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Rivelazioni ed altri documenti inediti riguardanti la rivoluzione italiana (1)
Rivelazioni ed altri documenti inediti riguardanti la rivoluzione italiana (2)

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(Parte 2)

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La Storia è lo specchio delle umane operazioni. Passano i regni ed i re, i popoli e le nazioni, ma l'impronta di loro dura eterna sulla superficie di quello.

La storia adunque vaglia quale educatrice dei re e dei popoli.

Ed è alla storia appunto che noi chiamiamo i popoli di queste meridionali provincie, acciò prendino argomento di meglio giudicare le cose e le persone.

Sino ad oggi la storia dei padri nostri e dei nostri parsati destini era un mistero per noi perché tocca d'infame ostracismo dalla tirannide, sia questa politica e curiale, compagne sempre dell'opera di sociale distruzione.

Che se ciò stato non fosse di ben altri destini saressimo stati testimoni, e non vedressimo oggi Italia nostra correre in balia di furiosa tempesta a procelloso lido, nè vedressimo il tripudio e l'insulto di tali a cui è convenevole elemento il fango, da cui traggono origine.

E particolarmente la storia di quel paese e di quelli individui che l'universale sfortunio à condotto al freno della cosa comune.

Dice del Piemonte, che quasi conquistatore ci aggioga al suo carro, e c'insulta, e ci dilapida, e ci umilia innanzi tutta l'italiana famiglia.

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Dico del Piemonte, che per ragioni di corte e per imbecillità d'italiani monarchi è salito al tripudio ed al dominio.

Noi invochiamo la storia, né parliamo per sentimenti d'odio o di vendetta; e la storia è là aperta a chiunque voglia di noi giudicare.

Ed acciocché sia fatta a noi giustizia in prendiamo a narrare di storia.

Oltre questo il nostro scopo si è quello di fare un parallelo acciò ne emerga la luce di verità - che al cambiar di padrone non cessa sempre la servitù.

Eccoci al proposito.

Il Piemonte giaceva prosternato sotto il peggiore di tutti i despotismi-leggete le Memorie di un Cospiratore-quello della sciabola (1)-dispotismo, che oggi tanto bellamente impera in tutte le più terribili maniere sopra i 22 milioni uniti - e i 9 milioni di meridionali in particolare.

I governatori ed i comandanti militari trattavano il paese come veri Pascià; ed il loro potere era letteralmente senza limiti: quindi inevitabili le usurpazioni sulla giurisdizione civile. Nella inesplicabile confusione e nella lotta constante che proveniva da questo stato di cose, il pacifico cittadino, non sapendo cui rivolgersi per aver giustizia, naturalmente soffriva. Il fatto seguente può dare un'idea della dignità e della moderazione mostrata da questi devoti Uffiziali nell'esercizio delle loro cariche.

Un Genovese, non essendosi tolto il cappello al passare del re, il governatore gli si volse contro subito,

(1) Le Comte Rvffini Memoirss d'un Cospirateur - Chap. XVI, Paris 1855.

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e caricandolo di violenti ingiurie, gli gettò per terra il cappello. Avvenne che questo cittadino apparteneva ad una delle primarie famiglie di Genova, ed era, oltre a ciò, conosciuto della persona dall'imperatore Alessandro I, di Russia, col quale era spesso in carteggio. A cagione di queste circostanze e della domanda del suo potente intercessore, gli fu accordata una soddisfazione, venendo mandato altrove il Governatore. Ma quanti consimili atti e vieppiù brutali restano impuniti per un solo che non l'era tanto!

Il potere de' comandanti nelle piccole città, cotanto illimitato e cosi arbitrario che quello dei governatori, era, assai più direttamente, oppressivo.

Nelle città popolate, gl'individui si possono celare, ma non cosi nelle città delle provincie, dove tutti erano conosciuti di vista o di nome dal governatore, e dove per esempio era un delitto imperdonabile di passare innanzi al piccolo despota senza levarsi il cappello.

Dopo la milizia venivano il clero, i monaci di ogni colore, e massime i gesuiti. Questa celebre compagnia aveva dimora in Vogherà, in Nizza, in Aosta, in Chambery, in Torino ed in Genova. Queste due ultime città erano il loro quartiere generale. Essi avevano sotto la loro influenza, o direzione immediata, un gran numero di congregazioni, mezzo religiose, mezzo politiche, come quelle dell'Ignorantelli, delle dame del Sacro Cuore, di S. Raffaele pei giovani, di S.. Dorotea per le fanciulle ecc. Con tanti numerosi sussidii, non fa meraviglia che pervenivano a darsi il monopolio della pubblica istruzione.

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Lo spirito gesuitico regnava la corte, tra gli alti Uffiziali, ed invadeva tutti i rami dell'amministrazione del governo e della giustizia. In somma, per aggiungere ciò che si voleva, era necessaria un'affiliazione, vera o mentita, alla setta. Col mezzo del confessionale e della corruzione de' domestici, conoscevano i segreti delle famiglie, che rivelavano alla Polizia, d'onde ne scaturivano disordini, processi scandalosi e riprensioni; in breve, tutti gli espedienti detti economici -nome generale col quale s'indicava ogni cosa arbitraria e mescolamenti inquietanti nella vita privala-E poi noi siamo i bigotti, i demoralizzati, i baciapile, gli umili servi dei gesuiti!

Quanto alla Legislazione, basta dire che ne formavano la base gli statuti del 1770. Il re Vittore Emanuele, risalendo il trono nel 1814, li rimise in vigore per odio delle leggi Francesi, che dal 1790 avevano governato il paese. E cosi con un tratto di penna, venivano ad esser risuscitate le decime, le banalità, le commende, il diritto di primogenitura, ogni sorta di privilegi, i monaci di ogni colore, i tribunali militari, la corti ecclesiastiche, le corti del dominio reato, per cagione delle quali intere classi di cittadini erano sottratte dalla legge comune ed individui in un fatto identico sottomessi a giurisdizioni ed a leggi differenti - senza dir nulla de' Tribunali di eccezione, dell'incapacità che colpiva i protestanti, della separazione de' Giudei ecc La tortura fu abolita, è vero, con un decreto posteriore, ma si mantenne il supplizio della ruota, le tenaglie roventi, l'amputazione della mano prima dell'impiccatura, lo squartamento e la mostra delle membra squartate.

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L'applicazione di queste pene eccessive divenne rara, certo; ma io grazia solo della dolcezza de' pubblici costumi, che frenavano la crudeltà delle leggi: questi furono i primi benefizii di Vittorio Emaouele I, che soleva dire:- «Io ho dormito quindici anni»- tempo della occupazione francese-Egli portava sino alla frenesia l'odio contro ogni cosa che era francese. Cosi, per esempio, nel principio del suo regno si parlò in un tempo di demolire il magnifico Ponte costruito sul Po da Napoleone, e si radunò una commissione per esaminare se si poteva cancellare l'effigie dell'usurpatore dalla moneta senza alterarne il valore.

Un povero scrittore nel tesoro ebbe tolto l'uffizio perché scriverà alla francese l'r e non all'italiana.

L'arbitrio ed il favore avevano invaso il santuario della giustizia, e spesso una sentenza regolarmente pronunziata era annullata con un editto reale. Talvolta il re, erogando a sé un affare tra i privati, ordinava a qualcbe magistrato di giudicarlo nuovamente senza tener conto della decisione fatta. Altre volte dava autorità ad una persona, perché producesse tal prova o proponesse tal eccezione, malgrado la prescrizione legale. In altri casi le causa si mandava in altri tribunali per esser giudicata nuovamente. Si concepisce facilmente quante la facoltà di annullare, secondo il capriccio reale, i giudizii pronunziati, doveva impedire il corso della giustizia e nuocere alla reputazione dei magistrati.

Alcun mandato di giustizia non bisognava per gettare un cittadino nel carcere.

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Il governatore, il comandante, il direttore di polizia, l'avvocato fiscale, il giudice di pace, il sindaco, i carabinieri, insino al più vile agente o spia di polizia, aveano diritto di arrestare. E se era facile di andare in prigione, nulla di più difficile di uscirne. Un prigioniero, messo in libertà per ordine del magistrato, poteva ritornarvi nel giorno appresso per ordine del governatore, del direttore di polizia o del comandante-presso a poco come è accaduto a tanti in Napoli, dove governasi con lo stesso sistema: messi in libertà dai Tribunali, e ritenuti in carcere per arbitrio di polizia.

Il secreto delle lettere era costantemente violato, senza che si dassero pena di nasconderlo. Lo stesso fanno oggi, e loro lo rinfacciò e provò in pieno Parlamento, senza che sapessero scusarsi, il deputato Bertani.

Sotto un tale sistema non vi poteva essere libertà di stampa.

Appena si pubblicava qualche libro, se non poche opere scientifiche ed insipidi romanzi. La censura teatrale era recata sino nel segno incredibile dell'assurdo-Nel coro della Norma si soppresse la parola libertà sostituendovi lealtà. La legge puniva l'introduzione di un libro o di un giornale contrario ai principii monarchici con 2 a 5 anni di lavori forzati ed anche con la morte in certi casi. Chiunque non recava al magistrato un giornale od un libro di tal fatta si esponeva a 2 anni di prigione. Un premio di 100 corone ricompensava i delatori!!

Era quindi ben fiorito il commercio delle spie, i loro sciami coprivano la società come le mosche si gettano sopra un cadavere.

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Abbondavano in tutte le condizioni, in tutte le professioni. La polizia segreta era il sicuro asilo di tutti i veterani del libertinaggio e del delitto. Un gran numero sdegnavasi di celarsi, facevano mostra della loro infamia, ed esercitavano il loro mestiere in pieno giorno. La piazza Nava, presso il palazzo durale di Genova, era il ridotto di questi miserabili, i quali in certe ore vi si recavano in piccoli gruppi... le loro vittime più numerose erano certi piccoli venditori, sopra i quali levavano ogni sorta di tributo, minacciandoli di denunziarli come liberali.

Non diremo quale trattamento era inflitto agli imputati politici, rammenteremo solo un anneddoto, nel quale l'odioso è pari al ridicolo.

Un prigioniero politico, da molto tempo chiuso nella fortezza di Mondovì, aveva più volte chiesto il permesso di farsi radere la barba. Il Comandante sottopose la domanda al Comandante della provincia di Cuneo, che accordò il permesso in questo modo, testualmente trascritto; «Il prigioniero avrà mani, braccia e gambe legate sulla sedia. Due sentinelle collocate a diritta ed a sinistra, e dietro un soldato con la sciabola nuda. In faccia starà il comandante col maggiore della fortezza da un lato, ed il suo aiutante di campo dall'altro. Cosi, conchiudeva il dispaccio, è permesso al prigioniero di farsi radere «a con tutto suo commodo».

Per riordinare l'istruzione sopra nuove basi si fece la scelta degli uomini i più fanatici, i più retrogadi, i più apertamente avversi ad un moderato avanzamento, non proponendosi altroché di diminuire il numero degli studenti e di render la vita loro più dura che possibile...


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Per esser poi ammesso all'università bisognava adempire avarie formalità tra le quali, a memoria dettiamo questa lista, sicuri di qualche omissione. Ecco cosa si voleva da uno studente:

1. Certificato di nascita e di battesimo.

2. Detto di vaccinazione e di aver avuto il vaiuolo.

3. Detto che aveva atteso ad un corso di filosofìa e dato gli esami richiesti.

4. Detto di buona condotta rilasciato dal prete della propria parrocchia.

5.Detto di assiduità alla chiesa parrocchiale in tutti i giorni di festa.

6. Detto di confessione mensuale durante i precedenti 6 mesi.

7.Detto di confessione, e di comunione nella Pasqua.

8. Detto che il padre e la madre possedevano una proprietà territoriale di un valore sufficiente per assicurare a ciascuno dei loro figli la parte determinate dal rogolamento.

 9. Infine un certificato della polizia comprovante che non si era partecipato nel moto insurrezionale del 1821.

Oggi noi vediamo il Piemonte gridare-senza muoversi-Guerra all'Austria, traditora Austria- e un tremore universale assalire i bimbi del governo a quella tremenda pronunziata parola: Santa alleanza. Eppure era l'Austria, erano le alte Potenze alleate, che nel 1814 con vittorie prodigiose, con isforzi nobili e costanti videro benedette le loro generose intenzioni, appagando i desiderii dei buoni e fedeli sudditi del Re di Sardegna (1)-

(1) Dichiarazione del generale Schwarzemberg agli abitanti degli Stati di Terraferma di S. M. il Re di Sardegna al dì là delle Alpi, e del Contado di Nizza.

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Napoleone 3, convien confessarlo, ha vendicato lo zio, aggiogando al suo carro di trionfo-trionfo passeggero, veh! - questo stato, che si era lasciato cosi dolcemente cullare nelle braccia dell'antica e cara Austria!

E qui sorge un fatto, il quale addimostra il carattere politico di certi individui. Se i Napoletani, ripetiamolo, avessero letto la storia del Brofferio, non avrebbero meravigliato di tutte le metempsicosi politiche, di tutte le metamorfosi, avvenute nel Piemonte, o pel Piemonte. È sistema vecchio, l'inneggiare alle novità, l'imprecare al passato; e poscia a questo levare statue allora che ritorna, comechessia, in campo. I ministri del Papa e del Borbone -oggi unitarii per un fiat di Cavour -; i municipalisti piemontesi ci dicono aver logorato la vita a pensare all'Italia non sapendone scrivere neanche il nome, che per loro era Ittaglia - sono nell'ordine naturale, dei principii, da cui sempre mossero gli uomini politici io quello stato.

Sapete a chi il generale tedesco largì le prime cariche, i primi onori-quando fu ristabilito l'ordine? - A coloro che più erano stati beneficiati da Napoleone 1°. Ed essi perciò doppiamente zelanti si mostravano a prò della trionfante reazione. Il generale Bubua fu governatore militare; governatore civile e presidente del consiglio di reggenza il marchese di S. Marzano - e consiglieri il Conte Thaon di Revel, il conte di Velesa, il conte Balbo, il conte Serra di Albugnano, il conte Peiretti di Condove, il cavaliere di Montiglio, il conte Alessandro Salluzzo, con l'incarico a quest'ultimo di segreterio generale del Consiglio.

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Ora il Montiglio era stato dalla generosità di Napoleone 1° creato Presidente della Corte Imperiale di Firenze; Peiretti Presidente della Corte Imperiale di Torino; Salluzzo ebbe tutti i fratelli (sistema della nostra famiglia Trinchera!) impiegati in Piemonte, ed alcuni anche a Parigi; Balbo rettore della Università Subalpina; San Marzano, dilettissimo a Bonaparte, era suo ambasciatore in Prussia, membro del Senato Conservatore, membro della Commissione dei cinque, colmo dal caduto Augusto di distinzioni, di dovizie, d'onori... e il primo atto che ei fece nel Consiglio di Reggenza, fu di ordinare un solenne Te Deum per la caduta dell'usurpatore!

«Questa - osserva il Brofferio - è la riconoscenza che i re debbono aspettarsi dai cortigiani».

E nuovo e più sollenne esempio se ne vede oggi in quei generali, magistrati, impiegati, levati su, arricchiti, onorati dal Governo dei Borboni, -che credono fare atto di patriottismo insultando, or che sono lontani, i passati reggitori, per gridare osanna ai nuovi che dispongono del bilancio. Noi che - quando eran qui i Borboni sapemmo avere il coraggio di parlare e parlar forte - a costo di mille sofferenze da quella stolta e trista polizia - noi oggi abbiamo maggior diritto di stigmatizzare queste guaste anime basse, queste coscienze vili, questi servitori e traditori di ogni potere.

Noi ammettiamo che si posa preferire il nuovo ordine di cose al vecchio, anche da chi una volta credeva dover preferire quello: ma Santo Dio! quando si vede una famiglia, con un padre Capo

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di un'amministrazione con più centinaia di ducati al mese (tranne i soliti lucri!), e cinque figli vantaggiosissimamente impiegati, e nipoti, e cugini, ed amici, e ogni favore lor piovere sopra, crearsi così una fortuna - vederla imprecare ora al passato, maledir le persone dei Borboni, è atto di fellonia, è ingratitudine nera-quanto quella del Conte di S. Marzano e dei suoi amici verso il Bonaparte!

Vedere certuni, che ieri ci facevano ridere, con una gran chiave appesa dietro l'abito-che li avresti proprio chiamati Chiavoni-starsene sempre nelle anticamere del Re, e spazzolargli il vestito, e aiutarlo a montare in carrozza - vederli giocare oggi la medesima commedia, con un cordone al collo dei soliti Santi, e bestemmiare quei che corteggiarono si bassamente - e ciò mentre i loro parenti sono poi a Roma!-è atto tristo, per quanto sciocco. Che per cotestoro non è mica quistione di governo, di polizia (che loro no, noi tormentava assai}; ma delle persone regali, cui erano attaccatissimi, costoro non solo non han principii, ma non han cuore.

Il fatto del 1814 in Piemonte ci spiega come il Farini, che nella sua Storia propugnava nulla via di salvezza potervi essere per l'Italia che nella Federazione, fosse stato poi il messo per insegnare unità italiana a quei di Modena e di Napoli! Vero è che Farini si voltò all'Unità, perché in essa vide maggior probabilità di morir povero. E difatti, l'Unità gli portò a Napoli un codazzo di creditori, frai quali l'ebreo Carpi, cui egli - Luogotenénte - si affrettò di pagare una vecchia cambiale di quarantacinquemila lire -diciamo 45,000!!

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I martiri sono stati sempre roba di tutti i tempi.

Se i Napoletani avessero letto la storia del Piemonte, non avrebbero certamente meravigliato dei risorti martiri, che di là tennero a fare di loro buonissimo governo.

Quando partirono dal Piemonte i Francesi nel 1815 vi entrarono i Tedeschi, che ne furono dopo quelli j padroni assoluti.

Di mano in mano che dileguavasi le assise francesi, venivan fuori i cosi detti martiri.

Cominciarono i più famelici dei reali stipendii a decorarsi di nappe azzurre; prima l'abito, poi il cappello, poi tutta la persona; e più le nappe eran larghe, e grosse, e appariscenti, meglio era. Dopo le nappe vennero le fasce e le tracolle; poi altro, e si videro proprio delle caricature da opera buffa, comparire di repente al cospetto della popolazione, stanca di commedie.

I Napoletani ricorderanno benissimo tutti quelli che nel 1860 si mettevano delle gran coccarde tricolori, e delle fasce, e dei fazzoletti, e dei ritratti, e infine gran cartelloni al cappello e sulla persona - e da ultimo camice rosse, cappelloni di foggia strana con penne di cappone, e tutti carichi di armi passeggiar Toledo in atto di assaltare, Capua non già, ma la Segreteria del Dittatore - allora provvida dispensiera a chiunque solo avesse desiderio di attaccarsi alla greppia dei danari dello Stato

Eppure trista esperienza ammaestra che di tali pagliacciate bisogna fare, per tenersi bene. Il povero Cavaliere Ferdinando del Pozzo, presidente della Corte di Genova, avendo creduto,

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nella rinnovazione degli attestati di sudditanza al suo Re, fargli sentire qualche consiglio coscienzioso ed onesto - ne perdé la carica!

Quando siavi a fidare in certe buone intenzioni, in certe promesse, in certe tenerezze di libertà in bocca ai Re, lo dimostrò quel tempo in Piemonte.

Vittorio Emmanuele rientrò nei suoi stati, e dalle sue labbra non usciva parola che non fosse una promessa di felicità pei suoi sudditi. Voleva e prometteva pubblicamente abolire la coscrizione ed altri aggravii, le imposizioni per le successioni, sì testale che intestate (oggi, tanto, c'è la tassa di registro che le successioni distrugge addirittura, perché le fa proprietà del Governo!) e infine la parola libertà si lanciava sorridendo nel pubblico, il quale l'accoglieva insieme alle scarpe con le fibbie, alle parrucche con la lunga coda, alla polvere di cipro ed ai collaroni con la immensa borsa!

«Ma i più avveduti avevano già capito, dice il nostro solita A., che la libertà d'Europa significava il ritorno alle antiche, e che l'oppressione passata a cui si doveva perdonare non escludeva un'altra oppressione avvenire, senza necessità di perdono».

Se della storia di Brofferio si fossero tirate le cinquecentomila copie, che noi proponevamo, i Popoli avrebbero attinto grande ammaestramento da questo brano; e ai consigli di Garibaldi avrebbero prestato quell'orecchio che meritavansi le parole di un uomo che non aveva interesse ad ingannarli, che per loro soli sacrificavasi e versava il suo sangue - quel sangue che non

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versarono le armi borboniche, e che Urbano Rattazzi fe' spargere sulla vetta di Aspromonte!

Un fatto rimarcato dalla storia, e che noi non vogliamo lasciare inosservato, è che entrando il Re in Piemonte, acclamato, festeggiato - al solito - dall'accalcato popolo - che in tutti i cangiamenti mostrasi sempre imprecante a chi cade - uno deputazione della civica magistratura recossi al Regio Palazzo, per presentargli le sue congratulazioni! Ma no. La civica magistratura, la rappresentanza del popolo deve cedere il posto ai cari e buoni Austriaci-e prima di esserle dato permesso di avvicinarsi al Re, questi fu lieto di ricevere le prime salutazioni dagli Austriaci, e primi a complimentarlo furono il generale Bubna e il generale Reipper, accompagnati da numeroso stuolo di Ulani e di Croati!

I Napoletani, che non hanno letto la storia, ma che leggono oggi i giornali piemontesi, potrebbero benissimo credere che gli Austriaci sieno stati gli eterni nemici d'Italia, e in eterna battaglia con fa Monarchia di Savoia, la quale ne ponzava la futura unificazione!

Et voila comme on écrit, ecc.

La restaurazione piemontese in confronto della napoletana del 1799 è certo ben pallida cosa;. in questa non si videro tanaglie infocate, fustigazioni, squartamenti, e tante e tante altre dolcezze da Santo Uffizio, di cui in Piemonte ebbevi tanto uso dall'ottantanove sino all'impero.

Leggasi la storia di Angelo Brofferio e nessuna maraviglia avrebbero avuta i Napoletani nel vedere distrutte tante buone cose per sostituirvi delle cattive.

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Vi fu persino avviso di abbattere il magnifico ponte sul Po, monumento di Napoleone il grande, - solamente in odium auctoris. Si interrogarono gli arteflci della regia zecca per sapere se si potesse cancellar dalle monete l'effigie dell'Imperatore, e si udì con dolore che non si poteva! Nondimeno si trovò qualche risarcimento, cancellandone i ritratti in tutte le mura, in tutte le tele, in tutte le carte. Oggi il ritratto di Napoleone 3° v'è tenuto come l'immagine di un santo - e meglio, che i santi anzi hanno l'ostracismo!

Si giunse a questo, di non volere che di Piemonte in Francia, si passasse per la nuova e buona strada del Moncenisio, perché di costruzione Napoleonica; e bisognava tenere la lunga, cattiva - ma antica e reale - della Novalesa!

Se la storia non fosse là ad autentificare il nostro dire difficilmente ci presteressimo fede, cose sono queste che non ha eguali il medio evo.

Ma più ancora. Un direttore di gabelle, un certo Bellosio, appena salito al potere scacciò tutti gli impiegati dal Bonaparte nominati, o che al Bonaparte mostravano affetto. E fu un lutto in mille famiglie, miseria, desolazione. Eppure qui in Napoli ignoravansi ancora queste verità registrate dal Brofferio!

Insomma, i quindici anni si vollero cancellare dalla Storia del tempo! Si andò a scavare un almanacco del 1798 e quello fu tenuto in tutto presente.

E poi, dice il Brofferio «da uno sciame di molesti insetti si vedeva circondato il sovrano, da una turba di ipocriti, di parassiti,

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di infingardi, di stupidi, di ribaldi.» - Erano i Bonghi, gli Spaventa, i de Blasiis di cinquantanni fa.

Ma il fatto più caratteristico di questa restaurazione - e che dev'essere gran pena pei Napoletani non averlo letto prima nella Storia del Brofferio - è il seguente.

Il Re, come è noto, ebbe dai Torinesi una accoglienza entusiastica. Udite l'A:

«Frattanto Vittorio Emanuele, sempre salutato, sempre circondato da immenso popolo, scendeva nella piazza di S. Giovanni, entrava nella Chiesa, ringraziava Iddio dei terminato esilio, e ritornava dopo sedici anni nel palazzo degli avi suoi. Continuarono tutto il giorno le feste, le acclamazioni, le allegrezze. Nella sera la capitalesi vestì di tanta luce che ne impallidirono le stelle. Le piazze, le vie, i portici, le abitazioni, i tetti, le Chiese, i campanili, le colonne, gli alberi, le siepi si cuoprirono di mille e mille globi di fuoco. Il sovrano si mostrò un'altra volta al suo popolo, un'altra volta percorse le vie di Torino in trionfale apparato; trionfo di concordia, di, amore; di pace; non si vedevano che aspetti sfavillanti di gioia, non si ascoltavano che grida di vivissimo esultamento... E mentre ciò succedeva, collocavansi due cannoni dinanzi la porta del reale palazzo, con le bocche rivolte contro i cittadini; e perché l'insulto fosse compiuto, erano cannoni tedeschi».

La storia non può essere più veritiera; quei cannoni esistono ancora: e a cui prenda vaghezza di volerli osservare non deve fare un luogo tragitto. Basta arrivare alla piazza del Plebiscito: li vedrà esposti dietro i cancelli del palazzo reale di Napoli.

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Più sopra narrammo di un impiegato dal governo di Piemonte destituito per avere scritto al ministero con una R francese. Ma un tale sfortunio fu a quell'individuo radice di maggior fortuna che passato a Parigi e valentissimo nella musica apriva colà una scuola di musicale insegnamento, ed ebbe fama, onori e dovitie. Costui è Federico Massimino, nome celebre nell'arte.

Ma questo fatto è nulla dì fronte al seguente.

Un giorno mentre il generale Bussolino -generale perché ne aveva il vestito e la paga-ispettore dei regii eserciti, passava i soldati a rivista, un sergente per nome Gavoust, bisognoso di sussidio, gli si fé a presentare una carta. Che cosa è questo? - chiedeva l'Ispettore. È, rispondeva il sergente, la mia umile petizione... = Petizione! - ripigliò fieramente il generale - vattene, giacobino malnato! Un buon suddito del re non presenta petizioni!-Il povero sergente non aveva ancora imparato a dir supplica, e un francesismo lo rese disgraziato per sempre.

Che cambiamento non si vede oggi? La lingua, i costumi, il governo, tutto oggi non ha valore, se non passa per la trafila francese, e d'Italia puossi dire che di suo non ha neppure i vezzi. Ed in fatti quante famiglie nobilissime di Piemonte vi sono che obliano il loro idioma, sia per vezzo di usare lo stretto francese, od un dialetto che ha del circasso e dell'ottentotto?

Se i Napolitani avessero letta la storia del Brofferio, non avrebbero meravigliato niente affatto allorché videro i governanti di Torino-presieduti dal venerabile Conte di Cavour... distruggere due eserciti, senza aver l'arte di saperne

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formare uno, creando invece un brigantaggio, che - lungi dall'estinguersi - ripiglia sempre, simile ad Antèo, forze novelle ad ogni caduta.

E tutti i militari della gloriosa armata del primo Bonaparte furono scacciati o tenuti a vile, ed a loro furono sostituiti tutti i soldati arruolati nei reggimenti di Torino e di Susa all'epoca del 23 Giugno 1800, con motu proprio reale richiamati sotto le bandiere. Ma furono la misera cosa, che i più sono già morti nel loro letto, o erano caduti in guerra seguendo le sorti delle armi francesi. Ma siccome-osserva Angelo Brofferio - Vittorio Emmanuele soleva dire che nei sedici anni dell'usurpazione francese facea conto di aver dormito, concbiudevano i suoi ministri che i soldati dell'ottocento si sarebbero svegliati quattordici anni dopo, come da un sogno del giorno avanti. Ma, con tutto ciò, soldati e bassi uffiziali continuarono a dormire, e la minaccia dell'arresto non li riscosse.

Essendosi dalla sapienza governativa abolita la coscrizione, perché d'intenzione napoleonica (oggi, al contrario, la si ama tanto che la si opera a furia di carabinieri, bottoni infocati, arsioni e assetamenti!) si ebbe ricorso all'antico metodo di arruolamento per formare un esercito, comechessia. Due persone presero a correre le provincie, chiamando e adescando gl'individui con immorali promesse ed immoralissimi mezzi. A malgrado però dell'avversione che si sentiva pei soldati di Napoleone, si consentiva a riceverli, con che obbedissero a superiori, che, innalzati dalla corte ai primi gradi, ogni elemento di arte militare ignoravano.

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Gli ufficiali che combatterono a Jena, a Mosca, a Wagram, ad Austerlitz venivano respinti; o se alcuno se ne accettava, era a condizione che sarebbe disceso di due, di tre ed anche di quattro gradi. Si videro Capitani di Napoleone costretti dal bisogno a prendere servizio sotto un cavalier Piano, in qualità di caporali o di sergenti! - Questi salutari ammaestramenti storici tenne presenti quel gran repubblicano di Manfredo Fanti, e i suo colleghi nella impresa, allora che ebbero a giudicare e a servirsi di elementi dello antico esercito Napoletano!

Ora aggiungiamo che non erano certamente in quell'esercito elementi tutti da poter essere utilmente impiegati. Soldati demoralizzati, mogli a centinaia, capi che tradivano per un pugno di monete. Ma vi erano ancora ufficiali onesti, ed abili ancora. Nei corpi scientifici, erano ufficiali di studii profondissimi-studii, che in Piemonte non si aveva l'abitudine di fare. E questo non si può negare da chi ha visto l'opificio di Pietrarsa, il Bacino e tante altre costruzioni dovute agli ingegneri del nostro Genio. Il d'Ayala, oggi generale nell'esercito, amato da tutti, autore di egregie opere militari e letterarie, era nel 1848 capitano nell'arma del Genio.

Il Fanti scrupoloso imitatore dei suoi predecessori del 1814, informato a piemontesismo e nemico però d'ogni cosa che di Piemonte non fosse, Manfredo Fanti fece di questi ufficiali quel conto che un giorno faceva il cavalier Mussa di altri, che già allievi delle scuole poli tecniche furono mandati a studiare gli elementi di Aritmetica, ridendo delle loro onorate discipline,

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i loro servizi non curando perché usciti dalle scuole del Bonaparte.

E la magistratura?! Pur troppo da quattro anni abbiamo veduto nella patria di Nicolini e di Filangieri sedere in magistrato giudici tratti dallo aratro e dalla calzoleria, meglio che dallo studio delle leggi. E costoro si vedono ancora nei tribunali, e da loro dipende la vita e la proprietà dei cittadini. È noto oramai che farmacisti e dottori - sedicenti martiri - per la necessità di doverli provvedete di un impiego, 'furono messi nella magistratura!

E fu altrettanto nel Piemonte nel 1814, in cui vennero richiamati agli impieghi ed al potere gli uomini del 1798, logori degli anni, ricchi di ignoranza, e pieni di odi e di bisogni. Gli uomini della rivoluzione e poi dell'ordine gli eruditi delle nuove discipline del secolo, i chiari per mente o per patriottici sensi ricevettero l'ostracismo e disertarono la nativa terra portando in suolo straniero il frutto fecondissimo della scienza e dell'onore. Ed in Piemonte rientrò il servaggio, e fu nuovamente il carnefice, e lo squartamento delle membra.

Le liste degli attendibili sono ciò che hanno reso celebre in Europa il Governo dei Borboni- e oggi, non vi sono gli attendibili? Se volete sapere come le liste di questi siano compilate dai successori degli amici dell'ordine? in Piemonte, non abbiamo che a riportarci a quanto operossi allora. Emanata un'amnistia, che apri le carceri ad ogni sorta di ribaldi, si pubblicò poscia un manifesto del Senato, con cui promettevasi perdono, impunità e danaro ai malfattori che altri malfattori denunciassero.

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Questo indegno atto, che portava il giudice a patteggiare col ladro, portò turpissime conseguenze in fatto di politica. Si fecero denunzie a tutti, e un cavalier Sessa, nemico acerrimo dell'intelligenza, (al dir del Brofferio) e segretario privato del re, compilava una doppia nota in cui erano di sua mano registrati i giacobini ed i franchi muratori; e queste tavole di proscrizione egli rimetteva al Re. Il quale le accettava- dice il citato Brofferio - candidamente, e mettendole in tasca solea dire ridendo: Tengo i giacobini in una saccoccia, e i franchi muratori in un'altra. A ciò aggiungasi che dinanzi agli occhi non aveva che l'eterno almanacco del 1798 delle persone da impiegare.

Dalle Università furono scacciati tutti gl'ingegni; rimessa in atto ogni specie di asineria.

Alle finanze destinavasi ministro il conte Serra. Di lui cosi accenna il nostro A. «Gravato di debiti in pochi mesi non ebbe più creditori; e gl'impieghi di cui poteva disporre vennero tutti occupati da facoltosi personaggi».

Costui sì si può dire il vero tipo preso a modello dai rispettabili protomartiri, che oggi hanno avuto fra le mani le sorti, i danari e gl'impieghi del regno d'Italia!

Noi abbiamo meravigliato, qualche volta, leggendo le sciocchezze di una immorale parte della Stampa periodica sulle cavalcate dei Principi R., e sulle qualità e la bardatura del cavallo che montavano, e mille goffaggini di questo genere. Un tale arcadico lirismo è stato sempre di moda lassù, ed è per ispirazione che esso è qui-ove non ci si è avvezzi-rimesso cosi ferocemente in vigore.

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Vogliamo riferire un piccolo brano della Gazzetta Ufficiale Piemontese annunziante l'arrivo in Genova della Regina Maria Teresa di Austria: «Bello il vedere la Beale Sovrana, che nello abito di casimiro quasi nanchino, guernito di velluto turchino, e con cappellino nero e penne ond'era ornato, tutta presentava quella celeste amabilità che forma la delizia dei popoli. Stavate accanto S. A. R. l'Arciduchessa di Modena, che in abito di florence bigio e con cappellino con fiori in testa, tanta parte del cielo chiudeva in volto. Attorno al Re, e strettissimamente unite a S. M. le Beali Principesse, vestite di merinos cremisino guernito in nero, con cappellino bianco sul capo, tutte rispettosamente chiamavano gli occhi degli astanti a vagheggiare le sorprendenti amabilità, e le rare bellezze».

«Più ridicola parodia - dice Angelo Brofferio-non era possibile immaginare; ed è ventura che i re, cui tanto vanno a sangue gli abbietti, scrittori, trovino quasi sempre alla abbiettezza associata la stupidità.».

E più ancora. Se voi ponete i nuovi uomini di stato, un Bastogi, un Sella, un Minghetti, sia questo essenzialmente nelle operazioni finanziarie, in confronto degli uomini di stato del regno del primo Vittorio Emanuele, appieno vedrete un magnifico riscontro, una fotografia più abbellita delle ladronerie finanziarie, dell'imperizia, degli abusi e dei favoritismi di quel tempo calamitoso, né certo molto i Napoletani ne stupirebbero.

Questi moderni uomini rapaci hanno in tal modo tanto bene imitati gli antichi piemontesi strumenti di dispotismo che di gran lunga ne superano di merito.

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Il povero Piemonte trovavasi piazzato - dice il Brofferio - «tra la fame nelle strade, le petecchie nelle case, i lupi nei boschi, i corteggiani nei pubblici ufficii-e i ladri da per tutto.»

Se ci aggiungete un po' di brigantaggio e di consorteria, un po' di sciabola, un po' di camorra, l'intrigo elevato a principio, il furto a sistemala pittura calzerà meravigliosamente ancora all'Italia dei nostri giorni.

Quale provvedimento seppe prendere la sapienza governativa contro quei pubblici flagelli?

Dio mio! Gli stessi presi da quattro anni contro il brigantaggio, che sempre muore, e sempre pasce!

Si ordinarono processioni, ove i devoti faceano lugubre pompa di corone di spine sul capo, di corde al collo e di catene ai piedi; si ordinarono prediche, tridui, preghiere; allora non era stata ancora creata la quistione romana, la libera chiesa e razza dei D. Passaglia!

Ma si vede che con questi espedienti non si aveva un tozzo di pane, o un pugno di farina. Si vide la necessità di dover ricorrere a mezzi umani. E si diedero fuori editti contro i monopolisti del grano. Ma, in Piemonte - ciò è risaputo- il monopolio delle farine fu sempre fatto da alti personaggi, che s'impipavano assai bene degli editti. - E, per parlare di questi ultimi tempi, tutti sanno la funesta celebrità del celeberrimo conte di Cavour per le indecenti sue speculazioni sulle granaglie, le quali erano diventate di monopolio esclusivo dei suoi mulini di Collegno. E quando il popolo piemontese, affamato, andò sotto alle finestre del nobile Conte,


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a scongiurarlo che disseppellisse dai magazzini alcuni dei suoi sacchi di grano, il Conte - che stava occupandosi a far l'Italia col suo cuoco - fecea dispensare, non pane, ma buoni colpi di sciabola e di baionetta, a quell'insolenti plebei bougianen. = che volevano cominciare a bouger un poco.

Ma nel 1816 non s'era ancora così facili nella logica delle baionette; invece si diè fuori un editto per uno di quei soliti imprestiti sopra lo stato: si domandavano a prestanza sei milioni, da farsi per mezzo di azioni di cinquecento lire l'una. E si domandavano in nome dell'umanità, per concorrere al comun bene! Ed ecco poi le parole con cui l'editto conchiudeva: «Che se alcuno tra essi, sordo alla voce del suo Principe e dell'umanità (prima il Principe, poi l'umanità!), e non curando la vergognosa taccia in cui incorrerebbe presso i suoi concittadini, tralasciasse di contribuire in modo, proporzionato alle sue forze, ed efficacemente, all'esecuzione delle paterne nostre intenzioni, dichiariamo ch'egli non potrà in avvenire aspirare ai nostri favori, né conservare quelli già ottenuti, e che inoltre, seguendo noi la legge imperiosa del bisogno dei nostri sudditi, praticheremo i mezzi più pronti ed efficaci onde costrìngervelo».

Andate a trovare qualche cosa di più logico e di più coerente di questo editto!

E di questo genere proprio è lo spirito informatore di tutte le leggi, che oggi i ministri di Torino regalano all'Italia-affermando in un articolo ciò che deesi disvolere domani!

Altri editti stupidi e barbari furono emanati; il prestito fu dichiarato assolutamente obbligatorio,

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e i poveri Ebrei ne subirono le più dure conseguenze. Non sappiamo se fra' piu maltrattali ci fosse qualche antenato del famoso Jocob Dina, che si sbraccia tanto a difendere il governo di Torino- passato, presente e futuro-nell'Opinione!

Oltre ciò vi erano i lupi a desolare il Piemonte-ed il Brofferio dice che questo fu un regalo nuovo del Governo, come sono stati per le provincie meridionali i briganti.

I lupi cacciati dalla Svizzera lanciavano nel vicino Piemonte, che non avea guardia ai confini: il Governo, tutto intento a perseguitare i giacobini, non prestò orecchio agli avvertimenti che anticipatamente gli si fecero tenere.

Per darne un saggio, quasi incredibile delle persone che governavano la pubblica cosa, citiamo i seguenti fatti.

Un bando notificava che tre distinti premii verranno pagati a ehi riescirà di far preda uno dei PRELODATI LUPI. E dopo essersi caldamente raccomandato di dare opera allo sgombramento dalla provincia di sì implacabili nemici dell'uman genere, per l'amore della gloria, per la dolce soddisfazione di rendersi utili ai nostri simili, e la sicura condegna ricompensa dei ben intesi sudori, si ordinava che il cacciatore o l'armigero dovesse presentare la fiera all'ufficio, secondo il solito praticato.

Il Brofferio dice a proposito di questa ordinanza: «E fu ventura che questo prezioso documento non si smarrisse, perché. manifesta a quali ingegni stupendi venisse commessa l'amministrazione del Piemonte».

Ad ingegni di questa fatta il Piemonte ha preso

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tale abitudine ed affezione, che oggi esalta quelli che portano a precipizio le sorti d'Italia.

Ai lupi si aggiunsero i ladri-i quali un nuovo indulto, in occasione del ritorno di Maria Teresa, aveva ricondotti nelle pubbliche vie, e i furti, le depredazioni, gli assassini si succedevano con terribile alternativa.

Sapete cosa accadde, cosa dissero quei sommi ministri di Vittorio Emmanuele?

Che causa della carestia, dei lupi, dei ladri- e forse ancora della loro ignoranza e stolida bricconeria - erano i giacobini, i partigiani di Napoleone!

Si le pain est cher

C'est la faule à Voltaire -

Si à Parts manque l'eau

C'est la faule Rousseau.

E le ripetizioni di tali fatti sono passate sotto i nostri occhi, fatti che la malvagità ed il gesuitismo dei governanti ha fatto ricadere tutti sopra i mazziniani, gli uomini del progresso e dell'azione. Le tasse, gli abusi, le leggi Pica, le fucilazioni, la miseria, il malcontento sono tutti frutti voluti e fecondati dall'impazienza e dalle opere dei repubblicani. Gli uomini del potere ne sono affatto innocenti. E chi vuole convincersi di questa loro presunzione legga gli scritti dei pubblicisti moderati, malva, servi di chi li paga, sfacciati mentitori di patria e di libertà.

Insomma quel povero passato, quei sedici anni di sonno, furono pretesto a tutte le infami spoliazioni, alle vendette più vili, e più basse. Per liquidare verso il passato Governo si cominciarono

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a creare le solite Commissioni, le quali quel che siano solite di fare noi abbiamo pur troppo veduto!

Il regio erario fu ridotto poverissimo; e a rifornirlo il re credé dover creare un ministro delle finanze chiamandovi il marchese Gian Carlo Brignole, uno dei più fieri membri della repubblica di Genova. È sistema vecchio colassù, che i repubblicani passino, armi e bagagli, a godere i primi posti e i primi onori della monarchia - sia essa ultra-dispotica, sia coperta da una ridicola larva di costituzionalità.

I Farini, i La Farina, i Bastogi, i Gallenga, i Settembrini, i Venosta ne hanno oggi fornito immoralissimo esempio.

Quel fiero repubblicano si pose all'opera, non lasciò intentato alcun mezzo per raggiungere lo scopo: le finanze furono restaurate-«Il solo suo torto fu pensare al lucro del re dopo quello del ministro!!! Quanto ai cittadini, quel Genovese repubblicano fu d'avviso che già dovessero stimarsi fortunati di soddisfare ai bisogni della Corte!» - Cosi il nostro A.

E si parla dei ministri di Ferdinando 2.°, che dividevano col Re i risparmii del loro budget!

Il primo e più bell'atto del Marchese Brignole fu di sospendere tutti i pagamenti.

E dopo ciò tasse, e contribuzioni, e balzelli specie di roba, cui i nordici governanti hanno un'affezione, una passione tale che non si è smentita per volgere di anni.

Il Re -proprio il Re-ebbe a subire un giorno una grande umiliazione dall'ambasciatore di Russia.

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Il grande autocrate di Pietroburgo era rappresentato a Torino dal conte Koslowstk, uomo che segnavasi a dito per imponente corpulenza. Suo segretario d'imbasciata era il barone Potenkin, lungo, asciutto e gracilissimo di persona; quindi, si diceva che non potevamo essere meglio rappresentate la longitudine e la latitudine della Tarlarla. Non mancava di spirito il Moscovita, e benché nato sulla Neva non poteva celare il suo disprezzo per le stolidezze che vedeva in riva al Po. Un giorno, che il re facevagli udire il solito ritornello di aver dormito quindici anni: Sire- diceva il diplomatico - rtograziamo il cielo che non abbia dormito anche l'Imperatore di Russia, altrimenti Vostra Maestà correva gran rischio di non risvegliarsi sul Trono.

Non parleremo delle leggi. È cosa tanto mostruosa, tanto scellerate, che appena vi si presterebbe fede.

Con editti illogici si distruggeva ogni operazione eseguita sotto il governo di Bonaparte, le compro-vendite erano distrutte, le eredità manomesse, in qualunque posizione si ritrovasse l'erede. Da ultimo poi il governo s'immischiava nelle liti dei privati, ed esso era legge, codice, tutto- e i suoi favoriti avcano sempre ragione. E per dimostrare come questo sistema fosse continuato ora contro le malcapitate provincie meridionali, non citeremo che Io scandaloso affare Zuccaretti, nel quale il guardasigilli Pisanelli (avvocato di una della parti contendenti) con un decreto, firmato, per delegazione (sic) dal pazzo Farini, annullava le decisioni delle Corti legali, e spartiva l'eredità alla sua maniera.

Queste iniquità, queste scelleratezze senza nome, queste iniquissime spoliazioni

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- cominciate dapprima nel Piemonte sotto il nome di giustizia -si condussero innanzi sotto pretesto di grazia.

Funestamente collegati il conte Ceruti, presidente del Senato, e il Conte Borgarelli, succeduto al Vidua nel ministero dell'Interno, ebbero modo di strappare a Vittorio Emmanuele centinaia e centinaia di regie patenti, con le quali, nessun rispetto avuto né alle leggi, né alla giustizia, né all'onestà, si circoscrissero contratti, si infransero transazioni, si annullarono sentenze passate in giudicato, e si osò perfino di far pubblica facoltà a qualche nobile personaggio di non pagare per molti anni i proprii debiti, senza interessi!

Nel 5 di agosto 1816 il re, avocata a sé la causa ventilata fra il marchese Morozzo e il conte di Monesiglio, commetteva al conte Borgarelli di giudicarla di nuovo, non avuto riguardo alla sentenza già pronunziata dalla Corte di Appello!

Nel 12 di agosto dello stesso anno, il re restituiva in intero il Marchese San Martino della Morra contro Fatto pubblico da lui passato nel 3 agosto 1800 -e non ostante le diverse sentenze profertesi dopo il suddetto instrumento dal Tribunale di appello di Torino, da considerarsi in tal caso come non avvenute!

E di questi reali provvedimenti se ne potrebbero riferire a cento a cento, se la penna non rifuggisse dall'odioso uffizio, mentre queste rivelazioni non sariano che un elenco di nefandità.

Il re però volle cominciare ad ascoltare la voce del popolo, a dare qualche larghezza, e fra queste non ultima va annoverata la facoltà agli

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Ebrei di esercitare qualunque arte o mestiere, di uscire anche di notte, purché alle nove della sera fossero ritirati ecc. !

E queste grazie - che, con gli altri provvedimenti, il Brofferio chiama «atti di sfacciata insolenza, di stupido idiotismo e di selvaggia brutalità» - queste grazie si concedevano nel 1816 agli abitanti di una capitale italiana - e si concedevano seriamente!

E intanto continuavano i mali, continuava il susurro e dalla corte conlinuavasi a propalare che del terremoto, della folgore, delle petecchie, delle fiere e della carestia, erano causa i liberali, i giacobini! E già si udivano voci di vendetta, e sinistre minacce: e forse, per opera del governo piemontese, avremmo veduto replicate in pieno secolo decimonono le scene contro gli untori, accusati della peste di Milano nel secolo decimosettimo.

A tutto questo aggiungasi la regina, Maria Teresa d'Austria - fatale al Piemonte, come la sua omonima fu fatale a Napoli. - Nemica per istinto degl'Italiani, quella reina, non ad altro mirava che a sfogare contro di essi la sua antipatia, e la sete di arricchire. Dominando l'animo dello sposo, immense ricchezze ella cumulava, e facevate sparire dallo Stato. E intanto la gente cadeva morta nelle vie, sfinita di fame! E insaziabile essendo la sua sete d'oro, si faceva assegnare 9 milioni sulla Banca di Londra. Un tal fatto scandalizzò tanto, che il barone Valese, ministro degli affari esteri, osò parlarne in segreto al re, e poi farne motto anche al cospetto della regina. E alle sue osservazioni l'austriaca rispondeva:

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a Voi date troppa importanza all'uffizio vostro; per me un ministro non è altroché un servitore». Il Valese, a questa risposta, si dimise. Se fosse stato Marco Minghetti o Ubaldo Peruzzi, avrebbe composto il volto a più cortigianesco sorriso, e, più aggrappato al portafoglio, avrebbe ringraziata la Maestà Reale della verità che si era degnata dirgli.

Ci si è gridato - e ci si grida - la croce addosso, a noi Napoletani, dicendoci pinzocheri, bigotti, baciapile: si grida, perché siamo pieni di sottane e di cocolle; si strepita per le Chiese che qui abbondano, e s'impone l'ostracismo - 0 domicilio coatto alle Madonne ed ai Santi, che pacificamente se ne vivevano sulle cantonate delle vie.

Santo Dio! E ch'era mai il Piemonte-questo Piemonte oggi iconoclasta per libidine, anticattolico per progetto, irreligioso per convenienza? Era il semenzaio del fratismo, era il covo della superstizione; era tutto un intero convento di gesuiti!

Oggi, in Napoli, convertono in caserme ed ospedali i conventi: nel 1818, per alloggiare i frati e le monache in Piemonte si era andato bel bello convertendo i collegi, gli ospedali e molti altri stabilimenti pubblici di prima utilità in conventi ed in monasteri!

Quanto ai gesuiti, esordirono essi del Piemonte il 1818, e con modeste apparenze. Pareva non avessero volontà alcuna di partecipare al pubblico insegnamento, e si contentavano quietamente di aprire un privato convitto di giovani alunni. Poco per volta: da Novara si condussero a Vogherà,

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a Nizza, ad Aosta, a Ciamberì, a Genova, e pi|n che altrove a Torino. P09I0 piede nella Capitale, vi ottennero da prima il il convitto del Carmine, poi il collegio di S. Francesco di Paola, poi la Chiesa dei Santi Martiri, sino a che si resero dominatori assoluti della istruzione piemontese, e non vi fu scolastica disciplina, che direttamente o indirettamente non si trovasse sotto la loro dipendenza. E ciò narra il Brofferio, il quale segue a dirci che, usando i soliti maneggi, divennero i gesuiti trapotenti a corte. I nobili, per piacere al Re, si affrettarono a commettere l'educazione dei loro figliuoli ai Padri della Compagnia di Gesù. I giovinetti furono facilmente sedotti; dai fanciulli passò la seduzione nei genitori; e a poco a poco lo spiritò gesuitica s'insinuò dal convento nella reggia, dalla corte nell'aristocrazia, dalle scuole primarie nell'università, dall'ordine amministrativo nell'ordine giudiziale e non andò molto che nobili preti, impiegati, legisti, medici e tutti, gli attinenti o gli aspiranti al governo assunsero il costume, lai favella e il contegno dei gesuiti.

Noi narriamo storia, e non facciamo paragoni; se noi dicessimo che anche oggi questo spirito gesuitico impera sovrano lassù, i fogli in linea ci griderebbero la croce-eppure non asseriremmo cosa lontana dal vero.

In questo stato di cose continuossi a vivere in Piemonte. Era una situazione impossibile; era un barbarie di cui non si ha riscontro, Intanto cominciava a sorgere in Italia la setta dei. Carbonari, la quale trovò affiliati io Piemonte, specialmente nelle milizie, ove gli antichi ufficiali

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di Napoleone mal soffrivano il giogo dei comandatelli di corte.

Cominctavasi in quel tempo a balbettar nella penisola la parola Italia: ma in Piemonte questa parola non trovava molto eco. Il Brofferio, che è piemontese, confessa: «Era una dolorosa verità che sino allora si consideravano i Piemontesi come un popolo separato dall'Italia. Italiano chiamavano essi un Toscano, un Veneto, un Romano: un Piemontese era piuttosto un Francese, un Savoiardo che un Italiano, e avrebbero veduto con indifferenza levare il Piemonte dalla carta geografica di qua dall'Alpi, per collocarlo al di là del Cenisio». E di fatti Nizza, italiana, la cedettero, con un sorriso alla Francia quaranta anni dopo, e le Alpi non furono più italiane! E, poiché non si cessa di ripeterci avere il Piemonte imposta l?italia alle altre provincie, è da notare come in quel tempo Napoli avesse già compiuta la sua rivoluzione, scacciato Ferdinando IV, e la parola Italia era sulle labbra di tutti! E che faceva allora il Piemonte?...

Mentre qui, fra noi, la rivoluzione trionfava, erano i liberali di Napoli che facevano fare propaganda in Piemonte: altre della milizia, che accettava le nuove idee, gli studenti ancora le abbracciavano. Ma una sera che nacque diverbio in teatro fra birri e studenti, la città di Torino ebbe ad essere teatro di quelle scene di orrore, onde fu qualche volta minacciata anche Napoli, quando i suoi indolenti cittadini, ignoranti della storia piemontese, permettevansi di scendere in piazza a gridar Viva Garibaldi.

Gli studenti adunque avevano domandato la

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escarcerazione di quattro giovanotti, presi dai carabinieri in teatro. Il Conte Balbo, ministro andò agli studenti, li calmò con paterne parole, e promise giustizia presta.

È ad un Piemontese, al Brofferio che ora noi cediamo la parola per la narrazione di una scena di orrore. Noi potremmo essere tacciati di esagerazione:

«Uscito il ministro dall'Università, gli studenti cessarono dagli strepiti, come aveano promesso; solo posero qualche scolta alle entrate principali per stare in osservazione, e, riposando nelle parole di Balbo aspettarono una favorevole risposta.

La risposta non tardò ad arrivare.

Stavano per suonare le ore otto della sera, allorché due battaglioni del reggimento Granatieri Guardie si ponevano in marcia a passo di carica, e incrociavano le baionette contro un piccolo stuolo di ragazzi che schiamazzavano nelle scuole.

Gli studenti diedero mano alle pietre, e fu percosso qualche soldato. Ciò bastò perché il fiero governatore (Revel) desse ordine ai granatieri di atterrare le porte, e di far impeto contro gli assediati.

L'ordine fu eseguito fra il suono dei tamburi e le grida, di Viva il Re Dalle interne gallerie si fece ancora qualche debole resistenza; ma ben tosto furono superate le facili barriere, e le armi dei soldati Piemontesi cominciarono a bagnarsi di sangue Piemontese!

Non furono tuttavolta i soldati quelli che si macchiarono in più gran copia dello strazio di

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pochi e disarmati giovinetti; si recarono a gloria parecchi ufficiali di seguitare i passi del governatore, per far pompa sotto gli occhi suoi di devozione alla assoluta monarchia; e fu dalla mano di costoro che vibraronsi i colpi più micidiali.

Vedendo questi campioni del trono che i soldati avevano ribrezzo a trafiggere inermi e supplichevoli fanciulli, spingevanli essi alla strage colla voce e coll'esempio.

Si vide quei cannibali, indegni del nome di ufficiali piemontesi, alzare implacabilmente le sciabole sopra i fuggitivi e divertirsi a far macello degli innocenti; si videro molti di quegli infelici strascinati pei capelli giù per le scale che irrigavano del loro sangue; di sotto alle panche, alle tavole, alle ringhiere, venivano tratti per le gallerie e sfatti bersaglio alle sciabole e alle baionette: neppure nella chiesa, neppure sull'altare di Cristo, dove alcuni di quei miseri si rifugiarono, venne usata misericordia: i sacri arredi e le sacre ostie furono contaminate dalla mano dei manigoldi, e bebbero il sangue dei martiri!

Mentre ai consumava il barbaro attentato, si ebbe a scorgere, come a Dio piacque, qualche generoso atto. Si natta che il colonnello Ciravegna riuscisse a salvare dall'eccidio più di una vittima, facendole scudo col proprio petto. Corsa pur voce che facessero pietoso uffizio il cavaliere Olivieri, il cavaliere Colebiano e Celare Balbo, il figliuolo del ministro.

Spuntarono i raggi del nuovo giorno a illuminare una scena di orrore; la città piena di costernazione,

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l'Università inondata di sangue, l'ospedale ingombro di feriti e di moribondi. Si riferita che nella notte fossero occultati molti cadaveri, benché con se ne avesse certa prova; ma ciò che non poteva spiegarsi era questo, che gli ammalati aveano tutti chi cinque, chi otto, chi dieci ferite: un giovine di sedici anni, chiamato Giaccone, ne aveva quattordici; e tutte ferite di sciabola, quasi ciascuna di baionetta; la quel cosa chiaramente dimostrava che i veri carnefici erano appunto quelli a cui correva maggior obbligo di umanità.

Un grido di esecrazione si levò per tutta la capitate. Non vi fa che un solo accento per chiamare sul capo del governatore il sangue versato; e il conte Balbo ebbe d'uopo di tutta quanta la fama di probità negli scorsi anni acquistata per difendersi dalla universale maledizione.

Gli officiati che lordarono le mani, nel sangue degli studenti furono pubblicamente segnati a dito, e con ribrezzo guardati. In poche ore si diffuse per la capitale un elenco dei principali manigoldi, dei quali dovrei tramandare alla storia gli odiosi nomi; ma l'ora solenne della battaglia e la suprema necessità di italiana concordia mi impongono il silenzio. Sappiano tuttavia costoro che, se in tempi funesti non giova né legge né forza a contenere i ribaldi, non manca pur mai contro di essi il giudizio dei posteri e il grido dell'umanità.»

Noi non ripeteremo la storia fatale dei moti del 1821 in Piemonte - e il tradimento di Carlo Alberto.

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Sono cose oramai note a tutti; noi le abbiamo già accennate in queste rivelazioni.

Le crudeltà del reggente Carlo Felice son cose però che commuovono. Furono poste a prezzo infame, dal conte Thaon Revel di Pratolongo, le vite degli ufficiali che avevano voluto amar la patria- come s'è posta a prezzo oggi la vita dei masnadieri Caruso e Crocco

Il Piemonte, secondo il Brofferio, era già - grazie a. Villoso Emmanuele - diventato «una terra di orbi, di ipocriti, di raggiratori e di ladri». E con ciò ecco, come li trattava il loro carissimo Re.

Dopo aver detto che riponeva tutta la sua confidenza negli Austriaci, suoi alleati, così proseguiva in un proclama:

«II primo dovere d'ogni fedele suddito essendo quello di sottomettersi di vero cuore, agli ordini di chi trovandosi il solo da Dio investito dell'esercizio della Sovrana Autorità, è eziandio il solo da Dio chiamato a giudicare dei mezzi più convenienti ad ottenere il vero loro bene, non potremo più risguardare come buon suddito chi osasse anche solo mormorare di queste misure (le taglie, le fucilazioni, ecc.) che noi crediamo necessarie.

Nel pubblicare, a norma della condotta di chiunque, questi nostri voleri, dichiariamo che solo con la perfetta sommissione ai medesimi i Reali sudditi si possono render degni del nostro ritorno.»

I soliti tribunali militari, le Giunte - delizie che oggi ampiamente sono state regalate alle provincie Meridionali - furono messe in pieno vigore.

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A soddisfare - diceva un bando-la vindice giustizia, non basta l'esecrazione netta quale sono e saranno i colpevoli, ma la stessa giustizia deve chiederne altamente la punizione! Quale giustizia? La sciabola - unico arbitro, unico Dio!

I magistrati regolari furono sottoposti al potere militare, ed obbligati di firmare ogni condanna, che fosse contro legge e giustizia! «Come potessero, osserva l'A., onorevoli magistrati, che chiamansi oracoli della giustizia, farsi odiosi strumenti di militari violenze, forse alcuno meraviglierà; non io, che bo veduto in tutti i paesi la magistratura servire alla forza.»

Non noi - aggiungiamo - che viviamo nelle Provincie Meridionali d'Italia, e vediamo da magistrati (salvo rare eccezioni) calpestata ogni giustizia ed ogni diritto per ingraziarsi un potere arbitrario e dispotico, che si larva dietro un'assurda costituzionalità! E basterà citare il fatto del medico Rastelli, assoluto del delitto di aver applicata la tortura al mutolo Cappello-cosa che ha commosso in Sicilia sino i più moderati, i corifei dei Corriere Siciliano!

I poveri ufficiali stavano tra il battesimo austriaco e la cresima delle regie Commissioni: così se ne fece un'ecatombe che rimarrà perpetuo monumento d'infamia! Bene inteso-coloro che massacrarono i fanciulli nelle vie di Tortino ebbero premio ed onori come oggi gli Ebberard e compagni, che han curata la renitenza dei Siciliani colla sete, col fuoco e con la tortura!

Gli studenti, che aveano creduto alla buona fede di chi tradiva, vennero per legge retroattiva

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spogliati dei gradi che avevano a buon diritto conseguiti alla Università!

Carabinieri, commesarii, sbirri e spie furono i veri sovrani in Piemonte.

«Il trionfo dell'intelligenza, esclama il Brofferio, era compiuto!»

Il Luogotenente Revel si rivolgeva al popolo (!!) evocando l'universale indignazione, pel nero tradimento e le criminose sommosse d'un branco di malvagi!

I poveri impiegati anche furono designati al macello. Per tutto furono create Commissioni inquisitoriali, che si posero all'opera immediatamente a servire il Re colle denuncie, colle accuse, colle confische, col patiboli.

«Gl'inquisitori (lasciamo all'A. la parola) che ebbero incarico di esaminare la fedeltà degl'impiegati civili e militari, si meritarono ordini cavallereschi con le centinaia di rimozioni, di spogliamenti, di degradazioni, mercé le quali molti poveri cittadini vennero gettati senza pane in mezzo alla via, molti onorati padri di famiglia furono privati di sostentamento, e ridotti con la moglie e coi figliuoli all'ultima disperazione. Del che migliaia e migliaia d'esempii si sono ripetuti nelle Provincie Meridionali dal 60 finoggi!

«Ma questo - segue l'A. - è poco a confronto dei sanguinosi trofei della militare Delegazione, che nella Università rappresentava il Santo Uffizio. Sua prima impresa fu decretare la confisca, e porre sotto immediato sequestro tutti i beni di coloro che erano o sospettavansi liberali!!!!

«Né per queste estorsioni migliorarono le condizioni economiche dello Stato!».

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Il governo Costituzionale, che durò in Piemonte qualche mese, intento a sollevare la classe indigente, diminuiva la tassa del sale e alcuni dazii sul vino. Provvedimento parve questo empianente rivoluzionario, e tasta e dazii furono ristabiliti!

Partendo i Costituzionali rispettarono il pubblico tesoro le regie casse trovaronsi bastevolmente provvedute. Non si mancò tuttavolta di sparger voce che i ribelli avevano tutto tavolato. Da ciò si dedusse urgente necessità di soccorrere alle Finanze con onerosa imposto sopra le successioni indirette; imposta ohe si dichiarò transitoria, e dura ancora.

Facean ribrezzo queste avare leggi; ma le enormità della militare Delegazione vennero beo tosto a distogliere l'attenzione dell'oro per chiamarla al sangue.

Avea incarico dell'istruzione processuale il senatore Tacchini, uomo che udiva in supremo grado le tre distinte qualità di agente fiscale, di commissario di polizia e di guardiano di carcere.

Non era odioso uffizio, dal quale rifuggisse Tacchini per consegnar vittime al manigoldo. Tutto in Tacchini era degno dei tempi e degli uomini a cui serviva; persino il nome.

Sebbene i principali accusati si fossero collo esilio sottratti al patibolo, quotidiane erano le perquisizioni, quotidiane le denuncie, gli arresti quotidiani. Rigurgitavano le carceri, le vie erano ingombre di fuggitivi, i nascondigli popolati erano di contumaci; in tutte le famiglie regnava la costernazione, in tutte le case la diffidenza, in tutte le città lo spavento.


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La capitale, principalmente si era cangiata in solitudine di dolore e di pianto. Tutti quelli che da prepotente necessità non erano costretti e rimanersi fra il Po e la Dori, fuggivano le tetre mure convertite in officina di insidie, in covile di sgherri, in antro di delazioni.

Ad ogni passo incontravansi persone che si guardavano alle spalle, che a destra e a sinistra si volgevano con inquieto ciglio, e guai se passava troppo da vicino qualche carabiniere, guai se si vedeva spuntare qualche usciere di polizia o qualche guardia del Vicariato!... E poco giovava non avere personalmente partecipato alla rivoluzione, perché qualche atto vivace, qualche parola imprudente bastava alle inquisizioni, e raro eccedeva che un cittadino, sicuro per sé, non avesse un fratello, un congiunto, un amico per cui trepidar non dovesse.

Né ciò avveniva soltanto in Torino. Tutte le città, tutti i villaggi, tutti i casali del Piemonte percossi erano dal medesimo flagello.

Una vasta rete di polizia avvolgeva tutte, senza eccezione, le provincie, i Governatori, i Sindaci, i Comandanti, i Giudici, i Prefetti, gli Intendenti 0 persino i Vescovi gareggiavano fra loro a servire il Governo nella sua gran mole di persecuzioni cittadine.

Il conte Ilarione Petitti, intendente in Asti, era sopra tutti infaticabile.

Cominciarono nei primi giorni di maggio a emanare sentenze di morte; e lontani essendo i condannati, le sentenze si eseguivano in effigie: schifosa eredità di quei codici.

Ebbe i primi onori il cavaliere Pavia luogotenente nei Cavalleggieri di Savoia.

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Tennero a lui da presso Ansaldi, Santa Rosa, Regis, Lisio, Rattazzi, Collegno, Perrone, Dal Pozzo, Pacchiarotti e l'autore dei Canti Italici Amedeo Ravina, e il compilatore della Sentinella Subalpina Giuseppe Criveli, e il Biellese pubblicista Giovanni Marocchetti, e l'eroe di San Salvarlo Vittorio Ferrero.

Molte vittime ebbe pure a compiangere l'Università degli studii, particolarmente nella classe dei Prefetti e dei Ripetitori. E più ne ebbe il Collegio delle Provincia.

L'avvocato Carlo Massa d'Asti, ripetitore di legge nel Collegio delle Provincie, era il più dotto, il più studioso e il più specchiato giovine del suo corso. In tutti gli scolastici arringhi ottenne sempre i primi onori.

Ardente di libertà recavasi con molti suoi allievi a San Salvario, sosteneva la terribile prova nel mattino dell'11 marzo accanto al capitano Ferrero, e da Torino in Alessandria chiamava con infiammata parola il popolo alle armi. Tutto questo lo rese degno della forca, a cui venne condannato con sentenza del 28 di settembre. Buon per lui che, a tempo rifugiato nel Canton Ticino, non lasciava al carnefice che il suo nome e e il suo simulacro.

Francesco Tubi, avvocato collegiato e prefetto di legge, uomo dottissimo e tenuto in conto dalla gioventù di amoroso padre, compagno nella giornata di San Salvario a Massa, a Fechini a Carta a Rossi, a Gillio, a Barbaroux, medici e avvocati di egregie speranze, fu pure a tutti compagno nella confisca, nell'esilio, nella galera e nel patibolare cartello.

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Poco mancò che Tubi non fotte colto, e che la sua sentenza non avesse personale esecuzione. Stando in Oleggio, sua patria, veniva avvertito in piazza che due carabinieri lo seguivano per arrestarlo; e in effetti già gli stavano alle spalle.

Non essendo lontana la chiesa, Tubi, che era prete, si rifugiava in sacrestia e i carabinieri ponevansi a custodia delle porte.

Tubi allora faoea suonare le campane, ordinava il Santo Viatico, vestiva la stuola, intuonava il salmo e seguitato da devoto popolo, portava il pane del Signore ad un ammalato.

I carabinieri non osano mettere le mani sopra un ecclesiastico nell'atto che porta la Sacra Ostia, Io adocchiano, lo seguono, e pongonsi a sentinella sulla porta delta casa dell'infermo. Certi della preda, i carabinieri aspettano il termite della religiosa cerimonia, ma Tubi, che è pratico della casa, affrettasi a deporre i sacerdotali arredi, e per una porta secreta si mette in salvo.

Il vescovo d'Asti, Antonino Faà, commosso dallo spettacolo di una trionfante rivoluzione, dettava una pastorale per esortare il popolo all'osservanza delle leggi Costituzionali. E la Diocesi Astigiana faceva riverente plauso alla ispirata parola del suo Pastore.

Bastò questo perché il buon Vescovo fosse messo in arresto nel convento dei Cappuccini, e dovesse dal pulpito far pubblica ritrattazione per avere troppo amata l'italica patria.

Alcuni parrochi furono per lo stesso delitto carcerati, espulsi o spogliati del benefizio. Cosi e pretese immunità della Chiesa, di cui si fa

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tanto scalpore contro il governo dei popoli, sono rispettate dai dispotici governi! E imparino i liberali.

Cristofaro Baggiolini, ripetitore di Belle Lettere, autore di lodate opere storielle e drammatiche, era nel Collegio delle Provincie il più eletto cultore delle Muse. Benché sul fiore della giovinezza, già si era distinto nelle guerre Napoleoniche sui campi della Beresina; e nella riscossa dell'Italia si mostrava sollecito a servire la patria colla penna e colla spada. Un'operetta popolare; - Il Carbonaro Piemontese - e la parte che egli prendeva alla Federazione Universitaria, non che alla infelice spedizione contro Novara, lo resero degno della galera perpetua.

Gli affanni dell'esilio, per quanto lunghi e crudeli, salvarono, come ho già avvertitola maggior parte dei condannati dal nervo, dalle galere e dalla corda dei patiboli. Ma tutti non ebbero egual ventura e il seppero per loro mal costo il sottotenente Eugenio Moda, il tenente nei Carabinieri Giovanni Battista Laneri e il capitano nella brigata di Genova Giacomo Garelli, condannati, il Moda a perpetua galera, il Garelli e il Laneri a morire per mano del boia.

Il sangue di Laneri e di Garelli fu destinato a lavacro delle idee liberali del 1821. Tradotti nelle carceri di Torino, serbaronsi entrambi a feroce spettacolo della plebaglia della capitale; e la ciurma non mancò di accorrere nel 21 di luglio e nel 25 di agosto a godere della sanguinosa festa che le veniva imbandita.

I due martiri seppero morir degnamente. Sì l'uno che l'altro furono più di una volta

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lusingati che il popolo si sarebbe opposto alla esecuzione della loro condanna. Laneri aveva pillole di arsenico per sottrarsi al patibolo, e si trattenne da inghiottirle perché gli era data certezza di popolare sollevazione. Infelici! Nei momenti supremi della morte, e in cospetto della stupida curiosità che li scompagnava al supplizio, sa Iddio quanto sarà stato terribile ii disinganno! Speriamo che, alzando gli occhi, avranno lasciato questa ingrata terra col perdono sulle labbra e colla pace nel cuore!

Mentre sotto pii auspizii del conte Revel e del barone Della Torre funestavasi il Piemonte coi trionfi del patibolo, a Napoli sotto gli auspizii del Canosa compievano atroci esecuzioni, da cui rifugge il pensiero.

A Milano seguivasi lo stesso metro. Nessuna sollevazione avea loco in Lombardia; ma gli Austriaci sapevansi odiati, e non tardavano a scuoprire gli occulti apprestamenti dell'Italiana Federazione. Torresani e Salvotti presero ad emulare Canosa e Tacchini; cominciarono le condanne. Gioia, Pellico, Rezia, Monpiani, Confalonieri, Canova, Maroncelli, Oroboni, Fortini, Borsieri, Moretti, Riboni e moltissimi altri convinti di amar troppo la patria, si tennero dietro a poca distanza dalle sbarre di Santa Margherita ai Piombi di Venezia, per terminare nelle agonie dello Spielbergo, di cui il nome fora lungamente ribrezzo all'umanità.

Tuttavolta gli Austriaci, non. meno efferati che scaltri, mentre spingevano Piemonte e Napoli al sangue, mostravano abborrenti in Lombardia da capitali supplizio. Per tal modo sarebbero riusciti,

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secondo il vecchio costume, a versar l'odio delle politiche esecuzioni sui Principi Italiani, se Pellico e Maroncelli non avessero rivelato all'Europa che accanto allo Spielbergo era pietà la mannaia, misericordia la forca.

Intanto Carlo Felice se ne stava oziando nel ducale palazzo di Modena, dove i suoi buoni congiunti lo rallegravano con lauti pranzi, con piacevoli giuochi e con notturne melodie

Ad ogni notizia che gli perveniva da Torino di accuse, di confische, di condanne, di arresti, di patiboli, scriveva lettere di congratulazione ai Della Torre, agli Andezeno, ai De Maistre, ai Cavasanti; e la Gazzetta officiale si affrettava a render nota ai Piemontesi la Reale soddisfazione!!

Ordinavansi ringraziamenti a Dio per avere al Piemonte accordato cosi buon Sovrano; i magistrati nei pubblici atti, i soldati in caserma, i preti in chiesa, i professori nelle scuole, i giudici nei tribunali, i dotti nelle accademie non cessavano di vantare la bontà, la dolcezza, la clemenza del Sabaudo Sire. Fu grande la codardia officiale, ma fu più grande la giustizia del popolo. Una cupa voce si alzò dal seno della moltitudine, voce terribile, indarno vegliata, soffocata indarno, da cui si raccolsero queste parole; - Re Carlo Felice, tu giudichi gli altri, e già tu stesso sei giudicato. - E lo fu veramente. Da quell'ora Felice no, ma FEROCE lo dichiarò il Piemonte. E la dichiarazione non si è cancellata mai più. Cosi il Brofferio.

Poiché si era a sazietà arrestato, processato e condannato; poiché spogliavansi impiegati, uffiziali

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e studenti per devozione al despotismo non cognitissimi; poiché si gravava lo Stato di imposte, il paese di catene, e convertivansi le città in uffizi di inquisizione e le domestiche pareti in dolorose solitudini, parve a Carlo Felice fosse tempo di restituirsi nei fortunati suoi dominii.

Il carnefice si trovava ornai senza impiego, il birro sì accorgeva di aver d'uopo di riposo, l'usciere chiedeva le sue vacanze, l'agente di polizia si sentiva stanco di allori; quindi era propizia l'occasione di una generale amnistia che servisse di preludio al ritorno del Sovrano.

E l'amnistia fu promulgata. Ma quale disinganno. per coloro che avevano qualche ultima speranza nella Sovrana misericordia!

Fu come l'amnistia concessa ai Napoletani, non è guari, per la quale si usciva dalle carceri per andate in domicilio coatto! Insomma sempre il medesimo sistema!

Il sospirato Reale Editto del 30 di settembre parlava di paterno cuore, di somma beneficenza e dichiarava di venir portatore di pieno indulto: ma tante erano le apposte eccezioni, che il pieno indulto diventava una crudele derisione.

Si esclusero dal benefizio dell'amnistia i capi, gli autori o promotori dette congiure o sommosse per procurare lo sconvolgimento del Governo. Si esclusero parimente coloro, nelle case dei quali si tennero adunanze per concerti rivolusionarii; coloro che con denaro, lusinghe o promesse smossero o tentarono di smuovere la fedeltà dette truppe; coloro che, preposti all'istruzione, fecero traviare la gioventù; coloro che con scritti stampati o no promessero l'introduzione di nuove forme di governo;

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coloro che si opposero alla promulgazione dei bandi del Re dettati da Modena; coloro che si dichiararono capi, direttori o membri della Federazione Italiana; coloro che assunsero militare comando per promuovere o sostenere lo sconvolgimento; e finalmente coloro che per promuovere o sostenere lo sconvolgimento si fossero resi colpevoli di omicidio, di estorsione di danaro dalle casse pubbliche o comunali, o di imposizioni arbitrarie, contribuzioni ai comuni o ai particolari.

Contro tutti questi, cessata la Delegazione militare, si mandò a continuare i procedimenti dai tribunali ordinarii; e, fatti bene i conti, si trovò che tutti gli accusati politici trovavansi compresi o in questa, o in quella, o in quell'altra delle summentovate categorie. Somma totale, col pieno indulto e perdono, non si perdonò ad alcuno.

Più avventurati furono i rei di delitti ordinarii, ai quali la Sovrana Clemenza con altro decreto del medesimo giorno si mostrò sopramodo liberale. Implacabile verso gli accusati di politiche illusioni, la Real Grazia fu indulgente agli omicidi, ai masnadieri, ai falsari, ai ladri.

Spedita innanzi questa doppia amnistia, Carlo Felice volle pur farsi precedere da un clamoroso bando, in cui partecipava ai fedeli sudditi di volersi finalmente arrendere ai loro caldi voti; e la grazia che faceva era grande; consentiva di regnare!

Poi volgendo il discorso ai sacerdoti, ai magistrati, ai militari; agl'impiegati, ai padri di famiglia, invitava tutti quanti a far guerra incessante alle dottrine dei ribelli, ai raggiri dei sediziosi,

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e conchiudeva-Ritorneranno così i tempi avventurati in cui, disprezzate le ingannevoli e perverse teorie dei giorni nostri, imperava il vero principio che la religioni, i buoni costumi, l'affetto paterno del Re, l'obbedienza e la devozione dei sudditi sono le sole basi immutabili della felicità dei popoli. -E chi ha gustato di questa felicità sa quanto sia invidiabile!

Salutato famigliarmente in Alessandria dall'austriaco Bubna, dirigevasi il Re alla sua villa di Govone, e, fattavi breve dimora, entrava in Torino nel 18 di ottobre, ,

Non mancarono i soliti officiali complimenti, e gli archi, e le iscrizioni, e gli indirizzi, e le illuminazioni. Ciò che mancò fu lo gioia cittadina; e per quanto si avesse cura di far capitare a Corte ogni giorno qualche ordinato Comunale, con lunghe amplificazioni di amore, di fedeltà,di ossequio, il silenzio del popolo manifestava troppo altamente il lutto della nazione. Fu insomma uno di quegli, erntsiasmi spontanei, ai quali ci siamo abituati un po' anche noi, e dei quali abbiamo ammirato delle descrizioni, assai belle in certi storiografi di corte, a tanto per linea.

Il Corpo Decurionale in toga magna recavasi a incontrare il Re in capo al Ponte, e dopo un comico discorso gli presentava umilmente le chiavi della città. Il signor Colonna di quei tempi doveva essere ben curioso!

Neppure in questa occasione, credette il Re di stendere un velo sul passato e di ricevere gli omaggi dei Torinesi con riposate parole. La risposta che fece, alla Città è questa:

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- Sono persuaso della sincerità dei sentimenti della Città di Torino a mio riguardo, e spero ohe per l'avvenire i suoi abitanti si studieranno a riparare col loro perfetto sudditizio attaccamento e col loro zelo pel servizio del Re allo scandalo che pur troppo un numero di scellerati ha commesso fra le sue mura. -

Dopo queste care e preziose parole (qui ci sia lecito di copiare la Gazzetta Ufficiate) il Re e la Regina passarono nei Reali appartamenti; entrati quindi nel gabinetto di udienze, si compiacquero di ricevere le Dami Eccellenze, e di trattenersi qualche tempo con esse.

Tra queste vicende moriva Napoleone 1.° La Grecia allora si sollevava. Il Piemonte affrettavasi ad abbracciare la causa del pelo e della mezzaluna. Anche oggi esso è caro ed accetto al Turco, per quanto nemico del Papa. Ai Greci, che volevano riacquistare alla patria la gloria antica, la gazzetta ufficiale piemontese dare i titoli di pirati e masnadieri; non altrimenti essa trattava i seguaci di Garibaldi tanti anni dopo!

In questo i sovrani riunivasi a Verona, per dare l'ultimo suggello all'ordine da essi stabilito in Europa. Carlo Felice, per dare al suo piccolo personcino l'importanza della rana che voleva emulare il bue, anche v'accorse -ed ebbe a grazia di sentirsi lodare dall'Imperatore di Russia per la eccellenza dei tartufi di Piemonte, dei quali egli - in mancanza di meglio - avera avuto l'ingegno di portare con sé una buona provvista.

Glorioso e trionfante -dice il Brofferio - tornava Carlo Felice dal Congresso di Verona:

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glorioso per te nuove repressioni di ogni mal seme di liberali; trionfante, per le vittorie dei tartufi d'Asti sopra la Russia, la Prussia e l'Inghilterra.

Trovando svelta ne' suoi Stati ogni radice di libertà, e non udendo che proteste di sudditanza, che parole di servitù, il buon Re si abbandonò con gran cuore ai piaceri e agli ozii di Corte per cui si creato e venuto al inondo.

Passava quanto più tempo gli era conceduto alle ville di Govone o di Aghe, dove squisitamente assaporava le deltizie della tavola, dei fuochi, delle serenate e dei placidi riposi.

Fuggiva le occupazioni quanto poteva meglio. Le smorfie di Corte gli recavano tedio. Non ora mal tanfo di cattivo umore come nei giorni dei bacia-mani, stupido e abietto omaggio, non meno per chi lo porge che per chi lo riceve.

Era cosi nemico del lavoro, che gli era greve persino di porre il nome sotto i Reali decreti. I ministri, che il sapevano, avean cura di presentargli molti provvedimenti in un solo atto perché bastasse una sola firma.

Da qualunque novità fieramente aborriva. Il conte Gloria gli parlava un giorno dello stabilimento di un museo patologico - Che Museo! - rispondeva Carlo Felice: Museo più, museo meno, i dottori ci ammazzeranno sempre. E non si parlò più di patologia.

A Torino non mancava mai di assistere all'opera o alla commedia. L'opera in carnevale essendo lunga, si faceva portare verso la metà dello spettacolo sottilissimi pani ghiottamente conditi, che divorava bel bello in cospett del pubblico.

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Al teatro drammatico non voleva mai né tragedie, né lacrimose rappresentazioni. Comandava che lo divertissero; e per divertirlo bisognava farlo ridere. La farsa intitolata l'Orso e il Boscià era l'opera sua prediletta

Un bell'ingegno spargeva una sera molte centinaia di viglietti nel teatro di Genova con questa iscrizione:

Carolus Felix Rex theatrorum

Dissimile da Vittorio Emanuele che vestiva sempre l'abito militare, Carlo Felice solea portare un largo cappello tondo e un larghissimo pastrano che non cambiava mai

Le parate soldatesche lo annoiavano; disturbavamo in modo le esercitazioni a fuoco, che nemmeno pel falò di san Giovanni voleva festive archibugiate in piazza.

Quando alcuno gli parlava di militari allestimenti, crollava la testa e diceva: io ho un esercito di cinquecento mila uomini mantenuti dall'Imperatore e alloggiati a Vienna!!!

Non meglio dei soldati quel pacifico Principe amava i preti; e aveva questo di buono, che molto mal volentieri sopportava i frati. Pochi conventi si stabilirono sotto il suo regno; i Gesuiti lo guardarono sempre di mal occhio, sebbene avesse a confessore padre Grassi: apostolo di Lojola.

Ciò non impedì che costoro, bel bello andassero ponendo radice in molte parti dello Stato, e si pigliassero in Torino la direzione del Collegio delle provincie. Nel foglio ufficiale narrandosi, in encomio del Governo, i progressi della Sardegna,

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si notavano queste parole. - La tranquillità di cui, grazie al cielo, godiamo da diversi anni, permette al Governo di migliorare le nostre cose interne. Da due mesi si, lavora con grande attività alla costruzione di tre grandi strade per facilitar la comunicazione fra i principali punti dell'isola. Si dice che debbano venir tori dalla Lombardia e stalloni della Barberia per, migliorare le razze indigene. Colla istituzione dei Carabinieri Reali fu perfezionato il ramo di Polizia. Colla ripristinazione poi dei Gesuiti, che si va disponendo, si preparano gli incalcolabili vantaggi del miglioramento dell'educazione. - Così Carlo Felice migliorava gli Stati Sardi, promovendo con bella gara Gesuiti, Carabinieri, tori Lombardi e stalloni di Barberia.

Se i Napoletani avessero letto la Storia del Piemonte, non avrebbero meravigliato di vedere la giustizia trasformata in cosa da burla, e i codici soppiantati dal fucile-L'arbitrio, come abbiam dimostrato, fu in Piemonte sempre in pieno vigore; e questo attuale governo liberale non è che una riproduzione dr quello dispotico e neroniano di Carlo Felice.

E nel dire neroniano crediamo di aver trovata la giusta parola-Carlo Felice, per quanto iniquo e tiranno, secondato da iniquissimi ministri, era pertanto amantissimo dei piaceri, come l'antico Imperatore di Roma-e delle cose dello Stato, come innanzi fu detto, amata assai poco occuparsi, preferendo le donne del teatro, ed ogni genere di volgarissimi diletti, purché non lo si funestasse con cose di governo. Ancora le cerimonie di corte lo annoiavano, tanto che una volta, fu veduto scendere dal trono, e tirarsene via nel più bello, ricevendo i soliti complimenti dei magistrati e dei grandi del regno

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-In conclusione, diceva egli, non sono Re per essere seccato. Purché gli contassero a tavola che s'erano fucilati dei liberali, confiscati i loro beni; perseguitate le

famiglie, egli faceva viso allegro, e beveva alla salute dei suoi cari Tedeschi. Era insomma, per certe cose, il vero Re bastone, il Re citrullo, il Re fénéant, portato alle stelle, levato a cielo da certi odierni panegiristi di ogni sciocca persona, di ogni bassissima cosa

Così durò egli nel regno.

L'amministrazione della giustizia -dice il solito A. che seguiamo in queste rivelazioni - era abbominevole. Per ogni specie di controversia esisteva un Tribunale di eccezione (cosa ripetuta con vivo compiacimento oggi); i giudici stendevano la mano alle sportule dei litiganti; i tribunali di prima istanza componevansi di un Prefetto che giudicava con potere assoluto; una grande confusione regnava nelle giudiziali competenze; la curia era un laberinto, la magistratura una torre di Babilonia, la legislazione un caos!

Noi riferiamo queste cose, -e ci pare di scrivere la storia dei nostri tempi!

Intanto i moti di Spagna continuavano: la Francia prese assunto di sedarli -la Francia, la grande nation, la maestra di civiltà, l'autrice dei grandi principii dell'89- la Francia, allora costituzionale, si tolse incarico di abbattere la costituzione a Madrid; della qualcosa non meraviglieranno coloro che videro, ai dì nostri, la Francia repubblicana salutare con la mitraglia e con le bombe la repubblica di Roma il 1849!

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È così che la Francia da la sua libertà alle altre nazioni! E fu essa che ristabilì l'ordine a Varsavia; ed è la Francia, così detta dell'89 che oggi è libera sotto il bastone di Napoleone 3°; ed ancora si piglia il dolce incarico di portar la libertà gagli altri -agl'Italiani, scombussolandoli, padroneggiandoli e spogliandoli-ai Messicani distruggendo la loro forma di governo, le loro tradizioni, ogni cosa loro più sacra, per metterti sotto la sferza austriaca, combattuta dalla Francia stessa sui campi di Solferino!

Mossero adunque i Francesi contro la Spegna: loro generale era ti Duca d'Angoulème. Tra le fila dei distruttori della costituzione spagnuola corse a mettersi Carlo Alberto di Savoia, per purgarsi- combattendo contro la libertà -della tremenda colpa di avere un giorno porto orecchio ai carbonari; come se non ne lo avessero purgato abbastanza i patiboli, le scuri, gli esilii ecc. che provocò. E infatti al Trocadero si distinse, per valore, e purgò- dice il Giusti - di gloria un breve fallo!

Tra le fila dei sostenitori della costituzione spagnuola trovavansi a pugnare appunto molti degli Italiani esiliati pel tradimento di Carlo Alberto; così trovavansi a fronte, e traigli altri citeremo il nome di Manfredo Fanti. Oggi Manfredo Fanti è generale d'armata, ed uno dei primi caporioni della fazione, che sfrutta il potere in Italia! E, immemore del 1821, si è abituato ad appiccicare al nome di Carlo Alberto l'epiteto di magnanimo trovato dalla scherzosa fantasia dei cortigiani del Nord.

Moriva Re Vittorio Emanuele 1°-Carlo Felice,

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spogliato il titolo di reggente, diventava re ancora di nome, come di fatto era lo stato sino allora. Nei giorni di lutto facea ritorno dalla Spagna Carlo Alberto. L'espugnazione del Trocadero restituì il pentito cospiratore nelle grazie di Carlo Felice, che in ricompensa innalzavalo al grado di generale di cavalleria. Meschina retribuzione (osserva il Brofferfo), se si considera come in Piemonte si distribuissero all'aristocrazia con ispensierata larghezza i gradi militari. E di qui ebbe origine un noto motteggio, che in Torino ogni soldato ha un suo generale.

Come Re continuò Carlo Felice nella via tenuta come reggente.

Quanto alle lettere in Piemonte, per dirne qualche cosa, crediamo cedere la parola ad un piemontese e letterato ancora, al Brofferio, del quale trascriviamo un periodo intero.

«Una tragedia di Silvio Pellico, qualche nuova commedia di Alberto Nota, qualche romanzo di Davide Bertolotti, qualche novelletta di Cesare Balbo, qualche versaccio di Luigi Cibrario, qualche pagina boccaccesca di Manno, qualche periodo ciceronico di Boucheron, formavano tutto il tesoro della letteratura subalpina». E noi non glielo invidiamo.

Un tratto solo di Carlo Felice ne piace ricordare, e lo dedichiamo agli odierni crociati e crociferi di quei due ormai famosi santi, che arrossiscono nel paradiso di trovarsi sul petto e mischiati al nome di tanti imbecilli e bricconi.

Voleva, adunque, Carlo Felice premiare il capitano di un legno, che lo aveva condotto, con mare periglioso, in una traversata da Nizza

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a Genova negli ultimi giorni del 1826 (ai giorni nostri, nel 1855, crediamo, l'ammiraglio Persano, più illustre, fece arenare un legno, comandato da lui stesso, e portante la persona di Re Vittorio Emanuele, nella breve traversata da Genova alla Spezia!)-Domandava dunque il Re all'Ammiraglio Des Geneys, se quel Capitano avesse gradita una retribuzione di qualche centinaio di scudi. Veramente, rispose Des Geneys, egli gradirebbe meglio l'ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Oh che minchione! -replicò il Re-dateglielo subito.

La parola libertà cominciava intanto di nuovo a ripetersi sommessa in Europa - Parigi insorgeva nel 1831 - Carlo X abbandonava il trono. Il Piemonte, confinante con la Francia (allora che li aveva ancora i contini, che oggi son francesi), si risentiva di quei moti.

Maria Teresa d'Austria intanto, vedova di Vittorio Emanuele, posseditrice, per malversazione, di dovizie molte, cospirava col genero, il Duca di Modena, per togliere in lui favore la corona sabauda a Carlo Alberto: corse anche voce di avvelenamento di Re Carlo Felice.

Un'altra cospirazione, in questo, organizzavasi a Torino: non l'Italia, però, era in cima al pensiero dei cospiranti; essi congiuravano per Carlo Alberto, principe costituzionale spagnuolo. I Piemontesi aveano dimenticato le glorie del 21; Carlo Alberto fu sollecito di richiamarle loro alla memoria, mettendosi a capo delle truppe che andarono a macellare i rivoluzionarii in Savoia. La cospirazione intanto, scoperta, molti arresti furono praticati, tra cui Angelo Brofferio.


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Nel 37 aprile 1831 spirava Re Carlo Felice, del quale i può dire col Tasso:

… tal morìa qual visse

Minacciava morendo, e non languìa

La storia registra una voce che allora trovò assai fondamento, essere egli perito di veleno.

Le Roi esmort, vive le Roi: mentre nello stesso palazzo si piangeva ufficialmente sulla salma del Re defunto, si complimentava il nuovo Sovrano -era il solito alternarsi della vita, di funerali e danze, di lagrime e gioie!

Il regno di Carlo Alberto cominciò, con auspicii non lieti certo per la nazione; ei seguiva le orme tradizionali di famiglia: perseguitava i liberali per pietà filiale.

Quelli che si trovavano in carcere per aver congiurato a favore di Carlo Alberto, insidiato dal Duca di Modena credevano di ricuperare prontamente la libertà. Dolorosa illusione! Carlo Alberto fu sollecito di gettarsi a corpo perduto in braccia all'Austria, ed ai preti, e ai frati, ed ai gesuiti, che se ne resero padroni assoluti. E con tutto ciò degl'illusi speravano ancora nel carbonaro del 21, e gli mandavano indirizzi perché incarnisse in sé la contraddizione di Re e liberale. Colpa eterna degl'Italiani, di essere sempre illusi!

Cominciarono allora le società segrete a stendersi in Italia, o in Piemonte ancora mettevan radici. E Carlo Alberto - dice il Brofferio, che pure in certi pirati vuoi mostrarsi benevolo verso quel Re - andavasi sempre più affratellando con l'Austria.

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La polizia piemontese, avuto sentore che la propaganda rivoluzionaria cominciava a metter radici nello stato, si die' da fare. - Raccolte a congrega, dice l'A., le iene di corte presero a ragionare intorno al modo più acconcio di prevalersi delle scoperte improntitudini; e dopo aver toccato dell'indole di Carlo Alberto, si levò un sicario in berretto da giudice-e disse: A costui è d'uopo far gustare il sangue.

Suonò gradito l'orribile consiglio; e nel giorno stesso il Re fu informato che una grande cospirazione allignava nell'esercito, per strappargli la corona. Una straordinaria commissione criminale venne tosto creata, per dirigere con un solo impulso tutti i supplizii nel Piemonte. Anche questa volta (è sempre il Brofferio, che ne informa) la Magistratura non arrossì di farsi strumento di atroci vendette. Violando la legge comune e torcenda a sinistra interpretazione un articolo del Codice Penale Militare che tutti gli accusati, anche i non militari, fossero sottratti ai tribunali ordinarii e sottoposti a' consigli di guerra. Questo periodo racchiude tre anni di storia delle provincie meridionali d'Italia governate col sistema settentrionale. Ed è buono riferire accora quest'altro brano, che non è meno caratteristico:

«Un ufficiale che sedeva giudice nel Consiglio d'Inchiesta, interrogava un giureconsulto sopra alcuni generali principii di Diritto Criminale Rispondeva il giureconsulto, che, a norma di tutte le leggi e di tutti i codici del mondo, il Consiglio di Inchiesta non poteva a meno di dichiararsi incompetente a giudicare i non militari. Quanto a questo, rispondeva candidamente l'ufficiale, noi abbiamo ordine preciso dal generale di dichiararci competenti.

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E l'ordine del generale divenne sentenza di magistrato.

«Nessuna regolare difesa fu conceduta. Ai soli ufficiali dipendenti dall'autorità superiore, di ogni legale dottrina sprovveduti e di criminali dibattimenti inesperti, fu commesso, per semplice formalità, di combattere le fiscali conclusioni di morte». E più volte noi abbiamo, in nome dell'umanità, levata la voce perché il diritto più santo dell'uomo - la legittima difesa - qui era benanche negata agli infelici ingiustamente deferiti, in queste ultime vicende, innanzi a degli impossibili tribunali militari. Ma v'è di più nella storia. Udite:

«Costernati alcuni ufficiali della suprema gravita dell'uffizio, a cui sapevano di non poter soddisfare, ricorrevano a dotti giureconsulti ponendo loro sott'occhio i tronchi dei mutilati processi che avevano dal fisco. Bastò questo perché quegli ufficiali venissero incontanente rimossi!».

Noi inorridiamo nel riferir tali cose, e la penna ci cade dalle mani nel dover riferire stragi ed infamie che fanno rizzare i capelli sul capo. Noi amiamo cedere la parola allo storico piemontese. Se parlassimo in nome proprio, non saremmo creduti. È una cronaca orrenda: è una dolorosa statistica di Fucilati ingiustamente, per sospetto o per isbaglio! Qual torto pei Napoletani non aver letta la Storia del Piemonte! non avrebbero avuto ad inorridire e a meravigliare, allora che videro tra loro impiantato l'antico e caro sistema delle fucilazioni.

Accenneremo di volo il bando con cui si giustificavano gl'iniqui provvedimenti.

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Dopo di aver numerate ad una ad una tutte le felicità concesse al Piemonte dalla magnanimità di Carlo Alberto; il bando annunziava le nuove oscure trame, con lo scopo di distruggere il culto o rovesciare il legittmo governo, per istabilire una repubblica; che i rivoluzionarii non erano né cattolici, né protestanti, né cristiani, né ebrei, né musulmani, né del culto di Brama!! che per il loro scopo - cioè per proclamare la repubblica - si servivano di incendii, stiletto e veleno!! Si affermava anche essersi rinvenuto presso un cospiratore-fuggito poi! O non esistente-varie once di veleno-e che finalmente volevansi uccidere tutte le persone più eminenti del governo!! Ora diamo la parola all'A.:

Alle proscrizioni di ferro e di veleno, alle polveriere da incendiare, alle caserme da rovesciare, ai presidii da distruggere, alle città da incenerire non fu in Piemonte chi fosse così stupido da porger fede. Si inorridì e si tacque; e ciò appunto voleva la fazione Austro-Gesuitica da cui ricevevansi a corte le sante ispirazioni

Cadevano le prime vittime a Chambéry. Il caporale Giuseppe Tamburelli della Brigata di Pinerolo apriva col proprio sangue la scellerata tragedia. Strascinato il misero sulla piazza d'arme veniva fucilato nelle spalle per aver letta e imprestata a qualche soldato la Giovine Italia.

Il furiere Giovanni Battista Degubernatis, condannato col Tamburelli a ignominiosa morte, otteneva commutata la pena in venti anni di galera, con disgraziate rivelazioni. Come a Chambéry, si carcerava a Genova, a Nizza, a Torino, a Mondovì, ad Alessandria, a Cuneo e nelle principali città del Piemonte.

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Si aveva tuttavolta riguar4o a frapporre intervalli nei mandati di cattura perché si prestasse fede alla voce sparsa di importantissime rivelazioni.

Ma ad onta della vantata importanza le prigioni, non popolavansi che di modesti cittadini, di poveri soldati e di alcuni caporali o sergenti miseramente venduti.

Quindi gl'incendii, gli avvelenanti, le mine sotterranee che cosa diventavano?

Alcuni cortegiani, che nel 1849 avevano più che altri a scolparsi, del versato sangue, narrarono (e chi scrive li intese} che Carlo Alberto dolendosi con Villamarina dell'umile condizione delle vittime disse:-Non è bastevole esempio il sangue dei soldati subalterni: pensate a qualche ufficiate. - E la morte del tenente Effisio Tola fu decretata!!

Ufficiale nei Fucilieri del Primo Reggimento della Brigata di Pinerolo veniva Tola condannato a morte ignominiosa dal Consiglio di Guerra di Chambéry nel 10 di giugno e si eseguiva nelsuccessivo giorno la, condanna con terribile apparato.

Il delitto capitate del Tota qual era?... Di avere fino dal 5 aprile avuto fra le mani libri sediziosi, di avere avuto notizie, senza averle rivelate, di sediziose trame intese a sovvertire il Governo di S. M. ed a sostituirvi un reggimento demagogico che comprendesse tutta l'Italia, come pure di aver comunicato i detti scritti ad altri militari ed aver cercato, di procurar partigiani alle dette trame (1).

(1) V. la, Gazzetta ufficiale del 13 giugno 1833.

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I giudici argomentavano della notizia della trama dalla lettura del foglio proibito; argomentavano dei cercati partigiani dall'imprestito dello stesso foglio, così che fucilavasi nelle spalle un officiale per after letto e imprestato un giornale!

Il supplizio di Effisio Tola destava profondo terrore. Ma tanta era la corruzione dei tempi che il fratello del condannato, per ottenere la croce di S. Maurizio, si affrettava a baciare la roano di Carlo Alberto sopra la quale non vedeva le tracce del fraterno sangue. Ciò parve così naturale che nessuno vi pose mente; e il cav. Tola, dopo aver coperti a Cagliari i primi impieghi della Magistratura, fu eletto nel 1848 deputato della Sardegna nel Parlamento.

Mentre si fucilava in Chambery non si stava in ozio in Genova e in Alessandria,

Dopo aver partecipato al Piemonte le stragi, gl'incendi, le devastazioni che soprastavano, si insinuva di soppiatto nell'esercito, e specialmente al presidio di Genova, che si trattava di un Vespro Siciliano contro la milizia piemontese. Insinuazioni dalle quali oggi neanche si rifugge, per seminare la divisione tra popolo ed Esercito.

Destate per tal modo le ire dei soldati contro i cittadini, rinvigorite le diffidenze fra Liguria è Piemonte, disseminati con empie arti infami sospetti si ponea mano a ben più ree macchinazioni.

Tutto ciò che l'immoralità, l'inverecondia, il rancore, la vendetta, e l'esercizio dei tormenti e la sete del sangue possano inventare, tutto fu sposto in opera per estorcere ai prigionieri sciagurate rivelazioni. Con questi si praticava là corruzione,

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con quelli la menzogna, con quelli altri l'insidia, con tutti il terrore.

A coloro che presi erano da turbamento, dicevasi:-Ci è nota la vostra colpa; rivelate, o fra ventiquattr'ore sarete fucilati. -A coloro che si mostravano imperterriti si parlava in questo modo:-Voi siete onorati cittadini, lo sappiamo: delusi da forti propositi, e da sublimi speranze voi vi associaste a uomini protervi che abusarono della vostra fede. Costoro per cui volete morire vi hanno traditi colle loro denuncie: costoro per cui volete sacrificare vostra madre, i figli vostri, vi hanno venduti per salvare sé stessi; eccovi le loro confessioni. -E qui ponean loro sottocchio immaginate deposizioni, interrogatorii falsificati, sottoscrizioni abilmente imitate, e non eravi infamia di galera a cui sfrontatamente non ricorressero.

Con quelli da cui volevano strappare qualche confessione per farne argomento di condanna non avevano ribrezzo di impiegare le arti più vili dei sicarii e delle spie.

Chiude va si in carcere qualche agente di polizia che colla maschera del cospiratore si acquistava poco a poco la confidenza del prigioniero e coglieva di volo ogni accento, ogni gemito, ogni sospiro.

Francesco Miglio, sergente zappatore nei Granatieri Guardie, deludeva colla sua intelligenza e colla sua fermezza ogni insidia inquisitoria. Si chiuse con lui uh uomo, che colle lagrime agli occhi si disse percosso da mortali accuse per aver letto la Giovine Italia. Miglio lo abbracciò e pianse con esso. Un giorno, prestando fede alle asserzioni dello sconosciuto, che lo assicurava di

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aver modo di carteggiare co' suoi parenti, l'infelice sergente si lasciava persuadere a confidargli un viglietto. Mancava l'inchiostro. Miglio si aprì una vena e scrisse col sangue. Quello scritto comparve immediatamente nel processo come documento di reità. Miglio fu condannato a morte nel mattino del 15 di giugno, e venne fucilato nelle spalle con Giuseppe Biglia e Antonio Gavotti sulla piazza della Cava.

Con altri prigionieri altri iniqui raggiri si consumavano. Facevasi gridare sotto le loro finestre-Oggi hanno fucilato i vostri compagni, domani toccherà a voi. -Dopo di ciò ponevano un amico dell'accusato nello stesso andito; poi si parlava oscuramente all'accusato del rischio dell'amico. Passavano alcuni giorni; dopo misteriosi rumori l'amico veniva di repente trasferito in altra prigione. Tremava il fratello sulla sorte del fratello: tendeva gli orecchi... e alcuni colpi di fucile lo confermavano ne' suoi terribili presentimenti.

L'ufficiale Pianavia spaventato di questi rei maneggi si faceva denunziatore in Alessandria dei suoi compagni: Fatto il primo passo più non si arrestava, ed impiegato era egli stesso a costernazione degli altri.

Costui veniva collocato in un corridoio ove stava fra le ritorte Giovanni Re negoziante di Stradella, invano, sino a quel giorno, tormentato dal feroce Galateri.

Pianavia solea cantare. Un giorno non cantò più. Rumori nel corridoio, rumori nella prigione. Tutto d'un tratto compariva il Governatore nella prigione di Re con un cappellano. E l'uno e l'altro mottravansi turbati. Il Governatore chiedeva

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con voce commosse al detenuto se fosse tranquillo, poi gli faceva coraggio con Misteriose parole. Nella notte continuò l'andare e il venire nel cupo andito. Allo spuntar del giorno parve al prigioniero che si spalancasse la carcere di Pianavia, uscisse gente con agitato passo: udì tronche voci, soppressi gemiti e poco stante colpi di fucile... Tutto doveva essere compiuto.

Giovanni Re dichiarò voler rivelare. Corse avidamente il Governatore, e dal labbro del prigioniero uscirono illustri nomi e importanti notizie.

Il rivelatore divenne carissimo a Galateri. Oggi giorno qualche nuova esposizione rendeva più benemerito il prigioniero. Esultava il Governatore e colmava di riguardi la vittima.

Si andò oltre che Giovanni Re ebbe la permissione di recarsi nella Lomellina per munirsi di carte relative alla congiura e della massima importanza

Appena il cospiratore fu libero passò la frontiera e si rifugiò in Lugano, d'onde scrisse incontamente a Galaterì partecipandogli che tutto ciò avevagli rivelato era tutto falso, e che invece di dargli in mano le carte gli avrebbe piantato in cuore un pugnale alla prima occasione.

Galaterì si morse le mani e raddoppiò i tormenti degli altri carcerati.

Sembrando che molti di essi per conservare tuttavia la pienezza delle forze fisiche si mantenessero con troppa facilità riluttanti, si pensò a diminuir loro il cibo, e quel poco a somministrarlo insalubre. Nella notte si irritavano i detenuti con sinistri schiamazzi che toglievano il sonno. Dopo due o tre giorni di vigilie, di digiuni,

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di patimenti, e dopo avere in cento modi agitata l'inferma immaginazione, compariva di repente l'Uditore di Guerra e cominciavano gl'interrogatori. Resistevano ancora? Si lasciavano passare altri due o tre giorni; si raddoppiavano i tormenti e quando ogni goliardia era spenta, quando abbattuto, stanco, prostrato il prigioniero malediceva la vita, si faceva capitare una lettera di amoroso congiunto, si introduceva occultamente una figlia, una sorella, una madre che supplicavano che piangevano... e con questi mezzi si pervenne a strappare odiose rivelazioni di colpe non vere; quindi nuove atrocità; quindi nuove vittime!

La maggior parte degli accusati rigettò l'infame mercato e preferì la morte. Jacopo Ruffini, fatto segno nelle carceri della Torre in Genova di particolari martirii, sentivasi di giorno in giorno venir meno le forze e il coraggio. Quel generoso ebbe spavento di sé medesimo; per innvolarsi al pericolo di soggiacere alle perfide trame strappava una ferrea lama dalla porta della prigione e nella notte si segava la gola. Fra gli spasimi dell'agonia scriveva col sangue queste parole: - Lascio per testamento la mia vendetta. - Nel mattino le fiscali arpie non rinvennero che il freddo cadavere sopra il quale cercarono ancora di vendicarsi con brutali insulti.

Schifoso contrapposto a queste orge Reali facevano le ricompense accordate a sergenti e caporali per aver denunciato i compagni; e se tra il sangne e le lagrime avesse potuto aver voce il riso, ne porgeva ampio argomento un ordine del giorno colle eleganze seguenti:

«Soldati! Mentre il primo biondeggiar dei campi

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l'occhio ed i pensieri lieti vi portava sulla falce di messe da cui teneri ed affettuosi rivolgendosi alle famiglie vostre dolce in cuore vi si accendeva la speme che felici negli agricoli lavori, comodamente supplire potreste ad ogni loro bisogno, improvvisa suonovvi all'orecchio la voce sovrana... Spirava maggio allorché foste chiamati. Il dieci di giugno vi trovò incorporati già nei rispettivi reggimenti, cui appartenete!... E nel 19 prova incontrastabile deste nel campo di Marte che ben potevate nelli evoluzionanti battaglioni il pareggio sostenere coi vecchi vostri fratelli d'arme!... Il suggello di collaudatone voi apponeste cosi al piemontese militar sistema.»

E intanto si fucilava nelle spalle per semplice accusa di non rivelazione.

Vuoisi nondimeno confessare a onor del vero che nessun giudice condannava a morte prima di aver inteso la santa Messa. Tutte le sentenze portavano in fronte queste sacramentali parole: Invocato il divino ajuto! '

Per divina invocazione si condannarono a morte in Genova Luciano Piacenza e Lodovico Turffs, quello soldato, questi sergente d'artiglieria, colpevoli entrambi di non rivelata cospirazione. Caddero in Alessandria Domenico Ferrari, Giuseppe Menardi, Giuseppe Rigasso, Armando Costa, Giovanni Marini, tutti sergenti nella brigata di Cuneo, i tre ultimi per aver avuta notizia della congiura senza denunziarla. Se queste espressioni non si trovassero letteralmente nella sentenza del 13 giugno pronunziata nel Consiglio di Guerra di Alessandria, forse i posteri niegherebbervi fede. E avrebbero ragione.

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Fra una condanna e l'altra di morte, l'alta Commissione inquisitoria dettava proclami, articoli, relazioni e provvedimenti. Merita special menzione una legge sopra i libri e giornali provvenienti dall'estero, monumento immortale di imbecillità e di ferocia.

In virtù di questa legge, chi avesse introdotto, o soltanto avesse fatto circolare in Piemonte un libro o un giornale contrario ai principii della Monarchia, soggiaceva alla pena della galera da due a cinque anni, e in alcuni casi soggiaceva alla morte!

Chi avesse ricevuto uno di questi libri o giornali per la posta, e non li avesse consegnati, pena due anni di carcere. Cento scudi di premio a chi scoprisse o denunciasse!

Non commentiamo questo editto infame; intanto la stampa straniera pubblicava le stragi del Piemonte, e chiamava su di esse la pubblica esecrazione. Si assicurò che i legati di Francia e d'Inghilterra facessero gravi rimostranze a corte; certo è che si andarono rallentando le barbare esecuzioni, alle quali già si opponevano indarno alcuni giureconsulti di Genova con ardito ragionamento contro r illegale applicatone del codice penale militare. Tuttavolta furono ancora dannati a morte l'avv. Berghini, Domenico Barberis, Errico Gentilini, il tenente Ardoino, il luogotenente Vanarezza, il marchese Rovereto, il marchese Cattaneo e molti altri, che riuscirono con la fuga a sottrarsi al supplizio.

Non così Andrea Vochieri, di cui lo scrittore piemontese dice «consegnare alla storia le ultime ore, perché restino a perpetua infamia dei carnefici,

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a maledizione perpetua degli assoluti governi.»

Un condannato di Alessandria, che sopravvisse alle lunghe torture di Fenestrelle, lasciò scritto nelle sue memorie le cose seguenti: «Innanzi a tutti mi furono tolti i miei libri, cioè una Bibbia, una raccolta di cristiane preghiere e un' istoria dei Cappuccini illustri del Piemonte. Poi mi tenne posta la catena al piede, e fui condotto in altra carcere più oscura, umida, più squallida, con una finestra!a doppia sbarra, con una porta a doppio catenacci. Innanzi alla mia prigione stava quella del povero Vochieri. Esistevano alcune sconnessure mal riparate in fondo alla mia porta, e tenendosi dischiusa la prigione del Vochieri dalla poca luce che trapelava, era invitato a dolorosa osservazione. Vochieri mi apparve sopra un misero scanno, con pesante catena al piede, e due guardie di fianco con la sciabola sguainata. Una terza guardia, col fucile, stava immobile dinanzi la porta. Regnava un terribile silenzio. I soldati parevano più costernati dello stesso prigioniero. Di tratto in tratto due cappuccini venivano a visiitarlo. Così rimase quell'infelice una intiera settimana dinanzi agli occhi miei; fu lunga, fu spaventosa la sua agonia; finalmente lo trassero a morte».

L'ira del Governatore contro il Vochieri - narra il Brofferio, e ripete Atto Vannucci nel suo bel libro sui Martiri Italiani - si andava di più in più accendendo, perché con la certezza che avrebbe potuto fare importanti rivelazioni, non riusciva,

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pur mai a strappargli dal labbro un accento, e quanto più era grande la costanza di Vochieri tanto più si ostinava a tormentarlo il Governatore con nuove crudeltà. Non vi era mezzo di terrore; che non fosse impiegato. L'oscurità, il digiuno, le catene, i tolti sonni, i niegati riposi, le insidie tenebrose, i tradimenti occulti e le minaccie, e persino le percosse non aveano ribrezzo di praticare i reali Cannibali.

Pronunziata la sentenza del Vochieri, ebbe animo il regio satellite di accostarsi al moribondo, per sollecitarlo a rivelare. Componendo a misericordia le parole e il sembiante, offriva al condannato la sua protezione. Fate, diceva egli, che io conosca i vostri voleri, e sarò lieto di adempirli. - Ciò che io voglio, rispondeva l'agonizzante, è questo: che mi sia tolto il vostro odioso aspetto. -Acceso di furore il barbaro, scagliava un calcio nel ventre al prigioniero. Vochieri avea le guardie ai fianco, aveva le mani legate dietro le spalle, e sputava in faccia al percussore.

Giunta l'ora del supplizio, si, pensò all'ultima delle vendette. Si impose che Vochieri fosse tratto a morte per la via meno spedita, passando sotto le finestre della propria casa, dove abitavano sua sorella, sua moglie e due suoi figliuoli in ancor teneri anni. Non soldati si destinarono a fucilarlo, ma guarda ciurme; e il Governatore, in grande uniforme, assiso sopra un cannone, volle assistere alla esecuzione.

Dopo le condanne di morte vennero le condanne di reclusione - Ne furono vittima distinti personaggi, medici, giureconsulti, militari, tra' quali v'ha il nome di alcuni generali!

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Molte condanne capitali vennero ancora pronunciate contro emigrati. Di questo numero fu Giuseppe Mazzini, condannato a morte ignominiosa, esposto alla pubblica vendetta, dichiarato nemico della patria, e bandito di primo catalogo, con sentenza del 26 ottobre 1833, sottoscritta, per il governatore Galateri, dal maggior generale Saluzzo della Manta. Tra' condannati di allora l'ha anche il nome di Vincenzo Gioberti, Giuseppe Garibaldi (son parole testuali dell'A.) si sottrasse con la fuga al supplizio: fu un affare rimandato ad altra epoca: un galantuomo-il tempo, veh- si incaricò di mandare a compimento l'opera - e un felice successo la coronò il 1862 ad Aspromonte!

Dopo le torture, il sangue, le reclusioni, gli esilii, vennero immediatamente le promozioni, le gratificazioni, i nastri, le tracolle, a titolo di onoranza!

Così il Brofferio apostrofa que9ti premiati: «Governatori, ministri, generali, comandanti, primi presidenti, uditori generali, cavalieri, conti e commendatori, passeggiate pure fastosi dei vostri titoli, dei vostri galloni e dei pendagli vostri. Il Piemonte sa come li avete meritati.»

Mentre le fortezze di Fenestrelle, d'Ivrea e di Alessandria chiudevansi come le bolgie dell'eterno dolore sopra una moltitudine di condannati, ai quali sarebbe stata misericordia la morte, si raccoglievano i capi della Giovine Italia sulla frontiera elvetica per fare un appello all'italico risorgimento.

Fu organizzata la spedizione di Savoia e datone il comando al generale Ramorino,

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che per le sue vittorie in Polonia veniva in rinomanza presso la gioventù italiana. Dopo mille indugi, questa spedizione abortì: non ebbe luogo che un breve conflitto presso le grotta di Les Echelles; nella mischia due infelici cadevan prigionieri dei piemontesi, Angelo Volontieri e Giuseppe Borrel. Condotti trionfalmente a Chambéry, furono entrambi dannati a morte, e fucilati nelle spalle sul suolo stesso umido ancora del sangue di Effisio Tola.

Dopo le sentenze di Volontieri e di Borrel, il Senato di Savoia fece richiamo al Real Trono per il tolto onore di pronunziare nelle cause degli accusati politici. Fu subito fatto luogo alla ossequiosa domanda, e il Senato ebbe incontanente l'incarico di procedere criminalmente contro Ramorino, Rubio, Gardy, Dupenloup ed altri che fecero parte; di quelle spedizioni. Con sentenza del 22 di marzo 1834 non mancarono le Loro Eccellenze di condannare a morte gli accusati, come si praticava dai consigli di guerra; con questa differenza, che i Consigli fucilavano nelle spalle, ed il Senato ordinava che i condannati fossero consegnati in mono del carnefice per essere da lui condotti col laccio al collo, in giorno di tribunale o di mercato, per le strade ed altri luoghi soliti sino al luogo designato per i supplizii, onde essere ivi ad una forca a tal uopo innalzata appiccati e strangolati.

Per buona sorta, gli accusati erano contumaci, e non pensarono a costituirsi per far onore alla sentenza.

Quei moti intanto irritarono maggiormente Re Carlo Alberto, e la sete di sangue in Piemonte divenne inestinguibile.

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Se dei primi tempi del suo regno stava in sospeso Carlo Alberto fra il desiderio di temperate riforme e il timore di recar nocumento al pieno esorcizzo della sua assoluta potestà, scomparve ogni incertezza dopo le fucilazioni del 1833. Si sarebbe detto (pensa il Brofferio) che ai passi di Carlo Alberto facesse inciampo il cadavere di Vochieri!

Da quel tempo la condotta del governo subalpino si compendia in brevi accenti - politica estera, Roma e Vienna: politica interna, polizia e gesuitismo.

Stando in continuo sospetto di congiure e di rivolte, Carlo Alberto dovette collocare la maggior sua fiducia nella polizia. E, così fu. Ma non gli bastarono le spie officiali del Ministero; tutta la sua corte fu trasformata in Ufficio di Polizia. Volle denuncie e denunciatori nel Ministero, nella Magistratura, nella Milizia, nell'Episcopato, nell'Aristocrazia; aprì, persino secrete scale a qualche altro genere di delazione che saliva dal trivio - e quelli che un'ora prima denunciavano erano spesso denunciati un'ora dopo.

Per tal modo la polizia, che già era onnipotente, come non può a meno di essere nelle assolute Monarchie, diventò usurpatrice di tutti gli altri poteri e si assise fieramente sopra i gradini del trono.

L'inviolabilità del domicilio, il rispetto della famiglia, l'intimità degli affetti, la libertà, l'incolumità, e persino l'onore della persona, tutto in somma ciò che l'uomo ha di più sacro si trovò confidato all'arbitrio di regi inquisitori.

Dai casi narrati si è potuto vedere come fossero rispettate le leggi e come sapessero meritar rispetto i tribunali,


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eppure anche i tribunati furono sospettati, e sopra i Senatori si posero i Commissarii di Polizia.

Nessun mandato di arresto era necessario per tradurre in carcere un cittadino; tutti avevano diritto di arrestare. Il Giudice, il Sindaco, il Brigadiere dei Carabinieri, l'Avvocato Fiscale, l'Assessore Istruttore, il Governatore, il Comandante, il Vicario ed ogni piccolo agente di piazza, ogni povero caporale di pattuglia, ogni arciere, ogni birro, ogni spia avevano autorità di mettere le mani addosso a qualunque onorato cittadino.

Quando poi si era carcerato, le difficoltà del rilascio diventavano immense. Per arrestare, tutti avevano autorità, per rilasciare, nessuno si trovava competente. Suprema dea dei chiavistelli era sempre la polizia. Con economici provvedimenti si scioglieva la maggior parte delle cause criminali quando si trattava di punire; quando trattavasi di assolvere la cosa cangiava di aspetto, era necessaria una sentenza.

Nel riferire storicamente e fedelmente tai cose, con raccapriccio, mal prestandosi la penna all'ardito ufficio, noi crediamo però qualche volta di scrivere la storia dei nostri tempi, la narrazione dei mali che si soffrono oggi nell'Italia meridionale!

Nei capoluoghi di provincia padroni assoluti della polizia i Comandanti di Piazza, vecchi Maggiori o Colonnelli, che avevano imparato il codice nei corpi di guardia. Nei capoluoghi di divisione, governatori, vecchi soldati anch'essi a cui le pergamene di nobiltà procuravano i galloni di generale.

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Capo della Polizia era in Torino il Ministro, cioè il suo primo, uffiziale o per dir meglio gli scrivani e gli agenti del primo ufficiale unitamente agli scrivani e agli agenti del Comandante e del Governatore, che ricevevano le ispirazioni nelle cantine degli osti e nelle soffitte delle meretrici.

Braccio destro della polizia nei villaggi era il Sindaco; nei capoluoghi di mandamento era il Brigadiere dei Carabinieri; col Sindaco e col Brigadiere andata quasi sempre d'accordo il Parroco, e quando uno dei triumviri si poneva in mente di perdere un qualche poterò uomo che aveva la disgrazia di non piacere alla Parrocchia o di non levarsi il cappello dinanzi alla Reale stazione, o di non chiuder gii occhi sopra le prevaricazioni sindacali, chi potea salvarlo?

Quanti infelici senza forma di giudizio e suite semplice relazione del Sindaco, confermata dal Brigadiere, o sulla semplice denuncia del Brigadiere confermata dal Sindaco, furono tratti sulle sabbie della Sardegna e vi perirono miseramente!

Quando gl'impiegati di Polizia stimavano che vi fosse argomento di giudiziale condanna trasmettavano la pratica al Fisco perché si pronunziasse a termine di ragione di giustizia. Ma per timore che alle volte la ragione fosse troppo ragionevole e troppo giusta la giustizia, la Polizia poneva una nota a' pie della lettera di trasmissione, la quale diceva così: Nel caso che il Magistrato non trovasse bastevoli argomenti per condannare, si custodirà in carcere l'accusato a disposizione della Polizia - E con questa nota il povero accusato non poteva salvarsi da Scilla senza essere divorato da Cariddi.

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Cosi frequenti erano i processi di questo genere e tanto era terribile la condizione dei carcerati sottoposti alla Polizia, che diventava carità nei difensori non far assolvere gli inquisiti. Condannati, restituivansi dopo breve pena a libertà, assolti erano ingoiati dalla Sardegna. E in questi cast era pietà il rigore, l'ingiustizia era beneficenza.

Non tardò ad avvedersi la Polizia di questo misericordioso ripiego, e il tenore della nota fatale si riformò nel modo seguente: - Nel caso che il Magistrato non trovasse indizii sufficienti per condanna AD UNA LUNGA PENA, si custodirà in carcere l'accusato a disposizione della Polizia. - Con questa riforma divenne impossibile ogni pietosa transazione, e i Magistrati non ebbero ribrezzo a divenir docili esecutori di polizieschi ordinamenti.

Non vuoisi tacere a onor del vero che Borio, Presidente della prima classe criminale nel Senato di Torino, quel desso che lamentava l'abolizione della tortura e della ruota, non volle mai acconsentire all'ufficio di sgherro di polizia. Pronunziata sentenza di assolutoria, Borio ordinava subito il rilascio dell'accusato; e cosi adoprò molte volte, ad onta del generale Galateri che nella Divisione di Alessandria esercitava l'uffizio di pubblico carceratore.

Ed anche a questo provvide la polizia. Per ordine dei Senato il detenuto si rilasciava oggi, per ordine del Governatore si tornava a carcerar domani; una sentenza giudiziale lo dichiarava innocente e lo restituiva alla società, un provvedimento economico lo dichiarava colpevole e gli poneva la catena al piede.

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E così si amministrava la giustizia, si osservava la legge, si rispettava la libertà in Piemonte.

Dure a credere parranno le cose sin qui narrate, ma esse hanno l'autorevole conferma di testimoni oculari. E migliaia di fatti ancora sono narrati, i quali dimostrano sempre più come la onnipotenza e la tracotanza della Polizia, sotto il regno del Magnanimo Carlo Alberto, avesse sorpassato ogni limite possibile.

Il Senato emanava una sentenza, con cui assolveva degl'imputati; il ministro di Polizia ordinava fossero tenuti prigioni, ed all'avvocato che presentavaglisi ad invocare la esecuzione della sentenza, senatoria, ei rispondeva: Il senato ha fatto bene, ma io ho fatto meglio!

Qualunque infamia, qualunque delitto si commettesse da persone note alla Corte, o alla polizia, che torna lo stesso, non si trovava maniera di espletare un processo; e le vittime erano quelle che - per soprassello - aveano torto!

Ci piace riferire la conclusione del Brofferio, che è piemontese, dopo di aver raccontate tante ribalderie. Essa è preziosissima, e va notata:

«Queste sono le imprese, alle quali, per molti anni, assisterono i Piemontesi con tanto esemplare docilità, che mai non fu veduta maggiore. E, se dopo tutto questo, ci ha trovati la Rivoluzione Italiana così infingardi, cosi subdoli, cosi discordi, cosi tiepidi, cosi nulli, sarà ancora chi meravigli?»

Noi no certo - noi non meravigliamo: ma non facciamo commenti alle parole dello storico piemontese; essi tornerebbero affatto inutili.

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Mentre intanto il gesuitismo e la polizia facevano del Piemonte così spietato governo, mentre le prigioni di Stato rigurgitavano di vittime, e fumava il suolo di sangue cittadino, veniva dalla reggia il vezzo di liberali cinguettaroanti, come sopra alle scene si fa alla tragedia talvolta succedere la farsa.

Per ordine superiore si fucilavano nelle spalle coloro che leggevano la Giovine Italia, ma in contraccambio si permetteva di parlare di progresso, purché fosse bene inteso e bene ragionato, - come si andava predicando dagli apostoli della eunuca dottrina.

Quando si seppe, narra l'A. che il gaz idrogeno, il carbon fossile e le tavole sinottiche trovavamo accesso a Corte, il Piemonte fu inondato da una falange di nuovi liberali, di cui più d'uno aveva contribuito a fucilare gli antichi. Dal terrore passavasi al ridicolo; sempre il sistema del governo di oggi.

Le casse di risparmio furono il primo ritrovato del progresso in Piemonte; e parve si fosse scoperta la California. Per qualche lira che gli Sguatteri e le lavandaie avrebbero deposta nel salvadenari del Municipio si sarebbe detto che il, risorgimento italiano era già assicurato nelle nordiche teste. E da mattina a sera, dice un A. del tempo, non si ragionava che di progresso, in virtù del quale risparmiando oggi un soldo, domani un quattrino, la rigenerazione dell'universo non poteva mancare.

Noi non vogliamo dilungarci a descrivere tutte le riforme, che accordò ai suoi sempre fucilabili sudditi la magnanimità del paterno cuore di Carlo Alberto:

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è tutto un poema eroicomico, paragonabile appena alle corbellerie amministrative ed alle corbellature politiche, con le, quali i moderati di oggi alternano le fucilazioni, le prigionie e gli esilii in questa povera Italia meridionale, la quale prova oggi quello che la settentrionale provò prima!

Soffri dure vicende il Piemonte pel cholera che lo afflisse nel 1835. Liberato da questo flagello, si dierono i ministri di Re Carlo ad organizzare l'interna amministrazione; fecero, secondo il solito debiti e poi debiti - e, come oggi, dissero i debiti essere necessarii a formare un esercito, nel quale coloro che malamente usano il potere dicono sempre essere la salvezza del paese mentre non ci vedono che un trinceramelo di sciabole e di baionette dietro cui mettersi in salvo dopo le opere inique.

Il Piemonte fu gravato di debiti; ma come si organizzò l'esercito?

Lasciamo la parola al Brofferio:

«Intanto l'esercito penuriava di ogni cosa: di personale, di materiale, di scuole, di allestimenti, di munizioni e sopra tutto di uffiziali superiori.

«Con ogni cura poi si ponea mente, acciocché lo spirito dell'esercito fosse difetto ben più a reprimere le cittadine speranze, che a difendere l'onor nazionale. Non altro si inculcava ai soldati, ohe di morire gloriosamente per la bacidiera Sabauda insidiata da un branco di faziosi, di ribelli, di malfattori, ohe volevano distruggere il trono e l'altare. Pena di morte al soldato, che aveva parlato di patria e di nazionalità.

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Si voleva un corpo di pretoriani, non una italiana milizia; e si operò così bene che quando il Piemonte si levava in armi contro l'Austria si accorgeva d'essere Austriaco».

Ed austriaco doveva volerlo il Re, il quale all'Imperatore d'Austria affrettava ad andare a baciar la mano in Pavia, domandandogli paterna assistenza contro i nemici del Trono!

Ma una gran lezione dava la sagace Austria ai Principi d'Italia, e a Carlo Alberto in ispecie: l'Imperatore, con decreto d'amnistia, schiudeva le prigioni politiche e richiamava dall'esilio Confalonieri, Porro, Modena, la principessa Belgioioso, il generale Zucchi ed altri molti. Eppure coloro che in Piemonte non avevano denunziato i lettori della Giovine Italia languivano ancora tra le catene.

Ma tale lezione neanche valse a far cangiare modo di governo a Carlo Alberto, il quale, non solo mantenne le passate esorbitanze, ma lasciò che si continuasse nelle odiose inquisizioni del Fisco e della Polizia,

I Napoletani e i Siciliani hanno fatto le meraviglie, e hanno gettato le più grosse grida di questo mondo, sentendo certe curiose misure dei benemeriti carabinieri reali, specialmente in Sicilia.

Se i Napoletani e i Siciliani avessero letto la Storia del Piemonte, di nulla avrebbero dovuto meravigliare, specialmente se avessero saputo i particolari che accompagnarono l'arresto di molli liberali e dell'avvocato Durando, pel solo delitto che due suoi fratelli combattevano io Ispagna sotto te insegne di libertà.

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Fortunatamente in Piemonte si esercitò largamente la virtù dell'obblio, e i fratelli Durando sono oggi sostegni principali del Governo Piemontese in Italia, ed un d'essi ne fu ancora ministro.

Mentre adunque l'Austria concedeva libertà ai rei politici nei suoi stati d'Italia, in Piemonte raddoppiavasi di rigore quasiccbè un principe, italiano avesse a temere da una sollevazione assai più dell'Austria, quasi che un principe italiano dovesse sapersi più odiato dell'Austria.

Crudeli atti, narra il nostro A., accompagnarono l'arresto di Durando. Mentre pigliava commiato dalla consorte, i carabinieri gli si gettavano addosso, Io percuotevano nel capo, lo insultavano, lo malmenavano; e tutto ciò nella speranza di spingerlo a difendersi per dargli carico di resistenza contro la pubblica forza.

Come oggi si sprecano somme per costruire ergastoli in Alghero e Portoferraio, allora, nella speranza di acchiappar sempre nuovi infelici, si mandò una schiera di artefici in Mondavi, per trasformare, con grave dispendio del pubblico erario, la cittadella Monregalese in prigione di Stato,

Narreremo, raccapricciando, un infame modo tenuto verso il povero Durando, allora che era prigione: l'umanità, commossa, non potrà trattenersi dallo scagliare un anatema di esecrazione sui carnefici.

L'insalubrità della carcere, specialmente l'umido e il freddo, cagionavano a Durando grave malattia, con febbre e dolori.

Il tribunale d'inquisizione pensò incontanente a prevalersi dell'abbattimento del prigioniero

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per strappargli qualche rivelazione; e nella mezza notte l'infermo fu trascinato nella sala del Consiglio, per nuovi esami. Scorso un quarto d'ora che lo si tormentava con le solite interrogazioni, capita un carabiniere, con pressante dispaccio. L'Uditore sospende le interrogazioni, apre il dispaccio, lo legge con misterioso contegno, lo fa leggere sommessamente al maggiore, poi si rivolge al prigioniero, e gli partecipa che il Re, condiscendendo alle supplicazioni della sua famiglia, gli commuta in vent'anni di carcere la pena capitale. Ma questa grazia non era senza condizioni. Imponevasi ai prigioniero di rivelare: 1.° Chi leggesse la Giovine Italia: 2.° dove si trovasse deposta: 3.° donde, e con quali mezzi provenisse: 4.° chi fosse in relazione coi proscritti di Marsiglia!

Durando vuoi vedere il dispaccio. L'Uditore ricusa. Protesta il documento, e manifesta la sua indignazione. Non si scompone l'Uditore, ed esorta l'accusato a prevalersi della Sovrana indulgenza. Acceso dalla collera e agitato dalla febbre, Durando si scaglia in imprecazioni contro le infamie de' suoi carnefici. L'Uditore si alza; esorta Durando a pensare alla sua famiglia, e conchiude che, se fra ventiquattrore non si dispone a rivelare, dovrà disporsi a ricevere il Confessore.

Durando è ricondotto nella sua prigione, dove gli sono contesi persino i sollievi dell'arte medica. Trascorrono molti giorni; si inventano nuove torture; si fanno nuove perquisizioni, nuoti arresti e nuove vittime.

Nel principio di aprile, 1834 durava ancora il processa, e in nulla diminuivamo i rigori della prigionia.

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Migliorato in salute, chiedeva Durando gli fosse conceduto di chiamare un barbiere, per radergli la lunghissima barba

Rispondeva il Comandante, che avrebbe scritto Cuneo, per aver ordini dal Governatore!

Dopo alcuni giorni il Comandante portava a Durando un dispaccio del Governatore, con la facoltà di farsi sbarbificare, sotto le seguenti condizioni: che fosse legato colle mani, colle braccia e con le gambe ad una sedia; che fossero collocate al pinco destro e al fianco sinistro dei prigioniero due sentinelle; chi alle sue spalle si collocasse un soldato con la sciabola sguainata; che di fronte gli stesse il 'comandante col maggiore da un lato e l'aiutante dall'altro. In tale atteggiamento, conchiudeva il dispaccio, si permette al detenuto Durando di farsi radere la barba con tutto il suo comodo.

È un documento che riportiamo, e noi stessi a stenta presteremmo fede a tanta ferocia e a tanta ignoranza, mista a tonta imbecillità

Finalmente, nel 29 aprite 1834, si notificava ai prigionieri che non essendosi potala trovare indizio di colpa sul conto loro, il Re permetteva che tessero lasciati in. libertà.

Scorsero due anni, senza scene di sangue. Ma ceco due in ottobre 1836 si sparge voce di una nuova congiura. Noi crediamo fosse nel sistema di governo piemontese la scoperta delle congiure, e il volerne a forza e il crearne quando non ce ne sono, come più volte ha fatto la sempre logica Polizia Napoletana

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Furono arrestate tre persone, il medico Vallino, l'avvocato Bronsini e il sig. Ducco proprietario di una delle principali botteghe da caffè di Torino. Causa dell'arresto era una visita, che i tre accusati ricevevano da un teologo Rapelli, provveniente dalla Svizzera - e non valsero agli accusati la veneranda canizie dell'uno, la specchiata virtù dell'altro: senza forma di procedimento venivano tutti e tre condotti sotto buona scorta nelle torri di Fenestrelle, dove languivano i condannati di Chambéry, di Genova e di Alessandria.

Dopo gl'inutili strazii di Mondovì passarono gl'Inquisitori di Stato a qualche nuovo genere di tortura, che si potesse impiegare con miglior successo, per strappar rivelazioni agl'infelici che loro erano capitati fra 1unghie: e fatta matura considerazione, deliberarono di ricorrere alla fame.

Si esordi, lasciando soli e deserti per una settimana i prigionieri a fantasticare sulle proprie calamità; poi venne loro, partecipato, d'ordine superiore, che sarebbero privati di fuoco, di lume, di vino, di carne, di tabacco, di tutto insomma, fuorché di qualche oncia di pan nero, e di una brocca d'acqua. E l'ordine si metteva il esecuzione - ordine, elevato oggi a sistema nelle prigioni del libero regno d'Italia, che mettono angoscia a cui voglia visitarle.

Tormentati dalla fame i carcerati, chiedevano almeno un poco di brodo per confortarsi; inutile inchiesta: il brodo fu negato persino al medico Vallino, vecchio ed infermo.

Durava da più che quindici giorni questo stato di cose.

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E quando parve che grazie alla solitudine, al freddo, alla fame, la spossatezza, 1abbattimento, la prostrazione delle membra e la confusione dello spirito non lasciassero pii nulla a desiderare, si affacciava d'improvviso ai prigionieri, fra quelle tetre sbarre, il commissario Tosi, la vista del quale era capace di pietrificare, come la testa di Medusa.

Questa volta l'uffizio procedente non era l'uditorato di guerra. Messa da parte ogni forma di giudizio, chi faceva tutto era la Polizia.

Gli esami del Commissario Tosi duravano dalle 8 del mattino sino alle 5 pom; acciocché affranti dalla fatica e tormentati si rendessero a discrezione. Le interrogazioni non erano già legali costituti, a termine delle Leggi: erano subdole insinuazioni, astute sorprese, ingannatrici lusinghe, false rivelazioni, perfide promesse, cruente minaccie, e tutte queste cose succedevansi con alterna vicenda, passando 1Inquisitore dalle une alle altre con abilità spaventosa.

I carcerati, alla fine dell'esame, sentendosi, per le esauste forze cadere in deliquio, chiedevano per carità qualche goccia di brodo, un tozzo di pane, un sorso di vino, per sostenersi. Tutto prometteva il Commissario, con singolare benignità; poneva soltanto un patto: voleva soltanto essere sinceramente informato delle trame politiche. E maledicendo la crudeltà dei tiranni si rassegnavano gl'infelici a languir di fame in quelle nuove catacombe.

Più di quindici giorni perseverava il Tosi, di cui lo Speciale sarebbe una pallida immagine, nei suoi polizieschi maneggi, passando quotidianamente di carcere in carcere, di tortura in tortura.

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Tutto ad un tratto non compariva più, e i prigionieri trovavansi di nuovo in preda agli sconforti dell'anima, raddoppiati dai patimenti del corpo.

Finalmente, dopo tanto penare, due dei tre arrestati venivano messi in libertà, per effetto come solea dirsi, di reale clemenza. Il terzo, il Ducco, men fortunato, restava ancora gran tempo Tra le crudeli ritorte, né potea cangiarle che in odiosa proscrizione.

E mentre con queste mostruose violenze si calpestava ogni sentimento di giustizia, parlavasi più che mai di progresso umanitario e di riforme legislative!

Che più? Mentre le prigioni di stato rigurgitavano di vittime delle Commissioni militari, mentre i Consigli di Governo popolavano senza forma di processo le carceri di Saluzzo e di Pallanza, mentre sulle coste della Sardegna traevansi con la catena al piede centinaia di sventurati, sotto T anatema della Polizia, pubblicavasi a Torino il Codice Penale, in cui punivansi rigorosamente gli abusi di autorità e di potere! Di chi si burlavano i legislatori?

Ma quella larva di codice non valea certo a scemare la immoralità e la efferatezza governativa. Atroci pene in esso sancivansi contro i reati politici, e non si arrossiva di promuovere la delazione e di raccomandare la rivelazione nei delitti di Stato, sotto pena del carcere e della reclusione a tutti, sotto pena della sorveglianza della polizia allo zio, al nipote, al fratello, alla sorella e persino al padre, persino al figliuolo,

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persino alla moglie, persino alla madre, che non consentissero a tradire il sangue, per servire il Governo. Un tal sistema, rinnovato e corretto dai Govone e compagnia, è stato regalato con la nuova libertà alla renitente Sicilia nel 1863-64!

Si fé pompa di efferatezza nei delitti comuni; si conservò il diritto di asilo e l'immunità ecclesiastica, odiose eredità del Medio Evo; e mentre si stampava in fronte al codice che le leggi penali erano uguali per tutti, si separava a pie' del patibolo il nobile dal plebeo, all'uno destinando il laccio, all'altro la scure.

E perché siano chiaramente comprese le condizioni delle cose e degli uomini che andiam ritraendo, non vogliam passare sotto silenzio la discussione ch'ebbe loco nel Consiglio di stato intorno all'esecuzione della pena capitale.

Gravissima contesa nasceva su questo articolo. Voleva una parte dei legislatori che fosse conservato ai nobili il privilegio del taglio del capo; voleva un'altra parte che si stabilisse l'eguaglianza fra gli uomini, almeno sulla forca

La disputazione andò tant'oltre, che degenerò in alterco, malgrado la presenza del Re, che presiedeva il Consiglio. A placare gli esacerbati animi, fu necessario l'intervento della Corona, da cui non volendosi dare apertamente torto a nessuna delle due parti, si ordinava (art. 14) che la pena di morte si eseguirebbe nei modi praticati!

E in questo sovrano provvedimento - conchiude il Brofferio - sono rivelati molti misteri di quel regno e di quel tempo!

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I Napoletani hanno meravigliato, e sono rimasti sorpresi veggendo che mentre si facea pompa di una effimera unità e la s'imponeva loro con modi non certo fraterni, a Torino poi agivasi diversamente che a Napoli; una legge qui imperare diversa da quella che aveva vigore nel Nord, e il Fisco di Napoli sottoporre a sequestro e ad Inquisizione ciò che il Fisco di Genova e di Milano, col medesimo codice alla mano, aveva creduto tutt'affatto innocuo.

Se i Napoletani avessero letto la Storia di quel regno che loro si è imposto, non avrebbero certamente meravigliato, mentre avrebbero saputo che di tali sconveniente colà accadevano ancora allorché era un piccolo stato. Per molti anni, narra l'avv. Brofferio, la giurisprudenza del Senato di Casale fu diversa da quella del Senato di Torino, e la giurisprudenza di Torino diversa da quella di Genova, di Nizza e di Chambéry. Per un fatto medesimo si aveva ragione in Piemonte e torto in Savoia; per un medesimo delitto si era condannalo al carcere in Nizza, alla reclusione in Casale e assolto in Genova!

Di quel tempo il Piemonte faceva un trattata di commercio librario con la Francia: secondo il solito, tutto a vantaggio della Grand Nation. Fu conchiusa in pari tempo una convenzione per l'introduzione del bestiame nei rispettivi stati; e questa volta fu il Piemonte che guadagnò. E il Brofferio ci ripete che «in Piemonte ai letterati prevalevano gli armenti, e alla bestialità si sagrificava l'intelligenza.»

Stretta così la mano alte Francia, passavasi a fare omaggio all'Austria, conchiudendo matrimonio

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fra il duca di Savoia, e l'Arciduchessa d'Austria Maria Adelaide figliuola dell'Arciduca Ranieri Vice Re di Milano.

In questa occasione grandi e splendide feste furono fatte; un indulto era conceduto, ma agli assassini, ai malfattori, ai delinquenti per comuni reati. A quelli che languivano in Sardegna per provvedimenti di Polizia nessun conforto era concedute. Per le vittime dell'arbitrio e della violenza non vi doveva essere né giustizia, né grazia.

È curiosa una dipintura che fa degli Stati di Italia soggetti all'Austria lo storico Brofferio, in comparazione del dispotismo che aveva impero nel Piemonte.

Dopo di aver descritta la larvata libertà, che accordava il Duca di Toscana, sotto i cui occhi stampavasi l'Arnaldo da Brescia di Niccolini, e l'Assedio di Firenze del Guerrazzi e le poesie dei Giusti, ove non si perdonava al Toscano Morfèo

Di papaveri cinto o di lattuga,

e senza che alcuna molestia si facesse agli autori, il Brofferio ci dice che «dopo Toscana, è d'uopo confessarlo, Venezia e Lombardia, col giogo sul collo della straniera invasione, erano le provincie in cui meno che altrove si facea sentire la disperazione di esser nato in Italia.

«Fioriva in Trieste il commercio, e le ricchezze vi abbondavano. Scaduta la regina dell'Adda dall'antica maestà, non si lasciava conforto di utili provvedimenti. In Mantova, in Verona continui lavori di fortificazioni tenevano occupati gli abitanti; e sgorgava il denaro. A Milano, dove una costante opposizione si manifestava nel popolo, pensava continuamente il governo

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a moltiplicare i diletti per soffocare in molli ozii le magnanime ire.

«L'aristocrazia, che opprimeva m Piemonte» era quasi sconosciuta in Lombardia. Il governo militale, che da tanti secoli teneva poco meno che assediate le città subalpine non prevaleva nelle città Lombarde; appena si vedevano gli ufficiali nelle pubbliche adunanze, e in tutt'altro aspetto che di provocazione. Il gesuitismo, che infestava l'Italia, non aveva mai potute metter radice in Milano. I preti stavano nel loro guscio, e non insolentivano; revisione vescovile non esisteva; non curia ecclesiastica; i raggiri di sagristia non invelenivano; i vescovi facevano i fatti loro senza predicare contro il progresso; di frati non si parlava.

«Ordinato, raccoglievano le leggi in sapienti codici. La giustizia di tribunali lasciava desiderare la pubblicità dei giudizii, ma vegliava imparziale e incorrotta. L'arami distrazione dei pubblici uffizii era attica, illuminata e sagace.

«L'emancipazione del pensiero che filtrava adagio adagio in Piemonte si era prima introdotta in Lombardia. Il sistema di educazione era migliore; l'insegnamento pubblico non soggetto ai frati si mostrava più liberale; le scuole tecniche vennero a Torino dopo molti anni che già li praticavano a Milano,

«Le casse di risparmio, le strade di ferro, gli asili dell'infanzia, gli ospizii degli indigenti, le associazioni di industria e di agricoltura si promossero in Lombardia prima che in Piemonte. In fatto poi di biblioteche, di gallerie, di belle arti, di pubblici stabilimenti, di monumenti pubblici,


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di teatri, di scuole, di istituti di carità, di case di educazione, la città di Milano stava io Italia a nessuna seconda.

«L'intelligenza vi era svolta più che non fosse a sperare, dove i lumi del popolo contrastano agli interessi del governo. Le prose gagliarde di Tommaseo, i versi stupendi di Berchet correvano, quantunque vietati, per le mani di tutti. Alessandro Manzoni teneva inMilano il principato della lirica poesia; faceangli corona Grossi, Torti, Azeglio.

«Cesare Cantù, scrittore di chiaro ingegno e non a torto rimproverato di ambiziosi accorgimenti, contribuiva con operosità indefessa a educare a forti studii la gioventù lombarda. Più di tutti vi contribuiva Carlo Cattaneo uomo di robustissimo intelletto e di alto animo.

«La polizia stessa che in materia di politica apriva cent'occhi e non perdonava, mostrami per alcuni riguardi meno stizzosa e taccagna di quella di Torino; certi pettegolezzi che formavano le delizie di piazza Castello non curavansi in Santa Margherita».

E Brofferio - ripetiamolo anche una volta - è piemontese!

Veniamo ora ai moti del 1848. Noi non li accenneremo che di volo, essendo essi cosa notissima in gran parte agl'Italiani.

Iniziatore delle riforme in Italia fu Pio IX. E il suo nome corse allora sulle labbra di tutti. I Governi dispotici perseguitavano chi gridava evviva al Papa.

A Firenze, a Roma, a Napoli, per quasi tutta Italia, sventolava il vessillo tricolore. A Torino si arrestava chi diceva Viva Pio IX - Né il popolo osava protestare.

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Cinquecento persone, che da prima mostraronsi animose a firmare una protesta al Re, in ultimo non si ridussero che a diciassette.

Si arrestava chiunque zufolava per via un'arietta, nella quale potesse supporsi un inno a Pio IX! E fu imprigionato fra gli altri un povero monello che canterellava il brindisi della Lucrezia Borgia. Vi fu, per questo, qualche tumulto; ma a dissiparlo bastarono le sciabole dei cavalleggieri e le baionette dei bersaglieri.

Dopo però molte titubanze e paure, le riforme cominciarono ad iniziarsi in Piemonte, e finalmente, per volontà dell'Inghilterra, concedevasi una carta costituzionale.

Non è nostro intendimento occuparci qui delle ristrettezze di questo statuto, del quale oggi ancor noi felicemente godiamo. Accenneremo solo l'art. 77, nel quale - perché non si avesse a risuscitare l'antica odiata bandiera nazionale tricolore-dichiaravasi che lo Stato conservala sua bandiera, e la coccarda azzurra è la sola nazionale!

In questo cominciavano i moti di Lombardia. Sulle barricate i giovani lombardi si battevano da eroi contro gli stranieri, mentre eletti cittadini avvisavano alle misure da prendere, perché non avesse ad abbassarsi l'innalzata bandiera della indipendenza.

Il Conte Martini, reduce da Torino, consigliava la dedizione della Lombardia a Re Carlo Alberto. A questo patto, diceva egli, l'esercito Piemontese verrà incontanente in nostro soccorso. Si riunivano assemblee e consigli.

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A nome dei suoi «miei cosi favellava quell'ardito ingegno di Carlo Cattaneo: «Se con Carlo Alberto votate far patti, non è il momento; sareste come il povero alla porta dell'usuraio. Se volete darvi senza patti nessuna maggiore imprudenza. Come fidarvi a un Principe, che vi ha già abbandonati un'altra volta, e che in questo momento vi lascia qui, sotto la mitraglia? E infine, siete stati contenti di esservi dati nel 1814 alla Casa d'Austria?»

- La Casa d'Austria, risposero tutti con veemenza, è casa straniera!

«Sì, straniera, - replicò Cattaneo - ma allora non ci avete voluto badare, come adesso non badate a molte altre cose. Signori, le famiglie regnanti son tutte straniere. Noi dobbiamo chiamare alle armi tutta l'Italia, e fare una guerra di Nazione». (1)

Queste parole furono poco considerate e poco intese. E il Municipio di Milano, costituitosi in Governo Provvisorio, nella mattina del 22 marzo 1848, manifestava l'intenzione di sottomettersi a Carlo Alberto. Ma accanto al Governo Provvisorio costituivasi pure un Comitato di Guerra, a cui non garbava la sommessioae. E i combattenti non potevano comprendere come, appena acquistata un po' di libertà, si fosse cosi impaziente di tornare al servaggio. Quindi mali umori e diffidenze cominciavano a manifestarsi. Ed il Governo Provvisorio vedevasi costretto ad indirizzare ai cittadini la seguente dichiarazione:

«Finché dura la lotta, non è opportuno di

(1) Vedi Cattaneo, della Insurrezione di Milano- libro da mettersi all'indice del fisco di Napoli.

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mettere in campo opinioni sul futuri destini politici di questa nostra carissima Patria. Noi siamo chiamati per ora a conquistare l'indipendenza; e i buoni cittadini di null'altro debbono adesso occuparsi che di combattere. A causa vinta, i nostri destini verranno discussi e giudicati dalla Nazione».

Cosi promettevasi, ma per inganno, e si ingannava per opprimere.

Intanto Radetzki fuggiva dalla città, e Milano restava padrone di sé.

Che faoevasi in Piemonte, mentre al grido di Viva Italia la gioventù lombarda combatteva la straniera dominazione?

Giovani animosi volevano accorrere volontarii al di là del Ticino in soccorso dei fratelli Italiani; ma vi trovavano inciampo come aveva già lor detto il Conte Balbo, nelle schiere piemontesi ivi di guardia: e poco mancò non si venisse alle mani narra il Brofferio, fra cittadini e soldati e si cominciasse le guerra contro lo straniero dalla effusione di sangue Italiano con ferro Italiano!

Il Torres, che comandava una colonna di volontarii presentatosi al ministro Ricci per avere un centinaio di fucili e qualche munizione, ne otteneva risposta che avrebbe riferito ai suoi colleghi. E, poiché li aveva consultati, faceva sapere essere il Governo deciso a non dare alcun appoggio. E il Torres cosi parlava ai suoi: «Ora, miei figliuoli, voi sapete che noi siamo abbandonati a noi soli: ritenetelo.»

Mentre tuonava il cannone nello vie di Milano, l'Ambasciatore d'Austria a Torino aveva l'impudenza d'invitare ad una festa nel suo palazzo; e più impudenti di lui

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- racconta il nostro A. - molti Piemontesi notissimi a Corte e nelle sale dell'Aristocrazia non avevano ribrezzo di accettare l'invito.

Finalmente il 25 marzo Carlo Alberto pubblicava il proclama, in cui prometteva soccorso delle sue armi ai popoli lombardo-veneti, non ancora emancipati dell'austriaca signoria.

É qui bisogna lasciar la parola al Brofferio:

«Ma nell'atto di entrare in campo si scuopriva che quell'esercito, di cui tanto si vantata la floridezza, mancava di tutto. Mancavano le armi, le munizioni, i bagagli, i cavalli, i carri di provianda, i treni di artiglieria, gli attrezzi di campagna; mancava insomma tutto ciò che occorre al soldato che va a combattere. E fu allora che l'amministrazione di Villamarina comparve in tutto il suo squallore.

«E questo era poco. L'esercito che inalberava lo stendardo tricolore, e in nome della libertà d'Italia si poneva in marcia per la nazionale indipendenza, era stato educato sino allora alle più opposte dottrine. Massima cura del Governo fu sempre di allontanare il soldato dal cittadino, pel timore che troppo agevolmente cittadini e soldati si conoscessero fratelli. Odio e disprezzo si eccitava contro i liberali, riverenza per gli oppressori, simpatia per gli Austriaci» ecc. ecc.

Abbiamo voluto riportare questo brano, perché tali massime non in tutto sono, spente negli eccelsi facitori dell'Italia di oggi.

Ma quale fu la ragione, per cui il sovrano di Piemonte traeva la spada a favore dell'Italia oppressa?

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Fu veramente amore di stirpe, intelligenza di tempi, comunanza di voti, sentimento dell'unione italiana, come sta detto nel proclama del 25 marzo?

Noi non siamo mai stati facili a pensare che questi sensi muovessero animo di re-E difatti il sentimentalismo in politica sarebbe come la compassione nell'usuraio.

Il Brofferio pare che non sia lontano dal pensarla come noi.

«Nessun altro partito - egli dice-restava che quello di gettar via il fodero della spada, e stette il Re abbastanza in sospeso perché fosse a tutti dichiarato che la salute della dinastia Sabauda non era più riposta che nella guerra con l'Austria. In fiamme Vienna, in tumulto Berlino, repubblicana la Francia, tutta in rivoluzione l'Italia, era manifesto che ove Carlo Alberto non fosse intervenuto in Lombardia, Milano si costituiva Repubblica, e la Repubblica a Milano, era lo stesso che la Repubblica a Torino».

E ciò veniva anche diplomaticamente dichiarato. Intanto i Piemontesi entravano in Milano, festeggiati e plauditi; ma lo storico registra la voce corsa trai Lombardi: «I Piemontesi ci vengono a soccorrere dopo la vittoria; perché non vennero mentre Radetzky ci folgorava con le sue artiglierie?

Voce, che registreranno anche gli storici del 1860 - allora che narreranno della venuta dei Piemontesi a Napoli. A Milano essi andarono ad impedir la repubblica che si potea costituire; qui a speziare l'opera di Garibaldi, per usufruì tare il già fatto.

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E bisogna stamparsi nella memoria le parole di Giuseppe Sirtori una volta generale di Garibaldi e ammirato nella camicia rossa; oggi superbo dei cordoni e della nappa azzurra, il quale denunziava all'Europa: I Piemontesi non ebbero il permesso d'invader le Marche e l'Umbria che per combattere noi. E noi eravamo l'Italia.

Quelli che si battevano da eroi contro gli Austriaci, e li snidavano da tutti i punti, erano i volontarii comandati dal Torres.

Le truppe regolari erano condannate a rimanersene nella inazione, stando alla retroguardia a guardare quasi indifferenti ciò che succedeva oltre il Mincio, mentre esse non erano neppure sull'Adda.

Torres con la sua legione accampava a poca distanza dalle porte di Mantova, e avea modo di trattare coi cittadini, i quali offrivano di aprire le parte alla prima compagnia di truppa regolare che si presentasse. Torres scriveva incontanente al quartier generale piemontese, e al solito gli si riscontrava con fredde proteste di sincera considerazione,

E' da ultimo, vedendo cornei questa legione: facesse la guerra davvero, si cercava dal quartier generale di scioglierla con tutti i messi che soglionsi impiegare in simili occasioni; cosi, poco per volta, l'intrepido Comandante vide i suoi militi abbandonare gli stendardi dell'avanguardia, ed ei si senti percossa a morte dalle solite armi di corte, l'ingratitudine e la calunnia

Costretto a ritirarsi dal campo, scriveva una lettera a Goffredo Mameli -il più caro tra' suoi uffiziali - incaricandolo del suo addio ai, valorosi fratelli.

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Questa lettera è il grido d'un'anima straziata dal più crudele disinganno, è l'ultimo doloroso accento di un forte patriota, che spezza fa spada, per non fenderla o macchiarla

Torres sentire, prevedeva il mercato della patria - Egli già sapea Milano riconsegnata a Radetsky, per...

Accenneremo di volo altri fatti, che, sotto diverse circostanze, sonori ancora ripetuti nel volgere di questi ultimi tempi.

Gl'inneggiatori della sabauda monarchia, i poeti cesarei hanno gettato tutti addosso a Mazzini ed ai suoi seguaci i rovesci che ridussero allora l'Italia serva allo straniero. Menzogna!

Mazzini, allora, come sempre, abbandonò il suo ideale favorito, la Repubblica, purché fosse salta la Patria: anche allora egli fidò inopportunamente nella monarchia, errore nel quale pur troppo ricadde anche del 1860. E, come nel 60 egli pubblicamente dichiarate, né apostati, né ribelli, nel 48 egli scriveva a Filippo de Boni: Con tutta l'avversione che io ho a Cario Alberto... con tutte le tendente popolari che mi rammentano dentro, se io stimassi Carlo Alberto da tanto di essere veramente ambizioso e unifìcar l'Italia a suo pro, direi Amen.

Intanto emissarii torinesi erano Milano, tra cui il repubblicano Lorenzo Valerio, a predicare la fusione col Piemonte, non altra speranza potervi essere di salvezza, doversi costituire un gran regno al Nord d'Italia, un'Italia una nordica; e a Milano promettersi che ne sarebbe capitale, e tante delizie e tanti piaceri, quanti ne promisero ai Napoletani nel 1860 gli emissari del Piemonte,

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tra cui pure molti antichi repubblicani del 48, come lo Spaventa, il de Sanctis, il Settembrini, oggi più realisti del Re istesso!

Sapete intanto cosa accadeva in Piemonte?

Angelo Brofferio nel Messaggere Torinese scriveva un articolo ove dimostrava la necessità di un' Italia unita, forte, indipendente, di un'Italia Italia!

«La lettura di quest'articolo - narra egli stesso - produsse in Piemonte l'effetto della morsicatura di uno scorpione. Piovvero sul capo dello scrittore tutte le calunnie, tutte le maledizioni. La più lieve accusa che gli si facesse era la solita dell'oro dell'Austria. Sui muri più frequentati della Capitale si leggeva il nome di Brofferio sotto un teschio di sepoltura, con orribili epitaffio. A Novera si fece di più. Si raccolse in piazza il popolo, dinanzi al quale si istituì tuia specie di giudizio statario; poi dichiarandosi l'avvocato Brofferio nemico del Re, e della Patria e dello Statuto, si faceva ardere il Messaggere per mano del birre. E così inauguravasi la libertà costituzionale in Piemonte!»

Noi aggiungiamo: E cosi si ponzava l'unità d'Italia 1848 in Piemonte.

D'altra parte quella condanna quel bruciamento non trova un facile riscontro nei falò di giornali a Toledo, nei torchi scassati nelle stamperie assalite -in omaggio alla nuova libertà portataci il 1860?

Combatteva intanto la guerra tra Italia ed Austria, sotto lo stendardo di Carlo Alberto, né è da tacere come il valore napoletano a Goito e Curtatone avesse mostrato che pur era capace di qualche cosa.

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Gli Austriaci però guadagnavano terreno, e innanzi ad essi ritiravasi l'esercito piemontese. Il Brofferio accusa l'assoluta imperizia militare di Carlo Alberto. Noi abbiamo letto neglistoriograQ di corte com'ei fosse un gran generale!

Quale che fosse la causa di questa ritirata non concedono dire i tempi. E certo che, rientrato appena in Milano, Carlo Alberto spediva i generali Bossi e Lazzari a Radetzky con l'incarico di stipulare la dedizione della città che il valor popolare aveva strappata agli artigli dell'aquila austriaca.

Fremé il popolo all'udire tal fatto; si temevano le orribili rappresaglie» e uno fu il grido: Morire, morire ma non rivedere gli Austriaci. Chi parlò in piazza di dedizione all'Austria fu massacrato a furia di popolo. Ciò consigliava Carlo Alberto a dar fuori un proclama (5 agosto) col quale prometteva ogni assistenza e difesa contro le sopravvegnenti schiere, tedesche.

Ma intanto le salmerie dell'esercito, i convogli di Corte, le munizioni, le armi continuavano a sgombrare verso il Piemonte. Il parco di artiglieria già si era fatto sgombrare verso Piacenza. Come potevasi difendere la città?

E, mentre il popolo fremeva, il Podestà, il Presidente della Congregazione Provinciale congiunti con l'Arcivescovo portavansi supplichevolmente da Radetsky a implorar grazia. E tutto era consumato!

Il popolo, alla fatal nuova, fu presa da ima febbre che non si può descrivere. Volgendo i suoi sospetti e le sue ire - parla l'A. - contro Carlo Alberto,

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rovesciavasi con maggior impeto sopra il palazzo Greppi (ove il Re alloggiava) facendo prova di introdursi con la violenza. Appneansi scale alle mura, traevansi fucilate nelle finestre, tentavasi di appiccare il fuoco alta porta...

Ha nel cuor della notte il Re potè uscire da quel recinto e lasciar la città.

Mentre Carlo Alberto e l'esercito piemontese sfilavano da Porta Vercellina per ricontarsi in Piemonte, Radetzky e le sue truppe col mirto sull'elmo entravano in Milano dalla opposta parte...

Poco altro ci resta a narrare.

Chi tenne le sorti del governo fu Piemonte il 1848 non volle rispondere all'appello delle altre città italiane, che volevano la Nazione. Il partito liberale fu deriso e burlato; non si sperava che nell'aiuto di Francia ed Inghilterra! - Perché? Per far serva l'Italia a nuovi stranieri.

La guerra non si volea dal Governo, e tanto meno dall'esercito. I ministri più volte dimostrarono nel Parlamento l'impassibilità di spingere l'esercito disorganizzato e indisciplinato alla guerra. Gli ufficiali scesero a minaccie e violenze contro quelli che loro si dipingevano istigatori delta guerra. Entusiasmo nazionale non v'era; e a chi volea supporne altamente proclamava il Conte Sclopis: Il Piemonte non è materia entusiasmabile.

La necessità spinse il Governo alla guerra, ma quel guerra!

Noi non ripeteremo quel poco che gli storici han creduto dire intorno alta rotta di Mortara e di Novara. Il valore italiano ha cancellato S. Martino e Palestra quelle vergogne;

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solo le impronte del sangue del Generale Ramorino non son cancellate - e quel sangue rimane onta eterna, a coloro, che lo versarono credendo purgarsi delle proprie colpe,

Il Brofferio nota che dopo la rotta. Cario Alberto fu inteso esclamare; Tutto è perduto, anche l'onore.

E dopo ciò abdicò.

Vittorio Emularmele, che gli succedeva, ebbe tostamente cura di concludere un armistizio, col maresciallo Radetzky, e queste ne furono le condizioni: Occupato il paese fra il Ticino e la Sesia da ventidue mila austriaci a spese del Piemonte; misto presidio di Austriaci e di Piemontesi in Alessandria; congedo da parte del Piemonte delle truppe straniere; riduzione dell'esercito come in tempo di pace; immediate negoziazioni per ristabilire i trattali del 1815; stipulazioni commerciali fra' due $tati; a carico del Piemonte le spese della guerra.

E a notare che facile era agli Austriaci occupare tutto il Piemonte, spingendosi sino a Torino; e nol fecero. È a notare che il 23 perdeyasi la battaglia, il 24 siipulavasi l'armistizio, il 25 il Generale Krzanowscky, comandante le truppe piemontesi vinte, era insignito del Gran Cordone dell'Ordine Mauriziano.

E basta di ciò.

Noi non intendiamo sollevare un velo in cui tutta questa faccenda è involta tuttora.

Noi non vogliamo raccontare gli orrori che si commisero nelle infelici città di Novara, di Biella, di Vercelli - e di Genova, bombardata perché voleva tenere alto Io stendardo della libertà.

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Riportiamo qui appresso per intero da un autore piemontese la descrizione di quelle luttuose vicende. I Napoletani avranno il torto di leggere dodici anni dopo quello che avrebbero avuto ad aspettarsi da un Governo che teneva gli antecedenti, che siamo venuti ripetendo, e che non si sono - come dimostrammo nei paralleli che ci accadde fare nel corso della narrazione - un istante smentiti, nel governare col terrore, coll'arbitrio, con la sciabola, col fucile e col percettore queste provincie, che credettero di darsi all'Italia.

Noi abbiamo pubblicato queste rivelazioni; noi vi daremo pubblicità maggiore, dopo che dall'alto di un Parlamento udimmo chiamarcisi barbari - insulto che in mille maniere e in varie forme ci si è ripetuto dai nostri civilizzatori.

Non desiderio di disunione - che noi sentiamo più che gli altri la necessità della fratellanza nei varii paesi d'Italia - ci spinse a narrare brani di Storia. Volemmo solo far notare a chi volea per forza trovare una festuca nell'occhio nostro senza veder la trave che avea nel proprio.

E facemmo opera cittadina.

IL LIBRO DEL CONTE BIANCO

RIVELAZIONI

Alessandro Bianco è capitano di Stato Maggiore nell'esercito italiano, ed ba dettato un libro sul brigantaggio, di cui giova riprodurre taluni brani che hanno rapporto, sia con le cause del brigantaggio, sia con i famosi accordi coi generali francesi.

Ma chi è il Capitano Bianco?

Il figlio d'un illustre esule, dell'autore del libro sulla guerra per bande, di un compagno di Mazzini, d'un ufficiale di quelle patriottiche legioni piemontesi che nel 1821 gridarono libertà e indipendenza

Carlo Bianco di Torioz era nato a Torino di nobile e ricca famiglia; ma di buon' ora aveva preferito la causa del popolo a quella dei principi dei diritto divino ed a quella causa malgrado le sofferenze, gli stenti, il lungo esilio rimase saldissimo fino alla morte.

Il figlio non diverso dal padre conoscemmo giovanissimo a Marsiglia e ci è grato trovarlo nel suo libro qual'era allora, cioè né adulatore, né servile.

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Il persistente pensiero, le aspirazioni tutte di Carlo Bianco non avevano altro scopo che l'unità, l'indipendenza e la libertà d'Italia - Alessandro Bianco calca le stesse orme paterne.

Egli pensa da uomo libero, e scrive da storico veritiero, ed indipendente... ma è tempo di far parlare l'autore sulle condizioni del nostro popolo agricolo...

«L'uomo della campagna è ridotto allo stato d'ilota, e di servo della gleba; egli è oppressa dall'usura, male rimunerato, non sfamato, stremato di forze, tenuto in servaggio duro, inumanamente malmenato, e malversato. In nessun paese del mondo l'agricoltore è tanto povero ed infelice quanto in queste contrade.

«Egli è macilento, lacero, sudicio, sfinito, triste e muto; e il suo sguardo torvo e fulvo vi dice i suoi rancori, ed il suo odio contro i suoi signori, o meglio oppressori.

«La sua apparente umiltà e la paura che addimostra in presenza d'un qualunque, a lui superiore per condizione ed abito, vi dice lo stato di avvilimento in cui è caduta quell'anima sofferente e rozza, a chi tutto manca, il pane dell'intelletto ed il pane del corpo.

«I suoi sensi sono muti, la sua mente incolta, ignoti i dettami del bene e del male, è un bruto; a chi finalmente non si sono lasciati, che gli istinti e i bisogni materiali non mai soddisfatti, e la consolazione, e il rifugio di una religione, che venne premeditatamente adulterata da un empia politica di governo, e naturalmente falsata dall'ignoranza sua,

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e dalle male arti pretine. Cosicché l'azione dì questa religione fatta idolatra e pagana, fanatica e feroce, non cristiana, e santa, mansueta e benefica, com'è la vera religione di Cristo, è piuttosto fatale che utile, è più fomite di male, che di bene; è più che uno strumento, che un dogma, è finalmente scaturigine inesauribile di errori, e di corruttele più demoralizzatici, che altro.

«Nessuna meraviglia adunque che i briganti, e tutti i delitti che gli fan seguito pullulino e continuamente germoglino; e che ad ogni bivio di strada, dietro un burrone, in una macchia - o sul pentito d'un monte, si vada e a rischio di trovare una masnada di malandrini, che vi spogli, vi derubi o vi tolga la vita...

Ciò chiamasi dipingere, anatomizzare lo stato sociale della nostra popolazione rurale - Il governo caduto n'ebbe la colpa principale, ma che si è fatto dal governo riparatore, non diciamo per estirpare il male dalle radici, ma per modificare le tristissime condizioni di questi infelici? - Nulla; anzi ai è lavorato ad aumentare gli strazii dei miseri villici: prima erano avviliti e calpestati, oggi possono dirsi disperati.

La sicurezza delle strade è sparita, il lavori dei campi in molte provincie si trasanda per tema dei briganti, e nei villaggi la legge Pica h fatto maledire il risorgimento italiano - Un nemico occulto, una denunzia banno fatto deportare intere famiglie, che neppure unite dimore ranno!!

Gli infelici agricoltori sopraccaricati di balzelli

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municipali che mai avevano pagato, spogliati dal briganti finiscono per essere deportati in massa, come manutengoli, quando non sono condannati alla galera dai tribunali militari quali complici dei masnadieri.

Le giunte istituite dalla famosa legge Pica non hanno mai voluto tener conto della difficilissima condizione dei contadini; da un lato i briganti, che gli uccidono ove ricusano di provvederli di vettovaglie, o li denuncino; dall'altro lato la truppa che li fucila o li trae innanzi alle corti militari, e per terzo le giunte che spietatamente li fanno deportare.

Eran dunque queste le dolcezze serbate dal plebiscito ai miseri popoli delle province meridionali? E d'altronde essi non sono forse vittime innocenti della cupa politica di Napoleone 3°? Questi che si encomia dai ministri e si chiama magnanimo, non è il protettore del brigantaggio?

La iniquità del Bonaparte, e la servilità dei ministri italiani fanno uccidere o deportare gli innocenti - E dicasi che riparatore sia il governo, che l'Italia sia fatta!

Parlasi dell'emigrazione annuale dei contadini degli Abbruzzi, e il cuore del filantropo accusa l'avarizia dei ricchi, accusa il governo con le seguenti nobilissime e sensate parole:

«La cagione principale movente dell'emigrazione qual è? Rispondo senza esitare: La povertà non sorretta non aiutata...

«Se i contadini possedessero qualche cosa di proprio, se potessero affezionarsi al suolo ed alle industrie non emigrerebbero; l'agricoltura migliorerebbe, i prodotti si aumenterebbero,


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la miseria sparirebbe, e la demoralizzazione, conseguenza inevitabile degli urgenti bisogni, non passerebbe in successione da padre in figlio: in una contrada ove sònovi terre suscettive della più proficua coltura fa dolore l'emigrazione dei contadini e molto più fa dolore il vedere che queste terre trovansi ammassate tra poche mani, superbe, ambiziose, avare, crudeli, immani, dispotiche...

«Non parlerò di tante altre cause della demoralizzazione della classe più numerosa, e più utile della società che intacca immediatamente gli interessi vitali della politica nazionale su tutte le classi.

«Esistono intanto terre demaniali, comunali e di mani morti. E perché, domando io non si ripartiscono in quantità proporzionale (1) mercé censimenti a questi miseri figli del, padre comune a tutti i viventi? Il beneficio non riscuoterebbe forse un compenso molto superiore dalla loro permanenza sulla terra, dalla domestica loro vigilanza, dalla stima e dall'onor personale, non sedotto, né corrotto dalla fame, né dalla sete, dalla riconoscenza e dall'amore, base incrollabile dei regni e degl'imperi.

«Sino a quando non verrà bene considerata a la povertà del cittadino, e i lamenti del proletario saranno una costante e spaventevole a minaccia ai Governi, la morale sarà sempre quella imposta dai governi.

(1) Perché dimanda Bianco? Perché il signor Pepoli ambasciatore, il sig. Bixio generale ed il sig. Minghetti ministro, di queste terre devono trafficare e darle in preda alla specolazione francese, alla Società Bixio e compagni del credito fondiario!!!

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I governanti furono, e saranno sempre passivi ed incolpabili. La demoralizzazione è imputabile ai soli governi, giacché nasce dalla mala educazione pubblica e dalla povertà, l'una e l'altra sono lavoro tutto speciale dei governi. I DECLAMATORI VENDUTI ALLA LORO POLITICA. I MINISTRI. I

RAPPRESENTANTI DI QUALUNQUE ORDINE SONO IL SEMENZAJO, I VERI OPERAI DEL PUBBLICO INFORTUNIO.»

Studiate ricercate analizzate comparate andate sommando, riunite poi tutto, e sappiatemi poscia rispondere se la demoralizzazione, ch'è il frutto nefasto di tante cagioni e causa di tutti i delitti, è fatto individuale dei governati, o fatto complessivo dei governanti?

E più lontano (Pag. 133) Bianco aggiunge sulla morate del Popolo:

«Eppure io veggo negli annali del mondo, che tutte le costituzioni caddero, e ad esse tenne posto l'assolutismo e il dispotismo! Tutto ciò che riconosce un principio inesatto, impuro, mendace deve terminare nel suo fine. Causa, ed effetto, legge d'ordine immutabile!

«Io dico felice quella nazione dove esiste un governo che sa prolungare la sua esistenza più degli altri, e questo prolungamento dipende dalla giustizia pratica di chi regge, di chi possiede tutte le ruote della nazione, benché si finga con arte di non esistere in mano sua.

«La corruzione deve dunque impedirsi (1) che

(1) La corruzione che già domina in tutte le amministrazioni ch'è di già penetrata in parlamento, non si temerà così presto e d'altronde il governo costituzionale non può esistere senza corruzione - Il principio di autorità non può usurpare il potere del popolo senza formarsi una maggioranza docile nel portamento e mercé la corruzione.

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rinasca e progredisca - E chi può far tanto?

Il Principe... Le costituzioni sono carte da straccio; gli uomini ne sono la vita. Gli uomini vengono dalla mano del Principe in tutti i modi diretti, o indiretti, che tanti sono quanti i desiderii di coprire le proprie intenzioni con le palme dei ministri, dei deputati, e dei senatori.

«Principe e uomini suoi sono costitutori della morale pubblica. Vedete voi la morale di una Provincia d'un regno? Sappiate ch'essa è la monde del Principe, dei Ministri, dei rappresentanti di tutti gli ordini costituiti.

«Una pubblica venalità che rende inutile il merito della virtù sempre umile, timida ed ascosa; una costante impunità dei delitti che sfuggono alla sonnolenza dei magistrati, la quale rende comune il contagio dei vizii; questi, ed altri sintomi sono altrettante prove che la morale epidemia infetta le parti vitali delle provincie meridionali, onde la licenza e l'arbitrio sovvertono la libertà del cittadino».

Quali, e quante verità contengono queste pagine lo comprenderanno i lettori.

Noi dobbiamo prima di {tutto avvertire il fisco che trascriviamo parola a parola dall'opera di Bianco quando qui appresso pubblichiamo, indicando la pagine e l'alinea.

Premettiamo pure, che non tutt'i magistrati sono quali Bianco li descrive. Ne conosciamo moltissimi che onorano la toga per la dottrina, e l'integrità: bastava un'epurazione.

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Conforti la promise, Pisanelli se ne occupò, ma siccome nulla si è ottenuto lasceremo parlare Bianco.

«Va, o lettore (Bianco pag. 273 alinea 6.) va pure nelle Corti, nei Tribunali, nelle prefetture, nei Segretariati, nelle cancellerie, dovunque e vedrai l'orror della CONFUSIONE, del DISORDINE, e ti spaventerai delle innumerevoli stupidezze che assumendo il potere di ordini, provvidenze, sentenze e giudicati, colpiscono barbaramente i cittadini nelle sostanze, nella libertà, nella sicurezza, nell'onore ecc. ecc.

«Esaminato poi dal lato morale e politico là trovi cose incredibili ma vere. Trovi figli dei più efferati borbonici, per fama conosciuti coadiutori dei lor genitori. Spioni pagati segretamente dalla polizia passata, gettati tra la canaglia servile degli amanuensi o degli uscieri, o degli avvocati, o dei mercanti, o della dogana, o dei barattieri di monete, e va dicendoessi sono ora o Giudici circondariali, o di mandamento, o anche di assisie, o sottoprefetti, o delegati, o amministratori ecc. ecc.

«Trovi soggetti diffamati, vissuti co' prodotti delle trappole nei Caffè, e nei lupanari, speculatori di giuoco d'azzardo. Un mio amico Napoletano riconobbe, in un giudicato di mandamento, un ruffiano, che stando egli agli studii in Napoli due volte la settimana si facea trovare ai caffè, detto degli Abbruzzesi, e lo portava in un bordello, dove appuntavagli una ballerina di S. Carlo. Riscuoteva per tanto officio quattro carlini per volta.

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«Questo ruffiano reggeva la giustizia!!!..

«Il riconoscimento cominciò a trapelarsi, il Giudice fu traslocato e promosso nell'alta Italia...

«Trovi camerieri di locande, suonatori, barbieri togati.

«Trovi fàccendieri sbrigliati, figli di ballerine e di meretrici; figli di servitori di corte, di camerieri di ministri, figli naturali di Deputati e nipoti di Senatori, di speculatori di borsa, di Vescovi, Abati mitrati e via via. In questo spaventevole miscuglio v'è sempre il borbonico ed il clericale in grande proporzione confuso e preponderante. Preponderanza diretta per i borbonici conservati, traendoli dal lezzo di quel sistema, giacché l'intelligenza fu tutta abbattuta tranne le poche notabilità conservate; preponderanza indiretta per i creati dalle influenze clericali e borboniche e dall'azione legittimista, Di tutta questa accozzaglia fa un fascio o lettore, e non ne troverai una goccia di sugo intellettuale, né morale, né politico a colore del bisogno Italiano. Funesta verità! Se tu parli o ragioni con essi non senti che lodi sperticate del Bonaparte, essere il re un soldato e non politico; la politica dover da quello indispensabilmente dipendere; noi aspettarci quanto vorrà darci l'imperatore. Insomma tu non odi e non vedi che devozione chiara e spiccia alla francese dominazione. Se cerchi di provare toro che il Re è soldato e principe, che ha cuore e intelligenza, che la Nazione l'ama e Io venera, che può fare senza dipendere, che è forte abbastanza colla Nazione unanime a sé, allora

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tu ti comperi dello sciocco, dell'inesperto, del novizio. Buono il Re, ma soldato e niente più-La Nazione immatura, corrotta, correre agli eccessi, essere una provvidenza il dito di Napoleone.

«Dovrei scrivere un volume ancora se espor volessi a mo' di incisi i fatti, i giudizii della maggioranza. -Questo stesso che ho narrato pare un tratto romantico, ma la opinione è poggiata su fatti che credo di vedere e di toccare, mentre la opinione sta su salda come scoglio.

«lo sono straniero a tutti questi giudizii; spetta all'alto governo del vero; solo posso garentire quanto incompletamente, imperfettissimamente ho descritto.

«Ora una povera riflessioncella. Vedrai o mio lettore, che io posso scherzare in mezzo al pianto - Questo personale eterogeneo, marcio, trasmettente ed epidemico, che si diffonde anche nei corpi municipali, come la lue camorriana, non sarebbe forse pericoloso? Non sarebbe una gran bella forza per un gran colpo di Stato contro la volontà Nazionale? Un po' di parapiglia, un interventuzzo, un grido, e poi un aspetto, vediamo un po', un cosa volete, un plebiscito di rettifica, e intanto un correr giù e su, un dire, un dare a pugni di Napoleonldi: e che so io; un bel promettere e poi dall'urna uscisse confederazione. E poi un dire; Volontà Nazionale del Secolo. Ripetere, non grazia di Dio, ma del popolo: e poi scegliete, e poi tacete - e poi, è fatta la volontà».

Ma Bianco lascia le astrazioni, e concreta a pagina 160, seconda alinea, che noi trascriviamo.

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«Il giudice Matteo Orlando (1) gode poca stima ed è tenuto in conto generalmente di uomo di fede dubbia, venale, debole, immorale. Esso ebbe trattenimenti con parecchie prostitute che stavano carcerate per imputazioni di furti, risse ed altri disordini, sotto pretesto d'interrogatorii... (Sopprimiamo due righe per rispetto dovuto ai lettori) - Consta pure che molti furti militari andaron impuniti, quantunque i ladri fossero stati colti in flagrante delitto.

«Un furto di molte migliaia di Ducati perpetrato a danno dell'Orefice Gonzales in Gaeta è rimasto esso pure impunito e non si fece processo, benché l'istesso giudice avesse detto al Generale Govone avere la certezza morate che quel furto era opera dei Camorristi, e dopo avere trovata anzi una lettera assai compromettente presso un camorrista arrestato per omicidio. Si crede che il giudice Matteo Orlando talora abbia agito fiaccamente per paure e per naturale istinto, talvolta per minaccie, altre volte per interesse, cupidigia e poco scrupolo.

«Il giudice del Mandamento di Fondi Enrico G. convive con una prostituta a nome Carmela.

«La stessa intriga negli affari della giustizia in modo che il pubblico, risente l'influenza di tale donna nel prevaricamento di detto magistrato. Oltrecciò il Giudice predetto è legato di amicizia con l'Usciere Giuseppe Corallo, nelle cui casa conviene tutt'i giorni.

«Il pubblico s'è scandalizzato perché

(1) Giudice del Mandamento di Gaeta.

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a discapito degli altri uscieri tutti gli affari allo stesso commette. D. Clemente Valente, prete, consegnava congedi falsi ai soldati sbandati, mediante lo sborso di duc. 40-Arrestato dall'autorità militare, e consegnato al tribunale civile confessava pienamente il suo reato.

«Dopo un ridicolo processo e una breve detenzione fu mandato libero. L'opinione pubblica ne fu indignata, e corsero voci di trafugamento di rapporti, regalie, raggiri ed altre sconcezze di simile genere.

«Il giudice dell'isola di Ponza de Marinis si è accusato dalla voce pubblica di nutrire principii retrivi, avversi all'attuale Governo, di avere delle aspirazioni borboniche e di esercitare la camorra in fatto di giustizia.

«Il giudice di Pico Raffaele Montuori è un briccone matricolato, un cialtrone astuto ed artifizioso, l'anima di tutti gli intrighi e i disordini di quel paese. Usa intimidazioni e suggestioni per far disdire i testimonii-Ha una brutta tresca con.........»

Basta: noi crediamo bastare; a che serve voltolar dippiii la melma? Bianco ha scritto dopo aver visto e toccato col dito le piaghe, e il conte Bianco è un piemontese dell'alta aristocrazia; tutto il suo libro è un'accusa solenne contro l'operato dei suoi compatrioti!, la sua parola è libera, i suoi giudizii sono imparziali, e nel suo cuore abbondano i sentimenti di giustizia, e di umanità L'opera empia che va compiendosi fra noi egli svela, ed analizza con raro coraggio, ed assoluta indipendenza-Noi continueremo a giovarci delle sue rivelazioni, e crediamo di rendete un gran

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beneficio al paese mostrando che la stampa dell'opposizione lungi dal declamare nel vacuo, come l'accusano, è molto più temperata di chi vede le nostre miserie, e imparzialmente le giudica, le classifica, e risale alle cause con ardire e lealtà-Onore al conte Bianco se pel suo libro fu destituito e privato del suo grado-L'esercito ha perduto un eccellente ufficiale, il paese ha acquistato un leale ed intrepido cittadino, mentre il governo-partito dei signori Peruzzi, Minghetti, Sella, Lama e compagni va sempre più infangandosi.

Il Conte Bianco ci offre ancora pagine curiosissime su l'altra corte di pubblici funzionari, le autorità politiche.

«Vi sono i Prefetti (dice Bianco pag. 151 e alinea 3°) deboli, inerti, tremebondi, tentennanti, malleabili, fanciulloni e passivi. Vi sono quegli attivi imbrogliacarte, faccendieri, irritabili, suscettivi, imperterriti, orgogliosi, ed in sofferenti. Ambedue le specie sono perniciosee e d'impaccio al buon andamento della cosa pubblica.

«Se l'autorità militare (pag. 153) avesse a dare ascolto a Prefetti e Sotto-Prefetti bisognerebbe tenere un esercito ad ogni miglio, e le bande avrebbero le proporzioni dell'esercito.

«Mandano telegrammi a pioggia con le notizie le più sformate e stolte.

«Del resto i Prefetti non saranno mai informati del vero finché avranno al loro fianco per consiglieri, e per amici dei delegati di pubblica Sicurezza uomini come Esperti, Toffani,

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Colombo, Mazza, e compagnia bella, di cui farò fra poco, e con infinita compiacenza. Nel principio del 1861 vi era in Sora uno Sotto-Prefetto, ottima persona, garbata, intelligente, che continuamente faceva partire e tornare la sua famiglia, ed aveva in modo stabile la vettura pronta per fuggire in ogni occasione per Arpino.

«La condotta di queste autorità allarmate, tremanti, e le notizie strane e le più improbabili che piovono da tutte le parti, e le esagerate domande di soccorso abbattono sempre più il morale degli indifferenti, e danno animo agli avversi; difatti, subito che vien suscitato un allarme circolano anonimi e minacce di devastazioni, di vendette, di massacri, appena saranno in numero i difensori di Francesco 2°.

«Mi ricordo che in un sol giorno han circolato per Sora le notizie della morte del generale Pinelli, la fuga del luogotenente del re Cialdini, e l'abdicazione dì Vittorio Emanuele.

«Nel dicembre 1861 fu rubato sulle mura di Gaeta un piccolo cannone di bronzo; furono fatte indagini ed arresti: si conobbero i quattro ladri. Venne dal generale Govone il delegato distrettuale di Pubblica Sicurezza di Mola, Ferdinando Morabito, e riferì che uno degli incarcerati nelle sue deposizioni asserì che, arrestato già precedentemente per altro furto, aveva sborsati otto napoleoni d'oro al delegato mandamentale Colombo, dipendente dal delegato distrettuale sopradetto, per assopire ogni ricerca.

«Circa un mese addietro uno dei nostri

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vapori in crociera catturò una paranzella proveniente da Terracina, la quale aveva due passeggieri sospetti, ben forniti di danaro e non notati sul ruolino. Il delegato distrettuale, a cui i due arrestati furono rimessi, preparò due telegrammi diretti ad Aquila ed a Rieti, per avere informazioni sui due arrestati che di quelle due città erano oriundi. Il medesimo delegato distrettuale avendo dovuto partire per Nipoti per ragione di servizio con qualche sollecitudine; seppe, tornando, che Emanuele Colombo, suo dipendente, aveva trattenuti i due telegrammi e rilasciati i due mediante lo sborso di venticinque scudi.

«Prima che venisse a Mola il delegato mandamentale Emanuele Colombo; eravi per delegato Pasquale Mazza. Costui prendeva denari dalle donne pubbliche, che venivano denunziate dalle Autorità militari come infette, per non arrestarle. Prendeva denari da tutti e per ogni cosa. Il delegato distrettuale constatò a suo carico concussioni simili; ne riferì al Prefetto di Caserta: il Pasquale Mazza fu traslocato e delegato in Aversa, ove ha migliorato la sua posizione!

«Il generale Covone essendo a Sora seppe che il delegato di colà, Giuseppe Esperti, usava del suo ufficio per procurarsi prepotentemente delle donne e per ogni altro abuso che immaginar si possa. Di più era propagatore, per personale codardia, di false ed allarmanti notizie. . :

«Giuseppe Esperti non sa mai nulla; è odiato e sprezzato da tutti perché birbo a nessuno secondo, ciarlone, soverchiatore, perverso.

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«Il generale Govone ne informava il conte Ponza di San Martino, allora luogotenente del Re in Napoli. Il Giuseppe Esperti fu traslocato a San Germano, ove credo sia tuttora.

«Vincenzo Toffani, delegato di Pubblica Sicurezza a Pico, perquisì per due volte la casa Carpo nel solo scopo di ricavarne qualche somma ed appropriarsi qualche oggetto prezioso. Raffaele Piscitelli, armajuolo, stava montando due fucili militari; il delegato predetto sorprende l'artefice in questa bisogna, lo arresta e confisca le due canne. L'indomani lo lascia in libertà col patto di non esigere la restituzione delle due canne, nello stesso mentre s'appropria un fucile della Guardia Nazionale ed obbliga l'armajuolo a montarglielo per niente alla paesana. Lo stesso delegato Toffani nell'anno 1861 formava una squadriglia mobile di 20 individui, non per avere un servizio attivo di polizia ma per profittare della mercede dei salariati facendo negli stati mensili comparire 25 e 30 individui, e questo dippiù ne faceva bonum est sic nos esse.

«Nella reazione del 9 maggio 1861 imprigionò tanti poveri infelici innocenti, carichi di famiglie, che avevano bisogno di pane, mentre i veri rei, i veri reazionarj, perché facoltosi o raccomandati e di larga mano, si videro pettoruti, alteri, schernitori passeggiare per l'abitato.

«Lo stesso finalmente per ben due volte si 6 recato a confabulare coi briganti; la prima volta in Ceprano nel principio d'agosto 1861 e la seconda volta a San Sosio con il brigante

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«Giovanni Tosi; detto Curcillo, che fu poi arrestato dai Francesi e consegnato alle Autorità militari italiane.

«Il Delegato di Pubblica Sicurezza di Civitella Roveto censurava acremente a Crocchio con molte persone l'ordine dello stato d'assedio ed inveiva contro l'arresto dei parenti del briganti, dicendo ciò essere contrario al diritto delle genti ed un abuso di potere, terminando l'irruente filippica con un monte d'ingiurie all'indirizzo del Governo. Il colonnello Charvet, comandante la zona secondaria di Sora, dirigeva a questo proposito un foglio, in data 19 novembre, al sotto-Prefetto di Avezzano, nel quale esponeva la condotta almeno inconseguente e le frasi sconsiderate pronunciate dal predetto Delegato per quei provvedimenti ch'egli avesse creduto del caso. Quel sotto Prefetto invece di biasimare, siccom'era suo dovere, la condotta del suo subordinato, l'approvò in modo calorosissimo e ostentato, portando inoltre accuse di una gravita tale contro uno degli Uffiziali dell'esercito, da costringere il Colonnello comandante la zona secondaria ad ordinare un'inchiesta, dalla quale risultò non solamente la nessuna colpabilità dell'ufficiale, ma la prova irrefragabile della riprensibile condotta del Delegato in questione, nonché la triste e palese convinzione che quel Sotto-Prefetto aveva scientemente mentito e perfidamente ordita e propagata una nera e brutta calunnia.

«Vincenzo Murante, Delegato di Pubblica Sicurezza di San Vincenzo, è un capo camorrista, un'anima venale e bassa, di poco ingegno e di nessuna attività..

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«Il Delegato di Pubblica Sicurezza Pontecorvo è leggiero e di poca esperienza, cura pochissimo il decoro della propria persona e della carica di cui va rivestito; s'intriga e s'immischia di ogni sorta di pettegolezzi e di inezie; è traviato dai suoi doveri da certi amaorazzi indecorosi; s'occupa un tantino altresì di camorra, beve e giuoca allegramente, fa debiti, e finalmente non gode la stima e la fiducia di nessuno e fa tutti i mestieri, meno quello del Delegato di Pubblica Sicurezza.

«Le Guardie poi di Pubblica Sicurezza furono per lungo tempo una ciurmaglia di bricconi, rotti ad ogn vizio ed a tutte le violenze, paladini di lupanari, cavalieri di prostitute, schiamazzatori, infingardi, giuocatori di vantaggio, beoni inutili ad ogni buon servizio; e di mal esempio alle popolazioni, le quali stranamente giudicavano della forza e della onestà di un Governo che di simile canaglia si serviva ed impiegava per rappresentare la legge e la moralità pubblica.

«Ora però mi piace constatare che se le Guardie di Pubblica Sicurezza non sono tali ancora come dovrebbero essere, e che molte riforme siano a desiderarsi e molta espurgazione nel personale ancor necessaria, sono però di molto migliorate in seguito alle continue rappresentanza e querimonie delle Autorità militari ai Prefetti

«I Doganieri poi furono e sono malavventuratamente ancora tuttodì i primi contrabbandi dello Stato. Gli uffiziali doganali sono stati quasi tutti caporali e sergenti nelle famose squadriglie instituite dal generale Vial, che tanto

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spavento destarono in queste Provincie per la loro missione occulta e repressiva, e per le latitudini a loro concesse, l'efferatezza di costumi e la barbarie di cui diedero in poro tempo cosi larghe prove a danno della vita e delle sostanze di questi infelicissimi e malmenati popoli. In seguito al rovescio del Governo soverchiatore e tirannico di cui si erano tutti i campioni e i sicarii nelle sue tenebrose ed implacabili vendette politiche, non trovarono miglior impiego delle loro facoltà, della loro forza e della loro buona volontà, che di schierarsi animosi sotto le insegne del capo banda Lagrauge. Gli affari della reazione essendo riusciti poco soddisfacenti, e la vita da satrapo e i suoi sonni non iscorrente su talami di rose, i capi squadriglia del generale Vial se ne disgustarono presto, a quanto pare, e quindi fecero ritorno alle proprie famiglie, ove non so poi per quali intrighi e raggiri pervennero a pescare il grado di bassi uffiziali ed uffiziali nei Doganieri. Quel che è certo si è ch'essi sono uomini mal sicuri, dati al camorrismo, nutrendo affetto profondo pel governo dei Borboni, riconoscenza direi quasi e venerazione e incapaci a capire gli ordini costituzionali, perché educati e nutriti nel culto dell'assolutismo il più barbaro e feroce.

«Essi sono i primi contrabbandieri dello Stato, ansi i soli contrabbandieri, perché contrabbando non soffrono che a loro profitto non ridondi, e che regolato e diretto da loro non sia.

«I Doganieri loro dipendenti seguirono, come i loro capi attuali, il bandito Lagrange, e formarono i primissimi manipoli di briganti che

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nel 1860 , in sul finire, cominciarono ad infestare queste contrade.

«Sono le prime spie ed i più attivi amici dei briganti attuali.

«Bisogna guardarli a vista perché non diano le loro armi ai briganti.

«È indubitato però che in caso di un rovescio nostro avremmo tutta questa feccia alle spalle, e che primi sarebbero a rivolgere i loro schioppi contro di noi.»

I delegati di Pubblica Sicurezza furono in gran parte nominati dall'egregio Spaventa, dal proiettore di Demalo assassino, quindi varii tra i pubblici funzionati da lui prescelti dovevano offrire un insieme delle simpatie ch'ei risentiva.

Nella pubblica sicurezza vi sono di certo uomini di buona fama, e di non corta ingegno, anche nominati da Spaventa, ma in quel giorno il gran Silvio o era ubbriaco o altri dettava le liste degl'impiegati. Bianco ha reso un gran servizio alle nostre provincie svelando le turpitudini degli uni, e le infamie del governo-partito.

Le pagine più belle del libro in esame sono le seguenti - l'autore pone in rilievo i prezzi dei viveri, tanto accresciuti, e le tasse in così barbaro modo aumentate - Egli dopo aver stabilito un paragone tra il costo delle vettovaglie nel 1860, e quello del 1863 - prosegue così;

«Ora il minuto popolo è attaccato propriamente nelle budella. Tirate le conseguenze, e voi scoprirete subito le cagioni dei furti miserabili, delle frodi, delle truffe, i furti delle campagne, gli assalti alle persone, la sicurezza minacciata, ecc. ecc.

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«Le leggi di registro e bollo - dritto graduale - decimo di guerra, ecc. ecc., hanno desolate queste popolazioni. Contratti pochissimi: chi compra, profitta del bisogno di chi vende: non paga il giusto prezzo ed aggrava sulla proprietà l'aggravio imposto dalla legge. In pochi anni le proprietà si concentreranno appieno nelle mani dei ricchi, degli speculatori, degli usurai e dei manipolatori.

«I notai languiscono perché sono pochissimi gli affari. - Molta gioventù impiegata alle notarie in ozio, vagabonda. Gli affari civili giudiziari, da tanti che erano, scamparsi. I litiganti si spaventano delle gran spese, a prescindere dalla sfiducia creata dalla presente magistratura: se possono, ruinosamente transigono: se non possono, arrestano gli affari. Gli avvocati e patrocinatori colle mani in mano, e cosi tante altre famiglie a terra. Tu vedi uomini di merito a languire. Spopolati gli studi di tanta gioventù che, approfittando delle cognizioni dell'avvocato, imparava e guadagnava pane. Ora licenziati e vagabondi; immersi per conseguenza nei dubbi guadagni del giuoco, in arti immorali, in vizii...

«Per soprassello, la speculazione del Governo con l'avvocheria dei poveri, istituzione ruinosa sotto tutti i rapporti, ripugnante (come fu però immaginata) alla morale, alla dignità del Governo, alla nobile occupazione dell'abile cittadino, essa assorbe gli affari meno incerti di riuscita dei litiganti riputati poveri, se con piccolo censo, che prima dipendevano dagli avvocati ordinarii.


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Consuma carta da bollo, registro, spedizioni. L'Ufficio vince la causa ed il Governo introita valori di spese effimere che idealmente anticipò, giacché niente costa a lui, né carta, né registro graduale, né decimo di guerra. Riscuote le funzioni dell'avvocato, di valor doppio e triplo del soldo e che paga all'impiegato, e cosi togliendo il pace ne all'onesto cittadino, mercanteggia ruinando la classe più intelligente delle Provincie Meridionali (1).

«Legge sulle successioni aperte. Un padre muore, la tenera famiglia resta. Un ricevitore, caldo ancora il feretro, si presenta imperterrito, rovista la casa, penetra i segreti, fa inventario, somma il valore dell'eredità, calcola il diritto del fisco ch'egli rappresenta, e i lagrimanti figli e la derelitta vedova pagano una somma gravissima, e cosi viene strappata ai pupilli una parte della eredità che il genitore con privazioni, fatiche e pericoli, nel corso di molti lustri aveva creata a sostegno e decoro della sua onorata famiglia. Chi non sente stringersi il cuore al cospetto di una legge cotanto snaturata? - Ma che quantità porta via il fisco, voi domandate?- A questa interrogazione il popolo risponde: Ecco là la legge.

(1) «Le provincie Meridionali avevano por questa istituzione. Le leggi di Federico II rimandavano però la difesa agli avvocati destinati alla difesa dei poveri, ma il Governo non riscuoteva le di loro funzioni. Il titolo di Avvocato dei poveri si acquistava per un grande merito. L'Avvocato dei poveri era destinato alle grandi funzioni nella vacanza di cariche eminenti, che percorreva nei rispetti i gradi e terminava nei Consigli del Re. Merito negl'individui, ricompense al merito, e non speculazioni finanziarie del Governo. - Le leggi ultime accordavano gli atti a credito: il difetto stava nell'organico.

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Gli articoli sono brevissimi; leggeteli e fremete, che con tre successioni nella famiglia stessa, che possono verificarsi anche in un anno, dalla agiatezza si balza alla mendicità qualunque famiglia!»

«Osservare al vero non è lo stesso che avversare, ma consigliare al rimedio; dire: ho bisogno, non è legittimare l'esigenza. Censurare la maniera di sovvenir il Governo non è opporsi al bisogno, non è creare avversione, ma riconoscere il bisogno, aiutarlo con mezzi umani ed effettuabili, senza distruggere, bensì edificando. -Si dissimula, si asconde il male. Esso resta, cresce, consuma; esso divora tutto, divora gli affetti, l'amore, e pianta e irradica l'odio. Senza i vantaggi materiali del popolo, insperabili furono e sempre saranno i morali ed i politici. -I cambiamenti sono fondati tutti nella speranza del migliore, non del peggiore avvenire.

«Esempio brevissimo comparativo:

«1859 - Carta da Bollo «1863 - oggi -

G. 6 G. 31

G. 12 G. 54

«1859. - Registro e Bollo, contratti per qualunque somma, fosse di un milione; compre, vendite, permute, mutui, censi, ecc. » 80

«Scritture private. » 30

«Testamenti e Donazioni » 80 «1863, -Oggi-

Atti pubblici per ogni

100 lire 0. 4

«Scritture private » 4

«Testamenti e Donazioni » 4

«Più: Decimo di guerra

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«1859. - I contratti privati di qualunque satura sono soggetti a multa se non rivelati e non registrati; «1863. -Oggi - Multa, Registro e Decimo di guerra, come sopra.

«1859. - Successoni legittime. Successioni testali. Legati di qualunque specie, non soggetti a verun diritto fiscale, a veruna multa; «1863. -Oggi-

All'inventario - al 40|0

- alla coercizione- al decimo di guerra, ecc.

«Lo specchietto, contiene un cenno. Lungo e grave sarebbe il dir tutto. Basta però affinchè si senta sopra i nervi il draconianismo delle leggi settentrionali.

«Inoltre, che avverrà colla Legge mobiliare da eseguirsi nel 1864, e per altri aggravi? ferra rovente sopra la sanguinosa ferita! - II cammello non porta più che tanto: se un'oncia voi accrescete il carico del cammello, si genuflette e più non si rialza se non l'avete alleggerito. Eccovi pur la umana natura. Dura lex, sed lex, lo capisco e so che vi sono circostanze in cui bisogna chinare il capo a questa crudele sentenza ma non mi venite a dire almeno che la legge è giusta, ch'essa è basata sulla equa ripartizione|-La provincia dell'Abbruno ulteriore secondo, per esempio, paga il 9 per capo, cioè:

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Imposte dirette L. 1,232,61999

Sovraimposte Provinciali » 108,117 29

Sovraimposte Comunali » 45,36619

Imposte indirette » 1,313,11685

Una bagattella di L. 2,717,452 23

«Chi paga le imposte dirette? Il proprietario. Chi le indirette? Il proprietario. E le altre? Il proprietario. - Dunque la ripartizione dovete fare coi proprietari. I proprietari soltanto, e non i proletari. Gravate gli uni, non mischiati gli altri.

«Ma voi ripartite per individui di uno intera provincia: dunque illudete. È proprietario il capitalista; è proprietario il possessore di stabili, di semoventi, di iscrizioni sur gran libro, e cosi di seguito .- Ma quanti sono tutti questi proprietari? Ebbene tanti saranno i pagatori! Dunque i 2,717,452 23, da costoro soltanto dovranno pagarsi; dunque dovete escludere sette decimi almeno della popolazione; dunque il peso per taluni adsorbirà la rendita e assalirà il capitale; per altri lo scemerà moltissimo: per tutti un decremento spaventevole! A tutte queste imposte dirette e indirette aggiungete tanti altri balzelli municipali, i quali se non passano al fisco, restano a sopraggravio più della povera che dell'agiata popolazione, e vi persuaderete a qual dura condizione vennero soggettate queste Provincie.

«È pur certo che le rendite de' beni demaniali e delle manimorte direttamente s'incassano dal Governo.

«Era una speranza d'alleviamento la ripartizione.

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Quali vantaggi all'industria ed all'agricoltura non si sarebbero procurati; quale diffusione di amore nel popolo; quale unificazione d'intenzioni; quale appoggio morale e materiale non si sarebbe conseguito? Guardate l'opposto e vedrete il contrario.

«La povertà, l'accattonaggio, il vagabondaggio, non son cose che si narrano, ma che veggonsi, si toccano, con tutte le altre sciagure che arrecano. Come evitarlo, posto mente al già detto ed a quanto assai dovrebbe soggiungersi? Quando le rendite dello Stato si coagulano nelle mani di pochi; altre i confini oltrepassano del Regno; altre si sperdono in minute frazioni; altre dallo straniero fruisconsi; altre da altro e da altri, come volete che la Nazione non resti esangue, smarrita e squallida?

«I delitti sono effetti, le cagioni peggiori e primigenie stanno fuori di noi. In noi rimane la necessità, che abbuiando lo spiritò e indurando il cuore, arma la mano e conduce al delitto.

«Addio leggi, quando il bisogno stringe gli uomini. Il bisogno è un genio che non ha eguale. La fredda riflessione della legge non raggiunge mai la elettrica scintilla della necessità. Il bisogno è proteiforme: e la fame, la sete, la nudità assumono tutte le sembianze,

«Se la legge lo colpisce, delinque. Immola la propria vita, perché la vita del cittadino è vita della legge. Le cagioni stanno fuori del cittadino. Esse siedono alte, alte. - Eccovi l'allegoria dei giganti.

«Non scrivo teoriche d'economia, rilevo fatti

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e ne accenno qualche ragione. Niente però del mio.

«Il 1860 trovò questo popolo del 1859 vestito, calzato, industre, con riserve economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva animali; corrispondeva esattamente gli affitti; con poco alimentava la famiglia, tutti, in propria condizione, vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso è l'opposto; i ricchi non sentono pietà; gli agiati serrano gli uncini della loro borsa; i restanti indifferenti o impotenti. Niuno può o vuoi l'altro ajutare, sconforto da per tutto.

Noi non possiamo fare a meno di pubblicare le ultime pagine del libro di Bianco - I pensieri dello scrittore sono talmente pratici, talmente elevati, patriottici, e nuovi che noi facciamo voti per vederli mandati ad effetto.

Il capitano di stato maggiore comprende la situazione del paese meglio dei nostri politiconi e suggerisce i rimedi.

Il soldato è legislatore ed economista, né a lui fecero difetto i buoni, e profondi studii.

Ascoltiamo Bianco, e giudichiamo.

«Che l'erario sia agli estremi non dobbiamo negarlo. Che dei milioni ci gravino, nemmeno possiamo negarlo.

«Che altri milioni già si afferrino, nemmeno possiamo negarlo. Che le rendite fisse gravosissime dello Stato si spendono allegramente e si dissipino senza guardarci tanto pel sottile, nemmeno possiamo negarlo. Salta poi agli occhi anche dei più balordi il fallimento prossimo pregno di malanni.

E chi sarebbe tanto losco da non vedere al di là di una spanna dal suo naso?

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«Ma che cosa vuol dire la opinione della maggioranza: Debiti non si facciano. - Si ripiani altrimenti? _ Qual problema si asconde nel senso comune della popolazione? - Riflettiamo un poco.

«Le leggi di aggravi, che il senso comune suppone tratte e venute dalla Francia, sono creazioni delle sciagure dell'impero Romano.

«I francesi copiarono, noi copiano, tutti non sappiamo calcolare né i tempi, né le cose, né i principi, né le distanze.

«Augusto piantò questa base:

«1° Spese richieste dalla conservazione dell'autorità.

«2° Dalla prodigatiti indispensabile per un nascente dispotismo.

«3° Dalla necessità di affezionarsi le Legioni, che poscia rovesciarono la libertà.

«4° Dalla avidità delle Coorti pretoriane.

«5° Dalla organizzazione superiore ed inferiore del Governo.

«6° Dalla esorbitanza di dette spese e dalla necessità di nascondere al popolo le ingenti somme richieste per vessare il popolo istesso, onde raggiungere l'assolutismo.

«Fondata la base, Augusto edificò le leggi di generale imposizione;

«1° Su tutte le cose venali;

«2° Sopra la credità;

«3° Sopra tutti i legati;

«4° Introdusse il sistema doganale.

« Il risultato di tutte quelle leggi era l'1 per 0|0 sulle cose venali

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il 5 per 0|0 sopra i legati, e sopra le eredità da 50 a 100 pezzi d'oro.

«Leggete Tacito, Annali, lib. 1°, cap. 78: Dione, lib. 55, cap. 56; Plinio, Storia Naturale, lib. 7° e lib. 33° e vedrete che le pressenti leggi sono antiche.

«Ma qual fondo esse avevano? La sovversione della libertà in dispotismo. Sapete quanto ci ha riferito quello scimunito di Tacito?

«L'imbecillito storico-politico fece la solenne baronata di tramandare ai posteri, che il popolo Romano insorge fieramente; che il tirannissimo Tiberio dové ingannare il popolo insorto con un editto, assicurandolo che una parte degli eserciti, e la maggiore, poteva sostenersi con quelle gravezze. In questo editto tacque:

a) le ingenti spese per la creazione del suo partito concentrato,

b) nella milizia,

c) nelle magistrature tutte,

d) nel patriziato,

e) nella plebe,

f) nello spionaggio,

g) nei ricchi,

h) nel lusso, con cui doveva illudere

«Ecco la origine vera delle leggi che ora dissanguano questa povera Italia. Ma quanti secoli non decorsero da Augusto e da Tiberio al 1864? Qual differenza d'intelligenza, di progresso, di condizione?

«Ditemi un po' schietto schietto:

«1° Se lo imporre una pena pecuniaria ad ogni cittadino industrioso;

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«2° Se l'obbligare il mercadante a pagare una multa, crescente in ragione del beneficio che egli reca allo Stato;

«3° Se il trattare il commercio, anche del numerario, con i mutui, compre, vendite, locazioni ed altro, come inimico;

«4° Se il trattare l'altrui eredità quasi cosa propria ed assoluta;

«5° Se il popolo, inceppato tra le catene or delle imposizioni fiscali, debba risentire tutti e i patimenti che vengono dal commercio e dalle industrie arenate, impastoiate, intralciate;

«6° Se altrettanto del traffico interno ed esterno, interrotto da mille interessi e mille cupidità, che guardano il cittadino industrioso con occhio avido e spilla cui pecora, bue e or giumento si slanciano per impossessarsi del sudato frutto;

«7° Ditemi se una nazione la quale con germogliare prestamente nel seno della libertà, e possa fiorire tra le arene della oppressione?

«Ma che dite mai? Rispondono gli ufficiosi consortieri.

«Codeste domande celano falsità di fatti, erronei concetti, e per ciò sono indegne di riscontro. Esse generano sentimenti avversi al nuovo sistema: chi li proferisce o è Borbonico e clericale insieme, o Mazziniano marcio, peggio ancora un brigante, e dalli, dalli su!..

«Che cosa dice la Opinione? Ve lo ha detto a già su cento metri e tuttodì vel dice; è ormai a una vecchia canzone. I fatti che allega si vedono e si toccano. So benissimo che i manipolatori della cosa pubblica sempre vanno esclamando:

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Bisogno! bisogno! bisogno!!! - Volete l'Italia una? bisogno-Volete Venezia e Roma? bisogno Esercito possente? bisogno. - L'interesse è vostro: dunque le gravezze a voi. E fin qui non abbiamo penetrato l'interno del problema formulato dalla opinione. Non abbiamo fatto altro che ricercare la origine e le ragioni delle leggi degli aggravii pubblici che a quando a quando nel corso dei secoli rinnovansi, dimenticate sempre, per vedere se avessero qualche rapporto coll'oscuro problema.

«Non bisogna far debiti, dice il senso comune della maggioranza; ma pagare i già fatti, evitando gli aggravii, e riequilibrarsi. Contempliamo il problema e facciamo un po' come il chimico; esprimiamoci meglio, preponiamo l'analisi affidata al politico.

«I principati, assoluti o rappresentativi, costretti a prender le armi per la difesa della Nazionale volontà o per la costituzione imposta, non possedendo denari risparmiati nella pace ricorrono al prestito straniero ed alle imposizioni per pagarlo.

«L'Italia non ne ha posseduti bastevolmente!

«Non ci spieghiamo dippiù sui motivi di questo fatto. Certo è che contrasse debiti fortissimi, che trovasi agli estremi, e che bisogna riparare al male.

«È questione di vita o di morte!

«Quali sono le conseguenze palpabili dei debiti nella maniera già contrattati? Esse ci diranno se il modo usato è disastroso o no. Se fosse disastroso non sarebbe utile il consiglio di non contrarre debiti, ma inventare altro a mezzo per aver denaro e pagarli?

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«L'Italia, colla maniera sua oppignorò una buona portone delle rendite dello Stato ai suoi creditori, quasi tutti stranieri.

«La Nazione si è privata di una buona parte delle sue rendite per pagare gl'interessi. L'erario risente grave peso della perdita, ma le popolazioni sono costrette a più grandi sacrifici onde rimpiazzare il vuoto senza purgarsi dei debiti.

«Dopo i primi debiti si fé ricorso a nuovi aggravii, senza riguardo alla agricoltura ed al commercio, alle arti, ai mestieri alle professioni, ecc.

«Si è creduto doversi co' nuovi aggravii compensare, gli interessi dei debiti. - Ma i debiti restano e gl'interessi producono un disavanzo enorme.

«Nuovi debiti ed altri aggravii. Il disavanzo è cresciuto di gran mole, e i debiti restano.

«Tutto questo è fatto permanente che non offre replica. Quali saranno le conseguenze di questo fatto? La risposta non può darcela sicuramente un finanziario. Il freddo politico però la darebbe. Ma non è meglio consultare la storia maestra rigida e disappassionata di casi simili? Or la istoria c'indica quanto avvenne sotto il regno di Luigi XIV, che riunì là Francia. Ci rimanda all'Olanda, a' suoi sospetti ed alla sua smisurata ambizione. Ci addita l'Inghilterra a la quale, compresse tutte le molle dello Stato, alterò tutti i muscoli del suo corpo politico, oppresse i suoi terreni, le sue case, i suoi commerci, le sue industrie, spaventò fino il lupo coi dazi, estendendo l'avidità

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sulle bevande più ordinarie del popolo, e ciò per pagare l'interesse di un debito di 3,300,090,000 di lire che aveva contratte sino all'ultima guerra colla Francia e colla Spagna. Che cosa ne susseguì? - La ribellione delle sue colonie! - Presto o tardi l'Inghilterra dovrà dichiararsi fallita in mezz0 ad una rendila di 250 milioni di lire perché ogni governo deve dichiararti fallito quando la Nazione non può reggere ad enormi spese di contribuzione.

«Ho letto che I Inghilterra paga nientemeno che 111,577,499 lire per interessi del suo debito Nazionale. Quindi e dovrà liberarti del debito o dovrà soccombere. E noi cosa paghiamo? Credo sia difficile saperlo di certo, ma credo, se non erro, che il nostre disavanzo ammonti già ad un milioncno al giorno, locchè sarebbe pari a 366 milioni per anno.

«E chi siamo noi? Nazione e non Nazione; consolidati e non consolidati: presto o tardi in guerra lunga e terribile.

«L'Inghilterra è nazione fondata da secoli, e noi no -Intanto è infelice e preoccupata in mezzo alle stesse sue dovizie. Da lunga pezza prevede l'Inghilterra la sua ruina, onde logorasi il cervello senza riposo né trova ancora il modo di riequilibrarsi. Fra i tanti progetti scartati vi è stato quella della ripartizione del debito capitale fra tutti i sudditi, in maniera che ognuno contribuisse una somma proporzionala alle facoltà sue, e con questa ripartizione si lusingava di estinguere ad un tratto i debiti pubblici. Ma questo progetto fu giudicato ineffettuabile per mille e mille ragioni, e fu respinto.

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«I nostri politici, che imparano la costruzione e l'architettura delle case altrui, invece di studiar bene a fondo le proprie, adottano ciò che gli altri rigettano. Non è forse vero che sino a questo istante i consigli sanzionati non sono altro che pensieri stranieri respinti dagli stranieri?

«Ma i dolori d'Italia non sono cosi acuti e profondi siccome quelli dell'Inghilterra, sol che noi, noi fatichiamo tanto per aggravarli ancor più, che quelli non sono per gli inglesi, a noi stessi.

«Dunque il problema del buon senso contiene un grande e nobile scopo, quello cioè, di scongiurare l'Italia dalle ruine delle altre nazioni.

«Ma quale sarei tre il mezzo più conducente a questo santissimo scopo?-Il mezzo si trova in noi stessi: nella nostra logica, libera, fredda, sensata, indipendente dagli stranieri suggerimenti. Noi siamo italiani, noi fummo e saremo sempre maestri e duci di tutti, sol che ci piaccia pensare, volere ed operare italianamente.

«Noi abbiamo una strada senza pericoli per saldare i nostri debiti, per ristorare le forze dell'erario, e per trovarci pronti a tutti gli eventi, alterando però tutte le insopportabili gravezze che ci opprimono e ci desolano. E quale sarebbe questa strada?-Eccola:... ma non precipitate il vostro giudizio pria di averla seriamente meditata, chiudendo gli orecchi alle nenie dei consortieri... Una sottoscrizione libera di tutto il popolo, da rimanere aperta sino alla estinzione di tutti i debiti.

«lo son sicuro che l'entusiasmo nazionale, la generosità, la ricchezza, la vanità stessa, non tradirebbero la speranza del Re.

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«Il sentimento della propria nazionalità e della propria indipendenza; il lusinghiero spetta dell'avvcnire e la voce autorevole del Be, tutte queste molle possenti, bene adoperate, sarebbero un arra sicurissima del successo.

«Voi vedrete dal più miserabile abituro al più ricco palagio versare con fare la moneta della propria nazionalità ed indipendenza- Se tanto si raccoglie dalle associazioni, che timidamente, avversate pure, in ristrette classi agiscono, cosa non si otterrebbe alla luce del sole, all'invito della patria per bocca del suo magnanimo Eletto? Credete pure che il meschino italiano può anche recare alla cassa della Nazione cinque franchi; un versamento compensativo, non vi darebbe tosto 30 milioni di piastre?-Io non ne dubito.

«Tuttocciò è un problema di vita o di morte-to be or not o be. Non dobbiamo illuderci o lasciarci ingannare. I debiti, gli aggravii eccessivi sono, cose dissolventi, irritanti, distruttive.

«Il flagello si dilata su tutto e sopra tutti; deve fermarsi ad ogni costo.

«Si apra la volontaria e permanente soscrjzione: che il Governo l'animi svelandone apertamente i veri e giusti motivi, e che il Re col suo paterno labbro v'infonda nuova speranza e calare e vedrete all'istante correre all'urna del sacro deposito il fabbro, il giornaliero, l'artista, il filosofo, l'industriante, l'agiato, il ricco e fino il più meschino dei meschini con gioia e sorriso, versare i risparmii, il superfluo, l'eccessivo.

«Il popolo non s'inasprisce quando comprende il bisogno della patria guarentito dalla fede del padre suo, il Re, e non dalla ciurma degli

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intriganti e dei raggiratori e dei faccendieri del Governo. La Repubblica di Venezia, durante la lega di Cambrai, non fu obbligata di ricorrere ai prestiti, benché avesse dovuto resistere a tante potenze riunite perché tutti i cittadini volontariamente contribuirono a misura delle proprie forze. L'Olanda, nel 1672, mise in piedi un'armata poderosa senza crear debiti, perché il popolo contribuì volontariamente le spese che reputò indispensabili alla sua salvezza.

Ed a noi, a noi italiani che sentiamo tanto cocente amor di patria, si negherebbe altrettanta fede?... Non siamo noi dunque più i discendenti di quel popolo che spogliava il bel sesso delle sue gioie e dei suoi monili per sagrificarli sull'ara della patria, minacciata da un vincitore insurperbito? Gli italiani che hanno per liberarsi dallo straniero non vedranno un sagrifizio, ma un sentimento di dovere che li conduce alla soscrizione.

«Essi vogliono liberare la Patria con forze non oppresse, non violentate: vogliono donare, ma non dare per via estorsioni.

«Non altrimenti saprei interpetrare il problema della pubblica opinione: interpetrazione che parmi logica, giacché quando si fa appello in famiglia per la salvezza di essa, compiesi un dovere di famiglia contro gli assalti dei suoi nemici interni ed esterni».

CONCLUSIONE

Da quanto abbiamo esposto brevemente nei pochi fogli delle nostre Rivelazioni,

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i lettori si faranno persuasi di ciò che noi vogliamo inferirne. Ad esuberanza abbiamo provato, che i parassiti governativi, non sono, non furono, e non saranno mai, ne unitari, né liberali. L'unità fu un motto d'ordine, fu un gergo da camorra, fu un assassinio politico, consumato a danno dei popoli illusi.

Al momento, che le nostre rivelazioni, faranno il giro del mondo, i popoli della terra, ammaestrati dalla cruda esperienza, si riconfermeranno nella verità da noi esposta.

Senza tanti pezzi d'appoggio, quali sono quelli da noi citati a sostegno delle nostre idee politiche due fatti culminanti rispondono ampiamente per noi.

La convenzione del 15 settembre è ciò che dimostra a posteriori, la pravità dell'intenzioni, di coloro nelle cui mani caddero sciaguratamente i destini di questa terra infelice: a priori poi, la grazia imposta al governo italiano, pei fratelli la Gala.

Se i lettori porranno mente, a quanto noi brevemente abbiamo esposto, e si prenderanno la pazienza di confrontarlo con ciò che avviene nel mondo politico, ritroveranno un accordo mirabile con i principi da noi propugnati.

Il paese che è stato messo alla tortura, da coloro che oggi ne regolano i destini, se resisterà ad aspettare la conchiusione di questo dramma, che è presso al suo termine, vedrà come non ci apponevamo male, quando dicemmo che l'Unità per i nostri governanti è un utopia, l'indipendenza una parola vuota di senso, la libertà, una chimera.

FINE.

INDICE*
Ai lettori Pag. III
Le rivelazioni del poliziotto Curletti V
Rivelazioni 7
Il governo partito 45
I partiti politici in Italia 59
Il Piemonte e la casa Savoia 64
L'emigrazione 67
Diplomazia, mezzo pacifico 70
Circolare del Comitato elettorale di Napoli 90
Mozione d'inchiesta del deputato Francesco Proto 101
La Storia è lo specchio delle umane operazioni 135
Narreremo, raccapricciando, un infame modo 216
Il libro del conte Bianco 239

* Il libro è sprovvisto di indice, lo abbiamo inserito noi per facilitare la consultazione da parte dei lettori [Zenone di Elea]

Potete trovare il testo nelle seguenti biblioteche:
Biblioteca nazionale Sagarriga Visconti-Volpi - Bari
Biblioteca della Società napoletana di storia patria - Napoli
Biblioteca comunale Manfrediana - Faenza - RA
Biblioteca Federico Patetta del Dipartimento di scienze
giuridiche dell'Universita' degli studi di Torino
Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele III - Napoli
Biblioteca di storia moderna e contemporanea - Roma











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