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Tommaso Cava prima servì onoratamente l'Esercito del Regno Due Sicilie difendendo strenuamente la Piazza di Capua, poi si distinse per la correttezza con cui servì il neonato Esercito Italiano.

Ad un certo punto però disse basta e si ritirò.

Per il nuovo regime era divenuto – come egli stesso si definisce, probabilmente parafrasando un romanzo di Paul de Kock del 1821 – un mauvais sujet. Non riusciva a sopportare oltre ciò che stava accadendo nelle Provincie Napolitane e nemmeno la spocchia delle alte gerarchie sabaude nei confronti dei napolitani.

Abbiamo trovato uno suoi veementi opuscoli antisabaudi (ne scrisse anche uno dedicato al brigantaggio politico che pubblicheremo prima possibile) casualmente, dentro il libro scritto da Ritucci come autodifesa della propria condotta nella campagna militare del 1860 contro gli invasori. 

“DIFESA NAZIONALE NAPOLETANA” è uno dei migliori testi che ci sia capitato fra le mani. E' l'opera di un uomo coraggioso e fiero di essere napoletano, che non intende scendere a compromessi – e mettere la propria dignità sotto i piedi – in cambio del quieto vivere e di una carriera sicura.

Una lettura che raccomandiamo ai meridionali più giovani. Nelle pagine del capitano Tommaso Cava essi troveranno senz'altro un motivo per ritrovare un orgoglio che abbiamo perduto 150 anni fa e non abbiamo mai più riacquistato.

A proposito di senso della dignità, leggendo Cava ci è venuto in mente di discorso tenuto da Nicola Zitara a Messina. Potete trovarlo su youtube:


Zenone di Elea – Settembre 2011

DIFESA

NAZIONALE NAPOLETANA


DI
TOMMASO CAVA
CAPITANO DELLO STATO MAGGIORE
DELL'ESERCITO DELLE DUE SICILIE
CAPO DELLO STATO MAGGIORE DELLA PIAZZA DI CAPUA
Durante l’Assedio del 1860
NAPOLI
1863

PROTESTA

Nam quod est jusstissimum, nemo sanae mentis existimabit eum in culpa esse, si quae infeliciter aut stulte gesta sunt, narrabit: siquidem talium non est auctor, sed nunciator (a).

Luciano § 41 N. 39.

Cotesto mio lavoro che racchiude la sposizione storico politica dei folti che si sono infra lo giro di più che tre anni succeduti, sempre con crescente rigore e detrimento a danno del mio paese, vogliono esser considerati dal cortese leggitore con animo sicuro e con altrettanta buona fede, con quanta calma e purità di coscienza sono stati da me scritti e ponderati.

Fui è vero, in distinto uffizio di alto militare nel disciolto Esercito delle due Sicilie; ma anche nell’attuale Esercito d'Italia, sono stato dapprima trattato con ogni riguardo, e preposto al disimpegno di svariati incarichi della massima importanza e fiducia. Epperò quale che sia l'incidente succedutomi dappresso, esso non può scolpire nota di collera, di uggia, o di altra vile passione al mio lavoro.

(a) Un ¡storico fedele, non dev'essere né incolpato, né reputato molesto, se racconterà quelle cose che infelicemente o stoltamente sono siate operate; poiché egli non è l'autore dei fatti altrui, ma un semplice narratore.

IV

Io deploro i mali del mio paese, e scrivo la nobile pugna sostenuta dal prode Esercito Napoletano, la infelice sua fortuna, l'onore salvato al suo leggittimo Re, a conforto del decoro della Nazione cui mi pregio di essere appartenuto.

Basato adunque il principio che non per un volgare dispetto, ma sol per difendere il vilipeso onor nazionale napoletano mi decido a riprendere la penna, e dovendo fare un paragone fra gli uomini dipinti con neri colori e quelli che si ànno arrogato il diritto di così dipingerli, mi occorre svolgere per poco la storia di questi ultimi, e dopo che avrò rivelate le ulteriori violenze usatemisi a seguito di quelle già da me pubblicate con un precedente mio opuscolo intitolato appello al tribunale della pubblica opinione,ricorderò talune storiche reminiscenze, le quali nel loro confronto complessivo serviranno a far distinguere con precisione gli accusatori e gli accusati.

Ed a raggiungere lo scopo mi sarà di mezzo la storia di Angelo Brofferio, la quale è stata scritta da un Piemontese fervido idolatra del suo Paese, e patriotta municipalista a tutta pruova. Egli imputa dei carichi ai suoi concittadini, ma non certamente per odio, avvegnacché fu sempre loro così attaccato, da non cerare il martirio politico per patrocinare la causa della loro emancipazione, fino ad essere contro le sue più esplicite opinioni, membro di una Camera che si fa chiamare unitaria, sol perché, la strombazzata unità d'Italia, è il mezzo per sollevare ed arricchire il suo paese, fratricida delle altre sette sorelle, da lui commendate a pagina 94,4.° libro della sua storia del Piemonte dal 1814 al 1851.

V

Che se la penna sarà dura nel notare alcune spiacevoli memorie le quali si vorrebbero piuttosto far obliare, questa è necessità li critica e conseguenza di aperta provocazione.

In fatto di politica, bisogna che ognuno provveda ai fatti propri senza urtar di fronte la suscettibilità delle vittime che voglionsi sacrificare.

Quando non si à quest'astuzia si è idiota, ed ai camorristi politici idioti, spetta il disprezzo e '1 vituperio.

Non intendo certo così di confondere il tutto con la parte. Alla pagina 10 del summentovato mio opuscolo, si legge che tutti i paesi producono dei ladri, dei malversatori, dei vili, degl ignoranti. E qui sostituisco a quel concetto, l'altro più generico ancora, che in ogni paese vi sono dei buoni e dei cattivi, onde niun di coloro che non mi troverò ad indicare direttamente, sia al caso di offendersi.

Caldo difensore dell'onor mio nazionale, non saprei giammai discendere alla bassezza di screditare quello degli altri.

Costretto dalla tracotante jattanza di alcuni stranieri al mio paese natio a riversare l'insulto sopra coloro che ànno osato di gettarlo sopra i Napoletani in generale, e spezialmente sopra l'Esercito delle due Sicilie,debbo mio malgrado servirmi degli elementi più opportuni pel conseguimento di un tanto giusto e santo scopo.

Non posso far verbo della Nazionalità Italiana, senza umiliare coloro fra gl'Italiani, i quali provocando i Napoletani, ànno contro di costoro agito proditoriamente.

VI

Per altro, la imparzialità con cui tratterò i miei compatriotti che si àn meritata la nota di traditori del proprio paese, mi dà il diritto di poco o nulla curarmi di coloro che nacquero fuori la siculo — napoletana famiglia.

Nè potrò venir meno in patriottismo, se spesso mi fermerò a parlare della indegnità di alcuni miei concittadini, poiché son troppo note allo straniero le piaghe del mio paese. Eppoi, non è colpa del colono se giungono a nascere nel terreno che mena a coltura, talune piante esotiche e dannevoli. Sarebbe imperdonabile solamente se non le estirpasse.

Non è vergogna nazionale la fellonìa di una mano di tristi, è colpa però della Nazione e dello stato, se non son. solleciti a reprimerli dopo di averli discoperti (a).

(a) Fia pregio dell'opera notare, che non lotti gli Uffiziali che non si trovarono nel 1860 e 61 sui campi del Volturno e del Garigliano con l'Esercito delle due Sicilie, vogliono esser tenuti dì fellonia, imperocché pochi degli Uffiziali isolati che si trovavano in Napoli o altrove, ebbero l'ordine di raggiungere l'Esercito in Capoa.

Mi sì obbietterà che molti di essi però lo raggiunsero anche senza riceverne ordine formale; ma è d'uopo considerare che quel militare il quale ritenne di non dover lasciare senz'ordine il posto in cui era stato precedentemente destinato, può considerarsi tutt'al più poco capace di entusiastiche risoluzioni, ma giammai fellone Vi furono poi di coloro che espressamente erano stati fissali a Napoli e nelle Provincie con ispeciali incarichi, e costoro meritano tutto il riguardo dovuto ai militari d'onore.

E siccome per la mia eccezionale commissione dal Novembre 60 al Giugno 61, specificata a pagina 43, capitolo quinto dell'ansidetto mio precedente opuscolo, ebbi agio di guardare profonda mente il personale degli Uffiziali dell'Esercito Napoletano, cosi sento l'obbligo di pregare la pubblica opinione a non avventurare severi giudizi indistintamente contro tutti coloro i quali furono assentì dai campi di battaglia, ove all'epoca sudetta l'Esercito Napoletano difese la Nazionale indipendenza, ed i sacri diritti del Trono e del Paese, ed attenda di vederli man mano qualificare secondo che vuole giustizia.


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VII

PREFAZIONE

Honni soit qui mal y pense!.... (a)

Non in grazia di novità, e sol per ripetere i giusti lamenti degli oppressi e far trionfare a via di autentiche rivelazioni la verità sulla menzogna, io mi accingo a ritrarre il meglio che posso i mali che affliggono la patria mia.

Che se è debito indispensabile di buon cittadino servire al proprio paese con ogni mezzo giusto ed onesto di cui può disporre, io, che per difendere il mio paese dagli oltraggi gratuiti gli ò sacrificata la mia carriera militare, non sono indeciso a servirlo con la debole mia penna, ora spezialmente che sono stato dannato a deporre la mia spada dal nefando diritto della forza, sol perché la spada dell'uomo d'onore non ò tollerata da chi prediligge la turpitudine ed il dispotismo, In vece della giustizia e la gloria delle virtù.

E mio compito di cooperarmi coi miei scarsi messi ad abbattere la mole dei soprusi, disvelando i disleali i quali tradiscono oggi il proprio Re ed il popolo con un governo di inaudita violenza, per vender poi la dimane entrambi, se la fortuna ne darà loro il destro.

I fatti che accennerò saranno altrettanti argomenti che dimostreranno lo assunto.

E dapprima è debito di verità dire, che coloro i quali sono à capo dell'Esercito e del Governo italiano,

(a) Vituperato da chi mal pensa.

VIII

son quegli stessi che al 1849 tradirono il proprio Sovrano covrendolo di vergogna, dopo che precedentemente lo avevano tradito col renderlo discaro ai suoi popoli ed odioso al suo Esercito, a furia d'inganni (a).

Un Alessandro Nunziante, un Giuseppe Salvatore Pianelli ed... tradivano il loro Re e sacrificavano i loro concittadini con un mai veggio procedere sotto il governo del Regno delle due Sicilie; e quando fortuna volse le spalle al Sovrano legittimo, vendettero Re e popolo al primo arrivato.

Re Filippo il Macedone, a due traditori che reclamarono contro i loro accusatoci, rispose «non badate a questa plebaglia materiale che vuol chiamare sempre le cose col loro vero nome» e li cacciò via, comunque lo avessero col tradimento loro servito

Il Russo Generale Rostopehin, fu testimone della maledizione che un suo compatriotta scagliò sai proprio figlio traditore, invocandogli l'estremo supplizio al quale fu poscia dannato.

Gl'indegni Comandanti delle piazze forti di Magdeburgo e di Hamelen, allorché gli studenti ed i soldati si ammutinarono per punirli del loro tradimento, riscossero dispregio più che protezione dagli stessi Francesi ai quali nei 1806 vendettero quelle piazze forti.

Il Turco Dragut fece subito uccidere Ibrahim Brambarac, dopo che aveva tradita Meedìa sua patria per darla nelle mani di lui, dicendo, che esso doveva diffidare di un traditore, comunque il suo tradimento gli fosse stato giovevole.

Un Leoniero da Derlona, dopo dr avere egli medesimo trafitto il traditore Enzo suo figlio,consegnò il pugnale ad Arrigo suo genero ingiungendogli che lo avesse imitato, se alcuno dei figli suoi caduto fosse nel reato di fellonia.

Un rinnegatore della religione in cui fu allevato» dice Sir Walter Scott «rassomiglia a colui che diserta dallo stendardo della patria, e per quanto ricevuti ed impiegati siano i talenti sì dell'uno che dell'altro, rimangono essi pur sempre oggetto di disprezzo tanto per coloro che anno impreso a servire, come pel partito che ànno abbandonato».

(a) Si legga Angelo Brofferio.

IX

Lo storico italiano Botta, non cessa d'inveire contro del traditore dalla pagina 32 del suo primo libro della storia d'Italia.

In somma non v'è scrittore, non cronaca di fatti peculiari che non abbiano di proposito toccato l'articolo del tradimento, affin di dannare alla esecrazione pubblica il traditore, e per raffermare il principio che la fedeltà è il primo attributo del soldato, e che la slealtà Io rende oggetto dell'obbrobrio universale.

Ma gli attuali eroi da palcoscenico carezzano i traditori, perché sospinti dal pravo principio del Bendham di essere buono tutto quello che è utile. Con questo principio si viene a perpetrare la corruzione lino al segno di formare il popolo una massa di genie corrotta e corrompitrice, dannevole a sé medesima ed agli altri. All'ombratile rezzo del fatale principio falso si giacquero i traditori napoletani del 1860, e sospinti dallo stesso empio principio si riconoscono i traditori Piemontesi i quali immolarono Re Carlo Alberto sull'ara del disonore.

Cosi viene spiegalo il perché un Della Rovere siasi cotanto spinto a difendere un Planelli, un Nunziante (a) ed altri uffiziali

(a) Sarebbe una ingiustizia, se l'obbrobrio che spetta all’indegnissimo Duca di Mignano si facesse ricadere sa lo intero casato Nunziante, poiché se il succennato Duca a nome Alessandro ha declinato dall'esempio di lealtà che il fa Vito suo Genitore lasciò in retagio ai suoi discendenti,non cosi il fu Maresciallo di Campo a nome Ferdinando primogenito del Vito, poiché in morendo lasciò ai suoi figli, Vito. Luigi e Riccardo, intero lo esempio del Padre suo, esempio che questi ultimi ànno fedelmente seguito.

Se un Francesco Nunziante terzogenito del Vecchio Vito, con una incompatibile versipellerla e con una condotta che lo dichiara associato au dictionnaire des giroueties ha tradito il paterno mandato, unendo una schifosa cupidigia alla sua vigliacca defezione (a) vi è stato un altro fratello

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(a) Francesco Nunziante Colonnello del Reggimento Marina al 1860, sodisfece i suoi immensi debiti verso la dinastia dei Borboni, seguendo le orme di suo fratello Alessandro. Il suo Reggimento che si accorse della sua equivoca condotta si ammutinò contro di lui il mattino degli 8 Settembre 1860, mentre Garibaldi già era in Napoli.

Di animo meschino, andò a pitoccare protezione ed appoggio presso il Generale Bartolo Marra, il quale aveva preceduto lui nel comando di quel Reggimento e giustamente contata sul rispetto del suoi antichi dipendenti verso di lui.

X

a questi secondi, e cosi pure vedere perché un Fanti si diede ogni premura di menomare lo attuale Esercito d'Italia, di quegli Uffiziali Siciliani e Napoletani, i quali attestarono la loro severa

di questi a nome Antonino, Il quale à saputo raccogliere la eredità dell'onore di suo Padre pelquale il Colletta notò una Mia lode nell'ottavo libro della sua storia.

E poiché a causa della nequizie dei suoi fratelli Alessandro e Francesco, lo Antonino à subita nella pubblica opinione la stessa sorte dei figli di Adamo, io non mi esento dal dire in questa difesa nazionale, un breve riassunto della condotta di lui, nelle politiche vicende dei Regno delle due Sicilie del 1860, onde ogni uomo d'onore abbia in pregio di stringargli la mano e tributargli quella stima che gli è dovuta.

Non sarà superflua intanto la precedente manifestatone,, che donate la mia carriera militare nell'Esercito Napoletano, non ebbi mai occasione di avvicinare colai pel quale scrivo, e ciò per mostrare che non per sentimento di Mitica amicizia, ma sol per principio di giustizia e per amore alla verità io prendo a difenderlo.

In Agosto 1860, quando la rivoluzione aveva già messe profonde ridici io Napoli, un suo stretto parente lo esortare a desistere dal più servire nelle file in cui si trovava

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Questi gli propose di ripresentarlo a quei soldati onde riabilitarlo; ma combattuto il Nunziante dal timor panico che la sua nera coscienza gl'infòndeva, e dalle promesse date sopra la sua astensione al partito della rivolutone, non accettò l'offerta.

Il General Marra si recò solo nel Quartiere della Marina ed arringò a que'  soldati dai quali fu bene accolto e festeggiato. Immediatamente dopo di lui però, si spedi loro il ben noto Padre Gavazzi coll'incarico di sovvertirli a favore della rivoluzione, per lo che il Reggimento summentovato immediatamente si sbandò, non già per seguire le istigazioni di quel rinnegato, ma perché quella Ada soldatesca comprese che soltanto in quella guisa poteva allora svincolarsi dalle vessazioni di coloro che volevano disonorarla; e si sbandò per raggiungere il proprio Esercito sui campi del Volturno e del Garigliano. In fatti, pochi di essi non si recarono in  Gaeta, dove chiesero un nuovo fucile per gloriosamente combattere a favore del proprio Sovrano, e per salvare l'onor militare di quell'Esercito a coi appartenevano.

Liberato il Nunziante dalla presenza dei suoi dipendenti, domandò II dovuto compenso della sua fellonia, e gli fu dato il Comando del Reggimento Veterani, dove tuttavia si trova, ma da pertichino però, poiché  nel 1862 egli passò io secondo posto per cedere il comando al Generale de Benedictis il quale ha meritata la preferenza, dai servigi resi da lui più energici e molto più vantaggiosi di quelli del Nunziante.

XI

loro severa condotta il principio tutto civile, affatto contrario al loro,di dovere star fermi al loro giuro, e riconoscere una sola fede per mantenere onorata la loro divisa.

Ed anche ora la storia d'Italia registrerà l’apoteosi della ignominia, scriverà che il traditore è stato glorificato per affidarglisi i vitali interessi dello stato la  salvezza o la perdita, la gloria, o il disdoro della patria!   E quando avviene ciò?

Nel secolo decimonono, quando cioè si finge di costituire la grandezza, il prestigio e la unificazione d Italia per elevarla a grande nazione.

Promesse di grandi vantaggi, pensieri sulla sua diletta sposa e sol suo caro figlio che andava ad abbandonare per una disgraziata guerra, considerazioni di relazione con suo fratello Alessandro che si trovava io una via opposta a quella che egli voleva seguire, furon tutte cosa messe in pratica per rimuoverlo dal suo divisamento di seguire la propria bandiera. Ma egli determinatamente disse che l’onor suo era ligato al proprio dovere, e le brillanti fazioni di guerra del 19 Settembre a Triflisco, del 1 Ottobre a S. Angelo, del 26 Ottobre a Cascano, del 29 Ottobre al Garigliano, non che gli attacchi che si sostennero a Mola di Gaeta ed al piano di Montesecco, si addicono infra gli altri valorosi anche al giovane Tenente Colonnello Antonino Nunziante,che alla testa del suo 8 Battaglione Cacciatori, acquistò gloria da meritarsi la decorazione di Cavaliere di la Classe di Francesco 1° sul teatro della Guerra.

Mentre però godeva la soddisfazione dell'uomo d’onore, un suo collega che gli ai professava amico, gli spedi una lettera dal campo nemico, con la quale lo consigliava a seguire il suo esempio, traendo il proprio Battaglione a Cialdini. Era il Colonnello Errico Pianelli che gli scriveva.

Quella lettera fu sequestrata, ed il Nunziante fu sottoposto ad un Consiglio di Guerra, dal quale fu ampiamente assoluto e dichiarato ¡nuocente, imperocché la sola esortazione a disertare fatta da uno sciagurato disertore, non poteva certo costituire reità alcuna a di lui danno.

Allora per giustissima provvidenza, il Re dispose che gli si fosse fatto lasciare il teatro della guerra, in vista della fiducia dei suoi dipendenti scemata dal fatto occorso di essere stato il superiore giudicato con l'accasa di tradimento alla propria bandiera.

Quindi obbligatoriamente e non per propria richiesta lasciò l’assedio di Gaeta e si recò in Terracina, donde si trasferì in Napoli sua patria per vivere vita privata, conseguente sempre ai suoi inconcussi ed onorati principi!

XII

Orrore! che ci costringe a ripetere col gran poeta. «E se non piangi, di che pianger suoli?...»

Sol proposito Cicerone disse, che l'uomo à due patrie, la prima di natura, l'altra di diritto. É della prima che io recisamente m'interesserò, poiché dell'altra che può chiamarsi affatto politica, potrei interessarmene sol quando non patirei il duolo di veder messo a saccomanno il paese mio da Italiani non Napoletani segnati con la nota del tradimento, e quando finirei di vedere che una mano di spudorati speculatori politici fanno campeggiar la seducente idea dell'unità d'Italia, sol per affascinare i popoli che vogliono fendere strumento delle loro nequizie, e quindi dannarli è piangere di amarezza sopra i propri errori.

Il pensiero dell’unità d'Italia è antico, ognuno lo sa; lo si trova parafrasato da Dante, accennato da Machiavelli, messo in discussione dal Balbo; ma non à potuto essere effettuato giammai, per molte ragioni di cui a lungo ànno parlato fin anco i sedicenti attuali unitarii Farini e Brofferio: e la principale opposizione a veder nostro consiste, nelle viziosità e dei labili costumi degl'Italiani medesimi, i quali col loro egoismo, vera e principale sorgente del loro serraggio, sono stati  più crudi carnefici del pensiere dell'unità.

Abnegazione e somme virtù, elementi troppo scarsi nella nostra particolare società, possono col concorso di altre circostanze elevare i destini di un popolo.

La Grecia antica non sarebbe stata l'emporio delle arti e delle scienze, la nazione temuta ed onorata dei suoi tempi, se lungi di aver dato vita ad un Licurgo, ad un Epaminonda, ad un Temistocle, ad un Aristide, ad un Socrate, ad un Leonida, avesse invece prodotto un Cavour, un Ricasoli, un Farini, un Rattazzi, dei quali l'uno donava alla Francia Nizza e Savoja nello stesso tempo in che diceva di fare l'Italia una; l'altro che fra le sue gloriose gesta, le più commendevoli sono state l'insulto gratuito

XIII

che fece a 10 milioni di italiani con la sua nota diplomatica del 24 agosto 1861 (a) e lo sfacciato acquisto di una feudale tenuta nella Svizzera; il terzo che descrisse la impossibilità dell'unità d'Italia, e quindi come un rinnegato di se medesimo, divenne unitario, per regalare all'Italia, a via di dissennatezza, non il patrocinio, ma il patronato dei Palmerston dei Russell e consorti oligarchi Inglesi; il quarto che in pubblico parlamento rivela le proprie vergogne per notificare quelle dei suoi colleghi: e qui mi fermo perché la sola penna dello storico varrebbe a scolpire una lunga serie di fatti di per loro stessi ignominiosi.

Io non sono uno storico, ma un semplice espositore di avvenimenti, che servono a far rilevare l'infelice condizione in che trovasi la patria mia per un'orda di empi mascherati da liberali unitarii, sol per interesse proprio, poco curandosi di consumare assassinii politici a danno dell'universale.

Avrei bramato che gli uomini di buona fede, i quali ànoo prestata l'opera loro per far succedere l'avvenuto cataclisma nei varii Stati d'Italia, avessero ben riflettuto a ciò che sta registrato schivo di contradizione rispetto all'unità d'Italia, nella storia che è la vera maestra dell’umanità, e non si fossero lanciati ad occhi chiusi nel campo delle astrazioni, per riaprirli quando avrebbero dovuto guardare nella orribile realtà dell'oggi, costretti a dover ripetere il dolorosissimo MEA CULPA di chi facilmente oblia il gran proverbio «rifletter pria per non pentirsi poi».

In quanto a me non sento cotesto rimorso, perché non mi son mai lasciato illudere; e sotto il presidio dell'esperienza mi rivolgo agli uomini politici di buona fede per rammentar loro, che un primo errore politico commesso con precipitata inavvedutezza sarebbe forse perdonabile, ma la ripetizione del medesimo fallo non può ammettere transafeàooe di sorta.

(1) Con la detta noia circolare disse, che l'Esercito Napoletano fu disciolto perché composto di codardi.

XIV

Non mi si feccia ti broncio per questo franco dire, perocché infra lo giro di tre anni sotto questo regime, abbiam veduto uomini tristi succedersi senza interruzione al potere, chi per comprarsi ville, chi maestose magioni, chi rendite vistose e chi altro, a danno dei popoli smunti dalle tasse e dai balzelli, buona parte dei quali dichiarati di una immoralità propria del feudalismo del medio evo.

Come potranno i novatori di buona fede giustificare la guerra civile qui ebollente con una ostinazione eguale a quella di Tiberio, in cambio della civiltà strombazzata dagli stessi promotori?

Come potrassi coonestare il bombardamento delle città con abitatori innocenti nella lotta fra due armate?

Chi potrebbe salvare dalla maledizione pubblica un Fumel un Pinelli, un Galateri, un Fantoni, un Della Chiesa, un Negri e tanti altri, sostenuti ed autorizzati da un Cialdini da un Della Rocca, da un Durando, da un Farini, da un Ponza di S. Martino, da un Nigra, da un La Marmora, i quali àn fatto divorar dalle fiamme paesi interi a diecine, fucilare innocenti a migliaia, ed a diecine di migliaia poi coloro creduti colpevoli del fatto di essersi sospinti nelle campagne, sol per forza del mal governo dei malvagi, soci a colui il quale inaugurava la sua entrata nel Napoletano, col proclamare la pena di morte colla fucilazione contro quei napoletani che avrebbero ardito di prenderete armi a difesa del loro legittimo sovrano, della indipendenza del loro paese, dei loro beni, delle loro donne, dei loro costumi, della loro religione, del loro onore? (a).

(a) Quando Cialdini si accorse dello immenso numero di borghesi di ogni ceto e condizione, che prendevano volontariamente le armi per combattere la sua invasione, ricorse ad un cosiffatto spietato espediente, che egli certamente apprese dalla storia di un Abderamo per servirsene nel secolo decimonono.

XV

Chi potrà giustificare il brutale eccidio che cònsumossi contro gli operai di Pietrosa? (a)

Si legga pei documenti officiali di Gaeta, a pagina 59.

(a) Molti clamori destò quel massacro contro operai inermi e pacifici dannati ad essere passati per le armi della soldatesca, perché ardirono di manifestar l'intenzione di procurarsi altrove un pane meno duro di quello che loro si voleva dare in quello stabilimento.

Tutta Europa ne conosce i dettagli, e sa che fin anco un ragazzo di 12 anni fu spietatamente ucciso dalla barbarie di chi nelle provincie meridionali d'Italia, inverte a strumento di atroce barbarie le armi dell'Esercito destinate al nobile mandato di difendere la patrie contro lo straniero.

Quindi sarebbe superfluo il descrivere per intero quel luttuoso avvenimento, che mette raccapriccio ogni qual volta vi si ritorna col pensiero; ma lo abbiamo accennato per domandare che si svolga la storia di 126 anni di tanto strombazzato tirannica governo Borbonico nel Regno delle due Sicilie, e se ci si troverà l'equivalente di queste nequizie, perpetrate in soli tre anni dagli attuali governanti, noi converremo che è ingiusto il fremito che ci agita il sangue nelle vene, scrivendo queste dolorose memorie; ma se non ci si può dar l'equivalente richiesto, si bassi la fronte umiliata da chi à avuta la principale colpa a cotanta sciagura per questi sventurati perché troppo creduli popoli!

E per riconvenirci, non si venga fuori con l'avvenimento del 16 luglio 1860 nella città di Napoli, quando un numero di soldati armati di sciabola, diedero proditoriamente addosso agl'inermi cittadini, poiché quella infamia pesa tutta sulla coscienza dei settarii, che coadiuvati dal Pianelli già Ministro di Guerra, dal Nunziante, e da parecchi uffiziali venduti come questi alla rivoluzione ordirono quella scelleratezza per fare che il popolo napoletano si fosse aizzato contro il Re, ed i Principi Reali, i quali dalla stessa setta ne furono denunziati autori, onde raggiungere lo scopo che il popolo fosse stato indifferente alla caduta della dinastia. E pruova ne sia, lo che nessuno dei facienti parte della setta fu colpito da quell'aggressione. 2° che dessa fu subito frenata e soppressa da tutti gli uffiziali che trovaronsi a caso nelle strade dove quel guazzabuglio avveniva; ed io che scrivo, ò la soddisfazione di rammentare che al fianco del Generale Michelangelo Viglia Mori comandante la Piazza di Napoli, elettrizzato dal suo esempio, resi tali servigi ai miei concittadini, che la sera medesima passando per innanzi al caffè di Europa, fui fermato abbracciato e ringraziato da vari signori a me ignoti, per la mia condotta del giorno: ringraziamenti ed attestati di riconoscenza, che m'incaricarono di manifestare per parte loro anche al prefato Generale Viglia il quale,

XVI

Chi potrà riscontrare nella storia del passato governo contro del quale si è tanto gridato, delle atrocità che equivalgano all'iniquo incendio di Pietralia, alle sevizie usatesi al sordomuto di Palermo, e?.. Ma basta! basta qui! perché il cuore vien meno alla contemplazione di tante e cosiffatte empietà! !......  (a)

privo dell'uso della mano a del braccio destro per accidentale ferita di arme da fuoco anteriormente sofferta sul campo di manovra, fece prodigi per richiamare all'ordine ed alla disciplina quella soldatesca, dalle trame della setta in quella nefanda guisa sbrigliata. 3° L'amarezza del Sovrano per quell'avvenimento, e la sua risoluzione puoi«energicamente quei corpi che avevano consumato quel proditorio: e se energici provvedimenti non si esperimentarono, ne fu cagione la nequizie del Pianelli il quale distolse la giovine mente del Sovrano dagli esempi di di rigore, onde poter far dalla setta documentare la connivenza reale quegli eccessi con la pubblicata tolleranza del Re, al quale l'iniquo Pianelli suggeriva che sarebbe stato impolitico in quei momenti il disgustare la truppa che doveva difenderlo, e cosi trionfava col fellone Nunziante Alessandro che lo appoggiava, della inesperienza e della fiducia del giovane sovrano, che avevano giurato di assassinare per conto della setta capitanata dall'ILLUSTRE CONTE CAVOUR.

Sempre negativo a vivere come un bastone ambulante, aveva le mie relazioni a seconda i tempi, e fui subito informato che il Pianelli e 'l Nunziante erano implicati in quella trama. Allora io faceva parte dello Stato Maggiore del Pianelli al Ministero, e per scandagliarlo, finsi sdegno contro la maldicenza del paese, che addebitava a lui quel deplorabile avvenimento; mi avesse quindi autorizzalo a smentire quella credenza con apposito articolo nel giornale officiale, col quale avrei promessa la sua energia per punire severamente i colpevoli.

Ma non potendo egli autorizzarmi quello che gli chiedeva, perché in opposizione di ciò che pretendea la setta; impacciato e confuso mi lasciò per ordinare il mio ritorno al Comando Generale, poiché la mia presenza presso di lui, principiava a molestarlo seriamente.

Rimasto solo esclamai, povero paese! povero Re! povero esercito! e mi posi a meditare sulle sciagure, che ora sto deplorando insieme ai miei concittadini!!...

(a) Nel comune di Pietralia soprana nel Siciliado, la truppa bruciò la casa di un proprietario e massacrò la sua famiglia, perché voleva io essa casa rifugiato un renitente di leva.

In Palermo poi, si torturò un povero sordomuto escito in leva, facendo

XVII

Chi oserà paragonare il passato dispotismo, col presente che ci vien regalato a riparazione di quello che fu?

Chi potrà più menzionare il furto ed il monopolio che si esercitava sotto il passato regime, or che l'attuale lo sopravvanza smisuratamente?...

É ormai noto all'universale che nel lungo giro di 12 anni, una cospirazione sempre crescente ed attiva è divampata nel Regno delle due Sicilie, tanto che si è dovuto contare pure un mancato regicidio: nondimeno non si son visti sotto il governo della passata Signoria stivati 22mila detenuti e trattati con efferata crudeltà, come è uso degli attuali governanti, che sol per malvezzo e per seduzione muovono voci di civiltà e progresso, mentre che sentono in core atroce dispotismo.

Ognuno à visto come alla espiazione della pena fattasi patire con dolcezza e commiserazione dal Poerio e soci nel carcere di Montesarchio, ove niun conforto o desiderio veniva loro niegato, è succeduto un disordine ed un orrore nel sistema carcerario attuale, che disdegna ed atterrisce, (a)

già offrire 154 impressioni col ferro rovente, per assicurarsi che quello sventurato non affettava i difetti a cui la natura lo dannò.

Oh! progresso di civiltà, degna solo di un Attila, e dell'attuale governo d'Italia!...

(a) Nella mia residenza in Salerno nell'anno 1862 visitai varie volta quelle prigioni, e con raccapriccio vidi fino a 1370 prigionieri serrati in quel locale medesimo che dal governo passato fu costruito per soli 600 detenuti. Si può facilmente desumere la misera condizione di quegli sventurati, spezialmente nella stagione estiva.

Osservai le durezze che s'infliggevano a quegl'infelici, e fui spettatore di due atrocità che si son ripetute anche nelle prigioni della Vicaria in Napoli. Il grazioso generale Avenati (*) prescrisse, che quelle infelici vittime della sventura non avessero avuto alcun consorzio, neppure coi rispettivi parenti che loro portavano qualche cibo più nutritivo, qualche biancheria netta,

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(*) Cognome esecrato nella storia del Piemonte a pagina 84 del 3 libro.

XVIII

Ed a soprappiù, vedi leggi gotiche, vandaliche, neronine, triumvirati, che guastano la ragion pubblica, i costumi, gli

o altra cosa di prima necessità. Ordinò perfino, che neppure una parola si doveva scambiare fra quei miseri ad i loro attinenti (1)

Gli si fece notare però, che all'impedimento di entrare nell'atrio del Io» cale, avrebbero i visitatori dei detenuti supplito col parlar loro dalla strada esterna su cui davano varie finestre delle prigioni, ed il Generale dell'epoca del progresso civile, freddamente ordinò che si fossero autorizzate le sentinelle esterne di far fuoco so quei detenuti che si sarebbero avvicinati ai cancelli per parlare coi parenti. Io effetti, nello Agosto e Settembre 1862, si verificò due volte la esecuzione di un tale ordine in persona di due Infelici, uno dei quali mori sul colpo che ferì altre due persone che si trovarono a caso a lui vicino.

Ma come devesi appellare questa ferina spietatezza, che ordina la morte di un uomo sol perché costui, vedendo la Madre, il Padre, il Fratello, il congiunto, o l'amico, gli chiede contezza dei suoi cari dai quali diviso, o gli domanda notizie del punto in cui si trova il suo processo, se non ferocia inaudita, ignota perfino ai tempi di un Odoacre?

Nè questa è ferocia parziale di pochi dei nuovi civilizzatori, imperocchè come abbiamo detto, anche in Napoli si son verificati i medesimi orrori, e chi sa dove altro ancora; quindi è ferocia generale, è ferocia sistematica, è ferocia premeditata, è ferocia stabilita come dogma governativo nelle Provincie meridionali d'Italia, dove almeno per gratitudine dorrebbero gl'invasori essere generosi, indulgenti ed umani, poiché ivi essi àn ritrovato tutto quello che era loro ignoto, principiando dal senno e terminando all'oro,

Ed intanto questa ferocia sfrontatamente ed impunemente si esercita,

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(*) Onde prevenire le cavillosità degli scettici per partigianismo, lo rimarcare che quando io visitai le prigioni di Salerno, correva il mese di Aprile 1862, ed allora non ancora si era emanato il barbaro ordine dal Generale Avenati.

D'altronde allora, io era ancora un Capitano dello Stato Maggiore della Divisione Militare di Salerno, per effetto della quale prerogativa mi era facile di penetrare in quel recinto, dove ad altri che ne avrebbero avuto più diritto di me, era già difficile.

E non tralascio di soggiungere che quelle mie visite mi furono imputate a delltto di cui ne pagai lo scotto, per come si legge alla pagina 30 ed altrove nel mio APPELLO ALLA PUBBLICA OPINIONE.

Resta cosi spiegata la contraddizione che si potrebbe voler trovare, nella proibizione emanata dal Generale Avenati, e le mie visite nelle prigioni.

XIX

gli usi, le consuetudini; che sgavazzano la ricchezza pubblica, che àn distrutte le nostre finanze, financo le risorse, sostituirsi ai Saggi politicidel nostro Mario Pagano, alla Scienza della legislazionedi un Gaetano Filangieri, che sono e saranno reputati modelli di sapienza civile anche presso popoli rozzi. Che se talvolta l'applicazione è tornata sgarbata e stravolta, ne devi tribuir la colpa a quei tristi magistrati che l'ànno amministrata, dei quali non ve n'è stata mai penuria, qui ed ovunque. Colpa però fu dell'artefice non dell’arte.

Dalla mal composta congerie di leggi cotanto svariate, strane e cozzanti, è stato facile passare dalla dovizia alla miseria, dalla economia alla dilapidazione, e poscia ancora alla malversazione, e quindi scomparse in brevissimo tempo centinaia di case commercianti, ingoiate dal monopolio dei protetti dagli attuali governanti, la cui voracità sarà proverbiale pei nostri posteri.

Vedesi giornalmente tentare la distruzione di tutte le secolari tradizioni della patria nostra, da una mano di spudorati tiranni che tolgono il primato ad un Dionisio di Siracusa, che insediati nel potere fanno pruove di vituperevole emulazione, per superare il dispotismo di pochi tirannuoli che sacrificarono per lo passato il Regno delle due Sicilie: quei tirannuoli però son diversi da quelli che furon

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dove vi è uno statuto, un articolo del quale annunzia all'Europa intera, che l'attuale Governo prescrive di non privarsi giammai il prigioniero del consorzio coi suoi parenti. Ben a ragione adunque, chi soltanto legge le prescrizioni dello Statuto, esclama Oh paternità ammirevole! e chi ne vede l'attuazione pratica , dice Oh infamia inaudita!!

Frattanto, mentre scrivo queste memorie (è l'Agosto del 1863) un soldato in sentinella alle prigioni della Vicaria in Napoli, à ucciso con una fucilata un detenuto che cantava vicino la cancellata della sua prigione. Interrogato il soldato, à risposto che lo è freddato perché cantava una canzone legittimista. Ma se ne possono dar di più?... Ora quest'eroe, sarà certamente decorato anch'esso !

XX

ritratti con false e calunniose dipinture dalla setta, che ebbe bisogno della calunnia per i suoi pravi fini.

Dall'incomposta massa delle nuove leggi, è spuntata e si è resa più gigante l'ignavia, l'ignoranza e l'insania, che spudoratamente occupano oggi quei medesimi seggi dove rifulse la sveltezza, l'ingegno, l'attitudine e la dottrina; ne è derivata la irreligione e l'ateismo; la garenzia alla depravazione fino a provocarsi dal Parlamento una cattedra per la prostituzione; la conculcazione della morale pubblica é dell'avita nostra religione cristiana, giungendosi a proporre. sfacciatamente al Parlamento medesimo una legge che avrebbe eradicata la fede Cristiana, (aj

Ne è derivata l'apologia al regicidio, alla presenza del Re regnante; la persecuzione ai patriotti che non ànno saputo dimenticare i loro sacri doveri verso il paese proprio; la conculcazione della giustizia, e l'esercizio di un aspro dispotismo all'ombra di uno statuto costituzionale; la repressione con aperte male arti e con mezzi inverecondi, di quella stampa che proclamasi libera con un articolo della costituzione; la dispensa della libertà in Italia e spezialmente nelle provincie meridionali, coi mezzi che adoperava quel

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(a) Machiavelli stesso, fa della religione una indispensabile necessità per l'umanità, ed il principale fondamento della politica;  preferendo a tutte l'altre, la religione Cristiana.

Difatti nel capitolo 12 del libro 1 dei suoi discorsi egli dice «Essa, rispettata e osservata, è il sostegno dei governi, e trascurata,  è il preludio sicuro di loro rovina» E nell'arte della guerra, sol fine del libro 2 dice «Alla religione Cristiana devesi l'aureo nuovo diritto delle genti, e la moderazione ed umanità con cui trattansi presso i  Cristiani, fino  i nemici». E nel proemio dell'arte della guerra, dice «Il timore di Dio deve essere il primo pregio del soldato, come colui, che ogni di sottomettendosi ad infiniti pericoli, à più bisogno degli aiuti suoi» intanto, gli attuali governanti in Italia, indifferentemente osservano le insidie che si tendono alla religione Cristiana, ad onta che essi governano questi popoli sotto l'egida di uno statuto che è per primo articolo l'osservanza della religione Cattolica Apostolica Romana, che deve essere la religione dominante nel Regno.

XXI

zelante il quale, con un pugnale alla mano pretendeva di far proseliti al suo partito.

Così sonosi costretti per un immaginario diritto di conquista, 10 milioni di persone nate sotto il tiepido clima mezzogiorno, attaccate alle proprie costumanze, protette da savie leggi, indipendenti e con un'autonomia particolare, a dover smetterete loro abitudini per seguir quelle di un pugno di gente nata sotto i geli del settentrione; a rinnegare la propria favella, per aver comunanza con coloro che parlano una bastarda lingua, chiamando cancello lo scrittoio, ed altroché fuorvia dal vocabolario italiano, (a)

E niuno dei sopramentovati disordini può dirsi una nostra spiritosa invenzione; uomini autorevoli, per attinenza nel governo e per incontestabile liberalismo, ànno con energici discorsi nel Parlamento e con robusti scritti, resa di pubblica ragione la innegabilità di queste, ed altre piaghe che si tralasciano di notare, (b) E son queste le dellzie che dovevano provvenire dal sacrificio di nostra perduta autonomia?

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(a) Machiavelli Del suo primo libro dei discorri dice «Chi vuol riformar uno stato antico in una città libera, ritenga almeno l’ombra dei modi antichi. Illogica tirannide, è il non seguir questo precetto»

Ciro, Alessandro, Annibale, Cesare, Costantino, Kosrou, Carlomagno, Guglielmo, Gengisckan, Tamerlano, Carlo duodecimo e Napoleone primo, feri conquistatori, non fecero ai popoli da essi conquistati, quello che i sedicenti politici Piemontesi o piemontizzati, àn fatto ai popoli meridionali d'Italia, che non governano mica per diritto di conquista.

Qual è il fruito che ne raccolgono?... odio, disgusto, sistematica opposizione, e discredito verso il loro governo!

(b) il Signor Liborio Romano, si compiaccia ora di riunire i documenti e gli atti, di vessazioni riluttanti, di angarie, di estorsioni, di nefande ingiustizie, di iniquità di ogni fatta, consumate in men di tre anni dai nuovi governanti nel Napoletano e Siciliano, e li passi alla stessa commissione da lui convocata nel 1861, per la pubblicità di quelli commessi dal passato governo borbonico in 61 anno di tempo da lui stesso determinato, e laddove i primi non superano questi, ad onta della enorme differenza circa a periodo di tempo, io gli impetrerò il perdono dei suoi, da lui assassinati concittadini.

XXII

Forse con l'aumento del più abietto servaggio, è stato a noi tolto il dominio straniero dagli uomini che da quattro anni ci stanno promettendo l'unita Italiana?

Noi abbiamo veduto il Re di Napoli, fréddamente e dignitosamente sfidare la ingiusta collera di due grandi Gabinetti di Europa, per non tollerare umiliazioni ed imperio, quando il Reame Napoletano fidava sulle proprie forze; non avrei mai immaginato che annesso poi a molti Stati, il prosciolto Reame avesse dovuto nella sua forza totale, il Colosso d'Italia, essere staffilato da questo, ballottato da quello, per la codardia dei depositarii dell'onor nazionale italiano. E a dir vero, non è certamente lusinghiero il tener forme atletiche per dover ricevere torti e contumelie, pari a quelle che soffrono gl'imberbi dai gradassoni.

Ciò mostra ad evidenza, che non è il maggiore o minor numero della popolazione, la causa principale che fa esigere maggiori o minori riguardi; se così fosse, la repubblica di S. Marino non sarebbe esistita che per pochi giorni.

La saviezza, la virtù civile e cittadina, il buon volere, l'abnegazione, la dignità dei reggitori della cosa pubblica, che fanno onorare e dar lunga vita alle Nazioni.

Con lo sgovernamento si è codardo e pusillanime in faccia a chi si sente più forte, poiché si sa bene che i popoli sgovernati, non son mai con, o per chi li sgoverna, (a)

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(a) Il pubblico disordine che regna in queste Provincie meridionali, e che il Governo non à voluto e potuto eliminare in tre anni già trascorsi, è pruova evidente della malvagità e della imperizia dei governanti. Eppure è debito principale di un governo il rimettere prontamente, a costo di qualunque sacrifizio, l'ordine pubblico dopo una rivoluzione, senza di che non può acquistare fiducia verso i propri! popoli, e credito innanzi all'estero.

Rammentiamo tutti, che qualche mese appena, dopo che il Generale Filangieri nel 1849 riconquistò la Sicilia; l'ordine e la sicurezza pubblica ritornarono come per incanto in tutta l'isola, tuttocché essa aveva sofferto 16 mesi di anarchia. Oggi che la rivoluzione non à prodotto interruzione

XXIII

Da tutte le già dette cose, deriva per legittima illazione, il disdoro della Nazione, che per la nequizie dei proprii governanti soffre ogni sorta di aggravio, non solo presso i presenti, ma appo i futuri ancora, che è quello che più tor. menta, ed addolora.

. Se non che, in un governo che si annunzia libero per la forma della sua carta, è colpa cittadina se non si ripara ai 4aoni,

Al paese si sono imposti duri sacrifizi col patto reciso di: unificar l'intera Italia, onde liberarla dal servaggio antico, e non già per dargliene dei nuovi e peggiori. Ognuno à quindi il dovere di far rispettare questo patto, e ciascuno tiene il diritto di imporre agi'inetti ed immorali governanti che non sanno onon vogliono compierlo, di lasciare il posto ad altri che possono con buona volontà e miglior senno tentar di attuare il concetto.

In quanto a me non mi darò a ricercare gli uomini che valessero a salvare la patria, poiché per una fatale esperienza ò ragione di aver poca fiducia uel patriottismo dei miei connazionali, ma sarò sempre il primo a gridare contro i vampiri che trovansi al potere, perché cedessero il posto ad uomini stimabili e creduti capaci di ben governare il timone di questa sdrucita nave nel fortunoso mare in cui è costretta a navigare.

E se appresso a continue ricerche, non ci sarà dato trovarne un solo che sapesse e potesse condurla al porto, a causa della sua cattiva costruzione che le impedisce di resistere alle tante avarie cui va soggetta, ci sia lecito allora il donare un tributo di laude a coloro fra i cittadini e soldati napoletani che si maledissero perché pugnarono contro

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governativa alcuna, si geme ancora dopo tre anni sotto la pressione di un fatale disordine.

Ciò prova eziandio la differenza esistente fra i Maniscalco dannati all'ostracismo, come nemici dei popoli, ed i Spaventa applaudili, come martiri del loro patriottismo!

XXIV

gli avviziati egoisti, illusori e corrompitori di popoli, rigeneratori follaci, e filantropi senza morale.

Così facendosi, la giustizia avrà il vero trionfo, imperocché si è fino all’evidenza coi fatti posteriori provato, che chi à fatto mal viso alle spavalderie d'indipendenza, di libertà, di unità, e via discorrendo, non à creduto di combattere l'attuazione di un gran pensiero nazionale, ma edotto, dalla storia e dagli antecedenti troppo sconfortanti di coloro che ci offrivano le dolcezze dell'Eliso, per trascinarci a via d'inganni nel baratro attuale, à cercato fin col sacrificio della propria vita di liberare il Paese dalle preconcette sventure, che oggi irremisibilmente si deplorano. Cosi non fosse stato tradito l'esercito delle due Sicilie da una mano di felloni che lo trasse a rovina, che oggi non lo si rimproverebbe per non aver saputo combattere, da quelli stessi che tre anni dietro lo maledissero perché aveva troppo combattuto! Per l'amore che porto al mio paese, invito i miei concittadini, or che già una triste realtà à seguita una pazza illusione, ad inculcare ai figliuoli di non esser troppo solleciti a gridar l'anatema contro i propri fratelli, quando si è sotto l'incubo di una vertigine. Che pronunziino il loro giudizio quando essa è finita, se non vorranno sentire il rimorso di essere stati ingiusti per non aver voluto dar luogo al calcolo ed alla meditazione. (a)

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(a) Al Signor Pasquale Matarazzi, redattore nel 1861, degli avvenimenti politici e militari dal Settembre al Novembre 1860, spero che sia a preferenza di altri accetta questa mia preghiera, poiché sebbene le sue memorie fossero ammirevoli come lavoro scientifico letterario, meritano molte riconvenzioni in quanto a verità di fatti ed a giustizia di sentenze, appunto perché scritte durante la esaltazione prodotta dal trionfo dei suoi desiderii; quindi fu la penna del partigiano politico che scrisse quelle memorie, non già quella dell’imparziale cronista.

Son sicuro che se egli le scrivesse oggi quelle memorie, non pronuncerebbe un ingiusto aggravio contro quei suoi concittadini, i quali sono più di lui attaccati al proprio paese, perché cercarono con immensi sacrifizii personali, di evitargli quel male, che l'ubriachezza del partito facile e leggieri gli à procurato.

XXV

Non pertanto, cerchiamo, di attenuar le nostre sventure, avvalendoci del diritto che la 1883 ci accorda sui fedifraghi governanti.

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Oh! quanti garibaldini mi ànno stretta la mano, maledicendo l’opera loro Stessa, dopo che ànno veduto in quale precipizio àn trascinato il loro paese! Ed oh! quante volle lo stesso Garibaldi avrà maledette le sue vittorie, poiché se vero patriotta italiano, dovrà gemere osservando che un centuplicato aumento di catene, un triplicato servaggio, un dispotismo unico da che Italia esiste civilizzata, e la più tremenda guerra civile, sono stati i guadagni fatti dagl'Italiani dopo le sue vittorie che costano fiumi di sangue!..

Egli Piemontese però, non poteva e non doveva ignorare la storia del suo paese, e doveva riflettere che quei medesimi governanti, i quali lo condannarono ad ignominiosa morte pei suoi principii liberali; (*) i quali furono sempre tanto nemici della libertà dei proprii concittadini; quegli stessi capi dell'Esercito Piemontese che tanto iniquamente si condussero contro Torres nella campagna del 1848, (*) non potevano agir con buona fede verso i popoli delle due Sicilie, non potevano agire che egualmente con lui nella campagna del 1860. E se dei suoi martirii non gl'importava, doveva por mente al male che arrecava agli Stati da lui sollevati, per poscia regalarli a coloro, che per tutta gratitudine lo ànno trattato come un bandito!

Se il Signor Matarazzi, mentre scriveva, avesse riflettuto che l'onor nazionale risiede principalmente nell'onor militare, non avrebbe apologiato il soldato disertore a fronte del nemico, e maledetto quello che è stato fermo alla conservazione dell'onor nazionale. Se avesse considerato che non la caduta dei ministri non le rivoluzioni pure e semplici, non alcuna contrarietà; ma il solo dissolvimento dell'esercito produce la caduta dei Troni, e mette il paese alla discrezione del primo arrivato, non avrebbe benedetto quelli che ànno contribuito al dissolvimento dell'Esercito napoletano, e ci fanno oggi trovare a discrezione del Piemonte. Se avesse riflettuto a ciò che la storia à registrato circa la sorte che spetta a quei popoli che si affidano ad un governo straniero per raggiungere un intento, non sarebbe stato tanto sollecito a dichiarare il suo contento per l’intervento Piemontese nelle nostre faccende, poiché avrebbe riletto le fatali parole ?guai a quel popolo che si affida ad un altro governo pel trionfo dei suoi particolari divisamenti.

(*) Vedi Storia dei Piemonte, libro 3° pagine 53.

(*)  Idem Idem libro 3° capitolo 4°.

XXVI

E provvedendo a noi stessi, vediamo, cosa volle la Nazione italiana? L'unità d'Italia, o il padronato Piemontese?

Se si volle questo, lo abbiamo e ci è forza subirlo; ma se questo non si volle e non si vuole, abbiamo il coraggio di atterrarlo e distruggerlo!...

Se tutti coloro i quali consumano un prezioso tempo in un inutile cicaleccio nelle private adunanze, sulle piaghe del proprio paese per i torti che sta soffrendo dalla iniqua consorteria organizzata e manodotta da' governanti Piemontesi o piemontizzati, protestassero con la pubblica stampa contro le oppressioni e gli abusi che sanno tanto bene esporre e conferire nei privati circoli, dove la espressione del proprio risentimento è affatto inefficace, perché resta come imprigionata nella rete della confidenza,già ci troveremmo fuori degli artigli degli attuali sparvieri, i quali fatti baldanzosi dalla pusillanime tolleranza dei più, raddoppiano sempre di energia per conculcare ed opprimere.

Non si obblii che la soverchia tolleranza, è pusillanimità non virtù, e la tolleranza poi degli aggravi provvenienti dagli uomini nulli, è codardia non prudenza. Se ci è caro l'onor nostro nazionale, se vogliamo meritare la considerazione della società Europea, non ci mettiamo al caso di farci attribuire sì degradanti epiteti.

La Polonia eccita un generale interessamento in tutti

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«Il suo alleato i sempre portato a sacrificarlo in pro dei suoi particolari vantaggi.

Il Signor Sfatarmi mio concittadino, rivolgo volentieri le mie doglianze e forse anche gli confuterò qualche cosa nel corso di questa difesa; ma al Signor Rustow, altro scrittore di contemporanea Storia Napoletana politica e militare, non mi degnerò di rispondere, poiché la penna di chi difende l'onore dei proprii concittadini, non discende a confutare le insensate rapsodie di uno straniero il quale, invece di denunziare le glorie o le vergogne del proprio paese, pazzamente mette a contumeliare persone da lui mai conosciute, poggiando le sue assertive sulle calunniose rivelazioni ricevute da partigiani di opposti principii politici, durante ancora l'ebrezza rivoluzionaria...

XXVII

i patiti, per l’abnegazione ed il coraggio con cui difende i propri diritti. La nostra causa è identicamente la stessa dei Polacchi, imitiamoli coll'avvalerci dei diritti che il plebiscito ci accorda, se vogliamo riscuotere un eguale interessamento, altrimenti la propaganda delle nostre sventure non ci procurerà che indifferentismo. Ci risovvenga che lo statuto ci garantisce dalla legale vendetta di coloro che ragionevolmente son fatti segno al disprezzo universale.

Rammentiamo che purtroppo onorifica sarebbe anche la pressione della violenza, contro colui che la soffre per difendere i propri diritti, e principalmente la dignità e l'onor proprio nazionale.

Rammentiamo finalmente, che la penna è l'arma tutta omicida sopra i tristi potentati. Se ne avvalga adunque senza discrezione chi à imparato ad usarla, se vuole veder migliorate le condizioni del proprio paese, più che non le migliorino i soli privati insulsi garriti!...


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PARTE PRIMA 

LE VERTENZE DELL'AUTORE COL MINISTRO DELLA ROVERE

Appena che il mio APPELLO ALLA PUBBLICA OPINIONE del 20 Gennaio 1863 vide la luce, prima mia cara fa quella di trasmetterne una copia a tatti coloro che restavan feriti da quella mia scritta, poiché avevo ripugnanza di faro ignorare il mio giusto risentimento a chi se lo aveva procurato.

La coscienza dei propri torti però à impedito ad ognuno di essi di accettare la nobile disfida colla confutazione; uno solamente, il signor A. della Rovere, perché reggitore del Ministero della Guerra, volle vendicarsi delle mie rampogne, tutti evocando gli aiuti del suo potere, per raggiungere il suo compito; ma io credo che egli abbia fatto come l'inesperto schermitore, che per voler giuocare di squadrone col suo avversario, finisce col ferirsi con l'arma sua medesima, imperocché quando il mio opuscolo lo fece accorto che si era imbattuto in un uomo che non tanto facilmente si lascia intimorire dalla ributtante prepotenza di coloro che si sentono forti, sol perché circondati da un potere che li ubriaca, fu sopraffatto dallo imbarazzo di un'alternativa, e nella confusione in cui lo precipitò la mia inaspettata riluttanza al suo meschino terrorismo, ricorse momentaneamente alla umiliazione, con una lettera al Senatore signor Marchese Dragonetti, e con una Ministeriale a me diretta, che rivelavano in un tempo, la sua inettezza, la faciltà a mentire, ed una stomachevole pusillanimità.

Il dì 4 marzo 1863, dal Comando della Piazza di Napoli, mi si partecipava il seguente dispaccio Ministeriale.

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Comando Militare della provincia e Città di Napoli

Uffizio del Comando — N. d'ordine 1054 — N. di protocollo 3271.

Napoli 4 marzo 1863.

«La Divisione provvisoria del Ministero della Guerra mi scrive quanto segue:

«S. E. il Ministro con dispaccio 22 testè passato mese, col manifestare che siccome non è stata per anco liquidata la pensione di ritiro del Capitano sig. Cava Tommaso, collocato a Riposo non già a mente della Legge Napolitana, ma a mente del Regio Decreto 40 febbraio 1861, affinché appunto in caso di reclami, avesse campo di optare per la Pensione di Riforma, secondo la Legge 23 maggio 1852, la quale essendo stato posto al Ritiro d'Autorità, non gli è meno applicabile della Legge Napolitana, giacché avrebbe nello stesso modo potuto esser collocato in Riforma per inabilità al servizio; ha premurato d'invitarsi esso Capitano a dichiarare esplicitamente per iscritto, se intende di optare per la detta Legge Napolitana, o per quella del 25 maggio 1852.

«Interesso quindi F. S. a compiacersi farsi rilasciare, ed indi trasmettermela tale dichiarazione di opzione del surripetuto Capitano.

«Ed io lo partecipo a V. S. affinché voglia farmi tenere sollecitamente la chiesta dichiara.

Il Colonnello Comandante

F. Materazzo.

Al Signor

Tommaso Cava Capitano al Riposo

Napoli

In data 20 Marzo 1863 N. 3637, con foglio semiufficiale, il signor della Rovere scriveva cosi al sig. Marchese Dragonetti.

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Ministero della Guerra N. 3637.

Torino addì 20 Marzo 1863.

In seguito ai reclami avanzati dal Capitano in ritiro signor Cava Tommaso circa la pensione invero assai tenue che gli sarebbe spettata secondo la legge napoletana, gli venne fatto sentire, che, essendo stato collocato a riposo a mente del Regio Decreto 10 gennaio 1861, poteva benissimo optare per l’applicazione della Legge 25 maggio 1852, a mente della quale avrebbe anche potuto esser collocato in riforma per inabilità al servizio.

Con ciò si credette di fare il suo interesse, additandogli un mezzo, mediante il quale può conseguire una pensione maggiore quasi del doppio di quella che gli spetterebbe secondo la Legge napolitana.

Essendosi la S. V. Onorevolissima interessata a favore del signor Cava, allora che si compiacque trasmettermi con raccomandazione un recente di lui memoriale, mi pregio renderla intesa di quanto sopra, perché, se il erede, ne possa informare l'interessato.

P. Il Ministro

F. C. DELEUCE.

All’Onorevole

Signor Dragonetti Marchese Luigi

Senatore del Regno

TORINO

Lo stratagemma umiliante di farmi una carezza col prender cura dei miei interessi materiali, sperando di calmarmi e farmi transigere con l'onor mio, non è forse un pettegolezzo indegno di un Ministro di Guerra?

Ed il magnificare al signor Marchese Dragonetti le premure in voler raddoppiare la mia pensiono di ritiro, affinché il prelodato sig. Marchese si fosse taciuto, non è idea di un inetto?

E lo aver supposto che io, avessi potuto contentarmi di quelle moine, e trovare in esse l'adito alle buone trattative nell'avvenire, non è forse una inetta supposizione!

E lo aver creduto che un Napoletano chiamato Tommaso Cava, dopo di aver protestato che putrisce

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la vita privata al ritorno in servizio in un Esercito diretto dall'immoralissimo della Rovere, potesse revocare la sua decisione perché costui convinto dei suoi torti gli fa la carezza del coccodrillo, non è forse una inetta credulità?

Ma senza che io mi dilunghi in una inutile dimostrazione, quella inettezza che è enunciata, si paleserà di per sé stessa a misura che enarrerò l'oprato di della Rovere, che ho dichiarato di esser facile a mentire.

1.° Per la sua assertiva di aver io potuto essere stato messo a riposo per inabilità al servizio, mentre la mia età di 38 anni, e la mia florida salute, ben dinotano la sfacciata menzogna di chi pretende dichiararmi inabile al mestiere delle armi.

2.° Per la sua lettera del 20 marzo al Marchese Dragonetti,la quale annunzia un reclamo ed un memoriale mio, relativi alla mia pensione.

Ma dì grazia, qual reclamo o memoriale mio che parla di pensione, vi è capitato fra le mani sig. della Rovere (a)?

Cotesto ministero, non à ricevuti altri miei reclami, se non uno solo in data 27 novembre 1862, col quale dimandava un Consiglio di guerra, per giustificare che fui la vittima di un assassinio, e per chiamare i miei sicari a render conto delle loro iniquità; ma non pitoccai certo un aumento alla mia pensione, la quale non mi è giammai passata per la mente, fin tanto che non ho assodato il punto di allontanare dalla pubblica opinione ogni dubbio sol motivo della mia esonerazione dal servizio militare.

Oltre del chiesto Consiglio di Guerra, e delle mie doglianze sul silenzio della causa del mio riposo, non apparisce altro che fosse relativo alla mia pensione in quel reclamo.

Or dunque, se giammai vi è stata spedita dimanda come quella da voi asserita; se nel vostro archivio non vi à carta che vi chiede un aumento alla mia pensione, mi permetterete di proclamarvi un MENTITORE non solo innanzi all’Italia, ma innanzi all’Europa intera.

Signor della Rovere! badate pure che è vergognoso per un Ministro di Guerra, ricorrere alla vile menzogna per coonestare i suoi torti.

(a) Mi sia lecito aprire un dialogo.

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Superiore che possiate essere a ciò che dicesi punto d'onore, vi sta a cuore però la dignità del vostro posto sociale, se nulla vi cale quella dell'onor vostro personale!

Che se vi ò data pur la nota di pusillanimità, me ne àn fornita ragione la vostra lettera del 20 marzo al Marchese Dragonetti, e le ipocrite vostre premure pei miei interessi pecuniarii, come risposta dei miei scritti...

In data 9 marzo, convenevolmente risposi a quella impudente Ministeriale del della Rovere, ma la sera del 10 mi pervenne il seguente dispaccio.

Comando Militare della Provincia e Città di Napoli.

Napoli adii 10 marzo 1863.

Il Capitano al riposo sig. Cava Tommaso domani si compiacerà favorire su questo Comando dovendogli il sottoscritto parlargli di affari riguardanti le di lui petizioni fatte al Ministero.

D’ordine

Il Capitano Capo d’Uffizio
Rota.

Strano mi giunse quel foglio, per l’individuo che lo aveva firmato, e perché subito compresi che si aveva ritegno di trasmettere la mia risposta al Ministro della Guerra, e però l'indomani scrissi le due lettere seguenti e le spedii al loro destino.

Napoli li 11 marzo 1863.

Il sottoscritto fa sapere al sig. Capitano Rota, che egli non riceve ordinativi di presentazione.

Se cosa deveglisi palesare, riguardo alle sue Rimostrante, e non petizioni al Ministero, egli è visibile in casa propria ogni giorno, dalle 11 a. m. alle 12 m. laddove si volesse invertire in un aboccamento, ciò che dovrebbe essere trattato con lettere di uffizio.

Nel solo caso, che l’Onorevole Sig. Colonnello Mataraxsi volesse parlargli, sarebbe sollecito di recarsici  essendo esso

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sig. Colonnello, uno stimabile soldato, ed un degno gentiluomo. Ciò riscontra lo scritto di ieri.

Il Capitano in Ritiro
T. Cava.

Al Capitano Sig. Rota

Napoli 11 marno 1863.

Signor Colonnello

Ieri ho ricevuta una strana intimazione del Capitano signor Rota, perché questa mattina mi fossi presentato a lui alle 10 a. m. Astrazion facendo dalla mia condizione di ritirato, che mi rende indipendente, mi è d'uopo significarle, che fra un Capitano Rota ed un Capitano Cava, vi è tale insormontabile barriera morale, che giammai quest'ultimo si recherebbe volontariamente dal primo.

Ella ne decifererà immantinenti la ragione, se per poco si fermerà a considerare la rispettiva condotta militare, tenuta nelle ultime emergenze politiche; e da onorato Napoletano qual è, troverà certamente giusto, che il Capo dello Stato Maggiore dell’assediata Piazza di Capua del 1860, non transigerà giammai, con chi à macchiato, col tradimento, con la diserzione, o con la defezione, l'onor militare dello esercito delle due Sicilie.

lo ho dato un conciso riscontro a quest'insulsa intimazione, che standomi sotto gli occhi, mi eccita il riso del sarcasmo, e prego la S. V. a volerlo leggere nell'annessa copia, per desumere quanto io sia felice nel saper distinguere gli uomini stimabili, da quelli che saranno sempre da me disprezzati.

Il Capitano

T. CAVA (a).

Al Sig. Comandante la Piazza

di

Napoli

(a) Siccome mi fa riferito, che il Napoletano Colonnello sig. Francesco Matarazzi, emigrato e non disertore nel 1818, quando prese possesso dei posto di Comandante le Armi nella Provincia e Piazza di Napoli fece pubblica professione di attaccamento al suo paese ed ai suoi antichi compagni d'arme, usando sempre tatti i riguardi dovuti a quegli uffiziali dell'Esercito delle due Sicilie che ànno onoratamente adempito ai proprii doveri di soldato, mi reputai onorato di testificargli la mia stima.

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Dopo circa due mesi di meditazione per vendicarsi della mia risposta alla simulata pace che mi aveva offerta, il sig. della Rovere guidato dal cieco istinto di codarda prepotenza, spedi il seguente ordine ministeriale al Generale La Marmora in Napoli.

Ministero della Guerra Direzione Generale delle Armi di Fanteria e Cavalleria. Gabinetto del Direttore Generale N. 1115.

Torino 24 aprile 1863.

Il signor Tommaso Cava Capitano provveniente dall'Esercito delle due Sicilie, ora in ritiro, pubblicò colla stampa un opuscolo col titolo di appello al Tribunale della pubblica opinione.

I sentimenti espressi in quell’Opuscolo, il quale à tutta l’apparenza, e la sostanza di libello, sono eminentemente ostili al Governo ed ingiuriosi all'Esercito, come si può più specialmente riscontrare alle pagine 22, 23, 32, 37, 49, 50, 57, 59, e 60.

Tale Libello, potendo costituire una mancanza contro l’onore, questo Ministero è venuta nella determinazione di sottoporlo ad un Consiglio di Disciplina, il quale abbia incarico di pronunziar e il suo parere pel seguente quisito.

Capitano in ritiro signor Tommaso Cava è egli nel caso di essere rimosso dal grado per mancanza contro l’onore in base dell’articolo 2° N. 7, della legge 25 maggio 1852?

Prego pertanto l'E. V. di provvedere per la convocazione presso la Divisione Militare di Napoli del mentovato Consiglio di Disciplina in base dell'art. 44 della citata legge, al quale oggetto io le comunico un esemplare del mentovato opuscolo, in uno collo stato de' servizi del precennato Capitano; onde ne sia fatta trasmissione al Consiglio stesso.

Il Ministro
A. DELLA ROVERE.

A Sua Eccellenza

Il General Comandante

il 6. Dipartimento Militare

in Napoli

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Il di 2 maggio mi fa dal Comando della Piazza di Napoli partecipata la convocazione del detto Consiglio pel giorno 9 dello stesso mese.

Mi recai dal relatore, unicamente per protestare che giammai sarei comparso innanzi a quella incompetente riunione giudiziaria, e presi commiato premettendogli un mio scritto che avrebbe fatto le mie veci presso i miei giudici, ed il dì 8 gli consegnai la seguente rimostranza, perché l'avesse letta ai Membri del Consiglio, e quindi alligata al processo l'avesse spedita al Ministro della Rovere, come mia risposta alla sua illogica, quanto abusiva determinazione.

TOMMASO CAVA

Ai signori componenti il Consiglio di disciplina Presieduto dal Maggior Generale Sig, Garberino Luigi li 9 maggio 1863 in Napoli.

Sembrami che malamente si fosse avvisato il Sig. della Rovere, attuale Ministro della Guerra, di sottopormi ad un Consiglio di Disciplina, per dei mancamenti da lui pretesi, ad oggetto di vendicarsi del mio risentimento pel suo procedere.

Vado a dimostrarlo in brevi accenti.

Colla sua ministeriale del 24 aprile 1863 N. 115, egli mi accusa.

1. Di ostilità al Governo.

2. Di ingiurie arrecate all'Esercito, col mio appello alla pubblica opinione,

E poscia convoca un Consiglio di Disciplina, perché pronunzii la mia rimozione dal grado, per mancanza contro l’onore.

Ma dove à imparato il sig. della Rovere, che le ostilità contro un Governo, costituiscono il disonore di colui, che per la propria fede politica, manifesterebbe cosiffatti sentimenti?

Nei Codici delle Nazioni tutte, si trovano delle punizioni più o meno severe, contro coloro che ànno il ticchio di rendersi ostili al Governo; ma son punizioni o pene materiali, non già morali. L’uomo ostile al proprio Governo, vien tradotto innanzi ad un Tribunale Penale, non mai innanzi ad un Tribunale d'onore.

È il sig. della Rovere pel primo, che per fare sfoggio di (non saprei che cosa) dichiara disonorato il compromesso politico. E non si accorge, che con ciò offende la maggior parie degli attuali uomini in carica nel Segno d'Italia i quali si fanno un merito

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di documentare la loro ostilità al passato Governo delle Due Sicilie, che fu un Governo costituito, fino a che il cataclisma del 1860 non lo ebbe rovesciato?

Non si accorge, che offende la sua patria naturale, la quale dette non solo asilo ai compromessi politici Napoletani e Siciliani; ma diede loro onori,protezione e mezzi, per ostacolare il Governo che vollero rovesciare?

Non si accorge, che offende tutte le incivilite Nazioni di Europa, le quali fanno a gara per ospitare i politici degli altri stati, appunto perché essi non son qual gente disonorata?

Sicché, se ostilità al Governo potrebbesi ritenere per parte mia, io essere giudicato da una corte penale, non mai da un Tribunale d'onore; e tanto meno da un Tribunale d onore militare, poiché dal giorno 16 ottobre 1862, che il dispotismo di un altro Ministro della Guerra a nome Petitti, mi fece cessare dall'esser più militare, fui esonerato dall'obbligo di rammentare, che tradendo un giuramento, avrei macchiato l’onor mio militare

Adunque incompetentissimo è o signori il consesso da voi composto, per giudicare me, colpevole di ostilità al Governo, e più che incompetente, sarebbe originale se mi dichiarasse manchevole contro l’onor mio, per essere stato ostile al Governo.

Ma vediamo pure, se questa reità voluta dal sig. della Rovere, per raggiungere con mezzi illegali una bassa vendetta, potrebbe per anco sussistere.

Le seguenti parole soltanto, a pagina 47 del mio opuscolo in quistione oc ne con le mie franche recrimine, intenderò mai di offa«dere il Governo; poiché Gtfverno per me è là legge, innanzi alla «quale mi prostro», sono una protesta lampante della nessuna mi intenzione di essere ostile al Governo.

Laonde non solo incompetentemente sono staio sottoposto ad un Consiglio di Disciplina, per mancanza contro l’onore; ma sono stato benanche falsamente accusato, e per dirla più schiettamente, sono stato calunniato dal signor della Rovere con l'accusa di ostilità a questo Governo, al quale appunto quando scriveva il mio opuscolo, io mi dichiarava devoto e non ostile.

Il mio opuscolo, rivela esplicitamente la ferma mia decisione di gettare la riprovazione ed il biasimo in volto a chi lo meritò con una sleale condotta a danno mio, ed a preferenza di tutti,

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ad  un della Rovere, perché egli più che tutt'altri si rese indegno della pubblica stima, stante la sita abominevole prepotenza, da lui medesimo documentata on la sua lettera riportata a pagina 56 del ridetto opuscolo, e sanzionata dalle due lettere scritte di proprio pugno dagli onorevoli signori, Senatore Marchese Dragonetti, e Deputato Catucci; riportate a pagine 58, e 59 del medesimo opuscolo.

E quella pubblica opinione alla quale mi sono appellato, come l'unico Tribunale innanzi al quale curvo la mia fronte, mi à dato valida testimonianza di perfetto convincimento sulla ragionevolezza delle mie doglianze, pronunziando il suo tremendo giudizio a carico de'  miei carnefici.

Ma passiamo all'altro capo di accusa, di aver io cioè ingiuriato l'Esercito.

Senz'andar per le lunghe nello esame degli articoli, che il signor della Rovere si è compiaciuto puntare nel mio opuscolo con la sua rubiconda matita, ne' quali nulla èvvi che dinoti un'ingiuria all'Esercito come cosa collettiva, richiamo l'attenzione di lor signori sulle due lettere da me scritte in Uffizio, l’una li 22 giugno al Generale Comandante la Divisione in Salerno, e riportala a pagina 38; l'altra all'ufficiale di Picchetto del 31 Bersaglieri in Salerno stesso, riportata a pagina 39.

In ambo le lettere si rileva, che per quanto sono inesorabilmente deciso a condannare chi per la sua condotta, si rende indegno della nobile divisa militare, altrettanto son lietissimo di onorare chi lo merita. Se il mio opuscolo scaturisce biasimo pei tristi, esso largisce benanche onori e ringraziamenti pei signori uffiziali del 31 Battaglione Bersaglieri i quali fanno certamente parte di quell'Esercito che il sig. della Rovere pretende che io abbia ingiuriato in massa per intero.

Ma se da un tutto ne prelevate una parte, quel tutto non resta certo più lo stesso tutto, per potersi considerare come il signor della Rovere vorrebbe considerare l'affare delle mie ingiurie contro l'Esercito per intero.

La Guerra, e specialmente la guerra morale, la faccio alle individualità, non già a ciò che forma un tutto complessivo. Queste stoltezze, queste rodomontate, si appartengono ai Buonvicini, ai Zoppi, ai Ricasoli  in carica, come a pagine 7, 9  23, del mio opuscolo; non mai ad un Tommaso Cava,

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che nella oscurità di un particolare, senz'altra risorsa che il sangue che gli corre nelle vene, non esita di ripeterà od un potente prepotente a nome A. della Rovere quello che egli medesimo à puntato a pagina 56, là dove dice «Signor. della Rovere, vi prego  credere, che se per una mezz'ora soltanto potessimo metterci allo stesso livello, voi non avreste ponto il coraggio di dire a questo napoletano chiamato Tommaso Cava, quello che avete le tante volte ripetuto dai vostri alti seggi, trincerato fra le baionette, i cannoni, e le manette!...» la quale frase à tanto alterati i suoi nervi»

Il signor della Rovere, troverebbe dellziosa la sfuggita di implicare la suscettibilità dell’Esercito, negli affari che riguardano esclusivamente le due nostre preziosissime persone, ma il povero uomo farà un buco nell'acqua, poiché se esso à tutto lo interesse di pretendere insieme a talun altro del suo medesimo calibro, che il mio opuscolo ingiuriasse l’Esercito complessivamente, ogni altra persona da lui diversa, non può non rimarcarci che quasi ogni pagina del mio opuscolo, contiene qualche cosa che accenna il distacco che annetto fra le individualità, e ciò che può essere considerato come complessivo.

Oh! quanto potrei dire per dimostrare l’assurdità delle accuse adàossatemisi dal sig. della Rovere, e la incompetenza del consesso, al giudizio del quale sono stato sottoposto.

Ma a che prò dovrei prolungare il nauseante disgusto che mi procura lo intrattenermi sullo argomento delle vergogne altrui?

Per evitar forse la mia rimozione dal grado, dal della Rovere tanto desiderata?

Niente di tutto questo: vi attaccherei dell'importanza, se per poco mi si potesse veramente convincere di mancanze denigranti, o di vigliaccheria; ma esser rimosso dal grado per un abuso di potere, è affare che non solo non mi produce alcuna pena, ma anzi mi piace che a»«venga; perché se io evitassi la consumazione di quest'altra nefanda violenza, il mondo incivilito non possederebbe un altro documento che aumenterà la tradizionale esecrazione coltro il sig. della Rovere ed i suoi complici, per una seguela di abusi e di prepotenze, per quanto inaudite, altrettanto vigliacche.

Mi limito a conchiudere che la quistione in discorso si riduce per intera ad una quistione di personalità. Tale a dire. Tommaso Cava, provocato dalla vigliacca prepotenza di A. della Rovere, gli à stampato in fronte il marchio del discredito.

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Quando Tommaso Cava espresse questo suo risentimento non tra più militare, ed al della Rovere non rimane punto la risorsa di trincerarsi dietro la militar disciplina, per vendicarsi di ungiusto risentimento senta mettere a repentaglio il suo individuo.

Egli non può farsi neppure uno scudo del suo precario attuale carattereMinisteriale, per vendicarsi con un apparente legalità; poiché in un Governo Costituzionale, un,Autorità qualunque, la quale tradisce il mandato di giustizia e si mette al disopra della legge per consumare un proditorio ed un assassinio onde soddisfare il brutale istinto di dispotismo da cui è invasa; quest'autorità é considerata come un assassino dalla stessa legge la quale, non solo non gli accorda alcuna garenzia, ma la fulmina, d'un'infame condanna in espiazione del suo mal fatto.

Non rimane adunque al sig. della Rovere, che la sola risorsa del gentil uomo,se non vuol essere esecrato dal mondo intero.Ogni altra ripigliata lo precipita più in giù, nel fango in cui si è gettato colla sua biasimevole condotta; poiché ogni gentiluomo vero che dovrà dare il suo giudizio in questa vertenza, non so chi dichiarerà disonorato e vigliacco, se un Cava che vien rimosso dal grado per una vile prepotenza, o un della Rovere che ricorre allo abuso del proprio potere, per vendicarsi di una rampogna meritamente ricevuta.

È la prima volta o signori, che la Cavalleria ascolterebbe l'originalità che verrebbe dichiaralo colpevole contro l’onor proprio,colui che à impressa dopo una nefanda provocazione l impronta del biasimo in fronte ad unaltro uomo; in luogo di chi l'à ricevuta e non trova altra risorsa, che quella di ricorrere alla prepotenza per vendicarsi.

Il mondo intero, avrebbe un argomento di prolungato riso, venendo  conoscenza, che un consesso riunito sanzionerebbe questo nuovo fenomeno cavalleresco 9 scoverto dal sig. della Rovere, in un momento in cui poggiando la mano sulproprio cuore, lo à inteso scuotere per paura e per rabbia, non palpitare per coraggio e per generosità.

Dopo queste brevi, ma chiare dilucidazioni, cosa faranno i miei giudici? cosa risolveranno

Ciò non mi dà alcun pensiere  poiché è cosa che riguarda esclusivamente essi, non me!....

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Eh come mai, vi saltò io mente sig. della Rovere di sottoporre ad un Tribunale di disciplina militare, un individuo che già da sette mesi dietro, non aveva più alcuna ingerenza colla disciplina militare, perché ritirato dal servizio?

Gli uffiziali al riposo, giusta i vigenti regolamenti, e precisamente giusta il §14, art. 7 pagina 1006 del giornale militare, possono essere sottoposti ad un Consiglio di disciplina Divisionario, sol quando commettessero delle azioni denigranti dorante il loro riposo, o che ne abbiano commesse pria del riposo e che vengano a scoprirsi in seguito, per essere rimossi dal grado per non potere ulteriormente vestire il cingolo di onore.

Cosa avevano di comune però, le mie ostilità al governo e le mie ingiurie all'Esercito; con le mancanze denigranti di cui parla l'articolo summentovato?

Ammessi pure i reati, da voi presupposti dovevano esser puniti, il primo da una corte d'Assise colla pena condegna ad un osteggiator di governi, ed il secondo con qualche mese al morotrofio, se le ingiurie fossero risultato per effetto di un'alterazione mentale, o con una spada nello stomaco, data o ricevuta, nel caso di fredda insolente determinazione di offendere in massa una intera corporazione. Ma non era certo il caso di un Consiglio di disciplina militare, per dei reali commessi da un individuo che aveva 99 centesimi di borghese, ed un centesimo solo di semisoldato.

E non vi siete accorto che col vostro dispotismo, mi avete data voi stesso la più bella occasione di nuovamente umiliarvi innanzi al Tribunale della pubblica opinione?

Sig. della Rovere! Voi avete fatto un mercato del vostro potere, perché non avendo coraggio di affrontare lo sguardo del vostro avversario sol terreno competente al gentiluomo, vi siete prevaluto del vostro potere, per soddisfare ad ogni costo la vostra codarda vendetta: ma se in coloro che rappresentano la Nazione e che vi potrebbero tradurre sulla scranna dei rei per abuso di potere, non vi è abbastanza sangue nelle vene, ne ò io a sufficienza per farvi presto o tardi pentire del vostro dissennato oprare.

Siete tanto dappoco, da non aver saputo prevedere, che lungi dal recare nocumento alcuno all’onor mio col vostro ritrovato, avete provocati contro di voi i più amari sarcasmi degl'indifferenti, e la mia inesorabilità nel punirvi dell’audacia di aver voluto attentare all'onor mio... E fate il Ministro?...

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Frattanto cosa dellberò il Consesso, dopo la lettura del mio scritto?

Pronunziò la mia rimozione dal grado, avvegnacché i Consigli di disciplina Dell’attuale Esercito. Italiano, sono né più né meno che dei Tribunali di Sant'Uffizio, i quali se nella mente della legge sono una lodevole istituzione, poiché cinque pareri possono formare relativamente parlando no esalto giudizio in vece del parere di un solo, essi non pertanto divengono sovente fonte d'immoralità, per la malignità umana la quale spesso distrugge il bello dell’opera sua, invertendo il buono nel cattivo.

Il caso mio è una pruova che convalida questa mia asserzione,, poiché il Ministro della Guerra quando mi sottopose al consiglio di disciplina, apertamente manifestò la sua determinata volontà in volermi rimosso dal grado; imperocché essendo quella disposizione un manifesto atto di dispotismo, risultava chiaro che il Ministro lo ave va consumato perché mi voleva assolutamente rimosso.

Or quel Consesso, se avesse dato ascolto alle voci della giustizia«, della logica e della propria coscienza, sarebbe stato oppresso dal Ministro con la sua favorita risorsa di facoltà competente al governai quindi, decise di secondare i ministeriali voleri. Altronde io non amo di troppo combattere il consesso militare che mi giudicò, poiché poti ebbe darsi che taluno dei miei giudici avesse mostrato sensi di virtuosa contraddizione in mio favore, e per effetto di minoranza siano rimaste inefficaci le sue rimostranze; e per questa supposizione che pur mi è grata pel mio attaccamento alla dignità dell'uomo d'onore, non azzardo di accusare l'intero Consiglio di servilismo al signor della Rovere.

Il certo si é però, che il di 8 di giugno 1863 ricevei il seguente dispaccio.

Comando Militare della Provincia e Città di Napoli.

Napoli addì 1 giugno 1863.

Con regio Decreto del 24 p. p. mese F. S. III. è stata rimossa del grado a seguito, di avvisa,di un Consiglio di disciplina. Il che rendo a notizia di V. S. III. per la dovuta intelliigenza.

Il Colonnello Comandante

F. MATERAZZO.

Al Sig. Cava Tommaso Capitano

Napoli

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Eccovi soddisfatto signor delta Rovere, è prosit'.. Ma dopo quello che vi ho fatto osservare, non trovate che la maggior soddisfazione l'ò avuta io con le vostre stesse armi che vi ò rivolte contro?

Vediamo cosa mi avete fatto con questa rimozione. Mi avete impedito di poter vestire l'uniforme di militare ritirato, se mi fosse venuta la smania d'indossarlo. Ma come potrebbesi supporre questo desiderio in un nomo che a pagina 56 del suo appello alla pubblica opinione, vi disse spiattellatamente che egli avrebbe a vergogna di indossare quello di attività, fin tanto che voi o un vostro simile starebbe alla testa dell'Esercito di cui egli dovrebbe far parte?

Credete forse di avermi tolto il titolo di Capitano in società? l’ingannate rotondamente, poiché un titolo acquistatosi coi propri onorati servigi allo stato, non si perde che in due soli casi. O perché vien ritolto da quello stesso che lo à dato, o perché chi lo possiede se ne rende immeritevole con una vergognosa condotta.

Or, il grado e titolo di Capitano non me lo daste voi signore, come ben ricorderete, per credervi in diritto di potermelo ritogliere a vostro beneplacito, o a piacere dei vostri fedelissimi. Nettampoco me ne son privato lo stesso con qualche indegnità, dacché non è una indegnità il sobbarcarsi alle conseguenze della codarda ferocia vostra e dei vostri simili, per voler eliminalo un vergognoso mercemonio s danno dei proprii amministrati giusta il mio rapporto al governo in data 28 marzo 1862, inserito nelle pagine 9, 10,11,12 e 13 del mio precedente opuscolo; non è una indegnità lo esporsi alla vendetta vostra e dei vostri, per difendere l'onor proprio nazionale, ed 1 propri! concittadini dalle detrazioni altrui; non è una indegnità lo aversi abbastanza coraggio e dignità da costringere un prepotente come voi, ad abbassare lo sguardo umiliato innanzi alla società.

Cosa dunque avete ottenuto con quel Consiglio di disciplina a cui mi sottoponeste per farmi rimuovere?Niente altro, che la mia risposta del 9 maggio, figlia del vostro stucchevole dispotismo, e l'umiliazione della mia negativa a comparire bonariamente innanzi a quel Consesso, la coi convocazione sentiva di troppa immoralità, perché un gentiluomo non uso a trepidare in faccia ai vostri minacciosi conati, avesse potuto non sentirne nausea e disgusto.

Il sig. della Rovere pensò di sottoporre anche il signor Dragonetti Ile sue insulse rappresaglie, e non ebbe ritegno di spedirgli un foglio semi-ufficiale in data 15 giugno 1863, col quale gli diceva,

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che per aver esso signor Dragonetti permessa la pubblicazione della Ministeriale a lui diretta in data de' 13 gennaio 1863, riportala alla pagina 56 del mio appello alla pubblica opinione, e per aver egli difesa la mia causa, esso della Rovere aveva ordinato che d'allora in poi, quante volte fossero pervenute alla segreteria della Guerra, domande raccomandale dal sig. Dragonetti, sia per ragioni di giustizia che per quelle di grazia, non se ne fosse tenuto conto alcuno.

Ma non vi siete accorto sig. della Rovere, che con ciò coofirmaste che il vostro programma governativo, è il sic volo sic jubeo, al quale le Camere stesse non debbono opporsi, sotto pena delle vostre rappresaglie?

E tale vostra manifestazione, successe immediatamente a quella del vostro risentimento, allorché leggeste questa medesima assertiva alla pagina 50 del mio appello alla pubblica opinione, assertiva che voi appuntaste nei versi 24, 25, 26 e 27, formandone uno dei capi di accusa contro di me, come se quell'assertiva fosse stata calunniosa, e quindi meritevole di punizione.

Or come si spiega questa faccenda?

Da un lato voi chiedete la mia rimozione dal grado ad un Consiglio di Disciplina, perché vi fingete offeso per avervi io calunniosamente proclamalo un despota minaccioso di vendetta anche sui rappresentanti della Nazione se essi tentassero di opporvisi, e dall'altro lato, proclamate voi medesimo il vostro dispotismo, e fulminate della vostra vendetta un Senatore che vi si oppone?

Raccomandatevi a Dio perché v'illumini alquanto signor Ministro del Regno d'Italia, poiché ne avete molto di bisogno!

La risposta del signor Marchese Dragonetti, al della Rovere, fu tale che rivendicò l'ingiuria patita, e se per brevità non la trascrivo per intera, non ometto di pubblicarne la seguente conclusione, la quale basta a dare un' idea del come fu formatala quella risposta.

«Checché ne sia però, l'ordine da V. S. 111. dato alla segreteria è tale da far manifesto che l’elevazione del grado nel quale si trova, non ha innalzato l'animo suo a quella dignità di ragione che fa dell'uomo di stato un essere superiore ai personali rancori ed alle meschine soddisfazioni di un inconsiderato risentimento».

I placidi sonni del signor della Rovere, furono maggiormente turbati allorché la mia risposta del 9 maggio, apeditaglisi dal Consiglio di disciplina, Io mise nella dura alternativa

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di dovermi mandare un invito, o di farmi sapere che ne avrebbe accettato uno da me, unica via per cancellare la nota che gli stampai in fronte.

A nessuna delle due cose seppe decidersi; ma considerando che il suo avversario non è l’uomo che facilmente si adatta a patire soprusi stando dal lato della ragione; considerando forse la mia inesorabilità contro di chi ardisce di proditoriamente attentare all’onor mio; considerando che presto o tardi potrei costringerlo a quel rendiconto che egli lesse alla pagina 49 del mio opuscolo, le più volte ripetuto, credè starsene tranquillo emanando un ordine dal Ministero in data 5 luglio 1863, col quale ingiunse agli uffiziali in attività di servizio, di rifiutare le partite d’onore con uffiziali ritirati, rimossi, o dimissionati, dovendo essi in caso di ingiurie reclamare ali autorità giudiziaria per una soddisfazione,

Apprendete Italiani!... Ecco di che è capace l'attuale Ministro della Guerra dell’Esercito Italiano, per tentare di sviare da lui la gravosa circostanza di una partila d'onore. E costui l'uomo che dovrebbe condurre l'Esercito sui campi dell’onore e della gloria?.. costui è, che deve durante la pace, far germogliare il sentimento dell'onore e del coraggio nel cuore dell'Esercito?

Costui appunto, che ingiunge ai suoi dipendenti di vilmente ricorrere se fossero ingiuriati, perché egli insensatamente si è messo nella penosa condizione di meritare gli agri rimproveri miei, e pretende di reclamare lo appoggio di un Magistrato, anzicché riparare cavallerescamente ai suoi torti, e rivendicare gli aggravi meritamente sofferti:

Ma grazie al Cielo! nell'Esercito Italiano saranno ben pochi quegli uffiziali che obbediranno ad un tal ordine, e la vergogna ricadrà soltanto sopra di lui, e sopra qualche altro che somigliandogli, ne farà tesoro per non mettere in pericolo la propria pelle! Signor della Rovere, vi assicuro che se non mi trovassi già fuori servizio, sarebbe questa una circostanza in cui vi rimanderei la ministeriale che mi incorporò nell'attuale Esercito, dicendovi «o Voi o Io; ma tutti due non più», appunto per l'onta che avete riversata sull'Esercito intero col vostro inconsiderato ordine, onta, che metterebbe profonde radici, se non si sapesse che l'Esercito è rimasto disgustato di quell'ordine.

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Non avete riflettuto che con quell'ordinanza, avete fatto credere che gli uffiziali in ritiro, rimossi o dimissionati, in fatto disvalore individuale, valgono più che quelli in attività di servizio, nel mentre che ciò non è? E se anche ciò fosse,non avreste dovuto esser Voi, Ministro dell'Esercito, che avreste dovuto pubblicarlo.  

Nuovamente vi replico Signor della Rovere, domandate lumi al Cielo, altrimenti lasciate di fare il Ministro, che non è per voi.

Né mi vogliate dire, che un Ministro non é chiamato a battersi con tutti quelli che debbe punire, poiché il nostro non è il caso che vorreste mettere innanzi.

S'intende bene che un Superiore, un'autorità qualunque, la quale adempie ai precetti del proprio dovere, e che per questo colpisce il reo, non è tenuto certo a rispondere ad un invito di riparazione, poiché non à nulla da dovere riparare.

Ma se l’Autorità, il Superiore, calpestano la giustizia, lacerano leggi e doveri, consumano un atto di dispotismo, ed infamemente attentano all’onore di un gentiluomo, per vendicarti della dignità che non vorrebbero ritrovare in quei che credono di poter trattare per un chimerico diritto di conquista, come iloti o gabaoniti, essi son responsabili del loro maleficio, in faccia alta legge non solo, ma anche verso l'individuo che anno tentato di sacrificare. E l'articolo 35° della legge sui reati di stampa, troppo rafferma questo mio ragionamento, non punendo le ingiurie e le offese meritamente scagliate contro i depositarii o agenti dell’autorità pubblica.

Ma basta qui Signor della Rovere, poiché mi vieto meno la lena a continuare un dialogo tanto umiliante per voi, che disgraziatamente occupale un alto posto nel governo.

Sol vi lascio riflettere, che colui il quale à la vera coscienza dei propri! doveri cittadini e militari, che sente in tutto il suo vigore la forza dell'onor nazionale, non ammette transazione di sorta alcuna coi suoi principi, e non si lascia mica imporre dai soprusi dei prepotenti, imperocché essi possono distruggere il corpo materiale,

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ma non lo spirito,che va ad attaccarsi a quella face, sempre viva, che niuno potrà mai spegnere; la stoma! Vi ò rammentato ciò, per invitarvi a considerare una volta pel vostro meglio, che non tutti gli uomini si posson mettere nel medesimo fascio io cui si trova il vostro favorito Pianelli, e si possono, tratta re come dovreste trattare lui, anzicché cercar di vendicarlo per la biografia che io gli scriveva nel 1861.

Ci divida ora una barriera alta quanto le Alpi, fintanto che una occasione condegna non si appresterà a porgermi il destro di schiacciarvi materialmente,odi riabilitarvi innanzi a quella pubblica opinione,appo la quale Voi mi avete costretto ad umiliarvi. In ogni modo, abbiatevi la mia formale assicurazione,che ove vi decidereste a ricercarmi nel corso di vostra vita, contate fio da ora di ritrovarmi sempre qual mi vorreste.

Mi rivolgo ora alla Nazione intera, affinché mi si spieghi in che consistono i benefizii del regime rappresentativo, mentre fino a questo momento non ò osservato altra differenza fra governo assoluto e governo costituzionale, se non che di dover dipendere dall’arbitrio di un solo se il Monarca assoluto ò informato da principii di dispotismo, e di esser governati dall'altro colle prepotenze di una mano di servitori del popolo, salariati, e chiamati Ministri, Prefetti, Direttori ete.

Non parlo cosi, perché amo di oppormi alla forma costituzionale del Governo; imperocché come concetto in astratto rilego di per me il distacco che esiste fra assolutismo e costituzione; ma siccome nell'applicazione pratica di questo concetto, non ò trovato fin ora che un maggiore e più insopportabile dispotismo nel governo rappresentativo, perché da questo mi fu troncata la carriera con un obbligatorio riposo, e ne fa malignamente taciuta la causa, attaccandosi anche il mio decoro, per aver pregato il governo a far cessare un vergognoso monopolio, già provato e constatato.

Che, sotto un governo rappresentativo malignamente fui accoppato in una causa di cospirazione, affin di nuocermi calunniosamente pel gran delltto di aver difesi i miei concittadini dalle insolenze altrui, pregando il governo a volerle impedire:

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Che è sotto un governo costituzionale, in cui per sei luoghi mesi ò sofferto tutte le sevizie che mi si potevano usare durante la mia non meritata prigionia: Che è sotto un governo costituzionale, che fino al quinto mese di carcerazione, mi si fece sempre ignorare la causa della mia detenzione, in onta dell'articolo 24 dello Statuto che prescrive la pronta manifestazione dei motivi pei quali un arrestato è tenuto in carcere. Che è sotto un governo costituzionale, che mi è stato negato un difensore,per non darmisi il campo di giustificarmi: Che è sotto un governo costituzionale che mi si ritenne in carcere con lo stesso vigore, per 38 altri giorni dopo di una sentenza del Tribunale, il quale ordinava la mia libertà per non farsi luogo a procedi mento contro di me; e 2 mesi e mezzo passarono dal giorno in cui fu consultata la mia innocenza sulle imputazioni fattemisi a quello della mia libertà: Che è sotto un governo costituzionale che poscia sono stato rimosso dal grado per aver ardito di dolermi dei non meritati torti sofferti: Che è sotto un governo costituzionale per cui un incompetente tribunale, convocato dal riprovevole motto sic volo di un Ministro, à pronunziata non sentenza incompatibile coi capi di accusa, perché troppo mite se le accuse sussistevano, grave ove fossero state immaginarie; in ambo i casi, sempre ingiusta, e maggiormente ingiusta ed iniqua, in quantocché i falli imputatimisi dovevano esser puniti da tutt'altro tribunale, meno da quello di un consiglio di disciplina militare: Che è sotto un governo costituzionale, che un Ministro, credendo d'intimorirmi, osa minacciarmi della ulteriore e più violenta sua vendetta, se io mi avvalessi del beneficio della libertà di stampa per pubblicare queste mie vertenze con lui: Che è sotto un governo costituzionale, che al 38 anno di mia vita ò inteso per la prima volta le dispotiche parole di «FACOLTÀ COMPETENTE AL GOVERNO» mentre in 35 anni di mia vita anteriore, ò sempre ignorata questa frase sotto di ho governo monarchico assoluto: Che è sotto un governo rappresentativo, per cui non ò a chi rivolgermi per chieder la riparazione di cotanti torti, poiché il Re mi fa sentire che egli regna e non governa, e le camere con un eloquente silenzio, rispondono ai reclami «non abbiamo che fare». Che è sotto un governo costituzionale che il furto commesso dai protetti dal governo, si riversa su d'un altro povero cittadino, che è inviso ai governanti.

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Che è sotto un governo costituzionale che ò assistito per 3 anni, alle manomessioni, alle violenze, alle concussioni contemplate nella prefazione di questa difesa: Che é sotto un governo costituzionale, che ò veduto procedersi alla reputazione dei soldati per l’attuale esercito, con modi barbari, ed a furia di violenze ed ingiustizie; mentre sotto il governo assoluto la recitazione procedeva sempre con umani tà e liberalismo (a).

Cosi ò bene il diritto io credo, di domandare in che consisto, no i reali vantaggi del governo costituzionale.

È principia di sana logica, il desiderio del bene reale, a preferenza di quello che vagola nei campi della immaginazione.

L'uomo à bisogno di cibo materiale, ad alimentare la vita e mantener le forze, per la conservazione delle quali, è utile il cibo dei legumi, ed a nulla menano tolti i Luculliani pranzi, ideati dalla sola fantasia.

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(a) È questo adunque, ciocche si è guadagnato dai poveri Napoletani o Lord Palmerston! dopo la caduta del governo che fu chiamato la negazione di Dio?

Sappiate pure o Milord che simili casi di dispotismo, se pur se sono avvenuti nel passato, erano meno biasimevoli e meno amari, poiché si leggeva un Ego subì io fronte al Sovrano, e la parola Assoluto accanto a quella di Governo; mentre oggi per riparare a quella negazione di Dio, siamo di tre anni schiacciati da un diluvio di atti di dispotismo, che sono assai più amari, perché accanto alla parola governo, si legge l'aggiunto Costituzionale, ed io fronte al Sovrano, innanzi al quale si sarebbe meno restio di chinar la fronte, per la naturale distinzione esistente fra le teste coronate ed i sudditi, si legge la parola NEMO!..

Non vi dico già questo o Milord, perché desiderassi cosa da voi.

Vì diriggo questo fugace lamento, ripetuto ad ogni istante dai nove decimi dei popoli delle due Sicilie, perché ve ne rammentiate nei momenti estremi di vostra vita, quando ai piedi del vostro dorato letto, vedrete la Divina Giustizia, che fra i vostri falli vi farà leggere quello di aver per una privala vendetta, sacrificato un popolo che mille peripezie soffrì duratila il primo Impero Francese per mantenersi unito ed alleato alla superba, ma ingrata Albione!

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Amo i belli concetti, ma li amo quando l'applicazione pratica  corrisponde col fine del concetto in astratto, altrimenti mi sembrerebbe di essere uno degli abitatori del famoso regno di LAPUTA del signor Swift.

Benedirò di cuore la forma costituzionale del governo, quale l'ò sempre vagheggiata, per lo meglio dei Popoli, e dei Sovrani stessi, quando però i popoli sapranno comprendere la propria dignità; sapranno scegliere i loro rappresentanti e li costringeranno allo adempimento degli obblighi assunti;.ed essi avranno la coscienza ed il coraggio di mettere il capestro collo del dispotismo ministeriale, altrimenti strepiterò a perpetuità per avere la spiegazione in che mai consiste la responsabilità ministeriale.

A chi, e di che son responsabili coloro che si fanno chiamare Eccellenze?

Chi à la facilità di torcere loro un capello  quando commettono quei tali delltti, pei quali meriterebbero dieci galere invece di una?

È vero che è tolleranza Piemontese In elasticità della responsabilità ministeriale, che si è lasciata sempre indefinita nella Statuto Sardo, giusta il Brofferio libro 4° pagina 46. Ma ora non sono soltanto i popoli del freddo settentrione dalla culla di neve che si governano, ma vi sono i focosi popoli dei mezzo giorno ancora, i quali ànno per culla i vulcani; e se i primi pel freddo loro clima «non son materia entusiasmatile», come sentenziò il Conte Sclopis nella Camera di Torino il 1849, i secondi sono abbastanza svegliati ed intolleranti agli abusiva sono materia di facile accensione.

Adunque, la responsabilità ministeriale, non è che un'altra illusione un'altra idea lanciata nel campo delle astrazioni, la quale però non scenderà mai nella realtà della pratica?

La Francia, dopo che si sbarazzò del proprio Sovrano nel 1792, fu governata per otto anni senza alcuna legge, se leggi non voglian chiamarsi le sanguinarie imposizioni di un feroce triumvirato; appunto perché la esaltata fantasia degli uomini di quei tempi, sperdeva i proprii talenti in idee irrealizzabili.

E se un qualche freddo e vero patriotta, tentò di proporre un moderato progetto di leggi, eque ed adatte a quei tempi ed a quei popoli, fu avversato dalla generale esaltazione,

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la quale voleva assolutamente scomporre e ricomporre fin l'ordine naturale di tutte le cose, come il medico di Moliere pretendeva di trasportare in un tratto la milza a dritta ed il fegato a sinistra: sena Ravvedersi che con le loro eterne chimere, non facevano altro che mietere la vita a migliaia e migliaia di quelli stessi concittadini che pretendevano di rigenerare; non facevano che allagare il proprio paese di cittadino sangue, e saziare la ferocia di un partito rappresentato da tre forti malvaggi come Robespierre, Danton e Marat.

Bisognò l'intervento di un uomo straordinario, del primo Bonaparte, perché la Francia avesse ripresa quella civilizzazione che aveva perduta nello abrutimento delle atrocità, divenisse nuovamente quella stimabile Nazione che è, coll'abolizione dei concetti astratti, e col ritorno a quelle leggi plausibilmente praticabili, le quali, pur tiranniche,son sempre più proficue, o meno nocive, che le chimeriche e le ideologiche.

L'entusiasmo è utile soltanto nei campi di battaglia; ma per ¡stabilire le sorti della patria, vi occorre freddezza, meditazione, e lungo esame, quello che l'esperienza insegna; altrimenti in vece di migliorare le sorti del paese, lo si precipita nelle sventure di Babilonia.

Tacito, che ogni colta Nazione onora, diceva — «Vi saranno degli abusi e dei difetti, fin che vi saranno degli uomini: tollerate dunque il lusso e l’avarizia dei Regnanti, come fate appunto nei mali della natura, allorché una lunga sterilità, o una pioggia troppo abbondante, vi toglie i frutti dei propri fondi. Questi non sogliono poi esser durevoli, e con l'arrivo di nuove vicende, sogliono riceversi dei compensi  (a) In altro luogo Io Storico medesimo dice:  «non può mai recare un Re nato in mezzo ai proprii sudditi, tiranno che fosse il male che arreca un Re straniero a quelli che governa.»

Chi mi legge, ponderi queste sentenze, e ne ricavi lo spirito!..

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(a) Tacito An. 12 14.

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Si lasci una volta il campo delle illusioni, Io ripeter&sempre, e si passi in quello della realtà, so non vogliamo essere eternamente zimbelli dello straniero, il quale secondando le nostro poesie, accende le nostre passioni per meglio stringerci nei suoi artigli senza farcene avvedere, che quando non é più in nostro potere il distrigarcene.

Così l'Italia é soggiaciuta sempre alle gherminelle straniere, ed ai furfanti politici, perché gl'Italiani, e specialmente i meridionali, facili ad esaltarsi per una bella promessa in astratto, non ànno avuta mai la freddezza di riflettere se quella promessa veniva fatta di buona fede; e nello entusiasmo destatosi per la semplice idea di un meglio che si è fatto loro vagheggiare, si sono slanciati a precipizio, por cadere nei lacci di colai che insidiosamente glieli à tesi.

Che ai commettano degli errori affatto nuovi per un popolo, aia, ma che si ricada sempre in quelle sviste che l'istoria di 18 secoli à accuratamente registrate, perché si evitassero una volta, quest'è inconsideratezza imperdonabile a chi ai dice vero patriotta.

È stomachevole impudenza il chiamar governo Croato quello dell'Austria, pel quale Io Storico Napoletano Pietro Colletta, scrisse così nel suo 5° libro della storia del Reame di Napoli «Chi leggesse le costituzioni dell'Austria o giudicasse di lei dai paesi vinti, crederebbe sfortunati e scontenti i suoi popoli; ma chi vivendo in Austria, meglio consideri la natura c dei principi, la natura dei popoli, l'amore veramente paterno dei primi, la figliale sicurezza degli altri, la polizia troppa; ma giusta, il codice criminale barbaro, ma sincero, le pene, benché aspre, conformi al sentir tardo di quelle genti, e poi lo studio dei magistrati di piacere al popolo, la povertà soccorsa, l'agiatezza comune, il viver lieto, e cento altre municipali usanze, fondamento di civiltà, cessa la meraviglia di veder popolo, beato dei suoi legami, correre volontario alla guerra dietro la voce dell'Imperatore che paternamente lo invita.»

Ma quali adunque sono i veri croati, o per dir meglio, a chi veramente compete la nota di barbari, ai chiamati croati, iquali rendono lieto e beato il vivere dei popoli, o ai civilizzati italiani, ì quali frano ano studio continuo per opprimerli ed ammiserirli?

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Ben disse adunque lo stesso Colletta nel suo sesto libro che «poco si addice e poco basta a noi molti italiani, troppo civili o  noncivili abbastanza per le imprese di libertà» poiché si vogliono costumi sani e non leggi tiranniche per far. libero un popolo. Saggio e leale è il legislatore che spiana il cammino ai progressi, non quegli che spinge furbamente la società verso un bene ideale, cui non sono eguali le concezioni della mente, i deriderli del cuore, gli abiti della vita. Oh Italia! e sarà dunque vero, che avrai sempre libero ed enfatico il pensiero, servo il cuore, pigro il braccio, e sarai scandalo e non forza in ogni politico evento?...


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PARTE SECONDA

DIFESA MILITARE

Tutti ripetono che l'Esercito delle due Sicilie si disciolse al 1860 e 1861. Ma come e perché si disciolse, pochi ancora lo sanno con coscienza, molti poi ripetono o le stoltezze che ànno letto in qualche stampa fanatica ed ubriaca, o le maligne parole di un Fanti e di un Ricasoli, quando si danno l'aria di scienziati nella storia contemporanea.

Noi, con quello spirito di amor proprio nazionale che Informar dovrebbe ogni cittadino, di qualunque opinione politica, non paventiamo di assumere la grave responsabilità di attaccar di fronte la menzogna, per atterrarla cogli argomenti della verità.

Ci proveremo a riuscirvi; ma pria di tutto ognnn sappia,che se per difetto d'ingegno non raggiungeremo lo scopo di saper ben descrivere i fatti, raggiungeremo quello almeno di far ricredere i male informati, poiché la verità autenticata da documenti, non può esser messa in dubbio che nel solo caso della distruzione dei fatti compiuti: e questo privilegio, l'uomo non l'à!

L'Esercito delle due Sicilie creato da Re Ferdinando II allorché ascese al Trono, fu formato con sì opportuni elementi, che i destini del Regno poterono per molti anni dirsi assicurati, in quanto alla forza armata che doveva tutelarli.

Qualche anno prima del 1848 però, l'Esercito subì una fase di trascuratezza, e andò a male quello che vi era di buono.

Fu opera del destino o dell’uomo, quella illogica trascuratezza?

Non è dato a noi, la cui farfalletta d'ingegno non si estolle a voli molto alti, di rispondere a questa domanda alquanto ardua, che solo potrebbe svolgere un critico storico, che non mancherà di appagare ogni curioso lettore.

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In quanto a noi, parleremo soltanto delle cause che resero l'Esercito disadatto a salvare nel 1860 e 1861 il Paese ed il Trono, ad onta delle migliori intenzioni della sua massa in generale per conseguire un cosiffatto intento; e ciò onde gli aristarchi da trivio, strozzino colle vere ragioni le loro ridicole stoltezze.

Ed in primo luogo, esso componevasi all'epoca del suo dissolvimento, di elementi discordanti fra di loro. Uffiziali, bassi uffiziali e soldati erano tre caste tutte fra loro disunite e disarmonizzanti. La classe degli uffiziali poi, la quale costituisce la parte pensante dell'Esercito, era divisa in cento caste, che l'una guardava in broncio l'altra, e questa mirava con disprezzo quella; gli uomini poi che componevano queste specie di caste, erano a soprassello, divisi gli uni dagli altri.

La differenza dell’arma, costituiva un distacco assoluto fra gli uffiziali di un'arma e quelli dell’altra; i sott'uffiziali e soldati, coll'esempio degli uffiziali, facevano lo stesso. La diversità delle commissioni, alzava una barriera fra gli uffiziali della stess'arma. La differenza degl'incarichi che avevano quelli addetti alle medesime commissioni, divideva questi. La maggiore o minor simpatia dei superiori e del Sovrano, che si riscuoteva dai pochi che partecipavano agli stessi incarichi, finiva di frazionare questa sparuta cifra di persone, che nell'insieme poi, vestivano tutti la medesima divisa militare dello stesso Esercito, ed avevano l'obbligo di mirare allo stesso scopo, quello cioè di essere gelosi custodi e difensori dell’onor nazionale, con lo scrupoloso adempimento dei rispettivi doveri, ognuno per la parte che gli risguardava.

Tale sacrosanto scopo però, era inteso dalla maggior parte degli uffiziali, ma per istinto o persuasiva individuale, non mai per forza di emulazione, la sola che può consolidare fermamente la coscienza dei proprii doveri in un intero Esercito.

Non diremo già del distacco fra gli uffiziali di mare e di terra, i quali per la differenza di specie, sembravano assolutamente nomini di due diverse nazioni sconosciuti fra loro; ma gli uffiziali dello stato maggiore, quelli del genio, quelli di artiglieria, quelli di cavalleria e quelli di fanteria, formavano tante caste separale, le quali erano suddivise e frazionate per come abbiano già indicato.

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E questa divisione, produceva la mancanza della forza di emulazione; la disparità dei pareri e delle opinioni circa al modo di adempire ai proprii doveri verso la Patria e la propria bandiera; la conoscenza vera di tai doveri veniva trascurata, donde la necessità di quei danni che sempre provengono dalla inadempienza di essi. l’egoismo, l'invidia, la gelosia, l'intrigo, s'insediavano là, dove avrebbe dovuto regnare il fraterno scambievole soccorso; la critica degenerava in maldicenza, e finiva colla calunnia; la presunzione dominava; la goffagine distruggeva l’educazione civile e militare; la diffidenza spegneva ogni buon volere: in tal guisa addivenne irreparabile la dissoluzione dell'Esercito, quando fu il momento in cui esso dovette rammentare lo scopo della sua missione, di adempiere cioè con determinata volontà ai proprii doveri (a).

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(a) Al proposito della calunnia, mi è forza esortare il canagliume che esercita il mestiere di calunniare, ad unir sempre un tantino di logica alle sue spiritose invenzioni, se vuole che esse fossero almeno momentaneamente credute.

La stomachevole ripetizione delle mie clandestine relazioni col nemico dorante l'assedio di Capua del 1860, e le mie notturne uscite dalla Piazza per confabulare con esso, sono calunnie senza fondamento di sorta dopo la stampa del mio APPELLO ALLA PUBBLICA OPINIONE, imperocché la nota (!) alla pagina 43, sarebbe stato pungentissimo stigma alla mia riputazione, se la mia coscienza non fosse limpida nello scrupoloso adempimento dei miei doveri.

E se la mia condotta durante le vicende politiche e militari del 1860 e 61 nel Regno delle due Sicilie non fosse stata positivamente quella del Soldato d'onore, e di onorato cittadino, or non potrei pubblicare questa difesa nazionale, poiché coloro contro i quali scrivo, m'imporrebbero silenzio pubblicando le mie fellonie, per esser quelli stessi coi quali io avrei dovuto vivere, secondo i sicofanti, in clandestine relazioni durante la campagna.

Quest'assertiva trae origine dalla goffaggine di un fu uomo dal cervello di pancutto, non che dalla gelosia di quei stolti che invidiarono la mia non invidiabile posizione dal Novembre 60 al Giugno 61; ed è stata sempre scioccamente ripetuta da altri, che per la loro indignitosa maniera di procedere, furono da me curati con severità di modi e con una certa durezza,

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Ma da che nasceva questa gelosia, questa invidia e questa animosità, molto nociva nei tempi burrascosi?

Pria di tatto, noi crediamo che fosse nata dalia fatalità che non si seppe sciegliere il personale che si elevava al di sopra di tutti gli altri.

Napoleone il grande, dava per comandante ad una brigata, ad una divisione ec. un soggetto, che si era fatto ammirare da coloro che doveva comandare, piucchè da lui medesimo che lo promuoveva; e così arrivò a quella unità di sentimento nel suo esercito, mediante la quale potette giungere a soggiogare due tersi di Europa.

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figlia del mio irrevocabile principio di trattar sempre gli uomini per quel che sono come uomini, e non per quel che sodo relativamente all'abito che indossano.

Francamente, e m'intenda bene chi deve intendermi.

Le seguenti parole che lessi nella Storia del Colletta libro ottavo «Nella mutazione degli Stati quel cambiar necessario di bandiera è cordoglio agli Eserciti, non onta; ma nel passaggio se alcuno palesi volontà, o ambizione, o letizia, dà pruova di animo incostante e servile» mi furono di speciale norma nella condotta che m'imposi verso i militari del disciolto esercito. Se gl'incostanti i codardi ed i senili mi giurarono odio e rancore ad onta dei benefizii loro largiti, poco mi cale, poiché sento una bella soddisfazione nel riscuotere la stima, e se vuoi la onoranza ancora dei miei compagni, superiori e subordinati, i quali àn sempre meritata la stima ed i riguardi dovuti all'uomo dignitoso. So bene che ai pettegolezzi ed alle scellerate improntitudini non si risponde dall'uomo d'onore; però te in mezzo alle immondizie umane si trova taluno che sventuratamente à vestito l'uniforme di generale Napoletano, che à la spudoratezza di ripetere vilissime calunnie per associarsi ai malvaggi, è necessario in tal caso di rispondere come ò risposto io, per emendare gli errori nei quali si è caduto, in largendo a casaccio brevetti di generali ad uomini inutili e privi di sentimenti di onore. La riuscita del militare in discorso, non poteva essere che la più triviale del mondo!

Qualche cronista à pubblicato che da Capua, un uffiziale napoletano, travestito si recò più volte al campo nemico per clandestine relazioni. O' le pruove della verità di quest'assenza, e conosco pure l'Individuo, che or non paleso, perché mi ripugna il notare il suo obbrobrioso nome io queste pagine.

Verrà giorno però, in cui la nota dell'infamia gli verrà meritamente stampata in fronte.

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Un individuo che deve far da maestro di cappella in un orchestra di ottimi professori à dovuto subire lo sperimento del merito in saper bene tenere l'archetto, per esigere stima, fiducia e rispetto da' suoi soggetti; diversamente la musica discorderebbe per la irritabilità in che cadrebbero coloro che si riconoscono più provetti e capaci del maestro.

L'Esercito, ed ogni amministrazione del Regno delle due Sicilie, à tenuto dei maestri di cappella e non pochi, che furono al di sotto degli altri professori; e ciò perché una trascendente fatalità spinse sempre i Sovrani ad invaghirsi di chi meno meritava; lo che ingenerava il dispetto, ed urtava la suscettibilità dell’amor proprio di coloro che si vedevano posposti ad un Quilibet non capace di preferenza. Quindi le facili funeste discordanze nell'orchestra quando à dovuto suonare pezzi di AR — MO — NI — A! —

Ed altra potente circostanza che ingenerava gl'inconvenienti anzidescritti, fu il fatale Almanacco militare, il solo che si consultava nelle promozioni.

In un Esercito come il Napoletano, la concessione di una spalletta a dieci, venti, trenta individui privi dei requisiti necessarii ad un uffiziale, era poco male, se quei beneficati si fermavano nei soli gradi subalterni; ma il male diveniva enorme quando quei trenta uffiziali, col sistema di antichità e niente altro, acquistavano il diritto adivenir tutti Generali, conservando sempre i loro falsi principii; la loro trascurata educazione, la stessa scarsa istruzione ec. Or quando essi divenivano Capitani, Maggiori, Colonnelli, quali vantaggi arrecar potevano alle loro compagnie, ai loro battaglioni, ai loro reggimenti? Potevano mai esigere eglino stima, fiducia e rispetto dai loro dipendenti, e da quelli uffiziali che avevano una sufficiente ragione di guardarli sdegnosamente, e di non accomunarsi ad essi?

Da ciò principiava a nascere la formazione di quelle caste di cui abbiamo precedentemente parlato. Ma di chi la colpa, se gli uffiziali si dividevano in caste, si odiavano e si disprezzavano a vicenda, se non di chi ebbe il gusto di un S. Antonio Abate, che s'innammorò di un majale; di chi con ostinazione voleva gli animi disuniti fra coloro che appartenevano ad una stessa classe;

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di chi non volle mai comprendere che l'antichità assoluta per gli ascensi degli uffiziali, é un colpo di pugnale agli Eserciti, poiché distrugge l'emulazione, ingenera la poltroneria e l'infingardaggine, e facilita l'ignoranza?

L'Esercito Napoletano adunque, mancava di unione e di concordia: é quando un Esercito non è unito e concorde, facilmente si dissolve quando è costretto a far la guerra; né è colpa sua se si dissolve, ma di chi o trascurò, o non volle che questi due sentimenti si fossero nudriti da persone che ànno l'obbligo di mirare tutti allo stesso scopo...

Solo la più severa disciplina può riparare al difetto di coraggio individuale, che in tutti gli Eserciti si esperimenta io taluni militari. Ma disgraziatamente l'Esercito napoletano, fa principalmente trascurato nella disciplina, la quale non vuole tirannia, indolenza e capricci.

Un reggimento, una brigata, una divisione, non sono un bascialaggio, o una cuccagna. Severità giustizia e buon esempio: ecco ciò che richiede a preferenza la disciplina militare, e quando uno di questi elementi manca, la disciplina svanisce come nebbia al vento, poiché l'obbedienza passiva e il timore delle leggi non si possono ottenere.

È vero che gli errori son degli uomini, ma taluni errori, e specialmente quelli che si commettono contro la giustizia, la severità, o il buon esempio, da chi è chiamato a tutelare la disciplina militare, si debbono punire con maggiore severità di quelli che si commettono da chi è chiamato soltanto ad osservarla; altrimenti a furia di cotanti errori si finisce col dissolvimento dell'Esercito per mancanza di disciplina, in caso di pugna— Ma è colpa dell'Esercito se si dissolve perché gli si è fatto mancare la disciplina necessaria, specialmente quella che parte dall’alto in basso?...

Uno statista disse, che per farsi la guerra vi occorrono tre cose, DANARO DANARO E DANARO; e mancando una di queste tre cose, non si può far la guerra.

Intanto, mentre l’Esercito napoletano si ritirava dietro il Volturno per imprendere colà una guerra difensiva ed offensiva secondo le circostanze, si lasciavano i milioni pecuniari

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a disposizione del nemico che si voleva combattere, facendosi perfino mancare il prest al soldato ed il soldo all'uffiziale che dovevano combatterlo. Ne venne di conseguenza, che l'Esercito napoletano, mancando degli articoli più indispensabili alla guerra, succumbette: ma potevasi ciò evitare?...

È anche indispensabile necessità per un Esercito che debbe combattere, che i suoi condottieri meritassero la fiducia delle masse, appresso a pruove clamorose di loro carriera militare.

L'Esercito delle due Sicilie, nella campagna del 1860 e 1861, salve poche eccezioni, non ebbe condottieri che meritavano fiducia; imperocché la maggior parte di quelli che fecero quella campagna,non aveva antecedenti personali da offrire. L'Esercito a di più, non aveva che soltanto qualche uffiziale di stato maggiore, il quale possedeva degli antecedenti sulla sua vita bellicosa.

Né intendo fare oltraggio a niuno, poiché si riverserebbe l’onta su di me medesimo che apparteneva alla seconda delle due classi, da me citate a preferenza perché su di esse poggia l’intiero edilizio della guerra: ma così parlando, intendiamo dolerci con chi non curò di fare acquistare in tempo opportuno ai Generali ed agli Uffiziali facoltativi, elementi sufficienti per meritare in campagna la fiducia delle loro truppe.

Se invece di farsi marcire nell'ozio delle guarnigioni per un intiera carriera, gli uffiziali Generali, quelli dello Stato Maggiore, del Genio, dell'Artiglieria, si fosse spedito volta per volta taluno di loro, in Algieri, in Crimea, a Solferino, a Magenta per acquistare merito o morte sui campi di battaglia, si sarebbe saputo il valore effettivo di quelli che sarebbero ritornati in Patria, e quando un valoroso fosse comparso innanzi la truppa per condurla al combattimento, avrebbe riscosso entusiasmo, applausi e fiducia, invece di conseguire freddezza e diffidenza.

Le sole cognizioni teoriche valgono poco in faccia alle masse, le quali desiderano il sussieguo di fatti pratici e materiali,per apprezzare colui al quale debbono affidare le loro sorti, la loro vita, il loro onore, (quelli che il comprendono) i loro interessi.

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Una grande corbelleria di un Generale che à rinomanza, fosse stata anche usurpata, non è per anco avvertita dai suoi dipendenti, i quali persuasi della valentìa del loro capo, lo giudicano con indulgenza non solo, ma si prestano con entusiasmo per riparare al già commesso sbaglio; viceversa, un errore di poco momento di un Generale che non à fama alcuna, e subito giudicalo col massimo rigore, e difficilmente riscuote più entusiasmo da coloro che prendendo conto dei suoi antecedenti, non vengono risposti come bramerebbero. Noi ritenghiamo che la sorte di una campagna, dipenda più da ciò che si dice riguardo ai Generali, negli accantonamenti ed intorno ai fuochi del bivacchi che precedono le battaglie, che dai piani accuratamente e dottamente ideali e stabiliti.

L'Esercito napoletano aveva vari Generali che offrivano una garenzìa sul loro valore guerriero; ma sol qualcuno di essi comparve sul Teatro della vera guerra nel 1860, e chi da Duce supremo vi figurò nelle operazioni fra il Volturno ed il Garigliano, non riscosse fiducia, perché non seppe spingersi ad una ostinata fermezza nelle proprie risoluzioni, che avrebbe potuto dare allora una forte probabilità di risorgimento, dopo i disastri di Sicilia e di Calabria, dopo lo inconsiderato abbandono delle posizioni di Salerno, dopo l'impolitico abbandono della Capitale del Regno alla rivoluzione, dopo della svista di essersi lasciati al nemico i principali mezzi che sarebbero occorsi all’Esercito, per fare la guerra, (a)

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(a) La malintesa devozione di quegli esperti Generali che onestamente rimasero fedeli al loro Sovrano, nocque al Re ed all'Esercito, quanto nocque la fellonia del Ministro Pianelli. Essi dovevano pur considerare che la inesperienza di un giovane Sovrano, aveva bisogno di energia e di eroismo, più che di una passiva sottomissione, nel punto io cui egli era giunto. Dovevano considerare che le sue volontà erano sempre figlie della infernale politica della setta che lo abbindolò sino all'ultimo giorno che tenne il piede nei suoi Stati. Bisognava perciò determinarsi di rimetterlo sollecitamene te sul trono nella Regia di Napoli, anche malgrado le sue opposizioni, se ne avesse manifestalo, per quella continua considerazione di risparmiare il sangue.

Nel 1849 Re Ferdinando faceva raggiungere io alto mare il Generale Filangieri che si recava alla riconquista deità Sicilia, e gli faceva raccomandare che avesse fatto in modo da risparmiar sangue: e questi con fierezza gli faceva rispondere, che la guerra non si può far senza sangue.

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Un Esercito che à la sventura di così difettare, non può far la guerra per guadagnare. Ma se alle sudette cause di dissolvimento, si aggiunge il tradimento e la defezione di vari Generali e molti buoni offiziali, potrà esso non essere sopraffatto e sperperato anche da una mano di Lilliputtìani, se andassero a combatterlo per impossessarsi del paese che esso difende?

Ad onta di tutto questo però, l'Esercito napoletano sostenne una gloriosa campagna per sei mesi, e se finalmente soggiacque a duro fato, vedremo in prosieguo come, e perché vi soggiacque.

Mille bravi sbarcarono in Marsala guidati da un bravissimo; e cosi li appello non per ironia, ma per convinzione.

Ma quei mille bravi, cosa avrebbero potuto fare, se il Generale Francesco Landi non li avesse facilitati in vece di combatterli? E qual colpa ebbe quella troppa, se per obbedire agli ordini del suo Generale, lasciò il terreno del combattimento in favore del già sgominato nemico, e prese la strada della ritirata? (a)

Quei mille, agevolati così dal Landi, ebbero agio di ingrossare le loro file coi soldati Piemontesi travestiti da Garibaldini, che loro spedi Cavour, e con tutti coloro che, o per vero malcontento contro del governo borbonico, (i quali furono  meno) o in grazia di novità, o per efimera speranza di far fortuna (e furono i più) si unirono ad essi, ed in pochi giorni si costituirono in imponente corpo di volontari, e si diressero alla conquista di Palermo.

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La stessa energia, la stessa fiducia nello adempimento dei proprii doveri nel settembre 1860 per parte degli alti Generali, avrebbe salvato il Re ed il Regno.

Niuno dimentichi che il Re Francesco 2° non abrogò mai la costituzione: ed un Ministro di Guerra ed un Generale in Capo di un esercito operante per la difesa del Trono e del Paese, ànno sotto il regime costituzionale, moltissimo potere. Bisognava energicamente avvalersene a favore del Trono e del Paese, per come se ne avvalse Pianelli per abbattete il primo, e rovinare il secondo.

(a) Leggi la nota N. 1, alla fine di questa seconda parte dell'opera.

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Ma senza il filantropico soccorso del Generale Ferdinando Lanza, avrebbe potuto quel corpo di volontarii resistere agli urti di circa 24 mila uomini di truppa disciplinata e fida, e farsi padrone di Palermo, se una sola brigata di quel corpo d'Esercito napoletano, lo aveva già obbligato a gridare il si salvi chi può?

Or qual biasimo meritano quei 24 mila militari, se il loro Generale in capo comandò il piede l’arme per cedere il paese al nemico, nel momento in cui una piccola porzione di essi, raccoglieva la vittoria e strozzava la rivoluzione? (a)

Ceduta Palermo, Garibaldi organizzò meglio il suo corpo di esercito, e marciò a Milazzo. La brigata comandata dallo allora Colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco, ivi spedita da Messina per combatterlo, tutti raccolse gli allori di una bella battaglia nel giorno 20 luglio 1860, con 1600 uomini contro 10 mila e più nemici, i quali sarebbero stati senza dubbio sperperati, se il generale Tommaso Clary avesse voluto comprendere che bisognava effettivamente aiutare la brigata del Bosco, altrimenti a lungo andare, ogni pruova di valore doveva riuscire inutile innanzi alla immensa disparità di numero e di ermi. (b) Il generale Clary però, preferì di far capitolare quella brigata

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(a) Leggi la noia N.° 2, alla fine di questa seconda parte dell’opera.

(b) Quali che potessero essere le considerazioni politiche di un Generale in Capo, egli non può giammai abbandonare alla ventura una parte della sua truppa che trovasi impegnala io un combattimento. In un tal rincontro, l'onor militare soltanto devesi tener presente, e nulla più.

Ma il General Tommaso Clary in Messina, decise di serbare con la rivoluzione la medesima condona del Lanza, e basta leggere il giornale del distinto Tenente signor Luigi Gaeta dello Stato Maggiore dell’Esercito Napoletano, intitolato Nove mesi in Messina e la tua Cittadella, per potersi coscienziosamente gridare la croce addosso al signor Clary, il quale merita un rigore maggiore del Lanza, imperocché costui fu sempre un uomo di poca entità, e molti errori commise per pura ignoranza; mentre che il primo non difettò mai d’istruzione ed ingegno, ed i rovesci subitisi per colpa sua, debbonsi attribuire unicamente a determinata fellonia.

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che egli stesso aveva spedito in Milazzo coll'incarico di combattere per battere e vincere il nemico, (a)

Or domandiamo, quale biasimo si debbe a quella brigata, se dopo le più belle ed incredibili pruove di valore, fu costretta a capitolare perché il suo Generale in capo così volle?

Quale biasimo vuole la truppa che difendeva la Piazza di Siracusa, se il suo Generale governatore chiamato Ferdinando Locascio, per bocca del colonnello Galluppi che comandava l'11° reggimento di linea colà di presidio, disse che il Re aveva lasciato il Regno per ritirarsi a Vienna, e mandava i suoi ringraziamenti a tutta l'armata pel modo come lo aveva servito; e così ottenne l'intento di non combattere la rivoluzione come sarebbe stato suo dovere? (b)

Molti di quei soldati ed uffiziali raggiunsero volontariamente l'Esercito combattente sul Volturno e sul Garigliano, maledicendo il Generale Locascio, ed il colonnello Galluppi che li avevano ingannati, (c)

Quale biasimo ricade sulla truppa di Calabria, se il Ministro della guerra Pianelli, da Napoli, tutto si cooperò per mandarla a precipizio? (d) Se il suo generale in capo sopra luogo,

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Leggasi la nota N.° 3, alla fine di questa seconda parte dell'opera.

Il 31 Agosto 1860, vale adire quando Re Francesco 2° era tuttavia nella Reggia di Napoli, il Locascio ed il Galluppi consumavano con un iniquo mendacio, un infame tradimento.

Quasi tutti i corpi sbandati, vennero volontariamente a raggranellarsi dietro il Volturno, ed era commovente il vedere come quei soldati, laceri, scalzi, defatigati pel lungo cammino fatto, affin di schivare i luoghi occupati dall'oste garibaldina, animavansi appena giunti in mezzo ai loro compagni; ed esclamando Viva il Re! chiedevano un arme per combattere, pria di domandare un pane, di cui avevano più gran bisogno.

Ma perché in luogo di andare alle vostre case siete venuti qui? Si domandava a quei soldati. Ed essi, perché è il nostro dovere, rispondevano.

Son questi i militari che si disprezzano! Ci si trovino i simili per fedeltà ed abnegazione verso il proprio Re ed alla propria bandiera, in ogni altro Esercito!

Onta eterna a chi li à calunniati! Eterna maledizione a chi li tradì!!..

Crediamo che la pubblicazione dei seguenti documenti ufficiali, sia sufficiente a costatare la cooperazione del Pianelli sopra i rovesci di Calabria.

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era nato per essere Abate di Montecassino, non mai soldato? Se i generali Ghio e Briganti, per ¡spiegata fellonia, Melendez e

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Stanco il Generale Bartolo Marra, destinato in Reggio per opporsi alla invasione di Garibaldi nel continente, di chiedere inutilmente provvedimenti di urgenza per mettersi in ¡stato di poter combattere contro un fortunato nemico, si decideva il di 4 Agosto 1860, di spedire la seguente rimostranza per via telegrafica.

Reggio 4 Agosto 1860.

Vedendo compromesso il mio onore se più rimanessi al Comando di questa Brigata la interesso spedire chi deve rimpiazzarmi, nella intelligenza che passerò la firma al Colonnello più anziano, Nessuna delle promesse è stata ancora attuata. Mancano le istruzioni, i Commissarii, gli Uffiziali dello Stato maggiore, il danaro pel Genio e Artiglieria, il pane dei soldati, il vestiario, la gente per far fronte al servizio si pretende, ed infine a quanto mi sembra la buona fede, per cui mi decido al passo di chiedere l'esonerazione di un sì lusinghiero comando. Se i miei onorati servizii meritano considerazione, spero una seconda classe, altrimenti lamia dimissione dal servizio militare.

F. BARTOLO MARRA.

Il di 5 Agosto, perveniva al Marra il seguente telegramma io risposta al suo, del giorno precedente.

«Il Ministro della Guerra»

«Al Brigadiere Marra in Regio»

Reggio 8 Agosto 1860.

«Non il ritenere il comando, ma l’abbandonarlo compromette il suo onore. Le farò rendere conto innanzi ad un Consiglio di Guerra del suo indegno procedere, e della conseguenza che può produrre sulla truppa, che da lei dipende. I futili pretesti che espone sono in via di esser dissipati. Io incontro ostacoli di gran lunga maggiori. Se mancano le sussistenze della truppa, faccia siccome mi trovo di avere ordinato al Maresciallo Viall con mio telegramma di questa mattina, cioè verbale di urgenza per prendere il danaro necessario dal Ricevitore, per eseguire gli acquisti pronto contante, e verbale a danno

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Caldarella per pochezza, avviluppavano in luogo di sviluppare quella truppa che dipendeva da loro, e quindi la costringevano ad abbassare le armi? Quale biasimo puossi addire alla truppa che stava in Abruzzo, se il suo Luigi de Benedictis,

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dello appaltatore pel servizio mancato. Mi riserbo di entrare in ulteriori dettagli più opportunamente».

Napoli 5 ore 2 45 ant. m.

L'ìnterp. Telegrafico

GIUSEPPB MORICCA

Una cosiffatta impudenza, feri profondamente l'amor proprio del Marra, il quale metieodo in non cale le conseguenze di un inconsiderato primo moto, spedi al fellone Ministro la seguente risposta con altro telegramma della stessa data.

«Il Generale Marra»

«Al Ministro della Guerra in Napoli»

L'indegno procedere è di chi non ha saputo o voluto disporre le cose come si doveano , di chi provvede agli urgenti, vitali bisogni con parole non con fatti. Replico nuovamente, che senta Commissarii di guerra il servizio non può andare; senza Uffiziali dello Stato Maggiore è lo stesso che stare privi di braccia e di occhi, io basterei se la zona del mia comando cadesse sotto ai miei occhi, ma sembrami che costà non si conosce lo stato del paese nel senso topografico politico.

In ultimo V. E. mi permetterà dirle che le minacce con un Uffiziale come me, sono argomenti da non usarsi. Metta in esecuzione, e lo desidero caldamente, il suo pensiero, e spero pruovare che l'onore è stato sempre mia guida nella non breve mia carriera (benché sempre mal compensato) cosa che non da tutti si può dire e me ne appello alla memoria dell'E. V.

Da me tutto si è fatto qui per far fronte all'insufficienza de' mezzi e con sagrifizi anche personali.

Tutti i mezzi ho adoperati per far cessare Vinconcepibile abandono in cui si teneva questa voluta Brigata Mista.

Fin'ora promesse. Niun fatto compiuto se nonché in carta, e dietro tutto ciò fà le meraviglie che un Ufficiale Generale, il quale dopo di aver resi non ha guari de1 conscienziosi servizi si è veduto compensato o ringraziato nel modo che V. E. non ignora, fa di tutto per spogliarsi di un comando come questo ?

F. B. Marra.

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per prendersi una rivincita col governo delle due Sicilie, si lasciò sovvertire dalla settae deviò dal sentiero dell'onore, col favorire l’invasione, anzicché combatterla? (a)

Quale biasimo si dará alla truppa delle Puglie, se il suo Generale Filippo Flores, dopo di un seducente colloquio con un certo signore R. C. agente del comitato rivoluzionario di Napoli, ordinava ai suoi dipendenti di depositare le armi, stante che il Regno di Napoli non aveva più il suo Re, ed il Governo era caduto? (b)

Ma per Dio! Se un corpo infermo soffrisse una sola percossa non cadrebbe tramortito al suolo?

E l'Esercito delle due Sicilie, coverto dalle cancerose piaghe già descritte, non doveva succumbere a tanti colpi che ricevette dalla masnada dei traditori, che ci troviamo di avere enunciato?

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Conseguenza di un tal carteggio, fu il richiamo in Napoli del Marra per guardare gli arresti di rigore nel Castel Sani1 Elmo, e la destinazione del Generale Fileno Briganti al comando di quella truppa che seguitò a rimanere col beneplacito del suo nuovo comandante, nel medesimo abbandono, tinché non le si fece deporre le armi, siccome era stabilito.

(a) Non intendiamo di giustificare il Generale de Benedictis, poiché non è mai giustificabile un soldato spergiuro e fellone; ma intendiamo di far rimarcare taluni errori, che furon sempre causa di funeste conseguenze.

Dice l'erudito Magistrato Napoletano Benedetto Cantalupo, autore della Scienza del benessere sociale, che «le Nazioni sogliono subire tremendi malori, ma finché opera imparziale l’amministrazione della giustiziai è sempre possibile il riaversi diversamente ogni bene sociale periclita al primo serio urto, e suole cadere come corpo morto cade.»

Giureremmo, che se il Generale de Benedictis non fosse stato umiliato negli Abruzzi il 1859, quando ingiustamente lo si pospose ad un maligno biricchino chiamato Giuseppe Salvatore Pianelli, egli non avrebbe deviato dalla buona via, ed il signor Cialdini avrebbe trovato un forte ostacolo negli Abruzzi, che gli avrebbe impedito di giungere improvvisamente alle spalle dell'Esercito napoletano, il quale vantaggiosamente ribatteva i conati della rivoluzione.

(b) Quei soldati ed offiziali, facevano le grandi meraviglie quando raggiunsero l'Esercito in Capua, sapendo che il Re era in Gaeta.

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Eppure quell'Esercito che si è tanto bistrattato e calunniato, non succumbette, ani si raggranellò a Capua, a Gaeta, a Messina, a Civitella del Tronto, e quando si crede già cadavere, tenne incerte per sei lunghi mesi, le sorti della rivoluzione e dell'invasione Piemontese nel Regno di Napoli. Or, se già quasi cadavere fece questo, cosa non avrebbe fatto se non fosse stato tradito dai suoi capi, e ben costituito, si fosse trovato sui campi di battaglia? Se non fosse stato assassinato dal proprio ministro della guerra, il quale negli Abruzzi stabilì le trattative del suo misfatto, che poscia consumava in Napoli, allorché la setta riusci a farlo nominare Ministro della Guerra? (a)

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(a) Ecco alcune rivelazioni officiali, le quali dimostrano la traditrice condotta del Pianelli fin da quando era in Abruzzo,

Un bel giorno il Delegato pontificio di Bieti chiedeva un misterioso abboccamento al comandante la truppa accantonata in Città Ducale, e lo impegnava di far colla massima segretezza sapere al Generale Pianelli, che il Generale de Lamoricière desiderava parlargli. Avvertito il Pianelli si recava in Aquila da Chieti; ma non per addivenire alle premure dell'altro, sibbeoe per rifiotarvisi.

Cosa desiderava il de Lamoricière?... non si sa; ma ognuno ben intende cosa poteva costui volere da un Generale che agiva per la medesima causa. In ogni modo, il Pianelli era nell'obbligo di accettare l’invito, se non altro per trasmettere al Re la relazione di ciò che gli sarebbe stato, o partecipato o domandato. quest'era un obbligo indispensabile per lui; ma siccome previde che le richieste di quel Generale, dovevano essere necessariamente in diretta opposizione con quello che egli aveva concertato col partilo della rivoluzione, e che l'abboccamento lo avrebbe imbarazzato determinatamente si negò a prestarvisi.

Il 19 Marzo 1860, il Generale Viglia riceveva per mezzo di Pianelli, la partecipazione di lasciare gli Abruzzi per essere stato destinato al comando superiore del corpo & esercito operante in Calabria. Quella destinazione, lungi dal tornargli grata, portò la desolazione nel cuore del Viglia il quale si recò subito dal Pianelli per impetrare il suo appoggio onde lo avesse fatto esentare da quella commissione, preferendo di servir sempre da soggetto anzicché da comandante in capo; ma dopo l’abboccamento, esci dal gabinetto del Pianelli  più desolalo di prima. L'intimità in coi io era col Viglia e la mia affezione per lui, mi autorizzavano a manifestargli la mia sorpresa per quella sua ripulsa, e per l'angoscia che gli procurava l'onorifica destinazione ricevuta; ma per la delicatezza di lui, non ebbi mai la soddisfazione di sapere la vera cagione che lo travagliava.

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Se non fosse stato abbandonato da un gran numero dei suoi affiliati, parte sedotti da una malintesa

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Alcune esclamazioni però, come per esempio «mio caro Cava, voi non sapete in che epoca difficile ci troviamo» ed altre simili, mi diedero qualche lampo di luce in quel mistero, che poscia mi si disvelò quando mi fu dato leggere un rapporto del Pianelli al Re, con cui qualificava il Viglia come un pazzo immeritevole d'ogni comando, appresso alla ferma negativa di costui, in accettare la ricevuta commissione.

Il Generale Michelangelo Viglia possedeva tutti i numeri per star bene alla testa di un comando superiore. Istruzione, coraggio, fiducia ed amore in tutta l'armata; ed a tutto questo, aggiungeva la gloria acquistata a Goito a Peschiera a Curtatone, col.10° di linea nel 1848, dove egli era Maggiore. Quale imponente ragione lo determinava a ricusare un comando che Pianelli voleva assolutamente fargli accettare?

Non esito di asserire che delle infamanti condizioni si associavano a quel comando, e che per effetto delle quali il Viglia recisamente si negò di accettarlo.

Nei primi di luglio 1860, io mi accingeva a partire per Napoli da Giulia«nova con un permesso Sovrano. Il famigerato eroe di cui parliamo» per mezzo del suo fedelissimo Francesco Resta, allora Capitano del suo Stato Maggiore, oggi benemerente del Ministero Piemontese, misteriosamente mi commise, di fargli sapere sollecitamente dopo il mio arrivo in Napoli, e colla massima segretezza, se si vociferava nella Reggia la nemica a ministro di guerra del Pianelli.

Già prevenuto delle di costui buone relazioni colla setta rivoluzionaria, fui colpito da quella misteriosa commissione, e la sera confidenzialmente ne parlai a lungo col generale Palmieri che allora era giunto in Giulianova: ed alternando le dimande, fantasticavamo sull'anomalia delle speranze di Pianelli quando il Re pensava a nominare Ministro il Generale Ritucci, che in effetti lo precedette.

Signor Giuseppe Salvatore Pianelli, Conte in Ludolff, chi vi assicurava che il vostro Re, vi avrebbe nominato Ministro, appunto quando dovevate assassinarlo?

Ci assicura un autorevole personaggio, che dal Generale Revel (Piemontese) gli fu notificata la relazione in cui era il Pianelli col Cavour, fin dalla sua residenza in Abruzzo, affin di concorrere alla caduta della dinastia regnante in Napoli.

Allorquando io chiesi il mio ritiro dal servizio militare, appena mi giunge la partecipazione di essere stato riconosciuto nel nuovo Esercito italiano, mi si domandò dal detto Generale Revel, allora Direttore del Dicastero di Guerra io Napoli, e dal Generale Ricotti (anche Piemontese)

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e neppur soddisfatta ambizione, parte per poltroneria parte perché illusi dal mal esempio dei superiori e dagli ampollosi discorsi

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Comandante la Piazza di Napoli coi quali io era in intime relazioni per ragion del mio posto di allora, la cagione che m'induceva a rinunziare alla mia carriera: ed io con la mia solita franchezza risposi «perché dove servono i vili felloni Nunziante e Pianelli, non può servire un soldato d'onore» e soggiunsi, che se la combinazione mi avesse fallo trovare, come era probabile, sotto gli ordini di quei malvaggi, mi sarei con certezza perduto, specialmente se ci fossimo trovati in campagna, dove essi sicuramente avrebbero ripetute le loro viltà, e la loro fellonia. Il Revel non cercò affatto di dissuadermi dall'opinione che manifestava riguardo ad essi, e con un eloquente silenziosa confirmò. Il Generale Ricotti poi fece anche di più, poiché mi disse che i superiori della tempra di coloro che io voleva fuggire, si posson sempre disprezzare dall'uffiziale d'onore che è la sventura di dipendere dai loro ordini, senza bisogno di precludersi la propria carriera.

Ma senza andar tanto per le lunghe onde constatare la fellonia del Pianelli, gli domanderemo soltanto, perché il Conte Ludolff suo suocero, condanna la sua condotta, e lo detesta come un malfattore ?

Risponda a questa dimanda se lo può...

Giuseppe Salvatore Pianelli oltre di essere stato on fellone, fu sempre un codardo. Egli diede pruove non dubbie di viltà in Palermo al 1848, quando spedito alla testa del suo Battaglione Cacciatori per aprire le comunicazioni fra i quattro Venti e Palazzo Reale, rinculò dopo pochi passi, facendosi supporre ferito al piede, e sobbarcandosi alla umiliazione dei sarcasmi dei suoi dipendenti e superiori, quando si conobbe che la sua ferita fu da lui immaginata perché, non ebbe il coraggio di procedere contro il nemico. Nella riconquista della Sicilia poi al 1849, fu trovato sempre nascosto dietro qualche albero o in un abituro allorché la pugna ferveva a lui di fronte. E qui ci crediamo in diritto di dire, che un Pianelli il quale diede pruove incontestabili di fellonia (in Calabria nel 1848), e di viltà in varii rincontri, e che a soprassello fu sempre il nerone di tutti coloro che gli furon soggetti durante la sua carriera, non lo si promuove fino a Maresciallo di Campo e Ministro della Guerra, non lo si onora col titolo di Conte, non lo si preferisce agli uomini di merito effettivo; ma debb'essere abbandonato all'abominio, onde non renda quel pan per focaccia che egli à reso ai suoi benefattori.

Nel parlare di Pianelli, intendiamo parlare di tutti coloro, che beneficati dalla famiglia dei Borboni àn poi corrisposto colle nere ingratitudini.

E qui ci giova chiarire benanche, che se di Pianelli parliamo con vibrati accenti, più che non facciamo dei suo collega Nunziante, la ragione consiste in che Pianelli, se fu vile, iniquo, ingrato, fellone,

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della setta, ed altri finalmente, perché indispettiti da quello che gli veniva ingiunto o partecipato da chi aveva l'obbligo di raggranellare l'Esercito, ed invece operava per farlo diffinitivamente dissolvere? (a)

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fu pure onesto amministratore (come capo di corpo)  fu laborioso, fa un uomo di svegliato ingegno; mentrecché Nunziante, fu vile, iniquo, ingrato, fellone, infingardo, spudorato.... ed ignorante più di un asino. Costui adunque, non merita neppure l'onore delle nostre rampogne, ma il solo oblio ed il disprezzo universale!

D’altronde, se rifletti o gentil lettore che Pianelli, Ministro di Guerra, fece il maggior male del mondo, all'Esercito Napoletano, per come è dimostrato, troverai ben ragionevole che l'Esercito sudetto, a lui più che ad ogni altro imprecasse, senza posa e senza misericordia.

(a) Il mattino del 6 Settembre 1860 eranvi nelle anticamere della Reggia in Napoli, moltissimi affiliati isolati, fra i quali quasi tutti quelli dello Stato Maggiore Generale residenti nella Capitale, i quali chiedevano incessantemente ordini precisi per tutto quello che bisognava fare dopo della mossa del Re per Gaeta, come aveva stabilito.

Venne loro ripetutamente risposto che gli Uffiziali i quali non avevano truppa da comandare, potevano restare o partire a loro piacere, poiché il Re si recava al di là del Volturno per disciogliere diffinitivamente l'Esercito e recarsi all'Estero. Perfino il Capo dello Stato Maggiore disse ai proprii Uffiziali i quali lo scongiuravano a dar loro ordini precisi in quella occorrenza, che egli stesso non avrebbe raggiunto il Re; e con modi poco civili rispondeva alle premure dei suoi dipendenti, i quali, urtati nell'amor proprio per lo sgarbato modo con cui si vedevano trattati, decisero in buona parte di non seguir l'Esercito nella sua ritirata sul Volturno.

Si tengano presenti queste circostanze, le quali se non valgono a giustificare coloro che subordinarono il proprio dovere al loro amor proprio offeso, e ad asserzioni cui vollero prestar fede, servono almeno a non tenerli come felloni al pari dei Pianelli e dei Nunziante.

Ripeto qui, che la mia condizione dal Novembre 60 al Giugno 61, mi diede latitudine da convincermi, mediante una profonda osservazione sulla condotta da loro posteriormente serbata, che parecchi di quelli uffiziali che non seguirono l'Esercito al Volturno, posson meritare quella indulgenza che si dovrebbe assolutamente negare a taluni altri che camminano orgogliosi per aver soltanto respirato, durante la campagna dal Settembre 60 al Febbraio 61, le fresche aure del recinto di Zona in cui l'Esercito campeggiò, o perché rimasero appollaiati nelle casematte di Gaeta, o sotto le poterne di Capua e poscia spiegarono la più schifosa condotta, quando da capitolati o prigionieri dì guerra strisciaronsi come rettili immondi

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Se non fosse stato sfiduciato dalla troppo manifesta fellonia di tanti uffiziali di latti i gradi? Se non fosse stato sacrificato dall'Inghilterra cogli alati che porse alla setta rivoluzionaria in Napoli? Se non lo fosse stato coi lacci tesigli dall'Imperatore dei Francesi, lacci tanto più nocivi alla sorte delle armi napoletane, in quantocchè coverti da una ipocrita manifestazione di amicizia al Sovrano delle due Sicilie, onde poterlo ben trarre negli agguati di cui fu vittima?

E bisogna notare che comunque zoppo, consunto, ed estenuato dalla privazione di ogni sorta di vitale sostentamento, l'Esercito napoletano fu sempre temuto dai suoi oltramontani nemici, imperocché dessi non si deliberarono giammai di attaccarlo in campo aperto, e qualche volta che non poterono evitarlo, ebbero tale sgarbata accoglienza, che il sedicente invitto Cialdini, giurò di mai più cimentarsi in quella guisa, e fu fedele al suo giuramento, (a) Sicché possiamo ben asserire, che se l'Esercito delle due Sicilie

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ai piedi di un nemico, che ogni soldato Napoletano, tuttocchè vinto, à sempre il dovere più che il diritto di disprezzare, pel vituperevole modo con cui à guerreggiato, e poscia governato.

(a) Il 26 di ottobre, l'avanguardia dell'Esercito Piemontese, attaccò la retroguardia del Napolitano che si ritirava dietro la linea del Garigliano, e fu valorosamente respinto l'attacco da quest'ultima, che rimase a riposare tranquillamente sul luogo stesso del combattimento, mentre il nemico retrocedeva a passo celere.

Il 29 di Ottobre, l'Esercito Piemontese tentò forzare il passaggio del Garigliano, ma osteggiato da forte resistenza, si vide astretto dopo vivo combattimento a ritirarsi con forti perdite.

Ai 12 di Novembre, l'oste Piemontese favorita dal tradimento del Colonnello Errico Pianelli, si accinse ad attaccare gli avamposti innanzi Gaeta, ed il Maggiore Sinibaldo Orlando le insegnò con quanta faciltà i soldati Napoletani sanno impadronirsi di una posizione perduta, quando sono ben guidati.

Nel Novembre stesso, il Piemontese General de Sonnaz, scontrossi con 500 sbandati dell'Esercito Napoletano, che si raggranellarono per combatterlo, ed il detto Generale fa costretto a capitolare col nemico. Fu una forte Divisione, munita di Artiglieria e Cavalleria, che capitolò con 500 nemici, senza danaro, senza direzione, e senza alcuna risorsa di guerra. Son queste le sole volte che presso a cinque mesi di campagna nel 1860 e 61, l'Esercito Piemontese ebbe azioni di guerra in campo aperto con la troppa napoletana, ricevendo sempre le più amare lezioni.

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non fosse stato nel 1860 abbandonato e sacrificato dalla maggior parte dei suoi Generali, a cominciare dal Generale Filangieri; (a) ad onta pure degli elementi guasti che lo rendevano debole ed incompatto, avrebbe anche una volta soffocata la rivoluzione; l'invasione Piemontese non avrebbe avuto un felice risultamento,

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(a) Il Sommo Carlo Filangieri, determinatamente promise nel 1849 di riconquistare la perduta Sicilia, e di restituirla sottomessa e ricreduta al suo Sovrano, ed a tutto questo riuscì a dispetto dei tranelli Francesi ed Inglesi.

Al 1860, un altro impegno molto più importante, ma meno dubbio a quel personaggio, attesi i suoi talenti politici e militari, quello cioè di salvare l'intero Regno, ed il suo giovane Sovrano, a lui affidato, dalle mene rivoluzionarie e dai tranelli Piemontesi, Francesi ed Inglesi, gli gravava la coscienza; ma egli si limitò a permettere la promulgazione del più impolitico programma politico, allorché il novello Re ascese al Trono, ed a provvedere alle inondazioni serotine; e quindi si ritirò dagli affari nel momento in cui i suoi concittadini giustamente aspettavano da lui la loro salvezza.

Come? Perché avvenne ciò?..

Altri diasi la pena di svolgere quest'enigma, mentre sarei troppo desolato se nel levare il velo che ancora ricovre misteriosamente la condotta di lui, io trovassi ragione di dovergli rivolgere qualche rampogna.

Avendo servito sotto i suoi ordini nella campagna del 1849, acquistai per lui, politico, soldato e gentiluomo, una specie di culto religioso, come lo acquistarono tutti quelli che allora mi furono compagni. Epperò non potrei decidermi a trattarlo con durezza se per disavventura me lo imponesse la dura legge del veritiero cronista. Umiliato ed avvilito nel gennaio 1848, militando in Palermo sotto gli ordini del Generale Roberto de Sauget, fu il Generale Carlo Filangieri che sedici mesi dopo, terse le mie lagrime per la vergogna subita, cancellò l'onta che improntava la mia fronte, e mi restituì al mondo militare circondato di gloria, e coverto d'onore.

Chi deve tutto questo ad un uomo, può mai elevarsi a suo inesorabile giudice, senza divenire un ingrato?

Siamo persuasi che una inconsiderata ingratitudine verso il prefato personaggio, che addolorò metà dell’esercito, ci à privati del suo appoggio nel 1860.

Avendo risoluto di non voler giudicare la sua condotta, ci limitiamo ad osservare questo (come un avviso al lettore) sol per notare che la ingratitudine, presto o tardi, porla sempre conseguenze funeste!!...

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e non gemerebbe oggi il povero Napoletano, sotto il peso delle sventure  che l’opprimono.

 Comunque non sia nostro divisamente, come altrove è detto, di fare in quest'opera la esposizione storica delle operazioni militari eseguitesi dall’Esercito napoletano nella campagna di cui è parola, pure per poter raggiungere lo scopo di difendere l'Esercito di cui ci vantiamo d’aver fatto parte, ci è indispensabile che qualcuna di esse sia ritratta almeno superficialmente, per dare alla nostra difesa un elemento inoppugnabile di dimostrazione: e preferiamo parlare dell’assedio di Capua, perché essendone stato il Capo di Stato Maggiore, possiamo discorrerne con positiva cognizione di causa.

Capua, Piazza d'armi importantissima, fu non di meno fatalmente trascurata nelle riparazioni urgenti delle quali abbisognava, a causa dei grandiosi progetti di immegliamento, coi quali progettavasi di ampliare la sua periferia mettendola a cavallo al fiume. Nel 1848 principiò ad essere indebolita da Re Ferdinando 2.° con uno spaventevole ingombro, avendone fatto luogo di deposito generale di tutti i materiali di guerra del Regno, e magazzino generale dell’Esercito, e si completò la sua debolezza dal Ministro Pianelli, nello stesso tempo in cui gli eventi della guerra la destinavano a dover sostenere un assedio, poiché le si tolse parte delle artiglierie che formavano l'armamento ordinario, e la si privò della polvere, della munizione confezionata, e dei proiettili più necessarii per dotazione di essa.

Nel 1859 una commissione composta di distinti uffiziali delle armi speciali, presieduta dal Generale de Bouman, compilava un verbale esprimente la richiesta di molle riattazioni a farsi con urgenza; ma siccome si divisò di metter mano ai lavori quando si sarebbe dato adempimento al gran progetto, si trascurarono le riparazioni a quei deterioramenti che il tempo produce, e la trascuratezza delle riattazioni aumenta sempre. Quindi, allorquando la Piazza di Capua fu inopinatamente investita, si trovò debole in vece di piazza forte. Basta dire che in un assalto, il nemico avrebbe principiato a trovare opposizione difensiva, dove si suol sempre finire; poiché per la totale mancanza di opere esterne, il cui terreno fu destinato a pascolo degli animali vaccini e pecorini, la vera difesa contro di un nemico SOLDATO e non BOMBARDATORE, avrebbe potuto cominciare dalla cinta principale della Piazza e non prima.

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Con siffatti auspici, con pochissimi affusti atti a resistere agli spari; senza spianate ché s'improvvisarono coi dormienti della ferrovia; senza legname per blinde; con gli Ospedali quasi del tutto sforniti di medicinali e fasciature; senza danaro, per cui fu forza ricorrere ad un prestito forzoso per darsi qualche acconto alla truppa; coi magazzini di viveri e di commestibili di prima necessità quasi che vuoti, che occorse provvederli in parte ed alla meglio durante l’assedio; con un immenso numero di famiglie militari colà ricoverate durante la campagna, le quali aumentavano colle loro bisogne, le esigenze e le perplessità, gli ostacoli alla gagliardìa delle operazioni di guerra; con 12 mila abitanti, buona parte sovvertiti dalle insinuazioni della setta rivoluzionaria; con un immenso Clero ed un ragguardevole numero di luoghi pii, ragionevolmente intolleranti dei rigori della guerra, ed intercessori di pace a qualunque costo: Capua improvvisamente principiò a difendersi contro nemici di ogni nazione, provvisti a dovizia di quanto agli assediati mancava, e infiammati dalla lusinga di libertà e dell'unità d'Italia, mentre ai poveri assaliti si opprimeva il cuore e s'indeboliva il braccio, col susurrar loro all’orecchio che essi si macchiavano dell'infamia di battersi per togliere la libertà al proprio Paese, e la unificazione all’Italia.

La vigente libertà di cui godiamo da tre anni, e la già compiuta unificazione d'Italia, garentiscono la ragione che ornano quelli che cosi parlavano!..

Or, quanto tempo avrebbe potuto resistere una truppa, la più valorosa, la più agguerrita, la più disciplinata del mondo, che fosse stata destinata a difendere Capua nelle condizioni da noi descritte?

E non son fole le nostre, poiché Uffiziali Napoletani che si diedero alla rivoluzione, ànno consacrato alla stampa più di quello che io vengo dal dire, (a)

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(a) Leggasi la scientifica descrizione della Piazza di Capua e della sua difesa del 1860, nel Tomo 1. Fascicolo I. del giornale di Arte Scienza Storia

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Intanto il codardo (secondo il Fanti ed il Ricasoli) Esercito delle due Sicilie, sostenne per due mesi la difesa di quella Piazza, e quando arrivò proprio come suol dirsi colle spalle al muro per tutti i riflessi, allora capitolava; ma a patti non disonorevoli, forzando il nemico a renderglieli a malgrado della perfetta conoscenza in cui esso era, di non potersi ulteriormente protrarre la difesa.

E non fu generosità del nemico, ma fu ardente desiderio in lui di presto finirla, imperocché non il prode e generoso volontario, che si batté sempre a petto a petto, stipolò la capitolazione, ma fu il vandalo, il vile bombardatore Piemontese, che altro non seppe fare se non che bombardare soltanto.

Specificheremo l'ultimo stadio di quell'assedio, onde la storia tenga il giusto giudizio fra l'accusato di codardia e l'accusatore, il quale è codardo davvero,quando colla coscienza di non aver vinto pel proprio valore, ma sol per le sventure che colpirono il silo nemico, abusa della vittoria, figlia della combinazione,per commettere l’altra esecrabile viltà di insultare l'avversario inerme e vinto.

Ritenga pure la storia, le ridicole spavalderie dei Fanti, dei Cialdini, dei della Rocca, dei della Rovere, perché serviranno a pruomuovere il riso ai posteri...

Prendendosi da Gaeta qualche scarso approvigionamento di guerra; provvedendosi dal Generale Giovanni Salzano alla possibile ristaurazione di varie opere, mediante gli sforzi di zelanti uffiziali del Genio;  al rinvigorimento della disciplina fra quelle truppe già demoralizzate dai molti esempii di defezione avuti;

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Tecnologia militare, intitolato La Guerra, e scritto dall'erudito Uffiziale di Artiglieria Napolitana Giuseppe Novi.

L'Esercito Napoletano con si stancherà giammai di deplorare l'aberrazione di un così distinto uffiziale, che pel suo ingegno, per la sua dottrina e per la sua modestia, era una delle delizie dei suoi compagni d'arme, e l'orgoglio dell'Armata.

Quando lo si seppe sovvertito dalla setta, si provò un positivo rammarico da tutti coloro che avevano la fortuna di conoscerlo da vicino, e che avevano avuto luogo di apprezzare i suoi meriti.

I Sabaudi àn fatto di tutto per farlo allontanar da loro, poiché egli sarebbe stato la loro permanente umiliazione, se fosse rimasto nelle file dell'attuale Esercito d'Italia.

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alla fornisura alquanti viveri; ed al miglior governo possibile nello interno della Piazza: supplendosi da molti uffiziali di Artiglieria con pruove d'incontestabile valore ed opportuna sagacia, al difetto dei mezzi materiali per una gagliarda difesa: (a)

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(a) Il distinto Colonnello di Artiglieria Giuseppe Campanelli, Direttore del materiale di guerra e dell'Opificio pirotecnico di Capua, allorché gli fa domandato quanto tempo quella Piazza poteva resistere ad un assedio, francamente rispose pochissimo; da soldato d'onore poi soggiunse, che se si trattava della salvezza dell'onor militare, egli avrebbe saputo trovar modo da conseguire un cosiffatto intento. In effetti con prodigiosa operosità, e secondato dai suoi compagni e dipendenti, rattoppando vecchi affusti con scanni di letto per deficienza di ferro, mise in batteria una quantità di cannoni che erano in cantiere; attivò la costruzione della munizione confezionata di cui si difettava, e non fece mai mancare la necessaria carica ai pezzi io batteria; trasportò perfino nella Piazza le mole di un mulino di sua invenzione, per attivarle con la macchina a vapore dell'Opificio, onde provvedere di farina la truppa se ne veniva a mancare. In somma, mercé l'opera sua dirigente, resistette per due mesi quella Piazza, alla quale si era tolta dal Pianelli, la polvere, la munizione confezionata, i proiettili, e perfino un numero di cannoni che lasciarono inutilizzati i rispettivi affusti, ed un altro numero di affusti che rimasero in cantiere i rispettivi cannoni.

Crediamo che alla improvvisata difesa di Capua, l’Esercito Napoletano avrebbe dovuto a preferenza di tutt'altro la sua salvezza, se la notte del 19 settembre, si fosse disposto ciò che si fece il ottobre, poiché quella difesa che servi ad arrestare l'avanzamento del nemico,apprestò al detto esercito l'agio di ricomporsi a continuare la campagna.

Signor Fanti! Oh! quanti altri uffiziali dello Esercito da voi disciolto, al posto del Campanelli avrebbero saputo fare ed avrebbero fatto altrettanto | per arrestare due potenti nemici innanzi ad una Piazza di guerra, sfornita di tatui mezzi di difesa nel momento in cui venne attaccata ed assalita. Rammentate, che solo con un bombardamento, il quale onora ai difensori di Capua, per quanto umilia gli aggressori, poteste ottenere la cessione di quella Piazza, che ogni Generale non codardo e non iniquo, avrebbe presi militarmente.

Ci potrete rispondere che i Cialdini i della Rocca, i Fanti, i della Rovere e tutti i loro colleghi di NOVARA (1849), non sono educati alle imprese militari, poiché il loro forte è il vile tradimento, la vergognosa foga, e la empietà vandalica. Ma noi abbiamo il diritto di imporvi di non insultare chi può guardarvi con disprezzo!

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facendosi uno sciupo (ci si permetta quest'espressione) di zelante attività da molti uffiziali di ogni arma, classe, o ramo di servizio, si procedette alla difesa di Capua, ed allorquando il 24 di ottobre essa rimase diffinitivamente in balìa dei suoi mezzi, e comandata dal Maresciallo di Campo Raffaele de Cornè, che sostituì il Salzano, richiamato in Gaeta il 22 dello stesso mese, per essa ripeto, principiò quello che chiamasi ultimo stadio in un corpo umano affetto da tisi.

Nove mila uomini circa di truppa, furon lasciati dentro la Piazza. Eran molti per gli scarsi mezzi di sussistenza colà riuniti, eran pochissimi per le operazioni di guerra, imperocché la loro provvenienza dalle truppe sbandate, li rendeva diffidenti verso i loro uffiziali, indecisi nel combattere, poco utili ad una guerra disperata. Era tale il sospetto di quei soldati, che ogni leggiero incidente che essi non sapevano spiegare, bastava a farli credere nuovamente traditi; e non dobbiamo nascondere che qualche inavvedutezza diede argomento di credito ad un dubbio procedimento, per esempio quello della ostinala negativa ad una somministrazione di liquori a quei soldati che si battevano. Nelle riserve, sebbene scarsamente, pure ve n' era abbastanza per elettrizzare una partila di truppa che si destinava a salvare 1 onor militare; ma il Governatore negò sempre una bibita di vino a quei soldati pei quali il Governo lo aveva acquistato, ed i soldati se ne adontavano e più s'insospettivano, dacché maligni emissari facevano loro comprendere a modo proprio quella privazione, per promuovere un ammutinamento contro gli uffiziali, e dare al nemico l'agio di profittare di un triste incidente: senza considerare che un avvenimento simile, avrebbe potuto essere funesto al paese, più che a coloro che si volevano colpire; ed in effetti, l'ammutinamento che si verificò la notte che seguì la ratifica dei patti di capitolazione, e che si finì con un assalto a quei magazzini di viveri e liquori che si tennero ermeticamente chiusi durante la guerra, sarebbe stato fatale ai cittadini di Capua, se quei medesimi uffiziali che erano segno alle mire dei rivoluzionarli non si fossero cooperati con un'ammirevole abnegazione, in ridurre all’obbedienza i già sbrigliati soldati, e così far evitare una tremenda catastrofe a danno dei loro concittadini.

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Maledizione! Eterna maledizione!! a chi, per raggiungere uno scopo, non si fa alcuno scrupolo di adoperare nefandi mezzi.... (a)

Sin dal 22 ottobre, un forte corpo di truppa Piemontese sotto gli ordini del Generale della Rocca che prese il Comando Superiore, si unì all'esercito Garibaldino e circondò Capua, piazzandosi fuori il tiro dei cannoni della Piazza.

L'Esercito Garibaldino, al quale costò inauditi sacrifizi quell'assedio, fa dannato a lasciar raccogliere il fruito del guadagno a chi non seppe mai tollerare il fischio delle nemiche palle. Il della Rocca ed il Cialdini non ebbero mai la pretensione d guadagnare Capua e Gaeta; poiché comunque fosser tenuti per conquistatori dalla loro beata illusione, pur tuttavolta sanno bene di non poter esservici, perocché trovatisi sforniti di quel tale battesimo militare, comune a quello di un Lamoricière nella presa di Costantina, a quello di un Filangieri nella presa del ponte del Panaro, ed a quel lo ancora dell'or conquiso Garibaldi, il quale molto fece per prendere la Piazza di Capua coi suoi entusiastici volontari; e se non vi riuscì, lo fu dalla contraria fortuna, poiché la medesima truppa che aveva deposte le armi, e si era sbandata in Sicilia ed in Calabria sotto Generali iniqui, non si sgomentò di respingere sotto Generali di onore, i suoi assalti

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(a) A conseguir Io scopo di accelerare la resa della Piazza di Capua, si dava ad intendere ai soldati dalle suggestioni della rivoluzione, che la resistenza si protraeva dai Superiori non per attaccamento al proprio dovere  ma perché non si era ancora di accordo sul prezzo che si pretendeva per la cessione della Piazza. Quei soldati che erano stati vittime dei tranelli di Sicilia e di Calabria; che venivano dall'aver fucilato il General Briganti come traditore, facilmente credevano ad un altro possibile tradimento.

Si faceva loro sentire che il Governatore non poteva somministrare viveri o vino, poiché pattuiva col nemico la consegna di tutti i magazzini coi generi che vi si trovavano, la quale insinuazione produsse lammutinamento del 2 al 3 Novembre, tanto, che quando la sera del 2 fu pubblicata la stabilita capitolazione, i soldati si determinarono a fare un dispetto al Governatore saccheggiando tutti i magazzini del Governo.

Siamo venuti a conoscenza di questi abominevoli ritrovati dei rivoluzionarii, dalla posteriore concessione fattacisi da molti di quei soldati.

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innanzi Capua ed il giorno 19 settembre glie ne apporse tale una pruova, che non poté farne più dubbio, (a)

Il Generale della Rocca principiò subito la costruzione delle sue batterie di assedio; ma i suoi, non furono mai lavori di approccio, perocché coi cannoni rigati di lunga portata con vi era bisogno di approssimarsi alla Piazza, la quale affatto sfornita di cannoni eguali, solamente qualche volta giunse coi suoi' proiettili a lambire le opere nemiche.

I difensori osservavano il procedimento dei lavori, ma non avevano alcun mezzo per distruggerli.

L'espediente delle sortite era impraticabile, poiché scienza di guerra inibisce le sortite a molta distanza dalla Piazza, a causa che dovendosi percorrere molto tratto di terreno, riuscirebbe impossibile la necessaria sorpresa in quella specie di operazioni, e la truppa che esegue la sortita si esporrebbe ad essere certamente girata e fatta prigioniera, quando non sarebbe coperta dai fuochi della Piazza. D'altronde, per una sortita come quella che sarebbe occorsa per tentarsi la distruzione delle opere nemiche, occorrevano molti soldati, e determinatamente fiduciosi nei loro condottieri. Il numero non mancava, ma mancava la fiducia, per le ragioni che abbiamo enunciato.

Sicché il Generale della Rocca ebbe il primo vantaggio di poter costruire le sue batterie d'assedio intorno alla Piazza, senza essere molestato; ed il giorno 28 Ottobre spedi il suo Capo di Stato Maggìore Luogotenente Colonnello de Fornari presso il Governatore, con un gentile invito per la resa della Piazza. E verso le ore 4 p. m. dello stesso giorno, fu ingiunto a me dal Generale de Coroè di portare al Generale della Rocca un plico suggellato: era il riscontro di cui io ignorava il contenuto, perché fu compilato mentre ero assente dall’uffizio del Comando Generale per altri affari di servizio.

Conducendo meco uno dei miei subalterni, Tenente Lopez y Suarez dello Stato Maggiore, e con una competente scorta di cavalleria, mi recai al Quartier Generale nemico in Santa Ma«ria per eseguire gli ordini che aveva ricevuti, ed allorquando il della Rocca ebbe letto il contenuto del dispaccio che gli recai, fece trasparire il suo malumore dalla ricevuta negativa.

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(a) Leggasi la Nota N. 4 alla fine della seconda parte di quest'opera.

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Seguì una passeggiera discussione, nella quale mi lasciò scorgere che egli era perfettamente informato delle triste condizioni in cui si ritrovava la piazza, ed in un momento di pia animata conversazione, minacciò un imminente bombardamento, che io ritenni come semplice spauracchio, e sorrisi di vero cuore, perché attesa la sua conoscenza del nostro deplorabile stato, non poteva giammai supporre che quella minaccia si fosse effettuata.

Allorché fui però per ritornarmene nella piazza, principiai ad accorgermi della codardia del nemico col quale si dovea competere; ed ecco come.

Nel recarmi in Santa Maria trovai agli avamposti dell'assediante il Colonnello Garibaldino Salvatore Porcelli, Capo dello Stato Maggiore dell’Esercito volontario, il quale senza bendare né me, né la mia scorta, mi fece montare in un legno all'uopo preparato, e mi diede tutto l'agio di misurare le forze nemiche, poiché per preventivo concerto, il legno andava a lento passo.

Cotesto fu uno stratagemma, che subito compresi, e che mi deliberò ad eseguire una sortita il giorno 29, per dimostrare al Signor della Rocca, che comunque ci trovavamo fiaccati dagli eventi, pur nondimeno non temevano i suoi numerosi battaglioni.

Al ritorno che feci, fui per codarda soddisfazione bendato con tutti i miei, poiché il della Rocca, irritato dalla risposta del Generale de Cornè, e dalle mie fredde, ma non leggiere osservazioni, ordinò che fossi stato bendato, non certo per celarmi quello che già mi si era fatto vedere, ma per la viltà di sfogare in quella guisa il suo livore.

È da osservarsi sventuratamente, che questa specie di viltà è abbastanza messa in uso dai nostri conquistatori, dacché il Cialdini in Messina, infierì contro il Colonnello Patrizio Guillamat Capo dello Stato Maggiore della Cittadella, facendogli subire un durissimo trattamento insieme a tutti gli Uffiziali di Stato Maggiore dopo la capitolazione,

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perché seppe che il Guillamat coi suoi bravi dipendenti aveva manifestato sentimenti sempre contrari alla resa della Piazza, (a)

Ed a Teano, come in appresso si leggerà dettagliatamente, si vendicò col Generale Salzano che non volle accettare le sue offerte a patto di non più combatterlo, facendo prigioniera la scorta che si era colà recata col detto Generale sotto la salvaguardia della buona fede e dell’onor militare.

Ma è curioso vedere come pei felici conquistatori del Napoletano nel 1860, sia delitto ciò che forma oggetto di ammirazione per ogni soldato d'onore. Risulterebbe illogica da ciò la deduzione che tai conquistatori sentono attrarsi i nervi, quando s'imbattono con un avversario che pretende di battersi, e che si adattano più volentieri con un loro bien aime DUCA DI MIGNANO, e con un loro cheri CONTE DEI PIANELLI?... Lo giudichi l'intelligente lettore.

Ritorniamo intanto al Signor della Rocca il quale, per effetto di quella civiltà che gli attuali dominatori son venuti a spargere in questo Regno (sospeso fino a nuovo ordine dal suo grado e dalle sue funzioni per castigo della sua balorda buona fede) il Signor della Rocca dico, senza fare alcuna operazione di valor militare per impadronirsi della Piazza di Capua, alle 4 p. m. precise del giorno 1° Novembre 1860, cominciò a fulminare la popolazione, non la truppa, con un accanito bombardamento che durò violento sino alle 6 a. m. del giorno 2, né volle farlo interamente cessare, se non quando fu stabilita la resa della Piazza, imperocché per gloria esclusiva di colai guerrieri, il paese continuò ad essere bombardato

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(a) Il Commendatore Gaetano d’Ambrosio Comandante una Brigata di Fanteria nella piazza di Capua durante l'assedio, ebbe in Napoli la soddisfazione di umiliare con delle risposte dignitose e severe, il sig. della Bocca che goffamente lo rimproverava di essere stato esso sig. D'Ambrosio un accanito oppositore fino all'ultimo,per la resa della Piazza:

Sappiasi, che tanto il sig. d'Ambrosio che il sig. Guillamat; il contegno e la fierezza dei quali si elevano al di sopra di ogni immaginazione, rappresentarono cosi bene la dignità dell'Esercito Napoletano in quei rincontri, che ogni loro compagno d'arme gli deve un sincero ringraziamento, pel nodo con cui umiliarono quei gaglioffi.

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anche quando la bandiera parlamentare fu issata per trattarsi la resa della Piazza, che si dovette trattare sotto il fulminar del cannone se condo le jattanze del valoroso General della Rocca; e quella jattanza fu estremamente ridicola, perché profferita da chi era perfettamente sicuro di non poter essere offeso dalle nemiche artiglierie! (a)

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(a) Il suo emulo, l'esimio Cialdini gli fece la Scimia io Gaeta, e però crediamo di esserci bene apposti quando abbiamo colato che questi signori si somigliano di troppo io fatto di bravura.

Il Signor Cialdini il quale ci à riempito gli orecchi colla sua guerra dei sette anni in Ispagna, dovrebbe avere la gentilezza di rispondere alle seguenti domande.

1 Come dev'esser qualificato quell'uomo che nel corso di sua vita combatte or per un principio, or per un altro opposto a quello? Siccome ci occorre qualificarlo, desideriamo sapere ciò da lui medesimo.

2.A' esso Signor Cialdini fatto quella guerra, o vi à assistito? Oh! quanti presumono di aver fatto la guerra dopo di essersi beo cautelati nei momenti di tafferuglio: quanti soldati presumono di aver diritto alla considerazione degli assediati per essere stati in una piazza assediata, nascosti però sotto le casematte: quanti gradassi pretendono di essersi battuti io duello, perché ànno fatto un giuochetto di sciabla col patto espresso di non tirarsi colpi di punta né fendenti alla testa!

Bisognerebbe dunque che il Signor Cialdini ci faccia sapere con pruove autentiche, che fece davvero la guerra dei sette anni in Ispagna, altrimenti si rende bernesca la sua millanteria richiamandola o facendola citare io suo elogio, specialmente dopo del guanto pittatogli dal General de Lamoricière nello scrivergli che attendeva il momento di poterlo trattare avec la point de ses bottes, guanto da lui non raccolto. E al postutto dopo dei vibrati accenti di Garibaldi in Torino, i quali non lo scossero né punto né poco, si à certamente un diritto di dubitare di ciò che egli fa strombazzare dai settarii o dai ciarlatani.

3.Fu io quella guerra che egli imparò ad essere un cannibale, in vece di un soldato di cuore? imperocché solo un cannibale può inorgoglire delle immanità a tradimento, consumate in Castelfidardo, e dei massacri del 15 febbraio 1861 io Gaeta, quando 61 persone furono uccise e 27 altre furono ferite per la inumana voglia di fare incrudelire il bombardamento, in vece di farlo cessare durante la stipulazione dei patti di capitolazione.

Signor Cialdini! Il sangue di 4 uffiziali, 76 soldati ed 8 borghesi da voi massacrati nella piazza di Gaeta il giorno succennato,

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È utile rendere di pubblica conoscenza, che non si omise di far notare al signor della Rocca, che quel bombardamento era immoralissimo, perché colpiva i miseri cittadini che da lui si venivano a rigenerare, giusta i suoi proclami, colpiva gl'infermi nei non rispettati ospedali,ad onta della bandiera nera issata su quegli edilizi di dolore, colpiva i vecchi, colpiva gl'innocenti fanciulli, e non la truppa suo vero nemico. Ed in effetti la sola perdita di due soldati si deplorò in 14 ore di bombardamento, mentre la popolazione ebbe varii morti e molti feriti, oltre i moltissimi guasti che soffrirono i fabbricati.

Gli si fece considerare che la storia gliene avrebbe fatto un carico, e che vi erano ben altri mezzi in suo potere, più analoghi al decoro militare in quella guerra esclusivamente fra truppa e truppa, per tentare la presa di Capua, e non vi era alcun bisogno di servirsi dell’inumano mezzo del bombardamento.

Furon tutte parole perdute, poiché l'Eroe della Rocca lungi dal rientrare in se medesimo, rispose con un Tiberiano cinismo, che nulla gl'importavano i vecchi, i fanciulli, gl'inférmi, ciò che la storia avrebbe scritto contro di lui, poiché egli avrebbe messo Capua pietra sopra pietra, se non gli si cedeva subito, (a)

Apprendi o lettore a incivilirti con questi esempi, e tu Napoletano e Siciliano, che con una inconsiderata faciltà gridasti il crucifige

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non tarderà a rivoltarsi, se già non si è rivoltato contro di voi, per punirvi del vostro misfatto. I loro superstiti comparai di Esercito poi, àoao tutta la fiducia che verrà il giorno in cui si potranno rimisurare con voi a parità di condizioni, per vendicarli.

Ve lo assicura il

Vostro Devotissimo AMMIRATORE

TOMMASO CAVA nativo di Napoli

domiciliato in Napoli, disponibile in Napoli

(a) Il di 4 Gennaio 1861, Cialdini rispose pure ad un parlamentario che si dolse dell'inumanità con cui si traeva contro gli Ospedali di Gaeta, che egli tirava da per tutto senza inquietarsi degli ammalati.

Ha bisogna convenire che il tirarsi contro infermi e moribondi, è tale pruova di coraggio guerriero, che con à riscontro nella storia civile!

Felici coloro, che posseggono questa specie di virtù militare, la quale però non appartiene se non a guerrieri infami!!!

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al soldato tuo concittadino quando fa costretto di combattere le tue aperte ostilità, e gridasti l’osanna a quelle jene che ferocemente massacrarono fin dal primo istante i loro medesimi amici, quelli che loro spianavano la strada alla invasione, puoi ripetere le stesse parole, dando loro la medesima direzione, oggi che il rimorso ti rende più dure le sciagure che ti dilaniano da tre anni in qua 11..

Allora si stabilì la resa della Piazza, ed il giorno stesso si ratificò la seguente capitolazione.

Convenzione sulla capitolazione di Capua, combinato di mutuo accordo, l'ordine di S. E. il Generale della Rocca (CO' mandante il corpo d'armata Sarda) comandante il corpo d'assedio, e d'ordine di S. E. il Maresciallo di campo De Cornè, comandante là Piazza dai Commissarii sottoscritti, e quindi ratificata da'  rispettivi Generali comandanti.

Articolo 1.° La piazza di Capua col suo intiero armamento, bandiere, magazzini a polvere,l’armi, di vestiario, di vettovaglie, equipaggi da ponte; cavalli, carri, e qualsiasi altra cosa appartenente al Governo tanto del ramo militare, come civile, verrà consegnata al più presto, cioè nelle venti quatta ore dopo la sottoscrizione di questa capitolazione, alle truppe di S. M. il Re Vittorio Emanuele.

Articolo 2.° A tale effetto saranno immediatamente consegnate alle Truppe della prefata Maestà Sua le porte della Città, e le opere tutte di fortificazione.

Articolo 3.° l’intiera guarnigione della piazza di Capua compresi tutti gl'impiegati militari o presso l’armata, che si trovano in detta Piazzai usciranno cogli onori delle armi.

Articolo 4° Le forze che compongono la guarnigione usciranno colle bandiere, armi e bagagli, (ossia, zaino pei soldati, e bagaglio proprio per gli ufficiali), successivamente di ora in ora, a duemila uomini per volta. Esse dopo aver reso gli onori militari, deporranno le armi e le bandiere a piedi dello spalto (eccettuatigli uffiziali di ogni grado che riterranno la sciabla o spada), e saranno avviate a piedi in Napoli, donde verranno trasportate in uno de porti di S. M. il Re di Sardegna.

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Tutti li suddetti militari, meno gli ammalati, usciranno dalla Città per la porta di Napoli domattina 3 del corrente novembre a principiare dalle ore sette precise; saranno trattati quali disertori di guerra quelli che vi rimanessero senza essere impossibilitati a marciare.

Articolo 5.° Gli uffiziali d'ogni grado (ad eccezione dei generali che saranno trasportati a Napoli colla ferrovia) marceranno colle proprie truppe. Le famiglie dei militari non potranno seguire la colonna.

Art. 61 feriti e gli ammalati saranno lasciati a Capua sotto la garentia delle truppe occupanti: ad essi, se ufficiali, si permette di ritenere presso di loro l'ordinanza, ossia soldato di confidenza.

Art. 7.° Le parti contraenti nomineranno una Commissione mista, e composta per ciascuna di esse di

Un uffiziale di Artiglieria,

Un uffiziale del Genio,

Un impiegato d'Intendenza militare,

per ricevere e dare in consegna tutto quanto esisti nella Piazza e dipendenze, di pertinenza governativa D'ogni cosa si farà l'opportuno inventario.

Art. 8.° Mentre si farà la consegna delle porte e delle fortificazioni il capo dell’Amministrazione Militare a Capua, e tutti «contabili di ogni Corpo ed azienda militare e del Governo faranno fare la consegna del danaro che ritengono, quale sarà dimostrato dai loro registri verificati dai funzionarii di Intendenza del corpo assediante.

Art. 9.° Gli' uffiziali recheranno seco il semplice bagaglio.

Art. 10.° È convenuto che non dovranno esistere dopo la sottoscrizione della presente capitolazione mine cariche nella piazza. Ove si rinvenissero, s'intenderebbe come nulla di diritto la presente capitolazione, ed il presidio sarebbe esposto a tutte le conseguenze di una resa a discrezione.

Art. 11.° S'intenderebbe pure annullata la presente capitolazione qualora si trovassero pezzi di artiglieria, nella piazza, inchiodatilo se si mettessero fuori di uso fucili, carabine, ed altre armi.

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Art. 12.° Le famiglie degli ufficiali tanto della guarnigione di Capua, come di quelli appartenenti alla rimanente armata del Re Francesco li, che si trovano in Capua, sono poste sotto la protezione dell'armata di S. M. il Re Vittorio Emmanuele.

Art. 13.° I cavalli di spettanza individuale de signori uffiziali si lasciano in loro proprietà.

Fatta in duplice copia al quartier generale di Santa maria addi 2 novembre 1860.

Il Generale d'Armata
Della Rocca
Girolamo De Liguori Brigadiere
Gian Luca De Fornari.
Il Maresciallo di Campo Comandante
DE CORNÉ

Le ragioni che determinarono il Governatore a cedere la Piazza dopo 14 ore di bombardamento, furono le seguenti.

Allorquando la Piazza rimase in balìa delle sole sue risorse, il Governatore convocò il consiglio di difesa, il quale diede il risultato che segue.

Il Direttore del materiale d’Artiglieria dichiarò che la munizione esistente poteva fornire non più che sei giorni di fuoco, calcolando 12 ore di fuoco ed il consumo di 50 tiri al giorno per ogni pezzo; ma in un investimento più efficace in cui si era costretti di tirar con più frequenza e per più lungo tempo, si sarebbe avuta munizione per un tempo minore di sei giorni, in ragione del consumo: dichiarò che in caso di bombardamento, difficile sarebbe riuscito il confezionare quella polvere sfusa che ancora ritrovavasi nella polverista, attesa la mancanza di un opificio a pruova di bombe: dichiarò che nessun altro rimpiazzo poteva fornire agli affusti che per vetustà o per annosa trascuraggine non reggevano ai colpi dei rispettivi cannoni: dichiarò infine, che i proiettili, se non mancavano in numero, mancavano nella specie, poiché una gran quantità di quelli che esistevano in deposito, non corrispondevano ai calibro dei pezzi rimasti utili in batteria.

Il Comandante delle Artiglierie dichiarò, che ad ogni poco si vedeva mancare le bocche da fuoco sulle batterie, a causa degli affusti che venivano meno alle scosse dei colpi:

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dichiarò che ad onta dei tanti esperimenti fatti coi cannoni di più lunga portata esistenti nella Piazza, i tiri di essi non potevano giungere efficaci contro il nemico, attesa la distanza in cui si era situato.

Capi dei Corpi nel maggior numero annunziarono la sempre crescente sfiducia ed iudisciplinatezza della truppa, e protestarono di non poter rispondere dei loro soldati in un momento in cui l'ordine e la disciplina dovevano essere i principali elementi per guerreggiare con successo.

Comissario di Guerra dichiarò la scarsezza dei viveri in magazzino, relativamente ai bisogni della molta truppa esistente nella Piazza, (a)

Ma ad onta di tai sconfortanti dichiarazioni, il Governatore decise che la difesa si sarebbe protratta sino a che fosse rimasta una cartuccia da bruciare, e un biscotto da dare ai soldati. Che alla sventura della diffidenza ed indisciplinatezza della truppa si sarebbe alla meglio riparato con un aumento di solerzia per parte degli uffiziali, e spezialmente di coloro che si erano sempre mostrati zelanti custodi dell’onor militare.

Si parlò della possibilità di un bombardamento, ma non a lungo, poiché niuno supponeva che in quella specie di guerra, il nemico si fosse determinato a bombardare una così popolosa città, ed ognuno ritenne, che se pure 1 avversario vi si decideva, sarebbe stata un' ultima pruova del nemico, ancor lontana allora, e (per una dose di morale che pur si voleva supporre nell'invasore) leggiero e per solo terrorismo, in considerazione degli abitanti.

Casi estremi, avrebbero reclamato estreme risoluzioni j così conchiuse il Governatore, e sciolse il Consiglio.

Ma invece, alle 4 (p. m.) del 1 Novembre, per come si è detto, il Signor della Rocca, senz'altro preliminare di uso negli investimenti delle piazze forti, principiò un feroce bombardamento.

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(a) Undicimila incomplete razioni a secco era tutta la provvista di cui si poteva disporre per novemila e più uomini di guarnigione. Vale a dire un sol giorno di distribuzione.

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Alle 3 (a. m.) del giorno 2, il Governatore riunì nuovamente il Consiglio; s'intesero scemati di molto i messi di difesa, aumentata l'indisciplinatezza dei soldati, strazianti i lamenti della intera innocente popolazione la quale aveva già dato molte vittime, e molte devastazioni si erano verificate in quelle ore di barbaro guerreggiare:4 reiterati messaggi di implorata pace, sopravvenivano senza posa da parte del Cardinale Cosenza, il quale giunse fino a recarsi personalmente dal Governatore per indurlo a cedere.

Fu allora che, consideratosi salvo l'onor militare, e che altre poche ore di resistenza per consumare senz'alcun profitto quel residuo di munizione che si aveva, non avrebbe avuto altro scopo, se non l'immoralità di far soggiacere altre vittime di innocenti cittadini, a quel barbaro eccidio; consideratosi che lo stato morale della truppa per la sua indisciplinatezza, avrebbe potuto arrecare delle tremende conseguenze alla popolazione, contro la quale, perché dipinta rivoluzionaria e causa di quella guerra, i soldati erano incitati dai tristi soggetti esistenti in ogni milizia, audaci nelle calamità, terribili nella sventura; consideratosi finalmente che il dovere di soldato si era fino all'estremo adempiuto; il Governatore decise di sua spontanea volontà l'apertura delle trattative per la resa della piazza, le quali seguirono per come abbiamo innanzi accennato.

La brevità che ci siamo imposta in questo lavoro, e la sicurezza che in breve uscirà la dettagliata cronaca di tutti i fatti militari eseguitisi nella campagna del Settembre 1860 al Febbraio 1861, fra il Volturno e 'l Garigliano, ci autorizzano a restringerci in questo sommario cenno dei fatti relativi allo assedio di Capua. Chi desidera più estesi dettagli, attenda ancora un altro poco.

Frattanto è uopo di rivolgerci agli esosi detrattori dell'Esercito Napoletano, per dimandar loro se posson mettere in dubbio quello che abbiamo di già narrato, che comunque sia un episodio della funesta guerra in quistione, rivela però appieno come niun merito militare abbia avuto l'Esercito Piemontese per la vittoria riportata nella sua invasione nel Napoletano.

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È pur troppo vero, che il Piemontese della Rocca ed il Piemontizzato Cialdini, stipularono le capitolazioni col disgregato Esercito delle due Sicilie, ma di ciò non possono farsi alcun vanto, poiché essi non gustarono la vittoria del guerriero del 19° secolo, sibbene quella che raccoglievano gli Eruli, i Rugj, gli Sciti, i Gepidi, i Goti, gli Alani, dai quali, ogni mezzo il più iniquo, era barbaramente usato per soggiogare popoli inabili ad una gagliarda difesa.

Chi vorrebbe negarci questo, dovrebbe aver la possanza di trovare un atto col quale il Piemonte avrebbe dichiarato la guerra a Napoli. Ma il Governo Sardo in vece, vilmente si prosternava e si dichiarava devoto ed amico del Governo Napoletano, anche quando i suoi soldati avevano varcato la Frontiera di questo Regno, poiché una prevenzione qualunque, avrebbe fatto prendere delle precauzioni, e se  l'Esercito Napoletano avesse potuto premunirsi in tempo, si sarebbe dato con sicurezza il piacere di riaccompagnare nel Piemonte l'Esercito Piemontese, per rinchiudere nelle prigioni di Torino i Cavour, i Cialdini, i della Rocca, i Fanti, i della Rovere, i.... e tutti coloro che ad essi somigliano per nerezza di animo, e per viltà di cuore.

Sappiatelo prodi bombardatori, che se per un momento solo il rauco grido dell'ubriaco partigiano politico, à fatto rimbombar l'aere dei vostri nomi, allorquando coi vostri vandalici mezzi avete soddisfatte le brame della setta alla quale appartenete, questo grido fugacissimo però è stato spento immediatamente dall'anatema che Iddio e la gente onesta vi ànno scagliato contro, e dall'abominio in che vi à giunto la storia imparziale.

Guai all’Italia, se farà ancora assegnamento in voi, o nei vostri simili, sarebbe irremisibilmente perduta, poiché Generali che possono gustare una certa vittoria, sol quando la fanno da' pertichini, come in Crimea, a Solferino, ed a Magenta, o quando possono impunemente bombardare, spolpando polli e bevendo champagne, non potranno giammai vincere truppa che non si troverà nelle misere condizioni io cui si trovò la Napoletana, non potranno sconfiggere Eserciti che non si troveranno minati dal tradimento, e rosi da tante ulceri come si trovò quello del Napoletano.

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I cannoni rigati, che con la solita enfasi italiana furon chiamati cavalli, furono un'arme potentissima contro di Capua, e di Gaeta che ne erano sprovviste; ma sarebbero ben vecchi per gli altri Eserciti, i quali non vi darebbero certamente la codarda soddisfazione di comandar fuoco da tutte le batterie, seduti a lauta mensa, o sdraiati in soffici letti, come facevano della Rocca a Santamaria, e Cialdini a Castellone, per la sicurezza in cui erano, che i proiettili nemici non potevano giungere al proprio campo.

Non si profferirà la Tiberiana frase di metter pietra sopra pietra la tale o tal altra città, poiché costerebbe cara all’impudente che se la permettesse; ed i prodi bombardatori di innocue popolazioni e di ospedali, tengono troppo alla loro pelle, per non essere orgogliosi che coi soli inermi, i quali si trovano innanzi ai loro cannoni CAVALLI!

Ecco perché l’Italia è costretta a guardar Venezia senza poterla conquistare, appunto perché fin quando l'Esercito Italiano avrà cotai capi alla sua testa, non potrà mai più tentare la sorte delle armi, senza ritenere come certa la riproduzione dei disastri di Novara, e però si fa già sentire che l'Italia, comunque fosse doviziosa di prodi e generosi soldati, parimenti che l'Austria; non può determinarsi a ripetere i suoi diritti con le armi, imperocché succumberebbe con certezza, e si desidera l'aiuto Francese, a conseguire il quale s'incantenano 22 milioni di italiani al carro imperiale di Luigi Bonaparte.

I veri guerrieri, con un pugno di soldati ànno eseguito portenti, l'Italia con un Esercito di 500 mila soldati che potrebbe organizzare, paventa di ripetere ciò che è suol Vergogna inauditi che si subisce, perché 22 milioni dr italiani, non sanno prender per l'orecchio cotesti vili capi dell’Esercito, e gli immorali governanti e rappresentanti della nazione, per gittarli tutti nelle pozzanghere, e mettere ai loro posti, uomini generosi e leali, i quali rifuggendo dal trarre un utile esclusivamente proprio dal così barcamenare i popoli, difilatamente definirebbero questa grandiosa ed in un tempo funesta quistione dell’unità italiana. E se anche un rovescio si toccherebbe, renderebbero pur sempre un gran servigio ai diversi popoli d'Italia, poiché li farebbero onoratamente sortire dall'attuale angosciosa atonìa, e dal vergognoso servaggio in cui li tengono gli attuali iniqui governanti, ed i codardi capi supremi dell'Esercito.

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Così facendosi, o l'Italia si unificherebbe davvero, ed allora gloria imperitura nella storia del secolo, e vera e non efímera indipendenza, grandezza e possanza in Europa, sarebbero i grati frutti che raccoglierebbe, o si frangerebbe nuovamente innanzi alle armi straniere, e le resterebbe l’ammirazione del mondo, perché cadrebbe come cade il prode, il quale è pur sempre soggetto ai capricci del destino. Ma se l'Italia subirà un altro smembramento per opera degli attuali governanti, lo diciamo con dolore, ma ci è forza il dirlo, non resterà a noi poveri italiani, che lo scherno ed il dileggio del mondo intero, e la rodente miseria alla quale siamo ridotti per comprarci una siffatta onta!

Siano queste fugaci ma importanti riflessioni, oggetto di perenne meditazione per ogni italiano che sente vero amor di patria, ed à sincero attaccamento all’onor nazionale, frattanto noi ritorniamo ai prodi bombardato» di cui parlavamo, e diciamo loro, che il bombardamento è la guerra del codardo nel secolo decimonono, in cui il valor militare consiste solo nel petto e nella bajonetta. Il bombardamento ò la guerra dell’infame, perché non colpisce solo il nemico, ma recide le vite e distrugge le proprietà dei pacifici cittadini, colpisce gl'infelici, distrugge le opere monumentali del paese che viene gravato da quel flagello; ecco perché le leggi morali che pure esistono nella immoralità della guerra, lo inibiscono quando vi sono altri mezzi da adoperare contro il nemico, lo permettono solo in qualche caso estremo, per le piazze forti poco abitale, e già sgombre di abitanti.

Il bombardamento di Palermo nel 1860, fu appellato iniquo ed immorale dalla setta istessa, comunque sia stato di brevissima durata (due ore soltanto) e scagliato contro nemici in aperta guerra con chi bombardò, (a) Cosa dovrà dirsi poi dei bombardamenti di Genova nel 1849, di Ancona e di Capua nel. 1860, e di Gaeta nel 1861, in mezzo ai quali la storia registra quello di Palermo?

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(a) Non intendiamo di giustificarlo per questo.

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Del bombardamento di Genova che fa orrore, per la ninna resistenza dei Genovesi, che lo avesse in qualche modo giustificato col motto di necessità? (a) Del bombardamento di Capua, che fa ribrezzo, perché contro 12 mila fratelli innocenti tutti di rimpetto al bombardatore in quella lotta?

Di quello di Ancona, che colpì una infelice popolazione?

Di quello di Gaeta, dove non si seppe far altro che bombardar per 37 giorni e 37 notti, a tale distanza da non esser molestato dalle artiglierie della Piazza, che conteneva una popolazione non meno innocente dirimpetto ai bombardatore?

Or come i capi di un Esercito che non à fatto positivamente nulla, eccetto che bombardare, possono aver la sfrontatezza di insolentire contro un altro Esercito (quando questo però più non esiste) il quale, sbandato, si riunì volontariamente sotto le sue insegne per battersi, senza avere altra risorsa che il proprio coraggio e la fede nel proprio dovere civile e militare, e nello attaccamento al Sovrano?; che licenziato innanzi Gaeta dal Re il 4 Novembre, per impossibilità di più tenersi, si riordinò e si batté il giorno appresso sol per avere la soddisfazione di tirare un'ultima volta contro il suo avversario, soddisfazione che non si ricusò ad onta che si pagava colla perdita della vita? Di un Esercito che ridotto agli estremi della penuria, lungi dal seguirne l'esempio, gridò l'infamia al traditore e si attaccò a) proprio vessillo che pur stava per abbandonare, allorché il Colonnello Errico Pianelli consegnò il suo Battaglione al nemico?; (b) Che affralito com'era sostenne un assedio come quellodi Gaeta che immortalò tatti coloro che vi presero parte un assedio come quello della Cittadella di Messina,

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(a) Leggine la descrizione nelle pagine 117,118, e 119, libro 5.° della storia di Brofferio.

(b) Il detto offiziale, traviato dall'esempio del suo germano Giuseppe Salvatore, era di guardia agli avamposti il giorno 12 novembre 60 innanzi il campo di Gaeta; e per antecedente concerto con Cialdini fece circuire il suo Battaglione (il 15° Cacciatori) e lo rese prigioniero, dando l'agio al nemico di piombare improvvisamente sui suoi compagni fidenti nella guardia che egli era chiamato a fare.

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dove ogni soldato, ogni uffiziale che possedeva una piastra la depose nella cassa militare allorché mancò il danaro, affin di togliere la probabilità di una resa per deficienza di mezzi pecuniari?

E ci si citi per la mercé di Dio, un altro esempio simile a questo dei difensori della Cittadella di Messina, i quali, non più per la speranza di salvare il Paese dalla iniqua invasione, ma per salvare l’onor militare e rendere quanto più amara era possibile la vittoria all'invasore, non solamente si batterono senza percepire stipendio alcuno, ma vollero rifornire con la loro economia la già esausta cassa militare, per cancellare con cotanto eroismo ed abnegazione, la vergogna che una mano di felloni aveva sparsa sull’onore dell'Esercito delle due Sicilie? Di un Esercito che a Civitella del Tronto sostenne una difesa, reputata degna d'essere registrata negli annali delle luminose operazioni di guerra?.. (a)

Ma credete davvero o camaleonti comuffati da eroi da romanzo, che le vostre jattanze potessero menomamente offendere l’Esercito Napoletano e discreditarlo nella opinione di coloro che non son usi a sragionare?

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Quindi sedé a mensa con Cialdini, ed alla fine del pranzo, istigato da costui, scrisse al Tenente Colonnello Antonino Nunziante Comandante l'8° Battaglione Cacciatori a seguire il suo esempio, locchè procurò al Nunziante quel Consiglio di Guerra che altrove abbiamo accennato.

Ci si dice che lo Errico Pianelli di cui parliamo, differentemente dallo spudorato suo fratello il quale impudentemente gode la solita sua vita e scrive menzogneri articoli sui giornali per ingannare chi noi conosce ancora, si è fortemente pentito del malfatto, ed è lacerato da un continuo rimorso. Epperò non aggiungiamo altro a questa rivelazione dalla quale non ab biamo potuto esimerci per debito di cronista, avvegnaccbè l'essere spietato con un disgraziato, non è di noi che con odiamo, ma compiangiamo i tra viali ravveduti.

(a) Un pugno di soldati tuttoché scienti della cessione di Gaeta e della uscita del Re dal Regno, e certi che le loro armi non avrebbero potuto né salvare il paese, né arrecargli un qualunque aiuto, giurarono di morire difendendo per onor delle armi Civitella del Tronto, anziché cederla al nemico senza un ordine formale del loro Sovrano Francesco 2. Ed in effetti occorsero due ordini del Re da Roma, perché avessero capitolato, mentre al primo ordinativo che loro giunse, non credettero, e ve ne volle un secondo per capitolar.

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Ebbene, che il Cielo vi conceda lunga vita, fino a poter leggere ciocche la storia registrerà sul vostro conto e su quello dei vostri calunniati; e se questo nostro voto sarà esaudito, i popoli Napoletani e Siciliani saranno abbastanza vendicati.

Intanto noi ora col Brofferio alla mano ricorderemo taluni fasti vostri, i quali possono ben schiudervi la mente a contemplare ciocche siete presentemente in faccia alla storia, desumendolo da quello che siete stati per essa nel passato...

In riguardo al valore militare di cui vi vantate, a pagina 88, 89 e 90 del 5. libro troviamo.

«Gli Austriaci malgrado la inferiorità del numero, si lanciarono sulle nostre truppe  (a) le quali non opponendo che  una debolissima resistenza, voltarono le spalle, e si ridussero fra le tenebre in città, recandovi la confusione e lo spavento.

«Il campo fu abbandonato a due soli battaglioni Austriaci.

«La Mormora, incappa nello stuolo di Benedeck, e con grande stento si sottrae al nemico, lasciando i suoi soldati che depongono le armi.

«Tutte le probabilità erano in favore dei Piemontesi, più numerosi, meno fatigati, padroni di scegliere il terreno; ma la poca precisione degli ordini di Krzanowski, (b) la timidezza dei suoi Luogotenenti, la poca fermezza delle truppe, e furon cagione della disfatta.

«Sire, (c) le truppe di Mortara non opposero al nemico alcuna resistenza, e fuggirono come tante passere.

«Non posso darmi pace come 22 mila Piemontesi, avessero  ceduto a settemila nemici.»

(a) Brofferio Piemontese, parla della troppa Piemontese nel 1849.

(b) Generale in capo dell’Esercito Piemontese.

(c) Disse Krzanowscki al Re Carlo Alberto.

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E rimproverato da un Ministro perché non puniva i fuggitivi, egli rispose.

«In che modo arrestarli, quando fuggono tutti?»

Fra quei timidi e fuggitivi vi erano i Signori Fanti, Petitti e della Rovere che in qualità di Ministri di Guerra dell'attuale Esercito Italiano, anno nei trascorsi tre anni simultaneamente cercato di Vilipendere l'Esercito Napoletano, procedendo sempre nella immoralissima via della iniquità.

E non trovi ridicolo più che doloroso o gentil lettore, che uomini dichiarati dalla storia timidi e fuggitivi innanzi a nemico fermo in gambe, siansi costituiti carnefici e detrattori di un Esercito il quale, tuttocché consunto. non fuggi mai innanzi a due potenti nemici, quando fu guidato da Capi non venduti alla rivoluzione? Non trovi bernesca l'appropriazione del titolo di conquistatore da chi con 22 mila soldati fuggi come fuggono le passere innanzi a soli 7 mila nemici? Non trovi che quando si ànno questi appunti non si deve tare da rodomonte e calunniare, poiché facilmente esce dai calunniati,qualcuno che rimestando sì vergognosi antecedenti si faccia a gii tarli in faccia al detrattore con la massima pubblicità onde imporgli un umiliarne silenzio? Non trovi che bisogna essere vilmente feroce, e mentecatto nel tempo ¡stesso, per potersi incrudelire contro il disgraziato,insultando alla sua sventura, ed esporsi così alla probabilità di essere lungamente umiliato innanzi al mondo intero?.. Alla pagina 100 dello stesso libro si legge, che Re Carlo Alberto obbligato a dover deporre la corona, esclamò

«TUTTO, E PERDUTO ANCHE L'ONORE!»

E chiuso in mesto silenzio, colla sola compagnia di un fido valletto, involavasi nel cuor della notte alla insultante pietà di coloro che lo avevano immolato. (a)

Adunque i presuntuosi attuali conquistatori della sventurata Partenope e della infelice Trinacria, furono tanto codardi e disleali, da far perdere non solo il Trono ma anche l'onore al loro Re? da farlo fuggire dal proprio Regno schivando gli sguardi altrui perché coverto di vergogna?

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(a) Son le parole stesse del Brofferio.

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Ma il da tal codardi dichiarato codardo Esercito delle due Sicilie, se non poté salvare il Trono al suo Re, decise di salvargli l’onore, e per Dio! glielo salvò; avvegnacché Re Francesco 2.° di Borbone lasciò il Regno coverto di gloria militare, e nona avuto mica bisogno di nascondersi, e di evitare gli sguardi altrui per non far leggere la sua vergognargli, tuttocché vittima delle più nere infamie, giurò di cadere da Re, e così cadde, dando la più solenne lezione di vero coraggio guerriero a tatti i Sovrani dell’epoca attuale che si fan chiamare guerrieri!

Né con questi richiami intendiamo includere la massa dell'Esercito Piemontese nell'obbrobrio che spetta ai capi di esso, poiché la massa sudetta à io altri rincontri mostrato il suo valore, per come lo ànno mostrato sempre i napoletani che si fecero perfino chiamare diavoli bianchi dal primo Napoleone: e se l'Esercito Piemontese allora subì quelle fasi, fu colpa del disleale ed ignorante Krzanowski che in unione degli altri suoi immediati dipendenti, per documentata vigliaccheria in faccia al nemico che aveva i mezzi per combatterli, tradirono il proprio Re, tradirono l'Esercito, tradirono il Paese, come àn fatto i molti generali napoletani nel 1860.

È superfluo il discuterlo. Le masse anno tutte il loro valore intrinseco, ed è devoluto ai condottieri il farlo sviluppare in battaglia, o l'invertirlo in poltroneria. Se i condottieri sono leali e valorosi, le masse fanno prodigii di valore, se sodo all'opposto codardi e sleali, esse divengono pecore selvagge, (a)

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(a) Dieci mila soldati Napoletani nel 1848, con seppero conservare il possesso della sola città di Palermo contro pochi rivoltosi sotto gli ordini del Generale Luigi Nicola de Majo, ed eseguirono la più vergognosa ritirata sotto quelli del Generale Roberto de Sauget.

Dodicimila poi di quei medesimi soldati ed uffiziali nel 1849 sotto gli ordini del Generale Carlo Filangieri, riconquistarono palmo a palmo l'intera Sicilia combattendo contro agguerriti soldati di tutte le nazioni.

Come va spiegato questo problema?...

Il famoso Generale Marck, il quale mori prigione in un castello della Boemia, procurò nel 1798 la taccia di codardia all'Esercito Napoletano che fece dissolvere per la sua ignavia ed imperizia.

Nel 1805 fece per la stessa cagione dissolvere in Germania un altro Esercito di centomila Austriaci nel breve periodo di due settimane.

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Quindi a voi soltanto o vili bombardatoli, timidi e fuggitivi innanzi a nemico armato, insolenti e feroci con nemico inerme e caduto, a voi soltanto tutto il peso dell’ignominia

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Quindi o codardi ambo gli Eserciti, o nessuno dei due. Ma siccome all'Esercito Austriaco non si appose quella taccia, perché si convenne che il torto fu del Mack, ragion vuole che neppure all'Esercito Napoletano la nota medesima si doveva regalare; e tantomeno in quantocché dopo la sua dissoluzione, quei soldati medesimi si unirono ad altri borghesi 9 e guidati da varii dei loro stessi uffiziali, principiarono una lotta tanto funesta ai vincitori Francesi,che costoro finirono coll'essere sopraffatti dallo scoramento. Adunque non fu per codardia che quell'Esercito si sbandò, poiché  codardi che fuggono innanzi al nemico che debbon combattere per obbligo, non vanno immediatamente dopo ad incontrarlo per combatterlo determinatamente.

Avremmo proprio il desiderio di aggiungere a questa, un'altra considerazione sopra fatti più recenti, che si stanno attuando nelle nostre provincia, e che sono la esatta riproduzione di quelli di cui sopra abbiamo discorso, ma... ma ci è indispensabile di reprimere questo nostro desiderio, e lo storico che già ci à compreso, non mancherà certo di svolgere egli quello che per ora noi non possiamo...

Conchiudiamo col ripetere le assennate parole del Colletta, il quale nel suo terzo libro dice che il valore negl'Individui è proprio, perché ognuno ne può avere in sé le cagioni; forza, destrezza, certa religione, certa fatalità, sentimento di vincere, necessità di combattere, sono le origini del valore individuale. Il valore nelle società e negli Eserciti si parte da altre origini; da disciplina, e da fidanza nei commilitoni e nei capi.

Il valore negl'individui viene dunque da natura, negli Eserciti dalle leggi. E poiché ci troviamo a ragionare di valore e di coraggio individuale, ci è d'uopo di osservare a Sir Walter Scott, che troppo elasticamente si espresse nei Tomo Sesto pagina 8 della sua Storia di Napoleone primo,quando parlò del difetto di coraggio nelle alte classi della Società napoletana, e facciamo riflettere che la causa fondamentale per cui negli uffiziali Napoletani il coraggio non è generalissimo (come non è in nessun Esercito) deriva esclusivamente da che in Napoli, per un principio di troppa cristianità, si è sempre tenacemente attutilo l'esercizio di esso, nella classe dei gentiluomini, col perseguitare le partite d'onore: che se ciò non fosse stato, e si fosse invece protetto lo slancio cavalleresco garentendolo con un tribunale d’onore che avrebbe evitati i stolti trasponi ed i ridicoli eccessi non si sarebbe dato luogo ad un'annotazione come quella che si permise il Signor Walter Scott, la quale colpisce tutti i Napoletani, inclusi coloro che ànno evidentemente dimostrato in mille rincontri

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che vi si scaglia contro dalla gente d'onore: non già a quella massa che se vergognosa pagina meritò nella storia, la meritò perché voi non sapeste incoraggiarla, la guidaste malamente pei vostri pravi fini, e la tradiste insieme al vostro Re! Non e conseguenza di un basso sentimento il nostro trasporto, ma è sfogo di nobile sdegno derivante dalla vostra impudente jattanza, che ci spinge a confondervi con vibrati accenti, or che siete ancora io tutto il vigore de) vostro potere; cosa che non faremmo se vi vedessimo sventurati e caduti, poiché inveir contro la sventura, è viltà degna solo di chi nona cuore in petto, né sangue nelle vene!!...

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a tutte le Nazioni di Europa, che il coraggio napoletano manifestato da coloro che non si son troppo brigati delta proibizione per esercitarlo, è più ammirevole di quello di alcuni altri gentiluomini, perché è coraggio freddo, sistematico, ragionato e scompagnato dai fumi de' liquori

Si abbia la compiacenza di chiedere all'attuale governo d'Italia lo elenco dei duelli avvenuti in questi tre anni di affratellamento italiano e si vedrà a colpo d'occhio a che giunge il coraggio del gentiluomo napoletano e siciliano, non che la sua suscettibilità, la sua temerità, ed il suo valore in fatto di partite d'onore.

Il coraggio è una materia elastica che si presta secondo il maggiore o minore esercizio. Nei paesi e nelle classi dove questo esercizio è represso, non dà tanto generalmente» perché l'uomo per istinto tende alla propria conservazione e facilmente fa buon viso alla proibizione di battersi perché poco comprende che nessun pericolo può abbreviare di un minuto il tempo di vita fissatogli dal Creatore.

Il popolaccio che non à bisogno di apparati cavallereschi e spesso neppure di armi per azzoffarsi, e che non attacca molla importanza ad un paio d'anni di prigionia per ferizioni, si esercita continuamente nelle prove di coraggio; ed ecco perché il popolaccio napoletano è più generalmente coraggioso delle classi alte.

Determinatamente siam d'avviso, che le partite d'onore debbaosi tollerare nei militari che son chiamati ad una missione tutta opposta a quella dei frati. Cosi soltanto si sviluppa il coraggio in chi ne difetta, e cosi si ottiene la cognizione di quali uffiziali si può contare nei momenti decisivi io campagna.

Ad onta però della proibizione dei duelli, i fatti dimostrano che non perciò il coraggio nel gentiluomo Napoletano e Siciliano l’è scotimento noto in assi.

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Per discreditarlo, si è attaccato l'Esercito delle due Sicilie sulla faciltà di commettere eccessi sulle popolazioni.

Astrazion facendo da ciò che ci riferiscono le diverse istorie circa agli eccessi che più o meno facilmente commettono quasi tutti gli Eserciti del Mondo nel bollor delle zuffe, avrebbesi potuto scagliare contro i soldati Napoletani un simile rimprovero, dagli odierni rigeneratori subalpini?

Prescindendo dalle immanità che da quattro anni circa si stanno consumando in danno di queste infelici popolazioni, si legge la seguente nota nella loro istoria, e propriamente alle pagine 97 e 98 libro 5.°

» Ma per desolare Novara non fu d'uopo che gli Austriaci la assalissero. Più crudeli nemici chiudeva nelle sue mura la città sventurata. Quei soldati medesimi che avevano debito di difendere la patria, conversero in essa le armi. Col pretesto che i cittadini avessero volutola guerra, s'introducetano con violenza nelle case, dove consumavano atti nefandi. Rubare, uccidere, stuprare, ardere, saccheggiare, sembrava un diritto per essi acquistato colla fuga, né furono minori le brutalità, le violenze,  saccheggi, nelle campagne e nei paesi, dove assetati di rapina e di sangue, si scagliarono i furibondi.

» Arona, Oleggio, Borgomanero, Romagnano, furono trattati peggio che paese nemico. Nelle provincie di Biella, di Novara, di Casale, di Vercelli furono manomesse le principali case che trovavansi in prossimità della pubblica via. Gli eccessi che si commisero fecero ribrezzo persino agli Austriaci, dei quali orribile a dirsi, si desiderò il pronto arrivo.

» A questi estremi fu ridotta la patria da coloro che se ne ì chiamavano difensori e custodi!  

Ed a pagina 101 poi si legge.

» I vincitori entrarono in Novara più attesi che temuti, ed all'aspetto delle miserevoli calamità sofferte dagli abitanti si mostrarono commossi.

» Più rea sventura non poteva accadere al Piemonte, dell'insulto fraterno e della pietà croata».

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Ma i soldati Napoletani siccome abbiamo detto altrove, furono anche incitati a saccheggiare i cittadini di Capoa, per la stessa idea di punirli perché avevano voluto la guerra; gli offiziali però s'interposero con ammirevole coraggio, e salvarono Capua da quelle sventure da cui i nostri detrattori non seppero salvar Novara, Oleggio, Borgomanero ete.

I soldati Napoletani} nella foga del trionfo, o nella rabia di una sconfitta, si son macchiati è vero delle nefandezze descritte dal Brofferio, eccetto le proditorie uccisioni che sono state rarissime, perché il Napoletano naturalmente non è sanguinario; ma con popolazioni apertamente nemiche; i sabaudi però, permisero quello scempio contro popoli del tutto amici, e che dovevano difendere dalla straniera aggressione.

Ed ora essi ardiscono gridar contro l'Esercito Napoletano, chiamandolo sanfedista?...

Ed altro carico che si appone all'Esercito Napoletano, si è, di spietatezza verso i proprii concittadini amanti di libertà; di opposizione alle riforme governative nel proprio paese; di cagnottismo al potere assoluto.

Ma ponendo da banda ogni considerazione sulla libertà che presentemente stanno dispensando i Sabaudi nel regno d'Italia, leggesi quanto segue nella recentissima istoria del Piemonte; ed alla pagina 135 del 1° libro, parlandosi della sommossa degli studenti dell’università di Torino, per ottenere le riforme costituzionali si attinge.

«Non furono tuttavolta i soldati quelli che si macchiarono in più gran copia dello strazio di pochi e disarmati gioviinetti; si recarono a gloria parecchi ufficiali di seguitarci c passi del Governatore (Thaon di Revel) per far pompa sotto gli occhi suoi di devozione alla assoluta monarchia; e fu dalla mano di costoro che vibraronsi i colpi più micidiali.

«Vedendo questi campioni del Trono che i soldati avevano i ribrezzo, a trafiggere inermi e supplichevoli fanciulli, spingevanli essi alla strage colla voce e con l’esempio.

«Si videro quei cannibali, alzare implacabilmente le sciable sopra i fuggitivi, e divertirsi a far macello degl'innocenti; si videro quegl'infelici strascinati pei capelli giù per le scale,

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che irrigavano del loro sangue; neppure sull'altare di Cristo, dove alcuni di quei miseri si rifugiarono, venne usata misericordia; i sacri arredi e le sacre ostie furono contaminate dalla mano dei manigoldi ed ebbero il sangue dei martiri.»

Però nella storia dell'Esercito che si è conculcato, col chiamarlo assolutista, non si legge un orrore ed una vigliaccheria simile!

Non fu in sostanza il tanto declamato quindici maggio 1848 in Napoli, una bazzecola, in paragone di questi vituperi che il civilizzato e liberale Esercito Piemontese, commise in Torino?..

Ed alla pagina 199 e 202, si legge intorno ai sentimenti dell’Esercito Piemontese, circa alle riforme liberali ed alla liberazione della patria dalla straniera dominazione, che —

«L'esercito risolutamente negava di volersi battere per quella causa; sempre dicendo di non volersi più battere per quella causargli Ufficiali adducevano vari motivi, onde ottenere permessi e ritirarsi; i soldati si sbandavano in tal numero che in un giorno, sotto gli occhi del Re che era a Vigevano, un solo Reggimento di Casale contò 600 disertori, ed un Reggimento d'Acqui, scese da 2700 uomini a poco i più di 600.

«Il Re intanto, lasciata Vigevano, stabiliva il suo quartier «Generale in Alessandria, d'onde ogni maggior cura a rannodare l’Esercito per tornare quando che fosse con nuove  forze a ripigliare le ostilità.

«Ma trovava pacifici spiriti nei Ministri,avversione costante nell’aristocrazia, e dichiarata ripugnanza nelle truppe, che con nuovo esempio di militare insubordinazione, dichiaravano ad ogni tratto di non voler più combattere.»

Ciò avveniva dopo che il 10° Reggimento di Linea Napoletano, comandato dallo allora Tenente Colonnello Giovanni Rodriguez, aveva meritato allori e decorazioni dallo stesso Re Carlo Alberto, per le leali pruove di valore che diede in favore della libertà italiana, a Goito, a Peschiera, a Curtatone ec. (a)

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(a) Il Signor Brofferio il quale nel 1851 scrisse tanto contro l'unità d'Italia,

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Addippiù l'Esercito Napoletano o Signori detrattori, non si è mai sbandato sotto gli occhi del proprio Re, il quale è stato sempre per esso la stella polare intorno a cui si è volontariamente riordinato quando a sofferto dei rovesci.

L'Esercito da voi calunniato non si è macchiato mai della nefandezza di protestare in massa a non volersi battere, quando il proprio Re glie lo a imposto per la difesa dello Stato; e quando nel 1860 non gli restò altra speranza che soltanto quella di morire eroicamente colle armi in pugno in una piazza da guerra, fece il seguente indirizzo al suo Re per mezzo dei pròprii uffiziali.

SACRA REAL MAESTÀ

Signore — In mezzo ai disgraziati avvenimenti, dei quali la tristizie dei tempi ci ha fatto spettatori afflitti ed indignati, noi sottoscritti Uffiziali della guarnigione di Gaeta, uniti in una ferma volontà, veniamo a rinnovare l’omaggio della nostra fede innanzi al Trono di V. M., renduto più venerabile e più splendido dalla sventura.

Nel cinger la spada noi giurammo, che la bandiera confidataci da V. M. sarebbe stata da noi difesa anche a prezzo di tutto il nostro sangue: noi intendiamo restar fedeli al nostro giuramento. Quali che sienv per essere le privazioni, le sofferenze, i pericoli, ai quali la voce dei nostri Capi, ci chiami, noi sacrificheremo con gioia le nostre fortune, la nostra vita ed ogni altro bene pel successo o pei bisogni della causa comune. Gelosi custodi di quell'onor militare, che solo distingue il soldato dal bandito, noi vogliamo mostrare a V. M. ed all’Europa intera, che se molti dei nostri col tradimento o la viltà macchiarono il nome dell’Esercito Napoletano, grande anche fu il numero di quelli che si sforzarono di trasmetterlo puro e senza macchia alla posterità.

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oggi unitario per proprio vantaggio, poteva compiacersi di dir qualche parola del dello Reggimento Napoletano nella sua Storia — È vero che avrebbe più aggravata la sorte dell'Esercito Piemontese, ma dietro quello che ne i pubblicalo, cosa poteva fargli un breve confronto?

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Sia che il nostro destino si trovi presso a decidersi sia che una lunga serie di lotte e di sofferenze ci attenda ancora, noi affronteremo la nostra sorte con rassegnazione e senza paura; noi andremo incontro etile gioie del trionfo o alla morte dei bravi con la calma fiera e dignitosa, che si conviene a soldati, ripetendo il nostro vecchio grido: Viva il Re.

Gaeta 20 Decembre 1860— (Seguono le sottoscrizioni), (a)

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(a) Nel settembre 1860 era stato disposto il congedamento dei soldati che vi avevano diritto. Fattosene lo spoglio sai registri, e compilati gli analoghi statini nell'ottobre seguente; nella cittadella di Messina si interrogarono gl'individui per conoscerne la volontà. Non vi fu alcuno che dichiarò di voler rientrare in famiglia, e tutti risposero che vi avrebbero pensato finita la guerra.

Immediatamente dopo la capitolazione di Gaeta, mi fu ingiunto di man mano disfare i battaglioni di deposito che io teneva in Napoli Nocera e Caserta, e di spedire i soldati al Colonnello Mella (Piemontese) incaricato di arruolare nel nuovo Esercito quelli delle ultime leve.

Allorquando trasmisi gli ordini relativi ai succennati depositi, si verificarono immantinenti tante diserzioni che allarmarono il governo.

Nella trasversata per la ferrovia da Nocera a Napoli, tre volle si verificò il miserevole spettacolo, che un di quei soldati ai quali spettava di essere arruolato nel nuovo Esercito, si precipitò dal Vagone mentre il convoglio era in rotta, preferendo una disperata morte, al servire sotto la bandiera contro cui aveva combattuto.

Il precennato Colonnello Mella un mattino prorompendo in una triviale e schifosa bestemmia e dando un forte pugno sopra un tavolino esclamò

» ma  se a questi soldati si spacca il cuore, gli si trova impressa effigie del loro Re!» per la recisa ripugnanza a servire nel nuovo esercito che scorgeva nei soldati e sott'uffiziali Napoletani.

Abbiamo notato queste cose, per dire ai felloni dell'Esercito delta due Sicilie; vedete quai soldati vendeste ad un'iniqua sella, e tradiste per favorire i carnefici del vostro Paese?

E lo abbiamo notalo pure , per dire ai nostri detrattori; se lai soldati non fossero stali assassinati da coloro che si fecero da voi affascinare, ed avessero avuto mezzi per far bene la guerra, ardireste presumere oggi di aver conquistato il Regno delle due Sicilie?...

E finalmente le abbiamo notate, per dire ai succennati carnefici; se non aveste avuta l'iniqua ispirazione di sciogliere l'Esercito delle due Sicilie , potreste trattar come conquistate queste infelici popolazioni?

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L'Esercito da voi disciolto, oltre del proprio Sovrano Francesco 2.° il quale à diviso da vero coraggioso e valoroso soldato tutti i pericoli e le angustie di lunga e cruenta guerra; oltre dell’eroismo della sua giovane Regina, eroismo unico nella storia del secolo; oltre dei Principi Reali che anno ben meritato il titolo di prodi guerrieri, à tenuto sempre i suoi Capi che lealmente àn preso parte nelle azioni di guerra, là dove il cimento era più grande, il pericolo più forte.

Il Generale del Bosco a Milazzo, fu conosciuto personalmente sul campo di battaglia da tutti i suoi nemici.

Nello attacco del 19 Settembre, il primo rilevante che si ebbe in Capua con l'Esercito Garibaldino, il quale aspettava tutt'altro che non ferma resistenza, (a) furono in prima riga i Generali Rossaroll e Negri, il primo dei quali sessagenario e da più anni era già fuori del servizio attivo; ma allorché intese tuonare il cannone dalla sua abitazione nella Piazza di Capua, corse sul luogo del combattimento, dicendo, che quando il cannone tuona non vi è né età avanzata, né ritiro per un uffiziale d onore, e diresse l'attacco dove fu gloriosamente ferito; di talché fu dal Re promosso a Tenente Generale sul luogo del combattimento, mentre lo collocavano gravemente ferito su di una barella per trasportarlo in quell'abitazione donde un'ora prima era uscito pieno di vita e di entusiasmo. (b)

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E da quest'ultima domanda viene la illazione, che l'Esercito Napoletano non fu da voi disciolto perché creduto codardo, come avete asserito; mi lo scioglieste perché v'incuteva spavento; lo scioglieste perché con esso io piedi non avreste potuto mettere cosi a saccomanno questo povero Paese!...

(a) Diciamo che l'Esercito Garibaldino non si aspettava una ferma resistenza allorché venne ad aggredire Capua il 19 Settembre, perché il Generale Raffaele de Pinedo che teneva il Comando di quella Piazza il 7 Settembre, aveva avuto la compiacenza di promettere alla rivoluzione la sua cooperazione per la facile conquista di essa.

Scoverte in tempo le magagne del detto Generale, si fece subito rimpiazzare dal Generale Salzano, il quale ricevé gli aggressori tutt'altrimeoti di come si attendevano.

Fu disposto lo arresto del de Pinedo per essere sottoposto ad un Consiglio di Guerra, ma si ebbe la cortesia di fargli sapere la bufera che lo minacciava, e gli ai diede l'agio di fuggir dalla piazza in veste da camera e pianelli.

(b) Dopo la guerra, sorti un Fanti che forse non avrà patito in vita sua

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Nella fazione del primo Ottobre, il Generale in capo Ritucci si mostrò dorante l'azione nel più fitto della mischia innanzi Santamaria, onde incoraggiare i combattenti, e promuovere la generale fiducia in lui. Ed è il suo ammirato coraggio persona le, che gli fa perdonare dall'Esercito Napoletano una debolezza e una fiatale esitazione, che anche tolse la buona riuscita di quella campagna al sudetto Esercito.

Abbiamo detto altrove che in quella campagna, assolutamente bisognava un Generale in capo di facile slancio, che ai suoi precedenti fasti militari ed alle sue cognizioni sull'arte della guerra, avesse aggiunta una determinata fermezza in faccia ad ogni specie d’opposizione che poteva impedirgli la libertà di agire a suo talento. Un tal bisogno derivava dalla eccezionale condizione in cui si trovava l'Esercito per le vicende patite, e dalle mene sempre crescenti della rivoluzione, la quale come serpe invisibile si attorcigliava intorno al Sovrano aprendosi un adito nel cuore di alcuni di coloro che gli stavano dappresso, e provocavano delle funeste opposizioni alle idee del Generale in capo operante, opposizioni alle quali il Ritucci non seppe tener fermo.

Fu somma sventura per l'Esercito, che il prefato Generale, dotato di lusinghieri antecedenti sulla sua vita militare, fornito di estese cognizioni e di un coraggio individuale a tutta pruova, difettò nella debita fermezza civile e militare, troppo necessaria in lui allora, anche più del coraggio personale istesso. (a)

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neppure la scottatura di un camminetto, e decretò che quella gloriosa promozione non gli doveva valere, perché ricevuta dopo il 7 Settembre.

Ma ridi Europa! ché n'ài ben donde guardando la logica, la modestia e 'l senso di coloro che si spacciano liberali italiani!!

(a) Saremmo biasimevoli però, se convinti come siamo che la più scrupolosa rettitudine di pensare à sempre guidata la condotta del Generale Ritucci in tutta la sua vita militare, non invitassimo la pubblica opinione a dolersi della sua debolezza col mite linguaggio del dolore, non mai con l'acre parola della severità.

Erasi deciso dalla Provvidenza che l'Esercito ed il Regno delle due Sicilie doveano patire le sventure che oggi deploriamo, e però quel medesimo Giosuè Ritucci che nel 1848 de semplice Maggiore in Venezia, seppe con ammirevole fermezza civile e militare imporre un limite alla tracotanza rivoluzionaria, alle proditorie prepotenze del Generale Guglielmo Pepe,

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E poiché ci troviamo a discorrere della fazione dello di Ottobre 1860, ci è opportuno il tiramento per osservar qualche cosa al Signor Pasquale Matarazzi da noi citato nella prefazione, (a)

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ed alle turpi gherminelle del Governo Sardo rappresentato colà allora dal Generale Marchese Colli; per sostenere i proprii diritti, quelli dell'Esercito è quelli del Governo Napoletano, fu nel 1860 e 61 talmente sopraffatto dalle opposizioni ai suoi disegni, dalla penuria di ogni elemento necessario per imprendere azzardate operazioni di guerra, dalla sua precaria condì rione di responsabile in faccia al mondo» senza godere la libertà di azione, poiché lo Statuto Costituzionale vigente in allora, conteneva no articolo il quale metteva alla esclusiva dipendenza del Sovrano le forze tutte di terra e di mare; che fini col non essere più lo stesso Ritucci del 1848.

La strettezza di questo lavoro non ci permette di giustificare con osa dettagliata narrazione dei fatti occorsi f la nostra opinione a suo riguardo, la quale si limita ad aver egli avuta una incompatibile debolezza.

Preghiamo coloro che vogliono avvalersi del diritto di giudicare il prefato Generale, a non azzardare alcun parere senza di aver letto il suo opuscolo del 1861 sulla campagna di quel tempo, e pria di leggere la cronaca di detta campagna che darà fra breve il Tenente Colonnello dello Stato Maggiore Napoletano Signor Giovanni delli Franci, se non si vuole incorrere in qualche ingiustizia.

(a) Pria di passare oltre, rendo notorio un discorso che ebbi il 6 Novembre 1860 col Colonnello Piemontese Santarosa, allora Comandante la Piazza di Napoli.

Il detto Colonnello, (oggi Generale forse) mi dimandò il perché la sera del 1°di Ottobre la truppa Napoletana non marciò sopra Napoli. «Non avreste trovato alcuna opposizione» ei soggiungeva «poiché l'Esercito Garibaldino fu interamente sperperato, a causa delle immense perdite che aveva sofferto, le quali finirono collo scuotere il coraggio dei superstiti; ed io aveva già principiato lo imbarco del mio reggimento, arrivato in Napoli per la via di mare, per ultimarlo appena avrei saputo lo approssimarsi della truppa napoletana. Nessuno sperava il regalo che ci avete fatto, col restarvene inoperosi al di là del Volturno, dopo l'aziooe di quel giorno»

Senza più andar oltre nella narrativa di quel discorso che fu abbastanza luogo ed interessante, basta ciò che abbiamo pubblicato, perché si abbia la perfetta e chiara idea di ciò che operò l'Esercito Napoletano il 1° di Ottobre e come facilmente avrebbe raccolta la più completa vittoria, se alte e ponderate considerazioni, non gli avessero imposto di ritornare alla semplice difensiva.

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Esso asserisce che la truppa la quale prese parte in quell'attacco ammontava a 36 mila soldati, i quali furono combattuti da soli 15 mila garibaldini.

Riguardo ai 36 mila regi, senza evocare lunghe dimostrazioni, osserviamo che togliendosi gli S mila uomini (giusta la cifra del Signor Matarazzi) della Divisione de Mechel che manovrò a Maddaloni e Caserta; togliendosene altri 4, 5,6, 7,8 mila che furono spediti a forzare la posizione di Santangelo, ed altri 4, 5,6,7, 8 mila (vedete come siano generosi Signor Matarazzi) che furono spediti contro Santamaria, avrebbero dovuto restare almeno altri 12 mila uomini di riserva.

Ma come va, che sin dalla prima ora in cui la battaglia principiò, si rimase senza neppure un plotone di riserva, lo che fortemente nocque al completo felice risultato di quella giornata? Dunque Sig. Matarazzi dovreste compiacervi di ridurre i vostri 36 mila borbonici, almeno a 24 mila, e se poi vi degnaste, lo che in buona coscienza potreste accordarcelo, di toglierne anche un altro quarticino da quest'ultima cifra, vi accertiamo che vi trovereste prossimo alla verità.

Circa poi ai soli 15 mila belligeranti che secondo voi formarono l’oste avversa ai borbonici; senza togliere neppure una parola alla vostra bella descrizione sul valore con cui combatterono, vi facciamo riflettere che se vi condoniamo la cifra da voi accennala, 1.° vien data una mentita al Generale Garibaldi il quale, fin dal 6 Agosto 1860, col suo proclama in Messina disse «se si paragonano i poveri mezzi che condussero un pugno di prodi sino a questo stretto, coi mezzi enormi di cui noi disponiamo oggi» ed allora, non era ancora in possesso di quelli che trovò nel continente. 2'° Cade di fatto la vostra

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Un altro colpo leggiero, ma pronto, avrebbe distrutta l'opera di 12 anni di cospirazione in Piemonte; ma questo colpo non dové vibrarsi, perché la mano ignota che regola i destini umani, lo sviò, forse pel nostro meglio futuro... Ci giova sperarlo!

La franca confessione del pregevole e leale signor Santarosa, atterra da per se sola tutte le fandonie dettesi; noi non aggiungiamo altro, se non la espressione della pietà che ci destano i così detti chiaccheroni.

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asserzione degenerale entusiasmo che produsse la rivoluzione capitanata da Garibaldi nel Regno delle due Sicilie, dapoiclié se dai vostri 15 mila combattenti si tolgono gli Ungheresi, i Francesi, gl'inglesi, gli Elleni, i Polacchi, i volontari Piemontesi, Lombardi, Toscani, Modenesi, Parmensi, Romagnuoli, Siciliani; Calabresi, Salernitani, Potentini, ed i soldati Piemontesi, travestiti da volontari garibaldini che il gran Cavour spedì in Napoli, cosa resterà per rappresentare i contingenti dati dalla entusiasmata capitale di 500 mila abitanti, e dai 20 mila cittadini della elettrizzata Santamaria, vostra patria e teatro della guerra? Resterebbe nient'altro che quanto basta per formare una compagnia, se pure.

E non vi sembra originale l’asserzione di un generale entusiasmo di mezzo milione di persone, rappresentato da un così sparuto contingente sul campo di battaglia, dove si decideva la realizzazione o lo svanimento dei desideri di tutto un popolo, tanto numeroso quanto quello della capitale degli Stati Napoletani? Non vi sembra impolitico il far sapere che il Borbone aveva 36 mila combattenti e Garibaldi 15 mila soli, quando tutto il Regno delle due Sicilie era contro del Borbone, ed in favore a Garibaldi, per come voi e molti altri storici come voi, assicurano?

Per amor del Cielo non prendiamo grossi granchi, altrimenti crollerà l'edilizio della rivoluzione!

Sicché, o ci fate grazia di portare a 15 mila ed uno l'Esercito Garibaldino, o ci autorizzate a dire che 1 entusiasmo generale per la rivoluzione, è una chimera di una mano di illusi, fra i quali con dispiacere vediamo anche Voi; chimera eguale a quella di molti giornalisti odierni, i quali perché scrivono pubblicamente, schiccherano sentente, volontà, pretensioni, aspirazioni, minacce in nome del popolo, dicendosi l'organo del pensiero popolare.

Sappiamo bene, che questa è una originalità di tutti i partiti esaltali, ma che mai volete? ci fa pena vedere che il nostro Paese sia messo in ridicolo dagli stranieri, i quali ridendo, leggono un giornale repubblicano che dice «il popolo vuole la «repubblica, e vi fa sentire per mezzo mio, che guai a chi vi si opporrà.»

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Contemporaneamente, un giornale pagato dal governo Piemontese, dice «il popolo è felice sotto l'attuale giogo, e vi fa e sentire per mezzo mio, che guai a chi oserà disturbare la sua gabaonitica felicità»

Frattanto un giornale murattiano dice nel modo stesso e con le stesse minacce, che il popolo vuole Murat.

Ed un altro garibaldino nel tempo medesimo dice che il popolo vuole Garibaldi per Sovrano.

Ed intanto lo straniero che legge tutte queste discordanti pretensioni dello stesso popolo, ride a piene ganascie sulle nostre povere spalle, perché riflette che un popolo il quale non è neppur capace di stirar l'orecchio ad un giornalista che senza alcun mandato del popolo, ma sol per quello di uno sparuto partito a cui appartiene, si eleva impunemente a relatore dei sentimenti popolari, sarà sempre vittima volontaria e paziente di tutti i più scaltri speculatori politici, tanto stranieri che indigeni.

Si lasci una volta l'orientalismo del nostro linguaggio, nelle cose che portano seco loro conseguenze funeste e spesso irreparabili, ed in vece di dirsi IL POPOLO che forse è ben lontano dal partecipare di quella idea) si dica «noi del tale partito vogliamo questo e quest'altro!!»

Così si farà sempre miglior figura, perché quando si mette in mezzo il popolo, ne vengono sempre le riconvenzioni come quella che abbiamo fatta al Signor Matarazzi sulla sua assertiva della popolare aderenza alla rivoluzione del 1860 nel napoletano.

Finché la stampa giornaliera non si limiterà a propugnar le proprie idee senza spirito di speculazione politica, e fin tanto che la declamata libertà della stampa non sarà osservata primieramente fra i partiti stessi, (come in tutti i popoli veramente civili) senza che il partito predominante la faccia da soverchiatore coll'aiuto dei camorristi confortati dal governo a seconda dei suoi interessi, non si potran mai sapere effettivamente i veri desideri del popolo, il quale non potrà determinare le sue aspirazioni, tra perché imbavagliato dalla prepotenza della camorra, come anche perché non trova come nei filosofici e gravi ragionamenti di una stampa dignitosa,

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modo da mettere ad esame le differenti merci dei vari partiti, per ¡scegliere quelle che gli sembrano migliori.

Decidiamoci una volta adunque ad agire in modo da mostrare che meritiamo quella libertà che pretendiamo, col non principiare a strozzarla noi stessi per voler assolutamente e con ogni mezzo ottenere la vittoria sulle altre opinioni opposte a quelle che si sostengono da un partito.

Siamo tutti concordi ed uniti a dar sul cozzo agl'iniqui governanti, onde ottenere che il governo del giorno, qualunque esso sia, curvi la testa sotto il pondo della vera pubblica opinione; e desistiamo di parlare in nome del popolo quando esprimiamo un desiderio di partito, lasciando alla sola feccia della stampa giornaliera, a quei diari, i cui redattori sono nati per essere schiavi venduti a chi li paga meglio, la facoltà di servirsi del nome del popolo, che in bocca ad essi nulla suona, perché gli schiavi volontari non àn riscosso mai credito nella umana società, se vogliamo esiggere stima e rispetto dallo straniero, in vece di riscuotere scherno e dilegio; se vogliamo rendere veramente meno trista se non lieta, la sorte di quel popolo che abbiamo sempre sui labri, mai nel cuore!

Ritorniamo intanto al nostro ragionamento col Signor Matarazzi, per confutargli un altra asserzione troppo velenosa, la quale non può condonarsi da un Napoletano ad un altro Napoletano.

Voi Signor Matarazzi, avete detto alla pagina 62, che essendosi rovistato il sacco a pane di qualche prigioniero borbonico, fuvvi trovato, quanto bisognava per animare un incendio, cioè ampolla di acqua di ragia e stoppa incatramata.

Siccome con ciò, avete voluto alludere non alla nequizie di qualche sciagurato capace di tanta infamia, ma sibbene ad una superiore emanazione per cosiffatto vandalismo, non esitiamo di richiamare alla vostra memoria il seguente ordine Sovrano, spedito alle truppe destinate appender parte nelle azioni di guerra, il quale fu letto e riletto il 1° di Ottobre ai soldati, con le più terribili minacce in caso di benché minima trasgressione.

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ORDINE DEL GIORNO DI S. M. IL RÉ

Gaeta 20 Settembre 1860

Soldati

Poiché gli avvenimenti favorevoli della guerra ci spingono innanzi e ci impongono di scacciare il nemico dal paese di cui si è impadronito, è mio dovere di Re e di soldato di rammentarvi che il coraggio ed il valore degenerano in brutalità ed in ferocia, se non camminano di conserva con la virtù ed il sentimento religioso. Siate dunque generosi dopo la vittoria, rispettate i prigionieri inoffensivi ed i feriti, prodigate loro co» me il ¡4° Cacciatori ne ha dato il più nobile esempio, tutti i soccorsi che saranno in vostro potere.

Rammentatevi bene che le case e le proprietà situate nei paesi che occuperete militarmente, sono il rifugio ed il sostegno di molti di coloro che combatterono nei vostri ranghi! Siate dunque umani e caritatevoli verso gl'infelici ed i pacifici abitanti, certissimamente innocenti delle attuali calamità.

Obedite sempre e prontamente agli ordini dei vostri superiori, abbiate sempre innanzi ai vostri occhi l'onore e la gloria dell'Armata napoletana.

L'Onnipotente Iddio, benedirà dall'alto il braccio dei bravi e generosi combattenti, e la Vittoria sarà nostra.

Firmato — Francesco (a)

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(a) Il Generale Giosuè Ritucci, personalmente accorse in Cajazzo col suo Stato Maggiore per evitare il saccheggio dopo l'azione del di 21 Settembre.

Il Generale Clary in Messina, nelle istruzioni che dava al Colonnello del Bosco che spediva io Milazzo per osteggiar Garibaldi, inseriva il seguente articolo.

«In qualunque ebrezza di truppa non permetterà il tacco e le ruberie. Non mi dilungo su questo capitolo perché conosco purtroppo i di Lei  sentimenti in proposito. Mi giova però renderla sicura che qualunque disposizione sia Ella per dare affin di punire qualche trasgressore, sarà da me approvata».

Ci si potrebbe obiettare che il signor Clary figlio adottivo della rivoluzione

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Cosiffatte disposizioni, che ingiungevano tutt'altro che incendi rapine e massacri da voi asseriti, voi le conoscevate quando scriveste il vostro opuscolo, e se non le inseriste in quelle memorie come sarebbe stato debito di un fedele cronista, ciò fu perché scriveste colla penna del partigiano e non dello imparziale narratore. Ma quello che non sapete e che ora io vi rivelo, si è, che allora quando il Re giunse io mezzo al campo di Capua la mattina del 1° di Ottobre,mi chiamò (io era in quel giorno Capo dello Stato Maggiore della Cavalleria pesante) e m'ingiunse di tener sempre pronto uno squadrone di cavalleria, per accorrere nei paesi occupati dalla truppa, se la vittoria permetteva; e mi dava il carico speciale di evitare ogni qualunque eccesso dei soldati sui cittadini, autorizzandomi di osare ogni rigorosa misura sui colpevoli, laddove questa mi fosse stata necessaria per evitare Io spargimento anche di una sola goccia di sangue cittadino. «Nella vittoria piucchemai, bisogna che i miei popoli esperimentassero la mia clemenza» furono le parole che chiusero quella magnanima ingiunzione che ebbi I onore di ricevere dal labbro Sovrano.

Signor Matarazzi, questi ordini sono in perfetta contradizione coi sentimenti incendiarli e feroci; e chi nudrisce questi sentimenti, non ordina quello che abbiamo avuto il bene di palesarvi.

Ve ne dico anche un'altra.

Il dì 12 Settembre, essendo capo di Stato Maggiore di una Colonna di Fanteria, fui costretto di recarmi dal Re in Gaeta per domandargli la esclusione dal comando attivo di taluni uffiziali, che male adempivano al debito di soldati in campagna.

Re tentennava, ed io colla mia abituale franchezza, figlia di una lealtà a tutta pruova, di cui ò la coscienza di potermi vantare, mi permisi qualche osservazione alquanto dolorosa in quelle circostanze. Allora il Re mi disse gravemente

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ordinava cosi per servire la rivoluzione. Ma noi risponderemmo che se quegli ordini non fossero stati sempre un dogma dell'Esercito, per sovrana emanazione, il signor Clary non avrebbe potuto permettersi di emanarli quando intendeva di conservare il mistero sopra i suoi sentimenti.

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«vedrete che sarò ora tanto severo per la disciplina militar e, per quanto sarò generoso coi miei traviati popoli, quando coll'aiuto divino ritorneremo nella Capitale del Regno: rammentate queste parole, che vi autorizzo di ricordarmi nel caso che qualcuno tentasse di farmele dimenticare».

Signor Matarazzi, lo avermi il Re Francesco 2° autorizzato di rammentargli lo adempimento delle sue promesse di clemenza, é pruova piucchè evidente della determinata generosità verso i suoi nemici.

E finalmente vò rivelarvene anche un'altra e poi basta, poiché la difesa del Re Francesco 2.° sulla sua magnanimità, si compendia per intera nella pubblicazione di ciò che racchiude la nota n. 5 alla fine della seconda parte di quest'opera, (a)

Il giorno che giunse in Napoli il Generale Garibaldi, io mi vi trovava tuttavia per disbrigare alcuni urgenti affari di famiglia, e fui spettatore di tutto quello che avvenne. Raggiunsi le bandiere il giorno seguente, e fui 1 indomani dal Re in Gaeta, il quale consapevole della mia residenza in Napoli il giorno 7 Settembre, volle sapere i particolari di quello che era avvenuto; e mentre io glie ne faceva la narrazione, un zelante uffiziale si permise di osservare con rammarico, che nessun soldato tirò al Generale Garibaldi da entro al Forte del Carmine, per esservici passato d'innanzi tanto lentamente per come lo riferiva. Avreste dovuto star lì in quel momento Signor Matarazzi, per sentire con quanta dignità il Re rimproverò l'espressione di quei sentimenti a quel fanatico ciarlone, dicendogli che si meravigliava come fra gli uffiziali del suo Esercito, vi era ancora alcuno che nutriva i bassi sentimenti del traditore; che Garibaldi si combatteva in campo aperto, non si assassinava, poiché esso seguiva l'impulso di un principio politico: quindi trattomi più in disparte si fece raccontare il resto, e quando mi congedò perché avessi raggiunto il mio posto, mi lasciò dicendomi l’ora che abbiamo adempito al dovere di padre dei popoli, risparmiando la Capitale dal flagello di una guerra civile, adempiremo a quello di Re e di soldato».





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(a) Leggasi la detta nota n. 5.

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Non trovate Voi signor Matarazzi qualche differenza, fra i sentimenti di Re Francesco 2° verso il suo nemico Garibaldi che venne a detronizzarlo, e quelli di un.... Rattazzi, di un Petitti ec. che l'ànno trattato come un bandito, dopo di averne ricevuto in dono due Regni in uno, ossia dopo di avere ricevuto ventidue provincie, coll'annessione pura e semplice di esse, al Piemonte?

Non istate a ripetere vi prego Signor Matarazzi, per dignità di cronista, tutte le stoltezze che si dicono per calunniare la sventura, e rammentate, che maledire e calunniare a chi cadde, è viltà facile, antica, impunita, come biasimare i potenti, è prova ardimentosa di coraggio e di verità....

Re Francesco secondo è stato prescelto dalla provvidenza a pagare con un esilio, lo scotto di molti errori non suoi; godiamoci adunque, le deliziose oppressioni, la piacevole miseria, la lusinghiera schiavitù, gl'inebrianti eccidii, i voluttuosi massacri, e le solleticanti staffilate, indigene e straniere, che il suo allontanamento ci à procurato; ma non discendiamo a calunniare la sventura assente, perché ci compriamo il disprezzo del mondo che giudica gli uomini dalle opere, e non dagli enfatici scritti!

Scusate, se vi parlo cosi franco signor Matarazzi, poiché la franchezza mi fu sempre una indivisibile amica 1 Altro rimprovero che non possiamo risparmiarvi, ve lo facciamo, per aver molto travisato i fatti, onde favorire l’oste garibaldina, i coi due terzi erano stranieri; affin di meglio servire all’Esercito Piemontese, il quale oltre di essere straniero ai napoletani, è quello che oggi massacra gli operai vostri concittadini che domandano per lavorare, un compenso adequato alle di loro opere, e calunniare e discreditare l'Esercito napoletano, il quale, oltrecché tutto di vostri concittadini, meno pochi esteri, non à mai massacrato persone che chiesero lavoro, con giusta ricompensa!

Se non avessimo prescritto un limite a questa difesa, potremmo confutare molte vostre relazioni, specialmente quando parlate di coraggio e di viltà, di fughe e d'inseguimenti, di valore e di nullità,di assalti e di respinte;ma ci limitiamo ad osservarvi una sola cosa che comprenderà tutte le altre per logica deduzione.

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Nella pagina 86, avete parlato dello attacco del 29 Settembre, ed avete detto:

«Il combattimento di questa giornata fu sostenuto con tenai ce resistenza da ambo le parti, e non ostante i replicati conati di assalto, la milizia (a) sempre ferma al suo posto coronava di nuovo alloro il valore italiano».

Or se la tenacità del combattimento fu eguale in ambo le parti, e la tenacità degli assaliti (fra i quali vi erano immensi stranieri) coronò di novello alloro il valore italiano; la tenacità degli assalitori, coronò di maggiore alloro il valore italiano, e per esso il valore napoletano, perché erano tutti napoletani i combattenti.

E qui amiamo aggiungere signor Matarazzi, che gli Uffiziali Napoletani e Siciliani da Voi nominativamente lodati perché si arruolarono sotto la bandiera di Garibaldi e combatterono contro Capua, essi di repente uscivano dallo stesso Esercito che voi cotanto bistrattate.

Io non saprei però, se con le vostre ovazioni avete loro prestato servigio piacevole; perocché passata la prima effervescenza di un cieco entusiasmo, eglino anno certamente riflettuto con pentimento e rimorso alla svista commessa di adoperare i loro non limitati mezzi scientifici, il loro coraggio ed il loro valore, per la edificazione di un edificio che à avuto per base la cabala e la ingiustizia fin dal primo istante che se n'è principiata la costruzione, e me ne appello alla lettera dello stesso Imperatore Napoleone al Re Francesco 2.° in data 6 Dicembre 1860; riportata nella nota n.° 6 alla fine della seconda parte di quest'opera. (b)

Si saranno sicuramente pentiti per aver volontariamente rivolto le proprie armi contro quella costituzionale bandiera, che avevano giurato di difendere da qualunque aggressione, la quale era simbolo di uno Statuto anche costituzionale che sarebbe stato certamente rispettato per quanto attualmente lo si contamina.

(a) Il Signor Matarazzi chiama cosi la truppa garibaldina.

(b) Leggasi la sudetta nota N. 6.

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Di averle rivolte contro i proprii compagni d'arme dai quali non avevan ricevuta alcuna provocazione, se provocazione non dovrebbe chiamarsi in questi tempi di aberrazione mentale in cui il significato delle parole viene spesso invertito, l'assegnamento che l'Esercito faceva sui loro talenti e sul loro valor militare nei solenni momenti della guerra.

Garibaldi non invitò mai nessun Uffiziale Napoletano a combattere in suo favore nelle terre napoletane, perché ad onta del suo entusiasmo per la causa dell'unità italiana, ebbe sempre abbastanza chiarovegenza da comprendere il passo falso che si commetteva da quel soldato che spensieratamente rivolgeva le proprie armi contro quell’Esercito medesimo, con ed in favore del quale aveva giurato di combattere se accettò i suoi volontarii servigi, fu perché la sua difficile posizione in faccia alla causa della rivoluzione, non gli permetteva di suscitar delle apprensioni e delle dubbie congetture nella mente dei poco sennati, con una recisa ripulsa; e la necessità di vincere e di vincere il più presto possibile, l'obbligava ad avvalersi dei rilevanti servigi che spontanei gli si offrivano da giovani uffiziali di tanto merito individuale.

Siam sicuri che il loro cuore, sensibile in ragione del loro coraggio, è oppresso oggi che tutti i loro concittadini, eccetto solo quelli che appartengono alla consorteria Piemontese, e quel ch'è più, il sangue delle vittime del bombardamento a cui essi detter mano, lor domandano: ma perché dunque non vi contentaste di abbandonare soltanto quelle file nelle quali principiaste e percorreste la vostra bella carriera militare, che le combatteste addippiù con tanta rabia, ed accanimento? Perché bombardaste vostra moglie, i vostri figli, i vostri parenti, i vostri amici, i vostri compatriotti? Perché vi siete tanto rabiosamente adoperati a togliere alla vostra patria, la sua autonomia, e la sua dignità, il suo splendore, la sua quiete, il suo commercio, le sue ricchezze, il suo prestigio?

Perché le avete tolto la dovizia e le avete imposto la squallida miseria? Perché l'avete assoggettata ad essere schernita e schiacciata da persone coverte dalla più disgustevole umiliazione nella storia delle nazioni? Perché le avete imposto di passare dalle miti contribuzioni di uno stato, ricco, economico ed equilibrato nelle sue finanze, agl'insopportabili balzelli di una voracità governativa,

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che sol pel godimento della libera respirazione dell’aria, non à messo ancora una tassa? Perché le avete imposto di accollarsi i debiti inesauribili di uno stato fallito, obbligando milioni di proprietarii a vedersi ridurre quasi alla metà il valore effettivo dei loro capitali, impiegati sul gran libro? Perché le avete tolto il loro giovane Sovrano, immune degli errori che si addebitano ai suoi antenati, c colpevole soltanto di una soverchia bontà di cuore, per effetto della quale soltanto,à potuto essere stato trascinato nel precipizio io cui è stato gittato da quelli stessi ai quali egli si era affidato, e ne segui letteralmente i consigli, supponendoli proficui al regno ed ai popoli? Perché in vece di un Sovrano dal quale si poteva sperare tutto il bene possibile, a causa stessa della sua inesperienza alle magagne politiche e governative, e delle buone sue intenzioni sempre lealmente ed egualmente manifestate, l'avete obbligata a subire l'odioso giogo di sette affamati e sanguinari proconsoli in men di tre anni? Perché l'avete dannata a Sentire la immorale influenza delIPateismo? poiché ateismo è l'inversione di un altare creato ed eretto per la nostra tradizionale religione cattolica, in omaggio al protestantesimo. Perché l avete costretta a ricevere il contatto della più nauseante depravazione nei costumi, mentre la sua morale pubblica era esemplare nel mondo? Perché l'avete dannata alla privazione delle libéralissime sue leggi, ed alla soggezione di altre che indubitatamente debbono trarre la loro origine dai codici di Saladino? Perché avete dannato i vostri concittadini ad essere innocentemente massacrati dal sanguinario istinto di un proconsole, di un prefetto, di qualunque subalterno di costoro, di un uffiziale militare, di un basso uffiziale, ed anche di un caporale? Perché li avete dannati ad esser massacrali peggio che gli schiavi di San Domingo, sol perché ardiscono chiedere pane equivalente al lavoro che da loro si pretende?

Perché avete fatto tutto questo?

Il signor Matarazzi, ci spedirà certamente dei centesimi come pia elemosina per questi patetici richiami; poiché ci qualificherà col nome di missionario. Ma cosa vuole? un pochin di missioncella è pur necessaria coi traviati, quando si tratta di convincerli di aver avuto torto in deviando dal retto sentiero.

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In quanto a lui poi, lo preghiamo ad essere alquanto più critico nel pubblicare le gesta degli uomini, se non vuol incorrere nell’errore di fare involontariamente male a coloro che desidera di giovare, e glorificare Quelli, che vorrebbe umiliare.

Garibaldi, non Napoletano, disse se ben ci à riferito un suo affezionato «con questa truppa»  (parlava di quella che combatteva contro di lui) «andrei in capo al mondo» il Napoletano, signor Matarazzi poi, à per liberalità e patriottismo invertita la verità dei fatti, per discreditare i suoi concittadini.

Evviva il patriottismo della rivoluzione, che à servito di base alla realizzazione dell'unità italiana!..

Ben ci rispose «doletevi meglio dei vostri compatrioti»  il Generale Ricotti Comandante la Piazza di Napoli nel 1861, quando seco lui ci duolevamo delle angarie che il nuovo governo usava sui Napoletani!

Pretendiamo toccar l'estremo stadio del liberalismo, pretendiamo unificar l'Italia, e non sappiamo ancora neanche garantir l'onore della propria famiglia che sta nella patria naturale; non sappiamo neppure astenerci dal discreditarlo anche calunniosamente noi stessi in faccia allo straniero, per l'ebrezza prodotta dal cozzamento delle diverse opinioni politiche!

Il filosofo Talete diceva «pensate pure differentemente, abbiate opinioni opposte, ma non vi odiate.»

Sanno comprendere la importanza di questa massima, coloro che oggidì si spacciano per liberali?..

Ma è ormai tempo di ritornare a ragionare coi sabaudi o sabaudizzati antagonisti di quell'Esercito che debolmente ci sforziamo di difendere dalle detrazioni dei maligni.

Vi dicevamo o Signori, che l'Esercito da voi calunniato, à tenuto sempre i suoi capi che lealmente àn preso parte alle azioni di guerra, là dove il pericolo era più forte.

Nella difesa di Capua, il Generale Salzano che la comandò sino a che non fu circuita, fece mostra di positivo coraggio ogni qual volta si ebbe a pugnare.

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Nello attacco sul Garigliano del 29 Ottobre, un Generale a nome Matteo Negri, con una morte gloriosa non mostrò forse che gli onorati Generali Napoletani, guerreggiano per morire coi loro soldati quando il bisogno lo richiede; e lo stesso Generale Salzano, non fu forse un coraggioso Generale in Capo? (a)

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(a) E qui ci è mestieri render notorio un avvenimento fra i Generali Cialdini e Salzano, che si può riscontrare nella raccolta dei documenti officiali di Gaeta, alla pag. 57.

Nell'ultimo di Ottobre 60, il primo di detti Generali sollecitò una conferenza che fu accettata dall'altro, si stabili che si sarebbero recati entrambi soli in Caianiello per abboccarsi. Il Generale Salzano giunto a Teano, ordinò al suo plotone di cavalleria che Io scortava, di fermarsi li, dove eravi no distaccamento di truppe Garibaldine, al di cui capo, il Generale sudetto avvertiva che quel plotone formava la sua scorta, e che lo lasciava lì, per recarsi solo al fissato convegno.

Il Generale Cialdini sperava una fortuna pari a quella di Garibaldi in Sicilia ed in Calabria, nell'imbattersi con un Generale che egli credeva capace a farsi subornare, e quindi tenne un poetico, patetico  ridicolo e drammatico discorso al Salzano per convertirlo ad una bonaria fraterna sottomissione; ma quando intese rispondersi in buona lingua italiana, e con l'enfasi del soldato d'onore, che il Generale Salzano rammentava soltanto che il suo legittimo Re era in Gaeta, e che egli ne avrebbe difesa l'Autorità e gli Stati, finché gli sarebbe rimasta vita ed un soldato per combattere con lui, fu talmente esasperato che commise un enorme, un infame delitto, degno solo di Generali che non ànno altra risorsa per gustare una vittoria, se non nel subornare i capi della truppa contro cui combattono.

Il Cialdini fece ritener prigioniero di guerra il plotone di cavalleria, che il Generale Salzano, aveva lasciato a Teano sotto la buona fede dell’onor militare, e cosi sfogò la sua rabbia per essere rimasto deluso nelle sue speranze.

Bisognerebbe che il valoroso conquistatore Cialdini, ci faccia sapere se fu in Ispagna che acquistò l’ammirevole valore di far dei prigionieri di guerra con la più codarda slealtà; se imparò nella guerra dei sette anni, ad essere tanto impudentemente, schifosamente, vilmente vendicativo!

E fia pur pregevole notare, che mentre sol Garigliano il General Salzano col linguaggio e coll'opera dell'onorato soldato, cancellava l'onta che i suoi felloni compagni avevan procurata lo Sicilia ed in Calabria all'Esercito Napoletano, il Generale Raffaele de Corni rispondeva con pari onoratezza e dignità ai seducenti inviti del General della Rocca

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Nell'assedio di Gaeta, non avete inteso che un vecchio soldato, il Generale Traversa, valorosamente morì sotto le macerie della cortina S. Antonio, che il 5 Febbraio 1861 cadde per esplosione di quella poi verista, loccbè prova ad evidenza che quei Generali che fecero lealmente la guerra, non si risparmiarono punto?

Nell'assedio della Cittadella di Messina, il vecchio Generale Gennaro Fergola, che la comandava in Capo, non si è forse fatto ammirare per la sua instancabilità ad incoraggiare i suoi dipendenti col farsi sempre vedere in mezzo al pericolo? (a)

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per la cessione della Piazza di Capua; ed il Generale Gennaro Pergola nella Cittadella di Messina al signor Leila Console Sardo allora, condegno commissionaria della rivoluzione e del governo che rappresentava, e cercava di corrompere quel Duce, rispondeva pare, che «le teorie della Cittadella insegnavano alla sua guarnigione, che le fortezze si prendono con i fatti e non con le parole; epperò essa l'avrebbe difesa sino agli estremi». E pregò il signor Leila di non più annoiarlo con quelle petulanze indegne del rappresentante di un governo che si spacciava amico del governo Napoletano.

(a) Io proposito della difesa di Messina, ci è doveroso e gradito f qui riprodurre la seguente lettera che il Generale Cesare Anguissola dirigeva al Generale Clary li 9 Luglio 1860 dopo la defezione di suo Fratello.

«Signor Generale

«Benché nella mia mente non cape affatto che mio fratello Amilcare, dimentico d'un $acro giuramento, e di quei sentimenti ispiratici dal defunto nostro Genitore avesse commessa tanta nefandisia, pure Ella comprenderà bene la mia trista situazione verso i miei dipendenti e quella del secondo mio fratello, è perciò che in la prego caldamente permettere. Partendo quest'oggi il Colonnello Bosco al comando di una Colonna di operazione su Milazzo, che tanto io quanto mio fratello Giovanni Maggiore al 4° di Linea, ne facessimo parte come semplici soldati; potendo trovare in una morte onorata quella gloria ci spetta, constatare al Re (D. G.) la nostra fedeltà, e cancellare in parte quella macchia imperitura sul nostro Casato, che incontaminato il vecchio mio Padre mi lasciava in geloso retaggio.

Accolga signor Generale questa mia domanda, penetrandosi del mio dolore.



F. Conte Cesare Anguissola.

Rivoluzionarii di mala fede!...  «Esacrabili traditori e carnefici dello sventurato Re Carlo Alberto!.. Sedicenti liberali unitarii italiani!..

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Ed a Civitella del Tronto, il Colonnello Giovanni Giovane che ne fu il comandante durante l'assedio del 1861, non destò forse l’ammirazione generale, per la eroica sua condotta militare in quella fortunosa difesa di uno scoglio, che fu l'ultimo baluardo che succumbette alla forza del destino, e non già a quella delle armi nemiche?

Ed altri Generali ed un non insignificante numero di uffiziali di ogni grado e di ogni arma potremmo citare, i quali si segnalarono durante la campagna del 1860, e 61; ma ce ne astenghiamo per ora, perché non è questa l'opera che deve tramandare alla storia i nomi di tutti i bravi uffiziali dell'Esercito Napoletano distintisi in quella guerra.

Vi abbiamo parlato soltanto dei capi effettivi nelle varie azioni, per dimandare a voi altri capi dell’oste avversa, quando e dove vi faceste mai vedere in qualche punto pericoloso? in che mai vi spingeste innanzi in udire il rombo del cannone, il nitrire dei cavalli, o gli hourra degli assaltanti?

Vi rammentiamo l'eroica morte di due Generali Napoletani durante la campagna sudetta, Matteo Negri al Garigliano, e Francesco Traversa in Gaeta, oltre la grave ferita sofferta dal Generale Rossaroll innanzi Capua, per domandarvi chi di voi, chi dei vostri Generali conta qualche lieve scalfittura in quelle azioni di guerra?

E voi siete gli Eroi, che la fate da millantatori, dandovi l'aria di conquistatori del Regno delle due Sicilie, perché tutte le combinazioni e le circostanze di cui a lungo abbiamo parlato, misero l'Esercito delle due Sicilie, nella dolorosa impossibilità di farvi ritornare con le spalle gonfie nei vostri nevosi paesi? E per vero, questo sarebbe avvenuto dopo la giornata del 29 Ottobre al Garigliano, se la squadra Francese non fosse venuta con una slealtà in vostro soccorso, dando un altro colpo fatale al governo napoletano, che aveva ancora la dabbenaggine di credere alla graziosa protezione di Napoleone 3.° (a)

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Spudorati apologisti dell'infamia  voi proficua!... inchinatevi tutti innanzi a questa virtù militare, e cavaliere, che si ritrova soltanto fra coloro che furono, sono e saranno sempre vostri avversarli nel campo della politica, poiché essi soli rifuggono dal disonorare la divisa militare, e manomettere la patria loro, per utile proprio!!..

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E qui pubblichiamo il seguente frammento di una nostra corrispondenza all'uopo tenuta con un personaggio francese.

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Les peuples des deux Siciles ri ont pas été conquis par le Piémont, pour devoir se soumetre aux caprices du vinqueur: une conquête aurait été impossible pour le Piémont, et personne du monde intelligeant pourrait jamais le croir. Les Napolitains et les Siciliens ont été surpris dans leur bonne foi, ei ont cru aux promesses de plusieurs d avantages, et pour ça ont confié leur sort aux mains de ces nouveaux vandales sous le nom de Libéraux Piémontais.

L'armée napolitaine qui tâchât dans le 1860 et 61 de détourner cette catastrophe à son pays, parce-qu’elle prévoyait assez le but du Piémont; avant été trahie ou quittée par la plus-part de ses Généraux et par un grand nombre de ses officiers fut accablée avec facilité, non par la valeur de son ennemi mais



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(a) Il Vice Ammiraglio Le Barbier de Tinan, Comandante della squadra Francese di evoluzione giunta innanzi Gaeta il 16 Ottobre, aveva espressamente dichiarato al Governo del Re, che egli si sarebbe opposto ad ogni impresa navale, la quale dai Piemontesi si fosse tentata in qualsiasi punto del littorale compreso tra la foce del Garigliano, Gaeta e Sperlonga. Per questo l'Esercito Napoletano non prese precauzione di sorta, giacché si reputava sicuro dalla parte del mare e garentito nel suo fianco destro. Sia delle ore p. m. del 1. novembre il Vice Ammiraglio de Tinan manifestò non dover più le forze navali Francesi opporsi agli attacchi dei Piemontesij e la sera dello stesso giorno abbandonò la foce del Garigliano, senza che il corpo di Esercito Napoletano avesse avuto il tempo di operare qualsivoglia movimento o adottare quei provvedimenti di difesa analoghi a quell'inopinato cangiamento di condizione. Si fu costretto a battere in ritirata sotto il continuo fuoco delle navi Piemontesi, e chi à intendimento giudichi del valore rispettivo dei due Eserciti in vedendo che il Napolitano si ritirò per intero sopra Mola, sotto la mitraglia di un nemico al quale non poteva rispondere in quel momento; e l'Esercito Piemontese non seppe guadagnare il ponte del Garigliano ad onta dell'aiuto della sua squadra, fino a che quello fu guardato e difeso da sole due compagnie del 6. Cacciatori le quali contesero il passaggio ad un intero corpo di Esercito, per dar tempo alle truppe napolitane di ripiegare ordinatamente il più che fosse stato possibile in quel critico, quanto inatteso infrangente.

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par la trahison et la déloyauté, que le Piémont sut bien ébraïquement acheter pour toucher son but sens aucun danger pour la peau très-precieuse de ses Généraux. Et ces scytes, abillés de l’uniforme de Général Piémontais, ont maintenant la témérité de se croir tant de héros, et de conquérants!....Ce ne sont pas les moyens qu'on employe pour la conquête, mais il sont du masnadiere qui par sa lâcheté, s'empare de sa victime, en lui tendant la main de l'amitié....... (a)



Ma se credete o felici conquistatori di aver noi falsato il vero sui fatti vostri, provatevi a smentirci.

Nel 1799, un napoletano a nome Gabriele Manthoné già Capitano di artiglieria, disse al Generale Francese Cbampionet, allorché costui si fè lecito esclamare, «sventura ai vinti».

«Tu cittadino Generale, hai presto scordato, che qui sei venuto non per battaglie e vittorie, ma per gli aiuti nostri e per accordi; che noi tradimmo per santo amor di patria i tuoi nemici, che i tuoi battaglioni non bastavano a debellare questa immensa città. Esci per farne prova dalle mura, e  ritorna se puoi; quando sarai tornato, li si addirà l’empio motto di Brenno». (b)

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(a) I popoli delle due Sicilie non sodo stati conquistati dal Piemonte, perché si debbano sottomettere ai capricci del Vincitore: una conquista sarebbe stata impossibile al Piemonte, e nessun uomo saggio potrebbe giammai crederlo. I Napoletani ed i Siciliani, sono stati sorpresi nella loro buona fede ed ànno creduto alle promesse di molti vantaggi, e però ànno confidato la loro sorte nelle mani di questi nuovi vandali chiamati liberali Piemontesi.

L'Armata Napolitana, che cercò nel 1860 e 61 di evitare questa catastrofe al suo paese, perché prevedeva lo scopo del Piemonte, tradita o abbandonata dalla più parte dei suoi Generali e da un gran numero dei suoi uffiziali, fu sopraffatta con faciltà, non dal valore dei suoi nemici, ma dal tradimento e dalla slealtà, che il Piemonte seppe ben ebraicamente procurarsi, per raggiungere il suo scopo senz'alcun pericolo per la preziosissima pelle dei suoi Generali — E questi sciti, vestiti con l'uniforme di Generali Piemontesi, ànno ora l'audacia di credersi degli eroi e dei conquistatori!... Questi non sono i mezzi del conquistatore, ma del masnadiere il quale, per la sua viltà s'impadronisce della sua vittima, stendendogli la mano dell’amicizia

(b) Colletta libro 4°

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Nel 1863, un altro Napoletano a nome Tommaso Cava, Capitano dello Stato Maggiore dello Esercito delle due Sicilie dice ai vampiri ricamati che smungono ed opprimono il suo paese:

«Avete immediatamente al vostro arrivo in questa terra prediletta dalla natura e da Dio, dimenticato che ci siete venuti non per vittorie, ma per inganno di un'ostentata fratellanza e libertà per gli aiuti dei settarii che anno paralizzato i popoli; per gli aiuti di una illusa ed effervescente gioventù guidata da un capo più illuso ed effervescente di e essa, la quale col suo sangue vi à aperto le porte del Regno e vi à spianato la strada; per gli aiuti di tanti traditori, i quali misero i vostri avversarti nella impossibilità, di battervi; e finalmente per gli aiuti dei Gabinetti Francese ed Inglese, il primo dei quali vi è stato più giovevole, per averveli largiti quando ostentava la parte del mediatore, e del patrocinatore di chi vi combatteva?

«Avete presto dimenticato, che senza i sudetti aiuti, voi non avreste potuto giammai debellare questo regno immenso, in confronto alla vostra bicocca?

«Uscitene per farne prova, per una settimana sola, e ritornateci se potete: quando sarete ritornati vi sarà permessa l’arroganza di Bajazzetto, e vi sarà concesso di modellare la vostra condotta su quella del devastatore Abderamo!...... (a)





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(a) La turpitudine, il barbarismo, l'infamia, la disgustevole rozzezza, la scifosa jattanza, la crassa ignoranza e la codardia che si racchiudono nei Duci Supremi dell'oste Sabauda che venne a soggiogare l'Esercito Napolitano nel 1860 e 6|, si compendiano a preferenza nella; seguente lederà che in data 1. Marzo 1861, il sig. Cialdini scriveva al Generale Fergola, che si denegava a cedere vilmente la Cittadella di Messina, e si ostinava a voler tener saldo l'onor suo e quello dei suoi dipendenti.

LETTERA DI CIALDINI A PERGOLA

In risposta alla lettera che mi à fatto l'onore inviarmi ieri debbo dirle.

» 1. Che il Re Vittorio Emmanuele. essendo stato proclamato Re d'Italia dal Parlamento di Torino, la condotta di Lei sarà considerata come aperta ribellione.





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» 2. Che per conseguenza non darò a Lei ni alla tua guarnigione capitolazione di sorta, e che dovranno rendersi a discrezione.

» 3. Che se Ella farà fuoco sulla città, io farò fucilare dopo la presa della Cittadella altrettanti uffiziali e soldati della guarnigione, per  quante saranno state le vittime del di Lei fuoco contro Messina.

» 4. Che di Lei beni e quelli degli uffiziali saranno confiscati per indennizzare i danni recati alle famiglie dei cittadini.

» 5. E per ultimo che consegnerò Lei ed suoi subordinati al popolo di  Messina.

» Ho costume di tenere la parola, e senza essere accusato di jattanza,  le assicuro che in poco tempo Ella ed i tuoi staranno in mio potere.

» Dopo ciò faccia come crede. lo non riconoscerò più nella S. V. Ilma, un militare, MA UN VILE ASSASSINO, e per tale lo terrà l’Europa intera».



Messina 1. Marzo 1864.
Firmato — CI ALDINI

Chi minaccia di una turpe e barbara sorte un soldato che tiene come sacro, il dovere e l'onor proprio, non può essere che no infame svergognato! Chi si avvale della propria superiorità sul nemico, per la differenza dei mezzi che possiede; chi à la certezza di poter più presto o più tardi sottomettere il nemico, e se ne avvale per vagheggiare l'idea di commettere un assassinio se il nemico si ostina a compiere l'obbligo proprio, non può essere che uno spudorato codardo. Chi pretendeva che un Generale Napoletano avesse dovuto discoooscere i proprii doveri verso il suo Sovrano e l'autonomia del suo paese, sol perché il parlamento di Torino (non quello d'Italia e nettampoco il plebiscito) aveva dichiarato Vittorio Emmanuele Re d'Italia, non può essere che un ignorantaccio, privo di ogni sorta di logica e dì sociali nozioni, poiché quella sua bestiale proclamazione negava il 1. Marzo 61, niente di meno che la base dell'attuale edificio, cioè il voto popolare alla unità d'Italia con Re Vittorio Emmanuele, e per dirla più brevemente, negava che Vittorio Emmanuele trovasi a Re delle provincie meridionali d'Italia, per effetto del plebiscito del 21 ottobre 1860.

Chi infine discende alla bassezza di servirsi del termine Assassino scrivendo ad un nobile ed onorato avversario, che con vuol subito liberarlo dalla paura che gl'incute la di lui fermezza, non può essere che un rozzo parvenu. Ci si neghi ciò, se lo si può. Ma se colali epiteti son devoluti ali' autore di quel vituperevole scritto, ci si faccia grazia di con presentarci più il signor Cialdini ed i suoi eguali, come degli eroi, ma si notino come meritevoli del vituperio universale!!...

NOTE ANNESSE

ALLA

DIFESA MILITARE (a)

(a) Tolto quello che sommariamente vien rivelato in queste note, si può tenere come officiale, poiché son notizie tratte da documenti ufficiali, convalidate dalle deposizioni de' testimoni degni di fede.

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NOTA N.° 1

Sommario delle operazioni del Generale Landi a Calatafimi

Nei primi giorni di Maggio 1860 da Palermo fa spedito alla volta di Marsala il Generale Francesco Landi alla testa di tremila nomini, per osteggiare Garibaldi che dopo precedente accordo col Conte Cavour, con mille avventurieri invadeva la Sicilia il dì 8 Maggio Budello per sollevare quelle popolazioni contro il legittimo loro Sovrano ed il suo governo.

Giunto il Landi a Calatafimi vi si fermò col grosso della sua truppa, spiccando su per quei monti sol quattro compagnie di cacciatori per combattere gl'invasori. In effetti, imbattutisi quei seicento soldati col nemico, vigorosamente lo attaccarono, e ad onta della disparità di numero lo ridussero in tali tristi condizioni, che senza la fellonia del Generale Landi, quella zuffa sarebbe finita col disperdere, arrestare, o ricacciare sui legni medesimi d'ond'erano sbarcati, quei mille intrepidi giocatori di fortuna. Mentre però quei 600 soldati Napoletani, gelosamente adempivano all'obbligo proprio con felici risultati L'ONOREVOLE (a) Generale Landi, pattuiva col comitato di Calatafimi il più infame tradimento contro il proprio onore, contro il suo Re che lo aveva elevato al grado di Generale, contro di una dinastia che lo aveva sempre colmato di doni di benefizii e di perdoni; e finalmente contro i pacifici suoi concittadini i quali gli rimproverano la iniziativa del tremendo passaggio fatto, dalle dolcezze della pace alle amarezze della guerra, dall'armonia cittadina alla strage civile,dal bene passato infine al pessimo presente (b).

_________________________________________

(a) Siccome oggi io Italia, i titoli di Onorevole, Eccellenza ed altri anche più cospicui, si conferiscono ai traditori ed agli assassini di Carlo Alberto di Savoia che stanno nel potere, ragion vuole che io li conferisca pure ai traditori ed agli assassini di un altro Sovrano, per non allontanarmi dai dettati dell'attuale civiltà,

(b) Si noti che non ò detto dell'ottimo passato, poiché non ò il mal vezzo di chiudere gli occhi per favorire chi merita di esser difeso, e dischiuderli soltanto sopra chi merita di essere vituperalo.

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Egli accettava la promessa di una vile moneta, a patto di non più contrariare Garibaldi, e però ad onta delle insistenze di taluni suoi uffiziali che lo supplicavano a spedir subito un rinforzo a quelle quattro compagnie in azione, ei con la freddezza del Giuda fece battere a raccolta, e vergognosamente ritirossi in Palermo con tale precipitata, che 42 miglia siciliane si percorsero io men che 14 ore da quella povera troppa la quale, attonita obbediva con l'abnegazione della militare disciplina agl'iniqui ordini del suo Generale, ignara della vera cagione che la faceva fuggire da un nemico, che era stato quasi già debellato.

Quel Generale fu compensato con un altro tradimento, imperocché la polizza di cambio che gli si diede in adempimento dei patti, fu trovata falsa, ed un siffatto inganno gli procurò la morte del disperato.

Or ci si dica in che modo può meritare la nota di codardia quella soldatesca?

Se 4 compagnie soltanto, cioè il quinto di essa,, erano già riuscite a sgominare il nemico, e togliergli fin'anco la sua preziosa bandiera di Montevideo, cosa ne sarebbe stato di Garibaldi, e dei suoi mille, se il Landi in luogo di vendersi, avesse spiccato un altro battaglione contro di loro?

Con tutti i suoi talenti di intrigante politico, non avrebbe fatta fin dal bel principio un altra buca nell'acqua il mal ricordato signor Cavour?

Se i legni da guerra che si trovavano in crociera nei paraggi di Marsala (a) non si fossero allontanati per dar libero campo

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Sono stato sempre uno dei primi a gridar contro taluni abusi e certe irregolarità che erano incompatibili nel passalo regime, ed ardentemente desiderava delle radicali riforme in talune istituzioni, e nel sistema governativo in generale; e protesto francamente che senza il luttuoso spettacolo delle nefandezze attuali, con le quali mi è forza paragonare gli errori passati, forse non mi sarei neppure servilo di un tale aggettivo.

(a) Protestiamo che sol per incidente, e quando la dimostrazione dei fatti ai obbliga, parleremo della nostra marina, i coi uffiziali defezionarono quasi tatti in un modo cosi abominevole, che assolutamente ci manca il coraggio di parlar di loro in quest'opera.

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al progettato sbarco, e se il Landi non avesse tout bonnement sgombrato quel terreno nel quale doveva sotterrarlo, non avrebbe trovato il signor Garibaldi la sua tomba, colà stesso dove la fellonia di pochi traditori principiò a farlo Ingigantire?

E quella tomba, non l'aveva forse già scavala un'infinitesima parte dell'Esercito Napoletano, per sepellirvi con Garibaldi, la rivoluzione del 1860 nel Napoletano, e con essi la malaugurata memoria di Cavour e gli esacrabili intrighi della Piemontese cospirazione?

Non avrebbe forse l'Esercito Napoletano affasciata e gettata sul lastrico delle strade col disprezzo che si deve a cosa impura, una indegna rivoluzione auspicata dall'ambizione e dall’usurpazione, come fece nel 1848 quando meritò i titoli di valoroso e fedele, perchó allora il tradimento non si diffuse nei capi dell'Esercito?

E nell'epoca istessa in cui tremila soldati sotto gli ordini del Generale Laudi precipitosamente fuggivano innanzi a mille invasori, altri due mila soldati dello stesso Esercito e per essi, pochi che presero parte all'azione in Catania il di 31 maggio, forse non dispersero, fugarono, e ridussero a trovar scampo nella velocità delle proprie gambe molte migliaia d'insorti che li attaccarono? (a).

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(a) Era il Generale Tommaso Clary che comandava allora in Catania, ma egli non cedette alla coscienza del proprio dovere, sibbene alla determinata opinione di taluni suoi uffiziali, che vistolo tentennare, a furia di dignitosa fermezza lo costrinsero ad agire in controsenso delle proprie intenzioni, c riuscirono a salvar l'onore di quella troppa.

Un testimone oculare di quei fatti, rispose con le seguenti parole che letteralmente trascriviamo, alla nostra richiesta di estere informati di quelli avvenimenti.

«Il 31 Maggio 1860 molte migliaia d'insorti attaccarono con impeto che non si poteva maggiore la guarnigione di Catania composta di circa 2 mila uomini, e come questa sebbene piccola in numero, superati guanti mai ostacoli si presentarono, sostenuto otto ore e mezzo di vivissimo fuoco, fugò d'ogni parte e debellò gl'insorti, cannoni lor togliendo e bandiere.





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La sconfitta che si tocca da una truppa pel tradimento dei suoi capi, non costituisce punto il disdoro di essa.

Non è mica codarda una truppa la quale, lascia al nemico il terreno della vittoria, perché il suo Duce, avvalendosi protervamente del suo diritto alla obbedienza dei proprii dipendenti,ne abusa per ridurla in una umiliante condizione, nel momento istesso in cui la gloria di un trionfo, sta per coronarla. Che se taluno obbiettasse un aggravio a quei subalterni, che scienti del male oprare di un superiore, non sanno risolversi a far man bassa sopra di lui per isbarazzarsene, come avvenne in Calabria in persona del Generale Fileno Briganti, noi gli rispondiamo che un tal linguaggio è degno sol di chi veste la divisa dei massisti, non mai di chi veste quella di soldato regolare, imperocché un esempio d'indisciplinatezza nella milizia regolare, ò anche più funesto del tradimento di un Generale, appunto perché il tradimento di un capo si può esemplarmente punire, ed in un sol uomo si distrugge la cagione del male, mentre un atto d'indisciplinatezza demoralizza tutti coloro che lo ànno consumato non solo, ma anche quei che lo ànno visto consumare, e non potendosi distruggere tutti i demoralizzati, ne deriva che la demoralizzazione si spande e si attacca simile alla lebra o alla peste, a tutti gli altri coi quali i già demoralizzati avrebbero consorzio, massime se le truppe trovinsi combattendo.

È la legge militare che deve con tutto il suo rigore piombare sul militare fellone e punirlo, ad esempio altrui ed a risarcimento dei danni sofferti da coloro che furon vittime del suo tradimento. L'indulgenza verso di lui, o la cieca vendetta soddisfatta per opera dei suoi subalterni, son due mali egualmente immensi, perché entrambi producono le più funeste conseguenze alla disciplina militare.

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«L'onnipossente Iddio, quel Dio degli Eserciti, nelle cui mani tutte stanno le prospere, e le avverse fortune della Guerra, guidò il valore di quella piccola truppa, la quale pugnò con perseveranza nei disagi e nelle privazioni: essa avrà sempre la stima dell’universale, poiché ha l'animo colmo di quella bella soddisfazione che l'uomo prova quando adempie al suo dovere, nel difendere la propria bandiera.

» Sarà duratura perciò la memoria del loro valore che spiegarono per  conservare intatta quella fede che avevano giurata.





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Ci appelliamo al giudizio dei soldati di fatto e non di nome.

Deliberatamente asseriamo che se il Generale Landi fosse stato fucilato alla presenza della sua brigata, per come meritava, or non scriverei di certo queste dolorose memorie, dapoiché i Nunziante, i Pianelli, i Lanza, i Ghio, i Briganti, i Flores, e tutta la miriade dei felloni, che finanche quando l'Esercito si ritirò dietro il Volturno, fin anco io Gaeta, occultamente o apertamente manovrarono in favore della rivoluzione e della invasione Piemontese, non erano uomini da sfidar dodici palle di piombo nello stomaco per favoreggiare le trame del Piemonte e degli emigrati napoletani e siciliani, qualunque fosse stato il prezzo che si sarebbe loro offerto in compenso.

È un amara doglianza che gli onorati militari napoletani debbono rivolgere contro la inconsiderata ed inopportuna clemenza dei Borboni verso i militari felloni.

Si consideri una volta che i bagni di acqua minerale di Ischia, dove furono nel 1860 spediti in massa i buoni ed i cattivi Generali reduci da Sicilia, incoraggiscono il tradimento e la defezione: solo un bagno nel proprio sangue di un fellone, giova a distruggerli.

La corrotta società del nostro secolo, giudica gli uomini dal risultato dei fatti compiuti, e come se adempisse ad un onorevole atto di giustizia, covre di applausi un cannibale vincitore, e di contumelie un generoso perditore, e non v'à d'uopo esporre degli esempi pratici in appoggio di cosiffatta sentenza, poiché basta volgere uno sguardo all'attualità per ravvisare la verità di essa.

Per essere dichiarato un Eroe adunque, bisogna vincere la nequizie umana, e per vincere bisogna essere inesorabile con gl'iniqui, altrimenti si perde e si scende in degradazione!

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NOTA N.° 2

Sommario delle operazioni del Generale Lanza a Palermo

Dato a noi il carico di riferire i fatti non sia niegato ai lettori quello di ponderarli, ed il diritto ancora di giudicare.

Il 26 Maggio 1860, il Tenente Generale Ferdinando Lanza, Duce supremo di circa 24 mila uomini di truppa regolare postata in Palermo ed adjacenze, per una falsa verbale notizia di un certo Chinneci, capitano delle compagnie d'armi in Sicilia, con una incompatibile leggerezza faceva con appositi bullettini ufficiali pubblicare la disfatta del già fuggitivo Filibustiere Garibaldi, per opera della brigata de Mecbel in Corleone.

A quel grato e rassicurante annunzio, il Generale Pasquale Marra Comandante in Capo dell’Esercito operante, ma sotto gli ordini del Duce supremo Lanza, montava a cavallo, c seguito da un lungo Stato Maggiore e da un lunghissimo squadrone di cavalleria e gendarmeria a cavallo, col sussieguo di un presunto erbe, passò in rassegna buona parte delle sue truppe. (a)

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(») Forse non avremmo accennato mordacemente la rassegna che passò il Generale Pasquale Marra, se non vi fossimo spinti dell'obbligo di denunziare i suoi veri torli alla pubblica opinione, presso la quale comparisce ancora più reo di quello che in effetti è, stanteccbè taluni spacciatori di notizie lo Anno perfino accusato di venale fellonia, Io che è assolutamente falso.

Il detto Generale è solamente spoglialo di valore personale, incapace di energia innanzi ai tristi eventi, non suscettibile di generosa gratitudine.

E per fermo, un Generale che allo annunzio della già avvenuta disfatta del nemico, prende l'aria di un rodomonte per pavoneggiarsi innanzi ad un lungo seguito; ed allorquando poi il nemico, che si credea disfatto, ricomparisce come per incanto ardimentoso e forte, esso Generale si rincantuccia in un angolo del Quartier generale, e più non si fa vedere durante le operazioni di guerra, non può dirsi cerio un valoroso soldato.

Un Generale in capo, il quale osserva la imperizia, la ignavia, e perfino la turpe versipellerìa del suo Duce Supremo, e lungi dal prendere le determinazioni, che erano in suo potere per togliergli

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Lo stesso giorno il Lanza prescriveva al Generale Ignazio Cataldo, di abbandonare la importantissima posizione dei quattro venti, e di ripiegare sopra la Reggia (Quartier Generale del Lanza) perché dal Cataldo gli si facevano delle istanze per avere un abile uffiziale superiore che gli occorreva;

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la male affidata direzione degli affari, affin di evitare una orrenda catastrofe, si limita soltanto di mormorare in segreto contro di lui, non è certamente capace di energia e determinazione.

Un uomo finalmente che non sa far sacrifizio della propria vita quando essa può salvare i proprii benefattori ai quali molto deve, non è pieghevole a generosa gratitudine.

I Generali che dipendevano dal Lanza in quelle emergenze, meritano tutti, ma con diverse gradazioni, un duro trattamento, e se la strettezza di questo lavoro ci obbliga di parlare solamente dei Capi responsabili, sarà pubblicata in prosieguo un'opera apposita che descriverà individualmente la condotta tenuta da tutti coloro sui quali facilmente e con ragione, l'opinione pubblica approfondisce le sue investigazioni.

Quei Generali, nella maggior parte, furono anche più indolenti, per la niuna fiducia e simpatia nel loro Duce Supremo, che ad una rozzezza naturale, ed alla sua ignoranza, univa sempre una ributtante ed ostinata presunzione. Ma se questa considerazione potrebbesi pur ritenere pei Generali subalterni, non è giammai ammessibile pel Generale in Capo in secondo; pel sig. Pasquale Marra, fresco debitore di una lucrosa ricevitoria verso coloro che lo spedirono a Palermo per farsi allora pagare il suo débito.

N. B. Non si confonda Pasquale Marra coi suoi fratelli Bartolo ed Andrea, anche Generali; poiché si l'uno che l'altro si comportarono beo altrimenti del fratello; e spezialmente lo Andrea, il quale, dopo che si distinse nella battaglia di Milazzo, adempì all'obbligo di seguire l'Esercito nella sua ritirata sul Volturno: obbligo che non adempì il beneficalo RICEVITORE Signor Pasquale, per non essere incoerente alla sua anteriore condotta.

Ilsignor Bartolo poi, fu lasciato dal Re in Napoli per come si rileva dalla Nota N° 5. Egli avrebbe dovuto raggiungere l’Esercito dopo dell’adempì mento del commessogli incarico. Ma lo si potrebbe metiere per questo nel fascio dei rejetti, dopo la sua leale e zelante condotta spiegata in Calabria? Noi crediamo di no, dal perché le acque minerali di Ischia, involontariamente prese da lui in unione del fellonissimo Landi, lo dovevano debilitare per forza.

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e così diede alla rivoluzione che doveva combattere, l'ausilio dei carcerati custoditi dapprima e poscia dal Cataldo abbandonati, ed agli onesti e pacifici siciliani che doveva gatentire, il martirio di quelle velenose locuste che tanto male ànno recato e tuttavia recano alla desolata Sicilia. (a)

Ed anche il giorno medesimo il Generale Lanza, riceveva tanto dal Generale Bartolo Marra, che da un uffiziale agli avamposti, la notificazione precisa che l'indomani Garibaldi con forti masse organizzate ad esercito di volontari, si sarebbe presentato in Palermo per attaccar quelle truppe. Ma egli fece rispondere ad entrambi, che avessero dormito.

D'onde avea origine quella fredda ironia con cui egli fece rispondere a quei due concordi ed efficaci avvisi?  Dalla sicurezza forse dell’errore degli avvisanti? Non è presumibile, poiché Garibaldi effettivamente l'indomani attaccò la truppa regia al ponte delle teste, dove incontrò per il primo, un battaglione del 6.° di Linea comandalo dal Maggiore allora Vincenzo d'Ambrosio, che fu crivellato di ferite allorché si attaccò con le masse garibaldine.

Derivava forse da sicurezza del fatto proprio in faccia alla rivoluzione, fidando sui mezzi che possedeva per poterla combattere con felice successo?

Neppure ciò può ammettersi, poiché 1 risultati ne àn fatto fede in contrario.

Adunque, a chi legge il diritto di giudicarlo, ed al Signor Lanza quello di giustificarsi...

Il 27 di Maggio 1860, Garibaldi, attaccò le truppe di Palermo,

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(a) Si noti e si rifletta, che l'ordine del movimento del Generale Cataldo fa dal Lanza spedito alla insaputa di tutti, e spezialmente dal suo Capo di Stato Maggiore, allora Maggiore Vincenzo Polizzy.

All'inatteso arrivo di quella truppa, costui ne fece le sue meraviglie col Lanza, il quale impacciato e confuso, gli negò di aver egli ordinato quel movimento; e si giunse alla presentazione dell’ordine originale, quando il Generale Cataldo si intese chiamar responsabile di un fatto, che colui il quale l'aveva ordinato, lo negava per scusarsi.

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ed il Generale Lanza, poco o nulla curandosi di gagliarda«mente combattere gli assalitori, che a loro beneplacito guadagnavano tutto quel terreno e quella porzione della città che loro occorreva, procedette in vece ad un bombardamento nel paese, ad un incendio di fabbricati, ed al saccheggio di molte case, nelle vie Ballano, Casa Professa e seguenti.

Non essendo nostra missione quella di fare una precisa narrazione dei fatti e delle operazioni tutte eseguitesi dalla truppa napoletana nelle varie parti del regno delle due Sicilie nel 1860, prendiamo solamente quello che ci occorre per dimostrare che non l'Esercito si fece soggiogare dal nemico, ma che taluni dei suoi capi lo portarono a rovina.

E ripigliando il filo di questa dolorosa narrazione, diciamo che dopo due ore di bombardamento, ed alquante altre di saccheggio ed incendio, il Generale Lanza credè di aver fatto abbastanza, e si ridusse alla quasi inazione, frattantocché Garibaldi occupava tutti quei punti che meglio gli convenivano..

Il giorno 28 Maggio, ossia il giorno successivo (si noti bene) il Lanza pel futile pretesto di poter raccogliere imbarcare e spedire in Napoli i propri feriti, chiese a Garibaldi un armistizio di ore 24.

Fece capo della presenza di un Ammiraglio inglese che trovavasi in quelle acque per far quella dimanda, ma poiché gli fu risposto, che quell’Ammiraglio non poteva interporsi in negoziati fra Garibaldi ed il Generale Napoletano, e che bisognava direttamente aprire con lui delle trattative per domandargli il desiderato armistizio, il Lanza simulando dignità, rispose che un Generale in capo del Re del Regno delle Due Sicilie, non si sarebbe mai abbassato di venire a conferenza con un capo di briganti.

Intanto però li 29 Maggio, cioè 24 ore dopo, i Generali Letizia e Crétien in nome del Generale Lanza stabilivano direttamente con Garibaldi vestito da Generale Piemontese, sul Vascello dello stesso Ammiraglio inglese, un armistizio che sarebbe durato sino all'alba del giorno 31.

Mentre Garibaldi e la rivoluzione, godevano i vantaggi di una tregua che non avrebbero potuto mai sperare; nel quartier generale della truppa regia, avvenivano le scene seguenti.

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All'alba del 30 Maggio, l'Uffiziale del Telegrafo ad asta nella Reggia, chiamato sig. Agostino de Palma, scovriva la brigata de Mechel, che si avvicinava a Palermo (a). Immantinenti corse a riferirlo al Generale Lanza, il quale colla sua abituale apatia, lentamente si recò sul telegrafo per assicurarsi personalmente dello arrivo del de Mechel.

A capo di un'ora il Generale Pasquale Marra si recava alla sua volta pur sul telegrafo, e dimandava per parte di S. E. Lanza, se la brigata de Mechel era giunta in Palermo.

Il povero de Palma fece le sue meraviglie col General Marra, e gli rispose che l'E. S. era stata un'ora prima ad assicurarsene personalmente.

Dopo altra ora e più, piombava sulla nuca del collo del povero uffiziale interprete, il Capitano dello stato Maggiore Francesco de Rada, e gli diceva che S. E. voleva sapere se veramente la brigata de Mechel era di ritorno in Palermo.

Lo stupore del de Palma giunse al colmo, talché poco garbatamente rispose al de Rada, il quale se ne ripentì,

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(a) Lo allora Colonnello de Mechel fa spedito al Parco con una brigata, dopo la famosa ritirata del Landi, per arrestare la marcia di Garibaldi. Altra brigata comandata dal Generale Colonna fa per l'oggetto medesimo spedita al luogo stesso; ma le due brigate erano indipendenti l'una dall’altra. Errore madornale del General Lanza, perché dove non vi è uniti di comando in differenti partite di truppa che campeggiano per lo stesso scopo, difficilmente si possono ottenere buoni risultamene ed in fatti quella spedizione non partorì che an aborto; poiché Garibaldi attaccato il giorno 25 maggio al Parco, finse una precipitosa ritirata per la strada che conduce a Corleone, e lasciando inseguire da de Mechel una sua brigatuccia che si tirava dietro quella truppa, girò col grosso del suo esercito per la montagna di Santa Caterina e scese sopra Palermo, senza essere menomamente molestato, poiché il General Colonna non dipendendo dal de Mechel, né tenendo diritto a comandare, rimasto solo e debole in un luogo che gli sembrò difficoltoso, si ritirò in Palermo per le vie più spedite.

Il de Mechel accortosi finalmente che con ragione gli si faceva riflettere che faceva come il cacciatore che sciupa il suo cammino per inseguire un beccafico che prende per un faggiano, ritornò celeramente sui suoi passi  si ridusse anch'egli in Palermo, la mattina del 30 maggio.

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e poco mancò che non fosse avvenuta una tragicomica scena fra quei due personaggi, ai quali S. E. Lanza faceva recitare la parte del burlato di Moliere ad uno, e quella dell’innocente di Paul-de-Kooc ad un altro, in quel grazioso dramma di cui l'E. S. era il protagonista, e l'autore.

Ma finalmente il Lanza, dopo tali tratti di bello spirito decise di far qualche cosa verso la brigata de Mechel, la quale minacciosa si accingeva ad attaccare i garibaldini dopo breve riposo per aspettare ordini dal Comando Generale, e presso alle ore 9 (a. m.) consegnò un plico suggellato ai Capitani del suo Stato Maggiore Michele Bellucci e Domenico Nicoletti, e commise loro di recarlo personalmente nelle mani del General Garibaldi, tenendo però i latori nell'assoluta ignoranza di ciò che si conteneva in quel dispaccio.

Fra parentesi, quando si seppe che la brigata de Mechel si era accampata colla, destra a Porta di Termini, il Generale Cataldo fece proporre al Generale Lanza di spedirlo con due battaglioni in aiuto del primo a cui si sarebbe congiunto per sostenerlo ed agevolarlo in caso di bisogno; ed il Lanza rispose col domandare, se il Generale Cataldo era pazzo...

Intanto i Capitani Nicoletti e Bellucci giunsero presso il General Garibaldi e gli consegnarono il plico nella gran sala del Palazzo Pretoriano in Palermo, dopo di che si posero tutti a sedere per dar campo alla lettura del dispaccio. Ma mentre Garibaldi disuggellava quel plico, giunse La Masa, il quale coll'ansia dello sbigottimento gli disse «Generale! Tradimento!! noi siamo attaccati!!» Ma colla lettura del dispaccio si dissiparono i timori, poiché quel plico conteneva due lettere, l'una a Garibaldi con cui lo si avvertiva che si spedivano ordini al Generale de Mechel di non attaccare i garibaldini a causa dell'armistizio, ordine che il Generale Lanza glielo alligava perché lo avesse letto e poscia Io avesse consegnato agli stessi latori, ingiungendo loro di subito recarlo al de Mechel. Di fatti Garibaldi senza perdita di tempo condusse personalmente i due Capitani ai suoi avamposti già di molto rinculati, e giunse al de Mechel l'ordine di far piedi arme nel momento in cui non doveva far che un altro quarto d'ora di cammino per arrivare sino al palazzo Pretorio e far prigioniero Garibaldi e tolti i suoi, ridotti agli estremi,

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perché senza più munizione dà guerra, e del tutto squinternati per l'urto del de Mechel, il quale,.dopo il suo arrivo in Palermo, non vedendosi mandare ordini diversi da quelli che aveva, di attaccare Garibaldi ovunque lo avesse rinvenuto, ritrovatolo in Palermo lo attaccò alla Porta di Termini, prendendo quelle due formidabili barricate, e si avanzò fino alla fiera vecchia, dove fu arrestato dai Capitani Nicoletti e Bellucci che loro malgrado dovettero per la disciplina' che glie lo imponeva, obbedire ad una commissione tanto penosa.

L'attacco inaspettato di de Mechel cagionò quell'allarme nell'animo di La Masa e compagni, facendoli creder traditi nelle loro aspettative dopo i concerti.... vogliamo dire dopo del pattuito armistizio coi Generali Letizia e Crétien, in nome del Generalissimo Lanza.

I due capitani già menzionati fecero subito ritorno presso il Generale in capo per informarlo dell'adempita commissione, ed il Bellucci che solo si recò dall’Eccellentissimo perché il Nicoletti fu ritenuto dal Generale Salzano nel piano della Reggia per altra faccenda che or diremo, non omise di palesargli i timori dei garibaldini per lo inatteso attacco di de Mechel, e le fortunate operazioni di costui fino al punto in cui gli fu forza di arrestarsi.

Generale Lanza intese tutto, ma senza nulla ritenere, perché non gl'interessavano quelle rilevanti informazioni. Il Capitano Nicoletti fu ritenuto nel piano della Reggia dal Generale Salzano, il quale in mezzo, a due bonachi (a) cercava un uffiziale capace di adempire un'altra commissione di qualche rilievo. Si trattava che quei bonachi si erano presentati al Comando Generale della truppa regia,

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(a) Cbiamansi bonachi in Sicilia quelli che appartengono alla prima classe dei popolani cioè a quelli di questa sorta che son sempre forniti di una giuba, per lo più di velluto, di un pantalone dello stesso tessuto, di un fazzoletto alla gola, di un berretto, e di un formidabile bastone (canna di zucchero). Questa tenuta è come una divisa per quegl'individui che formano una specie di casta, e la loro influenza nelle rivoluzioni è stata sempre di molto peso, poiché per la loro eminente posizione sui popolani ànno su loro un forte ascendente.

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ed in nome del popolo palermitano che dicevano di rappresentare, chiedevano pace ai regi, offrendosi a pronta sommissione, spezialmente gli abitanti delle contrade non ancora occupate da Garibaldi, le quali eran por molte. Assicuravano che il popolo ardentemente desiderava che la truppa avesse subito occupate le strade rimaste in balia della rivoluzione; assicuravano, rendendosi essi in ostaggio mallevadori, che la truppa sarebbe stata accolta col grido dell’amicizia e della pace, ed alla incredulità che leggevano sul volto di coloro che li udivano, soggiunsero che si fosse fatto un saggio, si fosse spedito con essi qualche uffiziale dello Stato Maggiore dentro Palermo per sincerarsi personalmente della favorevole disposizione del popolo per la pace con un intera sommissione.

Delegato il Generale Salzano per trovare un uffiziale atto ad eseguire questa nuova specie di ricognizioni, ed occorrendo primieramente un individuo che fosse stato molto tempo in Palermo, per saper leggere negli occhi del popolo qual fondo di verità contener poteano i suoi accenti, imbattutosi nel Nicoletti, credette di aver trovato in lui, l'uomo necessario a quella bisogna, e glie ne commise l'esecuzione.

Al Nicoletti volle spontaneamente unirsi col permesso del Generale il 1.° Tenente Savino dello Stato Maggiore, ed entrambi uniti ai due bonachi scesero nello interno di Palermo.

Percorsero circa un terzo della città, ed ovunque furono applauditi e scongiurati perfettamente come i due parlamentari e rappresentanti del popolo avevano dichiarato.

Ritornati verso le ore 6 p. m. alla Reggia, rapportarono che loro constava la sincerità dei due bonachi, e fecero delle premure perché senza indugio, una porzione di truppa avesse occupati quei siti del paese da essi percorsi, lo che sarebbe stato di agevolazione allorché l'indomani (poiché ciò avveniva lo stesso giorno 30 Maggio) si sarebbero riprese le ostilità con Garibaldi. Fu loro risposto con una schernitrice indifferenza, dicendosi che se ne sarebbe parlato l'indomani.

Intanto per dare come suol dirsi, una certa fede all’oste, si simulavano i preparativi per lo attacco del giorno susseguente allo spirare della tregua;

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ma verso le ore 10 della sera giunse il Colonnello Camillo Buonopane, dello Stato Maggiore provveniente da Napoli, e l'indomani in luogo di riprendersi le ostililà, si chiesero a Garibaldi altri tre giorni di armistizio, che subito si ottennero. Immantinenti si restituì in Napoli il Buonopane, accompagnato dal Generale Marchese Letizia, i quali ritornarono in Palermo pria di spirare la nuova tregua, e si stipulò in nome del Generale Lanza, una capitolazione mercé la quale, le truppe di S. M. Napoletana si sarebbero ritirate ai Quattro Venti, per imbarcarsi e trasferirsi altrove, cedendosi senza ulteriore combattimento la capitale della Sicilia a Garibaldi ed alla rivoluzione.

Ma pare impossibile che talune fasi si riproducessero sempre nel medesimo modo.

Nel 1848, 10 mila uomini di truppa pressocché nelle stesse vantaggiose condizioni in cui si trovavano quelle del Lanza, nel 1860, furono costrette di abbandonare Palermo, ritirarsi come truppa già sconfitta, fuggire, demoralizzarsi, e covrirsi di vergogna, perché il suo Duce Supremo così volle, perché............ il perché lo dica egli stesso, e può ben dirlo ora, dopo i suoi gloriosi fasti del 1860, i quali ànno dato tanta luce a quelli del 1848!..

Ed or ci occorre domandare al Generale Lanza.

1.° Perché ordinò al Generale Cataldo di abbandonare la posizione dei quattro Venti che era la base di una ritirata in caso si verificavano dei veri rovesci a danno del corpo d'Esercito?

Perché chiamò un pazzo lo stesso Generale Cataldo quando questi si offrì di congiungersi alla colonna de Mechel, onde rinforzarlo nelle sue operazioni dopo la tregua? Era quello il modo con cui si doveva rispondere ad una generosa offerta di un Generale?

2° Perché l'ordine a de Mechel di cessare dalle ostilità per ragion della tregua, lo spedì graziosamente a Garibaldi per fargli il complimento della lettura di quell'ordinativo? Garibaldi era suo nemico allora, era quel tale filibustiere, a suo dire istesso, che aveva invaso il territorio del suo Sovrano per sconvolgere l'ordine pubblico; or come tanta profusione di gentilezza e di condiscendenza fino a far con lui quello che nessun Generale à fatto giammai,

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neanche quando a avuto a fronte un nemico di sangue regio? Durante le ostilità gli ordini che si danno ai proprii dipendenti, non si mandano mica a leggere precedentemente al nemico!

D onde è che derivava tanta compiacenza e tanta cortesia, in lui, che fu sempre affatto negato alle gentilezze ed alle cortesie?

Quell'ordine insieme a tanti altri che avrebbe dovuto mandargliene per l'indomani che spirava la tregua, doveva spedirlo al de Mechel per tutt'altra via, meno per l'organo del suo nemico. Or, perché si regolò in quella guisa, e non si servì invece del telegrafo della Reggia che comunicava coi legni da guerra in rada appunto là, dove il de Mechel si accampò, cioè sulla strada della marina?

4.°A che spedire ii Capitano Nicoletti ed il Tenente Savino incontro ad un probabile pericolo di esser trucidati dal furore di un popolo sbrigliato, per far loro eseguire una ricognizione dellá quale non voleva tenere alcun conio?

Si vorrebbe sapere perché alla vigilia di un combattimento pel quale simulava i più energici preparativi, non si impadronì di tanta gente che da nemica, si offeriva spontaneamente amica e sottomessa?

5.°La sera del 30 Maggio, egli era nelle condizioni seguenti.

A. Conoscenza precisa della penuria di Garibaldi circa ai mezzi per poter riprendere le ostilità l'indomani: i capitani Nicoletti e Bellucci glie ne avevano dato i più ampi ragguagli.

B. Cognizione esatta della decadenza della rivoluzione in Palermo: Nicoletti e Savino ne lo informarono con pruove di fatto.

C. La brigata de Mechel aveva già tolto a Garibaldi ed alla rivoluzione il solo baluardo dietro il quale potevansi riparar cioè le barricate a Porta di Termini, e piazzata alla Fiera Vecchia, non doveva che marciare un poco,per occupare il cuore di Palermo e metter in fuga le masse garibaldine.

D. Le regie truppe, ardenti per riprendere le ostilità e battersi con valore, e lo oonfirmava il fatto del Granatiere dell'8.° di Linea

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che imbattutosi con lui, lo rampognò in nome di tutto l'Esercito colà riunito, per non averlo fatto battere contro la rivoluzione, (a)

Era dunque la sera del 30 Maggio, nella felicissima condizione di ordinare ai suoi Luogotenenti di rimpadronirsi l'indomani di tutto il paese, di fugare o arrestare Garibaldi ed i suoi, ed andare felicemente a letto per addormentarsi nella dolce certezza di raccogliere un lusinghiero alloro.

Or ci dica schiettamente, perché preferì di capitolare con un impotente nemico, e covrirsi di vergogna in vece di gloria?....

Forse per gli ordini che gli portarono i signori Letizia e Buonopane?... Ma mio Dio! gli ordini loro provenivano dalla Reggia di Napoli, dove non si facevano sapere le sue vere condizioni. E poi, poteva anche adempire a quegli ordini, se cosi volevasi dal Re, ma dopo che per mezzo di un suo fido uffiziale; per mezzo di uno dei suoi stessi figli, avrebbe fatto sapere al Re, la sicurezza in cui era di poter accoppar la rivoluzione.

È incontrastabile che ci vuole una imponentissima ragione perché un vecchio Generale, digiuno come il Lanza, di gloria militare, rinunziasse di ornarsene senz'altra fatica che lo stendere la mano per afferrare la corona di alloro, e piazzarsela in lesta.

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(a) Il giorno 6 Giugno fu spedito a Garibaldi il Capitano Nicoletti per ripetere quei soldati che fatti prigionieri dai garibaldini avrebbero volato ritornare volontariamente alle rispettive bandiere, giusta un articolo delta capitolazione, il quale stabiliva che i prigionieri avrebbero potuto ritornare ai loro posti, o restare con la parte che li aveva catturati, a secondo che meglio ad essi sarebbe convenuto e piaciuto.

Molte pratiche si osarono per sedurre i soldati regi a restare coi garibaldini; ma indarno, avvegnaché quando il Capitano Nicoletti, disse loro «chi vuol ritornare alle bandiere mi segua, e ehi vuol restare non si parta da ove si trova» tutti quanti, senza una sola eccezione, si slanciarono per seguire il detto Capitano, a malincuore del signor Cenni Tenente Colonnello Garibaldino ed altri suoi compagni, i quali non avevano risparmiato promesse, lusinghe e stratagemmi per impedire il ritorno di quei 150 individui di differenti gradi sotto le proprie insegne.

Ecco lo spirito che informava la truppa dell’Esercito che si è bistrattato  si è aggravalo di contumelie.

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Bisogna che egli renda di pubblica conoscenza questa imponente ragione che lo spinse ad una tale rinunzia, altrimenti la nota di fellonia che la pubblica opinione gli appone, sarà più che giusta.

Intanto dopo questa sommaria narrativa, ci si dica in che modo possono essere aggravati di codardia quel 24 mila uomini, che per obbedir ciecamente agli ordini dei loro superiori, e spezialmente del loro Generale in capo, cedettero col cuore oppresso dal dolore il proprio terreno ad un nemico che non poterono mai combattere?

Il carico che si può fare a quella truppa, è solo di essere stata troppo docile ed obbediente; ma questo carico ci sembra onorifico, e non già umiliante.

Ci si citi un caso solo, in cui ordinatosi a quella truppa di battersi, essa si sia ricusata, e noi ci accolleremo tutto il torto del mondo; ma se ciò non può dirsi, poiché le vittorie della Gancia, della Matrice, del bastione Montalto; la gloriosa difesa del capitano Rizzo in Bagheria (a) reclamano in favore del valore di detta truppa; se quei poveri soldati non si batterono perché non li vollero far battere, tacciano per Dio 1 i detrattori e facciano voti all’Altissimo di non trovarsi mai di fronte lo stesso nemico ben guidato, se loro è discaro il mordere la polvere attaccata alle scarpe di coloro che chiamarono codardi!

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(a) Il Capitano Pasquale Rizzo del 4° di Linea, circondato e fortemente aggredito io Bagheria dalle masse rivoluzionarie, tenne fronte per due giorni con due sole compagnie, ed abbandonò il suo posto sol quando ricevé l'ordine di ripiegare in Palermo.


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NOTA N. 3.

Battaglia di Milazzo

Non troviamo di meglio che riportare il dettaglio di quell’azione di guerra, tal quale si trova nella RIVISTA MILITARE in data 11 Agosto anno 1.° N. 5. e 6.

«L'azione combattuta in questo giorno dai valorosi soldati dei Battaglioni Cacciatori, 1.° 8.° 9.° ed il coraggio e la calma con cui sostennero otto ore e mezzo di fuoco, contro di una forza quintupla, è degna certamente di onorata menzione nella istoria dell’armata Napoletana.

«Era pria dell’alba, allorquando il comandante la colonna montava a cavallo, e facendo mettere sotto le armi la forza disponibile conducevala a rinforzare le posizioni già occupate, mentre indizi certissimi si avevano che in questo giorno dove vasi sostenere un' attacco.

«Verso le cinque del mattino, dal Telegrafo situato dentro il Forte, si scovrivano numerosissime masse che da Miri calavano verso il villaggio di S. Pietro. Avvertito di ciò il Colonnello del Bosco, ordinava fosse uscita l'Artiglieria, che era a porta Messina per precedente ordine dato, ed una sezione si fosse piazzata alla spiaggia in direzione del Posto S. Giovanni, ed a scaglione con quella postata a casa Unnazzo. Questa sezione aveva a custodia una Compagnia Cacciatori, e suo scopo si era di proteggere l'altra piazzetta innanzi, laddove dal nemico si avesse voluto spuntare la nostra ala dritta.

«Altra sezione di Artiglieria veniva situata sul ponte,dopo le grotte, onde battere per la fiumara che mena verso S. Pietro a Miri.

«Finalmente la quarta sezione di Artiglieria stava col posto avanzato sulla strada principale, da servire come sostegno al posto Mulini.

«Tali disposizioni venivano date in seguito di essersi riconosciuto che il nemico poteva esserci sopra per cinque differenti strade che da Barcellona e S. Lucia conducono di fronte a Milazzo,

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cioè la prima dalla spiaggia, la seconda dalla parte interna dei giardini corrispondendo a Gasa Unnazzo. Quadrivio Leonti, e piano di S. rapino; la terza per la fiumara, che intromettendosi nel villaggio di S. Pietro esce per un viottolo io cassato dietro le grotte. La quarta per la via consolare di Mi lazzo, e la quinta per la Marina dalla parte del Porto, che mena ai Mulini.

«Gli avamposti lungo il Capo,che mena alla Lanterna, ascendevano a 400 uomini, onde impedire uno sbarco alle spalle della posizione da noi occupata.

«Alle sei precise fummo attaccati al centro della nostra linea, ovvero al posto di rincontro via S. Pietro, Il nemico presentavasi su tutto il fronte di battaglia, cioè dall’una all’altra sponda del mare.

«La fregata a vapore (il Veloce) dal momento dell'azione si piazzò contro della spiaggia per sostenere il fianco sinistro nemico, e sbarcò uomini e munizioni!

«Pochi momenti dopo dello attacco al centro, principiò il fuoco al posto Mulini, e poscia verso la nostra ala dritta.

«Rinnovati gli ordini e le istruzioni precedentemente dati per lo attacco, visitando tutte le posizioni, il Comandante la colonna Colonnello del Bosco andava a dirigere le operazioni al posto Mulini, ove più ferveva la mischia, avendo al suo fianco il Capitano Fonseca di Artiglieria.

«Esso colonnello aveva disposto una divisione del 9° Cacciatori per tenerla come riserva, ma fatalmente fu adibita troppo prematuramente dal Tenente Colonnello Marra, e quindi il Colonnello non fu al caso d'usarla dopo la carica della Cavalleria.

«Verso del centro ove pure gagliarda era l'azione trovavasi il 1.° Tenente Salmieri dello Stato Maggiore, per agire di accordo col Colonnello Comandante le Truppe.

«La nostra ala dritta fu significantemente attaccata nell'esordire del nemico,ma poscia decise della ritirata, osando il Veloce la mitraglia.

«La disposizione dei nostri era in ordine aperto, con leggieri sostegni, si pel terreno frastagliato, sì pel poco numero di combattenti su di esteso fronte.

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«Il teatro del combattimento fu nella pianura, alla distanza di un miglio e mezzo, e poco più da Milazzo. Dopo due ore di nudrita fucileria, entrò in azione l'Artiglieria del centro postata alla Fiumara, e quella dell'ala sinistra al Passo Mulini.

«La pugna fu sanguinosa. I Cacciatori e l'Artiglieria mostrarono in simile rincontro il più pronunziato valore. Tutti combattevano con entusiasmo ed accanimento, ed era sorprendente il vedere molti soldati dei Cacciatori, che avendo la propria arma inutilizzata, perché rimasta la parte piena del proiettile nella canna, attaccavano alla baionetta non appena gli veniva ordinato dal Comandante la Colonna, a cui si presentavano per far notare sì grave sconcio.

«La sezione di Artiglieria postata a Casa Unnazzo entrò in azione verso l’ultimo della pugna.

«Qui è da notarsi che dei 2500 uomini che formavano la intera colonna di operazione, solo 1600 combattevano, dappoiché i rimanenti venivano adibiti in avamposti sul Capo per garentire le spalle alle Porte Messina e Palermo, onde proteggere la ritirata, e finalmente altre tre Compagnie e mezzo tra Casa Conazzo e S. Giovanni, delle quali le sole prime tirarono poche fucilate.

«Il trasporto dei feriti che man mano si raccoglievano,distoglieva anche della gente, mentre con soli quattro brancali e otto soldati della riserva come infermieri, non potevasi eseguire il trasporlo dei feriti. Dal Comandante là colonna fu ordinato che cento uomini del 1.° di Linea fossero usciti dal Castello senz'armi, pel trasporto esclusivo degli uomini fuori combattimento.

«Un plotone dei Cacciatori a Cavallo, il solo rimasto disponibile, diede una brillante carica al trivio dei Mulini, e fu nel momento in cui si abbandonò al nemico il solo obice perduto. Il Capitano signor Giuliani, che condusse il Plotone fu ucciso dai Carabinieri nemici, in unione a sette Cacciatori a cavallo. Il Tenente signor Faraone riportò sette ferite.

«La pugna durò sino alle 2 e mezzo p. m. senza lasciarsi giammai la posizione,ad onta dei maggiori sforzi, e delle nuove masse nemiche si succidevano per rompere il centro ed impedire di più raggranellarci, per poi ripiegare sopra Milazzo, base di nostra operazione.

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Epperò dopo di ore 8 1|2 di accanito combattimento, affrontando impavidi le fresche masse ci si opponevano, il soldato stanco della fatica, e senza una riserva da poterlo rinforzare o sostituire, fece decidere di cedere combattendo; per la qual cosa il Colonnello del Bosco disponeva che la Truppa tutta avesse preso posizione dentro Milazzo(secondo il piano precedentemente stabilito e gli ordini dati), e nel mentre ciò si eseguiva, la Fregata a Vapore (il Veloce) che tutto il giorno erasi mantenuta verso la spiaggia, avanzossi all’altura di S. Papino, e tirando la mitraglia molestò la ritirata nel Forte. Movimento eseguito con ordine e lentezza senza abbandonare i feriti nostri e del nemico, meno tre Professori lasciati dal Maggiore Maringh.

«Nel mentre la poca truppa si ritirava nel Forte, il Cannone, del Castello, per ordine del Colonnello Pironti che ne era il Comandante tirò contro del Veloce per allontanarlo e facilitare la marcia.

«I prigionieri nemici davano ragguagli essere al numero di diecimila i loro combattenti,comandati dal signor Garibaldi, e dai signori Medici e Cosenz; avendo a Barcellona un Corpo di riserva.

«Da quello che si poté giudicare ad occhio» pare che tale re (azione sia esatta, mentre le masse erano tali e tante, che maggiori del numero indicato si presentavano allo sguardo.

«Il signor Garibaldi al Comandante del Protis, ha detto che avea 8000 uomini, e ne avea perduto al di là di 800. I nostri feriti io tale giorno furono al numero di 83, tra i quali otto uffiziali, e 31 morti, oltre due uffiziali.

«La perdita del nemico giudicando dal Campo da noi lasciato à dovuto essere superiore agli 800 annunziali da Garibaldi, che deplora molti suoi uffiziali.

«Le relazioni particolari avute giorni dopo da qualche nostro sottoufficiale disertore e da taluni Piemontesi stessi che si accostavano al Castello nell'atto della tregua, facevano ascendere la cifra della perdita nemica a mille e cento.

«Compiuta intieramente la ritirata nel Castello, il paese fu occupato dal nemico con molta circospezione e senza slancio.


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NOTA N. 4

Cenno relativo al Generale Garibaldi.

Pugnai contro Garibaldi, ed i suoi volontari, e li combatterei di nuovo semprecché mi ritrovassi nelle medesime condizioni del 1860. Ma non perché furono miei nemici su i campi di battaglia, negherò loro la giustizia che ad essi compete.

Né per questo però mi è possibile di non ridere in leggendo talune stampe escite sotto l'influenza di un entusiasmo smodato, fino al punto di narrare improntitudini che io stesso Dumas non à mai espresse sui suoi fantastici eroi da romanzo.

E perché tali declamatori della fervente immaginativa apprendano, che l’entusiasmo troppo spinto, nuoce più che giova agli uomini singolari,noi ci daremo opera a mentovare le azioni e i fatti del Generale Garibaldi seguiti nel Regno delle due Sicilie, coi documenti officiali che a quest'opera allighiamo.

Lo facciamo di buon grado imperocché il tempo, gran maestro della vita, disvela sempre la verità delle cose, le quali quando sono orpellate mettono in dubbio il vero merito di chi si è voluto esaltare a furia d'invenzioni, e così l'universale finisce col non credere più nulla di quello che legge in un apologia fantastica.

Il giorno S Maggio del 1860, Garibaldi con mille suoi compagni poneva piede sulla spiaggia di Marsala ed andava tranquillamente a ristorarsi nella fabbrica Ingam. Nessuno può mettere in dubbio il coraggio spiegato da quello sparuto numero di uomini in quella azzardata intrapresa. Ma è buono pure che si sappia, che il 6 Maggio, due giorni prima cioè, il solo 1.° Battaglione dei Carabinieri a piedi comandato dal proprio Colonnello Francesco Donalo, che stava accantonato in Marsala, ebbe ordine dal Comando Generale di Palermo, di prontamente ripiegare sopra Girgenti; per lo che gli invasori erano sicuri che nessun soldato li avrebbe molestati nello sbarco. Ognuno apprenda che i legni da guerra che stavano in crociera nelle acque di Marsala (il Capri comandato da Marino Caracciolo, ed il Tancredi da Guglielmo Acton)

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furono sorpresi da un sì forte capogiro che si trovarono a varie miglia distante da Marsala, nel momento in cui lo sbarco avveniva; capogiro che Garibaldi curò col dare al Marino Caracciolo l'onore di divenir suo compare, tenendo il di lui figliuolo al fonte battesimale.

E niuno ignori finalmente che un pietoso legno da guerra inglese, che a caso si trovava nelle acque di Marsala, forse per acquistare qualche bottiglia, di vino lngam, pieno di sollecitudine pel pericolo al quale si esponevano quei coraggiosi avventurieri, prestò loro il piccolo ufficio di garentirli, avvertendoli, dopo due giorni di capolino tenuto dietro le isole di Formica, e Favignana, del momento opportuno in cui dovevano scendere a terra, rendendo loro benanche altri piccioli servizi di egual valore.........

Garibaldi di poi si diresse a Calatafimi, e trovata colà la Brigata Landi, fece correre 42 miglia in 14 ore ai suoi tremila nemici dal suddetto Landi guidati, i quali presero lena soltanto in Palermo.

Ma la nota N. 1 ci dice come e perché avvenne ciò; quindi pare che la promessa di 12 mila ducati al caro Generale Landi, risolvette in quel modo un problema che già si stava risolvendo tutt'altrimenti, quando la soluzione di esso si faceva dipendere dal cozzamento del valore garibaldino con quello della truppa napoletana....

Garibaldi ingrossato proseguì la sua marcia trionfale, ed al Parco, incontrò le brigate Colonna e de Mechel. Strategicamente illude questa, mette in imbarazzo l'altra, secondo che si è detto nella Nota 2, e quindi piomba sopra Palermo. E qui è ammirevole la sua astuzia, ben concepita, meglio eseguita, e mirabilmente riuscita. Guai a chi si fece trappolare ed a chi si fece sorprendere da una intempestiva perplessità, poiché vincasi per arte o per ingegno, sempre di lode il vincitore è degno l..

Garibaldi in Palermo, a fronte di 24 mila uomini pronti a combatterlo, s'insediò nella città di cui divenne assoluto padrone dopo 4 giorni.

Ma la Nota N.° 2 dimostra il come ed il perché ne fu padrone; ci dice, che egli non se ne impadronì certo per vittoria riportata

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sulla truppa a lui nemica, ma per gentilezza di S. E. il Tenente Generale Lanza; il quale, o venduto ovvero ingannato é sempre un altro personaggio al quale il Generale Garibaldi, dovrebbe divenire anche compare...

Si diresse poscia sopra Messina traversando Catania che trovò sgombra di truppa, la quale dopo che ebbe colà battuta la rivoluzione, il 31 Maggio, giusta la Nota N. ° 1 ricevé ordine di ripiegare sopra Messina } ma a Milazzo il Garibaldi trovò il Colonnello Ferdinando del Bosco che con una Brigata gli diede tanto da fare, che se il Generale Clary da Messina spediva un rinforzo, facilissimamente il Generale Garibaldi avrebbe dovuto a passo celere ritornare alla Fabbrica Jngam in Marsala per ristorarsi delle fatiche durate in quella battaglia. Egli guadagnò invece è vero, e costrinse del Bosco a capitolare; ma dica egli stesso in buona coscienza, se non dovrebbe divenir compare anche del General Clary, poiché senza la ostinata inerzia di costui, avrebbe potuto cantar vittoria, se soli 1600 uomini sotto gli ordini del del Bosco avevano ridotte in molto cattive condizioni i suoi 10 mila combattenti?

In ogni modo però, gli fu forza tener battaglia colà colle palle di piombo invece di quelle di oro, ed onorevolmente e coraggiosamente la tenne, e vinse.

Ma quella memorabile battaglia non è forse una pruova incontrastabile, che quando la truppa Napoletana si è trovata sotto gli ordini di un capo onesto, si è battuta eroicamente, senza mai contare il numero ed i mezzi dei suoi nemici, per metterli in confronto coi propri, affin di decidere se gli sarebbe o no convenuto di battersi?...

Garibaldi in Messina seppe e vide che vi era un corpo d'Esercito di 15 mila uomini disposto a combatterlo; ma egli divenne padrone della città di Messina senza colpo trarre, poiché il distinto Cavaliere General Clary, non permise alcuna ostilità contro di lui, aspettando gli ordini del Ministro della Guerra (Pianelli) di evacuare quella Città e restituirsi in Napoli.

Quindi anche lì non per vittorie, ma per gentilezza di Clary e Pianelli egli fece un' altra conquista.

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Si diresse poscia nel continente, e sbarcò nelle Calabrie garentite da un altro corpo di Esercito napoletano di 20 mila soldati, che egli vigorosamente attaccò e debellò; ma anche colà senza alcuno sciupo di polvere palle e pelli, sibbene mediante l'oro per taluni e la seduzione per gli altri, impadronendosi così del ben formato cuore dei Generali Ghio, e Briganti, i quali da buoni patriotti Italiani posero la nota d infamia e di vergogna sulla fronte della giovine Italia, mettendo 20 mila soldati Italiani nella trista condizione di vilmente sbandarsi a fronte del nemico.

Adunque neppure in Calabria la truppa Napoletana è stata sottomessa dalle armi, ma bensì dalla fellonia dei suoi Generali, senza di che essa avrebbe adempito al proprio dovere.

Reso padrone delle Calabrie, si diresse subito sopra Napoli, senza punto curarsi del campo trincerato che stava in Salerno che gli sarebbe stato d insormontabile ostacolo nella sua marcia trionfale. Ma il 5 Settembre un ordine Sovrano imponeva a quell’altro corpo d Esercito di abbandonare la posizione di Salerno e ritirarsi tutto dietro il Volturno, ed in tal modo l'ostacolo fu atterrato da colui che avrebbe dovuto renderlo invece più solido e più insuperabile. Quindi Garibaldi, spendendo un semplice ringraziamento al benemerito patriotta signor Liborio Romano, che lo aveva avvertito di esser riuscito coi suoi socii a spianargli la strada, guardò passando, le vestigia del campo trincerato di Salerno, debellato e distrutto, non dalle sue armi, ma dal più scellerato intrigo che facilmente riusciva ad abbindolare il giovane Sovrano

Giunse Garibaldi in Salerno, e vi trovò il Reggimento Carabinieri a piedi comandato dall’elegante Cavaliere Colonnello Francesco Donato, il quale educato alla perfetta scuola della galanteria, non sapendo come meglio disimpegnare i doveri della ospitalità verso un forestiero come Garibaldi divisò di fargli il regalo del suo Reggimento, onde non avesse trovato alcuno oppositore nel suo passaggio........

Il 7 Settembre, Garibaldi solo e senz'altra scorta che 3 suoi Aiutanti di campo, entrò nella Città di Napoli che era tuttavia custodita da una porzione di truppa regia, alla quale se si fosse fatto sentire anche sottovoce il comando di fuoco, avrebbe dato all’Europa un grandioso spettacolo.

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Percorse il nostro eroe a lentissimo cammino la strada della Marinella, castello, S. Carlo, ed andò ad arringare al Popolo al palazzo di Corte che chiamavasi la Foresteria; quindi per la via Toledo andò a fermarsi nel palazzo del Principe d'Angri, donde cominciò presto a dettare leggi e proclami.

Ma senza i precisi ordini lasciati dal Re Francesco 2.° contemplati nella Nota N.° sarebbonsi paralizzate alla vista di Garibaldi, le braccia di quegli Artiglieri che poscia in Capua lo tirarono a palla infuocata? Sarebbero cadute le armi dalle mani di quei soldati che mordendosi le dita dimandavano ai loro uffiziali di poter fare qualche cosa, trattenuti soltanto dalla ripetizione degli ordini, i quali erano di non spargersi nella Capitale una goccia di sangue? Sarebbero rimasti sbalorditi dalla sola presenza di Garibaldi nel paese quei soldati che a Calatafimi, alla Villa Giulia di Palermo, alla Porta di Termini, ed alla Fiera Vecchia dello stesso Palermo, a Milazzo, a Capua, a Triflisco, a Caiazzo, a Santamaria, a Santangelo, ed ovunque ebbero battaglia zuffa o scaramuccia contro di lui, é furono guidati da onesti capi, non si sbalordirono giammai, ma lo combatterono sempre con entusiasmo e coraggio?

Si sarebbe potuto rinnovare il famoso declamato avvenimento di Gerico; descritto da quei tali declamatori dalla fervente immaginativa, ai quali oggi noi debolmente rispondiamo?

Non rammentavate o Signori mentre attingevate dall'italiana poesia i portenti i più favolosi per attribuirli a Garibaldi, che in cuor suo non ve ne sarà stato troppo grato se à buon senso, come credo, che Egli si fermò innanzi Capua, e più non procedette oltre dacché il 19 Settembre i Generali Sai ano, Rossarol e Negri, gli mostrarono che  esso aveva finito lì di farla guerra colle palle di oro, e che gli era d’uopo far quella delle palle di piombo?

Dimenticavate che quando cominciò la guerra colle palle di piombo e di ferro, cessata quella delle palle di oro e di argento, Garibaldi non passò oltre mai più, e vi vollero i cannoni rigati ed i feroci bombardamenti di della Rocca e di Cialdini,

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per sottomettere quei soldati, già ridotti agli estremi della penuria sotto tutti i riguardi, i quali fecero sempre pagare a caro prezzo ogni audacia o temerità ad un nemico che oltre del vantaggio della disparità delle armi, ricorreva pure alla vigliaccheria del bombardamento?

Innanzi ai fatti, o Signori, vi è poco da contrastare. Se non si può negare la fellonia degli uffiziali napoletani, già menzionati; se non si possono distruggere i documenti che palesano l'aiuto che il Re Francesco 2°, ingannato, diede alla rivoluzione per la ferma decisione di risparmiare i suoi popoli dal rigor militare, e dal flagello della guerra intestina; se non si può negare che Garibaldi, giunto innanzi Capua, dove trovò uomini di onore nei Generali suoi nemici fu costretto di fermarsi lì, e lì restò, devesi necessariamente convenire, che la sua marcia fino a Napoli, fu una marcia trionfale preparata dall’oro e dalla seduzione, non mai quella di un debellatore di eserciti sopraffatti dalle armi sue.

La sua disgrazia ad Aspromonte due anni dopo, come non à coverto di ridicolo gli enfatici scritti di coloro che lo rappresentarono un nuovo Achille, un Semideo, capace di operare i più incredibili portenti?

E l'attonita moltitudine che crede ad un cosiffatto romanticismo, non gli à niegato i veri suoi meriti, quando lo udì ferito e deportato come un malfattore, da poca truppa che lo affrontò colà con la determinazione di distruggerlo?

E questo sconfortante scetticismo della idiota moltitudine, non glie lo ànno forse procurato coloro che troppo facilmente si fauno trasportare dallo smodato entusiasmo?

Ma perché dunque lo avete voi stesso chiamato prode, e lo avete messo nel numero degli uomini singolari? ci si domanderà certamente da qualcuno.

Oh si! saremo noi,suoi franchi nemici del 1860, che conia freddezza della giustizia, gli tessiamo l'apologia che merita; e diciamo di averlo chiamato prode perché ebbe il coraggio del prode in gettandosi in una intrapresa estremamente incerta e pericolosa, nella quale un sol rovescio lo avrebbe irremisibilmente perduto nella vita e nella fama; e prova ne sia quello, che lo stesso Cavour che lo spingeva, contemporaneamente scriveva al governo napoletano

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«se lo prendete fucilatelo come un brigante» onde giustificare la sua inconnivenza nelle di lui aggressioni.

Lo stesso Rattazzi che lo inviava in Aspromonte, lo dichiarò un ribelle contro lo Stato.

Più ancora perché colui che si batte come si è battuto Garibaldi» debbe dirsi un prode.

E perché è assolutamente un prode chi sa infondere lo stesso suo coraggio nel petto di uomini che lo anno conosciuto solo nel tempo che un preso le armi per seguirlo.

E perché solo i prodi sanno essere come lui tenaci e generosi in battaglia. (a)

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(a) La pubblicazione del seguente fatto, dimostra in un tempo la generosa lealtà di Garibaldi, e la lodevole condotta serbala da quegli Uffiziali Napoletani che chiusero l'orecchio alle velenose seduzioni della rivoluzione, per ascoltar soltanto la voce del proprio dovere.

Durante la Guerra del 1860, da Napoli veniva spedito in Sicilia il Capitano dello Stato Maggiore Raffaele Riario Sforza con altri due Uffiziali, La via e de Giorgio, per affari di servizio.

Nelle acque di Messina furono catturati dalla Fregata il Veloce, comandata dal Colonnello di Marina Amilcare Anguissola, al quale fu data la commissione di pirateria contro i suoi stessi compagni d'arme, dopo che egli disertò al nemico. Incarico, degno di un iniquo traditore!

Condotti in Palermo; il Riario chiese ed ottenne di parlare al Dittatore Garibaldi, col quale protestò contro quella cattura la quale offendeva il diritto delle genti nella libertà del commercio nel proprio paese.

Garibaldi gli rispose «Ma Capitano, poiché vi trovate qui, non accettereste il grado di Maggiore, per servire la patria vostra?»

Ed il Riario soggiunse «Generale io non ascolto che lo adempimento di quei doveri a cui la mia condizione di soldato mi chiama; vi ringrazio della graziosa offerta, e vi domando di farmi subito restituire alla mia bandiera,  se volete darmi una pruova di quella lealtà che vi si addice.»

L'indomani a spese di Garibaldi fu noleggiato un Vapore Genovese che si trovava nel Porto di Palermo, il quale portò in Napoli, il Riario ed i suoi subalterni non solo, ma tutto lo equipaggio del catturato legno da guerra, poiché nessuno di quella ciurma volle rimanere al servizio della rivoluzione.

Gloria ed omaggio adunque proclamiamo in favore della generosa lealtà

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E perché soltanto i prodi rifuggono dall'opprimere e dall'insultare la sventura di chi soggiacque ad un avverso fato! L'abbiamo poi messo nel numero degli uomini singolari, perché non è di molti il saper destare quell'entusiasmo che egli gode in Italia.

Perché è di pochissimi la sua abnegazione, la sua buona fede, il suo disinteresse.

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dello avventuriero Garibaldi, ed onta ed ignominia eterna ai Generali e Governatiti Piemontesi i quali, all'opposto di lui, per eccessiva codardia àn fatto a gara di misconoscere perfino i patti di capitolazione che sono stati sempre reputati i più sacrosanti in tutte le incivilite nazioni.

E qui cade in acconcio far osservare che il Capitano Riario Sforza, al quale la parte onorata dell’Esercito delle due Sicilie deve tutta la riconoscenza, per la sua lodevole condotta serbata nel summentovato rincontro; il Riario Sforza, che nella infelice campagna di Palermo f fu uno di quelli che adempirono con ammirevole alacrità ai loro doveri, che dopo la invasione Piemontese nel Napoletano, à onorevolmente proceduto, traendo vita affatto privata e dignitosa, sventuratamente è un di quelli Uffiziali dello Stato Maggiore che non raggiunsero l'Esercito in Capua, a causa delle ambigue, false ed urtanti risposte che ottenne dal suo Capo di Stato Maggiore, quando il di 6 settembre nella Reggia di Napoli gli chiedeva insieme agli altri suoi compagni, ordini precisi per quello che avrebbe dovuto fare.

Donde potrebbe mai indicare con nota di fellonia, o di viltà, quest'Uffiziale che fu una vittima del cattivo procedere del suo capo?

Ed aggiungasi, che il Riario non contento di quello che il Capo dello Stato Maggiore gli aveva detto, si recò dal Generale del Balzo, presso cui era destinato, egli domandò cosa far doveva per la partenza del Re; ed il Signor del Balzo, dimentico della sua attinenza alla famiglia allora regnante, che l'obbligava a dividere la sua cattiva sorte, per come aveva divisa la buona, quando al fianco d'una Regina gongolava fra gli onori e le dovizie, rispose pure a quel suo aiutante di Campo, che il Re andava a sciogliere l'Esercito, per emigrare, e che egli non si sarebbe dipartito da Napoli, insinuando con siffatte manifestazioni al suo Aiutante di campo, a seguire il suo esempio.

Varii or si trovano nella stessa condizione del Riario per le medesime cause, e quasi tutti costoro fecero gran mancanza nella campagna del Volturno e del Garigliano, perché privarono l'esercito di ottimi uffiziali, epperò rinnoviamo le nostre preghiere alla pubblica opinione, perché non voglia far di tutti un fascio solo!..

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Perché è sol di qualcuno la sua incorruttibilità in faccia ad un principio che egli ingenuamente ritiene per un pensiero generale nella intera Italia.

Perché insomma bisogna che sia assolutamente singolare, per non essersi anch'egli corrotto in mezzo alla generale corruzione che abrutisce l'Italia e la rende più schiava che non Io fu giammai!!...

Lo dissi altra volta, e lo ripeto ora. Vorrei Garibaldi colto e sapiente in politica, per quanto è generoso e prode, e gli augurerei il dominio dell’Europa intera per la felicità dei popoli Europei.

Tale com'è, fo voti all’Altissimo perché si ritiri intieramente dal campo politico d'Italia, per non richiamare ulteriori sventure su questa povera terra, che già molte ne à sofferte per la troppo buona fede dei pochi veri adoratori di un sublime concetto, e per la eccessiva nequizie dei molti speculatori politici, i quali sovvertono i primi per raggiungere sempre i loro nefandi disegni con l'ausilio di quelli.


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NOTA N. 5

Ordine del Re quando lasciò Napoli.

Il mattino del 6 Settembre 1860 Re Francesco 2.° riceveva i due suoi Generali Ignazio Cataldo e Bartolo Marra, e nel partecipar loro il suo divisamento di lasciare la Reggia della Capitale, affidava al primo il comando della Piazza di Napoli, ed al secondo la custodia della Reggia, del Forte nuovo, della Darsena e degli Edifizii dipendenti dal detto Forte.

Il Generale Marra insistette per avere dal Re ordini precisi e chiare istruzioni, circa i doveri da compiere, giurando di eseguire i Sovrani ordini esattissimamente a costo della propria vita; ma desiderava evitare equivoci o cavilli che si sarebbero potuti far sorgere da altre autorità in quanto alla interpretazione da darsi a quegli ordini ed a quelle istruzioni che stava per ricevere.

Allora il Re, chiaramente rispose, che era sua ferma intenzione di risparmiare a Napoli il più piccolo devastamento e la minima effusione di sangue, per lo che si ritirava colla truppa ad una tappa di distanza dalla capitale. Che lasciava in Napoli dei Corpi militari per tutelare l'ordine pubblico, e per garentire da un saccheggio e dalla devastazione la città e gli edificii del Governo. Che la truppa la quale restava in Napoli, doveva concorrere colla Guardia Nazionale pel conseguimento di tale scopo. Che restava al potere in Napoli quel Ministero che esisteva allora, col quale il Re aveva tutto ciò combinato. Che le truppe summentovate, dovevano proseguire a covrire i posti che occupavano. E che dualmente avessero agito di accordo col Presidente del Consiglio dei Ministri (allora Spinelli) al quale il Re aveva dato ordini eguali a quelli che dava ad essi.

Strinse loro affettuosamente la mano e li congedò.

I detti Generali furon solleciti a vedere il Ministro Spinelli, e lo trovarono in unione del Ministro di Francia Brennier, il quale Spinelli disse loro che era perfettamente inteso di ciò che essi gli riferivano; ma che avrebbe voluto rivederli al suo ritorno dalla Reggia dove stava per recarsi.

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Alle 3 p. m. lo Spinelli rivedeva i due Generali, ai quali in presenza del Sindaco di Napoli, allora l'onoratissimo Principe di Alessandria (a) disse, che rimanevano fermi gli ordini che avevano ricevuti dal Sovrano.

Che la loro missione era puramente e semplicemente conservatrice» e si riduceva al mantenimento dell’ordine pubblico ed alla tutela dei pubblici stabilimenti, sino a quando una forza di cui il Ministero poteva disporre non li avrebbe sostituiti.

Durante la loro conferenza col Ministro Spinelli, un Generale di Marina reclamò la preferenza per la custodia della Darsena, come cosa che riguardava più lui che un Generale di terra, ed il Ministro accolse la rimostranza, e fu la sola modifica che lo Spinelli diede agli ordini dati dal Re....

Quali comenti potrebbero occorrere a questa ufficiale rivelazione, la quale manifesta in tutta la sua estensione i magnanimi e paterni sentimenti di un Sovrano, che lascia la sua casa, abbandona le sue risorse, disprezza le funeste conseguenze di un inconsiderato allontanamento dalla propria Capitale, per evitare il saccheggio, la devastazione e lo spargimento di sangue ai suoi popoli?..

Tutto quello che si potrebbe aggiungere, non sarebbe che una inopportuna battologia.

Soltanto lasciamo riflettere a qualche sconsigliato rinaldista, che se Re Francesco 2.° avesse lasciato la capitale, non per magnanimità di cuore, ma nel fine di meglio precipitarla nelle dolorose conseguenze dell'anarchia e della guerra civile, come alcuno à asserito, o perché non aveva più alcuno in sua difesa, come altri àn sentenziato, esso avrebbe potuto fare un piccolo appello a coloro che col proprio sangue lo difesero in Capua in Gaeta, in Messina, a Civitella del Tronto, sul Volturno, sul Garigliano ec., e gli sarebbero stati piucchè bastevoli per ottenere lo scopo, e conservarsi illeso da ogni pericolo nella propria Reggia. Per ciò fare però, occorreva una energia, da cui egli rifuggiva,

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(a) Badiamo bene che non è detto l'onorevolissimo, ma l'onoratissimo.

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e delle determinazioni politiche e militari delle quali un giovane come lui, educalo fino all'anno precedente alla sola scuola della calma domestica, non poteva esser padrone.

Facilmente si abbindola un Sovrano dell’età di 22 antíi, con un cuore scevro di fiele negl'intrighi politici che non gli si fecero mai conoscere, e pieno di lealtà e fiducia si affida ai consigli di chi gli si professa devoto ed amico,per carpirgli un programma come quello che Re Francesco 2° pubblicò alla sua ascensione al Trono,immensamente impolitico allora per le mene che gli si stavano ordendo, e però a lui stesso soltanto sommamente nocivo.

Chi esporrebbe quel programma per mettere in dubbio la clemenza ed i retti sentimenti di Re Francesco 2° non potrebbe essere che un insensato, o un settario.

Noi che scriviamo una difesa nazionale sentiamo indispensabile in noi medesimi il dovere di difendere nella persona del Re Francesco 2° il primo dei nostri Concittadini, il primo Generale dell'Esercito Napoletano, il primo Gentiluomo delle due Sicilie, dalle calunnie che gli si sono lanciate contro, e tanto più ci è necessario,in quantocché miriamo sempre allo scopo di dimostrare che coloro i quali anno difeso il Re Francesco 2° sui campi di battaglia, non ànno difeso un tiranno della nazione napoletana, ma un leale Gentiluomo, un magnanimo Sovrano, aggredito tanto slealmente, che forma oggetto di ammirazione del mondo intero nella sua sventura.


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NOTA N. 6

LETTRE DE L'EMPEREUR NAPOLEON

AU ROI FRANÇOIS 2°



Paris 6 décembre 1860

Monsieur mon Frère

Je n'ai pas écrit depuis quelque temps à Foire Majesté parce que je voulais attendre que les événements aient acquis un caractère assez tranché pour pouvoir, en connaissance de cause, exprimer à Foire Majesté ma pensée tout entière.

Lorsque l'injuste agression du Piémont vint aider la révolution dans vos États et vous forcer à vous retirer à Gaëte, je résolus d'empêcher le blocus par mer, afin de donner à Votre Majesté une preuve de ma sympathie et éviter à l'Europe l'affligeant spectacle d'une lutte à outrance entre deux Souverains alliés, et où te droit et la justice étaient du côté de celui qui devait succomber. Mais tout en laissant au moyen de ma flotte, la mer libre à Votre Majesté, il ne pouvait entrer dans mes intérêts, ni dans ma politique, d intervenir activement dans le débat; aussi l'amiral de Tinan a dû observer la plus stricte neutralité entre les deux adversaires. Or, maintenant les incidents de la guerre compliquent tout les jours la position de ma flotte â Gaëte: tantôt elle est sur le point de sévir contre les Piémontais, dont les attaques menacent sa sécurité; tantôt elle est obligée, pour maintenir sa neutralité, d'empêcher les bâtiments de Votre Majesté d'exercer sur les navires piémontais de justes représailles.

Cette position ne saurait durer indéfiniment, d'autant plus qu’il est, je croissons l'intérêt de Votre Majesté de se retirer avec les honneurs de la guerre, avant d’y être forcé par une catastrophe inévitable. Fous avez montré une louable fermeté. Tant qu'il l’avait une chance de remonter sur le trône, votre devoir était de soutenir votre droit par les armes; mais aujourd'hui, je If. dis à regret, le sang qui se répand coule inutilement; votre devoir, comme homme et comme Souverain, est d'en arrêter l’effusion.





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J'ignore ce que l'avenir réserve à Votre Majesté, mais je suis persuadé que l'Italie et l'Europe lui tiendront compte et de l'énergie qu'elle a montrée, et de la décision qu'elle aurait prise d'éviter aujourd'hui à son peuple de nouveaux malheurs.

Je vous prie de croire que le langage que je tiens à Votre Majesté est dicté par le plus entier désintéressement d'une part, et de l'autre par le regret que j'éprouverais, si les circonstances devenant plus graves en se prolongeant forçaient à ne plus pouvoir maintenir ma flotte dans une position où la stricte neutralité deviendrait impossible.

Je prie Votre Majesté de recevoir la nouvelle assurance de haute estime et de sincère amitié avec lesquelles je suis, monsieur mon frère, de Votre Majesté, le bon frère.



Signé— Napoléon (a)

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(a) LETTERA DELL’IMPERATORE NAPOLEONE
AL RE FRANCESCO 2.°

Parigi, A Dicembre 1860

Signor Fratello

Per qualche tempo non ho scritto a Vostra Maestà perché ho voluto aspettare che gli avvenimenti, avessero acquistato un carattere abbastanza determinato onde potere con cognizione di causa esprimere per intero il mio pensiero alla M. V.

Allorché l'ingiusta aggressione del Piemonte venne ad aiutare la rivoluzione net suoi stati, e la forzò ad una ritirata in Gaeta, io decisi dimpedire il blocco per mare affin di testificare a V. M. una pruova della mia simpatia, ed evitare all'Europa l'affligente spettacolo di una lotta ad oltranza fra due Sovrani alleati, di cui il diritto e la giustizia appartenevano a colui che doveva succumbere. Ma comunque col mezzo della mia flotta avessi voluto lasciare il mare libero a V. M. pure i miei interessi e la mia politica non mi permettono d'intervenire attivamente nella quistione, cosicché l'Ammiraglio de Tinan ha dovuto osservare la più stretta neutralità per i due avversari. Intanto gl'incidenti della guerra complicano sempreppiù la posizione della mia flotta a Gaeta: talora essa trovasi obbligata di mostrarsi severa contro i Piemontesi, i cui attacchi minacciano la sua sicurezza, ed altra volta essa è costretta







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L'Imperatore dei Francesi, Luigi Napoleone 3.°, il principal fautore del cataclisma napoletano, chiamò egli medesimo ingiusta l'aggressione del Piemonte, disse che il diritto e la giustizia stavano per colui che era stato assalito, e dichiarò che il dovere del Re Francesco 2.° era di sostenere i suoi diritti con le armi.

Non sarebbe superfluo ogni altro comento da parte nostra per dimostrare diffusamente, quello che da lui è stato interamente dimostrato in brevissimi accenti?

Soltanto oggi, che le sorti del Napoletano si presentano tanto luttuosamente dopo tre anni del nuovo regime noi domandiamo all'Imperatore Napoleone, se il Re Francesco 2.° opponendosi alla invasione Piemontese, proccurava davvero ai suoi popoli le novelle sventure che il Sire francese contemplò nel capitolo 4.° della Sua lettera, o tentava di evitargliele? Sanguinerebbe oggi tanto deplorabilmente il Regno delle due Sicilie, se il suo Re fosse riuscito ad evitargli la dominazione degli attuali vandali?

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per mantenere la sua neutralità d'impedire ai bastimenti di V. M. di esercitare delle giuste rappresaglie su i navigli Piemontesi.

Questa posizione non potrebbe rendersi indefinita, tanto più che sia l’io credo, negl'interessi di V. Jf. di ritirarsi con gli onori della Guerra, prima di esservi forzato da una inevitabile catastrofe. V. M. ha mostrata una lodevole fermezza. Finché vi era una possibilità di risalire sul Trono era suo dovere di sostenere con le armi i suoi diritti; ma oggi, lo dico con rammarico,, il sangue che si versa, scorre inutilmente; il suo dovere come uomo e come Sovrano, è quello di arrestarne l'effusione.

Io ignoro ciò che l'avverare riserba a V. M. ma son convinto che l’JiaHa e l'Europa le terranno conto dell'energia che Ella ha mostrata, e della decisione che prenderebbe di evitare ai suoi popoli delle ulteriori sventure.

La prego credere che il mio linguaggio è dettato dal più esteso disinteresse da una partef e dall'altra dal rammarico che proverei se le circostanze divenendo più gravi se si prolungassero, mi forzerebbero a non poter più mantenere la mia flotta in una posizione in cui, la stretta neutralità diverrebbe impossibile.

Io prego V. M. di ricevere le novelle assicurazioni di alta stima e di sincera amicizia con cui sono mio signor Fratello, di Vostra Maestà il buon Fratello.

Firmato — Napoleone


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PARTE TERZA

DIFESA CIVILE

Nos numerus sumus, et fruges consumere nati (a)

ORAZIO......



La illogica tirannia sentenziata dal Macchiavelli, e da noi accennata nella nostra prefazione (nota (a) pagina XXI) per male arte e per ignoranza si sta esercitando nel Regno delle due Sicilie (oggi Provincie del Piemonte) da' miserabili governanti Piemontesi, fin dacché eglino insperatamente ¿n occupato da dominatori queste contrade.

I veri conquistatori, si son sempre astenuti di disgustare i popoli conquisi col distruggere in un sol colpo tutto l'antico, buono o cattivo che fosse, tuttocché avesser tenuto possa di dettare leggi a loro talento sotto l'egida del diritto di buona conquista.

Ma i pseudopolitici Piemontesi e piemontizzati, carenti di un tal diritto, àn voluto disconoscere quello cui i più grandi uomini àn tenuto dietro per ben fondare le nuove signorie.

Cecità, ignoranza, perfidia, ingordigia, desio di una celebrità come quella di Erostrato, culto frenetico alla Dea Ati dei gentili, ed a Bowanie degl'indiani, sono stati i moventi che àn dirette le menti degli attuali governanti d'Italia.

Si è voluto che la maggioranza degl'Italiani avesse desiderata la unificazione dell'intera Italia; e bene: ma niuno fornito di un centellino di buon senso può supporre, che nel desiderio della unificazione dei varii Stati d'Italia,sia stato por voto degl'Italiani quello di veder sostituire al buono che avevano, la furfanteria ed ogni altra tristizie.

Ogni logico raziocinio ammette, che nel fondersi politicamente i diversi stati, si esaminassero le differenti leggi preesistenti per conservare le più acconcie, ovvero nella esclusione di tutte, se ne componessero delle nuove che valessero a diriggere le azioni, ed a promuovere nuovi sistemi diversi dai primi resi vieti ed Incompatibili coi cangiati costumi e colle esigenze dei tempi.

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(a) Siam nati per far numero e consumare i prodotti delle altrui fatiche!

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Così, conservando il meglio, e rattemprando il resto, niuno subisce la insopportabile veemenza di un cangiamento che rendesi inevitabilmente intollerabile e gravissimo. Ma gli attuali governanti, ricalcitranti agli esposti principii, i più ovvii della politica governativa, senz'attendere ad altro che al loro pravo genio distruttore, sono stati solleciti ad abrogare le leggi, i regolamenti, il codice e fino i libri rudimentali, così a casaccio, dei Napoletani e Siciliani, imponendo leggi, codici e regolamenti del tarpato e gelido Piemonte, senza avvedersi che così facendo àn ferito mortalmente lo stesso lor governo. Considerata la faccenda sotto qualunque punto di vista, essi si sono fio dal bel principio suicidati. E per fermo, come mai voglionsi considerare le Provincie meridionali? come conquistate?

E in tal caso, sarebbe uopo rammentare che i Goti, che i nostri strombazzatori colla consueta loro impudenza chiamerebbero barbari, e spezialmente Teodorico, ebbero somma cura di conservare lo splendore delle città soggiogate con un temporaneo intero mantenimento delle avite loro consuetudini, delle vecchie loro leggi che si associavano ancora ai loro costumi; essi comprendevano che distruggendo ciò che forma la vita morale dei popoli, non si fa che disporli ad odiare coloro che sono stati i distruttori delle loro più care illusioni. E l'odio dei popoli presto o tardi scoppia furibondo sul capo di coloro che si fanno da essi odiare.

Giova pur ricordare che i Romani furon solleciti a concedere la loro cittadinanza ai vinti nemici, perché così solamente si può sperare la conservazione dell'impero sopra i popoli che passano da una signoria ad un'altra.

Risovveniamoci di Napoleone primo, il quale spese ogni con per cattivarsi l'animo dei suoi nemici quando volle far l'Imperatore, e così poté durare e reggere a governare per 15 anni.

É noto per esperienza, che il miglior mezzo a stabilire una pace durevole, è di fare ai vinti sotto le dolci aure della vittoria, tutte le concessioni che essi richiedono con ragione e giustizia.

Non essendosi tenute presenti queste ed altre somiglianti considerazioni, à voluto il governo Piemontese con ogni studio accelerare la propria ruina.

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Altronde, volendosi ritenere le Provincie meridionali annesse al Piemonte per popolare voto di pura e semplice annessione, secondo il preconcepito divisamento del signor Conte di Cavour di tristissima memoria, in tal caso avrebbesi dovuto pensare che malversare e stimmatizzare popoli che incondizionatamente àn sottoposto il capo al giogo del padronato Piemontese, è cosa della più ributtante ed atroce scelleratezza, è schifosa in, gratitudine, e guai a chi si rende ingrato ad un popolo; pagherà tosto e con usura le sue peccata.

È insania voler trattare da conquistato un popolo che spontaneamente si è sottoposto ad un novello dominio.

Non è un fuorviare se rammenteremo che gli eccidi di Soul nelle Spagne, a nulla valsero per far conservare a Napoleone primo il suo dominio sugli Spagnuoli, i quali si ostinarono a non voler esser trattali come popoli vinti, e la loro eroica ostinazione fu la matita con cui si disegnò la pianta topografica di S. Elena.

E perché niuno s'illuda, basterà riferire che quando Napoli era non altrimenti che una colonia della repubblica Romana, alla proposta che questa le faceva di federazione, rispose, «lo non cangio le mie leggi, ì miei Magistrati, le mie abitudini, i miei costumi, per tenere i Pretoriani, i Tribuni, i Magistrati, i Questori di Roma.»

«Melius est vivere servam in libertate, quam liberam in servitute»

Così Cassiodoro, le cui parole prende ad imprestito il Giannone nel libro 1.° della sua storia civile. E si noti che in allora, Napoli era di così sconfortante rinomanza, che adorava i Dei minorum gentium.

Essendosi manomessi questi radicali principi di buon governo) gli annessionisti si àn cavato un abisso sotto i piedi, entro il quale non tarderanno di precipitare.

E se per avventura vorrassi ritenere il Napoletano come fuso col Piemonte pel così detto plebiscito del 21 Ottobre 1860, in tal caso occorrerebbe domandare

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se mai sia stato quell'atto, leale ovver no (a)

Se noi fu (per aversi ora il diritto di cancellarlo dai nostri atti politici).rispondiamo che ¡1 plebiscito, atto cotanto grave

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(a) 0' beue il diritto di cosi esprimermi, poiché essendo stato, come altrove accenno, alla direzione del disciolto Esercito delle due Sicilie dal Novembre 60 al Giugno 61, fui non manutengolo, ma straziato spettatore del modo come si estorqueva l'atto di adesione agli Uffizìali del detto Esercito, i quali caduti che erano nella sventurata condizione di capitolati o prigionieri di guerra, comunque il loro Esercito tuttavia combatteva in Gaeta, venivano tormentati per subito firmare l'atto di adesione al nuovo governo, con la minaccia di perdere quel sussidio che loro si concedeva ed ogni diritto a qualunque pensione sarebbe loro spettata; non che di essere perfino imprigionati se non avessero prontamente firmato l'atto richiesto.

Era io l'organo a cui si passavano quegli ordini, enormemente ingiusti e tirannici, per diramarli agli Uffiziali; ed ò la presunzione di affermare che la mia ferma resistenza, tollerata dalla equità del Generale Ricotti, non fece effettuare nessuna di quelle minacce.

Quindi, se pel plebiscito al quale io non mi trovai, perché grazie al Cielo stava al mio posto d'onore, si usarono gli stessi mezzi, il governo oggi avrebbe ragione di non riconoscerlo.

E poiché mi trovo a discorrere di quella Commissione per la quale il mio cuore sanguinerà durante la mia vita, soffrano i sognati conquistatori del Napoletano, ed i fanatici debellatori dell’Esercito delle due Sicilie, le mie amare rampogne per l'inumano modo con cui bistrattarono i prigionieri ed i capitolati di guerra, ai quali la fame, i maltrattamenti e gl'insulti erano ad essi largiti con spietata esuberanza.

È orribile o signori rigeneratori di popoli, il sentirsi che in Italia nel 1860 9 61, si disconobbero da vincitori italiani perfino i patti di capitolazione per tiranneggiare quella truppa anche italiana, che ispirata dagli ordini e dall'esempio del suo Sovrano, tutte le cure prese sempre pei prigionieri di guerra suoi nemici, che le capitavano nelle mani; ed i prigionieri garibaldini col Colonnello Cattabene alla testa, non potranno smentirmi certo, poiché ricordo perfettamente che nella piazza di Capua durante la mia gestione di Capo di Stato Maggiore, per spontaneità non solo, ma perché ne aveva ricevuto ordini precisi dai miei superiori, ogni giorno mi assicurava del buon trattamento ai prigionieri ed ai feriti garibaldini, che visitava a preferenza degli stessi feriti miei dipendenti. E non era solo, poiché molti uffiziali di ogni grado, sebbene non chiamati a ciò, spontaneamente adempivano a questo tratta, di umanità, che non lo cito per averne merito, imperocché l’adempimento di un dovere non forma merito alcuno!

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e solenne, coartato, può obbligare un popolo co' mezzi violenti e repressivi i soli che possonsi adoperare colla forza bruta; ma questi mezzi vengono tosto meno, e poi spariscono per opra dei medesimi complici e fautori che concorsero colle loro male arti a tradire e a far soggiogare il Napoletano, e di per se stesso come un cencio consunto, il plebiscito cadrà. Il mezzo di abbatterlo fra gli altri sarebbe l'apparente legalità dell'antica dominazione, apprestandosi nuovi elementi ai popoli traditi, per liberarsi ciascuno dell'attuale opprimente Signoria; e cosi i medesimi Consorti di cospirazione, si vendicherebbero ancora delle gherminelle loro parate nel 1860.

Se poi il plebiscito fu leale e coscienzioso, fa mestiere considerare che niuna cosa al mondo commuove e perturba tanto i popoli quanto lo sconoscimento, a via di camorra, dei patti contratti; e guai al camorrista quando il popolo sol per malvezzo offeso, decide poi di vendicarsi.

E chi ignora essere stati i patti del plebiscito la unificazione d'Italia con Roma a Capitale e con Re Vittorio Emmanuele? Giammai la soggezione al Piemonte, la impassibilità e la cieca obbedienza ad una camorra.

Or trattandosi di aver che fare co' camorristi e non già con fratelli unitari, è giuocoforza pure por mente che ai nemici che contrastarono colle armi alla mano l'attuazione della invereconda camorra, si uniscono ancora tutti coloro che contribuirono a farla vincere.

Ed un aumento sempre crescente di nemici, produce inevitabilmente la rovina di chi procura di acquistarseli. Né si lasci mai di considerare, che nei tre anni trascorsi, non solo non si è acquistato un sol adepto dal partito governativo, ma sonosi invece perduti nove decimi degli affiliali, eccessivamente nauseati e disgustali di un procedere cotanto iniquo. Se poi al postutto il plebiscito vorrassi ritenere come una fraudolenta u... sur...pa...zio...ne, allora.... Ma qui mi fermo perché ò paura del fisco!.. E poi, io sono stato sempre soldato che non ò capito mai nulla di politica, epperò come potrei spingermi in mezzo al campo della politica, materia cotanto astrusa, che à fatto e fa impallidire i dotti dell'antica e della nuova sapienza.

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Desisto adunque di trattare siffatti argomenti, e senza la pretensione di compilare una descrizione etnografica dell'Italia meridionale, mi accingerò invece a far delle dimando e a ricordare taluni fatti ai Signori governanti Piemontesi, per poter poscia ragionevolmente conchiudere, che l'ultimo dei Napoletani tiene il suo ben donde nel guardar con disprezzo i suoi politici connazionali subalpini, dai quali oggi ò crudelmente martoriato.

E la prima domanda che diriggo agli attuali dominatori Piemontesi sul mezzo giorno d'Italia si è, avete voi letta la vostra storia contemporanea prima di azzardarvi a distruggere il più bello che vi era nel Napolitano, per sostituirvi tutto il vostro più brutto? Avete fatto mai un esame di quel che siete stati, siete e sempre sarete voi, e quel che sono stati i Napoletani e Siciliani, i quali siete venuti ad opprimere fraudolentemente, insinuandovi fra loro coverti dall'ingannevole manto della ipocrisia?

Non per altro, che per farvi un favore, amo credere che sconoscete affatto voi stessi, e sconoscete noi che provvisoriamente da mentecatti ci state straziando, e per farvene un altro, ve ne rendo informati onde possiate aprir gli occhi se siete ancora in tempo, e riparare prontamente alla spaventevole bufera che sul vostro capo si addensa.

E primieramente, sotto il rapporto del regime politico, com'è stato sempre riputato il Piemonte? cosa è presentemente? Potete negar che esso è un paese i cui abitanti furono schiavi battuti dai loro Sovrani; ed oggi che ne tengono uno il quale non à la vocazione di reggere e governare, i Piemontesi sono gli schiavi battuti di una mano di prepotenti?

È vero che Cavour ed i suoi consoci àn recato un qualche vantaggio al Piemonte con l'invasione negli altri Stati d'Italia; ma il vero vantaggio lo à riscosso il popolo Piemontese ovvero é caduto nelle scarselle del Cavour e de'  suoi consorti? E se pure un modico e fugace vantaggio ne avesse il Piemonte riscosso, quale potenza umana potrebbe togliere a quel popolo il compenso delle amarezze, posta mente all'odio municipale svegliatosi io tutti i piccoli e reconditi comuni d'Italia contro dello stesso Piemonte qualificato già dalle masse oppresse ed avvilite, come organo motore di lagrime, di gemiti, e di miseria?

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E bene o male che avessero fatto al Piemontese le pratiche del Cavour e dei suoi successori, sarà sempre cosa inevitabile, che i popoli d'Italia venendo alla lor volta il destro, non lasceranno via né mezzo di vendicarsi del Piemonte per le persecuzioni sofferte, per la miseria patita, e per le torture subite da una mano di iniqui prepotenti, i quali, carichi d'oro si metteranno in salvo, per lasciare gl'innocenti loro concittadini nel campo libero dei risentimenti, figli di un odio giustamente concepito.

Occorre che un popolo, fosse abituato da secoli a sopportare un servaggio più che un governo, per potersegli imporre nuove condanne da pochi prepotenti, determinati a diventare opimi coi spogli e colle depredazioni.

E bisogna pur essere eminentemente tristo, per aver l'animo di esporre la patria propria alle funeste conseguenze di un odio lungamente represso, per la cupidigia di possedere un milione di più, per la brutale, e sanguinaria soddisfazione di opprimere un maggior numero di gente, e foss'anche per un sol giorno.

Da tutte le esposte idee se ne debbe inferire che un popolo che per un dato tempo si lascia imporre, smungere, depredare da una mano d'iniqui che agiscono sol per ingrassarsi a danno dell'universale, debbe per ogni legge, questo popolo cozzare e reagire, e quindi distruggere l'azion motrice colla quale si urta; se due forze eguali che s'incontrano, debbonsi fra loro distruggere, avviene pure che nell'urto di due forze di cui una è maggiore, questa debbe per effetto di sua proporzione, distrugger l'altra.

Ma è tempo ormai di considerare per poco la gherminella ordita da Cavour e suoi successori sulla unificazione d'Italia nel 1860.

E per primo amiamo notare che coloro i quali àn finto di assumere così alto impegno, s'»n quei medesimi personaggi i quali dodici anni dietro ne dimostravano la impossibilità.

Il sig. di Cavour nel 1848 espresse con inoppugnabili argomenti le ragioni che impedivano la sempre desiderata e mai conseguita unificazione d'Italia, ed a soprassello appellava stolto ogni conato che si sarebbe fatto per effettuarla.

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Egli questo dichiarava per proprio convincimento, ritenendo la unificazione per impossibile. Nondimeno al 1860 egli stesso disse «io unificherò l'Italia» e stoltamente lo si credette.

Farini scriveva un lucido trattato sulla impossibilità della unificazione d'Italia. Nel 1860 poi disse «fatemi Ministro ed io vi aiuterò ad unificar l'Italia» e pur gli si fece plauso.

Brofferio esponeva con molta sapienza le ragioni che rendono impossibile l'unificazione d'Italia. Ma nel 1860 disse  «io credo all'unità d'Italia» perché allora gli andava a sangue di fingere quella credenza, e pur lo credettero.

Ma qui facciamo sosta, per non allontanarci troppo dal nostro soggetto, e sentiamo il dovere di ricordare che Re Ferdinando 2.°, invitato nel 1848 a comporre e a reggere l'Italia unificata, rispondeva di vederne la impossibilità; epperò non gli dettava coscienza di esporre i suoi popoli allo sdegno altrui in grazia di una rappresaglia, la sola cosa che avrebbe potuto ricavare da un tentativo cotanto impolitico. Frattanto, poiché Ferdinando 2° coll'astensione sua risparmiò ai suoi popoli una miriade di amarezze, e reprimendo ogni impulso di ambizione, non volle farsi il sacrificatore dei popoli d'Italia col malvezzo di una gherminella, à dovuto per questo nobile tratto del suo cuore sentirsi appellar tiranno, quando che Cavour e socii che anno invece sacrificato 22 milioni d'italiani, mettendoli in una falsa posizione politica, si appellano eroi.

Ahi, Italiani! e quando mai cesseremo di essere cotanto gonzi carnefici di noi stessi?

E qui mi sia dato riconvenire il sig. Angelo Brofferio sopra di una nota da lui con avventatezza fatta contro Re Ferdinando 2°.

Egli alla pagina 141 del 3° libro della sua storia lo ritrae come un crudo sanguinario perché diede libero il corso alla giustizia contro i fratelli Bandiera i quali iniziarono una rivolta contro il costituito governo delle due Sicilie, sotto l'ingannevole motto dell'unità italiana.

«In pochi anni si poté vantare il Nerone del Sebeto di aver popolato il suo regno dì cadaveri».





— 11—

Son lo parole osate dal sig. Brofferio, per descrivere la ferocia di quel Re, che per la quiete dei suoi popoli, pel diritto che teneva di reprimere chiunque tentato avesse di portarlo al punto in cui cadde Luigi decimosesto, e per l'obbligo di dare sfogo alla giustizia delle leggi, doveva affidare quei colpevoli di cospirazione contro lo Stato, ad un Tribunale di Magistrati, che trovatili rei li condannava all'estremo supplizio.

E per la mercé di Dio, cosa mai potrebbe or dire il sig. Brofferio della ferocia attuale, colla quale si uccidono a mille e mille gli uomini, senza forma di giudizio, e sol per volontà di un tenente, di un sergente, di un caporale, sol perché creduti cospiratori contro di questo governo?

Cosa ci dice della sua stessa ferocia il Brofferio per avere ultimamente votata una legge (a) che può dirsi una di quelle dei sospetti ai tempi di Robespierre, dopo di avere precedentemente tollerato che si fosse messa in vigore quella degli ostaggi?

Ma il sanguinario Ferdinando 2 abolì di fatto la pena di morte; talché in 12 annidi perenne cospirazione contansi appena due sole esecuzioni capitali.

Non pertanto la spudorata setta lo à dichiarato un Nerone che popolava di cadaveri il suo Regno, ed oggi si tace quando tutti sanno che in soli 3 anni sonosi sgozzati meglio di 12 mila individui, oltre dello scempio di Pietrarsa, altro nuovo genere di empietà inaudita.

Con questo storico quadro io non intendo di giustificare interamente la condotta del Re Ferdinando 2° di Borbone.

Egli à dei torli, ed è caduto in qualche errore durante il suo Regno, il maggiore dei quali fu di non aver permesso la pubblicazione della storia del Piemonte, scritta da Brofferio il 1851; ma gli uni e gli altri àn nuociuto a lui stesso alla sua dinastia, ed ai pacifici suoi sudditi, perché, in avendo lasciato vivere un Poerio cospiratore indegno e compagni, è stato tale impolitico errore che ci à inevitabilmente richiamato addosso le sventure che oggi deploriamo: dissi Poerio indegno, dal giuro da lui profferito in Torino nel voler distruggere la sua Patria coi cospiratori suoi socii; dando tutto lo appoggio ai vandali Subalpini per effettuare l'empio suo desiderio.

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(a) La legge Pica sul brigantaggio.

— 12—

E qui nel meditare sulla iniquità di quei Napolitani che ànno imbrandito il pugnale contro la terra che li à visti nascere, non posso non esclamare al par di Bruto. Anche voi o Napolitani, infierite contro la patria vostra?.. Ritorno intanto alle condizioni del Piemonte sotto il rapporto del regime politico, colla guida della sua storia. Nel libro 1° pagina 91, è scritto cosi:

«Frattanto i più feroci spogliatoii non erano quelli delle pubbliche vie, ma quelli dei pubblici impieghi. Si vendevano i favori, si vendevano i titoli, si vendevano le cariche, si  vendevano le sentenze; tutto si vendeva.»

Con coteste ributtanti figure di casa propria, non si comprende come possa osarsi parlar di scandali nel Napoletano sotto il governo della passata Signoria.

Ve n'è stato qualcuno, senza dubbio. Ma i vizii vi sono stati e dureranno quando gli uomini. Homo sum, et nihil umano a me alienum puto ripetererò con Tacito [Terenzio]. Se non che, vedevi allora dei soprusi a traverso dense nubi, entro le quali nascondevasi qualche individuo dell'infausta camerilla, e qualche nauseante burocratico, che per far cosa grata alle forme, voleva comparire un Aristarco. Ma in Piemonte secondo il cenno storico vi sono state enormezze e corruttele a colluvie, e ve ne sono ancora di ogni maniera, cotanto antiche ed in tanto abuso che sembrano quasi legalizzate. Alla pagina 45 del 2° libro si legge. (La città di Torino ebbe in pochi giorni tre Commissioni inquisitoriali che si posero all'opra immediatamente a servire il Re con le denunce, colle accuse, colte confische, colle carcerazioni, colle proscrizioni, coi patiboli. Gl'inquisitori che ebbero il carico di esaminare la fedeltà degl'impiegati civili e militari, si meritarono ordini cavallereschi colle centinaia di rimozioni di spogliamene, di degradazioni, mercé le quali molti poveri cittadini vennero gettati senza pane in mezzo alla via, molti onorati padri di famiglia furono privati di sostentamento, e ridotti colla moglie e coi figliuoli a ultima disperatone».





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«Ma questo è poco a confronto dei sanguinosi trofei della militare Delegazione, che nella Università rappresentava il Sant'Uffizio. Sua prima impresa fu decretare la confisca e porre sotto immediato sequestro tutti i beni di coloro che erano o sospettavansi liberali».

Vedi anacrocismo! Ad uomini che si mostrano sfacciatamente con siffatti ciontoli conseguiti per aver eretto patiboli ai liberali, per aver destituito, per aver privato dei loro beni, cittadini presunti liberali, i Napoletani àn voluto affidare lo sviluppo della loro libertà!

Quegli uomini, che sono recisamente gli stessi che or figurano, ardiscono parlare della tirannia borbonica in un paese in cui Re Ferdinando il déclamato prototipo dei tiranni della sua dinastia, aveva ceduto le dogane in appalto ad un Dupont col patto di dover impiegare tutti i militari e borghesi che per compromissioni politiche si trovavano fuori d'impiego.

Niuno potrà più sorprendersi delle scelleratezze governative nel Napoletano, dopo di aver letto quelle che sistematicamente ànno avuto luogo pei medesimi uomini in danno dei proprii concittadini. Alla pagina 45 del 3° libro si legge. «Tutto ciò che l'immoralità, l'inverecondia, il rancore, la vendetta, e l'esercizio dei tormenti e la sete del sangue possono inventare, tutto fu posto in opera per estorquere ai prigionieri sciagurate rivelazioni. Con questi si praticava la corruzione, con quelli la menzogna, con quelli altri l'insidia, con tutti il terrore.

«Tanta era la corruzione, che il Fratello del Tenente Effisio Tola fucilato alle spalle sol per aver letto ed imprestato un giornale, per ottenere la croce di San Maurizio, si affrettò a baciare la mano di Carlo Alberto sopra la quale non vedeva le tracce del fraterno sangue; ed il cavaliere Tola dopo aver coperti a Cagliari i primi impieghi nella Magistratura, fu eletto deputato della Sardegna nel 1848 nel parlamento Piemontese».



E dirimpetto a coteste loro immondizie i Torinesi ardiscono di attaccar di tirannide gli atti del governo dei Borboni e far verbo degl'impiegati di quella Signoria?

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Nel descrivere il signor Brofferio a lunghi tratti il malvezzo dei Piemontesi nel perseguitare gli accusati politici, riferisce alla pagina 49 del suo terzo libro, il fatto di tal Jacopo Ruffini il quale strappava una ferrea lamina dalla porta della prigione e nella notte si segava la gola, contendandosi di darsi una morte straziante, perché stancato a patire d'avvantaggio i martiri del carcere.

In si putente stato di scioglimento sociale, niuoo, neppur Poerio, Nicotera, e Romano sentendo stimoli di coscienza, diranno, che sia disceso Re Ferdinando di Borbone e i suoi Ministri.

I Magistrati di quel Governo àn toccato fino i scrupoli in dettando i loro voli sugli accusati politici.

Esistono autenticamente quei voti segreti, stanno i giudicati.

Pochi di essi àn rivelato, ma sempre coi principi di rettitudine e di pura giustizia. Questi son fatti. Le vaghe parole le dicano i parteggiatori, ma restano smentili dagli atti.

Gli esecutori poi, non àn dato luogo a far suicidare i prigioni, né il potevano.

I napoletani, guitti, ciarlieri, non tengono, né posson tenere cuor duro, ed animo aspro come i Subalpini. È ridente il Cielo di Napoli, molle il suolo, temperata la zona. Il Cielo dei Subalpini è torbido ed algido come la lor lingua, il suolo è sterile agghiacciato e roccioso. E tutti sanno che

«La terra molle lieta e dilettosa

«Simili a sé gli abitator produce».



Epperò prescindendo dalle favole che su tal proposito sonosi volute schiccherare a libidine, fia meglio che ciascuno dei così detti martiri politici parli col linguaggio più eloquente di sua coscienza, ora che ognun di loro à conseguita la sua palma metallica inricompensa delle studiate arti usale per farsi ritenere veri martiri politici. Così eglino e gli altri conchiuderanno, che se per disavventura fu forza lamentare qualche sopruso sotto il Governo della Signoria dei Borboni, la colpa debbe riferirsi a qualche probro che per vendetta, per uggia, per suo malvezzo, e per tutt'altra cagione mal si comportava; al Governo giammai;

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perché forte come si sentiva, aborrente per indole dal sangue e dalle atrocità, tenendo a capo un Monarca che voleva reggere e governare i suoi sudditi, non popoli compri e sedotti; nato fra loro, loro concittadino, io formato delle stesse abitudini, tenendo lo stesso linguaggio, co medesimi slanci, coi stessi principi, collo stesso cuore aperto e generoso del suo popolo, non poteva, anche volendolo, imporre scempi e crudeltà.

Ed oggi, gli uomini aborrenti dalle codarde infamie, son condannati ad essere moralizzati da' dominatori stranieri che non conoscono altro dogma politico, se non la perpetrazione dell'assassinio sopra vittime che anno opinioni politiche opposte alle loro!..

Addippiù. Nella pagina 50 del 3° libro della storia di Brofferio si legge, che una legge speciale di Re Carlo Alberto, condannava alla pena della galera, ed in alcuni casi anche a quella di morte, chi avesse introdotto o fatto soltanto circolare in Piemonte un libro o un giornale contrario ai principi della Monarchia.

Ed in altre pagine si legge che si son sempre scelti gli nomini più feroci di colà, per dar loro alti posti governativi, col carico di sagriiìcare gli uomini di sentimenti liberali.

E per vero nel capo terzo del 3° libro della Storia del Piemonte, trovi con raccapriccio che il Generale Galateri governatore di Torino, irritato dalla fermezza di un certo Andrea Voghieri condannato a morte per cospirazione contro lo Stato, gli scagliava un calcio nel ventre nel momento in cui lo si portava al supplizio, perché il Voghieri reclamò lo allontanamento del Galateri dalla sua presenza in quegli estremi momenti.

Dice quella Storia che Voghieri ligato com'era, lo sputò in faccia e così si rinfrancò dell’insulto sofferto; ma per barbara rappresaglia il Galateri dispose che fosse stato tratto a morte per le vie meno spedite, facendolo passare per sotto le finestre della propria casa, dove abitavano sua sorella  sua moglie, e due teneri suoi figliuoli.

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E l'onorevole Governatore assiso su d'un cannone, assistette vestito in grande uniforme alla fucilazione del Vogbieri (a).

Se non che i confini nei quali mi son determinato di chiudermi mi vietano di più continuare un'analisi cotanto sconfortai te e disgustosa. E dopo di aver accennato quanto basta performare il giudizio esatto delle passate colle attuali condizioni nostre politico-sociali, passo a fare qualche fugace osservazione sull'amministrazione della finanza, e su di altro argomento straniero alla politica.

E dapprima ponendo mente alla finanza Piemontese del 1860, dico che era una banca rotta; niuno l'ignora.

Altronde il debito pubblico napoletano sopra un capitale di sconto al cinque per cento, ammontava fino al 118, e basterebbe sol questo per dimostrare la floridezza del disciolto Stato delle due Sicilie.

Ma oggi la finanza italiana, viene amministrata da quegli stessi uomini che posero a ruina l'erario del Regno del Piemonte.

Ce ne apprestano argomenti ineluttabili, la rendita pubblica ribassata al 72, il debito galleggiante sempre crescente, e la minacciata fallenza dello stato, trattenuta ancora dai continui profondi salassi che inaridiscono il sangue nelle vene dei popoli e dal prestito di alcuni usurai i quali soccorrono ed alimentano le ributtanti avidità degli attuali Governanti, con tale una sfiduciosa usura, che qualunque sia il ritardo del rimborso, ovvero le eventualità future, vale sempre a dare un guadagno e ad assicurare il prestito.

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(a) l Napoletani conoscono troppo e a loro spese il casato Galateri, la coi voce fa convellere ognuno anche per lo ributtante fatto testé enarrato. Dond'è che i governami Piemontesi fra gli altri diritti, si ànno arrogato anche quello di scegliere tutte le jene per mandarle a branare e sgozzare queste infelici popolazioni.

Epperò, a viemeglio degradare i Galateri, e le bestie feroci simili a lui, bisognerà sempre sputar loro in faccia, come fece l'agonizzante Vogbieri.

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Quindi cogli stessi uomini che scorazzarono la finanza Piemontese, non puossi non vedere la jattura della finanza italiana; e questo, sia per effetto di ignoranza, sia per malversazione. Così la crassezza dei subalpini non può stare a fronte degli Amministratori della passata Signoria nelle due Sicilie, i quali in vece di miserie indeclinabili, studiavansi a ricolmare i vuoti antichi e ad offrire allo stato risorse non dubbie di ricchezza e di prosperità duratura.

E qui fia pregio dell'opera notare che non ometteva il Governo delle due Sicilie di apprestare continui e non interrotti lavori, e pubblici impieghi a quanti poteva, per mantenere soddisfatte le comuni bisogne, quando che oggi con una crudeltà non mai vista od udita, scorgiamo languire nella desolante miseria, ogni ceto, ogni casta, ogni persona, come se la destituzione dall'uffizio di ognuno, fosse una ragione di stato che valesse a mantenerlo ed a farlo durare (a).

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(a) Nella Milizia, nella Magistratura, e degl'impiegati civili che l'attuale Governo à graziosamente congedati colla delusoria formola di essere ammessi alla liquidazione della pensione di giustizia, tre quinti non àn potuto per alcun verso liquidare nulla, perché mancanti dei venti anni di servizio, e molti per talune inqualificabili anomalie le quali vogliono essere appellale crassa ignoranza, più che abuso e prepotenza, stanno percependo una pensione di giustizia a malgrado che tenessero un servizio non maggiore di dieci anni a preferenza di altri ai quali mancherebbe un giorno solo o qualche mese per conseguirei! terzo del soldo che percepivano. E vedi strana ragione di questi casi. Si è impartito o niegato il favore secondo che taluno dei Magistrati, sia stato ritirato prima o dopo del nuovo ordinamento del giudiziario. Cotesta ragion di tempo addotta per accordare o niegare la pensione, se è ridevole e bizzarra da un lato, è un motivo di crudeltà senza pari, è uno scempio senza riscontro dell'altro.

Per la stessa ragione si è veduto che una parte dei funzionari! civili e militari ritirati, à goduto della condonazione del biennio che richiedesi per poter liquidare sull'ultimo grado sostenuto, ed un'altra parte non à potuto godere lo stesso favore tuttoché premunita del tempo quasi che bastevole a goderlo.

A disperdere coteste mostruosità non àn valuto petizioni, reclami, interpellanze alle Camere, o forti mozioni di alcuni onesti Deputati; bisognava autenticare le anomalie, colla pertinacia delle risoluzioni già prese, e di fatto esse sussistono a danno di tanti sventurati, ed a scorno ed infamia dogi ignoranti che ci governano.

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Udo sguardo se vuoi alla dimessa Magistratura) e vedrai come con potevasi meglio compiere un fatto di nefandezza e di assurdità. Per lo manco veggonsi persone circondate dell'aureola

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E ragionando sopra di cotesti assurdi, ci sia lecito richiamare l'attenzione pubblica fu Ile mie lunghe rimostranze fatte al Governo lorché dirigeva il disciolto Esercito delle due Sicilie nel Novembre 1860 fino al Giugno del 61, sull'abrogazione de' gradi che i militari combattenti sotto la bandiera Napolitana, ricevettero da Re Francesco 2° dopo il 7 Settembre.

Non fo appello al diritto, perché mi si risponderebbe che quello della forza prevale, ed oggi la forza è in mano a coloro che ci governano coi principii di Obes, voglio dire coi principii della cosi detta camorra.

Non mi appello alla giustizia, poiché mi si risponderebbe da qualche Deputato, che non oso nominare, perché disgraziatamente è Napolitano, che colla giustizia non si può governare.

Ma mi appello alla logica naturale degli uomini, per domandare perché siasi fondata la (pessima di dover essere il di 7 settembre 1860 il termine assoluto dell'Autorità di Re Francesco 2° negli stati Napoletani?

E che forse un Sovrano sol perché si rende, per qualche suo donde in un punto dei suoi Stati, cessa di essere il Capo del suo stato?

Se al Piemonte è dato di stabilir questa legge, bisognerebbe che l'Imperatore dei Francesi si facesse a chiedere permesso al Signor Ministro Piemontese pria di recarsi a Biarritz, per non ricevere un evento dal Piemonte simile a quello del 7 settembre 1860 che un bel di glielo farebbe comunicare per mezzo di Sir Hundson Love che evocherebbe dall'altro mondo.

Insana prepotenza di un Brenniaoo vincitore, sarebbe stata quella di fissare la data del 21 ottobre, pel giorno del memorabile plebiscito; ma sarebbe stata almeno garentita dall'ombra di una mediocre logica, mentre quella del 7 settembre non à altro appoggio che quello della crassa ignoranza dì coloro che la stabilirono.

È inutile il far notare che qui io con difendo la causa mia, poiché la mia ultima promozione di Capitano, la ebbi precedentemente.

Mi si obbiettava allorquando io sosteneva i diritti di tanti miei compagni, che un Re nel punto di lasciare il suo Regno, aveva dovuto esser largo a concedere promozioni, per compensare quelli che Quo all'ultimo istante lo avevano difeso, e che tanti graduali per generosità, i quali sarebbero esciti da Gaeta, con potevansi fondere nell'Esercito coi loro ultimi gradi a discapito di tanti altri ufficiali che contavano già degli anni nel grado che tenevano.

Ed io rispondeva con la mia solita franchezza, che pria di tutto,

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della pubblica opinione marcir nell'ozio e nella miseria per un mal vezzo governativo; tutti prostrati in massa con un principio contradittorio e per nulla giovevole alla pubblica amministrazione della giustizia.

La contraddizione sia nella misura di repressione, cioè nella ditta delle nomine. Ma quella ditta avrebbe dovuto imporre la repressione di tutti, senza conservare questo o quell’altro che dalla irriverente voce di borbonico, o dalle votazioni in cause di crimenlese avrebbe potuto essere risparmiato dal principio distruttore.

Non é del nostro compilo dimostrare la stranezza del principio della repressione in massa della Magistratura Napoletana, sol perché trovavasi di aver dannato alle galere gli accusati politici

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bisognava togliere dì mezzo quella fusione che mi si voleva imbeccare, poiché io ben sapeva la sorte che indistintamente spettava a tutti gli uffiziali dell'Esercito delle due Sicilie che avessero avuto grado superiore a quello di Capitano di fresca data; ma pur volendo ritenere come certa la enunciata fusione, si dovevano assolutamente conservare i gradi a quegli uffiziali che durante la campagna li avevano avuti per regolare promozione spettatagli per antichità, ed a quelli che se li avevano meritato per ispeciale valore dimostrato nei vari fatti d'arme.

Intanto da quella ostinata e maligna insipienza, n1 è derivata l'altra anomalia, che mentre il governo italiano soffriva uno scacco io Marsiglia nella causa che dichiarava Francesco 2.° Re con tutta la sua sovrana Autorità ti no all’ultimo giorno che fu io Gaeta, il Governo Piemontese mordendosi le labbra colla coda fra le gambe, postosi poi in mano il pugnale del camorrista, tolse gli ultimi gradi agli uffiziali dell'Esercito delle due Sicilie, dicendo loro che il Re pel quale avevano combattuto non era più Re tin dal 7 Settembre 1860, perché la benedett'anima di Cavour io aveva esautoralo eoo quella data.

Ma si può patire maggior pazienza per tollerare una cotanto assurda seguela di violenze, cosi vergognose a chi le procaccia come sono vessatorie a chi le soffre?

Un benedetto Cantalupo con un bel motto à detto, che per essersi voluto ritenere le cose impossibili come falli, le inverosimili come altrettanti veri è andata in fumo una Monarchia di sette secoli (la Napolitana).

Noi debolmente aggiungeremmo a questa sensata osservazione, che..... no! no! lo dirà la Storia per noi, poiché dubitiamo fortemente che il Fisco ci lisciverebbe nell'orecchio, se ci ostinassimo a dire oggi, quello che immancabilmente ed impunemente sarà detto demani.

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nei trascorsi periodi di rivolture, perocché si è troppo scritto e detto su di ciò; ed a soprassello sì eleva a confutarlo il criterio del senso comune, che rende benemerito ognuno il quale compie i doveri del proprio uffizio sotto l'azione di una legge eguale per tutti, e che tiene di mira niente meno, che la sicurezza interna ed esterna di uno Stato. Il crimenlese ha dovuto sempre, sotto di ogni colta società patir pene e supplizio secondo le proporzioni dolose ed i suoi effetti. Se così non fosse la Magistratura che ora amministra la giustizia nel Regno costituzionale d'Italia, sarebbe la più riprovevole, e con qualche giunta di peggio.

E trattenendoci piuttosto sul merito delle elezioni nuove in cambio dei Magistrati ritirati, ci basterà riferire quel che la più recente storia dei Piemontesi ci dice al libro 3 cioè.

«Anche questa volta la Magistratura non arrossi di farsi stromento di atroci vendette»

Conchiudiamo di essere stato vizio radicale della Magistratura Piemontese la perpetrazione dell'ingiustizia e la vendita della propria coscienza. E più, che questa essendosi insediata nei Tribunali delle due Sicilie insieme ad una mano di inesperti, che per solo merito di consorteria schifosa, ed a solo titolo di durati martirii politici come piace appellarli, àn finito di sgovernare il paese, e lo àn reso terra di desolazione e d'ignominia, sì per defezione di capacità, che per corruzione di cuore.

Basterebbe leggere qualche sentenza delle Sezioni di accusa, per vedere in che baratro di errori sistematicamente si scende; di tal che non di rado trovi una confutazione di esse negli stessi verdetti di giurati inconsapevoli del giure: tutto questo a fronte di una onorata Magistratura del Paese la quale, generalmente parlando, gareggiava per coraggio civile, per dottrina, per ingegni non ordinarii, così nella pneumalogìa penale che nella ragion civile.

Eran glorie nostre i de Fraochis, i de Mariois, i Magiocchi, i de Gennaro i de Rosa, ed una miriade di togati illustri, i quali formavano coi loro dettati un Dicastero, se vuoi, Europeo.

E più dappresso, un Giuseppe Poerio, un Davide Winspeare, un Barone Parrilli, un Gregorio Letizia, un Cianciulli;

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e poi un Agresti, un Tarassi, un Bonanni, e molti e molti altri che sarebbe lungo il noverarli, e che i cenni biografici dei contemporanei non si saziano giammai di nominarli con riverenza ed onore.

Né fra gli ultimi ritirati, possonsi porre in oblio i Falconi, i Rosica, Magistrati supremi, i Madonna i Casella, i Rienzi, i Jorio Perrellat i Cantalupo ed altri tanti, i quali, forniti di non volgare ingegno, e di coraggio civile, avevansi tutta a loro prò guadagnata la pubblica opinione per assennatezza nel giudicare, e per cortesie di maniere. I loro dettati, sistenti come altrettanti documenti parlanti del loro pubblico uffizio, giustificano il meritato elogio che loro è dovuto.

Sfidiamo ogni talento per additarci un sol Piemontese che fosse almeno secondo ad un nostro Magistrato già messo al ritiro.

E relativamente poi ai genii conditori di legislazione universale e municipale nati qui, in questo classico suolo nostro, che àn fatto invidia e ne faranno sempre, che sono stati dalle straniere nazioni onorati al pari dei Numi degli Egizi e dei Greci, il Piemonte non può di rimpetto ad essi, che nascondere vergognosa la fronte; nessuno può egli mettere a confronto dei nostri geni!, quasi che la sua terra non fosse terra italiana.

E per fermo; qua l'uomo distinto, qua) genio potrebbe il Piemonte addurre a confronto di un Vico, di un Filangieri, di un Pagani, di un Delfico, di un de Thomasis, di un Fighera, di un Rapolla, di un Raffaele, di un Nicolini, e di molti altri che il fecondo nostro terreno ci à sempre dati fuora, senza stento ed avarizia?

Solo con usura massima, potrà la Sabaudia additarci un Antonio Fabro, nato però in Savoja, espositore e nulla più del Codice Giustinianeo. Vedi miseria di clima e sterilità di suolo!..

E ponendo mente ai codici del Piemonte, non sarà difficile vedere in essi, strane voci senza tecnologia, periodi interi senza regole di sintassi, una congerie indigesta di patrie istituzioni, di editti Reali, di sentenze senatorie, di consuetudini municipali, che ànno tolta la bilancia alla giustizia, e lasciata la spada al dispotismo dei Tribunali: e tutto questo, secondo un rapporto riportato a pagina 151 del 2° libro del Brofferio, rapporto che rappresentavasi al Re del Piemonte.

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Ebbene codest'accozzaglia rilevata un tempo da un Piemontese, si é sostituita al Codice Napoletano del 1819, Codice che è distillato di sapienza e di vera libertà civile.

Non ci è d'uopo dimostrare con esempi le nostre assunte proposizioni; ma per non esser tacciati di leggierezza e di precipitanza di giudizii, vogliamo un esempio solo riferire, che basterà per mille, per far notare che di lingua barbara più che di favella italiana ò scritto il Codice penale che ci governa. Nel terzo comma (non a linea, voce senza ideologia e senza significato) dello Articolo 350 del Codice di Procedura penalo, trovi scritto nello stesso decreto si avvertiranno le parti che esse possono prendere visione degli atti del processo nella Segreteria del Tribunale.

Che incanto! che felice modo di scrivere vedi in quel prender visione.

Eppure, si à la spudoratezza di strombazzare che il Napolitano tenga comune col Subalpino, patria, usi,costumi e..... linguaggio.

Ma d'onde mai cotanta jattura?.. Dal pravo fine disegnato da pochi malvagi in fra i secreti tribunali cospiratori!, di doversi con ogni male arte e con tutte le maniere probre, reprimere il Napoletano, render le floride contrade di uno Stato onorato e temuto, in altrettante Provincie vinte dal Piemonte, atomo di rimpetto al Reame di Napoli, per estensione di territorio, per numero di popolazione e per elevatezza d'ingegni. Per trascinar questo credulo popolo al carro del Piemonte come carro trionfatore, dopo di averlo sedotto e traviato.

La Storia non tiene una pagina più nera, un tratto più nefando, consumato da vili traditori a danno del proprio paese.

Guai ai vinti! disse Brenno.

Maledizione ai Napoletani che con un attivo concorso, o con un istupido indifferentismo, si àn procurato la sorte dei vinti!! dico io ora ai miei concittadini...

E per non lasciar cosa inosservata, ci tratterremo per poco sopra la letteratura e le belle arti.

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Alla pagina 9 del 3° libro della sua storia, il Brofferio nota, che nel 1831, Torino dal canto delle belle arti, cominciò per la prima volta ad inalzarsi al grado di città italiana.

Eh che il Ciel ci salvi 1 quale umiliazione non sarebbe la nostra più di quella del Torinese, se per avventura volessimo discendere a dimostrare lo stato fiorente del Napoletano a quell'epoca?

Ed alla pagina 82 del libro medesimo, Brofferio accenna che sotto il Regno di Carlo Alberto, vedevi piangere di tenerezza i parenti, lieti del felice ingegno dei giovanetti, quando udivanli rispondere essere i quadrupedi animali di quattro gambe; essere il grano un erba che nasceva nei campi, e che gli alberi non si muovevano perché erano immobili.

Mentre nella storia del mio paese trovo registrato, che la prima luce delle lettere italiane, spuntò in terra Napoletana dalle colonie greche.

Zaleuco nacque a Locri, Pitagora a Crotone, Archita a Taranto, Alessi a Sibari. Ed in altra età Ennio, Cicerone, Sallustio, Vitruvio, Ovidio, Orazio, ebbero i natali sotto il bel Cielo di questa parte meridionale d'Italia.

E quando le lettere risorsero dopo la invasione degli Unni, dei Vandali e dei Goti, il primo che osò ridestare le dottrine fu Cassiodoro di oui s'invaghì il Re Teodorico.

E frattanto dobbiamo noi or tollerare che una buona porzione di quegli ammiratori di allievi dalle quattro gambe (dei quadrupedi) con una sfacciata impudenza si eleva a classe di scienziati ove è nata la scienza!

Dobbiamo noi tollerare che alla stolta credenza di una chimerica conquista, si aggiunga l'altra di essere in un tratto divenuti i Piemontesi di sì alta levatura da fare i maestri a coloro che sanno!!

Non ardisco niegare che dal Piemonte sia nato pure qualche nomo di qualità, in qualche brano di scienze e nelle lettere umane, ma è pur vero che la sua Storia

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non ci potrà far vedere 731 nomini ¡Mastri, quanti ne sono esciti dalle sole tre Provincie Calabresi (a).

Non è colpa loro, se sono di tarpato intendimento in faccia ai Napoletani, ma è colpa del clima sotto di cui non può allignare l'arancio, il cui fiore sbucciando sotto il nostro Cielo inebria la nostra atmosfera colla sua fragranza;epperò che sotto al nostro bel Cielo acquistano facile e sollecito sviluppo le facoltà intellettuali più che là, nel Piemonte, ove gli aranci si comprano a mezzo franco l'uno e si mangiano in teatro come nettari di Elicona o cordiali sorbetti.

Né alcun Napolitano sarebbe unquamai disceso nella bassezza di rimproverare ad un Subalpino un difetto derivante dalla inclemenza del clima; ma poiché i Napoletani son provocati da loro fino al punto di dover credere e rispettare la scienza dell'ignoranza, la umana pazienza vien meno dirimpetto alla loro impudenza e presunzione.

Il Ministro Cavour nel 1861 si doleva con un Magnato napoletano, perché tutte le sommità di questo paese ricusavano di prender servizio presso il nuovo governo, ciocché gli procurava forti dispiacenze. Ma come mai quell’uomo sì perspicace poteva supporre che quei soggetti i quali avevano celebrato sempre, con la mitra Vescovile, avrebbero potuto adattarsi poscia a dover servire la messa a dei pretazzoli di villaggio?

Bisogna dire che il sig. Conte Cavour doveva esser seguace della filosofia del cinico Crate, per poter in buona fede pretendere quello di cui con positivo rammarico accademicamente si doleva di non aver potuto conseguire.

D'altronde ci sembra di aver abbastanza dimostrato che i mestatori dell'unità Italiana, i quali sino ad oggi son comparsi sulla scena del Governo d'Italia,

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(a) Riscontrasi il catalogo nominativo dei suddetti personaggi celebri, con la rispettiva specifica della loro illustrazione, nel discorso del 1859, del Procuratore Generale Napoletano Felice Rienzi, stampato col titolo.

Dei sintomi delle forze fisiche, morali ed intellettuali del popolo Calabro, e del contegno del Magistrato penale, che su di esso amministra la giustizia, nell'applicazione delle pene.





— 25—

non ànno altra prerogativa che quella di esser nati per far numero, e per consumare i prodotti delle altrui fatiche, giusta l'epigrafe messa in fronte a questa tersa parte della mia difesa nazionale. E chi è nato per centuplicare il prodotto delle altrui fatiche, non può certo accomunarsi con essi!..

Qui mi fermo per molte ragioni che sarebbe ozioso esporre. O' riletto questo mio lavoro e lo trovo meritevole di censura per parte degli scrittori di polso; ma ciò non mi farà desistere dal pubblicarlo, poiché scrivendo, non ò preteso di farmi ammirare come scrittore, ma di rendere un servizio al mio paese, richiamando l'attenzione degli uomini e di Dio sulle nequizie che mi trovo di avere esposte, sperando di accelerarne legalmente il fine.

Voglia il Cielo concedermi la mercede di farmi vedere che questo lavoro fosse anch'esso un fruttifero granello di quella semenza che ogoi giorno dai miei concittadini si appresta al campo della pubblica opinione, con la speranza di raccogliere un migliore avvenire a questa sventurata patria mia!..

Altro scopo mio è stato quello di difendere i miei calunniati concittadini; e per poter conseguire il mio intento ò dovuto non solo scrivere vibratamente, ma ancora sentire l'obbligo di non tradire la verità, e l'altro pure di non trascurare tutti coloro che saran sempre miei concittadini, come lo furono e Poerio e Nicotera quando anatomizzali dal passato Governo erravano emigrati dalla nostra patria.

Che se alcuno si degnerà poi di accusarmi di partigianismo, io recisamente gli rispondo, che non si è ingannato, poiché con fesso di essere un accanito partigiano...................................................

DELLA GIUSTIZIA


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APPENDICE

VITA MILITARE DELL'AUTORE

— 3—

Non il sentimento di una gretta vanità, poiché nulla di speciale o di straordinario risulta dalla mia carriera che potrebbe rendermi vanitoso, ma la necessità di chiudere la bocca ai Cagliostri mi costringe a pubblicare la mia biografia militare.

Varie suscettibilità son riscosse colla pubblicazione di questa difesa nazionale, per cui amo di garantirmi contro quelle che ànno pèr base la cattiveria e la goffagine.

Io esamino la mia coscienza e non vi trovo rimorso alcuno, imperocché scrivendo, ò avuto per norma di non scrivere cosa non vera, e di non rammentare nel momento che scrivevate mi era amico o nemico quel tale o tal altro di cui ò avuto uopo di scrivere. Che se i miei giudizii sono stati talvolta inesorabili, ciò è stato per combattere la nequizie; e se dal quadro della mia carriera trasparisce in qualche modo il merito dell'uomo d'onore, dichiaro che lungi dallo esprimere un sentimento di orgoglio, rendo invece grazie alla Provvidenza che si è degnata d'illuminarmi, per non farmi deviare dal retto sentiero e per non farmi declinare dai principii che ò ereditati dai miei antenati.

Pria di compiere il diciassettesimo anno di mia vita, vestii la divisa del soldato semplice. Giunto al grado di Caporal-Foriere, fui chiamato a concorrere allo esame per uffiziale e il dì 1° di Decembre 1848, fui promosso ad Alfiere nella Fanteria di Linea.

Nel Luglio 1849 mi determinava a concorrere per far parte degli uffiziali dello Stato Maggiore, e compito l'aringo ero destinato ad aiutante di Campo del Generale sig. Giovanni Rodriguez in Palermo, e nel maggio 1852 conseguiva la proprietà di uffiziale dello Stato Maggiore, con una Ministeriale della Guerra del dì 1.Maggio 1852, 1° Ripartimento, 1° carico N° 3582 così concepita. «S. M. il Re (D. G.) si è degnata nominare  aggiunto allo Stato Maggiore il 2.° Tenente D. Tommaso Cava ed.... risultati idonei nello apposito esame».

Nel corpo stesso dello Stato Maggiore riscuoteva di seguito 1 gradi di 2.° Tenente, 1.° Tenente e Capitano, disimpegnando le seguenti commissioni. Fino al 6 luglio 1854, rimasi presso il Generale Rodriguez già mentovato,

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il quale si compiacque di lasciarmi il seguente ricordo, quando da lui mi divideva per raggiungere il mio nuovo destino presso il Generale Gennaro Salerai.

Copia — Certifico io qui sottoscritto Generale Comandante le Armi nella Provincia di Noto, e Real Mazza di Siracusa, Commendatore D. Giovanni Rodriguez, che il Sig. Tenente D. Tommaso Cava dello stato Maggiore, durante quattro anni che è stato presso di me a funzionare da Aiutante di campo, non mi ha lasciato a desiderare nulla circa a condotta serbata, tanto negli affari di servizio, quanto in fatto di vita privala, avendo egli mostrato mai sempre il massimo attaccamento ai proprii doveri, ed al servizio di 5.M. il Re (D.G.), non che ho avuto luogo di ammirare in lui una somma fedeltà e devozione alla M. S. e finalmente l'ho sempre trovato degno di tutta la fiducia dei superiori in qualunque siasi speciale ed interessante commissione.

Ed acciò possa avvalersene in ogni rincontro, io coscienziosamente certifico quanto di sopra per giustizia dell'interessato.

Siracusa li 28 Settembre 1854 — Giovanni Rodriguez Brigadiere — Per copia conforme Il Tenente Colonnello Commissario di Guerra — Pietro Bozzelli.



La mia condotta poi serbata nel tempo in che rimasi presso del Generale Salerai, può ben desumersi da quest'altro ricordo così espresso.

Copia — Il Brigadiere Gennaro Salemi certifica qualmente il Sig Tenente D. Tommaso Cava aggiunto allo Stato Maggiore del Real Esercito durante il tempo che è stato destinato per suo Aiutante di Campo, ha mostralo retti sentimenti, costante attaccamento ai suoi doveri, ed ha con esattezza adempito quello gli è stato ordinato: tanto che con compiacimento il sottoscritto si è persuaso, sarebbe il sudetto Sig. Tenente Cava degno emulo dei suoi compagni in possibili circostanze conseguenti e difficili, ed in esse con utile del Real Servizio, farebbe ammirare zelo, coraggio ed accorgimento.





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Ed affinché costi ove convenga a richiesta dello interessato, rilascia il presente — Palermo li 8 Novembre 1855 — Gennaro Salerni Brigadiere — Per copia conforme — Il Tenente Colonnello Commissario di Guerra — Pietro Bozzetti.

Frattanto affacciatosi il Cholera del 1854 con tristo apparato in Messina ed in Catania, io era spedito con commissione segreta in quelle due Provincie da Re Ferdinando 2° per osservare se tutti i soccorsi si prodigavano, e praticavansi utili provvedimenti dalle autorità locali a prò della popolazione. Fu quella una commissione di fiducia che molto mi lusingò, epperò l'ò notata.

Nel settembre 1855 fui richiamato al Comando Generale in Napoli, e nel Dicembre dello stesso anno fui destinato presso il Generale sig. Giovanni Esperti che comandava una brigata di cavalleria (lancieri).

Ma al 19 Maggio 1857 ebbi una novella destinazione presso il Generale Michelangelo Viglia, dal quale mi ebbi, lorquando ci separammo, il seguente attestato.

Copia di un certificato del Maresciallo di Campo

D. Michelangelo Figlia.



Certifico io qui sottoscritto che il Signor 1. Tenente D. Tommaso Cava, ufficiale dello stato Maggiore durante il tempo che ha servilo presso di me in qualità di Aiutante di Campo, ha serbato sempre un'ottima ed esemplare condotta, si è mostrato solerte, attivo ed intelligente in tutte le commissioni che nell'interesse del servizio gli ho affidato.

Dichiaro infine, che nel tempo in cui ho comandato la 1 Brigata negli Abruzzi sotto gli ordini del Generale Pianelli, il sud etto Signor Cava, si è meritata speciale considerazione pel modo come mi ha alacremente assistito; ed acciò costi ove convenia, ne rilascio il presente — Chieti 27 marzo 1860 — Firmato — Viglia Generale.



Ed oltre a questo, il prefato Generale ebbe la degnazione di onorarmi.

1° Di un articolo speciale nell'ordine del giorno con cui prese congedo dalla sua Brigata presso la quale io rimasi, cosi concepito.

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Frammento dell'ordine di congedo del Maresciallo di Campo

D. Michelangelo Figlia; quando lasciò il comando della

1a Brigata negli Abruzzi.



Copia — Prego pure gli uffiziali dello Stato Maggiore Signor Tenente Cava e Tenente Schokotnigg, di accogliere le mie lodi e sensi di alta soddisfazione, pel modo come mi hanno assistito: essi si sono mostrati zelantissimi nelle particolari incombenze ad essi affidate, e dato pruova di somma intelligenza. E quantunque il Sig Tenente Cava mio aiutante di campo dovrà fra breve raggiungermi, pure ho voluto dargli questa pruova, per dimostrare quanto tengo in pregio le sue ottime qualità — Chieti 31 Marzo 1860 — Firmato Figlia Generale.



2° della seguente lettera che mi spediva in Abruzzo dopo il suo arrivo io Napoli.

Copia di un articolo d'una lettera particolare che in data

del 3 Aprile 1860 il Signor Maresciallo D. Michelangelo Viglia,

scriveva al 1° Tenente D. Tommaso Cava aggiunto allo

Stato Maggiore già suo Aiutante di Campo.



Io son partito con vivo dolore dell'animo: il modo come mi avete assistito ed affiancato in quest'ultima commissione, e i sensi di affetto dimostratimi, non usciranno mai più dalla mia memoria. Proseguite ad essere qual sempre siete stato, cioè onorato e distinto militare, attaccato ai vostri doveri, e siate certo che in qualunque incarico farete brillare i mezzi che vi adomano, dando utile appoggio ai superiori cui siete chiamato ad assistere.

State quindi di buon animo, e pensate a proseguire degnamente, come sempre avete fatto, la nobile carriera. Firmato Michelangelo Figlia — Per copia conforme — Il Commissario di Guerra — Francesco Lahalle.



Il dì 28 Marzo 60 passai presso il Generale Marchese Giuseppe Palmieri che prese il comando della Brigata che lasciò il Generale Viglia, e pur dal signor Palmieri fui onorato del seguente attestato.

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Copia di un certificato del Generale D. Giuseppe Palmieri.

Certifico io qui sottoscritto Giuseppe Palmieri Marchese di Monferrato, che il signor 1. Tenente D. Tommaso Cava dello Stato Maggiore dell'Esercito, nel breve tempo che è stato addetto alla mia immediazione; oltre di aver serbata una con dotta esemplare, mi ha data occasione di osservare in lui una finita educazione Civile e Militare sotto tutti i rapporti. Ed affinché costi ove convenga, rilascio il presente di mio carattere a mia firma, e corrobborato dal suggello del comando di Brigata, e di quello della mia famiglia. Aquila 11 Maggio 1860 — Firmato Palmieri Generale.



Li 15 Maggio detto anno fui richiamato dal Generale signor Giuseppe Salvatore Pianelli presso il suo Stato Maggiore in Chieti.

Le seguenti svariate successive e non mai interrotte commissioni con cui mi tenne esercitato fino ai primi giorni di luglio quaodo si sciolse quella colonna mobile, dicono più di qualunque attestato che avrebbe potuto rilasciarmi

Il dì 17 Maggio arrivai in Chieti.

Il dì 20 Maggio fui spedito in Solmona e Popoli per diriggere un operazione militare, e per sorvegliare le riparazioni ai danni arrecati dalla inondazione alle strade che da Popoli menano a Chieti e Ad Aquila.

Il di 23 Maggio col telegrafo ebbi ordine di recarmi pronta, mente in Navelli onde assicurarmi colà di un allogamento di una porzione di troppa, e quindi recarmi in Aquila in attenzione di altri ordini.

Durante questo incarico, il 24 Maggio mi gioogeva l'ordine di fare un giro pei paesi adjacenti di Aquila collo scopo di assicurarmi dello spirito di quella popolazione, delle risorse che offrivano quei paesi, e di stabilire quivi un riconcentramento di truppa, poiché si era (secondo le assertive del Pianelli) alla vigilia di un attacco da quella via.

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E il di 27 Maggio mi si faceva ordine di portarmi subito in Cittaducale per assicurarmi dello spirito di quella truppa colà accantonata. Ciò praticato, il di 30 Maggio mi restituiva al Quartier Generale in Chieti, ove il General Pianelli comandava mi a tenermi pronto per ripartir subilo per altri urgenti affari di servizio; di fatto.

Il di 31 Maggio — A camera serrata il Generale mi annunziata il sicuro sbarco di Garibaldi fra Martinsicuro e Silvi. Mi mise a parte dell’ultimo piazzamento dato alle truppe di sua dipendenza, e mi ordinava a partire immantinenti per la volta di Giulianova, ingiungendomi di abordar Garibaldi nel punto in che si sarebbe presentato, e di servirmi di quella truppa che mi era più prossima fra quelle accantonate lungo il littorale. Mi congedava, assicurandomi che mi avrebbe subito raggiunto, appena gli avrei fatto tenere il primo avviso di scontro.

Se Pianelli mi avesse chiesto la vita in quel momento glie l'avrei data con tutto l'entusiasmo, ed ogni soldato d'onore avrebbe come me idolatrato colui che lo preferiva a tanti altri compagni in affidandogli quella sì lusinghiera commissione.

Chi poteva supporre che quelle, erano delle simulazioni da lui usate, per ingannare tutti sopra la sua condotta? Eppure cosi fu, e per vero il 2 Giugno io mi restituiva in Chieti, poiché le mie diligenze per incontrar Garibaldi si rendevano bernesche dopo le notizie contrarie che ricevei lungo la linea dove Garibaldi doveva essere ricevuto (secondo Pianelli) ed aiutato nelle sue intraprese.

Il di 14 Giugno. Fui commissionato di fare una visita di sorpresa agli accantonamenti circostanti a Giulianova, dove Pianelli aveva trasferito il suo Quartier Generale fin dal giorno dieci (per ratificare colà i patti della sua fellonia).

Il 16 Giugno fui spedito in altri accantonamenti, coll'incarico di far eseguire alcuni movimenti ad una parte della truppa.

Ai 19 Giugno. Mi si dava la commissione di recarmi in Teramo, per visitare i quartieri onde assicurarmi del buon collocamento della truppa colà accantonata, e per visitare con ispecialità l'ospedale affin di verificare le cause che facevano infermare lauti soldati, che eransi riempite tutte le soccorsali apertesi.

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Il 22 Giugno. Ritornai in Giulianova.

Il 29 Giugno. Fui rimandato in Teramo per sorvegliare l'ordine pubblico che si voleva disturbare dal popolo perla non bene accettata costituzione.

Il 2 Luglio. Fui richiamato a Giulianova.

Il 4 Luglio. Il Quartier Generale ritornò in Chieti.

il 7 Luglio. Partii per Napoli, precedendo di due giorni Pianelli che mi raggiungeva per afferrare il potere del suo famoso Ministero.

Rimasi in Napoli presso Pianelli al Ministero fino al giorno 18 Luglio, quando fui richiamato al Comando Generale.

Il 16 Agosto 1860. Col grado di Capitano al quale era stato promosso, fui destinato allo Stato Maggiore del Generale Reidinatten in Nocera.

Il 6 Settembre. Fui richiamato in Napoli per seguire l'Esercito in Capua dove mi recavo il mattino del nove.

Il 10 Settembre. Era nominato Capo di Stato Maggiore di una Brigata di Fanteria operante nella campagna sul Volturno.

Il 17 Settembre. Con una colonna fui spedito in Mondragone dove si temeva un tentativo di sbarco per parte di Garibaldi. Ebbi poteri speciali per eseguire un disarmo e mettere il paese io istato d’assedio in caso di bisogno.

Il 20 Settembre. Svanito il dubbio, mi si dava l'ordine di subito recarmi come capo di Stato Maggiore della Divisione di cavalleria pesante.

Il 10 Ottobre. Fui nuovamente spedito come capo di Stato Maggiore presso una colonna di fanteria,per procedere alla requisizione di frumento e biada, necessarii alla truppa.

Il 19 Ottobre. Fui destinato a Capo di Stato Maggiore della 5a Divisione di Fanteria che formava la guarnigione della Piazza di Capua, ed il 21 Ottobre fui nominato anche capo dello stato Maggiore della Piazza di Capua.

Le svariate commissioni ricevute, dinotano qual fosse stata la mia condotta durante quella campagna.

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Il seguente ordine del giorno poi, dinota che durante l’assedio di Capua, non mi avvalsi del mio posto di Capo dello Stato Maggiore, per risparmiarmi dalle pericolose operazioni.

GOVERNO MILITARE DI CAPUA

Ordine del giorno del 29 ottobre 1860

Avendo positive ragioni di encomiare quella truppa composta di Cacciatori e pochi soldati del 4.° Reggimento di Linea, che poc'anzi hanno fatta una valorosa sortita dalla Piazza, e sotto la direzione del Signor Capitano Cava mio Capo dello staio Maggiore, coraggiosamente sono andati ad incontrare il nemico e scacciarlo dalle sue posizioni avanzate mercé una carica alla bajonetta, non tralascio di tributare le dovute lodi a tutti i signori Uffiziali, sott'Uffiziali e Soldati, che han presa parte a cosiffatta bella a ¡ione di guerra eseguitasi sotto i miei occhi. E poiché da tali encomii non debbono essere esclusi i tre plotoni di Carabinieri a cavallo, che anch'essi hanno appoggiata la manovra con una carica da foraggia tori, vengono anche ad essi impartiti i medesimi elogi.

Siccome però il precennato Signor Capo dello Stato Maggiore, che stando alla testa di detta truppa ha potuto osservare meglio di me quei tali, che più si sono distinti, ed avendomi riferito di aver avuto luogo a rimarcare piacevolmente a preferenza il signor Tenente Acerbo dello Stato Maggiore pel modo come lo ha assistito nella direzione dello attacco, il Signor Alfiere Spetrini dei Carabinieri che ha avuto il cavallo ferito, i signori Comandanti le tre divisioni di fanteria, e quelli dei tre plotoni di cavalleria per lo impulso che col loro esempio davano ai loro dipendenti, cosi è a costoro che parlicolarmente rivolgo le mie lodi ed i miei ringraziamenti — Al mio Capo di Stato Maggiore poi, al quale ho affidata tale importante commissione, son certo che sarà più che soddisfatto nel sapere che son rimasto contentissimo della riuscita di essa.



Il Maresciallo di Campo Governatore

Firmato — DB CORNÈ (a)

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(a) Non avrei fallo neppur menzione di quest'ordine, se lo porhezta del fu Generale Raffaele de Cornè non me lo imponesse.

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Il 3 Novembre 1860. Mi trasferii in Napoli come capitolato di guerra, ed il 4 detto fui invitato dal nuovo Governo a prendere la direzione generale di tutti gli affari dello Esercito delle due Sicilie.

E come mi ebbi quell'invito a preferenza di tutti gli altri uffiziali dell’Esercito Napoletano di maggior grado; di quale importanza fu quella commissione; perché l'accettai; come mi regolai, son tutte cose che mi trovo di aver esposte precedentemente, come dalle pagine 43 e 44 del mio APPELLO ALLA PUBBLICA OPINIONE.

Una lusinghiera lettera del Generale Ricotti al Generai della Chiesa di Salerno quando cola mi recava, e la ricusa fatta alla mia domanda di ritiro quando fui ammesso nel nuovo Esercito, annunziano in che modo adempii ai miei doveri verso i nuovi dominatori, durante quella commissione.

La seguente mia rappresentanza circa l'atto di adesione richiesto dal nuovo governo agli ufficiali napoletani,

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Egli medesimo che mi largiva i suoi elogi il 29 ottobre 1860, vale a dire l'antivigilia della capitolazione di Capua inconcludentemente diceva delle mie clandestine relazioni col nemico, appena quando io ebbi affidata la direzione del disciolto Esercito, per disfogare il disappunto che gli procurava quella commissione affidata a me e non a lui.

È utile si sappia che fra il General de Cornè e me, non passò mai un'amichevole intelligenza in fatto di servizio, perché io lo riteneva un ottimo sagrestano ed un pessimo soldato, e francamente glie lo manifestai un giorno che a camera serrata mi domandava la ragione del mio mal umore verso di lui.

Se giusta o ingiusta era la mia opinione sol suo conto, lascio giudicarlo a chi à avuto occasione di conoscerlo da vicino, specialmente in campagna.

Il certo si è che il suo sangue s'inacidì, e siccome aveva il cervello molto piccolo, discese perfino alla insussistente calunnia per disfogare la sua bile.

Egli è morto e nel perdonargli le sue stoltezze, sulle quali ci rido di vero cuore, non tralascio di consigliare a qualche suo collega, che troppo gli somiglia io fatto di pochezza di senno, di non ripetere le scioccherie da lui udite; poiché se perdono ai morti, è il sistema d'imporre un umiliante silenzio agli stolti, che vivono ancora per annotare gli uomini di onore colle loro stoltezze.

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spiega in qual modo adempii quelli verso la bandiera  in favore della quale aveva combattuto (a).

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(a) Ufficio dei Capitolati e Prigionieri del disciolto esercito
delle due Sicilie.

Napoli 16 febbraio 1861.

A tenore degli ordini di V. S. Ill.ma, mi pregio presentarle gli atti di adesione allo attuale governo di molti uffiziali prigionieri o capitolati, i quali l'han firmati non prima di ieri, giorno 15 andante.

La presente mia posizione mi crea l'obbligo di esporle con pura schiettezza militare le ragioni di un tal differimento, e spero che la bontà che distingue la S. V. voglia spingerla ad accoglierle favorevolmente.

Il genere di guerra per la quale n'è toccata la torte che abbiamo subita, i stato in tal mistero avvolto,che ogni buon militare, guidato dal principio dell’onore, non avrebbe saputo mica conciliar questo, con una condotta che menato lo avrebbe nel sicuro pericolo delle più funeste conseguenze.

Mi sia concesso di basare per principio, che giammai fu pensiero di qualsiasi Uffiziale Napoletano, quello di battersi per opposizione alta rigenerazione delle libere istituzioni del proprio paese; ma sibbene si fu unicamente quello di combattere una rivoluzione,che manifestatasi con tutt'altri caratteri da quelli che la convalidassero per moto o volontà nazionale, minacciava di anarchia la patria, proscrivendone il supremo rappresentante Re Francesco II.

In effetti, la sola storia politica dei fatti compiutisi da aprile 1860, può innegabilmente provare, quanta vengo dal dire.

Or bene, la sorte della guerra, contraria all'armata napoletana, et ha tutti sottomessi alla quasi discrezione dette armi Piemontesi; e se ad essa ci seppimo pur con dignità rassegnare, è ben V. S. che può giudicarne. Ma cade in acconcio notar di volo, e spiegare la condotta di queste sventurate milizie.

Deve ammettersi che un'armata, e tanto più perché non di ristretta cifra, aver deve nella sua massa, siccome in ogni società avviene; delle classi più o meno intelligenti, delicate, scrupolose, e finalmente più o meno istrutte nei propri doveri: quindi, se a cotali differenti suscettibilità, vi si aggiunge lo imperio del bisogno, ne emergerà ben spiegata quella condotta, che sente del mercenario anzicché del militare. In due parole, il più delle volte, i bisogni domestici, profanano i più squisiti sentimenti, e non fanno ben discernere i proprii doveri. Essa è dunque in queste premesse dimostrata, la premura che molti si ebbero di petulare qua e là per aderire allo attuale governo;





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Le manifestazioni di graziosa amicizia di cui oggi mi son larghi, i distinti ed onorati miei Superiori e Compagni del disciolto Esercito, dimostrano poi in qual modo adempii quelli, verso i miei commilitoni.

Nel gennaio 1861, mi si proponeva di far parte della commissione di scrutinio degli uffiziali dell'Esercito Napolitano, ma ricusai Io incarico, consapevole com'ero del disegno che quella giunta doveva per incarico del Ministero di Torino sacrificare in massa quasi tutti i miei compagni, come si verificò.

Il 12 Giugno. Raggiunsi la Divisione Militare di Salerno, comandata allora dal General della Chiesa, poiché fui destinato a quello Stato Maggiore.

Il 15 Giugno. Mi si affidava il comando della Piazza di Nocera per richiamare la disciplina nella Legione Ungherese colà residente, e per attutire le scissure fra gli uffiziali di quella legione, e quelli del disciolto Esercito delle due Sicilie che colà si eran ritirati!

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tuttocohè essi lo avevano disperatamente combattuto fino al giorno precedente: essi agirono coli, sol perché sperarono u n soccorso alla loro situazione. Altri poi temendo la persecuzione dei fanatici, od il sospetto in che li avrebbe sempre tenuti il governo, motivarono da ciò l'interesse di darla lusingandosi di così sottrarsi alla sorveglianza, allo arresto ecc. ecc.

Ma oltre questi, vi furono poi di coloro che più freddi esaminatori della propria condizione, e non pavidi, di chimerici pericoli, trovarono di dover riporre piena fiducia nella giustizia ed equità del governo, e riposare sul carattere di prigioniero o capitolato; perché entrambe le condizioni son sempre da rispettarsi dallo stesso vincitore.

Gli è in questa classe appunto signor Generale, che sono tutti quelli i quali han firmata l’adesione li 15 febbraio.

Dessi satisfecero da principio i doveri di fedeltà verso la propria bandiera, combattendo per essa; subirono la sorte che loro è toccata, e vi si sottomisero con pari onoratezza, adempiendo agli obblighi associati alla situazione. Serbarono durante la guerra, la più stretta neutralità, onde sempre rispettare ad un tempo, il principio di fedeltà alla propria bandiera e quello di essere ligi alla parola d'onore, esibita in garanzia al vincitore.

Ora finalmente, ceduta Gaeta, e reputandosi ormai terminata la guerra, prestano la loro adesione allo attuale governo, e riconoscono la sostituzione delta bandiera d Italia, a quella delle Due Sicilie.

Gradisca la 8. V. Ill.ma i sensi del mio rispetto e considerazione.





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I ringraziamenti e gli elogi del Della Chiesa furono il frutto che raccolsi quando per mia richiesta mi restituii alla Divisione in Salerno.

Nel luglio, mi si offriva la Direzione della fondazione dell'Ospedale Divisionario di Cava, ma ricusai l'offerta per vedute di delicatezza.

Nel Novembre fui nominato Giudice titolare del Tribunale di Salerno.

E nel Decembre, fui nominato anche Membro del Deposito Generale di Leva per le provincie di Salerno e Basilicata, le quali nomine mi furono conferite per ¡speciali proposte del Della Chiesa, senza mai però lasciare il mio posto allo Stato Maggiore della Divisione.

Gli elogi che ricevevo e che udivansi anche nei caffé di Salerno sino alla data del 27 Marzo 62, rivelano qual sia stata la mia condotta in quelle moltiplici commissioni.

Il 28 Marzo poi, inoltrai un rapporto all'attuale governo chiedendogli l'eliminazione del furto e del monopolio, e la cessazione degl'insulti gratuiti contro i miei concittadini, e divenni per gli attuali governanti un mauvais sujet, come precedentemente ò pubblicato.

Bene sia a coloro che ànno fatta una tale scoverta, e bene sia anche a me che non ò più la sventura di dipendere da questa gente corrotta alla quale debbo pur essere obbligato,poiché alla fio fine mi a fatto raggiungere quello scopo cui mirava quando per dignità di soldato, e di gentiluomo napolitano, e per vero patriottismo, spingeva la non accettata dimanda del mio ritiro dal servizio militare!...

FINE




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