Eleaml - Nuovi Eleatici


DELLE
RECENTI AVVENTURE
D'ITALIA
PER
IL CONTE ERNESTO RAVVITTI.
"La violenza distrugge e non edifica"
CAVOUR, 1848.
GLI EFFETTI.
VENEZIA,
TIPOGRAFIA EMILIANA.

1865.

Vol. 02B
01_A - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1864 HTML ODT PDF
01_B - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1864 HTML ODT PDF
01_C - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1864 HTML ODT PDF
02_A - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 HTML ODT PDF
02_B - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 HTML ODT PDF
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02_D - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 HTML ODT PDF
La Civiltà Cattolica, 1866 - Delle recenti avventure d'italia di Ernesto Ravvitti HTML ODT PDF


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CAPITOLO DECIMONONO.

Gli Austriaci in Piemonte.

L'esercito sardo. - Prime mosse degli Austriaci al di là del Ticino. - I Francesi raggiungono i Sardi. - Combattimento di Montebello. - Gli Austriaci si ritirano dalla sponda destra della Sesia. - Concentramento de' Francesi sulla sinistra degli Austriaci. - Rapido movimento di conversione degli alleati sulla destra dell'avversario. - I Piemontesi varcano la Sesia. - Fatto d'arme di Palestre - Gli Austriaci ripassano il Ticino. - Un terno al lotto. - I Francesi occupano i passi superiori del Ticino. - Magenta e i suoi dintorni. - Primo attacco della Guardia imperiale francese e di MacMahon. - Una steeptvchase. - MacMahon da indietro. - Contrattacco degli Austriaci sulla linea del Ticino. - La Guardia imperiale sta per soccombere quando accorre a soccorrerla la Brigata Picard. - Critica situazione dell'Imperatore de' Francesi. - MacMahon torna all'attacco. - Eroica difesa degli Austriaci nel villaggio di Magenta. - Gli Austriaci abbandonano Magenta non inseguiti. - Gyulai ordina la ritirata generale dalla Lombardia.

E

d ora passiamo al teatro della guerra. Rottosi, col rifiuto della mediazione inglese da parte della Francia, l'ultimo debolissimo filo cui si attenevano, dopo presentato a Torino l'ultimatum, del Gabinetto di Vienna, le speranze di pace; ognuno dei due eserciti d'Austria e Sardegna vedeva naturalmente tracciata innanzi a sé la linea di condotta a seguire. I Piemontesi, molto inferiori di numero, dovevano riporre ogni studio nel tenersi quanto mai uniti ed interi, appoggiati alla più forte linea di difesa di cui potessero disporre, con tutta cura evitando qualunque serio combattimento, sinché i Francesi avessero potuto unirsi ad essi e contrabbilanciare almeno le forze; mentre gli Austriaci, irrompendo sul suolo sardo, avevano anzi tutto a rivolgere ogni loro sforzo onde raggiungere l'esercito piemontese, avvilupparlo colla rapidità delle mosse, sconfiggerlo prima che gli fosse dato congiungersi co' Francesi, per poi possibilmente battere questi alla spicciolata, quando i corpi provenienti da terra si fossero avviati per riunirsi a quelli disbarcati a Genova. Da questo punto di vista il ritardo di due giorni, dal 27 al 29, frapposto al passaggio del Ticino per parte degli Austriaci, era a tutto utile degli alleati,

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in un momento in cui cinquant'ore di avvantaggio potevano ricscire di altissima rilevanza, ed erano preziosi i minuti.

L'esercito sardo contava al 29 aprile 55, 648 uomini, 3984 cavalli e 90 cannoni (1), ripartiti in cinque Divisioni ed una Divisione di cavalleria di riserva (1), sotto il comando supremo del Re. Sì scarsa forza militare nulla di meglio potendo imprendere che pigliare postura in cui per abbastanza lungo tempo le fosse dato attendere l'arrivo de' Francesi; questa posizione, già scelta in precedenza sino da quando i secreti patti al tempo del Congresso di Parigi tra Napoleone III. e Cavour ne avevano addimostrata più urgente la necessità, ed a quest'uopo più validamente afforzata, era già preparata dalla natura tra Alessandria e Casale dietro il Po ed il Tanaro, sui versanti orientali del paese montuoso che si stende tra codesti due fiumi. Sulla fronte del Po presenta un ostacolo considerevole; agevole a difendere il principale punto di passaggio presso a Valenza, per le alte ed erte ripe della sponda destra della vallata, che alla sinistra sponda comandano. Alessandria col Tanaro coprono il fianco destro, Casale col Po il fianco sinistro. Le fortificazioni delle due ale, capaci di ventimila uomini ciascuna, non erano bensì peranco condotte a termine; ma distanti non più che trenta chilometri tra loro, davano opportunità di trasportare in alcune ore da una posizione centrale presso Occimiano e San Salvatore le forze occorrenti sopra ogni punto minacciato. Così il nerbo della destra ala de' Sardi stava da principio ad Alessandria, da dove eransi spinti avanti alcuni posti sulla destra del Ticino e verso il Po sul confine di Parma; mentre Pala sinistra aveva presa posizione lungo la linea della Dora Baltea per coprire Torino.

Da parte austriaca passarono dapprima sul territorio piemontese, guidati dal generale di artiglieria conte Gyulai (3), 92, 420

(1)

Secondo l'Ordine di battaglia del 20 maggio 1859, annesso alla grande opera: Campagne de L'Empereur Napoléon III., 1859, rédigée au dépót de la guerre. Parti, 1862.

(2)

I. Divisione: Tenente-generale Castelborgo. - 2. Divisione: Ten. gen. Fanti. - 3. Divisione: Ten. gen. Durando. - 4. Divisione: Maggiore-generale Cialdini. - 5. Divisione: Magg. gen. Cucchiari. - Divisione di cavalleria di riserva: generale Sambuv.

(3)

In generale quasi tutti scrissero e scrivono Gyulai, coll'y in fine. È un errore.

106 CAPITOLO DECIMONONO.

uomini, 10, 051 cavalli e 352 cannoni (1). Le colonne principali varcarono il Ticino a Pavia, Bereguardo, Vigevano; una colonna secondaria inoltrava presso il Lago Maggiore, un'altra andava scorrendo da Piacenza il paese posto a mezzodì del Po. Al 30 aprile i loro posti avanzati stavano in parte in Vespolate sulla strada da Pavia per Mortara a Novara, colla fronte verso quest'ultima; in parte in Vercelli nelle vicinanze della Sesia, colla fronte verso quella città. Ovonque gli avamposti sardi ritiravansi verso la loro posizione principale a mezzodì del Po. Occupate Novara e Vercelli senza resistenza, dal 2 maggio Gyulai apprestavasi per passare sulla sponda destra del Po, trasferiva il suo quartiere-generale a Lomello sull'Agogna, faceva passare, sopra un ponte gettato presso Cornale, una Brigata, avanzatasi per Castelnuovo-Scrivia sino a Tortona, spingendo distaccamenti di fiancheggiatori sino a Sale e Vogherà. Ma ingrossatosi il Po nella notte dal 5 al 6, guasto il ponte di Cornale, si temette di perdere interamente la comunicazione tra le due sponde, e la Brigata fu richiamata sulla sponda sinistra.

Il Gyulai trasferì il suo quartiere-generale a Mortara, 18 a Vercelli. Il 9 il nerbo dell'esercito austriaco fu concentrato in San Germano sulla strada da Vercelli per Chivasso a Torino, e su quella da Vercelli ad Ivrea. L'estrema ala sinistra stava lungo il Po su tutte e due le sponde del Ticino, gettato un nuovo ponte a Vaccarizza presso Pavia. Da San Germano scorrerie eransi spinte sino a Livorno sulla strada di Torino, poi verso Ivrea e sino a Biella, quando i corpi furono richiamati a marcie forzate da San Germano a Vercelli, inviati tantosto in gran parte sulla sinistra della Sesia. Il 10 il quartiere-generale austriaco venne di nuovo trasferito a Mortara, e l'esercito principale riprese a un dipresso le sue antiche posizioni sulla sinistra della Sesia, tra questa, il Po ed il Ticino.

Intanto i Francesi avevano operata la loro congiunzione coi Sardi. Il 14 maggio l'Imperatore Napoleone, partito da Parigi il giorno 10, giungeva in Alessandria a pigliare

(1) Secondo l'Ordine di battaglia del 24 aprile 1859. (Mollinary; Studien uber die Operationen und Tactique der Franzosen im Feldzuge 1859 in Italien, pag. 5).

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il supremo comando dell'esercito alleato, forte ormai di 266 battaglioni, 109 squadroni, 384 cannoni, 151, 389 uomini e 12, 942 cavalli (1). Il I., II. e III. Corpo francese formarono l'ala destra alla destra sponda del Tanaro; il IV. Corpo ed il Corpo della Guardia imperiale () costituirono con cinque Divisioni sarde l'ala sinistra sulla sinistra sponda di quel fiume. Il I. Corpo prese stanza da Vogherà a Sale; il II. a sinistra lungo il Tanaro; il III. in seconda linea sino a Tortona; il IV. tra Bassignana, Valenza e San Salvatore; il Corpo della Guardia imperiale intorno Alessandria; l'esercito piemontese, col quartiere-generale ad Occimiano, copriva il passaggio del Po a Casale ed il passaggio della Sesia a Vercelli. Per tal modo gli alleati formavano un grande semicerchio, da Vogherà a Vercelli, intorno agli Austriaci che stavano con cinque Corpi d'armata, il IL, III., V., VII. e Vili. (3), ed una Divisione di cavalleria tra la Sesia, il Po ed Ticino, e con un sesto Corpo, il IX., sulla sponda del Po presso Piacenza e Stradella (4).

Passato ormai per Gyulai il momento opportuno per una energica offensiva, nella impossibilità di conoscere sopra quali punti si sarebbero rivolti gli sforzi degli alleati, parvegli dover tentare di assicurarsene. La posizione presa da' Franco-sardi lungo la linea del Po accennava ad un passaggio di questo fiume, senza punto lasciare indovinare il luogo prescelto per farlo; potevano però tanto tentare di forzare il passaggio sulla fronte degli Austriaci, quanto prendere l'offensiva sulle loro ali. Il 17 maggio Baraguey d'Hillicrs, all'estrema ala destra, aveva spinto

(1) Campagne de l'Empereur Napoléon IIL, 1850, pag. 52.

(2)

Comandavano ai Corpi d'esercito francesi: al I. il maresciallo Baraguey d'Hilliere; al IL il generale di divisione MacMahon; al III. il maresciallo Canrobert; al IV. il generale di divisione Niel; alla Guardia imperiale il generale di divisione Regnaud de Saint-Jean-d'Angély.

(3)

Il II. Corpo era comandato dal tenente-maresciallo Odoardo Liechtenstein, il III. dal ten. mar. Schwarzenberg, il V. dal ten. mar. Stadion, il VII. dal ten. mar. Zobel, l'Vili, dal ten. mar. Benedek, il IX. dal generale di cavalleria Schaaffgoteche.

(4) Nell'opera sopraccitata, edita dal Governo francese, la forza di codesti Corpi viene precisata in 144 battaglioni, 51 squadroni, 596 cannoni, 131, 594 uomini e 15, 170 cavalli. Il generale Mollinary (Studien, pag. 9)osserva: «Questo stato è desunto dal secondo Ordine di battaglia del 4 giugno 1859, ma al 18 maggio ben era a mala pena raggiunto.»

108 CAPITOLO DECIMONONO.

da Vogherà e Medasino la Divisione del generale Forgy ad occupare i villaggi di Montebello e Casteggio sulla strada da Vogherà per Stradella a Piacenza. Questo movimento sembrando confermare quanto rapportavano al comandante austriaco, che gli alleati fossero nell'intenzione di fare con forze considerevoli un attacco contro Piacenza, Gyulai ordinò pel 20 una ricognizione sopra Montebello, sotto il comando del tenente-maresciallo Stadion.

Varcato il Po a Vaccarizza, all'alba del 20 tre Brigate del V. Corpo mossero nella direzione di Montebello; la Brigata principe d'Assia, all'estrema destra, inoltrandosi nella pianura per Verrua a Branduzzo e Calcababbio; alla sinistra di questa la Brigata Bils a Casatisma; la Brigata Gaal sopra Robecco. Nello stesso tempo il tenente-maresciallo Urban si diresse con due Brigate, Schaaffgotsche e Braum, sulla strada che da Broni per Casteggio va a Montebello. Oltrepassato Casteggio, Urban s'imbatteva in alquanta cavalleria piemontese, che diede indietro al di là di Montebello e di Genestrello. Più in avanti di Genestrello la lotta si impegnò vivacissima, prima con due battaglioni dell'84.° d'infanteria francese, poi col resto della Divisione Forev. Schaaffgotsche, attaccato da forze molto superiori, oppose valorosissima resistenza; ma girato già il loro fianco sinistro dall'inimico, 20 compagnie di Austriaci con due squadroni di ussari dovettero ritirarsi a fronte di 65 compagnie di fanti francesi e sei squadroni di cavalli sardi (1), abbandonare al terzo attacco la posizione di Genestrello. Nella ritirata un battaglione a destra si vide assalito da tutta la cavalleria piemontese, che respinse con gran valentia, facendole perdere moltissima gente e mortalmente ferito il colonnello Morelli. Questo movimento retrogrado di Schaaffgotsche obbligò anche Braum, che stava a destra colla sua Brigata, di dare addietro.

A Montebello la pugna si riappiccava con singolare accanimento nelle strade del villaggio, che i Francesi riescirono a circondare. Ogni casa è un ridotto da prendere, ostinatissima la difesa degli assaliti. Si combatte corpo a corpo, ed il bravo 3.° reggimento austriaco, Arciduca Carlo, adopera e calcio e baionetta quando l'avversario si avventurava di andargli troppo addosso.

(1) Mollinary; Studien, pag. 94.

GLI AUSTRIACI IN PIEMONTE. 109

Intanto rinforzi delle altre Divisioni del I. Corpo arrivavano successivamente a Forey, in ispecie a mezzo della ferrovia da Vogherà. Erano le sei del pomeriggio quando Stadion si decise finalmente a ripiegare sopra Casteggio. L'ultimo combattimento, egualmente disperato, ebbe luogo attorno al cimitero all'estremità di MoDtebello verso Casteggio; vi cadde estinto il francese generale Beuret, tolte e ritolte alla baionetta le mura del cimitero. Richiamate le Brigate principe d'Assia e Bils, Stadion raccolse in Casteggio tutte le sue truppe, che Forey non osò più attaccare.

Lo stesso giorno 20 Gyulai faceva sgomberare Vercelli e la sponda destra della Sesia. Dal momento che l'Imperatore dei Francesi aveva portato in avanti il suo esercito, ei si era veduto intorno gravissimi ostacoli, sia che si fosse diretto sopra Piacenza, di cui avrebbe abbisognato imprendere l'assedio, sia che di viva forza avesse eseguito il passaggio del Po a Valenza, sia infine che si fosse deciso a tentare uno sforzo contro l'ala destra degli Austriaci, solo modo, comunque pieno di perigli, di rendere inutili tutti i mezzi di difesa accumulati da essi dal lato di Pavia, di Stradella, di Piacenza e di Cremona. La posizione presa dal generale austriaco agli angoli del Po era eminentemente strategica (): oltre i molti vantaggi che assicurava alla difesa, i quali tatti si riassumono nella preservazione della zona di frontiera da Bereguardo all'Emilia contro un attacco dal lato di settentrione, essa creava all'esercito offensivo la situazione più falsa e pericolosa, e tale una situazione che in caso d'insuccesso sulla linea del Ticino superiore esso correva rischio di essere annichilato, ed in caso di successo ottenuto con una battaglia, o senza colpo ferire, la forza della difesa non era per ciò essenzialmente scemata. In breve, vittorioso o vinto sulla linea dell'ovest, l'esercito offensivo non aveva sensibilmente progredito nel suo compito di conquistare il Lombardo-veneto, ed il nemico conservava presso a poco tutti i suoi vantaggi per rintuzzare un attacco ulteriore. Radicatosi una volta in quella sua posizione l'esercito austriaco, non era lasciata a Napoleone la scelta della sua propria linea d'operazione, ed ei si trovava a fronte di difficoltà d'offensiva capaci di sconcertare il generale più consumato nella scienza strategica.

(1) F. de la Fruston; La Guerre d'Italie en 1859.

110 CAPITOLO DECIMONONO,

Dopo che Gyulai aveva trasferito nel 19 maggio il suo quartiere-generale a Garlasco, il ritiro della sua estrema destra da Vercelli sembrava indicare che tutte le sue disposizioni accennassero l'intenzione di operare ora con energia sulla destra del Po e la ricognizione di Stadion, ch'era riescita al combattimento di Montebello, pareva essere soltanto il preliminare di tale progetto. Così stando le cose, è chiaro quanto dovesse importare all'Imperatore Napoleone di lasciar credere a Gyulai che i serii movimenti dell'esercito alleato si portassero sempre verso la direzione di Piacenza, com'egli sospettava, affinché continuasse a concentrare le sue forze tra Mortara, Pavia e Stradella. Se questo si fosse conseguito, gli alleati potrebbero, passato il Po a Gasale e la Sesia a Vercelli, con un rapido movimento sulla loro sinistra marciare sopra No vara, oltrepassare il fianco destro dell'inimico e shoccare in Lombardia.

Napoleone apprende che gli Austriaci hanno ripreso posizione a Stradella, di dove, dopo l'affare di Montebello, s'erano per un istante allontanati. Questo movimento lo decide, e colla maggiore segretezza dispone l'occorrente per porre ad esecuzione un piano, il cui successo riposa soprattutto nella credenza in cui deve rimanere l'avversario che i Franco-sardi cerchino di portare tutti i loro sforzi sopra una direzione affatto opposta. Niuno nell'esercito conosce il vero scopo delle mosse ch'egli va ad ordinare. Per conservare gli Austriaci nel pensiero che gli alleati intendevano di minacciare seriamente la linea da Pavia a Piacenza, ingiunse tosto a Baraguey-d'Hilliers di trasportare il suo quartiere-generale a Montebello, occupare Casteggio, spingere gli avamposti sino a Casatisma e Pizzale, e concentrare tutto il I. Corpo entro un raggio di trecento metri; a MacMahon di riunire il II. Corpo a Vogherà; a Canrobert di lasciare Tortona e inoltrare sino a Castelnuovo Scrivia e Casei. Niel, fra Valenza e Bassignana, colla fronte verso il Po, formava l'ala sinistra, sostenuta dalla Guardia imperiale presso Alessandria; mentre i Sardi coprivano da soli la linea da Valenza a Vercelli. Fortificazioni di campagna furono innalzate sulle alture a destra di Casteggio; un servigio di telegrafi volanti è organizzato al grande-quartiere-generale, ad oggetto di stabilire rapidamente linee telegrafiche sul di dietro dell'esercito. All'alba del 27 MacMahon simula di voler

GLI AUSTRIACI IN PIEMONTE. 111

gettare un ponte sul Po presso Cervesina nella direzione di Pavia. Questo movimento di conversione, questo concentramento di tutte le forze francesi sul fianco sinistro dell'inimico da Valenza a Casteggio, tutte queste disposizioni verso Pavia e verso Piacenza, parevano veramente indicare un'intenzione ben definita in quella direzione. Così degli Austriaci trovavansi: Benedek presso Piacenza, Schaaffgotsche presso Pavia, Liechtenstein sull'Agogna, Stadion e Schwarzenberg fra San Nazzaro e Candia, Zobel all'estrema destra colla fronte verso Vercelli.

La mossa intrapresa da Garibaldi coi Cacciatori delle Alpi da Gattinara a Borgomanero, nel 22 maggio ad Arona, e dal 23 in Lombardia a Sesto Calende e Varese, sembrava essa medesima più che altro una dimostrazione destinata allo scopo di facilitare le operazioni della forza principale degli alleati sulle sponde del Po, deviando l'attenzione degli Austriaci da questo fiume verso le Alpi. D'altronde, non era per fermo minimamente da presumersi che i Franco-sardi avessero, sul principio delle loro operazioni, da allontanarsi di troppo dal Po. Presa una volta che avessero la risoluzione per l'offensiva, non pareva probabile che fissassero la direzione per cui le operazioni dovevansi intraprendere, con scegliere tra le direzioni possibili quella sulla sinistra più vicino alle Alpi, per la quale in caso propizio vi era il meno a guadagnare, non potendosi impedire agli Austriaci la ritirata verso la loro base naturale, sul Po e sul quadrilatero; ed in caso avverso il più era a perdere, rinunziando alla possibilità di ritirarsi sopra la base più naturale pegli alleati. Laddove certa cosa è che, vincendo, potevano rendere la vittoria sommamente decisiva, con rincacciare gli Austriaci lungi dal Po e respingerli alle Alpi; perdendo, i Franco-sardi non abbandonavano la linea di ritirata sul loro sistema fortificato.

D'improvviso tutto l'esercito francese opera un rapido movimento di conversione a sinistra sopra Vercelli e Novara. Nella notte dal 27 al 28 alcune Divisioni cominciano ad eseguire mosse preparatorie. 1128 tutta Tarmata è in cammino. Il IV. Corpo, ch'era più in addietro degli altri, divenne testa di colonna. La guardia imperiale da Alessandria lo segue; a questa tien dietro il III., al III. il IL, al II. il I. Le ferrovie da Vogherà e Tortona per Alessandria e Valenza a Casale e Vercelli trasportano senza posa

112 CAPITOLO DECIMONONO.

quanto più possono d'infanterie, mentre cavallerie ed artiglierie seguivano a marcie forzate. Il 29 il movimento continuava. Intanto tutto l'esercito sardo, meno la 5. Divisione, Cucchiari, lasciata alla difesa della riva destra del Po a Casale, si concentrò presso Vercelli per varcare la Sesia sui ponti a quest'uopo apprestativi.

Il 30 i Sardi imprendevano da Vercelli un attacco generale sulla sinistra della Sesia contro la fronte dell'estrema ala destra degli Austriaci, formata dalla Divisione Lilia del VII. Corpo; della quale la Brigata Weigl stava ripartita tra Casalino, Confienza, Vinzaglio e Palestro, e l'altra Brigata sotto il comando del generale Dondorf era giunta allora a Robbio. Castelborgo ebbe ordine di muovere sopra Casalino, Fanti sopra Confienza e poi sopra Vinzaglio, Durando sopra Vinzaglio e poi sopra Palestro, Cialdini sopra Palestro. La Brigata Weigl, dispersa e sminuzzata sopra larga estensione di territorio, resisté strenuamente; ma assalita da otto Brigate ad un tempo, dovette cedere alla troppo grande sproporzione delle forze, al più 4300 uomini contro per lo meno 40, 000 (1), e ripiegare sopra Robbio. Il giorno appresso, Zobel,

(1) È noto che i Piemontesi appellarono quel combattimento la battaglia di Palestro, e Re Vittorio Emanuele in un'ampollosa proclamazione alle truppe ne parlò in modo da lasciar credere al mondo che fosse stata per lo meno d'importanza eguale a quella di Novara del 1849. Così per abbastanza lungo tempo la vittoria di Palestro parve condegna rivincita della sconfitta di dieci anni prima. Quando però anche sui fatti di guerra la luce potè cominciare a dar fuori, quella vittoria, per conseguire la quale 72 battaglioni sardi erano in marcia contro la Brigata Weigl, rientrò nei ben più modesti e più veri suoi limiti; sicché il Regio Corpo di Stato Maggiore di Prussia, nell'autorevolissima ed assai imparziale opera: La campagne d'Italie en 1859 (edizione autentica francese, pag. 61) scrisse: «Gli Austriaci possono essere contenti della bella pittura del combattimento di Palestro del 30 maggio, pennelleggiata da Bazancourt, con questa sola rettificazione che quel giorno quattro Divisioni sarde hanno combattuto contro una Brigata austriaca.» (Vedi pure la Oesterreichische Militàrische Zeitschrtft del 1863, fasc. III).

La battaglia di Palestro consistette in due combattimenti, l'uno a Palestro, l'altro a Vinzaglio. A Palestro stavano sei compagnie d'infanteria austriaca con due cannoni. Sorpresi da 18 battaglioni, 4 squadroni, 16 cannoni, Divisione Cialdini, fu solamente dopo parecchie ore che i Piemontesi, guidati dallo stesso Re Vittorio Emanuele, riuscirono a penetrare nel villaggio, difeso con mirabile costanza palmo a palmo il terreno.


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rinforzata la Divisione Lilia con una seconda del II. Corpo, tentò bensì riconquistare Palestro e Confienza; ma già, il mattino di quel medesimo giorno 31, tutto il III. Corpo francese varcava la Sesia a Palestro stesso, e la sproporzione del numero astrinse un9 altra volta a desistere. Quel movimento offensivo, intrapreso ad un tempo sopra punti l'uno dall'altro notevolmente distanti, per istrado tortuose, attraverso un vero labirinto di canali, di fosse, di filari d'alberi, di messi, era appena a sperare non avesse a finire in un disastro; e l'ultimo attacco di Zobel sopra Palestro con quattro battaglioni contro ventuno battaglioni sardi e francesi, per quanto puro impetuoso, non poteva riescire.

La sera di quel medesimo dì Niel giunse a Cameriano fra Novara e Vercelli, MacMahon e la Guardia imperiale intorno Vercelli, ove Napoleone aveva trasferito dal giorno prima il suo quartiere-generale. Baraguey-d'Hilliers si spinse sopra Casale, lasciato a Valenza un solo reggimento coll'incarico di mostrarsi sopra differenti punti, strepitare il più che potesse, a fine di far credere agli Austriaci che vi stessero forze considerevoli. In quattro giorni il grosso dell'esercito francese dal fianco sinistro dell'inimico con lunga aggirata era già passato felicemente alla sua estrema ala destra, che aveva anzi oltrepassata, stando ormai a breve distanza dal Ticino. Gyulai, occupato nelle dimostrazioni offensive dei Sardi al di là di Robbio, che si potevano pensare dirette a divergere la sua attenzione del lato di Pavia e di Stradella, sino al mattino del primo giugno ignorò affatto tutto il movimento dei Francesi, solo alle tre antimeridiane di quel giorno Zobel avendo ricevuto da' suoi posti avanzati l'annunzio che grandi masse francesi inoltravano da Vercelli a Novara.

In quel momento il generale Weigl giungeva da Robbio con un soccorso di quattro compagnie e quattro cannoni; ma con sì scarsi mezzi non poteva che coprire la ritirata. A Vinzaprlio il colonnello Fleischhacker con tre compagnie di fanti e due cannoni si trovò avviluppato da 18 battaglioni, 2 squadroni, 12 cannoni, della Divisione Durando; nullameno tenne testa un'ora e mezzo, causando ai Sardi la perdita ufficialmente confessata di 7 ufficiali e 167 uomini morti o feriti. Costretto a ripiegarsi sopra Palestro, Fleischhacker si trovò a fronte della Divisione Cialdini; circondato da tutte parti, tentò salvarsi sopra Robbio, ma dovendo passare a guado fosse larghe e profonde, ebbe a lasciarvi i suoi due cannoni e molti prigionieri. In tali condizioni, la battaglia di Palestro per verità sarebbe a ricordarsi più ad onore del vinto che del vincitore.

114 CAPITOLO DECIMONONO,

Quello stesso giorno, 1.° giugno, il I. Corpo d'armata austriaco, guidato dal tenente-maresciallo Clam-Gallas, trasportato nel l'ultima decina di maggio per mezzo della ferrovia dalla Boemia attraverso la Baviera dalla Germania nel Tirolo, poi, valicato il Brenner, di nuovo sulla ferrovia per Verona, giungeva colle sue prime colonne da Milano a Magenta sul Ticino. Intanto Niel entrava in No vara, preso cui era seguito da MacMahon. Napoleone vi trasportò il suo quartiere-generale, e nel mattino del 2 fu raggiunto dalla Guardia imperiale, che veniva a prendere posizione dietro i Corpi di Niel e di MacMahon. Nello stesso tempo Gyulai spediva a tutti i Corpi ch'erano rimasti sulla destra del Ticino l'ordine di portarsi sulla sponda sinistra. Dalla sera del 2 al mattino del 3 ripassarono il confine presso Vigevano il II., il VII. ed il III. Corpo, il V. a Bereguardo. Contemporaneamente il IX. Corpo dalle vicinanze di Pavia fu fatto concentrare da quella parte, ed al Corpo di Benedek si commise di portarsi da Piacenza verso settentrione.

Così nella sera del 3 l'esercito austriaco si trovò disperso sopra estesissima linea lungo il corso del Ticino e del Po, colla fronte verso il fiume: all'estrema destra Clam-Gallas a Magenta con ordine di custodire i varchi del Ticino avanti Magenta e quelli nella parte superiore sino al di là di Turbigo, e con una colonna a Castano; a settentrione di Castano, nei contorni di Gallarate, Urban colla Divisione di riserva, che alla notizia dell'arrivo dei Francesi in Novara, abbandonato Garibaldi, erasi ritirato tosto da Varese; a sinistra di Clam-Gallas, Liechtenstein, presso Magenta sul Naviglio grande; in dietro di Clam-Gallas e Liechtenstein in seconda linea, Zobel fra Corbetta e Castelletto-Mendosio a levante di Àbbiategrasso; Schwarzenberg intorno Abbiategrasso; Stadion fra Falla vecchia e Bereguardo; Benedek, in seconda linea, dietro la sinistra di Stadion, sulla strada da Pavia a Binasco; Schaaffgotsche nelle vicinanze di Pavia, formante l'estrema ala sinistra.

Per tal modo chiudevasi quella prima fase singolarissima della guerra, nella quale, partendo dal principio che il solo oggetto ragionevole di un attacco strategico sia l'esercito nemico, si era veduto io spettacolo di eserciti, che, per questo o quel motivo, parevano piuttosto cercarsi dov'ei non erano; comunque i primi movimenti degli Austriaci non permettano punto di dubitare che

GLI AUSTRIACI IN PIEMONTE. 115

nella realtà erano diretti contro il grosso dell'armata sarda (1). L'Imperatore de' Francesi eziandio aveva commessi sbagli, abbenché gli fosse arrisa la sorte di non subirne guari la pena. In generale, non si suole guardare tanto per lo sottile quando il successo sia venuto a coronare l'intrapresa, ed in cose di guerra torcesi più volentieri lo sguardo dai falli del vincitore, fosse pure per aggravare gli errori veri del vinto. Così allorché Napoleone, impeciatosi in una manovra sempre pericolosissima, quale è una generale marcia di fianco sulla fronte dell'inimico, teneva l'esercito alleato spartito in due grandi agglomerazioni, l'una intorno a Novara colla fronte più verso il Ticino, l'altra inferiormente colla fronte verso Mortara, disgiunte da notevole distanza e separate dall'Agogna; se l'avversario, rapidamente passando da difensiva ad offensiva, avesse nel mattino del 2 giugno spinto sotto Novara il I., II., III. e VII. Corpo e la Divisione Urban, se alla sinistra ala degli Austriaci fosse riescito di trattenere la destra degli alleati intorno Palestro, Napoleone, che per fermo non avrebbe potuto contrapporre alla destra degli Austriaci se non forze notevolmente inferiori di numero, poteva benissimo senza il concorso di circostanze per nulla assolutamente straordinarie, anzi con tutte quelle probabilità almeno che possonsi ammettere in guerra, vedersi gettato alle falde delle Alpi verso la Svizzera. Cieca è la fortuna delle armi, e più di buon grado arride propizia a chi sa osare e scegliere la miglior ora per farlo.

Vedemmo come al 2 giugno era tntt'altro che compiuto il concentramento degli alleati presso Novara; dal che l'impossibilità, in cui si trovavano a quel momento, di spingersi più innanzi verso il Ticino. Per Napoleone però essendo cosa di altissima rilevanza l'impossessarsi de' passaggi di quel fiume, inviò nel mattino dello stesso giorno 2 la Divisione Espinasse per Trecate a San Martino, e la Divisione dei volteggiatori della Guardia sotto il generale Camou per Galiate a Turbigo. Giacciono Trecate e San Martino sulla via che da Novara per Magenta fa capo a Milano, Galiate e Turbigo lungo quella che da Novara conduce a Castano. Stando Turbigo sulla sinistra del Ticino, e San Martino, quantunque sulla destra, a capo del ponte sul fiume, egli pensava,

(1) Il primo movimento, che l'esercito austriaco fece in avanti, fu diretto dritto contro la fronte della posizione sarda.

116 CAPITOLO DECIMONONO.

che sarebbero entrambi luoghi fortemente occupati dagli Austriaci, e pertinacemente difesi. Verso sera Camou era al Porto di Turbigo sul Ticino; guarda di qua, guarda di là, non una vedetta, non un appostamento. Un duecento francesi passarono il fiume sopra battelli; la comunicazione fra le due sponde fu rapidamente stabilita mediante il parco di pontoni, che si avean tratto dietro. A due ore del mattino del 3 Camou faceva occupare il villaggio stesso di Turbigo, lasciato egualmente del tutto sguernito.

Nella stessa ora Espinasse da Trecate mosse per San Martino, verso la quale direzione i Francesi avevano udito, in sulle cinque ore del pomeriggio del 2, un'assai forte detonazione. Era questa partita dal ponte che da San Martino guida a Magenta, ed ha nome di Buffalora. Gli Austriaci, abbandonati con somma precipitazione, senza che gli avversarii se ne sapessero guari spiegare il perché (1), i trincieramenti eretti alla testa di ponte sulla riva destra a San Martino, avevano voluto far saltare il ponte di pietra che attraversa il fiume in quel luogo. L'effetto delle mine tuttavia non fu compiuto, e i due archi del solidissimo ponte che si eran proposti di rompere, essendosi soltanto abbassati su loro medesimi senza crollare, i Francesi poterono passarvi sopra più tardi senza il minimo inconveniente. Per tal modo, senza colpo ferire, Napoleone si vedeva padrone di entrambe le sponde del fiume, schiusi i primi varchi per la via a Milano.

Chi da San Martino pongasi in cammino per Magenta, oltrepassato il Ticino sul ponte di Buffalora (2), trova due vie. L'una, a settentrione, è la strada postale; l'altra, più a mezzodì, è l'argine della ferrovia, a que'dì non munito di guide. D'ambi i lati delle due strade stanno prati facilmente percorrigli in tempo asciutto, vere pozzanghere in ogni altra stagione. Un quattromila passi più avanti il terreno s'innalza cinquanta a sessanta piedi dalla superficie dell'acqua del Ticino. Pressoché parallelo al margine di questo rialzo scorre un canale, racchiuso fra ripidi

(1)

Gyulai nel suo Rapporto all'Imperatore sulla battaglia di Magenta, del 6 giugno 1859, dichiara che quella testa di ponte era stata «data giorni prima da quel tenente-maresciallo conte Clam per non suscettiva di difesa.»

(2)

II ponte sul Ticino, presso San Martino, appellano Ponte di Bufalora; ma non è da confondersi col ponte che a Buffalora unisce le due sponde del Naviglio grande.

GLI AUSTRIACI IN PIEMONTE. 117

argini, che più in su di Turbigo staccatosi dal Ticino, prosegue verso Abbiategrasso, e chiamano Naviglio grande. Tre ponti lo attraversano rimpetto a Magenta: Ponte vecchio di Magenta a mezzodì; più in su il ponte della ferrovia; e poco discosto da questo, più a settentrione, Ponte nuoto di Magenta, sulla strada postale. Ancor più al nord un quarto ponte incontrasi a Buffatore, villaggio a cavallo del Naviglio grande ed intorno a duemila passi da Ponte nuovo di Magenta. Oltrepassato il Naviglio grande, a tremila duecento passi circa dal ponte della ferrovia sul Naviglio, trovi Magenta, a cui vengono a far capo le strade che si dipartono da' quattro ponti or menzionati; distrutti i quali e quello di Semate, alquanto più io su di Buffalora, poche truppe abbisognano per la difesa della linea del Naviglio grande, incassato da Buffalora in giù a notevole profondità Dell'alta pianura di cui raggiunge il livello presso a Bobecco (1). Or, giunto a Magenta, se di là ti rivolgi a guardare verso il Ticino, hai a destra o a settentrione, a tremila passi circa, Marcallo; più in su di Marcallo, a un novemila passi, In veruno; fra questo e il Ticino, Cuggiono, e più a settentrione Turbigo; poi a levante, a tremila passi, Corbetto; a mezzodì, poco più distante, Robecco sul Naviglio grande. Su questo terreno si doveva combattere quella battaglia da cui dipendevano il possesso della Lombardia e le sorti dell'Italia centrale. Alle 9 1/2 del mattino del 4 giugno una Brigata di granatieri della Guardia imperiale francese, sotto il comando del generale Wimpffen, giunse da Trecate a San Martino, passò il ponte senza che gli Austriaci vi si opponessero, e prese posizione sulla

(1) Il ponte di pietra al villaggio di Buffalora fa fatto balzare dagli Austriaci dopo mezzogiorno del 4, prima che cominciasse l'attacco della Divisione Mellinet dalla parte del Ticino Terso quel punto. Il ponte di pie tra sulla strada postale a Ponte nuovo di Magenta era minato, e doveva essere fatto saltare quando gli Austriaci fossero costretti ritirarsi dalla sponda destra del Naviglio; ma allorché si videro forzati a cedere all'attacco della Guardia imperiale, mancò il tempo di farlo. Sfuggì al colonnello Rustow Terrore di dire ( § Campo di battaglia di Magenta) che quel ponte era distratto. Come al ponte precedente avvenne lo stesso al ponte di ferro della ferrovia, che doveva essere reso inservibile; ritirandosi gli Austriaci dalla posizione a destra del canale, il ponte fu varcato alla rinfusa da amici e nemici, e rimase in mano de' Francesi. Il ponte a Ponte vecchio di Magenta fu dagli Austriaci fatto saltare intorno alle quattro dorante la battaglia.

118 CAPITOLO DECIMONONO.

sponda sinistra presso la ferrovia e la strada postale, lentamente avanzando. Gli Austriaci fecero inoltrare da Ponte nuovo di Magenta alquanta artiglieria ed infanteria sparpagliata in bersaglieri. Uno scambio di cannonate s'impegnava da lontano senza alcun vero e preciso scopo. Gli Austriaci si ritirarono dietro il Naviglio grande, tostochè i Francesi gl'incalzarono un po' energicamente. Alle 11 Napoleone giungeva sul ponte di Buffalora con una seconda Brigata della Guardia, guidata dal generale Cler. Le sue disposizioni erano: che il Corpo d'armata di MacMahon, rinforzato dalla Divisione Camou e seguito da tutto l'esercito sardo, si portasse da Turbigo sopra Buffalora e Magenta; mentre le due Brigate Wimpffen e Cler si sarebbero impadronite del ponte di Buffalora, ed il Corpo del maresciallo Canrobert, giunto a Novara da Palestro nel giorno prima, si avanzerebbe per passare il Ticino al ponte stesso di Buffalora. Il IV. Corpo, Niel, doveva da Nor vara recarsi a Trecate (1).

(1) Parecchi scrittori furono d'opinione che la battaglia di Magenta sia figlia del caso. Anche lo StatoMaggiore di Prussia (Za Campagne d'Italie, pag. 77) scrive: «La battaglia di Magenta non è stata né preveduta né voluta dall'Imperatore Napoleone medesimo. Il 3.° Corpo, Canrobert, aveva la sua direzione sopra Turbigo. Non si pensava di dover essere obbligati a soccorrere la Divisione Meilinet. L'ordine di battaglia per la marcia lo prova completamente; poiché quando più tardi, contrariamente all'intenzione primitiva, il 3.° Corpo dovette adempiere questa missione, esso si trovò dietro il 4.°, e non poté partire da Novara che ad un'ora.» Intorno a ciò ci permettiamo una semplice osservazione. A chi si deve prestare maggior fede: agli Ordini di marcia impartiti da Napoleone per la mattina del 4 giugno, oppure ai raziocina di scrittori francesi che più tardi vennero in luce per iscusare gli sbagli commessi da Napoleone in quel d'Ordine generale di battaglia per la marcia, del 4 giugno 1859, riportato anche dal Bazancourt (La Campagne d'Italie, Vol. L, pag. 230), dice testualmente: «Le corps d'armée du general de MacMahon, renforcé de la division des voltigeurs de la garde imperiale et suivi de tonte l'armée du Roi de Sardaigne, se portera de Turbigo sur Buffalora et Magenta, tandis que la division des grenadiers de la garde s'emparera de la tète du pont de San Martino (ou Buffalora) sur. la rive gauche, et que le corps d'armée du maréchal Canrobert s'avancera sur la rive droite pour passer le Tessin au même point.» La relazione ufficiale sopra la battaglia di Magenta, data dal Grande-quartiere-generale, da San Martino il 5 giugno (Bazancourt, Vol. I., pag. 414415), e pubblicata dal Moniteur, ripete le stesse espressioni dell'Ordine generale di battaglia del giorno prima, ed aggiunge: «L'esecuzione di questo piano d'operazioni fu turbata da alcuni

GLI AUSTRIACI IN PIEMONTE. 119

MacMahon aveva avuto ordine di muovere da Turbigo alle 9 del mattino. Tuttavolta nulla peranco udiva da quel lato, quantunque si avesse ragionevolmente a presumere che a quell'ora dovesse già essersi scontrato coll'inimico. Di Canrobert nessuna nuova. Napoleone, inquieto di codesto silenzio, ordina di cessare affatto il fuoco delle artiglierie, ed alla Brigata Wimpffen di retrocedere sino a cinquecento metri incirca in avanti del ponte di Buffalora, presso cui l'Imperatore resta impaziente. Poco dopo, anche il fuoco de' bersaglieri cessava del tutto. Intanto il tempo scorre, e da ogni parte tutto tace. Napoleone non sa che pensare. Spedisce in tutte le direzioni ufficiali in cerca di Canrobert e di Niel, coll'ordine al primo di affrettare la marcia quanto più può; al secondo, rimasto sulla via di Novara, di raggiungerlo al più presto. D'improvviso, scariche ripetute d'artiglieria rompono

» di quegl'incidenti, eh è d'uopo aspettarsi quando si fa la guerra. L'esercito del Re fu ritardato nel suo passaggio del fiume, e quando il Corpo del maresciallo Canrobert uscì da Novara per raggiungere l'Imperatore al ponte di Buffalora, questo corpo trovò la strada talmente ingombrata» che non poté giungere se non assai tardi sul Ticino.» È verissimo che il Corpo di Canrobert aveva, per ordini della mattina del 3, ricevuta la destinazione per Turbigo; ma sino dall'alba del 4, prima di muovere verso Magenta, molte ore prima che si trovasse a fronte degli Austriaci, Napoleone aveva mutata questa disposizione. Ciò è provato eziandio completamente, tanto dal fatto che l'ordine a Canrobert di marciare sopra San Martino fu dato da Novara, non dal ponte di Buffalora; quanto dall'altro fatto che Napoleone avendo, nel mattino del 4, spedito da Novara il comandante Schmitz latore d'una sua lettera a MacMahon, e coll'incarico di fermarsi a Galiate sulla strada fra Novara e Turbigo, onde sollecitare Vittorio Emanuele ad affrettare la sua marcia sopra quest'ultimo luogo, a causa che «le maréchal Canrobert ne se dirigerai point sur Turbigo et passerait le Tessin au pont de Buffalora,» lo Schmitz aveva veduto il Re e raggiunto MacMahon presso Robecchetto (Bazancourt, Vol. I., pag. 241-242) appena appena incominciata la sua mossa nella direzione di Magenta. Se dunque Napoleone sino dal primissimo mattino del 4 aveva dato la posta per quel dì in Magenta alle due Divisioni d'infanteria della Guardia imperiale, ai Corpi di MacMahon e Canrobert, ed a tutto l'esercito sardo, in totale ad almeno 90, 000 uomini, parrebbe piuttosto ch'ei s'attendesse ad una energica resistenza, la quale sperava di superare con grandi masse di truppe. A quel tempo ancora fu detto, forse per malevoglienza, e si lesse in qualche giornale, che l'Imperatore de' Francesi, prevedendo pel giorno 4 una battaglia intorno a Magenta, abbia postato i Sardi in seconda linea a Galiate, onde poter egli calcare il suolo lombardo prima di Vittorio Emanuele.

120 CAPITOLO DECIMONONO.

quella calma solenne, e dense nubi di fumo veggonsi sollevarsi fra mezzo agli alberi al di là del villaggio di Buffalora, sulla destra riva dei Naviglio. Era MacMahon che inoltrava.

L'Imperatore de' Francesi, quantunque non avesse con aè che una sola Divisione, un 7000 uomini al più, ordinò un attacco vigoroso sulla fronte della posizione austriaca. Spinse a sinistra un reggimento sopra Buffalora, un altro a destra sopra Ponte vecchio di Magenta, al centro una terza colonna sopra Ponte nuovo di Magenta. Il villaggio di Buffalora, Ponte nuovo ed il ponte sulla ferrovia, difesi con grande valore, caddero alfine in potere degli assalitori. Era intorno alle tre. Pochi momenti appresso, il cannone di MacMahon al di là di Buffalora taceva ad un tratto. Napoleone non sa come rendersene ragione. Dalla bassa posizione in cui egli si trovava sull'argine della ferrovia innanzi San Martino, non poteva, ben s'intende, dominare collo sguardo il campo di battaglia. Ad accrescere le sue angustie vede i soldati della Guardia che si erano impadroniti di Ponte nuovo di Magenta, con impeto sconsiderato avanzare verso il borgo stesso di Magenta lungo la ferrovia e fra i vigneti d'ambo i lati di essa. Tutto quanto egli aveva sotto la mano in riserve consisteva in un reggimento di granatieri e pochi cacciatori a cavallo della Guardia, che spinse innanzi a gran corsa. Verun rinforzo sopraggiugnevagli da niuna parte, e solamente era venuto a conoscere che corpi francesi diretti da Novara a San Martino eransi incrociati coi Sardi avviati a Turbigo (); che del Corpo di Canrobert la sola Brigata Picard, la quale doveva precedere, aveva lasciato Novara verso nove ore del mattino; e che il resto del Corpo di questo maresciallo solamente verso un'ora dopo il meriggio poteva partire da Novara.

Ma che ne era addivenuto di MacMahon? Partito da Novara

(1) Dopo che l'esercito sardo ricevette ordine, pel mattino del 8, di recarsi ad accampare a Galiate, le sole Divisioni Fanti e Durando poterono pervenirvi la sera di quel di. Tutto il resto, inceppato nella marcia dall'ingombro delle strade, dovette attendere il di seguente. Il 4, ad onta della breve distanza da Galiate a Turbigo, la Divisione Fanti, messasi prima in movimento, non poté passare il Ticino che verso mezzogiorno, e solamente la sua avanguardia, composta del 9.° battaglione di bersaglieri con quattro cannoni, giunse Botto Magenta all'ultimo istante dell'attacco di MacMahon, quando già il sole stava per tramontare.

GLI AUSTRIACI IN PIEMONTE. 121

con tutto il suo Corpo nel mattino del 3, si aveva impadronito nel pomeriggio di Robecchetto, di là del Naviglio grande sulla strada che da Turbigo per Cuggiono va a Magenta. A dieci ore del mattino del 4 erasi posto in cammino verso Magenta, in due colonne: quella di destra, guidata da lui medesimo, si diresse da Robecchetto per Cuggiono al villaggio di Buffalora; quella di sinistra, sotto il comando del generale Espinasse, per Inveruno e Marcallo, occupato dagli Austriaci, a Magenta. La colonna di destra, di forza più che doppia di quella della colonna di sinistra, aveva per compito d'impossessarsi di Buffalora e della destra del Naviglio grande, onde congiungersi colla Divisione delle Guardie sboccata da San Martino, ed assicurare il passaggio del Ticino al grosso dell'esercito aggruppato al di qua di Novara. Ed Buffalora si spinse, di cui s'impadroniva di alcune case (1). Ma la colonna dell'Espinasse trovandosi in ritardo, ed un corpo di Austriaci essendosi spinto in avanti, dal che potevano rimanere disgiunte l'una dallf altra le due colonne francesi, MacMahon, che poco pii ma aveva mandato a dire a Napoleone: «Non per anco conosco la postura dell'inimico; non posso dare veruna indicazione intorno a ciò che farò, ma l'Imperatore sia tranquillo sulle disposizioni che prenderò, a fronte di forze che pensava superiori alle proprie, non istimò prudente impegnarsi di più, cessò del tutto l'attacco di Buffalora, die' indietro verso Cuggiono, poggiando a sinistra onde legarsi solidamente alla destra della colonna di Espinasse. Le ore correvano, e questi non si vedeva ancor comparire. MacMahon, non più padroneggiando la sua impazienza, spinge il cavallo al gran galoppo, e seguito solo da alcuni ufficiali e pochi cacciatori di scorta, lanciasi con incredibile sconsideratezza traverso i campi, i fossi, le siepi, nella direzione in cui deve inoltrare Espinasse. In questa corsa disordinata inciampa in una linea di bersaglieri nemici, appiattati nelle messi, e l'attraversa senz' addarsene; poi, presso Marcallo, scontrasi in un distaccamento d'ulani sparsi in esploratori. Ufficiali e scorta, dato di piglio alle spade, gettansi a briglia sciolta verso di essi. MacMahon non si arresta, ed incolume trasvola fra mezzo a loro.

(1) A Buffalora, cogli avamposti a Bernate, stava la sola Brigata austriaca Battin, naturalmente troppo debole a fronte delle quattro Brigate della colonna destra di MacMahon.

122 CAPITOLO DECIMONONO.

Alla fine trova l'Espinasse, cui da i suoi ordini; poi, come se niun pericolo avesse corso, ripiglia la sfrenata, folle, fantastica corsa, e torna a raggiungere la sua colonna di destra.

Gyulai teneva il suo quartiere-generale ad Abbiategrasso, a soli diecimila passi da Magenta. Colà, la sera del 3, aveva ricevuto la notizia che i Francesi, impadronitisi dei passi di Turbigo, ingrossavano da quella parte, donde attendeva l'attacco principale; colà, a ott'ore del mattino del 4, avea saputo da Clam-Gallas che forti masse nemiche (1) da Trecate si avvicinavano alla testa di ponte a San Martino. A Clam-Gallas spedì ordine di mantenere la posizione di Magenta, ed agli altri corpi di avanzare maggiormente. Salì a cavallo dopo il mezzogiorno, ed intorno alle tre comparve a Magenta. A settentrione scorge caduto in mano dei Francesi il villaggio di Buffalora, ove la pugna sta sul cessare; più in giù, tre battaglioni nemici che da Ponte nuovo di Magenta inoltrano sulla strada postale e sull'argine della ferrovia verso Magenta; vede Ponte vecchio di Magenta, che non apparteneva più interamente agli Austriaci, ma neppure ai Francesi; e al di là di Magenta nello spazio fra il paese, Marcallo e Buffalora, ammassarsi tutto il Corpo di Clam-Gallas, in attesa di un nuovo attacco di MacMahon. Solamente nello stesso momento il Corpo di Schwarzenberg cominciava a muovere da Abbiategrasso a Robecco, la più gran parte lungo la sponda sinistra del Naviglio grande,

Gyulai ordinò alla Divisione Reischach del VII. Corpo, che stanziava a Corbetto, di avanzare e riprendete Ponte nuovo di Magenta. Le schiere di Reischach si avventarono con impeto irresistibile sui Francesi spintisi in avanti di Ponte nuovo sulla strada per Magenta, nel tempo stesso in cui Napoleone inviava al soccorso le ultime sue riserve. Invano que valentissimi della Guardia tentano di tener fermo. Monti di morti e di morenti si accatastano sulla lor fronte; le fila si diradano spaventosamente, e sono alfine costretti a dare addietro in disordine su Ponte nuovo, lasciando nelle mani dell'inimico un cannone rigato. Invano il generale Cassaignolles gettasi colla spada alla mano fra inseguiti ed inseguitori, a capo di soli centodieci cacciatori della Guardia, Punica cavalleria che Napoleone avesse con sé, e invano torna due volte alla carica.

(1) Rapporto del generale Gyulai all'Imperatore, del 6 giugno 1859.

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In quel punto la Brigata Picard sboccava sul ponte di Buffalora. Erano circa le quattro (1). Quei soccorso, pressoché insperato, quando la Guardia stava per soccombere schiacciata da tutte parti, parve ristorare un momento le condizioni de Francesi. Ma guidato dal tenente-maresciallo Schwarzenberg, il terzo Corpo si faceva innanzi da Robecco verso Magenta e il Ticino, minacciando di avviluppare la destra de' Francesi, pe' quali tornava impossibile tener testa pili a lungo da soli. Napoleone, spintosi a metà strada dal ponte di Buffalora al ponte della ferrovia, scorgeva un grosso di Austriaci, la Brigata Wetzlar, inoltrarsi lungo la sponda del Ticino verso il ponte stesso di Buflalora. Nel momento medesimo il Capo dello Statomaggiore della Guardia accorreva per dirgli da parte del generale Regnaud de Saint-Jean-dAngély, eh ei non poteva più lungamente sostenersi a Ponte nuovo, se non 8 inviavano al pili presto rinforzi. «Non ho un uomo da mandargli, risponde l'Imperatore; dite al generale che tenga» sempre colla poca gente che gli rimane. Un istante appresso, tra aiutante di campo del generale Wimpffen lo avvicinava.

(1) Una delle maggiori difficoltà per la esatta e veritiera descrizione d'una battaglia è la determinazione precisa del tempo. Il riportare ad un'ora prima un fatto avvenuto un'ora più tardi, basta per isvisare tutto il nesso degli avvenimenti. Il barone di Bazancourt, scrivendo «per ordine» dell'Imperatore» (La Campagne d'Italie de 1859, Vol. L, pag. 268), cadde in uno di questi errori e per esso in un labirinto di contraddizioni, affermando che la Brigata Picard, secondo quanto lo stesso generale Picard gli avrebbe riferito, comparve sul campo di battaglia di Magenta a due ore. Invece il generale Regnaud de SaintJeand'Angólv, comandante in capo della Guardia imperiale, nel suo Rapporto del 5 giugno, disse: «Verso» cinque ore della sera la Brigata Picard comparve a portata del ponte» (parut à portée du poni)»; e Canrobert, al cui Corpo apparteneva quella Brigata, nel suo Rapporto, dichiarò: «la Brigata Picard giunta a quattro» ore della sera.» Onde togliere dalla mia mente ogni ombra di dubbiezza, volli consultare io medesimo direttamente parecchi autorevoli testimoni oculari del fatto, quantunque tutti i documenti ufficiali francesi, sino da allora resi di pubblico diritto, mi sembrassero meritevoli di ben maggior fede che ogni altra contraria posteriore asserzione. È certo adunque, ed in modo da escludere qualsivoglia dubbiezza, che la testa della Brigata Picard giunse al ponte di Buffalora fra le 3 3/4 e le 4, e dopo che furono fatti deporre in tutta fretta i sacchi ai soldati lungo l'argine della ferrovia, fu spinta a passo di corsa a Ponte vecchio di Magenta, ove cominciò a trovarsi tra le 4 e 4 1/4.

124 CAPITOLO DECIMONONO.

«Sire, il generale è schiacciato, e non può più durare sul Naviglio.» - «Che si mantenga,» replica Napoleone. Due minuti dopo, è un aiutante del generale Picard, che gli dice: «L'inimico agglomera forze considerevoli sulla nostra destra, e se il generale non è prontamente soccorso, gli Austriaci girano la posizione.» - «Che attraversi loro la strada,» risponde l'Imperatore;» subito che potrò, gli manderò rinforzi.» Ma i rinforzi non venivano, quantunque Canrobert avesse dato ordine di sgomberare la strada in qualunque modo, gettare ne' fossi tutto quanto non si potesse allontanare a tempo, giungere a San Martino ad ogni costo (1).

Erano di già le cinque. La situazione dell'Imperatore dei Francesi e delle tre Brigate, sole impegnate in lotta ormai cosi disuguale, diveniva ogni minuto più grave, perigliosissima. Il cannone di MacMahon taceva sempre, né un solo soldato gli giungeva a soccorso. Quando fitte masse appariscono sul ponte di Buffalora, correndo a più potere. Era la Divisione Vinoy, del Corpo di Niel. In pochi minuti si riordinano, ripiglian fiato; poi via a passo di corsa sopra Ponte vecchio di Magenta. Quasi nello stesso istante, alle cinque e mezzo, MacMahon con tutto il suo Corpo e la Divisione Camou sboccava con grande impeto sopra Marcallo e Magenta, stendendosi verso Buffalora, che si supponeva ancora occupata dagli Austriaci. Ma Gyulai, tenendosi vincitore, aveva mandato contro i Francesi spintisi da San Martino truppe che si rendevano indispensabili per la difesa a settentrione di Magenta, nel caso di un ritorno offensivo di MacMahon, senza provvedere a sostituirle con altre che avrebbesi potuto far venire avanti a tempo. Fu errore irreparabile. Cos'i quando MacMahon venne al vero attacco, Gyulai non ebbe un soldato fresco sotto la mano, nessuna riserva, e da opporre alle intatte schiere (2) del generale francese nulla più che scarsi battaglioni, i quali non si

(1)

Delle sei Brigate d'infanteria del Corpo di Canrobert, le cui teste di colonna si avrebbero dovuto trovare al ponte di Buffalora al più tardi al mezzogiorno, la Brigata Picard, partita da Novara a 9 ore, giunse al ponte verso le 4 pomeridiane, la Brigata Jannin dopo le 6, la Brigata Bataille verso le 7 «la Brigata Collineau intorno le 9, la Brigata Vergè dopo mezzanotte e la Brigata Ducrot ad un'ora e mezzo del mattino del 5.

(2)

Secondo l'Ordine di battaglia di quel giorno, 88 battaglioni, 8 squadroni, 51 cannoni, 25, 934 uomini.

GLI AUSTRIACI IN PIEMONTE. 125

potevano rafforzare se non con altri che bisognava allontanare dalla linea di difesa del Naviglio grande, lungo il quale i Francesi ricevevano ormai sempre nuovi rinforzi.

Da questo momento l'esito finale della giornata non poteva pia essere incerto; e come nella prima fase della battaglia Napoleone doveva essere battuto, nella seconda, così stando le cose, lo doveva essere forzatamente Gyulai. Dacché ei s'era trovato in codesta posizione fatale, gli Austriaci non potevano combattere che per l'onore militare; e per esso con sommo valore pugnarono. Il sole bruciante di quel dì aveva spossati i soldati, non pochi dei quali avevano dovuto rimanersene sino a quell'0ra digiuni. Nullameno, per la più parte reclute, ed anche i soldati che avevano servito non conoscendo peranco il nuovo fucile che aveano ricevuto da poco, tennero fermo in avanti di Magenta sinché umanamente era possibile. A Marcallo al centro e Cascina Nuova a destra gli Austriaci rifiniti per la stanchezza sostennero l'urto furibondo degli assalitori senza dare addietro d'un posso, come soldati entrati allora allora nel combattimento. Le colonne si urtano corpo a corpo, le baionette s'incontrano, e la lotta impegnata a piede a piede degenera in duelli atroci da uomo ad uomo. Fra gli accidenti di un terreno in mille guise frastagliato di viottoli, di fossi, di pantani, di muri, di siepi, di gelsi, di viti, di dense piantagioni che attraversano a brevi distanze la vista, e la direzione dei combattimenti isolati e parziali per parte degli ufficiali superiori è resa diffidi issi ma, pressoché impossibile; il battere in ritirata fra mezzo al gran novero di nemici avviluppanti da tutte parti è impresa spesso abbandonata all'azzardo, e intere compagnie vidersi costrette a cedere le armi.

Addossati al villaggio di Magenta, gli assaliti rintuzzavano ancora la foga di codesto umano torrente, con un eroismo che trova degno riscontro solamente in quello della Guardia imperiale poche ore prima sul Naviglio grande. Alla Stazione della ferrovia, al centro della fronte di battaglia, invano il generale Auger, comandante l'artiglieria del Corpo di MacMahon, accumula batterie a batterie, e i fuochi incrociati di 20, 000 fucili vomitano la morte «sulle colonne che si formano negli orti e nei giardini;» nulla abbatte l'energica resistenza dell'avversario che non si lascia strappare che a lembo a lembo

126 CAPITOLO DECIMONONO.

» questa importante posizione (1).» Il sole volgeva al tramonto. Indebolita la linea di difesa austriaca lungo il Naviglio per far fronte a MacMahon, i Francesi avevano da quella parte ripigliata con nuovo ardore la offensiva. Trenta cannoni dell'artiglieria di riserva della Guardia imperiale, ammassati lungo il Naviglio, convergono i loro fuochi sopra quelle masse di Austriaci che d'altra parte l'Auger, schierati quarantadue cannoni lungo l'argine della ferrovia, schiaccia colla mitraglia. Al cadere della notte tacquero le artiglierie; la pugna orrenda, micidialissima, continuava per le vie. Fu d'uopo prendere d'assalto casa per casa, stanza per stanza. Morti o feriti quasi tutti gli ufficiali, da ogni casa occupata i soldati duravano nella ostinata difesa guidati unicamente dalla propria ispirazione; e preclusa ogni via allo scampo, molti i prigionieri. Anche Ponte vecchio di Magenta rimase ai Francesi, dopo che il reggimento fanti Granduca d'Assia, dei Corpo di Schwarzenberg, lo aveva prego, perduto, ripreso ben sette volte di seguito, e monti di cadaveri attestavano la pertinacia de' due avversarii.

Le truppe d'ambi gli eserciti furono egualmente ammirabili. Napoleone, che i suoi errori di calcolo nelle disposizioni delle marcie, e le misure rovinose prese propriamente da lui in quel dì dovevano perdere, ed avrebbero infatti perduto (2), tenendosi salvato dalla felice inobbedienza di MacMahon, guiderdoné questi col bastone di maresciallo ed il titolo di Duca di Magenta; quantunque la repentina sua risoluzione di sospendere l'attacco per portare la colonna principale verso la sua sinistra, senza poterne avvertire l'Imperatore (3) e lasciando la Divisione della

(1) Bazancourt; Campagne d'Italie, Vol. I., pag. 324.

(2) Secondo le nuove disposizioni, la Brigata Wimpffen, della Guardia imperiale, doveva proteggere nel mattino del 4 la gettata d'un ponte di battelli presso il ponte di pietra a San Martino. Mollìnarv osserva rettamente (Studien, pag. 104), che «questo venne per la prima volta recato» ad effetto nel seguente giorno 5, mentre non eravi disponibile verun materiale da ponte, in maniera che doveva essere rotto e trasportato a San» Martino il ponte gittate al 2 presso Turbigo.»

(3) La notte era già caduta, e Napoleone non sapeva ancora se MacMahon fosse veramente vincitore o vinto. Alla stessa ora MacMahon ignorava affatto il destino dell'Imperatore e dell'esercito francese. -Vedi: Clémeur ( Historique du III. Corpi de l'armée d'Italie) e Bazancourt Campagne d'Italie, Vol. I., pag. 340).

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Guardia sulla sinistra del Ticino alle prese da sola con forze notevolmente superiori, avesse potuto essere cagione di un grande disastro (1). Caddero da parte austriaca feriti cinque generali; Reischach, Dtkrfeld, Lebzeltern, Wetzlar, Burdina, quest1 ultimo morto poco appresso in seguito alle ferite; 276 ufficiali e 5432 soldati morti o feriti. Dei Francesi morti i generali Espinasse e Cler, ferito il generale Wimpffen; 246 ufficiali e 4198 soldati morti o feriti (2). I Francesi non avevano vinto una vittoria decisiva ed aveano toccate perdite sensibili come gli Austriaci; questi avevano dopo la battaglia il grosso del loro esercito tuttora

(1)

Ad essere però affatto imparziali, conviene soggiungere a scusa di Mac-Mahon, che avendo egli già dal mattino avuta notizia dall'Imperatore medesimo che Canrohert avrebbe varcato il Ticino al ponte di Buffalora, doveva ritenere che per l'attacco di Magenta sulla linea del Naviglio grande Napoleone avesse alla mano forze di tale entità da essere del tutto indifferente per la sua sicurezza se l'attacco al nord avesse luogo alcune ore più presto o alcune più tardi. Ma MacMahon non poteva ignorare che gli Austriaci avevano ripassato il Ticino, e doveva presumere che a marcie forzate si sarebbero avviati per attraversare agli alleati la via a Milano. Il possesso di Magenta dovendo evidentissimamente dipendere, più che tutto, dalla prestezza dei movimenti, il ritardo di ore doveva risultare a tutto vantaggio degli Austriaci. MacMahon, che si reputava debole già nel mattino a fronte delle forze colà accumulate dai difensori, poteva egli prevedere se alcune ore più tardi si sarebbe trovato alle prese con due o tre volte tante? In tal caso, il suo insuccesso equivaleva al completo annichilamento dell'intero suo Corpo. Avanzandosi isolatamente, egli poteva incontrarsi con tutto l'esercito austriaco; e se allorché verso sera tornò all'attacco, non trovò a combattere che deboli frazioni, niuno vorrebbe affermare che l'esito della giornata, vinta bensì per conseguenza del concentramento di MacMahon sulla sua sinistra, sia stato deciso pel merito intrinseco di codesta risoluzione del generale francese.

(2)

La battaglia di Magenta forma una pagina delle più curiose negli annali militari de' nostri tempi, dal punto di vista che mentre errori importanti sfuggivano a' duci supremi, ciascuno degli eserciti rispettivi faceva sforzi sovrumani per riportare vittoria a dispetto di quegli errori, cui non avevano avuto parte, quantunque ne subissero amaramente la pena. Presso l'uno come presso l'altro esercito vediamo quel dì il soldato combattere meravigliosamente bene, anche se abbandonato a so medesimo, con costanza ed annegazione insuperabili; il valore ed il disprezzo della morte spinti al più alto grado negli ufficiali; eccellentemente comandati i Reggimenti, le Brigate, le Divisioni. Presso l'uno come presso l'altro esercito buona parte di ciò che potrà accadere è abbandonata totalmente al caso, ed alla valentia de' singoli di cui non si sarebbero abbastanza commisurate le forze.


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128 CAPITOLO DECIMONONO.

cosi bene ordinato, come lo possono essere soltanto truppe vincitrici, dopo un combattimento, e tenevano presso a Magenta molto maggior numero di truppe fresche che i Francesi non avessero (1). Gyulai aveva bensì perduto terreno; ma in tali condizioni poteva riprendere la battaglia la mattina seguente. Ed egli vi pensò, e diede nella notte stessa disposizioni per un nuovo attacco. Ei non poteva avere alcuna apprensione per la ritirata sulla sua linea naturale, cioè sopra Piacenza o sull'Adda inferiore; né i Francesi potevano impedirgliela se non con un giro vizioso dell'ala sinistra sulla sua destra, e questo sul campo stesso di battaglia. La Brigata Hartung di buon mattino erasi già avanzata da Robecco verso Ponte vecchio di Magenta, ed aveva preso d'assalto il villaggio occupato dai Francesi; allorché Gyulai le mandò ordine di sospendere il combattimento, ed a tutto l'esercito di dare indietro. A Benedek si ingiunse di portarsi a Melegnano sul Lambro, onde coprire la ritirata; di avviarsi verso mezzogiorno su Pavia e Sant'Angelo, per volgere poi ad oriente. Il grande quartiere-generale dell'esercito fu posto a Belgioioso all'est di Pavia.

(1) Nella pubblicazione ufficiale francese: Campagne de l'Empereur Napoléon III. en Italie, 1859 (pag. 205) è detto, che «se gli Austriaci avessero presa l'offensiva nel 5, avrebbero avuto per ciò, non tenuto calcolo del I. e II. Corpo, che avevano molto sofferto, 80, 000 uomini, dei quali 55, 000 di truppe fresche. A questi gli alleati potevano opporre 110, 000 uomini, tra i quali 75, 000 di truppa fresca.» Dalla quale asserzione, di cui per verità niuno saprebbe spiegarsi il perché, chiunque, anche il più profano di cose di guerra, é costretto derivare la domanda: Ma se è dunque vero, che al 5 avevate sotto la mano 30, 000 uomini di più che gli Austriaci, e 20, 000 di truppa fresca più di essi, perché dunque non li avete attaccati la mattina stessa del 5, sbaragliati, inseguiti energicamente sino a Verona? Magenta dista da Solferino, per Milano e Brescia, 20 miglia geografiche. Se così era, come ora dite, perché avete impiegato 20 giorni, dal 4 al 24, per giungere a Solferino, in ragione d'un miglio al giorno? E nullameno se a Solferino il 24 Austriaci e Francesi vennero ad incontrarsi, furono i primi che andavano in cerca dei secondi.

Il generale Mollinary, ne' suoi Studii (pag. 34), colla scorta degli Ordini di battaglia dei due eserciti del 4 giugno, inseriti nell'opera stessa, e dell'Atlas des marches annesso alla medesima, osserva a ragione che nel mattino del 5 gli alleati avevano sulla sinistra del Ticino a Magenta 67, 000 uomini, dei quali 32, 000 di truppe fresche, ai quali gli Austriaci potevano appunto contrapporre, senza computare la Divisione Urban (11, 500 uomini, 400 cavalli, 36 cannoni), 80, 000 uomini, tra cui 55, 000 di truppa fresca.

129

CAPITOLO VENTESIMO.

Gli alleati in Lombardia.

L'Imperatore Napoleone s'avvia a Milano. - Proclamazione dell'8 giugno. - Combattimento di Melegnano. - Riordinamento dell'esercito austriaco. - Gli Austriaci, passando dalla difensiva all'offensiva, varcano il Mincio. - II. campo di battaglia di Solferino. - Disposizioni dei due duci supremi per la marcia degli eserciti nel 24 giugno. - Le osti s'incontrano. - Attacco de' Francesi verso Solferino. - Nella pianura la sinistra degli Austriaci è rattenuta. - L'Imperatore d'Austria ordina al generale Wimpffen di portarsi in avanti. - Rebecco resta in mano de' Francesi. - Attacco decisivo de' Francesi a Solferino. - Ultimo contrattacco degli Austriaci nella pianura, non riuscito. - II principe Alessandro d'Assia copre la ritirata degli Austriaci. - L'uragano separa i combattenti. - Fatti d'arme all'ala sinistra degli alleati. - Benedek attacca i Sardi e li rincaccia. - I Sardi, ritentata la prova, danno addietro sino a Rivoltella. - Vittorioso tutta la giornata, a sera Benedek obbedisce all'ordine generale di ritirarsi. - Perdite di entrambi gli eserciti. - Gli alleati passano il Mincio.

I

l più grande capitano de' tempi moderni disse, che il miglior generale non è colui che vince la battaglia, ma quegli che sa trarre migliore partito dalla vittoria. Una volta libera la via per Milano, gli sforzi degli alleati dovevano tendere ad impedire che gli Austriaci giungessero con forze ancora formidabili sul Mincio; era quindi mestieri operare con grande prestezza di movimenti e costringerlo ad accettare battaglia in condizioni sfavorevoli. L'esercito austriaco era impacciato da un codazzo di pesanti bagagli, parte dei quali non aveva anzi peranco attraversato il Ticino od erano sulla strada di Pavia; circostanza codesta cui fu attribuita buona parte di quelle lentezze che contraddistinsero la prima fase della campagna (1).

(1) Non essendo sinora venuta in luce da parte austriaca una storia autentica della Campagna del 1859, sull'appoggio di documenti ufficiali, devesi andare a rilento nel giudicare operazioni strategiche, intorno alle quali per avventura non fu pronunziata peranco l'ultima parola. Quanto al generale Gyulai in particolare, sul quale naturalmente cadrebbe la maggiore responsabilità, egli ha già da lungo tempo stesa una Memoria giustificativa, deposta nell'Archivio riservato del Ministero della Guerra in Vienna.

130 CAPITOLO VENTESIMO.

Cosi essendo, quale più bella opportunità per inseguirlo immediatamente? Ma a Napoleone troppo caleva di portarsi al più presto sopra Milano, óve motivi politici di preponderante importanza lo stringevano a fare il suo ingresso.

Dopo un fatto di guerra bastevole a levare alto romore, avea d'uopo di ovazioni, il cui eco abbarbagliasse in Francia le menti. Gli seccava che già i Parigini, parodiando i bullettini del Monitore, motteggiassero: Garibaldi se porte sur Milan, et l'Empereur se porte bien. E che Garibaldi avesse ad entrare in Milano prima di lui, era cosa che l'Imperatore non avrebbe voluto assolutamente lasciar correre. Gli era noto che generali francesi e piemontesi non dissimulavano guari l'avversione dei più per costui; segnatamente il Trochu, generale di Divisione nel Corpo di Canrobert, avendo detto pubblicamente che se mai si fosse trovato vicino a Garibaldi seriamente impegnato cogli Austriaci, e lo avesse potuto salvare, non lo avrebbe fatto certamente, neppure se glielo avessero ordinato, abbandonandolo a quella rovina della quale, affermava, era ben degno. Ancorché sotto il vestito di generale piemontese, Garibaldi tuttavia rimaneva, agli occhi d'ogni

Anche in quella Memoria, fatta conoscere dal Gvulaì a ristrettissimo numero di persone in manoscritto litografato, di cui furono tosto dopo spezzate le pietre, ed in microscopico novero di esemplari sollecitamente ritirati, viene fatta allusione a questa circostanza de' traini. Parrebbe che gli Austriaci avessero dovuto entrare in campagna non punto pienamente preparati; ed è un fatto notorio che sino dal principio delle ostilità dovettero per trarsi dietro salmerie indispensabili far uso di parecchie migliaia di cavalli di contadini, ottenuti per requisizione, ed anche di non piccolo numero di animali bovini e di bovai, non certamente spediti e disciplinabili come squadroni di attiraglio militare. Ben a ragione lo storico del Governo francese Bazancourt (Campagne d'Italie, Vol. II., pag. 111) osserva: «Più di frequente si suole rendersi inesattissimo conto degl'impedimenti» d'ogni maniera che un esercito si trae dietro: bagagli, approvvigiona» menti, materiale d'artiglieria. Son questi, ad ogni istante, ostacoli im» preveduti, ritardi coi quali si ha a fare senza tregua, e che sconcertano» i piani strategici più sapientemente combinati.» Comunque sia circa al grado d'influenza che questa condizione di cose esercitò sull'andamento delle operazioni di guerra, i racconti che il Rustow (Guerra d'Italia, Parte I., Capitolo IL, § 1) da del segreto di sei individui, dei cangiamenti di tre in tre giorni, del paravento, delle tasche del colonnello Khun, ed altre corbellerie, sono novelle da aggiungersi alle trottole delle Mille e una notti.

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 131

persona sensata, ciò che non aveva mai nella realtà cessato di essere, il capo militare della democrazia rossa italiana.

Il giorno 8 l'Imperatore de' Francesi entrò in Milano, abbandonata spontaneamente dagli Austriaci nel 5; e appena giuntovi pubblicava la proclamazione seguente: «Italiani! La fortuna della guerra conducendoci oggi nella capitale della Lombardia, vengo a dirvi perché vi sono. Allorquando l'Austria assalì ingiustamente il Piemonte, risolsi di sostenere il mio alleato, il Re di Sardegna; l'onore e l'interesse della Francia me ne facevano un dovere. I vostri nemici, che sono i miei, hanno tentato di sminuire la simpatia ch'era universale in Europa per la vostra causa, facendo credere che io non facessi la guerra che per ambizione personale, o per aggrandire il territorio della Francia. Se v'hanno uomini che non comprendono il loro tempo, io non sono certo del novero di costoro. Oggidì l'opinione pubblica è illuminata per modo che si è più grande per l'influenza morale esercitata, che per isterilì conquiste; e questa influenza morale io la ricerco con orgoglio, contribuendo a rende libera una delle più belle parti d'Europa. La vostra accoglienza mi ha di già provato che voi m'avete compreso. Non vengo tra voi con un sistema preconcetto di spossessare sovrani, né per imporre la mia volontà. Il mio esercito non si occuperà che di due cose: combattere i vostri nemici e conservare l'ordine interno; esso non porrà alcun ostacolo alla libera manifestazione de' vostri legittimi voti. La Provvidenza favorisce talvolta i popoli come gl'individui, dando loro occasione di farsi grandi d'un tratto; ma a questa condizione soltanto che sappiano approfittarne. Approfittate dunque della fortuna che vi si offre! Il vostro desiderio d'indipendenza, così lungamente espresso, così sovente caduto, si realizzerà, se saprete mostrarvene degni. Unitevi dunque in un solo intento, nella liberazione del vostro paese. Organizzatevi militarmente. Volate sotto le bandiere del Re Vittorio Emanuele, che vi ha di già sì nobilmente mostrata la via dell'onore. Ricordatevi che senza disciplina non vi ha esercito; ed animati dal fuoco sacro della patria, non siate oggi che soldati, per essere domani liberi cittadini d'un grande paese.»

Quella proclamazione parve ai più, quello che era in fatto,

132 CAPITOLO VENTESIMO.

vera apocalisse, l'appello alla rivolta, incoraggiamento pe' timidi, sprone ad osare. Era la prima volta ch'ei volgeva direttamente la parola agli Italiani; tocco appena il territorio lombardo, non parlava più a' Piemontesi, non parlava a7 Lombardi, ma bensì ai popoli di tutta la Penisola. Protestava di non venire con un sistema preconcepito di spossessare sovrani. Ma tosto dopo soggiungeva: «Non porrò alcun ostacolo alla libera manifestazione de vostri voti»; ch'era quanto dire: «Proclamate pure che il tal sovrano non vi va a grado, non io certamente sarò quello che si opporrà.» Se alcuno avesse temuto di allumare si tosto apertamente la fiaccola della ribellione, Napoleone li confortava: «Approfittate dunque della fortuna che vi si offre! Non è mica poi il caso di ogni giorno di aversi alle spalle eccitatore e patrocinatore di rivolture un Imperatore. Tolga Iddio ch'io venga per ispossessare sovrani; ciò risguarda Vol. Sappiate mostrarvi degni della fortuna che v'offro, unendovi in un solo intento, di mandare i Sovrani d'Italia a zonzo. Volate sotto le bandiere del Re di Sardegna, che a Firenze BonCompagni vi ha di già sì nobilmente mostrato come si deve fare. Ricordatevi che senza disciplina nulla va a bene; novizii quai siete, lasciatevi disciplinare da me. Solo mercé della disciplina riescono le rivoluzioni da imprendersi; riescite, stan su.» A chi così leggeva fra le linee il senso trasparentissimo, qualcuno replicava: calunnia, malevoglienza; eppure, così affermando, convenivano che non diversamente su certe botteghe e svolte di via sogliono dipingere una mano coll'indice teso verso il luogo dove gli avventori ed i passeggieri hanno ad indirizzarsi. Frattanto, forse tutti dettero soverchio valore a quelle parole: «Siate oggi soldati, per essere» domani liberi cittadini di un grande paese.» Vedete, dicevano gli uni, Napoleone vuole davvero l'unità italiana. Oibò! Rispondevano altri; anche con una Confederazione il concetto quadra a capello. Infatti vi avea per tutti in quelle parole, come per tutti i gusti vi aveva avuto nelle proclamazioni che Oudinot indirizzava a' Romani nell'aprile 1849.

Intanto l'esercito austriaco si ripiegava sul Mincio, dolente di dare addietro, non in sostanza sfiduciato di sé; perocché intimamente convinto che Napoleone per puro caso si fosse trovato la notte del 4 in possesso di Magenta, nulla di più naturale che

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 133

avesse la coscienza di non essere stato sconfitto (1). La ritirata, corrispondente alla posizione dell'esercito, non era stata presa per Milano, ciò che aveva permesso all'Imperatore de Francesi di tosto recarvisi, ma in una direzione meridionale verso il Po, che il V. e l'VIII. Corpo furono destinati a coprire, I Francesi non inseguirono da veruna parte, né in modo alcuno cercarono di approfittare della vittoria che si aveva loro abbandonata; la qual cosa proverebbe ben fondata l'opinione di quelli che non credevano menomamente alla necessità d'una ritirata. Soltanto il giorno 8 a Melegnano, borgo a quindici chilometri da Milano, Baraguey-d'Hilliers veniva alle mani colla Brigata Roden dell'VIII. Corpo austriaco; sanguinosissimo ed ostinatissimo combattimento, in cui 5 battaglioni austriaci, appena 4500 uomini (2), con sommo valore sostennero per quattro ore l'urto di due Divisioni del I. Corpo francese, 28 battaglioni, almeno 13, 500 uomini (3).

Il 10 giugno gli Austriaci attraversarono l'Adda. Pavia era già stata abbandonata dal 7, Piacenza dal 10. Solamente l'11, sette giorni dopo la battaglia di Magenta, Napoleone, reso certo della ritirata dell'inimico sulla sinistra sponda dell'Adda, faceva incominciare un movimento in avanti da Milano verso Brescia, evacuata dagli Austriaci nello stesso giorno. Nullameno in sedici giorni il vincitore di Magenta non percorse che la distanza dal Ticino al Chiese.

L'Imperatore d'Austria, giunto da Vienna a Verona nel 30 maggio, aveva assunto nel 18 giugno il supremo comando de11' esercito, sostituito al Gyulai il generale conte Schlick. Ritiratesi tutte le schiere dietro il Mincio, i cui passi sulla sua sponda destra soltanto rimasero occupati, fu dato all'esercito ordinamento novello. Solamente una grande battaglia potendo ristabilire la

(1)

«Lo stesso III. Corpo, che aveva molto sofferto, non aveva guari il sentimento d'essere battuto.» - État-major de Prusse (Campagne d'Italie, ed. fr., pag. 106).

(2)

Das Gefecht bei Melegnano (Oesterreichische Militariscke Zeitschrtft, 1861, 1. Heft).

(3)

La Divisione Forey, 13 battaglioni, circa 6500 uomini, non prese parte alla pugna. Gli Austriaci perdettero 23 ufficiali e 345 uomini morti o feriti, fra cui un generale ucciso; i Francesi ebbero 71 ufficiali 6 943 uomini morti o feriti, fra i quali due generali feriti, cioè una perdita in morti e feriti tripla di quella degli Austriaci.

134 CAPITOLO VENTESIMO.

situazione, si erano richiamate sulla sinistra del Po le due Brigate rimaste a presidio di Ancona e di Bologna, la guarnigione di Ferrara e le truppe passate nel Ducato di Modena; ed eransi fatti venire in Italia il X. Corpo dall'Istria, dall'Ungheria l'XI., dal Tirolo una Brigata del VI., oltre parecchi battaglioni di frontiera. Lasciato sul Po inferiore il X. Corpo, il II. intorno a Mantova, le milizie tenute occorrenti per alcuni presidii, tutto il resto fu ripartito in due grandi armate: la I.a composta del III., IX. ed XI. Corpo, sotto il comando del generale conte Wimpffen; la IL col I., V., VII. ed Vili. Corpo, guidata dallo Schlick.

A dì 21 giugno la II. Armata stende vasi dall'est di Peschiera a San Zenone sulla sinistra del Mincio, dietro ad essa il quartiere-generale dell'Imperatore a Villafranca; la L Armata da Mantova a Goito e Pozzolo. Da queste posizioni dovevasi ai 23, passando l'esercito il Mincio, e spiegandosi l'ala destra sulla linea Pozzolengo Solferino, la sinistra sulla linea Guidizzolo-Castel-Goffredo, cominciare l'offensiva. Si voleva andare in traccia degli alleati in campo aperto, possibilmente mentre questi passerebbero il Chiese, ed allontanandoli da questo fiume e dalle sue comunicazioni, tentare di rigettarli contro i monti del TiroIo. Il 24 la marcia in avanti aveva a continuare; l'ala destra, ossia la II. Armata, doveva muovere verso la fronte nemica che si supponeva tra Lonato e Castiglione delle Stiviere, mentre l'ala sinistra, costituita dalla I. Armata, per Carpenedolo e Montechiaro si sarebbe gettata sul fianco destro ed alle spalle dell'oste avversaria. Così disposto, l'ala sinistra era assolutamente quella che doveva portare il colpo principale, l'ala destra non avendo nel vero altro compito che quello di richiamare l'attenzione dell'inimico sopra di sé.

Nel mattino del 23 infatti l'esercito austriaco passò per quattro ponti sulla riva destra del Mincio. All'estrema destra l'VIII. Corpo si spinse sino a Pozzolengo, il V. a Solferino, il I. a Cavriana, la Divisione di cavalleria di riserva della IL Armata a Tezze presso Cavriana, il VII. Corpo a Foresto, la Divisione di cavalleria di riserva della I. Armata a Medole, il III. e IX. Corpo a Guidizzolo, e lXI., più addietro, a Castel-Grimaldo. Per tal guisa l'esercito inoltrando senza incontrare l'inimico, aveva fatta una leggera conversione, nel tempo stesso che il suo movimento in avanti era stato convergente.

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 135

Concentrato tra Pozzolengo e Medole, presentava una fronte di cui questi due luoghi e Solferino nel mezzo, ad eguale distanza da entrambi, formavano i punti più sporgenti. Così distribuiti, all'ala destra stavano intorno a 25, 000 uomini, al centro da Solferino a Cavriana un 41, 000, alla sinistra nella pianura in prima linea circa 47, 000, e più addietro in riserva intorno a 46, 000, in tutto 175 battaglioni, 80 squadroni, 159, 828 combattenti, 102 batterie con 816 cannoni (1).

Il territorio compreso tra i due fiumi, il Chiese ed il Mincio, che da settentrione scorrono a mezzodì, nel quale avanzavano gli Austriaci, è un paese tutto pianura al sudovest, intersecato di colline al nordovest. Ultime diramazioni delle Alpi a mezzodì del Lago di Garda, le colline s'innalzano a scaglioni dalle rive del lago in linee irregolari e ondeggianti, l'ultima delle quali verso la pianura si estolle al di sopra di tutte, formando in certa guisa una forte muraglia intorno al limite occidentale della pianura. Notevole per altezza e ripidezza in tutta la estensione da Castiglione a Volta è specialmente il pendio meridionale, che, formato da lunghe serie di scoscesi e fortemente addentellati ciglioni, a chi dalla pianura rimira, sembra ruine di fortezze ciclopiche distratte dal tempo e d'erba ricoperte. Nel centro di codesta linea, disgiunti dagli altri colli e verso il piano protesi quasi due giganteschi bastioni, torreggiano Solferino e Cavriana; fra i quali, a mo' di fortilizio avanzato nella pianura, giace il più basso e meno ripido pendio di San Cassiano. A settentrione, dietro a questa catena di colli, una seconda stendesi al nordovest quasi parallela alla prima, sinché giunta ad un miglio di distanza dalle alture di Solferino, ove sopra un poggio isolato sta la chiesa della Madonna della Scoperta, volge ad un tratto al nordest sino a Pozzolengo. Solferino e Cavriana nella catena esterna, Madonna della Scoperta e Pozzolengo nella interiore, segnano la posizione degli Austriaci tra le colline. Tranne quella che da Desenzano va a Peschiera presso al lago, tutte le strade, che conducono dal Chiese al Mincio tra i colli, toccano a qualcuno di codesti punti, onde il loro possesso preclude da ogni parte il passaggio del Mincio ad un esercito nemico.

(1) Secondo L'Ordine di battaglia del 24 giugno 1859, annesso all'opera dello Stato Maggiore di Prussia (Campagne d'Italie, ed. fr., supplément II).

136 CAPITOLO VENTESIMO.

La posizione degli Austriaci sulle colline era quindi un colossale baluardo formato dalla natura con quattro immensi bastioni dominanti tutte le alture circonvicine, ciascuno dei quali, indipendentemente dagli altri, è esso medesimo un ridotto pressoché inaccessibile, e per di pili baluardo attaccabile solamente ne' quattro angoli di que' bastioni. Medole, Guiddizzolo, Castel Grimaldo, Foresto, Tezze, sono paesi della pianura dominata da Solferino e Cavriana.

Considerato da sé, il movimento degli Austriaci nel 23 era un'introduzione eccellente per la divisata intrapresa. La II. Armata erasi impadronita delle formidabili posizioni delle colline, protette nella pianura a sinistra dalla I.a Armata, fra la quale e la II.» incedevano, costeggiando affatto l'esteriore catena de' colli, i 48 squadroni della cavalleria di riserva. Continuando nel giorno appresso il movimento concentrico nella direzione di Castiglione e di Lonato, la I.a Armata precipuamente avrebbe operato il ristringimento della rete formidabile in cui gli alleati senza dubbio sarebbero stati avviluppati. Per fermo idea più ardita non potevasi concepire.

Or mentre gli Austriaci occupavano nel 23 le posizioni da Pozzolengo a Medole, l'Imperatore de' Francesi, fatto avanzare l'esercito verso il Chiese, varcato al 23 stesso dalla maggior parte dei corpi, ordinava nel dì medesimo che inoltrasse il giorno appresso sino a quelle posizioni appunto in cui, a sua insaputa, aveva pigliato stanza l'oste nemica. Alla sua ala sinistra, formata dall'esercito sardo, ingiunse di portarsi a Pozzolengo. Al centro, i I. Corpo, Baraguey-d'Hilliers, doveva recarsi a Solferino; il II., MacMahon, a Cavriana; dietro ad essi il Corpo della Guardia, quale riserva col grande-quartiere imperiale, a Castiglione. L'ala destra aveva a spingersi nella pianura; il IV. Corpo, Niel, per Medole a Guidizzolo; il III., Canrobert, per Castel Goffredo, a mezzogiorno-ponente di Medole, a Medole stessa.

Onde evitare la marcia durante l'insopportabile calore del sole, Napoleone aveva disposto che nel 24 tutti i corpi, ad eccezione della Guardia che si sarebbe mossa alcune ore più tardi, dovessero porsi in via alle due del mattino. Ora non avendo gli Austriaci a mettersi in movimento, secondo gli ordini ricevuti, che alle 9 antimeridiane tosto dopo il rancio, lo scontro doveva.

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 137

forzatamente avvenire, pella molta vicinanza in cui ornai stavano ambi gli eserciti, mentre gli Austriaci si trovavano ancora nelle posizioni che aveano occupate nel 23, e prima che avessero fato il rancio. Infatti la marcia degli alleati si trasformava ben presto in una battaglia.

Erano le 3 del mattino, che già i posti avanzati delle due parti belligeranti si urtarono. In breve su tutta la linea da Castel-Gofiredo a Succole, paesello al nordovest di Pozzolengo verso il Lago di Garda, un tratto di 25, 000 passi, s'impegnarono conflitti da prima parziali, poi speditamente degenerati in tre combattimenti speciali, tre separate operazioni, aventi tre oggetti distinti; al nord tra Benedek e i Sardi, al centro tra il grosso dei due eserciti, al sud tra la I.a Armata austriaca e la destra de' Francesi. Tre diverse battaglie, reagenti ciascuna alternatamente sulle altre, la più importante delle quali combattendosi al centro, da questa doveva dipendere l'esito finale di tutte. Quella bruna torre quadrata, la Bocca di Solferino, che da qualunque lato s'accosti alle colline del Mincio attrae l'attenzione del viaggiatore, e Napoleone I. nomò la Spia d'Italia, perocché di là l'occhio sdazia sul|e rive del Lago di Garda e sopra gran parte delle circostanti pianure, molto al di là del torrione di Cremona e delle cupole di Manto va; quell'antica torre sorgente sulla vetta del ripido colle di Solferino, diveniva la chiave d'una postura dal cui possesso pendeva il destino della giornata.

Baraguey-d'Hilliers inoltrando col suo Corpo verso Solferino, a sinistra fra le colline, a destra sulla via che da Castiglione lungo le falde de' colli esteriori mena a San Cassiano, l'avanguardia austriaca del V. Corpo, Brigata Bils, erasi trovata di primissimo mattino assalita con assai di violenta nelle sue posizioni avanzate, ed impegnata in lotta ardente contro forze superiori. Bentosto la pugna si estese su tutta la linea del Corpo di Stadion, difesa con grande bravura e successo. Sino alle dieci Stadion respinse alla baionetta tutti gli assalti dell'inimico; più tardi i Francesi, quantunque con somma fatica, cominciarono a guadagnare terreno. Racchiusi entro uno spazio ristretto, dovettero acquistare a prezzo di molto sangue ogni palmo di suolo; ancora oggidì il gran numero di tombe attesta al viatore l'enorme perdita che vi sostennero. Solamente allorché i Francesi poterono afforzarsi

138 CAPITOLO VENTESIMO.

sulla loro sinistra, minacciando di girare la destra di Stadion, gli Austriaci, soverchiati dal numero in quel punto preponderante, dopo essere stati respinti a più riprese ed avere riconquistate le primitive posture in avanti, vidersi costretti a rinculare sino al villaggio di Solferino, che da una distanza di tremila passi Baraguey-d'Hilliers inondava di granate. Al sud di Solferino Clam-Gallas poggiava il suo Corpo a sostegno della sinistra di Stadion, mentre i Francesi, impadronitisi delle prime alture, inoltravano animosamente a manca dell'avversario. Ma nel cuore della posizione ogni tentativo d'attacco cadde a vuoto, e le colonne francesi, tempestate da vivissimo fuoco di mitraglia e di moschetteria, dovettero retrocedere. Era intorno al mezzogiorno quando gli Austriaci si ritirarono presso al castello, al cimitero ed alla Rocca di Solferino.

Nel possesso di Solferino stava la condizione della vittoria, ma questa vittoria medesima non poteva conseguirsi se non quando fossesi riportata eziandio nella pianura. Dalle 10 ore del mattino l'Imperatore d'Austria erasi trasferito sulle alture di Cavriana, di dove con giusta impazienza attendevasi l'esito del movimento in avanti, che la I.a Armata doveva intraprendere verso il fianco destro dell'inimico. Nella stessa ora l'Imperatore de Francesi aveva raggiunto Baraguey-d'Hilliers sui colli al di là di Solferino. Nella pianura il combattimento aveva cominciato dalle tre del mattino fra gli avamposti di Niel e gli Austriaci in avanti di Medole. A Medole dieci compagnie d'infanteria austriaca con due cannoni, violentemente assalite, tennero fermo per quattro ore contro tredici battaglioni con dodici cannoni, della Di visione Luzy, e solamente dopo le otto furono rincacciate verso Guidizzolo. I Francesi, inseguendole, impadronironsi del villaggio di Rebecco, fra Medole e Guidizzolo, e vi si arrestarono in forze. Intanto il III. e IX. Corpo austriaco giungevano da Guidizzolo, e la pugna ferveva pel possesso di Rebecco, Casa Baite e Casa Nuova, cascine al nord di Rebecco nella direzione di San Cassiano.

Poco avanti il mezzogiorno un aiutante di campo dell'Imperatore d'Austria recava a Guidizzolo al generale Wimpffen l'ordine di portarsi in avanti con tutte le sue forze verso Castiglione, onde liberare al centro Solferino. Questa direzione sopra Castiglione, prescritta alla I.a Armata,

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 139

s'accordava perfettamente alle circostanze (1). Wimpffen aveva contro di so da Rebecco a Casa Nuova le sole tre Divisioni d'infanteria del Corpo di Niel. Tutto il Corpo di Canrobert era inoperoso a Castel-Goffredo (2), mentre TXL Corpo lo raggiungeva verso mezzogiorno presso Guidizzolo. Rebecco, Casa Nuova e Casa Baite, composte solamente di alcuni insignificanti edifizii, furono per più di sei ore oggetto d'accanitissimo combattimento, sostenuto con singolare pertinacia da entrambe le parti, ma sempre indeciso. Rebecco fu preso parecchie volte, e altrettante perduto. A due ore un attacco della Divisione Luzy rinforzata ne assicurò finalmente ai Francesi

(1) L'ordine spedito al generale Wimpffen era il seguente:

«Al Comando della I. Armata.

» L'inimico continua ad attaccare vivamente Solferino, e fa avanzare anche delle colonne da Castiglione verso Solferino. È dato ordine al Comando della L Armata di spingere in avanti con tutte le sue forze, e di non dirigersi col grosso delle truppe verso Medole, ma sopra Castiglione a cavallo della grande strada, per fare andare a vuoto l'attacco nemico contro quel punto.

» Io mi trovo sull'altura di Cavriana.

» Cavriana, il 24 giugno, a 11 ore e un quarto antimeridiane.

Sottoscritto:» Francesco Giuseppe m. p.»

(2) Nel mattino del 24 Napoleone aveva partecipato a Canrobert di avere avuto notizia durante la notte che il giorno prima un grosso corpo di Austriaci era uscito da Mantova avviandosi a Marcarla, ed aveva già coi suoi avamposti raggiunto Acquanegra sul Chiese. In fatti la Divisione Jellacic del II. Corpo era partita da Mantova in quella direzione, per prendere parte alle operazioni dell'esercito principale, e con ordine di agire sull'ala destra dell'inimico al di là di Castel-Goffredo, Questo movimento, che poteva avere un effetto decisivo sul fianco e alle spalle dei Francesi, non fu mandato ad esecuzione, essendo stato riferito al principe Liechtenstein, il quale aveva voluto assumere il comando superiore della Divisione Jellacic, che un corpo francese, la Divisione d'Autemarre, aveva passato il Po a Casalmaggiore; e Liechtenstein aveva trattenuto la sua Divisione presso a Marcarla lungo l'Oglio. Più tardi, quando Napoleone ingiunse a Canrobert di appoggiare maggiormente sulla destra di Niel, quantunque l'annunziato corpo austriaco non si mostrasse in niun luogo, Canrobert credette nullameno necessario di tenere riunite le sue truppe pel caso di un incontro possibile. Sette aiutanti speditigli da Niel, dalle 9 del mattino sino alle 2 pomeridiane, poterono finalmente ottenere che disponesse in suo sostegno la Divisione Renault, e ch'egli stesso si portasse alle 3 del pomeriggio sul campo di battaglia nelle vicinanze di Cà Nuova.

140 CAPITOLO VENTESIMO.

il possesso, mentre a Casa Baite e Casa Nuova la lotta continuava colla più grande ostinatezza.

L'insuccesso della I. Armata nel suo movimento in avanti, gravitava sinistramente sull'esito della giornata. Incuorato dal vedere le schiere di Wimpffen impigliate nella pianura senza che riescissero ad inoltrare, Napoleone spingeva la Guardia imperiale, sua unica riserva, all'attacco decisivo delle posizioni centrali tuttavia occupate dagli Austriaci a Solferino. La prodezza delle Brigate Puchner e Festetics, lanciatesi alla carica contro il nemico vittorioso, non pervenne a ristabilire la battaglia. La Bocca fu presa. Il battaglione di granatieri del reggimento Reischach sostenne con isplendido eroismo la difesa del castello e del cimitero, ma solo non poté naturalmente resistere. Le due posizioni, assalite dai Francesi da tre lati ad un tempo, andarono egualmente perdute. Erano allora due ore. Il VII. Corpo, che da Foresto s'era inoltrato nel frattempo in parte verso Solferino per San Cassiano, in parte verso Cavriana, non giunse a tempo per ritardare l'abbandono di Solferino, o dare sopra questo punto una piega favorevole alla pugna; ma occupando fortemente Cavriana e le alture circonvicine, valse a proteggere la ritirata del centro, sinché, avanzando l'inimico dai colli di Solferino che dominano quella posizione, e fulminandola colle artiglierie, fu impossibile mantenervisi più a lungo.

Caduto intorno alla stessa ora eziandio San Cassiano in potere de' Francesi, la I.» Armata sotto il comando del conte Wimpffen, quando pure non si fosse portata avanti e si fosse soltanto mantenuta nella sua posizione, poteva ancora, se il contrattacco sul lato più vulnerabile dell'avversario fosse riescito, esercitare importante influenza sulle sorti della battaglia. Nel momento in cui Niel, intrapreso un attacco contro Guidizzolo, veniva respinto con gravissime perdite sopra Baite, la I.» Armata passò ancora una volta all'offensiva. Intorno a tre ore e mezzo tre forti colonne di Austriaci mossero da Guidizzolo, tentando di riconquistare Casa Nuova e Rebecco; ma, lanciata una Divisione di cavalleria francese sul fianco sinistro degli assalitori, non riuscirono.

Perduto Solferino, volto a male il contrattacco all'ala destra de' Francesi, all'Imperatore d'Austria, che a lungo s'era tenuto esposto a Cavriana a violentissimo cannoneggiamento, fu forza

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 141

ordinare la ritirata generale, che la Divisione del principe Alessandro d'Assia doveva particolarmente proteggere al centro. I Francesi che avevano occupato San Cassiano, spintisi verso Cavriana e seriamente respintine, erano ritornati all'assalto. Il principe d'Assia ordina una seconda volta un movimento in avanti, ed i Francesi vengono una seconda volta rincacciati a San Cassiano. Ma battaglioni accumulandosi su battaglioni, Brigate su Brigate, astringono il principe a ripiegare strenuamente combattendo sopra Cavriana (1). La Divisione di cavalleria Mensdorff, tornata alla carica per la terza volta, tentò ancora una fiata di respingere il nemico che avanzava in grandi forze. I Francesi seguirono da presso il principe d'Assia, ma non attaccarono vigorosamente Cavriana caduta in lor mano soltanto allorché gli Austriaci se ne ritrassero. Erano quattro ore e mezzo quando i Francesi occuparono Cavriana, e nella pianura era respinto l'ultimo loro attacco contro Guidizzolo.

In quel momento l'uragano, che romoreggiava fortemente da un'ora, si scatenava con istrania violenza. Nugoli immensi di polve si elevano in turbini giallastri. Al vento furioso che travolge nello spazio i rami spezzati degli alberi, e rende mal sicuro lo stare in piedi, s'aggiunge un diluvio di pioggia e di gragnuola. Si direbbe che le tenebre della notte fossero tutto ad un tratto discese ad avviluppare la terra. Al tremendo fracasso d'oltre a settecento cannoni era venuto a succedere Torrido rimbombo de tuoni e lo scoppio delle folgori. Era l'ora da Dio assegnata a termine di quella lotta da leoni, in cui intorno a duecentosettantaquattromila uomini avevano senza posa combattuto per quattordici

(1) Cognato dell'Imperatore Alessandro li. di Russia, e fratello del Granduca regnante d'Assia-Darmstadt, il principe Alessandro, che già si era distinto nel combattimento di Montebello, in codesta terribile giornata di Solferino singolarmente rifulse per ammirabile sangue freddo, la più instancabile in trepiditi, il più brillante eroismo. Presa dalle mani del portainsegna la bandiera d'un battaglione di granatieri, si lanciava in tal modo alla testa della sua Divisione all'attacco delle colonne francesi. Fu perciò creato, prima d'ogni altro, cavaliere dell'Ordine militare di Maria Teresa, Ordine che l'Imperatore medesimo secondo gli Statati non può conferire, senza intervento del Capitolo, se non nel solo caso che egli nella sua qualità di Gran Maestro giudicasse opportuno di ricompensare sul campo di battaglia azioni di affatto straordinario valore.

142 CAPITOLO VENTESIMO.

ore sotto la sferza d'un sole più dell'usato cocente. Il combattimento aveva finito affatto su tutta la linea. Quando, dopo quasi un ora, l'uragano cessò, notevole distanza separava Austriaci e Francesi; né questi, esausti di forze, erano in grado di riappiccare la pugna (1).

(1) La precisa indicazione di forze combattenti in giorni determinati forma d'ordinario la disperazione degli scrittori. Da parte francese, dopo che fu pubblicata da quel Governo con imperiale splendidezza l'opera ufficiale: Campagne de l'Empereur Napoléon., 1859, si ha una confessione autentica intorno alla forza dell'esercito alleato che prese parte effettiva nella battaglia di Solferino. Vi è detto a pag. 295: «L'armata francese e sarda contava 173, 603 uomini d'infanteria e 14, 353 di cavalleria, insieme 187, 956 combattenti; dei quali presero parte alla battaglia 124, 472 uomini d'infanteria e 10, 762 di cavalleria, in tutto 135, 234 combattenti.» Da parte austriaca il tenente-maresciallo Ramming, a que' giorni incaricato delle mansioni di sottocapo di Stato-Maggiore dell'esercito imperiale, in seguito alle più diligenti e scrupolose ricerche su' documenti ufficiali, mise in chiaro (Beitràge zur Schlacht von Solferino, pag. 118) il numero esatto de' combattenti austriaci che si trovarono effettivamente al fuoco in quel dì: 139, 000 uomini, compresa la cavalleria, con 438 cannoni. Nella Campagne succitata (pag. 294) questo numero era stato elevato a 163, 124 combattenti, sommando insieme «146, 635 uomini e 16, 489 cavalli», e fingendo di scambiare cavalli bestie con cavalli uomini a cavallo; ridicola e puerile soperchieria, ben indegna d'un Ministero della Guerra di grande nazione, che non occorreva essere uomo di professione per rilevare e valutare giusta il suo merito. Basta infatti svolgere le pagine del «Pro» spetto di dettaglio dello stato de' due eserciti» per vedere, per esempio, come alle due Divisioni di cavalleria, Zedtwitz e Mensdorff, si assegnino prima 6080 uomini e 6010 cavalli, e poi si computino «combattenti 12, 090.» Così i quattro squadroni dell'VIII. Corpo si precisarono, dopo averne sommato il numero reale degli uomini fra i combattenti del Corpo, in 1669 cavalli, ciò che avrebbe dato una forza di 417 uomini per squadrone che ne annoverava poco più di 100, abbracciando nel numero 1669 i cavalli bestie delle batterie d'artiglierie, e sommandoli poi tutti cogli uomini come di metodo. Tutto questo perché si potesse credere che gli alleati vinsero un avversario superiore di un quinto della loro forza. Le forze numeriche in infanteria erano pressoché bilanciate, laddove in cavalleria i Francesi erano superiori d'un terzo, in artiglieria gli Austriaci avevano notabilissima superiorità. Nel 24 giugno gli alleati non poterono condurre al fuoco che 312 cannoni, gli Austriaci 126 di più. I corpi austriaci impegnati nella battaglia del 24 disponevano sul luogo di 488 cannoni, senza contare 88 cannoni di riserva della I. Armata, le quattordici batterie con 112 cannoni della riserva della li. Armata, e la riserva generale d'artiglieria dell'esercito,


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GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 143

Frattanto, d'accosto al Lago di Garda fra Benedek e l'ai» sinistra degli alleati un'altra battaglia erasi combattuta. L'esercito sardo inoltrava in due grandi colonne. La colonna di destra, composta delle Divisioni l.a e 2., aveva ordine di marciare da Lonato per Castel-Venzago verso Madonna della Scoperta; la colonna di sinistra, formata delle Divisioni 3.a e 5.a, da Desenzano e Rivoltella per San Martino verso Pozzolengo. Quest'ultima colonna fu la prima a scontrarsi coll'inimico. Erano le sei e mezzo del mattino allorché la sua avanguardia s'imbatteva a Ponticello, a soli 1500 passi di distanza da Pozzolengo, co' posti avanzati dell'VIII. Corpo austriaco, e li respingeva indietro. Alquanto più tardi, intorno le 7 , anche la colonna sarda di destra si urtava coll'avversano presso Madonna della Scoperta, da cui egualmente gli Austriaci furono costretti a ritirarsi.

Le truppe dell'Vili. Corpo erano ancora occupate nel loro rancio. Benedek fé'loro prendere le armi, e coll'antica sua capacità ed energia, senz' attendere ordini ulteriori né l'ora in precedenza assegnata pel generale movimento in avanti, passò d'allora egli stesso all'offensiva. Spinse parte delle sue forze verso la colonna, sarda di destra, parte verso Madonna della Scoperta. I Piemontesi furono ben presto obbligati ad abbandonare Ponticello e rincacciati sino a San Martino, a metà strada fra Pozzolengo e Rivoltella. Malgrado la valente difesa, le alture di San Martino caddero verso 9 ore in potere degli assalitori, ed i Sardi, dopo inutili tentativi di riconquistare quella posizione ed alcuni successi di breve durata, dovettero dare indietro ancora, oltre la ferrovia che da Rivoltella va a Peschiera. Né meglio arridevano le sorti a' Sardi sulla loro destra, che furono rapidamente scacciati da Madonna della Scoperta ed inseguiti buon tratto nella direzione di Castel-Venzago.

Un attacco posteriore dei Piemontesi alle alture di San Martino riuscì in principio su tutti i punti ad onta del fuoco micidiale degli Austriaci, che arrecò grande strage nelle file della 5. Divisione. A mezzogiorno sembrava che la fortuna sorridesse ai Piemontesi;

consistente in sedici batterie e 128 cannoni, gran parte delle quali artiglierie o non aveva peranco varcato il Mincio, od appena oltrepassatolo nel pomeriggio del 24 (Mollinarv; Studitn Uber die Operationen und Taetique ter Franzosen, pag. 74).

144 CAPITOLO VENTESIMO.

ma ben presto l'attacco volse di nuovo ad una mala riuscita, e dovettero ritirarsi affatto dal campo di battaglia. Le perdite della 5.a Divisione in particolare furono tali, da non potersi pensare ad altro se non a formarla di nuovo, ed essa ritirassi di un sol tratto sino a Rivoltella sul Lago di Garda. La Divisione Mollard, di cui alcuni distaccamenti erano stati travolti nella fuga della Divisione Cucchiari sino a Rivoltella (i), fu rincacciata al di là della ferrovia, fra questa ed il lago. Il successo di Benedek era splendido e completo, e la sconfitta de' Sardi sì fatta che non permetteva loro più di tentare un ulteriore ritorno all'offensiva. Richiamata l'attenzione di Benedek sulla sua sinistra, subentrò alla sua destra la più perfetta calma.

La perdita della postura centrale degli Austriaci a Solferino doveva forzatamente mutare le condizioni della loro ala destra. Durando, che fra Castel-Venzago e Madonna della Scoperta colla 1. Divisione era particolarmente impegnato nella lotta, nulla aveva potuto conseguire. Ma dopo le due, allorquando gli Austriaci eransi ritirati da Solferino verso Cavriana, la sinistra di Benedek si vide costretta ad abbandonare volontariamente Madonna della Scoperta, che allora soltanto Durando poté finalmente occupare. Questo insperato e inglorioso successo, ed i progredienti vantaggi de' Francesi al centro, determinarono il Re di Sardegna ad ordinare si provassero mitigare in qualche modo il solenne rovescio fatto subire nel mattino al suo esercito. A tutte le schiere piemontesi fu ingiunto di fare uno sforzo supremo verso San Martino e Pozzolengo. Il nuovo attacco contro le alture di San Martino cominciò col fuoco delle artiglierie dopo le quattro, nel mentre stesso che Benedek riceveva l'ordine per la ritirata generale.

(1) Cuoce immensamente a' Piemontesi quella brutta storia della ritirata o più propriamente vera fuga sino a Rivoltella. Il tenente-colonnello Roberto Patresi, traduttore dell'opera del Rustow, se la piglia con questo scrittore perché non negò il fatto innegabile, ed afferma (pag. 507) che «la relazione del Capo di Stato-Maggiore dell'esercito sardo, in data 26 giugno, dice che si ritirarono verso e non a Rivoltella.» Ma i generali comandanti le due Divisioni battute, Cucchiari e Mollard, nei loro Rapporti ufficiali del 3 e 5 luglio, confessarono senza reticenze che la ritirata fu propriamente sino a e non verso Rivoltella (Vedi: Zobi; Cronaca, Vol. IL, pag. 804 e 313).

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 145

L'uragano separava i combattenti; ma, cessato questo, i Piemontesi spintisi all'assalto dovettero, dopo una lotta accanita, rinculare senza aver potuto conseguire il minimo vantaggio. Il valoroso tenente-maresciallo Benedek non poteva obbedire che con somma ripugnanza all'ordine di ritirarsi, dura necessità cui pure alla fin fine doveva sottostare. Vittorioso sopra i Sardi per tutta la giornata, tuttavolta non aveva voluto lasciare ad essi la opinione che lo avessero più tardi battuto.

L'ordine di dover dare indietro sul Mincio impedendo a Benedek di ripigliare nel pomeriggio l'inseguimento degli assalitori respinti, i Piemontesi rimasero abbastanza vicini alle alture di San Martino per inquietare col fuoco delle loro artiglierie e con vivace perseguitazione la partenza successiva delle schiere austriache, che da ultimo non era più possibile evitare. Solamente dalle 7 in poi Benedek abbandonò mano a mano alcune delle posizioni da lui occupate; ma soltanto dopo le 8 sgomberò interamente le alture di San Martino per ritirarsi sopra Pozzolengo, non. senza aver fatto eseguire un altro ed ultimo attacco dalla sua retroguardia. In quella fase finale, aggroppatosi tutto l'esercito sardo intorno a San Martino, questa dovette abbandonarvi tre cannoni (1): non pertanto protesse con successo la ritirata del Corpo,

(1) La pugna sostenuta fra l'esercito sardo e l'ala destra degli Austriaci in quel dì i Piemontesi appellarono la vittoria di San Martino, e Vittorio Emanuele decorarono col nome di eroe di San Martino. Se vincitore in battaglia è colui che appieno conseguisce quello scopo che si aveva in precedenza prefisso, colui che respinge gli attacchi dell'inimico, lo insegue, lo obbliga a ritirarsi al di là della portata delle sue artiglierie, sin dove paree piace all'inseguitore; se vincitore è colui che, attraversati tutti i disegni dell'avversario, lo sforza a smettere ogni velleità di ritornare ancora all'offensiva; certamente non mai poté né potrà cader dubbio di sorta alcuna se Benedek od i Sardi abbiano vinto. Secondo gli ordini dell'Imperatore dei Francesi l'esercito sardo doveva portarsi nel mattino del 24 sopra Pozzolengo, parte per Madonna della Scoperta, parte da Rivoltella per San Martino. Da Madonna della Scoperta convenne che i Piemontesi dessero indietro, né riuscì loro di pervenirvi se non quando, occupato dai Francesi Solferino e dai Francesi girata la posizione dì Madonna della Scoperta, gli Austriaci dovettero ritirarsi unicamente in conseguenza de' successi dei Francesi. Da Rivoltella i Piemontesi vennero di primissimo mattino sino a Ponticello, percorrendo di tal guisa cinque sesti della distanza da Rivoltella a Pozzolengo. Gli Austriaci erano in quel momento occupati a mangiare;

146 CAPITOLO VENTESIMO.

operatasi col più grande ordine e colla maggior calma. Benedek tenne occupato Pozzolengo, in niun modo molestato dall'inimico, sino a 11 ore di notte.

ma dacché scambiarono la gamella per il fucilo, i Piemontesi si videro rincacciati sino a Rivoltella, né a Pozzolengo questi poterono venire se non il giorno dopo, e dopo che gli Austriaci se ne erano ritirati spontaneamente. Le alture di San Martino divennero meta suprema degli sforzi de' Piemontesi; ma alle 9 del mattino essi avevano già affatto perduta quella posizione, tutti i tentativi per riconquistarla furono vani, e solamente dopo le 8 della sera poterono riaverla, ed anche allora unicamente perché gli Austriaci se ne allontanavano per propria volontà. Dalle quattro e mezzo del pomeriggio il combattimento aveva cessato del tutto fra Austriaci e Francesi, né fu ripreso più tardi; cessato l'uragano, i Piemontesi vollero riappiccarlo, sperando lavare Tonta della sconfìtta del mattino. Non fecero che aggravarla; tutti i loro attacchi furono respinti nel pomeriggio, come lo erano stati tutti i loro attacchi prima dell'uragano. Secondo i documenti ufficiali annessi all'opera ufficiale: Campagne de l'Empereur Napoléon III en Italie, gli Ordini di battaglia del 24 giugno, le quattro Divisioni sarde, rinversatesi sopra l'VIII. Corpo austriaco nelle ore pomeridiane, sommavano a 41, 537 combattenti con 11 batterie; e l'VIII. Corpo austriaco, compresa la Brigata del VI. Corpo provvisoriamente aggregata al medesimo in quel dì, noverava 25, 100 combattenti con 10 batterie. Gli Austriaci inferiori di 16, 437 uomini, stavano a' Piemontesi nella proporzione di 3 a 5, e nullameno questi non riuscirono in nulla, in niun luogo, a nessuna ora. Benedek aveva durante la battaglia una posizione alquanto indipendente; egli non costituiva che un'ala di un grande esercito, del quale il centro e l'ala sinistra dovettero cedere a fronte de' Francesi. Se in forza di questo avvenimento, in cui i Piemontesi non ebbero la benché minima parte, Benedek fu astretto alla sua volta ad obbedire agli ordini del suo comandante supremo, e ritirarsi solamente quando a lui piacque, questa sua ritirata medesima non fu in sostanza che una nuova sconfitta po' Sardi, i quali si videro respinti quante volte vennero all'attacco. Lo stesso luogotenente-generale Cucchiari, comandante la 3. Divisione, confessa nel suo Rapporto ufficiale, riportato dallo Zobi (Cronaca, Vol. IL, pag. 315), che: «era sull'imbrunire quando il nemico sloggiava ancora» una volta i nostri da quelle posizioni sulle alture di San Martino.»

Quanto al titolo di eroe di San Martino, se a Palestra Vittorio Emanuele appalesò coraggio personale, esponendosi effettivamente a pericoli, il 24 giugno non si allontanò mai un momento da Castel-Venzago, ove stette a grande distanza da ogni combattimento, in posizione donde poteva vedere appena il lontano fumo delle artiglierie. «Da Castel-Venzago», narra lo Zobi (Cronaca, Vol. IL, pag. 261),» si riconduceva il Re a pernottare in Lonato, sicuro che il trionfo de' suoi gli apparecchiava un nuovo serto, la corona d'Italia.»

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 147

Cessato appena l'uragano, i Francesi facevano un tentativo d'inseguimento al centro da Cavriana contro le posizioni degli Austriaci; una batteria di racchette bastò ad arrestare quel movimento. La Brigata Gablentz stette al Boscoscuro, subito al di là di Cavriana, sino alle 10 della sera; poi rimase a Volta, non inquietata, sino al mattino del giorno appresso. Nella pianura la retroguardia della II.» Armata tenne occupato Guidizzolo sino alle 10 pomeridiane del 24, e solamente allora cominciò a ritirarsi senza essere punto inseguita.

Gravissime le perdite di entrambi gli eserciti. Morti o feriti giacquero 28, 244 (1): degli Austriaci 13, 020 (2), degli alleati 15, 224, Francesi 10, 802 (3), Sardi 4422 (4); prigionieri 6944 Austriaci (5), degli alleati 2832: Francesi 1574, Sardi 1258 (6). Complessivamente, fra morti, feriti e prigionieri, gli Austriaci perdettero 19, 964 combattenti; gli alleati 18, 056, de' quali Francesi 12, 376, Sardi 5680. La perdita minore ebbero gli Austriaci

Niuno contesta il coraggio e la valentia dell'antico esercito sardo; ma se i Francesi non vincevano a Solferino, certamente che «il trionfo de" suoi» era stato tale quel dì da apparecchiare a Re Vittorio Emanuele senza dubbio alcuno un nuovo serto, la corona di spine.

(1)

Sopra 274, 234 combattenti, Austriaci 139, 000, alleati 135, 234, che presero parte alla battaglia di Solferino, la perdita in morti e feriti sta nella proporzione di 1 a circa 9 3/4; pegli Austriaci nella proporzione di 1 a circa 10 3/4 pegli alleati di 1 a quasi 8 3/4, pei Francesi, 93, 697, di a 8 2/3. Morti sul campo di battaglia rimasero 4841.

(2)

Giusta l'opera: Campagne de l'Empereur Napoléon III.

(3) Della Guardia imp.le; morti 181 a),

feriti 704 a),

prigioni 73 a)

Del 1.° Corpo

610 a),

3162 a),

659 a),

Del 2.° Corpo

234 a),

1361),

275 a),

Del 3.° Corpo .37 a), 257 a), 19 a),

Del 4.° Corpo 632 c), 3624 e), 548 c),

morti 1694, feriti 9108, prigioni 1574.

a) Dall'opera: Campagne de l'Empereur Napoléon III.; b) Dal Rapporto del maresciallo MacMahon, presso Bazancourt (Vol. IL, pag. 466); e) Dal Rapporto del maresciallo Niel, presso Bazancourt (pag. 477).

(4)

Dalla Tabella delle perdite subite dall'esercito sardo durante la Campagna del 1859, compilata dallo stesso Stato-Maggiore-generale sardo (Zobi;Cronaca, Vol. li., pag. 318319).

(5)

Secondo i documenti ufficiali nell'opera dello Stato-Maggiore prussiano: La Campagne d'Italie en 1859 (pag. 181).

(6)

Giusta l'opera: Campagne de l'Empereur Napoléon III.

148 CAPITOLO VENTESIMO.

comandati da Benedek (1); la maggiore, veramente enorme, i Francesi del corpo di Niel (2).

Quantunque la sua linea d'operazione fosse del tutto falsa (}, Napoleone era pervenuto ad appropriarsi sul campo di battaglia la vittoria. Egli aveva ottenuto un successo brillante, ma, come a Magenta, non avea vinto punto una battaglia decisiva. Come a Magenta, gli Austriaci conservavano a Solferino la sera dello stesso giorno una parte del campo di battaglia; come a Magenta, un inseguimento qualunque non poté aver luogo. Era un nemico sfortunato che si ritirava, non un nemico disfatto; un nemico che aveva singoli corpi da riorganizzare, ma non più che l'avversario medesimo. Il 25 giugno la l.a Armata austriaca, richiamate le sue retroguardie sulla riva sinistra del Mincio, faceva saltare i ponti a Goito. Il quartiere imperiale fu stabilito a Verona, quello della I.a Armata a Roverbella, quello della II. a Villafranca. Ancora sino al mattino del 26 la retroguardia della II.a Armata tenne occupata la riva destra del Mincio ne' punti di passaggio, senza essere in niun modo molestata da' Francesi. Il 27 e 28 giugno l'esercito austriaco traversò l'Adige. Cinque giorni dopo la battaglia di Solferino, il 29 giugno, una Divisione francese varcava finalmente il Mincio; il primo di luglio tutta l'oste alleata passò sulla sinistra di questo. Lasciata a' Sardi la cura d'investire Peschiera, una sortita degli Austriaci da codesta piazza, nel 3 luglio, fu coronata di successo; i Sardi dovettero lasciare nelle loro mani considerevole numero di prigionieri. Napoleone si trovava alfine in vista del famoso quadrilatero.

(1)

La perdita totale dell'VIII. Corpo austriaco, compresa la Brigata-Reichlin del VI. Corpo, fu di 2182 ufficiali e soldati: morti 353, feriti 1634, prigionieri 195. Il corpo di Benedek avendo avuto in quel dì una forza di 25, 100 combattenti, la sua perdita fu di un uomo per ogni 11 j; mentre i 41, 537 Sardi a lui contrapposti ebbero una perdita nella proporzione di 1 a 7 4. È abbastanza singolare il fotte risultante dalla battaglia fra Benedek e l'esercito sardo, che, laddove ogni 9 Austriaci bastarono per porre fuori di combattimento 2 Sardi, occorsero 19 Sardi per mettere fuori di combattimento l'Austriaco.

(2)

Sopra i 22, 012 combattenti del 4.° Corpo francese la perdita complessiva fu di 4804; quindi nella proporzione di 1 a 4 1/2. L'eroica costanza di quel Corpo, e la valente direzione del generale Niel, valsero meritamente a questo il bastone di maresciallo di Francia.

(3)

Rustow; Guerra d'Italia, pag. 388.

149

CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

Rivolte nei Ducati.

Il principe Napoleone in Toscana. - Una missione ben definita, ben compresa, bene spiegata. - I maneggi del principe per guadagnarsi i voti dei Toscani vanno a male. - La setta riannoda le fila delle orditure a Parma. - La Reggente persiste neutrale. - «Mutan linguaggio i saggi col mutar de' tempi.» - Dopo una mezza vittoria una mezza rivelazione. - Memorandum parmense del 25 maggio. - Corpi-franchi dal Piemonte invadono il Pontremolese. - Cavour si leva affatto la maschera rimpetto alla Duchessa Luisa. - Inghilterra prende sveltamente la difesa della Reggente. - Luisa di Borbone è costretta abbandonare Parma. - II Consiglio Municipale da lo Stato al Piemonte. - La notte del 9 maggio a Parma. - Le truppe parmensi riparano nello Stato estense. - Scioglimento e consegna delle armi e bandiere a Mantova. - Una parola d'onore onestamente mantenuta. - I Governi provvisorii a Parma e Piacenza. -Le vittime del 22 luglio 1854. - Sardegna si annette gli Stati parmensi. - 11 Duca di Modena prende la via dell'esilio. - I rettori provvisorii a Modena. - Un'altra annessione. - Fedeltà delle truppe estensi.

L

a ritirata degli Austriaci da Milano e dalla linea del l'Adda, ed il successivo concentramento dell'esercito, che ne conseguitò, sul Mincio e sul Po, lasciavano campo aperto a' sovvertitori. Rotti i freni, le onde della rivolta, che da Sardegna e Toscana romoreggiavano minacciose, non dovevano più arrestarsi che alle sponde dell'Adriatico.

La Toscana aveva ad avere un Re; ma poiché già era stato deciso che in Italia non dovessero ormai essere che Re non più per la grazia di Dio, bensì per la grazia del popolo, ch'è quanto dire per suffragio universale, facea mestieri che il Re d'Etruria in aspettativa venisse a far da sé i fatti suoi, ed era giusto che i futuri suoi sudditi potessero mirarlo in volto e apprezzarne i meriti personali, le virtù, il valore. Fu annunziato adunque che un quinto Corpo d'esercito, da raccogliersi in Toscana, verrebbe aggiunto all'armata francese d'Italia, ed affidatone il comando al principe Napoleone, con incarico, dissero, d'intraprendere sul fianco sinistro degli Austriaci operazioni militari di gran rilevanza. Partito da Parigi coll'Imperatore,

150 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

il principe sbarcava con esso a Genova nel 12 maggio. Poco tempo prima, nel mattino del 31 gennaio di quell'anno, nella stessa Genova lo stesso principe Napoleone, reduce da Torino ove si era recato ad impalmare Maria Clotilde di Savoia, aveva avuto lungo colloquio con Mazzini, convenutovi espressamente a quest'uopo, scienti e permittenti quel medesimo Cavour e quel medesimo Governo sardo, che non molto avanti aveano in Genova fatto condannare a morte in contumacia il Mazzini; colloquio in cui il fondatore della Giovine Italia, sulla solenne assicurazione del principe che l'Italia sarà fatta libera, unita e forte, promise di non turbare con verun movimento repubblicano la prossima «guerra d'indipendenza.»

Per compiere le importanti imprese guerresche che si affermavano affidate al 5.° Corpo in Toscana, una delle due Divisioni d'infanteria, di cui quel Corpo si comporrà, approda a Genova; ma appena a terra, la Divisione è spedita a rinforzo del Corpo di Baraguey-d'Hilliers a Vogherà. Il 17 maggio l'Imperatore de Francesi scrive al principe cugino che l'altra Divisione parta per Livorno e Firenze. «La comparsa a Firenze,» dice Napoleone III. (1),» d'un corpo d'esercito di cui s'ignora il numero, produrrà un» grande effetto, e forzerà gli Austriaci a dividersi.» II telegrafo reca a Tolone l'ordine di porre sulle navi la Divisione Uhrich, ed il 23 maggio il principe sbarca a Livorno colle prime truppe. Il principe, imagine vivente della presunzione boriosa e della vanità ciarliera, era già a Toscana notissimo, tanto per certe clamorose avventure allorché soggiornava in sua giovinezza a Firenze, quanto per ben conte gesta mentr'era comandante d'una Divisione in Crimea. Ei s'avea fatto per di più precedere da una lettera esplicatoria (3), perocché lo storico stipendiato della Campagna d'Italia (2) afferma: «un'attitudine ben netta, ben franca, era la sola che potesse convenire al cugino dell'Imperatore;» nella quale scriveva al Commissario del Re di Sardegna in Toscana: «Sopra la domanda di due» inviati toscani presso l'Imperatore, ho ricevuto l'ordine di occupare la Toscana. L'Imperatore ed il Re

(1)

Lettera dell'Imperatore Napoleone al principe Napoleone, 17 maggio 1859 (Bazancourt; Campagne d'Italie, Vol. II., pag. 5).

(2)

Lettera del principe Napoleone Girolamo al commendatore BonCompagni, Genova 19 maggio.

(3)

Bazancourt; Campagne d'Italie, Vol. II, pag. 8.

RIVOLTE NEI DUCATI. 151

» vogliono ch'io prenda sotto il mio comando le truppe italiane. Sono spedito dall'Imperatore per uno scopo esclusivamente militare, per aiutare il paese nella guerra dell'indipendenza italiana ch'egli ha» intrapresa. Mi sta a cuore che facciate ben conoscere da per» tutto, ch'io arrivo, non come un principe francese con viste po» litiche, ma unicamente come comandante in capo del 5.° Corpo per operazioni militari. La scelta della mia persona non fu fatta dall'Imperatore se non perché i quattro primi corpi d'esercito sono già scaglionati sul Po, mentre la più gran parte del mio si trova ancora in viaggio.» Quest'ultima era infatti la più semplice, la più chiara, e sopra tutto la più convincente ragione del mondo per giustificare la sua nominazione al comando delle soldatesche spedite in Toscana. Ed una verità poi diceva il principe, là dove affermò che inviati toscani avevano supplicato l'Imperatore Napoleone affinché mandasse qualche Reggimento francese a Firenze. Solamente il principe, scrivendo al BonCompagni, tacque come ciò fosse avvenuto. Niuna Potenza straniera, dalla Francia in fuori, aveva voluto riconoscere il nuovo Governo di Toscana, l'Inghilterra in particolare avendo avuto occasione ufficiale di manifestare il suo pensiero in modo che non ammetteva replica (1). Di più la stessa Inghilterra erasi altamente adombrata allorquando si cominciò a buccinare che la Toscana potesse essere stata promessa ad un principe francese. Pertanto, per non intorbidare gli animi maggiormente, e poter

(1) Il Governo inglese avendo inviato a Livorno il Conqueror, suo vascello di cento cannoni, il capitano ricusò di salutare, secondo l'uso, la nuova bandiera toscana. Del che commosso il Governo provvisorio di Firenze, arguendo da quella ommissione la conseguenza che la Gran Brettagna non intendeva di riconoscerlo, sporte sopra ciò le sue lagnanze al Gabinetto di Londra per mezzo del Ministro di Sardegna presso la Corte d'Inghilterra, quello rispose: «che la rivoluzione non aveva stabilito in Toscana un Governo permanente, che lo stesso paese aveva provvisoriamente alienata la sua indipendenza, ponendola sotto la dittatura del Redi Sardegna, sì che non si potea il Governo toscano considerare come uno di que' Governi di fatto che l'Inghilterra è sempre pronta a riconoscere. Del resto, essere dovere del Ministero di non lasciare alterare ladistribuzione territoriale dell'Italia senza il concorso della GranBrettagna, segnataria dei Trattati del 1815, né potere il Ministro sardo rappresentore a Londra la Sardegna e la Toscana, perché non erano ancora annullate le lettere credenziali del Marchese Nerli, Ministro toscano.»

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dire che se truppe francesi andavano in Toscana, questo avveniva unicamente perché i Toscani ne avean fatte calorose istanze e per necessità di difesa, l'Imperatore Napoleone fece dire al Gabinetto di Torino che facea mestieri provvedessero a quest'uopo. Cavour si affrettò darne avviso al suo BonCompagni, che fé' partire la deputazione, ricevuta la quale da Napoleone III., il principe cugino 8 ebbe il permesso di andarsene.

Prima ancora di por piede a terra, dalla rada di Livorno, a bordo della Regina Ortensia su cui aveva fatto la traversata, il principe indirizzò una proclamazione ai Toscani (1), in cui dichiarava essere stato detto da Napoleone III., non aver egli che una sola ambizione, quella di far trionfare la santa causa dell'indipendenza, e di non lasciarsi mai guidare da interessi di famiglia (2); e ripeteva: la mia missione è unicamente militare. Più tardi però, allorché il principe renderà conto all'Imperatore delle incruente azioni delle truppe che lo seguivano (3), dirà che la sua missione era stata politica e militare, e che la sua missione politica consisteva essenzialmente: «nel mantenere la Toscana nella linea di condotta tracciata dall'Imperatore de Francesi; nel non lasciar degenerare l'espressione del sentimento patriottico; nell'organizzare militarmente tutte le risorse che si potessero tirare, non solo dalla Toscana, ma eziandio dai Ducati di Parma e di Modena; e sopra tutto di permettere agli abitanti di fare erompere senza ostacolo l'espressione della loro riconoscenza per le benevole intenzioni di Sua Maestà l'Imperatore Napoleone III.» Se non che in un'epoca memorabile per copia di contraddizioni sì fatta, che la storia non rammenta forse l'eguale, una contraddizione di pii; o una contraddizione di meno parve cosa non meritevole punto di alcuna osservazione. Comunque fosse, il principe aveva tenuto almeno nel suo Rapporto il linguaggio che si addiceva ad un'attitudine, come attesta Bazancourt, ben netta, ben franca, la sola che potesse convenire al cugino dell'Imperatore; confessando che la sua missione politica stava

(1)

Inserita negli Atti e Documenti del Governo della Toscana, Parte I., pag. 149.

(2)

E questo i Toscani chiamano: metter le mani innanzi per non cascare.

(3)

Rapporto del principe Napoleone-Girolamo all'Imperatore, da Goito, il 4 luglio 1859 (Bazancourt; Campagne d'Italie, Vol. 2., pag. 478-482).

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nel fare appello alla rivolta quanto ai Ducati di Modena e di Parma, e quanto ai Toscani nel fare appello a quell'obbedienza ch'essi dovevano all'Imperatore de' Francesi, ed a quella riconoscenza cui non potevano venir meno per le benevole intenzioni dello stesso Imperatore, di regalare il Regno d'Etruria al principe cugino.

La discesa delle armi francesi in Toscana, ricognizione della rivolta per cui il legittimo sovrano era stato cacciato dal trono, suggello di autorità alla ribellione, intantochè ne assicurava il successo, era una di quelle violazioni del diritto pubblico internazionale, che verun artifizio di linguaggio diplomatico avrebbe potuto onestare. Napoleone III. mandava i suoi soldati in paese il cui sovrano non aveva fatta la più piccola offesa alla Francia, come la più piccola offesa non le aveano fatto i principi di Parma e di Modena; in paese il cui sovrano aveva anzi detto e ridetto alla Francia di volere starsene neutrale nella lotta, e invano chiesto e richiesto che questa sua neutralità fosse riconosciuta da essa. Napoleone III. mandava un principe della famiglia imperiale di Francia, il principe più d'accosto al trono, ad esercitare diritti di sovrano col disporre di sudditi toscani per formarsi un esercito (1), ed a guerreggiare l'Austria in paese che non peranco aveva dichiarata la guerra all'Austria (2).

Da Livorno, aperte personalmente le ostilità col Ducato di Modena, compiuta, col disarmo di quattro doganieri estensi, la sua prima ed ultima impresa durante tutta la durata della guerra (3), venne il principe nel 31 maggio a Firenze, e vi rimase.

(1)

Dacché il principe Napoleone pose piede in Livorno, Vittorio Emanuele, Re Protettore, pose le truppe toscane sotto il suo comando, con un Ordine del giorno (riportato dallo Zobi, Cronaca, Vol. I., pag. 364965), in cui, confortatele coll'assicurazione che non erano più truppe toscane:«Voi non siete più soldati di una provincia italiana; obbedite il mio amatissimo genero, lor disse, come obbedireste a me stesso. Egli ha comuni i pensieri e gli affetti con me e col generoso Imperatore che scese in Italia.»

(2)

Tale dichiarazione fu fatta solamente il 25 maggio, due giorni dopo che il principe era giunto a Livorno (Atti e Documenti del Governo della Toscana, Parte L, pag. 155.

(3)

Narra Bazancourt (Campagne d'Italie, Vol. IL, pag. 1819), che il 29 maggio il principe era a Pistoia, di dove, preso con sé quattro battaglioni ed una batteria d'artiglieria, mosse verso il Ducato di Modena. «il principe si spinse di persona sino al confine. L'appostamento, che ne occupava il limite,

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Ma i Toscani, cui nulla afflitto caleva quanto a loro riguardo potessero avere convenuto a Plombières, non si davano veruna premura di mantenersi nella linea di condotta tracciata dall'Imperatore de' Francesi; pigliando alla lettera la solenne assicurazione del principe che la sua missione aveva uno scopo esclusivamente militare, ogni dì più guardavansi dal permettersi che «erompesse l'espressione della loro riconoscenza per le benevole» intenzioni dell'Imperatore Napoleone.» Non dubitando di fare al principe la più grata cosa con obbedire alla calda sua raccomandazione che si facesse ben conoscere dappertutto, essere egli arrivato, non come un principe francese con viste politiche, ma unicamente come comandante in capo del 5.° Corpo per operazioni militari, i Toscani eransi fatto un dovere di porre ogni miglior loro studio nel distinguere fra il comandante del 5.° Corpo d'operazione e la persona del principe francese. Le pratiche copertamente messe in piedi dal principe per guadagnarsi i voti dei Toscani, quantunque condotte con molta finezza (1), non poteano farsi strada fra mezzo alla repulsione universale. Avversato dalla grande maggioranza degli abitanti rimpiangente que' miti Granduchi, che per più che secolare regno avevano fatta prospera e felice la Toscana; avversato dalla parte piemontese, o com'ella stessa chiamavasi la parte nazionale, che, spinta dal BonCompagni, ben sapeva come sui disotto del foglio, su cui era da Torino venuta l'istruzione segreta: «Quando verrà in campo la candidatura del principe, lasciate correre,» si leggeva l'istruzione segretissima: «Quando verrà in campo la candidatura del principe, attraversatela in ogni guisa;» avversato da tutti, cui invano si veniva a dire: «la stirpe de' Bonaparte potersi dire

» non segnalò sopra questo punto verun movimento inquietante del nemico. I doganieri estensi furono disarmati; ed il generale Coffinières, comandante del Genio del Corpo del principe, organizzò all'istante mezzi di difesa, aperse feritoie nelle case respicienti la via, piantò una batteria di due cannoni.» Niuno nel Ducato di Modena pensava di ritogliere al principe la conquista ch'egli avea fatta senza colpo ferire. (1) Zobi; Cronaca Vol. I., pag. 378. - Lo stesso Zobi si vanta (pag. 374) che, «essendo stato ricercato da uno degli agenti del principe Napoleone di voler aderire al progetto rivolto a ripristinare l'effimero Regno etrusco, tosto rispose: essere ormai tempo che gl'Italiani cessassero di desiderare un basto nuovo per gettar via il vecchio ugualmente forestiero.»

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» italiana e più specialmente fiorentina d'origine,» pronti a rispondere: «adesso però i suoi interessi averla resa francese, e per conseguenza straniera all'Italia;» il principe non sapeva capacitarsi come potesse accadere a lui, cugino d'un Imperatore e genero d'un Re, che né per moine né per oro non avesse a riescire la più piccola cosa di quanto poco prima per oro e per moine era venuto a bene ad un semplice commendatore BonCompagni. Il principe aveva un bel mostrarsi cortese, gentile, italianissimo. Ogni suo detto, ogni suo atto era volto in derisione. Avendo egli dichiarato che facea mestieri fornire il suo esercito di alcune centinaia di cavalli, de' quali pativa penuria, fu ingiunto che quanti cavalli erano in Firenze convenissero in luogo determinato. Alla equina rassegna il principe stesso andò e lungamente stette; ed ecco i burloni affermare che, non riuscendo il principe ad affezionarsene i padroni, avea pensato di cominciare dall'affezionarsi i cavalli. Il novero microscopico de sudditi di Sua Maestà Napoleone I. Re d'Etruria non cresceva d'una unità. Quei quattro grami accaparrati per lui in precedenza, che lo Zobi chiama «radicali anelanti di pretesti e metti scandali (),» né godevano la pubblica stima, né esercitavano influenza di sorta alcuna. Ancorché ingegno di modesta levatura, fu forza al principe capire che la sua base d'operazione in Toscana era del tutto sbagliata e falsa, né poteva riescire ad altro che al ridicolo. Il concentramento degli Austriaci sulle linee del Po e del Mincio venne in buon punto a trarlo dal malo passo. Quel concentramento si traeva dietro la caduta delle legittime sovranità nei Ducati, la ribellione negli Stati pontificii.

A Parma gli avvenimenti sì rapidi che contrassegnarono i primi giorni del maggio 1859, «queste tre giornate in cui la truppa italiana della Casa di Borbone aveva cancellato il ricordo di tre altre giornate (1),» questa restaurazione compiuta per la sola forza della fedeltà, avevano dischiusa, malgrado il trionfo del 4 maggio, una nuova era gravida di difficoltà e di perigli. La sconfitta sofferta alle porte stesse del Regno, così solenne

(1) Cronaca degli avvenimenti d'Italia, Vol. I., pag. 578.

(2) Parole della Duchessa Lutea, nella lettera ai suoi figli, da Parma il 4 maggio 1859, riportata dal Riancey (Madame la Duchesse de Parme devant l'Europe, pag. 1012).

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ne, così perfetta, doveva naturalmente ferire nel più vivo gli uomini della rivoluzione ed i direttori di scena in Torino, coi l'offeso amor proprio vie meglio stuzzicava a conseguire più pronta la rivincita. Le fila delle orditure, sconnesse per lo sperpero del Comitato parmense, i riannodarono prestamente sotto la protezione del Draghi. Troppo scarsi e troppo vili per impegnare una lotta a viso scoperto, gli agitatori disfogavano il loro dispetto col rendere oggetto d'insulti senza posa le truppe fedeli. La longanimità de' soldati fu messa alle più dure prove. Ogni giorno, nelle vie, nelle osterie, nei Caffè, chiunque portava un abito militare si vedeva esposto ad ingiurie; lettere anonime, minacele di morte fioccavano senza tregua agli ufficiali. Più d'una volta, nella Cittadella e nelle caserme, le truppe avendo manifestata l'intenzione ben decisa di fulminare la città alla prima velleità di sommossa, i capi di corpo duravano la maggior fatica ad infrenare e reprimere que' bollori. Era evidente che si aveva mutato tattica; e non potendo più sperare di riuscire nella via delle seduzioni, si poneva ora in opra ogni mezzo per far scappare la pazienza a soldati, sinché si lasciassero andare a qualche atto sconsiderato e brutale. Le raccomandazioni de' comandanti agli ufficiali ed ai soldati, a questi sopra tutto, perché si contenessero nella calma, nella moderazione, nella tolleranza, e l'eroismo della sommissione vinsero sugli animi concitati. D'altronde, occupando la Cittadella, padroni della città da questa e dalle loro caserme, sicuri di non annoverare più tra le fila traditori, concordi, numerosi, provveduti di munizioni e d'artiglierie, il sentimento della propria forza contribuiva a renderli generosi; tenendosi certi che se la sommossa avesse osato alzare il capo nelle vie, né l'esito sarebbe rimasto dubbioso, né la Reggente sarebbe stata in forse, come non lo era rimasa punto il 22 luglio 1854.

In luogo competente erasi preveduto ogni caso, tutto discusso, tutto convenuto. La Reggente di Parma aveva sempre innanzi a sé schiusa la via a tre diverse linee di condotta a seguire: la neutralità, partecipazione alla guerra a fianco dell'Austria, partecipazione alla guerra a fianco degli alleati. Se stretta da ragioni di guerra, o da qualsivoglia altro motivo, si fosse gettata dalla parte dell'Austria, avrebbesi avuto là pure buon giuoco; soccombente l'Austria, il destino dei Borboni di Parma era tracciato.

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Se si fosse alleata a Sardegna e Francia, allontanate le truppe parmensi dalla capitale, un pretesto qualunque, un nonnulla, quattro straccioni che gridassero: Annessione al Piemonte!, avrebbero bastato per torsi da' piedi quella incomoda sovranità. Se infine, in onta a tutto, avesse voluto perdurare nella neutralità proclamata, ne avrebbero colto argomento per trattarla da ostile e da nemica, come que fanciulli indocili e testardi che non intendono altra ragion che le busse. L'idea della neutralità erasi siffattamente radicata nell'animo della Duchessa che per niun evento avrebbe voluto ornai dipartirsene. Per non allearsi a' Franco-sardi aveva riparato a Mantova, e stava per chiedere asilo alla Svizzera neutrale; per non allearsi all'Austria, fuggitiva da Parma, aveva rifiutato a Mantova, il 2 maggio 1859, qualsivoglia soccorso d'armati (1), come prima aveva rinunciato di prevalersi del benefizio del Trattato del 1848.

La Reggente Luisa giudicava della situazione colla rettitudine della sua coscienza. Quantunque alla mente elevata e lucidissima l'istinto della madre rivelasse, che non era già con quella sua neutralità che l'avessero, ma sì unicamente col trono di suo figlio, molesto inciampo che attraversava ogni via; essa faceva indirizzare, il 12 maggio, a tutti i rappresentanti là Corte di Parma presso le Potenze straniere istruzioni speciali contenenti solenne conferma della dichiarata sua neutralità, e l'espressione del desiderio, «che le grandi Potenze s'impegnino a ricono» scere ed a fare rispettare questa neutralità ch'è conforme alla» condizione in cui si trova il Ducato, non avendo né dato né ri» cevuto alcuna causa di offesa da parte di veruno Stato.» Allorquando, in sul principio di quell'anno, la Francia si limitava ad insinuare alle Corti italiane, che nel caso di ostilità eventuali, non pigliassero partito né per Austria né per Sardegna, ed il Governo parmense dichiarava appunto di volersi in quel caso mantenere del tutto neutrale, la Francia erasene dimostrata appieno soddisfa, e sino dalla fine del gennaio il Ministro Walewski non aveva avuta alcuna difficoltà di assicurare il Mon, Ministro di Spagna e rappresentante ad un tempo la Corte di Parma a Parigì,

(1) H. de Riancey; Madame la Duchesse de Parme devant l'Europe, pag. 1213.


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del perfetto appagamelito dell'Imperatore, essendo quella, diceva, «la sola condotta che potesse essere consigliata alla Duchessa di Parma.» Tosto che poi, sopraggiunte le ostilità, dichiarata altamente da1 sovrani destinati a cadere prima degli altri quella neutralità che si avea loro tanto caldamente raccomandata e richiesta, incominciarono a far intendere netto, non essere neutralità che si voleva da loro, ma bensì aperta e franca alleanza; Mon ebbe un bel ricordare ciò che gli aveano detto in addietro, e i pericoli corsi dalla Reggente per mantenersi neutrale così come aveano voluto. Pur continuando a protestare per la Reggente, come a suo tempo si era egualmente continuato a protestare per la Corte di Toscana, assicurazioni di rispetto, d'interessamento, di benevoglienza, d'amicizia, il conte Walewski non trovava ora che obbiezioni da opporre, basate sulla «situazione» geografica degli Stati di Parma riguardo alla guerra attua» le.» Mon insisteva, e Walewsky ripetere: «che l'Imperatore» era al campo, ma prenderà i suoi ordini.» E gli ordini, or ora vedremo, tardarono infatti ben pochi giorni a venire.

Trasmettendo a Torino la Nota del 12 maggio, lo stesso giorno il Gabinetto parmense inviava a Don Coéllo, rappresentante di Spagna e di Parma presso il Re di Sardegna, due dispacci a parte. Nell'uno era fatto uffizio speciale presso il conte di Cavour affinché il Governo di Torino si dichiarasse sulla preghiera «di stabilire nettamente la politica di neutralità che la Duchessa Reggente ha diritto di vedere riconosciuta»; nell'altro veniva segnalato a quel Governo «l'abuso ch'era stato fatto del nome del Re di Sardegna da parte degl'insorgenti, abuso di cui certamente il Gabinetto di Torino non potrebbe essere creduto complice; perocché il Governo ducale stima, che se la Giunta avesse voluto rimettere il potere al Re, ess'avrebbe veduto respingere con indegnazione un progetto così contrario, non solamente al buon diritto, ma ai legami di parentela che uniscono le due case regnanti, ed a quelle relazioni di leale amicizia e di buon vicinato che hanno sempre esistito fra i due Stati.» Don Coéllo non pervenne a raggiungere il conte di Cavour che il 21 maggio. Invano nel frattempo Pallavicino aveva reiterato, ad affrettare la conferenza e la risposta, lettere e dispacci telegrafici. Intrattanto era accaduto il combattimento di Montebello,

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che, tenuto in conto di una mezza vittoria pe' Francesi, dava opportunità di pensare al Governo di Torino, essere venuto il momento di lasciarsi andare, riguardo a Panna, a una mezza rivelazione.

Il 23 Cavour rispondeva: «Il Governo sardo essere stato straniero agli avvenimenti de' primi giorni di maggio. Quanto alla neutralità del Ducato, essere difficile di ammetterla, mentre Piacenza è occupata da cinquantamila Austriaci, da di là minaccianti le truppe alleate.» Come se l'occupazione di Piacenza per parte dell'Austria fosse un fatto dipendente dalla libera volontà del sovrano di Parma; come se, senza risalire sino alle origini di quel diritto di occupazione, l'Articolo 5.° del Trattato segnato in Parigi il 10 giugno 1817 non avesse, quarantadue anni prima, sancito: «che la fortezza di Piacenza, offrendo un interesse più particolare al sistema di difesa dell'Italia, l'Austria conserverà in quella città, sino all'epoca delle reversioni, dopo l'estinzione del ramo spagnuolo de' Borboni, il diritto di guarnigione, della quale le spese ed il mantenimento saranno a peso dell'Austria, e la sua forza in tempo di pace determinata tra le parti interessate;» come se per codesta stipulazione l'Austria non avesse avuto ogni più ampio diritto di tenervi in tempo di guerra quel qualunque numero di truppe che meglio le fosse piaciuto!

Alle obbiezioni di Walewski, alle difficoltà di Cavour, la Reggente Luisa rispose, il 25 maggio, con un Memorandum (1) indirizzato alle Corti d'Europa; e colla missione di due inviati speciali, il Cattani ed il conte dall'Asta, Governatore di Parma, incaricati di recarsi a Torino, al campo degli alleati, presso l'Imperatore de' Francesi, e giungere a veder netto. Il 27 maggio i due inviati partirono. Tutto ciò era troppo molesto. La situazione diveniva insostenibile, bisognava ormai dichiararsi; e da Torino e dal campo alleato i fili telegrafici portarono l'ordine che si facesse la luce. Ben presto l'alta voce de' fatti avrebbe soffocati i cicalecci della diplomazia.

L'attacco incominciò sulla frontiera parmense dal lato di Pontremoli. Il 27 maggio, durante la notte,

(1) H. de Riancey; Madame la Duchesse de Parme devant l'Europe, pag. 4145.

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una banda d'armati appartenenti a' Corpi-franchi che si andavano accogliendo sul territorio sardo, varcato il confine, sorprendevano, assalivano, disarmavano gli appostamenti de' gendarmi e delle Guardie di Finanza a Zeri, uno de' sei Comuni della città di Pontremoli. Nel mattino l'aggressione si estende. Invano gli altri appostamenti tentano opporsi, eh» forza è cedere alla superiorità del novero. Ai Municipii s'impone di votare la decadenza del Governo ducale, l'annessione al Piemonte, la richiesta d'un Commissario sardo. Con coraggio veramente ammirabile, in condizioni sì fatte, il Contsglio degli anziani di Bagnone, altra delle sei assemblee costituenti il Municipio di Pontremoli, ricusa di obbedire alla violenza vincitrice, protesta e si dimette dall'ufficio. A tre ore una forte colonna con artiglierie entra nella stessa Pontremoli. Guidata dal generale Ribotti, ne facean parte il Reggimento sardo Real Navy (1), ed alquanta infanteria regolare toscana, inviatagli dal Governo di Firenze. Si sa che le milizie toscane dipendevano ormai, dal 24 maggio, dal principe Napoleone. Così, mentre in Parigi Walewski assicurava il Ministro Mon che prenderà gli ordini dell'Imperatore, l'Imperatore dal Piemonte li dava, portando, senza dichiarazione di guerra, le ostilità contro chi in ogni modo aveva protestato e provato di non volere pigliar parte alla guerra. Così, pel più brutale abuso della forza, si portavano le armi contro due oggetti sacri fra le nazioni più barbare, una madre e un fanciullo, non d'altro rei che di non avere a' lor cenni dugentomila baionette per far rispettare quella neutralità proclamata, che ognuno in Europa, da Francia e Sardegna in fuori, aveva riconosciuta.

A Pontremoli i gendarmi e i doganieri, che vollero mantenersi fedeli, sono accerchiati, disarmati, gettati in prigione. Gli stemmi parmensi sono abbattuti. Il generale Ribotti intima al Prefetto ducale, marchese Appiani di Piombino, di riconoscere l'autorità della Sardegna. Appiani rifiuta riciso; Ribotti lo fa arrestare e guardare a vista. Appena la notizia dei fatti di Pontremoli giungeva a Parma, la Reggente faceva spedire per telegrafo una domanda di spiegazione e di riparazione a Torino. L'interpellazione di Pallavicino a Cavour suonava: «Mi si riferisce che, contro ogni diritto,

(1) Reggimento d'infanteria della Marina di guerra.

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» il Prefetto Reale, marchese Appiani di Piombino, è tenuto in ostaggio a Pontremoli da un sedicente generale Ribotti, e che le Guardie di Finanza e i gendarmi vi sono arrestati. Faccio appello a Vostra Eccellenza per ottenere la loro messa in libertà immediata, salvo intrattenerne più lungamente Vostra Eccellenza per lettera. Le domando una risposta telegrafica.» Partito il 30 maggio, il dispaccio non ebbe riscontro che il 31. La risposta per telegrafo fu; «Il Ducato di Parma essendo la base d'operazione dell'armata nemica, non è possibile d'impedire che, anche da parte nostra, delle ostilità non arrivino.» Menzogna s'aggiunge a menzogna. Falso che il Ducato fosse la base d'operazione degli Austriaci, o potesse nemmeno diventarlo. Non un soldato austriaco stette mai sulla destra sponda della Nura. Se il movimento degli alleati avesse avuto a scopo una minaccia dì fianco sopra Piacenza, la violazione del territorio parmense avrebbe avuto luogo da Bobbio sulla sinistra riva di quel fiume, non dal più lontano angolo del Ducato, da Pontremoli sul versante mediterraneo degli Apennini.

Per giungere a Torino, e non trovarsi avviluppati fra' belligeranti sulla via da Piacenza ad Alessandria, gl'inviati della Reggente, Cattani e Dall'Asta, avevano dovuto per lunga aggirata pigliare la strada di Liguria. Arrestati dal generale Ribotti, non avendo potuto continuare il loro viaggio se non comprovando la missione diplomatica di cui stavano investiti, erano alfine pervenuti a raggiungere il conte di Cavour. Il silenzio di questi intorno all'arresto del marchese Appiani, questo fatto decisivo non disapprovato in modo alcuno nella risposta telegrafica, non poteva certamente interpretarsi che come una dichiarazione di guerra. Nullameno la Duchessa aveva insistito per esigere dal Governo di Torino una spiegazione formale. Fu allora che Cavour si strappò l'ultimo lembo della maschera, dichiarando: «La Sardegna non può in veruna maniera riconoscere una neutralità, che è non solamente in contraddizione col carattere del movimento attuale italiano, ma che in diritto ed in fatto si trovò violentemente rotta a suo detrimento dal principio delle ostilità dell'Austria contro il Piemonte.» Nello stesso tempo rimandò Cattani. Diritto e fatto stavano contro Sardegna. In diritto Luisa di Borbone non era menomamente responsabile di avvenimenti conseguitanti

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da stipulazioni europee, che non istava in suo potere attraversare e impedire; i fatti attestavano per lo contrario la cura, spinta allo scrupolo, con cui dallo scoppio delle ostilità s'era costantemente tenuta, quanto umanamente era possibile, neutrale. Ma chi si curava di valutare fatti e diritti, allorché qualunque enormità parea lecita e onesta, e la fortuna volgeva propizia al misfare?

Era il 4 giugno. La Reggente sapeva alfine a quale estremità si trovava. Essa si era già separata da quanto aveva di più prezioso al mondo, tutta la sua figliuolanza, posta al sicuro in Isvizzera. Sola ed impavida ella era rimasta sulla breccia. Mentre la Francia, la stessa Francia che non ha guari era andata superba di avere alzata la voce a difesa del diritto de' neutri, l'imprescrittibile diritto de' deboli, proclamato la più onorevole conquista del genio della civiltà e del cristianesimo, veniva a spodestare innocui e pressoché inermi Sovrani, la Duchessa Luisa riceveva dalle Potenze straniere, da tutta Europa, le attestazioni più lusinghiere di viva simpatia, d'interessamento vero. Non tenendosi paga al mettere una fregata inglese a sua disposizione, ad offerirle un asilo a Malta od in qualunque altro territorio britannico le fosse meglio piaciuto, l'Inghilterra adoperava direttamente in suo favore tutta la sua influenza, d'ordinario abbastanza ascoltata a Parigi, abbastanza rispettata a Torino. A lord Cowley, ambasciatore a Parigi, a Sir James Hudson, Ministro a Torino, il Governo inglese ingiunse di reclamare con ogni energia perché Francia e Sardegna rispettassero il Ducato di Parma, e ne ritraessero le truppe già inviatevi. «La presenza di quelle truppe sul territorio parmense, diss'ella senza gran giri (1), non può essere considerata che come un impiego crudele ed ingiustifìcabile della forza contro uno Stato piccolo e debole, amministrato da una donna sprovveduta di mezzi sufficienti per mantenere la sua indipendenza contro le violenze di un esercito di invasione, quantunque desiderosa di evitare di prender parte alla guerra desolatrice che incrudelisce sulle frontiere, e facente il suo possibile per governare il suo popolo con umanità e con giustizia.»

(1) Dispaccio del conte di Malmesbury, Ministro degli Esteri, a lord Cowley, ambasciatore britannico in Francia, del 7 giugno 1859.

RIVOLTE NEI DUCATI. 163

Che mai poteva l'appoggio morale in quel mentre che all'antico diritto delle genti si voleva sostituito il diritto nuovo, il diritto del fatto materiale, il diritto del fatto compiuto!

Sir Campbell-Scarlett e Don Escalante, Ministri d'Inghilterra e di Spagna presso la Reggente, eransi recati a Parma per proteggerla al bisogno. Gli avamposti delle truppe di Ribotti stavano già ad alcune ore di cammino da Parma. Ogni speranza era perduta; nullameno essa resisteva, e ogni qualvolta le avevano parlato di partenza vi si era rifiutata. Agli affanni morali vengono ad aggiungersi gli affanni fisici: la sera del 7 giugno un'irritazione di petto l'incoglie, ed una febbre ardente l'inchioda sul letto del dolore. l'8, l'esacerbazione della malattia è al colmo, come l'esacerbazione del pericolo. Gli invasori inoltrano, lentamente sì, ma pure incessantemente. 0 fuggire, o restare prigioniera degli alleati; e nulla ostante l'eroica donna risponde sempre: Aspettiamo ancora. La sera, dominando la violenza del male, s'alza, riunisce il Consiglio, discute, provvede; tutti la pressano, ed ella resiste ancora, resiste sempre. L'indomani, 9 giugno, verso le undici ore del mattino, un dispaccio telegrafico annunzia che gli Austriaci cominciarono d'improvviso disposizioni per lo sgombero di Piacenza. L'invasione sta per venire innanzi anche da quella parte. Finalmente a tale novella, la Duchessa cede e pronunzia la fatale parola: Partirò, Riunisce i suoi più fedeli servitori; essa medesima vuoi loro annunziare che li lascia. Fa chiamare ne' suoi appartamenti la compagnia di fanti di servigio al palazzo. La voce spezzata, s'indirizza a' soldati; li ringrazia della loro fedeltà, della loro devozione, con quelle frasi semplici, affettuose, toccanti, di cui possiede sì bene il secreto. Che riportino ai lor camerate le sue parole: sian essi testimonii della violenza di cui è vittima, della protesta che ripete contro l'invasione dello Stato, contro la violazione dei diritti di suo figlio. Che domandino, che esigano dalle truppe l'ultimo pegno di devozione che da esse reclama la loro sovrana: il sagrifizio della loro giusta vendetta.

Accompagnata dai Ministri d'Inghilterra e di Spagna (1),

(1) Sir Scarlett non la lasciò che a Mantova; Don Escalante la seguì sino a San Gallo in Isvizzera.

164 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

seguita da Palla vicino (1), la Duchessa Luisa abbandonava Parma, che non dovea mai più rivedere (2), lasciando un affettuoso proclama alle popolazioni (3), un toccante addio alle truppe (4), ed un atto contenente istruzioni speciali (5), da portarsi a pubblica conoscenza, determinante: che tutti i Ministri, tosto che essa sarà uscita di città, cessino dalle loro funzioni, affidate provvisoriamente ai segretarii generali de' Ministeri; il Municipio di Parma si riunisca senza indugio per eleggere una Commissione di Governo; sinché codesta Commissione assuma l'esercizio del potere, le truppe siano sotto il comando del generale Crotti, e se più tardi avvenimenti di forza maggiore ìe ponessero in condizioni penose, possano considerarsi siccome prosciolte dal giuramento; tre mesi di soldo bì accordino agli ufficiali, un mese a' sottoufficiali, mezzo mese a' soldati, che, dopo avere concorso alla difesa dell'ordine, volessero rinunciare al servigio militare. Con altro documento, per il tempo intermedio tra il momento della sua partenza e l'assunzione del governo da parte della Commissione nominata dal Municipio, la Reggente conferiva i suoi pieni poteri, col titolo di Commissario Reale straordinario, al Draghi, Direttore della Polizia generale; al Draghi, membro del Comitato Nationàle parmense!

(1)

Andò colla Duchessa in Isvizzera, e stette presso di essa. Infrante coll'astuzia le pattuizioni di Villafranca, calpestate le stipulazioni di Zurigo, proclamato da Torino il Regno d'Italia, spazzata ogni altra dinastia legittima dal suolo della Penisola, un bel di, dopo di avere sino allora intascati dalla cassetta privata della Duchessa gli emolumenti che percepiva in Parma, il marchese Pallavicino si dipartiva da essa, pretestando l'assoluta necessità di dare assetto ad urgentissimi interessi familiari. Mai più si rivide. Andò a Torino, e ne ripartì con in saccoccia un Decreto per cui fu liquidata la sua pensione di Ministro, e gli si pagarono «gli arretrati a partire dal giorno 9 giugno 1859,» giorno in cui si era allontanato colla Reggente da Parma!

(2)

Giunta a Venezia il 18 gennaio 1864, ammalatavi il 21, mancò di febbre tifoidea il 1.° di febbraio, in mezzo a patimenti indicibili contenendo i teneri sentimenti di madre con privarsi del caro aspetto de' figli, per tema di comunicar loro una malattia ch'essa reputava pericolosa.

(3)

Zobi; Cronaca degli avvenimenti d'Italia, Vol. IL, pag. 14.

(4)

H. de Riancey; Madame la Duchesse de Parme devant l'Europe, pag. 6870.

(5)

H. de Riancey; Madame la Duchesse de Parme devant l'Europe, pag. 6768.

RIVOLTE NEI DUCATI. 165

II giorno innanzi, la Duchessa aveva data facoltà al Consiglio Municipale di Parma di aggregare a sé trenta membri straordinarii. 11 Consiglio 8 era adunato, eletti i trenta. Il podestà di Parma, principe Diofebo Soragna, convoca il Consiglio ampliato; ma appena ragunato, la ribellione alza il capo nel suo seno. Soragna, che lo presiede, rifiuta di associare il suo nome a deliberazioni fellonesche, e sull'istante si dimette dall'ufficio. Botto la pressione degli uomini del Piemonte il terrore fé il resto. A quattr'ore dello stesso giorno una Notificazione (1) annunzio che la Commissione di Governo, da nominarsi poi poteri deferiti al Consiglio dalla Reggente, era stata eletta coll'incarico di reggere lo Stato sinché il Re di Sardegna provvegga!

La partenza della Duchessa aveva gettati gli animi de' soldati in cupa costernazioue. Chi rifiutava di credervi, chi protestava di voler andare a cercarla e ricondurla sotto la protezione di quelle armi fedeli, che l'avevano già restaurata una volta. Ognuno avrebbe voluto dividere con essa i dolori dell'esilio. A gran pena potevansi persuadere e contenere, quando la Notificazione del Municipio venne a ricolmar la misura. Un documento sì odioso ed abbietto doveva naturalmente ferire nel più vivo del cuore quelle brave milizie, che per avere debellata la rivolta del

(1) «Il Municipio di Parma.

» Visto il proclama di S. A. B. la Duchessa Reggente LuisaMaria, in» data l'oggi;

» Nomina una Commissione di Governo coll'incarico di reggere il» paese sinché il Governo del Re Vittorio Emanuele vi provvegga.

» Essa è composta dei signori: conte Girolamo Cantelli, vice-presidente dottor Pietro Bruni, ingegnere dottor E variato Armani; e prende immediatamente l'esercizio della sua autorità.

» Parma, il 9 giugno, a 4 1/2, ore pomeridiane.

» Per il Podestà:

» Il Sindaco: G. Vicenzi.

» I Segretarii provvisorii

» G. Osenga.

» S. Rappaccioli.»

Il Municipio si riferisce al proclama della Reggente, ed è sulla base di codesta autorità che getta le fondamenta della rivolta e dell'usurpazione!

166 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

maggio avevano a risentire più che mai pungente l'ingiuria fatta a' suoi legittimi principi. Obbedire ad una Commissione di Governo, guardiana dei diritti del sovrano, nulla di ciò più semplice, e la Reggente stessa lo aveva ordinato. Ma obbedire ad una Commissione di Governo, che prima ancora di assumere il potere dichiarava di pigliarlo in nome del Re di Sardegna; farsi complici dell'usurpazione e stromenti del tradimento; rinnegare la fede giurata, l'onore, la bandiera; permutare la coccarda di Roberto di Borbone colla coccarda di un sovrano che non era il loro; era quanto le truppe parmensi non avrebbero fatto giammai. Piuttosto marciare sui ribelli, piuttosto cannoneggiare la città.

L'incrollabile fermezza, lo sdegno, la collera de' soldati, la volontà formalmente espressa di non obbedire che a' loro capi nei limiti tracciati dal loro dovere, accesero le ire degli uomini della rivoluzione. Cerchi e capannelle si formano presso alle caserme ed agli appostamenti di guardia. D'improvviso, chiunque porta un vestito militare è assalito per le vie. Ufficiali, che senza diffidenza recavansi a' loro quartieri, sono insultati, disarmati, battuti, insino spogliati. L'appostamento della Piazza d'armi viene attaccato da una turba che pretende a gran grida le armi, e con promesse e minaccio tenta corrompere ed intimidire i soldati. Gli ufficiali fanno prendere a questi le armi, e l'accozzaglia è dispersa. Per evitare una nuova collisione i soldati di quell'appostamento furono fatti ritirare in Cittadella; ma per istrada parecchi d'essi caddero pugnalati a tradimento. Nello stesso tempo tutti gli appostamenti erano assaliti; alcuni meno importanti vennero disarmati, in altri i soldati furono uccisi o feriti.

Alla vista de' commilitoni che accorrono sanguinosi e in disordine, i battaglioni acquartierati nella Cittadella non si contengono, danno di piglio alle armi, si aggruppano intorno agli ufficiali, altamente protestando: «Vendichiamoci degli assassini!» Bombardiamo la città; e quando avremo consumata l'ultima nostra cartuccia, partiamo colle nostre bandiere e ritiriamoci a Brescello! L'onore sia salvo; il sangue de' nostri compagni non resti invendicato.» Invano gli ufficiali tentano di calmare gli spiriti concitati, invano ricordano che la Reggente medesima, partendo, aveva chiesto da essi il sagrifìzio della loro giusta vendetta. «No, no!,» rispondono,» non è la Duchessa che abbia

RIVOLTE NEI DUCATI. 167

» dato l'ordine di non far fuoco sui ribelli; sono gli ufficiali, che vanno d'accordo coi briganti e vogliono tradirci. Al bisogno, abbiamo cartucce anche per essi!» Alla fine, a forza d'istanze, lo Stato-Maggiore pervenne ad ottenere che si astenessero da ogni sortita aggressiva contro la città. Nullameno i soldati rifiutavano di lasciare più a lungo esposte al furore de' sollevati le truppe disperse nell'interno della città. Si convenne di concentrarle nella Cittadella; e nella loro impazienza gli artiglieri tirarono dall'alto delle mura del Forte tre colpi di cannone. A questo segnale d'allarme il 2.° battaglione d'infanteria ed il drappello degli operai d'abbigliamento accorsero.

Que' colpi di cannone avevano sparsa la più viva apprensione nelle fila de' rivoltosi. Un nerbo d'armati si precipita verso la caserma della Pilotta, ove aveano stanza il Corpo delle Guide Beali ed una compagnia di Cacciatori. Queste truppe uscivano in quel mentre in buon ordine. Accolte da fuoco abbastanza nudrito, dovettero aprirsi il passaggio con una carica vigorosa. Parecchi caddero da entrambe le parti, volti in rapida fuga gli assalitori. La guardia del Palazzo Reale poté co' suoi due cannoni ritrarsi in Cittadella senz'essere molestata. I soli Gendarmi rimasero in città, sobillati dal Draghi e dal Maggiore Guastalla, loro comandante, comperato con trentamila franchi; per cui furono altamente encomiati da' Triumviri (1). Intanto le campane della città suonavano a stormo, barricate ai alzavano agli sbocchi delle vie principali. Un ritorno offensivo delle truppe era il supremo terrore dei capi del movimento, come il più ardente voto de' soldati. A undici ore di notte, mentre la città s'illuminava e le campane chiamavano gl'insorti alla difesa delle barricate, le truppe frementi, ma docili alla voce dell'obbedienza, uscirono di Cittadella, dalla porta di soccorso. Con meraviglioso esempio di moderazione, di generosità, di abnegazione, di dipendenza, si avviavano verso la frontiera estense, nella direzione di Brescello; convenuto tra loro che, deposte in luogo sicuro le bandiere, le artiglierie, le armi, si scioglierebbero.

Ad Un miglio da Brescello la Brigata, guidata dal generale

(1) Decreto della Commissione governativa parmense, del 10 giugno.

168 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

Crotti (1), si arrestò, un aiutante di campo recando avviso al co mandante del Forte dell'arrivo e delle cause. Dopo parecchie ore di riposo fu apportata al generale la risposta del Duca di Modena: proseguissero il cammino sino a Gualtieri, borgata nelle vicinanze di Guastalla, ove troverebbero quartieri e viveri. La sera di quello stesso giorno 10, parecchi messi giungevano in Gualtieri con incarico di presentare agli ufficiali e a soldati offerte di danaro e di servigio in nome del Governo ribelle di Parma. Anche quest'estremo tentativo di seduzione andò fallito, le truppe dichiarando di volere tenersi alla facoltà' accordata dalla Reggente, di poter andarsene ciascuno ove meglio credesse. Frattanto il generale Crotti aveva deposto il comando, assunto dal colonnello Perini. Il mattino dell'11, sulla pubblica piazza di Gualtieri, le truppe, solennemente prosciolte dal giuramento di fedeltà, si dispersero colla più tranquilla ed esemplare regolarità. Ufficiali e soldati ebbero congedi individuali; le casse dei Corpi pagarono ad ognuno il soldo decretato dalla Reggente. I fucili e le altre armi, le munizioni, le giberne, i sacchi, i caschetti, furono caricati sopra carri. Un certo numero di ufficiali e soldati chiese di essere accolto nelle truppe estensi, i più si sbandarono in varia direzione, alcuni pochissimi presero la via di Parma. Una scorta, destinata ad accompagnare in luogo sicuro le bandiere, i cannoni, le armi, rimase perfettamente ordinata, risoluta di non abbandonare codesto prezioso deposito se non a missione compiuta. La sera medesima, il colonnello Perini, lo Stato-Maggiore della Brigata, la scorta, toccarono il suolo austriaco a Borgoforte. Il 12 entrarono nella fortezza di Mantova a tamburi battenti e bandiere spiegate. Le bandiere furono deposte alla Granguardia della piazza, dopo avervi ricevuti tutti gli onori militari. Una Convenzione si estese fra il colonnello Perini ed il Governatore della Fortezza di Mantova, per cui le artiglierie e le armi vennero date in custodia a quell'arsenale. Congedi si rilasciarono a soldati, e quasi tutti rientrarono isolatamente alle lor case.

Un battaglione d'infanteria, che dopo l'invasione di Pontremoli era stato spedito in osservazione da quella parte, richiamato

(1) Crotti era stato chiamato al Comando supremo delle truppe la mattina del 9 giugno, quando la Duchessa stava per partire.

RIVOLTE NEI DUCATI. 169

nel pomeriggio del 9 a Parma dal generale Crotti, non aveva potuto giungervi a tempo per riunirsi al resto della Brigata. Il Governo provvisorio inviò lor incontro in tutta fretta suoi deputati; parlamentarono e convennero che deporrebbero le armi e si distoglierebbero prima di entrare in città, a condizione che ufficiali e soldati fossero individualmente accolti con riguardo. li Governo provvisorio accettò la stipulazione e promise sul suo onore, che veruno di loro avrebbe a subire la minima offesa o molestia. Allora il Maggiore Bonzi, comandante il battaglione, licenzia i soldati; e compiuto il disarmo e lo sperpero, entra solo ed ultimo in Parma. Ma appena oltrepassata la porta della città, un colpo di fucile è tirato su lui a bruciapelo, la palla gli sfiora il volto; nello stesso istante una frotta 'di forsennati lo circonda % lo afferra, mandando alte grida di morte. Baionette sono rivolte al suo petto, le sue decorazioni ed insegne violentemente strappato e calpeste, il suo uniforme stracciato in mille pezzi; poi lo trascinano per più di due ore lungo le vie della città, fra i fischi, i motteggi, le urla, le imprecazioni, le ingiurie, i maltrattamenti d'una turba sfrenata. Il leale Governo provvisorio lasciò fare. Quando a Dio piacque, gettarono il Bonzi, più morto che vivo, in una prigione della Casa di Forza. Tutto quel dì ed il successivo gli altri ufficiali del battaglione, che fidenti nella promessa dei governanti erano rientrati in città, vennero arrestati, svillaneggiati, percossi, e alla fine tradotti in quella stessa prigione; né a veruno fu dato riacquistare la libertà se non promettendo di entrare al servigio del Re di Sardegna. Fu in tal modo che gli onesti Triumviri mantennero la loro parola d'onore.

Fatta dichiarare dal Municipio di Parma «ripristinata l'annessione al Regno di Sardegna decretata nel 1848, que' Triumviri proclamarono (1): «La Commissione di Governo ristringer deve la sua' azione a preparare l'avvenimento del nuovo Governo. Coloro i quali si resero colpevoli verso il paese saranno sottoposti al rigore delle leggi.» Gli ufficiali, «che sedussero la truppa, furono dichiarati (2) nemici della patria privati del grado, delle onorificenze, degli stipendii. Nel pervertimento d'ogni

(1)

Proclama de' Triumviri parmensi, del 12 giugno.

(2)

Decreto del Triumvirato di Parma, del 14 giugno.

170 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

senso morale, chi vien meno all'onore, chi tradisce vilmente, è un eroe; chi non lo fa, chi adempie sino all'ultimo il debito dell'uomo onesto, è messo al bando, e quegli è il traditore Eppure era a quegli ufficiali medesimi che gl'insorti di Parma, la più gran parte furtivamente introdottivisi dal Piemonte, andavano debitori della loro salvezza; eppure senza quegli ufficiali non mai la sommissione de' soldati ducali avrebbe potuto raggiungere, nella condizione dell'animo in cui versavano, in sì alto grado l'eroismo dell'abnegazione. A Piacenza, appena sgombera dagli Austriaci, analoghi procedimenti. Le stesse mene, gli stessi effetti. Il Municipio, dichiaratosi «rappresentante naturale del popolo, decretava (1): «Rivive nella sua interezza la legge del 17 marzo» 1848, il Patto che Piacenza strinse coll'illustre martire Carlo» Alberto, di sacra memoria. Piacenza ed il Ducato ritornano oggi» sotto il reggimento di Vittorio Emanuele.» Nello etesso tempo, il governatore ducale, marchese Manara, fu arrestato e gettato in prigione; vi rimase due mesi.

Il dì 14 giugno il generale Ribotti entrò in Parma a capo delle sue soldatesche sardotoscane. Fu il giorno appresso che a capo della Gazzetta ufficiale (2) comparve quel documento con cui i tre dei Governo provvisorio di Parma, Cantelli, Bruni ed Armani, in più particolare maniera si studiarono tramandare i loro nomi alla posterità, decretando: «danni, interessi e spese saranno pagati dal Tesoro pubblico alle vittime della giornata del 22 loglio 1854, che senza provocazione alcuna erano state esposte alla licenza barbara e sfrenata de' soldati austriaci e parmensi.» Il 22 luglio 1854 (3), Parma aveva avuto per le vie lo spettacolo di bandiera rossa, coccarde rosse, berretti rossi, sciarpe rosse, barricate, pugnalate a tradimento, colpi di fucile sulle truppe dalle finestre e sul capo ai soldati tegole e pietre dai tetti delle case. Alla lor volta le truppe, senza provocazione alcuna, tirarono colpi di fucile e anche di cannone. Le barricate si sfasciarono, e qualche soldato con licenza barbara e sfrenata prese a mirare sì giusto sui tetti che il Barilla, capo dei dilettanti, discese in istrada

(1)

Notificazione Municipale, del 10 giugno.

(2) Gazzetta di Parma. Decreto della Commissione di Governo, del 15 giugno 1859.

(3)

Vedi: Vol. I., Le caute, pag. 182.

RIVOLTE NEI DUCATI. 171

con gran speditezza, senza venir giù per le scale. Poi, senza averne ottenuto il permesso né dai conte Girolamo 'Cantelli, né dal Barilla, i soldati condussero a vedere il sole a scacchi intorno ad un centinaio di quegli amatori del color rosso, che i gaglioffi di Parma aveano creduto colore repubblicano, presi colle armi alla mano, mentre attendevano alle innocenti loro esercitazioni. Cinque anni più tardi, i tre che reggevano lo Stato di Parma in nome del Re di Sardegna decretavano ricompense nazionali ai rossi del 22 luglio 18541 Che il Governo del Re di Sardegna e i Triumviri parmensi ci avessero intinto ne' baloccamenti di quelle povere vittime? Comunque sia, se era impossibile mentire alla storia con maggior sfrontatezza, era sommamente difficile imaginare decreto che in più alto grado fosse, è dubbio se maggiormente nauseabondo o ridicolo.

Lo stesso giorno 15 giugno il principe Eugenio di Savoia-Carignano, Luogotenente-generale di Vittorio Emanuele, dichiarava assunto dal Re di Sardegna il reggimento degli Stati parmensi (1). Due giorni più tardi, i Triumviri sparvero dalla scena; il conte Pallieri, nominato Governatore, pigliò in mano a Parma le redini del potere, alzò gli stemmi di Savoia, si fé' prestare solennemente giuramento di sudditanza da tutte le autorità. 11 conte Girolamo Cantelli, un momento sovrano, dovette star pago al modesto incarico di segretario del nuovo signore, il Pallieri. Due Piemontesi, Marco e Rocci, l'uno Deputato al Parlamento di Torino per Ivrea, l'altro antico Intendente di Vogherà, giunsero colla nomina d'Intendenti sardi a Parma e a Piacenza. L'annessione era un fatto, l'assorbimento completo.

l'11 giugno da Milano, l'Imperatore de' Francesi aveva inviato a Firenze per telegrafo l'ordine: «II principe Napoleone» concentrerà tutto il suo corpo d'armata a Piacenza. Il princi» pe effettuerà questa concentrazione per que' mezzi e quelle stra» de che reputerà convenienti.» Ed il dì stesso il principe aveva dati gli ordini di partenza pel mattino appresso. Di fronte all'abbandono di Piacenza da parte degli Austriaci, alla rivolta trionfante a Parma, alla discesa delle milizie del generale Ribotti dagli Apennini, al pericolo imminente dello avanzarsi de' Francesi

(1) Decreto riportato dallo Zobi (Cronaca, Vol. II., pag. 110-112).

172 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

da Toscana, il Duca di Modena, che senza spiegare alcun rigore straordinario aveva continuato a conservare la più perfetta tranquillità pubblica, abbandonava la sua residenza, senza esservi in nessun modo costretto dalla sommossa, senza avervi a reprimere né tentativi rivoluzionarii, né movimenti ostili de sudditi; verso i quali certamente non ebbe altra colpa, che gli meritasse il cacciamento, fuorché quella di avere per lunghi anni beneficato e retto lo Stato con un governo che fu vero modello di governo saggio e cristiano. Instituita una Reggenza a governare lo Stato, presieduta dal Ministro dell'Interno conte Luigi Giacobazzi, partì dalla capitale Fila capo delle truppe fedeli.

Ma ritirate appena da Modena, nel mattino del 13, l'ultime soldatesche, ecco a ripetervi le solite e ormai viete manovre. Gli emissarii del Piemonte, gli uomini della Società Nazionale italiana, sempre men numerosi a Modena che altrove, dan fuori, scorron la cavallina, strepitano, gridano: Abbatto l'Abbatto! Viva l'Italia! Con grande fracasso gli stemmi del Governo legittimo sono abbattuti dalle botteghe dei tabaccai alle porte de' pubblici Ufficii, la bandiera tricolore si porta in piazza ed in giro col consueto accompagnamento de' Viva a Vittorio Emanuele ed a Napoleone III., primo soldato e primo capitano dell'indipendenza italiana I «La plebe facea impeto nella reggia per discacciarne la» Reggenza istituita da Francesco V. (1).» La plebe! Sempre e da per tutto la plebe! La grande maggioranza delle popolazioni oneste si sdegna, guarda paurosa, o tremante si nasconde, o si allontana. Se i capi dei Municipii non sono della partita, o si dimettono spontanei dall'ufficio per non macchiarsi d'infamia, o si costringono a battere in ritirata più che di fretta. Municipio nuovo, Governo nuovo si eleggono; e sempre vengono a farne parte, così stabilito in precedenza, gli antesignani del movimento locale (2). Il primo atto de' governanti e Municipii novelli è di dare

(1)

Zobi; Cronaca degli avvenimenti d'Italia, Vol. II., pag. 96.

(2)

Que' di Modena amavano il progresso. Non si tennero paghi, come a Parma e a Piacenza, a soli triumviri;.vollero quinqueviri, e i cinque furono: Giuseppe Tirelli, Pietro Muratori, Emilio Nardi, Giovanni Montanari, Egidio Boni, «liberali sperimentati e cittadini generalmente stimati,»afferma lo Zobi, ben sapendo che per essere veritiero avrebbe dovuto scrivere: cittadini tutt'altro che generalmente stimati.

RIVOLTE NEI DUCATI. 173

il paese a Gasa Savoia. Dovunque nel 1848 eran riesciti a porre in piedi un simulacro di votazione popolare per l'annessione al Piemonte, appena seduti a scranna gl'intrusi rettori sentenziano «rivivente l'antico Patto,» e con un tratto dipenna la nuova annessione era fatta. Poi venivano gli squarci di brillante eloquenza a contrassegnare l'effimera vita de' Governi provvisorii, sinché giungesse da Torino il fortunato spedito a governare o sgovernare i paesi. Così a Modena i cinque proclamarono (1): «Disciolti per le immortali vittorie italo-franche i vincoli politici che ci tenevano costretti al Governo estense, rivivono come per diritto di postliminio quelli che pe' nostri voti concordi e liberissimi accomunarono nel 1848 le sorti nostre alle sorti de' magnanimi Subalpini.»

Il 15 giugno, un avvocato Luigi Zini, emigrato estense, s'insediò in Modena Commutano straordinario di Sua Maestà Sarda (); i quinqueviri rientrarono nel nulla. Lo stesso dì parte delle truppe del Ribotti venne a pigliar possesso di Modena; una usurpazione di più era compiuta. Solamente il giorno innanzi, 14, dopo di avere con tutto suo agio impiegato quattro dì a percorrere le quaranta miglia, che separano Modena dal Po, Francesco V., valicato il fiume a Borgoforte, aveva oltrepassate le frontiere dei suoi dominii.

Feraci d'insegnamenti le circostanze che accompagnarono la caduta delle legittime sovranità dei Ducati. Né il Duca di Modena, né la Reggente di Parma fuggirono dinanzi all'insurrezione, che non esisteva, o per necessità di disfatta subita in guerra; si ritrassero unicamente per semplice e forzata conseguenza della concentrazione che gli Austriaci operavano in quello stesso momento. La Reggente Luisa, che aveva rinunziato di prevalersi del Trattato del 4 febbraio 1848, purché non istabilire, all'occorrenza, il suo punto d'appoggio sull'Austria; che il 2 maggio 1859 a Mantova aveva ricusato ogni offerta di armati (3), era stata costretta

(1) Manifesto de' quinqueviri al popolo modenese, del 13 giugno.

(2)

Il suo primissimo atto fu di decretare, lo stesso giorno 15, che fosse posto sotto sequestro il patrimonio privato del Duca.

(3)

Al tenente-maresciallo Culoz, comandante la Fortezza di Mantova, presentatosi a ricevere, come disse, i suoi ordini pel generale Gyulai, coll'offerta di mettere a sua disposizione le truppe occorrenti per ristabilire immediatamente la sua autorità, ella rispose:


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174 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

di cedere alla pressione straniera quanto il Duca di Modena, che franco e schietto avea seguito altra via; tant'era vero che la guerra occulta e palese, mossa da oltre Ticino e oltreAlpi a' minori sovrani d'Italia, era guerra a' troni ed alle dinastie, non alle persone de' regnanti od alla politica de' loro Governi, guerra di spogliazione e di rimpasti territoriali prestabiliti. Era serbato alle truppe di Francesco V. e di Luisa di Borbone, sovrani di Stati, fra i più piccoli d'Italia e i più. esposti per postura geografica alle mene del Governo di Torino, era serbato a codeste truppe, esclusivamente composte di sudditi del paese, dare l'esempio della fedeltà e della devozione, i più splendidi esempi d'incrollabil costanza che da lunghi anni gli annali militari rammentino.

La Duchessa di Parma s allontana, lasciando dietro a sé facoltà di prosciogliere dal giuramento i Buoi soldati; essa partita, la ribellione alza il capo, e i suoi soldati la schiacciano, quasi a dire a dispetto del sovrano. Più tardi la Duchessa è forzata riallontanarsi, prosciogliendo un1 altra volta i soldati; e un'altra volta i soldati resistono a tutte seduzioni, a tutte minacce. Perduta ogni speranza di ripristinare sul trono i suoi principi, per l'aperta invasione straniera, i soldati di Parma escono dallo Stato a raggiungere un cantuccio di terra sicura ed amica ove posare le armi, porre in salvo colle bandiere l'onore militare, disciogliersi, disperdersi, ramingare, lieti e superbi di non seguire altra bandiera, di non portare altra coccarda. Il Duca di Modena parte, e le sue truppe lo seguono, fiere di dividere con esso i dolori dell'esilio. Quattro anni più tardi quelle truppe, impassibili ad ogni blandizia, ad ogni promessa, indifferenti ad ogni minaccia, messe al bando dal potere intruso nella lor patria, duravano ancora, fra privazioni e disgusti, frammezzo a delusioni, tetragone

«Mi sono ritirata per non essere obbligata di rompere la neutralità. Non voleva essere causa di nuovi torbidi nel mio paese; voleva anzi impedirli. Se sopravviene un Governo usurpature, non domanderò neppure allora alla forza straniera di ristabilire il Governo legittimo; ma se, a guerra finita, i diritti de' miei figli non fossero stati rispettati, me ne appellerò all'Imperatore d'Austria, come alle altre grandi Potenze, per guarentire questi diritti e farli valere pacificamente.» Culos le domandò di ricevere queste parole in iscritto, e fu accordato.

RIVOLTE NEI DUCATI. 175

ai colpi dell'avversa fortuna, quasi che nulla fosse, così ben ordinate e così numerose quanto il dì in cui erano uscite da Modena, dopo di avere nel frattempo afforzati i lor ranghi con giovani eletti, che, sprezzanti di ogni pericolo, avevano varcato il Po a frotte per raggiungere dal natio suolo estense le bandiere di Francesco V. a Bassano, sicché questi con giusto orgoglio ben poté dire (1): «la sua truppa divisa dal proprio paese aversi reclutata con volontarii assai meglio che quando egli teneva l'autorità in mano.» E quando, per cause del tutto indipendenti dalla lor volontà, come da quella del Duce, per forza maggiore, quelle truppe deposero le armi, tutti, può dirsi, gli ufficiali (2), e notevole numero di soldati, al rivedere la patria desideratissima preferirono il vivere sopra terra straniera, vestire altri panni, comunque fosse mangiare il duro pane del profugo. Davvero devono essere bene stati tirannici i governi di Francesco di Modena e di Luisa di Parma, se aveano saputo ispirare a' lor sudditi affezioni sì fatte!

Ormai tre sovrani d'Italia non più teneano dominio, per frode e per inganno, non per ribellione de' sudditi, non per fellonia de' soldati. Non era la Toscana che avesse messo al bando Leopoldo II.; il ceto medio, egualmente lontano dalla superba ambizione di perversi patrizi e dalla ignoranza della plebe, il contado, la classe de' trafficanti, salvo rare eccezioni, l'ordine ecclesiastico, questi quattro elementi costituenti il nerbo della società, non vi presero parte e furono sopraffatti dall'audacia incredibile de' sediziosi. Il moto del 27 aprile era stato opera

(1) Parole del Duca di Modena in una lettera al marchese di Normanby, in data 17 luglio 1861, riferita nella Vindication of thè Duke qf Modena from thè eharget of Mr. ladstonet pag. xxvi., e nella traduzione italiana a pag. 25.

(2) «Centocinquantotto ufficiali, o con grado pari ad ufficiale, appartenevano alle truppe ducali. Rimasero tutti sul territorio austriaco, e tutti passarono nell'Armata imperiale, ad eccezione d'un solo, cui circostanze peculiarissime imponevano la stringente necessità di rimpatriare. Molte centinaia di sottoufficiali e soldati seguirono l'esempio dei capi, ed entrarono in servigio austriaco. Quasi un duecento rimasero sul suolo dell'Impero senza prendere servigio militare.» (Cinquantadue mesi di esilio delle ducali truppe estensi, da giugno 1859 a settembre 1863, pag. 96. - Venezia, 1863).

176 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

di alcuni patrizi cui la pertinacia nel congiurare procacciò un po' di nome, di alcuni avvocati e di alcuni medici che col soccorso della setta piemontese comperarono pochi uffiziali e soldati, e la plebe pia abbietta. E guai se alcuno avesse osato dire, non esser vero che la Toscana eran essi.. No, l'esercito toscano non vendette per vii moneta coll'onore il paese; tratto in errore, quando l'errore conobbe era troppo tardi. Non furono i popoli dei Ducati di Parma, e di Modena che cacciarono Casa di Borbone e Francesco d'Este; a Parma la rivoluzione fu importata dal di fuori, a Modena venne dopo partito il Duca. A Firenze, a Parma, a Modena, la ribellione, fattasi innanzi rivestita della livrea dello straniero, allontanati appena i sovrani legittimi, s'indraca oltracotata per rinunziare sotto pretesto d'indipendenza la propria autonomia. Triumviri e quinqueviri, venduti al Piemonte, arrogatisi di propria autorità il potere, di propria autorità invocano Dittature, decretano annessioni, vendono al Piemonte i paesi. La Dittatura, l'annessione! Ecco le supreme parole, le supreme ragioni di codesti fieri campioni della libertà e dell'indipendenza. Quattordici nomini, impostisi per sorpresa su' popoli, con un tratto di penna dispongono delle sorti presenti e avvenire di 2, 800, 000 abitanti.

AVVERTIMENTO.

Il successo di benevoglienza con che fu accolto il primo volume di quest'opera, i giudizii portatine dalla stampa periodica nazionale e straniera, gli eccitamenti a dar mano senza indugio all'impressione della seconda parte che ha per titolo Gli effetti, indussero Fautore, vinta l'abituale ritrosia a dar fuori alcun suo scritto per frammenti, a pubblicare questa seconda ed ultima parte, pili voluminosa, ripartita in tre fascicoli, senza che fosse d'uopo d'attendere la stampa di tatti i fogli. Il 2.° e 3.° fascicolo terran dietro quanto più presto sarà dato, commisuratone il prezzo in proporzione del numero delle pagine.

Riproducendo sulle copertine taluno de' giudizii pubblicati sin qui, pensiamo che sia cosa grata ai lettori.

(Dalla Civiltà Cattolica, Serie VI., Vol. II, Quaderno 361, pag. 65. Con quest'opera Delle recenti avventure d'Italia il conte Ernesto Ravvitti si è proposto di fornire agl'Italiani un quadro storico e ragionato della Rivoluzione, che dal 1859 in qua sconvolge tutta la nostra Penisola. Per eseguire questo disegno egli ha ideato due naturalissime divisioni, l'una delle Cause intorno allo quali discorre nei primo volume, o l'altra degli che sarà materia del volume seguente, Le cause di questa Rivoluziono mina in due diversi periodi. Il primo, che denomina Quarantanni di preludio, si stende dal 1815 al 1850, cioè dal Congresso di Vienna al Congresso di Parigi, e abbraccia tutti i principali avvenimenti e le trame settarie che doveano far capo nella generale Rivoluzione: e se ne tratta sommariamente, ma con sagacia, in Bei capitoli. 11 secondo periodo, che denomina I patti secreti, comprende un racconto assai particolareggiato degli apparecchi immediati della Rivoluzione, in altri nove capitoli.

Il libro è condotto con molto senno: chiaro, stringato e semplice nello stile; ricco di notizie, di citazioni, di confronti, di osservazioni acute e di aneddoti importanti. Lo spirito è di cattolico schietto e di onestissimo gentiluomo, sinceramente affezionato all'Italia ed al suo vero bene. Non sappiamo che esista lavoro di storia contemporanea, il quale possa compararsi a questo nel merito di esibire in un solo sguardo tutta la tela degli odierni rivolgimenti. Perciò lo raccomandiamo a coloro che studiano le patrie, ed a quanti desiderano formarsi un limpido concetto della tenebrosa opera di servitù e di distruzione nazionale, che è codesta della nostra Rivoluzione, fattosi in nome della indipendenza e della nazionalità. La lettura di questo nobilissimo libro del signor conto Ravvitti mostra ad evidenza attuata la verità di quel celebre detto di San Gregario Magno che;. Huius mundi sapientia est cor machinationibus tegere, sensum verbis velare quae vera sunt falsa ostendere, quae falsa sunt vera demonstrare. A ciò riduce tutta la macchiavellesca perfidia usata per fare la pretesa rigenerazione d'Italia.

DELLE

RECENTI AVVENTURE

D'ITALIA

PER

IL CONTE ERNESTO RAVVITTI

Vol. II.

GLI EFFETTI.

Fasc. II.

VENEZIA

TIPOGRAFIA EMILIANA

1806.

_______________________________________________

Pubblicato il 1.° giugno 1866.

177

CAPITOLO VENTESIMOSECONDO.

Il Papa e i neutrali

Diffidenze de' cattolici in Francia. - Lemercier e Baroche. - Un manipolo di menzogne. - Proteste del Ministro Rouland. - riguardi voluti all'augusta persona del Santo Padre. - 0 quieti o faziosi. - La neutralità pontificia, promessa e conculcata. - Gli Austriaci si ritirano dalle Legazioni. - Due marchesi, Migliorati e Pepolì. - Rivolte nello Stato pontificio. - Le stragi di Perugia. - Gl'Indirizzi de' Bolognesi. - Una dittatura nel ginepreto. - Caduta del Gabinetto Derby. - Lord Palmerston a' suoi elettori. - Armamenti inglesi - Disposizioni guerresche in Alemagna. - Condizioni de' partiti in Prussia, - Minaccio della Russia alla Germania. - Altri effetti dell'alleanza franco-russa. - La contromossa. - Dure parole e grandi verità, - La mediazione della Prussia.

Q

uando pure buon novero di fatti occulti e palesi non avesse già a quel tempo rivelato anche a' men sospettosi e chiaroveggenti quella malevoglienza che sotto il velo di premurosa protezione, il secondo Impero francese in suo cuore nutriva inverso la Corte di Roma, sarebbe ad oltranza bastato ad attestarlo l'opuscolo Napoleone III. e l'Italia, nel quale, in sostanza, avevasi prescelta Roma a meta principale de' suoi attacchi ed a principale teatro de' suoi progetti di migliorare il mondo. Cosi nulla di più naturale che cuori cattolici si fossero in Francia altamente conturbati quanto più si avvicinava una guerra che molteplici circostanze autorizzavano a pensare potesse riescire ad iscalzare il potere della Santa Sede; e cercassero avidamente occasioni di schiarire dubbii e diffidenze vie meglio afforzate dacché il Governo francese avea osservato il silenzio sulla domanda fatta dall'Ollivier, ali atto della discussione sulla legge della leva militare, quale fosse lo scopo della guerra.

Allorché impertanto, il 30 aprile 1859, venne in discussione nel Corpo legislativo di Francia la proposta di legge per un prestito di cinquecento milioni, il visconte Anatolio Lemercier si alzò a chiedere, «a nome delle coscienze cattoliche commosse per» gli avvenimenti che si preparano in Italia, e nel timore che» quegli avvenimenti non procedessero più sollecitamente

178 CAPITOLO VENTESIMOSECONDO.

» ancora degli ordini venuti dalla Francia,» che il Governo dell'Imperatore dichiarasse «di aver prese tutte le precauzioni ne» cessane affine di guarentire la sicurezza del Santo Padre nel» presente e l'indipendenza della Santa Sede nell'avvenire, e» facesse noto all'Europa essere ferma volontà dell'Imperatore» e della Francia di far rispettare ad ogni costo la indipendenza» e gli Stati della Santa Sede» (). In nome del Governo, Baroche, Presidente del Consiglio di Stato, rispondeva: «Riguardo a» ciò, non è possibile dubbio veruno. Il Governo prenderà tutte» le disposizioni necessarie perché la sicurezza e la indipendenza» del Santo Padre siano assicurate in mezzo alle agitazioni che» potessero sorgere in Italia» (1). Quanto alla volontà di far rispettare gli Stati della Santa Sede, nemmeno una sillaba. Giulio Favre afferma dalla bigoncia che l'Imperatore da lunga stagione e con tutti gli atti suoi aveva condannato il potere temporale del Papato, ed il Baroche replica:» Forsechè lo stesso Imperatore con» nobile e solenne maniera non ha respinta accusa sì strana?» In quale maniera?, altri osservò. Forse colla lettera ad Edgardo Nev, colle parole fatte dire a Walewski nella ventesimaseconda sessione del Congresso di Parigi, coll'opuscolo programma Napoleone III. e l'Italia!

Tre giorni appresso, il 3 di maggio, nella proclamazione che rivolse ai Francesi, Napoleone III. disse: «l'Austria, facendo entrare il suo esercito sul territorio del Re di Sardegna, nostro alleato, ci dichiara la guerra, minaccia le nostre frontiere. Bisogna ch'essa domini fino alle Alpi, o che l'Italia sia libera fino all'Adriatico. La Francia dica risolutamente all'Europa:

(1)

Resoconto ufficiale della Tornata del 30 aprile 1859.

(2)

Nello stesso recinto, un anno appresso, il 12 aprile 1860, il medesimo Baroche ripeteva testualmente quelle stesse parole, e con far grave soggiungeva: «Quelle parole non furono pronunciate per ceremonia Il Governo francese riguarda il potere temporale siccome una condizione essenziale alla indipendenza della Santa Sede. Il potere temporale non può essere distrutto; esso dev'essere esercitato in condizioni importanti. La spedizione di Roma nel 1849 si è fatta appunto al fine di ristabilire questo potere, a mantenere il quale da undici anni le truppe francesi occupano Roma; esse hanno la missione di fare la salvaguardia insieme e al potere temporale, e alla indipendenza e sicarezza del Santo Padre.»

IL PAPA E I NEUTRALI. 179

» io non voglio conquiste, ma voglio mantenere senza debolezza lamia politica nazionale e tradizionale; io osservo i Trattati, a condizione che non siano violati contro di me; io rispetto il territorio e i diritti delle Potenze neutre, ma confesso altamente lamia simpatia per un popolo, la cui storia si confonde colla nostra. La Francia non tia abdicato il suo compito civilizzatore. I suoi alleati naturali furono sempre quelli che vogliono il miglioramento dell'umanità, e quando essa snuda la spada, non è per dominare, ma per rendere la libertà. Lo scopo della guerra è di restituire l'Italia a sé stessa, non di farle cangiare padrone; e noi avremo alle nostre frontiere, un popolo amico che ci dovrà la sua indipendenza. Noi non andiamo in Italia per fomentare il disordine, né per crollare il potere del Santo Padre, che rimesso abbiamo sul suo trono; ma per sottrarlo a quella pressione straniera che si aggrava su tutta la Penisola, e per contribuire a fondarvi l'ordine sopra la base degl'interessi legittimi soddisfatti.» Sta bene, si disse; la luce è fatta. Napoleone III. non scende in Italia per iscrollare il potere del Santo Padre che ristabilì sul suo trono in Roma, ma per sottrarlo a quella pressione austriaca ch'era notissimo come in Roma in sostanza non esistesse, ma per fondarvi l'ordine sopra la base degli interessi legittimi soddisfatti. E l'ordine sopra la base degl'interessi legittimi soddisfatti, l'ordine in paese che il Governo francese aveva già proclamato al cospetto dell'Europa in condizione anormale, fuor d'ordine, senz'ordine; quest'ordine, a chi sapeva o voleva intendere, suonava nella realtà: a Roma il potere temporale nelle condizioni apposte dalla lettera napoleonica dell'8 agosto 1849; nelle Legazioni, forse e per lo meno, il vicariato proposto da Cavour il di 27 marzo 1856, Come ben di sovente suoi avvenire, molti lesserò, moltissimi nulla compresero, pochissimi intesero e i pio finsero di non capire.

Un giorno più tardi, a dì 4 maggio, Rouland, Ministro dei Culti, indirizzò una speciale Circolare a tutto l'Episcopato francese, allo scopo «d'illuminare il clero sulle conseguenze di una lotta divenuta inevitabile, di chiedere la sue preghiere, di attrarre le sue simpatie.» - «È volontà dell'Imperatore, vi si leggeva, di fondare sopra solide basi l'ordine pubblico ed il rispetto delle sovranità negli Stati italiani. L'Imperatore ci ha

180 CAPITOLO VENTESIMOSECONDO.

» pensato dinanzi a Dio; e la sua saggezza, la sua energia, la sua lealtà ben note, non verranno meno né alla religione, né al paese. Quel principe che diede alla religione tante prove di deferenza e di affetto, che ricondusse il Santo Padre al Vaticano, è il più fermo sostegno dell'unità cattolica, e vuole che il Capo supremo della Chiesa sia rispettato in tutti i suoi diritti di sovrano temporale. Tali sono i sentimenti dell'Imperatore, rivelati s spesso negli atti suoi e da lui confermati nel nobile Manifesto diretto alla nazione. Esso dee produrre nel cuore del clero francese sicurtà e gratitudine.»

Alla Nota del Cardinale Antonelli con cui il Governo pontificio richiese istantemente le Potenze, in ispecialità le belligeranti, che la neutralità da sé proclamata, si rispettasse e riconoscesse (1), Napoleone aveva fatto rispondere: «che la Francia, nell'aderire pienamente a tale dichiarazione, confermava le precedenti rassicurazioni date alla Santa Sede, che, qualunque possano essere le conseguenze de' bellicosi avvenimenti nella parte settentrionale d'Italia, l'attitudine del Governo francese rispetto agli Stati pontificii si manterrà del tutto conforme allo scopo che già ebbe la Francia nell'intervenirvi per riparare ai disordini della passata anarchia; ed intanto, nel corso della presente guerra, l'Imperatore dei Francesi ed il suo Governo non permetteranno che si tenti impunemente cosa alcuna in detrimento dei riguardi voluti all'augusta persona del Santo Padre, o diretta a rovesciare il suo temporale dominio.»

Quest'ultima dichiarazione, quantunque, riferendosi schiettamente al presente nei limiti della durata della guerra, tenesse dischiusa via lata a qualsivoglia maniera d'interpretare avvenimenti occorribili tosto dopo la guerra, parve fra tutte la più tranquillante, perocché, supponendo che la lealtà non fosse del tutto sbandita dal mondo civile, potevasi ragionevolmente pensare che chi protestava di non volere permettere si tentasse impunemente cosa alcuna diretta a rovesciare la temporale potestà dei Pontefici, dovesse intendere codesta potestà nella estensione in cui si trovava essa a que' di. Pure a chi avesse sottilmente osservato balzava agli occhi il fatto, che i malevoli dicevano fidissima arte,

(1) Nota circolare ai membri del Corpo diplomatico residente in Roma, dal Vaticano il 3 di maggio 1859.

IL PAPA E I NEUTRALI. 181

come non mai in quelle protestazioni l'Imperatore de' Francesi parlasse, o lasciasse parlare da suoi Ministri, d'integrità del territorio posseduto dalla Santa Sede; per cui quand'anche durante 0 dopo la guerra avessero lasciato al Papa Roma soltanto con una zona di terreno all'intorno, chi mai avrebbe potuto dire, essere gli venuto meno alla sua promessa di pigliare tutte le precauzioni necessarie per guarentire la sicurezza del Santo Padre al presente e l'indipendenza della Santa Sede nell'avvenire, alla promessa di volere che il Capo supremo della Chiesa fosse rispettato in tutti i suoi diritti di sovrano temporale? Frattanto, mentre le pastorali de' Vescovi portavano fino alle più piccole ed oscure parrocchie della Francia la parola data dall'Imperatore che il Papa sarebbe conservato nell'integrità di tutti i suoi diritti, e se ne facea menzione al principio d'ogni pubblica preghiera, e le volte delle chiese echeggiavano di codesto impegno promulgato dal confidente titolare delle intenzioni sovrane; il dubbio che alcuni si ostinavano a conservare, dopo tante assicurazioni, riguardavasi come un oltraggio, e loro s'intimava che cessassero di essere inquieti, sotto pena di essere trattati come faziosi. Sicché ben poté dirsi (1) che, per verità, se i giuramenti degli uomini sono accolti in cielo, certo non mai avvenne che alcun giuramento vi fosse recato da tante bocche ad una volta.

Alla denunzia, fatta dalla Santa Sede, della neutralità di tutto il territorio soggetto alla sua sovranità, mentre l'Austria dichiarava di riconoscere questa neutralità e di volerla rispettare, la Francia però aveva accompagnato il riconoscimento con condizioni che lo rendevano pienamente illusorio, e Sardegna aveva apposto clausole e riserve, le quali in sostanza facevano dipendere il rispetto della neutralità dello Stato della Chiesa dalle sue convenienze durante la guerra. Stando in Roma e Civitavecchia guarnigioni francesi, guarnigioni austriache, coll'assenso della Corte romana, in Ancona e Bologna, e per diritto di Trattati in Ferrara e Comacchio, in tali circostanze è uso di guerra di destinare di comune accordo certi raggi, entro i quali devono tenersi i corpi di truppe fra loro nemici, evitando d'incontrarsi per allontanare ogni conflitto. I comandanti francesi vi si rifiutarono.

(1) A. De Broglie; La lettre imperiale et la situation (Paris, 1860).

182 CAPITOLO VENTESIMOSECONDO.

Così sin dalle prime si dava a credere che la condizionata promessa della Francia di rispettare quella neutralità, promessa cai per ciò appunto non si poteva dare gran peso, fosse essa pure per a tempo, da ritirarsi a migliore opportunità.

In breve fu chiaro come si andasse già in traccia di pretesti per dichiarare cessato affatto quest'obbligo. Quantunque fosse espressamente contrario a' principii posti dalla Francia medesima (1), secondo i quali nessuna parte delle forze militari occupanti lo Stato pontificio poteva essere diretta al di là dei confini di quello Stato, né veruna parte di quelle forze, esistenti fuori di que' confini, poteva entro i medesimi fare approvigionamenti; navigli da guerra francesi entravano liberamente per approvigionarsi ne' porti pontificii e precisamente in quelli che stavano al di fuori del raggio riconosciuto della occupazione francese, ed il Governo di Francia insisteva nel voler collocare le sue navi da guerra nel porto stesso d'Ancona, nel voler ivi munirsi di vettovaglie, e fare quel porto, occupato dagli Austriaci, base delle sue operazioni guerresche. Or, mentre nelle Legazioni si spingevano a più potere le mene rivoluzionarie, era da prevedersi che l'ingresso di navi da guerra nemiche in Ancona, in flagrante violazione della neutralità ed unicamente diretto a ridurre al nulla il valore del riconoscimento di questa, avrebbe dovuto aumentare il coraggio degli uomini della rivoluzione, e far venire a conflitti sanguinosi appunto sul neutrale territorio pontificio («).

Dopo quanto era accaduto in Toscana e nei Ducati, nulla più assicurando che le leggi di neutralità sarebbero meglio osservate nello Stato della Chiesa, il concentramento dell'esercito franco-italiano comandato dal principe Napoleone in Toscana faceva a tutta ragione sorgere le più serie apprensioni, che la linea di ritirata da Ancona e da Bologna potesse essere proditoriamente da esso tagliata agli Austriaci che vi teneano stanza.

(1)

Nota del Duca di Gramont, Ambasciatore francese in Roma, del 24 maggio 1859.

(2)

Dispacci del conte di Rechberg, Ministro agli affari esteri, al conte Colloredo, Ambasciatore d'Austria in Roma, del 9 e 13 giugno 1859.

IL PAPA E I NEUTRALI. 183

Ancona, estremo punto di una linea troppo prolungata, rimaneva isolata dalla parte di terra, mentre per mare ogni comunicazione poteva essere interrotta, dappoiché l'Adriatico sarebbe stato da un istante all'altro dominato totalmente da una flotta francese. Nei primi giorni di giugno poi l'Imperatore de Francesi facendo presentare al Santo Padre, sotto forma di semplici desiderii, una serie di domande collegate all'offerta di guarentigia di territorio, tra le quali erano la dimissione del Cardinale Antonelli e la cessione dell'autorità di Polizia da concentrarsi nelle mani del Comando del Corpo di occupazione francese in Roma, comprendeva pure tra queste lo sgombro degli Austriaci da Ancona e l'autorizzazione di far passare un nerbo di truppe francesi a traverso le Legazioni. Frattanto il principe Napoleone era entrato colle sue schiere nei Ducati, ed il Governo francese fece dichiarare a Roma essere pericolosa la presenza delle guarnigioni austriache dietro le spalle delle operazioni del principe, e che, se gli Austriaci non si ritirassero da Ferrara, essi verrebbero assaliti colà. Inutilmente rappresentò il Governo pontificio che gli Austriaci presidiavano Ferrara come Ancona di pieno diritto, all'ombra della promessa e riconosciuta neutralità, e che appunto per questo stesso motivo non potevano muovere qualsivoglia passo ostile contro il Corpo del principe francese. Reso così manifesto come si voleva da un canto impegnare un conflitto nello Stato romano colle truppe austriache separate dal grande esercito, dall'altro provocare assolutamente la violazione della neutralità del territorio pontificio da parte degli alleati, in tali condizioni, onde evitare che truppe appoggiate a siffatta pretesa neutralità venissero fatte prigioniere, e non si violasse a forza lo Stato della Santa Sede, l'Imperatore d'Austria preferì di ordinare che ogni territorio pontificio si sgomberasse prontamente. Gli Austriaci adunque si ritirarono; e alquanti mesi più tardi il Governo francese non arrossirà di affermare (1), essere stata colpa dell'avventataggine

(1) Il 12 febbraio 1860, Thouvenel, Ministro agli Esterni, scriveva al Duca di Gramont, Ambasciatore di Francia appresso la Santa Sede: «Le guarnigioni di Ferrara, di Cornacchie», di Bologna e d'Ancona, potevano in tutta sicurezza vegliare al mantenimento della tranquillità nelle Legazioni e nelle Marche, nel mentre stesso che la guarnigione francese vegliava a Roma.

184 CAPITOLO VENTESIMOSECONDO.

ed egoismo dell'Austria, che, venuta meno al suo debito, abbandonò senza motivo alcuno le Legazioni, se la Santa Sede perdette quelle provincia

Tutto colà era pronto pel giorno in cui gli Austriaci si allontanassero. Dacché, fondata la Società Nazionale Italiana, i Legati sardi presso le Corti della Penisola, questi modelli di

» Non ispetta a me il prendere ad esame le circostanze, evidentemente imperiose a' suoi occhi, che hanno spinta l'Austria a non attenersi più a lungo a' suoi impegni. Ma ho il diritto di dichiarare che la Francia è rimasta fedele a' suoi. Allontanate le truppe austriache, le popolazioni hanno approfittato delle congiunture senza aver bisogno di esservi strascinate da alcun eccitamento particolare. Ecco tutto il segreto della sollevazione delle Romagne. Questa sollevazione, signor Duca, non potrebbe essere adunque imputata alla Francia, né autorizzare un dubbio qualunque sulla sincerità delle assicurazioni di simpatia e di buon volere, che l'Imperatore aveva date a Pio IX., al principiare della guerra.» Ancor non ha guari, Giovanni Gilbert Victor Fialin, poi Duca di Persigny, l'antico congiurato di Strasburgo e di Boulogne, l'intimo di Napoleone III., stampava il 30 aprile 1865: «Durante il corso delle operazioni militari, l'Austria, in opposizione a' nostri impegni comuni verso il Papa, sgomberò le Legazioni, e di tal maniera fece perdere una provincia alla Santa Sede. Ebbene, agli occhi della Corte pontificia, noi che guardavamo fedelmente il Papa a Roma nei mentre che gli Austriaci l'abbandonavano in Romagna, noi siamo i veri colpevoli! Un avvenimento di forza maggiore toglie una provincia al Santo Padre; questo avvenimento è l'abbandono di codesta provincia da parte dell'Austria, ed è la Francia che ne è resa responsabile!» (Lettre de Rome, pag. 10). Se non che, la melensa fola contando, dimenticarono che il principe Napoleone fino dal 4 luglio 1859, trasmettendo dal quartiere-generale di Goito il Rapporto delle operazioni del quinto Corpo d'armata all'Imperatore (Bazancourt, Campagne d'Italie, II Part, pag. 479480) confessò «di avere avventurosamente e senza colpo ferire raggiunto lo scopo, al punto di vista militare: la presenza del quinto Corpo in Toscana, pronto a sboccare sopra l'armata austriaca, incusse a quest'armata timore vivo» abbastanza perché siasi affrettata di abbandonare Ancona, Bologna e» successivamente tutte le posizioni sulla riva destra del Po,» In opposizione ad impegni solenni la Francia spedisce un grosso nerbo d'armati a grande distanza dal teatro della guerra, per minacciare gli Austriaci nello Stato pontificio, compromettere le loro linee di ritirata ed affrettarne la partenza tosto dopo la prima vittoria dell'esercito alleato; e questo e con queste parole con ammirabile semplicità fa conoscere al mondo lo stesso generale francese cui ne fu affidato l'incarico. La minaccia è compresa, egli Austriaci si ritirano prima che

IL PAPA E I NEUTRALI. 185

cavalleria diplomatica, per ribellare i sudditi ai principi appo cui erano accreditati, correvano le città e i borghi sollevando gli animi ad ire di parti, istituendo Comitati, mercanteggiando coscienze, corrompendo ufficiali, il marchese Giovanni Antonio Migliorati, investito dall'uffizio d'Incaricato interino degli affari del Governo sardo presso la Corte romana, un diplomatico secondo il cuore ed il senno del Cavour, assunta la condotta primaria di tutta la trama, si era affrettato di costituire in Roma un Comitato centrale, eleggendone a membri persone di ceto elevato, che si conoscono tutte (1). Datosi, tosto appresso a viaggiare, instituiva nel settembre 1856 un Comitato in Ancona, poco dopo un altro Comitato centrale in Bologna, posto alla direzione di tutti gli altri Comitati e sottocomitati delle precipue città e castella delle Legazioni e delle Marche. Il moto popolare di Pesaro, cui diedero a pretesto la tassa delle arti, era stato attizzato e diretto dal Migliorati, recatovisi espressamente co' principali de' caporani della cospirazione nel Pontificio. Allorquando Pio IX. percorse le provincie de' suoi Stati, avea il Migliorati provveduto e diretta la diramazione di Ordini generali perché si presentassero al Pontefice istanze, delle quali si disseminarono gli esemplari, affinché, essendo tutte uniformi, potesse apparire che i popoli con unanime lamento dimandavano le medesime cose. Ciò che in vero non tolse che neppur uno dei più zelosi membri della Società Nazionale ardisse in niuna città

le loro linee di ritirata fossero compromesse; ed il generale francese si felicita di avere avventurosamente raggiunto lo scopo e senza colpo ferire, ad onta della neutralità dello Stato pontificio riconosciuta dalla Francia. In opposizione ad impegni solenni la Francia "viola quella neutralità lungo il littorale pontificio e sino nello stesso porto d'Ancona, pretende dal Papa che approvi il passaggio di un corpo d'esercito francese a traverso il suo territorio per attaccare gli Austriaci sul suo territorio medesimo, ed un cugino di Napoleone III. spudoratamente lamenta che si tardi tanto a dargli la facoltà di assalirli. Allontanati appena gli Austriaci, un avvenimento da gran tempo predisposto toglie le Legazioni al| Santo Padre; e questo avvenimento è la ribellione ordita e diretta in segreto, fatta avvampare e capeggiata in palese, da un altro cugino dell'Imperatore dei Francesi. Ove sono i veri colpevoli? In Francia? In Austria?

(1) Romana, di cospirazione ed altri delitti per ispirito di parte. Roma, 1863.

186 CAPITOLO VENTESIMOSECONDO.

porgere veruna di quelle suppliche, mentre molti di essi faceano istanza di essere accolti in privata udienza dal Papa, ed in Bologna vidersi tali che, mentre sottomano macchinavano per accattarsene un altra dal Re di Sardegna, mendicavano umilmente da Pio IX. una croce cavalleresca.

11 Governo pontificio conosceva per filo e per segno le cose del Migliorati, e compativa. Ma avendogli il conte di Rayneval, Ministro francese in Roma, sporto a leggere con soverchia buona fede quel memorando dispaccio, ch'esso poco dopo il Congresso di Parigi indirizzò riservatissimamente al conte Walewski, e che il Pays a buon diritto chiamava una stupenda apologia del Governo di Pio TX, quando il Migliorati mandò a pubblicare quel dispaccio su pe' giornali, con grande rammarico dell'Inviato e grande dispetto del Governo francese, fu forza che il Migliorati, per richiesta dell'ambasciatore francese, fosse richiamato da Roma. Al Migliorati successe, incaricato d'affari presso la Santa Sede, il conte Della Minerva, nell'opre occulte valente quanto il suo predecessore. Adempiendosi così degnamente dai Legati sardi in Roma quelle mansioni che il BonCompagni non men degnamente sostenne in Firenze, tutte cose erano da' cospiratori predisposte a dovere pel giorno in cui gli Austriaci si fossero trovati costretti ad abbandonare Ancona e Bologna, nella quale ultima città le supreme fila della orditura da lunga pezza veniano a far capo in mano del marchese Gioacchino-Napoleone Pepoli, cui il cugino Imperatore de' Francesi sempre era stato, di recente più che mai, largo di amicizia, di protezione, di denaro (1). Pepoli presiedeva in sua casa le riunioni del Comitato, raccoglieva armi, si circondava di alcune centinaia di operai. Il Governo, che sapeva tutto, era stato sul punto di assicurarsi della persona di lui, quando per riguardo di Napoleone III. si contentò, di darne avviso all'Ambasciatore francese in Roma;

(1) Pepoli era in Parigi ad ossequiare il fortunato congiunto. «Dimmi francamente, gli chiese, come vanno le tue cose in casa? Come stai a denari? Pepoli rispose ciò che i più sogliono rispondere in tai casi. «Bene, replicò Napoleone, ma ora bisogna che facciamo buona figura. Passa dall'Imperatrice che ti aspetta.» Il cugino di Bologna non si fece dire due volte; recatosi dall'Imperatrice, questa lo presentava di un grazioso nonnulla, a guisa di ricordo. Apertolo, Pepoli vi rinveniva un milione di franchi, in cento biglietti di Banca da 10000 franchi.

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e questi, in seguito di col loquio avuto col Pepoli in Livorno, dio assicurazioni di potersi viver tranquilli sul conto di lui (1).

La sera dell'11 giugno il presidio austriaco esce da Bologna. Pepoli da all'istante le sue ultime disposizioni. I suoi uomini iniziano il movimento; Pepoli scende in istrada, percorre la città e dalla sua carrozza eccita alla rivolta, promette impunità e la protezione della Francia, Allorché si venne ad abbassare lo stemma pontificio, Pepoli dovò far credere che ciò facevasi per sottrarre quello stemma dai possibili insulti, che nessuno, da lui e da' pochi suoi adepti all'infuori, in quel momento era disposto ad arrecargli. Il Cardinale Legato, Milesi, è costretto ad andarsene. Una giunta provvisoria di Governo si elegge e la presiede il marchese Pepoli, il cui primo atto è di proclamare la dittatura del Re di Sardegna. Giusta le precorse intelligenze e gli ordini di Pepoli, seguono speditamente l'esempio di Bologna Imola, Faenza, Forlì, Ravenna, Ceseua, Rimini, ed altre minori città e borgate. Le poche milizie pontifìcie disperse qua e là, colte all'improvvista, danno addietro insieme co' funzionarii romani. In breve la Bollevazione riesce a bene in tutte le Legazioni, mano a mano che se ne ritraggono gli Austriaci; poi nelle Marche, e Fano, Urbino, Fossombrone, Sinigaglia, Urbania, Pergola, Jesi, tutto il territorio circostante ad Ancona, cadono in balia de' faziosi. Ad Ancona, il Comitato tenendo da quello di Bologna ordine severo di non fare mossa alcuna senza precedente concerto od avviso di agire, non osarono, quantunque in città non fossevi truppa pontificia, impadronirsi de' Forti sgombrati dagli Austriaci. Quando Pepoli inviò comando d'insorgere, era troppo tardi; le soldatesche del Papa, indietreggianti dalle Legazioni, li aveano occupati e li guardavano in tal forza che ogni speranza di averli andò perduta.

Perugia, nell'Umbria, per opera del BonCompagni che da Toscana vi aveva inviato agitatori, gente raccogliticcia ed ufficiali atti a dirigerla, molti fucili, munizioni, danaro e grandi promesse di soccorso, insorse nel 14, auspice alla rivolta, come dappoi acerrima incoraggiatrice a resistere, la principessa Maria Bonaparte, che dal verone gridava: Viva l'indipendenza italiana!

(1) Dispaccio del Cardinale Antonelli al Nunzio pontificio in Parigi, del 29 febbraio 1860.

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Vita Vittorio Emanuele! Viva i morti della patria! Viva Napoleone! Ma, poco appresso, un nerbo di milizie pontificie, guidato dal colonnello Schmid, accorse, e, tornata vana ogni pratica, accolte a schioppettate fuor delle mura, Perugia nel giorno 20 tolsero di mano ai sediziosi. La resistenza, durata ostinatissima tre ore, mentre tegole, mattoni, sassi, acque bollenti dai tetti gettavansi loro sul capo, aveva inaspriti i soldati, contribuendo ad accrescere i mali della città e moltiplicare le vittime da ambe le parti. La stampa della rivoluzione italiana s'impossessò prestamente di quella ripresa per farne soggetto d'incredibile copia di menzogne, di esagerazioni, di calunnie: i cittadini più innocui e più innocenti dissero messi al taglio delle spade, vecchi impotenti scannati, spose messe a morte sul seno de mariti, fanciulle sgozzate sugli occhi de' genitori, bambini lattanti strappati dalle braccia delle madri e gettati nel Tevere, che neppure corre entro Perugia; né età, né sesso, né condizione gridarono si avesse rispettato, con una efferatezza da disgradarne Unni e Vandali, Goti e Visigoti. Ed essendo della levità delle umane menti l'aggiustar fede più presto al male che al bene, in buona parte da' lontani credettersi i narrati orrori delle Stragi di Perugia, gli odii rinfocolandosi contro il Governo del Papa.

La luce vera cominciò a farsi allorché l'Imperatrice de' Francesi, rimase a Parigi a reggere la Francia in assenza del marito, mossa a sdegno dalla brutalità con cui gazzette francesi, che si sapeva bene da chi imbeccate e per quanto, vilipendevano villanamente il Pontefice, ingiunse al Ministro per gl'Interni che inviasse ad uno di que' Giornali salariati per calunniare, con comando di stamparla, una Nota ufficiale, esplicativa (1), «che se una lotta dolorosamente deplorabile si é ingaggiata in Perugia, la responsabilità doveva ricadere sopra coloro che avevano obbligato il Governo pontificio, doppiamente rispettabile, a far uso della forza per sua legittima difesa.» Questa volta la menzogna fu sbugiardata dalla Francia, ed il diario ufficiale, pubblicando il Rapporto del colonnello Schmid al suo Governo, vi preponeva, a giudizio di que' fatti, le parole (2):

(1) Avvertimento dato dal Ministro francese dell'Interno al giornale di Paripri il Siecle, il 2 luglio 1859.

(2) Le Moniteur Universel, numero del 5 luglio 1859.


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«Il Rapporto fu scritto dal colonnello Schmid; e basta il nome solo di questoufficiale, che fu al servigio della Francia, e di recente ricevette una decorazione dall'Imperatore, per ridurre al nulla la maggior parte delle allegazioni prive di fondamento, colle quali si cercò d'insultare la condotta delle truppe del Santo Padre.» Caduta Perugia, non andava guari che pur le altre città sollevate dell'Umbria e delle Marche ritornarono all'obbedienza. Infrattanto Pepoli partiva da Bologna a capo d'una deputazione apportatrice di due Indirizzi a Vittorio Emanuele e Napoleone III. «Noi pure, o Sire, dicevasi a quest'ultimo (1), vi abbiamo compreso. Le vostre nobili parole, colle quali annunziaste che non sarete per opporvi alla libera manifestazione dei legittimi voti degli Italiani, vi hanno acquistata la nostra eterna riconoscenza. Questi paesi, già campo di funeste discordie e d'ire di parte, discordie ed ire mirabilmente scomparse nei pochi giorni che abbiam preso noi le redini in mano, hanno diritto che si prò vegga alla loro salvezza.» In vero i fatti attestavano quanto bene i mestatori di Bologna avesser compreso il fino senso del proclama di Milano dell'8 giugno. Non che, come già dicemmo (2), le Legazioni non entrassero nel novero de' territorii, intorno a cui in precedenza erasi decretato dovessero mutar signoria, destinate anzi come le si aveano a Plombières, ad arrotondare il futuro Regno di Etruria; ma da un canto la precipitazione con cui in qualsivoglia paese spinto a ribellione si faceva invocare e proclamare la dittatura del Re di Sardegna, la somma prestezza con cui questi, accettando, ingegnavasi di mutare le offerte dittature in annessioni di fatto, tanto arrabbattarsi e trinciarla da padroni assoluti in cosa solo in parte promessa e promessa a condizioni determinate, e d'altra parte le disposizioni dell'Europa, ove non tutto andava affatto affatto a seconda dei desiderii napoleonici, imponevano all'Imperatore de Francesi ancor pili cautela e riserbo, sì che questi stimò opportuno, quasi ad avvertire gli uni, ma sopra tutto a tranquillare gli altri, di mandare dal campo

(1)

Indirizzo all'Imperatore de' Francesi della Giunta centrale provvisoria di Governo in Bologna, del giorno 30 giugno 1859.

(2)

Vedi: Le cause, Vol. I., pag. 133, 138, 224.

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ad inserire nella ufficiale effemeride (1): «Pare che non tutti si rendano esatta ragione del carattere che la dittatura, offerta da ogni parte in Italia al Re di Sardegna, presenta; e se ne conclude che il Piemonte, senza consultare il voto delle popolazioni, né le grandi Potenze, pensi coll'appoggio delle armi francesi riunire tutta l'Italia in un solo Stato. Siffatte congetture non hanno alcun fondamento. Le popolazioni, liberate od abbandonate, vogliono far causa comune contro l'Austria; con questa intenzione esse si sono naturalmente messe sotto la protezione del Re di Sardegna. Ma la dittatura è un potere puramente temporaneo, il quale, mentrechè riunisce le forze comuni in una stessa mano, ha il vantaggio di non pregiudicare per nulla le combinazioni dell'avvenire.»

Fu in codesta disposizione d'animo che Pepoli trovò l'Imperatore, senza il cui assenso questa volta davvero Vittorio Emanuele non osava accettare. Pepoli insisteva, il Re sollecitava; ma indarno, che il monarca francese voleva a capo del Governo nelle Legazioni una creatura tutta sua e non un piemontese; ei voleva aversi le mani libere e il piccolo Piemonte voleva intromettersi ovunque (2). Allora Cavour parte in tutta fretta da Torino, raggiunge l'Imperatore, destreggia per persuaderlo a mutar sentimento. Non riuscì; si venne ai rimproveri, e d'ambe le parti subentrò un raffreddamento. Alla perfine fu concesso a metà: l'offerta dittatura rifiutisi, e le insorte provincie pontificie passino sotto l'alta protezione di un regio Commissario Sardo, ali unico oggetto di usufruttare il loro concorso alla guerra, con espressa condizione Che a cose finite l'Imperatore de' Francesi, consultate, se lo credesse, le popolazioni, si riserbava piena libertà di risolvere sul destino avvenire di esse provincie. Alla deputazione bolognese Re Vittorio Emanuele dovette rispondere, a salvare le apparenze: «Facessero comprendere ai lor concittadini

(1) Le Moniteur Universel, del giorno 24 giugno 1859.

(2)

La Gazzetta di Bologna del 13 giugno 1859 conteneva una comunicazione ufficiale annunciante che il conte di Cavour, rispondendo al telegramma inviatogli da quella Giunta di Governo, espresse la ferma speranza che il Re Vittorio Emanuele accetterà la protezione di quei paesi, mandando un Commissario reggente per la guerra, con truppa e personale organizzatore.

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ni, che, nelle presenti circostanze, ogni risoluzione inconsiderata pregiudicherebbe la causa dell'indipendenza. L'Europa non dovere poterlo incolpare di agire soltanto per ambizione personale, onde sostituire agli Austriaci sé stesso. Il Santo Padre essere rimasto alla testa del suo popolo, e non avere, come i sovrani di Parma, Modena e Toscana, deposto il potere temporale, che dobbiamo non solo rispettare, ma consolidare.» A quattr'occhi lor dissero: «Effettivamente essere necessità imperiosa, trattandosi di dominii del Papa, procedere con ogni possibile cautela. L'esito finale della guerra non essere punto peranco deciso; non potersi avventatamente allarmare di soverchio le Potenze neutrali, l'Europa cattolica. L'Imperatore dei Francesi conseguire già un grande risultamento con ottenere che la Corte di Roma, tenuta a bada con assai belle sue parole, si astenesse dal far riprendere dalle proprie truppe Bologna, siccome divisava ed avea fatto per Perugia: ned esso Imperatore volere, ciò stante, affrontare l'effetto che non avrebbe mancato di produrre sul clero di Francia l'assistenza apertamente accordata a' sudditi del Papa, rivoltati contro la di lui sovranità (1). Pazientassero confidenti nel futuro.»

Nel vero, in quei giorni medesimi la Francia affaticavasi a Roma in singolare maniera. Il Santo Padre riceveva le assicurazioni più tranquillanti dall'Imperatore Napoleone, che giungeva fino a parlare di guarentigia degli Stati pontificii, purché si concedessero le riforme domandate nella lettera ad Edgardo Nev. E per ottenerle, gli sforzi pressantissimi dell'Ambasciatore francese, duca di Gramont, pervenuti erano a tale che il Cardinale Antonelli, accarezzando per un momento una qualche lieve speranza di allontanare col suo dimettersi mali maggiori, manifestava desiderio di deporre l'ufficio di Segretario di Stato. Reduce Cavour a Torino, scrisse a quei di Bologna (2): «II Re avergli ordinato di ringraziare pell'Indirizzo presentatogli a nome delle popolazioni delle Romagne, esprimente il voto di annessione ai

(1)

All'Indirizzo del Governo provvisorio di Bologna pell'Imperatore fu ingiunto al Pepoli di mutare la data, sicché potesse apparire che fosse stato presentato nel giorno 30, dopo già che il Re di Sardegna aveva rifiutata l'offerta dittatura.

(2)

Dispaccio del coste di Cavour alla Giunta provvisoria di Bologna, del 28 giugno 1859.

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Piemonte ed invocante la sua dittatura. Unicamente preoccupato dal pensiero di liberare l'Italia, non potrebbe accondiscendere ad un atto, che, suscitando complicazioni diplomatiche, tenderebbe a rendere più difficile l'ottenimento di questo scopo. Tuttavia non poter egli rifiutarsi, malgrado il suo profondo rispetto pel Santo Padre, di prendere sotto la sua direzione le forze militari che nei paesi si stanno ordinando, compiendo per tal modo il doppio ufficio di dirigere il concorso delle Romagne alla guerra, e d'impedire che il movimento nazionale dianzi operato non degeneri in disordine ed anarchia. Per suo Commissario a tal fine aver eletto il cavaliere Massimo d'Azeglio» (1).

(1) d'Azeglio, che già aveva accettato l'incarico quando nel 28 giugno fu eletto, ed avrebbe potuto essere comodamente in Bologna nel 30, non vi giunse se non tredici giorni più tardi, nell'11 luglio, lo stesso giorno in cui a Villafranca si conchiudeva la pace, cinque giorni dopo che colla missione di Fleury erano del tutto cessate le ostilità. 11 Imperatore dei Francesi aveva voluto indugiasse quanto bastava per conoscere l'effetto che produrrebbe sulle altre grandi Potenze la nominazione di un Commissario sardo nelle ribellate provincie pontificie. Il 14 luglio, accomodate le cose in tre giorni a quella guisa che in quattro le aveva accomodate BonCompagni a Firenze, d'Azeglio, coi consenso dell'Imperatore Napoleone, pigliava in mano il governo delle Romagne, rassegnata a lui dalla Giunta centrale ogni autorità. Il 15 nominò un Ministero. Così un Commissario eletto per le cose della guerra assumeva il carico otto giorni dopo la cessazione della guerra, tre giorni dopo conchiusa la pace l'Imperatore Napoleone però era mai sempre fermo nel divisamente di porre a capo delle Romagne alcun suo fidato, e avea gettato l'occhio per questo sopra un Leonetto Cipriani, oriundo di Corsica, nativo di Livorno, figlio d'un fallito a Balagna di Corsica, fratello d'un fallito a Livorno, fallito egli stesso in America ove si era recato dopo gli avvenimenti del 1848, mal noto per altri fatti precedenti, trafficante di non sappiam quante e quali cose, ora fatto Venire a Parigi e poi ricomparso in Italia, uno di quegli agenti semi-diplomatici, semi-polizieschi, semi-militari, buoni a tutto. Sotto colore di volerlo consultare intorno alla formazione del nuovo Ministero piemontese, d'Azeglio fu fatto, dopo pochi di di dominio, tornare a Torino, lasciato in sua vece in Bologna un colonnello sardo Falicon, venuto con lui. Il 28 luglio d'Azeglio fu tolto d'uffizio, il 2 agosto anche il Falicon cessava; quattro giorni appresso, il 6 agosto, Cipriani, eletto Governatore generale delle Romagne, entrava in carica, lnfrattanto da Toscana e da Modena eransi spediti nelle Legazioni molti ufficiali piemontesi ad organizzare le milizie che vi si andavano raccogliendo, molte migliaia di fucili, cannoni, munizioni, truppe regolari piemontesi.

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Mentre le narrate cose avvenivano, aveva avuto luogo al di là della Manica un evento che doveva esercitare in appresso grande influenza sull'andamento degli affari in Italia. L assicurazione data ai Salvagnoli da Palmerston, Russell, Gladstone, era divenuta una realtà f1). Nella prima metà del giugno, l'Inghilterra vide cadere vinto, dalla debole maggioranza di tredici voti, a cagione principalmente della questione politica suscitatasi nel Parlamento inglese a proposito degli avvenimenti d'Italia, il Ministero preseduto dal conte di Derby, che in mezzo alle sue ripetute dichiarazioni di neutralità, parea piuttosto propendere verso l'Austria; e succedergli un Ministero Palmerston-Russell, che in mezzo a ripetute dichiarazioni di neutralità, parea piuttosto propendere verso la Francia. Lord Derby erasi, infatti, in parecchie recenti occasioni, mostrato ben più acerbo che benevolo a Francia e Sardegna, colla prima delle quali le relazioni aveano anzi finito con farsi alquanto tese. Lord Cowley avendo consegnato al Governo francese una Nota che parlava della possibile chiusura dello Stretto di Gibilterra, Walewski aveva risposto con dichiarare: la Francia il terrebbe in conto di caso di guerra. Il Gabinetto inglese fece ogni suo possibile perché Francia proclamasse neutrale l'Adriatico. Napoleone ricusò; e allora Inghilterra a replicare, che in nessun, caso permetterebbe a navi da guerra russe di penetrare nel Mediterraneo. Allo scoppio delle ostilità in Italia la flotta inglese del Mediterraneo fu considerabilmente accresciuta, ed ai primi di giugno noverava già trentasei navi a vapore.

La venuta di lord Palmerston, da lunghi anni amico personale di Napoleone III., al potere, non toglieva punto le difficoltà. Il nuovo Ministero inglese, per le precedenze de' suoi membri, era bensì troppo impegnato per nulla intraprendere a danno dei pensieri d'indipendenza italiana, sempre che la questione non cangiasse d'aspetto; nullameno soprattutto gl'interessi del dominio dei mari doveano, come sempre, esercitare la più. grande influenza sulla politica estera del Gabinetto, ed obbligarlo, sebbene condizionatamente, ad accettare nell'essenziale l'eredità del caduto Ministero Tory. Così, quando la flotta francese destinata

(1) Vedi: Gli effetti, Vol. II., pag. 33.

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ad agire sulle coste austriache nell'Adriatico (1) si disponeva a rendere il porto ottomano di Antivari stazione di base per le sue operazioni, l'Inghilterra univa la sua alla energica protesta della Turchia, a ragione reclamante contro l'insidiosa violazione della sua neutralità; ed ancorché Napoleone avesse atteso la certezza della caduta del Gabinetto Derby prima di far partire la flotta di assedio, ei fa costretto a scegliere per essa un altro porto di deposito.

Poco tempo prima di salire al seggio ministeriale, in un discorso a' suoi elettori di Tiverton, lord Palmerston, fra mezzo a molte contumelie all'indirizzo dell'Austria, aveva dichiarato: «L'Austria possiede i territorii di Venezia e di Lombardia in forza dei Trattati; questi possedimenti le appartengono di diritto, ed il giudizio dell'Europa sostiene che essa abbia il diritto di conservarli. L'Austria ha sfoderata la spada; ma coloro che, al pari di me, credono utilissimo all'Europa che vi sia in Alemagna una Potenza tanto forte come l'Austria, che serva di barriera tra l'Oriente e l'Occidente per mantenere la libertà e l'indipendenza dell'Europa, costoro devono deplorare una decisione tendente a risultati tali da alterare materialmente la condizione dell'Austria. Se la guerra è circoscritta all'Italia, se le conseguenze ne sono che l'Austria si trovi, ritirandosi al

(1) Era nell'interesse di Napoleone di tenere quanto più potesse lontana dal vero teatro della guerra la maggior possibile quantità di truppe austriache; al che più propizio prestavasi l'Adriatico. Dapprima salpò al 5 maggio da Tolone per l'Adriatico una flottiglia da blocco sotto il comando del contrammiraglio Jurieu de la Gravière, onde dal 15 di quel mese catturare tutti i navigli appartenenti al commercio austriaco. Pel blocco di Venezia non erano state assegnate che quattro navi, dappoiché gli Austriaci sino da principio avevano ritirato in sicurezza la loro flotta, parte a Pola, parte a Venezia. La flotta di guerra e d'assedio, agli ordini del viceammiraglio Romain Desfossés, cominciò a partire da Tolone solamente il 12 giugno, con incarico d'inquietare le coste della Dalmazia, Istria e Venezia, ed a seconda degli avvenimenti assalire anche le fortezze marittime di que littorali. Per questa flotta d'operazione avea scelto a prima stazione nell'Adriatico il porto di Antivari, vicinissimo al territorio del Montenegro, già postosi di nuovo in gran movimento contro la Turchia. Le prime navi francesi, giunte ad Antivari, recarono a quel Console di Francia ragguardevole somma di denaro destinato a fare insorgere l'Albania e il Montenegro, e disbarcarono armi e munizioni, inviate pel lago di Scutari nel Montenegro.

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» nord delle Alpi, costretta di lasciare l'Italia libera agli Italiani, gli spiriti generosi comprenderanno che qualche volta il bene può essere partorito dal male, e, compassionando le sventure che avranno preceduto questo risultamento, noi ci rallegreremo dell'esito.» I giorni passano e non si assomigliano. Lord Palmerston cosi rivelava di non più essere animato da quello stesso spirito che avea professato nel 1848, di non consentire, cioè, al Piemonte l'annessione di tutto il Lombardo-veneto, onde non ne avesse a risultare un reame italico troppo forte ed esteso, siccome pili volte aveva fatto intendere lord Abercromby, a quell'epoca Ministro britannico in Torino.

Ridestatasi però più vivace che mai la gelosia britannica per la grandezza politica e militare della Francia, e con essa insin lo spauracchio d'una invasione francese in Inghilterra, il Gabinetto di San Giacomo dava mano a colossali armamenti per terra e per mare sopra tutta l'estensione de' suoi possedimenti e delle sue colonie, con una operosità che non poteva essere considerata se non come preparazione ad una gran guerra. Potea direi che la Gran-Bretagna nel corso intero della sua storia non mai avesse intrapreso riforme tanto profonde e tanto vaste in tutte le sue cose militari, né mai avesse fatto s immensi armamenti, come a quel momento in cui il non intervento era la parola d'ordine della sua politica. Mentre apprestavansi sessanta vascelli di fila e cento fregate, lavori quasi favolosi conducevansi nell'arsenale di Woolwich. Colà solamente, già alla fine del giugno, erano nei magazzini 7600 cannoni della più distinta qualità, ed ogni settimana poteano essere approntati per l'uso del momento 200 ed in caso di necessità 300 cannoni. Nel solo Woolwich si fabbricavano 26, 000 palle e bombe per settimana, facilmente aumentabili a 40, 000; produzione settimanale rispondente al sestuplo de' proietti pesanti adoperati ogni settimana a Sebastopoli. In quel solo arsenale trovavansi oltre a novanta milioni di palle per carabine alla Miniò, e le macchine dispostevi in modo da fornirne da due a tre milioni per settimana. Numerosi reggimenti di volontarii addestravansi tutto dì; le coste ed i porti munivansi.

Il Governo inglese continuava bensì sempre a protestare di volersi tenere del tutto neutrale, con una ostentazione che stava in sorprendente opposizione co' sterminati suoi apprestamenti;

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ma poiché verun inglese potea volere che la potenza napoleonica, sostenuta dell'accordo colla Russia, detti sola la legge in Europa, nessuno era pazzo per credere che la pratica ed economa Gran-Bretagna incontrasse cotanto giganteschi dispendii per porre poi eserciti e flotte a disposizione dell'Imperatore de' Francesi e dei suoi fini di conquista quel giorno in cui, voglia o non voglia, le sarebbe pure stato d'uopo di uscire dalla neutralità. Di tal maniera gli aumenti della neutrale Inghilterra erano già un atto avanti a tutto di sfiducia per la bellicosa politica della Francia; e come era a prevedersi che, continuando la guerra, la Germania avrebbe dovuto alla sua volta decidersi, non vi volea molto acume a capire da qual parte, in onta all'avvento del Ministero Palmerston, la Gran-Bretagna sarebbesi accostata, dappoiché, chiunque sia in Inghilterra primo Ministro, quando la Germania getti nella bilancia la sua spada a favore del minacciato ordine europeo, l'Inghilterra non ha altra scelta che quella di procedere coll'Alemagna.

Evidente che la Gran-Bretagna sarebbe rimasta neutrale fino a tanto solamente che fosse pronta alla guerra in modo da farla presto finita. Per pensiero e per sentimento l'Inghilterra da lungo tempo non era più, nel vero, neutrale. Da varii anni John Bull inghiottiva a fatica gl'insulti fattigli dal Napoleonismo. Lo sdegno, ch'essi avean provocato, era già vicino a scoppiare. Fin dall'assalto di Malakoff lalleanza s'indebolì, ed il Congresso di Parigi per la pace protocollò la discordia. Gli arditi attacchi alla Costituzione dell'Inghilterra dopo l'attentato di Parigi, la dimostrazione di Cherburgo, 1'arbitrario procedere a Gravosa, l'acerbo insulto in Portogallo, ed ora la condotta imperiosa nel Mediterraneo, e nell'Adriatico la visita ai navigli britannici, l'astio per essere stati ricettati a Malta i navigli austriaci, tutti questi e mille altri motivi facevano apparire impossibile che potesse a lungo durare la neutralità dell'Inghilterra. Ed ora, giunte ornai le cose a tal punto, da codesta neutralità anche l'Inghilterra, malgrado Palmerston, Russell, Gladstone ed i quaccheri, avrebbe dovuto uscire; giacche, appoggiate dalle forze di terra dell'Alemagna, le forze marittime della Gran-Bretagna sono sovrane di tutti mari, e la Gran-Bretagna poteva ritrarre quelle utilità cui doveva rinunciare

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perché né le era dato di procedere colla Francia, né da per sé sola, senza correre i più grandi pericoli, poteva opporsi alle congiunte orditure della Francia e della Russia, che minacciavano di opprimere col peso delle loro armi e colle astuzie delle loro diplomazie la libertà e l'indipendenza della Germania.

Alla proposta della Prussia presentata alla Dieta germanica il 23 aprile (1), di ordinare che tutti i contingenti della Confederazione si tenessero pronti a marciare, in quel giorno medesimo accolte dalla Assemblea, il Governo di Berlino, quantunque mal disposto verso l'Austria, tuttavolta fino dal primo di maggio aveva esteso l'apparecchio di marcia a tutti i suoi corpi di esercito, de' quali, per i suoi obblighi verso la Confederazione, non era tenuto di disporne che tre. Il Parlamento prussiano votò ad unanimità le somme necessario per mobilitare l'esercito. Vedute le cose alla superficie, tutto indicava accennare alla guerra, ed il Principe Reggente, chiudendo la sessione legislativa, proclamava altamente: «La Prussia essere risoluta di tutelare le basi dello stato legale di Europa. Essere suo diritto e dovere difendere e proteggere gl'interessi nazionali di Germania. Non volersi essa lasciar uscire di mano la tutela de' suoi beni. La Prussia contaro che tutti i suoi confederati tedeschi si uniranno a lei per compire quell'opera, e che colla loro fiducia corrisponderanno a questa sollecitudine di difendere la patria comune.»

In breve tutta l'Alemagna formicolava d'armi e d'armati, discordi tuttavia essendone i Governi quanto al momento di entrare in lizza; gli uni, a capo de' quali la Baviera, l'Annover e l'Oldenburgo, seguiti da presso dalla Sassonia, insistendo sempre nel volere la cooperazione immediata coll'Austria; gli altri disposti a seguire la Prussia, che, ad onta de' suoi apprestamenti, in sostanza era tutta intesa ad impedire od almeno quanto più potesse a ritardare l'intervento armato della Germania. In Prussia nemmeno nel Gabinetto vi avea uniformità di propositi. Il partito della pace, e quello esclusivamente prussiano, il partito di Gotha, ostile all'Austria e devoto all'Inghilterra, dominava nel Ministero, e difeso, diceasi, da un alto personaggio, con cercare in tutti i modi di contenere il Governo,

(1) Vedi: Le Cause, Vol. I., pag. 304.

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seminare la discordia tra la Prussia e l'Alemagna, impedire od almeno prorogare ogni azione favorevole all'Austria, credeva che, poiché avean dato di piglio alle armi, una guerra prolungata in Italia, indebolendo Francia ed Austria, avrebbe liberato la Prussia dal nemico esterno e dal rivale interno, e l'egemonia della Prussia in Germania le sarebbe così assicurata, mentre la mediazione armata, con cui verrebbe in campo più. tardi, l'avrebbe resa piìi potente nei consigli dell'Europa. Il partito della guerra, ispirantesi alle tradizioni della Prussia che esigevano l'illesa conservazione de' Trattati e dello stato legale d'Europa, e quindi favorevole all'Austria, corrispondente in parte al partito della (gazzetta Crociata, annoverava fra le sue fila il Ministro della Guerra e quasi per intero l'esercito, la nobiltà, la Corte. Il partito democratico e rivoluzionario, che già aveva sognato il ritorno dei più bei giorni del 1848 e del 1849, e prima strepitava contro la Francia, poi, mutato avviso, era divenuto suo ammiratore per tornare ben presto alle maledizioni contro l'Imperialismo, rimaneva costernato ad ogni armamento e si sbracciava a provare che la Prussia, difendendo l'Austria, tradiva se stessa. Un ultimo partito infine, che poteva chiamarsi dei protestanti fanatici, i quali non si curavano per nulla né della Prussia, né dell'Austria, né della Francia, né dell'Italia, né della pace, né della guerra, ma speravano che una guerra tra la Francia e l'Austria indebolirebbe quelle due Potenze cattoliche, ed una vittoria della rivoluzione in Italia avrebbe indebolita la Santa Sede, univa i suoi ai lamenti di coloro che desideravano la neutralità della Prussia, ed abbandonata l'Austria non meno che la Francia al vicendevole loro indebolimento.

Or mentre l'Imperatore de' Francesi, alquanto impensierito a cotanto ribollimento degli animi in Alemagna, dava opera ad accozzare presso Nancy un esercito di osservazione verso il Reno, ecco la Russia venir fuori a dire (1): «Per risolvere le complicazioni sorte in Italia aver essa proposto un Congresso. Nell'ultimo momento, e quando tutte le difficoltà parevano appianate, il Gabinetto di Vienna aver bruscamente rotte le trattative.

(1) Dispaccio circolare del principe Gortschakoff, Ministro pegli Esteri, agl'Inviati di Russia presso le Corti di Germania, del 15 (27) maggio 1859.

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Scoppiata la guerra, rimanere alla Russia un altro impegno a compiere, quello di procurare di limitarne le calamità con tutti i mezzi possibili. Alcuni Stati della Confederazione germanica sembrano preoccuparsi fortemente riguardo al futuro; ma il Governo francese ha solennemente proclamato ch'esso non ha alcuna ostile intenzione riguardo alla Germania. Russia essere interessata alla conservazione dell'equilibrio europeo; e per quanto risguarda l'integrità della Germania, questo interesse non esserle meno indifferente, ned aver mai indietreggiato in presenza di sacrificii, quando trattavasi di guardarla da reale pericolo. Il rinnovamento di questi sacrificii da parte sua non sarebbe punto giustificato, se fosse provocato da uno stato di cose volontariamente cagionato. La condotta di varii Stati della Confederazione germanica tende a rendere generale la lotta senza motivo alcuno. Ma la Confederazione germanica è una combinazione puramente ed esclusivamente difensiva; in conseguenza se essa facesse atti ostili verso la Francia, sopra dati di congettura, avrebbe falsato lo scopo della sua istituzione e sconosciuto lo spirito dei Trattati che consacrano la sua esistenza. Niuno l'assale; dunque la Germania non si dee muovere. Che se si movesse, la Russia farebbe quello che le consiglierebbe l'interesse del suo Impero e la dignità della sua corona.»

Così parlando, parea e potea credersi che il Gabinetto di Pietroburgo avesse in mira effettivamente di gettar acqua sul fuoco; nella realtà non era questo che lo scopo apparente, lo scopo vero essendo di aggiunger anzi esca ad esca con attizzare le giuste suscettibilità della Germania. La Russia giocava di rappresaglia pei diportamenti verso di sé da questa tenuti al tempo della guerra di Crimea (1). Stretto il patto che la Francia si avesse mano libera in Italia contro l'Austria, e la Russia, onde riescire

(1) A quell'epoca la Confederazione germanica, quantunque interessata affatto da vicino nel litigio, vi avea preso parte come Potenza europea, ciò che non poteva garbare alla Russia; e colla Decisione federale del 9 dicembre 1854 riconobbe i quattro punti come base a ristabilire la pace in Europa, dichiarando in particolare di volere tener fermo sui due primi punti concernenti la cessazione del protettorato russo sui Principati danubiani e la libertà della navigazione del Danubio, e di volerseli appropriare dal punto di vista degl'interessi germanici. Era evidente il desiderio dell'Alemagna di metter fine alla preponderanza acquistatavi dalla Russia negli ultimi anni.


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200 CAPITOLO VENTESIMOSECONDO.

alla revisione de' Trattati del 1856 (1), nei paesi giacenti sul basso Danubio, non doveva la Russia intraprendere la guerra ai confini orientali dell'Austria nello stesso momento in cui la Francia la incominciava a quelli del sudovest. Prima di poterla assalire sopra di un altro con speranza di successo, facea di mestieri

Questa diede alla Dieta federale l'assicurazione, che quand'anche le trattative di pace in Vienna venissero rotte, si riguarderà in obbligo di tenersi ai concerti presi nelle conferenze relativamente a que' due punti di garantia, a condizione che la Germania si obbligasse di rimanere strettamente neutrale L'offerta si ritenne come non avvenuta; né infatti la Germania più potea dirsi strettamente neutrale. In onta ad interni dissensi essa andava sempre più allontanandosi dalla Russia, sempre più dichiarandosi avversa alla sua politica. E quando truppe austriache occuparono i Principati danubiani, la Confederazione proclamò che un attacco contro quelle truppe, che si trovavano non solo fuori del territorio federale, ma eziandio del territorio austriaco, sarebbe considerato come aggressione diretta contro la Confederazione. La Russia sei tenne a mente.

(1) La guerra, chiusa coi Trattati del 1856, aveva fatto perdere alla Russia una parte della Bessarabia, vietatole di fortificarsi e di mantenere una flotta di guerra sul mar Nero. L'ultimo scopo dell'alleanza colla Francia nel 1859 era di annientare que' Trattati, riavere il territorio perduto, ricondurre la Russia alle foci del Danubio. Ripigliando l'opera in Oriente, la Russia non restringeva la sua azione alle sole provincie slave della Turchia; anche la Persia, quello Stato vassallo degli Czar, era stata guadagnata pe' progetti moscoviti e minacciava già in modo grave i confini ottomani. Dall'istante ch'era pervenuta a pressoché distruggere 11 alleanza anglo-francese ed a spingere il dominatore gallico agli azzardi delle armi, alla Russia pareva propizio il campo per esplorare il terreno a Costantinopoli, e porre in moto ogni molla onde attirare nella trappola i politici della Turchia. Il 6 giugno 1850 il Granduca Costantino di Russia giungeva in Costantinopoli, a persuadere all'ottomano monarca, vecchia arte, che tutti erano acerrimi suoi nemici, tranne la Russia, che avea involato ai Califfi innumerevoli territorii e di presente progettava di approfittare degl'impicci degli Stati occidentali per incalzare i disegni di Pietro il Grande e di Caterina II. Mezzo alcuno non fu lasciato intentato perché il Sultano si convincesse dei disinteressati ed amichevoli consigli della Russia e sottoscrivesse una segreta intelligenza con essa, bramosissima di vendicarsi dell'Atto del 15 aprile 1856, stipulato, come accessorio al Trattato di Parigi, dalla Francia, dall'Inghilterra e dall'Austria, all'insaputa della Corte di Pietroburgo; ma l'ambasciatore inglese in Turchia, Lytton Bulwer, stando oculatissimo, sventò ogni mina. I Russi non riuscirono in nulla, e le ingenti somme di rubli andarono sparse senza risultato. Nello stesso tempo gli agenti

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che l'Austria si trovasse interamente impegnata sopra un punto. l19 emancipazione de' contadini, ancorché appena incominciata, avendo avuto per conseguenza d'interrompere il corso normale del reclutamento dell'esercito, per ciò pure l'azione della Russia era d'uopo fosse dilazionata al 1860, prima della qual epoca non poteva esser pronta a scendere in campo. Nel frattempo si doveva far sorgere il pretesto, al che opportunissimo l'intervento della Germania a favore dell'Austria, mentre si avrebbero posti in assetto i mezzi d'attacco, fra i quali stava in prima linea la parte che si calcolava avessero a sostenere le provincie turche del Danubio (1) e l'Ungheria (1 nella pagina seguente).

politici moscoviti eseguivano lentamente un movimento per cui si trovarono schierati in un campo diverso da quello degli agenti francesi. S'insinuava di non fidarsi punto della Francia; ed il Console russo in Belgrado, Sokoloff, recata al Miloscb, principe serbiano, un'alta decorazione da parte dello Czar, lo aveva già fatto persuaso di non arrendersi indiscretamente agl'inviti napoleonici e di attendere la parola d'ordine da Pietroburgo soltanto. Svanita l'occasione per allora, la Russia ripigliava poi a poco a poco il territorio ceduto alla Porta, ricostituiva la sue forze militari sul mar Nero, ed alle fortezze espugnate di Sebastopoli sostituiva la fortezza inespugnabile del Caucaso.

(1) Dall'autunno del 1858 i tre principi, Cuza dei Principati danubiani, Miloscb della Servia, e Danillo del Montenegro, ed i capi dei rajà bosniaci teneano fra loro, e coi Consoli di Francia e di Russia in que» paesi e nel littorale dalmato-ottomano dell'Adriatico, misteriose relazioni, di nascoso apparecchiandosi a movimenti di separazione dalla Porta la cui migliore condizione di successo doveva essere la loro contemporaneità % nella quale stette sempre il massimo de' pericoli per l'Impero ottomano. Danillo, cui Napoleone III. aveva accertato l'aggiunta al Montenegro della Bosnia e dell'Erzegovina, disponeva di straordinarii mezzi pecuniarii, dovuti alla Russia e più che tutto alla Francia, e già dalla metà dell'aprile 1859 il Montenegro agitavasi singolarmente. Non appena gli Austriaci aveano varcato il Ticino, avvampava nell'Erzegovina, al confine settentrionale del Montenegro, per istigazione di agenti russi e francesi, e col concorso armato di molti Montenegrini, un'insurrezione contro la Turchia. In Servia armavasi copertamente come se si fosse trattato di guerra a morte; grandi quantità di armi e di polveri comperate dal Governo in Odessa, in Nikolajeff e sulle coste russe, vi pervenivano pella via del Danubio, ed a Kragujewatz erasi radunata tal copia di cannoni, la massima parte montati, bastevole pienamente a provvedere d'artiglieria tatti i rajà della Turchia europea. Nello stesso tempo Cuza aveva ritirato dalla Francia molto materiale da guerra. Scoppiate le ostilità in Italia, milizie moldovalacche raunavansi in un accampamento presso Plojescbti.

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Già il contegno, assunto dal Gabinetto di Pietroburgo sino dal principio delle complicazioni italiane, era dovuto riescire alla Germania sotto tutti gli aspetti sgradevole e sospettoso. La Russia aveva osservato dapprima il silenzio, interrotto dalla dichiarazione, che fece, di considerare morta e sepolta insin la memoria della Santa Alleanza; poscia era uscita, per far servigio alla Francia, colla sua proposta di Congresso, e quando questa non ebbe alcun effetto, ned essa poté giungere ad adunare il Congresso colla esclusione dell'Austria, rifiutò di dir qualche cosa sulla posizione che avrebbe preso a fronte delle insorgenze che condussero alla guerra, mentre in gran secreto stringeva un patto d'alleanza colla Francia.

Le ispirazioni francesi portavano che i Moldovalacchi dovessero avere una doppia propaganda, runa nel senso dell'idea cristiana per allarmare la Turchia, l'altra dell'idea della Rumenta per inquietare l'Austria.

(1) Come Napoleone erasi servito della Polonia contro la Russia nel 1855, si doveva servirsi dell'Ungheria contro l'Austria nel 1860. È noto che lo Czar Nicolò aveva permesso al principe Paskewitsch di scrivergli nel 1849: «L'Ungheria giace ai piedi di Vostra Maestà.» Non però si aveva osato prendersela in allora. Cedendola nuovamente all'Imperatore d'Austria, lo Czar, secondo la sua opinione, la regalò; e questa idea, di faro dell'Ungheria un dono all'Austria, non poteva a meno d'influire sull'andamento delle relazioni posteriori fra le due Corti. Da quel tempo gli Ungheresi eransi sino ad un certo punto addomesticati al pensiero che il loro paese potesse col tempo divenire una provincia annessa russa sotto lo scettro di un Granduca. Frattanto conveniva porre in assetto un nerbo di truppe ungheresi, capace di divenire in appresso il nocciolo di un esercito d'insurrezione ungherese. In particolare nel maggio eransi propagati clandestinamente fra i reggimenti ungheresi dell'esercito austriaco, accampato tra la Sesia ed il Ticino, una quantità di Manifesti eccitanti i soldati di nascita ungherese ad abbandonare le bandiere imperiali, onde combattere insieme a' soldati d'Italia dapprima per la libertà di questa, poi per quella dell'Ungheria, sostenuti dall'Italia e dalla Francia. Scarsissimele diserzioni, quando in seguito della battaglia di Magenta, si ebbero alla mano soldati ungheresi, in mancanza di volontarii si cominciò a formare una legione ungherese con prigionieri trasformati in volontarii. Lodovico Kossuth, il capo della rivoluzione ungherese, abbandonata l'Inghilterra, sbarcava il 22 giugno in Genova per recarsi il 28 a fermare opportuni concerti in Parma col principe Napoleone, il delegato dell'Imperatore de' Francesi pel dipartimento rivoluzionario..

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La diplomazia prussiana tutto adoperò per indurre la Russia a qualche dichiarazione; e quando di recente, desiderando l'Austria che la Prussia col mezzo di un'ambasciata straordinaria ottenesse dalla Russia un'esplicita dichiarazione di neutralità, ciò che non costava niente alla Prussia e poteva accordarsi senz'altro, il conte Mùnster-Meinhovel stava, per ordine del Principe Reggente, in sul muoversi da Berlino per fare un ultimo tentativo in questo senso a Pietroburgo, il principe Gortschakoff scrisse per telegrafo e con un certo qual dispetto al Ministro prussiano pegli affari esterni, conte di Schleinitz, che si astenessero dall'inviare quest'ambasciata, la quale non poteva avere alcun effetto, essendo, diceva, la politica della Russia ben chiara e ferma. Mostrandosi del tutto inaccessibile, il Gabinetto di Pietroburgo continuava intanto ad armare, ed in conformità alla Convenzione segnata il 22 aprile muoveva verso l'occidente quattro corpi d'esercito, due dei quali verso la Gallizia, mentre le Guardie imperiali erano in marcia verso la Lituania per formare le riserve. Ed ora inviava alle Corti della Germania quella Nota ostile, a tutti ufficialmente comunicata meno che a Vienna ed a Berlino, colla quale l'Alemagna minacciavasi dalle armi della Russia, se mai avesse osato immischiarsi nella contesa fra l'Austria e la Francia.

Di tal maniera venne a porsi in campo l'altra questione: e se la Germania si permettesse d'essere di un'opinione diversa da quella della Russia Quella Nota circolare del Gabinetto di Pietroburgo produsse, infatti, non che in Alemagna, a Londra eziandio la pili ingrata impressione. Inghilterra e Prussia fecero sapere al principe Gortschakoff che la sua circolare appariva ad esse contraria a quella posizione neutrale che la Russia aveva pur detto essere nella questione la sua, e lo stesso dichiaravano non meno a Parigi pochi giorni dopo la battaglia di Magenta. La mossa non poteva rimanere senza contromossa, ned era a presumere che un popolo della grandezza e della potenza del germanico, nel sentimento della dignità della nazione, si lasciasse alle prime parole intimorire dalle offensive minacce della politica russo-francese. Le corti alemanne, fattesi echi fedeli del sentimento dei popoli, si affrettarono a far udire a Pietroburgo le più schiette voci di protesta.

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Improntato di singolare franchezza fu, fra le altre, il linguaggio che tenne la Sassonia (1).

«Il severo giudizio, ella disse, inflitto al contegno del Governo austriaco, che, secondo la Russia, sarebbe responsabile egli solo delle calamità della guerra, non può essere condiviso da' Governi tedeschi. Sarebbe impossibile di arrestarsi all'episodio del Congresso, rappresentante una fase e non l'insieme dei fatti che hanno preceduto e prodotto la guerra, invece di risalire all'origine delle complicazioni che hanno fatto finalmente scoppiare quella guerra. Allora non potremmo dimenticare che il Governo austriaco, nulla avendo fatto che potesse dar ombra né ai suoi vicini, né a qualsivoglia Potenza in Europa, fu turbato dapprima e minacciato di poi nel pacifico esercizio de' suoi diritti di sovranità; allora si rimarrebbe convinti che so simili imprese, invece di trovar simpatie, avessero incontrato il biasimo non equivoco dell'Europa, il flagello della guerra sarebbe stato probabilmente risparmiato all'umanità, prima ancora che la questione del Congresso venisse intavolata.

» La Russia dice ora di tenere la Confederazione germanica per una combinazione puramente difensiva; eppure i Trattati sulle cui basi questa Confederazione entrò nel diritto pubblico europeo, ed ai quali la Russia appose la sua sottoscrizione, riconoscono in essa il diritto di pace e di guerra. Allorché, durante l'ultima guerra tra la Russia e la Turchia, truppe austriache occuparono i Principati danubiani, la Confederazione risolse che un attacco contra quelle truppe sarebbe considerato come aggressione diretta contro la Confederazione. Questa risoluzione non provocò né proteste, né rimostranze, e certamente la Russia avrebbe trovato materia ad opporsi se il contegno della Confederazione fosse stato contrario ai Trattati. Se la Confederazione rimase allora nei limiti dei suoi diritti e dei suoi doveri, perché non potrebbe oggidì prendere risoluzioni analoghe? Ovvero non havvi forse analogia fra le circostanze attuali e quelle d'allora? Havvi di fatto una differenza.

(1) Dispaccio del barone di Beust, Ministro agli affari esterni, al sig. di Koenneritz, Ministro residente di Sassonia a Pietroburgo, del 15 giugno 1859.

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Allora l'intervento della Germania non era stato preceduto da veruna dimostrazione intesa a minacciare il territorio austriaco; oggi invece quell'intervento non è ancora avvenuto, ma bensì il territorio austriaco è invaso. La Russia ci rammenta che la Francia disse di non avere intenzioni ostili contro la Germania; noi ci sovveniamo egualmente d'un Manifesto che proclama l'intenzione di liberare l'Italia dalle Alpi all'Adriatico. Se la Russia a prò della Germania ha sopportato alcuni sacrificii, non se ne rammarichi, giacché la Russia, come ora essa ci dice, non s'ispira che de' suoi interessi; e v' ebbero congiunture in cui la Russia a vicenda ebbe a lodarsi della Germania, guidata egualmente dalle ispirazioni de' suoi proprii interessi. La Germania oggidì non domanda sacrificii; essa non esige che la sua indipendenza per l'adempimento de' suoi doveri federali.»

Codeste dure verità, la forza della argomentazione inesorabile, non poteano a meno di pungere la Russia sul vivo. La questione s'inacerbiva; provocazione alla guerra; essa però non doveva riescire che ad affrettare la pace, che l'Imperatore dei Francesi in que' giorni medesimi aveva già fermamente deliberato in suo cuore.

È d'uopo tenere a mente come il Governo prussiano, prima che la guerra avvampasse, aveva preferito avvicinarsi al Gabinetto inglese nell'opera della mediazione; come anche più tardi, pur riservandosi piena libertà per la scelta del momento, perseverasse nell'idea d'intromettersi paciera; come infine, negli ultimi giorni del maggio, l'Austria avesse accolto in massima il proponimento d'una mediazione prussiana. Nel giorno medesimo in cui si combatteva a Solferino, il Governo di Berlino, compiuta quasi del tutto la mobilitazione del suo esercito, dava il primo impulso diretto con dirigere a Russia e Inghilterra invito ufficiale di prender parte ad un nuovo tentativo di mediazione (1).

In codesto documento, che grande influenza doveva esercitare sulla conclusione della pace, deplorato con vivaci parole l'invio dell'ultimatum austriaco a Torino, «poneasi in vista che» il risultamento finale degli eventi potrebbe modificare l'equilibrio europeo

(1) Dispaccio del conte di Schleinitz, Ministro pegli Esteri in Berlino, agli Ambasciatori prussiani presso le Corti di Pietroburgo e di Londra, del 14 giugno 1859.

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» con indebolire un Impero cui la Prussia era legata con vincoli federali, ed intaccare le basi del pubblico diritto alla cui fondazione la Prussia eziandio aveva contribuito, il cui mantenimento era nell'interesse degli Stati europei. L'attitudine presa dalla Prussia non pregiudicare in alcun modo la questione italiana, né i diversi interessi che vi si collegano;essere però impossibile al Principe Reggente, rinunziando ad esercitare un'influenza cui ha diritto di pretendere, di approvare anticipatamente con un'attitudine passiva i cambiamenti che i limiti territoriali hanno subito e poteano subire in uno dei paesi che legami cosi numerosi uniscono alla grande famiglia de' popoli europei. Ben lungi dal voler peggiorare con un intervento prematuro ed arbitrario una situazione già tanto pericolosa, la Prussia non poter formare altro voto che quello di tornare sul terreno delle negoziazioni, nella mira di trovare uno scioglimento equo per tutti e che offerisse guarentigie di durata per una questione sottratta alla sola base che l'Europa può e deve approvare quando trattasi de' grandi principii del suo ordine pubblico e sociale.

» La Prussia desiderare la pace, e per restituirla all'Europa al più presto indirizzarsi essa con fiducia a' Gabinetti di Londra e di Pietroburgo. Essere tuttavia la Prussia di parere che l'Europa e l'Alemagna in particolare non possano assistere con indifferenza all'indebolimento d'una Potenza che le è sembrata sempre elemento essenziale e naturale guarentigia dell'equilibrio generale. Mantenuto ancora presentemente questo principio, Prussia riconoscere le difficoltà che si opporrebbero al semplice ristabilimento d'uno stato di cose che condusse ad una guerra e ad una serie di sollevazioni propagate a gradi a gradi nell'Italia settentrionale e centrale, e credere che riforme effettive ed estese saranno un mezzo più sicuro e più giusto di mantenervi ordine e tranquillità. I Trattati dell'Austria con alcuni Stati vicini poter essere surrogati da una combinazione meno opposta ai sentimenti delle popolazioni, e contenente più sicure guarentigie in favore dell'ordine e della legalità.

» Non potere pertanto la Prussia nutrire l'intenzione di contribuire, per parte sua, all'impossibile ritorno ad un paesato

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» che avea prodotto così tristi risultamenti; per converso voler accogliere con premura qualunque proposta che avesse inmira la conciliazione dei diritti di Casa d'Austria con un'opera di riorganizzazione fondata sopra principii liberali e concilianti, atta a soddisfare ad un tempo i legittimi voti de' popoli. La Prussia prender atto delle dichiarazioni dell'Imperatore Napoleone di non aspirare a conquiste ed ingrandimento perla Francia. La guerra, avvicinandosi di più in più alle frontiere della Confederazione germanica, potendo da un momento all'altro imporre alla Prussia obblighi più diretti e incalzanti, desiderare e sperare che una mediazione comune anglo-russa-prussiana affrettasse la pace prima che ne conseguisse una conflagrazione europea, mediazione sulla cui forma e valore Prussia attendeva con vivissima impazienza le comunicazioni che i Governi d'Inghilterra e di Russia fossero disposti a farle.»

Invero ella era codesta alquanto curiosa maniera di preludere a farsi intermedii tra due, con dare sin dalle prime aperture in sostanza ogni torto ad una parte, e non trovare per l'altra una parola di biasimo equivalente, mellifluamente pur lodando di questa l'asserto disinteresse. Mentre con astute circonlocuzioni pareva si volesse dichiarare l'inviolabilità de' Trattati del 1815 e del possesso territoriale austriaco, tosto appresso si soggiungeva: Prussia non intendere d'intervenire per un completo ristabilimento dello status quo ante, proclamato impossibile; riconoscere per l'opposto che cangiamenti, richiesti dagli eventi sopraggiunti, rendevansi inevitabili, ed a tale riguardo anzi attendere proposizioni dall'Inghilterra e dalla Russia. Prussia bensì non peranco veniva innanzi con un sistema di mediazione a basi concrete, ma un complesso di frasi abbastanza esplicite rivelava il pensiero dominante, che si poteva riassumere così: la Prussia volere vivere in pace con tutti, non voler fare la guerra per alcuno, ed aversi dovuto porre in migliore assetto militare unicamente perché «l'agitazione s'era impossessata dell'Alemagna; non avendo l'Austria aderito al consiglio, che ancor essa, la Prussia, le aveva dato nel modo più leale e disinteressato,» di rinunziare colle buone quanto gli alleati si apprestavano a toglierle colle armi, l'Austria doveva pagare lo scotto

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«della sua disgraziata risoluzione», di questo errore come il Gabinetto di Berlino si compiaceva chiamarlo, con semplicità e candore singolare fingendo di non sapere, ciò che per filo e per segno sapeva benissimo, chi veramente avesse voluto la guerra, se l'Austria o Napoleone; ma poiché in Italia si combatteva a dispetto della Prussia, la Prussia non poter permettere che la pace avvenisse senza di lei. Di tal modo la Prussia veniva in scena, con una bilancia a braccia disuguali nella sinistra mano e nella destra una spada in apparenza a due tagli eguali, di cui nella realtà l'uno. era più lucicante, l'altro ben più tagliente.




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Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - l'ho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)












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