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DELLE
RECENTI AVVENTURE
D'ITALIA
PER
IL CONTE ERNESTO RAVVITTI.
"La violenza distrugge e non edifica"
CAVOUR, 1848.
GLI EFFETTI.
VENEZIA,
TIPOGRAFIA EMILIANA.

1865.

LIBRO TERZO. Due mesi di guerra Pag. 7

Capitolo Decimosesto. - La Toscana e i suoi sommovitori. » ivi

» Decimosettimo. - Colpo di mano a Firenze » 41

» Decimottavo. - Un rovescio a Parma » 72

» Decimonono. - Gli Austriaci in Piemonte » 104

» Ventesimo. - Gli alleati in Lombardia » 129

» Ventesimoprimo. - Rivolte nei Ducati » 149

» Ventesimosecondo. - Il Papa e i neutrali » 177

» Ventesimoterzo. - Pace di Villafranca » 209

LIBRO QUARTO. Il non intervento » 253

Capitolo Ventesimoquarto. - Diritto nuovo » ivi

» Ventesimoquinto. - Trattati di Zurigo » 275

» Ventesimosesto. - Guerra al Papato » 293

» Ventesimosettimo. - Savoia e Nizza » 330

» Epilogo e Conclusione » 365



DELLE
RECENTI AVVENTURE
D'ITALIA
PER
IL CONTE ERNESTO RAVVITTI.
"La violenza distrugge e non edifica"
CAVOUR, 1848.
GLI EFFETTI.
VENEZIA,
TIPOGRAFIA EMILIANA.

1865.

LIBRO TERZO. Due mesi di guerra Pag. 7

Capitolo Decimosesto. - La Toscana e i suoi sommovitori. » ivi

» Decimosettimo. - Colpo di mano a Firenze » 41

» Decimottavo. - Un rovescio a Parma » 72

» Decimonono. - Gli Austriaci in Piemonte » 104

» Ventesimo. - Gli alleati in Lombardia » 129

» Ventesimoprimo. - Rivolte nei Ducati » 149

» Ventesimosecondo. - Il Papa e i neutrali » 177

» Ventesimoterzo. - Pace di Villafranca » 209

LIBRO QUARTO. Il non intervento » 253

Capitolo Ventesimoquarto. - Diritto nuovo » ivi

» Ventesimoquinto. - Trattati di Zurigo » 275

» Ventesimosesto. - Guerra al Papato » 293

» Ventesimosettimo. - Savoia e Nizza » 330

» Epilogo e Conclusione » 365


01A - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 - HTML
01B - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 - HTML
01C - Delle recenti avventure d'italia (Le cause) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 - HTML

02A - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 - HTML
02B - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 - HTML
02C - Delle recenti avventure d'italia (Gli effetti) Ernesto Ravvitti - Venezia, 1865 - HTML
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La Civiltà Cattolica, 1866 - Delle recenti avventure d'italia di Ernesto Ravvitti - ODT
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LIBRO TERZO.

DUE MESI DI GUERRA.

DALLO SCOPPIO DELLA GUERRA D'ITALIA NEL 1859

ALLA PACE DI VILLAFRANCA.

SOMMARIO.

XVI. La Toscana e i suoi sommovitori. - XVII. Colpo di mano a Firenze. - XVIII. Un rovescio a Parma. - XIX. Gli Austriaci in, Piemonte. - XX. Gli alleati in Lombardia. - XXI. Rivolte nei Ducati. - XXII. Il Papa e i neutrali. - XXIII. PACE DI VILLAFRANCA.

CAPITOLO DECIMOSESTO.

La Toscana e i suoi sommovitori.

Concordi e discordi. - La Toscana nel 1848. - Livorno e la Costituente. - Leopoldo II. a Gaeta. - II 12 aprile 1849. - L'intervento austriaco e l'occupazione. - Dall'abolizione dello Statuto al Congresso di Parigi. - Carlo BonCompagni a Firenze. - La Società Nazionale Italiana in Toscana. - Le fazioni e i loro rettori. - II barone Bottino Ricasoli; vinaiolo e giornalista, gonfaloniere e cospiratore, restauratore e ancora cospiratore. - II marchese Cosimo Ridolfi. - Ubaldino Peruzzi, quella gentile volpelta. - Don Neri Corsini, marchese di Lajatico. - Guglielmo conte CambravDignv. - II cieco Capponi. - Vincenzo Balvagnoli. - Galeotti e Giorgini. - I congregati e le congreghe. - Prime certezze apportate dal Salvagnoli. - Un crocicchio di tre vie. - La neutralità. - Piano de' faziosi. - L'esercito toscano. - Equipaggi delle Legazione di Sardegna. - BonCompagni smaschera le prime batterie. - II libro Toscana ed Austria. - Istruzioni segrete ai Comitati Nazionali. - Ridolfi a Torino. - Seconda parte del programma.

C

oncordi quanto allo scopo supremo di rimaneggiare a lor grado Stati ed ordinamenti politici d'Italia, in particolare concordi rispetto allo spazzare dalla Penisola durante la guerra le case regnanti di Toscana, Modena e Parma, dopo le quali, dicevano,

8 CAPITOLO DECIMOSESTO.

il resto sarebbe venuto da sé, condizioni tutte pattuite a Plombières ed a cui già l'Imperatore de' Francesi aveva di sottomano per alcun suo fidatissimo rivolte talune cure speciali (1); per nulla in tutto concordi quanto ad accessorii essenziali erano gl'intendimenti che aveano guidato Napoleone III. a servirsi di Cavour, e Cavour ad appoggiarsi alla protezione ed alle armi di Napoleone III. Scendeva questo in Italia per raffazzonare, pur buscando qualcosa per sé, un'Italia francese, un'Italia che gli fosse alleata, ma un'alleata subalterna, , un'alleata com'erano gli alleati della Repubblica romana; un'Italia che sopperisse al bisogno in cui egli versava di aversi d'accosto altri sovrani che con lui tenessero comune l'origine dal suffragio universale. Lo aveva invitato questo, per ampliare col suo soccorso quanto più fosse dato i confini a Casa di Savoia, ed una volta discese le armi francesi nella Penisola, approfittare d'ogni circostanza, quanto meglio gli avvenimenti lo concedessero, per attraversare almeno nel cuore d'Italia gli scopi dinastici peculiari del Sire di Francia. Or non aveano peranco i Francesi tocco il territorio della Savoia, né gli Austriaci posto piede in Piemonte, che già Cavour dava mano, rimpetto all'Imperatore de' Francesi, a quella giostra di astuzia che costituisce il carattere più saliente della sua condotta politica ne' recenti eventi d'Italia; singolarissima giostra che non doveva cessare se non col finire della vita d'uno dei due. Costituita l'Etruria a quel modo che Napoleone avrebbe divisato, e si avea convenuto a Plombiéres, colle Marche e l'Umbria per un principe francese e sotto la naturale tutela della Francia, qualsivoglia velleità d'ingrandimento ulteriore sarebbe andata irreparabilmente perduta per la Casa di Savoia. Per questo caleva immensamente a Cavour che Toscana in particolare,

(1) Per ora basti accennare come agli ufficiali degli Stati italiani che avessero assentito a prender parte alle divisate sollevazioni, nel caso che fossero andate a male, ed essi non avessero preferito o potuto pigliare servigio nell'esercito sardo, era stato assicurato dalle Tuilerie l'ingresso con grado eguale nell'esercito francese, o nella Legione straniera od in corpi speciali da instituirsi. Il còrso Pietri, già Prefetto di Polizia a Parigi, uno dell'eletto drappello cui Napoleone III. soleva affidare le più secrete e dilicate mansioni, aveva poco prima percorso gli Stati italiani, d'ordine dell'Imperatore, onde stringere a quest'uopo lo relazioni opportune, renderle, a così dire, credibili, e distribuire particolarmente danaro.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 9

di già destinata d'accordo ad essere precursore e centro delle rivolture da provocarsi, si avesse sin dalle prime a gettare in braccio a Sardegna per guisa da non saper più sbrogliarsene. Allora coi mezzi medesimi di cui si sarebbe valuto per sommuovere la Toscana, pareva a Cavour che con tesai di probabilità gli verrebbe fatto eziandio di mandare a picco la candidatura del Bonaparte, allorché la si avrebbe dovuta porre in campo (1).

Sino al 1848 Toscana sempre rimase «immune da rivoluzioni, ove nessuna necessità di rigore scompose il domestico accordo dei sudditi con un principe che avea per tradizione la»patriarcale bontà (2).» Mentre da tutte parti gridavasi: riforme, riforme, la Toscana era il paese che men d'ogni altro di riforme abbisognasse. Colà qualsivoglia privilegio abolito, qualsivoglia civile disuguaglianza rimossa; tutti i cittadini indistintamente eguali in faccia alla legge ed ai tribunali; le imposte discrete, certe, equamente ripartite; la Polizia non vessatrice; libertà tanto più grande quanto meno se ne parlava; i comodi e le agiatezze della vita diffusi generalmente; ogni nuova istituzione abbracciata dal Governo appena riconosciuta utile; ogni civile avanzamento accolto e favorito (3). «Giammai», scrisse Alfonso Lamartine (4), «vi fu tanto liberalismo sul trono come allora; che le Corti accusavano Leopoldo II. di guastare, per soverchio di coscienza, il mestiere dei Re.» E rifanne vennero, spontanee, senza veruna di quelle costrizioni pelle quali altrove furono accordate più tardi, allorché Carlo Alberto, proclamato poi iniziatore della libertà italiana, non peranco aveva mosso alcun passo sulla via delle concessioni. Prima del Piemonte Leopoldo II.

(1) La varietà dei casi, e dei modi con cui furono sinora narrati, rende impossibile appagare sempre i lettori per la rapidità del racconto, ed inevitabile una tal quale ineguaglianza di esposizione. Cosi degli avvenimenti di Toscana e di Parma, che costituiscono due de' più rilevanti episodii di codesto gran dramma, soggetto de nostri studii modesti, dobbiamo, per molte cause, trattare alquanto più diffusamente. Del resto, solo il lettore che avrà diligentemente tenuto dietro a quello che altri scrissero sin qui intorno a' recenti eventi d'Italia, può sceverare quanto di nuovo affatto diamo per la prima volta ora in luce.

(2)

Cantù; Storia universale, Libro XVIII, cap. XXV.

(3) Necessità della Convenzione austro-toscana, pag. 45 (Firenze, 1850).

(4) Cours familier de lectures, Entretien LVI.

10 CAPITOLO DECIMOSESTO.

dette una larghissima legge sulla stampa (1); poco appresso una Consulta di Stato; nel settembre 1847, la Guardia cittadina, dichiarata istituzione permanente dello Stato; il 15 febbraio 1848, prima del Piemonte (), franchigie civili collo Statuto. Fu Leopoldo II. che primo con Roma tentò un patto doganale di tutta Italia, per allargare i traffici e le industrie nazionali, e congiungere i materiali interessi degli Stati della Penisola, avviamento a più alti vincoli fra loro. Fu Leopoldo II. che ne' primordii di questo patto, avversato poi dal Piemonte, combatté e vinse il sistema delle proibizioni e protezioni colà vigenti, e fece prevalere le celebri e libere teorie della Toscana (3). Fu Leopoldo II., che col Pontefice, primissimo promotore, iniziava quella Lega italiana, la quale, accedutovi volonteroso il Re di Napoli, doveva andare a vuoto per gl'incagli frapposti dal Piemonte, che in tutta la loro bruttezza rivelarono le idee piemontesi d'usurpazione e di universale signoria sull'Italia.

Battuto sui colli di Custoza e di Volta l'esercito piemontese, seguito nel dì 9 agosto 1848 in Milano l'armistizio richiesto da Re Carlo Alberto, venuta Livorno in balia de' demagoghi, le truppe toscane colà spedite a ristabilire la legittima autorità andate perdute, parte senz'alcun prò, parte per seduzione, in tanto bisogno d'una forza disciplinata fu proposto all'Assemblea fiorentina e vinto il partito di arrolare un seimila uomini di soldatesche straniere. Ma mancato il tempo ad effettuare il disegno, da Livorno dettata la legge al Granduca, dimorante tuttavia nella capitale senza che nessuno sapesse trovar modo a cavarlo da quelle strette, venne al potere col Ministero democratico il Guerrazzi, portando al colmo il disordine e l'anarchia. Tutto cadde sotto il giogo d'una fazione. Sciolte le Assemblee legislative, elette le nuove fra la pressione delle più sfacciate violenze, in mezzo a tanto scompiglio fu messa in campo la Costituente, «insana idea,» anzi utopia, perocché nulla vi fosse da costituire in Toscana,» dove la monarchia costituzionale non aveva mestieri che di senno e fermezza per consolidarsi

(1)

Pubblicata il 6 maggio 1847.

(2)

Lo Statuto sardo fu proclamato il di 4 del marzo seguente

(3) La Toscana e i suoi Principi, pag. 15 (Parigi, 1859).

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 11

» in quell'ordine che aveva conseguito (1).» Lusingandosi rimuovere con ciò altre sciagure, neppure alla Costituente non negò il Granduca il suo assenso; ma quando vide che la Costituente toscana importava adesione alla Costituente romana, vale a dire allo spoglio della temporale potestà de' Pontefici, egli, che sarebbe passato sopra a' suoi diritti di sovrano, non volle passar sopra a suoi doveri di principe cattolico (2).

Leopoldo IL, ritrattosi a Porto San Stefano, aspettava di colà le milizie offertegli dal cognato, il Re di Sardegna, e con riconoscenza accettate (3), che unite colle toscane sotto gli ordini del generale De Laugier, avrebbero potuto porre a segno Livorno e spazzare dal governo la fazione dominante (4). Il soccorso dei Piemontesi, che il Guerrazzi chiamava ospiti mal graditi e pericolosi (5), la cui efficacia dipendeva anzi tutto dalla sollecitudine, andò in dileguo. Gridati triumviri, e imposti alle due Camere per violenza di plebe pagata, Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni, Ministri costituzionali del Granduca; aboliti, due giorni appresso, il Consiglio generale ed il Senato; convocata un'Assemblea col diritto di decidere del destino politico del paese e della monarchia; Leopoldo IL, esautorato di fatto, protestò, e lasciato Porto San Stefano,

(1)

Zobi; Manuale storico degli Ordinamenti economici vigenti in Toscana, pag. 494 (Italia, 1858).

(2)

«Il partito, al quale ricusarono persino la loro adesione molti dei più liberali uomini di Stato e rappresentanti del popolo, alzò una nuova parola d'ordine, la Costituente. Ragioni politiche mi mossero a non negare neppure a questa il mio consenso, benché i miei diritti, non che il mio trono ereditario, venissero subordinati alla sentenza di un'Assemblea Costituente. Ma quando si voleva attribuire a quest'Assemblea simili facoltà per disporre delle forme del governo dell'Italia tutta, non esclusi gli Stati pontificii, non credei, come principe cattolico, di potere andare» più oltre.» Lettera del Granduca Leopoldo II. all'Imperatore d'Austria, da Porto San Stefano, 11 febbraio 1849, riferita dal Gennarelli (Le sventure italiane sotto il Pontificato di Pio IX., pag. 46, Firenze, 1863).

(3)

Lettera del Granduca a Carlo Alberto, da Porto San Stefano, 11 febbraio 1849, nel Gennarelli (Le sventure italiane, pag. 17).

(4)

Lettera del Granduca al generale De Laugier, da Porto San Stefano, 15 febbraio 1849, nel Contemporaneo del 31 gennaio 1863.

(5)

Gennarelli; Atti e Documenti da servire d'illustrazione ai volumi delle Sventure italiane e dell'Epistolario politico toscano, pag. lxxi. (Firenze, 1863).

12 CAPITOLO DECIMOSESTO.

dond'ebbe a sentire le salve d'artiglieria con che nella vicina Orbetello solennizzavasi d'ordine dell'intruso Governo la proclamazione della repubblica, si rifuggiva a Gaeta (1).

Dopo Novara, un bei giorno, il 12 aprile 1849, Firenze si riscuote. Gli alberi della libertà, innalzati ad ogni angolo di strada e in ogni piazza, si che Firenze parea diventata la selvaggia selva di Dante, cadono atterrati; le campane della città suonano a festa, ed il Municipio,

(1) Come abbiamo già avuto occasione di porre in luce in più nostre scritture, altro dei caratteri peculiarissimi de' recenti sconvolgimenti italiani si è l'avere trovato tanta copia di paladini così mentecatti, che i loro libri e libercoli, impresi allo scopo di additare all'esecrazione del mondo i Governi e le persone dei principi spodestati, dovessero per converso riuscire a difesa degli accusati, ed a dimostrare colle parole stesse degli autori o compilatori, e con ogni desiderabile chiarezza, precisamente affatto il contrario di quello che si prefiggevano. Tanto cattivo consigliere è l'odio, e tanto è vero quel dettò antico che a chi Giove vuoi male gli toglie il senno! D'ogni erba fatto fascio, raccolsero quante mai accusazioni si lusingavano, comunque fosse, poter porre in piedi; e Tarma, che pensarono la più potente, si spezzò sempre nelle loro mani medesime, si che ben a ragione poté dirsi: «Oh benedetta la Provvidenza che ha permesse tante infamie di bugie, sì clamorosamente trombettate nei giornali, sì audacemente discusse nei Parlamenti, si bonariamente accettate dai gonzi o dai creduli, per eccitare più acuta la curiosità, e più solenne esibirne e più evidente la confutazione!» (Civiltà Cattolica).

Per fermo niuna rivoluzione forse presenta, quanto codesta d'Italia, tanti esempi in cui i tristi abbiano senza volerlo fatti, come si dice, gli affari dei buoni; e per recarne in mezzo un solo, difficilmente potrebbesi addurre alcun esempio più memorabile di quello ornai celebre delle accuso portate dal Gladstone a carico del Duca di Modena. Così in un libro, che porta la sua condanna nel titolo, compilato con intendimento di svillaneggiare nel più basso modo il Pontefice e il Granduca di Toscana, e che doveva invece riescire a difesa del Granduca e del Pontefice, il Gennarelli (Le sventure italiane, pag. XXIX-XXX) volle attribuire la partenza di Leopoldo II. per Gaeta, più ch'altro, al Santo Padre, e precisamente ad una lettera ch'egli riporta (pag. 14), Pio IX. scrive al Granduca, consigliandolo «a tenersi fermo, finché può, in qualche punto del suo Stato, e quando la violenza l'obbligasse a partire, a scegliere per momentanea dimora un paese italiano, e preferibilmente quello ove regna un suo cognato, il quale non ha certamente nessuna vista men che retta sui possedimenti che appartengono a Vostra Altezza.» Per tal guisa il Gennarelli, per provare che il Granduca partì per Gaeta sollecitato dal Pontefice, ne adduce il documento, comprovante appunto che il Pontefice non gli parlò guari di Gaeta, lo consigliò a starsene in Toscana finché potesse durare, e allorché non lo potesse propriamente più, se ne andasse in Piemonte.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 13

fra immenso popolo e le grida mille volte ripetute: Viva Leopoldo Abbasso Guerrazzi! Il Granduca come frimai, invade Palazzo Vecchio, scaccia il Guerrazzi dittatore, proclama ristabilita la legittima sovranità di Leopoldo II. La Commissione governativa, eletta per reggere lo Stato in nome del Granduca sino al suo ritorno da Gaeta, abolisce la Costituente, proibisce i Circoli, scioglie la Guardia di sicurezza, chiama in città la Guardia Nazionale del contado. La notte, che seguì il 12 aprile, tutte le colline che fanno corona a Firenze brillavano da ogni parte pegli accesi fuochi di gioia. Canti di allegrezza allietavano le campagne, illuminate come ogni più remoto angolo della capitale. Dovunque non si udiva che una voce: Viva Leopoldo , e dovunque non si sentia che ripetere: «Questa volta non sono pili gridi pagati.» Unanimità favolosa. Tutte le provincie aderirono con entusiasmo. La sola Livorno protestò, convenutivi a riparo in gran numero i demagoghi fugati da Firenze e dal Granducato, la maggior parte stranieri a Toscana.

Livorno rimasta in mano di un'accozzaglia cosmopolita, rifiuto ed onta d'ogni civile consorzio, quegli eroi da galera pareano decisi a difendervisi energicamente. Fortificata la città, erette barricate in tutte le strade, le truppe toscane, guidate dall'arcadico generale De Laugier, affatto insufficienti a domarla, sorgeva la necessità suprema che una forza armata qualunque accorresse dal di fuori a salvare il paese dall'abisso in cui poteva precipitare. I cinque della Commissione governativa toscana si maneggiarono prima a riannodare le pratiche per un intervento di Piemontesi, poi per un intervento di Piemontesi uniti a Napoletani, poi di Francesi e d'Inglesi (1). Ma il Piemonte, dopo Novara, doveva pensare a' fatti suoi, e com'ebbe a dichiarare il De Launay, Ministro per gli affari esterni in Torino, Vittorio Emanuele non avrebbe messo un nodo di truppa a disposizione del Granduca se non qualora questi «fosse in grado di assicurare il» Governo di Sua Maestà che l'ingresso della truppa sarda in» Toscana non susciterebbe nuove complicanze, né incontrerebbe» opposizione seria per parte di altre Potenze» (1); Napoli aveva sulle braccia Sicilia e Roma;

(1)

I documenti stanno nelle Sventure italiane del Gennarelli, pag. 2743.

(2)

Gennarelli; Le sventure italiane, pag. 36.

14 CAPITOLO DECIMOSESTO.

Francia e Inghilterra, vogliosissime di porre un piede, in qualunque modo fosse, in Livorno, per gelosia l'una dell'altra declinarono l'offerta. Pure bisognando finirla, a fronte del grave pericolo che dalla insorta Roma le bande dei demagogia si gettassero in Toscana e manomettessero ogni cosa (1), non restava forzatamente altro intervento possibile all'infuori dell'Austriaco.

Que' della Commissione avrebbero accettato soccorsi da monarchie e da repubbliche, da protestanti e da maomettani, da chiunque, purché non venissero dall'Austria, quando l'Austria, per ragione di Trattati e dello stato stesso delle cose, era quella che più d'ogni altro teneva diritto d'intervenire. L'Austria, che dopo l'armistizio di Milano aveva fatto sentire come si sarebbe astenuta dall'invadere la Toscana, a patto ch'essa si mantenesse tranquilla nell'interno e rinunziasse ad ogni ostile apparecchio, per diritto di guerra vi poteva intervenire, tanto meglio dacché Toscana era venuta meno alla condizione, trattandosi sol di sapere, come disse più tardi il Ministero Ricasoli (2), se il vinto potrà imporre la legge al vincitore, Toscana ad Austria. La restaurazione né cancellava i primi torti né le offese più recenti, né assicurava l'interno del paese. E gli Austriaci vennero, il Granduca né invocante né contrastante (3), senza che mai Francia o Inghilterra

(1)

Ciò che infatti avvenne poco appresso, quando Garibaldi, fugato da Roma co' suoi, si gettò sopra Arezzo, lanciando a' Toscani quel furioso proclama del 19 luglio 1849, riportato nei Casi della Toscana, pag. 252253.

(2) Memorandum del 24 agosto 1859 (Atti e Documenti del Governo della Toscana, Parte IL, pag. 171).

(3)

L'andata di Leopoldo li. a Gaeta, la chiamata degli Austriaci in Toscana e l'abolizione dello Statuto costituiscono la somma delle incolpazioni, ribadite sino alla nausea, che gli uomini della rivoluzione, tutti intesi ad accusare i Sovrani d'Italia per mascherare agli occhi de' lontani le proprie nequizie, misero in campo contro di esso; tre incolpazioni dimostrate insussistenti o falsissime secondo gli stessi documenti pubblicati dalle più chiassone lande spezzate del partito della calunnia e della menzogna. Entrando in Toscana, in un proclama del 14 maggio 1849 da Empoli (riferito dallo Zobi, Memorie economico-politiche sulla Toscana, Vol. I., pag. 28-Firenze, 1860), il generale D'Aspre, comandante le schiere austriache, aveva detto, che «i vincoli di sangue ed i molti Trattati avevano determinato l'Imperatore a cedere al desiderio del Granduca, e quindi, chiamato da lui, veniva a rassicurarlo sul trono.»

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI 15

né si opponessero né protestassero a quell'intervento, ch'era necessità ineluttabile, di cui tutta la colpa doveva rigettarsi su chi l'aveva cagionata, non certamente sull'Austria, né sul Granduca, colla più solenne ingiustizia addebitatone L'Austria, che aveva annunziato a Parigi ed a Londra di riserbarsi l'esclusivo intervento nel Granducato, precisamente come la Francia serbava a sé l'esclusivo intervento a Roma, si decise intervenire in Toscana allorché vide la Francia essersi decisa ad intervenire nello Stato Pontificio.

Nicomede Bianchi poi, nella sua Storta della politica austriaca, pubblicava una lettera del maresciallo Radetzky ai Granduca, del 2 febbraio 1849 da Verona (ristampata nel libro Toscana e Austria, pag. 72), nella quale scrivevagli, «abbandonasse pure i suoi Stati, che egli, tosto sottomessi i demagogia di Sardegna, volerebbe in suo soccorso con trentamila uomini.» Or su codesta lettera, nel 1860, undici anni dopo che fu scritta, lo Zobi (Memorie sulla Toscana, Vol. I., pag. 271275) fabbricava uno de' suoi castelli in aria, affermando a dirittura:«Il Granduca eseguì a puntino gli ordini del maresciallo; si fermò alcuni giorni nel picciol porto di San Stefano, all'estremo confine del Granducato, per attendere gli eventi. E il segreto della sua condotta sta tutto in questa lettera.»

Caso strano! Sia ruggine sopravvenuta tra i due, sia invidiuccia di scrittore, sia smania di dare in luce documenti ignorati o ad arte pretermessi da quell'instancabile frugatore d'archivii ch'è lo Zobi, sia pur forse per un qualche residuo di pudore, supponibile anche in chi meretriciamente usa tutto falsare e tutto vilipendere, sia sa Iddio che, il Gennarelli, altro degl'impiastrafogli razzolatori al soldo del Piemonte, da sulla voce al collega e risponde (Le sventure italiane, pag. 17): «Cotesto non è vero. La» lettera del conte Radetzky è in data del 2 febbraio; e il Granduca il dì» 11 accettava l'intervento offertogli dal Re di Sardegna, e lo accettava» col cuore profondamente commosso, come un aiuto inviato dalla provvidenza» nel giorno della sventura, ringraziando il Re come un buon fratello che porge la mano al fratello, all'amico.» E perché anche i ciechi avessero a vedere che non è vero, stampa (pag. 20, Nota 56) la lettera del Granduca al Re di Sardegna, del 19 febbraio, penultimo giorno della dimora di Leopoldo IL a Porto San Stefano, in cui scrive: «non rigettare quella offerta, piena di generosità e di amicizia; al contrario desiderare il momento di vedere effettuato quel disegno, dichiarando che sarebbe stato fortunato se andasse debitore al Re della pace primitiva ristabilita in Toscana;» stampa (pag. 48) la lettera del Granduca all'Imperatore d'Austria, del 26 febbraio da Gaeta, in cui non gli celava come avesse accettato il soccorso delle armi piemontesi; stampa (pag. 83) la lettera del generale D'Aspre al Granduca, del 12 maggio da Livorno, dodici giorni prima del proclama da Empoli, con cui lo prega di dichiarare che le truppe austriache sono in Toscana col suo consenso; stampa (pag 50) che in risposta alla lettera del

16 CAPITOLO DECIMOSESTO.

Circuito dagli Austriaci Livorno, il lungo assedio durava due ore. Ma le scarse truppe toscane, tornate all'obbedienza del Granduca, trovandosi in condizioni le più miserevoli, si rendeva assolutamente necessario che le forze militari venute a ristabilire il buon ordine rimanessero a consolidarlo e tutelare i pubblici interessi. Per tal modo muta vasi in occupazione quel!' intervento, che lo stesso Gabinetto di Torino dichiarò (1) come: «in conseguenza dei passati rivolgimenti politici, i quali hanno recentemente agitato la penisola italiana, poteva spiegarsi dietro quelle considerazioni che si deducono dalla natura degli avvenimenti medesimi.» Sinché il Granduca potesse riorganizzare il suo esercito, fu convenuto pertanto che gli Austriaci rimanessero, e rimasero senza che né per questo vi venisse in niun modo compromessa la dignità del paese e l'indipendenza del supremo governante (2); né l'erario toscano avesse a sostenere per le milizie ausiliari uno spendio maggiore di quello che sarebbe stato occorrente per mantenere truppe sue proprie, il quale ne fu anzi minore di assai (3); né gli affaccendati sempre a raccattare obbrobrii,

Granduca all'Imperatore d'Austria, del 26 febbraio, e ad altre due sue precedenti, in nessuna delle quali si conteneva una richiesta vera e propria d'intervento, l'Imperatore rispose solamente il 27 marzo; stampa (pag. 9193) la Memoria del Ministro toscano Martini al generale D'Aspre, del 24 maggio da Gaeta, che fu l'unica risposta data da parte del Granduca alla lettera del generale del 12 di quel mese, nella quale Memoria è messo in piena evidenza che le truppe imperiali non Tennero in Toscana contro la volontà di Leopoldo IL, ma però senza una di lui espressa richiesta.

(1)

Nota del marchese d'Azeglio, Presidente del Consiglio de' Ministri di Sardegna, al cav. Martini, Ministro di Toscana presso la Corte di Torino, del 4 giugno 1850 (pubblicata dallo Zobi: Memorie economico-politiche sulla Toscana, Vol. II., pag. 565567).

(2)

Tranne la competenza nei tribunali austriaci di giudicare coloro che cercavano subornare le truppe, la sovrana potestà non ebbe a soffrire il minimo detrimento.

(3) Essendosi l'Austria addossata il soldo ordinario delle truppe ed il carico del loro equipaggiamento, la spesa a carico della Toscana risultò men gravosa che d'ordinario conseguiti in casi consimili, in particolare di quella sostenuta dal Piemonte nel 1821, allorché l'Austria venne a cavare i Reali di Savoia dalle zanne dei Carbonari. Cessato il bisogno, gli Austriaci partirono di Toscana nel maggio 1855, in seguito ad iniziativa di Leopoldo II, pel diritto riservatosi coll'Articolo I. della Convenzione austro-toscana del 1850. Ridolfi, Ricasoli e consorti dissero (Toscana e Austria,

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 17

per versarli sul capo di Leopoldo IL e degli Austriaci, potessero neppur per ombra mettere insieme una pagina sopra severità, eccessi, indisciplinatezze delle soldatesche imperiali (1).

pag. 109, Nota 38) sapere da buona fonte che l'occupazione austriaca aveva costato ventitré milioni di lire toscane, quantunque l'anno avanti fosse stata dallo Zobi (Manuale storico, pag. 511) portata la somma a trentamilioni. Nel 1859 poi lo stesso Zobi (Cronaca degli avvenimenti d'Italia Voi.! l'34) alza ancor più il conto, elevandola con maravigliosissima precisione, a lire 31, 913, 291.1.11. 79/180 «non compresi i trasporti, gli alloggi, le indennità accordate a' Conventi ove stanziarono le truppe, e le spese fatte nelle fortezze»; tenuti a calcolo tutti i quali altri asseriti dispendii a carico del pubblico Erario e delle Comunità, dichiara non credere punto esagerata la maggior somma di Lire 36, 614, 739.2, enunciata dal Cini nell'opuscolo: Sui danni economici recati dall'Austria alla Toscana.

Affermò ancora lo Zobi nel 1858 (Manuale storico, pag. 527528): «Co» sta alla Finanza l'esercito toscano, di cui non può revocarsi in dubbio il» bisogno, circa a lire 9, 500, 000: ed abbenchè tale spesa annua possa ad» alcuni sembrare ingente, non è dato sperarne alleviamento.» Or bene: dato che fosse stato possibile mettere subito in piedi un esercito di soldati del paese, ne' sei anni in cui gli Austriaci stettero in Toscana, questo esercito sarebbe costato cinquantasette milioni; alla quale somma, contrapposta quella senza dubbio alcuno esageratissima delle lire 36, 600, 000 affermata dal Cini, l'Erario toscano ebbe un risparmio di 20, 400, 000 lire. Che se, come infatti sembra e ognuno dovrebbe pensare quando riflettasi che il libercolo Toscana ed Austria fu dettato all'unico scopo di accumulare quanti più era sperabile sanguinosi oltraggi al Granduca, fosse più assai d'accosto al vero la somma enunciata dai caporani della rivolta del 27 aprile 1859, in ventitré milioni di lire, l'Erario toscano risparmiava per effetto dell'occupazione austriaca trentaquattro milioni in sei anni, intorno a 5, 600, 000 lire per anno. Cosi poté il Granduca convertire in benefizio una militare occupazione.

(1) «La disciplina delle truppe, è giustizia confessarlo, si mantenne sempre eccellente, da rarissime eccezioni in fuori, alle quali era portato pronto riparo. Nella stessa Livorno, dove gli Austriaci entrarono per forza di armi, quando ebbero messo lo stato d'assedio, che durò più di cinque anni, appena quattro fucilazioni vennero eseguite in tutto quel tempo, dopo regolare giudizio, e sopra persone fattesi ree, chi di latrocinio, chi di ferimento proditorio o di assassinio. L'Italia ha avuti a' tempi nostri esempi d'umanità, più che da' suoi figli, da soldati stranieri. Sulla condotta dei quali, noi, imparziali con tutti, citeremo la testimonianza» dello stesso Governo toscano, che parlando appunto di Livorno, ebbe a dire che lo stato d'assedio di quella città erasi ridotto a una nuda parola, e l'autorità militare applicava punizioni anche più miti di quelle che sarebbero inflitte dalle leggi civili (Dispaccio del Duca di Casigliano,» Ministro toscano, al barone Hùgel, Ministro d'Austria a Firenze,

18 CAPITOLO DECIMOSESTO.

Tre anni più tardi (1), Leopoldo II., ben a ragione conturbato alla vista dell'incessante lavorio delle sètte scalzanti le basi della società, giustamente sfiduciato dalla dolorosa esperienza del passato, dichiarò abolito un sistema di governo che gli stessi più solenni costituzionali avevano dimostrato impossibile, e di cui non restava più traccia nella massima parte d'Italia. Se governo parlamentare ci ha ad essere in Italia, bisogna che sia in tutti gli Stati della Penisola; altrimenti codesta foggia di reggimento inaugurata in un luogo sarà sempre altrove, prima o poi, pericolosissima arma in mano de' facinorosi, incitamento e pretesto a bollori ed a rivolture. 0 tutti, o nessuno. Sta nell'umana natura il rimanere non di rado adescati più presto da vaghe apparenze e da nudi nomi pertinacemente fatti risuonare alle orecchie, che non dalla tacita e severa materialità di certi fatti. Pareva che lo Statuto dovesse essere la felicità della Toscana, e il principe l'aveva concesso. Messo alla prova, quantunque condotto da uomini che i liberali ripongono tra i sommi, il governo costituzionale a mala pena poté reggere pochi mesi. I benefizii sperati non si raccolsero, i mali temuti non si evitarono; le civili franchigie furono convertite in pubblico danno; l'autorità sovrana, disconosciuta da prima, resa quindi inabile ad oprare il bene, dovette cedere alla violenza d'una rivoluzione, che rovesciò tutto, Statuto, principe, dinastia.

Proclamando abrogato lo Statuto, Leopoldo IL dichiarava morto un morto, da lunga pezza freddo, abbandonato cadavere. Lo Statuto era rimasto abrogato sino da quando i Deputati toscani chi vennero con visiera alzata a muover guerra al Granduca, chi fuggirono, chi ammutolirono su' loro scanni e si lasciarono sopraffare da una banda di schiamazzanti faziosi, che, invasa la sala del Consiglio generale, imposero il Triumvirato. «Lo Statuto fu distrutto dai democratici quando sciolsero per sempre il Senato e la Camera, e restrinsero i poteri politici in una sola Assemblea,

» riportato dallo Zobi. (Memorie economico-politiche, Vol. II., pag. 578). Più bell'elogio crediamo non sia toccato mai a veruna soldatesca.» (Casi della Toscana, pag. 241-242).

(1) Decreto del 6 maggio 1852.

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» accecati dalle passioni e dallo spirito di setta (!).» In codesto civile contratto una delle parti, i rappresentanti del popolo, non seppe o non volle mantenere le cose giurate. Giurarono e promisero di provvedere al bene inseparabile della patria e del principe (), e lo abbandonarono in mano de demagogia e lo lasciarono spodestare (3). La milizia cittadina non accorse a difendere il trono costituzionale; guardò le sue armi, e stette. Lacerato il contratto da una delle parti, e quella parte non fu il principe, questi, che a fine di pubblico bene erasi spogliato della propria autorità, per dovere di coscienza trovavasi costretto a riprenderla a tutela e difesa del paese. Era a quel filo che si avevano ad appigliare gli agitatori politici per ritessere la tela delle congiure.

Per le calamità degli anni scorsi, alle quali e il Governo coll'Erario dello Stato e il Granduca col suo privato denaro aveano generosamente sovvenuto, e per le grandi spese della guerra testé cessata, la pubblica amministrazione era disordinata, e fu necessità inevitabile contrarre imprestiti ed accrescere imposizioni. Nullameno il Governo proseguiva il bonificamento della maremma grossetana, dava opera ad asciugare il padule di Bientina, gettava un più vasto e più dell'antico sicuro porto in Livorno, dava incremento alle vie ferrate, fondava un Uffizio di Statistica, riordinava magnificamente gli Archivii del Granducato, faceva restaurare i monumenti più insigni, apriva un grandioso istituto tecnico in Firenze ed uno ne formava per l'insegnamento nautico in Livorno stessa, dava vita ad una Scuola delle miniere in Massa Marittima; mentre che Licei e Ginnasii, e Scuole secondarie,

(1) Zobi; Manuale storico, pag. 497, Nota I. (1858).

(2)

«I Senatori e i Deputati, innanzi di sedere la prima volta nell'Assemblea, prestano, nelle mani del rispettivo presidente, il giuramento con questa formola: Giuro di osservare inviolabilmente lo Statuto fondamentale e tutte le leggi del paese, e prometto di adempiere l'ufficio mio con verità e giustizia, provvedendo in ogni cosa al bene inseparabile della patria e del principe. Così Dio mi aiuti.» - Articolo 46 dello Statuto toscano.

(3)

«Nel Senato il solo principe Don Andrea Corsini mostrò coraggio di vero cittadino, opponendosi al Guerrazzi e agli altri Ministri, non ostante gli strepiti delle tribune, che opinarono doversi governare la Toscana a nome del popolo. Quella coraggiosa opposizione fu inutile.» (Casi della Toscana, pag. 290).

20 CAPITOLO DECIMOSESTO.

e Scuole minori sorgevano in ogni città, terra e borgata del Granducato, a sbugiardare d'avanzo quel rotante marchese Cosimo Ridolfi, che dopo avere nel 1841, quand'era Presidente generale degli Scienziati a Firenze, ricordato a costoro (), «in» quanto pregio fosse tenuta la scienza e la dottrina dal magnali nimo Leopoldo IL,» nel cui nome ebber vita e fiorirono le scientifiche Riunioni italiane, venne poi in maggio 1859 con viso imperterrito a dire (), «che in Toscana non vi sono scuole» né primarie né secondarie; e l'uomo, immagine divina, hanno» ravvicinato ai bruti.» £ fu la Toscana che alle Esposizioni mondiali di Londra e di Parigi riportò la palma su tutti gli altri Stati italiani, conseguendo ragguagliatamente premii più numerosi e segnalati.

Sopraggiunto il Congresso di Parigi nel 1856, solo il Governo toscano, fra quelli tutti degli Stati italiani, dalle irose contumelie di Cavour campavavi non vilipeso, non calunniato. Costituita la Società Nazionale italiana; convertiti i Ministri di Sardegna, accreditati presso le Corti della Penisola, in rettori, tutori e aguzzini della Società; tramutati i palazzi intangibili delle Legazioni sarde in Ufficii di Posta, depositi d'armi, opifìcii di macchinazioni, fucine di rivolture, templi di fellonia; occorreva che in Firenze, a rappresentare Vittorio Emanuele Re di Sardegna, venisse qualcuno che si sentisse sì onesto e capace d'infingersi purissima colomba, sincero e leale sino all'ultimo istante verso il Granduca, e nello stesso tempo guidatore accortissimo di tali orditure da potere a momento opportuno, senza proprio periglio, con pari disinvoltura sostituire nel governo dello Stato sé medesimo a lui. E a Firenze nel 1857 Re Vittorio mandava per ciò il commendatore Carlo BonCompagni di Mombello. «Là, nelle due parti, scriveva più tardi un suo collega nella Camera dei Deputati in Torino (3), bisognava un uomo a figura spessa ed imperturbabile, che non tradisse giammai il suo pensiero e la sua impressione, un uomo che parlasse molto senza mai compromettersi; un carattere facile ed affabile, perché non

(1) Atti della terza Riunione degli Scienziati Italiani.

(2) Atti e Documenti del Governo della Toscana, Vol. I., pag. 106107.

(3)

Petruccelli della Gattina; I moribondi del palazzo Carignano, pag.132133.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 21

» lo si stancasse molto di riclami, di proteste e di recriminazioni; pronto al sorriso, ai modi cortesi, l'animo benevolo, caratare senza angoli, BonCompagni rappresentò la sua figura a meraviglia, e poté a suo comodo imbaggianare Leopoldo II. e provocare l'annessione. Mentre vanamente fra i diplomatici dell'universo si sarebbe ricercato alcun altro all'onesta bisogna più acconcio, ei poté conseguire che dalla bigoncia dell'Alta Camera d'Inghilterra, lord Stratford di Redeliffe, uno de' più illustri veterani della diplomazia britannica, proclamasse (1) che il Granduca di Toscana avrebbe avuto il diritto di farlo arrestare ed impiccare all'inferriata del suo palazzo.»

In Toscana come altrove, condotta da Cavour, la Società Nazionale aveva fatto prestamente proseliti. Dobbiam rammentare come il programma sociale, destrissimamente compilato, parlando sempre di unificazione, ben altra cosa che unità, parlando sempre di utilità del concorso governativo piemontese e di stare per la Casa di Savoia, non sotto la Casa di Savoia, finché Casa Savoia sarà per l'indipendenza italiana in tutta l'estensione del ragionevole e del possibile (2), aveva dato facoltà di raccogliere in un solo fascio costituzionali unitarii, costituzionali federali e repubblicani (3). Ma le diffidenze, mai sopite del tutto fra i residui elementi de' vecchi partiti, fecer si che, pur dando il lor nome alla Società Nazionale, e repubblicani, e costituzionali federali, e costituzionali unitarii, tenessero di sotto mano combriccole secondarie, ciascuna fazione per proprio conto. Fermo sempre di operare da sé quando la occasione si presentasse propizia, ed eccettuato solo un numero infinitesimale di demagogia di purissimo sangue, che si teneano in disparte, i repubblicani eransi uniti per ora a' costituzionali unitarii. Cosi in Toscana, riconosciuta da ognuno, da buoni socii, la suprema autorità direttrice del BonCompagni, i seguaci della Società Nazionale si ripartivano in due fazioni (4),

(1)

Sessione del 7 giugno 1859.

(2)

Vedi: Volume L, Le cause, pag. 174.

(3)

Vedi: Volume I., Le carne, pag. 88.

(4)

Quanto diciamo della Toscana, è a dirsi, in generale, e salvo secondarie differenze locali, del resto d'Italia centrale e meridionale. Avendoci prefisso di narrare gli avvenimenti, anziché dietro stretta cronologia, piuttosto con raggrupparli secondo uno stesso ordine di fatti e d'idee, dovremmo ripeterci ben di sovente,

22 CAPITOLO DECIMOSESTO.

con diramazioni e pratiche in tutto il Granducato: la fazione che si appellava nazionale, ed anche piemontese o popolare, capeggiata su' luoghi da gente infatuata di piemontismo, nemica di mezzi temperamenti, avversissima alla dinastia regnante, e che faceva consistere, per sua propria confessione, «la dignità e grandezza d'Italia nel giungere alla unità politica sulle rovine del Papato» (1); e la fazione de' costituzionali federali, che a Firenze più propriamente chiamavano fazione aristocratica, i quali avrebbero o dicevano che avrebbero preferito conservata la dinastia, a patto si rimettesse lo Statuto e si alleassero col Piemonte in pace ed in guerra, fazione guidata da' soliti ambiziosi che volevano, più che tutto, forzare il principe a cacciar via i Ministri per aversi poi essi i primi posti.

Aderivano agli aristocratici, anche detti allora per ispregio i conservatori, coloro che, anelanti ad impieghi ed avanzamenti, nul11 altro in sostanza desiando che soddisfare alle cupide voglie d'ambizione e di lucro, fìngevansi spasimati degli ordini costituzionali; que' pochi che sotto il mitissimo reggimento del Granduca, tolti d" ufficio per notorie infedeltà e fellonie, avean perduto col posto lo stipendio (); qualche scribacchino che non peranco

quando non fosse avvertito che la storia d'una rivoltura, d'una invasione, d'una annessione, d'una votazione, è la storia, su per giù, di tutte le rivolture predisposte e operate da' Comitati Nazionali, condotto a mano da' Ministri sardi al di fuori, rette da Cavour, la storia di tutte le invasioni, di tutte le annessioni, di tutto le votazioni avvenuto per opera e in favore della Sardegna. Per tutto le stesse mene, gli stessi effetti; per tutto minoranze impostesi colla frode e colla violenza alle grandi maggioranze ingannate, soprapprese, spaurite. Sì che per narrare di tutte basta narrare di una.

(1)

Ermolao Rubieri; Storia intima della Toscana dal 1. gennaio 1859 al 30 aprile 1860. Prefazione.

(2)

Quali: il tenente-colonnello conte Girolamo Spannocchi, deposto dal grado nel 1849 per cagioni gravissime; il professore Gioacchino Taddei, presidente nel 1849 della Costituente del Guerrazzi; il professore Orosi; il chirurgo Ferdinando Zannetti; tutti guiderdonati poi da' BonCompagni e Ridolfi col ripristinarli ne' gradi, ne' posti e ne' soldi, spesso coll'aggiunta degli stipendii che avrebbero percepito per tutto il tempo in cui erano stati fuori d'impiego, come avvenne a quel dottore Paolo Corsini, uno de' più arrabbiati mazziniani in Toscana, confessato poi come tale dallo stesso Mazzini. (Scritti editi ed inediti, pag. 313 e seg.).

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avea trovato a chi vendere la penna versatile; qualche avvocato senza clienti e qualche medico senz'ammalati, cui lo scarso ingegno o la svogliatezza non davano agio di trarrò sussistenza onorata dalla professione; e una mano di vilissimi e insignissimi ingrati, pe' quali i benefizii e gli onori avuti dal principe erano adesso incentivo ribellione; e tutti que' tra gli Accademici Georgofili, che col marchese Ridolfi eransi dati, per passatempo e per moda, non diciamo già all'agricoltura, che è cosa troppo nobile, ma alla castalderia (1). Questi, o appena poco più, erano gli aderenti degli aristocratici; gente buona a ingrassare nelle rivoluzioni quando siano fatte, ma incapace di mettersi allo sbaraglio. Cosi fra essi scarsissimi quelli che in buona fede e senza secondi fini cercassero la felicità e la grandezza del paese, ben presto posposti ai più pratici del mestiere.

Del resto, pochissimi tra i patrizii eran della partita (2), pochi del ceto medio, nessuno del clero (3), nessuno del contado, fedeli in gran parte gl'impiegati dello Stato (4). Poiché, come insegna Nicolo Machiavelli (5), vi sono tra gli uomini tre generazioni di cervelli, l'uno che intende da per sé, l'altro che discerne quei che altri gli spieghi, e il terzo che non intende né da sé né per dimostrazioni d'altri, era fra quest'ultima specie che in Toscana, come altrove dovunque, i Comitati Nazionali aveano reclutata la più parte degli affigliati, anco nelle città secondarie; i quali, senza capir proprio nulla, facevano, quasi a dirsi, atto di presenza in tutte le comparse e in tutte le pubbliche rassegne. Capi di bottega, tirati alla setta, e che aveano trasfuso ne' loro garzoni i proprii fervori, costituivano il nodo de' giannizzeri dei Comitati; gente manesca, rotta ad ogni sfrenatezza, e capace, al bisogno, di farsi largo co' pugnali, rafforzata dalla pagata feccia de' più vili mascalzoni.

(1) Casi della Toscana, pag. 19.

(2)

Fu soltanto più tardi che il Ricasoli, Peruzzi, ed in ispecie il medico Giuseppe Barellai, riuscirono ad accalappiare varii altri.

(3)

«Diciamo nessuno, perché otto o dieci preti matti non fanno nulla.» (Casi della Toscana, pag. 33).

(4)

«E perché fedeli, rimossi poi se coprivano posti importanti, o, diversamente, traslocati e impinguati perché tacessero, e col silenzio mostrassero di aderire al nuovo ordine di cose.» (Casi della Toscana, pag. 20).

(5) Il Principe, capitolo 22.

24 CAPITOLO DECIMOSESTO.

Rettori della fazione nazionale di Firenze erano: Ermolao Rubieri, Vincenzo Malenchini, il pastaio Giuseppe Dolfì, Pietro Cironi (1), con altri, la più parte in addietro repubblicani. Caporani della fazione aristocratica sedevano a scranna: Bettino Ricasoli, Cosimo Ridolfi, Ubaldino Peruzzi, Neri Corsini, Tommaso Corsi, facendo da segretario Celestino Bianchi; dietro a' quali primeggiavano: Vincenzo Salvagnoli, Giambattista Giorgini, Leopoldo Galeotti, Gino Capponi, Guglielmo Cambray-Digny.

Il barone Bettino Ricasoli, strano tipo di signor feudale dell'evo medio, trapiantato in pieno secolo decimonono, discendeva da una famiglia, la cui storia si confonde a quella sì piena di avventure della repubblica fiorentina, da una famiglia di cui si è provato nel 1861, come due e due fan quattro, che il primo ceppo fu Geremia (2). Non aquila d'ingegno, ma perseverante; carattere tenace, a toccare l'ostinazione; sino dalla gioventù al più alto grado presumente di sé, arrogante, orgoglioso, superbo, ambiziosissimo; fatalista come un musulmano di stampo primitivo, fattosi protestante per non avere a confessarsi ateo; uno di quegli esseri sempre serii, sempre gravi, sempre fieri, che nulla scuote, nulla commuove, nulla adombra, nulla atterrisce, uno di quegli esseri senza cuore che bravano tutto e tutti, e non perdonan giammai; fino al 1847 aveva viaggiato, sovraneggiato nelle sue torri e nelle sue terre, atteso all'agricoltura con successo vero e fatti eccellenti vini di Chianti (3). Giunto il 1847, l'antico discepolo di Tito Manzi, che, già Ministro di Polizia durante il Regno d'Etruria, era stato a' suoi dì tra' più caldi partigiani dell'indipendenza ed unità d'Italia (4), si risovvenne delle lezioni e degli obblighi di buon settario; scrisse e mandò al Granduca una Memoria (5), in cui senza giri gli domandava istituzioni costituzionali per la Toscana. Leopoldo II. non se ne adontò; anzi, sopraggiunte le difficoltà tra Toscana,

(1)

Quello che, per delitti politici, il principe Liechtenstein aveva chiesto in addietro fosse spedito a Livorno. (Gennarelli; Atti e Documenti d'illustrazione alle Sventure e all'Epistolario, pag. lvi).

(2)

Luigi Passerini; Genealogia e Storia della famiglia Ricasoli.

(3)

Che gli ottennero all'Esposizione universale di Parigi la medaglia e la croce della Legion d'onore.

(4)

F. DairOngaro; Biografia di Bettino Ricasoli, pag. 17.

(5)

Riferita dallo Zobi: Sommario di Documenti, Vol. II., pag. 526.

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Modena ed Austria, a proposito della cessione del Ducato di Lucca, il Granduca, avendo scelto per arbitro Re Carlo Alberto, gli mandò il barone Ricasoli, che compì la sua missione con abilità.

Scoppiata intanto la rivoluzione, Ricasoli si fa giornalista, fonda in Firenze con Salvagnoli e Lambruschini, e sostiene col denaro, un periodico che ha per titolo La Patria e per programma la frase obbligata del giorno: fuori i barbari! Ricasoli è il più spinto di tutti; spiega anzi e colla pertinacia propria del suo carattere impetuoso difende il suo programma unitario d'una monarchia nazionale e dell'Italia libera dal Papa e dell'Austria. È trattato da utopista, ed egli se ne adonta. Montanelli e Guerrazzi salendo al potere, egli, che non può padroneggiare, se ne sdegna, si dimette dalle funzioni di gonfaloniere di Firenze, non abbastanza elevate per la sua ambizione; declina qualunque partecipazione al governo democratico, si da operosissimo a manovrare di sott'acqua per ristabilire il Granduca, tosto che vede le cose della rivoluzione volgere al peggio. Guerrazzi lo aveva preso in tale sospetto, che, accusato di nascondere dei cannoni al servigio del Granduca, faceva visitare dalla Polizia la dimora de' suoi antenati; ed infatti la Polizia trovò dei cannoni dietro i vecchi merli delle torricelle di Brolio, ma erano cannoni di legno dipinti in bronzo, per effetto del paesaggio. Figuri chi può la collera dell'iroso barone; la fatale parola: delenda est Carthago! è pronunziata, ed il 12 aprile 1849 Bettino Ricasoli a fianco del conte Cambray-Digny muove ad abbattere la signoria del Guerrazzi. Proclamano ristabilita la sovranità di Leopoldo II., e Bettino Ricasoli è uno dei cinque della Commissione eletta a governare lo Stato sinché ritorni.

Ricasoli richiamava il Granduca, il Granduca venne dopo venuti gli Austriaci; Ricasoli pensava esser fatto Ministro costituzionale, il Granduca pensò non farne nulla. Allora l'altero barone rimanda al principe la decorazione ricevuta, e va a seppellirsi nel suo castello di Brolio. Ei non respira più che per cospirare: cospira in tutto, cospira sempre. Col pomposo titolo di Biblioteca civile dell'Italiano venne in luce in Toscana una pubblicazione, inspirata dal Malenchini, avente per iscopod'indirizzare le menti alle idee propugnate nel programma della Società Nazionale di Cavour,

26 CAPITOLO DECIMOSESTO.

avviamento manifesto alla rivoluzione, oltraggio sanguinoso al Governo; il quale nullameno con meravigliosa indulgenza lasciava fare, sopprimeva un giornale cattolico fiorentino che aveva preso a confutarla, proibiva altri giornali di fuori che l'avversavano (1). Ed ecco Ricasoli prendervi parte con Cosimo Ridolfi, Peruzzi, Corsi, Cempini, Celestino Bianchi, confessati, a cosa riescita, «e fidi e devoti agenti del Ministero piemontese (2).»

Cosimo marchese Ridolfi, uomo inquieto, simulatore, di smodata ambizione, di cui un arguto ingegno, Francesco Domenico Guerrazzi, ebbe a dire (3), o che non ha intelletto», o la passione glielo toglie; spacciatore assiduo di nuove teorie d'agricoltura, che non fecero né bene né male alla coltivazione delle terre toscane, e furono solamente occasione e pretesto di turbolenze e di congiure; fondatore e proprietario del famoso Istituto agrario di Meleto, senza del quale né certamente Toscana sarebbe stata una landa deserta, né avrebbe avuto tal semenzaio di facinorosi; era per ciò stato maestro di scuole popolari, professore all'Università di Pisa, presidente del Congresso degli Scienziati a Firenze, presidente dell'Accademia dei Georgofili, essa pure convertita, sua mercé, in nido di agitazioni politiche sotto il velo di severi studii di agricoltura e di economia. Da lunga pezza intimo di Leopoldo IL, da lui trattato non come suddito ma come amico, da lui ospitato ne' suoi palagi, colmo d'onori, elevato ai primi gradi, affidatogli quanto avesse di più caro al mondo, l'educazione del proprio figlio, il principe ereditario Ferdinando; giunto il 1848, erasi veduto balestrato dalla rivoluzione al seggio ministeriale e di capo di Gabinetto. Ingolfata temerariamente la Toscana in una guerra rovinosa, Ridolfi cadde rovesciato dalla propria inettezza, come molti anni indietro era caduto dall'ufficio di Direttore della Zecca, dovuto lasciare per rovinose innovazioni; cadde senz'aver saputo stringere in un fascio le forze vive e intelligenti del paese, senz'aver saputo prevenir nulla, non lasciando dietro a sé, e alle vanitose iattanze, che disordine, confusione, ruine, e tutto in balia d'una setta,

(1) Tra questi l'Armonia di Torino. Il giornale soppresso ni il Giglio.

(2)

Demo; Biografia di Leopoldo IL, pag. 128.

(3)

Lettera pubblicata nel 1663 dal Gennarelli: Atti e Documenti di illustrazione alle Sventure ed all'Epistolario, pag LXXXII.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 27

che, distrutta ogni ombra di libertà, s'indragò tanto da rendere inevitabile l'intervento straniero. Poi, quando l'intervento sarà un fatto, questo Centauro Chirone, questo Ridolfi medesimo, verrà co confratelli ad assordare l'aere di omei perché il principe chiamò in Toscana gli Austriaci. Oh i mentitori! Chi chiamò stranieri nella patria vostra, non fu Leopoldo IL; chi li chiamò, voi, piloti di loquace arroganza ed incapacità senza pari, voi foste! Ottimo a suscitare civili discordie, quanto inabile al governo degli uomini, ora Cosimo Ridolfi stava cogli aristocratici, soltanto appunto perché aristocratico, niente affatto anelando allo scopo che costoro diceano di vagheggiare ed alcuni vagheggiavano nella realtà. Roso dal tarlo dell'albagia, Cosimo Ridolfi si sarebbe dato al diavolo, se il diavolo lo avesse assicurato del primo posto ne' suoi dominii; ed ora era tra' più zelanti a tramare perché e il principe che lo aveva sì largamente beneficato, e il discepolo che accarezzò per dicci anni, calcassero un giorno la via dell'esiglio.

Intorno a tali sopracomiti, Ricasoli e Ridolfi, facevano degna corona i comiti. Il cavaliere Ubaldino Peruzzi, per ambizione degnissirno di star terzo nel sinedrio, «quella gentile volpetta», come lo tratteggiò Petruccelli (1); «spirito facile e flessibile, cui lo ingegno pronto e la franchezza del promettere mai non fallano;» fu nel 1848 gonfaloniere di Firenze, lavorò callidamente contro il Governo di Guerrazzi per sollecitare il ritorno del Granduca. Dimessosi nel 1849 per la solita fiaba della chiamata degli Austriaci, parve rimasto in fondo al cuore costituzionale federale, abbastanza fermamente da farsi accusare più tardi, ancorché Ministro del Regno d'Italia, quale federalista, «o,» come afferma quel bizzarro Della Gattina (3), «regionista, ciò che torna lo stesso.»

Costituzionale federale, forse più fermamente, procedendo almeno con più lealtà e disinteresse, era il principe Don Neri Corsini, marchese di Lajatico, in addietro Governatore di Livorno e Ministro pegli Esteri di Leopoldo IL, di famiglia affezionatissima ai Granduchi, e nipote di quell'altro Neri Corsini, che il 12 giugno 1815

(1) I moribondi del palazzo Carignano, pag. 76-79.

(2)

Petruccelli della Gattina; I moribondi, pag. 79.

28 CAPITOLO DECIMOSESTO.

firmò in Vienna il Trattato d'alleanza difensiva fra Austria e Toscana (), ed alla cui memoria, venuto a morte nel 1845, Cosimo Ridolfi, Ubaldino Peruzzi, con altri del partito signoreggiante in Toscana dopo il 27 aprile 1859, avevano fatto coniare una medaglia d'onore colla leggenda: A Neri Corsini toscano, perché nei Ministerii di Stato mantenne la dignità del principe e della patria. Oh, quanto sono ridicoli questi Ridolfi, questi Peruzzi, tutti cotestoro, che oggi lodano per mantenuta dignità dello Stato il principe alleatosi all'Austria, il Ministro che segnò il Trattato; e domani, dopo avere fatto ogni possibile per astringere l'Austria a venire in Toscana, vituperano e sbalzano il principe per non mantenuta dignità dello Stato!

Guglielmo conte Cambray-Digny, boriosa mediocrità mediocrissima, quegli che il 12 aprile 1849 a capo del Municipio fiorentino restaurava il Granduca, poi membro della Commissione governativa, ornai non avea più speranza che in un diavoleto qualunque per risarcirsi delle perdite patite nelle bische e negli amorosi ripeschi (). Il marchese Gino Capponi, troppo maggiore del suo nome, discendeva da quel Pier Capponi che stracciò i capitoli in faccia a Carlo Vili, volente schiava della Francia la repubblica fiorentina. Fornito di talenti, che, come al neghittoso del Vangelo, non fruttarono nulla o ben poco; parte la educazione signorile; parte la troppa copia d'ogni facoltà, che, ben dissero (3), suoi fare afa e ammortire la naturale vigoria dell'animo; parte una certa bonarietà, che altri direbbe rilassatezza e fiacchezza; parte la pratica per tutta la vita e l'amicizia di tutti i liberali più sperticati, che a suo tempo lo aveano tratto nelle file de' Carbonari; avea finito con riescire in tutto un uomo a mezzo, mezzo letterato, mezzo marchese, mezzo democratico, mezzo cristiano, mezzo incredolo.

(1) Zobi; Memorie politiche, Vol. IL, pag. 395397.

(2)

Sbalzato appena il Granduca, il misero in mangiatoia, creato Commissario civile presso il Corpo di osservazione, ufficio senza scopo e senza occupazione, inventato apposta per lui. Poi il fecero Soprintendente alle Regie Possessioni, Intendente dei beni della Lista civile, Direttore dell'Istituto agrario, e insino a, risum teneatis amici, professore di meccanica!;poi Gran Cacciatore, con una rendita di ventimila franchi Tanno. Lo cacciarono in non sappiam quante fruttuose Commissioni, Senatore del Regno, piastrato de' Santi Maurizio e Lazzaro.

(3) Cosi della Toscana, pag. 203.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 29

Caduto il Ministero Ridolfi, venne a presiedere un Ministero suo proprio, per scendere dal piedestallo «dopo avere aggiunto ruine a mine» (1). Più tardi fu altro di quella Commissione governativa per Leopoldo II. richiamato, la quale, senza consultare il Granduca, pretendendo piuttosto imporgli la propria sua volontà, proclamò e promise che non tornerebbe se non principe costituzionale (1). Quando, nel 1857, Pio IX., viaggiando pe' suoi Stati, traversò nel ritorno la Toscana, il Granduca avendo fatto richiedere al Capponi la sua villa fuori di Porta San Gallo, per breve sosta del Pontefice, rispose: la villa esser piena di ragnateli e troppo lungo lavorio il ripulirla. Replicò il Granduca, provvederebbe egli alle spese; e Gino Capponi a dire di viva voce, «ch'ei non dava chiavi per l'alloggio del Re di Roma;» ma che se avessero voluto sforzar le porte, eran padroni.» Ed ora, vecchio, cieco d'ambedue gli occhi, in cuor suo costituzionale federale davvero, stava fra i costituzionali federali da burla, a far l'ufficio della patina agli stivali.

Salvagnoli, Galeotti, Giorgini, Corsi, erano quattro avvocati. Chi non conosce per fama oggidì Vincenzo Salvagnoli, lo cinico espositore dell'assioma politico: colla verità non si governa (3)? Ingegno vivo e pronto, parlatore sciolto ed arguto, scrittore concettoso e terso, facile e destro maneggiatore del suo periodo, forte nelle leggi, fu per lunghi anni fra' più valenti giureconsulti del foro toscano.

(1)

Zobi; Manuale storico degli ordinamenti economici vigenti in Toscana, pag. 494.

(2)

In un Indirizzo al Granduca, del 17 aprile 1849, scrissero: «La Commissione governativa non ha dubitato di dover assumere in nome vostro le redini dello Stato, ed in nome vostro promettere ai popoli, i quali vi invocano, che voi sareste tornato siccome un principe costituzionale.»

(3)

Angelo Brofferio sdegnosamente rinfacciò a Bottino Ricasoli, che, durante il tempo in cui tenne autorità dittatoria sulla Toscana, avesse fatto ciò che positivamente negava di avere operato, e non avesse operato quanto pretendeva di aver fatto; veri gli arbitrarii imprigionamenti di cui era stato accusato, la svergognata corruzione nelle elezioni, la sistematica violazione delle lettere negli ufficii postali, lo sperpero matto dei denari dello Stato. A tutte queste accuse Salvagnoli, che, essendo Ministro degli affari ecclesiastici nel Gabinetto del Ricasoli, doveva sentire al vivo la puntura della spilla, rispose a Brofferio: Caro mio, colla verità non si governa. (Brofferio; I miei tempi. Vol. XIV., pag. 95-115).

30 CAPITOLO DECIMOSESTO.

Fattosi Carbonaro, involto ne' moti del 1831, si trovò poi unito con quanti vi ebbero mano, né mai da allora ristette a procacciarne di nuovi. Da quell'epoca data la grande intrinsichezza in cui visse col principe Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, mentre questi dimorava a Firenze, intrinsichezza non rotta con Napoleone III. Imperatore. Dal 1837 dichiaratosi fautore di ordinamenti federativi per la italiana penisola (1), ribadì il chiodo nel 1847 (2). Ma già nel 1848 era unitario; anzi preso in uggia per sfegatato Albertismo, da' demagoghi signoreggianti fatto segno ad aspri insulti di plebe insino nella sua casa, lasciata Firenze, si rifuggiva a Nizza, ove rimase lungamente e donde tornò per essere in Toscana il più instancabile dei cospiratori in permanenza del conte di Cavour. Adesso stava con Ridolfi, con cui era alle rotte dal 1848, da quando questi non aveva mantenuto a lui ed agli antichi compagni, che lo avevano reso sicuro del loro aiuto, le promesse fatte prima di entrare nel Ministero (3). Ridivenuti amici, lo erano come cani e gatti.

Galeotti, gran faccendiere della rivoluzione, la scialava a quei dì da autonomista federale. E Lorenista-costituzionale, ciò che allora suonava lo stesso, si dava il Giorgini, Lorenista almeno sino al 26 aprile 1859 (4); intimo amico di Bettino Ricasoli, genero di Alessandro Manzoni.

(1) New Elogio di Girolamo Poggi, che lesse all'Accademia dei Georgofili.

(2)

Nel Discorso, che pubblicò nel marzo 1847 a Lugano, col titolo: Sullo stato politico della Toscana; pel quale, non avendo potuto negare il molto amore del popolo a Leopoldo II. ed alla dinastia, che confessava di assai benefizii giù stata larga al paese, fu il Salvagnoli accagionato, dai confratelli delle sètte, di soverchia tenerezza per la Casa di Lorena.

(3)

Si ruppe la buona armonia fra il Ridolfi, Salvagnoli e Ricasoli, che presero ad avversarlo acremente nel loro Giornale La Patria e nel Parlamento. «Ed io penso,» scrive il Puccioni (Biografia di Vincenzo Salvagnoli, pag. 40, Torino, 1861), «che questa prima discordia fosse il germe delle altre ben più funeste, onde poi fu travagliata la nostra Toscana.»

(4)

Narra l'operosissimo membro del Comitato nazionale centrale di Firenze e capo della fazione popolare, Ermolao Rubieri (Storia intima della Toscana, pag. 216), come il 26 aprile 1859, in un'adunanza tenuta in casa Ricasoli, avesse il Giorgini «perorato sulla inopportunità di separare» la causa della Toscana da quella della dinastia di Lorena.» Ciò che non impediva che il 20 agosto dello stesso anno lo stesso Giorgini venisse a leggere all'Assemblea toscana un altro scritto per perorare la causa della

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 31

Designato a professore sino da quando era a balia, a vent'anni era stato fatto professore davvero, perché assaggiasse quasi tutte le cattedre della facoltà legale e filosofica, come colui che sa ogni cosa; sì che i maligni dicevano come colui che non avea voglia di far nulla, ed era indifferente il tenerlo qua e là, che tra le infreddature, il dolor di corpo, il mal di capo, e una cosa e l'altra, non arrivava mai a far venti lezioni l'anno (1). Scettico, di que' che non mai si abbassano a guardar pel sottile, figlio d'un lucchese venuto a Firenze in cerca di fortuna e beneficatissimo da Leopoldo IL, fratello di altri due beneficatissimi dal Granduca, Giovambattista Giorgini, sì largamente egli medesimo beneficato da codesto eterno beneficatore di Leopoldo, sfogava la sua gratitudine col cospirare.

Così, mentre i nazionali, retti dal Comitato centrale, tenevano dietro ad uno scopo ben definito uniti e compatti, neppure fra i primati medesimi della fazione aristocratica vi avea concordanza di propositi. Solo la ben minor parte di essi seriamente desiderando la conservazione della dinastia lorenese, altri erano ormai nazionali pretti e sputati, cavouriani nel più stretto senso, che stavano provvisoriamente cogli aristocratici, sia per avversione invincibile a trovarsi insieme con demagoghi che li aveano in altro tempo aspramente angariati, come il Salvagnoli; sia per tenere debitamente informati d'ogni andamento particolare della fazione, tanto i padroni di Torino, quanto i nazionali, come Celestino Bianchi che in casa del Dolfi mestava in quel partito eziandio. Altri poi erano nazionali appena dissidenti, che non avrebbero anche disgradata l'autonomia della Toscana, fermo sempre di farvi essi la prima figura, e salvo a darsi del tutto alla signoria torinese quando all'ambizione e al borsello tornasse meglio il farlo, come Ricasoli, Ridolfi, Peruzzi, quasi che abbisognassero d'ulteriore conferma quelle parole di Francesco Guicciardini (2): «Non crediate a costoro che predicano sì efficacemente la libertà, perché quasi tutti, anzi non è forse nessuno che non abbia l'obbietto agl'interessi particolari;

aggregazione della Toscana al Piemonte; giusto come que' flagellati da Socrate, i quali vantavansi di saper parlare sopra ogni argomento prò e contro.

(1) Casi della Toscana, pag. 303.

(2) Opere, Vol. I., pag. 110, Ricord. 66.

32 CAPITOLO DECIMOSESTO.

e la esperienza mostra spesso, ed è certissimo, che se credessero trovare in uno Stato stretto miglior condizione, ci correrebbero per le poste.» Quanto avveniva fra' capi, avveniva a un dipresso fra gl'inferiori, quasi tutti venderecci come un Cambray-Digny, gente che si appiccicava a' vestiti de banderai, loro parendo che nomoni come un Ricasoli, un Ridolfi, un Capponi, dovessero portare miglior fortuna che non i novellini ed oscuri Rubieri e Dolfi. Lo stesso accadeva allo incirca tra le due fazioni. I nazionali avevano bisogno degli aristocratici, di que' gran nomoni, per abbagliare le moltitudini; e questi avevano bisogno della mano e dell'opera ardita de' primi per entrare in porto. li che spiega e le quereluccie sorte in sulle prime nel grembo stesso degli aristocratici, e le discrepanze e le dissensioni fra le due fazioni, sino a che l'astuzia, gli intrighi, l'oro e l'audacia di Cavour e dei cavouriani l'ebbero vinta del tutto.

I capi delle due fazioni tenevano adunanze segrete, ora separatamente, ora insieme; i capi dei nazionali in casa di Giuseppe Dolfi, i capi degli aristocratici in casa di Bettino Ricasoli e del BonCompagni, il quale con grande cura li andava lisciando e piaggiando, stante il credito che ai più di loro veniva dalla nobiltà delle famiglie, dalle possedute ricchezze, dalle aderenze molteplici. Tutti poi di tanto in tanto convenivano presso il BonCompagni, in una stanza appartata dei palazzo della Legazione sarda, al fioco lume d'una lucerna che gettava i languidi raggi sopra una bandiera tricolore, ivi posta a segnacolo di comuni speranze. Di ritorno a Torino da Plombières, Cavour faceva venire a sé il Salvagnoli per dargli l'imbeccata, che avesse ad apparecchiare uno scritto propugnante la necessità per l'Italia e per l'Europa di por fine al dominio austriaco nella Penisola, e di assicurarne l'emancipazione mediante l'alleanza francese, da dirsi solo modo di conseguirla, mettendo in vista come la Francia se ne sarebbe avvantaggiata e come l'Europa non avesse motivo alcuno d'inquietarsene (1). Da Torino passò a Parigi, di dove, già fatto

(1) Lo scritto, promesso dal Salvagnoli, non dava fuori, almeno colla prestezza che avrebbe voluto Cavour; sì che questi, per ispingere e forse compromettere l'amico, gli mandava in anticipazione la croce di cavaliere de' soliti Santi Maurizio e Lazzaro. Uscì in luce in Firenze il 21 febbraio 1859, sotto il titolo:

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 33

consapevole, dai frequenti colloquii con Cavour e Napoleone III., dell'alleanza pattuita fra la Francia e il Piemonte, e della guerra che in breve dovea rompersi, corse a Londra ad accertarsi degli intendimenti di Palmerston, Russell, Gladstone (1), il cui avvento agli affari gli era stato assicurato prossimo e convenuto pel momento opportuno. Reduce a Firenze, sul cadere del 1858, era così il Salvagnoli il primo ad arrecare a' compagni notizie certissime e circostanziate di quanto andavasi maturando.

Il segnale venne, come dovea venire, da Parigi, il primo giorno del 1859. BonCompagni, chiamatovi affrettatamente da Cavour, tornava a Torino, già fino dai primi dì del gennaio, con segrete istruzioni, annunziando agli amici in Toscana un fatto grave, gravissimo, prossimo ad avvenire in Italia; e annunziandolo con parole tanto significative da destare sospetto ne' diplomatici stranieri accreditati presso il Granduca, che ne scrissero come di cosa misteriosa alle lor Corti. 11 piano per levarsi dai piedi Casa di Lorena da tempo aveano stabilito in Torino. Ben presto gli avvenimenti avrebbero sospinto Leopoldo II. ad un crocicchio, donde, voglia o non voglia, sarebbe poi stato costretto di muoversi per una o per l'altra delle tre vie che vi metteano capo: o l'alleanza coll'Austria, o l'alleanza co' Franco-sardi, o la neutralità, dichiarata o no. Se si stringeva all'Austria, avrebbero avuto buon giuoco, e in mano un pretesto acconcio a fare apparire bastevolmente giustificate ogni fatta ostilità verso di lui. Se si gettala in braccio a Sardegna e Francia, più tardi un non nonnulla, fatto sorgere dagli eventi, avrebbe potuto essere sufficiente per isbalzarlo dal trono, allorquando, guardata la Toscana dalle loro armi, allontanate dal Granducato le truppe del paese, tutto

Discorso sull'Indipendenza d'Italia; e parve tale che il Ministro Landucci opiné dover essere imprigionato il Salvagnoli. Il Consiglio di Prefettura di Firenze fu di contrario parere, e non ne fa nulla.

(1) Da lunghi anni era legato di amicizia con tutti e tre, carteggiava spesso con loro, e li forniva regolarmente d'informazioni a suo modo sulle cose italiane, di Toscana in particolare. Durante la dimora di alcuni mesi in Toscana di lord Russell, verso la fine del 1856, fu il Salvagnoli il più costante consigliere e l'autorità in affari italiani da esso la più rispettata ed ammessa; «del che lord Russell medesimo sino da quel tempo davasi vanto verso chiunque si faceva ad ascoltarlo» (Normanby; Difesa del Duca di Modena, trad. ital., pag. 2).

34 CAPITOLO DECIMOSESTO.

fossevi messo alla mercé de' nuovi amici. Se infine ei si appiglia va al rimanersi neutrale, avuta cura di non riconoscerla comunque fosse, avrebber detta codesta sua neutralità una finzione, utile all'Austria, dannosa agli alleati, e Leopoldo II. avverso alla causa, proclamata santa, dell'indipendenza italiana, infeudato all'Austria, schiavo dell'Austria, scherano dell'Austria, per poi, a momento opportuno, vilipeso e schernito, capovolgerlo. Che il Granduca si decidesse a senso del Trattato d'alleanza coll'Austria, del 12 giugno 1815, non parea loro verosimile; che ciecamente si desse in balia a Sardegna, ancor meno. Non restava pertanto che la neutralità; ed a questa probabilità informarono le orditure.

Bisognava adunque, prima di tutto, rendere per effetto delle orditure medesime impossibile la neutralità; quella neutralità perfetta che il buon senso s'accorda ad approvare come il buon diritto, consistente nell'astenersi da qualsivoglia partecipazione diretta o indiretta ad ostilità contro l'una o l'altra delle parti belligeranti, nel rinchiudersi in un'attitudine puramente passiva e di aspettazione, nel rimettersi alla lealtà degli avversarii, nel rifugiarsi più strettamente sotto la protezione delle Potenze garanti. Si doveva porre il Granduca nella necessità di dichiarare a quale partito determinasse appigliarsi; e allorché detto ei si fosse chiaramente neutrale, cominciare a intuonare: abbandonasse il pensiero della neutralità, alzasse la bandiera tricolore, voltasse le spalle all'Austria, si unisse, in pace ed in guerra, a Sardegna e Francia, che dalla lealtà dell'una nulla aveva a temere, dalla lealtà dell'altra tutto ad attendersi; con che acquietata ogni cosa, il paese avrebbe assentito che gli stessi Ministri rimanessero a' loro posti. Quanto più appressasse il momento, tanto maggiormente avevano ad instare, pressare senza dare respiro, spesseggiare gli assalti, più e più svelati e solenni, si che le preghiere al principe avessero a vestire da ultimo le sembianze di schiette intimazioni. 0 Leopoldo II. cedeva, e poco appresso sarebbe stato perduto; o resisteva, e allora verrebbero addirittura ad una sollevazione, a rovesciare il governo, a cacciare la dinastia regnante. Ma una sollevazione, nonostante che dovesse, come volevano, pigliare apparenza di una composta e solenne protesta popolare, non avrebbe potuto dar fuori senza il concorso delle truppe, od almeno di quelle stanziate a presidio di Firenze.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 35

Stavano le soldatesche toscane agli ordini del tenentegenerale Federico Ferrari Da Grado (1), uomo lealissimo, severo, inflessibile, malauguratamente senza influenza sullo spirito de' soldati, senza verun ascendente di legami dJ affetto. Negli ultimi tempi ei non vedea che pegli occhi di un capitano Giambattista Masini e di un Diego Angioletti (), che si aveva presi, l'uno in qualità di Segretario nel Ministero della Guerra, l'altro di Aiutante. Guadagnati questi due; compri alcuni capi di corpo, come il Danzini ed il Cappellini (3); corrotti, precipuamente per opera di codesti, parecchi ufficiali ed un certo numero di sottoufficiali; i settarii del Comitato centrale facevano infatti grandissimo assegnamento sulle truppe, nelle cui fila era riescito ad insinuarsi qualche antico volontario del 1848. Nullameno, travagliato pure com'era l'esercito toscano, ben sapendosi che col più gran numero degli ufficiali la grandissima maggioranza de' soldati n'era sempre troppo affezionata a' suoi principi per potere sperare d'impiegarla ad abbattere la dinastia, si doveva limitarsi a domandare solamente che richiedessero la bandiera tricolore e l'ordine di unirsi a' Sardi, se la guerra fosse venuta a scoppiare. Gli uffiziali che fossero rimasti fedeli, o sarebbero poi trascinati dagli altri, o avrebbero dovuto cedere a' popolari concitamenti. Gli ufficiali superiori sulla cui incrollabile fedeltà non poteva nudrirsì il più lieve dubbio,

(1) Tenne, intorno a sette anni addietro a servigio del Granduca per dar nuova organizzazione all'esercito, messo su di un piede che, almeno dallato del benessere, non aveva nulla da invidiare a verun'altra milizia. Di modi piuttosto ruvidi, poco a poco una sua debolezza, forse originata da abusi reali, era divenuta costante abitudine. L'Auditorato militare, chiamato a giudicare de' reati de' soldati, dava sentenza secondo le leggi e la sua coscienza. Il Ferrari, di suo capo, cassava, riformava i giudizii dell'Auditorato, ed ordinando pene inflitte da sé, finiva con disgustare tutti, alti e bassi.

(2)

Oggidì, in benemerenza, Ministro della marina del Regno d'Italia, quantunque senza la benché minima conoscenza di cose di mare.

(3)

II Maggiore Alessandro Danzini comandava lartiglieria ed il Maggiore Cappellini la cavalleria stanziate a Firenze, notissimi entrambi per i debiti contratti pelle bische e pelle cortigiane. «A costoro furono pagate molte cambiali in iscadenza, e si giunge a indicarne fino la somma, cioè lire quarantaduemila al Cappellini e trentacinquemila al Danzini.» E perché le firme di essi non avean credito nemmeno presso gli strozrini, furono saldate da un marchese, che non vogliamo nominare, col ribasso del quaranta per cento. Egli poi si fece rimborsare dell'intero dai capi della congiura.» (Casi della Toscana, pag. 34. Firenze, 1864).

36 CAPITOLO DECIMOSESTO.

come il generale Ferrari, il colonnello De Baillou, che comandava l'infanteria stanziata a Firenze, il colonnello Ripper, comandante a Livorno, ed altri, sarebbero astretti a dimettersi. Oro, moine e corte bandita avrebbero tratto nell'inganno i soldati. «In riserva doveano essere le armi e le munizioni per ispingere la rivoluzione agli estremi, qualora una parte della milizia avesse opposta la forza (1);» armi e munizioni che il BonCompagni aveva nascosamente accolte e distribuite in più luoghi, dopo che, forse colla connivenza degl'impiegati delle Poste, passavano in Firenze sotto il titolo di equipaggi della Legazione di Sardegna.

Così predisposto, BonCompagni, reduce appena in Firenze, cominciava ad ismascherare le batterie, facendo fare un primo passo per insinuare al Baldasseroni, venuto fra i Ministri del Granduca in fama di liberale (2), che nel caso probabile di non lontana guerra, il Governo toscano poteva interamente affidarsi a Sardegna, siccome a quella, che, affermavasi, aveva interesse di

(1)

Ermolao Rubieri; Storia intima della Toscana, pag. 65. - È il Rubieri del Comitato centrale che parla!

(2)

«Tal ufficio», afferma lo Zobi (Cronaca degli avvenimenti d'Italia del 1859, Vol. 1., pag. 103), «venne praticato col cavalier Baldasseroni,» perché a preferenza degli altri Ministri sapeva orpellarsi a segno da assumere talora linguaggio e sembianze liberalesche, per piacere a quelli che non si curano d'indagare gli animi nei loro più reconditi penetrali.» Quanto più egli ambiva di conservare il portafoglio, faceva correr voce di volersi ritirare alla vita privata, se il Principe non avesse aderito all'alleanza franco-sabauda che gli veniva proposta.» Poco appresso, lo stesso Zobi (Memorie economico-politiche sulla Toscana, Vol. 1., pag. 302)chiama furberia grossolana questo procedere del Ministro. Il Rubieri delComitato centrale fiorentino (Storia intima della Toscana, pag. 7072), giunse a dire, «che tenesse il piede in due staffe», e che sarebbesi acconciato a far causa comune coi liberali per mantenere il portafoglio. Che il Baldasseroni, quello fra i Ministri che più era in auge presso il Granduca, fosse circuito e piaggiato, è certo; uomo di vario ingegno, sempre incerto tra il governo assoluto e le libertà politiche, tra le leggi ecclesiastiche e le leggi leopoldine, forse in parte lusingato dalle lodi, sicuramente finte, che a bella posta gli prodigavano. Ma in un tempo in cui si avea avuto ogni agio a distinguere i traditori da' leali, chi poteva, meglio forse di chicchessia, dare ad ognuno il suo, disse schiettamente (Casi della Toscana, pag. 15): «Il Ministro può avere sbagliato; la rettitudine e la onestà dell'animo di lui non possono mettersi in dubbio. Amministrò egli per molti anni il patrimonio della Toscana; e non solo ne uscì netto, ma neppure fu concepito un dubbio che lo aggravasse.»

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 37

sostenere sul trono la dinastia di Lorena (1). Poco appresso, lo stesso BonCompagni tentava direttamente il Lenzoni, Ministro alle cose esteriori, scaltramente usufruttando della discordia, male vecchio del Governo toscano, che, entrata negli animi di coloro che avevano in mano la somma della pubblica cosa, era cagione che la Toscana titubasse senza appigliarsi a verun partito; discordia resa più che mai manifesta quando in que' giorni medesimi venne dato alle stampe in Firenze un libercolo sotto il titolo Toscana ed Austria, sottoscritto da Cosimo Ridolfi, Bettino Ricasoli, Corsi, Cempini e Celestino Bianchi, vero autore di esso. Che di quello scritto, dichiarazione aperta di guerra alla Casa di Lorena, formale atto di accusa contro Leopoldo II., zeppo d'insulti plebei all'indirizzo dell'Austria e propugnante l'alleanza colla Sardegna, avendo il Ministro dell'Interno ordinato il sequestro ed il divieto di diffusione, BonCompagni corse a lagnarsi presso altri del Governo granducale per l'insulto e pe' danni arrenati al Barbèra, suddito piemontese, stampatore di quell'opuscolo incensurabile, ed ottenne non solo che fosse revocata in dubbio la facoltà del sequestro, ma ancora che lo scritto fosse licenziato al pubblico; con che un librettuccio, per tal guisa elevato a pubblico manifesto di rivolta, senz'altro merito da quello in fuori che gli veniva dalla circostanza (2), raddoppiava di credito, ed era fatto valere a pretesto di sottoscrizioni adesive, ottenute cogli stessi mezzi con cui avean messe su, dopo il Congresso di Parigi, le sottoscrizioni agl'Indirizzi a Cavour ed ai cento cannoni di Alessandria. E intanto, stendendosi dall'alto, l'incertezza e l'esitazione penetravano, miasma funesto, ne' pubblici uffizii, insensibilmente dissolvendo il vigore dell'ordinamento governativo.

Già dal marzo Cavour aveva fatto diramare ai Comitati della Società Nazionale generali istruzioni segrete sul modo con cui a momento opportuno dovevano contenersi rispetto all'insorgere, alle truppe che si avessero potuto sedurre, ai Commissarii provvisorii da instituirsi

(1)

Lo Zobi dichiarò poi (Cronaca del 1859, Vol. I., pag. 103), che tutto questo, «sin dal gennaio, alcuni ragguardevoli cittadini, d'intelligenza col» BonCompagni, tentarono d'insinuare al primo Ministro del Granduca.»

(2)

Lo stesso Rubieri (Storia intima della Toscana, pag. 17) dice che «questo libro acquistò allora una importanza certamente sproporzionata alla grettezza e sterilità dei principii da esso rappresentati.»

38 CAPITOLO DECIMOSESTO.

per nome di Re Vittorio Emanuele, ai reclutamenti, e simili provvidenze in caso di riescita (1) Di ritorno il Ridolfi da Torino, ove si era recato, col Corsi e col Carrega,

(1) Ecco il testo del documento.

SOCIETÀ NAZIONALE ITALIANA

Indipendenza. Unione.

Istruzioni segrete.

La presidenza crede di suo dovere, nello stato attuale delle cose in Italia, di comunicare le istruzioni segrete seguenti:

1.

Appena cominciate le ostilità tra il Piemonte e l'Austria, voi insorgerete al grido di: Viva l'Italia! Viva Vittorio Bmanuele! Fuori gli Austriaci!

2.

Se l'insurrezione è impossibile nella vostra città, i giovani in istato di portare le armi ne usciranno foori, e si raduneranno nella città più vicina in cui l'insurrezione sia già riuscita, o almeno si abbiano speranze che riesca. Fra le città vicine voi sceglierete la più vicina al Piemonte, ove dovranno concentrarsi tutte le forze italiane.

3.

Farete tutti gli sforzi possibili per vincere e disorganizzare l'armata austriaca, intercettando le comunicazioni, rompendo i ponti, bruciando i depositi di vestimenti, di viveri, di foraggi, tenendo in ostaggio i grandi personaggi che sono al servizio del nemico e le loro famiglie.

4.

Non tirerete mai pei primi sui soldati italiani ed ungheresi; ma invece metterete tutto in opera per indurii a seguire le nostre bandiere, e accoglierete come fratelli coloro che si arrenderanno alle vostre esortazioni.

5.

Le truppe regolari, che abbracceranno la causa nazionale, saranno immediatamente inviate in Piemonte.

6.

Dove l'insurrezione avrà trionfato, l'uomo che godrà più la stima e la confidenza del pubblico, assumerà il comando militare e civile col titolo di Commissario provvisorio pel Re Vittorio Emanuele, e lo conserverà fino all'arrivo del Commissario inviato dal Governo piemontese.

7.

Il Commissario provvisorio abolirà le imposte, che potessero esistere sul pane, sul grano, eco., e in generale tutte le tasse che non esistono negli Stati Sardi.

8.

Farà una leva per via di reclutamento dei giovani dai 18 ai 20 anni in ragione di 10 per ogni migliaia di anime, e riceverà come volontarii gli uomini dai 20 ai 35 anni che vorranno prendere le armi per l'indipendenza nazionale; invierà immediatamente in Piemonte i coscritti e i volontarii.

9. Nominerà un Consiglio di guerra per giudicare e punire in ventiquatte'ore tutti gli attentati contro la causa nazionale, e contro la vita o la proprietà dei cittadini pacifici. Non avrà alcun riguardo all'ordine, alla classe; ma nessuno non potrà essere condannato dal Consiglio di guerra per fatti politici anteriori all'insurrezione.

10. Proibirà la fondazione dei Circoli e dei giornali politici; ma pubblicherà un bollettino ufficiale dei fatti che gl'importerà di far conoscere al pubblico.

LA TOSCANA E I SUOI SOMMOVITORI. 39

«onde concertare col conte di Cavour il futuro movimento toscano (1),» parendo ormai certo che il Governo di Toscana si sarebbe attenuto a starsi neutrale, fu data l'ultima mano a' progetti. In ogni città, in ogni castello, in ogni terra del Granducato, agenti operosi, camuffati sotto mille aspetti, inviaronsi a ravvivare il fuoco sacro, ad infervorare gli aderenti, a corrompere gl'incauti, a spaventare i pusillanimi, recando ambasciate e risposte, ordinando e disponendo tutto quanto era da farsi sinché a' caporioni fosse riuscito il colpo a Firenze, e poi. Era già stabilito chi dovesse assumere le redini del Governo quando il Granduca fosse partito, chi dovess'essere Prefetto, chi Segretario, chi Commissario per illuminare la pubblica opinione. A tutti i ferri di bottega si doveva dare qualcosa per averli aiutatori e cooperatori all'impresa. Tutti i vanitosi e gl'inetti s'avessero a lusingare. Non doversi in sulle

11. Dimetterà dalle loro funzioni tutti gl'impiegati e magistrati opposti al nuovo ordine di cose, procedendo in ciò con molto mistero e prudenza, e sempre per via provvisoria.

12.

Manterrà la più severa e inesorabile disciplina nella milizia, applicando a chiunque le disposizioni militari del tempo di guerra. Sarà inesorabile pei disertori, e darà ordini severi a questo riguardo a tutti i subordinati.

13.

Invierà al Re Vittorio Emanuele uno stato preciso delle armi, delle munizioni e dei fondi che si troveranno nelle città o provincie, ed aspetterà i suoi ordini a questo riguardo.

14.

In caso di bisogno farà delle requisizioni di danaro, di cavalli, di carri, di navigli, eco., lasciandone sempre la ricevuta corrispondenti ma punirà colle pene più forti chiunque tenterà di fare simili requisizioni senza necessità evidente e senza un espresso contratto.

15.

Fino a che non si verifichi il caso previsto nel primo articolo di questa istruzione, voi farete uso di tutti i mezzi che sono in vostro potere per manifestare l'avversione che prova l'Italia contro la dominazione austriaca e i governi infeudati all'Austria, nello stesso tempo che il suo amore all'indipendenza, e la sua fiducia nella Casa di Savoia e il Governo piemontese; ma farete quanto è in voi per evitare conflitti e movimenti intempestivi e isolati.

Torino, 1. marzo 1859.

Pel presidente: Il vicepresidente Garibaldi.

Il segretario La Farina.

(1) È con queste precise parole che Alessandro Carrega, cavaliere e priore, in un suo opuscolo avente a titolo La Esposizione toscana (Firenze, 1862; pag. 2), narrando della sua gita a Torino nel febbraio 1859, insieme a Ridolfi ed a Tommaso Corsi, ne rivela senza reticenze lo scopo.

40 CAPITOLO DECIMOSESTO.

prime fare scandali, né torcere un capello a nessuno, e molto meno sparger sangue che dal sangue pullulano gli odii e dagli odii le discordie e le civili perturbazioni. I pubblici impiegati che non si potessero corrompere, o, come chiamavanli, incaparbiti dei Lorenese, si avessero a casti gare col bastone della bambagia. Doversi mettere in discredito la gente onesta, calunniarla nei Giornali, spaventarla per toglierla di scena (1). Mentre che, come nel 1848, donne, specialmente patrizie, note alcune per isfrontata libidine, altre che il pudore consideravano al più come un precetto del Galateo, posta giù ogni vergogna, i vezzi ed artifizii del sesso usavano a procacciare fautori alla causa dei mestatori.

Leopoldo II. dichiaratosi schiettamente per la neutralità, proclamata costituzione fondamentale della Toscana sino dal tempo di Leopoldo L, non restava a sommovitori che dare séguito a quella parte del loro programma tracciata in previsione di codesta eventualità, la più probabile anche perché la Toscana con poche milizie, di fresco ordinate, del tutto impreparate alla guerra (), non poteva essere di alcun momento nelle sorti delle battaglie. Impertanto BonCompagni spingeva Lajatico ad indirizzare, il dì 18 marzo, al Baldasseroni una lettera, resa pubblica (3), in cui richiedevasi esplicita accettazione della politica franco-sarda. Poi, verso la fine del marzo, il medesimo BonCompagni ripeteva presso il Baldasseroni il tentativo già fatto direttamente presso il Ministro Lenzoni.

(1) Casi della Toscana, pag. 22.

(2)

Sino al 27 aprile 1859 Salvagnoli e compagni accusavano il Granduca di voler tenere, nella guerra imminente, inoperose le truppe pronte ad entrare in campo spinto nell'esilio il Granduca, ecco Salvagnoli e i consorti del Ministero dichiarare (Rapporto letto dal Salvagnoli, e firmato da tutti i Ministri, all'apertura della Consulta, il 6 luglio 1859): «Allora la Toscana, non contando i Cacciatori di Costa e di Frontiera, aveva 7000 soldati; ma i Bersaglieri mancavano di carabine, non v'erano carriaggi, né la provianda, né quant'altro occorre ad un esercito per uscire dalle parate e andare a combattere.» E tutti, e sempre cosi. Sinché cospiravano, tutto parea lecito di affermare per vero; riescita a bene la cospirazione, gli stessi nomini proclameranno falsissimo quanto sino allora aveano sacramentato verissimo.

(3)

Zobi; Cronaca d'Italia nel 1859, Vol. 1., pag. 149-153.

41

CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

Colpo di mano a Firenze,

Chiacchiere di Cavour al marchese Provenzali. - Sovrano e Ministro, ventisette anni prima. - Una guarentigia en tout état de cause. - Filippo Curletti in Firenze. - II tenente Guarnieri. - BonCompagni nel giorno di Pasqua. - Vincenzo Malenchini. - La sera del 26 aprile. - Effetti di cinque Francescani. - Tutto a macca - II primo mattino del dì 27 - Cosimo Ridolfi, prima d'ogni altro, scrive a Leopoldo IL che deponga la corona, - Don Neri portatore d'imbasciate. - II Granduca rifiuta abdicare. - Gli aristocratici corbellati. - Inganno e prepotenza. - L'Arciduca Carlo nel Forte di Belvedere. - La processione degli schiamazzatori ed il marchese De Ferrière-LeVaver. - Casa di Lorena prende la via dell'esilio, - Il Governo provvisorio, ordinato dal BonCompagni, viene In scena. -Il generale Ulloa ed i suoi nuovi soldati. - Attitudine del presidio di Livorno. - Gesta de' Triumviri. - BonCompagni sovrano della Toscana. - Usurpazione dei territorii estensi di Massa e Carrara, tosto aggregati definitivamente al Piemonte.

P

iù s'avvicinava il giorno in cui sarebbe dato fuoco alle mine, più stava a cuore a coloro, che avrebbero fatta avvicinare la miccia, di deviare l'attenzione delle vittime da chi aveva provveduto che si apprestassero le polveri. A tale effetto lo stesso Cavour si faceva a ridire PII aprile al Ministro di Toscana in Torino le profferte che avea già fatte fare in Firenze dal BonCompagni (1). Dichiaratosi ufficialmente neutrale il Governo toscano,

(1) Dispaccio riservato del marchese Provenzali, Ministro toscano presso la Corte di Sardegna, al cavaliere Lenzoni, Ministro degli affari esteri a Firenze.

«Torino, 12 aprile 1859.

» Ieri, terminata la conversazione relativa agl'imbarchi clandestini nel porto di Livorno, il conte di Cavour ha preso motivo dagli avvenimenti gravissimi che si preparano, a rimuovere i quali crede ormai impotenti gli sforzi della diplomazia, per domandarmi se mi fossero palesi le intenzioni del mio Governo in caso che scoppiasse la guerra, e mi ha espresso il vivo desiderio del Gabinetto di Sua Maestà Sarda di stringere migliori rapporti con quello di S. A. I. R. il Granduca, nostro augusto Signore, nell'interesse comune dei due Stati. Sopra di che ho risposto non essere in grado di dare spiegazione, e mi sono limitato a dire che la

42 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

invano questi insisteva a domandare in Parigi che codesta sua neutralità, già accettata dall'Austria, fosse del pari riconosciuta da Francia e Sardegna. Per fermo, non tanto avrebbesi potuto richiedere da chi già aveva fissato l'insediare un principe francese a Firenze, Poi, una volta che la rivoluzione si fosse resa signora del paese,

» politica del mio Governo fu in ogni tempo neutrale per massima, e diretta a mantenere buoni rapporti con tutte le Potenze estere che non gli davano motivo in contrario. Il conte di Cavour ha aggiunto che aperture nel senso sopraindicato erano già state fette dal cavaliere BonCompagni, e che non erano state categoricamente respinte da cotesto Ministero.

» La situazione, ha detto, facendosi ad ogni istante più grave, e gli avvenimenti da cui possono dipendere le sorti d'Italia essendo alla vigilia di compiersi, sembrargli quasi inevitabile che il Governo granducale sia tosto o tardi costretto dalla forza stessa delle cose a sortire da quella posizione di prudente riserva di neutralità, in che ha potuto mantenersi sinora, per adottare quella linea di condotta che stimerà più giusta e più vantaggiosa per il Granducato. Il conte di Cavour è persuaso che le gran di Potenze chiamate a far parte del Congresso, ad eccezione dell'Austria, tutte sono d'accordo sulla convenienza di moderare l'influenza austriaca in Italia. Il Governo sardo, forte del consenso materiale delle armi francesi, già pronte a marciare in aiuto del Piemonte, conta pure sull'appoggio morale, così crede il copte di Cavour, di quelle Potenze che hanno adottato il principio della limitazione dell'influenza austriaca in Italia, e» massime della Russia e della Prussia. In quanto all'Inghilterra, sebbene non abbia troppi motivi di lodarsene, assicura il Cavour che il suo Memorandum ha incontrato la piena approvazione del Governo di Londra, e lord Malmesbury lo ha assicurato che sino al Po la politica inglese era d'accordo con quella dell'attuale Ministero Sardo.

Sottoscritto;» Provenzali,»

Il più bello si è che Nicomede Bianchi (Il conte di Cavour, pag. 70), dopo avere trovate tra le carte del defunto suo protagonista infinite testimonianze delle trame da lui predisposte, dirette e pagate per isbalzare il Granduca di Toscana, pur volendo provarsi d'ingoffare gli allocchi, «petche s'abbiano a tenere al tutto menzognere le imputazioni fette al conte di Cavour di essere stato artefice d'indegni maneggi per ammanire un precipizio al trono di Leopoldo II.,» adduce ad unica prova della sua asserzione questo medesimo dispaccio del Provenzali, quasiché nella matta gioia del successo non avessero essi medesimi propalato in piazza ogni più riposto secreto delle proprie vergogne; quasiché oggidì non vi avesse sì larga copia di documenti attestanti che l'offerta di alleanza era un tranello per poi aggiungere, a momento opportuno, al danno la beffe. Ed è così che si pretende abbia ad essere scritta la storia?

COLPO DI MANO A FIRENZE. 43

la Toscana doveva servire di passaggio opportuno alle armi francesi per minacciare Bologna e Legazioni, donde gli Austriaci, se non volevano restar tagliati tori, sarebbero stati alla fine costretti di ritirarsi e lasciare campo libero alle rivolte contro il legittimo Sovrano, da gran tempo ordinate e per quel di predisposte. Così, onde valersi a suo tempo della Toscana ad abbattere la neutralità degli Stati pontificii, che nel frattempo sarebbesi non ostante solennissimamente riconosciuta, facea mestieri tenere la Toscana medesima in sospeso sulla sua propria neutralità, e rispondendo in modo ambiguo ed incerto, acquistar tempo finché fosse dato agio alla rivoluzione di scoppiare, senza che il Governo francese si fosse legato a nulla. Il perché comandava Napoleone III. al suo Ministro pegli Esteri di volteggiare destramente, nel tempo stesso che più che mai parea bello di aversi a protestare interessatissimi alle sorti avvenire della Casa di Lorena.

Nel vero, entrambi, sovrano e Ministro, avevano larghissimo debito di riconoscenza verso quel Leopoldo IL, ne' cui Stati aveano potuto a lungo impunemente tramare. Regnava Leopoldo II quando, era il 1831, «in una modesta casa dell'oscuro borgo dei Greci, dietro la chiesa di San Fiorenzo, introduceasi un cospiratore, non punto toscano, abbenchò la Toscana gli servisse e innanzi e poi per lunghi anni d'asilo. Egli andava a togliere il fratello dalle braccia di un'amabile consorte. Il cospiratore chiamavasi Luigi Bonaparte; l'altro, Napoleone: ambidue corsero nelle insorte Romagne, l'uno per restarvi ucciso da morbo repentino, l'altro per ritornarne fuggiasco (1).» Regnava Leopoldo II. quando «nella tranquilla Toscana alcuni giovani, fra' quali un Mandolfi e Fermo, figlio di un ricco banchiere ebreo, vagheggiarono l'idea di adoprarsi per unire l'Italia in un governo costituzionale, del quale fosse capo il Walewski, figlio di Napoleone I. Incominciarono per tale effetto dallo spargere diffusamente nella vigilia del protettore S. Giovanni Battista una proclamazione, in cui, rammentata la libertà, l'indipendenza e la prosperità dell'antica repubblica fiorentina,

(1) «Lo scrittore di questi cenni, presente al fitto, lo ha ancora vìvissimo dinanzi agli occhi.» - Demo; Biografia di Leopoldo IL, pag. 45 (1861).

44 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

» di cui S. Giovanni Battista era patrono, declamarono contro l'attuale avvilimento. Tutti gl'Italiani si ricordassero dell'antica gloria e ripigliassero l'avito coraggio per ricuperare la libertà. Il Governo, disprezzando tali leggerezze, ammonì alcuni di quegli ardenti ed inesperti liberali, scacciò dalla Toscana varii forestieri complici e fautori di quelle idee, e la cosa svanì (1).» Nel 1859 il Luigi Bonaparte di cui parla Demo, testimonio oculare, si chiamava Napoleone III.; il Walewski, di cui scrisse il Coppi, sedeva Ministro degli affari stranieri nei Consigli di Napoleone III. Giunta a Parigi la notizia che l'ultimatum austriaco era stato consegnato a Torino nel 23 aprile, il dì 25, nello stesso giorno in cui le prime schiere francesi varcavano i confini della Savoia, dando il segnale ad aprire le ostilità contro i principi dell'Italia centrale, Napoleone III. ordinava a Walewski di dichiarare al marchese Nerli, Ministro toscano a Parigi: «Toscana rientrare nelle condizioni di quegli Stati che non hanno in animo di prender parte alla guerra, e che si trovano per conseguenza nella categoria di quelli che il diritto pubblico riguarda naturalmente neutri. Essere però del tutto inutile procedere ad un atto che lo constatasse pubblicamente. Ma se il Granduca si mettesse d'accordo colla Francia, l'Imperatore, mosso unicamente da considerazione di stima, di riconoscenza, di affetto per la dinastia di Lorena, s'impegnerebbe a guarentirgli, sotto le condizioni il meno possibile onerose, la corona di Toscana en tout état de cause» (1). Lo stesso giorno, or ora vedremo, in cui il Ministro di Toscana a Parigi

(1)

Coppi; Annali d'Italia, all'anno 1832, § 34.

(2) Dispaccio del marchese Tanay di Nerli al cavaliere Lentoni, Ministro degli affari esteri a Firenze.

«Parigi, 26 aprile 1850.

» Nella giornata di ieri ebbi due lunghissime conferenze con Walewski sull'affare della neutralità. Nella prima gli esposi quanto Ella mi mandò col telegramma di domenica, e nella seconda egli mi notificò le determinazioni prese dall'Imperatore, al quale quel Ministro aveva reso conto con ogni dettaglio dei nostri parlari e dei risultamene degli studii fatti nel di lui Ministero sulla questione della nostra neutralità e sul desiderio espresso che fosse finalmente riconosciuta e guarentita. Popò la dichiarazione fatta da noi all'Austria intorno all'impossibilità di eseguire il Trattato del 1815, qui si opina che la Toscana rientra nelle condizioni di quegli Stati che non hanno in animo di prendere parte alla guerra, e

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comunicava al suo Governo le generose manifestazioni del Bonaparte, a Firenze la rivolta alzava il capo. Dopo che coteste considerazioni di stima, di riconoscenza, di affetto, non avevano potuto impedire che a Plombières la corona di Toscana fosse decretata ad un altro, si poteva ben parlare di guarentigie en tout état de cause nel momento medesimo in cui era a credere che già la ribellione avesse sbalzata quella corona dal capo di Leopoldo II.

In questo mentre gli eventi aveano precipitato. Reso certo il Gabinetto di Torino, il 17 aprile (1), che la guerra stava affatto affatto sul rompersi per l'intimazione dell'Austria, «la propaganda segreta del Piemonte nella Toscana e nelle Romagne cominciava a produrre i suoi frutti», scrive (2) quel Filippo Curletti, che, dopo di essere stato per trenta mesi il più fidato, intelligente ed operoso agente secreto del conte di Cavour, campava colla fuga dal capestro. «Tutto era pronto per la rivolta; i Comitati che in questi due paesi si affaticavano a sedurre gli spiriti sotto la direzione del conte di Cavour, chiedevano al Ministro il segnale per agire e qualche uomo sicuro per operare il movimento.» Fui incaricato di questa missione ed inviato incontanente a Firenze per mettermi agli ordini del BonCompagni con ottanta

» che si trovano per conseguenza nella categoria di quelli che il diritto pubblico riguarda naturalmente neutri. 11 perché sarebbe del tutto inutile, secondo il Governo francese, procedere ad un atto che la constatasse pubblicamente, e per lo notizie che si hanno poi cagionerebbe senza fallo in Toscana manifestazioni diametralmente contrarie allo scopo preso di mira dal Governo.

» In questo gravissimo stato di cose, Walewski, che desiderava ardentemente il nostro bene, e che ha per la famiglia granducale la più viva affezione, mi fece confidenzialmente sentire che nelle presenti congiunture due sono le vie aperte per noi. Lo statu quo, neutralità dichiarata o no, o l'accordo colla Francia. Nel primo caso non si mette più in dubbia che trattandosi di guerra nazionale, il Governo nostro sarebbe per la meno debordi; nel secondo, l'Imperatore, mosso unicamente da considerazione di stima, di riconoscenza, di affetto, per la nostra dinastia, s'impegnerebbe a guarentirle, sotto le condizioni il meno possibile onerose,» la corona di Toscana en tout état de caute.»

(1)

Vedi: Vol. 1., Le caute, pag. 299.

(2) La verità sugli uomini e sulle cose del Segno d'Italia. Rivelazioni§ III. (Brusselles, 1861).

46 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

» carabinieri travestiti. Il piano del movimento fu stabilito in un abboccamento ch'io ebbi con esso BonCompagni, ed al quale assistevano Ricasoli, Ridolfi, Salvagnoli e Bianchi. I miei uomini dovevano spargersi a gruppi negli estremi quartieri della città; a dieci ore cominciare a formare degli assembramenti, gridando: Viva l'indipendenza. Unione al Piemonte, e dirigersi con un movimento di concentrazione verso il palazzo Pitti (1). Appena sbrigliato il popolo, noi dovevamo correre alle pubbliche casse ed impadronircene. Ricasoli s'incaricava di far occupare dalle sue genti i Ministeri, le Poste ed il palazzo del Granduca.»

Fatta correre voce per Firenze, il 21 aprile, Giovedì santo, che già fossero incominciate le ostilità sul Ticino, il dì successivo un Tenente d'Artiglieria, Armando Guarnieri, recatosi ad accompagnare alla Stazione della ferrovia Leopolda un amico che con alcuni altri andava ad arrotarsi in Piemonte, accomiatandosi, eglino scambiavano le grida: Viva l'Italia e Vittorio Emanuele! Il Guarnieri fu messo in arresto; ma poco appresso i suoi soldati, fatti istigare dal Maggiore Danzini, furono spinti ad ammutinarsi e lo vollero libero. Fra le altre loro dimostrazioni, avevano preso a bastonare un ritratto di Leopoldo IL; pel quale fatto, avvenuto il Sabato 23 nella caserma centrale, si tenevano sicuri d'esservi consegnati alla domane, mentre il Danzini seppe fare per guisa che gli ufficiali non se ne dettero nemmeno per intesi.

Consegnato in Torino l'ultimatum austriaco nella sera del 23, a tutta notte i fili telegrafici portavano al BonCompagni l'ordine di Cavour di presentare senza indugio la Nota, da buon tempo apprestata, con cui il Gabinetto di Torino domandava alteramente al Governo granducale alleanza offensiva e difensiva (). Il di appresso, 24, giorno di Pasqua, BonCompagni, preparati i suoi ad ogni evento, recasi a rimetterla in mano del Ministro Lenzoni, che si affretta rispondere: sarebbe presa in considerazione. Era il tranello da lunga pezza apprestato. 0 Leopoldo II. rifiutava, e BonCompagni, il Comitato Nazionale, tutti insieme avrebbero

(1)

Ognnn sa che il palazzo de' Pitti in Firenze era la residenza del Granduca. Questa parte del programma fu modificata nella sera del 26, e stabilito che a luogo di concentrazione avesse a servire la piazza di Barbano.

(2)

Riportata dallo Zobi, Cronaca d'Italia nel 1859, Vol. I., pag. 393-396.

COLPO DI VANO A FIRENZE. 47

fatta la bisogna sulla pubblica via. 0 accettava, e in sull'istante avrebbero tratta in campo un'altra pretensione che tenevano in serbo, quella dell'abdicazione di lui e della esaltazione del principe ereditario Ferdinando al trono, non già per conservare la corona al nuovo Granduca, ma solo per insudiciare (1) anche lui e disfarsi all'ultimo della dinastia di Lorena.

Mentre queste cose avvenivano, un uomo, marchiato in volto da una cicatrice profonda alla tempia destra, penetrava furtivo nelle caserme, si mischiava fra i soldati, vagolava per case di ufficiali e ritrovi di militari. Era Vincenzo Malenchini, quegli «che ha strappato davvero,» dissero, «la corona dalla testa dei Lorenesi di Toscana (1)». Malenchini, un dì mazziniano, avvocato, poi capitano di volontarii Livornesi a Curtatone nel 1848, poi emigrato a Parigi, poi a Torino, poi tollerato a Livorno dal più mite e '1 più generoso dei Governi, stava ad Acqui quando un telegramma da Torino lo chiamava presso a Cavour. Era l'uomo che avea sembrato il più acconcio per ispingere la guarnigione di Firenze ad aperta rivolta. E due giorni appresso, Malenchini era a Firenze, ed all'opra (3).

(1) È la precisa parola che usavano BonCompagni, Ridolfi, Ricasoli ed i loro. Il Rubieri del Comitato (Storia intima della Toscana, pag. 86)dice tondo che la esaltazione di Ferdinando IV. al trono era un pretesto, e che contavano sulla inaccettabilità del patto di abdicazione.

(2) Petruccelli della Gattina; I moribondi del palazzo Carignano, pag. 148.

(3) A que' di il presidio di Firenze si componeva d'un battaglione Veliti, truppa scelta; due battaglioni d'Infanteria di linea; un battaglione di bersaglieri; un battaglione di deposito; due batterie d'artiglieria da campo; una compagnia d'artiglieria da piazza. Ai Veliti comandava il Maggiore Mori, all'Infanteria di linea il colonnello de Baillou, alla gendarmeria il tenentecolonnello Michele Sardi. Di tutti meno guasti i gendarmi;guastissimi, per l'influenza del Danzilii, gli artiglieri.

Foglietti erano fatti circolare di nascosto per le mani de' soldati, nei quali, ad ismuoverne la fede, aveano affastellate le più grosse panzane. Il cavaliere de' Santi Maurizio e Lazzaro, Antonio Zobi, tutto affaccendato a denigrare i principi di Lorena e dimostrare l'immacolata purezza di quanti, alti e bassi, ebbero parte ne' fatti di que' giorni, ne stampa egli medesimo, con assai acume, lunghi brani (Cronaca degli avvenimenti d'Italia nel 1859, Vol. I., pag. 131132). In uno di essi leggevasi: «Uffiziali e soldati toscani! Re Vittorio Emanuele ed il valoroso esercito piemontese stanno pronti a scendere sui campi lombardi per combattervi generose

48 CAPITOLO DECIMOSETTIMO,

Sparsa voce che il Governo toscano volgesse ad uscire dalla neutralità per allearsi a' Franco-Sardi (1), apparecchiata ogni cosa, il Comitato, a predisporre gli animi agli eventi stabiliti pel 27, ordinava a' suoi, ed a tutti gli accalappiati del momento, di adunarsi nelle ore pomeridiane del 26 al Parterre, passeggiata popolare fuori di Porta San Gallo, ove sarebbero convenuti soldati a

» battaglie, le battaglie dell'indipendenza e della libertà. Italiani siete anche voi, prodi soldati dell'esercito toscano; e voi aspetta l'esercito italiano su quei campi, dove potete acquistarvi gloria immortale. Una parte degli uomini che governano questo paese, per restare al comando e mantenersi stipendio e potere, cercano vergognosamente tutti i mezzi per vendervi e mescolarvi nei battaglioni austriaci, mandandovi in lontani paesi, da dove non potrete aver più notizie dei vostri genitori, fratelli ed amici. Uffiziali e soldati! Il popolo toscano vuole che voi restiate Italiani, non soldati austriaci. Il popolo toscano senz'arme, con la sola presenza per le piazze e per le vie si adoprerà perché questa vergogna non venga. Fratelli toscani! La grand'ora è vicina; perciò noi vogliamo che voi sappiate quali sono i nostri sentimenti.» E a forza di udirsi ripetere lo stesso suono, goffi soldati finivano con credere che si volesse daddovero mandarli nella estrema Gallizia, mescolati in Reggimenti austriaci di confinarii!

D'altra parte, facevansi porre in giro specie d'indirizzi d'adesione, sottoscritti: I soldati toscani, ne' quali era detto: «Noi pure siamo soldati italiani, e ci crediamo in dovere di combattere fino all'ultimo sangue per l'indipendenza d'Italia. Sì, poiché lo vogliamo, presto saremo al fianco dei nostri fratelli d'armi, i Piemontesi, che tanta gloria acquistarono alla Cernaia sui campi di Crimea. Perciò, Toscani, uniamoci, e preghiamo l'Altissimo affinché benedica le nostre armi nella guerra santa. Fratellanza dunque, come voi diceste, di milizia e di popolo. Neutralità mai! Sia distrutta l'Austria! Viva l'Italia! Viva Vittorio Emanuele, generale in capo dell'armata italiana!»

(1) Nulla fu pretermesso di quanto potesse valere ad impigliare il Granduca su quella via. L'avvocato Vincenzo Landrini era da assai tempo intimo familiare del Ministro Baldasseroni. Spedito il Landrini a propugnare codesta alleanza presso il Ministro, questi non solamente finiva con arrendersi alle sollecitazioni dell'amico, ma riesciva a persuadere il Granduca medesimo ad accordare nella sera del 23 aprile una conferenza allo stesso Landrini a quest'uopo, conferenza in cui Landrini propose a Leopoldo II. persone da interpellare e Ministri da nominare. Il cavaliere Martini, Ministro della pubblica istruzione, già cominciava a calare all'idea di quell'alleanza, pertinacemente avversata dagli altri quattro Ministri, Landucci, Lenzoni, Lami e Lucchesi. Da quel momento tennero dietro attivissime pratiche, guidate da Landrini ed appoggiate da Baldasseroni, ad oggetto di condurre il Granduca a rendersi alla mercé di Napoleone III.

COLPO DI MANO A FIRENZE. 49

celebrare l'affratellanza delle milizie col popolo. Or mentre quell'assembramento, grandemente ingrossato dai molti curiosi, come Buoi sempre avvenire in tali casi, si andava formando, il generale Ferrari, rivestito dell'uniforme del suo grado, recandosi, com'era suo costume, alla visita delle caserme, incontrava per via, verso Porta San Gallo, numeroso attruppamento di basso popolo misto a soldati. Quella frotta s'apriva silenziosa per lasciargli sgombro il passaggio; poi, come vi fosse una tacita intesa, si dava a seguire i suoi passi. Alcuni se gli avvicinano pronunziando minacce di morte, se non si fosse prestamente dipartito di Toscana. Dalla caserma de' gendarmi il generale, sull'imbrunire, esco imperterrito, senza scorta veruna, avviato alla propria abitazione. D'improvviso uno stuolo di monelli gli si appresenta davanti, e come se neppure ei camminasse lor dietro, si muove a precederlo lungo tutta Via Larga, ballandogli festosamente dinanzi, mentre gli altri gli si accalcavano alle spalle, gridando: Viva l'Italia! Abbasso gli Austriaci! Niuno si mosse a cavare il generale da quel bordello, sinché, giunto alla piazza del Duomo, fu lasciato alfine andar solo con Dio.

Mentre in tal modo il Comitato fiorentino dava il ben servito al comandante l'esercito granducale, nella stessa ora in Torino il La Farina recavasi dal napoletano generale Girolamo Ulloa per «apportargli da parte del conte di Cavour l'ordine di prepararsi

Vittorio Emanuele. Tra le quali: la lettera dell'avvocato Leopoldo Galeotti al cavaliere Augusto Duchoquó, del 25 aprile, fotta cadere tosto dal Baldasseroni nelle mani del Granduca; l'udienza accordata lo stesso dì da Leopoldo II. al marchese Lorenzo Ginori ed al cavaliere Giambattista Fossi, presidente della Camera di Commercio di Firenze, in cui questi gli richiesero direttamente a voce l'accettazione dell'alleanza; la seconda lettera di Galeotti al Duchoqué, del 26, fatta anche questa venire in mano del Granduca; ed il colloquio avuto, a mediazione del Landrini, fra Baldasseroni e Ricasoli la sera di quel di 26, dopo il quale quest'ultimo, deliberata già col BonCompagni la rivolta pel giorno appresso, partiva nella notte per Torino a prendervi gli opportuni concerti. Meritano pure speciale ricordanza le premure del Landrini presso Baldasseroni nel 26, «perché almeno spingesse il Granduca ad affidare la direzione degli affari ad una Reggenza fornita di pieni poteri. Il marchese di Lajatico ed il generale De Laugier sembrare a ciò adattatiasimi. Il Landrini medesimo aveva poco prima consigliato il Baldasseroni di riconciliarsi con De Laugier; infetti vi fu un abboccamento fra loro.» (Zobi; Cronaca, pag. 117).Vol. II.

50 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

» a partire per Firenze a fine di prendere il comando supremo» dell'armata toscana (1).» La sera l'Arciduca Ferdinando, portandosi da sua madre, che trovavasi nella villa di Montughi, passò dal Parterre, ed ebbe a trasecolare in vedere quanti soldati incontrava par via, militi e bassi ufficiali, col nastro tricolore all'occhiello. Gli assembrati rientrarono in città a lunghe file con grande schiamazzo. Gozzovigliato alle osterie, i soldati tornano ubbriachi alle caserme, gridando: Viva l'Italia! Viva l'indipendenza!Morte all'Austria! Tutto ciò era dovuto ai cinque Francesconi (2), che agenti del Comitato centrale avevano distribuito ad ogni soldato in quel giorno e nel precedente (3). Tanto a Firenze, quanto a Livorno, i soldati trovavano quel dì alle osterie ed ai caffè, vino, liquori, bibite, cigari, tabacco, tutto pagato dai Comitati locali. Quella sera medesima del 26, BonCompagni, alla conversazione in palazzo Pitti discorrendo con Leopoldo II. in piena dimestichezza, si diffondeva in proteste di amicizia e d'affezione, e si congedava stringendogli vivacemente la roano in sembianza di vera e franca cordialità. Era quello stesso BonCompagi che già avea tutto sì bene ordinato e disposto perché il Granduca non potesse la notte appresso dormir sul suo letto!

All'alba del dì 27 i Ministri erano accorsi presso Leopoldo II., già reso consapevole come sino dalla sera precedente fosse stata predisposta pel mattino di quel giorno una riunione di popolo sulla vasta piazza di Barbano, dirimpetto alla Fortezza di San Giovanni Battista,

(1) La Varenne; Le Congrès des Deux Siciles, pag. 95.

(2) II Francescane di Firenze ha il valore di Lire italiane 5.48.1. Cinque Francesconi corrispondono a Lire italiane 27.40.5.

(3) Questo fatto era già stato rivelato dal Debrauz sino dal 1859. Egliscrive: «N'en déplaise au marquis de Lajatico, la véritable histoire des» événements du 27 avril reste encore à écrire. Elle dira que les svmptó» mes alarmants qui se manifestèrent parmi la garnison de Florence étaient» dus principalement auz cinq Francesconi que des agente du Comité central avaient distribuós la veille et l'avantveille à chaque soldat.» (La Paix de Villafranca et le Conférences de Zurich, pag. 116). Il fatto è certo. Il Rapporto ufficiale che Sir Pietro Campbell Scarlett, Ministro inglese a Firenze, diresse al suo Governo il 7 maggio 1859, dice testualmente, parlando delle manovre adoperate per ammutinare le truppe: «It is well known that for some time before thè 27 of April, thev were supplied with monev.» E la storia vera e compiuta dei fatti di Firenze per verità niuno peranco avea scritta.

COLPO DI MANO A FIRENZE. 51

che i mestatori sapevano sarebbe rimasta inoffensiva. Tatti i Capi di Corpo rapportavano non poter più rispondere delle truppe, se non venisse loro accordato quanto richiedevano: il vessillo tricolore e la promessa che prenderebbero parte alla guerra contro l'Austria. Codeste dichiarazioni ed i fatti della sera precedente indussero il principe a cedere fin dove fosse possibile, ma senza avvilirsi. A nove ore il tenente-colonnello Sardi, comandante la gendarmeria, si presentava a casa il marchese di Lajatico (1), invitandolo in nome del Granduca a recarsi al Palazzo Pitti. Lajatico esce, corre alla Legazione di Sardegna a prender voce da BonCompagni (2), poi, giunto a Pitti, apprende dalla bocca del Baldasseroni che il Granduca accettava di fare piena

(1)

Nelle congreghe tenute alla Legazione di Sardegna le parti erano state previamente assegnate. Se il Granduca avesse ceduto senz'altro, il Ministero, che gli si avrebbe imposto infrattanto, doveva essere composto:del marchese di Lajatico alla presidenza ed agli Esteri; del barone Bottino Ricasoli all'Interno; del marchese Ridolfi all'Istruzione pubblica; dell'avvocato Salvagnoli ai Culti; e provvisoriamente dell'avvocato Corsi al Ministero di Grazia e giustizia, e del Maggiore Malenchini al Ministero della Guerra. A Leopoldo II. essendo già stato detto che il partito liberate toscano desiderava vedere questi uomini al timone dello Stato, egli, buon conoscitore dell'albagia del Ricasoli, avevagli mandato per tempo, nel mattino del 27, l'invito di venire a lui. Uditolo partito per Torino, fece chiamare il Lajatico.

(2)

Fu confessato dallo stesso marchese di Lajatico nella sua Storia di quattro ore (pag. 10). «Ieri mattina,» scriv' egli, «mercoledì 27 aprile, veniva di buon'ora a visitarmi un amico, quando mi si annunzia la visita del colonnello della Gendarmeria. Mi chiamava per ordine del Granduca al Palazzo Pitti. Io mi affrettava di fatto, e mentre precipitosamente mi disponevo ad uscire, pregai l'amico a precedermi alla Legazione sarda, dove in pochi momenti lo raggiunsi. Vi trovai riunite molte persone. Poche parole scambiai col rispettabile ed egregio Ministro BonCompagni, poiché nello incontrarci ambedue ad una voce ci dicemmo l'un l'altro che bisognava almeno tentare. Ciò concordato, partii subito pel Palazzo Pitti, pregando che si chiamassero immediatamente alla Legazione quelle persone che io designai.» Bisognava almeno tentare se, quando pure Leopoldo II. avesse aderito a tutto, per poco ancora potessero in grazia lasciare sul capo di qualcuno della Casa di Lorena quella corona, che si aveva promesso ad un principe forestiero, ed un principe italiano voleva ad un tempo serbata a se medesimo! Lo Zobi, scrivendo da Firenze, rese noto anche il nome dell'amico che precedette Lajatico alla Legazione di Sardegna: era l'avvocato Leopoldo Galeotti (Cronaca, Vol. I., pag. 124).

52 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

adesione al Piemonte ed alla Francia, prometteva, composte le cose, di riattivare la Costituzione, ed incaricava il medesimo Lajatico della formazione d'un nuovo Ministero ().

Lajatico parte, torna alla Legazione sarda, «dove trova ria» niti quelli che aveva indicati e molti altri più ().» Concesso dal Granduca il cambiamento assoluto di Ministero e di politica, compartecipazione all'alleanza francosarda, guerra all'Austria, riattivazione dello Statuto, mentre la bandiera tricolore, già accordata alle truppe, s'inalberava' sui Forti di Firenze, ad ognuno, fuorché a' guidatori di que' moti, doveva parere tutto accomodato. Ma non questo era quanto si volevano coloro cui era ormai suprema necessità sbarazzarsi al più presto della Casa di Lorena. Ed ecco Neri Corsini ripigliare la via per il palazzo de' Pitti. Questa volta il Corsini venne introdotto dinanzi a Leopoldo in persona. Dissegli «che alle offerte da lui fatte si aggiungeva da un partito, col quale oramai bisognava trattare, una gravissima condìzione sine qua non, che supponeva ch'egli già conoscesse (8);» e trasse di tasca il foglio contenente i patti, che infrattanto dalla congrega adunata presso il BonCompagni

(1)

Narra lo Zobi (Cronaca, Vol. L, pag. 124126): «Del medesimo tenore aveva poc' anzi parlato il generale Ferrari ai Maggiori comandanti l'artiglieria e la cavalleria, Danzini e Cappellini. I due Maggiori corsero a dare avviso a' convenuti nel palazzo della Legazione sarda, ed ai soldati posti sotto i loro ordini, di quanto il generale avevali fatti consapevoli ed autorizzati a divulgare. Fu sentimento concorde degli uni e degli altri, che il principe dovesse immediatamente accedere al cambiamento della bandiera, in pegno e garanzia di quanto faceva sperare. Laonde convenne loro tornare a' Pitti per assicurarsi meglio delle sovrane intenzioni. Circa alle ore 10 antimeridiane furono introdotti al cospetto del Granduca e del figlio primogenito, dallo stesso Ferrari. Leopoldo II. stava coi Ministri Baldasseroni e Lenzoni. Interrogato dal Granduca il Baldasseroni intorno a ciò ch'era a farsi, questi rispose: In questo stato di cose la rivoluzione è ornai compiuta; non rimane più nulla da fare. Il sì fu pronunziato. Gli ufficiali si congedarono per consegnare subito le bandiere tricolori a' respettivi Corpi, e quella spedita alla gendarmeria uscì dalla reggia. Fu osservato come il Baldasseroni fosse allora inconseguente al linguaggio tenuto negli ultimi giorni. Dal dì 22 in poi erasi mostrato dolentissimo della renitenza del Granduca all'alleanza franco-sabauda, ed ora ch'egli vi acconsentiva, cercava di frastornarlo.»

(2) Storia di quattro ore, pag. li. (Firenze, 28 aprile 1859).

(3)

N. Corsini; Storta di quattro ore, pag. 1112.

COLPO DI SIANO A FIRENZE. 53

gli s'imponeva accettasse (1). Erano: «Abdicazione del Granduca Leopoldo IL, e proclamazione di Ferdinando IV. Destituzione del Ministero, del generale Ferrari e degli ufficiali che si sono maggiormente pronunziati contro il sentimento nazionale. Alleanza offensiva e difensiva col Piemonte. Pronta cooperazione alla guerra con tutte le forze dello Stato, e comando supremo delle truppe al generale Ulioa. L'ordinamento delle libertà costituzionali del paese dovrà essere regolato secondo l'ordinamento generale d'Italia.» Dignitosamente calmo, senza esitazione Leopoldo II rispose: «Così grave pretesa esigere riflessione. Esservi impegnato il suo onore; e se gli stava a cuore il bene della Tosca na, gli stava pure a cuore l'onor suo. Vedere essere oramai tracciata la via che doveva seguire.» II marchese di Lajatico fu congedato; la sua missione era finita. Altero della bella parte che aveva sostenuto nella rappresentazione, ei ben poteva rassegnarsi a morire (1).

La richiesta di scendere dal trono non suonava nuova al Granduca; alle ore 9 del mattino di quel giorno medesimo 27 aprile, avea ricevuta lettera in cui per la prima volta se ne faceva espressa domanda, e chi quella lettera aveva scritto era Cosimo Ridolfi (3). Leopoldo II, convocato presso di sé il Corpo diplomatico,

(1

) «Resi ostensibile il foglio che mi era stato dato, e che conteneva in iscritto le condizioni alle quali il partito dominante subordinava per ultima transazione la pacificazione del paese, che i miei amici avevano riconosciute inevitabili, e che io aveva creduto di dovere accettare.» Cosi nella Storia di quattro ore il Coreini.

(2)

Sette mesi dopo moriva d'apoplessia in Londra, il 1.° dicembre 1859. Cosimo Ridolfi, l'altro dei due che nel 27 aprile aveano richiesto direttamente al Granduca la sua abdicazione, mori d'apoplessia, nel marzo 1865 in Firenze.

(3)

Uno de' caratteri peculiarissimi dei recenti rivolgimenti d'Italia siè quella incredibil prestezza e la ancor più incredibile sfacciataggine con cui andarono a gara nel propalare da sé medesimi la parte sostenuta inazioni sino allora tenute al più alto grado abbiette ed infamanti, quantunque or dicano sommamente oneste e onorevoli. Mentre gli uomini spregiudicati presso ogni popolo civile portano già su quelle azioni la sentenza che dettano il cuore e la ragione, la storia indipendente dalle passioni ne terrà certamente memoria col vero lor nome. Che Cosimo Ridolfi, sì largamente beneficato da Leopoldo II, fosse stato primo d'ogni altro a chiedergli, con severo ed aspro linguaggio per giunta, che deponesse la corona, parve allo stesso marchese di Lajatico cosa sì rivoltante, che nella sua Storia di quattro ore stimò pel meglio non farne alcun cenno.

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fra cui imperturbato compariva il BonCompagni, alla domanda s'egli, restando al suo posto, poteva contare sull'appoggio de' Governi amici, tutti i rappresentanti stranieri si rinchiusero nel silenzio delle loro istruzioni. Circondato dal suo Ministero, il Granduca dichiarava: «D'accordo col suo cuore, coerente agli atti dell'intero suo regno, anteporre egli ad ogni altro sentimento quello di principe italiano. Vietarglisi l'esercizio della sovrana autorità con violenze incompatibili colla dignità d'uomo e di principe. Protestando contro la pressione e l'affronto di cui era vittima, essere risoluto di allontanarsi co' suoi, pronto a sacrificare piuttosto la vita, prima di piegarsi ad atti disdicevoli al suo onore. Riservare i diritti suoi, della sua dinastia, e quelli ancora del popolo, contro ogni atto futuro de' sediziosi. Chiedere soltanto di potersene andare colla famiglia sicuro.» Ad alcuno che al principe ereditario Ferdinando susurrava la sua esaltazione al trono, il giovane Arciduca rispose memorande ed onorevolissime parole: Io non salirò al trono passando sul corpo di mio padre.

Ormai la rivoluzione non conosceva più freno. Della fazione aristocratica,

Non che sapergliene grado, Cosimo Ridolfi se l'ebbe a male, ed allo scritto del Corsini mandò dietro per le stampe una Breve Nota alla Storia di quattro ore; in cui, confessatosi depositario un tempo dell'amore del padre e della fiducia del principe, si tenne onorato di proclamare quanto per suo onore Corsini credette dover tacere. «Non avrei presa la penna,» disse, «per scrivere questa breve Nota, se considerazioni motivate dalla stessa delicata riserva usata dal marchese di Lajatico nella sua Storia, non mi avessero determinato a svelare quel che egli ha taciuto, vale a dire il mio nome. Parrebbe, altrimenti facendo, che io non avessi il coraggio della mia opinione e la sicurezza della mia coscienza. Questa dichiarazione mi giustifichi presso coloro che a prima giunta mi credessero mosso da tutt'altro sentimento che dal desiderio di far conoscere il vero.» E qui narra per filo e per segno che fece e che disse, e stampa la lettera al Granduca, e a chi noi sapesse insegna che, «spedita quella lettera, e fatto un giro per la città onde esplorare lo stato delle cose, si ridusse all'Ambasciata sarda, all'integro e lealissimo Ministro sardo BonCompagni chiedendo che non fosse per mancare l'appoggio delle armi del magnanimo Re di Sardegna, onde l'ordine interno non potesse mai per qualunque contingenza turbarai.» E fu proprio lui, il Ridolfi, che al Corsini, tornato alla Legazione sarda coll'adesione del Granduca, disse che ci voleva la garanzia dell'abdicazione.

COLPO DI MANO A FIRENZE. 55

che in quelle strette avrehbe dovuto rattenere alquanto la corsa sbrigliata, era avvenuto all'ultimo istante ciò che doveva avvenire: la viltà e l'incapacità si confusero col tradì mento. Altri, come Cosimo Ridolfi, fatto divorzio da qualdivoglia residuo di apparente pudore, serbato a quel modo che la prostituta finge talvolta per artificio di mestiere verecondia sino al momento che più le sembra opportuno, avevano strappato del tutto poco prima la maschera. Altri che volendo condurre il paese a lor guisa, credendo guidare mentr'eran guidati, quando s'avvidero che la corrente li travolgeva ne' gorghi, era troppo tardi per impedire che i più audaci e più destri giungessero a grado loro alla meta. I pochi desiosi d'ordinamenti costituzionali, sinceramente devoti a Casa di Lorena, in buona fede impigliatisi nella pania senza potere o sapere misurare d'un guardo distanza e pericolo, divenuti padroni assoluti del campo gli uomini di Cavour e della sua Società Nazionale, dovevano ora subire la legge dal più forte e dal più astuto, più forte rimpetto a loro, quantunque debolissima minoranza rimpetto alla nazione.

All'annunzio dell'imminente partenza della Corte, propalatasi in un baleno, era poco più di un'ora del pomeriggio, costernazione profonda s'impadroniva di tutte classi della popolazione. BonCompagni e la congrega direttrice temendo che gli abitanti della campagna, i quali avevano sempre venerato Leopoldo II. come un padre, accorressero per impedire si allontanasse, il popolo si riavesse dallo stupore, e le truppe facessero causa comune con essi, deliberavano di porre senza indugio in opra ogni mezzo per affrettarne la partenza ed isolarlo intanto quanto più fosse dato. Popolo e truppe, infatti, erano vittime d'iniquissimo inganno. La riunione in piazza Barbano non mai aveva alzato altre grida da quelle in fuori: Viva la guerra! Viva l'indipendenza d'Italia! Viva Vittorio Emanuele, capitano della Lega italiana! Popolo e truppe gridarono: Viva la guerra! Viva l'indipendenza! quando il Granduca ebbe fatte conoscere al marchese di Lajatico le sue concessioni. Popolo e truppe proruppero in fragorosi applausi allorché Leopoldo II. ebbe data facoltà d'innalzare la bandiera tricolore. Né allora, né poi, non fu mandato un grido, un grido solo, contro il sovrano. Nessuno gridò: Viva l'abdicazione!; e gli emissarii e gli agenti del Piemonte ben si guardarono dal

56 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

dirlo, che popolo e truppa non avrebbero tenuto lor dietro. Era sottinteso che Leopoldo II. dovesse rimanere sul trono. Tranne i caporani della congrega del BonCompagni e alcuni pochi uffiziali, cittadini e truppe non seppero nulla dell'abdicazione richiestagli in tuono di comando; dal che la stupefazione di quanti, conoscendo solo in confuso ed in parte gli avvenimenti della giornata, non si sapeano render ragione come avvenisse che il sovrano colla famiglia s'inducesse a partire. Impertanto BonCompagni e i consorti provvidero a che fosse al Granduca reso impossibile l'uso del telegrafo elettrico, affinché non potesse dare alcun ordine alle autorità delle provincie, rimaste così alla mercé dei mestatori. Leopoldo II. tenuto in guardia in Palazzo Pitti (1), avendo scritto un proclama in cui dichiarava alle popolazioni i motivi pe' quali vedeasi costretto ad abbandonare la Toscana, già era questo composto nella Stamperìa granducale, quando fidati agenti del BonCompagni (2) invadevano la tipografia, disfacevano il fatto, sperdevano i caratteri, laceravano il manoscritto, severamente ingiungendo agli stampatori di ben guardarsi dall'imprimere cosa alcuna che venisse da parte del Granduca.

«Corse la voce allora,» scrisse l'ostilissimo Demo (3), «e fu poi ripetuta persino in documenti ufficiali (4), che l'Arciduca

(1)

Alle ore otto e mezzo del mattino del 27 la famiglia granducale riparava nel Forte di Belvedere, accompagnata dall'Arciduca Carlo, secondogenito, il quale in nome di Leopoldo IL, rimasto in Palazzo Pitti col principe ereditario, disse agli uffiziali ch'essa era confidata al loro attaccamento. Da quel momento sino all'istante in cui la famiglia si ricongiunse per la partenza, e a' Pitti e al Belvedere i principi si ritrovarono guardatia vista, in condizione che equivaleva nella realtà a prigionia. Quantunque il Forte del Belvedere, posto sopra l'altura di San Giorgio, e Palazzo Pittistieno a brevissima distanza tra loro, divisi solo dalla minore larghezza delBeale Giardino di Boboli, il Granduca ed il resto della famiglia non poterono nel frattempo comunicare in niun modo. 11 Ministro Landucci, inviato da' Pitti in Belvedere per parlare con le persone Reali, dovette ritornarsene senza aver potuto riescirvi, scortato fino a Pitti da quel Tenente Dario Angiolini, che in Belvedere dichiarò prima d'ogni altro voler venir meno alla fede giurata.

(2)

Il Rubieri (Storta intima della Toscana, pag. 99) si vanta di aver compiuto egli stesso opera sì meritoria.

(3)Biografia di Leopoldo IL, pag. 139140.

(4)

Nel Memorandum relativo ai fatti del 27 aprile in Firenze, inviato

COLPO DI MANO A FIRENZE. 57

» Carlo, raddottosi nella Fortezza di Belvedere, desse ordine che si preparassero bombe e cannoni contro la ribelle città, e che egli trovasse tetragona resistenza nella ufficialità colà presente. Il racconto non è esatto. L'Arciduca secondogenito domandò soltanto quanta munizione si trovasse in Fortezza. La questione tradisce forse l'intenzione, ma dell'intenzione non può farsi interprete la persuasione altrui. D'altronde l'Arciduca, col grado militare ch'egli copriva,

dal Governo Provvisorio toscano alle Corti d'Europa il 2 maggio 1859, firmato Peruzzi-Malenchini-Danzini (Atti e Documenti del Governo della Toscana, Parte L, pag. 48), leggesi: «E qui cade in acconcio di narrare un fatto intorno al quale, per quella moderazione di cui ci siam fatti una legge, non ci diffonderemo lungamente, ma che l'Europa civile apprezzerà, giudicando da qual parte sia stata la temperanza, da quale la improntitudine, o almeno il desiderio impotente delle medesime. Esisteva nel Forte di San Giorgio, detto comunemente di Belvedere, una Circolare segreta, sigillata, inviata dal Generale a tutti i Comandi dall'agosto dell'anno decorso. Alle 8 e mezzo antimeridiane del 27 aprile l'Arciduca Carlo si recava nel Forte suddetto, convocava gli ufficiali e comunicava loro di esser latore di una lettera del generale Ferrari con la quale ordinava l'apertura della Circolare. Il piego fu aperto, e fu trovato che racchiudeva le istruzioni preliminari per un attacco contro la città. Queste istruzioni furono completate a viva voce dall'Arciduca Carlo. A tali parole il Comandante del Forte con rispettosa fermezza replicò dichiarando all'Arciduca che, mentre egli ed i suoi compagni avrebbero senza esitazione esposto la loro vita per tutelare la sicurezza di lui e di tutta la famiglia Reale, si rifiutavano però con ribrezzo al pensiero d'incrudelire contro i proprii concittadini. Mancata in tal modo ogni lusinga di repressione, Leopoldo II si determinò a chiamare il marchese di Lajatico.»

E oggidì l'Europa civile, giudicando da qual parte sia stata la temperanza, apprezza le goffe calunnie accumulate in quel documento. Menzogna che l'Arciduca Carlo recasse alle 8' e mezzo l'ordine in iscritto di aprire i plichi, ordine portato alle 11 a voce dal Poggiarelli, plichi dissuggellati in onta all'opposizione dell'Arciduca. Menzogna che i plichi contenessero istruzioni per un attacco contro la città, che né una parola di attacchi vi era, né una sillaba di bombardamento. Menzogna che l'Arciduca Carlo completasse a voce le istruzioni del generale Ferrari. Menzogna che il Granduca chiamasse il marchese di Lajatico dopo ch'ebbe notizia del fatto di Belvedere; che a Lajatico, per sua propria confessione (Storia di quattro ore), fu data notizia della chiamata alle 9, e l'ordine verbale di aprire il plico giunse al Mori, com'egli stesso confessa (Rapporto al generale Ulloa), alle 11. Come ingannarono i Fiorentini nel 27 aprile, gli uomini che sostennero sì abbietta parte nel turpe mercato della lor patria provavansi così ad ingannare l'Europa.

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» quello d'Ispettore generale d'artiglieria, doveva sapere meglio d'ogni altro gli approvvigionamenti della Fortezza.» La rettifica non è punto più esatta del racconto (1). Sino dall'agosto 1858 il generale Ferrari aveva trasmesso a tutti i Comandi dei Forti, Caserme, Corpi, Dicasteri e Stabilimenti militari del Granducato, pieghi che i singoli comandanti dovevano gelosamente custodire sigillati fino a che non si verificasse il caso d'un allarme, nel quale soltanto doveansi aprire. Venuta in Belvedere la famiglia granducale, verso le undici del 27 il sottotenente Poggiarelli portava al Maggiore Mori, comandante il Forte, «in nome del generale Ferrari l'ordine a voce di aprire il dispaccio riservato per caso di allarme, coll'ingiunzione ben calcata di non fare applicazione di sorta delle disposi noni in esso tracciate (2).» Riuniti gli ufficiali che in quel momento trovavansi nel Forte, presente l'Arciduca Carlo, questi opponevasi, dichiarando irregolare l'apertura del dispaccio, perché mancanti tutte le condizioni espressamente stabilite per procedere alla dissuggellazione, e le cui prescrizioni accompagnavano i plichi sino dal momento in cui essi furono consegnati. Il Maggiore Mori insistendo per dare effetto all'ordine verbale ricevuto, lasciata dall'Arciduca interamente a lui la responsabilità di quest'atto, il Mori, rotti i suggelli, diede lettura del contenuto (3). Allora il Tenente Dario Angiolini, comandante le artiglierie di Belvedere in quel dì, fattosi innanzi, dichiaravasi, assenzienti al suo avviso alcuni altri pochi ufficiali, contro l'esecuzione degli ordini uditi leggere, affermandoli inapplicabili. Innalzata poco appresso nel Forte la bandiera tricolore, quando più tardi il Granduca col principe ereditario ed il generale Ferrari giunse da' Pitti in Belvedere, i quattro capitani del battaglione Veliti si presentano all'Arciduca Carlo, chiedendo in nome del loro onore di abbattere la bandiera inalberata, protestandosi pronti ad eseguire ciò ad ogni

(1)

Come, sia detto per incidenza, non lo sono le pretese rettifiche dello Zobi e di altri.

(2)

Rapporto del Maggiore Mori al tenente generale comandante in capo l'esercito toscano, G. Ulloa, da Pietramala, 5 maggio 1859, stampato dallo Zobi (Cronaca, Vol. I., pag. 406407).

(3)

Eziandio codeste disposizioni dissuggellate e lette dal Mori furono pubblicate dallo Zobi (Cronaca, Vol. I., pag. 397-403).

COLPO DI MANO A FIRENZE. 59

costo; cui l'Arciduca, sentiti gli ordini del padre, rispondeva: Essere ormai inutile.

Intanto, tornato il BonCompagni al palazzo della Legazione sarda e spedito ordine a suoi, rimasti assembrati sulla piazza di Barbano, che di colà muovessero colle bandiere a percorrere la città per contrapporre le alte grida allo smarrimento della grande maggioranza degli abitanti, la turba recavasi al palazzo della Legazione francese, mandando viva alla Francia, a Napoleone III., al suo rappresentante in Toscana. Che il marchese de Ferrière-LeVaver quegli applausi avesse nella realtà ben meritati, non sembra oggidì più dubbioso. In particolare la lettera che l'avvocato Leopoldo Galeotti scrisse al cavaliere Augusto Duchoqué nel 26 aprile, fatta passare sotto gli occhi del Granduca, prova la perfetta corrispondenza che correva fra i due Ministri di Francia e Sardegna. In essa lettera il Galeotti dichiarava di avere ricevuto incarico da BonCompagni e dall'Inviato francese «di rendere in qualche modo consapevole il Governo toscano, che se avesse congedato il Landucci dal Ministero dell'Interno, il generale Ferrari Da Grado dal Comando delle truppe, ed aperte subito trattative d'alleanza con le due Legazioni, i rispettivi Legati avrebbero speso ogni loro influenza acciocché il Governo medesimo acquistasse il tempo necessario alle pii gravi risoluzioni» (1); ciò che equivaleva a dire: se non le aprite subito, non sarà lasciato al Governo il tempo necessario a risolvere. È fatto poi notorio che in que' giorni le conferenze fra il BonCompagni e il Ministro di Francia si succedettero con tale frequenza da lasciar credere si occupassero invece davvero intorno a qualche cosa di più che un semplice progetto di alleanza per la Toscana. Quando la processione de' schiamazzatori si fermò sotto le finestre della Legazione di Sardegna, BonCompagni annunzio dal verone la partenza del Granduca; al Re Vittorio Emanuele essere a cuore le sorti della Toscana; provvederebbe alla quiete pubblica ed alle esigenze della guerra, senza volere preoccupare le sorti definitive del paese. Quella che il Piemonte andava a combattere non essere guerra d'ambizione. Rammentassero che l'acquisto dell'indipendenza

(1) Zobi; Cronaca degli avvenimenti d'Italia nel 1859, Vol. I., pag. 116.

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e della libertà esige grandi sacrifizii, grandi virtù, grande obbedienza.

Poche ore appresso, verso le 7 di sera, il Granduca, raggiunti col principe ereditario i suoi nel Forte di Belvedere, salito colla famiglia in carrozza, pel giardino di Boboli usciva di Firenze, portando con sé nell'esilio la coscienza di aver beneficato molti e fatto male a nessuno, sprovveduto di tutto, insino di vestiario, fuor quel poco che aveva indosso (1), in mezzo alla popolazione costernata e stupefatta, tra le lagrime di non pochi che non aveano potuto peranco conoscere a qual sozzo giuoco si avesse giuocato in quel dì. Avviato a Bologna, accompagnato fino a Vaglia dagli ufficiali di Stato Maggiore e dai Segretarii delle Legazioni straniere residenti in Firenze, Leopoldo li. si vedeva seguito da una carrozza di vettura, entrovi persona fida del BonCompagni, col pretesto di sconsigliare qualunque offesa ai viaggiatori, al che niuno pensava, ma nel vero per accertarsi della strada che avrebbero tenuta (2). Il Granduca non aveva peranco abbandonato Firenze, che già il BonCompagni la trinciava da sovrano, dettando, per mezzo del suo Rubieri, la legge al Municipio: eleggessero senza indugio un Governo provvisorio, composto dei tre che indicava (3). E stava ancora il Granduca in Firenze,

(1)

Guardata a vista la famiglia Reale a' Pitti e nel Forte di Belvedere, neppure Ai loro dato di pigliar seco biancherie sufficienti, a tal che per cambiarsi di camicia i principi dovettero procurarsene a Bologna:

(2)

E. Rubieri; Storia intima della Toscana, pag. 104.

(3)

II Rubieri (Storia intima, pag. 387) pubblicò la lettera del BonCompagni al Municipio, documento che ben vale la pena dì riportare. Eccolo:

«Il sottoscritto, riconoscendo l'urgenza di provvedere al mantenimento dell'ordine interno nella dolorosa circostanza della partenza di S. A. R. il Granduca, si volge alle Signorie Loro Illustrissime, esortandole a nominare un Governo provvisorio, che potrebbe in questo momento essere con molta opportunità composto dei signori cavaliere Ubaldino Peruzzi, avvocato Vincenzo Malenchini e Maggior Danzini.

» Il Sig. Ermolao Rubieri, latore della presente, potrà offrir loro tutti gli schiarimenti desiderabili intorno alla necessità di non interporre indugi, che potrebbero riuscir dannosi per più riguardi. Mi pregio segnarmi col maggiore ossequio

» Delle Signorie Loro Illustrissime

» Li 27 aprile

» C. BonCompagni.»

Nella dolorosa circostanza della partenza del Granduca! Oh l'istrione!

COLPO DI MANO A FIRENZE. 61

che la civica magistratura s'era adunata, assente il Gonfaloniere, fra i rumori della marmaglia fatta venire dal Rubieri attorno al palazzo del Municipio con gli stiletti; nove de suoi membri, a sei ore (1), invano opponenti altri in quell'adunanza (2), eransi trovati d'accordo in eleggere i tre voluti dal BonCompagni, il Peruzzi, il Malenchini, il Danzini (3), un patrizio cospiratore, un legale senza legge, un soldato traditore (4). Ve' miracolo! In mezz'ora gli eletti Triumviri avevano accettato l'incarico, persino il Danzini che si era allontanato da Firenze per accompagnare il Granduca; aveano composto un proclama con cui rivolgevansi al popolo; lo avevano mandato alla stamperia, e fattolo tirare in quel novero di copie che credevano necessarie, ed affiggere alle cantonate! «All'ora medesima tutte le casse pubbliche erano vuote, senza che una lira sia entrata nel Tesoro piemontese. Quelli che non poterono prender parte al saccheggio s'installarono chi alle Poste, chi ai Ministeri (5).»

U 28 giunse in Firenze l'Ulloa coll'incarico del Governo piemontese di pigliare il comando dell'esercito toscano, nel quale erano gli animi grandemente commossi e concitati. Tranne pochi uffiziali e piccol numero d'altri, i soldati avevano sinceramente creduto che quanto loro era stato detto fosse la schietta verità, né nulla più nella realtà si volesse che spingere il Granduca ad accordare

(1)

La Deliberazione del Municipio relativa all'elezione del Governo provvisorio fu data «a ore sei pomeridiane.» Lo Zobi (Cronaca del 1859, Vol. I., pag. 163164), stampandola col proverbiale acume, sbugiarda e Municipio e Governo che aveano proclamato all'Europa: essere elezione avvenuta dopo la partenza del Granduca.

(2)

Lo stesso Rubieri (Storia intima, pag. 102) narra che il Municipio tentava schermirsi dalle insistenze di lui.

(3)

Peruzzi, dice il Rubieri (Storia intima, pag. 99100), rappresentava gli aristocratici; Malenchini i Nazionali ed i democratici, «ed anco a» soddisfare il Governo piemontese, delle cui istruzioni era investito.» Danzini rappresentava i soldati.

(4)

«La sera del 25 aprile il Maggiore Danzini era al Palazzo Pitti» presso l'Arciduca Carlo, che, congedandolo, gli dava alcuni sigari; ed» esso gli baciava la mano, assicurandolo della sua fedeltà.» (Casi della Toscana, pag. 37).

(5) La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d'Italia, % III. - A questo punto Curletti aggiunge: «Io ricevei, per parte mia, dalle mani stesse di BonCompagni una gratificazione di seimila franchi.»

62 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

la bandiera tricolore e romperla decisamente coll'Austria; ed ora deploravano d'essersi lasciati giuntare e d'avere, senza punto essi volerlo e saperlo, cooperato a far sì che il principe fosse costretto a prendere la via dell'esilio. Svanita la sorpresa del primo momento, dissipati i fumi dei cervelli anche più fuorviati, se ci avessero chiesto, dicevano, l'abdicazione di Leopoldo, avremmo risposto francamente di no; se ci avessero chiesto di rinunziare a' nostri Granduchi, avremmo risposto, al bisogno, da soldati. Rapidamente svaporato l'effetto de' Francescani, de' vini e de' sigari a macca, all'inganno svelato tenevano or dietro parole di aperto rimpianto. Pelle quali disposizioni degli animi assai impensieriti il BonCompagni e i consorti, i tre del Governo provvisorio commettevano all'Ulloa, che, appunto appena arrivato al comando, ordinasse senza indugio alle truppe di partire nella mattina del 29 da Firenze, e si avviassero alla frontiera del Bolognese, sotto pretesto di sorvegliare i movimenti degli Austriaci, ma nel vero, più che altro, per allontanare il pericolo ch'esse potessero per avventura volgersi d'improvviso ad esigere il ritorno dei Lorena.

La condotta del presidio di Livorno nel 27 aprile aveva posto in evidenza che se un colpo di sorpresa era riescito a buon fine nella capitale, lo spirito delle truppe non era punto guasto nelle provincie. A Livorno stava Governatore il marchese Luigi Bargagli, comandante superiore militare il colonnello Ripper, comandante la Brigata, sotto la dipendenza del Ripper, il colonnello Razzetti. Nel mattino del 27 mia frotta di gente, mossa ad istigazione del Comitato, si dava a percorrere alcune delle principali contrade, domandando ad alta voce la bandiera tricolore. Bargagli, interrogato, risponde essere senz'ordini; mentre i capi militari tenevano consegnate nelle caserme le truppe, risolute a reprimere qualunque tentativo di rivolta colla stessa energia di cui i soldati toscani avevano dato prova nella medesima Livorno il 30 giugno 1857. Gli artiglieri, comandati da un Maggiore Francesco Coccolini, stavano ai pezzi in Fortezza vecchia, pronti a far fuoco. Vista codesta attitudine, i mestatori non più osarono fiatare. Molto popolo, tratto da curiosità, erasi raccolto in silenzio sulla Piazza d'arme; quando intorno al mezzogiorno corse voce che il Granduca avesse già accordato il vessillo tricolore in Firenze.

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Si ripete la domanda al Governatore. Bargagli ricerca per telegrafo a Firenze se è vero, «come deve regolarsi; nessuna risposta. Torna a telegrafare; eguale silenzio, che i capi del movimento eransi impadroniti dell'Uffizio telegrafico a Firenze. Allora Bargagli ordina alla Strada ferrata che si allestisca un convoglio espresso, e spedisce alla capitale il Maggiore comandante la Gendarmeria di Livorno. Questi giunge al momento stesso che il Granduca si allontanava, e riporta a Livorno la notizia esservi un Governo provvisorio in sua vece. Bargagli domanda al colonnello Bazzetti (1) se fosse ancor tempo di avviarsi colle truppe, rimaste tutte fedeli, a Firenze, onde ristabilirvi il Granduca. Alla sua risposta: Ora è troppo tardi, Bargagli manda un sergente de veterani ad innalzare la bandiera tricolore sul terrazzo della sua abitazione.

Proclamata i Triumviri la loro autorità con annunziare che «il Granduca, anziché soddisfare ai giusti desiderii manifestati» dal paese, lo aveva abbandonato a sé stesso,» altra solenne menzogna, perocché all'opposto, se desiderii del paese erano, come dicevano, che rimettesse in vigore lo Statuto costituzionale e si accostasse del tutto a Sardegna e Francia, il Granduca erasi senza restrizioni dichiarato pronto a soddisfarli; avvertito che «avevano assunto l'incarico per il solo tempo necessario perché» Re Vittorio Emanuele provveda tosto, e durante il tempo della guerra

(1) Per torsi da piedi il colonnello Ripper, uom fermo, stimato e te muto ad un tempo dalle truppe, il Comitato ideò uno stratagemma. Sparsero voce per Livorno che Ripper avesse fatto vestire alla borghese un certo numero di soldati armati di pistole a rivoltella, i quali, allorché la truppa si fosse recata in Piazza d'armi per disciogliere l'assembramento popolare, avrebbero fatto fuoco sulla truppa onde dare a credere a questa di essere stata assalita dal popolo. Tal voce, se trovò molti increduli, altri accolsero per vera; sicché parve che l'indegnazione de' Livornesi volgesse quasi a minacciarne la vita. Avvertito, nullameno continuò impavido a percorrere quelle vie della città nelle quali lo portava l'esercizio delle sue mansioni; ma quando, incirca ad un'ora pomeridiana, si sparse la notizia che il Granduca aveva accordata la Costituzione, la dimostrazione contro il Ripper assunse tale gravita che il Governatore e gli Ufficiali Superiori stimarono più prudente consiglio di persuaderlo non lasciarsi vedere per le strade. Più tardi gran frotta di popolo essendosi recata a cercarlo alla sua abitazione, sulla risposta avutane ch'era già partito, quotarono e si disciolsero. Partito in vero non era, e se ne andò, non molestato, nella notte.

64 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

» a reggere la Toscana in modo che essa concorra al ri» scatto nazionale»; il giorno appresso, 28 aprile, allargati gli intendimenti, avevano offerto al Re, finché durasse la guerra, la dittatura della Toscana, la quale, dicevano, conserverebbe in questo periodo transitorio la propria autonomia ed un'amministrazione indipendente da quella della Sardegna, mentre Passetto suo definitivo sarebbesi indugiato a guerra finita, e quando fosse venuto il tempo di procedere all'ordinamento generale d'Italia. Così tre toscani designati da un Ministro piemontese, eletti, in assenza del Gonfaloniere reluttante (1), da una terza parte d'una Comunità sola, fra le duecentocinquanta che componevano tutta la Toscana; tre cospiratori, appena venuti in modo sì ambiguo al Governo, con una gherminella di nuovo genere ed inaudito abuso di potere, si arrogavano tanto di autorità da offerire la suprema potestà a un Governo di fuori, senza interrogare la volontà del popolo, senza consultare almeno gli uomini più cospicui e spassionati del paese, senza che nemmeno quella terza parte di quell'unica Comunità, che li avea posti in seggio, avesse parlato di dittatura.

Il 30 Cavour rispondeva: ragioni di alta convenienza politica non permettere al Re di Sardegna di accettare nella forma proposta la dittatura profferta; assumere però il comando delle truppe e la protezione del Governo toscano, delegando a quest'uopo i necessarii poteri al BonCompagni, Ministro plenipotenziario, «il quale aggiungerà al suo titolo quello di Commissario straordinario del Me per la guerra dell'indipendenza (2).» Per non cozzare di soverchio, tutto d'un tratto, con i patti di Plombières, Cavour avea stimato prudente che Re Vittorio Emanuele accettasse intanto a metà, lasciata al BonCompagni, l'uomo senza scrupoli, la cura di accomodare le cose con impadronirsi grado a grado del governo della Toscana. E in quattro giorni il BonCompagni infatti accomodava il tutto per bene. Accettata, colla duplice qualità

(1)

Per non aver voluto cooperare alla nomina dei Triumviri il Gonfaloniere di Firenze, marchese Odoardo Dufour-Berthe, lo stesso giorno 28 fu tolto d'ufficio per decreto del Governo provvisorio. Dimisero poi quelli di Siena, Orbetello, Pitigliano, Viareggio, Pisa, e altri molti, dichiarati pericolosi perché incaparbiti e perfidiosi nella loro fedeltà verso il Granduca.

(2) Atti e Documenti del Gov. della Tose, Parte 1., pag. 36.

COLPO DI MANO A FIRENZE 65

di Ministro plenipotenziario e Commissario in Toscana, quanto niun altro uomo non avrebbe certamente accettato, questo strano accozzo di poteri che lo ponevano in contraddizione e con sé e con gli altri, e lo appalesavano spudoratamente l'anima della rivoluzione di Firenze, BonCompagni, comunicando ufficialmente il 4 di maggio a' Triumviri (1) la risposta di Cavour del 30 aprile e la sua nomina a Commissario per la guerra dell'indipendenza, trattenne nella penna quest'ultime parole, che limitavano i suoi poteri alle sole cose guerresche, e s'intitolò addirittura Commissario straordinario, per tal guisa ponendosi al disopra degli ordini del suo Re medesimo. Poi, fatta intavolare destramente da' Triumviri una corrispondenza epistolare sotto pretesto di esplicare le attribuzioni rispettive del Governo provvisorio toscano e del Commissario sardo (), schiuse la "via a dichiarare nel dì 9 maggio, ch'egli BonCompagni «eserciterà» tutte le incumbenze appartenenti al capo dello Stato;» con che rendeva evidente che se Vittorio Emanuele per sue ragioni non aveva accettato nella forma proposta la dittatura profferta, ben ne aveva accettata la sostanza.

In tredici giorni di dominio i Triumviri rimescolano ogni cosa. Nato per morir subito, nullameno non vi fu governo più del loro in leggi fecondo. Non ramo di pubblica amministrazione potè campare da sì grande sapienza riformatrice, né studii, né codici, e questo in paese dove la legislazione era di tale bontà che Cavour medesimo, dopoché Toscana fu definitivamente annessa al Piemonte, non si attentò ad applicare le leggi sarde. Ordinarono perfino ai preti che nella Messa fosse inserita la colletta in tempore belli, e a' Vescovi ingiunsero «di non permettere che si celebrasse alcuna insolita funzione nelle loro chiese senz'averne prima deliberato coll'autorità governativa.» Nell'esercito le promozioni piovvero a rovescio; Maggiori a decine, capitani a ventine, Tenenti a cinquantine, sottotenenti a josa, si che poté dirsi la mite Toscana parer diventata la Laconia ai tempi della guerra del Peloponneso.

L'11 maggio truppe sarde entrarono a Firenze.

(1) Atti e Poc. del Gov. Toscano, Parte L, pag. 35.

(2) Atti e Doc. del 0ov. Toscano, Parte I., pag. 7172, 7375.

66 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

Cessato in quel di il Governo provvisorio, BonCompagni assunse svelatamente il potere, e le più turpi fellonie coglievano i primi guiderdoni condegni. Bettino Ricasoli era alfine Ministro; Ministri erano Cosimo Ridolfi, Malenchini, Poggi, ed alle Finanze Raffaello Busacca, siciliano, per i quattrini, a confessione universale, fortissimo (1); Celestino Bianchi, il traforello famoso, segretario generale del BonCompagni; Gino Capponi presidente e Leopoldo Galeotti segretario di una Consulta di Governo, instituita a fungere le veci di rappresentanza nazionale, ed in cui fu cacciato il Rubieri (2) con la quintessenza dei cospiratori, «più due o tre persone stimabili per meglio colorire la cosa (3).» Ordinato dal BonCompagni, perché meglio traspirassero sino d'allora gl'intendimenti segreti, che il Governo smettesse l'appellativo di 'provvisorio e s'intitolasse addirittura Governo della Toscana (4), la Toscana non esisteva più che di nome; di fatto, ornai essa non era che una semplice fattoria del Piemonte.

Gli eventi di Firenze costituiscono una pagina di storia, arida come un processo verbale, lorda di tanto obbrobrio quale presso verun popolo non mai forse se ne avrebbe trovato altro esempio. Un Ministro di Potenza straniera, che si diceva amica, il Ministro di un Re nipote del sovrano presso cui è accreditato (5),

(1)

Lo chiamavano IL bue insacca.

(2)

Parecchi ambiziosi rimasero altamente sdegnati del vedere affidati tre Ministeri a mani diverse dalle loro, e sopra tutti querelavansi Ermolao Rubieri, Galeotti, Salvagnoli. Quest'ultimo, cui infatti si aveva positivamente promessa la direzione de' Culti, quando vide che i maneggi di Ridolfi per non averselo a collega aveano avuto sopravvento, s'indispettì a segno che corse difilato a Torino, a persuadere Cavour che per il governo dei preti, ossia per far disperare i preti, com'egli stesso diceva, non potevasi trovare meglio di lui. Da Torino si recò in Alessandria, a visitarvi l'Imperatore Napoleone, col quale ebbe lunghissime conferenze. Tornato a Firenze nel tempo stesso che Cavour scriveva a BonCompagni: essere desiderio dell'Imperatore de' Francesi e suo volere che il Salvagnoli fosse chiamato al Ministero degli affari ecclesiastici, dovettero chinare il capo. Ad Errico Poggi, Ministro di Grazia e Giustizia, BonCompagni tolse il portafoglio de' culti assegnato con Decreto del 29 maggio a Salvagnoli.

(3) Casi della Toscana, pag. 97.

(4) Atti e Doc. del Gov. Toscano, Parte I., pag. 90.

(5)

La madre di Vittorio Emanuele di Sardegna fu Maria Teresa, figlia di Ferdinando III Granduca di Toscana e sorella di Leopoldo II.

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accozza intorno a sé, ali ombra della inviolabilità diplomatica, qualche decina di malcontenti, ambiziosi mal paghi o settarii per tutta la vita, e fra codesti taluno persino apostata della religione in cui nacque; un Ministro che per mesi e mesi prepara, ordisce, trama, getta oro a piene mani, corrompe magistrati, compra uffìciali, froda soldati, e un bel dì con un colpo di mano, condotto a bene mercé l'astuzia e l'inganno, intima al sovrano che deponga la sua corona, come l'assassino da strada domanda colla pistola al viso al viandante che dimetta la borsa, per poi, rubatogli lo Stato, sostituire sé medesimo a lui, assidersi sulla sua sedia stessa; tutto questo, per l'onore dell'umanità, non trova nelle sì varie e fortunose vicende della italiana penisola nulla che vi assomigli. Il nome di Carlo BonCompagni, questo grande promotore e direttore (1) della ignominiosa rappresentazione, come ben disse un suo collega a Firenze, rimane raccomandato alla gogna fra quello de' più gran scellerati, oggetto di supremo disprezzo pegli onesti contemporanei d'ogni partito, onta e vitupero nella memoria de' posteri.

Dopo la Toscana doveva toccare la volta ai Ducati di Modena e di Parma. Eppure negli Stati Estensi, piccolo territorio di seicentomila abitanti, ben duro era l'osso che aveano a rodere. Amatissimo da' sudditi, già dicemmo, il Duca, uomo ancor giovane, pieno di energia e di coraggio, apertissimo nel reggere ed amministrare lo Stato, d'una rara rettitudine nel giudicare uomini e cose. Fedeli le truppe, lealissimi gli ufficiali, a prova di bomba la devozione dei capi, e in cima ad ognuno nel supremo comando delle cose militari un generale, Agostino Saccozzi, vecchio robusto, amato esso medesimo dai soldati che soleano abitualmente chiamarlo il nostro papa (2), ottimo cuore, ma risoluto a tutto pel suo principe. In tali circostanze nulla potendosi

(1) «Great leader and direetor.» Further correspondence respecting thè affairs qf Itaiv, presented to both houses of Parliament bv command of her Majestv, 1859, pag. 12. - Sir Scartati, Ministro inglese presso le Corti di Toscana, Moderna e Parma, testimonio oculare dei fatti di Firenze, in una serie di dispacci ufficiali indirizzati al suo Governo, e pubblicati da questo per essere presentati alle Camere, sino d'allora denunziò, prima d'ogni altro, con franchezza affatto britannica le obbrobriose macchinazioni del BonCompagni.

(2) Cinquantadue mesi d'esilio delle truppe estensi, pajr. 45.

68 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

tentare a Modella, ove, comparativamente ad altre città più importanti degli Stati centrali d'Italia, la Società Nazionale di Cavour aveva raggranellato il minor numero di proseliti (), non restava che convergere ogni sforzo a quella parte dello Stato che pella sua postura, per la distanza dalla capitale come per la contiguità al territorio sardo, lasciava probabilità di riuscita.

Allo scoppiare della guerra sul Ticino, l'agglomerazione di bande armate sul confine di Sarzana, dove ripetutamente provavansi d'invadere l'Oltrappenino estense, la possibilità che da un momento all'altro avvenissero sbarchi di truppe lungo le coste del Mediterraneo, o dal Sarzanese o dalla ormai sarda Toscana avanzassero corpi franchi organizzati, ì quali avrebbero resa difficilissima la ritirata delle poche milizie stanziate a Massa e Carrara, inducevano il Duca di Modena ad ordinare che quelle milizie si concentrassero nel 28 aprile a Fivizzano, trasferitavi la sede del Governo provinciale (1)

(1)

Sicché solea dirsi che a Modena non aveano potuto trovare neanche quattro cani per formare un Comitato.

(2)

Narra lo Zobi (Cronaca del 1859, Vol. I., pag. 222-323): «Il Maggìor Messori, comandante a Massa, ufficiale devoto si al Duca, ma non tanto da dimenticare per esso i doveri dell'umanità e della giustizia, tralasciò di eseguire un suo atrocissimo precetto, cioè di far saltare in aria il castello per seppellire la città fra le sue rovine. A tal effetto, In un sito appartato e sotterraneo del castello medesimo, era stata da lunga mano ammassata e preparata considerabile quantità di polvere, e 400 metri di miccia stavano là apparecchiati per incendiarla senza pericolo dell'esecutore. Però il Messori arrivato a Fivizzano fu degradato per sentenza di apposito Consiglio di guerra, e l'ebbe buona se ne uscì illeso della vita. Dall'altra parte l'umanità e la storia debbono professargli riconoscenza, per aver cosi risparmiato un feroce eccidio, un barbaro conato. Questo disegno del Duca su Massa collima appuntino con quello del Granduca a Firenze, ed entrambi perfettamente combinano col piano politico-militare adottato dal Gabinetto di Vienna. La qual cosa dovrebbe ornai fare ravvedere la frazione degl'Italiani parteggianti per la Casa di Àusburgo. Tal frazione non è numerosa, ma meglio sarebbe che non vi fosse; perché fratelli, Dio gl'illumini innanzi che spunti il giorno della vendetta.»La storiella, egualmente avversata da' fatti, dalla topografia, dal semplice buon senso, è scipita menzogna, e i commenti rivelano la forza d'argomentazione e di acume del narratore; storiella e commenti non inferiori alla fama dello Zobi, «il grottesco storico della setta, per trovare al quale un degno riscontro bisognerebbe scendere di molto ed abbassarsi fino all'avvocato Achille Gennarelli!» (Casi della Toscana, pag. 216).

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Le truppe estensi erano appena in cammino, che già un Giusti in Massa ed un Brizzolari in Carrara, accorsi da Sarzana (1), qualificandosi per Commissarii piemontesi, assumevano il Governo del paese in nome del Re di Sardegna, e distaccamenti di Carabinieri sardi sopravvenivano nelle due città a disposizione degli intrusi Commissarii. Il giorno appresso, 29, supponendosi forse che le truppe ritiratesi da Massa, e Carrara proseguissero il loro movimento retrogrado, una banda di più centinaia di armati, ve miti dal Sarzanese ed in buona parte rivestiti delle divise di Guardia Nazionale, fu sul meriggio a Fosdinovo e fece cantare un Tedeum. Il 30 una colonna di Estensi, guidati dal tenente-colonnello Casoni, muoveva da Fiviziano, raggiungeva oltre Tendola

Massa, piccola e graziosa città di poco più di quattromila abitanti, giace sul limite di amena pianura alle falde de' monti. Sopra alta e scoscesa roccia soprasta ad una estremità della città ed a qualche distanza il Forte, che a proiettare sulla città, col durissimo sasso su cui poggia, occorrerebbero mine di potenza sinoru ignota. E i 400 metri di miccia avrebbero bruciato le lunghissime ore senza che anima nata se ne accorgesse, per compiacere lo Zobi! Il Maggiore Messori, ad onta della riconoscenza decretatagli più tardi dal capo ameqo dello Zobi, seguì il Duca nell'esilio onorato, nell'esilio visse illeso della vita col suo grado di Maggiore, e vive a Mantova, non caduto in disgrazia del Duca, di cui non disobbedì Vatrocissimo precetto mai dato. E lo Zobi scriveva dopo che gli Austriaci, ritiratisine non molestati in niun luogo da' Franco-sardi, avevano abbandonate le città lombarde, tutte balzate in aria e ridotte mucchi di sassi, giusta il piano politicomilitare, adottato dal Gabinetto di Vienna! Ancorché la critica potesse a ragione rimproverare di mescolare talvolta piccole cose a grandi cose, affediddio eh'è impossibile non parlare talvolta di cose piccole tramezzo a cose maggiori, se la menzogna e la calunnia, le più potenti armi degli autori ed operatori de' recenti rivolgimenti italiani, non si fossero sì largamente usate, così nelle piccole come nelle grandi cose, in proporzioni di estensione e goffaggine piuttosto sconosciute che rare.

(1) Tutto affaccendato a provare la spontaneità delle dedizioni popolari ne' territorii usurpati dal Governo di Sardegna, Inacutissimo Zobi stampa (Cronaca del 1859, Vol. L, pag. 223224): «Celeri messaggi diedero avviso a Sarzana, ove risedeva un Comitato Nazionale pronto ad intervenire nell'emergenze delle limitrofe popolazioni, che Massa e Carrara venivano sgombrate dagli Estensi. Tosto si posero in via, l'avvocato Vincenzo Giusti e l'avvocato Enrico Brizzolari, rivestiti della qualità di Regi Commissarii in dette città. Sciolte le corporazioni municipali, perché composte di duchisti, ne sostituiron altre.»

70 CAPITOLO DECIMOSETTIMO.

la banda, la inseguiva sino alla Spolverina, ove disperdevasi precipitando nei burroni che sovrastanno ad Ortonovo e Nicola, ambi villaggi sardi. Gli Estensi non ebbero perdite, i Sardi, lasciati alcuni morti e feriti sul terreno, non più ricomparvero. Duecento della banda, che avevano occupato il castello di Fosdinovo dopoché il piccolo distaccamento ducale se n' era ritirato, all'appressarsi delle truppe del Casoni fuggirono, senza tirare un sol colpo, precipitosamente verso Sarzana, dove sparsero un allarme generale.

Intanto il Governo piemontese pubblicava (1): «Massa e Carrara, pronunziatesi spontaneamente e senza alcuna collisione, hanno proclamata la dittatura del Re Vittorio Emanuele. Essendo quelle popolazioni minacciate da una colonna di truppe estensi, il Governo, che si considera in istato di guerra col Duca di Modena, ha spedito delle forze militari per proteggerle.» Infatti un corpo di milizie sarde e toscane, poste sotto il comando del generale Ribotti, occupò i territorii usurpati. Quanto alla spontaneità dell'asserito pronunciamento, ad apprezzarla bastava il fatto, che mentre l'ufficiale Gazzetta piemontese annunziava: «Il Governo sardo ha nominato a Commissario straordinario delle città di Massa e Carrara l'avvocato V. Giusti, il quale, appena giunto in Massa, emanava un proclama,» questo proclama a stampa del Giusti, giunto in Massa nelle ore pomeridiane del 28, portava la data: Massa, 27 aprile 1859, e incominciava così: «Sono lieto di tornare tra voi in sì fausti momenti. Questi paesi liberi dal giogo estense acclamavano spontaneamente il Re prode, il Re Vittorio Emanuele.» L'ingenuo Commissario, accorrendo a Massa col rotolo de' suoi proclami sotto il braccio, aveva dimenticato che quel dì era il 28, e che nelle poche ore di quel dì fra la partenza degli Estensi e il suo arrivo, niuno aveva, spontaneamente o no, acclamato né un Re prode, né un Re vigliacco. Le cifre in tali occasioni hanno una logica irresistibile.

Nel tempo stesso che il 27 la Sardegna usurpava il Governo di territorii estensi, e teneva accreditato presso il Duca di Modena un Inviato straordinario e Ministro plenipotenziario, il giorno

(1) Terzo bollettino ufficiale della guerra, Torino, 30 aprile, sera; nella Gazzetta piemontese del 2 maggio 1859.

COLPO DI MANO A FIRENZE. 71

medesimo 27 il conte di Cavour partecipava da Torino al Governo Ducale la nomina del Minghetti a Segretario generale del Ministero degli affari esteri, aggiungendo che questi rimarrebbe autorizzato a firmare quindi innanzi ed in di lui assenza le corrispondenze; il 28 milizie regolari sarde occupavano Massa e Carrara, il 29 Minghetti nella nuova sua qualità trasmetteva al Governo di Modena certificati di consegne eseguite, siccome è di pratica tra gli Stati amici e che si sussidiano vicendevolmente in materia di giustizia; ed il 30, senza che nel frattempo fosse sopravvenuto da parte del Buca di Modena il minimo atto che potesse provocarlo, senza intimazione di guerra od altro atto da parte del Governo di Torino, questo proclamava uffizialmente considerarsi in istato di guerra con Francesco V., tre giorni dopo che il Governo di Re Vittorio Emanuele aveva consumate le azioni più ostili verso un vicino inoffensivo! Il Duca di Modena invitò il Governo sardo (1) a dichiarare se esso accettava o no la responsabilità della violazione ed usurpazione dei territorii estensi di Massa, Carrara e Montignoso, commessa da agenti e da truppe sarde. Da Torino fu risposto che sì; il Duca protestò.

Il dì 12 maggio un Corpofranco d'intorno a quattrocento uomini muoveva ad assalire Fosdinovo. Soli settanta soldati estensi lor mossero incontro, e respinsero sino a Castelpoggio. Da allora nessuno tornò più a molestare i ducali. Massa e Carrara rimasero in mano degli usurpatori. Il 18 di quello stesso mese il Go verno di Torino aggregò definitivamente quel territorio estense agli Stati sardi (1), inviatovi un Campi, Intendente della provincia di Chiavari, a prenderne formale possesso. Quel territorio era parte di quello che Napoleone III. aveva già concesso a Casa di Savoia in modo assoluto a Plombières, né per esso occorrevano le cerimonie e le circonlocuzioni che abbiamo vedute adoperarsi a Firenze. Per Massa e Carrara bastava dire: Questo ho rubato e mel tengo; e tanto pareva sufficiente ad onestare la prodezza del furto.

(1)

Dispaccio del conte Forni, Ministro estense degli affari esterni, al conte di Cavour, del 2 maggio 1859.

(2)

Proclama del conte Ponza di San Martino, Commissario straordinario sardo pel Genovesato, dato da Genova il dì 17 maggio; presso lo Zobi (Cronaca del 1859, Vol. I., pag. 423-424).

72

CAPITOLO DECIMOTTAVO.

Un rovescio a Parma.

Il Ministero della Reggente. - La scaltra supremazia; uno sciocca presontuoso; un finanziere onesto; fedeltà e debolezza. - Luisa di Borbone. - Pallavicino e le truppe. - Un Direttore di Polizia su due scanni. - La neutralità. - I Volontarii a Parma. - Tre capitani felloni. - Una Messa ed una rivista. - Quattro membri del Comitato, - II primo di maggio. - Il colonnello Da-Vico. - Indirizzo degli ufficiali. - Partenza della Duchessa. - Un'adunanza senza risultato. - I pulcini nella stoppa. - Una Giunta veramente provvisoria. - I novellissimi disobbediti. - Due prediche al deserto. - Lealtà, coraggio, senno. - La Giunta va in dileguo. - Pallavicino in Cittadella. - Restaurazione del Governo ducale. - Premurosissima sollecitudine d'un Segretario intimo. - Ritorno della Reggente. - Scoperta d'un nuovo metodo per trovar armi. - Tutto rientra nell'ordine, - Sir Scarlett.

A

Parma, morto il Duca Carlo III., la Duchessa Luisa, assunta la Reggenza durante la minorità del Duca Roberto I., aveva affidata Fa m mi Distrazione dello Stato ad un nuovo Ministero, composto del commendatore Enrico Salati pel dipartimento di Grazia e Giustizia; di Giuseppe Cattani per l'Interno; del marchese Giuseppe Pallavicino, ad un tempo eletto a Segretario intimo di Gabinetto, per gli affari esterni; di Antonio Lombardini per le Finanze. Poco appresso un giornale scherzoso caratterizzava già esattamente il grado d'influenza che ognuno di essi esercitava nel Ministero. Pallavicino, Lombardini e Salati, con grandi occhiali siccome di vista assai debole, camminavano l'uno dietro l'altro, poggiando ognuno la destra sulla spalla del precedente; e innanzi a tutti il Cattani, senza occhiali qual uno che vegga benissimo, guidatore di quei tre quasi ciechi.

Di pronto e svegliato ingegno, era infatti il Cattani anima e forza motrice del Ministero; e di codesta sua supremazia scaltramente usando o piuttosto abusando, seppe imprimere tale indir rizzo da conseguire che l'operato degli altri Ministri appieno col suo concordasse. Mentre «facilmente lusingava e prometteva quel che poi con suo grave discredito non manteneva (1),»

(1) Zobi; Cronaca degli avvenimenti 4'Italia nel 1850, Vol. II., pag.

UN ROVESCIO A PARMA. 73

punto scrupoloso nella scelta de' mezzi per quanto si riferisse a cose politiche, partigiano fanatico di tutto che fosse piemontese, non proteggendo se non individui del suo sentimento, e in ogni modo cercando fossero beneficati, colla melliflua facondia seduceva gli uni, trascinava gli altri, di tutti a suoi scopi servendosi. Mente assai limitata, altissimamente presumente di so, prepotente, prontissimo al promettere quanto al dimenticare il promesso, il marchese Pallavicino, facendo pompa co' liberali di sentimenti liberalissimi, e perciò «applaudito nel 1848 e 1849 (1),» era schiavo docilissimo della volontà del Cattani; e quotidianamente chiamato a trattare della somma degli affari dello Stato colla Reggente, abusava dell'ascendente morale che, natural conseguenza del suo ufficio di Segretario intimo di Gabinetto, aveva, consigliere più ascoltato, poco a poco acquisito sopra la Duchessa. Lombardini, Ministro di Finanza senza viste finanziarie, economista gretto e limitato, grande manipolatore di cifre, incapace di approfittare d'un centesimo per proprio conto, altri dicevano infarcito di liberalismo, quantunque nel vero né durante il tempo in cui stette al Ministero, né prima, non avesse mai professato opinioni liberali (1). Dotto in cose legali, quantunque di non grande levatura, il Salati, galantuomo a tutta prova, realmente affezionato alla legittima sovranità del Ducato, era stato conservato siccome innocuo nel posto di Ministro di Grazia e Giustizia, che avea coperto regnando il Duca Carlo III. Ma debole all'estremo, si lasciava in piena buonafede trascinare da taluno de' colleghi e de' suoi dipendenti a tutte quelle disposizioni che si desideravano 4a lui prese nell'interesse del loro partito.

Uno scrittore elegante ed elevato, animo onesto e lealissimo, incapace affatto d'ingannare deliberatamente il leggitore, ma malauguratamente attignente ogni sua migliore informazione ad un'unica fonte ed a fonte ben interessata, e per questo senza punto volerlo e saperlo apprezzatole di uomini e di cose non sempre giusto e imparziale, Enrico di Riancey (3), ritraggo Pallavicino,

(1)

E. de Riancey; Madame la Duchesse de Parme devant l'Europe, pag. 58.

(2)

Dal momento poi che il Piemonte minacciò l'ultima riscossa, non cessò di gridare contro gl'iniqui maneggi di Cavour, predicando agl'illusi che quest'uomo traeva la povera Italia a perdizione.

(3) Madame la Duchesse de Parme et les derniers événements, pag. 23.

74 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

Salati e Lombardini, «intelligenze elevate, nobili cuori, circondati dalla venerazione e dalla confidenza d'ognuno. La devozione, il talento, l'integrità!» Pure, come caddero, governarono senza stima e senza fiducia. Senza stima e senza fiducia degli uomini della legittimità e del diritto, che li vedeano, onnipotenti presso la Reggente, proporre e consigliare disposizioni né sempre dettate da imparziale giustizia, né sempre conformi a principii di rettitudine vera; dare all'Europa meravigliata lo spettacolo d'una politica, che non tenendo alcun calcolo di Trattati vigenti e d'interessi veri del paese per farsi tutta piemontese, nello stretto rigore del termine, scalzava le radici medesime del trono. Senza stima e senza fiducia degli uomini della rivoluzione, ai quali pareva non mai si facesse abbastanza, e il Ministero dissero «imisto d'astuzie gesuitiche e d'oltracotanze austromilitari,» ed il Pallavicino «cospiratore co' gesuiti e co' legittimisti, avente in devozione l'Austria, perché proteggeva gli uni e gli altri, inteso a tenere la Duchessa ferma in quella strada per compiacere alla Compagnia, a Vienna, a sé stesso (1);» e questo in paese ove la Compagnia non aveva alcuna influenza e non esisteva nemmeno; ove era divenuto sistema di governo non mai pretermettere cosa alcuna che potesse valere ad alienarsi l'Austria, a separarsi dall'Austria, ad osteggiare l'Austria; mentre fra i Ministri tutti il più avverso a Vienna era giusto quello stesso Pallavicino. Senza stima e senza fiducia di quanti alieni da passioni politiche, vedevano fra il buono innegabile di un reggimento che ambiva farsi dir liberale, l'assurdo governare di Ministri di assoluta ignoranza politica, quanto stranamente presumenti delle proprie loro vedute, fittisi in capo di rendersi più popolari che fra' suoi Camillo di Cavour.

In tutti gli avvenimenti compiutisi durante lo spazio di tempo in cui la Duchessa Luisa tenne il potere, è d'uopo tirare una linea di divisione ben netta fra il Ministero e la Reggente, qualunque pur fosse la parte diretta naturalmente serbata all'alta e sicura intelligenza della principessa, che sola seppe conquistare e serbare venerazione e confidenza, che uomini più esaltati di un partito cui nulla è sacro, né sesso, né virtù, né sventure, poterono bensì calunniare,

(1) Zobi; Cronaca degli avvenimenti d'Italia nel 1859, Vol. II., pag. 12.

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contaminare non mai. Figlia di Francia, discendente della prima stirpe Reale del mondo, di San Luigi, di Enrico IV., di Luigi XIV., Luisa di Borbone aveva sortito da natura doni meravigliosi, una rara elevatezza di mente, una rettitudine di spirito incomparabile, una energia di volontà ed una forza di perseveranza veramente virili, la pietà sincera, la franca benevolenza, la prontezza al perdono, la lealtà generosa che affronta il periglio, la devozione che non conosce se non il dovere. Educata alla scuola dell'infortunio, a trentaquattro anni rimasta sola, senz'appoggio, con quattro fanciulli tenerelli, in un paese che non conosceva se non per averlo amato siccome sua patria di adozione, nuova agli affari dello Stato, ella si era trovata tutto ad un tratto rivestita d'un potere cinto da ogni parte di ostacoli e di perigli. Abbisognavano riforme. Comincia nella sua casa medesima, sbandisce il lusso oneroso, le inutili pompe. Riordina le Finanze, sminuisce i pubblici aggravii, e traverso le crisi alimentari di tre anni, le inondazioni, il cholera ed i torbidi, aumenta i soldi e le pensioni degl'impiegati, paga quattro milioni del debito dello Stato, e crea mia riserva nel Tesoro.

Carlo III. aveva portato le truppe parmensi ad una forza numerica che in verun modo stava in proporzione col novero degli abitanti e co' mezzi finanziarii dello Stato. Una riduzione notevole era certamente provvedimento urgente ed inevitabile, ma che d'altronde doveva essere condotto con grande circospezione. Passato appena di vita Carlo III., il Pallavicino, cumulate al duplice suo uffizio di Ministro agli Esterni e Segretario di Gabinetto le mansioni di presidente del Dipartimento militare, dava opera a codesta bisogna con ardore siffatto che ben rivelava, come, purché reagire in tutto e possibilmente rovesciare tutto quanto era stato fatto fino allora, ben più che i dettami dell'equità e della ragione si seguissero gl'impulsi della passione, e come la truppa, che ave» troppo brillato sotto il Duca defunto, si voleva ora opprimere ed avvilire in ogni modo. Le truppe furono ridotte; e senza riguardo alcuno alla trista condizione in cui collocavansi, si posero in disponibilità di servigio, parte a metà e parte a due terzi di soldo, circa un centinaio di ufficiali, la maggior parte sprovveduti affatto d'altri mezzi di sussistenza, e fra loro moltissimi carichi di famiglia Non è a dire il malcontento prodotto da

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codesta malaugurata, mal ponderata, impolitica misura, nella quale l'odio solo fu guida, e per cui circa un terzo degli ufficiali, sudditi parmensi essi pure, veniva lanciato nella miseria. Tennero dietro molte altre deliberazioni improntate d'eguale carattere.

Tali procedimenti non potevano condurre che ad una conseguenza, rendere generale fra le truppe il pensiero di aversi ostile il Ministero, e pili d'ogni altro quel marchese Pallavicino, che sfornito affatto d'ogni cognizione di cose militari, era presidente del Dipartimento militare. Venuto a capo degli Ufficii presso quel Dipartimento, e nel 1856 al comando di tutte le milizie dello Stato il colonnello Cesare Da-Vico, riusciva bensì a questi di conciliare le pretensioni del Ministro coi giusti reclami sempre avanzati dalla truppa, di migliorare la condizione degli ufficiali in disponibilità, che in breve tempo poterono anche essere posti nuovamente in attività di servigio, Ma dopo che vidersi tutte poco a poco vergognosamente mancate le mille promesse fatte dal Pallavicino al Da-Vico di sostenerlo nella nuova sua posizione e seguirne le proposte, dopo la minaccia che ai comandi superiori delle truppe e della Brigata, se declinati dal Da-Vico, sarebbero chiamati ufficiali forestieri, che ben si vedeva donde sarebbero fatti venire, quell'opinione tornò a ringagliardire; né bastò a toglierla l'aumento accordato del 10 al 20 per 100 del soldo degli ufficiali e de' soldati.

Durante la Reggenza della Duchessa, era succeduto a Direttore della Polizia generale dello Stato un dottore Luigi Draghi, uomo d'ingegno, settario fino dalla gioventù, venduto corpo ed anima al partito piemontese. Fondata la Società Nazionale del Cavour, instituito in Parma un Comitato di questa, il Draghi, fatto cavaliere dai Borboni, fu mandato a farne parte. Stando la Polizia in degne mani, è facile pensare che dovesse avvenirne.

Incalzando gli avvenimenti sullo schiudere del 1859, e ripetutamente insistendo il Da-Vico, Comandante delle truppe, presso il Ministro Pallavicino affinché si usassero più giuste e concilianti maniere verso parecchi ufficiali meritevoli di speciali riguardi; si agisse con maggiore franchezza e senza mezzi termini contro pochi ufficiali, fra' quali un ufficiale superiore in attività di servigio, onde conoscere sino a qual punto si avesse a far calcolo della pubblica opinione che con lettere anonime, dirette allo

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stesso marchese Pallavicino, li accusava d'infedeltà ai loro giuramenti e di segrete intelligenze coi rivoluzionarii; e perché si precisassero positive istruzioni dietro le quali si dovesse regolare il militare pel caso possibile di tentativi di ribellione, alle stringenti rimostranze il Pallavicino non si diede per inteso, continuò l'oppressione a quanto perteneva al militare, dell'opinione pubblica non si volle tenere alcun conto, ed anzi quell'uffiziale superiore, indicato nelle lettere anonime, da quel momento divenne il segreto confidente dello stesso Pallavicino. Al Comando delle truppe niuna istruzione fu data, comunque pertinacemente richiesta, tenendosi pago il Ministro a tenere le milizie nel pericolo, per quanto si comportassero con prudenza, di dare in fallo per non potere conoscere a quale scopo realmente mirasse il Governo, e se questo avrebbe seguito le parti dell'Austria o del Piemonte, in un momento in cui ognuno riconosceva impossibile quella che ai più pareva ridicola neutralità dello Stato parmense, e il Ministero si sbracciava affermare sarebbe proclamata qualora le ostilità fossero venute a scoppiare.

Che Stati dell'Italia centrale pili discosti dal suolo probabile delle grandi battaglie, non confinanti né coll'Austria né col Piemonte, potessero parlare di perfetta neutralità nelle lotte imminenti, quando incerto affatto poteva ancora apparire l'esito finale, né forse vi aveva luogo a riporre piena fiducia nelle truppe del paese, questo si poteva benissimo comprendere ed anche tenersi appieno giustificato, fosse pure per sola ed ovvia prudenza; quand'anche interessi dinastici sembrassero dover consigliare piuttosto una franca alleanza contro la rivoluzione. Che in istato di pace e perfetta tranquillità il Ducato di Parma potesse cercare di mantenersi quanto più gli fosse dato indipendente da chicchessia, anche questo si capiva agevolmente, ed il sentimento della propria dignità, la tutela dell'autonomia di popoli senza offendere i doveri dell'amicizia verso Potenze alleate, non potevano anzi che trovar lode e stima da tutte parti, quando verso tutte parti ne fosse fatto esercizio con perfetta ed eguale lealtà. Ma che allo scoppio delle ostilità, d'accosto al teatro della guerra, anzi più propriamente nella periferia del teatro stesso della guerra, il Ducato di Parma per l'importantissima fortezza di Piacenza rientrando nel sistema medesimo di difesa d'una delle due parti contendenti, si

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volesse e potesse mantenere una neutralità nella realtà favorevole solo a chi non possedesse Piacenza, tutto ciò per verità non era altrettanto agevole a concepire, e molto meno ancora a porre ad effetto; sembrando, almeno a' più, naturale e forzata conseguenza dello stato delle cose la necessità pel Ducato di Parma di seguire le sorti di quella Potenza che teneva Piacenza in sue mani. A fronte dell'ingorda avidità d'un vicino, cui da oltre due lustri le baionette imperiali erano state unico freno ed ostacolo ad impedire la vagheggiata annessione dei domini ducali, pel sovrano di Parma l'alleanza coll'Austria diveniva necessità vera, ineluttabile, suprema, quel dì in cui l'antico litigio fra il rispetto ai Trattati e la rivoluzione risorgente si apprestassero a sciogliere anco una volta a colpi di cannone.

Allorché i Comitati Nazionali furono convertiti in Comitati d'arrotamento ad uso dell'esercito sardo, il Comitato parmense, non astretto ad avvolgersi fra quelle ombre e cautele di cui non poteano far senza tutti gli altri Comitati italiani al di fuori del Piemonte, piantava Ufficii di arrotamento in Parma in case che ognuno conosceva, con una pubblicità e sicurezza ben giustificate dal Paversi membro del Comitato medesimo il Direttore della Polizia generale del Ducato. E quando il Comandante delle truppe ne portò lagnanza in iscritto al Ministero, n' ebbe in risposta, che questa notizia riesciva affatto nuova, ma che sarebbesi provveduto. Ed il Ministero provvide infatti, con far traslocare gli Ufficii in istrade più remote e continuare ad arrolare come prima. Il Draghi, Direttore di Polizia, encomiatone con calde parole il patriottismo, muniva gli arrolati del foglio di passo per emigrare; poi, spesso forniti di lettere commendatizie per parte di un'alta notabilità militare parmense in pensione, gloriosamente s'avviavano in Piemonte. Gli arruolati degli altri Stati d'Italia attraversavano svelatamente Io Stato dl' Parma, passando per le stazioni di corrispondenza che i Comitati avevano stabilite nel Ducato, ove le autorità politiche accordavano loro ogni agevolezza e protezione. Tutto ciò che il Da-Vico, sportane lagnanza d'ufficio al Ministero, poté ottenere, si fu che non attraversassero la città di Parma con distintivi soldatesche II militare non doveva darsene per inteso; d'altronde, di esso per verità solo pochissimi individui già noti per l'anteriore loro condotta, pe' loro principii e per la loro

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incapacità, caddero nell'inganno che la rivoluzione loro apprestava.

Il Duca di Modena avendo fatto avvertire il Governo parmense di avere spedito verso il confine minacciato una parte delle sue milizie, Pallavicino, chiamato a sé il colonnello Da-Vico, con esso convenne che una egual misura si prendesse nello Stato, aversi a disporre per la spedizione di truppe al confine, la linea d'osservazione parmense doversi porre in corrispondenza coll'estense. Da-Vico dispone, attende l'ordine che doveva porre in marcia le schiere; ma dopo alcuni giorni il Pallavicino, volgendo in derisione il provvedimento preso dal Duca di Modena, sospende ogni partenza.

I giorni de' grandi tranelli appressavano. Il 29 aprile era il giorno onomastico del Duca Roberto. Giusta l'usato, la Corte, i Ministri, i pubblici funzionarii convenivano nella cattedrale. La Reggente Luisa stava al suo posto. Allora allora il suo cuore aveva esultato alle vive acclamazioni con cui le truppe schierate lungo le vie e l'accorsa popolazione avevano dal palazzo alla chiesa salutato il corteggio reale. Nullameno, durante la Messa, i nobili lineamenti del volto della Duchessa tradivano ad intervalli un'inquietudine grave, vanamente combattuta dall'eroica fermezza di quel fortissimo animo. Talora lagrime silenziose le cadevan dal ciglio, Perché quell'ambascia, perché quelle lagrime? L'ora delle dure prove s'avvicinava per la madre e per la Sovrana. Gli eventi di Firenze eranle conti, quando, momenti prima di avviarsi alla cattedrale, un avviso misterioso le aveva annunziato che una dimostrazione a favore del Piemonte avrebbe avuto luogo in quel dì. Ned era menzogna. All'alba di quel mattino medesimo un colpo di mano era stato deciso dal Comitato Nazionale di Parma. I capitani Bucci, Briccoli e Calcagnini dovevano esserne gli esecutori. Filippo Bucci, dopo essere passato successivamente dalle truppe parmensi all'esercito piemontese, era più tardi ritornato al servizio militare del suo paese, ed ora era pervenuto al grado di Capo della Sezione del Genio. Spirito mutabile, senza consistenza, oggi partigiano delle pia esagerate dottrine rivoluzionarie, domani fautore sviscerato dell'Austria, aveva ottenuto a forza di sollecitazioni presso il generale conte Crenneville, l'Ordine imperiale della Corona di ferro, e appena ricevutolo da Vienna

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s'era riaccostato un'altra Tolta ai rappresentanti della democrazia, sinché Toro di Cavour l'ebbe compro. Emiliano Briccoli, comandante il Corpo d'artiglieria, aveva servito nella guerra del 1848; non privo d'influenza, né d'ardire, venduto a Torino, degno emulo dei toscano Danzini. Il marchese Celio Calcagnine, capitano nel battaglione dei Cacciatori, scapestrato, vizioso, dissipatore, era uno di que' sventurati, pei quali immersi sino alla gola nel più abbietto lezzo della crapula e del lupanare, la nobiltà del sangue e la memoria incontaminata degli avi non valgono a rattenere sulla via dell'onore.

Nell'interno della cattedrale la funzione religiosa aveva avu to termine. Al di fuori fra la popolazione, accalcata come d'ordinario, potevi per altro notare faccio sconosciute, forestiere, sinistre, e fra esse taluno affermare che quel comandante delle truppe comandava l'ultima sua parata. In quel mentre il colonnello Da-Vico, che teneva il comando sul luogo, viene a conoscere come corresse per la città voce, che nel momento in cui le soldatesche sfilerebbero secondo il costume innanzi al Palazzo Reale, parte di esse avrebbe fatta una dimostrazione. Le truppe stavano schierate parte sulla piazza del Duomo, parte nelle strade che fiancheggiano la cattedrale medesima, spingendosi fino a tutta la contrada di Santa Lucia. Da-Vico se ne pone alla testa, sbocca sulla piazza del Palazzo Reale; la Duchessa comparisce al verone. Da-Vico , preso il suo posto innanzi al Palazzo, attende con ansia, deliberato a quelle misure che la prudenza e l'urgenza avessero consigliato. Le truppe d'ogni arma sfilano con perfetta compostezza. Non una parola, non un atto vengono a turbare la festa. La popolazione si allontana in silenzio, i gufi precursori della tempesta, gli uomini del disordine, le faccio ben note de' 20 marzo 1848 e 22 luglio 1854 tornano a rintanarsi nell'ombra. Il Ministero, quantunque avvertito, e, come fu accertato indubbiamente più tardi, a giorno di tutto, non aveva prevenuto di nulla il comandante delle truppe, né se ne diede per inteso dappoi.

Il resto di quel dì, come il successivo 30, passarono in generale trepidazione, fra mezzo a voci d'ogni maniera; solamente la sera di quest'ultimo giorno, trovandosi al caffè militare, alcuni ufficiali furono consigliati ad allontanarsene perché persone di pessimo aspetto ed armate stavano appiattate nei dintorni

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in attesa di momento opportuno per esplodere le loro armi da fuoco sopra gli ufficiali ivi raccolti. La notte scorse in uno stato apparentemente normale, in quella calma pesante che sempre precede alle grandi bufere. Ognuno sentiva come qualche cosa di grave vi fosse Dell'aria. Gli esempi vicini, improvvisi e inattesi, scaldavano le fantasie più mobili e più pronte ad esaltarsi. L'inaudito successo della rivolta a Firenze, la notizia dei fatti delle contermini Massa e Carrara, le mille arti del Comitato Nazionale, le promesse, le minaccie, e sopra tutto Toro di Cavour ringagliardivano le speranze degli uni, i timori degli altri. I membri del Comitato, Armelonghi, Riva, Maini, Garbarmi, Draghi, davano norma e indirizzo ad ogni combriccola. Leonzio Armelonghi e Giorgio Maini, giovani avvocati di Parma, caratteri ardenti ed impetuosi, avevano acquistata una ben trista rinomanza, più ancora che per la violenza delle loro opinioni democratiche, per lo zelo con cui avevano assunta la difesa di tutti gli accusati tratti in giudizio non solamente pelle cospirazioni del 1854, ma eziandio per gli assassinii che vi tennero dietro (1). Salvatore Riva, prima Carbonaro, poi affratellato della Giovine Italia, erasi trovato al suo posto nei torbidi del 1821, 1831, 1848. Nel 1848, mentre sosteneva con vivacità le dottrine democratiche nel giornale L'indipendenza italiana, aveva costantemente rifiutato di allearsi ai liberali costituzionali, ed erasi con incessante energia opposto all'annessione del Ducato di Parma al Regno di Sardegna. Uno de più abili professori dello Stato, come medico godeva di riputazione incontestata e numerosa clientela. L ingegnere Angelo Garbarmi, in addietro mazziniano, era figlio di un integro magistrato, che forse senz'aderire

(1) Si sa che il colpo di pugnale per cui fu freddato Carlo III. non era delitto isolato; esso doveva servire di segnale ad un tentativo di rivoluzione nel Ducato e nell'Italia intera. Cinque delitti di sangue a brevi distanze Innestarono le vie di Parma dopo l'uccisione del Duca. Il 12 giugno 1854 il giudice Gabbi è ferito di cinque stilettate. l'11 febbraio 1855 Lanati, presidente del Consiglio di guerra, riceve sette colpi di pugnale. Il 13 aprile 1855 un colpo di pistola è tirato sopra il colonnello conte Anviti, comandante le truppe parmensi. Il 4 marzo 1856 il conte Magawly-Cerati, direttore delle carceri, cade sotto il ferro assassino per non rialzarsi mai più. Tredici giorni più tardi, il 17, il giudice Bordi è gravissimamente ferito, e campa a stento la vita. Armelonghi e Maini erano i difensori dei sicarii.

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alla causa rivoluzionaria s'indusse ad accettare il carico di membro del Governo provvisorio surto a Parma dalle rivolture del 1831. Ed ora questi quattro repubblicani sedevano fra' più calorosi fautori della Casa di Savoia, sacerdoti della setta di Cavour. Miracoli della Società Nazionale.

La domenica appresso, primo di maggio, non erano ancora le 7 del mattino che il Comandante delle truppe recavasi presso il marchese Pallavicino. Avendogli esposta la gravita della situazione e la impossibilità di continuare più a lungo in un sistema di indifferenza, gli dichiarava essere un'illusione quel preteso stato di neutralità; il Governo in un modo o nell'altro doversi ornai pronunciare; le truppe, potendo versare in circostanze stringenti si da vedersi obbligate ad agire senza attendere istruzioni, esser d'uopo si decidessero a dar loro ordini positivi, perché non avesse ad avvenire che truppe tenute all'oscuro de' veri intendimenti del Ministero, si comportassero in senso opposto a codesti intendimenti. «Non potere il Governo, rispondeva il Pallavicino, seguire una politica diversa da quella che aveva abbracciata; se il Comandante delle truppe non era soddisfatto delle condizioni in cui versava lo Stato, sortisse pure colla truppa, e per suo conto sotto la di lui personale responsabilità incominciasse nella città di Parma una controrivoluzione.» A cosiffatta risposta il colonnello Da-Vico, per declinare da sé qualsivoglia malleveria, affrettatosi al suo Uffizio, senza indugio scriveva (1):

(1) Ristabilita nel 3 maggio 1859 la legittima autorità della Reggente, Enrico di Riancev scriveva il libro: Madame la Duchesse de Parme et les demiers événements, con tale prestezza che già il 24 dello stesso mese potè essere dato alla pubblicità; libro compilato sopra elementi tutti somministrati dal marchese Giuseppe Pallavicino. Sotto apparenza di rilevare agli occhi dell'Europa l'importanza di quell'avvenimento, porse documenti perché fosse intessuta l'apologia di sé medesimo; e nel momento in cui a Parma alle idee di legittimità e di restaurazione era pienamente assicurato il predominio, falsò la storia, adulterando documenti, serbando silenzio su altri, svisando fatti, e ad eventi, che perdono significazione e valore col solo spostarne il momento, assegnando ore diverse da quelle in cui nella realtà ebbero luogo. Di tutto questo, ben s'intende, Enrico di Riancey non può essere tenuto in verun modo responsabile; e la rettifica co' documenti alla mano non è né critica, né polemica, da entrambe le quali abboniamo, ma semplice e stretto dovere di storico.

Nella sua vita, ne' suoi atti, Luisa di Borbone nulla aveva a nascondere

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«All'Eccelsa Presidenza del Dipartimento militare in Parma.

» Protocollo riservato N. 96.

» Il Comandante delle Truppe.

» Nella condizione di assoluta incertezza in cui si trova lo Stato, nella generale apprensione cagionata dagli avvenimenti che si succedono, la truppa e più particolarmente gli ufficiali sono fatti oggetto della generale esecrazione perché non si dichiarano, e non danno l'ultima spinta a ciò il Governo accordi» quanto le popolazioni desiderano.

» Il contegno degli ufficiali fu da qualche giorno una continua esemplare prova di prudenza e di abnegazione. Ma in que»sto momento le cose sono pervenute a tal punto che lo scrivendo te Comando dichiara non potere più oltre continuare in questo stato più che anormale; e quando non si prenda una qualche positiva determinazione, forse non potersi ora far molto calcolo della truppa, quando pure si astenesse da una dimostrazione contraria al Governo.

nulla a scusare; ben altro era il caso pel marchese Pallavicino, cui veniva in accoucio lo scritto del Riancey. Or trasmettendo a questi la lettera del Da-Vico , che qui per la prima volta diamo in luce, ricopiata esattissimamente dall'originale medesimo consegnato al Ministro Pallavicino, ei non ebbe guari scrupolo di alterarla e mutilarla, sì che acquistasse senso ed aspetto che non aveva e non ha. De Riancev narra (pag. 106): «Si trattava di sapere quale sarebbe realmente, in caso d'una collisione imminente, l'attitudine della forza armata. Il Consiglio dei Ministri consultò il comandante in capo, colonnello Da-Vico . Questo bravo e leale servitore non poté dissimularlo; rispose così.» E qui riporta la lettera storpiata; poi continua (pag. 107): «A questa risposta non era più dubbio che il Governo non aveva alcuna speranza a fondare sulla forza militare.» Non fa il Consiglio dei Ministri che consultò il comandante in capo; era per converso il colonnello Da-Vico che compulsava il Ministero a decidersi, e a decidersi in un senso da cui tanti fatti provavano quant'ei decisamente abbonisse. Non era Da-Vico che interrogato rispondesse, ma non chiesto avvertiva. Quale sarebbe stata, in caso di una collisione con ribelli, l'attitudine delle truppe, rispondono il 2 e 3 maggio, ed il 9 e 10 giugno 1859; rispondono il sangue versato, i ranghi disciolti, le bandiere, le armi, le artiglierie consegnate spontaneamente a Mantova, purché non avessero a divenir piemontesi.

84 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

» Questa cosa si porta a conoscenza della Superiorità, affinché nelle attuali contingenze si degni dare quelle disposizioni che stimerà pili opportune.

» Parma, il 1. Maggio 1859.

» Da-Vico .»

Anima del Comitato Nazionale e caporano della cospirazione militare, Àrmelonghi e Bucci s'erano divise le parti; a quello la rivolta da trivio, a questo la rivolta da caserma. Una lettera, redatta con perfida abilità fra di loro (1) doveva essere presentata dal Bucci all'adesione degli ufficiali, da essi sottoscritta e rimessa alla Reggente. Approvata in precedenza dal Ministro Pallavicino (), quaranta ufficiali firmarono, fra questi i due Maggiori

(1) La minuta di quell'atto esiste in mano del colonnello Da-Vico, e ritiensi scritta di pugno dell'avvocato Àrmelonghi. La lettera suonava cosi:

«Altezza Reale!

» I doveri della disciplina, ed il giuramento che ci lega al sovrano, non fanno ostacolo, crediamo, che noi domandiamo rispettosamente a Vostra Altezza Reale di por fine ad una situazione, che, nei solenni momenti in cui siamo, potrebbe agli occhi del paese renderci indegni del posto che occupiamo e del nome d'Italiani.

» Nel momento in cui la questione dell'indipendenza nazionale si risolve sui campi di battaglia, una più lunga incertezza ci sarebbe dolorosa; essa ci obbliga a domandare a Vostra Altezza di toglierci all'inazione presente, contraria alla virtù del vero soldato e del cittadino.

» Se questo voto trova accesso presso Vostra Altezza, noi sentiamo nel nostro animo la certezza di provare colla nostra bravura che non siamo indegni delle sollecitudini che Vostra Altezza ci ha costantemente prodigate.

» Con venerazione e divozione ci proclamiamo

» di Vostra Altezza» i fedelissimi sudditi ed obbedientissimi servitori.»

(2) A proposito di quella lettera De Riancey disse soltanto (pag. 105): «I mestatori la rimisero al Comandante delle truppe come l'espressione della volontà dell'armata; ed il primo di maggio pervenne a' Ministri.» Fu rimessa non al Comandante delle truppe, ma a Pallavicino, che l'aveva approvata, l'attendeva, ed avea così predisposto. Mentre il colonnello Da-Vico scriveva e faceva copiare là Riservata N. 96, di cui più sopra parlammo, eransi a lui presentati ufficiali di varii corpi, regolarmente instando che il Governo prendesse una qualche deliberazione; ed in tale occasione gli dissero della lettera ch'era mente di taluni indirizzare alla Duchessa. Senza indugio, chiamati a sé i Comandanti dei due battaglioni d'infanteria

UN ROVESCIO A PARMA. 85

comandanti il 2.° battaglione d'infanteria ed il battaglione di Cacciatori, la pia gran parte in perfetta buona fede, alienissimi dal sospettare lo scopo iniquo cui sarebbe fatto servire quel documento. Più e più molti rifiutarono risolutamente di apporvi il lor nome. Colla lettera del colonnello Da-Vico e l'istanza collettiva degli ufficiali alla mano, dopo essersi stretto a colloquio coi colleghi del Ministero, Pallavicino portavasi presso la Duchessa, che in particolare quel dì egli aveva saputo rendere inaccessibile a chiunque non dividesse le sue opinioni. Dal giorno innanzi voci sinistre, allarmanti, eranle portate a notizia senza posa, d'ora in ora incalzando. Uomini alto locati, di purissima ed incrollabile fede, fu detto fossero minacciati nella vita, e costretti ad allontanarsi. Nella città gli onesti, impauriti e tremanti, si nascondevano.; eventi ben giustificati e scusabili in paese in cui il ferro assassino aveva comprovato di non sapersi arretrare dinanzi a veruna enormità, e mentre l'agitazione, abilissimamente sostenuta, crescer rapidamente. Quantunque dotata da natura di coraggio non comune in una donna, la Duchessa Luisa, cui un pugnale aveva freddato il padre e un pugnale il marito, non aveva potuto guardarsi da quello sgomento che da ostelli modesti era salito alla magione del principe. Fatta persuasa che niun calcolo fosse oramai a formare sulla fedeltà delle truppe, convinta di non potere più a lungo durare a fronte di pericoli che le si dicevano d'istante in istante imminenti, trepidante pe' figliuoli, non durò molta fatica ad arrendersi a' pressanti consigli.

Immediatamente i giovani principi sono diretti a Brescello

e del battaglione di Cacciatori, data loro lettura della lettera che aveva apprestata, portavasi con essi il colonnello presso il Pallavicino, cui alla loro presenza la lesse e consegnò. Il Ministro con laconici modi si disimpegnava, licenziando i tre capi battaglione. Rimasto solo col colonnello, mentre questi gli teneva parola di quanto gli aveano allora allora partecipato intorno ad una istanza collettiva alla Reggente, fu annunziato al Ministro che alcuni ufficiali chiedevano presentarsi al Comandante delle truppe. Pallavicino ordinò fossero introdotti; e udito da essi il desiderio che in massima venisse previamente approvata la minuta della istanza collettiva, che intendevano far giungere alla Duchessa, si affrettava rispondere: rimettessero a lui quella minuta, ed a lui, appena il potessero, direttamente facessero tenere eziandio l'originale rivestito delle sottoscrizioni. E così fu fatto.

86 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

forte castello nel Ducato di Modena, sulla via per Mantova, ove la Duchessa verrà a raggiungerli colle principesse sue figlie. Il Consiglio de' Ministri è costituito in Commissione di Governo. Un atto sovrano viene steso e confidato al marchese Pallavicino, con cui questi, nella qualità di Segretario intimo di Gabinetto, è autorizzato a prosciogliere all'occorrenza le truppe dal giuramento di fedeltà. Si compila una proclamazione ai popoli dello Stato (1); poi, col cuore spezzato, la Duchessa parte, ricalcando il cammino dell'esilio undici anni prima battuto. La rivolta aveva trionfato prima ancora di aver potuto nella realtà dare fuori.

Radunati prestamente intorno a sé i Ministri, i Capi dei Dicasteri, fra cui il Draghi, il Comandante delle truppe, ed i comandanti dei Corpi militari attivi, il Pallavicino, annunziata la partenza della Duchessa, propose si avesse a discutere sul da farsi nelle urgenti circostanze in cui, disse, si trovava lo Stato. Com'era da attendersi, i Ministri ed i Capi di Dicastero da essi dipendenti

(1) Ad onta del desiderio di non inframmettere alla narrazione copia soverchia di documenti, la riferiamo nella sua integrità. Squarciati i veli, trova spiegazione ogni parola posta in bocca alla Duchessa.

«Noi Luisa Maria di Borbone, Reggente pel Duca Ro»berto I. gli Stati parmensi.

» Poiché gli umani desiderii delle grandi Potenze non sono riusciti ancora alla riunione d'un Congresso europeo, nel quale sia studiato di appianare con ragionevoli concessioni e saggie provvidenze le difficoltà insorte, e intanto in sì grande prossimità ai Reali Nostri Dominii si ò accesa la guerra, i doveri di madre Ci impongono di porre in sicuro dalle eventualità di essa i Nostri amatissimi figli.

» Abbiamo perciò dovuto prendere la determinazione di allontanarci per tal fine dallo Stato temporariamente; costituendo, siccome costituiamo in Commissione di Governo i nostri Ministri, affinché durante la Nostra assenza reggano ed amministrino lo Stato in nome del Duca Roberto I., e con tutti i Nostri poteri, secondo le leggi e le forme già stabilite, ed attenendosi in bisogno alle istruzioni speciali ohe abbiamo date ad essi per istraordinarie circostanze.

» Nella confidenza di riprendere tra breve personalmente l'esercizio della Nostra Reggenza, esprimiamo caldi e sinceri voti perché sia preservato da calamità questo diletto paese, e prevalgano negli animi la mitezza dei sentimenti e i consigli della ragione.

» Dato dalla Nostra Ducale Residenza di Parma, il di 1.° maggio 1859.

» Luisa.

» Da parte di S. A. R. il Segretario intimo di Gabinetto

» Giuseppe Pallavicino.»

UN ROVESCIO A PARMA. 87

manifestarono: doversi continuare nel sistema di aspettativa e di neutralità sino allora seguito; se movimenti ostili della popolazione venissero a turbare la quiete, non avesse a seguire veruna misura repressiva; in fine si attendesse dagli eventi l'iniziativa di quanto fosse a farsi. Solo il colonnello Da-Vico ebbe coraggio di opporre: Non essere più tempo di continuare, come per lo passato, senza una positiva norma di quanto voleasi operare; essere ormai indispensabile che il Ministero chiaramente spiegasse la politica che intendeva seguire; non poter egli, Comandante delle truppe, imporre norma alcuna ai Ministri, ma quanto a sé terrebbe o rinuncierebbe il comando a seconda della presa deliberazione; a prevenire una catastrofe essere però sommamente urgente che questa determinazione si prenda; che se ostile fossesi dichiarata la popolazione, era dolorosa bensì ma inevitabile necessità dover reprimere, ove si manifestasse, qualunque movimento rivoluzionario. A tali parole, accolte con grande freddezza e piuttosto con visibile opposizione, i Ministri si traevano d'impaccio col sciogliere l'adunanza e dichiarare: voler essi, prima di devenire a concreta determinazione, sentire quali fossero le intenzioni del Comitato Nazionale parmense, e delegare a quest'uopo il Direttore Draghi con incarico di trattare e riferire.

Intrattanto stuoli di pagati dal Comitato scorazzavano per le vie di Parma gridando: Viva l'indipendenza! Siccome era giorno festivo, stante i regolamenti in vigore, i soldati uscivano per metodo alle 3 pomeridiane dai quartieri a diporto, né avendo potuto il colonnello Da-Vico , trattenuto dal Pallavicino nel palazzo del Ministero dalle otto del mattino fino alle ore 5 1/2 del pomeriggio, dare veruna disposizione in contrario, i soldati erano sortiti all'ora consueta. Alle porte delle caserme gruppi di emissarii e di popolo, di parenti, di conoscenti, di amici (1), eccitavano i soldati con elogi e rimbrotti. Il capitano Bucci, che sopra i fondi della Cassa del Genio aveva fatto ai soldati distribuzioni di vino e sigari, diede il segnale della fratellanza col popolo. I soldati si sparsero per la città bevendo e cantando. Come a Firenze, il Comitato pagava tutto.

(1) Le truppe, composte di sudditi parmensi, non mai si tramutavano di guarnigione.

88 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

Nel frattempo Draghi dal Comitato tornava a' Ministri, e dai Ministri al Comitato, Tenuto a piantare le sue tende nelle sale della Podesterìa di Parma, e costituitosi di propria autorità in Giunta di Governo sotto la presidenza del Riva (1). La notte cadeva, e già i pacifici cittadini si davano alla speranza che tutto fosse per quel giorno finito, quando la Giunta rivoluzionaria, accompagnata dallo stesso Draghi, si avviava, preceduta da una grande bandiera tricolore, al palazzo del Ministero, ove i ministri dichiararono di deporre quel potere che poche ore prima la Duchessa aveva lor affidato (2) Una imbrogliata e fiacca protesta, sotto forma di atto di cessione, con cui le truppe erano ad un tempo prosciolte

(1) Nelle vie di Parma fu affissa, scritta a mano, la Notificazione che segue:

«I sottoscritti Membri del Comitato Nazionale di Parma, riconosciuto il volere generale della popolazione ed il conforme sentimento delle truppe, hanno oggi assunto il Governo della città e delle provincie di Parma, a nome di Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele; solo però temporaneamente e fino a che un Commissario Regio venga a pigliare il reggimento del paese.

» Parma, 1.° maggio 1859.

» Questa dichiarazione è fatta in doppio originale, e sarà inserita nella Raccolta generale delle leggi.

Sottoscritti:» Riva Salvatore, Armelonghi Leonzio, avv. Giorgio Maini, A. Garlarini.»

(2) Scrive De Riancey (pag. 110-111): «Bande ammutinate si diressero al palazzo del Ministero. Le torcie minacciavano l'incendio; la forza e la violenza erano padrone. Niun mezzo umano di resistenza non restava ai Ministri.» Per iecusare i modi e la precipitazione con cui la Commissione di Governo depose i suoi poteri nelle mani del Comitato Nazionale, modi che anche a' men sospettosi parvero ben poco soddisfacenti, Pallavicino mette in bocca ad Enrico Riancey la più solenne menzogna. Una forte guardia militare con due cannoni e relativi artiglieri era appostata al Palazzo Reale, sito a due passi dal palazzo del Ministero ed in comunicazione con esso. Né i fanti, né gli artiglieri di quell'appostamento, né l'ufficiale che li comandava, avevano fraternizzato punto col popolaccio, con cui non si erano affratellati che i soldati usciti di caserma a diporto; sotto la loro protezione i Ministri potevano benissimo sostenersi pel momento. Anche nelle ore in cui i soldati uscivano a passeggio, rimanevano costantemente ed eziandio quel giorno rimasero nelle caserme della città e della città della forti riserve di truppa, tali che in qualunque caso avrebbero bastato a disciogliere qualsivoglia assembramento contrario al Governo. Se poi fosse stato dato il segnale d'allarme, lo spirito dell'immensa maggioranza degli ufficiali e dei soldati non essendo in fatto per nulla guasto, in

UN ROVESCIO A PARMA. 89

dal giuramento, fu stesa e ricevuta dalla Giunta usurpatrice (1). Al colonnello Da-Vico , che in questo mezzo aveva calorosamente

pochi momenti tutte le truppe sarebbero state sotto le anni nelle caserme, pronte ad uscire, meno poche eccezioni, per confessione dello stesso De Riancey «una quarantina di soldati solamente si lasciò ingannare» (pag. 101), le quali, anziché danno, recato avrebbero vantaggio. Pallavicino aveva trattenuto presso di sé al palazzo del Ministero in inutili discussioni il Comandante delle truppe dalle 8 del mattino alle 5 s pomeridiane; e allorché alfine fu lasciato partire, non gli si volle dare, in onta alle sue incessanti richieste, alcuna istruzione intorno a quello che fosse all'occorrenza da farsi, ned egli era più in tempo d'impedire quanto da due ore e mezzo aveva luogo nelle vie fra soldati e plebe. La dichiarazione del colonnello Da-Vico, che movimenti diretti ad abbattere la dinastia si repulsassero, ed occorrendo si comprimessero colla forza, era stata avversata nello straordinario consiglio adunato dal Ministero dopo che fti fatta partire la Duchessa. «I membri della Giunta,» continua Riancey (pag. 111112), «si presentarono alla porta del palazzo, annunziando che impiegherebbero la» forza per penetrarvi. Essi sono ricevuti; i Ministri, cedendo ad una op» pressione contro la quale nulla li può proteggere, rispondono con una» protesta.» La dichiarazione del Comandante delle truppe, del doversi comprimere tentativi di aperta ribellione, aveva fatto sorgere il dubbio che egli conoscesse lo spirito de" soldati a lui subordinati meglio che Bucci e consorti, ed il timore che le truppe potessero seguire la voce dell'onore e del Da-Vico a preferenza di quella de' traditori. Quella dichiarazione, che a quel momento non si attendevano, aveva avuto per conseguenza che lo straordinario consiglio si disciogliesse senz'altro. Alla presenza di tutti i convenuti, il Ministero dichiarò di spedire il Draghi al Comitato, che a breve distanza dal palazzo de' Ministeri si costituiva pacificamente in Giunta di governo, per trattare e riferire. Draghi trattò e riferì; andò avanti e indietro. Solamente quando, mentre la notte inoltrava ed era a credere che soldati ubbriachi mal avrebbero corrisposto ad un segnale d'allarme, se pure dato per caso, lo stesso Draghi condusse la Giunta al Ministero. Non vi fu né sorpresa, né oppressione. La porta del palazzo si dischiuse ad attesi. Le torcie non minacciavano l'incendio; illuminavano.

(1) Quest'atto, compilato d'intesa fra il Ministero e la Giunta, suonava: «Colla dichiarazione che ci si presenta dai signori avvocato Leonzio Àrmelonghi, professore dottor Salvatore Riva, avvocato Giorgio Maini ed ingegnere dottore Angelo Garbarmi, essendosi verificato il caso dì forza prevalente, preveduto nelle istruzioni lasciateci oggi stesso da Sua Altezza Reale, Luisa Maria di Borbone, Reggente degli Stati Parmensi pel Duca Roberto I., ed atteso il pericolo di minacciati imminenti disordini, noi sottoscritti componenti la Commissione di Governo creata dalla prevenerata Altezza Sua Reale, cessiamo dall'esercizio del ricevuto incarico, esprimendo però in conformità di esse istruzioni:

90 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

richiesto al Pallavicino acccogliesse la sua domanda di dimissione dal militare servigio, questi non volle accordarla (1).

Primo pensiero della Giunta fu di chiamare a sé il colonnello Da-Vico , ed ordinargli di far conoscere la forza delle truppe,

» 1.° che protestiamo per la conservazione del dominio e dei diritti dei» figli di Sua Altezza Reale medesima sugli Stati parmensi;

» 2.° che raccomandiamo con tutto calore, anche secondo i vivi desiderii di Sua Altezza Reale, quanto valer possa più efficacemente al mantenimento dell'ordine, della sicurezza e della quiete della capitale e di tutto lo Stato;

» 3.° che raccomandiamo altresì gl'interessi delle truppe parmensi, anche prosciogliendole dal giuramento, in modo che non restino senza congrua destinazione e provvedimento.

» Parma, il primo maggio 1859, alle ore 9 pomeridiane. Fatto in doppio originale.

Sottoscritti:» E. Salati; ?. Pallavicino; A. Lombardini; . Cattani.

» Visto e ricevuto:

Sottoscritti:

» Riva Salvatore; Armelonghi Leonzio; Maini Giorgio; A. Garbarini.»

Nemmeno una parola di nullità di atti, «Poi,» afferma Riancey (pag. 113),» i Ministri si ritirarono, attendendo gli avvenimenti e contando sull'effetto che produrrebbe la loro protesta. Malgrado le sue promesse, il Comitato Nazionale si astenne di pubblicare la protesta e la dissimuli agli occhi della popolazione e dell'armata.» Per verità, così stando le cose, altri avvenimenti, altri effetti non si potevano attendere che l'annessione dello Stato di Parma al Piemonte e la partenza della Brigata parmense dal Ducato. Chi mai avrebbe potuto pensare che la Giunta portasse essa a cognizione del pubblico un atto nell'interesse della potestà trabalzata? Chi teneva il diritto ed il dovere di annunziarlo alle truppe era quel marchese Pallavicino, cui la Duchessa aveva rilasciata facoltà di proscioglierle dal vincolo di fedeltà. L'atto di cessione e protesta era in doppio originale; uno di essi rimase presso Pallavicino. La sua persona non era guardata a vista, né correva alcun pericolo, né gli mancavano mezzi di portare a conoscenza delle truppe quel documento. Quando nella notte stessa, pochi minuti prima delle otto pomeridiane, il Comandante delle truppe si recò da lui per ottenere la sua dimissione, Pallavicino non gli fece parola alcuna di proteste fette. Sino a tarda ora del 3 maggio, niuno seppe di quel documento.

(1) Mentre «bande ammutinate circondavano il palazzo in cui era Pallavicino, le torcie minacciavano l'incendio, la forza e la violenza padroneggiavano, ed i Ministri cedevano ad una pressione contro cui nulla

UN ROVESCIO A PARMA. 91

le quantità delle armi e delle munizioni (1). Saputolo, al capitano Calcagnini si diede l'incarico di partire senza indugio per Torino ad offerirvi al Re di Sardegna il Ducato e la Brigata di Parma. La notte intera que' della Giunta si occuparono ad estendere una proclamazione, a preparare decreti, a nuove nominazioni. Gli atti pubblici e le sentenze delle Autorità giudiziarie dovessero portare l'intitolazione: La Giunta provvisoria di Governo in nome di Sua Maestà il Se di Sardegna Vittorio Emanuele IL Alla direzione dei Ministeri furono destinati: un Giambattista Mori all'Interno, Boldi alla Giustizia ed alla pubblica istruzione, Niccoli alle Finanze, la Giunta riserbando a sé gli attributi del Ministero

» la poteva proteggerli,» Pallavicino vergava e trasmetteva al colonnello Da-Vico circa alle ore 7 1/2 pomeridiane, il viglietto che segue:

«Con dispiacere non ho potuto in nessun modo dar corso alla sua domanda di dimissione, perché quando l'ho ricevuta era già stato ceduto ogni nostro potere al Comitato Nazionale residente in Parma, il quale, sotto minaccia di disordini gravi in caso di opposizione, si è a noi presentato per ricevere il Governo. Ella perciò dipenderà dal detto Comitato, (a)

«(a) » 1.0 Maggio 1859.

» I membri sono:

» Avv. Àrmelonghi Sottoscritto;» Pallavicino.»

» Avv. Maini

» Dott. Riva

» Ing. Garbarmi.»

Parve curioso che il marchese Pallavicino potesse liberamente scrivere ed inviare il suo viglietto al Da-Vico , né potesse mandare la sua protesta alle truppe, né, scrivendo al Comandante delle truppe, si rammentasse di fargliela conoscere. Ricevuto quel viglietto, Da-Vico recatosi senza indugio dal Pallavicino, eran quasi le otto, lo trovava tutto occupato nella tranquilla regolare consegna del suo ufficio. Ogni preghiera di essere sollevato d'ogni ulteriore incarico fu vana.

(1) Ricevuto l'ordine di recarsi immediatamente al palazzo del Comune, il colonnello Da-Vico vi scontrava pel primo il Draghi, Direttore di Polizia, che tutto giulivo lo presentava alla Giunta, di cui faceva gli onori. Nella sala coi membri della Giunta, oltre varii impiegati, stavano il capitano marchese Calcagnini e tre persone che il Draghi disse essere: Rossi e Clementi, capitani, e Canobbio sottotenente nell'esercito sardo, quantunque non avessero nessun grado in quell'esercito, cui neppure mai appartennero. Erano tre garibaldini del 184849, che da qualche tempo si trovavano in Parma per prepararvi e dirigere il movimento.

92 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

degli affari esteriori. Tatti gl'impiegati civili e militari si confermarono. Fu ordinata l'istituzione d'una Guardia Nazionale, affidandone il comando in capo al Gallenga-Mariotti (1), e l'organizzazione ai tre sedicenti ufficiali sardi Rossi, Clementi e Canobbio. Registri d'iscrizione dovevansi aprire nella gran sala dell'Università; tutti gì'individui da' venti ai quarant'anni erano invitati ad iscriversi.

Fin qui tutto era andato a seconda. gl'imbarazzi non dovevano cominciare che col sole novello. Di primissimo mattino la Giunta manda a chiamare il Direttore della Stamperia ducale. - Che cosa volete stampare?; dice il Direttore entrando. - Sei tu Buttafuoco?; gli si domanda (1). -Si. - Bene; vattene, e mandaci un compositore. - Questo non vi aiuterà molto senza i caratteri. - Non vogliamo ragioni; obbedisci. - II direttore si ritira e manda un operaio. La Giunta durò la più gran fatica ad ottenere che la sua proclamazione fosse stampata. Era già abbastanza un bel principio di sovranità. L'annessione alla Sardegna ripugnava ad ognuno, perfino a' più fervorosi fautori dell'indipendenza italiana. La Giunta non ispirava ad alcuno confidenza di sorta; il colore ben marcato delle opinioni demagogiche de' suoi membri spaventava gli onesti. La creazione d'una Guardia Nazionale, che non si aveva neppure osato rendere obbligatoria, non era ne' gusti de' pacifici abitanti. Una resistenza passiva cominciò ad organizzarsi. Le magistrature ne diedero l'esempio. I Tribunali rifiutarono di giudicare in nome della Giunta, e rimasero chiusi. I notai non vollero estendere verun documento. Armelonghi e Maini richiesero al Tesoriere dello Stato una somma di ventimila franchi. - Volentieri, rispose questo impiegato, a condizione che mi mostriate sopra qual capitolo del Budget questi 20, 000 franchi devono essere imputati. - I due avvocati montarono sulle

(1)

Antonio Gallenga, o il Luigi Mariotti di cui abbiamo altrove parlato (Vol. 1., pag. 93), nipote del Ministro Lombardini, sostenne in addietro una parte a Parma stessa. Fu egli che arringò, il 10 maggio 1848, dalla ringhiera della maggior piazza il popolo parmense, affine di prepararegli animi alla divisata annessione del Ducato al Piemonte (Vedi: V. Trevisan; Carlo III. di Parma, pag. 109-110).

(2)

Buttafuoco è uomo d'ingegno, scrittore di distinzione, affezionatissimo alla Reggente.

UN ROVESCIO A PARMA. 93

furie, gridando che la burocrazia inceppava tutto. Dite gli scudi della burocrazia!; replica il Tesoriere, e si ritira. Non un centesimo uscì dalla Cassa.

Gl'imbrogli crescevano; eppure erano un nonnulla a petto di quanto le truppe apprestavano alla Giunta. La partenza della Duchessa aveva costernato vivamente ufficiali e soldati; la singolare precipitazione con cui la Commissione di Governo s'era dimessa li aveva mossi a sdegno. Soldati un momento traviati non avevano durato fatica a sentire l'umiliazione delle ovazioni di cui erano stati oggetto da parte della plebe. Questo contatto, questa fratellanza con quanto la città contava di più vile ed abbietto, aveva in loro prontamente prodotto un senso di supremo disgusto; e dal disgusto alla ripulsione non vi ha che un passo e brevissimo. Ognuno provava vergogna della parte che si aveva voluto infliggere alle truppe; e coloro medesimi che all'ultimo istante s'erano lasciati sedurre per metà, sentivano il pentimento ed il dolore farsi strada nel loro animo. Meno i pochi venduti al Piemonte, né gli ufficiali che avevano sottoscritta la lettera alla Reggente pensarono mai di cooperare con essa alla caduta della dinastia; né i soldati, che per le strade avevano gridato: Viva l'indipendenza!, sospettavano punto che per essi quel grido suonasse invece: Abbasso l'indipendenza! Il loro patriottismo si rivoltava all'idea di perdere l'autonomia dello Stato, e vedersi essi medesimi confusi ne' ranghi dell'esercito sardo. La fede giurata, l'attaccamento alla dinastia, l'affetto a codesta principessa, le cui sollecitudini stavano presenti nella memoria d'ognuno, riacquistarono irresistibile predominio.

Ben presto questi sentimenti si manifestarono altamente. Avvertita immediatamente dai pochi felloni, la Giunta vide l'estensione del pericolo che la minacciava, e tentò scongiurarlo. Ormai ella non poteva più dubitare che le truppe covassero il pensiero o di ristabilire il legittimo Governo, o di allontanarsi, se non fossero in questo riescite. Uno degli organizzatori della Guardia Nazionale, il Rossi, venne tantosto inviato dalla Giunta alle truppe perché tentasse di scongiurar la procella. Benché ei si annunzii capitano dell'esercito di S. M. il Re di Sardegna, ognuno sa perfettamente che non è rivestito di grado alcuno, che mai n' ebbe alcuno in un esercito regolare qualsiasi, non é un

94 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

piemontese, ma un romano assoldato nel 1848 nelle bande del Garibaldi.

Non osando indossare un vestito militare, Rossi si presenta in abito civile alla Cittadella, e comincia un'arringa calorosa ai soldati, che chiama «bravi patriotti, campioni della sacra causa dell'indipendenza.» Chi siete voi? Noi non vi conosciamo. Ritiratevi. Noi non conosciamo che la nostra Duchessa, noi non serviamo che il suo Governo; gli rispondono da tutte le parti i soldati. Rossi insiste, s'anima, parla di colori italiani, di vessillo nazionale. Cento voci soffocano la sua parola ad un tempo. «Noi non seguiremo la vostra bandiera,» gli gridano.» Noi non abbia mo che una bandiera sola, quella del nostro paese, quella della nostra Duchessa. Mostrateci solamente un cappotto del nostro Duca Roberto, e anderemo in capo al mondo!» Un diluvio di fischi, di urli, d'invettive, di vituperii, di minaccie, obbliga il malcapitato oratore a svignarsela più che di fretta. Ei si ritira borbottando: «Son bene indisciplinati!» A tale notizia, Armelonghi accorre. La sua eloquenza non ha migliore successo. L'irritazione dei soldati raddoppia, ed egli si allontana atterrito. Poco più tardi, giunge da parte della Giunta l'ordine d'inviare immediatamente tre compagnie d'infanteria, l'una in esplorazione verso Colecchio e Tornovo, l'altra verso il Taro e Viarolo, la terza verso Colorno, Serbola e Ponte d'Enza. «Perché questa partenza?» Domandano i soldati. - Per andare a mettervi in guardia contro il nemico comune; si risponde loro. - «Come!»; replicano unanimi i soldati.» Voi pretendete dunque mandarci a combattere i nostri camerata, i soldati della nostra Duchessa! E voi, voi resterete a casa nostra! Noi non partiremo!» La Giunta dovette rassegnarsi a comprendere che toccava a lei ubbidire, anziché essere ubbidita. Le truppe rimasero ov'erano.

Sino dal mattino di quel dì il colonnello Da-Vico aveva ripetuto in iscritto la sua domanda alla Giunta per rientrare nella vita privata. Nulla fu trascurato per ismuoverlo, ma ei tenne fermo per ottenere la sua dimissione al più presto possibile; finché, verso la mezza notte, la Giunta avendogli inviato ordine di consegnare alle 9 antimeridiane del 3 alla Guardia Nazionale tutti i fucili esistenti nell'armeria colle relative munizioni, ei scriveva alla Giunta che, senza attendere le sue deliberazioni, si ritirava

UN ROVESCIO A PARMA. 95

dal comando delle truppe e della Brigata, e lo rimetteva al cannello cavaliere Andrea Perini. Nello stesso istante rimandava la guardia militare appostata al suo alloggio.

Dalle primissime ore del 3 insolita agitazione scorgevasi nelle vie di Parma; drappelli di truppa avviavansi dalle caserme della città alla Cittadella, che sta fuor delle mura. Correva voce che colà il disordine fosse al colmo, e le truppe ammutinate, li colonnello Da-Vico , che, ciò udito, erasi all'istante recato in Cittadella (1), trovava le truppe che vi aveano stanza, spontaneamente portatesi sotto le armi, altamente gridando: volere recarsi in città a ristabilire a viva forza l'autorità della Duchessa (). Molti degli ufficiali presenti avevano pure abbracciato codesto partito, quando il colonnello Perini dichiarava al Da-Vico , essere sua ferma intenzione di partire senza indugio colle truppe raccolte in Cittadella e muovere sopra Brescello. L'esacerbazione delle truppe cresceva a vista d'occhio; l'ordine di partire per Brescello avrebbe condotto indubbiamente ad un conflitto. Senza più, il Da-Vico prende il suo partito. Dichiara al colonnello Perini che da quel momento ripiglia il comando, spontaneamente deposto alcune ore prima, e che non si ebbe tempo o presenza di spirito per conte

(1) È meno esatto il Riancey quando scrive (Madame la Duchesse de Parme et les derniers événements, pag. 127): «Il giorno avanti, la Giunta aveva ordinato di consegnare il deposito d'armi alla Guardia Nazionale.» II 3, nel mattino verso 9 ore, una squadra si porta all'arsenale, e, per che le armi non possano passare nelle mani de' nemici della legittima autorità, queste armi sono spezzate. Nel ritorno s'aggruppano presso al loro colonnello Cesare Da-Vico ed ai loro capibattaglione, li sollecitano d'indirizzare due dichiarazioni, l'una diretta alla Giunta, l'altra all'antico Ministro della guerra, a quello ch'essi considerano sempre siccome il loro vero capo, il marchese Pallavicino.» La squadra partì dalla Cittadella per portarsi all'arsenale, quando già il colonnello Da-Vico era in Cittadella. L'intimazione alla Giunta fu spedita dalla Cittadella alle 8 e un quarto precise. Se la squadra fossesi recata verso le nove all'arsenale, e fosse vero quanto fu portato a conoscenza del Riancey, l'intimazione alla Giunta non avrebbe potuto essere inviata che ad ora assai tarda del giorno. Nella copia dell'intimazione, trasmessa al Riancey, mancava la data dell'ora (Riancey, pag. 130), quantunque tutti i giornali avessero già pubblicata quella data ore 8 1/4 antimeridiane.

(2) Fu l'ora defunto Maggiore Galli, comandante il battaglione dei Cacciatori, quegli che colle ardenti esortazioni aveva precipuamente fatti persuasi i soldati a deliberare la restaurazione del legittimo Governo.

96 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

stagli, ed approfittando dell'esaltamento dei soldati, e delle disposizioni d'animo degli ufficiali, annunzia che avrebbe accompagnate le truppe lungi da Parma solamente allorché fosse riconosciuto impossibile ogni sforzo per ristabilire il Governo della Reggente e del Duca Roberto. Pochi momenti dopo, inviava alla Giunta rivoluzionaria l'intimazione seguente:

«Comando delle truppe di 8. A. R. Roberto I.

» Alla Giunta provvisoria del Governo di Parma.

» Parma, 4 Maggio 1859, ore 8£ antimeridiane.

» Dalla Reale Cittadella.

» La truppa, fedele ai suoi giuramenti, chiede e vuole che scompaia ogni insegna rivoluzionaria, e che sia all'istante ricostituito il Governo di S. A. R. la Duchessa Reggente pel figlio Roberto I.° Non conseguendo entro il termine di un'ora una risposta conforme a questo desiderio della truppa ed un eseguimento immediato, la truppa prenderà disposizioni efficaci per conseguirlo.

» Il Comandante le Reali Truppe,

Sottoscritto:» Cesare Da-Vico , Colonnello,»

Nello stesso tempo partecipava ai Ministri dimissionarii il tenore di questa intimazione, invitandoli a riprendere le redini del Governo in nome della Reggente, ed avvertendoli che ritirava tosto tutte le truppe nella Cittadella. Alle truppe alloggiate nei quartieri della città diede ordine di portarsi all'istante a raggiungerlo nella Cittadella con armi, bandiere, e Casse dei Corpi. Dando alla Gendarmeria eguale comando, le ingiunse di riunire e condurre con sé tutte le guardie esistenti nei varii appostamenti in città, ad eccezione solo di quello all'Ergastolo, i due pezzi d'artiglieria appostati al Palazzo Reale, tutti i cavalli della Real Corte e dell'Ufficio delle Poste. E tutto fu puntualmente eseguito.

Un forte distaccamento di Cacciatori determinati erasi avviato alla residenza della Giunta ribelle. Il sergente Perego, che li comanda, entra e depone sullo scrittoio del presidente l'intimazione del Comandante delle truppe. La Giunta avrebbe voluto

UN ROVESCIO A PARMA. 97

tentare un conflitto, armando i più risoluti; ma perentorio il termine accordato, sulle mura della Cittadella già disposti gli artiglieri colla miccia accesa presso ai cannoni rivolti verso la città, e le disposizioni prese dal Da-Vico fecero sorgere il timore che si venisse senz'altare cerimonie ad un bombardamento. D'altra parte l'attitudine della popolazione non le lasciava ormai nessun dubbio che non poteva fare verun calcolo sopra l'immensa maggioranza di essa. I Cacciatori, fermi alla porta, non sembravano punto disposti a tollerare una risposta che non fosse di loro soddisfazione. Fremente e rassegnata, la Giunta non si perde in deliberazioni, e senza indugio estende e consegna al Sergente codesta risposta:

» La Giunta provvisoria di Governo per gli Stati Parmensi.

» Al Comando delle Reali truppe.

» La Giunta, fedele al suo divisamente di non usare violen» za e di non essere cagione che la città di Parma sia funestata» dallo spettacolo miserando di una guerra civile, abbandona,» dietro il dispaccio di codesto Comando in data d'oggi, i poteri» governativi dei quali jer l'altro la Giunta stessa è stata investita.

» Parma, 3 Maggio 1859.

Sottoscritti:» Avv. Giorgio Maini, Armelonghi Leonzio,

» A. GARBERINI, S. RIVA.»

Ed il Sergente Perego parte, pubblicando nelle vie per cui passa la caduta della Giunta. Prima che spirasse l'ora accordata il colonnello Da-Vico riceveva l'atto di abdicazione forzata con che l'intruso potere chiudeva quella burlesca esistenza di trentasei ore. Allora allora il marchese Pallavicino aveva raggiunte le truppe in Cittadella; gli altri Ministri, che non avevano ricevuto confesso un invito appoggiato da baionette (1), non comparvero.

(1) Un distaccamento d'infanteria, guidato da sottoufficiali, venne dalla Cittadella a casa il marchese Pallavicino, latore dell'invito sottoscritto dal Da-Vico . «Questo distaccamento,» dice De Riancey (Madame la Duchesse de Parme et lei derniers événements, pag. 128),» è ammesso immediatamente; i suoi capi espongono la loro determinazione di scuotere

98 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

Ricevuto il dispaccio con che la Giunta si ritraeva dalla scena, parve acconcio al Pallavicino di arringare le truppe schierate. Fu ventura che per case il colonnello Da-Vico alle prime parole (1) divergesse ad altro l'attenzione dei soldati. Singolare disposizione della Provvidenza che il marchese Giuseppe Pallavicino avesse ad andare forse debitore della vita a quello stesso Da-Vico , il quale, già rientrato in condizione privata, non chiamato né astrettovi, giocava il suo avvenire, gli averi, la vita, schiavo della lealtà e dell'onore. Poi, steso un ridicolo ed imbarazzatissimo documento, con cui protestava di accettare il Governo anche a nome degli altri Ministri, ferma, a capo delle condizioni alle quali dichiarava di consentire a ripigliare il potere, la neutralità proclamata, si allontanava dalla Cittadella per raggiungere i colleghi che lo attendevano al palazzo del Ministero, percorrendo la non brevissima via dalla Cittadella al palazzo in compagnia del Draghi, già a tutti noto membro operosissimo del Comitato Nazionale e principalissimo stromento nella caduta del Governo Ducale; né allora, né poi valsero rimostranze e sollecitazioni perché il carico di Direttore della Polizia generale gli fosse tolto, e rimesso a persona più onesta e fedele.

In questo mezzo il colonnello Da-Vico aveva fatto rioccupare

» il giogo dei ribelli in nome del Duca Roberto. Il marchese li ascolta, ricorda loro gli obblighi dell'onore, e spiega loro che ciò, ch'essi hanno a sostenere, si è colla dinastia legittima l'attitudine di neutralità si saggiamente prescritta dalla Reggente.» Nello stesso momento strepito di tamburi odesi nella strada. Pallavicino se ne adombra, e si appresta ad uscire. Era il 2.° battaglione d'infanteria, accasermato in città, che si avviava alla Cittadella. E il marchese parte con tale accompagnamento.

(1) «Signori ufficiali e soldati!», diss'egli.» Prima che si avesse a rinnovare un giuramento di fedeltà alla bandiera, niun equivoco assolutamente sarebbe possibile. Senza ciò, la mia dignità, la dignità Regia, non permetterebbero ch'io riprendessi l'esercizio dell'autorità; senza ciò lascierei sopra le truppe la responsabilità di tutto quanto potesse accadere. Quest'atto esigerebbe dunque serie riflessioni, una sommissione intiera e assoluta.» Né poté più continuare. Un leggero mormorio aveva accolte le sue prime parole. L'idea che si volesse imporre loro, al disopra della stessa dinastia, l'obbligo di neutralità, non entrava nel capo de' soldati; e nella condizione d'animo in cui si trovavano volle fortuna pel Pallavicino che non gli fosse dato addentrarsi alla loro presenza nell'argomento.

UN ROVESCIO A PARMA. 99

dalle truppe i soliti appostamenti in città, e spediti sicuri messi alle altre milizie nello Stato, loro annunziando l'avvenuta restaurazione della Reggenza ducale. Il Municipio, le magistrature, le autorità costituite, tutto quanto Parma contava di più elevato per nascita, per posizione, per intelligenza, ogni ordine di persone, si erano affrettati di associarsi alla vittoria, e far ressa intorno ai perplessi membri della cessata Commissione di Governo. Quando a Dio piacque, fu pubblicata una sciancata scrittura del Ministero, con cui mollemente, quasi vergognoso di sé, facea noto che ripigliava il reggimento del paese per usarne alla conservazione della quiete e sicurezza pubblica in nome del Duca Roberto (1). Quelle parole taluni interpretarono come se suonassero: «Questo Roberto nuovamente v'imposero le baionette. Il nome suo si accetti frattanto ad orpello, per conservare la quiete e la pubblica sicurezza.» Corse voce a quel tempo e fu ripetuta dappoi, che gli uomini della rivoluzione si adoperassero alacremente perché nella sera stessa del 3 maggio si avesse a disfare il fatto dalle truppe nel mattino. Che qualche cosa macchinassero ed attendessero, è certo. In tutto quel dì, e fino a tarda ora della notte, specialmente Pallavicino insistette con singolare pertinacia nell'affermare, non essere saggio che la Duchessa avesse a tornare. I Membri della Giunta ribelle e gli ufficiali che aveano mancato alla fede giurata (1), fuggiti da Parma nella mattina del 3, stettero nelle vicinanze sino all'alba del 4,

(1) Quella notificazione suonava:

«I sottoscritti che nella sera del dì 1.° maggio corrente, cedendo alla forza prevalente, dovettero cessare dagl'incarichi di Commissione di Governo loro affidati da S. A. R. l'Augusta Reggente con atto di quello stesso giorno, informati ora come, per intimazione delle Reali Truppe protestantisi ferme nell'ubbidienza al Reale Governo, la Giunta provvisoria, ch'erasi eretta, abbia rinunciato ad ogni esercizio di potere; e chiamati dalle pressanti istanze delle autorità costituite, dalla deliberazione unanime del Municipio, da gran numero di altri notabili della città, e per più special modo dalle fedeli milizie, dichiarano alla buona popolazione di Parma, alle Truppe Reali ed a tutto lo Stato, ohe riprendono l'esercizio dei loro poteri per usarne alla conservazione della quiete e sicurezza pubblica, ed al reggimento del paese in nome di S. A. R. il Duca Roberto I.

» Parma, 3 maggio 1859.

Sottoscritti:» B. Salati, G. Pallavicino, A. Lombardini.» (2) I sei ufficiali che avevano avuto parte nella cospirazione: Bucci,

100 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

solamente allora pigliando definitivamente la via pel Piemonte. I fili telegrafici non mai spezzati in niun luogo, avrebbero potuto già dalle 9 del mattino del 3 partecipare a Mantova, dove si trovava la Duchessa, la restaurazione del suo potere; nullameno soltanto alle 10 e 38 minuti della notte fu consegnato all'Ufficio telegrafico in Parma il dispaccio, diretto al Delegato austriaco per la provincia di Mantova, con cui Pallavicino le faceva dare la prima notizia del fatto. Il giorno 4, lasciativi i figliuoli, la Duchessa Luisa abbandonava Mantova. Il suo ritorno in Parma è annunziato per le sei della sera; ma appena tocco il territorio dello Stato, le festive accoglienze delle popolazioni, e delle truppe scaglionate lungo la via, ritardano il suo cammino. Questo ritardo cagiona nella capitale una emozione a gran fatica contenuta. Erano otto ore; l'inquietudine si propaga, gli animi sentono il timore che ostacoli impreveduti non siano sopraggiunti. I soldati s'affliggono, poi s'irritano. Il sospetto comincia a serpeggiare nel loro animo. Già essi dicono: «Ci avrebbero ingannati? Ci avrebbero falsamente annunziato un ritorno che si è forse attraversato?» Le incertezze mal celate, le parole a doppio senso del Pallavicino, ritornano alla loro memoria; ed il suo nome si mescola con sempre maggiore frequenza nelle mormorazioni sinistre. L'autorità degli ufficiali sembra sul punto di essere disconosciuta. Invano per rassicurare l'ansietà dei soldati, gli ufficiali offrono di rimanere in ostaggio ed alla loro discrezione, se i dubbii si realizzassero. Quando un ufficiale grida: «Andiamo a domandare alla Madonna il» pronto arrivo della nostra Reggente!» I soldati accorrono alla

Briccoli, Calcagnine Gandolfl Gaetano, capitano dei Cacciatori, Onesti barone Augusto, tenente, e Majavacca conte Francesco, sottotenente dei Cacciatori, vennero, in seguito di determinazione del Ministero presa ad onta del parere contrario del marchese Pallavicino, destituiti dal loro grado ed espulsi dal militare, col divieto di rientrare nello Stato. Il Bucci, che presentatosi in Cittadella intorno alle otto del mattino del 3, vi era stato posto agii arresti d'ordine del colonnello Da-Vico , non ostante quella determinazione ministeriale, si continuò a detenere per volontà espressa del Ministro Pallavicino. Narra Riancey (pag. 138), che «nella loro indegnazione i soldati spinsero il capitano Bucci, la baionetta alle reni, nelle prigioni della Cittadella.» L'argomento parve troppo convincente per non osare di cavarlo di là.

UN ROVESCIO A PARMA. 101

cappella della Cittadella. un'altra ora stava per trascorrere, allorché un'immensa acclamazione s'eleva. Era la Duchessa che discendeva di carrozza alla porta della Cittadella.

In un istante le truppe si riordinano in battaglioni; i ranghi si schiudono, e la principessa passa in mezzo d'ogni compagnia. La disciplina dura fatica ad infrenare l'ardore dell'entusiasmo. La prima visita della sovrana era stata a queste milizie, mantenutesi così leali in momento in cui tradire si diceva un merito; la prima preghiera della madre era un atto di gratitudine a Dio. La cappella s'illumina, e le benedizioni della religione consacrano la vittoria della giustizia e del buon diritto. All'uscire della cappella l'allegrezza non ha più freno. I soldati rompono i ranghi; ad essi l'onore di trascinare la carrozza reale sino alla prima via della città. Colà l'ascendente della Duchessa ottiene a mala pena che si lasciassero riattaccare i cavalli. Mille fiammelle illuminano le strade. Un immenso corteggio si forma ed accompagna la ben venuta. Dopo il trionfo militare l'ovazione popolare, non meno splendida, non meno sincera. Fu la più dolce, la più meritata ricompensa di tutta una vita di devozione, di virtù, di amore. Il giorno appresso, Luisa di Borbone proclamava. «Qui mi fermo coraggiosa e fidente nella lealtà delle truppe e della popolazione, in quell'attitudine dì aspettativa ch'è per noi di assoluta necessità, non potendo l'alta giustizia e civiltà delle Potenze belligeranti offendere chi non offende.» Un atto di energia aveva salvato il trono di Roberto I.; come un atto di energia avrebbe salvato il trono di Leopoldo II. (1). La famiglia del

(1) «Per mio conto», confessa il Curletti (Rivelazioni, § III., pag. 8),» sono convinto che bastava un colpo di facile per far abortire la cospirazione di Firenze, egualmente che quella di Parma.» Intorno alle cose di Parma sonvi però alcune inesattezze nello scritto del Curletti. Egli dice: «Ebbi l'ordine di condurmi immediatamente a Parma per dare aiuto al conte Cantelli. Prima di partire dovetti rinnovare il mio personale, di cui due terzi erano scomparsi. Ciò mi fu agevole; gli emigrati di Roma, di Milano e di Venezia mi fornirono gli elementi della nuova truppa. A Parma le cose andarono come a Firenze; non si spedì via la truppa, ma il generale Crotti prese il partito più semplice di consegnarla in Cittadella. Parma provò qualche sorpresa a vedere il conte Cantelli prendere una parte sì attiva all'espulsione della Duchessa. Benché non ai credesse punto alla sua conversione politica, si supponeva nondimeno che la riconoscenza

102 CAPITOLO DECIMOTTAVO.

l'ingegnere Garberini, uno dei componenti la dispersa Giunta rivoluzionaria, avendo nella notte del 3 al 4 avvertito il Comando delle truppe come in sua casa esistessero parecchie casse che si rinvennero contenere molti fucili con baionette e molti pacchi di cartuccia a palla; il Ministero, alle perentorie richieste di quel Comando, che s'intimasse la consegna delle armi esistenti nello Stato, commise al Draghi, rimasto al suo posto più. che mai saldo e incrollabile, di pubblicare una balorda notificazione, con cui s'invitava a consegnare al Municipio tutte le armi che si trovassero presso le famiglie della città di Parma, a meno che non vi fossero autorizzate da speciale permesso. Non essendo comminata nessunissima pena per chi mancasse di farlo, ognuno ne rise, e le armi rimasero ove si trovavano.

Dipinti alla Duchessa gli avvenimenti dal Pallavicino medesimo, parsegli salvatore principalissimo del trono; sicché nel 6 maggio ella scrivevagli ad attestazione della riconoscenza sovrana: «Non posso trovare parole per Lei, ma dico solo che è stata» un1 aggiunta non piccola alla mia felicità il vedere che è stato» Lei che co'miei soldati parmensi ha ristabilito l'ordine ed il» Governo di mio figlio.» II giorno prima, 5 maggio, ad un'ora pomeridiana, alla presenza del Ministro Lombardini e del Comandante delle truppe colonnello Da-Vico , Pallavicino aveva chiamate rivoluzionarie

» gì'imponesse una specie di momentanea neutralità. Si sa che nel 1848 il conte Cantelli fu uno de' principali mestatori della rivoluzione di Parma, in seguito della quale fu nominato sindaco. Dopo la ristaurazione del Duca di Borbone, il conte Cantelli fu condannato a morte; fu inoltre condannato alla restituzione d'una somma di 80, 000 franchi, cheera mancata. La Duchessa gli fé' grazia dell'una e dell'altra condanna. Dopo quest'epoca Cantelli aveva affettato di mostrarsi partigiano devoto alla casa regnante; s'è visto con quale disinvoltura seppe calpestare una molesta riconoscenza.» Curletti parla del conte Cantelli in modo che questi parrebbe il vero caporano della rivolta a Parma. Può essere; ma conviene aggiungere per amore di giustizia, non essere provato abbastanza da altre parti. Che sia stato uno de' primi a Parma nel dare il suo nome alla nascente Società Nazionale italiana, è certo. Che avesse avuto ingerenza nel predisporre e regolare la ribellione del maggio 1859, può darsi, quantunque pubblicamente non ne abbia presa alcuna. Cantelli non fu mai condannato a morte; soltanto i membri del Governo rivoluzionario del 1848 furono condannati a rimborsare insolidariamente certe somme. Le truppe non furono consegnate in Cittadella per ordine del generale Crotti, a quel tempo in istato di pensione, né richiamato a verun comando attivo.

UN ROVESCIO A PARMA. 103

e truppe che due giorni avanti richiamavano il loro legittimo principe. Pochi giorni più tardi, Da-Vico si ritirava dal comando, che fu in sua vece affidato al colonnello Perini, restandone Ispettore onorario il pensionato generale Crotti (1). La sola notizia della ristabilita autorità legittima in Parma bastò per far rientrare nel dovere le due città del Ducato, Pontremoli e Borgotaro, che più vicine al Piemonte, e più lontane dalla capitale, avevano aderito al movimento fazioso. Senza che fosse d'uopo adoperare la forza in niun luogo, senza nemmeno un'intimazione verbale, le insegne della rivolta disparvero, e spontaneamente le magistrature ripresero l'esercizio delle loro funzioni in nome della Reggente. Frattanto da que' giorni medesimi, Sir Scarlett, Ministro inglese, rivelava al suo Governo (1): «Quanto ebbe luogo a Parma non fu che una parte e particella (part and parcel) d'una cospirazione ordita dal Piemonte coll'aiuto del partito repubblicano, ed avente ramificazioni in tutte le città d'Italia, benché il successo di tale movimento sia limitato al presente alla Toscana ed ai Ducati. Risulta dalla Circolare firmata da Garibaldi, e che fu inviata a tutti i Comitati e Sottocomitati nelle città d'Italia, che, appena la guerra fosse divenuta certa, si doveva per quanto era possibile fare scoppiare l'insurrezione e proclamare immediatamente un Governo in nome del Re Vittorio Emanuele sotto un Commissario piemontese. Il piano fu preparato di lunga mano, e quanto fu eseguito qui a Firenze, tenuto in iscacco a Parma unicamente per la popolarità della Duchessa Reggente, non è che un anello nella catena d'una cospirazione stesa a traverso la Penisola, un'opera abilmente condotta dagli emissarii del Piemonte.»

(1)

Il colonnello Da-Vico, non credendo conciliabili colla sua coscienza misure che potevano riescire più tardi alla perfetta mina della legittimità in Parma, chiese ed ottenne di passare allo stato di pensione, recandosi nel Regno Lombardo-veneto. li generale Antonio Crotti, antico ufficiale del primo Impero francese, fatto da Napoleone III. Commendatore della Legione d'onore, dopo la crisi finale del giugno 1859 sulle due rive del Po, in seguito a vicende varie dalla destra sponda si trovò portato sulla sinistra.

(2)

Dispaccio a lord Malmesbury. - Firenze, 15 maggio 1859. - Further correspondence, pag. 75.

104

CAPITOLO DECIMONONO.

Gli Austriaci in Piemonte.

L'esercito sardo. - Prime mosse degli Austriaci al di là del Ticino. - I Francesi raggiungono i Sardi. - Combattimento di Montebello. - Gli Austriaci si ritirano dalla sponda destra della Sesia. - Concentramento de' Francesi sulla sinistra degli Austriaci. - Rapido movimento di conversione degli alleati sulla destra dell'avversario. - I Piemontesi varcano la Sesia. - Fatto d'arme di Palestre - Gli Austriaci ripassano il Ticino. - Un terno al lotto. - I Francesi occupano i passi superiori del Ticino. - Magenta e i suoi dintorni. - Primo attacco della Guardia imperiale francese e di MacMahon. - Una steeptvchase. - MacMahon da indietro. - Contrattacco degli Austriaci sulla linea del Ticino. - La Guardia imperiale sta per soccombere quando accorre a soccorrerla la Brigata Picard. - Critica situazione dell'Imperatore de' Francesi. - MacMahon torna all'attacco. - Eroica difesa degli Austriaci nel villaggio di Magenta. - Gli Austriaci abbandonano Magenta non inseguiti. - Gyulai ordina la ritirata generale dalla Lombardia.

E

d ora passiamo al teatro della guerra. Rottosi, col rifiuto della mediazione inglese da parte della Francia, l'ultimo debolissimo filo cui si attenevano, dopo presentato a Torino l'ultimatum, del Gabinetto di Vienna, le speranze di pace; ognuno dei due eserciti d'Austria e Sardegna vedeva naturalmente tracciata innanzi a sé la linea di condotta a seguire. I Piemontesi, molto inferiori di numero, dovevano riporre ogni studio nel tenersi quanto mai uniti ed interi, appoggiati alla più forte linea di difesa di cui potessero disporre, con tutta cura evitando qualunque serio combattimento, sinché i Francesi avessero potuto unirsi ad essi e contrabbilanciare almeno le forze; mentre gli Austriaci, irrompendo sul suolo sardo, avevano anzi tutto a rivolgere ogni loro sforzo onde raggiungere l'esercito piemontese, avvilupparlo colla rapidità delle mosse, sconfiggerlo prima che gli fosse dato congiungersi co' Francesi, per poi possibilmente battere questi alla spicciolata, quando i corpi provenienti da terra si fossero avviati per riunirsi a quelli disbarcati a Genova. Da questo punto di vista il ritardo di due giorni, dal 27 al 29, frapposto al passaggio del Ticino per parte degli Austriaci, era a tutto utile degli alleati,

GLI AUSTRIACI IN PIEMONTE. 105

in un momento in cui cinquant'ore di avvantaggio potevano ricscire di altissima rilevanza, ed erano preziosi i minuti.

L'esercito sardo contava al 29 aprile 55, 648 uomini, 3984 cavalli e 90 cannoni (1), ripartiti in cinque Divisioni ed una Divisione di cavalleria di riserva (1), sotto il comando supremo del Re. Sì scarsa forza militare nulla di meglio potendo imprendere che pigliare postura in cui per abbastanza lungo tempo le fosse dato attendere l'arrivo de' Francesi; questa posizione, già scelta in precedenza sino da quando i secreti patti al tempo del Congresso di Parigi tra Napoleone III. e Cavour ne avevano addimostrata più urgente la necessità, ed a quest'uopo più validamente afforzata, era già preparata dalla natura tra Alessandria e Casale dietro il Po ed il Tanaro, sui versanti orientali del paese montuoso che si stende tra codesti due fiumi. Sulla fronte del Po presenta un ostacolo considerevole; agevole a difendere il principale punto di passaggio presso a Valenza, per le alte ed erte ripe della sponda destra della vallata, che alla sinistra sponda comandano. Alessandria col Tanaro coprono il fianco destro, Casale col Po il fianco sinistro. Le fortificazioni delle due ale, capaci di ventimila uomini ciascuna, non erano bensì peranco condotte a termine; ma distanti non più che trenta chilometri tra loro, davano opportunità di trasportare in alcune ore da una posizione centrale presso Occimiano e San Salvatore le forze occorrenti sopra ogni punto minacciato. Così il nerbo della destra ala de' Sardi stava da principio ad Alessandria, da dove eransi spinti avanti alcuni posti sulla destra del Ticino e verso il Po sul confine di Parma; mentre Pala sinistra aveva presa posizione lungo la linea della Dora Baltea per coprire Torino.

Da parte austriaca passarono dapprima sul territorio piemontese, guidati dal generale di artiglieria conte Gyulai (3), 92, 420

(1)

Secondo l'Ordine di battaglia del 20 maggio 1859, annesso alla grande opera: Campagne de L'Empereur Napoléon III., 1859, rédigée au dépót de la guerre. Parti, 1862.

(2)

I. Divisione: Tenente-generale Castelborgo. - 2. Divisione: Ten. gen. Fanti. - 3. Divisione: Ten. gen. Durando. - 4. Divisione: Maggiore-generale Cialdini. - 5. Divisione: Magg. gen. Cucchiari. - Divisione di cavalleria di riserva: generale Sambuv.

(3)

In generale quasi tutti scrissero e scrivono Gyulai, coll'y in fine. È un errore.

106 CAPITOLO DECIMONONO.

uomini, 10, 051 cavalli e 352 cannoni (1). Le colonne principali varcarono il Ticino a Pavia, Bereguardo, Vigevano; una colonna secondaria inoltrava presso il Lago Maggiore, un'altra andava scorrendo da Piacenza il paese posto a mezzodì del Po. Al 30 aprile i loro posti avanzati stavano in parte in Vespolate sulla strada da Pavia per Mortara a Novara, colla fronte verso quest'ultima; in parte in Vercelli nelle vicinanze della Sesia, colla fronte verso quella città. Ovonque gli avamposti sardi ritiravansi verso la loro posizione principale a mezzodì del Po. Occupate Novara e Vercelli senza resistenza, dal 2 maggio Gyulai apprestavasi per passare sulla sponda destra del Po, trasferiva il suo quartiere-generale a Lomello sull'Agogna, faceva passare, sopra un ponte gettato presso Cornale, una Brigata, avanzatasi per Castelnuovo-Scrivia sino a Tortona, spingendo distaccamenti di fiancheggiatori sino a Sale e Vogherà. Ma ingrossatosi il Po nella notte dal 5 al 6, guasto il ponte di Cornale, si temette di perdere interamente la comunicazione tra le due sponde, e la Brigata fu richiamata sulla sponda sinistra.

Il Gyulai trasferì il suo quartiere-generale a Mortara, 18 a Vercelli. Il 9 il nerbo dell'esercito austriaco fu concentrato in San Germano sulla strada da Vercelli per Chivasso a Torino, e su quella da Vercelli ad Ivrea. L'estrema ala sinistra stava lungo il Po su tutte e due le sponde del Ticino, gettato un nuovo ponte a Vaccarizza presso Pavia. Da San Germano scorrerie eransi spinte sino a Livorno sulla strada di Torino, poi verso Ivrea e sino a Biella, quando i corpi furono richiamati a marcie forzate da San Germano a Vercelli, inviati tantosto in gran parte sulla sinistra della Sesia. Il 10 il quartiere-generale austriaco venne di nuovo trasferito a Mortara, e l'esercito principale riprese a un dipresso le sue antiche posizioni sulla sinistra della Sesia, tra questa, il Po ed il Ticino.

Intanto i Francesi avevano operata la loro congiunzione coi Sardi. Il 14 maggio l'Imperatore Napoleone, partito da Parigi il giorno 10, giungeva in Alessandria a pigliare

(1) Secondo l'Ordine di battaglia del 24 aprile 1859. (Mollinary; Studien uber die Operationen und Tactique der Franzosen im Feldzuge 1859 in Italien, pag. 5).

GLI AUSTRIACI IN PIEMONTE. 107

il supremo comando dell'esercito alleato, forte ormai di 266 battaglioni, 109 squadroni, 384 cannoni, 151, 389 uomini e 12, 942 cavalli (1). Il I., II. e III. Corpo francese formarono l'ala destra alla destra sponda del Tanaro; il IV. Corpo ed il Corpo della Guardia imperiale () costituirono con cinque Divisioni sarde l'ala sinistra sulla sinistra sponda di quel fiume. Il I. Corpo prese stanza da Vogherà a Sale; il II. a sinistra lungo il Tanaro; il III. in seconda linea sino a Tortona; il IV. tra Bassignana, Valenza e San Salvatore; il Corpo della Guardia imperiale intorno Alessandria; l'esercito piemontese, col quartiere-generale ad Occimiano, copriva il passaggio del Po a Casale ed il passaggio della Sesia a Vercelli. Per tal modo gli alleati formavano un grande semicerchio, da Vogherà a Vercelli, intorno agli Austriaci che stavano con cinque Corpi d'armata, il IL, III., V., VII. e Vili. (3), ed una Divisione di cavalleria tra la Sesia, il Po ed Ticino, e con un sesto Corpo, il IX., sulla sponda del Po presso Piacenza e Stradella (4).

Passato ormai per Gyulai il momento opportuno per una energica offensiva, nella impossibilità di conoscere sopra quali punti si sarebbero rivolti gli sforzi degli alleati, parvegli dover tentare di assicurarsene. La posizione presa da' Franco-sardi lungo la linea del Po accennava ad un passaggio di questo fiume, senza punto lasciare indovinare il luogo prescelto per farlo; potevano però tanto tentare di forzare il passaggio sulla fronte degli Austriaci, quanto prendere l'offensiva sulle loro ali. Il 17 maggio Baraguey d'Hillicrs, all'estrema ala destra, aveva spinto

(1) Campagne de l'Empereur Napoléon IIL, 1850, pag. 52.

(2)

Comandavano ai Corpi d'esercito francesi: al I. il maresciallo Baraguey d'Hilliere; al IL il generale di divisione MacMahon; al III. il maresciallo Canrobert; al IV. il generale di divisione Niel; alla Guardia imperiale il generale di divisione Regnaud de Saint-Jean-d'Angély.

(3)

Il II. Corpo era comandato dal tenente-maresciallo Odoardo Liechtenstein, il III. dal ten. mar. Schwarzenberg, il V. dal ten. mar. Stadion, il VII. dal ten. mar. Zobel, l'Vili, dal ten. mar. Benedek, il IX. dal generale di cavalleria Schaaffgoteche.

(4) Nell'opera sopraccitata, edita dal Governo francese, la forza di codesti Corpi viene precisata in 144 battaglioni, 51 squadroni, 596 cannoni, 131, 594 uomini e 15, 170 cavalli. Il generale Mollinary (Studien, pag. 9)osserva: «Questo stato è desunto dal secondo Ordine di battaglia del 4 giugno 1859, ma al 18 maggio ben era a mala pena raggiunto.»

108 CAPITOLO DECIMONONO.

da Vogherà e Medasino la Divisione del generale Forgy ad occupare i villaggi di Montebello e Casteggio sulla strada da Vogherà per Stradella a Piacenza. Questo movimento sembrando confermare quanto rapportavano al comandante austriaco, che gli alleati fossero nell'intenzione di fare con forze considerevoli un attacco contro Piacenza, Gyulai ordinò pel 20 una ricognizione sopra Montebello, sotto il comando del tenente-maresciallo Stadion.

Varcato il Po a Vaccarizza, all'alba del 20 tre Brigate del V. Corpo mossero nella direzione di Montebello; la Brigata principe d'Assia, all'estrema destra, inoltrandosi nella pianura per Verrua a Branduzzo e Calcababbio; alla sinistra di questa la Brigata Bils a Casatisma; la Brigata Gaal sopra Robecco. Nello stesso tempo il tenente-maresciallo Urban si diresse con due Brigate, Schaaffgotsche e Braum, sulla strada che da Broni per Casteggio va a Montebello. Oltrepassato Casteggio, Urban s'imbatteva in alquanta cavalleria piemontese, che diede indietro al di là di Montebello e di Genestrello. Più in avanti di Genestrello la lotta si impegnò vivacissima, prima con due battaglioni dell'84.° d'infanteria francese, poi col resto della Divisione Forev. Schaaffgotsche, attaccato da forze molto superiori, oppose valorosissima resistenza; ma girato già il loro fianco sinistro dall'inimico, 20 compagnie di Austriaci con due squadroni di ussari dovettero ritirarsi a fronte di 65 compagnie di fanti francesi e sei squadroni di cavalli sardi (1), abbandonare al terzo attacco la posizione di Genestrello. Nella ritirata un battaglione a destra si vide assalito da tutta la cavalleria piemontese, che respinse con gran valentia, facendole perdere moltissima gente e mortalmente ferito il colonnello Morelli. Questo movimento retrogrado di Schaaffgotsche obbligò anche Braum, che stava a destra colla sua Brigata, di dare addietro.

A Montebello la pugna si riappiccava con singolare accanimento nelle strade del villaggio, che i Francesi riescirono a circondare. Ogni casa è un ridotto da prendere, ostinatissima la difesa degli assaliti. Si combatte corpo a corpo, ed il bravo 3.° reggimento austriaco, Arciduca Carlo, adopera e calcio e baionetta quando l'avversario si avventurava di andargli troppo addosso.

(1) Mollinary; Studien, pag. 94.

GLI AUSTRIACI IN PIEMONTE. 109

Intanto rinforzi delle altre Divisioni del I. Corpo arrivavano successivamente a Forey, in ispecie a mezzo della ferrovia da Vogherà. Erano le sei del pomeriggio quando Stadion si decise finalmente a ripiegare sopra Casteggio. L'ultimo combattimento, egualmente disperato, ebbe luogo attorno al cimitero all'estremità di MoDtebello verso Casteggio; vi cadde estinto il francese generale Beuret, tolte e ritolte alla baionetta le mura del cimitero. Richiamate le Brigate principe d'Assia e Bils, Stadion raccolse in Casteggio tutte le sue truppe, che Forey non osò più attaccare.

Lo stesso giorno 20 Gyulai faceva sgomberare Vercelli e la sponda destra della Sesia. Dal momento che l'Imperatore dei Francesi aveva portato in avanti il suo esercito, ei si era veduto intorno gravissimi ostacoli, sia che si fosse diretto sopra Piacenza, di cui avrebbe abbisognato imprendere l'assedio, sia che di viva forza avesse eseguito il passaggio del Po a Valenza, sia infine che si fosse deciso a tentare uno sforzo contro l'ala destra degli Austriaci, solo modo, comunque pieno di perigli, di rendere inutili tutti i mezzi di difesa accumulati da essi dal lato di Pavia, di Stradella, di Piacenza e di Cremona. La posizione presa dal generale austriaco agli angoli del Po era eminentemente strategica (): oltre i molti vantaggi che assicurava alla difesa, i quali tatti si riassumono nella preservazione della zona di frontiera da Bereguardo all'Emilia contro un attacco dal lato di settentrione, essa creava all'esercito offensivo la situazione più falsa e pericolosa, e tale una situazione che in caso d'insuccesso sulla linea del Ticino superiore esso correva rischio di essere annichilato, ed in caso di successo ottenuto con una battaglia, o senza colpo ferire, la forza della difesa non era per ciò essenzialmente scemata. In breve, vittorioso o vinto sulla linea dell'ovest, l'esercito offensivo non aveva sensibilmente progredito nel suo compito di conquistare il Lombardo-veneto, ed il nemico conservava presso a poco tutti i suoi vantaggi per rintuzzare un attacco ulteriore. Radicatosi una volta in quella sua posizione l'esercito austriaco, non era lasciata a Napoleone la scelta della sua propria linea d'operazione, ed ei si trovava a fronte di difficoltà d'offensiva capaci di sconcertare il generale più consumato nella scienza strategica.

(1) F. de la Fruston; La Guerre d'Italie en 1859.

110 CAPITOLO DECIMONONO,

Dopo che Gyulai aveva trasferito nel 19 maggio il suo quartiere-generale a Garlasco, il ritiro della sua estrema destra da Vercelli sembrava indicare che tutte le sue disposizioni accennassero l'intenzione di operare ora con energia sulla destra del Po e la ricognizione di Stadion, ch'era riescita al combattimento di Montebello, pareva essere soltanto il preliminare di tale progetto. Così stando le cose, è chiaro quanto dovesse importare all'Imperatore Napoleone di lasciar credere a Gyulai che i serii movimenti dell'esercito alleato si portassero sempre verso la direzione di Piacenza, com'egli sospettava, affinché continuasse a concentrare le sue forze tra Mortara, Pavia e Stradella. Se questo si fosse conseguito, gli alleati potrebbero, passato il Po a Gasale e la Sesia a Vercelli, con un rapido movimento sulla loro sinistra marciare sopra No vara, oltrepassare il fianco destro dell'inimico e shoccare in Lombardia.

Napoleone apprende che gli Austriaci hanno ripreso posizione a Stradella, di dove, dopo l'affare di Montebello, s'erano per un istante allontanati. Questo movimento lo decide, e colla maggiore segretezza dispone l'occorrente per porre ad esecuzione un piano, il cui successo riposa soprattutto nella credenza in cui deve rimanere l'avversario che i Franco-sardi cerchino di portare tutti i loro sforzi sopra una direzione affatto opposta. Niuno nell'esercito conosce il vero scopo delle mosse ch'egli va ad ordinare. Per conservare gli Austriaci nel pensiero che gli alleati intendevano di minacciare seriamente la linea da Pavia a Piacenza, ingiunse tosto a Baraguey-d'Hilliers di trasportare il suo quartiere-generale a Montebello, occupare Casteggio, spingere gli avamposti sino a Casatisma e Pizzale, e concentrare tutto il I. Corpo entro un raggio di trecento metri; a MacMahon di riunire il II. Corpo a Vogherà; a Canrobert di lasciare Tortona e inoltrare sino a Castelnuovo Scrivia e Casei. Niel, fra Valenza e Bassignana, colla fronte verso il Po, formava l'ala sinistra, sostenuta dalla Guardia imperiale presso Alessandria; mentre i Sardi coprivano da soli la linea da Valenza a Vercelli. Fortificazioni di campagna furono innalzate sulle alture a destra di Casteggio; un servigio di telegrafi volanti è organizzato al grande-quartiere-generale, ad oggetto di stabilire rapidamente linee telegrafiche sul di dietro dell'esercito. All'alba del 27 MacMahon simula di voler

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gettare un ponte sul Po presso Cervesina nella direzione di Pavia. Questo movimento di conversione, questo concentramento di tutte le forze francesi sul fianco sinistro dell'inimico da Valenza a Casteggio, tutte queste disposizioni verso Pavia e verso Piacenza, parevano veramente indicare un'intenzione ben definita in quella direzione. Così degli Austriaci trovavansi: Benedek presso Piacenza, Schaaffgotsche presso Pavia, Liechtenstein sull'Agogna, Stadion e Schwarzenberg fra San Nazzaro e Candia, Zobel all'estrema destra colla fronte verso Vercelli.

La mossa intrapresa da Garibaldi coi Cacciatori delle Alpi da Gattinara a Borgomanero, nel 22 maggio ad Arona, e dal 23 in Lombardia a Sesto Calende e Varese, sembrava essa medesima più che altro una dimostrazione destinata allo scopo di facilitare le operazioni della forza principale degli alleati sulle sponde del Po, deviando l'attenzione degli Austriaci da questo fiume verso le Alpi. D'altronde, non era per fermo minimamente da presumersi che i Franco-sardi avessero, sul principio delle loro operazioni, da allontanarsi di troppo dal Po. Presa una volta che avessero la risoluzione per l'offensiva, non pareva probabile che fissassero la direzione per cui le operazioni dovevansi intraprendere, con scegliere tra le direzioni possibili quella sulla sinistra più vicino alle Alpi, per la quale in caso propizio vi era il meno a guadagnare, non potendosi impedire agli Austriaci la ritirata verso la loro base naturale, sul Po e sul quadrilatero; ed in caso avverso il più era a perdere, rinunziando alla possibilità di ritirarsi sopra la base più naturale pegli alleati. Laddove certa cosa è che, vincendo, potevano rendere la vittoria sommamente decisiva, con rincacciare gli Austriaci lungi dal Po e respingerli alle Alpi; perdendo, i Franco-sardi non abbandonavano la linea di ritirata sul loro sistema fortificato.

D'improvviso tutto l'esercito francese opera un rapido movimento di conversione a sinistra sopra Vercelli e Novara. Nella notte dal 27 al 28 alcune Divisioni cominciano ad eseguire mosse preparatorie. 1128 tutta Tarmata è in cammino. Il IV. Corpo, ch'era più in addietro degli altri, divenne testa di colonna. La guardia imperiale da Alessandria lo segue; a questa tien dietro il III., al III. il IL, al II. il I. Le ferrovie da Vogherà e Tortona per Alessandria e Valenza a Casale e Vercelli trasportano senza posa

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quanto più possono d'infanterie, mentre cavallerie ed artiglierie seguivano a marcie forzate. Il 29 il movimento continuava. Intanto tutto l'esercito sardo, meno la 5. Divisione, Cucchiari, lasciata alla difesa della riva destra del Po a Casale, si concentrò presso Vercelli per varcare la Sesia sui ponti a quest'uopo apprestativi.

Il 30 i Sardi imprendevano da Vercelli un attacco generale sulla sinistra della Sesia contro la fronte dell'estrema ala destra degli Austriaci, formata dalla Divisione Lilia del VII. Corpo; della quale la Brigata Weigl stava ripartita tra Casalino, Confienza, Vinzaglio e Palestro, e l'altra Brigata sotto il comando del generale Dondorf era giunta allora a Robbio. Castelborgo ebbe ordine di muovere sopra Casalino, Fanti sopra Confienza e poi sopra Vinzaglio, Durando sopra Vinzaglio e poi sopra Palestro, Cialdini sopra Palestro. La Brigata Weigl, dispersa e sminuzzata sopra larga estensione di territorio, resisté strenuamente; ma assalita da otto Brigate ad un tempo, dovette cedere alla troppo grande sproporzione delle forze, al più 4300 uomini contro per lo meno 40, 000 (1), e ripiegare sopra Robbio. Il giorno appresso, Zobel,

(1) È noto che i Piemontesi appellarono quel combattimento la battaglia di Palestro, e Re Vittorio Emanuele in un'ampollosa proclamazione alle truppe ne parlò in modo da lasciar credere al mondo che fosse stata per lo meno d'importanza eguale a quella di Novara del 1849. Così per abbastanza lungo tempo la vittoria di Palestro parve condegna rivincita della sconfitta di dieci anni prima. Quando però anche sui fatti di guerra la luce potè cominciare a dar fuori, quella vittoria, per conseguire la quale 72 battaglioni sardi erano in marcia contro la Brigata Weigl, rientrò nei ben più modesti e più veri suoi limiti; sicché il Regio Corpo di Stato Maggiore di Prussia, nell'autorevolissima ed assai imparziale opera: La campagne d'Italie en 1859 (edizione autentica francese, pag. 61) scrisse: «Gli Austriaci possono essere contenti della bella pittura del combattimento di Palestro del 30 maggio, pennelleggiata da Bazancourt, con questa sola rettificazione che quel giorno quattro Divisioni sarde hanno combattuto contro una Brigata austriaca.» (Vedi pure la Oesterreichische Militàrische Zeitschrtft del 1863, fasc. III).

La battaglia di Palestro consistette in due combattimenti, l'uno a Palestro, l'altro a Vinzaglio. A Palestro stavano sei compagnie d'infanteria austriaca con due cannoni. Sorpresi da 18 battaglioni, 4 squadroni, 16 cannoni, Divisione Cialdini, fu solamente dopo parecchie ore che i Piemontesi, guidati dallo stesso Re Vittorio Emanuele, riuscirono a penetrare nel villaggio, difeso con mirabile costanza palmo a palmo il terreno.

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rinforzata la Divisione Lilia con una seconda del II. Corpo, tentò bensì riconquistare Palestro e Confienza; ma già, il mattino di quel medesimo giorno 31, tutto il III. Corpo francese varcava la Sesia a Palestro stesso, e la sproporzione del numero astrinse un9 altra volta a desistere. Quel movimento offensivo, intrapreso ad un tempo sopra punti l'uno dall'altro notevolmente distanti, per istrado tortuose, attraverso un vero labirinto di canali, di fosse, di filari d'alberi, di messi, era appena a sperare non avesse a finire in un disastro; e l'ultimo attacco di Zobel sopra Palestro con quattro battaglioni contro ventuno battaglioni sardi e francesi, per quanto puro impetuoso, non poteva riescire.

La sera di quel medesimo dì Niel giunse a Cameriano fra Novara e Vercelli, MacMahon e la Guardia imperiale intorno Vercelli, ove Napoleone aveva trasferito dal giorno prima il suo quartiere-generale. Baraguey-d'Hilliers si spinse sopra Casale, lasciato a Valenza un solo reggimento coll'incarico di mostrarsi sopra differenti punti, strepitare il più che potesse, a fine di far credere agli Austriaci che vi stessero forze considerevoli. In quattro giorni il grosso dell'esercito francese dal fianco sinistro dell'inimico con lunga aggirata era già passato felicemente alla sua estrema ala destra, che aveva anzi oltrepassata, stando ormai a breve distanza dal Ticino. Gyulai, occupato nelle dimostrazioni offensive dei Sardi al di là di Robbio, che si potevano pensare dirette a divergere la sua attenzione del lato di Pavia e di Stradella, sino al mattino del primo giugno ignorò affatto tutto il movimento dei Francesi, solo alle tre antimeridiane di quel giorno Zobel avendo ricevuto da' suoi posti avanzati l'annunzio che grandi masse francesi inoltravano da Vercelli a Novara.

In quel momento il generale Weigl giungeva da Robbio con un soccorso di quattro compagnie e quattro cannoni; ma con sì scarsi mezzi non poteva che coprire la ritirata. A Vinzaprlio il colonnello Fleischhacker con tre compagnie di fanti e due cannoni si trovò avviluppato da 18 battaglioni, 2 squadroni, 12 cannoni, della Divisione Durando; nullameno tenne testa un'ora e mezzo, causando ai Sardi la perdita ufficialmente confessata di 7 ufficiali e 167 uomini morti o feriti. Costretto a ripiegarsi sopra Palestro, Fleischhacker si trovò a fronte della Divisione Cialdini; circondato da tutte parti, tentò salvarsi sopra Robbio, ma dovendo passare a guado fosse larghe e profonde, ebbe a lasciarvi i suoi due cannoni e molti prigionieri. In tali condizioni, la battaglia di Palestro per verità sarebbe a ricordarsi più ad onore del vinto che del vincitore.

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Quello stesso giorno, 1.° giugno, il I. Corpo d'armata austriaco, guidato dal tenente-maresciallo Clam-Gallas, trasportato nel l'ultima decina di maggio per mezzo della ferrovia dalla Boemia attraverso la Baviera dalla Germania nel Tirolo, poi, valicato il Brenner, di nuovo sulla ferrovia per Verona, giungeva colle sue prime colonne da Milano a Magenta sul Ticino. Intanto Niel entrava in No vara, preso cui era seguito da MacMahon. Napoleone vi trasportò il suo quartiere-generale, e nel mattino del 2 fu raggiunto dalla Guardia imperiale, che veniva a prendere posizione dietro i Corpi di Niel e di MacMahon. Nello stesso tempo Gyulai spediva a tutti i Corpi ch'erano rimasti sulla destra del Ticino l'ordine di portarsi sulla sponda sinistra. Dalla sera del 2 al mattino del 3 ripassarono il confine presso Vigevano il II., il VII. ed il III. Corpo, il V. a Bereguardo. Contemporaneamente il IX. Corpo dalle vicinanze di Pavia fu fatto concentrare da quella parte, ed al Corpo di Benedek si commise di portarsi da Piacenza verso settentrione.

Così nella sera del 3 l'esercito austriaco si trovò disperso sopra estesissima linea lungo il corso del Ticino e del Po, colla fronte verso il fiume: all'estrema destra Clam-Gallas a Magenta con ordine di custodire i varchi del Ticino avanti Magenta e quelli nella parte superiore sino al di là di Turbigo, e con una colonna a Castano; a settentrione di Castano, nei contorni di Gallarate, Urban colla Divisione di riserva, che alla notizia dell'arrivo dei Francesi in Novara, abbandonato Garibaldi, erasi ritirato tosto da Varese; a sinistra di Clam-Gallas, Liechtenstein, presso Magenta sul Naviglio grande; in dietro di Clam-Gallas e Liechtenstein in seconda linea, Zobel fra Corbetta e Castelletto-Mendosio a levante di Àbbiategrasso; Schwarzenberg intorno Abbiategrasso; Stadion fra Falla vecchia e Bereguardo; Benedek, in seconda linea, dietro la sinistra di Stadion, sulla strada da Pavia a Binasco; Schaaffgotsche nelle vicinanze di Pavia, formante l'estrema ala sinistra.

Per tal modo chiudevasi quella prima fase singolarissima della guerra, nella quale, partendo dal principio che il solo oggetto ragionevole di un attacco strategico sia l'esercito nemico, si era veduto io spettacolo di eserciti, che, per questo o quel motivo, parevano piuttosto cercarsi dov'ei non erano; comunque i primi movimenti degli Austriaci non permettano punto di dubitare che

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nella realtà erano diretti contro il grosso dell'armata sarda (1). L'Imperatore de' Francesi eziandio aveva commessi sbagli, abbenché gli fosse arrisa la sorte di non subirne guari la pena. In generale, non si suole guardare tanto per lo sottile quando il successo sia venuto a coronare l'intrapresa, ed in cose di guerra torcesi più volentieri lo sguardo dai falli del vincitore, fosse pure per aggravare gli errori veri del vinto. Così allorché Napoleone, impeciatosi in una manovra sempre pericolosissima, quale è una generale marcia di fianco sulla fronte dell'inimico, teneva l'esercito alleato spartito in due grandi agglomerazioni, l'una intorno a Novara colla fronte più verso il Ticino, l'altra inferiormente colla fronte verso Mortara, disgiunte da notevole distanza e separate dall'Agogna; se l'avversario, rapidamente passando da difensiva ad offensiva, avesse nel mattino del 2 giugno spinto sotto Novara il I., II., III. e VII. Corpo e la Divisione Urban, se alla sinistra ala degli Austriaci fosse riescito di trattenere la destra degli alleati intorno Palestro, Napoleone, che per fermo non avrebbe potuto contrapporre alla destra degli Austriaci se non forze notevolmente inferiori di numero, poteva benissimo senza il concorso di circostanze per nulla assolutamente straordinarie, anzi con tutte quelle probabilità almeno che possonsi ammettere in guerra, vedersi gettato alle falde delle Alpi verso la Svizzera. Cieca è la fortuna delle armi, e più di buon grado arride propizia a chi sa osare e scegliere la miglior ora per farlo.

Vedemmo come al 2 giugno era tntt'altro che compiuto il concentramento degli alleati presso Novara; dal che l'impossibilità, in cui si trovavano a quel momento, di spingersi più innanzi verso il Ticino. Per Napoleone però essendo cosa di altissima rilevanza l'impossessarsi de' passaggi di quel fiume, inviò nel mattino dello stesso giorno 2 la Divisione Espinasse per Trecate a San Martino, e la Divisione dei volteggiatori della Guardia sotto il generale Camou per Galiate a Turbigo. Giacciono Trecate e San Martino sulla via che da Novara per Magenta fa capo a Milano, Galiate e Turbigo lungo quella che da Novara conduce a Castano. Stando Turbigo sulla sinistra del Ticino, e San Martino, quantunque sulla destra, a capo del ponte sul fiume, egli pensava,

(1) Il primo movimento, che l'esercito austriaco fece in avanti, fu diretto dritto contro la fronte della posizione sarda.

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che sarebbero entrambi luoghi fortemente occupati dagli Austriaci, e pertinacemente difesi. Verso sera Camou era al Porto di Turbigo sul Ticino; guarda di qua, guarda di là, non una vedetta, non un appostamento. Un duecento francesi passarono il fiume sopra battelli; la comunicazione fra le due sponde fu rapidamente stabilita mediante il parco di pontoni, che si avean tratto dietro. A due ore del mattino del 3 Camou faceva occupare il villaggio stesso di Turbigo, lasciato egualmente del tutto sguernito.

Nella stessa ora Espinasse da Trecate mosse per San Martino, verso la quale direzione i Francesi avevano udito, in sulle cinque ore del pomeriggio del 2, un'assai forte detonazione. Era questa partita dal ponte che da San Martino guida a Magenta, ed ha nome di Buffalora. Gli Austriaci, abbandonati con somma precipitazione, senza che gli avversarii se ne sapessero guari spiegare il perché (1), i trincieramenti eretti alla testa di ponte sulla riva destra a San Martino, avevano voluto far saltare il ponte di pietra che attraversa il fiume in quel luogo. L'effetto delle mine tuttavia non fu compiuto, e i due archi del solidissimo ponte che si eran proposti di rompere, essendosi soltanto abbassati su loro medesimi senza crollare, i Francesi poterono passarvi sopra più tardi senza il minimo inconveniente. Per tal modo, senza colpo ferire, Napoleone si vedeva padrone di entrambe le sponde del fiume, schiusi i primi varchi per la via a Milano.

Chi da San Martino pongasi in cammino per Magenta, oltrepassato il Ticino sul ponte di Buffalora (2), trova due vie. L'una, a settentrione, è la strada postale; l'altra, più a mezzodì, è l'argine della ferrovia, a que'dì non munito di guide. D'ambi i lati delle due strade stanno prati facilmente percorrigli in tempo asciutto, vere pozzanghere in ogni altra stagione. Un quattromila passi più avanti il terreno s'innalza cinquanta a sessanta piedi dalla superficie dell'acqua del Ticino. Pressoché parallelo al margine di questo rialzo scorre un canale, racchiuso fra ripidi

(1)

Gyulai nel suo Rapporto all'Imperatore sulla battaglia di Magenta, del 6 giugno 1859, dichiara che quella testa di ponte era stata «data giorni prima da quel tenente-maresciallo conte Clam per non suscettiva di difesa.»

(2)

II ponte sul Ticino, presso San Martino, appellano Ponte di Bufalora; ma non è da confondersi col ponte che a Buffalora unisce le due sponde del Naviglio grande.

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argini, che più in su di Turbigo staccatosi dal Ticino, prosegue verso Abbiategrasso, e chiamano Naviglio grande. Tre ponti lo attraversano rimpetto a Magenta: Ponte vecchio di Magenta a mezzodì; più in su il ponte della ferrovia; e poco discosto da questo, più a settentrione, Ponte nuoto di Magenta, sulla strada postale. Ancor più al nord un quarto ponte incontrasi a Buffatore, villaggio a cavallo del Naviglio grande ed intorno a duemila passi da Ponte nuovo di Magenta. Oltrepassato il Naviglio grande, a tremila duecento passi circa dal ponte della ferrovia sul Naviglio, trovi Magenta, a cui vengono a far capo le strade che si dipartono da' quattro ponti or menzionati; distrutti i quali e quello di Semate, alquanto più io su di Buffalora, poche truppe abbisognano per la difesa della linea del Naviglio grande, incassato da Buffalora in giù a notevole profondità Dell'alta pianura di cui raggiunge il livello presso a Bobecco (1). Or, giunto a Magenta, se di là ti rivolgi a guardare verso il Ticino, hai a destra o a settentrione, a tremila passi circa, Marcallo; più in su di Marcallo, a un novemila passi, In veruno; fra questo e il Ticino, Cuggiono, e più a settentrione Turbigo; poi a levante, a tremila passi, Corbetto; a mezzodì, poco più distante, Robecco sul Naviglio grande. Su questo terreno si doveva combattere quella battaglia da cui dipendevano il possesso della Lombardia e le sorti dell'Italia centrale. Alle 9 1/2 del mattino del 4 giugno una Brigata di granatieri della Guardia imperiale francese, sotto il comando del generale Wimpffen, giunse da Trecate a San Martino, passò il ponte senza che gli Austriaci vi si opponessero, e prese posizione sulla

(1) Il ponte di pietra al villaggio di Buffalora fa fatto balzare dagli Austriaci dopo mezzogiorno del 4, prima che cominciasse l'attacco della Divisione Mellinet dalla parte del Ticino Terso quel punto. Il ponte di pie tra sulla strada postale a Ponte nuovo di Magenta era minato, e doveva essere fatto saltare quando gli Austriaci fossero costretti ritirarsi dalla sponda destra del Naviglio; ma allorché si videro forzati a cedere all'attacco della Guardia imperiale, mancò il tempo di farlo. Sfuggì al colonnello Rustow Terrore di dire ( § Campo di battaglia di Magenta) che quel ponte era distratto. Come al ponte precedente avvenne lo stesso al ponte di ferro della ferrovia, che doveva essere reso inservibile; ritirandosi gli Austriaci dalla posizione a destra del canale, il ponte fu varcato alla rinfusa da amici e nemici, e rimase in mano de' Francesi. Il ponte a Ponte vecchio di Magenta fu dagli Austriaci fatto saltare intorno alle quattro dorante la battaglia.

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sponda sinistra presso la ferrovia e la strada postale, lentamente avanzando. Gli Austriaci fecero inoltrare da Ponte nuovo di Magenta alquanta artiglieria ed infanteria sparpagliata in bersaglieri. Uno scambio di cannonate s'impegnava da lontano senza alcun vero e preciso scopo. Gli Austriaci si ritirarono dietro il Naviglio grande, tostochè i Francesi gl'incalzarono un po' energicamente. Alle 11 Napoleone giungeva sul ponte di Buffalora con una seconda Brigata della Guardia, guidata dal generale Cler. Le sue disposizioni erano: che il Corpo d'armata di MacMahon, rinforzato dalla Divisione Camou e seguito da tutto l'esercito sardo, si portasse da Turbigo sopra Buffalora e Magenta; mentre le due Brigate Wimpffen e Cler si sarebbero impadronite del ponte di Buffalora, ed il Corpo del maresciallo Canrobert, giunto a Novara da Palestro nel giorno prima, si avanzerebbe per passare il Ticino al ponte stesso di Buffalora. Il IV. Corpo, Niel, doveva da Nor vara recarsi a Trecate (1).

(1) Parecchi scrittori furono d'opinione che la battaglia di Magenta sia figlia del caso. Anche lo StatoMaggiore di Prussia (Za Campagne d'Italie, pag. 77) scrive: «La battaglia di Magenta non è stata né preveduta né voluta dall'Imperatore Napoleone medesimo. Il 3.° Corpo, Canrobert, aveva la sua direzione sopra Turbigo. Non si pensava di dover essere obbligati a soccorrere la Divisione Meilinet. L'ordine di battaglia per la marcia lo prova completamente; poiché quando più tardi, contrariamente all'intenzione primitiva, il 3.° Corpo dovette adempiere questa missione, esso si trovò dietro il 4.°, e non poté partire da Novara che ad un'ora.» Intorno a ciò ci permettiamo una semplice osservazione. A chi si deve prestare maggior fede: agli Ordini di marcia impartiti da Napoleone per la mattina del 4 giugno, oppure ai raziocina di scrittori francesi che più tardi vennero in luce per iscusare gli sbagli commessi da Napoleone in quel d'Ordine generale di battaglia per la marcia, del 4 giugno 1859, riportato anche dal Bazancourt (La Campagne d'Italie, Vol. L, pag. 230), dice testualmente: «Le corps d'armée du general de MacMahon, renforcé de la division des voltigeurs de la garde imperiale et suivi de tonte l'armée du Roi de Sardaigne, se portera de Turbigo sur Buffalora et Magenta, tandis que la division des grenadiers de la garde s'emparera de la tète du pont de San Martino (ou Buffalora) sur. la rive gauche, et que le corps d'armée du maréchal Canrobert s'avancera sur la rive droite pour passer le Tessin au même point.» La relazione ufficiale sopra la battaglia di Magenta, data dal Grande-quartiere-generale, da San Martino il 5 giugno (Bazancourt, Vol. I., pag. 414415), e pubblicata dal Moniteur, ripete le stesse espressioni dell'Ordine generale di battaglia del giorno prima, ed aggiunge: «L'esecuzione di questo piano d'operazioni fu turbata da alcuni

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MacMahon aveva avuto ordine di muovere da Turbigo alle 9 del mattino. Tuttavolta nulla peranco udiva da quel lato, quantunque si avesse ragionevolmente a presumere che a quell'ora dovesse già essersi scontrato coll'inimico. Di Canrobert nessuna nuova. Napoleone, inquieto di codesto silenzio, ordina di cessare affatto il fuoco delle artiglierie, ed alla Brigata Wimpffen di retrocedere sino a cinquecento metri incirca in avanti del ponte di Buffalora, presso cui l'Imperatore resta impaziente. Poco dopo, anche il fuoco de' bersaglieri cessava del tutto. Intanto il tempo scorre, e da ogni parte tutto tace. Napoleone non sa che pensare. Spedisce in tutte le direzioni ufficiali in cerca di Canrobert e di Niel, coll'ordine al primo di affrettare la marcia quanto più può; al secondo, rimasto sulla via di Novara, di raggiungerlo al più presto. D'improvviso, scariche ripetute d'artiglieria rompono

» di quegl'incidenti, eh è d'uopo aspettarsi quando si fa la guerra. L'esercito del Re fu ritardato nel suo passaggio del fiume, e quando il Corpo del maresciallo Canrobert uscì da Novara per raggiungere l'Imperatore al ponte di Buffalora, questo corpo trovò la strada talmente ingombrata» che non poté giungere se non assai tardi sul Ticino.» È verissimo che il Corpo di Canrobert aveva, per ordini della mattina del 3, ricevuta la destinazione per Turbigo; ma sino dall'alba del 4, prima di muovere verso Magenta, molte ore prima che si trovasse a fronte degli Austriaci, Napoleone aveva mutata questa disposizione. Ciò è provato eziandio completamente, tanto dal fatto che l'ordine a Canrobert di marciare sopra San Martino fu dato da Novara, non dal ponte di Buffalora; quanto dall'altro fatto che Napoleone avendo, nel mattino del 4, spedito da Novara il comandante Schmitz latore d'una sua lettera a MacMahon, e coll'incarico di fermarsi a Galiate sulla strada fra Novara e Turbigo, onde sollecitare Vittorio Emanuele ad affrettare la sua marcia sopra quest'ultimo luogo, a causa che «le maréchal Canrobert ne se dirigerai point sur Turbigo et passerait le Tessin au pont de Buffalora,» lo Schmitz aveva veduto il Re e raggiunto MacMahon presso Robecchetto (Bazancourt, Vol. I., pag. 241-242) appena appena incominciata la sua mossa nella direzione di Magenta. Se dunque Napoleone sino dal primissimo mattino del 4 aveva dato la posta per quel dì in Magenta alle due Divisioni d'infanteria della Guardia imperiale, ai Corpi di MacMahon e Canrobert, ed a tutto l'esercito sardo, in totale ad almeno 90, 000 uomini, parrebbe piuttosto ch'ei s'attendesse ad una energica resistenza, la quale sperava di superare con grandi masse di truppe. A quel tempo ancora fu detto, forse per malevoglienza, e si lesse in qualche giornale, che l'Imperatore de' Francesi, prevedendo pel giorno 4 una battaglia intorno a Magenta, abbia postato i Sardi in seconda linea a Galiate, onde poter egli calcare il suolo lombardo prima di Vittorio Emanuele.

120 CAPITOLO DECIMONONO.

quella calma solenne, e dense nubi di fumo veggonsi sollevarsi fra mezzo agli alberi al di là del villaggio di Buffalora, sulla destra riva dei Naviglio. Era MacMahon che inoltrava.

L'Imperatore de' Francesi, quantunque non avesse con aè che una sola Divisione, un 7000 uomini al più, ordinò un attacco vigoroso sulla fronte della posizione austriaca. Spinse a sinistra un reggimento sopra Buffalora, un altro a destra sopra Ponte vecchio di Magenta, al centro una terza colonna sopra Ponte nuovo di Magenta. Il villaggio di Buffalora, Ponte nuovo ed il ponte sulla ferrovia, difesi con grande valore, caddero alfine in potere degli assalitori. Era intorno alle tre. Pochi momenti appresso, il cannone di MacMahon al di là di Buffalora taceva ad un tratto. Napoleone non sa come rendersene ragione. Dalla bassa posizione in cui egli si trovava sull'argine della ferrovia innanzi San Martino, non poteva, ben s'intende, dominare collo sguardo il campo di battaglia. Ad accrescere le sue angustie vede i soldati della Guardia che si erano impadroniti di Ponte nuovo di Magenta, con impeto sconsiderato avanzare verso il borgo stesso di Magenta lungo la ferrovia e fra i vigneti d'ambo i lati di essa. Tutto quanto egli aveva sotto la mano in riserve consisteva in un reggimento di granatieri e pochi cacciatori a cavallo della Guardia, che spinse innanzi a gran corsa. Verun rinforzo sopraggiugnevagli da niuna parte, e solamente era venuto a conoscere che corpi francesi diretti da Novara a San Martino eransi incrociati coi Sardi avviati a Turbigo (); che del Corpo di Canrobert la sola Brigata Picard, la quale doveva precedere, aveva lasciato Novara verso nove ore del mattino; e che il resto del Corpo di questo maresciallo solamente verso un'ora dopo il meriggio poteva partire da Novara.

Ma che ne era addivenuto di MacMahon? Partito da Novara

(1) Dopo che l'esercito sardo ricevette ordine, pel mattino del 8, di recarsi ad accampare a Galiate, le sole Divisioni Fanti e Durando poterono pervenirvi la sera di quel di. Tutto il resto, inceppato nella marcia dall'ingombro delle strade, dovette attendere il di seguente. Il 4, ad onta della breve distanza da Galiate a Turbigo, la Divisione Fanti, messasi prima in movimento, non poté passare il Ticino che verso mezzogiorno, e solamente la sua avanguardia, composta del 9.° battaglione di bersaglieri con quattro cannoni, giunse Botto Magenta all'ultimo istante dell'attacco di MacMahon, quando già il sole stava per tramontare.

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con tutto il suo Corpo nel mattino del 3, si aveva impadronito nel pomeriggio di Robecchetto, di là del Naviglio grande sulla strada che da Turbigo per Cuggiono va a Magenta. A dieci ore del mattino del 4 erasi posto in cammino verso Magenta, in due colonne: quella di destra, guidata da lui medesimo, si diresse da Robecchetto per Cuggiono al villaggio di Buffalora; quella di sinistra, sotto il comando del generale Espinasse, per Inveruno e Marcallo, occupato dagli Austriaci, a Magenta. La colonna di destra, di forza più che doppia di quella della colonna di sinistra, aveva per compito d'impossessarsi di Buffalora e della destra del Naviglio grande, onde congiungersi colla Divisione delle Guardie sboccata da San Martino, ed assicurare il passaggio del Ticino al grosso dell'esercito aggruppato al di qua di Novara. Ed Buffalora si spinse, di cui s'impadroniva di alcune case (1). Ma la colonna dell'Espinasse trovandosi in ritardo, ed un corpo di Austriaci essendosi spinto in avanti, dal che potevano rimanere disgiunte l'una dallf altra le due colonne francesi, MacMahon, che poco pii ma aveva mandato a dire a Napoleone: «Non per anco conosco la postura dell'inimico; non posso dare veruna indicazione intorno a ciò che farò, ma l'Imperatore sia tranquillo sulle disposizioni che prenderò, a fronte di forze che pensava superiori alle proprie, non istimò prudente impegnarsi di più, cessò del tutto l'attacco di Buffalora, die' indietro verso Cuggiono, poggiando a sinistra onde legarsi solidamente alla destra della colonna di Espinasse. Le ore correvano, e questi non si vedeva ancor comparire. MacMahon, non più padroneggiando la sua impazienza, spinge il cavallo al gran galoppo, e seguito solo da alcuni ufficiali e pochi cacciatori di scorta, lanciasi con incredibile sconsideratezza traverso i campi, i fossi, le siepi, nella direzione in cui deve inoltrare Espinasse. In questa corsa disordinata inciampa in una linea di bersaglieri nemici, appiattati nelle messi, e l'attraversa senz' addarsene; poi, presso Marcallo, scontrasi in un distaccamento d'ulani sparsi in esploratori. Ufficiali e scorta, dato di piglio alle spade, gettansi a briglia sciolta verso di essi. MacMahon non si arresta, ed incolume trasvola fra mezzo a loro.

(1) A Buffalora, cogli avamposti a Bernate, stava la sola Brigata austriaca Battin, naturalmente troppo debole a fronte delle quattro Brigate della colonna destra di MacMahon.

122 CAPITOLO DECIMONONO.

Alla fine trova l'Espinasse, cui da i suoi ordini; poi, come se niun pericolo avesse corso, ripiglia la sfrenata, folle, fantastica corsa, e torna a raggiungere la sua colonna di destra.

Gyulai teneva il suo quartiere-generale ad Abbiategrasso, a soli diecimila passi da Magenta. Colà, la sera del 3, aveva ricevuto la notizia che i Francesi, impadronitisi dei passi di Turbigo, ingrossavano da quella parte, donde attendeva l'attacco principale; colà, a ott'ore del mattino del 4, avea saputo da Clam-Gallas che forti masse nemiche (1) da Trecate si avvicinavano alla testa di ponte a San Martino. A Clam-Gallas spedì ordine di mantenere la posizione di Magenta, ed agli altri corpi di avanzare maggiormente. Salì a cavallo dopo il mezzogiorno, ed intorno alle tre comparve a Magenta. A settentrione scorge caduto in mano dei Francesi il villaggio di Buffalora, ove la pugna sta sul cessare; più in giù, tre battaglioni nemici che da Ponte nuovo di Magenta inoltrano sulla strada postale e sull'argine della ferrovia verso Magenta; vede Ponte vecchio di Magenta, che non apparteneva più interamente agli Austriaci, ma neppure ai Francesi; e al di là di Magenta nello spazio fra il paese, Marcallo e Buffalora, ammassarsi tutto il Corpo di Clam-Gallas, in attesa di un nuovo attacco di MacMahon. Solamente nello stesso momento il Corpo di Schwarzenberg cominciava a muovere da Abbiategrasso a Robecco, la più gran parte lungo la sponda sinistra del Naviglio grande,

Gyulai ordinò alla Divisione Reischach del VII. Corpo, che stanziava a Corbetto, di avanzare e riprendete Ponte nuovo di Magenta. Le schiere di Reischach si avventarono con impeto irresistibile sui Francesi spintisi in avanti di Ponte nuovo sulla strada per Magenta, nel tempo stesso in cui Napoleone inviava al soccorso le ultime sue riserve. Invano que valentissimi della Guardia tentano di tener fermo. Monti di morti e di morenti si accatastano sulla lor fronte; le fila si diradano spaventosamente, e sono alfine costretti a dare addietro in disordine su Ponte nuovo, lasciando nelle mani dell'inimico un cannone rigato. Invano il generale Cassaignolles gettasi colla spada alla mano fra inseguiti ed inseguitori, a capo di soli centodieci cacciatori della Guardia, Punica cavalleria che Napoleone avesse con sé, e invano torna due volte alla carica.

(1) Rapporto del generale Gyulai all'Imperatore, del 6 giugno 1859.

GLI AUSTRIACI IN PIEMONTE. 123

In quel punto la Brigata Picard sboccava sul ponte di Buffalora. Erano circa le quattro (1). Quei soccorso, pressoché insperato, quando la Guardia stava per soccombere schiacciata da tutte parti, parve ristorare un momento le condizioni de Francesi. Ma guidato dal tenente-maresciallo Schwarzenberg, il terzo Corpo si faceva innanzi da Robecco verso Magenta e il Ticino, minacciando di avviluppare la destra de' Francesi, pe' quali tornava impossibile tener testa pili a lungo da soli. Napoleone, spintosi a metà strada dal ponte di Buffalora al ponte della ferrovia, scorgeva un grosso di Austriaci, la Brigata Wetzlar, inoltrarsi lungo la sponda del Ticino verso il ponte stesso di Buflalora. Nel momento medesimo il Capo dello Statomaggiore della Guardia accorreva per dirgli da parte del generale Regnaud de Saint-Jean-dAngély, eh ei non poteva più lungamente sostenersi a Ponte nuovo, se non 8 inviavano al pili presto rinforzi. «Non ho un uomo da mandargli, risponde l'Imperatore; dite al generale che tenga» sempre colla poca gente che gli rimane. Un istante appresso, tra aiutante di campo del generale Wimpffen lo avvicinava.

(1) Una delle maggiori difficoltà per la esatta e veritiera descrizione d'una battaglia è la determinazione precisa del tempo. Il riportare ad un'ora prima un fatto avvenuto un'ora più tardi, basta per isvisare tutto il nesso degli avvenimenti. Il barone di Bazancourt, scrivendo «per ordine» dell'Imperatore» (La Campagne d'Italie de 1859, Vol. L, pag. 268), cadde in uno di questi errori e per esso in un labirinto di contraddizioni, affermando che la Brigata Picard, secondo quanto lo stesso generale Picard gli avrebbe riferito, comparve sul campo di battaglia di Magenta a due ore. Invece il generale Regnaud de SaintJeand'Angólv, comandante in capo della Guardia imperiale, nel suo Rapporto del 5 giugno, disse: «Verso» cinque ore della sera la Brigata Picard comparve a portata del ponte» (parut à portée du poni)»; e Canrobert, al cui Corpo apparteneva quella Brigata, nel suo Rapporto, dichiarò: «la Brigata Picard giunta a quattro» ore della sera.» Onde togliere dalla mia mente ogni ombra di dubbiezza, volli consultare io medesimo direttamente parecchi autorevoli testimoni oculari del fatto, quantunque tutti i documenti ufficiali francesi, sino da allora resi di pubblico diritto, mi sembrassero meritevoli di ben maggior fede che ogni altra contraria posteriore asserzione. È certo adunque, ed in modo da escludere qualsivoglia dubbiezza, che la testa della Brigata Picard giunse al ponte di Buffalora fra le 3 3/4 e le 4, e dopo che furono fatti deporre in tutta fretta i sacchi ai soldati lungo l'argine della ferrovia, fu spinta a passo di corsa a Ponte vecchio di Magenta, ove cominciò a trovarsi tra le 4 e 4 1/4.

124 CAPITOLO DECIMONONO.

«Sire, il generale è schiacciato, e non può più durare sul Naviglio.» - «Che si mantenga,» replica Napoleone. Due minuti dopo, è un aiutante del generale Picard, che gli dice: «L'inimico agglomera forze considerevoli sulla nostra destra, e se il generale non è prontamente soccorso, gli Austriaci girano la posizione.» - «Che attraversi loro la strada,» risponde l'Imperatore;» subito che potrò, gli manderò rinforzi.» Ma i rinforzi non venivano, quantunque Canrobert avesse dato ordine di sgomberare la strada in qualunque modo, gettare ne' fossi tutto quanto non si potesse allontanare a tempo, giungere a San Martino ad ogni costo (1).

Erano di già le cinque. La situazione dell'Imperatore dei Francesi e delle tre Brigate, sole impegnate in lotta ormai cosi disuguale, diveniva ogni minuto più grave, perigliosissima. Il cannone di MacMahon taceva sempre, né un solo soldato gli giungeva a soccorso. Quando fitte masse appariscono sul ponte di Buffalora, correndo a più potere. Era la Divisione Vinoy, del Corpo di Niel. In pochi minuti si riordinano, ripiglian fiato; poi via a passo di corsa sopra Ponte vecchio di Magenta. Quasi nello stesso istante, alle cinque e mezzo, MacMahon con tutto il suo Corpo e la Divisione Camou sboccava con grande impeto sopra Marcallo e Magenta, stendendosi verso Buffalora, che si supponeva ancora occupata dagli Austriaci. Ma Gyulai, tenendosi vincitore, aveva mandato contro i Francesi spintisi da San Martino truppe che si rendevano indispensabili per la difesa a settentrione di Magenta, nel caso di un ritorno offensivo di MacMahon, senza provvedere a sostituirle con altre che avrebbesi potuto far venire avanti a tempo. Fu errore irreparabile. Cos'i quando MacMahon venne al vero attacco, Gyulai non ebbe un soldato fresco sotto la mano, nessuna riserva, e da opporre alle intatte schiere (2) del generale francese nulla più che scarsi battaglioni, i quali non si

(1)

Delle sei Brigate d'infanteria del Corpo di Canrobert, le cui teste di colonna si avrebbero dovuto trovare al ponte di Buffalora al più tardi al mezzogiorno, la Brigata Picard, partita da Novara a 9 ore, giunse al ponte verso le 4 pomeridiane, la Brigata Jannin dopo le 6, la Brigata Bataille verso le 7 «la Brigata Collineau intorno le 9, la Brigata Vergè dopo mezzanotte e la Brigata Ducrot ad un'ora e mezzo del mattino del 5.

(2)

Secondo l'Ordine di battaglia di quel giorno, 88 battaglioni, 8 squadroni, 51 cannoni, 25, 934 uomini.

GLI AUSTRIACI IN PIEMONTE. 125

potevano rafforzare se non con altri che bisognava allontanare dalla linea di difesa del Naviglio grande, lungo il quale i Francesi ricevevano ormai sempre nuovi rinforzi.

Da questo momento l'esito finale della giornata non poteva pia essere incerto; e come nella prima fase della battaglia Napoleone doveva essere battuto, nella seconda, così stando le cose, lo doveva essere forzatamente Gyulai. Dacché ei s'era trovato in codesta posizione fatale, gli Austriaci non potevano combattere che per l'onore militare; e per esso con sommo valore pugnarono. Il sole bruciante di quel dì aveva spossati i soldati, non pochi dei quali avevano dovuto rimanersene sino a quell'0ra digiuni. Nullameno, per la più parte reclute, ed anche i soldati che avevano servito non conoscendo peranco il nuovo fucile che aveano ricevuto da poco, tennero fermo in avanti di Magenta sinché umanamente era possibile. A Marcallo al centro e Cascina Nuova a destra gli Austriaci rifiniti per la stanchezza sostennero l'urto furibondo degli assalitori senza dare addietro d'un posso, come soldati entrati allora allora nel combattimento. Le colonne si urtano corpo a corpo, le baionette s'incontrano, e la lotta impegnata a piede a piede degenera in duelli atroci da uomo ad uomo. Fra gli accidenti di un terreno in mille guise frastagliato di viottoli, di fossi, di pantani, di muri, di siepi, di gelsi, di viti, di dense piantagioni che attraversano a brevi distanze la vista, e la direzione dei combattimenti isolati e parziali per parte degli ufficiali superiori è resa diffidi issi ma, pressoché impossibile; il battere in ritirata fra mezzo al gran novero di nemici avviluppanti da tutte parti è impresa spesso abbandonata all'azzardo, e intere compagnie vidersi costrette a cedere le armi.

Addossati al villaggio di Magenta, gli assaliti rintuzzavano ancora la foga di codesto umano torrente, con un eroismo che trova degno riscontro solamente in quello della Guardia imperiale poche ore prima sul Naviglio grande. Alla Stazione della ferrovia, al centro della fronte di battaglia, invano il generale Auger, comandante l'artiglieria del Corpo di MacMahon, accumula batterie a batterie, e i fuochi incrociati di 20, 000 fucili vomitano la morte «sulle colonne che si formano negli orti e nei giardini;» nulla abbatte l'energica resistenza dell'avversario che non si lascia strappare che a lembo a lembo

126 CAPITOLO DECIMONONO.

» questa importante posizione (1).» Il sole volgeva al tramonto. Indebolita la linea di difesa austriaca lungo il Naviglio per far fronte a MacMahon, i Francesi avevano da quella parte ripigliata con nuovo ardore la offensiva. Trenta cannoni dell'artiglieria di riserva della Guardia imperiale, ammassati lungo il Naviglio, convergono i loro fuochi sopra quelle masse di Austriaci che d'altra parte l'Auger, schierati quarantadue cannoni lungo l'argine della ferrovia, schiaccia colla mitraglia. Al cadere della notte tacquero le artiglierie; la pugna orrenda, micidialissima, continuava per le vie. Fu d'uopo prendere d'assalto casa per casa, stanza per stanza. Morti o feriti quasi tutti gli ufficiali, da ogni casa occupata i soldati duravano nella ostinata difesa guidati unicamente dalla propria ispirazione; e preclusa ogni via allo scampo, molti i prigionieri. Anche Ponte vecchio di Magenta rimase ai Francesi, dopo che il reggimento fanti Granduca d'Assia, dei Corpo di Schwarzenberg, lo aveva prego, perduto, ripreso ben sette volte di seguito, e monti di cadaveri attestavano la pertinacia de' due avversarii.

Le truppe d'ambi gli eserciti furono egualmente ammirabili. Napoleone, che i suoi errori di calcolo nelle disposizioni delle marcie, e le misure rovinose prese propriamente da lui in quel dì dovevano perdere, ed avrebbero infatti perduto (2), tenendosi salvato dalla felice inobbedienza di MacMahon, guiderdoné questi col bastone di maresciallo ed il titolo di Duca di Magenta; quantunque la repentina sua risoluzione di sospendere l'attacco per portare la colonna principale verso la sua sinistra, senza poterne avvertire l'Imperatore (3) e lasciando la Divisione della

(1) Bazancourt; Campagne d'Italie, Vol. I., pag. 324.

(2) Secondo le nuove disposizioni, la Brigata Wimpffen, della Guardia imperiale, doveva proteggere nel mattino del 4 la gettata d'un ponte di battelli presso il ponte di pietra a San Martino. Mollìnarv osserva rettamente (Studien, pag. 104), che «questo venne per la prima volta recato» ad effetto nel seguente giorno 5, mentre non eravi disponibile verun materiale da ponte, in maniera che doveva essere rotto e trasportato a San» Martino il ponte gittate al 2 presso Turbigo.»

(3) La notte era già caduta, e Napoleone non sapeva ancora se MacMahon fosse veramente vincitore o vinto. Alla stessa ora MacMahon ignorava affatto il destino dell'Imperatore e dell'esercito francese. -Vedi: Clémeur ( Historique du III. Corpi de l'armée d'Italie) e Bazancourt Campagne d'Italie, Vol. I., pag. 340).

GLI AUSTRIACI IN PIEMONTE. 127

Guardia sulla sinistra del Ticino alle prese da sola con forze notevolmente superiori, avesse potuto essere cagione di un grande disastro (1). Caddero da parte austriaca feriti cinque generali; Reischach, Dtkrfeld, Lebzeltern, Wetzlar, Burdina, quest1 ultimo morto poco appresso in seguito alle ferite; 276 ufficiali e 5432 soldati morti o feriti. Dei Francesi morti i generali Espinasse e Cler, ferito il generale Wimpffen; 246 ufficiali e 4198 soldati morti o feriti (2). I Francesi non avevano vinto una vittoria decisiva ed aveano toccate perdite sensibili come gli Austriaci; questi avevano dopo la battaglia il grosso del loro esercito tuttora

(1)

Ad essere però affatto imparziali, conviene soggiungere a scusa di Mac-Mahon, che avendo egli già dal mattino avuta notizia dall'Imperatore medesimo che Canrohert avrebbe varcato il Ticino al ponte di Buffalora, doveva ritenere che per l'attacco di Magenta sulla linea del Naviglio grande Napoleone avesse alla mano forze di tale entità da essere del tutto indifferente per la sua sicurezza se l'attacco al nord avesse luogo alcune ore più presto o alcune più tardi. Ma MacMahon non poteva ignorare che gli Austriaci avevano ripassato il Ticino, e doveva presumere che a marcie forzate si sarebbero avviati per attraversare agli alleati la via a Milano. Il possesso di Magenta dovendo evidentissimamente dipendere, più che tutto, dalla prestezza dei movimenti, il ritardo di ore doveva risultare a tutto vantaggio degli Austriaci. MacMahon, che si reputava debole già nel mattino a fronte delle forze colà accumulate dai difensori, poteva egli prevedere se alcune ore più tardi si sarebbe trovato alle prese con due o tre volte tante? In tal caso, il suo insuccesso equivaleva al completo annichilamento dell'intero suo Corpo. Avanzandosi isolatamente, egli poteva incontrarsi con tutto l'esercito austriaco; e se allorché verso sera tornò all'attacco, non trovò a combattere che deboli frazioni, niuno vorrebbe affermare che l'esito della giornata, vinta bensì per conseguenza del concentramento di MacMahon sulla sua sinistra, sia stato deciso pel merito intrinseco di codesta risoluzione del generale francese.

(2)

La battaglia di Magenta forma una pagina delle più curiose negli annali militari de' nostri tempi, dal punto di vista che mentre errori importanti sfuggivano a' duci supremi, ciascuno degli eserciti rispettivi faceva sforzi sovrumani per riportare vittoria a dispetto di quegli errori, cui non avevano avuto parte, quantunque ne subissero amaramente la pena. Presso l'uno come presso l'altro esercito vediamo quel dì il soldato combattere meravigliosamente bene, anche se abbandonato a so medesimo, con costanza ed annegazione insuperabili; il valore ed il disprezzo della morte spinti al più alto grado negli ufficiali; eccellentemente comandati i Reggimenti, le Brigate, le Divisioni. Presso l'uno come presso l'altro esercito buona parte di ciò che potrà accadere è abbandonata totalmente al caso, ed alla valentia de' singoli di cui non si sarebbero abbastanza commisurate le forze.

128 CAPITOLO DECIMONONO.

cosi bene ordinato, come lo possono essere soltanto truppe vincitrici, dopo un combattimento, e tenevano presso a Magenta molto maggior numero di truppe fresche che i Francesi non avessero (1). Gyulai aveva bensì perduto terreno; ma in tali condizioni poteva riprendere la battaglia la mattina seguente. Ed egli vi pensò, e diede nella notte stessa disposizioni per un nuovo attacco. Ei non poteva avere alcuna apprensione per la ritirata sulla sua linea naturale, cioè sopra Piacenza o sull'Adda inferiore; né i Francesi potevano impedirgliela se non con un giro vizioso dell'ala sinistra sulla sua destra, e questo sul campo stesso di battaglia. La Brigata Hartung di buon mattino erasi già avanzata da Robecco verso Ponte vecchio di Magenta, ed aveva preso d'assalto il villaggio occupato dai Francesi; allorché Gyulai le mandò ordine di sospendere il combattimento, ed a tutto l'esercito di dare indietro. A Benedek si ingiunse di portarsi a Melegnano sul Lambro, onde coprire la ritirata; di avviarsi verso mezzogiorno su Pavia e Sant'Angelo, per volgere poi ad oriente. Il grande quartiere-generale dell'esercito fu posto a Belgioioso all'est di Pavia.

(1) Nella pubblicazione ufficiale francese: Campagne de l'Empereur Napoléon III. en Italie, 1859 (pag. 205) è detto, che «se gli Austriaci avessero presa l'offensiva nel 5, avrebbero avuto per ciò, non tenuto calcolo del I. e II. Corpo, che avevano molto sofferto, 80, 000 uomini, dei quali 55, 000 di truppe fresche. A questi gli alleati potevano opporre 110, 000 uomini, tra i quali 75, 000 di truppa fresca.» Dalla quale asserzione, di cui per verità niuno saprebbe spiegarsi il perché, chiunque, anche il più profano di cose di guerra, é costretto derivare la domanda: Ma se è dunque vero, che al 5 avevate sotto la mano 30, 000 uomini di più che gli Austriaci, e 20, 000 di truppa fresca più di essi, perché dunque non li avete attaccati la mattina stessa del 5, sbaragliati, inseguiti energicamente sino a Verona? Magenta dista da Solferino, per Milano e Brescia, 20 miglia geografiche. Se così era, come ora dite, perché avete impiegato 20 giorni, dal 4 al 24, per giungere a Solferino, in ragione d'un miglio al giorno? E nullameno se a Solferino il 24 Austriaci e Francesi vennero ad incontrarsi, furono i primi che andavano in cerca dei secondi.

Il generale Mollinary, ne' suoi Studii (pag. 34), colla scorta degli Ordini di battaglia dei due eserciti del 4 giugno, inseriti nell'opera stessa, e dell'Atlas des marches annesso alla medesima, osserva a ragione che nel mattino del 5 gli alleati avevano sulla sinistra del Ticino a Magenta 67, 000 uomini, dei quali 32, 000 di truppe fresche, ai quali gli Austriaci potevano appunto contrapporre, senza computare la Divisione Urban (11, 500 uomini, 400 cavalli, 36 cannoni), 80, 000 uomini, tra cui 55, 000 di truppa fresca.

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CAPITOLO VENTESIMO.

Gli alleati in Lombardia.

L'Imperatore Napoleone s'avvia a Milano. - Proclamazione dell'8 giugno. - Combattimento di Melegnano. - Riordinamento dell'esercito austriaco. - Gli Austriaci, passando dalla difensiva all'offensiva, varcano il Mincio. - II. campo di battaglia di Solferino. - Disposizioni dei due duci supremi per la marcia degli eserciti nel 24 giugno. - Le osti s'incontrano. - Attacco de' Francesi verso Solferino. - Nella pianura la sinistra degli Austriaci è rattenuta. - L'Imperatore d'Austria ordina al generale Wimpffen di portarsi in avanti. - Rebecco resta in mano de' Francesi. - Attacco decisivo de' Francesi a Solferino. - Ultimo contrattacco degli Austriaci nella pianura, non riuscito. - II principe Alessandro d'Assia copre la ritirata degli Austriaci. - L'uragano separa i combattenti. - Fatti d'arme all'ala sinistra degli alleati. - Benedek attacca i Sardi e li rincaccia. - I Sardi, ritentata la prova, danno addietro sino a Rivoltella. - Vittorioso tutta la giornata, a sera Benedek obbedisce all'ordine generale di ritirarsi. - Perdite di entrambi gli eserciti. - Gli alleati passano il Mincio.

I

l più grande capitano de' tempi moderni disse, che il miglior generale non è colui che vince la battaglia, ma quegli che sa trarre migliore partito dalla vittoria. Una volta libera la via per Milano, gli sforzi degli alleati dovevano tendere ad impedire che gli Austriaci giungessero con forze ancora formidabili sul Mincio; era quindi mestieri operare con grande prestezza di movimenti e costringerlo ad accettare battaglia in condizioni sfavorevoli. L'esercito austriaco era impacciato da un codazzo di pesanti bagagli, parte dei quali non aveva anzi peranco attraversato il Ticino od erano sulla strada di Pavia; circostanza codesta cui fu attribuita buona parte di quelle lentezze che contraddistinsero la prima fase della campagna (1).

(1) Non essendo sinora venuta in luce da parte austriaca una storia autentica della Campagna del 1859, sull'appoggio di documenti ufficiali, devesi andare a rilento nel giudicare operazioni strategiche, intorno alle quali per avventura non fu pronunziata peranco l'ultima parola. Quanto al generale Gyulai in particolare, sul quale naturalmente cadrebbe la maggiore responsabilità, egli ha già da lungo tempo stesa una Memoria giustificativa, deposta nell'Archivio riservato del Ministero della Guerra in Vienna.

130 CAPITOLO VENTESIMO.

Cosi essendo, quale più bella opportunità per inseguirlo immediatamente? Ma a Napoleone troppo caleva di portarsi al più presto sopra Milano, óve motivi politici di preponderante importanza lo stringevano a fare il suo ingresso.

Dopo un fatto di guerra bastevole a levare alto romore, avea d'uopo di ovazioni, il cui eco abbarbagliasse in Francia le menti. Gli seccava che già i Parigini, parodiando i bullettini del Monitore, motteggiassero: Garibaldi se porte sur Milan, et l'Empereur se porte bien. E che Garibaldi avesse ad entrare in Milano prima di lui, era cosa che l'Imperatore non avrebbe voluto assolutamente lasciar correre. Gli era noto che generali francesi e piemontesi non dissimulavano guari l'avversione dei più per costui; segnatamente il Trochu, generale di Divisione nel Corpo di Canrobert, avendo detto pubblicamente che se mai si fosse trovato vicino a Garibaldi seriamente impegnato cogli Austriaci, e lo avesse potuto salvare, non lo avrebbe fatto certamente, neppure se glielo avessero ordinato, abbandonandolo a quella rovina della quale, affermava, era ben degno. Ancorché sotto il vestito di generale piemontese, Garibaldi tuttavia rimaneva, agli occhi d'ogni

Anche in quella Memoria, fatta conoscere dal Gvulaì a ristrettissimo numero di persone in manoscritto litografato, di cui furono tosto dopo spezzate le pietre, ed in microscopico novero di esemplari sollecitamente ritirati, viene fatta allusione a questa circostanza de' traini. Parrebbe che gli Austriaci avessero dovuto entrare in campagna non punto pienamente preparati; ed è un fatto notorio che sino dal principio delle ostilità dovettero per trarsi dietro salmerie indispensabili far uso di parecchie migliaia di cavalli di contadini, ottenuti per requisizione, ed anche di non piccolo numero di animali bovini e di bovai, non certamente spediti e disciplinabili come squadroni di attiraglio militare. Ben a ragione lo storico del Governo francese Bazancourt (Campagne d'Italie, Vol. II., pag. 111) osserva: «Più di frequente si suole rendersi inesattissimo conto degl'impedimenti» d'ogni maniera che un esercito si trae dietro: bagagli, approvvigiona» menti, materiale d'artiglieria. Son questi, ad ogni istante, ostacoli im» preveduti, ritardi coi quali si ha a fare senza tregua, e che sconcertano» i piani strategici più sapientemente combinati.» Comunque sia circa al grado d'influenza che questa condizione di cose esercitò sull'andamento delle operazioni di guerra, i racconti che il Rustow (Guerra d'Italia, Parte I., Capitolo IL, § 1) da del segreto di sei individui, dei cangiamenti di tre in tre giorni, del paravento, delle tasche del colonnello Khun, ed altre corbellerie, sono novelle da aggiungersi alle trottole delle Mille e una notti.

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 131

persona sensata, ciò che non aveva mai nella realtà cessato di essere, il capo militare della democrazia rossa italiana.

Il giorno 8 l'Imperatore de' Francesi entrò in Milano, abbandonata spontaneamente dagli Austriaci nel 5; e appena giuntovi pubblicava la proclamazione seguente: «Italiani! La fortuna della guerra conducendoci oggi nella capitale della Lombardia, vengo a dirvi perché vi sono. Allorquando l'Austria assalì ingiustamente il Piemonte, risolsi di sostenere il mio alleato, il Re di Sardegna; l'onore e l'interesse della Francia me ne facevano un dovere. I vostri nemici, che sono i miei, hanno tentato di sminuire la simpatia ch'era universale in Europa per la vostra causa, facendo credere che io non facessi la guerra che per ambizione personale, o per aggrandire il territorio della Francia. Se v'hanno uomini che non comprendono il loro tempo, io non sono certo del novero di costoro. Oggidì l'opinione pubblica è illuminata per modo che si è più grande per l'influenza morale esercitata, che per isterilì conquiste; e questa influenza morale io la ricerco con orgoglio, contribuendo a rende libera una delle più belle parti d'Europa. La vostra accoglienza mi ha di già provato che voi m'avete compreso. Non vengo tra voi con un sistema preconcetto di spossessare sovrani, né per imporre la mia volontà. Il mio esercito non si occuperà che di due cose: combattere i vostri nemici e conservare l'ordine interno; esso non porrà alcun ostacolo alla libera manifestazione de' vostri legittimi voti. La Provvidenza favorisce talvolta i popoli come gl'individui, dando loro occasione di farsi grandi d'un tratto; ma a questa condizione soltanto che sappiano approfittarne. Approfittate dunque della fortuna che vi si offre! Il vostro desiderio d'indipendenza, così lungamente espresso, così sovente caduto, si realizzerà, se saprete mostrarvene degni. Unitevi dunque in un solo intento, nella liberazione del vostro paese. Organizzatevi militarmente. Volate sotto le bandiere del Re Vittorio Emanuele, che vi ha di già sì nobilmente mostrata la via dell'onore. Ricordatevi che senza disciplina non vi ha esercito; ed animati dal fuoco sacro della patria, non siate oggi che soldati, per essere domani liberi cittadini d'un grande paese.»

Quella proclamazione parve ai più, quello che era in fatto,

132 CAPITOLO VENTESIMO.

vera apocalisse, l'appello alla rivolta, incoraggiamento pe' timidi, sprone ad osare. Era la prima volta ch'ei volgeva direttamente la parola agli Italiani; tocco appena il territorio lombardo, non parlava più a' Piemontesi, non parlava a7 Lombardi, ma bensì ai popoli di tutta la Penisola. Protestava di non venire con un sistema preconcepito di spossessare sovrani. Ma tosto dopo soggiungeva: «Non porrò alcun ostacolo alla libera manifestazione de vostri voti»; ch'era quanto dire: «Proclamate pure che il tal sovrano non vi va a grado, non io certamente sarò quello che si opporrà.» Se alcuno avesse temuto di allumare si tosto apertamente la fiaccola della ribellione, Napoleone li confortava: «Approfittate dunque della fortuna che vi si offre! Non è mica poi il caso di ogni giorno di aversi alle spalle eccitatore e patrocinatore di rivolture un Imperatore. Tolga Iddio ch'io venga per ispossessare sovrani; ciò risguarda Vol. Sappiate mostrarvi degni della fortuna che v'offro, unendovi in un solo intento, di mandare i Sovrani d'Italia a zonzo. Volate sotto le bandiere del Re di Sardegna, che a Firenze BonCompagni vi ha di già sì nobilmente mostrato come si deve fare. Ricordatevi che senza disciplina nulla va a bene; novizii quai siete, lasciatevi disciplinare da me. Solo mercé della disciplina riescono le rivoluzioni da imprendersi; riescite, stan su.» A chi così leggeva fra le linee il senso trasparentissimo, qualcuno replicava: calunnia, malevoglienza; eppure, così affermando, convenivano che non diversamente su certe botteghe e svolte di via sogliono dipingere una mano coll'indice teso verso il luogo dove gli avventori ed i passeggieri hanno ad indirizzarsi. Frattanto, forse tutti dettero soverchio valore a quelle parole: «Siate oggi soldati, per essere» domani liberi cittadini di un grande paese.» Vedete, dicevano gli uni, Napoleone vuole davvero l'unità italiana. Oibò! Rispondevano altri; anche con una Confederazione il concetto quadra a capello. Infatti vi avea per tutti in quelle parole, come per tutti i gusti vi aveva avuto nelle proclamazioni che Oudinot indirizzava a' Romani nell'aprile 1849.

Intanto l'esercito austriaco si ripiegava sul Mincio, dolente di dare addietro, non in sostanza sfiduciato di sé; perocché intimamente convinto che Napoleone per puro caso si fosse trovato la notte del 4 in possesso di Magenta, nulla di più naturale che

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 133

avesse la coscienza di non essere stato sconfitto (1). La ritirata, corrispondente alla posizione dell'esercito, non era stata presa per Milano, ciò che aveva permesso all'Imperatore de Francesi di tosto recarvisi, ma in una direzione meridionale verso il Po, che il V. e l'VIII. Corpo furono destinati a coprire, I Francesi non inseguirono da veruna parte, né in modo alcuno cercarono di approfittare della vittoria che si aveva loro abbandonata; la qual cosa proverebbe ben fondata l'opinione di quelli che non credevano menomamente alla necessità d'una ritirata. Soltanto il giorno 8 a Melegnano, borgo a quindici chilometri da Milano, Baraguey-d'Hilliers veniva alle mani colla Brigata Roden dell'VIII. Corpo austriaco; sanguinosissimo ed ostinatissimo combattimento, in cui 5 battaglioni austriaci, appena 4500 uomini (2), con sommo valore sostennero per quattro ore l'urto di due Divisioni del I. Corpo francese, 28 battaglioni, almeno 13, 500 uomini (3).

Il 10 giugno gli Austriaci attraversarono l'Adda. Pavia era già stata abbandonata dal 7, Piacenza dal 10. Solamente l'11, sette giorni dopo la battaglia di Magenta, Napoleone, reso certo della ritirata dell'inimico sulla sinistra sponda dell'Adda, faceva incominciare un movimento in avanti da Milano verso Brescia, evacuata dagli Austriaci nello stesso giorno. Nullameno in sedici giorni il vincitore di Magenta non percorse che la distanza dal Ticino al Chiese.

L'Imperatore d'Austria, giunto da Vienna a Verona nel 30 maggio, aveva assunto nel 18 giugno il supremo comando de11' esercito, sostituito al Gyulai il generale conte Schlick. Ritiratesi tutte le schiere dietro il Mincio, i cui passi sulla sua sponda destra soltanto rimasero occupati, fu dato all'esercito ordinamento novello. Solamente una grande battaglia potendo ristabilire la

(1)

«Lo stesso III. Corpo, che aveva molto sofferto, non aveva guari il sentimento d'essere battuto.» - État-major de Prusse (Campagne d'Italie, ed. fr., pag. 106).

(2)

Das Gefecht bei Melegnano (Oesterreichische Militariscke Zeitschrtft, 1861, 1. Heft).

(3)

La Divisione Forey, 13 battaglioni, circa 6500 uomini, non prese parte alla pugna. Gli Austriaci perdettero 23 ufficiali e 345 uomini morti o feriti, fra cui un generale ucciso; i Francesi ebbero 71 ufficiali 6 943 uomini morti o feriti, fra i quali due generali feriti, cioè una perdita in morti e feriti tripla di quella degli Austriaci.

134 CAPITOLO VENTESIMO.

situazione, si erano richiamate sulla sinistra del Po le due Brigate rimaste a presidio di Ancona e di Bologna, la guarnigione di Ferrara e le truppe passate nel Ducato di Modena; ed eransi fatti venire in Italia il X. Corpo dall'Istria, dall'Ungheria l'XI., dal Tirolo una Brigata del VI., oltre parecchi battaglioni di frontiera. Lasciato sul Po inferiore il X. Corpo, il II. intorno a Mantova, le milizie tenute occorrenti per alcuni presidii, tutto il resto fu ripartito in due grandi armate: la I.a composta del III., IX. ed XI. Corpo, sotto il comando del generale conte Wimpffen; la IL col I., V., VII. ed Vili. Corpo, guidata dallo Schlick.

A dì 21 giugno la II. Armata stende vasi dall'est di Peschiera a San Zenone sulla sinistra del Mincio, dietro ad essa il quartiere-generale dell'Imperatore a Villafranca; la L Armata da Mantova a Goito e Pozzolo. Da queste posizioni dovevasi ai 23, passando l'esercito il Mincio, e spiegandosi l'ala destra sulla linea Pozzolengo Solferino, la sinistra sulla linea Guidizzolo-Castel-Goffredo, cominciare l'offensiva. Si voleva andare in traccia degli alleati in campo aperto, possibilmente mentre questi passerebbero il Chiese, ed allontanandoli da questo fiume e dalle sue comunicazioni, tentare di rigettarli contro i monti del TiroIo. Il 24 la marcia in avanti aveva a continuare; l'ala destra, ossia la II. Armata, doveva muovere verso la fronte nemica che si supponeva tra Lonato e Castiglione delle Stiviere, mentre l'ala sinistra, costituita dalla I. Armata, per Carpenedolo e Montechiaro si sarebbe gettata sul fianco destro ed alle spalle dell'oste avversaria. Così disposto, l'ala sinistra era assolutamente quella che doveva portare il colpo principale, l'ala destra non avendo nel vero altro compito che quello di richiamare l'attenzione dell'inimico sopra di sé.

Nel mattino del 23 infatti l'esercito austriaco passò per quattro ponti sulla riva destra del Mincio. All'estrema destra l'VIII. Corpo si spinse sino a Pozzolengo, il V. a Solferino, il I. a Cavriana, la Divisione di cavalleria di riserva della IL Armata a Tezze presso Cavriana, il VII. Corpo a Foresto, la Divisione di cavalleria di riserva della I. Armata a Medole, il III. e IX. Corpo a Guidizzolo, e lXI., più addietro, a Castel-Grimaldo. Per tal guisa l'esercito inoltrando senza incontrare l'inimico, aveva fatta una leggera conversione, nel tempo stesso che il suo movimento in avanti era stato convergente.

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 135

Concentrato tra Pozzolengo e Medole, presentava una fronte di cui questi due luoghi e Solferino nel mezzo, ad eguale distanza da entrambi, formavano i punti più sporgenti. Così distribuiti, all'ala destra stavano intorno a 25, 000 uomini, al centro da Solferino a Cavriana un 41, 000, alla sinistra nella pianura in prima linea circa 47, 000, e più addietro in riserva intorno a 46, 000, in tutto 175 battaglioni, 80 squadroni, 159, 828 combattenti, 102 batterie con 816 cannoni (1).

Il territorio compreso tra i due fiumi, il Chiese ed il Mincio, che da settentrione scorrono a mezzodì, nel quale avanzavano gli Austriaci, è un paese tutto pianura al sudovest, intersecato di colline al nordovest. Ultime diramazioni delle Alpi a mezzodì del Lago di Garda, le colline s'innalzano a scaglioni dalle rive del lago in linee irregolari e ondeggianti, l'ultima delle quali verso la pianura si estolle al di sopra di tutte, formando in certa guisa una forte muraglia intorno al limite occidentale della pianura. Notevole per altezza e ripidezza in tutta la estensione da Castiglione a Volta è specialmente il pendio meridionale, che, formato da lunghe serie di scoscesi e fortemente addentellati ciglioni, a chi dalla pianura rimira, sembra ruine di fortezze ciclopiche distratte dal tempo e d'erba ricoperte. Nel centro di codesta linea, disgiunti dagli altri colli e verso il piano protesi quasi due giganteschi bastioni, torreggiano Solferino e Cavriana; fra i quali, a mo' di fortilizio avanzato nella pianura, giace il più basso e meno ripido pendio di San Cassiano. A settentrione, dietro a questa catena di colli, una seconda stendesi al nordovest quasi parallela alla prima, sinché giunta ad un miglio di distanza dalle alture di Solferino, ove sopra un poggio isolato sta la chiesa della Madonna della Scoperta, volge ad un tratto al nordest sino a Pozzolengo. Solferino e Cavriana nella catena esterna, Madonna della Scoperta e Pozzolengo nella interiore, segnano la posizione degli Austriaci tra le colline. Tranne quella che da Desenzano va a Peschiera presso al lago, tutte le strade, che conducono dal Chiese al Mincio tra i colli, toccano a qualcuno di codesti punti, onde il loro possesso preclude da ogni parte il passaggio del Mincio ad un esercito nemico.

(1) Secondo L'Ordine di battaglia del 24 giugno 1859, annesso all'opera dello Stato Maggiore di Prussia (Campagne d'Italie, ed. fr., supplément II).

136 CAPITOLO VENTESIMO.

La posizione degli Austriaci sulle colline era quindi un colossale baluardo formato dalla natura con quattro immensi bastioni dominanti tutte le alture circonvicine, ciascuno dei quali, indipendentemente dagli altri, è esso medesimo un ridotto pressoché inaccessibile, e per di pili baluardo attaccabile solamente ne' quattro angoli di que' bastioni. Medole, Guiddizzolo, Castel Grimaldo, Foresto, Tezze, sono paesi della pianura dominata da Solferino e Cavriana.

Considerato da sé, il movimento degli Austriaci nel 23 era un'introduzione eccellente per la divisata intrapresa. La II. Armata erasi impadronita delle formidabili posizioni delle colline, protette nella pianura a sinistra dalla I.a Armata, fra la quale e la II.» incedevano, costeggiando affatto l'esteriore catena de' colli, i 48 squadroni della cavalleria di riserva. Continuando nel giorno appresso il movimento concentrico nella direzione di Castiglione e di Lonato, la I.a Armata precipuamente avrebbe operato il ristringimento della rete formidabile in cui gli alleati senza dubbio sarebbero stati avviluppati. Per fermo idea più ardita non potevasi concepire.

Or mentre gli Austriaci occupavano nel 23 le posizioni da Pozzolengo a Medole, l'Imperatore de' Francesi, fatto avanzare l'esercito verso il Chiese, varcato al 23 stesso dalla maggior parte dei corpi, ordinava nel dì medesimo che inoltrasse il giorno appresso sino a quelle posizioni appunto in cui, a sua insaputa, aveva pigliato stanza l'oste nemica. Alla sua ala sinistra, formata dall'esercito sardo, ingiunse di portarsi a Pozzolengo. Al centro, i I. Corpo, Baraguey-d'Hilliers, doveva recarsi a Solferino; il II., MacMahon, a Cavriana; dietro ad essi il Corpo della Guardia, quale riserva col grande-quartiere imperiale, a Castiglione. L'ala destra aveva a spingersi nella pianura; il IV. Corpo, Niel, per Medole a Guidizzolo; il III., Canrobert, per Castel Goffredo, a mezzogiorno-ponente di Medole, a Medole stessa.

Onde evitare la marcia durante l'insopportabile calore del sole, Napoleone aveva disposto che nel 24 tutti i corpi, ad eccezione della Guardia che si sarebbe mossa alcune ore più tardi, dovessero porsi in via alle due del mattino. Ora non avendo gli Austriaci a mettersi in movimento, secondo gli ordini ricevuti, che alle 9 antimeridiane tosto dopo il rancio, lo scontro doveva.

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 137

forzatamente avvenire, pella molta vicinanza in cui ornai stavano ambi gli eserciti, mentre gli Austriaci si trovavano ancora nelle posizioni che aveano occupate nel 23, e prima che avessero fato il rancio. Infatti la marcia degli alleati si trasformava ben presto in una battaglia.

Erano le 3 del mattino, che già i posti avanzati delle due parti belligeranti si urtarono. In breve su tutta la linea da Castel-Gofiredo a Succole, paesello al nordovest di Pozzolengo verso il Lago di Garda, un tratto di 25, 000 passi, s'impegnarono conflitti da prima parziali, poi speditamente degenerati in tre combattimenti speciali, tre separate operazioni, aventi tre oggetti distinti; al nord tra Benedek e i Sardi, al centro tra il grosso dei due eserciti, al sud tra la I.a Armata austriaca e la destra de' Francesi. Tre diverse battaglie, reagenti ciascuna alternatamente sulle altre, la più importante delle quali combattendosi al centro, da questa doveva dipendere l'esito finale di tutte. Quella bruna torre quadrata, la Bocca di Solferino, che da qualunque lato s'accosti alle colline del Mincio attrae l'attenzione del viaggiatore, e Napoleone I. nomò la Spia d'Italia, perocché di là l'occhio sdazia sul|e rive del Lago di Garda e sopra gran parte delle circostanti pianure, molto al di là del torrione di Cremona e delle cupole di Manto va; quell'antica torre sorgente sulla vetta del ripido colle di Solferino, diveniva la chiave d'una postura dal cui possesso pendeva il destino della giornata.

Baraguey-d'Hilliers inoltrando col suo Corpo verso Solferino, a sinistra fra le colline, a destra sulla via che da Castiglione lungo le falde de' colli esteriori mena a San Cassiano, l'avanguardia austriaca del V. Corpo, Brigata Bils, erasi trovata di primissimo mattino assalita con assai di violenta nelle sue posizioni avanzate, ed impegnata in lotta ardente contro forze superiori. Bentosto la pugna si estese su tutta la linea del Corpo di Stadion, difesa con grande bravura e successo. Sino alle dieci Stadion respinse alla baionetta tutti gli assalti dell'inimico; più tardi i Francesi, quantunque con somma fatica, cominciarono a guadagnare terreno. Racchiusi entro uno spazio ristretto, dovettero acquistare a prezzo di molto sangue ogni palmo di suolo; ancora oggidì il gran numero di tombe attesta al viatore l'enorme perdita che vi sostennero. Solamente allorché i Francesi poterono afforzarsi

138 CAPITOLO VENTESIMO.

sulla loro sinistra, minacciando di girare la destra di Stadion, gli Austriaci, soverchiati dal numero in quel punto preponderante, dopo essere stati respinti a più riprese ed avere riconquistate le primitive posture in avanti, vidersi costretti a rinculare sino al villaggio di Solferino, che da una distanza di tremila passi Baraguey-d'Hilliers inondava di granate. Al sud di Solferino Clam-Gallas poggiava il suo Corpo a sostegno della sinistra di Stadion, mentre i Francesi, impadronitisi delle prime alture, inoltravano animosamente a manca dell'avversario. Ma nel cuore della posizione ogni tentativo d'attacco cadde a vuoto, e le colonne francesi, tempestate da vivissimo fuoco di mitraglia e di moschetteria, dovettero retrocedere. Era intorno al mezzogiorno quando gli Austriaci si ritirarono presso al castello, al cimitero ed alla Rocca di Solferino.

Nel possesso di Solferino stava la condizione della vittoria, ma questa vittoria medesima non poteva conseguirsi se non quando fossesi riportata eziandio nella pianura. Dalle 10 ore del mattino l'Imperatore d'Austria erasi trasferito sulle alture di Cavriana, di dove con giusta impazienza attendevasi l'esito del movimento in avanti, che la I.a Armata doveva intraprendere verso il fianco destro dell'inimico. Nella stessa ora l'Imperatore de Francesi aveva raggiunto Baraguey-d'Hilliers sui colli al di là di Solferino. Nella pianura il combattimento aveva cominciato dalle tre del mattino fra gli avamposti di Niel e gli Austriaci in avanti di Medole. A Medole dieci compagnie d'infanteria austriaca con due cannoni, violentemente assalite, tennero fermo per quattro ore contro tredici battaglioni con dodici cannoni, della Di visione Luzy, e solamente dopo le otto furono rincacciate verso Guidizzolo. I Francesi, inseguendole, impadronironsi del villaggio di Rebecco, fra Medole e Guidizzolo, e vi si arrestarono in forze. Intanto il III. e IX. Corpo austriaco giungevano da Guidizzolo, e la pugna ferveva pel possesso di Rebecco, Casa Baite e Casa Nuova, cascine al nord di Rebecco nella direzione di San Cassiano.

Poco avanti il mezzogiorno un aiutante di campo dell'Imperatore d'Austria recava a Guidizzolo al generale Wimpffen l'ordine di portarsi in avanti con tutte le sue forze verso Castiglione, onde liberare al centro Solferino. Questa direzione sopra Castiglione, prescritta alla I.a Armata,

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s'accordava perfettamente alle circostanze (1). Wimpffen aveva contro di so da Rebecco a Casa Nuova le sole tre Divisioni d'infanteria del Corpo di Niel. Tutto il Corpo di Canrobert era inoperoso a Castel-Goffredo (2), mentre TXL Corpo lo raggiungeva verso mezzogiorno presso Guidizzolo. Rebecco, Casa Nuova e Casa Baite, composte solamente di alcuni insignificanti edifizii, furono per più di sei ore oggetto d'accanitissimo combattimento, sostenuto con singolare pertinacia da entrambe le parti, ma sempre indeciso. Rebecco fu preso parecchie volte, e altrettante perduto. A due ore un attacco della Divisione Luzy rinforzata ne assicurò finalmente ai Francesi

(1) L'ordine spedito al generale Wimpffen era il seguente:

«Al Comando della I. Armata.

» L'inimico continua ad attaccare vivamente Solferino, e fa avanzare anche delle colonne da Castiglione verso Solferino. È dato ordine al Comando della L Armata di spingere in avanti con tutte le sue forze, e di non dirigersi col grosso delle truppe verso Medole, ma sopra Castiglione a cavallo della grande strada, per fare andare a vuoto l'attacco nemico contro quel punto.

» Io mi trovo sull'altura di Cavriana.

» Cavriana, il 24 giugno, a 11 ore e un quarto antimeridiane.

Sottoscritto:» Francesco Giuseppe m. p.»

(2) Nel mattino del 24 Napoleone aveva partecipato a Canrobert di avere avuto notizia durante la notte che il giorno prima un grosso corpo di Austriaci era uscito da Mantova avviandosi a Marcarla, ed aveva già coi suoi avamposti raggiunto Acquanegra sul Chiese. In fatti la Divisione Jellacic del II. Corpo era partita da Mantova in quella direzione, per prendere parte alle operazioni dell'esercito principale, e con ordine di agire sull'ala destra dell'inimico al di là di Castel-Goffredo, Questo movimento, che poteva avere un effetto decisivo sul fianco e alle spalle dei Francesi, non fu mandato ad esecuzione, essendo stato riferito al principe Liechtenstein, il quale aveva voluto assumere il comando superiore della Divisione Jellacic, che un corpo francese, la Divisione d'Autemarre, aveva passato il Po a Casalmaggiore; e Liechtenstein aveva trattenuto la sua Divisione presso a Marcarla lungo l'Oglio. Più tardi, quando Napoleone ingiunse a Canrobert di appoggiare maggiormente sulla destra di Niel, quantunque l'annunziato corpo austriaco non si mostrasse in niun luogo, Canrobert credette nullameno necessario di tenere riunite le sue truppe pel caso di un incontro possibile. Sette aiutanti speditigli da Niel, dalle 9 del mattino sino alle 2 pomeridiane, poterono finalmente ottenere che disponesse in suo sostegno la Divisione Renault, e ch'egli stesso si portasse alle 3 del pomeriggio sul campo di battaglia nelle vicinanze di Cà Nuova.

140 CAPITOLO VENTESIMO.

il possesso, mentre a Casa Baite e Casa Nuova la lotta continuava colla più grande ostinatezza.

L'insuccesso della I. Armata nel suo movimento in avanti, gravitava sinistramente sull'esito della giornata. Incuorato dal vedere le schiere di Wimpffen impigliate nella pianura senza che riescissero ad inoltrare, Napoleone spingeva la Guardia imperiale, sua unica riserva, all'attacco decisivo delle posizioni centrali tuttavia occupate dagli Austriaci a Solferino. La prodezza delle Brigate Puchner e Festetics, lanciatesi alla carica contro il nemico vittorioso, non pervenne a ristabilire la battaglia. La Bocca fu presa. Il battaglione di granatieri del reggimento Reischach sostenne con isplendido eroismo la difesa del castello e del cimitero, ma solo non poté naturalmente resistere. Le due posizioni, assalite dai Francesi da tre lati ad un tempo, andarono egualmente perdute. Erano allora due ore. Il VII. Corpo, che da Foresto s'era inoltrato nel frattempo in parte verso Solferino per San Cassiano, in parte verso Cavriana, non giunse a tempo per ritardare l'abbandono di Solferino, o dare sopra questo punto una piega favorevole alla pugna; ma occupando fortemente Cavriana e le alture circonvicine, valse a proteggere la ritirata del centro, sinché, avanzando l'inimico dai colli di Solferino che dominano quella posizione, e fulminandola colle artiglierie, fu impossibile mantenervisi più a lungo.

Caduto intorno alla stessa ora eziandio San Cassiano in potere de' Francesi, la I.» Armata sotto il comando del conte Wimpffen, quando pure non si fosse portata avanti e si fosse soltanto mantenuta nella sua posizione, poteva ancora, se il contrattacco sul lato più vulnerabile dell'avversario fosse riescito, esercitare importante influenza sulle sorti della battaglia. Nel momento in cui Niel, intrapreso un attacco contro Guidizzolo, veniva respinto con gravissime perdite sopra Baite, la I.» Armata passò ancora una volta all'offensiva. Intorno a tre ore e mezzo tre forti colonne di Austriaci mossero da Guidizzolo, tentando di riconquistare Casa Nuova e Rebecco; ma, lanciata una Divisione di cavalleria francese sul fianco sinistro degli assalitori, non riuscirono.

Perduto Solferino, volto a male il contrattacco all'ala destra de' Francesi, all'Imperatore d'Austria, che a lungo s'era tenuto esposto a Cavriana a violentissimo cannoneggiamento, fu forza

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 141

ordinare la ritirata generale, che la Divisione del principe Alessandro d'Assia doveva particolarmente proteggere al centro. I Francesi che avevano occupato San Cassiano, spintisi verso Cavriana e seriamente respintine, erano ritornati all'assalto. Il principe d'Assia ordina una seconda volta un movimento in avanti, ed i Francesi vengono una seconda volta rincacciati a San Cassiano. Ma battaglioni accumulandosi su battaglioni, Brigate su Brigate, astringono il principe a ripiegare strenuamente combattendo sopra Cavriana (1). La Divisione di cavalleria Mensdorff, tornata alla carica per la terza volta, tentò ancora una fiata di respingere il nemico che avanzava in grandi forze. I Francesi seguirono da presso il principe d'Assia, ma non attaccarono vigorosamente Cavriana caduta in lor mano soltanto allorché gli Austriaci se ne ritrassero. Erano quattro ore e mezzo quando i Francesi occuparono Cavriana, e nella pianura era respinto l'ultimo loro attacco contro Guidizzolo.

In quel momento l'uragano, che romoreggiava fortemente da un'ora, si scatenava con istrania violenza. Nugoli immensi di polve si elevano in turbini giallastri. Al vento furioso che travolge nello spazio i rami spezzati degli alberi, e rende mal sicuro lo stare in piedi, s'aggiunge un diluvio di pioggia e di gragnuola. Si direbbe che le tenebre della notte fossero tutto ad un tratto discese ad avviluppare la terra. Al tremendo fracasso d'oltre a settecento cannoni era venuto a succedere Torrido rimbombo de tuoni e lo scoppio delle folgori. Era l'ora da Dio assegnata a termine di quella lotta da leoni, in cui intorno a duecentosettantaquattromila uomini avevano senza posa combattuto per quattordici

(1) Cognato dell'Imperatore Alessandro li. di Russia, e fratello del Granduca regnante d'Assia-Darmstadt, il principe Alessandro, che già si era distinto nel combattimento di Montebello, in codesta terribile giornata di Solferino singolarmente rifulse per ammirabile sangue freddo, la più instancabile in trepiditi, il più brillante eroismo. Presa dalle mani del portainsegna la bandiera d'un battaglione di granatieri, si lanciava in tal modo alla testa della sua Divisione all'attacco delle colonne francesi. Fu perciò creato, prima d'ogni altro, cavaliere dell'Ordine militare di Maria Teresa, Ordine che l'Imperatore medesimo secondo gli Statati non può conferire, senza intervento del Capitolo, se non nel solo caso che egli nella sua qualità di Gran Maestro giudicasse opportuno di ricompensare sul campo di battaglia azioni di affatto straordinario valore.

142 CAPITOLO VENTESIMO.

ore sotto la sferza d'un sole più dell'usato cocente. Il combattimento aveva finito affatto su tutta la linea. Quando, dopo quasi un ora, l'uragano cessò, notevole distanza separava Austriaci e Francesi; né questi, esausti di forze, erano in grado di riappiccare la pugna (1).

(1) La precisa indicazione di forze combattenti in giorni determinati forma d'ordinario la disperazione degli scrittori. Da parte francese, dopo che fu pubblicata da quel Governo con imperiale splendidezza l'opera ufficiale: Campagne de l'Empereur Napoléon., 1859, si ha una confessione autentica intorno alla forza dell'esercito alleato che prese parte effettiva nella battaglia di Solferino. Vi è detto a pag. 295: «L'armata francese e sarda contava 173, 603 uomini d'infanteria e 14, 353 di cavalleria, insieme 187, 956 combattenti; dei quali presero parte alla battaglia 124, 472 uomini d'infanteria e 10, 762 di cavalleria, in tutto 135, 234 combattenti.» Da parte austriaca il tenente-maresciallo Ramming, a que' giorni incaricato delle mansioni di sottocapo di Stato-Maggiore dell'esercito imperiale, in seguito alle più diligenti e scrupolose ricerche su' documenti ufficiali, mise in chiaro (Beitràge zur Schlacht von Solferino, pag. 118) il numero esatto de' combattenti austriaci che si trovarono effettivamente al fuoco in quel dì: 139, 000 uomini, compresa la cavalleria, con 438 cannoni. Nella Campagne succitata (pag. 294) questo numero era stato elevato a 163, 124 combattenti, sommando insieme «146, 635 uomini e 16, 489 cavalli», e fingendo di scambiare cavalli bestie con cavalli uomini a cavallo; ridicola e puerile soperchieria, ben indegna d'un Ministero della Guerra di grande nazione, che non occorreva essere uomo di professione per rilevare e valutare giusta il suo merito. Basta infatti svolgere le pagine del «Pro» spetto di dettaglio dello stato de' due eserciti» per vedere, per esempio, come alle due Divisioni di cavalleria, Zedtwitz e Mensdorff, si assegnino prima 6080 uomini e 6010 cavalli, e poi si computino «combattenti 12, 090.» Così i quattro squadroni dell'VIII. Corpo si precisarono, dopo averne sommato il numero reale degli uomini fra i combattenti del Corpo, in 1669 cavalli, ciò che avrebbe dato una forza di 417 uomini per squadrone che ne annoverava poco più di 100, abbracciando nel numero 1669 i cavalli bestie delle batterie d'artiglierie, e sommandoli poi tutti cogli uomini come di metodo. Tutto questo perché si potesse credere che gli alleati vinsero un avversario superiore di un quinto della loro forza. Le forze numeriche in infanteria erano pressoché bilanciate, laddove in cavalleria i Francesi erano superiori d'un terzo, in artiglieria gli Austriaci avevano notabilissima superiorità. Nel 24 giugno gli alleati non poterono condurre al fuoco che 312 cannoni, gli Austriaci 126 di più. I corpi austriaci impegnati nella battaglia del 24 disponevano sul luogo di 488 cannoni, senza contare 88 cannoni di riserva della I. Armata, le quattordici batterie con 112 cannoni della riserva della li. Armata, e la riserva generale d'artiglieria dell'esercito,

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 143

Frattanto, d'accosto al Lago di Garda fra Benedek e l'ai» sinistra degli alleati un'altra battaglia erasi combattuta. L'esercito sardo inoltrava in due grandi colonne. La colonna di destra, composta delle Divisioni l.a e 2., aveva ordine di marciare da Lonato per Castel-Venzago verso Madonna della Scoperta; la colonna di sinistra, formata delle Divisioni 3.a e 5.a, da Desenzano e Rivoltella per San Martino verso Pozzolengo. Quest'ultima colonna fu la prima a scontrarsi coll'inimico. Erano le sei e mezzo del mattino allorché la sua avanguardia s'imbatteva a Ponticello, a soli 1500 passi di distanza da Pozzolengo, co' posti avanzati dell'VIII. Corpo austriaco, e li respingeva indietro. Alquanto più tardi, intorno le 7 , anche la colonna sarda di destra si urtava coll'avversano presso Madonna della Scoperta, da cui egualmente gli Austriaci furono costretti a ritirarsi.

Le truppe dell'Vili. Corpo erano ancora occupate nel loro rancio. Benedek fé'loro prendere le armi, e coll'antica sua capacità ed energia, senz' attendere ordini ulteriori né l'ora in precedenza assegnata pel generale movimento in avanti, passò d'allora egli stesso all'offensiva. Spinse parte delle sue forze verso la colonna, sarda di destra, parte verso Madonna della Scoperta. I Piemontesi furono ben presto obbligati ad abbandonare Ponticello e rincacciati sino a San Martino, a metà strada fra Pozzolengo e Rivoltella. Malgrado la valente difesa, le alture di San Martino caddero verso 9 ore in potere degli assalitori, ed i Sardi, dopo inutili tentativi di riconquistare quella posizione ed alcuni successi di breve durata, dovettero dare indietro ancora, oltre la ferrovia che da Rivoltella va a Peschiera. Né meglio arridevano le sorti a' Sardi sulla loro destra, che furono rapidamente scacciati da Madonna della Scoperta ed inseguiti buon tratto nella direzione di Castel-Venzago.

Un attacco posteriore dei Piemontesi alle alture di San Martino riuscì in principio su tutti i punti ad onta del fuoco micidiale degli Austriaci, che arrecò grande strage nelle file della 5. Divisione. A mezzogiorno sembrava che la fortuna sorridesse ai Piemontesi;

consistente in sedici batterie e 128 cannoni, gran parte delle quali artiglierie o non aveva peranco varcato il Mincio, od appena oltrepassatolo nel pomeriggio del 24 (Mollinarv; Studitn Uber die Operationen und Taetique ter Franzosen, pag. 74).

144 CAPITOLO VENTESIMO.

ma ben presto l'attacco volse di nuovo ad una mala riuscita, e dovettero ritirarsi affatto dal campo di battaglia. Le perdite della 5.a Divisione in particolare furono tali, da non potersi pensare ad altro se non a formarla di nuovo, ed essa ritirassi di un sol tratto sino a Rivoltella sul Lago di Garda. La Divisione Mollard, di cui alcuni distaccamenti erano stati travolti nella fuga della Divisione Cucchiari sino a Rivoltella (i), fu rincacciata al di là della ferrovia, fra questa ed il lago. Il successo di Benedek era splendido e completo, e la sconfitta de' Sardi sì fatta che non permetteva loro più di tentare un ulteriore ritorno all'offensiva. Richiamata l'attenzione di Benedek sulla sua sinistra, subentrò alla sua destra la più perfetta calma.

La perdita della postura centrale degli Austriaci a Solferino doveva forzatamente mutare le condizioni della loro ala destra. Durando, che fra Castel-Venzago e Madonna della Scoperta colla 1. Divisione era particolarmente impegnato nella lotta, nulla aveva potuto conseguire. Ma dopo le due, allorquando gli Austriaci eransi ritirati da Solferino verso Cavriana, la sinistra di Benedek si vide costretta ad abbandonare volontariamente Madonna della Scoperta, che allora soltanto Durando poté finalmente occupare. Questo insperato e inglorioso successo, ed i progredienti vantaggi de' Francesi al centro, determinarono il Re di Sardegna ad ordinare si provassero mitigare in qualche modo il solenne rovescio fatto subire nel mattino al suo esercito. A tutte le schiere piemontesi fu ingiunto di fare uno sforzo supremo verso San Martino e Pozzolengo. Il nuovo attacco contro le alture di San Martino cominciò col fuoco delle artiglierie dopo le quattro, nel mentre stesso che Benedek riceveva l'ordine per la ritirata generale.

(1) Cuoce immensamente a' Piemontesi quella brutta storia della ritirata o più propriamente vera fuga sino a Rivoltella. Il tenente-colonnello Roberto Patresi, traduttore dell'opera del Rustow, se la piglia con questo scrittore perché non negò il fatto innegabile, ed afferma (pag. 507) che «la relazione del Capo di Stato-Maggiore dell'esercito sardo, in data 26 giugno, dice che si ritirarono verso e non a Rivoltella.» Ma i generali comandanti le due Divisioni battute, Cucchiari e Mollard, nei loro Rapporti ufficiali del 3 e 5 luglio, confessarono senza reticenze che la ritirata fu propriamente sino a e non verso Rivoltella (Vedi: Zobi; Cronaca, Vol. IL, pag. 804 e 313).

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 145

L'uragano separava i combattenti; ma, cessato questo, i Piemontesi spintisi all'assalto dovettero, dopo una lotta accanita, rinculare senza aver potuto conseguire il minimo vantaggio. Il valoroso tenente-maresciallo Benedek non poteva obbedire che con somma ripugnanza all'ordine di ritirarsi, dura necessità cui pure alla fin fine doveva sottostare. Vittorioso sopra i Sardi per tutta la giornata, tuttavolta non aveva voluto lasciare ad essi la opinione che lo avessero più tardi battuto.

L'ordine di dover dare indietro sul Mincio impedendo a Benedek di ripigliare nel pomeriggio l'inseguimento degli assalitori respinti, i Piemontesi rimasero abbastanza vicini alle alture di San Martino per inquietare col fuoco delle loro artiglierie e con vivace perseguitazione la partenza successiva delle schiere austriache, che da ultimo non era più possibile evitare. Solamente dalle 7 in poi Benedek abbandonò mano a mano alcune delle posizioni da lui occupate; ma soltanto dopo le 8 sgomberò interamente le alture di San Martino per ritirarsi sopra Pozzolengo, non. senza aver fatto eseguire un altro ed ultimo attacco dalla sua retroguardia. In quella fase finale, aggroppatosi tutto l'esercito sardo intorno a San Martino, questa dovette abbandonarvi tre cannoni (1): non pertanto protesse con successo la ritirata del Corpo,

(1) La pugna sostenuta fra l'esercito sardo e l'ala destra degli Austriaci in quel dì i Piemontesi appellarono la vittoria di San Martino, e Vittorio Emanuele decorarono col nome di eroe di San Martino. Se vincitore in battaglia è colui che appieno conseguisce quello scopo che si aveva in precedenza prefisso, colui che respinge gli attacchi dell'inimico, lo insegue, lo obbliga a ritirarsi al di là della portata delle sue artiglierie, sin dove paree piace all'inseguitore; se vincitore è colui che, attraversati tutti i disegni dell'avversario, lo sforza a smettere ogni velleità di ritornare ancora all'offensiva; certamente non mai poté né potrà cader dubbio di sorta alcuna se Benedek od i Sardi abbiano vinto. Secondo gli ordini dell'Imperatore dei Francesi l'esercito sardo doveva portarsi nel mattino del 24 sopra Pozzolengo, parte per Madonna della Scoperta, parte da Rivoltella per San Martino. Da Madonna della Scoperta convenne che i Piemontesi dessero indietro, né riuscì loro di pervenirvi se non quando, occupato dai Francesi Solferino e dai Francesi girata la posizione dì Madonna della Scoperta, gli Austriaci dovettero ritirarsi unicamente in conseguenza de' successi dei Francesi. Da Rivoltella i Piemontesi vennero di primissimo mattino sino a Ponticello, percorrendo di tal guisa cinque sesti della distanza da Rivoltella a Pozzolengo. Gli Austriaci erano in quel momento occupati a mangiare;

146 CAPITOLO VENTESIMO.

operatasi col più grande ordine e colla maggior calma. Benedek tenne occupato Pozzolengo, in niun modo molestato dall'inimico, sino a 11 ore di notte.

ma dacché scambiarono la gamella per il fucilo, i Piemontesi si videro rincacciati sino a Rivoltella, né a Pozzolengo questi poterono venire se non il giorno dopo, e dopo che gli Austriaci se ne erano ritirati spontaneamente. Le alture di San Martino divennero meta suprema degli sforzi de' Piemontesi; ma alle 9 del mattino essi avevano già affatto perduta quella posizione, tutti i tentativi per riconquistarla furono vani, e solamente dopo le 8 della sera poterono riaverla, ed anche allora unicamente perché gli Austriaci se ne allontanavano per propria volontà. Dalle quattro e mezzo del pomeriggio il combattimento aveva cessato del tutto fra Austriaci e Francesi, né fu ripreso più tardi; cessato l'uragano, i Piemontesi vollero riappiccarlo, sperando lavare Tonta della sconfìtta del mattino. Non fecero che aggravarla; tutti i loro attacchi furono respinti nel pomeriggio, come lo erano stati tutti i loro attacchi prima dell'uragano. Secondo i documenti ufficiali annessi all'opera ufficiale: Campagne de l'Empereur Napoléon III en Italie, gli Ordini di battaglia del 24 giugno, le quattro Divisioni sarde, rinversatesi sopra l'VIII. Corpo austriaco nelle ore pomeridiane, sommavano a 41, 537 combattenti con 11 batterie; e l'VIII. Corpo austriaco, compresa la Brigata del VI. Corpo provvisoriamente aggregata al medesimo in quel dì, noverava 25, 100 combattenti con 10 batterie. Gli Austriaci inferiori di 16, 437 uomini, stavano a' Piemontesi nella proporzione di 3 a 5, e nullameno questi non riuscirono in nulla, in niun luogo, a nessuna ora. Benedek aveva durante la battaglia una posizione alquanto indipendente; egli non costituiva che un'ala di un grande esercito, del quale il centro e l'ala sinistra dovettero cedere a fronte de' Francesi. Se in forza di questo avvenimento, in cui i Piemontesi non ebbero la benché minima parte, Benedek fu astretto alla sua volta ad obbedire agli ordini del suo comandante supremo, e ritirarsi solamente quando a lui piacque, questa sua ritirata medesima non fu in sostanza che una nuova sconfitta po' Sardi, i quali si videro respinti quante volte vennero all'attacco. Lo stesso luogotenente-generale Cucchiari, comandante la 3. Divisione, confessa nel suo Rapporto ufficiale, riportato dallo Zobi (Cronaca, Vol. IL, pag. 315), che: «era sull'imbrunire quando il nemico sloggiava ancora» una volta i nostri da quelle posizioni sulle alture di San Martino.»

Quanto al titolo di eroe di San Martino, se a Palestra Vittorio Emanuele appalesò coraggio personale, esponendosi effettivamente a pericoli, il 24 giugno non si allontanò mai un momento da Castel-Venzago, ove stette a grande distanza da ogni combattimento, in posizione donde poteva vedere appena il lontano fumo delle artiglierie. «Da Castel-Venzago», narra lo Zobi (Cronaca, Vol. IL, pag. 261),» si riconduceva il Re a pernottare in Lonato, sicuro che il trionfo de' suoi gli apparecchiava un nuovo serto, la corona d'Italia.»

GLI ALLEATI IN LOMBARDIA. 147

Cessato appena l'uragano, i Francesi facevano un tentativo d'inseguimento al centro da Cavriana contro le posizioni degli Austriaci; una batteria di racchette bastò ad arrestare quel movimento. La Brigata Gablentz stette al Boscoscuro, subito al di là di Cavriana, sino alle 10 della sera; poi rimase a Volta, non inquietata, sino al mattino del giorno appresso. Nella pianura la retroguardia della II.» Armata tenne occupato Guidizzolo sino alle 10 pomeridiane del 24, e solamente allora cominciò a ritirarsi senza essere punto inseguita.

Gravissime le perdite di entrambi gli eserciti. Morti o feriti giacquero 28, 244 (1): degli Austriaci 13, 020 (2), degli alleati 15, 224, Francesi 10, 802 (3), Sardi 4422 (4); prigionieri 6944 Austriaci (5), degli alleati 2832: Francesi 1574, Sardi 1258 (6). Complessivamente, fra morti, feriti e prigionieri, gli Austriaci perdettero 19, 964 combattenti; gli alleati 18, 056, de' quali Francesi 12, 376, Sardi 5680. La perdita minore ebbero gli Austriaci

Niuno contesta il coraggio e la valentia dell'antico esercito sardo; ma se i Francesi non vincevano a Solferino, certamente che «il trionfo de" suoi» era stato tale quel dì da apparecchiare a Re Vittorio Emanuele senza dubbio alcuno un nuovo serto, la corona di spine.

(1)

Sopra 274, 234 combattenti, Austriaci 139, 000, alleati 135, 234, che presero parte alla battaglia di Solferino, la perdita in morti e feriti sta nella proporzione di 1 a circa 9 3/4; pegli Austriaci nella proporzione di 1 a circa 10 3/4 pegli alleati di 1 a quasi 8 3/4, pei Francesi, 93, 697, di a 8 2/3. Morti sul campo di battaglia rimasero 4841.

(2)

Giusta l'opera: Campagne de l'Empereur Napoléon III.

(3) Della Guardia imp.le; morti 181 a),

feriti 704 a),

prigioni 73 a)

Del 1.° Corpo

610 a),

3162 a),

659 a),

Del 2.° Corpo

234 a),

1361),

275 a),

Del 3.° Corpo .37 a), 257 a), 19 a),

Del 4.° Corpo 632 c), 3624 e), 548 c),

morti 1694, feriti 9108, prigioni 1574.

a) Dall'opera: Campagne de l'Empereur Napoléon III.; b) Dal Rapporto del maresciallo MacMahon, presso Bazancourt (Vol. IL, pag. 466); e) Dal Rapporto del maresciallo Niel, presso Bazancourt (pag. 477).

(4)

Dalla Tabella delle perdite subite dall'esercito sardo durante la Campagna del 1859, compilata dallo stesso Stato-Maggiore-generale sardo (Zobi;Cronaca, Vol. li., pag. 318319).

(5)

Secondo i documenti ufficiali nell'opera dello Stato-Maggiore prussiano: La Campagne d'Italie en 1859 (pag. 181).

(6)

Giusta l'opera: Campagne de l'Empereur Napoléon III.

148 CAPITOLO VENTESIMO.

comandati da Benedek (1); la maggiore, veramente enorme, i Francesi del corpo di Niel (2).

Quantunque la sua linea d'operazione fosse del tutto falsa (}, Napoleone era pervenuto ad appropriarsi sul campo di battaglia la vittoria. Egli aveva ottenuto un successo brillante, ma, come a Magenta, non avea vinto punto una battaglia decisiva. Come a Magenta, gli Austriaci conservavano a Solferino la sera dello stesso giorno una parte del campo di battaglia; come a Magenta, un inseguimento qualunque non poté aver luogo. Era un nemico sfortunato che si ritirava, non un nemico disfatto; un nemico che aveva singoli corpi da riorganizzare, ma non più che l'avversario medesimo. Il 25 giugno la l.a Armata austriaca, richiamate le sue retroguardie sulla riva sinistra del Mincio, faceva saltare i ponti a Goito. Il quartiere imperiale fu stabilito a Verona, quello della I.a Armata a Roverbella, quello della II. a Villafranca. Ancora sino al mattino del 26 la retroguardia della II.a Armata tenne occupata la riva destra del Mincio ne' punti di passaggio, senza essere in niun modo molestata da' Francesi. Il 27 e 28 giugno l'esercito austriaco traversò l'Adige. Cinque giorni dopo la battaglia di Solferino, il 29 giugno, una Divisione francese varcava finalmente il Mincio; il primo di luglio tutta l'oste alleata passò sulla sinistra di questo. Lasciata a' Sardi la cura d'investire Peschiera, una sortita degli Austriaci da codesta piazza, nel 3 luglio, fu coronata di successo; i Sardi dovettero lasciare nelle loro mani considerevole numero di prigionieri. Napoleone si trovava alfine in vista del famoso quadrilatero.

(1)

La perdita totale dell'VIII. Corpo austriaco, compresa la Brigata-Reichlin del VI. Corpo, fu di 2182 ufficiali e soldati: morti 353, feriti 1634, prigionieri 195. Il corpo di Benedek avendo avuto in quel dì una forza di 25, 100 combattenti, la sua perdita fu di un uomo per ogni 11 j; mentre i 41, 537 Sardi a lui contrapposti ebbero una perdita nella proporzione di 1 a 7 4. È abbastanza singolare il fotte risultante dalla battaglia fra Benedek e l'esercito sardo, che, laddove ogni 9 Austriaci bastarono per porre fuori di combattimento 2 Sardi, occorsero 19 Sardi per mettere fuori di combattimento l'Austriaco.

(2)

Sopra i 22, 012 combattenti del 4.° Corpo francese la perdita complessiva fu di 4804; quindi nella proporzione di 1 a 4 1/2. L'eroica costanza di quel Corpo, e la valente direzione del generale Niel, valsero meritamente a questo il bastone di maresciallo di Francia.

(3)

Rustow; Guerra d'Italia, pag. 388.

149

CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

Rivolte nei Ducati.

Il principe Napoleone in Toscana. - Una missione ben definita, ben compresa, bene spiegata. - I maneggi del principe per guadagnarsi i voti dei Toscani vanno a male. - La setta riannoda le fila delle orditure a Parma. - La Reggente persiste neutrale. - «Mutan linguaggio i saggi col mutar de' tempi.» - Dopo una mezza vittoria una mezza rivelazione. - Memorandum parmense del 25 maggio. - Corpi-franchi dal Piemonte invadono il Pontremolese. - Cavour si leva affatto la maschera rimpetto alla Duchessa Luisa. - Inghilterra prende sveltamente la difesa della Reggente. - Luisa di Borbone è costretta abbandonare Parma. - II Consiglio Municipale da lo Stato al Piemonte. - La notte del 9 maggio a Parma. - Le truppe parmensi riparano nello Stato estense. - Scioglimento e consegna delle armi e bandiere a Mantova. - Una parola d'onore onestamente mantenuta. - I Governi provvisorii a Parma e Piacenza. -Le vittime del 22 luglio 1854. - Sardegna si annette gli Stati parmensi. - 11 Duca di Modena prende la via dell'esilio. - I rettori provvisorii a Modena. - Un'altra annessione. - Fedeltà delle truppe estensi.

L

a ritirata degli Austriaci da Milano e dalla linea del l'Adda, ed il successivo concentramento dell'esercito, che ne conseguitò, sul Mincio e sul Po, lasciavano campo aperto a' sovvertitori. Rotti i freni, le onde della rivolta, che da Sardegna e Toscana romoreggiavano minacciose, non dovevano più arrestarsi che alle sponde dell'Adriatico.

La Toscana aveva ad avere un Re; ma poiché già era stato deciso che in Italia non dovessero ormai essere che Re non più per la grazia di Dio, bensì per la grazia del popolo, ch'è quanto dire per suffragio universale, facea mestieri che il Re d'Etruria in aspettativa venisse a far da sé i fatti suoi, ed era giusto che i futuri suoi sudditi potessero mirarlo in volto e apprezzarne i meriti personali, le virtù, il valore. Fu annunziato adunque che un quinto Corpo d'esercito, da raccogliersi in Toscana, verrebbe aggiunto all'armata francese d'Italia, ed affidatone il comando al principe Napoleone, con incarico, dissero, d'intraprendere sul fianco sinistro degli Austriaci operazioni militari di gran rilevanza. Partito da Parigi coll'Imperatore,

150 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

il principe sbarcava con esso a Genova nel 12 maggio. Poco tempo prima, nel mattino del 31 gennaio di quell'anno, nella stessa Genova lo stesso principe Napoleone, reduce da Torino ove si era recato ad impalmare Maria Clotilde di Savoia, aveva avuto lungo colloquio con Mazzini, convenutovi espressamente a quest'uopo, scienti e permittenti quel medesimo Cavour e quel medesimo Governo sardo, che non molto avanti aveano in Genova fatto condannare a morte in contumacia il Mazzini; colloquio in cui il fondatore della Giovine Italia, sulla solenne assicurazione del principe che l'Italia sarà fatta libera, unita e forte, promise di non turbare con verun movimento repubblicano la prossima «guerra d'indipendenza.»

Per compiere le importanti imprese guerresche che si affermavano affidate al 5.° Corpo in Toscana, una delle due Divisioni d'infanteria, di cui quel Corpo si comporrà, approda a Genova; ma appena a terra, la Divisione è spedita a rinforzo del Corpo di Baraguey-d'Hilliers a Vogherà. Il 17 maggio l'Imperatore de Francesi scrive al principe cugino che l'altra Divisione parta per Livorno e Firenze. «La comparsa a Firenze,» dice Napoleone III. (1),» d'un corpo d'esercito di cui s'ignora il numero, produrrà un» grande effetto, e forzerà gli Austriaci a dividersi.» II telegrafo reca a Tolone l'ordine di porre sulle navi la Divisione Uhrich, ed il 23 maggio il principe sbarca a Livorno colle prime truppe. Il principe, imagine vivente della presunzione boriosa e della vanità ciarliera, era già a Toscana notissimo, tanto per certe clamorose avventure allorché soggiornava in sua giovinezza a Firenze, quanto per ben conte gesta mentr'era comandante d'una Divisione in Crimea. Ei s'avea fatto per di più precedere da una lettera esplicatoria (3), perocché lo storico stipendiato della Campagna d'Italia (2) afferma: «un'attitudine ben netta, ben franca, era la sola che potesse convenire al cugino dell'Imperatore;» nella quale scriveva al Commissario del Re di Sardegna in Toscana: «Sopra la domanda di due» inviati toscani presso l'Imperatore, ho ricevuto l'ordine di occupare la Toscana. L'Imperatore ed il Re

(1)

Lettera dell'Imperatore Napoleone al principe Napoleone, 17 maggio 1859 (Bazancourt; Campagne d'Italie, Vol. II., pag. 5).

(2)

Lettera del principe Napoleone Girolamo al commendatore BonCompagni, Genova 19 maggio.

(3)

Bazancourt; Campagne d'Italie, Vol. II, pag. 8.

RIVOLTE NEI DUCATI. 151

» vogliono ch'io prenda sotto il mio comando le truppe italiane. Sono spedito dall'Imperatore per uno scopo esclusivamente militare, per aiutare il paese nella guerra dell'indipendenza italiana ch'egli ha» intrapresa. Mi sta a cuore che facciate ben conoscere da per» tutto, ch'io arrivo, non come un principe francese con viste po» litiche, ma unicamente come comandante in capo del 5.° Corpo per operazioni militari. La scelta della mia persona non fu fatta dall'Imperatore se non perché i quattro primi corpi d'esercito sono già scaglionati sul Po, mentre la più gran parte del mio si trova ancora in viaggio.» Quest'ultima era infatti la più semplice, la più chiara, e sopra tutto la più convincente ragione del mondo per giustificare la sua nominazione al comando delle soldatesche spedite in Toscana. Ed una verità poi diceva il principe, là dove affermò che inviati toscani avevano supplicato l'Imperatore Napoleone affinché mandasse qualche Reggimento francese a Firenze. Solamente il principe, scrivendo al BonCompagni, tacque come ciò fosse avvenuto. Niuna Potenza straniera, dalla Francia in fuori, aveva voluto riconoscere il nuovo Governo di Toscana, l'Inghilterra in particolare avendo avuto occasione ufficiale di manifestare il suo pensiero in modo che non ammetteva replica (1). Di più la stessa Inghilterra erasi altamente adombrata allorquando si cominciò a buccinare che la Toscana potesse essere stata promessa ad un principe francese. Pertanto, per non intorbidare gli animi maggiormente, e poter

(1) Il Governo inglese avendo inviato a Livorno il Conqueror, suo vascello di cento cannoni, il capitano ricusò di salutare, secondo l'uso, la nuova bandiera toscana. Del che commosso il Governo provvisorio di Firenze, arguendo da quella ommissione la conseguenza che la Gran Brettagna non intendeva di riconoscerlo, sporte sopra ciò le sue lagnanze al Gabinetto di Londra per mezzo del Ministro di Sardegna presso la Corte d'Inghilterra, quello rispose: «che la rivoluzione non aveva stabilito in Toscana un Governo permanente, che lo stesso paese aveva provvisoriamente alienata la sua indipendenza, ponendola sotto la dittatura del Redi Sardegna, sì che non si potea il Governo toscano considerare come uno di que' Governi di fatto che l'Inghilterra è sempre pronta a riconoscere. Del resto, essere dovere del Ministero di non lasciare alterare ladistribuzione territoriale dell'Italia senza il concorso della GranBrettagna, segnataria dei Trattati del 1815, né potere il Ministro sardo rappresentore a Londra la Sardegna e la Toscana, perché non erano ancora annullate le lettere credenziali del Marchese Nerli, Ministro toscano.»

152 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

dire che se truppe francesi andavano in Toscana, questo avveniva unicamente perché i Toscani ne avean fatte calorose istanze e per necessità di difesa, l'Imperatore Napoleone fece dire al Gabinetto di Torino che facea mestieri provvedessero a quest'uopo. Cavour si affrettò darne avviso al suo BonCompagni, che fé' partire la deputazione, ricevuta la quale da Napoleone III., il principe cugino 8 ebbe il permesso di andarsene.

Prima ancora di por piede a terra, dalla rada di Livorno, a bordo della Regina Ortensia su cui aveva fatto la traversata, il principe indirizzò una proclamazione ai Toscani (1), in cui dichiarava essere stato detto da Napoleone III., non aver egli che una sola ambizione, quella di far trionfare la santa causa dell'indipendenza, e di non lasciarsi mai guidare da interessi di famiglia (2); e ripeteva: la mia missione è unicamente militare. Più tardi però, allorché il principe renderà conto all'Imperatore delle incruente azioni delle truppe che lo seguivano (3), dirà che la sua missione era stata politica e militare, e che la sua missione politica consisteva essenzialmente: «nel mantenere la Toscana nella linea di condotta tracciata dall'Imperatore de Francesi; nel non lasciar degenerare l'espressione del sentimento patriottico; nell'organizzare militarmente tutte le risorse che si potessero tirare, non solo dalla Toscana, ma eziandio dai Ducati di Parma e di Modena; e sopra tutto di permettere agli abitanti di fare erompere senza ostacolo l'espressione della loro riconoscenza per le benevole intenzioni di Sua Maestà l'Imperatore Napoleone III.» Se non che in un'epoca memorabile per copia di contraddizioni sì fatta, che la storia non rammenta forse l'eguale, una contraddizione di pii; o una contraddizione di meno parve cosa non meritevole punto di alcuna osservazione. Comunque fosse, il principe aveva tenuto almeno nel suo Rapporto il linguaggio che si addiceva ad un'attitudine, come attesta Bazancourt, ben netta, ben franca, la sola che potesse convenire al cugino dell'Imperatore; confessando che la sua missione politica stava

(1)

Inserita negli Atti e Documenti del Governo della Toscana, Parte I., pag. 149.

(2)

E questo i Toscani chiamano: metter le mani innanzi per non cascare.

(3)

Rapporto del principe Napoleone-Girolamo all'Imperatore, da Goito, il 4 luglio 1859 (Bazancourt; Campagne d'Italie, Vol. 2., pag. 478-482).

RIVOLTE NEI DUCATI. 153

nel fare appello alla rivolta quanto ai Ducati di Modena e di Parma, e quanto ai Toscani nel fare appello a quell'obbedienza ch'essi dovevano all'Imperatore de' Francesi, ed a quella riconoscenza cui non potevano venir meno per le benevole intenzioni dello stesso Imperatore, di regalare il Regno d'Etruria al principe cugino.

La discesa delle armi francesi in Toscana, ricognizione della rivolta per cui il legittimo sovrano era stato cacciato dal trono, suggello di autorità alla ribellione, intantochè ne assicurava il successo, era una di quelle violazioni del diritto pubblico internazionale, che verun artifizio di linguaggio diplomatico avrebbe potuto onestare. Napoleone III. mandava i suoi soldati in paese il cui sovrano non aveva fatta la più piccola offesa alla Francia, come la più piccola offesa non le aveano fatto i principi di Parma e di Modena; in paese il cui sovrano aveva anzi detto e ridetto alla Francia di volere starsene neutrale nella lotta, e invano chiesto e richiesto che questa sua neutralità fosse riconosciuta da essa. Napoleone III. mandava un principe della famiglia imperiale di Francia, il principe più d'accosto al trono, ad esercitare diritti di sovrano col disporre di sudditi toscani per formarsi un esercito (1), ed a guerreggiare l'Austria in paese che non peranco aveva dichiarata la guerra all'Austria (2).

Da Livorno, aperte personalmente le ostilità col Ducato di Modena, compiuta, col disarmo di quattro doganieri estensi, la sua prima ed ultima impresa durante tutta la durata della guerra (3), venne il principe nel 31 maggio a Firenze, e vi rimase.

(1)

Dacché il principe Napoleone pose piede in Livorno, Vittorio Emanuele, Re Protettore, pose le truppe toscane sotto il suo comando, con un Ordine del giorno (riportato dallo Zobi, Cronaca, Vol. I., pag. 364965), in cui, confortatele coll'assicurazione che non erano più truppe toscane:«Voi non siete più soldati di una provincia italiana; obbedite il mio amatissimo genero, lor disse, come obbedireste a me stesso. Egli ha comuni i pensieri e gli affetti con me e col generoso Imperatore che scese in Italia.»

(2)

Tale dichiarazione fu fatta solamente il 25 maggio, due giorni dopo che il principe era giunto a Livorno (Atti e Documenti del Governo della Toscana, Parte L, pag. 155.

(3)

Narra Bazancourt (Campagne d'Italie, Vol. IL, pag. 1819), che il 29 maggio il principe era a Pistoia, di dove, preso con sé quattro battaglioni ed una batteria d'artiglieria, mosse verso il Ducato di Modena. «il principe si spinse di persona sino al confine. L'appostamento, che ne occupava il limite,

154 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

Ma i Toscani, cui nulla afflitto caleva quanto a loro riguardo potessero avere convenuto a Plombières, non si davano veruna premura di mantenersi nella linea di condotta tracciata dall'Imperatore de' Francesi; pigliando alla lettera la solenne assicurazione del principe che la sua missione aveva uno scopo esclusivamente militare, ogni dì più guardavansi dal permettersi che «erompesse l'espressione della loro riconoscenza per le benevole» intenzioni dell'Imperatore Napoleone.» Non dubitando di fare al principe la più grata cosa con obbedire alla calda sua raccomandazione che si facesse ben conoscere dappertutto, essere egli arrivato, non come un principe francese con viste politiche, ma unicamente come comandante in capo del 5.° Corpo per operazioni militari, i Toscani eransi fatto un dovere di porre ogni miglior loro studio nel distinguere fra il comandante del 5.° Corpo d'operazione e la persona del principe francese. Le pratiche copertamente messe in piedi dal principe per guadagnarsi i voti dei Toscani, quantunque condotte con molta finezza (1), non poteano farsi strada fra mezzo alla repulsione universale. Avversato dalla grande maggioranza degli abitanti rimpiangente que' miti Granduchi, che per più che secolare regno avevano fatta prospera e felice la Toscana; avversato dalla parte piemontese, o com'ella stessa chiamavasi la parte nazionale, che, spinta dal BonCompagni, ben sapeva come sui disotto del foglio, su cui era da Torino venuta l'istruzione segreta: «Quando verrà in campo la candidatura del principe, lasciate correre,» si leggeva l'istruzione segretissima: «Quando verrà in campo la candidatura del principe, attraversatela in ogni guisa;» avversato da tutti, cui invano si veniva a dire: «la stirpe de' Bonaparte potersi dire

» non segnalò sopra questo punto verun movimento inquietante del nemico. I doganieri estensi furono disarmati; ed il generale Coffinières, comandante del Genio del Corpo del principe, organizzò all'istante mezzi di difesa, aperse feritoie nelle case respicienti la via, piantò una batteria di due cannoni.» Niuno nel Ducato di Modena pensava di ritogliere al principe la conquista ch'egli avea fatta senza colpo ferire. (1) Zobi; Cronaca Vol. I., pag. 378. - Lo stesso Zobi si vanta (pag. 374) che, «essendo stato ricercato da uno degli agenti del principe Napoleone di voler aderire al progetto rivolto a ripristinare l'effimero Regno etrusco, tosto rispose: essere ormai tempo che gl'Italiani cessassero di desiderare un basto nuovo per gettar via il vecchio ugualmente forestiero.»

RIVOLTE NEI DUCATI. 155

» italiana e più specialmente fiorentina d'origine,» pronti a rispondere: «adesso però i suoi interessi averla resa francese, e per conseguenza straniera all'Italia;» il principe non sapeva capacitarsi come potesse accadere a lui, cugino d'un Imperatore e genero d'un Re, che né per moine né per oro non avesse a riescire la più piccola cosa di quanto poco prima per oro e per moine era venuto a bene ad un semplice commendatore BonCompagni. Il principe aveva un bel mostrarsi cortese, gentile, italianissimo. Ogni suo detto, ogni suo atto era volto in derisione. Avendo egli dichiarato che facea mestieri fornire il suo esercito di alcune centinaia di cavalli, de' quali pativa penuria, fu ingiunto che quanti cavalli erano in Firenze convenissero in luogo determinato. Alla equina rassegna il principe stesso andò e lungamente stette; ed ecco i burloni affermare che, non riuscendo il principe ad affezionarsene i padroni, avea pensato di cominciare dall'affezionarsi i cavalli. Il novero microscopico de sudditi di Sua Maestà Napoleone I. Re d'Etruria non cresceva d'una unità. Quei quattro grami accaparrati per lui in precedenza, che lo Zobi chiama «radicali anelanti di pretesti e metti scandali (),» né godevano la pubblica stima, né esercitavano influenza di sorta alcuna. Ancorché ingegno di modesta levatura, fu forza al principe capire che la sua base d'operazione in Toscana era del tutto sbagliata e falsa, né poteva riescire ad altro che al ridicolo. Il concentramento degli Austriaci sulle linee del Po e del Mincio venne in buon punto a trarlo dal malo passo. Quel concentramento si traeva dietro la caduta delle legittime sovranità nei Ducati, la ribellione negli Stati pontificii.

A Parma gli avvenimenti sì rapidi che contrassegnarono i primi giorni del maggio 1859, «queste tre giornate in cui la truppa italiana della Casa di Borbone aveva cancellato il ricordo di tre altre giornate (1),» questa restaurazione compiuta per la sola forza della fedeltà, avevano dischiusa, malgrado il trionfo del 4 maggio, una nuova era gravida di difficoltà e di perigli. La sconfitta sofferta alle porte stesse del Regno, così solenne

(1) Cronaca degli avvenimenti d'Italia, Vol. I., pag. 578.

(2) Parole della Duchessa Lutea, nella lettera ai suoi figli, da Parma il 4 maggio 1859, riportata dal Riancey (Madame la Duchesse de Parme devant l'Europe, pag. 1012).

156 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

ne, così perfetta, doveva naturalmente ferire nel più vivo gli uomini della rivoluzione ed i direttori di scena in Torino, coi l'offeso amor proprio vie meglio stuzzicava a conseguire più pronta la rivincita. Le fila delle orditure, sconnesse per lo sperpero del Comitato parmense, i riannodarono prestamente sotto la protezione del Draghi. Troppo scarsi e troppo vili per impegnare una lotta a viso scoperto, gli agitatori disfogavano il loro dispetto col rendere oggetto d'insulti senza posa le truppe fedeli. La longanimità de' soldati fu messa alle più dure prove. Ogni giorno, nelle vie, nelle osterie, nei Caffè, chiunque portava un abito militare si vedeva esposto ad ingiurie; lettere anonime, minacele di morte fioccavano senza tregua agli ufficiali. Più d'una volta, nella Cittadella e nelle caserme, le truppe avendo manifestata l'intenzione ben decisa di fulminare la città alla prima velleità di sommossa, i capi di corpo duravano la maggior fatica ad infrenare e reprimere que' bollori. Era evidente che si aveva mutato tattica; e non potendo più sperare di riuscire nella via delle seduzioni, si poneva ora in opra ogni mezzo per far scappare la pazienza a soldati, sinché si lasciassero andare a qualche atto sconsiderato e brutale. Le raccomandazioni de' comandanti agli ufficiali ed ai soldati, a questi sopra tutto, perché si contenessero nella calma, nella moderazione, nella tolleranza, e l'eroismo della sommissione vinsero sugli animi concitati. D'altronde, occupando la Cittadella, padroni della città da questa e dalle loro caserme, sicuri di non annoverare più tra le fila traditori, concordi, numerosi, provveduti di munizioni e d'artiglierie, il sentimento della propria forza contribuiva a renderli generosi; tenendosi certi che se la sommossa avesse osato alzare il capo nelle vie, né l'esito sarebbe rimasto dubbioso, né la Reggente sarebbe stata in forse, come non lo era rimasa punto il 22 luglio 1854.

In luogo competente erasi preveduto ogni caso, tutto discusso, tutto convenuto. La Reggente di Parma aveva sempre innanzi a sé schiusa la via a tre diverse linee di condotta a seguire: la neutralità, partecipazione alla guerra a fianco dell'Austria, partecipazione alla guerra a fianco degli alleati. Se stretta da ragioni di guerra, o da qualsivoglia altro motivo, si fosse gettata dalla parte dell'Austria, avrebbesi avuto là pure buon giuoco; soccombente l'Austria, il destino dei Borboni di Parma era tracciato.

RIVOLTE NEI DUCATI. 157

Se si fosse alleata a Sardegna e Francia, allontanate le truppe parmensi dalla capitale, un pretesto qualunque, un nonnulla, quattro straccioni che gridassero: Annessione al Piemonte!, avrebbero bastato per torsi da' piedi quella incomoda sovranità. Se infine, in onta a tutto, avesse voluto perdurare nella neutralità proclamata, ne avrebbero colto argomento per trattarla da ostile e da nemica, come que fanciulli indocili e testardi che non intendono altra ragion che le busse. L'idea della neutralità erasi siffattamente radicata nell'animo della Duchessa che per niun evento avrebbe voluto ornai dipartirsene. Per non allearsi a' Franco-sardi aveva riparato a Mantova, e stava per chiedere asilo alla Svizzera neutrale; per non allearsi all'Austria, fuggitiva da Parma, aveva rifiutato a Mantova, il 2 maggio 1859, qualsivoglia soccorso d'armati (1), come prima aveva rinunciato di prevalersi del benefizio del Trattato del 1848.

La Reggente Luisa giudicava della situazione colla rettitudine della sua coscienza. Quantunque alla mente elevata e lucidissima l'istinto della madre rivelasse, che non era già con quella sua neutralità che l'avessero, ma sì unicamente col trono di suo figlio, molesto inciampo che attraversava ogni via; essa faceva indirizzare, il 12 maggio, a tutti i rappresentanti là Corte di Parma presso le Potenze straniere istruzioni speciali contenenti solenne conferma della dichiarata sua neutralità, e l'espressione del desiderio, «che le grandi Potenze s'impegnino a ricono» scere ed a fare rispettare questa neutralità ch'è conforme alla» condizione in cui si trova il Ducato, non avendo né dato né ri» cevuto alcuna causa di offesa da parte di veruno Stato.» Allorquando, in sul principio di quell'anno, la Francia si limitava ad insinuare alle Corti italiane, che nel caso di ostilità eventuali, non pigliassero partito né per Austria né per Sardegna, ed il Governo parmense dichiarava appunto di volersi in quel caso mantenere del tutto neutrale, la Francia erasene dimostrata appieno soddisfa, e sino dalla fine del gennaio il Ministro Walewski non aveva avuta alcuna difficoltà di assicurare il Mon, Ministro di Spagna e rappresentante ad un tempo la Corte di Parma a Parigì,

(1) H. de Riancey; Madame la Duchesse de Parme devant l'Europe, pag. 1213.

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del perfetto appagamelito dell'Imperatore, essendo quella, diceva, «la sola condotta che potesse essere consigliata alla Duchessa di Parma.» Tosto che poi, sopraggiunte le ostilità, dichiarata altamente da1 sovrani destinati a cadere prima degli altri quella neutralità che si avea loro tanto caldamente raccomandata e richiesta, incominciarono a far intendere netto, non essere neutralità che si voleva da loro, ma bensì aperta e franca alleanza; Mon ebbe un bel ricordare ciò che gli aveano detto in addietro, e i pericoli corsi dalla Reggente per mantenersi neutrale così come aveano voluto. Pur continuando a protestare per la Reggente, come a suo tempo si era egualmente continuato a protestare per la Corte di Toscana, assicurazioni di rispetto, d'interessamento, di benevoglienza, d'amicizia, il conte Walewski non trovava ora che obbiezioni da opporre, basate sulla «situazione» geografica degli Stati di Parma riguardo alla guerra attua» le.» Mon insisteva, e Walewsky ripetere: «che l'Imperatore» era al campo, ma prenderà i suoi ordini.» E gli ordini, or ora vedremo, tardarono infatti ben pochi giorni a venire.

Trasmettendo a Torino la Nota del 12 maggio, lo stesso giorno il Gabinetto parmense inviava a Don Coéllo, rappresentante di Spagna e di Parma presso il Re di Sardegna, due dispacci a parte. Nell'uno era fatto uffizio speciale presso il conte di Cavour affinché il Governo di Torino si dichiarasse sulla preghiera «di stabilire nettamente la politica di neutralità che la Duchessa Reggente ha diritto di vedere riconosciuta»; nell'altro veniva segnalato a quel Governo «l'abuso ch'era stato fatto del nome del Re di Sardegna da parte degl'insorgenti, abuso di cui certamente il Gabinetto di Torino non potrebbe essere creduto complice; perocché il Governo ducale stima, che se la Giunta avesse voluto rimettere il potere al Re, ess'avrebbe veduto respingere con indegnazione un progetto così contrario, non solamente al buon diritto, ma ai legami di parentela che uniscono le due case regnanti, ed a quelle relazioni di leale amicizia e di buon vicinato che hanno sempre esistito fra i due Stati.» Don Coéllo non pervenne a raggiungere il conte di Cavour che il 21 maggio. Invano nel frattempo Pallavicino aveva reiterato, ad affrettare la conferenza e la risposta, lettere e dispacci telegrafici. Intrattanto era accaduto il combattimento di Montebello,

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che, tenuto in conto di una mezza vittoria pe' Francesi, dava opportunità di pensare al Governo di Torino, essere venuto il momento di lasciarsi andare, riguardo a Panna, a una mezza rivelazione.

Il 23 Cavour rispondeva: «Il Governo sardo essere stato straniero agli avvenimenti de' primi giorni di maggio. Quanto alla neutralità del Ducato, essere difficile di ammetterla, mentre Piacenza è occupata da cinquantamila Austriaci, da di là minaccianti le truppe alleate.» Come se l'occupazione di Piacenza per parte dell'Austria fosse un fatto dipendente dalla libera volontà del sovrano di Parma; come se, senza risalire sino alle origini di quel diritto di occupazione, l'Articolo 5.° del Trattato segnato in Parigi il 10 giugno 1817 non avesse, quarantadue anni prima, sancito: «che la fortezza di Piacenza, offrendo un interesse più particolare al sistema di difesa dell'Italia, l'Austria conserverà in quella città, sino all'epoca delle reversioni, dopo l'estinzione del ramo spagnuolo de' Borboni, il diritto di guarnigione, della quale le spese ed il mantenimento saranno a peso dell'Austria, e la sua forza in tempo di pace determinata tra le parti interessate;» come se per codesta stipulazione l'Austria non avesse avuto ogni più ampio diritto di tenervi in tempo di guerra quel qualunque numero di truppe che meglio le fosse piaciuto!

Alle obbiezioni di Walewski, alle difficoltà di Cavour, la Reggente Luisa rispose, il 25 maggio, con un Memorandum (1) indirizzato alle Corti d'Europa; e colla missione di due inviati speciali, il Cattani ed il conte dall'Asta, Governatore di Parma, incaricati di recarsi a Torino, al campo degli alleati, presso l'Imperatore de' Francesi, e giungere a veder netto. Il 27 maggio i due inviati partirono. Tutto ciò era troppo molesto. La situazione diveniva insostenibile, bisognava ormai dichiararsi; e da Torino e dal campo alleato i fili telegrafici portarono l'ordine che si facesse la luce. Ben presto l'alta voce de' fatti avrebbe soffocati i cicalecci della diplomazia.

L'attacco incominciò sulla frontiera parmense dal lato di Pontremoli. Il 27 maggio, durante la notte,

(1) H. de Riancey; Madame la Duchesse de Parme devant l'Europe, pag. 4145.

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una banda d'armati appartenenti a' Corpi-franchi che si andavano accogliendo sul territorio sardo, varcato il confine, sorprendevano, assalivano, disarmavano gli appostamenti de' gendarmi e delle Guardie di Finanza a Zeri, uno de' sei Comuni della città di Pontremoli. Nel mattino l'aggressione si estende. Invano gli altri appostamenti tentano opporsi, eh» forza è cedere alla superiorità del novero. Ai Municipii s'impone di votare la decadenza del Governo ducale, l'annessione al Piemonte, la richiesta d'un Commissario sardo. Con coraggio veramente ammirabile, in condizioni sì fatte, il Contsglio degli anziani di Bagnone, altra delle sei assemblee costituenti il Municipio di Pontremoli, ricusa di obbedire alla violenza vincitrice, protesta e si dimette dall'ufficio. A tre ore una forte colonna con artiglierie entra nella stessa Pontremoli. Guidata dal generale Ribotti, ne facean parte il Reggimento sardo Real Navy (1), ed alquanta infanteria regolare toscana, inviatagli dal Governo di Firenze. Si sa che le milizie toscane dipendevano ormai, dal 24 maggio, dal principe Napoleone. Così, mentre in Parigi Walewski assicurava il Ministro Mon che prenderà gli ordini dell'Imperatore, l'Imperatore dal Piemonte li dava, portando, senza dichiarazione di guerra, le ostilità contro chi in ogni modo aveva protestato e provato di non volere pigliar parte alla guerra. Così, pel più brutale abuso della forza, si portavano le armi contro due oggetti sacri fra le nazioni più barbare, una madre e un fanciullo, non d'altro rei che di non avere a' lor cenni dugentomila baionette per far rispettare quella neutralità proclamata, che ognuno in Europa, da Francia e Sardegna in fuori, aveva riconosciuta.

A Pontremoli i gendarmi e i doganieri, che vollero mantenersi fedeli, sono accerchiati, disarmati, gettati in prigione. Gli stemmi parmensi sono abbattuti. Il generale Ribotti intima al Prefetto ducale, marchese Appiani di Piombino, di riconoscere l'autorità della Sardegna. Appiani rifiuta riciso; Ribotti lo fa arrestare e guardare a vista. Appena la notizia dei fatti di Pontremoli giungeva a Parma, la Reggente faceva spedire per telegrafo una domanda di spiegazione e di riparazione a Torino. L'interpellazione di Pallavicino a Cavour suonava: «Mi si riferisce che, contro ogni diritto,

(1) Reggimento d'infanteria della Marina di guerra.

RIVOLTE NEI DUCATI. 161

» il Prefetto Reale, marchese Appiani di Piombino, è tenuto in ostaggio a Pontremoli da un sedicente generale Ribotti, e che le Guardie di Finanza e i gendarmi vi sono arrestati. Faccio appello a Vostra Eccellenza per ottenere la loro messa in libertà immediata, salvo intrattenerne più lungamente Vostra Eccellenza per lettera. Le domando una risposta telegrafica.» Partito il 30 maggio, il dispaccio non ebbe riscontro che il 31. La risposta per telegrafo fu; «Il Ducato di Parma essendo la base d'operazione dell'armata nemica, non è possibile d'impedire che, anche da parte nostra, delle ostilità non arrivino.» Menzogna s'aggiunge a menzogna. Falso che il Ducato fosse la base d'operazione degli Austriaci, o potesse nemmeno diventarlo. Non un soldato austriaco stette mai sulla destra sponda della Nura. Se il movimento degli alleati avesse avuto a scopo una minaccia dì fianco sopra Piacenza, la violazione del territorio parmense avrebbe avuto luogo da Bobbio sulla sinistra riva di quel fiume, non dal più lontano angolo del Ducato, da Pontremoli sul versante mediterraneo degli Apennini.

Per giungere a Torino, e non trovarsi avviluppati fra' belligeranti sulla via da Piacenza ad Alessandria, gl'inviati della Reggente, Cattani e Dall'Asta, avevano dovuto per lunga aggirata pigliare la strada di Liguria. Arrestati dal generale Ribotti, non avendo potuto continuare il loro viaggio se non comprovando la missione diplomatica di cui stavano investiti, erano alfine pervenuti a raggiungere il conte di Cavour. Il silenzio di questi intorno all'arresto del marchese Appiani, questo fatto decisivo non disapprovato in modo alcuno nella risposta telegrafica, non poteva certamente interpretarsi che come una dichiarazione di guerra. Nullameno la Duchessa aveva insistito per esigere dal Governo di Torino una spiegazione formale. Fu allora che Cavour si strappò l'ultimo lembo della maschera, dichiarando: «La Sardegna non può in veruna maniera riconoscere una neutralità, che è non solamente in contraddizione col carattere del movimento attuale italiano, ma che in diritto ed in fatto si trovò violentemente rotta a suo detrimento dal principio delle ostilità dell'Austria contro il Piemonte.» Nello stesso tempo rimandò Cattani. Diritto e fatto stavano contro Sardegna. In diritto Luisa di Borbone non era menomamente responsabile di avvenimenti conseguitanti

162 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

da stipulazioni europee, che non istava in suo potere attraversare e impedire; i fatti attestavano per lo contrario la cura, spinta allo scrupolo, con cui dallo scoppio delle ostilità s'era costantemente tenuta, quanto umanamente era possibile, neutrale. Ma chi si curava di valutare fatti e diritti, allorché qualunque enormità parea lecita e onesta, e la fortuna volgeva propizia al misfare?

Era il 4 giugno. La Reggente sapeva alfine a quale estremità si trovava. Essa si era già separata da quanto aveva di più prezioso al mondo, tutta la sua figliuolanza, posta al sicuro in Isvizzera. Sola ed impavida ella era rimasta sulla breccia. Mentre la Francia, la stessa Francia che non ha guari era andata superba di avere alzata la voce a difesa del diritto de' neutri, l'imprescrittibile diritto de' deboli, proclamato la più onorevole conquista del genio della civiltà e del cristianesimo, veniva a spodestare innocui e pressoché inermi Sovrani, la Duchessa Luisa riceveva dalle Potenze straniere, da tutta Europa, le attestazioni più lusinghiere di viva simpatia, d'interessamento vero. Non tenendosi paga al mettere una fregata inglese a sua disposizione, ad offerirle un asilo a Malta od in qualunque altro territorio britannico le fosse meglio piaciuto, l'Inghilterra adoperava direttamente in suo favore tutta la sua influenza, d'ordinario abbastanza ascoltata a Parigi, abbastanza rispettata a Torino. A lord Cowley, ambasciatore a Parigi, a Sir James Hudson, Ministro a Torino, il Governo inglese ingiunse di reclamare con ogni energia perché Francia e Sardegna rispettassero il Ducato di Parma, e ne ritraessero le truppe già inviatevi. «La presenza di quelle truppe sul territorio parmense, diss'ella senza gran giri (1), non può essere considerata che come un impiego crudele ed ingiustifìcabile della forza contro uno Stato piccolo e debole, amministrato da una donna sprovveduta di mezzi sufficienti per mantenere la sua indipendenza contro le violenze di un esercito di invasione, quantunque desiderosa di evitare di prender parte alla guerra desolatrice che incrudelisce sulle frontiere, e facente il suo possibile per governare il suo popolo con umanità e con giustizia.»

(1) Dispaccio del conte di Malmesbury, Ministro degli Esteri, a lord Cowley, ambasciatore britannico in Francia, del 7 giugno 1859.

RIVOLTE NEI DUCATI. 163

Che mai poteva l'appoggio morale in quel mentre che all'antico diritto delle genti si voleva sostituito il diritto nuovo, il diritto del fatto materiale, il diritto del fatto compiuto!

Sir Campbell-Scarlett e Don Escalante, Ministri d'Inghilterra e di Spagna presso la Reggente, eransi recati a Parma per proteggerla al bisogno. Gli avamposti delle truppe di Ribotti stavano già ad alcune ore di cammino da Parma. Ogni speranza era perduta; nullameno essa resisteva, e ogni qualvolta le avevano parlato di partenza vi si era rifiutata. Agli affanni morali vengono ad aggiungersi gli affanni fisici: la sera del 7 giugno un'irritazione di petto l'incoglie, ed una febbre ardente l'inchioda sul letto del dolore. l'8, l'esacerbazione della malattia è al colmo, come l'esacerbazione del pericolo. Gli invasori inoltrano, lentamente sì, ma pure incessantemente. 0 fuggire, o restare prigioniera degli alleati; e nulla ostante l'eroica donna risponde sempre: Aspettiamo ancora. La sera, dominando la violenza del male, s'alza, riunisce il Consiglio, discute, provvede; tutti la pressano, ed ella resiste ancora, resiste sempre. L'indomani, 9 giugno, verso le undici ore del mattino, un dispaccio telegrafico annunzia che gli Austriaci cominciarono d'improvviso disposizioni per lo sgombero di Piacenza. L'invasione sta per venire innanzi anche da quella parte. Finalmente a tale novella, la Duchessa cede e pronunzia la fatale parola: Partirò, Riunisce i suoi più fedeli servitori; essa medesima vuoi loro annunziare che li lascia. Fa chiamare ne' suoi appartamenti la compagnia di fanti di servigio al palazzo. La voce spezzata, s'indirizza a' soldati; li ringrazia della loro fedeltà, della loro devozione, con quelle frasi semplici, affettuose, toccanti, di cui possiede sì bene il secreto. Che riportino ai lor camerate le sue parole: sian essi testimonii della violenza di cui è vittima, della protesta che ripete contro l'invasione dello Stato, contro la violazione dei diritti di suo figlio. Che domandino, che esigano dalle truppe l'ultimo pegno di devozione che da esse reclama la loro sovrana: il sagrifizio della loro giusta vendetta.

Accompagnata dai Ministri d'Inghilterra e di Spagna (1),

(1) Sir Scarlett non la lasciò che a Mantova; Don Escalante la seguì sino a San Gallo in Isvizzera.

164 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

seguita da Palla vicino (1), la Duchessa Luisa abbandonava Parma, che non dovea mai più rivedere (2), lasciando un affettuoso proclama alle popolazioni (3), un toccante addio alle truppe (4), ed un atto contenente istruzioni speciali (5), da portarsi a pubblica conoscenza, determinante: che tutti i Ministri, tosto che essa sarà uscita di città, cessino dalle loro funzioni, affidate provvisoriamente ai segretarii generali de' Ministeri; il Municipio di Parma si riunisca senza indugio per eleggere una Commissione di Governo; sinché codesta Commissione assuma l'esercizio del potere, le truppe siano sotto il comando del generale Crotti, e se più tardi avvenimenti di forza maggiore ìe ponessero in condizioni penose, possano considerarsi siccome prosciolte dal giuramento; tre mesi di soldo bì accordino agli ufficiali, un mese a' sottoufficiali, mezzo mese a' soldati, che, dopo avere concorso alla difesa dell'ordine, volessero rinunciare al servigio militare. Con altro documento, per il tempo intermedio tra il momento della sua partenza e l'assunzione del governo da parte della Commissione nominata dal Municipio, la Reggente conferiva i suoi pieni poteri, col titolo di Commissario Reale straordinario, al Draghi, Direttore della Polizia generale; al Draghi, membro del Comitato Nationàle parmense!

(1)

Andò colla Duchessa in Isvizzera, e stette presso di essa. Infrante coll'astuzia le pattuizioni di Villafranca, calpestate le stipulazioni di Zurigo, proclamato da Torino il Regno d'Italia, spazzata ogni altra dinastia legittima dal suolo della Penisola, un bel di, dopo di avere sino allora intascati dalla cassetta privata della Duchessa gli emolumenti che percepiva in Parma, il marchese Pallavicino si dipartiva da essa, pretestando l'assoluta necessità di dare assetto ad urgentissimi interessi familiari. Mai più si rivide. Andò a Torino, e ne ripartì con in saccoccia un Decreto per cui fu liquidata la sua pensione di Ministro, e gli si pagarono «gli arretrati a partire dal giorno 9 giugno 1859,» giorno in cui si era allontanato colla Reggente da Parma!

(2)

Giunta a Venezia il 18 gennaio 1864, ammalatavi il 21, mancò di febbre tifoidea il 1.° di febbraio, in mezzo a patimenti indicibili contenendo i teneri sentimenti di madre con privarsi del caro aspetto de' figli, per tema di comunicar loro una malattia ch'essa reputava pericolosa.

(3)

Zobi; Cronaca degli avvenimenti d'Italia, Vol. IL, pag. 14.

(4)

H. de Riancey; Madame la Duchesse de Parme devant l'Europe, pag. 6870.

(5)

H. de Riancey; Madame la Duchesse de Parme devant l'Europe, pag. 6768.

RIVOLTE NEI DUCATI. 165

II giorno innanzi, la Duchessa aveva data facoltà al Consiglio Municipale di Parma di aggregare a sé trenta membri straordinarii. 11 Consiglio 8 era adunato, eletti i trenta. Il podestà di Parma, principe Diofebo Soragna, convoca il Consiglio ampliato; ma appena ragunato, la ribellione alza il capo nel suo seno. Soragna, che lo presiede, rifiuta di associare il suo nome a deliberazioni fellonesche, e sull'istante si dimette dall'ufficio. Botto la pressione degli uomini del Piemonte il terrore fé il resto. A quattr'ore dello stesso giorno una Notificazione (1) annunzio che la Commissione di Governo, da nominarsi poi poteri deferiti al Consiglio dalla Reggente, era stata eletta coll'incarico di reggere lo Stato sinché il Re di Sardegna provvegga!

La partenza della Duchessa aveva gettati gli animi de' soldati in cupa costernazioue. Chi rifiutava di credervi, chi protestava di voler andare a cercarla e ricondurla sotto la protezione di quelle armi fedeli, che l'avevano già restaurata una volta. Ognuno avrebbe voluto dividere con essa i dolori dell'esilio. A gran pena potevansi persuadere e contenere, quando la Notificazione del Municipio venne a ricolmar la misura. Un documento sì odioso ed abbietto doveva naturalmente ferire nel più vivo del cuore quelle brave milizie, che per avere debellata la rivolta del

(1) «Il Municipio di Parma.

» Visto il proclama di S. A. B. la Duchessa Reggente LuisaMaria, in» data l'oggi;

» Nomina una Commissione di Governo coll'incarico di reggere il» paese sinché il Governo del Re Vittorio Emanuele vi provvegga.

» Essa è composta dei signori: conte Girolamo Cantelli, vice-presidente dottor Pietro Bruni, ingegnere dottor E variato Armani; e prende immediatamente l'esercizio della sua autorità.

» Parma, il 9 giugno, a 4 1/2, ore pomeridiane.

» Per il Podestà:

» Il Sindaco: G. Vicenzi.

» I Segretarii provvisorii

» G. Osenga.

» S. Rappaccioli.»

Il Municipio si riferisce al proclama della Reggente, ed è sulla base di codesta autorità che getta le fondamenta della rivolta e dell'usurpazione!

166 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

maggio avevano a risentire più che mai pungente l'ingiuria fatta a' suoi legittimi principi. Obbedire ad una Commissione di Governo, guardiana dei diritti del sovrano, nulla di ciò più semplice, e la Reggente stessa lo aveva ordinato. Ma obbedire ad una Commissione di Governo, che prima ancora di assumere il potere dichiarava di pigliarlo in nome del Re di Sardegna; farsi complici dell'usurpazione e stromenti del tradimento; rinnegare la fede giurata, l'onore, la bandiera; permutare la coccarda di Roberto di Borbone colla coccarda di un sovrano che non era il loro; era quanto le truppe parmensi non avrebbero fatto giammai. Piuttosto marciare sui ribelli, piuttosto cannoneggiare la città.

L'incrollabile fermezza, lo sdegno, la collera de' soldati, la volontà formalmente espressa di non obbedire che a' loro capi nei limiti tracciati dal loro dovere, accesero le ire degli uomini della rivoluzione. Cerchi e capannelle si formano presso alle caserme ed agli appostamenti di guardia. D'improvviso, chiunque porta un vestito militare è assalito per le vie. Ufficiali, che senza diffidenza recavansi a' loro quartieri, sono insultati, disarmati, battuti, insino spogliati. L'appostamento della Piazza d'armi viene attaccato da una turba che pretende a gran grida le armi, e con promesse e minaccio tenta corrompere ed intimidire i soldati. Gli ufficiali fanno prendere a questi le armi, e l'accozzaglia è dispersa. Per evitare una nuova collisione i soldati di quell'appostamento furono fatti ritirare in Cittadella; ma per istrada parecchi d'essi caddero pugnalati a tradimento. Nello stesso tempo tutti gli appostamenti erano assaliti; alcuni meno importanti vennero disarmati, in altri i soldati furono uccisi o feriti.

Alla vista de' commilitoni che accorrono sanguinosi e in disordine, i battaglioni acquartierati nella Cittadella non si contengono, danno di piglio alle armi, si aggruppano intorno agli ufficiali, altamente protestando: «Vendichiamoci degli assassini!» Bombardiamo la città; e quando avremo consumata l'ultima nostra cartuccia, partiamo colle nostre bandiere e ritiriamoci a Brescello! L'onore sia salvo; il sangue de' nostri compagni non resti invendicato.» Invano gli ufficiali tentano di calmare gli spiriti concitati, invano ricordano che la Reggente medesima, partendo, aveva chiesto da essi il sagrifìzio della loro giusta vendetta. «No, no!,» rispondono,» non è la Duchessa che abbia

RIVOLTE NEI DUCATI. 167

» dato l'ordine di non far fuoco sui ribelli; sono gli ufficiali, che vanno d'accordo coi briganti e vogliono tradirci. Al bisogno, abbiamo cartucce anche per essi!» Alla fine, a forza d'istanze, lo Stato-Maggiore pervenne ad ottenere che si astenessero da ogni sortita aggressiva contro la città. Nullameno i soldati rifiutavano di lasciare più a lungo esposte al furore de' sollevati le truppe disperse nell'interno della città. Si convenne di concentrarle nella Cittadella; e nella loro impazienza gli artiglieri tirarono dall'alto delle mura del Forte tre colpi di cannone. A questo segnale d'allarme il 2.° battaglione d'infanteria ed il drappello degli operai d'abbigliamento accorsero.

Que' colpi di cannone avevano sparsa la più viva apprensione nelle fila de' rivoltosi. Un nerbo d'armati si precipita verso la caserma della Pilotta, ove aveano stanza il Corpo delle Guide Beali ed una compagnia di Cacciatori. Queste truppe uscivano in quel mentre in buon ordine. Accolte da fuoco abbastanza nudrito, dovettero aprirsi il passaggio con una carica vigorosa. Parecchi caddero da entrambe le parti, volti in rapida fuga gli assalitori. La guardia del Palazzo Reale poté co' suoi due cannoni ritrarsi in Cittadella senz'essere molestata. I soli Gendarmi rimasero in città, sobillati dal Draghi e dal Maggiore Guastalla, loro comandante, comperato con trentamila franchi; per cui furono altamente encomiati da' Triumviri (1). Intanto le campane della città suonavano a stormo, barricate ai alzavano agli sbocchi delle vie principali. Un ritorno offensivo delle truppe era il supremo terrore dei capi del movimento, come il più ardente voto de' soldati. A undici ore di notte, mentre la città s'illuminava e le campane chiamavano gl'insorti alla difesa delle barricate, le truppe frementi, ma docili alla voce dell'obbedienza, uscirono di Cittadella, dalla porta di soccorso. Con meraviglioso esempio di moderazione, di generosità, di abnegazione, di dipendenza, si avviavano verso la frontiera estense, nella direzione di Brescello; convenuto tra loro che, deposte in luogo sicuro le bandiere, le artiglierie, le armi, si scioglierebbero.

Ad Un miglio da Brescello la Brigata, guidata dal generale

(1) Decreto della Commissione governativa parmense, del 10 giugno.

168 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

Crotti (1), si arrestò, un aiutante di campo recando avviso al co mandante del Forte dell'arrivo e delle cause. Dopo parecchie ore di riposo fu apportata al generale la risposta del Duca di Modena: proseguissero il cammino sino a Gualtieri, borgata nelle vicinanze di Guastalla, ove troverebbero quartieri e viveri. La sera di quello stesso giorno 10, parecchi messi giungevano in Gualtieri con incarico di presentare agli ufficiali e a soldati offerte di danaro e di servigio in nome del Governo ribelle di Parma. Anche quest'estremo tentativo di seduzione andò fallito, le truppe dichiarando di volere tenersi alla facoltà' accordata dalla Reggente, di poter andarsene ciascuno ove meglio credesse. Frattanto il generale Crotti aveva deposto il comando, assunto dal colonnello Perini. Il mattino dell'11, sulla pubblica piazza di Gualtieri, le truppe, solennemente prosciolte dal giuramento di fedeltà, si dispersero colla più tranquilla ed esemplare regolarità. Ufficiali e soldati ebbero congedi individuali; le casse dei Corpi pagarono ad ognuno il soldo decretato dalla Reggente. I fucili e le altre armi, le munizioni, le giberne, i sacchi, i caschetti, furono caricati sopra carri. Un certo numero di ufficiali e soldati chiese di essere accolto nelle truppe estensi, i più si sbandarono in varia direzione, alcuni pochissimi presero la via di Parma. Una scorta, destinata ad accompagnare in luogo sicuro le bandiere, i cannoni, le armi, rimase perfettamente ordinata, risoluta di non abbandonare codesto prezioso deposito se non a missione compiuta. La sera medesima, il colonnello Perini, lo Stato-Maggiore della Brigata, la scorta, toccarono il suolo austriaco a Borgoforte. Il 12 entrarono nella fortezza di Mantova a tamburi battenti e bandiere spiegate. Le bandiere furono deposte alla Granguardia della piazza, dopo avervi ricevuti tutti gli onori militari. Una Convenzione si estese fra il colonnello Perini ed il Governatore della Fortezza di Mantova, per cui le artiglierie e le armi vennero date in custodia a quell'arsenale. Congedi si rilasciarono a soldati, e quasi tutti rientrarono isolatamente alle lor case.

Un battaglione d'infanteria, che dopo l'invasione di Pontremoli era stato spedito in osservazione da quella parte, richiamato

(1) Crotti era stato chiamato al Comando supremo delle truppe la mattina del 9 giugno, quando la Duchessa stava per partire.

RIVOLTE NEI DUCATI. 169

nel pomeriggio del 9 a Parma dal generale Crotti, non aveva potuto giungervi a tempo per riunirsi al resto della Brigata. Il Governo provvisorio inviò lor incontro in tutta fretta suoi deputati; parlamentarono e convennero che deporrebbero le armi e si distoglierebbero prima di entrare in città, a condizione che ufficiali e soldati fossero individualmente accolti con riguardo. li Governo provvisorio accettò la stipulazione e promise sul suo onore, che veruno di loro avrebbe a subire la minima offesa o molestia. Allora il Maggiore Bonzi, comandante il battaglione, licenzia i soldati; e compiuto il disarmo e lo sperpero, entra solo ed ultimo in Parma. Ma appena oltrepassata la porta della città, un colpo di fucile è tirato su lui a bruciapelo, la palla gli sfiora il volto; nello stesso istante una frotta 'di forsennati lo circonda % lo afferra, mandando alte grida di morte. Baionette sono rivolte al suo petto, le sue decorazioni ed insegne violentemente strappato e calpeste, il suo uniforme stracciato in mille pezzi; poi lo trascinano per più di due ore lungo le vie della città, fra i fischi, i motteggi, le urla, le imprecazioni, le ingiurie, i maltrattamenti d'una turba sfrenata. Il leale Governo provvisorio lasciò fare. Quando a Dio piacque, gettarono il Bonzi, più morto che vivo, in una prigione della Casa di Forza. Tutto quel dì ed il successivo gli altri ufficiali del battaglione, che fidenti nella promessa dei governanti erano rientrati in città, vennero arrestati, svillaneggiati, percossi, e alla fine tradotti in quella stessa prigione; né a veruno fu dato riacquistare la libertà se non promettendo di entrare al servigio del Re di Sardegna. Fu in tal modo che gli onesti Triumviri mantennero la loro parola d'onore.

Fatta dichiarare dal Municipio di Parma «ripristinata l'annessione al Regno di Sardegna decretata nel 1848, que' Triumviri proclamarono (1): «La Commissione di Governo ristringer deve la sua' azione a preparare l'avvenimento del nuovo Governo. Coloro i quali si resero colpevoli verso il paese saranno sottoposti al rigore delle leggi.» Gli ufficiali, «che sedussero la truppa, furono dichiarati (2) nemici della patria privati del grado, delle onorificenze, degli stipendii. Nel pervertimento d'ogni

(1)

Proclama de' Triumviri parmensi, del 12 giugno.

(2)

Decreto del Triumvirato di Parma, del 14 giugno.

170 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

senso morale, chi vien meno all'onore, chi tradisce vilmente, è un eroe; chi non lo fa, chi adempie sino all'ultimo il debito dell'uomo onesto, è messo al bando, e quegli è il traditore Eppure era a quegli ufficiali medesimi che gl'insorti di Parma, la più gran parte furtivamente introdottivisi dal Piemonte, andavano debitori della loro salvezza; eppure senza quegli ufficiali non mai la sommissione de' soldati ducali avrebbe potuto raggiungere, nella condizione dell'animo in cui versavano, in sì alto grado l'eroismo dell'abnegazione. A Piacenza, appena sgombera dagli Austriaci, analoghi procedimenti. Le stesse mene, gli stessi effetti. Il Municipio, dichiaratosi «rappresentante naturale del popolo, decretava (1): «Rivive nella sua interezza la legge del 17 marzo» 1848, il Patto che Piacenza strinse coll'illustre martire Carlo» Alberto, di sacra memoria. Piacenza ed il Ducato ritornano oggi» sotto il reggimento di Vittorio Emanuele.» Nello etesso tempo, il governatore ducale, marchese Manara, fu arrestato e gettato in prigione; vi rimase due mesi.

Il dì 14 giugno il generale Ribotti entrò in Parma a capo delle sue soldatesche sardotoscane. Fu il giorno appresso che a capo della Gazzetta ufficiale (2) comparve quel documento con cui i tre dei Governo provvisorio di Parma, Cantelli, Bruni ed Armani, in più particolare maniera si studiarono tramandare i loro nomi alla posterità, decretando: «danni, interessi e spese saranno pagati dal Tesoro pubblico alle vittime della giornata del 22 loglio 1854, che senza provocazione alcuna erano state esposte alla licenza barbara e sfrenata de' soldati austriaci e parmensi.» Il 22 luglio 1854 (3), Parma aveva avuto per le vie lo spettacolo di bandiera rossa, coccarde rosse, berretti rossi, sciarpe rosse, barricate, pugnalate a tradimento, colpi di fucile sulle truppe dalle finestre e sul capo ai soldati tegole e pietre dai tetti delle case. Alla lor volta le truppe, senza provocazione alcuna, tirarono colpi di fucile e anche di cannone. Le barricate si sfasciarono, e qualche soldato con licenza barbara e sfrenata prese a mirare sì giusto sui tetti che il Barilla, capo dei dilettanti, discese in istrada

(1)

Notificazione Municipale, del 10 giugno.

(2) Gazzetta di Parma. Decreto della Commissione di Governo, del 15 giugno 1859.

(3)

Vedi: Vol. I., Le caute, pag. 182.

RIVOLTE NEI DUCATI. 171

con gran speditezza, senza venir giù per le scale. Poi, senza averne ottenuto il permesso né dai conte Girolamo 'Cantelli, né dal Barilla, i soldati condussero a vedere il sole a scacchi intorno ad un centinaio di quegli amatori del color rosso, che i gaglioffi di Parma aveano creduto colore repubblicano, presi colle armi alla mano, mentre attendevano alle innocenti loro esercitazioni. Cinque anni più tardi, i tre che reggevano lo Stato di Parma in nome del Re di Sardegna decretavano ricompense nazionali ai rossi del 22 luglio 18541 Che il Governo del Re di Sardegna e i Triumviri parmensi ci avessero intinto ne' baloccamenti di quelle povere vittime? Comunque sia, se era impossibile mentire alla storia con maggior sfrontatezza, era sommamente difficile imaginare decreto che in più alto grado fosse, è dubbio se maggiormente nauseabondo o ridicolo.

Lo stesso giorno 15 giugno il principe Eugenio di Savoia-Carignano, Luogotenente-generale di Vittorio Emanuele, dichiarava assunto dal Re di Sardegna il reggimento degli Stati parmensi (1). Due giorni più tardi, i Triumviri sparvero dalla scena; il conte Pallieri, nominato Governatore, pigliò in mano a Parma le redini del potere, alzò gli stemmi di Savoia, si fé' prestare solennemente giuramento di sudditanza da tutte le autorità. 11 conte Girolamo Cantelli, un momento sovrano, dovette star pago al modesto incarico di segretario del nuovo signore, il Pallieri. Due Piemontesi, Marco e Rocci, l'uno Deputato al Parlamento di Torino per Ivrea, l'altro antico Intendente di Vogherà, giunsero colla nomina d'Intendenti sardi a Parma e a Piacenza. L'annessione era un fatto, l'assorbimento completo.

l'11 giugno da Milano, l'Imperatore de' Francesi aveva inviato a Firenze per telegrafo l'ordine: «II principe Napoleone» concentrerà tutto il suo corpo d'armata a Piacenza. Il princi» pe effettuerà questa concentrazione per que' mezzi e quelle stra» de che reputerà convenienti.» Ed il dì stesso il principe aveva dati gli ordini di partenza pel mattino appresso. Di fronte all'abbandono di Piacenza da parte degli Austriaci, alla rivolta trionfante a Parma, alla discesa delle milizie del generale Ribotti dagli Apennini, al pericolo imminente dello avanzarsi de' Francesi

(1) Decreto riportato dallo Zobi (Cronaca, Vol. II., pag. 110-112).

172 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

da Toscana, il Duca di Modena, che senza spiegare alcun rigore straordinario aveva continuato a conservare la più perfetta tranquillità pubblica, abbandonava la sua residenza, senza esservi in nessun modo costretto dalla sommossa, senza avervi a reprimere né tentativi rivoluzionarii, né movimenti ostili de sudditi; verso i quali certamente non ebbe altra colpa, che gli meritasse il cacciamento, fuorché quella di avere per lunghi anni beneficato e retto lo Stato con un governo che fu vero modello di governo saggio e cristiano. Instituita una Reggenza a governare lo Stato, presieduta dal Ministro dell'Interno conte Luigi Giacobazzi, partì dalla capitale Fila capo delle truppe fedeli.

Ma ritirate appena da Modena, nel mattino del 13, l'ultime soldatesche, ecco a ripetervi le solite e ormai viete manovre. Gli emissarii del Piemonte, gli uomini della Società Nazionale italiana, sempre men numerosi a Modena che altrove, dan fuori, scorron la cavallina, strepitano, gridano: Abbatto l'Abbatto! Viva l'Italia! Con grande fracasso gli stemmi del Governo legittimo sono abbattuti dalle botteghe dei tabaccai alle porte de' pubblici Ufficii, la bandiera tricolore si porta in piazza ed in giro col consueto accompagnamento de' Viva a Vittorio Emanuele ed a Napoleone III., primo soldato e primo capitano dell'indipendenza italiana I «La plebe facea impeto nella reggia per discacciarne la» Reggenza istituita da Francesco V. (1).» La plebe! Sempre e da per tutto la plebe! La grande maggioranza delle popolazioni oneste si sdegna, guarda paurosa, o tremante si nasconde, o si allontana. Se i capi dei Municipii non sono della partita, o si dimettono spontanei dall'ufficio per non macchiarsi d'infamia, o si costringono a battere in ritirata più che di fretta. Municipio nuovo, Governo nuovo si eleggono; e sempre vengono a farne parte, così stabilito in precedenza, gli antesignani del movimento locale (2). Il primo atto de' governanti e Municipii novelli è di dare

(1)

Zobi; Cronaca degli avvenimenti d'Italia, Vol. II., pag. 96.

(2)

Que' di Modena amavano il progresso. Non si tennero paghi, come a Parma e a Piacenza, a soli triumviri;.vollero quinqueviri, e i cinque furono: Giuseppe Tirelli, Pietro Muratori, Emilio Nardi, Giovanni Montanari, Egidio Boni, «liberali sperimentati e cittadini generalmente stimati,»afferma lo Zobi, ben sapendo che per essere veritiero avrebbe dovuto scrivere: cittadini tutt'altro che generalmente stimati.

RIVOLTE NEI DUCATI. 173

il paese a Gasa Savoia. Dovunque nel 1848 eran riesciti a porre in piedi un simulacro di votazione popolare per l'annessione al Piemonte, appena seduti a scranna gl'intrusi rettori sentenziano «rivivente l'antico Patto,» e con un tratto dipenna la nuova annessione era fatta. Poi venivano gli squarci di brillante eloquenza a contrassegnare l'effimera vita de' Governi provvisorii, sinché giungesse da Torino il fortunato spedito a governare o sgovernare i paesi. Così a Modena i cinque proclamarono (1): «Disciolti per le immortali vittorie italo-franche i vincoli politici che ci tenevano costretti al Governo estense, rivivono come per diritto di postliminio quelli che pe' nostri voti concordi e liberissimi accomunarono nel 1848 le sorti nostre alle sorti de' magnanimi Subalpini.»

Il 15 giugno, un avvocato Luigi Zini, emigrato estense, s'insediò in Modena Commutano straordinario di Sua Maestà Sarda (); i quinqueviri rientrarono nel nulla. Lo stesso dì parte delle truppe del Ribotti venne a pigliar possesso di Modena; una usurpazione di più era compiuta. Solamente il giorno innanzi, 14, dopo di avere con tutto suo agio impiegato quattro dì a percorrere le quaranta miglia, che separano Modena dal Po, Francesco V., valicato il fiume a Borgoforte, aveva oltrepassate le frontiere dei suoi dominii.

Feraci d'insegnamenti le circostanze che accompagnarono la caduta delle legittime sovranità dei Ducati. Né il Duca di Modena, né la Reggente di Parma fuggirono dinanzi all'insurrezione, che non esisteva, o per necessità di disfatta subita in guerra; si ritrassero unicamente per semplice e forzata conseguenza della concentrazione che gli Austriaci operavano in quello stesso momento. La Reggente Luisa, che aveva rinunziato di prevalersi del Trattato del 4 febbraio 1848, purché non istabilire, all'occorrenza, il suo punto d'appoggio sull'Austria; che il 2 maggio 1859 a Mantova aveva ricusato ogni offerta di armati (3), era stata costretta

(1) Manifesto de' quinqueviri al popolo modenese, del 13 giugno.

(2)

Il suo primissimo atto fu di decretare, lo stesso giorno 15, che fosse posto sotto sequestro il patrimonio privato del Duca.

(3)

Al tenente-maresciallo Culoz, comandante la Fortezza di Mantova, presentatosi a ricevere, come disse, i suoi ordini pel generale Gyulai, coll'offerta di mettere a sua disposizione le truppe occorrenti per ristabilire immediatamente la sua autorità, ella rispose:

174 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

di cedere alla pressione straniera quanto il Duca di Modena, che franco e schietto avea seguito altra via; tant'era vero che la guerra occulta e palese, mossa da oltre Ticino e oltreAlpi a' minori sovrani d'Italia, era guerra a' troni ed alle dinastie, non alle persone de' regnanti od alla politica de' loro Governi, guerra di spogliazione e di rimpasti territoriali prestabiliti. Era serbato alle truppe di Francesco V. e di Luisa di Borbone, sovrani di Stati, fra i più piccoli d'Italia e i più. esposti per postura geografica alle mene del Governo di Torino, era serbato a codeste truppe, esclusivamente composte di sudditi del paese, dare l'esempio della fedeltà e della devozione, i più splendidi esempi d'incrollabil costanza che da lunghi anni gli annali militari rammentino.

La Duchessa di Parma s allontana, lasciando dietro a sé facoltà di prosciogliere dal giuramento i Buoi soldati; essa partita, la ribellione alza il capo, e i suoi soldati la schiacciano, quasi a dire a dispetto del sovrano. Più tardi la Duchessa è forzata riallontanarsi, prosciogliendo un1 altra volta i soldati; e un'altra volta i soldati resistono a tutte seduzioni, a tutte minacce. Perduta ogni speranza di ripristinare sul trono i suoi principi, per l'aperta invasione straniera, i soldati di Parma escono dallo Stato a raggiungere un cantuccio di terra sicura ed amica ove posare le armi, porre in salvo colle bandiere l'onore militare, disciogliersi, disperdersi, ramingare, lieti e superbi di non seguire altra bandiera, di non portare altra coccarda. Il Duca di Modena parte, e le sue truppe lo seguono, fiere di dividere con esso i dolori dell'esilio. Quattro anni più tardi quelle truppe, impassibili ad ogni blandizia, ad ogni promessa, indifferenti ad ogni minaccia, messe al bando dal potere intruso nella lor patria, duravano ancora, fra privazioni e disgusti, frammezzo a delusioni, tetragone

«Mi sono ritirata per non essere obbligata di rompere la neutralità. Non voleva essere causa di nuovi torbidi nel mio paese; voleva anzi impedirli. Se sopravviene un Governo usurpature, non domanderò neppure allora alla forza straniera di ristabilire il Governo legittimo; ma se, a guerra finita, i diritti de' miei figli non fossero stati rispettati, me ne appellerò all'Imperatore d'Austria, come alle altre grandi Potenze, per guarentire questi diritti e farli valere pacificamente.» Culos le domandò di ricevere queste parole in iscritto, e fu accordato.

RIVOLTE NEI DUCATI. 175

ai colpi dell'avversa fortuna, quasi che nulla fosse, così ben ordinate e così numerose quanto il dì in cui erano uscite da Modena, dopo di avere nel frattempo afforzati i lor ranghi con giovani eletti, che, sprezzanti di ogni pericolo, avevano varcato il Po a frotte per raggiungere dal natio suolo estense le bandiere di Francesco V. a Bassano, sicché questi con giusto orgoglio ben poté dire (1): «la sua truppa divisa dal proprio paese aversi reclutata con volontarii assai meglio che quando egli teneva l'autorità in mano.» E quando, per cause del tutto indipendenti dalla lor volontà, come da quella del Duce, per forza maggiore, quelle truppe deposero le armi, tutti, può dirsi, gli ufficiali (2), e notevole numero di soldati, al rivedere la patria desideratissima preferirono il vivere sopra terra straniera, vestire altri panni, comunque fosse mangiare il duro pane del profugo. Davvero devono essere bene stati tirannici i governi di Francesco di Modena e di Luisa di Parma, se aveano saputo ispirare a' lor sudditi affezioni sì fatte!

Ormai tre sovrani d'Italia non più teneano dominio, per frode e per inganno, non per ribellione de' sudditi, non per fellonia de' soldati. Non era la Toscana che avesse messo al bando Leopoldo II.; il ceto medio, egualmente lontano dalla superba ambizione di perversi patrizi e dalla ignoranza della plebe, il contado, la classe de' trafficanti, salvo rare eccezioni, l'ordine ecclesiastico, questi quattro elementi costituenti il nerbo della società, non vi presero parte e furono sopraffatti dall'audacia incredibile de' sediziosi. Il moto del 27 aprile era stato opera

(1) Parole del Duca di Modena in una lettera al marchese di Normanby, in data 17 luglio 1861, riferita nella Vindication of thè Duke qf Modena from thè eharget of Mr. ladstonet pag. xxvi., e nella traduzione italiana a pag. 25.

(2) «Centocinquantotto ufficiali, o con grado pari ad ufficiale, appartenevano alle truppe ducali. Rimasero tutti sul territorio austriaco, e tutti passarono nell'Armata imperiale, ad eccezione d'un solo, cui circostanze peculiarissime imponevano la stringente necessità di rimpatriare. Molte centinaia di sottoufficiali e soldati seguirono l'esempio dei capi, ed entrarono in servigio austriaco. Quasi un duecento rimasero sul suolo dell'Impero senza prendere servigio militare.» (Cinquantadue mesi di esilio delle ducali truppe estensi, da giugno 1859 a settembre 1863, pag. 96. - Venezia, 1863).

176 CAPITOLO VENTESIMOPRIMO.

di alcuni patrizi cui la pertinacia nel congiurare procacciò un po' di nome, di alcuni avvocati e di alcuni medici che col soccorso della setta piemontese comperarono pochi uffiziali e soldati, e la plebe pia abbietta. E guai se alcuno avesse osato dire, non esser vero che la Toscana eran essi.. No, l'esercito toscano non vendette per vii moneta coll'onore il paese; tratto in errore, quando l'errore conobbe era troppo tardi. Non furono i popoli dei Ducati di Parma, e di Modena che cacciarono Casa di Borbone e Francesco d'Este; a Parma la rivoluzione fu importata dal di fuori, a Modena venne dopo partito il Duca. A Firenze, a Parma, a Modena, la ribellione, fattasi innanzi rivestita della livrea dello straniero, allontanati appena i sovrani legittimi, s'indraca oltracotata per rinunziare sotto pretesto d'indipendenza la propria autonomia. Triumviri e quinqueviri, venduti al Piemonte, arrogatisi di propria autorità il potere, di propria autorità invocano Dittature, decretano annessioni, vendono al Piemonte i paesi. La Dittatura, l'annessione! Ecco le supreme parole, le supreme ragioni di codesti fieri campioni della libertà e dell'indipendenza. Quattordici nomini, impostisi per sorpresa su' popoli, con un tratto di penna dispongono delle sorti presenti e avvenire di 2, 800, 000 abitanti.

AVVERTIMENTO.

Il successo di benevoglienza con che fu accolto il primo volume di quest'opera, i giudizii portatine dalla stampa periodica nazionale e straniera, gli eccitamenti a dar mano senza indugio all'impressione della seconda parte che ha per titolo Gli effetti, indussero Fautore, vinta l'abituale ritrosia a dar fuori alcun suo scritto per frammenti, a pubblicare questa seconda ed ultima parte, pili voluminosa, ripartita in tre fascicoli, senza che fosse d'uopo d'attendere la stampa di tatti i fogli. Il 2.° e 3.° fascicolo terran dietro quanto più presto sarà dato, commisuratone il prezzo in proporzione del numero delle pagine.

Riproducendo sulle copertine taluno de' giudizii pubblicati sin qui, pensiamo che sia cosa grata ai lettori.

(Dalla Civiltà Cattolica, Serie VI., Vol. II, Quaderno 361, pag. 65. Con quest'opera Delle recenti avventure d'Italia il conte Ernesto Ravvitti si è proposto di fornire agl'Italiani un quadro storico e ragionato della Rivoluzione, che dal 1859 in qua sconvolge tutta la nostra Penisola. Per eseguire questo disegno egli ha ideato due naturalissime divisioni, l'una delle Cause intorno allo quali discorre nei primo volume, o l'altra degli che sarà materia del volume seguente, Le cause di questa Rivoluziono mina in due diversi periodi. Il primo, che denomina Quarantanni di preludio, si stende dal 1815 al 1850, cioè dal Congresso di Vienna al Congresso di Parigi, e abbraccia tutti i principali avvenimenti e le trame settarie che doveano far capo nella generale Rivoluzione: e se ne tratta sommariamente, ma con sagacia, in Bei capitoli. 11 secondo periodo, che denomina I patti secreti, comprende un racconto assai particolareggiato degli apparecchi immediati della Rivoluzione, in altri nove capitoli.

Il libro è condotto con molto senno: chiaro, stringato e semplice nello stile; ricco di notizie, di citazioni, di confronti, di osservazioni acute e di aneddoti importanti. Lo spirito è di cattolico schietto e di onestissimo gentiluomo, sinceramente affezionato all'Italia ed al suo vero bene. Non sappiamo che esista lavoro di storia contemporanea, il quale possa compararsi a questo nel merito di esibire in un solo sguardo tutta la tela degli odierni rivolgimenti. Perciò lo raccomandiamo a coloro che studiano le patrie, ed a quanti desiderano formarsi un limpido concetto della tenebrosa opera di servitù e di distruzione nazionale, che è codesta della nostra Rivoluzione, fattosi in nome della indipendenza e della nazionalità. La lettura di questo nobilissimo libro del signor conto Ravvitti mostra ad evidenza attuata la verità di quel celebre detto di San Gregario Magno che;. Huius mundi sapientia est cor machinationibus tegere, sensum verbis velare quae vera sunt falsa ostendere, quae falsa sunt vera demonstrare. A ciò riduce tutta la macchiavellesca perfidia usata per fare la pretesa rigenerazione d'Italia.

DELLE

RECENTI AVVENTURE

D'ITALIA

PER

IL CONTE ERNESTO RAVVITTI

Vol. II.

GLI EFFETTI.

Fasc. II.

VENEZIA

TIPOGRAFIA EMILIANA

1806.

_______________________________________________

Pubblicato il 1.° giugno 1866.

177

CAPITOLO VENTESIMOSECONDO.

Il Papa e i neutrali

Diffidenze de' cattolici in Francia. - Lemercier e Baroche. - Un manipolo di menzogne. - Proteste del Ministro Rouland. - riguardi voluti all'augusta persona del Santo Padre. - 0 quieti o faziosi. - La neutralità pontificia, promessa e conculcata. - Gli Austriaci si ritirano dalle Legazioni. - Due marchesi, Migliorati e Pepolì. - Rivolte nello Stato pontificio. - Le stragi di Perugia. - Gl'Indirizzi de' Bolognesi. - Una dittatura nel ginepreto. - Caduta del Gabinetto Derby. - Lord Palmerston a' suoi elettori. - Armamenti inglesi - Disposizioni guerresche in Alemagna. - Condizioni de' partiti in Prussia, - Minaccio della Russia alla Germania. - Altri effetti dell'alleanza franco-russa. - La contromossa. - Dure parole e grandi verità, - La mediazione della Prussia.

Q

uando pure buon novero di fatti occulti e palesi non avesse già a quel tempo rivelato anche a' men sospettosi e chiaroveggenti quella malevoglienza che sotto il velo di premurosa protezione, il secondo Impero francese in suo cuore nutriva inverso la Corte di Roma, sarebbe ad oltranza bastato ad attestarlo l'opuscolo Napoleone III. e l'Italia, nel quale, in sostanza, avevasi prescelta Roma a meta principale de' suoi attacchi ed a principale teatro de' suoi progetti di migliorare il mondo. Cosi nulla di più naturale che cuori cattolici si fossero in Francia altamente conturbati quanto più si avvicinava una guerra che molteplici circostanze autorizzavano a pensare potesse riescire ad iscalzare il potere della Santa Sede; e cercassero avidamente occasioni di schiarire dubbii e diffidenze vie meglio afforzate dacché il Governo francese avea osservato il silenzio sulla domanda fatta dall'Ollivier, ali atto della discussione sulla legge della leva militare, quale fosse lo scopo della guerra.

Allorché impertanto, il 30 aprile 1859, venne in discussione nel Corpo legislativo di Francia la proposta di legge per un prestito di cinquecento milioni, il visconte Anatolio Lemercier si alzò a chiedere, «a nome delle coscienze cattoliche commosse per» gli avvenimenti che si preparano in Italia, e nel timore che» quegli avvenimenti non procedessero più sollecitamente

178 CAPITOLO VENTESIMOSECONDO.

» ancora degli ordini venuti dalla Francia,» che il Governo dell'Imperatore dichiarasse «di aver prese tutte le precauzioni ne» cessane affine di guarentire la sicurezza del Santo Padre nel» presente e l'indipendenza della Santa Sede nell'avvenire, e» facesse noto all'Europa essere ferma volontà dell'Imperatore» e della Francia di far rispettare ad ogni costo la indipendenza» e gli Stati della Santa Sede» (). In nome del Governo, Baroche, Presidente del Consiglio di Stato, rispondeva: «Riguardo a» ciò, non è possibile dubbio veruno. Il Governo prenderà tutte» le disposizioni necessarie perché la sicurezza e la indipendenza» del Santo Padre siano assicurate in mezzo alle agitazioni che» potessero sorgere in Italia» (1). Quanto alla volontà di far rispettare gli Stati della Santa Sede, nemmeno una sillaba. Giulio Favre afferma dalla bigoncia che l'Imperatore da lunga stagione e con tutti gli atti suoi aveva condannato il potere temporale del Papato, ed il Baroche replica:» Forsechè lo stesso Imperatore con» nobile e solenne maniera non ha respinta accusa sì strana?» In quale maniera?, altri osservò. Forse colla lettera ad Edgardo Nev, colle parole fatte dire a Walewski nella ventesimaseconda sessione del Congresso di Parigi, coll'opuscolo programma Napoleone III. e l'Italia!

Tre giorni appresso, il 3 di maggio, nella proclamazione che rivolse ai Francesi, Napoleone III. disse: «l'Austria, facendo entrare il suo esercito sul territorio del Re di Sardegna, nostro alleato, ci dichiara la guerra, minaccia le nostre frontiere. Bisogna ch'essa domini fino alle Alpi, o che l'Italia sia libera fino all'Adriatico. La Francia dica risolutamente all'Europa:

(1)

Resoconto ufficiale della Tornata del 30 aprile 1859.

(2)

Nello stesso recinto, un anno appresso, il 12 aprile 1860, il medesimo Baroche ripeteva testualmente quelle stesse parole, e con far grave soggiungeva: «Quelle parole non furono pronunciate per ceremonia Il Governo francese riguarda il potere temporale siccome una condizione essenziale alla indipendenza della Santa Sede. Il potere temporale non può essere distrutto; esso dev'essere esercitato in condizioni importanti. La spedizione di Roma nel 1849 si è fatta appunto al fine di ristabilire questo potere, a mantenere il quale da undici anni le truppe francesi occupano Roma; esse hanno la missione di fare la salvaguardia insieme e al potere temporale, e alla indipendenza e sicarezza del Santo Padre.»

IL PAPA E I NEUTRALI. 179

» io non voglio conquiste, ma voglio mantenere senza debolezza lamia politica nazionale e tradizionale; io osservo i Trattati, a condizione che non siano violati contro di me; io rispetto il territorio e i diritti delle Potenze neutre, ma confesso altamente lamia simpatia per un popolo, la cui storia si confonde colla nostra. La Francia non tia abdicato il suo compito civilizzatore. I suoi alleati naturali furono sempre quelli che vogliono il miglioramento dell'umanità, e quando essa snuda la spada, non è per dominare, ma per rendere la libertà. Lo scopo della guerra è di restituire l'Italia a sé stessa, non di farle cangiare padrone; e noi avremo alle nostre frontiere, un popolo amico che ci dovrà la sua indipendenza. Noi non andiamo in Italia per fomentare il disordine, né per crollare il potere del Santo Padre, che rimesso abbiamo sul suo trono; ma per sottrarlo a quella pressione straniera che si aggrava su tutta la Penisola, e per contribuire a fondarvi l'ordine sopra la base degl'interessi legittimi soddisfatti.» Sta bene, si disse; la luce è fatta. Napoleone III. non scende in Italia per iscrollare il potere del Santo Padre che ristabilì sul suo trono in Roma, ma per sottrarlo a quella pressione austriaca ch'era notissimo come in Roma in sostanza non esistesse, ma per fondarvi l'ordine sopra la base degli interessi legittimi soddisfatti. E l'ordine sopra la base degl'interessi legittimi soddisfatti, l'ordine in paese che il Governo francese aveva già proclamato al cospetto dell'Europa in condizione anormale, fuor d'ordine, senz'ordine; quest'ordine, a chi sapeva o voleva intendere, suonava nella realtà: a Roma il potere temporale nelle condizioni apposte dalla lettera napoleonica dell'8 agosto 1849; nelle Legazioni, forse e per lo meno, il vicariato proposto da Cavour il di 27 marzo 1856, Come ben di sovente suoi avvenire, molti lesserò, moltissimi nulla compresero, pochissimi intesero e i pio finsero di non capire.

Un giorno più tardi, a dì 4 maggio, Rouland, Ministro dei Culti, indirizzò una speciale Circolare a tutto l'Episcopato francese, allo scopo «d'illuminare il clero sulle conseguenze di una lotta divenuta inevitabile, di chiedere la sue preghiere, di attrarre le sue simpatie.» - «È volontà dell'Imperatore, vi si leggeva, di fondare sopra solide basi l'ordine pubblico ed il rispetto delle sovranità negli Stati italiani. L'Imperatore ci ha

180 CAPITOLO VENTESIMOSECONDO.

» pensato dinanzi a Dio; e la sua saggezza, la sua energia, la sua lealtà ben note, non verranno meno né alla religione, né al paese. Quel principe che diede alla religione tante prove di deferenza e di affetto, che ricondusse il Santo Padre al Vaticano, è il più fermo sostegno dell'unità cattolica, e vuole che il Capo supremo della Chiesa sia rispettato in tutti i suoi diritti di sovrano temporale. Tali sono i sentimenti dell'Imperatore, rivelati s spesso negli atti suoi e da lui confermati nel nobile Manifesto diretto alla nazione. Esso dee produrre nel cuore del clero francese sicurtà e gratitudine.»

Alla Nota del Cardinale Antonelli con cui il Governo pontificio richiese istantemente le Potenze, in ispecialità le belligeranti, che la neutralità da sé proclamata, si rispettasse e riconoscesse (1), Napoleone aveva fatto rispondere: «che la Francia, nell'aderire pienamente a tale dichiarazione, confermava le precedenti rassicurazioni date alla Santa Sede, che, qualunque possano essere le conseguenze de' bellicosi avvenimenti nella parte settentrionale d'Italia, l'attitudine del Governo francese rispetto agli Stati pontificii si manterrà del tutto conforme allo scopo che già ebbe la Francia nell'intervenirvi per riparare ai disordini della passata anarchia; ed intanto, nel corso della presente guerra, l'Imperatore dei Francesi ed il suo Governo non permetteranno che si tenti impunemente cosa alcuna in detrimento dei riguardi voluti all'augusta persona del Santo Padre, o diretta a rovesciare il suo temporale dominio.»

Quest'ultima dichiarazione, quantunque, riferendosi schiettamente al presente nei limiti della durata della guerra, tenesse dischiusa via lata a qualsivoglia maniera d'interpretare avvenimenti occorribili tosto dopo la guerra, parve fra tutte la più tranquillante, perocché, supponendo che la lealtà non fosse del tutto sbandita dal mondo civile, potevasi ragionevolmente pensare che chi protestava di non volere permettere si tentasse impunemente cosa alcuna diretta a rovesciare la temporale potestà dei Pontefici, dovesse intendere codesta potestà nella estensione in cui si trovava essa a que' di. Pure a chi avesse sottilmente osservato balzava agli occhi il fatto, che i malevoli dicevano fidissima arte,

(1) Nota circolare ai membri del Corpo diplomatico residente in Roma, dal Vaticano il 3 di maggio 1859.

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come non mai in quelle protestazioni l'Imperatore de' Francesi parlasse, o lasciasse parlare da suoi Ministri, d'integrità del territorio posseduto dalla Santa Sede; per cui quand'anche durante 0 dopo la guerra avessero lasciato al Papa Roma soltanto con una zona di terreno all'intorno, chi mai avrebbe potuto dire, essere gli venuto meno alla sua promessa di pigliare tutte le precauzioni necessarie per guarentire la sicurezza del Santo Padre al presente e l'indipendenza della Santa Sede nell'avvenire, alla promessa di volere che il Capo supremo della Chiesa fosse rispettato in tutti i suoi diritti di sovrano temporale? Frattanto, mentre le pastorali de' Vescovi portavano fino alle più piccole ed oscure parrocchie della Francia la parola data dall'Imperatore che il Papa sarebbe conservato nell'integrità di tutti i suoi diritti, e se ne facea menzione al principio d'ogni pubblica preghiera, e le volte delle chiese echeggiavano di codesto impegno promulgato dal confidente titolare delle intenzioni sovrane; il dubbio che alcuni si ostinavano a conservare, dopo tante assicurazioni, riguardavasi come un oltraggio, e loro s'intimava che cessassero di essere inquieti, sotto pena di essere trattati come faziosi. Sicché ben poté dirsi (1) che, per verità, se i giuramenti degli uomini sono accolti in cielo, certo non mai avvenne che alcun giuramento vi fosse recato da tante bocche ad una volta.

Alla denunzia, fatta dalla Santa Sede, della neutralità di tutto il territorio soggetto alla sua sovranità, mentre l'Austria dichiarava di riconoscere questa neutralità e di volerla rispettare, la Francia però aveva accompagnato il riconoscimento con condizioni che lo rendevano pienamente illusorio, e Sardegna aveva apposto clausole e riserve, le quali in sostanza facevano dipendere il rispetto della neutralità dello Stato della Chiesa dalle sue convenienze durante la guerra. Stando in Roma e Civitavecchia guarnigioni francesi, guarnigioni austriache, coll'assenso della Corte romana, in Ancona e Bologna, e per diritto di Trattati in Ferrara e Comacchio, in tali circostanze è uso di guerra di destinare di comune accordo certi raggi, entro i quali devono tenersi i corpi di truppe fra loro nemici, evitando d'incontrarsi per allontanare ogni conflitto. I comandanti francesi vi si rifiutarono.

(1) A. De Broglie; La lettre imperiale et la situation (Paris, 1860).

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Così sin dalle prime si dava a credere che la condizionata promessa della Francia di rispettare quella neutralità, promessa cai per ciò appunto non si poteva dare gran peso, fosse essa pure per a tempo, da ritirarsi a migliore opportunità.

In breve fu chiaro come si andasse già in traccia di pretesti per dichiarare cessato affatto quest'obbligo. Quantunque fosse espressamente contrario a' principii posti dalla Francia medesima (1), secondo i quali nessuna parte delle forze militari occupanti lo Stato pontificio poteva essere diretta al di là dei confini di quello Stato, né veruna parte di quelle forze, esistenti fuori di que' confini, poteva entro i medesimi fare approvigionamenti; navigli da guerra francesi entravano liberamente per approvigionarsi ne' porti pontificii e precisamente in quelli che stavano al di fuori del raggio riconosciuto della occupazione francese, ed il Governo di Francia insisteva nel voler collocare le sue navi da guerra nel porto stesso d'Ancona, nel voler ivi munirsi di vettovaglie, e fare quel porto, occupato dagli Austriaci, base delle sue operazioni guerresche. Or, mentre nelle Legazioni si spingevano a più potere le mene rivoluzionarie, era da prevedersi che l'ingresso di navi da guerra nemiche in Ancona, in flagrante violazione della neutralità ed unicamente diretto a ridurre al nulla il valore del riconoscimento di questa, avrebbe dovuto aumentare il coraggio degli uomini della rivoluzione, e far venire a conflitti sanguinosi appunto sul neutrale territorio pontificio («).

Dopo quanto era accaduto in Toscana e nei Ducati, nulla più assicurando che le leggi di neutralità sarebbero meglio osservate nello Stato della Chiesa, il concentramento dell'esercito franco-italiano comandato dal principe Napoleone in Toscana faceva a tutta ragione sorgere le più serie apprensioni, che la linea di ritirata da Ancona e da Bologna potesse essere proditoriamente da esso tagliata agli Austriaci che vi teneano stanza.

(1)

Nota del Duca di Gramont, Ambasciatore francese in Roma, del 24 maggio 1859.

(2)

Dispacci del conte di Rechberg, Ministro agli affari esteri, al conte Colloredo, Ambasciatore d'Austria in Roma, del 9 e 13 giugno 1859.

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Ancona, estremo punto di una linea troppo prolungata, rimaneva isolata dalla parte di terra, mentre per mare ogni comunicazione poteva essere interrotta, dappoiché l'Adriatico sarebbe stato da un istante all'altro dominato totalmente da una flotta francese. Nei primi giorni di giugno poi l'Imperatore de Francesi facendo presentare al Santo Padre, sotto forma di semplici desiderii, una serie di domande collegate all'offerta di guarentigia di territorio, tra le quali erano la dimissione del Cardinale Antonelli e la cessione dell'autorità di Polizia da concentrarsi nelle mani del Comando del Corpo di occupazione francese in Roma, comprendeva pure tra queste lo sgombro degli Austriaci da Ancona e l'autorizzazione di far passare un nerbo di truppe francesi a traverso le Legazioni. Frattanto il principe Napoleone era entrato colle sue schiere nei Ducati, ed il Governo francese fece dichiarare a Roma essere pericolosa la presenza delle guarnigioni austriache dietro le spalle delle operazioni del principe, e che, se gli Austriaci non si ritirassero da Ferrara, essi verrebbero assaliti colà. Inutilmente rappresentò il Governo pontificio che gli Austriaci presidiavano Ferrara come Ancona di pieno diritto, all'ombra della promessa e riconosciuta neutralità, e che appunto per questo stesso motivo non potevano muovere qualsivoglia passo ostile contro il Corpo del principe francese. Reso così manifesto come si voleva da un canto impegnare un conflitto nello Stato romano colle truppe austriache separate dal grande esercito, dall'altro provocare assolutamente la violazione della neutralità del territorio pontificio da parte degli alleati, in tali condizioni, onde evitare che truppe appoggiate a siffatta pretesa neutralità venissero fatte prigioniere, e non si violasse a forza lo Stato della Santa Sede, l'Imperatore d'Austria preferì di ordinare che ogni territorio pontificio si sgomberasse prontamente. Gli Austriaci adunque si ritirarono; e alquanti mesi più tardi il Governo francese non arrossirà di affermare (1), essere stata colpa dell'avventataggine

(1) Il 12 febbraio 1860, Thouvenel, Ministro agli Esterni, scriveva al Duca di Gramont, Ambasciatore di Francia appresso la Santa Sede: «Le guarnigioni di Ferrara, di Cornacchie», di Bologna e d'Ancona, potevano in tutta sicurezza vegliare al mantenimento della tranquillità nelle Legazioni e nelle Marche, nel mentre stesso che la guarnigione francese vegliava a Roma.

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ed egoismo dell'Austria, che, venuta meno al suo debito, abbandonò senza motivo alcuno le Legazioni, se la Santa Sede perdette quelle provincia

Tutto colà era pronto pel giorno in cui gli Austriaci si allontanassero. Dacché, fondata la Società Nazionale Italiana, i Legati sardi presso le Corti della Penisola, questi modelli di

» Non ispetta a me il prendere ad esame le circostanze, evidentemente imperiose a' suoi occhi, che hanno spinta l'Austria a non attenersi più a lungo a' suoi impegni. Ma ho il diritto di dichiarare che la Francia è rimasta fedele a' suoi. Allontanate le truppe austriache, le popolazioni hanno approfittato delle congiunture senza aver bisogno di esservi strascinate da alcun eccitamento particolare. Ecco tutto il segreto della sollevazione delle Romagne. Questa sollevazione, signor Duca, non potrebbe essere adunque imputata alla Francia, né autorizzare un dubbio qualunque sulla sincerità delle assicurazioni di simpatia e di buon volere, che l'Imperatore aveva date a Pio IX., al principiare della guerra.» Ancor non ha guari, Giovanni Gilbert Victor Fialin, poi Duca di Persigny, l'antico congiurato di Strasburgo e di Boulogne, l'intimo di Napoleone III., stampava il 30 aprile 1865: «Durante il corso delle operazioni militari, l'Austria, in opposizione a' nostri impegni comuni verso il Papa, sgomberò le Legazioni, e di tal maniera fece perdere una provincia alla Santa Sede. Ebbene, agli occhi della Corte pontificia, noi che guardavamo fedelmente il Papa a Roma nei mentre che gli Austriaci l'abbandonavano in Romagna, noi siamo i veri colpevoli! Un avvenimento di forza maggiore toglie una provincia al Santo Padre; questo avvenimento è l'abbandono di codesta provincia da parte dell'Austria, ed è la Francia che ne è resa responsabile!» (Lettre de Rome, pag. 10). Se non che, la melensa fola contando, dimenticarono che il principe Napoleone fino dal 4 luglio 1859, trasmettendo dal quartiere-generale di Goito il Rapporto delle operazioni del quinto Corpo d'armata all'Imperatore (Bazancourt, Campagne d'Italie, II Part, pag. 479480) confessò «di avere avventurosamente e senza colpo ferire raggiunto lo scopo, al punto di vista militare: la presenza del quinto Corpo in Toscana, pronto a sboccare sopra l'armata austriaca, incusse a quest'armata timore vivo» abbastanza perché siasi affrettata di abbandonare Ancona, Bologna e» successivamente tutte le posizioni sulla riva destra del Po,» In opposizione ad impegni solenni la Francia spedisce un grosso nerbo d'armati a grande distanza dal teatro della guerra, per minacciare gli Austriaci nello Stato pontificio, compromettere le loro linee di ritirata ed affrettarne la partenza tosto dopo la prima vittoria dell'esercito alleato; e questo e con queste parole con ammirabile semplicità fa conoscere al mondo lo stesso generale francese cui ne fu affidato l'incarico. La minaccia è compresa, egli Austriaci si ritirano prima che

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cavalleria diplomatica, per ribellare i sudditi ai principi appo cui erano accreditati, correvano le città e i borghi sollevando gli animi ad ire di parti, istituendo Comitati, mercanteggiando coscienze, corrompendo ufficiali, il marchese Giovanni Antonio Migliorati, investito dall'uffizio d'Incaricato interino degli affari del Governo sardo presso la Corte romana, un diplomatico secondo il cuore ed il senno del Cavour, assunta la condotta primaria di tutta la trama, si era affrettato di costituire in Roma un Comitato centrale, eleggendone a membri persone di ceto elevato, che si conoscono tutte (1). Datosi, tosto appresso a viaggiare, instituiva nel settembre 1856 un Comitato in Ancona, poco dopo un altro Comitato centrale in Bologna, posto alla direzione di tutti gli altri Comitati e sottocomitati delle precipue città e castella delle Legazioni e delle Marche. Il moto popolare di Pesaro, cui diedero a pretesto la tassa delle arti, era stato attizzato e diretto dal Migliorati, recatovisi espressamente co' principali de' caporani della cospirazione nel Pontificio. Allorquando Pio IX. percorse le provincie de' suoi Stati, avea il Migliorati provveduto e diretta la diramazione di Ordini generali perché si presentassero al Pontefice istanze, delle quali si disseminarono gli esemplari, affinché, essendo tutte uniformi, potesse apparire che i popoli con unanime lamento dimandavano le medesime cose. Ciò che in vero non tolse che neppur uno dei più zelosi membri della Società Nazionale ardisse in niuna città

le loro linee di ritirata fossero compromesse; ed il generale francese si felicita di avere avventurosamente raggiunto lo scopo e senza colpo ferire, ad onta della neutralità dello Stato pontificio riconosciuta dalla Francia. In opposizione ad impegni solenni la Francia "viola quella neutralità lungo il littorale pontificio e sino nello stesso porto d'Ancona, pretende dal Papa che approvi il passaggio di un corpo d'esercito francese a traverso il suo territorio per attaccare gli Austriaci sul suo territorio medesimo, ed un cugino di Napoleone III. spudoratamente lamenta che si tardi tanto a dargli la facoltà di assalirli. Allontanati appena gli Austriaci, un avvenimento da gran tempo predisposto toglie le Legazioni al| Santo Padre; e questo avvenimento è la ribellione ordita e diretta in segreto, fatta avvampare e capeggiata in palese, da un altro cugino dell'Imperatore dei Francesi. Ove sono i veri colpevoli? In Francia? In Austria?

(1) Romana, di cospirazione ed altri delitti per ispirito di parte. Roma, 1863.

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porgere veruna di quelle suppliche, mentre molti di essi faceano istanza di essere accolti in privata udienza dal Papa, ed in Bologna vidersi tali che, mentre sottomano macchinavano per accattarsene un altra dal Re di Sardegna, mendicavano umilmente da Pio IX. una croce cavalleresca.

11 Governo pontificio conosceva per filo e per segno le cose del Migliorati, e compativa. Ma avendogli il conte di Rayneval, Ministro francese in Roma, sporto a leggere con soverchia buona fede quel memorando dispaccio, ch'esso poco dopo il Congresso di Parigi indirizzò riservatissimamente al conte Walewski, e che il Pays a buon diritto chiamava una stupenda apologia del Governo di Pio TX, quando il Migliorati mandò a pubblicare quel dispaccio su pe' giornali, con grande rammarico dell'Inviato e grande dispetto del Governo francese, fu forza che il Migliorati, per richiesta dell'ambasciatore francese, fosse richiamato da Roma. Al Migliorati successe, incaricato d'affari presso la Santa Sede, il conte Della Minerva, nell'opre occulte valente quanto il suo predecessore. Adempiendosi così degnamente dai Legati sardi in Roma quelle mansioni che il BonCompagni non men degnamente sostenne in Firenze, tutte cose erano da' cospiratori predisposte a dovere pel giorno in cui gli Austriaci si fossero trovati costretti ad abbandonare Ancona e Bologna, nella quale ultima città le supreme fila della orditura da lunga pezza veniano a far capo in mano del marchese Gioacchino-Napoleone Pepoli, cui il cugino Imperatore de' Francesi sempre era stato, di recente più che mai, largo di amicizia, di protezione, di denaro (1). Pepoli presiedeva in sua casa le riunioni del Comitato, raccoglieva armi, si circondava di alcune centinaia di operai. Il Governo, che sapeva tutto, era stato sul punto di assicurarsi della persona di lui, quando per riguardo di Napoleone III. si contentò, di darne avviso all'Ambasciatore francese in Roma;

(1) Pepoli era in Parigi ad ossequiare il fortunato congiunto. «Dimmi francamente, gli chiese, come vanno le tue cose in casa? Come stai a denari? Pepoli rispose ciò che i più sogliono rispondere in tai casi. «Bene, replicò Napoleone, ma ora bisogna che facciamo buona figura. Passa dall'Imperatrice che ti aspetta.» Il cugino di Bologna non si fece dire due volte; recatosi dall'Imperatrice, questa lo presentava di un grazioso nonnulla, a guisa di ricordo. Apertolo, Pepoli vi rinveniva un milione di franchi, in cento biglietti di Banca da 10000 franchi.

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e questi, in seguito di col loquio avuto col Pepoli in Livorno, dio assicurazioni di potersi viver tranquilli sul conto di lui (1).

La sera dell'11 giugno il presidio austriaco esce da Bologna. Pepoli da all'istante le sue ultime disposizioni. I suoi uomini iniziano il movimento; Pepoli scende in istrada, percorre la città e dalla sua carrozza eccita alla rivolta, promette impunità e la protezione della Francia, Allorché si venne ad abbassare lo stemma pontificio, Pepoli dovò far credere che ciò facevasi per sottrarre quello stemma dai possibili insulti, che nessuno, da lui e da' pochi suoi adepti all'infuori, in quel momento era disposto ad arrecargli. Il Cardinale Legato, Milesi, è costretto ad andarsene. Una giunta provvisoria di Governo si elegge e la presiede il marchese Pepoli, il cui primo atto è di proclamare la dittatura del Re di Sardegna. Giusta le precorse intelligenze e gli ordini di Pepoli, seguono speditamente l'esempio di Bologna Imola, Faenza, Forlì, Ravenna, Ceseua, Rimini, ed altre minori città e borgate. Le poche milizie pontifìcie disperse qua e là, colte all'improvvista, danno addietro insieme co' funzionarii romani. In breve la Bollevazione riesce a bene in tutte le Legazioni, mano a mano che se ne ritraggono gli Austriaci; poi nelle Marche, e Fano, Urbino, Fossombrone, Sinigaglia, Urbania, Pergola, Jesi, tutto il territorio circostante ad Ancona, cadono in balia de' faziosi. Ad Ancona, il Comitato tenendo da quello di Bologna ordine severo di non fare mossa alcuna senza precedente concerto od avviso di agire, non osarono, quantunque in città non fossevi truppa pontificia, impadronirsi de' Forti sgombrati dagli Austriaci. Quando Pepoli inviò comando d'insorgere, era troppo tardi; le soldatesche del Papa, indietreggianti dalle Legazioni, li aveano occupati e li guardavano in tal forza che ogni speranza di averli andò perduta.

Perugia, nell'Umbria, per opera del BonCompagni che da Toscana vi aveva inviato agitatori, gente raccogliticcia ed ufficiali atti a dirigerla, molti fucili, munizioni, danaro e grandi promesse di soccorso, insorse nel 14, auspice alla rivolta, come dappoi acerrima incoraggiatrice a resistere, la principessa Maria Bonaparte, che dal verone gridava: Viva l'indipendenza italiana!

(1) Dispaccio del Cardinale Antonelli al Nunzio pontificio in Parigi, del 29 febbraio 1860.

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Vita Vittorio Emanuele! Viva i morti della patria! Viva Napoleone! Ma, poco appresso, un nerbo di milizie pontificie, guidato dal colonnello Schmid, accorse, e, tornata vana ogni pratica, accolte a schioppettate fuor delle mura, Perugia nel giorno 20 tolsero di mano ai sediziosi. La resistenza, durata ostinatissima tre ore, mentre tegole, mattoni, sassi, acque bollenti dai tetti gettavansi loro sul capo, aveva inaspriti i soldati, contribuendo ad accrescere i mali della città e moltiplicare le vittime da ambe le parti. La stampa della rivoluzione italiana s'impossessò prestamente di quella ripresa per farne soggetto d'incredibile copia di menzogne, di esagerazioni, di calunnie: i cittadini più innocui e più innocenti dissero messi al taglio delle spade, vecchi impotenti scannati, spose messe a morte sul seno de mariti, fanciulle sgozzate sugli occhi de' genitori, bambini lattanti strappati dalle braccia delle madri e gettati nel Tevere, che neppure corre entro Perugia; né età, né sesso, né condizione gridarono si avesse rispettato, con una efferatezza da disgradarne Unni e Vandali, Goti e Visigoti. Ed essendo della levità delle umane menti l'aggiustar fede più presto al male che al bene, in buona parte da' lontani credettersi i narrati orrori delle Stragi di Perugia, gli odii rinfocolandosi contro il Governo del Papa.

La luce vera cominciò a farsi allorché l'Imperatrice de' Francesi, rimase a Parigi a reggere la Francia in assenza del marito, mossa a sdegno dalla brutalità con cui gazzette francesi, che si sapeva bene da chi imbeccate e per quanto, vilipendevano villanamente il Pontefice, ingiunse al Ministro per gl'Interni che inviasse ad uno di que' Giornali salariati per calunniare, con comando di stamparla, una Nota ufficiale, esplicativa (1), «che se una lotta dolorosamente deplorabile si é ingaggiata in Perugia, la responsabilità doveva ricadere sopra coloro che avevano obbligato il Governo pontificio, doppiamente rispettabile, a far uso della forza per sua legittima difesa.» Questa volta la menzogna fu sbugiardata dalla Francia, ed il diario ufficiale, pubblicando il Rapporto del colonnello Schmid al suo Governo, vi preponeva, a giudizio di que' fatti, le parole (2):

(1) Avvertimento dato dal Ministro francese dell'Interno al giornale di Paripri il Siecle, il 2 luglio 1859.

(2) Le Moniteur Universel, numero del 5 luglio 1859.

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«Il Rapporto fu scritto dal colonnello Schmid; e basta il nome solo di questoufficiale, che fu al servigio della Francia, e di recente ricevette una decorazione dall'Imperatore, per ridurre al nulla la maggior parte delle allegazioni prive di fondamento, colle quali si cercò d'insultare la condotta delle truppe del Santo Padre.» Caduta Perugia, non andava guari che pur le altre città sollevate dell'Umbria e delle Marche ritornarono all'obbedienza. Infrattanto Pepoli partiva da Bologna a capo d'una deputazione apportatrice di due Indirizzi a Vittorio Emanuele e Napoleone III. «Noi pure, o Sire, dicevasi a quest'ultimo (1), vi abbiamo compreso. Le vostre nobili parole, colle quali annunziaste che non sarete per opporvi alla libera manifestazione dei legittimi voti degli Italiani, vi hanno acquistata la nostra eterna riconoscenza. Questi paesi, già campo di funeste discordie e d'ire di parte, discordie ed ire mirabilmente scomparse nei pochi giorni che abbiam preso noi le redini in mano, hanno diritto che si prò vegga alla loro salvezza.» In vero i fatti attestavano quanto bene i mestatori di Bologna avesser compreso il fino senso del proclama di Milano dell'8 giugno. Non che, come già dicemmo (2), le Legazioni non entrassero nel novero de' territorii, intorno a cui in precedenza erasi decretato dovessero mutar signoria, destinate anzi come le si aveano a Plombières, ad arrotondare il futuro Regno di Etruria; ma da un canto la precipitazione con cui in qualsivoglia paese spinto a ribellione si faceva invocare e proclamare la dittatura del Re di Sardegna, la somma prestezza con cui questi, accettando, ingegnavasi di mutare le offerte dittature in annessioni di fatto, tanto arrabbattarsi e trinciarla da padroni assoluti in cosa solo in parte promessa e promessa a condizioni determinate, e d'altra parte le disposizioni dell'Europa, ove non tutto andava affatto affatto a seconda dei desiderii napoleonici, imponevano all'Imperatore de Francesi ancor pili cautela e riserbo, sì che questi stimò opportuno, quasi ad avvertire gli uni, ma sopra tutto a tranquillare gli altri, di mandare dal campo

(1)

Indirizzo all'Imperatore de' Francesi della Giunta centrale provvisoria di Governo in Bologna, del giorno 30 giugno 1859.

(2)

Vedi: Le cause, Vol. I., pag. 133, 138, 224.

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ad inserire nella ufficiale effemeride (1): «Pare che non tutti si rendano esatta ragione del carattere che la dittatura, offerta da ogni parte in Italia al Re di Sardegna, presenta; e se ne conclude che il Piemonte, senza consultare il voto delle popolazioni, né le grandi Potenze, pensi coll'appoggio delle armi francesi riunire tutta l'Italia in un solo Stato. Siffatte congetture non hanno alcun fondamento. Le popolazioni, liberate od abbandonate, vogliono far causa comune contro l'Austria; con questa intenzione esse si sono naturalmente messe sotto la protezione del Re di Sardegna. Ma la dittatura è un potere puramente temporaneo, il quale, mentrechè riunisce le forze comuni in una stessa mano, ha il vantaggio di non pregiudicare per nulla le combinazioni dell'avvenire.»

Fu in codesta disposizione d'animo che Pepoli trovò l'Imperatore, senza il cui assenso questa volta davvero Vittorio Emanuele non osava accettare. Pepoli insisteva, il Re sollecitava; ma indarno, che il monarca francese voleva a capo del Governo nelle Legazioni una creatura tutta sua e non un piemontese; ei voleva aversi le mani libere e il piccolo Piemonte voleva intromettersi ovunque (2). Allora Cavour parte in tutta fretta da Torino, raggiunge l'Imperatore, destreggia per persuaderlo a mutar sentimento. Non riuscì; si venne ai rimproveri, e d'ambe le parti subentrò un raffreddamento. Alla perfine fu concesso a metà: l'offerta dittatura rifiutisi, e le insorte provincie pontificie passino sotto l'alta protezione di un regio Commissario Sardo, ali unico oggetto di usufruttare il loro concorso alla guerra, con espressa condizione Che a cose finite l'Imperatore de' Francesi, consultate, se lo credesse, le popolazioni, si riserbava piena libertà di risolvere sul destino avvenire di esse provincie. Alla deputazione bolognese Re Vittorio Emanuele dovette rispondere, a salvare le apparenze: «Facessero comprendere ai lor concittadini

(1) Le Moniteur Universel, del giorno 24 giugno 1859.

(2)

La Gazzetta di Bologna del 13 giugno 1859 conteneva una comunicazione ufficiale annunciante che il conte di Cavour, rispondendo al telegramma inviatogli da quella Giunta di Governo, espresse la ferma speranza che il Re Vittorio Emanuele accetterà la protezione di quei paesi, mandando un Commissario reggente per la guerra, con truppa e personale organizzatore.

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ni, che, nelle presenti circostanze, ogni risoluzione inconsiderata pregiudicherebbe la causa dell'indipendenza. L'Europa non dovere poterlo incolpare di agire soltanto per ambizione personale, onde sostituire agli Austriaci sé stesso. Il Santo Padre essere rimasto alla testa del suo popolo, e non avere, come i sovrani di Parma, Modena e Toscana, deposto il potere temporale, che dobbiamo non solo rispettare, ma consolidare.» A quattr'occhi lor dissero: «Effettivamente essere necessità imperiosa, trattandosi di dominii del Papa, procedere con ogni possibile cautela. L'esito finale della guerra non essere punto peranco deciso; non potersi avventatamente allarmare di soverchio le Potenze neutrali, l'Europa cattolica. L'Imperatore dei Francesi conseguire già un grande risultamento con ottenere che la Corte di Roma, tenuta a bada con assai belle sue parole, si astenesse dal far riprendere dalle proprie truppe Bologna, siccome divisava ed avea fatto per Perugia: ned esso Imperatore volere, ciò stante, affrontare l'effetto che non avrebbe mancato di produrre sul clero di Francia l'assistenza apertamente accordata a' sudditi del Papa, rivoltati contro la di lui sovranità (1). Pazientassero confidenti nel futuro.»

Nel vero, in quei giorni medesimi la Francia affaticavasi a Roma in singolare maniera. Il Santo Padre riceveva le assicurazioni più tranquillanti dall'Imperatore Napoleone, che giungeva fino a parlare di guarentigia degli Stati pontificii, purché si concedessero le riforme domandate nella lettera ad Edgardo Nev. E per ottenerle, gli sforzi pressantissimi dell'Ambasciatore francese, duca di Gramont, pervenuti erano a tale che il Cardinale Antonelli, accarezzando per un momento una qualche lieve speranza di allontanare col suo dimettersi mali maggiori, manifestava desiderio di deporre l'ufficio di Segretario di Stato. Reduce Cavour a Torino, scrisse a quei di Bologna (2): «II Re avergli ordinato di ringraziare pell'Indirizzo presentatogli a nome delle popolazioni delle Romagne, esprimente il voto di annessione ai

(1)

All'Indirizzo del Governo provvisorio di Bologna pell'Imperatore fu ingiunto al Pepoli di mutare la data, sicché potesse apparire che fosse stato presentato nel giorno 30, dopo già che il Re di Sardegna aveva rifiutata l'offerta dittatura.

(2)

Dispaccio del coste di Cavour alla Giunta provvisoria di Bologna, del 28 giugno 1859.

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Piemonte ed invocante la sua dittatura. Unicamente preoccupato dal pensiero di liberare l'Italia, non potrebbe accondiscendere ad un atto, che, suscitando complicazioni diplomatiche, tenderebbe a rendere più difficile l'ottenimento di questo scopo. Tuttavia non poter egli rifiutarsi, malgrado il suo profondo rispetto pel Santo Padre, di prendere sotto la sua direzione le forze militari che nei paesi si stanno ordinando, compiendo per tal modo il doppio ufficio di dirigere il concorso delle Romagne alla guerra, e d'impedire che il movimento nazionale dianzi operato non degeneri in disordine ed anarchia. Per suo Commissario a tal fine aver eletto il cavaliere Massimo d'Azeglio» (1).

(1) d'Azeglio, che già aveva accettato l'incarico quando nel 28 giugno fu eletto, ed avrebbe potuto essere comodamente in Bologna nel 30, non vi giunse se non tredici giorni più tardi, nell'11 luglio, lo stesso giorno in cui a Villafranca si conchiudeva la pace, cinque giorni dopo che colla missione di Fleury erano del tutto cessate le ostilità. 11 Imperatore dei Francesi aveva voluto indugiasse quanto bastava per conoscere l'effetto che produrrebbe sulle altre grandi Potenze la nominazione di un Commissario sardo nelle ribellate provincie pontificie. Il 14 luglio, accomodate le cose in tre giorni a quella guisa che in quattro le aveva accomodate BonCompagni a Firenze, d'Azeglio, coi consenso dell'Imperatore Napoleone, pigliava in mano il governo delle Romagne, rassegnata a lui dalla Giunta centrale ogni autorità. Il 15 nominò un Ministero. Così un Commissario eletto per le cose della guerra assumeva il carico otto giorni dopo la cessazione della guerra, tre giorni dopo conchiusa la pace l'Imperatore Napoleone però era mai sempre fermo nel divisamente di porre a capo delle Romagne alcun suo fidato, e avea gettato l'occhio per questo sopra un Leonetto Cipriani, oriundo di Corsica, nativo di Livorno, figlio d'un fallito a Balagna di Corsica, fratello d'un fallito a Livorno, fallito egli stesso in America ove si era recato dopo gli avvenimenti del 1848, mal noto per altri fatti precedenti, trafficante di non sappiam quante e quali cose, ora fatto Venire a Parigi e poi ricomparso in Italia, uno di quegli agenti semi-diplomatici, semi-polizieschi, semi-militari, buoni a tutto. Sotto colore di volerlo consultare intorno alla formazione del nuovo Ministero piemontese, d'Azeglio fu fatto, dopo pochi di di dominio, tornare a Torino, lasciato in sua vece in Bologna un colonnello sardo Falicon, venuto con lui. Il 28 luglio d'Azeglio fu tolto d'uffizio, il 2 agosto anche il Falicon cessava; quattro giorni appresso, il 6 agosto, Cipriani, eletto Governatore generale delle Romagne, entrava in carica, lnfrattanto da Toscana e da Modena eransi spediti nelle Legazioni molti ufficiali piemontesi ad organizzare le milizie che vi si andavano raccogliendo, molte migliaia di fucili, cannoni, munizioni, truppe regolari piemontesi.

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Mentre le narrate cose avvenivano, aveva avuto luogo al di là della Manica un evento che doveva esercitare in appresso grande influenza sull'andamento degli affari in Italia. L assicurazione data ai Salvagnoli da Palmerston, Russell, Gladstone, era divenuta una realtà f1). Nella prima metà del giugno, l'Inghilterra vide cadere vinto, dalla debole maggioranza di tredici voti, a cagione principalmente della questione politica suscitatasi nel Parlamento inglese a proposito degli avvenimenti d'Italia, il Ministero preseduto dal conte di Derby, che in mezzo alle sue ripetute dichiarazioni di neutralità, parea piuttosto propendere verso l'Austria; e succedergli un Ministero Palmerston-Russell, che in mezzo a ripetute dichiarazioni di neutralità, parea piuttosto propendere verso la Francia. Lord Derby erasi, infatti, in parecchie recenti occasioni, mostrato ben più acerbo che benevolo a Francia e Sardegna, colla prima delle quali le relazioni aveano anzi finito con farsi alquanto tese. Lord Cowley avendo consegnato al Governo francese una Nota che parlava della possibile chiusura dello Stretto di Gibilterra, Walewski aveva risposto con dichiarare: la Francia il terrebbe in conto di caso di guerra. Il Gabinetto inglese fece ogni suo possibile perché Francia proclamasse neutrale l'Adriatico. Napoleone ricusò; e allora Inghilterra a replicare, che in nessun, caso permetterebbe a navi da guerra russe di penetrare nel Mediterraneo. Allo scoppio delle ostilità in Italia la flotta inglese del Mediterraneo fu considerabilmente accresciuta, ed ai primi di giugno noverava già trentasei navi a vapore.

La venuta di lord Palmerston, da lunghi anni amico personale di Napoleone III., al potere, non toglieva punto le difficoltà. Il nuovo Ministero inglese, per le precedenze de' suoi membri, era bensì troppo impegnato per nulla intraprendere a danno dei pensieri d'indipendenza italiana, sempre che la questione non cangiasse d'aspetto; nullameno soprattutto gl'interessi del dominio dei mari doveano, come sempre, esercitare la più. grande influenza sulla politica estera del Gabinetto, ed obbligarlo, sebbene condizionatamente, ad accettare nell'essenziale l'eredità del caduto Ministero Tory. Così, quando la flotta francese destinata

(1) Vedi: Gli effetti, Vol. II., pag. 33.

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ad agire sulle coste austriache nell'Adriatico (1) si disponeva a rendere il porto ottomano di Antivari stazione di base per le sue operazioni, l'Inghilterra univa la sua alla energica protesta della Turchia, a ragione reclamante contro l'insidiosa violazione della sua neutralità; ed ancorché Napoleone avesse atteso la certezza della caduta del Gabinetto Derby prima di far partire la flotta di assedio, ei fa costretto a scegliere per essa un altro porto di deposito.

Poco tempo prima di salire al seggio ministeriale, in un discorso a' suoi elettori di Tiverton, lord Palmerston, fra mezzo a molte contumelie all'indirizzo dell'Austria, aveva dichiarato: «L'Austria possiede i territorii di Venezia e di Lombardia in forza dei Trattati; questi possedimenti le appartengono di diritto, ed il giudizio dell'Europa sostiene che essa abbia il diritto di conservarli. L'Austria ha sfoderata la spada; ma coloro che, al pari di me, credono utilissimo all'Europa che vi sia in Alemagna una Potenza tanto forte come l'Austria, che serva di barriera tra l'Oriente e l'Occidente per mantenere la libertà e l'indipendenza dell'Europa, costoro devono deplorare una decisione tendente a risultati tali da alterare materialmente la condizione dell'Austria. Se la guerra è circoscritta all'Italia, se le conseguenze ne sono che l'Austria si trovi, ritirandosi al

(1) Era nell'interesse di Napoleone di tenere quanto più potesse lontana dal vero teatro della guerra la maggior possibile quantità di truppe austriache; al che più propizio prestavasi l'Adriatico. Dapprima salpò al 5 maggio da Tolone per l'Adriatico una flottiglia da blocco sotto il comando del contrammiraglio Jurieu de la Gravière, onde dal 15 di quel mese catturare tutti i navigli appartenenti al commercio austriaco. Pel blocco di Venezia non erano state assegnate che quattro navi, dappoiché gli Austriaci sino da principio avevano ritirato in sicurezza la loro flotta, parte a Pola, parte a Venezia. La flotta di guerra e d'assedio, agli ordini del viceammiraglio Romain Desfossés, cominciò a partire da Tolone solamente il 12 giugno, con incarico d'inquietare le coste della Dalmazia, Istria e Venezia, ed a seconda degli avvenimenti assalire anche le fortezze marittime di que littorali. Per questa flotta d'operazione avea scelto a prima stazione nell'Adriatico il porto di Antivari, vicinissimo al territorio del Montenegro, già postosi di nuovo in gran movimento contro la Turchia. Le prime navi francesi, giunte ad Antivari, recarono a quel Console di Francia ragguardevole somma di denaro destinato a fare insorgere l'Albania e il Montenegro, e disbarcarono armi e munizioni, inviate pel lago di Scutari nel Montenegro.

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» nord delle Alpi, costretta di lasciare l'Italia libera agli Italiani, gli spiriti generosi comprenderanno che qualche volta il bene può essere partorito dal male, e, compassionando le sventure che avranno preceduto questo risultamento, noi ci rallegreremo dell'esito.» I giorni passano e non si assomigliano. Lord Palmerston cosi rivelava di non più essere animato da quello stesso spirito che avea professato nel 1848, di non consentire, cioè, al Piemonte l'annessione di tutto il Lombardo-veneto, onde non ne avesse a risultare un reame italico troppo forte ed esteso, siccome pili volte aveva fatto intendere lord Abercromby, a quell'epoca Ministro britannico in Torino.

Ridestatasi però più vivace che mai la gelosia britannica per la grandezza politica e militare della Francia, e con essa insin lo spauracchio d'una invasione francese in Inghilterra, il Gabinetto di San Giacomo dava mano a colossali armamenti per terra e per mare sopra tutta l'estensione de' suoi possedimenti e delle sue colonie, con una operosità che non poteva essere considerata se non come preparazione ad una gran guerra. Potea direi che la Gran-Bretagna nel corso intero della sua storia non mai avesse intrapreso riforme tanto profonde e tanto vaste in tutte le sue cose militari, né mai avesse fatto s immensi armamenti, come a quel momento in cui il non intervento era la parola d'ordine della sua politica. Mentre apprestavansi sessanta vascelli di fila e cento fregate, lavori quasi favolosi conducevansi nell'arsenale di Woolwich. Colà solamente, già alla fine del giugno, erano nei magazzini 7600 cannoni della più distinta qualità, ed ogni settimana poteano essere approntati per l'uso del momento 200 ed in caso di necessità 300 cannoni. Nel solo Woolwich si fabbricavano 26, 000 palle e bombe per settimana, facilmente aumentabili a 40, 000; produzione settimanale rispondente al sestuplo de' proietti pesanti adoperati ogni settimana a Sebastopoli. In quel solo arsenale trovavansi oltre a novanta milioni di palle per carabine alla Miniò, e le macchine dispostevi in modo da fornirne da due a tre milioni per settimana. Numerosi reggimenti di volontarii addestravansi tutto dì; le coste ed i porti munivansi.

Il Governo inglese continuava bensì sempre a protestare di volersi tenere del tutto neutrale, con una ostentazione che stava in sorprendente opposizione co' sterminati suoi apprestamenti;

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ma poiché verun inglese potea volere che la potenza napoleonica, sostenuta dell'accordo colla Russia, detti sola la legge in Europa, nessuno era pazzo per credere che la pratica ed economa Gran-Bretagna incontrasse cotanto giganteschi dispendii per porre poi eserciti e flotte a disposizione dell'Imperatore de' Francesi e dei suoi fini di conquista quel giorno in cui, voglia o non voglia, le sarebbe pure stato d'uopo di uscire dalla neutralità. Di tal maniera gli aumenti della neutrale Inghilterra erano già un atto avanti a tutto di sfiducia per la bellicosa politica della Francia; e come era a prevedersi che, continuando la guerra, la Germania avrebbe dovuto alla sua volta decidersi, non vi volea molto acume a capire da qual parte, in onta all'avvento del Ministero Palmerston, la Gran-Bretagna sarebbesi accostata, dappoiché, chiunque sia in Inghilterra primo Ministro, quando la Germania getti nella bilancia la sua spada a favore del minacciato ordine europeo, l'Inghilterra non ha altra scelta che quella di procedere coll'Alemagna.

Evidente che la Gran-Bretagna sarebbe rimasta neutrale fino a tanto solamente che fosse pronta alla guerra in modo da farla presto finita. Per pensiero e per sentimento l'Inghilterra da lungo tempo non era più, nel vero, neutrale. Da varii anni John Bull inghiottiva a fatica gl'insulti fattigli dal Napoleonismo. Lo sdegno, ch'essi avean provocato, era già vicino a scoppiare. Fin dall'assalto di Malakoff lalleanza s'indebolì, ed il Congresso di Parigi per la pace protocollò la discordia. Gli arditi attacchi alla Costituzione dell'Inghilterra dopo l'attentato di Parigi, la dimostrazione di Cherburgo, 1'arbitrario procedere a Gravosa, l'acerbo insulto in Portogallo, ed ora la condotta imperiosa nel Mediterraneo, e nell'Adriatico la visita ai navigli britannici, l'astio per essere stati ricettati a Malta i navigli austriaci, tutti questi e mille altri motivi facevano apparire impossibile che potesse a lungo durare la neutralità dell'Inghilterra. Ed ora, giunte ornai le cose a tal punto, da codesta neutralità anche l'Inghilterra, malgrado Palmerston, Russell, Gladstone ed i quaccheri, avrebbe dovuto uscire; giacche, appoggiate dalle forze di terra dell'Alemagna, le forze marittime della Gran-Bretagna sono sovrane di tutti mari, e la Gran-Bretagna poteva ritrarre quelle utilità cui doveva rinunciare

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perché né le era dato di procedere colla Francia, né da per sé sola, senza correre i più grandi pericoli, poteva opporsi alle congiunte orditure della Francia e della Russia, che minacciavano di opprimere col peso delle loro armi e colle astuzie delle loro diplomazie la libertà e l'indipendenza della Germania.

Alla proposta della Prussia presentata alla Dieta germanica il 23 aprile (1), di ordinare che tutti i contingenti della Confederazione si tenessero pronti a marciare, in quel giorno medesimo accolte dalla Assemblea, il Governo di Berlino, quantunque mal disposto verso l'Austria, tuttavolta fino dal primo di maggio aveva esteso l'apparecchio di marcia a tutti i suoi corpi di esercito, de' quali, per i suoi obblighi verso la Confederazione, non era tenuto di disporne che tre. Il Parlamento prussiano votò ad unanimità le somme necessario per mobilitare l'esercito. Vedute le cose alla superficie, tutto indicava accennare alla guerra, ed il Principe Reggente, chiudendo la sessione legislativa, proclamava altamente: «La Prussia essere risoluta di tutelare le basi dello stato legale di Europa. Essere suo diritto e dovere difendere e proteggere gl'interessi nazionali di Germania. Non volersi essa lasciar uscire di mano la tutela de' suoi beni. La Prussia contaro che tutti i suoi confederati tedeschi si uniranno a lei per compire quell'opera, e che colla loro fiducia corrisponderanno a questa sollecitudine di difendere la patria comune.»

In breve tutta l'Alemagna formicolava d'armi e d'armati, discordi tuttavia essendone i Governi quanto al momento di entrare in lizza; gli uni, a capo de' quali la Baviera, l'Annover e l'Oldenburgo, seguiti da presso dalla Sassonia, insistendo sempre nel volere la cooperazione immediata coll'Austria; gli altri disposti a seguire la Prussia, che, ad onta de' suoi apprestamenti, in sostanza era tutta intesa ad impedire od almeno quanto più potesse a ritardare l'intervento armato della Germania. In Prussia nemmeno nel Gabinetto vi avea uniformità di propositi. Il partito della pace, e quello esclusivamente prussiano, il partito di Gotha, ostile all'Austria e devoto all'Inghilterra, dominava nel Ministero, e difeso, diceasi, da un alto personaggio, con cercare in tutti i modi di contenere il Governo,

(1) Vedi: Le Cause, Vol. I., pag. 304.

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seminare la discordia tra la Prussia e l'Alemagna, impedire od almeno prorogare ogni azione favorevole all'Austria, credeva che, poiché avean dato di piglio alle armi, una guerra prolungata in Italia, indebolendo Francia ed Austria, avrebbe liberato la Prussia dal nemico esterno e dal rivale interno, e l'egemonia della Prussia in Germania le sarebbe così assicurata, mentre la mediazione armata, con cui verrebbe in campo più. tardi, l'avrebbe resa piìi potente nei consigli dell'Europa. Il partito della guerra, ispirantesi alle tradizioni della Prussia che esigevano l'illesa conservazione de' Trattati e dello stato legale d'Europa, e quindi favorevole all'Austria, corrispondente in parte al partito della (gazzetta Crociata, annoverava fra le sue fila il Ministro della Guerra e quasi per intero l'esercito, la nobiltà, la Corte. Il partito democratico e rivoluzionario, che già aveva sognato il ritorno dei più bei giorni del 1848 e del 1849, e prima strepitava contro la Francia, poi, mutato avviso, era divenuto suo ammiratore per tornare ben presto alle maledizioni contro l'Imperialismo, rimaneva costernato ad ogni armamento e si sbracciava a provare che la Prussia, difendendo l'Austria, tradiva se stessa. Un ultimo partito infine, che poteva chiamarsi dei protestanti fanatici, i quali non si curavano per nulla né della Prussia, né dell'Austria, né della Francia, né dell'Italia, né della pace, né della guerra, ma speravano che una guerra tra la Francia e l'Austria indebolirebbe quelle due Potenze cattoliche, ed una vittoria della rivoluzione in Italia avrebbe indebolita la Santa Sede, univa i suoi ai lamenti di coloro che desideravano la neutralità della Prussia, ed abbandonata l'Austria non meno che la Francia al vicendevole loro indebolimento.

Or mentre l'Imperatore de' Francesi, alquanto impensierito a cotanto ribollimento degli animi in Alemagna, dava opera ad accozzare presso Nancy un esercito di osservazione verso il Reno, ecco la Russia venir fuori a dire (1): «Per risolvere le complicazioni sorte in Italia aver essa proposto un Congresso. Nell'ultimo momento, e quando tutte le difficoltà parevano appianate, il Gabinetto di Vienna aver bruscamente rotte le trattative.

(1) Dispaccio circolare del principe Gortschakoff, Ministro pegli Esteri, agl'Inviati di Russia presso le Corti di Germania, del 15 (27) maggio 1859.

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Scoppiata la guerra, rimanere alla Russia un altro impegno a compiere, quello di procurare di limitarne le calamità con tutti i mezzi possibili. Alcuni Stati della Confederazione germanica sembrano preoccuparsi fortemente riguardo al futuro; ma il Governo francese ha solennemente proclamato ch'esso non ha alcuna ostile intenzione riguardo alla Germania. Russia essere interessata alla conservazione dell'equilibrio europeo; e per quanto risguarda l'integrità della Germania, questo interesse non esserle meno indifferente, ned aver mai indietreggiato in presenza di sacrificii, quando trattavasi di guardarla da reale pericolo. Il rinnovamento di questi sacrificii da parte sua non sarebbe punto giustificato, se fosse provocato da uno stato di cose volontariamente cagionato. La condotta di varii Stati della Confederazione germanica tende a rendere generale la lotta senza motivo alcuno. Ma la Confederazione germanica è una combinazione puramente ed esclusivamente difensiva; in conseguenza se essa facesse atti ostili verso la Francia, sopra dati di congettura, avrebbe falsato lo scopo della sua istituzione e sconosciuto lo spirito dei Trattati che consacrano la sua esistenza. Niuno l'assale; dunque la Germania non si dee muovere. Che se si movesse, la Russia farebbe quello che le consiglierebbe l'interesse del suo Impero e la dignità della sua corona.»

Così parlando, parea e potea credersi che il Gabinetto di Pietroburgo avesse in mira effettivamente di gettar acqua sul fuoco; nella realtà non era questo che lo scopo apparente, lo scopo vero essendo di aggiunger anzi esca ad esca con attizzare le giuste suscettibilità della Germania. La Russia giocava di rappresaglia pei diportamenti verso di sé da questa tenuti al tempo della guerra di Crimea (1). Stretto il patto che la Francia si avesse mano libera in Italia contro l'Austria, e la Russia, onde riescire

(1) A quell'epoca la Confederazione germanica, quantunque interessata affatto da vicino nel litigio, vi avea preso parte come Potenza europea, ciò che non poteva garbare alla Russia; e colla Decisione federale del 9 dicembre 1854 riconobbe i quattro punti come base a ristabilire la pace in Europa, dichiarando in particolare di volere tener fermo sui due primi punti concernenti la cessazione del protettorato russo sui Principati danubiani e la libertà della navigazione del Danubio, e di volerseli appropriare dal punto di vista degl'interessi germanici. Era evidente il desiderio dell'Alemagna di metter fine alla preponderanza acquistatavi dalla Russia negli ultimi anni.

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alla revisione de' Trattati del 1856 (1), nei paesi giacenti sul basso Danubio, non doveva la Russia intraprendere la guerra ai confini orientali dell'Austria nello stesso momento in cui la Francia la incominciava a quelli del sudovest. Prima di poterla assalire sopra di un altro con speranza di successo, facea di mestieri

Questa diede alla Dieta federale l'assicurazione, che quand'anche le trattative di pace in Vienna venissero rotte, si riguarderà in obbligo di tenersi ai concerti presi nelle conferenze relativamente a que' due punti di garantia, a condizione che la Germania si obbligasse di rimanere strettamente neutrale L'offerta si ritenne come non avvenuta; né infatti la Germania più potea dirsi strettamente neutrale. In onta ad interni dissensi essa andava sempre più allontanandosi dalla Russia, sempre più dichiarandosi avversa alla sua politica. E quando truppe austriache occuparono i Principati danubiani, la Confederazione proclamò che un attacco contro quelle truppe, che si trovavano non solo fuori del territorio federale, ma eziandio del territorio austriaco, sarebbe considerato come aggressione diretta contro la Confederazione. La Russia sei tenne a mente.

(1) La guerra, chiusa coi Trattati del 1856, aveva fatto perdere alla Russia una parte della Bessarabia, vietatole di fortificarsi e di mantenere una flotta di guerra sul mar Nero. L'ultimo scopo dell'alleanza colla Francia nel 1859 era di annientare que' Trattati, riavere il territorio perduto, ricondurre la Russia alle foci del Danubio. Ripigliando l'opera in Oriente, la Russia non restringeva la sua azione alle sole provincie slave della Turchia; anche la Persia, quello Stato vassallo degli Czar, era stata guadagnata pe' progetti moscoviti e minacciava già in modo grave i confini ottomani. Dall'istante ch'era pervenuta a pressoché distruggere 11 alleanza anglo-francese ed a spingere il dominatore gallico agli azzardi delle armi, alla Russia pareva propizio il campo per esplorare il terreno a Costantinopoli, e porre in moto ogni molla onde attirare nella trappola i politici della Turchia. Il 6 giugno 1850 il Granduca Costantino di Russia giungeva in Costantinopoli, a persuadere all'ottomano monarca, vecchia arte, che tutti erano acerrimi suoi nemici, tranne la Russia, che avea involato ai Califfi innumerevoli territorii e di presente progettava di approfittare degl'impicci degli Stati occidentali per incalzare i disegni di Pietro il Grande e di Caterina II. Mezzo alcuno non fu lasciato intentato perché il Sultano si convincesse dei disinteressati ed amichevoli consigli della Russia e sottoscrivesse una segreta intelligenza con essa, bramosissima di vendicarsi dell'Atto del 15 aprile 1856, stipulato, come accessorio al Trattato di Parigi, dalla Francia, dall'Inghilterra e dall'Austria, all'insaputa della Corte di Pietroburgo; ma l'ambasciatore inglese in Turchia, Lytton Bulwer, stando oculatissimo, sventò ogni mina. I Russi non riuscirono in nulla, e le ingenti somme di rubli andarono sparse senza risultato. Nello stesso tempo gli agenti

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che l'Austria si trovasse interamente impegnata sopra un punto. l19 emancipazione de' contadini, ancorché appena incominciata, avendo avuto per conseguenza d'interrompere il corso normale del reclutamento dell'esercito, per ciò pure l'azione della Russia era d'uopo fosse dilazionata al 1860, prima della qual epoca non poteva esser pronta a scendere in campo. Nel frattempo si doveva far sorgere il pretesto, al che opportunissimo l'intervento della Germania a favore dell'Austria, mentre si avrebbero posti in assetto i mezzi d'attacco, fra i quali stava in prima linea la parte che si calcolava avessero a sostenere le provincie turche del Danubio (1) e l'Ungheria (1 nella pagina seguente).

politici moscoviti eseguivano lentamente un movimento per cui si trovarono schierati in un campo diverso da quello degli agenti francesi. S'insinuava di non fidarsi punto della Francia; ed il Console russo in Belgrado, Sokoloff, recata al Miloscb, principe serbiano, un'alta decorazione da parte dello Czar, lo aveva già fatto persuaso di non arrendersi indiscretamente agl'inviti napoleonici e di attendere la parola d'ordine da Pietroburgo soltanto. Svanita l'occasione per allora, la Russia ripigliava poi a poco a poco il territorio ceduto alla Porta, ricostituiva la sue forze militari sul mar Nero, ed alle fortezze espugnate di Sebastopoli sostituiva la fortezza inespugnabile del Caucaso.

(1) Dall'autunno del 1858 i tre principi, Cuza dei Principati danubiani, Miloscb della Servia, e Danillo del Montenegro, ed i capi dei rajà bosniaci teneano fra loro, e coi Consoli di Francia e di Russia in que» paesi e nel littorale dalmato-ottomano dell'Adriatico, misteriose relazioni, di nascoso apparecchiandosi a movimenti di separazione dalla Porta la cui migliore condizione di successo doveva essere la loro contemporaneità % nella quale stette sempre il massimo de' pericoli per l'Impero ottomano. Danillo, cui Napoleone III. aveva accertato l'aggiunta al Montenegro della Bosnia e dell'Erzegovina, disponeva di straordinarii mezzi pecuniarii, dovuti alla Russia e più che tutto alla Francia, e già dalla metà dell'aprile 1859 il Montenegro agitavasi singolarmente. Non appena gli Austriaci aveano varcato il Ticino, avvampava nell'Erzegovina, al confine settentrionale del Montenegro, per istigazione di agenti russi e francesi, e col concorso armato di molti Montenegrini, un'insurrezione contro la Turchia. In Servia armavasi copertamente come se si fosse trattato di guerra a morte; grandi quantità di armi e di polveri comperate dal Governo in Odessa, in Nikolajeff e sulle coste russe, vi pervenivano pella via del Danubio, ed a Kragujewatz erasi radunata tal copia di cannoni, la massima parte montati, bastevole pienamente a provvedere d'artiglieria tatti i rajà della Turchia europea. Nello stesso tempo Cuza aveva ritirato dalla Francia molto materiale da guerra. Scoppiate le ostilità in Italia, milizie moldovalacche raunavansi in un accampamento presso Plojescbti.

202 CAPITOLO VENTESIMOSECONDO.

Già il contegno, assunto dal Gabinetto di Pietroburgo sino dal principio delle complicazioni italiane, era dovuto riescire alla Germania sotto tutti gli aspetti sgradevole e sospettoso. La Russia aveva osservato dapprima il silenzio, interrotto dalla dichiarazione, che fece, di considerare morta e sepolta insin la memoria della Santa Alleanza; poscia era uscita, per far servigio alla Francia, colla sua proposta di Congresso, e quando questa non ebbe alcun effetto, ned essa poté giungere ad adunare il Congresso colla esclusione dell'Austria, rifiutò di dir qualche cosa sulla posizione che avrebbe preso a fronte delle insorgenze che condussero alla guerra, mentre in gran secreto stringeva un patto d'alleanza colla Francia.

Le ispirazioni francesi portavano che i Moldovalacchi dovessero avere una doppia propaganda, runa nel senso dell'idea cristiana per allarmare la Turchia, l'altra dell'idea della Rumenta per inquietare l'Austria.

(1) Come Napoleone erasi servito della Polonia contro la Russia nel 1855, si doveva servirsi dell'Ungheria contro l'Austria nel 1860. È noto che lo Czar Nicolò aveva permesso al principe Paskewitsch di scrivergli nel 1849: «L'Ungheria giace ai piedi di Vostra Maestà.» Non però si aveva osato prendersela in allora. Cedendola nuovamente all'Imperatore d'Austria, lo Czar, secondo la sua opinione, la regalò; e questa idea, di faro dell'Ungheria un dono all'Austria, non poteva a meno d'influire sull'andamento delle relazioni posteriori fra le due Corti. Da quel tempo gli Ungheresi eransi sino ad un certo punto addomesticati al pensiero che il loro paese potesse col tempo divenire una provincia annessa russa sotto lo scettro di un Granduca. Frattanto conveniva porre in assetto un nerbo di truppe ungheresi, capace di divenire in appresso il nocciolo di un esercito d'insurrezione ungherese. In particolare nel maggio eransi propagati clandestinamente fra i reggimenti ungheresi dell'esercito austriaco, accampato tra la Sesia ed il Ticino, una quantità di Manifesti eccitanti i soldati di nascita ungherese ad abbandonare le bandiere imperiali, onde combattere insieme a' soldati d'Italia dapprima per la libertà di questa, poi per quella dell'Ungheria, sostenuti dall'Italia e dalla Francia. Scarsissimele diserzioni, quando in seguito della battaglia di Magenta, si ebbero alla mano soldati ungheresi, in mancanza di volontarii si cominciò a formare una legione ungherese con prigionieri trasformati in volontarii. Lodovico Kossuth, il capo della rivoluzione ungherese, abbandonata l'Inghilterra, sbarcava il 22 giugno in Genova per recarsi il 28 a fermare opportuni concerti in Parma col principe Napoleone, il delegato dell'Imperatore de' Francesi pel dipartimento rivoluzionario..

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La diplomazia prussiana tutto adoperò per indurre la Russia a qualche dichiarazione; e quando di recente, desiderando l'Austria che la Prussia col mezzo di un'ambasciata straordinaria ottenesse dalla Russia un'esplicita dichiarazione di neutralità, ciò che non costava niente alla Prussia e poteva accordarsi senz'altro, il conte Mùnster-Meinhovel stava, per ordine del Principe Reggente, in sul muoversi da Berlino per fare un ultimo tentativo in questo senso a Pietroburgo, il principe Gortschakoff scrisse per telegrafo e con un certo qual dispetto al Ministro prussiano pegli affari esterni, conte di Schleinitz, che si astenessero dall'inviare quest'ambasciata, la quale non poteva avere alcun effetto, essendo, diceva, la politica della Russia ben chiara e ferma. Mostrandosi del tutto inaccessibile, il Gabinetto di Pietroburgo continuava intanto ad armare, ed in conformità alla Convenzione segnata il 22 aprile muoveva verso l'occidente quattro corpi d'esercito, due dei quali verso la Gallizia, mentre le Guardie imperiali erano in marcia verso la Lituania per formare le riserve. Ed ora inviava alle Corti della Germania quella Nota ostile, a tutti ufficialmente comunicata meno che a Vienna ed a Berlino, colla quale l'Alemagna minacciavasi dalle armi della Russia, se mai avesse osato immischiarsi nella contesa fra l'Austria e la Francia.

Di tal maniera venne a porsi in campo l'altra questione: e se la Germania si permettesse d'essere di un'opinione diversa da quella della Russia Quella Nota circolare del Gabinetto di Pietroburgo produsse, infatti, non che in Alemagna, a Londra eziandio la pili ingrata impressione. Inghilterra e Prussia fecero sapere al principe Gortschakoff che la sua circolare appariva ad esse contraria a quella posizione neutrale che la Russia aveva pur detto essere nella questione la sua, e lo stesso dichiaravano non meno a Parigi pochi giorni dopo la battaglia di Magenta. La mossa non poteva rimanere senza contromossa, ned era a presumere che un popolo della grandezza e della potenza del germanico, nel sentimento della dignità della nazione, si lasciasse alle prime parole intimorire dalle offensive minacce della politica russo-francese. Le corti alemanne, fattesi echi fedeli del sentimento dei popoli, si affrettarono a far udire a Pietroburgo le più schiette voci di protesta.

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Improntato di singolare franchezza fu, fra le altre, il linguaggio che tenne la Sassonia (1).

«Il severo giudizio, ella disse, inflitto al contegno del Governo austriaco, che, secondo la Russia, sarebbe responsabile egli solo delle calamità della guerra, non può essere condiviso da' Governi tedeschi. Sarebbe impossibile di arrestarsi all'episodio del Congresso, rappresentante una fase e non l'insieme dei fatti che hanno preceduto e prodotto la guerra, invece di risalire all'origine delle complicazioni che hanno fatto finalmente scoppiare quella guerra. Allora non potremmo dimenticare che il Governo austriaco, nulla avendo fatto che potesse dar ombra né ai suoi vicini, né a qualsivoglia Potenza in Europa, fu turbato dapprima e minacciato di poi nel pacifico esercizio de' suoi diritti di sovranità; allora si rimarrebbe convinti che so simili imprese, invece di trovar simpatie, avessero incontrato il biasimo non equivoco dell'Europa, il flagello della guerra sarebbe stato probabilmente risparmiato all'umanità, prima ancora che la questione del Congresso venisse intavolata.

» La Russia dice ora di tenere la Confederazione germanica per una combinazione puramente difensiva; eppure i Trattati sulle cui basi questa Confederazione entrò nel diritto pubblico europeo, ed ai quali la Russia appose la sua sottoscrizione, riconoscono in essa il diritto di pace e di guerra. Allorché, durante l'ultima guerra tra la Russia e la Turchia, truppe austriache occuparono i Principati danubiani, la Confederazione risolse che un attacco contra quelle truppe sarebbe considerato come aggressione diretta contro la Confederazione. Questa risoluzione non provocò né proteste, né rimostranze, e certamente la Russia avrebbe trovato materia ad opporsi se il contegno della Confederazione fosse stato contrario ai Trattati. Se la Confederazione rimase allora nei limiti dei suoi diritti e dei suoi doveri, perché non potrebbe oggidì prendere risoluzioni analoghe? Ovvero non havvi forse analogia fra le circostanze attuali e quelle d'allora? Havvi di fatto una differenza.

(1) Dispaccio del barone di Beust, Ministro agli affari esterni, al sig. di Koenneritz, Ministro residente di Sassonia a Pietroburgo, del 15 giugno 1859.

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Allora l'intervento della Germania non era stato preceduto da veruna dimostrazione intesa a minacciare il territorio austriaco; oggi invece quell'intervento non è ancora avvenuto, ma bensì il territorio austriaco è invaso. La Russia ci rammenta che la Francia disse di non avere intenzioni ostili contro la Germania; noi ci sovveniamo egualmente d'un Manifesto che proclama l'intenzione di liberare l'Italia dalle Alpi all'Adriatico. Se la Russia a prò della Germania ha sopportato alcuni sacrificii, non se ne rammarichi, giacché la Russia, come ora essa ci dice, non s'ispira che de' suoi interessi; e v' ebbero congiunture in cui la Russia a vicenda ebbe a lodarsi della Germania, guidata egualmente dalle ispirazioni de' suoi proprii interessi. La Germania oggidì non domanda sacrificii; essa non esige che la sua indipendenza per l'adempimento de' suoi doveri federali.»

Codeste dure verità, la forza della argomentazione inesorabile, non poteano a meno di pungere la Russia sul vivo. La questione s'inacerbiva; provocazione alla guerra; essa però non doveva riescire che ad affrettare la pace, che l'Imperatore dei Francesi in que' giorni medesimi aveva già fermamente deliberato in suo cuore.

È d'uopo tenere a mente come il Governo prussiano, prima che la guerra avvampasse, aveva preferito avvicinarsi al Gabinetto inglese nell'opera della mediazione; come anche più tardi, pur riservandosi piena libertà per la scelta del momento, perseverasse nell'idea d'intromettersi paciera; come infine, negli ultimi giorni del maggio, l'Austria avesse accolto in massima il proponimento d'una mediazione prussiana. Nel giorno medesimo in cui si combatteva a Solferino, il Governo di Berlino, compiuta quasi del tutto la mobilitazione del suo esercito, dava il primo impulso diretto con dirigere a Russia e Inghilterra invito ufficiale di prender parte ad un nuovo tentativo di mediazione (1).

In codesto documento, che grande influenza doveva esercitare sulla conclusione della pace, deplorato con vivaci parole l'invio dell'ultimatum austriaco a Torino, «poneasi in vista che» il risultamento finale degli eventi potrebbe modificare l'equilibrio europeo

(1) Dispaccio del conte di Schleinitz, Ministro pegli Esteri in Berlino, agli Ambasciatori prussiani presso le Corti di Pietroburgo e di Londra, del 14 giugno 1859.

206 CAPITOLO VENTESIMOSECONDO.

» con indebolire un Impero cui la Prussia era legata con vincoli federali, ed intaccare le basi del pubblico diritto alla cui fondazione la Prussia eziandio aveva contribuito, il cui mantenimento era nell'interesse degli Stati europei. L'attitudine presa dalla Prussia non pregiudicare in alcun modo la questione italiana, né i diversi interessi che vi si collegano;essere però impossibile al Principe Reggente, rinunziando ad esercitare un'influenza cui ha diritto di pretendere, di approvare anticipatamente con un'attitudine passiva i cambiamenti che i limiti territoriali hanno subito e poteano subire in uno dei paesi che legami cosi numerosi uniscono alla grande famiglia de' popoli europei. Ben lungi dal voler peggiorare con un intervento prematuro ed arbitrario una situazione già tanto pericolosa, la Prussia non poter formare altro voto che quello di tornare sul terreno delle negoziazioni, nella mira di trovare uno scioglimento equo per tutti e che offerisse guarentigie di durata per una questione sottratta alla sola base che l'Europa può e deve approvare quando trattasi de' grandi principii del suo ordine pubblico e sociale.

» La Prussia desiderare la pace, e per restituirla all'Europa al più presto indirizzarsi essa con fiducia a' Gabinetti di Londra e di Pietroburgo. Essere tuttavia la Prussia di parere che l'Europa e l'Alemagna in particolare non possano assistere con indifferenza all'indebolimento d'una Potenza che le è sembrata sempre elemento essenziale e naturale guarentigia dell'equilibrio generale. Mantenuto ancora presentemente questo principio, Prussia riconoscere le difficoltà che si opporrebbero al semplice ristabilimento d'uno stato di cose che condusse ad una guerra e ad una serie di sollevazioni propagate a gradi a gradi nell'Italia settentrionale e centrale, e credere che riforme effettive ed estese saranno un mezzo più sicuro e più giusto di mantenervi ordine e tranquillità. I Trattati dell'Austria con alcuni Stati vicini poter essere surrogati da una combinazione meno opposta ai sentimenti delle popolazioni, e contenente più sicure guarentigie in favore dell'ordine e della legalità.

» Non potere pertanto la Prussia nutrire l'intenzione di contribuire, per parte sua, all'impossibile ritorno ad un paesato

IL PAPA E I NEUTRALI. 207

» che avea prodotto così tristi risultamenti; per converso voler accogliere con premura qualunque proposta che avesse inmira la conciliazione dei diritti di Casa d'Austria con un'opera di riorganizzazione fondata sopra principii liberali e concilianti, atta a soddisfare ad un tempo i legittimi voti de' popoli. La Prussia prender atto delle dichiarazioni dell'Imperatore Napoleone di non aspirare a conquiste ed ingrandimento perla Francia. La guerra, avvicinandosi di più in più alle frontiere della Confederazione germanica, potendo da un momento all'altro imporre alla Prussia obblighi più diretti e incalzanti, desiderare e sperare che una mediazione comune anglo-russa-prussiana affrettasse la pace prima che ne conseguisse una conflagrazione europea, mediazione sulla cui forma e valore Prussia attendeva con vivissima impazienza le comunicazioni che i Governi d'Inghilterra e di Russia fossero disposti a farle.»

Invero ella era codesta alquanto curiosa maniera di preludere a farsi intermedii tra due, con dare sin dalle prime aperture in sostanza ogni torto ad una parte, e non trovare per l'altra una parola di biasimo equivalente, mellifluamente pur lodando di questa l'asserto disinteresse. Mentre con astute circonlocuzioni pareva si volesse dichiarare l'inviolabilità de' Trattati del 1815 e del possesso territoriale austriaco, tosto appresso si soggiungeva: Prussia non intendere d'intervenire per un completo ristabilimento dello status quo ante, proclamato impossibile; riconoscere per l'opposto che cangiamenti, richiesti dagli eventi sopraggiunti, rendevansi inevitabili, ed a tale riguardo anzi attendere proposizioni dall'Inghilterra e dalla Russia. Prussia bensì non peranco veniva innanzi con un sistema di mediazione a basi concrete, ma un complesso di frasi abbastanza esplicite rivelava il pensiero dominante, che si poteva riassumere così: la Prussia volere vivere in pace con tutti, non voler fare la guerra per alcuno, ed aversi dovuto porre in migliore assetto militare unicamente perché «l'agitazione s'era impossessata dell'Alemagna; non avendo l'Austria aderito al consiglio, che ancor essa, la Prussia, le aveva dato nel modo più leale e disinteressato,» di rinunziare colle buone quanto gli alleati si apprestavano a toglierle colle armi, l'Austria doveva pagare lo scotto

208 CAPITOLO VENTESIMOSECONDO.

«della sua disgraziata risoluzione», di questo errore come il Gabinetto di Berlino si compiaceva chiamarlo, con semplicità e candore singolare fingendo di non sapere, ciò che per filo e per segno sapeva benissimo, chi veramente avesse voluto la guerra, se l'Austria o Napoleone; ma poiché in Italia si combatteva a dispetto della Prussia, la Prussia non poter permettere che la pace avvenisse senza di lei. Di tal modo la Prussia veniva in scena, con una bilancia a braccia disuguali nella sinistra mano e nella destra una spada in apparenza a due tagli eguali, di cui nella realtà l'uno. era più lucicante, l'altro ben più tagliente.

209

CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

Pace di Villafranca.

Il quadrilatero. - Condizioni dell'esercito alleato. -L'Imperatore de' Francesi pensa alla pace. - Programma napoleonico inviato a Pietroburgo e Londra. - Wiilisen a Vienna. - Procedimenti prussiani. - Missione di Windischgratz a Berlino. - Motivi di por fine alla guerra.- l'Imperatore Napoleone propone sospensione d'ostilità; questa accordata offre la pace. - II principe Alessandro d'Assia a Valeggio. - Francesco Giuseppe rifiuta l'abboccamento chiestogli dall'Imperatore dei Francesi - Nuove basi proposte per la pace. - L'11 luglio i due Imperatori convengono in Villafranca. - Preliminari di pace compilati da Napoleone III. - II principe rosso a Verona. - II voto dei popoli ed il ricorso alle armi. - Un nato morto. - Cavour al campo. - L'arancio spremuto. - Sfoghi dei burlati. - Compiremo la tragicommedia in due Atti. - Napoleone III. a Saint-cloud. - Ciò che si diceva, ciò ch'era in fatto. - Epilogo.

S

in qui l'Imperatore de' Francesi, tutto, in complesso, avea veduto andare a suo grado; era sulle sponde del Mincio che le difficoltà vere per lui incominciavano, difficoltà militari e politiche. Per chi a traverso i facili piani lombardi muove dal Ticino ad offendere, i grandi ostacoli non si appresentano sinché non giunga a fronte di quel nodo di fortezze che costituiscono il quadrilatero: Verona, Mantova, Peschiera, Legnago. In questo sistema di difesa, Verona, posta a cavalcione dell'Adige, forma il punto pili importante, immenso campo trincierato, di cui niuno poteva valutare al giusto il grado di resistenza, non mai peranco venutane occasione di grandi prove. Mantova sul Mincio è in posizione affatto speciale, inaccessibile dappresso a cagione dei laghi e dei terreni inondabili che le danno grande forza difensiva, soventi volte sperimentata. Legnago era ben poca cosa. Di Peschiera speravasi presto sarebbe caduta sotto il cannone de' Sardi, che da terra doveano investirla, mentre cannoniere francesi, trasportate a pezzo a pezzo sulla strada ferrata, l'avrebbero assalita dalla parte del lago di Garda. Si diceva che Mantova non desse grande apprensione agli assalitori, che invece s'impensierivano moltissimo di Verona.

210 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

Inevitabile dunque cingere d'assedio queste due fortezze, al che facea d'uopo di assai ricco corredo di artiglierie. Or mancavano pressoché affatto i grandi parchi di assedio, che l'Imperatore de' Francesi così avrebbe dovuto con molta perdita di tempo far venire di Francia, ed il non aver preso sino a quel momento proporzionate disposizioni a quest'uopo, era altro degli argomenti che si potevano addurre a sostegno di quello singolarissimo vaticinio, rivelazione secondo taluni, fatto dal Mazzini già dal dicembre 1858; che, cioè, gli Austriaci non ripasserebbero le Alpi, Venezia essere statuita sino d'allora pegno di pace coll'Austria, una pace sùbita troncherebbe a mezzo la guerra, e, non appena raggiunto l intento, Napoleone costringerebbe Re Vittorio Emanuele a desistere, concedendogli una zona di territorio, ed abbandonando all'Austria le provincie venete e parte delle lombarde (1).

Per istringere da vicino Manto va e Verona era d'uopo dare ancora almeno un'altra grande battaglia. Ma a ciò le forze impiegate sino a quel momento dagli alleati non erano più sufficienti. L'esercito francese aveva sofferto moltissimo; l'influenza del clima e degli eccessivi calori, che avevano grandemente in

(1) «Per l'Italia, una pace sùbita, rovinosa, fatale agli insorti, a mezzo la guerra; un Campoformio. Non appena Luigi Napoleone avrà conquistato l'intento, accetterà la prima proposta dell'Austria, costringerà il monarca sardo a desistere, concedendogli una zona di territorio, e abbandonerà tradite le provincie venete e parte delle lombarde.» - Parole pubblicate da Mazzini nel suo Giornale Pensiero ed Azione, numero del 15 dicembre 1858.

«Una impresa ispirata e appoggiata da Luigi Napoleone non può avere per mira una Italia; non può estendersi al di là d'un rimaneggiamento, d'un rimpasto territoriale; non può prefiggersi a intento fuorché l'emancipazione dell'Austria, per certi fini, d'una piccola zona di territorio. Ed essi lo sanno. Perché mentono? Perché ciarlano d'Italia alle popolazioni corrive a credere? Perché sommovono colle loro agitazioni la povera Venezia, già freddamente, deliberatamente abbandonata al nemico?» - Parole di Mazzini nel Pensiero ed Azione del giorno primo gennaio 1859.

«La Monarchia sarda non s'accinge a combattere che per un limitato ingrandimento territoriale. Il matrimonio della principessa Clotilde e di Napoleone Bonaparte è il pegno dell'accettazione. Gli Austriaci non ripasseranno le Alpi. Venezia è statuita sin d'ora pegno di pace coll'Austria. L'Italia non è contemplata nella questione.» - Parole di Mazzini nel Pensiero ed Azione del di 15 gennaio 1859.

PACE DI VILLAFRANCA. 211

cagliate le operazioni, erasi fatta sentire sulle truppe in modo fuor del comune; gli ospitali da campo riboccavano di febbricitanti, la dissenteria ed il tifo mietevano vittime ognor più numerose; in particolare i corpi scelti, spinti di continuo nei maggiori combattimenti, avevano subito perdite gravissime; e lo spirito generale dell'esercito, che non mai era stato favorevole alla Sardegna, aveva preso nel corso della guerra un carattere d'avversione che toccava omai ad animosità non celata verso le truppe piemontesi. Le forze dell'Austria non erano rotte per nulla. Gli alleati aveano ancora a combattere un esercito che non la cedeva a nessun altro per disciplina e prodezza; quell'esercito doveva esser attaccato alla fronte, che appoggiavasi ad una linea di fortezze, ciò che veniva presupposto pressoché impossibile. Si poteva pensare d'essere vittoriosi solo irrompendo in Tirolo, passando per Rovereto ed attaccando gli Austriaci alle spalle. E quando pure fosse riescito, senza un attacco alle spalle, sforzare la fronte, isolare Mantova da Verona, invadere il Veneto, obbligare gli Austriaci a rinchiudersi nelle fortezze, diveniva suprema necessità pegli assedianti interrompere ogni comunicazione colle altre province dell'Austria, ciò che non era ancora possibile se non con tagliare la via che nel suo fianco destro lega Verona al Tirolo.

Nell'uno come nell'altro caso adunque bisognava por piede in Tirolo. Il Tirolo però è territorio appartenente alla Confederazione germanica; altro inciampo e gravissimo, che ad ogni patto era mestieri evitare. Certissima cosa era che se un lembo di suolo tedesco gli alleati avessero tocco, Alemagna tutta sarebbe accorsa a difenderlo; altrettanto certissimo che eserciti germanici sarebbero già scesi a soccorso dell'Austria se la Prussia non avesse saputo sin allora destreggiare per guisa da trattenerli. In Alemagna erasi profondamente radicato il convincimento che la linea del Mincio e le fortezze del quadrilatero fossero difese indispensabili pella sicurezza della Germania medesima; ufficiali prussiani, inviati sui luoghi ad istudiare accuratamente la questione, aveano rapportato al Governo di Berlino la stessa opinione. E l'Imperatore de' Francesi aveva bensì, in particolare per le missioni del La-Roncierè (1), avuto buono in mano per vivere tranquillo che

(1) Dal principio del novembre 1858 tre volte in tre mesi il barone

212 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

la Prussia avrebbe serbata la spada nella guaina sinché si trattasse della sola Lombardia, ed era sicuramente persuaso che ned essa avrebbe così facilmente preso parte alla guerra in favore dell'Austria, né, quando si fosse trovata costretta di farlo, non sarebbe scesa in lizza senza suo proprio vantaggio; tuttavia, nulla essendo più agevole che il riconoscere come la politica prussiana, non mai punto ferma in quanto a positive tendenze, si sarebbe lasciata guidare principalmente dagli avvenimenti del giorno e regolare a seconda dei successi, ei non poteva pensare di tenere guarentigie sufficienti sino a quando la Prussia si sarebbe astenuta.

Era difficile, ma pur poteva accadere, che la Germania con impeto irresistibile travolgesse alla sua volta il Governo di Berlino; ovvero, spossata dalla lunghezza di una guerra accanita, l'Austria per avventura poteva un bel giorno accertarsi del soccorso della Prussia con concessioni da questa lungamente ambite in Alemagna. Ed anche indipendentemente da codeste eventualità, vi avea altro pericolo possibile e prossimo. AH estrema ala sinistra degli alleati gli avamposti sardi già toccavano quasi alle frontiere germaniche. Garibaldi, condotta nelle Alpi la piccola guerra con vivacità, per la Valtellina e la Valcamonica si andava dì per dì avvicinando ai confini del Tirolo, che il supremo comando dell'esercito alleato aveva bensì severissimamente ingiunto di rispettare, ma che nullameno, forse eziandio per quella velleità d'indipendenza che Vittorio Emanuele affettava talora di assumere anche in cose guerresche, da un colpo di testa dell'avventuriero o dell'alleato potevan benissimo essere violati. Così quinci e quindi niuno darebbe stato in caso di guarentire che non sopravverrebbe un avvenimento di tal natura da trascinare inevitabilmente, presto forse, la Prussia nella guerra.

Quanto poi dianzi gli era stato a cuore di assicurarsi il concorso della Russia, altrettanto ora l'Imperatore Napoleone sentiva vivissimo il desiderio di 9 posare le armi prima che la Russia, con intervenire nella lotta, potesse schiudersi l'opportunità

La Roncière le Noury, capitano di vascello francese, erasi da Parigi recato per Berlino a Pietroburgo con segretissimi incarichi presso lo Czar ed 11 Principe Reggente di Prussia.

PACE DI VILLAFRANCA. 213

di dar mano a conseguire in Oriente que' compensi, che a mal in cuore egli aveva dovuto prometterle per aversela amica in Italia. Gli sapea duro, infatti, quel dover disfare colle sue mani medesime in parte opere proprie di pochi anni addietro. Né lo Czar nulla avrebbe, pensava, potuto trovare a ridire, se, raggiunto da per sé in Italia quanto stimasse bastevole al suo scopo, avesse, a fronte di una prossima minaccia di guerra generale, conchiusa nell'interesse della Francia una pace onorevole, prima che la Russia pe' suoi particolari interessi si fosse trovata in condizione di sparare un cannone. Lasciare la Russia col naso all'aria prima che fosse stata in caso di nulla intraprendere; tagliare la strada alla Prussia prima che avesse potuto venire innanzi a cinguettare, come sperava, quale grande Potenza europea; impedire ogni intervento dell'Alemagna, che si avrebbe tratto dietro quello dell'Inghilterra, prima ancora che avesse potuto dar fuori; aizzare l'Austria contro la Prussia, e spargere diffidenze e rancori nel seno della Confederazione germanica; abbarbagliare l'Europa cogli aspetti della moderazione e conseguire in Italia a mezzo della pace più di quanto si avrebbe forse potuto ottenere a mezzo della guerra; se tutto questo si avesse potuto raggiungere, erano risultamenti siffatti che ben avrebbero avuto importanza migliore di qualsivoglia più splendida vittoria campale. Tutta la difficoltà stava nel condurre a tempo opportuno l'Austria sul terreno dei sacrifìcii e della pace. Or come la Russia servi vasi delle minacce verso la Germania per incalzare la guerra, ei poteva valersi dei volteggiamenti della Prussia per affrettare la pace.

Quando l'Imperatore de' Francesi vide che la battaglia di Magenta gli ebbe dischiusa la via a Milano, ben deciso, che che ne pensassero coloro cui poteva interessare questo appunto avvenisse, a non provocare certamente per cagione d'Italia una grossa guerra europea, aveva già rivolto l'animo a concertare un programma delle condizioni alle quali, allorché avesse stimato meglio di deporre le armi, ei sarebbe venuto ad assentire la pace; un programma che, se accolto dalla Russia amica, si potesse con assai di probabilità sperare accettato eziandio dal nuovo Ministero inglese, né seriamente rifiutato in tali circostanze dalla Prussia, la quale al più si sarebbe limitata a trame un qualche

214 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

profitto, in ispecialità se la Francia dopo grandi successi guerreschi avesse dimostrata una straordinaria apparente moderazione. Codesto programma era: - L'Italia resa a sé stessa, nazione libera ed indipendente. Una Confederazione di tutti gli Stati italiani. Aggrandimento del Regno di Sardegna mediante la Lombardia ed il Ducato di Parma. Creazione d'uno Stato indipendente dall'Austria, formato delle province venete e del Ducato di Modena, sotto un Arciduca austriaco. La Toscana data alla Duchessa di Parma (1). Un Vicereame con amministrazione laica nelle Legazioni. Un Congresso sarebbesi ragunato per riordinare l'Italia sopra queste basi, tenendo conto dei giusti desiderii e dei voti dei popoli.

Con tale programma l'Austria sarebbe, stata esclusa affatto dalla Penisola, e la frase dell'Imperatore de' Francesi nel proclama di Milano: l Italia libera dalle Alpi ali Adriatico, fatta udire ne' giorni medesimi in cui lo stesso Imperatore volgeva la mente a codesto disegno di pacificazione,

(1) Il trasferimento dei Borboni di Parma a Firenze era esso medesimo, nel senso napoleonico, una rivendicazione e protesta contro i Trattati del 1815.1 Borboni di Spagna si erano già accostati alla Francia nel tempo della Convenzione. Nell'agosto 1800, inviato a Madrid il Berthier, questi vi soscrisse un Trattato eventuale, in forza del quale il primo Console obbligavasi di procurare al Duca di Parma un'ampliazione di Stati in Italia, che fosse di un milione e dugentomila anime incirca, accertargli il titolo di Re, e farlo riconoscere da tutti i sovrani d'Europa al tempo della pace generale: in ricambio doveva la Spagna, tostoché parte di queste condizioni fosse adempita, cedere alla Francia la Luisiana integralmente com'era allorquando fu data da Luigi XV. a Carlo III., ed aggiungervi sei vascelli di linea, armati di tutto punto e di ogni cosa forniti. Il Trattato di Lunèville pose termine alla guerra della seconda Lega, e per la seconda volta concesse alla Francia un collocamento da signoreggiare in Italia. Fra le essenziali disposizioni di quello era la cessione della Toscana, promessone al Granduca un compenso in Alemagna. Trovatosi in tal modo il Bonaparte in condizione di poter adempiere i suoi obblighi contenuti nella stipulazione di Madrid, il Granducato di Toscana, col Trattato d'Aranjuez del 21 marzo 1801, fu eretto in Reame col nome di Regno di Etruria. Al giovane Re Lodovico, morto il 27 maggio 1803 in Firenze, succedette il figlio, Lodovico IL, sinché, il 23 novembre 1807, il Regno etrusco fu aggregato all'Impero francese. L'Atto finale del Congresso di Vienna, segnato il 9 giugno 1815, confermò la sovranità sul Granducato di Toscana all'Arciduca Ferdinando d'Austria.

PACE DI VILLAFRANCA. 215

quella frase poteva appieno, nel senso napoleonico, essere una verità. L'Arciduca austriaco, che avrebbero chiamato ad occupare il trono del nuovo Regno veneto, e nella mente dell'Imperatore de' Francesi era il cessato Governatore del Lombardo-veneto, Arciduca Ferdinando Massimiliano, diverrebbe pe' suoi interessi principe italiano. Casa Savoia coll'acquisto della ricchissima Lombardia e del Ducato di Parma si sarebbe trovata signora del più potente reame della Penisola; mentre, ricinta intorno intorno dal Regno etrusco e dal veneto, alla incolume esistenza de' quali avrebbe sopravvegghiato la Confederazione, sarebbonsi elevate barriere durevoli alle sue crescenti ambizioni di più vasto dominio. Colla erezione di un Vicereame laico nelle Legazioni, sotto l'alta sovranità nominale del Papa, l'Imperatore de' Francesi poteva tenersi prosciolto da' segreti impegni contratti, e ad un tempo schiudeva con un precedente riconosciuto dall'Europa la via alla separazione futura di altre parti dello Stato della Chiesa. Poi, allorché il Congresso si sarebbe adunato, si avrebbe rimessa in campo la richiesta formale al Pontefice di accordare liberali riforme ne' suoi residui dominii, e la lettera ad Edgardo Nev sarebbe tornata ancora una volta alla luce. E l'obbligo, che si voleva avesse il Congresso, di prendere in considerazione i voti dei popoli, non impediva guari che a miglior momento si procurassero convenevoli dimostrazioni, e per arti e violenze i Borboni di Napoli si vedessero nel frattempo soppiantati da Luciano Murat nelle province di terraferma, ed in Sicilia o da una secondogenitura di Casa Savoia, o dal principe Napoleone, che non peranco, in onta a' disinganni patiti, avevansi perdute tutte affatto speranze di trapiantare a Firenze.

In sostanza non correa gran divario tra codesto progetto ed i primitivi disegni di Napoleone III. sulla Penisola (1). Costituita questa a tal modo, esclusane del tutto l'Austria, Napoleone nullameno raggiungeva nella sua essenza lo scopo di un'Italia francese, un'Italia che, a guiderdone della sua indipendenza, dovesse con lieto animo portare il basto sovrappostole dalla Francia. L'Austria rispinta, in sostanza, al di là delle Alpi; la Lombardia e Parma per sé; la Sicilia per la sua secondogenitura;

(1) Vedi; Le cause, Vol. I., pag. 133.

CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

Le Legazioni, al cui governo, sinché fosse venuto tempo più propizio per annetterle definitivamente, Sarebbe stato chiamato un principe sabaudo; erano doni sì fatti che ben avrebber dovuto astringere i Beali di Sardegna a fare onore alle promesse di Plombières con cedere Savoia e Nizza alla Francia. Che se all'acquisto di codeste due province fosse stato di ostacolo la incompleta esecuzione dell'impegno, preso dall'Imperatore de' Francesi, di costituire per Gasa di Savoia uno Stato d'intorno a dodici milioni d'abitanti, il voto dei popoli avrebbe accomodato ogni cosa coll'annessione del Ducato di Modena o qualche altro territorio al Piemonte.

Questo disegno di pace, comunicato a Pietroburgo, eravi stato accolto con indifferenza, che potea credersi né opposizione, né approvazione, il solo mutamento di dinastia a Firenze parendovi più schiettamente avversato (1). Il principe Gortschakoff da Pietroburgo e lord Russell da Londra facendolo pervenire confidenzialmente a conoscenza del Ministro austriaco alle cose esterne, il conte di Rechberg, allora in Verona presso l'Imperatore, Russia e Gran-Bretagna, trasmettendo quel disegno, avvertivano non esser cosa propria, ma della Francia, ed inviarlo per preghiera di questa. Se non che dal momento in cui il Bonaparte lo avea fermato in mente e fatto viaggiare a Pietroburgo ed a Londra, sopraggiunti altri avvenimenti, nell'animo suo eransi radicati ognor più fermi propositi.

Infrattanto la Prussia, che non avea avuto parte allo scoppio della guerra, s'introduceva destramente, non come membro della Confederazione germanica, ma come grande Potenza europea, per accampare la pretensione che la guerra non potesse finire senza di lei. E questo, come non poteva riescire gradito alla Germania,

(1) Per quanto si riferisce alla voce che in quel momento correva su pe' Giornali, essere stata la Corte di Pietroburgo ostile alla restaurazione del Granduca di Toscana, potrebbe dar norma il seguente dispaccio, inserito nel Blue-Book, (The affaires of Italy, 1859, pag. 105).

«Lord Cowley al conte di Malmesbury.

» Parigi, 7 giugno 1859.

» L'Ambasciatore di Russia ha formalmente notificato al Governo» francese, che l'Imperatore di Russia non riconoscerà punto il Governo» provvisorio di Toscana, atteso che Sua Maestà Imperiale considera il» Granduca come legittimo sovrano di questo Ducato.»

PACE DI VILLAFRANCA. 217

non doveva neppure convenire all'Imperatore Napoleone. Per la gloria della Francia, e, quantunque in segreto, per il suo vantaggio materiale eziandio, ei già avea fatto abbastanza, e dopo i successi brillanti ottenuti in guerra gli era permesso di modificare alquanto il suo primitivo programma, senza dover temere di offuscare lo splendore delle armi francesi. Condotte le cose a quel punto, una pace ch'egli avesse conchiuso direttamente coll'Austria, senza intervento di chicchessia, mentre mandava a male eziandio tutti i progetti della Corte di Berlino, poteva disunire completamente da questa l'Austria, che tanti motivi a suo riguardo già aveva di malumore e sospetto, e schiudeva larga via ad uno scisma nella Confederazione germanica, forse assoluto, incurabile, che avrebbe potuto porgere in appresso all'Imperatore Napoleone la più favorevole occasione d'intraprendere una nuova guerra localizzata contro l'uno o l'altro degli Stati germanici.

La possibilità di conseguire questo grande successo politico insieme a quegli alti scopi, cui colla sollecita posa delle armi confidava ornai di raggiungere, stava principalmente nello spediente che si avrebbe dovuto adoprare per indurre l'Austria ad accettare una pace evidentemente precoce e dannosa. Or questo spediente offeriva in buon punto la Prussia medesima col suo progetto di mediazione. Il dispaccio del 24 giugno, con cui la Prussia invitava Inghilterra e Russia ad accedere alla mediazione armata, collegato all'altro nello stesso giorno spedito da Berlino agli Inviati delle Potenze germaniche, doveva inasprire vie più l'Austria contro la Prussia, divenuta a' suoi occhi amica e confederata più che sospetta; ed in tale disposizione dell'animo, l'Austria che teneva da Londra e da Pietroburgo quel foglio di carta su cui erano scritte le condizioni alle quali sarebbele stata assentita la pace, con tutta probabilità avrebbe dato miglioro ascolto a proposte direttamente offertele da Napoleone, quando queste fossero per lei sembrate di minor danno che quelle sulle quali appoggerebbesi l'armata mediazione, intorno a cui si affaccendava la Prussia.

Per fermo nulla di più naturale che la Corte di Vienna avesse guardato e guardasse con crescente diffidenza i procedimenti del Governo prussiano a suo riguardo.

218 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

Dapprima una lunga serie di piccole ostilità avea dovuto ingenerare nell'Austria un dubbio sospettoso; accesa la guerra, il suo contegno erasi fatto ognor più equivoco. Allorché l'Annover, il 13 maggio, presentò alla Dieta germanica la proposta di riunire nell'Alemagna meridionale un corpo di osservazione rinforzato da contingenti austriaci, la Prussia non solamente protestò contro questa misura, che dichiarava dannosa, ma ben anco mise in campo la pretensione di avere essa il diritto d'iniziativa per tutte quelle questioni politico-militari che nelle soprastanti condizioni potevano sorgere per la Con federazione e nella Dieta stessa. Quest'incidente, ed il malumore palese che ne conseguitò, determinarono il Principe Reggente ad inviare a Vienna il generale Willisen per combinare, diceasi, una reciproca spiegazione. Willisen partì con istruzioni, la cui parte più determinata poteasi compendiare nella frase: non fare per parte della Prussia alcuna dichiarazione positiva.

Giunto a Vienna, le sue prime parole bastarono a chiarire che la Prussia voleva conservare sempre l'antica sua posizione: rimanere una grande Potenza per la quale tanto l'Austria quanto la Francia avevano lo stesso significato, con che l'Austria non aveva maggiori ragioni per l'amicizia o la nimistà della Prussia che la Francia stessa. La Prussia, avendo da principio cercata la mediazione, pensava di riproporla anche più tardi; solamente che a guerra incominciata voleva a sé riservata piena libertà per la scelta del momento che più stimasse opportuno. Una volta que sto arrivato, la Prussia, diceva, potrà porsi d'accordo colle altre Potenze neutrali, o quasi neutrali, sulle basi della mediazione. Secondo il suo modo di vedere, doveva essa considerare la conservazione dei possedimenti austriaci in Italia come la più essenziale di queste basi; quanto ai Trattati speciali dell'Austria in Italia, la Prussia essere del parere che l'Austria vi debba rinunciare. Rispetto alla sua posizione verso la Confederazione germanica, essere opinione della Prussia, che per la Confederazione non siavi caso di guerra sino a che i confini dell'Alemagna non sieno attaccati. Spettare alla Prussia come grande Potenza europea il compiere l'opera della mediazione. La Dieta ed i singoli Stati germanici non dovervi comparire che come Potenze militari ausiliarie della Prussia. Questa le dirige; ad essa soltanto competere la scelta del momento di rompere la guerra, quando ciò essa

PACE DI VILLAFRANCA. 219

credesse necessario. L'Austria non potere aver voce nella Dieta, trovandosi già impegnata.

In allora il progetto di mediazione prussiana formò la base delle ulteriori trattative: L'Austria l'accettò. Ad essa naturalmente premeva di sapere anzi tutto sopra quali basi la Prussia intendesse procedere nella sua mediazione. Willisen non era al caso di nulla rispondere di concreto. Allorché l'Austria parlò del postamelo dell'esercito della Prussia e della Confederazione germanica sul Reno, Willisen replicava essere necessario, prima di prendere una risoluzione in proposito, di attendere che fosse avvenuto in Italia un grande fatto d'armi. Egli faceva specialmente risaltare che la Prussia con quel suo contegno di aspettazione costringeva la Russia a tenersi lontana dal campo di azione; e la Prussia, da una parte proteggendo i confini del Reno, dall'altra tenendo in iscacco la Russia, permetteva all'Austria di gettare tutte le sue forze in Italia, mentre di tal maniera astringeva nello stesso tempo la Francia a concentrare verso i confini della Germania forze considerevoli. In sostanza la Prussia voleva comparire quale mediatrice col desiderio ben espresso che l'Austria lasciasse a lei campo libero in Germania e nella Confederazione. L'Austria ben a ragione doveva adombrarsi principalmente su questo punto. La Prussia come Potenza egemone, dovettero forzatamente pensare a Vienna, vorrebbe spingerci fuori della Confederazione, ma appunto questo non possiamo accordare né volere. Ai dubbii ed ai sospetti venivano così a sostituirsi i rancori.

Willisen ritornò a Berlino il 29 maggio. L'Austria desiderava ora che si avesse da constatare il risultato delle trattative avvenute con Willisen, ed in ispecie la data assicurazione, che la Prussia voglia considerare la conservazione dei possedimenti austriaci in Italia, come base principale della sua mediazione. Intanto avveniva la battaglia di Magenta, e, cominciato lo sgombro della Lombardia, il possesso di fatto mutavasi realmente in grave danno dell'Austria. Questa assicurazione, rispose allora il Governo di Berlino, somiglierebbe ad una guarentigia della Lombardia, e la Prussia, assumendola, escirebbe dalla sua posizione di mediatrice; in quella vece scrisse a Vienna (1),

(1) Dispaccio del conte di Schleinitz, Ministro aprii affari esteri, al conte di Arnim, Ambasciatore di Prussia a Vienna, del 14 giugno 1859.

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in termini assai vaghi, che avrebbe fatto tutto il possibile per conservare all'Austria i suoi possedimenti, ed il Governo prussiano attendersi di presente che l'Austria volesse corrispondere alla sua con altrettanta fiducia, dandone un pegno alla Prussia col suo contegno verso la Confederazione. Questo linguaggio, in cui si compendiava tutto il risultato della missione Willisen e in realtà nulla stabiliva, molto meno la guarentigia per la conservazione della Lombardia, contentò poco, e si comprese che la Prussia per intanto non avrebbe preso parte attiva alla guerra, e fatto poi dipendere il modo della sua mediazione dal possesso reale esistente al momento in cui avrebbe dato principio alla mediazione medesima.

Quando poi per, la ritirata degli Austriaci dalla Lombardia, il popolo tedesco inasprito fé temere che la Confederazione si staccasse dalia Prussia per unirsi all'Austria, il Gabinetto di Berlino, mentre invitava Inghilterra e Russia di farsi a lui compagne mediatrici armate, decideva subitamente di por l'esercito in assetto di guerra, e proponeva alla Dieta germanica l'entrata in campo d'una gran parte dell'esercito federale lungo il Reno superiore, mentre i corpi prussiani mobilizzati si sarebbero messi in ischiera sul Reno centrale ed inferiore. Questa richiesta della Prussia fu approvata dalla Dieta di Francfort il 2 luglio. S'ingannavano a vicenda: la Germania credendo di muovere i suoi eserciti per accorrere questa volta davvero in soccorso dell'Austria sul Reno, mentre il Governo di Berlino non altro avea in mira che di spalleggiare colla vana mostra di grandi forze militari il suo progetto di mediazione, col proprio esercito in assetto di guerra contenere gli altri Stati tedeschi, ed imporre all'Austria quelle condizioni di pace che, scritte dall'Imperatore de' Francesi, Inghilterra e Russia non aveano avversate; il Governo di Prussia credendo di aver trovata a buon mercato l'occasione di effettuare i suoi disegni e di profittare degli impacci dell'Austria per fare la Prussia padrona dell'Alemagna, mentre la Germania pensava che, una volta condotto l'esercito prussiano sui confini della Francia, il partito di Gotha, dominante nel Ministero in Berlino, sarebbe stato suo malgrado alla perfine trascinato nella guerra, impotente più a lungo a resistere allo slancio prevalente della pubblica opinione.

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Chiedendo a Francfort per sé il comando di tutti i contingenti federali mobilizzati e da mobilitare, non come membro della Confederazione, bensì come Potenza europea, senz'obbligo di giuramento da prestare o d'istruzioni da ricevere, una vera dittatura militare; neanche in questo caso il Gabinetto di Berlino non diede nessuna spiegazione chiara ed ufficiale sopra lo scopo degli armamenti ed i proprii propositi, che anzi la Prussia fece dichiarare a Parigi, a Pietroburgo ed a Londra, che le sue intenzioni erano pacifiche, ch'essa era ferma nel voler continuare nella sua politica d'aspettativa, e se si facevano armaménti, ciò era per quietare i mali umori popolari e tutelare la Confederazione.

In sostanza, come prima del? apertura delle ostilità, quando l'ardor guerriero era grande nel popolo tedesco e la pubblica opinione tale che non avrebbe permesso a nessun governo alemanno e neanche al prussiano di conservarsi neutrale, ma tutti sarebbero stati sforzati di far causa comune coll'Austria, il Gabinetto di Berlino pel desiderio di vedere l'Austria indebolita ed umiliata non avea voluto rendere la guerra impossibile, non parendo probabile che si volesse andare contro la Germania intera; così ora, rotta la guerra, dopo che, invece di unirsi schiettamente colla Confederazione e senza secondi fini capitanarla a difesa dell'Austria, il che gli sarebbe valuta senza dubbio quell'egemonia in Germania ch'esso agognava da tanto tempo, avea preferito di continuare a farla da mediatore con una mediazione senza nessuna base determinata, ancor nell'ultimo istante il Governo di Prussia, in opposizione ai voti della grande maggioranza del popolo e dell'esercito prussiano, giudicava più conforme ai suoi interessi di nulla fare di veramente chiaro e fermo, e di aspettare, per prendere una risoluzione definitiva, ciò che sarebbe accaduto, checché dovesse accadere. Ancorché si dicesse che la Prussia era ormai per operare secondo il testamento di Federico Guglielmo III., il quale aveva caldamente raccomandato a' suoi succe% sori di restar fedeli all'alleanza dell'Austria, e si pensasse ch'era giunto il momento in cui il patriottismo tedesco dovea trionfare dell'egoismo privato; ancorché si buccinasse che il Principe Reggente, il suo primo Ministro ed il Ministro della Guerra desideravano ciò da un pezzo, ed il linguaggio misterioso, ambiguo, riservato e pacifico dei documenti ufficiali non era che cautela e

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prudenza, i fatti intanto attestavano per lo contrario che si ripigliava la politica del conte di Haugwitz, seguita già nel 1805 ai tempi della battaglia d'Austerlitz, quando la Prussia, senza al" learsi con alcuno, ottenne per sé vantaggi e aggrandì menti.

L'Austria non poteva rimanere pia a lungo in cotanta incertezza, il peggiore di tutti mali; ed al principe Alfredo di Windischgratz fu dato l'incarico di recarsi a Berlino per cavare di bocca finalmente quali fossero le vere intenzioni della Prussia. Windischgratz giunse in Berlino al 3 di luglio. Intanto l'Austria proponeva alla Dieta di Francfort di mobilitare l'intero esercito della Confederazione, compresovi il contingente austriaco, e di affidare il comando supremo dell'esercito federale al Principe Reggente di Prussia, non come a Potenza europea, ma come a membro della Confederazione. Contro quest'ultima proposta, era il 7 luglio, la Prussia protestò. Fu sprazzo di luce che illuminava i più riposti angoli della scena. A Berlino Windischgratz insisteva per la cooperazione attiva della Confederazione; a Franca fort la Prussia rispondeva con una protesta. Il dubbio non era più possibile; le male disposizioni del Gabinetto prussiano per l'Austria, conservate sino all'ultimo istante, e l'inutilità della chiamata alle armi di tante truppe, e con tanto fracasso, erano messe allo scoperto. Prussia e Germania andavano bensì ad un tempo sul Reno, ma eran diversissimi gli scopi; la Germania vi andava per la nazione, la Prussia per sé, e per contenere intanto col suo esercito l'Annover, la Sassonia, la Baviera, il Wurtemberg e gli altri, ch'erano pronti a difendere l'Austria. In quel mentre, sulle sponde del Mincio, un colpo di fulmine a ciel sereno turbava tutte le menti, tutti i disegni, tutte le speranze e tutti i timori.

L'Imperatore de' Francesi aveva già varcato il Mincio; era ornai a' piedi di quel quadrilatero, dietro a cui stava l'Austria, flava la Germania, stava, volere o non volere, la Prussia medesima, stava colla Germania alla fin fine l'Inghilterra, stava a così dire l'Europa. Conquistata a prezzo di torrenti di sangue l'aureola di Solferino gli brillava in capo. La Lombardia era sua; mezza Italia in fiamme, il resto come nave senza nocchiero in gran tempesta. La Russia, dopo che le avea sì inopinatamente mandato quel pezzuolo di carta perché lo passasse all'Austria,

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guarda vaio alquanto arcigno, quasi a modo di chi si senta burlato e in gran silenzio parea piuttosto scostarsi da lui, qual che dicesse: chi la fa, l'aspetti. La circostanza che appunto corpi d'esercito prussiani, stanziati lungo il confine russo, non erano stati mobilitati, accennava già ad un buon accordo fra Pietroburgo e Berlino. L'Inghilterra gli faceva il viso dell'arme; come la Russia, neppur essa era entrata nello spirito della mediazione prussiana, ma questo poteva forse mutarne affatto la direzione. La Prussia bonariamente cullatasi nell'illusione di poter guadagnar molto senz'aver arrischiato nulla. La Germania, fermamente decisa a far da senno, si apprestava a provare che la lealtà vale in politica quanto in qualsivoglia altro negozio, e che anche a' minori è dato talora di far la lezione a' maggiori, se questi vengano meno all'onore e agl'interessi veri de' popoli. Il 15 luglio appressava: il giorno in cui tutte le strade ferrate della Germania verso il Reno avrebbero cominciato a trasportare senza interruzione sulle frontiere francesi duecentocinquanta mila Prussiani e centocinquanta mila uomini degli altri Stati tedeschi, già in marcia.

Ai rancori verso la Prussia Napoleone doveva pensare subentrata nel cuore dell'Austria l'animosità; ormai l'Austria potendo, senza timore d'essere contraddetta, chiedere alla Prussia se sarebbe essa contenta dell'Austria nel caso che, essendo le sue provincie prussiane o quella di Posen invase dal nemico, l'Austria si contentasse d'impedire che l'Alemagna l'aiutasse, ed offrisse però la sua mediazione, pregando umilmente il nemico di concedere le provincie prussiane e di Posen a qualche principe secondogenito di Casa di Prussia. Quanto il monarca francese aveva sperato raggiungere, gli era riescito. D'or innanzi per lui la guerra, anche nell'ipotesi la più fortunata, veniva a mancare di opportunità, né certamente poteva procurargli compensi adeguati. Per desiderare la pace, di presente, avea motivo importante tanto per lui quanto per l'Austria: impedire la Prussia di pesca» re nel torbido. E mentre le probabilità della vittoria erano ancora sottosopra eguali per l'esercito francosardo come per l'austriaco, per questa Prussia ei si trovava alla vigilia di ritirare le sue truppe dall'Adige per guidarle sul Reno; a vece di aiutare l'Italia, stava per essere costretto a difendere la Francia.

Ben ferma era la risoluzione di Napoleone III. di non entrare

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personalmente in quel fatale quadrilatero, cui fanno cornice Mantova e Peschiera sul Mincio, Verona e Legnago sull'Adige, che Napoleone I. chiamava una trappola per ogni poco accorto capitano. Già il 7 giugno, un giorno prima di mandare pel mondo la frase: Italia libera dall'Alpi all'Adriatico, aveva inviato a Parigi ordine di apprestare grandi cacce, che, nella peggiore ipotesi, il maresciallo Pélissier, come uomo del mestiere nell'atterrar muraglie, lo avrebbe sostituito in Italia. All'alba del 24 giugno, divorando lo spazio per accorrere sul campo di battaglia, egli era appieno deciso di conchiuder la pace tosto che avesse potuto ottenere un grande successo guerresco; la sera la sua determinazione era irremovibile. Qual avversario aveva avuto a combattere! Più che mai convinto, che la guerra è un giuoco serio nel quale si compromette la propria riputazione, le proprie truppe ed il proprio paese (1), di voler pace il primo segnale palese diede nella sera del 28 (2), allorché fece richiedere al Re di Sardegna: «Se l'Italia avrebbe avuto forze militari e morali bastanti por fare da sé, quand'egli credesse di non poter più fare per lei.»

(1) Lettere di Napoleone I. al principe Eugenio. - Thiers (Le Consulatet l'Empire.)

(2)

L'asserzione, mille volte ripetuta, che l'armistizio e la pace fossero avvenimenti sopraggiunti a perfetta inscienza del Re di Sardegna, dessa pare fandonia di partito. Vittorio Emanuele aveva conoscenza certa degl'intendimenti dell'Imperatore de Francesi, di conchiudere una sospensione d'armi, sino dal 28 di giugno. Allorché, il 6 luglio, il generale Fleury fu inviato da Valeggio a Verona, l'incarico gliene fu dato da Napoleone in presenza del Re di Sardegna, dopo che l'Imperatore aveva dato a leggere al Re la lettera che Fleury doveva portare all'Imperatore d'Austria in Verona, contenente la richiesta di sospensione d'ostilità. «Mio caro generale,» disse Napoleone a Fleury, presente Vittorio Emanuele,» (2) ho bisogno in questo momento d'un generale diplomatico, mi occorre un uomo conciliativo ed amabile; ho pensato a Vol. Eccovi una lettera che indirizzo all'Imperatore d'Austria; voi la porterete subito a Verona.Leggetela, ponderatene il senso. Domando una sospensione d'armi; è d'uopo che l'Imperatore d'Austria l accetti. Faccio assegnamento sulla vostra intelligenza per isvolgere le idee che sono in germe in questa lettera. Segnata la tregua, l'Imperatore de' Francesi non nascose al Re di Sardegna la necessità della pace. Vittorio Emanuele «non volle in modo alcuno influire sulle decisioni del suo alleato. Ei comprese che i più gravi interessi della Francia erano in giuoco. Egli stesso abbracciava

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II principe Carlo di Windischgratz, colonnello austriaco, era rimasto ucciso nella battaglia di Solferino; solamente due giorni appresso il suo cadavere essendosi potuto rinvenire sotto un monte di estinti, l'Imperatore de' Francesi, allorché gliene fu dato l'annunzio, aveva esclamato: Tal tomba hanno soltanto gli eroi. La famiglia del principe desiderava di averne la salma. Il 2 luglio, un capitano austriaco fu per ciò inviato al quartiere-generale francese. Si. colse la palla al balzo, ed accordatogli quanto chiedeva, Napoleone, fattoselo venire innanzi sotto pretesto d'incaricarlo di ringraziare da parte sua l'Imperatore d'Austria pel modo cavalleresco con cui sapeva trattati i prigionieri francesi, lasciò noncurantemente cadere alcune parole che sembravano accennare a desiderio di sospensione d'ostilità. Il 6 luglio a dieci ore di notte una carrozza colle armi imperiali di Francia e bandiera parlamentare, scortata da ulani austriaci, attraversava le vie di Verona. Portava il generale Fleury, aiutante di campo dell'Imperatore de' Francesi, incaricato di rimettere all'Imperatore Francesco Giuseppe una lettera del suo sovrano contenente formale proposta di armistizio. L'Imperatore era a letto e dormiva; svegliato e vestitosi in fretta, alcuni minuti dopo, Fleury stava alla sua presenza, ed esprimeva, in nome di Napoleone, il sincero suo desiderio di veder cessare una guerra in cui la vittoria medesima era acquistata a sì caro prezzo. - La proposta, dissegli Francesco Giuseppe, di cui voi, o generale, mi sviluppate i motivi, è gravissima e richiede la più seria riflessione. Potete attendere sino a domani mattina la mia risposta? - Sono agli ordini di Vostra Maestà, replicò Fleury. Mi permetto però di osservare quanto sia urgente che questa risposta sia pronta. La flotta francese, Vostra Maestà forse lo ignora, occupa in questo momento l'isola di Lussin, ed ha ricevuto l'ordine di attaccare immediata

» dall'alto la questione, quale essa si presentava a fronte delle manifestazioni di tutte le Potenze.» (Bazancourt, Champagne d'Italie, II. Part., pag. 355). l'11 luglio, ancor prima che fosse scritta una sillaba dei Patti di Villafranca, Vittorio Emanuele diceva all'Imperatore dei Francesi: «Qualunque sia, In ultimo appello, la decisione di Vostra Maestà, Le sarò eternamente riconoscente di quanto Ella fece per la causa dell'indipendenza italiana, e in qualsiasi circostanza Ella può contare sulla mia intera fedeltà.»

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mente Venezia. Potrebbe adunque sopravvenire qualche atto d'ostilità che l'Imperatore Napoleone deplorerebbe infinitamente. - Seppi la presenza dei Francesi a Lussin, ripigliava il monarca, e ben vivamente mi duole di non aver occupata quell'isola. A domani dunque, generale.

Il mattino appresso Fleury diceva al principe Riccardo di Mettermeli, confidente dell'Imperatore d'Austria, non essere punto dubbioso il successo dell'attacco di Venezia, e per ciò pure essere sommamente desiderabile che i due Imperatori potessero personalmente vedersi, convinto com' era che in un colloquio tra essi sarebbero gettate senza dubbio alcuno le basi fondamentali della pace. A nove ore Fleury si allontanava da Verona, apportatore dello scritto di Francesco Giuseppe al suo sovrano. La tregua era assentita. Da Verona Fleury aveva spedito ordine all'ammiraglio francese di sospendere qualsivoglia operazione ostile contro Venezia (1) Il giorno 8 in Villafranca, dichiarata terreno neutrale, furono regolate le condizioni dell'armistizio, determinatane la durata al 15 agosto seguente.

Convenuta appena la sospensione d'armi, Napoleone,

(1) La flotta innanzi Venezia era un artificio di guerra, non una grande operazione di guerra. Riunita ad Antivavi, il primo di luglio ne dipartiva per impadronirsi dell'isola austriaca di Lussin, air entrata del Quarnero. L'isola era affetto sguarnita di truppe, e la flotta se ne impadronì agevolmente. Fu detto che la flotta portasse a bordo molte truppe da sbarco» senza delle quali, infatti, la sua azione sarebbe stata circoscritta a sterili cannoneggiamenti delle opere fortificate lungo la costa. Si giunse a parlare sino di quaranta mila uomini. Prette fiabe. Non si pensò mai a fare sbarchi di molta forza alle spalle del quadrilatero. Per abbonire l'Inghilterra nulla si avrebbe fatto a danno di Trieste, che del resto non si poteva toccare, essendo territorio della Confederazione germanica. Solamente il 6 luglio giunsero a Lussin tre mila uomini d'infanteria di linea, le sole truppe da sbarco che quella flotta abbia mai avute con sé (Rapporto del viceammiraglio Romain Desfossés al Ministro della Marina, del 23 luglio 1859, inserito nel Moniteur del giorno 5 agosto 1859). Il giorno appresso, 9 luglio, giunse all'ammiraglio l'ordine di muovere verso Venezia, le cui opere di difesa esteriore sarebbero state attaccate, disse l'ammiraglio nel suo Rapporto del 23, il giorno 10. L'8, la flotta, incominciava a partire da Lussin, allorché giunse l'ordine di Fleury di non far più nulla. L'attacco andò in fumo; ma eran tutte mostre, solamente intese ad esercitare pressione sull'animo dell'Imperatore d'Austria, se questi fosse rimasto nell'incertezza ad assentire subitamente la pace.

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lo stesso giorno 7, indirizzava all'Imperatore d'Austria una seconda lettera. Essa conteneva proposte di pace e l'invito di spedire a lui persona, di sua confidenza. Fu incaricato il principe Alessandro d'Assia; e giunto questi, nell'8, a Valeggio, Napoleone gli manifesta il desiderio di conferire di persona col monarca austriaco. Riassumendo, dal suo punto di vista, la posizione reciproca dei belligeranti, l'Imperatore de' Francesi insisteva nello stabilire quanto la pace, che offriva, si raccomandasse all'accettazione dell'Imperatore d'Austria, così sotto l'aspetto politico, come sotto quello strategico. - La prolungazione della guerra, egli disse, creerebbe senza dubbio alcuno i più gravi pericoli nell'interno della monarchia austriaca, minacciata ad un tempo da' movimenti de' popoli slavi e magiari. Egli stesso, continuando la guerra, sarebbe obbligato di appoggiarsi apertamente sul concorso della rivoluzione. Russia, Inghilterra e Prussia essere ormai concordi nel riconoscere la necessità dell'indipendenza italiana assicurata a mezzo d'una Confederazione, della cessione della Lombardia e del Parmigiano alla Sardegna, della erezione delle provincie venete in uno Stato indipendente dall'Austria; né la creazione di questo nuovo Regno potersi pensare in niun modo offendente l'onore, la dignità e la sicurezza dell'Austria, quando anzi un principe austriaco sarebbe chiamato a cingere la novella corona. La mediazione armata della Prussia, e forse eziandio dell'Inghilterra e della Russia, essere diretta a conseguire dall'Austria l'abbandono del Veneto ad un Arciduca, a conseguire dalla Francia che si appaghi dell'ottenuto. Se la Francia rifiuta, si volgeranno contro essa; se rifiuta l'Austria, si volgeran contro l'Austria. Una pace diretta, ora, sollecita, convenire meglio ad entrambi; con essa l'Austria potere anzi ottenere condizioni migliori di quelle che aveano stabilito d'imporle colla mediazione in armi. Francia ed Austria, combattutesi lealmente in libero campo, possono oggi conchiuder la pace di lor propria volontà, mentre domani sarebbero costrette di lasciarsela dettare da Potenze che in parte assistettero alla lotta come ad uno spettacolo piacevole. - Permettetemi, Sire, rispose il principe, di ridurre con alcune riflessioni al giusto loro valore i pericoli che Vostra Maestà intravede nelle aspirazioni di una parte de' popoli austriaci. Non mai, né in più splendida guisa,

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come in accagione della guerra presente il patriottismo e la devozione al trono manifestaronsi in tutta l'estensione dell'Impero e nella stessa Ungheria. - Quanto alle proposte condizioni di pace, il principe dichiarò di non credersi abbastanza autorizzato a discuterle senza averne in precedenza riferito all'Imperatore d'Austria.

Di ritorno a Verona, il principe d'Àssia scriveva nell'indomani a Napoleone, che, essendosi provato di presentire le disposizioni dell'Imperatore Francesco Giuseppe, ei non aveva osato comunicargli nel loro vero tenore le proposte di pace, quali erano state da lui formulate in Valeggio; considerate con maturo riflesso, averle il principe dovuto tenere siccome incompatibili colla dignità dell'Imperatore d'Austria, né potere in conseguenza attendersi se non che di vederle perentoriamente respinte. Nello stesso tempo Francesco Giuseppe scrisse al monarca francese: «Non avendo sguainata la spada che per difesa de' suoi legittimi diritti, guarentiti per mezzo di solenni Trattati dall'Europa intera, apprezzare egli troppo i beneficii della pace per non associarsi di tutto cuore alle pacifiche disposizioni da esso manifestate al principe Alessandro d'Assia. Per attestare la sincerità de suoi sentimenti, per non versare inutilmente il sangue de' suoi soldati e non imporre novelli sacrificii a' suoi popoli, dichiararsi disposto a subire le conseguenze d'una guerra disgraziata, semprechè resti intatta la dignità della sua corona, irremovibilmente deciso di non sottoscrivere veruna concessione che agli occhi del mondo potesse fare scadere l'Austria dal grado elevato, che da tanti secoli occupava nella storia de' popoli. Ancor egli desiderare vivamente d'incontrarsi col sovrano cui la Francia aveva confidati i proprii destini; col più grande suo dispiacere vedersi però astretto a rinunziare pel momento a codesto convegno, dappoiché sarebbegli troppo penoso, dopo di avere stretta la mano dell'Imperatore de' Francesi, di trovarsi nuovamente a fronte di lui sul campo di battaglia, ciò che diverrebbe inevitabile se la Francia non facesse all'Austria condizioni migliori.»

Dopo una dichiarazione sì chiara e sì ferma, non più potea avere speranza alcuna di successo qualsivoglia tentativo di riannodare le aperture di pace sulle basi del programma che l'Imperatore de' Francesi affermava essere volontà delle Potenze

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neutrali d'imporre a' belligeranti, ed era, come sappiamo, opera dello stesso Imperatore. Strette le fila a tal punto, ornai per lui tutta la questione si riduceva a scegliere tra due progetti, il progetto che avea ideato e spedito a Pietroburgo ed a Londra, e un progetto più ristretto da lui medesimo imaginato del pari tra un progetto francese ed un progetto francese. La notte dello stesso dì 9 luglio il principe d'Assia ricevette in Verona la risposta dell'Imperatore Napoleone. Era una lunga lettera motivata, in cui, modificate essenzialmente le primitive proposte, passava in rivista i motivi che doveano nel suo pensiero necessariamente impegnare l'Austria a conchiudere quella pace, di cui la Francia dichiarava voler agevolare il ristabilimento con tanto di moderazione quanto di condiscendenza. L'essenza delle nuove proposizioni era: l'Austria ceda la Lombardia, conservi la Venezia. Conchiudeva con porre innanzi quattro questioni: la prima, di sapere se l'Austria cederebbe per Trattato il territorio conquistato; la seconda, se abbandonerebbe francamente la supremazia acquistata nella Penisola; se riconoscerebbe il principio d'una nazionalità italiana, ammettendo un sistema federativo; se finalmente consentirebbe a dotare il Veneto d'istituzioni, che ne facessero una vera provincia italiana.

Comunicata codesta lettera, nel mattino del 10, dal principe d'Assia all'Imperatore d'Austria, senza indugio questi faceva conoscere a Napoleone la sua soddisfazione di potere incontrarsi con lui onde trattare direttamente delle basi preliminari di pace. Di reciproco accordo statuito l'abboccamento per l'indomani, nel mattino dell'11, in Villafranca convennero a colloquio i due Imperatori, testimonii Dio e la loro coscienza. Francesco Giuseppe e Napoleone III. erano entrambi ascesi al trono il due dicembre; entrambi, salendovi, aveanvi trovate a' gradini le mine della rivoluzione, l'ordine sociale da restaurare; tutti e due aveano consociate le armi per riconquistare al Pontefice gli aviti domini. Ed ora trovavansi faccia a faccia, prima e forse ultima volta in lor vita, unici attori in codesto, che dovea essere il più singolare fra' più singolari esempi di fragilità d'internazionali Trattati.

«Questa pace», disse l'Imperatore d'Austria, sin dalle prime parole entrando con grande schiettezza in questione,» questa pace io la desidero, e voglio dare a Vostra Maestà una prova della mia confidenza,

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» con indicarle il limite delle concessioni che posso fare.» Le quattro proposizioni, formulate nella lettera scritta nel 9 da Napoleone al principe d'Assia, costituivano naturalmente il perno del negoziato. - La sorte delle armi, continuò Francesco Giuseppe, mi fu contraria; ne subirò le conseguenze. Vi do la Lombardia, conservando alla corona d'Austria le fortezze di Mantova e Peschiera, ed il Veneto. Son pronto a confermarne per Trattato la cessione; e voi, Sire, ne disporrete come meglio vi piacerà. Dovete nullameno comprendere i motivi imperiosi che mi vietano d'intervenire direttamente nella cessione, se, come sembra certo, è vostro divisamento farne dono al Piemonte. - La vivace insistenza di Napoleone, che Mantova e Peschiera seguissero il destino della residua Lombardia, non giunse a smuovere l'Imperatore d'Austria, a ragione protestante essere concessione incompatibile coll'onore delle sue armi, ed avendo egli ammesso in favore della Francia il principio dell'uti possidetis, essere equo d'invocarne alla sua volta i beneficii rispetto a territorii che l'esercito francese non avea punto occupati.

Napoleone parlò d'una Confederazione degli Stati italiani, sotto la presidenza del Papa. Protestando della sua sincera intenzione di concorrere ad ogni tentativo serio ed efficace, che avesse ad oggetto di ricondurre e consolidare la pacificazione dell'Italia, l'Imperatore d'Austria, non che obbiettarvi, propose che, riguardo alle province venete, l'Impero austriaco si avesse a trovare rimpetto all'Italia in posizione analoga a quella del Re di Olanda verso la Confederazione germanica come membro pel Granducato di Lussemburgo. A tale offerta, che aveva una sì alta importanza, e andava più in là di quanto si avesse potuto sperare, comunque l'Imperatore d'Austria insistesse vivamente affinché fosse presa decisione immediata, Napoleone dichiarò di riservare il suo assenso, affermando aver d'uopo di maturamente riflettere sopra tutte le eventualità che poteano avervi attinenza.

Fermato il discorso sul pensiero d'una Confederazione, Napoleone avea detto che opera solida non avrebbe potuto fondarsi se non a patto di assoluto divorzio dalla rivoluzione, sulla quale, affermava, se la guerra avesse dovuto continuare, egli medesimo si sarebbe veduto costretto ad allearsi apertamente. - A questo proposito, replicava Francesco Giuseppe,

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permettetemi di esprimere la mia convinzione senza giri. Se l'alleanza colla rivoluzione è pericolosa per ogni monarca, lo è ben più per il fondatore d'una nuova dinastia. Voi ed io siamo tutti e due padri; preoccupiamoci meno dei nostri interessi personali, che dell'avvenire che lascieremo in retaggio a' nostri eredi, «ci troveremo ben più facilmente d'accordo. La restaurazione delle antiche case sovrane, sbalzate in conseguenza della guerra, era, agli occhi dell'Austria, una misura indispensabile per elevare una diga contro la rivoluzione che minacciava d'invadere tutta l'Italia. Poi l'Imperatore Francesco Giuseppe, nella doppia sua qualità di capo della Casa di Absburgo e di antico alleato del Granduca di Toscana e del Duca di Modena, risguardava siccome affare d'onore il ricoprire d'una protezione efficace i principi compromessi per sua cagione. - Posso, diss'egli, rinunziare alla Lombardia, perché la mi appartiene; ma non posso, né devo ad alcun prezzo, abbandonare alla mercé dei partiti i diritti legittimi dei membri della mia famiglia, diritti che l'Europa intera ha guarentiti, e che io stesso, salendo al trono, giurai di tutelare e difendere. Della loro restaurazione deggio farne, Sire, condizione sine qua non. - Napoleone, non opposta alcuna obbiezione al ristabilimento della Casa di Lorena, verso la quale protestava di professare sincera gratitudine per l'ospitalità generosa che av èva accordato in addietro alla sua propria famiglia durante le dure prove dell'esiglio, si limitò ad osservare l'impossibilità, in cui si trovava, di rivolgere le armi della Francia contro il Governo provvisorio di Toscana, divenuto suo alleato di fatto per la parte che avea preso alla guerra. Quest'ultima circostanza, soggiunse, l'impediva egualmente di consentire che il Granduca di Toscana fosse ricondotto nei suoi Stati da una forza straniera. - In quest'ora, osservò Francesco Giuseppe, si tratta meno di concertare misure di esecuzione, che di regolare la questione di diritto e di stabilire un principio. - II ritorno de' due principi spodestati fu assentito come condizione senza la quale la pace non sarebbe stata conchiusa; convenuto che l'Imperatore d'Austria userebbe della sua personale influenza per indurre il Granduca Leopoldo di Toscana ad abdicaro la corona in favore del principe ereditario, l'Arciduca Ferdinando, nel divisamente di strappare in precedenza dalle mani del partito liberale toscano qualsivoglia eventuale appiglio o pretesto.

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La discussione intorno a quattro punti, che avevano servito di base alla negoziazione, era esaurita; allorché l'Imperatore di Austria, ripigliando la parola, di suo proprio impulso dichiarò che sarebbe accordata amnistia generale a tutti coloro i quali si fossero compromessi in occasione degli avvenimenti recenti, e nella qualità di capo della Casa di Asburgo prendeva eguale impegno in nome del Granduca di Toscana e del Duca di Modena. Sembrava che nulla più restasse a dirsi, quando l'Imperatore de' Francesi manifestò, parergli essere necessario che si aggiungesse ne Preliminari di pace un'altra condizione; quella, cioè, che le due grandi Potenze cattoliche dovessero indirizzare alla Santa Sede consigli collettivi relativamente alle riforme, che affermava indispensabili, da introdursi negli Stati della Chiesa. La questione era delle più delicate; nullameno Francesco Giuseppe non mosse ostacoli, non a torto parendogli, che se di tal maniera i due Imperatori scambiavano tra loro la solenne promessa di adoperare insieme la propria influenza a Roma per conseguire riforme nell'interna amministrazione dello Stato pontificio, questa promessa reciproca costituiva nella realtà, da parte dell'uno come dell'altro, l'impegno tacito di mantenere il Santo Padre nell'intatto possesso di tutti i territorii assicuratigli dai Trattati.

Durante il colloquio non una parola era stata scritta (1).

(1) Sull'abboccamento di Villafranca, come su' principali avvenimenti che vi si rattaccano, la stampa periodica di quel tempo spese assai parole, raccogliendo le informazioni dalla bocca di ufficiali addetti ai grandi Quartieri generali dei tre eserciti, nei quali soltanto alcuni pochissimi erano esattamente informati, ed eran quelli appunto che per la posizione più elevata voleano e doveano tacere. Poi vennero in luce tre opere storione, nelle quali quell'episodio venne diffusamente trattato, e per le condizioni de' loro autori parvero generalmente meritevoli della maggior fede: la Guerra d'Italia del colonnello Rustow, Commissario militare prussiano presso l'esercito austriaco in Lombardia durante la guerra del 1859; La Pace di Villafranca e le Conferenze di Zurigo del cavaliere Debrauz, addetto al Consolato generale d'Austria in Parigi; e la Campagna d'Italia del 1859, del barone di Bazancourt, chiamato d'ordine dell'Imperatore Napoleone presso l'esercito francese in Italia, onde esserne lo storico, opera esclusivamente desunta da fonti ufficiali. È a codeste tre fonti che vennero unicamente ad attingere tutti gli scrittori venuti a dire in appresso alcun che, sia sul colloquio fra i due Imperatori a Villafranca, sia sugli avvenimenti che lo precedettero ed accompagnarono.

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Restava ora a redigere il documento che contenesse l'essenza del convenuto. A quattr'ore del pomeriggio dello stesso dì 11, Francesco Giuseppe fu raggiunto in Verona dal principe Napoleone, latore di una lettera con cui l'Imperatore de' Francesi gli richiedeva approvazione di un testo, da sé compilato, dei Preliminari di pace. N'era questo il tenore: «I. I due Sovrani favoreggieranno la formazione d'una Confederazione italiana. - II. Questa Confederazione sarà sotto la presidenza onoraria del Santo Padre. -

Quei fatti appartengono alla storia, cui essendo dovere e mansione d'essere scritta colla più franca e rigorosa esattezza, esce dal campo della critica, per rientrare in quello del dovere, ogni investiga zione coscienziosa, che dal vero separi l'errore ove esista. Di questi errori importa indicare i più essenziali.

Presso il Rustow il lungo discorso ch'ei pone in bocca a Napoleone III. nell'abboccamento di Villafranca, è pretta invenzione dalla prima all'ultima parola. Tutto il resto, che vi ha attinenza, non è conforme a verità. Delle relazioni in cui ebbero parte il principe d'Assia ed il principe Napoleone, del testo primitivo dei Preliminari proposto dall'Imperatore dei Francesi non è detto verbo. È la parte più erronea di tutto il libro, assai rimarchevole sott'altri aspetti.

Appo Debrauz è affatto inesatto il racconto della missione Fleury, il tenore delle basi primitive di pace proposte dall'Imperatore de' Francesi a mezzo del principe d'Àssia, il cenno, dato in due parole, della gita del principe Napoleone a Verona, Specialmente sulla sua fede fu quasi da tutti gli scrittori detto e ripetuto che Napoleone III. teneva nella conferenza di Villafranca la penna in mapo, annotava successivamente i punti sui quali i due sovrani cadevano d'accordo, e col dito segnava la linea dei futuri confini austriaci sopra una carta geografica. Niun appunto in iscritto fu esteso durante il colloquio, niuna carta del Lombardo-veneto stava sotto a' lor occhi. Non fu Napoleone III. a Villafranca che tracciasse i limiti dell'Impero austriaco e li imponesse a Francesco Giuseppe; fu Francesco Giuseppe che li precisava sulla carta geografica in Verona nella conferenza col principe Napoleone, dichiarandogli: o la Francia accetta questi limiti, o accetti la continuazione della guerra.

Bazancourt è, in generale, molto più esatto, molto più diffuso. A parte alcune ommissioni importanti e le impronte d'una parzialità, che, se incompatibili colla storia veritiera, riescono sino ad un certo punto scusabili per la posizione eccezionale dello scrittore, narra con molta precisione la missione Fleury, il colloquio di Villafranca, e quello tra l'Imperatore d'Austria ed il principe Napoleone. Salta poi a piè pari le relazioni corse a mezzo del principe d'Assia, avvertendo però essere codeste questioni politiche, che non potevano entrare nel quadro del suo lavoro.

234 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

» III. L'Imperatore d'Austria cede i suoi diritti sulla Lombardia all'Imperatore de' Francesi, che, secondo il voto delle popolazioni, la rimette al Re di Sardegna. - IV. La Venezia fa parte alla Confederazione italiana, rimanendo sotto la corona dell'Imperatore d'Austria. - V. I due Sovrani faranno ogni loro sforzo, ad eccezione del ricorso alle armi, affinché i Duchi di Toscana e di Modena rientrino nei loro Stati, dando un'amnistia generale ed una Costituzione. - VI. I due Sovrani domanderanno al Santo Padre d'introdurre ne' suoi Stati le riforme necessarie, e di separare amministrativamente le Legazioni dal resto degli Stati della Chiesa. - VII. Amnistia piena ed intiera è accordata da una parte e dall'altra alle persone compromesse in occasione degli ultimi avvenimenti nei territorii delle parti belligeranti.»

La missione del principe era formale; egli doveva tentare ogni mezzo per far accettare in questi termini i Preliminari, e, se non poteva riuscirvi, riportare a Napoleone le proposte definitive sottoscritte dall'Imperatore d'Austria. Alla prima lettura del documento presentatogli dal principe, Francesco Giuseppe senza esitanza gli disse: avere abbastanza gravi osservazioni a fare sulla redazione arrecatagli. Vivacissima s'impegnò la discussione, non meno grave che franca. - l'Imperatore, disse il principe, desidera sinceramente la conchiusione d'una pace accettabile per ambedue le parti. Il momento è unico per giungere a codesto risultato, che l'Europa invoca con tutti i suoi voti. L'onore dell'esercito austriaco è intatto; il valore, con cui ha combattuto, cancella le sue sventure sul campo di battaglia. Allo spirare dell'armistizio, quando non sia stipulata ora la pace, gli alleati spingeranno la guerra colla più grande e la più assoluta energia, spiegheranno forze ben più formidabili che quelle sino ad ora messe in linea, accetteranno francamente nelle lor fila tutti gli alleati che verranno ad essi. - Il principe eminentemente rivoluzionario faceva appello aperto, per persuadere, alla rivoluzione. Egli aveva pronunziate quest'ultime parole con gran fuoco. Il contegno affabile dell'Imperatore d'Austria erasi ad un tempo mutato in grave. Se ne accorse il principe, e si affrettò a soggiungere: Avanti tutto però prego Vostra Maestà di non vedere nella mia franchezza, un po' brusca forse,

PACE DI VILLAFRANCA. 235

che il desiderio eccessivo di parlare senza veli e dire tutto il mio pensiero, al di fuori delle forme di linguaggio abituali alla diplomazia. - Aneli io, rispose Francesco Giuseppe, ne diedi l'esempio questa mattina all'Imperatore Napoleone, dicendogli schiettamente quanto io poteva fare, e quali erano i limiti delle concessioni compatibili col mio onore e cogl'interessi della mia corona. Ma se voi, principe, avete un'opinione pubblica a curare, io pure ne ho una dal mio canto, ed essa è tanto più esigente, che sono io quegli che sostiene tutti i sacrificii. - Per semplificare la discussione, riprese tosto il principe, propongo a Vostra Maestà di esaminare uno ad uno gli articoli di questi Preliminari.

Il primo paragrafo non sollevava obbiezioni. Al secondo, l'Imperatore d'Austria domandò che la parola onoraria, relativa alla presidenza del Papa, fosse cassata. - Appellando il Santo Padre a capo della Federazione italiana, disse il principe, l'Imperatore Napoleone non voleva, istituendolo presidente reale, aumentare le difficoltà senza numero che esistevano relativamente alla potestà temporale de' Pontefici. - Al terzo paragrafo Francesco Giuseppe chiese al principe che cosa egli intendesse colle parole: secondo il voto delle popolazioni. - Il voto delle popolazioni, rispose il principe, significa che la Lombardia tutta intera aspirava ad affrancarsi dal giogo dell'Austria. - Quanto a me, replicava con voce animata l'Imperatore, non conosco che il diritto scritto sopra i Trattati. Per essi possedo la Lombardia. Tradito dalle armi, ben posso cedere questa provincia all'Imperatore Napoleone, ma non riconoscere punto il voto dei popoli, che io chiamo, io, il diritto rivoluzionario. Usate queste parole nei vostro Trattato col Re di Sardegna, e nelle proclamazioni che indirizzerete ai popoli italiani; non me ne impiccio, ma non posso associarmi a Vol. Quanto alle fortezze di Mantova e Peschiera, non posso, già il dissi, fare sgomberare dal mio esercito le piazze che tiene e conservò in suo possesso; l'onore me lo proibisce. Se gli alleati si fossero impadroniti di Peschiera, comprenderei che l'Imperatore domandasse di conservare questa piazza, ma le mie truppe vi sono ancora. - Una carta geografica stava aperta sul tavolo, e Francesco Giuseppe indicava col dito una linea retta a limite delle sue concessioni. La discussione si prolungava senza condurre a risultamento.

236 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

- Poiché non posso, conchiuse il principe, cadere d'accordo con Vostra Maestà, sottoporrò le sue osservazioni al mio sovrano, cui devo, in questa circostanza, riservare tutta la libertà di decidere, senza impegnare in niun modo la sua parola. - Sia, riprese il monarca; che l'Imperatore decida. Ma ditegli bene, quand'anche personalmente il volessi, non potrei cedere veruna delle mie fortezze.

Nella redazione del paragrafo quarto, concernente la Venezia, Napoleone non avea fatto alcun cenno della generosa proposta fattogli da Francesco Giuseppe, che l'Austria prendesse parte pel Veneto nella Confederazione italiana a quel modo medesimo che il Re d'Olanda era membro della Confederazione germanica pel Lussemburgo. Non accettata nel documento di pace la profferta, l'Austria a pienissimo dritto potea tenersi del tutto prosciolta da qualsivoglia obbligo, che da codesta proposizione fosse venuto a derivare. Riguardo ai Ducati, l'Imperatore d'Austria dichiarò di non volere né potere accettare la frase: ad eccezione del ricorso alle armi. - Il ritorno del Granduca di Toscana e del Duca di Modena ne loro Stati, diss'egli al principe con grande fermezza, è condizione già assentita dall'Imperatore Napoleone. La frase, che ora mi proponete, è un appello indiretto alla rivolta ed alla resistenza de popoli. Posso bensì, il ripeto, sottostare a sacrifizii personali, cedere miei diritti, ma non mai abbandonare i miei parenti, ed alleati che mi rimasero fedeli.

Questa nuova e non attendibile insorgenza, l'inserzione o no delle parole: ad eccezione del ricorso alle armi, costituiva, infatti, il vero nodo della questione. Ammesse una volta nell'istromento di pace quelle parole, era riconoscere senza restrizione il principio di non intervento, e con esso il valore del gran mezzo rivoluzionario, la teorica del fatto compiuto; era distruggere per sempre qualsivoglia legittima influenza dell'Austria nell'Italia centrale: escluse, la restaurazione de' principi sbalzati dalla rivoluzione non era in niun modo abbandonata alle incertezze dell'avvenire, dappoiché, impegnata la solenne promessa della Francia di ricondurli su' loro troni, sarebbe stato codardo e sanguinoso oltraggio il dubitare che per ignobili sofismi e mendaci pretesti potesse la Francia venir meno alla parola dell'uomo onesto,

LA PACE DI VILLAFRANCA. 237

alla lealtà, all'onore; sarebbe stato ingiuria mortale il sospettare che chi ornai avea veramente in mano i destini d'Italia, e innanzi a Dio ed agli uomini legava la sua fede, non avrebbe più tardi fatta udir quella voce che sola bastava perché non fosse fatto divorzio dalla lealtà. Ammesse, ciò equivaleva al respingere la condizione che l'Imperatore d'Austria aveva dal suo canto dichiarato essere condizione di pace sine qua non; escluse, ciò equivaleva alla guarentigia che il promesso ritorno de' Duchi non mai avrebbe potuto essere una menzogna.

La Francia, continuò il principe, non intervenendo, non poteva permettere che alcun'altra nazione intervenisse. Le truppe alleate occuparono Parma, Modena e Toscana. Per Modena e Toscana l'Imperatore Napoleone ed il Re di Sardegna non porranno alcun ostacolo materiale al ritorno di questi sovrani (1). Ma, conoscendo le disposizioni dei popoli, non dissimulerò a Vostra Maestà, essere illusorio di ammettere la possibilità d'una restaurazione che verun intervento venisse a proteggere. - Il Duca di Modena, replicò Francesco Giuseppe, ha alcuni battaglioni di truppe italiane che gli sono rimaste fedeli, e colle quali spera di rientrare al possesso del suo Stato. Quanto al Granduca di Toscana, credo fermamente ch'egli non sia s lungi da non potersi intendere col suo popolo. - II principe non insistette ulteriormente. Non restava che il sesto paragrafo a discutere. Francesco Giuseppe rifiutò recisamente il suo assenso che nei Preliminari fosse fatta richiesta di separare amministrativamente le Legazioni dal resto degli Stati della Chiesa; e volle che alle parole riforme necessarie si sostituissero quelle riforme indispensabili.

Fu convenuto che nella città di Zurigo si adunerebbero i plenipotenziarii, cui sarebbe demandato l'incarico di estendere il Trattato definitivo di pace. - Sire, ripigliò allora il principe, sono le sei e un quarto. A dieci ore al più tardi devo essere,

(1) «Pour Modène et Fa Toscane l'Empereur Napolóon et le Roi de Sardaigne ne mettront ancun obetacle matériel à la rentrée de ces souverains.» (Bazancourt; Campagne d'Italie, II. Pari, pag. 368). - Rimosso l'ostacolo materiale, veniva a cessare, onestamente operando, l'ostacolo morale conseguente dalla pressione artificiosa esercitata dal Piemonte sui luoghi. Senz'alcun dubbio il Duca di Modena sarebbe rientrato da per so colle sue truppe, mentre l'esercito toscano medesimo avrebbe rialzato gli stemmi del Granduca.

238 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

secondo gli ordini dell'Imperatore, a Valeggio. Posso così, restando a Verona fino alle otto e un quarto, attendere ancora due ore la risposta di Vostra Maestà. Sarebbe con vivo dolore, se questa risposta fosse negativa, che l'Imperatore Napoleone si vedrebbe nella necessità di ricominciare la guerra allo spirare dell'armistizio. - Bene, rispose Francesco Giuseppe alzandosi, avrete la mia risposta. - A sette ore e mezzo il principe vide l'Imperatore d'Austria entrare nella sua stanza. - Vi porto, gli disse, la mia risposta. Ma devo avvertirvi che non posso modificare in nulla le mie prime proposte; e sporse al Bonaparte la carta che teneva in mano. - Allora, Sire, replicava il principe, io sono un ben cattivo avvocato. - Lesse; poi soggiunse: È ciò definitivo, Sire? - Sì. - Se è così, pregherò Vostra Maestà di volere sottoscrivere questa carta. - La sottoscriverete voi pure a nome dell'Imperatore de' Francesi? - Sire, rispose il principe, non mi credo autorizzato a farlo. Le modificazioni che Vostra Maestà ha creduto dover introdurre nel progetto, che le sottoposi, sono di tal natura, che devo riservare intera libertà al mio sovrano. - Io però non posso, ribadì l'Imperatore, impegnarmi, se l'Imperatore Napoleone non è da sua parte egualmente impegnato. - Allora il principe: Do a Vostra Maestà la mia parola di galantuomo che domani mattina ella riceverà questa medesima carta con o senza la firma dell'Imperatore de' Francesi. - Francesco Giuseppe fissò il principe in viso, prese la penna, e senza aprir bocca sottoscrisse. - Temo assai, disse il principe intascando il foglio, che questi Preliminari siano insufficienti per giungere allo scopo cui Vostra Maestà mirava. - Francesco Giuseppe non rispose verbo. Scoccavano le otto che il Bonaparte usciva di Verona. Il mattino appresso, l'Imperatore Napoleone inviava all'Imperatore d'Austria un esemplare dei Preliminari (1) munito della

(1) Testo originale dei Preliminari di pace fermati a Villafranca.

Tra S. M. l'Imperatore d'Austria e S. M. l'Imperatore de' Francesi fu convenuto quanto segue:

I due Sovrani favoreggeranno la creazione d'una Confederazione italiana.

Questa Confederazione sarà sotto la presidenza onoraria del Santo Padre.

L'Imperatore d'Austria cede all'Imperatore de' Francesi i suoi diritti sulla Lombardia,

PACE DI VILLAFRANCA. 239

sua sottoscrizione, copia fedele del testo redatto da Francesco Giuseppe. Sotto la firma dell'Imperatore de' Francesi il Re di Sardegna aveavi scritto: «Accepté en ce qui me regarde. Victor Emanuel.» Tutto quanto il monarca austriaco aveva voluto, era stato assentito. Assentita la conservazione delle fortezze di Mantova e Peschiera; assentiti i confini come li aveva tracciati l'Imperatore d'Austria; assentito che all'equivoca locuzione: «I due Sovrani faranno ogni loro sforzo, ad eccezione del ricorso alle armi, affinché i Duchi di Toscana e di Modena rientrino nei loro Stati»; fosse sostituita la pattuizione chiarissima: «Il Granduca di Toscana ed il Duca di Modena rientrano nei loro Stati.» La questione, lungamente discussa dal principe Napoleone a Verona, se o no fosse possibile un intervento per ripristinare i due legittimi prenci sul trono, Re Vittorio Emanuele aveva risolto colla sua segnatura. Non la era più, infatti, questione d'intervento o non intervento; puramente e semplicemente, chi aveva usurpato, si obbligava a restituire il mal tolto; sicché a tutta ragione poté il Governo britannico rammentare (1): «Il Re di Sardegna era libero di non accettare i Preliminari di Villafranca ed il Trattato di Zurigo; ma avendo egli rinunciato alla continuazione della guerra, ed impegnata la sua regale parola, non

eccettuate le fortezze di Mantova e di Peschiera, in guisa che la frontiera dei possedimenti austriaci partirà dal raggio estremo della fortezza di Peschiera e si stenderà in linea retta lungo il Mincio sino alle Grazie; di là a Scorzarolo e Luzzara al Po, dove le frontiere attuali continueranno a formare i confini austriaci. L'Imperatore de' Francesi rimetterà il territorio cedutogli al Re di Sardegna.

La Venezia farà parte della Confederazione italiana, rimanendo sotto la corona dell'Imperatore d'Austria.

Il Granduca di Toscana ed il Duca di Modena rientrano nei loro Stati, dando un'amnistia generale.

I due Imperatori domanderanno al Santo Padre d'introdurre ne' suoi Stati le riforme indispensabili.

Amnistia piena ed intera è accordata da una parte e dall'altra alle persone compromesse in occasione degli ultimi avvenimenti nei territorii delle parti belligeranti.

Fatto a Villafranca, l'11 luglio 1859.

Sottoscritti: FRANCESCO GIUSEPPE, m. p.; NAPOLEONE, m. p.

(1) Dispaccio di lord John Russell, Ministro inglese pegli Esteri, a sir James Hudson, Ministro d'Inghilterra in Torino, del 31 agosto 1860.

240 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

» era più libero di prosciogliersi da quest'obbligo, e di procedere ad un inonesto attacco contro un principe suo vicino.»

Quel medesimo giorno 12, il conte di Rechberg giungeva da Verona in Valeggio per sottoporre all'Imperatore Napoleone, in una Memoria motivata, le questioni secondarie che i due monarchi non aveano potuto prendere in considerazione a Villafranca. Le principali erano: la parte del debito pubblico austriaco, che la Sardegna doveva assumere in seguito alla cessione della Lombardia; la restituzione dei navigli di commercio catturati dagli incrociatori francesi durante la guerra; la messa in libertà degli equipaggi di queste navi e di tutti i prigionieri di guerra; il rinvio de' soldati lombardi che si trovavano al servizio dell'Austria; le condizioni alle quali facoltà di emigrare sarebbe stata concessa agli abitanti del ceduto territorio lombardo; la libera navigazione del Po. L'etichetta non permettendo che un sovrano, trattando col mandatario d'un altro sovrano, apponesse alla Memoria del conte di Rechberg il suo parafo, siccome è costume tra agenti diplomatici, Napoleone III. scrisse in margine ad ognuno de' punti svolti in quello scritto, in segno d'adesione, alcuni appunti sommarii.

Bizzaria del destino! A quest'antica infermità dell'Italia, la disunione, sempremai favorita da differenze di civiltà, di costumi, di consuetudini, d'usi, di privilegi, di leggi, di costituzioni, di dialetti, di tutto, afforzata da vecchie prevenzioni, cementata da secoli, pareva ornai trovato il rimedio; eppure si mostrava la fiala, nella certezza che la pozione non avrebbe assaggiata. Per la prima volta, con atto solenne d'internazionale diritto, eransi gettate le basi d'un Patto federale italiano; e tuttavia, da quell'istante medesimo, una generale Confederazione nella Penisola era una chimera ed un impossibile. Sino a Villafranca stava la possibilità d'una Federazione italiana, dopo Villafranca non più. I Preliminari di pace, certificato di nascita, attestazione di vita, erano a un tempo testimonianza di morte. Surta a Villafranca, la Confederazione, prodotto di ripiego, fantastico, innaturale, era aborto che avea cessato d'esistere prima ancora di nascere. Rimasto il Veneto in potere dell'Austria, con due principi austriaci a Firenze ed a Modena, Napoleone non potea pia volere una Federazione, in cui l'Austria per diritto riconosciuto avrebbe avuto parte, voce, influenza legittima;

PACE DI VILLAFRANCA 241

in cui la Francia non avrebbe potuto avere compartecipazione diretta, voto, predominio, padronanza. Convertito il cardine della Confederazione in balocco da perditempo, che la Federazione si volesse, si potea ben dirlo, si doveva anzi dirlo, non mai però egli poteva volerlo. Per lui una Confederazione italiana non ritornava possibile se non nel caso che nel mezzogiorno d'Italia avesse signoria un principe francese, e nel centro della Penisola potesse costituirsi un forte Regno in mano d'un altro principe francese. Allora con Luciano Murat a Napoli e Napoleone-Girolamo a Firenze, colle chiavi delle Alpi in podestà della Francia, l'influenza dell'Austria sarebbesi trovata affatto distrutta, quella di Casa Savoia sovrabbondantemente contrappesata.

Segnato appena l'armistizio, un dispaccio telegrafico del Re chiamava Cavour al campo. «La presenza di Cavour agli affari, aveva detto l'Imperatore de' Francesi a Vittorio Emmanuele, sarebbe oggidì un imbarazzo. Ora bisogna tranquillare l'Europa, non allarmarla. Il suo ritiro diventa al presente una necessita. A Valeggio Cavour trova che l'abboccamento coll'Imperatore d'Anstria era già deciso. Non ricevuto amichevolmente da Napoleone, invano pose in opra ogni mezzo per ismuoverlo dal suo divisamente. Una scena violenta ebbe luogo tra loro. Fuor di sé per l'amarezza del disappunto, Cavour, coll'eterno sarcastico risolino sul labbro, giunse ad essere irriverente, comunque il monarca francese volesse ammansarlo col zuccherino: «Conseguiremo più colla pace che colla guerra.- Colla pace, rispondeva Cavour, Vostra Maestà vien meno al proclama di Milano. - È la recente vostra politica che mi obbliga pure alla pace, replicò l'Imperatore. - E Venezia? - Gl'Italiani stessi comprenderanno che la Francia non può in loro favore pretendere ciò che non ha conquistato. - l'altro vie più accalorandosi, Napoleone, punto al vivo, troncava il diverbio. «Ho fatta la guerra, disse, bensì per l'Italia, ma la ho fatta pure, non dimenticatelo mai, conte di Cavour, prima per la Francia. Considerate la situazione dell'Italia a quel modo che vi piace, niente più che come Ministro del Re di Sardegna; io la considero, io, come Imperatore de' Francesi.» E gli volse con assai mal garbo le spalle. Il tentativo di persuadere Re Vittorio Emmanuele, ch'ei non

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poteva ratificare i Preliminari di pace e che il farlo sarebbe equivaluto per lui ad un suicidio morale, fu vano del pari. - Cavour se ne va adunque, disse il Re all'Imperatore; chi mettere a suo luogo? - «Chiamate il conte Arese;» aveva risposto Napoleone. «Date a lui l'incarico di formare un nuovo Ministero. È l'uomo del momento (1)».

Lo stesso giorno 12 la dimissione di Cavour era un fatto. A succedergli fu chiamato il conte Arese. Così il cavallo, che, troppo fidente nella sua forza e nel suo ardire, trovava gusto a prendere il morso tra' denti, si vedeva d'un colpo atterrato dalla robusta mano del destrissimo cavalcatore. Semplice stromento nelle mani dell'Imperatore Napoleone, Cavour, infatti, erasi talora dimenticato di soverchio chi fosse il padrone, chi il soggetto; quale l' esecutore, quale l'ordinatore; chi l'artefice e il maestro. Egli pareva obbliare che quest'uomo, stando a capo di un gran popolo, avea doveri da compiere d'un ordine superiore; ch'ei doveva avere una politica francese ed una politica europea, a fronte delle quali la sua propria politica italiana rientrava ne' più ristretti ma più veri suoi limiti di una politica d'interesse personale; ch'ei non poteva accettare le parti di cavaliere errante

(1) Il conte Francesco Arese era uno de' più antichi e più fidi amici di Napoleone III., che al tempo del suo esilio avea per devozione accompagnato sino in America. Poi seguirono vie diverse. Salito il Bonaparte alla presidenza, l'Arese s'era ingannato sull'uomo, che sa nascondere sotto un velo impenetrabile i proprii pensieri e le proprie risoluzioni. Il 2 dicembre accrebbe la disunione. Più tardi l'abile e delicata mano della donna li riconciliò. L'Arese ebbe il coraggio di rammemorare l'antica, e, come credeva, da lungo tempo obbliata promessa di liberare l'Italia. La risposta gli provò quanto si fosse mal apposto. «Penso all'Italia,» gli disse,» tra non molto te ne convincerai.» Dopo l'ingresso dei Francesi a Milano, l'Imperatore aveva ricusato di aderire alla nomina di Rattazzi a Governatore della Lombardia. Cavour offerse allora il conte Arese. Napoleone non aderì, dicendo che aveva altre viste sopra di lui. Era l'uomo che intendeva sostituire a Cavonr, quando questi sarebbe stato forzato a ritirarsi dal Ministero; l'uomo su cui calcolava pel secondo Atto. Segnata la Pace di Villafranca, Cavour lanciò la parola d'ordine; sì che, quando Vittorio Emmanuele diede all'Arese il carico di ricomporre il Gabinetto, l'amico del Bonaparte non poté riuscire neppure ad accozzare una lista di nomi. Il 19 di luglio Re Vittorio Emmanuele chiamava alla presidenza del Ministero il generale La Marmora, agl'Interni Rattazzi; durarono sino al ritorno di Cavour al governo, il 21 gennaio 1860.

PACE DI VILLAFRANCA. 243

per una questione italiana, parte per lui di ben più vasta questione. Ci conviene però, ad essere giusti con tutti, non dimenticare d'altro canto, che se il cavallo prendeva il morso, era ben lungi dall'essere scevro di colpa H cavaliere, che di tanto gli avea allentate sul collo le redini. Alla fin fine Cavour era a quel momento più che altro vittima sporta in olocausto alla mutata politica dell'imperiale signore. In Sardegna, nei Ducati, in Toscana, nello Stato pontificio, Cavour non aveva preso verun grande provvedimento che non avesse avuto in sostanza l'approvazione dell'Imperatore de' Francesi, o approvazione esplicita in precedenza, o approvazione con lasciar correre dappoi. Nulla, neppure la nomina del Governo provvisorio di Bologna, era stato fatto senza il consenso di Napoleone III.; lo stesso Pepoli non avea accettata la promossa sua elezione, se non quando il sovrano congiunto l'ebbe autorizzato. Nei paesi rivoltati tutto era stato disposto appuntino secondo le prescrizioni dell'Imperatore, ed il Pietri, il vero suo plenipotenziario su' luoghi, avea l'occhio da per tutto. I colpi di testa di Cavour non erano, a paragone, se non piccole libertà, sino ad un certo grado scusabili, e conseguenti piuttosto dalla posizione che l'Imperatore de' Francesi medesimo aveva fatta al Piemonte (1).

Quelli, che nella pace vedeano affogati gli ulteriori loro disegni e le speranze di un regno solo dalle Alpi all'Adriatico, assai se ne dolsero, risentendone l'effetto quale il dovette provare la contadinella della favola, quando vide rovescio a terra quel secchiello del latte ch'ella si recava in sul capo al mercato, considerandolo

(1) Sgombrando dalla scena, Cavour, rassicurato alquanto dalle parole rivelatrici che Napoleone avea dette a Pepoli e Rattazzi in Torino, «non tardò molto ad apprezzare le vantaggiose condizioni fatte all'Italia dalla pace di Villafranca» (Berti; Il Conte di Cavour, pag. 72), né si ritrasse dal teatro. Giudicando della condizione delle cose coll'abituale lucidezza della sua mente, il 24 luglio ei scriveva: «Sono profondamente persuaso che la mia partecipazione alla politica in questo momento sarebbe dannosa al mio paese. I suoi destini furono rimessi nella mano della diplomazia. Ora io sono in cattivo odore presso i diplomatici. La mia dimissione è loro gradita. Vi sono circostanze in cui uno statista non saprebbe mettersi abbastanza in vista; ve ne sono altre in cui l'interesse della causa cui serve, richiede ch'ei si ritragga nell'ombra. Questo è ciò che da me esigono le presenti condizioni. Uomo d'azione, mi do in balìa del riposo per il benessere del mio paese.»

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quale inconcusso fondamento di sua ricchezza futura. I diarii italiani che stavano alle dipendenze del Cavour, o parteggiavano pe repubblicani, non posero tempo in mezzo a strimpellare altamente. Chi disse (1), «l'annunzio della pace essere stato un colpo di fulmine, una grave sventura!» Chi (2) deplorò le aberrazioni della diplomazia, dichiarò «che la pace non sarà che una tregua, che il Piemonte non è complice, ma vittima di questa seconda edizione del Trattato di Campoformio.» Chi esclamava (3): «La pace stipulata sarà il principio di nuove e grandi lotte in Italia; il periodo della guerra attuale è finito, noi entriamo ora nel periodo delle lotte politiche.» Quasi più ancora, se possibile, si scatenarono contro l'idea della Confederazione, che diceano voluta da Napoleone. L'Unione caldissimamente raccomandava agli organi della pubblica opinione «d'insistere affinché la Confederazione italiana non abbia vita.» Altri gridava (4): «Sventura all'Italia se la Confederazione combinata da Napoleone e dall'Imperatore d'Austria venisse a tradursi in un fatto politico! L'Italia sarebbe caduta nella più intollerabile inerzia de circoli viziosi.» Ed altri ancora (5): «In Italia si potrà fare una Confederazione, quando venga imposta da prepotente autorità straniera, ma sarà una Confederazione straniera e non italiana.» I ritratti di Felice Orsini, che dopo la venuta de' Francesi erano scomparsi dai pubblici ritrovi, riapparvero d'un tratto, e lo scandalo giunse a tale che gendarmi francesi, che si trovavano in Torino, andarono essi medesimi a strappare e lacerare i ritratti dell'assassino. Fu d'uopo che la Polizia ordinasse di tenere esposti come prima i ritratti di Napoleone III., che intanto l'Italia di Torino ed altri giornali non più chiamavano né Imperatore Napoleone, ma semplicemente e per dispetto Luigi Bonaparte. L'eccesso della sorpresa e del dolore accecava per un istante le menti, e conduceva avvenimenti che la più vulgare prudenza avrebbe dovuto sconsigliare nell'interesse medesimo degli addolorati.

Riconfermata al cospetto dell'esercito quella promessa che

(1)

l'Unione, la Stufetta, ed altri giornali simili.

(2)

L'Indipendente, numero del 13 di luglio 1859.

(3)

II Diritto, del giorno 14 luglio 1859.

(4)

La Sentinella delle Alpi, del 21 luglio 1859, numero 170.

(5)

L'Opinione, numero del di 22 luglio 1859.

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costituiva il perno delle promesse da sua parte un momento prima scambiate col capo della Casa di Asburgo, l'impegno preso rispetto a' principi richiamati sopra i lor troni (1), nel medesimo giorno 12 l'Imperatore Napoleone si allontanava da Valeggio per rientrare in Francia. Il suo esercito si apprestava a seguirlo al di là delle Alpi, lasciando in Italia un cinquanta mila uomini, acquartierati nella Lombardia e nel Parmense. Raggiunto, il 15, in Torino dal marchese Pepoli, a costui, che non sapea darsi pace come nei Preliminari di Villafranca le Legazioni nemmeno fossero nominate, Napoleone III. rispose (2): «Cugino mio, compiremo la tragicommedia in due Atti; il primo fu fatto coll'intervento, il secondo si farà col grande principio del nonintervento.» Pepoli gli chiedeva se sarebbe rispettato il voto di annessione alla Sardegna. «Purché l'ordine attuale non sia turbato, io ti prometto che non vi sarà intervento,» replicava l'Imperatore (3). - Intanto che cosa posso dire a Bologna?, insisteva il marchese. - Telegrafa che ti ho risposto (4): «Ho» scritto al Papa per impegnarlo ad una nuova organizzazione» degli Stati romani. Frattanto né la Francia né l'Austria interverranno nelle Legazioni, se l'ordine pubblico non è turbato.

(1) «I Governi, che Don presero parte al movimento, o richiamati ne loro possedimenti, comprenderanno la necessità di salutari riforme.» (Ordine del giorno dell'Imperatore Napoleone all'esercito francese, del 12 luglio 1859).

(2)

Non appena s'ebbe contezza della lettera che l'Imperatore dei Francesi scrisse a Pio IX., il 31 dicembre 1859, con cui lo consigliava di rinunziare alle Legazioni, Pepoli non tenne più in bocca il turacciolo, ed un diario milanese, il Pungolo (Num. 11, del 12 gennaio 1860), quelle parole riportò testualmente. A Parigi parve cosa suonata un po' fuori di tempo. Allorché l'articolo del Pungolo fu sporto a leggere all'Imperatore, per udire se si dovesse smentire, rispose ridendo: Bavardl, e voltò discorso.

(3)

Lo stesso Gioacchino Napoleone Pepoli, il 22 di novembre 1862, diceva alla Camera dei Deputati in Torino: «L'Imperatore, quando lo vidi» qui dopo la pace di Villafranca, e gli chiesi se sarebbe rispettato il voto» del mio paese, mi rispose: Purché l'ordine attuale non sia turbato, io ti prometto che non vi sarà intervento» (Atti Ufficiali del Parlamento, num.906, pag. 3523).

(4)

Dispaccio telegrafico del Pepoli a Bologna, da Torino il 15, inserito nel Monitore Bolognese, foglio ufficiale del Governo provvisorio delle Romagne, numero del dì 16 luglio 1859.

246 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

Se il Papa rifiuta, la questione sarà sottomessa al Congresso.» Un momento appresso, quella sera medesima, a Rattazzi che, dopo i vani sforzi dell'Arese assentendo ad essere l'anima del nuovo Ministero, s'industriava di conoscere in quali acque veramente avrebbe dovuto navigare, Napoleone III. replicava (1): Je ferai l'affaire en deux actes, soyez tranquille!

A dì 17 l'Imperatore de' Francesi era già di ritorno a Saint-Cloud, ove, due giorni appresso, recatisi i grandi Corpi dello Stato a felicitarlo, si udiva da Troplong, presidente del Senato, paragonato a Scipione, «che, vinto Annibale a Zama, avrebbe potuto distruggere Cartagine, e non volle, poiché egli sapeva che, spesse volte, ò perdere sé stesso volendo perder troppo il suo nemico.» - Quando gli eserciti di Francia e di Sardegna, loro rispose Napoleone III., giunsero sotto le mura di Verona, la lotta stava inevitabilmente per mutare di natura, tanto sotto il rapporto militare, che sotto il rapporto politico. Io era fatalmente obbligato ad assalire di fronte un nemico trincierato dietro grandi fortezze, protetto contro ogni diversione sui fianchi dalla neutralità dei territorii che 1' attorniavano, e, cominciando la lunga e sterile guerra degli assedii, io mi vedeva di fronte l'Europa in arme, pronta, o a disputare i nostri trionfi o ad aggravare i nostri rovesci. Tuttavia le difficoltà dell'impresa non avrebbero scrollata la mia risoluzione, né fermato lo slancio del mio esercito, se i mezzi non fossero stati fuor di proporzione coi risultati da raggiungere. Bisognava risolversi a spezzare arditamente gli ostacoli opposti dai territorii neutri, ed allora accettare la lotta sul Reno come sull'Adige. Bisognava dovunque farsi forti sinceramente del concorso della rivoluzione. In una parola, per trionfare, bisognava arrischiare ciò che ad un sovrano non è permesso di perigliare se non per l'indipendenza del proprio paese. Se mi sono fermato, non fu dunque per istanchezza, o per isfinimento, né per abbandono della nobile causa ch'io voleva servire; ma perché nel mio cuore qualche cosa parlava ancora più altamente: l'interesse della Francia. Per servire l'indipendenza italiana feci la

(1) Rattazzi serbò il silenzio meno ancora che Pepoli, sì che una corrispondenza da Torino, in data 18 luglio, nella Gazzetta di Colonia, numero del 22 luglio 1859, spiattellava tosto il responso imperiale.

PACE DI VILLAFRANCA. 247

guerra contro il beneplacito dell'Europa; non appena i destini del mio paese poterono correre pericolo, ho fatta la pace. - In vero ei poteva aggiungere, senza timore che alcun lo smentisse, di avere fatta la guerra contro il beneplacito della Francia medesima. Ora però che la guerra era finita, l'entusiasmo era grande, non per l'Italia, bensì per la gloria militare soddisfatta. Il vero Francese, vano e leggiero, cui il successo è legge morale suprema, così nella vita civile, come nella politica, di presente andava superbo del suo Imperatore. Ciò che si ammirava maggiormente in lui era la sua abilità politica. Il a joué tout le monde, dicevano gli uni, fregandosi contenti le mani. Altri, che non mai aveano avuto simpatie per nulla coll'Imperialismo, dicevano: II est une force qui nous fait baisser la téte!

Per fermo si poteva a lui replicare, che, quand'egli sapeva come sì grandi ostacoli lo attendessero sulle rive dell'Adige, perché aveva sì altamente proclamato di volere spazzare gli Austriaci dall'Alpi all'Adriatico? Se ogni diversione sui fianchi del quadrilatero eragli impedita dalla neutralità dei territorii che l'attorniavano, questi territorii si sapean pure intangibili ben prima di dar di piglio alle armi. Si confessava l'attacco contro Venezia insufficiente, illusorio; che se fosse stato cosa sì liscia, come millanta vasi, non punto era d'uopo di pigliarsela con que' territorii, che appunto non si poteano toccare. 0 ancor prima di sguainare la spada, egli era certo di trovare, giunto al quadrilatero, l'Europa in arme, pronta a disputargli i trionfi o ad aggravarne i rovesci, e allora perché cominciare ciò che si sapeva di non poter finire? Od era caduto in errore, ed ora i neutrali gli faceano le castagne. Follia il pensare che per egoismo prussiano la Germania non avesse difese al Reno le sue barriere sul fianco. Incontrastabile che al di qua delle Alpi, Napoleone s'era appoggiato sul concorso della rivoluzione; puerile lo sforzo di voler distinguere in Italia tra rivoluzione regia, capitanata da Cavour all'ombra del Re di Sardegna, e rivoluzione popolana, capitanata politicamente da Mazzini, militarmente da Garibaldi. Se stava nel vero che, per trionfare, bisognava arrischiare quanto ad un sovrano non è permesso di porre a repentaglio se non per l'indipendenza del proprio paese, perché non riflettervi meglio da prima, perché proclamare l'Italia libera dall'Alpi all'Adriatico,

248 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

perché con ciò dare a credere che si pensasse a Venezia? Era la perspicacia di Mazzini che avea colto nel segno, o la coalizione europea che risorgeva contro il Bonapartismo?

La verità era: che il nuovo Ministero britannico, gli stessi amici del Bonaparte, pur sempre romorosamente dicendo, anche per mezzo di dichiarazioni ufficiali fatte nelle Camere da que' medesimi Ministri, di non volersi mescolare per ora in negoziati, aveano invece negoziato, negoziato talmente da far nascere, ancorché contro lor voglia, una sùbita pace; pronti a disputare colle armi il predominio che la Francia napoleonica muoveva a conquistare in Italia sull'Europa, guidati, come tutti gli statisti inglesi a qualunque frazione appartengano, dallo stesso principio fondamentale di politica, essere resistenza di un'Austria non di soverchio indebolita, questione essenziale per la Gran-Bretagna, spezzata senza quell'Austria la diga contro le macchinazioni della Russia in Oriente, senza quell'Austria l'Adriatico essere sulla via di divenire un lago francese. La verità era che predominio si fatto non lo volea neppure la Russia, ancorché avversa all'Austria; non lo volea neppure la Prussia, ancorché all'Austria rivale. Coalizione vera non peranco esisteva, ma i tre egoismi avrebbe alla fin fine allivellato la grandezza di un supremo interesse comune. La verità era che, comunque grandemente discordi i sentimenti, dietro le mura di Verona e di Mantova stava l'Europa risorgente contro il Napoleonismo; e per attraversare questo, ben avrebbero potuto esigere dall'Austria più duri sacrificii che quelli cui sottostava da per sé a Villafranca.

La coalizione diplomatica ed armata, che vedea prepararsi, erasi ordita però con accortezza tale da dover ottenere l'esito a rovescio. Perché, infatti, una mediazione armata potesse conseguire d'imporre a' belligeranti condizioni care a niuno, fuorché a chi le proponeva, si richiedeva che gli avversarii avessero nei loro amici neutrali quella fiducia che lasciasse loro sperare, benché falsamente, un qualche aiuto ai loro disegni. Loro cura fu invece di far intendere anche ai semplici mortali, modesti leggitori dei giornali di provincia, che Prussia e Inghilterra aspettavano di vedere ben indeboliti i combattenti, per poi imporre loro le condizioni della pace. Per far andare a monte questi disegni, null'altro ci voleva che il conoscerli.

PACE DI VILLAFRANCA. 249

I due Imperatori li conobbero con grande facilità e con maggiore li sventarono, ottenendo l'uno dall'altro quello che i due neutrali non voleano né per l'uno né per l'altro, ma per sé, a spese dei due belligeranti. Con che fu reso possibile di vedere, curiosa cosa veramente, nella pace concordata tra i due Imperatori l'Austria ottenere dal suo nemico più che non intendeva concederle per grazia la Prussia sua confederata, e la Francia avere qualche cosa dall'Austria che non avrebbero voluto concederle l'Inghilterra e la Prussia.

Intanto un'altra lesione al pubblico dritto, che da quarantaquattr'anni avea regolata l'Europa, erasi andata operando. Gettata ogni colpa sull'Austria, capro espiatorio, le si avea fatta la guerra per istrappare una pagina agli abborriti assettamenti del 1815. l'Europa, che aveva lasciato dar di piglio alle armi, le vedeva or deposte senz' aversene essa impicciato. Prima della guerra, Inghilterra e Prussia a gran parole protestavano dell'incolume rispetto che si doveva ai Trattati. Per entrambe la pace era venuta troppo presto, accolta da entrambe con grande dispetto, dacché conchiusa senza il concorso de' lor politici. Mentre l'Inghilterra, austriaca prima della guerra, neutrale durante la guerra, dopo la guerra, allontanato il pericolo, stimerà più utile al proprio interesse mercantile, questa stregua de' suoi interessi, mutare vie e mezzi, farsi italianissima; dopo la pace, la Prussia, che avea creduto acquistare il dominio della Germania con procacciarsi infrattanto il diritto di disporre liberamente ed assolutamente degli eserciti alemanni, si faceva piccina, piccina, si dava a biasciare scuse, a fantasticare sutterfugi (1).

(1) Annunciando la pace conchiusa all'esercito, nell'Ordine del giorno del 12 luglio, Francesco Giuseppe disse: «Appoggiato al mio buon diritto, ho impegnata la lotta per la santità dei Trattati, fidando sull'entusiasmo de miei popoli, sul valore del mio esercito, e sugli alleati naturali dell'Austria. Senza alleati, non cedo che alle circostanze disgraziate della politica.» Rientrato in Austria, in un proclama ai suoi popoli, aggiunse: «Essere stato si amaramente deluso nella legittima speranza che non sarebbe rimasto isolato in una lotta, la quale non era stata intrapresa nell'isolato interesse del buon diritto dell'Austria. Malgrado la calorosa e commovente simpatia che la nostra giusta causa incontrò nella più parte dell'Alemagna, presso Governi e popoli, i nostri confederati più naturali si sono ostinatamente rifiutati a riconoscere l'alta significazione che rinchiudeva la questione del giorno.

250 CAPITOLO VENTESIMOTERZO.

Ad ogni modo l'intervento della Prussia scemava alla Francia i frutti della vittoria, distruggeva i progetti fondati su quella vittoria dalla Russia. Prima della guerra, allorché Austria, Inghilterra, Prussia e Germania insistevano sull'intangibilità dei Trattati del 1815, la Russia erasi collocata invece sul terreno del Trattato di Parigi del 1856. Dopo la guerra, per la Russia non esistevano più. né i Trattati del 1815, né quello del 1856. Come prima della guerra, dopo di questa la Russia non dimenticava Sebastopoli, né la Prussia Neuchatel, con questo solo divario che, dopo Villafranca, l'Austria non poteva dimenticare la Lombardia.

La carta d'Europa sostanzialmente non era stata cangiata. l'enormità, mai più veduta, che una guerra avrebbe tratto con sé lo spogliamento d'una Potenza dichiarata neutrale dai belligeranti e posta dal vincitore sotto la sua particolare protezione, pareva dovesse essere riparata colla Pace stessa di Villafranca, L'Austria aveva ceduto una provincia, perché le Potenze dichiararono che la guerra localizzata non le interessava. La pace localizzata non dava loro del pari alcun diritto d'immischiarsene. Prima della guerra, come durante la guerra, l'Europa, sbalordita, fatta passare di sorpresa in sorpresa, sospinta a giudicare de gli avvenimenti che le si faceano vedere a traverso di un prisma, erasi trovata in condizione di non poter discendere vera luce e colori; ed ora, deposte le armi, era chiamata ad assistere allo spettacolo d'una colossale ludifìcazione.

L'onore dell'Austria essendo salvo, per l'eroico coraggio dell'esercito sul campo di battaglia, ho obbedito a considerazioni politiche, consentendo alla pace; dopo avere acquistato la convinzione che, con un'intelligenza diretta coll'Imperatore de' Francesi, e senza intervento d'un terzo, otterrei in ogni caso condizioni meno sfavorevoli, ch'io non potessi attendermi dall'intervento nelle conferenze delle tre grandi Potenze che non presero parte alla guerra.» Di queste parole, e non meno di altre a suo riguardo contenute in un Dispaccio circolare del Ministro austriaco pegli Esteri, la Prussia mostrò adontarsi. Ne conseguitò uno scambio di Note diplomatiche, di documenti contraddittorii, da cui, comunque il Gabinetto di Berlino si desse ogni studio per persuadere che le ipotesi, dalle quali esso era partito nelle sue comunicazioni colle altre Potenze, erano anzi di una qualità molto più favorevole all'Austria che non i Preliminari di pace segnati a Villafranca, ned avere la Prussia formulate condizioni di mediazione di alcuna specie, fur poste in piena luce le ambagi della sua politica, l'ostilità sua all'Austria, le recondite mire.

PACE DI VILLAFRANCA. 251

A quel modo che si avea voluto condurla a credere incominciata in maggio 1859 sul Ticino la guerra, che aveva avuto principio in aprile 1856 a Parigi, più propriamente in agosto 1849 a Roma; al presente le si diceva chiusa questa guerra, e non si avea fatto che spostarla. Come dapprima la guerra d'intrighi erasi mutata in guerra di cannoni, ora la guerra di cannoni muta vasi alla sua volta in guerra d'intrighi. Dinanzi alla libera storia, testimonianza solenne, sovrana, immortale, la Pace di Villafranca nella realtà non era che un mazzo di carte abilissimamente scambiato nella mano dell'espertissimo giocoliere. Si era mutato il metodo, era rimasto il fine.

LIBRO QUARTO.

IL NON INTERVENTO

DALLA PACE DI VILLAFRANCA SINO ALLA CESSIONE

DI SAVOIA E NIZZA ALLA FRANCIA.

SOMMARIO.

XXIV. Diritto Nuovo. - XXV. Trattati di Zurigo. - XXVI. Guerra al Papato. - XXVII. Savoia e Nizza. - Epilogo e conclusione.

CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

Diritto Nuovo.

Il non intervento. - Dottrina ed applicazione. - II fatto compiuto. - Teorie del progresso, dei consigli, delle riforme, della conciliazione. - L'epigrafe del secondo Atto. - Due generazioni di combattere, l'uomo e la bestia, la volpe e il leone, secondo Machiavelli. - Richiamo dei Commissarii sardi dall'Italia centrale. - Luigi Carlo Farini. - Nascita del Dittatore a Modena. - Quattro assemblee convocate. - I candidati alle Deputazioni. - Leggi elettorali. - Le libere votazioni. - Decadenze in coro. - Filippo Curletti in missione. - II colonnello Anviti a Parma. - La notte del 5 ottobre 1859. - Gli assassini guiderdonati. - Un appartenente alla stirpe di Cam. - Punizione della rea colonna della Piazza grande di Parma.

G

ran forza che hanno le parole pei tempi correnti! Con un vocabolo si fabbrica una dottrina: fabbricata questa, si applica alla società, e la società si vede d'un tratto scompigliata da cuna a fondo in nome di un vocabolo, di cui niuno sa al giusto definire il valore, di cui veruno sa precisare a che obblighi, da cui ognuno può nei fatti trarre applicazioni totalmente diverse, talora affatto contraddittorie. Stando alla naturale significanza del vocabolo non intervento, lo si crederebbe il diritto che ha ciascun popolo di fare da sé liberamente i fatti suoi, cotalchè sarebbe pei popoli ciò che sono per gl'individui la libertà

254 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

e la proprietà; n dubbio alcuno è possibile che la libertà d'un popolo dee rispettarsi, sicché veruno vi s'ingerisca non chiamato da chi n è legittimo governante. Stando alla pratica applicazione, il non intervento mena ad abolire la proprietà e la libertà, a sciogliere la società. La società umana è società di esseri specificamente eguali. Il fine, il principio essenziale, per cui fu voluta ed è attuata dall'uomo, è il mutuo sussidio, reso necessario dalle personali disuguaglianze; come il bene personale è lo scopo della proprietà, con cui si posseggono le cose materiali. A quel modo che la proprietà viene distrutta se al proprietario si tolga l'uso della cosa sua, distrutta viene la società quando avvenga che i socii siano impediti dall'uso del mutuo soccorso. Togliere il diritto di scambievole aiuto, è togliere il diritto di libera volontà dell'uomo. Vietare al povero, sia esso una persona, una famiglia, una comunità, un popolo, di ricevere il sussidio del ricco, è scelleratezza. Interporsi a trattenere la mano benefica, che accorre a soccorso del l'amico, è colmo di nequizia, colmo di spietatezza.

Nel consorzio del mondo universo i Governi sono come una grande società, dove ogni singolo individuo ha diritti e doveri: doveri di cooperare a vantaggio, a soccorso, a difesa dei fratelli; diritti di tutelare sé, le proprie famiglie, le proprie cose, di essere alla occorrenza assistito dai parenti, dagli amici, dalla pubblica giustizia. La dottrina del non intervento è la rinnegazione del diritto inalienabile che ha all'altrui aiuto il debole conculcato; è l'egoismo elevato a sistema. Il Cristianesimo congiunge nell'amore de' simili tutte le genti; il nonintervento vorrebbe isolarle, disgiungerle. Applicato alle relazioni tra gl'individui, condurrebbe ognuno a considerare sé stesso come solo al mondo, senza relazioni coi vicini, senza legami di dovere coi congiunti e cogli amici, senza vincolo alcuno né morale né fisico con persona di questo o dell'altro mondo. Il mio vicino affoga, e mi scongiura d'aitarlo. «Amico mio, gli dirò, aiutati che Dio t'aiuterà. Sempr'ebbi e sento gran simpatia per te: ma nell'acqua, vedi bene, non vi sono mica caduto io. Se riesci di salvarti da te, ne avrò gran piacere. Ma aiutarti non mi é possibile; io sto pel grande principio del non intervento.»

Se in verun caso non si potrà intervenire nello Stato altrui, in verun caso non si potrà neppure intervenire nella casa altrui.

DIRITTO NUOVO. 255

Entrando in casa vostra ladri e assassini a domandarvi la borsa o la vita, e, quella avuta, a togliervi forse dopo anche questa, non potranno entrarvi soldati. Peggio per voi se gridaste, probabilmente ne avreste il danno e le beffe. Le vostre grida chiamerebbero genti all'intorno, chi vi riderà in faccia e sarà il meno, chi vi aiuterà col conforto: Bravi! Dalli, dalli Buon per voi se poteste andarvene col corpo sano. l'unica cosa, che vi han lasciato addosso, è la camicia. Sul limitar della porta vorranno anche questa. In quello scorgete un omenone, vostro antichissimo amico che stava a vedere. «Di grazia, gli dite, dammi una mano, che almeno mi lascino la camicia!» - Che ho ad intervenire io, vi risponderà, tra rubatori e rubati? Le son queste faccende domestiche nelle quali gli stranieri non debbono intervenire. Io sto pel gran principio del non intervento. - Di tal guisa libertà per tutti vorrà dire libertà degli audaci, dei furbi, dei prepotenti, libertà per chi ha il pugno più saldo o lo stocco più lungo; vorrà dire oppressione dei deboli, dei timidi, degli onesti.

Ogni partito assume nome di popolo e si arroga parlare in nome del popolo. Menatagli buona codesta pretensione, si crede buonamente di lasciare libertà al popolo, quando si toglie ogni freno ai partiti; e sotto pretesto di lasciare che il popolo si governi da sé, si vieta a tutti i vicini di accorrere a liberare dagli oppressori. Una piccola fazione, ma ardimentosa, un pugno d'uomini ambiziosi ed astuti, atterrisce e incatena col suo dispotismo ogni altro partito, e all'ombra d'un assurdo s'assassina la nazione, forzandola a rimanere vittima indifesa del Regno della minoranza, il quale, pel manco assoluto d'ogni diritto che ne abbia, si dichiara di per sé stesso tirannico nella prima sua radice, colla quasi necessaria illazione che abbia ad esserlo non meno nell'esercizio del potere arruffato. Così il non intervento si mostra per quello che è veramente, una macchina di guerra, arme di circostanza, un tranello ad uso di quella fazione, la quale, quando spera insignorirsi d'un paese, sente il bisogno di premunirsi contro }' esercizio di quel diritto, o piuttosto di quel dovere internazionale, ch'è il mutuo sussidio.

Applicata alle nazioni tra loro, la dottrina non è meno feconda di risultamenti stupendi. Si ribellano o piuttosto si fanno ribellare i sudditi di un sovrano confinante.

256 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

«Vicino mio, aiutami, dice questo; se non mi aiuti perirò.» - «Vostra Maestà, risponde il vicino, mi è carissimo, sinceramente sento per lei la più viva amicizia ed affezione, mi è stretto parente. Dunque se può, vinca da sé; io sarò il primo a provarne la più grande consolazione. Ma se non può, vede bene, questo è affare da sbrigarsi in famiglia, senza intervento forestiero. Tolga Iddio ch'io mi prenda la libertà d'intervenire in casa d'altri.» Un sovrano muore di voglia di beccarsi lo Stato d'altro sovrano. Non potendo andar lui, assolda qualche migliaio d'avventurieri cosmopoliti, e li manda ad invadere lo Stato desiderato. L'assalito domanda soccorso a' vicini. «II mio esercito è infiltrato di settarii e di felloni. I generali mi tradiscono; i soldati sono fedeli, ma non sanno a chi ubbidire. I miei Ministri medesimi se la intendono col mio nemico. Se non mi si aiuta, il mio Stato verrà alle mani di predoni e di assassini.» Gli si risponde: «Vostra Maestà mi sta molto a cuore. In casa mia io sono tranquillo, le mie truppe sono leali, i miei generali fedelissimi, e i miei Ministri sono tutti oro da coppella. Contento io, contenti tutti. Caschi il mondo, ma sia salvo il grande principio del non intervento.»

Poi que' medesimi, che più forte schiamazzano contro l'intervento, son essi i primi a chiederlo ed a praticarlo; perocché, la dottrina del non intervento, allungandosi, scorciandosi, allàrgansi, stringendosi con mirabile elasticità a comodo di chi se ne dee servire, non impedisce punto d'intervenire quando si crede e come si crede, eì che, per quanto ci abbiano studiato sopra, fu sinora impossibile di ritrovare la formola che regoli e spieghi la mutabilità sua. Chi accomoda ogni cosa è sempre il proprio interesse. Al principio della guerra d'Italia Napoleone III. professava che la spada della Francia accorrerebbe dovunque fosse un grido di giustizia da secondare, un diritto di civiltà da mantenere, un'idea generosa da difendere, e già si sa che, dove vi ha un'idea generosa, là è la Francia. Regalata la Lombardia al Piemonte, torna in Francia contento di aver salvato il principio del non intervento, e di aver guadagnato Savoia e Nizza; ed un suo Ministro dichiara ch'era intervenuto nella Penisola perché gli era tornato a conto (1). Pel suo interesse Napoleone III. era intervenuto in Crimea a

(1) «Si le gouvernement de l'Empereur est lui méme intervenu,

DIRITTO NUOVO. 257

assicurare il predominio del gran principio del non intervento; era intervenuto in Grecia, interveniva altrove. Al Congresso di Parigi il Piemonte colle famose Note all'Inghilterra e alla Francia lamentava a parole l'intervento, a fatti preparava l'intervento futuro in Italia, dopo di essere per suo interesse intervenuto colle armi egli pure in Crimea. Nel discorso della Corona, quando si diceva commosso dalle grida de' popoli che gli chiedeano soccorso, Vittorio Emanuele, predicando non intervento, prometteva intervento Allora il Piemonte, protestando contro l'intervento straniero, in nome del non intervento intendeva dire all'Austria: «Togliti di là, che mi vo' metter io.»

Il grande principio del non intervento è dichiarato sacro e inviolabile in ogni caso, in ogni luogo, in ogni tempo, ogni qual volta non si crede bene di farvi qualche eccezione e violarlo. Quando si voglia intervenire, affermando di non voler appunto intervenire, s'interviene senza bandiera, con Ministri e Deputati alla tribuna, con Ambasciatori e Consoli, con Note diplomatiche, con flotte insidiose, con società clandestine, con emissarii, con danari, con armi introdotte di nascosto, con libelli famosi, con giornali pagati a un tanto la linea. Lecito a chiunque l'intervento straniero ogni qualvolta trattasi di accendere o secondare la rivoluzione in qualsivoglia paese del mondo; se si tratterà di spegnerla, il gran principio del non intervento sarà mai sempre scrupolosamente e rigorosamente osservato e fatto osservare. Nel primo caso l'intervento è idea generosa, magnanima, santa; nel secondo è ingenerosa, immorale, infame, iniquissima, è delitto. Per quello gli onori degli altari, per questo il palco della gogna.

Lecito d'intervenire in Asia per difendere l'integrità del patrimonio di Maometto; vietato d'intervenire in Europa per difendere l'integrità del patrimonio del Papa. Lecito l'intervento in Italia di Francesi, d'Inglesi, d'Ungheri, di Polacchi, di Americani, di qualsivoglia straniero, quando si tratti di togliere a' legittimi prenci gli Stati ed annetterli a quelli del Re di Sardegna:

» il ne l'a fait qu' en códant à des?circonstances impórieuses, parce que, dans l'état des cboses en Italie, ses intéréts Ini en imposaient la nécessité.» Dispaccio del Ministro Thouvenel al conte di Persigny, Ambasciatore francese in Londra, del 30 gennaio 1860.

258 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

vietato d'intervenirvi a chiunque quando si tratti di togliere quell'intervento straniero, vietato con suo infinito rammarico insino alla Francia, che pure vi ha idee generose da difendere, promesse da mantenere. Se si tratti degli Stati pontificii, la Francia non può intervenire. No, cioè sì. Interviene per difendere a Roma la persona del Santo Padre; farà di meglio, interverrà per confessare la sua impotenza, e dire al Papa: «Vostra Santità ha ragione, il Piemonte ha torto; non ho mancato di farglielo sapere più volte e sempre chiaramente. Ho fatto quel che ho potuto, e Vostra Santità può vedere la mia impotenza. Che cosa vuole che le dica? Il Piemonte intende fare a modo suo. Intervenire coi fatti non si può, non concedendolo il sacro principio del non intervento. Piuttosto sa ella, Santissimo Padre, come Vostra Santità può fare per acconciare ogni cosa? Ceda al Piemonte le province che questi possiede coll'autorità del fatto compiuto. Vittorio Emanuele sarà contento, e Vostra Santità lo sarà più ancora di lui, perché più lo Stato sarà piccolo, pili il Sovrano sarà grande. Per ottenere lo scopo sublime di questa conciliazione, tanto e tanto io mi sentirei d'intervenire, e guarentirei poi a Vostra Santità il resto de' suoi Stati, ben inteso che li guarentirei salvo sempre il gran principio del non intervento». Si proclama questa gran dottrina del non intervento la base del diritto pubblico europeo; e s'interviene in ogni tempo, in cento luoghi, in mille modi. Non li sembra proprio un'antifrasi o un'ironia? Non diversamente l'Assemblea nazionale della Rivoluzione francese stanziò la celebre legge, con cui si disse abolita la confisca; ed incominciando dalla rinunzia dei diritti feudali nella famosa notte fanatica degli 8 agosto, e proseguendo per tutta quella serie di spogliamenti di terre, di rendite, di capitali, di titoli, di stemmi e persino di nomi, formò a quella legge un sì curioso contrasto, o commento che dir si voglia.

Bai principio di non intervento direttamente consegue, quale figliazione naturale e legittima, l'altra dottrina del fatto compiuto, il gran mezzo rivoluzionario. Fu detto (1): il fatto compiuto essere nel diritto pubblico ciò che è la prescrizione nel diritto

(1) Du Boys; Dei principii della rivoluzione politica considerati come principii generatori del Socialismo e del Comunismo (Versione italiana, pag. 177. - 1857).

DIRITTO NUOTO. 259

civile, e volersi però talvolta rispettare per timore di un più grande disordine. È radicalmente erroneo. Per fermo, rispetto alla società innocente il fatto compiuto può talora produrre effetti analoghi a quelli della prescrizione civile, dappoiché l'avere un principio d'ordine è un bene reale del quale non deve per altrui colpa spogliarsi la società, a quel modo che la legittimità del possesso è un bene di cui non deve spogliarsi il privato di buona fede Però la prescrizione salvando la coscienza del possidente, il fatto compiuto salvando tutt'al più l'obbedienza e l'ordine della società, rispetto a chi usurpa può bensì il fatto compiuto sino a tal qual grado rassomigliare alla prescrizione, ma non è in niun modo ciò ché la prescrizione. La prescrizione è la perdita di un diritto non esercitato entro un tempo determinato; che se alcuno s'impadronisce d'una cosa con violenza o con dolo, s'intrude nel possesso clandestinamente, e quella cosa soltanto precariamente possiede, la prescrizione, non che potersi invocare, nemmeno esiste.

Le ristorazioni sociali non sono rimosse né rendute impossibili dalla durata ancor non breve d'una rivoluzione. A questa legge, spada di Damocle sospesa senza posa sopra il suo capo, la rivoluzione si studiò di contrapporre un principio, che per lei facesse le veci di diritto, od almeno legittimasse alla meglio la propria origine; e s'inventò il principio del fatto compiuto. Ma per dare ad un principio forza di convincere, e molto meno ancora di obbligare, non basta annunziarlo a parole. Il fatto compiuto è la ragione del più forte o del più fortunato, è togliere all'atto umano ogni interiore moralità per considerarne soltanto l'esterna materialità, è togliere alla società di esseri ragionevoli ogni vincolo fondato sopra la ragione per sostituirvi le catene che solo può imporre la forza; ned esso, come non fu mai, non mai potrà essere un principio, se non per una società che rinneghi ogni giustizia ed ogni diritto. Invocare il fatto compiuto siccome fondamento e ragione della propria esistenza, è confessare un'esistenza senza ragione e senza fondamento, è confessare che si riconosce il fatto stesso destituito d'ogni diritto.

Or si conosceva la violenza del fatto compiuto, non peranco l'autorità del fatto medesimo, scoperta venutaci non ha molto di Francia; l'autorità, questa grande e santa cosa, ch'è fondata sul

260 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

diritto, ch'è il diritto stesso. Così di sofisma in sofisma. La dottrina del fatto compiuto essendo la legittimazione dell'uso della forza brutale, l'autorità del fatto compiuto sarebbe il diritto di quest'uso, il diritto del delitto. Ciò almeno è logico. Togliete all'uomo che gettaste nel fiume, e s'annega, la speranza d'essere da veruno soccorso, toglietegli la facoltà inalienabile d'invocarlo, dategli la certezza che niuno verrà in suo aiuto e che a niuno sarà permesso di assisterlo, quel fatto, compiuto che sia, avrà in vero un autorità, l'autorità della morte!

Ferace di scoperte è la scienza. Nuovi sistemi di diritto pubblico s'incalzano senza posa, stranamente imbrogliando idee e cose. Chi ha, abbia, e gli altri stiano a vedere: questo è il sistema che nella scienza si chiama la teoria dei fatti compiuti. Chi non ha, prenda, e sarà lasciato fare: questo è il sistema che nella scienza si chiama la teoria del progresso. Chi non darà quanto gli è domandato, mal gli avvenga; questo è il sistema che nella scienza si chiama la teoria dei consigli. Chi fu derubato di una parte, ceda anche l'altra: questo è il sistema che nella scienza si chiama la teoria delle riforme. Chi fu derubato debba essere il migliore amico del suo derubatore: questo è il sistema che nella scienza si chiama la teoria della conciliazione.

Je ferai l'affaire en deux actes, sovez tranquilles! «Cugino» mio, compiremo la tragicommedia in due Atti; il primo fu» fatto coll'intervento, il secondo si farà col noninteevento». Questo avea detto l'eccelso direttore di scena, chiuso appena a Villafranca il primo Atto, l'Atto dell'intervento. Però, a quella guisa che certi farmachi amministrati a piccole quantità e a più riprese avvantaggiano, mentre a più elevate e in una sol fiata nuocono, a ragione fu detto che la verità dee dirsi a sorsi, e rivelata intera e d'un tratto fa male. Come il medico rinforza grado a grado le dosi onde assuefare lo stomaco del paziente alla tolleranza di quella dose massima cui pensa di poter pervenire, piace meglio e a chi narra e a chi legge scrivere e udire verità a centellini secondochè comporti il progresso del racconto, per poi, giunto alla fine di questo il momento di riassumere le sparse fila, toccare la verità tutta intera, senza reticenze e senza veli. Cosi lo storico che dee parlare di una serie di fatti, aventi sembianze di significazione diversissima dalla realtà, non può liberarsi da

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un tal quale disgusto allorché gli avvenga d'essere costretto, prima ancora di arrivare alla narrazione di que' fatti, a rivelare senza orpelli questa nuda realtà, chiave di molti enigmi apparenti.

Il secondo Atto H farà col nonintervento: era codesta adunque l'epigrafe che l'autore cesareo avea posto in fronte a quest'altra parte del libretto del dramma. Nel vero, a che concordassero fatti e parole, nulla più abbisognava che non intervento. Il 3 di maggio si aveva proclamato di non andare in Italia per fomentare il disordine, né per iscrollare il potere del Santo Padre; e tre sovrani facennsi balzare di seggio, ed al Pontefice aveansi fatte rivoltare le Legazioni, e le Marche, e l'Umbria eziandio, con qualche altra terra se si avesse potuto. l'11 luglio si avea promesso che il Granduca di Toscana ed il Duca di Modena rientrano nei loro Stati; e perché vi rientrassero bastava appunto, e più che bastava, solo non intervento. Bastava cessare l'intervento de' Commissarii del Re di Sardegna, de' Governatori, de' Prefetti, de' generali, de' colonnelli, degli agenti civili e militari, palesi e mascherati, rivestiti di cento titoli, camuffati di mille vesti, insediati dal Piemonte ne' paesi padroneggiati dalla rivoluzione; bastava togliere l'intervento delle milizie piemontesi, dell'oro piemontese, delle promesse piemontesi, delle minacce piemontesi, l'intervento della cricca; e i popoli, resi liberi dalla prepotente pressione, si sarebbero senza dubbiezza alcuna volti di per loro precisamente all'opposto di quanto voleva e avrebbe permesso la cricca. Predicando non intervento, pretendendo non intervento, bastava applicarlo e farlo osservare.

Di presente conveniva dare l'ultima mano alle rivolte condotte a bene nell'Italia centrale. Sino allora era prevaluto il metodo della guerra, toccava adesso il metodo della pace; ma, guerra o pace, sempre il fine lo stesso, come il valente nocchiere, che a seconda del vento spiega od ammaina le vele, orza o poggia, ma sempre intento coll'occhio alla meta del viaggio. Or dunque si dovea fare guerra alla pace. Ogni mezzo egualmente buono, come la guerra aveva avuto i suoi, i suoi or avrebbe avuto la pace; tutto stando nel coraggio di adoperarli. Su di che, inteso alla pretensione di ridurre a scienza l'arte dell'usurpare ed il governo degli uomini ad un sistema di astuzie, il secretario fiorentino ne avea già insegnato qualcosa.

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«Quanto sia», scrisse (1),» laudabile in un principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende. Nondimanco, si vede per esperienza ne' nostri tempi, quelli principi aver fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l'astuzia aggirare i cervelli degli uomini; e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. Dovete adunque sapere come vi sono due generazioni di combattere; l'una con le leggi, l'altra con la forza. Quel primo modo è proprio dell'uomo, quel secondo delle bestie; ma perché il primo spesse volte non basta, bisogna ricorrere al secondo. Pertanto ad un principe è necessario saper bene usare la bestia e l'uomo. Questa parte è stata insegnata a' principi copertamente dagli antichi scrittori; i quali scrivono come Achille, e molti altri di quelli principi antichi furono dati a nutrire a Chirone Centauro, che sotto la sua disciplina li custodisse. Il che non vuole dire altro, l'avere a precettore un mezzo bestia e mezzo uomo, se nonché bisogna ad un principe sapere usare l'una e l'altra natura; e l'una senza l'altra non è durabile.

» Essendo, adunque, un principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quella pigliare la volpe ed il leone;perché il leone non si difende dai lacci: la volpe non si difende dai lupi. Bisogna, dunque, esser volpe a conoscere i lacci, elione a sbigottire i lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendono. Non può pertanto un signore prudente, né debbe osservare la fede, quando tale osservanza gli torni contro, e che sono spente le cagioni che lo fecero promettere. E se gli uomini fossero tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non l'osserverebbero a te, tu ancor non l'hai da osservare a loro. Né mai ad un principe mancheranno cagioni di colorare la inosservanza. Di questo se ne potrebbero dare infiniti esempi moderni, e mostrare quante promesse sono state fatte irrite e vane per la infedeltà dei principi. E quello che ha saputo meglio usare la volpe, é meglio capitato. Ma è necessario questa natura ben saperla colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore.

(1) Machiavelli; Principe, cap. XVIII.

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» E sono tanto semplici gli uomini, e tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna, troverà sempre chi si lascierà ingannare.

» Ad un principe non è necessario avere tutte queste qualità, pietà, fedeltà, umanità, religiosità, lealtà, ma è ben necessario parere di averle. Anzi, ardirò di dire questo, che avendole ed osservandole sempre, sono dannose; e parendo di averle, sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, religioso, intero, ed essere; ma stare in modo edificato con animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappia mutare il contrario. Deve avere un principe gran cura che non gli esca mai di bocca una parola che non sia piena delle soprascritte qualità, e paia, a vederlo e udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto umanità, tutto integrità, tutto religione. E non è cosa più necessaria a parere d'avere che quest'ultima qualità; perché gli uomini inuniversale giudicano più agli occhi che alle mani, perché toccaa vedere a ciascuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quel che tu pari; pochi sentono quel che tu sei; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione de' molti che abbiano la maestà dello Stato che gli difenda; e nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de' principi, dove non è giudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Faccia, adunque, un principe conto di vincere e mantenere lo Stato: i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli, e da ciascuno lodati; perché il volgo ne va sempre preso con quello che pare, e con l'evento della cosa. E nel mondo non è se non volgo; e i pochi ci hanno luogo quando gli assai non hanno dove appoggiarsi. Alcun principe dei presenti tempi, quale non é bene nominare, non predica mai altro che pace e fede; e dell'una e dell'altra è inimicissimo».

Ad allucinare l'Europa sopravvenissero senza indugio atti che avessero nel miglior modo apparenza di sincera espressione delle volontà popolari, e si potessero credere non mentiti documenti di decisa avversione alle legittime sovranità decadute. Governi, Rappresentanze, Comuni, corporazioni, sbraitassero: «Non li vogliamo». Non a caso essendo stato proclamato il rispetto ai liberi voti, Assemblee speciali si radunassero, e ad assicurare la libera manifestazione de' liberi voti, e perciò la libera elezione delle libere assemblee, le più elevate autorità sarde da que' paesi si allontanassero;

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ciò che potevasi in generale accordare senza pericolo, perocché, messi in cima d'ogni pubblico uffizio uomini interamente devoti al Piemonte, e ad essi dato valersi di tutta la loro autorità, del monopolio della stampa, e di ogni altro mezzo governativo per educare i popoli alla idea della fusione, ad orpello si toglieva il capo, restavano pieni di vitalità il corpo, i piedi, le mani. Ancorché dimissionario sino dal 13, e costituito il nuovo Ministero Lamarmora-Rattazzi, il 21 luglio Cavour inviava a'suoi capi di Governo nell'Italia centrale l'ordine ufficiale che rassegnassero la pubblica cosa e partissero (1), e l'ordine segretissimo di non rassegnarla punto, e star fermi. Ma padron grande a Parigi non la intendendo così, giunta a Torino la Nota del Governo francese con che esigeva l'immediato richiamo dei Commissarii piemontesi, Rattazzi ripeté il comando di andarsene. D'Azeglio, già ritornato in Torino, da colà smise il carico di Commissario straordinario nelle Romagne il 28 luglio. BonCompagni partì da Firenze con pomposo cerimoniale il 3 agosto, passando per la via dei Cerrettani. Pallieri, Governatore negli Stati parmensi, cessò l'8 agosto, e rientrò in Piemonte.

A Modena, giuntovi il 19 di giugno, stava Governatore di quelle province pel Regno sabaudo Luigi Carlo Farini. Nativo di Russi nel Ravennate, figlio d'un Carbonaro, a diciott'anni Carbonaro egli stesso, nel 1831 era stato cogl'insorti delle Romagne; poi medico nelle Legazioni, poi esule in Toscana, eccitatore del moto di Rimini. Nel 1848 Deputato alla Camera in Roma, e sostituto del Ministro Mamiani. Venuta la rivoluzione del novembre 1849, surta la romana Repubblica, erasi dimesso dal carico di Direttore generale della Sanità, per non riassumere l'ufficio che al ripristinamento del Governo pontificio. Allora serviva lietamente il Papa in posto che gli fruttava cento scudi al mese. Improvvisamente destituito, partì da Roma, passò in Piemonte, dove, pieno di livore contro il Governo pontificio, scrisse la Storia dello Stato Romano dal 1815 al 1850. Fattosi corifeo del partito capitanato da Cavour, era colà divenuto Deputato al Parlamento e giornalista.

Nelle Romagne, nella Toscana, nel Parmense, il terreno credeasi

(1) Atti e Documenti del Governo toscano; Pari. I., pag. 896.

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bastevolmente disposto perché a Torino non si avessero serie apprensioni sul risultato delle elezioni. Non così a Modena, le cui campagne sovrattutto davano molta inquietudine. I partigiani del Duca essendovi in grandissimo numero e di molta influenza, il Governo di Torino temeva assai, che, abbandonato a sé stesso, il paese gli potesse sfuggire con una controrivoluzione, pella quale il Duca dal finitimo territorio Lombardo-veneto sarebbe senz' altro colle truppe fedeli rientrato ne1 suoi dominii. Ancorché Farini annunciasse alle popolazioni, il 27 luglio, che deponeva i poteri, bisognava adunque ch'ei rimanesse. Con quale artifizio, da quello stesso che imaginé e diresse la commedia, fu narrato.

«Il giorno fissato,» egli scrive (1),» per la partenza di Farini, appostai sul piazzale del palazzo una parte de' miei aderenti: per ingrossarne il numero aveva fatto venire tutti i carabinieri e gli agenti di Polizia che si trovavano a Reggio, Carpi, Mirandola e Pavullo. Appena comparve il Governatore per montare in carrozza, si misero a gridare, secondo la consegna che aveano ricevuta: Viva Farini No, non partirà il comune nostro padre! Seguitarono la carrozza, continuando le loro acclamazioni; io m'era posto col resto de' miei agenti al di fuori della Porta di Sant'Agostino. Al momento in cui arrivò il Governatore, dietro il mio segnale, i miei agenti si misero a gridare: Viva il Dittatore!; si gettarono sulla carrozza da cui staccarono i cavalli, e lo ricondussero in città, sempre colle grida: Viva il Dittatore l'Arrivando al palazzo, ove attendevano i principali membri del Governo commissariale, venne steso senza indugio, in presenza di Farini, un Processo verbale che lo nominava cittadino di Modena e Dittatore. Le prime firme, che si leggono appiedi di questo documento, sono quelle del conte Borromeo, segretario generale di Farini; Carbonieri, Ministro dell'Interno; Chiesi, Ministro dei Culti; Riccardi, capo di Gabinetto e genero di Farini; Visoni, segretario attaccato; Zini Intendente a Modena; Mayr. Intendente a Ferrara. Alla sera da Farini si rise assai della buffonesca scena della Porta di Sant'Agostino. Al momento in cui staccarono i cavalli io era a due passi dal nuovo Dittatore;

(1) La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d'Italia, § V.

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» lo vedeva a grande stento con» tenersi dalle risa.» Così in un giorno solo, in alcune ore, il Farini fu Governatore sardo, uomo privato e Dittatore modenese. «Tutt'insieme», conchiuse l'ufficiale effemeride del Farini (1), fu una giornata da far diventare Italiano un Croato.»

Quattro assemblee decretaronsi, a Firenze, a Bologna, a Modena, a Parma; e le elezioni avvenissero in Toscana il 7 agosto, negli Stati estensi il 14, nelle Romagne il 28, nelle province parmensi il 4 settembre. Caduta ogni cosa in balia degl'intesi nell'intrigo, insediate in tatti i principali ufficii politici e amministrativi persone tutte d'una risma, intronizzati negli stalli di capi delle Comunità uomini tutti della fazione, dopo che era stato sparso l'oro a piene mani per fare la rivoluzione, che dall'oro appunto si chiamò rivoluzione aurea, in paesi nuovi all'esercizio del suffragio popolare, ed in cui per giunta lo stare indifferente delle maggioranze e l'astenersene servivano meravigliosamente alla frode, doveva riuscire facilissimo procurarsi assemblee foggiate a lor guisa. Il non intervento stando a mo' di sentinella posta a guardia de' sudditi che si facevano accusatori e giudici de' loro sovrani, chi teneva il potere braveggiava, minacciava, protestava impossibile il disfare il già fatto, preoccupava le elezioni dei Deputati, insegnando di quali sentimenti dovessero essere informati i novelli Padri Coscritti. Ma per dormir quieti sonni, che cosa i Deputati dovessero fare, bastava accertarsi chi dovessero essere.

Chi non fosse della combriccola, piemontezzato in carne ed ossa, notissimo per opinioni superlative, naturalmente non sarebbe riescito. Comitati elettorali s'instituirono, con cara di vagliare i nomi degli eligendi Deputati, e poi di attendere alla più sicura elezione de' prescelti. Ai più noti non fu chiesta professione di fede, agli altri sì (2). A Modena il Farini andò più innanzi colle cautele (3): obbligò i candidati a firmare preventivamente due decreti che avea preparati. Il primo pronunciava la decadenza della Casa d'Este, il secondo prorogava indefinitamente

(1) Gazzetta di Modena, numero del 28 luglio 1859.

(2)

Rubieri; Storia intima della Toscana, pag. 200.

(3) La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d'Italia, § V.

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te i poteri del Dittatore. Due uomini soltanto, Amadio Levi, banchiere, ed il professor Puglia, si rifiutarono a firmare; non furono nominati. Alcuni, tentati ne' loro principii, e assicurati della elezione se avessero contrariato il ritorno alla legalità, parlarono aperto, e com'era ovvio, non ebbero i voti. Proclami, affissi ne' luoghi più frequentati, giornali, lettere circolari, mettevano innanzi i nomi de' preferiti, accompagnandoli di altissime raccomandazioni. Chi ambiva essere eletto inviava commendazioni a stampa agli elettori, dove poneva in mostra i proprii sentimenti, che quanto più strani, tanto più accrescevano la probabilità della elezione.

Diedero leggi elettorali, ed in Toscana, richiamata in vigore quella del 1848, questa alterarono, aprendo adito ad una infinità di abusi, di errori, di equivochi, tra' quali il più grave fu che in alcuni luoghi si segui la regola antica ed in altri la nuova, con che s'ebbero Deputati scelti sopra un diritto elettorale diverso (1). Si fecero consegnare i registri delle parrocchie per comporre a loro modo le liste degli elettori. Tutti intesi ad escluderne il maggior novero possibile di avversi al partito signoreggiante, à comprendervi quanti più de' loro fautori potessero, larbitrio andò sopra la legge, e in ciò infiniti dovunque gli arbitrii. Si tralasciò d'inscrivere tra gli elettori moltissimi di coloro che, secondo la legge, dovevano godere del diritto elettorale. A Modena furono esclusi tutti gl'illetterati, e quindi la maggior parte de' contadini, che d'altronde godeano de' diritti civili, ed erano generalmente bene affetti al Duca. In Toscana (2), per far numero, si abilitarono alle elezioni anco i falsarii, i rei di delitti contro la proprietà e i rei di delitti politici, qualunque fosse la pena loro inflitta; e se contro indebite iscrizioni si reclamava, si tenea per non detto.

(1)

Si dichiarò elettore non chi effettivamente pagasse la tassa voluta dalla legge, di lire dieci, ma chi la avrebbe pagata secondo le norme che vigevano nel 1848.

(2)

Il che tutto fu confessato dal Governo stesso nella Circolare del Ministro Poggi ai Presidenti e Procuratori dei Tribunali di Prima Istanza, inserita nell'ufficiale Monitore toscano del 1.° agosto 1859. Vi si legge, tra altro: «Ha voluto il Governo non tener conto delle iscrizioni indebite, che pur davano diritto al ricorso dei terzi.»

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Dicevano che chi non andasse a votare sarebbe un traditore o uno stolto; e chi eleggesse un rappresentante inetto o cattivo, e questo volea dire un rappresentante che propendesse verso le legittime sovranità, sarebbe «un parricida che volge le armi contro la propria madre.» (1)

Venuto il giorno dello scrutinio, la stampa onesta resa mutola, lo sgomento de buoni ed il terrore incusso al clero, talché per la massima parte si astennero, ogni collegio di città e di campagna conosceva già, prima della votazione, chi sarebbe uscito Deputato. Prima che cominciasse lo spoglio de' voti, agenti di Polizia e carabinieri travestiti ingombravano le sale dello scrutinio e i loro accessi. Quasi sempre di mezzo a loro si sceglievano il presidente dell'ufficio e gli scrutatori. Si tenevano in serbo, preparati in precedenza, bollettini doppi. Ai momento della chiusura delle urne vi gettavano i bollettini, naturalmente nel senso piemontese, di que' che s'erano astenuti (2). In certi collegi questa introduzione in massa de' bollettini degli assenti nell'urna (3) si fece con tale trasandamento, e con sì poca attenzione, che lo spoglio dello scrutinio diede più votanti che elettori iscritti. Bastò una rettificazione al Processo Verbale. In parecchi collegi, ove migliori cautele parvero necessarie, si usarono urne a doppio fondo. In altri si ebbe ricorso alla sostituzione delle urne; tenute in pronto urne affatto eguali, guernite a dovere di bollettini preparati, nel trasporto delle urne dalla sala dello scrutinio alla stanza degli scrutatori destramente le une alle altre scambiavansi. Con tutto ciò le votazioni non valsero che a dimostrare quanto la volontà de' popoli era diametralmente opposta agl'intendimenti della fazione dominante, e quanto piccina minoranza essa fosse. Fra gli ottantasette collegi elettorali di Toscana, in cinquantasette gli elettori iscritti che si disse avesser votato, furono minori degli elettori iscritti che tralasciarono di votare; ed i votanti in tutto,

(1) Monitore toscano, numero del 6 agosto 1859, pag. 1.

(2) «Non tutti, già s'intende; ne lasciavamo da parte qualche centinaio o qualche migliaio, secondo la popolazione del collegio. Bisognava pur salvare le apparenze, almeno in faccia allo straniero, poi che sopra luogo si sapeva bene a qual partito attenersi.» - La verità sugli uomini e sulle cose del Segno d'Italia, § V.

(3)

«Chiamavamo ciò completare il voto», dice il Curletti.

DIRITTO NUOVO. 269

fra 68, 311 inscritti, non sommarono che a 35, 240, rappresentanti una popolazione di 1, 806, 940 abitanti, un elettore sopra ogni cinquanta abitanti. Nelle Romagne, ascritto tra gli elettori un decimo appena della popolazione, due terzi degl'inscritti rifiutarono di votare, e del terzo dei votanti n'ebbero molti contrarii e molti favorevoli al Papa. Peggio fu nel Ducato di Modena, ove fu provato, che, ad onta de' mille brogli e delle mille soperchierie del Farini, de' 72, 000 elettori, appena 4000 votarono o si disse che avean votato, un votante sopra ogni centocinquanta abitanti. Se è legge dell'Europa costituzionale di accontentarsi del voto della terza parte degl'iscritti, e di applicare a chi non da il voto il proverbio: chi tace, acconsente; veniva a contrapporsi un altro proverbio non men popolare: chi sta zitto, non dice niente, e negli Stati estensi in particolare il fatto che figurava come votante un solo diciottesimo degli elettori. L'unico modo di protestare, che avessero allora i paesi contro l'ingiustizia, era quello di astenersi dal voto: ed il fecero. Havvi una forza d'inerzia contro la quale rompono le rivoluzioni. Quelle votazioni, infatti, misero a nudo che il partito signoreggiante non era nemmeno una fazione, ma si una frazione.

Da assemblee risultanti da votazioni si fatte, da assemblee composte di Deputati a' quali il ritorno de' legittimi principi metteva sgomento, comprendenti la quint'essenza di coloro che aveano preparate e consumate le rivolture su' luoghi, era ben agevole indovinare quali risoluzioni avrebbero pigliato. Il 16 agosto a Firenze l'assemblea votava la decadenza della Casa di Lorena, il 20 l'annessione della Toscana alla Sardegna; lo stesso giorno 20 a Modena decadenza di Casa d'Este, il di appresso annessione del Ducato alla Sardegna; il 6 settembre a Bologna decadenza della Santa Sede, il 7 annessione delle Romagne alla Sardegna; l'11 settembre a Parma decadenza di Casa Borbone, il di 12 annessione dello Stato alla Sardegna. Dovunque le stesse cause, dovunque gli stessi effetti.

Il 5 ottobre 1859 il conte Luigi Anviti, in addietro colonnello al servizio parmense, muoveva colla ferrovia da Bologna per Piacenza. Tanto bastò, perché il Farini, avvertito del passaggio, pensasse di collegare questo a' vaghi rumori, dagli stessi uomini al potere fatti correre ad arte, di alcuna dimostrazione

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che si sarebbe a que' giorni tentata in senso ducale. Bisognava, diceano, dare un esempio; tale da atterrire e rattenere chiunque per avventura avesse davvero voluto osare di farsi iniziatore di moti in favore de' spodestati sovrani. A Modena Filippo Curletti (1) stava a capo della Polizia segreta del dittatore.

(1) Negli anni 1856, 1857 e 1858 i frequentissimi furti, gli stupri, gli assassinii avevano talmente commossa ed impaurita la città di Torino, che nessuno osava più avventurarsi di notte per le vie alquanto solitarie, e molto meno uscire alla campagna; né mai il velo de' reati squarcia vasi. Il caso tuttavia fu più potente dell'altrui malvolere. Un abito di poco valore, rubato nel 31 gennaio 1858 in un albergo di Torino, condusse alla scoperta che nel furto avea avuto parte certo Cibolla; ma qui insorsero nuove difficoltà, giacché costui non era punto conosciuto sotto il vero suo nome. Un locandiere, Tanino Agostino, in addietro carabiniere e poscia agente secreto della Polizia di Torino, si prese l'assunto di far agguantare il Cibolla, il quale, visto Tonino tra le guardie che poi lo arrestarono, ? H disse: Tanino! me la pagherete Cibolla, incarcerato, confessò essere egli sol tanto complice, non autore del furto dell'abito; ma nel tempo stesso palesò 29 reati commessi in Torino: uno stupro con omicidio, otto grassazioni, il resto furti, truffe e falsi, dichiarandone autore so medesimo unitamente al Tanino e ad altri dodici individui. Tanino era il capobanda, aiutanti e manutengoli i rimanenti. Le prove date di tale evidenza, che il Tanino venne tratto in prigione, ed il 80 aprile 1860 la Corte d'Appello in Torino condannò lui ai lavori forzati a vita, Cibolla a 20 anni di galera per ragione d'età»

Da cosa nasce cosa. Cibolla propalò in seguito due altri assassinii commessi in Torino. S'instruirono altri processi e allora fu posto in chiaro, che Tanino alla sua volta non era se non semplice esecutore, e che il vero capo, promotore ed ordinatore degli assassinii era Filippo Curletti, stato capo della Polizia in Torino. Tanino dipendeva dal Curletti, e trasmetteva gli ordini della Polizia agli assassini subalterni. Già, allorquando si era trattato delle accuse al Tanino, avea dato nell'occhio che Curletti avesse posto in opra seduzioni e persino minacce presso il giudice istruttore perché non si facesse il processo al Tanino. D'improvviso il Tanino mori in carcere il 7 agosto 1861, e fu morte misteriosa, parve di veleno. Intanto Curletti, salito in gran favore per il ratto clamoroso d'una ragazza da lui condotta a Moncalieri pel Re, ed il cui fratello poco dopo fu nominato capo d'uffizio alle Poste, da agente secreto del conte di Cavour in Torino era passato a sussidio del BonCompagni per rivoltare Firenze il 27 aprile 1859, poi mandato ad ispiare l'Imperatore dei Francesi dal 12 maggio sino alla sua partenza da Alessandria. Quando il Farini passò Dittatore nell'Emilia, era stato fatto venire in Bologna per riordinarvi la Polizia con uno stipendio di cinquemila franchi. Più tardi, Pepoli lo avea spedito nell'Umbria per organizzarvi le guardie di pubblica sicurezza; ed allorché venne in luce la parte che egli avea presa nei delitti

DIRITTO NUOVO. 271

Udiamolo (1).«Io era nel mio gabinetto, quando Farini giunse correndo: Presto! Presto!.... a Parma! Vi si arresta il colonnello..... Anviti... alla Stazione della ferrovia..... il carnefice de' Borboni. - Queste furono le sue espressioni: non una parola di questa conversazione si è cancellata dalla mia memoria. - Cosa occorre che io faccia?.... Debbo condurvelo? - Oh! no. Non sapremmo che farne! È un uomo pericoloso...... Ma... noi non potremmo toccarlo senza far gridare. Bisognerebbe che la popolazione se ne incaricasse. M'intendete. - Partii».

Rotto da improvvisa piena il ponte sul torrente Enza, antico limite fra i Ducati di Modena e di Parma, facea di mestieri che i treni della ferrovia si soffermassero a scaricare ed a caricare sull'una e sull'altra sponda. Lo sventurato colonnello, sceso cogli altri del convoglio, prende a piedi la traversata del torrente. Alcuni agenti di Polizia, da Modena mandatigli dietro alle poste, fingono di riconoscerlo, lo arrestano; giunto il convoglio alla Stazione di Parma, lo forzano a discendere e percorrere a piedi il tratto che dalla strada ferrata mette alla città. È condotto alla caserma de' carabinieri, donde un ordine misterioso allontanava ad un tempo sotto varii pretesti tutti i soldati, ad eccezione di cinque.

Frattanto un nodo di prezzolati cannibali si accozza alla porta, alle grida: Morte ad Anviti! La porta, robustissima, ma

commessi a Torino, stava in Napoli incaricato dello stesso servizio che a Modena e Bologna.

La Corte d'Assisie di Torino fu chiamata a sentenziare. Curletti comparisce come testimonio citato, e si sente in pubblica udienza ripetere le accuse e dichiarare capo degli assassini insieme con persone ancor più alto locate. Il pubblico si sdegna di vederlo sul banco dei testimonii, anziché degli accusati; si sdegna di non vederlo arrestato seduta stante, e più ancora quando in presenza dell'uditorio, mentre gli altri testimonii si pagano privatamente e ben tardi, tede soddisfatto il Curletti per indennità di viaggio con parecchie centinaia di lire e rimandato in tutta pace. Un grido unanime d'indegnazione si alza da tutta Torino; ed allora è fatta correr voce che verrebbe aperto un processo speciale al Curletti, sorvegliato frattanto, affermavasi, dalla Polizia in guisa da non poterne temere la fuga. Quando fu finalmente spiccato contro di lui un mandato d'arresto, il Curletti, avvertito, aveva già abbandonato Torino, passati i confini e riparato in Svizzera.

(1) La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d'Italia, § V.

272 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

ad arte lasciata indifesa, è sfondata, né alcuno fa le mostre di neppure voler tentar d'impedirlo. L'orda avvinazzata irrompe, afferra la vittima designata per le vesti, per le braccia, per le gambe. Diciassette punte di ferro si alzavano in un punto a ferire, e diciassette pugnalate trapassavano allo sventurato gli omeri e il petto. Una corda avvinse per i piedi quel corpo da tutte parti grondante sangue; cinque o sei de' più immani cominciarono una corsa sbrigliata a traverso l'atterrita città. D'attorno a quel corpo che sulle aguzze punte del selciato lasciava via via larghe sanguinose traccio e brani di carni, altri danzavano, e le orribili grida ripercosse dagli echi alternavano coi cupi rimbalzi del cranio, che violentemente picchiava sui sassi. Sulla grande piazza presero in braccio quell'informe cosa: due lo tenevan in mezzo a braccetto, un terzo con un colpo di pistola gli fracassava lo stomaco, e l'infelice viveva ancorai Non bastava. Il trassero ad un Caffè, che solea frequentare; fecero sedere quel corpo a desco, comandarono un caffè pel signor colonnello. E il caffè fu recato e all'agonizzante si è voluto farlo trangugiare. Scherzato lung'ora, gittano il cadavere palpitante contro una colonna, con una daga gli spiccano dal busto la testa; e il corpo moveva ancora qualche tratto di vita convulsa.

Allora in due si divise la squadra omicida. Gli uni recano la testa infilzata sopra una picca; gli altri si danno spazzo del tronco mutilato, ne staccano gambe e braccia, e vi ha taluno che strappa dalle mani le dita e ne succhia il sangue. La vasta piazza maggiore era immersa in tetra oscurità; spenti i lumi a gaz, la luna di sbieco gettava alcuni pallidi riflessi sulla cupola della torre. Vennero col teschio in mezzo alla piazza, e il capo sanguinoso fu levato, orrendo trofeo, sulla colonna che sorge sopra di essa. Una torcia, collocata dinanzi, gittava tramezzo un vortice di nero fumo cupa e sinistra luce su quella scena d'inferno, mentre il teschio sulla inclinata superficie del liscio marmo lentamente scivolava come se vivo fosse, e in mezzo al lugubre silenzio si udiva il tonfo del cranio che dalla colonna precipitava sul lastrico. In quel punto quattro ciechi, di quelli che per le vie vanno elemosinando coll'industria degli archetti stuonati, traversano a caso la piazza: son scorti, e loro s'impone che suonino. Ed a quel suono, a quando a quando si unisce la voce feroce, che maledicendo

DIRITTO NUOVO. 273

impone a quel miserabile avanzo della morte di ubbidire a star fermo, ed il canto d'inni patriottici, intuonati dagli assassini, gridanti a cadenza: Viva la libertà! Maledetta la libertà che deve sorgere dal delitto, nutricarsi di delitto. Da ben quattr'ore durava l'opera scellerata: quando alfine, in una città in cui teneano presidio intorno a seimila soldati, alcune pattuglie mossero a raccogliere i miserandi avanzi della vittima.

Da Modena il Farini accorse, atteggiato a sorpresa, a sdegno, a dolore. Con molta pompa annunzio provvedimenti, decretò la consegna di tutte le armi da taglio e da fuoco; ed in città ove il basso popolo nascondeva presso di sé cinque a seimila fucili, rubati allorché la Cittadella era stata saccheggiata nel mese di maggio, e il popolaccio teneva migliaia di pugnali e stili fatti sopra uno stesso modello, una cinquantina di vecchi fucili inservibili ed alcune npade di lusso appartenenti ad impiegati civili furono le sole armi depositate. Si mené grande scalpore, ma non fu mossa una paglia per castigare gli assassini, per lo contrario premiati (1). Ma lasciamo ancora la parola al Curletti: «In conseguenza della mia triste missione ricevei la croce de' Santi Maurizio e Lazzaro. Il Direttore delle carceri, Galletti, che, dietro ordine, s'era lasciato prendere il prigioniero, fu avanzato, e lasciò la direzione delle carceri per quella delle Poste, il cui Direttore fu destituito come duchista. l'uomo, che, dopo avere trascinato per le vie di Parma il cadavere del colonnello Anviti, lo decapitò per come la testa sulla colonna della piazza del Governo, Davidi, fu lo stesso giorno nominato Direttore delle carceri di Parma. Quando, alcuni giorni dopo, il Console francese, Paltrinieri, chiese in nome della Francia, minacciante d'intervenire dalle prossime stanze di Piacenza e Casalmaggiore qualora i colpevoli sfuggissero alla legge, che si punissero gli autori dell'assassinio, si arrestarono con grande fracasso, durante il giorno, ventisette persone per dargli un'apparente soddisfazione.

(1) «L'asserzione, che l'ordine di assassinare lo sventurato colonnello Anviti fu dato dallo stesso Farini, non mai vi fu alcuno, il quale abbia osato sorgere ad attenuare, e molto meno a contraddire. È cosa di fatto che gli esecutori materiali di quell'infame delitto furono dal Farini largamente ricompensati.» (Difesa del Duca di Modena, edizione italiana, pag. 265).

274 CAPITOLO VENTESIMOQUARTO.

» La stessa sera il Direttore Davidi ricevette l'ordine di lasciar evadere i prigionieri arrestati, al che si prestò, com'è facile immaginare, colla miglior grazia del mondo». Il più attivo cooperatore del Davidi, un notissimo Baroni, oste a San Lazzaro presso Parma, fu pure impiegato dal Farini nella Postalettere di Parma con grosso stipendio, e poi nominato Ufficiale in un corpo garibaldino.

Fra mezzo al cicaleccio de' diarii pagati, che con rivoltante cinismo facevano il processo alla vittima piuttosto che ai suoi assassini, solo una voce si alzò con onesta franchezza, Massimo d'Azeglio. «Ora la posizione è cambiata, egli scrisse (1), l'Italia ha la fronte macchiata e deve abbassarla con vergogna. Bisogna dirlo con parole che mostrino non essere estinto in Italia il senso morale, il senso d'onore; bisogna chiamare le cose col loro nome, e osservare se non vi fosse una lezione più severa pei governanti presenti. Di questo fatto non sono colpevoli soltanto gli attori, ma tutti coloro che non tentarono d'opporvisi. Ogni giorno che passa, senza che sia vendicato l'orribile delitto, è una nuova vergogna pel Governo.» E Massimo d'Azeglio fu tenuto più reo dei veri rei del misfatto, villanamente insultato, proclamato appartenente alla stirpe di Cam (2). Il Municipio parmense affinché fosse «tolta e cancellata ogni traccia che ricordi al cittadino come Parma fu contaminata dal delitto», decretò (3) che si dovesse atterrare la rea colonna della piazza grande, sopra la quale fu posto e vituperato il capo della vittima. Fu la sola punizione inflitta pel commesso assassinio. Giustizia di Dio! Poco oltre tre anni più tardi (4), il Farini, smarrito il bene dell'intelletto, veniva tradotto nel celebre monastero della Novalesa presso Susa, convertito in manicomio, a quando a quando, come se una memoria molesta ritornasse all'inconscio pensiero, uscendo colla parola: Anviti! Anviti!

(1)

Nella Gazzetta Piemontese del 15 ottobre 1859.

(2) Gazzetta di Parma del 22 ottobre 1859.

(3)

Il Progresso del 18 ottobre 1859. Il Momento di Milano, nel suo numero del 17 di ottobre, dichiarò che, se per avere cuore d'uomo e d'Italiano bisogna sentire come scrisse d'Azeglio, i cuori umani ed italiani son pochi.

(4)

Rimasto a Napoli Luogotenente del Re d'Italia, perduto sul Sebèto prima il genero e poi la sanità, il 9 dicembre 1862 eletto presidente del Ministero, impazzì subitamente addi 24 marzo del 1863.

273

CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

I Trattati dì Zurigo.

Apertura delle Conferenze. - Istruzioni dei plenipotenziarii sardi. - Una doppia storia. - Francia impedisce il ritorno del Duca di Modena ne' suoi dominii. - Intervento toscano nello Stato estense. - Lega armata dell'Italia centrale. - Politica francese di restaurazione in Toscana. - Le mostre pe' citrulli a Firenze. - La Francia dichiara di aver compito in Italia il suo incarico.- Tre Trattati. - Diritti riservati. - Mazzini in Toscana. ~ Un Ministro ed un Prefetto. - Bossini e Dolfi. - Zitto, zitto; o mi castigano. - La repubblica offre alleanza alla monarchia. - Mazzini benedice Vittorio Emanuele. - Il mezzano e Rattazzi. - Angelo Brofferio nella Reggia di Torino. - La Verbanella nel Canton Ticino. - Il Re di Sardegna approva la spedizione di Garibaldi nello Stato pontificio, ordita con Farini. - Creazione del Governo dell'Emilia. - Veto cesareo. - Un'altra promessa regia. - La Reggenza dell'Italia centrale e il Reggente del Reggente.

Il giorno 8 agosto, ad oggetto di stendere il Trattato di pace, eransi aperte in Zurigo le conferenze tra i plenipotenziarii d'Austria, Frauda e Sardegna. Mentre da Torino si faceva con assai insistenza mandare attorno la voce che quelle conferenze sarebbero ite in fumo per ripigliare la guerra, i plenipotenziarii sardi vi erano andati con istruzioni di chiedere: le fortezze di Mantova e Peschiera restassero unite alla Lombardia; colla Lombardia non passasse al Piemonte nessuna parte del debito austriaco; si rispettasse il così detto voto delle popolazioni dell'Italia centrale; la Sardegna avesse la direzione militare e diplomatica nella Confederazione italiana; si consegnasse al Re di Sardegna la Corona di Ferro. L'ordine, che i plenipotenziarii avevano a seguire nell'esaurimento del loro programma, era nettamente tracciato dalla natura e dal carattere degl'impegni presi a Villafranca e del negoziato di Valeggio del 12 luglio. Veruna stipulazione non potendo considerarsi definitiva, se le questioni politiche non fossero state in precedenza risolte, era da queste che si doveva necessariamente pigliare le mosse.

276 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

Tra codeste questioni quella attinente al ritorno del Granduca di Toscana e del Duca di Modena su' loro troni, posta a Villafranca siccome condizione di pace sine qua non, primeggiava sopra tutte le altre per guisa, che bastava leggere i Preliminari di pace a convincersi come la non esecuzione di quel patto rendeva affatto superflua la sottoscrizione di un nuovo Trattato a Zurigo. Tolta dai Preliminari la convenuta restaurazione degli Arciduchi, di quelle pattuizioni, in fatti, alla fin fine nulla più rimaneva se non quanto aveva attinenza alla cessione della Lombardia, ai limiti da fissare tra l'Austria e il Piemonte; ciò che, senza provocare di nuovo la guerra tra l'Austria e la Francia, poteva rimanere, come sogliono dire i diplomatici, questione aperta» In tal caso l'Imperatore Francesco Giuseppe avrebbe potuto dire: Ho abbandonato la Lombardia, e non cerco di riprenderla colle armi; solamente che, in luogo di fare del possesso di essa da parte del Piemonte una questione di diritto, resta per me una questione di atto.

Una doppia serie di fatti, una doppia storia, in linee parallele correvano: la serie delle illusioni, la serie delle realtà; la storia di quel che s'è detto, la storia di ciò che s'è fatto; la storia di ciò che s'è detto in secreto, la storia di quel che b' è detto in palese. La serie delle illusioni, de' barbagli, era incominciata a Villafranca l'11 luglio, la serie delle realtà era incominciata del pari a Villafranca quel dì.

Segnati l'11 luglio i Preliminari di pace, il reingresso delle truppe ducali, che aveano seguito Francesco V. sul suolo austriaco, nello Stato estense, poteva essere mandato ad effetto immediatamente, di pieno diritto, per semplice, naturale e legittima conseguenza dell'intenzione, espressa nei Preliminari, di restaurare il Duca ne' suoi dominii. Certo essendo che le truppe estensi, le cui schiere, non appena avessero riposto piede nel Ducato, indubbiamente sarebbero state in breve ora ingrossate dall'accorrere spontaneo dei soldati appartenenti ai preesistenti Reggimenti della Milizia di riserva, avrebbero pia che bastato da per so sole a rovesciare l'intruso Governo provvisorio, e sbarazzare il paese dalla ben poco numerosa consorteria piemontese; per fermo il ristabilimento della legittima autorità non avrebbe incontrato serie difficoltà se lo si avesse posto ad effetto

I TRATTATI DI ZURIGO. 277

immediatamente dopo la segnatura dei Preliminari. Or che questo avvenisse si temeva grandemente a Torino e a Parigi. Ad impedirlo pensarono di far venire a Modena le truppe toscane, che il principe Napoleone aveva condotte con sè in Lombardia, e non si voleva rispedire in patria per timore ben fondato che avrebbero esse medesime restaurato il Granduca.

Il 24 luglio, Peruzzi ed il marchese di Lajatico, inviati dal Governo toscano presso Napoleone III. in Parigi, scrivevano a Firenze (1): La restaurazione del Duca a Modena, essendo di massimo pericolo per Toscana, doversi evitare; 11 intervento delle truppe toscane a Modena non crescerebbe il pericolo d'intervento austriaco. Intanto le truppe estensi, che dal primo di luglio aveano preso stanza nel Padovano, ebbero ordine, nel 26 di quel mese, di riporsi in cammino per raggiungere le frontiere dello Stato di Modena. Ma appena cominciato quel movimento, il Governo francese venne fuori con pressanti rimostranze ch'esso fosse in opposizione coll'armistizio di Villafranca. Ancorché destituita di qualunque fondamento in ordine e in merito l'assurda tesi, dappoiché nella Convenzione d'armistizio tra gli eserciti austriaco e franco-sardo non si conteneva pattuizione alcuna relativa agli Stati estensi, per la semplicissima ragione che a quell'epoca non eranvi in verun luogo di quegli Stati truppe nemiche ed ostilità in corso; ancorché il reingresso delle milizie estensi nel loro paese fosse misura che per verità la ragione e la logica, la lealtà e la giustizia, sottraevano a discussione, gli Estensi si arrestarono a Villa Bartolomea e dintorni, lungo le Valli veronesi. U pericolo però era sospeso, non rimosso. Il pensiero di una Lega armata tra i Governi dell'Italia centrale, discusso e approvato dall'Imperatore de' Francesi, fu allora mandato ad esecuzione. Il 10 agosto la Lega si strinse tra Toscana, Modena e Romagne, cui accedette nel 3 settembre il Governo parmense.

(1) Dispaccio telegrafico al Ministro Ridolfi.

«Restaurazione a Modena massimo pericolo per Toscana; bisogna evitarlo. Crediamo che l'intervento toscano non crescerà il pericolo d'intervento austriaco. Veduto Walewski. Non crede probabili interventi. Domani vedremo l'Imperatore.»

278 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

Dieci giorni dopo il convegno di Villafranca, il 21 luglio, Leopoldo II. aveva abdicato la corona di Toscana in favore del figlio, Ferdinando IV. Il 26 di quel mese il Governo francese scriveva a Firenze (1), che sarebbe misura saggiameute politica se prendessero l'iniziativa di richiamare l'Arciduca Ferdinando al trono granducale. «Comprendere questo principe la necessità di porre le istituzioni del suo paese in armonia colle esigenze del progresso del tempo e la nuova situazione dell'Italia; essere gli disposto ad innalzare bandiera italiana e dare ogni desiderabile guarentigia. Un giorno avanti, il 25, Napoleone III. avea però detto al Peruzzi ed al marchese di Lajatico: «Facessero conoscere alla Consulta ed ai Toscani il pieno suo gradimento per i sentimenti espressi nell'Indirizzo trasmessogli (2). Desiderare la restaurazione della Casa di Lorena, ma sentirne le difficoltà. Escludere ogni intervento. Forse potersi ottenere altra dinastia. Consigliare intanto che il Governo di Firenze esponesse all'Assemblea toscana ogni cosa, anche le offerte del Granduca Ferdinando» (3).

Le deliberazioni della Consulta toscana, alle quali si riferir va quell'Indirizzo cui l'Imperatore de Francesi formava risposta, prese nella seduta del 13 luglio, suonavano che bisognava respingere in tutti i modi il ritorno della dinastia lorenese. Attestare il suo gradimento, e volere si sapesse da ognuno, che la Consulta aveva dichiarato di non riconoscere l'impegno contratto dallo stesso Imperatore a Villafranca, equivaleva a porre in piazza quale enorme divario corresse tra quel che si era fermato in iscritto con Francesco Giuseppe, e quel che si era fermato in cuore. Dire che si desiderava la restaurazione della dinastia dei Lorena, e non dire che questa restaurazione doveva avvenire

(1)

Dispaccio del conte Walewski al marchese de Ferrière-le-Vayer, Ministro francese residente in Toscana.

(2) Monitore toscano, numero del 2 agosto 1859, pag. 4.

(3)

Dispaccio telegrafico del cav. Ubaldino Peruzzi al marchese Ridolfi in Firenze.

«Parigi 25 luglio.

» L'Imperatore ben disposto. Desidera dinastia come Walewski, ma sente anche più difficoltà. Esclude interventi. Non da speranze per annessione. Forse altra dinastia. Consiglia esporre all'Assemblea tutto, anche le offerte di Ferdinando.»

I TRATTATI DI ZURIGO 279

perché vi era impegnato l'onore della Francia; dire che verun intervento avrebbe avuto luogo, era incoraggiare, era comandare che colla resistenza disfacessero il patto di Villafranca. Insinuare la possibilità d'altra dinastia, consigliare che l'Assemblea toscana, fra pochi giorni a quest'uopo raccolta, deliberi sulle offerte del legittimo principe del paese, era suggerire ali Assemblea medesima quel che si voleva facesse, era imporle di votare la decadenza della Casa di Lorena. Un Governo che firma un Trattato, e poi vieta l'uso dei mezzi per farlo eseguire, è come un tribunale che dia una sentenza e non si curi che venga adempiuta; un Governo che firma, vieta i mezzi e insegna i modi di render nulla la firma, è come un tribunale che, data la sentenza, non vuole esso medesimo che abbia esecuzione. Nel primo caso il tribunale cade in discredito, nel secondo toglie a sé stesso il diritto che altri gli possa e gli debba prestar fede mai più.

A fronte di tali rivelazioni, di tali fatti, veniano le mostre pe' citrulli. Al Pietri aveano tenuto dietro in Firenze inviati da Parigi, prima il conte di Reiset, poi il principe Poniatowski, con incarico, diceano, di vincere le ritrosie de' Toscani a richiamare il Granduca Ferdinando; ancorché Pietri e Reiset avessero l'incarico segretissimo di ritentare qualche pratica in favore del principe Napoleone. Il 9 settembre la Francia proclama (1): «Il Governo francese lo ha già dichiarato: gli Arciduchi non saranno ricondotti nei loro Stati da una forza straniera; ma una parte delle condizioni della Pace di Villafranca non essendo eseguita, l'Imperatore d'Austria si troverà svincolato da tutti gl'impegni presi a favore della Venezia. Inquietato da dimostrazioni ostili sulla destra del Po, si manterrà in istato di guerra sulla riva sinistra, e in luogo d'una politica di conciliazione e di pace, si vedrà rinascere una politica di diffidenza e di odio. Sembra che si speri molto da un Congresso europeo;lo invochiamo noi pure con tutti i nostri voti, ma dubitiamo forte che un Congresso ottenga migliori condizioni per l'Italia. Un Congresso non domanderà che il giusto, e sarebbe egli mai giusto domandare ad una grande Potenza importanti

(1) Le Moniteur universel, numero del 9 settembre 1859.

280 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

» concessioni, senza offerirle in cambio equi compensi? Il solo» mezzo sarebbe la guerra; ma non ci ha che una sola Potenza» in Europa che faccia la guerra per un'idea: questa è la Fran» eia, e la Francia ha compito in Italia il suo incarico.» Per la Francia, si disse, era compito adunque in Italia anche il carico di mantenere la sua parola?

L'Austria insistendo nel dichiarare di non riconoscere altre basi che i Patti di Villafranca, Napoleone III. scriveva (1): «Mio Signor Fratello. Io scrivo oggi a Vostra Maestà per esporle la condizione presente degli affari, per rammentarle il passato e per mettermi d'accordo con lei sulla condotta, che deve essere tenuta per l'avvenire. Le circostanze sono gravi; è necessario lasciar da parte le illusioni e gli sterili rimpianti, e di esamina»re accuratamente la reale situazione degli affari. Così non si tratta oggi di sapere, se io abbia bene o male operato nel conchiudere la pace a Villafranca, ma piuttosto di ottenere dal Trattato i risultati più favorevoli per la pacificazione dell'Italia e per il riposo dell'Europa,

» Prima di entrare nella discussione di questa questione, io desidero vivamente rammentare ancora una volta a Vostra Maestà gli ostacoli, che resero tanto difficile qualunque negogiazione e qualunque trattato definitivo. Di fatto, la guerra presenta spesso minori complicazioni che la pace. In quella due soli interessi stanno a fronte luno dell'altro: l'attacco e la difesa;in questa al contrario si tratta di conciliare una moltitudine di interessi, sovente di opposto carattere. Questo è precisamente ciò che avvenne al momento della pace. Era necessario conchiudere un trattato, che assicurasse nella miglior possibile maniera la indipendenza dell'Italia, che soddisfacesse il Piemonte ed i voti della popolazione, e che pertanto non ledesse il sentimento cattolico, od i. diritti dei Sovrani, per i quali l'Europa portava un interesse. Io quindi credetti, che, se l'imperatore d'Austria desiderava venire ad un leale accordo con me, allo scopo di ottenere questo importante risultato, le cagioni di antagonismo, che per secoli avevano diviso i due Imperi,

(1) Lettera dell'Imperatore de' Francesi al Re Vittorio Emanuele, da Saint-cloud, il 20 ottobre 1859.

I TRATTATI DI ZURIGO. 281

» sarebbero scomparse, e la rigenerazione d'Italia si sarebbe effettuata di comune accordo e senza nuovo spargimento di sangue.

» Indicherò ora quali, a mio credere, sono le condizioni essenziali di questa rigenerazione. L'Italia dev'essere formata di più Stati indipendenti, uniti da un vincolo federale. Ciascuno di questi Stati deve adottare un particolare sistema rappresentativo e delle riforme salutari. La Confederazione allora ratificherà il principio della nazionalità italiana; avrà una sola bandiera, un solo sistema di dogane ed una sola moneta. Il centro direttivo sarà a Roma, e si comporrà di rappresentanti nominati dai Sovrani sopra una lista preparata dalle Camere, affinché, in questa specie di Dieta, l'influenza delle famiglie regnanti sospette di una inclinazione verso l'Austria venga controbilanciata dall'elemento risultante dall'elezione. coll'accordare al Santo Padre la Presidenza onoraria della Confederazione, il sentimento religioso dell'Europa cattolica sarà soddisfatto, l'influenza morale del Papa sarebbe accresciuta in tutta l'Italia, egli sarebbe permesso di dar concessioni conformi ai voti legittimi delle popolazioni. Ora il disegno, che io ho formato al momento di conchiudere la pace, può ancora essere eseguito, ove Vostra Maestà voglia impiegare la sua influenza a promuoverlo. Inoltre si è già fatto un passo considerevole in questa direzione. La cessione della Lombardia con un debito limitato è un fatto compiuto. l'Austria ha rinunciato al suo diritto di tenere guarnigioni nelle fortezze di Piacenza, Ferrara e Cornacchie». I diritti dei Sovrani furono, è vero, riservati, ma fu pure guarentita l'indipendenza dell'Italia centrale, essendo stata formalmente rigettata ogni idea d'intervento straniero; ed, infine, Venezia dovrà diventare una provincia puramente italiana. È cosa di reale interesse di Vostra Maestà, come pure di quello della Penisola, il secondarmi nello svolgimento di questo disegno allo scopo di ottenere i migliori risultati, perché Vostra Maestà non può dimenticare che io sono legato dal Trattato; e nel Congresso, che sta per aprirsi, io non posso ritirarmi dai miei impegni. La parte della Francia è tracciata già fin d'ora.

» Noi domandiamo che Parma e Piacenza siano unite al Piemonte, perché quel territorio gli è indispensabile dal punto di vista strategico.

282 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

Noi domandiamo che la Duchessa di Parma sia chiamata a Modena. Che la Toscana, aumentata, forse, da una porzione di territorio, venga restituita al Granduca Ferdinando. Che un sistema di saggia libertà venga instituito in tutti gli Stati d'Italia. Che l'Austria si sciolga francamente da cagioni incessanti d'imbarazzi per l'avvenire, e consenta a compiere la nazionalità della Venezia, creando non solamente una rappresentanza ed un'amministrazione separata, ma anche un'armata italiana. Noi domandiamo che Mantova e Peschiera debbano essere riconosciute fortezze federali. E, finalmente, che una Confederazione formata sui reali bisogni, come sulle tradizioni della Penisola, ad esclusione di qualunque influenza straniera, abbia a rassodare l'edilizio dell'indipendenza d'Italia.

» Io nulla tralascierò onde ottenere questo grande risultato. Si convinca Vostra Maestà che i miei sentimenti non cangeranno, e che, in quanto non vi si oppongano gl'interessi della Francia, io mi reputerò sempre felice di servire la causa, per la quale noi abbiamo combattuto insieme.»

Napoleone III. aveva ragione. Il giorno in cui l'Austria avesse formato co' suoi soldati veneti un esercito italiano colla bandiera tricolore italiana; che Mantova e Peschiera fossero fortezze federali, e come tali quindi sarebbero state, almeno in parte, presidiate da truppe di altri Stati confederati italiani; il giorno che la Venezia fossesi trovata in tali condizioni militari, e con separata amministrazione, l'Austria non era più, infatti, in Italia che una Potenza veracemente italiana, ed il legame della Venezia coll'Austria nulla più, alla fin fine, che un legame nominale. Tutto questo appunto l'Austria, in sostanza, aveva già accordato a Villafranca.

Venuta meno l'altra parte contraente alle stipulazioni concordate, l'Austria non aveva ornai altra alternativa che o subire la violenza, o ripigliare le armi. Ancor l'Austria poteva dire (1): «Io osservo i Trattati, a condizione che non siano violati contro di me.» Il 10 novembre tre Trattati di pace furono sottoscritti in Zurigo, l'uno tra l'Austria e la Francia, l'altro tra la Francia

(1) Proclamazione dell'Imperatore Napoleone al popolo francese, del 3 di maggio 1859.

I TRATTATI DI ZURIGO. 283

e la Sardegna, il terzo tra tutte e tre le Potenze. I due ultimi non erano che un accessorio del primo. L'Austria cedeva alla Francia la Lombardia, ad eccezione di Mantova e Peschiera, tracciata più regolare limitazione dei confini. Si stipulò di pagare all'Austria quaranta milioni di fiorini ed inoltre tre quinte parti del debito del Monte Lombardo-veneto, in totale duecento cinquanta milioni di franchi; che i soldati lombardi, formanti parte dell'esercito austriaco saranno rimandati ai loro focolari; e pagate dal nuovo Governo di Lombardia le pensioni concedute e pagate dal precedente Governo lombardo. I due Imperatori s'impegnavano di favorire la formazione d'una Confederazione degli Stati italiani, avente per iscopo di conservare l'indipendenza e l'inviolabilità degli Stati confederati, di assicurare lo sviluppo de' loro interessi morali e materiali, e di guarentire la sicurezza interna ed esterna dell'Italia a mezzo d'un esercito federale.

L'articolo 19 del Trattato tra l'Austria e la Francia suonava: «Le circoscrizioni territoriali degli Stati indipendenti d'Italia che non parteciparono all'ultima guerra, non potendo essere cangiate se non col concorso delle Potenze, che hanno preseduto alla loro formazione e riconosciuto la loro esistenza, restano espressamente riservati tra le alte Parti contraenti i diritti del Granduca di Toscana, del Duca di Modena e del Duca di Parma.» Confermare i diritti de' principi spodestati con solenne Trattato, non era più solamente dichiarare al cospetto dell'Europa che le Potenze contraenti non avrebbero favorita una annessione; ma che anzi spogliavansi della facoltà di riconoscere, se un'annessione avvenisse, la forza del fatto compiuto.

Infrattanto, mentre con una mano la monarchia sabauda sottoscriveva a Zurigo, coll'altra si stringeva alla repubblica. Nel giugno 1859 Mazzini era venuto in Toscana, viaggiatovi incolume, da allora dimoratovi incolume. Alcune lettere di lui, trovate sopra uno de' suoi, il siciliano Rosolino Pilo, misero allo scoperto un progetto mazziniano sopra Perugia. Pilo arrestato in Romagna, propalato che Mazzini se ne vivea quietamente sulle rive dell'Arno, la diplomazia si fé ad accusare presso il Governo toscano il Ministro Ricasoli o di fiacchezza o di connivenza. Il fiero Barone s'irritò dell'accusa, sguinzagliò i suoi bracchi, mandò con ordini severissimi, il 20 agosto 1859, a tutti i Delegati della Toscana

284 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

il ritratto fotografato del Mazzini; dimenticò solamente due cose, di avvertirli che quel ritratto era quello fatto a Mazzini nel 1849, e d'indicare alla Polizia ove questi alloggiava in Firenze. Non potendo battere il cavallo, si batté la sella, cacciati senza pietà da Firenze i più di coloro ch'erano in maggior colore di mazziniani impenitenti.

Due giorni appresso, il 22, Mazzini scriveva a Ricasoli una lunga lettera (1). In essa, sottoscrivendosi di lui obbligatissimo, dicevagli: «La sua proposta di una operazione militare sopra Perugia non minacciare in Toscana né Governo né popolo;persecuzioni e processi per ciò disonorare la Toscana, danneggiare la causa. Proponendo quell'operazione, aver egli inteso proporre l'unica che potesse raggiungere l'intento dell'unità d'Italia come fine del moto attuale, salvare la Toscana da una inevitabile restaurazione. Una rivoluzione o inoltra o retrocede. Le milizie regolari toscane essere minate dal malcontento; tenendole immobili, accetteranno dal Granduca promozioni dall'azione, fermenteranno e già fermentano, e un bel giorno daranno il segnale della guerra civile. un'invasione nello Stato pontificio, Roma eccettuata, che per ora deve rimanersi tranquilla, trascinerebbe Piemonte e Re nell'arena. Tra Perugia e gli Abruzzi non esistere forza capace di resistenza; otto o diecimila uomini, il nome di Garibaldi, il moto di Sicilia preparato di lunga mano, essere l'insurrezione del Regno meridionale. La sua proposta poter essere prematura e tenuta per imprudente, non mai colpevole. Egli e i repubblicani italiani non aver parlato da un anno di repubblica, aver protestato per antiveggenza contro l'alleanza col dispotismo imperiale, ma dichiarando sempre che accettavano la monarchia s'essa voleva l'unità, che avrebbero combattuto con essa e per essa.»

Bettino Ricatoli chiamò a sé il Bossini, Prefetto di Firenze. - Mazzini, gli disse, mi ha scritto. Non accetto tutte le sue idee, ma vi è del vero e del buono in quanto egli dice. Desidero parlargli, e credo e' intenderemo e renderemo un gran servizio al paese. Egli dev'essere in Firenze; trovatelo e fategli sapere quanto vi ho detto.

(1) Pubblicata da Dall'Ongaro nella Biografia di Bettino Ricasoli, seconda edizione, pag. 89-92. (1861).

I TRATTATI DI ZURIGO. 285

- II prefetto ebbe a cader dalle nuvole. - Come? Vostra Eccellenza vuoi parlare col Mazzini? Ma io ho ordine da lei di farlo arrestare. - Voi non lo farete arrestare»e non che quando io ve ne dia l'ordine, ed io parlerò con lai, come vi ho detto. - Ma, Eccellenza, io non so che Mazzini sia in Firenze. - Ciò prova soltanto che la vostra Polizia potrebbe esser fatta meglio, giacché io so quello che dovreste saper Vol. Vi dico dunque che Mazzini è in Firenze. - Ma come trovarlo? - Cercandolo. - Il Prefetto si dava le mani nei capelli. Ricasoli, venne a trarlo d'impaccio. - Del resto, soggiunse, vi aiuterò io di un consiglio. Dirigetevi a Giuseppe Dolfi.

Il Prefetto andò diritto a casa il Dolfi, domandandogli senz'altro, del dove fosse il Mazzini. - Vuoi ella burlarsi di me, signor Prefetto?, rispondeva il Dolfi sorpreso. Come può credere ch'io sappia e le dica, dove Mazzini si trova? - Scusate, caro Dolfi, doveva cominciare in altro modo. Ma che volete, il Barone mi ha detto........ cioè infine.......... il Barone è un galantuomo, io sono un galantuomo, voi siete un galantuomo, e fra tre galantuomini possiamo intenderci. Non si tratta di niente di male. Non è il Prefetto di Firenze che vi parla, è il Barone Bettino Ricasoli che vuole avere un abboccamento con Giuseppe Mazzini. - Quando sia cosi, la cosa è diversa. Farò in modo che Mazzini sappia di questo desiderio del signor Barone. Della risposta m'incarico io. - Ricasoli ricevé Mazzini nel suo Gabinetto (1); ma l'impresa era sembrata al primo prematura e troppo compromettente. Il giorno dopo, Ricasoli diceva al Prefetto (2): «Se arriva a sapersi che io abbia parlato con Mazzini, mi obbligheranno a dare la mia dimissione. Consigliatelo di allontanarsi da Firenze per non compromettermi, ed assicuratelo ch'io lo stimo. Mazzini partì da Firenze, cercando, scriveva poi, come Diogene colla lanterna, un uomo che volesse farsi iniziatore. E Ricasoli, per allontanare da sé ogni sospetto, scriveva in una Circolare ufficiale (3), che, in questo stato di cose,

(1)

Lo stesso Ricasoli il disse, tra gli altri, al conte Pompeo di Campello.

(2)

Pianciani; Dell'andamento delle cose in Italia, pag. 26.

(3) Massime generali da servire di norma alle Autorità politiche e agli Agenti diplomatici del Governo della Toscana, del 1. settembre 1859.

286 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

tutti i partiti, Mazzini stesso, dovrebbero comprendere che mantenere il paese armato, ma tranquillo e concorde, è per il Governo della Toscana una suprema necessità, ed essere quindi costretto ad opporsi con tutti i mezzi ad ogni tentativo, fosse pure in nome di idee più ardite e pia generose.»

Mazzini, in traccia del suo uomo, andò a Torino, tornò a Firenze; e da Firenze, il 20 settembre, mandava per le stampe una lettera all'indirizzo del Re di Sardegna (1). In essa, fra le altre, diceva: «Repubblicano di fede, ogni errore di re dovrebbe, s'io non guardassi che al mio partito, sorridermi come elemento di condanna alla monarchia. Ma, perché amo più del mio partito la patria, e voi potreste, volendo, efficacemente aiutarla a sorgere e vincere, vi scrivo da terra italiana. Sire, voi siete forte: forte, sol che voi vogliate, di quella vita; forte più di qualunque altro principe che or viva in Europa, dacché» nessuno ha in oggi tanto affetto della propria nazione, quanto voi potreste suscitarne con una sola parola: Unità. Nel nome dell'unità noi iniziammo e mantenemmo, privi di mezzi e d'influenza, e perseguitati, e cento volte sconfitti, tale una crescente agitazione in Italia da fare della questione italiana una questione europea, e somministrare a voi, Sire, ed ai vostri, il terreno che oggi vi frutta potenza.

» Una patria, una bandiera nazionale, un sol patto, un seggio fra le nazioni d'Europa, Roma a metropoli: è questo il simbolo. Fummo sistematicamente calunniati presso le moltitudini, noi che insegnammo ad esse in nome dell'unità, unità inevitabilmente regia se il Re la facesse, la virta della lotta e del sacrificio. Sire, volete ancora l'Italia? Osate. Il giorno in cui sarete presto per l'unità nazionale a far getto della vostra corona, quel giorno voi cingerete la corona d'Italia. I padri nostri assumevano la dittatura per salvare la patria dalla minaccia dello straniero; abbiatela purché siate liberatore.

» In nome d'Italia io vi chiamo ad una di quelle imprese nelle quali si numerano gli amici, non i nemici. La diplomazia è come i fantasmi di mezzanotte; minacciosa, gigante agli occhi di chi paventa, si dissolve in nebbia sottile davanti a chi

(1) Diritto, giornale di Torino, del 3 ottobre 1859.

I TRATTATI DI ZURIGO. 287

» le move risolutamente all'incontro. Osate, Sire. Dite a Luigi Napoleone: Io diffidai dell'Italia; accettai una pace non mia. Ma l'Italia non ha difficoltà di me, ed io sento gli obblighi che quella fiducia m'impone. Io ritratto l'accettazione. Farò, libero da ogni vincolo, ciò che Dio e la mia patria m'ispireranno. A voi non chiedo se non una cosa; l'astenervi da ogni intervento nelle cose nostre, e lasciare, come prometteste, l'Italia libera di compiere coll'opera propria l'impresa che inizi aste con me. A quel patto avrete me grato, l'Italia amica sempre alla Francia.

» Dimenticate per poco il Re per non essere che il primo cittadino. Vogliate e ditelo. Avrete tutti, e noi primi, con voi. Io repubblicano, presto a tornare a morire in esilio per serbare intatta sino al sepolcro la fede della mia giovinezza, sciamerò nondimeno coi miei fratelli di patria: Preside o Re, Dio benedica a voi.»

Mazzini desiderava che la lettera di suo pugno pervenisse in mano del Re, e con essa una seconda in cui, riconfermata la promessa di obbedienza e di appoggio, gli proponeva di spingere senza indugio Garibaldi nel mezzogiorno d'Italia, promettendogli, se questo facesse, che i repubblicani della Penisola avrebbero posto a' suoi cenni un mezzo milione di combattenti. In questa seconda lettera il Ministero torinese veniva orrendamente bistrattato. Angelo Brofferio tolse l'incarico di consegnare entrambe a Vittorio Emanuele. Brofferio, colle sue carte in tasca si presenta al Ministro Rattazzi. - Amico, gli disse entrando, vengo a parlarvi in nome della repubblica; fate una riverenza. - II Ministro sorrise; Brofferio continuò: Avete voi letto la lettera di Mazzini al Re? - l'ho letta certo, e ci ho trovato di belle cose. - Che cosa mi direste se io vi pregassi di permettermi di presentarla al Re personalmente? - Sono persuaso che la leggerebbe anch'esso volentieri. Mazzini è repubblicano; ma se egli vuole ad onorate condizioni aiutare vie più col suo partito la monarchia, perché dovremo noi ricusarlo?

La sera stessa Vittorio Emanuele chiamava presso di sé l'avvocato Brofferio. Le due lettere di Mazzini gli furono presentate. Quella del 20 settembre la sapeva già a memoria. Cominciata la lettura dell'altra, quando giunse al suggerimento di spingere

288 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

Garibaldi nell'Italia meridionale, rise allegramente, poi disse: Mandarlo? Non è questa, caro Brofferio, la difficoltà; la difficoltà è, dopo averlo mandato, di trattenerlo. - Giunto alla conclusione, Vittorio Emanuele ripigliò: Salutate Mazzini in mio nome. Ditegli che ho letto con piacere i suoi scritti, e che apprezzo molto le sue leali ed oneste intenzioni. Desidererei soltanto una cosa. - Quale, Maestà? - Mazzini mi vuoi dare cinquecentomila uomini. Ditegli che io sono più discreto. Che me ne dia sol tanto duecentocinquantamila, e vedremo. - Vorrebbe Vostra Maestà permettermi di domandare a Mazzini una conferenza per ridurre in atto pratico le sue proposte? - Ma che, interruppe il Re; si trova forse in Piemonte? - La Maestà Vostra non lo farebbe certo arrestare? - Io no certamente, rispose il Re; ma se lo sapesse l'avvocato fiscale? - Ebbene, Sire, perché il Fisco non lo sappia, se Vostra Maestà me lo permette, io inviterò Mazzini alla mia Villa la Verbanella nel Canton Ticino. Ivi tutti e tre metteremo insieme le basi della pace fra la repubblica e la monarchia, senza che una sia divorata dall'altra. - Vittorio Emanuele rise di gran cuore, approvò tutto, accordò tutto. Mezzano Angelo Brofferio, fu stretta la pace fra repubblica e monarchia, contraenti da una parte il figliuolo di Carlo Alberto, dall'altra l'uomo che ventiquattro anni addietro aveva dati mille franchi, un passaporto e un pugnale per ispegnere Re Carlo Alberto. Pegno dell'alleanza, la spedizione di Garibaldi nel mezzogiorno d'Italia era fermata.

Le proposte fatte al Ricasoli Mazzini faceva ripetere da Nicola Fabrizi al Farini Dittatore. Furono accolte. Farini assicurava del suo concorso, prometteva denaro, armi, munizioni, a patto peraltro: che non si parlasse di repubblica; che il nome di Mazzini non figurasse in nessun atto politico, né prendesse egli apertamente parte alcuna nel movimento; che le truppe avessero a spingersi innanzi dall'alto in basso e non dal basso in alto. Le tre condizioni dal Mazzini assentite, non mancava se non chi avesse osato assumere la direzione dell'impresa. Era pronto. Alle prime aperture Garibaldi, che teneva il comando in secondo sulle truppe della Lega armata dell'Italia centrale, standone comandante supremo il generale Fanti, aveva aderito. Due divisioni erano nelle Romagne sotto i suoi ordini immediati.

I TRATTATI DI ZURIGO. 289

Nullameno Garibaldi non ardì accogliere la profferta di porsi a capo della spedizione, se prima non fosse fatto certo dell'esplicito consentimento del Re di Sardegna. Questo avuto per la bocca stessa di Vittorio Emanuele, da Torino Garibaldi ritornava con segreti poteri a Bologna. Senza por tempo in mezzo, da gli ordini opportuni ai comandanti le truppe, si pone d'intelligenza con coloro che dovevano dirigere i moti rivoluzionarii negli Stati pontificii, prepara, dispone, provvede ogni cosa.

Diveniva ornai necessario che il Cipriani abbandonasse Bologna, e vi venisse il Farini. Il 9 novembre Cipriani era costretto a smettere l'ufficio, e l'Assemblea convocata affidava al Farini il Governo delle Romagne, con Modena e Parma costituenti un solo Governo, ch'ebbe nome dell'Emilia. Al Fanti, chiamato poi al Ministero della Guerra in Bologna, era succeduto nel comando in capo dell'esercito della Lega il Garibaldi. D'improvviso tutto muta. Napoleone III. dichiarava a Torino, in termini che non ammettevano replica, che disapprovava assolutamente né permetterebbe a niun patto la spedizione di Garibaldi nel Pontificio. Era troppo presto. Fu forza obbedire, Vittorio Emanuele pel primo. Mentre Garibaldi si apprestava a passare il confine, quando sulle creste dell'Apennino erano già pronte ad accendersi le cataste di legna che dovevano dare infino agli Abruzzi il segnale dell'insurrezione, cui le truppe irrompenti avrebbero fatto sostegno, i capi di corpo ricevevano dal Fanti, Ministro della Guerra, pressantissimi ordini segreti di non obbedire ai comandi del loro generale; e la vigilia del giorno fissato per incominciare il movimento, allorché già i carri de' traini erano in gran parte caricati, un telegramma chiama d'ordine del Re Garibaldi in Torino.

Il 16 novembre Garibaldi, giunto in Torino, andò difilato da Vittorio Emanuele. Uscì dall'udienza colla regia promessa che al primo momento opportuno sarebbe mandato a rivoltare Sicilia. Rassegnate le sue dimissioni, partiva tosto per Nizza, in attesa de' giorni più avventurosi. Poi, venuto a Genova, disfogava la collera contro l'imperiale signore che dalla Senna gli avea attraversato il cammino, il 28 bandendo a' suoi compagni d'arme: «La tregua durerà poco. La vecchia diplomazia sembra poco disposta a vedere le cose quali sono; essa vi considera ancora per quel branco di discordi di una volta, e non sa che germina

290 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

» in voi il seme della rivoluzione del mondo, se non si voglia lasciarci padroni in casa nostra. Per Iddio! Il sonno di chi ci vuole opprimere e manomettere non potrà essere tranquillo!Italiani, non lasciate le armi. Serratevi ora più che mai attorno ai vostri capi; mantenetevi nella disciplina la più severa. Non vi sia uno solo, che non prepari un arme per ottenere forse domani colla forza ciò che si tentenna ora concederci.»

In questo mentre nell'Italia centrale erasi fatto un altro passo verso l'unità governativa e l'annessione a Sardegna. Allorché le Assemblee di Toscana, Romagne, Modena e Parma aveano votato e mandato ad offerire a Re Vittorio Emanuele l'unione dei lor paesi allo Stato sabaudo, il Ministero torinese, dato di mano al dizionario a cercarvi una parola che salvasse capra e cavoli, trovatala, Vittorio Emanuele rispondeva alle Deputazioni: Accolgo i vostri voti. Il Ministero spiegò poi alla diplomazia che questa frase non volea dire accetto e spiegò ai rivoluzionarii che accogliere ed accettare erano perfettamente sinonimi. Guadagnato un po' di tempo con tale ripiego grammaticale, dopoché però la Lega militare, aperta violazione della Pace segnata, a Villafranca, era stata pazientemente subita dall'Austria, chiuse le Conferenze di Zurigo, parve utile salire un altro gradino, e le Assemblee nominarono il principe Eugenio di Savoia-Carignano perché governi l'Italia centrale in nome del Re eletto.

La nomina era calda calda, quando venne di Francia una rimostranza fatta da Napoleone III. al Re Vittorio, e consisteva nel dire che, coll'autorizzare il principe di Carignano ad accettare la Reggenza, il Re perderebbe il concorso della Francia, e creerebbe una situazione pericolosa pel Piemonte e pel resto d'Italia, per cui si dava il consiglio precisissimo di rifiutare. Subito convocata una straordinaria adunanza di Ministri in Torino, chiamati a pigliarvi parte Cavour, Massimo d'Azeglio, BonCompagni e Marco Minghetti, vennero a discutere qual conto s'avesse a fare delle rimostranze e de' consigli del Bonaparte. Rimostranze e consigli erano semplici cerimonie, o solenni intimazioni? Stabilito che contenevano una volontà ben espressa e imperiale, restava il secondo quesito a sciogliere: quale risposta si avesse a dare a codesta volontà dell'Imperatore che imperava in Torino. Cavour parlava altamente d'indipendenza, di dignità

I TRATTATI DI ZURIGO. 291

nazionale, d'autonomia italiana, spingendo appartiti estremi. Rattazzi, La Marmora, gli altri Ministri obiettavano: Napoleone III. avere sessantamila soldati in Piemonte pronti ad appoggiare i suoi consigli; se l'aiuto dell'Imperatore de' Francesi venisse meno, essere bella e spacciata ogni cosa, trovarsi Sardegna nel più perfetto e più ramoso isolamento, con un reame nato appena ieri» non peranco riconosciuto nel diritto internazionale europeo, con di fronte l'Austria offesa e poderosamente accampata sul Po e sul Mincio, privo di qualsivoglia efficace guarentigia da parte dell'Inghilterra contro l'intervento austriaco; moltissima gratitudine doversi al Bonaparte, che aveva servito sì bene prima di Villafranca, aveva continuato a servire da Villafranca a Zurigo, e servirà bene da Zurigo in appresso. Conchiudevano: quando l'opinione di Cavour prevalesse, ed ei si sentisse il coraggio di resistere a Napoleone III., essere prontissimi a smettere i portafogli. Occorreva dunque studiare un mezzo termine che non desse dispiacere all'Imperatore, né ai rivoluzionarii dell'Italia centrale, né a sé medesimi. Allorquando si voleva far passare il Farini Dittatore a Bologna, si avea trovato già un mezzo termine, approvato da Napoleone: il Governo dell'Emilia. Allora Napoleone non voleva che si dicesse, approvar egli l'annessione di Parma, di Modena, delle Romagne, e si sapeva che avrebbe approvata l'annessione dell'Emilia; questione di parole. Orsi rinvenne un altro mezzo termine: il principe di Carignano non risponda né accetto, accolgo: resti in Torino e mandi nell'Italia centrale un altro a governare in sua vece. Napoleone III., che ripudia il Reggente, accetterà, conchiudevano, il Vicario del Vicario, il Reggente del Reggente.

Al principe di Carignano fu solennemente proibito di accettare la Reggenza; e il principe l'accettava di fatto, anzi fe' più che accettare, perocché un semplice Reggente non poteva avere facoltà di rimettere ad altri la Reggenza. Il principe rimase dov'era, e alle Deputazioni di Toscana e d'Emilia si limitò a dire: «Potenti consigli e ragioni di politica convenienza, nel momento in cui ci si annuozia prossima l'apertura del Congresso, mi tolgono di poter recarmi in mezzo a loro per esercitarvi il mandato commessomi. Nondimeno designo il commendatore Carlo BonCompagni, perché assuma la Reggenza».

292 CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

Diceano le genti: Accettò o no? Se ha accettato, perché non va? Se non ha accettato, perché manda? Napoleone III. si acconciò allo spediente; e le Assemblee, che prima aveano chiesto il Re, poi il Reggente del Re, furono lietissime di ricevere il Reggente del Reggente del Re, in cambio del principe il commendatore. un'altra commedia.

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CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

Guerra al Papato.

Gli spedienti rispetto al Papato. - Lettera dell'Imperatore de' Francesi al Santo Padre, del 14 luglio 1859. - Secondo discorso napoleonico air Arcivescovo di Bordeaux. - L'opuscolo H Papa ed il Congresso, monumento insigne d'ipocrisia, ignobile quadro di contraddizioni. - Soluzione del problema. - L'imagine del Governo della Chiesa. - Indispensabilità della sovranità temporale del Pontefice. - La conciliazione. Né violentato, né umiliato, né subordinato. - Roma è l'essenziale, il resto non è che secondario. - II Santo Padre sovrano sui generis, salariato dall'Europa. - Un popolo di contemplativi e di antiquarii. - Onnipotenza del Congresso. - L'opera del 1808 e 1809 ripigliata. - Due Bonaparte, raffronti storici. - Napoleone III. scrive al Papa che rinuncii alle Legazioni. - Parole di Pio IX. al generale Govon. - Risposta del Pontefice alla lettera imperiale. - L'Enciclica e l'Univers. - Cicalata per monsignor Sacconi. - Gramont e AntonellL - Corrispondenza tra il Santo Padre e il Re di Sardegna; storia di Nabot ed Acab.

L

a questione della unità o assoluta o federale d'Italia non poteva risolversi senza prima fermare il partito da prendersi rispetto al Papato, supposto che questo si guardi come ostacolo essenziale a codesta unità. Per disfarsene quattro spedienti proposersi; annientarne colla violenza la sovranità; sottoporlo, come già ai tempi della dominazione bizantina, ad ogni maniera di vessazioni, di angherie, di umiliazioni, sicché divenga abbietto e moralmente esautorato; stremarlo d'ogni assistenza e d'ogni presidio straniero, per gittarlo alla balia ed alla mercé della rivoluzione; schiantarlo affatto d'Italia per confinarlo di bel nuovo nella cattività di Avignone, o trasferirlo, esempligrazia, a Gerusalemme, convertita in città libera dello Stato di Cristo. Or vi avea un quinto spediente, sistema di artifizii e di mezzi, i quali son propriamente una ragione composta dei primi tre di que' disegni: la violenza, cioè, dove manifesta e dove coperta, come torna più a conto; l'umiliazione, quando procacciata ad arte, quando imposta come sacrificio doveroso ed inevitabile; ed il non intervento, per cui si legano le mani ai difensori del Papato, si armano per contro

294 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

gli offensori, messa ogni cosa all'arbitrio della rivoluzione. Conquistato lo Stato del Papa, il pallio è nostro, la scena è finita; aveva suggerito Re Federico II. di Prussia a Voltaire (1).

Condotte le cose a tal termine, dei due grandi scopi, che l'imperiale autore dell'opuscolo U Imperatore Napoleone III. e l'Italia si aveva proposti, 1J uno, la guerra all'Austria, era già riescito per bene; l'altro, la guerra al Papato, erasi ornai con prospere sorti avviato a migliori risultamenti. La guerra all'Austria, astretta a rinchiudersi entro a' limiti del Po e del Minciò, la aveva condotta, se non a riconoscere per Trattato il principio Ii non intervento, almeno a tacitamente ammettere per forza maggiore il valore materiale del fatto compiuto. La guerra al Papato era riescita a strappare al Pontefice una delle più importanti e ricche porzioni degli Stati della Chiesa.

Segnata appena la pace, da Desenzano il 14 luglio 1859, ¥ Imperatore de' Francesi aveva senza indugio scritto al Santo Padre, per fargliene conoscere le condizioni. In essa lettera diceva: «In questo nuovo ordine di cose Vostra Santità può esercitare la più grande influenza, e far cessare per l'avvenire qualsiasi causa di commovimenti. Consenta Vostra Santità, o piuttosto de motu proprio voglia accordare alle Legazioni un'amministrazione separata, con un Governo laico nominato da lei, ma appoggiato da un Consiglio formato per mezzo d'elezione; quella provincia paghi al Santo Padre un canone fisso, e Vostra Santità avrà assicurato il riposo de' suoi Stati e potrà non aver bisogno di truppe straniere. Supplico Vostra Santità di ascoltare la voce di un figlio devoto alla Chiesa, ma che comprende le necessità della sua epoca, ed il quale ben Ba che la forza non basta per risolvere le questioni e appianare le difficoltà. Riconosco nella decisione di Vostra Santità o il germe di un avvenire di pace e di tranquillità, ovvero la continuazione di uno stato violento e calamitoso.»

(1) Correspondance; Vol. XI., pag. 99. - «Si penserà alla fucile conquista dello Stato del Papa; ed allora il pallio è nostro, e la scena è finita. Tutti i Potentati dell'Europa, non volendo riconoscere un Vicario di Gesù Cristo soggetto ad un altro sovrano, si creeranno un Patriarca ciascuno nel proprio Stato. Cosi a poco a poco ognuno si allontanerà dall'unità della Chiesa, e finirà coll'avere nel suo regno una religione, come una lingua a parte.»

GUERRA AL PAPATO. 295

Così la richiesta del Vicariato nelle Romagne, fatta fare da Cavour nel 1856 al Congresso di Parigi, per la prima volta era detta per bocca di un Imperatore, minacciante: Santo Padre! 0 questo accettate di buona grazia, o continueranno rispetto a voi violenze e calamità.

Pio IX. rispose quanto doveva rispondere. un'amministrazione separata con Consiglio formato per elezione, con non altra dipendenza dal Pontefice che l'averne un Governo laico e pagargli une redevance, equivarrebbe ad un'abdicazione assoluta, salvo una certa suzemineté, la quale nei tempi attuali non poteva avere effetto veruno. Vanamente da combinazione sì fatta si aspetterebbe la cessazione d'ogni turbamento, la sicurezza del riposo al rimanente dello Stato, il germe di un avvenire di pace e di tranquillità, quando vi sarebbe piuttosto a temere precisamente il contrario. Ad un'abdicazione qualunque non potere il Pontefice consentire. Non poterlo, perché gli Stati pontificii non sono proprietà sua personale, ma appartengono alla Chiesa. Non poterlo, perché con solenni giuramenti ha promesso innanzi a Dio di trasmetterli a' suoi successori, intatti e quali li ricevette. Non poterlo, perché le ragioni di rinunziare alle Romagne, potendosi applicare od anche creare pel rimanente de' suoi Stati, il rinunziare a quelle sarebbe implicitamente rinunziare in certo modo al tutto. Non poterlo, perché, padre comune delle sue ventuno province, o deve a tutte render comune il bene che vedesse necessario per le quattro province delle Romagne, o non deve permettere per queste il danno che non vorrebbe imposto a tette.

Nel settembre, il Re delle Due Sicilie offerse alla Santa Sede i suoi battaglioni per riconquistarle le Romagne; un esercito napoletano si andò. ragunando negli Abruzzi sotto gli ordini del generale Pianelli. Quel disegno si collegava alla restaurazione del Granduca di Toscana per mano degli Austriaci. Ai primi dell'ottobre il Papa assentì (). Ma quando l'Imperatore

(1) Dispacci telegrafici, in cifra e riservatissimi, del Ministro delle Due Sicilie in Roma, commendatore De Martino, al Ministro degli affari esteri in Napoli.

296 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

Napoleone vide come, in onta a tutte le di lui opposizioni, Napoli stava in sull'operare davvero, fece rimettere a Pio IX. una formale dichiarazione, sottoscritta dall'Ambasciatore francese, Duca di Gramont, con cui la Francia disse: No, farò io.

In questo mezzo, a quella guisa che negli annali del secondo Impero francese un discorso, rimasto famoso, pronunziato da Luigi Napoleone ancora presidente della Repubblica, il 9 di ottobre 1852 in Bordeaux, preludeva all'Impero, colle sue dichiarazioni rimovendo gli ostacoli che potesse ancora incontrare, sia da parte de' Francesi, sia da parte della diplomazia; non diversamente un altro discorso egualmente famoso nella storia di Napoleone III., recitato egualmente a Bordeaux, doveva preludere a quella nuova fase della politica francese a Roma, nella quale, ritenendo ancora una parte dell'antico stile di rispettosa e sincera devozione verso il Santo Padre, si avrebbe appianata ed assicurata la via alle violenze e alle frodi. Il 12 ottobre 1859 il Cardinale Arcivescovo di Bordeaux si presentava a capo del clero per dirgli: «Otto anni fa, i miei sacerdoti ed io, noi pregammo per colui che avea ristabilito sulla fronte della Chiesa e del sacerdozio quella onorifica aureola, cui loro volevasi

«Albano, 9 ottobre 1859. - Ritorno in questo punto dall'udienza del» Santo Padre a Castello. Sua Santità mi ha conceduta l'autorizzazione» del passaggio eventuale delle nostre truppe sul territorio romano nella linea parallela al Tronto. Questo accordo rimanga segretissimo.»

«Roma, 15 ottobre 1859. - Ho avuto in questo punto confermata dal Cardinale Antonelli la risposta che Sua Santità m'aveva dato ieri sul passaggio eventuale delle nostre truppe per il territorio pontificio. Sua Eminenza ha dato quindi l'ordine al telegrafo di Ascoli d'intendersi verbalmente su tale assunto col Generale comandante il Regio esercito. Questo accordo verbale deve essere mantenuto segretissimo. All'Eccellenza Vostra non isfuggirà certamente tutto il partito che i rivoluzionarii potrebbero trame.»

Il generale comandante il corpo d'esercito napoletano, quell'Enrico Pianelli che avea presieduto al processo di Agesilao Milano (Vol. I., pag. 202-203), già venduto al Piemonte, non appena ebbe le secrete istruzioni del suo Governo, informò di tutto i suoi padroni di Torino. Fu allora che Napoleone fece dare alla Corte di Roma l'assicurazione: «I Napoletani non si muovano; al riacquisto delle Legazioni provvederebbe la Francia.» Rimosso il pericolo, si dirà (31 dicembre 1859), che i fatti hanno una logica inesorabile, e così tutto resti com'era.

GUERRA AL PAPATO. 297

» togliere, e che avea inaugurato i suoi grandi destini, rendendo al Vicario di Cristo la sua città, il suo popolo, l'integrità del suo potere temporale. Oggi, o Sire, noi preghiamo ancor più con fervore, s'egli è possibile, affinché Dio vi fornisca i mezzi di rimaner fedele a quella politica cristiana, che fece benedire al vostro nome, ed è forse il segreto della prosperità e la sorgente delle glorie del vostro regno. Preghiamo con ostinata confidenza, con una speranza, cui non hanno potuto disanimare eventi deplorabili e sacrileghe violenze. Voi ancor volete esserlo, Sire, figlio primogenito della Chiesa. All'immacolata Patrona di questi luoghi voi scioglierete il debito della riconoscenza, procurando un trionfo al suo figlio nella persona del suo Vicario. Degno di voi è questo trionfo, o Sire; esso porrà un termine alle ansietà del mondo cattolico, che lo saluterà con trasporto.»

La ringrazio, rispondeva Napoleone III., di aver ricordato le mie parole, perché ho ferma speranza che un'èra novella di gloria sorgerà per la Chiesa il giorno in cui tutto il mondo parteciperà alla mia convinzione che il potere temporale del Santo Padre non è opposto alla libertà ed alla indipendenza d'Italia. Il Governo che ha ricondotto il Pontefice sul suo trono non potrebbe suggerirgli altro che consigli ispirati da una sincera e rispettosa divozione a' suoi interessi; ma egli si attrista con ragione del giorno, che pur non è lontano, in cui Roma sarà sgomberata dalle nostre truppe. Poiché l'Europa non può permettere, che l'occupazione, che dura da dieci anni, si prolunghi indefinitamente; quando il nostro esercito si ritirerà, che lascierà egli dopo di sé? L'anarchia, il terrore o la pace? Ecco questioni, la cui importanza non isfugge a persona. Ma, creda pure, nei tempi in cui viviamo, per risolverle bisogna, invece di fare appello alle ardenti passioni, ricercare con calma la verità e pregare la Provvidenza d'illuminare i popoli ed i Re sopra il saggio esercizio de' loro diritti come sopra l'estensione de loro doveri.»

Questo discorso di Napoleone III., osservava alcuni giorni appresso il Morning Post, l'organo di lord Palmerston, della Massoneria e della rivoluzione, «questo discorso dichiara categoricamente che l'Impero è la riforma papale.

298 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

» Il conflitto adunque cangia oggidì d'arena. Non si tratta più d'una lotta tra l'Italia e l'Austria, ma tra la Francia imperiale e Roma papale,» Lotta tra l'agnello e il leone, di cui pensavano non avrebbe potuto rimanere in forse l'esito, dopo che si aveva udito mille volte ripetere da' miscredenti che l'Eglise a fait son temps, che le sue folgori sono spuntate, le sue pergamene tarlate, le sue solennità comparse da teatro, il Papato un cadavere senza vita, una mummia ad uso degli archeologi, il Pontefice una reliquia del medio evo, il suo trono in Vaticano una di quelle bertesche crollanti, che dall'alto dei gotici castelli sembran minacciare al mondo la guerra, e minacciali ruina per so.

Come alla vigilia delle ostilità in Italia si avea mandato pel mondo quell'opuscolo affinché fosse programma politico e manifesto di guerra ad un tempo, alla vigilia della riunione del Congresso, nell'ora stimata opportuna per far prendere pia chiaro aspetto alla questione romana, facea di mestieri che un altro opuscolo, a quella guisa che il libretto si distribuisce innanzi alla rappresentazione del dramma, venisse a mettere all'aperto, senza gergo, i più riposti divisamenti intorno al Pontefice, e di rimbalzo mandasse a monte il Congresso; uno scritto che rivelasse qual fosse il senso vero delle imperiali parole di Bordeaux: «l'era novella di gloria che sarebbe sorta per la Chiesa, i consigli ispirati agl'interessi del Papato, la verità ricercata con calma, la Provvidenza che illumini i Re sopra l'estensione dei loro doveri.» Dopo le violenze i sofismi, cui terranno dietro altre violenze, che più tardi cederanno il posto ad altri sofismi.

L'anno 1859 stava per chiudersi. Pochi giorni prima del Natale, il coro de' portavoce ufficiosi annunciava in Parigi l'arrivo del Messia in un nuovo opuscolo, avente a titolo: Il Papa e il Congresso; né i Profeti dell'antico Testamento usarono mai, per far sapere la venuta del vero Messia, formule più enfatiche. Al pari del precedente il nuovo scritto compariva senza nome di autore, perocché, siccome scrisse il più entusiastico de suoi tubatori (1), i libelli non sogliono essere sottoscritti da nessuno. Or come gli stessi annunzi pomposi aveano lastricata a quel

(1) Il Constitutionnel del dì 4 gennaio 1860.

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primo la via, Il Papa e il Congresso, questa scrittura che in tempi ordinarii non avrebbe eccitato alcun commovimento, neppur destata la pubblica attenzione, sbozzato dalla stessa mente che l'opuscolo L'Imperatore Napoleone III. e l'Italia, incarnato dalla stessa penna, corretto dalla stessa mano, stampato nella stessa officina, aveva avuto col fratello maggiore comuni le origini. II Papa e il Congresso ben vale un esame, che dispenserebbe di molte parole in appresso. Chiave di volta di tutto l'edifizio, egli illumina l'intero sistema, snebbia credute incertezze e simulate oscurità, decifra enigmi apparenti, spiega tutto, insino al fine riposto della sì tanto controversa Convenzione del 15 settembre 1864.

Preludeva con dire: «Vogliamo studiare, come cattolici sinceri, una questione che fu imprudentemente trattata con passione. Fra coloro che, detestando il potere temporale del Papa, invocano a gran voce la sua caduta, e coloro i quali non vogliono che sia toccato, e' è luogo per un'opinione meno esclusiva in un senso o nell'altro, egualmente rispettosa per i diritti dei popoli e per gl'interessi della religione. Il potere temporale del Papa è necessario all'esercizio del suo potere spirituale? La dottrina cattolica e la ragione politica si accordano nel risponde re affermativamente. Secondo il punto di vista religioso, è essenziale che il Papa sia sovrano: secondo il punto di vista politico, è necessario che il capo di duecento milioni di cattolici sia indipendente, che non sia subordinato ad alcuna Potenza. Il potere spirituale, che ha sede in Roma, non può spostarsi senza indebolire le basi del potere politico, non solamente negli Stati cattolici, ma in tutti gli Stati cristiani. Importa all'Inghilterra, alla Russia, alla Prussia, come alla Francia ed all'Austria, che il rappresentante dell'unità del cattolicismo non sia né violentato, né umiliato, né subordinato. Roma è il centro di una potenza morale troppo universale, perché non sia nell'interesse di tutti i governi e di tutti i popoli che ella resti immobile sulla pietra sacra, cui nessuna scossa potrebbe rovesciare. Ma come il Papa sarà nel medesimo tempo Pontefice e Re? Questo è il problema da sciogliere, problema difficile.»

Per l'autore però è facilissimo. «C'è», egli continua», in qualche maniera antagonismo fra il principe ed il pontefice

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» confusi nella medesima persona. Non c'è al mondo una costituzione che possa conciliare esigenze tanto diverse. Questo fine non potrà essere raggiunto né colla monarchia, né colla repubblica, né col dispotismo, né colla libertà. Il potere del Papa non può essere che un potere paterno: deve somigliare piuttosto a quello della famiglia, che a quello dello Stato. Quindi, non solamente non è necessario che il suo territorio sia molto esteso, ma anzi necessario che sia ristretto. Quanto più il territorio sarà piccolo, tanto più il sovrano sarà grande. Infatti un granii de Stato porta seco alcune esigenze cui è impossibile che il Papa soddisfaccia; vorrà vivere politicamente, perfezionare le sue instituzioni, partecipare al movimento generale delle idee, trar partito dalle conquiste delle scienze, dai progressi. Dello spirito umano. Non potrà farlo. Bisognerà che si rassegni a restare immobile, ovvero che si agiti e si rivolti. Il potere temporale del Papa, in queste condizioni, non potrà mantenersi senza una occupazione militare austriaca o francese, che lo protegga. Trista condizione invero, perché ogni potere il quale non vive della confidenza pubblica, non è un'instituzione, è uno spediente. La Chiesa, invece di trovare in questo potere una condizione d'indipendenza, non ci troverebbe che una causa di discredito e d'impotenza. La Francia non può voler questo. Il potere temporale del Papa è dunque necessario e legittimo, ma è incompatibile con uno Stato di qualche estensione. E un governo sui generis, che si avvicina più all'autorità della famiglia, che all'amministrazione di un popolo. Bisogna che il Papa abbia abbastanza territorio per non essere suddito egli stesso, e per essere sovrano nell'ordine temporale, ma non bisogna che questa sovranità l'obblighi a rappresentare una parte politica. Si può ammettere che esista in Europa un cantuccio di terra in cui non penetrino le passioni e gli interessi che agitano gli altri popoli, il quale sia unicamente consacrato alla gloria di Dio. In questo angolo di terra illustrato dalle più grandi memorie storiche, il centro dell'unità cattolica ha preso il posto alla capitale del mondo. Roma ha un destino eccezionale, Roma appartiene al capo della Chiesa. Se ella fuggisse di mano a questo augusto potere, perderebbe subito tutto il suo prestigio; la libertà le torrebbe il suo retaggio.

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» Nulla v'ha di più semplice di pili legittimo e di più essenziale che il Papa seduto in trono a Roma col possedimento di un territorio ristretto. Per soddisfare ad un così alto interesse, ben si ponno sottrarre alcune centinaia di mila anime alla vita delle nazioni, senza però sacrificarle, e dando loro sicure guarentigie di benessere e di protezione sociale. Per noi adunque il governo temporale del Papa non è altro che l'imagine del governo della Chiesa. Una volta che l'ampio sviluppo della vita municipale sciolga la sua responsabilità dagl'interessi amministrativi, egli può mantenersi in una sfera al di sopra della manipolazione degli affari. Membro della Confederazione italiana, lo protegge l'esercito federale. Un esercito pontificio non altro deve essere che un'insegna d'ordine pubblico; ma se avviene che s'abbiano a combattere nemici esterni od interni, non s'addice al capo della Chiesa di sguainare la spada. Insomma vi sarà in Europa un popolo che avrà a capo meno unre che un padre. Questo popolo non avrà rappresentanza nazionale, non esercito, non libera stampa, non magistratura. Tutta la sua vita pubblica sarà come entrata nella sua organizzazione municipale; al di là di quest'angusta cerchia non altro vi sarà per lui che la contemplazione, le arti, il culto delle ruine, e le preghiere. Sarà un governo di pace e di raccogli» mento, una specie d'oasi, a cui le passioni e gl'interessi della» politica non giungeranno, e che solo avrà dinanzi la dolce e tranquilla vista del mondo spirituale.

» Certo che in questa condizione eccezionale v'ha qualche cosa di doloroso per uomini che si vedono condannati all'inerzia. È questo un sacrificio che pur si deve domandare ad essi, mirando ad un interesse di un ordine più elevato, dinanzi al quale gl'interessi privati devono tacere. D'altra parte, se i sudditi del Papa sono sottratti alle faccende della vita politica, ne avranno un compenso in una amministrazione tutta paterna, in alleviamenti d'imposte, nella grandezza morale della loro patria, nella presenza d'una Corte, il cui splendore, necessario alla duplice maestà di pontefice e di principe, sarà sostenuto da tributi che pagheranno generosamente le Potenze cattoliche d'Europa. Il Papa infatti è sovrano spirituale di tutti i fedeli, né sarebbe giusto che le spese necessario alla maestà della Chiesa

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» venissero tutte addossate alle popolazioni de suoi Stati. Così il bilancio del Santo Padre non sarà esclusivamente romano; sarà internazionale, come la sua autorità.

» La Romagna da alcuni mesi è separata di fatto dall'autorità del Papa. Questa separazione adunque ha per sé l'autorità del fatto compiuto. Sarà necessario restituire la Romagna al Papa? Per isciogliere tale questione non vogliamo consultare che l'interesse medesimo del Papato, non cerchiamo altro che quanto può tornar utile alla Chiesa. Non abbiamo ad occuparci del diritto che le popolazioni delle Romagne possono avere di darsi un altro governo. È, o non è utile, alla gloria della Chiesa, all'autorità del suo Capo che la Romagna sia restituita al Santo Padre? Malgrado la cessione fattane nel 1796 dalla Santa Sede, la Romagna è un possedimento più che legittimo del governo pontificio. L'insurrezione di quegli abitanti contro il Papa è adunque una ribellione contro il diritto legale e contro i Trattati. In virtù appunto dei Trattati, la Romagna fu restituita nel 1815 al Papa. Finché questi Trattati sussistono, è incontrastabile il diritto che ha il Papa di rivendicare una parte del suo territorio sottratosi alla sua sovranità. Ma il Papato e la religione sono forse interessati a questa rivendicazione?

» Il distacco delle Romagne non porta detrimento al potere temporale del Papa. Il suo territorio è impicciolito, ma la sua autorità politica non s'affievolisce già, ben s'ingrandisce moralmente. Che cosa fruttano al prestigio, alla dignità, alla grandezza del sovrano Pontefice le leghe quadrate incastrate ne' suoi Stati? Gli abbisogna forse spazio per essere amato e venerato? Forse che le sue benedizioni o i suoi ammaestramenti non sono la più potente manifestazione del suo diritto? Forse ch'egli non ammaestra e non benedice il mondo intero? 0 che comandi a pochi, o che comandi a molti, di ciò non è questione. L'importanza del Papa non risulta dalle ventuna provincia che possiede presentemente. Bologna, Ancona e Ravenna, separate da Roma, per mezzo d'una catena di montagne, nulla aggiungono allo splendore di Roma.

» Poiché l'Austria si fu ritirata da Bologna, ne conseguì la caduta dell'autorità pontificia. Senza dell'Austria questa autorità non può né rilevarsi, né tenersi in piedi. Col rendersi le

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» Romagne al Santo Padre, non gli si darebbero adunque sudditi rispettosi, sommessi ed affezionati, non gli si darebbero che nemici del suo potere, decisi a fargli opposizione, e che la sola forza potrebbe contenere. Con ciò che vi guadagnerebbe la Chiesa? Per qualche centinaio di migliaia di abitanti restituiti all'autorità temporale del Papa, la sua autorità spirituale riceverebbe una offesa mortale.

» Supponiamo che la Chiesa non tema un tal danno, che vogliansi restituire le Romagne al governo pontificio. Che via dovrassi tenere? Forse colla persuasione, coi buoni consigli?Ma questo mezzo è stato esaurito. L'Imperatore de' Francesi ha usato di tutta la sua autorità morale per calmare gli spiriti;egli non ha potuto riuscirvi, e la sua influenza è venuta meno innanzi all'impossibile. Dunque non resta che un mezzo solo:la forza. E se si adopera, chi sarà incaricato dell'esecuzione? É forse la Francia? È forse l'Austria? Vero è che la Francia ha restituito Pio IX. a Roma, ed è già questa una disgrazia per la Chiesa. Ma Roma è in una condizione tutta eccezionale, che mostra a chiarissime note il suo destino. Ella non potrebbe sfuggirlo, la sua sorte è invariabile; così vuole la civiltà, la storia, lo stesso Dio. Ciò che è necessario per Roma, sarebbe possibile per le altre città degli Stati Romani? Chi sarebbe incaricato di operare questa restaurazione forzata? La Francia! Ma essa noi può. Nazione cattolica, non assentirebbe a vulnerare sì gravemente la potenza morale del Cattolicismo;nazione liberale, non saprebbe obbligare i popoli a subire governi ai quali ripugna la loro volontà. Essa ha esauriti i suoi sforzi diplomatici per riconciliare tra loro e principi e popolazioni.

» Ma se la Francia non può intervenire, lo potrebbe l'Austria? Il dominio dell'Austria in Italia è finito. Essa non pretende a ciò. La Francia, non potendo da sé intervenire al ristabilimento dell'autorità temporale del Papa nelle Romagne, non può tampoco permetterlo all'Austria. Quale sarebbe dunque il braccio che sottometterà le Romagne? Non ve ne ha che un solo, cui potrebbe spettare tal parte, ed è Napoli. Ma ciò non sarebbe possibile. Il Regno delle Due Sicilie è profondamente agitato da uno spirito, che non permette al suo governo

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» di tentare diversione alcuna sugli Abruzzi. Esso ha bisogno di tutte le sue forze per iscongiurare i pericoli interni, e si esporrebbe a una rivoluzione. Alla vista del Re di Napoli, campione dell'Assolutismo, leverebbesi il Re di Piemonte, palladio della libertà dei popoli.

» Un solo intervento è regolare, efficace e legittimo: quello dell'Europa intera riunita in Congresso per decidere tutte le questioni relative a rimpasti territoriali ed alle revisioni dei Trattati. Il Congresso di Parigi ha pieni poteri per cangiare quanto fa fatto nel Congresso di Vienna. L'Europa, riunita a Vienna nel 1815, diede le Romagne al Papa; l'Europa, riunita a Parigi nel 1860, può decidere altrimenti. Nel 1815 si disponeva delle Romagne; nel 1860, se non si rendono al Papa, non si farà che sanzionare un fatto compiuto. Si dirà forse che il territorio del Papa è indivisibile. È questo un errore smentito dalla storia. Non vi ha territorio che abbia subiti maggiori cangiamenti quanto il patrimonio di San Pietro. Nel 1796 Pio VI., a Tolentino, cedeva alla Francia le Romagne e i diritti che poteva avere sulle città e i territorii di Avignone e Venaissin, che formano oggi il Dipartimento di Valchiusa. Dunque il territorio degli Stati della Chiesa non è più indivisibile di quello che non sia invariabile l'estensione di esso territorio. Come tutti i possessi, anche questo si estende o si restringe. Sola l'autorità spirituale del Papa è immutabile. L'Europa, che ha potuto sacrificare l'Italia nel 1815, può salvarla nel 1860. Il diritto è lo stesso; trattasi solo di applicarlo meglio.

» Il Congresso riconosca, come un principio essenziale dell'ordine europeo, a necessità del potere temporale del Papa. È questo per noi il punto capitale. Il principio ha maggior valore del possesso territoriale più o meno esteso. Quanto a un tale possesso, la città di Roma ne riassume la maggiore importanza; il resto non è che secondario. È necessario che Roma e il patrimonio di San Pietro siano guarentiti al sovrano Pontefice dalle grandi Potenze con una rendita considerevole, che gli Stati cattolici pagheranno come tributo di rispetto e di protezione al capo della Chiesa. È necessario che una milizia italiana, scelta fra l'esercito federale, assicuri la tranquillità el? inviolabilità della Santa Sede. È necessario che una libertà

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» municipale, larga quanto più è possibile, sciolga il governo pontificio da tutti i particolari della amministrazione, e accordi di tal guisa una parte di vita pubblica locale a coloro che sono privati della vita politica. È devoluta al Congresso quest'opera di trasformazione, resa ornai necessaria per consolidare l'autorità temporale di Roma. Istituzione divina, il Papato nulla ha a temere degli uomini; esso è eterno.

A che illudersi più oltre? Il potere temporale del Papa è seriamente minacciato nelle condizioni in cui oggi si trova. È una grande sventura, che deploriamo dal profondo del cuore;ma è altresì un grande pericolo, che gli uomini religiosi hanno debito di scongiurare per il bene della Chiesa, e gli uomini politici pel bene dell'Europa. La Santa Sede riposa sovra un vulcano, ed il Papa è minacciato incessantemente da una rivoluzione. È questa una situazione deplorabile, che solamente l'accecamento e l'imprevidenza possono voler prolungare, ma che un saggio e rispettoso attaccamento deve cangiare al più presto. Questo cambiamento è necessario, è urgente. Non si tratta d'impicciolire il patrimonio di San Pietro, si tratta di salvarlo. L'Imperatore Napoleone III. ha compreso, che il potere temporale del Papa, ristaurato nel 1849 e protetto dappoi dalle sue armi, era seriamente minacciato nelle condizioni della sua esistenza politica; ha compreso che bisognava salvare il Papato, liberando l'Italia. Dio benedisse il suo disegno; ma la sua gloria rimarrebbe sterile, se non guarentisse alla Chiesa la sua sicurezza e la sua indipendenza. Possa egli avere l'onore di riconciliare il Papa col suo popolo e col suo tempo.»

Ben di rado occorsero pagine in cui i sofismi, le più manifeste contraddizioni, le più palpabili assurdità fossero poste dall'autore come dottrine con maggiore confidenza in so stesso o con una coscienza più sicura della propria destrezza e della semplicità de' suoi lettori. Fra i lenocinii d'una fraseologia artifiziosa proclamava siccome principio fondamentale la necessità, la legittimità ed il possesso riconosciuto della sovranità temporale del Papa; sovranità ammessa come condizione di sicurezza por l'indipendenza della Santa Sede, e per ciò come non vincolata alla libera adesione dei popoli, sicché niuno poteva giustamente costringere il Papa a cedere; ma, convenuto appena che il potere

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temporale del Papa è indispensabile, nel medesimo tempo si studiava provare eh esso è impossibile. Millantandosi cattolico sincero, non parlando se non del suo rispetto e del suo amore per la Chiesa, e di non iscrivere che per salvarla, esaltava il carattere divino del Pontefice, ma per farne un argomento contro il potere del sovrano. Non si poteva confessare più esplicitamente la necessità imperiosa di questo potere per la libertà e per l'onore della Chiesa; ma non si potevano eziandio tentare sforzi maggiori per dimostrarne l'impossibilità sotto ogni aspetto, politico, morale, spirituale; maggiori sforzi per persuadere il lettore esservi antagonismo fra il principe ed il Pontefice confusi nella medesima persona, tale un antagonismo che veruna forma di governo varrebbe a togliere, né monarchia, né repubblica, né dispotismo, né libertà.

Posto codesto assioma della indispensabilità del potere temporale, sponeva dottrine le più ripugnanti tra loro: possibile la conciliazione tra coloro che tatto vorrebbero tolto al Papa, e coloro che tutto vorrebbero conservargli; potere il Papa e dover essere sovrano di Stato piccolo, non di Stato grande, ma sovrano senza parte politica; non dovere il Pontefice essere né violentato, né umiliato, né subordinato. Per conciliare la salvezza del patrimonio colla libertà dei popoli, si tolgano al Pontefice le Romagne perché sono ribelli, le Marche perché sono al di là dell'Appennino, il rimanente perché nessuno vi bada, ed il principato civile della Chiesa si riduca a Roma e un po' di terreno all'intorno; conciliazione ingegnosa, ancorché non abbia il merito della novità. Misurando alla stregua della pertica la capacità al governo de' popoli, pianta una teoria di tutta sua invenzione: esservi esigenze che il Papa sovrano di Stato più esteso non può soddisfare, laddove con Stato ristretto può renderle paghe: melensa menzogna sbugiardata dalla storia, dopo che per dodici e più secoli di governo temporale i Papi fecero meravigliare ed illuminarono l'Europa colla sapienza del loro reggimento, dopo che dalla sede appunto dei Papi, lo ha confessato Voltaire, derivarono all'Europa le migliori sue leggi, quasi tutte le sue scienze e le sue arti, il suo incivilimento. Gettargli sulle spalle uno straccio di porpora, mettergli in pugno uno scettro di canna, e cosi lasciarlo Re, ma da Re da burla, Re che per vivere abbisogna del

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denaro altrui, Re che per difendersi abbisogna dei soldati altrui, Re che non regna e non governa, e sta in Roma retta a repubblica dal Municipio) ecco ciò che tuoi fare del Papa l'autore dell'opuscolo.

Il Pontefice, affermavasi, non dev'essere né violentato, né umiliato, né subordinato. Perché egli non sia violentato, gli si toglierà per violenza una parte de' suoi Stati, lo si assicurerà che per violenza ne perderebbe altri, per violenza a niuno sarebbe permesso di dargli mano a riaverli, per violenza gli cambierebbero in mano lo scettro regale nella canna del Nazareno; e quand'egli non fosse stato pago della bella parte che gli riservavano, gli si farà capire senza gran giri che gli si toglierà a dirittura anche quella insultante finzione di sovranità, che per a tempo gli avrebbero di presente lasciata. Perché non sia umiliato, si comincia con sanzionare i richiami, veri o falsi che fossero, dei sudditi contro il Governo pontificio, con che il Papa resti rimpetto ai sudditi che gli si lasciano, con una promessa di meno ed una debolezza di più, in mezzo agli stessi nemici, agli stessi pericoli fatti più gravi; lo si mette nella posizione di un padre di famiglia, cui i figli fanno interdire come incapace, pagandogli una pensione, senza tribunale però che ve li costringa se mai qualcuno di essi negherà più tardi di pagare la sua parte. Si vuole da lui uno smembramento che non sarebbe una soluzione, ma bensì uno spediente, il quale non salva nulla e fa pericolare ogni cosa; gli s'impone un sacrificio, senza alcun guadagno, di diritti incontestabili e di principii capitali. Si esige da lui, nelle congiunture in cui la si pretende, una decadenza morale, cui ben tosto, vogliasi o no, terrebbe dietro una rovina compiuta ed inevitabile; infine gli si domanda un pegno, non d'ordine e di pace, ma di turbamento e di guerra. Perché non sia subordinato, perché sia indipendente, lo riducete a non essere padrone di nulla; ad essere, per vivere, alla discrezione di tutti. Alla discrezione de' suoi sudditi romani, se si ribellano; alla discrezione del Municipio, se il Papa gli viene in uggia; alla discrezione dell'esercito federale, il quale, se un bel dì la coscienza obbligasse il Papa a contrariare la Federazione, al primo segnale di questa lo metterà in Castel Sant'Angelo; alla discrezione della Francia e di tutte le Potenze che avessero con essa assunto l'obbligo di pagargli la pensione.

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Perché non sia dipendente, se ne fa tal principe che l'ultimo dei sagrestani è al presente ben più assai indipendente.

Per la prima volta si aveva avuto il coraggio di dire tutta intera la parola: Roma è l'essenziale, il resto non è che secondario; Roma coi giardini del Vaticano. Questa parola, pronunziata a fìor di labbro, la si sapeva, la si aspettava. Perocché, dice lepidamente l'imperiale autore del libello: A che servono per la grandezza del Sommo Pontefice le leghe quadrate? Ha forse bisogno di spazio per essere amato e venerato? Più il territorio sarà piccolo, più il sovrano sarà grande. A Roma il Papa regnerà, ben inteso di puro nome, il Comune governerà; così la Chiesa sarà più perfetta ed i Pontefici stessi saranno più santi. Il potere temporale dei Papa è riconosciuto legittimo, è proclamato indispensabile, ma non è possibile se non in quanto porti con sé la rinunzia all'esercizio dei doveri e dei diritti del sovrano; non è possibile se non qualora questo sovrano non tenga in piedi un esercito, non sia che imagine di governo senza codice e senza giustizia, senza giustizia che si trova eziandio nell'inferno, poiché dev'essere governo di padre, poiché deve stare immobile sulla sua pietra sacra. Napoleone I. aveva detto altresì: «11 potere temporale é d'impaccio al Papa;» lo impedisce di occuparsi della salute delle anime, che si perdo» no.» Si sa quel che avvenne. Quanto alla immobilità del Papa, se vi ha l'immobilità del termine che giammai non si muove, vi ha pure la gloriosa immobilità del sole fissato nel centro del mondo, che anima tutto, che tutto rischiara, e intorno al quale si compiono tutti i più splendidi movimenti, intorno al quale il mondò cammina, senza che la luce resti mai indietro; ecco l'imagine del oattolicismo (1).

Il Papa dev'essere sovrano, ma in tutte cose un sovrano sui generis; un sovrano senza esercito. Certamente che senza esercito durò molti secoli, e viveva allora molto onoratamente in Europa e nel mondo; oggidì però che i suoi nemici gli vogliono tutto rubato; e, soffocata ogni nozione del retto e dell'onesto, ogni arte ed ogni mezzo si usano per ispingerne a ribellione i sudditi o per invaderne armata mano i territorii, il diritto di legittima difesa gli si deve negare, negare di tenere un esercito,

(1) Dupanloup; Réponse à la brochure Le Pape et le Congrès.

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non per offendere, ma per ripararsi dalle offese e proteggere l'ordine pubblico. Starà a sua custodia l'esercito federale; burlesca proposizione in momento in cui da ognun si sapeva come la Confederazione, nata morta a Villafranca, era stata sepolta debitamente a Zurigo. L'esercito federale a Roma non altro voleva dire che i soldati di Re Vittorio Emanuele posti a guardia del Vaticano.

Provveduto alla milizia che a segno d'onore gli presenti l'arma quand'esca a passeggio, l'opuscolo conferiva al Papa, quanto al capitolo della pecunia, l'indipendenza del prigioniero. Per coronide del sistema, il Papato sarà salariato dall'Europa, come i curati dello Stato; un salariato che non può nemmeno cangiar padrone, indipendente quanto un gastaldo, un operaio, un famiglio, il quale, avendo da voi di che campare la vita e non lo potendo avere da altri che da voi, può da oggi a domani essere messo sul lastrico con niente più che negargli la consueta mercede. Il Papa sarà trasformato nel primo e grande impiegato del culto cattolico, a cui si potrà a un bisogno, in dato giorno ed in data congiuntura, negare il suo trimestre; un impiegato, il quale al primo atto della Caria romana che ad un Governo straniero non andasse a versi, alla prima pretensione a cui il Pontefice dovesse ricusarsi, si vedrebbe senza più negato ciò che gli si deve in quest'anno, e gettato in viso, a titolo d'ingratitudine, ciò che fu dato negli anni precedenti.

Poi, il Papa dovendo essere un sovrano affatto sui generis, era ben giusto dovesse avere sudditi che fossero essi medesimi investiti d'ogni carattere il più acconcio per costituirne una distinta specialità nel loro genere. Di Roma, infatti, fa una città a parte, una specie di smisurato cenobio o piuttosto un immenso asceterio, ove si rilega il Papa, come altre volte si rilegavano in qualche monastero i re imbecilli. Dei cittadini romani fa un popolo monaco, un popolo in cui non ci debbono essere né soldati, né magistratura, né codice, né giustizia, né stampa; un popolo sequestrato da tutti gl'interessi e da tutte le passioni che agitano gli altri, popolo unicamente dicto alla gloria di Dio, che non potrebbe perfezionare le sue istituzioni, partecipare al movimento delle idee, trar partito dalle conquiste delle scienze, né dai progressi dello spirito umano; un popolo che non avrebbe per sé se non la contemplazione, le arti, il culto delle grandi memorie e la preghiera.

310 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

Ma se un bel giorno questo popolo di contemplativi e di antiquarii si stancasse d'essere per sempre «diseredato,» come l'autore diceva,» di quella nobile parte d'attività che in tutti i paesi è lo stimolo del patriottismo e l'esercizio legittimo delle facoltà dello spirito e delle facoltà superiori dell'indole»; se si annoiasse dell'immobilità e dell'inerzia cui lo si voleva condannato, dell'onore di poter dirsi cittadino romano; se un bel giorno, insomma, non volesse più saperne del Papa e di codesta nuova ed odiosa esistenza inventata per lui; allora s che lo si costringerà, perocché fu sentenziato: Roma non può sfuggire al suo destino, lo vuole Iddio!

L'assurdità delle dottrine non è pareggiata che dalla iniquità de' mezzi. Si dichiara che le Romagne sono un possedimento più che legittimo della Santa Sede, che si son ribellate contro il diritto legale e contro i Trattati, ed incontrastabile il diritto che ha il Papa di rivendicarle. Ma è per soggiungere, che la Romagna, essendo da alcuni mesi separata di fatto dall'autorità del Papa, questa separazione ha per sé l'autorità del fatto compiuto; e questa autorità è ammessa per giustificare la separazione della Romagna, come più tardi si ammetterà per l'Umbria e per le Marche, come più tardi si ammetterebbe per abbattere quel fantasma di sovranità lasciato infrattanto a Roma.

Ora la Francia non può intervenire, perché, afferma l'opuscolo, «non può vulnerare si gravemente la potenza morale del catolicismo, perché è già una disgrazia per la Chiesa, che la Francia abbia restituito Pio IX. a Roma.» L'Austria non può intervenire, perché la Francia impegnò bensì a Villafranca la sua solenne parola di riordinare l'Italia in unione all'Austria, ma, lacerato il Trattato di Zurigo prima ancora di sottoscriverlo, la Francia non poteva permettere qualsivoglia maniera d'ingerenza austriaca in Italia. Nessun'altra Potenza potrà intervenire, perché la Francia, questa figlia primogenita della Chiesa, non può permettere che il padre di duecento milioni di cattolici sia socr corso da veruno de' figliuoli secondogeniti, terzogeniti.

Cosi la Francia che si altamente protestava di volere conservato il Papa nell'integrità ed inviolabilità di tutti i suoi diritti, conduceva finalmente a tale, che non solo essa è obbligata a lasciare impunemente offendere questi diritti, ma obbligata eziandio

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d'impedire che alcuno accorra a difesa del diritto, che ha il padre d'invocare il soccorso dei figli. Le Romagne vanno perdute per una rivoluzione retta da un cugino dell'Imperatore dei Francesi, e la rivoluzione alzerà il capo a quel modo che si dirà, in quel giorno che si assegnerà; come più tardi l'Umbria e le Marche anderanno perdute pel Santo Padre coll'assenso dell'Imperatore de' Francesi. E l'Imperatore de' Francesi farà, dire e dirà che il territorio della Santa Sede non è indivisibile, quasiché vi potesse essere sulla terra un territorio indivisibile contro la forza brutale, quasiché si potesse dare una nazionalità, una sovranità, una proprietà qualsiasi, un campo, fosse pure quello di Nabot, che non sia divisibile di sua natura e per diritto del più forte.

Non resta adunque che l'onnipotenza del Congresso, a petto della debolezza del Santo Padre. Il Congresso, si dice, ha tutti i poteri; ma, ammesso pure, essere in possesso di tutti i poteri, non mai ciò volle significare di possedere eziandio tutti i diritti, e taluno può ben essere onnipotente, e commettere iniquità che la storia marchierà d'infamia. Riconosciuto che la ribellione della Romagna era una rivolta contro il diritto, era riconoscere che il fatto compiuto era ingiusto: ma chi è debole, come è il Papa, un fatto ingiusto può ben per violenza subire; chi é onnipotente, come il Congresso dell'Europa riunita, non può ammettere né riconoscere un fatto ingiusto senza disonorarsi. Nel 1815, si affermava, il Congresso di Vienna disponeva delle Romagne. È falso. Nel 1815 l'Europa usciva da un lungo soqquadro, da rivoluzioni, da guerre, da conquiste; essa intendeva di restituire i diritti violati. Le Romagne appartenevano al Papa, ed il Congresso di Vienna, cui la Prussia da principio proponeva di trasferire il Re di Sassonia a Bologna (1), non ne disponeva, le restituiva puramente e semplicemente al legittimo possessore. l'Europa, si diceva ancora, che ha potuto sacrificare l'Italia nel 1815, può con più ragione salvarla nel 1860. Così salvare l'Italia è liberarla dall'autorità del Papa!

Infrattanto, mentre si raffermavano le violenze e le usurpazioni condotte a buon fine, si poneva in risalto

(1) Histoire du Congrès de Vienne; Tom. II., pag. 218.

312 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

il diritto che le popolazioni delle Romagne potevano avere di darsi ad un altro governo; si eccitavano le Marche a seguirne l'esempio, «separate da Roma dagli Appennini, dal carattere degli abitanti, da memorie storiche», né l'eccitamento si limitava a codeste province, ma si estendeva a tutto lo Stato pontificio, Roma sola eccettuata; si proclamava il Papa sotto l'incubo della minaccia incessante d'una rivoluzione e la Santa Sede riposante sopra un vulcano.

Come l'opuscolo Napoleone III. e l'Italia, veniva innanzi con affermare di voler parlare senza passione, per convincere, per conciliare. Protesta che parlerà spassionatamente, e ad ogni pie sospinto la passione lo travolge in proposizioni contraddette dalla storia, dalla logica, dal semplice senso comune. Vuoi conciliare, e comincia con dar causa vinta a una parte per deprimere l'altra; vuoi conciliare nell'interesse della religione, perché si dice cattolico sincero, e tratta nell'interesse della politica e di quella politica che è di tutte la pia funesta, la politica personale. E mentre l'opuscolo Napoleone III. e l'Italia poneva in vista una semplice riformazione del Papato, un anno solo di guerra e supremazia fortunata avea dato agio allo stesso autore di svelare l'intero programma, non già riformazione, ma trasformazione del Papato.

Per altre vie, con altri mezzi, si ripigliava l'opera del 1808 e del 1809. Allora il Papa veniva spogliato, strappato violentemente da Roma; ora, volendone fatto una specie d'idolo sordo, muto, incatenato, immobile nel centro di Roma, immobile sulla sua pietra sacra, non si trattava più di strapparlo per violenza dal Vaticano, ma di soffocarvelo. Allora si spogliava il Papa, dopo avergli scritto: «che se il Santo Padre è il sovrano di Roma, egli, Napoleone I., ne è però l'Imperatore; che se il Santo Padre deve essere a lui soggetto nel temporale, esso, l'Imperatore,» deve essere soggetto al Papa nello spirituale.» Nel 1809 il Papa era trascinato in Francia tra i gendarmi, nel 1860 si ammetteva che, prima di spogliare il Papa e metterlo sotto interdetto, bisognava rendergli omaggio, baciargli i piedi e legargli le mani, come diceva Voltaire. A quel tempo la Francia intavolava le questioni per troncarle essa medesima risolutamente da sé; di presente la Francia traeva in campo le questioni per farle risolvere

GUERRA AL PAPATO. 313

violentemente da altri. Il primo Impero camminava in linea retta, usando della forza; il secondo per vie tortuose, armeggiando d'astuzia e d'ipocrisia.

Dappoiché, proclamato che Dio non esisteva, distrutti gli altari, sostituito il culto della Dea Ragione, Chaumette, nel presentare l'ignuda divinità alla Convenzione, avea gridato: Non più preti, non più altri numi, fuorché quelli che la natura ci fornisce (1); Napoleone Bonaparte avea sentito il bisogno di ripristinare nella Francia nuotante nell'ateismo il culto cattolico, ben comprendendo quanto fosse arduo reggere un popolo, che si credea liberato d'ogni dovere poiché era stato liberato di Dio. Allorché la benedizione del Papa eragli sembrata una necessità politica non men che una necessità religiosa, egli protestava: me faut le vrai Pape, catholique, apostolique et romain, celui qui siège au Vatican. Più tardi, prostrata a' suoi piedi l'Europa, questo Papa di cui avea detto a Cacault, nel marzo 1801: Traitez toujours avec le Pape comme s'il avait deux cent mille hommes derrière lui, gli pareva men utile e meno ancor necessario; ed eccolo a scrivere ad Eugenio Beauharnais, Viceré d'Italia:

«Dresda, 22 luglio 1807. Figlio mio. Nella lettera che Sua Santità ti ha indirizzato, che certamente non fu da lui scritta, ho veduto che il Papa mi minaccia. Crederebbe egli dunque che i diritti del trono siano meno sacri agli occhi di Dio cbequelli della tiara? l'erano dei Re prima che vi fossero Papi. Essi vogliono, dicono, pubblicare tutto il male, che io ho fatto alla religione. Stolti! non sanno che non vi è cantuccio nel mondo, in Alemagna, in Italia, in Polonia, ove io non abbia fatto molto più bene alla religione che il Papa non v'abbia fatto di male, non per cattive intenzioni, ma pei consigli irascibili di alcuni meschini che gli stanno intorno. Essi vogliono dinunziarmi alla cristianità: questo pensiero ridicolo non può appartenere che ad una profonda ignoranza del secolo in cui viviamo. V'è un errore di mille anni di data. Il Papa che trascorresse a tanto cesserebbe di essere Papa a' miei occhi;

(1) Le Moniteur universel, numero del 13 novembre 1793, pag. 215 (Edizione primitiva).

314 CAPITOLO VENTE8IM0SEST0.

» io non lo considererei che come l'Anticristo, mandato per mettere il mondo sossopra e far del male agli uomini, e ringrazierei Dio della sua impotenza. Se così fosse, io separerei i miei popoli da ogni comunicazione con Roma, e stabilirei tale Polizia che non si vedrebbero più correre intorno certi scritti misteriosi, né provocare quelle congreghe sotterranee che hanno afflitto alcune parti d'Italia, e che non erano state immaginalo te che per isgomentare le anime timorate.... Che può fare Pio VII., dinunziandoci alla cristianità? Porre l'interdetto sol mio trono, scomunicarmi? Crede egli che le armi cadranno allora dalle mani de' miei soldati? Pensa egli forse di mettere il pugnale nelle mani de' miei popoli per scannarmi? Non gli rimarrebbe allora altro che tentare di farmi tagliare i capelli e di rinchiudermi in un monastero.... Il Papa attuale si è datola pena di venirmi a incoronare a Parigi. Io ho riconosciuto in questo fatto un santo prelato, ma egli voleva che io gli cedessi le Legazioni; io non ho potuto né voluto farlo. Il Papa attuale

è troppo potente; i preti non sono fatti per governare

Perché il Papa non vuoi rendere a Cesare ciò che é di Cesare?È egli sulla terra più che Gesù Cristo? Forse il tempo non è lontano, se si vuoi continuare a turbare gli affari de' miei Stati, $ in cui io non riconoscerò il Papa che qual Vescovo di Roma eguale e allo stesso livello che i Vescovi de' miei Stati. Io non temerò di unire le chiese gallicana, italiana, alemanna, polacca, in un Concilio per fare gli affari senza il Papa. Di fatto, ciò che può salvare in un paese può salvare in altro; i diritti della tiara non sono in fondo che doveri, umiliarsi e pregare. Io tengo la corona da Dio e da' miei popoli. Io sarò sempre Carlomagno per la Corte di Roma, e non mai Luigi il Débonnaire.... Gesù Cristo non ha istituito un pellegrinaggio a Roma, come Maometto alla Mecca. Tali sono, figlio mio, i miei sentimenti. Io non vi autorizzo che a scrivere una sola lettera a Sua Santità per fargli conoscere che io non posso consentire che i Vescovi italiani vadano a cercare la loro istituzione a Roma.»

Pochi mesi appresso il 2 febbraio 1808, il francese generale Miollis, pretestando non voler che passare verso Napoli, entra in Roma, disarma la guardia pontificia, occupa Castel Sant'Angelo,

GUERRA AL PAPATO. 315

appunta dieci cannoni contro le finestre dell'appartamento dei Papa. Tornata vana ogni arte ed ogni violenza ad astringere per istancheggio il Papa a rinunciare alla potestà temporale e accontentarsi d'una pensione, qualificata di delitto la sua resistenza, il 6 luglio 1809, il giorno della vittoria di Wagram, un uomo tristo per costumi, scapestrato, irreligioso, il generale Radet, penetra nel Quirinale per trascinare prigioniero Pio VII. a Firenze, a Torino, a Savona, a Fontainebleau. Convertito lo Stato pontificio in uno spartimento francese, Napoleone I. rideva del Pontefice. «La sovranità, osservava dappoi il massone Proudhon (1), levandosi contro il Papato, cominciò da quel punto a correre alla sua rovina.»

Dallo scoglio inospitale, su cui doveva trovare la tomba, Napoleone, col cuore in palma di mano, svelava l'intento che si prefiggeva dopo divelto a forza da Roma il Pontefice (2): «Tutti i miei grandi proponimenti si erano compiuti sotto la finzione e il mistero. Io aveva condotte le cose a tal termine, che lo svolgimento era senza conati infallibile e naturalissimo. Quinci avanti io avrei innalzato il Papa fuor di misura, e circondatolo di pompa e d'omaggi. Ne avrei fatto un idolo. Sarebbe rimasto allato di me; Parigi sarebbe stata capitale del mondo cristiano, e io avrei diretto il mondo religioso come il politico. Avrei avute le mie sessioni religiose, come le mie sessioni legislative; le mie Consulte avrebbero rappresentata la cristianità, e i Papi non sarebbero stati che loro presidenti. Avrei aperte e chiuse coteste assemblee, approvate e promulgate le loro decisioni. Se questa supremazia è sfuggita di pugno agl'Imperatori, ciò è stato perché erano trascorsi nello sbaglio di lasciare che i capi spirituali risiedessero da lor lontano. Ma, per giungere a quel punto, m'era stato uopo di molta desterità, di mascherare sopra tutto il mio vero pensiero, e di sviare l'opinione; porgendo alla pubblica pastura certi volgari balocchi, per meglio occultarle la rilevanza e la profondità dello scopo segreto. Che non si sarebbe fatto per antivenirmi se mi avessero penetrato a tempo l'E in verità, che impero oggimai sarebbe

(1) Confessione d'un révolutionnaire, § 19.

(2) Mémorial de SainteHélène, Tom, II, pag. 118.

316 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

» stato il mio in tutti i paesi cattolici! E che influenza ancora su di quelli che non sono tali, con l'aiuto dei membri di cotesta religione che vi sono disseminati!» Così egli faceva gran lame alla sentenza di Pio VII., che nella Bolla di scomunica dei 10 giugno 1809 avea definito il suo persecutore: «Colui il quale si era mostrato amico della Chiesa e si era collegato cogli empi, a solo fine di distruggerla affatto e di tradirla più facilmente; ed avea simulato di proteggerla, a fine di opprimerla con più sicurezza.»

Appena chiamato a reggere i destini della Francia, Carlo Luigi Bonaparte prova a sua volta il bisogno delle benedizioni di questo Papa, che furono i secoli che lo hanno fatto, e io hanno benfatto (1); e Pio IX. è ricondotto a Roma dalle armi francesi. Scorsero dieci anni. Carlo Luigi Bonaparte aveva potuto nel frattempo cingere la corona balzata dalla fronte dello zio. Ricollocata la Francia in posizione superiore, stendendo la sua influenza su tutta Europa, in misura mai raggiunta dacché era caduto il primo Impero, non diversamente a Napoleone III. sembrò men necessario quell'appoggio, che pur eragli stato sì utile per insediarsi Presidente e Imperatore.

L'opuscolo Papa è il Congresso, era appena venuto in luce, e nello stesso dì che a Parigi diffuso in gran numero di copie a Torino, a Milano, a Firenze, a Bologna, che l'Imperatore dei Francesi scriveva a Pio IX:

«Beatissimo Padre. La lettera, che Vostra Santità si compiacque scrivermi il 2 dicembre (2), mi toccò vivamente e risponderò con intera franchezza all'appello fatto alla mia lealtà. Una delle mie più vive preoccupazioni, durante e dopo la guerra, è stata la condizione degli Stati della Chiesa, e certo, fra le potenti ragioni che m'impegnarono a fare sì prontamente la pace, bisogna annoverare il timore di vedere la rivoluzione prendere tutti i giorni più grande svolgimento.

(1)

Thiers; Le Consulat et l'Empire.

(2)

La lettera del Papa diceva: come principe legittimo, e più presto custode che padrone del suo Stato, non poter esporre la sua dignità ad essere offesa in un Congresso con una discussione sui suoi diritti;rispetto a modificazioni, riforme, perdono, quanto potesse farsi giustamente e onestamente, si farebbe.

GUERRA AL PAPATO. 317

» I fatti hanno una logica inesorabile, e nonostante la mia devozione alla Santa Sede, io non poteva sfuggire ad una certa solidarietà cogli effetti del movimento nazionale, eccitato in Italia dalla lotta contro l'Austria. Conclusa una volta la pace, io mi affrettai di scrivere a Vostra Santità per sottometterle le idee più atte, secondo me, a produrre la pacificazione delle Romagne; e credo ancora che, se fin d'allora Vostra Santità avesse consentito aduna separazione amministrativa di quelle province ed alla nomina di un governatore laico, esse sarebbero tornate sotto la sua autorità. Sventuratamente ciò non avvenne, ed io mi sono trovato impotente ad arrestare lo stabilimento del nuovo governo. I miei sforzi non hanno potuto che impedire all'insurrezione di estendersi, e la dimissione di Garibaldi ha preservato le Marche d'Ancona da una invasione certa.

Ora il Congresso è per adunarsi. Le Potenze non potrebbero disconoscere gl'incontrastabili diritti della Santa Sede sulle Legazioni: nondimeno è probabile che esse saranno d'avviso di non ricorrere alla violenza per sottometterle. Poiché, se questa sommissione si ottenesse coll'aiuto di forze straniere, bisognerebbe ancora occupare le Legazioni militarmente per lungo tempo. Questa occupazione manterrebbe gli odii e i rancori di una gran parte del popolo italiano, come la gelosia delle grandi Potenze. Sarebbe dunque un perpetuare uno stato d'irritazione, di malessere e di timore. Che resta dunque da fare?, poiché finalmente questa incertezza non può durar sempre. Dopo un serio esame delle difficoltà e de' pericoli che le diverse combinazioni presentavano, lo dico con sincero rammarico, e per quanto sia penosa la soluzione, quello che mi parrebbe più. conforme ai veri interessi della Santa Sede, sarebbe di fare un sacrificio delle province ribellate. Se il Santo Padre, per il riposo dell'Europa, rinunziasse a quelle province che da cinquant'anni suscitano tanti impicci al suo governo, e se in cambio domandasse alle Potenze di guarentirle il possesso del resto, io non dubito dell'immediato ritorno dell'ordine. Allora il Santo Padre assicurerebbe all'Italia riconoscente la pace per lunghi anni, ed alla Santa Sede il pacifico possesso degli Stati della Chiesa.

Vostra Santità, mi piace crederlo, farà giusta ragione dei sentimenti che mi animano; comprenderà la difficoltà dei mio

318 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

» stato; interpreterà con benevolenza la franchezza del mio linguaggio, ricordandosi di tutto ciò che ho fatto per la religione cattolica e per il suo augusto Capo. Io ho espresso senza riserva tutto il mio pensiero e lo ho creduto necessario avanti il Congresso. Ma prego Vostra Santità, qualunque siasi la sua decisione, di credere che essa non muterà in nulla la linea di condotta che io ho sempre tenuta verso di lei. Ringraziando Vostra Santità dell'apostolica benedizione, che ha mandata all'Imperatrice, al Principe imperiale e a me, io le rinnovo la protesta della mia profonda venerazione. Palazzo delle Tuileries, 31 dicembre 1859. Di Vostra Santità, Vostro figlio devoto Napoleone.»

II giorno appresso, primo dell'anno, Pio IX., ricevendo le felicitazioni degli ufficiali francesi in Roma, diceva al generale' Govon: «Che Iddio benedica voi, questa parte, e con essa tutta l'Armata francese; benedica tutte le classi di quella generosa nazione. Nella umiltà del nostro cuore lo preghiamo a voler far discendere copiose le sue grazie e i suoi lumi sul Capo Augusto di quell'Armata o di quella nazione, affinché colla scorta di questi lumi possa camminare sicuro nel suo difficile sentiero, e riconoscere ancora la falsità di certi principii che sono comparsi in questi stessi giorni in un opuscolo (2), che può definirsi un monumento insigne d'ipocrisia ed un ignobile quadro di contraddizioni. Speriamo che coll'aiuto di questi lumi:no, diremo meglio, siamo persuasi che coll'aiuto di questi lumi egli condannerà i principii contenuti in quell'opuscolo; e tantopiù ce ne convinciamo, in quanto che possediamo alcune pezze, che tempo addietro la Maestà Sua ebbe la bontà di farci avere, le quali sono una vera condanna dei nominati principii.»

L'autore imperiale dell'opuscolo, «monumento insigne d'ipocrisia ed ignobile quadro di contraddizioni,» si risenti vivamente della condanna si meritata e solenne. «Quella allocuzione», faceva rispondere dalla ufficiale effemeride del suo Governo (1),» non sarebbe forse stata pronunziata, se Sua Santità avesse già ricevuta la lettera che l'Imperatore le indirizzò il 31 dicembre»; e la stampò. La lettera napoleonica però doveva essere stata spedita per qualche Diligenza stracca,

(1) Il Papa e il Congresso.

(2) Le Moniteur Universel, numero del 9 gennaio 1860.

GUERRA AL PAPATO. 319

perché non giunse in Roma che il 7 a sera; per solito non impiegava la metà. Anche a Roma la lettera col commento del Moniteur commosse vivamente; commosse che i sovrani inserissero le loro lettere nelle gazzette, commosse che si dicesse al Papa: Se avessi avuto la lettera, non avresti fatto il discorso. Perché, lasciate da parte le riflessioni sul tuono singolare dello scritto, qui si diceva: L'allocuzione condannò l'opuscolo perché lo credette un'atroce offesa, non solo al Papato, ma al Cristianesimo. La lettera non rigettava né condannava l'opuscolo, il quale restava quello che era; solamente che la lettera era meno avara del libro. Essa non toglieva al Papa che le Romagne, mentre il libro non gli lasciava propriamente nulla, o tutto al più la presidenza onoraria del Municipio di Roma, probabilmente a compenso di quell'altra presidenza onoraria della Confederazione italiana, della quale erasi parlato un momento a Villafranca, e che era andata in dileguo con altrettanta prestezza. Napoleone III. aveva atteso ventinove giorni a rispondere alla lettera papale del 2 dicembre. Pio IX. tardò tre soli giorni la sua risposta alla lettera imperiale del 31 dicembre; e scrisse: «Alla separazione delle Romagne sotto un governatore laico e indipendente non aversi potuto consentire, perché equivaleva a perdere quelle province. Esservi stati invero due o tre rivolgimenti nelle Romagne dal 1815 in poi, ma la causa tutte e tre le volte essere evidentemente venuta dal di fuori. Se un paese dovesse smembrarsi o un Governo sopprimersi per causa delle rivoluzioni, che v' insorgono, l'argomento potrebbe ritorcersi con molto maggior forza contro un altro paese, dove dal 1789 in poi Governo e dinastie furono tante volte rimutati da potersi contare almeno dieci rivoluzioni in piena regola. Il Papa aver seguito allora, e seguire adesso, i dettami della coscienza, l'obbligo de' suoi giuramenti, e il consiglio degli uomini venerandi che sotto di lui governano la Chiesa. Del resto rimettere la sua sorte nelle mani di quel Dio dal quale dovranno un giorno entrambi essere giudicati.» Rispettando certi usi vecchi, mandò la lettera senza manifestare al pubblico altro che poche e necessario parole nel diario ufficiale (1), parole che dovea a sé stesso

(1) Giornale di Roma, numero del 17 gennaio 1860.

320 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

ed al mondo cattolico: non potere in coscienza aderire alla proposta.»

All'opuscolo Il Papa e il Congresso, alla lettera imperiale del 31 dicembre, Pio IX. contrappose il 19 gennaio del 1860, un'ammirabile Enciclica ai Vescovi della Cattolicità. L'Enciclica, giunta a Parigi nel 28, il mattino appresso era già pubblicata nel giornale l'Univers. E quantunque né il divieto di pubblicare le lettere dei Vescovi potesse ragionevolmente credersi esteso alle Encicliche, né quelle qualunque siansi leggi, che diconsi vietare in Francia le pubblicazioni delle Bolle pontificie, facessero punto menzione delle Encicliche, bastò il fatto che l'Uniters stampò quel documento ventiquattr'ore prima d'ogni altro giornale, perché il Ministro dell'Interno proponesse nel giorno medesimo e nello stesso dì l'Imperatore decretasse la soppressione di quel periodico, accusato «d'essersi fatto organo di un partito religioso, le cui pretensioni sono tutti i giorni sempre più in opposizione coi diritti dello Stato;di tendere con isforzi incessanti a dominare il clero francese, a turbare le coscienze, ad agitare il paese, a scuotere le basi fondamentali sulle quali sono stabilite le relazioni fra la Chiesa e la società civile; di fare guerra aperta alle più antiche tradizioni nazionali e pericolosa alla religione medesima». Altre gazzette ebbero severi avvertimenti; e intanto sotto colore che «si organizzava in Francia un'agitazione politica sotto pretesto di religione,» si raffermava il bavaglio al giornalismo cattolico, mentre lasciavasi a' contrarii ogni maggiore larghezza di dire tutto dì quanto lor meglio andasse a grado.

Il 26 dello stesso mese Napoleone III. diceva a monsignor Sacconi, Nunzio apostolico in Parigi: «Alcuno non dubita dei diritti del Santo Padre; ma la questione non é mica questa. Noi dobbiamo risolvere una questione di fatto, che presenta difficoltà insormontabili. La posizione della Francia é circondata di spine, é. spinosissima. Il Papa non può essere instaurato in Romagna e restarvi, che per mezzo di una intervenzione straniera. Noi non possiamo permettere ciò. Noi difenderemo sempre i diritti del Papato, ma nei limiti del possibile. Noi manterremo le truppe francesi a Roma sino all'accomodamento generale delle cose, e non permetteremo nessun attentato da chicchessia contro il Pontificato.»

GUERRA AL PAPATO. 321

- Monsignor Sacconi interruppe l'imperiale interlocutore per osservare che il ritorno del conte di Cavour al Ministero significava annessione. - L'intervento francese, esclamò con veemenza Napoleone, non ammette l'annessione. Noi abbiamo 60, 000 soldati in Italia per impedire le avventatezze. L'interesse della Francia, come quello del Papa e di Napoli, è di creare nell'Italia centrale un regno forte sulle basi dell'ordine e della conservazione, e con quegli elementi formare una Confederazione italiana. Ecco per conseguenza la necessità di un Congresso. Se non ha luogo, il Piemonte solamente e la rivoluzione ne profitteranno. - Al Nunzio del Papa Napoleone III. parlava ancora di Congresso, al Papa in Roma faceva parlare sempre di Congresso, come di panacea universale che doveva accomodar tutto; e lo stesso Napoleone, al ricevimento serale del primo gennaio alle Tuileries, avea detto ad alta voce tra mezzo un crocchio di diplomatici esteri: «II Congresso non» avrà luogo, il che infine non è una disgrazia; egli avrebbe pre» giudicati i diritti d'Italia. È forse meglio lasciare le cose come» sono, ed aspettare gli avvenimenti.» A Roma il 27 gennaio, il duca di Gramont, Ambasciatore francese, diceva al Cardinale Antonelli: «La resistenza assoluta mena diritto all'annessione dell'Italia centrale al Piemonte, ed imbarazza la Francia. La Francia non la vuole. Ma la lotta di opposti principii, che questo fatto suscita, la mette nella necessità di ritirare le sue truppe e lasciare l'Italia fare da sé. È ciò che precisamente domanda Cavour. L'Europa, qual oggi è composta, ammette i fatti compiuti; Cavour va a Parigi, offre la Savoia. La Francia col nuovo Regno che sorge alle sue frontiere, deve avere la frontiera sua, le Alpi. Conciliandosi, le cose cangiano. Un Regno nell'Italia centrale, dato all'Arciduca Ferdinando, col Vicariato delle Romagne, concilia tutto. Un Congresso europeo lo consacra ed il Pontificato resta guarentito.» - Antonelli ha risposto: Non mai I - Ma Roma, continuava Gramont, riconobbe il Belgio e la Repubblica francese. - Per salvare la religione, replicò il Cardinale. Nel caso attuale il diritto della Santa Sede è attaccato direttamente e non può pregiudicarsi. - Che fare allora?, domandò Gramont. - Antonelli ha ricusato di pronunciarsi.

L'Enciclica del Santo Padre eccitò in tutto il mondo cattolico vivissima impressione:

322 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

né il Governo francese potea non darsene pensiero. A mitigarne, s'era possibile, l'effetto, il Ministro degli affari stranieri in Francia scrisse due lettere: l'una circolare ai rappresentanti francesi al? estero (2); l'altra speciale all'Ambasciatore di Francia in Roma (1). L'uno e l'altro documento, e pia forse il secondo, si studiavano di mostrare come la rivolta delle Romagne, originatasi dalla mala contentezza dei popoli, né potutasi acquetare per la mediazione dell'Imperatore Napoleone, non potesse avere altro rimedio che o nuove occupazioni straniere, o smembramenti. Doversi determinare le cagioni del male, ed a chi debba incomberne la responsabilità. Se la Santa Sede perdette le Romagne, la colpa esserne stata tutta dell'Austria; i fatti compiutisi dopo la partenza degli Austriaci erano inevitabili, né potersi imputare alla Francia quella sollevazione. Roma essersi lasciata sfuggire tutte le occasioni di ricongiungersi alle Legazioni: né avere voluto accogliere i consigli dell'Imperatore Napoleone di accordare il Vicariato. Se il Papa anche al presente volesse assolutamente rifiutarsi ad assentire alle imperiali proposte, non farebbe che peggiorare sempre più la sua condizione. Lamentandosi che la quistione fosse stata tramutata di politica in religiosa, lasciavasi travedere che, quantunque tardi, pure ci fosse ancor luogo a componimento: il Vicariato. In sostanza si diceva al Papa: la vostra politica é irragionevole; la vostra ostinazione, a non sanzionare per Trattato la perdita dei territorii carpitivi per violenza, vi farà perdere il resto; che se sarete alfìn ragionevole, solamente in tal caso vi sarà fatto di potere ritardare alquanto la perdita del rimanente.

Alle gravi imputazioni rispondeva il Governo della Santa Sede con un documento (3), nelle condizioni de' tempi rimasto un argomento di più a dimostrare, che non sempre chi ha minori le forze, ha ancora minori le ragioni. «Da quel che si vuoi far in ultimo, disse, s'intende bene quel che si voleva fare fin da principio; e furono di lunga mano prevedute ed apparecchiate quelle medesime difficoltà, che si dicono ora insormontabili e fuori d'ogni previsione.

(1)

Dispaccio del Ministro Thouvenel, dell'8 febbraio 1860.

(2)

Dispaccio del Ministro Thouvenel, del 12 febbraio 1860.

(3)

Dispaccio del Cardinale Antonelli, Segretario di Stato, al Nunzio pontificio in Parigi, del 29 febbraio 1860.

GUERRA AL PAPATO. 323

» Rispetto a' mezzi più adatti a restituire al Papa, secondo le fatte dichiarazioni, la integrità del Patrimonio della Chiesa, il passato aver molte rimembranze che possono appianare la via a conseguirlo, il presente non avere che negative di aiuti efficaci, difficoltà opposte a chiunque volesse apprestarne, indugii pregiudicevoli, consigli di sommissione a chi anticipatamente si sa non volersi sottomettere, proposte di riforme che il Santo Padre ha dovuto ponderare innanzi a Dio prima di accoglierle, disegni infine di parziale abdicazione che al Pontefice non era dato in modo alcuno di ammettere.

» Il dispaccio del Governo francese fondarsi principalmente sopra questo partito preso, come esso dice, di rifiutare ogni accomodamento. Non trattandosi di una popolazione, ma bensì di un partito, che di quella parola di riforme si valse sempre e si vale per venire a capo de' suoi disegni, considerare qual triste influenza debba avere il sapersi da quel partito, eh esso ha per sé Potenze estere, le quali si fanno sostenitrici de' suoi richiami ed appoggio poderoso a volerli soddisfatti. Con uomini, i quali han dichiarato altamente che nessuna riforma può contentarli, se non sia la piena ed assoluta distruzione del potere temporale della Chiesa, come mai possibile venire a componimento pervia di riforme? Nullameno il Santo Padre non essere stato inaccessibile alla proposta di riforme recate innanzi dal Governo di Francia; e delle pratiche condotte in Roma tra il Governo pontificio e l'Ambasciatore francese, e delle cose stabilite, l'Imperiale Governo essere rimasto soddisfatto (1). Se le proposte dell'Imperatore Napoleone, prima del Vicariato nelle Romagne, poi della rinunzia a queste province, non aveansi potuto accogliere dal Pontefice, l'Enciclica non aver fatto che assegnare le ragioni, per cui il Santo Padre aveva dovuto rifiutare quelle proposte. L'Enciclica, non confondendo punto la questione politica colla religiosa, distinguere bene l'una dall'altra. Che se torna incomodo e spiacevole ai nemici della Santa Sede il sentimento che da un capo all'altro del mondo si è destato in suo favore, il Pontefice aver ragione di benedirne la Provvidenza

(1) Dispaccio del Nunzio pontificio in Parigi al Cardinale Antonelli, del 13 ottobre 1859, N. 1367.

324 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

» Del rimanente essere il Santo Padre fermi esimo in sostenere» coll'aiuto di Dio i diritti del patrimonio della cattolica Chiesa,» qualunque siano per essere le aggressioni de' suoi avversarii,» qualunque le opposizioni che sventuratamente volessero farsi» contro di lui nelle attuali vicende.»

Anche sul cammino de dolori, come già lo era stato pe' suoi generosi disegni, Pio IX. era ornai molto vicino a Pio VII. Mentre da Parigi si stringeva senza posa il Pontefice colle pretensioni, da Torino, dando di spalla nel chiedere il Vicariato non pia per le sole Romagne, ma per le Marche e l'Umbria eziandio, si cominciava già ad apprestare di lontano la via ad altre violenze ed altre usurpazioni. Allorquando pareva che il Congresso stesse per adunarsi, Pio IX. aveva scritto a Vittorio Binarmele (1) per impegnarlo a sostenere innanzi al Congresso i diritti della Santa Sede. Dopo due mesi, il Re sabaudo rispose (2): «Il Santo Padre, nell'invocare la sua cooperazione per la ricuperazione delle Romagne, parere voler dargli carico di quanto è succeduto in quella parte d'Italia, Figlio devoto della Chiesa, discendente di stirpe religiosissima, aver sempre nutrito sensi di sincero attaccamento, di venerazione e di rispetto verso la Santa Chiesa e l'augusto suo Capo. Non essere, stata mai e non essere sua intenzione di mancare a' suoi doveri di principe cattolico, e di menomare, per quanto è in sé, quei diritti e quell'autorità che la Santa Sede esercita sulla terra per divino mandato del cielo. Ma egli pure avere sacri doveri da compiere. Le Legazioni, sollevatesi appena ritirati gli Austriaci, avergli offerto il loro concorso alla guerra e la dittatura; ed egli, che nulla avea fatto per promuovere l'insurrezione, aver rifiutato la dittatura per rispetto alla Santa Sede, accettato il solo concorso alla guerra. Cessata questa, essere cessata ogni ingerenza del suo governo nelle Legazioni. E quando la presenza di un audace generale poteva mettere in pericolo la sorte delle province occupate dalle truppe pontificie, aver egli adoperata la sua influenza per allontanarlo da quelle contrade (3).

(1)

Lettera del Santo Padre al Re di Sardegna, del 3 dicembre 1859.

(2)

Lettera del Re di Sardegna al Santo Padre, del 6 febbraio 1860.

(3)

Veggasi il Capitolo ventesimoquinto a pagina 289.

GUERRA AL PAPATO. 325

«Quei popoli, rimasti pienamente liberi, non sottoposti a veruna influenza estera, aver richiesto con mirabile spontaneità ed unanimità la loro annessione al suo regno. Questi voti non essere stati esauditi. Aver egli avuto cura di verificare essere ora nelle Legazioni i ministri del culto rispettati e protetti, i templi di Dio più frequentati ohe non lo fossero prima. Essere però convinzione generale che il Governo della Santa Sede non potrebbe ricuperare quelle province se non colla forza delle armi, e delle armi altrui. Ciò il Santo Padre non poter volerlo; l'interesse della religione non richiederlo. Non toccare a Ini ad indicare la via più sicura per ridare la quiete alla patria, e ristabilire sopra salde basi il prestigio e l'autorità della Santa Sede in Italia. Tuttavia credersi in debito di manifestare e sottoporre al Santo Padre un'idea di cui egli è pienamente convinto. «Ove Vostra Santità, prese in considerazione le necessità dei tempi, credesse richiedere il mio franco e leale concorso, vi sarebbe modo di stabilire non solo nelle Romagne, ma altresì nelle Marche e nell'Umbria, tale tino stato di cose, che, serbato alla Chiesa l'alto suo dominio ed assicurando al supremo Pontefice un posto glorioso a capo dell'italiana nazione, farebbe partecipare i popoli di quelle province dei benefizii, che un regno forte assicura alla massima parte dell'Italia centrale. Sperare che il Santo Padre vorrà prendere in benigna contemplazione questi riflessi, dettati da animo pienamente a lei devoto e sincero, e che con la solita sua bontà vorrà accordargli la santa sua benedizione.»

Era una nuova edizione di una vecchia storia, la storia di Nabot (1). Nabot avea una sua vigna che piaceva al Re Acab, il quale, volendo annetterla alle altre sue possessioni, parlò al proprietario così: «Dammi la tua vigna, acciocché io ne faccia un orto da erba, perciocché essa è vicina alla mia casa, ed io te ne darò in cambio una migliore, ovvero, se ti aggrada, io ti darò danaro per lo prezzo di essa». Acab trovava che la vigna abbisognava di riforme indispensabili, e che era necessaria per la unità dei suoi possessi. Non si sa che gli offerisse Paltò dominio; ma, se fosse stato consigliato bene, con tutta probabilità gli avrebbe offerto anche questo. Nabot rispose:

(1) Libro III. dei Re, al Capo ventesimoprimo.

326 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

» «Tolga il Signore da me che io ti dia l'eredità de miei padri»; e non voi? le risponder altro. Acab non avrebbe forse insistito; ma ci era Iezabella che fece con Acab ciò che fauno anche a nostri tempi certi amici i più generosi e i più disinteressati, certi servitori servili, i quali mostrano di non intendere come possa darsi al mondo chi osi trovare poco savio o poco onesto ciò che vuole il loro padrone. Iezabella adunque tanto fece che Acab ebbe la vigna e Nabot la morte, essendosi trovato subito chi giurò che Nabot aveva bestemmiato Dio e il Re, il che bastò all'uopo. Ma se ci fosse stato bisogno di rivoluzioni nella vigna, di documenti autentici del mal governo di Nabot, di clamori universali degli organi della pubblica opinione, i giornalisti d'allora, contro Nabot, ed anche di suffragio universale e di libere votazioni unanimi, è probabilissimo che Iezabella avrebbe avuto modo di ottenere ogni cosa; come è probabilissimo che un qualche grande giornale, esempligrazia, un Constitutionnel (1) d'allora, ovvero un qualche grande congiunto di Acab e di Iezabella avrebbe scritto o detto: «Le colpe successive di Nabot hanno resa necessaria» l'annessione della sua vigna ai possedimenti di Acab.»

Invero, ciò che solo importava si era il porre in sodo che, se il Papa era stato derubato del suo, ciò era avvenuto per colpa sua; onde poter in breve soggiungere; «nuove colpe della Santa Sede le attirarono nuove disgrazie.» Storia vecchia anche questa, vecchia di molti secoli, vecchia quanto la buon'anima di Esopo. Esopo narrava come il lupo voleva mangiarsi l'agnello, ed andava cercando ragioni. E poiché il lupo volle ragionare, ragionò da lupo, e trovò che l'agnello aveva voluto turbargli l'acqua, n on sappiam bene se d'innanzi o di dietro, ma certo aven voluto offenderlo. Or non essendo parata buona all'agnello questa ragione, il lupo ne trovò subito un'altra, e finì col divorare l'agnello, siccome avea stabilito di fare prima ancora di aver pensato alle ragioni che poi avrebbe allegate. Moltissimi però pensarono che il lupo avrebbe fatto meglio a non allegare ragioni false; perché così al delitto dell'agnicidio, non avrebbe aggiunto anche quello dell'aperta menzogna e dell'ignobile ipocrisia.

(1) Constitutionnel, numeri del 10 ed 11 aprile 1860.

GUERRA AL PAPATO. 327

Alla lettera di Re Vittorio Emanuele Pio IX. rispose presso a poco come avea risposto Nabot: «Tolga il Signore da me che io ti dia l'eredità de' miei padri»: e, come Acab, non volle rispondere altro. Scrisse pochissime parole (1): «L'idea, che Vostra Maestà ha pensato di manifestarmi, è un'idea non savia e certamente non degna di un Re cattolico e di un della Casa di Savoia. La mia risposta è già consegnata alle stampe nella Enciclica all'Episcopato cattolico, che facilmente ella potrà leggere. Del resto, sono afflittissimo, non per me, ma per Vostra Maestà, trovandosi illaquesta dalle censure e da quelle che maggiormente la colpiranno, dopo che sarà consumato l'atto sacrilego ch'ella co' suoi hanno intenzione di mettere in pratica. Prego di tutto cuore il Signore affinché la illumini e le dia grazia di conoscere e piangere e gli scandali dati e i maligravissimi da lei procurati, colla sua cooperazione, a questa povera Italia.»

Vittorio Emanuele fece quel che avea fatto Acab d'accordo con Iezabella: entrò senz'altre cerimonie nella vigna, e disse al suo Nabot: «Poiché io posi piede nella tua vigna, e tu non sei in forza da cacciarmene fuori, sii ragionevole. Accetta il danaro che ti darò per lo prezzo di essa, altrimenti e perderai tutta la vigna e non avrai neppure il danaro. Concertati col mio fattore, il quale dal canto suo non pretermetterà né studio né diligenza alcuna per raggiungere il desiderato intento.» Scrisse adunque al Papa (2): «Gli avvenimenti che si sono compiuti nelle Romagne m'impongono il dovere di esporre a Vostra Santità con rispettosa franchezza le ragioni della mia condotta. Dieci anni continui di occupazione straniera nelle Romagne non avevano potuto dare né ordine alla società, né riposo ai popoli, né autorità al Governo. Cessata l'occupazione, cadde il Governo senza che nessuno si adoperasse per sorreggerlo o ristabilirlo. Ma le incertezze d'uno stato precario, già troppo prolungato, erano un pericolo per l'Italia e per l'Europa. Riconfermata la deliberazione per l'annessione alla monarchia del Piemonte, io doveva per la pace ed il bene d'Italia accettarla definitivamente.

(1)

Lettera del Santo Padre al Re di Sardegna, del 14 febbraio 1860.

(2)

Lettera del Re di Sardegna al Santo Padre, del 30 marzo 1860.

328 CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

Ma, per lo stesso fine della pace, sono pur sempre disposto a rendere omaggio all'alta sovranità della Sede apostolica. Principe cattolico, io sento di non recare offesa ai principii immutabili di quella religione, che mi glorio di professare con filiale ed inalterabile ossequio. Le difficoltà, che oggi s'incontrano, versano in? torno ad un modo di dominio territoriale, che la forza degli eventi ha reso necessario. In siffatte modificazioni della sovranità la civile ragione di Stato prescrive che si adoperi ogni cura per conciliare gli antichi diritti coi nuovi ordini; ed è per ciò che, confidando nella carità e nel senno di Vostra Beatitudine, io la prego ad agevolare questo compito al mio Governo, il quale dal canto suo non pretermetterà né studio, né diligenza alcuna per rag» giungere il desiderato intento. Ove pertanto la Santità Vostra accogliesse con benignità la presente apertura di negoziati, il mio Governo, pronto a rendere omaggio all'alta sovranità della Sede apostolica, sarebbe pure disposto a sopperire in equa misura alla diminuzione delle rendite, ed a concorrere alla sicurezza ed all'indipendenza del Seggio apostolico. Tali sono le mie sincere intenzioni. Ed ora che con leali, parole ho aperto l'animo mio a Vostra Santità, aspetterò le sue deliberazioni colla speranza che, mediante il buon volere dei due Governi, sia effettuabile un accordo. Dalla mansuetudine del Padre dei Fedeli io mi riprometto un benevolo accoglimento, il quale dia fondata speranza di spegnere la civile discordia, di pacificare gli animi esasperati, risparmiando a tutti la grave responsabilità dei mali che potrebbero derivare da' contrarii consigli In questa fiduciosa aspettativa io chieggo con riverenza alla Santità Vostra l'apostolica benedizione.»

Vecchia storia ancor questa, la storia di Voltaire: baciargli i piedi e legargli le mani; la storia del generale Bonaparte al tempo del Direttorio. Vincitore dell'esercito romano a Senio, Bonaparte mandò a dire a Pio VI. ch'egii non veniva a distruggere né la Religione né la Santa Sede, ma che voleva solamente allontanare i cattivi consiglieri di cui il Papa era attorniato. Pare che allora i cattivi consiglieri del Papa si fossero tutti ragunati nelle Legazioni, giacché il Papa fu costretto, dall'allontanatore de' suoi cattivi consiglieri, di allontanare da sé le Legazioni, secondo che dice l'articolo VII. del Trattato di Tolentino.

GUERRA AL PAPATO. 329

Allontanando dal Papa le Legazioni, pareva che Bonaparte avesse allontanato un numero sufficiente di cattivi consiglieri. Pure, Tanno seguente, «nuove colpe della Santa Sede le attirarono nuove disgrazie;» la Santa Sede perdette tutti i suoi Stati. Questo allontanamento di tutti i cattivi consiglieri del Papa in una volta era spiegato da ciò che il Bonaparte scriveva al Direttorio il 1.° Ventoso dell'anno V» (1). S'intende da sé che, di fatti storici somigliantissimi, non vi dev'essere diversa spiegazione. Pio IX., come Pio VI., come Pio VII., era circondato da cattivi consiglieri, e non si trovava altro mezzo di farlo consigliar bene, fuorché quello che si adoperava. Cosi nuove colpe della Santa Sede le attireranno nuove disgrazie, e dopo le Romagne si allontaneranno da Pio IX. le Marche, e l'Umbria, ed il resto.

Alla nuova profferta del suo Acab il Nabot tre volte santo replicava (2): «Potrei dire a Vostra Maestà che il supposto suffragio universale fu imposto, non spontaneo. Potrei dirle che le truppe pontificie furono impedite dal ristabilire il Governo legittimo nelle province insorte per motivi noti anche a Vostra Maesta. Maggiormente m'impone l'obbligo di non aderire ai pensieri di Vostra Maestà il vedere gli insulti che in quelle province si fanno alla religione ed a' buoi ministri; per Cui quando anche non fossi tenuto da giuramenti solenni di mantenere intatto il patrimonio della Chiesa, e che mi vietano di aprire qualunque trattativa per diminuirne la estensione, mi troverei obbligato a rifiutare ogni progetto, per non macchiare la mia coscienza con una adesione che condurrebbe a sanzionare indirettamente quei disordini, e concorrerebbe niente meno che a giustificare uno spoglio ingiusto e violento. Non Bolo non posso fare benevolo accoglimento ai progetti di Vostra Maestà, ma protesto invece contro l'usurpazione che si consuma a danno dello Stato della Chiesa. Sono persuaso che la Maestà Vostra, rileggendo con animo più tranquillo, meno prevenuto e meglio istruito dei fatti, lettera che mi ha diretta, vi troverà molti motivi di pentimento.»

(1)

Vedi: Le cause. Vol. I., pag. 149.

(2)

Lettera del Santo Padre al Re di Sardegna, del 2 aprile 1860.

330

CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO.

Savoia e Nizza.

Nuovo indirizzo della politica inglese. - Napoleone III. broglia l'alleanza della Gran-Bretagna. - Il prezzo dell'amistà. - Caduta di Walewsky a Parigi, ritorno di Cavour al potere. - Estensione delle simpatie inglesi per l'Italia. - Gran-Bretagna propone un disegno di assetto delle cose della Penisola. - Accolto dalla Francia, è rifiutato dall'Austria e dalla Russia, né respinto né accettato dalla Prussia. - Controproposta della Russia. - L'Austria al bivio. - La fede dei Trattati. -L'ora dello scioglimento. - II Regno dell'Italia centrale. - Questione di Nizza e Savoia. - Napoleone III. conciona il Corpo legislativo. - I commentatori. - II suffragio universale decretato nell'Italia centrale. - Libertà del plebiscito. - Annessione diffinitiva di Toscana ed Emilia al Piemonte. - Savoia e Nizza cedute alla Francia. - Chiacchiere senza fatti. - Posizione dell'Europa. - Napoleone III. padrone del campo.

D

acchè il Gabinetto Derby, troppo debole per impedire la guerra, che sarebbe stata resa impossibile se prima dello scoppio delle ostilità sul Ticino l'Inghilterra avesse imposto la sua mediazione nel senso del mantenimento dei Trattati, cadde per essere divenuto infedele al suo programma, lord Palmerston, presi gli avvenimenti quali erano, aveva dal suo avvento al potere diretta tutta la politica britannica a far concorrenza all'influsso sempre crescente della Francia in Italia, e, se non a strappare di mano, almeno a sminuire quanto meglio fosse dato, ali Imperatore Napoleone i migliori frutti della sua impresa. Coi la pace di Villafranca, abilmente usufruita, Napoleone poteva ricercare l'alleanza dell'Austria, raffermare quella della Russia, cui inevitabilmente avrebbe dovuto associarsi la Prussia, e di tal guisa raggiungere altro de grandi suoi scopi, l'isolamento dell'Inghilterra. l'Inghilterra se ne avvide, prese la Francia nella sua medesima rete, si apprestò a trascinare, suo malgrado, Napoleone in una via senza uscita. Già, dal momento in cui aveva portato in Italia quello che aveva distrutto in Francia, la rivoluzione, egli s era messo sopra una falsa strada. La Francia si diceva la liberatrice dell'Italia, l'Inghilterra dichiarò di andare ancora più. innanzi della Francia.

SAVOIA E NIZZA. 331

Palmerston pensò e disse: «Voi avete innalzato il vessillo dell'indipendenza; noi piantiamo quello della libertà, quella libertà che voi non potete dare all'Italia, perché non la volete dare alla Francia. Noi vogliamo il reggime parlamentario, che voi non potete sancire. Voi avete conchiuso la pace, gettate le prime basi d'una Confederazione, che vorrete imporre se vi verrà fatto di assicurare, con principi di stirpi vostre su troni italiani, il predominio dell'influenza francese nella Penisola, una Confederazione che, quando ciò non vi riescisse, vorrete mandare in fumo; noi vogliamo ridurre l'Italia all'unità, quell'unità che voi in fine abbonite.»

Fermo codesto disegno, l'Inghilterra aizzò il sentimento antiaustriaco della Russia; disunì questa, la quale era già di per sé pregiudicata colla pace di Villafranca, dalla Francia; consolidò la Prussia nella sua diffidenza verso la Francia; unì Russia e Prussia nella Conferenza di Breslavia, che assicurò i proprii disegni e le diede campo di promettere la convocazione del Congresso. Da quel punto il Congresso, che da principio l'Imperatore de' Francesi aveva con tanto calore propugnato, era divenuto per lui una trappola. Poco a poco Napoleone si trovava travolto in una posizione che gli sarebbe riescita insostenibile. Mentre Russia, Prussia ed Austria, intendendosi tra loro meglio di prima, si davano a divedere sempre meno disposte a prestare udienza alle novelle teorie che per verità basterebbero a spodestare un bel giorno qualunque possidente del globo; nel Congresso, cui avrebbero avuto seggio le Potenze soscrittrici dei Trattati di Vienna, la Francia si sarebbe trovata da una parte a fronte dell'Austria e di una schiera di difensori dei diritti legittimi de' principi decaduti, dall'altra a fronte dell'Inghilterra, della Russia, della Prussia, che non riconoscevano la Pace di Villafranca e di Zurigo, e ad ogni momento avrebbero tratta in campo la minaccia di ritirarsi dalle Conferenze, quando non vi venissero ammessi i proprii non punto concordi programmi. In tali condizioni, se da un canto diveniva impossibile un accordo, dall'altro questa impossibilità di conseguire un accordo qualsivoglia poneva nella miglior luce l'isolamento in cui si trovava la Francia, astretta a dichiarare senza velo se intendeva sostenere o far cadere il Trattato di Zurigo. La Francia o doveva rinunziare a far la parte di liberatrice in Italia per lasciarla all'Inghilterra, ovvero, mancando alla sua parola,

332 CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO.

far condannare dal Congresso, a maggioranza di voti, un Trattato di pace che poco prima aveva solennemente segnato. Or ben altra cosa era poter dire all'Austria, se essa la Francia veniva meno a suoi impegni, tutta la colpa esserne degl'Italiani, sé d'ogni colpa e d'ogni sospetto purissima. Cosi, come sul campo della guerra Napoleone III. aveva veduto discordi interessi farsi innanzi ad attraversargli la via, ora sul campo della diplomazia vedeva la sagacia inglese abballargli il cammino per oltrepassare lui stesso.

Di tal guisa per Napoleone III. una risoluzione energica rendevasi ornai necessaria. Sia per consolidare quella politica per la quale, mentre il Governo francese per bocca del Ministro Walewski propugnava ufficialmente i Preliminari di Villafranca, l'Imperatore Napoleone si metteva d'accordo con Vittorio Emanuele sulle votazioni dell'Italia centrale, sull'organizzazione della Lega armata, sulla creazione del Governo dell'Emilia, su assai cose che Vittorio Emanuele doveva dire, su assai cose che Vittorio Emanuele doveva fare; sia per uscire dall'isolamento in cui, tutto inteso a gittare altrui, vedeva alla perfine prossimissimo ad esser gettato del tutto sé stesso, per Napoleone l'alleanza dell'Inghilterra diveniva una necessità ineluttabile. Correa però gran divario dai giorni in cui la Francia erasi stretta ancora d'amistà a Gran-Bretagna. Una volta Napoleone III. dalle mura di Sebastopoli aveva imposto la sua alleanza all'Inghilterra, dopo di averla politicamente e militarmente pregiudicata; oggidì Napoleone III., politicamente pregiudicato, forzato a volgere a vantaggio dell'Inghilterra buona parte de' risultamenti della sua campagna d'Italia, brogliava la nuova alleanza per riceverla dalle mani trionfanti di Palmerston. Allora Napoleone III. dominava l'Inghilterra; ora l'Inghilterra vedeva venirle incontro quella Francia medesima, che poco prima aveala minacciata d'una invasione, porgerle la mano, sottomettersi, per ottenere un'alleanza che non era possibile di conseguire se non a condizione di rinunziare a tutto il sistema della propria politica di dinastie francesi in Italia, se non a condizione di porre la Francia imperiale in faccia all'Inghilterra in quella stessa relazione di dipendenza che avea tratto al precipizio la Monarchia dì Luigi Filippo Ancor peggio anzi: la Monarchia di luglio aveva conchiuso l'alleanza inglese

SAVOIA. E NIZZA. 333

tra due dimostrazioni di potenza, l'occupazione di Ancona e l'assedio d'Anversa; il secondo Impero tornava all'alleanza inglese tra due dimostrazioni di decadenza, l'isolamento della Francia in Europa e l'abbandono dello stabilimento di dinastie infeudate al Bonapartismo in Italia. Visibilmente la Francia dì per scendeva dalla condizione preponderante di cui prima della guerra italiana erasi impossessata in Europa. Allora, trovatasi di fatto sulla strada della supremazia in Europa, Francia poteva scegliere fra tutte le alleanze: oggi si poteva avere appena l'alleanza coll'Inghilterra, e questa pure un'alleanza virtuale, consistente nel non uscire dalla politica del non intervento e nell'abbandonare in qualunque evento gli alleati alla diffidenza dell'Europa. In tali condizioni, in confronto della perdita di tutte le alleanze di cui stavasi alla testa, in confronto della perdita della fiducia di tutta Europa per la rottura del Trattato di Zurigo, l'acquisto della Savoia e di Nizza, che pur conveniva ottenere a qualunque costo, non era un compenso adeguato, un compenso per la creazione di un grande Stato italiano che si fosse operata per mezzo dell'influsso inglese; compenso buono soltanto a mascherare una sconfitta, troppo insignificante per cancellarla.

Or, a fronte della diffidenza europea inverso la Francia, l'acquisto medesimo di Savoia e Nizza non sarebbe stato prudente di conseguire senza accordo preventivo con Palmerston, senza qualche zuccherino a Gran-Bretagna. Già nell'ottobre, giusto quando il principe di Metternich era tanto festeggiato a Compiègne, e vi avea ohi pensava che l'Austria dovesse credere di poter contare fondatamente sull'alleanza della Francia, l'Imperatore Napoleone aveva dato a Walewski il cenno di cangiare il suo sistema di politica esterna, di rinunziare all'Austria e di attaccarsi all'Inghilterra. Coll'opuscolo Papa e il Congresso, ponendo in questione a dirittura il Papato, Francia, la cattolica Francia, la Francia che teneva a gloria di dirsi figlia primogenita della Chiesa, sorpassava la protestante Inghilterra, osando fare ciò che questa non aveva osato. E la protestante Inghilterra non disconosceva l'importanza di un tal passo, la stampa britannica salutando con gioia questa conversione del Bonaparte; però ad una nazione positiva, cui ogni interesse è subordinato all'interesse supremo della pecunia, non poteva evidentemente bastare.

334 CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO.

Il Gabinetto di Londra si trovava costretto a combattere uno sbilancio delle finanze, cagionato principalmente dal grande aumento delle forze di terra e di mare, cui aveva dovuto sottostare per la guerra d'Italia. L'aumento progressivo e veramente straordinario delle dovizie della nazione suggeriva che si poteva rimediare alla deficienza del bilancio del 1860-61 con un accrescimento d'imposte: ma si sapeva che il Gladstone, Cancelliere dello Scacchiere, ossia Ministro delle Finanze nel Gabinetto Palmerston, seguendo le pedate dell'insigne suo maestro Peel, intendeva fondare il suo disegno sullo sviluppo del principio del libero scambio. In circostanze siffatte, Napoleone III. pensò quanto dovesse riescire gradita al Governo di San Giacomo l'offerta di un Trattato per cui, rinforzando il Ministero Palmerston, dare libero corso al commercio fra Gran-Bretagna e Francia. Ancorché fosse passo difficile per la Francia quello di abbandonare i proibizionisti per istendere la mano a' libericambisti, molto più difficile che per l'Inghilterra, per la quale non trattatasi che di dare maggiore estensione ad un sistema già esistente; ei fu questo uno dei più abili atti della sua abilissima politica. Con esso Napoleone trovava modo di dissipare in parte i sospetti della Gran-Bretagna, dando forza colà al partito della pace e del non intervento sul continente, quel partito che, contrario alle coalizioni ed alle guerre per ragione di equilibrio, si accontenta di provvedimenti d'interna sicurezza; imprimendo alle relazioni tra i Gabinetti di Londra e di Parigi l'impronta di una specie di solidarietà politica, tendeva a compromettere talmente nella politica francese il Ministero Palmerston, che questi, divenuta per ciò impossibile una dichiarazione di guerra dell'Inghilterra alla Francia a causa di Savoia e di Nizza, non più avrebbe potuto opporsi con efficacia all'annessione di quelle province. D'altra parte, se la Francia aveva dovuto accorgersi di non potere alla lunga vincere la resistenza che Gran-Bretagna opponeva a' suoi tentativi in Italia, Gran-Bretagna aveva dovuto credere che i suoi interessi, minacciati dalla Francia in Oriente, nel Mar Rosso, nell'Africa occidentale, nella Cina, la consigliavano a fare alla Francia alcune concessioni.

Raggiunto appena l'accordo commerciale, ecco Napoleone senza indugio dar fuoco alle mine.

SAVOIA E NIZZA. 335

Lanciato l'opuscolo Il Papa e il Congresso, il Congresso che stava per adunarsi in Parigi il 5 gennaio 1860, va in fumo, ancorché se ne abbia ancora a parlare, a quel modo che ancor si sarebbe parlato di Federazione italiana e di ritorno de principi spodestati su' loro troni. A cose nuove uomini nuovi. Il 4 gennaio nel Ministero pegli affari esterni di Francia al conte Walewski era chiamato a succedere il barone di Thouvenel. Colla dimissione di Walewski, venuto particolarmente in uggia agli annessionisti, perché lo si diceva favorevole alla restaurazione dei Lorenesi in Toscana (1), Napoleone III., che dopo il colpo di Stato del 2 dicembre 1851 era stato a capo dei conservatori ed appoggiatosi esclusivamente al Papa, ai Vescovi, al clero, denudava affatto il suo assoluto divorzio dalla passata politica, e s'avviava risoluto nella direzione opposta, alla quale aveva inclinato sino dal giorno dell'attentato di Orsini. L'avvento di Thouvenel si traeva dietro il ritorno di Cavour agli affari. Addi 24 gennaio il Gran Maestro della Massoneria italiana (2)

(1) Zobi; Cronaca degli avvenimenti d'Italia, Vol. IL, pag. 451452.

(2) Dopo il 1848 nel Piemonte, ove Camillo di Cavour, che n' era Gran Maestro, la proteggeva, la Massoneria tornò ad avere vita pubblica in Italia. Fino al 1859 però le Logge italiane, di Rito scozzese le più, alcune di Rito francese, dipendevano da Grandi Orienti forestieri; la prima Loggia indipendente, l'Ausonia, venne nel 1859 fondata in Torino, ed il primo Venerabile fu l'ottuagenario Delpino. Dopo di essa, e sotto la sua disciplina molte altre Logge furono erette, e così l'Ausonia si disse la Loggia madre della Massoneria italiana.

Venuto a morte Cavour, il Fratello Govean tenne provvisoriamente il seggio presidenziale e fece procedere all'elezione di un Gran Maestro di tutte le Logge d'Italia. Si elesse Costantino Nigra, Ambasciatore del Re d'Italia alla Corte delle Tuileries. Per chi non era a giorno dei misteri della Framassoneria, era un mistero che il Nigra fosse entrato nelle grazie del conte di Cavour sì da volerlo depositario de suoi segreti; un mistero che fosse l'intermediario segreto tra Cavour e Napoleone III., e mentre stava in Parigi un Ministro residente pel Re di Sardegna, il Nigra avesse frequentissimi colloquii clandestini coll'Imperatore, lasciando in disparte il Legato ufficiale del Re; un mistero che avesse libero accesso ad ogni ora nelle dimore imperiali, trovasse così buona accoglienza presso il Bonaparte, fumasse con lui i sigari nel più segreto di tutti i suoi gabinetti; un mistero ch'egli, giovinotto di primo pelo, progredisse sì rapidamente da lasciarsi addietro tutti i diplomatici di Sardegna, e divenisse d'un tratto ambasciatore del Re d'Italia; un mistero

336 CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO.

riprendeva la presidenza del Consiglio de' Ministri del Re di Sardegna ed il portafoglio degli Esteri. Napoleone III. lo aveva atterrato, Napoleone III. lo aveva rialzato. In loglio del 1859 Oavour era un arancio spremuto, in gennaio del 1860 era uno stromento indispensabile.

che lo mandassero a Napoli col principe di Carignano per portare la parola d'ordine agli adepti di quelle contrade; un mistero che, reduce da Napoli, ripartisse subito per Parigi. Tutti questi ed altri misteri eransi rivelati allorché il Grande Oriente di Torino mandò a pubblicare all'Opinione, alla Gazzetta del Popolo, alla Gazzetta di Torino, alla Monarchia, dell'8 di novembre 1861, che il Nigra era stato nominato Gran Maestro de' Massoni italiani. Da quel punto molte cose passate s'intendeano agevolmente, molte altre avvenire sarebbero state di facilissima spiegazione.

Poiché le altre Logge non gli aveano dato il voto, Nigra ricusò con lettera dei 22 novembre 1861. Indi a poco, addì 26 dicembre, un'Assemblea Costituente si radunò in Torino per porre ordine nella Massoneria italiana. V'intervennero i deputati di sole ventinove Logge. Si fecero Costituzioni, Regolamenti, Rituali; si decretò a Garibaldi il titolo di Primo Massone d'Italia, ed una medaglia che il perpetuasse; ed a piena unanimità, non ostante il suo primo rifiuto, fu rieletto il Nigra; finalmente si stabilì di stringer Trattati d'alleanza coi Grandi Orienti forestieri. Questi corrisposero all'invito; e tra i più impegnati furono i Grandi Orienti del Belgio e del Portogallo. Il primo spedì a Torino il Gran Maestro Verhaegen coi Fratelli Hochstein e Van Schoor; il secondo il Gran Maestro marchese di Loulè con tre Fratelli, ufficiali della Marina. Prima di scioglierei la pretesa Costituente decretò una seconda riunione pel 24 giugno. 1863 a Roma; se Roma non fosse libera, a Venezia; sa Venezia neppur fosse libera, a Firenze.

Nigra persistendo nel rifiuto, fu d'uopo rifar l'elezione. Nel marzo del 1862 undici membri del Grande Oriente e diciotto deputati di altra Logge ai adusarono in Torino. Bue erano i candidati: Garibaldi e Cordova. Cordova ebbe quindici voti, Garibaldi tredici. Ne venne uno scisma. Il Grande Oriente di Torino riconobbe Cordova a Gran Maestro, il Grande Oriente di Palermo con soli diciassette voti elesse Garibaldi Gran Maestro, ambedue pretendendo di avere piena e legittima autorità sopra tutto la Massoneria italiana. La seconda Assemblea Costituente si radunò effettivamente al tempo stabilito; ma siccome del Grande Oriente di Torino non l'intervenne ohe un solo membro, non si fece altro che accettare la dimissione data dal Cordova e stabilire un nuovo Congresso nel 1864. Fu questo tenuto nel maggio. Stabilì ohe il potere esecutivo della Massoneria in Italia dovesse essere un solo, residente nel Consiglio del Grande Oriente, composto di quaranta membri, e diviso in quattro Sezioni, per Torino, Firenze, Napoli e Palermo.

SAVOIA E NIZZA. 337

Nella mente del dominatore della Francia il Trattato di commercio coll'Inghilterra non era però che l'ultimo gradino per istringere una vera alleanza con essa in riguardo alla soluzione degli affari d'Italia. Nel momento in cui egli si affratellava ancor più apertamente alla rivoluzione italiana; mentre si faceva discendere la Francia, mediante la rottura con Roma, dalla condizione di prima Potenza latina e cattolica; allorché la Spagna si scioglieva per questo dalla Francia, che ne guardava con occhio geloso i trionfi nel Marocco, ed alla Francia si toglievano le simpatie di tutte le nazioni cattoliche di stirpe latina; quando l'ampia voragine tra l'Austria e l'Impero, che il Trattato di Zurigo, prima stracciato che sottoscritto, avea aperta, vie e vie più si allargava; Napoleone III., era intorno alla metà del gennaio, chiedeva a Gran-Bretagna un Trattato scritto, con cui questa si obbligasse a difendere colle armi Francia e Sardegna contro una coalizione possibile delle Potenze del Nord. Ma l'Inghilterra, che niuna voglia aveva di spendere per altri più che le sue simpatie, se la cavava con replicare: se per caso il Trattato di Zurigo dovesse essere violato,

Quasi a voti concordi Garibaldi ne fu eletto Gran Maestro, e Francesco De Luca Prendente. Garibaldi non poté tranquillamente istallarsi nel suo posto: Ausonio Franchi, Venerabile della Loggia di Milano l'Insubria e Settembrini, Venerabile della Loggia d'oro di Napoli, con tanta insistenza si opposero, che alla fine Garibaldi si dimise, rimanendo solo Gran Maestro del Supremo Consiglio di Palermo.

Allora molte Logge di Torino, di Milano e di altre città, strinsero nuova lega, e tennero nel luglio 1865 un Assemblea in Milano. Fu stabilito un nuovo Gran Consiglio, elettone a Presidente l'Ausonio Franchi. Così si ebbero, e sono attualmente, due Grandi Orienti, in Torino con Francesco De Luca Presidente, in Palermo con Garibaldi Gran Maestro, ed un Gran Consiglio in Milano col Franchi alla testa; e ciò per la sola Massoneria strettamente nazionale. Molte Logge sono ancora indipendenti; molte altre dipendono da Grandi Orienti forestieri. Oggidì dipendono regolarmente dal Grande Oriente di Torino settantacinque Loggie; di cui sessantacinque in Italia; in Grecia due, una ad Atene (Panellenio), l'altra a Sira (Figli di Leonida); una a Costantinopoli (Italia); cinque in Egitto, tre ad Alessandria (Caio Gracco, Iside, Pompeia), due al Cairo (Alleanza dei popoli, Eliopoli); una a Tripoli (Stella Africana); una a Tunisi (Cartagine ed Utica). Le sessantacinque Logge in Italia sono: ad Acqui una (Staziella), ad Ancona una (Garibaldi), ad Ascoli Piceno una (Arginano), a Bari una (Peucezia), a Bologna una (Garibaldi), a Brescia due (Cenomana, Arnaldo), a Cagliari una (Vittoria), a Catania

338 CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO.

l'Austria non si sarebbe opposta colle armi, tenendosi paga di protestare.

Quanto alla desiata alleanza, lord Palmerston prometteva un'alleanza virtuale, la quale però, in nessuna congiuntura, potesse imporre all'Inghilterra l'obbligo di violare il principio del non intervento. L'Inghilterra non interverrà armata mano per qualsivoglia motivo in Italia. Essa ne lascia la cura alla Francia, che tiene occupata la Lombardia e Roma. Il suo Imperatore saprà meglio di ogni altro come trarsi dagl'imbarazzi, ch'egli medesimo s'è procacciato. Nel Parlamento vivacissime discussioni s'impegnarono. Fitzgerald è d'avviso che il Trattato di commercio significhi identità delle politiche di Francia e Gran-Bretagna; lord Granville e Gladstone protestano, e dichiarano che la politica dell'Inghilterra circa il trattamento delle quistioni europee è affatto indipendente. Cosi, tenendo ferma la propria politica, l'Inghilterra respingeva superbamente qualunque solidarietà colla Francia.

In quel mentre il Governo britannico, cui assai stava a cuore

una (Caronda), a Cesena una (Rubicone), a Cetone una (Unità Nazionale), a Ceva una (Marengo), a Chiavari una (Ligure), a Corno una (Magistri Comuiani), a Crema una (Serio), a Cremona una (Curzia), a Cuneo una (Vagienna), a Faenza una (Torricelli), a Fermo una (Valle del Tenna), a Firenze due (Concordia, Severa), a Forlì una (Livio Salinatore), a Genova tre (Rigenerazione, Trionfo ligure, Istruzione massonica), a Grosseto una (Ombrane), a Gubbio una (Giordano Bruno), a Imola una (Forum Cornelii), a Lauria di Basilicata una (Pitagora), a Lentini una (Veri figli del leone), a Lima una (Giustizia ed Unione), a Livorno sei (Unione, Concordia, Amicizia, Garibaldi, Aurora, Amici dei veri virtuosi), a Lucca una (Burlamacchi), a Macerata due (Valle di Potenza, Castromutilo), a Messina una (Lume e Verità), a Milano una (Insubria), a Mondovì una (Fratellanza), a Montevarchi una (Filantropia), a Napoli una (Libra d'oro), a Orvieto una (Rigeneratrice), a Palermo una (Pitagora), a Patti una (Figli del Timeto), a Perugia una (Fede e Lavoro), a Pisa una (Galileo), a Pistoia una (Ferruccio), a Ravenna una (Dante Alighieri), a Rieti una (Sabina), a Santo Stefano di Sicilia una (Filadelfia), a Sarzana una (Luni), a Savigliano una (Santa Rosa), a Siena una (Arbia), a Terni una (Tacito), a Todi una (Tiberina), a Trapani una (Roma e Venezia), a Torino cinque (Ausonia, Cavour, Progresso, Osiride, Tempio di Vesta).

Tre giornali massonici sorsero in questi ultimi anni in Italia: il Bollettino officiale del Grande Oriente dv Italia in Torino, gli Annali della Massoneria in Napoli, ed il Tesoretto in Firenze.

SAVOIA E NIZZA. 339

che i Francesi se ne andassero al più presto da Lombardia e abbandonassero alfine Roma, venne fuori a dire: «Francia ed Austria non debbano d'or innanzi intervenire negli affari interni d'Italia, eccetto che ne fossero invitate dall'assenso unanime delle cinque grandi Potenze. In conseguenza di questo accordo, l'Imperatore de' Francesi avrebbe a concertarsi colla Santa Sede per lo sgombero delle truppe francesi dagli Stati romani. Quanto al tempo ed al modo di questo ritiro, dovrebbesi procedere in guisa da lasciare al Governo pontificio tutta l'opportunità di provvedere al presidio di Roma mediante truppe papali, e di adottare le necessario precauzioni contro il disordine e l'anarchia. Inghilterra credere che per tal modo la sicurezza del Pontefice possa essere appieno guarentita. Doversi pur prendere opportuni concerti per lo sgombero delle soldatesche francesi dal nord dell'Italia, in un periodo di tempo conveniente. 11 governo interno della Venezia non dover formare oggetto di negoziati per le Potenze d'Europa. Gran Bretagna e Francia inviterebbero il Re di Sardegna ad assumere l'impegno di non mandar truppe nell'Italia centrale, sinché quei diversi Stati e quelle province non avessero, con nuovo voto delle loro assemblee e dopo una nuova elezione, solennemente dichiarati i loro voti. Se poi quelle assemblee votassero in favore dell'annessione a Sardegna, né Francia, né Inghilterra farebbero altra opposizione all'entrata delle truppe sarde.»

Francia rispose (1): Essere intervenuta in Italia perché i di lei interessi facevano dell'intervento una necessità; considerare sempre come ultima meta de' suoi sforzi prevenire d'or innanzi ogni intervento. Lo sgombero dei Francesi dall'Italia essere quello appunto il desiderio della Francia; ma quanto a Roma conviene aspettare che si possa fare senza pericolo, e quanto alla Lombardia lo sgombero si farà quando per l'accordo tacito od espresso delle grandi Potenze si troverà assicurato il nuovo organamento d'Italia. Riescire impossibile al Governo dell'Imperatore il disconoscere gli ostacoli che incontrano le previsioni indicate nel Trattato di Zurigo.

(1) Dispaccio del Ministro Thouvenel al conte di Persigny, Ambasciatore francese in Londra, del 30 gennaio 1860.

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Dopo avere lealmente usato da più mesi i più costanti sforzi per agevolarne il compimento, il Governo francese aver potuto convincersi che gli era difficile di serbare la speranza del trionfo di questi ostacoli. Creder egli di poter testimoniare a sé stesso che adempì interamente alle sue promesse; ed essere disposto a considerare i mezzi proposti dal Governo inglese come appropriatissimi ad una soluzione che soddisfaccia agl'interessi d'Italia, e che contenga le guarentigie di solidità necessario all'interesse generale. Francia però tenersi moralmente vincolata a parlarne prima con la Corte d'Austria. Doversi mantenere al di sopra d'ogni sospetto la lealtà dell'Imperatore e la sincerità della sua politica, e non potersi, in presenza delle stipulazioni di Villafranca e di Zurigo, impegnare la Francia in modo formale. Se l'inefficacia de' suoi consigli e dei suoi tentativi le mostrò l'impossibilità di ristabilire l'autorità dei principi spossessati, la Francia non essere tuttavia meno tenuta a prevenire ogni falsa interpretazione e ad evitare ogni dubbio, svincolando anzi tutto sé stessa da ogni vincolo con leali spiegazioni, colla Corte d'Austria. Prima di spiegarsi, il Governo dell'Imperatore credere perciò indispensabile di esporre la propria condizione dall'una parte all'Austria, dall'altra alla Prussia e alla Russia.

L'Austria, interrogata dall'Inghilterra e dalla Francia, alla prima replicò (2), che non poteva accettare la combinazione propostale; alla seconda disse (1): «L'Imperatore Napoleone considerare il progetto di pacificazione del Governo inglese come una soluzione accettabile, malgrado ch'esso sia in contraddizione a quanto venne stipulato a Villafranca e a Zurigo; però non richiedere egli dall'Austria il di lei assenso al progetto di far dipendere la sorte futura dell'Italia centrale da un voto delle popolazioni, ma restringersi ad esprimere il desiderio che l'Austria volesse astenersi da una formale opposizione contro l'attuazione di quel progetto.

(1)

Dispaccio del conte di Rechberg al conte Appony, Ambasciatore austriaco in Londra, del 20 gennaio 1860.

(2)

Dispaccio del conte di Rechberg al principe di Metternich, Ambasciatore austriaco in Parigi, del 17 febbraio 1860.

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» Al tempo della soscrizione dei Preliminari di Villafranca l'Imperatore Napoleone nutriva speranza che il nuovo organamento dell'Italia potesse farsi di pari passo colla restaurazione delle legittime autorità. Questa speranza, che nell'animo di Francesco Giuseppe giunse ad essere una convinzione, animava i due sovrani, quando si porsero la mano per mettere un termine allo spargimento del sangue. L'Imperatore d'Austria acconsentì ad un doloroso sacrificio, ma solamente sotto la condizione che nell'Italia centrale venissero ristaurate le legittime autorità. Nell'interesse del ristabilimento della pace, e nella speranza che questa potesse venire maggiormente consolidata e fatta ricca di salutari risultamenti mediante un sincero accordo col suo rivale del giorno innanzi, egli si decise a rinunciare a diritti ed a titoli dei quali poteva disporre, ma rifiutò con fermezza di approvare combinazioni le quali avessero dovuto pregiudicare ai diritti di terzi e segnatamente a quelli di quei principi che si erano confidati nell'alleanza coll'Austria. Porre un argine al sempre più incalzante progresso della rivoluzione mediante la restaurazione de' sovrani spodestati, ed appoggiare nello stesso tempo gli sforzi dell'Imperatore de' Francesi, il quale credeva poter dare soddisfazione alle ispirazioni del sentimento nazionale mediante l'intima unione dei Governi della Penisola con un vincolo federativo, questo era il doppio scopo, che dominava tanto gli atti di Villafranca e di Zurigo, quanto te conversazioni diplomatiche ch'ebbero luogo in Biarritz tra i rappresentanti dei due Gabinetti, specialmente nell'intento di dare un indirizzo uniforme alla situazione della parte politica de' Preliminari di pace.

L'Imperatore d'Austria non aver mutato il suo concetto rispetto alla condizione dell'Italia, e credere ancora oggidì, come credeva a Villafranca, che sarebbe una pericolosa illusione quella di supporre che sia possibile fondare un durevole e regolare ordine di cose sulla evidente violazione di diritti consacrati dai secoli e dai Trattati. La Francia, dice il signore di Thouvenel, è convinta quanto chicchessia della santità delle assunte obbigazioni. L'Austria partecipare questa convinzione, e perciò sarebb'essa profondamente addolorata, quando fosse obbligata a vedere che un primo Trattato conchiuso da cosi

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» poco tempo colla Francia dovesse restare inosservato riguardo alla stipulazione di preponderante importanza. È chiaro che, non avendo avuto luogo la restaurazione, resta in egual modo lettera morta quanto si convenne rispetto alla Confederazione. Quali ne saranno le conseguenze? Il magnanimo pensiero, nel quale convennero in Villafranca i due Imperatori, sarebbe condannato a rimanere interamente infruttuoso. E quali sono gli ostacoli, contro i quali essa avrà fatto naufragio? Senza volerli sconoscere, l'Austria essere ben lungi dal ritenerli insuperabili.

Fra gl'impedimenti che si sarebbero opposti alla effettuazione di conciliare il nuovo organamento dell'Italia colla restaurazione delle antiche dinastie, il Governo francese annovera l'inazione ed il contegno passivo dei capi di quelle dinastie, l'esitanza del Papa nell'attuazione delle riforme, il silenzio dell'Austria rispetto alle generose intenzioni manifestate a Villafranca relativamente all'amministrazione della Venezia. In qual modo i sovrani spodestati avrebbero potuto contenersi a fronte della condizione che loro veniva fatta? Agenti della Sardegna riorganizzarono l'amministrazione mercé l'espulsione di tutti gl'individui sospetti di attaccamento all'antico ordine di cose. Ufficiali sardi ordinarono l'esercito della Lega. Anche in questo momento il Ministro della guerra del Re di Sardegna è nello stesso tempo comandante supremo dell'esercito della Lega. I paesi insorti stanno sotto il governo d'una dittatura militare; qualunque manifestazione a favore de' legittimi sovrani è punita come un delitto d'alto tradimento. Cinque sesti della popolazione sono esclusi dalle operazioni elettorali; e quelli che furono in grado di esercitare i diritti elettorali, hanno votato sotto l'impressione del terrorismo. A fronte di sì violento stato di cose, come avrebbero i sovrani spodestati potuto far udire la loro voce? Qualunque potessero essere state le riforme che il Papa fosse stato risoluto d'introdurre ne' suoi dominii, doveva annunciarle quando un'assemblea faziosa pronunciava in Bologna la di lui decadenza? Quanto alla Venezia, durano ancora le generose intenzioni dell'Imperatore d'Austria, con riserva però della propria indipendenza ed autonomia in confronto d'ogni e qualunque influenza straniera.

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» Se quelle intenzioni non vennero poste in atto, di chi la colpa?Non è egli noto a tutti che la pace di Villafranca fa per il partito rivoluzionario il segnale di raddoppiare un'attività di cui la Venezia fu oggetto e vittima a un tempo?

Il Governo francese, tra i tentativi fatti nell'interesse della restaurazione, ricorda le missioni affidate al conte Reiset e dal principe Poniatowski, che, a quanto crede, fallirono a fronte della resistenza delle popolazioni. Ma in gran parte questo cattivo successo non devesi forse attribuire alle assicurazioni, che altri organi del Governo francese dettero dopo la pace di Villafranca, e dalle quali il partito dominante attinse la convinzione, che l'uso della forza era escluso da' mezzi da adoperarsi per ottenere la restaurazione?

Francia promosse la riunione d'un Congresso; Austria acconsentì ad intervenirvi, dopo aver acquistato la certezza che i plenipotenziarii francesi avrebbero agito di pieno accordo con quelli dell'Austria, per far rispettare i diritti sovrani dei principi, riservati nel Trattato di Zurigo, e per opporsi alle tendenze annessioniste. Un avvenimento impreveduto muta la condizione delle cose. Favorire progetti, che avevano lo scopo di recare pregiudizio all'integrità territoriale degli Stati della Chiesa, era lo stesso che alterare le basi dell'accordo ottenuto fra l'Austria e la Francia; giacché il mantenimento di quella integrità era stato considerato fino a quel momento come quistione fiori di discussione in tutte le trattative corse tra i due Gabinetti, e l'Articolo XX. del Trattato di Zurigo considerava quella questione sotto il medesimo punto di vista. Mentre da tutte parti si domandava quale concetto si poteva formare intorno all'esito del Congresso sotto l'influenza di tante notevoli circostanze, la Francia stessa prese la risoluzione di differirlo ad un tempo indeterminato.

Il Governo francese domanda se la restaurazione possa essere effettuata mediante l'intervento armato dell'Austria e della Francia, onde arrivare alla conclusione ch'esso, dall'una come dall'altra parte, è moralmente impossibile. L'Austria distingue tra questione di principii e questione di opportunità. Motivi politici possono consigliare di astenersi dall'intervento armato nell'Italia centrale. d'altro canto l'applicazione del

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» principio approvato dalla Francia essere soggetto a molte eccezioni; il Governo francese confessarlo egli stesso, e dal canto suo essere intervenuto in Italia pe' suoi interessi. L'Austria non darà la sua cooperazione a combinazioni, nelle quali non si faccia calcolo delle riserve contenute nel Trattato di Zurigo a favore dei diritti de' principi spodestati. Deplorando la diversità di opinioni, l'Austria far eco alla speranza, della quale erasi (atto organo il Ministro francese, che se la diversità dei principii può e deve alle volte condurre a differenti giudizii, non essere necessario, quando l'onore d'ambe le parti è salvo, che ne risultino disastrosi conflitti.»

Russia apertamente rigettò le proposizioni britanniche, e lo Czar scriveva al Granduca di Toscana: Votre cause est la mienne. Prussia, fra gli arzigogoli d'una politica che appellano filosofica, a Londra e a Parigi parve dicesse di no, parve dicesse di sì, mentre dichiarava a Vienna che vedrebbe con dispiacere se l'Austria cercasse di fortificare la presente sua condizione in Italia con fatti di provocazione o passando armata mano la linea del Mincio; ma, se il nemico venisse ad attaccare l'Austria, la Prussia crederebbe messi in pericolo gl'interessi della Germania e per conseguenza quelli della Prussia stessa. Tra così discordi pareri de' grandi Potentati, andata in fumo la trattazione del disegno messo innanzi dall'Inghilterra, Russia alla sua volta propose si tenessero conferenze speciali intorno agli affari italiani. Altro viluppo. La Russia voleva conferenze libere. La Prussia, sotto l'influenza britannica, vi acconsentiva, a condizione però che queste conferenze ottenessero il consenso dell'Austria e dell'Inghilterra, e che i Preliminari di Villafranca non dovessero influire sopra il Congresso e sopra le conferenze. l'Austria voleva naturalmente stabilito un determinato, programma, che avesse per base appunto i Preliminari di Villafranca. Intanto, venuta in discussione nella Camera dei Deputati prussiani la questione italiana, il partito liberale ministeriale disapprovava con fischiate uno degli oratori, il quale avea detto, che la Prussia dovrebbe con tutta la sua forza difendere il diritto, l'ordine e la legittimità.

Mentre cogli atti suoi la Francia interponeva dì per dì un abisso tra l'Austria e sé, il linguaggio delle Tuileries suonava

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di nuovo in que' giorni assai pacifico, e massime al principe di Mettemich si davano le più precise assicurazioni in questo senso. Che a Vienna poi assicurazioni sì fatte non facessero impressione alcuna, nulla di più naturale, ben sapendosi qual conto se ne dovesse fare, dimostrato dall'esperienza come tutte le volte che alle Tuileries parlavasi di pace, giusto allora pendeva in aria un temporale. L'ora della decisione suonava. L'Austria doveva scegliere diffinitivamente tra la pace, protestando, o la guerra. Di riscontro alla violenza, la parola si è sempre mostrata dotata di assai poco valore; ed un grande Stato, il quale semplicemente parli e scriva, ove non sostenga colla forza i suoi discorsi e i suoi scritti, non fa che trarsi addosso la derisione. L'Europa però non era a quel momento in condizione da poter unire tutta la sua volontà per costituire una solida condizione legale. Le idee erano troppo confuse, le opinioni troppo discordi. Il tempo, che tutte cose matura, doveva operare. l'Europa agitata volendo la quiete, tutto inducendo a credere che per allora la pace non sarebbe stata turbata, l'Austria aveva mille argomenti per doversi guardare dal riedere a' cimenti delle battaglie, e so tener paga alla protesta giusta e onorevole. Tempi e condizioni vi sono, cui pò ossi soltanto resistere col differire la resistenza di fatto.

I Trattati essendo per le nazioni quel che i patti e le convenzioni tra gli uomini individui, formole con le quali due sovrani, due popoli, due Stati, dichiarano scambievolmente le obbligazioni che assumono per loro condotta avvenire; hanno i Trattati quella santità stessa che all'uomo rende sacra l'osservanza della parola, e per di più la grandezza personale dei contraenti, la suprema importanza degl'interessi. Mentre in ogni età tutte nazioni, anche i popoli più barbari e più selvaggi, sentirono s altamente intorno alla santità dei Trattati, con apparato solenne di religiose cerimonie, di giurate promesse, di tremende imprecazioni, già collocati sotto cura specialissima degli Iddii, l'Europa attonita vedeva intanto farsi strada un diritto interazionale sconosciuto a1 secoli andati; un diritto, secondo cui gl'interessi dell'oggi cancellano e possessi antichissimi e Trattati recentissimi, de' quali credesi autenticare la rottura con nulla più che dire: sono Trattati ineseguibili; un

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diritto secondo cui è bello invitare un galantuomo a patteggiare con noi, dopo aver protestato che non ci crediam legati dal patto; un diritto che appena lascerebbe alla controparte la libertà di rispondere: «Non posso venire a patti con voi, finché non riconoscete d'averli violati ingiustamente.» Che questo si facesse per impeto momentaneo di sdegno, di cupidigia, d'ambizione, non era nuovo; nuovissimo era che come principio di giure fra popoli inciviliti e cristiani si promulghi, si pretenda, si accetti.

Condotta una volta l'Austria su questa via, e legata a starvi; forzatala al tenersi paga delle vane scaramucce a parole e delle sterili proteste; astretta al tacito ammettere, ancorché per altrui prepotenza, il valore materiale del fatto compiuto e l'opportunità del non intervento; distrutta, in sostanza, qualsivoglia legittima influenza che all'Austria per la Pace stessa di Villafranca avrebbesi pervenuto nella Penisola; l'Italia veniva data in balia della rivoluzione trionfante, avverati i conforti a Cavour, avverate le promesse a Pepoli, le assicurazioni a Rattazzi (1): «Conseguiremo più colla pace che colla guerra. Je ferai l'affaire en deux actes soyez tranquilles!» La posizione che l'Austria, a fronte delle calpeste stipulazioni di Villafranca e di Zurigo, aveva dichiarato di prendere, lasciava, da questa parte, del tutto sgombro il campo in Italia all'alto dominio della Francia, libera ornai di spanar la matassa a suo agio. Così Napoleone III. vedeva giunta Torà di dare scioglimento alle questioni pendenti: i territorii da annettersi diffinitivamente a Sardegna, i compensi territoriali alla Francia.

La Lombardia, ceduta dall'Austria, Modena, Parma, erano province promesse a Casa di Savoia sino dal luglio del 1858 a Plombières; con che il Regno sabaudo veniva a ricevere un accrescimento d'intorno a quattro milioni e dugento mila abitanti, in complesso un reame di presso a poco nove milioni e trecento mila. Colla giunta delle Legazioni pontificie si toccava la cifra di dieci milioni e trecento mila. Però Napoleone avendo assicurato a Plombières di costituire un Regno d'intorno a dodici milioni, questo numero non si sarebbe potuto raggiungere se non coll'addizione della Toscana, che pur sarebbe stato d'uopo lasciare annettere

(1) Vedi nel Capitolo ventesimoterzo a pag. 241, 245, 246.

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a Sardegna quando si avesse voluto costringere questa a rinunziare alla Francia le ambite Savoia e Nizza. A Torino s'erano lungamente cullati nell'illusione, che, arrestata la guerra al Mincio, Francia o non avrebbe preteso correspettivi territoriali, o, pretendendoli, non avrebbe potuto richiedere se non in proporzione de' territorii sottratti all'austriaca signoria. Trinceratosi dietro questa sottigliezza de' compensi relativi all'estensione del territorio lombardo-veneto conseguito, il Governo di Torino, destramente usufruendo le simpatie del Ministero britannico, erasi andato afforzando nella speranza che l'Inghilterra, con dichiararsi energicamente avversa alla cessione degli sbocchi delle Alpi alla Francia, avrebbe reso impossibile il distacco di questi dal Regno di Sardegna.

A padroneggiare le difficoltà facea di mestieri adunque che il Bonaparte da una parte largheggiasse iu concessioni a Torino, dall'altra si facesse certo del concorso del Gabinetto inglese, od almeno di Palmerston ed alcun altro de' più influenti membri di esso. Tutti i tentativi di rialzare il Regno d'Etruria pel principe cugino, continuati senza posa con finissimo arti e persino nelle conferenze stesse di Zurigo, aveano miseramente fatto naufragio sulle secche dell'universale repulsione de' popoli e de' Gabinetti. Ad un ultimo sforzo dall'Imperatore Napoleone direttamente impreso presso il suocero del principe, Re Vittorio Emanuele, non aveva arriso migliore fortuna. Sul chiudere del 1859, il 26 dicembre, lasciate in disparte le solite vie diplomatiche, l'Imperatore spediva un suo fidatissimo in Torino colla richiesta al Re, caldissimamente raccomandata siccome la migliore soluzione per l'Italia, di aderire alla fondazione di un Regno separato nell'Italia centrale, del quale la Toscana avrebbe formato il nocciolo, ed a cui sarebbe chiamato il principe Napoleone, a condizione che, rimanendo questi privo di figli, si stipulasse la riversibilità del nuovo reame a favore di Casa Savoia. Anche l'appello al cuore del padre non fece breccia. Fu d'uopo smettere ogni speranza ed annuire all'annessione, a patto della quale Palmerston e Russel assentivano che fosse ceduta la Savoia alla Francia; senza della quale annessione, d'altronde, rimanendo mal adempiuta l'imperiale promessa data a Plombières, de' dodici milioni d'abitanti, i versanti delle Alpi non si sarebber potuto ottenere. Ancorché

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già da tutte parti si sospettasse in Europa, e tutto giorno lo si dicesse conchiuso, il patto della cessione savoina dovea però tenersi secreto, sinché le Camere inglesi avessero approvato il Trattato di commercio. Fatto questo, Napoleone III. aprirebbe il Corpo legislativo, annunziandogli il bell'acquisto. Ma il Trattato commerciale e l'affare di Savoia suscitarono nel Parlamento britannico procellose discussioni; il che fu causa che l'Imperatore de' Francesi dovette dififerire l'apertura del Corpo legislativo, ed il Governo britanno, per bocca di lord Russell, dichiarare (1) che la Francia aveva promesso di non risolvere cosa alcuna sopra la Savoia senza il parere delle grandi Potenze ed il voto de' Savoiardi.

Conchiuso, infatti, aveasi il mercato dacché Cavour tornava agli affari. Colla cessione della Savoia Cavour avea sempre pensato, che, mentre sarebbesi creato e consacrato nel diritto internazionale europeo un precedente di cui l'Italia avrebbe, quando che fosse, potuto valersi a proprio vantaggio, si verrebbe ad ottenere sanzione diplomatica di grande valore alla dottrina delle nazionalità costituite entro a' loro naturali confini. Alterando i limiti territoriali della Francia in opposizione agli assettamenti sanciti da' vincitori del primo Impero, si distruggeva una delle più valide basi dell'equilibrio architettato coi Trattati del 1815. Rendendo la Francia partecipe a codesta flagrante violazione di que' Trattati, la si associava pe' suoi permanenti interessi agl'incerti destini del nuovo Regno italiano. Oggidì poi, conducendo l'Europa a tollerare quella cessione, si traeva l'Austria alla necessità di dover suo malgrado chinare il capo dinanzi ad una novella infrazione, che terminava d'annullare completamente il Trattato da essa segnato poco prima a Zurigo. Che se la Savoia era francese, , presso a poco come la valle d'Aosta ed una parte dei territorii di Pinerolo e Saluzzo, francese perché parlava francese, e, quando tal ragione bastasse, francesi sarebbero Ginevra, Losanna, Friburgo, Neuchàtel, Bienne, il Belgio, il Canada, una parte degli Stati Uniti d'America, ben diversa cosa era rispetto alla contea di Nizza, terra, checché si dicesse, italiana, dove parlavasi forse più italianamente che nella stessa Torino.

(1) Alla Camera dei Comuni, nella sedute del 17 febbraio.

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Allo stringer de' nodi Cavour, lusingandosi ancora di trovare Napoleone più arrendevole, erasi maneggiato operosamente per conservare Nizza, od almeno la miglior parte del suo tenere. Un momento parve volgessero propizie alla speranza le sorti, se non che, dietro un memoriale del maresciallo Niel all'Imperatore Napoleone sulla nullità della Savoia sotto l'aspetto strategico senza l'accompagnamento di Nizza, fu forza che a Torino cedessero. Né miglior esito riuscì un ultimo tentativo di Cavour, d'indurre il Governo francese a sottoporre la cessione delle due province all'arbitrato dell'Europa, Napoleone HI. avendo fatto abilmente rispondere, che si accetterebbe la proposta purché al medesimo tribunale si portasse contemporaneamente l'annessione dell'Italia centrale al Piemonte. Codesti tardivi contorcimenti all'appressar della inevitabile perdita di terre promesse in guiderdone a Plombières, non poco assomigliavano a quelli di chi lietamente mangiò e bevve alla locanda, e poi, quando viene l'oste col conto, si duole di dover pagare.

Sedata la burrasca nel Parlamento inglese, in Francia il Corpo legislativo radunossi il primo di marzo, e l'Imperatore vi venne a dire: «All'apertura dell'ultima sessione fui sollecito di premunire i vostri animi contro i timori esagerati di una probabile guerra; oggi mi sta a cuore di rassicurarvi contro le inquietudini suscitate dalla pace medesima. Questa pace io la voglio sinceramente e nulla ometterò per mantenerla. In Europa le difficoltà sono vicine, io lo spero, al loro termine, e l'Italia é alla vigilia di costituirsi liberamente. Il pensiero dominante del Trattato di Villafranca era di ottenere l'indipendenza quasi compiuta della Venezia a prezzo della restaurazione dei Granduchi. Questa transazione essendo mancata, malgrado le mie più vive premure, io ne ho espresso il mio dispiacere a Vienna come a Torino, perché questa condizione, prolungandosi, minacciava di trovarsi senza risultato. Mentre essa formava l oggetto di leali spiegazioni fra il mio ed il Governo d'Austria, ispirava all'Inghilterra, alla Prussia e alla Russia pratiche tali, che attestavano chiaramente per parte delle grandi Potenze il desiderio di giungere alla conciliazione di tutti gl'interessi. A secondare tali disposizioni, importava alla Francia di presentare un disegno che offrisse la maggiore probabilità di ottenere l'adesione dell'Europa.

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Tutelando l'Italia da ogni straniero intervento, grazie al mio esercito, io aveva il diritto di tracciare i limiti di tal protettorato. Perciò io non ho esitato a dichiarare al Re di Sardegna che, mentre io gli lasciava l'intera libertà de' suoi atti, non potrei seguirlo inuna politica, che al cospetto dell'Europa aveva il torto di apparire tale da volere assorbire tutti gli Stati dell'Italia e minacciava nuovi conflitti. Gli ho consigliato di rispondere favorevolmente ai voti delle province che gli si offerivano, ma di mantenere l'autonomia della Toscana e di rispettare nel principio i diritti della Santa Sede. Se un tale accomodamento non piace a tatti, ha però il vantaggio di riservare i principii, di calmare le apprensioni, e fa del Piemonte un Regno di più di nove milioni di anime.

» Posta questa trasformazione dell'Italia del Nord, che apre a un potente Stato tutti i passi delle Alpi, era mio dovere, per sicurezza delle nostre frontiere, di chiedere le pendici francesi delle montagne. Questa rivendicazione di un territorio cosi poco esteso nulla ha che debba intimidire l'Europa e dare una smentita alla politica di disinteresse che io ho proclamato più d'una volta, perché la Francia non vuoi procedere a tale ingrandimento, quantunque piccolissimo, né con militare occupazione, né con provocata insurrezione, né con sordi maneggi, ma coll'esporre francamente la questione alle grandi Potenze. Esse comprenderanno senza dubbio nella loro equità, nel modo stesso che lo comprenderebbe la Francia per ciascuna di esse in simili casi, che il rilevante mutamento territoriale che avrà luogo tra breve, ci da il diritto di avere una guarentigia indicata dalla natura medesima.

» Non posso passare sotto silenzio la commozione d'una parte del mondo cattolico; essa ha subitamente ceduto ad impressioni cotanto irreflessive, e si è gettata in timori così appassionati. Il passato, che doveva offrire una guarentigia per l'avvenire, è stato siffattamente disconosciuto, e sono stati talmente obbliati i servigi resi, che ho avuto d'uopo di una ben profonda convinzione e di una ben assoluta confidenza nella ragion pubblica per conservare, in mezzo alle agitazioni che si cercava di suscitare, quel la calma che sola può mantenerci nella verità. Frattanto i fatti parlavano altamente da sé stessi: fin da undici anni io solo sorreggo in Roma

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il potere del Santo Padre, senza aver cessato per un sol giorno di riverire in lui il sacro carattere del Capo di nostra Religione. Dall'altro lato le popolazioni della Romagna, abbandonate d'improvviso a loro stesse, banno patito un naturale commovimento ed hanno cercato di fare con noi causa comune nella guerra. Doveva io dimenticarle nella pace o abbandonarle di nuovo, per un tempo illimitato, alla condizione della straniera occupazione? I miei primi sforzi sono stati diretti a riconciliarle col loro Sovrano, e non essendovi riuscito, ho almeno procurato di salvare nelle province sollevate il principio del potere temporale del Papa.

» Se tutto non è ancora al suo termine, è almeno permesso di sperare una prossima soluzione. Sembra quindi venuto il momento di mettere un fine a troppo lunghe preoccupazioni e di ricercare i mezzi d'inaugurare arditamente in Francia un'era di pace. Inoltriamo fermamente nella via del progresso senza lasciarci arrestare né dal mormorio dell'egoismo, né dal clamore dei partiti, né da ingiuste diffidenze. La Francia non minaccia alcuno.»

Come di frequente soleva avvenire, questo discorso, assai freddamente accolto dal Corpo legislativo, non soddisfece alcuno. Ned era a meravigliarne, essendo una specialità tutt'affatto peculiarissima a Napoleone III. di saper tenere all'occorrenza linguaggi sì fattamente artati di studiatissime circonlocuzioni, che, ad eccezione di pochissimi iniziati, a veruno sia dato di poter in sulle prime coglierne con sicurezza la verace significazione, la quale solo qualche tempo più tardi potrebbe essere afferrata, o piuttosto rivelata. Rivoluzionarii e conservatori egualmente allarmaronsi. I liberali di Torino, altamente contristati, dicevano: Ben ci sta; Napoleone per la prima volta proclama al mondo qual maniera d'influenza è sua mente esercitare nelle cose nostre; un protettorato, questa era la parola pronunziata, in buona e debita forma, con ogni diritto annesso e connesso. Che l'Italia fosse ancora pupilla, sapevamcelo; nel vero sa di troppo ostico questo rammentare sì di frequente e con tanta solennità che il tutor nostro abita alle Tuileries. Coloro, che si ostinavano ad attendere l'annessione piena ed intera dell'Italia centrale, debbono ora disingannarsi perfettamente. Parma e Modena al Piemonte;

352 CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO.

Toscana Stato separato e indipendente; Vicariato di Vittorio Binarmele nelle Romagne; Savoia e Nizza alla Francia; libertà alla Sardegna di accettare o no questo progetto, ma ove non lo accetti, la Francia abbandona l'Italia alle sue sorti. Speravamo sempre che la Francia, in cambio di Parma e di Modena date al Piemonte, pretendesse solo la Savoia; ma la Francia vuole anche Nizza, ed esplicitamente lo scrisse (1). Ci lusingavamo ancora che l'amministrazione delle Romagne, a noi confidata, sebbene sotto l'alta sovranità del Pontefice, significasse tuttavia annessione di fatto delle Legazioni al Piemonte; ma anche questa illusione cessa in noi alla lettura del discorso, in cui è detto che, accettandosi dalla Sardegna il progetto imperiale, viene a costituirsi a settentrione d'Italia un Regno di nove milioni. Ora è evidente che l'annessione di fatto delle Romagne farebbe salire il Regno a dieci milioni; dunque le Legazioni dovranno avere un'amministrazione distinta. Come mai la Francia può paventare uno Stato di nove milioni e senza frontiere naturali, paventarlo tanto da rendersi necessaria per reciproca sicurezza l'unione della Savoia e di Nizza alla Francia?

I conservatori, non punto più lieti, vedevano abbarbicarsi e svolgersi codesta novella teoria per cui sarebbe lecito e bello che una parte possa a suo grado da sé medesima prosciogliersi da qualsivoglia più formale pattuizione, con dire soltanto alla sua controparte: Vi esprimo il mio dispiacere. Vedevano in prospettiva libertà piena concessa a Sardegna di assorbire tutti gli Stati d'Italia, e la minaccia di nuovi conflitti; la confessione che Napoleone stesso aveva dato al Re di Sardegna il consiglio di accettare i voti di annessione fattigli sporgere a nome di province ribellate; approvata quasi la separazione delle Romagne dal resto de' dominii pontificii; le giuste apprensioni de' cattolici appellarsi impressioni irreflessive, mormoni dell'egoismo, ingiuste diffidenze; rincalzata la ferma volontà di pretendere una conciliazione impossibile tra derubato e derubatore, tra oppressori ed oppressi, e se questo non accada, peggio pel debole che non vi si acconcia di buona grazia; ribadita la dottrina del potersi

(1) Dispaccio del Ministro Thouvenel al marchese di Talleyrand, Ministro di Francia a Torino, del 24 febbraio 1860.

SAVOIA E NIZZA. 353

il primo venuto appropriare province e Stati, purché si dica al possessore legittimo: «Questo mi prendo, e vi avverto che riconosco salvo il principio del vostro diritto di possesso»; e con dottrina si fatta vie e vie meglio spacciarsi la via alla totale spogliazione della temporale potestà de' Pontefici. Vedevano come si dicesse al Papa: «Da undici anni io solo vi sorreggo in Roma, rispettandovi come Capo della Chiesa»; quasi a modo di chi avverta: «È il solo amico che ci rimane, non irritiamo questo» uomo.» Vedevano ringagliardita la pretensione che ognuno dovesse acconciarsi nel trovare nel passato guarentigie pell'avvenire, quasiché i fatti non parlassero appunto altamente da sé stessi; e se s'era veduto, cosa nuova anche questa, che durante una guerra mossa da Francia un Sovrano neutrale aveva perduta buona parte dello Stato coll'assenso della Potenza medesima che più particolarmente dichiarava di vegliare alla sua incolumità, non fosse ragionevole e giustificato il timore di quel che avrebbe potuto fare, e le si sarebbe concesso di fare, l'Italia rivoluzionaria lasciata in balia di sé medesima. E mentre per la prima volta l'Europa udiva parlare la Francia imperiale di rivendicazioni di territorii, vedevano il discorso del Trono, e il commento anticipato di questo (1), l'uno anteriore e l'altro contemporaneo a' Decreti con coi i Governi dell'Italia centrale bandivano una seconda votazione; con che la questione cangiava aspetto. In vero i consigli dati dalla Francia al Piemonte, riguardo all'Italia centrale, appoggiavano alla supposizione che i Governi di Toscana ed Emilia giudicassero inutile, o meglio rifiutassero di fare appello ad una nuova votazione fondata sul principio del suffragio universale. Adottato questo principio, la responsabilità morale dell'Imperatore Napoleone potea asserirsi svincolata.

Di fatti, il giorno stesso in cui Napoleone III. parlava al Corpo legislativo, due Decreti eguali del Governo toscano e del Governo dell'Emilia convocavano ne' Comizii i giorni 11 e 12 marzo per dichiarare sulle due proposte: Unione alla Monarchici Costituzionale del Re Vittorio Emanuele, ovvero Regno separato. Due opinioni discordi eransi trovate a fronte: l'una della Francia che

(1) Dispaccio del Ministro Thouvenel al conte di Persigny, Amba sciatore di Francia a Londra, del 24 febbraio 1860.

354 CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO.

voleva il voto universale; l'altra dell'Inghilterra che avea finito con approvare il voto già dato, e del Governo toscano, il quale non voleva porre a nuovo pericolo il fatto ch'esso credeva già consumato. Tutte le altre schede che non avessero espresso voto o per l'annessione, o pe) Regno separato, si dichiarava che sarebbero state considerate affatto nulle. Donde s'inferiva che, se i popoli avessero votato unanimi pel ritorno delle legittime sovranità, il suffragio universale sarebbe stato nullo a giudizio di coloro medesimi che ammettevano la legittimità dell'universale suffragio; tanto era vero non esservi assurdo, a cui non si abbia a buono di ricorrere, purché si ottenga lo scopo.

Esclusa persino la possibilità di un'opposizione qualunque alle mire della fazione dominante, niuno potendo dar voto avverso ad essa, la maggiore larghezza che si accordava alla votazione, e le forme legali che diceasi volersi osservate, a nulla servivano per conoscere la vera volontà nazionale. Tutti i pubblici impiegati e tutti gl'inscritti alle Guardie Nazionali furono chiamati a votare, gli uni e gli altri dopo che già erano legati con giuramento al Re di Sardegna, giuramento che da loro si aveva preteso ancor prima di porre ai voti la sua elezione a sovrano di que' paesi; e a dare voto appellaronsi eziandio i militari, senza proscioglierli prima dal giuramento prestato a Re Vittorio Emanuele. Con che, ingrossando di tanto e con tanti estranei il numero de' voti, si assicurarono altrettante voci favorevoli all'annessione, che diversamente avrebbero fatto atto pubblico di ribellione. Pochi giorni prima della votazione, la Polizia faceva udire le sue minacce, eseguiva perquisizioni a non pochi ben noti come fedeli agli antichi sovrani. Poi venne l'uscita improvvisa alla luce di un nugolo di foglietti già preparati, ne' quali dichiaravasi nemico della patria e reo di morte chiunque votasse per altro che per l'annessione. Le tipografie impiegarono a stampare bollettini per l'annessione, e i tipografi avvisati che un colpo di stile sarebbe stato il premio di chi osasse prestare i suoi torchi alla stampa di bollettini pel Regno separato. Distribuendo alle singole case le schede per l'annessione, si facea temere, singolarmente a' poveri ed agli idioti, un gran pericolo, se fossero mancati allo squittinio. Per guadagnare gli artieri si profondeva danaro, vino, acquavite. Le campagne, specialmente in Toscana,

SAVOIA E NIZZA. 355

furono inondate da una piena di bollettini per l'annessione. Chiedevano i campagnuoli che cosa dovessero fare di quella carta; si rispondeva che quella carta dovea subito portarsi in città ad un dato luogo, e che chi non l'avesse portata cadeva in multa. Subito i contadini, per non cadere in multa, portavano la carta, senza neanche sapere che cosa contenesse. Ingiunto a' possidenti e ai fattori di costrignere i lor dipendenti, chi più zeloso o più spaurito distribuiva razioni di vino e un tanto per testa, con minaccia di cacciar tosto da' suoi poderi chiunque si fosse astenuto dal voto; altri men generosi credettero poter bastare la sola minaccia. Dove non s'era adoperata la violenza e la corruzione, un Bolo contadino non s'è mosso a dare la scheda. Al momento della votazione prezzolati in gran numero od agenti governativi andavano a votare sotto nome di altri, infermi, assenti o astinenti, or comparendo più volte, or votando in più Sezioni, or in una volta deponendo più schede. Né mancarono scene burlesche. A Ferrara, a modo d'esempio, avendovi in que' giorni un cinquecento giornalieri occupati nella demolizione della Fortezza, d'improvviso quell'Intendente Tanari li chiamò a votare. Dopo il grande atto, videsi quella turba di straccioni, parte colla zappa e il piccone, parte in grembiale, altri curvi per vecchiezza, altri sciancati e saltellanti, attraversare la piazza e recarsi ai Castello a ricevere dall'Intendente il premio della loro obbedienza.

Del resto narra il Curletti (1): «Quanto dissi sulle elezioni ai Parlamenti locali, applica esattamente al secondo appello fatto al suffragio universale. Le cose passarono assolutamente lo stesso; più de' quattro quinti de' paesani dell'Emilia non si sono mai accostati all'urna. È questo un fatto talmente notorio nell'Italia centrale, che avrei potuto dispensarmi dal notarlo, se non avessi scritto che per esser letto al di là delle Alpi. Le manifestazioni che precedettero ed accompagnarono il voto, nelle città, furono egualmente da noi organizzate. I cartelli, di cui i giornali piemontesi fecero gran chiasso, e dei quali alcuni portavano: Viva l'indipendenza d'Italia! altri: Noi vogliamo per nostro Re legittimo Vittorio Emanuele, erano spediti belli e stampati da Torino, e noi li collocavamo,

(1) La verità sugli uomini e tutte cote del Regno d'Italia, § VI.

356 CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO.

» noi stessi, a tutti i balconi, a tutte le finestre; e, malgrado la libertà de' suffragi, nessuno avrebbe ardito di levarli.» Imposto di votare sull'annessione, ma non domandatosi prima a' popoli se intendevano serbarsi ligi a' lor prenci o esautorarli, tutti coloro ch'erano ai sovrani devoti, cui piaceva far parte di uno Stato indipendente, sebben piccolo, non avendo potuto deporre il lor voto nelle urne senza fallire alle loro convinzioni, non eransi presentati, preferito il rimanere spettatori passivi dell'accorrere di quanti già erano favorevoli all'annessione; con che il risultato del plebiscito dimostrava bensì decisa la questione per coloro ch'erano intervenuti al suffragio, ma rimaneva pur sempre a sciogliere l'altra, la questione essenziale e primaria, che sola avrebbe posto in luce qual fosse la volontà vera della maggioranza delle popolazioni.

Acconciata ogni cosa colla pretensione di far riconoscere legittima la rivoluzione in Italia dalla legittimità del suffragio universale, assicurata di tal guisa la libertà del plebiscito mercé la indipendenza de' votanti, il 18 di marzo giunse in Torino il Farini, recando al Re, co' voti raccolti nell'Emilia, la nuova richiesta d'annessione. Quattro giorni dopo, il 22, vi andava Bettino Ricasoli, ad affermare che la Toscana voleva «uscire dalla vecchia vita del Municipio ed entrare nella nuova vita della Nazione.» Vittorio Emanuele proclamò Emilia e Toscana partì integranti dello Stato (1). Togliendo le Romagne al Papa, il Re dichiarava: «Non intendere di venir meno a quella devozione verso il Capo venerabile della Chiesa, che fu e sarà sempre viva nell'animo suo. Come principe cattolico e come principe italiano, essere pronto a difendere quella indipendenza necessaria al supremo ministero del Papa, a contribuire allo splendore della sua Corte, a prestare omaggio all'alta sua sovranità.» Ricasoli e Farini furono creati Cavalieri dell'Ordine supremo dell'Annunziata, quantunque i regolamenti dell'Ordine non permettessero che il collare sia dato ad un medico. Accolti freddissimamente entrambi da' Torinesi, il giorno dell'arrivo di Farini si fé meschinissima illuminazione, come che le guardie civiche si recassero casa per casa a supplicare in nome del Sindaco i cittadini d'illuminare; la sera della venuta di Ricasoli Torino trovossi completamente al buio.

(1) Decreti del 18 e 22 marzo 1860.

SAVOIA E NIZZA. 357

Undici giorni dopo la decretata annessione delle Romagne, il 29, era affisso in Roma, colla data del 26, il Breve di scomunica (1). Il Governo della Santa Sede protestò; protestarono l'Austria, il Granduca di Toscana, il Duca di Modena, la Duchessa di Parma, la Spagna.

Proclamata ufficialmente 1'annessione d'Emilia e Toscana, un mese dopo che Francia avea ripetuto altamente (2) di non poter approvare in Italia un movimento unitario, a dì 24 marzo Cavour e Farini soscrissero in Torino il Trattato di cessione di Savoia e Nizza. Con esso il Re di Sardegna trasferiva alla Francia le parti neutralizzate della Savoia colle condizioni sotto le quali ei le possedeva; l'Imperatore prometteva di porsi d'accordo colle Potenze del Congresso di Vienna e colla Svizzera, e che nessuna violenza sarebbe fatta alla volontà delle popolazioni. Il 24 marzo era il dì de' disastri: il 24 marzo del 1849 disastro di Novara, il 24 marzo del 1860 disastro di Savoia. Nel 1849 il Piemonte vinto, quando gli Austriaci poteano pretendere una parte dello Stato, conservava l'integrità del Regno; nel 1860 il Piemonte vincitore perdeva le due migliori province, i suoi migliori soldati. Allora quella sventura militare non arrecava al Piemonte la dipendenza dall'Austria; adesso questa sventura nazionale apportava al Piemonte il vassallaggio dalla Francia. In vero con ogni più santo diritto si proclama, che le società umane non sono in balia di alcuno per esser vendute a prezzo d'oro e di sangue come gregge di schiavi; e, abbandonati tutti i principii di sana politica, si vendono le chiavi delle Alpi, Nizza italiana, ed alle interpellanze di Garibaldi, in Parlamento risponderà audacemente Cavour (3): «La quistione di Savoia e Nizza era condizione assoluta per annettere Firenze e Bologna.

(1)

Lettere apostoliche del 26 marzo 1860, colle quali s'infligge la scomunica maggiore agli invasori ed usurpatoti di alcune province dello Stato pontificio, «come pure ai loro mandanti, fautori, aiutatori, consiglieri, aderenti ed altri quali si siano, che hanno perpetrato o procurato in qualsivoglia modo la ribellione, usurpazione, occupazione ed invasione di quelle province.»

(2)

Dispaccio del Ministro Thouvenel, del 24 febbraio 1860.

(3)

Tornata della Camera dei Deputati, del 12 aprile 1860.

358 CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO.

» Se avessimo ricusato di cedere Nizza e Savoia, non solo avremmo perduto tutte le recenti conquiste, ma avremmo esposta la causa d'Italia a pericoli ed a rovina evidente. Quella cessione non è cosa isolata, ma un fatto che rientra nella serie di quelli che si sono compiuti e che ci rimangono a compiere.» Miserando mercato, ove con uguale ingiustizia e si cedeva ciò che non poteva cedersi e si usurpava ciò che non poteva acquistarsi. Si lavorava per unire le scongiunte parti d'Italia, ed una parte, ch'era già unita, si sottoponeva al giogo della Francia. Si voleva fondare un forte reame che assicurasse l'indipendenza d'Italia, e se ne davano i baluardi e le porte in mano ad un possente vicino, che dall'alto del Moncenisio potrà, se divenuto ostile domani, piombare in un attimo sopra terre vagheggiate ed aperte.

Una parola d'onore, allor erano quattrocento novantadue anni, era stata solennemente data ai Savoiardi da Amedeo di Savoia, il Conte Rosso. Quella parola valse alla sabauda Corona una delle sue più belle gemme, la Contea di Nizza. Dopo la dedizione del 1388, i Nizzardi stabilirono nel 19 novembre 1391 che il Conte di Savoia non potesse alienare la città in favore di qualsiasi principe, e se lo facesse, gli abitanti avessero diritto di resistere armata mano e scegliersi un altro sovrano a lor piacimento, senza rendersi per questo colpevoli di ribellione. A strozzar ghiribizzi, prima ancora che il formale Trattato di cessione sottoscrivessero, il 21 di marzo le schiere francesi muovevano di Lombardia per rientrare in Francia, inondando Nizza e Savoia. I maligni osservavano che le armi della Francia, scese in Italia per un'idea, vi eran rimaste sinché Savoia e Nizza si avesse potuto avere, se ne andavano appena avutele.

Quantunque atteso, il fatto avvenuto sollevò assai romore in Europa. La Svizzera aveva diritti importanti sulle province savoiarde comprese nella neutralità elvetica. Nel Trattato di pace, conchiuso nel 1564 tra Berna e la Savoia, sotto la mediazione degli Stati federali, e che fu guarentito dalla Francia e dalla Spagna, era stato stipulato che «nessuna delle parti potrà alienare per vendita, permuta, od in qualunque altro modo, le città, le fortezze, i paesi e le popolazioni ad altro principe, signore, città, paese o Comune qualunque, affinché ciascuna delle parti

SAVOIA E NIZZA. 359

» preservi l'altra da qualunque vicinato straniero, importuno ed oneroso, e ciascuna di esse ne sia e ne rimanga preservata.» Questa Convenzione era stata confermata, al pari di tutti gli altri Trattati del 1603, 1754 e 1815, dall'articolo 23 del Trattato di Torino del marzo 1816. Allorché, dopo la Pace di Villafranca, era stata messa in prospettiva la riunione del Congresso incaricato di regolare gli affari d'Italia, la Svizzera aveva richiesto alle Potenze di essere ammessa alle deliberazioni del Congresso, per quanto queste si riferissero a' suoi rapporti col territorio savoiardo neutralizzato, dappoiché si sarebbe evidentemente attentato alla posizione internazionale della Svizzera colla formazione d'una Confederazione italiana e coll'ingresso in questa Confederazione della Sardegna in un colle parti della Savoia comprese nella neutralità elvetica (1).

Quando poi fu annunziato senza mistero che, se tutti o parte degli Stati dell'Italia centrale venissero annessi a Sardegna, il possesso della Savoia diverrebbe, per la sicurezza delle frontiere francesi, una necessità politica (2), la Francia aveva già data alla Svizzera l'assicurazione formale che, se la Savoia venisse a passare all'Impero, in ogni eventualità le province dello Sciablese e del Faucigny sarebbero cedute alla Svizzera (3); quest'assicurazione ripetendo non meno schiettamente al Gabinetto inglese (4). La Svizzera, infatti, aveva in sulle prime proposto alla Francia di dividere con un Trattato segreto la Savoia tra loro due (5); al che la Francia, che la voleva intera per sé, rispondeva: non esser lecito di disporre d'una provincia che apparteneva ancora alla Sardegna. Rimossi i pericoli che soprastavano all'approvazione del Trattato di commercio coll'Inghilterra, venuto con ciò lecito di disporre di quella provincia ancorché appartenente ancora a Sardegna, parve che a Parigi nulla più

(1)

Nota del Consiglio federale svizzero, del 18 novembre 1859.

(2)

Nota del barone dì Thouvenel al barone di Talleyrand, Ministro di Francia a Torino, del 24 febbraio 1860.

(3)

Nota circolare del Consiglio federale svizzero alle grandi Potenze, del 19 marzo 1860.

(4)

Dispaccio del barone di Thouvenel, del 4 febbraio 1860.

(5)

Nota del barone di Thouvenel al Ministro di Francia in Berna, del 13 marzo 1860.

360 CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO.

rammentassero di que' precedenti. La Svizzera prese allora a scrivere Note e proteste chiarissime e fortissime, indirizzandole a Parigi, a Torino, a tutte le Corti d'Europa; e rispondendo alle risposte e contrarrispondendo alle contrarrisposte fino a stancare la cancelleria francese, non certamente delle più taciturne, mise in piazza ogni cosa, con grande dispetto del Governo di Francia, il quale finì, con rimproverare acremente a quello di Svizzera che si fossero pubblicati i suoi dispacci confidenziali.

La Confederazione elvetica dovette convincersi come ancor ed essa non restasse di meglio che accomodarsi alla volontà dei più forti, e da Vienna udirsi rispondere: La stessa Svizzera, che ora invoca i Trattati a sua difesa, essersi beffata de' medesimi quando si trattava dei diritti dell'Austria e de' principi italiani, ed averli dichiarati un nonsenso antiquato. Allorché, al principio della guerra italiana, Napoleone IIL mostrò l'intenzione di mandare le sue truppe nella Penisola pel territorio neutrale della Savoia, il Consiglio federale elvetico aversi taciuto, perché non voleva impedire con proteste l'opera che la Francia stava per intraprendere in Italia. Con ammirazione frenetica gli Svizzeri aver vantate le vittorie de' Franco-sardi, come se essi medesimi ne avessero ricevuto grande vantaggio, come se fuori della questione italiana non vi fosse da studiare anche una questione svizzera. Solamente quando il disegno dell'annessione della Savoia venne in chiaro, la Svizzera aver cominciato a commoversi, ed ora pretendere che tutte le Potenze mallevadrici de' Trattati del 1815 dovessero prendere parte alle sue proteste. Che se le altre Potenze lasceranno compiere la lesione dei Trattati, non sarà per certo l'Austria quella che protesterà colle armi in favore della Svizzera, l'Austria che pe' proprii interessi non ha fatto altro che protestare con parole contro la rottura dei Trattati del 1815, di Villafranca, di Zurigo, e la spogliazione de' suoi parenti più prossimi. Del resto, la Svizzera, che vorrebbe rispettati i Trattati del 1815 ora che l'annessione della Savoia alla Francia le torna incomoda, poco fa non essersi punto curata di que' Trattati quando coll'aiuto della Francia si prese il cantone di Neuchatel.

L'Inghilterra fece di grandi parlate in Parlamento, ove si udirono parole sì amare contro la Francia che i Francesi non le poterono leggere sopra i loro giornali;

SAVOIA E NIZZA. 361

e ai grandi strepiti s'accompagnarono minacce di più grandi cose. Lord John Russell, chiamato a spiegarsi sul contegno del Ministero, confessò sinceramente che la sua aspettativa era stata ingannata in più forme per quanto concerne l'annessione della Savoia (1). Si spedirono circolari alle Potenze colla richiesta che si associassero alla Gran-Bretagna nel protestare con ogni energia; ma si riconobbe di non voler far guerra alla Francia per un'annessione, che, non avendo potuto impedire, rientrava ormai nel dominio de' fatti compiuti. La falsa situazione del Governo inglese spiegava abbastanza la sua debolezza. L'affare della Savoia era sopraggiunto nel punto medesimo, in cui egli era intento più che mai a lacerare in Italia i Trattati del 1815; nel punto medesimo, in cui egli dichiarava ne' suoi dispacci che il consenso dell'Europa non era niente affatto indispensabile per l'ingrandimento della Sardegna, e che non conveniva dare soverchia importanza alle proteste che codesto avvenimento potesse sollevare. Lord John Russell diceva allora de' documenti di tal fatto ciò che la Francia di presente poteva dire delle proteste, che le fossero venute riguardo a Savoia; cioè, ch'erano carte buone a porsi negli archivii. In tutta Europa si terminava appena di leggere quegli eloquenti dispacci, quando improvvisamente fu udito il Governo inglese gridare alla violazione de' Trattati del 1815, ed invitare tutto il mondo ad alzare la voce contro la Francia; e tutto il mondo poteva rispondere all'Inghilterra con pari diritto: Perché per la Savoia? E perché no per le violazioni dei Trattati in Italia? A Vienna ed a Pietroburgo poco adunque commossersi d'uno scrupolo sì tardivo, ed ora che l'Inghilterra pretendeva che l'annessione fosse buona in un caso e nell'altro cattiva, le fu risposto con molto senno, che ciò si comprendeva benissimo, ed era appunto per questo che l'annessione, la quale poteva tenersi a Londra maggiormente insopportabile, poteva apparire sopportabilissima altrove, poiché, giusta l'Inghilterra medesima, le inclinazioni e non i Trattati dovevano decidere tal sorta d'affari.

L'Austria adunque disse, ch'essa impedirà l'annessione della Savoia alla Francia come l'Inghilterra impedì l'annessione della Lombardia, della Toscana e del resto, al Piemonte;

(1) Tornata della Camera dei Comuni, del 26 marzo 1860.

362 CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO.

Che avrebbe ben offerto all'Inghilterra di opporsi in comune non solo ali annessione di Savoia e Nizza, ma eziandio all'annessione della Toscana, di Modena, di Parma, delle Legazioni; essendosi però l'Inghilterra già proclamata in favore di queste diverse annessioni, l'Austria non poter ora altro offrirle se non la manifestazione del suo rammarico per l'ingrandimento della frontiera francese. La Russia, deplorando la violazione dei Trattati del 1815 e del diritto pubblico europeo, conchiuse con dichiarare, che non aveva ad opporsi alla cessione del territorio rivendicato dalla Francia, poiché codesto atto era stato consentito dal Re di Sardegna. Anche alla Russia si poteva rispondere: rammarichi tardivi. Intanto l'Imperatrice madre dello Czar, appieno sfavorevole alla cessione, essendo a Nizza, chiamò a sé il Re sardo, che non accolse l'invito e neanche lasciò accettarlo in vece sua al principe di Carignano; donde malumori assai. Spagna declinò disporre verun parere sull'annessione savoiarda, limitandosi a cogliere l'opportunità per rinnovare le proteste già fatte contro l'esautorazione del giovane Duca di Parma.

Ben guardandosi dal fare troppa opposizione ad un principio, che tosto o tardi essa sperava di poter applicare ad alcuni piccoli principati tedeschi, pei quali sentiva un grande appetito, la Prussia si lagnava bensì che la Francia avesse fatto poco conto di lei, rifiutando il Congresso europeo, dove la Prussia desiderava tanto di fare qualche mostra di sé; rimproverava bensì la Francia di essere ingrata a lei, che nella guerra d'Italia contenne le ire della Germania, vanto curioso, fatto in confidenza all'Inghilterra (1), e pubblicato allora, a gran dispiacere della Prussia, nel Parlamento britannico; temeva bensì assai che, dopo i confini naturali della Savoia, venissero quelli del Reno; ma, dopo che la Prussia aveva contenuta poco fa la Germania, la Prussia non aveva ora da fare null'altro che temere d'essere contenuta poi alla sua volta.

Anche questa volta l'Europa somigliava ad una sentinella, la quale, colle armi al braccio, grida in ogni occasione: chi va là? e alto là!; ma poi lascia passare chiunque vuole passare.

(1) Dispaccio di lord Bloomfield, Ambasciatore inglese a Berlino, a lord John Russell, del 3 marzo 1860.

SAVOIA E NIZZA. 363

Con somma destrezza Napoleone III. erasi tratto d'impaccio. Da una parte la poca cordialità che passava tra la Russia e l'Austria, e la difficoltà a riconciliarsi, ancorché le relazioni reciproche de' due monarchi si fossero immegliate di molto; dall'altra l'influenza inglese nella Prussia, e di questa le mal compresse e sempre risorgenti velleità di supremazia sulla Germania; ristrettisi i Governi, impregnati di gelosie e di rancori, in un miserabile sistema d'isolamento fondato sull'egoismo temporario, lasciavano l'Europa intiera nelle mani della Francia. In Italia, dopo che l'interesse austriaco vi era stato cotanto sminuito in séguito agli avvenimenti del 1859 e della logica de fatti compiuti, l'atteggiamento passivo dell'Austria, isolata com' era ancora, colle piaghe fattele dalla guerra recente assai ben lontane dall'essere rimarginate, abbandonava la Penisola in braccio di Napoleone; e comunque la nuova politica inglese fosse venuta ad immischiarsi più addentro nelle cose interiori italiane, l'influsso morale cangiando bensì secondo il grado della forza fisica di cui dispone, ma eziandio in ragione delle distanze, diversissima l'influenza assicurata senza contrasto in Italia alla Francia dall'influenza che vi avrebbe potuto esercitare l'Inghilterra.

Gol ritiro dell'esercito francese dal settentrione della Penisola le condizioni mutavano essenzialmente. L'intervento armato della Francia cessa, pili esattamente rimane limitato a Roma; resta l'intervento rivoluzionario, resta l'intervento diplomatico, resta l'intervento opus colar e. Quinci innanzi l'Italia sotto la tutela dell'alto predominio della Francia, e la protezione morale delle simpatie britanniche, farà da sé.

EPILOGO E CONCLUSIONE

I.

Riassumiamo. Sulle ali della fortuna il primo Bonaparte sale, sale sempre: da una parte protegge la Framassoneria, larvata aspirazioni beneficenza, avente a scopo finale la distruzione della religione cattolica a traverso la distruzione tutti i troni; dall'altra promette all'Italia libertà, unità, indipendenza, un'Italia degl'Italiani. Salendo, protegge e promette; salito, impera e dimentica. Tutto ciò che gli appartiene, parenti e servitori, uomini e donne, tutto è Framassoneria; ma della istituzione medesima poco a poco fa una macchina governativa. Spazza d'Italia il vecchio, ma nell'assettare e rassettare il nuovo smembra e rafferma la disunione, dona italiane corone a Francesi, annette sempre nuove terre italiane alla Francia, forma della Penisola un'Italia della Francia.

Vedutasi burlata, la Framassoneria torna al mestiere e cospira; procrea una figlia, la insedia a Napoli, e le da nome Carboneria. Costituitasi, la Carboneria si presenta a Gioachino Murat, annunziandosi messaggera d'incivilimento del popolo, sostenitrice dei Governi nuovi (1), ma soppiatto scrive sulla sua bandiera: unità d'Italia, indipendenza vera da qualsivoglia dominazione straniera; insegua raccozzamento da far balzare ogni cuore. Più per istinto Re che per senno reggitore, Gioachino odora il pericolo, ricalcitra, imbizzarrisce, proscrive, perseguita; come Re la maledice, come antico Frammassone la accetta, e la Carboneria quasi pregata si stende pel Regno. Sperando corromperla, come s'era fatto colla Massoneria, Gioachino spinge nelle fila de' Carbonari Ministri, magistrati, esercito, spie; sperando dominarla, si fa egli medesimo Carbonaro.

(1)

Colletta; Storia Napoli, libro VIII, num. 49.

366 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Intanto il primo Impero francese cade; con esso cade un intero sistema, un ordine cose stabilito, un ordine d'idee già diffuse. Rilegato all'isola d'Elba, un bel giorno Napoleone Bonaparte riceve con gran mistero una lettera. La lettera portava la data del 19 maggio 1814. Chi la segnò? Quattordici Framassoni, quattordici Italiani: Melchiorre Delfico, Consigliere Stato a Napoli, il conte Luigi Corvetto Genova, e altri dodici, due Còrsi, due Genovesi, quattro Piemontesi, due del già Regno d'Italia, quattro Stati romani e napoletani. Che conteneva? La promessa liberarlo da quelle strette, quand'egli prometta venire nella Penisola a costituire l'Impero d'Italia. Napoleone accettò, come uomo che nel naufragio vede una tavola e l'afferra, disposto a gettarla al fuoco dopo toccata la riva. Un Trattato fu sottoscritto, una Costituzione giurata, la Costituzione che il primo Imperatore d'Italia doveva promulgare appena posto piede sul continente italiano.

L'articolo 51 suonava: «La residenza abituale dell'Imperatore sarà fissata a Roma.» L'articolo 53: «Verranno stabiliti quattro Viceré, la cui residenza sarà fissata nelle quattro città, Roma eccettuata, le più popolate d'Italia.» L'articolo 47: «La prima adunanza legislativa avrà luogo a Roma, la seconda a Milano, la terza a Napoli, ciascheduna per tre anni, nello stesso ordine, per turno tre in tre anni.» Napoleone I., promettendo, diceva (1): «Sarà questa l'impresa più difficile che io mi abbia tentata fin qui. Farò popoli d'Italia una sola nazione: darò loro l'unità dei costumi che adesso manca. Dopo essere stato Scipione e Cesare in Francia, sarò Camillo in Roma. Cesserà lo straniero calpestare col suo piè il Campidoglio, né più vi ritornerà. Sotto il mio regno la maestà antica del popolo-re si unirà alla civiltà del mio primo Impero, e Roma uguaglierà Parigi, serbando tuttavia intatta la grandezza delle sue memorie passate. Sono stato in Francia il colosso della guerra, sarò in Italia il colosso della pace.» La congiura riuscì; per opera dei Framassoni italiani fu sciolto il cane córso ().

(1)

Martini; Storia d'Italia, Tomo I., lib. III, pag. 153.

(2)

A que' giorni si diffusero a migliaia incisioni rappresentanti l'Italia in atto sciogliere un grosso cane córso.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 367

Buonaparte evaso dall'isola dell'Elba; ma non appena in sul mare, già immemore dei fratelli e della corona d'Italia, drizzate le prore ai liti Francia, discese a Cannes. Allora i Carbonari si volsero a Gioachino Murat: faccia l'Italia una, sarà Re d'Italia. Sconfitto, Gioachino perde il trono Napoli, Napoleone Bonaparte e trono e libertà. In breve volger tempo due volte lo scettro d'Italia è promesso, e due volte cui era offerto tragge a ruina.

Il vinto Waterloo attraversa l'Oceano per andare a morire sullo scoglio Sant'Elena; i vincitori si dividono le spoglie, l'Italia è disposta a lor guisa, confidata peculiarmente all'Austria una maniera custodia del nuovo assetto peninsulare. La caduta Napoleone I. scombuiava orrendamente la Massoneria in Italia, appena rimastavi poco più che nome; la caduta Murat lasciava la Carboneria battuta, non dispersa. In breve la Carboneria riordinasi, grandeggia, minaccia i troni, si getta nelle avventure, ed i vincitori del Bonapartismo, atterriti, affidano all'Austria vincere la setta, donde ire assai e agli odii parte s'accumulano odii immortali. La Carboneria, sconfitta a Napoli, alza il capo in Piemonte. Dalle sue mani Carlo Alberto Savoia-Carignano accetta la profferta della corona d'Italia. Una seconda volta all'Austria si commette vincere, l'Austria una seconda volta vince; e Carlo Alberto, dichiarato traditore dal suo Re por aver capeggiato la rivoluzione in Italia, va a combattere la rivoluzione in Ispagna per farsi dichiarare traditore dalla setta. Scorsero dieci anni. La Carboneria, non perdutasi d'animo, s'illude ancora, s'illude sul momento, s'illude sul luogo, s'illude sulle forze, e rompe guerra al Papato. L'Austria accorre; la setta è schiacciata. Nella lotta, finita prima che incominciata, un giovane Carbonaro, abbarbagliato dalla promessa del diadema italiano, proclamata causa sacra la rivolta contro il Papa, campa a stento la vita e fugge coll'aiuto d'un prete. Il prete avea nome Giammaria Mastai-Ferretti, il giovane Carlo-Luigi Bonaparte.

La Carboneria italiana aveva compiuto il suo giorno; allora un Carbonaro e un Massone, Giuseppe Mazzini, fonda una setta novella, la Giovine Italia. Come la Massoneria, come la Carboneria, la Giovine Italia anela ad una religione da

368 EPILOGO E CONCLUSIONE.

surro

Il 1849 trova sul piedistallo il Carbonaro salvato e il prete salvatore. Giammaria Mastai-Ferretti si chiamava allora Papa Pio IX., Carlo-Luigi Bonaparte era Presidente della Repubblica francese. Carlo Alberto ritenta la prova, prova da disperato; e nella inconsulta caccia alla corona d'Italia, corona fatale, sente scadergli dal capo la corona Savoia. L'Austria vincitrice accenna a Roma; ma la Francia accorre, gridando: «Non voi, vado io.» Carlo-Luigi Bonaparte riconquista a Pio IX. la sede de' Papi; e l'Europa plaudente vede il vincitore Mazzini, non ravvisa l'insorto delle Romagne.

Nella nuova posizione che il caso gli ha fatta, Carlo-Luigi Bonaparte trova intorno intorno ogni fatta difficoltà: il passato de' suoi, il passato sé, il presente, l'avvenire; esempi da seguire, errori da evitare, colpe da riparare, memorie da ridestare, disegni da riprendere, imprese da continuare, progetti da incarnare, programmi da occultare, timori da nascondere, speranze da velare; difficoltà in tradizioni nazionali ed in tradizioni

EPILOGO E CONCLUSIONE. 369

famiglia, in vie, in mezzi, in tutto; e sul tappeto già intavolati problemi gravissimi a sciogliere, ardenti questioni, al dentro questioni latenti tra repubblica e monarchia, al fuori una questione politica e una questione religiosa, questione italiana e questione del Papato. Costretto a navigare tra Scilla e Cariddi, forzato ad incedere fra diffidenze e rancori, giuri e promesse setta lo legano, aspirazioni pretendente all'Impero lo incalzano, doveri capo potente e generosa nazione lo infrenano. Deve appoggiarsi su tutti, e non può soddisfare veruno: da una parte non può fare a meno puntellarsi svelatamente sul Pontefice, sui Vescovi, sul clero, sui cattolici; dall'altra, nascoso, sui Framassoni. Parlando per nascondere, tacendo per rivelare, circondato sospetti quando tace e quando parla, quand'opera e quando aspetta, sempre si tiene aperte due vie, sempre le più opposte tra loro; sempre prendendo a cardine del suo sistema politico l'arte fare un passo indietro dopo aver fatti due passi innanzi. E come per addormire gli uni avea scritto in una lettera, «la conservazione della sovranità temporale del Capo della Chiesa essere intimamente collegata collo splendore del cattolicismo, colla libertà e colla indipendenza d'Italia»; per addormire gli altri, annegato il beneficio nell'ingiuria, scrive ad Edgardo Ney un'altra lettera. Poi viene il silenzio, silenzio sett'anni. Intanto l'Impero risorge; e Carlo-Luigi Bonaparte, nomandosi Napoleone III, con una mano si stringe al Papato e all'Europa conservativa, coll'altra rialza la Framassoneria in Francia (1).

(1)

Eletto Gran-Maestro della Framassoneria Franchi Giuseppe Bonaparte, messogli a lato Cambacérès col titolo primo Gran-Maestro Aggiunto a Sua Maestà il Re Spagna, allorquando Giuseppe perdette il Regno, conservò il Gran-Maestrato dell'Oriente Parigi, sinché morì in Firenze nel 1844. Non gli fu dato verun successore, dalla caduta del primo Impero al 1852 reggendosi la Framassoneria francese da Gran-Maestri Aggiunti. Il 9 gennaio 1852 alcun membri del Consiglio del Gran-Maestro si riunirono, previa la licenza della Polizia, ed offrirono il Gran-Maestrato al principe Luciano Murat, nipote del Presidente. «Questa candidatura, scrisse in un Rapporto ufficiale il Rappresentante del Gran-Maestro, Reés, 33, appoggiavasi sopra considerazioni politiche e religiose.» Accolta la proposta all'unanimità, il principe Murat, avuti gli ordini del Presidente della Repubblica, accettò, ed

370

EPILOGO E CONCLUSIONE.

mezzo alle sue vittorie l'Austria aveva veduto la propria posizione in Italia essenzialmente modificarsi, inaugurata nella Penisola un'era d'incertezza e diffidenza. Dacché Carlo Alberto erasi fatto assalitore, la parte, assegnata all'Austria, guardiana assettamenti sanciti al Congresso Vienna, erasi tramutata in sostanza nella difesa del proprio. Il fuoco della rivoluzione ardeva tuttora nel Regno sabaudo. Colà solamente, nell'universale naufragio ordini costituzionali in Italia, incolume era rimasto un sistema rappresentativo; colà solamente, segnacolo speranza per gli uni, timore per gli altri, quasi a perenne minaccia, quasi a provocazione incessante del debole vinto al forte vincitore, continuava a star alta la bandiera tricolore. E mentre l'Europa del 1815 aveva abbandonata l'Italia in mano dell'Austria per tenerne allontanata la Francia, rialzato il Piemonte per interporlo tra entrambe; la Francia del 1849 era venuta risolutamente a contrapporre nel cuore della Penisola all'antica rivale sé stessa.

Soprarriva la guerra d'Oriente. Sperdendo gli ultimi avanzi della nordica Lega,

il 19 gennaio 1852 un gran numero alti ufficiali del Grande Oriente si recarono a porgere atto ossequio e riconoscenza al nuovo Gran-Maestro. «La Massoneria francese s'era stretta al principe Murat a cagione delle tendenze che la sua alleanza colla Massoneria italiana faceva supporre.» (Leone Plee, Framassone, nel Siede, giornale Parigi. numero del 24 maggio 1861).

Nel 1861 il Murat in pieno Senato votò in favore dell'emendamento, con cui s'intendeva chiedere all'Imperatore il mantenimento della sovranità temporale del Papa. Un giornale parigino, scritto da Framassoni, gli si sferrò contro. Il Murat offeso, valendosi de' diritti e delle leggi massoniche, proibì il giornale e sospese il Framassone scrittore, con provvedimento analogico alle scomuniche, cui i Massoni si beffano se intimate dal Papa, ma che religiosamente rispettano se intimate a nome della Massoneria. Allora fu deciso rovesciare il Murat dal Gran-Maestrato, e il principe Napoleone, mentre prometteva a Murat non essere candidato al Gran-Magistero, in fatto lo accettava pubblicamente e aiutava a scavalcare il parente. Giunto il dì della elezione. gli elettori furono in numero insufficiente, e si fe' tal tumulto che il Murat prorogò l'adunanza. Non abbadando al suo decreto, gli oppositori elessero a succedergli il principe Napoleone, che accettò. Murat ne andò in furie, mandò un cartello sfida al principe, dovuto accettare dal Napoleone, poi reietto per comando espresso dell'Imperatore. Il principe Napoleone dovette rinunziare alla carica Gran-Maestro, e imprendere un viaggio fuori Francia.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 371

la Francia si dà a' maggiori sforzi onde attrarre l'Austria nell'orbita della sua politica, firma Trattati d'amicizia con essa, la premunisce d'ogni molestia alle spalle. Ma svanite le vaste speranze grandi cose in Italia, agli uomini della rivoluzione parendo troppo poco che quella guerra nulla più avesse a fruttare se non i comuni perigli delle armi Francia e Sardegna in Crimea, Pianori è spedito a Napoleone III per rammentargli, ch'egli, figlio d'Italia, figlio della rivoluzione. aveva doveri da compiere per la rivoluzione e per l'Italia. Quel muto linguaggio è eloquente. Fatte sedere a parità Austria e Sardegna al Congresso Parigi, Napoleone III, quando ciascun men sei pensa, chiudendo le porte del tempio della guerra da una parte, le apre dall'altra, sguinzaglia il Piemonte dall'ubbidienza al silenzio, e all'ombra del non-intervento spiana la via coll'intervento diplomatico all'intervento rivoluzionario, cui terrebbe dietro più tardi l'intervento armato.

Guidato per mano da Cavour, il partito padroneggiante in

Quetato il tafferuglio fra i due, ma rimasto tale scompiglio nell'Ordine da minacciarlo ruina, intervennero direttamente l'Imperatore, svelatamente il Governo; ed il Ministro Persigny, ne' giorni stessi in cui tempestava furiosamente la Società San Vincenzo de' Paoli, ordinava scioglierne il Comitato supremo in Parigi ed i Comitati centrali nelle province, disponeva l'estremo fato alla più popolare, alla più benefica, alla più amata fra le cattoliche istituzioni della Francia, mandò fuora, il 16 ottobre 1861, una Circolare intorno ai meriti della Framassonoria, altamente lodandone il patriotismo, qui n'a jamaisscrisse, fait defaut aux grandes circonstances.

Spirati col 31 ottobre 1861 i poteri Luciano Murat, venne istituita al Grande Oriente Francia una Commissione, specialmente autorizzata dal Governo e dalla Polizia a riunirsi, composta de' cinque membri, Doumet, Gran-Maestro Aggiunto e deputato al Corpo Legislativo, Reés, Rappresentante del Gran-Maestro, Sanin, d'Aragon e Boubée, grandi ufficiali dell'Ordine, con nome Grandi Conservatori ed incarico governare la Massoneria sino alla convocazione dell'Assemblea legislativa, che per decisione del Ministro dell'Interno fu ordinata pel maggio 1862. Allora, proposto da Napoleone III, scelsero a Gran-Maestro il maresciallo Magnan. Venuto questi a morte nell'ultimo giorno del maggio 1865, gli successe nel Gran-Maestrato, proposto ancora dall'Imperatore, il generale Mellinet.

Alla fine del 1863 erano in Francia, escluse le 19 dell'Algeria e le 8 delle Colonie francesi, 276 Logge tutti i riti; delle quali in Parigi e sobborghi 96, nei Dipartimenti 180.

372 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Piemonte aveva un programma, una formola: guerra all'Austria, guerra al Papato; la formola della Carboneria, la formola della Giovine Italia. Solamente che, subordinata inevitabilmente la vittoria sulla temporale potestà de' Pontefici alla vittoria sull'Austria, mentre Carboneria e Giovine Italia avrebbero voluto riescirvi col fare da sé senza straniero intervento, Cavour divisava appoggiarsi sull'intervento francese, lasciato alla posterità risolvere l'arduo problema, se, fatta libera qualsivoglia signoria ed influenza dell'Austria, potrebbe poi l'Italia scuotere il giogo del vassallaggio dalla Francia. La guerra all'Austria, la guerra al Papato, Carlo Luigi Bonaparte avea già incominciate, Presidente della Repubblica, colla spedizione Roma. Oggidì però Imperatore della Francia cattolica, della Francia che teneva ad onore chiamarsi figlia primogenita della Chiesa, serbata all'Austria a suo tempo la guerra palese, al Papato ei non avrebbe, almeno per allora, potuto muovere, nelle condizioni in cui si trovava l'Europa, che una guerra velata. Nella guerra contro l'Austria stessero la Francia, la Sardegna, la rivoluzione; nella guerra contro il Papato, Francia restando da parte, la Sardegna e la rivoluzione.

Nell'ordine fisico come nel morale un eccesso qualunque fa minore impressione ogni qualvolta non vi si piomba tratto. ma vi si arriva grado a grado, passando per istadii mediani. Il legnaiuolo, che nella solitudine de' boschi agogna abbattere la quercia secolare, comincia con recidere furtivo a quando a quando i rami principali, qualche tempo appresso ne scalza le maggiori radici e le tormenta coll'ascia; alla fine avvinchia alla più alta sua cima una fune robusta, discende e tira gagliardamente. La gigantesca mole alle ripetute scosse traballa; allora il legnaiuolo stacca la fune, ricopre le radici erbose zolle, si pone in disparte, e fnor del pericolo aspetta. Un buffo vento, che romoreggia flagellando la foresta, investe la quercia e l'atterra. L'inconscio viandiante passa, vede l'albero rovesciato, e può credere che sia caduto da sé. Poi il guardaboschi, un antico legnaiuolo, un amico gioventù, che avea lasciato correre, spronato a spicciarsi e aiutato ei medesimo, che avea ronzato intorno, trattenuti a chiacchiere i colleghi e destramente impedito che alcun altro accorresse al romore de' colpi dell'ascia, intascato il guiderdone del servigio, si. stropiccia le mani, si liscia i mustacchi,

EPILOGO E CONCLUSIONE. 373

e se ne va canticchiando:

Gittate le basi d'un primo accordo diretto tra Napoleone III e Cavour, messo in piedi l'addentellato pel momento più opportuno, Francia, appena uscita da una guerra colossale, abbisognava pace a rimarginar le ferite, tempo ad apprestarsi ad una seconda gran guerra. Scorse un anno; spazio breve troppo per chi doveva scendere in campo, troppo lungo per chi attendeva impaziente. Speravano che alti fatti avrebbero seguito alle parole; non ne fu nulla. Lento nel concepire, incerto nel porre ad atto, quanto tenace e spedito se una volta ben fermo in mente un disegno, fu creduto che Napoleone III, non che titubare, desse ben addietro, quasi che, della rivoluzione pauroso, temesse avverarsi il vaticinio Metternich (1). Tenendosi dimentichi, gabbati, traditi, e nel vero non era se non a metà, Tibaldi fu inviato a scuotere il Bonaparte dal suo torpore. Parve Napoleone non se ne addasse, ed ecco Felice Orsini all'opra.

Le rivelazioni dell'assassino () rompono d'un tratto gl'indugi.

(1) Narra Adolfo Dechamps, a lungo Ministro Stato nel Belgio (Le second Empire, Dialogues politiques, pag. 85. - 1859): «Il principe Metternich, questo tranquillo o penetrante ragionatore, mi ha detto, in sul cominciare del 1850, avanti che il signor Thiers pronunziasse il celebre motto l'Impero è fatto: «La repubblica in Francia s'incammina verso l'Impero. Il futuro Imperatore ha belle carte in mano, e fa ottimamente il suo giucco. Un bell'avvenire si apre davanti a lui; egli è abile e fortuna ed andrà ben lungi. Ma ha da evitare uno scoglio, a cui può rompere; io temo ch'egli perisca come Imperatore rivoluzionario. Se egli cade come Imperatore rivoluzionario, sarà in Italia.» .

(2) Nel processo d'Orsini il Pietri dirigeva l'inquisizione. In lunghi colloquii nel carcere, Orsini fece a Pietri sì ampie rivelazioni da render questi sicuro che l'Imperatore avrebbe fatto grazia della vita al sicario. La vigilia del supplizio Pietri passò sei intere ore con lui; lasciatolo, corse dall'Imperatore. Un Consiglio Ministri, che doveva adunarsi per discutere sulla grazia ad Orsini, fu contrammandato, e in sua vece convocato in tutta fretta il Consiglio privato. L'Imperatore ascoltò, senza profferire nemmeno una parola in contrario, i motivi fatti valere dal Pietri per la grazia. Questi, appoggiato alle rivelazioni dell'Orsini, che eransi obbligati con giuramento a non arrestarsi sino a che non fosse spacciato Napoleone e cacciati Francia i Bonaparte, proponeva la questione della grazia come questione principii, esprimendo la convinzione che,

374 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Pietri è mandato ad abitare per cinque mesi l'Italia e predisporre su' luoghi, Cavour è chiamato a Plombières a concertare co' patti la guerra aperta all'Austria, Edmondo About è inviato a Roma ad iniziare la guerra aperta al Papato, Napoleone III, ricondotto lo Czar Alessandro II. in Stuttgard alle idee generali Alessandro I. e dell'abate Piattoli nel 1804, lascia intravedere alla Russia campo aperto in Oriente; abbindola la Prussia; addormenta l'Inghilterra; isola l'Austria, le manda per capo d'anno uno scoppio tuono, e incomincia la guerra cogli opuscoli.

Stesa la rete, l'Austria v'incappa; decisa già a favore dell'Austria da Napoleone III medesimo (1) la questione: chi fosse il vero autore della guerra, se l'Austria col suo ultimatum, o coloro che l'avean tratta per disperazione ad inviarlo. La guerra d'inchiostro convertesi in guerra da cannoni. Mentre in Italia la rivoluzione spazza dinastie, al Bonaparte arride la fortuna delle armi. D'improvviso tutto muta. Napoleone III con un tiro da maestro barbaglia nemici ed amici; segna la pace in palese, continua la guerra in segreto; a Villafranca dice: come volete; a Torino dice: come vorrò; e torna a casa, lasciando in Italia il caos.

L'Europa bonariamente crede fatta la luce, e vede venir buio buio, tal buio che niuno forse vorrebbe mai saper. dire con qual nome dovrà rimanere nella storia. Si vuole e non si vuole; si dice e si disdice; si afferma e si nega; si parla tacendo, si tace parlando; si scrive e si cancella; si propone e si dispone; si da e si toglie; si promette e si ritratta; si mostra e si nasconde; si

se la rivoluzione italiana avesse potuto sperare un intervento fatto da parte della Francia, la dinastia napoleonica era salvata. Dopo il Pietri parlò l'Imperatrice a favore della grazia, rammentando il proverbio del suo paese: sangue chiama sangue. Il Cardinale Morlot, il maresciallo Pólissier ed il conte Morny invece si dichiararono nel modo più risoluto contro la grazia, Morny giungendo sino a nominare nel calore del discorso Pietri complice Orsini, se osava raccomandarlo. Allora Pietri, guardato l'Imperatore e non veduto in esso verun segno adesione, dichiarò avere espresso la sola sua opinione soggettiva, dopo che 1Imperatrice gli porse la mano.

(1)

Nel suo libro Des idées napoléonnienes (Chapitre IV., pag. 122) egli scrive: Comme l'a dit Mignet (Histoire de la Révolution). le véritable auteur de la guerre n'est pas celui qui la déclare. mais celui qui la rend nécessaire.»

EPILOGO E CONCLUSIONE. 375

blandisce e si schiaffeggia; si va innanzi e si va indietro; ora a destra, ora a sinistra; oggi bianco, doman nero; si ciancia e si vota, si compra e si vende. E allorquando il sole della verità, alzandosi sull'orizzonte ad illuminare la fantastica scena, le artifiziose tenebre diradansi, e le ombre confuse incominciano a prendere contorni e forma, l'Europa attonita, sbalordita, soprappresa, narcotizzata, scorge quale immane illusione fosse stata spettatrice e vittima; e gli scorbacchiati sono i grandi uomini che aveano creduto somma sagacia politica tener bordone. Mutato il metodo, rimasto il fine, riconvertita la guerra regia in guerra astuzie e setta, l'Europa vedeva riposti negli arsenali i cannoni rigati, e incorniciati tra le anticaglie dei musei accanto agli egizii papiri i Trattati Villafranca e Zurigo.

Promotrice e fautrice rivolture in paese altrui, in paese proprio non nuova a legare ribelli alle bocche cannoni zeppi a mitraglia, Inghilterra frattanto si picca usufruttare per sé, senza la spesa d'uno scellino, uno stato cose che Francia aveva acquistato a prezzo del sangue cinquantamila de' suoi e cinquecento milioni. Napoleone 111., alla sua volta minacciato d'isolamento. con maestria infinita si trae un'altra fiata d'impaccio: lega l'Inghilterra al suo carro, giusto allora che si tenea guidatrice; trae l'Austria a proclamare: ciascuno per sé, io bado ferme; e condotta grado a grado l'Europa a far cappello al fatto compiuto per vantaggio altrui, la forza a riconoscere il valore del fatto compiuto m suo pro. Convertita l'idea nel possesso Savoia e Nizza, la dottrina del non-intervento nella pratica dell'intervento per interesse, l'intervento armato della Francia a settentrione d'Italia cessa; restano nella Penisola l'intervento rivoluzionario, l'intervento diplomatico, l'intervento opuscolare, la politica brochurière.

II.

Da quel momento tutto cangia da parte Napoleone III : politica, vie, mezzi, condizioni. Mentre Francia e Inghilterra s'intendono per manomettere quanto ancor resta in piedi in Italia d'un ordine cose che han predestinato a soccombere;

376 EPILOGO E CONCLUSIONE.

e il

Suonata è l'ora mantenere promessa Re. Assenziente e cooperante il Governo Torino, assenziente e proteggente il Governo Londra, assenziente e nulla veggente Napoleone III, Garibaldi vada in Due de' più gravi ostacoli, che in addietro avevano nell'Italia meridionale abbarrata alla rivoluzione la via, omai erano stati rimossi: Ferdinando II e le truppe svizzere. Francesco Duca Calabria, primogenito Re Ferdinando, stava per impalmare Maria Sofia, principessa Baviera; e da Trieste a traverso l'Adriatico doveva toccare il suolo napoletano a Manfredonia. Il dì 8 gennaio del 1859 Ferdinando II si dipartiva da Napoli per accogliere la nuora allo sbarco. Freddissimo più che d'ordinario il verno. Il giorno 9, fra mezzo agli Appennini, i cavalli scivolando sul ghiaccio, fermò sotto Ariano, dubbioso se proseguire. Era Vescovo colà Monsignor Caputo, per regio favore traslatatovi dalla diocesi d'Oppido, ove per male opere l'avean preso a sassate. Il Caputo si presentò al Re, supplicandolo vivamente salire in Vescovado. Ferdinando non mai soleva desinare in casa altrui, pur alle istanze del Caputo si arrese, ed in casa d'un Vescovo beneficato stanchezza e opportunità lo indussero a sedere a mensa.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 377

Vi fu allora chi scorse al Vescovo in viso, e lo rammentò ben dappoi, un ghigno amaro (1). La notte, Ferdinando, che fino allora era stato sanissimo e lietissimo, si senti male, ebbe brividi, dolori, insonnie, sconci sogni. Si spinse avanti ad Andria, sempre peggiorando. A Lecce dovè porsi a letto; il male aggravò sempre. A' primi febbraio trascinatosi fino a Bari, a gran fatica potè essere ricondotto a Napoli. Lungamente penato, venne a morte il 22 maggio 1859 (2).

Correvano già oltre i trentanni dacché il Governo delle Due Sicilie teneva a suo servizio quattro Reggimenti Svizzeri, sempre mostratisi onesti e valorosi soldati. L'8 del luglio 1859 una parte que' soldati si ammutina in Napoli, sotto pretesto che si dovessero loro restituire le bandiere federali, a richiesta del Governo elvetico state scambiate con bandiere regie. Usciti gl'insorti da Napoli, abbandonatisi a violenze nel procacciarsi viveri ne' contorni, riescito vano ogni tentativo ricondurli a ragione, fa mestieri persuaderli colla forza. Circuiti dalle altre truppe svizzere rimaste fedeli, e da molte napoletane, i sediziosi risposero a nuove esortazioni con adoprare le armi da disperati, né desistettero

(1) De Sivo; Storia delle Due Sicilie, Voi. II., pag. 392.

(2)

Il Caputo fu il solo tra i Vescovi del mondo che si rendesse degenere dalla sublime unanimità dell'Episcopato cattolico; che fu rimeritato colla carica Cappellano Maggiore Napoli e col gran cordone de' Santi Maurizio e Lazzaro. Proclamò voler cantare un Te Deum nella basilica San Pietro in Roma per l'insediamento del Re d'Italia in Campidoglio e per la spogliazione finale della civile potestà dei Pontefici. Il 6 settembre 1861, all'invito celebrare la funzione religiosa del giorno 8 quel mese a Piè Grotta, rispose in iscritto (lettera stampata nel Nomade, giornale Napoli, del 7 settembre): Accetto l'invito, e la preghiera che farò a Dio sarà questa: «Signore! Date lume al Capo della Chiesa, che cessi proteggere in Roma il Re dei briganti, Francesco II; e che una volta per sempre si ravvegga errori ed orrori commessi con iscandalo tutta la Cristianità.» Poi menò vanto gradire la nomina a presidente onorario dell'Associazione scismatica delle tre decine preti apostati italiani. Il 6 settembre 1862, un anno dopo la scritta dell'orrenda preghiera, morì in Napoli quale avea vissuto da poco. Fu scritto lui (San Pol; Quaresimale del Contemporaneo, Conf. 1.), che, «s'egli fosse vissuto ai tempi delle Margherite, delle Adelaidi e delle Cristine, colla debita riverenza e colle ottenute facoltà chiesastiche, al Caputo non sarebbe mancato un ergastolo ed una mannaia.»

378 EPILOGO E CONCLUSIONE.

se non quando furono appuntati i cannoni. I reggimenti svizzeri furon disciolti, i più de' soldati rinviati in patria.

È facile, passato il trionfo, riaddormentarsi; più facile allora dimenticare i veri amici, beneficare i peggiori perché più destri, blandire i nemici più o meno in maschera. Intanto le sètte, risollevato il capo, preparano nuove congiure, e ripercosse sempre risorgono. A Ferdinando IL, primo operatore della reazione che due lustri addietro avea salvata l'Europa, godente incontrastata autorità, applaudito da' sudditi, parve bastare, molto operando a restaurare le cose, il fatto della materiale vittoria sulla rivoluzione, senza darsi forse troppo pensiero conquiderla nelle menti. Messi a uno stesso livello, anche in altissimi gradi, fedeli ed avversi, operosi e infingardi, valenti ed inetti, cercata piuttosto la mediocrità, la nave dello Stato trovavasi, quand'ei morì, barcollante sull'onde lievemente increspate; e in condizioni sì fatte, se al timone non siano a tempo uomini grande forza e destrezza, basta talora improvvisa raffica per capovolgere.

Francesco II, a 23 anni chiamato a succedergli, in tempo quando non mai i monarchi ebbero più pericoloso agone, nuovo agli affari, s'avveniva a reggere un popolo la cui immensa maggioranza era sinceramente affezionata alla dinastia, che colle più miti gravezze (1) avealo reso prosperoso all'interno e rispettato al fuori; la cui amministrazione era affidata ad uomini varii pensieri, né tutti ben fidenti del presente, e tra coloro che sedeano più in alto non pochi poveri pentiti camuffati realismo, ingordissimi d'autorità, paghi de' grassi stipendii, coll'occhio all'avvenire per veder modo, al caso mutata veste, star nullameno a tutt'agio; con un esercito terra e mare, fedele, disciplinato, a capo del quale stavano in numero generali, carchi d'onori e pingui paghe, ancorché molti tra essi fossero ben note reliquie associazioni settarie. Bello è perdonare a' rei qualche volta, più saggio non elevarli mai a potestà.

Tra mezzo ad esterne insidie ed interne difficoltà, il nuovo

(1)

Mentre il Piemontese pagava 19 franchi per anno, il Romano ed il Parmense 18, il Toscano 17, il Modenese 15, il Napoletano. dopo il 1832, 14 franchi, ed il Siciliano meno ancora.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 3

79

monarca s'avveniva sui gradini del trono in un principe Casa Borbone, uno zio largamente impigliato nella pania, Leopoldo conte Siracusa. Ammogliato a Maria Vittoria Savoia-Carignano, sino dalla sua giovinezza passava per liberale. Mandato a reggere la colà circondato dalla setta e sospinto a gridarsi Re, richiamato in fretta quando la trama stava per iscoppiare, tutta la vita avea dappoi congiurato contro e sotto gli occhi Ferdinando, assicurato dal regio sangue e dalla indulgenza onde il Re copriva le colpe de' suoi. Gran proteggitore delle arti, artista egli stesso, scultore egregio, vivente ancora Re Ferdinando, aveva esposto in un gruppo l'Italia che riconciliava il cavallo napoletano coll'aquila savoiarda, allegoria dell'alleanza. In Napoli il suo palazzo era divenuto centro quotidiano ritrovi, dove chi per malizia e chi per goffaggine diceano il peggio del paese e del Governo, poi al fuori a manciate spargendone accuse e calunnie (1). Un altro zio del Re, il conte d'Aquila, ammiraglio nella marineria nazionale, meglio del fratello temente Ferdinando, per levità carattere più forse che per convinzione verace, la scialava eziandio da liberalone e in casa propria e più in casa altrui.

Salito appena al trono, Francesco II, mutato Ministero, ne avea posto a capo Carlo Filangieri, principe Satriano, cui la età e la sperienza inspiravan fiducia; capacità militare primo ordine, prima Massone, poi Carbonaro, più volte mutata bandiera, due volte fatto il mercante, due volte fallito e dopo il fallimento risalito a maggiore ricchezza, ed anche essendo Viceré dicevasi l'avesse fatto a maniera mercante. Capitano ad Austerlitz, capo battaglione nell'esercito Murat, ferito e decorato al Panero e fatto generale, caduto in disgrazia dal 1821 al 1830, nel primo anno del regno aveva tentato ricostituire un Ministero costituzionale. Dal 1846 al 1848 si dà per liberale più che mai, ma mandato Pepe in sua vece nell'Italia superiore, per gelosia costui si fa reazionario. Da allora devoto alla sua nuova bandiera, organizza in Napoli la spedizione trionfa a Messina, conquista il rimanente

(1)

Mendicata a Torino una pensione, disprezzato da ognuno, sfuggito da tutti, il principe moriva poco appresso, d'apoplessia fulminante.

380 EPILOGO E CONCLUSIONE.

dell'isola, che poi regge per un settennio. In questo incarico sin da principio avea fatto tutte cose e bene e male. Uomo forte volontà, pacificata l'isola, tenuta ferma la potestà, regolate bene l'amministrazione e le finanze, curate le pubbliche opere, avuto a regola il premiare il merito, steso ampiamente l'obblio del passato; e tutto questo era lodevolissimo. Ma qui appunto cadendo in opposto estremo, tenne in uffizio i già traditori ufficiali regii, mise in uffizio ufficiali della rivoluzione, e con cariche onorate e lucrose molti stati questa promotori e braccio; e ciò era gran male, che il premiare la colpa, comunque dicasi prova forza, è ingiustizia, e le ingiustizie scrollano, non raffermano i troni. Sin da' principii diede a' Siciliani la promessa che il principe ereditario con due Ministri sederebbe a Palermo, promessa che solleticava una loro aspirazione, ma ch'ei non aveva facoltà dare, e non potendo essere mantenuta. era inizio a lamenti, abilmente usufruitati da' tanti figli della rivoluzione, che accarezzati e inalzati in posto, a metter in odio sovrano e governo faceano intanto soprusi e oppressioni. Tolto lasciatavi così una macchina per guisa conciata che senza lui dovea crollare, il Filangieri, avvicinandosi il 1859, parea soppiatto tornasse a sue idee d'altri tempi, gallico sopra tutto; ed ora fatto Ministro e capo del Gabinetto, ripigliate alla morto Ferdinando II da Francia e Inghilterra le interrotte relazioni diplomatiche colla Corte Napoli, Filangieri stringevasi al Brenier, Legato francese, stato nel 1848 Console a Livorno, in gran lega co' più famosi settarii dell'epoca, poi Ministro a Torino, rimandato presente a Napoli a soffiar nelle ceneri.

All'avvento Francesco II la Sardegna avea spedito a Napoli, negli ultimi giorni del maggio, un inviato speciale, il conte Salmour, con incarico proporre al nuovo Re alleanza offensiva e difensiva, e reciproca guarentigia dell'integrità Stati delle due parti contraenti. Pare nella realtà che a quel momento questa fosse offerta sincera. Già non aveva potuto sfuggire all'osservatore il fatto che quanto più la guerra erasi andata appressando, tanto maggiormente eziandio Cavour erasi astenuto fare nelle sue scritture diplomatiche allusione alcuna alle cose delle Due Sicilie, in ispecie per non intorbidare l'amicizia della Russia; dappoiché lo Czar avrebbe fatto esplicite riserve a fa

Tornando in seggio, Cavour inviò a Napoli, nel gennaio del 1860, il marchese Villamarina a riproporre l'offerta. Ammaestrata da quanto consimile era avvenuto poco prima in Toscana, dubitando la Corte Napoli che tanto affetto velasse il tranello a suo danno, non se ne fe' nulla ancora, comunque Francia e Gran-Bretagna si adoperassero ufficialmente a tutta possa per trarvi il Governo napoletano, e Russia dichiarasse approvare appieno questa politica del Piemonte verso le due Sicilie, essendo ciò, diceva (2), indispensabile per tenere a freno il partito liberale, e il Piemonte, non avendo più bisogno della rivoluzione, dover essere conservatore. Dopo che Napoleone III aveva detto il 26 gennaio 1860, al Nunzio pontificio in Parigi (): «Noi manterremo le nostre truppe a Roma sino all'accomodamento generale delle cose»; nel marzo successivo era venuta Francia la proposta sostituire in Roma con truppe napoletane le francesi, che in tal caso, affermavano, sarebbero tornate in patria. Quel disegno si convertì in un altro: che un esercito napoletano andasse a porre stanza nell'Umbria e nelle Marche; disegno, già dicemmo, in addietro messo in campo da altra parte, ed allora avversato appunto da Francia. Il Re Napoli, pauroso che a meglio travolgerlo nella decretata ruina lo si volesse condurre a passi che accelerassero la fine, dichiaravasi ben risoluto a non accettare, come aveva rifiutato la prima, neppur questa seconda profferta.

(1) Dispaccio confidenziale del conte Cavour al conte Salmour del 29 maggio 1859.

(2) Dispaccio del commendatore Regina, Ministro siciliano a Pietroburgo, al Ministro affari esteri a Napoli, del 16 gennaio 1860.

(3)

Vedi nel Capitolo ventesimosesto a pagina 320

382

EPILOGO E CONCLUSIONE.

D'altronde, richiedeva, che ne pensa la Sardegna? Il Gabinetto delle Tuileries ripeté la domanda a Torino, ed il 26 marzo raccomandò al Re la risposta (1): Sardegna acconsente. Ma poche ore dopo che il Brenier aveva trasmessa questa risposta, Villamarina, ritenendo forse che il Re Francesco accettasse, annunziò formalmente al Governo, avergli Cavour scritto per telegrafo, che se truppe napoletane entrassero nel Pontificio, egli, Villamarina, dovesse protestare, rompere ogni relazione col Governo

Napoli, e partire. Non appena i Francesi incominciavano a muovere Lombardia per riedere in patria, che da Torino parte l'ordine dar mano a ribellare Da una parte Cavour a capo del Governo subalpino, dall'altra stretti dal regio patto Mazzini e Cavour a capo della Massoneria e della Società Nazionale avevano del loro meglio predisposto il terreno. Il 3 aprile Palermo era in preda a febbre sediziosa. Da più giorni si trovavano al mattino appiccicate su' muri proclamazioni eccitanti alla rivolta, decreti, disposizioni provvisorie, edite dalla stampa clandestina un Comitato, elevatosi a Governo invisibile fronte al Governo regio, che impone obbedienza a' suoi ordini, e per paura la ottiene più che le autorità costituite. Queste proclamazioni dispensano largamente promesse e minacce; determinano rigorose condizioni a' membri della Polizia, se vogliono essere amnistiati; annunziano l'unità italiana, il concorso del Governo piemontese, il prossimo soccorso Garibaldi. Vasta congiura nell'ombra si ordisce, in cui operano concerto nobili ambiziosi e plebe rotta ad ogni delitto, istigata da que' medesimi che, reduci appena dall'esilio, pagano la regia clemenza con più fiere cospirazioni. Un terror panico si diffonde. A calca le genti d'ogni classe si premuniscono che vivere; altri si chiudono in casa, altri, lasciata la città, si ritirano nelle campagne.

Assente il Luogotenente del Re in principe Castelcicala,

(1) Dispaccio telegrafico del conte Cavour, al marchese Villamarina, Ministro Sardegna a Napoli.

«Turin, 24 mars 1860. - Sa Majesté le Roi de Sardaigne promet de ne mettre aucun obstacle a l'occupation des Marches et de l'Ombri e par les troupes napolitaines, et de tout faire au contraire pour empêcher que l'agitation ne te propage dans les États de l'Église.»

EPILOGO E CONCLUSIONE. 383

stava la somma delle cose militari in Palermo affidata al generale Salzano. Nel 1801 era costui nelle bande Fra Diavolo contro i Francesi; nel 1815 era, voltata casacca, nell'esercito del francese Murat, ufficiale e cavaliere. Carbonaro zelante nel 1820, era stato inviato con Florestano Pepe a Palermo per sottomettere Borboni; ed ora si trovava ancora in Palermo quando doveano perderla. All'alba del 4 le campane del monastero della Gancia danno in Palermo il segnale della sedizione. Circondato d'alte e solide mura, quell'edificio nella notte stessa avea la Polizia diligentemente perlustrato e per la scaltrezza dei monaci cosa alcuna scoperto. Accolte le accorse soldatesche a colpi fucile e cannone, e alle grida Viva Vittorio Emanuele, i più de' sollevati caddero morti, feriti, o prigioni. Moltissime le armi e le munizioni trovate sul luogo, fra esse tre cannoni. Rotti i fili del telegrafo elettrico per impedire al Governo le comunicazioni colle province, nel tempo medesimo bande d'insorgenti s'avvicinavano a Palermo, dopo brevi avvisaglie obbligate a ripiegarsi.

Il 6 torbidi in Trapani, l'8 tentativo rivolta in Catania, tosto sedate. Lo stesso giorno il sangue corre per le vie Messina, sommossa dai fratelli Sella, l'uno Console, l'altro Viceconsole Sardegna, assicuranti che la ribellione aveva trionfato in Palermo. A Marsala il Console sardo, Lipari, in abito ufficiale, eccitando a rivolta colle solite grida, corre per le strade con bandiera piemontese in mano, prende alle regie casse tutto il denaro che trova, per pagare con esso le bande armate, che organizza onde ispedirle a soccorso Palermo. Il giorno appresso, conosciuto il mal esito del tentativo della capitale, i più compromessi fuggono, altri si fanno denunziatori presso le autorità regie, e tutto ritorna com'era.

Reduce in Palermo il principe Castelcicala, povero mente e consiglio, restò a capo delle truppe il generale Salzano. Intanto le bande, da più parti accozzatesi, infestano i dintorni Palermo; e Salzano, tenendo già oltre a quindicimila soldati nella sola città, le lascia vagare a lor grado, e appena appena manda qualche leggera colonna a breve distanza. La insurrezione soffocata nella capitale si estende e si afforza nel territorio circostante.

384 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Da Napoli si dispongono crociere navigli lungo le co

La tranquillità erasi alquanto ristorata in Palermo, allontanate e assai sminuite le bande, ristabilite le comunicazioni colle province, allorché, il 23 aprile, la fregata piemontese il Governolo vi approda. Una nuova agitazione si manifesta, si formano capannelli, s'alzano grida sediziose. Corsa voce, che allo scendere dell'equipaggio sardo la sommossa rialzerebbe il capo, il principe Castelcicala manda a dire al comandante del Governolo: quanto gli sarebbe increscevole, se, dovendo reprimere con la forza ogni attentato all'ordine, si trovassero confusi nella folla individui appartenenti alla sarda marineria. Ne ha in risposta: apprezzarsi l'avvertenza; promettere che si vieterà all'equipaggio por piede a terra; gli ufficiali, venendovi, userebbero abiti borghesi. E intanto soppiatto dal Governolo s'introduce in città gran copia d'armi e munizioni. Quando poi il Console sardo si udì richiedere la partenza delle navi da guerra della sua nazione ancorate in porto, con serietà rispose: «La fregata Governolo dovere rimanere per prendere a bordo il Consolato ed i sudditi sardi nella vicina sommossa tutta la

Era scorso un mese, e le cose poteano dirsi nelle stesse condizioni che a' primi dell'aprile. L'insurrezione né si disanimava, né era riescita d'impadronirsi veruna città importante. Trapani, che pareva caduta in potere de' sediziosi, o che piuttosto non era in potere d'alcuno, reggendosi con una specie Guardia civica,

(1)

Dispaccio del Luogotenente generale al Re, in data 17 aprile 1860.

(2) da aprile 1860 a marzo 1861. pag. 28.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 3

85

era stata occupata da un forte nodo regie milizie. Ai primi maggio l'isola è percorsa da agenti piemontesi, che, reclutati quanti più possono colla giornaliera mercede siciliani tari quattro, l'internano nelle montagne, a fornirli armi, od organizzati in bande, alle quali fan capo in buon numero Cacciatori delle Alpi, imbarcati alla spicciolata in Genova, e per le vie Livorno e Malta introdottisi furtivi ne' porti siciliani. Le voci del prossimo sbarco Garibaldi in si fanno correre con crescente insistenza. Il 9 maggio, altro subbuglio in Palermo, ove da quarantun giorno con mezzi estesissimi repressione le condizioni peggiorano e i governanti si cullano nel dolce far niente.

III.

A Garibaldi occorrevano uomini, danari, armi, navi; e quanto era d'uopo fu dato. Posti a suo servigio i mezzi pecuniarii che disponeva la Società Nazionale, non potendo il Governo Torino riconsegnare a Garibaldi, senza svelare soverchio la connivenza, le armi allogate negli arsenali dello Stato per sequestro anteriore, il Governo comperò quelle armi medesime, sborsandone al generale il danaro per l'acquisto altre. Poi per ordine espresso del Ministero si trassero dall'arsenale Modena altri fucili, consegnati in Genova. Colà, la sera del 5 maggio 1860, intorno a mille avventurieri si radunano alla marina della Foce; poi alcune barche staccatesi dalla spiaggia, avvicinati chetamente i due piroscafi il Lombardo ed il Piemonte, giunti allora allora da Tunisi, gettano sulle due navi una mano Garibaldini. Parve ardito colpo mano; erano navigli comprati. Medici, trattato l'affare col proprietario Rubattino, eransi accordati sul prezzo. Rubattino, consapevole dell'uso che si voleva fare delle sue navi, rifiutava però consegnarle senza pagamento sopra la semplice firma Garibaldi. Fatto intervenire il Farini, allora Ministro dell'Interno, e non bastando, fu d'uopo volgersi al Re, a guarentire a sua volta il Ministro. L'atto vendita de' due bastimenti, stipulato in Torino presso il Notaio della Casa Reale, sottoscrissero: Medici per Garibaldi,

386 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Ricardi per suo suocero il Farini, il generale Saint-Frond, Aiutante campo del Re, per Vittorio Emanuele (1).

Partita la spedizione, il Rubattino avanzava un simulacro protesta per subita violenza e forzosa sottrazione de' suoi navigli; ed il Re Sardegna riceveva dalla Posta una lettera, previamente concertata onde poterla addurre a testimonio innocenza presso la diplomazia, in cui Garibaldi sul punto salpare scriveva: «Sire. Il grido dolore che dalla è corso a' miei orecchi, ha profondamente commosso il mio cuore e quello alquante centinaia de' miei vecchi compagni d'arme. Io non ho consigliato il moto insurrezionale dei nostri fratelli della ma dal momento che si sono sollevati in nome dell'unità italiana, cui la Maestà Vostra è la personificazione, non ho dovuto esitare a mettermi alla loro testa. Il nostro grido guerra sarà sempre: Viva l'Unità d'Italia! Viva Vittorio Emanuele, il suo primo e più valoroso soldato! Se riusciamo, andrò superbo ornare questo nuovo gioiello la corona Vostra Maestà. a patto però che Vostra Maestà si opponga a far sì che i suoi consiglieri cedano questa terra allo straniero, siccome hanno fatto per la mia città nativa. Non ho comunicato il mio divisamento a Vostra Maestà per la sola ragione che io temevo, che per effetto della mia devozione alla sua persona, la Maestà Vostra non riuscisse a persuadermi abbandonarlo.»

Il Piemonte ed il Lombardo escono dal porto Genova, e le autorità locali mostrano nulla sapere, nulla vedere. Dopo più ore dalla partenza Cavour spedisce per telegrafo a Genova due ordini pressantissimi, l'uno per l'Intendente, l'altro per l'ammiraglio Persano. L'ordine all'Intendente porta sorvegliare la costa

(1)

Due Decreti dittatoriali, firmati dal solo Garibaldi in Caserta, comparvero nel Giornale ufficiale Napoli, del 5 ottobre 1860. Col primo s'assegnano alla Società Rubattino 450, 000 franchi, da pagarsi dalla Tesoreria Napoli, per rinfrancarla della semplice cattura del suo battello Cagliari, servito per la sfortunata impresa Carlo Pisacane. Col secondo si assegnano alla stessa società Rubattino altri 750, 000 franchi, da pagarsi dalle Finanze Napoli e in compenso della perdita de' due suoi battelli il Lombardo ed il Piemonte, serviti ala fausta spedizione

e catturare tutte le armi che vi si trovassero; dopo che Giuseppe La-Farina avea portato a Genova alcune parole scritte dal conte Cavour pell'Intendente; dopo che, effetto quelle parole, l'avvocato Fasella, Ispettore della Questura Genova, con due suoi agenti avea sopravvegliato al trasporto delle armi e delle munizioni sul mare. L'ordine all'ammiraglio Persano era muovere sull'istante da Genova colla flotta per tagliare la via a Garibaldi, ed impedire lo sbarco sulle costiere siciliane; e l'ammiraglio aveva in tasca un viglietto nel quale si leggeva: «Signor conte. Vegga navigare tra Garibaldi e gli incrociatori napoletani. Spero che mi avrà capito!» sottoscritto: «Cavour.» Al quale viglietto il Persano aveva risposto con quest'altro: «Signor conte. Credo averla capito: dato il caso, ella mi manderà a Fenestrelle.» A Talamone, fortilizio sul territorio toscano presso Orbetello, Garibaldi si arresta, riveste l'abito generale piemontese per imbarcare centomila cartuccie e quattro cannoni rilasciatigli dal Governatore Orbetello dietro ordine scritto del generale Fanti, Ministro della Guerra in Torino. Poi le solite lustre: il Governatore fu destituito (1).

Ancorché condotta con sì grand'arte, la cooperazione del Governo sardo all'impresa garibaldesca non aveva però potuto sfuggire agli occhi della diplomazia. Giunto a Pietroburgo l'annuncio ufficiale dello sbarco in lo Czar, rimandando al principe Gortschakoff il dispaccio, scrisse in margine a questo: C'est infame, et de la part des Anglais aussi. Al marchese Sauli, Ministro Sardo presso la Corte Russia, Gortschakoff disse (): «Che se il Gabinetto Torino era débordè, se la rivoluzione lo trascinava a trascurare qualunque dovere internazionale, tutti i Governi d'Europa dovranno prendere in considerazione tale posizione della Sardegna, ed uniformare i modi con che continuare i loro rapporti con essa. Incaricarlo scrivere al conte Cavour che l'Imperatore Alessandro provava tale e tanta indegnazione

(1) E dopo le lustre i soliti romanzi. Chi ama tal genere letture, vegga. Le guerre d'Italia da Villafranca ad Aspromonte Franco Mistrali, da pag. 150 a pag. 156.

(2)

Dispacci riservatissimi del Duca Regina, Ministro delle Due Sicilie a Pietroburgo, al Ministro affari esteri a Napoli, de' 14 e 20 maggio 1860.

388

EPILOGO E CONCLUSIONE.

per ciò che accadeva in e per l'attitudine serbata dal Governo Sardo, che se la posizione geografica della Russia fosse stata diversa, egli sarebbe intervenuto materialmente, malgrado e contro il principio non-intervento proclamato dalle Potenze occidentali.» Prussia fu un po' meno ferma ed esplicita. Austria inviò due Note identiche a Parigi ed a Londra, ricordando in esse alla Francia la promessa da lei poco dianzi fatta, che «se il Piemonte, malgrado i suoi consigli, vorrà proseguire una politica d'ingrandimento, la Francia sarà del tutto disposta a provvedere.» Né la Francia, non volendo apparire da meno, fu avara delle più severe rimostranze verso il Gabinetto Torino; vuote baloccherie, dappoiché Napoleone III ben si era questa volta guardato dall'impedire che il Garibaldi fosse lasciato andare; dal pronunziare una quelle parole, che, quando lo si volea, si sapeva pure fare ascoltare, e lo avea provato Garibaldi medesimo in ottobre del 1859, come lo proverebbe più tardi ad Aspromonte.

Alle proteste, alle acerbe recriminazioni che gli veiaano da tutte Corti d'Europa, con inarrivabile dissimulazione Cavour contrappose l'impossibilità, in che, a suo dire, trovavasi il Governo piemontese, attraverso un'impresa diretta contro un Governo incorreggibile. «Con quale buon diritto, ei diceva, si può chiamare in colpa la Sardegna non avere impedito a Garibaldi lo sbarco sulle coste siciliane, mentre l'intiera Marina napoletana era a ciò stata impotente? Come avrebbe potuto il Governo Torino, senza segnare il proprio divorzio dalla causa nazionale, vietare che dalle liguri coste partissero italiani per porgere quell'aiuto, che i fratelli hanno diritto richiedere dai fratelli? E poiché Garibaldi aveva alzato lo stendardo della guerra popolo, forse che la monarchia non distruggerebbe incerta guisa colle sue mani medesime il proprio avvenire, ov'essa si determinasse a strappare mano le armi agli accorrenti volontarii? Mettersi per una tal via era un voler sprofondare l'Italia negli abissi dell'anarchia. La monarchia costituzionale della casa Savoia, onde rimanere sicuro argine in Italia contro il torrente delle idee rivoluzionarie, dovea innanzi a tutto conservare con vigile custodia il proprio prestigio.» Si cominciava a confessare aver saputo e tollerato, e questo ne' giorni

EPILOGO E CONCLUSIONE. 389

medesimi in cui il Governo Napoli, energicamente protestante a Torino, che, malgrado le promesse d'impedire la spedizione pubblicamente organizzata ed armata, fosse nullameno partita, Cavour rispondeva (1): «Non potere nemmeno cadder dubbio, che il Governo del Re Sardegna non approvi e contraddica la condotta Garibaldi; d'ordine del Re non esitare a dichiarare, che il Governo Sardo è totalmente estraneo a qualunque atto Garibaldi; il Governo sua Maestà Sarda non potere che formalmente disapprovarlo.»

L'11 maggio Garibaldi, presa finta direzione per Malta, virato bordo a vista della crociera napoletana, approdava a Marsala, porto fra Trapani e Girgenti. Il Piemonte, su cui era Garibaldi, entrò primo, seguito da presso dal Lombardo. Dinanzi al porto stava all'ancora da poche ore una corvetta inglese guerra, l'Intrepido, col cui capitano Garibaldi erasi concertato durante la traversata. Il disbarco comincia colla più grande prestezza; due terzi uomini erano già a terra, quando lo Stromboli e il Capri, le due navi napoletane che incrociavano a poca distanza, appariscono all'ingresso del porto. Lo Stromboli apre mollemente il fuoco nella direzione de' garibaldiani. Nello stesso istante il capitano della corvetta inglese sale a bordo dello Stromboli per dichiarare al comandante, che i suoi ufficiali ed una parte del suo equipaggio trovandosi in Marsala, egli lo rendeva responsabile qualunque accidente che potesse loro avvenire. Imbarcazioni si staccano per ricondurre gl'inglesi, ch'erano a terra. In questo mentre il resto de' garibaldiani scendeano sul lido. Una fregata napoletana a vela sopraggiunge. Allora le tre navi borboniche tirano all'impazzata nella direzione della città molte inutili cannonate, perocché, i proiettili cadendo quasi tutti nel mare, Garibaldi ed i suoi riparavano infrattanto sani e salvi entro le mura Marsala.

La notte medesima Garibaldi spinse i suoi avamposti verso Salemi. Il generale Primerano, che stava con una Brigata a brevi distanze, quantunque avvertito, resta inerte. A Salemi Garibaldi si arresta, si proclama comandante in capo l'esercito nazionale in

(1)

Dispaccio del conte Cavour al marchese Canofari, Ministro delle Due Sicilie a Torino, del 26 maggio 1860.

390

EPILOGO E CONCLUSIONE.

annunzia che prende in nome Vittorio Emanuele Re d'Italia la Dittatura nell'isola, elegge un Governo provvisorio, ed attende per congiungersi colle bande d'insorti che s'incamminano in quella direzione. In questo mentre al principe Castelcicala, richiamato in Napoli, era sostituito Commissario straordinario in colle potestà alter ego il generale Lanza, vecchio anni, stato a suo tempo Carbonaro focoso, poi venuto in fama fedelissimo, dagli esperti nella scienza militare giudicato balordissimo pel modo con cui nel dì 9 maggio 1849 aveva investito senza pro Palestrina, difesa dal Garibaldi. Il giorno 15 Garibaldi, lasciato in pace per sette dì giunto senza molestie a Calatafimi, si trovò per la prima volta a fronte soldatesche borboniche. Il generale Landi, che a queste comanda, dapprima fatte mancare le vettovaglie ai soldati, de' suoi quattromila ardentissimi battersi spinse contro ai garibaldiani quattro (1) sole compagnie cacciatori, tenuto indietro il resto a distanza. I colonnelli, i capitani gridare: «Come? Perché non ci lasciate combattere? Intanto quelle quattro compagnie teneano testa ai mille, e quasi che non li ruppero. Esaurite le munizioni, dan piglio alle pietre ed ai calci dei moschetti, ma al numero forza è al fine che cedano. Allora Landi ordina dare addietro, e la ritirata regola con tale precipitazione che fa cadere in mano dell'avversario uomini, bagaglio e un cannone. Tosto appresso scrive al regio Luogotenente in Palermo: «Soccorso! Pronto soccorso! La banda armata, che ha lasciato Salemi questa mattina, ha inviluppate tutte le colline da sud a sud-est Calatafimi. La metà della mia colonna avanzata è stata disposta a tiragliatori, ed attaccò i ribelli che comparivano a mille da ogni dove. Il fuoco fu ben sostenuto, ma le masse de' ribelli erano in numero immenso. I nostri hanno ucciso il gran comandante, e presa la loro bandiera che noi conserviamo. Io mi trovo in questo momento sulla difensiva. Siccome i ribelli in grandissimo numero accennano volermi attaccare

(1)

Musci; Gaeta ed il Quirinale, pag. 131. - Da testimoni oculari, entrambe le parti, ebbi la piena certezza che le compagnie erano quattro. non due, come altrove fu scritto. Sul principio del combattimento due compagnie erano sparpagliate in tiragliatori, due più addietro in massa a sostegno. Da ciò probabilmente le contraddizioni.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 3

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supplico inviarmi subito un possente rinforzo d'infanteria. Temo essere assalito nelle posizioni che occupo; io mi difenderò per quanto mi sarà possibile, ma se un pronto soccorso non mi arriva, dichiaro non sapere come terminerà l'affare. Le munizioni dell'artiglieria sono quasi consumate, quelle della fanteria considerevolmente scemate; la posizione è critica. Insomma debbo prevenire, che, se le circostanze mi costringono, dovrò ritirarmi in luogo eminente.»

Tiratosi in disparte, lasciò a Garibaldi dischiusa la via a Palermo (1). Il latore del menzognero dispaccio nella notte cadde a caso in un'imboscata dell'avanguardia garibaldiana. Turr, aiutante campo Garibaldi, cui fu recato lo scritto del Landi, vi aggiunse; «Nota Rene. Osservazioni dell'Aiutante-generale Stefano Turr. Il gran comandante Garibaldi non fu ucciso e sta benissimo.» Le bande de' siculi insorti, congiuntesi agli sbarcati Marsala, durante il combattimento eransi tenute per paura in disparte e il loro condottiero, il siciliano La Masa, svenne alla vista del nemico. Ordinata dal Landi la ritirata, i Siciliani diedersi a bottinare sul campo, spogliando i cadaveri, molte monete d'oro raccogliendo sul corpo d'uno uccisi ufficiali Garibaldi; pel che questi, montato in furore, dava invano ordini rigorosissimi fino a far flagellare i sospetti. L'impresa, che Garibaldi avea assunto, senza il tradimento era impresa impossibile; egli ed i suoi o sarebbero stati sommersi in mare, o moschettati in sulla riva ().

(1) In marzo 1861 un famiglio si presentava al Banco Santo Spirito in Napoli per farsi pagare una polizza quattordicimila ducati. Il cassiere 1'esamina, e dice: Non vi pago, se non viene persona il vostro padrone. Era il generale Landi. Andato al Banco, il cassiere gli domanda, onde avesse quella polizza. Landi risponde, che non si aveva nessun diritto domandarlo, che la polizza dovea pagarsi a vista, e non si dovea cercar altro. Il cassiere replicò socco: O voi manifestate chi vi diede quella polizza, o voi non uscite qui che per balzare in carcere, giacché la polizza è falsa. Allora Landi allibito dichiarò averla avuta in mano del Garibaldi. Fu tanta l'ira e la vergogna, che pochi giorni appresso il Landi mori crepacuore.

(2)

Nel Parlamento Torino (Camera dei Deputati, tornata de' 20 aprile 1861 il napoletano Conforti confessava: «Il giorno, in cui è partito Garibaldi coi mille, tutti gli animi erano costernati, pensando a' gravi pericoli cui andavano incontro. Quel giorno stesso mi sono imbattuto

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EPILOGO E CONCLUSIONE.

La ferace pianura in mezzo a cui sorge Palermo ha nome Conca d'oro. Lunga dodici e larga cinque miglia, la cinge una catena monti, cui monte Pellegrino a nord-ovest e monte Gibelrosso a sud-est segnano gli estremi confini verso il mare. A sinistra monte Pellegrino sopra elevata collina vulcanica siede, a quattro miglia da Palermo (1), Monreale, posizione importante perché là domina buon tratto della via che dalla capitale mena per Partinico ed Alcamo a Calatafimi. Sopra Monreale, ad occidente Palermo, trovi monte Calvario; e al disotto questo il villaggio Parco presso cui corre la strada da Palermo per Piana de' Greci a Corleone, distante poco men che quaranta miglia dalla capitale, addentro nel cuore dell'isola. Garibaldi ripiglia il cammino; già il 17 è in Alcamo, trenta miglia da Palermo. S'appressa il momento in cui Lanza dovrà dargli in mano la capitale. Palermo ha forma un rettangolo cui i minori lati guardano l'uno il mare e l'altro verso Monreale e Parco; i maggiori stanno a fronte l'uno monte Pellegrino, l'altro monte Gibelrosso. Due larghe vie, intersecandosi quasi ad angolo retto, la dividono in quattro parti eguali. Via Toledo dal mare corre sino al Palazzo Reale; l'altra, via Macqueda, s'incrocia colla prima, quasi al centro della città, sulla piazza dei Quattro Cantoni.

Il 18 Lanza distribuisce le truppe ne' quartieri lungo la linea nord-ovest da Palazzo Reale al mare, lasciando scoverto tutto il resto. Poi, sotto pretesto non fornire al popolo motivo d'irritazione, fa chiudere tutti gli appostamenti che la Polizia teneva in città, abbandonando questa a sé stessa, libera sollevarsi a suo grado. Affermando sospettare che potessero parteggiare pegl'insorti loro compatrioti, invia a Napoli molti soldati siciliani del presidio Palermo; con tenere questo senza motivo sotto le armi dall'alba sino alla mezzanotte, lo svoglia,

in un Ufficiale Superiore molto dotto nell'arte della guerra. Naturalmente il discorso cadde sulla famosa spedizione. Sapete voi che cosa mi ha detto quell'uffiziale? Mi ha detto: «L'impresa, che ha assunto Garibaldi, è un'impresa impossibile; esso ed i suoi o saranno sommersi nel mare, o saranno moschettati in sulla riva.»

(1) Il miglio siciliano corrisponde a metri 1487, 16. Quattro miglia geografiche d'Italia, 60 al grado, formano presso a poco cinque miglia siciliane.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 3

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lo stanca, lo rafferma nella credenza doversi avere d'ora in ora a fronte e i filibustieri disbarcati e le popolazioni ribellate. Tra pegli ordini del temuto Comitato segreto, tra per le disposizioni dissolventi del Commissario Lanza, sgomento, confusione, anarchia, dan fuori da tutte parti prima ancora del pericolo. Le botteghe stan chiuse; nessun uffizio governativo funziona, fuggiti o nascosti gl'impiegati, i più spinti ad andarsene dal Lanza stesso, che intanto, richiesto pressantemente dal Re pigliare con energia l'offensiva (1), risponde (2): «Vi è poco a sperare vincere la rivoluzione, e sarebbe gran ventura poterci ritirare a Messina.»

Il 20 Lanza invia da Palermo per Monreale un grosso scelte soldatesche, cui altre manda dietro nel giorno appresso sotto il comando del colonnello De Mechel, lealissimo, ma freddo, irresoluto, accidioso, insofferente consigli, testereccio. De Mechel, cui, coll'incarico muovere contro Garibaldi, è data piena libertà d'azione, spintosi innanzi il 21, s'imbatte in una banda in marcia per congiungersi coll'avventuriero, ne uccide il caporano, Rosolino Pilo, e speditamente la fuga. Garibaldi ben sapea che De Mechel non era un Laudi; d'altronde De Mechel non era cane per quella volpe. Lasciata innanzi Monreale una squadra d'insorti ad ingannare i regii, Garibaldi, cui assolutamente impossibile rendeasi tentare schiudersi il varco per la via Monreale, scesa la notte, si getta a destra, e in mezzo alle tenebre ed a torrenti pioggia, per aspri sentieri portando a spalla d'uomo i pochi cannoni, valica le cime una duplice catena monti e raggiunge il villaggio Parco.

De Mechel, tenuto nell'errore sino alla sera del 22, dispone pel giorno appresso far impeto contro il Parco; poi, pentitosi, differisce all'indomani. Il 24 raggiunge Garibaldi, che apprestavasi a procedere innanzi. Assalito, in sulle prime questi non solo fa mostra resistere, ma simula anzi assalire esso medesimo i regii con una parte de' suoi; poi dà indietro in gran fretta nella direzione Piana de' Greci. Intanto sopraggiunge la notte. Allora, pervenuto dove un sentiero si parte e

(1) Istruzioni Reali al Tenente-generale Lanza, del 18 maggio 1860.

(2)

Dispaccio del Tenente-generale Lanza al Re, del 19 maggio 1860.

L'astuta tattica Garibaldi è bene intesa dal generale Colonna e dal Maggiore Del Bosco, che invano insistono presso De Mechel onde ritorni senza indugio in Palermo, dove sicuramente, diceano, poteva l'avventuriero, abile partigiano qual è, ripiegare, sapendola sfornita delle più elette soldatesche dilungate ad inseguirlo sopra falsa via. De Mechel tien fermo, continua la marcia per Corleone, a piccolissime tappe, ostinandosi a dire a Del Bosco, che, presago della sventura, gli proponeva prendere almeno la via Marineo: «Marciate per Corleone con l'avanguardia; prenderò tutto sopra me.» E Del Bosco fremente arriva a Corleone, attacca i garibaldiani guidati dall'Orsini, lor toglie due cannoni, e per lungo tratto li insegue senza poterli raggiungere.

Garibaldi, pervenuto il mattino del 25 a Marineo, erasi spinto la sera sino a Misilmeri, dove avea dato la posta alle bande siciliane. Il giorno appresso, concertata col Comitato Palermo la rivolta della città pel dì successivo, si pone in relazione coll'inglese contrammiraglio Mundy, sopraggiunto nelle acque Palermo; pranza a Misilmeri con tre ufficiali inviatigli dal Mundy, che nella sera riceve sulla sua nave questo viglietto, annunziante ciò che effettivamente si verificherà appuntino dappoi (1):Domani, alle prime ore del mattino.» scoppierà in Palermo una insurrezione, e subito dopo. Garibaldi sarà presso Porta Sant'Antonino, deciso a sforzare l'ingresso nella città colla baionetta.»

Scambiati per tutta notte segnali tra la città e le montagne,

(1) Hannibal at Palermo and Naples during thè italian revolution 1859-1860, pag. 106 (London, 1863). Opera dello stesso contrammiraglio sir Rodney Mundy.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 395

all'alba del 27 le campane Palermo suonano a stormo. Nello stesso tempo Garibaldi, a capo appena novecento sbarcati Marsala e tre in quattro mila delle bande siciliane, senza un sol pezzo d'artiglieria per la via Misilmeri, lasciata da Lanza del tutto indifesa, si spingeva a gran passo sopra il lato meridionale Palermo, sforzava la Porta Termini, contigua a quella Sant'Antonino, e, superata l'insufficiente resistenza, entrava in città, inoltrando sulla via Macqueda per raggiungere al più presto la piazza dei Quattro Cantoni. Impadronitosi questa, prima sera tutta la parte della città compresa tra il mare e l'opposta estremità via Toledo cadde in potere Garibaldi, ad eccezione del Forte Castellamare, mentre Lanza richiamava mano a mano le truppe intorno a Palazzo Reale ad occidente Palermo. In codesta ritirata, non punto necessaria, né forzata, lascia in balia lor stessi i condannati a' ferri del Bagno ed oltre ad altri duemila carcerati, che accorsero ad ingrossare le torme garibaldesche co' quattro cannoni abbandonati alle porte delle prigioni.

Da Castellamare e dalle regie navi all'ancora nel porto si bombarda Palermo, le cui vie gl'insorti asserragliano barricate. Il 28 Lanza, docile alle istruzioni Torino, continua a mantenere le truppe intorno a Palazzo Reale in iscoraggiante difensiva, appena interrotta da fiacchi conati ripigliare il perduto; e a chi gli fa presente l'inopportunità d'un bombardamento non buono ad altro, se non sia sostenuto da' movimenti delle truppe, che a rendere a' cittadini odioso il Governo, risponde con ostinatamente fare alzare, segnale distruzione, la bandiera rossa sul regio palazzo.

Il 30, nel mattino, Lanza manda a chiedere a Garibaldi una sospensione d'armi, da trattarsi, ov'egli acconsenta e ne fissi l'ora, a bordo della nave ammiraglia britannica. Fu risposto, che l'armistizio comincerebbe A mezzodì; a un'ora avrebbe luogo il convegno. Intorno le 10, una colonna truppe borboniche, sopraggiunta d'improvviso dalla strada Misilmeri, attacca vigorosamente la Porta Termini, quella stessa pur cui era entrato Garibaldi, sbaraglia gli appostamenti degl'insorti, rincaccia gli accorsi garibaldiani, prende d'assalto con impeto irresistibile otto barricate e s'impossessa della Fiera Vecchia.

396 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Era De

Un armistizio per ventiquattr'ore fu conchiuso. pattuito che ognuno restasse infrattanto nelle posizioni rispettive, con che le truppe De Mechel, per incredibile sfacciatezza del traditore Lanza, si trovarono obbligate a starsene sul selciato delle strade medesime in cui erano penetrate, ristrette e prese entro una rete barricate, costruite dopo la tregua e in onta ad essa dai garibaldiani alle loro spalle ed ai fianchi, e rese incapaci muoversi in caso nuovo attacco. Segnata la sospensione d'armi, Lanza mandò a Napoli il negoziatore questa, generale Letizia, con imbasciate a voce pel Re, onde fare, all'occorrenza, ricadere sopra questo e sopra i suoi Ministri la responsabilità dell'ordine ripigliare le ostilità e de' danni, cui la città sarebbe stata esposta in conseguenza d'un altro attacco o d'un altro bombardamento. A richiesta Lanza l'armistizio prolungasi, stipulatane la durata per tre giorni, e la consegna intanto della Banca a Garibaldi; che riceve cinque milioni ducati, ventidue milioni franchi, sino allora custoditivi dalle truppe del Re, per nulla costrette ad allontanarsene.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 397

Il 6 giugno, approvata forzatamente dal Re la proroga della tregua, autorizzatolo a pattuire la libera partenza delle truppe col materiale da guerra, e ritirarsi ove a lui più opportuno sembrasse, Lanza nello stesso dì segnava con Garibaldi una convenzione determinante libero l'imbarco o partenza per terra all'esercito esistente in Palermo. Perduta la capitale, restavano tuttavia in alla fine del giugno oltre a trenta mila uomini (1). Ma, spianate largamente le vie dal tradimento, l'isola si potea dir già perduta.

IV

Avvenuto lo sbarco Garibaldi in fu messa in campo un'idea mediazione; per fermo singolare mediazione tra assalito ed assalitore straniero al paese. Stese dall'Imperatore de' Francesi, le basi codesta mediazione a' 3 giugno Brenier presentò al Re Napoli. Erano: «I. Integrità del Regno delle Due Sicilie; II. Unità Costituzione, formulata sulle basi della Costituzione imperiale e modificata secondo gli spiriti delle popolazioni, i bisogni e le necessità proprie al Regno; III L'effusione del sangue sarà arrestata, attesa l'esistenza dei preliminari delle negoziazioni.» Brenier soggiungeva che l'Imperatore si riserbava espressamente sentire i suoi alleati. Ad avvolger le menti, cose varie dicessersi, offerte molte facessersi; quando queste accettate dal Re, l 'uno o l'altro alleato nel lavoro distruzione dichiarasse: non mi sta bene. Poi altre profferte; e così sino al giorno in cui, crollante la monarchia da ogni parte, fosse dato rispondere: È troppo tardi; non si può ridar vita a un cadavere.

Ancora salvezza o perdizione che fosse quest'opera mediatrice, Francesco II scrisse a Napoleone che l'accettava, ed a recare la lettera mandò un inviato speciale, De Martino. Il 13 giugno De Martino e l'Antonini, Ministro Napoli in Francia, erano accolti dall'Imperatore a Fontainebleau, presente il Ministro Thouvenel. Letta con grande attenzione la lettera del Re, il Bonaparte lor disse: Ma quali sono queste basi per la mia mediazione?

(1)

Al 25 giugno erano in Messina 15.389 uomini, in Milazzo 4.636, in Siracusa ed altrove 10.049, insieme 30.094, con 40 cannoni da campo.

398 EPILOGO E CONCLUSIONE.

In che modo potrebbe essere esercitata? In codesta quistione io debbo agire perfettamente d'accordo co' miei alleati, ed è pur molto aver ottenuto questo accordo. Ha il Re accettato il mio consiglio circa le tre condizioni che credo indispensabili? - De Martino risponde, sviluppando il pensiero essenziale della lettera del Re, e le lui ferme intenzioni. - E troppo lardi, ripigliò l'Imperatore, un mese fa avrebbe potuto prevenir tutto; ora è troppo tardi! La Francia trovasi in difficile posizione; la rivoluzione non si arresta con parole, tanto meno ora ch'è trionfante. Les italiens sont fins; eglino sentono benissimo, che, dopo aver dato il sangue de mes enfants per la causa della loro nazionalità, non tirerò giammai il cannone contro essa. È questo convincimento che produsse la rivoluzione, l'annessione della Toscana, mio malgrado e contro i miei interessi; faranno altrettanto con voi. Perciò non posso agire che perfetto accordo coi miei alleati. È la loro azione combinata colla mia che può sola arrestare il corso né a ciò essi aderiranno mai se non vi trovano il proprio interesse. Non so se le basi da me proposte avranno questa condizione; ad ogni modo su queste basi, nell'interesse del Re, potrò agire su' miei alleati, e lo farò con ogni mio potere.

La lasciata a sé stessa, obbiettarono gl'inviati, cadrà presto o tardi sotto l'influenza o sotto il protettorato inglese. L'interesse della Francia combina su questo punto coll'interesse Napoli. - Potrebbe, domandò Napoleone, prepararsi una separazione tra i due paesi sotto lo stesso Re e con Costituzioni diverse? Forse sarebbe questo il miglior partito; ma verrà accettato? - Thouvenel citò l'esempio della Svezia e della Norvegia. - La Sardegna sola, continuò l'Imperatore, può arrestare la rivoluzione; quindi avreste dovuto dirigervi al Re Sardegna, e non a me. Solo contentando l'idea nazionale potreste arrestare la corrente. Le concessioni interne non avrebbero scopo per sé stesse, separate da questa idea. Nessuno le accetterà. Se avete forze da per voi per comprimere la rivoluzione, fatelo pure; io sarò il primo ad applaudirvi. Ma se non le avete, quello è l'unico mezzo per disarmarla. L'incendio esiste, grandeggia e si avanza. I momenti si contano, ed ogni momento perduto è irreparabile.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 399

A questo punto l'Imperatore avendo voluto coordinare codesti pensieri ai patti Villafranca ed alla Confederazione, che il Re Napoli aveva a suo tempo accettata in principio, gl'inviati, ribattendo l'argomento, si diedero a provare che a quel momento non si trattava più un patto con cui varii Stati indipendenti si sarebbero riuniti nello stesso scopo per un interesse comune e generale, ma sibbene trattarsi dare da per sé stesso il Regno delle Due Sicilie legato in braccio ad uno Stato maggiore, soverchiante, invasore, la cui politica tendeva apertamente ad assorbire tutta Italia, che si serviva d'ogni mezzo, che fomentava e sosteneva la rivoluzione nelle Due Sicilie. E noi sue vittime, dissero, noi i primi, noi i soli dovremmo far atto riconoscenza, adesione, concorso alla sua politica, alle sue spogliazioni, al suo ingrandimento? Potrebbe volerlo la Francia, mentre in cambio una Confederazione, nella quale dominerebbero i suoi principii e il suo interesse, vedesse il consolidamento un'opera esclusivamente rivoluzionaria? L'Italia così costituita, ed in posizione non consultare un giorno che i suoi proprii interessi, quale punto d'accordo potrà avere con la Francia che ha interessi affatto contrarii ed opposti? Si comprende che ciò possa convenire all'Inghilterra, per la quale il principio liberale rivoluzionario è il suo punto d'appoggio contro la Francia medesima e forse contro essa avanti tutto; ma alla Francia?

Tutto ciò può esser giusto e vero, replicava l'Imperatore, ma oggi siamo sul terreno dei fatti. La posizione della Francia non è più quella del 1849. Appunto perché noi non vogliamo l'annessione, la quale è contraria a' nostri interessi, io consiglio d'intendersela col Piemonte, ch'è l'unico mezzo pratico per evitarla od almeno per ritardarla. La forza è dal lato contrario, forza irresistibile, contro la quale dobbiamo star disarmati. L'idea nazionale deve trionfare; si sacrifichi tutto a questa idea in un modo qualunque. Nel fondo si faccia e subito, domani sarebbe troppo tardi. Il mio appoggio leale in questo caso vi sarà assicurato; altrimenti dovrò astenermi, lasciare che l'Italia faccia da sé. Il principio del non-intervento sarà mantenuto. - Che lo sia pure per tutti egualmente, risposero gli inviati del Re Napoli. In questa lotta che uno Stato sovrano ed indipendente sostiene contro una rivoluzione provocata e

Le condizioni sono differenti, riprese l'Imperatore, tra lo Stato romano ed il vostro, essendovi pel primo una questione religiosa e la presenza delle truppe francesi. Gli Italiani han sentito che per questo avrei dovuto agire; per voi sentono il contrario, et voilà ma faiblesse. Non pertanto continuerò le pratiche a Torino; ma è vano, Cavour è débordé. Date a Cavour un interesse per sostenervi; lo farà. Egli è una mente pratica, sente il pericolo della rivoluzione, che ingigantisce e mette in forse l'opera sua. Egli vorrebbe camminare piano e sicuro, e la rivoluzione lo strascina dans l'inconnu. È a Torino, a Torino che bisogna agire. - Sì, a Torino, ripigliarono vivamente gl'inviati, a Torino si deve agire; ma per impedire l'intervento che la Francia riprova; ma per far rispettarci diritti buon vicinato, dei Trattati, della morale pubblica. È a Torino che la voce dell'Europa tutta dovrebbe tuonare contro tali attentati, e la Francia, che ha proclamato e vuole mantenere il principio non-intervento, è la Francia che deve prendere l'iniziativa e dare l'esempio. Noi lo domandiamo formalmente all'Imperatore. - Ci penserò, e risponderò a Sua Maestà, si limitò a soggiungere l'Imperatore. Durante la discussione, durata due ore, Thouvenel non aveva avuto altro pensiero, che avversare il Re Napoli. Allorché si era parlato applicare per tutti con eguale giustizia il principio del non-intervento, ed impedire al Piemonte dar mano alla rivoluzione, «in fatto questione italiana, disse agli inviati, il Piemonte non è straniero. Una lotta ulteriore in è per voi impossibile; ma quando pure lo fosse, potrebbe l'Europa rimanere spettatrice oziosa della crudeltà de' vostri soldati?»

Indi a poco l'Imperatore fe' tenere a De Martino la sua definitiva risposta. Nell'essenza diceva: «Due istinti possenti sembrano attualmente governare gli animi degl'Italiani, l'uno tende

402 EPILOGO E CONCLUSIONE.

so Imperatore de' Francesi a questa difficoltà avea suggerito riparare, riservando, sull'esempio della Francia, la questione dell'Italia centrale; questione in cui la Francia non potea domandare più quello che essa medesima avea fatto, e che lo stesso Piemonte non poteva volere pregiudicato dal Re Napoli, il cui riconoscimento, infatti, non avrebbe fatto che constatare il non riconoscimento tutta Europa.

Così stando le cose, il 21 giugno Francesco II fa domandare a Parigi: «Se il Re facesse ciò che ora riferisce De Martino, s'impegnerebbe l'Imperatore de' Francesi a guarentire dinastia e territorio? Napoleone risponde a mezzo Thouvenel: «La Francia sola non può assumere obbligazioni guarentigia, ma darà il suo appoggio diplomatico a Torino ed a Londra, quando i suoi consigli fossero seguiti.» Il marchese Antonini, a Thouvenel ed a lord Cowley, ambasciatore inglese, diceva: Dunque senza guarentigia a qual pro tanti sacrificii del mio sovrano, mentre l'Imperatore de' Francesi dichiara che lo stesso Re Piemonte e Cavour sono trascinati dalla rivoluzione mazziniana, e la subiranno come noi? - Ed eglino a replicare: E che vorreste che facessimo?

Il 25 giugno Francesco II accordò tutto: ordini costituzionali e rappresentativi nel Regno, e quanto a peculiari istituzioni con un principe sua famiglia a Viceré; bandiera tricolore; generale amnistia per ogni reato politico; Ministero nuovo; alleanza col Re Sardegna. La pubblicazione delle regie concessioni è seguita in Napoli da tumulti, pe' quali il Brenier, Ministro Francia, ne va col capo pesto, e lo si riporta a casa fuori sensi. Nel nuovo Gabinetto, che resterà nella storia contraddistinto coll'appellativo Ministero della catastrofe, quasi per intero composto d'uomini già venduti al Piemonte, portati a potestà per alienare il reame, sedeano De Martino, poi Romano, chiamato infrattanto da De Martino a reggere la Polizia; poi, allontanato dal Ministero della Guerra il leale Ritucci, il Pianelli. De Martino soppiatto avea già voltato casacca. Liborio Romano, figlio d'un Grande Oriente della Massoneria napoletana, giovanissimo ancora, egli medesimo dignitario massone, poi Carbonaro, per questo fuggiasco, mandato a confine, sorvegliato sempre pei fatti del 1848 imprigionato, esule in Francia, grazia

Già il 19 giugno, venuta appena Palermo in mano degl'invasori, Cavour scriveva (1): «Sarebbe un gran bene se Garibaldi passasse nelle Calabrie.» Intanto la diplomazia si fa molesta; a parole parecchie Potenze si adoprano alacremente per rimuovere da Napoli o almen ritardare l'estremo fato. Gettatosi Francesco II in braccio Francia, concesso tutto quanto questa avea consigliato e diceva desiderare, la mediazione andava innanzi come doveva andare, senza riescire ad alcun che. Napoleone III, da una parte desioso abbonire l'Europa allarmata e sospettosa, dall'altra ognor più impensierito pello screzio dì per dì crescente in fra Garibaldi e il Governo Torino, propose all'Inghilterra che le flotte lei unite alle sue impedissero a Garibaldi passar oltre nelle province napoletane. Inghilterra rifiutò. Nello stesso tempo Francia disse a Sardegna, essere suo desiderio che si obbligasse Garibaldi ad assentire una tregua sei mesi sotto la guarentigia delle Potenze; e, accertatasi che Inghilterra avrebbe rifiutato, Sardegna risponde: assentire proporre a Garibaldi la tregua, però ad espressa condizione che vi sia l'assenso immediato del Governo britannico. Questo allora dichiara alla Francia, essere sua ferma volontà non intervenire in niun modo per obbligare Garibaldi a far tregua, protestare anzi ove la Francia intendesse farlo. Nel frattempo, per dar meglio a credere che Garibaldi si comportasse da uomo indipendente affatto da chicchessia, Vittorio Emanuele manda per un suo aiutante campo in due lettere, l'una che Garibaldi aveva a leggere ad alta voce (), l'altra a voce bassa.

(1) Lettera al La Farina in Palermo (Bianchi; Il conte Cavour, pag. 99).

(2)

È curioso che l'apologista Cavour (Bianchi; Il conte Cavour, pag. 99), nell'alludere a questa lettera, dopo che, vivente il lodato Ministro, tanto flato e tanto inchiostro eransi sprecati per persuadere il contrario, lui morto, abbia scritto: «Cavour, a non porre allo scoperto tutto il suo sistema dissimulazione diplomatica, dovette maggiormente avvilupparlo per qualche autorevole manifestazione pubblica,

404 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Nello stesso momento Cavour scriveva (1): «Non vedo com'egli si potrebbe impedire passare sul continente. Sarebbe stato meglio che i Napoletani compissero od almeno iniziassero l'opera rigeneratrice; ma poiché non vogliono o non possono muoversi, si lasci fare a Garibaldi. L'impresa non può rimanere a metà. La bandiera nazionale inalberata in deve risalire il Regno, estendersi lungo le coste dell'Adriatico, finché ricopra la regina quel mare. Si prepari dunque a piantarla colle proprie mani, caro ammiraglio, sui bastioni Malamocco e sulle torri San Marco.»

Il dì 20 agosto, favorito dalle tradigioni ufficiali del naviglio da guerra borbonico, Garibaldi felicemente mise in terra ottomila de' suoi nelle Calabrie verso Reggio; il giorno appresso, stretto il debole presidio Reggio, lo forzò a capitolare. Il generale Briganti, che stava a campo nelle vicinanze, in luogo d'investire le bande, separa l'artiglieria dalle schiere de' fanti, e a vece mandarli serrati a combattere, li sparpaglia.

attestante che né il Re Vittorio Emanuele, né il suo Governo esercitavano realmente qualche potente influsso sull'animo del generale Garibaldi.»

(2)

Lettera all'Ammiraglio Persano; Torino, 28 luglio 1860 (Bianchi; Il Conte Cavour, pag. 103).

EPILOGO E CONCLUSIONE. 405

Allorché questi s'avvidero della fraudo, e gridarono: al traditore, Briganti spronò il cavallo per fuggire ai garibaldeschi; ma i soldati sparandogli addosso, l'ebbero gittato cavallo, e corsigli sopra, trovarongli in tasca le polizze della sua fellonia. Poco più innanzi, il generale Ghio abbarrava intorno a Tiriolo da eccellenti posizioni sulle balze la grande via consolare, che da Reggio guida per Cosenza lungo il mare a Napoli. Aveva sotto i suoi ordini quattro reggimenti fanti, tre battaglioni cacciatori, trecento gendarmi, due squadroni lancieri, dodici cannoni da campo, insieme oltre a diecimila uomini. Ghio, che non voleva finire d'orribil morte come Briganti e tradir nullameno per oro fa chiedere, il 29 agosto, un abboccamento a Garibaldi, segna con esso una capitolazione, obbliga le sue schiere a deporre le armi, schiuso affatto il cammino a Napoli. E già il 6 settembre Garibaldi era in Salerno, alle porte Napoli.

La dissoluzione progrediva come il fiotto della tempesta. Una depravazione infinita dalle vicinanze del trono scendeva fin giù ne' tugurii della plebe. Il conte Siracusa, pronto a passare nel campo sardo, vuoi farsi guarentire i suoi appannaggi dal nemico capitale della sua dinastia, da Vittorio Emanuele; e dopo avere, il 3 aprile, vigilia de' primi torbidi in consigliato al nipote spingersi nella via delle innovazioni politiche, e declinando ogni altra alleanza europea, accordarsi col Governo sardo, il 24 agosto, credendo o supponendo che la sua corrispondenza col cognato, il principe Eugenio Savoia-Carignano, fosse stata sorpresa, scrive per dolersi che giammai era stato ascoltato, per esortare Francesco II ad imitare l'esempio della Duchessa Parma, per invitarlo ad abbandonare il Regno. La lettera è pubblicata nei giornali, sparsa a migliaia copie prima ancora che fosse rimessa nelle mani del Re, il quale al leggerla non disse altro: «Se io non fossi Re, e non avessi la responsabilità della corona verso il mio popolo e verso la mia famiglia, da molto tempo me ne avrei tolto il peso.» Colpito dal dolore, non punto abbattuto, sopportando le angosce e le fatiche con una forza gran lunga superiore all'età sua e alla sua salute, non abbandonandosi ad alcuna illusione, Francesco II sapeva vedere la verità senza impallidire.

406 EPILOGO E CONCLUSIONE.

«Non tengo al trono,» diceva, «ma vorrei strap

Quanto avveniva sotto a' suoi occhi trovava ben pochi riscontri nella storia. Rarissime volte un esercito aveva dato un esempio come il napoletano, l'esempio un esercito eccellentemente armato che si discioglie davanti una schiera a lui molto inferiore, mancante molte cose, ch'egli possiede in abbondanza; un esercito in cui il soldato è fedele, ed il tradimento, infiltrato larghissimamente nelle regioni superiori, scende dall'alto, rendendosi mano a mano sempre men manifesto nelle inferiori. Né Fernando Cortes, né Pizarro trovarono nel Messico e nel Perù avversarii cosi innocui come li aveva incontrati Garibaldi. Senza il tradimento degl'incrociatori napoletani l'ardito avventuriere cui giammai nella vita fece diffalta assai coraggio personale, avrebbe trovato la tomba nella traversata o allo sbarco in Marsala; senza il tradimento Landi era schiacciato a Calatafimi; senza il tradimento Lanza gli era sepolcro Palermo; senza il tradimento del naviglio regio la discesa in Calabria era un impossibile, ed una sola fiancata, che avesse lanciata la Fulminante, bastava a seppellire per sempre in grembo al mare il vecchio Franklin e Garibaldi che lo montava; senza il tradimento Briganti e Ghio Francesco II era ancora salvato.

Senza farsi ribelle al suo destino, ma ben risoluto a rimanergli superiore e rialzarsi o soccomber da Re, Francesco II, il mattino del 6 settembre, s'imbarcava in Napoli, avviato a Gaeta. Negli ultimi istanti, voltosi a Liborio Romano, gli disse sorridendo: «Ma non siete abbastanza compromesso, signor Ministro, per staccarvi un passaporto?» Romano rimaneva per accogliere Garibaldi, per ricevere da lui il guiderdone dei traditori. Il giorno appresso Garibaldi è in Napoli; e Liborio Romano è eletto a suo Ministro. Romano, Carlo De Cesare, Michele Giacchi, ieri Ministri Francesco II, aveano usato sì bene del potere conferito da esser reputati degni tutta la fiducia dell'usurpatore. Tutta la flotta riunita nel porto Napoli fu consegnata da' comandanti a Garibaldi. Tutti i navigli della crociera co' quali il Re imhattevasi, viaggiando, ricusarono portarsi a Gaeta;

EPILOGO E CONCLUSIONE. 407

una sola fregata lo segui. I presidii dei Forti Napoli furono costretti dalla fellonia ufficiali superiori a deporre le armi. Ghio fu innalzato a Governatore militare della capitale.

Mentre Re Francesco riparava in Gaeta, quelle truppe, della cui fedeltà erasi fatto dubitare, entravano Brigata per Brigata in Capua. Se v'era ancora confusione e disordine, non vi erano però diserzioni, né tampoco insubordinazioni. Sdegnate d'essere state vinte senza essere state battute, dubbiose su chi dovessero far cadere i loro sospetti, stavano in tal condizione gli animi che non mai vidersi schiere cosi ardenti, così adombrate, cosi diffidenti, a tale che bastava non comprendessero una cosa, perché gridassero al tradimento. Era la controrivoluzione nelle fila dell'esercito. Sperando impossessarsi Capua e stringere il Re entro Gaeta, Garibaldi muove il 19 settembre sotto Caiazzo. Dapprima Caiazzo cade in suo potere, poi è ripreso a viva forza dai regii, prendendovi prigionieri parecchie centinaia nemici. Avvisaglie e scontri continuano sino al primo ottobre, nel qual giorno si combatté dall'una e dall'altra parte con molte forze e grande accanimento. La vittoria restò ai regii, perdutivi dai garibaldeschi, per loro stessa confessione, non meno 4500 uomini. Durante la battaglia Garibaldi erasi trovato a si mal passo, che per telegrafo gli fu mestieri chiamare da Napoli al soccorso quanto truppe piemontesi vi stavano, giunte con celerissima corsa della ferrovia in tempo da rinfrancare alquanto il coraggio de' garibaldini, non andati salvi da estrema ruina se non per la sollecitudine con cui, a riparare l'insufficiente copia artiglieri, il comandante della nave da guerra inglese il Renown ne fornì largamente con suoi marinai i pericolanti amici. Se i regii il giorno appresso fossero tornati all'assalto, ed avessero vigorosamente incalzato il nemico, Garibaldi sarebbe stato affatto perduto.

V

Infrattanto era giunto il momento in cui, gittate al tutto le maschere, dovea svelarsi ogni intrigo. Muovendo a visitare la Savoia, Napoleone III giungeva a Chambery, ove da Torino convenivano pure nel 27 agosto Farini, Ministro dell'Inter

408 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Giungendo a Chambery, Napoleone era pessimo umore, e non appena varcati i confini dell'antica Francia, ogni popolare entusiasmo avea veduto andarsi in dileguo. Nella vecchia città savoina l'accoglienza fu fredda, freddissima, glaciale. Gl'inviati Torino, desideratissimi dall'Imperatore, si facevano maledettamente aspettare, che questi si mostrava vivamente contrariato. Erano attesi al mattino, e non si videro neppure quand'e

La sera del giorno successivo Napoleone accommiatava gli inviati colle parole, in cui compendiavasi l'intero programma: «Dunque addio. Siamo intesi. Non toccate Roma, e soprattutto fate presto.» Tornati lestamente a Torino. subito ne' due dì seguenti vi si tennero lunghi Consigli de' Ministri. Quello che vi fosse fermato apparve dai fatti che vennero tosto appresso. Ma corse voce, siccome era stato scritto dall'Imperatore de' Francesi al Persigny, desiderarsi che l'Italia si pacifichi, non importa il Come; così ancora a Chambery il Piemonte fosse licenziato a condursi come meglio gli tornasse a conto, purché non si toccasse alla città Roma. L'indiscrezione era prematura. A' giornali officiosi del Governo francese fu ingiunto darsi prestamente a smentire, con quanto aveano forza, cotali dicerie; nel che accadde, secondo il solito, il contrario ciò che intendevano, e tutti rimasero persuasi che non certamente in tali confutazioni fosse a ricercarsi la verità. A due reggimenti fanti fu dato ordine muovere speditamente a rinforzo della guarnigione francese in Roma; ed al generale De Noue, a que' dì nominato al comando del Corpo d'occupazione, in luogo del Goyon poco prima rientrato in Francia, fu commesso far sapere alle truppe sotto la sua dipendenza e ad un tempo al Santo Padre, che l'esercito francese gli conserverebbe, checché accadesse, il possedimento Roma e Comarca, e le province Civitavecchia e Viterbo.

410 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Questa dichiarazione parve raggio luce nelle tenebre de' 3, 124, 668 abitanti dello Stato pontificio, se ne aveano perduti 1, 009, 636 nel 1859. De Noue aveva ricevuto l'ordine difendere tre province: Roma e Comarca con 321, 114 abitanti, Civitavecchia con 20, 701, Viterbo con 128, 328; un territorio con 470, 139 abitanti, della superficie 8496, 36 chilometri quadrati, de' 41, 294 costituenti la superficie dello Stato avanti il 1859. Se ne inferiva dunque, che si avea determinato dovesse il Papa perdere fra breve un territorio con 1, 644, 893 abitanti.

In particolare dal principio dell'anno Sardegna era stata ognor più operosa negli armamenti. Richiamati presente alle insegne tutti i soldati, spediti i più in Toscana e nelle Romagne, il Fanti, Ministro della Guerra sardo, sotto colore passare a rassegna i varii corpi truppe, corse le novelle province del Regno, e si fermò in A rezzo, intorno a cui convenne grosso nerbo truppe. Il quarto Corpo d'esercito al comando del Cialdini incominciò col 30 agosto un movimento concentrazione lungo la via Emilia, avvicinandosi ai confini pontificii. La scelta del pretesto, che metterebbesi in campo per fare la guerra al Papa, era fatta. Cavour si attenne al pericolo e al danno che veniva all'Italia dalle truppe nazione straniera che militavano sotto il generale Lamoricière a servigio della Santa Sede. Farini ne inventò un altro, cioè il dovere d'impedire che si spegnesse colla forza il fuoco dell'insurrezione; e perciò da Torino volò a Bologna, a Firenze, a Livorno, per dare impulso agli apprestamenti quanto occorreva affinché ci fosse almeno l'apparenza d'insurrezione popolare, averne cagione udire il grido dolore e accorrere ad impedirne la repressione. E poiché si avea veduto impossibile il levare a ribellione i popoli dell'Umbria e delle Marche, si tennero pronte compagnie ventura, che, sostenendo la parte popoli insorgenti nel novello Atto del dramma da rappresentarsi, aprissero tal modo il varco all'esercito regolare piemontese.

Mentre queste cose avvenivano, il comandante supremo dell'esercito pontificio provvedeva a un novello ripartimento delle truppe che stavano alle sue dipendenze. Perocché, fra mezzo alle tante incertezze che abbuiavano la situazione, questo solo sembrava dover tenersi per fermo, che si mulinava alcun che grave

Le truppe pontificie, cui Lamoricière poteva disporre in campo, contavano sedici battaglioni e due mezzi battaglioni in formazione, alcune compagnie gendarmi mobilizzati, quattro squadroni cavalleria, cinque batterie d'artiglieria con trenta cannoni; in tutto 12, 650 fanti, 480 cavalli, 500 artiglieri, 13, 630 uomini. Parecchi de' battaglioni essendo composti otto compagnie, Lamoricière ne ridusse il numero a sei; e colle venti compagnie rese per tal modo disponibili, con alcune altre gendarmeria mobilizzata, con un battaglione e mezzo bersaglieri, e col battaglione irlandese S. Patrizio, che non peranco aveva ricevuto né giberne né sacchi, un 3850 uomini in tutto, provvide al presidio delle piazze. Restavano da mobilizzarsi quattordici battaglioni e mezzo fanteria, quattro squadroni cavalleria, cinque batterie d'artiglieria campo; insieme non più 8800 fanti, 480 cavalli, 500 artiglieri, 9780 uomini. Lamoricière ne formò tre Brigate ed una riserva: la prima, sotto il comando del generale de Schmid, col Quartiere-generale a Fuligno; la seconda, sotto il generale marchese de Pimodan, col Quartiere-generale a Terni; la terza, guidata dal generale de Courten, col Quartiere-generale a Macerata. La mezza Brigata riserva, comandata dal Colonnello Crept, sotto gli ordini immediati del generale supremo, pose il Quartiere-generale a Spoleto.

412 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Buona parte queste truppe più o meno si risentiva della affrettata od incompleta organizzazione, in particolare l'armamento lasciando molto a desiderare. Non ostante le iterate sue pratiche presso diverse Potenze, il Governo pontificio non ancora aveva potuto procurarsi un numero sufficiente d'armi precisione, ormai indispensabili alla fanteria. Due soli battaglioni e mezzo e tre compagnie volteggiatori erano provveduti fucili rigati; un solo battaglione era armato carabine Miniè; un altro aveva carabine svizzere che rendevano necessario un provvedimento particolare. Nell'artiglieria molti i conduttori imperfettamente esercitati; i pezzi non erano tirati se non da quattro cavalli, e quando per operare se ne dovevano attaccare sei, era d'uopo requisire cavalli e buoi per trascinare le riserve delle munizioni addette alle batterie. Un duecento cavalli, che doveano in quel torno giungere da Trieste, non peranco erano arrivati. Né ancora aveasi potuto organizzare un parco riserva. Le ambulanze consistevano in alcune carrette, e quanto al treno non se ne avea alcuno.

Tale però qual era quel piccolo esercito, lo animava uno spirito eccellente, e nudriva una piena fiducia. Se non che un avvenimento sopraggiunse a spargere qualche ansietà ne' quattro battaglioni bersaglieri arruolati nell'Austria e nei reggimenti lingua tedesca, proprio ne' giorni in cui più vivo dovea farsi sentire il bisogno solida fede nell'avvenire. Nei primi dì del settembre una comunicazione del Governo austriaco, diretta agli ufficiali e soldati quei quattro battaglioni, accennando al caso in cui l'esercito pontificio, aggredito da forze troppo superiori, dovesse vedere il trionfo della rivoluzione, prometteva a coloro che avessero gloriosamente resistito e combattuto fino all'ultimo momento, che sarebbero accolti nell'esercito austriaco, nel quale la maggior parte loro aveva già servito. Dal che s'inferiva, che, poiché il Governo imperiale prevedeva il caso in cui la rivoluzione dovesse trionfare, ciò sembrava indicare che i pontificii dovevano essere assaliti nel medesimo tempo e da mezzogiorno e da settentrione, e che per più nessuna Potenza si muoverebbe a soccorrerli.

Altre circostanze concorrevano d'altronde a raffermare nell'esercito speranza e fiducia.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 423

Nei primi giorni del settembre furono sparse novelle, senza che se ne potesse appurare la prima

D'altra parte era noto che i soldati napoletani, ai quali s'era ingiunto. deporre le armi, avevano ricusato arruolarsi nelle milizie Garibaldi;

414 EPILOGO E CONCLUSIONE.

e che le numerose navi da guerra, ve

Le condizioni strategiche una tale difesa erano però delle più sfavorevoli. L'esercito pontificio aveva a custodire un vasto paese nelle più difficili posizioni, considerate sotto l'aspetto militare. Al nord ed al sud due estese frontiere a guardare; una catena imponente monti, che tagliava in due il campo delle operazioni; non un fiume, non una piazza forte cui potersi appoggiare. La sola Ancona offeriva un punto difesa; e questo pure a grande distanza da Roma, ad una estremità, e lungo un mare, su cui non avevasi un navilio a tutelarne gli approcci. Minacciate le Marche e l'Umbria da bande avventurieri, che fronte, alle spalle o dal mare potevano ad ogni istante invaderle, a Lamoricière non era dato che tenere occupate le principali città e luoghi più importanti frontiera, a fine premunirle da improvvise irruzioni; e ragunare in alcune città più centrali tutto quel maggior nerbo forze che per lui si potesse, onde accorrere prontamente dovunque gli lo avessero richiesto. E questo erasi conseguito col ripartimento ch'egli aveva dato alle truppe, accozzando al qua e al là Appennini la più gran parte dell'esercito in due centri principali, ad Ancona e circostanze, e intorno a Spoleto nel cuore dello Stato.

Codesto ordine battaglia partiva adunque dal principio che il territorio, che si doveva difendere, sarebbe invaso da corpi franchi, stando in dubbio da qual parte essi vi penetrerebbero. L'incertezza durò poco. Nel mattino dell'8 settembre due bande varcavano le frontiere: l'una, pigliando le mosse da Cortona Toscana, diretta a Città della Pieve, l'altra dal confine delle Romagne ad Urbino; accozzaglia contadini toscani e romagnoli, fuorusciti pontificii, malviventi e vagabondi, assol

La banda sotto il comando del Masi piombò su Città della Pieve, guardata da dieci soli gendarmi; quella del Zambeccari spintasi sotto le mura Urbino, presidiata da piccol numero gendarmi e pochi ausiliarii, disarma il posto ad una delle porte e si precipita nel centro della città. Qui la lotta si sostenne per due ore, finché, sopraffatti i pontificii dal numero immensamente superiore degl'invasori, poterono battere in ritirata e raggiungere Pesaro. Nella sera dello stesso giorno quest'ultima banda spingevasi sino a Fossombrone, dovunque abbattendo gli stemmi papali e sostituendovi quelli Casa Savoia.

Non appena tali nuove giunsero a Lamoricière, che questi ordinava al generale De Schmid muovere da Fuligno sopra Città della Pieve con una mezza Brigata, e rioccuparla; ed al generale De Courten volgersi colla sua Brigata sopra Fossombroue ed Urbino. Nel dare questi ordini lo stesso Lamoricière confessava, essersi egli trovato in grande perplessità. Ei non era punto rassicurato contro un'invasione dello Stato dal lato del sud;

(1) Giornale Roma, numero del 26 ottobre 1860.

416

EPILOGO E CONCLUSIONE.

e non ostante le ripetute assicurazioni ricevute in nome del Piemonte restavangli gravi inquietezze sul conto suo. Non poteva isfuggire all'osservatore l'insolito agitarsi delle popolazioni Umbrie e marchigiane. La simultaneità dei movimenti delle bande chiariva che obbedivano ad una direzione comune; né si potea non dar peso all'asseveranza con che esse annunziavano il concorso delle truppe piemontesi. Se l'assalto più vigoroso doveva venire dalla parte del Regno Napoli, era d'uopo lasciare le schiere Pimodan a Terni, e tenere aggruppato il rimanente dell'esercito in posizione donde potesse agevolmente accorrere alla difesa delle frontiere meridionali. Ma se per converso il Piemonte doveva da Toscana e dalle Romagne sostenere le bande con tutte o parte delle forze notoriamente già agglomerate al confine settentrionale, era grave errore dividere le truppe, sperperandole lungo i confini a rintuzzare gli assalti de' corpi franchi; perocché in tal caso la prima misura a prendere, l'unica manovra ragionevole, supposta una grande disparità forze, doveva esser quella tenere tutte le truppe disponibili il più possibilmente riunite, ed appoggiarsi senza indugio ad Ancona.

In questo mentre il Governo Torino facea viaggiare alla volta Roma un dispaccio, e perché alla violenza s'aggiungessero scherno ed oltraggio, Cavour, che pur si piccava d'essere gentiluomo, aveva scelto a portarlo quello stesso conte Della Minerva, che, dopo avere abusato del suo carattere diplomatico in Roma fomentandovi la ribellione contro il Papa, era stato là sfrattato dal Governo pontificio allorquando fu consumata l'usurpazione delle Romagne. Partito da Torino il 7 settembre, da Genova per terra recatosi a Livorno, colà imbarcatosi sopra una nave da guerra piemontese, non approda a Civitavecchia che il giorno 10, onde colle studiate lentezze nel frattempo dar agio alle bande spingersi innanzi e dilungare le soldatesche pontificie. A Civitavecchia il Delegato non permette lo sbarco; Della Minerva dichiara aver d'uopo della facoltà scendere a terra poiché, latore d'un importante dispaccio del suo Governo, doveva consegnarlo in persona al Cardinale Antonelli. Soggiunse che ne sapeva il contenuto, e ne disse il sunto, per telegrafo fatto tosto conoscere a Roma. Da Roma fu risposto che non si lasciasse venire il conte; se avea dei dispacci pel Cardinale Antonelli, li consegnasse al Console francese o li mandasse.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 417

Costretto a valersi d'altra mano, Della Minerva diede il dispaccio. Cavour scriveva: «Il Governo del Re Sardegna non poter vedere senza grave rammarico l'esistenza truppe straniere al servigio pontificio. Questo offendere profondamente la coscienza pubblica dell'Italia. La presenza de' corpi stranieri, che impedisco la manifestazione de' voti de' popoli, dover produrre immane abilmente la estensione de' rivolgimenti alle provincie vicine. Le ragioni della sicurezza de' propri Stati imporre al Governo del Re il dovere porre, per quanto in lui stava, immediato riparo a questi mali. La coscienza del Re Vittorio Emanuele non permettergli rimanersi testimonio impassibile.» Le truppe del Re avere incarico d'impedire che i mercenarii pontificii reprimano colla violenza l'espressione dei sentimenti delle popolazioni delle Marche e dell'Umbria. Invitare il Governo della Santa Sede a dar l'ordine immediato disarmare e disciogliere quei corpi la cui esistenza è una minaccia continua alla tranquillità d'Italia. Aver fiducia che il Governo pontificio vorrà comunicare tosto le disposizioni in proposito.»

Il dispaccio giunse in Roma la notte dal 10 all'11. Nel mattino dell'11 l'esercito piemontese invadeva già il Pontificio, Fanti da Toscana, Cialdini da Romagna. Il giorno innanzi, 10, Napoleone III aveva scritto per telegrafo da Marsiglia al Re Vittorio Emanuele, che se le truppe sarde entrassero nel territorio pontificio, egli sarebbe obbligato ad opporvisi en antagoniste, ed aver dato ordine aumentare il presidio Roma. Lo stesso giorno il Governo francese faceva dichiarare a Torino (1), che sarebbero rotte le relazioni diplomatiche tra i due Governi quante volte non venisse data l'assicurazione che l'intimazione fatta al Governo della Santa Sede non avrebbe avuto seguito, e che l'esercito sardo non avrebbe attaccato le truppe pontificie. Quattro giorni più tardi il diario ufficiale annunziò (2): «Attesi i fattitesté avvenuti in Italia, l'Imperatore ha deciso che il suo Ministro abbandonasse immediatamente Torino. Un segretario resta incaricato affari della Legazione Francia.»

(1) Nota del barone Talleyrand, Ministro Francia in Torino. al conte Cavour, del 10 settembre 1860.

(2) Le Moniteur universel, numero del 14 settembre 1860.

418

EPILOGO E CONCLUSIONE.

In poche ore l'opposizione en antagoniste erasi schiarita colla cerimonia diplomatica della partenza trepitosa del Ministro Talleyrand da Torino e colla fermata in Torino un segretario incaricato affari della Legazione Francia per la continuazione delle relazioni diplomatiche.

Il dì medesimo 10, il Duca Gramont, Ambasciatore francese a Roma, inviava al Console Francia in Ancona un dispaccio telegrafico. Esso diceva; «L'Imperatore scrisse da Marsiglia al Re Sardegna, che se le truppe piemontesi penetrano sul territorio pontificio, egli sarà tenuto ad opporvisi: ordini sono già dati per imbarcare truppe a Telone, e questi rinforzi debbono giungere senza ritardo. Il Governo dell'Imperatore non tollererà la colpevole aggressione del Governo sardo. Come Vice-console Francia, voi dovete regolare la vostra condotta in conseguenza.» Prometteva egli questo dispaccio un intervento truppe da Tolone, ovvero un intervento diplomatico a Torino? Parlava egli rinforzi soldati francesi che dovevano giungere senza ritardo negli Stati pontificii, ovvero solamente del dispiacere che il Governo dell'Imperatore Napoleone sentiva in suo cuore pella colpevole aggressione da parte del Governo sardo? Diceva egli che il Governo francese non avrebbe tollerata la colpevole aggressione del Governo sardo, ovvero che l'avrebbe poi, benché con suo dispiacere, tollerata? Volendo riassumere il dispaccio in poche e chiare parole, dovevasi riassumere con dire: avere l'Imperatore promesso opporsi colla forza. E così fu inteso da molti a Roma. da Lamoricière al campo. A cosa fatta il Governo Francia dichiarò (1), che quel dispaccio dovea solamente «porre il Console francese Ancona nel caso poter opporre a falsi romori l'assicurazione che l'invasione Stati della Santa Sede, lungi dal farsi coll'autorità del Governo dell'Imperatore, avea anzi eccitata altamente la sua disapprovazione.»

Ad Ancona il Console francese, col suo dispaccio in mano, sale in carrozza, e a gran corsa muove ad incontrare Cialdini. Cialdini legge, dà in uno scoppio omerico riso, e risponde: «L'Ambasciatore Francia a Roma e il suo Console in Ancona non esser punto introdotti nei segreti della politica.

(1)

Nota ufficiale nel Moniteur universel, numero del giorno 15 ottobre 1860.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 419

Egli ed alcun altro aver avuto l'onore

essere ricevuti a Chambery da Napoleone III Sua Maestà avere approvato nel suo pieno il disegno che si metteva in esecuzione; essere stato raccomandato a loro soltanto far presto, poiché, se l'affare andava in lungo, poteva succedere che la Francia fosse necessitata ad intervenire.» Il Console Francia resta a bocca aperta, e Cialdini dà alle truppe ordine affrettare il passo. Il Comitato rivoluzionario Ancona, impensierito alla lettura del dispaccio, credendo scorgervi, come quasi tutti gli altri, l'avviso un intervento armato della Francia, manda due de' suoi a Cialdini; e questi risponde quanto ha detto al Console. Le parole Cialdini corrono su pelle effemeridi tutta Europa; e il Governo francese, il Moniteur ufficiale, i giornali ufficiosi, serbano tutti silenzio. Il silenzio dura ancora.

I Piemontesi inoltrano speditamente: alle soldatesche pontificie manca il tempo riannodarsi. L'11 Cialdini investe Pesaro, dove a capo appena 1200 tra soldati e ausiliarii, e tre cannoni ferrovecchio, il colonnello Zappi con disperata resistenza arresta per ventidue ore il corpo d'esercito sardo, e ridotto all'estremo s'arrende prigione guerra. Il 14 settembre Perugia è assalita, ed il generale Schmid forzato a capitolare con patti onorevolissimi: le milizie papali uscissero con armi e bagagli, a bandiere spiegate, libere del ritorno a Roma. Avuti in mano i Pontificii, i Piemontesi ebberli tosto dichiarati prigionieri guerra, disarmati, rapite le bandiere, mandati in Piemonte tra i fischi, le imprecazioni, le contumelie della compera bordaglia d'ogni città e terra per dove passavano. Il generale de Courten è costretto a riparare in Ancona. Lamoricière, con tutto quel che può raunare, a marcia forzata quaranta miglia in ventidue ore attraverso i sommi gioghi dell'Appennino, si attesta a Macerata. Poi, raggiunto da Pimodan, s'avvia per Recanati e Loreto verso Ancona; e il 18 si trova a Castelfidardo a fronte tutto l'esercito Cialdini. Lamoricière non aveva con sé che poco più 5800 uomini e quattordici cannoni (1), da opporre ai 45000 soldati e a quindici batterie del generale sardo.

(1)

Lamoricière, nel suo Rapporto (Parte III), dice che aveva appena 2000 uomini fanteria, e Pimodan altri 2600: il bollettino ufficiale sardo gli dà 11, 000 uomini.

420 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Lamoricière disse a Pimodan che vedesse aprirsi il valico onde passa la via che conduce ad Ancona; ma i Piemontesi avendo antivenuto il suo disegno, Pimodan trovò i due sproni del monte Castelfidardo già occupati dai nemici. Pimodan non isgomeuta; muove all'assalto, sloggia un forte nodo Sardi da una prima cascina, fa un centinaio prigionieri, comanda senz'aspetto l 'assalto della seconda cascina. Una palla lo percuote nella guancia. - Generale, siete ferito; gli si dice. - Non è nulla, risponde. Avanti! Alla baionetta! - I Sardi son cacciati addietro, e Pimodan ha il braccio dritto colto da una palla. Afferra colla mano mancala spada e grida ancora: Giovinotti! Avanti! Alla terza carica Pimodan riceve una palla nella coscia; non si muove d'arcione, e grida ancora: Giovani miei! Dio è con noi! Avanti! Avanti! Alla quarta carica alla baionetta! La lotta è ferocissima; i Piemontesi s'ammassano a migliaia intorno a quel pugno valorosi. In quello Pimodan è giunto da una palla nel fianco diritto, che gli attraversa le reni, e passa pel lato manco. Tre palle lo avevano colpito, venendogli fronte, tre palle uscite da fucili sardi; la quarta lo aveva colpito, venendo per dietro, uscita dal fucile d'uno de' suoi (1). Lamoricière fece sonare a raccolta; De Pimodan, dopo qualche ora, spirò.

Da documenti ufficiali possiamo desumere la vera forza de' pontificii che combatterono effettivamente quel Lamoricière teneva a Castelfidardo sotto a' suoi ordini la Brigata Pimodan, e la Riserva rinforzata. La Brigata Pimodan comprendeva allora: il 1.° o 2.° battaglione Cacciatori, il 2.° battaglione Bersaglieri, il battaglione Carabinieri, il mezzo battaglione de' Zuavi franco-belgi, una compagnia del battaglione irlandese San Patrizio; 2800 fanti. La Riserva constava dei duo battaglioni del 1.° Reggimento estero, del 2.° battaglione del 2. o Reggimento estero, del l. o battaglione del 2.° Reggimento Linea; 2400 fanti. La cavalleria annoverava le Guide, due squadroni Dragoni, uno squadrone Cavalleggieri, uno squadrone Gendarmi. Insieme 5200 fanti, 440 cavalli, 225 artiglieri; 5865 uomini.

(1)

«Dopo il voto dell'annessione, io seguii Farini a Torino. Il appresso al mio arrivo mi faceva partire per Roma. Condussi con me due agenti assai destri, Brambilla e Bondinelli, che riuscii a far entrare nell'armata pontificia. Un po' più tardi, e a diverse riprese, feci entrare un certo numero carabinieri piemontesi nell'esercito che creava allora il generale de Lamoricière. Ci furono grande aiuto a Castelfidardo. Le istruzioni, che avevano. versavano su tre punti principali: in guarnigione provocare il più gran numero possibile

Seguito da un 350 fanti e 45 cavalieri, Lamoricière giunse a guadagnare Ancona. Stretti entro una cerchia ferro, i pontificii da Castelfidardo dovettero il 19 capitolare e deporre le armi in Recanati. La flotta sarda bombardava già Ancona, dove Lamoricière non aveva da contrapporre ai quattrocento cannoni rigati dell'ammiraglio Persano, ai parchi d'assedio e alle quindici batterie Cialdini che centoventi vecchi fusti d'ogni età e d'ogni grado. Aperta una breccia larga cinquecento metri al corpo della piazza, quando Lamoricière fu ridotto a non più potersi valere d'un solo cannone, il 29 settembre Ancona s'arrese. L'esercito pontificio aveva cessato esistere.

VI.

La tragi-commedia oggimai volgeva al termine. Re Francesco Napoli, pregato e consigliato da Napoleone III a non ostinarsi in sanguinosa difesa de' suoi diritti, i quali, diceagli e ripeteagli, saranno per altri mezzi mantenuti salvi ed integri, si dichiara (1) che il principe, essendo uscito dalla sua capitale ed avendo cosi abbandonato il suo reame all'anarchia, lo Stato divenne nullius, o, per meglio dire, chi ha forza per pigliarselo. Da Ancona, prendendo, il comando dell'esercito, il 9 ottobre Vittorio Emanuele proclama (): «Si combatteva per la libertà in Sicilia, quando un prode guerriero, Garibaldi, salpava in suo aiuto.» Erano Italiani; io non poteva, non doveva rattenerli.

al quale effetto avevano cassa aperta presso i Consoli piemontesi, a Roma il conte Tecchio, ed in Ancona Renzi; al campo ed in guerra gridare: si salvi chi può; e sbarazzarsi uffiziali durante l'azione. Il generalo de Pimodan è morto assassinato. Nel momento in cui si lanciava alla testa pochi uomini per caricare una colonna piemontese, un soldato postogli dietro gli scaricò a brucia pelo un colpo fucile che lo ferì nel dorso. Questo soldato era quel Brambilla che io aveva qualche mese prima fatto ingaggiare a Roma. Fu al suo arrivo al campo piemontese nominato maresciallo d'alloggio ne' Carabinieri. Non avea fatto altro che attenersi alle istruzioni de' suoi capi.» Curletti; Rivelazioni, § VII. e X.

(1) Nota del conte Cavour al barone Winspeare, Inviato straordinario del Re Napoli a Torino, del 6 ottobre 1860.

(2)

Manifesto ai popoli dell'Italia meridionale.

422 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Non permetterò mai che l'Italia diventi il nido sette cosmopolite, che vi si raccolgono a tramare i disegni o della reazione o della demagogia universale. Popoli dell'Italia meridionale! Le mie truppe si avanzano fra voi per raffermare l'ordine. Io non vengo ad imporvi la mia volontà, ma a fare rispettare la vostra. In Europa la mia politica non sarà forse inutile a riconciliare il progresso dei popoli colla stabilità delle monarchie. In Italia so che io chiudo l'era delle rivoluzioni.»

L'unione della massima parte d'Italia in solo Stato stava per diventare una realtà. «Forse», avvertiva Cavour (1), i mezzi non furono regolari; ma lo scopo giustifica in gran parte la irregolarità de' mezzi adoperati». Il 13 ottobre Vittorio Emanuele varcava i confini del Regno Napoli; due giorni appresso, il 15, Garibaldi decretò: «Le Due Sicilie fanno parte integrante dell'Italia una ed indivisibile sotto lo scettro Vittorio Emanuele e suoi discendenti. Deporrò nelle mani del Re, al suo arrivo, la Dittatura». Un plebiscito fu ordinato; l'uso stessi mezzi doveva produrre lo sviluppo stessi effetti. Il 29 ottobre Garibaldi smise ogni ufficio; rientrato nel nulla. dopo pochi giorni partì, a seppellirsi sullo scoglio Caprera. Divenuto arnese non più necessario, Cavour se l'era cavato a tempo da' piedi. Con mezzi ch'egli chiamava forse irregolari, Cavour aveva dato al Re Sardegna otto milioni d'abitanti; con mezzi non più irregolari che quelli adoperati dal sardo Ministro, Garibaldi aveva dato a Vittorio Emanuele altri otto milioni d'Italiani: Garibaldi valeva almeno quanto Cavour. Per aversi quel popolo d'otto milioni Cavour aveva venduto allo straniero Savoia e Nizza, terre in cui si parlava francese e terre propriamente italiane; per quegli altri otto milioni, pel più bel reame d'Italia, Garibaldi non aveva ceduto all'Inghilterra un palmo suolo italiano: Garibaldi valeva più che Cavour. Per un'idea, a lungo indeterminata, Cavour, -nato in condizione, finamente educato, tutto quel più che aveva arrischiato sugli incruenti campi della diplomazia, dai morbidi velluti del gabinetto, era stato una Nota o un dispaccio. Per un'idea ben netta, ben ferma, il rozzo Garibaldi, nato povero, tra le mille avventure della travagliatissima vita

(1)

Tornata del Senato Sardo, del dì 16 ottobre 1860.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 423

non mai sino allora venuto a ricchezza, per sei lunghi mesi avea cimentato la vita ogni giorno, ogni ora: tutto sommato, Garibaldi valeva meglio che Cavour.

Entrato nel Regno per la via Abruzzi marittimi il grosso de' Sardi a' cenni del generale Cialdini, rimontata senza trovare ostacoli la valle della Pescara, e valicato l'Appennino scendendo per la valle del Volturno, l'esercito napoletano si trovò minacciato rovescio. Fu mestieri che questo. onde non essere serrato tra due avversarii, rafforzata Capua, ad ogni altro movimento preferisse abbandonare la linea difesa del Volturno e ritirarsi dietro quella del Garigliano. Il 29 ottobre i Sardi tentavano forzare il passaggio del Garigliano; ma incontrata fermissima resistenza, erano astretti a ristare, lasciando molti prigionieri, morti e feriti. Giunta innanzi Gaeta il 16 ottobre una flotta francese, il Viceammiraglio Le Barbier de Tinan, che la comandava, aveva dichiarato al Re Napoli che egli si sarebbe opposto ad ogni impresa navale, la quale dai Piemontesi si fosse tentata in qualsiasi punto del littorale compreso tra la foce del Garigliano, Gaeta e Sperlonga. Quelle assicurazioni furono cosi esplicite e solenni, che il Re ne rimase commosso, e ne mandò ringraziare affettuosamente Napoleone III Sulle prime parve che la parola data, e tanto più creduta secura quanto che era stata offerta spontaneamente, dovesse essere mantenuta. Il 30 ottobre la squadra francese viene ad appostarsi alla foce del Garigliano, si schiera in ordine battaglia, ed in zaffarancio combattimento mostra volersi effettivamente opporre allo intraprese delle navi piemontesi; tenendo per fermo che la presenza quella squadra guarentisse il lor fianco destro, i Napoletani lasciano le proprie posizioni da quel lato affatto sguernite difese.

D'improvviso tutto muta. Nelle ore pomeridiane del 1.° novembre il Viceammiraglio de Tinan riceve ordine da Parigi annunciare immediatamente a Francesco II, non dover più il naviglio francese opporsi alle operazioni guerresche de' Piemontesi, doversi quello raccorre senza indugio sotto le mura Gaeta, rimanere però liberi dai tentativi marittimi dei Sardi i luoghi messi sotto il tiro dei cannoni francesi. Pochi momenti appresso, la sera dello stesso giorno, la flotta Francia era costretta ad

424 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Alli 2 novembre Capua cadde in potere dei Cialdiniani; con che Francesco II perdeva 10, 500 uomini, 290 cannoni bronzo, 160 affusti d'artiglierie, 20, 000 fucili, 10, 000 sciabole, 80 carri, 240 metri ponte, 500 cavalli e muli, e copiosissimo approvigionamento d'ogni ragione. Occupata Mola Gaeta, i Borbonici vi eressero quelle opere d'occasione che la scarsezza mezzi e tempo permetteva a ripararla dalla parte terra, intralasciando ogni difesa «Dalla parte del mare, dappoiché Mola essendo sotto il tiro del cannone della squadra francese, dovea con piena fidanza reputarsi guarentita da ogni attacco navale; e le nuove assicurazioni ricevute allora allora dal Viceammiraglio de Tinan erano state precise a tal segno, che non si stimò neppure necessario trasferire a Gaeta gli ospedali militari stabiliti a Mola. Nullameno accadde ancora una volta quanto poco prima era avvenuto alla foce del Garigliano, sottosopra quello stesso onde furono vittima le truppe pontificie. Altri ordini dell'Imperatore Napoleone erano sopraggiunti per telegrafo, e comandavano al de Tinan darvi corso all'istante. Mola Gaeta investita dai Sardi, per ben quattro volte spintisi all'assalto alla baionetta, altrettante n'eran stati respinti. Ma ecco ad un tratto sopravvenire le navi sarde e fulminare i Borbonici, i quali, per le assicurazioni del francese de Tinan, nulla menò aspettavano che l'essere cosi presi dalle spalle.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 425

Nelle ore pomeridiane del 3 novembre assalito il villaggio da sette piroscafi sardi, non fu possibile opporre loro più che un solo cannone rigato da dodici, che non cessò dal trarre se non quando quelle navi si allontanarono. Il mattino seguente la flotta sarda rinnovò l'attacco, cui resistettero con successo mercé cinque cannoni grosso calibro tratti nella notte da Gaeta, e messi in fretta sulla spiaggia. Ma la postura Mola, a simiglianza quella del Garigliano, non istimandosi difendibile contro un attacco combinato da terra e da mare, fu dato ordine abbandonarla; e la ritirata fu eseguita nel pomeriggio sotto il fuoco dell'esercito piemontese che si avanzava per terra, e sotto quello della squadra che lo fiancheggiava.

Dell'esercito napoletano la più gran parte s'incamminò per la valle d'Itri, parte piegò sopra Gaeta. I generali posti a capo de' trentamila avviati per la valle d'Itri, ben provveduti cavalleria, artiglierie, munizioni, aveano ordine dal Re guidarli negli Abruzzi, a prender fianco gli assalitori Gaeta. In quel cambio, mercanteggiato il sangue de' soldati e l'onor loro col Piemonte prima con marce e contromarce li ebbero stracchi morti; poi, resili scalzi, laceri, consunti fame, sì che buon numero gente e cavalli veniva meno per le strade sfinimento e d'inedia, li indirizzarono sopra Terracina come una mandra pecore, a posare le armi sul territorio pontificio in mano de' Francesi. Il 5 novembre Francesco II aveva ancora a Gaeta intorno a ventitremila uomini (1), e 798 pezzi d'artiglieria (). Ben presto dovettero i Sardi convincersi che

(1) Generali 39; Ufficiali Stato Maggiore, Impiegati militari e sanitarii 262; Infanteria 18067; Cavalleria 480; Genio 604; Artiglieria 2343; Artiglieria ed Infanteria Marina a terra 730; Artiglieria ed Infanteria Marina a bordo 413; insieme 22938 uomini.

(2)

Nella Fortezza, sulle batterie ed in cantiere cannoni 542, carenate 17, obici 66, mortai 67, artiglierie da campo 46, sulle navi da guerra in porto 60. Delle artiglierie in Fortezza quelle ad anima liscia erano a breve gittata, quelle bronzo non più in perfetto stato servizio, molte per aver sostenuti i due assedii del 1806 e 1815, poi pressoché tutte antica fabbricazione avea cannoni del 1756, del 1732, e insino obici fusi nel decimoquinto secolo; armi non più da guerra, ma da museo. E a' 75 cannoni rigati Cialdini non ebbero mai a contrapporre più che nove cannoni rigati piccolo calibro.

426 EPILOGO E CONCLUSIONE.

l'oppugnazione Gaeta, dapprima foltamente credutasi aver a durare non più che alquanti giorni, era impresa ben difficile ed aspra.

L'8 dicembre Francesco II segnò il suo testamento politico (1), proclamazione ai popoli delle Due Sicilie, sparsa per tutto il Regno a gran dispetto de' Piemontesi, in Napoli affissa per le vie, letta e cementata ad alta voce dalle genti che si affollavano intorno, indarno fremendone i novelli padroni. «Da questa piazza, diceva, dove io difendo, più che la mia corona, l'indipendenza della patria comune, il vostro Sovrano alza la voce per consolarvi nelle vostre miserie, per promettervi tempi più felici. Traditi egualmente, egualmente spogliati, risorgeremo allo stessa tempo dalle nostre sventure, ché mai ha durato lungamente l'opera della iniquità, né sono eterne le usurpazioni. Ho lasciato perdersi nel disprezzo le calunnie, ho guardato con isdegno i tradimenti, mentre che tradimenti e calunnie attaccavano soltanto la mia persona; ho combattuto non per me, ma per l'onore del nomo che portiamo. Ma quando veggo i sudditi miei, che tanto amo, in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo cime popoli conquistati portanti il loro sangue e le loro sostanze ad altri paesi, calpestati dal piede straniero padrone, il mio cuore napoletano batte indegnato nel mio petto, consolato soltanto dalla lealtà questa prode armata, dallo spettacolo delle nobili proteste che da tutti gli angoli del Regno si alzano contro il trionfo della violenza e dell'astuzia.

Io sono Napoletano; nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduti altri paesi, non conosco altro suolo, che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno; i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua è la mia lingua, le vostre ambizioni mie ambizioni. Erede un'antica dinastia, che ha regnato in queste belle contrade per lunghi anni, ricostituendone la indipendenza e la autonomia, non vengo, dopo avere spogliato del loro patrimonio gli orfani, de' suoi beni la Chiesa, ad impadronirmi con forza straniera della più deliziosa parte d'Italia. Sono un principe vostro, che ha sacrificato tutto al suo desiderio conservare la pace, la concordia, la prosperità tra' suoi sudditi. Il mondo intero l'ha veduto: per non versare il sangue

(1)

Proclama Reale, da Gaeta, 8 dicembre 1860.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 427

ho preferito rischiare la mia corona. I traditori pagati dal nemico straniero sedevano accanto ai fedeli nel mio Consiglio; ma nella sincerità del mio cuore io non poteva credere al tradimento. Mi costava troppo punire, mi doleva aprire dopo tante nostre sventure un'era persecuzione; e cosi la slealtà pochi e la clemenza mia hanno aiutato la invasione piemontese, pria per mezzo avventurieri rivoluzionarii e poi della sua armata regolare, paralizzando la fedeltà de' miei popoli, il valore de' miei soldati.

In mano a cospirazioni continue non ho fatto versare una goccia sangue, ed hanno accusata la mia condotta debolezza. Se l'amore più tenero pe' miei sudditi, se la fiducia naturale della gioventù nell'onestà altri, se l'orrore istintivo al sangue meritano questo nome, io sono stato certamente debole. Nel momento in che era sicura la rovina de' miei nemici, ho fermato il braccio de' miei Generali per non consumare la distruzione Palermo: ho preferito lasciar Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale, per non esporla agli orrori un bombardamento, come quelli che hanno avuto luogo più tardi in Capua ed in Ancona. Ho creduto buona fede che il Re Piemonte, che si diceva mio fratello, mio amico, che mi protestava disapprovare la invasione Garibaldi, che negoziava col mio Governo un'alleanza intima pei veri interessi d'Italia, non avrebbe rotto tutti i patti e violate tutto le leggi per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazione guerra. Se questi erano i miei torti, preferisco le mie sventure ai trionfi dei miei avversari.

Io avea dato un'amnistia, avea aperto le porte della patria a tutti gli esuli, conceduto a' miei popoli una Costituzione. Non ho mancato certo alle mie promesse. Mi preparava a guarentire alla istituzioni libere, che consecrassero con un Parlamento separato la sua indipendenza amministrativa ed economica, rimuovendo a un tratto ogni motivo sfiducia e scontento. Avea chiamato ai miei consigli quegli uomini, che mi sembravano più accettabili alla opinione pubblica in quelle circostanze, ed in quanto me lo ha permesso l'incessante aggressione, della quale sono stato vittima, ho lavorato con ardore alle riforme, ai progressi, ai vantaggi del paese.

428 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Non sono i miei sudditi che han combattuto contro me; non mi strappano il Regno le discordie intestine; ma ci vince l'ingiustificabile invasione d'un nemico straniero. Le Due Sicilie, salvo Gaeta e Messina, questi ultimi asili della loro indipendenza, si trovano nelle mani de' Piemontesi. Che ha dato questa rivoluzione ai miei popoli Napoli e Vedete lo stato che presenta il paese. Le finanze, un tempo così floride, sono completamente rovinate; l'amministrazione è un caos; la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni sono piene sospetti; in vece libertà lo stato d'assedio regna nelle province, ed un generale straniero pubblica la legge marziale, decreta la fucilazione istantanea per tutti quelli fra i miei sudditi, che non s'inchinino alla bandiera Sardegna. L'assassinio è ricompensato (), il regicidio merita un'apoteosi, il rispetto al culto santo de' nostri padri è chiamato fanatismo; i promotori della guerra civile, i traditori al proprio paese ricevono pensioni, che paga il pacifico contribuente. L'anarchia è da per tutto. Avventurieri stranieri han rimestato tutto per saziare l'avidità e le passioni de' loro compagni. Uomini che non hanno mai veduto questa parte d'Italia, o che ne hanno in lunga assenza dimenticati i bisogni, formano il vostro Governo. Invece delle libere istituzioni che io vi avea date, e che era mio desiderio sviluppare, avete avuta la più sfrenata dittatura, e la legge marziale sostituisce adesso la Costituzione.

(1) Il Giornale ufficiale Napoli del 28 settembre 1860 conteneva il seguente Decreto, che la Storia deve conservare nella sua integrità.

«Italia E Vittorio Emanuele.

Il Dittatore dell'Italia meridionale.

Considerando sacra al paese la memoria Agesilao Milano, che con eroismo senza pari s'immolò sull'altare della Patria per liberarla dal tiranno che l'opprimeva:

Decreta.

Art. 1.° È accordata una pensione ducati trenta all mese a Maddalena Russo madre del Milano, vita durante, a contare dal 1.° ottobre prossimo.

Art. 2.° È accordata una dote ducati due mila per ciascuna delle due sorelle del detto Milano. Questa somma sarà investita infondi pubblici a titolo dote inalienabilee consegnata alle sorelle nel corso del prossimo ottobre.

«Napoli, 25 settembre 1860.

Firmato: «Garibaldi.

Maddalena Russo vive ancora; e il Re d'Italia paga.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 429

Spari

sce sotto i colpi dei vostri dominatori l'antica monarchia Ruggiero e Carlo III, e le Due Sicilie sono state dichiarate province d'un Regno lontano. Napoli e Palermo son governati da prefetti venuti da Torino.

Vi è un rimedio per questi mali, per le calamità più grandi che prevedo. La concordia, la risoluzione, la fede nell'avvenire. Unitevi intorno al trono de' vostri padri. Che l'oblio copra per sempre gli errori tutti; che il passato non sia pretesto vendetta, ma pel futuro lezione salutare. Io ho fiducia nella giustizia della Provvidenza; e qualunque sia la mia sorte, resterò fedele a' miei popoli ed alle istituzioni che ho loro accordate. Indipendenza amministrativa ed economica per le Due Sicilie con Parlamenti separati; amnistia completa per tutti i fatti politici; questo è il mio programma. Fuori queste basi non vi sarà pel paese che despotismo o anarchia. Difensore della sua indipendenza, io resto e combatto qui per non abbandonare così santo e caro deposito. Se l'autorità ritorna nelle mie mani, sarà per tutelare tutti i diritti, rispettare tutte le proprietà, guarentire le persone e le sostanze de' miei sudditi contro ogni sorta oppressione e saccheggio. E se la Provvidenza ne' suoi alti disegni permetta che cada sotto i colpi del nemico straniero l'ultimo baluardo della monarchia, mi ritirerò con la coscienza sana, con incrollabile fede, con immutabile risoluzione; ed aspettando l'ora inevitabile della giustizia, farò i più fervidi voti per la prosperità della mia patria, per la felicità questi popoli, che formano la più grande e più diletta parte della mia famiglia.»

L'11 dicembre il Viceammiraglio Le Barbier de Tinan si presenta a Francesco II con una carta in mano. È una lettera del suo sovrano. Leggiamola.

«Parigi, 6 dicembre 1860. - Mio Signor Fratello. Non ho scritto da qualche tempo a Vostra Maestà, poiché voleva attendere che gli avessero assunto un carattere abbastanza deciso, a fine poter con cognizione causa esporre tutto intero il mio pensiero alla Maestà Vostra. Allorché la ingiusta aggressione del Piemonte venne ad aiutar la rivoluzione negli Stati Vostra Maestà ed a forzarla ritirarsi a Gaeta, io risolvei d'impedire il blocco per mare, affine dare a Vostra Maestà una prova della mia simpatia,

430 EPILOGO E CONCLUSIONE.

ed evitare al

A persuadere Francesco II ch'ei non avea più veruna probabilità risalire sul trono, che avea il dovere deporre senza altro la sua corona, si proclama che diritto e giustizia stanno dalla sua parte; e dopo avere partecipato le gravi apprensioni che la

Intorno a quella rocca su cui sventola altera la bandiera Francesco II indarno Cialdini consuma l'opera delle artiglierie e la vita de' soldati, cadenti a migliaia per le intemperie della stagione, vittime della febbre e stenti che seco trae laboriosissimo assedio. Rotto ogni freno, il furore della rivoluzione trionfante si scatena da ogni parte contro Napoleone III, che, colla permanenza della flotta francese nella rada Gaeta impedisce al sardo navilio l'assalto dal mare, e col tenere aperto ai

(1)

Lettera del Re Napoli all'Imperatore de' Francesi, del 13 dicembre 1860 (Quandel; Giornale della difesa Gaeta, pag. 122-125).

432 EPILOGO E CONCLUSIONE.

soccorsi vettovaglie e d'armi quel porto, rende sì lungo e sì duro l'assedio. Ma colla flotta francese a Gaeta, fu chiesto, a chi si rende maggior servizio? A Francesco II o alla rivoluzione? Al quesito, paruto impertinente, un diario Torino, sino a poco fa orrendamente malmenante tutto dì l'Imperatore de' Francesi, rispose (1): «Ma fate il piacere e finitela una volta, ché senza Napoleone noi saremmo niente! Egli fu il solo amico ch'ebbe l'Italia; egli ci fu amico a malgrado della Francia stessa; è cosa nota che nel 1859 l'unico giornale che appoggiasse Napoleone era quello amici Manin, era lo Siècle. La flotta ora è a Gaeta, è vero; ma vi tiene il posto quella Russia; e poi bisogna ancora che sappiate, che Gaeta per mare è così forte da distruggere la nostra flotta, e noi non ne abbiamo due.» Dunque? Dunque, replicarono a coro tutti i giornali officiosi del Governo Torino (), «è preferibile che dinanzi a Gaeta resti la Francia, e dobbiam desiderare non se ne parta, col pericolo che il giorno appresso vi giunga una squadra russa. Questo contegno ibrido Napoleone III pone in chiaro che l'Imperatore, senza suscitare o dar pretesto ad una guerra europea, vuole ciò che noi vogliamo, e continua a proteggerci, sebbene un po' meno palesemente. Per favorire la causa nostra, col trattenere la flotta francese a Gaeta, toglie che altri vi venga o tenti venirvi collo scopo d'impedirci ciò che l'Imperatore ci lascia fare.»

Il 27 dicembre Le Barbier de Tinan ritorna a Francesco II Questa volta ei si presenta con due proposte da parte dell'Imperatore de' Francesi: o la conchiusione d'un armistizio della durata quindici giorni, dopo i quali il Re dovrebbe uscire Gaeta e consegnarla a' Piemontesi; o un armistizio egual durata, libero nel frattempo ad entrambi gli avversari continuare i lavori attacco e difesa. Il Re rifiutò. Infrattanto Napoleone III vide giunto il momento richiamare da Gaeta la sua flotta, posciachè, siccome le batterie piemontesi poc'oltre alla metà del gennaio sarebbero compiute e in pieno assetto guerra, veniva con ciò a cessare lo scopo vero per cui quella flotta erasi sino allora colà rimasta. Mandate ad offrire in suo nome novelle propo

(1) Gazzetta del popolo, numero 359, del 28 decembre 1860.

(2) La Nazione Firenze, numeri dei giorni 2 e 3 gennaio 1861.

Il 19 gennaio 1861, una mezz'ora prima dello spirar della tregua, la flotta francese abbandonava Gaeta. Allorché l'Ammiraglio de Tinan, carattere aperto, animo onesto e leale, aveva dovuto recarsi per l'ultima volta dal Re, s'era accommiatato colle parole: Ainsi, Majesté, adieu. L'honneur est à vous, la honte à nous! Tornato a Parigi più napoletano un Napoletano, ei diceva, parlando del Re Francesco e della Regina Sofia, e ricordando quel momento: «Mi ci volle tutto per non piangere nel separarmi da loro. Tutti i nostri marinai avrebbero voluto combattere e morire per la Regina. Se i nostri cannoni fossero stati carichi, credo che si sarebbero sparati da sé stessi.» Ricevuto dall'Imperatore, non si peritò dirgli: Sire, le Roi des Deux Siciles étant à Naples, ce fut un enfant; étant à Gaete, ce fut un homme, et, en considération des circonstances, un grand'homme! De Tinan cadde in disgrazia.

Senza trarre un sol colpo i Piemontesi cercarono spingersi sotto le mura quanto meglio potessero, valendosi del riparo abbandonate case. che avvedutisi i difensori, nel mattino del 22 dirizzarono sessanta pezzi cannone contro una delle più pericolose batterie assedianti. Allora i Piemontesi cominciando a trarre da tutte le loro batterie, con orrendo fracasso una tempesta ferro e fuoco si scambiò tra i combattenti. La loro flotta, spintasi ad assalire con gran veemenza e niun successo il Fronte mare, per istanchezza ristando dal trarre fu astretta ad allontanarsi malconcia sì che parecchie navi dovettero rientrare negli arsenali a riattarsi. Le mura della fortezza, poco risentitesi quella sfuriata, ne ripagarono ad usura gli assalitori, sinché una bomba, cadendo sul magazzino delle polveri d'una

434 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Da quel giorno tanto in tanto si riappiccava il fuoco, si scambiavano centinaia ed anche migliaia cannonate, poi tutto tornava in quiete. Quand'ecco, il 4 febbraio, una bomba sarda sfonda in Gaeta, alla destra del Fronte terra, la volta, reputata alla pruova, contigua ad un magazzino provvisorio da munizioni, e una prima esplosione apre la serie de' disastri e una breccia praticabile nella cinta principale. Il giorno appresso, tutt'ad un tratto, scoppia con immenso fragore, all'estrema destra del Fronte stesso, una grande polveriera a tutta prova bomba, contenente ottanta centinaia polveri, oltre a settemila proiettili carichi, pressoché quaranta mila cartucce da fanteria. L'effetto della esplosione è terribile. Largo tratto delle mura della cinta principale è lanciato in mare, schiudendo ampia breccia anche da questo lato. Le casematte contigue crollano, tutte le case parallele all'apertura sono demolite, per vasto spazio all'intorno ogni cosa minaccia ruina. Il Tenente-generale Traversa, Direttore Generale del Genio, oltre a duecento uffiziali e soldati restano morti sul luogo, molti altri feriti o sepolti sotto le macerie; un centinaio abitanti colpisce la stessa sorte. Incontanente i Piemontesi dirizzano da quella parte le loro artiglierie e tempestano que' ruderi si fieramente, che si rende impossibile il recare verun soccorso alle vittime che vi giaceano oppresse ed ai miseri interrati nei vani delle casematte. I Borbonici allora cominciarono a trarre quanto poterono sopra le batterie piemontesi, così astringendole a sparpagliare il lor fuoco.

Finalmente l'indomani Cialdini consentì ad una tregua quarant'otto ore, a patto però che non si lavorasse punto né po

Alla richiesta capitolare, l'11 febbraio, Cialdini risponde: esser contento aprir trattative resa, ma essere suo costume ristar dalle ostilità solamente quando le capitolazioni son sottoscritte. Già il Cialdini, atrocemente disumano, violando tutti gli usi e i diritti della guerra tra nazioni civili, non aveva voluto usare verun riguardo per risparmiare gli spedali, alle istanze sopra ciò rispondendo con sarcasmi. Mentre si stanno stendendo nel campo piemontese le condizioni della resa, le batterie dell'attacco covrono le opere fortificazione e la città una tempesta infernale proiettili d'ogni specie, con una violenza non mai veduta, che tocca al furore. I parapetti delle cannoniere son demoliti al livello della spianata, le casematte minacciano rovina, quella della giovine Regina è sul punto cadere, ed essa non faceva altro che sorridere. Un giorno una palla d'obice, penetrata nel suo appartamento, scoppiava quasi a' suoi piedi, ed ella, menomamente turbata, al Ministro Spagna, Bermudez de Castro, leggiermente ferito, diceva quasi gelosa: A tout prendre, vous etes heureux, cher prince, vous étes blessé, et moi je n'ai pas la plus petite égratignure. In fine tutto crolla, e non vi è più strada praticabile, né più luogo sicuro.

436 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Nel mattino del 13 i Commissari incaricati della capitolazione s'avviano da Gaeta al Quartiere-generale Cialdini. Dopo il mezzodì un parlamentario recasi al generale piemontese per far trasmettere mercé il telegrafo al comandante del piroscafo francese la Mouette l'invito recarsi senza indugio da Napoli a Gaeta per imbarcarvi Francesco II e la regia famiglia. Stipulata già ogni condizione della resa, non mancando più, perché la capitolazione fosse compiuta, che trascrivere il testo quel lungo documento e la formalità delle sottoscrizioni, quando appunto son più che mai evidenti l'assoluta inutilità e la ferocia d'un bombardamento, le batterie piemontesi incalzano il fuoco con atroce furore. Un Guarinelli, colonnello del Genio, adoperato già da Ferdinando II a riattare e compiere le polveriere Gaeta, datosi a' servigi del nemico del suo Re, era al campo piemontese, e là insegnava minutamente come dirizzare i colpi dove poteano riescire più micidiali; onde spiegavasi perché le bombe sarde avessero saputo cosi direttamente piombare là dove stavano Francesco II e la Regina. Mercè le indicazioni costui, intorno alle tre del pomeriggio, all'estrema sinistra del Fronte terra, balzavano in aria il magazzino da munizioni ed un contiguo laboratorio, situati sotto il terrapieno della batteria Transilvania, contenenti intorno a 18000 chilogrammi polvere e gran numero proiettili carichi. La batteria è completamente distrutta sino al pavimento delle casematte scavate nella roccia, lanciati in mare arsi e pesti uomini ed artiglierie. La violenza della esplosione scuote tutta la fortezza, un'immensa colonna nero e denso fumo s'innalza a sterminata altezza, e rinversa a gran distanza all'intorno fitta pioggia pietre. A tal vista, alte grida giubilo, presenti i plenipotenziarii napoletani che attendono la trascrizione dei patti della resa, rispondono dalle linee de' Sardi, battenti palma a palma come se assistessero ad uno spettacolo festivo. Poco appresso la capitolazione è segnata, il fuoco cessa.

Il dì seguente, buon mattino, Francesco II, Maria Sofia, che con eroismo infinitamente superiore al suo sesso ed a' suoi diciott'anni avea sino all'ultimo mirato in faccia la morte senza impallidire, i due giovani principi che si eran sempre esposti al pericolo come l'ultimo soldato, il Corpo diplomatico rimasto,

EPILOGO E CONCLUSIONE. 437

protesta parlante, presso il Re, s'imbarcarono sulla Mouette. Sostenuto un bombardamento senza esempio nella storia militare, Gaeta non era stata espugnata, si era arresa. Abbandonando quei ruderi insanguinati, Francesco II, tenuta parola, poteva con giusto orgoglio ripetere insieme al primo Francesco: tutto è perduto, fuor che l'onore!

VII.

Convocati nel gennaio 1861 i comizii elettorali in tutta l'Italia sarda, gli eletti Deputati raunavansi il 18 febbraio in Torino. Il 17 marzo fu pubblicata la legge, per cui il Re Sardegna assunse, per sé e suoi successori, il titolo Re Italia. Dichiarato da Cavour, che: «Roma ci è necessaria per capitale, e fra sei mesi ci saremo»; la Camera dei Deputati, sanzionando tale dichiarazione, con voto solenne proclamò il 27 marzo Roma capitale d'Italia. Settantun giorno appresso caduto improvvisamente come morto la sera del 29 maggio, il mattino del 6 giugno Cavour non era più. La sua morte produsse alla Corte imperiale Francia una impressione analoga a quella che vi avea prodotto l'attentato Orsini. Napoleone III ne fu atterrato, e durante alcune ore non pronunziò parola. Finalmente, indirizzandosi a Fleury, con visibile commozione disse: «SaintArnaud, Lourmel, Espinasse sono partiti in tempo. Cavour avrebbe dovuto durare ancora due o tre anni. Egli se ne andò per lui in buon punto, per me troppo presto.» Nove giorni dopo la morte Cavour, la Francia, ripigliando le relazioni diplomatiche, riconosceva Vittorio Emanuele a Re d'Italia (1).

Codesto riconoscimento, si disse, era egli eziandio una commedia? Lo storico che ha il dovere, registrando gli esporre coscienziosamente cause ed effetti, non può permettersi alcuna escursione nel vasto campo delle congetture. Comunque sia, parlando principi viventi, difficilissimo non cadere nelle apparenze della malignità o dell'adulazione, lo scrittore veramente indipendente, come non dee intessere panegirici, non deve neppure intessere satire.

(1)

Dispaccio del Ministro Thouvenel all'Incaricato d'affari Francia in Torino, del 15 giugno 1861.

438

EPILOGO E CONCLUSIONE.

Mentre tuttavia la ruota della fortuna gira senza mai essere confitta, la storia che ha bisogno tutto conoscere e diritto tutto giudicare, deve tenersi paga a tutto osservare, a nulla pretermettere. In settembre del 1860 il Governo Francia scrive (1): «La saggezza consiglia alle Potenze non mischiarsi attivamente negli affari d'Italia, se non quando la Penisola, stanca delle sue agitazioni, conoscerà il bisogno ricorrere all'Europa.» Poco più tardi lo stesso Governo aggiunge (2): «Un giorno l'Italia, stanca delle rivolte e dei disordini che la sua imprudenza avrà provocati, accetterà dalle mani dell'Europa come un benefizio quello che altra volta le parve una violenza.» Morto Cavour, il Governo francese scrive ancora (): «Il Re Vittorio Emanuele ha diretto all'Imperatore de' Francesi una lettera avente per iscopo chiedergli riconoscerlo come Re d'Italia. L'Imperatore accolse questa comunicazione co' sentimenti benevolenza che lo animano verso l'Italia; ma se, aderendo al voto del Re, la Francia non vuole lasciar dubbii relativamente alle sue intenzioni sopra questo soggetto, vi sono tuttavia delle necessità ch'essa non 'può perder vista e che deve prender cura onde il suo riconoscimento non sia interpretato in un modo inesatto in Italia e in Europa. Il riconoscimento dello stato cose che risultò dagli scoppiati nel 1860 in Italia, non potrebbe esserne la garanzia, come non potrebbe implicare l'approvazione retrospettiva una politica, intorno alla quale la Francia si è costantemente riservata piena libertà giudizio.»

Poi Napoleone III scriveva a Re Vittorio (): «Mio Signor Fratello. Io sono stato ben lieto poter riconoscere il nuovo Regno d'Italia, nel momento in cui Vostra Maestà perdeva l'uomo che più aveva contribuito alla rigenerazione del suo paese. Con ciò ho voluto dare una novella prova della mia simpatia ad una causa per la quale abbiamo combattuto insieme.

(1) Dispaccio del Ministro Thouvenel, del 28 settembre 1860.

(2) Dispaccio del Ministro Thouvenel, del 17 ottobre 1860.

(3) Dispaccio del Ministro Thouvenel all'Incaricato d'affari Francia in Torino, del 5 giugno 1861.

(4)

Lettera dell'Imperatore de' Francesi al Re d'Italia, il 12 luglio 1861, da Vichy.

EPILOGO E CONCLUSIONE.

439

» Ma, ripigliando le nostre relazioni ufficiali, sono costretto a fare le mie riserve per l'avvenire. Un Governo è sempre legato da' suoi precedenti.

» Da undici anni io sostengo a Roma il potere del Santo Padre. Malgrado il mio desiderio non occupare militarmente una parte del suolo italiano, le circostanze furono sempre tali che mi è stato impossibile sgombrar Roma. Facendolo senza serie guarentigie, sarei venuto meno alla confidenza che il Capo della religione avea riposto nella protezione della Francia. La situazione è sempre la stessa. Devo adunque dichiarare francamente a Vostra Maestà che, mentre riconosco il nuovo Regno d'Italia, lascerò le mie truppe a Roma, finché ella non sarà riconciliata col Papa, ovvero il Santo Padre sarà minacciato vedere gli Stati, che gli rimangono, invasi da una forza regolare od irregolare.

» In questa circostanza Vostra Maestà sia persuasa, che io sono mosso soltanto dal sentimento del dovere. Io posso avere delle opinioni opposte a quelle Vostra Maestà, credere che le trasformazioni politiche sono opera del tempo, e che un'aggregazione completa non può essere durevole se non è preparata dall'assimilazione degl'interessi, delle idee e dei costumi. In una parola io penso che l'unità avrebbe dovuto seguire e non precedere l'unione. Ma questo convincimento non influisce punto sulla mia condotta. Gl'Italiani sono i migliori giudici ciò che loro conviene, e non ispetta a me, uscito dall'elezione popolare, esercitare una pressione sulle decisioni un popolo libero. Spero adunque che Vostra Maestà unirà i suoi sforzi ai miei, affinché in avvenire nulla venga a turbare la buona armonia sì felicemente ristabilita tra i due Governi.»

A cui riferiscasi quel ella da riconciliarsi col Papa, se all'Italia riconosciuta, se a Vittorio Emanuele cui è indirizzato il discorso, o se a Roma cui si tratta, era mistero e sempre mistero.

Il Regno d'Italia fu il risultamento dell'azione combinata, ancorché non del tutto concorde, due uomini, Napoleone III e Camillo Cavour; l'uno stromento nelle mani dell'altro; l'uno sempremai avverso all'unità assoluta d'Italia, l'altro lun

440 EPILOGO E CONCLUSIONE.

leone III (1): «E a seconda del cammino che le vedute modificansi, lo scopo s'aggrandisce o rimpicciolisce. Io non aveva punto la follia, diceva Napoleone I., voler torcere gli al mio sistema; al contrario io piegava il mio sistema sulla tessitura . Napoleone III voleva un'Italia confederata, ma un'Italia infranciosata, una Federazione francese; un'Italia alleata, ma un'alleata vassalla; un'Italia forte abbastanza da potersi guardare da sé, debole abbastanza da poter essere guidata per mano dalla Francia per interessi francesi, e non mai un'Italia compatta si da poter diventare più tardi, a circostanze mutate, da alleata indocile un pericolo per la Francia. Villafranca dava una Federazione, prodotto ripiego, balocco pel momento, una Federazione, dal punto vista napoleonico, austriaca, una Federazione quindi che non poteva andare. Intanto gli incalzavano, si voleva che incalzassero, dovevano incalzare, perocché stava appunto nella loro precipitazione la sorte d'ogni questione, il presente e l'avvenire, la vita o la morte tutto un sistema. Ma al disopra della questione dell'unità federativa o dell'unità assoluta italiana stavano ben più alte questioni, l'idea napoleonica, l'idea dell'alleanza delle stirpi latine, l'idea della rivinta Waterloo; ed ecco Napoleone III proclamare: «L'Italia si pacifichi, non importa il come».

Bipartita l'idea napoleonica nell'idea del primo Impero e nell'idea del secondo Impero, afferma Napoleone III (2), l'idea del primo Impero «consistere nel ricostituire la società sconvolta da cinquant'anni rivoluzione, nel conciliare l'ordine colla libertà, i diritti del popolo coi principii d'autorità.» Afferma ancora Napoleone III, l'idea del secondo Impero consistere nel ricostituire la società sconvolta da quarant'anni pace, nel conciliare l'ordine colla libertà, i diritti del popolo coi principii d'autorità. L'idea napoleonica, dice Napoleone III., «sgorgò dalla tomba Sant'Elena come la morale dell'Evangeliosi è elevata trionfante malgrado il supplizio del Calvario; sorti dalla rivoluzione francese come Minerva dalla testa Giove,

(1) Des idéts napoléoniennes; chap. IV., pag. 121-122.

(2) Des idèes napoléoniennes; pag. 6.

442

EPILOGO E CONCLUSIONE.

il casco in testa e la lancia in mano; combatté per esistere, trionfò per persuadere, soccombette per rinascere dalle sue ceneri, imitazione un esempio divino! In mezzo a due partiti accaniti, cui l'uno non vede che il passato e l'altro che l'avvenire, prende le antiche forme e i nuovi principii; volendo fondare solidamente, poggia il suo sistema sopra principii d'eterna giustizia; trova un elemento forza e stabilità nella democrazia, perocché essa la disciplina; trova un elemento forza nella libertà, perocché essa ne prepara il regno collo stabilire larghe basi prima edificare; comanda colla ragione e conduce, perocché essa marcia la prima; non attacca importanza che alle cose, odia le parole inutili; eseguisce in un sol anno ciò che gli altri discutono per dieci anni; voga a piene vele sopra l'oceano della civiltà, anziché restare in uno stagno melmoso per tentare inutilmente ogni sorta vele. L'idea napoleonica, avendo la coscienza della sua forza, respinge lungi da sé la corruzione, le blandizie, la menzogna, questi vili ausiliarii della debolezza, accorda la lode o getta il biasimo, sexy condo che le azioni sono lodevoli o degne biasimo. Per sua natura idea pace piuttosto che idea guerra, idea ordine e ricostituzione piuttosto che idea sconvolgimento, l'idea napoleonica si appella più volentieri alla ragione che alla forza; ma se, poussée à bout, essa divenisse l'ultimo rifugio della gloria e dell'onore, allora, riprendendo il suo casco e la sua lancia, direbbe a' popoli ciò che San Remigio diceva al fiero Sicambro: Rovescia i tuoi falsi Dei e le tue immagini d'argilla; abbrucia quel che adorasti sin qui, e adora quel che hai abbruciato.» Schiarita da un volume definizioni napoleoniche (1), l'idea napoleonica, quando non fosse la formola: Vogliate tutti quel che voglio io, sarebbe l'oracolo: Ibis redibis non morieris in bello.

«Giungendo sulla scena del mondo, Napoleone I., scrisse Napoleone III (2), vide che la sua parte era d'essere l'esecutore testamentario della rivoluzione». Proclamatosi, mentre ancora vivea nell'esiglio, propagatore delle sue idee, pervenendo su quella scena medesima,

(1) Napoléon III ; Des idées napoléoniennes.

(2) Des idèes napoléonienne»; chap. II., pag 23.

EPILOGO E CONCLUSIONE.

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Napoleone III trovava ben nettamente tracciata la sua parte

continuatore delle opere dello zio; ma la diversità delle origini doveva necessariamente condurre alla diversità de' mezzi da adoperarsi pello svolgimento de' programmi. Così all'idea della Confederazione europea sbozzata nella mente del primo Napoleone, il terzo sostituiva l'idea dell'alleanza delle stirpi latine, dinanzi alla quale per lui diveniva secondario affatto che l'Italia si avesse unità assoluta od unità federativa. Come il periodo del primo Impero francese era stato una guerra a morte dell'Inghilterra contro la Francia, il periodo del secondo Impero napoleonico doveva essere una guerra sottile della Francia contro l'Inghilterra. Inghilterra e Francia viveano bensì sempre in pace, scambiavano ad alta voce proteste amicizia e alleanza, faceano anzi più, meschiando talora il sangue dei loro soldati combattenti l'uno a fianco dell'altro; ma dandosi braccio, ognuna esse non lo faceva se non perché l'altra non avesse a scappare. Tagliato l'istmo Suez a dispetto dell'Inghilterra, con indissolubili vincoli legata a sé l'Italia, aggruppando intorno alla Francia i popoli razza latina viventi lungo le sponde del Mediterraneo, Napoleone III avrebbe assicurato il bando della supremazia inglese da quel mare, permutato tal guisa in un lago francese. Allora le due penisole italiana ed iberica formerebbero le due ali quel grande esercito, cui la Francia costituisce il centro.

L'idea della rivinta Waterloo compendiasi nell'annullamento dei Trattati del 1815. «Uomini Stato del Congresso Vienna», è Napoleone III che parla (1), voi che foste i padroni del mondo sulle reliquie dell'Impero, la vostra missione avrebbe potuto essere bella; voi non l'avete guari compresa! In nome della libertà ed eziandio della licenza avete ammutinati i popoli contro Napoleone, lo avete messo al bando dell'Europa come un despota ed un tiranno, diceste avere liberate le nazioni ed assicurato il loro riposo. Esse vi hanno creduto un momento; ma non si costruisce nulla solido sopra una menzogna e sopra un errore! Napoleone aveva chiuso il vortice delle rivoluzioni; arrovesciandolo, l'avete riaperto.

(1)Des dèe napoléoniennes; chap. II., pag. 23.

444

EPILOGO E CONCLUSIONE.

Guardatevi che quel vortice non v'inghiottisca! Quanti anni scorreranno ancora, quante lotte e quanti sacrificii prima che voi, uomini della libertà, siate giunti al punto cui Napoleone vi aveva fatti pervenire! In vero, complimentato un giorno perché avesse posto un termine alle rivoluzioni, Napoleone I. aveva risposto: Non, non, j'ai mis seulement le signet. Après moi on tournera le feuillet, et elles recommenceront. Certamente. nemmen noi non siamo molto teneri dei Trattati del 1815; pure come potersi lasciar persuadere che quei Trattati sieno la causa vera delle sopravvenute rivoluzioni, e per via nuovi Trattati, informati a seconda della volontà del terzo Napoleone, si possa veracemente mettere le signet alle rivolte, ridare durevole pace all'Europa? Quand'anche ciò fosse, après moi on tournera le feillet, et elles recommenceront.

I Trattati del 1815 erano stati cangiati nel Belgio, erano stati cangiati in Polonia, erano stati cangiati a Cracovia, erano stati cangiati a Neuchàtel. La Francia li avea cangiati due volte, nel 1830 e nel 1852. presente si erano cangiati in Lombardia, a Parma, a Modena, in Toscana, nello Stato pontificio, nelle Due Sicilie, a Nizza, in Savoia. Contro quanto que' Trattati restava tuttavia in piedi non mai Napoleone III aveva cessato protestare ogni qual volta gliene era venuto il destro, fatte sorgere appositamente le occasioni, quando non si fossero presentate da sé. Tutta la sua vita pubblica si riassume in una protesta contro le stipulazioni del 1815, più o meno velata, sotto cento aspetti, in mille guise, ma pur sempre protesta perenne, incessante. A fronte codesta idea fissa, codesto fine supremo, a Napoleone III bastava che l'Italia, rimescolata una volta che fosse dal Po all'Etna, abbastanza prestamente si pacificasse, non importa il come.

La vita stessa Napoleone III compendiasi in un grande dramma in Italia, cui ogni Atto porta l'impronta qualcosa caratteristico, una serie scene che lascerebbero, se vuoisi, presentire lo scioglimento riserbato alla scena finale. A quella guisa che in certe sinfonie il compositore indica appena qualcuno de' più originali motivi svolti nel melodramma, nel preludio della sua vita pubblica Carlo-Luigi Bonaparte apparisce in Italia in una impresa contro la temporale potestà del Papato; guizzo

VIII.

Il quinto atto principia; ha per titolo: La conciliazione. Dapprima viene l'opuscolo La France, Rome et l'Italie Laguéronnière e compagno: programma politico origine e genere, smentiti come metodo, comuni ai consanguinei Napoléon III et l'Italie e Le Pape et le Congrès; specie commento tanto alla esposizione ufficiale fatta dal Baroche al Senato ed al Corpo legislativo Francia, quanto alla scelta documenti che si eran dati alla luce dal Governo francese intorno agli ultimi menti d'Italia; altro solenne atto accusa intentato alla Santa Sede innanzi al tribunale tutte le Potenze Europa, ed appello al giudizio dei popoli; libello inteso a porre in sodo che la ostinazione Pio IX., cui affermavasi il cuore essere stato sor

446 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Seguiva il discorso in Senato del principe Napoleone (1) un genere oratorio fino allora sconosciuto, cui però Napoleone III si mostrava soddisfattissimo, con una letterina congratulazione al cugino e con qualche riserva generica, come volea prudenza, intorno ad alcune idee; discorso fatto per ciò subito, d'ordine del Ministro dell'Interno, stampare a duecentomila esemplari ed affiggere alle porte tutte le quarantamila comunità della Francia, propugnante la necessità acconciare a Roma, la quale ha da cedersi per capitale all'Italia, il domicilio del sovrano Papa e del sovrano Re d'Italia. «Volgete un'occhiata diss'egli, sopra la pianta Roma, e scorgerete una straordinaria cosa fatta dalla natura. Il Tevere che la spartisce in due: alla riva destra voi vedete la città cattolica, il Vaticano, San Pietro; alla sinistra voi vedete la città antichi Cesari, il colle Aventino, e in somma tutte le preclare memorie Roma imperiale. Ebbene: quivi, alla riva destra, si potrebbe restringere il Papa e il suo regno civile, assicurarlo dentro questi confini, mallevargli una rendita, fornirgli un presidio, consentirgli una giurisdizione, lasciargli la bandiera, e donargli tutti i casamenti che sorgono in quella contrada. Conciò voi avreste un'oasi del cattolicismo nel bel mezzo delle procelle mondane.» Infatti, la natura avendo operata la cosa straordinaria dare al Tevere Roma una sponda destra ed una sponda sinistra, sulla sua sponda destra sorge quella parte della città che forma il XIV. Rione, che ha nome Borgo, più conosciuto sotto la storica denominazione Città Leonina. Era qualche cosa; un Reame tre miglia circuito, con sei strade, sei chiese e più la Basilica, tre piazze e più Piazza San Pietro, sei a sette migliaia d'anime.

(1) Atti del Senato Francia, Tornata del 1° marzo 1861.

EPILOGO E CONCLUSIONE.

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Quel discorso del principe fu occasione a gagliarde risposte, a dispute indecorose, sì che il presidente tolse al principe stesso la facoltà parlare, ed al marchese Boissy servi pretesto per ripetere Napoleone III. con molto spirito in Senato: Quest'uomo non parla mai, e mentisce sempre (1). Poi un grande novero Senatori votò in favore del dominio temporale del Papa, quantunque fosse notissimo, che chi dava il voto in tal senso agiva apertamente contro la volontà dell'Imperatore, né vi era stata seduzione, intrigo, minaccia, che non si fosse adoperata perché la politica napoleonica avesse a riportare nella votazione uno splendido trionfo. Dal che ire molte alle Tuileries, e assai aneddoti. Il Duca Arrighi Padova, sul cui voto contro il Papa erasi fatto securo assegnamento, votò invece in favore. Rimproverato per ciò severamente dall'Imperatore, il Duca rispose, che, sostenendo il Santo Padre ed obbedendo alla propria coscienza, aveva il pieno convincimento rendere il migliore servigio alla dinastia napoleonica. Ebbene, risposegli Napoleone III, saprò d'ora innanzi quali sono i miei veri amici; e gli voltò aspramente le spalle.

Intanto Ricasoli, succeduto a Cavour nella presidenza del Consiglio dei Ministri del Re d'Italia, proclamava (): «Noi vogliamo andare a Roma. Andare a Roma è per gl'Italiani una inesorabile necessità. Vogliamo andare a Roma concerto colla Francia. L'opportunità, che si prepara e sorge nel tempo, aprirà la via a Venezia. Intanto pensiamo a Roma.» A quest'uomo Ricasoli scriveva e firmava tre lettere, sotto la data del 10 settembre 1861,

(1) Boissy, pigliato argomento a gridare contro l'Inghilterra, che entrava nella discussione quanto il Corano nella Messa, «quell'Inghilterra disse, che ha avuto la baldanza affermare del nostro Imperatore: Cet homme là il ne parie jamais, et il ment toujovrs!A queste parole molti Senatori gridarono: All'ordine! All'ordine! Il presidente gridò anch'esso: All'ordine! E Boissy imperturbabile rispondere: Tanto meglio! Dopo averli ben lasciati sfogare, Boissy riprese: «Era certo, o signori, che avreste voi tutti partecipato alla mia indegnazione.» Un'immensa risata si alzò da tutte parti, i Ministri abbassarono la testa e risero alla lor volta; e la frase rimase non contraddetta, non ritrattata.

(2) Atti Ufficiali della Camera dei Deputati, Tornata del 1° luglio 1861; numero 240, pag. 915.

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EPILOGO E CONCLUSIONE.

e una cosa che chiamò Capitolato (1). La prima lettera era pel Papa, affine

persuaderlo -cedere Roma al Re d'Italia, onde «riconciliare insieme la nazione italiana e la Sede Apostolica, che sono in un conflitto fatale.» Il Capitolato, dodici Articoli, era un connesso alla lettera al Santo Padre, per dare libertà alla Chiesa, spogliandola, e rendere indipendente il Papa, liberandolo dalle cure sovrano temporale; col secondo Articolo in ispecialità «il Governo del Re d'Italia assumerebbe impegno non frapporre ostacolo agli atti che il Sommo Pontefice esercita per diritto divino come Capo della Chiesa, e per diritto canonico come Patriarca d'Occidente e Primate d'Italia.» La seconda lettera era pel Cardinale Antonelli, perché «porga utili ed ascoltati consigli», e compia un'opera. la spogliazione del Papa, «che farà il Cardinale benemerito della Santa Sede non solo e dell'Italia, ma tutto il mondo cattolico.» Infine la terza lettera era pel Nigra, Ministro del Re d'Italia a Parigi, onde invocasse i buoni uffizii dell'Imperatore de' Francesi, non solo perché le tre carte pervenissero al Santo Padre, ma eziandio «perché fossero presso lui efficacemente raccomandate.» Or, sia che Napoleone III si fosse accorto che la lettera Ricasoli a Pio IX. era trascritta da un'opera a stampa (), sia qualsivoglia altro motivo, Napoleone III si rifiutò mandare e raccomandare a Roma lettere e Capitolato; sicché Angelo Brofferio venne a dire nel Parlamento Torino (): «Ci si chiedeva tempo per la questione Roma; è passato un anno ed invece d'andare innanzi siam tornati indietro.»

Il 27 gennaio 1862 Napoleone III riapre la Sessione Legislativa. «Ho riconosciuto, disse, il Regno d'Italia colla ferma intenzione contribuire, con consigli benevoli e disinteressati, a conciliare delle cause, l'antagonismo delle quali turba da per tutto le menti e le coscienze.»

(1) I quattro documenti leggono negli Atti ufficiali della Cattura dei Deputati del Regno d'Italia, num. 325, pag. 1255.

(2) Cioè dai Prolegomeni sulla Storia Ecclesiastica. D. Luigi Tosti, monaco Montecassino. - Vedi: L'Armonia Torino, numero del 30 novembre 1861.

(3) Atti Ufficiali del Parlamento d'Italia, Tornata del 29 novembre 186l della Camera dei Deputati, pag. 1252, col. 3.

EPILOGO E CONCLUSIONE.

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La mala riuscita Ricasoli ne' suoi disegni conciliazione del Regno d'Italia col Santo Padre non lo aveva però scoraggiato punto, e nemmeno il Rattazzi, suo successore. E così mentre questi scriveva (1), «che il Re ebbe dal Parlamento, come dalla nazione, il mandato completare la formazione del paese e trasferire la sede del Governo nella città eterna, a cui solo spetta il titolo Capitale d'Italia, ed il Governo del Re farà tutto per raggiungere questo scopo, d'accordo col grande alleato che ora protegge il Santo Padre colle sue armi, si andava destramente insinuando a Parigi un altro disegno conciliazione ideata egualmente dal Ricasoli, consistente nel far sì che Roma venisse occupata con presidio misto Francesi e Piemontesi per alcun tempo, dopo che i primi bel bello si verrebbero ritirando, onde i soli Piemontesi rimanessero a tutela della libertà e della indipendenza del Pontefice.

A Parigi Nigra si adoperò alacremente presso il conte Cowley, che scrisse tosto a Londra (): «L'idea una guarnigione mista a Roma truppe francesi e italiane, per un tempo limitato, esser degna considerazione; ma probabilmente cadrà a terra, come tutte le altre proposizioni, in presenza della ostinazione papale.» Mentre Cowley aggiungeva (): «Il Ministro Thouvenel non aver mostrata alcuna disposizione a sostenere quel progetto»; Russell rispondeva (4): «Un presidio misto francese ed italiano non sarebbe idea conveniente. Sarebbe molto meglio, che le truppe italiane dovessero essere in libertà occupare l'intero territorio dello Stato romano alla sponda sinistra del Tevere, e che le Francesi dovessero occupare la regione vaticana della città, Civitavecchia, ed il Patrimonio San Pietro, alla sponda destra del Tevere. Quando questo disegno fosse accettato come un accomodamento temporaneo, il Papa sarebbe protetto; la sua dignità come principe sovrano, sarebbe riconosciuta;

(1) Nota circolare ai Rappresentanti del Regno d'Italia presso le Corti straniere, del 28 gennaio 1862.

(2) Dispaccio lord Cowley, Ministro inglese in Francia, a lord John Russell, Ministro pegli Esteri, del 12 marzo 1862.

(3) Dispaccio Cowley a Russell, del 14 marzo 1862.

(4)

Dispaccio Russell a Cowley, del 17 marzo 1862.

450

EPILOGO E CONCLUSIONE.

e dopo un certo tempo, il Re d

'Italia ed il Papa sarebbero dalla forza delle circostanze riconciliati.» Allora Thouvenel a replicare (1): «Dichiarando il Papa non volere acconsentire a nessuna composizione, se non gli si rendano le possessioni che ha perdute, e il Governo italiano rifiutando sanzionare veruna combinazione, la quale non riconoscesse Roma a capitale d'Italia, tra due così estreme opinioni non parere possibile un componimento, giacché la Francia non poteva permettere a truppe italiane entrare nel territorio occupato da essa, senza il beneplacito del Papa. E perché dov'essere la Francia richiesta abbandonare Roma e il Patrimonio San Pietro al Re d'Italia? Il più che si può aspettare dalla Francia, sarebbe la restituzione Roma ai Romani. Le pretese del Governo italiano sopra Roma come capitale d'Italia (2), e sopra Venezia come provincia italiana, essere interamente ingiustificabili, secondo la maniera comune interpretare la legge internazionale.»

Quel disegno conciliazione irreparabilmente caduto, Rattazzi non si perdé d'animo. Mulinò e disse: «Cavour mandò Garibaldi in pensando a Napoli; e si lasciò fare. Perché non si potrebbe mandare Garibaldi in Tirolo, pensando a Roma; e perché non si lascierebbe fare?» Garibaldi, uomo testa molto piccola e vaporosa, già chiamato sul continente da Bettino Ricasoli, è fatto venire a Torino, conferisce lungamente con Rattazzi, e agli amici suoi, che lo ammonivano a diffidare del Ministro fatale, messo a capo del Gabinetto d'ordine espresso dell'Imperatore de' Francesi, sorridendo risponde: «Date il vostro voto al Ministero. Depretis veglierà! Depretis era stato pro-dittatore Garibaldi in ed ora sedeva nel Gabinetto presieduto da Rattazzi. Largamente provveduto danaro, corteggiato dai Prefetti, accompagnato da uno Stato-maggiore Ufficiali, Garibaldi è condotto in trionfo per l'Italia settentrionale, la fa da Re al nord della Penisola, mentre Vittorio Emanuele la fa da Re al sud, pubblicamente aduna uomini ed armi; ma venuti ordini positivi da Napoleone III, doversi a qualunque costo impedire l'impresa, avendo l'Austria dichiarato schietto alla Francia che,

(1)

Dispaccio Cowley a Russali, del 20 marzo 1862.

(2)

Dispaccio Cowley a Russell, del 28 marzo 1862.

EPILOGO E CONCLUSIONE.

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qualora i Garibaldeschi avessero valicato le sue frontiere, ne avrebbe fatto caso guerra contro il Piemonte, si scambian le carte, s'imprigionano i capi subalterni a Garibaldi e parte gli arruolati, si sperdono gli altri, si sequestrano le armi, si versa sangue il giorno 16 maggio a Brescia, e mentre Rattazzi in viaggio col Re a Napoli sacramenta averne saputo propriamente nulla, Garibaldi stesso è costretto ad andarsene anco una volta a Caprera.

repente Garibaldi piomba a Palermo, e l'8 luglio, mentre, avendo al fianco il Prefetto Palermo, assisteva ad una rassegna Guardia Nazionale, pronunzia: «Popolo Palermo! Gli Italiani sieno concordi in un solo volere, l'unità della patria. Ma non parole, fatti. Il padrone della Francia, il traditore del due dicembre, colui che versò il sangue dei fratelli Parigi, sotto il pretesto tutelare la persona del Papa, tutelare la religione, il cattolicismo, occupa Roma. Menzogna, menzogna! Egli è mosso da libidine, da rapina, da sete infame d'impero; egli è il primo che alimenta il brigantaggio. Popolo del Vespro, popolo del 1860, bisogna, è necessario che Napoleone sgombri Roma. Se è necessario, si faccia un nuovo Vespro. Ogni cittadino, a cui sta a cuore l'emancipazione della patria, si prepari un ferro. Il muratisene non sarebbe in Italia che un proconsolato Napoleone. Il Re Papa, o il Papa Re, è la negazione dell'Italia. Il Governo non è forte abbastanza per riscuotere il giogo della Francia. Bisogna che il popolo colla sua compattezza, colla sua energia, lo appoggi. Mettiamo nelle bilance della diplomazia ferri arruotati, e la diplomazia allora rispetterà i nostri diritti, ci darà Roma e Venezia. Il programma con cui sbarcammo a Marsala, Italia e Vittorio Emanuele, deve essere sempre il nostro programma; con esso andremo a Roma e Venezia. Io leverò l'Italia da questa inerzia in cui giace; vi sarò compagno nell'ultima lotta».

In vero le mene muratiste erano in que' giorni medesimi giunte ad un grado mai più veduto, condotte affatto allo scoperto. Ridotte già quasi al nulla, d'improvviso aveano ripigliato vigore dal giorno, era alla fine del gennaio 1861, che il Ministro Thouvenel aveva richiamato alla memoria del conte Groppello, rappresentante Sardegna in Parigi, le segrete pattuizioni

452 EPILOGO E CONCLUSIONE.

Groppello erasi recato da Thouvenel per lagnarsi che nelle truppe Francesco II vi fossero molti uffiziali francesi, rimproverando con ciò alla Francia una maniera d'intervento contro il Piemonte. Al che il Ministro avendo risposto, «che de' Francesi ve n'erano da per tutto, nell'esercito napoletano e nell'esercito piemontese», aveva conchiuso: «Del resto, che vi fa a voi altri ciò? Sapete bene che voi non resterete a Napoli.» Groppello chiese allora se gli faceva uffizialmeute siffatta dichiarazione. E Thouvenel a lui: «Non ho altre spiegazioni a darvi in proposito; ma vi ripeto che voi non resterete a Napoli, tenetelo per detto.» Negli stessi giorni era venuto in Napoli, bello e stampato da Parigi, quel bando, rimasto celebre ne' fasti del moderno muratismo, con cui Luciano I. dava largo corso alle collere contro Vittorio Emanuele, che gli avea rubato, ei diceva, il suo trono; bando largamente diffuso in Napoli e nel Reame, con grande ira de' Piemontesi, intorno a' quali Murat in esso scrisse: «Veramente non alla patria, ma alla cupidità quattro sensali politici e del loro borioso banchiere, s'immolarono i pubblici interessi. Una setta avara e superba d'amor patrio s'imbellettò, ma sotto il liscio si veggono le grinze. Governo monopolio e conquista, frutto non è amor patrio; frutto è corruzione e stoltezza. Gli uni sono violenti per libidine potere, gli altri per ignoranza. Vennero su fra le tenebre delle piemontesi combriccole certi saccenti da trivio, che accettarono dalle genti straniere il concetto e la norma del governo. Privi d'ogni nativo e schietto senso italiano, impresero a rifar l'Italia dietro le loro fanciullesche utopie. Digiuni ammaestramenti dell'esperienza, non potevano sentire la necessità un sistema federale. Non sentirono queste anime degeneri che privilegio è della ricca penisola italiana moltiplicare i centri, le capitali città, perché più abbondi e si sfoghi in tutta la copiosa varietà dei suoi diversi istinti la mente e la vita dei nostri popoli. E per istoltezza scoronarono Napoli, destinata ad essere la seconda Roma nell'italiana federazione, e prima ad ogni altra città.»

presente emissari e messaggieri bonapartisti si recavano misteriosamente da Parigi a Napoli, a ravvivarvi il sacro fuoco muratiano, ed il 15 giugno 1862, dato piglio un'altra volta alla

Torniamo a Garibaldi. Ei non perde tempo, con instancabile solerzia visita ad una ad una le sicule terre, conciona i popoli, prepara palesemente, non disturbato, armi ed armati; mentre a Torino, dove tutto si era preveduto, Rattazzi sta coll'occhio intento a cavarne profitto, o per la gloria valersi direttamente quegli eccessi se gli il comportassero, o per la gloria reprimerli poi quando avessero dato il lor frutto. A Marsala, il 20 luglio, Garibaldi, arringando, alza il grido: O Roma o morte! E voci rispondono: O Roma o morte!

454 EPILOGO E CONCLUSIONE.

«Questa è una paè un... un... un... (1). Egli non fece la guerra del 1859 per l'Italia, ma lavorò per sé stesso. Noi gli demmo il nostro sangue nella guerra Oriente, gli pagammo sessanta milioni, gli demmo in gola Savoia e Nizza, e voleva altro; lo so io! Egli ha lavorato per ingrandire la sua famiglia; ha pronto un principino per Roma, un signorino per Napoli, e cosi via i via; lo so io! Napoleone fuori, fuori!! E il coro: Fuori, Fuori! Nella più bella delle chiese Marsala l'apostata Pantaleo celebra la Messa, poi invita a levare il braccio, stendere la mano all'altare, e giurare: Roma o morte! E giurano: O Roma o morte!

Garibaldi dà il segno raccolta pe' suoi soldati, e annoda presso Corleone, da Generale esercito, il dì primo dell'agosto, mette fuori l'Online del giorno per la partenza, e muove. La campagna finì presto. Napoleone III mandava ordini sopra ordini a Torino, meglio minacce sopra minacce; ed il 3 agosto le mura Torino erano tappezzate d'un Proclama Vittorio Emanuele, annunciante: «Ogni appello, che non è del Re è un appello alla ribellione.» Il Proclama era controfirmato da Rattazzi e da tutti i Ministri, compreso Depretis. Si diceva, e Garibaldi stesso pubblicamente si vantò dell'aiuto (2), che Gran-Bretagna avesse dato danaro per la spedizione; ma intanto l'Imperatore de' Francesi al Governo Torino,

(1) Ci si perdoni se non riportiamo le parole.

(2)

In una parlata a Rocca Palumba, il 6 agosto, disse: «Cosi non può più durare. Ormai la sorte è decisa. Vado contro il Governo, perché non vogliono lasciarmi andare a Roma. Vado contro la Francia, perché mantiene il Papa e i Briganti. Ad ogni costo voglio Roma. Roma o morte! L'Inghilterra mi aiuta. Se riesco, tanto meglio. Altrimenti, piuttosto che cedere, distruggerò l'Italia che ho fatto.»

EPILOGO E CONCLUSIONE. 455

che aveva dato a Garibaldi un milione franchi per andare in Oriente, scriveva: Garibaldi dev'essere tutt'affatto schiacciato. Dichiarato ribelle, Garibaldi si incoccia fieramente; il 5 agosto muove colle sue schiere da Corleone, scorazza per l'isola, poi volge verso Catania. Abbandonato nel frattempo dai più, s'imbarca su due piroscafi e scende il 25 in Calabria presso a Melito, a capo appena 1500 uomini. Accerchiato il 29 agosto da un grosso truppe italiane sugli altipiani Aspromonte, vengono alle mani, e Garibaldi cade ferito da due palle, leggermente a una coscia, sì gravemente ad un piede che resta assai mesi inchiodato sopra un letto e storpio per tutta la vita.

Mentre Garibaldi gridava: O Roma, o morte!, si chiedeva da tutte parti: Che farà la Francia? E la Francia risponde (1): «I giornali domandano quale sarà il contegno del Governo francese riguardo all'agitazione presente d'Italia. La questione è talmente chiara, che ogni dubbio sembrava impossibile. Il dovere del Governo francese ed il suo onore militare lo sforzano più che mai a difendere il Santo Padre. Il mondo dee ben sapere che la Francia non abbandona nel pericolo quelli sui quali estende la sua protezione.» Or, infrattanto che Garibaldi volgeva l'opera ad acconciare le cose a Roma a sua guisa, Napoleone III si era studiato accomodarvele dal canto suo a suo grado; aveva per ciò scritto lettere () onde far sapere: «che la sua politica riguardo all'Italia era stata sempre la stessa, consacrare l'alleanza della religione colla libertà; essere urgente che la questione romana si abbia un definitivo scioglimento, doversi cosi il Papato riconciliare coll'Italia»; aveva fatto dare istruzioni speciali al suo Legato in Roma, perché giungesse a persuadere il Papa a codesta riconciliazione (), conciliazione ed istruzioni rispondenti perfettamente alle idee esposte nell'opuscolo Il Papa e il Congresso.

(1) Nota ufficiale nel Moniteur del 25 agosto 1862.

(2) Lettera dell'Imperatore de' Francesi al barone Thouvenel, Ministro affari esteri, del 20 maggio 1862.

(3)

Istruzioni del Ministro Thouvenel al signor La Valette, Ambasciatore Francia presso la Santa Sede, in data 30 maggio 1862, pubblicate dall'ufficiale Moniteur del 25 settembre 1862.

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EPILOGO E CONCLUSIONE.

Quattro furono le condizioni offerte da Napoleone III al Pontefice (1): «1. Il mantenimento dello statu quo territoriale, rassegnandosi il Papa, sotto qualunque riserva, a non esercitare autorità fuori delle province rimastegli, mentre l'Italia s'impegnerebbe colla Francia a rispettare quelle che la Chiesa possiede tuttora. Ove il Sovrano Pontefice consentisse a prestarsi a tal transazione, il Governo dell'Imperatore dovrebbe ingegnarsi farvi partecipare le Potenze soscrittrici dell'Atto generale Vienna. - 2. Il trasferimento a carico dell'Italia della maggior parte della totalità del debito romano. - 3. La costituzione, a profitto del Santo Padre, una lista civile destinata a compensare le rendite che per la riduzione del numero de' suoi sudditi gli mancherebbero. La Francia, nel prendere l'iniziativa questa proposta presso le Potenze europee, e più specialmente presso quelle che appartengono al culto cattolico, dovea impegnarsi a contribuire per parte sua all'indennità nella proporzione una rendita tre milioni. - 4. La concessione per parte del Santo Padre riforme, che, conciliandogli i sudditi, consoliderebbero all'interno un potere, protetto all'esterno dalla guarentigia della Francia e delle Potenze europee.» Ancorché l'ambasciatore La Valette. avesse fatto del suo meglio per convincere Pio IX. quale immenso interesse egli aveva entrare nella sola via salute, che gli era offerta, riconciliarsi coll'Italia, dalla quale non potevano essere disgiunti i puoi destini, Roma dalle sue sofferenze, salvare le coscienze dal turbamento che le agita, salvare la fede dalla scissura che la minaccia, saltare la Chiesa da una delle più gravi sventure ond'ella sia mai stata colpita; Pio IX., proclamato ostinato, quella ostinazione cui aveano dato esempio Pio VI. e Pio VII., Pio IX. rifiutò, non giungendo, fra le altre cose, la Corte Roma a capire, che sorta transazione potesse essere codesta per cui la Francia si sarebbe ingegnata ottenere dalle Potenze soscrittrici del Trattato Vienna, le quali avevano già guarentito il tutto, che guarentissero ora non più una piccola porzione.

Andato in dileguo anche questo disegno conciliazione, questo, come lo aveva chiamato una delle più reputate

(1)

Dispaccio La Valette a Thouvenel, del 24 giugno 1862.

EPILOGO E CONCLUSIONE.

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fra le effemeridi parigine (1), «atto curioso della commedia italiana contemporanea», il Governo Torino annunziò solennemente all'Europa (): «L'Italia reclama la propria capitale, Roma. La Francia soprattutto riconoscerà il pericolo che deriva dal mantenere più a lungo fra l'Italia ed il Papato un antagonismo, la sola cagione del quale risiede nel potere temporale. Un simile stato cose non può più durare.» Ma rivoltosi direttamente al Governo francese () «per sapere se credea giunta l'ora ritirare le sue truppe da Roma», n'ebbe in risposta (): «Il Governo dell'Imperatore avere continuato i suoi sforzi, relativamente alla questione romana, con tale perseveranza, che non si lasciasse vincere né da resistenze ostinate, né da impazienze sconsigliate. Ma i dispacci del generale Durando aver tolto, per ora, la speranza, che la Francia avrebbe voluto fondare sulle disposizioni del Governo italiano, pervenire alla cercata conciliazione. Il Governo Torino avendosi appropriato ora il programma Garibaldi, ed affermando il diritto dell'Italia sopra Roma, rivendicato la consegna questa capitale e la decadenza del Santo Padre, sembrare inutile la discussione e superfluo ogni tentativo componimento.» In sostanza, Napoleone III dichiarava, che trattazioni relative alla questione romana non avrebbero potuto essere riprese fino a che il Gabinetto Torino non avrà anticipatamente ritirato ogni sua pretesa su Roma, e finché l'indipendenza politica del Santo Padre non sarà messa fuor questione. Questa dichiarazione ebbe per conseguenza che Rattazzi, Durando, e tutti gli altri Ministri dovettero smettere i portafogli; e per contraccolpo che nella Camera dei Deputati in Torino il De Sanctis venne a dire Napoleone III (): «Signore! Voi siete il suffragio universale.

(1) La Revue des deux Mondes, del l. ° ottobre 1862; Tom. XLI., pag. 718.

(2) Dispaccio circolare del Generale Durando, Ministro pegli affari esterni del Regno d'Italia, ai Rappresentanti italiani presso le Corti straniere, del 10 settembre 1862.

(3) Dispaccio del Ministro Durando al Nigra, Ambasciatore italiano in Parigi, dell'8 ottobre 1862.

(4) Dispaccio del sig. Drouyn de Lhuys, Ministro agli affari esterni in Francia, al conte Massignac, Incaricato affari francese in Torino, del 26 ottobre 1862.

(5) Atti ufficiali del Parlamento; unni. 906, pag. 3521.

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EPILOGO E CONCLUSIONE.

Signore! Voi siete l'indipendenza dei popoli. Signore! Voi siete la rivoluzione italiana. Cammina! Cammina! Se ti arresti, tu sei perduto! E la Camera ad applaudire. Bravo! Bene! e Petrucelli della Gattina a soggiungere (1): «No, questo Bonaparte non ha ragione esistere.»

Giunto il giorno dovere riaprire la Sessione legislativa del 1863, il 12 gennaio, Napoleone III si sbrigava della questione con due parole: «Le nostre armi hanno difeso l'indipendenza d'Italia senza patteggiare colla rivoluzione, senza abbandonare il Santo Padre, che il nostro onore ed i nostri anteriori impegni ci obbligavano sostenere.» Poi mandò il Billault, Ministro incaricato spiegare la mente dell'Imperatore, a dire nel Senato: «La politica dell'Imperatore. dopo che questa controversia romana entrò nel dominio della discussione, non variò un sol momento. L'Imperatore ha sempre voluto due cose: l'indipendenza dell'Italia e l'indipendenza della Santa Sede; e siccome questi due interessi sono in lotta, esso ebbe la volontà conciliarli. Furono proposti diversi modi conciliazione, ma non sono ancora riusciti. Però è certo altresì che l'Imperatore ha la volontà raggiungere il suo scopo. Ecco il punto a cui siamo. Questo non possumus, che noi incontravamo a Roma, ora lo incontriamo a Torino. Ebbene, in cospetto del non possumus politico Torino, come anche del non possumus religioso Roma, l'Imperatore ha detto: Havvi fra questi due estremi una conciliazione possibile; la voglio, e se il momento non è ancora giunto per farla prevalere, aspetterò.» Dalla quale dichiarazione, qualificato il non possumus del Papa come religioso una questione religiosa, derivava la conseguenza, che un non possumus politico si può disdire per motivo politico, o per effetto una volontà superiore che ha la forza farsi obbedire; mentre un non possumus religioso, fondato nella santità del diritto, imposto da inviolabile dovere coscienza, reso sacrosanto dal giuramento, né per blandizie, né per promesse, né per minacce, né per violenze, non può e non poteva mai esser rivocato.

Proclamando adunque all'universo che tra il non possumus religioso Roma ed il non possumus politico Torino havvi

(1) Atti ufficiali, numero 906, num. 918, pag 3569.

EPILOGO E CONCLUSIONE.

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una conciliazione, ch'egli affermava possibile, Napoleone III aveva detto: La, voglio; per farla prevalere aspetterò. E aspettò infatti; aspettò anzi nel frattempo tanto, che ad altri cappò la pazienza. Nel pomeriggio del 3 gennaio 1864 quattro uomini sono arrestati in Parigi. Perché? Perché era loro disegno attendere in quella sera l'Imperatore de' Francesi mentre andava all'Opéra, come fece l'Orsini; quivi gettare sotto la carrozza bombe micidialissime, come aveva fatto l'Orsini; e poi piombare sull'Imperatore e finirlo colle pistole e co' pugnali, ciò che non aveva pensato l'Orsini. Erano: un Greco Pasquale, nato a Pizzo Calabria; Trabucco Raffaele, nativo Aversa Napoli; Imperatori Natale, nato a Lugano nel Cantone Ticino; Scaglioni Angelo, un Lombardo della provincia Pavia.

Greco era figlio un ardente Muratista, che aveva reso grandi servigi a Gioachino nello sbarco a Pizzo, in cui questi trovò la morte, e per ciò condannato nel capo, era stato salvato per intercessione Filangieri; stette con Garibaldi nel 1860 a Napoli, colà legatosi a Mazzini. Caduto Garibaldi ad Aspromonte, lo aveano mandato in Calabria a rannodare i Garibaldeschi dispersi. Da allora stato sempre nella più grande intimità del Mazzini, e pur conservandola, divenuto poi ad un tempo fidato agente segreto della Polizia Torino, resosi reo d'un misfatto commesso in Varese alli 19 ottobre 1863, non l'aveano arrestato quantunque il delitto fosse pubblico, perché dal Questore Torino era stato scritto a Varese, che si lasciasse stare essendo uomo noto e che avea facoltà portare armi insidiose. In un primo viaggio a Parigi, nel giugno 1863, eravi stato in rapporti col principe Luciano Murat; ma l'Imperatore essendo partito in quel mentre, Greco non poté che istudiare il terreno. Ora ritornava dopo avere ricevuto da Mazzini tremila lire, lettere, bombe, pugnali avvelenati, pistole a rivoltella, tutto l'occorrente pel colpo. Trabucco era dal 1848 disertore dell'esercito napoletano, nel 1859 soldato nei Cacciatori delle Alpi del Garibaldi, nel 1860 Luogotenente Garibaldi in da Greco arruolato a Genova per l'impresa. Imperatori era uno dei primi mille sbarcati con Garibaldi a Marsala, presto fatto Luogotenente, recente vendutosi a Greco in cerca complici. Scaglioni, nel 1859 soldato in un reggimento piemontese altro dei mille Marsala,

460 EPILOGO E CONCLUSIONE.

poi sotto-tenente, poi con

Restò oscuro se il Greco, gareggiante durante il processo col Fisco nella voglia provare la complicità de' suoi tre consorti e la reità del Mazzini, quale autore primario della congiura, fosse, come a dire, il Liborio Romano del Mazzini a vantaggio del Governo Torino, facendosi provocatore, capo-esecutore e spia al tempo stesso, per deprimere, infamandolo, il partito d'azione; sì che, fatto romor grande per ciò nel Parlamento torinese, il Ministero dovette scolparsene e il Ministro Minghetti giurare per tutti gli Dei dell'Olimpo, che il Governo era incapace sì nero machiavellismo (1). Restò oscuro perché il Procuratore generale Cordoen ed il Presidente della Corte d'Assise Parigi passassero con gran cura sotto silenzio il soggiorno Greco in Piemonte, le sue relazioni col Ministro Minghetti, l'alto patrocinio favore e d'impunità accordatogli dal Ministro Peruzzi e dal Segretario generale Spaventa, l'attentato commesso in Varese, il processo a cui fu sottratto, e la libertà che cosi ebbe tornare in Francia a condurre innanzi l'impresa. Ciò che non restò oscuro davvero fu la voglia Mazzini torsi dagli occhi quella spina Napoleone IlI., che intanto, fatto rinchiudere in un'urna d'argento il cuore Voltaire, ordinava lo si avesse a custodire con grande onore in Parigi.

I due non possumus stavano sempre l'uno a fronte dell'altro. Da una parte delle Alpi si aveva detto: «Havvi tra que' due non possumus una conciliazione possibile, la voglio;dall'altra parte delle Alpi gli echi ripercuotevano le parole: «Cammina! Cammina! Se ti arresti, tu sei perduto! Tutto ad un tratto la conciliazione si disse avvenuta. Sino allora erasi creduto che per conciliare due interessi i più opposti, due opinioni estreme, facesse mestieri rinvenire un punto mediano, un pensiero intermedio, intorno al quale le due parti avverse, ciascuna all'altra concedendo qualcosa, venissero a stendersi reciprocamente la mano in cospetto del conciliatore;

(1) Atti ufficiali della Camera dei Deputati, Tornata del 25 gennaio 1864.

EPILOGO E CONCLUSIONE.

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presente s'era scoperto bastare per amicare i due, che l'una delle parti sottoscrivesse un foglio carta con chi si affermava mediatore, senza che per l'altra parte fosse guari d'uopo d'intervenire nella stipulazione, anzi nemmeno sapesse che si trattava. Il 15 settembre 1864 una Convenzione fu sottoscritta in Parigi tra i Plenipotenziari d'Italia, Nigra e Pepoli, ed il Plenipotenziario Francia, Drouyn de Lhuys, determinante: «L'Italia si obbliga a non attaccare il territorio attuale del Santo Padre, e ad impedire anche colla forza ogni attacco proveniente dall'estero contro il detto territorio Stati pontificii. La Francia ritirerà le sue truppe gradatamente a misura che l'esercito del Papa sarà organizzato. Ad ogni modo la evacuazione dovrà compiersi entro due anni. Il Governo italiani non reclamerà contro l'organizzazione un esercito pontificio, anche se composto volontarii cattolici stranieri, sufficiente per mantenere l'autorità del Papa e la tranquillità, tanto all'interno, quanto sulla frontiera dello Stato, purché questa forza non possa degenerare in un mezzo d'attacco contro il Governo italiano. L'Italia si dichiara pronta ad entrare in trattative per prendere a suo carico una parte proporzionata del debito antichi Stati della Chiesa.»

Un Protocollo annesso, sotto la data dello stesso giorno dichiarò che la Convenzione non avrà valore esecutorio, se non quando il Re d'Italia avrà decretato la traslazione della Capitale del Regno nel luogo che sarà ulteriormente determinato dal Re. Questa traslazione dovrà esser fatta nel termine sei mesi. Poi, con separata Dichiarazione, segnata a Parigi il 3 ottobre seguente, fu statuito che il termine due anni fissato per lo sgombero Stati romani per parte delle truppe francesi, come altresì quello pel trasferimento della Capitale cominci dalla data del Decreto Reale che sancirà la legge da presentarsi intorno a ciò al Parlamento italiano. La Capitale fu trasferita a Firenze, Capitale stabile secondo alcuni, Capitale provvisoria secondo altri. Nel giorno 11 dicembre firmata dal Re codesta legge, insieme al Decreto che ordina la piena ed intera esecuzione della Convenzione colla Francia, il termine de' due anni assegnati per lo sgombero de' Francesi da Roma verrebbe a spirare col dì 11 dicembre 1866.

462 EPILOGO E CONCLUSIONE.

La Convenzione del 15 settembre 1864 essendo un corpo opaco, privo al tutto luce propria, e sol capace riflettere quella che dal fuori gli viene trasmessa, due Soli fecero a gara per illuminarlo, il Governo francese ed il Governo italiano, senza alcun sodo costrutto dell'universo mondo, che assisteva allo spettacolo singolarissimo un contratto fatto tra due Potenze, le quali sembrava che non sapessero ancora con precisione che cosa avessero pattuito fra loro. Come nel fenomeno, che gli ottici appellano d'interferenza, se due fascetti luce cadono sopra un medesimo punto in guisa che le particelle luminose si muovano in senso opposto, in cambio chiarezza vien prodotta oscurità; ad onta dello spaventevole numero dispacci e contro-dispacci, Note e contro-note, dichiarazioni Ministri ed Ambasciatori, parole imperiali e regie, discorsi ufficiali alle tribune de' Parlamenti, l'effetto fu tenebre, e tenebre più dense prima.

Tra mezzo a si gran tenebria giunse il 1865, e con esso un nuovo discorso del principe Napoleone ed una lettera del Duca Persigny, sprazzi luce secondo alcuni, poiché venuti l'uno dal Bonaparte più d'accosto al trono imperiale, l'altra dal più intimo tra gl'intimi Napoleone III Il dì 15 maggio inaugurandosi il monumento eretto in Aiaccio a Napoleone I. ed a' quattro suoi fratelli, il principe Napoleone, recatovisi a rappresentare l'Imperatore, recitò appiedi del monumento una lunga orazione, in cui, volendo tessere l'elogio dello zio, s'impose il programma depurare ed isolare l'idea Napoleone I. sulle questioni che oggi pendono e tengono occupate le presenti generazioni, sì che per codesta via con assai contorcimenti e stiracchiamenti poter egli giungere a ripetere le cose stessissime che avea già dette il primo marzo del 1861 nel Senato. Tratta tal maniera in campo la questione romana, il principe oratore venne a ridire: dovere il Romano Pontefice essere spogliato d'ogni temporale dominio; essere cotale spogliamento conforme alla politica della Francia, ed appartenere questo spogliamento medesimo alla filosofia Napoleone I. ed alla tradizione che si deve conservare nella sua famiglia. Or mentre il discorso del 1.° marzo 1861 era stato lodatissimo da Napoleone III con una letterina gratulatoria, il secondo d'Aiaccio, ancorché informato ai medesimi principii religiosi e politici

EPILOGO E CONCLUSIONE. 463

del primo, valse al principe una

Finalmente Persigny, dipartitosi Parigi con un manoscritto in tasca, rimasto a Roma alquanti giorni, intorno alla Pasqua del 1865, dopo avervi ripetuto in tutti i tuoni, che l'Imperatore aveva conchiuso la Convenzione del 15 settembre per guarentire al Santo Padre le province che ancora possiede, e ch'ei non permetterà mai che quella Convenzione sia sviata dal suo scopo, riproduceva con particolare veemenza questa dichiarazione in presenza del Papa. - Io ho diritto, gli disse, dare a Vostra Santità la parola dell'Imperatore per la conservazione de' suoi Stati attuali. - Ma io ho già questa parola dall'Imperatore per tutti i miei Stati, rispose Pio IX., e la tengo buona. - Allora Persigny mandava a stampare il manoscritto, una lettera (2), in cui, mostrando scrivere appunto da Roma, lasciate intravedere le idee dell'opuscolo Il Papa e il Congresso, rivelò «com'ei da lungo tempo presentiva l'esistenza d'un grave segreto nella sede del Papato, ma codesto gran segreto non è punto tale per ognuno che vive qui.» Che diavolo segreto è questo, si disse bentosto (), che è saputo da tutti quelli

(1) Inserita nel Moniteur, del dì 27 maggio 1865.

(2) Lettre de Rome, 30 avril 1865.

(3)

Nardi; Lettera al Presidente del Senato francese, Troplong, in risposta a quella del Duca Persigny.

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che vivono in Roma, dove stanno migliaia Francesi, e da dove si scrive e si telegrafa ogni giorno a Parigi? Il segreto, scoperto presente dal Duca, era: l'esistenza in Roma d'un partito organizzato dai nemici della Francia, d'un partito che domina ogni cosa, il Papa, i Cardinali, le Congregazioni, il Governo; un partito che giocherebbe senza esitare contro la rivoluzione la sicurezza venti Papi, che, padrone tutti gli strumenti del potere spirituale, non ha altro pensiero che occuparli alla disorganizzazione della Francia attuale; un partito, in una parola, che vuole rovesciare e distruggere niente meno che l'Impero francese. Accusa enorme, se non fosse enormemente ridicola, se il partito non fosse altro che una non spiritosa invenzione, posta innanzi per potere svillaneggiare la politica pontificia, mostrando almeno in apparenza rispettare il Pontefice; per potere attribuire alla cieca ostinazione codesto partito tutti i mali che ha incorsi la Santa Sede in questi tempi; per potere tessere la storia a suo grado, svisando fatti, affermando menzogne.

Scimieria stravecchia ancor questa. Anche cinquantott'anni prima si aveva scoperto che il partito esisteva a Roma. Allora il Papa si chiamava Pio VII e l'Imperatore Napoleone I, ora il Papa si chiamava Pio IX e l'Imperatore Napoleone III Allora si pensava: solertia sapientia; adesso si diceva: inertia sapientia. Allora Cesare faceva e scriveva da sé; adesso Cesare faceva dire e scrivere a mezzo alter ego. Allora Napoleone I. scriveva: «Non vi ha nulla cosi déraisonnable come la Corte Roma (1). La condotta della Corte Roma est marquée au coin de la folie (2. Non voglio più avere a fare con que' nigauds (3).» E l'ultima volta ch'io entro in discussione con questa pretraille romaine. Il Papa è responsabile dei disordini che vogliono commettere gli Antonelli, i Pietro ed altri prelati italiani,

(1) Lettera al Cardinale Fesch, da Monaco, 7 marzo 1806. - Correspondance de Napoléon I, Tom. XI., pag. 643.

(2) Lettera al Re Napoli, dei 5 giugno 1806. - Correspondance de Napoléon I, Tom. XII., pag. 596.

(3)

Poscritto ad una lettera Napoleone I. al principe Eugenio, da Finkenstein, 3 aprile 1807. - Correspandance, Tom. XII.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 465

pei quali le boulerversement non è cagione d'inquietudine (1). Poco appresso Pio VII non era più sovrano in Roma.

Ma allora come adesso non dissimili, nella essenza, le condizioni delle cose, quali le aveva tratteggiate un ingegno preclaro (2): «Né la Chiesa, né il Governo pontificio, né la coscienza dei popoli, entrano per nulla in questa catastrofe della società cristiana. Il Governo pontificio ha perduto le sue province, perché cosi conveniva ai fabbricatori dell'Italia; esso è stato accusato, perché si voleva spogliarlo; esso vien diffamato, perché è stato spogliato: ragione e pratica del più forte. Similmente la Chiesa è ingiuriata, perché il decreto politico la condanna a servire, e il decreto rivoluzionario a perire. La coscienza pubblica si spaventa quest'ultimo delitto. La rivoluzione sola lo domanda, il genere umano ne ha paura; quelli stessi che lo propongono, non lo fanno che esitando. Essi balbettano delle scuse, essi pretendono d'essere in caso legittima difesa contro la Chiesa, essi giungono perfino a chiamarsi cristiani. Strano cumulo d'irrazionalità, spergiuro e ridicolo! Strana sventura del mondo, che vede svolgersi questa soperchiera spaventevole, che la penetra, che ne prevede il termine luttuoso; e non osa né zittire, né gemere!»

IX

Abbiamo a larghi tratti sbozzata una tela cui restano a pennelleggiare ben più che le macchiette. La storia scritta senza documenti, al dire Cesare Balbo, non servendo a nulla, pare a noi corra forzatamente divario grandissimo tra il modo narrazione vecchi qualche anno, ed il modo narrazione eventi giorni recentissimi. Astretta questa, quando non voglia mancare alle due condizioni indispensabili allo scrivere storia, dell'avere cioè conosciuto il vero e averlo voluto dire franco rispetti umani e ambagi, a poggiare

(1) Poscritto ad una lettera al principe Eugenio, da Dresda, 22 luglio 1807.

(2)

L. Veuillot; Le Guepier italien, pag. 20 (Paris 1865).

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EPILOGO E CONCLUSIONE.

con maggiore evidenza forme sopra documenti diplomatici, atti, come sogliono dire, ufficiali e del giorno, dura fatica ad addirle quello stile uguale, rapido, stringato, severo, che meglio conviensi a quella prima maniera narrazione, ed appartiene alla storia propriamente detta nell'antica e nobile significazione della parola. Checché ne sia, giunti presente allo strignere tutte fila, conchiudiamo.

Sceverata la parte de' secondarii, il Regno d'Italia non fu nella essenza che il prodotto dell'opera d'un uomo, Napoleone III; e, fenomeno curiosissimo in un'epoca in cui più abbondano fenomeni singolarissimi, un uomo, che appunto non aveva nessunissima volontà plasmare un Regno d'Italia a quel modo. Doveri figlio, antichi legami, vizio d'origine, gli additavano una via, nella quale tuttavolta sembrava ch'ei titubasse ad entrare. Un italiano, Pianori, lo interroga sulla pubblica via, e Napoleone III risponde colla questione italiana al Congresso. Gettato il seme, pare che Napoleone III non si dia assai cure coltivarlo; ed ecco tre uomini che si apprestano ad interrogarlo ancora, Tibaldi, Grilli, Bartolotti. Ad una velleità d'interrogare Napoleone III risponde con una velleità rispondere, e tira dritto. Questa maniera risposta non andò a sangue ad Orsini. Mazzini aveva mandato quei quattro: Orsini pensò: «Mazzini è una bestia, perché mandò quattro bestie che non seppero interrogare.» Anderò io.» Orsini, Pieri, Rudio, Gomez, vennero infatti, e interrogarono con piglio tale, che Napoleone III, mandate a rotolare le teste Orsini e Pieri sul palco, rispondeva colla pubblicazione del testamento politico Orsini. Per apparecchiarsi alla morte si accordavano, in generale, tre giorni ai condannati al capestro. Mazzini, più generoso, accordava tre mesi a Napoleone III per prepararsi alla guerra; e Napoleone III silenzio. Ne aggiunse altri tre; e silenzio sempre. Nel frattempo Cavour era bensì andato a Plombières, ma pare ch'ei fosse stato sì incivile da non mettere Mazzini a parte del manicaretto. Decisamente, disse allora Mazzini, se Orsini mi proclamò una bestia, ei non fu bestia minore me; non seppe interrogare, manderò io. Spedì Donati. Nove italiani, nove mazziniani, erano venuti ad interrogare; omne trinum est perfectum, l'interrogazione era tre volte perfettissima,

EPILOGO E CONCLUSIONE. 467

e Napoleone III a tutti nove rispose in una volta sola col saluto ad Hubner, nel mentre che Donati se ne moriva in carcere.

Due mesi guerra bastarono per porre l'Italia a soqquadro, secondo gli uni; per porla in ordine, secondo gli altri. Il non-intervento fe' il resto. L'Italia era, ma, come si è detto in Parlamento, era un'Italia senza capo e senza cuore. Or cuore e testa appunto pareva che Napoleone III non volesse, almeno in que' tempi, concedere, e per verità come si fa a vivere senza testa e senza cuore? Sulle sponde del Po superiore si cominciò a gridare: Cammina, cammina! Se ti arresti, tu sei perduto! Bestie, rispondeva Mazzini non capite che c'è il Moncenisio mezzo, e non vi potrà udire? Manderò io, manderò io! Inviò, in fatti, Greco, Trabucco, Imperatori, Scaglioni, quattro garibaldiani del 1860. L'interrogazione non era stata fatta né pubblicamente, né chiaramente; parimenti la risposta poteva esser data né pubblicamente, né chiaramente, almeno per allora. E Napoleone III rispose colla Convenzione del 15 settembre 1864. Greco, capo-interrogatore, voleva egli domandare da senno o da burla? La risposta rispondeva ella intanto da senno o da burla?

Ad ogni modo, se tredici interrogatori italiani erano riesciti ad ottenere risposte più o meno concrete, l'Italia, in ordine o nel caos che fosse, secondo il gusto osservatori, non costituiva che una ruota in un sistema addentellati. sistema, ciò è incontrastabile, non italiano, ma francese, più esattamente napoleonico; un sistema che, guardato dal basso in alto, poteva sembrare che poggiasse sull'unico perno della vita d'un uomo soggetto quindi a tutte le infinite vicissitudini d'una esistenza individuale. E quando ciò fosse, lasciata a parte ogni questione dei mezzi, intorno a' quali veruna discussione è possibile, vi sarebbe stato molto e molto più previdenza e logica, e ciò eziandio è incontrastabile, dalla parte coloro, che, come Carlo Alberto e Garibaldi, pigliavano a motto: L'Italia farà da sé, o non sarà. Sotto questo aspetto non la era questione diritto, non la era questione giustizia, principi spodestati o da spodestare, ma si puramente e semplicemente questione Bonapartismo.

Messo in sodo, siccome avea proclamato, in miglior forma ogni altro, il principe Napoleone nel discorso Aiaccio, che lo spogliamente del Romano Pontefice d'ogni temporale dominio

468 EPILOGO E CONCLUSIONE.

(1) La Perseveranza, giornale Milano, Anno II., num. 216, del giorno 18 giugno 1860, contiene il seguente articolo, da conservarsi come documento storico. «L'Imperatore de' Francesi fece venire a sé il sig. Ernesto Renan, e con lui s'intrattenne per più un'ora. Per coloro che conoscono l'illustre scrittore, questa chiamata fu cagione non poca maraviglia, essendo noto come il Signor Renan non si lasci mai sfuggire alcuna occasione protestare contro l'Impero, e non risparmi giammai nella sua protesta i principii dell'89. Il colloquio non versò in materie politiche. L'Imperatore diede al sig Renan l'incarico scoprire la Fenicia e le ruine Tiro, Sidone e Babilonia. Ei gli assegnò provvisoriamente una somma 40,000 franchi sulla sua cassetta particolare, assicurandolo che non avrebbe mai dovuto ritardare le sue ricerche per mancanza danaro. Tutte le agevolezze, che il Governo può concedere col mezzo de' suoi agenti consolari e politici in oriente, sono assicurate al sig. Renan. Questi usci tutto soddisfatto dall'Imperatore. Tuttavia non volle accettare senza consultare i suoi amici politici, signori Sacy e Laboulaye. Essi lo consigliarono con molto calore ad accettare: Questo è altrettanto onorevole per l'Imperatore, che per voi; quindi accettate senza esitanza, gli disse Laboulaye; giacché, quando si onorano i lavori dell'intelligenza, non si è lungi dal concedere qualche cosa ai diritti dell'umanità.» Niuno ignora che il Renan mandato a scoprire la Fenicia, scopri a quella vece i Luoghi Santi, e ritornò col suo libro bello e scritto, nuovo sviluppo della formola Voltaire: Schiacciamo l'infame!

EPILOGO E CONCLUSIONE. 469

dalla fede in un nome, dopo che presso a venti milioni martiri suggellarono col loro sangue questa fede, la scoperta che quel nome è il nome d'un uomo che fu un furbo matricolato, che si spacciava altrui ciò che sapea non essere, un visionario, che si pensava essere ciò che non era; il nome «un giovane forese o villageois della Galilea, che vide il mondo a traverso il prisma della propria dabbenaggine (1), un «giovane democratico (2), fanatico (3), exalté, in cui l'operare era sì poco guidato dalla ragione, che alcuna volta si sarebbe detto: il suo cervello vacillare (). Chiarissimo allora, perché, se il Capo del Cristianesimo dev'essere assassinato, si guiderdoni e si onori () il bestiale ribaldo che, col dire l'autore del Cristianesimo un allucinato ed un impostore, vorrebbe condurre ad ammettere che il Cristianesimo stesso sia un'allucinazione ed un'impostura, onde poi al Dio de' Cristiani si sostituisca il Dio Architetto de' Framassoni.

Certamente un corpo senza cuore e senza capo è un mostro che, quando pure potesse esistere, non potrebbe che languire,

(1) Renan; Vie de Jésus (Paris, Michel Levy, 1863), pag. 40.

(2) Vie de Jésus, pag. 147.

(3)

Pag. 106.

(4)

Pag. 312-318.

(5)

Per il viaggio, il cui frutto fu l'abbominevole romanzo, cui diede il titolo Vita Gesù, Renan ebbe da Napoleone III 61,000 franchi. Reduce dal viaggio, gli fu data in premio la cattedra lingua ebraica, caldaica e siriaca nel Collegio Francia: ma la prima volta, che diede lezione, bandì l'ateismo con forme sì ciniche d'empietà, che troppo essendo manifesto l'oltraggio alla Francia cattolica, il Governo fu costretto a sospendere il corso pubblico quelle lezioni. Renan continuò a ricevere lo stipendio della sua cattedra, sotto la protezione del Ministro per l'Istruzione pubblica, Duruy, Gran-dignitario della Massoneria francese e favorito dell'Imperatore; e quando si fecero da molte parti le più attive premure presso il Ministro onde avesse a cessare cotanto scandalo, il Duruy si dichiarò pronto ad uscire carica, anziché rimuovere dal Collegio Francia il Renan. Questo stato cose era tuttavia troppo violento, e vi si rimediò con avvantaggiare la sorte del Renan, nominandolo, il 1° giugno 1864, Conservatore dei manoscritti alla Biblioteca imperiale. Retto dal demone dell'orgoglio, Renan impugnò il diritto muoverlo dal Collegio Francia, pubblicò su pe' giornali una lettera tanto oltraggiosa che fu d'uopo, per decoro governativo, smetterlo da ogni ufficio. Ebbe poi altri compensi, e imprese un nuovo viaggio in Oriente.

470 EPILOGO E CONCLUSIONE.

non mai vivere vita lunga, indenne, operosa. Foggiata una volta l'Italia ad unità, o questa unità dovrebb'essere assoluta, o tutto l'edificio, più presto o più tardi, dovrebbe inevitabilmente ruinare. Dunque si tolga Roma al Papa; all'Austria il Tirolo meridionale, la Venezia, Trieste coll'Istria; alla Svizzera il Cantone Ticino e la valle Poschiavo, pertinente al Cantone dei Grigioni; alla Francia la Corsica e Nizza; all'Inghilterra Malta. Come è falsissimo che il trono dei Papi, collocato nella Penisola, sia il primo, il solo, il più invincibile ostacoli alla trasformazione d'Italia in unico Stato, altrettanto è verissimo che un tale trono sia un insormontabile impedimento alla assoluta unità italiana, politica e nazionale. L'antichità pagana ci ha tramandato nella favola Semele un'immagine effetti dell'assoluto. Essa aveva desiderato vedere Giove nella sua essenza divina. Il Dio cedette ai suoi voti. Ma la sola lui presenza pose il fuoco al palazzo, e l'imprudente Semele perì divorata dalle fiamme.

Supponiamo pure, e supporre costa poco, respinta irreparabilmente l'Austria al là delle Alpi Rezie, Noriche, Giulie, Carniche; supponiamo anzi qualcosa meglio ancora, supponiamo che non solo l'Austria abbia cessato essere nel novero delle grandi Potenze, ma a vece dell'Austria, travolta dal turbine delle nazionalità risorgenti, l'Italia veda un bel giorno al là quelle Alpi un grande popolo riunito e compatto, la Germania, essa pure piegatasi ad unità assoluta! Sarebbe forse più secura o più forte l'Italia, se in luogo d'un Impero austriaco si trovasse a' fianchi un Impero germanico? Non la essendo punto per verità questione d'Austria, considerando come sino a che staranno a destra e sinistra d'Italia una Francia ed una Germania, l'Italia sarebbe mai sempre, né più né meno qual fu e qual è, campo gelosie secolari, un capo ameno propose, divelta dalle radici delle Alpi, trapiantare l'Italia in mezzo alle solitarie immensità dell'Oceano.

Amor patria, nazionale indipendenza, onesta e comportabile libertà, son sensi innati, indiscutibili, imprescrittibili. Se destino immutabile, eterno. esser stato dovesse che «Italia serva o vincitrice o vinta fosse d'Alemagna o Francia, né Francesi né Tedeschi giammai avrebber mal garbo pretendere negato ad Italia appellarsi nazione, che l'Austria,

EPILOGO E CONCLUSIONE. 471

spesso ed an

La questione era, fatta sempre astrazione da' mezzi, se all'Italia fosse più confacevole l'unità assoluta o l'unità federativa, favorita questa da morali e fisiche ragioni, dalle sue dissonanze stirpe, da quella disannonia genii, affetti, propinquità, culture, d'usanze, d'instituzioni, mire, d'interessi, a cui la prescrizione secoli inviscerò la tempera seconda natura, dall'esistenza Stati formanti altrettante unità distinte, distruggere una delle quali, aveva scritto il Cantù (1), sarebbe stato un omicidio quanto abolire un vasto regno. «Le trasformazioni politiche», al dire di Napoleone III, sono opera del tempo, ed un'aggregazione completa non può essere durevole se non è preparata dall'assimilazione degl'interessi, delle idee e dei costumi ().

La questione era, dacché il Piemonte, pari a torrente cui s'abbian schiuse le chiaviche, allagava da settentrione a mezzogiorno si largamente la Penisola, se fosse il Piemonte che si annettesse all'Italia o l'Italia che si annettesse. al Piemonte; e quando in quest'ultima condizione si fosse trovato il vero, se avrebbe poi bastato a riparo un trasporto Capitale in altra città Capitale provvisoria o stabile che la si volesse.

La questione era, predisposti i materiali per l'edifizio da una consorteria a vantaggio d'una setta, stando capomastro della fabbrica tal che da Carbonaro () era divenuto Massone,

(1) Storia Universale; Epoca XIII., Capitolo XXI.

(2) Lettera Napoleone III al Re Vittorio Emanuele, del 12 luglio 1861.

(3)

È in questo senso che dev'essere inteso ciò che si disse a pag. 95 del vol. l.

472

EPILOGO E CONCLUSIONE.

poi Gran-Maestro della Massoneria italiana; stando ingegnere direttore dei lavori altro Carbonaro dapprima in Italia, poi Massone, poi supremo protettore della Massoneria in Francia; stando consultore e favoreggiatore lo stesso Gran-Maestro Generale della Massoneria mondiale; la questione era se il Regno della minoranza potesse rappresentare veracemente il Regno della maggioranza. E come niuno si attenterebbe affermare in Francia che la Massoneria francese, una minoranza, è la Francia, nazione; né veruno oserebbe sostenere in Italia che la Massoneria italiana, non una fazione, ma una frazione, costituisca l'Italia, nazione: la questione ora se per avventura potesse forzatamente risultarne, anziché un'Italia Italiani, un'Italia dei Framassoni.

La questione era, presupposto pure che l'Italia domini incontrastata sino alle Alpi Rezie e Giulie, se uno Stato surto per le armi dello straniero, venuto necessariamente alle dipendenze dello straniero, potesse poi a suo grado spigliarsi dagli abbracciamenti del protettore; se per avventura, anziché l'Italia degl'Italiani, dovesse risultarne l'Italia della Francia, l'umiliazione assicurata anziché la rigenerazione promessa.

La questione era se nemmeno una Italia siffatta dovesse o potesse dimenticare Villafranca, Nizza, Firenze. Napoleone III scende in Italia per ridare, diceva, all'Italia la sua indipendenza. Un bel giorno annunzia: Voglio la pace; l'Italia è indipendente. E l'Italia indipendente resta cogli Austriaci come prima, e colla dipendenza dalla Francia, che non aveva. Napoleone III, sceso in Italia per un'idea, un bel giorno annunzia: Voglio Nizza; l'Italia è indipendente. E l'Italia indipendente resta con una provincia italiana meno, e colle chiavi delle Alpi in potestà della Francia per più. Napoleone III, per dispetto o per disperazione deliberato ad uscire dalla inertia sapientia, detta un patto all'Italia, a condizione questo patto che Torino cessi d'essere la Capitale del Regno. L'Italia prega, supplica, scongiura, e Napoleone III risponde: Voglio la Capitale a Firenze; l'Italia è indipendente. E l'Italia indipendente deve obbedire e pagare, lasciata ai posteri la soluzione del problema se innalzando a Napoleone III una statua sulla Piazza dell'Indipendenza, fosse gratitudine, ironia o satira.

EPILOGO E CONCLUSIONE. 473

Che se Napoleone III avea proclamato all'Europa (1), essere la formazione un Regno italiano nove milioni abitanti ai confini francesi mutamento territoriale tale rilevanza da dare alla Francia il diritto chiedere una guarentigia per sicurezza delle sue proprie frontiere, e l'Europa aveva lasciato in pace prendersi per ciò Savoia e Nizza; era logico, d'una logica incontestabile, che, formato una volta che fosse un Regno italiano oltre a ventisei milioni d'abitanti, la Francia avesse il diritto, già ammesso incontrastato e dall'Italia e dall'Europa, aversi una migliore guarentigia, proporzionale all'ampliamento del nuovo Regno, per sicurezza delle sue proprie frontiere. Allora la questione sarebbe qual fatta d'indipendenza avrebbe dato all'Italia la sostituzione un quadrilatero sulle rive del Po e del Tanaro ad un quadrilatero sulle sponde del Mincio e dell'Adige, la sostituzione Alessandria, «base essenziale della potenza francese in Italia» (), a Verona, base essenziale della potenza austriaca nella Penisola. Allora la questione sarebbe qual fatta unità avrebbe dato all'Italia la cessione dell'isola Sardegna alla Francia. Che se la storia, insegnandoci a coordinare il presente in vista dell'avvenire, ci mostra impossibile il determinare i tempi, non ci mostra punto impossibile il prevedere gli accidenti, tanto meno se siano accidenti in buona e debita forma già preveduti con due Convenzioni scritte in vista due contingenze ben determinate.

E al disopra delle questioni interne e delle questioni esterne, dacché si avea senza veli proclamato, «non esser già che si combattesse il Papato per ciò solo che la sovranità sua sia incompatibile colla redenzione nazionale, ma combatterlo a Roma come lo combatterebbero ad Avignone, a Vienna, a Madrid, come lo combatterebbero a Gerusalemme o a Costantinopoli (), la questione era se la coscienza del cattolico anche il meno fervente potesse restarsi in forse a fronte della volontà

(1) Discorso al Corpo legislativo, del primo marzo 1860.

(2) Thiers; Histoire du Consulat et de l'Empire, Tom. VII., livre XXV., pag. 25.

(3)

Il Nazionale, giornale Napoli, numero dal 5 marzo 1861.

474 EPILOGO E CONCLUSIONE.

ritornare ai tempi dei Diocleziani e dei Massimini, quando al Pontefice s'intimava l'atroce dilemma: O obbedisci, o muori. Ah! il Papato non è solo la chiave vòlta dell'edifizio sociale, non è solo il più forte riparo che protegga l'ordine contro l'anarchia, la società contro la dissoluzione, il Papato (1), sostenuto attraverso i secoli dall'obbedienza, dal rispetto e dall'amore dei popoli cristiani, si è più che un riparo che ci difende, più che uno scudo che ci ricuopre; è come un carro che ci porta, è il carro trionfale che porta con noi medesimi, da diciannove secoli in qua, il progresso e la civiltà del mondo cristiano.

La questione restava sempre qual era il 30 gennaio 1848. Quel giorno, ad un discorso del cattolico Lamartine, straricco frasi, poverissimo senno politico, il protestante Guizot dalla tribuna della Camera dei Deputati in Parigi rispondeva: «Si può ben desiderare rimettere l'ordine e la luce nell'universo, ma non bisogna perciò cominciare dal mettervi il caos; perocché nessuno sa quando potranno rientrarvi l'ordine e luce, una volta che il caos vi è stato messo. Bisogna non chiedere a Pio IX ciò che non può fare, ciò che non dee fare come Papa; bisogna rispettare la sua sovranità spirituale, e le condizioni temporali della sua sovranità spirituale; bisogna che il Papato resti intero. Potete ben domandargli continuare la risi conciliazione della religione colla società moderna, ma il Papato non può abdicare sé stesso, non può distruggersi; bisogna che sia mantenuto in tutto il suo splendore, in tutta la sua purezza. È l'onore, è la gloria, è il bisogno tutta Italia, Roma, del Papato medesimo. È necessario che non si domandi al Papa, che quello che il Papa può fare; e ad un tempo è necessario che il Papa sia ben sostenuto, fermamente sostenuto, contro coloro che vorrebbero fargli fare più, o fargli fare altre cose. Colui che da tanti secoli è il più eminente rappresentante delle idee conservazione, perpetuità, d'ordine, non vorrà abdicarle per convenirsi in uno strumento disordine e anarchia: no, nol farà!»

Dopo avere abbracciato il passato, l'uomo si ferma ai limiti dell'avvenire, e guarda.

(1) P. Félix; Conférences a Notre-Dame de Parti.

EPILOGO E CONCLUSIONE.

475

Vede dietro a sé mine, d'intorno confusione, dinanzi tenebre; e interrogate quelle ruine, fra il caos contemporaneo, ritrae ammaestramenti e lezioni. Tirare tutte le conseguenze dalle nostre premesse stimiamo incomprensibile a chi le pagine che precorrono non lesse, e a chi lesse colla calma del pensiero cui tanto maggiore è il bisogno, quanto più violente le emozioni, ci lusinghiamo superfluo. Con questa lusinga ci siamo sorretti tra le mille difficoltà dell'asprissimo cammino, lieti e paghi se ci fosse dato raggiungere che quelle conseguenze venissero ad affacciarsi spontanee alla mente de' leggitori.

Due opposte correnti trascorrono con impeti mal frenabili: estreme fidanze, estreme sfiducie. Guardiamoci da queste, come da quelle; studiamoci moderare impazienze proprie dell'uomo, ché Dio solo è paziente, perché è eterno. Lunge, lunge sia lo sconforto. La storia dell'umanità è un'alternata vicenda discese al male e ritorni al bene; i rinnovamenti non arrivano se non traverso alle espiazioni. Tra le molteplici vicende, altezza ardimenti, errori proprii e d'altrui, sviamenti e ritorni al bene, glorie e vergogne rapidissimamente alternate, la bella e poetica Italia, la terra privilegiata del sole, della natura, delle arti, del genio, questa martire sublime, la cui peggiore sventura fu avere sventure sempre nuove, grande nei giorni della gioia, grande nei giorni del dolore, e nella gioia e nel dolore maestra prima alle ora incivilite nazioni, l'Italia ha sempre nel suo seno spiriti retti e nobili cuori. Stata regina del mondo, il fuoco sacro delle sue vecchie età non saprebbe estinguersi presso lei. Ella non saprebbe dimenticare che la vera libertà, parola evangelica e santa, prostituita spesso, vituperata da molti, figlia e suddita alle buone leggi, la vera libertà non istà nella libertà delle passioni, ma nella sicurezza ragionevole dei diritti. E fidente in Dio e nel diritto, l'Italia non può degenerare, non può decadere, non può perire.

Fine.

INDICE

LIBRO TERZO. Due mesi di guerra Pag. 7

Capitolo Decimosesto. - La Toscana e i suoi sommovitori. » ivi

» Decimosettimo. - Colpo di mano a Firenze » 41

» Decimottavo. - Un rovescio a Parma » 72

» Decimonono. - Gli Austriaci in Piemonte » 104

» Ventesimo. - Gli alleati in Lombardia » 129

» Ventesimoprimo. - Rivolte nei Ducati » 149

» Ventesimosecondo. - Il Papa e i neutrali » 177

» Ventesimoterzo. - Pace di Villafranca » 209

LIBRO QUARTO. Il non intervento » 253

Capitolo Ventesimoquarto. - Diritto nuovo » ivi

» Ventesimoquinto. - Trattati di Zurigo » 275

» Ventesimosesto. - Guerra al Papato » 293

» Ventesimosettimo. - Savoia e Nizza » 330

» Epilogo e Conclusione » 365






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