanto più che vi sarebbe intervenuta l'Austria, cui non ancora Napoleone intendea far palesi le sue idee sull'Italia. Egli è vero, che quando si cominciò a parlare di questo congresso, Cavour, ancora disquilibrato dalla paura delle parole di Napoleone che gli significarono il desiderio, che il Piemonte scendesse ad accordi con la S. Sede, avea risposto: «a che fine andarvi"! per esservi trattati come fanciulli? a (1) ma pure meglio riflettendo, si decise a tentare la sorte; ed all'uopo diresse ai rappresentanti di Francia e d'Inghilterra una noia circolare, in cui sono a notare queste parole.

«Siamo indotti a vedere, che la Sardegna, dopo aver divisi i pericoli «e la gloria della guerra di Crimea, sarà, nelle conferenze che si vanno «ad aprire, abbastanza fortunata per vedere l'attenzione delle grandi

(1) Bianchi, loc. cit. pag. 33.

24 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1856

Potenze rivolgersi non meno sopra lo stato dell'Italia; sopra l'impossibilità di conservarvi un ordine di cose, il quale ripugna, in certe n parti, alle più semplici nozioni della giustizia e della equità; sopra la necessità di sollevarne la condizione, e di alleviarne le sofferenze, per poco che si desideri di soffocare i germi delle turbolenze, che minacciano incessantemente il riposo dell'Europa, ed assicurare a tutto il mondo per lungo tempo i beneficii della pace. Secondo il progetto di accomodamento, che ci fu comunicalo, l'Austria, la quale non prese parte alla guerra, verrebbe ad acquistare definitivamente una grande preponderanza in Oriente, sostituendo, se non di diritto, almeno di fatto, la sua propria influenza all'influenza Russa. È più particolarmente a suo profitto, che avrebbe luogo l'annessione ai Principati Danubiani, della metà della Bessarabia, e delle bocche del Danubio. Il tempo è adunque venuto, ancorchè non volesse inspirarsi, che agli atti del congresso di Vienna, di regolare la posizione di questa Potenza in Italia, se si vuole, che l'equilibrio Europeo, pel quale si presero le armi, sia conservato».

Non avendo ricevuto a questa nota riscontro alcuno, Cavour pensò indirizzare all'Imperatore del Francesi una lettera riservala, come di schiarimento alle sue parole. Di questa lettera per quanta cura ci fossimo data, non potemmo avere che un solo frammento; per altro il principio di essa desumesi da una interpellanza fattagli all'uopo nel Parlamento dal Deputato Savoiardo De Viry.» Ecco il frammento:

«.. L'Imperatore può rendere immensi servigi all'Italia, primieramente inducendo l'Austria a far giustizia al Piemonte, e mantenere saldi gl'impegni presi seco lei; in secondo luogo ottenendo da essa un allargamento nel sistema di regime, che gravita sulla Lombardia, e sul Veneto; in terzo luogo forzando il Re di Napoli a non più scandalizzare l'Europa civile con un contegno contrario a tutti i principii di giustizia, e di equità: in quarto luogo ristabilendo in Italia, cosi come era stato stabilito dai trattati di Vienna,

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cioè rendendo possibile lo sgombro degli Austriaci dalle Legazioni, e dalle Romagne, sia ponendo queste province sotto un principe secolare, sia procurando loro i benefizi di un'amministrazione laica e indipendente».

Veniamo ora alle illazioni, che dalla prima parte possono trarsi. Credesi costantemente, che in quel tempo Cavour avesse pattuita la cessione di Nizza e di Savoia. Difatti il deputato Savoiardo De Viry domandogli (1). «... Prego il signor Ministro di voler rispondere adeguatamente all'interpellanza che io gl'indirizzo relativamente alla Savoia; e non solo se tal quistione si fosse agitata prima del negoziati, ma anche se si possa prevedere quali saranno nell'avvenire le pretensioni del governi alleati a tal riguardo. Insisto su tal punto, perché io sé che nel paese queste convenzioni hanno eccitato alcuni sospetti ti, una tal quale diffidenza, che necessita far dissipare, e lo saranno u certamente dopo spiegazioni positive, categoriche, ed esplicite del sig. Presidente».

Cavour rispose francamente: «Io posso dichiarare formalmente, ed esplicitamente, che non è stato giammai pronunziato un motto, che potesse, sia direttamente, sia indirettamente, aver relazione a un distacco qualsiasi della Savoia dal resto dello Stato....» Questa risposta non dee meravigliare. Cavour era solito dire, che il più abile politico fosse colui, che più e meglio sa mentire. Non rispose egli, Cavour, nel modo stesso verso la fine del 1859? non dichiarò formatmente che lo Stato non perderebbe un palmo di terreno Italiano? E non fu egli stesso, che annunziava alla Camera del Deputati la cessione di Nizza e Savoia stipulata il 24 marzo 1860? Si ricordino le ultime parole della relazione da lui presentata. «Se ogni cessione di territorio, egli disse, è sempre dolorosa, essa lo è assai meno,

(1) Tornata del 10 febbr 1855. Atti del Pari. pag. 1103. molti di questi brani di discorsi, com'è il presente, da noi riportati, siam stati obbligati versionarli dal francese, perché troviamo il più delle volte in questo idioma te arringhe del Deputati, e le risposte di Cavour.

Vol. II. 4

26 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1855)

quando non è il risultato d'umilianti sconfitte, ma la conseguenza d'una guerra gloriosa: non è una concessione ad un nemico vittorioso, ma un attestato solenne della gratitudine d'un popolo risorto verso il suo generoso allealo!....»

La risposta che ebbe Cavour alla lettera indirizzala all'Imperatore, fu l'immediato invito per inviare un plenipotenziario a rappresentare il Piemonte nel Congresso, e vi fu scelto Massimo d'Azeglio, ritenuto in gran rinomanza e per sapere, e per finezza di tatto politico. Ricusatosi quegli, Cavour si vide nell'assoluta necessità di andarvi egli stesso, benché ciò facesse a contracuore, come lo scriveva al marchese Villamarina «... Io non ho esitato, malgrado la mia eccessi«va ripugnanza a fare il diplomatico..., a partecipare al Re, ch'io era pronto a partire pel Congresso, pregandolo che mi dasse voi per compagno in questa ingrata missione...»

L'Imperatore, come già avemmo occasione di osservare, mirò costantemente a due fini; a lacerare il Trattato del 1815, e togliere all'Austria ogni preponderanza sull'Italia, per la quale vagheggiava una Confederazione, a simigliante della Germania, posta sotto il suo protettorato. Per rendere facile tal progetto, gli era d'uopo rompere la santa alleanza; ciò che gli venne fatto in Crimea. Là egli avea umiliata la Russia, non con l'idea di accasciarne la potenza materiale, poiché sapea bene di quali forze disponesse quella nazione; ma di abbassarne la potenza morale, e stenderle, anzi stringerle cordialmente la mano; ciò che fece a Parigi. Da lai politica calcolava guadagnare alla Francia una potenza amica, e all'Austria una rivale che non le avrebbe perdonalo mai la politica di astensione. Gli necessita va esautorare l'Austria in Italia, e per farlo non v'era altro mezzo che la guerra nel Lombardo - Veneto; possessione, per la quale l'impero d'Austria era vivamente aspreggiata dalle sette massoniche e della Giovane Italia.

Per effettuare la guerra, bisognava poggiarsi sopra uno degli stati Italiani, come a punto di partenza del suoi movimenti. Or niun altro stato oravi, fuorché il Piemonte, nel quale confidare;

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poiché il Gran

Il progetto di Luigi Bonaparte era il più gigantesco. Padrone dello sbocco delle Alpi, della strada di Colle di Tenda, con Nizza e Savoia avrebbe signoreggiata l'Italia del Nord e l'Italia del centro: «unendo Geli nova, (facciamo parlare il Thiers) (1) e le due Riviere all'Impero Francesco, Napoleone avrebbe posseduto, dal Texel sino al fondo del principale golfo del Mediterraneo, una estensione di costiere, ed un numero di uomini di mare, che col tempo e con la istruzione avrebbero potuto» rendere la Francia emula rispettabile dell'Inghilterra». Villamarina, a cui Napoleone avea messo gli occhi sopra per far eseguire poco a poco le sue idee, e studiare l'impressione che avrebbero prodotta sull'animo di Cavour, avventurò qualche parola sulla quistione d'Italia, e quegli si credette contentissimo di riferire al Conte, che l'Imperatore non dissentisse sul doversi seriamente pensare allo stato politico delle Romagne e di Napoli.

(1) Histoire du Consulat, et de l'Empire. Tom. 2, Livre XIII; ot T. 3. Liv. XXI.

28 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1856)

Due giorni appresso poté avere l'occasione di lungo colloquio con l'Imperatore, e Cavour, che questo momento da più tempo speculava, sì decise a partargli apertamente. Trovò più indulgente del solito Napoleone, e risolvette di richiamarlo sui punti accennali nella lettera, e sulle convenzioni, che avean dato occasione all'inchiesta di De Viry. N'ebbe, favorevoli assicurazioni, benché non del tutto esplicite; poiché l'Imperatore volea esser certo, che la cessione di Nizza e Savoia non sollevasse le gelosie dell'Inghilterra. Di tutto questo Cavour diè relazione con altro dispaccio segretissimo al conte Cibrario, ed il giorno di poi scriveva a Rattazzi. «Ho reso conto in un dispaccio riservalo della conversazione, che ho avuto ieri con l'Imperatore. Posso assicurarla che egli realmente avrebbe volontà di fare qualche cosa per noi».

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Nel contempo sul Times di Londra fu pubblicala una lettera di Luciano Murai figlio di Gioacchino. In essa senza reticenza alcuna il principe dichiarava i suoi diritti al trono del padre. Tal cosa fu fatta per sondare le acque della opinione diplomatica di Europa su tal punto; ma siccome l'Inghilterra non si mostrò contenta di queste innovazioni, che avrebbero data alla Francia la supremazia dell'Adriatico e del Mediterraneo, così immediatamente il Moniteur dichiarò che quella lettera non era approvala dall'Imperatore. Napoleone ritirò l'idea, non la smise. È carattere politico di lui propagare un'idea, e simulare di smetterla, se v'incontra ostacoli; mentre in fatti la coltiva e la fa risorgere a tempo più opportuno.

Napoleone I. diceva, che siccome in matematica la via più corta è la retta, così marciava direttamente sulle capitali nemiche, e calcolandone l'esito. Napoleone III. con la sua politica ha affermalo che la retta spesse volte è la via più scabrosa, perché visibile a tutti; perciò nella sua matematica diplomatica mise a teorema, che per giungere al fine, le oblique, le transversali, ed anche i semicerchi sono non solamente buoni, ma anche più sicuri.

Uno di questi mezzi obliqui, di cui fece tesoro, fu Aurelio Saliceti, segretario di Luciano Murai.

D'ingegno non scarso; di mente fervida e vivace, come lo sono gli Abruzzesi; ardilo nelle imprese, egli fu prima Cattedratico nell'Università di Napoli; poi entrò nella Magistratura Legale per il protettorato del Maresciallo Del Carretto, allora Ministro di Polizia. Iniziato da molto tempo nella Carboneria e nei Framassoni, seppe usare del precetto, che tali sette consigliano «piaggiare cioè il potere per stargli da vicino, ed a tempo strozzarlo». Difatti nel 1848 fu uno del più caldi fautori della rivoluzione. Ministro Costituzionale di Grazia e Giustizia, sostenne la Costituente sulle barricale del 15 maggio. Fuggito dopo il colpo di stato a Roma, addivenne Mazziniano, e Triumviro della Repubblica. Disfatta questa, riparò a Parigi, dove Murai lo nominò suo segretario, e fu segnalato come uno del grandi luminari

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della rivoluzione: eppure egli servì il governo del Borboni prima del 1848; fu Ministro Costituzionale; rivoltuoso; mazziniano; triumviro... ed infine monarchico Murattista!

In questo tempo le conferenze a Parigi eransi aperte con lo scopo di stabilire una pace duratura, dando un assetto alle quistioni che mossero la guerra d'Oriente. Fino a quando dunque si trattò delle medesime, Cavour stiè riservato e contegnoso; lo che fu molto accetto all'Imperatore, il quale scaltrissimo, avea riconosciuto nel Ministro piemontese una mente non comune. e di cui avrebbe potuto fare gran conto per l'attuazione del suoi futuri disegni. Era un giuoco di astuzia, che il conte di Cavour da sua parte seppe mantenere a meraviglia, archeggiandosi per testimoniar confidenza in lui che dovea essere il peso nella bilancia delle sorti italiane.

Ed i frutti non tardarono a mostrarsi. Cavour avea ottenuto una vittoria nelle simpatie Inglesi, nella cordialità Russa, grata alla difesa che quegli avea fatto nella questione del Principali Danubiani: e nelle promesse Imperiali che la questione di Napoli e di Roma sarebbonsi messe sul tappeto. Avea trovalo condiscendenza in Bonaparte?... Questo è un problema non ancora spiegalo!

CAPITOLO IlI.

Affari d'Italia al Congresso di Parigi - Proposto di Walewski - Opinione di Lord Clarendon - Risposta del Bar. Manteuffel - Accuse di Cavour contro Ferdinando II - Accuse contro l'Austria e risposte che n'ebbe - Nota del Walewski al gabinetto di Napoli Ferdinando II - Il giornalismo piemontese - Discorsi sovversivi nel Parlamento Subalpino - Brenier visita le prigioni politiche del Napoletano - Dispaccio del Comm. Carafa - Francia ed Inghilterra richiamano i loro Ambasciatori da Napoli - Un articolo del Moniteur - Difesa di Ferdinando II. nel Parlamento di Londra - Bentivegna e la rivolta in Sicilia - Conseguenze diplomatiche.

Siamo giunti ad uno del punti più importanti della Storia. L Imperatore del Francesi e Cavour s'erano finalmente intesi sugli affari d'Italia, e la quistione fu portata sul tappeto diplomatico nel 9 di Aprile. Segniamo questa data, come quella che prenunzia lo svolgi

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Il conte Walewski, Ministro Francese, apri le sedute del Congresso di Parigi con un elaborato discorso, in cui dichiarava esser necessario, pria di separarsi, che le Potenze s'intendessero sopra di qualche altra quistione, la quale facilmente avrebbe potuto esser causa di nuove complicazioni in Europa. Perciò utilissimo e desiderabile fosse studiare il modo per smorzare la scintilla rivoltuosa, che da più tempo sprizzando or qua or là nell'Italia, testimoniava il gran vulcano che sotto ardeva, pronto ad erompere ad ogni benché minima occasione.

Dopo aver toccato rapidamente degli affari di Grecia, entrò a parlare di Roma. Riferiamo le testuali parole del Ministro - «... Gli Stati Pontifici, diceva, sono in una posizione anormale. La necessità di u non abbandonare il paese in preda all'anarchia, ha determinalo a la Francia, come anche l'Austria ad acconsentire alla domanda della ii S. Sede, facendo occupare Roma dalle sue truppe, nell'alto che le truppe Austriache occupavano le Legazioni. La Francia avea un dopa pio motivo di deferire senza esitanza alla richiesta della S. Sede, come Potenza Cattolica, e come Potenza Europea. Il titolo di figlio o primogenito della Chiesa, di cui si gloria il Sovrano della Francia, fa un dovere all'Imperatore di prestare aiuto e sostegno al Sommo Pontefice. La tranquillità dello Stato Romano, e quella di tutta l'Italia

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perché la Francia non abbia un interesse maggiore ad assicurarla con tutti i mezzi che sono in suo potere. Ma d'altro canto non si potrebbe disconoscere ciò che vi ha d'anormale nella situazione d'una Potenza, che per mantenersi ha bisogno d'essere sostenuta da truppe straniere...»

E dichiarava che la Francia, sperando che lo stesso facesse l'Austria, sarebbe pronta a ritirare le sue truppe, nel convincimento che quello Stato si mettesse in condizioni di non averne più bisogno, assicurando l'ordine e la pubblica tranquillità con mezzi interni, ed alle popolazioni giovevoli.

Dopo che si fa a dimandare, se non fosse anche giusto d'indurre gli altri governi Italiani ad usare di loro clemenza per porre su stabili basi la loro politica, affinché cessassero le colluttazioni e le speranze del perturbatori. E venendo al particolareggiare, diceva: «che segnalato servigio si sarebbe così reso al Re delle Due Sicilie, illuminandolo sulla falsa via, nella quale si era posto». Era chiaro, che così si cominciasse a sondare l'opinione della diplomazia, per tentare di stabilire in principio, essere veramente anormale lo stato politico in cui vertevano Roma e Napoli. Il resto sarebbe venuto di conseguenza, e maneggiato ad arte secondo le circostanze. Per questa ragione Napoleone non permise che si facesse motto della nota verbale Piemontese, né si sbilanciasse parola alcuna da cui sorgesse il sospetto di novelle conflagrazioni nella penisola italiana.

Il plenipotenziario Inglese Lord Clarendon, facendo eco alle parole del ministro francese, rispose che veramente anormale fosse uno Stato che non potesse reggersi senza l'intervento armato degli stranieri; locchè era per lui argomento a testimoniare la poca, o ninna confidenza tra sovrano e sudditi. Ammetteva quindi il ritiro di queste truppe, come di necessità, dopo che sarebbesi convenuto sul modo di stabilire la quiete negli Stati del Pontefice. Per giungere a tale scopo, avvisò esser d'uopo che il Papa secolarizzasse il Governo, e stabilisse

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che star potesse con lo sviluppo del secolo, e mettesse un termine agli inconvenienti gravissimi che credeva sussistere in Roma; dai quali doveasi temere il continuo eccitamento ai rivoltuosi per turbare l'ordine pubblico europeo.

Conveniva che gravi sarebbero state le difficoltà, le quali, per attuare un nuovo sistema, sarebbonsi incontrate a Roma; per cui era d'avviso che ad ovviarte, sarebbe stato bastevole secolarizzare le sole Legazioni, le quali benché sin dal 1849 poteansi considerare in perenne stato d'assedio; pure le circostanti campagne erano così infestale da masnade di briganti, che positivo danno ne risentivano le popolazioni e le proprietà del privali.

Sulla verità od esagerazione dell'opinioni esposte dai plenipotenziari non emettiamo giudizio alcuno, avvegnacchè dovremmo entrare in un campo di polemiche, che non sono proprie di chi restringe il suo compito a narrare gli avvenimenti. Il leggitore potrà però dal seguito del racconto argomentare, che male opinasse Lord Clarendon pronunziandosi così apertamente su fatti, che ignorava, e dovea ignorare per spirito di ostilità al Papa, Capo della Chiesa Cattolica; e che s'ingannasse, prestando piena fede a quanto gli si diceva dal Conte di Cavour, confederista con Napoleone, ed unitario con la setta della Giovane Italia. Lord Clarendon con tutta l'astutezza inglese erasi fatto agguindolare dalle reti politiche preparale di concerto tra l'Imperatore del Francesi ed il conte di Cavour. Il plenipotenziario Russo Orloff, ed i rappresentanti dell'Austria conte Buoi e Barone Hubner, dichiararono, che non avendo avuto dal loro governo, se non istruzioni sulla quistione di Oriente, declinavano da ogni responsabilità di rispondere intorno alle quistioni sollevatesi intorno agli affari di Roma e di Napoli.

Il ministro di Prussia, barone Manteuffel, fece osservare, che quantunque non avesse istruzioni all'uopo, pure potea dare una risposta categorica, che certamente il suo governo approverebbe: e la risposta fu, credere imprudentissimo il dar consigli al Re di Napoli per accordare al Reame novità politiche, poiché avrebbero dato novello ardire al partito rivoluzionario

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per erompere in nuovi tentativi, pei quali sarebbe stata certamente turbala la pace tanto ambita di Europa. Aggiunse esser colpa di qualche Stato Italiano, se con scritti e con un giornalismo plateale si tenesse sempre desto questo fuoco di rivolta, predicando il regidio e le sollevazioni, come diritto di popoli civili. Cavour, che vedeasi scappar di mano la tanta invocala discussione, prese la parola per dichiarare, che egli per solo desiderio di pace fosse entralo a sollevare tale quistione, poiché vedeva tutta Italia commossa da perenne minaccia di moti incomposti. Il conte mentiva politicamente - , ma in cuor suo non potea sconfessare il timore che qualcuno, gli rispondesse, causa della invocata commozione essere il Piemonte. fatto focolaio di rivolture. A scanzare il quale pericolo, diessi a parlare con incredibile accanimento centra Ferdinando lI. e il governo di Napoli; e non vi fu apostrofe bugiarda e leziosa, che non gli scagliasse centra. I due campioni occidentali ne gioivano in cuor loro; Napoleone, perché odiava i Borboni, e vagheggiava sempre una restaurazione murattista, e la tanto ambita influenza; l'Inghilterra, tenerissima della Sicilia e del suoi guadagni, perciò non potea darsi pace per la fermezza incontrala in Ferdinando II. a causa del contrailo degli zolfi. - Cavour volea andare avanti; ma siccome il Re di Napoli non avea chi in quel congresso il rappresentasse per ricacciargli in gola le menzogne che spudoratamente gli appellava, si rivolse ad attaccar l'Austria, richiamandola sulla occupazione degli Stati Pontificii. Disse che questa occupazione fosse d'imbarazzo agli Stati limitrofi: (si comprende bene di qual natura d'imbarazzi volea parlare il conte!); che miglioramento niuno vedeasi in quelle province, le quali operavano continui sforzi per divincolarsi dalla pressione straniera: aggiunse che la presenza delle truppe austriache nelle Legazioni e nel Ducato di Parma, distruggevano in Italia ogni equilibrio politico, e costituivano un perpetuo pericolo per la Sardegna.

Cosi sfidato e direttamente il Barone Hubner, con calore risposegli, dimandandogli perché parlando dell'occupazione Austriaca non avesse

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pronunziato motto alcuno dell'occupazione francese, e dell'occupazione Sarda nei comuni di Montone e di Roccabruna, appartenenti al Principato di Monaco; nel mentre che i Francesi e gli Austriaci erano intervenuti negli Stati Pontifici a sostenere i diritti non solo della Chiesa universale, ma di un Sovrano, che non ha armata per difendersi dagli intrighi del suoi nemici; ma i Piemontesi s'erano in quelle due città intrusi con la forza e contro la volontà di quel Principe, e si ostinavano a restarvi non ostante gli energici reclami di lui; quelle insomma costituire un servigio al Pontefice, la Piemontese essere oppressione violenta. La seduta stava così per divenire tempestosa; quando il Cavour, forte ad attaccare chi non era presente; forassimo ad avventarsi contro i deboli, vedutosi imprudentemente immerso in una discussione, dalla quale potean devenire serie conseguenze, battendo una ridicola ritirata rispose: che quantunque niun timore destasse al Piemonte la presenza delle truppe francesi, pure era desiderabile, che ogni occupazione straniera cessasse in Italia; ed esser anch'egli pronto a far ritirare i cinquanta Piemontesi (sic) dal territorio di Monaco.

Così fu chiusa questa discussione, la quale non fu che il lampo prenunziatore della tempesta. L'effetto che si desiderava, erasi aggiunto: voleasi far udire all'Europa una voce che costatasse i lamenti del sudditi di Napoli, e degli Stati Pontificii tiranneggiati; e si era ottenuto. Il resto si sarebbe riserbato al tempo...! Il conte Walewski, prendendo nota di quelle discussioni, fece registrare negli alti del Congresso la seguente dichiarazione:

«I plenipotenziari di Austria si sono associati al voto espresso da a quelli di Francia, di veder cioè sgombrati gli Stati Pontificii dalle R truppe francesi ed austriache, appena potrà operarsi senza inconvenienti per la tranquillità del paese, e per il consolidamento dell'Autorità della S. Sede.

«Che il maggior numero del plenipotenziari non hanno contestata a l'efficacia, che avrebbero le misure di clemenza, prese in modo opportuno dai governi della penisola Italiana, e specialmente da quelli lo delle Due Sicilie».

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Di quanto erasi operato nel Congresso in riguardo alla efficacia che avrebbero le misure di clemenza, il conte Walewski ne diede partecipazione al Gabinetto di Napoli con una Nota diretta al barone Brenier. La riportiamo per intiera, insieme alla risposta, che gli fu data, a dichiarare l'andamento del fatti.

Al BARONE BRENIER - Napoli.

Parigi 21 maggio 1856.

«Signor Barone. Ebbi l'onore di mettervi a parte delle legittime preoccupazioni che sonosi manifestale in seno del Congresso di Parigi. Credo dover ritornare quest'oggi sullo stesso oggetto per determinare in un modo esatto il senso e la portata di questo incidente in ciò che concerne il Regno delle Due Sicilie.

«Come lo avrete rilevato, i. plenipotenziari, riuniti a Parigi, sonosi mostrati tutti egualmente penetrali dal sentimento di rispetto che anima i loro governi per l'indipendenza degli altri Stati, e nessuno fra essi ebbe il pensiero di provocare una ingerenza ed una manifestazione di natura tale che potesse recarvi offesa.

«Il governo delle Due Sicilie non potrebbe prendere abbaglio sulle nostre vere intenzioni, ma vogliamo credere che riconoscerà con noi che i rappresentanti delle grandi potenze Europee non potevano, conchiudendo la pace, restare indifferenti al cospetto di alcune situazioni, le quali sembrarono loro capaci di compromettere l'opera loro in una epoca più o meno vicina. Egli è unicamente ponendosi su questo terreno che il Congresso fu naturalmente condotto ad investigare le cagioni che mantengono in Italia uno stato di cose, la cui gravezza non poteva sfuggirgli.

«Il mantenimento dell'ordine nella penisola Italiana è una delle condizioni essenziali per la stabilità della pace; egli è dunque nell'interesse e benanche nel dovere di tutte le Potenze il non trascurare cura alcuna, né alcun sforzo onde prevenire che si rinnovasse l'agitazione in quella parte d'Europa. A questo riguardo i plenipotenziarii furono unanimi.

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«Ma come raggiugnere questo risultato? Ciò non può farsi evidentemente con mezzi, i di cui risultali ne dimostrano ogni giorno l'insufficienza. La compressione richiede un rigore, cui non è opportuno ricorrere, se non quando sia imperiosamente comandato da urgente necessità; altrimenti, lungi dal ricondurre la pace e la confidenza, si provocano nuovi pericoli col porgere alla propaganda rivoluzionaria nuovi elementi di successo.

«Egli è di tal sorta, che il Governo di Napoli va erralo, secondo noi, nella scelta del mezzi destinali a mantenere la tranquillità nei suoi Stati, e ci sembra urgente, ch'esso s'arresti nella falsa via, su cui si è impegnalo.

«Noi crediamo superfluo d'indicargli le misure adottate a raggiungere lo scopo, che senza dubbio ha di mira: esso troverà, sia in una amnistia saggiamente ideala, e lealmente applicala, sia nella riforma dell'amministrazione della giustizia, le disposizioni appropriale alla necessità, che noi ci limitiamo a fargli notare.

«Noi abbiamo la convinzione che la situazione a Napoli come in in Sicilia costituisce un grave pericolo per il riposo dell'Italia, e questo pericolo minacciando la pace d'Europa dovea necessariamente fissare l'attenzione del governo dell'Imperatore: esso c'imponeva in ogni caso un dovere, quello di svegliare la sollecitudine d'Europa e la previdenza degli Stati più direttamente interessali a scongiurare deplorabili eventualità.

«Noi abbiamo adempito a questo dovere prendendo l'iniziativa nel seno del Congresso; noi lo adempiamo egualmente facendo appello allo spirito conservativo del Governo stesso delle Due Sicilie, il quale darà testimonianza delle sue buoni intenzioni, dandoci notizia delle disposizioni, che giudicherà convenienti di adottare.

«Come voi vedete, i motivi che c'impongono l'ufficio che a voi è dimandato, e del quale avrete a sdebitarvi di concerto col ministro di S. M. Britannica, sono perfettamente legittimi; essi sono attinti nell'interesse collettivo di tutti gli Stati Europei,

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e siamo autorizzati

«Astenendosi dal tener conto del nostri avvertimenti, esporrebbonsi a nuocere ai sentimenti, di cui il governo dell'Imperatore non cessò di mostrarsi animato verso la Corte delle Due Sicilie, ed a provocare in conseguenza una freddezza deplorabile.

«Voi vi compiacerete di dar lettura, e lasciar copia di questo dispaccio al ministro degli Affari Esteri di S. M. Siciliana.

«Ricevete ecc.

Walewski.

Questa lettera non giungeva inaspettata a Ferdinando II. essendo egli minutamente informato di quanto era passato tra Cavour e l'Imperatore, non senza la connivenza di Lord Clarendon. Prevedea che una lotta cominciava contro di lui per renderlo impopolare ed esoso nel regno, se avesse resistito alle suggestioni franco - sarde; ovvero, se avesse ceduto, per farlo assalire dalla rivoluzione compatta e sostenuta dai segreti maneggi del Comitati di Torino: insomma un tentativo come quello che fu poi consumato nel 1860. Ma Ferdinando, che pronto avea l'ingegno, e di ogni occasione si serviva per farsene scudo, seppe abilmente sfidare le ire del rivoltuosi, e del Bonaparte. Egli fidava sulla simpatia delle sue popolazioni. Ed in fatti, se si voglia essere sierico scevro da passioni, è d'uopo confessare che i così detti liberali non erano, che una infinitesima frazione del popolo; poiché il popolo veramente detto, costituito dalle classi artigiane, genti di campagna, mercatura, impiegati, truppa, ed altro classi, o non intrigava in fatti di politica, o aborriva da ogni rivolgimento per la prova fattane nel 1848; di modochè il liberalismo napolitano, ossiano i rivoltuosi, era formato da qualche comitato di avvocati e di professori, che speravano, come pur troppo è avvenuto, con una rivolta agguantare il potere e viversela in pappagorgia, spesati a danno del popoli. Malcontento vi era, ma parziale, e contro alcuni individui della polizia.

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Il vociare di costituzione non deveniva che dai lettori del giornali, clandestinamente

Si fecero anche alcuni tentativi: ma abbacarono di zeri. Cosi un giorno in via Toledo furono trovati proclami rivoluzionari, e vi stettero per più ore non curati. Non vi fu bisogno indagare il fonte di dov'erano partili, perché l'Osservatore Tortonese pubblicò essere stati fabbricati a Torino. il Risorgimento con un articolo di fuoco diede alle stampe un indirizzo dei Romani al conte di Cavour. Era falso di pianta: lo sbugiardò L'Italia e popolo di Genova. In somma, se la Francia non avesse dato appoggio al Piemonte, lo stato d'irritazione costante e di fermento che il conte di Cavour assicurava esistere in Italia, non avrebbe potuto trovar credito. Né agli articoli del giornali si arrestò il tentativo: si andò fino a dare a quelle pratiche un senso legale di rivolta; e i deputati al Parlamento Subalpino ne danno larghissima prova. Non permettendo il nostro lavoro riprodurre l'immensa quantità del discorsi che colà all'uopo furono pronunziati, ci limiteremo a produrne qualche brano, che sarà bastevole a dimostrare, come là si covasse la rivolta d'Italia; come da quel centro partissero tutti i tentativi per sovvertire l'ordine pubblico nei principati d'Italia.

Il deputato Buffa (1) diceva: «... L'Austria ha tolta l'indipendenza più o meno direttamente a quattro degli stati Italiani: le minacce e le provocazioni non possono avere altro scopo, che di toglierla ancora al Piemonte. Ora le potenze alleale sono disposte a permettere, che continui il pericolo, e il sinistro intento sia conseguito?... È questo un punto su cui credo il Piemonte debba esser chiarito.

«Vi ha pure con altro pericolo. Le condizioni del vari popoli

(1)

Tornata 6 maggio 1836.

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Italiani, sono pili o meno intollerabili, ma tutte infelici. Ad essi è negata, non solo ogni libertà, ma anche quella onesta larghezza, che gli stessi governi assoluti, oggidì, purché civili, non sogliono negare.

«Proibito ad essi di professarsi italiani: (italiani non è vero: italiani nel senso dell'Onorevole, è verissimo): assoggettati a pene umilianti, (menzogna!) che offendono non solo la dignità nazionale, ma anche la dignità dell'uomo: pene delle quali l'Italia da più generazioni avea perduto perfino ogni memoria: (menzogna! il cavalletto, le battiture, le tenaglie, e simiglianti turpitudini non erano in uso che nel solo codice penale piemontese): esasperati gli animi da continuo vessazioni; diminuita o svanita affatto ogni speranza di sorte migliore; tutto questo non fa che alimentare lo spirito di rivoluzione, che, sorgendo l'occasione, può diventare un grande pericolo per l'Europa intera, e più specialmente per noi... »

Ed il Brofferio nella Tornata stessa «... Che cosa è la clemenza? è il perdono delle colpe. Quindi... i colpevoli sarebbero i napoletani: colpevoli di essere stati traditi, mitragliati, espulsi, incarcerati, i tratti al patibolo, (è marchiana la menzogna! nessuno fu giustiziato, e lo testimonia non solo il fatto, ma i carteggi ufficiali all'oggetto passati coi gabinetti esteri); colpevoli di aver veduto insultare persine i cadaveri del loro congiunti, sui quali il Re di Napoli non permise che si schiudessero le patrie sepolture. Colpevoli di aver veduto le loro spose, e le loro sorelle in odio del mariti e del fratelli strascinate in infame carcere colle prostitute.»

Conchiude con l'appello alla rivolta «... La voce d'Italia si fa udire da più che otto secoli dai suoi proscritti, dai suoi martiri, dai suoi guerrieri, dai perseguitali suoi scrittori... La voce d'Italia fu eloquentissima sulle barricate di Milano,. di Palermo, di Messina, di Catania, di Brescia, di Bologna! la voce d'Italia fu sublime sui campi di Coito, di Pastrengo, di S. Lucia, di Peschiera: e se questa voce, per umana ingratitudine, dimenticassero i vivi, dalla polve del sepolcri rammenterebbero i morti»...

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E il Mamiani: «... Egli è tempo, o governi d'Europa, egli è gran tempo che la primogenita delle nazioni dell'Occidente, che la figliuola di Roma sottragga il capo venerabile al giogo indegnissimo, e cessi una volta di vivere, quasi a dire ex - lege, e in tormentosa e perpetua contraddizione con tutte quante le leggi della giustizia, e della natura»... (1).

Finalmente a non riportarne altre, il Deputato Valerio in modo egualmente esplicito dichiara, che le parole dette in Parlamento sono un appello alla rivolta.

«Le nostre parole (egli dice), le parole del signor presidente del Consiglio, di tanto più importanti delle nostre, non ìstaranno certamente chiuse in questo ricinto, o serrale nei confini che segna il u Ticino. Le frontiere, le baionette, i commissari di polizia, i birri. che ricingono le altre province Italiane, le quali son divise da noi, e non potranno tener lontano il suono di tali parale Queste varranno a ridonare coraggio agli animi abbattuti, e faranno audaci gli animi coraggiosi, e l'audacia e il coraggio che ne verrà ai nostri fratelli d'Italia, NON ISTARA'LUNGO TEMPO A FARSI SENTIRE (2).

Intanto il governo di Napoli, volendo dare ogni soddisfazione al Gabinetto dell'Imperatore, fece raccoglier tutti gli atti giudiziari, dal 1848 sino al 1856, dai quali rilevavasi, che niun condannato politico avesse subita la pena di morte dietro le condanne giudiziarie, e che a tutti si fosse quella sentenza commutata in prigionia; che i condannati in ogni anno avesser goduto parziali amnistie; che nel 1856 non restavano nelle prigioni, se non i soli capi della rivolta, cioè gli uomini della costituente e delle barricate del 15 maggio, ed altri convinti emissari di sette, che aveano operato nuovi tentativi di politici disordini. Brenier visitò le prigioni, e poté convincersi da sé stesso, e dalle deposizioni degli stessi prigionieri politici, che le pene degradanti erano false di getto, e che le spose e le sorelle del condannati non entrarono nelle prigioni, che per visitare i loro congiunti.

(1) Tornata 1 maggio.

(2)

Log. cit.

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poté costatare, che Napoli si rattrovava in condizioni floride e ricchissime: che il malcontento fosse opera di un partito sovversivo, i di cui capi e promotori stavano a Torino; e gli fu fatta ostensiva una lista di adepti, che la polizia sorvegliava come complici d'intrighi rivoltuosi. Io li conosco «tutti costoro, disse Re Ferdinando all'Ambasciatore Francese; io li e conosco tutti, e li lascio parlare e scrivere quanto vogliono: ma se «tentassero di venire ai fatti, imiterò ciò che fece l'Augusto vostro «Imperatore nel 2 dicembre. L'originale non sarà mal scelto».

Di tutto questo il sig. Brenier fece dettaglialo rapporto al suo governo: ma a nulla poteano valere le assicurazioni ed i documenti; Napoleone volea la perdita totale della Dinastia Borbonica; l'unica, che con il legittimismo potea turbargli la pace del trono; ed obbligò Brenier a ritornare all'assalto per ottenere una categorica risposta diplomatica; ed il gabinetto Napolitano si decise a farla nei seguenti termini.

AL MARCHESE ANTONINI A PARIGI.

Napoli 30 giugno 1856.

«

«Dalla copia del documento Francese, che credo utile rimandarvi qui inclusa, vedrete che il governo Imperiale intese determinare, facendone l'applicazione, agli Stati del Re, il senso e la portata delle preoccupazioni, ch'esso dice essersi manifestale in seno delle Conferenze, ch'ebbero luogo per la pace, ed i cui plenipotenziarii e tutti si mostrano egualmente compresi dei sentimenti di rispetto, che son propri del loro governi per l'indipendenza degli altri Stati.

«Il Conte Walewski, che non ci sarebbe modo di dubitare delle i vere intenzioni della Francia a nostro riguardo, credette,

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secondo lui, non potrebbesi ottenere che adottandosi provvedimenti e di amministrazione interna giudicati convenienti ad allontanare i pericoli, cui l'esponeva un sistema di rigore, il quale fornirebbe nuovi elementi di successo alla propaganda rivoluzionaria, aumentando il malcontento.

«Il Governo Francese, operando in un senso contrario al principio rispettato da tutte le potenze, crede poter suggerire che la nostra amministrazione interna dovrebbe subire cambiamenti, ch'esso dice superfluo indicare, pur non tralasciando di precisare di qual carattere debbano essere quelli che s'appartiene al governo del Re il considerare come propri ad assicurare la conservazione della pace.

«Non si può capire come il governo imperiale, che si dice bene informato delle condizioni degli stati del Re, possa giustificare l inammissibile ingerenza ch'esso piglia nei nostri affari per la urgente necessità di riforme, in mancanza delle quali esso è convinto, che lo stato presente di cose a Napoli ed in Sicilia costituirebbe un grave pericolo pel riposo dell'Italia.

«Nessun governo ha il diritto d'ingerirsi nell'amministrazione in. «terna di un altro Stato, e soprattutto in quello di giustizia.

«Il mezzo immaginato per mantenere la pace, per esprimere e i prevenire i moti rivoluzionari è tale, che esso stesso conduce alle rivoluzioni. E se avesse a succedere qualche disordine pubblico, sia qui, sia in Sicilia, sarebbe precisamente suscitato da tal mezzo: e questo provocherebbe disordini, appunto fomentando tutti i sentimenti rivoluzionari, non solo negli stati del Re, ma anche in tutta l'Italia, con questa inopportuna protezione accordata ai principali agitatori..

«Il Re Nostro Signore ha in ogni tempo esercitata la Sovrana sua clemenza verso un gran numero del suoi sudditi colpevoli o traviati, commutando loro la pena, o richiamandoli dall'esilio;

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e il suo cuore

«Se la più perfetta calma regna ora negli Stati del Re, in cui la rivoluzione ha sempre trovato, nella devozione del popolo verso il suo Sovrano e nella fermezza del Governo, il più potente ostacolo ai suoi tentativi di disordini, gli è egualmente certo, che i malcontenti non mancherebbero di riuscire nelle loro audaci mene per dar corso alle pazze speranze concepite allo scopo di avvolgere di nuovo il paese nel disordine e nella costernazione.

«Il Governo del Re che evita scrupolosamente d'ingerirsi negli affari degli altri Stati, intende esser solo giudice del bisogni del suo regno, al fine di assicurar la pace; la quale non sarà turbata se i malintenzionati, privi di ogni appoggio, saranno infrenati dalle leggi, e dalla forza del Governo-Così soltanto si allontanerà per sempre il pericolo di nuovi sconvolgimenti, che potessero compromettere la pace d'Italia, e così il benefico cuore del Re nostro signore potrà trovare l'opportunità e la convenienza di esercitare ancora la sua abituale clemenza.

«Siete autorizzato, Signor Marchese, a dar lettura al Conte Walewski di questo dispaccio, ed a lasciargliene una copia in risposta alla su - accennata comunicazione.

COMM. CARAFA.

Questa risposta, ed in termini così precisi, non giungeva inaspettata all'Imperatore; non solo perché. ben conoscea la fermezza del Re di Napoli, ma anche perché era informato, che Ferdinando fosse tal uomo da non lasciarsi facilmente abbindolare. Però nel segreto del suo cuore ne giubilò, trovando in quella giusta ed onorevole fermezza di carattere

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un argomento opportuno per dimostrare all'Europa ed al partito rivoluzionario, che con Ferdinando 2 non fossevi via di conciliazione; che la politica di lui ostacolava ogni idea di progresso nel senso di Cavour e del rivoltuosi.

Laonde ad avvalorare tali ingiuste accuse stimò mostrarsi offeso ilei rifiuto, valendo ciò a testimoniare alla rivoluzione, che il Governo francese avea fatto tutto quanto potea, senza alcun frutto, per indurre Re Ferdinando a concedere largizioni liberali ai popoli delle Due Sicilie; perlochè accontatosi col Gabinetto di Saint - James, retto da Lord Palmerston, noto istigatore di partiti rivoltuosi negli Stati altrui, conservatore ed assolutista in Inghilterra, decisero insieme di richiamare da Napoli i loro Ambasciatori-Ed il Moniteur (20 ottobre 1856) ne diede ragione con queste parole. «Conchiusa la pace, fu prima sollecitudine del Congresso di Parigi di assicurarne la durata. A quest'uopo i plenipotenziari hanno esaminato gli elementi di perturbazione che esistevano ancora in Europa, ed hanno particolarmente rivolta la loro attenzione sullo stato dell'Italia, della Grecia, e del Belgio In Italia la S. Sede e gli altri stati ammettono l'opportunità della clemenza, e quella degli interni miglioramenti. La Corte di Napoli sola respinse con alterezza i consigli della Francia e dell'Inghilterra, benché presentali nella forma la più amichevole. Le misure di rigore e di compressione convertite da lungo tempo in mezzi di amministrazione dal governo delle Due Sicilie agitano l'Italia e mettono a pericolo l'ordine in Europa. Convinte e. del pericoli di una simile condizione di cose, la Francia e l'Inghilterra aveano sperato di scongiurarti con savi avvertimenti dati in tempo opportuno. Questi avvertimenti furono tenuti in non cale.

«

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Fu d'uopo rompere le relazioni diplomatiche con una Corte, che ne avea essa stessa alteralo così profondamente il carattere.... Se il gabinetto Napoletano tornando ad un sano giudizio del sentimento che guida i governi di Francia e d'Inghilterra, comprenderà in fine il suo vero interesse, le due potenze si faranno premura di riannodare con esso le stesse relazioni di prima, e saranno liete di dare con questo riavvicinamento un nuovo u pegno al riposo d'Europa».

Il ritiro - degli ambasciatori non produsse buon effetto nelle regioni diplomatiche di Londra. Lo stesso Sir Gladston nell'Alta Camera ebbe a dire: «Io non so comprendere con quale diritto i plenipotenziari si sieno occupali nelle conferenze della condizione interna di un paese che non vi era rappresentato . E Lord Derby con più chiarezza censurò acremente nella Camera del Lord la condotta tenuta dal Governo della Regina: Noi (diss'egli) avevamo fatte al Piemonte promesse, che ci era impossibile mantenere, e per uscire da questa difficoltà ci siamo imbarcati in una politica d'intervento, e sotto pretesto di conservare la pace dell'Europa, noi abbiamo elevalo la pretesa d'immischiarci nel governo interno delle Due Sicilie... Voi dite che la condizione di questo Regno era un pericolo, una minaccia por la tranquillità generale novellamente stabilita. Ma io sarei curioso di vedere il nobile Lord, che qui rappresenta il governo di S. M., sorgere e dire seriamente a questa assemblea, che i suoi colleghi e lui hanno paventato per un momento solo, che la condotta seguita dal Re di Napoli riguardo ai suoi sudditi potesse arrecare il benché menomo disturbo nella pace d'Europa.... Questo, ditelo, non era che un pretesto, ma è pretesto senza fondamento.... Voi non siete intervenuti negli affari di Napoli, che per obbedire alla necessità di mantenervi fedeli a certe dichiarazioni, che avevale anteriormente fatte; e sospinti nel medesimo tempo da quella infelice mania d'intervento, da cui il nobile Visconte, che sta alla testa del Governo, (Lord Palmerston) trovasi così potentemente posseduto....

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Se taluno del sudditi della avesse avuto a lagnarsi degli alti del governo di Napoli, o di qualche altro governo d'Italia, il vostro dovere era d'intervenire e di difenderlo. Ma quanto a ciò che avviene tra un Sovrano ed i suoi e propri sudditi, io dico, che secondo tutte le regole del diritto internazionale, qualche rappresentanza è tutto ciò che possa essere permesso. E rompere ogni relazione amichevole con un Sovrano per la sola ragione, che egli rifiuta di accettare i vostri consigli relativi all'amministrazione del suo regno, è una condotta che non può essere difesa da chiunque abbia la menoma conoscenza del principii di diritto internazionale....»

Gli articoli di un giornalismo, che non ristava giammai dall'attizzar fuoco, i parlari tenuti nel Congresso. ed il ritiro del Plenipotenziari francese e inglese da Napoli, seguito dall'articolo del Moniteur che, come proclama ristampalo in minuti pezzi di carta, erasi sparso dovunque, non tardarono a produrre tristi conseguenze. Un movimento avvenne in Sicilia, e ne fu capo un Bentivegna, che nel 22 novembre 1856 ruppe ad ostilità rivoltuose nel Comune di Mezzojuso a 24 miglia da Palermo. Una bandiera tricolore fu inalberata fra le grida di Viva la costituzione; e viva la libertà; viva l'indipendenza Siciliana» Il Regio Giudice di quel paese fu violentemente scaccialo; disarmata la Guardia cittadina. I rivoltuosi assaltarono la corriera postale, che percorreva la strada da Messina a Palermo, e impadronironsi del cavalli. La notizia fu subitamente telegrafala a Palermo, di dove il Luogotenente Principe di Castelcicala spedì con sollecitudine il Battaglione Cacciatori, ed un mezzo squadrone di cavalleria, che stabilirono a Villefrali il quartiere generale, e la tranquillità fu presto stabilita. "Nell'arresto di alcuni, e nelle perquisizioni fattesi rattrovaronsi proclami, corrispondenze, lettere di emigrati incitanti alla rivolta, e liste di congiurati di Palermo, di Messina, e di altri paesi della Sicilia; così la polizia poté mettersi subitamente sulle tracce del complici, e saperne gl'istigatori!

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Nel mattino del 4 dicembre sotto i Portici di Po a Torino si leggevano! IL MOMENTO È SUPREMO, L'ORA È SUONATA!

L'ora però non era suonata!-Ferdinando II vivea ancora, l'esercito era compatto, e il tradimento non era ancor penetrato nelle sue file.

Il tentativo di Sicilia diè agio ad accrescere le accuse contro di Re Ferdinando. Napoleone e il Conte di Cavour lo dissero conseguenza dell'ostinazione di lui; le potenze Nordiche, divise tra di loro da gelosie e da vendette, pur ravvisandovi la mano segreta dell'agitazione che dovea compiere la rivoluzione politica, restarono la Francia regina in diplomazia, despota delle sorti di tutta Europa. La storia vide brillare la scintilla che scattava da Torino nelle parole: - Italiani Sorgete... L'ora è Suonata!! Insomma la diplomazia e la rivoluzione si stringevano al patto di asservire l'Italia a Napoleone III; e la rivolta scoppiò sol quando un inesplicabile malore troncò immaturamente i giorni di Ferdinando.

CAPITOLO IV.

Nota di Cavour alla Francia ed all'Inghilterra - Alfa Nota verbale - II progetto del Conte di Cavour - Le due politiche della Francia -Cavour e l'Inghilterra - Dispaccio riservato del Conte Rayneval- Napoleone lo partecipa a Londra- Arti cavouriane - Nascita del Principe imperiale - Pio IX ne è il padrino per mezzo del Card. Patrizi- Ricevimento alle Tuileries- Risposta dell'Imperatore al Legato Apostolico. -La Rosa d'oro all'Imperatrice.

Delle due questioni da lui proposte nel Congresso di Parigi, il Conte di Cavour adoperò la prima a constatare l'impopolarità di Ferdinando II, per vieppiù esautorarlo nella pubblica opinione, e giustificare la rivolta di fronte alla fermezza di lui: e si contentò, senza dissimularlo, di parlarne in termini durissimi, rappresentando il Regno di Napoli sotto i più brutti colori, come scriveva il Ministro di Firenze presso la Corte di Francia (1). Non cosi trattò la seconda, che aveva di mira le Legazioni, sendo quistione di somma importanza, anzi vitale;

(1)

Nicom. Bianchi, lor. cit. pag. 58.

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tra perché la presenza delle truppe in quelle province per la loro posizione strategica erano una perenne minaccia pel Piemonte, tra perché erano di positivo impaccio alle sue ambizioni politiche. Fino a che gli Austriaci tenevano quelle province, la rivoluzione o non avrebbe tentato un movimento, o tentandolo ne sarebbe rimasta strozzata. Cacciarii con la forza il Piemonte da sé solo non polca: le campagne del 1848 e 1849, Salasco e Novara, erano state due prove infelici, ad onta che non si fosse mancato di buon volere e di coraggio. Più che sfidare l'Austria a guerra, il Conte di Cavour temeva vederla fin sotto le mura di Torino; una resistenza anche eroica era possibile, non la vittoria; e se dipoi il 1856 improntò un linguaggio bellicoso, lo fu per i 500 mila francesi che gliene infondevano l'eloquenza. Senza la Francia, Magenta e Solferino sarebbero state segnale a caratteri di sangue nelle pagine della storia piemontese: perciocchè non può sconfessarsi, che a giusto titolo i Francesi rivendichino per essi il vanto della campagna d'Italia. Adunque Cavour nel Congresso fece una battaglia morale all'Austria, ed è necessario che ricordassimo una Nota, che all'oggetto indirizzò ai plenipotenziari Inglese e Francese; giacché il Russo, il Turco, e il Prussiano declinarono ogni ingerenza nei fatti d'Italia.

Ne diamo una sintesi. Dopo un esordire, nel quale confessa aver sperato nei sentimenti di giustizia di quelle due potenze, affin di vedere una volta l'Italia libera dal dominio straniero, si duole di essersi trovato deluso nella speranza di stabilire l'equilibrio politico, facendo cessare l'occupazione austriaca negli Stati d'Italia. Assume di non fidarsi di lasciare il Congresso senza aver apportato il menomo lenimento ai mali dell'Italia, e senza aver fatto splendere al di là delle Alpi un sol raggio di speranza nell'avvenire, atto a calmare gli spiriti, ed a far loro sopportare con rassegnazione il presente (1) Denunzia, che il sistema di compressione e di reazione violenta sì era accresciuto sempreppiù dal 1848 in poi, senza nessun interno miglioramento dello stato morale delle popolazioni.

(1)

Le parole o virgolate, o segnate in - corsivo sono testuali della Nota. Tot. II. 1

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Ad esempio cita la situazione eccezionale di Parma, e chiude l'esordio con queste parole: «Tali mezzi di governare debbono necessariamente mantenere le popolazioni in uno stato di costante irritazione e di fermentazione rivoluzionaria».

Aggiunge, che i popoli eransi un po' calmati nel sapere che l'unico Governo Italiano, il quale aveva rispettali i principi della libertà politica, erasi allealo con le grandi potenze Occidentali; ma appena si sarebbe divulgato esser fallito il tentativo fatto nel Congresso, l'irritazione sopita si ridesterà più che violenta; e disperali, potrebbero, gettandosi in una sollevazione generale, seriamente compromettere la pace europea. Segnala come pericolo i mezzi adoperati dall'Austria per reprimere l'effervescenza rivoluzionaria in Italia: «da un lato appoggiandosi su Ferrara e Bologna, le sue truppe s'estendono sino ad Ancona lungo l'Adriatico, divenuto quasi un lago austriaco, e dall'altra parte, signora di Piacenza che s'adopera a trasformare in fortezza di prim'ordine, essa tiene guarnigioni in Parma, e si dispone a spiegare le sue forze su tutta l'estensione della frontiera Sarda, dal Po sino alla cima degli Appennini. Dal che il continuo pericolo per gli Stati del Piemonte» - A questa Nota Diplomatica fè seguire un'altra verbale, di cui diede notizia al Parlamento nel 1 di maggio. Ne riportiamo qualche brano, a documento di Storia, e non della guerra che intentavasi contro la S. Sede; poiché gli Atti del Parlamento Subalpino, ed Italiano ce ne forniscono sufficienti prove. In questo abhiam voluto seguire il consiglio di un ottimo pubblicista (1) il quale avvisa che su tali fatti chi volesse scrivere, debba valersi di altra fonte di notizie che non sieno le rivelazioni e le confessioni fatte in Parlamento, comechè troppo mentite».

Comincia il Cavour in questa Nota dal tessere la storia delle occupazioni fatte dall'Austria nelle Legazioni. Nel 1845 fu la prima; e da quel tempo non cessò mai in quelle province lo stato d'assedio e la legge marziale, sicché il governo Pontificio non v'era che di nome.

(1) II Conciliatore giornale politico di Napoli - N. 112 - del 24 Aprile 1866.

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Le legazioni, prima dell'occupazione francese, nello scorcio del passalo secolo governale dal Papa, godevano privilegi tali che le popolazioni poteansi dire indipendenti, in quanto ali amministrazione interna (1). Ma la dominazione clericale eravi così antipatica (sic), che le truppe francesi furono accolte con gran festa nel 1196. Il Conte, senz'addarsene, cadeva in contraddizione: se erano indipendenti, se nulla ingerenza prendea il governo nell'amministrazione interna, di dove potea devenire l'odio e l'antipatia contro il governo? Segue la nota ricordando che in forza del trattato di 'Montino quelle Legazioni fecer parte della Repubblica Italiana e poi del Regno d'Italia fino al 1814. Lodalo quindi ti magnifico aspetto che, come per incanto, avea mutata quella città, (rimandiamo il lettore a quanto storicamente fu dello e documentato nel 1. libro), sostiene che nel Congresso di Vienna si esitò a restituirle al Papa, ma che gli furon dale solamente dopo la battaglia di Waterloo.

Ripreso il potere dal governo Pontificio, questi non tenne più conto alcuno di quanto avea operalo il governo imperiale; dal che la continua lotta tra il popolo e l'autorità; e le legazioni d'allora in poi furono sempre in agitazione. Tre volte essere intervenuta l'Austria per ristabilire l'autorità del Papa, costantemente rigettata dai sudditi; la Francia, visto il pericolo che potea devenirne, aver occupala Ancona, e nel 1849 s'impadronì di Roma. Il memorandum del 1831 aver constatato quello stato deplorabile: le riforme di cui Pio IX avea presa iniziativa nel 1846 furono il frutto del suo lungo soggiorno ad Imola, dove avea potuto coi propri occhi giudicare del deplorabile reggimento imposto a quelle province. '

Questa piccola lode data maliziosamente da Cavour, per non mancare di argomenti a confermare la sua tesi, ò seguita da una diatriba sbugiardala dai fatti, che abbiamo narrali, e che al giorno di oggi non sono più un mistero.

«Disgraziatamente (scriveva il Cavour) i consigli delle Potenze, ed e il buon volere del Papa vennero a rompersi contro gli ostacoli,

(1)

Le parole in corsivo sono testuali.

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che l'organizzazione clericale oppone ad ogni sorta d'innovazione... a!

Una mano sulla coscienza, un appello all'onore per tutti! Quanto vi è di vero in quest'accusa? Le franchigie accordale dal Papa furono spontanee, non imposte da Potenza straniera!

Pio IX rimase intatti, e non sminuii: di una linea sola i diritti del suo potere temporale, e del potere che riguardava il Clericale: egli pensò a dare al governo quelle utili riforme, da cui devenisse il maggior beneficio morale - politico - sociale del popoli. La reazione, che strozzò le idee della gran mente benefica di Pio IX, fu la mazziniana, con la morte di Rossi, con l'assalto al Quirinale, con la Costituente, con la Repubblica! Qual parte ebbero in tulio questo i preti, presi di mira dal conte di Cavour? Si vada a rimuovere la terra di S. Callistu, e troveransi mucchi di ossa di sacerdoti fucilali, strangolali per sola colpa d'esser sacerdoti!

Continua il Cavour, snodandosi in profonder larghe fumale d'incenso a Napoleone III. clic con quel colpo d'occhio giusto e fermo, clic lo caratterizza, avea perfettamente compresa la situazione; per cui con la lettera scritta a Ney sperava ottenere io. risoluzione del problema, proponendo la secolarizzazione dello stato pontificio, ed il Codice Napoleone, come legge che ogni altra abrogasse. Ma la Corte di Roma (è sempre il Conte che parla) non vi addiverrà mai, per non perdere i suoi privilegi clericali, ed il birillo Canonico.

Conchiude formulando un progetto in cinque Articoli.

1. Secolarizzazione perfetta delle province dello stato Romano poste tra il Po, l'Adriatico, e l'Appennino, ossia dalla Provincia di Cremona a quella di Ferrara, sottomesse però all'Autorità della S. Sede, a cui esclusivamente competerebbero le relazioni diplomatiche e religiose.

2. Organizzazione territoriale ed amministrativa, come sotto il Governo di Napoleone I. Codice Napoleone modificalo in quanto concerne te relazioni della Chiesa con lo Stato.

3. Un Vicario pontificio laico al governo di esse, il quale avrebbe lu durala di 10 anni.

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Egli avrebbe ministri consiglieri dì Stato, e funzionavi, che sarebbero tutti di sua nomina.

4. Le Province concorrerebbero in giusta proporzione al mantenimento della Corte Romana, ed al servizio del debito pubblico attualmente esistente.

5. Coscrizione militare propria per organizzare Un esercito indigeno: ed im consiglio generale per l'esame ed ti controllo del Bilancia.

Questo progetto Cavour rivelò alle Camere, dichiarando prcventivamente esser false le voci propalale di accordi politici tra la Corte di Doma e il gabinetto di Torino, stunte la difficile situazione in cui le cose rattrovavansi.

Insomma, dopo il Congresso di Parigi per Cavour tutto era speranza: e di realtà non vi era, che l'aver compromesso Napoleone ad entrare in lolta contro l'Austria al primo tentativo guerresco, che da questa fosse venuto; ma l'Imperatore, che agiva con tutta la maggior prudenza, se non fece mal viso alle pretese del Conte, non volea farsi istigatore; tanto più che trattandosi di forzare il Papa a devenire ad altra forma di Governo, certamente avrebbe eccitata la suscettibilità del partito clericale, alla cui solerzia egli dovea i voli, che aveanlo proclamato Imperatore. Volendo adunque tenersi, come suoi dirsi, ambidestro, ai settari fe' grandi promesse, consigliando prudenza e rassegnazione agli imperiali comandi; ai cattolici diè assicurazioni che avrebbe chiesto informazioni sull'andamento dello stato politico - civile delle province del Papa per togliere ogni occasione, che potesse turbare la tranquillità. Giuoco politico tale, che non ebbe mai riscontro simigliante nella storia della diplomazia europea!

Cavour, cui si consigliava l'attendere, vedeasi in condizioni ben tristi di fronte alle grandi promesse fatte al partito rivoluzionario; e lo conturbava il pensiero della lotta che avrebbe dovuto sostenere con l'opposizione, che non cessava mai di volgere la mente all'Utopia della Repubblica Italiana, secondo l'idea del Profeta di Dio e Popolo. volte

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dalla quale non avea ottenuto, se non l'umiliazione di assistere e di aver contribuito alla vittoria della politica napoleonica, che avea scisse ed inimicate tra loro le grandi Corti del Nord.

«La guerra di Crimea fu il primo e grande allo del piano politico di Napoleone III, il quale mirò a colpire i gabinetti del Nord in un momento d'una profonda ed inqualificabile torpedine. La potenza colossale della Russia dovea essere la prima a paralizzarsi, ed a mettersi fuori campo: e questo fatto ebbe per la Francia il più splendido successo d'una neutralità armata, quasi ostile, al gabinetto austriaco; come d'una neutralità accorta da parte della Prussia. Certo è che Napoleone III. non vinse soltanto la Russia in battaglia: questa fu la minor sua vittoria D (1).

Volle dunque Cavour conferire con Lord Palmerston per assicurarsi. se favorevole fosse la politica inglese alle vedute di una guerra contro l'Austria. A tal proposito scriveva da Parigi, ov'erasi recato, ad un suo amico a Torino (2) «... Credo opportuno di andare a Londra «a parlare con Lord Palmerston, e con gli altri capi del governo. Se «questi dividono il modo di vedere di Lord Clarendon, bisogna prepararsi segretamente a fare un imprestito di 30 milioni, ed al ritorno, di Lamarmora dare all'Austria un ultimatum, che essa non possa uccellare, e cominciare la guerra... i

Era ardito il progetto di Cavour! - ma si fondava sulla ineluttabile certezza dell'appoggio della Francia, che anche non volendo, non potea più esimersi dall'entrare nella lizza; a meno che (ciò che era incredibile) Napoleone non avesse permesso che l'influenza Austriaca sempreppiù in Italia si raffermasse.

Ma pure Cavour, con tutto il suo appannaggio diplomatico, non era ancor giunto a saper moderare le speranze che avea concepite per le parole di Lord Clarendon; non conosceva che l'Inghilterra, abilissima ad attizzare il fuoco, è più abile a sbiettarne;

(1) Cognetti Giampaolo. Le Meridionali. Lett. 3. pag: li.

(2) Sic. Bianchi. Loc. cit. pag. 41.

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che a parole ed a Note è la più tremenda battagliera; ma quando non vi ha del proprio interesse, non sacrifica per altri né un uomo, né uno scellino. Questa convinzione l'acquistò a Londra, dove la sua speranza isterilì meschinamente allorché gli fu detto che giammai l'Inghilterra sarebbesi impigliata pel Piemonte in una guerra contro l'Austria.

Sicché dové tornarsene scornato a Torino, e ricorrere ai soliti mezzi battezzali per morali: a rinfocolare cioè le sette, perché spargessero il malcontento negli altri Stati d'Italia, e preparassero così il terreno ad un colpo di mano, appena che l'Imperatore avesse annunciato essere suonata l'ora.

Intanto era pervenuta al Conte Walewski la risposta del conte Rayneval sugli affari di Roma, ed è indispensabile darne - in transunto un'idea, rilevandosi da essa quale fosse lo stato politico - amministrativo delle Province soggette al Pontefice.

Comincia il ministro Francese dal dichiarare, che la quistione sull'ordinamento interno di Roma era stata talmente snaturata, che era d'uopo darsene un ragguaglio indipendente da ogni pressione di partilo.

Il malcontento degli Italiani nasce in più particolar guisa da ciò che l'Italia non faccia l'uffizio che loro sembra dovrebbe fare, e non è quel che loro piacerebbe che fosse. Il potere temporale del Papa è tenuto come principale ostacolo alle loro voglie.

La fonte di ricchezza, che v'era in Roma, ed il prestigio del papato sono stati lesi per i grandi rivolgimenti che dal finire del passato secolo involsero tutta l'Europa. Da ciò la facilità del soffiarsi massive sovversive, le quali sono state incoraggiate dalla tolleranza altamente confessata di parecchi gabinetti (1).

Le concessioni date dal Papa non poteano soddisfare, poiché si disputava intorno al principi medesimo della sua esistenza,

(1)

Noi non riportiamo che un transunto del Dispaccio, virgolando o mettendo in corsivo le parole testuali del Conte di Rajneval.

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e il pregiudizio contro ciò che si chiama governo del preti, tocca il più alto segno.

«È di moda prendere i piemontesi per Italiani, e darli per un esempio di ciò che si potrebbe impromettere dal popolo italiano (1). È grande errore. I Piemontesi sono una nazione intermediaria contenente più elementi francesi e svizzeri, che Italiani. Di che basta a convincersi dall'aver essi quel verace spirito guerriero e monarchico, che è ignoto al resto d'Italia».

Esaminando ciò che si vuole e si chiede, troviamo più querele che disegni; del quali può dirsi aversene tanti, quante sono le leste. I Mazziniani vogliono Repubblica universale, unità d'Italia, guerra all'Austria. I loro comitati a Londra ed a Genova lavorano continuamente a tale oggetto. L'esempio del Piemonte li mette fuori di sè: consigliano contentarsi anche di una semplice amnistia, perché i capi rivoltuosi abbiano l'agio di poter ripatriare, ed operare con più facilità.

Altri vogliono la costituzione; altri infine si querelano per le imposte, che non vorrebbono pagare e se potessero essere esauditi sarebbero contentissimi. Il partito dominante però è quello del monarchico assoluto, ed accusa gli attuali avvenimenti, come effetto delle innovazioni concesse dopo il 1846. Moltissimi sono indifferenti, cui il mormorare non è l'ultimo del difetti. Da ciò qualunque partilo, che potesse giungere al potere, troverà sempre gli ostacoli stessi, perché niuno può dirsi avere per sé valido appoggio. «Pio IX si è mostrato zelantissimo di riforme: si mise egli stesso all'opera: le brutte cose che avvennero, le sanno tutti; e quello che allora avvenne, accadrebbe di nuovo».

Qual è la maggiore accusa data a questo governo?

(2) Il testo del presente dispaccio fu pubblicato in Inglese dal Daily News (marzo 1857); poi dallo stesso giornale fu pubblicato il testo francese da cui facciamo la versione. È stato pure edito dall'lndèpendance Belge di Bruxelles, e dal Constitutionnel.

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L'avere i preti nelle mani la pubblica cosa: questo è falsissimo, perché 58 sono in tutto i preti impiegati nei diversi uffizi; e con quelli che occupano cariche inferiori, non giungono al CENTINAIO; mentre i laici sono più di CINQUEMILA (1). Gli avversari del Governo cercano la secolarizzazione come pretesto; perché non è vero, che l'amministrazione sia tenuta dai preti; i rivoltuosi non si fidano ancora di dir netto e tondo: non vogliamo più, Papa (2), «perché il manifestare tale desiderio solleverebbe grandemente gli animi; si contentano di dire, non vogliamo più preti. Cosi con questa formola mitigata hanno il doppio vantaggio di fare appello alle simpatie di coteste popolazioni, le quali non conoscono altri preti, se non quelli che dicono messa e montano in pulpito, e nello stesso tempo di dare un colpo come essi vogliono, affine di preparare la rovina del temporale potere del Papa...»

E qui dopo di aver accennato ai fatti perpetrati in Roma contro la S. Sede da coloro che avean goduto dell'amnistia del 1846, fa un cenno sugli atti amministrativi, che datano dal ritorno di Pio IX da Gaeta.

Il Papa Pio IX è stato il primo ad affidare ai secolari, quasi tutte le cariche dello Stato, e le Amministrazioni, meno l'uffizio di Segretario di Stato. Studi severi furono compilali sui codici civili e penali; da essi rilevasi come sieno superiori ad ogni critica. Così pure del codice di commercio, e del codice ipotecario, che è stato esaminalo da Giureconsulti Francesi, ed oggi si cita come documento modello. I vari poteri dello stato sensi accuratamente separati: nominalo un Consiglio per preparare le leggi, e vi fanno parte i Principi Orsini ed Odescalchi, l'Avv. Stolz, e il Prof. Orioli.

(1) Su questo ci riportiamo a quanto fu detto nel Cap. 1. Lib. V.

(2; Rayneval scriveva nel 1856! Dopo il 1869 non vi è stato più motivo a celare il pensiero della Rivoluzione. Il giornalismo, il protestantesimo, le scuole del liberi pensatori, e i deputati al Parlamento hanno francamente dichiarato, che per essi la distruzione del Papato è una necessità importante e prima.

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I capi depositari del potere resi responsabili; i conti pubblici dati alle stampe; riformato l'organamento municipale. (Qui rapporta i regolamenti che crediamo superflui al nostro compito). Passando poi a parlare sull'accusa di tirannia], così si esprime:

«.... Non si vide mai più esaltato spirito di clemenza presiedere ad una restaurazione. Niuna vendetta fu presa contro coloro che si eran compromessi a far verificare la caduta del Governo Pontificio: (i niun provvedimento di rigore fu preso contro di essi. Il Papa stelle contento di privarli del potere del mal fare, esiliandoli. Niun incarceramento, niun processo ebbe luogo, se ne eccettui quelli imposti dall'ostinazione di certuni, i quali insistendo per esser giudicati, furono condannati o puniti con dar loro un passaporto da andarsene altrove». Quanto a quelli che furon trovali negli anni seguenti in flagrante cospirazione, furono castigati nel modo più regolare che si possa.... ma il S. Padre non mancò mai di mitigare il rigore delle sentenze.

Amministrazione. Il governo di Roma ha mostrato che in fatto di Finanze non è a niuno secondo. Le rivoluzioni rimangono sempre depauperalo l'erario degli Stati; ed in Roma la carta - moneta emessa dalla sedicente Repubblica, com'era da attendersi, era da tutti rifiutata. Il Governo, a non farne arrecare detrimento ai possessori, la ritirò tutta, benché ammontasse A Sette muosi di scudi, pari a 35 milioni di lire, quale somma pareggia l'intiera rendila dello Stato, o la sorpassa di poco; in proporzione equivarrebbe ad otto o novecento milioni, se fusse avvenuto in Francia. I biglietti della Banca dello stato poi sono in commercio come contante alla pari.

La Banca Romana di fondazione francese, non essendo sufficiente ai bisogni dello Stato, è stata modificata, e dichiarata banca dello Stato; ha stabilite succursali nelle province; ha allargalo la cerchia delle operazioni, ed è di notevole aiuto al piccolo commercio.

Le imposte sulle dogane, riguardo ad alcuni articoli più necessari, sono state ridotte.

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Concìtiusi trattati postali e commerciali con la

È calunnia l'asserire che il Papa ed i Cardinali ingoiassero tutta l'entrata: il Governo non paga che seicento mila scudi annui (3,200,000 lire), e queste in complesso per Lista civile; spese pei Cardinali; pel corpo diplomatico nei paesi stranieri; mantenimento del Palazzi Papali, e mantenimento di tutti i Musei, pei quali la spesa non è di picciol conto. Si metta a paragone questo con gli appannaggi delle altre Corti, e dicasi, se non mentiscono i rivoltuosi.

OPERE. Furono aperte strade di comunicazioni in tutte le Province; allargato il porto di Terracina; nuovi lavori furono compiuti pel prosciugamento delle paludi Pontine, e delle paludi di Ostia. Furono racconciati alcuni acquedotti, altri di nuovo costrutti. Introdotto sul Tevere la navigazione a vapore, e il sistema di rimorchio, che fa venire nel porto di Roma molte navi. La città illuminata a gas; fatte concessioni per strade ferrale; stabilite le telegrafie elettriche.

AGRICOLTURA. Si è dato incoraggiamento fissandosi premi per l'agricoltura, e per l'allevamento del bestiame; e si è eletta una Commissione di proprietari di terreni per studiare il modo come prosciugare le campagne romane, e renderle popolale.

CARITÀ. La carità è nel suo maggior splendore. Le carceri sono ridotte a modo abitabile; gli Ospedali, di che Roma è ricchissima, gareggiano con qualsiasi altra simile istituzione di Europa; vi sono ospizi, orfanotrofi, morotrofi, case di educazione per fanciulle povere; in somma quanto può desiderarsi a sollievo dell'umanità.

Se dunque vi è tanto di bene, perché quei lamenti, e quelle querele? Bisognerebbe (è il Ministro Francese che parla)... che la stampa

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inglese e del Piemonte cessasse dallo stimolar le passioni; e che le u Potenze Cattoliche continuassero a darò alla S. Sede chiari segni di lor simpatia... »

Ricevutosi tal dispaccio dal conte Walewski a Parigi, grande, anzi immensa fu la sensazione che produsse: poiché non era certamente un segreto la Nota verbale del Conte di Cavour, che virulentemente d'ogni parte attaccava come inefficace a produrre il bene del popoli l'amministrazione interna dello stato Pontificio.

L'Imperatore, che di ogni cosa seppe profittare a proprio vantaggio, con quella fmezza di politica, inimitabile ed inimitata, vide che quel Dispaccio potea toglierlo dalle conseguenze, cui esponevalo la imprudenza del Ministro Piemontese, che tendeva sempre a compromettere la Francia e trascinarla in una guerra contro l'Austria. Ordinò quindi l'Imperatore, che di quel dispaccio si trasmettesse immediatamente copia al Gabinetto di Saint James. Grande fn lo sdegno di Lord Clarendon nel leggerlo: poiché, scritto da un Plenipotenziario Francese, ed in modo così esplicito da non potersene mettere in dubitazione l'asserlo, quel Dispaccio era la più assoluta e chiara smentita alla Nota Verbale del Ministro Piemontese. Perciò dolente che questi avesse giuocala la fiducia del Foreign Office, per tutta risposta ne fece inviare copia al Gabinetto di Torino, accompagnandola con una nota più che mai risentita (l). Ma Cavour se ne vendicò, inviando al Daily News il dispaccio medesimo per sollevare sempreppiù il finalismo protestante contro il Papato, attesochè in grave imbarazzo trovavasi il gabinetto di Saint - James a causa di una mozione presentata da Cobden.

Walewski medesimo, contento che con questo trovalo si fosse allontanalo il pericolo imminente di una conflagrazione Austro - Franca pel fatto del Piemonte, assicurò l'ambasciatore del Gran Duca di Toscana sulle intenzioni pacifiche dell'Imperatore, e conchiuse il suo discorso con dirgli: M. de Cavour a fait beaucoup d'embarras; beaucoup trop I (2)

(1) Riprodotta dalla Gazzetta Austriaca (Aprile 1851)

(2)

Nic. Bianchi - loc. cit. pag. 43.

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E Cavour, che si trovò disfatto, baltè ritirala, come capitano, che vedendo a sé di fronte un nemico più forte, si appoggia al corpo dell'esercito per prepararsi a nuovo attacco. Alla Camera di Torino quindi rincorò gli animi: esortò al temporeggiare; ad aspettar con fiducia l'esito finale. Esclamava: «la Francia vuole la pace; l'Imperatore ha dovuto farla; ha dovuto perciò invocare il concorso dell'Austria... ma ciò che volge a danno dell'Italia pel momento, le sarà vantaggioso più tardi...! -»

Ma mentre si agitava tale guerra centra il Papato, l'Imperatrice del Francesi (16 Marzo 1856) diede alla luce un figlio, la cui nascila fu per Napoleone di massima esultanza. Cento e un colpo di cannone ne diedero l'annunzio a Parigi. Non potea essere più opportuna questa desiderata circostanza. Alla gioia, che come padre e come Sovrano provò l'Imperatore, vedendosi ad un tempo con la prole assicurala la Dinastia, si congiunse l'idea di esser questo un mezzo per calmare il giusto dispiacere, arrecalo alla Corte Romana dalla Nota Piemontese accettata dall'Imperatore, e per assicurare il partito cattolico, che egli sarebbe stato sempre il figlio primogenito della Santa Sede. A tal fine si volse al Pontefice Pio IX pregandolo di far da padrino del Principe Imperiale al fonte Battesimale. Pio IX accettò, e per suo Legalo a latere mandò a Parigi il Cardinale Patrizi.

Il Legato fu ricevuto con tutta solenne pompa alle Tuileries nel 13 Giugno; e presentato il Breve del S. Padre, accompagnandolo con poche e ben profonde parole, l'Imperatore gli rispose: - «Sono gratissimo a S. Santità il Papa Pio IX di aver accettato d'essere padrino del mio figliuolo, che la provvidenza m'ha dato. Chiedendogli questa grazia, ho voluto attirare in modo speciale sul mio figliuolo e sulla Francia la protezione del Ciclo. Io so, ohe uno del più sicuri mezzi di ottenerla, si è quella di attestare tutta la mia venerazione al S. Padre, che è il rappresentante di G. Cristo in terra.» (1)

Pio IX, a testimoniare all'Imperatore, come questo atto di

(1) Chantrel. annati Eccles. pag. 223.

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spontanea fiducia accollasse di cuore, inviò alla Imperatrice la Rosa d'oro, che suolsi offrire ogni anno ad una Principessa, cui vuoi farsi omaggio d'onore. E nel presentarla alla Imperatrice, il Cardinale Patrizi disse «Prendete questa rosa, figliuola diletta, che nobile seccado il secolo, siete altresì dotata di grande potere ed eminente virtù, acciochè ne torniate sempre più adorna di ogni grazia in G. Cristo Signor Nostro, come rosa piantata sul margine di acque abbondevoli. Degnisi nella sua infinita clemenza concedervi questo favore Colui, che, solo Dio in tre Persone, regna nei secoli del secoli. Così sia». Chi avrebbe potuto credere, che dopo tre anni, questo Pontefice dovea essere dispogliato del suoi Stati; e che l'Imperatore del Francesi avrebbe taciuto dinanzi a quanto osar si dovea, contro la Santa Sede, contra il Santo Padre, e contro l'Episcopato ed il, Clero Cattolico d'Italia?

CAPITOLO V.

L'Episcopato Francese Concilio provinciale a Bordeaux La Liturgia romana restituita in Francia - Il cattolicismo in Austria - Indirizzo di quell'Episcopato all'Imperatore - Risposta di Francesco Giuseppe Patente imperiale sul matrimonio L'Imperatore alla Basilica di Gran - . Suo viaggio nel Lombardo - Veneto - Caduta di Esportero - Trionfo della Chiesa in Spagna Decreti della Regina Leggi sui benefici ecclesiastica, e sulla libertà di stampa - ll Cattolicismo in Russia Reazione protestante nella Svezia, e nella Svizzera - Persecuzione alla Chiesa nel Messico Incameramento del beni ecclesiastici - Protesta dell'Episcopato - Altra persecuzione alla Chiesa nel Piemonte - La Circolare Rattazzi - Protesta dell'Episcopato di Piemonte e di Savoia.

«Il Papa pel suo potere spirituale gode una Sovranità che non ha pari nell'universo mondo. Ogni paese, che ha sudditi Cattolici, ha un interesse nella condizione degli stati Pontificii, e nel vegliare, affinché il Papa possa esercitare la propria autorità senza esserne imo pedi lo da veruna influenza temporale, che sia tale da offenderne il potere spirituale».

Così ragionava all'alta camera di Londra Lord Landsone (1);

(1)

Times del 22 Luglio 1849 - Journal des Debats 23 id.

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Adolfo Thiers ripeteva lo stesso concetto (1), e fin nel Parlamento di Torino (2) vi fu una voce, che confessò, il dominio temporale e spirituale del Papa essere unito nelle coscienze del fedeli a ciò che vi ha di più sacro; il Papato è una Potenza morale, immensa, straordinaria, la più antica, e a un tempo la più venerata potenza di Europa, che non si vince né coi cannoni né con la forza...»

E questa è una verità così evidente ed incontestabile, che non poteronla discredere gli stessi nimici della Religione.

Diecinove secoli, dacchè la Chiesa vive, fu sempre in lotta, e fu sempre vincitrice; dall'edifìzio secolare, la cui prima pietra e fondamento è Cristo. non si distaccò giammai parte, che la minacciasse di ruina. Là dove fu più battagliata la Chiesa. trovò più larga terra, in cui semenzare la sua ineffabile dottrina. In Francia, in Austria, in Spagna, nel Messico, dovunque, soffrì orrende persecuzioni che bagnarono del sangue del Sacerdoti gli altari del Cristo; e dovunque risorse sempre più bella dalle sue tempeste.

In Francia, dove sovra ogni altra città, la filosofia acattolica della libera ragione, e l'indifferentismo religioso attecchirono con le dottrine di Volney, di Dupuis, e di altri simiglianti scrittori, la religione cattolica tenne sempre alto il suo stendardo, sfidando i buffi del vento politico, e dell'uragano razionalista.

Pria che il Card. Patrizi fosse partito da Parigi, l'Episcopato Francese volte per mezzo del Card. De Bonald, Arcivescovo di Lione, testimoniare al Papa «l'omaggio d'una devozione non mai scemata, o «della venerazione che la fede ispira verso il Vicario di G Cristo, «verso il Vescovo del Vescovi, verso l'oracolo della Chiesa. a Testimonianza, di cui sicurissima era la S. Sede, e che gran valore acquistava in un momento, nel quale la rivolta affilava il suo coltello a disbranare il manto del potere pontificio.

A tener sempre viva la fede e la disciplina i Vescovi, non tralasciavano di riunirsi in concili provinciali.

(1) Storia del Consolato e dell'Impero.

(2)

Alti Uff. del Pari. Subalp.

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A Bordeaux ne fu riunito uno nel 13 agosto, dove intervennero sotto la presidenza del Card. Donnei sette Vescovi, oltra tre che rappresentavano le colonie della Martinica, dell'Isola della riunione, e della Guadalupa, e molti Dottori e Teologi, tutti componenti la provincia Ecclesiastica di Bordeaux.

Anche le quistioni sulla liturgia andavan di per sé cessando, e il Vescovo di Rouen M. Bonnechose, e il Vescovo di Evreux annunziarono ai Cleri la loro volontà di ristabilire la liturgia romana nelle loro Diocesi.

Non può niegarsi, che il secolo XIX sia stato per la Chiesa uno del più tempestosi; ma non vi è stata mai nei diecinove secoli di vita j quanti ne conta, tanta unità e concorde unanimità nell'Episcopato e nel Clero quanto in questo. Dolori ne ha sofferti, e ne soffre la S. Sede, ma nell'ora del pericolo ha veduto e vede l'Episcopato mondiate, siccome muro di bronzo, asserragliarsele dintorno, e sostenerla con la fede, con l'amore, e col coraggio apostolico. In Austria il trionfo era completo; ed il potere delle selle, che dal governo di Giuseppe 2.° aveano preso a dispotizzare le coscienze, crasi accascialo. I Vescovi dell'Austria riuniti a Vienna per conferire sul Concordalo ultimamente stabilito, inviarono all'Imperatore il Principe Vescovo De Schwarzenberg con un indirizzo, ringraziando l'Imperatore della premura che avea mostrato a beneficio della Chiesa, augurandosi che avessela sempreppiù difesa e sostenuta a gloria dell'Impero; e l'Imperatore rispose:» Mio. primo dovere sarà di fare tutto che è in mio potere, «affinché il mandato sia pienamente eseguito. tutte le proposte che voi mi farete intorno a questa opera, saranno accolte benignamente, ed esaminale con grande cura: mi stimerò felice di potere, per quanto le circostanze me 'l permettono, assecondare i voti che mi esprimete. Voglia Dio benedire i vostri sforzi per condurre tutte le classi della popolazione a ciò che è salutare e sacro. Io desidero, che i popoli, i cui destini sono a me affidati, godano i beni temporali senza perdere gli eterni...»

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Lieto a sì prospere novelle, il Santo Padre indirizzava a tutto l'Episcopato dell'Impero un Breve (1), magnifico per gli alti concetti di amore e di tranquillità che spira, raccomandando, e dando consigli per condurre a buon Une il Concordalo conchiuso.

In conseguenza di questo fu dall'Imperatore promulgata una patente Imperiale (2) all'oggetto di porre in armonia le disposizioni del Codice Civile, sul matrimonio del Cattolici, coi precetti della Chiesa Cattolica.

La Religione riprendeva quindi tutto il suo splendore, e l'Imperatore non tralasciò occasione per addimostrare ai popoli la sua devozione alla S. Sede. Alla solenne dedicazione della Basilica di Gran, nell'Ungheria, edificala dal Cardinale e Principe Primato Gioan - Battista Scilowzky, volte assistere personalmente, accompagnalo dai cinque Arciduchi, dai Cardinali Arcivescovi di Vienna e di Agram; da moltissimi Arcivescovi e Vescovi dell'Impero, e da tutta la corte Imperiale per onorar di corteo la deposizione delle reliquie dì S. Vincenzo e di S. Modestina Martiri, inviale in dono a quella Basilica da Pio IX.

Né men sontuoso fu il viaggio fatto in Lombardia, e nel Veneto, dove a nome del popolo cattolico il Patriarca dissegli K... Noi riconosciamo nella vostra augusta persona non, solamente un gran Menarca, ed un legislatore pieno di sapienza, ma ancora uno di quei Principi, che Iddio da alle Nazioni, quando le vuoi fare felici... Il Concordato conchiuso dalla 31. V. col regnante Pontefice Pio IX starà nella «Chiesa per eterno monumento dell'illuminala religion vostra, e per «memoria ben cara al cuore di tutti i vostri sudditi Cattolici...» (3) Nella Spagna gli affari religiosi accennavano a felice svolgimento, sminuendosi la violenta persecuzione levala contra la Chiesa dal Generale Espartero Presidente del Consiglio del Ministri. Una contro - rivoluzione scoppiò,

(1) Singulari quidem 17 marzo 1856.

(2) Boll, delle leggi dell'Impero 8 ott, 1856.

(3) G. Chantrel. annati Eccles. pag. 248.

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e quegli dové abbandonare quel seggio stesso che una rivoluzione aveagli dato (13 luglio). Infatti ristabilita, con alcune modificazioni, la Costituzione del 1845, il Ministro di grazia e giustizia, dopo gli ordinamenti emanali per il rispetto dovutosi al Clero, e per dovere di religione, e per diritto di cittadino, presentò alla Regina un rapporto, in cui esponeva, che se l'opera di conciliare tutti i legittimi interessi dello Stato voleasi effettuare, ed aggiugnere il ristabilimento della tranquillità, era necessario di ricorrersi al Clero, che avrebbe potuto rendere «servigi immensi... contribuendo con la paro«la e con l'esempio al miglioramento del costumi». Vide quel Ministro l'assoluta necessità di rendere al Clero quel prestigio e quell'autorità, che grandemente crasi scemala nella coscienza delle popolazioni «per effetto di mille cagioni fatalmente congiurate nel turbine delle passioni, e del tempi»: e propose che il provvedimento delle prebende e delle dignità della Chiesa fosse fatto, su proposizioni della Camera, agli Ecclesiastici che sarebbero stati creduti i più degni per virtù ed ingegno, secondo la forma ordinala dal R. Decreto 25 luglio 1851.

La Regina accollò con piacere questa proposta, affezionata com'era alla Religione, perché era un esordire a rimetter la Chiesa nel suo primitivo splendore; e subitamente emanò un Decreto, con cui ordinavasi che la presentazione del Leneficii si facesse dalla Camera in triplice lista, giusta l'enuncialo Decreto, riserbandosi il diritto di arrecarvi quei cambiamenti che si credessero opportuni.

E veramente questo fu il primo passo; poiché poco di poi lo stesso Ministro Seijas Lozano presentò altra relazione, con cui esponendo la Regina aver ordinato eseguirsi fedelmente il Concordato con la S. Sede, ed abrogale tutte le disposizioni che avessero potuto alterarne e modificarne il senso, veniva di diritto abrogato il Decreto del 1 agosto 1855, con cui sospendevasi ai Vescovi la facoltà di conferire ordini Sacri. Dichiarò insufficiente pei bisogni della popolazione il numero del Sacerdoti esistenti, e senza di essi non potersi ottenere quella calma tanto necessaria, perché le coscienze santificate, santifichino la

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Un R. Decreto fu promulgato per la libera facoltà delle Ordinazioni Sacre, e per il ristabilimento del poteri ordinari e canonici del prelati diocesani, a norma del Concordalo con la S. Sede. A questi, altri due Decreti successero, uno per il conferimento delle cariche Ecclesiastiche (24 Oli.), e l'altro importantissimo sulla pubblica istruzione. Con questo si abrogò il Decreto 29 Soli. 1855, col quale erano stati aboliti i secondi corsi d'insegnamento nei Seminali, e le cattedre di Diritto Canonico e di Teologia; si richiamarono in vigore le antiche disposizioni all'oggetto, riserbandosi di venire ad ulteriori accordi Ira la Chiesa e lo Stato; non che le Cattedre di Teologia nella Università; ed infine si accordò facoltà ai Prelati di servirsi di queste disposizioni Reali, dando loro permesso di far rilevare, affin d'ovviarle, tutte le difficoltà che avrebbero potuto incontrarsi.

Non restavano che altri due sconci a tor di mezzo: il primo riguardo ai beneficii vacanti, e l'altro sulla legge della stampa, nelle cose spettanti alla religione; e la Regina li tolse con altri due Sovrani motu - propri. Il 1.° Decreto abrogò quanto fu decretato riguardo alla sospensione delle nomine alle cure vacanti, ed a benefici di patronato; accordò ai Vescovi il diritto di aprire concorsi al conferimento di essi; ai patroni di benefici particolari, quello di servirsi delle antiche disposizioni canoniche; e finalmente sanzionò che tutte le petizioni e le presentazioni fatte dai Vescovi, non ancora discusse, si restituissero loro per averne la conferma o il ritiro secondo il loro avviso. Col 2.° decreto fu inibito di pubblicare controversie in materia di Religione, senza il previo consenso e permesso del Diocesano. All'uopo il sig. Noce dall'incaricato dalla Regina, diresse una Circolare a tutti i Governatori e prefetti delle Province, pregandoli a sorvegliare attentamente ed a proibire che per le stampe si pubblicassero articoli in offesa della religione Cattolica - Apostolica - Romana, e proposizioni contrarie ai dommi della Chiesa; e che si discutesse sulla unità religiosa, la quale in Ispagna.... è la più invidiabile gloria della Nazione (1).

(1) Circolare. 8 Nov. 1856. Boll, delle leggi del Regno.

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Fin nella Russia miglioravano in quest'epoca le condizioni del Cattolicismo; e Monsig. Flavio Chigi, Nunzio straordinario della Sante Sede, invitato ad assistere all'incoronazione dell'Imperatore Alessandro 2.° a Mosca, fu accollo benevolmente, e con ogni riguardo diplomatico.

Le relazioni invero sembravano stringersi amichevoli; e il S. Padre nel Concistoro segreto del 18 Sett, propose varie chiese appartenenti all'antica Polonia negli Stati Russi, cioè le Metropolitane di Mohilow e di Varsavia, e le Chiese Cattedrali di Wladistaw o Kalisk, e di Janow o' Podlachia. E su tale pontificia risoluzione nessuna opposizione fu fatta dal Governo Imperiale dello Czar.

Nella Svezia e nella Svizzera la reazione protestante e luterana alzava sempre il capo, insofferente del progressi che colà faceva il Cattolicismo. Ad onta che le leggi di questi Stati promulgassero la libertà religiosa, ed il Governo guardasse il cittadino, non la religione, o il culto da lui professalo; pure questa libertà, accordata smodatamente ai nemici ed oppositori del Cattolicismo, ai cattolici si restringeva in modo, da farsi temere il rinnovellamento di scene violenti e di persecuzioni.

Né più favorevoli tempi correvano per la Chiesa nel Messico. Salito alla Dittatura Comonfort, che dopo la rivolta del 1855 avea surrogalo Sant'Anna, il Cattolicismo fu aspramente preso di mira dal Governo, il quale per primo allo stese la mano sui beni chiesastici. Il Decreto del 25 Giugno 1856 ordinò che la Chiesa cessasse di esser proprietaria di quanti beni, mobili od immobili, possedesse; e che passassero in proprietà a coloro che trovavansi a tenere quei beni in locazione - conduzione; con patto espresso però, che come a canone imprescrivibile fosse pagato ni primi proprietari il sei per cento sulla rendita. Dapprima sembrò, che accordandosi il Canone, la Chiesa non avrebbe discapitato sulla rendita: ma qui era nascosto il veleno per ammiserire i cleri, e col tempo niegar loro lo stesso diritto accordate dalla legge. Secondo il costume di quello Stato, gli affitti possono farsi da venti sino a cento anni, stabilendosi quali le migliorie a praticarsi:

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ond'è che per

Quanto fosse illegale ed arbitraria una tale disposizione, può rilevarsi dall'Articolo discusso ed approvato dalla Costituzione ricevuta e raffermata dal rivoltuoso Comonfort. Ad intelligenza lo riportiamo, affln di sempreppiù raffermare ciò che oggi non è più problema, ma teorema; cioè che le rivolture politiche, nel rovesciare i Governi costituiti, cercano tutti i modi per annullare la religione cattolica, la quale non può farsi certamente partecipe e complico di quel che i rivoltuosi operano a danno della società, e della pubblica morale.

«Niuna legge o antico decreto tendente a vietare o impacciare l'esercizio di qualsiasi culto religioso, potrà venir pubblicato in questa Repubblica, ma la Religione Cattolica - Apostolica - Romana. essendo stata la religione esclusiva di questo paese, il congresso dell'unione avrà cura di proteggerla, per mezzo di giuste e prudenti leggi, in tutto ciò che non ridonderà in pregiudizio degli interessi del popolo o del diritti della Sovranità Nazionale».

Poggiatosi a questa legge sanzionata per lo Stato, l'Episcopato protestò solennemente, ma invano, contro il Decreto che lo privava del diritto di proprietà. Notabile sovra ogni modo è la lettera che all'oggetto diresse l'Arcivescovo del Messico al Ministro della Giustizia e del culti. «Nei tempi di calamità nazionale egli scriveva; il Clero si è mostrato generoso più che ogni altra classe di cittadini per le necessità i pubbliche, senz'altro motivo che quello di contribuire ad assicurare la libertà della patria nostra. Abbiamo anzi sacrificato beni, di cui i potevamo disporre in coscienza da padroni, e questi beni passarono nelle mani di persone arricchitesi a spese della Chiesa. S'egli è dunque un bene pubblico il contribuire alle spese straordinarie del Governo, la Chiesa ne ha dato prove meglio che ogni altra persona...»

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E qui dimostra come la Chiesa avesse sempre a modico prezzo date in fitto le proprietà a beneficio degli operai; che molte volte anche a prò di essi, se poveri, scemò il prezzo delle locazioni; e che finalmente col privare la Chiesa delle sue proprietà le si toglieva eziandio il mezzo di continuare l'immenso beneficio della carità che operava verso i bisognosi del paese, la qual cosa da tutta la popolazione e. -

a constatata. Ma simiglianti ragioni, patentissime quali erano, non potean commuovere la logica della rivoluzione, che fu sempre sinonima di tirannide. Allorchè trattasi di muovere guerra alla religione, non importa che le conseguenze fatali ricadano a danno delle opere di carità, della vita stessa di famiglie povere e bisognose, della sussistenza di tanti orfani, di tante vedove e fanciulle sventurate, che nella Chiesa trovano aiuto, pane, e decoro!

Simile teoria di odio inqualificabile alla Chiesa, sventuratamente vedeasi più che mai perpetrata nel Piemonte, dove la persecuzione non attaccava solamente i beni, e la inviolabilità dovuta al cittadino, qual è l'ecclesiastico; ma s'immetteva sacrilegamente fin nel campo spirituale, volendo quel Governo immischiarsi anche negli affari che riguardano l'Amministrazione del Sacramenti.

Era guerra dichiarata con atti e con parole oscenissime di giornali libertini, liberticidi. Giungere alla contumelia, a parole da trivio, è cosa turpe, vieppiù in chi pretende farla da pubblicista; e la Gazzetta del Popolo di Torino non ebbe ritegno di scrivere nel 2 gennaio 1856, che per strenna al S. Padre inviava un chilo di sapone e metri due di spago.

Noi non avremmo voluto imbrattare queste pagine con narrazioni sì abominevoli; ma siamo obbligati di tanto in tanto a farlo, affinché si potesse seguire dappresso il compito della rivoluzione. Il governo di Torino non solo non punì, ma neanche si diè carico di imporre alla stampa quel rispetto che il diritto internazionale comanda verso i Principi degli altri Stati.

Il governo non potea punire. Il Conte di Cavour avea

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La persecuzione ai frati ed alle monache non rifiniva giammai;e benché si fossero tollerale alcune comunità, pure si speculavano modi per dar loro continuate vessazioni. Difatti ordini Ministeriali furon spediti a molti Conventi, perché i frati lasciassero sgombri quei locali, e si accentrassero in altri chiostri; i Benedettini di Novalesa furono di notte aggrediti da agenti di polizia, ed invano protestarono contro l' - atto di violenza; furono espulsi immediatamente!

Ciò riguardo alle persone. Ma siamo atterriti nel narrare, che la Polizia entrasse in fatti di Sacramenti! Eppure questo avvenne in paese civilizzato;che vantavasi liberale, e presumeva di essere per tutta l'Italia faro splendidissimo di civiltà e di morale! Il parroco di Verres fu accusato, perché non volte ammettere ad un battesimo un padrino caduto sotto la pena della scomunica. Tradotto ai tribunali, il fisco ad ogni costo volea che subisse una condanna. Tre volte assoluto sin dalla Corte di Cassazione, tre volte il fisco produsse appello, sostenendo una nuova teoria di dottrina canonico - fiscale.

Ed il Governo autorizzava legalmente questa illegalissima persecuzione sotto il futile pretesto di doversi impedire la reazione clericale. A. tal fine fu spedita a tutti i Sindaci una riservata con ingiunzione di vegliare attentamente sui parrochi; informarsi se dicessero l'Oremus pro Rege; se sparlassero in pubblico od in privalo delle libere istituzioni, e quali fossero i parrochi più influenti sulle popolazioni.

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Qual ingiustizia, quale prepotenza non era quella d'immettersi anche negli affari meramente spirituali, quando la libertà civile e religiosa tenevasi a base della Legge dello Stato? Era pretesto per perseguitare; o paura, nella certezza che ad "onta delle propagande protestanti, il popolo di Piemonte sarebbe rimasto sempre cattolico? Noi crediamo e l'uno e l'altro; e non sapremmo altrimenti giustificare tal procedimento del Governo Subalpino.

Né possiamo astenerci dal tener parola di una Circolare, che Urbano Rattazzi. Ministro dell'Interno, indirizzava agli Intendenti generali, ed ai delegali di pubblica sicurezza, con la quale comminava severi castighi a quei parrochi, e ad altre dignità Ecclesiastiche, che negassero la sepoltura o i sacramenti agli scomunicati; o non li accettassero a padrini nel Sacramento del battesimo.

Queste pretensioni, più che di stranezza putono di un rigorismo tirannico, dice il Chantrel, ed a ragione (1); poiché si vorrebbe obbligare il ministro della Chiesa a fare ciò che dalla Chiesa è espressamente proibito. Un individuo colpito dalla pena d'ergastolo, perduti i diritti civili, perde il diritto di elettore od eleggibile alle cariche dello Stato; fino a quando una grazia Sovrana non lo riabiliti.

È il caso stesso. L'individuo, colpito da scomunica, è incapace di ricevere Sacramenti. Quale prepotenza non è dunque quella di castigare un Parroco perché obbedisce alla legge della Chiesa, che è il Sovrano spirituale? Eppure questo che è solenne diritto fu sconosciuto dal Rattazzi, il quale scriveva:

«-9 Giugno 1856 -La condotta di alcuni membri del Clero verso il Governo e le sue istituzioni torna da qualche tempo ad eccitare l'attenzione del paese.

«Avversa questa parte, fortunatamente poca numerosa, del Clero a tutte quelle leggi che tutelano, e rivindicano l'indipendenza del potere civile, e che sono la necessaria conseguenza, l'applicazione, e lo svolgimento dello Statuto, va oggi specialmente rivolgendo le sue

(1) Chantrel loc. cit. pag. 211.

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armi contro coloro che più o meno direttamente, per ragione del propri uffizi, e di dovere, presero parte all'esecuzione della legge 29 Maggio 1855.

«Il suo contegno ostile era da principio individuale ed isolalo, sicchè dovea bensì deplorarsi dai sinceri amici della religione; ma coi lumi, ond'è ricca la civiltà presente, poteva senza pericolo lasciarsi in noncuranza, tanto più che tale contegno era disapprovato dalla parte la più assennata, la quale ben sa, come primo apostolato della religione sia quello di predicare con la parola, e con l'esempio il rispetto, e la sommessione alle leggi. Ma oggi quegli alti di avversione, e di ostilità, dapprima singolari, incominciano ad assumere tale un carattere sistematico, unito e solidario, che riesce affatto intollerabile con l'autonomia e coi diritti del potere civile. Le Feste Pasquali, e quelle dello Statuto hanno principalmente somministrata l'occasione a questi nuovi atti di ostilità!

«E in vero, le relazioni che da varie parti dello Stato pervengono al governo, rivelano tali fatti, a cui l'autorità non può, e non deve più rimanere indifferente.

«Ora è il rifiuto del Battesimo, e degli alti che sono il fondamento e la prova dello stato Civile delle persone, ora è il rifiuto della sepoltura ecclesiastica. Al tribunale della penitenza s'inquietano le coscienze, e si fanno eccitamenti inconciliabili con la qualità e coi doveri delle persone che vi si accostano.

«Non è la pace delle famiglie rispettata, né si rifugge dallo usufruttuarie perfino delle sventure domestiche. Coloro che presero parte all'esecuzione della legge, sono additati al letto di morte, e in quei supremi istanti, in cui la mente dell'uomo vacilla, si domandano, si impongono ritrattazioni manifestamente ingiuriose al governo.

«Neppure la disciplina dell'esercito e della forza pubblica è da certuni rispettata. Stazioni intere di carabinieri reali furono respinte dalle pratiche religiose in Decorrenza delle feste pasquali, perché obbedendo al loro dovere, alla voce del Superiore, alle leggi proprie,

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le quali, in caso di rifiuto, loro minacciano la più pronta e la più severa repressione, assistettero gli ufficiali amministrativi alla presa di possesso del beni del conventi. In più luoghi il parroco, o con uno o con altro pretesto, si è rifiutato d'intervenire personalmente, o d'intuonarc i soliti canti in occasione della Festa dello Statuto. S'insultano i sentimenti dell'intiera Nazione, omettendo frequentemente, e non sempre a caso, le preghiere pel capo dello Stato, per quel Principe leale e generoso, per la di cui conservazione s'innalzano al Ciclo i voti di un popolo intiero. «Per dirla in breve, ora qua, ed ora là; ora con parole ed or con fatti, creando un conflitto tra il cristiano ed il cittadino sotto il manto della religione, ed a nome della Chiesa, si va da quella parte del clero insinuando e promovendo la resistenza agli ordini dell'Autorità, la ribellione alle leggi, il disprezzo e il malcontento contro il governo.

«Ragioni di convenienza, ragioni di dignità, ragioni di necessità sociale, comandano ormai un freno a questo sconsiglialo procedere; ed è perciò che il Ministro di Grazia e Giustizia chiamò sovr'esso con recente circolare l'attenzione del signori avvocati fiscali generali.

«Le esorbitanze del Clero fin dai più remoti tempi furono sempre frenale con energici provvedimenti. Non tutti i mezzi una volta posti per ciò in opera sono ancora oggidì attuabili. Quelle stesse istituzioni, che la parte del Clero, alla quale alludiamo, va con tanta pertinacia osteggiando, la proteggono contro qualunque alto meno legale; né sarà mai il governo che vorrà, contro chiunque siasi e per qualsivoglia motivo, eccedere i confini della legalità: ma egli crede che la nostra legislazione e le tradizioni nostre somministrano ancora mezzi più che sufficienti a frenare ogni eccesso.

«La legge del 5 luglio 1854, l'Art. 200 del Codice Penale, ed il noto rimedio economico dell'appello ab abusu, contemplano quasi tutti i casi e i modi con cui soglionsi manifestare le ostilità lamentate.

«Colla della legge infatti si puniscono i ministri del culto, i quali nell'esercizio del loro ministero con discorsi o scritti pubblici censurino le leggi dello Stato, ovvero provochino alla disobbedienza di esse degli atti dell'autorità:

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e con essa si provvede pure, perché non sia no eseguiti senza l'assenso del governo i provvedimenti vegnenti dall'estero, (vuole dire di Roma!)

«L'Ari. 200 del Codice penale reprime i discorsi pubblici eccitanti il malcontento, il disprezzo contro il Governo, e gli scritti o fatti della stessa natura. E la giurisprudenza della Corte di Cassazione spiegala nel processo contro il parroco di Verres, cui s'imputava d'aver rifiutato come padrino l'esattore che avea concorso alla presa di possesso del beni di quel convento, non permette più di dubitare che la disposizione di quest'articolo, appunto perché generale ed assoluta, e perché tende evidentemente a mantenere il rispetto, e l'obbedienza all'autorità delle leggi, obblighi tutti i cittadini senza differenza di classi, di uffici, e di gradi (1).

«Né fa d'uopo, che il fatto o lo scritto, con cui s'infrange il divieto della legge, sieno pubblici come il discorso: e il rifiuto in ispecie di fare un atto del proprio ministero, qualunque siasi, o di ammettere altri all'esercizio di un dritto, o all'adempimento di un dovere, è meritamente consideralo come un fatto, e come infrazione al detto art. del Cod. penale.

«Finalmente l'appello ab abusu viene in sussidio della legge penale per reprimere tutti quegli eccessi e quegli attentali alla sovranità civile. che comunque non siano reato secondo le leggi ordinarie, pure non sono mai da sopportarsi in nessun tempo e da nessun governo.

«Nulla dunque può sfuggire all'azione della giustizia, e si hanno sempre in pronto le armi legali per reprimere ogni aggressione.

«Grave ella è questa condizione di cose, doloroso è il dovere che la medesima impone: ma il Governo né può, nè deve, né vuole venir meno al proprio compito.

(1)

La legge riguarda gli affari civili, e non entra ad obbligare le coscienze, e ciò che deviene da altre leggi puramente spirituali: per cui male applicato è l'articolo della legge; ed è tanto vero che il Ministro parta da dati falsi, per quanto clic la r. orte di cassazione non trovò luogo a procedere contro D. Baldassarre Menzio Parrèco di Verres, e rigettò tre volte (come fu poc'anzi detto) il ricorso del Osco, confermando l'innocenza del parroco...

76 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1856)

È perciò suo intendimento che si proceda energicamente ogni qualvolta ne è offerta l'occasione.

«Appena poi occorre di avvertire che, se è volontà ben decisa del governo, che non si soffrano attacchi di sorta contro le leggi dello Stato e l'autorità del governo, è però del pari intenzione sua che la religione ed i ministri dell'Altare sieno rispettati da chiunque, e che ricevano dalle nostre leggi, e dai nostri magistrali tutta quella protezione (??) che loro è accordala pel libero e tranquillo esercizio del sacro ministero.

«Il Governo riprova il Sacerdote, il quale, trascendendo i limiti della propria missione condanna o censura le leggi. attenta ai diritti del potere, perturba le famiglie, o l'ordine Sociale; ma egli a sua volta non vuole mai che s'invada il campo puramente spirituale e dommatico!

«Quel confine, oltre il quale l'autorità religiosa non può fare un passo senza offendere le leggi, e gl'inviolabili diritti dello Stato, deve egualmente esistere per l'autorità civile in faccia alla Chiesa.

«Le surriferite considerazioni faceva il Guardasigilli ai signori avvocati fiscali generali, invitandoli a dare in proposito le più particolari ed appropriate istruzioni agli avvocati fiscali.

«All'oggetto poi che le autorità amministrative e politiche vengano in sussidio alle autorità giudiziarie, si presero dal Ministero di grazia e giustizia gli opportuni concerti con lo scrivente: e quindi il ministero degli interni credette opportuno di recare a cognizione del signori Intendenti, sindaci ed altri uffiziali di pubblica sicurezza i savi rilievi, come sopra svolti dal Guardasigilli, affinché servano di norma a seconda del casi.

«Pertanto i sig. Intendenti faranno sollecitamente conoscere ai Sindaci ed altri Uffiziali di polizia giudiziaria tali disposizioni con invito di vegliare con tutto lo zelo all'applicazione del principii sovra accennati...

In una parola, che cosa risulta da questa circolare, se non una ma

(1856) AL VIAGGIO DI PIO XII NELLO STATO PONTIFICIO - 77

Bisogna dire, che Rattazzi non avesse scritte sul serio queste parole, poiché esse sole sono bastanti a mostrare l'illegalità della Circolare. Se la legge civile non può né deve entrare nelle cose spirituali, non ha diritto di chiedere clic a forza si violino dal Sacerdote le leggi spirituali e canoniche!

E su tal riguardo dottissima è la lettera di protesta che al Conte di Cavour diresse tutto l'Episcopato di Piemonte e di Savoia. In essa dichiarasi falsa l'assicurazione del Ministro, che il Clero fosse diviso in due partili, non avendo Clero, ed Episcopato che un solo scopo nel procedere uniforme, concorde, e compatto; l'onore della Chiesa. Senza che riportassimo tutti gli argomenti diretti a mostrare l'incoerenza della Circolare De Foresta - Rattazzi, ci limitiamo a trascrivere un sol periodo di quella protesta.

«Con queste accuse e con queste minacce o s'intende obbligare il clero ad esercitare il suo ministero in modo conforme alle leggi canoniche, o si vuole forzarlo ad esercitarlo contro queste leggi, nel caso che la loro applicazione fosse contraria alle intenzioni di qualche Ministro. Or noi possiamo assicurare all'E. V. che nei due casi le minacce sono inutili. Sono inutili nel primo, perché tutto il clero di questa provincia è disposto ad uniformarsi in tutto, e per tutto riverentemente e «fedelmente alle leggi della Chiesa; sarebbero del pari inutili nel secondo i; caso, perché quando il clero vedrà chiaramente le obbligazioni che gl'impongono le leggi Canoniche, l'esteriore violenza, di qualunque genere dessa sia, non l'impedirà punto di adempirle. Non solo il clero deve seguire le leggi canoniche per l'esercizio del suo Ministero, ma inoltre tocca a lui solo e non al potere civile interpetrarle,

78 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1856)

e determinare quando ed in che senso sieno obbligatorie...» Conchiudono con dire «.... ci siamo determinati ad indirizzare questa collettiva protesta... acciocchè il nostro silenzio non fosse creduto debolezza, o come una specie di approvazione...»

Di queste lezioni, non una, ma continue ne diedero i Vescovi al Ministero Subalpino; il quale per aggiugnere l'idea di esautorare la Chiesa, non peritò d'immettersi sin nelle più sacre faccende del ministero Sacerdotale; ma il frutto non colse! La Chiesa sta ferma contro gli uragani; i popoli del Piemonte rimasero sempre cattolici, tuttocchè il Ministero ricorresse a misure vessatorie ed eccezionali. Queste misure extralegali ed inqualificabili sono confessione bastevole a dimostrare, che i popoli non erano con la rivoluzione, né dividevano le arti scellerate e sagrileghe di coloro che in nome della libertà attentavano ai diritti di S. Chiesa, ai diritti delle coscienze, per avvincerle con la catena nefasta del materialismo!

CAPITOLO VI.

Cavour e Ferdinando II - Proposte a Canofari - Risposta di Ferdinando Cavour non credeva all'Unità Italiana - Mazzini e la Giovine Italia Attentati contro Re Carlo Alberto. - I Comitati nel Napolitano Alessandro Nunziante ed Enrico Pianelli - Nunziante ed Agesilao Milano Scoppio delle polveriere e della fregata Carlo 3° - Cavour non ebbe parte in tali fatti - Accuse di Brofferio contro Cavour - Lettera di Mazzini - Congiura di Sapri.

La Francia e l'Inghilterra avean chiaramente fatto noto al Conte di Cavour necessitare la pace in Europa, epperò dover egli dismettere qualsiasi idea bellicosa: e Cavour mostrò d'obbedire, convinto che voler cozzare con l'Austria senza lo speralo appoggio straniero, gli era assolutamente impossibile.

Allora egli immaginò, che un tentativo per indurre il Re di Napoli a far seco lui causa comune, sarebbe stato più che utile; poiché di conseguenza sarebbe scoppiala la rivoluzione nei piccoli Stati Italiani, il cui concorso avrebbe così assicurato.

(1856) AL VIAGGIO DI PIO XII NELLO STATO PONTIFICIO - 79

E l'idea volte mettere in atto. Quasicchè o non ricordasse, o credesse che il Re di Napoli ignorasse le diplomatiche menzogne da lui gratuitamente avventate contro il governo di Ferdinando 2, confidò quel progetto al Generale Alfonso Lamarmora, per stabilire seco lui il modo per tentarne la riuscita. L'occasione, a mostrarsi tenero del Re di Napoli, fu trovata nelle voci che correvano di una propaganda murattista, cui lavorava un tale Ruffoni, che già vantava adepti nelle province meridionali.

Ma il Conte di Cavour ignorava, che la polizia Napoletana era minutamente informata di quanto tramavasi; sapea i nomi, i luoghi di riunione degli ascritti; e ricevea esatte copie delle lettere che spedivausi, e delle decisioni che si prendeano. Il Governo non volte arrestare i colpevoli, non avendo che temere da quel pugno di congiurati senza capi, senz'ordine, senza mezzi. Figuravano in quelle liste nomi che brillarono poi nella rivoluzione del 1860 come unitari ed annessionisti, uomini ambidestri, banderuole giranti ad ogni vento! Cavour in un abboccamento col Comm. Canofari Ministro del Re di Napoli presso la Sardegna, si congratulò immensamente della brillante figura fatta da Ferdinando 2°, il quale profittando delle circostanze avea sciolto a suo profitto un nodo assai intrigato; e lo consigliava a vendicarsi delle Potenze, che aveanto annoiato, riavvicinandosi al Piemonte. Non e il ministro che parta (egli diceva); parlo come individuo privato: Napoli e Piemonte ben uniti darebbero la legge all'Italia (1). Pochi giorni dopo, lo stesso discorso fu tenuto dal Gen. Lamarmora al Canofari, il quale ad entrambi rispose, non esser Napoli, che rifiutava accostarsi al Piemonte; ma il Piemonte che da Napoli si discostava: non essere le Sicilie sede di alcun nemico del Sovrano di Sardegna, né esistervi officine occulte di calunnie sistematiche e di machinazioni atta rivolta contro S. M. Sarda. Cavour comprese il colpo che gli era diretto, e ne dissimulò il valore; anzi fece premure,

(1) Nic. Bianchi loc. cit. pag. 16. Le parole in corsivo sono originali del Dispaccio inviato a Napoli da Canofari.

80 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1856)

perché al Re di Napoli fosse riservatamente partecipala la sua idea. Canofari lo fece, per adempiere al suo officio diplomatico, e ne ebbe questa breve e decisiva risposta; «Il Reale Governo non do«manda avvicinarsi ad alcuna potenza: egli mette ogni studio per stare «bene con lutti, a condizione però che nessuno s'ingerisca negli af«fari della sua interna amministrazione «(1).

Cavour non tenne mai più discorso di tale faccenda, lasciando al tempo sciogliere il problema da lui messo. Si è voluto dagli apologisti del Conte di Cavour dargli celebrità, attribuendo a lui il concetto dell'unità italiana. Questo è un errore. Cavour non vi pensò mai; anzi la tenne come sogno di mente inferma. Egli a tutt'oltranza era nimico dell'Austria, e per quest'odio, detestava gli altri Principi d'Italia, che considerava auspicanti. A Cavour poco. importava, che sul trono di Toscana, e su quel di Napoli regnassero i Napoleoni, i Murat, o altri: a lui premeva togliersi dagli occhi il pruno dell'Austria, ed allargare il Piemonte con la Lombardia e col Veneto. Cavour non credette all'unità italiana, neanche quando Garibaldi fece il tentativo di Sicilia; non la credette dopo il plebiscito, e non una ma le mille volte disse, che accettava il fatto compiuto dell'annessione di Napoli, sebbene fosse convinto, che questo fosse un peso difficile a sostenersi. Cavour non mancava d'ingegno, e con l'esperienza che avea, seppe prevedere a colpo d'occhio gli avvenimenti che doveano svolgersi dopo la sua morte; per cui se tenne bordone alla setta, lo fu per sbarazzarsi dell'Austria e degli alleali di essa.

La rivolta unitaria data la sua vita dal 1832, epoca in cui Mazzini fondò in Marsiglia la setta della Giovine Italia. Di là mossero le trame e le congiure, i regicidii, gli allentati rivoltuosi. Di là Volontari (Lombardo.) e Borel (Francese) fucilati a Torino, convinti rei di tramare insidie contro Cario Alberto Re di Piemonte; di là Antonio Gallenga, che da Mazzini riceveva un pugnale e 1000 franchi per trucidare Cario Alberto. L'accusa gli fu data pubblicamente nel

(1)

Dispaccio 9 Nov. 1856 Archivio Esteri di Napoli.

(1857) AL VIAGGIO DI PIO XII NELLO STATO PONTIFICIO - 81

Parlamento Subalpino nel 10 Gennaio 1857; ed avendo egli confessalo esser vero, dové chiedere le dimissioni da Deputato. È pur doloroso il ricordare, che l'influenza esercitata sugli uomini del Circolo Nazionale da Mazzini avesse suscitata tale opposizione da rompere in aperta violenza contro, quel Re, che per contraria sorte avea sottoscritto l'armistizio Solasco e la pace di Novara. Quell'uomo fatidico possedea la potenza del genio del male. I fratelli Bandiera in - Calabria, Bentivenga in Sicilia, Pisacane a Sapri, Pianori ed Orsini a Parigi, Agesilao Milano a Sapoli furono immolali sull'ara cruenta del fanatismo del profeta di Dio e popolo! (1).

Qual Sovrano, qual Regno potea esser sicuro dal pugnale di Mazzini e dalle rivolture da lui ordite, se fin nelle Reggie, e fra i più fidati amici del Re avea i suoi adepti? Con mezzi siffatti si videro insorgere la Toscana, le Romagne, Modena, e Parma come per incanto nel 1860! Cosi le Due Sicilie alzarono il grido della rivolta, e Garibaldi potette sicuramente da un capo all'altro percorrere con una marcia trionfale un regno di 10 milioni di abitanti senza temere un esercito di 100 mila combattenti, che Cavour volea alleati per scacciare gli Austriaci dall'Italia!

Erano questi soldati diventali vili? le loro armi erano addivenute inoffensive? furon atterrate le cento mila baionette al cospetto del Mille! Lasciamo stare ai poeti le poesie, a Monnier i poemi epici, a Dumas i romanzi!. La Storia ha pagine imperiture e quivi il trionfo di Garibaldi è narralo sì, che non oserebbe egli stesso rispondere a chi gli domandasse, se fu un trionfo e quale! Gli eroi davanti la storia del 1860 non sono che uomini destinali ad invadere un terreno già preparalo dalle sette e dai comitati.

Napoli era minalo dalla setta della Giovane Italia; ma non prima del 1836 potò essa attecchire: poiché allora cominciaronsi ad allenare gli animi alle idee di rivolta, quando il Conte di Cavour suscitò la quistione italiana nel Congresso di Parigi.

(1) Montazio. Vita ili Giuseppe Mazzini pag. 73 e 80.

82 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1857)

In quell'epoca furono introdotti clandestinamente proclami e scritti di Mazzini, il quale, speculato propizio il momento della rivolta, fondu la sua setta, ed immantinenti pubblicò l'appello alla Nazione poggiato sui principii di sovranità Nazionale, suffragio universale, ed insurrezione. I regolamenti spediva Nicola Fabrizi. Centro promotore era Napoli; centri dipendenti Salerno, Potenza, Bari, Lecce, Cosenza, e Chieti -: le altre province furono affiliate tempo dopo. Un Talco di Palagiano incaricato pel Barese; i fratelli Magnolie ed il prete Vincenzo Padula per Salerno; Giacinto Albini per la Basilicata. Capo di tutti Giuseppe Fanelli; segretario Luigi Dragone, e cooperatrice la moglie di lui (1). Di per ogni dove commissari organizzatori, e arruolatori di drappelli, che allistavano adepti, i quali alla parola d'ordine dovean prendere le armi, e suscitare la rivolta.

Nella stessa reggia di Ferdinando 2° la setta requisì gregari tra gli uomini da lui più beneficali! Chi avrebbe creduto un congiurato nel Generale Alessandro Nunziante, in Enrico Pianelli, che il Ile ammetteva alla sua confidenza?

Eppure lo furono!!! Essi non ignorarono il tentativo di regicidio consumato da Agesilao Milano. Lasciamo sul proposito parlare un cronista, che, non di queste province, non potrà essere accusato di partigianismo.

«Arrestato (2) il Milano, e tradotto al quartiere del battaglione per sottostare a Consiglio di guerra, v'accorse tosto col tenente Carlo Bertini, quale Commissario del Re, il Generale Alessandro Nunziante, comandante del cacciatori nell'esercito, Presidente di circolo nella setta degli Unitari, protestando volergli senz'altro testimonio parlare. Al Nunziante chiedentegli il perché del delitto, rispose ghignando: Tu meglio del saperlo, eh!', sul tuo braccio poteva cadere la sorte. Il Nunziante, il quale nelle 111 ore, che corsero tra l'attentato regicidio e il supplizio, meno sette ad otto ore di assenza per

(1) Racioppi La spedizione di Pisacane pag. 12 § III.

(2) Ravvitti - Delle recenti avventure d'Italia v. 1. Cap. X

(1857) AL VIAGGIO DI PIO XII NELLO STATO PONTIFICIO - 83

necessità inevitabile di servizio, stette sempre nel quartiere, dispose che a niuno altro venisse concesso accostarsi al Milano, fatto guardare a vista da due sentinelle, e da un uffiziale di guardia; e qualunque soldato s'allentò saperne qualche cosa, fu incontanente spedito in lontana prigione. Fece che il giudizio seguisse nel quartiere medesimo, ed a presiedere il Consiglio di guerra fosse l'aiutante maggiore Enrico Pianelli, esso pure Unitario!; poi dannato nel capo il colpevole, TANTO SI ADOPERÒ PRESSO IL RE, GIÀ DELIBERATO A COMMUTARGLI LA PENA, che la sentenza fu lasciata correre. Fu osservato in quei dì lo stato d'inquietezza febbrile, in cui era Nunziante; ed il sorriso di mal celata soddisfazione che gli balenò sul viso, allorquando vide fatto cadavere il Milano; ma tenuto pel più fedele, com'era il più beneficato, il credettero effetto d'indegnazione, e di zelo...»

Non scoraggiata la setta all'attentato fallito, ma temendo nuove combinazioni, le quali svelassero la congiura, sin dalla metà di Dicembre facea noto al Comitato centrale di Londra pel mezzo degli affiliati di Genova «i Napolitani esser pronti alla riscossa; seminata con buon frutto l'idea: doversi affrettare il momento; essere impaziente la gioventù di correre ad abbattere l'esecrato tiranno!

I rivoltuosi non lasciarono intentato mezzo alcuno per attuare i loro disegni. La vita di Mazzini è una continua congiura contro l'ordine pubblico, è una perenne mannaia sui Re, sui congiurati - Mazzini è sinonimo di morte e di mina; ed i suoi adepti non smentiscono al loro istitutore.

Quando per essi la rivoluzione è impossibile, soffiano negli animi e li conturbano.

Il periodo dal 1856 al 1860 fu per Napoli, come il muggire cupo della tempesta che si sollevò poi con la morte di Ferdinando!-Scoccava il mezzodì del 11 Dicembre (1856), quando un orribile scoppio fece tremare tutta la città; ed una pioggia di pietre, di monconi e carnaggi umani ingombrarono miseramente le vie.

84 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1857)

La polveriera della Darsena ac

Tre giorni prima tutta la polvere colà depositata era stata trasportata, parte nelle polveriere fuori la città, parte inviata a Capua, ed a Gaeta, non restandone nella Darsena che pochi barilotti per uso della truppa di guarnigione. Pochi giorni di poi scoppiò la polveriera delle capsule nell'armeria Reale, anche poco discosta dalla Reggia, e confinante con i Giardini inglesi: altre morti ebbero a deplorarsi. E nel 4 genn. 1851, sempre presso la Reggia, scoppiò con orribile danno e fracasso la fregata Carlo 3 nel mezzo della notte.

Essa era carica di polveri, pronta a veleggiare per la Sicilia. Vi rimasero morti trentotto individui; si smorzò il gaz che illuminava la città, e in Napoli non rimase vetro che fosse sano!

Questi fatti commossero i Gabinetti esteri, i quali ben scorgeano in opere cosi nefande la mano sterminatrice del settari agitarsi terribile e truculenta!

Alcuni scrittori incolparono il Conte di Cavour di questi vergognosi avvenimenti, fondando l'accusa sui fatti avvenuti posteriormente nel 1860. L'accusa è gratuita. Cavour sapea bene, che gli emigrati rifugiati nel Piemonte ed a Genova cospiravano; ma non solo non permise che si tentassero imprese, le quali compromettessero il gabinetto Sardo, ma quando ne venne informato, preventivamente le distolse anche con la forza. Lo ripetiamo: Cavour non sognò mai l'annessione di Napoli; avvegnacchè sapesse quel regno esser destinato a tutt'altri che al Piemonte. Sapea delle sette colà organate, e ne avea piacere per odio contro i Borboni; ma ignorò e non consentì gli allentali fino al 1851 consumati.

La sua cooperazione cominciò da quando la setta della Giovine Italia, fusasi col Comitato Nazionale di Torino, pensò di mandare Garibaldi in Sicilia;

(1857) AL VIAGGIO DI PIO XII NELLO STATO PONTIFICIO - 85

non perché l'impresa ei tenesse sicura, ma per non mostrarsi avverso ai tentativi che si chiedevano istantemente dalla setta. Dal 1856 fino a quell'epoca, Cavour fu dalla Giovane Italia tenuto come puro conservatore. Documenti officiali confermano questa opinione.

Il Deputato Brofferio in una interpellanza al Presidente del Consiglio del Ministri ce ne offre chiara testimonianza. A niuno certamente è ignoto, Brofferio essere stato uno dei più accaniti caldeggiatori della unità; ond'è che non avrebbe certamente ignorato, se Cavour fosse stato complice di quanto in Napoli erasi perpetrato. Cavour Ministro, nella setta, in una Loggia, non era che semplice cittadino; e Brofferio che n'era gran maestro, o cosa di simile, non sarebbesi contro lui sì virulentemente scagliato, se non fosse stato certo, che il Conte si opponesse a quei tentativi settari, che con fatti condannevoli disonorarono vieppiù la brutta causa. Né può concedersi il dubbio, se tra Brofferio e Cavour quello non fosse stato un giuoco combinato. Il dubbio cade da sè, considerando che se Cavour avesse avuto bisogno di render popolare sé e il Piemonte in faccia all'Italia, non avrebbe certamente permesso, che pubblicamente lo si accusasse. Se ne giudichi dalle parole stesse del Brofferio. (1)

«Insorgeva la Sicilia (dic'egli), prima sempre nel magnanimo arrringo, e i nostri ministri stettero con le mani al petto conserte assistendo al supplizio del valorosi, e guardarono con ciglio asciutto le palle soldatesche rompere il petto del prode Bentivegna! Oh! - se una nave del Piemonte si fosse spedita nelle acque di Messina, per tutelare almeno la vita e le sostanze del nostri concittadini in quella città residenti, come ne aveano diritto, oh! alla vista della nostra bandiera, come e quanto quel generoso popolo si sarebbe i confortato nei pericoli e nelle battaglie!

«Ma la nave non comparve, noi fummo immobili e muti: e quei generosi siciliani furono abbandonati al cannone degli Svizzeri, alla mannaia del Borbone.

«Ma che dico! il Governo era talmente improvvido,

(1)

Atti del Parlam. Seduta del 15 Genn.

86 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1857)

che non sapeva nemmeno le nuove della Sicilia dai suoi Consoli che colà stanziavano; era obbligato anch'cgli, come noi, a raccogliere notizie da lettere private, e dalle corrispondenze dell'emigrazione.

«I nostri consoli che facevano? Perché non informavano incontanente il Ministero di ciò che accadeva? Che facevano i suoi consoli? facean voti per la vittoria del Re di Napoli; ed il console stesso di Messina calava a bordo del Miseno a bevere coi soldati del Borbone alla salute del tiranno: anzi nella sera in cui si facea in Messina una luminaria ordinata dalla polizia per festeggiare la sconfitta dell'insurrezione, e l'incolumità del Borbone, il nostro console era il solo di tutta la diplomazia colà residente a illuminare le finestre del suo palazzo (sensazione).

«A Napoli non vi fu insurrezione, ma furonvi di quelle catastrofi che precedono sempre i grandi commovimenti. Furonvi castelli incendiati, incendiate polveriere, incendiate navi. Vi fu un terribile allentato che scosse per meraviglia l'Europa; e in presenza di tutto questo noi non ci mostrammo né sorpresi né commossi.

«In Piemonte alcuni valorosi emigrati si raccolsero per fare impeto negli Stati Estensi. Il nostro Governo fece sequestrare le loro armi; li fece arrestare alla frontiera, li fece tradurre in carcere, e prima di essere giudicati e assolti, dovettero gemere un anno in dolorosa detenzione.

«La stampa democratica raccoglieva sottoscrizioni per la proposta dei 10 mila fucili, e il Ministero facea proibire lo spaccio di quei Giornali, li poneva sotto sequestro, li poneva sotto correzionale procedimento...»

Son queste parole ben gravi, ed officialmente vere per crederle una mistificazione; sono accuse che avrebbero reso del tutto impopolare il Piemonte, e Cavour, se costui non fosse stato sollecito nel 1859 a prenderle redini della rivolta, ed a padroneggiare la situazione, prestando armi, e denari. Cavour non voleva tentativi, perché li considerava non solo infruttuosi, ma bensì dannevoli;

(1857) AL VIAGGIO DI PIO XII NELLO STATO PONTIFICIO - 87

essendo che avrebbe for

Il Deputato Pallavicino, che, come il Brofferio, facea parte delle sette massoniche, ripetute le stesse accuse, conchiudeva il suo discorso con le parole di Vincenzo Gioberti -: «se il Governo Subalpino dismette il pensiero d'Italia; se si ferma nella via degli avanzamenti; se tituba, trepida, s'inginocchia.... entrerà in disaccordo coi tempi, che traggono irrevocabilmente al trionfo delle nazioni: avvilirà la casa Sarda: screditerà il principato, e lo perderà, se mai accada, che sia messa sul tavoliere la posta fatale e attrattiva della Repubblica...»

La posizione del Conte di Cavour era quindi la più critica e compromissiva: egli trovavasi tra la diplomazia, e il movimento italiano: ligio a quella, avrebbe perduto totalmente il frutto delle sue pratiche; il suo concetto sarebbe andato sperduto; ed il Piemonte sarebbe scaduto dalla popolarità che con tanti stenti avea lucrata fra i rivoltuosi. Al contrario, dichiaratosi per la rivoluzione, l'Austria avrebbe additato il Piemonte come causa prossima della rivoluzione, e la Francia e l'Inghilterra sarebbero state obbligate di far dimostranze anche a controcuore, per serbare intatta la pace di Europa. Ecco perché Cavour si teneva in guardia dal compromettersi; e mentre carezzava i rivoltuoso, e loro tutto prometteva, li esortava ad attendere, ed impediva, quando il poteva, i tentativi di aggressione sugli altri Stati Italiani.

Infatti agl'interpellanti egli rispose! - «

88 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1857)

E Cavour segue a dire: «Noi intendiamo in altro modo la rigenerazione italiana, e ci asteniamo da tutto quello che può tendere ad eccitar simili rivolgimenti... Rispetto a Napoli, egli è con dolore che rispondo all'On. Brofferio. Egli ha ricordati fatti dolorosissimi, scoppio di polveriere e di navi da guerra con perdite di molte vile, e un allentato orrendo. Egli ha parlato in modo da lasciar credere che quei fatti sieno opera del partito italiano: io li ripudio, io li ripudio altamente, e ciò nell'interesse dell'Italia...

A queste pruove, che da se sole bastano a dimostrare, che Cavour non fu complice degli esecrati fatti perpetrati in Napoli, si aggiunge la testimonianza di Giuseppe Mazzini, cui la storia dee prestar fede, come all'uomo, che delle rivolte fu sempre perno, anima, e movente.

«Io non v'accuso, egli scriveva a Cavour, perché non vi cacciate a imprese impossibili; non v'accuso perché non liberate con le armi il paese, v'accuso perché pur sapendo di non potere, o di non volere fare l'Italia, andate millantando che la farete. V'accuso, perché spargete per ogni dove voci di disegni, che non avete in animo u di ridurre in allo, sviando così molti dal seguire partiti più logici e generosi. V'accuso perché congiurando col tiranno... e cedendo Napoli, per quanto è in voi, a un dominio straniero, persistete ad ammantarvi della veste di emancipatore. l'accuso, perché fomentando segretamente odi inutili all'Austria ed al Papa, vi giovale di mezzi che il Piemonte vi dà a impedire di far noi, che soli vogliamo rovesciare l'una e l'altro. V'accuso di aver fatto quanto è in voi per travisare all'estero il nostro problema e persuadere col vostro linguaggio segreto e pubblico, che si tratta per noi di miglioramenti amministrativi e di ordini civili men rei da introdursi nei diversi Stati d'Italia, quando la. prima, la vitale quistione, l'unum necessarium per noi, è l'essere NAZIONE UNA DALL'ALPI AL MARE.

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V'accuso di combattere noi con l'armi sleali della calunnia, mentre in core siete convinto che noi possiamo essere ogni cosa, fuorché colpevoli (!!!), che adoriamo una Santa Idea, che possiamo essere ostinati, non ambiziosi; utopisti, non ingannatori; rivoluzionari, non (??) demagoghi, o sovvertitori pazzi e feroci... Italiano, e millantatore di conti celti emancipatori, voi tradite deliberatamente l'Italia, ripetendo la parte di Lodovico il Moro, chiamando la tirannide straniera al di qua delle Alpi, e dando assenso a un nuovo dominio, e ad una potente influenza...»

Dopo queste si esplicite dichiarazioni di Mazzini, possiamo conchiudere, che Cavour non pensò mai all'unità Italiana; ma che mirava al Lombardo - Veneto, aiutando la Francia ad impossessarsi di Napoli, e forse anche del Regno di Etruria, che sarebbe stato ricomposto dietro una insurrezione che si sarebbe fatta scoppiare.

Mazzini che avea tutto compreso, risolvette porre ogni mezzo per attuare la sua idea a dispetto delle teoriche subdule ed incerte di Cavour: e siccome in Ferdinando 2 Re delle Due Sicilie trovava il più forte ostacolo, che i suoi disegni scompaginava, così fallitigli i tentativi di Bentivegna e di Agesilao Milano, studiavano altro, che (secondo egli stesso diceva) se anche andasse fallato, sarebbe stato olio infuso nella lampada della rivolta.

Il comitato di Napoli avealo assicurato aver tutto pronto per una sommossa; epperò fu deciso, che da Genova partirebbero i capi, ed altri uomini, per la maggior parte esuli napolitani; ed il danaro somministrato avrebbe Mazzini.

Carlo Pisacane fu scelto a condurre il tentativo. Era questi un soldato Napolitano, che esulato nel 1841 dal Regno, militò pria nell'Africa francese; poi in Lombardia e in fine a Roma nel tempo del triumvirato. Là conobbe Mazzini, il quale nel Pisacane ravvisò indole avventata e risoluta, quale bisogna ad un congiurato. Ritiratosi a Genova, dove attendeva a sue cure, aspettando il tempo della riscossa, gli fu riferito, che Giovanni Matina, deportato politico sull'Isola di Ponza, progettasse accontarsi con i 700 condannati che eran seco lui ad espiar la pena e tentare una irruzione sul continente.

90 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1857)

Di costoro pochi erano detenuti per politica, il resto soldati condannati alle galere; ladri, omicidi truffatori, e tagliaborse. E perché tutti insofferenti del ceppi, non era difficile trarne partito.

Fattasene proposta al Mazzini, come ben può immaginarsi, egli accettò immediatamente; ed accompagnò il suo consentimento con una somma di otto mila franchi, che fu inviata al Comitato di Napoli per la compra di armi. Di qui scrivevasi, esser pronti alcuni popolani, Gambardella, Rizzo e Fittipaldi, per mettersi a capo delle masse, e far scoppiare la rivolta. Un carico d'armi era stato già inviato dal Fabrizi, che tenevasi a bordo d'un battello mercantile nelle acque di Pantelleria. Non si attendeva quindi che il segnale per insorgere.

Nel 25 Giugno Pisacane con Nicotera e Battistino Falcone s'imbarcarono a bordo del Cagliari, piroscafo della Società Rubattino; e con essi ventuno giovani. Non entriamo a discettare, se il Comandante del legno fosse complice del fatto o astretto con la forza a muovere verso Ponza; il certo è, che giuntivi dopo trenta ore di viaggio, vi gettarono le ancore. I congiurati erano già discesi nei barchetti, e facean vista di attendere gli uffiziali sanitari, che loro dassero pratica. Arrivali questi, senza dubbio di sorta, i congiurati li obbligarono a salire a bordo, e li detennero in luogo di custodia.

Pisacane e gli altri presero terra dalla parte più recondita dell'isola, e provvisti di buone armi mossero al posto di Guardia. Senza intima di sorta, e mentre i soldati tranquillamente tra loro cianciavano, fecero contra di essi una scarica di fucileria, molti ferendo ed uccidendo; l'uffiziale, così preso alla sprovvista ed oppresso da numero sì imponente, fu disarmato.

Allora i relegati, avuto il segnale, insorsero, e rolli i cancelli delle prigioni corsero ad unirsi ai congiurati, che così si trovarono a capo di più che 800 uomini. La guarnigione dell'isola corse a rinchiudersi nel Forte; ma sventuratamente il Comandante, che accorreva in quel

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Resistere era inutile: i congiurati erano 800, e bene in armi. Era un primo buon passo, ma troppo lontano dal dar loro la probabilità di eventi simiglianti sulla terra ferma.

Trecentoventinove imbarcaronsi prestamente sul Cagliari, attendendo gli altri il ritorno del battello. Veleggiarono e fecer sosta al Golfo di Policastro, rimpetto a Sapri. Sbarcati presso la casina d'un prete Peluso, alzarono il grido convenuto: Italia degl'Italiani. Non rispose, se non l'eco cupa del monti dell'Appennino. Dov'erano i patrioti, che assicuravano essere tutta Napoli pronta ad insorgere a quell'appello?- Gli abitanti di Sapri guardarono con fiero cipiglio i disbarcati, scambiandoli con uomini di malaffare; per cui Pisacane, lenendo essere imprudenza istigare quella genie, sorda al grido di patria, dirizzò i passi a Torraca. Lesse agli accorsi il suo proclama, e quelli avvezzi al lavoro di campagna, o non lo compresero, e gli volsero le spalle per non comprenderio.

Bisognò con ardimento cercare miglior fortuna in città più popolose. Scendendo dagli aspri e brulli burroni del Cilento, si avviarono al Vallo di Diano: pernottarono in un'osteria di campagna, ed il mattino mossero a Padula, dove il comitato avea assicuralo trovarsi gli amici, che li avrebbero guidati per dare il grido dell'alt'anni. Ma nulla trovaronvi di pronto, chè anche i cinque o sei, i quali erano a parte della congiura, amarono meglio di sprezzarsela.

Trasmessa la notizia al Governo, fu spedito a Sala sufficiente nucleo di truppa. Pei congiurati non eravi più via di scampo-: essi eran stati chiusi in mezzo, e bisognava o battersi o arrendersi. Il 1.'Battaglione Cacciatori si avanzò a caricarli; e non zuffa, ma macello successe, chè i congiurati, per quanto si sforzassero ad essere intrepidi, di fronte alla truppa ordinata scoraggiatisi, ruppero le file, cercando scampo fra i dirupi di quei brulli monti; ma anche là attendevali trista fine, avvegnacchè e la Guardia civica, e gli stessi terrazzani, dove trovavanli, ne faceano subitanea giustizia.

Pisacane con circa novanta uomini avea avuta la fortuna di scampare; e non trovando via di salute, si gettò nel Cilento,

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dove sperava trovar amici, che se noi seguissero, almeno gli procurassero scampo colla fuga. Errando tutta notte per quelle asprissime vie, giunsero di buon mattino a Sanza; ove invece di nascondere chi fossero, imprudentemente s'avviarono per entrare nel paese con bandiera tricolore dispiegata.

Datosi l'allarme, accorse la guardia urbana con i pochi gendarmi colà distaccati, e con essi molti del popolo. Pisacane si accinse ad arringare: gridò-viva l'Italia; ma dal truce sguardo di quella gente ben apprese, come non vi fosse speranza di salvezza. Di fatti quei di Sanza, prima con le buone cercarono persuadere Pisacane a retrocedere, e cessare da quel baccano da pazzi; ma quegli resistendo, fu suonata la campana a stormo, e tutti quanti erano del popolo accorsi con scuri, picche, falci, e nodosi bastoni furon loro sopra. La mischia fu breve, terribile, sanguinolenta. Pisacane ed i suoi compagni rimasero vittima del popolo; ventinove soli prigionieri. Fra questi stava un Nicotera, che fu poi deputato al parlamento italiano.

Il Consiglio di Guerra li condannò tutti alla pena di morte, come banditi presi con le armi alle mani. Ferdinando 2.° fece grazia a tutti!!

Mazzini segnò quest'altra pagina delle sue imprese di sangue, ch'egli stimò necessario di consecrare negli annali della sua politica, a protesta, se non a vittoria, dell'idea di cui egli porta bandiera!

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CAPITOLO VII.

Il Discorso dell'Imperatore del Francesi - Arti di Cavour - Alleanza Austro - inglese, e sue conseguenze Politica austriaca - Politica di Cavour! Cavour e Mazzini - Tentativo d'insurrezione a Genova - Condanna di Mazzini - Medaglie commemorative per Pisacane, ed Agesilao Milano - La Francia si arma - Richiamo di Rayueval da Roma II - Duca di Grammont nuovo ambasciatore - Decreto imperiale che annulla alcune disposizioni emanate dal Vescovo di Moulins - Assassinio dell'Arcivescovo di Parigi - Il nuovo Arcivescovo e l'Imperatore - Il Grande Elemosiniere - Istituzione Canonica del Capitolo di S. Dionigi - Diritti giurisdizionali concessigli con Breve Pontificio.

Chi ha potuto menar vanto di aver indagate le latebre del cuore di Luigi Bonaparte? Sul volto dell'uomo le passioni si svelano: ed è a stento, che egli possa celarsi, se segreta cura lo agili; se fosse gioia od amarezza.

Ma sul volto di Bonaparte cercherai invano di leggere ciò che nasconde nell'animo. Sorride, se pensa alla sventura; è cogitabondo, se forse pensa ad un trionfo. È mesto? la sua anima ride! Cospiratore nel 1830: Repubblicano nel 1843; Imperatore del Francesi nel 1852, signoreggiò le cospirazioni, la Repubblica, e l'Impero. Napoleone 1.° per far trionfare una sua idea, dava una battaglia, sacrificava migliaia di vite; Napoleone 3.° se non può vincere, temporeggia; suscita a tempo e luogo quistioni vitali per le altre Nazioni: se ne rende arbitro, e guai a chi lo tocca. La guerra di Oriente, la campagna d'Italia, quella dell'Holstein; i fatti avvenuti nei Principati e nella Polonia; dovunque o vi fu la spada, o la politica della Francia-: e Napoleone, come l'incubo delle Potenze Nordiche, temuto dalla stessa Inghilterra, rese impossibile la coalizione.

La Francia con Napoleone 3° ambiva il primato fra le Nazioni e l'esser arbitra del destini di Europa. Assolutista in Francia, liberale negli altri Stati, i popoli credevano nell'Imperatore, la Francia lo teme ancora. Il Nord lo sa nemico, e dapprima s'infinse, perché se tentò volerne spezzare il freno, trovossi legato da misteriosa catena; se si sforzò a romperla, si riconobbe impotente.

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Da quel momento la politica di

Il 1857, per la politica, fu l'epoca più trista e ottenebrata del Secolo XIX. L'Austria, forte dell'appoggio dell'Inghilterra, minacciava il Piemonte rivoluzionario, e le parea avere per sé il concorso della Francia; la Prussia, sempre anela di nuovo ingrandimento, avea dovuto dismettere il suo aspetto bellicoso contro la Confederazione Elvetica per gli amichevoli consigli di Bonaparte: e il Conte di Cavour con la mente pregna di progetti di conquiste, nicchiavasi nel Parlamento di Torino battagliando contro Brofferio e Mazzini, per attendere il momento, in cui il Sire di Francia, come voce del destino, gli avesse detto -: alzati, e seguimi!

Di grande aspettazione era il discorso che l'Imperatore dovea tenere all'apertura del Corpo legislativo di Francia. La Russia temeva, che si parlasse della gloria delle armi francesi in Oriente; l'Inghilterra si attendeva a nuovi trattati commerciali, che la ferissero nei suoi interessi; la Prussia sperava una lode al suo, valor guerriero: la Svizzera sognava la difesa del suoi diritti; l'Austria un voto di reprobazione ai rivoltuosi del Piemonte; ed il Piemonte una parola di speranza, di guerra, di vittoria, di risorgimento... -una parola di disapprovazione alla politica reazionaria del Principi Italiani!

L'aspettazione restò delusa. Napoleone disse: - «Ora che regna la migliore intelligenza tra tutte le grandi Potenze, dobbiamo attendere sul serio a regolare e a promuovere nell'interno del paese le forze e le ricchezze nazionali; dobbiamo lottar contro i mali, da cui non va esente una Società che si avanza...» Parlò della riduzione dell'esercito, della diminuzione del bilanci della guerra e della marina; e facendo menzione delle inondazioni, che in quell'anno aveano afflitto

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vari dipartimenti della Francia, soggiunse queste, che son memorabili parole: ... «Tutto mi fa sperare, che la scienza dominerà la natura; e stimo debito dell'onor mio, che in Francia i fiumi, al pari della rivoluzione, rientrino nel loro letto, né possano più uscirne...!»

In somma tutti furono contenti del discorso: la Russia vide in quel silenzio un tratto di squisita cortesia: l'Austria e la Prussia un'approvazione alla loro politica: - il solo Piemonte s'intese ferito nel cuore, perché comprese, lui essere il fiume, che avrebbe dovuto rientrare nell'alveo dell'ordine.

La rivoluzione intanto fremeva a tanta minaccia, che traspariva dalle parole imperiali; Mazzini teneva colloqui con Antonio Bisso, Filippo de Boni, ed altri per sollevare Genova; affilava pugnali, e fabbricava bombe con Orsini e Pieri per allentare alla vita dell'Imperatore del Francesi.

Il Conte di Cavour trovavasi in una posizione difficile si, ma non disperata. Egli. spiegò una politica di aspettazione, ed atteggiatosi a martire, non tralasciava di tanto in tanto solleticare l'Imperatore con l'idea di rivindicare alla Francia la supremazia sull'Italia, e fargli balenare la speranza di un arrotondamento di confini per la Francia.

L'alleanza Franco - Russa, che Napoleone estraneamente al Congresso avea negoziata, avea messa in sospetto l'Inghilterra che vedea il suo allealo passare nelle file del nemico, e stringerglisi con amichevoli palli. Perciò temendone i tristi disegni, stese la mano all'Austria, pel bisogno di avere con sé una potenza continentale. Da ciò l'immediato cambiamento di politica nel gabinetto di Saint - James a riguardo dell'Italia, e le svanite speranze date a Cavour da Lord Clarendon. Il Piemonte vide contro sé schierale l'Austria e l'Inghilterra fargli argine ai progetti d'ingrandimento. Lo stesso Clarendon, che nel Congresso di Parigi avea fatto eco alle durissime accuse scagliate da Cavour contro Ferdinando 2.° diede assicurazioni al Ministro di Napoli a Londra, che il Gabinetto inglese, stretto in alleanza con l'Austria, non ammetteva cambiamento di Dinastia nelle Due Sicilie;

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sconfessando l'idea della rivoluzione italiana, e rinunziando ad ogni ambizione sulla Sicilia.

D'altra parte, l'Austria, che vide esserle d'uopo togliere ogni occasione di rivoltura nel Lombardo Veneto, volte mettersi sulla linea di politica moderata liberale, ed in tal senso mandò istruzioni ai rappresentanti del gabinetto di Vienna a Roma ed a Napoli. A siffatte riforme essa appigliavasi, diffidando dell'ottimismo neutrale che ostentava l'Imperatore del Francesi.

Fu allora che inviò nel Lombardo - Veneto l'Arciduca Massimiliano, quasi accennando di a cordare a quello Stato un'autonomia tutta propria: decretò l'amnistia per i fuorusciti politici, e fece loro restituire i beni sequestrati dal Fisco. Tutto ciò fu un controcolpo al gabinetto di Torino; e Cavour che lo avvertì, volte rispondere dando alla sua politica un carattere di estrema moderazione; anzi, a dimostrare come avversasse le idee della rivoluzione, si pose realmente a perseguitare i Mazziniani, che gli erano pericolo permanente sì per la pace interna del Regno, che per una compromissione all'estero.

Tal cambiamento di politica soddisfece la diplomazia di Londra e di Parigi; là si credette il Piemonte aver paura dell'alleanza austro - angla; non così a Parigi, dove non s'illudevano di questa sosta. Non pertanto l'Imperatore sembrò contento, come di una misura - di prudenza, che plagiava le sue vedute. Però, se il Conte di Cavour constatava esternamente quella condotta, non tralasciava mai quei mezzi occulti, che le sette politiche possono offrire a tener desto il malcontento; e ciò non solo pel fine di assicurarsi il concorso delle popolazioni nel momento della insurrezione, ma per spingere agli estremi l'Austria, e forzarla a romper guerra.,

In tal caso il Piemonte, facendosi diritto di protestare contro l'aggressione, metteva la Francia nella necessità assoluta di accorrere, ed attuare il piano preconcetto.

A preparare la rivolta, Cavour servivasi dell'opera degli emigrati che

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e Cavour col suo braccio operò che in tutta Italia si organizzassero simiglianti Comitati, composti da uomini prudenti e moderati, per tener sempre viva la propaganda di futuro risorgimento, d'indipendenza e di libertà: certo, che questo mezzo fosse più sicuro a conseguire il fine di trabalzar dai troni i Sovrani, anziché esporlo giovani animosi ad affrontare pazzamente le armi regolari, e morire senza profitto Per questo egli detestò le trame di Mazzini, il quale imprudentemente accelerando gli avvenimenti con moti incomposti e sconsigliati, poteva far abortire i suoi progetti: e se tollerava, che si spargessero proclami, e si fondassero loggie, lo fu per avere un più valido appoggio nei momenti supremi e per tenere a se legato anche il partito democratico.

Mazzini, che per altro non era uomo da uccellarsi facilmente, ogni mezzo adoperava per osteggiare la politica di Cavour; e continuamente ora in un modo, or in un altro, cercava esautorarlo di fronte alla rivoluzione, e mostrarlo, qual era veramente, ambizioso, senza coraggio, ligio alla Francia, nemico della unità Italiana. Proclamava perciò la necessità di isolare il così detto partito piemontese, che poi fu detto dei consorti, e riunir le forze per stabilire la Repubblica, unico mezzo per fare l'Italia una, indipendente, e libera (1).

Genova fu il punto di ritrovo del Mazziniani. Là doveasi abbattere la bandiera di Savoia e proclamarsi la Repubblica. Chiunque rifletta alle opere di rivolta imprese da Mazzini, non può formarsi di lui quel concetto di grande, che gli si vuole a forza annestare. Tutti i suoi tentativi abbacarono di zeri: e rilutta al più comune buon senso quella sua ostinazione in ritentare le stesse prove e sempre senza probabilità di successo. Bentivegna in. Sicilia, Pisacane al Cilento, per non dir di altri, non gli erano sufficienti disinganni per ricordargli che un pugno d'uomini illusi non sia che fuoco fatuo innanzi alla vampa della fede d'un popolo?

(1) Per miglior autenticità di ciò che narriamo, ci siamo servili delle Requisitorie fiscali fatte pel giudizio contro Mazzini dall'Avv. Galleani.

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Qual trionfo potea sperare Mazzini a Genova, tuttocchè sostenuto dagli articoli dell'Italia del Popolo, e rafforzato dalle Società degli operai e del Tiro Nazionale? Erano con lui il Piemonte, l'esercito, e Lamarmora? In questo caso Mazzini sarebbe stato un Garibaldi; al Piemonte sarebbe toccata la sorte delle due Sicilie nel 1860. Ma i Generali e l'esercito piemontese, onorevoli per la loro devozione al Sovrano, seppero sostenere l'onore della bandiera e il trono del loro Re! Il soldato piemontese ha il diritto di alzar la fronte dinanzi a Nunziante, a Pianelli, a Lanza, a Landi, a Flores, a Briganti, a Ghio, a Garzia, a Jauch, a De Benedictis, a Locascio, tutti Generali dell'Esercito e Comandanti le fortezze Napolitano; poiché quel soldato può dire, come Io dissero Lamarmora, Cialdini, ed altri uomini; - son tipo di onore militare! - Il soldato ha la sua politica nella bandiera che serve-: se non gli garba, si dimette; non tradisce. Dimesso, ha diritto di abbracciar la causa che gli piace; sotto le armi, la storia lo chiama traditore.

Torniamo al racconto. Mazzini, tuttocchè fosse certo della fedeltà esemplare delle truppe piemontesi, volte avventurare una delle sue solite idee. Genova fu il campo d'azione!

Nel 29 Giugno il Governo, messo a notizia del movimento insurrezionale, ordinò alle truppe di tenersi sotto le armi, stantecchè assembramenti minacciosi avvenivano nel Sestiere di Pre, alla salita della Zecca, e nella contrada di Vallechiara. Nella notte, gl'insorgenti ruppero il filo della telegrafia elettrica di Torino, e tentarono d'invadere il Forte Sperone, dopo essersi impossessati di quello del Diamante, uccidendo a tradimento il sergente, che ne comandava il picchetto di guardia. In un attimo il Governo arrestò quante persone armate trovò vaganti nella città. Armi e munizioni da guerra furono sequestrate in tre magazzini a strada Vallechiara; altri simiglianti sequestri furono eseguiti in abitazioni di persone indiziate, come sospette, e in Genova e nelle

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Dalle carie perquisite, Giuseppe Mazzini risultò aurore del tentativo; tutti i mazziniani i complici. L'eccitamento alla rivolta era stato già pubblicato nei supplementi al Giornale d'Italia del Popolo con articoli intitolati La situazione. Le lettere perquisite ad Antonio Bisso furono chiara pruova, che Mazzini era il motore della rivolta, e che Filippo de Boni (così interpetravasi dalle iniziali) fosse il corrispondente incaricato a coltivare il popolare elemento creduto il più atto per riuscire vittorioso.

Tra le lettere, carte, e proclami sequestrati eravi il seguente, che merita notevole attenzione.

CORAGGIO.

Le prime case e famiglie, che dovete saccheggiare nella strada Prè, sarà la famiglia Peragallo, essendo i più ricchi proprietari, spie, e crudeli nemici detta libertà.

SACCHEGGIO, È FUOCO.

CORAGGIO.

Mazzini fu condannato a morte in contumacia. Né egli lamentossene, o volle dichiararsi innocente di quel fatto; anzi se ne vantò organizzatore. Di vero quando nel Piemonte si coniarono medaglie commemorative in onore di Agesilao Milano, e di Carlo Pisacane, salutali eroi e campioni della Indipendenza Italica, Mazzini dolente che non fusse anche a lui dato simile tributo di onore per il tentativo Repubblicano fatto a Genova, pubblicò sull'Italia del Popolo queste parole:

«I partitanti della Monarchia Piemontese, mentre vanno gridando in coro contro i promotori del moto dì Genova, dicendoli insensati e mossi da scellerato spirito di assassinio. saccheggio, e sterminio, e non pensano, o dissimulano che costoro debbono essere pure i promotori della spedizione di Napoli, per la quale essi fanno tanti elogi esaltando al grado di eroi i generosi, che l'hanno intrapresa, e dicendoli puri di ogni macchia. La spedizione di Napoli ed i moti di Genova e di Livorno non sembrano che parti diverse di un medesimo partito, dei medesimi capi, con i medesimi principii, con lo stesso programma e la stessa bandiera.

100 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1857)

Com'è adunque, che quei del Cagliari siano generosi, eroi, e quei di Genova insensati, ladri, assassini, incendiari e scelleratissimi fino a destare orrore a questi signori??» In ciò Mazzini era logico; ma non così opinava il Conte di Cavour, che quei moti insurrezionali voleva soltanto in casa altrui, e li lodava, qualunque fosse la setta da cui erano perpetrati; per la qual cosa fece condannare a morte i rivoltuosi di Genova, come nimici della tranquillità pubblica!

Laonde a Milano, ed a Pisacane una medaglia; ed a Mazzini una condanna di morte. Buon per Mazzini, che seppe sbiettare in Inghilterra; chè se fosse inciampalo nelle mani di Cavour, di Rattazzi. o di Lamarmora allora ministri, avrebbe sperimentato col filo della mannaia i principii liberali che lo aspettavano nel Piemonte.

Di fronte a tanti avvenimenti, che annunziavano, come da un momento all'altro l'Italia avrebbe potuto rompere a ribellione, Napoleone vide, che sarebbe stato forzato a scendere in campo: perlochè, mentre si studiava a mostrar ciera pacifica, ed a consigliare prudenza per non involgere l'Europa in una guerra sanguinosa, dall'altra parte segretamente ponea la Francia sul piede di guerra, senza che alcuno trapelasse la sua idea. L'incubo di Napoleone era il Papato, potenza che temeva più della Russia, e di tutte le armate dell'Europa coalizzata. Bisognava raggiungere il fine di secolarizzare gli Stati del Papa, senza urtare le giuste suscettibilità del clero. Il compito era difficilissimo, ma a lui non mancarono i mezzi per attuarlo; avvegnacchè di sfuggite diplomatiche fosse maestro.

Il Conte di Rayneval si era mostrato troppo apertamente affezionato al Trono Pontificio con la risposta data a Walewski: e tuttocchè Napoleone sapesse nulla aver quegli asserito di falso o di esageralo, pure era sempre un errore in politica il dichiararsi senza riserbo e senza una via di scampo per una opportuna occasione di ritirala. La presenza di

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A tale scopo richiamò il Rayneval, che fu supplito dal Duca di Grammont, allora accreditato in Sardegna come inviato straordinario plenipotenziario. Grammont riuniva due caratteri; religioso e liberale moderato: era perciò l'uomo, che in quelle contingenze rispondeva alle vedute dell'Imperatore. Religioso, sarebbe stato accolto alla Corte Romana, mentre la missione tenuta in Sardegna, accennando a simpatie verso l'Italia, teneva deste le speranze della setta! La scelta fu avvedutissima, e del Grammont tesseano lodi i giornali dell'uno e dell'altro partilo.

Questo fu il primo passo alla guerra, che più tardi dovea diventare esiziale per la S. Sede. Conferma di questa idea fu un secondo fatto. L'Imperatore, volendo dimostrare alla nazione, che sebbene cattolico ed amico della S. Sede, non avrebbe transatto con ciò che la legge civile chiama suoi diritti, andò studiando occasione per dichiarare all'Episcopato non aver dimenticato ciò che disse Napoleone 1°; cioè, che se il Papa era Re, egli era Imperatore! L'occasione non potea mancare.

Il ministro dell'istruzione pubblica e del culli presentò in Consiglio di stato un rapporto sugli abusi commessi da Monsign. Dreux - Brezè, Vescovo di Moulins, nell'esercizio della giurisdizione episcopale.

I carichi eran tre - 1. l'aver imposto ai parrochi di firmare la rinunzia al diritto di ricorrere all'autorità civile nel caso che il Vescovo per ragioni gravi e canoniche giudicasse bene rivocarli, o trastocarli di una in altra parecchia -2. l'aver fulminala la scomunica ipso facto incurrenda contro coloro, che invocassero l'aiuto secolare in quanto concerne la giurisdizione, gli Statuii, gli ordinamenti e regolamenti ecclesiastici in materia di benefizi, titoli, dottrina e disciplina. - 3. Essersi stabilita la costituzione del Capitolo della

(1)

Le parole in corsivo sono testuali del Decreto Imperiale 6 Marzo 1857.

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L'Imperatore dichiarò abusive quelle episcopali disposizioni, e decretò che fossero soppresse, e tenute come nulle e, non avvenute.

Questo decreto facea risorgere le dichiarazioni Gallicane del 1682, che tanti dissensi ingenerarono tra la S. Sede e l'Episcopato francese. Iddio per altro non permise, che tal fine si conseguisse: ed al contrario non fuvvi mai Pontefice, che come Pio IX avesse veduto a sé stringersi con una volontà sola tulio l'Episcopato mondiate.

I Vescovi di Francia non stimarono opportuno il suscitare un incendio in quel tempo così pericoloso per Roma, ben sapendo Napoleone 3° non essere uomo da indietreggiare; non pertanto, estragiudizialmente fecergli giungere i loro piati, che egli mostrò prender sul serio, senza però torre una linea sola dal suo Decreto.

Ma un tristo avvenimento, poco di poi avvenuto, gli fece comprendere, che l'aver menomalo il rispetto pei chierici si facesse causa di tristissime conseguenze.

Monsignor Domenico Augusto Sibour, Arcivescovo di Parigi, uomo d'integerrimi costumi, e specchiatissimo per scienza e carità immensa, fu proditoriamente pugnalalo. Ecco l'avvenimento. Dopo aver egli uffìziato nella Chiesa di S. Stefano del Monte per l'apertura della novena di S. Genoveffa, il cui culto in Francia è estesissimo, rientrando ancor vestilo degli abili Pontificali in sacristia con la processione di rito, un prete a nome Verger, che trovavasi sospeso dall'amministrazione del Sacramenti, e neanche per ordine dell'Arcivescovo. fattoglisi incontro gli vibrò tal colpo, che trapassandogli il cuore lo rese cadavere sull'istante. Questo infame e sciagurato parricida era stato sempre soccorso largamente dalla pietà paterna del Venerando Prelato, che lo sovveniva di quanto abbisognavagli a sostentamento della vita.

Arrestato dal popolo circostante, e consegnalo alla giustizia, fu condannato alla pena del capo. Per ben due giorni resisté alle esortazioni della religione; ma allorquando il carnefice fecegli la fatale toilette, cadde genuflesso ai piedi del Sacerdote.

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Al cospetto di tutti pianse, e a tutti chiese venia per lo scandalo che - avea dato nella Chiesa di Cristo, e morì baciando la Croce del Dio che perdèna.

Nel Concistoro del 19 marzo il Santo Padre preconizzò ad Arcivescovo di Parigi l'Emin. Cardinale Moriot. Il novello Prelato, ricevuta la consecrazione, recossi a dare il giuramento nelle mani dell'Imperatore. Terminala la cerimonia, Napoleone 3. al cospetto di tutta la Corte inginocchiandosi dinanzi al novello Pastore, ne implorò, come a primo figlio della Francia, la pastorale benedizione! Tutta la Corte ne fu commossa! e la stampa francese, dopo la narrazione enfaticamente fattane dal Moniteur, si diede ad indiare il cattolicismo dell'Imperatore.

Per noi, che seguiamo dappresso gli atti del Bonaparte, quella scena non è altro, che una politica di amalgama per temperare nell'Episcopato la triste impressione fatta dal Decreto del 6 marzo.

Egli volea, che il popolo francese nulla avesse a ridirgli al lato cattolico; e quando uno del più caldi liberali di sua confidenza gli addimandò, come mai conciliavasi tanta sommissione alla S. Sede, con quei sintomi politici che pronunziavano una tempesta contro di essa, rispose francamente - «Venero il Vicario di Cristo in terra; ma se dovessi batterio, non moverci certamente contro lui, ma contro il Re di Roma».

Seguendo questa linea di politica obliqua, e volendo ripristinare la carica di grande Elemosiniere della casa imperiale, secondo l'uso degli antichi Re di Francia, scrisse al Pontefice, pregandolo di spedire la canonica istituzione per l'Arcivescovo Card. Moriot, che nominava a tal posto. E il Papa in risposta gli spedì il Breve, particolareggiandone i diritti ed i doveri, intitolandolo al «Carissimo figliuolo in G. Cristo Luigi Napoleone 3. Imperatore del Francesi...»

Nel contempo il Papa gli diresse altro Breve, approvando che nella Chiesa di S. Dionigi venisse installato un Capitolo con due ordini di Canonici; il primo composto da i Vescovi senza Diocesi:

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ed il 3. di semplici Canonici retti entrambi da un Primicerio, che di diritto sarebbe stato l'Elemosiniere Imperiale. La nomina del Canonici concedevasi all'Imperatore, come a Patrono, riserbandosi alla S. Sede l'istituzione Canonica del Vescovi chiamali a far parte del Capitolo: il quale insieme alla Chiesa era posto sotto l'immediata protezione della S. Sede facendolo così immune da ogni altra giurisdizione. Secondo i desideri espressi dall'Imperatore, il Pontefice estese la giurisdizione del Primiceriò" di S. Dionigi non solo sulle Imperiali case di educazione di Ecouen, e di S. Germain en Laye, dove le giovani figlie del cavalieri della Legione d'onore sono educate ed istruite nella religione Cattolica, ma anche, su tutte le altre case di simigliate istituzione, e sull'Imp. Ricovero del ciechi e delle loro famiglie, dello Quinzevingts.

L'Episcopato, l'Aristocrazia, e la Francia salutarono con gioia il Cattolicismo dell'Imperatore: e l'Imperatore rese pubbliche grazie al Signore, perché tutti lo credevano zelante cattolico!

CAPITOLO VIII.

L'Episcopato francese o Napoleone La religione in Spagna Discorsi della Regina - La Chiesa nella Svizzera Concordati cel Baden, e cel Wurtcmberg - Una medaglia a Cavour - L'Armonia, e il sedicente indirizzo - Carlo Poerio giudicato dalla Storia - Viaggio di Pio IX negli Stati Pontifici Missione del Boncompagni Il Papa a Firenze - Largizioni del Papa nei suoi Stati Ritorno del Papa a Roma - Allocuzione Cum primum - Pubblicazione del Giubileo - Il monumento a Piazza di Spagna in Roma.

«Noi ci siamo serrali (scrive un pubblicista) come falange decisa a morire, piuttosto che a cedere, intorno al vessillo Santissimo della Croce di Cristo, e resistiamo ai nemici della Chiesa, che hanno per essi la forza e la violenza... (1)» Belle ed energiche parole che noi adattiamo a tutto l'Episcopato Cattolico, che di fronte ad guerra strana, sacrilega, inesorabile, si è mostrato tanto più forte, per quanto più terribile è cresciuta la persecuzione.

(1) Cognetti - Giampaolo loc. ciI. Lett. 21 pag. 161.

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L'avere varii Vescovi francesi stabilito di introdurre nelle loro diocesi la liturgia Romana, come altrove dicemmo, mostrava chiaramente, che si rinunciasse al dualismo della Chiesa Gallicana; e questo non potea in tutto convenire all'Imperatore, il quale in quel dualismo avea sempre un addentellato, cui appoggiarsi, quando bisognasse far violenza politica alla S. Sede. Vederla sparire così unanimamente era indizio che l'episcopato francese si attestava strettamente al Papato, formando il vero corpo mistico, di cui il Pontefice è capo.

L'Episcopato Francese menò molto meno rumore di qualunque altro, ma operò degnamente, e si fè saldissimo appoggio della Cattedra di S. Pietro. Esso ben era convinto di aver a lottare con un uomo di altissima politica, qual'è l'Imperatore, ed al quale era imprudente una opposizione violenta. Chi ignora i suoi assiomi - giacché per lui non vi son problemi? «Opina, che debba esistere, debba esser riconosciuto da tutta Europa, e quel che più monta, debba essere eseguito... tutto quanto egli propone. I principii cattolici dell'Imperadore... sono eminentemente pruovati nella guerra fatta al Sillabo ed all'Enciclica degli 8 Dicembre partita da Roma: sono evidenti nella protezione accordata agli About, ai Rénan, ai Cayla ed a tanti Apostoli dell'Ateismo: sono autentici nella costante e preconcetta persecuzione governativa e rivoluzionaria, che in Italia si perpetra contro il Culto Cattolico, contro i suoi ministri, contro i beni della Chiesa, contro le corporazioni religiose universalmente... (1).»

I Vescovi francesi non tardarono ad avvertirsi, che la religione possa dai Principi tenersi come maschera di politica: epperò si strinsero tra loro, e con gli scritti, e con gli ordinamenti interni del loro cleri opposero uno scoglio, una muraglia di bronzo, che i diritti della Chiesa tenesse saldi e difesi.

A tal uopo il Cardinale Mattieu, Arcivescovo di Besanzone, con una lettera pastorale diretta al suo clero (29 Gen. 1857) esponeva l'opera di lui per ristabilire nella sua diocesi la liturgia Romana,

(1) Cognetti Giampaolo loc. cit. Lett. 21 pag. 160.

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dietro accordi fatti con la S. Sede, in seguito di una deliberazione della Congregazione del Sacri Riti. Lo stesso fece poco di poi (8 febb.) Monsignor Monjaud Vescovo di Nancy e di Toul. Il Concilio tenuto a Reims, presieduto dal Chiarissimo Cardinale Gousset, assistito da tutti i suoi suffraganei Vescovi di Beauvais, di Soissons, d'Amiens, e da Mons. Barra Vescovo di Medeah (in partibus) rappresentante del Vescovo di Chalons, fu altra pruova indubitata, come la Chiesa di Francia sempre più sfidasse l'arroganza delle sette acattoliche, sostenendo i diritti del Pontificato Romano tanto battagliato dalla filosofia del materialismo, e dai seguaci della libera ragione di moda Italo - Franca.

Nel 1857 Parigi vide tre grandi funerali; uno per l'Abbate James Direttore dell'Opera della Santa Infanzia, uomo che per l'immensa carità, dopo Vincenzo de Paoli, non ebbe l'eguale; il secondo pel Generale Cavaignac, il fiero Repubblicano; e F ultimo per la Signora de Swetehine, donna illustre, e per pietà e per ingegno. Essa era protestante convertita al Cattolicismo; Giuseppe De Maistre la tenne in grande onoranza per principii cattolico - religiosi; e De Falloux ne scrisse la vita raccogliendo i pensieri della illustre defunta.

Nella Spagna, con la pace del regno, la Religione sotto il protettorato e l'impulso della Regina riprendeva tutto il maggior lustro. Nell'apertura delle Cortes la Sovrana, parlando degli affari religiosi, così si espresse:

«La mia contentezza non fu mai così grande, come oggi che mi trovo in mezzo a voi dopo le turbolenze, onde fu agitato e commosso il mio regno; ma confido nella Divina Provvidenza, che la mia contentezza sarà ancora più grande, quando con la vostra cooperazione, e mercé degli sforzi vostri vedrem cancellata da tutti i cuori la memoria di quei tristi avvenimenti, cosi come è cancellata dal mio...

«Colla più grande consolazione vi annunzio, che le nostre relazioni i con la S. Sede sono ristabilite.

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Essendosi appianale le difficoltà, che s'opponevano a così desideralo evento, io ho mandato a Roma un ambasciatore, il quale deve in mio nome ristringere i sacri vincoli che uniscono la Monarchia Spagnuola al Padre comune del fedeli...

«Il Concordato conchiuso con la S. Sede venne ristabilito in tutta la sua forza e vigore, secondochè richiedevano la Reale mia parola, e la mia coscienza; e vennero inoltre adottale altre disposizioni nel fine di rendere alla Chiesa la libertà che si ebbe dal suo Divino Fondatore, e che in ogni tempo fu tanto rispettata dal religioso popolo Spagnuolo, e dai miei gloriosi antenati»

E conformemente a quando ella avea promesso, la Chiesa veramente fu reintegrala in tutti i suoi diritti; libero l'Episcopato nella sua giurisdizione spirituale; restituiti i beni alla Chiesa; ripristinali vari ordini religiosi; rivivuta la pace. la tranquillità, la morale, e l'obbedienza alle leggi, che sono sempre i frutti, i quali scaturiscono da un popolo educato alla severità religiosa del cattolicismo,

Nella Svizzera, se non cessava mai l'odio delle sette protestanti, e degli evangelici cosi detti, pure vi fu qualche momento di sosta per la libertà religiosa: e di essa approfittando l'Episcopato, non tralasciò di spandere la santa dottrina del cattolicismo, che di giorno in giorno crebbe in potenza e in conversioni.

A Ginevra fu con grande apparato e concorso di fedeli fatta la dedicazione di una magnifica Chiesa col titolo della Gran Madre di Dio, e non ebbe a deplorarsi inconveniente alcuno; che anzi il Governo, volendo rispettata la libertà individuale religiosa, mandò un numero di gendarmi a vegliare, affinché i protestanti non disturbassero i cattolici nella loro festività.

La Chiesa riprendeva il suo lustro, e la guerra che avea sostenuta, opponendo alla persecuzione ed alle stoltezze di partito la carità e l'affetto, furono armi che invilirono, e sbaragliarono il nemico.

Nel Gran Ducato di Baden. dove il Calvinismo si era valuto della

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quelli della Chiesa.

Così pure altro Concordato conchiuse Pio IX col Wurtemberg; e ricordevoli ne sono gli articoli, pei quali la libertà del Cattolicismo fu dichiarata in quel reame. Senza che tutti li riportassimo. che conforme agli altri Concordali salvano i diritti della Chiesa e dello Stato, è notevole segnare quelli che riguardano il regime della Chiesa.

Art. 4. Per riguardo al regime delle Diocesi, il Vescovo eserciterà il suo libero diritto intorno a tutto ciò che è annesso al suo ministero principalmente:

a) Conferire ogni sorta di beneficio, eccetto quelli che sono provati essere di gius patronato;

b) Eleggere, nominare, e confermare il suo Vicario Generale, i consiglieri straordinari del Vescovado, gli Assessori, e i decani rurali.

e) Prescrivere, ordinare, e presiedere gli esami sia del giovani da ammettersi nei Seminali, sia di coloro, a cui si debbano conferire beneficii, ed a cui vada annessa cura d'anime.

d) Conferire gli ordini sacri non solo ai chierici, che hanno titoli di sacro patrimonio secondo i sacri canoni; ma anche ad altri a titolo che il Vescovo potrà assegnare dalle rendite della mensa

f) Convocare e celebrare i Sinodi Diocesani; e poter recarsi ai Concili provinciali.

g) Aver diritto d'istituire nelle proprie Diocesi Ordini o Congregazioni religiose di ambo i sessi, che siano approvale dalla S. Sede, datane però in qualunque caso parte al Regio Governo.

Fu riconosciuto il dritto di giudicare nelle cause ecclesiastiche, che riguardassero la fede, i sacramenti, le sacre funzioni, e le cause ma

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La libertà di comunicare con la S. Sede nelle faccende spirituali elargite.

L'istruzione religiosa sì pubblica che privata della gioventù accordata insieme alla facoltà di erigere seminari, ricevere, o no alunni, ed avere relazioni sulla loro condotta dai superiori locali.

E fra i molti altri articoli leggesi eziandio quello relativo al diritto di comminare le censure sui laici trasgreditori delle leggi ecclesiastiche. Questo è importante, non perché la Chiesa non ne avesse diritto assoluto e indipendente dalla potestà civile, ma perché è il più contestato dalle sette odierne.

Né meno importanti sono i Decreti pubblicati nel Giornale Ufficiale delle Due Sicilie, coi quali si completava il Concordato del 1818 stabilito tra la S. Sede e Re Ferdinando I. Nei primi due è dichiarato non esservi bisogno dell'autorizzazione regia per l'accettazione di legati, o testamenti a favore delle chiese, corporazioni religiose ecc.; un altro Decreto in 18 articoli stabilisce il modo da tenersi per le vendite e compre di beni fatte da istituti ecclesiastici. Il quarto riguarda la libertà data ai Vescovi di riunirsi in Concili provinciali; il 5.° doversi costringere con vie legali coloro, che non adempiono agli obblighi loro imposti da legali per messe, feste, anniversari, somministrazioni di olio, e cera ecc. ecc.; il 6. dà ai Vescovi il diritto di reclamare l'aiuto della potestà civile per astringere le parti condannate nelle corti ecclesiastiche ad eseguirne il verdetto; col 7 è abolita la pena stabilita all'Art. 243 del Cod. Pen. contro i Curali ecc. che avessero contravvenuto all'Art. 81 Leggi Civili, riguardo ai matrimoni. L'8. finalmente stabilisce la censura ecclesiastica sulla stampa-Oltre a questi, furono emanati diversi Rescritti sulla cautela, e moderazione da usarsi negli arresti di persone chiesastiche; il potersi per Sovrana clemenza commutare ai Sacerdoti le pene correzionali nella detenzione in sacri ritiri; il diritto ai Vescovi d'ispezionare le pubbliche scuole, ed altri di simigliante natura.

110 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1857)

In tanti trionfi, che in tutta Europa riportava la S. Sede, l'anima eragli attristata sempre più dai fatti, che contro la Religione e contro i sacri ministri si perpetravano in Piemonte, dove alla smoderatezza della persecuzione si accoppiava la pubblica e legale protezione che si accordava ai Valdesi ed agli Ebrei. fra quei fatti che constatano, come i comitati nazionali si affaticassero a dar battaglia al Pontefice, non solo nella idea di esautorarlo nel principio religioso, ma per mantenere vivo il fuoco della rivolta negli Stati di lui, il Giornale il Risorgimento del 22 Giugno 1856 pubblicò, che i Romani aveano offerto al Conte di Cavour una medaglia e un indirizzò (1) - «La medaglia d'oro di grandi dimensione ha da un lato il ritratto del Conte di Cavour, e nell'esergo ha la seguente iscrizione: - Per la difesa-del popoli italiani oppressi - assunta - nel Consiglio di Parigi 1856 - Roma riconoscente».

Questa medaglia era accompagnata da un Indirizzo firmato i Romani.

Il Giornale L'Armonia, riportandolo, aggiunge una protesta del Romani, che nello smentire di aver essi sottoscritto quel sedicente indi rizzo, conchiudevano:

«... protestiamo contro il Conte di Cavour, che osò immischiarsi in casa nostra; protestiamo contro i suoi progetti di separazione, e francamente gli diciamo, che se i Piemontesi amano le sue delizie, e le sue quattordici imposte, non le amano

I ROMANI

In seguito di che, lo stesso giornale cattolico pubblicava la seguente importantissima corrispondenza: (2)

»Sul principio del passato anno fu presentata al Conte di Cavour, che si disponeva a partire pel Congresso di Parigi, una memoria che si fece credere scritta dai Romani - Essa fu fatta a Firenze, ed il

(1) Armonia (25 Giugno 1856) N. 145.

(2)

Siamo talvolta obbligati di anticipare qualche data, per non lasciare incomplete le narrazioni di Tatti parziali, che separali non desterebbero nel lettore quell'importanza che hanno.

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Sig. Marchese Gualterio ne potrebbe far testimonianza: portata in Roma fu sottoscritta da alcuni; ma nondimeno venne pubblicata poi, come se quanto conteneva fosse l'espressione del sentimenti delle popolazioni degli Stati Pontifici. Ora la Correspondance Italienne, e dopo lei altri giornali, fanno noto che una deputazione delle Romagne presentò al Sig. Conte di Cavour una medaglia d'oro fatta coniare dagli abitanti delle Legazioni, e delle Marche per eternare la memoria del Congresso di Parigi; e a nome degli stessi abitanti presentò una spada d'onore al Gen. Alfonso Lamarmora.

«Ella è pur cosa strana vedere un pugno di emigrati erigersi arbitri della opinione di un paese, e parlare a nome di popolazioni, di cui la più parte ignora che siasi coniala a spese loro una medaglia e consegnata al degno Oratore...........

«Infatti la deputazione, secondo i giornali, che ne hanno dato contezza, era formata del medico Carlo Farini, di Rossi, di Biancoli, ed Ercolani, bolognesi, e di Mamiani di Pesaro, tutti emigrati (eccello Farini che non ebbe esilio) che si arrogano il diritto di parlare a nome di più che un milione e mezzo di abitanti, e di farli essere riconoscenti a Camillo Cavour, perché nel Congresso di Parigi propugnò i diritti dell'Italia conculcati.

«Il degno oratore, mi sembra, che dovea quasi vergognare nel ricevere la deputazione che presentò la medaglia: ma la Correspondance Italienne ci fa sapere al contrario, che accolse con riconoscenza questa lusinghevole testimonianza della profonda simpatia che la politica del governo del Re Vittorio Emanuele inspira alle popolazioni d'Italia. Anche i Napolitani, ed i Lombardi, (è un motto d'ordine fatto partire da Torino, o dato a Torino, e costì eseguito) hanno fatto altrettanto, e sono certo che il degno oratore ogni deputazione avrà accolto con riconoscenza. vedendo che gli presentava una moneta d'oro, la quale da un ministro delle Finanze non è cosa da disprezzare.

«Peccato che le nuove Conferenze di Parigi abbiano chiusa la via

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in Piemonte lo avrebbe pregato a giustificare»

A questa veemente smentita, che pesava sulla faccia della deputazione, due giorni dopo, i componenti di essa Farini, Mamiani, Ercolani, e Zenocrate Cesare inviarono una lettera a quel giornale, acchiudendogli altra pel corrispondente, dichiarando avere presso di loro i convenevoli documenti, che per altro non poteano pubblicare, per non compromettere quelli che avean firmalo -II pretesto era ben trovato in quei momenti - Ma fu vero che i Romani inviarono quei doni? - No: per quanto siasi indagato, né le volute liste si rattrovarono poi; uè la sognala soscrizione per la medaglia al Conte di Cavour.

L'Armonia rispose con un lungo e vibrato articolo, sbugiardando tutto quanto asserivasi dai giornali torinesi contro il Governo del S. Padre, e conchiuse:

«.... Signori della medaglia, quando i sudditi del Papa seppero, che voi avevate fatto coniare nella zecca di Torino una medaglia al Conte di Cavour, e offertagliela coll'indirizzo in loro nome, sapete che cosa dissero? Esclamarono ridendo: - dove eravamo noi quando queste cose pensavamo e scrivevamo? E poiché avranno letto questa vostra risposta, sapete cosa diranno? dove eravamo noi quando ci tassavano, ci arrestavano, ci torturavano?»

Non vi fu altra replica; poiché l'Armonia è un giornale, che allora s'induce ad entrare polemica, quando ha armi, e materiale per combattere - I settari sapean bene che avrebber fatto peggio a rimestar la faccenda.

Non è inutile qui, trattandosi di dar smentite alle declamazioni, ed alle calunnie della rivoluzione, il dir di Carlo Poerio, prigioniero politico in Napoli: sul conto di cui il Parlamento Inglese molte volte udì Lord Gladston lamentare la tirannide di che era vittima quell'uomo condannato a vite selvaggio sistema di torture; geremiadi che

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«Quando noi (parta il Petruccelli) agitavamo l'Europa, e la incitavamo contro i Borboni di Napoli, avevamo bisogno di personificare la negazione di quell'orrida dinastia: avevamo bisogno di presentare ogni mattina ai creduli reggitori dell'Europa libera, una vittima vivente, palpitante, visibile, cui quell'orco di Ferdinando 2.° divorata cruda ad ogni pasto.

«Inventammo Poerio! Poerio era uomo d'ingegno, era galantuomo, un barone. Portava un nome illustre, era stato Ministro di Ferdinando, complico suo in talune gherminelle del 1848. Poerio era stato Deputato. Ci sembrò dunque l'uomo più opportuno ed acconcio per farne l'antitesi di Ferdinando.

«E IL MIRACOLO FU FATTO! La stampa inglese e francese stuzzicò l'appetito di quel distinto filantropo, ed uomo di Stato d'Inghilterra, che è Sir Gladston; il quale recandosi a Napoli volte vedere da vicino quella specie di nuova maschera di ferro. La vide. Si mosse a pietà. E Gladston fece come noi: magnificò la vittima, onde rendere sempre più odioso l'oppressore: esagerò il supplizio, onde commuovere a maggior ira la pubblica opinione.

«E Poerio? Il Poerio, che oggi si mescola ad ogni nostra minestra, fu da noi creato da cima a fondo. Il Poerio reale ha preso sul serio il Poerio fabbricato da noi per dodici anni continui in articoli di giornali a 15 ceni, la riga!

«L'hanno preso sul serio coloro che lessero di lui senza conoscerlo da presso. L'ha preso sul serio quella parte della stampa, che si era fatta nostra complice, credendoci sulla parola. Ma capperi! Quello che più sorprende, è che l'abbia preso sul serio anche Cavour!

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«POERIO È UNA PRETTA INVENZIONE CONVENZIONALE RIVOLUZIONARIA DELLA STAMPA ANGLO - FRANCESE E NOSTRA!

«Poerio! è una reliquia! Lo s'imbandisce nelle tavole ministeriali, come un oggetto di curiosità e di appetito ben conservato; poiché la forza che resta a questo gran martire, si è conservala nelle mascelle. mascelle potenti!

«Quanto al cervello, Poerio l'ama meglio alla sauce bianche, che nella sua lesta. Colpa senza dubbio di quello scellerato di Re Borbone, il quale assiderò quest'uomo di Plutarco nelle prigioni di Montesarchio; ovvero di quel burlone di Gladston, il quale creò questo grand'uomo all'uso di John Bull, come Caracalla creò console il suo cavallo.

«Colpa di questi, o colpa di quelli, l'illustre Barone Poerio non luce più............ «

Non abbisognano altri argomenti a sbugiardare le declamazioni giornalistiche, le perorazioni parlamentari e la vantata corrispondenza di M. Petre a Lord Clarendon! Tutto era pretta invenzione convenzionale rivoluzionaria, ripetiamo con Petruccelli.

Intanto che d'ogni parte e la politica, e la rivoluzione si affaccendavano a prepararsi alla lotta contro l'Austria e i Principi d'Italia, il Pontefice Pio IX, deciso a visitare il Santuario della Santa Casa di Loreto, volte prendere quella occasione per fare un giro in tutto lo Stato, ed indagare lo spirito delle popolazioni ed i loro bisogni.

Lunghissimo sarebbe narrare delle feste, degli archi trionfali, delle acclamazioni, delle strade tappezzate di fiori, del cittadini che a trasportarlo in trionfo staccavano i cavalli del suo cocchio. Per queste dimostrazioni d'afferro vi fu gara nelle Città, nei paesi, nelle borgate, dovunque transitava il Sovrano; e non erano quei dimostranti i pochi nuclei di frati e di collegiali, come spifferavano i giornali della rivoluzione, sibbene era il popolo, nel vero senso della parola, che entusiasticamente correva a fare omaggio al Sovrano Pontefice.

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Si astenevano i pochi del comitati, che impromettevansi fra loro di immutare in tutto quella spontanea gioia cittadina.

A Bologna l'entusiasmo fu straordinario; il Papa fu compiuto dal corpo diplomatico del Principi italiani; e recò immensa maraviglia la presenza di Carlo Boncompagni, inviato dal Governo di Piemonte, come la vipera che latente nelle erbe morde colui che securo si avvia nei campi. Che andò a farvi egli? chi ve lo inviò? il Gabinetto del Conte di Cavour spontaneamente, o un politico impulso straniero?. Un giornale, che conta la sua nascita a Torino sin dallo spuntare del tempi del 1841 (se non andiamo errati) col titolo di Opinione, redatto da un ebreo, Giacomo Dina, giornale incarnato ministeriale, che ha saputo imbutirar di lodi Cavour, Ricasoli, Rattazzi, Pica, Crispi, e Minghetti; giornale che trovò sempre ottime argomentazioni a sostenere hi rivoluzione con F eco di bugiarde declamazioni; a lodare la vendita di Nizza e Savoia, la convenzione del 15 settembre 1864 ed altre cose simili; il giornale F Opinione, dicevamo, sempre zelante dell'onore Ministeriale, assicurò, la gita del Boncompagni a Bologna essere stata decisione tutta esclusiva del governo; poiché «gli affari i: del nostro governo (sic) si trattano a Torino, e che desso non ha «bisogno di concertare le sue determinazioni in affari di propria esclusiva spettanza con gli Incaricali delle Potenze estere (1). a Quest'assertiva del Giornale semi - ufficiale fu subitamente smentita dal Nord, periodico Russo, in cui si legge ii che la missione del Boncompagni per complimentare il Papa è stata probabilmente concertata con gli altri rappresentanti diplomatici presso il Governo Toscano, e specialmente con l'incaricalo degli affari di Francia (2)». Questa versione ci sembra la più vera; poiché diversamente non avremmo saputo spiegare la persecuzione della Chiesa in Piemonte e le diatribe contro il Papato dette nel parlamento Subalpino con i complimenti diplomatici a Bologna!

(1) Opinione N. 140 21 maggio 1851.

(2) Nord N. 138 maggio id.

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Difatti, mentre l'inviato piemontese compliva il Papa, Capo della Chiesa, a Cuneo (in Piemonte) con la forza si scacciavano le Clarisse dal loro monastero: II Nord adunque avea ragione annunziando che, la presenza di Carlo Boncompagni era una ingiunzione politica, ordinala dall'Imperatore del francesi.

L'arrivo del Papa a Firenze fu una festa delle più magnifiche; e nulla fu omesso o risparmialo dal Governo di Toscana per dimostrare quanto valutasse onore così inaspettato. L'Episcopato tutto del Gran Ducato vi accorse, e lo seguirono le popolazioni delle Città.

A Modena le medesime feste, il medesimo affettuoso accoglimento di rispetto, e di venerazione. Questo viaggio, che Pio IX continuò nei suoi Stati, durò quattro mesi: e il S. Padre in qualsiasi città, paese e villaggio giungeva, dava udienza a lutti, visitava chiese, ospedali, orfanotrofi, luoghi pii, case di educazione, stabilimenti d'industria: ovunque lasciando, come il fiume regio, ricco di acque benefiche, le prove del suo affetto.

Moltissime migliaia di scudi fè dispensare a poveri; diè sovvenzioni a famiglie oneste indigenti; assegnò pensioni; dispensò danari ai municipi per aiuto alle opere pubbliche; donò di ricchi arredi le Chiese; confortò gli ammalali con la benedizione apostolica, e con aiuti pecuniari: largì somme agli operai; concesse a molte fanciulle e giovanetti la gratuita ammissione negli educandati dello Stato, nei collegi, e stabilimenti di educazione. In somma, di dove passò, le benedizioni e il vero sentimento di amore e di gratitudine del popolo gli furono perpetua scorta (1).

(1) Nelle memorie etc. da noi più volte citate, al Vol. 2.° pag. 355 cvvi una lunga enarrazione delle largizioni date da Pio IX in quella occasione.

Oltre le elemosine, trovatisi le somme elargite ad incoraggiamento delle manifatture, e per opere di ponti, strade etc: non che i moltissimi assegni ed annue pensioni da lui decretate. L'autore delle memorie con dritto dà una smentita di bugiardo al giornale l'Eco del Tronto, il quale osò scrivere, che Pio IX visitando Ascoli, non ci lasciò che soli cinque scudi;

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Qui è necessario 1o sbugiardare coloro, i quali scrissero, e fecero pubblicare, essere stata presentata al S. Padre una petizione per domandargli importanti riforme ed una completa secolarizzazione. Cederemo la parola al cronista G. Chantrel (1) «Venne presto a sapersi, dicegli, che erano state indirizzale petizioni al S. Padre; ma che i petenti chiedevano di essere ricollocati sotto il governo del Cardinali, come già tempo; si facevano querele, è vero; ma erano querele, che si fosse dal papale governo messa troppo torgamente in pratica la secolarizzazione». La setta, col suo solito sistema di menzogna, immutò radicalmente il sentimento di quella petizione, e se ne servi siccome di arma parricida!

Ritornalo il S. Padre a Roma, nell'annunziare con l'Allocuzione Cum primum nel Concistoro segreto del 25 settembre la pubblicazione del Giubileo, diede un minuto e splendido ragguaglio di quel viaggio.

Non possiamo infine non rammentare, come nel dì 8 settembre fu solennemente inaugurata a Piazza di Spagna in Roma la colonna monumentale, eretta ad eterna memoria della Definizione del Domma dell'immacolata Concezione di Maria SS. ma. La decisione per questo monumento fu presa nel dì 8 dicembre 1854, e tulio il mondo cattolico vi concorse con ricche offerte. Nel 6 maggio 1855 fu messa la prima pietra. La colonna, su cui torreggia la statua in bronzo, rappresentante l'Immacolata, ha sui laterali della base le quattro statue colossali del profeti, che di Maria in modo particolare vaticinarono.

La direzione dell'opera fu affidata all'architetto Commendatore Poletti.

Alla inaugurazione assistette personalmente il Santo Padre dal Palazzo dell'Ambasciatore di Spagna.

mentre ad Ascoli diede 100 scudi pel ponte di Lanne; 230 all'Ospizio delle Monachelle, 100 napoleoni d'oro al ricovero del poveri, ed una ricca pianeta alla Cattedrale, pari a 1900 scudi: ossia più che 2500 lire poiché, lo scudo Romano ha più valore intrinseco di quello di Francia e di Piemonte.!

Onestà del giornalismo... della rivoluzione!!!

(1)

Annali Ecclesiastici dal 1848 al 1860 pag. 301.

118 LIB. VI. - DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA (1857)

Sopra la porta principale d'ingresso, con disegno dell'Architetto Sarti, fu eretta una maestosa loggia sostenuta da colonne e pilastri, e sormontata da un timpano. Nel fondo di questo vedeasi un dipinto a bassorilievo rappresentante le varie Province di Spagna nell'alto di esternare la loro gioia al Pontefice pel Dogma definito. Al di sotto leggevasi la seguente iscrizione:

PIO IX P. M. QUOD MARIAM D. M. AB ORIGINE

SINE LABE DECLARAVERIT

PROVINCIA: HISPAN. GRATULANTUR.

Cosi questo libro nel quale sul principio dotorando, narrammo la persecuzione della Chiesa in Ispagna sotto il Ministero di Espartcro Duca della Vittoria, con gioia terminiamo con un allo di esultanza di quel regno, e con le dimostrazioni di fedeltà alla S. Sede, propugnala dal cattolicismo della Regina Isabella!

LIBRO VII.

DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI

ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE

CAPITOLO I.

Il giuramento degli miniati - La setta italiana a Londra - I congiurati - Biografia di Felice Orsini - La sera del 14 gennaio a Parigi - L'attentato Arresto di Orsini - Sua lettera all'Imperatore - Discorso dell'Imperatore all'apertura del Corpo Legislativo - Inghilterra reclama contro il Piemonte - La doppia politica di Cavour - Nota di Cavour al Governo Pontificio - Progetto Napoleonico proposto al Pupa.

«Nel nome di Dio, e dell'Italia.

«Nel nome di tutti i martiri della Santa Causa Italiana caduti sotto i colpi della tirannide, straniera o domestica. Pei doveri che mi legano alla terra, ove 'Dio m'ha posto, e ai fratelli che Dio m'ha dati -: per l'orrore innato in ogni uomo, al male, all'ingiustizia, all'usurpazione, all'arbitrio -: pel rossore ch'io sento in faccia ai cittadini delle altre nazioni, del non avere nome, né diritti di cittadino, né bandiera di nazione, né patria -: pel fremito dell'anima mia creata alla libertà, impotente ad esercitarla; creata all'attività nel bene e impotente a farlo nel silenzio e nell'isolamento della servitù -: per la memoria dell'antica potenza -: per la coscienza della presente abiezione -: per le lagrime delle madri italiane poi figli morti sul palco, nelle prigioni, in esilio -: per e la miseria del milioni:

120 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1858)

«Io N. N.

«Credente nella missione commessa da. Dio all'Italia, e nel dovere, che ogni uomo nato italiano ha di contribuire al suo adempimento:

«Convinto che, dove Dio ha voluto fosse Nazione, esistono le forze necessaire a crearla -: che il Popolo è depositario di quelle forze -: che nel dirigerle pel popolo, e col popolo sta il segreto della vittoria

«......ORA E SEMPRE... giuro, invocando sulla mia testa l'ira di Dio, l'abominio degli uomini, e l'infamia dello spergiuro, s'io tradissi in parte, o in tutto il mio giuramento».

Questa formola fu scritta da Mazzini per gli affiliati alla Giovane Italia. Dopo le vicende del 1830 la formola fu più precisa; e tuttocchè il Mazzini non la riproduca nelle ultime sue opere, noi crediamo utile riportarla, ricopiandola da un accreditato scrittore (1). Eccola:

GIURO... di consecrare il pensiero, le parole, le azioni al miglioramento della condizione politica d'Italia. A SPEGNERE COL BRACCIO, ed infamare con la voce i TIRANNI e la tirannide politica..., di obbedire agli ordini ed alle istruzioni, che mi verranno trasmesse; di non rivelare per seduzione o tormenti l'esistenza, le leggi, a lo scopo della federazione, e di DISTRUGGERE... IL RIVELATORE...»

Qual meraviglia adunque delle lodi prodigate a Pianori, a Bentivegna, ad Agesilao Milano? Con quel giuramento i tentativi di rivolte, i regicida sono una necessità, una funesta conseguenza della cieca schiavitù del congiurato! Qual meraviglia, che si faccia l'apoteosi del regicidi??. Dove non entrano le sette? chi può impedir loro che penetrassero dovunque? di quali mezzi non si servono esse per far proseliti e deludere la vigilanza del Governi?

Nel marzo 1851 partiva da Londra Miss J. Meriton White, donna di bell'aspetto e di fresca età. Essa poté viaggiare francamente in Italia, sotto l'egida della sua nazionalità inglese; e fu in comunicazione con tutti i Comitati, senza che la polizia sospettasse, che Mazzini si servisse anche delle donne per spandere le sue circolari repubblicane!

(1)

Montazio. Vita di Gius. Mazzini pag. 49 e nota.

(1858) LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 121

Napoleone 3.° nel 2 Dicembre avea con un sol colpo vinta la rivoluzione, ed obbligato il fiume della rivolta a rientrare nel suo letto, che egli circondò con dighe di baionette. Egli era l'incubo di Mazzini, lo scoglio tremendo ed acuto, su cui si frangeva in Francia ed in Italia lo svolgimento dell'idea di Dio e Popolo! Era d'uopo disfarsene, avvegnacchè impossibile fosse storcerne la politica, o minargli il trono. Mazzini considerava nell'Imperatore un nemico d'Italia: un affiliato, che avea violato il giuramento; e da ciò il suo diritto a distruggerlo.

Nel dicembre del 1857, Tommaso Allsop seduto in un albergo di Gingei (Westminster) scriveva al sig. Taylor di Birmingham, ordinandogli la manifatturazione di alcuni piccoli ordigni: trattavasi delle bombe, che insanguinarono a Parigi la via Lepelletier. Egli prese a prestito sulle sue proprietà di Sussex 4500 lire sterline pari a 112,500 franchi; buona parte ne somministrava a Felice Orsini, ed ai compagni di lui. Davagli pure un passaporto, col quale l'Orsini poté da Londra recarsi a Parigi senza destar sospetto alcuno nelle autorità di polizia.

Felice Orsini nacque nel Decembre 1819 a Meldola, borgo presso Imola, negli Stati Pontificii. Suo padre fu capitano sotto Napoleone 1. e decoralo da Napoleone 3° con la medaglia di Sant'Elena. A Bologna, essendo ancor studente, fu affiliato nella Giovane Italia. Nel 1844, congiurando col padre, fu carcerato e condannato alle galere. Liberato nell'amnistia che Pio IX promulgò nell'ascendere al trono, recossi a Firenze; congiurò prima contro il Granduca; poi nelle Romagne, e negli Abruzzi contro Roma e Napoli. La Costituzione data da Ferdinando 2. sconcertò i piani della setta, per cui stimò opportuno muovere per Roma, dove facile gli fu l'essere ammesso nel Circolo popolare. Combatté contro gli Austriaci; e fu eletto deputato della Costituente a Roma dal Collegio di Forlì.

122 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1858)

Occupata Roma dai Francesi, passò in Piemonte, ed ammogliossi a Nizza. Due anni dopo abbandonò la moglie con due bambine. Complicalo sempre con Mazzini, fu a Sarzana arrestato con altri complici in un tentativo di rivolta, ed esilialo. Recatosi a Londra, Mazzini diegli da vivere. Frustrali gli altri tentativi di rivolta fatti nella Valtellina ed a Milano, fu arrestato ad Hermaustadt in Ungheria.

Dopo venti giorni di detenzione, condotto a Vienna nella Polizei Haus, che è la Conciergerie di Vienna, subito l'interrogatorio, fu rimandato nel Castello di Mantova. Uno del complici avea svelato il tentativo, che dovea farsi a Milano, e consegnò alla polizia austriaca le istruzioni scritte di pugno dell'Orsini.

Con l'auto di ferri che insieme a denaro e funi gli si fecer pervenire nella segreta dov'era detenuto, potò evadere in un modo che lungo sarebbe il narrare (1); e coadiuvalo da due contadini, che lo tenner celato per più d'un mese, recossi a Genova, di dove riparò in Svizzera.

Felice Orsini ebbe ingegno sveglialo, irrequieto, intraprendente. Scrisse molti libri, tra i quali piene di brio e di allaccevole stile sono le MEMORIE, e i Quindici mesi di prigionia Austriaca. Di statura giusta, asciutta anziché no; viso forte di ferocia: occhio brillante e riflessivo; barba nera e foltissima: insomma un volto artistico. Fu sua disavventura l'essere schiavo della grande idea di Mazzini, da cui trascinalo spense in sé col delitto una vita, che potea essere una gloria letteraria nella patria sua.

Erasi recalo a Londra, quando Mazzini in uno dei soliti viaggi misteriosi senza vederlo, gli lasciò per carta di visita un viglietto con queste tre parole «CONTO SU TE».

Nella Reading - Rooms Orsini strinse relazione coi più avventati

(1)

Enrico Montazio ne ha scrkto la vita con tale semplicità ed eleganza da potersi dire esser questa operetta uno dei più forniti lavori di Biografia; e noi lo trovammo esalto nella comparazione del documenti, che abbiamo tenuto nelle mani-Fa parte della Galleria Nazionale del secolo XIX. Torino - Unione Tipografica - Editrice - Casa Pomba n. 33.

(1858)LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 123

democratici inglesi: ed interveniva al serotino debating club, or con francesi, or con spagnuoli, ed or con italiani. Scrisse allora le Memoirs and Adventures... ed oh! la sua mente non era ancor tralignata sotto il fascino di Mazzini! Egli declamò virulentemente in quelle pagine contro l'assassinio politico, dichiarando che non avrebbe mai seguite le teorie mazziniane sino a quell'estremo corollario! Ciò accadeva nel maggio 1857. Chi dovea dirgli, che nel 13 marzo dell'anno vegnente il suo capo sarebbe stato troncato dal carnefice a Parigi per un delitto che egli abbominava?

Riattaccò di fatti poco di poi le sue relazioni con Mazzini, e tutti avvertirono come nella ime del 1851 fosse addivenuto acciglialo, cupo, misterioso! Ebbe a compagni un Giuseppe Pieri, uomo di fede dubbia, e nolo alla polizia francese; un Carlo Rudio da Belluno, giovane di vita sregolata, il quale fece ritorno a Londra nel 1860, (dice il Montazio) (1) dopo la pretesa evasione da Caienna. A Londra costui fu tenuto in conto di spia Infine un Antonio Gomez, giovane scapestrato e poco abile: la sua stupidezza impedì la fuga di Orsini. Egli fu ucciso di pugnale dopo che ottenne la grazia Imperiale.

Nel dicembre Orsini recossi a Parigi, portando seco le bombe, che ridotte a pezzi passarono per la dogana come oggetti ad uso d'illuminazione a gas.

Alle 1 e un terzo p. m. del 14 gennaio, i congiurati stavansi acquattati a Via Le Pelletier presso il Teatro dell'Opèra. Pieri, riconosciuto dalla polizia, fu arrestato: e benché su di lui nulla si fosse rinvenuto che avesse potuto destare sospetto, fu pure messo in prigione.

Passavano a trotto serrato i lancieri, che scortavano la carrozza imperiale; Gomez gettò la prima bomba. Lo scoppio fu terribile. Orsini gridò a Rudio: getta la tua, e così fu fatto; poi scagliò egli stesso la terza, ed una scheggia lo colpì al di sopra della fronte, in modo che il gran sangue, che gli sgorgava dalla ferita, gl'impedì di più vedere. I lampioni a gas si spensero; la carezza Imperiale fu rotta in molte parti da 16 proiettili

(1)

loc. cit. pag. 81.

124 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1858)

-

: varii cavalli restarono morti, altri feriti mortalmente: 156 persone furono ferite; rotti i vetri delle case e del magazzini circostanti; insomma una spaventevole confusione. Seppesi poi, che il cappello dell'Imperatore fosse stato forato da una palla, e tre proiettili l'avean collo sul petto, dove la maglia sottoposta li rese innocui; l'imperatrice riportò una scalfittura sulla faccia.

Orsini non fu veduto da alcuno; entrò con altri feriti in una farmacia; e fattosi medicare, ritornò a casa per partire nella notte stessa - Gomez, non trovandolo, stupidamente recossi alla farmacia, sperando colà averne nuova. Non avutane, entrò nella Trattoria Broggi a far la stessa dimanda: la polizia, che lo pedinava, Io arrestò, e gli fu trovala indosso una bomba ed un revolver, che non avea avuto pensiero di gettar via! Altra bomba fu perquisita nel domicilio del Pieri, con due pugnali, e con una forte somma in oro.

Nel mattino seguente fu arrestato Orsini - La congiura era tutta svelata- Orsini scelse a difensore Giulio Favre. Nel corso del processo, egli scrisse una lettera all'Imperatore; ed è documento gravissimo.

«A Napoleone 3.° - Imperatore del Francesi.

«Le deposizioni, che io ho fatte nel processo politico apertosi per l'attentato del 14 Gennaio sono sufficienti per esser io condannato alla morte; ed io la subirò senza domandar grazia, tra perché io non mi umilierei dinanzi a lui che ha uccisa la nascente libertà della mia sventurata patria; tra perché nella situazione in cui io mi B trovo, la morte per me è un sollievo.

«Presso alla fine della mia vita, io voglio nondimeno tentare un ultimo sforzo in beneficio dell'Italia, per l'indipendenza della quale ho bravalo fin'oggi tutti i pericoli, e mi sono esposto a tutti i sacrifici

Per mantenere l'attuale equilibrio europeo, bisogna rendere l'Italia indipendente Questa è la preghiera, che dalla prigione oso diriggere a Vostra Maestà»

(1858)LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 125

Le figlie di Orsini, Ernestina e Ida, raccomandate, ad Adelaide Ristori per implorar grazia dall'Imperatrice, nulla ottennero!- Orsini e Pieri furono condannati nel capo.

Pieri fu ghigliottinato cantando; Orsini al grido, di Viva l'Italia: Viva fa Francia! Alle 1. del 13 Marzo non erano più - La tragedia era compiuta!!!

Il Ministro Francese fece grandi premure presso il Gabinetto di Saint - James, perché fossero processali Bernard, Allsop, ed un libraio polacco Zeno Swietoslawski; i primi due come complici dell'Orsini, il terzo per aver pubblicato un libro sulla necessità del Regicidio - Palmerston li fece arrestare; ma per la commozione che si destò nelle Camere, dove fu reclamata la guarentigia del rifugiati, essi furono messi in libertà!

L'allentato e la morie di Orsini, se furono un danno alla rivoluzione, perché perdeva uno del più provati e coraggiosi campioni, fu nel tempo stesso una - vittoria...!

A Londra si aprirono sottoscrizioni per un dono a Eduin James, che avca difeso i congiurati: meetings e speeches si riunirono, nei qnali grande entusiasmo si spiegò a favore della rivolta italiana...!

E a Torino? Il giornalismo ne fece l'apoteosi - La Gazzetta Del Popolo (n. 52) disse: Orsini è un uomo grande.

La Ragione: Orsini rimarrà nella Storia d'Italia come una delle sue più grandi immagini: in quella dell'umanità come una delle sue più grandi significazioni: e l'Unione conchiudeva: Orsini, Rudio e Gomez sono vigorose individualità; vivono di annegazione e di sacrifici, muoiono per la patria, hanno una natura sommamente rigogliosa (1).

Queste teorie si spandevano liberamente; spingevasi il pugnale della setta a bravar la morte: allenavansi gli animi alla rivolta; e ricordavasi a Luigi Bonaparte che l'Imperatore del Francesi non dovea obliare i giuramenti prestali alla Giovane Italia!

(1)

La Ragione N. 68 L'Unione N. 63.

126 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1858)

L'Imperatore addimostrò il più gran sangue freddo in quel pericolo; ma ben internamente sentiva, che accanita guerra sarebbegli fatta, poiché di Pianori e di altri Orsini la Giovane Italia non potea mancare. Quattro giorni dopo il fallito tentativo, all'apertura del corpo legislativo, placido e sereno recitò il suo discorso - , che più di ogni altro anno suonò di pace, e d'intimi rapporti con tutte le potenze d'Europa. Sull'attentato disse:

«Ringrazio il cielo della chiara protezione di che ha coverti, l'Imperatrice, e me; e deploro che tante vittime si facciano per attentare alla vita di un solo. Nondimeno coteste trame portano seco loro più d'un utile avvenimento; il primo si è, che i partiti i quali ricorrono allo spediente dell'assassinare, mostrano con tali disperati mezzi la loro debolezza ed impotenza; il secondo, che un assassinio, dato che riuscisse, non ha mai giovalo alla causa di coloro, che armarono il braccio del sicario. Né il partito che colpì Enrico IV, ebbe a trovar vantaggio della fatta uccisione. Iddio permette talvolta la morte del giusto, ma non permette mai il trionfo della causa del delitto. È perciò che cotesti allentali non possono turbare né la mia sicurtà al presente, né la mia fede nell'avvenire: se io vivo, con me vive l'impero; e se io soccombessi. l'impero sarebbe ben anche raffermalo dalla mia morie stessa: poiché l'indegnazione del popolo e dell'esercito sarebbe nuovo appoggio pel trono di mio figlio. Guardiamo adunque fidenti l'avvenire: dedichiamoci senza inquiete preoccupazioni ai nostri quotidiani lavori per il bene e per la grandezza del paese. Dio protegge la Francia»!

I tentativi di Pisacane e di Agesilao Milano, e le continue brighe delle sette rivoltuose acquistarono un'immensa importanza con l'allentato di Orsini. Tutti i gabinetti esteri n'erano impensieriti; l'Inghilterra stessa tra le potenze straniere appoggiava le reclamazioni dell'Austria contro il Piemonte; Napoli e Roma fecero le loro dimostranze, e non ultimi erano i Principi degli altri piccoli Stati. Cavour in tale scompiglio

(1858)LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 127

perché i rivoltuosi conservassero moderazione e cautela, per non più compromettere lo Stato; ed intanto, prossime essendo le elezioni, sperava -tuttocchè comprendesse che il partito conservatore si movesse ad assicurarsi la maggioranza - che da cosi spinte condizioni politiche ottenesse un Parlamento di sentimenti tali da poter egli agire secondo l'idea che avea preconcetta.

Ma il risultato non rispose ai suoi desideri, e la Camera nella maggior parte riuscì di conservatori e di clericali; la qual cosa scompigliò i progetti del Conte. Egli, celiando su tal fatto, scriveva al signor W. De la Rive, che il vedere seduti alla destra una dozzina di marchesi, due dozzane di Conti, ed una infinità di baroni e di cavalieri, mostrava la possibilità di un Ministero conservatore, sicchè egli si vedrebbe forzalo ad abbandonare il suo posto; e non volendo confessare, che ciò fosse conseguenza della sua politica avventata e tutta francese, ne accusava la reazione, che l'Episcopato di Parigi, e di Roma gli aveano ordita. «Il comitato, scriveva nella sua lettera, ha posto in opera tutte le sue armi spirituali per agire sugli elettori. Il confessionale è divenuto cattedra per insegnare al popolo una fede cieca. I preti sono stati autorizzali a spaventarlo con il paradiso, e l'inferno. Roma, a tal oggetto, ha loro aperto un p. credilo illimitato sull'altro mondo.» Parole empie, che ben dimostrano ciò che doveano attendersi la religione ed il culto cattolico, quando il capo del ministero, rappresentante del Governo, depositario della pubblica morale, e tutelatore della legge, parlava in tal modo della Religione, che è base, fondamento e vita del troni, e della società. I Pianori, gli Orsini, e gli altri regicidi e cospiratori mazziniani non sono cattolici; non hanno che una religione-Mazzini..!!. Se cattolici fossero stati i loro principi, avrebbero conosciuto, che si abbia diritto di chiedere al Re ciò che meglio confaccia al bene della Società; di richiamarlo al vero, se i ministri e rappresentanti della nazione gravassero la mano sui popoli: avvegnachè Re e ministri fossero uomini come gli altri, e soggetti, forse più che gli altri, ad errori, a passioni,

128 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1858)

e ad essere ingannati; ma non si ha diritto ad alzare il pugnale, e farsi giudice, accusatore, e carnefice nello stesso tempo!...

Cavour chiudeva la sua lettera con affermare essere risultato «che il partito liberale fosse tanto irritato contro il clero, che vi sarebbe necessitata gran pena a contenerlo nel combattere i suoi avversari...» Questo è un fatto, che si è veduto poi, quando la persecuzione non ha avuto più limiti da Cavour fino al momento in cui scriviamo. Ma Cavour non disperava però del successo: temeva solo pel ministero; poiché necessariamente la barca dovea andar capolevata al menomo passo falso, che fosse fatto o dalla dritta, o dalla sinistra.

All'opera mostrò molta scaltrezza per non urlare le suscettibilità del parIili; ma gli era difficile tenersi caltivata la sinistra desiosa di guerre, di congiure, di rivoluzioni; poiché per contentar la destra bastavagli non perseguitare la religione, e mostrare di non aver. altro a cuore che l'interno ordinamento del governo.

La sinistra davagli pensiero seriissimo, imperocchè con discorsi avventali or contro una, or contro altra potenza, or con gridare alla tirannide, ed or con far mostra d'intendimenti rivoltuosi, lo mettessero nel caso di trovargli rancori all'estero. A ciò si univa il vociare del giornali, le apoteosi del regicidi, le invettive, contro i Principi d'Italia; le quali cose non poteano andare certamente a sangue della Diplomazia, a cui l'Austria non mancava di partecipare quanto in Piemonte dicevasi ed operavasi. Da ciò segni. che In Francia fece positive istanze perché non si dasse più ricetto e campo ai rivoltuosi, che perturbavano la pace europea, e la sicurezza personale del Sovrani. Su tutto questo l'ultimo crollo che sconcertò Cavour, fu la legge De Foresta, che volea definito il crimine dell'apologia del regicidio, e punite le cospirazioni. Alcuni la credettero una sfida a lui diretta, poiché ben lo si sapea protettore del cospiratori; locchè fu confermalo dalle parole, che Orsini pronunciò a Parigi dinanzi alla Corte di Assisie della Senna; «L'indipendenza in primo luogo, diss'egli, perché Italia non può pretendere alla libertà, se non acquista prima l'indipendenza.

(1858)LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 129

E la prova si è ch'io ho scritto al Conte di Cavour, che il mio patriottismo non consisteva in parole solamente, ma in fatti»

Egli è vero, che Orsini stesso confessò esser rimasta senza risposta alcuna la sua lettera; ma che perciò? l'essersi diretto a lui testimoniava, come in lui si avesse fiducia. Da ciò la naturale illazione, se pure fossero mancale prove, le quali si desumono dai fatti che si perpetravano in pieno giorno in Piemonte e sotto gli occhi del governo, che il Conte di Cavour era additato qual perno principale su cui aggravasi la gran machina della rivoluzione.

Bisognava nondimeno non disgustare l'Imperatore del Francesi, l'unico su cui contava il Conte di Cavour; e lo fece con quel modo che può dirsi unico di chi non lascia sfuggire occasione, anche a sé nimica, per profittarne e rendersela vantaggiosa.

Al principe Latour d'Auvergne, Ministro di Francia, manifestò il più sincero dispiacere per l'allentato di Orsii:i, ed assicurollo che il governo del Re avrebbe date opportune ed. energiche disposizioni per punire i cospiratori, che attentassero alla pace di altri Stali.

Ma tale allentato, anziché scoraggiarlo, fu per lui un avvenimento, di cui si avvalse per tornare all'attacco contro il governo pontificio.

Orsini era suddito del Papa -: ecco tutto! Da ciò il Conte di Cavour volea trarre una conseguenza, che seriamente egli credeva legittima; cioè che il governo del Papa fosse causa prima dell'attentato di Parigi.

Certamente tal modo di ragionare sembrerà strano a chi legge la storia del fatti di questi tempi; ma tuttocchè strano, è pure una realtà. - Cavour chiamava in causa il governo pontificio, perché avea esiliato l'Orsini, come facinoroso; locchè vai quanto dire, non dovea esiliarlo - Queste ridicole suggestioni non si accontentò di manifestare verbalmente all'Ambasciatore francese, ma ne fece movente di un dispaccio diplomatico', che spedì a Roma al rappresentante degli Stati Sardi, dandogli facoltà di lasciarne copia al Segretario di Stato del Papa. Quel dispaccio era un rimprovero formate al Governo pontificio, a cui il Conte, elevandosi a maestro di diritto pubblico - politico, dava consigli sul modo di trattare i ribelli.

130 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1858)

Per Cavour eran però ribelli in casa sua coloro che presumessero imitare gli eroi, i quali perturbavano 1a pace degli altri Stati! Per i ribelli nel Regno Sardo eravi la corda, la frusta, ed il laccio sulle forche: per quelli degli altri Stati, specialmente, se d'Italia, si facean battere medaglie, e si elevavano all'onore dell'Apoteosi. Mazzini e compagni di lui furono condannati a morte; ai Bentivegna, ai Pisacane, agli Agesilai Milano, agli Orsini il nome di gloriosi patrioti e di martiri, perché esposero la loro vita a punire i tiranni!!

Ecco la nota spedita a Roma:

«Il sistema d'espulsione dai propri Stati, esercitato su larga scala dal governo pontificio, giacché nel solo nostro stato i sudditi di S. S., così espulsi, sommano a più centinaia, non può a meno d'avere le più funeste conseguenze. L'esilialo per sospetti o per men buona condotta non è sempre un uomo corrotto o affiglialo indissolubilmente alle sette rivoluzionarie. Trattenuto in patria, sorvegliato, punito ove d'uopo, potrebbe emendarsi, o per lo meno non diverrebbe un uomo grandemente pericoloso. mandato invece in esilio, irritato da misure illegali, costretto a vivere all'infuori della società onesta, e spesso senza mezzi di sussistenza, si mette necessariamente in relazione coi fautori delle rivoluzioni. Quindi è facile a questi aggirarlo, sedurlo, affigliarlo alle loro sette. Così il discolo diventa in breve settario, e talora settario pericolosissimo, a

Ma perché il Conte di Cavour permetteva, che Torino si facesse centro del fautori della rivoluzione? perché accettava da costoro il dono di medaglie, pur sapendoli cospiratori? Si era già al 1858, e a Cavour conveniva calunniare gli altri governi d'Italia, mistificando i fatti, e confortando gli animi di coloro che gli doveano essere scalini nelle rivolture del 1860.

Segue la nota «Onde si può con ragiono asserire, che il sistema i seguito dal Governo Pontificio ha per effetto di somministrare di a continuo nuovi soldati alle file rivoluzionarie.

(1858)LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 131

Finché durerà esso, tutti gli sforzi del governi per disperdere le sette torneranno vani; perché mano a mano che si allontanano gli uni dai centri pericolosi, altri vi convengono in certo modo spediti dai loro governi.

«A ciò si deve attribuire la vitalità straordinaria del partito Mazziniano, e vi contribuiscono in gran parte le misure adottate dal Governo di sua Santità.»

Da ciò risulta, per confessione del Conte, che la vitalità straordinaria si accentrava a Torino; che componenti erano gli emigrati; che suo desiderio sarebbe stato, che il Papa proclamasse un'altra amnistia pari a quella del 1848, affinché tutti i Mazziniani ripiombassero in Roma, ed affrettassero l'annessione delle province pontificie al Piemonte, e la celebrala vittoria di Castelfidardo.

Altra nota inviò contemporaneamente ai gabinetti esteri sul generale malcontento della penisola, e sui mali che necessariamente doveano scaturirne; instando sempre sull'idea manifestata nel Congresso di Parigi; due cioè esserne le cause «il cattivo governo negli Stati a del Papa e, del Re di Napoli; e la preponderanza austriaca in Italia».

Cavour non scambiò mai il punto a cui mirava: Si servì di vie tortuose, perché la diritta gli si presentava troppo pericolosa. Egli con la menzogna seguiva l'assioma della sua politica, cioè: «che non vi è rivolgimento politico notevole, non vi è grande rivoluzione che possa compiersi nell'ordine materiale, se preventivamente non è già o preparata nell'ordine morale, nell'ordine delle idee a (1).

Perciò, mentre faceva suoi gli elementi della rivoluzione, ai gabinetti esteri denunziava la rivoluzione essere nei popoli: la covava a Torino, e la diceva universalizzata. Laonde il giornalismo (come scrisse il Petruccelli) stampava gli uomini; esautorava i governi; li rendeva abbietti al cospetto di Europa;

(1)

Nic. Bianchi loc. cit. pag. 56.

132 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1858)

mentre le sette segretamente lavoravano nelle città

d'Italia ad indicare nel Piemonte il perno della salvezza futura d'Italia, la sorgente unica detta libertà ed indipendenza comune (1).

Dicasi quel che si voglia, Cavour seppe fare in modo che i governi d'Italia si sfasciassero, le corone cadessero dalle teste del principi, le armate scomparissero, e l'Austria perdesse i possedimenti e l'influenza sulla penisola!

Napoleone 3. vedeva bene che gli avvenimenti sarebbero stati spinti agli estremi dalla corrente della rivoluzione; voleva però in mano argomenti da riversar la colpa sulla fermezza misurata del Governo Pontificio; per cui fece formulare un progetto di nuove istituzioni per gli Stati del Papa sulle basi di quanto avea già espresso nel 1849 nella sua lettera ad Edgardo Ney.

Formolato il progetto, affinché ne fosse stata responsabile anche l'Austria, lo diresse al gabinetto di Vienna con un dispaccio confidenziale; pregandolo di postillare ciò che meglio avesse creduto, per agire unanimamente al miglioramento dello Stato Pontificio, ed alla sicurezza e stabilità del Trono del S. Padre. Napoleone argomentava, che l'accettazione avrebbe risoluta una quistione importante; mentre il diniego potea dargli ragione di accusare la Corte Pontificia causa del danni che da una rivolta le sarebbero avvenuti.

Del suo operato fece consapevole il Papa, il quale rispose al Ministro Francese non esser egli alieno di dare il suo assentimento al progetto, purché non ledesse i diritti della S. Sede.

Noi riportiamo distintamente le proposte francesi, le osservazioni austriache, ed il parere pontificio.

1. Ministri.

Francia- Il S. Padre sceglierà i suoi ministri fra gli ecclesiastici, e i laici nel modo che crederà convenevole.

Austria - Ammesso.

(1)

id. id.

(1858)LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 133

Roma - Ammesso. La legge vigente del 10 sett. 1850 non prescrive che pel solo Segretario di Stato la necessità di essere Cardinale della S. Chiesa. Gli altri possono essere laici.

2. Consiglio di Stato.

Francia - Consiglio di Stato per redigervi i progetti di legge, e i pubblici regolamenti amministrativi.

Quindici Consiglieri con voto deliberativo -: ma non retribuiti come Consiglieri di Stato.

Altri Consiglieri straordinari ed onorari, che prenderebbero parte dietro invito del S. Padre.

I Consiglieri di Stato ordinari, tutti laici. Gli onorari anche ecclesiastici.

I Ministri con voce deliberativa. Il Presidente del ministri sia laico, sia ecclesiastico - a piacere.

Altre attribuzioni. Al Papa il diritto della nomina, e della revoca. Le deliberazioni del Consiglio non obbligano il Sovrano.

Austria - Ammesso meno la modificazione seguente.

I Consiglieri misti tra laici ed Ecclesiastici.

Roma - La proposizione è troppo complicata; si ammette in principio, salve modificazioni a prendersi di concerto.

3. Consulta.

Francia -Quaranta consiglieri almeno, eletti dai consigli provinciali. Loro ufficio: deliberare sulle leggi, e sullo stato discusso delle Finanze. Le sedute sarebbero privale, ma poi pubblicate sul Giornale Glaciale.

Il Papa nomina il Presidente dai consiglieri stessi.

Austria - Ventisei a quaranta i consiglieri. La loro nomina al Papa sulla proposta del consigli Provinciali.

Il resto ammesso.

Roma - Ammesso l'aumento del consiglieri con la modificazione austriaca. Alla difficoltà, come regolarsi, se il consiglio rifiutasse il budget, si ritiene la risposta del Ministro francese, ossia seguirsi la regola stabilita in Francia; attenersi cioè al budget dell'anno scorso.

134 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1858)

Francia = I consiglieri Provinciali saranno eletti dai consigli municipali. Loro officio occuparsi di quanto riguarda le provincie, votare le spese locali, ripartire le imposte, formare presso il Legalo un consiglio con attribuzioni speciali.

Austria - La nomina al Papa sulla proposta del Municipi.

Roma - Si ammette anche la proposta francese.

5. Consigli Comunali.

Francia - Conformi all'Editto 24 Nov. 1850. Elettori tutti, senza limite di numero, come in quella legge è indicalo.

Austria - Ammesso: solo è ad esaminarsi fino a qual punto si estenda la legge elettorale.

Roma - Ammesso.

6. Amnistia.

Francia - Amnistia generale applicabile (salve eccezioni) agli esiliali, e prigionieri politici. Cessano i Tribunali di Stato, i processi pendenti, e le commissioni straordinarie.

Austria - Si ricorra alla clemenza, a seconda il comportino le circostanze. e il pentimento del detenuti.

Roma - Proposta austriaca.

1. Riforma giudiziaria.

Francia - Promulgarsi o il Codice del Lombardo - Veneto, o il Codice Napoleone, o il Napoletano.

Austria - Ammesso: ma il lavoro si riserbi al Consiglio di Stato.

Roma - Se non se ne può fare a meno, si sosterrà il pensiero della proposta.

8. Percezione d'Imposte.

Francia - Organizzazione come in Francia.

Austria - Ammesso avendosi di mira la diminuzione di spesa nella percezione

Roma - Ammesso.

(1858)LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 135

9. Coscrizione.

Alle proposte di Francia e di Austria, la S. Sede si oppone protestando non ammetterle giammai.

10.»

Austria - Quattro legali Cardinali per le quattro Legazioni. Francia - . Ammesso. Roba -

11. »

Francia - Governatori laici nelle province. Austria - Ammesso.

Roba La legge vigente li ammette indistintamente e li riconosce.

12.»

Francia.- La Confederazione Italiana con la presidenza onoraria del S. Padre.

Roma-Ammesso con la riserva della garentia dell'integrità e. neutralità degli Stati di S. Chiesa, della perfetta indipendenza del Pontificalo in materie religiose, e del Governo in fatto di interna amministrazione.

13.»

Francia - Un'Amministrazione separala per le Romagne.

Roma - Per estrema concessione la S. S. accorda l'ordinamento civile che aveano sotto il Pontificalo di Benedetto XIV con un cardinale legalo a latore sedente a Bologna.

Questo progetto così formolato, e che constatava la longanime condiscendenza della S. Sede ad accogliere proposte, che si credevano sovrano rimedio a ricondurre la pace e l'ordine in Italia, fu rinviato a Parigi; ma d'allora in poi non sene fece più parola! Napoleone lo tenne in serbo per ogni futura contingenza. Il perché di questa strana condotta è rimasto un mistero, che se ci è stato impossibile trarre dalle sue ombre, non può sfuggire dalla luce del fatti posteriori, i quali rivelano quanta parte avesse la buona fede in quelle trattative diplomatiche; e come fosse già ad ogni costo risoluto il sagrifizio del governo della S. Sede

136 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1858)

CAPITOLO II.

Nota dell'Austria al Piemonte sulle sconcezze del giornalismo Risposta del Cavour. - Rottura delle relazioni diplomatiche tra Austria e Piemonte La Società Nazionale Italiana Accuse del Licurghi Lettere del Cavour Rivelazioni di Mazzini Plombiéres Confessioni di Cavour nel Parlamento Subalpino - I primi conati della rivoluzione Giornalismo piemontese e francese - Un articolo del Moniteur - Un altro del Giornale di Roma Napoleone e le due politiche Suo viaggio in Bretagna Pellegrinaggio a Sant'Anna d'Auray - Discorso al banchetto di Rennes Uno scritto di Edmondo About - La sireuse de cartes a Parigi! Libertinaggio nel giornalismo piemontese Libertinaggio sui teatri La Russia e Ferdinando II.

Dopo Tipaldi, Grilli e Bartolotti, che nel 1857 allentarono alla vita dell'Imperatore, il misfatto di Orsini confermò, se dubbio ancora poteva esservi, che quei tentativi partissero da una medesima fonte; da Mazzini! Napoleone, per trarsi da quell'impaccio, dovea, quanto più, presto gli fosse stato possibile, mettersi a capo del movimento liberale italiano, e soppiantare l'influenza austriaca con la francese. Per attuare l'idea, non v'era alleato più adatto del Piemonte, il quale, avendo mantenuta la casta costituzionale nei suoi Stati col ricettare tutti gli emigrati d'Italia e gli scampali dalle rivolle, erasi fatto centro di azione del movimento italiano. Non vogliamo con ciò affermare, che l'Imperatore si fosse deciso a questa politica, impaurito dall'allentato di Felice Orsini; ma non saremmo lontani dal vero, se ammettessimo esservi stato spinto, giacché il piano era da molto tempo preconcetto, e non attuato per tema di non urtare le suscettibilità nordiche.

Bisogna, che tornassimo un pò addietro per allacciare il filo del fatti e non lasciarvi lacuna.

Nel 1857 l'imperatore d'Austria avea fatto un viaggio per le province Lombarde, aggraziando molti imputali, detenuti, e condannati per reali politici; perlochè grandi feste furon fatte dovunque, e specialmente a Milano, dove l'imperatore dimorò per qualche giorno.

(1858)LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 137

La stampa piemontese accolse male questo grazie; malissimo le feste

«Io non vi dissimulerò (dice il Dispaccio) che i sentimenti dell'Imperatore furono sopratutto feriti dall'attitudine del governo Piemontese. In fatti la stampa, fedele al suo abietto costume ed al suo odio sistematico contro l'Austria, si prese l'impegno di esporre i recenti avvenimenti di Milano sotto un aspetto del tutto opposto alla verità del fatti.

«La dominazione dell'Austria nel Regno Lombardo - Veneto, presentata come sprovvista di ogni titolo legittimo, e come l'unica sorgente i di tutti i mali della'Penisola; la calunnia e le ingiurie versate su tutti gli alti del governo Imperiale, sull'Augusta persona dell'Imperatore, come a quelli che a lui sono devoti; l'insurrezione, e perfino il regicidio preconizzali come mezzi di liberar l'Italia da ciò che si ha la compiacenza di chiamare giogo straniero.. Veramente la mia penna rifiutasi a ridire tutte le turpitudini, di cui son pieni questi giornali... In presenza di questi alla echi, mossi con una inaudita violenza contro una potenza limitrofa ed amica, il governo Sardo, ponendosi in un'attitudine del tulio passiva, si è per lo meno esposto al sospetto di non volersi scoraggiare. E non è tutto. Gl'inviti indirizzati ad estranei nello scopo di farti concorrere a soscrizioni aperte clamorosamente per rinforzare il sistema difensivo del Piemonte,

138 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1858)

che nessuna potenza pensa di minacciare; il ricevimento ufficiale delle pretese deputazioni delle nostre province Italiane, che venivano ad esprimere la loro ammirazione per una politica, che il loro proprio governo dissaprova; finalmente l'accettazione di un monumento, che dicesi offerto dai sudditi dell'Imperatore in commemorazione del fatti d'armi dell'esercito Sardo, sono queste altrettante dimostrazioni offensive, che per essere calcolale sulla troppo facile credulità del pubblico, non lasciano però d'offrire un lato mollo grave.... Checchè ne sia, l'Imperatore deve alla sua propria dignità di non lasciar ignorare al governo Sardo il risentimento che a lui cagionò il complesso di questi procedimenti. Spetterà al signor Conte di Cavour lo indicarvi quali mezzi esso giudichi impiegare per cancellare queste penose impressioni, e quali le guarentigie che offre contro la prolungazione indegna di uno stato di cose, così diametralmente opposto al desiderio, da cui noi siamo animali di mantenere col Piemonte relazioni, tali, quali l'esige l'interesse ben inteso del due paesi.»

La risposta del Conte Cavour al gabinetto di Vienna per mezzo del Marchese Cantone suo rappresentante non lardò ad essere inviata. È un capolavoro del più furbo politico; non senza far rilucere le intenzioni del Conte di Cavour, che carezzava segretamente la rivolta accovacciala in Piemonte per servirsene, come fece, a tempo opportuno.

Sui fatti, che il Conte Buoi imputava al gabinetto sardo, rispondeva, quello essere un trovalo per mettere in mora il gabinetto Sardo sullo stipulato di Milano. Non esita però ad ammettere confidenzialmente ed in pubblico, che la stampa si dia ad eccessi 'riprovevoli; ma ciò non esser allo a recare imbarazzi agli alti del governo Austriaco. Se ne duole, e promette d'impedire che si attacchi davantaggio la persona dell'Imperatore; ma in riguardo alla libertà di discussione, non ò in suo potere impedirla, poiché dessa forma una delle basi essenziali del regime politico in vigore nel Piemonte; ed asserisce, che questa libertà vi produce altrettanti vantaggi e minori inconvenienti

(1858)LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 139

sa a severa censura i giornali riproducono impunemente gli articoli più odiosi del fogli avversi. contro il governo del Re, e contengono frequentemente ingiurie ed insinuazioni personali contro gli uomini di stato del Piemonte, che sollevano la stessa nausea destata u da alcuni fogli Sardi nel conte di Buoi.... Gli articoli contenuti nei e giornali Ufficiali, che sono ispirati dal governo imperiale, provano che il gabinetto di Vienna sancisce e dirige gli assalti, di cui no i siamo lo scopo.

Veramente dopo aver letto un articolo di fondo della Gazzetta Ufficiale di Milano, la cui sorgente non potrebbe esser dubbia, e e nel quale i ministri del Re sono paragonati al Robespierre ed ai e Cromwel, si è maravigliati dell'asprezza del lamenti che la tolleranza degli uomini di Stato Piemontesi inspira al Conte Buok....» Ribatte l'accusa, che nel Piemonte si tollerasse l'incoraggiamento alla rivolta, e ne dà a pruova la soppressione del giornale l'Italia e Popolo (1).

Conchiude che non vuol devenire ad enumerarci gravami, cui diede luogo il governo austriaco contro il Piemonte dopo il sequestro posto sui beni del Lombardo - Veneti, divenuti legalmente sudditi sardi.... per cui lascia ogni recriminazione per non esacerbare una discussione, la quale non potrebbe condurre a vantaggiosi risultali per i due paesi!

(1)

Questa è una menzogna oflìciosa. Il giornale Italia e Popolo fu soppresso perché, sostenitore del Mazzinianismo, dichiaravasi apertamente contrario alle tendenze annessioniste del Cavour e del Comitato Nazionale di Turino. 1l Gabinetto di Austria indicava gli organi officiosi, quali erano la Gazzetta del Popola, l'Opinione, e simiglianti.

140 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1858)

In seguito di questo scambio di note, fu rotta ogni comunicazione diplomatica fra i due gabinetti. Nell'Austria crebbero i timori di rivolta, e crebbe la vigilanza nel Lombardo - Veneto; il Conte di Cavour diessi maggiormente ad, incoraggiare i comitati, servendosi fm degli elementi mazziniani, i quali, tuttocchè detestasse, pure come elemento rivoltuoso, volea tener carezzali, per servirsene nel momento della insurrezione, e disfarli dopo di essersene servilo.

Uno sguardo sulla politica di Cavour. Si era fondala in Torino la Società nazionale Italiana, sotto la direzione di Lafarina. Scopo di essa era annettere tutta l'Italia agli Stati Sardi, per opporsi e farsi diga alle idee del Mazziniani, che volean l'unità, ma nel senso di repubblica. Ma se diverso era il fine, eguali erano i mezzi cui ambe le parli ricorrevano per raggiungerlo. Ci serviamo, a tal proposito, delle parole di un tale Augusto Licurghi, che si mostra bene informato di quanto allora in Piemonte si operava (1).

Criticando i proclami e gli scritti, che Lafarina teneva a base della detta Società Nazionale aggiunge: «Lafarina esclude, durante la rivoluzione, l'azione del governi provvisori negli stati insorti; non vuole né rappresentanze nazionali, né libera discussione: condanna i giornali e le popolazioni ad osservare, approvare, e tacere: proli pugna, in una parola, l'unità, l'unità fusionista, la dittatura militare e civile, la guerra a tutto ed a tutti, e per avere l'unità non rifugge manco dalla Guerra Civile»

Da ciò è agevole apprendere come nel 1858 già pensavasi al modo mercé cui far tacere le popolazioni, lasciando ai soli consorti della Società nazionale, composta dagli elementi, che abbiam veduto fiorire dal 1860 fino ad oggi, il diritto di governare a loro bell'agio, e ballottarsi i ministeri ed i principali impieghi del governo. La trama è riuscita a puntino, e le tradizioni della politica cavurriana non sono state falsate di una linea.

Segue il Licurghi a spiegarci su quali basi s'informasse

(1)

LA NUOVA LEGA ITALIANA. Progetto di unificazione Nazionale per fondere l'impero costituzionale italico. Torino 1858.

(1858)LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 141

la Società nazionale - «Lo scopo principale, cui tende, è di confiscare le dottrine di Mazzini a vantaggio della Casa Sabauda. Egli cospira dunque, per fondere tutta la penisola negli Stati sardi, o per dir meglio, unire tutta Italia in un sol corpo politico sotto la bandiera i e il dominio di Savoia....»

Che coordinatore e protettore di questa Società nazionale annessionista fosse il Conte di Cavour; che egli la guidasse nell'azione, apparisce chiaramente dalla corrispondenza attivissima, che tenea aperta con Lafarina, e di cui pubblichiamo qualche brano (1).

(26 Nov. 1856). R Se le relazioni, che ci giungono da oltre Ticino, sono esatte, l'irritazione crescerebbe molto nel Lombardo - Veneto. Sarebbe di suprema importanza l'impedire, che questa giungesse sino a produrre moti scomposti, e disordini di piazza........

(29 Nov. 1858) «Non manchi domani alla solita ora. Per carità non moli incomposti. Fido pienamente in lei, perché so che sa che può......

(... Nov. 1858).... Mi vien detto che X... siasi recato in Sardegna per conferire con Garibaldi. E'di massima importanza che questi non si lasci sedurre, giacché ciò potrebbe mandare a monte IL VASTO PROGETTO AL QUALE DA LUNGO TEMPO LAVORO - La prego perciò voler tosto scrivere a Garibaldi, per metterlo in avvertenza, esortandolo a non commettere imprudenze».

(... febbr. 1859)... «Non è il caso di pensare a moti incomposti, a governi provvisori, o ad altre sciocchezze ad uso 48...........

(... Marzo 1859).... «La ringrazio delle importanti comunicazioni, a Sono informato dell'accaduto in Toscana. Si facciano indirizzi e proteste, ma per carità non moti in piazza....... Scriva decisamente in questo senso ai suoi amici»

Infine non possiamo omettere l'accusa stessa, che a Cavour lanciò il Mazzini nella difesa scritta per sé alla Corte di Genova (2).

(1) Questi brani si conservano nei documenti dell'Archivio generale di Torino.

(2)

Lettera di Mazzini ai Sembri dotta Corte di appello di Genova - (pubblicata dall'Italia del popolo del 24 marzo 1858, N. 85.

142 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1858)

E'un documento che rivela le arti usate da molto tempo dal governo piemontese per annettersi l'Italia.

«La tattica governativa (scrive Mazzini) è tuttora provocatrice del fatti, su cui dovete giudicare...........

«Come il governo. di pressochè tutti i monarchi costituzionali, il vostro governo è figlio del moto rivoluzionario, e volto, come tutte le monarchie costituzionali, a tradirlo. Esciva dal fermento insurrezionale d'Italia!!

«Il governo piemontese si fece, e dura, riuscendovi o no, nemico ad un tempo e maneggiatore dell'elemento rivoluzionario, cospiratore e persecutore.

«Cospiratore ogni qualvolta ei teme gli sfugga interamente di mano il partito italiano; ogni qualvolta intravede probabile un molo in altra parte d'Italia; ogni qualvolta gli sembra guadagnar. terreno l'elemento repubblicano: - cospiratore quanto basti, da un lato a sviare dietro a una qualche illusione l'ardore di chi minaccia conquistare una realtà: dall'altra a poter dire il dì dopo, se l'ardore traducesse in fatto: - io era dei vostri, e impadronirsi del molo.

«Persecutore, quando un tentativo fallito gli porge il destro per indebolire più sempre quella frazione del partilo, che non gli è dato dirigere, e per accattarsi favore dai governi assoluti, ai quali esso accennava minaccia il dì prima........

«Vive.... o meglio brulica in Italia una cospirazione monarchica piemontese, senz'altro intento che quello accennato di sviare ogni concetto d'insurrezione, o d'impadronirsene, se mai si traducesse in azione; e nondimeno faccendiera, insistente, raggiratrice, con viaggiatori ed agenti, talora sotto colore di diplomazia; con affiliazioni, con centri di propaganda ed agitazione, eh'io potrei indicare a dito o coi nomi.

«Esistono comitati monarchico - piemontesi in Roma, in Bologna, in Firenze ed in alcune città del Lombardo - Veneto; e centri secondari sovra altri punti. Io potrei nominarvene gli uomini

(1858)LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 143

-

i più deputati alle

«Quei faccendieri spargono ovunque, come prima del 48, incoraggiamenti a diffondere la fede nella......., consigli d'indugio a qualunque moto di popolo, indizi di disegni profondi del governo sardo, speranze............ Quando l'impazienza degl'illusi minaccia prorompere, promuovono e piccole medaglie e sottoscrizioni, alle quali dan nome di principio di fatti. La cospirazione si è affratellata coi pretendenti, ed io potrei citarvi il nome di chi si recò con commendatizia a ossequiare Murat in Savoia....»

Nulla di ciò ignorava l'Imperatore del Francesi, e benché a controcuore si vedesse costretto a romper guerra contro l'Austria, pure a ciò decidevate e il movimento rivoltuoso, che da un momento all'altro poteva scoppiare, e il timore che la villoria del partito mazziniano minacciasse d'irrompere in Francia, d'altronde, dalla Russia non avea più che temere: in Inghilterra l'opinione pubblica sembrava propendere a simpatie per l'Italia; nella Francia era d'uopo sollecitare la vanagloria con nuove vittorie; perciò si decise, o meglio, decise in cuor suo di partecipare a Cavour il suo piano, obbligandolo al più stretto ed inviolabile segreto. Ed affinché non si destasse sospetto alcuno nella vigilante diplomazia, recossi ai bagni di Plombières, sotto il facile ritrovato di necessitargli le acque della Source d'Enfer per ristabilirsi in salute.

Là convenne il Conte di Cavour, che era partito da Torino segretamente e sotto finto nome.

Quel che si fosse là stabilito, non potremmo asserire, avvegnacchè nulla si fosse messo in scritto -Solo non può porsi in dubbio, che a Plombières fu deliberata la guerra con l'Austria, l'incorporazione del Lombardo Veneto al Piemonte, il Regno d'Etruria al principe Napoleone, quello di Napoli a Murat, la cessione di Nizza e Savoia alla Francia, e il matrimonio del Principe Napoleone con una principessa di Casa Savoia.

144 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1858)

Cavour di fatti scriveva di là al Marchese di Villamarma a Parigi. «... Son rimasto quasi otto ore testa a testa con l'Imperatore; egli è stato amabile oltre ogni credere: mi ha testimoniato il più vivo interesse, e m'ha dato assicurazioni, che non ci avrebbe mai abbandonalo....»

E l'Opinione di Torino pubblicò un articolo, che comincia così: - «Verrà il giorno in cui la Storia registrerà la visita fatta recentemente dal Conte di Cavour a Plombières, come un avvenimento di grande importanza per alcune questioni della politica europea»(1) Ne Cavour dopo le annessioni della Lombardia, di Firenze e di Bologna, fece più mistero che Nizza e Savoia erano il prezzo del convenuto a Plombières; egli lo rivelò in pubblico Parlamento. (2)

Garibaldi accusò il trattato del 24 Marzo, per quella cessione, di incostituzionale, di contrario ai diritto delle genti, informato ad una politica che poteva essere fatale al paese, e che perciò dovea essere riprovata da tutti i popoli civili: Cavour gli rispose -: «Il trattato del 24 marzo non è cosa isolata; il Ministero lo considera come un fatto, che rientra nella serie di quelli che si sono compiuti, e che ci rimangono a compiere. Esso fa parte del nostro sistema politico; non potrei giustificarlo senza entrare in lunghi sviluppi, senza esporre minutamente alla Camera quali sono i principii sui quali si è fondata, si fonda, e si fonderà la nostra politica condotta Perora, sul terreno politico, mi restringo a questa sola dichiarazione, ed è che la cessione di Nizza e della Savoia era condizione Essenziale del proseguimento di quella via politica, che in così buon tempo ci ha condotti a Milano, a Firenze, ed a Bologna...»

La confessione che la via politica, la quale condusse il Conte di Cavour a Firenze ed a Bologna tosse conseguenza di quella condizione essenziale, vale più che un tesoro-; e lo conferma egli stesso: «Era «impossibile (diceva esso) respingere il trattato e proseguire la stessa politica: non solo si sarebbero esposte a evidente pericolo le passate conquiste, ma si sarebbero poste a cimento le sorti della patria!»

(1) Opinione del 30 luglio 1858.

(2)

Tornala 12 aprile 1860.

(1858)LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 145

A suo luogo daremo su questo riguardo gli opportuni schiarimenti storici.

Ritornato il Cavour a Torino, dopo essere stato anche a Baden. diè opera a muovere con più celerità la ruota rivoluzionaria; i corrieri da per tutto annunziavano la prossima ringenerazione d'Italia; si spargevano proclami o ritratti di Vittorio Emanuele, accompagnali dalle voci di libertà, e d'indipendenza.... - insomma un'aspettazione, una titubanza, un comune trepidare - Il giornalismo piemontese fattosi arditissimo, senza offendere nessuna potenza, pubblicava articoli che addivenivano scintille di vivissimo fuoco là dove il materiale per l'incendio era stato con molta arie preparalo. La dissoluzione era prossima: la rivoluzione avea rose le fondamenta dell'edificio monarchico, che restato ancora in piedi per forza di equilibrio, cadde al primo grido che si alzò da Torino...!!

Lo stesso metodo, cosa nuovissima, imprese ad imitare il giornalismo francese. Si propalavano le più allarmanti notizie: si prognosticava prossima una guerra, senza declinare il nome della potenza nemica. Il Moniteur, secondo il solito, lassamente si sforzava a sconfessar quelle voci a deffinirie come premature-Intanto la stampa proseguiva la sua opera. Or si pariava di un Ilalia confederata; e là un colpo al Papa, una calunnia contro i Borboni, un gridio unanime contro l'Austria tiranna. E il Moniteur seguitava a ricordare che l'impero è la pace! Una polemica si accese fra i giornali francesi; gli uni sostenendo la libertà Italiana; gli altri a difendere i diritti dell'Austria. Napoleone sondava la pubblica opinione, e quando vide che le sue dottrine, da quei giornali esposte, aveano fatto il giro dell'Europa, ed avean turbalo i sonni dell'Austria, del Re di Napoli, del Duchi, e Granduchi, fece dal Moniteur pronunziare il basta con un articolo, che secondo lo stile usato da Napoleone 3°, quando cova un disegno, è ricco di parole ghiacciate ed ambigue. «Una polemica (son le parole del giornale francese) sostenuta con rincrescevole persistenza da vari giornali di Parigi,

146 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1858)

sembra aver destata una inquietudine, cui le nostre relazioni con le potenze straniere non giustificano punto, né poco. Il Governo dell'Imperatore crede suo ii dovere premunire l'opinione contro gli effetti di una discussione, la quale potrebbe alterare le nostre relazioni con una potenza alleata della Francia!»

Cessala questa polemica, ecco sorgerne immediatamente un'altra non meno importante, sulla secolarizzazione delle Romagne, delle quali sostenevasi doversi fare uno stato a parte; anzi alcuni giornali assicuravano, che tra la Corte di Parigi e la S. Sede vi fosse stato per tal fatto un animatissimo scambio di dispacci, dietro i quali eransi raffreddate tra quelle due Corti le relazioni diplomatiche. A smentire queste voci venne un articolo del Giornale di Roma: «Molti giornali, leggesi in esso, si occupano nel descrivere certe scissure, che secondo loro, esistono fra la S. Sede ed il doverne Imperiale di Francia. Si descrivono alcune conversazioni vivaci, pungenti, succedute fra rappresentanti dell'uno, e dell'altro Governo. e cose simili. A tranquillità di questi fabbricatori di notizie, noi siamo autorizzati a dichiarare loro, che nulla vi ha di quanto hanno essi annunciato...»

A Roma non pertanto erasi convinti, che tra non guari Napoleone si sarebbe mostrato nel suo vero aspetto in riguardo del potere temporale del Papa. Erano troppo ben noli i principii di lui per potersi ingannare la S. Sede con l'apparenza di protezionismo alla religione; non ignorandosi a Roma, che per Napoleone il cattolicismo non era che una vernice politica per occultare gli ostili intendimenti.

Un Francese, Paolo Sauzet, poco dopo la guerra del 59 scriveva: «L'unità italiana non si riposerà senz'aver abbracciato il regno di Napoli: essa non dirà l'ultima sua parola che all'estremo capo dell'Italia: la guerra alla sovranità temporale non s'arresterà, finché resta Roma al Papa, e la Francia s'accorgerà bentosto che, a riguardo di Roma non ci ha mezzo tra la politica di Carlo Magno, e quella del 1809...»

Napoleone 3.° volte però far prova di fondere queste due politiche, o almeno tenerle in modo imbrigliale da farle camminare di egual passo!

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Ma il suo progetto andò fallato; la sua idea perdette il pregio del mistero pel suo barcamenarsi ora a diritta ed ora a manca. «La politica di Cario Magno, (segue il Sauzet) ha vissuto dieci secoli, e l'altra non è durata dieci anni. Napoleone 1.° cominciò con la prima; era il tempo del Concordato e di Austertilz -: finì con la seconda e furono i giorni di Savona e di Mosca. Fontainebleau. ove avea pretesa l'abdicazione del Papa, divenne il teatro della sua.» (1)

Napoleone cominciò pur egli con la prima, inviando l'esercito francese nel 1849 a restaurare il Papa sul trono: fu nel tempo che preparava il 2 Dicembre. Noi lo vedemmo, premurosissimo di rendersi accetto al clero ed al popolo francese eminentemente cattolico, proteggere e difendere la Chiesa. Dal 1856 in poi si diè a seguire la politica del 1809 (2). Non pertanto qualunque fossero le sue idee nella guerra che fece alla Chiesa, Napoleone 3.° non cessò mai di far mostra, che non il Vicario di Cristo, sibbene il Re di Roma fosse l'oggetto della sua politica.

Di questa politica grande saggio ed argomenti solidi ne fornisce il periodo storico di che trattiamo. Napoleone 3. che non s'illuse mai sulle mire del partito democratico dovendo uscire nella stabilita campagna contro l'Austria, provvide a ciò. che della sua assenza questo inimico interno non profittasse per mettere a scompiglio la Francia. La legge emanala sulla pubblica sicurezza fu bavaglio bene assestato sulle bocche del liberali, ed i comandi militari, già costituiti, gli diedero agio a viver sicurissimo, tenendo cinta tutta la Francia con una cerchia di ferro.

Davagli qualche pensiero la Bretagna avvegnacchè i Bretoni fosse

(1) Le due politiche della Francia.

(2)

La sua politica sembrò mutar Taccia nel 1861 nei fatti dell'aggressione garibaldina sul territorio pontificio. Di questo mutamento, se pur dovrassi chiamar tale l'intervento delle truppe Francesi a Mentana, parlerà lo storico, che seguirà il nostro racconto, o noi stessi se Dio n concederà tena e tempo a farlo.

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Volendo adunque da se medesimo esaminare lo stato di quel paese, e regolarsi con quel popolo a seconda della disposizione degli animi, preparatosi ad affaitarsi a cattolici, od a rivoltuoso; a parlar di catechismo, o ad alludere a fatti possibili;- insieme all'Imperatrice recossi in Bretagna, e dall'entusiasmo, con cui fu accolto, s'avvide essere in mezzo di un popolo religioso, che lo salutava restauratore dell'ordine e della religione. Ei v'era preparalo: e siccome là trovavasi nel 15 agosto, giorno della sua festa, pomposamente recossi in pellegrinaggio con l'imperatrice al Santuario di Sant'Anna d'Auray! Chi non avrebbe creduto in lui il discendente in linea retta di Carlo Magno, di Pipino, e di S. Luigi IX? I Bretoni ne ammirarono la pietà, e furon felici di esser sudditi di un Sovrano, che tanto zelava per il culto religioso e pei cattolici doveri, tutto gli rispose a meraviglia, ed egli volte confermare nei popoli Bretoni l'idea che di lui s'eran formata, con un discorso che a Rennes pronunciò al banchetto offertogli dalla città. Sono notabili alcune parole, con le quali scalzamente confessando aver avuto dubbio sulla fedeltà del Bretoni, si mostra infine ricreduto per l'accoglienza ricevuta.

«... Io sono venuto (egli disse) nella Bretagna per dovere, come per simpatia: era mio dovere conoscere una parte della Francia da me non ancor visitata; era fra le mie simpatie quella di trovarmi in mezzo al popolo bretone, il quale, prima di ogni altro, o monarchico, cattolico, e militare.

«Si è spesso voluto rappresentare le province dell'Ovest. come animate da sentimenti diversi da quelli del resto della nazione. Le calde acclamazioni, che hanno accolto l'imperatrice e me in tutto il nostro viaggio, smentiscono una tale asserzione. Se la Francia non o pienamente omogenea nella sua natura, ella è unanime nei suoi sentimenti. Essa vuole un governo stabile, tanto da togliere ogni pro

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Mentre adunque così dichiarava di protegger altamente la religione cattolica in faccia ai bretoni; mentre profondeva protezioni all'episcopato, il Moniteur, con immensa maraviglia di tutti, apriva le sue colonne ad uno scritto di Edmondo About-il più intimo tra i confidenti di Napoleone, il più empio fra gli empi acattolici - col titolo specioso d'Italia contemporanea. Non è nostro compito di far l'analisi delle menzogne, che l'About gratuitamente annestava in quello scritto, ove tentò mettere in ridicolo e calpestare l'onore del papato, dei cardinali, e del Governo pontificio col racconto di fatti prettamente immaginari e bugiardi. Dotti e chiarissimi scrittori lo nati già smentito. Non ci maraviglia neppure, che simili ingiurie si scagliassero da Parigi contro il papato dagli About, dai Cayla, dai Rènan e simili, se colà non cessò mai di fecondarsi la sementa degli adoratori di M. Maillard, che rappresentò l'immagine della Dea Ragione! Non ci meraviglia, ohe contro il papato avessero inveito officialmente il Principe Napoleone, Billault, Pietri, Casablanca, David, il diplomatico Laguéronnière, e lo stesso Baroche, presidente del Consiglio di Stato; perché siamo convinti, che a Parigi, sia nel Se - nato, sia nel Corpo legislativo, sia nel giornalismo, non vi abbia clic una sola e sovrana ispirazione: ma ci reca sorpresa il vedere in un attimo la prudenza e la riservatezza proverbiale dell'imperatore scomparire dinanzi agli articoli dell'About, i quali una volta inseriti nel Moniteur, acquistavano un carattere di officiale approvazione.

150 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1858)

Fu tale e tanta l'impressione prodotta da quella pubblicazione che il governo pontificio vide necessitato di indirizzare al gabinetto di Parigi le più formati dispiacenze. Da ciò seguì soltanto, che gli articoli di About non più sul Moniteur, ma sul Nord di Bruxelles continuassero ad essere pubblicati. Non pertanto, se per una meschina soddisfazione alla S. Sede il Moniteur taceva, il governo imperiale tollerava, che sul Journal des Dèbats e sulla Revw des deux mondes quelli scritti si riproducessero, e i più immorali ed empi opuscoli col titolo di Quèstioni Romaine. si pubblicassero in edizioni popolari.

Nel 1858 Napoleone 3. abbandonò del tutto la politica di Carlo Magno, e rinnovò quella del 180'J. Agli scritti tenner dietro scandalose commedie, rappresentate sugli Imperiali teatri; e Napoleone dal suo palchetto approvava con segni di compiacimento le bestemmie, gl'insulti, e gli oltraggi a dispregio del Papa e della Chiesa contenuti nella Tireuse di cartes; commedia scritta da Moquard, segretario particolare dell'Imperatore ed uno del capi della framassoneria francese! Adunque, ciò che potessero sperare la Chiesa, la religione. e l'io IX da lai politica, si rivelò poi nei fatti delle Marche, dell'Umbria e di Castelfidardo.

Il Piemonte. confortato da tale esempio, ruppe ad ogni più sfrenala licenza. Là dove perseguitarsi la religione era sistema e base politica del Gabinetto, quando non si ebbe più a temere della suscettibilità della Francia, fu sconfinalo ogni limite. In Francia la guerra era dichiarata; non restava che l'Austria sola, potenza cattolica, che avrebbe potuto levar la voce. E questo era quello che desiderava Cavour, in politica già addivenuto cieco strumento della volontà delle Touileries.

La soppressione del Conventi, legalizzata e sanzionata dal Parlamento da quasi tre anni, or con un modo, or con un altro si estendeva anche su quelle Congregazioni, che n'erano state escluse; e Cavour scacciando i frati, allegava a scusa la pubblica utilità.

Il più svenevole ridicolo era quotidianamente sparso dai giornali sul Papa, e sulle più sante cose della Chiesa; ed i Deputati Chiaves

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e Ro

Nell'insegnamento ogni idea di religione fu del tutto bandita; nel Parlamento subalpino - il solo profferire le parole di Papa, di Chiesa, di religione, di cattolicesimo destava o disprezzo, od ilarità; a seconda che a quei tristi pareva acconcio. Il gabinetto di Torino non facea che plagiare l'imperatore del francesi; perloccliè volle, che anche il Piemonte vantasse i suoi Laguèronnière, i Billault, i Baroche, gli About in sessantaquattresimo. Non rimaneva che demoralizzare le scene, ed ecco che per imitare la tireuse de cartes del Moquard, al teatro Carignano di Torino fu rappresentato il Mahomet le prophete, o le fanatisme di Voltaire: e furono declamati due canti dell'Alighieri nei quali il Ghibellino si scatena contro qualche Papa. Il fine, disse la Gazzella del popolo, era di staffilare i pontefici! Veramente non vi. era dello spirito in rappresentare commedie di quel Voltaire, che, come il Palissot scrisse, fu frondista a Londra, cortigiano a ersailles, cristiano a Nancy, increduto a Berlino (1) insomma una banderuola politica! In tale stato di cose declinava il 1858, che avea preparalo i tristi avvenimenti della rivoluzione.

La quistione del politico assestamento del Principati avea tenuto in qualche pensiero Napoleone, che perciò erasi riavvicinato alla Russia,

(1)

Voltaire a été frondeur à Londres, courtisan à Versailles. chrétien à Nancy, incrédule à Berlin.

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attestandosi contro l'Austria e contro la Turchia; ma la cosa fu subito definita con un compromesso diplomatico.

Napoleone così avea rimosso il grande scoglio, che tenealo nell'impossibilità di avventurare una guerra all'Austria; ed era certo di avere per se'il Gabinetto Russo. Sicché, quando se ne assicurò nei colloqui che con lo Czar ebbe a Wurtemberg, si rivelò apertamente favoreggiatore della causa italiana. La Russia cercava il momento per vendicarsi dell'Austria, e si vendicò a beneficio della Francia!

Questo rancore della Corte di Pietroburgo colpì anche inesorabilmente il Reame delle Due Sicilie. Ferdinando 2.°, quando scoppiò la guerra di Oriente, si rifiutò decisamente di far parte della spedizione contro la Russia, con la quale serbava vincoli di leale amicizia. E lo Czar promise al Conte di Trapani, che allora trovavasi a Drésda, di appoggiare e sostenere il regno delle Due Sicilie nel caso che in Italia si rompesse a guerra - Ma la promessa non mantenne.

Narrasi (1) che pochi giorni dopo il colloquio tenuto tra lo Czar e il Conte di Trapani, un principe tedesco avvicinatosi a questi, avessogli detto: «credo che lo Czar vi abbia promesso di soccorrervi in caso di guerra: non lo sperate. Già a Stuttgard egli ha dato l'Italia in balia di Napoleone....»

I fatti dimostrarono che l'avviso fosse vero. Ferdinando 2.° era stato leale; e per la sua lealtà declinò dal confederarsi con la Francia e con l'Inghilterra - Al contrario il Piemonte, che s'era a furia d'intrighi immesso in quella lega. si trovò sostenuto dalle simpatie di quelle due nazioni, che gli diedero forza morale e credito nella rivoluzione del 1860; e Napoli vide sfasciato il trono del suoi Re, dispersa una forte armata, messa al bando la famiglia Reale, e gli uomini più eminenti dello Stato; depauperato l'erario, impoverito il popolo, annesse al Piemonte le Due Sicilie.

Scrittori passionali accusarono Ferdinando 2. d'imperizia politica; ed ebbero torto. Re Ferdinando, se ebbe colpa, fu quella di ritenere in tutti quella stessa lealtà, che ammirevole ed unica era nell'anima sua!

(1) Ravvitti loc. cit. - V. i. Le cause - C. XI. pag. 230.

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Egli non sospettò mai di un voltafaccia, di un abbandono così assoluto della Russia, quando ad essa avea sacrificalo anche l'ambizione di signoreggiare il movimento italiano, mettendosene a capo! Ben egli sapeva ed era solito dire «Alle Tuileries vi è il gran nemico della mia famiglia» ma non pensò mai che una vendetta contro l'Austria avesse potuto indurre lo Czar a calpestare la fede giurata e il dovere della riconoscenza! Fu quello adunque un tradimento alla lealtà di Ferdinando 2.

CAPITOLO III.

Enciclica Amatissimi Redemptoris Stampa libertina - Affare Mortara L'Episcopato in Francia Pace della Chiesa in Spagna II Pontefice fa da padrino del principe delle Asturie al fonte battesimale - Discorso della Regina - Progetto di legge alle Cortes sui beni ecclesiastici - Decreto che restituisce i beni alla Chiesa - Il Ministro O'Donnei - Un nuovo tempio monumentale a Madrid - L'Austria Cattolica Monsignor Rauscher e l'Imperatore Intolleranza religiosa in Svezia Ostracismo alle dame cattoliche - Le Suore di Carità a Lisbona - Persecuzione del cattolici in Arabia - I Martiri nell'Arabia, e nella Cocincina.

In mezzo alla lotta delle passioni politiche, che da Parigi a Torino si facean vivissime per spogliare il Pontefice dei suoi Stati, e tentare, se fosse stato possibile, di soffocare, se non del tutto sradicare dal cuore del popoli italiani la venerazione e l'affetto pel Papato e per la religione cattolica, Pio IX era calmo. Egli si affidava nelle braccia potentissime di Dio. A giusto titolo potea la S. Sede volgersi sdegnala a quei due Gabinetti, quantunque forti per armi e per cospirazioni settarie; eppure non alzò la voce, se non quando lo spoglio fu consumato. Che far potea il S. Padre, se non protestare contro gl'invasori del suoi Stati? Quale altra difesa avea egli, se non la preghiera al Re dei Re?

A tal fine egli diresse a tutti i Vescovi dell'Orbe Cattolico, una Enciclica (1), con la quale ordinava che i parrochi in tutte le Domeniche e nelle feste principali della Chiesa celebrassero una Messa a spirituale beneficio del popolo.

(1) Enciclica. Amatissimi Redemptoris 3 Maggio 1338.

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Vedendo il Pontefice quali tempi tristissimi si preparassero, volte che ferventi preci si volgessero al Signore, affinché ai tristi avesse dato dono di penitenza, ai figli suoi virtù di soffrire nelle avversità.

I rivoltuosi di tutto il mondo eransi accontati contro la Sede Pontificia. Una massa di libelli infamanti, di poesie oscene, di aneddoti scostumati, di libri informati ora a stile romantico, ora a filosofico, ed or verniciati a storici, circolava nella Francia, nel Belgio, nell'Inghilterra, e nel Piemonte. Opera sì nefanda compieva il giornalismo, calunniando il papato, il governo di Roma, e le sue amministrazioni. Di Firenze, Parma, e Modena poco parlavasi, avvegnacchè le tenessero preda assicurata! Di Napoli poco o nulla; al silenzio suppliva la voce dei comitati. Era contro Roma, che la bile si scagliava, poiché nel Cattolicismo le sette trovarono sempre lo scoglio insuperabile, contro cui le loro male arti si rompono. Per la qual cosa, allorquando un argomento si speculava atto a calunnia, il giornalismo ne facea tesoro! In quell'epoca l'avvenimento fu dello 'affare Mortara.

Una fantesca cristiana, che trovavasi al servizio di famiglia Ebrea, raccontò ad altra donna, che un sei anni dietro, vedendo il pericolo di morte in cui versava un bambino, figliuolo del suo padrone, a nome Edgardo, segretamente aveagli amministrato il battesimo; riavutosi il fanciullo, né avendo ad alcuno palesato tal fatto scrupolavagli la coscienza nel vederlo educare alla legge giudaica. Il fanciullo contava allora sette in otto anni. Lo che giunto a notizia della S. Congregazione del Santo Ufficio, e constatato che veramente il battesimo era stato amministrato secondo le formole prescritte dalla Chiesa, risolvé, giusta le canoniche disposizioni, di farlo educare cristianamente: per lo che interpose l'aiuto del braccio secolare (1). Il fanciullo fu condotto in una casa di catecumeni, e dopo poco tempo egli fè consapevole i genitori di esser contentissimo del luogo ove rattrovavasi, e che per nulla avea sminuito l'affetto verso di loro. Assicurasi, che il padre niun romore menasse da principio;

(1) Civiltà Cattolica del 6 Novembre.

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anzi non disdegnasse la sorte assicurata di suo figlio; ma spinto, e messo in su da qualcuno del faccendieri corrispondenti dei comitati settari, si risolvette ad avanzarne reclamo al Rabbino di Piemonte!!! Ciò basta per dichiarare da qual fonte venisse il reclamo! Subitamente tal fatto, aggrandito dalle felici invenzioni del rivoluzionari, fu partecipato ai Rabbini di Francia e di Alemagna! Qual tema di questo più acconcio per dar flato alle trombe, e rompere in acerbissima polemica contro la S. Sede? In fatti il Siècle, il Dèbats, il Times, il Morning - Post, l'Allgemeinc - Zeitung, il Vollisfreund, e persine l'officioso Constitutionnel, senza tener conto del giornalismo piemontese, si levarono a spezzare una lancia in favore del perseguitato Israele! Non prendiamo a discutere l'operato della S. Sede, avvegnacchè partisse da uomini d'ingegno eminente, ed in canonica dottrina dottissimi; solo diremo che «un e secolo fa, né pure un cristiano avrebbe dato il menomo segno di e stupirsi del modo di governarsi tenuto dal sommo Pontefice in questo affare........ si sarebbero anzi appenati del pericoli, cui veniva esposta l'anima del neofito rimesso, a vivere con parenti immersi nelle tenebre del giudaismo...»

Nel cadere del 1858 però era un altro conto: ogni piccolo argomento per la rivoluzione dovea essere scintilla atta a destare incendio; si sentiva assolutamente il bisogno di discreditare slealmente il governo pontificio, e così preparare l'Europa allo spoglio degli Stati del Papa.

Ma se con tanti dolori si amareggiava il cuore del S. Padre dalla politica del governo francese, ripagavalo a mille doppi l'Episcopato, che giammai, come in questo secolo, seppe attestarsi e difendere la Sede di Pietro.

Monsig. Vescovo d'Angers, ed il Vescovo di Autun e Chùlons annunciarono nelle loro Diocesi il ristabilimento della liturgia romana, di modo che, meno poche eccezioni, ogni divergenza era quasi in tutta la Francia terminata.

A Parigi incessante era l'opera del Cardinale Morlot ad avvivare la fede, e stabilire con ogni solennità il culto cattolico.

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Nell'Aprile furono canonicamente inaugurate la Chiesa di S. Tommaso d'Aquino, l'Arciconfraternita dell'Adorazione perpetua del SS. Sacramento, e l'Opera dei tabernacoli. A queste distinte associazioni, fondate da pie e nobili dame francesi, Pio IX concesse moltissimi spirituali privilegi pel beneficio del fedeli; e con il Breve di concessione spedi anche quello di erezione; del che grandissimo tripudio menò l'aristocrazia parigina.

Nella Spagna gli affari della Religione immegliavano immensamente; e benché non del tulio si fosse rabbonito il movimento rivoltuoso politico, pure la Regina, affiancala da temperante ministero, seppe, per quanto più le fu possibile, restituire alla Chiesa ed all'Episcopato quei diritti che la rivoluzione loro avea tolti.

Sendosi sgravata d'un bambino, che prese titolo di Principe delle Asturie, pregò il Pontefice a degnarsi di fargli da padrino al fonte battesimale; e fu gran gioia per tutta la Spagna la pronta accettazione di Pio IX. All'apertura delle Cortes, rammemorando tal fatto, la Regina disse: - «Devo segnalare in modo particolare gli splendidi segni di paterna benevolenza, che m'ha dati il sommo Pontefice, il quale, acconsentendo ai miei voti, compiacquesi d'esser padrino del principe neonato, per mezzo di un suo reverendo ben legato all'uopo. Vennero così simboleggiali sugli stessi fonti battesimali due sentimenti profondamente scolpiti nel cuore del popolo d spagnuolo; l'amor della religione professata dai suoi antenati, e quello del suoi Re...» Dopo la qual cosa espresse il desiderio di presentare un disegno di legge, per trattare con la Santa Sede intorno alla guarentigia delle vendile del beni della chiesa, per assicurarne il perpetuo possesso ai compratori, riservando alla chiesa una giusta indennità; e per restituire immediatamente ai Cleri quei beni di cui essi aveano la proprietà e l'amministrazione, giusta l'ultimo concordato.

Nel 26 Aprile fu presentato alle Camere il progetto annunziato; e dietro una motivata esposizione fattane da Ocagna Ministro per le finanze, fu promulgato il decreto, il quale stabiliva:

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restituirsi alla Chiesa nella intiera. piena, ed assoluta proprietà, i beni del clero secolare, che trovavansi in potere dello Stato: e di quelli, clic non ancora erano Stati messi in vendita, invertirsi il Capitale in iscrizioni non suscettibili di trasferta: indennizzarsi il clero secolare del beni venduti coi beni sopraddoti, i quali sarebbero stati dichiarati inalienabili, quale dotazione dei cleri. Al decreto facean seguito particolareggiale disposizioni per la pronta ed esatta esecuzione della legge.

Tentennando nondimeno quel Ministero a causa della opposizione, che lo avversava, diede le sue dimissioni, ed accettate, fu commesso l'incarico per la formazione del nuovo gabinetto al Maresciallo O'Donnei; il quale, sebbene moderato liberale, pure affiancato da molti della opposizione, non potea certamente far buon viso alla gran protezione che il passato ministero avea accordato al clero. Non pertanto dal principio, senza mostrarsi ostile, si limitò a non concedere oltre a quel che già era stato sanzionato, ed a cui non poteasi allentare sì per rispetto della Regina, sì per la certezza che una nuova persecuzione alla Chiesa avrebbe suscitata una seconda reazione, le cui conseguenze sarebbero state il rinnovellarsi delle scene di sangue e della guerra civile; vicende certamente non desiderabili in un governo che da esse era appena uscito agognando ad un lungo periodo d'ordine e di pace.

Il culto cattolico professavasi liberamente, e la Regina non cessò di proteggerlo per avvivare nel popolo quella fede, che può dirsi propria della Nazione Spagnuola. A tal fine con un Decreto (6 dicembre) ordinò che a Madrid fosse edificalo un tempio monumentale in memoria della definizione dommatica dell'immacolato Concepimento.

Nell'Austria il cattolicismo rifioriva pure in tutto il suo massimo splendore, ed immensamente benefici erano stati gli effetti prodotti dall'attuazione dell'ultimo Concordato tra il governo di Vienna e la S. Sede, col quale segnaronsi i limiti tra i diritti della Chiesa e quelli dell'Impero.

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Un Concilio provinciale fu là con gran pompa celebrato, e furono discusse e stabilite le basi della ecclesiastica disciplina, una più. accurata istruzione pei chierici, e per la educazione religiosa del cattolici. Monsignor Rauscher Arcivescovo di quella Metropoli insieme a tutti i componenti quel venerando consesso recossi di poi a render grazie all'Imperatore pel protettorato dispiegato a benefizio della Religione. Sono notevoli le parole, che il Sovrano gli rispose -: «Ho tolti via (diss'egli) per mezzo del concordalo tutti gli ostacoli; che nel mio impero davano impaccio alla Chiesa nell'esplicamento della sua attività piena di benedizioni. Ilo così fatto nella ferma convinzione, che i Vescovi sentendo la più alla responsibilità, che quindi innanzi peserà su loro, si varranno con zelo ed assiduità del diritti rivendicati della Chiesa. Tutto ciò che mostra attuare questa aspettazione, u m'ispira vero contento, e perciò mi rallegro del vostri sforzi per dare una salda e ben ponderata base allo svilupparsi e rinnovarsi della vita ecclesiastica.

Sono anzi tutto lietissimo in vedere una prima volta raunati in concilio i Vescovi ed i prelati di questa provincia; e mi fido interamente alla loro affezione verso di me, e della casa mia. Piacemi di vedere V. Eminenza alla lesta del Concilio, perocchè ho nei più difficili casi provala già l'inviolabile vostra fedeltà ed alta sapienza. Auguro che Dio benedica la missione che tenete da lui...»

Questo desiderevole accordo tra sacerdozio ed impero diedero allora il massimo impulso al benessere politico - morale dell'Austria; la religione libera poté spandere luminosamente i suoi benefici raggi; e lo stato ne risentì tutta la potenza nel positivo immegliamento delle interne condizioni, che negli anni scorsi erano state scusse da politiche perturbazioni.

Questa pace, che la Chiesa godeva nei principali Stati d'Europa, fu amareggiala dalla intolleranza metodica del protestanti, i quali battuti sempre dalle dottrine cattoliche, ricorrevano al sopruso ed alla forza per non perdere quell'inane prestigio, quella rabbia di dominare che empie

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Col grido di libertà, la libertà manomettevano, il diritto calpestavano, le coscienze travagliavano.

In Scozia ammettevasi la tolleranza del culli; ma pel crescere delle sette, e perché ogni dì avvenivano scene d'intolleranza tra i seguaci delle diverse scuole, il governo si decise a proclamare la libertà di culto, onde scongiurare ulteriori collisioni. Ma questa libertà, che i protestanti ambiscono per loro nelle città cattoliche, potentemente avversano là dove pel protezionismo del governi il loro culto è preponderante; avvegnacchè sapessero che la menzogna, per quanto più si mascheri, più cada smascherata. Perciò dura, aspra sovra ogni credere, è la pugna che combattono contro il cattolicismo; non tralasciando, per aggiugnere il loro fine malvagio, neanche di ricorrere alla forza, all'arbitrio, alla prepotenza, ed alle più inqualificabili persecuzioni.

A Stoccolma, fra gli altri, fu consumato un atto d'intolleranza tale, che non ha riscontro alcuno nella storia. Lo rileviamo dalla sentenza che a tal riguardo fu pronunziata dalla Real Corte magistrale presieduta dal Conte Enrico Sparre. Ecco il fatto:

Alcune dame svedesi educate nella setta luterana, volendo e riusare le dottrine insegnate dai cattolici, e da sé stesse giudicare, se quelle fossero sufficienti a racquetare le coscienze, e toglierle dallo stato di dubbiezza in cui le massime luterane teneanle continuamente, si recarono in una Chiesa cattolica, dove un sacerdote tenea conferenze quotidiane. Persuase dalla chiara esposizione di quelle dottrine, mossero ai loro pastori semiale quistioni: e quelli, che avvertirono ciò devenire da insegnamento cattolico, si adoperarono ad impedir loro che di bel nuovo tornassero ad ascoltare quelle conferenze. Ma esse, ferme nel loro proposito, una volta convinte dell'errore in cui per tanto tempo eran vissute, fecero domanda di essere ammesse fra le catecumene; lo che ottenuto, poco tempo di poi furono ricevute nella Comunione cattolica. Tale notizia spinse a rabbia nefasta i pastori luterani, i quali non potendo reagire contro il sacerdote, che giusta le leggi, in casa propria e nell'ambito di sua giurisdizione esercitava

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il suo culto, mossero querela a quelle dame presso la Real Corte.

La querela non potea ingenerare condanna e pena, poiché le accusale si faceano scudo della legge del Regno: eppure la intolleranza protestante, l'odio contro il cattolicismo, ed i segreti maneggi del pastori luterani indussero quel tribunale a condannare quelle dame alla pena dell'ostracismo dal regno, privandole di ogni diritto civile, anche in riguardo alle eredità di famiglia.

La qual cosa produsse gran rumore presso gli stessi luterani più gelosi del cittadini diritti, e che in ciò deploravano una offesa alla libertà, una derisione alle leggi, una brutale coazione alle coscienza. Ad onta di tali dimostrazioni, i pseudo - pastori ottennero che la sentenza si eseguisse, a fin di spaurire coloro che mostravansi propensi ad abbandonare il luteranesimo. In somma la forza per ragione, la persecuzione per legge, l'arbitrio per diritto, la condanna per. dottrina: - o esser luterano, o perdere quanto di più nobile gode il cittadino nella società; i diritti civili.

Maggiormente biasimevoli furono i fatti perpetrati nel Regno di Portogallo, ove alla inqualificabile intolleranza religiosa si accoppiò la più detestabile ingratitudine.

Le Suore della Carità istituite da S Vincenzo de Paoli, Società a cui ninna può eguagliarsi per filantropia esemplata sulla evangelica, erano state dal Governo Portoghese inviate per soccorso ai colerosi, di che gran strage menava il terribile malore. Parecchie mossero dalla Casa centrale di Parigi; le quali, come angioli di consolazione, né stenti, né fatiche, né privazioni temerono per soccorrere, servire e confortare i colpiti dal male; e fu tanta l'ammirazione per l'abnegazione mostrata da quelle donne, che non v'era casa, borgo, o città, in cui non fossero additate come modello di cristiana carità. Per la qual cosa, alla domanda da esse fatta di fondare a Lisbona una casa, il governo non mostrò difficoltà; tanto più per quanto che quelle alla pietà con cui assistevano gli ammalali, univano anche la istruzione gratuita alle orfane, ed alle fanciulle del popolo.

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Era poco tempo da che eransi stabilite, ed unaninamente da tutti si riconoscevano i beneficii che sperimentavansi negli ospedali non solo, ma anche negli uffici di assistenza e di carità a favore dei poveri a domicilio. Lietissimi e grati erano gli operai per la istruzione delle loro figliuole, che vedeano di giorno in giorno addottrinate nella morale e nei lavori donneschi; e tale istruzione incontrò tanto, che la più scelta aristocrazia lisbonese volte una classe distinta per le nobili giovinette. Questa popolarità della morale e della istruzione cattolica irritò grandemente le sette massoniche, le quali cospirano al materialismo del cuore e della mente per emancipare le donne da quella modestia, che è l'unica diga, la quale possa opporsi alla virulenta e passionata corrìa del mal costume.

Da ciò nacque l'idea deliberata di guerreggiare quelle Suore a tutt'oltranza. Non ebbero ritegno i settari, camuffati a bugiardo liberalismo, d'insultarle pubblicamente, tuttocchè fosse viltà e villania inveire contro donne; non ebbero ritegno di rinnegare il dovere di riconoscenza che a quelle si doveva pei disinteressati servigi resi a tutto il regno: non si ebbe ritegno d'insultarle, benché straniere, e cittadine francesi! Le passioni acattoliche, sono come piena di acque correnti; esse abbattono diritti, doveri, gratitudine, civiltà, cortesia, poiché non hanno dinanzi a loro che un solo scopo, distruggere tutto ciò che è morale e cattolico.

Guai a quei governi, che si fan travolgere da queste onde funeste: essi perdono quell'autorità morale, unica forza che sostiene le basi del troni e delle società civili. Il governo di Portogallo non seppe resistere alle male voglie della setta, e con decreto del 3 settembre fu nominata una commissione, la quale interdì alle Suore della Carità la istruzione delle figlie del popolo!

Né meglio prosperavano gli affari religiosi nelle Missioni straniere. A Dieddah, nell'Arabia, mentre il Cattolicismo facea da qualche anno mirabile progresso nei popoli Arabi sotto l'egida delle potenze Europee, il fanatismo musulmano ruppe a furore di sangue.

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All'impensata essi invasero le chiese cristiane; gli oggetti sacri rubarono; ogni cosa misero a sacco ed a fuoco. Dal ladroneccio si passò ad atti più barbari; e sacerdoti, frati, e chiunque di cattolicismo era sospetto, alcuni furon messia morte, altri in mille modi sconciamente straziati; trascinati per le vie i loro cadaveri bruttamente mutilati: e siccome la belva che appena leccato il sangue, sente risvegliarsi l'appetito dello sbranare; così gli Arabi, di sangue inebbriati, assalirono i consolati europei, ed uccisero il Console Inglese, e quello di Francia insieme a sua moglie. S'era così ridesto quel fanatismo, già da molti anni assopito, che non cessò dallo scapestrare, se non quando, intervenuta una squadra Anglo - Franca, quel governo corse a chieder perdono, ed a stabilire un trattato di garentia per i cattolici.

Terribili simigliantemente furono i massacri avvenuti in Cocincina (1).

Da molto tempo la Francia avea occupata una grande estensione di territorio nell'impero di Annam, paese che comprende tre principali divisioni, la Cocincina, la Cambodia, e il Tonchino. L'imperatore Gia - Long, per gratitudine ai grandi servigi che la Francia aveagli renduti nelle guerre coi vicini, e nelle popolari sommosse, avea con essa solennemente stipulato nel 1185, che del tutto libero fosse l'esercizio del culto Cattolico in quell'impero; accordando ai cattolici il diritto di eriger templi, fondar case religiose e seminari, e accoglier nella lor communione quanti volessero appartenervi, promettendo di guarentirli, difenderti e farli rispettare da qualsiasi intolleranza degli abitanti del suoi Stati. Simile trattato fu poco dopo stipulato con la Spagna; per cui sicuri viveano i cattolici all'ombra del protettorato Franco - Spagnuolo.

Questo periodo di pace durò per tutto il tempo del Regno di GiaLong; perlocchè stabilitesi molte case di missionari Francesi e Spagnuoli, la religione cattolica poté sicuramente spandere il tesoro di

(1)

Veuillot. La Cocincina e il Tonchino. Parigi 1858.

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sua dottrina, tuttocchè cozzar dovesse con gl'inveterati e secolari pregiudizi del gentilesimo e dell'idolatria, e con la poligamia che in quelle contrade non è vietata.

Morto Gia - Long, e succedutogli Minh - Mang, cominciò sordamente la persecuzione; del che avvertiti i cattolici, non più pubblicamente, ma in privalo esercitavano il loro culto. La persecuzione in tutta l'espressione della parola ebbe principio con Thieu - Tri - , e animosamente fu seguita dal barbaro Tu - Duc. Non tenendo conto del trattati internazionali stabiliti con la Francia e con la Spagna dal suo antecessore, egli ordinò darsi a fuoco le chiese e le abitazioni che dai missionari con immense fatiche e spese eransi edificale; e costoro, inseguiti come belve, trascinali con pesanti catene, martoriati, segati, battuti a verghe, impiccali, o crocifissi. Lo spavento divenne universale: i naturali di quei luoghi, datisi alla fuga, ricoveravano nelle aride steppe, o su monti inospiti; e colà, se eran scoverti, accorrevano i carnefici, e festosamente uccidendoli, le mozze leste, come a segno di sanguinoso trofeo, all'Imperatore presentavano per averne vilissimo compenso di qualche moneta.

Grande fu il numero del martiri in quelle persecuzioni. Dal 1820 al 1840 soffrirono martirio e morte i sacerdoti Gagelin, Marchand, Cornay, Jaccard, Delamotte, e Monsignor Borie Vicario Apostolico del Tonchino orientale, tutti educati nel Seminario delle missioni straniere di Parigine il P. Odorico Domenicano, Monsig. Delgado Vie. Apostolico, mons. Henares suo coadiutore ed il P. Fernandez delle missioni di Spagna.

Nel 1843 i sacerdoti Galy, Berneux, Charrier, Miche, e Duclos condannati a morte, furono salvi per essere giunta una corvetta francese comandata dal Cap. Léveque, il quale minacciò di bombardare la città: ma appena quella si fu allontanala, con più furia ricominciò la persecuzione, ed il Vie. Apostolico della Cocincina Orientale mons. Léfévre poté scampare la morte per un secondo intervento armato francese. Fu allora che la Francia, a Melare i suoi sudditi, spedi due vascelli

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dal che atterrito quel barbaro e stupido Imperatore Thieu - Tri non ardì di arrecare più molestia né ai Francesi, né a qualunque altro Europeo, avendo dichiarato il comandante delle squadre, che tutti i naturali d'Europa che si trovassero in Cocincina, fossero sotto il protettorato della bandiera francese.

Succedutogli al trono Tu - Duc; più feroce e più audace, poco curandosi del diritto internazionale, fece decapitare i Sacerd. Schoeffer, Bonnaud, Diaz, e mons. Melchior; mise a taglia le teste di tutti i missionari, e fece man bassa su quanti cattolici gli capitarono nelle mani.

Invano la Francia spedì il sig. De Montigny per trattare con quella stupida belva; invano l'ambasciatore si recò alla Corte di Hué capitale dell'impero di Annam; epperò la Francia, decisa a far guarentire e rispettare i suoi sudditi, si accontò con la Spagna, ed una squadra navale franco - spagnuola fu spedita nella baia di Touranne.

Non scosso alle prime minacce l'Imperatore Tu - Due, il vice ammiraglio Rigault di Genouilly aprì il fuoco contro i forti di Touranne, e in poco d'ora occupò la città con un assalto alla baionetta, e s'impadronì di tutta la penisola; chè quelle truppe non videro appena il luccicar delle armi europee, che, abbandonando quanto eravi nelle Città si diedero a precipitosa fuga.

Lo spavento che questa impresa portò in tutto quell'impero, moderò la tirannide di Tu - Duc; e d'allora, se i Cristiani non sono martoriali, non possono però esporsi pubblicamente a predicare ed esercitare il loro culto.

Così si chiuse l'Anno 1858. Vittore della Chiesa,. che seguitando a spandere la sua luce di benedizione nell'Europa, in balia di politici travolgimeli, vide l'Episcopato e il cattolicismo stringersi tenacemente al trono di Pietro, e portargli nel momento del pericolo lutta la potenza del proprio affetto.

Le calunnie del nemici, le arti della politica, lo stesso spoglio degli Stati della S. Sede, ha dimostrato sempreppiù quanto il Cattolicismo sia grande; e come a fronte della violenza, invece di scorarsi più forte

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ed energico rialzi la sua fede, simiglianze a quella de' primi martiri del Cristianesimo. In tanti ambagi, in tanti dolori, Pio IX pregava tranquillo! -In lui la tranquillità è figlia della convinzione, che Dio non abbandona il giusto, sibbene nella sventura lo provi, siccome oro che si raffina nel crogiuolo.

CAPITOLO IV.

Prodromi della rivolta - L'Imperatore del Francesi al Corpo Diplomatico - Un articolo pacifico del Moniteur - Dubbiezze del Gabinetto inglese Nota a Lord Cowley - Omaggio del Gen. Goyon al S. Padre nel 1° Gennaio - Il Discorso della Corona in Piemonte Risposta del Parlamento - Matrimonio tra Maria Clotilde di Savoia e Girolamo Napoleone - Apertura del Parlamento inglese - Napoleon et l'Italie di Laguèronnière - Discorso dell'Imperatore del Francesi - Dispacci del Gabinetto Pontificio a Vienna ed a Parigi chiedendo il ritiro delle truppe di occupazione - Armamenti e proclami - Nota inglese a Torino - Il Moniteur - Nota circolare del Gabinetto di Torino - Proclama rivoluzionario a Modena - Boncompagni in Toscana - Un articolo del Bollettino segreto - Lettera circolare della Società Nazionale Italiana - Lettera del Duca di Modena - Arruolamento di garibaldini.

Sin dal suo nascere, la Chiesa, radiante di luce divina sul Golgota, ai piedi della Croce della Redenzione, vide implacabili i suoi persecutori levarsi furibondi a sterminarla.

Segnò il rompere della lotta la tirannide di Erode, perpetuala negli Imperatori di Roma, mentre il gentilesimo, le eresie, lo scisma si strinsero in lega per accasciarla, o almeno per dismembrarla, affinché svigorisse; ma il sangue del martiri e la dottrina di uomini per ingegno eminenti la semenza del cattolicismo alacremente coltivarono; e la Chiesa, cresciuta in tanta dignità, poté solennemente spandere il suo lume di grazia e di gloria dall'uno all'altro capo della terra. Da Enrico VIII con Lutero, la guerra si fe'razionale, fino a Strauss con la scuola tedesca: ma benché inauditi sforzi facessero quei celebrati scrittori per materializzare l'uomo, e sfrenarne la ragione da ogni dipendenza di lume sopranatura, non poterono ottenere altro risultato, che meschinissima accolta di uomini requisiti nelle loggie massoniche.

166 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

Il secolo XIX, che vide il prodigio del genio delle battaglie incatenalo a S. Elena, ed il Papato, che pareva dissolversi con Pio VII, più forte e pieno di vita rialzare il trono di Pietro, assisté alle altre molteplici lotte, che la Chiesa sostenne contro le selle, che invano tentarono pazzamente di strapparle di testa la corona della gloria mondiate, e di mano i fulmini di Dio.

Sia il 1859 sorgeva funesto, e d'ogni parte traspariva fatale la minaccia di novelle guerre, una delle cui vittime doveva essere il Papato.

Il cannone, che tuonò a Magenta ed a Solferino, non fu che un semplice episodio del dramma principale, rappresentato dalle arti diplomatiche, dagli intrighi politici, e dall'acciapinarsi segreto delle sette, che mettean capo a Londra in Mazzini. ed in Piemonte nella Società Nazionale unitaria!

A Plombiéres un patto era stato fermato; e l'Imperatore dei Francesi ponevalo in atto. Battuta la Russia, dovea umiliare l'Austria, lacerare un'altra pagina del trattato del 1815, e padroneggiare l'Italia; lasciando stordita l'Europa diplomatica dalla prontezza del colpo politico.

Avendo invano il Gabinetto di Piemonte insistito presso l'Austria, perché gli fossero accordale, a base della convenzione del 1851, le concessioni stipulale nel 1857 col Ducato di Parma, Napoleone si era adoperalo diplomaticamente per indurvela: ma riuscita vana ogni sua mediazione, nel ricevimento che fece nel 1" Gennaio al Corpo Diplomatico, non nascose il suo dispiacimento per tale diniego; ed al Barone Hubner, Ministro d'Austria che là con gli altri ambasciatori era convenuto, disse:-rincrescergli non essere del tutto amichevoli, come per lo passalo, le sue relazioni col Gabinetto di Vienna; ma che non pertanto non eransi in suo cuore immutati i sentimenti personali di stima e di affetto verso dell'Imperatore.

Queste parole, che ben annunziavano qualche cosa di torbido nelle sfere politiche, avvegnacchè Napoleone non parlasse mai invano,

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Tale dichiarazione per altro non bastò a tranquillare il gabinetto di Londra, che memore ancora della subitanea pace e dell'alleanza stipulata tra la Russia e la Francia, avea ragioni a temere che altri avvenimenti sarebbero succeduti per maggiormente sminuire la preponderanza inglese in Europa. Ed in tal senso il Conte Malmesbury scriveva a lord Cowley Ministro Inglese in Francia, dichiarando di aver compreso che la quistione Austro - Franca fosse effetto dell'interesse che Napoleone da molto tempo prendeva dell'interna situazione d'Italia. «È possibile (egli scriveva) quantunque niuna ragione io abbia a pensarlo, ch'egli (l'imperatore) stimi, movendo guerra all'Austria, alleandosi alla Sardegna, farla da rigeneratore dell'Italia. Se così fosse, i trattati del 1815 sarebbero annullati, poiché una nuova ripartizione di territorio non potrebbe eseguirsi senza il consentimento delle potenze segnatario di esso».

Mal non s'avvisava quel Governo; ma con la anormale ed inqualificabile sua posteriore condotta non fece che avvalorare eziandio a suo discapito, lo scopo cui tendeva Napoleone 3°: -ed era quello di umiliare le potenze del Nord e rendersi padrone ed arbitro della situazione politica di Europa.

Ciò che dovea restare mistero profondo, era il disegno di spodestare il Papa, o come altri credono, d'indurre almeno il Governo Pontificio, in vista d'una conflagrazione Austro - Italo - Franca, di secolarizzare al postutto le Legazioni, e concedere uno Statuto costituzionale al rimanente dello Stato. Per la qual cosa, a non ingenerar dubbio, che ciò fosse di suo pensiero, diede ordine al Generale Conte di Goyon, che nel complimentare il Pontefice nel giorno primo dell'anno si servisse di espressioni rispettose e significanti. In

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Tuttavia queste dichiarazioni, tanto chiare ed esplicite, non racquetavano gli animi; ed essendo quello il tempo, in cui - per fortuita combinazione stavano per aprirsi i parlamenti di Torino, di Parigi, e di Londra, loro volge vasi tutta l'attenzione per indovinare la politica che quei gabinetti avrebbero spiegala. Ed in vero il primo lampo di guerra guizzò dal Gabinetto Piemontese; guizzo che fu avvaloralo dal proclama, in cui il Tenente Generale D'Ornavasca, invitando la G. Nazionale a intervenire all'apertura delle Camere, servivasi di espressioni alle a far comprendere, che il discorso della Corona avrebbe data gran luce agli avvenimenti.

E l'aspettazione non fu delusa - Re Vittorio Emanuele, dopo aver parlato delle interne faccende, venne a dichiarare la posizione politica del Regno con queste parole: «L'orizzonte, in mezzo a cui sorge il nuovo anno, non è affatto sereno..... Confortati dall'esperienza del passato, andiamo risoluti incontro alle eventualità dell'avvenire. Quest'avvenire sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, sull'amore della libertà, e della patria. Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credilo nei consigli d'Europa, perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie ch'esso ispira. Questa conii dizione non è scevra di pericoli, giacché nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili alle grida di dolore, che da tante parti n d'Italia si levano verso di noi...»

Queste parole così solenni furon pronunziate nella commozione uni

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Né meno interessante fu l'indirizzo, che la Camera fece alla Corona, nel quale si testimoniava tutta la maggior fiducia nei prossimi avvenimenti. Son notevoli queste parole: - «Il vostro popolo, riandando nella mente i fortunati eventi e vari di questi dieci anni, sa per esperienza che la vostra voce non lo ha mai ingannate, anche quando austera ed afflitta consigliava la rassegnazione, o chiedeva sacrificii, di cui veder non poteansi immediatamente gli effetti. Ed or la e vostra voce, a giusto titolo ascoltata da tutte le Nazioni civilizzate, compassionando con una magnanima pietà ai dolori dell'Italia, ha per fermo ridestata la rimembranza di solenni promesse, che e fino ad ora sono rimaste incompiute...»

Pochi giorni di poi, la presenza del Principe Napoleone a Torino fece promulgare il matrimonio già conchiuso tra lui e la Principessa Clotilde figliuola di Vittorio Emanuele. Le nozze furono celebrate nel 30 Gennaio.

Questo vincolo di parentela, afforzando le voci di una stretta alleanza franco - sarda, avvalorate dalle parole del Re, avvegnacchè niuno potesse credere la Sardegna alta da sé sola ad avventurarsi a guerra contro l'Austria. mise in orgasmo la diplomazia; e se ne preoccupò l'Inghilterra sovratutto, nel cui animo non si spense mai quel sentimento di ostile gelosia, che è secolare e radicata contro la Francia, e precipuamente contro la famiglia del Bonaparte. In fatti nell'apertura del Parlamento Inglese Lord Derby espose chiaramente lo stato delle cose, e dichiarò che un'alleanza fosse manifesta contro l'Austria tra Francia e Sardegna; non essendo possibile immaginare, che questa si spingesse ad una lotta disuguale, senza essere assicurata dell'appoggio della Francia, l'unica potenza che abbia il maggior interesse a sostituire l'influenza dell'Austria nella penisola Italiana.

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Ma né il mondo politico, né la rivoluzione fecero calcolo alcuno del discorsi del Lordi; ed infatti l'Inghilterra non solo non pensò, per sostenere l'Austria, di muover guerra alla Francia, ma neanche mosse un sol passo per ostacolare il movimento italiano; limitandosi a qualche protesta, ed a minacce, non passavano oltre la lettura di quelle Note. Era nondimeno sempre alla Francia rivolto l'occhio della diplomazia e dei popoli, poiché già Napoleone erasi messo nella situazione di imporre e preponderare sui destini europei. L'occasione era prossima per l'apertura del Corpo legislativo.

Prenunzio delle idee imperiali erano gli opuscoli, e gli articoli di alcuni importanti giornali.

Dopo l'About, che, come già dicemmo pretese «racchiudere in alcuni quadri, ridevoli per istrafalcioni di cose e di nomi, quanto ha Roma di più venerando immagine d'un astro riflesso da una pozzanghera» (1) venne la volta del sig. La Guèrronière «scrittore facile ed elegante, maneggiatore sagace del suo periodo, e che non fa dipendere la copia delle ragioni dalla natura dell'argomento.

«Legittimista a Limoges nel 1838, difensore della sovranità popolare a Clermont nel 1840, repubblicano democratico nel 1848 - 49, capo della censura imperiale del 1851, chi potca meglio di lui conoscere e contenere i facili trascorsi delle agili penne francesi?» (2). Egli pubblicò un opuscoletto Napolèon et l'Italie, nel quale era, più che tracciato, chiaramente esposto l'imperiale preconcetto «annunzio di guerra, minaccia al Papa, accenno ad un possibile scisma... » (3) Con quel libro fu gettata l'idea del Vicariato del Papa sulle Romagne, laicizzate nel governo.

La pubblicazione di questo libro in quelle politiche dubitazioni fece gran rumore, ritenendosi per officiale rivelazione del pensiero di Napoleone 3°, considerandosi nello scrittore un imperialista

(1) Nardi (monsig.) Roma e i suoi nemici § IH. pag. 51.

(2)id.

(3)

id.

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nella estensione del termine; epperò più crebbe l

'ansia pel discorso che l'Imperatore avrebbe pronunziato. Finalmente nel 1 febbraio Napoleone parlò. Dalle sue parole non trasparì che la più profonda quiete! «In mezzo alla calma ed alla prosperità generale (diss'egli) sorge ad intervalli una vaga inquietezza, una sorda agitazione, la quale senza avere una ragione ben definita, s'impossessa dell'animo di alcuni, ed altera la confidenza pubblica. Io deploro questi scoragliamenti periodici, senza maravigliarmene... L'emozione, che si è u ora manifestata, senza apparenza di pericoli imminenti, dà il diritto di essere sorpresi, poiché essa manifesta troppo spavento, e nel e medesimo sembra siasi dubitato da una parte di quella moderazioni ne, di cui ho dato tante prove, e dall'altra della potenza reale della Francia.» Assicurò che il suo governo era in accordo con tutti, meno con quello di Vienna, col quale si era trovato dissono su quistioni principali, a dirimere le quali vi era stato bisogno di grande desiderio di conciliazione; la quale sperava aggiugnere, non dimenticando mai, come avea detto a Bordeaux, che l'impero è la pace.

Toccando poi dell'Italia, ed annunziato il matrimonio di suo cugino con la principessa Clotilde, la qual cosa pose qual conseguenza naturale della comunanza d'interessi del due paesi, e dell'amicizia del due Sovrani, soggiunse:

«Da qualche tempo lo stato dell'Italia e la sua situazione anormale, in cui l'ordine non può esser mantenuto, se non per mezzo di truppe straniere, inquietano giustamente la diplomazia... Io rimarrò incrollabile nella via del diritto, della giustizia, dell'onor nazionale, ed il mio governo non si lascerà né trascinare né intimidire, poiché la mia politica non sarà mai né provocatrice, né pusillanime»

Questo discorso, per quanto celasse la vera idea sotto studiato involucro, non fece che confermare il sospetto, che in Italia la guerra non sarebbe stata lontana dalla scoppiare.

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Il Gabinetto Pontificio sopratutto, avvertiva che a lui fossero precipuamente rivolle le minacce. La presenza dello truppe austriache a Ferrara ed a Bologna avean dato occasione alle parole del Conte di Cavour nel Congresso di Parigi, additandole causa principale del malcontento in Italia: lo stesso avea dello Lord Derby nelle Camere di Londra; ed or che esplicitamente lo ripetea l'Imperatore del Francesi, il quale nella politica commozione era il più interessato, il Governo del Papa risolvette togliere di mezzo ogni causa di perturbazione. Per la qual cosa il Cardinale Antonelli, per ordine del S. Padre, nel 22 febbraio con due dispacci identici annunziava alle Corti di Parigi e di Vienna: «che il Santo Padre, pieno di riconoscenza per il soccorso prestargli dalle LL. MM. l'Imperatore del Francesi, e l'Imperatore d'Austria, credeva doverli avvertire essere oggimai il suo Governo abbastanza forte da bastare alla propria sicurezza e mantenere la pace nei suoi Stati; e che perciò il Papa si dichiarava pronto ad entrare in accordi con le due potenze, per provvedere nel più breve tempo possibile, a che le truppe francesi ed austriache sgombrassero simultaneamente dal suo territorio...» (1)

La nota pontificia rimase inosservata, e gli apologisti del Cavour non la menzionarono, poiché quella risoluzione distruggeva col fatto tutti i progetti di Plombières, e le mene della Società Nazionale di Torino. Né l'Imperatore tenne conto alcuno di quella intimazione, che non era accompagnata da 500 mila baionette, che son le sole a rafforzare le ragioni diplomatiche. Ben egli conoscea che la poca soldatesca assoldata al servizio del Papa era più che sufficiente a frenare le trame del corrispondenti di Torino, che assumevano il titolo di rappresentanti del popoli; ma essendogli indispensabile avere il piede a Roma ed a Civitavecchia, per poter essere al caso di signoreggiare una imperlante posizione strategica negli eventi che stavano per svolgersi, non si diede per inteso della inumazione pontificia.

Intanto tutti armavano; poiché ognuno prevedea non lontano lo scoppio della bufera;

(1)

Dal Moniteur 21 Février 1859.

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la Francia con più prudenza; l'Austria e il Piemonte francamente ed a viso scoperto. Il Governo Sardo avea fatto fortificare e mettere sul piede di guerra Alessandria, e di qui fino a Casale stendeva il maggior nerbo di truppa; dippiù chiese alle Camere un prestito di 50 milioni. La guerra presentivasi, e quasi annunziavasi nei proclami dell'Intendente Generale di Nizza, e del Colonnello Castellazzo Comandante le Guardie Nazionali dello Cbambery. L'Austria concentrò nel Lombardo - Veneto forti corpi di truppe sostenute da batterie da campo; e fece porre in istato di difesa Mantova, Verona, Milano e Pavia. La Francia da sua parte comperava cavalli, completava i battaglioni, chiamando sotto le armi la riserva, e ponendo la Dotta in istato di guerra. Or per quanta cura si mettesse a tener celali questi armamenti preventivi, non poteano sfuggire agli occhi della diplomazia.

L'Inghilterra diede il segnale, e spedi una Nota al Gabinetto di Torino, nella quale accusava «la Sardegna, che non assalita da alcuno, ii provocava guerre europee, indirizzandosi a sudditi altrui. Esser perciò dovere dell'Inghilterra di dichiararlo all'Europa: rimanere quindi la Sardegna responsabile dei suoi atti in faccia ai suoi alleati, e più ancora a Dio». Il Moniteur allora, per smentire gli armamenti, assicurò che le compre di cavalli, e gli altri provvedimenti ordinali dall'Imperatore, non eran stati fatti che per completare il numero ordinario della truppa; dichiarava «imputazioni interamente gratuite, fantasie, menzogna, delirio tutto quanto la stampa avea detto di esagerato..» (1) ed infine dava notizia, che stavansi diplomaticamente ed economicamente trattando tutte le quistioni, dalle quali potesse ingenerarsi un pericolo di guerra.

Il Conte di Cavour per altro, che niegar non potea né gli armamenti, né il prestito domandato alle Camere, credette opportuno dar spiegazione ai Gabinetti esteri sulle cause, che lo avean forzato a prender tali provvedimenti; locchè fece con Nota del 4 febbraio.

(1) Moniteur 5 Marzo.

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In essa, dopo aver ricordato, che nel Congresso di Parigi avesse fatta udire la sua voce contro i timori, che sempre ispirava l'Austria per l'influenza che esercitava in Italia, aggiunse, che gl'Italiani s'eran racquetati ponendo speranza nello interesse, che avean mostrato prender di loro la Francia e l'Inghilterra; ma nulla essendosi modificalo, e persistendosi dai Governi della penisola nello stesso sistema di politica, l'Italia minacciava di rompere a disordini.

Soggiungeva: «Col suo esempio, la sua condotta nell'ultima guerra e nel Congresso di Parigi, la manifestazione del suo interesse e della sua commiserazione verso i popoli Italiani, la Sardegna si e sforzata a ricondurre la speranza, la tolleranza, e la calma in mezzo alla disperazione, alla intolleranza ed all'agitazione....»

Notò, che le straordinarie misure militari prese dal gabinetto di Vienna manifestamente dirette contro la Sardegna, l'aveano obbligata a premunirsi da un assalto inaspettato. Enumerale quindi le forze che l'Austria avea inviale in Italia, dichiara che a difesa del Regno avea dovuto richiamare le truppe di Sardegna e d'oltr'Alpi, e concentrarle sulle frontiere. Conchiuse che, non ostante le minacce austriache, il Governo del Re sarebbe rimasto nella semplice difensiva, apparecchialo a respingere ogni elemento di disordine da qualunque parte esso venga, sia dall'Austria, sia dalla rivoluzione.

Ma la necessità del premunirsi contro la rivoluzione, non era per Cavour un accusarsi spontaneamente?

Invero di dove potea egli temere la minaccia della rivoluzione che proponevasi di respingere? Volea celare forse ciò che in Torino si operava? E forse fu felice nella menzogna; imperochè quantunque quelle mene rivoltuose i Governi limitrofi non ignorassero, pure non credeano che il vulcano rombasse sotto i loro troni. Essi viveano sicuri delle loro truppe, ed ignoravano, che la rivoluzione là principalmente rivolgendo l'occhio, aveale demoralizzate.

Negli Stati di Modena circolava il seguente proclama: (1)

(1) Martina. Compendio della Storia della guerra dell'indipendenza Italiana, pag. 48.

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«SOLDATI ITALIANI DEGLI STATI.,.. (1)

«Tra poco 100 mila soldati Piemontesi insieme a un'armata francese piomberanno sui nemici, e gli oppressori del nostro paese: preparate il vostro animo a quest'opera gloriosa; voi sarete con loro. Ogni al servizio d'un Principe, servitore dell'Austria, la vostra carriera militare è senz'avvenire; domani uniti alle grandi armate, avrete quant'esse, onori e vantaggi.

SOLDATI

L'Austria è nostra nemica; essa ci tiene divisi; ogni anno essa «porla via dalle nostre province e a beneficio del suoi tedeschi cento milioni di franchi; queste ricchezze dovrebbero servire a migliorare la sorte degli abitanti delle nostre città, e delle nostre campagne. (??) fi Riprendiamo dunque quello che ci appartiene: finita la guerra, le vostre famiglie vi benediranno come liberatori della patria.

UFFICIALI E SOLDATI

«Dal giorno in cui entreremo in campagna, il nostro grido di guerra sarà l'augusto nome di Vittorio Emanuele Re d'Italia.

A Napoli si facea dispensare, come anche in Sicilia, un proclama di poche parole, ma bastevole a tener pronti i congiurati.

«NAPOLETANI E SICILIANI!

«Il giorno del riscatto s'approssima; l'ora pel nostro oppressore, pel nemico d'Italia è suonata: concordia, unione, e coraggio, Viva l'indipendenza!

In Toscana rappresentante del Governo Sardo era Carlo Boncompagni, di cui più lungamente parleremo. Costui, abusando del suo carattere diplomatico, s'era fatto capo e promotore della rivoluzione; ciò che a Lord Normanby fece dire nella Camera del Lordi (1 giugno 1859) «... che il Boncompagni si era disonorato come diplomatico, cospirando contro il Sovrano presso cui era accreditato...»

(1)

AVVERTIMENTO. L'autore ha creduto riferire testualmente questi documenti della Rivoluzione per mostrare, come essa fosse stata organizzata e come attuata.

176 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

Non è

In Toscana pubblicavasi dalla setta un bollettino, simile al D. Pirlone ed al Roma del Romani, che si pubblicava dal comitato di Roma! Allarmanti le notizie, spessamente bugiarde, sempre travolgenti il vero. Lo stile era robusto, incisivo, esuberante d'ingiurie contro le tirannidi del Gran Duca!

Per darne una idea, riportiamo uno di quelli articoli che la stampa riprodusse e seminò in migliaia di esemplari-Eccolo-

«Quando gli animi di tutti gli Italiani da un capo all'altro della penisola si ridestano alle antiche speranze, e di nuovo si rinfiammano i nostri giusti e non compiuti desideri, che fanno i Toscani?

«Anche di qui si solleva al Trono del Re Subalpino quel grido di dolore, al quale promise, con la parola di un uomo che non ha mai mentilo, di non essere insensibile.

«Poiché la Toscana e parte d'Italia, ciò che appartiene all'Italia non può esserle indifferente: se vi è parte d'Italia che più di noi si dolga, nostro è il suo dolore, nostri sono i danni che provengono dalle sue sciagure.

«Quali sono i dolori e i danni d'Italia? Atroce e diverso strazio ne fanno coloro ai quali, divisa in brani, fu data a dissanguare e torturare: ma i dolori e i danni riconoscono tutti la medesima radice, fanno capo tutti quanti ad un solo, dai quali gli altri si generano, e si fomentano. Questo dolore e questo delitto si chiama Austria.

«La necessità suprema è dunque di cessare questa vergogna e questo delitto: delitto contro la civiltà cristiana, la quale non vuole che un popolo sia dato schiavo a gente straniera; vergogna dell'Europa civile, che mentre intende a sottrarre dalla barbarie turca le genti cristiane, e gli emancipali conforta di libere istituzioni, lascia un popolo collo e civile in balia della barbarie e della oppressione austriaca.

«La tirannia austriaca in Lombardia è quella che fa insolenti e sordi ai bisogni del tempo i principi italiani; italiani di dominio, non di sangue, né d'animo: non Principi, ma proconsoli austriaci.

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«Un solo Re, un solo paese vive libero e indipendente; questo Re e questo paese vuole oggi con l'indipendenza d'Italia assicurare la propria: paese e Re guerriero fece sue prove nei campi di Crimea, e guadagnò potenti alleanze; per dieci anni esercitò le libere istituzioni, provò d'esser maturo alla libertà; oggi la sua esperienza, le sue forze, le sue alleanze si accinge a spendere a pro dell'Italia. Che debbono fare i Toscani?

«Non vogliamo neppur pensare che alcuno ardisse profferire parola di neutralità. Neutralità. quando gli Italiani combattono per l'Italia contro l'Austria? Se questa codardia fosse possibile, bisognerebbe dire che la Toscana è discesa veramente nell'abisso della viltà; e dal novero del popoli civili si dovrebbe cancellare il nome del suo popolo.

«Dove si combatte per l'Italia, ivi bisogna che la Toscana sia rappresentata. Sono dieci anni che si organizza un esercito; questo è composto del nostri figli, del nostri fratelli, del nostri congiunti. La maggior parte delle nostre rendite si consuma per mantenerlo; è cosa nostra, è forza del paese, è il paese armato. II paese non può rimanere neutrale nella gran lotta; il paese armato non può non entrare a far parte dell'esercito liberatore d'Italia.

«Gli occhi nostri siano rivolti alla Dora, ed al Ticino.

«Quando il sacro vessillo dell'indipendenza muoverà da Piazza Castello, quando le falangi subalpine capitanale dal Re, leale cittadino e prode guerriero, muoveranno verso Milano, allora nessuno dubiterà di quello che abbiano a fare i Toscani.

«O sul Ticino coi liberatori, o in perpetue catene, schiavi dell'Austria col marchio di vili sulla fronte».

A questi proclami, e scritti del diversi comitati secondari fece seguito la lettera circolare della Società Nazionale Italiana di Torino contenente le istruzioni segrete da mettersi in opera nelle diverse città d'Italia. È un prezioso documento, che tiriamo dall'oblio.

178 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

«Signore - La presidenza crede suo dovere, nell'attuale stato di «cose in Italia di comunicare le seguenti istruzioni segrete.

1.° «Appena cominciate le ostilità tra il Piemonte e l'Austria, voi insorgerete al grido di Viva l'Italia e Vittorio Emanuele: fuori gli Austriaci.

2.° «Se la insurrezione è impossibile nella vostra città, i giovani atti a portare le armi ne usciranno, e si recheranno nella più vicina città, nella quale l'insurrezione siasi già fatta, o che per lo meno dia certa speranza che vi si farà - Fra le città vicine sceglierete la più prossima al Piemonte, in cui si dovranno concentrare tutte le forze italiane.

3.° «Voi farete ogni vostro sforzo per vincere o disorganizzare l'armata austriaca intercettandone le comunicazioni, rompendo i ponti, atterrando i telegrafi, bruciando i depositi di abiti, di viveri, di foraggi, tenendo in ostaggio le riguardevoli persone serve al nemico, e le loro famiglie.

4.° «Non tirate mai i primi sui soldati italiani ed ungheresi. Mettete anzi tutto in opera per indurli a seguire la nostra bandiera, e accogliete come fratelli quelli che si arrenderanno alle vostre esortazioni.

5.° «Le truppe regolari che abbracceranno la causa nazionale, saranno immediatamente inviate in Piemonte.

6.° «Dove l'insurrezione avrà trionfato, la persona, che più altamente godrà la stima e la confidenza pubblica, assumerà il comando militare e civile col titolo di Commissario provvisorio pel Re Vittorio Emanuele, e lo conserverà fino all'arrivo del commissario mandato dal governo piemontese.

7.° «Il commissario provvisorio ABOLIRÀ LE IMPOSTE, che vi potranno essere sul pane. sul grano etc. e in generale tutte le tasse non esistenti negli stati sardi.

8.° «Farà una leva per via di reclutamento del giovani da 18 a 20 a anni in ragione di 10 per 1000 anime di popolazione, e riceverà come volontari coloro che dai 20 ai 35 anni vorranno pigliare le armi per l'indipendenza nazionale; manderà immediatamente in Piemonte i coscritti e i volontari.

(1859) LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 179

9.° «Nominerà un Consiglio di guerra per giudicare e punire fra 24 Ore TUTTI GLI ATTENTATI CONTRO LA CAUSA NAZIONALE e contro la vita e la proprietà del pacifici cittadini. Non avrà riguardo a grado o a classe; ma niuno potrà venire condannato dal consiglio di guerra per fatti anteriori alla insurrezione.

10.

°

«Vieterà la fondazione di circoli, e giornali politici; ma pubblicherà un bollettino officiale del fatti, cui importerà far conoscere al pubblico.

11.° «

Dimetterà dal loro offizio tutti gl'impiegati, e magistrati avversi al nuovo ordine di cose

, procedendo a tal uopo con molta segretezza e prudenza, e sempre in via provvisoria.

12.° «Manterrà la più severa ed inesorabile disciplina, applicando a ognuno, chiunque sia, le disposizioni militari in tempo di guerra. Sarà inesorabile coi disertori; a quest'uopo darà ordini severi a tutti i suoi subalterni.

13.° «Manderà al Re Vittorio Emanuele un ragguaglio preciso delle armi, delle munizioni, e del fondi che si troveranno nelle città e i nelle province, e aspetterà ordini in proposito.

14.° «In caso di bisogno, farà requisizioni di denaro, di cavalli, di carri, e di navi, lasciandone sempre corrispondente ricevuta, ma punirà di gravissime pene chiunque tenterà di fare tali requisizioni senza evidente necessità ed espresso contratto.

15.° «Sino a che succede il caso previsto nel 1.° Art. di queste istruzione, adoprerete ogni mezzo che voi possiate, per dimostrare l'avversione che l'Italia sente dell'austriaco dominio e dei governi infeudati all'Austria, e nell'istesso tempo il suo amore dell'indipendenza, e la sua fiducia nella casa Savoia e nel governo Piemontese; ma farete il possibile per evitare conflitti e movimenti intempestivi ed isolati.»

Torino li 7 Marzo 1859.

Il Segretario Per il presidente - Il vice presidente

La Farina. Garibaldi.

180 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

Conseguentemente a questi ordini, da per tutto si disponeva la rivolta; ma fu aggiornata; poiché alcune copie delle istruzioni caddero nelle mani della polizia, la quale dové contentarsi di raddoppiare la vigilanza, non potendo venire a capo di scovrire i rei, essendocene la maggior parte dei settari trovavasi fra gl'impiegati. Non pertanto, presi da timore molti di essi abbandonarono il paese.

Così avvenne a Parma, a Modena, ed in Toscana. Né i governi se ne diedero per intesi, amando meglio di sapere lontani i settari, anziché tenerli in casa loro.

Di fatti il Duca di Modena scriveva al Gran Duca di Toscana: (1)

«........... Nel momento tutto è quieto sul confine tra il mio stato e il Sardo; molti rifuggiti sono stati mandati a Torino, e messi in reggimenti di linea, cosa che ha raffreddato l'entusiasmo»

«Benché io non creda ad un attacco di corpi franchi, massime isolati, cioè senza un nucleo di truppa attiva Sarda, pure se ciò dovesse accadere, sono certo, che le vostre e le mie truppe, e quelle parmensi saprebbero dar loro una buona lezione Contro attacchi più seri, non è vergogna, se non si può far testa da sé»

E la polizia di Parma (2) avendo avuto notizia che un tal Parodi di Genova andava per le città ingaggiando volontari per Garibaldi, promettendo di aver mezzi d'impossessarsi del Ducati, gli si mise sulle peste per averlo tra mani. I connotali di lui, che rileviamo da un documento officiale, erano stati trasmessi da Modena a Parma, ed a Firenze, e sono i seguenti;-50 anni, statura bassa, capelli grigi, frante bassa, occhi grigi etc. - Unitamente alla riservata vi è copia del giuramento, che faceasi sottoscrivere dai giovani ingaggiati. La circolare è controsegnata da un Guastalla, e dal Capo Sezione Mattioli!

(1) La Nazione del 29 Agosto. Fra i documenti requisiti da Farini.

(2) Gazzetta Piacentina del 18 Ottobre 1839.

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Quei principi fidavano sulle loro truppe, e sul potente alleato... - l'Austria! La truppa nel momento del pericolo trovarono demoralizzata, l'Austria vinta; la rivoluzione avea operato lo sfascio, e i loro troni si accasciarono miserabilmente al primo urto del rivoltosi.

CAPITOLO V.

Stato politico del Gabinetto di Vienna - Dichiarazioni inglesi Politica Napoleonica Politica Prussiana - Conferenza confidenziale proposta da Lord Cowley a Parigi - Memorandum del Conte di Cavour - La Confederazione Germanica si arma - Dichiarazioni del Moniteur - Il Congresso - La Sardegna non vi è ammessa - Contraddizioni diplomatiche Cavour a Parigi - Ultimatum dell'Austria - Il Moniteur pubblica la ripartizione del Comandi dell'esercito - Ultima proposta inglese - Non è accettata - Allarmi rivoluzionari in Italia - Parole storielle di Ferdinanda 2. di Napoli.

Tristissime erano le condizioni, in cui l'Austria versava. L'aver essa prostate orecchio alla politica francese nella guerra d'Oriente, restando neutrale contro la Russia, cui avrebbe dovuto prestar braccio forte, non solo per identicità di tradizioni diplomatiche, ma anche per doverosa gratitudine di quanto quella Potenza avea fatto in Ungheria nei rivolgimenti del 1848 a beneficio di lei, l'avean messa in uno stato di quasi isolamento; e ci apponiamo al vero chiamandolo perfetto isolamento, se consideriamo, che dalla sola Inghilterra potea la Corte austriaca sperare il solito aiuto di note e di minacce verbali.

E l'Inghilterra in fatti non ne fu avara - Lord Derby primo Ministro dichiarava nella Camera del Lordi, essere incredibile «che l'imperatore del Francesi avesse voluto sancire. fosse pure col solo concorso morale, la guerra ingiustificabile che la Sardegna fosse per imprendere contro l'Austria, violando i trattati»; e partecipava aver ricevuto dispacci rassicuranti dalla Francia, che finché l'Austria si fosse tenuta nei suoi confini, la Sardegna non avrebbe dovuto por fiducia alcuna nei soccorsi della Francia; perlocchè fu conchiuso da Lord Palmerston, che l'Inghilterra, considerando l'Austria possedere

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L'Austria, convinta che il Gabinetto di Saint - James, a meno di questa prodigalità di parole, non si sarebbe certamente impigliala in una guerra, nella quale ignoravasi la parte che avrebbe presa la Russia, pensò di rivolgersi alle potenze di Germania; e diedesi molo presso quei piccoli Stati, additando loro il pericolo che alla Confederazione deverebbe, se per sventura con il Veneto si perdesse il littorale dell'Adriatico. A tali sollecitazioni fecero buon viso la Baviera, l'Annover, il Wurtemberg, Nassau, e il governo di Bade; tutti promettendo un aiuto d'armi. La maggior difficoltà sorgeva nelle determinazioni, che avrebbero prese il gabinetto di Berlino, sempre geloso dell'Austria, e vigile per afferrare l'opportuna occasione di distruggere l'influenza austriaca in Germania, sicché non gli sarebbe tornato discaro che la sua rivale fosse umiliala. E dovea attenderselo l'Austria, poiché l'arte fittissima della politica Napoleonica avea di già fatto quasi sperare a Berlino, che l'Imperatore non sarebbe stato alieno dall'appoggiare e sostenere il principio della nazionalità anche in Germania. Perciò alla Nota, che il Conto Buoi indirizzò al Gabinetto di Berlino, nella quale dichiarava porre fiducia che la Germania non avrebbe lasciala sola una delle loro potenze nel momento del pericolo, rispose il De Schleinilz con altra Nota, in cui, se esplicitamente non niegava il suo concorso; pure dichiarava aver speranza che qualunque fosse il carattere che attribuir si volesse alla quistione insorta, non avrebbe potuto certo ingenerare un conflitto europeo. L'Austria adunque era di fatto rimasta nell'isolamento, colta nella scaltra rete dell'Imperatore del Francesi.

Né migliori erano in Oriente, che in Occidente, le condizioni del gabinetto di Vienna; poiché ad onta della convenzione diplomatica

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l'unione del principati Danubiani, pure per segreto concerto preso tra la Russia e la Francia furono uniti, ed elettovi ad Ospadaro, cioè a capo del governo, il Colonnello Cuza, uno del più intrinseci di Napoleone, uno di quelli che con Cavour intervenne al misterioso colloquio di Plombières. L'Austria adunque trovava contro sé o nemica, o tutt''al più neutrale la Russia, che dismettendo la sua tradizionale politica, riconosceva tacitamente la teoria napoleonica del fatti compiuti.

L'Inghilterra intanto, vedendo crescere le probabilità della guerra, cui non volea prender parte; e temendone gli effetti, decise di tentare un ultimo colpo per indurre a miglior consiglio i contendenti. All'uopo affidò istruzioni a Lord Cowley, che godeva le simpatie di Napoleone e del Conte Buol. A lui si associò, ad assecondarne gli sforzi, per non sembrare del tulio ostile, il Barone Werther ministro Prussiano.

Si tenne all'uopo una confidenziale conferenza a Parigi, e fu deciso proporsi -; lo sgombro dagli stati Pontificii delle truppe Austro - Franche: la rinunzia per parte dell'Austria a tutti i trattati stabiliti con i Ducati dipoi il 1815; e la promessa di non intervenire a loro sostegno, anche chiamata; unanime impegno delle potenze europee per preparare le riforme negli stati d'Italia. Dure erano le condizioni, avvegnacchè l'Austria avrebbe dovuto stracciare le convenzioni, che tenea con i Ducati, e lasciarli senz'aiuto nel caso di aggressione: ma pure vi sarebbe addivenuta, considerando che una volta attualo il sistema di riforme, non avrebbesi più avuto pretesto di tentar rivolte; essendo dell'interesse stesso delle altre potenze d'Italia il combatterle per la sicurezza interna del lori Stati.

Dando perciò la sua risposta, dimandò, se le potenze stesse la guarentirebbero da qualunque tentativo che in progresso di tempo avrebbe potuto osarsi contro i suoi possedimenti in Italia.

Su di che l'Inghilterra domandò i necessari schiarimenti al Gabinetto di Torino, il quale rispose con una lunghissima Nota datata

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MEMORANDUM

Torino 1.° marzo 1859.

«Il governo di S. il. Britannica animato da una benevola sollecitudine per le sorti d'Italia, onde evitare le cause di gravi perturbazioni in Europa, invitò quello di Sardegna ad esporgli quelle lagnanze che gli italiani hanno a far valere contro l'Austria, sia per la dominazione sulle provincie che essa possiede in virtù del trattati, sia in seguito alle sue relazioni cogli Stati dell'Italia Centrale, la cui condizione anormale è riconosciuta da tutti i gabinetti.

«Per rispondere a questo invito in modo chiaro e preciso, il gabinetto di Torino crede necessario di trattar separatamente le due quistioni che gli sono indirizzate, spiegandosi dapprima sulle condizioni del Lombardo - Veneto, ed in seguito sui risultati della politica austriaca riguardo all'Italia Centrale.

«Qualunque siano i risultati della cessione avvenuta nel 1814 del Regno Lombardo Veneto all'Austria, non si potrebbe contestare che il possesso sia conforme ai trattati perché in questi non si tenne alcun conto delle sorti del popoli di cui disponeva.

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«Non avremmo pertanto sollevala una quistione che non potrebbe risolversi senza una modificazione del trattati esistenti se il Governo Britannico non ci avesse invitato ad aprirgli il nostro pensiero su questo punto, come su tutti gli altri.

«Riconosciamo adunque per legale la dominazione dell'Austria sui paesi situati fra il Ticino, il Po e l'Adriatico; ciò non toglie che questa dominazione non producesse conseguenze deplorabili e desse origine ad uno stato di cose, che è senza analogia nella storia moderna.

«Sta in fatti che la dominazione austriaca inspira una ripugnanza invincibile all'immensa maggioranza degli Italiani che sono assoggettati, e che i soli sentimenti sentiti per coloro che governano, sono l'odio e l'antipatia.

«Donde ciò proviene? Il modo di governo dell'Austria v'ha senza dubbio contribuito: il suo pedantismo burocratico, le vessazioni della sua polizia, le enormi imposte che esso ha stabilito, il suo sistema di coscrizione più duro di ogni altro d'Europa, i suoi rigori e le sue violenze contro le donne stesse, hanno esercitato una dolorosa impressione sui suoi sudditi italiani; ma non è questa ancora la causa principale del fatti che sono stati segnalati!

«L'istoria ci fornisce numerosi esempi di governi peggiori che quello dell'Austria e meno universalmente detestati del suo.

«La vera causa del malcontento profondo del Lombardo - Veneti sta nell'essere governati, dominati dallo straniero, da un popolo col quale non hanno alcuna analogia di razza, di costumi, di aspirazioni, di lingua.

«A misura che il governo austriaco venne applicando in modo più completo il sistema di centralizzazione amministrativa, questi sentimenti si accrebbero: ed ora che questo sistema è giunto all'apogeo, e che la centralizzazione in Austria è divenuta ancor più assoluta che nella Francia stessa; ora che ogni azione locale essendo stata estinta, il più umile cittadino trovasi pel menomo suo interesse in contatto con pubblici funzionari che non ama e non rispetta, la ripugnanza e l'antipatia del governo son divenute universali.

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«Il progresso del lumi, la diffusione dell'istruzione che l'Austria non può intieramente impedire, contribuirono a rendere maggiormente sensibile a queste popolazioni la triste loro sorte.

«I milanesi ed i Veneti che ritornano nel loro paese dopo aver visitati i popoli che godono di un governo nazionale, sentono più vivamente l'umiliazione ed il peso di un giogo straniero.

«Per un certo tempo la condotta ferma ed indipendente del governo Austriaco verso la Corte di Roma, temperava i deplorabili effetti della dominazione straniera.

«I Lombardo - Veneti si sentivano affrancati dall'imperio che la Chiesa esercita nelle altre parli della penisola, sugli atti della vita civile, nel santuario stesso della famiglia, e questo era per essi un compenso cui davano grande importanza.

«Esso fu loro tolto coll'ultimo concordato pel quale, come è notorio, assicurasi al Clero una maggiore influenza e più ampi privilegi che in alcun altro paese dell'Italia stessa, salvo gli Stati del Papa.

«La distruzione del savii principii, introdotti nella relazione dello stato colla Chiesa, da Maria Teresa e Giuseppe II, ha finito di annientare ogni forza morale che ancor rimaneva al Governo Austriaco nello spirito degli italiani.

«In seguito alle cause che furono esposte, le provincie Lombardo - Veneto presentano il più triste spettacolo, il quale come fu sopra notato, trovasi senza analogia nella storia. Gli è quello di un popolo intiero che ha assunto verso coloro che lo governano, un'attitudine apertamente ostile, che né le minaccio, né le carezze domano od attenuano.

«Basta percorrere il Lombardo - Veneto per convincersi che gli Austriaci sono piuttosto accampati che stabilili in quelle provincie. tutte

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«Nei luoghi pubblici, nei teatri, nelle strade, v'ha una separazione assoluta fra di essi e gli abitanti del paese, quasi che fosse una contrada invasa da esercito nemico resosi odioso per la sua insolenza e per la sua alterigia.

«E questo stato di cose non è un fatto transitorio prodotto da circostanze eccezionali, il cui termine si può prevedere più o meno vicino, ma dura e s'aggrava da oltre un mezzo secolo, ed è certo che se il moto civilizzatore d'Europa non si ferma, esso non farà che peggiorare.

«Una tale condizione non o contraria ai trattati come fu dichiarato più sopra, ma essa è contraria ai grandi principii di equità e di giustizia su cui riposa l'ordine sociale; essa è in opposizione col grande precetto proclamato dalla moderna civiltà; non esservi governo legittimo tranne quello che i popoli accettano, se non con riconoscenza, almeno con rassegnazione.

«Ora se a noi si domandi qual rimedio possa recare la diplomazia a siffatto stato di cose, risponderemo francamente che se non si conduce l'Austria a modificare i trattati, non si giungerà ad una soluzione definitiva e durevole: sarà giuocoforza contentarsi del palliativi. Bisogna che l'Europa si rassegni ad assistere impassibile al doloroso spettacolo che presenta il Lombardo - Veneto fino a tanto che la rivoluzione che cova incessantemente sotto le ceneri di quelle contrade, non profitti di una circostanza favorevole per infrangere colla violenza un giogo, che la conquista e la guerra loro imposero.

«Questo spellacelo diverrebbe tuttavia men doloroso e lo stato del Lombardo - Veneti più tollerabile, se l'Austria si mostrasse fedele alle promesse che indirizzava nel 1814 agli italiani, quando eccitavali ad insorgere contro la dominazione francese, e se, conformemente al proclama del generale Bellegarde, comandante in capo del suoi eserciti, essa stabilisse al di qua delle Alpi, se non un governo, almeno una

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Sarebbe questo un palliativo, ma tal palliativo che potrebbe armar di pazienza popolazioni avvezze a soffrire, ed allontanare pericoli di cui a sì giusto motivo mostrasi preoccupala l'opinione pubblica in Europa.

«La diplomazia, consigliando al gabinetto di Vienna di seguire la via or ora indicala, farà opera prudente e meritoria, sebbene non possasi molto sperare un favorevole accoglimento, avendolo l'esperienza di 45 anni a sufficienza dimostrato.

«Passando ora alla seconda questione indirizzatagli sugli effetti che la politica Austriaca produce sull'Italia centrale, il governo del Re si restringerà nel cerchio che i trattati e il diritto pubblico Europeo tracciano alla diplomazia. Posto su questo terreno, esso non si restringerà a segnalare gli atti illegali dell'Austria; ma invocherà a sua volta le transazioni Europee violale dall'Austria, e domanderà l'esecuzione delle misure necessario per rimediare ai mali che furono le conseguenze di questa violazione. È il suo diritto e il suo dovere.

«Il trattato di Vienna ha fatto all'Austria una parte troppo larga in Italia, quadruplicando all'incirca il numero degli antichi suoi sudditi, aggiungendo al ducato di Milano che gli apparteneva prima, la Valtellina, i possedimenti del Papa oltre Po, e tutti gli Stati della Re - . pubblica di Venezia; esso ha distrutto l'equilibrio che esisteva nel secolo scorso. Il Piemonte malgrado l'annessione di Genova, non fu più in grado di far contrappeso all'impero che padrone del corso del Po, dell'Adige, del principali fiumi d'Italia settentrionale, aveva riuscito a congiungere i suoi possessi italiani coi suoi stati ereditari (1). Esso si trovò in presenza di una potenza che contava in Italia più sudditi di lui, e disponeva di forze infinitamente più considerevoli che le sue.

(1)

I non pochi errori di lingua che rattrovansi in questo documento sono dell'originale; e non deve farsene una colpa a Cavour che scriveva elegantemente in francese, malissimo in italiano.

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«Se tuttavia l'Austria si fosse mantenuta nei limiti che le assegnavano i trattati, il resto d'Italia avrebbe potuto partecipare ai progressi che si sono realizzati in Europa dopo la cessazione della guerra dell'impero, e formar col Piemonte una barriera efficace alle influenze straniere alla Penisola.

«Ma l'Austria si sforzò sin dai primi anni che succedettero alla ristorazione, di acquistare con ogni sforzo un'influenza preponderante su tutta la Penisola.

«Atteggiandosi a difensor dichiarato di tutti i Governi italiani per quanti attivi essi fossero, ed intervenendo con forze irresistibili ogni qualvolta un popolo cercava ottenere dal proprio Governo miglioramenti e riforme, l'impero austriaco pervenne ad estendere la propria dominazione morale molto al di là delle sue frontiere. Non rifaremo la storia degli ultimi 40 anni che è troppo conosciuta.

«Ci fermeremo a constatare lo stato attuale di cose, dovuto alla azione perseverante della politica austriaca.

«I Ducati di Parma, Modena e Toscana divennero veri feudi dall'impero.

«La dominazione austriaca sui primi è constatata dalla convenzione del 24 dicembre 1841. Questa convenzione dandole il diritto di occuparli colle sue truppe non solo quando lo richiederebbe l'interesse di Parma e Modena, ma ancora ogni qual volta ciò potesse riuscire utile alle sue operazioni militari, rende l'Austria padrona assoluta di tutta la frontiera orientale della Sardegna, dalle Alpi al Mediterraneo.

«Né si dica esser questa una vana minaccia, un pericolo immaginario; chè si è veduto, sono appena tre anni, quando il Congresso di Parigi risuonava ancora delle proteste formolate dal Piemonte e sostenute dall'Inghilterra contro l'intervento straniero in Italia, le truppe austriache occupare sotto un futile pretesto non solo Parma, ma le parti più lontane del Ducato, ed accamparsi sulle alture degli Appennini, da cui dominavano il litorale sardo.

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«L'Austria si considera così fattamente padrona di fare ciò che le talenta negli Stati di Parma, che con dispregio del trattati, in cui non le è accordalo che il dritto di aver guarnigione nella cittadella di Piacenza, essa ha fatto costrurre, ed arma in questo momento dei forti staccati dalle mura della città, destinali a trasformare Piacenza in un vasto campo trinceralo, capace di raccogliere un'imponente armata.

«I legami che uniscono la Toscana all'Austria, quantunque meno apparenti, non sono perciò meno reali e forti. Ignorasi se esisteva un trattato segreto fra i due Stati; gli è però certo che da un canto il governo Toscano sa di poter contare in tutti i tempi e in tutte le circostanze sull'appoggio armato dell'Austria per contenere i suoi popoli, e dall'altro canto l'Austria è certa di poter occupare la Toscana, se per avventura un interesse strategico a lei consigliasse il farlo.

«Quanto agli stati Romani, il modo di procedere dell'Austria fu assai più semplice. Essa li ha occupati ogni qual volta torbidi politici le fornirono pretesto di farlo. Dal 1831 in poi le sue truppe passarono tre volte il Po e guarnirono le città della Romagna.

«L'ultima e più completa occupazione, giacché estendesi fino ad Ancona, dura da dieci anni. E sebbene in questo momento il governo Pontificio abbia domandato lo sgombro delle truppe straniere, noi non crediamo che questa possa far cessare le condizioni anormali degli Stati della S. Sede.

«Il ritiro di quelle truppe, quando non sia preceduto da radicali riforme in tutte le parti dell'amministrazione, lascierà il campo libero alla rivoluzione, si sostituirà la anarchia all'occupazione straniera per ritornar subilo e necessariamente a questa ultima. Perciò l'intervento Austriaco nel paese ha un tal carattere di permanenza, che si è autorizzali a dire che quelle provincie, le quali dovrebbero appartenere ad uno stato indipendente, sono passate diffatto sotto la dominazione austriaca.

«Una sì grande estensione della dominazione austriaca in Italia, all'infuori della stipulazione del trattati costituisce pel Piemonte un gran

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«Si obbietterà forse che la presenza delle truppe francesi a Roma neutralizza le forze dell'Austria e diminuisce i pericoli del Piemonte. Questo è affatto inesatto.

«Dal punto di vista politico l'occupazione francese a Roma può avere una grande importanza; ma dal punto di vista militare, essa non ne ha alcuna, specialmente per quanto ha tratto alla Sardegna.

«Se nel caso di una aggressione noi dovessimo ricorrere all'appoggio della Francia, le truppe che quella potenza mantiene in Provenza, e ai piè delle Alpi, ci sarebbe d'un soccorso assai più efficace di quelle che, isolale a Roma, non potrebbero agire in nostro favore, se non venendo ad imbarcarsi a Civitavecchia.

«Crediamo pertanto che la presenza del francesi a Roma, che d'altronde vivamente desideriamo di veder cessare, nulla diminuisca del loro valore i richiami della Sardegna contro la politica d'invasione dell'Austria. Se l'Austria facesse diritto a questi giusti richiami e riconoscesse la assoluta indipendenza degli Stati della Penisola, le condizioni dell'Italia centrale non larderebbero a migliorarsi considerevolmente.

«I governi di quelle Provincie non essendo più sostenuti dagli eserciti austriaci, sarebbero naturalmente condotti a dar soddisfazione ai voti così legittimi del popoli. Ma nell'interesse dell'ordine e del principio d'autorità, onde queste concessioni inevitabili non siano loro strappale in seguito a disordini e movimenti popolari, egli è necessario che, mentre si proclamerà il principio del non intervento dell'Austria, i Sovrani dell'Italia centrale modifichino profondamente il sistema, che da tanto tempo seguono all'ombra delle baionette straniere.

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«Il Gabinetto di Torino o convinto che ogni pericolo di rivoluzione sarebbe evitato nei ducati di Parma e di Modena, se essi fossero dotali di istituzioni analoghe a quelle di cui gode il Piemonte da undici anni in qua.

«L'esperienza di questo paese dimostra che un sistema saviamente liberale, applicalo con buona fede, può funzionare in Italia nel modo più soddisfacente, assicurando ad un tempo la pubblica tranquillità e il regolare sviluppo della civiltà.

«Quanto alla Toscana esso crede necessario il ristabilimento della costituzione del 1848, che il Granduca ha giurata e che fu revocala precisamente al momento in cui fondandosi sulle istituzioni da essa consacrale, il granduca era ristoralo sul suo trono, rovescialo da un movimento rivoluzionario.

«Per quanto si riferisce agli Stati Pontifici, il gabinetto di Torino non può dissimulare che la questione presenta assai più gravi difficoltà.

«La doppia qualità di cui è rivestilo il Sovrano Pontefice, di capo della chiesa Cattolica e di principe temporale, rende quasi impossibile (ne'suoi Stati) lo stabilimento d'un sistema costituzionale.

«Egli non potrebbe consentirvi senza correr pericolo di trovarsi spesso in contraddizione con sé stesso, ed essere forzato di esitare fra i suoi doveri come sovrano costituzionale.

«Ciò nullameno mentre riconosce la necessità di rinunziare all'idea di assicurare la tranquillità degli Stati del Papa per mezzo di istituzioni costituzionali, il gabinetto di Torino pensa che si giungerebbe ben vicino allo scopo mediante l'adozione del progetto che i plenipotenziari di S. M. il Re di Sardegna al Congresso di Parigi svolsero nella nota del 27 marzo 1856, indirizzata ai ministri di Francia e d'Inghilterra. Questo progetto che ha ricevuto la piena approvazione di lord Palmerston, riposa sulla completa separazione amministrativa delle provincie Romane, situale fra l'Adriatico, il Po e gli Appennini e lo svolgimento da introdurvisi delle istituzioni municipali

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«Questo progetto dovrebbe ora essere condotto a compimento mediante l'istituzione a Roma di una consulta nominala dai Consigli provinciali, alla quale sarebbero sottoposte le questioni relative agli interessi generali dello Stato.

«Le idee che vennero finora esposte, sono una risposta chiara e precisa alle interpellanze che il governo Britannico mosse a quello di Sardegna; riassumendole, risulta che a suo credere i pericoli di una guerra o di una rivoluzione sarebbero allontanati e la questione italiana temporariamente assopita alle seguenti condizioni:

«Ottenendo dall'Austria non in virtù del trattati, ma in nome del principii di umanità e di eterna giustizia, un governo nazionale separato per la Lombardia e per la Venezia;

«Esigendo che conformemente alla lettera ed allo spirito del tral. lato di Vienna cessi la dominazione austriaca sugli stati dell'Italia centrale; quindi siano distratti i forti staccati, costrutti all'infuori della città di Piacenza; che la convenzione del 24 dicembre 1841 sia annullata: che cessi l'occupazione delle Romagne: che il principio del non intervento sia proclamato e rispettato.

«Invitando i Duchi di Modena e di Parma a dotare i loro paesi di istituzioni analoghe a quelle che esistono in Piemonte; ed il Granduca di Toscana a stabilire la costituzione che aveva liberamente consentita nel 1848:

«Ottenendo dal Sovrano Pontefice la separazione amministrativa delle provincie al di qua degli Appennini conformemente alle proposte comunicale nel 1856 ai gabinetti di Londra e di Parigi.

«Possa l'Inghilterra ottenere la realizzazione di queste condizioni! L'Italia, riconfortata e pacificata, la benedirà, e la Sardegna che ha tante volte invocato il suo concorso e il suo aiuto in favore de' suoi disgraziati concittadini, le professerà un'imperitura riconoscenza.

«Firmato Cavour»

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Questo dispaccio del Conte di Cavour produsse pessimo effetto presso le Corti di Germania, le quali considerando che le offese fatte ad una potenza Germanica fossero dirette a tutta la Confederazione, decisero di dar braccio forte all'Austria; tanto più che vedeanla in una lotta disuguale per l'intervento che la Francia troppo chiaramente manifestava in favore del Piemonte. Epperò fu ordinato di mettere le loro armate sul piede di guerra; fu impedita l'esportazione del cavalli, e chiamale le classi di riserva.

Tali notizie insospettirono e contrariarono Napoleone, il quale avendo l'idea di localizzare la guerra, vedea nell'intervento della Germania il pericolo di una nuova conflagrazione; e siccome contro la Francia si scagliava la stampa tedesca, accusandola di provocatrice, così fece sul Moniteur pubblicare una dichiarazione della massima importanza. Dichiaravasi la maraviglia nel vedere l'agitazione della Confederazione, quando la Francia insieme ad altre Potenze di Europa addimostrava «il desiderio sincero di sciorre pacificamente le difficoltà, e di prevenire le complicazioni che potrebbero risultarne...» e segue:

«Non pertanto una parte della Germania risponde a siffatta attitudine di calma con inconsiderati allarmi. Sopra una semplice presunzione, da nulla giustificata, ed anzi da tutto esclusa, i pregiudizi si risvegliano, le diffidenze si propagano, le passioni si sfrenano; una a specie di crociala contro la Francia viene iniziala nelle Camere e «nella stampa di taluni Stati della Confederazione. La si accusa di nutrire ambizioni da lei rifiutale (?), di preparar conquiste di che non ha bisogno (?), e si fa ogni possibile sforzo con tali calunnie, di atterrire l'Europa con aggressioni immaginarie, il di cui pensiero non è mai esistilo! La Germania nulla ha da temere da noi per la sua indipendenza, ed aspettar ci dobbiamo da lei non minor giustizia per le nostre intenzioni, che noi abbiamo simpatia per la sua nazionalità».

Conchiude con una dichiarazione, che fa ricadere sulla Germania la responsabilità di una guerra, in cui forse avrebbe presa parte la Prussia, che era l'incubo del piccoli Stati.

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«La Prussia, dice il Moniteur, lo ha compreso, e si è collegata con l'Inghilterra per far intendere a Vienna buoni consigli, nel tempo medesimo che taluni agitatori cercano a fomentare, ed a coalizzare contro di noi la Confederazione Germanica. Codesta attitudine riservata del Gabinetto di Berlino è certamente più vantaggiosa alla Germania, che il trasporto di coloro, i quali, facendo appello ai rancori ed ai pregiudizi del 1813 si espongono ad irritare in Francia il sentimento nazionale. Il popolo francese ha la suscettibilità del suo onore del pari che la moderazione della sua forza, e lo si eccita colla minaccia, lo si calma con la conciliazione»

Con ciò il Gabinetto di Parigi dichiarava agli Stati di Germania, che se non fosser rimasti neutrali nei fatti che sarebbero avvenuti in Italia, avrebbero avuto a nemica la Francia in una guerra, che avrebbe eccitato il sentimento nazionale, e perciò a tutto sangue: di più l'attitudine riservata del gabinetto di Berlino era una minaccia troppo patente per non tenersene conto. Sicché quegli Stati si videro nella necessità di non immettersi in una guerra, il di cui esito sarebbe stato forse loro dannevolissimo; per la qual cosa l'Austria si trovò isolala di fronte a tre polenti nemici; la Francia, la Sardegna, e la rivoluzione.

Non pertanto la premura, che l'Inghilterra addimostrava per un componimento pacifico, fece decidere Napoleone a sollecitare la Russia affinché avesse proposto un congresso nello scopo di dirimere la quistione sulla base di quanto erasi stabilito nella sessione del 14 Aprile 1856 intorno ai dissensi tra due potenze.

La proposta fu fatta ed accettata con la esclusione della Sardegna. Questa menò gran rumore di tale onta, e dichiarò che rimarrebbe libera nelle sue azioni! Sarebbe a sospettare che Cavour fosse ammattito, diceva un gran politico inglese, col mettersi in contrasto

196 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

L'Austria domandò, che tutte le potenze che avessero assunto impegni con l'Italia, presentassero i loro trattati, com'essa era pronta a fare; ma tale domanda fu oppugnala da Napoleone, il quale non avrebbe potuto certamente svelare, che tutto il suo impegno era il possedimento di Nizza e Savoia, pattuito a Plombiéres! (1) Perciò l'Imperatore ricorse alle salile arti per metter tutti in confusione. Di fatti, mentre egli facea delle proposizioni alla Russia, l'Inghilterra con la Prussia ne stabilivano altre; sicché fu difficile lo intendersi. L'Austria che non volea far mostra d'essere ostinata per la guerra, accettò la mediazione inglese, incaricandola di sentirsela con la Francia, e far dismettere ogni altitudine minacciosa della Sardegna, che l'obbligava a stare in armi a propria difesa.

Questa pieghevolezza dell'Austria avea per poco scompigliato l'animo di Napoleone, che sperava trar profitto dalla ostinatezza tedesca; ma a lui non mancava modo di tentare altre vie. Per calmare i timori di Torino, che si era veduto scacciato dal banchetto delle nazioni, fece venire a Parigi il Conte di Cavour, e promisegli che non avrebbe lascialo intentato mezzo alcuno per pervenire al compimento del suo progetto, sia con la guerra, sia con il congresso. Tali assicurazioni fecero riprender lena al Conte; ed a ragione, poiché senza la ferma e decisa volontà di Napoleone, il Piemonte si sarebbe trovaro nella condizione di fare la più meschina e gretta figura in diplomazia, non solo perché le potenze non volevano ammetterlo nel congresso, ma anche perché l'Inghilterra manifestamente dichiaratasi avversa alla guerra, l'accusava di farsene provocatore (2).

Intanto si venne alla condizione del disarmo, e benché Prussia ed Inghilterra avessero dichiarato al Piemonte, che l'avrebbero guarentito da ogni aggressione, il Piemonte non volte disarmare: il veto veniva da Parigi.

(1) Bianchi loc. cit. pag. 58.

(2)

Nota del Gabinetto di Londra e quello di Torino.

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Allora si tentò il disarmo generale e simultaneo; l'Austria vi sarebbe devenuta, ma Cavour non accettò: - l'ordine era di Parigi, ed alle insistenze dell'Inghilterra egli rispose: che condannato il Piemonte all'isolamento, esso non potea assentire a proposte di sorta. Perciò non volte neanche devenire ad inviare alle conferenze un plenipotenziario Sardo esclusivamente per la quistione del disarmo, adducendo a motivo del rifiuto l'offesa dignità del suo governo. Ma siccome il temporeggiare arrecava estremo danno all'Austria, Il quale ben vedeva l'accordo tra il Piemonte e Francia, così il gabinetto di Vienna si decise venire ad un ultimatum (23 Aprile), e lo inviò per mezzo del Barone di Rellersberg.

In questa nota dicevasi, che avendo il gabinetto di Torino risposto con un rifiuto categorica all'invito di metterli la sua armata sul piede di pace, ed accettare la guarentigia collettiva, che gli era offerta, cosi si domandava risposta decisiva del si, o no, al quale uopo si. attendevano tre giorni.

Lo Stesso Giorno il Monitcur pubblicava gli ordini dati da S. M. l'Imperatore per la ripartizione del Comandi dell'esercito - Generale Magnan Comandante l'esercito di Parigi - Halakoff, l'esercito di osservazione col quartier generale a Nancy - Castellane, Y esercito di Lione - Baragueg d'Hilliers il 1.° corpo dell'esercito delle Alpi- il 2.° Mac - Mahon- il 3.° Canrobert - il 4.° Niel- II Principe Napoleone comanderà un corpo separato - Randon, maggior generale dell'esercito delle Alpi.

L'Inghilterra volle tentare un ultimo sforzo.

Propose: - disarmo simultaneo, regolato da una commissione militare composta da cinque commissari delle Potenze intervenute al Congresso, ed un sesto per Torino.

Il Congresso riunirebbesi per decidere sulla quistione delle forme politiche, e v'interverrebbero i rappresentanti degli stati Italiani a norma del Congresso di Laybach.

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Napoleone vide bene, che i due primi articoli erano inaccettabili dall'Austria, perché la umiliavano sino a venire a patti con il più piccolo stato dell'Italia; ma vi speculò l'occasione propizia per sollevare l'ostinazione dell'Austria, ed allontanarla dall'Inghilterra autrice della proposta. Non gli fu difficile dissimulare il suo pensiero, e sollecitare la Prussia e la Russia ad accettarla: avutone l'assentimento, attese la risposta del gabinetto di Vienna, che come presumer si dovea, accoglieva i due secondi articoli, rifiutava i primi. Allora l'Imperatore ebbe raggiunto il suo scopo: con sé erano Inghilterra, Russia, e Prussia; l'Austria, isolata, obbligata a rompere la guerra per la sua ostinazione ed impopolarità.

Il momento era decisivo, e pari al guizza dell'elettrico, la notizia si propagò in Italia; i comitati raddoppiarono di attività; proclami e cartelli incendiari si sparsero da per lutto, eia Toscana, Parma, Modena e le Romagne già cominciavano a commuoversi attendendo da Torino il grido - sollevazione!

Ferdinando 2.° di Napoli, quand'ebbe il dispaccio che gli comunicava la dichiarazione di guerra fatta dall'Austria, disse a quel Ministro: « male! è imprudenza: si è messa in una lolla, a cui non era preparata: soccomberà, e tristi saranno le sorti Italiane».

Avea egli mirato nel segno, poiché non ignorasse il fermento che in ogni parte agitavasi: minore in Napoli, ove la mano di Ferdinando era provvida e severa.

Egli faceva sorvegliare l'Ambasciatore Piemontese ed i capi del comitati; tutto gli era noto, ma in tanta conflagrazione di cose lasciava fare, poiché fiduciava nelle masse e nell'esercito. Le masse furono travolte dall'onda rivoluzionaria - l'esercito fu venduto! Ma ciò avvenne quando, Ferdinando non era più!

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CAPITOLO VI.

L'Austria intima al Piemonte il disarmo - Cavour trascina la Francia alla guerra - Dichiarazione di guerra - Formazione del Corpi franchi Cavour e La Farina - Nota di Cavour all'Austria - Proclama di Vittotio Emanuele Primi movimenti in Toscana - Proposte d'alleanza fatte dal Piemonte alla Toscana - Rifiuto di questa - Dimostrazione militare a Firenze - Nuovo Gabinetto - Condizioni imposte al Gran Duca partenza del Gran Duca Governo provvisorio - Il proclama della rivoluzione - Requisizione di danaro e di cavalli - Offerta della Dittatura della Toscana al Re di Piemonte - Egli nomina un Commessario straordinario Cavour e il Marchese Gualterio - Lord Redcliffe all'Alta Camera - Una lettera di Carlo Boncompagni - Risposta di Lord Normanby - Il Conqueror a Livorno - Rimostranze di d'Azeglio a Saint - James - Risposta che n'ebbe - Proteste del Gran Duca - Rivolta a Parma - Proclama della Duchessa - Nomina di una Commissione governativa - La Duchessa a Verona - La Commissione è obbligata a dimettersi - Nomina del governo provvisorio - Suoi atti - Intima delle truppe alla Giunta - Questa abbandona il potere Restaurazione - I Piemontesi occupano Massa e Carrara - Nota del Duca di Modena - Ritiro dell'Ambasciatore piemontese - Gli Austriaci a Bologna dichiarano Io stato di assedio - Protesta del Pontefice - Lettera Circolare del Cardinale Legato di Bologna.

La dichiarazione di guerra fatta dall'Austria sull'intima del disarmo tra tre giorni era un gran problema sciolto da Cavour, della cui riuscita pur grandemente egli avea dubitato. Napoleone 3.° il quale, tuttocchè sapesse l'Austria non mancare di astuzia, né lasciarsi agguindolare dalle arti diplomatiche del ministro sardo; pure non volendo, vi cadde, mettendosi dalla parte del torlo. Rinfocolare l'avversione di tutta la penisola Italiana contro la casa Absburgese non era stato difficile al Conte di Cavour; poiché la solerzia del comitati, e l'antipatia degli Italiani per gli austriaci non erano un mistero; e storicamente possiam sostenere che una rivoluzione in senso liberale dovea avvenire: ma non mai sarebbe stata tale da detronizzare i principi, e proclamare i plebisciti di annessione al Piemonte, se non avesse dovuto seguire il programma, che nel 1860 portarono a fine l'accortezza, la fermezza, e l'ostinazione laboriosa della Società Nazionale, ed i milioni che furono erogati.

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Questo però non era che parte della soluzione del problema; bisognava sciogliere l'altra, obbligando la Francia ad intervenire in una guerra a difesa del debole ed aggredito Piemonte; e Cavour raggiunse questo proposito, ponendo a tali strette il Governo austriaco, che fattagli smettere la naturale e proverbiale prudenza, lo trasse a farsi aggressore, ad onta che contra sé vedesse schierata non la Sardegna sola, ma la Francia che intorno alla sua bandiera attirava le simpatie delle popolazioni del Lombardo - Veneto.

La gioia del Conte di Cavour non ebbe più limiti. A Torino convenivano ogni giorno giovani entusiasmati al grido d'indipendenza, di libertà, e di patrie battaglie; e Cavour li fuse in parte nell'esercito regolare; dell'altra parte formò i corpi franchi, il cui comando affidò a Garibaldi; cosa che gli costò gran fatica per la dichiarata avversione spiegata dal Gen. Lamarmora. Ma finalmente ei vinse la ritrosia del medesimo, facendogli riflettere che quei corpi raccogliticci di - giovani delle varie province italiane servivano a rappresentare in politica la volontà nazionale della unità.

Cavour nonpertanto non cessava mai di consigliar prudenza e moderazione ai corrispondenti del comitati, per non compromettere là causa con inutili dimostrazioni. Narrasi, che un dì La Farina partandogli del progressi della Società, gli dicesse: -Faremo Italia una:- «Si, risposegli Cavour, faremo Italia una, secondo il concetto della Società, non so se tra due, tra venti, o tra cento anni. Ella non è ministro -: faccia liberamente: ma badi, che se sarò interpellato nella Camera, o molestato dalla diplomazia, la rinnegherò come Pietro». E La Farina riprese: «Se occorre, mi cacci via, mi processi; ma per ora mi lasci fare..» (1).

Chi in quei giorni avesse veduto il Conte di Cavour porre sua stanza nel ministero della guerra; scriver note pei Gabinetti, ordinanze per le truppe, proclami per i rivoluzionarii, lettere per la polizia interna, esser tutto per tutti, avrebbe dovuto riconoscerlo uomo non comune.

(1) Bianchi - Nota a pag. 65.

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All'audacia di lui soccorreva la schiera degli emigrati, che giuocavano la fortuna con la lesta, sfidando l'ira delle polizie del principi italiani e dell'Austria. Il Giuntini scriveagli aver risoluto recarsi a Milano, e fervendo la guerra proclamare il governo nazionale; ed egli premurosamente risposegli: «- Vada, caro Giuntini, in Lombardia, e faccia che al nostro approssimarsi, Milano e le vicine città sorgano in modo da dimostrare alla Francia, all'imperatore, ed all'Europa, che siamo degni di ritornare nazione libera, e forte, indipendente. A rivederci a Milano, ove stringeremo il patto d'unione, che i nemici interni ed esterni d'Italia non potranno rompere mai. Addio. Cavour».

Ecco il problema, che il Ministro avea sciolto: rendere impopolare la guerra per l'Austria, popolarissima per la Sardegna: spingere l'Austria ad aggredire, ed obbligare la Francia ad accorrere, senza destare sospetto nella diplomazia; tenere in pronto la rivoluzione per testimoniare all'Europa egli non aver mentito, quando e nel Congresso e con la Nota del 1° Marzo avea accusalo l'Austria.

Napoleone avea anche da parte sua sciolto un problema più difficile: avere il consentimento della Russia e dell'Inghilterra per agire contro l'Austria: stringer la mano alla Prussia, mostrandole la rivale avvilita; e tenere armati e spettatori passivi gli stati secondari di Germania, spaventandoli con la responsabilità di una guerra generale!

Napoleone e Cavour si condussero mirabilmente, e misero in attuazione il patto di Plombières al cospetto di tutta la diplomazia Europea fremente, attonita e spettatrice!!!

Il Conte di Cavour rispose alla nota Austriaca, che «il Governo sardo, avendo accettata la proposta formulala dall'Inghilterra con l'assentimento delle altre potenze, avea dato prove non equivoche di non provocare malintesi; per cui tutta la responsabilità sarebbe caduta su coloro che primi ad armare, respingevano una conciliazione, facendo ricorso a intimazioni minacciose». Con ciò Cavour constatava ritenere per dichiarazione di guerra da parte dell'Austria l'intima del disarmo.

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A tener tutto in pronto, Vittorio Emanuele, che volea capitanare l'esercito al rompere delle ostilità, nominò a suo Luogotenente Generale nel Regno Eugenio Principe di Savoia Carignano. Nel contempo pubblicò due proclami; uno all'armata, chiamandola alle armi per vendicare l'oltraggio, che fatto al Re, ripercuoteva sulla Nazione; e l'altro, che indirizzò non al popolo piemontese, ma al popolo italiano, annunziando essere egli assalito dall'Austria, sol perché non fu insensibile ai gridi di dolore che sì levavano in tutta Italia. Essendo questo il primo documento diplomatico, con cui il Re di Piemonte dichiarava combattere sui campi di Lombardia la causa del popolo Italiano, lo riproduciamo testualmente, come prima pagina della storia della rivolta, che scoppiò l'anno di poi.

AL POPOLO ITALIANO

POPOLI DEL REGNO!

«L'Austria ci assale col poderoso esercito, che simulando amor di pace, ha adunato a nostra offesa nelle infelici provincie soggette alla sua dominazione.

«Non potendo sopportare l'esempio del nostri ordini civili, né volendo sottomettersi al giudizio di un congresso europeo sui mali e sui pericoli del quali essa fu sola cagione in Italia, l'Austria viola la promessa data alla Gran Bretagna, e fa caso di guerra d'una legge d'onore.

«L'Austria osa domandare, che siano diminuite le nostre truppe, disarmata e data in sua balia quell'animosa gioventù che da tutte parti d'Italia è accorsa a difendere la sacra bandiera dell'indipendenza nazionale.

«Geloso custode dell'avito patrimonio d'onore e di gloria, io do lo stato a reggere al mio amatissimo Cugino il Principe Eugenio, e ripiglio la spada.

«Coi miei soldati combatteranno le battaglie della libertà e della giustizia i prodi soldati dell'Imperatore Napoleone mio generoso allealo.

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POPOLI D'ITALIA!

«L'Austria assale il Piemonte, perché ho peroralo la causa della comune patria nei consigli dell'Europa, perché non fui insensibile ai vostri gridi di dolore!

«Così essa rompe oggi violentemente quei trattati che non ha rispettato mai. Cosi oggi è intero il diritto della Nazione, ed io posso in piena coscienza sciogliere il voto fatto sulla tomba del mio Magnanimo Genitore! Impugnando le armi per difendere il mio trono, la libertà do'miei popoli, l'onore del nome italiano, io combatto pel diritto di tutta la Nazione.

«Confidiamo in Dio e nella nostra concordia, confidiamo nel valore dei soldati italiani, nell'alleanza della nobile Nazione Francese, confidiamo nella giustizia della pubblica opinione.

«Io non ho altra ambizione che quella di essere il primo soldato dell'Indipendenza Italiana.

«Torino, 29 aprile 1859.

VITTORIO EMANUELE

C. Cavour

Mentre tali fatti succedeansi a Torino, e tutto preparavasi per affrontare l'Austriaco, la Toscana stava per divenire teatro di avvenimenti tristissimi. Insoliti capannelli di gente male intenzionala agglomeravansi nelle piazze; ed i soldati, fraternizzando con essi, vociavano in modo da mettere nelle autorità serie apprensioni. Vollero esse ripararvi; ma tardi s'avvidero già il governo essere esautorato radicalmente. La rivoluzione avea operalo a meraviglia. Il plenipotenziario Sardo Boncompagni, per insinuazioni del suo governo, avea proposto al Gabinetto di Firenze unalleanza offensiva e difensiva contro l'Austria nella guerra, che minacciava diventar causa nazionale; ma ne ebbe un diniego, trovandosi la Toscana stretta col gabinetto di Vienna per segreti trattati; era evidente, che la Toscana non si sarebbe allontanata dalla politica austriaca. Tal notizia, ad arte propalata, provocò i primi atti della ribellione che già era stata organizzata dal Comitato della Società Nazionale;

204 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

e primi fra tutti i Comandanti del corpi militari insieme alla Ufficialità, recatisi dal Gran Duca, dichiararongli non essere più possibile mantenere in disciplina le truppe reclamanti bandiera tricolore, e promessa d'essere inviale a com

Fu redatto all'oggetto un foglio in cui erano articolale le condizioni apposte dal partito dominante, come ultima transazione a pacificare il paese, ed eran le seguenti:

«Abdicazione di S. Altezza il Granduca, e proclamazione di Ferdinando IV.

«Destituzione del Ministero, del Generale, e degli Uffiziali che si «sono maggiormente pronunziali contro il sentimento nazionale.

«Alleanza offensiva e difensiva col Piemonte.

«Pronta cooperazione alla guerra con tutte le forze dello Stato, e comando supremo delle truppe al Gen. Ulloa.

«L'ordinamento delle libertà costituzionali del Paese dovrà essere regolato secondo l'ordinamento generale d'Italia».

Il Gran Duca ricevé dignitosamente il messaggio, e rispose che sulla domanda dell'abdicazione, essendo cosa di grave momento, avrebbe dovuto riflettere; e convocato il corpo Diplomatico, esposta la ricevuta intima del partito ribelle, dimandò, se sicura fosse la sua famiglia da personali insulti. Gli ambasciatori di Francia e d'Inghilterra promisero che per loro parte l'avrebbero messa sotto l'egida delle loro bandiere;

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ed il Boncompagni, che capo, organizzatore e direttore del movimento, meglio degli altri potea dare quelle garentie, gliene fece formate promessa. Dopo di che il Granduca recossi a Bologna, invitando il Corpo Diplomatico a seguirlo.

La rivoluzione era così rimasta padrona assoluta di Firenze; e poco curandosi, che il Principe avesse rimasto un Ministero che rappresentasse il governo fiorentino, elesse un governo provvisorio, una specie di triumvirato, composto da Ubaldino Peruzzi, Vincenzo Malanchini, ed Alessandro Danzini; i quali prendendo possesso del Governo a nome di Vittorio Emanuele, diedero fuori la seguente Grida:

«TOSCANI- Il Gran Duca ed il suo Governo, invece di soddisfare ai giusti desideri manifestati in tanti e diversi modi, e da sì lunga «pezza dal paese, lo hanno abbandonato a sé stesso. In questa critica situazione, il Consiglio Municipale di Firenze, solo vestigio esistente dell'Autorità, si è raccolto straordinariamente ad oggetto di provvedere alla necessità imperiosa che urge, di non lasciar la Toscana priva di governo, ed ha nominato gl'individui qui sottoscritti per amministrarla provvisoriamente.

«TOSCANI- Noi abbiamo accettato questo grave peso solamente pel tempo necessario, perché S. M. Vittorio Emanuele possa provvedere prontamente, e per la durata della guerra, a governare la Toscana in guisa da concorrere efficacemente a liberare il paese»

Al Generale Girolamo Ulloa fu affidato il comando dell'esercito; e per sopperire ai bisogni finanziari del momento, il Sindaco pubblicò altro proclama ordinando requisirsi danaro, cavalli, e tutto quanto necessitar potesse per la guerra dell'indipendenza.

Di tali avvenimenti il governo provvisorio diede contezza al Cotte di Cavour con una Nota, nella quale esortavalo a farsi interpetre presso il Re, affinché a nome del popolo Toscano accettasse la Dittatura del Granducato. A tale invito il Ministro Piemontese rispose, il Re gradire la fiducia che in lui le provincie toscane riponevano; ma che trovandosi alla vigilia di una gran guerra, non credea convenevole accettare la Dittatura, sibbene gradiva l'offerta delle truppe Toscane, che avrebbe riunite a quelle di Piemonte;

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e consentiva a porre sotto il suo protettorato quel governo, delegando a tal fine tutti i poteri al Ministro Boncompagni, il quale avrebbe assunto il titolo

Con tal ripiego Cavour salvava il suo governo dall'esser responsabile degli avvenimenti di Toscana, e nel tempo stesso, senza legale pubblicità, ivi s'imponeva con Peruzzi e Boncompagni, a sé fidati, e membri della Società Nazionale di Torino.

Al Marchese Gualterio, che su tutti fu sollecito di partecipargli la novella della felice riuscita della rivoluzione, rispose telegraficamente: - «Coraggio, amici, e daremo all'Italia il rinnovamento dal Gioberti ideato».

Accennammo poco di sopra al modo come Lord Normanby avesse parlato del Boncompagni, il quale avea condotta la rivolta di Toscana; necessita perciò pubblicarne i documenti che sono della più alta importanza. Anticipiamo le date per non dare molto distacco a sì importante rivelazione!

Dopo il discorso che Lord Normanby tenne all'Alta Camera di Londra (1 Giugno), lord Stralford Redcliffe, udendo nella narrazione, che la truppa avesse fatto causa comune con la rivoluzione, tutto essendo anticipatamente preparato, non poté frenarsi dal dire: «che il Gran Duca di Toscana avrebbe avuto il diritto non solo di far incatenare il Cav. Carlo Boncompagni, ma di farlo anche impiccare all'inferriata del suo palazzo».

Queste parole ristampate sui giornali officiali della Gran Bretagna. riprodotte e chiosate da altri periodici, fecero impressione positiva nella diplomazia; non perché il Boncompagni avesse cospirato per la rivolta, ma per aver abusato del grave carattere, che avea presso quel gabinetto. Per la qual cosa il Boncompagni fece inserire nel Morning - Post una lettera, nella quale esponendo la parte che egli avea avuto negli avvenimenti di Toscana, cercava discolparsi dalle imputazioni appostegli. Il rimedio fu peggiore del male, avvegnachè i fatti narrati dal complice stesso fossero più distesamente dichiarati.

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«A misura (è la lettera del Boncompagni) che la guerra tra il Piemonte e l'Austria diveniva imminente, io ho compreso che una ri

» Nello stesso tempo che io dava questi consigli al Governo, usai di tutta l'influenza che io poteva esercitare sui capi del partito liberale, per raccomandar loro di astenersi da qualsiasi atto illegale, da ogni moto rivoluzionario, da ogni esigenza a riguardo della politica interna, da ogni recriminazione sul passalo, che avrebbe potuto somministrare alla Corte, o al Governo pretesti per diffidare del partito Nazionale. Quando vidi che in seguito dell'ostinazione del governo, la rivoluzione era sul punto di scoppiare, esortai i capi del movimento, con cui era in relazione, ad impedire ogni spargimento di sangue, e tutto ciò che potea essere un disonore del paese.

«Il 21, durante l'insurrezione, rivolsi un discorso al popolo che si era radunato sotto le mie finestre, e adoperai tutti i mezzi che erano in mie mani, per impedire ogni eccesso, affinché la famiglia Ducate, abbandonando Firenze di pieno giorno, e in mezzo di un popolo in rivoluzione, potesse trovarvi riguardi dovuti alla sua posizione ed alle sue sventure.

«Grazie al buon senso del popolo fiorentino, e degli uomini che lo dirigevano, mi fu agevole il riuscirvi.»

Con questa lettera, è spontanea la confessione del Boncompagni dell'essere in relazione coi capi del movimento, e della grande influenza che su loro esercitava: com'egli di tutto fosse inteso, e la rivolta dirigesse; locchè veniva pure confermato dalla prima grida pubblicala dal Governo provvisorio,

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il quale accettando quell'incarico a nome del Re di Sardegna, col fatto dichiarava decaduto dal tro

Lord Normanby nel leggere questa lettera, inviò allo stesso Morning Post un suo scritto, nel quale il diplomatico, senza reticenza alcuna espone i fatti, che non poteansi ignorare da un ministro inglese.

Londra 11 di Settembre

«Signore - Siccome io leggo assai di rado il Morning - Post; fu soltanto nel ricevere il vostro giornale dell'8 Settembre che venni in cognizione di una lettera del sig. Boncompagni diretta al giornale sudetto, e nella quale commentava il discorso da me tenuto alla Camera del Lordi il 1 giugno trascorso. In questa larda replica pertanto io non trovo che il sig. Boncompagni contraddica seriamente alcuno del fatti da me segnali sul suo conto.

«Esso ammette di aver nella Domenica di Pasqua diretto una nota al sig. Lenzoni, nella quale eccitava il governo toscano a stringere una lega tra la Toscana, la Sardegna e la Francia nello scopo di muovere guerra all'Austria.

«È possibile che tra i doveri diplomatici del sig. Boncompagni fosse quello di chiedere ad un sovrano indipendente la rottura del trattati, nei quali esso avea impegnalo la propria fede; ma ciò, di cui non si ha esempio anteriore, dichiara come egli si prevalesse del suo carattere diplomatico per accordare nella legazione sarda ogni sorta di protezione atta cospirazione organizzata contro il governo toscano, presso il quale esso era accreditato.

«Che ciò sia vero, è bastantemente provato da un fatto, che egli non oserebbe negare; dall'avere cioè arringato dal proprio balcone una turma di rivoluzionari, ai quali diresse parole di ringraziamento per quanto aveano operato,

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come non potrebbe negare che guanto di illegale accadde in quel giorno stesso, fosse in conseguenza del consigli da lui dati nella sua ufficiale residenza.

«E fu in seguito di tutto questo, e per assecondare i disegni da lui concepiti, che il marchese di Laiatico, allorchè il Granduca affidavagli l'incarico di comporre d'accordo con una Commissione un nuovo ministero, rispose al proprio Sovrano col domandargli l'abdicazione.

«Egualmente non può il sig. Boncompagni negare di essere stato quindi pubblicamente nominalo ministro degli esteri del paese stesso, presso il quale era accreditato come agente diplomatico di un altro sovrano, e che riconoscendo l'assurdità di questa duplice posizione, egli risolvette di rinunciare nominalmente a quell'incarico, concentrando però nelle sue mani ogni potere.

«A tale proposito il sig. Boncompagni asserisce essere io stato male informato da coloro col quali ho comunicalo nel paese stesso; ma siccome io sono intimamente convinto di non avere esposto che la semplice verità, cosi non dubito di asserire, che se tutta l'influenza sarda, e gli agenti sardi fossero stati esclusi dai Ducati; se come a tutta ragione s'esprimeva il Moniteur «i destini d'Italia fossero stati «affidali ad uomini che avessero avuto più a cuore l'avvenire della patria comune, che piccoli e parziali successi» il risultato di tutte le attuali complicazioni sarebbe riuscito assai più favorevole all'Italia medesima.

«Ed infatti se fosse stata in Toscana accordata piena libertà di manifestare il vero in tutta la sua schiettezza, assai strane rivelazioni si sarebbero avute intorno a quanto si è fatto in quel paese nei quattro ultimi mesi trascorsi, e specialmente intorno alle turpi macchinazioni adoperale, perché particolari ed interessale speculazioni di una turbolenta minorità avessero il carattere di una volontà universale, non che intorno all'irregolare maneggio del denaro pubblico, del quale il sig. Boncompagni ha disposto talvolta con assoluta influenza, e di sovente senza veruna responsabilità. Il medesimo frattanto si meraviglia ingenuamente della severità con cui vennero giudicate le sue azioni da coloro stessi che trassero vantaggio dalla confusione,

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cui esso dette opera: ma il sig. Boncompagni non s'illuda: nessuno ignora che una cospirazione diretta da un diplomatico estero contro quel sovrano, presso il quale è accreditato, è una infrazione di tutti quei principii di buona fede., sui quali soltanto possono mantenersi le relazioni internazionali. «Poi, voi o signore, avete nel vostro giornale etc.... «

NORMANBY

Né il Governo Inglese, a dissaprovare i fatti avvenuti, si tenne alle sole proteste del Lordi; volte meglio manifestarle con i fatti.

Un bastimento inglese, il Conqueror, fu inviato a Livorno ad oggetto di tutelare gl'interessi del sudditi della Regina: ma essendo esso entrato ed uscito da quel porto senza salutare la bandiera Sarda, il Marchese d'Azeolio, ambasciatore piemontese alla Corte della Gran Bretagna, presentò risentite dimostranze a Lord Malmesbury, ritenendo «che un tale alto avesse avuto luogo senza la conoscenza, e sopratutto senza l'assentimento del Governo della regina.»

A questa specie di minaccia, più che di risentimento, il nobile Lord rispose immediatamente. e senza covertare la propria idea; - «mi vedo obbligato a supporre che la vostra lettera non sia ufficiale; che se fosse altrimenti, vi dovrei domandare: in quale qualità fate simile inchiesta al governo della regina! Ciò posto, non vedo inconvenienti a dirvi che... il bastimento di S. M. il Conqueror ancorato a Livorno... ha ricevuto dal governo l'ordine di non salutare la bandiera del governo provvisorio di Toscana...»

La risposta era troppo chiara ed esplicita. ed il plenipotenziario Sardo credè opportuno di considerare l'affare come espletato!!

Or mentre a Firenze il Boncompagni pubblicava proclami per chiamare all'armi il popolo, ed invitarlo a far causa comune con la truppa piemontese, il Gran Duca lanciava proteste contro siffatto sleale intervento nei suoi Stati; prima da Ferrara, e poi da Vienna.

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Nell'ultima scriveva -: «Io era ben lontano dal prevedere, che un Sovrano, al quale mi uniscono legami di parentela, ad onta del vigenti trattati e del diritto delle genti, potrebbe senza la minima provocazione da parte mia usurpare il potere supremo nei miei Stati, dichiarandosi protettore della Toscana, e nominando un commissario Reale per governare il Granducato. Io mi vedo dunque costretto di protestare contro questo atto d'ingiustizia. Io protesto solennemente contro questa usurpazione, contro gli atti di qualsiasi specie, che emanassero da qualunque potere arbitrario, insediato in dispregio del miei diritti sovrani» (1).

Con carattere di maggior violenza si rovesciò la rivoluzione nel Ducato di Parma, dove incontrò l'energica morale resistenza di egregi cittadini.

Venuta a notizia del parmensi congiurati la novella del successo di Toscana, essi stimarono opportuno il momento d'insorgere, il Comitato si assunse l'incarico per la riuscita del tentativo, benché nell'armata e nella popolazione non avesse, che scarso numero di adepti, come è dichiarato nei documenti officiali.

Si cominciò col presentare alla Duchessa Luisa, mediante una deputazione mista di cittadini e militari, una petizione, in cui esprimevasi il desiderio di prender parte alla guerra d'Italia; quello stesso che si era fatto a Firenze: gli agenti erano i medesimi individui. A questa petizione, seguendo le dimostrazioni di piazza già organizzate dal Comitato, la Duchessa credè necessario provvedere alla sicurezza di sua famiglia. A tal uopo ritirossi a Verona. Pubblicò prima un proclama, nel quale affidava tutti i poteri dello stato ai suoi ministri, ordinando che da quel giorno in poi tutti gli atti governativi fossero emanati a nome di Roberto 1.° suo figlio. Il governo perciò cadde, secondo la volontà della principessa regnante, nelle mani del sigg. Salali, Pallavicino, Lombardini e Cattani.

(1) De la Betollière - La guerra d'Italia del 1859, pag. 171 - Napoli, Stamperia Gargiuto, 1859.

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Non appena costoro assunsero il potere, i congiurati, a capo di una bruzzaglia di popolo armato come per incanto, e dispiegando bandiere tricolori, minacciosamente li obbligarono a dimettersi. Sopraffatto dalla forza, il ministero dové ritirarsi, dopo aver emessa formate protesta in doppio originale, l'uno del quali tennero quei cittadini a documento di loro discolpa. e l'altro fu consegnato ai capi dell'ammutinamento, i quali non si niegarono di apporre alla protesta la firma di ricevuta per guarentigia della commissione Ducate. Essi furono gli Avv. Leonzio Amelonghi, Giorgio Maini, il Dottor Salvatore Riva, e l'Ingegnere Angelo Garbarini.

Immediatamente (1) la rivolta elesse una giunta di governo provvisorio, che prese possesso del Ducato a nome di S. M. di Sardegna Vittorio Emanuele II; dichiarando aver dato parte dell'avvenimento a quel gabinetto. Confermò nelle cariche gl'impiegali civili, e decretò la formazione della Guardia Nazionale, affidandone lo incarico ad Augusto Rossi, Giuseppe Clementi, e Francesco Canobbio, nominando i primi due Capitani, ed il terzo sotto - tenente dell'armata sarda.

Nondimeno l'istantaneo trionfo della rivoluzione non si dové che alla sorpresa fatta alla popolazione, ignara di sì avventali tentativi; sicchè riavutasi dal primo stordimento, diessi con energiche dimostrazioni a disapprovare l'avvenuto. I pochi uffiziali e soldati, che aveano aderito alle voglie del congiurati, non lardarono ad avvedersi dello inganno, quando del primi, alcuni furono destituiti, altri licenziali, e seppero che si voleva ad ogni costo disarmare la truppa; perlocchè riunitisi alla maggioranza delle milizie rimaste fedeli alla Duchessa, dichiararono con le armi alla mano voler subito la restaurazione.

Il Rossi (piemontese) ed un altro, che osarono arringarli, a stento scamparono la vita; ond'è che le truppe ritiratesi nella Cittadella, e strettesi al loro comandante Colonnello Cesare de Vivo, giurarono difendere l'onore della bandiera. Assicuralo cosi il Colonnello della fedeltà dell'esercito,

(1) Memorandum del 12 Maggio 1859 diretto ai Gabinetti d'Europa dalla Duchessa di Parma.

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inviò alla Giunta una notificazione perentoria, ingiungendo, che ove in un'ora non si fosse sciolta, avrebbe fatto uso delle armi. I congiurati, che avean proclamalo a nome di popolo il governo provvisorio, mentre contro il volere del popolo aveanlo fatto, imponendosi al paese con la mano della più insolente canaglia plebea, non si fecero ripetere la intimazione; e dopo un'ora abbandonarono vergognosamente il potere e la città. La Commissione governativa riprese le sue funzioni ed il Sindaco a capo del Municipio e di tutti i più ragguardevoli cittadini si recò a felicitarla, per l'ordine e per la tranquillità restaurala. Invitata la Duchessa da numerose deputazioni a ripatriare, insieme alla famiglia fece ritorno a Parma dopo solo cinque giorni di assenza. Ma i congiurati, che in quei momenti non furono puniti, segretamente stabilirono di ritentar la prova dopo l'esito della guerra - E così avvenne.

Infine a Modena la rivoluzione non ebbe forza a trionfare, se non per l'intervento delle truppe Piemontesi.

Le province di Massa e Carrara furon le prime ad insorgere; e proclamala la Dittatura del Re di Sardegna, il gabinetto di Torino vi spedi immediatamente due Commissari straordinari con apparato di forze militari a prenderne possesso: i quali dopo qualche giorno, rimanendo le città occupate dalla milizia sarda, investirono dei loro poteri il rappresentante del Piemonte. Anche a Modena, ed a Reggio si tentò la sommossa, ma abortì per l'accorrervi di un distaccamento austriaco. L'occupazione Piemontese, non occasionata da contese diplomatiche, o da dichiarazione di guerra, diede motivo al Duca Francesco d'inviare a Torino una Nota reclamante contra tale atto, contrario alle leggi internazionali; ma il Conte di Cavour credé coonestare il suo operato, dichiarando considerare il territorio modenese come nemico, per l'adito che avea dato alle truppe austriache di minacciare il Piemonte alle spalle. Il Duca rispose dando i passaporti al Ministro Piemontese.

In somma in quasi tutte le province limitrofe al Piemonte il movimento rivoluzionario, dove più, dove meno s'era propagato,

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e temevasi che l'eco si ripercotesse negli stati del Papa: ma nulla fu tentato pel veto dell'Imperatore, il quale non voleva urlare le suscettibilità dei cattolici di Francia nel momento in che imprender dovea una guerra generalmente male sentila a Parigi. Napoleone avea creduto anzi cosa prudentissima e necessaria assicurare il Papa, che nulla sarebbesi tentato contro il potere temporale, per la qual cosa al comitato di Torino furon dati ordini precisi di lasciar tranquille le provincie pontificie.

Ciò non ostante Ancona, stando la guerra col Piemonte, addivenne per gli Austriaci punto molto importante di strategica; ed essi cercarono di trarne vantaggio per tutelarsi le spalle da ogni nemica aggressione. Vi proclamarono lo stato di assedio; ma alle energiche proteste del gabinetto di Roma si videro obbligati a toglierlo per non irritare quelle popolazioni, che tanto travaglio loro avean dato nel 1849.

A calmare gli animi, il Cardinale Milesi Legalo a Bologna indirizzò a tutti i governatori e sindaci della provincia, la seguente lettera circolare.

«L'Eminentissimo signor Cardinale Seg. di stato con suo dispaccio del 7 corr. N. 3026, mi significa quanto segue: In occasione degli eventi attuati in Italia, il Governo di Francia al fine di calmare le apprensioni e i timori riguardo al Sommo Pontefice. ed agli Stati della Chiesa, si è dato l'impegno di assicurare nei più formati termini il governo pontificio, che nel corso della presente guerra S. M. l'Imperatore ed il suo governo non permetteranno che si lenti impunemente cosa alcuna in detrimento del riguardi dovuti all'Augusta persona del santo Padre, o diretta a rovesciare la sua temporale dominazione Tali assicurazioni poi acquistarono una solidità, e latitudine anche maggiore dalla officiale risposta, che il medesimo imperiale Governo ha dato alla S. Sede, di riconoscersi da lui, e volersi pienamente rispettare la neutralità, che il governo pontificio poc'anzi dichiarava di voler costantemente mantenere, siccome protestò in altre circostanze non dissimili dalla presente»

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Di tali assicurazioni in questo anno ed in quel che segue, il Papato ne ebbe a dovizia! - Eppure il Papa fu dispogliato del suo territorio. - L'Imperatore del Francesi protestò, giunse fino a richiamare il suo plenipotenziario da Torino: ma si rappaciò con Cavour, o non ostante le imperiali promesse, gli Stati del Papa furono annessi al Piemonte. Il seguito del racconto spiegherà tutta questa misteriosa tela della rivoluzione.

CAPITOLO VII.

Preparativi di guerra in Francia - Proclama di Napoleone al popolo francese - Gli Austriaci passano il Ticino - Posizioni degli eserciti nemici - Prime avvisaglie - Proclama dell'Imperatore del Francesi a Genova - Fazione a tasteggio Battaglia di Montebello - Gli Austriaci abbandonano Casteggio - Cialdini alla Sesia - Garibaldi a Varese - Gli Austriaci abbandonano Como - Battaglia di Palestro - I Francesi a Novara Movimenti delle truppe alleate - Attacco al Ponte della Buflalora - Battaglia a Magenta - Descrizione delle feste fatte a Bari per lo sponsalizio di M Sofia con il Principe ereditario - Francesco 2° - Morte di Ferdinando 2° - Concordato della S. Sede col Portogallo - Enciclica del Papa per pubbliche preghiere.

Il dado era tratto - la sfida lanciata- il guanto raccolto; non si attendeva che il rombo del cannone. La diplomazia muta ed attonita guardava questa lotta, in cui due principii erano cozzanti; diritto e rivoluzione: Eppure Prussia, Russia, Baviera, Sassonia e gli altri principati di Germania, che tutti tengono la corona in forza del diritto pubblico europeo sancito nei trattati del 1815, assistevano impassibili a quel duello, nel quale si giuocavano le sorti della tranquillità, e dell'equilibrio europeo! L'astuzia della politica del secondo impero avea trionfato!

I giorni d'intimazione eran trascorsi; quindi la guerra s'intendeva dichiarata. L'Imperatore d'Austria avea pubblicato il suo proclama alla Nazione, ed all'armata.

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Il Piemonte da sua parte avea fatto lo sforzo maggiore che potea

Il Conte Walewski, Ministro degli esteri a Parigi, presentò al corpo legislativo un'allegazione che fu letta al Senato da Fould Ministro di Stato. La chiamala della classe del 1858 fu portata da cento a centoquarantamila; e fu anche decretato un prestito di 500 milioni.

Di circolari e note diplomatiche era cessala la opportunità: non restavano che gli eventi dello scontro del belligeranti. Napoleone 3 prese per sì l'incarico di stabilire il piano di guerra; e volendo personalmente assistere a quelle battaglie, affidò la reggenza dell'Impero alla Imperatrice Eugenia, ed al popolo francese indirizzò un proclama. In esso, come in tutti gli altri da lui dettali, si ravvisa quell'arte politica di saper destare lo spirito nazionale, conciliarsi con tutti i partiti, e mostrare la santità della causa, che obbligavalo a trar la spada; tuttocchè avesse inizialo il suo impero col motto «l'impero è la pace». Rivolgendosi ai liberali progressisti diceva: «Io rispetto il territorio ed i diritti delle potenze neutrali, ma confesso altamente le mie simpatie per un popolo, la cui storia si confonde con la nostra, e che geme sotto l'oppressione straniera. La Francia ha mostrato la sua avversione contro l'anarchia. Lo scopo di questa guerra è di rendere l'Italia a sé stessa, non di farle cangiar padrone; noi avremo alle nostre frontiere un popolo amico, che ci dovrà l'indipendenza» Per calmare poi le titubanze del clero aggiungeva: Noi non andiamo in Italia per fomentare il disordine, né per iscrollare il potere della S. Sede, clic noi abbiamo rimesso in trono, ma per sottrarlo alla pressione straniera, che si aggrava su tutta la penisola, e contribuire a fondare l'ordine su legittimi interessi soddisfatti.

Questo proclama fu immediatamente seguito da una circolare del signor Rouland, ministro del culti a tutti i Vescovi, per invitarli a pregare per la vittoria delle armi francesi: ed in essa sono notabili queste parole:

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«È cosa importante, che il clero venga illuminato intorno alle conseguenze di una lotta fattasi inevitabile L'imperatore vi ha pensato dinanzi a Dio, e la sua saviezza, e lealtà ben nota non verranno meno alla religione, né al paese. Il principe che ha dato alla religione tante prove di deferenza ed affetto; che dopo i malaugurati giorni del 1848 ha ricondotto il S. Padre al Vaticano; è il più saldo sostegno della cattolica unità, e VUOLE CHE IL CAPO DELLA CHIESA SIA RISPETTATO IN TUTTI I SUOI DIRITTI DI SOVRANO TEMPORALE. Il principe che ha salvala la Francia dall'invasione dello spirito demagogico, non ne potrebbe in verità accettare le dottrine, né la signoria in Italia».

Proclama e circolare ebbero l'effetto desiderato; incensi fumavano dinanzi agli altari; inni e preci si levavano al Signore, mentre allora nel gabinetto imperiale si plasmava l'opuscolo le Pape et le congrès, che tanto rumore dovea far menare di se nel mondo politico.

Gli Austriaci avean passato il Ticino, ma con molto ritardo, senza avvalersi del gran vantaggio che loro sarebbe venuto occupando Susa e la vallata della Scrivia, per aspettarvi e combattere i Francesi alla spicciolala, sia allo sbocco del Moncenisio, sia a quello dell'Appennino. Cinque erano i corpi del loro esercito, che si attelarono sulla riviera di Agogno al Nord fino a S. Nazzaro, ed all'Est lungo il Po; il centro era occupato dal 3. corpo, che avea alla dritta la 5° e T Divisione, ed alla sinistra la 2 e l'8°. I corpi erano comandati dai principi Lichlenstein, Schwarzenberg, conte Stadion, barone Zobel, e Benedek. Gli avamposti furon messi a Aercelli, sicchè teneano occupata tutta la linea Nord del Po fino a Biella, Craglia al nord - ovest, e la Dora Baltea all'ovest. Nel tempo stesso furono aumentate le guarnigioni della Lombardia e del Veneto, e proclamato lo stato di assedio, per ordini del Comandante di quella zona Barone di Aleman; il quale volte cosi tener sicuro il paese da interne commozioni, che avrebbero potuto impacciare le operazioni dell'annata Austriaca.

Anche l'esercito Sardo si era ordinato a battaglia.

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L'ala dritta, composta dalla 2 e 3 divisione, era comandata dal Generale Alfonso Lamarmora; la sinistra (4 e 6 divisione) dal Gen. Ettore Gerbaix de Sonnaz.

Capo dello stato Maggiore il Gen. Morozzo Della Rocca. Capo del corpo di Artiglieria il gen. Pastore; ed il Corpo del Genio comandava il Gen. Menabrea. Questi appena si avvide, che gli Austriaci accennavano a tentare uu colpo di mano su Torino, con quanta maggior lestezza potea sperarsi, fece costruire barricale e difese lungo la Dora Baltea. Il Gen. Castelborgo, Fanti, Durando Giovanni, e Cialdini aveano il comando delle altre divisioni. Garibaldi stava a capo del corpi franchi.

I Francesi intanto sbarcavano a Genova, e scendevano a Susa senza trovare ostacolo alcuno per la imprevidenza del Comandante austriaco, che in quel silo avrebbe potuto arrecar loro positiva molestia.

Nella notte del 3 al 4 Maggio gli Austriaci costrussero una batteria al ponte della ferrovia verso Valenza e tentarono di gettare due ponti di fronte a Frassineto. Il fuoco fu aperto contro l'8 Batt. Bersaglieri e la 10 balleria Sarda, che rispondendo fecero lacere l'artiglieria nemica (1); e così avvenne pure dall'altra sponda del fiume, di dove aggredito il Il regg. fanteria Sarda con fitto fuoco di moschetteria e di razzi, gli austriaci furono respinti per il regolare ed incessante tiro della balleria messa a guardia degli avamposti.

Nei giorni consecutivi, senza colpo tirare, gli Austriaci si avanzavano non accennando dove mirassero. Difatti occupala Biella, l'abbandonarono dopo poche ore; tentarono Ivrea, ma desistettero dall'impresa, perché quella guarnigione, afforzata dai cittadini, dalla Guardia Nazionale, e fin dagli allievi dell'Accademia militare, corse all'armi per fare la più ostinala difesa. Lo stesso avvenne a Tronzano, Livorno, Santhià, Cavaglià, e Saluzzola; di modo che era quasi impossibile il comprendere quale posizione gli austriaci prendessero.

(1)

Nella narrazione compendiata che facciamo di queste fazioni combattute durante tutta la guerra, ci siamo serviti del Bollettini militari, e degli ordini del giorno che si spedivano dai Campi nemici ai rispettivi governi.

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Solo nel giorno appresso si cominciò a smascherare il loro piano. Un corpo era giunto a Trino, poco più sopra di Casale; mentre un altro corpo cercava forzarne il passaggio gittando due ponti, l'uno tra i borghi di Cambio sulla riva sinistra, e il secondo presso i villaggi di Gerola e Cornale tra la Scrivia ed il Curone. Ma non potettero condurre a fine la loro impresa, molestati dall'artiglieria del Sardi.

Mentre che queste piccole fazioni combattevansi senza risultato alcuno, Napoleone 3. giungeva a Genova, accolto con immenso entusiasmo: avvegnacchè la presenza di lui fosse stato indizio, che la Francia con le sue poderose schiere scendesse a sostenere l'onore della bandiera sabauda.

«Soldati - (diss'egli nel suo proclama) -Io vengo a collocarmi i alla vostra testa per condurvi alla pugna. Noi andiamo a secondare la lotta di un popolo, che revindica la sua indipendenza, e sottrarlo alla oppressione straniera. È una causa santa, che ha le simpatie del mondo incivilito Facciamo tutti il nostro dovere, e riponiamo la nostra confidenza in Dio. La patria aspetta molto da Voi. Già e da un capo all'altro della Francia risuonano queste voci di augurio. La nuova armata d'Italia sarà degna della sua sorella primogenita».

Un ordine del giorno fu pubblicato dal Principe Girolamo Napoleone, cui era stato affidalo il comando del 5° Corpo dell'armata d'Italia.

L'Imperatore fissò ad Alessandria il Quartier Generale, e volte personalmente riconoscerne i dintorni. Anche l'Imperatore d'Austria era giunto sul teatro della guerra, e da Milano erasi recalo a Pavia.

A mille metri da Casteggio la strada è limitata dalle ultime abitazioni di Montebello. Il paese, situato a cavaliere di una ripida collina, era difeso dalla cavalleria Sarda comandata dal Colonnello De Sonnaz. Nel 20 Maggio, una forte colonna austriaca occupò Casteggio, e dopo accanito combattimento, respinta la Cavalleria piemontese, guadagnò la posizione di Montebello. Importante era tal punto, per cui ai Sardi era d'uopo riprenderlo a qualunque costo, per stornare il piano del nemico.

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Il Gen. francese Forey, avutane contezza, vi accorse immediatamente con la sua divisione, e la situò sui posti avanzati insieme ad una batteria da montagna. Giunto al ponte gettato sul Fossogazzo, che stava al confine degli avamposti francesi, fu spiegala in battaglia una sezione di artiglieria appoggiala da due battaglioni di fanteria, e dai tiragliatori postali lungo il ruscello. Gli Austriaci mossero sopra Ginestrello in due colonne, l'una per la strada carreggiabile, e l'altra lungo la ferrovia; mentre i francesi covrivano la strada di Cascina Nuova, stendendo il resto delle forze sulla dritta della strada stessa. S'attaccò il fuoco tra i tiragliatori delle due schiere avverse, avanzandosi sempre gli austriaci a testa delle colonne di Ginestrello. Il fuoco delle artiglierie di ambe le parli seguì il movimento. L'attacco fu veemente sulla dritta; e gli Austriaci, sostenendo dapprima con vigoria l'urto delle baionette francesi, cominciarono a ripiegare per il danno che loro veniva dal ben nudrito fuoco dell'artiglieria. Forey, temendo che il nemico non si ritirasse per attaccarlo sui lati, fece accorrere il Generale Blanchard con altri rinforzi a prender posizione a Cascina Nuova. Così rassicuralo, mosse in avanti, e dopo seria resistenza. occupò la posizione di Ginestrello, che grandemente lo avvantaggiava; sicché sempre protetto dal fuoco dell'artiglieria piemontese, avanzando a scaglioni serrali, attaccò il sud di Montebello, dove più forte era il nemico. La battaglia fu sanguinolenta, perché venuti corpo a corpo, di ogni casa si fece un punto terribile di resistenza; e là mortalmente ferito cadde il Gen. Bcuret. Gli Austriaci, difendendo palmo a palmo il terreno, si gettarono nel cimitero, di dove scacciali, abbandonarono il terreno ritirandosi in bell'ordine, evacuando anche Casteggio per la strada di Casalisma. Il Generale Forey fu dall'Imperatore nominato gran cordone della legion d'onore.

Considerevoli furono le perdite in entrambe le parli; e noi non le notiamo per la discrepanza del bollettini della guerra. Duecento austriaci, fra i quali un Colonnello ed altri Ufficiali,

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restarono prigionieri. Oltre il Gen. Beurel ferito, rimasero morti sul campo il Colonnel

Nell'ordine del giorno il Gen. Forey ebbe occasione di lodare il coraggio della sua Divisione, e quello della Cavalleria piemontese, lode che loro non nega lo stesso Generale Austriaco Giulay, il quale nel rapporto fatto su questa battaglia disse: «i francesi si son battuti con coraggio: i piemontesi da principio han tenuto forte, ma in prosieguo il loro valore è diminuito» (2). Certo è, che la cavalleria Sarda operò bene; ma la battaglia di Montebello fu vinta dai Francesi-: e lo pruova il numero del comandanti uccisi e feriti.

Brillante, anzi degna di molta lode fu l'audacia del Gen. Cialdini nel cacciare il nemico dalla sponda sinistra della Sesia; punto che si rendeva anche importante per imprendere più facilmente ulteriori operazioni. Una colonna, guidala dal Capitano Jest, arditamente si gettò a guado nel fiume sotto il fuoco del nemico, e bravandolo prese terra: non ostante che le munizioni fossero addivenute inservibili, perché avean preso acqua, bisognava tentare uno sforzo. Infatti, i piemontesi tenendolo in soggezione con un fuoco ben nudrito, a passo di corsa lo attaccò alla baionetta tanto energicamente, che gli austriaci si diedero alla fuga, lasciando sil campo viveri, munizioni, e feriti: rendendo inutile il soccorso di una seconda colonna, che passando anche a nuoto il fiume avea preso terra. Con quest'arditissimo colpo, per compiere il quale in una battaglia regolare vi sarebbero cadute centinaia di vittime, si obbligò il nemico a sgombrare dalla riva sinistra della Sesia, lasciando in potere del Sardi tutto il suolo da Albano fino a Torrione. Ricompense onorifiche furon prodigate da Re Vittorio Emanuele ai Comandanti: e medaglie, ben meritate, del valer militare ai soldati e sotto uffiziali.

Intanto i corpi franchi non rimanevano osiosi. Garibaldi con 3100

(1) Dal Boll, francese i morti e feriti Austriaci ammonterebbero a 3 in 6 cento: da quello dato dal campo Austriaco si ha, che fossero stati cinque in seicento i Francesi, e due in trecento gli Austriaci.

(2) Gazz. officiale di Milano - 22 Maggio.

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uomini era partito da Torino, deciso all'audace tentativo di sconfinare sul territorio Lombardo. Con festa fu accolto a Castelletto. Trattavasi di passare il Ticino, scansando il fuoco del cacciatori Tirolesi, che vi erano a guardia. Per divertirne l'attenzione, fece vista di poggiare ad Arona; e riuscitogli lo stratagemma, egli di notte lo passò col mezzo di alcune zattere, poggiando a Sesto Calende, di dove a marcia forzala si diresse a Varese. Il Comitato, che di tutto era già prevenuto, fece accorrere la popolazione a riceverlo; immediatamente quel Sindaco fu eletto commissario provvisorio pel Re Vittorio Emanuele 2.°, ed il giorno di poi rassegnò il potere ad Emilio Visconti Venosta, che da Torino era stato spedito in qualità di Commissario straordinario del Governo Sardo! Garibaldi pensò subito di mettersi sulla difesa, certo che non avrebbe tardato a vedere gli Austriaci. Di vero questi, fatto capo a Gallarate, tagliarono la linea che dal Ticino va a Varese, affin di togliere la possibilità di una ritirala ai corpi franchi, denominali cacciatori delle Alpi.

Avutane notizia da un avanguardo di 120 uomini, che distaccalo a Sesto Calende nell'avvicinarsi del nemico, ripiegò sopra Varese, fu ordinalo mettersi il paese in istato di difesa -: furon praticate feritoie nelle mura delle case; innalzate barricate foderate di terra bagnata, e trincerati gli orti e i giardini circostanti.

Gli Austriaci avanzandosi si trovaron di fronte alla barricata posta al davanti di Varese lunghesso il viale che mena a Como; là cominciò il fuoco, che loro tornava immensamente nocivo, trovandosi allo scoverto. Dopo quasi un'ora, avvicinandosi la seconda colonna austriaca, il fuoco dalle barricale si fece più rado, e poi cessò totalmente. Gli Austriaci, lenendo per abbandonala la barricala, a marcia forzala diedersi ad assaltarla; quando in un momento il fuoco ricominciò mortalissimo non solo dalla barricala, ma eziandio dai luoghi circonvicini, sicché si trovaron presi e sui fianchi e di fronte. Accorse la 2 colonna austriaca a sostenere la prima: ma Garibaldi a difesa delle barricate e del giardini non avea messo,

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che parte del suoi uomini, un cinquecento circa, afforzati degli abitanti di Varese; ed esso col grosso delle forze girò il paese ed attaccò alle spalle gli Austriaci, che presi così all'improvviso, non avendo neanche il tempo di fare fronte indietro, si dettero a fuggire verso Como in rotta completa. Garibaldi, ottenuto quel primo trionfo, non lasciò che il nemico si riorganizzasse: ma cogliendo l'occasione dello scompiglio, che regnava nelle loro file, li attaccò a Camertata, e li obbligò, sempre incalzandoli, a lasciare anche Como, dove gli abitanti levatisi in armi aveano ingaggialo combattimento con la guarnigione. Così libero tutto lo stradale, da quelle contraile a Torino, Garibaldi ottenne rinforzi di altri battaglioni e di munizioni, ai quali si unirono tutti i giovani di quei dintorni, che sommavano a quasi oltre un migliaio.

Dal giorno della battaglia di Montebello non erano seguite che scaramucce ed avvisaglie fra gli avamposti nemici; fu deciso quindi dalla armata Sarda di assaltare Venzaglio per tentare Palestro, posta a cavaliere di un'erta collina, che domina una estesa pianura; difficile tentativo per altro, stante la buona copia di artiglierie che la difendevano. Con poca fatica i Piemontesi presero Venzaglio; non così però avvenne di Palestre. A difesa di un monte, che costeggia quel paese, l'Austriaco avea postali tre pezzi di artiglieria; due altri sulla strada per tenerla sbarazzala; e lunghesso il monte avea scaglionate compagnie di tagliatori a respingere qualsiasi assalto; oltre alle truppe di riserva che teneva accantonale nel paese.

L'operazione era audace ed ardila. Il 1° ed 8° battaglione Bersaglieri coverti fino al ponte, si diedero con incredibile slancio a percorrerlo; ed attaccali gli Austriaci, colà asserragliati, li misero in rotta, guadagnando e inchiodando i due cannoni: un'altra colonna Piemontese marciò di fronte ai tiragliatori, che ignorando i nemici esser già padroni del ponte, credeaasi sicuri sui fianchi; ma quando, sostenendo l'attacco di fronte, vidersi assaliti sulla destra, indietreggiarono battendo ritirala nell'abitato.

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Nel tempo stesso il 3° Zuavi Francesi, mentre

Il corpo d'armata francese, che stata riunito innanzi ad Alessandria, dovea superare molti e difficili ostacoli. Marciando su Piacenza, gli facen bisogno assediare la città, e poi a viva forza aprirsi un passaggio per varcare il Po, il quale in quel punto ha più che novecento metri di larghezza (1); e cosi trovarsi a fronte del nemico colà concentralo con una forza di dugento mila uomini.

Guadare il fiume dalla parte di Valenza sarebbe stata imprudenza: poiché non solo avrebbe trovalo il nemico pronto ad accorrere da Mortara, ma anche perché in quelle contrade il suolo, taglialo ed ingombro da gran quantità di canali e di risaie, impedisce l'azione della cavalleria, e il pronto trasporto delle artiglierie; perciò l'Imperatore, mascherando il suo piano, simulò un attacco alla destra, facendo occupare Casteggio e Bobbio sulla Trebbia. L'Austriaco cadde nello inganno, e credé che si tentasse Mortara. I Franco - Sardi, riuscito lo stratagemma, marciarono a sinistra varcando il Po a Casale; di là presero la via di Vercelli, facendo proteggere il passaggio della Sesia per coprire la rapida marcia su Novara.

(1) Bollettino ufficiale dell'armata Francese - 5 Giugno

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Nel contempo, sempre con l'idea di tenere a bada il nemico a Bobbio, i Sardi sostennero due combattimenti, mentre l'armata francese prendeva situazione a Novara.

Cosi, mentre gli Austriaci attendevano di essere sfidali a formate e decisiva battaglia, la Guardia Imperiale diretta verso Rovigo, senza resistenza alcuna gittò tre ponti sul Ticino; e siccome ebbe notizia che il nemico poggiava sulla sinistra del fiume, il Gen. Mac - Mahon lo guadò dall'altra parte con il suo corpo d'armata, seguito a sinistra, per coprirgli il fianco, dalla Divisione del Gen. Fanti. Posto appena piede sul suolo Lombardo le truppe alleale furono ricevute da un altacco di un corpo Austriaco, che fu valorosamente respinto.

Nel tempo stesso la Divisione Espinasse si era avanzala sulla via da Novara a Vercelli fino a Trecale; e minacciando il ponte di Buffalora, il nemico si ritirò facendolo saltare in aria: ma essendo di pietra, le mine non ebber forza di smantellarne gli archi, sicchè i Francesi, covertili con un ponte di tavole, lo passarono senza scomodo alcuno.

Napoleone, che volea rendersi padrone della riva sinistra del Ticino, ordinò, che Mac - Mahon e l'armata Sarda muovessero da Turbigo su Buffalora e Magenta; mentre i granatieri avrebbero sforzala la testa del ponte sulla sinistra, dando agio a Canrobert con il suo Corpo d'esercito di passare sulla dritta il Ticino dal punto stesso. Ma il piano andò a vuoto, perché l'armata Sarda non fu sollecita ad eseguire il movimento; e sola una divisione poté seguire a molta distanza il corpo d'armata di Mac - Mahon. Anche Espinasse era in ritardo, e quando Canrobert andò per passare il ponte di Buffalora, dove Napoleone erasi recalo di persona, trovò talmente ingombrala la strada, che giunse molto tardi al Ticino: di modo che se l'Austriaco fosse stato attento a spiar le mosse degli alleali, ne avrebbe battuti i corpi tutti distaccali e in confusione.

Mac - Mahon quindi trovossi solo di fronte al nerbo dell'armata nemica, senza poterne schivare l'attacco. Al rombo del cannoneggiamento l'Imperatore vide il pericolo; e con una sollecitudine meravigliosa spedi la brigata Wimpffen ad attaccare le posizioni Austriache verso Magenta;

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la Brigata Cler segui il movimento; ma non ostante lo slancio del francesi, la colonna Mac - Mahon fu respinta, lasciando la sola divisione granatieri a sostenere l'impeto del nemico. Gli austriaci là avean concentrali centoventicinque mila uomini, ripassando la notte stessa il fiume a Vigevano, e bruciandone i ponti.

L'attacco era sproporzionato e formidabile. Regnault de Saint - Jean d'Angely in quel momento supremo spiegò tutta la sua energia nel contenere il nemico. Mellinet ebbe due cavalli uccisi, Cler cadde mortalmente colpito; Wimpffen ferito alla testa; questi tre Generali sostenevano le prime file; i comandanti Desmè e Maudhay eran morti. Mentre si facea l'ultimo sforzo, giunse la brigata Picard, comandata da Canrobert, la divisione Vinoy, e le divisioni Renault e Trochu. La battaglia riprese vigore e nuovo aspetto, allorché si avvertì su di altro punto il rombo del cannone. Era Mac Mahon, che minaccialo dal nemico di rimaner taglialo dall'ala sinistra, ripiegò tutte le forze su Magenta.

Gli austriaci vedutisi attaccare di fronte e alla sinistra si rivolsero contro Mac - Mahon; il 45° di linea attaccò e guadagnò la tenuta di Cascina - nuova, dove si fecero prigionieri 1500 uomini, e fu presa una bandiera che era caduta vicino al cadavere del colonnello ungherese. L'austriaco intanto si sforzava a spuntare il centro, per separare le Divisioni Motterouge e d'Espinasse; Mac - Mahon, veduto il pericolo, corse ad affrontarlo, e così quelle due divisioni potettero riunirsi e riprendere l'offensiva; nel mentre che il Gen. Auger, fatte piantare quaranta bocche da fuoco sul piano della ferrovia, mitragliava incessantemente gli Austriaci sui fianchi, in modo che ne fece miserevole carnaggio.

Più terribile che in ogni altro luogo, fu il combattimento a Magenta. Da questa posizione dipendeva la sorte della giornala, perciò in assaltarla e difenderla l'accanimento fu inenarrabile. Gli alleali, respinti sette volte, sette volte ritornarono ad attaccar l'inimico; il combattimento divenne micidiale, corpo a corpo: si combatteva su tutti i punti; sulle strade, nelle case;

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infino a che gli Austriaci abbandonarono

L'armata francese rimase padrona del campo, guadagnando la posizione, che le apriva le porte di Milano, quattro cannoni, due bandiere, e un cinquemila prigionieri.

Gravi perdite soffrì l'armata Austriaca; secondo il rapporto di Giulay furono un sei mila tra morti e feriti; secondo il rapporto francese ventimila. Checchè ne sia, fu una giornata terribile, tremenda, nella quale ambo le armate combattenti gareggiarono in valore, in ostinazione ed in coraggio.

Nel tempo che battaglie sì gloriose si combattevano sul suolo Lombardo, per Napoli si apriva la prima pagina degli avvenimenti, che doveano precipitare la dissoluzione del reame.

Ferdinando 2°, partito da Napoli, e dirigendosi a Manfredonia per ricevervi M° Sofia Principessa di Baviera destinala a sposa del Duca di Calabria e Principe ereditario Francesco 2.°, lungo la via ammalò di incomprensibile malattia; s'aggravò a Lecce; peggiorò a Bari, morì a Caserta nel 22 Maggio. molte voci furono sparse sulla improvvisa malattia di lui, che presentò i sintomi di una violenta tabe; chi la disse effetto di veleno infiltralogli dalla baionetta di Agesilao Milano;

228 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

chi da

Non è inutile ridire qui dell'accoglienza che quel Re si ebbe nel viaggio per le Province di Puglia, dove fummo testimoni oculari del fatti; e potremmo citare lunghe liste di nomi di individui che più tardi brillarono per fede unitaria, e sostituirono alla croce dell'ordine di Francesco 1° quello del SS. Maurizio e Lazzaro.

Il Re con la Real Famiglia, battendo la strada postale di Avellino, recossi a Bari. Lungo la strada eransi innalzati archi trionfali, e dappertutto le popolazioni accorrevano al suo passaggio acclamandolo con grida festanti.

Il Re era atteso a Bari. Sopravvenuta la sera, centinaia di fiaccole furono accese dalla ricca mercatura di quella fiorente città dell'Adriatico. Una porta trionfale fu innalzata sulla via di Mola. La piazza della marina, una delle più ampie e spaziose d'Italia, gremita di popolo accorso da tutta la provincia. Fuochi di segnali eransi stabiliti lungo Io stradale regio di Mola. Al giungere della Reale Famiglia le fiaccole furono accese, e sciolti i cavalli della Reale carrozza, si volte condurla a mano al palazzo dell'Intendenza, transitando il Corso Ferdinandeo- ora Corso Vittorio Emanuele- anticipatamente imbandieralo, illuminalo, ornalo di grandi festoni di seta che si intrecciavano su quei magnifici loggiati.

Siccome la malattia aggravava, il Re ordinò che lo sbarco della Principessa M.° Sofia, invece di Manfredonia, si facesse a Bari; ma quel porto, detto di S. Pietro, era da poco in costruzione; se colà si fosse fatto lo sbarco, sarebbe stato obbligato il corteo a transitare per strade non ancora ultimate: epperò quel Sindaco Giuseppe Capriati uno del più ricchi negozianti baresi, riunito il municipio ed una commissione di notabili, nella notte stessa fece costruire una gran sala in legname capace di contenere più che cinquecento persone,

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alla quale si congiungeva un ponte che dalla riva si estendeva nel mare ad una forte di

Sontuoso fu l'accoglimento fatto alla Principessa; sontuose le feste; splendide le luminarie per miriadi di lampadini a modo di frutta pendenti dagli alberi del viali del Corso, e per continui fuochi di bengala. Verso le 11 della sera meglio che 500 giovani della mercatura si recarono sotto 'le logge del Duca di Calabria, facendo ala ad un grazioso concerto di voci e di strumenti che eseguivano una Serenata appositamente composta dal M.° De Giosa.

Disperandosi della sua vita, il Re fu imbarcato a bordo di un battello a vapore, e trasportato a Napoli; di là a Caserta dove fini i suoi giorni, lasciando il trono a Francesco 2° giovane d'età, in momenti difficili, anormali, circondato da uomini, parte fedeli, ma decisamente contrari a novità politiche; e parte sventuratamente complici del movimento rivoltuoso; con un popolo dolente delle angherie di una stolta polizia, allenato all'idea di libertà, proclive a rivolte; con Brenier Ambasciatore Francese, dei Borboni nemico: con Villamarina, plenipotenziario Sardo che a Napoli ripeteva le scene di Boncompagni a Firenze -!

Chiudiamo questo capitolo con le parole di un distinto scrittore:- «Ferdinando 2° fu circondatto da uomini che non seppero, o non vollero riconciliarlo col paese; lo separarono perfettamente da esso; gli fecero vedere pugnali e congiure dovunque; e cosi quei perfidi i calpestarono un popolo; le sue libertà ed i suoi diritti manomisero; e intronizzarono il despotismo poliziesco, e giunsero a far odiare il Sovrano. La rivoluzione rifugiatasi in Piemonte, cospirando nel foro, e nelle caserme, nelle stesse carceri, nelle sale anche della Reggia! profittava della stoltezza di quello slogico e fatale governo, ed aspettò con ansia il momento, in cui dovea spegnersi prematuramente la vita di Ferdinando 2° del quale avea sgomento....»

Questa fu l'eredità, che trovò per se Francesco 2° nel momento di ascendere il trono da ogni parte minato, e pronto a sfasciarsi al minimo urto!!!

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In mezzo a tanta agitazione e commozione di animi per le conseguenze, che sono la necessaria illazione di guerre combattute per un principio qualunque, Pio IX tranquillo e sereno volgeva gli occhi suoi e le sue cure al beneficio spirituale della Chiesa, pregando il Signore delle misericordie, perché si fosse degnato di spandere la pace sui regni cristiani. Fu una delle grandi glorie del suo Pontificalo il Concordalo conchiuso con la Corte di Portogallo dirimendo la quistione del patronato sulle Chiese delle Indie e della Cina. Tale vertenza durava da due anni, e quelle Chiese mancavano del loro pastori, la qual cosa grandemente danneggiava il Cattolicismo presso quelle nazioni. Le Camere portoghesi, dietro analoghi schiarimenti ricevuti da una Nota del Cardinale Di Pietro, approvarono il Concordalo: ed il Santo Padre nel Concistoro segreto del 15 Aprile preconizzò i nuovi Vescovi.

Di poi emanò un'Enciclica (21 Aprile) diretta a tutto l'Episcopato del mondo Cattolico, perché pubbliche preci si facessero, affinché il Signore si fosse degnalo di far cessare il flagello della guerra, e di far splendere dappertutto l'iride della pace!

Il Pontefice ben comprendeva, come non lo assicurassero le diplomatiche promesse del Gabinetto di Francia, più volte ripetute: ben prevedeva che il torrente della rivoluzione non si sarebbe arrestato tra il Po e il Mincio; eppure pregava per i suoi nemici, e ad imitazione del Cristo che dall'alto della Croce diceva: «Signore, perdona loro: essi non sanno quel che fanno...!».

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CAPITOLO VIII.

Gli Austriaci evacuano Milano - Proclami di Napoleone e di Vittorio Emanuele - Combattimento a Melegnano L'armata Franco - Toscana marcia a Goito - Gli Austriaci evacuano l'Italia centrale - Proclama e partenza della Duchessa di Parma - Offerta al Re di Sardegna di Parma e Piacenza - Protesta della Duchessa di Parma - Il Duca di Modera istituisce una reggenza e parte - Commissari Sardi a Parma e Modena - Rivolta a Bologna Fatti di Perugia - L'Opinione e Fra Michelangelo da Perugia - Timori a Torino - Comunicato all'Ami de la Religion - Enciclica all'Episcopato sugli avvenimenti dello Stato Pontificio - Risposta del Papa al Sacro Collegio - Politica inglese! - Avvedutezza di Napoleone - Velleità della Russia - Battaglia di Solferino.

Mentre fervea la battaglia, trepidanti erano gli animi del Lombardi; e l'Austria che non potea certamente illudersi sui sentimenti ostili di quei popoli, avea cercato con severe ordinanze soffocare ogni tentativo insurrezionale; ma a nulla valsero tali previdenze, poiché già tutti erano in armi pronti a sollevazione, a difendere le loro terre, nel caso che vinti gli Austriaci vi riparassero come a rifugio. Teneansi pronti ad innalzar barricale, e far resistenza; ma non ve ne fu bisogno, poiché dopo la battaglia di Magenta, gli Austriaci fecer allo al campo di Marte, di dove riorganate le file, dipartironsi, lasciando libera la Provincia di Milano.

Allora s'innalzò un grido di gioia; e la moltitudine recatasi al Palazzo del Broletto, sede del Municipio, acclamò come nel 1848 avea fatto, l'annessione al Piemonte, ed all'uopo fu inviato un indirizzo all'Imperatore del Francesi esprimente la viva gratitudine del paese pel generoso concorso che avea dato alla grande opera della libertà d'Italia.

Nel giorno 8 i due Alleati fecero il loro ingresso in Milano fra entusiastiche acclamazioni, e l'Imperatore subitamente fece pubblicare il seguente proclama: «Italiani!

«La fortuna della guerra mi conduce oggi nella capitale della Lombardia; or vengo a dirvi perché ci sono.

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«Quando l'Austria aggredì ingiustamente il Piemonte, io mi sono

NAPOLEONE»

A questo fece seguito l'altro del Re Vittorio Emanuele:

«Popoli Di Lombardia!

«La vittoria delle armi liberataci mi conduce fra Voi. Ristaurato il diritto nazionale, i vostri voti raffermano l'unione col mio Regno, che si fonda nelle guarentigie del vivere civile.

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«La forma temporanea che oggi do al governo, è richiesta dalle necessità della guerra.

«Assicurata l'indipendenza, le menti acquisteranno la compostezza, gli animi la virtù, e sarà quindi fondato un libero e durevole reggimento.

«POPOLI DI LOMBARDIA!

«I Subalpini hanno fatto e fanno grandi sagrifizi per la patria comune: il nostro esercito che accoglie nelle sue file molti animosi volontari delle vostre e delle altre provincie italiane, già diede splendide prove del suo valore, vittoriosamente combattendo per la causa nazionale.

«L'Imperatore de' Francesi, generoso nostro allealo, degno del nome e del genio di Napoleone, facendosi duce dell'eroico esercito di quella grande Nazione, vuole liberare l'Italia dalle Alpi all'Adriatico.

«Facendo a gara di sagrifizi, seconderete questi magnanimi propositi su'campi di battaglia, vi mostrerete degni del destini a cui l'Italia è in ora chiamata dopo secoli di dolore.

VITTORIO EMANUELE»

A questo tenne dietro un Decreto, che stabiliva quali le attribuzioni del Governatore di Lombardia, alla qual carica fu nominato il Conte Luigi Belgiojoso, e precisava altri ordinamenti per la interna e pubblica tranquillità, non che per le relazioni col Governo centrale di Torino.

Non pertanto gli Austriaci, benché avessero abbandonala Milano, pure erano ancor forti nel Lombardo, essendo in loro potere tutte le fortezze Ira le quali il quadrilatero, che turbava i sogni di Napoleone e di Cavour! Le truppe sgominate dopo i sofferti disastri non erano ancora vinte; e di fatti riorganatesi appena, anelavano di venire nuovamente alle mani. Napoleone però da uomo calcolatore, ben comprendeva che non sempre può arrider la sorte delle armi, per cui cauto e prudente non voleva ingaggiare un'altra battaglia simile a quella di Magenta, dove fu vincitore per la sola posizione, ma in quanto a perdite non può dirsi aver vinto.

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Per la qual cosa pensò di far indietreggiare il nemico valicando l'Adda, e quando il momento avesse speculato opportuno, forzare la linea difensiva, dietro cui eransi trincierati gli Austriaci, senza toccare il quadrilatero, dove le forze alleate avrebber potuto trovare un serio inciampo alle loro vittorie. Di fatti essi eransi postali nel villaggio di Melegnano ( - 1) sulla strada di Lodi, ed era importante sloggiarneli per poter effettuare il suo piano. Al Maresciallo Baraguey d'Hilliers furono dati tali ordini, unendoglisi il corpo d'armata di Mac - Mahon.

Mac - Mahon marciò sopra S. Giuliano, e non trovalovi il nemico, passò il Lambro a guado, continuando il movimento su Medeglia. Nel tempo stesso la 3 Divis. del 1° corpo giunse a fronte di Melegnano, dove gli Austriaci aveano innalzala una barricala afforzandola con batterie coverte.

Fu ordinalo l'attacco, ed i primi a slanciarsi furono gli zuavi affiancali dai bersaglieri: il fuoco nemico era terribile perché, infilava la strada che sola potevasi percorrere, per cui gravi perdite provarono i Francesi. L'artiglieria ben diretta dal Gen. Forgeot poté disquilibrare il nemico, perché imboccando le batterie Austriache, diede agio al 2° battaglione zuavi di slanciarsi a passo di corsa sulla batteria nemica; movimento che fu seguito da tutta la 1 brigata. Il conflitto fu sanguinoso, e gli austriaci ritirandosi fecero ostinala resistenza difendendo il suolo, le case, i giardini palmo a palmo, fino a che verso la sera sgombrarono il villaggio. Gravissime furono le perdite da entrambe le parti; dì soli feriti austriaci, i francesi ne portarono alle loro ambulanze più che un migliaio, oltre che la terra era tutta ingombra di cadaveri del combattenti. Sette in ottocento furono i prigionieri. I francesi ebbero del loro tra feriti e morii un migliaio circa; feriti gravemente i Generali Bazaine e Goze, il Colonnello, e il luogotenente del 33°, e 56 Uffiziali; morti 13 Uffiziali.

(1)

Questo villaggio è lo stesso che Marignano dove nel 1155 gl'Italiani respinsero Federico Barbarossa, e dove Francesco 1.° nel 1515 riportò vittoria sugli Svizzeri.

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Dal rapporto Austriaco si ha, che i loro morti non fossero stati che un trecento.

Dopo questa battaglia gli Austriaci evacuarono Pizzighettone, Cremona, e Piacenza, oramai inutili ed impossibili a tenersi. Dall'altra parte la rivoluzione levatasi in armi, e dando aiuto ai Cacciatori delle Alpi comandati da Garibaldi, combattendo con varie sorti, aveano obbligato il nemico ad abbandonare Como, Bergamo, e Brescia; per cui anche da Brescello e da Reggio furon ritirale le guarnigioni, che avrebbero potuto rimanere prigioniere.

Allora gli alleati poterono avanzarsi in modo che faceva prevedere una gran giornata sul Mincio, avendo gli Austriaci presa posizione 1ra Castiglione e Lonalo.

Il comando dell'armata, tolto a Giulay, fu affidato al Conte Schlick. Si era sulla difensiva, poiché il corpo generale dell'esercito austriaco si era ritirato sulla riva sinistra a Villafranca; ma l'Imperatore Francesco Giuseppe volendo che si riprendesse l'offensiva, fatto ripassare il fiume, occupò le colline, su cui sono edificali i villaggi di Cavriana e di Solferino.

Intanto che si terribili pugne si battagliavano, non meno importanti erano gli sforzi della rivoluzione, dove per assodare il potere, dove per impadronirsene. La Toscana era irremisibilmente perduta pel Gran Duca. Il Principe Girolamo Napoleone si era istallato a Firenze, e con

consigli del Gen. Girolamo Ulloa la organizzava militarmente, a fin di metterla in istato di sostenere la guerra dell'indipendenza. Diecimila i Toscani, che uniti ai 30 mila francesi del corpo d'armata comandato dal Principe, marciarono in ordine di battaglia sino a Coito, tenendo per scopo di impedire agli Austriaci d'appoggiarsi alla Toscana, e privarli delle risorse che attender poteano dall'Italia centrale; e minacciarli pure sul fianco sinistro compromettendone le linee di ritirala, affin di obbligarli ad abbandonare i Ducati di Modena e di Parma. E cosi avvenne; chè dopo la battaglia di Magenta gli Austria

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Lo sgombro degli Austriaci restava in balìa della rivoluzione unitaria quelle città; e di fatti la setta non frappose tempo ad afferrarne l'occasione vantaggiosa.

La Duchessa di Parma fu la prima ad avvertire, incompatibile essere addivenuta la sua presenza in quella città, dove la sua sicurezza era continuamente minacciala; sicché pervenutole il dispaccio del Comandante di Piacenza, che le partecipava l'ordine ricevuto di evacuare la città e la cittadella, decise lasciare Parma con lui hi la sua famiglia. Chiamali a sé il Sindaco, il capo della polizia, e gli altri soprantendenti alla cosa pubblica, sciolse le truppe dal giuramento di fedeltà, autorizzò il municipio ad aggregarsi quelle persone più notevoli che credesse opportune a mantenere l'ordine e provvedere alle urgenze del momento, ed emanò il seguente proclama, nel quale non fa un mistero delle sue opinioni. Eccolo:

«Quale sia stato il governo della mia reggenza - , io me ne appello alla testimonianza di voi tutti, abitanti dello Stato; me ne appello alla Storia.

«Idee ardenti, piene di promesse per gli amici Italiani, sono venule a frapporsi nei progressi pacifici, e sanamente liberali verso cui eran rivolle tutte le mie cure; gli avvenimenti che si svolgono oggi. mi han posta tra due contrarie esigenze; l'una di prender parte ad una guerra, che addimandasi nazionale, l'altra di mancare a talune convenienze alle quali, Piacenza specialmente, e lo stato intero, erano stretti lungo tempo innanzi che io abbia preso il governo.

«Non devo né oppormi ai voti proclamali dall'Italia, né mancare alla lealtà. Sicché una situazione di neutralità, quale parevano consigliarla le condizioni eccezionali, fatte dalle anzidette convenzioni al mio territorio, non essendo più possibile, io cedo agli eventi che mi stringono, raccomandando al municipio di Parma la nomina di una commissione di governo per mantenere l'ordine, difendere le perso

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«Io mi ritiro in paese neutrale, presso i miei amatissimi figliuoli, di cui protesto riservare tutti i dritti pieni ed interi, confidandoli alla giustizia delle grandi potenze, ed alla protezione di Dio.

«Degne popolazioni di tutti i comuni del Ducato, dovunque e sempre la vostra ricordanza rimarrà nel mio cuore.

LUISA.

Unitamente al proclama lasciava anche scritte alcune istruzioni per lo scioglimento del ministero, e per la cessazione di ogni potere del presidente del Dicastero militare; inculcava alla magistratura di restar ferma al suo posto; affidava le finanze, l'interno, e la grazia e giustizia temporaneamente ai Segretari Generali; raccomandava tutto quanto riguardava la casa Reale alla vigilanza del Conte Luigi Tcdeschi - Radini fino al ritorno del Governatore Conte Eduardo d'Asta; infine emanava altre provvidenze per gli Ufficiali, e per le truppe, accordando ai primi tre mesi di soldo, ai sotto ufficiali due, ed un mese ai soldati.

Partita la Duchessa, e sciolta la truppa dal giuramento, il Comitato prese coraggio; e questa volta non trovando ostacolo alcuno, sotto pretesto di formare una guardia nazionale per custodia e sicurezza del paese, armò tutti coloro che per speranza nel nuovo ordine di cose, o veramente per spirito unitario, o per quella corrente elettrica che è facilissima a svilupparsi nei tempi di agitazione, o per promesse ricevute, ne divennero partigiani. Acquistando in questo modo grande influenza nella città, fece proporre nel municipio una mozione per inviarsi deputazione al Re di Sardegna pregandolo di annettere ai suoi stati anche quello di Parma. Questa deputazione fu composta dal Conte Malaspona e dagli Avvocati Giuseppe Piroli e Pietro Torrigiani, i quali si recarono a Torino a compiere la loro missione, mentre con un proclama si dava agli abitanti la notizia dell'operalo.

Lo stesso fu fatto a Piacenza, dove gli Avvocati Giuseppe Manfredi, Giuseppe Mischi, e Fabrizio Gavardi in qualità di commissione provvisoria presero nelle loro mani le redini del governo.

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Il gabinetto di Torino accollò le offerte, che gli veniano fatte, e subitamente inviò commissari a Parma ed a Piacenza a governarla a nome di Re Vittorio Emanuele.

Dopo pochi giorni la Duchessa diresse a tutte le Corti estere una protesta contro quanto si era operalo dai settari, e contro il governo Piemontese, il quale prima a Pontremoli, e poi in altri paesi del Ducato avea «da una parte fomentata ed appoggiala la rivoluzione, e dall'altra, avverso ogni diritto, avverso le stipulazioni del trattati Europei in generale, e dei trattati speciali col Piemonte in particolare, ha accettato la consegna che gli è stata fatta del Ducato di Parma, e ciò senza provocazione alcuna, né causa legittima di guerra. (1)»

Né in migliori condizioni trovavasi il Duca di Modena. La rivoluzione operava nell'interno, confortata dalla presenza delle truppe Sarde e delle Francesi, che sconfmando minacciavano d'invadere il Ducato: per cui il Duca dové abbandonare lo stato istituendo una reggenza: del che con nota circolare fece partecipi i Gabinetti esteri.

Lui partito, si ripeté la scena avvenuta a Parma; una Guardia Nazionale fu istituita ed armata, ed una commissione spedita al campo degli alleali per ragguagliarne Vittorio Emanuele, e rendergli omaggio. Il Gabinetto Sardo nominò a Commissario del Re nel Ducato l'avvocato Luigi Zini, ed insieme a lui spedì un corpo sufficiente di truppe per dar braccio forte al governo, e mantenervi l'ordine. Tal misura necessitava alla sella; poiché non essendosi ancor fatto il plebiscito, temeasi la reazione per parte della maggioranza avversa all'annessione.

Scorsi appena pochi giorni, il Governo Piemontese nominò Governatore di Parma il Conte Pallieri, e di Modena il Deputato Farini.

(1) De la Bedollière loc. cit, Cap. XL.

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Uno del primi atti del Farini, fu di porre sollo sequestro i beni del Duca, e da quei fondi rimborsare e liquidare i titoli di credito, che i municipi vantavano per spese di forniture fatte alle truppe austriache.

Il fuoco della rivoluzione, serpendo come il contagio, ben presto si appiccò a Bologna; ed usciti appena gli Austriaci, il Comitato spedì a Torino la solita commissione diretta dal Massimo D'Azeglio, a tal'uopo eletto a Commissario. Nel contempo il comitato giovandosi, che poca truppa guardasse quella provincia, mosse violenta sedizione a Perugia, e scacciatine i governanti, vi proclamò governo provvisorio. Pervenuta la notizia a Roma, il Governo vi spedì un corpo di Svizzeri a ripristinare l'ordine; ed in fatti dopo poca resistenza degli affiliati del Comitato, le autorità pontificie furono ripristinate. Di qui i mille articoli di giornali sulle stragi di Perugia; di donne uccise, di uomini, di fanciulli scannati; delle centinaia di villane immolale dagli svizzeri. Anzi l'Opinione (giornale di Torino), citando i nomi delle vittime, per giusta tema di non esserne smentila conchiudeva: non esser possibile di stabilire i fatti in modo autentico e giuridico; confessione spontanea delle menzogne narrale nelle sue molteplici corrispondenze. E che ciò fosse vero, lo conferma quel giornale stesso, obbligato, a norma della legge di stampa, a pubblicare una lettera, in cui si dichiarava come le persone allistate fra gli uccisi in quelle stragi, passeggiavano in buona salute per le strade di Perugia. Questa lettera è uno del moltissimi documenti, che si hanno per sbugiardare le poetiche concioni del rivoltuosi.

(Opinione N. 198 - 17 Luglio - 1859).

Dal Convento il Monte di Perugia 8 Luglio

«Pregiatissimo signore

«Avendo letto nel rinomato suo giornale del 21 Giugno ultimo, numero 118, un articolo ricavato in parte dal Corriere Mercantile di Genova, e intitolato I CASI DI PERUGIA, nel quale articolo i religiosi di questo mio convento, detti Zoccolanti, con impudente disinvoltura vengon tacciati di aver tiralo colpi nell'infausto dì 20 di esso mese sopra i cittadini fuggenti di Perugia, mi affretto a protestare:

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altamente contro questa calunniosa imputazione, affermando a sicurtà, che nessun religioso del così detti Zoccolanti fece il minimo alto, o moto contro chicchessia, non che abbia tiralo colpi di sassi o di fucile. Del che può far fede tutta la città di Perugia, nella quale non s'intese mai a parlare di tali invenzioni maligne, se non quando vennero i fogli forestieri a narrarcele.

«Ed affinché la S. V. conosca quanto pure sieno le fonti, dalle quali il citato Corriere Mercantile attinse queste notizie, e qual fede quindi si meriti il di lui corrispondente fiorentino, le basti sapere, e che varii individui da me personalmente conosciuti, i quali in esso stampato dismisi uccisi, passeggiano anch'oggi sani e salvi la città, come il Bellucci, il Mari, lo Spadini e la sua moglie, le tre donne della casa Temperini, la Palmira Fieri, il Vafrino, Fabretti etc. etc.

«A termini di legge prego la S. V. etc.

P. Michelangelo da Perugia

Guardiano

Gli avvenimenti degli Stati Pontifici subitamente furono propalali dal giornalismo, e produssero positiva commozione in Francia, ben sapendosi che la politica imperiale tenesse mano ai conati del partito unitario - annessionista del Piemonte. Tal cosa turbò grandemente il Governo Sardo, il quale non volea che si urlassero le suscettibilità del cattolicismo francese, mentre una guerra a tutt'oltranza si battagliava in Italia; e quelle popolazioni erano commosse dai continui bollettini del morti, e dal pianto desolato delle famiglie orfanate; e la diplomazia di malocchio guardava il progresso della rivoluzione inorgoglita dalle disfatte degli Austriaci.

L'Ami de la Rèligion avea pubblicalo un articolo veemente sull'oggetto attribuendo «al proclama dell'Imperatore diretto al popolo Italiano i moti rivoltuosi accaduti testè nelle Romagne...» Del che essendosi fatto gran parlare, il ministro francese dell'interno inviò a quel giornale un Comunicato, assicurando che «quest'avviso non era né giusto, leale... poiché il proclama dell'Imperatore,

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improntato di quell'alta moderazione, che è l'invariabile regola di sua condotta, non avea fatto appello ad altro, se non al patriottismo ed o alla disciplina del popolo Italiano: ripudiando ogni intenzione di ii preconcetto sistema di spodestamento del sovrani. L'Imperatore (dice il Comunicato) ha inoltre formatmente riconosciuta la, neutralità degli Stati della Chiesa.

«Basta ricordare questa dichiarazione per mettere l'opinione pubblica in grado di giudicare quanto sieno riprovevoli le insinuazioni di coloro, i quali tendono a far credere, che la Francia cerchi di far crollare l'autorità politica del S. Padre, che essa dieci anni fa risollevava, e che è ancora sotto la rispettosa custodia delle sue armi...»

Quanto valessero tali assicurazioni, dettate dalla solita politica del Gabinetto dell'Imperatore, ognuno ha potuto poi toccar con mano. La rivolta di Bologna avvenuta, e la presenza di Massimo D'Azeglio era sufficiente prova per dimostrare di dove originasse il movimento. Là le truppe Francesi non accorsero: ciò che bastava a giustificare, che le Romagne e le Legazioni erano comprese in quel PIANO PRECONCETTO, che nel comunicato del ministro si sconfessava.

Dopo i sospetti eccitati dal giornalismo, in vista degli avvenimenti di Bologna e di Perugia, aggravò i timori del governo Francese un'Enciclica che il S. Padre Pio IX indirizzò su tale argomento a tutto l'Episcopato mondiate, con uno stile calmo e sereno, per nulla istizzito da quelle incomposte violenze. Ecco il documento.

«Venerabili Fratelli - Salute e benedizione Apostolica.

«Quel moto di sedizione, che testé scoppiò in Italia contro i legittimi principi, dagli Stati limitrofi ai dominii pontifici, invase pure, come una fiamma d'incendio, alcuna delle nostre province, le quali commosse da quel funesto esempio, e spinte da esterni eccitamenti, si sottrassero dal nostro paterno reggimento, cercando anzi, ad istigazione di pochi, di sottoporsi a quell'italiano governo, che in questi ultimi anni fu avverso alla Chiesa, ai legittimi suoi diritti, ed ai suoi ministri.

242 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

«Or mentre noi riproviamo e lamentiamo questi alti di ribellione, coi quali uria parte soltanto del popolo in quelle turbate province si ingiustamente risponde alle paterne nostre cure e sollecitudini, e mentre apertamente dichiariamo essere a questa S. Sede necessario il civile principato, perché senz'alcuno impedimento possa esercitare, a bene della religione, la sacra sua potestà (il quale civile principato si sforzano di strapparle i perversi nemici della Chiesa di Cristo) a voi, Ven. Frat., in sì gran turbine di avvenimenti indirizziamo la presente lettera per trovare qualche sollievo al nostro dolore.

«E in questa occasione anche vi esortiamo che, secondo la vostra sperimentata pietà, ed esimio vostro zelo per l'Apostolica Sede, e la sua libertà, procuriate di compiere quello che leggiamo aver già prescritto Mosè ad Aronne supremo Pontefice degli Ebrei (num. C. xvi). Prendi il turibolo e messovi del fuoco dell'altare, ponvi sopra l'incenso, e va subito a trovare il popolo, per fare orazione per lui: imperocchè il Signore ha sciolto il freno all'ira sua ed il flagello infierisce.

«E parimenti vi esortiamo a pregare, come già quei santi fratelli Mosè ed Aronne, i quali boccone per terra dissero: Fortisaimo Dio degli spinti di tutti gli uomini, infierirebbe ella mai l'ira tua contro di tutti pel peccato di taluni? (Num. xvi).

«Al qual fine, Ven. Frat., vi scriviamo la presente lettera, della quale prendiamo non lieve consolazione, giacchè confidiamo, che voi risponderete appieno ai nostri desideri e alle nostre cure.»

Mollo più significative furon poi le parole, che il Papa pronunziò in risposta all'augurio che in occasione dell'anniversario di sua elezione gli fu fatta dal Decano del Sacro Collegio.

«l voti del sacro Collegio (egli disse) mi tornano sempre cari in ogni circostanza, ma più specialmente in questi giorni, in cui l'anima mia è abbeverata di amarezza e di tristezza.

«Da qualunque parte io rivolga gli sguardi, non veggo, se non motivi di afflizione e di dolori. Ma vae homini illi per quem scanda

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A questi due fatti successe l'Allocuzione (Ad gravùsimum) tenuta nel Consistoro segreto del 20 Giugno, nella quale è fatta l'esatta narrazione degli avvenimenti di Bologna e di Perugia.

Intanto, prima che ci avanzassimo a narrare del progressi ottenuti dall'armata alleata nelle altre battaglie, dopo quelle di Magenta e di Melegnano, è d'uopo tornare un po'addietro per riassumere l'andamento della politica estera, dalla quale derivò tutto quanto improvvisamente decise l'Imperatore del Francesi per dar mano alla rivoluzione.

Il Gabinetto Inglese nella guerra accesa sui campi Lombardi vedea presto o tardi un argomento di seria conflagrazione europea, poiché quantunque con astuta politica Napoleone avesse paralizzato l'intervento delle altre potenze, pure sembrava che rinnovandosi maggiormente le vittorie, non entrasse nelle medesime un dubbio sulle intenzioni scerete di questo conflitto. Per ciò Lord Malmesbury scriveva a Cowley. «Il governo di S. M. ha veduto fino al presente con soddisfazione i progressi realizzali dalla Sardegna, perché vi vede uno splendido esempio da imitarsi dagli altri stati italiani, e una prova dei benefizi che risultano pel Sovrano e per i sudditi dall'adozione di un sistema d'amministrazione saggia e liberale.

244 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

«Se la Sardegna potesse contentarsi del progressi di sua prosperi là materiale, se essa si contentasse di sviluppare i vantaggi della sua posizione, che essa ha si saggiamente adottato... sarebbe un modello per l'Italia, e l'oggetto dell'ammirazione del mondo intero...

«Fu proprio in una cattiva ora per essa e per l'Europa, che la Sardegna si è data a sogni di ambizione e d'ingrandimento.,... ed ha provocata la guerra in cui si trova impegnala.

«Violando i suoi trattati di estradizione con l'Austria, provocando diserzioni nella sua armata, unendo al Piemonte gli spiriti malcontenti dell'Italia, facendo discorsi minacciosi contro il Governo austriaco, e affettando di mettersi a disposizione dell'Italia, come suo campione in una guerra contro la potenza e l'influenza dell'Austria, la Sardegna ha chiamato la tempesta, ed essa ne è responsabile davanti l'Europa».

Le minacce inglesi non sfuggirono all'Imperatore. Egli che in mezzo al tuonar del cannone non cessava di sorvegliare gl'intendimenti della diplomazia, fece assicurare il Governo della Regina, nulla esservi a temere per la pace Europea. poiché la guerra era localizzata, e non si sarebbe mai ardito di rinfocolare, o dare incoraggiamento di rivoluzione ai possedimenti della Turchia sull'Adriatico, o di dar occasione alla rottura della neutralità della Germania.

Non pertanto, siccome le prime disfatte toccate dall'Austria mettevano in apprensione gli Stati di Germania, la Russia con una nota circolare alle potenze estere dichiarava esplicitamente, che teneva per lealissime le assicurazioni ricevute dall'Imperatore del Francesi di non far sconfinare la guerra dal campo del Lombardo - Veneto; sicché di sommo rincrescimento tornavante le ingiuste apprensioni della Germania, la quale, se fosse intervenuta, avrebbe dato luogo ad una conflagrazione, richiamando sopra di sé gli effetti che ne sarebbero conseguiti. Insomma la Russia con piacere vedeva le sconfitte austriache, e prendeva un aspetto di minaccia contro chi si fosse levato ad arginare le vittorie Franco - Sarde. Questa politica destò molta impressione, poiché niuno avrebbe creduto, che la Russia,

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per vendicarsi della neutralità dell'Austria nella guerra di Crimea sarebbe giunta sino ad afforzar la potenza napoleonica.

Nel mentre che così la diplomazia affaccendavasi in una lotta di note, per tenere in freno la Germania; lotta terribile, sanguinosa si combatteva sui campi di Lombardia (1).

Dopo la battaglia di Magenta, e il combattimento di Sbrigliano (o Melegnano) gli Austriaci, abbandonando le linee dell'Adda, dell'Oglio e del Chiese, si erano ritirali sul Mincio. Napoleone ordiné che l'armata Sarda prendesse posizione su Pozzolengo; Baraguey d'Hilliers a Solferino, e Canrobert a Medola. Il nemico si avanzava sul Chiese; quindi lo scontro avvenne quando meno lo si attendeva. Baraguey d'Hilliers e Mac - Mahon erano alle mani poco lungi dal Castiglione. dove era loro conteso il terreno: Niel scontrava il nemico sulle alture di Medola; ed i sardi lungo la via di Pozzolengo a Rivoltella, villaggio presso a Castelgoffredo, occupalo dalla cavalleria austriaca.

Napoleone allora cercò con la maggior sollecitudine di operare la congiunzione delle sue forze. Baraguay d'Hilliers con gran stento e perdite di uomini avea potuto giungere ai piedi della collina sovra cui sorge Solferino, difeso da considerevoli forze nemiche trincerale nel vecchio castello e nel cimitero, sì l'uno che l'altro circondati da grosse mura merlale. Comincialo l'attacco, stentatamente gli alleali poteano sostenersi, trovandosi allo scoverto sotto l'incessante fuoco della moschetteria. Accorse la Divisione Forey, la divisione Camon, e i volteggiatori della Guardia. Con unanime movimento si slanciarono sul nemico, e mentre Forey si dirigeva al cimitero, Bazaine facea avanzare le sue truppe nel villaggio, e i volteggiatori e i cacciatori arrampicatisi ai piè della torre che domina il castello, se ne impadronirono guadagnando una bandiera e 13 cannoni.

Il nemico intanto avanzandosi tra l'armata Sarda e il corpo di Baraguay, tentava circondare la destra del Piemontesi; ma il Gen. Porgeot, avvertitosi del movimento, aprì tale fitto fuoco di artiglieria,

(1) In questa descrizione ci siamo serviti del rapporto Tatto dal Luog. Gen. Della Rocca Capo dello stato Maggiore dell'Armata Sarda.

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che lo fece retrocedere e desistere dall'impresa. A Guidizzolo anche fervea il combattimento, sostenuto dal Duca di Magenta, che dalla difensiva in cui stava, coadiuvalo dalle batterie a cavallo, poté prendere l'offensiva, ordinando al Gen. De la Motterouge di scacciare il nemico da S. Cassiano e dalle vicine posizioni. I tiragliatori algerini, tre volte respinti, riattaccando la pugna guadagnarono l'altura; cosisi congiunse tutta la truppa francese, che mosse contro Cavriana. Or mentre accanitamente si combatteva, un terribile uragano scoppiò sulle due armate, gettando tanta quantità di grandine e d'acqua, per quanto che i combattenti furono obbligati a far sosta per l'oscurità sopravvenuta.

La battaglia erasi vinta al centro, ma alle due ale non era stato fino allora possibile di avanzare un passo per la gran resistenza che incontravasi. Si era dato l'assalto a Medola, ma con infelice esito per il costante e ben diretto fuoco delle batterie postale sul villaggio; e solo verso le sette gli alleali poterono guadagnare quella posizione dopo un triplice assalto dato da punti diversi.

Ma il nemico difendeva sempre energicamente il suolo, su cui indietreggiava, e le artiglierie sì dell'una che dell'altra parte mostravano immensa valentia.

A Guidizzolo non era meno accanita la pugna; e Xiel non avrebbe potuto più sostenersi, se la cavalleria non avesse arrestato il nemico a Casanova, e se Canrobert non fosse volato a suo soccorso.

L'armata Sarda che teneva la destra, anche sostenne una grave e memorabile giornata. Essa s'avanzava sulla direzione di Peschiera, Pozzolengo e Madonna della Scoperta, quando tra S. Martino e Pozzolengo si scontrò nel nemico.

Impegnatasi la lotta, i Piemontesi, dopo aver sostenuto il primo attacco, furono obbligati a retrocedere fino a S. Martino, mentre gli Austriaci, girando, minacciavano di tagliar loro la ritirala. Avvertito il grave pericolo, accorse una brigata della divisione Mollard, che spingendosi in avanti, due volte respinta, due volte occupò le alture: ma

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Anche Durando, che teneva posizione alla Madonna della Scoperta, dapprima indietreggiò, ma sostenuto e rafforzato poi dalla brigata Savoia s'impadronì della posizione; e Lamarmora apertosi a viva forza il passaggio in mezzo al nemico guadagnò Pozzolengo.

«Le perdite dell'armata Sarda (sono le parole del rapporto) furono sventuratamente assai considerevoli, e ascesero non meno che a 49 officiali morti, 161 feriti, 612 sottufficiali e soldati morti, 3405 feriti, 1258 dispersi.

«Le perdite del Francesi furono anche maggiori: 12 mila tra morti e feriti, 120 ufficiali fuori combattimento, di cui 150 uccisi. Fra i feriti i generali Ladmirault, Forey, Auger, Dieu, e Conay; 1 colonnelli, e 6 tenenti colonnelli morti».

Della perdita degli Austriaci non vi è il numero, ma lo desumiamo da queste parole del loro Bollettino: «Le nostre perdite sopratutto in officiali sono considerevolissime (sic); in taluni corpi e di truppe ammontano al quarto dell'effettivo totale.»

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CAPITOLO IX.

I Sardi sotto Peschiera politica estera - Dispaccio di Cavour - Come la pensassero i gabinetti di Londra e di Germania - Un Dispaccio di Berlino - Commozione del cattolicismo francese. - Nota del Moniteur. Il Monitore di Bologna - Armistizio ed abboccamento del due Imperatori a Villafranca. - La pace. - Impressioni europee. - Dimissione di Cavour - La stampa inglese. - Discorso di Napoleone a Saint - CIoud - Un articolo del Moniteur - Arti del settari di Toscana - Una circolare significativa - Una protesta I commissari piemontesi partono dai Ducati, e dalle Romagne - Milano - Ricordi di Cesare Balbo La stampa milanese Fermezza del Vescovo di Bergamo - Aggressione armata al palagio Vescovile - Nota Circolare del Piemonte al gabinetti esteri politica del gabinetto di Torino - Protezionismo protestante in Toscana. - Propaganda di malcostume - L'Episcopato Toscano, e iI Ministero della rivoluzione Circolari governative - Lettera fiorentina al Times - Superbia del Farini - Persecuzione al Clero nei Ducati - Rivelazioni della Gazzetta di Lucerna - Deputazione delle Romagne a Vittorio Emanuela - Sua risposta - Preghiere ordinate dal Papa - Allocuzione Moxima animi nostri - Leonello Ciprigni a Bologna - Persecuzione violenta ai Cleri delle Romagne - Il commissario a Ferrara - Sue tirannidi.

Dopo la battaglia di Solferino gli Austriaci cransi ritirali nelle fortezze del quadrilatero, che dal 1848 in poi erano state fornite di tutto quanto potea renderle formidabili, difese da nuove opere di fortificazione, e munite di artiglierie a fior di terra. Lasciala libera cosi la sponda del Mincio, gli alleali lo passarono senza contrasto, e l'Imperatore fissò il quartier generale a Valeggio.

Ai Sardi, che occupavano la diritta, fu dato l'incarico di attaccar Peschiera, appoggiali dal corpo d'armata Baraguey d'Hilliers. Il Re avea messo il suo quartier generale a Ponti sul lago di Carda per trovarsi, il più che possibile, vicino al luogo dell'azione-; e si lavorava incessantemente ai lavori d'approccio, toltocené di sovra la cittadella non rallentasse mai il fuoco dell'artiglieria.

L'armata nemica s'era già trincerata, avea allagati i fossati, emesso il nucleo della forza a Verona con i suoi avamposti a Villafranca. Le ostilità quindi potean ben presto riattaccarsi: ma l'Imperatore de francesi sembrava da qualche giorno perturbalo e dubbioso -: n'era causa l'aspetto minaccioso che prendeva la Diplomazia.

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Esaminiamo ciò che operavasi nei gabinetti esteri.

Il Conte di Cavour, dopo di aver spediti i Reali Commissari a Modena, a Parma, ed a Bologna, con un Dispaccio ai gabinetti europei diede notizia della occupazione del Ducati, giustificandola con gl'indirizzi spediti da quelle città, e per la necessità di impedire la neutralità, all'Austria favorevole, che quei governi avean dichiarata; imperocchè il Piemonte non poteva più ammetterla, visto l'immenso danno che deveniva ai suoi interessi. Essendo quei Ducati già con precedenti convenzioni ligati all'Austria, questa si serviva di essi, come centro del suoi movimenti, ed il Piemonte, vedendoli in altitudine nemica, avea stimalo suo drillo di occuparli.

Ha Sir James Hudson non fu soddisfatto di queste giustificazioni, e con una nota al governo Sardo dichiarò, essere stata colpa del gabinetto di Torino l'aver impossibilitali i Ducati ad assumere il carattere di neutralità; ed il Conte di Malmesbury Ministro della Regina aggiungea, che dal governo di Parma niun tentativo si fosse fatto per desumersi rotta la neutralità; epperò conchiudeva: «il Gabinetto di S. M. Britannica non poter altrimenti riguardare quell'intervento, se non come un crudele e non giustificabile uso della forza contro un debole e piccolo stato».

La Germania tutta nel contempo si era levala in armi, appoggiala moralmente da Londra; e la Prussia, tuttocchè avesse promessa neutralità, chiamò le classi, e mise l'esercito in piede di guerra, inviando un Dispaccio significativo a Londra ed a Pietroburgo. Diceva in esso, che la rapidità degli avvenimenti politici e militari succeduti in poco tempo in Italia, il rovesciamento del governi di Toscana, di Parma e di Modena; le sollevazioni di altri stati della Penisola; l'incertezza che turbava gli animi sulla portata d'una guerra impegnala fra due grandi potenze, aveano deciso il governo del Re a mobilizzare parte della truppa.

Aggiungeva, che l'agitazione destata in Alemagna dal continuo avvicinarsi del belligeranti alle frontiere tedesche, giustificava quest'armamento; tanto più, per quanto che era d'uopo

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«mettersi in posizione da sorvegliare l'andamento degli eventi, il cui risultato finale potrebbe modificare l'equilibrio europeo con l'indebolire un impero, al quale la Prussia era unita con i legami della Confederazione Germanica, e scuotendo le basi del diritto pubblico, il cui mantenimento è nell'interesse degli stati Europei...» La nota fece il suo effetto, e narra il biografo del Conte di Cavour «che una coalizione s'era formata tra la Russia, la Prussia e l'Inghilterra per rompere il corso della guerra mediante una mediazione armata» (1).

Alle minacce della diplomazia si accoppiò l'agitazione della Francia Cattolica per gli avvenimenti di Bologna e delle altre città pontificie; lo che, più di ogni altro, impensierì l'Imperatore, il quale fece immediatamente pubblicare dal Moniteur una nota, che mentre dava luogo a contrarie interpretazioni, pure mostrava di esser scritta per rassicurare gli animi del cattolici.

Son documenti vitali per la storia. «Pare, leggesi in quella Nota, che non si faccia giusta ragione del carattere, che ha la dittatura offerta da tutte parli d'Italia al Re di Sardegna; e se ne conchiude, che il Piemonte, senza consumare il resto delle popolazioni, né le grandi Potenze, faccia conto, sotto la protezione delle armi francesi, di riunire tutta Italia in un solo Stato. Colali conghietture sono prive di fondamento. Le popolazioni liberate, o abbandonate, vogliono fare causa comune contro l'Austria. Con questa intenzione si sono messe sotto la protezione del Re di Sardegna. Ma la dittatura è potestà meramente temporarla, che, pur riunendo le forze comuni nella stessa mano, ha il vantaggio di non pregiudicare menomamente i futuri avvenimenti...»

Nel tempo stesso, come per rispondere a capello alla politica francese, ed acquetare l'Episcopato, il Monitore di Bologna pubblicò una lettera dal Conte di Cavour indirizzala alla Giunta di quel governo. Dice in essa, che il Re Vittorio Emmanuele non può accettare l'annessione delle Romagne al Piemonte, ma che si limiterebbe

(i)

Bianchi loc. cit. pag. 12.

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a dirigere le forze militari nello scopo di concorrere alla guerra della indipendenza -; per cui la missione accordata al sig. Massimo D'Azeglio, annunziata dalla Gazzetta Piemontese essere puramente militare. Ed infatti colà poco dopo fu spedito il Colonnello Pinelli ad organizzarvi il corpo del volontarii Chi ha seguito d'appresso le arti della rivoluzione, e gl'intrighi della Società Nazionale di Torino, può fare il calcolo che si debbe di questi ripieghi politici del giornali governativi.

Nulla era sfuggilo all'occhio vigile di Napoleone, che minutamente era ragguaglialo degli intendimenti della diplomazia, e dello spirito interno della Francia: laonde avvertì, che la pace gli sarebbe stata imposta dalla preponderanza Nordica, locchè avrebbe umiliato il suo prestigio al cospetto della nazione. A sfuggire adunque tal pericolo, chiamato a sé il Generale Fleury, in presenza del Re di Piemonte, che a stento nasconder potea la grande emozione, gli consegnò un suo autografo, e lo inviò al campo Austriaco con segrete istruzioni. La risposta fu portata da un Aiutante di campo di Francesco Giuseppe -: Un armistizio era convenuto tra la Francia e l'Austria -; ed i patti furono stabiliti dal Duca di Cadere, dal Maresciallo Vaillant, e dal Gen. Martimprey, per la Francia; dal Generale Barone Hess, e dal Conte di Mensdorff - Pully per l'Austria.

Per istruzione segreta il Gen. Fleury dovea invitare ad un abboccamento l'Imperatore d'Austria; ed i due Sovrani si trovarono a Villafranca nel di 11 Luglio. Da buoni amici si strinsero la mano, e dopo due ore di colloquio, si separarono entrambi soddisfalli dell'esito. La sera medesima l'Imperatore telegrafava a Parigi.

La pace è firmata tra l'imperatore d"Austria, e ME. Le basi sono -: Confederazione italiana sotto la presidenza del Papa; L'Imperatore d'Austria cede i suoi dritti sulla Lombardia all'Imperatore del Francesi, che li trasferisce al Re di Sardegna. L'Imperatore d'Austria ritiene il Veneto, facendo parte integrale della confederazione italiana. Amnistia generale.

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Grande impressione produsse universalmente questa notizia: scompigliati i piani della diplomazia; abortito il progetto della Prussia, che già tenea in pugno la supremazia della Germania a compenso dell'aiuto che avrebbe dato all'Austria per guarentirte i possedimenti in Italia; svanite le speranze del gabinetto di Torino, che avea sognato la penisola indipendente dall'Alpi all'Adriatico; obbligandola a riattivare il lavorio del comitati, meno per il Veneto, dove, incubo terribile, stava il quadrilatero.

Quegli che più ne soffrì, fu il Conte di Cavour, che avea tenuta per assicurata l'annessione del Veneto al Piemonte. Egli, recatosi «addirittura presso Napoleone 3°, narra il Bianchi (1), non dissimulò punto né il proprio dolore, né il proprio risentimento; e al suo ritorno da Villafranca, attestante il sig. Artom, era pallido e affranto, invecchiato di più anni in tre giorni». Né le premure del Re, né quelle degli amici e di tutta l'emigrazione poterono persuaderlo di restare al ministero; egli volte dimettersi «vedendosi, egli diceva, essere in cattivo odore presso la diplomazia.» Un ministero Lamarmora - Rattazzi lo surrogò, ma fu transitorio, poiché dopo pochi mesi, quando di bel nuovo la rivoluzione alzò il capo, egli riprese la presidenza.

D'ogni parte intanto il nome di Napoleone veniva fatto segno a mille accuse; sopratutto dal giornalismo piemontese. che vedea svanita la conquista del Veneto; e dalla stampa inglese, che simulando l'abisso che il Gabinetto di Saint James stava scavando dintorno alla Francia, non sapeva darsi pace dell'improvviso accordo con l'Austria; lo che era un fac - simile della guerra di Oriente. Nella calda e paurosa fantasia l'Inghilterra già vedea i tre imperatori piombar sulle coste Britanniche con un milione di soldati- «Napoleone, ripetevano a coro i periodici inglesi, è l'uomo del colpi inaspettati; fa procaccio di amici alla lesta di poderoso esercito, e contrae alleanze con l'apparato delle sue 150 mila baionette.

(1)

Loc. cit. pag. 12.

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«Dice voler andare a Cronstadt, e si arresta a Malakoff; promette agl'Italiani condurli all'Adriatico, e li lascia al Mincio. Oggi così: e domani dirà bastargli Magonza, e andrà a Berlino: raccoglierà truppe per l'Africa, e le getterà sulle coste d'Inghilterra...»

L'Imperatore accortosi dell'impopolarità e del discapito, che gli sarebbe devenuto da questo vociare della stampa presso il partito progressista, che egli avea sempre dominato e tenuto a bada con promesse, stimò, senza esitazione alcuna, di dichiarare quali cause lo avessero indotto a chieder pace all'Austria! Questa volta disse il vero, perché la verità dei fatti giovava alla sua politica. E lo dichiarò nel discorso che, ritornalo a Parigi, tenne ai grandi Corpi dello stato riuniti a Saint Cloud.

«Signori - (egli disse). Nel ritrovarmi in mezzo a voi, che durante la mia assenza avete circondato l'imperatrice e mio figlio con tanta devozione, sento dapprima il bisogno di ringraziarvi, e quindi di spiegarvi il motivo della mia condotta.

«Allorché, dopo una fortunata campagna di due mesi, gli eserciti francesi e sardo arrivarono sotto le mura di Verona, la lotta inevitabilmente dovea cangiar di natura, tanto sotto il rapporto militare, quanto sotto il rapporto politico.

«Io era fatalmente obbligato di attaccar di fronte un nemico trincerato dietro grandi fortezze, protetto contro ogni diversione sui suoi fianchi dalla neutralità del territori che lo circondavano, e, nell'incominciare la lunga e sterile guerra degli assedi, io trovai innanzi a me l'Europa in armi, pronta sia a contendere i nostri buoni successi, sia ad aggravare i nostri rovesci.

«Tuttavia la difficoltà dell'impresa non avrebbe né scossa la mia risoluzione, né arrestato lo slancio del mio esercito -; se i mezzi non fossero stati fuor di proporzione coi risultali da ripromettersene. Bisognava risolversi a rompere arditamente gli ostacoli apposti dai territori neutrali, ed allora accettare la lotta sul Reno e sull'Adige. Sarebbe stato d'uopo di francamente fortificarsi da ogni parte col con

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«Se dunque io mi son fermalo, ciò non fu per stanchezza, o per abbandono della nobile causa, cui io volli servire; ma perché nel mio cuore alcunché di più alto parlava, l'interesse della Francia...

«Per servire l'indipendenza Italiana, io ho fatto la guerra contro il parere dell'Europa: quando i destini del mio paese hanno potuto essere in pericolo, ho fatto la pace.»,

Ma la Diplomazia, se si accontentava di questa spiegazione, non si teneva paga per l'affare del Ducati, i cui Principi non ancora erano rientrali nelle loro residenze; e forse dubitava esser la Francia, che dasse segretamente mano al Gabinetto di Torino per annetterli al Piemonte: e perciò il Moniteur pubblicò uno del quei soliti articoli, che fatti per dichiarare la posizione delle cose, la dichiarano per nulla.

Lo scrittore officiale, dopo aver partitamente esposto lo Stato, in cui si trovavano fra l'Adige ed il Mincio gli eserciti nemici; forte il franco - sardo per l'influenza morale che avea per sè; più forte l'austriaco e numericamente, e per le fortezze, e per il contegno dell'Alemagna pronta a prenderne le difese, aggiungeva:-«in luogo di avventurarsi in una guerra Europea, e per conseguenza di mettere a repentaglio la indipendenza del proprio paese; in luogo di spendere ancora 300 milioni, e di spargere il sangue di altri 30 mila del suoi soldati, l'Imperatore ha accettato una pace, che sancisce per la prima volta l'indipendenza della penisola. Il Piemonte, che rappresenta più particolarmente la causa italiana, trova la sua potenza cresciuta considerevolmente, e se la confederazione si stabilisce, vi avrà la parte principale; ma una sola condizione si mette a tutti questi vantaggi; essa è il ritorno delle antiche Case sovrane nei loro Stati.... Un congresso non chiederà che quel che è giusto; ora sarebbe egli giusto il chiedere ad una grande potenza concessioni importanti senza offrirle in cambio equi compensi?

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(Parla della cessione del Veneto). L'unico mezzo sarebbe la guerra-: ma l'Italia non premia errore; non vi è che una potenza sola in Europa, che faccia la guerra per un'idea: e questa è la Francia; e la Francia ha adempito al suo compilo...»

Ma Nizza e Savoia non furono certamente un'idea per l'Imperatore, sibbene un fatto avvenuto dietro il compromesso di Plombières.

Quanta e quale impressione facessero ai fautori unitari la pace di Villafranca, e le dichiarazioni del Moniteur sul ritorno di quei Principi nei loro Stati, ben può comprendersi; considerando le speranze deluse, la paura che loro desiavano le restaurazioni, e l'essere obbligati a lasciare il potere, dopo averlo appena tenuto.

In Toscana si menò tanto rumore, da far temere quasi il rompersi a rivolta; ma nulla avvenne per la copia del proclami che piovevano dai Commissari, o come altri dichiarano, per l'influenza dei legittimisti, che tenevano per certa la restaurazione, e la volevano non macchiata di sangue e di vendetta.

Non pertanto il Comitato, e gli uomini che già aveano nelle loro mani la somma del potere, non sfiduciavano. Raccolta la Consulta del governo, e dichiarando incompatibile con il mantenimento dell'ordine in Toscana qualunque altra combinazione avversa al sentimento nazionale, emise le seguenti istruzioni:-Farsi istanza presso l'Imperatore del Francesi, perché nel fissarsi le sorti del paese, avesse riguardo alla libera manifestazione del legittimi voti del cittadini-; Chiedersi che questi voti sieno rappresentali da un assemblea di deputati scelti di popolo; infine farsi un indirizzo al Re di Sardegna, affinché seguitasse ad accordare alla Toscana il suo protettorato sino alla diffinitiva organizzazione del paese.

All'uopo fu inviata a Torino una deputazione, che tenuta conferenza col Ministero, ebbe sicurtà che niuno avrebbe ostacolato al paese di disporre liberamente delle sue sorti; del che subitamente il Ministero

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«Gì'inviati Toscani (dicea la circolare) a Torino ci scrivono:-Se la Toscana sa mantenersi nel suo buono e vero spirito Italiano, è sempre padrona del suoi destini. Disponendo di sé in modo italiano, sarà d'immenso aiuto al compimento del destini d'Italia... Il paese si prepari a proclamare con dignità e fermezza il suo volere italiano....»

Da ciò risultava, che la rivoluzione proseguiva il suo corso regolare, ed ai palli di Villafranca opponeva il principio del suffragio popolare, appoggiala com'era dalle truppe toscane, che ritornate da Goito (senza aver preso parte alcuna nella guerra dell'indipendenza) sfogavansi a gridi 'di libertà, tali da esser delitto anche pronunziarsi il nome del Gran Duca.

A prova di ciò il Monitore Toscano del 24 Agosto pubblicò una circolare sottoscritta dalla Commissione del Governo, a capo di cui stava Ricasoli - Sono notevoli le seguenti parole -: «Qualunque dubbiezza sulla legittimità del Governo, e ogni esitanza a seguirlo nella strada aperta dal vero bene della patria comune, non solo sarebbe allo di ribellione alla suprema autorità dello Stato, ma sarebbe anche atto di tradimento contro tutta la Nazione.» Quanto illiberale ciò fosse, ognun vede; avvegnacchè sotto la pressione governativa e della permanente rivoluzione s'impedisse quella manifestazione di libera volontà, che sol per sé la setta volea proclamala - A giusta ragione quindi la stampa onesta ed indipendente tacciò d'imprudenza il Comitato per quella Circolare, poiché dava ragione a sostenere, esservi un partito in cui fossevi dubbiezza ed esitanza ad accoppiarsi al voto della commissione governativa.

Libero il voto nel suo vero senso, niun argomento avrebbero avuto i partiti conservatori per accusare d'irrito e simulato ciò che allora fu dello voto della nazione. Non sapremmo perciò qual denominazione dare M'incito, che la Giunta governativa, dopo tale dichiarazione, fa

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Coloro che aveano pretestato, avrebber sofferto una persecuzione? Qual miglior prova al cospetto delle potenze estere per confermare la protesta? Tacquero, e perciò le Potenze, se non nell'intimo del loro cuore, almeno nell'apparenza, credettero all'unanimità e spontaneità del plebiscito.

Adunque così in Toscana, come a Piacenza, a Modena ed a Parma, furono aperte le sottoscrizioni per indirizzi di annessione al Piemonte.

In tale frattempo la Gazzetta Officiale di Vienna annunziava l'abdicazione del Gran Duca Leopoldo a favore dell'Arciduca Ferdinando, nato il 10 Giugno 1835.

Il Governo di Piemonte intanto, a termini della pace di Villafranca, e per calmare le apprensioni della diplomazia, fu obbligato di richiamare i suoi commissarii dalla Toscana, dai Ducati, e dalle Romagne, lasciando che migliori tempi, o nuova occasione che non si sarebbe di molto ritardala, venissero ad assettare e convalidare il suo dominio con un plebiscito più formate. Così il Boncompagni partì da Firenze, affidando il governo a Ricasoli; Farini da Modena, e D'Azeglio da Bologna. Non sarà qui inutile, a compimento del fatti narrati, dare un colpo d'occhio su quanto i commissari piemontesi operarono nel poco tempo, in che quegli Stati governarono.

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Due parole prima su Milano. Questa città, che ben a dritto può esser chiamata I'Atene d'Italia per le lettere, per le arti, pel lieto vivere e per gentili costumi (1), fu sempre considerata come una delle principali della penisola sin dai tempi dell'Ausonio. Insigne per la dimora che sempre vi fecero gl'Imperatori d'Occidente, si acquistò memoranda pagina nei fatti della Storia per la pertinace e patriottica tutta, che sostenne contro Federico Barbarossa, dalla quale sorti vittoriosa. Addivenne potente con gli Sforza ed i Visconti, che più d'una volta avrebbero costituito il Reame d'Italia, se la prepotenza spagnuola non avessele fatto ostacolo. Maria Teresa, Giuseppe 2°, Leopoldo, e Napoleone 1° l'abbellirono, restituendola all'onore di Metropoli, non essendovi città che nel Nord dell'Italia potesse agguagliaria.

Ridente nel suo aspetto, ricca di edifizi, ha col suo Duomo, un tesoro d'arti, di marmi e di sculture. Questa città era annessa a Torino, e ponendo da parte la sua storia, la sua dignità, la sua grandezza, addiveniva provincia per disio di far parte, della gran famiglia Italiana - Essa avea scosso il giogo dello straniero, ed era libera.

Scriveva Cesare Balbo nelle Speranze d'Italia C. 2.° «Uomini, città o Stati. non diminuiscono di condizione mai, se non per forza, non mai per accordo, di buon volere, né per uno scopo eventuale. Sogno è sperar da una sola città capitale, che voglia ridursi a provinciale; maggior sogno, che sei si riducano sotto una sola; sogno massimo che si accordino quelle sei a sceglierne una. E tanto più, che ciò non è desiderabile, né per le sei sceglienti, né per l'ima prescelta, né per la nazione intera...» Scriveva ciò il Balbo, poiché non teneva serio il pensare all'Italia una, pur ricordando che dopo un momento di esaltazione segue o il malcontento, o il disgusto, il quale, se per la gentilezza del costumi non si appalesa col fatto, si dichiara con la voce e con gli scritti. Il Ministero di Torino, che sin dal 1859 si era dato ad operare un non lodevole sistema d'accentramento, progettò, ed indi a poco attuò il suo disegno; e le contabilità dello Stato,

(1) L'Italia descritta e dipinta = Tom. IV. pag. 189.

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la Prefettura delle Finanze, la Direzione delle pubbliche

costruzioni ed altri vitali istituzioni, che erano in vigore a Milano, fece richiamare a Torino. Questo fu amarissimo colpo pei Milanesi, che con la stampa si diedero a menarne doglianze, le quali rimasero infruttuose. Fu d'allora che cominciò a sparlarsi contro il Piemontesismo, che crebbe smisuratamente fino al trasporto della Capitale a Firenze per la Convenzione del 15 Settembre, suggellata col sangue del Torinesi nel 21 e 22 di quel mese a Piazza Castello ed a Piazza S. Carlo!! La Gazzetta di Milano, fra gli altri, ricorreva ai fatti della Storia per dimostrare come quella città fosse stata sempre centro di capitale, per cui non poteva invilirsi a divenir provincia soggetta a Torino. Ma non riflettevano i lombardi, che Milano dovea dimenticare il lustro di capitale dopo l'annessione al Piemonte, non potendo certamente sussistere uno Stato nello Stato. Una volta che quella città, per fatto di guerra era stata data al Piemonte, la loro storia, le loro tradizioni, le loro leggi, ed il loro municipalismo addivenivano non altro che un ricordo per le generazioni avvenire! E tale fu pure di Firenze, di Parma, e di Modena, che deposto il loro lustro, addiventarono province di Torino! Incresceva anche ai Milanesi che fatti sino allora giammai succeduti, si perpetrassero contro la religione e contro i sacerdoti, senza che il Governo vi ponesse riparo, o i colpevoli punisse. Ma trattavasi di religione! - ed il ministero, della scuola del Conte di Cavour, ne ricopiava i fasti acattolici, perseguitando e manomettendo, o lasciando manomettere tutto ciò che eravi di più sacro!

A Bergamo, dovendo celebrarsi un ufficio solenne pei morti nell'ultima guerra, Mons. Speranza Vescovo di quella città promise d'intervenire egli stesso alla solenne cerimonia; ma volte che l'elogio funebre non si leggesse, che da un Sacerdote, non essendo permesso ad alcun laico l'ascendere la sacra cattedra. La Commissione si era ostinala a tener fermo, perché da uno di loro si leggesse. Di qui i dispareri e le minacce-; perlocchè il Vescovo, a togliere ogni causa di dispiacenza, fece chiudere a chiave la porticina della cattedra.

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Slava quasi al termine la messa solenne, quando un tal Pasino Locateli!, accompagnalo da un crocchio di amici, uno del quali portava una scala, ascese sul pulpito e diessi a leggere uno scritto, che non in una chiesa, ma neanche in una accademia qualunque sarebbe stato permesso.

Il Vescovo allora. veduta così profanala la casa di Dio, secondo il prescritto dai Canoni, pubblicò l'interdetto alla presenza del popolo. I complici del Locatelii non tennero in pace l'atto giurisdizionale del Vescovo, e come dice il giornale l'Unione. «a sera si radunarono migliaia di persone innanzi al palazzo di lui; cominciarono dal gridare, finché sempre più eccitali dalla passione, entrarono a viva forza nel cortile, atterrandone la porta; salirono le scale, ed abbattuto anche l'uscio dell'appartamento, lo invasero, ogni cosa manomettendo, e fracassando mobili e suppellettili.» L'intendente ed il podestà, con l'aiuto di alcuni militi del Batt. Cacciatori delle Alpi, e della G. Nazionale, giunsero a tempo per salvare il Vescovo dal pugnale del tristi. «Quest'atto, aggiunge la Gazzella di Milano, tende a costituire una massima fatale, la preponderanza della violenza popolare eia superiorità della legge». Il giornale stesso conchiude: «Perché il governo, con una debolezza che indicherebbe mancargli la coscienza del suo dovere, non prende misure energiche a punir questo, e impedire con un esempio salutare altri simili trasmodamenti?

Ed or della Toscana. Dopo il ritiro del Commissario Regio, avvenuto in seguito della pace di Villafranca, il comitato Toscano fece il suo plebiscito, ed inviò Marco Minghetti ed Ubaldino Peruzzi a Deputati per offrire la reggenza di Parma, Modena, Romagne e Toscana al Principe di Carignano (1). Questi rifiutossi di accettarla per sé «per potenti consigli e ragioni di politica convenienza»; non pertanto designò a tale ufficio Carlo Bon Compagni.

Affinché tale fatto non urtasse le suscettibilità delle potenze, tanto maggiormente che partavasi d'un prossimo congresso, il Ministro per

(1)

Gazzetta Piemontese 14 nov.

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gli affari esteri del Gabinetto Sardo spedì Nota circolare ai governi esteri, nella quale narrava della reggenza offerta al Principe di Carminano dai popoli dell'Italia centrale, e del rifiuto da lui fattone: dal che deduceva, che tale alto attestando l'ardente desiderio delle popolazioni dell'Italia centrale, ed al Re essendo sembralo suo dovere lo scongiurare ogni pericolo di disordine e di anarchia, che ad un rifiuto potea avvenire, vi avea inviato il Bon - Compagni, che avrebbe sostenuta quella reggenza, fino a tanto che l'Europa riunita a congresso, non avesse re gelale le condizioni di quelle città (1).

Con ciò mentre il Gabinetto di Torino sempre più si assicurava il possesso di quelle province, declinava da ogni responsabilità in faccia all'estero; non pertanto i componenti del comitato, a mistificare la pubblica opinione, pubblicarono un manifesto dichiarando, il Bon - Compagni spedito in qualità di Governatore Generale della Lega degli stati indipendenti d'Italia, ed il Principe di Carignano aver accettata la reggenza offertagli dell'Italia centrale (2).

A tanta sfrontatezza esclamò Eugenio Albèri; (3) - «Voi vi dichiarate ministri di un Re, che tali non vi instituiva; voi amministrale, sentenziale, vincolale la fede pubblica, a chi nulla di tutto e questo vi chiede; e quanto più ci obbligate a riconoscerlo e a rie spellarlo per tale, voi primi date esempio di una irriverenza che ne distrugge il prestigio, imponendogli, non implorando, un Reggente, che non dovete, se egli è Re, che non potete nominare in suo nome, se egli non è».

Da tutto ciò puossi dedurre, che di quanto fu operalo nell'Italia centrale, e che siamo per narrare, il governo di Torino mostrò non accettare responsabilità alcuna, lasciando agire la Società Nazionale con mezzi, che non le si facevano mancare mai.

(1) Nota Circolare del Ministro Dabormida - 14 Nov. 1849.

(2) Monitore Toscano -16 Nov.

(3)

La politica Napoleonica e quella del Governo Toscano (6 Dicembre 1859) per E. Albèri.

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Una delle prime cure del Governo provvisorio, o di reggenza in Toscana, fu d'impiantare il protestantesimo, e perseguitare il Cattolicismo.

Un giornale protestante di Londra (1) dava la notizia, che Carlo Solaini e Scipione Barzali aveano presentato al governo toscano una dichiarazione delle loro massime evangeliche (protestanti) già da molti accettale; e poco dopo un Agostino Poli, attestando esser sé e la moglie cristiani evangelici, dichiarava non voler far amministrare in parrocchia il battesimo ad un suo bambino, chiedendo che fusse riconosciuto dallo stato civile. Il Ministro del culti con un decreto tutto suo proprio ordinò, che fosse fatta ragione alla dimanda, non dovendosi astringere i cittadini a ciò che non è consentaneo alla religione da essi professata. Si manifestava così la volontà deliberata di legale protezione al culto protestante contro le leggi vigenti dello Stato.

Libri di ogni sorta e contro il cattolicismo, e contro la stessa morale pubblicamente vendevansi a vilissimo prezzo, e con eleganti oscene figure, per allettare i giovani a farne accatto; e fossero stati i soli uomini a cadere in questa rete di prostituzione! Romanzi corruttori correvano per le mani del giovanetti e delle fanciulle, che se non potevano comperarli, li avevano a titolo di dono per apprendere la scienza e la verità!!

Tali fatti commossero l'Episcopato; e prima il Cardinale Arcivescovo di Pisa, ed al suo esempio gli Arcivescovi di Firenze, di Siena, e il Vescovo di Volterra inviarono preghiere al Ministro degli Affari Ecclesiastici a fin di porre riparo a tanto torrente di empietà e di mal costume; ma pregarono invano. Tornando ad instare e scongiurandolo in nome di Dio e pel bene della Società, le loro parole non trovarono né forza, né sentimento nei cuori del maestrato, che le loro preghiere irrise, tolse a dispregio. Il Governo della rivoluzione volea disseminalo l'ateismo, esautoralo ogni principio religioso, poiché è questo che infrena le masse, e delle rivoluzioni le fa nemiche.

(1)

L'Eco di Savonarola N. 9 -15 Sett.

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Per la qual cosa ogni cura ed astuzia ponevasi dal pseudo - governo, affinché la bocca del sacerdoti fosse chiusa sotto le minacce del terrorismo. Sono di tal natura le Circolari da quel così detto ministero indirizzale alle autorità ecclesiastiche. Eccone una.

CIRCOLARE AI VESCOVI

«Ill.mo e R.mo Signore - Nell'avvicinarsi il tempo che va destinalo alle ordinarie predicazioni della chiesa, il ministro sente il bisogno d'indirizzare a V. S. Ill. e R.ma la sua parola, per pregarla di voler insinuare ai suoi oratori di tenersi lontani nell'esercizio della loro missione da qualsivoglia allusione alla politica, la quale, se è sempre estranea all'oggetto che gli oratori stessi si prefiggono, cioè di istruire nei principii di religione, e moralizzare le genti, può talvolta per l'opera del medesimi, meno cauti od avventati, esser motivo a divisioni di partito ed a perturbazioni della quiete pubblica; le quali perturbazioni il R. Governo è nel dovere di non tollerare, e saprà sempre impedire con tutti i mezzi che si trovano in suo potere.

«Il ministro confida ecc...»

V. Salvagnoli Dev. Servo Obbl.

01/11/59 F. Giacomi

L'annessione formale al Piemonte non s'era ancor fatta; il governo era provvisorio; né pronunzialo il plebiscito legale; epperò ognuno era ancor libero di manifestare la propria volontà. Ma la polizia liberale di Toscana, assumendo un diritto che non avea, si serviva della forza per impedire e soffocare ogni estrinsecazione contraria al nuovo ordine di cose.

Più notevole è l'altra circolare diretta ai Priori e Guardiani del Conventi dalla Delegazione del Governo. Non facciamo commenti perché parta da sé stesso il documento.

«.... Suprema ragione di ordine pubblico vuole la più stretta osservanza del diritto Ecclesiastico (???) dello Stato.

«1.° Perché non predichino in veruna Chiesa toscana preti e frati cw non siano Toscani.

264 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

«2.° Perché i preti e frati e predicatori non parlino minimamente di cose politiche, né di cose attenenti alla politica.

«3.° Perché non si dieno missioni, non si facciano processioni, né feste straordinarie senza approvazione del Governo».

La Circolare termina con la stessa esortazione già fatta ai Vescovi, e con le stesse minacce!

Senza che ci allungassimo a riportare i molti altri documenti, che qui allogar potremmo, conchiudiamo questo paragrafo con una lettera toscana pubblicala dal Times, e riprodotta dalla Nazione di Firenze, ove è con chiarezza esposto lo Stato, in cui si contorceva la Toscana sotto il governo provvisorio.

Firenze 12 Settembre 1859

All'editore del Times.

«Signore - L'impossibilità in cui noi infelici Toscani ci troviamo, di far conoscere in qualche modo la verità, mediante la stampa del nostro paese, punizione che troppo spesso è serbata a qualunque privata manifestazione delle nostre vere opinioni, m'induce a ricorrere alla vostra valevole assistenza....

«Noi viviamo in questo momento sotto una pressione senza esempio. Appena ci è lasciala la libertà di pensare, perché al più lieve sospetto siamo imprigionali e condannati senz'alcuna legalità. Il voto popolare, tanto vantato, comprendeva il 2 per cento al più della popolazione, e se facciamo la detrazione del voti estorti per compulsione, appena vi rimarrà la libera espressione dell'opinione d'uno per cento su tutto il popolo toscano (1).

«È stato detto, che i municipii hanno votato spontaneamente, niuna cosa può essere più lontana dal vero

«Il pubblico tesoro è stato saccheggiato (2) e la rendila dei futuri

(1) Su di tal punto rimandiamo il lettore alla pag. 121 dell'opuscolo di I. Domenico Guerrazzi intitolato - Al popolo toscano - Bicordi - Tonino 1859.

(2)

Un late Cvrletti pubblicò un opuscolo di confessioni sulla rivoluzione del 1859 - 60. Noi non abbiam voluto tener conto delle sue gravissime asserzioni, per non sembrare corrivi a creder tutto quel male che si scrive. Ci restringiamo perciò a quanto rileviamo da documenti pubblicati all'estero ed in Italia stessa.

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18 mesi anticipatamente pagala. Negli ultimi quattro mesi sono stati scialacquati più di 50 milioni di lire toscane, e se questo sistema di stravagante corruzione sarà per durare ancora, il paese sarà interamente rovinato.

«L'influenza piemontese non si estinse con la partenza del commissario. Egli continua tuttavia ad esercitare in tutti i dipartimenti gli stessi poteri per mezzo del suoi agenti, e di salariati agitatori. È ora un fatto conosciuto, che l'oro piemontese, sparso in ogni luogo prima del 21 Aprile, fu quello che portò la insurrezione.

«Due ufficiali superiori ricevettero somme immense per procurare la disfatta delle truppe (1), col fine di far manifesto al Principe che l'esercito si era sciolto da ogni fedeltà. La gran maggiorità del miei concittadini, priva di ogni esterno soccorso, oppressa dal quotidiano dispotismo, circondata nelle vie da temerari agitatori, imprigionala senza giusta cagione, ove chieda giustizia alle autorità, trovasi quasi senza mezzi per poter esprimere il suo desiderio........

«Speriamo perciò etc. etc.

Non dissimile era lo stato di Parma e di Modena, governale dal Farini. Lo sperpero delle finanze dello stato era una necessità per questi redivivi proconsoli, che dalla mediocrità di loro condizione vedeansi insediati nei palagi del Re e del principi. Ed il Farini, che nemico aeerrimo dell'aristocrazia, con bugiardo stile democratico fino allora si era avventato contro il lusso ducate, bevendo l'aria pregna del profumo che osala per le Reggie, si credette veramente un sovrano per fa grazia di Dio. Scrivevasi al proposito da Modena all'Italia di Torino (2). Ho letto ciò che voi diceste pochi giorni sono, riguardo al nostro Dittatore. Avete scherzalo su di un tema serio! Il lusso delle feste e del banchetti nel palazzo, che pare tuttavia abitato dal Duca, è «amaro a noi, che misuriamo tutta la gravità del bisogno del paese,

(1) Si rammenti quanto si è già detto nel Cap. 6 di questo libro, che è consona alla presente lettera. (2) 3 Sett. 1859 N. 207.

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e sappiamo la esiguità del mezzi pecuniari che ci rimangono per soddisfarti. I Modenesi non fanno a meno di deplorare, che il Sig. Farini abbia circondato di tanto inutile fasto un ufficio, che sarebbe stato a mille doppi più splendido nella severa modestia del nobili costumi rivoluzionari. Il codazzo delle livree e degli staffieri; l'onda delle guardie; il numero del cavalli per tirare le ricche vetture dell'antica Corte sono argomenti buoni ad aumentare la parte passiva del magro bilancio, non a raffermare la fede del popolo nel trionfo di quella giusta causa, che si sta dibattendo fra lui e la diplomazia Il popolo ha la sua logica anch'esso; ed è peccato soltanto che la chiuda così di spesso nel baule del suoi poveri panni»

Il popolo è una parola, è un idea, di cui la rivoluzione si serve per farsene scala all'ambizione del dominare: per lo che non reca meraviglia vedere gli uomini, che un dì parlarono di fraternità e di eguaglianza, imporsi smoderatamente sulle popolazioni. Questa smoderatezza si è veduta sovratutto adoprata contro l'Episcopato ed il Clero.

I Ducati non erano ancora annessi formalmente al Piemonte; il governo provvisorio non avea diritto alcuno di far leggi, ed imporle ad arbitrio. Ma non pensò così il Farini, il quale stimò invece di poter fare tutto quanto gli talentava a detrimento della religione. Una delle prime disposizioni emanale fu la legge sul matrimonio civile. Ne fecer rimostranze i Vescovi; ed il Farini in risposta promulgò editto per pene ad infliggersi ai parrochi, che vi si fossero opposti. Era una delle prime libertà che si proclamava!

Alle insistenze del Clero fece rispondere dal Direttore del Ministero del culto, egli non aver fatto che «pubblicare le leggi della Monarchia Costituzionale di Savoia, della quale fanno parte integrale queste province per voto unanime dell'Assemblea Nazionale, già solennemente accettato dal Re Vittorio Emanuele».

Niuna menzogna maggior di questa, poiché il Re, se avea gradito il voto del popolo, avea pur risposto non di accettarlo,

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«I giornali al servizio del Dittatore Farini, avendo inondalo il mondo di fatti inventati alla lor maniera, domandiamo che ci sia permesso di ristabilire la verità....» Paria prima degli oltraggi fatti a Monsig. Cugini Arcir. di Modena, che da una massa scostumata di giovinastri obbligato ad arringare in favore della libertà, parlò invece sull'amore e sulla libertà cristiana; e fu tanto commovente la parola di lui, che i rivoltuosi pensaron bene di far cessare il discorso, vedendo che al popolo pizzicavan le mani per vendicare le ingiurie che si faceano a quell'ottimo Prelato. Parta poi di M. Cattani Vescovo di Carpi, e di M. Berardi Vescovo di Massa Ducate, e segue: - «Monti sig. Raffaelli Vescovo di Reggio fu costretto da persecuzioni di ogni genere a lasciare la sua sede Vescovile; Monsig. Rota Vescovo di Guastalla col suo Vicario Generale dovettero lasciare la diocesi per isfuggire dal furore de: persecutori.» Fu cacciato dal suo convento il superiore del Benedettini; trattati indegnamente molti Sacerdoti rispettabili per morale e dottrina, fra cui D. Cavedoni Curalo del Forte di Modena, a cui fu intimato lasciare in un'ora la città; il parroco di Montela e il suo vicario furono entrambi cacciati in prigione, poiché i contadini di quella parrocchia, prestando fede alle voci sparse d'una vittoria riportata dalle armi del Duca, avean dimostrata immensa esultanza. In una parola, benché nulla fossevi stabilito di legale, il Farini con la prepotenza e con la forza che gli davano i settari, arbitrariamente calpestava ogni diritto ed ogni legge, manomettendo non solo l'opinione, ma la libertà del cittadini.

268 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

Negli Stati Pontificii poi sovra d'ogni altro la persecuzione si fece più violenta. Una deputazione dell'Assemblea delle Romagne presieduta da Giuseppe Scarabelli presentossi a Re Vittorio Emanuele nel 25 selt. con un indirizzo, in cui a nome di quei popoli dichiaravasi essersi per voto unanime dell'Assemblea espressa l'annessione di quelle province al Regno di Sardegna, aggiungendo essere questo voto prodotto non da semplice entusiasmo, ma anche da calcolo di matura ragione. Il Re mostrandosi grato a questi voli. rispose -: «Principe cattolico, serberò in ogni evento profonda ed inalterabile riverenza verso il supremo Gerarca della Chiesa. Principe Italiano, debbo ricordare, che l'Europa riconoscendo e proclamando che le condizioni ii del vostro paese ricercavano pronti ed efficaci provvedimenti, ho contralto con esso formati obbligazioni...» Dal che si deduce, che accettava moralmente l'offerta, lasciando alla responsabilità del Governo provvisorio tutto quanto sarebbe stato per avvenire.

Il Papa da sua parte, benché dovea mostrare di prestare tutta la massima fede alle sperticale assicurazioni del Gabinetto Francese, sulla integrità del territorio della S. Sede; pure contentissimo della pace conchiusa a Villafranca. non poté celare l'interno convincimento che quelle assicurazioni non eran che la solita scorza da Napoleone usala per nascondere i suoi veri fini politici: per cui, mentre scriveva ai Cardinale Patrizi Vicario di Roma, che si ringraziasse il Signore per la cessazione delle ostilità fra le due potenze belligeranti; aggiungeva esser necessario «non tralasciarsi la preghiera, anzi essere essa un vero bisogno, giacchè varie province dello stato della Chiesa sono ancora i in preda ai sovvertitori dell'ordine stabilito. Ed è in queste province stesse, ove in questi giorni da una usurpatrice straniera potestà, si annunzia che Dio fece l'uomo libero delle proprie opinioni, siano politiche, siano religiose; dimenticando così le autorità da Dio stabilite sulla terra, cui si deve obbedienza e rispetto...»

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E mal non s'apponeva il S. Padre; i suoi timori si confermarono, allorchè gli pervenne la notizia della offerta fatta delle Romagne

La rivoluzione niun carico si diede delle proteste e delle censure del Pontefice: non delle prime, perché contrariavano i loro disegni; non delle seconde, perché già ateizzati nell'anima aveano perduta ogni fede. Potevano, essi i Farini, i Cipriani, ed i Popoli con la loro schiera rinunziare ai posti opulenti, che si avean preparalo con le loro mani?

Leonello Cipriani comandava in Bologna. Quale fosse stato il suo liberalismo, rileviamo dal giornale l'Unione (2). «Il sig. Cipriani, dice quel giornale, che ci cadde qui dalle nuvole, e Dio perdoni a chi ce lo diede, appena ebbe confermali i suoi poteri dall'Assemblea, si raddoppiò di botto il mensile stipendio, per cui oggi ha Mille Scudi al mese di paga, e Settanta per la carrozza, e nel breve tempo che dimora qui, si è fatto pagare trenta Mila lire per spese segrete. Egli viene dalla California, ma si vede che crede aver portato con sé le miniere d'oro, e le coltiva in nome della patria e dell'Italia; e quel che è peggio, in nome di Vittorio Emanuele!

Il Pepoli (Giovacchino Napoleone) eletto a Ministro degli esteri, creò ministero ed impiegali; decretò assegni, soldi mensili e gratificazioni, come se le Romagne fossero uno stato simile alla Francia e all'Inghilterra.

(1) Allocuzione. Maxima animi nostri 26 sett.

(2)

limone del 3 ottobre n. 269.

270 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

Senza entrare in ragguagli particolari, diciamo che i fautori della rivoluzione, che erano «gioventù desiderosa di operare, non ancora svegliata da troppo sapere, solo da poco tempo adescata dalle speranze d'impieghi (1)» si misero in possesso di cariche o preesistenti, o improvvisate: ed il gabinetto di Torino consigliava i capi di lasciar fare, essendo la burocrazia e gli assoldati più potenti sostegni del potere. Ma di questo non era contenta la maggioranza della popolazione, che vedea rovescialo il governo e la fortuna pubblica diventata patrimonio di una casta, nella maggior parte avvocati, fin'allora rabulae del foro: e quindi cominciò a svilupparsi un malcontento, che minacciava di farsi serio. Allora i governanti col Cipriani, invece di usar quella moderazione necessaria ad affezionare il popolo al nuovo ordine di cose, si diedero pazzamente a perseguitare, facendosi forti delle leggi eccezionali del sospetto e del terrore! La polizia fu colta da una diffidenza quasi panica (2). Non bastava esser munito di carta di passaggio per entrare in Bologna; si dovea essere conosciuto almeno da due della setta: sortire dal paese era vietato senza avere un Visto del governo, pel quale era stata decretata una tassa di sei paoli.

S'inventarono congiure per aver pretesto a perseguitare Vescovi, frati e preti, che furono sempre il bersaglio, contro cui mirano i rivoltuosi; si disse essersi scoverta un trama di alcuni che aveano relazioni con Roma per muovere i popoli contro il pacifico governo provvisorio; si fecero arresti arbitrari, senza che mai si fosser dati a luce i vantati documenti, che si dissero requisiti. Quasi tutti i Curati, ed i più rispettabili sacerdoti furon gettati nelle prigioni, accusali come sediziosi; delle quali violenze non potendo dare giustificazione, si valsero della solita sfuggita di dover tutelare la pace, che da essi poteva esser turbala. Il Curato di Fossalta fra gli altri, che per ingegno e vigoria di mente parlò forte contro gli abusi.

(1) W. Rostow. La Guerra. d'Italia. 6. 1. pag. 12.

(2) Unione loc. cit.

(1859) LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 271

che ledono la libertà individuale, fu chiuso nel manicomio di Ferrara, e là ritenuto come pazzo (1). È troppo dolorosa questa storia ma sventuratamente è storia!!

Commissario pel Governo Piemontese a Ferrara era un Giovanni Antonio Migliorali, uno di quelli che posson dirsi le anomalie che sbucciano rapidamente dagli sconvolgimenti politici. Costui fu applicato alla Legazione Sarda in Roma, di dove fu richiamalo per esser stato scoperto manutengolo degli intriganti, che lavoravano, a minare il Pontificalo. Dopo la pace di Villafranca, il Migliorati, che flià trovavasi Commissario a Ferrara, non più governando a nome del Piemonte, vi rimase confermato dalla volontà del comitato. Quale inqualificabile condotta tirannica costui tenesse, noi non diremo, sembrandoci infastidir troppo il lettore con narrazioni di fatti che offendono ogni diritto. A documento del vantato patriollismo di questo liberale, cenniamo qualcuno del suoi Decreti principali, sembrandoci cader troppo basso annoverando quelli emanali sulle carie da giuoco, sulla proibizione del zolfanelli fosforici, ed altri simiglianti.

Nel suo proclama scriveva-: «Vengo fra voi a rispettare lo opinioni di tutti i cittadini; ma combatterò inesorabilmente e senza distinzione alcuna di ceto i delitti di leso patriottismo,...» Con tale esordio ben rilevavasi quanto rispettasse le opinioni; e ne diede la prova nel 26 Agosto con un altro proclama contro il clero, chiamando i preli nemici dell'ordine, della libertà, dell'incivilimento del popoli; che spargono ree ed insane calunnie; che tentano le coscienze con sedurte, e le ingannano sotto mentiti pretesti; ipocriti, perturbatori, che calpestano la retta ragion di Stato (sic) ed il principio cristiano: infine clie impongono agli uomini pesi intollerabili, e li spingono a spezzare ogni freno, e gettarsi fra le braccia della rivoluzione (sic). Così dichiara vasi che la rivoluzione fosse legale, il legittimo governo un reazionario; la rivoluzione un diritto,

(1)

L'enumerazione di tutti questi Sacerdoti fece il giornale l'Armonia del 27 nov. 1859.

272 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

ed il diritto un nemico della legalità. Questa è la libertà di opinione, che la setta sin dal principio dava alle popolazioni. Le conseguenze le abbiamo vedute per esperienza con le leggi eccezionali degli anni posteriori!

Né a questo limitavasi il Migliorati: davagli fastidio e timor di reazione anche il grido, che si emetteva dai liberali contro la mala amministrazione della cosa pubblica, contro il favoritismo burocratico, e contro l'arbitrio con che a nome della libertà procedevasi dai consortieri del Governo provvisorio. Con altro decreto imbavagliò la libertà di stampa, ponendola sotto la più severa censura. l suoi considerandi, e le illazioni che ne ritrae, sono di un grande interesse per testimoniare, come da costoro la libertà s'intendesse.

«... Considerando (son le parole del decreto) che la libera stampa non può concedersi senza la guarentigia di altre istituzioni. che ne reprimano la licenza, e che finora per l'eccezionalità del tempi non poterono stabilirsi in queste province:

«Che in tale condizione il governo dev'essere più che mai severo in prevenire le manifestazioni del pensiero; che destando incautamente o malignamente le passioni, turbano quella dignitosa concordia, da cui solo può essere assicurato il nostro avvenire. - decreta.

- È proibito pubblicare diffondere affiggere scritti, stampe, litografie (?) incisioni (??) senza una preventiva autorizzazione della direzione di pubblica sicurezza e di uno dei membri della Commissione di revisione..........

2° - I tipografi, librai, e chiunque altro si rendesse contravventore a questa disposizione, sarà punito col sequestro del libri! stampe ed altro con una multa da 10 a 50 scudi, ed anche con l'arresto a norma delle circostanze.»

Da qual principio partivano queste disposizioni? Non era più libero il manifestare il proprio pensiero, sotto pena di multa pecuniaria e di prigionia; e la dignitosa concordia significò il piegar le spalle

(1859) LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 273

Il patriottismo si manifestò, qual era. Col bavaglio posto alle opinioni ed alla libertà del pensiero non dovea trascurarsi l'interesse finanziario, che diventò libertà di smungere le borse del rigenerali! - ed ecco un Proclama al popolo della provincia di Ferrara, col quale il Migliorati facendo un appello al patriottismo di quei cittadini imponeva un prestito Volontario. La qualifica di volontario a ciò che s'imponea con la forza, è uno del rari pregi di quella scritta; né men rara e pregiata n'è la conclusione «- La spontaneità NEL DARE il vostro concorso al Governo sarà il supremo dei voti di vostra indipendenza, che l'Europa dovrà rispettare e sanzionare.... D Di modo che. chi non avesse voluto dare, sarebbe stato dichiarato reazionario!

Il programma era evidente: due erano i grandi fini di quel governo provvisorio per esser certo del futuro (ed aggiungiamo, personale); smugnere i popoli, e col terrore prevenire le manifestazioni del pensiero! - Questa la libertà; questi i liberali!













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