Eleaml - Nuovi Eleatici


DELLE
RECENTI AVVENTURE
D'ITALIA
PER
IL CONTE ERNESTO RAVVITTI.
"La violenza distrugge e non edifica"
CAVOUR, 1848.
GLI EFFETTI.
VENEZIA,
TIPOGRAFIA EMILIANA.

1865.
Vol. 02A
01_A - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1864 HTML ODT PDF
01_B - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1864 HTML ODT PDF
01_C - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1864 HTML ODT PDF
02_A - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 HTML ODT PDF
02_B - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 HTML ODT PDF
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La Civiltà Cattolica, 1866 - Delle recenti avventure d'italia di Ernesto Ravvitti HTML ODT PDF


LIBRO TERZO.

DUE MESI DI GUERRA.

DALLO SCOPPIO DELLA GUERRA D'ITALIA NEL 1859

ALLA PACE DI VILLAFRANCA.

SOMMARIO.

XVI. La Toscana e i suoi sommovitori. - XVII. Colpo di mano a Firenze. - XVIII. Un rovescio a Parma. - XIX. Gli Austriaci in, Piemonte. - XX. Gli alleati in Lombardia. - XXI. Rivolte nei Ducati. - XXII. Il Papa e i neutrali. - XXIII. PACE DI VILLAFRANCA.

CAPITOLO DECIMOSESTO.

La Toscana e i suoi sommovitori.

Concordi e discordi. - La Toscana nel 1848. - Livorno e la Costituente. - Leopoldo II. a Gaeta. - II 12 aprile 1849. - L'intervento austriaco e l'occupazione. - Dall'abolizione dello Statuto al Congresso di Parigi. - Carlo BonCompagni a Firenze. - La Società Nazionale Italiana in Toscana. - Le fazioni e i loro rettori. - II barone Bottino Ricasoli; vinaiolo e giornalista, gonfaloniere e cospiratore, restauratore e ancora cospiratore. - II marchese Cosimo Ridolfi. - Ubaldino Peruzzi, quella gentile volpelta. - Don Neri Corsini, marchese di Lajatico. - Guglielmo conte CambravDignv. - II cieco Capponi. - Vincenzo Balvagnoli. - Galeotti e Giorgini. - I congregati e le congreghe. - Prime certezze apportate dal Salvagnoli. - Un crocicchio di tre vie. - La neutralità. - Piano de' faziosi. - L'esercito toscano. - Equipaggi delle Legazione di Sardegna. - BonCompagni smaschera le prime batterie. - II libro Toscana ed Austria. - Istruzioni segrete ai Comitati Nazionali. - Ridolfi a Torino. - Seconda parte del programma.

C

oncordi quanto allo scopo supremo di rimaneggiare a lor grado Stati ed ordinamenti politici d'Italia, in particolare concordi rispetto allo spazzare dalla Penisola durante la guerra le case regnanti di Toscana, Modena e Parma, dopo le quali, dicevano,

8 CAPITOLO DECIMOSESTO.

il resto sarebbe venuto da sé, condizioni tutte pattuite a Plombières ed a cui già l'Imperatore de' Francesi aveva di sottomano per alcun suo fidatissimo rivolte talune cure speciali (1); per nulla in tutto concordi quanto ad accessorii essenziali erano gl'intendimenti che aveano guidato Napoleone III. a servirsi di Cavour, e Cavour ad appoggiarsi alla protezione ed alle armi di Napoleone III. Scendeva questo in Italia per raffazzonare, pur buscando qualcosa per sé, un'Italia francese, un'Italia che gli fosse alleata, ma un'alleata subalterna, , un'alleata com'erano gli alleati della Repubblica romana; un'Italia che sopperisse al bisogno in cui egli versava di aversi d'accosto altri sovrani che con lui tenessero comune l'origine dal suffragio universale. Lo aveva invitato questo, per ampliare col suo soccorso quanto più fosse dato i confini a Casa di Savoia, ed una volta discese le armi francesi nella Penisola, approfittare d'ogni circostanza, quanto meglio gli avvenimenti lo concedessero, per attraversare almeno nel cuore d'Italia gli scopi dinastici peculiari del Sire di Francia. Or non aveano peranco i Francesi tocco il territorio della Savoia, né gli Austriaci posto piede in Piemonte, che già Cavour dava mano, rimpetto all'Imperatore de' Francesi, a quella giostra di astuzia che costituisce il carattere più saliente della sua condotta politica ne' recenti eventi d'Italia; singolarissima giostra che non doveva cessare se non col finire della vita d'uno dei due. Costituita l'Etruria a quel modo che Napoleone avrebbe divisato, e si avea convenuto a Plombiéres, colle Marche e l'Umbria per un principe francese e sotto la naturale tutela della Francia, qualsivoglia velleità d'ingrandimento ulteriore sarebbe andata irreparabilmente perduta per la Casa di Savoia. Per questo caleva immensamente a Cavour che Toscana in particolare,

(1) Per ora basti accennare come agli ufficiali degli Stati italiani che avessero assentito a prender parte alle divisate sollevazioni, nel caso che fossero andate a male, ed essi non avessero preferito o potuto pigliare servigio nell'esercito sardo, era stato assicurato dalle Tuilerie l'ingresso con grado eguale nell'esercito francese, o nella Legione straniera od in corpi speciali da instituirsi. Il còrso Pietri, già Prefetto di Polizia a Parigi, uno dell'eletto drappello cui Napoleone III. soleva affidare le più secrete e dilicate mansioni, aveva poco prima percorso gli Stati italiani, d'ordine dell'Imperatore, onde stringere a quest'uopo lo relazioni opportune, renderle, a così dire, credibili, e distribuire particolarmente danaro.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 9

di già destinata d'accordo ad essere precursore e centro delle rivolture da provocarsi, si avesse sin dalle prime a gettare in braccio a Sardegna per guisa da non saper più sbrogliarsene. Allora coi mezzi medesimi di cui si sarebbe valuto per sommuovere la Toscana, pareva a Cavour che con tesai di probabilità gli verrebbe fatto eziandio di mandare a picco la candidatura del Bonaparte, allorché la si avrebbe dovuta porre in campo (1).

Sino al 1848 Toscana sempre rimase «immune da rivoluzioni, ove nessuna necessità di rigore scompose il domestico accordo dei sudditi con un principe che avea per tradizione la»patriarcale bontà (2).» Mentre da tutte parti gridavasi: riforme, riforme, la Toscana era il paese che men d'ogni altro di riforme abbisognasse. Colà qualsivoglia privilegio abolito, qualsivoglia civile disuguaglianza rimossa; tutti i cittadini indistintamente eguali in faccia alla legge ed ai tribunali; le imposte discrete, certe, equamente ripartite; la Polizia non vessatrice; libertà tanto più grande quanto meno se ne parlava; i comodi e le agiatezze della vita diffusi generalmente; ogni nuova istituzione abbracciata dal Governo appena riconosciuta utile; ogni civile avanzamento accolto e favorito (3). «Giammai», scrisse Alfonso Lamartine (4), «vi fu tanto liberalismo sul trono come allora; che le Corti accusavano Leopoldo II. di guastare, per soverchio di coscienza, il mestiere dei Re.» E rifanne vennero, spontanee, senza veruna di quelle costrizioni pelle quali altrove furono accordate più tardi, allorché Carlo Alberto, proclamato poi iniziatore della libertà italiana, non peranco aveva mosso alcun passo sulla via delle concessioni. Prima del Piemonte Leopoldo II.

(1) La varietà dei casi, e dei modi con cui furono sinora narrati, rende impossibile appagare sempre i lettori per la rapidità del racconto, ed inevitabile una tal quale ineguaglianza di esposizione. Cosi degli avvenimenti di Toscana e di Parma, che costituiscono due de' più rilevanti episodii di codesto gran dramma, soggetto de nostri studii modesti, dobbiamo, per molte cause, trattare alquanto più diffusamente. Del resto, solo il lettore che avrà diligentemente tenuto dietro a quello che altri scrissero sin qui intorno a' recenti eventi d'Italia, può sceverare quanto di nuovo affatto diamo per la prima volta ora in luce.

(2)

Cantù; Storia universale, Libro XVIII, cap. XXV.

(3) Necessità della Convenzione austro-toscana, pag. 45 (Firenze, 1850).

(4) Cours familier de lectures, Entretien LVI.

10 CAPITOLO DECIMOSESTO.

dette una larghissima legge sulla stampa (1); poco appresso una Consulta di Stato; nel settembre 1847, la Guardia cittadina, dichiarata istituzione permanente dello Stato; il 15 febbraio 1848, prima del Piemonte (), franchigie civili collo Statuto. Fu Leopoldo II. che primo con Roma tentò un patto doganale di tutta Italia, per allargare i traffici e le industrie nazionali, e congiungere i materiali interessi degli Stati della Penisola, avviamento a più alti vincoli fra loro. Fu Leopoldo II. che ne' primordii di questo patto, avversato poi dal Piemonte, combatté e vinse il sistema delle proibizioni e protezioni colà vigenti, e fece prevalere le celebri e libere teorie della Toscana (3). Fu Leopoldo II., che col Pontefice, primissimo promotore, iniziava quella Lega italiana, la quale, accedutovi volonteroso il Re di Napoli, doveva andare a vuoto per gl'incagli frapposti dal Piemonte, che in tutta la loro bruttezza rivelarono le idee piemontesi d'usurpazione e di universale signoria sull'Italia.

Battuto sui colli di Custoza e di Volta l'esercito piemontese, seguito nel dì 9 agosto 1848 in Milano l'armistizio richiesto da Re Carlo Alberto, venuta Livorno in balia de' demagoghi, le truppe toscane colà spedite a ristabilire la legittima autorità andate perdute, parte senz'alcun prò, parte per seduzione, in tanto bisogno d'una forza disciplinata fu proposto all'Assemblea fiorentina e vinto il partito di arrolare un seimila uomini di soldatesche straniere. Ma mancato il tempo ad effettuare il disegno, da Livorno dettata la legge al Granduca, dimorante tuttavia nella capitale senza che nessuno sapesse trovar modo a cavarlo da quelle strette, venne al potere col Ministero democratico il Guerrazzi, portando al colmo il disordine e l'anarchia. Tutto cadde sotto il giogo d'una fazione. Sciolte le Assemblee legislative, elette le nuove fra la pressione delle più sfacciate violenze, in mezzo a tanto scompiglio fu messa in campo la Costituente, «insana idea,» anzi utopia, perocché nulla vi fosse da costituire in Toscana,» dove la monarchia costituzionale non aveva mestieri che di senno e fermezza per consolidarsi

(1)

Pubblicata il 6 maggio 1847.

(2)

Lo Statuto sardo fu proclamato il di 4 del marzo seguente

(3) La Toscana e i suoi Principi, pag. 15 (Parigi, 1859).

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 11

» in quell'ordine che aveva conseguito (1).» Lusingandosi rimuovere con ciò altre sciagure, neppure alla Costituente non negò il Granduca il suo assenso; ma quando vide che la Costituente toscana importava adesione alla Costituente romana, vale a dire allo spoglio della temporale potestà de' Pontefici, egli, che sarebbe passato sopra a' suoi diritti di sovrano, non volle passar sopra a suoi doveri di principe cattolico (2).

Leopoldo IL, ritrattosi a Porto San Stefano, aspettava di colà le milizie offertegli dal cognato, il Re di Sardegna, e con riconoscenza accettate (3), che unite colle toscane sotto gli ordini del generale De Laugier, avrebbero potuto porre a segno Livorno e spazzare dal governo la fazione dominante (4). Il soccorso dei Piemontesi, che il Guerrazzi chiamava ospiti mal graditi e pericolosi (5), la cui efficacia dipendeva anzi tutto dalla sollecitudine, andò in dileguo. Gridati triumviri, e imposti alle due Camere per violenza di plebe pagata, Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni, Ministri costituzionali del Granduca; aboliti, due giorni appresso, il Consiglio generale ed il Senato; convocata un'Assemblea col diritto di decidere del destino politico del paese e della monarchia; Leopoldo IL, esautorato di fatto, protestò, e lasciato Porto San Stefano,

(1)

Zobi; Manuale storico degli Ordinamenti economici vigenti in Toscana, pag. 494 (Italia, 1858).

(2)

«Il partito, al quale ricusarono persino la loro adesione molti dei più liberali uomini di Stato e rappresentanti del popolo, alzò una nuova parola d'ordine, la Costituente. Ragioni politiche mi mossero a non negare neppure a questa il mio consenso, benché i miei diritti, non che il mio trono ereditario, venissero subordinati alla sentenza di un'Assemblea Costituente. Ma quando si voleva attribuire a quest'Assemblea simili facoltà per disporre delle forme del governo dell'Italia tutta, non esclusi gli Stati pontificii, non credei, come principe cattolico, di potere andare» più oltre.» Lettera del Granduca Leopoldo II. all'Imperatore d'Austria, da Porto San Stefano, 11 febbraio 1849, riferita dal Gennarelli (Le sventure italiane sotto il Pontificato di Pio IX., pag. 46, Firenze, 1863).

(3)

Lettera del Granduca a Carlo Alberto, da Porto San Stefano, 11 febbraio 1849, nel Gennarelli (Le sventure italiane, pag. 17).

(4)

Lettera del Granduca al generale De Laugier, da Porto San Stefano, 15 febbraio 1849, nel Contemporaneo del 31 gennaio 1863.

(5)

Gennarelli; Atti e Documenti da servire d'illustrazione ai volumi delle Sventure italiane e dell'Epistolario politico toscano, pag. lxxi. (Firenze, 1863).

12 CAPITOLO DECIMOSESTO.

dond'ebbe a sentire le salve d'artiglieria con che nella vicina Orbetello solennizzavasi d'ordine dell'intruso Governo la proclamazione della repubblica, si rifuggiva a Gaeta (1).

Dopo Novara, un bei giorno, il 12 aprile 1849, Firenze si riscuote. Gli alberi della libertà, innalzati ad ogni angolo di strada e in ogni piazza, si che Firenze parea diventata la selvaggia selva di Dante, cadono atterrati; le campane della città suonano a festa, ed il Municipio,

(1) Come abbiamo già avuto occasione di porre in luce in più nostre scritture, altro dei caratteri peculiarissimi de' recenti sconvolgimenti italiani si è l'avere trovato tanta copia di paladini così mentecatti, che i loro libri e libercoli, impresi allo scopo di additare all'esecrazione del mondo i Governi e le persone dei principi spodestati, dovessero per converso riuscire a difesa degli accusati, ed a dimostrare colle parole stesse degli autori o compilatori, e con ogni desiderabile chiarezza, precisamente affatto il contrario di quello che si prefiggevano. Tanto cattivo consigliere è l'odio, e tanto è vero quel dettò antico che a chi Giove vuoi male gli toglie il senno! D'ogni erba fatto fascio, raccolsero quante mai accusazioni si lusingavano, comunque fosse, poter porre in piedi; e Tarma, che pensarono la più potente, si spezzò sempre nelle loro mani medesime, si che ben a ragione poté dirsi: «Oh benedetta la Provvidenza che ha permesse tante infamie di bugie, sì clamorosamente trombettate nei giornali, sì audacemente discusse nei Parlamenti, si bonariamente accettate dai gonzi o dai creduli, per eccitare più acuta la curiosità, e più solenne esibirne e più evidente la confutazione!» (Civiltà Cattolica).

Per fermo niuna rivoluzione forse presenta, quanto codesta d'Italia, tanti esempi in cui i tristi abbiano senza volerlo fatti, come si dice, gli affari dei buoni; e per recarne in mezzo un solo, difficilmente potrebbesi addurre alcun esempio più memorabile di quello ornai celebre delle accuso portate dal Gladstone a carico del Duca di Modena. Così in un libro, che porta la sua condanna nel titolo, compilato con intendimento di svillaneggiare nel più basso modo il Pontefice e il Granduca di Toscana, e che doveva invece riescire a difesa del Granduca e del Pontefice, il Gennarelli (Le sventure italiane, pag. XXIX-XXX) volle attribuire la partenza di Leopoldo II. per Gaeta, più ch'altro, al Santo Padre, e precisamente ad una lettera ch'egli riporta (pag. 14), Pio IX. scrive al Granduca, consigliandolo «a tenersi fermo, finché può, in qualche punto del suo Stato, e quando la violenza l'obbligasse a partire, a scegliere per momentanea dimora un paese italiano, e preferibilmente quello ove regna un suo cognato, il quale non ha certamente nessuna vista men che retta sui possedimenti che appartengono a Vostra Altezza.» Per tal guisa il Gennarelli, per provare che il Granduca partì per Gaeta sollecitato dal Pontefice, ne adduce il documento, comprovante appunto che il Pontefice non gli parlò guari di Gaeta, lo consigliò a starsene in Toscana finché potesse durare, e allorché non lo potesse propriamente più, se ne andasse in Piemonte.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 13

fra immenso popolo e le grida mille volte ripetute: Viva Leopoldo Abbasso Guerrazzi! Il Granduca come frimai, invade Palazzo Vecchio, scaccia il Guerrazzi dittatore, proclama ristabilita la legittima sovranità di Leopoldo II. La Commissione governativa, eletta per reggere lo Stato in nome del Granduca sino al suo ritorno da Gaeta, abolisce la Costituente, proibisce i Circoli, scioglie la Guardia di sicurezza, chiama in città la Guardia Nazionale del contado. La notte, che seguì il 12 aprile, tutte le colline che fanno corona a Firenze brillavano da ogni parte pegli accesi fuochi di gioia. Canti di allegrezza allietavano le campagne, illuminate come ogni più remoto angolo della capitale. Dovunque non si udiva che una voce: Viva Leopoldo , e dovunque non si sentia che ripetere: «Questa volta non sono pili gridi pagati.» Unanimità favolosa. Tutte le provincie aderirono con entusiasmo. La sola Livorno protestò, convenutivi a riparo in gran numero i demagoghi fugati da Firenze e dal Granducato, la maggior parte stranieri a Toscana.

Livorno rimasta in mano di un'accozzaglia cosmopolita, rifiuto ed onta d'ogni civile consorzio, quegli eroi da galera pareano decisi a difendervisi energicamente. Fortificata la città, erette barricate in tutte le strade, le truppe toscane, guidate dall'arcadico generale De Laugier, affatto insufficienti a domarla, sorgeva la necessità suprema che una forza armata qualunque accorresse dal di fuori a salvare il paese dall'abisso in cui poteva precipitare. I cinque della Commissione governativa toscana si maneggiarono prima a riannodare le pratiche per un intervento di Piemontesi, poi per un intervento di Piemontesi uniti a Napoletani, poi di Francesi e d'Inglesi (1). Ma il Piemonte, dopo Novara, doveva pensare a' fatti suoi, e com'ebbe a dichiarare il De Launay, Ministro per gli affari esterni in Torino, Vittorio Emanuele non avrebbe messo un nodo di truppa a disposizione del Granduca se non qualora questi «fosse in grado di assicurare il» Governo di Sua Maestà che l'ingresso della truppa sarda in» Toscana non susciterebbe nuove complicanze, né incontrerebbe» opposizione seria per parte di altre Potenze» (1); Napoli aveva sulle braccia Sicilia e Roma;

(1)

I documenti stanno nelle Sventure italiane del Gennarelli, pag. 2743.

(2)

Gennarelli; Le sventure italiane, pag. 36.

14 CAPITOLO DECIMOSESTO.

Francia e Inghilterra, vogliosissime di porre un piede, in qualunque modo fosse, in Livorno, per gelosia l'una dell'altra declinarono l'offerta. Pure bisognando finirla, a fronte del grave pericolo che dalla insorta Roma le bande dei demagogia si gettassero in Toscana e manomettessero ogni cosa (1), non restava forzatamente altro intervento possibile all'infuori dell'Austriaco.

Que' della Commissione avrebbero accettato soccorsi da monarchie e da repubbliche, da protestanti e da maomettani, da chiunque, purché non venissero dall'Austria, quando l'Austria, per ragione di Trattati e dello stato stesso delle cose, era quella che più d'ogni altro teneva diritto d'intervenire. L'Austria, che dopo l'armistizio di Milano aveva fatto sentire come si sarebbe astenuta dall'invadere la Toscana, a patto ch'essa si mantenesse tranquilla nell'interno e rinunziasse ad ogni ostile apparecchio, per diritto di guerra vi poteva intervenire, tanto meglio dacché Toscana era venuta meno alla condizione, trattandosi sol di sapere, come disse più tardi il Ministero Ricasoli (2), se il vinto potrà imporre la legge al vincitore, Toscana ad Austria. La restaurazione né cancellava i primi torti né le offese più recenti, né assicurava l'interno del paese. E gli Austriaci vennero, il Granduca né invocante né contrastante (3), senza che mai Francia o Inghilterra

(1)

Ciò che infatti avvenne poco appresso, quando Garibaldi, fugato da Roma co' suoi, si gettò sopra Arezzo, lanciando a' Toscani quel furioso proclama del 19 luglio 1849, riportato nei Casi della Toscana, pag. 252253.

(2) Memorandum del 24 agosto 1859 (Atti e Documenti del Governo della Toscana, Parte IL, pag. 171).

(3)

L'andata di Leopoldo li. a Gaeta, la chiamata degli Austriaci in Toscana e l'abolizione dello Statuto costituiscono la somma delle incolpazioni, ribadite sino alla nausea, che gli uomini della rivoluzione, tutti intesi ad accusare i Sovrani d'Italia per mascherare agli occhi de' lontani le proprie nequizie, misero in campo contro di esso; tre incolpazioni dimostrate insussistenti o falsissime secondo gli stessi documenti pubblicati dalle più chiassone lande spezzate del partito della calunnia e della menzogna. Entrando in Toscana, in un proclama del 14 maggio 1849 da Empoli (riferito dallo Zobi, Memorie economico-politiche sulla Toscana, Vol. I., pag. 28-Firenze, 1860), il generale D'Aspre, comandante le schiere austriache, aveva detto, che «i vincoli di sangue ed i molti Trattati avevano determinato l'Imperatore a cedere al desiderio del Granduca, e quindi, chiamato da lui, veniva a rassicurarlo sul trono.»

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI 15

né si opponessero né protestassero a quell'intervento, ch'era necessità ineluttabile, di cui tutta la colpa doveva rigettarsi su chi l'aveva cagionata, non certamente sull'Austria, né sul Granduca, colla più solenne ingiustizia addebitatone L'Austria, che aveva annunziato a Parigi ed a Londra di riserbarsi l'esclusivo intervento nel Granducato, precisamente come la Francia serbava a sé l'esclusivo intervento a Roma, si decise intervenire in Toscana allorché vide la Francia essersi decisa ad intervenire nello Stato Pontificio.

Nicomede Bianchi poi, nella sua Storta della politica austriaca, pubblicava una lettera del maresciallo Radetzky ai Granduca, del 2 febbraio 1849 da Verona (ristampata nel libro Toscana e Austria, pag. 72), nella quale scrivevagli, «abbandonasse pure i suoi Stati, che egli, tosto sottomessi i demagogia di Sardegna, volerebbe in suo soccorso con trentamila uomini.» Or su codesta lettera, nel 1860, undici anni dopo che fu scritta, lo Zobi (Memorie sulla Toscana, Vol. I., pag. 271275) fabbricava uno de' suoi castelli in aria, affermando a dirittura:«Il Granduca eseguì a puntino gli ordini del maresciallo; si fermò alcuni giorni nel picciol porto di San Stefano, all'estremo confine del Granducato, per attendere gli eventi. E il segreto della sua condotta sta tutto in questa lettera.»

Caso strano! Sia ruggine sopravvenuta tra i due, sia invidiuccia di scrittore, sia smania di dare in luce documenti ignorati o ad arte pretermessi da quell'instancabile frugatore d'archivii ch'è lo Zobi, sia pur forse per un qualche residuo di pudore, supponibile anche in chi meretriciamente usa tutto falsare e tutto vilipendere, sia sa Iddio che, il Gennarelli, altro degl'impiastrafogli razzolatori al soldo del Piemonte, da sulla voce al collega e risponde (Le sventure italiane, pag. 17): «Cotesto non è vero. La» lettera del conte Radetzky è in data del 2 febbraio; e il Granduca il dì» 11 accettava l'intervento offertogli dal Re di Sardegna, e lo accettava» col cuore profondamente commosso, come un aiuto inviato dalla provvidenza» nel giorno della sventura, ringraziando il Re come un buon fratello che porge la mano al fratello, all'amico.» E perché anche i ciechi avessero a vedere che non è vero, stampa (pag. 20, Nota 56) la lettera del Granduca al Re di Sardegna, del 19 febbraio, penultimo giorno della dimora di Leopoldo IL a Porto San Stefano, in cui scrive: «non rigettare quella offerta, piena di generosità e di amicizia; al contrario desiderare il momento di vedere effettuato quel disegno, dichiarando che sarebbe stato fortunato se andasse debitore al Re della pace primitiva ristabilita in Toscana;» stampa (pag. 48) la lettera del Granduca all'Imperatore d'Austria, del 26 febbraio da Gaeta, in cui non gli celava come avesse accettato il soccorso delle armi piemontesi; stampa (pag. 83) la lettera del generale D'Aspre al Granduca, del 12 maggio da Livorno, dodici giorni prima del proclama da Empoli, con cui lo prega di dichiarare che le truppe austriache sono in Toscana col suo consenso; stampa (pag 50) che in risposta alla lettera del

16 CAPITOLO DECIMOSESTO.

Circuito dagli Austriaci Livorno, il lungo assedio durava due ore. Ma le scarse truppe toscane, tornate all'obbedienza del Granduca, trovandosi in condizioni le più miserevoli, si rendeva assolutamente necessario che le forze militari venute a ristabilire il buon ordine rimanessero a consolidarlo e tutelare i pubblici interessi. Per tal modo muta vasi in occupazione quel!' intervento, che lo stesso Gabinetto di Torino dichiarò (1) come: «in conseguenza dei passati rivolgimenti politici, i quali hanno recentemente agitato la penisola italiana, poteva spiegarsi dietro quelle considerazioni che si deducono dalla natura degli avvenimenti medesimi.» Sinché il Granduca potesse riorganizzare il suo esercito, fu convenuto pertanto che gli Austriaci rimanessero, e rimasero senza che né per questo vi venisse in niun modo compromessa la dignità del paese e l'indipendenza del supremo governante (2); né l'erario toscano avesse a sostenere per le milizie ausiliari uno spendio maggiore di quello che sarebbe stato occorrente per mantenere truppe sue proprie, il quale ne fu anzi minore di assai (3); né gli affaccendati sempre a raccattare obbrobrii,

Granduca all'Imperatore d'Austria, del 26 febbraio, e ad altre due sue precedenti, in nessuna delle quali si conteneva una richiesta vera e propria d'intervento, l'Imperatore rispose solamente il 27 marzo; stampa (pag. 9193) la Memoria del Ministro toscano Martini al generale D'Aspre, del 24 maggio da Gaeta, che fu l'unica risposta data da parte del Granduca alla lettera del generale del 12 di quel mese, nella quale Memoria è messo in piena evidenza che le truppe imperiali non Tennero in Toscana contro la volontà di Leopoldo IL, ma però senza una di lui espressa richiesta.

(1)

Nota del marchese d'Azeglio, Presidente del Consiglio de' Ministri di Sardegna, al cav. Martini, Ministro di Toscana presso la Corte di Torino, del 4 giugno 1850 (pubblicata dallo Zobi: Memorie economico-politiche sulla Toscana, Vol. II., pag. 565567).

(2)

Tranne la competenza nei tribunali austriaci di giudicare coloro che cercavano subornare le truppe, la sovrana potestà non ebbe a soffrire il minimo detrimento.

(3) Essendosi l'Austria addossata il soldo ordinario delle truppe ed il carico del loro equipaggiamento, la spesa a carico della Toscana risultò men gravosa che d'ordinario conseguiti in casi consimili, in particolare di quella sostenuta dal Piemonte nel 1821, allorché l'Austria venne a cavare i Reali di Savoia dalle zanne dei Carbonari. Cessato il bisogno, gli Austriaci partirono di Toscana nel maggio 1855, in seguito ad iniziativa di Leopoldo II, pel diritto riservatosi coll'Articolo I. della Convenzione austro-toscana del 1850. Ridolfi, Ricasoli e consorti dissero (Toscana e Austria,


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LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 17

per versarli sul capo di Leopoldo IL e degli Austriaci, potessero neppur per ombra mettere insieme una pagina sopra severità, eccessi, indisciplinatezze delle soldatesche imperiali (1).

pag. 109, Nota 38) sapere da buona fonte che l'occupazione austriaca aveva costato ventitré milioni di lire toscane, quantunque l'anno avanti fosse stata dallo Zobi (Manuale storico, pag. 511) portata la somma a trentamilioni. Nel 1859 poi lo stesso Zobi (Cronaca degli avvenimenti d'Italia Voi.! l'34) alza ancor più il conto, elevandola con maravigliosissima precisione, a lire 31, 913, 291.1.11. 79/180 «non compresi i trasporti, gli alloggi, le indennità accordate a' Conventi ove stanziarono le truppe, e le spese fatte nelle fortezze»; tenuti a calcolo tutti i quali altri asseriti dispendii a carico del pubblico Erario e delle Comunità, dichiara non credere punto esagerata la maggior somma di Lire 36, 614, 739.2, enunciata dal Cini nell'opuscolo: Sui danni economici recati dall'Austria alla Toscana.

Affermò ancora lo Zobi nel 1858 (Manuale storico, pag. 527528): «Co» sta alla Finanza l'esercito toscano, di cui non può revocarsi in dubbio il» bisogno, circa a lire 9, 500, 000: ed abbenchè tale spesa annua possa ad» alcuni sembrare ingente, non è dato sperarne alleviamento.» Or bene: dato che fosse stato possibile mettere subito in piedi un esercito di soldati del paese, ne' sei anni in cui gli Austriaci stettero in Toscana, questo esercito sarebbe costato cinquantasette milioni; alla quale somma, contrapposta quella senza dubbio alcuno esageratissima delle lire 36, 600, 000 affermata dal Cini, l'Erario toscano ebbe un risparmio di 20, 400, 000 lire. Che se, come infatti sembra e ognuno dovrebbe pensare quando riflettasi che il libercolo Toscana ed Austria fu dettato all'unico scopo di accumulare quanti più era sperabile sanguinosi oltraggi al Granduca, fosse più assai d'accosto al vero la somma enunciata dai caporani della rivolta del 27 aprile 1859, in ventitré milioni di lire, l'Erario toscano risparmiava per effetto dell'occupazione austriaca trentaquattro milioni in sei anni, intorno a 5, 600, 000 lire per anno. Cosi poté il Granduca convertire in benefizio una militare occupazione.

(1) «La disciplina delle truppe, è giustizia confessarlo, si mantenne sempre eccellente, da rarissime eccezioni in fuori, alle quali era portato pronto riparo. Nella stessa Livorno, dove gli Austriaci entrarono per forza di armi, quando ebbero messo lo stato d'assedio, che durò più di cinque anni, appena quattro fucilazioni vennero eseguite in tutto quel tempo, dopo regolare giudizio, e sopra persone fattesi ree, chi di latrocinio, chi di ferimento proditorio o di assassinio. L'Italia ha avuti a' tempi nostri esempi d'umanità, più che da' suoi figli, da soldati stranieri. Sulla condotta dei quali, noi, imparziali con tutti, citeremo la testimonianza» dello stesso Governo toscano, che parlando appunto di Livorno, ebbe a dire che lo stato d'assedio di quella città erasi ridotto a una nuda parola, e l'autorità militare applicava punizioni anche più miti di quelle che sarebbero inflitte dalle leggi civili (Dispaccio del Duca di Casigliano,» Ministro toscano, al barone Hùgel, Ministro d'Austria a Firenze,

18 CAPITOLO DECIMOSESTO.

Tre anni più tardi (1), Leopoldo II., ben a ragione conturbato alla vista dell'incessante lavorio delle sètte scalzanti le basi della società, giustamente sfiduciato dalla dolorosa esperienza del passato, dichiarò abolito un sistema di governo che gli stessi più solenni costituzionali avevano dimostrato impossibile, e di cui non restava più traccia nella massima parte d'Italia. Se governo parlamentare ci ha ad essere in Italia, bisogna che sia in tutti gli Stati della Penisola; altrimenti codesta foggia di reggimento inaugurata in un luogo sarà sempre altrove, prima o poi, pericolosissima arma in mano de' facinorosi, incitamento e pretesto a bollori ed a rivolture. 0 tutti, o nessuno. Sta nell'umana natura il rimanere non di rado adescati più presto da vaghe apparenze e da nudi nomi pertinacemente fatti risuonare alle orecchie, che non dalla tacita e severa materialità di certi fatti. Pareva che lo Statuto dovesse essere la felicità della Toscana, e il principe l'aveva concesso. Messo alla prova, quantunque condotto da uomini che i liberali ripongono tra i sommi, il governo costituzionale a mala pena poté reggere pochi mesi. I benefizii sperati non si raccolsero, i mali temuti non si evitarono; le civili franchigie furono convertite in pubblico danno; l'autorità sovrana, disconosciuta da prima, resa quindi inabile ad oprare il bene, dovette cedere alla violenza d'una rivoluzione, che rovesciò tutto, Statuto, principe, dinastia.

Proclamando abrogato lo Statuto, Leopoldo IL dichiarava morto un morto, da lunga pezza freddo, abbandonato cadavere. Lo Statuto era rimasto abrogato sino da quando i Deputati toscani chi vennero con visiera alzata a muover guerra al Granduca, chi fuggirono, chi ammutolirono su' loro scanni e si lasciarono sopraffare da una banda di schiamazzanti faziosi, che, invasa la sala del Consiglio generale, imposero il Triumvirato. «Lo Statuto fu distrutto dai democratici quando sciolsero per sempre il Senato e la Camera, e restrinsero i poteri politici in una sola Assemblea,

» riportato dallo Zobi. (Memorie economico-politiche, Vol. II., pag. 578). Più bell'elogio crediamo non sia toccato mai a veruna soldatesca.» (Casi della Toscana, pag. 241-242).

(1) Decreto del 6 maggio 1852.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 19

» accecati dalle passioni e dallo spirito di setta (!).» In codesto civile contratto una delle parti, i rappresentanti del popolo, non seppe o non volle mantenere le cose giurate. Giurarono e promisero di provvedere al bene inseparabile della patria e del principe (), e lo abbandonarono in mano de demagogia e lo lasciarono spodestare (3). La milizia cittadina non accorse a difendere il trono costituzionale; guardò le sue armi, e stette. Lacerato il contratto da una delle parti, e quella parte non fu il principe, questi, che a fine di pubblico bene erasi spogliato della propria autorità, per dovere di coscienza trovavasi costretto a riprenderla a tutela e difesa del paese. Era a quel filo che si avevano ad appigliare gli agitatori politici per ritessere la tela delle congiure.

Per le calamità degli anni scorsi, alle quali e il Governo coll'Erario dello Stato e il Granduca col suo privato denaro aveano generosamente sovvenuto, e per le grandi spese della guerra testé cessata, la pubblica amministrazione era disordinata, e fu necessità inevitabile contrarre imprestiti ed accrescere imposizioni. Nullameno il Governo proseguiva il bonificamento della maremma grossetana, dava opera ad asciugare il padule di Bientina, gettava un più vasto e più dell'antico sicuro porto in Livorno, dava incremento alle vie ferrate, fondava un Uffizio di Statistica, riordinava magnificamente gli Archivii del Granducato, faceva restaurare i monumenti più insigni, apriva un grandioso istituto tecnico in Firenze ed uno ne formava per l'insegnamento nautico in Livorno stessa, dava vita ad una Scuola delle miniere in Massa Marittima; mentre che Licei e Ginnasii, e Scuole secondarie,

(1) Zobi; Manuale storico, pag. 497, Nota I. (1858).

(2)

«I Senatori e i Deputati, innanzi di sedere la prima volta nell'Assemblea, prestano, nelle mani del rispettivo presidente, il giuramento con questa formola: Giuro di osservare inviolabilmente lo Statuto fondamentale e tutte le leggi del paese, e prometto di adempiere l'ufficio mio con verità e giustizia, provvedendo in ogni cosa al bene inseparabile della patria e del principe. Così Dio mi aiuti.» - Articolo 46 dello Statuto toscano.

(3)

«Nel Senato il solo principe Don Andrea Corsini mostrò coraggio di vero cittadino, opponendosi al Guerrazzi e agli altri Ministri, non ostante gli strepiti delle tribune, che opinarono doversi governare la Toscana a nome del popolo. Quella coraggiosa opposizione fu inutile.» (Casi della Toscana, pag. 290).

20 CAPITOLO DECIMOSESTO.

e Scuole minori sorgevano in ogni città, terra e borgata del Granducato, a sbugiardare d'avanzo quel rotante marchese Cosimo Ridolfi, che dopo avere nel 1841, quand'era Presidente generale degli Scienziati a Firenze, ricordato a costoro (), «in» quanto pregio fosse tenuta la scienza e la dottrina dal magnali nimo Leopoldo IL,» nel cui nome ebber vita e fiorirono le scientifiche Riunioni italiane, venne poi in maggio 1859 con viso imperterrito a dire (), «che in Toscana non vi sono scuole» né primarie né secondarie; e l'uomo, immagine divina, hanno» ravvicinato ai bruti.» £ fu la Toscana che alle Esposizioni mondiali di Londra e di Parigi riportò la palma su tutti gli altri Stati italiani, conseguendo ragguagliatamente premii più numerosi e segnalati.

Sopraggiunto il Congresso di Parigi nel 1856, solo il Governo toscano, fra quelli tutti degli Stati italiani, dalle irose contumelie di Cavour campavavi non vilipeso, non calunniato. Costituita la Società Nazionale italiana; convertiti i Ministri di Sardegna, accreditati presso le Corti della Penisola, in rettori, tutori e aguzzini della Società; tramutati i palazzi intangibili delle Legazioni sarde in Ufficii di Posta, depositi d'armi, opifìcii di macchinazioni, fucine di rivolture, templi di fellonia; occorreva che in Firenze, a rappresentare Vittorio Emanuele Re di Sardegna, venisse qualcuno che si sentisse sì onesto e capace d'infingersi purissima colomba, sincero e leale sino all'ultimo istante verso il Granduca, e nello stesso tempo guidatore accortissimo di tali orditure da potere a momento opportuno, senza proprio periglio, con pari disinvoltura sostituire nel governo dello Stato sé medesimo a lui. E a Firenze nel 1857 Re Vittorio mandava per ciò il commendatore Carlo BonCompagni di Mombello. «Là, nelle due parti, scriveva più tardi un suo collega nella Camera dei Deputati in Torino (3), bisognava un uomo a figura spessa ed imperturbabile, che non tradisse giammai il suo pensiero e la sua impressione, un uomo che parlasse molto senza mai compromettersi; un carattere facile ed affabile, perché non

(1) Atti della terza Riunione degli Scienziati Italiani.

(2) Atti e Documenti del Governo della Toscana, Vol. I., pag. 106107.

(3)

Petruccelli della Gattina; I moribondi del palazzo Carignano, pag.132133.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 21

» lo si stancasse molto di riclami, di proteste e di recriminazioni; pronto al sorriso, ai modi cortesi, l'animo benevolo, caratare senza angoli, BonCompagni rappresentò la sua figura a meraviglia, e poté a suo comodo imbaggianare Leopoldo II. e provocare l'annessione. Mentre vanamente fra i diplomatici dell'universo si sarebbe ricercato alcun altro all'onesta bisogna più acconcio, ei poté conseguire che dalla bigoncia dell'Alta Camera d'Inghilterra, lord Stratford di Redeliffe, uno de' più illustri veterani della diplomazia britannica, proclamasse (1) che il Granduca di Toscana avrebbe avuto il diritto di farlo arrestare ed impiccare all'inferriata del suo palazzo.»

In Toscana come altrove, condotta da Cavour, la Società Nazionale aveva fatto prestamente proseliti. Dobbiam rammentare come il programma sociale, destrissimamente compilato, parlando sempre di unificazione, ben altra cosa che unità, parlando sempre di utilità del concorso governativo piemontese e di stare per la Casa di Savoia, non sotto la Casa di Savoia, finché Casa Savoia sarà per l'indipendenza italiana in tutta l'estensione del ragionevole e del possibile (2), aveva dato facoltà di raccogliere in un solo fascio costituzionali unitarii, costituzionali federali e repubblicani (3). Ma le diffidenze, mai sopite del tutto fra i residui elementi de' vecchi partiti, fecer si che, pur dando il lor nome alla Società Nazionale, e repubblicani, e costituzionali federali, e costituzionali unitarii, tenessero di sotto mano combriccole secondarie, ciascuna fazione per proprio conto. Fermo sempre di operare da sé quando la occasione si presentasse propizia, ed eccettuato solo un numero infinitesimale di demagogia di purissimo sangue, che si teneano in disparte, i repubblicani eransi uniti per ora a' costituzionali unitarii. Cosi in Toscana, riconosciuta da ognuno, da buoni socii, la suprema autorità direttrice del BonCompagni, i seguaci della Società Nazionale si ripartivano in due fazioni (4),

(1)

Sessione del 7 giugno 1859.

(2)

Vedi: Volume L, Le cause, pag. 174.

(3)

Vedi: Volume I., Le carne, pag. 88.

(4)

Quanto diciamo della Toscana, è a dirsi, in generale, e salvo secondarie differenze locali, del resto d'Italia centrale e meridionale. Avendoci prefisso di narrare gli avvenimenti, anziché dietro stretta cronologia, piuttosto con raggrupparli secondo uno stesso ordine di fatti e d'idee, dovremmo ripeterci ben di sovente,

22 CAPITOLO DECIMOSESTO.

con diramazioni e pratiche in tutto il Granducato: la fazione che si appellava nazionale, ed anche piemontese o popolare, capeggiata su' luoghi da gente infatuata di piemontismo, nemica di mezzi temperamenti, avversissima alla dinastia regnante, e che faceva consistere, per sua propria confessione, «la dignità e grandezza d'Italia nel giungere alla unità politica sulle rovine del Papato» (1); e la fazione de' costituzionali federali, che a Firenze più propriamente chiamavano fazione aristocratica, i quali avrebbero o dicevano che avrebbero preferito conservata la dinastia, a patto si rimettesse lo Statuto e si alleassero col Piemonte in pace ed in guerra, fazione guidata da' soliti ambiziosi che volevano, più che tutto, forzare il principe a cacciar via i Ministri per aversi poi essi i primi posti.

Aderivano agli aristocratici, anche detti allora per ispregio i conservatori, coloro che, anelanti ad impieghi ed avanzamenti, nul11 altro in sostanza desiando che soddisfare alle cupide voglie d'ambizione e di lucro, fìngevansi spasimati degli ordini costituzionali; que' pochi che sotto il mitissimo reggimento del Granduca, tolti d" ufficio per notorie infedeltà e fellonie, avean perduto col posto lo stipendio (); qualche scribacchino che non peranco

quando non fosse avvertito che la storia d'una rivoltura, d'una invasione, d'una annessione, d'una votazione, è la storia, su per giù, di tutte le rivolture predisposte e operate da' Comitati Nazionali, condotto a mano da' Ministri sardi al di fuori, rette da Cavour, la storia di tutte le invasioni, di tutte le annessioni, di tutto le votazioni avvenuto per opera e in favore della Sardegna. Per tutto le stesse mene, gli stessi effetti; per tutto minoranze impostesi colla frode e colla violenza alle grandi maggioranze ingannate, soprapprese, spaurite. Sì che per narrare di tutte basta narrare di una.

(1)

Ermolao Rubieri; Storia intima della Toscana dal 1. gennaio 1859 al 30 aprile 1860. Prefazione.

(2)

Quali: il tenente-colonnello conte Girolamo Spannocchi, deposto dal grado nel 1849 per cagioni gravissime; il professore Gioacchino Taddei, presidente nel 1849 della Costituente del Guerrazzi; il professore Orosi; il chirurgo Ferdinando Zannetti; tutti guiderdonati poi da' BonCompagni e Ridolfi col ripristinarli ne' gradi, ne' posti e ne' soldi, spesso coll'aggiunta degli stipendii che avrebbero percepito per tutto il tempo in cui erano stati fuori d'impiego, come avvenne a quel dottore Paolo Corsini, uno de' più arrabbiati mazziniani in Toscana, confessato poi come tale dallo stesso Mazzini. (Scritti editi ed inediti, pag. 313 e seg.).

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 23

avea trovato a chi vendere la penna versatile; qualche avvocato senza clienti e qualche medico senz'ammalati, cui lo scarso ingegno o la svogliatezza non davano agio di trarrò sussistenza onorata dalla professione; e una mano di vilissimi e insignissimi ingrati, pe' quali i benefizii e gli onori avuti dal principe erano adesso incentivo ribellione; e tutti que' tra gli Accademici Georgofili, che col marchese Ridolfi eransi dati, per passatempo e per moda, non diciamo già all'agricoltura, che è cosa troppo nobile, ma alla castalderia (1). Questi, o appena poco più, erano gli aderenti degli aristocratici; gente buona a ingrassare nelle rivoluzioni quando siano fatte, ma incapace di mettersi allo sbaraglio. Cosi fra essi scarsissimi quelli che in buona fede e senza secondi fini cercassero la felicità e la grandezza del paese, ben presto posposti ai più pratici del mestiere.

Del resto, pochissimi tra i patrizii eran della partita (2), pochi del ceto medio, nessuno del clero (3), nessuno del contado, fedeli in gran parte gl'impiegati dello Stato (4). Poiché, come insegna Nicolo Machiavelli (5), vi sono tra gli uomini tre generazioni di cervelli, l'uno che intende da per sé, l'altro che discerne quei che altri gli spieghi, e il terzo che non intende né da sé né per dimostrazioni d'altri, era fra quest'ultima specie che in Toscana, come altrove dovunque, i Comitati Nazionali aveano reclutata la più parte degli affigliati, anco nelle città secondarie; i quali, senza capir proprio nulla, facevano, quasi a dirsi, atto di presenza in tutte le comparse e in tutte le pubbliche rassegne. Capi di bottega, tirati alla setta, e che aveano trasfuso ne' loro garzoni i proprii fervori, costituivano il nodo de' giannizzeri dei Comitati; gente manesca, rotta ad ogni sfrenatezza, e capace, al bisogno, di farsi largo co' pugnali, rafforzata dalla pagata feccia de' più vili mascalzoni.

(1) Casi della Toscana, pag. 19.

(2)

Fu soltanto più tardi che il Ricasoli, Peruzzi, ed in ispecie il medico Giuseppe Barellai, riuscirono ad accalappiare varii altri.

(3)

«Diciamo nessuno, perché otto o dieci preti matti non fanno nulla.» (Casi della Toscana, pag. 33).

(4)

«E perché fedeli, rimossi poi se coprivano posti importanti, o, diversamente, traslocati e impinguati perché tacessero, e col silenzio mostrassero di aderire al nuovo ordine di cose.» (Casi della Toscana, pag. 20).

(5) Il Principe, capitolo 22.

24 CAPITOLO DECIMOSESTO.

Rettori della fazione nazionale di Firenze erano: Ermolao Rubieri, Vincenzo Malenchini, il pastaio Giuseppe Dolfì, Pietro Cironi (1), con altri, la più parte in addietro repubblicani. Caporani della fazione aristocratica sedevano a scranna: Bettino Ricasoli, Cosimo Ridolfi, Ubaldino Peruzzi, Neri Corsini, Tommaso Corsi, facendo da segretario Celestino Bianchi; dietro a' quali primeggiavano: Vincenzo Salvagnoli, Giambattista Giorgini, Leopoldo Galeotti, Gino Capponi, Guglielmo Cambray-Digny.

Il barone Bettino Ricasoli, strano tipo di signor feudale dell'evo medio, trapiantato in pieno secolo decimonono, discendeva da una famiglia, la cui storia si confonde a quella sì piena di avventure della repubblica fiorentina, da una famiglia di cui si è provato nel 1861, come due e due fan quattro, che il primo ceppo fu Geremia (2). Non aquila d'ingegno, ma perseverante; carattere tenace, a toccare l'ostinazione; sino dalla gioventù al più alto grado presumente di sé, arrogante, orgoglioso, superbo, ambiziosissimo; fatalista come un musulmano di stampo primitivo, fattosi protestante per non avere a confessarsi ateo; uno di quegli esseri sempre serii, sempre gravi, sempre fieri, che nulla scuote, nulla commuove, nulla adombra, nulla atterrisce, uno di quegli esseri senza cuore che bravano tutto e tutti, e non perdonan giammai; fino al 1847 aveva viaggiato, sovraneggiato nelle sue torri e nelle sue terre, atteso all'agricoltura con successo vero e fatti eccellenti vini di Chianti (3). Giunto il 1847, l'antico discepolo di Tito Manzi, che, già Ministro di Polizia durante il Regno d'Etruria, era stato a' suoi dì tra' più caldi partigiani dell'indipendenza ed unità d'Italia (4), si risovvenne delle lezioni e degli obblighi di buon settario; scrisse e mandò al Granduca una Memoria (5), in cui senza giri gli domandava istituzioni costituzionali per la Toscana. Leopoldo II. non se ne adontò; anzi, sopraggiunte le difficoltà tra Toscana,

(1)

Quello che, per delitti politici, il principe Liechtenstein aveva chiesto in addietro fosse spedito a Livorno. (Gennarelli; Atti e Documenti d'illustrazione alle Sventure e all'Epistolario, pag. lvi).

(2)

Luigi Passerini; Genealogia e Storia della famiglia Ricasoli.

(3)

Che gli ottennero all'Esposizione universale di Parigi la medaglia e la croce della Legion d'onore.

(4)

F. DairOngaro; Biografia di Bettino Ricasoli, pag. 17.

(5)

Riferita dallo Zobi: Sommario di Documenti, Vol. II., pag. 526.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 25

Modena ed Austria, a proposito della cessione del Ducato di Lucca, il Granduca, avendo scelto per arbitro Re Carlo Alberto, gli mandò il barone Ricasoli, che compì la sua missione con abilità.

Scoppiata intanto la rivoluzione, Ricasoli si fa giornalista, fonda in Firenze con Salvagnoli e Lambruschini, e sostiene col denaro, un periodico che ha per titolo La Patria e per programma la frase obbligata del giorno: fuori i barbari! Ricasoli è il più spinto di tutti; spiega anzi e colla pertinacia propria del suo carattere impetuoso difende il suo programma unitario d'una monarchia nazionale e dell'Italia libera dal Papa e dell'Austria. È trattato da utopista, ed egli se ne adonta. Montanelli e Guerrazzi salendo al potere, egli, che non può padroneggiare, se ne sdegna, si dimette dalle funzioni di gonfaloniere di Firenze, non abbastanza elevate per la sua ambizione; declina qualunque partecipazione al governo democratico, si da operosissimo a manovrare di sott'acqua per ristabilire il Granduca, tosto che vede le cose della rivoluzione volgere al peggio. Guerrazzi lo aveva preso in tale sospetto, che, accusato di nascondere dei cannoni al servigio del Granduca, faceva visitare dalla Polizia la dimora de' suoi antenati; ed infatti la Polizia trovò dei cannoni dietro i vecchi merli delle torricelle di Brolio, ma erano cannoni di legno dipinti in bronzo, per effetto del paesaggio. Figuri chi può la collera dell'iroso barone; la fatale parola: delenda est Carthago! è pronunziata, ed il 12 aprile 1849 Bettino Ricasoli a fianco del conte Cambray-Digny muove ad abbattere la signoria del Guerrazzi. Proclamano ristabilita la sovranità di Leopoldo II., e Bettino Ricasoli è uno dei cinque della Commissione eletta a governare lo Stato sinché ritorni.

Ricasoli richiamava il Granduca, il Granduca venne dopo venuti gli Austriaci; Ricasoli pensava esser fatto Ministro costituzionale, il Granduca pensò non farne nulla. Allora l'altero barone rimanda al principe la decorazione ricevuta, e va a seppellirsi nel suo castello di Brolio. Ei non respira più che per cospirare: cospira in tutto, cospira sempre. Col pomposo titolo di Biblioteca civile dell'Italiano venne in luce in Toscana una pubblicazione, inspirata dal Malenchini, avente per iscopod'indirizzare le menti alle idee propugnate nel programma della Società Nazionale di Cavour,

26 CAPITOLO DECIMOSESTO.

avviamento manifesto alla rivoluzione, oltraggio sanguinoso al Governo; il quale nullameno con meravigliosa indulgenza lasciava fare, sopprimeva un giornale cattolico fiorentino che aveva preso a confutarla, proibiva altri giornali di fuori che l'avversavano (1). Ed ecco Ricasoli prendervi parte con Cosimo Ridolfi, Peruzzi, Corsi, Cempini, Celestino Bianchi, confessati, a cosa riescita, «e fidi e devoti agenti del Ministero piemontese (2).»

Cosimo marchese Ridolfi, uomo inquieto, simulatore, di smodata ambizione, di cui un arguto ingegno, Francesco Domenico Guerrazzi, ebbe a dire (3), o che non ha intelletto», o la passione glielo toglie; spacciatore assiduo di nuove teorie d'agricoltura, che non fecero né bene né male alla coltivazione delle terre toscane, e furono solamente occasione e pretesto di turbolenze e di congiure; fondatore e proprietario del famoso Istituto agrario di Meleto, senza del quale né certamente Toscana sarebbe stata una landa deserta, né avrebbe avuto tal semenzaio di facinorosi; era per ciò stato maestro di scuole popolari, professore all'Università di Pisa, presidente del Congresso degli Scienziati a Firenze, presidente dell'Accademia dei Georgofili, essa pure convertita, sua mercé, in nido di agitazioni politiche sotto il velo di severi studii di agricoltura e di economia. Da lunga pezza intimo di Leopoldo IL, da lui trattato non come suddito ma come amico, da lui ospitato ne' suoi palagi, colmo d'onori, elevato ai primi gradi, affidatogli quanto avesse di più caro al mondo, l'educazione del proprio figlio, il principe ereditario Ferdinando; giunto il 1848, erasi veduto balestrato dalla rivoluzione al seggio ministeriale e di capo di Gabinetto. Ingolfata temerariamente la Toscana in una guerra rovinosa, Ridolfi cadde rovesciato dalla propria inettezza, come molti anni indietro era caduto dall'ufficio di Direttore della Zecca, dovuto lasciare per rovinose innovazioni; cadde senz'aver saputo stringere in un fascio le forze vive e intelligenti del paese, senz'aver saputo prevenir nulla, non lasciando dietro a sé, e alle vanitose iattanze, che disordine, confusione, ruine, e tutto in balia d'una setta,

(1) Tra questi l'Armonia di Torino. Il giornale soppresso ni il Giglio.

(2)

Demo; Biografia di Leopoldo IL, pag. 128.

(3)

Lettera pubblicata nel 1663 dal Gennarelli: Atti e Documenti di illustrazione alle Sventure ed all'Epistolario, pag LXXXII.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 27

che, distrutta ogni ombra di libertà, s'indragò tanto da rendere inevitabile l'intervento straniero. Poi, quando l'intervento sarà un fatto, questo Centauro Chirone, questo Ridolfi medesimo, verrà co confratelli ad assordare l'aere di omei perché il principe chiamò in Toscana gli Austriaci. Oh i mentitori! Chi chiamò stranieri nella patria vostra, non fu Leopoldo IL; chi li chiamò, voi, piloti di loquace arroganza ed incapacità senza pari, voi foste! Ottimo a suscitare civili discordie, quanto inabile al governo degli uomini, ora Cosimo Ridolfi stava cogli aristocratici, soltanto appunto perché aristocratico, niente affatto anelando allo scopo che costoro diceano di vagheggiare ed alcuni vagheggiavano nella realtà. Roso dal tarlo dell'albagia, Cosimo Ridolfi si sarebbe dato al diavolo, se il diavolo lo avesse assicurato del primo posto ne' suoi dominii; ed ora era tra' più zelanti a tramare perché e il principe che lo aveva sì largamente beneficato, e il discepolo che accarezzò per dicci anni, calcassero un giorno la via dell'esiglio.

Intorno a tali sopracomiti, Ricasoli e Ridolfi, facevano degna corona i comiti. Il cavaliere Ubaldino Peruzzi, per ambizione degnissirno di star terzo nel sinedrio, «quella gentile volpetta», come lo tratteggiò Petruccelli (1); «spirito facile e flessibile, cui lo ingegno pronto e la franchezza del promettere mai non fallano;» fu nel 1848 gonfaloniere di Firenze, lavorò callidamente contro il Governo di Guerrazzi per sollecitare il ritorno del Granduca. Dimessosi nel 1849 per la solita fiaba della chiamata degli Austriaci, parve rimasto in fondo al cuore costituzionale federale, abbastanza fermamente da farsi accusare più tardi, ancorché Ministro del Regno d'Italia, quale federalista, «o,» come afferma quel bizzarro Della Gattina (3), «regionista, ciò che torna lo stesso.»

Costituzionale federale, forse più fermamente, procedendo almeno con più lealtà e disinteresse, era il principe Don Neri Corsini, marchese di Lajatico, in addietro Governatore di Livorno e Ministro pegli Esteri di Leopoldo IL, di famiglia affezionatissima ai Granduchi, e nipote di quell'altro Neri Corsini, che il 12 giugno 1815

(1) I moribondi del palazzo Carignano, pag. 76-79.

(2)

Petruccelli della Gattina; I moribondi, pag. 79.

28 CAPITOLO DECIMOSESTO.

firmò in Vienna il Trattato d'alleanza difensiva fra Austria e Toscana (), ed alla cui memoria, venuto a morte nel 1845, Cosimo Ridolfi, Ubaldino Peruzzi, con altri del partito signoreggiante in Toscana dopo il 27 aprile 1859, avevano fatto coniare una medaglia d'onore colla leggenda: A Neri Corsini toscano, perché nei Ministerii di Stato mantenne la dignità del principe e della patria. Oh, quanto sono ridicoli questi Ridolfi, questi Peruzzi, tutti cotestoro, che oggi lodano per mantenuta dignità dello Stato il principe alleatosi all'Austria, il Ministro che segnò il Trattato; e domani, dopo avere fatto ogni possibile per astringere l'Austria a venire in Toscana, vituperano e sbalzano il principe per non mantenuta dignità dello Stato!

Guglielmo conte Cambray-Digny, boriosa mediocrità mediocrissima, quegli che il 12 aprile 1849 a capo del Municipio fiorentino restaurava il Granduca, poi membro della Commissione governativa, ornai non avea più speranza che in un diavoleto qualunque per risarcirsi delle perdite patite nelle bische e negli amorosi ripeschi (). Il marchese Gino Capponi, troppo maggiore del suo nome, discendeva da quel Pier Capponi che stracciò i capitoli in faccia a Carlo Vili, volente schiava della Francia la repubblica fiorentina. Fornito di talenti, che, come al neghittoso del Vangelo, non fruttarono nulla o ben poco; parte la educazione signorile; parte la troppa copia d'ogni facoltà, che, ben dissero (3), suoi fare afa e ammortire la naturale vigoria dell'animo; parte una certa bonarietà, che altri direbbe rilassatezza e fiacchezza; parte la pratica per tutta la vita e l'amicizia di tutti i liberali più sperticati, che a suo tempo lo aveano tratto nelle file de' Carbonari; avea finito con riescire in tutto un uomo a mezzo, mezzo letterato, mezzo marchese, mezzo democratico, mezzo cristiano, mezzo incredolo.

(1) Zobi; Memorie politiche, Vol. IL, pag. 395397.

(2)

Sbalzato appena il Granduca, il misero in mangiatoia, creato Commissario civile presso il Corpo di osservazione, ufficio senza scopo e senza occupazione, inventato apposta per lui. Poi il fecero Soprintendente alle Regie Possessioni, Intendente dei beni della Lista civile, Direttore dell'Istituto agrario, e insino a, risum teneatis amici, professore di meccanica!;poi Gran Cacciatore, con una rendita di ventimila franchi Tanno. Lo cacciarono in non sappiam quante fruttuose Commissioni, Senatore del Regno, piastrato de' Santi Maurizio e Lazzaro.

(3) Cosi della Toscana, pag. 203.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 29

Caduto il Ministero Ridolfi, venne a presiedere un Ministero suo proprio, per scendere dal piedestallo «dopo avere aggiunto ruine a mine» (1). Più tardi fu altro di quella Commissione governativa per Leopoldo II. richiamato, la quale, senza consultare il Granduca, pretendendo piuttosto imporgli la propria sua volontà, proclamò e promise che non tornerebbe se non principe costituzionale (1). Quando, nel 1857, Pio IX., viaggiando pe' suoi Stati, traversò nel ritorno la Toscana, il Granduca avendo fatto richiedere al Capponi la sua villa fuori di Porta San Gallo, per breve sosta del Pontefice, rispose: la villa esser piena di ragnateli e troppo lungo lavorio il ripulirla. Replicò il Granduca, provvederebbe egli alle spese; e Gino Capponi a dire di viva voce, «ch'ei non dava chiavi per l'alloggio del Re di Roma;» ma che se avessero voluto sforzar le porte, eran padroni.» Ed ora, vecchio, cieco d'ambedue gli occhi, in cuor suo costituzionale federale davvero, stava fra i costituzionali federali da burla, a far l'ufficio della patina agli stivali.

Salvagnoli, Galeotti, Giorgini, Corsi, erano quattro avvocati. Chi non conosce per fama oggidì Vincenzo Salvagnoli, lo cinico espositore dell'assioma politico: colla verità non si governa (3)? Ingegno vivo e pronto, parlatore sciolto ed arguto, scrittore concettoso e terso, facile e destro maneggiatore del suo periodo, forte nelle leggi, fu per lunghi anni fra' più valenti giureconsulti del foro toscano.

(1)

Zobi; Manuale storico degli ordinamenti economici vigenti in Toscana, pag. 494.

(2)

In un Indirizzo al Granduca, del 17 aprile 1849, scrissero: «La Commissione governativa non ha dubitato di dover assumere in nome vostro le redini dello Stato, ed in nome vostro promettere ai popoli, i quali vi invocano, che voi sareste tornato siccome un principe costituzionale.»

(3)

Angelo Brofferio sdegnosamente rinfacciò a Bottino Ricasoli, che, durante il tempo in cui tenne autorità dittatoria sulla Toscana, avesse fatto ciò che positivamente negava di avere operato, e non avesse operato quanto pretendeva di aver fatto; veri gli arbitrarii imprigionamenti di cui era stato accusato, la svergognata corruzione nelle elezioni, la sistematica violazione delle lettere negli ufficii postali, lo sperpero matto dei denari dello Stato. A tutte queste accuse Salvagnoli, che, essendo Ministro degli affari ecclesiastici nel Gabinetto del Ricasoli, doveva sentire al vivo la puntura della spilla, rispose a Brofferio: Caro mio, colla verità non si governa. (Brofferio; I miei tempi. Vol. XIV., pag. 95-115).

30 CAPITOLO DECIMOSESTO.

Fattosi Carbonaro, involto ne' moti del 1831, si trovò poi unito con quanti vi ebbero mano, né mai da allora ristette a procacciarne di nuovi. Da quell'epoca data la grande intrinsichezza in cui visse col principe Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, mentre questi dimorava a Firenze, intrinsichezza non rotta con Napoleone III. Imperatore. Dal 1837 dichiaratosi fautore di ordinamenti federativi per la italiana penisola (1), ribadì il chiodo nel 1847 (2). Ma già nel 1848 era unitario; anzi preso in uggia per sfegatato Albertismo, da' demagoghi signoreggianti fatto segno ad aspri insulti di plebe insino nella sua casa, lasciata Firenze, si rifuggiva a Nizza, ove rimase lungamente e donde tornò per essere in Toscana il più instancabile dei cospiratori in permanenza del conte di Cavour. Adesso stava con Ridolfi, con cui era alle rotte dal 1848, da quando questi non aveva mantenuto a lui ed agli antichi compagni, che lo avevano reso sicuro del loro aiuto, le promesse fatte prima di entrare nel Ministero (3). Ridivenuti amici, lo erano come cani e gatti.

Galeotti, gran faccendiere della rivoluzione, la scialava a quei dì da autonomista federale. E Lorenista-costituzionale, ciò che allora suonava lo stesso, si dava il Giorgini, Lorenista almeno sino al 26 aprile 1859 (4); intimo amico di Bettino Ricasoli, genero di Alessandro Manzoni.

(1) New Elogio di Girolamo Poggi, che lesse all'Accademia dei Georgofili.

(2)

Nel Discorso, che pubblicò nel marzo 1847 a Lugano, col titolo: Sullo stato politico della Toscana; pel quale, non avendo potuto negare il molto amore del popolo a Leopoldo II. ed alla dinastia, che confessava di assai benefizii giù stata larga al paese, fu il Salvagnoli accagionato, dai confratelli delle sètte, di soverchia tenerezza per la Casa di Lorena.

(3)

Si ruppe la buona armonia fra il Ridolfi, Salvagnoli e Ricasoli, che presero ad avversarlo acremente nel loro Giornale La Patria e nel Parlamento. «Ed io penso,» scrive il Puccioni (Biografia di Vincenzo Salvagnoli, pag. 40, Torino, 1861), «che questa prima discordia fosse il germe delle altre ben più funeste, onde poi fu travagliata la nostra Toscana.»

(4)

Narra l'operosissimo membro del Comitato nazionale centrale di Firenze e capo della fazione popolare, Ermolao Rubieri (Storia intima della Toscana, pag. 216), come il 26 aprile 1859, in un'adunanza tenuta in casa Ricasoli, avesse il Giorgini «perorato sulla inopportunità di separare» la causa della Toscana da quella della dinastia di Lorena.» Ciò che non impediva che il 20 agosto dello stesso anno lo stesso Giorgini venisse a leggere all'Assemblea toscana un altro scritto per perorare la causa della

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 31

Designato a professore sino da quando era a balia, a vent'anni era stato fatto professore davvero, perché assaggiasse quasi tutte le cattedre della facoltà legale e filosofica, come colui che sa ogni cosa; sì che i maligni dicevano come colui che non avea voglia di far nulla, ed era indifferente il tenerlo qua e là, che tra le infreddature, il dolor di corpo, il mal di capo, e una cosa e l'altra, non arrivava mai a far venti lezioni l'anno (1). Scettico, di que' che non mai si abbassano a guardar pel sottile, figlio d'un lucchese venuto a Firenze in cerca di fortuna e beneficatissimo da Leopoldo IL, fratello di altri due beneficatissimi dal Granduca, Giovambattista Giorgini, sì largamente egli medesimo beneficato da codesto eterno beneficatore di Leopoldo, sfogava la sua gratitudine col cospirare.

Così, mentre i nazionali, retti dal Comitato centrale, tenevano dietro ad uno scopo ben definito uniti e compatti, neppure fra i primati medesimi della fazione aristocratica vi avea concordanza di propositi. Solo la ben minor parte di essi seriamente desiderando la conservazione della dinastia lorenese, altri erano ormai nazionali pretti e sputati, cavouriani nel più stretto senso, che stavano provvisoriamente cogli aristocratici, sia per avversione invincibile a trovarsi insieme con demagoghi che li aveano in altro tempo aspramente angariati, come il Salvagnoli; sia per tenere debitamente informati d'ogni andamento particolare della fazione, tanto i padroni di Torino, quanto i nazionali, come Celestino Bianchi che in casa del Dolfi mestava in quel partito eziandio. Altri poi erano nazionali appena dissidenti, che non avrebbero anche disgradata l'autonomia della Toscana, fermo sempre di farvi essi la prima figura, e salvo a darsi del tutto alla signoria torinese quando all'ambizione e al borsello tornasse meglio il farlo, come Ricasoli, Ridolfi, Peruzzi, quasi che abbisognassero d'ulteriore conferma quelle parole di Francesco Guicciardini (2): «Non crediate a costoro che predicano sì efficacemente la libertà, perché quasi tutti, anzi non è forse nessuno che non abbia l'obbietto agl'interessi particolari;

aggregazione della Toscana al Piemonte; giusto come que' flagellati da Socrate, i quali vantavansi di saper parlare sopra ogni argomento prò e contro.

(1) Casi della Toscana, pag. 303.

(2) Opere, Vol. I., pag. 110, Ricord. 66.


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32 CAPITOLO DECIMOSESTO.

e la esperienza mostra spesso, ed è certissimo, che se credessero trovare in uno Stato stretto miglior condizione, ci correrebbero per le poste.» Quanto avveniva fra' capi, avveniva a un dipresso fra gl'inferiori, quasi tutti venderecci come un Cambray-Digny, gente che si appiccicava a' vestiti de banderai, loro parendo che nomoni come un Ricasoli, un Ridolfi, un Capponi, dovessero portare miglior fortuna che non i novellini ed oscuri Rubieri e Dolfi. Lo stesso accadeva allo incirca tra le due fazioni. I nazionali avevano bisogno degli aristocratici, di que' gran nomoni, per abbagliare le moltitudini; e questi avevano bisogno della mano e dell'opera ardita de' primi per entrare in porto. li che spiega e le quereluccie sorte in sulle prime nel grembo stesso degli aristocratici, e le discrepanze e le dissensioni fra le due fazioni, sino a che l'astuzia, gli intrighi, l'oro e l'audacia di Cavour e dei cavouriani l'ebbero vinta del tutto.

I capi delle due fazioni tenevano adunanze segrete, ora separatamente, ora insieme; i capi dei nazionali in casa di Giuseppe Dolfi, i capi degli aristocratici in casa di Bettino Ricasoli e del BonCompagni, il quale con grande cura li andava lisciando e piaggiando, stante il credito che ai più di loro veniva dalla nobiltà delle famiglie, dalle possedute ricchezze, dalle aderenze molteplici. Tutti poi di tanto in tanto convenivano presso il BonCompagni, in una stanza appartata dei palazzo della Legazione sarda, al fioco lume d'una lucerna che gettava i languidi raggi sopra una bandiera tricolore, ivi posta a segnacolo di comuni speranze. Di ritorno a Torino da Plombières, Cavour faceva venire a sé il Salvagnoli per dargli l'imbeccata, che avesse ad apparecchiare uno scritto propugnante la necessità per l'Italia e per l'Europa di por fine al dominio austriaco nella Penisola, e di assicurarne l'emancipazione mediante l'alleanza francese, da dirsi solo modo di conseguirla, mettendo in vista come la Francia se ne sarebbe avvantaggiata e come l'Europa non avesse motivo alcuno d'inquietarsene (1). Da Torino passò a Parigi, di dove, già fatto

(1) Lo scritto, promesso dal Salvagnoli, non dava fuori, almeno colla prestezza che avrebbe voluto Cavour; sì che questi, per ispingere e forse compromettere l'amico, gli mandava in anticipazione la croce di cavaliere de' soliti Santi Maurizio e Lazzaro. Uscì in luce in Firenze il 21 febbraio 1859, sotto il titolo:

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 33

consapevole, dai frequenti colloquii con Cavour e Napoleone III., dell'alleanza pattuita fra la Francia e il Piemonte, e della guerra che in breve dovea rompersi, corse a Londra ad accertarsi degli intendimenti di Palmerston, Russell, Gladstone (1), il cui avvento agli affari gli era stato assicurato prossimo e convenuto pel momento opportuno. Reduce a Firenze, sul cadere del 1858, era così il Salvagnoli il primo ad arrecare a' compagni notizie certissime e circostanziate di quanto andavasi maturando.

Il segnale venne, come dovea venire, da Parigi, il primo giorno del 1859. BonCompagni, chiamatovi affrettatamente da Cavour, tornava a Torino, già fino dai primi dì del gennaio, con segrete istruzioni, annunziando agli amici in Toscana un fatto grave, gravissimo, prossimo ad avvenire in Italia; e annunziandolo con parole tanto significative da destare sospetto ne' diplomatici stranieri accreditati presso il Granduca, che ne scrissero come di cosa misteriosa alle lor Corti. 11 piano per levarsi dai piedi Casa di Lorena da tempo aveano stabilito in Torino. Ben presto gli avvenimenti avrebbero sospinto Leopoldo II. ad un crocicchio, donde, voglia o non voglia, sarebbe poi stato costretto di muoversi per una o per l'altra delle tre vie che vi metteano capo: o l'alleanza coll'Austria, o l'alleanza co' Franco-sardi, o la neutralità, dichiarata o no. Se si stringeva all'Austria, avrebbero avuto buon giuoco, e in mano un pretesto acconcio a fare apparire bastevolmente giustificate ogni fatta ostilità verso di lui. Se si gettala in braccio a Sardegna e Francia, più tardi un non nonnulla, fatto sorgere dagli eventi, avrebbe potuto essere sufficiente per isbalzarlo dal trono, allorquando, guardata la Toscana dalle loro armi, allontanate dal Granducato le truppe del paese, tutto

Discorso sull'Indipendenza d'Italia; e parve tale che il Ministro Landucci opiné dover essere imprigionato il Salvagnoli. Il Consiglio di Prefettura di Firenze fu di contrario parere, e non ne fa nulla.

(1) Da lunghi anni era legato di amicizia con tutti e tre, carteggiava spesso con loro, e li forniva regolarmente d'informazioni a suo modo sulle cose italiane, di Toscana in particolare. Durante la dimora di alcuni mesi in Toscana di lord Russell, verso la fine del 1856, fu il Salvagnoli il più costante consigliere e l'autorità in affari italiani da esso la più rispettata ed ammessa; «del che lord Russell medesimo sino da quel tempo davasi vanto verso chiunque si faceva ad ascoltarlo» (Normanby; Difesa del Duca di Modena, trad. ital., pag. 2).

34 CAPITOLO DECIMOSESTO.

fossevi messo alla mercé de' nuovi amici. Se infine ei si appiglia va al rimanersi neutrale, avuta cura di non riconoscerla comunque fosse, avrebber detta codesta sua neutralità una finzione, utile all'Austria, dannosa agli alleati, e Leopoldo II. avverso alla causa, proclamata santa, dell'indipendenza italiana, infeudato all'Austria, schiavo dell'Austria, scherano dell'Austria, per poi, a momento opportuno, vilipeso e schernito, capovolgerlo. Che il Granduca si decidesse a senso del Trattato d'alleanza coll'Austria, del 12 giugno 1815, non parea loro verosimile; che ciecamente si desse in balia a Sardegna, ancor meno. Non restava pertanto che la neutralità; ed a questa probabilità informarono le orditure.

Bisognava adunque, prima di tutto, rendere per effetto delle orditure medesime impossibile la neutralità; quella neutralità perfetta che il buon senso s'accorda ad approvare come il buon diritto, consistente nell'astenersi da qualsivoglia partecipazione diretta o indiretta ad ostilità contro l'una o l'altra delle parti belligeranti, nel rinchiudersi in un'attitudine puramente passiva e di aspettazione, nel rimettersi alla lealtà degli avversarii, nel rifugiarsi più strettamente sotto la protezione delle Potenze garanti. Si doveva porre il Granduca nella necessità di dichiarare a quale partito determinasse appigliarsi; e allorché detto ei si fosse chiaramente neutrale, cominciare a intuonare: abbandonasse il pensiero della neutralità, alzasse la bandiera tricolore, voltasse le spalle all'Austria, si unisse, in pace ed in guerra, a Sardegna e Francia, che dalla lealtà dell'una nulla aveva a temere, dalla lealtà dell'altra tutto ad attendersi; con che acquietata ogni cosa, il paese avrebbe assentito che gli stessi Ministri rimanessero a' loro posti. Quanto più appressasse il momento, tanto maggiormente avevano ad instare, pressare senza dare respiro, spesseggiare gli assalti, più e più svelati e solenni, si che le preghiere al principe avessero a vestire da ultimo le sembianze di schiette intimazioni. 0 Leopoldo II. cedeva, e poco appresso sarebbe stato perduto; o resisteva, e allora verrebbero addirittura ad una sollevazione, a rovesciare il governo, a cacciare la dinastia regnante. Ma una sollevazione, nonostante che dovesse, come volevano, pigliare apparenza di una composta e solenne protesta popolare, non avrebbe potuto dar fuori senza il concorso delle truppe, od almeno di quelle stanziate a presidio di Firenze.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 35

Stavano le soldatesche toscane agli ordini del tenentegenerale Federico Ferrari Da Grado (1), uomo lealissimo, severo, inflessibile, malauguratamente senza influenza sullo spirito de' soldati, senza verun ascendente di legami dJ affetto. Negli ultimi tempi ei non vedea che pegli occhi di un capitano Giambattista Masini e di un Diego Angioletti (), che si aveva presi, l'uno in qualità di Segretario nel Ministero della Guerra, l'altro di Aiutante. Guadagnati questi due; compri alcuni capi di corpo, come il Danzini ed il Cappellini (3); corrotti, precipuamente per opera di codesti, parecchi ufficiali ed un certo numero di sottoufficiali; i settarii del Comitato centrale facevano infatti grandissimo assegnamento sulle truppe, nelle cui fila era riescito ad insinuarsi qualche antico volontario del 1848. Nullameno, travagliato pure com'era l'esercito toscano, ben sapendosi che col più gran numero degli ufficiali la grandissima maggioranza de' soldati n'era sempre troppo affezionata a' suoi principi per potere sperare d'impiegarla ad abbattere la dinastia, si doveva limitarsi a domandare solamente che richiedessero la bandiera tricolore e l'ordine di unirsi a' Sardi, se la guerra fosse venuta a scoppiare. Gli uffiziali che fossero rimasti fedeli, o sarebbero poi trascinati dagli altri, o avrebbero dovuto cedere a' popolari concitamenti. Gli ufficiali superiori sulla cui incrollabile fedeltà non poteva nudrirsì il più lieve dubbio,

(1) Tenne, intorno a sette anni addietro a servigio del Granduca per dar nuova organizzazione all'esercito, messo su di un piede che, almeno dallato del benessere, non aveva nulla da invidiare a verun'altra milizia. Di modi piuttosto ruvidi, poco a poco una sua debolezza, forse originata da abusi reali, era divenuta costante abitudine. L'Auditorato militare, chiamato a giudicare de' reati de' soldati, dava sentenza secondo le leggi e la sua coscienza. Il Ferrari, di suo capo, cassava, riformava i giudizii dell'Auditorato, ed ordinando pene inflitte da sé, finiva con disgustare tutti, alti e bassi.

(2)

Oggidì, in benemerenza, Ministro della marina del Regno d'Italia, quantunque senza la benché minima conoscenza di cose di mare.

(3)

II Maggiore Alessandro Danzini comandava lartiglieria ed il Maggiore Cappellini la cavalleria stanziate a Firenze, notissimi entrambi per i debiti contratti pelle bische e pelle cortigiane. «A costoro furono pagate molte cambiali in iscadenza, e si giunge a indicarne fino la somma, cioè lire quarantaduemila al Cappellini e trentacinquemila al Danzini.» E perché le firme di essi non avean credito nemmeno presso gli strozrini, furono saldate da un marchese, che non vogliamo nominare, col ribasso del quaranta per cento. Egli poi si fece rimborsare dell'intero dai capi della congiura.» (Casi della Toscana, pag. 34. Firenze, 1864).

36 CAPITOLO DECIMOSESTO.

come il generale Ferrari, il colonnello De Baillou, che comandava l'infanteria stanziata a Firenze, il colonnello Ripper, comandante a Livorno, ed altri, sarebbero astretti a dimettersi. Oro, moine e corte bandita avrebbero tratto nell'inganno i soldati. «In riserva doveano essere le armi e le munizioni per ispingere la rivoluzione agli estremi, qualora una parte della milizia avesse opposta la forza (1);» armi e munizioni che il BonCompagni aveva nascosamente accolte e distribuite in più luoghi, dopo che, forse colla connivenza degl'impiegati delle Poste, passavano in Firenze sotto il titolo di equipaggi della Legazione di Sardegna.

Così predisposto, BonCompagni, reduce appena in Firenze, cominciava ad ismascherare le batterie, facendo fare un primo passo per insinuare al Baldasseroni, venuto fra i Ministri del Granduca in fama di liberale (2), che nel caso probabile di non lontana guerra, il Governo toscano poteva interamente affidarsi a Sardegna, siccome a quella, che, affermavasi, aveva interesse di

(1)

Ermolao Rubieri; Storia intima della Toscana, pag. 65. - È il Rubieri del Comitato centrale che parla!

(2)

«Tal ufficio», afferma lo Zobi (Cronaca degli avvenimenti d'Italia del 1859, Vol. 1., pag. 103), «venne praticato col cavalier Baldasseroni,» perché a preferenza degli altri Ministri sapeva orpellarsi a segno da assumere talora linguaggio e sembianze liberalesche, per piacere a quelli che non si curano d'indagare gli animi nei loro più reconditi penetrali.» Quanto più egli ambiva di conservare il portafoglio, faceva correr voce di volersi ritirare alla vita privata, se il Principe non avesse aderito all'alleanza franco-sabauda che gli veniva proposta.» Poco appresso, lo stesso Zobi (Memorie economico-politiche sulla Toscana, Vol. 1., pag. 302)chiama furberia grossolana questo procedere del Ministro. Il Rubieri delComitato centrale fiorentino (Storia intima della Toscana, pag. 7072), giunse a dire, «che tenesse il piede in due staffe», e che sarebbesi acconciato a far causa comune coi liberali per mantenere il portafoglio. Che il Baldasseroni, quello fra i Ministri che più era in auge presso il Granduca, fosse circuito e piaggiato, è certo; uomo di vario ingegno, sempre incerto tra il governo assoluto e le libertà politiche, tra le leggi ecclesiastiche e le leggi leopoldine, forse in parte lusingato dalle lodi, sicuramente finte, che a bella posta gli prodigavano. Ma in un tempo in cui si avea avuto ogni agio a distinguere i traditori da' leali, chi poteva, meglio forse di chicchessia, dare ad ognuno il suo, disse schiettamente (Casi della Toscana, pag. 15): «Il Ministro può avere sbagliato; la rettitudine e la onestà dell'animo di lui non possono mettersi in dubbio. Amministrò egli per molti anni il patrimonio della Toscana; e non solo ne uscì netto, ma neppure fu concepito un dubbio che lo aggravasse.»

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 37

sostenere sul trono la dinastia di Lorena (1). Poco appresso, lo stesso BonCompagni tentava direttamente il Lenzoni, Ministro alle cose esteriori, scaltramente usufruttando della discordia, male vecchio del Governo toscano, che, entrata negli animi di coloro che avevano in mano la somma della pubblica cosa, era cagione che la Toscana titubasse senza appigliarsi a verun partito; discordia resa più che mai manifesta quando in que' giorni medesimi venne dato alle stampe in Firenze un libercolo sotto il titolo Toscana ed Austria, sottoscritto da Cosimo Ridolfi, Bettino Ricasoli, Corsi, Cempini e Celestino Bianchi, vero autore di esso. Che di quello scritto, dichiarazione aperta di guerra alla Casa di Lorena, formale atto di accusa contro Leopoldo II., zeppo d'insulti plebei all'indirizzo dell'Austria e propugnante l'alleanza colla Sardegna, avendo il Ministro dell'Interno ordinato il sequestro ed il divieto di diffusione, BonCompagni corse a lagnarsi presso altri del Governo granducale per l'insulto e pe' danni arrenati al Barbèra, suddito piemontese, stampatore di quell'opuscolo incensurabile, ed ottenne non solo che fosse revocata in dubbio la facoltà del sequestro, ma ancora che lo scritto fosse licenziato al pubblico; con che un librettuccio, per tal guisa elevato a pubblico manifesto di rivolta, senz'altro merito da quello in fuori che gli veniva dalla circostanza (2), raddoppiava di credito, ed era fatto valere a pretesto di sottoscrizioni adesive, ottenute cogli stessi mezzi con cui avean messe su, dopo il Congresso di Parigi, le sottoscrizioni agl'Indirizzi a Cavour ed ai cento cannoni di Alessandria. E intanto, stendendosi dall'alto, l'incertezza e l'esitazione penetravano, miasma funesto, ne' pubblici uffizii, insensibilmente dissolvendo il vigore dell'ordinamento governativo.

Già dal marzo Cavour aveva fatto diramare ai Comitati della Società Nazionale generali istruzioni segrete sul modo con cui a momento opportuno dovevano contenersi rispetto all'insorgere, alle truppe che si avessero potuto sedurre, ai Commissarii provvisorii da instituirsi

(1)

Lo Zobi dichiarò poi (Cronaca del 1859, Vol. I., pag. 103), che tutto questo, «sin dal gennaio, alcuni ragguardevoli cittadini, d'intelligenza col» BonCompagni, tentarono d'insinuare al primo Ministro del Granduca.»

(2)

Lo stesso Rubieri (Storia intima della Toscana, pag. 17) dice che «questo libro acquistò allora una importanza certamente sproporzionata alla grettezza e sterilità dei principii da esso rappresentati.»

38 CAPITOLO DECIMOSESTO.

per nome di Re Vittorio Emanuele, ai reclutamenti, e simili provvidenze in caso di riescita (1) Di ritorno il Ridolfi da Torino, ove si era recato, col Corsi e col Carrega,

(1) Ecco il testo del documento.

SOCIETÀ NAZIONALE ITALIANA

Indipendenza. Unione.

Istruzioni segrete.

La presidenza crede di suo dovere, nello stato attuale delle cose in Italia, di comunicare le istruzioni segrete seguenti:

1.

Appena cominciate le ostilità tra il Piemonte e l'Austria, voi insorgerete al grido di: Viva l'Italia! Viva Vittorio Bmanuele! Fuori gli Austriaci!

2.

Se l'insurrezione è impossibile nella vostra città, i giovani in istato di portare le armi ne usciranno foori, e si raduneranno nella città più vicina in cui l'insurrezione sia già riuscita, o almeno si abbiano speranze che riesca. Fra le città vicine voi sceglierete la più vicina al Piemonte, ove dovranno concentrarsi tutte le forze italiane.

3.

Farete tutti gli sforzi possibili per vincere e disorganizzare l'armata austriaca, intercettando le comunicazioni, rompendo i ponti, bruciando i depositi di vestimenti, di viveri, di foraggi, tenendo in ostaggio i grandi personaggi che sono al servizio del nemico e le loro famiglie.

4.

Non tirerete mai pei primi sui soldati italiani ed ungheresi; ma invece metterete tutto in opera per indurii a seguire le nostre bandiere, e accoglierete come fratelli coloro che si arrenderanno alle vostre esortazioni.

5.

Le truppe regolari, che abbracceranno la causa nazionale, saranno immediatamente inviate in Piemonte.

6.

Dove l'insurrezione avrà trionfato, l'uomo che godrà più la stima e la confidenza del pubblico, assumerà il comando militare e civile col titolo di Commissario provvisorio pel Re Vittorio Emanuele, e lo conserverà fino all'arrivo del Commissario inviato dal Governo piemontese.

7.

Il Commissario provvisorio abolirà le imposte, che potessero esistere sul pane, sul grano, eco., e in generale tutte le tasse che non esistono negli Stati Sardi.

8.

Farà una leva per via di reclutamento dei giovani dai 18 ai 20 anni in ragione di 10 per ogni migliaia di anime, e riceverà come volontarii gli uomini dai 20 ai 35 anni che vorranno prendere le armi per l'indipendenza nazionale; invierà immediatamente in Piemonte i coscritti e i volontarii.

9. Nominerà un Consiglio di guerra per giudicare e punire in ventiquatte'ore tutti gli attentati contro la causa nazionale, e contro la vita o la proprietà dei cittadini pacifici. Non avrà alcun riguardo all'ordine, alla classe; ma nessuno non potrà essere condannato dal Consiglio di guerra per fatti politici anteriori all'insurrezione.

10. Proibirà la fondazione dei Circoli e dei giornali politici; ma pubblicherà un bollettino ufficiale dei fatti che gl'importerà di far conoscere al pubblico.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 39

«onde concertare col conte di Cavour il futuro movimento toscano (1),» parendo ormai certo che il Governo di Toscana si sarebbe attenuto a starsi neutrale, fu data l'ultima mano a' progetti. In ogni città, in ogni castello, in ogni terra del Granducato, agenti operosi, camuffati sotto mille aspetti, inviaronsi a ravvivare il fuoco sacro, ad infervorare gli aderenti, a corrompere gl'incauti, a spaventare i pusillanimi, recando ambasciate e risposte, ordinando e disponendo tutto quanto era da farsi sinché a' caporioni fosse riuscito il colpo a Firenze, e poi. Era già stabilito chi dovesse assumere le redini del Governo quando il Granduca fosse partito, chi dovess'essere Prefetto, chi Segretario, chi Commissario per illuminare la pubblica opinione. A tutti i ferri di bottega si doveva dare qualcosa per averli aiutatori e cooperatori all'impresa. Tutti i vanitosi e gl'inetti s'avessero a lusingare. Non doversi in sulle

11. Dimetterà dalle loro funzioni tutti gl'impiegati e magistrati opposti al nuovo ordine di cose, procedendo in ciò con molto mistero e prudenza, e sempre per via provvisoria.

12.

Manterrà la più severa e inesorabile disciplina nella milizia, applicando a chiunque le disposizioni militari del tempo di guerra. Sarà inesorabile pei disertori, e darà ordini severi a questo riguardo a tutti i subordinati.

13.

Invierà al Re Vittorio Emanuele uno stato preciso delle armi, delle munizioni e dei fondi che si troveranno nelle città o provincie, ed aspetterà i suoi ordini a questo riguardo.

14.

In caso di bisogno farà delle requisizioni di danaro, di cavalli, di carri, di navigli, eco., lasciandone sempre la ricevuta corrispondenti ma punirà colle pene più forti chiunque tenterà di fare simili requisizioni senza necessità evidente e senza un espresso contratto.

15.

Fino a che non si verifichi il caso previsto nel primo articolo di questa istruzione, voi farete uso di tutti i mezzi che sono in vostro potere per manifestare l'avversione che prova l'Italia contro la dominazione austriaca e i governi infeudati all'Austria, nello stesso tempo che il suo amore all'indipendenza, e la sua fiducia nella Casa di Savoia e il Governo piemontese; ma farete quanto è in voi per evitare conflitti e movimenti intempestivi e isolati.

Torino, 1. marzo 1859.

Pel presidente: Il vicepresidente Garibaldi.

Il segretario La Farina.

(1) È con queste precise parole che Alessandro Carrega, cavaliere e priore, in un suo opuscolo avente a titolo La Esposizione toscana (Firenze, 1862; pag. 2), narrando della sua gita a Torino nel febbraio 1859, insieme a Ridolfi ed a Tommaso Corsi, ne rivela senza reticenze lo scopo.

40 CAPITOLO DECIMOSESTO.

prime fare scandali, né torcere un capello a nessuno, e molto meno sparger sangue che dal sangue pullulano gli odii e dagli odii le discordie e le civili perturbazioni. I pubblici impiegati che non si potessero corrompere, o, come chiamavanli, incaparbiti dei Lorenese, si avessero a casti gare col bastone della bambagia. Doversi mettere in discredito la gente onesta, calunniarla nei Giornali, spaventarla per toglierla di scena (1). Mentre che, come nel 1848, donne, specialmente patrizie, note alcune per isfrontata libidine, altre che il pudore consideravano al più come un precetto del Galateo, posta giù ogni vergogna, i vezzi ed artifizii del sesso usavano a procacciare fautori alla causa dei mestatori.

Leopoldo II. dichiaratosi schiettamente per la neutralità, proclamata costituzione fondamentale della Toscana sino dal tempo di Leopoldo L, non restava a sommovitori che dare séguito a quella parte del loro programma tracciata in previsione di codesta eventualità, la più probabile anche perché la Toscana con poche milizie, di fresco ordinate, del tutto impreparate alla guerra (), non poteva essere di alcun momento nelle sorti delle battaglie. Impertanto BonCompagni spingeva Lajatico ad indirizzare, il dì 18 marzo, al Baldasseroni una lettera, resa pubblica (3), in cui richiedevasi esplicita accettazione della politica franco-sarda. Poi, verso la fine del marzo, il medesimo BonCompagni ripeteva presso il Baldasseroni il tentativo già fatto direttamente presso il Ministro Lenzoni.

(1) Casi della Toscana, pag. 22.

(2)

Sino al 27 aprile 1859 Salvagnoli e compagni accusavano il Granduca di voler tenere, nella guerra imminente, inoperose le truppe pronte ad entrare in campo spinto nell'esilio il Granduca, ecco Salvagnoli e i consorti del Ministero dichiarare (Rapporto letto dal Salvagnoli, e firmato da tutti i Ministri, all'apertura della Consulta, il 6 luglio 1859): «Allora la Toscana, non contando i Cacciatori di Costa e di Frontiera, aveva 7000 soldati; ma i Bersaglieri mancavano di carabine, non v'erano carriaggi, né la provianda, né quant'altro occorre ad un esercito per uscire dalle parate e andare a combattere.» E tutti, e sempre cosi. Sinché cospiravano, tutto parea lecito di affermare per vero; riescita a bene la cospirazione, gli stessi nomini proclameranno falsissimo quanto sino allora aveano sacramentato verissimo.

(3)

Zobi; Cronaca d'Italia nel 1859, Vol. 1., pag. 149-153.

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CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

Colpo di mano a Firenze,

Chiacchiere di Cavour al marchese Provenzali. - Sovrano e Ministro, ventisette anni prima. - Una guarentigia en tout état de cause. - Filippo Curletti in Firenze. - II tenente Guarnieri. - BonCompagni nel giorno di Pasqua. - Vincenzo Malenchini. - La sera del 26 aprile. - Effetti di cinque Francescani. - Tutto a macca - II primo mattino del dì 27 - Cosimo Ridolfi, prima d'ogni altro, scrive a Leopoldo IL che deponga la corona, - Don Neri portatore d'imbasciate. - II Granduca rifiuta abdicare. - Gli aristocratici corbellati. - Inganno e prepotenza. - L'Arciduca Carlo nel Forte di Belvedere. - La processione degli schiamazzatori ed il marchese De Ferrière-LeVaver. - Casa di Lorena prende la via dell'esilio, - Il Governo provvisorio, ordinato dal BonCompagni, viene In scena. -Il generale Ulloa ed i suoi nuovi soldati. - Attitudine del presidio di Livorno. - Gesta de' Triumviri. - BonCompagni sovrano della Toscana. - Usurpazione dei territorii estensi di Massa e Carrara, tosto aggregati definitivamente al Piemonte.

P

iù s'avvicinava il giorno in cui sarebbe dato fuoco alle mine, più stava a cuore a coloro, che avrebbero fatta avvicinare la miccia, di deviare l'attenzione delle vittime da chi aveva provveduto che si apprestassero le polveri. A tale effetto lo stesso Cavour si faceva a ridire PII aprile al Ministro di Toscana in Torino le profferte che avea già fatte fare in Firenze dal BonCompagni (1). Dichiaratosi ufficialmente neutrale il Governo toscano,

(1) Dispaccio riservato del marchese Provenzali, Ministro toscano presso la Corte di Sardegna, al cavaliere Lenzoni, Ministro degli affari esteri a Firenze.

«Torino, 12 aprile 1859.

» Ieri, terminata la conversazione relativa agl'imbarchi clandestini nel porto di Livorno, il conte di Cavour ha preso motivo dagli avvenimenti gravissimi che si preparano, a rimuovere i quali crede ormai impotenti gli sforzi della diplomazia, per domandarmi se mi fossero palesi le intenzioni del mio Governo in caso che scoppiasse la guerra, e mi ha espresso il vivo desiderio del Gabinetto di Sua Maestà Sarda di stringere migliori rapporti con quello di S. A. I. R. il Granduca, nostro augusto Signore, nell'interesse comune dei due Stati. Sopra di che ho risposto non essere in grado di dare spiegazione, e mi sono limitato a dire che la

42 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

invano questi insisteva a domandare in Parigi che codesta sua neutralità, già accettata dall'Austria, fosse del pari riconosciuta da Francia e Sardegna. Per fermo, non tanto avrebbesi potuto richiedere da chi già aveva fissato l'insediare un principe francese a Firenze, Poi, una volta che la rivoluzione si fosse resa signora del paese,

» politica del mio Governo fu in ogni tempo neutrale per massima, e diretta a mantenere buoni rapporti con tutte le Potenze estere che non gli davano motivo in contrario. Il conte di Cavour ha aggiunto che aperture nel senso sopraindicato erano già state fette dal cavaliere BonCompagni, e che non erano state categoricamente respinte da cotesto Ministero.

» La situazione, ha detto, facendosi ad ogni istante più grave, e gli avvenimenti da cui possono dipendere le sorti d'Italia essendo alla vigilia di compiersi, sembrargli quasi inevitabile che il Governo granducale sia tosto o tardi costretto dalla forza stessa delle cose a sortire da quella posizione di prudente riserva di neutralità, in che ha potuto mantenersi sinora, per adottare quella linea di condotta che stimerà più giusta e più vantaggiosa per il Granducato. Il conte di Cavour è persuaso che le gran di Potenze chiamate a far parte del Congresso, ad eccezione dell'Austria, tutte sono d'accordo sulla convenienza di moderare l'influenza austriaca in Italia. Il Governo sardo, forte del consenso materiale delle armi francesi, già pronte a marciare in aiuto del Piemonte, conta pure sull'appoggio morale, così crede il copte di Cavour, di quelle Potenze che hanno adottato il principio della limitazione dell'influenza austriaca in Italia, e» massime della Russia e della Prussia. In quanto all'Inghilterra, sebbene non abbia troppi motivi di lodarsene, assicura il Cavour che il suo Memorandum ha incontrato la piena approvazione del Governo di Londra, e lord Malmesbury lo ha assicurato che sino al Po la politica inglese era d'accordo con quella dell'attuale Ministero Sardo.

Sottoscritto;» Provenzali,»

Il più bello si è che Nicomede Bianchi (Il conte di Cavour, pag. 70), dopo avere trovate tra le carte del defunto suo protagonista infinite testimonianze delle trame da lui predisposte, dirette e pagate per isbalzare il Granduca di Toscana, pur volendo provarsi d'ingoffare gli allocchi, «petche s'abbiano a tenere al tutto menzognere le imputazioni fette al conte di Cavour di essere stato artefice d'indegni maneggi per ammanire un precipizio al trono di Leopoldo II.,» adduce ad unica prova della sua asserzione questo medesimo dispaccio del Provenzali, quasiché nella matta gioia del successo non avessero essi medesimi propalato in piazza ogni più riposto secreto delle proprie vergogne; quasiché oggidì non vi avesse sì larga copia di documenti attestanti che l'offerta di alleanza era un tranello per poi aggiungere, a momento opportuno, al danno la beffe. Ed è così che si pretende abbia ad essere scritta la storia?

COLPO DI MANO A FIRENZE. 43

la Toscana doveva servire di passaggio opportuno alle armi francesi per minacciare Bologna e Legazioni, donde gli Austriaci, se non volevano restar tagliati tori, sarebbero stati alla fine costretti di ritirarsi e lasciare campo libero alle rivolte contro il legittimo Sovrano, da gran tempo ordinate e per quel di predisposte. Così, onde valersi a suo tempo della Toscana ad abbattere la neutralità degli Stati pontificii, che nel frattempo sarebbesi non ostante solennissimamente riconosciuta, facea mestieri tenere la Toscana medesima in sospeso sulla sua propria neutralità, e rispondendo in modo ambiguo ed incerto, acquistar tempo finché fosse dato agio alla rivoluzione di scoppiare, senza che il Governo francese si fosse legato a nulla. Il perché comandava Napoleone III. al suo Ministro pegli Esteri di volteggiare destramente, nel tempo stesso che più che mai parea bello di aversi a protestare interessatissimi alle sorti avvenire della Casa di Lorena.

Nel vero, entrambi, sovrano e Ministro, avevano larghissimo debito di riconoscenza verso quel Leopoldo IL, ne' cui Stati aveano potuto a lungo impunemente tramare. Regnava Leopoldo II quando, era il 1831, «in una modesta casa dell'oscuro borgo dei Greci, dietro la chiesa di San Fiorenzo, introduceasi un cospiratore, non punto toscano, abbenchò la Toscana gli servisse e innanzi e poi per lunghi anni d'asilo. Egli andava a togliere il fratello dalle braccia di un'amabile consorte. Il cospiratore chiamavasi Luigi Bonaparte; l'altro, Napoleone: ambidue corsero nelle insorte Romagne, l'uno per restarvi ucciso da morbo repentino, l'altro per ritornarne fuggiasco (1).» Regnava Leopoldo II. quando «nella tranquilla Toscana alcuni giovani, fra' quali un Mandolfi e Fermo, figlio di un ricco banchiere ebreo, vagheggiarono l'idea di adoprarsi per unire l'Italia in un governo costituzionale, del quale fosse capo il Walewski, figlio di Napoleone I. Incominciarono per tale effetto dallo spargere diffusamente nella vigilia del protettore S. Giovanni Battista una proclamazione, in cui, rammentata la libertà, l'indipendenza e la prosperità dell'antica repubblica fiorentina,

(1) «Lo scrittore di questi cenni, presente al fitto, lo ha ancora vìvissimo dinanzi agli occhi.» - Demo; Biografia di Leopoldo IL, pag. 45 (1861).

44 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

» di cui S. Giovanni Battista era patrono, declamarono contro l'attuale avvilimento. Tutti gl'Italiani si ricordassero dell'antica gloria e ripigliassero l'avito coraggio per ricuperare la libertà. Il Governo, disprezzando tali leggerezze, ammonì alcuni di quegli ardenti ed inesperti liberali, scacciò dalla Toscana varii forestieri complici e fautori di quelle idee, e la cosa svanì (1).» Nel 1859 il Luigi Bonaparte di cui parla Demo, testimonio oculare, si chiamava Napoleone III.; il Walewski, di cui scrisse il Coppi, sedeva Ministro degli affari stranieri nei Consigli di Napoleone III. Giunta a Parigi la notizia che l'ultimatum austriaco era stato consegnato a Torino nel 23 aprile, il dì 25, nello stesso giorno in cui le prime schiere francesi varcavano i confini della Savoia, dando il segnale ad aprire le ostilità contro i principi dell'Italia centrale, Napoleone III. ordinava a Walewski di dichiarare al marchese Nerli, Ministro toscano a Parigi: «Toscana rientrare nelle condizioni di quegli Stati che non hanno in animo di prender parte alla guerra, e che si trovano per conseguenza nella categoria di quelli che il diritto pubblico riguarda naturalmente neutri. Essere però del tutto inutile procedere ad un atto che lo constatasse pubblicamente. Ma se il Granduca si mettesse d'accordo colla Francia, l'Imperatore, mosso unicamente da considerazione di stima, di riconoscenza, di affetto per la dinastia di Lorena, s'impegnerebbe a guarentirgli, sotto le condizioni il meno possibile onerose, la corona di Toscana en tout état de cause» (1). Lo stesso giorno, or ora vedremo, in cui il Ministro di Toscana a Parigi

(1)

Coppi; Annali d'Italia, all'anno 1832, § 34.

(2) Dispaccio del marchese Tanay di Nerli al cavaliere Lentoni, Ministro degli affari esteri a Firenze.

«Parigi, 26 aprile 1850.

» Nella giornata di ieri ebbi due lunghissime conferenze con Walewski sull'affare della neutralità. Nella prima gli esposi quanto Ella mi mandò col telegramma di domenica, e nella seconda egli mi notificò le determinazioni prese dall'Imperatore, al quale quel Ministro aveva reso conto con ogni dettaglio dei nostri parlari e dei risultamene degli studii fatti nel di lui Ministero sulla questione della nostra neutralità e sul desiderio espresso che fosse finalmente riconosciuta e guarentita. Popò la dichiarazione fatta da noi all'Austria intorno all'impossibilità di eseguire il Trattato del 1815, qui si opina che la Toscana rientra nelle condizioni di quegli Stati che non hanno in animo di prendere parte alla guerra, e

COLPO DI MANO A FIRENZE. 45

comunicava al suo Governo le generose manifestazioni del Bonaparte, a Firenze la rivolta alzava il capo. Dopo che coteste considerazioni di stima, di riconoscenza, di affetto, non avevano potuto impedire che a Plombières la corona di Toscana fosse decretata ad un altro, si poteva ben parlare di guarentigie en tout état de cause nel momento medesimo in cui era a credere che già la ribellione avesse sbalzata quella corona dal capo di Leopoldo II.

In questo mentre gli eventi aveano precipitato. Reso certo il Gabinetto di Torino, il 17 aprile (1), che la guerra stava affatto affatto sul rompersi per l'intimazione dell'Austria, «la propaganda segreta del Piemonte nella Toscana e nelle Romagne cominciava a produrre i suoi frutti», scrive (2) quel Filippo Curletti, che, dopo di essere stato per trenta mesi il più fidato, intelligente ed operoso agente secreto del conte di Cavour, campava colla fuga dal capestro. «Tutto era pronto per la rivolta; i Comitati che in questi due paesi si affaticavano a sedurre gli spiriti sotto la direzione del conte di Cavour, chiedevano al Ministro il segnale per agire e qualche uomo sicuro per operare il movimento.» Fui incaricato di questa missione ed inviato incontanente a Firenze per mettermi agli ordini del BonCompagni con ottanta

» che si trovano per conseguenza nella categoria di quelli che il diritto pubblico riguarda naturalmente neutri. 11 perché sarebbe del tutto inutile, secondo il Governo francese, procedere ad un atto che la constatasse pubblicamente, e per lo notizie che si hanno poi cagionerebbe senza fallo in Toscana manifestazioni diametralmente contrarie allo scopo preso di mira dal Governo.

» In questo gravissimo stato di cose, Walewski, che desiderava ardentemente il nostro bene, e che ha per la famiglia granducale la più viva affezione, mi fece confidenzialmente sentire che nelle presenti congiunture due sono le vie aperte per noi. Lo statu quo, neutralità dichiarata o no, o l'accordo colla Francia. Nel primo caso non si mette più in dubbia che trattandosi di guerra nazionale, il Governo nostro sarebbe per la meno debordi; nel secondo, l'Imperatore, mosso unicamente da considerazione di stima, di riconoscenza, di affetto, per la nostra dinastia, s'impegnerebbe a guarentirle, sotto le condizioni il meno possibile onerose,» la corona di Toscana en tout état de caute.»

(1)

Vedi: Vol. 1., Le caute, pag. 299.

(2) La verità sugli uomini e sulle cose del Segno d'Italia. Rivelazioni§ III. (Brusselles, 1861).

46 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

» carabinieri travestiti. Il piano del movimento fu stabilito in un abboccamento ch'io ebbi con esso BonCompagni, ed al quale assistevano Ricasoli, Ridolfi, Salvagnoli e Bianchi. I miei uomini dovevano spargersi a gruppi negli estremi quartieri della città; a dieci ore cominciare a formare degli assembramenti, gridando: Viva l'indipendenza. Unione al Piemonte, e dirigersi con un movimento di concentrazione verso il palazzo Pitti (1). Appena sbrigliato il popolo, noi dovevamo correre alle pubbliche casse ed impadronircene. Ricasoli s'incaricava di far occupare dalle sue genti i Ministeri, le Poste ed il palazzo del Granduca.»

Fatta correre voce per Firenze, il 21 aprile, Giovedì santo, che già fossero incominciate le ostilità sul Ticino, il dì successivo un Tenente d'Artiglieria, Armando Guarnieri, recatosi ad accompagnare alla Stazione della ferrovia Leopolda un amico che con alcuni altri andava ad arrotarsi in Piemonte, accomiatandosi, eglino scambiavano le grida: Viva l'Italia e Vittorio Emanuele! Il Guarnieri fu messo in arresto; ma poco appresso i suoi soldati, fatti istigare dal Maggiore Danzini, furono spinti ad ammutinarsi e lo vollero libero. Fra le altre loro dimostrazioni, avevano preso a bastonare un ritratto di Leopoldo IL; pel quale fatto, avvenuto il Sabato 23 nella caserma centrale, si tenevano sicuri d'esservi consegnati alla domane, mentre il Danzini seppe fare per guisa che gli ufficiali non se ne dettero nemmeno per intesi.

Consegnato in Torino l'ultimatum austriaco nella sera del 23, a tutta notte i fili telegrafici portavano al BonCompagni l'ordine di Cavour di presentare senza indugio la Nota, da buon tempo apprestata, con cui il Gabinetto di Torino domandava alteramente al Governo granducale alleanza offensiva e difensiva (). Il di appresso, 24, giorno di Pasqua, BonCompagni, preparati i suoi ad ogni evento, recasi a rimetterla in mano del Ministro Lenzoni, che si affretta rispondere: sarebbe presa in considerazione. Era il tranello da lunga pezza apprestato. 0 Leopoldo II. rifiutava, e BonCompagni, il Comitato Nazionale, tutti insieme avrebbero

(1)

Ognnn sa che il palazzo de' Pitti in Firenze era la residenza del Granduca. Questa parte del programma fu modificata nella sera del 26, e stabilito che a luogo di concentrazione avesse a servire la piazza di Barbano.

(2)

Riportata dallo Zobi, Cronaca d'Italia nel 1859, Vol. I., pag. 393-396.


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COLPO DI VANO A FIRENZE. 47

fatta la bisogna sulla pubblica via. 0 accettava, e in sull'istante avrebbero tratta in campo un'altra pretensione che tenevano in serbo, quella dell'abdicazione di lui e della esaltazione del principe ereditario Ferdinando al trono, non già per conservare la corona al nuovo Granduca, ma solo per insudiciare (1) anche lui e disfarsi all'ultimo della dinastia di Lorena.

Mentre queste cose avvenivano, un uomo, marchiato in volto da una cicatrice profonda alla tempia destra, penetrava furtivo nelle caserme, si mischiava fra i soldati, vagolava per case di ufficiali e ritrovi di militari. Era Vincenzo Malenchini, quegli «che ha strappato davvero,» dissero, «la corona dalla testa dei Lorenesi di Toscana (1)». Malenchini, un dì mazziniano, avvocato, poi capitano di volontarii Livornesi a Curtatone nel 1848, poi emigrato a Parigi, poi a Torino, poi tollerato a Livorno dal più mite e '1 più generoso dei Governi, stava ad Acqui quando un telegramma da Torino lo chiamava presso a Cavour. Era l'uomo che avea sembrato il più acconcio per ispingere la guarnigione di Firenze ad aperta rivolta. E due giorni appresso, Malenchini era a Firenze, ed all'opra (3).

(1) È la precisa parola che usavano BonCompagni, Ridolfi, Ricasoli ed i loro. Il Rubieri del Comitato (Storia intima della Toscana, pag. 86)dice tondo che la esaltazione di Ferdinando IV. al trono era un pretesto, e che contavano sulla inaccettabilità del patto di abdicazione.

(2) Petruccelli della Gattina; I moribondi del palazzo Carignano, pag. 148.

(3) A que' di il presidio di Firenze si componeva d'un battaglione Veliti, truppa scelta; due battaglioni d'Infanteria di linea; un battaglione di bersaglieri; un battaglione di deposito; due batterie d'artiglieria da campo; una compagnia d'artiglieria da piazza. Ai Veliti comandava il Maggiore Mori, all'Infanteria di linea il colonnello de Baillou, alla gendarmeria il tenentecolonnello Michele Sardi. Di tutti meno guasti i gendarmi;guastissimi, per l'influenza del Danzilii, gli artiglieri.

Foglietti erano fatti circolare di nascosto per le mani de' soldati, nei quali, ad ismuoverne la fede, aveano affastellate le più grosse panzane. Il cavaliere de' Santi Maurizio e Lazzaro, Antonio Zobi, tutto affaccendato a denigrare i principi di Lorena e dimostrare l'immacolata purezza di quanti, alti e bassi, ebbero parte ne' fatti di que' giorni, ne stampa egli medesimo, con assai acume, lunghi brani (Cronaca degli avvenimenti d'Italia nel 1859, Vol. I., pag. 131132). In uno di essi leggevasi: «Uffiziali e soldati toscani! Re Vittorio Emanuele ed il valoroso esercito piemontese stanno pronti a scendere sui campi lombardi per combattervi generose

48 CAPITOLO DECIMOSETTIMO,

Sparsa voce che il Governo toscano volgesse ad uscire dalla neutralità per allearsi a' Franco-Sardi (1), apparecchiata ogni cosa, il Comitato, a predisporre gli animi agli eventi stabiliti pel 27, ordinava a' suoi, ed a tutti gli accalappiati del momento, di adunarsi nelle ore pomeridiane del 26 al Parterre, passeggiata popolare fuori di Porta San Gallo, ove sarebbero convenuti soldati a

» battaglie, le battaglie dell'indipendenza e della libertà. Italiani siete anche voi, prodi soldati dell'esercito toscano; e voi aspetta l'esercito italiano su quei campi, dove potete acquistarvi gloria immortale. Una parte degli uomini che governano questo paese, per restare al comando e mantenersi stipendio e potere, cercano vergognosamente tutti i mezzi per vendervi e mescolarvi nei battaglioni austriaci, mandandovi in lontani paesi, da dove non potrete aver più notizie dei vostri genitori, fratelli ed amici. Uffiziali e soldati! Il popolo toscano vuole che voi restiate Italiani, non soldati austriaci. Il popolo toscano senz'arme, con la sola presenza per le piazze e per le vie si adoprerà perché questa vergogna non venga. Fratelli toscani! La grand'ora è vicina; perciò noi vogliamo che voi sappiate quali sono i nostri sentimenti.» E a forza di udirsi ripetere lo stesso suono, goffi soldati finivano con credere che si volesse daddovero mandarli nella estrema Gallizia, mescolati in Reggimenti austriaci di confinarii!

D'altra parte, facevansi porre in giro specie d'indirizzi d'adesione, sottoscritti: I soldati toscani, ne' quali era detto: «Noi pure siamo soldati italiani, e ci crediamo in dovere di combattere fino all'ultimo sangue per l'indipendenza d'Italia. Sì, poiché lo vogliamo, presto saremo al fianco dei nostri fratelli d'armi, i Piemontesi, che tanta gloria acquistarono alla Cernaia sui campi di Crimea. Perciò, Toscani, uniamoci, e preghiamo l'Altissimo affinché benedica le nostre armi nella guerra santa. Fratellanza dunque, come voi diceste, di milizia e di popolo. Neutralità mai! Sia distrutta l'Austria! Viva l'Italia! Viva Vittorio Emanuele, generale in capo dell'armata italiana!»

(1) Nulla fu pretermesso di quanto potesse valere ad impigliare il Granduca su quella via. L'avvocato Vincenzo Landrini era da assai tempo intimo familiare del Ministro Baldasseroni. Spedito il Landrini a propugnare codesta alleanza presso il Ministro, questi non solamente finiva con arrendersi alle sollecitazioni dell'amico, ma riesciva a persuadere il Granduca medesimo ad accordare nella sera del 23 aprile una conferenza allo stesso Landrini a quest'uopo, conferenza in cui Landrini propose a Leopoldo II. persone da interpellare e Ministri da nominare. Il cavaliere Martini, Ministro della pubblica istruzione, già cominciava a calare all'idea di quell'alleanza, pertinacemente avversata dagli altri quattro Ministri, Landucci, Lenzoni, Lami e Lucchesi. Da quel momento tennero dietro attivissime pratiche, guidate da Landrini ed appoggiate da Baldasseroni, ad oggetto di condurre il Granduca a rendersi alla mercé di Napoleone III.

COLPO DI MANO A FIRENZE. 49

celebrare l'affratellanza delle milizie col popolo. Or mentre quell'assembramento, grandemente ingrossato dai molti curiosi, come Buoi sempre avvenire in tali casi, si andava formando, il generale Ferrari, rivestito dell'uniforme del suo grado, recandosi, com'era suo costume, alla visita delle caserme, incontrava per via, verso Porta San Gallo, numeroso attruppamento di basso popolo misto a soldati. Quella frotta s'apriva silenziosa per lasciargli sgombro il passaggio; poi, come vi fosse una tacita intesa, si dava a seguire i suoi passi. Alcuni se gli avvicinano pronunziando minacce di morte, se non si fosse prestamente dipartito di Toscana. Dalla caserma de' gendarmi il generale, sull'imbrunire, esco imperterrito, senza scorta veruna, avviato alla propria abitazione. D'improvviso uno stuolo di monelli gli si appresenta davanti, e come se neppure ei camminasse lor dietro, si muove a precederlo lungo tutta Via Larga, ballandogli festosamente dinanzi, mentre gli altri gli si accalcavano alle spalle, gridando: Viva l'Italia! Abbasso gli Austriaci! Niuno si mosse a cavare il generale da quel bordello, sinché, giunto alla piazza del Duomo, fu lasciato alfine andar solo con Dio.

Mentre in tal modo il Comitato fiorentino dava il ben servito al comandante l'esercito granducale, nella stessa ora in Torino il La Farina recavasi dal napoletano generale Girolamo Ulloa per «apportargli da parte del conte di Cavour l'ordine di prepararsi

Vittorio Emanuele. Tra le quali: la lettera dell'avvocato Leopoldo Galeotti al cavaliere Augusto Duchoquó, del 25 aprile, fotta cadere tosto dal Baldasseroni nelle mani del Granduca; l'udienza accordata lo stesso dì da Leopoldo II. al marchese Lorenzo Ginori ed al cavaliere Giambattista Fossi, presidente della Camera di Commercio di Firenze, in cui questi gli richiesero direttamente a voce l'accettazione dell'alleanza; la seconda lettera di Galeotti al Duchoqué, del 26, fatta anche questa venire in mano del Granduca; ed il colloquio avuto, a mediazione del Landrini, fra Baldasseroni e Ricasoli la sera di quel di 26, dopo il quale quest'ultimo, deliberata già col BonCompagni la rivolta pel giorno appresso, partiva nella notte per Torino a prendervi gli opportuni concerti. Meritano pure speciale ricordanza le premure del Landrini presso Baldasseroni nel 26, «perché almeno spingesse il Granduca ad affidare la direzione degli affari ad una Reggenza fornita di pieni poteri. Il marchese di Lajatico ed il generale De Laugier sembrare a ciò adattatiasimi. Il Landrini medesimo aveva poco prima consigliato il Baldasseroni di riconciliarsi con De Laugier; infetti vi fu un abboccamento fra loro.» (Zobi; Cronaca, pag. 117).Vol. II.

50 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

» a partire per Firenze a fine di prendere il comando supremo» dell'armata toscana (1).» La sera l'Arciduca Ferdinando, portandosi da sua madre, che trovavasi nella villa di Montughi, passò dal Parterre, ed ebbe a trasecolare in vedere quanti soldati incontrava par via, militi e bassi ufficiali, col nastro tricolore all'occhiello. Gli assembrati rientrarono in città a lunghe file con grande schiamazzo. Gozzovigliato alle osterie, i soldati tornano ubbriachi alle caserme, gridando: Viva l'Italia! Viva l'indipendenza!Morte all'Austria! Tutto ciò era dovuto ai cinque Francesconi (2), che agenti del Comitato centrale avevano distribuito ad ogni soldato in quel giorno e nel precedente (3). Tanto a Firenze, quanto a Livorno, i soldati trovavano quel dì alle osterie ed ai caffè, vino, liquori, bibite, cigari, tabacco, tutto pagato dai Comitati locali. Quella sera medesima del 26, BonCompagni, alla conversazione in palazzo Pitti discorrendo con Leopoldo II. in piena dimestichezza, si diffondeva in proteste di amicizia e d'affezione, e si congedava stringendogli vivacemente la roano in sembianza di vera e franca cordialità. Era quello stesso BonCompagi che già avea tutto sì bene ordinato e disposto perché il Granduca non potesse la notte appresso dormir sul suo letto!

All'alba del dì 27 i Ministri erano accorsi presso Leopoldo II., già reso consapevole come sino dalla sera precedente fosse stata predisposta pel mattino di quel giorno una riunione di popolo sulla vasta piazza di Barbano, dirimpetto alla Fortezza di San Giovanni Battista,

(1) La Varenne; Le Congrès des Deux Siciles, pag. 95.

(2) II Francescane di Firenze ha il valore di Lire italiane 5.48.1. Cinque Francesconi corrispondono a Lire italiane 27.40.5.

(3) Questo fatto era già stato rivelato dal Debrauz sino dal 1859. Egliscrive: «N'en déplaise au marquis de Lajatico, la véritable histoire des» événements du 27 avril reste encore à écrire. Elle dira que les svmptó» mes alarmants qui se manifestèrent parmi la garnison de Florence étaient» dus principalement auz cinq Francesconi que des agente du Comité central avaient distribuós la veille et l'avantveille à chaque soldat.» (La Paix de Villafranca et le Conférences de Zurich, pag. 116). Il fatto è certo. Il Rapporto ufficiale che Sir Pietro Campbell Scarlett, Ministro inglese a Firenze, diresse al suo Governo il 7 maggio 1859, dice testualmente, parlando delle manovre adoperate per ammutinare le truppe: «It is well known that for some time before thè 27 of April, thev were supplied with monev.» E la storia vera e compiuta dei fatti di Firenze per verità niuno peranco avea scritta.

COLPO DI MANO A FIRENZE. 51

che i mestatori sapevano sarebbe rimasta inoffensiva. Tatti i Capi di Corpo rapportavano non poter più rispondere delle truppe, se non venisse loro accordato quanto richiedevano: il vessillo tricolore e la promessa che prenderebbero parte alla guerra contro l'Austria. Codeste dichiarazioni ed i fatti della sera precedente indussero il principe a cedere fin dove fosse possibile, ma senza avvilirsi. A nove ore il tenente-colonnello Sardi, comandante la gendarmeria, si presentava a casa il marchese di Lajatico (1), invitandolo in nome del Granduca a recarsi al Palazzo Pitti. Lajatico esce, corre alla Legazione di Sardegna a prender voce da BonCompagni (2), poi, giunto a Pitti, apprende dalla bocca del Baldasseroni che il Granduca accettava di fare piena

(1)

Nelle congreghe tenute alla Legazione di Sardegna le parti erano state previamente assegnate. Se il Granduca avesse ceduto senz'altro, il Ministero, che gli si avrebbe imposto infrattanto, doveva essere composto:del marchese di Lajatico alla presidenza ed agli Esteri; del barone Bottino Ricasoli all'Interno; del marchese Ridolfi all'Istruzione pubblica; dell'avvocato Salvagnoli ai Culti; e provvisoriamente dell'avvocato Corsi al Ministero di Grazia e giustizia, e del Maggiore Malenchini al Ministero della Guerra. A Leopoldo II. essendo già stato detto che il partito liberate toscano desiderava vedere questi uomini al timone dello Stato, egli, buon conoscitore dell'albagia del Ricasoli, avevagli mandato per tempo, nel mattino del 27, l'invito di venire a lui. Uditolo partito per Torino, fece chiamare il Lajatico.

(2)

Fu confessato dallo stesso marchese di Lajatico nella sua Storia di quattro ore (pag. 10). «Ieri mattina,» scriv' egli, «mercoledì 27 aprile, veniva di buon'ora a visitarmi un amico, quando mi si annunzia la visita del colonnello della Gendarmeria. Mi chiamava per ordine del Granduca al Palazzo Pitti. Io mi affrettava di fatto, e mentre precipitosamente mi disponevo ad uscire, pregai l'amico a precedermi alla Legazione sarda, dove in pochi momenti lo raggiunsi. Vi trovai riunite molte persone. Poche parole scambiai col rispettabile ed egregio Ministro BonCompagni, poiché nello incontrarci ambedue ad una voce ci dicemmo l'un l'altro che bisognava almeno tentare. Ciò concordato, partii subito pel Palazzo Pitti, pregando che si chiamassero immediatamente alla Legazione quelle persone che io designai.» Bisognava almeno tentare se, quando pure Leopoldo II. avesse aderito a tutto, per poco ancora potessero in grazia lasciare sul capo di qualcuno della Casa di Lorena quella corona, che si aveva promesso ad un principe forestiero, ed un principe italiano voleva ad un tempo serbata a se medesimo! Lo Zobi, scrivendo da Firenze, rese noto anche il nome dell'amico che precedette Lajatico alla Legazione di Sardegna: era l'avvocato Leopoldo Galeotti (Cronaca, Vol. I., pag. 124).

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adesione al Piemonte ed alla Francia, prometteva, composte le cose, di riattivare la Costituzione, ed incaricava il medesimo Lajatico della formazione d'un nuovo Ministero ().

Lajatico parte, torna alla Legazione sarda, «dove trova ria» niti quelli che aveva indicati e molti altri più ().» Concesso dal Granduca il cambiamento assoluto di Ministero e di politica, compartecipazione all'alleanza francosarda, guerra all'Austria, riattivazione dello Statuto, mentre la bandiera tricolore, già accordata alle truppe, s'inalberava' sui Forti di Firenze, ad ognuno, fuorché a' guidatori di que' moti, doveva parere tutto accomodato. Ma non questo era quanto si volevano coloro cui era ormai suprema necessità sbarazzarsi al più presto della Casa di Lorena. Ed ecco Neri Corsini ripigliare la via per il palazzo de' Pitti. Questa volta il Corsini venne introdotto dinanzi a Leopoldo in persona. Dissegli «che alle offerte da lui fatte si aggiungeva da un partito, col quale oramai bisognava trattare, una gravissima condìzione sine qua non, che supponeva ch'egli già conoscesse (8);» e trasse di tasca il foglio contenente i patti, che infrattanto dalla congrega adunata presso il BonCompagni

(1)

Narra lo Zobi (Cronaca, Vol. L, pag. 124126): «Del medesimo tenore aveva poc' anzi parlato il generale Ferrari ai Maggiori comandanti l'artiglieria e la cavalleria, Danzini e Cappellini. I due Maggiori corsero a dare avviso a' convenuti nel palazzo della Legazione sarda, ed ai soldati posti sotto i loro ordini, di quanto il generale avevali fatti consapevoli ed autorizzati a divulgare. Fu sentimento concorde degli uni e degli altri, che il principe dovesse immediatamente accedere al cambiamento della bandiera, in pegno e garanzia di quanto faceva sperare. Laonde convenne loro tornare a' Pitti per assicurarsi meglio delle sovrane intenzioni. Circa alle ore 10 antimeridiane furono introdotti al cospetto del Granduca e del figlio primogenito, dallo stesso Ferrari. Leopoldo II. stava coi Ministri Baldasseroni e Lenzoni. Interrogato dal Granduca il Baldasseroni intorno a ciò ch'era a farsi, questi rispose: In questo stato di cose la rivoluzione è ornai compiuta; non rimane più nulla da fare. Il sì fu pronunziato. Gli ufficiali si congedarono per consegnare subito le bandiere tricolori a' respettivi Corpi, e quella spedita alla gendarmeria uscì dalla reggia. Fu osservato come il Baldasseroni fosse allora inconseguente al linguaggio tenuto negli ultimi giorni. Dal dì 22 in poi erasi mostrato dolentissimo della renitenza del Granduca all'alleanza franco-sabauda, ed ora ch'egli vi acconsentiva, cercava di frastornarlo.»

(2) Storia di quattro ore, pag. li. (Firenze, 28 aprile 1859).

(3)

N. Corsini; Storta di quattro ore, pag. 1112.

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gli s'imponeva accettasse (1). Erano: «Abdicazione del Granduca Leopoldo IL, e proclamazione di Ferdinando IV. Destituzione del Ministero, del generale Ferrari e degli ufficiali che si sono maggiormente pronunziati contro il sentimento nazionale. Alleanza offensiva e difensiva col Piemonte. Pronta cooperazione alla guerra con tutte le forze dello Stato, e comando supremo delle truppe al generale Ulioa. L'ordinamento delle libertà costituzionali del paese dovrà essere regolato secondo l'ordinamento generale d'Italia.» Dignitosamente calmo, senza esitazione Leopoldo II rispose: «Così grave pretesa esigere riflessione. Esservi impegnato il suo onore; e se gli stava a cuore il bene della Tosca na, gli stava pure a cuore l'onor suo. Vedere essere oramai tracciata la via che doveva seguire.» II marchese di Lajatico fu congedato; la sua missione era finita. Altero della bella parte che aveva sostenuto nella rappresentazione, ei ben poteva rassegnarsi a morire (1).

La richiesta di scendere dal trono non suonava nuova al Granduca; alle ore 9 del mattino di quel giorno medesimo 27 aprile, avea ricevuta lettera in cui per la prima volta se ne faceva espressa domanda, e chi quella lettera aveva scritto era Cosimo Ridolfi (3). Leopoldo II, convocato presso di sé il Corpo diplomatico,

(1

) «Resi ostensibile il foglio che mi era stato dato, e che conteneva in iscritto le condizioni alle quali il partito dominante subordinava per ultima transazione la pacificazione del paese, che i miei amici avevano riconosciute inevitabili, e che io aveva creduto di dovere accettare.» Cosi nella Storia di quattro ore il Coreini.

(2)

Sette mesi dopo moriva d'apoplessia in Londra, il 1.° dicembre 1859. Cosimo Ridolfi, l'altro dei due che nel 27 aprile aveano richiesto direttamente al Granduca la sua abdicazione, mori d'apoplessia, nel marzo 1865 in Firenze.

(3)

Uno de' caratteri peculiarissimi dei recenti rivolgimenti d'Italia siè quella incredibil prestezza e la ancor più incredibile sfacciataggine con cui andarono a gara nel propalare da sé medesimi la parte sostenuta inazioni sino allora tenute al più alto grado abbiette ed infamanti, quantunque or dicano sommamente oneste e onorevoli. Mentre gli uomini spregiudicati presso ogni popolo civile portano già su quelle azioni la sentenza che dettano il cuore e la ragione, la storia indipendente dalle passioni ne terrà certamente memoria col vero lor nome. Che Cosimo Ridolfi, sì largamente beneficato da Leopoldo II, fosse stato primo d'ogni altro a chiedergli, con severo ed aspro linguaggio per giunta, che deponesse la corona, parve allo stesso marchese di Lajatico cosa sì rivoltante, che nella sua Storia di quattro ore stimò pel meglio non farne alcun cenno.

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fra cui imperturbato compariva il BonCompagni, alla domanda s'egli, restando al suo posto, poteva contare sull'appoggio de' Governi amici, tutti i rappresentanti stranieri si rinchiusero nel silenzio delle loro istruzioni. Circondato dal suo Ministero, il Granduca dichiarava: «D'accordo col suo cuore, coerente agli atti dell'intero suo regno, anteporre egli ad ogni altro sentimento quello di principe italiano. Vietarglisi l'esercizio della sovrana autorità con violenze incompatibili colla dignità d'uomo e di principe. Protestando contro la pressione e l'affronto di cui era vittima, essere risoluto di allontanarsi co' suoi, pronto a sacrificare piuttosto la vita, prima di piegarsi ad atti disdicevoli al suo onore. Riservare i diritti suoi, della sua dinastia, e quelli ancora del popolo, contro ogni atto futuro de' sediziosi. Chiedere soltanto di potersene andare colla famiglia sicuro.» Ad alcuno che al principe ereditario Ferdinando susurrava la sua esaltazione al trono, il giovane Arciduca rispose memorande ed onorevolissime parole: Io non salirò al trono passando sul corpo di mio padre.

Ormai la rivoluzione non conosceva più freno. Della fazione aristocratica,

Non che sapergliene grado, Cosimo Ridolfi se l'ebbe a male, ed allo scritto del Corsini mandò dietro per le stampe una Breve Nota alla Storia di quattro ore; in cui, confessatosi depositario un tempo dell'amore del padre e della fiducia del principe, si tenne onorato di proclamare quanto per suo onore Corsini credette dover tacere. «Non avrei presa la penna,» disse, «per scrivere questa breve Nota, se considerazioni motivate dalla stessa delicata riserva usata dal marchese di Lajatico nella sua Storia, non mi avessero determinato a svelare quel che egli ha taciuto, vale a dire il mio nome. Parrebbe, altrimenti facendo, che io non avessi il coraggio della mia opinione e la sicurezza della mia coscienza. Questa dichiarazione mi giustifichi presso coloro che a prima giunta mi credessero mosso da tutt'altro sentimento che dal desiderio di far conoscere il vero.» E qui narra per filo e per segno che fece e che disse, e stampa la lettera al Granduca, e a chi noi sapesse insegna che, «spedita quella lettera, e fatto un giro per la città onde esplorare lo stato delle cose, si ridusse all'Ambasciata sarda, all'integro e lealissimo Ministro sardo BonCompagni chiedendo che non fosse per mancare l'appoggio delle armi del magnanimo Re di Sardegna, onde l'ordine interno non potesse mai per qualunque contingenza turbarai.» E fu proprio lui, il Ridolfi, che al Corsini, tornato alla Legazione sarda coll'adesione del Granduca, disse che ci voleva la garanzia dell'abdicazione.

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che in quelle strette avrehbe dovuto rattenere alquanto la corsa sbrigliata, era avvenuto all'ultimo istante ciò che doveva avvenire: la viltà e l'incapacità si confusero col tradì mento. Altri, come Cosimo Ridolfi, fatto divorzio da qualdivoglia residuo di apparente pudore, serbato a quel modo che la prostituta finge talvolta per artificio di mestiere verecondia sino al momento che più le sembra opportuno, avevano strappato del tutto poco prima la maschera. Altri che volendo condurre il paese a lor guisa, credendo guidare mentr'eran guidati, quando s'avvidero che la corrente li travolgeva ne' gorghi, era troppo tardi per impedire che i più audaci e più destri giungessero a grado loro alla meta. I pochi desiosi d'ordinamenti costituzionali, sinceramente devoti a Casa di Lorena, in buona fede impigliatisi nella pania senza potere o sapere misurare d'un guardo distanza e pericolo, divenuti padroni assoluti del campo gli uomini di Cavour e della sua Società Nazionale, dovevano ora subire la legge dal più forte e dal più astuto, più forte rimpetto a loro, quantunque debolissima minoranza rimpetto alla nazione.

All'annunzio dell'imminente partenza della Corte, propalatasi in un baleno, era poco più di un'ora del pomeriggio, costernazione profonda s'impadroniva di tutte classi della popolazione. BonCompagni e la congrega direttrice temendo che gli abitanti della campagna, i quali avevano sempre venerato Leopoldo II. come un padre, accorressero per impedire si allontanasse, il popolo si riavesse dallo stupore, e le truppe facessero causa comune con essi, deliberavano di porre senza indugio in opra ogni mezzo per affrettarne la partenza ed isolarlo intanto quanto più fosse dato. Popolo e truppe, infatti, erano vittime d'iniquissimo inganno. La riunione in piazza Barbano non mai aveva alzato altre grida da quelle in fuori: Viva la guerra! Viva l'indipendenza d'Italia! Viva Vittorio Emanuele, capitano della Lega italiana! Popolo e truppe gridarono: Viva la guerra! Viva l'indipendenza! quando il Granduca ebbe fatte conoscere al marchese di Lajatico le sue concessioni. Popolo e truppe proruppero in fragorosi applausi allorché Leopoldo II. ebbe data facoltà d'innalzare la bandiera tricolore. Né allora, né poi, non fu mandato un grido, un grido solo, contro il sovrano. Nessuno gridò: Viva l'abdicazione!; e gli emissarii e gli agenti del Piemonte ben si guardarono dal

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dirlo, che popolo e truppa non avrebbero tenuto lor dietro. Era sottinteso che Leopoldo II. dovesse rimanere sul trono. Tranne i caporani della congrega del BonCompagni e alcuni pochi uffiziali, cittadini e truppe non seppero nulla dell'abdicazione richiestagli in tuono di comando; dal che la stupefazione di quanti, conoscendo solo in confuso ed in parte gli avvenimenti della giornata, non si sapeano render ragione come avvenisse che il sovrano colla famiglia s'inducesse a partire. Impertanto BonCompagni e i consorti provvidero a che fosse al Granduca reso impossibile l'uso del telegrafo elettrico, affinché non potesse dare alcun ordine alle autorità delle provincie, rimaste così alla mercé dei mestatori. Leopoldo II. tenuto in guardia in Palazzo Pitti (1), avendo scritto un proclama in cui dichiarava alle popolazioni i motivi pe' quali vedeasi costretto ad abbandonare la Toscana, già era questo composto nella Stamperìa granducale, quando fidati agenti del BonCompagni (2) invadevano la tipografia, disfacevano il fatto, sperdevano i caratteri, laceravano il manoscritto, severamente ingiungendo agli stampatori di ben guardarsi dall'imprimere cosa alcuna che venisse da parte del Granduca.

«Corse la voce allora,» scrisse l'ostilissimo Demo (3), «e fu poi ripetuta persino in documenti ufficiali (4), che l'Arciduca

(1)

Alle ore otto e mezzo del mattino del 27 la famiglia granducale riparava nel Forte di Belvedere, accompagnata dall'Arciduca Carlo, secondogenito, il quale in nome di Leopoldo IL, rimasto in Palazzo Pitti col principe ereditario, disse agli uffiziali ch'essa era confidata al loro attaccamento. Da quel momento sino all'istante in cui la famiglia si ricongiunse per la partenza, e a' Pitti e al Belvedere i principi si ritrovarono guardatia vista, in condizione che equivaleva nella realtà a prigionia. Quantunque il Forte del Belvedere, posto sopra l'altura di San Giorgio, e Palazzo Pittistieno a brevissima distanza tra loro, divisi solo dalla minore larghezza delBeale Giardino di Boboli, il Granduca ed il resto della famiglia non poterono nel frattempo comunicare in niun modo. 11 Ministro Landucci, inviato da' Pitti in Belvedere per parlare con le persone Reali, dovette ritornarsene senza aver potuto riescirvi, scortato fino a Pitti da quel Tenente Dario Angiolini, che in Belvedere dichiarò prima d'ogni altro voler venir meno alla fede giurata.

(2)

Il Rubieri (Storta intima della Toscana, pag. 99) si vanta di aver compiuto egli stesso opera sì meritoria.

(3)Biografia di Leopoldo IL, pag. 139140.

(4)

Nel Memorandum relativo ai fatti del 27 aprile in Firenze, inviato

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» Carlo, raddottosi nella Fortezza di Belvedere, desse ordine che si preparassero bombe e cannoni contro la ribelle città, e che egli trovasse tetragona resistenza nella ufficialità colà presente. Il racconto non è esatto. L'Arciduca secondogenito domandò soltanto quanta munizione si trovasse in Fortezza. La questione tradisce forse l'intenzione, ma dell'intenzione non può farsi interprete la persuasione altrui. D'altronde l'Arciduca, col grado militare ch'egli copriva,

dal Governo Provvisorio toscano alle Corti d'Europa il 2 maggio 1859, firmato Peruzzi-Malenchini-Danzini (Atti e Documenti del Governo della Toscana, Parte L, pag. 48), leggesi: «E qui cade in acconcio di narrare un fatto intorno al quale, per quella moderazione di cui ci siam fatti una legge, non ci diffonderemo lungamente, ma che l'Europa civile apprezzerà, giudicando da qual parte sia stata la temperanza, da quale la improntitudine, o almeno il desiderio impotente delle medesime. Esisteva nel Forte di San Giorgio, detto comunemente di Belvedere, una Circolare segreta, sigillata, inviata dal Generale a tutti i Comandi dall'agosto dell'anno decorso. Alle 8 e mezzo antimeridiane del 27 aprile l'Arciduca Carlo si recava nel Forte suddetto, convocava gli ufficiali e comunicava loro di esser latore di una lettera del generale Ferrari con la quale ordinava l'apertura della Circolare. Il piego fu aperto, e fu trovato che racchiudeva le istruzioni preliminari per un attacco contro la città. Queste istruzioni furono completate a viva voce dall'Arciduca Carlo. A tali parole il Comandante del Forte con rispettosa fermezza replicò dichiarando all'Arciduca che, mentre egli ed i suoi compagni avrebbero senza esitazione esposto la loro vita per tutelare la sicurezza di lui e di tutta la famiglia Reale, si rifiutavano però con ribrezzo al pensiero d'incrudelire contro i proprii concittadini. Mancata in tal modo ogni lusinga di repressione, Leopoldo II si determinò a chiamare il marchese di Lajatico.»

E oggidì l'Europa civile, giudicando da qual parte sia stata la temperanza, apprezza le goffe calunnie accumulate in quel documento. Menzogna che l'Arciduca Carlo recasse alle 8' e mezzo l'ordine in iscritto di aprire i plichi, ordine portato alle 11 a voce dal Poggiarelli, plichi dissuggellati in onta all'opposizione dell'Arciduca. Menzogna che i plichi contenessero istruzioni per un attacco contro la città, che né una parola di attacchi vi era, né una sillaba di bombardamento. Menzogna che l'Arciduca Carlo completasse a voce le istruzioni del generale Ferrari. Menzogna che il Granduca chiamasse il marchese di Lajatico dopo ch'ebbe notizia del fatto di Belvedere; che a Lajatico, per sua propria confessione (Storia di quattro ore), fu data notizia della chiamata alle 9, e l'ordine verbale di aprire il plico giunse al Mori, com'egli stesso confessa (Rapporto al generale Ulloa), alle 11. Come ingannarono i Fiorentini nel 27 aprile, gli uomini che sostennero sì abbietta parte nel turpe mercato della lor patria provavansi così ad ingannare l'Europa.

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» quello d'Ispettore generale d'artiglieria, doveva sapere meglio d'ogni altro gli approvvigionamenti della Fortezza.» La rettifica non è punto più esatta del racconto (1). Sino dall'agosto 1858 il generale Ferrari aveva trasmesso a tutti i Comandi dei Forti, Caserme, Corpi, Dicasteri e Stabilimenti militari del Granducato, pieghi che i singoli comandanti dovevano gelosamente custodire sigillati fino a che non si verificasse il caso d'un allarme, nel quale soltanto doveansi aprire. Venuta in Belvedere la famiglia granducale, verso le undici del 27 il sottotenente Poggiarelli portava al Maggiore Mori, comandante il Forte, «in nome del generale Ferrari l'ordine a voce di aprire il dispaccio riservato per caso di allarme, coll'ingiunzione ben calcata di non fare applicazione di sorta delle disposi noni in esso tracciate (2).» Riuniti gli ufficiali che in quel momento trovavansi nel Forte, presente l'Arciduca Carlo, questi opponevasi, dichiarando irregolare l'apertura del dispaccio, perché mancanti tutte le condizioni espressamente stabilite per procedere alla dissuggellazione, e le cui prescrizioni accompagnavano i plichi sino dal momento in cui essi furono consegnati. Il Maggiore Mori insistendo per dare effetto all'ordine verbale ricevuto, lasciata dall'Arciduca interamente a lui la responsabilità di quest'atto, il Mori, rotti i suggelli, diede lettura del contenuto (3). Allora il Tenente Dario Angiolini, comandante le artiglierie di Belvedere in quel dì, fattosi innanzi, dichiaravasi, assenzienti al suo avviso alcuni altri pochi ufficiali, contro l'esecuzione degli ordini uditi leggere, affermandoli inapplicabili. Innalzata poco appresso nel Forte la bandiera tricolore, quando più tardi il Granduca col principe ereditario ed il generale Ferrari giunse da' Pitti in Belvedere, i quattro capitani del battaglione Veliti si presentano all'Arciduca Carlo, chiedendo in nome del loro onore di abbattere la bandiera inalberata, protestandosi pronti ad eseguire ciò ad ogni

(1)

Come, sia detto per incidenza, non lo sono le pretese rettifiche dello Zobi e di altri.

(2)

Rapporto del Maggiore Mori al tenente generale comandante in capo l'esercito toscano, G. Ulloa, da Pietramala, 5 maggio 1859, stampato dallo Zobi (Cronaca, Vol. I., pag. 406407).

(3)

Eziandio codeste disposizioni dissuggellate e lette dal Mori furono pubblicate dallo Zobi (Cronaca, Vol. I., pag. 397-403).

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costo; cui l'Arciduca, sentiti gli ordini del padre, rispondeva: Essere ormai inutile.

Intanto, tornato il BonCompagni al palazzo della Legazione sarda e spedito ordine a suoi, rimasti assembrati sulla piazza di Barbano, che di colà muovessero colle bandiere a percorrere la città per contrapporre le alte grida allo smarrimento della grande maggioranza degli abitanti, la turba recavasi al palazzo della Legazione francese, mandando viva alla Francia, a Napoleone III., al suo rappresentante in Toscana. Che il marchese de Ferrière-LeVaver quegli applausi avesse nella realtà ben meritati, non sembra oggidì più dubbioso. In particolare la lettera che l'avvocato Leopoldo Galeotti scrisse al cavaliere Augusto Duchoqué nel 26 aprile, fatta passare sotto gli occhi del Granduca, prova la perfetta corrispondenza che correva fra i due Ministri di Francia e Sardegna. In essa lettera il Galeotti dichiarava di avere ricevuto incarico da BonCompagni e dall'Inviato francese «di rendere in qualche modo consapevole il Governo toscano, che se avesse congedato il Landucci dal Ministero dell'Interno, il generale Ferrari Da Grado dal Comando delle truppe, ed aperte subito trattative d'alleanza con le due Legazioni, i rispettivi Legati avrebbero speso ogni loro influenza acciocché il Governo medesimo acquistasse il tempo necessario alle pii gravi risoluzioni» (1); ciò che equivaleva a dire: se non le aprite subito, non sarà lasciato al Governo il tempo necessario a risolvere. È fatto poi notorio che in que' giorni le conferenze fra il BonCompagni e il Ministro di Francia si succedettero con tale frequenza da lasciar credere si occupassero invece davvero intorno a qualche cosa di più che un semplice progetto di alleanza per la Toscana. Quando la processione de' schiamazzatori si fermò sotto le finestre della Legazione di Sardegna, BonCompagni annunzio dal verone la partenza del Granduca; al Re Vittorio Emanuele essere a cuore le sorti della Toscana; provvederebbe alla quiete pubblica ed alle esigenze della guerra, senza volere preoccupare le sorti definitive del paese. Quella che il Piemonte andava a combattere non essere guerra d'ambizione. Rammentassero che l'acquisto dell'indipendenza

(1) Zobi; Cronaca degli avvenimenti d'Italia nel 1859, Vol. I., pag. 116.

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e della libertà esige grandi sacrifizii, grandi virtù, grande obbedienza.

Poche ore appresso, verso le 7 di sera, il Granduca, raggiunti col principe ereditario i suoi nel Forte di Belvedere, salito colla famiglia in carrozza, pel giardino di Boboli usciva di Firenze, portando con sé nell'esilio la coscienza di aver beneficato molti e fatto male a nessuno, sprovveduto di tutto, insino di vestiario, fuor quel poco che aveva indosso (1), in mezzo alla popolazione costernata e stupefatta, tra le lagrime di non pochi che non aveano potuto peranco conoscere a qual sozzo giuoco si avesse giuocato in quel dì. Avviato a Bologna, accompagnato fino a Vaglia dagli ufficiali di Stato Maggiore e dai Segretarii delle Legazioni straniere residenti in Firenze, Leopoldo li. si vedeva seguito da una carrozza di vettura, entrovi persona fida del BonCompagni, col pretesto di sconsigliare qualunque offesa ai viaggiatori, al che niuno pensava, ma nel vero per accertarsi della strada che avrebbero tenuta (2). Il Granduca non aveva peranco abbandonato Firenze, che già il BonCompagni la trinciava da sovrano, dettando, per mezzo del suo Rubieri, la legge al Municipio: eleggessero senza indugio un Governo provvisorio, composto dei tre che indicava (3). E stava ancora il Granduca in Firenze,

(1)

Guardata a vista la famiglia Reale a' Pitti e nel Forte di Belvedere, neppure Ai loro dato di pigliar seco biancherie sufficienti, a tal che per cambiarsi di camicia i principi dovettero procurarsene a Bologna:

(2)

E. Rubieri; Storia intima della Toscana, pag. 104.

(3)

II Rubieri (Storia intima, pag. 387) pubblicò la lettera del BonCompagni al Municipio, documento che ben vale la pena dì riportare. Eccolo:

«Il sottoscritto, riconoscendo l'urgenza di provvedere al mantenimento dell'ordine interno nella dolorosa circostanza della partenza di S. A. R. il Granduca, si volge alle Signorie Loro Illustrissime, esortandole a nominare un Governo provvisorio, che potrebbe in questo momento essere con molta opportunità composto dei signori cavaliere Ubaldino Peruzzi, avvocato Vincenzo Malenchini e Maggior Danzini.

» Il Sig. Ermolao Rubieri, latore della presente, potrà offrir loro tutti gli schiarimenti desiderabili intorno alla necessità di non interporre indugi, che potrebbero riuscir dannosi per più riguardi. Mi pregio segnarmi col maggiore ossequio

» Delle Signorie Loro Illustrissime

» Li 27 aprile

» C. BonCompagni.»

Nella dolorosa circostanza della partenza del Granduca! Oh l'istrione!


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che la civica magistratura s'era adunata, assente il Gonfaloniere, fra i rumori della marmaglia fatta venire dal Rubieri attorno al palazzo del Municipio con gli stiletti; nove de suoi membri, a sei ore (1), invano opponenti altri in quell'adunanza (2), eransi trovati d'accordo in eleggere i tre voluti dal BonCompagni, il Peruzzi, il Malenchini, il Danzini (3), un patrizio cospiratore, un legale senza legge, un soldato traditore (4). Ve' miracolo! In mezz'ora gli eletti Triumviri avevano accettato l'incarico, persino il Danzini che si era allontanato da Firenze per accompagnare il Granduca; aveano composto un proclama con cui rivolgevansi al popolo; lo avevano mandato alla stamperia, e fattolo tirare in quel novero di copie che credevano necessarie, ed affiggere alle cantonate! «All'ora medesima tutte le casse pubbliche erano vuote, senza che una lira sia entrata nel Tesoro piemontese. Quelli che non poterono prender parte al saccheggio s'installarono chi alle Poste, chi ai Ministeri (5).»

U 28 giunse in Firenze l'Ulloa coll'incarico del Governo piemontese di pigliare il comando dell'esercito toscano, nel quale erano gli animi grandemente commossi e concitati. Tranne pochi uffiziali e piccol numero d'altri, i soldati avevano sinceramente creduto che quanto loro era stato detto fosse la schietta verità, né nulla più nella realtà si volesse che spingere il Granduca ad accordare

(1)

La Deliberazione del Municipio relativa all'elezione del Governo provvisorio fu data «a ore sei pomeridiane.» Lo Zobi (Cronaca del 1859, Vol. I., pag. 163164), stampandola col proverbiale acume, sbugiarda e Municipio e Governo che aveano proclamato all'Europa: essere elezione avvenuta dopo la partenza del Granduca.

(2)

Lo stesso Rubieri (Storia intima, pag. 102) narra che il Municipio tentava schermirsi dalle insistenze di lui.

(3)

Peruzzi, dice il Rubieri (Storia intima, pag. 99100), rappresentava gli aristocratici; Malenchini i Nazionali ed i democratici, «ed anco a» soddisfare il Governo piemontese, delle cui istruzioni era investito.» Danzini rappresentava i soldati.

(4)

«La sera del 25 aprile il Maggiore Danzini era al Palazzo Pitti» presso l'Arciduca Carlo, che, congedandolo, gli dava alcuni sigari; ed» esso gli baciava la mano, assicurandolo della sua fedeltà.» (Casi della Toscana, pag. 37).

(5) La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d'Italia, % III. - A questo punto Curletti aggiunge: «Io ricevei, per parte mia, dalle mani stesse di BonCompagni una gratificazione di seimila franchi.»

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la bandiera tricolore e romperla decisamente coll'Austria; ed ora deploravano d'essersi lasciati giuntare e d'avere, senza punto essi volerlo e saperlo, cooperato a far sì che il principe fosse costretto a prendere la via dell'esilio. Svanita la sorpresa del primo momento, dissipati i fumi dei cervelli anche più fuorviati, se ci avessero chiesto, dicevano, l'abdicazione di Leopoldo, avremmo risposto francamente di no; se ci avessero chiesto di rinunziare a' nostri Granduchi, avremmo risposto, al bisogno, da soldati. Rapidamente svaporato l'effetto de' Francescani, de' vini e de' sigari a macca, all'inganno svelato tenevano or dietro parole di aperto rimpianto. Pelle quali disposizioni degli animi assai impensieriti il BonCompagni e i consorti, i tre del Governo provvisorio commettevano all'Ulloa, che, appunto appena arrivato al comando, ordinasse senza indugio alle truppe di partire nella mattina del 29 da Firenze, e si avviassero alla frontiera del Bolognese, sotto pretesto di sorvegliare i movimenti degli Austriaci, ma nel vero, più che altro, per allontanare il pericolo ch'esse potessero per avventura volgersi d'improvviso ad esigere il ritorno dei Lorena.

La condotta del presidio di Livorno nel 27 aprile aveva posto in evidenza che se un colpo di sorpresa era riescito a buon fine nella capitale, lo spirito delle truppe non era punto guasto nelle provincie. A Livorno stava Governatore il marchese Luigi Bargagli, comandante superiore militare il colonnello Ripper, comandante la Brigata, sotto la dipendenza del Ripper, il colonnello Razzetti. Nel mattino del 27 mia frotta di gente, mossa ad istigazione del Comitato, si dava a percorrere alcune delle principali contrade, domandando ad alta voce la bandiera tricolore. Bargagli, interrogato, risponde essere senz'ordini; mentre i capi militari tenevano consegnate nelle caserme le truppe, risolute a reprimere qualunque tentativo di rivolta colla stessa energia di cui i soldati toscani avevano dato prova nella medesima Livorno il 30 giugno 1857. Gli artiglieri, comandati da un Maggiore Francesco Coccolini, stavano ai pezzi in Fortezza vecchia, pronti a far fuoco. Vista codesta attitudine, i mestatori non più osarono fiatare. Molto popolo, tratto da curiosità, erasi raccolto in silenzio sulla Piazza d'arme; quando intorno al mezzogiorno corse voce che il Granduca avesse già accordato il vessillo tricolore in Firenze.

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Si ripete la domanda al Governatore. Bargagli ricerca per telegrafo a Firenze se è vero, «come deve regolarsi; nessuna risposta. Torna a telegrafare; eguale silenzio, che i capi del movimento eransi impadroniti dell'Uffizio telegrafico a Firenze. Allora Bargagli ordina alla Strada ferrata che si allestisca un convoglio espresso, e spedisce alla capitale il Maggiore comandante la Gendarmeria di Livorno. Questi giunge al momento stesso che il Granduca si allontanava, e riporta a Livorno la notizia esservi un Governo provvisorio in sua vece. Bargagli domanda al colonnello Bazzetti (1) se fosse ancor tempo di avviarsi colle truppe, rimaste tutte fedeli, a Firenze, onde ristabilirvi il Granduca. Alla sua risposta: Ora è troppo tardi, Bargagli manda un sergente de veterani ad innalzare la bandiera tricolore sul terrazzo della sua abitazione.

Proclamata i Triumviri la loro autorità con annunziare che «il Granduca, anziché soddisfare ai giusti desiderii manifestati» dal paese, lo aveva abbandonato a sé stesso,» altra solenne menzogna, perocché all'opposto, se desiderii del paese erano, come dicevano, che rimettesse in vigore lo Statuto costituzionale e si accostasse del tutto a Sardegna e Francia, il Granduca erasi senza restrizioni dichiarato pronto a soddisfarli; avvertito che «avevano assunto l'incarico per il solo tempo necessario perché» Re Vittorio Emanuele provveda tosto, e durante il tempo della guerra

(1) Per torsi da piedi il colonnello Ripper, uom fermo, stimato e te muto ad un tempo dalle truppe, il Comitato ideò uno stratagemma. Sparsero voce per Livorno che Ripper avesse fatto vestire alla borghese un certo numero di soldati armati di pistole a rivoltella, i quali, allorché la truppa si fosse recata in Piazza d'armi per disciogliere l'assembramento popolare, avrebbero fatto fuoco sulla truppa onde dare a credere a questa di essere stata assalita dal popolo. Tal voce, se trovò molti increduli, altri accolsero per vera; sicché parve che l'indegnazione de' Livornesi volgesse quasi a minacciarne la vita. Avvertito, nullameno continuò impavido a percorrere quelle vie della città nelle quali lo portava l'esercizio delle sue mansioni; ma quando, incirca ad un'ora pomeridiana, si sparse la notizia che il Granduca aveva accordata la Costituzione, la dimostrazione contro il Ripper assunse tale gravita che il Governatore e gli Ufficiali Superiori stimarono più prudente consiglio di persuaderlo non lasciarsi vedere per le strade. Più tardi gran frotta di popolo essendosi recata a cercarlo alla sua abitazione, sulla risposta avutane ch'era già partito, quotarono e si disciolsero. Partito in vero non era, e se ne andò, non molestato, nella notte.

64 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

» a reggere la Toscana in modo che essa concorra al ri» scatto nazionale»; il giorno appresso, 28 aprile, allargati gli intendimenti, avevano offerto al Re, finché durasse la guerra, la dittatura della Toscana, la quale, dicevano, conserverebbe in questo periodo transitorio la propria autonomia ed un'amministrazione indipendente da quella della Sardegna, mentre Passetto suo definitivo sarebbesi indugiato a guerra finita, e quando fosse venuto il tempo di procedere all'ordinamento generale d'Italia. Così tre toscani designati da un Ministro piemontese, eletti, in assenza del Gonfaloniere reluttante (1), da una terza parte d'una Comunità sola, fra le duecentocinquanta che componevano tutta la Toscana; tre cospiratori, appena venuti in modo sì ambiguo al Governo, con una gherminella di nuovo genere ed inaudito abuso di potere, si arrogavano tanto di autorità da offerire la suprema potestà a un Governo di fuori, senza interrogare la volontà del popolo, senza consultare almeno gli uomini più cospicui e spassionati del paese, senza che nemmeno quella terza parte di quell'unica Comunità, che li avea posti in seggio, avesse parlato di dittatura.

Il 30 Cavour rispondeva: ragioni di alta convenienza politica non permettere al Re di Sardegna di accettare nella forma proposta la dittatura profferta; assumere però il comando delle truppe e la protezione del Governo toscano, delegando a quest'uopo i necessarii poteri al BonCompagni, Ministro plenipotenziario, «il quale aggiungerà al suo titolo quello di Commissario straordinario del Me per la guerra dell'indipendenza (2).» Per non cozzare di soverchio, tutto d'un tratto, con i patti di Plombières, Cavour avea stimato prudente che Re Vittorio Emanuele accettasse intanto a metà, lasciata al BonCompagni, l'uomo senza scrupoli, la cura di accomodare le cose con impadronirsi grado a grado del governo della Toscana. E in quattro giorni il BonCompagni infatti accomodava il tutto per bene. Accettata, colla duplice qualità

(1)

Per non aver voluto cooperare alla nomina dei Triumviri il Gonfaloniere di Firenze, marchese Odoardo Dufour-Berthe, lo stesso giorno 28 fu tolto d'ufficio per decreto del Governo provvisorio. Dimisero poi quelli di Siena, Orbetello, Pitigliano, Viareggio, Pisa, e altri molti, dichiarati pericolosi perché incaparbiti e perfidiosi nella loro fedeltà verso il Granduca.

(2) Atti e Documenti del Gov. della Tose, Parte 1., pag. 36.

COLPO DI MANO A FIRENZE 65

di Ministro plenipotenziario e Commissario in Toscana, quanto niun altro uomo non avrebbe certamente accettato, questo strano accozzo di poteri che lo ponevano in contraddizione e con sé e con gli altri, e lo appalesavano spudoratamente l'anima della rivoluzione di Firenze, BonCompagni, comunicando ufficialmente il 4 di maggio a' Triumviri (1) la risposta di Cavour del 30 aprile e la sua nomina a Commissario per la guerra dell'indipendenza, trattenne nella penna quest'ultime parole, che limitavano i suoi poteri alle sole cose guerresche, e s'intitolò addirittura Commissario straordinario, per tal guisa ponendosi al disopra degli ordini del suo Re medesimo. Poi, fatta intavolare destramente da' Triumviri una corrispondenza epistolare sotto pretesto di esplicare le attribuzioni rispettive del Governo provvisorio toscano e del Commissario sardo (), schiuse la "via a dichiarare nel dì 9 maggio, ch'egli BonCompagni «eserciterà» tutte le incumbenze appartenenti al capo dello Stato;» con che rendeva evidente che se Vittorio Emanuele per sue ragioni non aveva accettato nella forma proposta la dittatura profferta, ben ne aveva accettata la sostanza.

In tredici giorni di dominio i Triumviri rimescolano ogni cosa. Nato per morir subito, nullameno non vi fu governo più del loro in leggi fecondo. Non ramo di pubblica amministrazione potè campare da sì grande sapienza riformatrice, né studii, né codici, e questo in paese dove la legislazione era di tale bontà che Cavour medesimo, dopoché Toscana fu definitivamente annessa al Piemonte, non si attentò ad applicare le leggi sarde. Ordinarono perfino ai preti che nella Messa fosse inserita la colletta in tempore belli, e a' Vescovi ingiunsero «di non permettere che si celebrasse alcuna insolita funzione nelle loro chiese senz'averne prima deliberato coll'autorità governativa.» Nell'esercito le promozioni piovvero a rovescio; Maggiori a decine, capitani a ventine, Tenenti a cinquantine, sottotenenti a josa, si che poté dirsi la mite Toscana parer diventata la Laconia ai tempi della guerra del Peloponneso.

L'11 maggio truppe sarde entrarono a Firenze.

(1) Atti e Poc. del Gov. Toscano, Parte L, pag. 35.

(2) Atti e Doc. del 0ov. Toscano, Parte I., pag. 7172, 7375.

66 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

Cessato in quel di il Governo provvisorio, BonCompagni assunse svelatamente il potere, e le più turpi fellonie coglievano i primi guiderdoni condegni. Bettino Ricasoli era alfine Ministro; Ministri erano Cosimo Ridolfi, Malenchini, Poggi, ed alle Finanze Raffaello Busacca, siciliano, per i quattrini, a confessione universale, fortissimo (1); Celestino Bianchi, il traforello famoso, segretario generale del BonCompagni; Gino Capponi presidente e Leopoldo Galeotti segretario di una Consulta di Governo, instituita a fungere le veci di rappresentanza nazionale, ed in cui fu cacciato il Rubieri (2) con la quintessenza dei cospiratori, «più due o tre persone stimabili per meglio colorire la cosa (3).» Ordinato dal BonCompagni, perché meglio traspirassero sino d'allora gl'intendimenti segreti, che il Governo smettesse l'appellativo di 'provvisorio e s'intitolasse addirittura Governo della Toscana (4), la Toscana non esisteva più che di nome; di fatto, ornai essa non era che una semplice fattoria del Piemonte.

Gli eventi di Firenze costituiscono una pagina di storia, arida come un processo verbale, lorda di tanto obbrobrio quale presso verun popolo non mai forse se ne avrebbe trovato altro esempio. Un Ministro di Potenza straniera, che si diceva amica, il Ministro di un Re nipote del sovrano presso cui è accreditato (5),

(1)

Lo chiamavano IL bue insacca.

(2)

Parecchi ambiziosi rimasero altamente sdegnati del vedere affidati tre Ministeri a mani diverse dalle loro, e sopra tutti querelavansi Ermolao Rubieri, Galeotti, Salvagnoli. Quest'ultimo, cui infatti si aveva positivamente promessa la direzione de' Culti, quando vide che i maneggi di Ridolfi per non averselo a collega aveano avuto sopravvento, s'indispettì a segno che corse difilato a Torino, a persuadere Cavour che per il governo dei preti, ossia per far disperare i preti, com'egli stesso diceva, non potevasi trovare meglio di lui. Da Torino si recò in Alessandria, a visitarvi l'Imperatore Napoleone, col quale ebbe lunghissime conferenze. Tornato a Firenze nel tempo stesso che Cavour scriveva a BonCompagni: essere desiderio dell'Imperatore de' Francesi e suo volere che il Salvagnoli fosse chiamato al Ministero degli affari ecclesiastici, dovettero chinare il capo. Ad Errico Poggi, Ministro di Grazia e Giustizia, BonCompagni tolse il portafoglio de' culti assegnato con Decreto del 29 maggio a Salvagnoli.

(3) Casi della Toscana, pag. 97.

(4) Atti e Doc. del Gov. Toscano, Parte I., pag. 90.

(5)

La madre di Vittorio Emanuele di Sardegna fu Maria Teresa, figlia di Ferdinando III Granduca di Toscana e sorella di Leopoldo II.

COLPO DI MANO A FIRENZE. 67

accozza intorno a sé, ali ombra della inviolabilità diplomatica, qualche decina di malcontenti, ambiziosi mal paghi o settarii per tutta la vita, e fra codesti taluno persino apostata della religione in cui nacque; un Ministro che per mesi e mesi prepara, ordisce, trama, getta oro a piene mani, corrompe magistrati, compra uffìciali, froda soldati, e un bel dì con un colpo di mano, condotto a bene mercé l'astuzia e l'inganno, intima al sovrano che deponga la sua corona, come l'assassino da strada domanda colla pistola al viso al viandante che dimetta la borsa, per poi, rubatogli lo Stato, sostituire sé medesimo a lui, assidersi sulla sua sedia stessa; tutto questo, per l'onore dell'umanità, non trova nelle sì varie e fortunose vicende della italiana penisola nulla che vi assomigli. Il nome di Carlo BonCompagni, questo grande promotore e direttore (1) della ignominiosa rappresentazione, come ben disse un suo collega a Firenze, rimane raccomandato alla gogna fra quello de' più gran scellerati, oggetto di supremo disprezzo pegli onesti contemporanei d'ogni partito, onta e vitupero nella memoria de' posteri.

Dopo la Toscana doveva toccare la volta ai Ducati di Modena e di Parma. Eppure negli Stati Estensi, piccolo territorio di seicentomila abitanti, ben duro era l'osso che aveano a rodere. Amatissimo da' sudditi, già dicemmo, il Duca, uomo ancor giovane, pieno di energia e di coraggio, apertissimo nel reggere ed amministrare lo Stato, d'una rara rettitudine nel giudicare uomini e cose. Fedeli le truppe, lealissimi gli ufficiali, a prova di bomba la devozione dei capi, e in cima ad ognuno nel supremo comando delle cose militari un generale, Agostino Saccozzi, vecchio robusto, amato esso medesimo dai soldati che soleano abitualmente chiamarlo il nostro papa (2), ottimo cuore, ma risoluto a tutto pel suo principe. In tali circostanze nulla potendosi

(1) «Great leader and direetor.» Further correspondence respecting thè affairs qf Itaiv, presented to both houses of Parliament bv command of her Majestv, 1859, pag. 12. - Sir Scartati, Ministro inglese presso le Corti di Toscana, Moderna e Parma, testimonio oculare dei fatti di Firenze, in una serie di dispacci ufficiali indirizzati al suo Governo, e pubblicati da questo per essere presentati alle Camere, sino d'allora denunziò, prima d'ogni altro, con franchezza affatto britannica le obbrobriose macchinazioni del BonCompagni.

(2) Cinquantadue mesi d'esilio delle truppe estensi, pajr. 45.

68 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

tentare a Modella, ove, comparativamente ad altre città più importanti degli Stati centrali d'Italia, la Società Nazionale di Cavour aveva raggranellato il minor numero di proseliti (), non restava che convergere ogni sforzo a quella parte dello Stato che pella sua postura, per la distanza dalla capitale come per la contiguità al territorio sardo, lasciava probabilità di riuscita.

Allo scoppiare della guerra sul Ticino, l'agglomerazione di bande armate sul confine di Sarzana, dove ripetutamente provavansi d'invadere l'Oltrappenino estense, la possibilità che da un momento all'altro avvenissero sbarchi di truppe lungo le coste del Mediterraneo, o dal Sarzanese o dalla ormai sarda Toscana avanzassero corpi franchi organizzati, ì quali avrebbero resa difficilissima la ritirata delle poche milizie stanziate a Massa e Carrara, inducevano il Duca di Modena ad ordinare che quelle milizie si concentrassero nel 28 aprile a Fivizzano, trasferitavi la sede del Governo provinciale (1)

(1)

Sicché solea dirsi che a Modena non aveano potuto trovare neanche quattro cani per formare un Comitato.

(2)

Narra lo Zobi (Cronaca del 1859, Vol. I., pag. 222-323): «Il Maggìor Messori, comandante a Massa, ufficiale devoto si al Duca, ma non tanto da dimenticare per esso i doveri dell'umanità e della giustizia, tralasciò di eseguire un suo atrocissimo precetto, cioè di far saltare in aria il castello per seppellire la città fra le sue rovine. A tal effetto, In un sito appartato e sotterraneo del castello medesimo, era stata da lunga mano ammassata e preparata considerabile quantità di polvere, e 400 metri di miccia stavano là apparecchiati per incendiarla senza pericolo dell'esecutore. Però il Messori arrivato a Fivizzano fu degradato per sentenza di apposito Consiglio di guerra, e l'ebbe buona se ne uscì illeso della vita. Dall'altra parte l'umanità e la storia debbono professargli riconoscenza, per aver cosi risparmiato un feroce eccidio, un barbaro conato. Questo disegno del Duca su Massa collima appuntino con quello del Granduca a Firenze, ed entrambi perfettamente combinano col piano politico-militare adottato dal Gabinetto di Vienna. La qual cosa dovrebbe ornai fare ravvedere la frazione degl'Italiani parteggianti per la Casa di Àusburgo. Tal frazione non è numerosa, ma meglio sarebbe che non vi fosse; perché fratelli, Dio gl'illumini innanzi che spunti il giorno della vendetta.»La storiella, egualmente avversata da' fatti, dalla topografia, dal semplice buon senso, è scipita menzogna, e i commenti rivelano la forza d'argomentazione e di acume del narratore; storiella e commenti non inferiori alla fama dello Zobi, «il grottesco storico della setta, per trovare al quale un degno riscontro bisognerebbe scendere di molto ed abbassarsi fino all'avvocato Achille Gennarelli!» (Casi della Toscana, pag. 216).

COLPO DI MANO A FIRENZE 69

Le truppe estensi erano appena in cammino, che già un Giusti in Massa ed un Brizzolari in Carrara, accorsi da Sarzana (1), qualificandosi per Commissarii piemontesi, assumevano il Governo del paese in nome del Re di Sardegna, e distaccamenti di Carabinieri sardi sopravvenivano nelle due città a disposizione degli intrusi Commissarii. Il giorno appresso, 29, supponendosi forse che le truppe ritiratesi da Massa, e Carrara proseguissero il loro movimento retrogrado, una banda di più centinaia di armati, ve miti dal Sarzanese ed in buona parte rivestiti delle divise di Guardia Nazionale, fu sul meriggio a Fosdinovo e fece cantare un Tedeum. Il 30 una colonna di Estensi, guidati dal tenente-colonnello Casoni, muoveva da Fiviziano, raggiungeva oltre Tendola

Massa, piccola e graziosa città di poco più di quattromila abitanti, giace sul limite di amena pianura alle falde de' monti. Sopra alta e scoscesa roccia soprasta ad una estremità della città ed a qualche distanza il Forte, che a proiettare sulla città, col durissimo sasso su cui poggia, occorrerebbero mine di potenza sinoru ignota. E i 400 metri di miccia avrebbero bruciato le lunghissime ore senza che anima nata se ne accorgesse, per compiacere lo Zobi! Il Maggiore Messori, ad onta della riconoscenza decretatagli più tardi dal capo ameqo dello Zobi, seguì il Duca nell'esilio onorato, nell'esilio visse illeso della vita col suo grado di Maggiore, e vive a Mantova, non caduto in disgrazia del Duca, di cui non disobbedì Vatrocissimo precetto mai dato. E lo Zobi scriveva dopo che gli Austriaci, ritiratisine non molestati in niun luogo da' Franco-sardi, avevano abbandonate le città lombarde, tutte balzate in aria e ridotte mucchi di sassi, giusta il piano politicomilitare, adottato dal Gabinetto di Vienna! Ancorché la critica potesse a ragione rimproverare di mescolare talvolta piccole cose a grandi cose, affediddio eh'è impossibile non parlare talvolta di cose piccole tramezzo a cose maggiori, se la menzogna e la calunnia, le più potenti armi degli autori ed operatori de' recenti rivolgimenti italiani, non si fossero sì largamente usate, così nelle piccole come nelle grandi cose, in proporzioni di estensione e goffaggine piuttosto sconosciute che rare.

(1) Tutto affaccendato a provare la spontaneità delle dedizioni popolari ne' territorii usurpati dal Governo di Sardegna, Inacutissimo Zobi stampa (Cronaca del 1859, Vol. L, pag. 223224): «Celeri messaggi diedero avviso a Sarzana, ove risedeva un Comitato Nazionale pronto ad intervenire nell'emergenze delle limitrofe popolazioni, che Massa e Carrara venivano sgombrate dagli Estensi. Tosto si posero in via, l'avvocato Vincenzo Giusti e l'avvocato Enrico Brizzolari, rivestiti della qualità di Regi Commissarii in dette città. Sciolte le corporazioni municipali, perché composte di duchisti, ne sostituiron altre.»

70 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

la banda, la inseguiva sino alla Spolverina, ove disperdevasi precipitando nei burroni che sovrastanno ad Ortonovo e Nicola, ambi villaggi sardi. Gli Estensi non ebbero perdite, i Sardi, lasciati alcuni morti e feriti sul terreno, non più ricomparvero. Duecento della banda, che avevano occupato il castello di Fosdinovo dopoché il piccolo distaccamento ducale se n' era ritirato, all'appressarsi delle truppe del Casoni fuggirono, senza tirare un sol colpo, precipitosamente verso Sarzana, dove sparsero un allarme generale.

Intanto il Governo piemontese pubblicava (1): «Massa e Carrara, pronunziatesi spontaneamente e senza alcuna collisione, hanno proclamata la dittatura del Re Vittorio Emanuele. Essendo quelle popolazioni minacciate da una colonna di truppe estensi, il Governo, che si considera in istato di guerra col Duca di Modena, ha spedito delle forze militari per proteggerle.» Infatti un corpo di milizie sarde e toscane, poste sotto il comando del generale Ribotti, occupò i territorii usurpati. Quanto alla spontaneità dell'asserito pronunciamento, ad apprezzarla bastava il fatto, che mentre l'ufficiale Gazzetta piemontese annunziava: «Il Governo sardo ha nominato a Commissario straordinario delle città di Massa e Carrara l'avvocato V. Giusti, il quale, appena giunto in Massa, emanava un proclama,» questo proclama a stampa del Giusti, giunto in Massa nelle ore pomeridiane del 28, portava la data: Massa, 27 aprile 1859, e incominciava così: «Sono lieto di tornare tra voi in sì fausti momenti. Questi paesi liberi dal giogo estense acclamavano spontaneamente il Re prode, il Re Vittorio Emanuele.» L'ingenuo Commissario, accorrendo a Massa col rotolo de' suoi proclami sotto il braccio, aveva dimenticato che quel dì era il 28, e che nelle poche ore di quel dì fra la partenza degli Estensi e il suo arrivo, niuno aveva, spontaneamente o no, acclamato né un Re prode, né un Re vigliacco. Le cifre in tali occasioni hanno una logica irresistibile.

Nel tempo stesso che il 27 la Sardegna usurpava il Governo di territorii estensi, e teneva accreditato presso il Duca di Modena un Inviato straordinario e Ministro plenipotenziario, il giorno

(1) Terzo bollettino ufficiale della guerra, Torino, 30 aprile, sera; nella Gazzetta piemontese del 2 maggio 1859.

COLPO DI MANO A FIRENZE. 71

medesimo 27 il conte di Cavour partecipava da Torino al Governo Ducale la nomina del Minghetti a Segretario generale del Ministero degli affari esteri, aggiungendo che questi rimarrebbe autorizzato a firmare quindi innanzi ed in di lui assenza le corrispondenze; il 28 milizie regolari sarde occupavano Massa e Carrara, il 29 Minghetti nella nuova sua qualità trasmetteva al Governo di Modena certificati di consegne eseguite, siccome è di pratica tra gli Stati amici e che si sussidiano vicendevolmente in materia di giustizia; ed il 30, senza che nel frattempo fosse sopravvenuto da parte del Buca di Modena il minimo atto che potesse provocarlo, senza intimazione di guerra od altro atto da parte del Governo di Torino, questo proclamava uffizialmente considerarsi in istato di guerra con Francesco V., tre giorni dopo che il Governo di Re Vittorio Emanuele aveva consumate le azioni più ostili verso un vicino inoffensivo! Il Duca di Modena invitò il Governo sardo (1) a dichiarare se esso accettava o no la responsabilità della violazione ed usurpazione dei territorii estensi di Massa, Carrara e Montignoso, commessa da agenti e da truppe sarde. Da Torino fu risposto che sì; il Duca protestò.

Il dì 12 maggio un Corpofranco d'intorno a quattrocento uomini muoveva ad assalire Fosdinovo. Soli settanta soldati estensi lor mossero incontro, e respinsero sino a Castelpoggio. Da allora nessuno tornò più a molestare i ducali. Massa e Carrara rimasero in mano degli usurpatori. Il 18 di quello stesso mese il Go verno di Torino aggregò definitivamente quel territorio estense agli Stati sardi (1), inviatovi un Campi, Intendente della provincia di Chiavari, a prenderne formale possesso. Quel territorio era parte di quello che Napoleone III. aveva già concesso a Casa di Savoia in modo assoluto a Plombières, né per esso occorrevano le cerimonie e le circonlocuzioni che abbiamo vedute adoperarsi a Firenze. Per Massa e Carrara bastava dire: Questo ho rubato e mel tengo; e tanto pareva sufficiente ad onestare la prodezza del furto.

(1)

Dispaccio del conte Forni, Ministro estense degli affari esterni, al conte di Cavour, del 2 maggio 1859.

(2)

Proclama del conte Ponza di San Martino, Commissario straordinario sardo pel Genovesato, dato da Genova il dì 17 maggio; presso lo Zobi (Cronaca del 1859, Vol. I., pag. 423-424).

72

CAPITOLO DECIMOTTAVO.

Un rovescio a Parma.

Il Ministero della Reggente. - La scaltra supremazia; uno sciocca presontuoso; un finanziere onesto; fedeltà e debolezza. - Luisa di Borbone. - Pallavicino e le truppe. - Un Direttore di Polizia su due scanni. - La neutralità. - I Volontarii a Parma. - Tre capitani felloni. - Una Messa ed una rivista. - Quattro membri del Comitato, - II primo di maggio. - Il colonnello Da-Vico. - Indirizzo degli ufficiali. - Partenza della Duchessa. - Un'adunanza senza risultato. - I pulcini nella stoppa. - Una Giunta veramente provvisoria. - I novellissimi disobbediti. - Due prediche al deserto. - Lealtà, coraggio, senno. - La Giunta va in dileguo. - Pallavicino in Cittadella. - Restaurazione del Governo ducale. - Premurosissima sollecitudine d'un Segretario intimo. - Ritorno della Reggente. - Scoperta d'un nuovo metodo per trovar armi. - Tutto rientra nell'ordine, - Sir Scarlett.

A

Parma, morto il Duca Carlo III., la Duchessa Luisa, assunta la Reggenza durante la minorità del Duca Roberto I., aveva affidata Fa m mi Distrazione dello Stato ad un nuovo Ministero, composto del commendatore Enrico Salati pel dipartimento di Grazia e Giustizia; di Giuseppe Cattani per l'Interno; del marchese Giuseppe Pallavicino, ad un tempo eletto a Segretario intimo di Gabinetto, per gli affari esterni; di Antonio Lombardini per le Finanze. Poco appresso un giornale scherzoso caratterizzava già esattamente il grado d'influenza che ognuno di essi esercitava nel Ministero. Pallavicino, Lombardini e Salati, con grandi occhiali siccome di vista assai debole, camminavano l'uno dietro l'altro, poggiando ognuno la destra sulla spalla del precedente; e innanzi a tutti il Cattani, senza occhiali qual uno che vegga benissimo, guidatore di quei tre quasi ciechi.

Di pronto e svegliato ingegno, era infatti il Cattani anima e forza motrice del Ministero; e di codesta sua supremazia scaltramente usando o piuttosto abusando, seppe imprimere tale indir rizzo da conseguire che l'operato degli altri Ministri appieno col suo concordasse. Mentre «facilmente lusingava e prometteva quel che poi con suo grave discredito non manteneva (1),»

(1) Zobi; Cronaca degli avvenimenti 4'Italia nel 1850, Vol. II., pag.

UN ROVESCIO A PARMA. 73

punto scrupoloso nella scelta de' mezzi per quanto si riferisse a cose politiche, partigiano fanatico di tutto che fosse piemontese, non proteggendo se non individui del suo sentimento, e in ogni modo cercando fossero beneficati, colla melliflua facondia seduceva gli uni, trascinava gli altri, di tutti a suoi scopi servendosi. Mente assai limitata, altissimamente presumente di so, prepotente, prontissimo al promettere quanto al dimenticare il promesso, il marchese Pallavicino, facendo pompa co' liberali di sentimenti liberalissimi, e perciò «applaudito nel 1848 e 1849 (1),» era schiavo docilissimo della volontà del Cattani; e quotidianamente chiamato a trattare della somma degli affari dello Stato colla Reggente, abusava dell'ascendente morale che, natural conseguenza del suo ufficio di Segretario intimo di Gabinetto, aveva, consigliere più ascoltato, poco a poco acquisito sopra la Duchessa. Lombardini, Ministro di Finanza senza viste finanziarie, economista gretto e limitato, grande manipolatore di cifre, incapace di approfittare d'un centesimo per proprio conto, altri dicevano infarcito di liberalismo, quantunque nel vero né durante il tempo in cui stette al Ministero, né prima, non avesse mai professato opinioni liberali (1). Dotto in cose legali, quantunque di non grande levatura, il Salati, galantuomo a tutta prova, realmente affezionato alla legittima sovranità del Ducato, era stato conservato siccome innocuo nel posto di Ministro di Grazia e Giustizia, che avea coperto regnando il Duca Carlo III. Ma debole all'estremo, si lasciava in piena buonafede trascinare da taluno de' colleghi e de' suoi dipendenti a tutte quelle disposizioni che si desideravano 4a lui prese nell'interesse del loro partito.

Uno scrittore elegante ed elevato, animo onesto e lealissimo, incapace affatto d'ingannare deliberatamente il leggitore, ma malauguratamente attignente ogni sua migliore informazione ad un'unica fonte ed a fonte ben interessata, e per questo senza punto volerlo e saperlo apprezzatole di uomini e di cose non sempre giusto e imparziale, Enrico di Riancey (3), ritraggo Pallavicino,

(1)

E. de Riancey; Madame la Duchesse de Parme devant l'Europe, pag. 58.

(2)

Dal momento poi che il Piemonte minacciò l'ultima riscossa, non cessò di gridare contro gl'iniqui maneggi di Cavour, predicando agl'illusi che quest'uomo traeva la povera Italia a perdizione.

(3) Madame la Duchesse de Parme et les derniers événements, pag. 23.

74 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

Salati e Lombardini, «intelligenze elevate, nobili cuori, circondati dalla venerazione e dalla confidenza d'ognuno. La devozione, il talento, l'integrità!» Pure, come caddero, governarono senza stima e senza fiducia. Senza stima e senza fiducia degli uomini della legittimità e del diritto, che li vedeano, onnipotenti presso la Reggente, proporre e consigliare disposizioni né sempre dettate da imparziale giustizia, né sempre conformi a principii di rettitudine vera; dare all'Europa meravigliata lo spettacolo d'una politica, che non tenendo alcun calcolo di Trattati vigenti e d'interessi veri del paese per farsi tutta piemontese, nello stretto rigore del termine, scalzava le radici medesime del trono. Senza stima e senza fiducia degli uomini della rivoluzione, ai quali pareva non mai si facesse abbastanza, e il Ministero dissero «imisto d'astuzie gesuitiche e d'oltracotanze austromilitari,» ed il Pallavicino «cospiratore co' gesuiti e co' legittimisti, avente in devozione l'Austria, perché proteggeva gli uni e gli altri, inteso a tenere la Duchessa ferma in quella strada per compiacere alla Compagnia, a Vienna, a sé stesso (1);» e questo in paese ove la Compagnia non aveva alcuna influenza e non esisteva nemmeno; ove era divenuto sistema di governo non mai pretermettere cosa alcuna che potesse valere ad alienarsi l'Austria, a separarsi dall'Austria, ad osteggiare l'Austria; mentre fra i Ministri tutti il più avverso a Vienna era giusto quello stesso Pallavicino. Senza stima e senza fiducia di quanti alieni da passioni politiche, vedevano fra il buono innegabile di un reggimento che ambiva farsi dir liberale, l'assurdo governare di Ministri di assoluta ignoranza politica, quanto stranamente presumenti delle proprie loro vedute, fittisi in capo di rendersi più popolari che fra' suoi Camillo di Cavour.

In tutti gli avvenimenti compiutisi durante lo spazio di tempo in cui la Duchessa Luisa tenne il potere, è d'uopo tirare una linea di divisione ben netta fra il Ministero e la Reggente, qualunque pur fosse la parte diretta naturalmente serbata all'alta e sicura intelligenza della principessa, che sola seppe conquistare e serbare venerazione e confidenza, che uomini più esaltati di un partito cui nulla è sacro, né sesso, né virtù, né sventure, poterono bensì calunniare,

(1) Zobi; Cronaca degli avvenimenti d'Italia nel 1859, Vol. II., pag. 12.

UN ROVESCIO A PARMA. 75

contaminare non mai. Figlia di Francia, discendente della prima stirpe Reale del mondo, di San Luigi, di Enrico IV., di Luigi XIV., Luisa di Borbone aveva sortito da natura doni meravigliosi, una rara elevatezza di mente, una rettitudine di spirito incomparabile, una energia di volontà ed una forza di perseveranza veramente virili, la pietà sincera, la franca benevolenza, la prontezza al perdono, la lealtà generosa che affronta il periglio, la devozione che non conosce se non il dovere. Educata alla scuola dell'infortunio, a trentaquattro anni rimasta sola, senz'appoggio, con quattro fanciulli tenerelli, in un paese che non conosceva se non per averlo amato siccome sua patria di adozione, nuova agli affari dello Stato, ella si era trovata tutto ad un tratto rivestita d'un potere cinto da ogni parte di ostacoli e di perigli. Abbisognavano riforme. Comincia nella sua casa medesima, sbandisce il lusso oneroso, le inutili pompe. Riordina le Finanze, sminuisce i pubblici aggravii, e traverso le crisi alimentari di tre anni, le inondazioni, il cholera ed i torbidi, aumenta i soldi e le pensioni degl'impiegati, paga quattro milioni del debito dello Stato, e crea mia riserva nel Tesoro.

Carlo III. aveva portato le truppe parmensi ad una forza numerica che in verun modo stava in proporzione col novero degli abitanti e co' mezzi finanziarii dello Stato. Una riduzione notevole era certamente provvedimento urgente ed inevitabile, ma che d'altronde doveva essere condotto con grande circospezione. Passato appena di vita Carlo III., il Pallavicino, cumulate al duplice suo uffizio di Ministro agli Esterni e Segretario di Gabinetto le mansioni di presidente del Dipartimento militare, dava opera a codesta bisogna con ardore siffatto che ben rivelava, come, purché reagire in tutto e possibilmente rovesciare tutto quanto era stato fatto fino allora, ben più che i dettami dell'equità e della ragione si seguissero gl'impulsi della passione, e come la truppa, che ave» troppo brillato sotto il Duca defunto, si voleva ora opprimere ed avvilire in ogni modo. Le truppe furono ridotte; e senza riguardo alcuno alla trista condizione in cui collocavansi, si posero in disponibilità di servigio, parte a metà e parte a due terzi di soldo, circa un centinaio di ufficiali, la maggior parte sprovveduti affatto d'altri mezzi di sussistenza, e fra loro moltissimi carichi di famiglia Non è a dire il malcontento prodotto da

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codesta malaugurata, mal ponderata, impolitica misura, nella quale l'odio solo fu guida, e per cui circa un terzo degli ufficiali, sudditi parmensi essi pure, veniva lanciato nella miseria. Tennero dietro molte altre deliberazioni improntate d'eguale carattere.

Tali procedimenti non potevano condurre che ad una conseguenza, rendere generale fra le truppe il pensiero di aversi ostile il Ministero, e pili d'ogni altro quel marchese Pallavicino, che sfornito affatto d'ogni cognizione di cose militari, era presidente del Dipartimento militare. Venuto a capo degli Ufficii presso quel Dipartimento, e nel 1856 al comando di tutte le milizie dello Stato il colonnello Cesare Da-Vico, riusciva bensì a questi di conciliare le pretensioni del Ministro coi giusti reclami sempre avanzati dalla truppa, di migliorare la condizione degli ufficiali in disponibilità, che in breve tempo poterono anche essere posti nuovamente in attività di servigio, Ma dopo che vidersi tutte poco a poco vergognosamente mancate le mille promesse fatte dal Pallavicino al Da-Vico di sostenerlo nella nuova sua posizione e seguirne le proposte, dopo la minaccia che ai comandi superiori delle truppe e della Brigata, se declinati dal Da-Vico, sarebbero chiamati ufficiali forestieri, che ben si vedeva donde sarebbero fatti venire, quell'opinione tornò a ringagliardire; né bastò a toglierla l'aumento accordato del 10 al 20 per 100 del soldo degli ufficiali e de' soldati.

Durante la Reggenza della Duchessa, era succeduto a Direttore della Polizia generale dello Stato un dottore Luigi Draghi, uomo d'ingegno, settario fino dalla gioventù, venduto corpo ed anima al partito piemontese. Fondata la Società Nazionale del Cavour, instituito in Parma un Comitato di questa, il Draghi, fatto cavaliere dai Borboni, fu mandato a farne parte. Stando la Polizia in degne mani, è facile pensare che dovesse avvenirne.

Incalzando gli avvenimenti sullo schiudere del 1859, e ripetutamente insistendo il Da-Vico, Comandante delle truppe, presso il Ministro Pallavicino affinché si usassero più giuste e concilianti maniere verso parecchi ufficiali meritevoli di speciali riguardi; si agisse con maggiore franchezza e senza mezzi termini contro pochi ufficiali, fra' quali un ufficiale superiore in attività di servigio, onde conoscere sino a qual punto si avesse a far calcolo della pubblica opinione che con lettere anonime, dirette allo


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stesso marchese Pallavicino, li accusava d'infedeltà ai loro giuramenti e di segrete intelligenze coi rivoluzionarii; e perché si precisassero positive istruzioni dietro le quali si dovesse regolare il militare pel caso possibile di tentativi di ribellione, alle stringenti rimostranze il Pallavicino non si diede per inteso, continuò l'oppressione a quanto perteneva al militare, dell'opinione pubblica non si volle tenere alcun conto, ed anzi quell'uffiziale superiore, indicato nelle lettere anonime, da quel momento divenne il segreto confidente dello stesso Pallavicino. Al Comando delle truppe niuna istruzione fu data, comunque pertinacemente richiesta, tenendosi pago il Ministro a tenere le milizie nel pericolo, per quanto si comportassero con prudenza, di dare in fallo per non potere conoscere a quale scopo realmente mirasse il Governo, e se questo avrebbe seguito le parti dell'Austria o del Piemonte, in un momento in cui ognuno riconosceva impossibile quella che ai più pareva ridicola neutralità dello Stato parmense, e il Ministero si sbracciava affermare sarebbe proclamata qualora le ostilità fossero venute a scoppiare.

Che Stati dell'Italia centrale pili discosti dal suolo probabile delle grandi battaglie, non confinanti né coll'Austria né col Piemonte, potessero parlare di perfetta neutralità nelle lotte imminenti, quando incerto affatto poteva ancora apparire l'esito finale, né forse vi aveva luogo a riporre piena fiducia nelle truppe del paese, questo si poteva benissimo comprendere ed anche tenersi appieno giustificato, fosse pure per sola ed ovvia prudenza; quand'anche interessi dinastici sembrassero dover consigliare piuttosto una franca alleanza contro la rivoluzione. Che in istato di pace e perfetta tranquillità il Ducato di Parma potesse cercare di mantenersi quanto più gli fosse dato indipendente da chicchessia, anche questo si capiva agevolmente, ed il sentimento della propria dignità, la tutela dell'autonomia di popoli senza offendere i doveri dell'amicizia verso Potenze alleate, non potevano anzi che trovar lode e stima da tutte parti, quando verso tutte parti ne fosse fatto esercizio con perfetta ed eguale lealtà. Ma che allo scoppio delle ostilità, d'accosto al teatro della guerra, anzi più propriamente nella periferia del teatro stesso della guerra, il Ducato di Parma per l'importantissima fortezza di Piacenza rientrando nel sistema medesimo di difesa d'una delle due parti contendenti, si

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volesse e potesse mantenere una neutralità nella realtà favorevole solo a chi non possedesse Piacenza, tutto ciò per verità non era altrettanto agevole a concepire, e molto meno ancora a porre ad effetto; sembrando, almeno a' più, naturale e forzata conseguenza dello stato delle cose la necessità pel Ducato di Parma di seguire le sorti di quella Potenza che teneva Piacenza in sue mani. A fronte dell'ingorda avidità d'un vicino, cui da oltre due lustri le baionette imperiali erano state unico freno ed ostacolo ad impedire la vagheggiata annessione dei domini ducali, pel sovrano di Parma l'alleanza coll'Austria diveniva necessità vera, ineluttabile, suprema, quel dì in cui l'antico litigio fra il rispetto ai Trattati e la rivoluzione risorgente si apprestassero a sciogliere anco una volta a colpi di cannone.

Allorché i Comitati Nazionali furono convertiti in Comitati d'arrotamento ad uso dell'esercito sardo, il Comitato parmense, non astretto ad avvolgersi fra quelle ombre e cautele di cui non poteano far senza tutti gli altri Comitati italiani al di fuori del Piemonte, piantava Ufficii di arrotamento in Parma in case che ognuno conosceva, con una pubblicità e sicurezza ben giustificate dal Paversi membro del Comitato medesimo il Direttore della Polizia generale del Ducato. E quando il Comandante delle truppe ne portò lagnanza in iscritto al Ministero, n' ebbe in risposta, che questa notizia riesciva affatto nuova, ma che sarebbesi provveduto. Ed il Ministero provvide infatti, con far traslocare gli Ufficii in istrade più remote e continuare ad arrolare come prima. Il Draghi, Direttore di Polizia, encomiatone con calde parole il patriottismo, muniva gli arrolati del foglio di passo per emigrare; poi, spesso forniti di lettere commendatizie per parte di un'alta notabilità militare parmense in pensione, gloriosamente s'avviavano in Piemonte. Gli arruolati degli altri Stati d'Italia attraversavano svelatamente Io Stato dl' Parma, passando per le stazioni di corrispondenza che i Comitati avevano stabilite nel Ducato, ove le autorità politiche accordavano loro ogni agevolezza e protezione. Tutto ciò che il Da-Vico, sportane lagnanza d'ufficio al Ministero, poté ottenere, si fu che non attraversassero la città di Parma con distintivi soldatesche II militare non doveva darsene per inteso; d'altronde, di esso per verità solo pochissimi individui già noti per l'anteriore loro condotta, pe' loro principii e per la loro

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incapacità, caddero nell'inganno che la rivoluzione loro apprestava.

Il Duca di Modena avendo fatto avvertire il Governo parmense di avere spedito verso il confine minacciato una parte delle sue milizie, Pallavicino, chiamato a sé il colonnello Da-Vico, con esso convenne che una egual misura si prendesse nello Stato, aversi a disporre per la spedizione di truppe al confine, la linea d'osservazione parmense doversi porre in corrispondenza coll'estense. Da-Vico dispone, attende l'ordine che doveva porre in marcia le schiere; ma dopo alcuni giorni il Pallavicino, volgendo in derisione il provvedimento preso dal Duca di Modena, sospende ogni partenza.

I giorni de' grandi tranelli appressavano. Il 29 aprile era il giorno onomastico del Duca Roberto. Giusta l'usato, la Corte, i Ministri, i pubblici funzionarii convenivano nella cattedrale. La Reggente Luisa stava al suo posto. Allora allora il suo cuore aveva esultato alle vive acclamazioni con cui le truppe schierate lungo le vie e l'accorsa popolazione avevano dal palazzo alla chiesa salutato il corteggio reale. Nullameno, durante la Messa, i nobili lineamenti del volto della Duchessa tradivano ad intervalli un'inquietudine grave, vanamente combattuta dall'eroica fermezza di quel fortissimo animo. Talora lagrime silenziose le cadevan dal ciglio, Perché quell'ambascia, perché quelle lagrime? L'ora delle dure prove s'avvicinava per la madre e per la Sovrana. Gli eventi di Firenze eranle conti, quando, momenti prima di avviarsi alla cattedrale, un avviso misterioso le aveva annunziato che una dimostrazione a favore del Piemonte avrebbe avuto luogo in quel dì. Ned era menzogna. All'alba di quel mattino medesimo un colpo di mano era stato deciso dal Comitato Nazionale di Parma. I capitani Bucci, Briccoli e Calcagnini dovevano esserne gli esecutori. Filippo Bucci, dopo essere passato successivamente dalle truppe parmensi all'esercito piemontese, era più tardi ritornato al servizio militare del suo paese, ed ora era pervenuto al grado di Capo della Sezione del Genio. Spirito mutabile, senza consistenza, oggi partigiano delle pia esagerate dottrine rivoluzionarie, domani fautore sviscerato dell'Austria, aveva ottenuto a forza di sollecitazioni presso il generale conte Crenneville, l'Ordine imperiale della Corona di ferro, e appena ricevutolo da Vienna

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s'era riaccostato un'altra Tolta ai rappresentanti della democrazia, sinché Toro di Cavour l'ebbe compro. Emiliano Briccoli, comandante il Corpo d'artiglieria, aveva servito nella guerra del 1848; non privo d'influenza, né d'ardire, venduto a Torino, degno emulo dei toscano Danzini. Il marchese Celio Calcagnine, capitano nel battaglione dei Cacciatori, scapestrato, vizioso, dissipatore, era uno di que' sventurati, pei quali immersi sino alla gola nel più abbietto lezzo della crapula e del lupanare, la nobiltà del sangue e la memoria incontaminata degli avi non valgono a rattenere sulla via dell'onore.

Nell'interno della cattedrale la funzione religiosa aveva avu to termine. Al di fuori fra la popolazione, accalcata come d'ordinario, potevi per altro notare faccio sconosciute, forestiere, sinistre, e fra esse taluno affermare che quel comandante delle truppe comandava l'ultima sua parata. In quel mentre il colonnello Da-Vico, che teneva il comando sul luogo, viene a conoscere come corresse per la città voce, che nel momento in cui le soldatesche sfilerebbero secondo il costume innanzi al Palazzo Reale, parte di esse avrebbe fatta una dimostrazione. Le truppe stavano schierate parte sulla piazza del Duomo, parte nelle strade che fiancheggiano la cattedrale medesima, spingendosi fino a tutta la contrada di Santa Lucia. Da-Vico se ne pone alla testa, sbocca sulla piazza del Palazzo Reale; la Duchessa comparisce al verone. Da-Vico , preso il suo posto innanzi al Palazzo, attende con ansia, deliberato a quelle misure che la prudenza e l'urgenza avessero consigliato. Le truppe d'ogni arma sfilano con perfetta compostezza. Non una parola, non un atto vengono a turbare la festa. La popolazione si allontana in silenzio, i gufi precursori della tempesta, gli uomini del disordine, le faccio ben note de' 20 marzo 1848 e 22 luglio 1854 tornano a rintanarsi nell'ombra. Il Ministero, quantunque avvertito, e, come fu accertato indubbiamente più tardi, a giorno di tutto, non aveva prevenuto di nulla il comandante delle truppe, né se ne diede per inteso dappoi.

Il resto di quel dì, come il successivo 30, passarono in generale trepidazione, fra mezzo a voci d'ogni maniera; solamente la sera di quest'ultimo giorno, trovandosi al caffè militare, alcuni ufficiali furono consigliati ad allontanarsene perché persone di pessimo aspetto ed armate stavano appiattate nei dintorni

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in attesa di momento opportuno per esplodere le loro armi da fuoco sopra gli ufficiali ivi raccolti. La notte scorse in uno stato apparentemente normale, in quella calma pesante che sempre precede alle grandi bufere. Ognuno sentiva come qualche cosa di grave vi fosse Dell'aria. Gli esempi vicini, improvvisi e inattesi, scaldavano le fantasie più mobili e più pronte ad esaltarsi. L'inaudito successo della rivolta a Firenze, la notizia dei fatti delle contermini Massa e Carrara, le mille arti del Comitato Nazionale, le promesse, le minaccie, e sopra tutto Toro di Cavour ringagliardivano le speranze degli uni, i timori degli altri. I membri del Comitato, Armelonghi, Riva, Maini, Garbarmi, Draghi, davano norma e indirizzo ad ogni combriccola. Leonzio Armelonghi e Giorgio Maini, giovani avvocati di Parma, caratteri ardenti ed impetuosi, avevano acquistata una ben trista rinomanza, più ancora che per la violenza delle loro opinioni democratiche, per lo zelo con cui avevano assunta la difesa di tutti gli accusati tratti in giudizio non solamente pelle cospirazioni del 1854, ma eziandio per gli assassinii che vi tennero dietro (1). Salvatore Riva, prima Carbonaro, poi affratellato della Giovine Italia, erasi trovato al suo posto nei torbidi del 1821, 1831, 1848. Nel 1848, mentre sosteneva con vivacità le dottrine democratiche nel giornale L'indipendenza italiana, aveva costantemente rifiutato di allearsi ai liberali costituzionali, ed erasi con incessante energia opposto all'annessione del Ducato di Parma al Regno di Sardegna. Uno de più abili professori dello Stato, come medico godeva di riputazione incontestata e numerosa clientela. L ingegnere Angelo Garbarmi, in addietro mazziniano, era figlio di un integro magistrato, che forse senz'aderire

(1) Si sa che il colpo di pugnale per cui fu freddato Carlo III. non era delitto isolato; esso doveva servire di segnale ad un tentativo di rivoluzione nel Ducato e nell'Italia intera. Cinque delitti di sangue a brevi distanze Innestarono le vie di Parma dopo l'uccisione del Duca. Il 12 giugno 1854 il giudice Gabbi è ferito di cinque stilettate. l'11 febbraio 1855 Lanati, presidente del Consiglio di guerra, riceve sette colpi di pugnale. Il 13 aprile 1855 un colpo di pistola è tirato sopra il colonnello conte Anviti, comandante le truppe parmensi. Il 4 marzo 1856 il conte Magawly-Cerati, direttore delle carceri, cade sotto il ferro assassino per non rialzarsi mai più. Tredici giorni più tardi, il 17, il giudice Bordi è gravissimamente ferito, e campa a stento la vita. Armelonghi e Maini erano i difensori dei sicarii.

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alla causa rivoluzionaria s'indusse ad accettare il carico di membro del Governo provvisorio surto a Parma dalle rivolture del 1831. Ed ora questi quattro repubblicani sedevano fra' più calorosi fautori della Casa di Savoia, sacerdoti della setta di Cavour. Miracoli della Società Nazionale.

La domenica appresso, primo di maggio, non erano ancora le 7 del mattino che il Comandante delle truppe recavasi presso il marchese Pallavicino. Avendogli esposta la gravita della situazione e la impossibilità di continuare più a lungo in un sistema di indifferenza, gli dichiarava essere un'illusione quel preteso stato di neutralità; il Governo in un modo o nell'altro doversi ornai pronunciare; le truppe, potendo versare in circostanze stringenti si da vedersi obbligate ad agire senza attendere istruzioni, esser d'uopo si decidessero a dar loro ordini positivi, perché non avesse ad avvenire che truppe tenute all'oscuro de' veri intendimenti del Ministero, si comportassero in senso opposto a codesti intendimenti. «Non potere il Governo, rispondeva il Pallavicino, seguire una politica diversa da quella che aveva abbracciata; se il Comandante delle truppe non era soddisfatto delle condizioni in cui versava lo Stato, sortisse pure colla truppa, e per suo conto sotto la di lui personale responsabilità incominciasse nella città di Parma una controrivoluzione.» A cosiffatta risposta il colonnello Da-Vico, per declinare da sé qualsivoglia malleveria, affrettatosi al suo Uffizio, senza indugio scriveva (1):

(1) Ristabilita nel 3 maggio 1859 la legittima autorità della Reggente, Enrico di Riancev scriveva il libro: Madame la Duchesse de Parme et les demiers événements, con tale prestezza che già il 24 dello stesso mese potè essere dato alla pubblicità; libro compilato sopra elementi tutti somministrati dal marchese Giuseppe Pallavicino. Sotto apparenza di rilevare agli occhi dell'Europa l'importanza di quell'avvenimento, porse documenti perché fosse intessuta l'apologia di sé medesimo; e nel momento in cui a Parma alle idee di legittimità e di restaurazione era pienamente assicurato il predominio, falsò la storia, adulterando documenti, serbando silenzio su altri, svisando fatti, e ad eventi, che perdono significazione e valore col solo spostarne il momento, assegnando ore diverse da quelle in cui nella realtà ebbero luogo. Di tutto questo, ben s'intende, Enrico di Riancey non può essere tenuto in verun modo responsabile; e la rettifica co' documenti alla mano non è né critica, né polemica, da entrambe le quali abboniamo, ma semplice e stretto dovere di storico.

Nella sua vita, ne' suoi atti, Luisa di Borbone nulla aveva a nascondere

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«All'Eccelsa Presidenza del Dipartimento militare in Parma.

» Protocollo riservato N. 96.

» Il Comandante delle Truppe.

» Nella condizione di assoluta incertezza in cui si trova lo Stato, nella generale apprensione cagionata dagli avvenimenti che si succedono, la truppa e più particolarmente gli ufficiali sono fatti oggetto della generale esecrazione perché non si dichiarano, e non danno l'ultima spinta a ciò il Governo accordi» quanto le popolazioni desiderano.

» Il contegno degli ufficiali fu da qualche giorno una continua esemplare prova di prudenza e di abnegazione. Ma in que»sto momento le cose sono pervenute a tal punto che lo scrivendo te Comando dichiara non potere più oltre continuare in questo stato più che anormale; e quando non si prenda una qualche positiva determinazione, forse non potersi ora far molto calcolo della truppa, quando pure si astenesse da una dimostrazione contraria al Governo.

nulla a scusare; ben altro era il caso pel marchese Pallavicino, cui veniva in accoucio lo scritto del Riancey. Or trasmettendo a questi la lettera del Da-Vico , che qui per la prima volta diamo in luce, ricopiata esattissimamente dall'originale medesimo consegnato al Ministro Pallavicino, ei non ebbe guari scrupolo di alterarla e mutilarla, sì che acquistasse senso ed aspetto che non aveva e non ha. De Riancev narra (pag. 106): «Si trattava di sapere quale sarebbe realmente, in caso d'una collisione imminente, l'attitudine della forza armata. Il Consiglio dei Ministri consultò il comandante in capo, colonnello Da-Vico . Questo bravo e leale servitore non poté dissimularlo; rispose così.» E qui riporta la lettera storpiata; poi continua (pag. 107): «A questa risposta non era più dubbio che il Governo non aveva alcuna speranza a fondare sulla forza militare.» Non fa il Consiglio dei Ministri che consultò il comandante in capo; era per converso il colonnello Da-Vico che compulsava il Ministero a decidersi, e a decidersi in un senso da cui tanti fatti provavano quant'ei decisamente abbonisse. Non era Da-Vico che interrogato rispondesse, ma non chiesto avvertiva. Quale sarebbe stata, in caso di una collisione con ribelli, l'attitudine delle truppe, rispondono il 2 e 3 maggio, ed il 9 e 10 giugno 1859; rispondono il sangue versato, i ranghi disciolti, le bandiere, le armi, le artiglierie consegnate spontaneamente a Mantova, purché non avessero a divenir piemontesi.

84 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

» Questa cosa si porta a conoscenza della Superiorità, affinché nelle attuali contingenze si degni dare quelle disposizioni che stimerà pili opportune.

» Parma, il 1. Maggio 1859.

» Da-Vico .»

Anima del Comitato Nazionale e caporano della cospirazione militare, Àrmelonghi e Bucci s'erano divise le parti; a quello la rivolta da trivio, a questo la rivolta da caserma. Una lettera, redatta con perfida abilità fra di loro (1) doveva essere presentata dal Bucci all'adesione degli ufficiali, da essi sottoscritta e rimessa alla Reggente. Approvata in precedenza dal Ministro Pallavicino (), quaranta ufficiali firmarono, fra questi i due Maggiori

(1) La minuta di quell'atto esiste in mano del colonnello Da-Vico, e ritiensi scritta di pugno dell'avvocato Àrmelonghi. La lettera suonava cosi:

«Altezza Reale!

» I doveri della disciplina, ed il giuramento che ci lega al sovrano, non fanno ostacolo, crediamo, che noi domandiamo rispettosamente a Vostra Altezza Reale di por fine ad una situazione, che, nei solenni momenti in cui siamo, potrebbe agli occhi del paese renderci indegni del posto che occupiamo e del nome d'Italiani.

» Nel momento in cui la questione dell'indipendenza nazionale si risolve sui campi di battaglia, una più lunga incertezza ci sarebbe dolorosa; essa ci obbliga a domandare a Vostra Altezza di toglierci all'inazione presente, contraria alla virtù del vero soldato e del cittadino.

» Se questo voto trova accesso presso Vostra Altezza, noi sentiamo nel nostro animo la certezza di provare colla nostra bravura che non siamo indegni delle sollecitudini che Vostra Altezza ci ha costantemente prodigate.

» Con venerazione e divozione ci proclamiamo

» di Vostra Altezza» i fedelissimi sudditi ed obbedientissimi servitori.»

(2) A proposito di quella lettera De Riancey disse soltanto (pag. 105): «I mestatori la rimisero al Comandante delle truppe come l'espressione della volontà dell'armata; ed il primo di maggio pervenne a' Ministri.» Fu rimessa non al Comandante delle truppe, ma a Pallavicino, che l'aveva approvata, l'attendeva, ed avea così predisposto. Mentre il colonnello Da-Vico scriveva e faceva copiare là Riservata N. 96, di cui più sopra parlammo, eransi a lui presentati ufficiali di varii corpi, regolarmente instando che il Governo prendesse una qualche deliberazione; ed in tale occasione gli dissero della lettera ch'era mente di taluni indirizzare alla Duchessa. Senza indugio, chiamati a sé i Comandanti dei due battaglioni d'infanteria

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comandanti il 2.° battaglione d'infanteria ed il battaglione di Cacciatori, la pia gran parte in perfetta buona fede, alienissimi dal sospettare lo scopo iniquo cui sarebbe fatto servire quel documento. Più e più molti rifiutarono risolutamente di apporvi il lor nome. Colla lettera del colonnello Da-Vico e l'istanza collettiva degli ufficiali alla mano, dopo essersi stretto a colloquio coi colleghi del Ministero, Pallavicino portavasi presso la Duchessa, che in particolare quel dì egli aveva saputo rendere inaccessibile a chiunque non dividesse le sue opinioni. Dal giorno innanzi voci sinistre, allarmanti, eranle portate a notizia senza posa, d'ora in ora incalzando. Uomini alto locati, di purissima ed incrollabile fede, fu detto fossero minacciati nella vita, e costretti ad allontanarsi. Nella città gli onesti, impauriti e tremanti, si nascondevano.; eventi ben giustificati e scusabili in paese in cui il ferro assassino aveva comprovato di non sapersi arretrare dinanzi a veruna enormità, e mentre l'agitazione, abilissimamente sostenuta, crescer rapidamente. Quantunque dotata da natura di coraggio non comune in una donna, la Duchessa Luisa, cui un pugnale aveva freddato il padre e un pugnale il marito, non aveva potuto guardarsi da quello sgomento che da ostelli modesti era salito alla magione del principe. Fatta persuasa che niun calcolo fosse oramai a formare sulla fedeltà delle truppe, convinta di non potere più a lungo durare a fronte di pericoli che le si dicevano d'istante in istante imminenti, trepidante pe' figliuoli, non durò molta fatica ad arrendersi a' pressanti consigli.

Immediatamente i giovani principi sono diretti a Brescello

e del battaglione di Cacciatori, data loro lettura della lettera che aveva apprestata, portavasi con essi il colonnello presso il Pallavicino, cui alla loro presenza la lesse e consegnò. Il Ministro con laconici modi si disimpegnava, licenziando i tre capi battaglione. Rimasto solo col colonnello, mentre questi gli teneva parola di quanto gli aveano allora allora partecipato intorno ad una istanza collettiva alla Reggente, fu annunziato al Ministro che alcuni ufficiali chiedevano presentarsi al Comandante delle truppe. Pallavicino ordinò fossero introdotti; e udito da essi il desiderio che in massima venisse previamente approvata la minuta della istanza collettiva, che intendevano far giungere alla Duchessa, si affrettava rispondere: rimettessero a lui quella minuta, ed a lui, appena il potessero, direttamente facessero tenere eziandio l'originale rivestito delle sottoscrizioni. E così fu fatto.

86 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

forte castello nel Ducato di Modena, sulla via per Mantova, ove la Duchessa verrà a raggiungerli colle principesse sue figlie. Il Consiglio de' Ministri è costituito in Commissione di Governo. Un atto sovrano viene steso e confidato al marchese Pallavicino, con cui questi, nella qualità di Segretario intimo di Gabinetto, è autorizzato a prosciogliere all'occorrenza le truppe dal giuramento di fedeltà. Si compila una proclamazione ai popoli dello Stato (1); poi, col cuore spezzato, la Duchessa parte, ricalcando il cammino dell'esilio undici anni prima battuto. La rivolta aveva trionfato prima ancora di aver potuto nella realtà dare fuori.

Radunati prestamente intorno a sé i Ministri, i Capi dei Dicasteri, fra cui il Draghi, il Comandante delle truppe, ed i comandanti dei Corpi militari attivi, il Pallavicino, annunziata la partenza della Duchessa, propose si avesse a discutere sul da farsi nelle urgenti circostanze in cui, disse, si trovava lo Stato. Com'era da attendersi, i Ministri ed i Capi di Dicastero da essi dipendenti

(1) Ad onta del desiderio di non inframmettere alla narrazione copia soverchia di documenti, la riferiamo nella sua integrità. Squarciati i veli, trova spiegazione ogni parola posta in bocca alla Duchessa.

«Noi Luisa Maria di Borbone, Reggente pel Duca Ro»berto I. gli Stati parmensi.

» Poiché gli umani desiderii delle grandi Potenze non sono riusciti ancora alla riunione d'un Congresso europeo, nel quale sia studiato di appianare con ragionevoli concessioni e saggie provvidenze le difficoltà insorte, e intanto in sì grande prossimità ai Reali Nostri Dominii si ò accesa la guerra, i doveri di madre Ci impongono di porre in sicuro dalle eventualità di essa i Nostri amatissimi figli.

» Abbiamo perciò dovuto prendere la determinazione di allontanarci per tal fine dallo Stato temporariamente; costituendo, siccome costituiamo in Commissione di Governo i nostri Ministri, affinché durante la Nostra assenza reggano ed amministrino lo Stato in nome del Duca Roberto I., e con tutti i Nostri poteri, secondo le leggi e le forme già stabilite, ed attenendosi in bisogno alle istruzioni speciali ohe abbiamo date ad essi per istraordinarie circostanze.

» Nella confidenza di riprendere tra breve personalmente l'esercizio della Nostra Reggenza, esprimiamo caldi e sinceri voti perché sia preservato da calamità questo diletto paese, e prevalgano negli animi la mitezza dei sentimenti e i consigli della ragione.

» Dato dalla Nostra Ducale Residenza di Parma, il di 1.° maggio 1859.

» Luisa.

» Da parte di S. A. R. il Segretario intimo di Gabinetto

» Giuseppe Pallavicino.»

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manifestarono: doversi continuare nel sistema di aspettativa e di neutralità sino allora seguito; se movimenti ostili della popolazione venissero a turbare la quiete, non avesse a seguire veruna misura repressiva; in fine si attendesse dagli eventi l'iniziativa di quanto fosse a farsi. Solo il colonnello Da-Vico ebbe coraggio di opporre: Non essere più tempo di continuare, come per lo passato, senza una positiva norma di quanto voleasi operare; essere ormai indispensabile che il Ministero chiaramente spiegasse la politica che intendeva seguire; non poter egli, Comandante delle truppe, imporre norma alcuna ai Ministri, ma quanto a sé terrebbe o rinuncierebbe il comando a seconda della presa deliberazione; a prevenire una catastrofe essere però sommamente urgente che questa determinazione si prenda; che se ostile fossesi dichiarata la popolazione, era dolorosa bensì ma inevitabile necessità dover reprimere, ove si manifestasse, qualunque movimento rivoluzionario. A tali parole, accolte con grande freddezza e piuttosto con visibile opposizione, i Ministri si traevano d'impaccio col sciogliere l'adunanza e dichiarare: voler essi, prima di devenire a concreta determinazione, sentire quali fossero le intenzioni del Comitato Nazionale parmense, e delegare a quest'uopo il Direttore Draghi con incarico di trattare e riferire.

Intrattanto stuoli di pagati dal Comitato scorazzavano per le vie di Parma gridando: Viva l'indipendenza! Siccome era giorno festivo, stante i regolamenti in vigore, i soldati uscivano per metodo alle 3 pomeridiane dai quartieri a diporto, né avendo potuto il colonnello Da-Vico , trattenuto dal Pallavicino nel palazzo del Ministero dalle otto del mattino fino alle ore 5 1/2 del pomeriggio, dare veruna disposizione in contrario, i soldati erano sortiti all'ora consueta. Alle porte delle caserme gruppi di emissarii e di popolo, di parenti, di conoscenti, di amici (1), eccitavano i soldati con elogi e rimbrotti. Il capitano Bucci, che sopra i fondi della Cassa del Genio aveva fatto ai soldati distribuzioni di vino e sigari, diede il segnale della fratellanza col popolo. I soldati si sparsero per la città bevendo e cantando. Come a Firenze, il Comitato pagava tutto.

(1) Le truppe, composte di sudditi parmensi, non mai si tramutavano di guarnigione.

88 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

Nel frattempo Draghi dal Comitato tornava a' Ministri, e dai Ministri al Comitato, Tenuto a piantare le sue tende nelle sale della Podesterìa di Parma, e costituitosi di propria autorità in Giunta di Governo sotto la presidenza del Riva (1). La notte cadeva, e già i pacifici cittadini si davano alla speranza che tutto fosse per quel giorno finito, quando la Giunta rivoluzionaria, accompagnata dallo stesso Draghi, si avviava, preceduta da una grande bandiera tricolore, al palazzo del Ministero, ove i ministri dichiararono di deporre quel potere che poche ore prima la Duchessa aveva lor affidato (2) Una imbrogliata e fiacca protesta, sotto forma di atto di cessione, con cui le truppe erano ad un tempo prosciolte

(1) Nelle vie di Parma fu affissa, scritta a mano, la Notificazione che segue:

«I sottoscritti Membri del Comitato Nazionale di Parma, riconosciuto il volere generale della popolazione ed il conforme sentimento delle truppe, hanno oggi assunto il Governo della città e delle provincie di Parma, a nome di Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele; solo però temporaneamente e fino a che un Commissario Regio venga a pigliare il reggimento del paese.

» Parma, 1.° maggio 1859.

» Questa dichiarazione è fatta in doppio originale, e sarà inserita nella Raccolta generale delle leggi.

Sottoscritti:» Riva Salvatore, Armelonghi Leonzio, avv. Giorgio Maini, A. Garlarini.»

(2) Scrive De Riancey (pag. 110-111): «Bande ammutinate si diressero al palazzo del Ministero. Le torcie minacciavano l'incendio; la forza e la violenza erano padrone. Niun mezzo umano di resistenza non restava ai Ministri.» Per iecusare i modi e la precipitazione con cui la Commissione di Governo depose i suoi poteri nelle mani del Comitato Nazionale, modi che anche a' men sospettosi parvero ben poco soddisfacenti, Pallavicino mette in bocca ad Enrico Riancey la più solenne menzogna. Una forte guardia militare con due cannoni e relativi artiglieri era appostata al Palazzo Reale, sito a due passi dal palazzo del Ministero ed in comunicazione con esso. Né i fanti, né gli artiglieri di quell'appostamento, né l'ufficiale che li comandava, avevano fraternizzato punto col popolaccio, con cui non si erano affratellati che i soldati usciti di caserma a diporto; sotto la loro protezione i Ministri potevano benissimo sostenersi pel momento. Anche nelle ore in cui i soldati uscivano a passeggio, rimanevano costantemente ed eziandio quel giorno rimasero nelle caserme della città e della città della forti riserve di truppa, tali che in qualunque caso avrebbero bastato a disciogliere qualsivoglia assembramento contrario al Governo. Se poi fosse stato dato il segnale d'allarme, lo spirito dell'immensa maggioranza degli ufficiali e dei soldati non essendo in fatto per nulla guasto, in

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dal giuramento, fu stesa e ricevuta dalla Giunta usurpatrice (1). Al colonnello Da-Vico , che in questo mezzo aveva calorosamente

pochi momenti tutte le truppe sarebbero state sotto le anni nelle caserme, pronte ad uscire, meno poche eccezioni, per confessione dello stesso De Riancey «una quarantina di soldati solamente si lasciò ingannare» (pag. 101), le quali, anziché danno, recato avrebbero vantaggio. Pallavicino aveva trattenuto presso di sé al palazzo del Ministero in inutili discussioni il Comandante delle truppe dalle 8 del mattino alle 5 s pomeridiane; e allorché alfine fu lasciato partire, non gli si volle dare, in onta alle sue incessanti richieste, alcuna istruzione intorno a quello che fosse all'occorrenza da farsi, ned egli era più in tempo d'impedire quanto da due ore e mezzo aveva luogo nelle vie fra soldati e plebe. La dichiarazione del colonnello Da-Vico, che movimenti diretti ad abbattere la dinastia si repulsassero, ed occorrendo si comprimessero colla forza, era stata avversata nello straordinario consiglio adunato dal Ministero dopo che fti fatta partire la Duchessa. «I membri della Giunta,» continua Riancey (pag. 111112), «si presentarono alla porta del palazzo, annunziando che impiegherebbero la» forza per penetrarvi. Essi sono ricevuti; i Ministri, cedendo ad una op» pressione contro la quale nulla li può proteggere, rispondono con una» protesta.» La dichiarazione del Comandante delle truppe, del doversi comprimere tentativi di aperta ribellione, aveva fatto sorgere il dubbio che egli conoscesse lo spirito de" soldati a lui subordinati meglio che Bucci e consorti, ed il timore che le truppe potessero seguire la voce dell'onore e del Da-Vico a preferenza di quella de' traditori. Quella dichiarazione, che a quel momento non si attendevano, aveva avuto per conseguenza che lo straordinario consiglio si disciogliesse senz'altro. Alla presenza di tutti i convenuti, il Ministero dichiarò di spedire il Draghi al Comitato, che a breve distanza dal palazzo de' Ministeri si costituiva pacificamente in Giunta di governo, per trattare e riferire. Draghi trattò e riferì; andò avanti e indietro. Solamente quando, mentre la notte inoltrava ed era a credere che soldati ubbriachi mal avrebbero corrisposto ad un segnale d'allarme, se pure dato per caso, lo stesso Draghi condusse la Giunta al Ministero. Non vi fu né sorpresa, né oppressione. La porta del palazzo si dischiuse ad attesi. Le torcie non minacciavano l'incendio; illuminavano.

(1) Quest'atto, compilato d'intesa fra il Ministero e la Giunta, suonava: «Colla dichiarazione che ci si presenta dai signori avvocato Leonzio Àrmelonghi, professore dottor Salvatore Riva, avvocato Giorgio Maini ed ingegnere dottore Angelo Garbarmi, essendosi verificato il caso dì forza prevalente, preveduto nelle istruzioni lasciateci oggi stesso da Sua Altezza Reale, Luisa Maria di Borbone, Reggente degli Stati Parmensi pel Duca Roberto I., ed atteso il pericolo di minacciati imminenti disordini, noi sottoscritti componenti la Commissione di Governo creata dalla prevenerata Altezza Sua Reale, cessiamo dall'esercizio del ricevuto incarico, esprimendo però in conformità di esse istruzioni:

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richiesto al Pallavicino acccogliesse la sua domanda di dimissione dal militare servigio, questi non volle accordarla (1).

Primo pensiero della Giunta fu di chiamare a sé il colonnello Da-Vico , ed ordinargli di far conoscere la forza delle truppe,

» 1.° che protestiamo per la conservazione del dominio e dei diritti dei» figli di Sua Altezza Reale medesima sugli Stati parmensi;

» 2.° che raccomandiamo con tutto calore, anche secondo i vivi desiderii di Sua Altezza Reale, quanto valer possa più efficacemente al mantenimento dell'ordine, della sicurezza e della quiete della capitale e di tutto lo Stato;

» 3.° che raccomandiamo altresì gl'interessi delle truppe parmensi, anche prosciogliendole dal giuramento, in modo che non restino senza congrua destinazione e provvedimento.

» Parma, il primo maggio 1859, alle ore 9 pomeridiane. Fatto in doppio originale.

Sottoscritti:» E. Salati; ?. Pallavicino; A. Lombardini; . Cattani.

» Visto e ricevuto:

Sottoscritti:

» Riva Salvatore; Armelonghi Leonzio; Maini Giorgio; A. Garbarini.»

Nemmeno una parola di nullità di atti, «Poi,» afferma Riancey (pag. 113),» i Ministri si ritirarono, attendendo gli avvenimenti e contando sull'effetto che produrrebbe la loro protesta. Malgrado le sue promesse, il Comitato Nazionale si astenne di pubblicare la protesta e la dissimuli agli occhi della popolazione e dell'armata.» Per verità, così stando le cose, altri avvenimenti, altri effetti non si potevano attendere che l'annessione dello Stato di Parma al Piemonte e la partenza della Brigata parmense dal Ducato. Chi mai avrebbe potuto pensare che la Giunta portasse essa a cognizione del pubblico un atto nell'interesse della potestà trabalzata? Chi teneva il diritto ed il dovere di annunziarlo alle truppe era quel marchese Pallavicino, cui la Duchessa aveva rilasciata facoltà di proscioglierle dal vincolo di fedeltà. L'atto di cessione e protesta era in doppio originale; uno di essi rimase presso Pallavicino. La sua persona non era guardata a vista, né correva alcun pericolo, né gli mancavano mezzi di portare a conoscenza delle truppe quel documento. Quando nella notte stessa, pochi minuti prima delle otto pomeridiane, il Comandante delle truppe si recò da lui per ottenere la sua dimissione, Pallavicino non gli fece parola alcuna di proteste fette. Sino a tarda ora del 3 maggio, niuno seppe di quel documento.

(1) Mentre «bande ammutinate circondavano il palazzo in cui era Pallavicino, le torcie minacciavano l'incendio, la forza e la violenza padroneggiavano, ed i Ministri cedevano ad una pressione contro cui nulla

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le quantità delle armi e delle munizioni (1). Saputolo, al capitano Calcagnini si diede l'incarico di partire senza indugio per Torino ad offerirvi al Re di Sardegna il Ducato e la Brigata di Parma. La notte intera que' della Giunta si occuparono ad estendere una proclamazione, a preparare decreti, a nuove nominazioni. Gli atti pubblici e le sentenze delle Autorità giudiziarie dovessero portare l'intitolazione: La Giunta provvisoria di Governo in nome di Sua Maestà il Se di Sardegna Vittorio Emanuele IL Alla direzione dei Ministeri furono destinati: un Giambattista Mori all'Interno, Boldi alla Giustizia ed alla pubblica istruzione, Niccoli alle Finanze, la Giunta riserbando a sé gli attributi del Ministero

» la poteva proteggerli,» Pallavicino vergava e trasmetteva al colonnello Da-Vico circa alle ore 7 1/2 pomeridiane, il viglietto che segue:

«Con dispiacere non ho potuto in nessun modo dar corso alla sua domanda di dimissione, perché quando l'ho ricevuta era già stato ceduto ogni nostro potere al Comitato Nazionale residente in Parma, il quale, sotto minaccia di disordini gravi in caso di opposizione, si è a noi presentato per ricevere il Governo. Ella perciò dipenderà dal detto Comitato, (a)

«(a) » 1.0 Maggio 1859.

» I membri sono:

» Avv. Àrmelonghi Sottoscritto;» Pallavicino.»

» Avv. Maini

» Dott. Riva

» Ing. Garbarmi.»

Parve curioso che il marchese Pallavicino potesse liberamente scrivere ed inviare il suo viglietto al Da-Vico , né potesse mandare la sua protesta alle truppe, né, scrivendo al Comandante delle truppe, si rammentasse di fargliela conoscere. Ricevuto quel viglietto, Da-Vico recatosi senza indugio dal Pallavicino, eran quasi le otto, lo trovava tutto occupato nella tranquilla regolare consegna del suo ufficio. Ogni preghiera di essere sollevato d'ogni ulteriore incarico fu vana.

(1) Ricevuto l'ordine di recarsi immediatamente al palazzo del Comune, il colonnello Da-Vico vi scontrava pel primo il Draghi, Direttore di Polizia, che tutto giulivo lo presentava alla Giunta, di cui faceva gli onori. Nella sala coi membri della Giunta, oltre varii impiegati, stavano il capitano marchese Calcagnini e tre persone che il Draghi disse essere: Rossi e Clementi, capitani, e Canobbio sottotenente nell'esercito sardo, quantunque non avessero nessun grado in quell'esercito, cui neppure mai appartennero. Erano tre garibaldini del 184849, che da qualche tempo si trovavano in Parma per prepararvi e dirigere il movimento.


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92 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

degli affari esteriori. Tatti gl'impiegati civili e militari si confermarono. Fu ordinata l'istituzione d'una Guardia Nazionale, affidandone il comando in capo al Gallenga-Mariotti (1), e l'organizzazione ai tre sedicenti ufficiali sardi Rossi, Clementi e Canobbio. Registri d'iscrizione dovevansi aprire nella gran sala dell'Università; tutti gì'individui da' venti ai quarant'anni erano invitati ad iscriversi.

Fin qui tutto era andato a seconda. gl'imbarazzi non dovevano cominciare che col sole novello. Di primissimo mattino la Giunta manda a chiamare il Direttore della Stamperia ducale. - Che cosa volete stampare?; dice il Direttore entrando. - Sei tu Buttafuoco?; gli si domanda (1). -Si. - Bene; vattene, e mandaci un compositore. - Questo non vi aiuterà molto senza i caratteri. - Non vogliamo ragioni; obbedisci. - II direttore si ritira e manda un operaio. La Giunta durò la più gran fatica ad ottenere che la sua proclamazione fosse stampata. Era già abbastanza un bel principio di sovranità. L'annessione alla Sardegna ripugnava ad ognuno, perfino a' più fervorosi fautori dell'indipendenza italiana. La Giunta non ispirava ad alcuno confidenza di sorta; il colore ben marcato delle opinioni demagogiche de' suoi membri spaventava gli onesti. La creazione d'una Guardia Nazionale, che non si aveva neppure osato rendere obbligatoria, non era ne' gusti de' pacifici abitanti. Una resistenza passiva cominciò ad organizzarsi. Le magistrature ne diedero l'esempio. I Tribunali rifiutarono di giudicare in nome della Giunta, e rimasero chiusi. I notai non vollero estendere verun documento. Armelonghi e Maini richiesero al Tesoriere dello Stato una somma di ventimila franchi. - Volentieri, rispose questo impiegato, a condizione che mi mostriate sopra qual capitolo del Budget questi 20, 000 franchi devono essere imputati. - I due avvocati montarono sulle

(1)

Antonio Gallenga, o il Luigi Mariotti di cui abbiamo altrove parlato (Vol. 1., pag. 93), nipote del Ministro Lombardini, sostenne in addietro una parte a Parma stessa. Fu egli che arringò, il 10 maggio 1848, dalla ringhiera della maggior piazza il popolo parmense, affine di prepararegli animi alla divisata annessione del Ducato al Piemonte (Vedi: V. Trevisan; Carlo III. di Parma, pag. 109-110).

(2)

Buttafuoco è uomo d'ingegno, scrittore di distinzione, affezionatissimo alla Reggente.

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furie, gridando che la burocrazia inceppava tutto. Dite gli scudi della burocrazia!; replica il Tesoriere, e si ritira. Non un centesimo uscì dalla Cassa.

Gl'imbrogli crescevano; eppure erano un nonnulla a petto di quanto le truppe apprestavano alla Giunta. La partenza della Duchessa aveva costernato vivamente ufficiali e soldati; la singolare precipitazione con cui la Commissione di Governo s'era dimessa li aveva mossi a sdegno. Soldati un momento traviati non avevano durato fatica a sentire l'umiliazione delle ovazioni di cui erano stati oggetto da parte della plebe. Questo contatto, questa fratellanza con quanto la città contava di più vile ed abbietto, aveva in loro prontamente prodotto un senso di supremo disgusto; e dal disgusto alla ripulsione non vi ha che un passo e brevissimo. Ognuno provava vergogna della parte che si aveva voluto infliggere alle truppe; e coloro medesimi che all'ultimo istante s'erano lasciati sedurre per metà, sentivano il pentimento ed il dolore farsi strada nel loro animo. Meno i pochi venduti al Piemonte, né gli ufficiali che avevano sottoscritta la lettera alla Reggente pensarono mai di cooperare con essa alla caduta della dinastia; né i soldati, che per le strade avevano gridato: Viva l'indipendenza!, sospettavano punto che per essi quel grido suonasse invece: Abbasso l'indipendenza! Il loro patriottismo si rivoltava all'idea di perdere l'autonomia dello Stato, e vedersi essi medesimi confusi ne' ranghi dell'esercito sardo. La fede giurata, l'attaccamento alla dinastia, l'affetto a codesta principessa, le cui sollecitudini stavano presenti nella memoria d'ognuno, riacquistarono irresistibile predominio.

Ben presto questi sentimenti si manifestarono altamente. Avvertita immediatamente dai pochi felloni, la Giunta vide l'estensione del pericolo che la minacciava, e tentò scongiurarlo. Ormai ella non poteva più dubitare che le truppe covassero il pensiero o di ristabilire il legittimo Governo, o di allontanarsi, se non fossero in questo riescite. Uno degli organizzatori della Guardia Nazionale, il Rossi, venne tantosto inviato dalla Giunta alle truppe perché tentasse di scongiurar la procella. Benché ei si annunzii capitano dell'esercito di S. M. il Re di Sardegna, ognuno sa perfettamente che non è rivestito di grado alcuno, che mai n' ebbe alcuno in un esercito regolare qualsiasi, non é un

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piemontese, ma un romano assoldato nel 1848 nelle bande del Garibaldi.

Non osando indossare un vestito militare, Rossi si presenta in abito civile alla Cittadella, e comincia un'arringa calorosa ai soldati, che chiama «bravi patriotti, campioni della sacra causa dell'indipendenza.» Chi siete voi? Noi non vi conosciamo. Ritiratevi. Noi non conosciamo che la nostra Duchessa, noi non serviamo che il suo Governo; gli rispondono da tutte le parti i soldati. Rossi insiste, s'anima, parla di colori italiani, di vessillo nazionale. Cento voci soffocano la sua parola ad un tempo. «Noi non seguiremo la vostra bandiera,» gli gridano.» Noi non abbia mo che una bandiera sola, quella del nostro paese, quella della nostra Duchessa. Mostrateci solamente un cappotto del nostro Duca Roberto, e anderemo in capo al mondo!» Un diluvio di fischi, di urli, d'invettive, di vituperii, di minaccie, obbliga il malcapitato oratore a svignarsela più che di fretta. Ei si ritira borbottando: «Son bene indisciplinati!» A tale notizia, Armelonghi accorre. La sua eloquenza non ha migliore successo. L'irritazione dei soldati raddoppia, ed egli si allontana atterrito. Poco più tardi, giunge da parte della Giunta l'ordine d'inviare immediatamente tre compagnie d'infanteria, l'una in esplorazione verso Colecchio e Tornovo, l'altra verso il Taro e Viarolo, la terza verso Colorno, Serbola e Ponte d'Enza. «Perché questa partenza?» Domandano i soldati. - Per andare a mettervi in guardia contro il nemico comune; si risponde loro. - «Come!»; replicano unanimi i soldati.» Voi pretendete dunque mandarci a combattere i nostri camerata, i soldati della nostra Duchessa! E voi, voi resterete a casa nostra! Noi non partiremo!» La Giunta dovette rassegnarsi a comprendere che toccava a lei ubbidire, anziché essere ubbidita. Le truppe rimasero ov'erano.

Sino dal mattino di quel dì il colonnello Da-Vico aveva ripetuto in iscritto la sua domanda alla Giunta per rientrare nella vita privata. Nulla fu trascurato per ismuoverlo, ma ei tenne fermo per ottenere la sua dimissione al più presto possibile; finché, verso la mezza notte, la Giunta avendogli inviato ordine di consegnare alle 9 antimeridiane del 3 alla Guardia Nazionale tutti i fucili esistenti nell'armeria colle relative munizioni, ei scriveva alla Giunta che, senza attendere le sue deliberazioni, si ritirava

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dal comando delle truppe e della Brigata, e lo rimetteva al cannello cavaliere Andrea Perini. Nello stesso istante rimandava la guardia militare appostata al suo alloggio.

Dalle primissime ore del 3 insolita agitazione scorgevasi nelle vie di Parma; drappelli di truppa avviavansi dalle caserme della città alla Cittadella, che sta fuor delle mura. Correva voce che colà il disordine fosse al colmo, e le truppe ammutinate, li colonnello Da-Vico , che, ciò udito, erasi all'istante recato in Cittadella (1), trovava le truppe che vi aveano stanza, spontaneamente portatesi sotto le armi, altamente gridando: volere recarsi in città a ristabilire a viva forza l'autorità della Duchessa (). Molti degli ufficiali presenti avevano pure abbracciato codesto partito, quando il colonnello Perini dichiarava al Da-Vico , essere sua ferma intenzione di partire senza indugio colle truppe raccolte in Cittadella e muovere sopra Brescello. L'esacerbazione delle truppe cresceva a vista d'occhio; l'ordine di partire per Brescello avrebbe condotto indubbiamente ad un conflitto. Senza più, il Da-Vico prende il suo partito. Dichiara al colonnello Perini che da quel momento ripiglia il comando, spontaneamente deposto alcune ore prima, e che non si ebbe tempo o presenza di spirito per conte

(1) È meno esatto il Riancey quando scrive (Madame la Duchesse de Parme et les derniers événements, pag. 127): «Il giorno avanti, la Giunta aveva ordinato di consegnare il deposito d'armi alla Guardia Nazionale.» II 3, nel mattino verso 9 ore, una squadra si porta all'arsenale, e, per che le armi non possano passare nelle mani de' nemici della legittima autorità, queste armi sono spezzate. Nel ritorno s'aggruppano presso al loro colonnello Cesare Da-Vico ed ai loro capibattaglione, li sollecitano d'indirizzare due dichiarazioni, l'una diretta alla Giunta, l'altra all'antico Ministro della guerra, a quello ch'essi considerano sempre siccome il loro vero capo, il marchese Pallavicino.» La squadra partì dalla Cittadella per portarsi all'arsenale, quando già il colonnello Da-Vico era in Cittadella. L'intimazione alla Giunta fu spedita dalla Cittadella alle 8 e un quarto precise. Se la squadra fossesi recata verso le nove all'arsenale, e fosse vero quanto fu portato a conoscenza del Riancey, l'intimazione alla Giunta non avrebbe potuto essere inviata che ad ora assai tarda del giorno. Nella copia dell'intimazione, trasmessa al Riancey, mancava la data dell'ora (Riancey, pag. 130), quantunque tutti i giornali avessero già pubblicata quella data ore 8 1/4 antimeridiane.

(2) Fu l'ora defunto Maggiore Galli, comandante il battaglione dei Cacciatori, quegli che colle ardenti esortazioni aveva precipuamente fatti persuasi i soldati a deliberare la restaurazione del legittimo Governo.

96 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

stagli, ed approfittando dell'esaltamento dei soldati, e delle disposizioni d'animo degli ufficiali, annunzia che avrebbe accompagnate le truppe lungi da Parma solamente allorché fosse riconosciuto impossibile ogni sforzo per ristabilire il Governo della Reggente e del Duca Roberto. Pochi momenti dopo, inviava alla Giunta rivoluzionaria l'intimazione seguente:

«Comando delle truppe di 8. A. R. Roberto I.

» Alla Giunta provvisoria del Governo di Parma.

» Parma, 4 Maggio 1859, ore 8£ antimeridiane.

» Dalla Reale Cittadella.

» La truppa, fedele ai suoi giuramenti, chiede e vuole che scompaia ogni insegna rivoluzionaria, e che sia all'istante ricostituito il Governo di S. A. R. la Duchessa Reggente pel figlio Roberto I.° Non conseguendo entro il termine di un'ora una risposta conforme a questo desiderio della truppa ed un eseguimento immediato, la truppa prenderà disposizioni efficaci per conseguirlo.

» Il Comandante le Reali Truppe,

Sottoscritto:» Cesare Da-Vico , Colonnello,»

Nello stesso tempo partecipava ai Ministri dimissionarii il tenore di questa intimazione, invitandoli a riprendere le redini del Governo in nome della Reggente, ed avvertendoli che ritirava tosto tutte le truppe nella Cittadella. Alle truppe alloggiate nei quartieri della città diede ordine di portarsi all'istante a raggiungerlo nella Cittadella con armi, bandiere, e Casse dei Corpi. Dando alla Gendarmeria eguale comando, le ingiunse di riunire e condurre con sé tutte le guardie esistenti nei varii appostamenti in città, ad eccezione solo di quello all'Ergastolo, i due pezzi d'artiglieria appostati al Palazzo Reale, tutti i cavalli della Real Corte e dell'Ufficio delle Poste. E tutto fu puntualmente eseguito.

Un forte distaccamento di Cacciatori determinati erasi avviato alla residenza della Giunta ribelle. Il sergente Perego, che li comanda, entra e depone sullo scrittoio del presidente l'intimazione del Comandante delle truppe. La Giunta avrebbe voluto

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tentare un conflitto, armando i più risoluti; ma perentorio il termine accordato, sulle mura della Cittadella già disposti gli artiglieri colla miccia accesa presso ai cannoni rivolti verso la città, e le disposizioni prese dal Da-Vico fecero sorgere il timore che si venisse senz'altare cerimonie ad un bombardamento. D'altra parte l'attitudine della popolazione non le lasciava ormai nessun dubbio che non poteva fare verun calcolo sopra l'immensa maggioranza di essa. I Cacciatori, fermi alla porta, non sembravano punto disposti a tollerare una risposta che non fosse di loro soddisfazione. Fremente e rassegnata, la Giunta non si perde in deliberazioni, e senza indugio estende e consegna al Sergente codesta risposta:

» La Giunta provvisoria di Governo per gli Stati Parmensi.

» Al Comando delle Reali truppe.

» La Giunta, fedele al suo divisamente di non usare violen» za e di non essere cagione che la città di Parma sia funestata» dallo spettacolo miserando di una guerra civile, abbandona,» dietro il dispaccio di codesto Comando in data d'oggi, i poteri» governativi dei quali jer l'altro la Giunta stessa è stata investita.

» Parma, 3 Maggio 1859.

Sottoscritti:» Avv. Giorgio Maini, Armelonghi Leonzio,

» A. GARBERINI, S. RIVA.»

Ed il Sergente Perego parte, pubblicando nelle vie per cui passa la caduta della Giunta. Prima che spirasse l'ora accordata il colonnello Da-Vico riceveva l'atto di abdicazione forzata con che l'intruso potere chiudeva quella burlesca esistenza di trentasei ore. Allora allora il marchese Pallavicino aveva raggiunte le truppe in Cittadella; gli altri Ministri, che non avevano ricevuto confesso un invito appoggiato da baionette (1), non comparvero.

(1) Un distaccamento d'infanteria, guidato da sottoufficiali, venne dalla Cittadella a casa il marchese Pallavicino, latore dell'invito sottoscritto dal Da-Vico . «Questo distaccamento,» dice De Riancey (Madame la Duchesse de Parme et lei derniers événements, pag. 128),» è ammesso immediatamente; i suoi capi espongono la loro determinazione di scuotere

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Ricevuto il dispaccio con che la Giunta si ritraeva dalla scena, parve acconcio al Pallavicino di arringare le truppe schierate. Fu ventura che per case il colonnello Da-Vico alle prime parole (1) divergesse ad altro l'attenzione dei soldati. Singolare disposizione della Provvidenza che il marchese Giuseppe Pallavicino avesse ad andare forse debitore della vita a quello stesso Da-Vico , il quale, già rientrato in condizione privata, non chiamato né astrettovi, giocava il suo avvenire, gli averi, la vita, schiavo della lealtà e dell'onore. Poi, steso un ridicolo ed imbarazzatissimo documento, con cui protestava di accettare il Governo anche a nome degli altri Ministri, ferma, a capo delle condizioni alle quali dichiarava di consentire a ripigliare il potere, la neutralità proclamata, si allontanava dalla Cittadella per raggiungere i colleghi che lo attendevano al palazzo del Ministero, percorrendo la non brevissima via dalla Cittadella al palazzo in compagnia del Draghi, già a tutti noto membro operosissimo del Comitato Nazionale e principalissimo stromento nella caduta del Governo Ducale; né allora, né poi valsero rimostranze e sollecitazioni perché il carico di Direttore della Polizia generale gli fosse tolto, e rimesso a persona più onesta e fedele.

In questo mezzo il colonnello Da-Vico aveva fatto rioccupare

» il giogo dei ribelli in nome del Duca Roberto. Il marchese li ascolta, ricorda loro gli obblighi dell'onore, e spiega loro che ciò, ch'essi hanno a sostenere, si è colla dinastia legittima l'attitudine di neutralità si saggiamente prescritta dalla Reggente.» Nello stesso momento strepito di tamburi odesi nella strada. Pallavicino se ne adombra, e si appresta ad uscire. Era il 2.° battaglione d'infanteria, accasermato in città, che si avviava alla Cittadella. E il marchese parte con tale accompagnamento.

(1) «Signori ufficiali e soldati!», diss'egli.» Prima che si avesse a rinnovare un giuramento di fedeltà alla bandiera, niun equivoco assolutamente sarebbe possibile. Senza ciò, la mia dignità, la dignità Regia, non permetterebbero ch'io riprendessi l'esercizio dell'autorità; senza ciò lascierei sopra le truppe la responsabilità di tutto quanto potesse accadere. Quest'atto esigerebbe dunque serie riflessioni, una sommissione intiera e assoluta.» Né poté più continuare. Un leggero mormorio aveva accolte le sue prime parole. L'idea che si volesse imporre loro, al disopra della stessa dinastia, l'obbligo di neutralità, non entrava nel capo de' soldati; e nella condizione d'animo in cui si trovavano volle fortuna pel Pallavicino che non gli fosse dato addentrarsi alla loro presenza nell'argomento.

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dalle truppe i soliti appostamenti in città, e spediti sicuri messi alle altre milizie nello Stato, loro annunziando l'avvenuta restaurazione della Reggenza ducale. Il Municipio, le magistrature, le autorità costituite, tutto quanto Parma contava di più elevato per nascita, per posizione, per intelligenza, ogni ordine di persone, si erano affrettati di associarsi alla vittoria, e far ressa intorno ai perplessi membri della cessata Commissione di Governo. Quando a Dio piacque, fu pubblicata una sciancata scrittura del Ministero, con cui mollemente, quasi vergognoso di sé, facea noto che ripigliava il reggimento del paese per usarne alla conservazione della quiete e sicurezza pubblica in nome del Duca Roberto (1). Quelle parole taluni interpretarono come se suonassero: «Questo Roberto nuovamente v'imposero le baionette. Il nome suo si accetti frattanto ad orpello, per conservare la quiete e la pubblica sicurezza.» Corse voce a quel tempo e fu ripetuta dappoi, che gli uomini della rivoluzione si adoperassero alacremente perché nella sera stessa del 3 maggio si avesse a disfare il fatto dalle truppe nel mattino. Che qualche cosa macchinassero ed attendessero, è certo. In tutto quel dì, e fino a tarda ora della notte, specialmente Pallavicino insistette con singolare pertinacia nell'affermare, non essere saggio che la Duchessa avesse a tornare. I Membri della Giunta ribelle e gli ufficiali che aveano mancato alla fede giurata (1), fuggiti da Parma nella mattina del 3, stettero nelle vicinanze sino all'alba del 4,

(1) Quella notificazione suonava:

«I sottoscritti che nella sera del dì 1.° maggio corrente, cedendo alla forza prevalente, dovettero cessare dagl'incarichi di Commissione di Governo loro affidati da S. A. R. l'Augusta Reggente con atto di quello stesso giorno, informati ora come, per intimazione delle Reali Truppe protestantisi ferme nell'ubbidienza al Reale Governo, la Giunta provvisoria, ch'erasi eretta, abbia rinunciato ad ogni esercizio di potere; e chiamati dalle pressanti istanze delle autorità costituite, dalla deliberazione unanime del Municipio, da gran numero di altri notabili della città, e per più special modo dalle fedeli milizie, dichiarano alla buona popolazione di Parma, alle Truppe Reali ed a tutto lo Stato, ohe riprendono l'esercizio dei loro poteri per usarne alla conservazione della quiete e sicurezza pubblica, ed al reggimento del paese in nome di S. A. R. il Duca Roberto I.

» Parma, 3 maggio 1859.

Sottoscritti:» B. Salati, G. Pallavicino, A. Lombardini.» (2) I sei ufficiali che avevano avuto parte nella cospirazione: Bucci,

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solamente allora pigliando definitivamente la via pel Piemonte. I fili telegrafici non mai spezzati in niun luogo, avrebbero potuto già dalle 9 del mattino del 3 partecipare a Mantova, dove si trovava la Duchessa, la restaurazione del suo potere; nullameno soltanto alle 10 e 38 minuti della notte fu consegnato all'Ufficio telegrafico in Parma il dispaccio, diretto al Delegato austriaco per la provincia di Mantova, con cui Pallavicino le faceva dare la prima notizia del fatto. Il giorno 4, lasciativi i figliuoli, la Duchessa Luisa abbandonava Mantova. Il suo ritorno in Parma è annunziato per le sei della sera; ma appena tocco il territorio dello Stato, le festive accoglienze delle popolazioni, e delle truppe scaglionate lungo la via, ritardano il suo cammino. Questo ritardo cagiona nella capitale una emozione a gran fatica contenuta. Erano otto ore; l'inquietudine si propaga, gli animi sentono il timore che ostacoli impreveduti non siano sopraggiunti. I soldati s'affliggono, poi s'irritano. Il sospetto comincia a serpeggiare nel loro animo. Già essi dicono: «Ci avrebbero ingannati? Ci avrebbero falsamente annunziato un ritorno che si è forse attraversato?» Le incertezze mal celate, le parole a doppio senso del Pallavicino, ritornano alla loro memoria; ed il suo nome si mescola con sempre maggiore frequenza nelle mormorazioni sinistre. L'autorità degli ufficiali sembra sul punto di essere disconosciuta. Invano per rassicurare l'ansietà dei soldati, gli ufficiali offrono di rimanere in ostaggio ed alla loro discrezione, se i dubbii si realizzassero. Quando un ufficiale grida: «Andiamo a domandare alla Madonna il» pronto arrivo della nostra Reggente!» I soldati accorrono alla

Briccoli, Calcagnine Gandolfl Gaetano, capitano dei Cacciatori, Onesti barone Augusto, tenente, e Majavacca conte Francesco, sottotenente dei Cacciatori, vennero, in seguito di determinazione del Ministero presa ad onta del parere contrario del marchese Pallavicino, destituiti dal loro grado ed espulsi dal militare, col divieto di rientrare nello Stato. Il Bucci, che presentatosi in Cittadella intorno alle otto del mattino del 3, vi era stato posto agii arresti d'ordine del colonnello Da-Vico , non ostante quella determinazione ministeriale, si continuò a detenere per volontà espressa del Ministro Pallavicino. Narra Riancey (pag. 138), che «nella loro indegnazione i soldati spinsero il capitano Bucci, la baionetta alle reni, nelle prigioni della Cittadella.» L'argomento parve troppo convincente per non osare di cavarlo di là.

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cappella della Cittadella. un'altra ora stava per trascorrere, allorché un'immensa acclamazione s'eleva. Era la Duchessa che discendeva di carrozza alla porta della Cittadella.

In un istante le truppe si riordinano in battaglioni; i ranghi si schiudono, e la principessa passa in mezzo d'ogni compagnia. La disciplina dura fatica ad infrenare l'ardore dell'entusiasmo. La prima visita della sovrana era stata a queste milizie, mantenutesi così leali in momento in cui tradire si diceva un merito; la prima preghiera della madre era un atto di gratitudine a Dio. La cappella s'illumina, e le benedizioni della religione consacrano la vittoria della giustizia e del buon diritto. All'uscire della cappella l'allegrezza non ha più freno. I soldati rompono i ranghi; ad essi l'onore di trascinare la carrozza reale sino alla prima via della città. Colà l'ascendente della Duchessa ottiene a mala pena che si lasciassero riattaccare i cavalli. Mille fiammelle illuminano le strade. Un immenso corteggio si forma ed accompagna la ben venuta. Dopo il trionfo militare l'ovazione popolare, non meno splendida, non meno sincera. Fu la più dolce, la più meritata ricompensa di tutta una vita di devozione, di virtù, di amore. Il giorno appresso, Luisa di Borbone proclamava. «Qui mi fermo coraggiosa e fidente nella lealtà delle truppe e della popolazione, in quell'attitudine dì aspettativa ch'è per noi di assoluta necessità, non potendo l'alta giustizia e civiltà delle Potenze belligeranti offendere chi non offende.» Un atto di energia aveva salvato il trono di Roberto I.; come un atto di energia avrebbe salvato il trono di Leopoldo II. (1). La famiglia del

(1) «Per mio conto», confessa il Curletti (Rivelazioni, § III., pag. 8),» sono convinto che bastava un colpo di facile per far abortire la cospirazione di Firenze, egualmente che quella di Parma.» Intorno alle cose di Parma sonvi però alcune inesattezze nello scritto del Curletti. Egli dice: «Ebbi l'ordine di condurmi immediatamente a Parma per dare aiuto al conte Cantelli. Prima di partire dovetti rinnovare il mio personale, di cui due terzi erano scomparsi. Ciò mi fu agevole; gli emigrati di Roma, di Milano e di Venezia mi fornirono gli elementi della nuova truppa. A Parma le cose andarono come a Firenze; non si spedì via la truppa, ma il generale Crotti prese il partito più semplice di consegnarla in Cittadella. Parma provò qualche sorpresa a vedere il conte Cantelli prendere una parte sì attiva all'espulsione della Duchessa. Benché non ai credesse punto alla sua conversione politica, si supponeva nondimeno che la riconoscenza

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l'ingegnere Garberini, uno dei componenti la dispersa Giunta rivoluzionaria, avendo nella notte del 3 al 4 avvertito il Comando delle truppe come in sua casa esistessero parecchie casse che si rinvennero contenere molti fucili con baionette e molti pacchi di cartuccia a palla; il Ministero, alle perentorie richieste di quel Comando, che s'intimasse la consegna delle armi esistenti nello Stato, commise al Draghi, rimasto al suo posto più. che mai saldo e incrollabile, di pubblicare una balorda notificazione, con cui s'invitava a consegnare al Municipio tutte le armi che si trovassero presso le famiglie della città di Parma, a meno che non vi fossero autorizzate da speciale permesso. Non essendo comminata nessunissima pena per chi mancasse di farlo, ognuno ne rise, e le armi rimasero ove si trovavano.

Dipinti alla Duchessa gli avvenimenti dal Pallavicino medesimo, parsegli salvatore principalissimo del trono; sicché nel 6 maggio ella scrivevagli ad attestazione della riconoscenza sovrana: «Non posso trovare parole per Lei, ma dico solo che è stata» un1 aggiunta non piccola alla mia felicità il vedere che è stato» Lei che co'miei soldati parmensi ha ristabilito l'ordine ed il» Governo di mio figlio.» II giorno prima, 5 maggio, ad un'ora pomeridiana, alla presenza del Ministro Lombardini e del Comandante delle truppe colonnello Da-Vico , Pallavicino aveva chiamate rivoluzionarie

» gì'imponesse una specie di momentanea neutralità. Si sa che nel 1848 il conte Cantelli fu uno de' principali mestatori della rivoluzione di Parma, in seguito della quale fu nominato sindaco. Dopo la ristaurazione del Duca di Borbone, il conte Cantelli fu condannato a morte; fu inoltre condannato alla restituzione d'una somma di 80, 000 franchi, cheera mancata. La Duchessa gli fé' grazia dell'una e dell'altra condanna. Dopo quest'epoca Cantelli aveva affettato di mostrarsi partigiano devoto alla casa regnante; s'è visto con quale disinvoltura seppe calpestare una molesta riconoscenza.» Curletti parla del conte Cantelli in modo che questi parrebbe il vero caporano della rivolta a Parma. Può essere; ma conviene aggiungere per amore di giustizia, non essere provato abbastanza da altre parti. Che sia stato uno de' primi a Parma nel dare il suo nome alla nascente Società Nazionale italiana, è certo. Che avesse avuto ingerenza nel predisporre e regolare la ribellione del maggio 1859, può darsi, quantunque pubblicamente non ne abbia presa alcuna. Cantelli non fu mai condannato a morte; soltanto i membri del Governo rivoluzionario del 1848 furono condannati a rimborsare insolidariamente certe somme. Le truppe non furono consegnate in Cittadella per ordine del generale Crotti, a quel tempo in istato di pensione, né richiamato a verun comando attivo.

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e truppe che due giorni avanti richiamavano il loro legittimo principe. Pochi giorni più tardi, Da-Vico si ritirava dal comando, che fu in sua vece affidato al colonnello Perini, restandone Ispettore onorario il pensionato generale Crotti (1). La sola notizia della ristabilita autorità legittima in Parma bastò per far rientrare nel dovere le due città del Ducato, Pontremoli e Borgotaro, che più vicine al Piemonte, e più lontane dalla capitale, avevano aderito al movimento fazioso. Senza che fosse d'uopo adoperare la forza in niun luogo, senza nemmeno un'intimazione verbale, le insegne della rivolta disparvero, e spontaneamente le magistrature ripresero l'esercizio delle loro funzioni in nome della Reggente. Frattanto da que' giorni medesimi, Sir Scarlett, Ministro inglese, rivelava al suo Governo (1): «Quanto ebbe luogo a Parma non fu che una parte e particella (part and parcel) d'una cospirazione ordita dal Piemonte coll'aiuto del partito repubblicano, ed avente ramificazioni in tutte le città d'Italia, benché il successo di tale movimento sia limitato al presente alla Toscana ed ai Ducati. Risulta dalla Circolare firmata da Garibaldi, e che fu inviata a tutti i Comitati e Sottocomitati nelle città d'Italia, che, appena la guerra fosse divenuta certa, si doveva per quanto era possibile fare scoppiare l'insurrezione e proclamare immediatamente un Governo in nome del Re Vittorio Emanuele sotto un Commissario piemontese. Il piano fu preparato di lunga mano, e quanto fu eseguito qui a Firenze, tenuto in iscacco a Parma unicamente per la popolarità della Duchessa Reggente, non è che un anello nella catena d'una cospirazione stesa a traverso la Penisola, un'opera abilmente condotta dagli emissarii del Piemonte.»

(1)

Il colonnello Da-Vico, non credendo conciliabili colla sua coscienza misure che potevano riescire più tardi alla perfetta mina della legittimità in Parma, chiese ed ottenne di passare allo stato di pensione, recandosi nel Regno Lombardo-veneto. li generale Antonio Crotti, antico ufficiale del primo Impero francese, fatto da Napoleone III. Commendatore della Legione d'onore, dopo la crisi finale del giugno 1859 sulle due rive del Po, in seguito a vicende varie dalla destra sponda si trovò portato sulla sinistra.

(2)

Dispaccio a lord Malmesbury. - Firenze, 15 maggio 1859. - Further correspondence, pag. 75.






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Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)












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