Eleaml



Una delle obiezioni che viene fatta quando si citano testi di parte borbonica è che essi non sono obiettivi. Diamo per buona l'asserzione, resta una domanda banale: quale attendibilità ha un Dumas che si beccò 900000 franchi per pochi revolvers?

Quest'opera di Pietro Olivieri è interessante perché descrive un aspetto sfuggente e poco indagato, secondo noi, degli anni che seguirono lo sbarco garibaldino, quello della contiguità fra le classi dirigenti che si susseguirono alla guida delle provincie meridionali.

Liberali e borbonici si combatterono ma molti di essi si conoscevano, alcuni fra loro si disprezzavano altri si rispettavano, vi erano invidie e ripicche.

In questo libro viene descritto il rapporto tra La Farina e l'autore che ad un certo punto assalito dal disgusto per i rigeneratori della patria decide di seguire la dinastia in esilio.

Per invogliarvi alla lettura riportiamo cosa scrive a proposito del plebiscito: 

Era la sera del 19 Ottobre. Fin dal mattino mestatori, faccendieri, apparecchiavano il nuovo Varsaille; denari si prodigarono in gran copia, e si arruollarono gridatori, racimolando bravi, guappi, capaci ad imporre i dubbiosi e spaventare i restii.

Zenone di Elea, Marzo 2010

EPISODI

DELLA RIVOLUZIONE SICILIANA

RIVELAZIONI SEGRETE

SULLA VITA POLITICA

DI

GIUSEPPE LA FARINA

E I SUOI SEGUACI

PER

DI PIETRO OLIVERI

DUCHINO D'ACQUAVIVA

LOSANNA

1865

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Due parole dell'editore

Legato non da interesse, ma da principio di dovere alla Dinastia che i destini regolava del mio Paese, la seguii nell'esiglio, e ne divisi finora, palpiti e speranze. Ogni giorno, e noi nego, fu consacrato alla difesa della causa; e per quanto debole fosse la mia penna, non cessai di dar prova di attaccamento e di abnegazione.

E vero che spesso la voce della lealtà rimane oppressa dal clamore dell'ipocrisia, ed io stesso ne provai effetto; ma non per questo mi arrestai; non per questo ceaetti innanzi ai vili, che per nascondere la loro inerzia, la loro malvagità, la loro bruttura, mi mossero calunniosa guerra. Però siccome il tradimento, tradimento frutta, così rimasero sepolti nella fossa stessa che per me scavata avevano; ed io prosieguo ad indicare alla pubblica indignazione i mascherati, i traditori, i calunniosi, gli impostori. Nell'attualità del momento è pernicioso il tacere. È duopo che i furfanti e gli avventurieri siano chiamati coi loro propri nomi.

Ed ecco perché lasciai per poco di far l'autore, ed impresi a pubblicare come editore l'opera che vi presento. La riconobbi utile al mio scopo, la stimai degna della pubblica meditazione, la credetti appoggio valevole a dimostrare l'infamia, il tradimento e la calunnia che si consumarono in danno del Re Francesco II per sbalzarlo dal Trono. Vado superbo d'avermi serbato illeso in mezzo a tanta turpitudine, e nello stesso tempo d'avere con disinteressato coraggio civile, osteggiato i pochi faziosi che ridussero la Patria mia in deplorevole condizione con le parole di civiltà, progresso e libertà.

La mia intenzione fu santa, fu retta. Lascio a voi, lettore onesto, apprezzarla.

TS

A chi legge

Chi legge questa opera naturalmente dirà: lo scrittore, rivelando cose secrete di Giuseppe La Farina, dee per forza avere partecipato alle combriccole della setta; e se pure, mi assolve lo scopo, mi chiamerà sempre adepto pentito, o rinnegato.

A premunirmi fo professione di fede.

Son Siciliano puro sangue; amo per quanto giuste le libertà del mio paese; mi sta a cuore il sociale progresso; non sono mazzinesco, convenzionista, tanto meno apostata.

Questa stoffa appartiene ai Curletti; uomini di vilissima tempra, oscuri, ignoti, che comperano e vendono il tradimento a maggiore offerente; e purché arrivino a celebrità, sia pur quella d'Empedocle che si lanciò nel fuoco, o di Giuda, s'accostano a qualsiasi elemento. Benché giovane io conosco a fondo le umane cose.

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Al 1848 era troppo tenero per brigarmi di politica; al 1860 tenni d'occhio il movimento popolare, contando i palpiti della rivoluzione: pubblicista, settario per occasione, ho studiato l'indole, il carattere, l'occulto pensiero della odierna epopea, collo scopo costante di giovare al bene del mio paese.

Mi soggiungeranno: Se uomo onesto, perché vi siete tuffato nel fecciume dei tempi colla mala genia? ed io rispondo: In politica, bisogna, ardito giocare le stesse armi degli avversarii. Il puritanismo non vale. Cadde Giacomo II, e turpemente abbandonò Londra; precipitarono Carlo II di Spagna, Carlo I d'Inghilterra, Luigi XVI Carlo X, Ferdinando I e Francesco II, per troppo puritanismo. In politica il campo è sempre del più destro; la sconfitta del più sincero e debole. Non vagheggio la scuola di Macchiavelli, ma i fatti e la esperienza ne dimostrano la verità inconcussa.

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Se Strafford e Lude sapevano afferrare con scaltrezza il momento, Carlo I non era insultato da Prim, e condannato al capo da Cronwel. Se Turgote Neker non titubavano nelle incertezze, la piazza di Greve non avrebbe rosseggiato di sangue Capeto. Se i Ministri del napoletano prevenivano le prattiche Cavurresche, Re Francesco II non giacerebbe a Roma.

Il celebre Taillerand scrisse:

opporre insidia ad insidia, astuzia ad astuzia, tradimento a tradimento, ecco la tattica dell'uomo di Stato.

Bene o male, spontanea 0 provocata, la china rivoluzionaria, dopo 1 casi di Solferino e Villafranca, correva a ruinare ed inghiottire nelle acque torbide l'antica Signoria dei Borboni. Il covile, la fucina rivoluzionaria era Piemonte; Colà s'annidavano gli esuli: Cavour, Garibaldi, Mazzini, Crispi, La-Farina, Bertani, Corrao, si stesero scambievolmente la mano; chi con intendimento di rovesciare i singoli troni ad uno ad uno, e donarli a Re Sabaudo; chi con idea di proclamare la repubblica, lusingando la monarchia Sarda, per averne l'appoggio, pronto a mandarla a spasso a causa finita; tutti adescati da rapina, vendetta, vorace ambizione di danaro e di potere.

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A tal uopo, sedussero nella regia di Napoli i più fidi e beneficati del Borbone, per meglio riuscire al trionfo, comperandoli. Stuzzicarono il sentimento liberale, che è l'aspirazione del vero popolo italiano, empirono i giornali di parolacce grosse, nuove, ignote, ma speranzose nella stupida mente dei molti, e con tale arti, precipitarono la patria nello abisso.

Il popolo s'illuse a sentire strombettare Unità, Nazionalità, Età dell'oro, Libertà di Coscienza, di Stampa, e per poco mancò non credesse l'Italia trasformata nel paradiso terrestre.

I mestatori, commosse le turbe sollevate, cominciarono a dire: per avere libertà bisogna acclamare all'Unità con Vittorio Emmanuele, ed il popolo plaudiva; per avere l'Unità dobbiamo scacciare i Borboni, ed il popolo gridava fuori i Borboni; per nuotare nelle dovizie e bandire la tirannide 9 dobbiamo asilarci all'egida del Piemonte Haime! il fatale fu pronunziato ed in un punto immolate le garanzie, i privilegi, la indipendenza, l'autonomia degli Stati.

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Ottenuto l'intento, passarono le lusinghe,!e frenesie, i deliri; svanirono le promesse, i sogni dorati. Una mano di ferro ci opprime, con lo scudicio, la galera, il capestro ed i bottoni roventi; l'opera della spoliazione è compita, il popolo si è dopo cinque anni, svegliato, avviticchiato all'ibrido scheletro della miseria e della vergogna. L'onta pesa su noi. Il disinganno è giunto.... Menomale.

Una riflessione: chi ha goduto i frutti della vittoria? Certo non Mazzini, non Garibaldi, che semplici e creduli, vagheggiarono la repubblica in Campidoglio coll'ausilio di Cavour. Il primo è ancor esule dannato a morte; il secondo fu moschettato ad Aspromonte.

Neanche i democratici, depressi, avviliti, trattati con ingiurie e confinati nei bagni e negli ergastoli.

A costoro si è negata perfino la pace del sepolcro. Una stampa vendereccia e prostituta, insulta il cipresso e strappa la croce deposta sulla tomba delle marchiane vittime.... Noi lo proveremo più tardi.......... L'oscena cuccagna è nuova cena di Alboino..............

I gaudenti furono e sono quel pugno spauto di vigliacchi, che scrivevano al Ministro di stigmatizzando la spedizione garibaldesca:

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una pirateria, un'impresa di Filibustieri, e mandavano proteste di amicizia e lealtà a Re Francesco II, mentre cospiravano l'annessione; i rapinatori del palazzo ducale di Modena e Toscana; gli apologisti del regicidio; i conculcatori d'ogni dritto pubblico; i ladri battezzati galantuomini, i pugnalatori del 1° Ottobre, gli assassini della patria e del popolo.

Ed a tal gente si vuoi mantenuta fede? Né, se in una gabbia di ferro passeggiano come fiere e cannibali dell'umanità Timour Beig, ed Ali Tebelemen;in un oceano d'infamia bisogna spingere coloro, i cui nomi ricordano una vergogna nazionale.

Ma come nudarli nella loro brutta laidezza, come svelare le magagne, le infamie, i raggiri fraudolenti senza strappar loro il secreto nefando dalle viscere? Come squarciare la banda agli occhi del popolo, se non ad una ad una enumerando le malizie dei pretesi rigeneratori? Eglino si ammantarono di agnelli? Ebbene, si laceri la mentita spoglia, cada a lembi, e comparirà il grinzo pelo del lupo.

Si son vantati di arrecare civiltà?

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proviamo subito questa civiltà foriera di strage, di morti e di ladronecci, che tutto andrà in malora.

Propugnare la causa degli spodestati alla dimane della loro sconfitta non si potea. Il popolo vago di novità, dovea sperimentare le agonie, i supplizi!, le torture, l'orrore di questa novità.

Destramente adunque, e da esperti, agirono coloro che tillicando le vipere, li fecero sbavare, e raccolto l'alito velenoso lo diffusero alla pubblica esecrazione. Io lo confesso: m'appigliai a questo genere d'insidia.

Vidi il mio paese in preda a turpe rappresaglia, sbalestrato, tradito, gravato di balzelli, deriso, assassinato, e ne provai corruccio. Voce avea e non armi per protestare, vita per sacrificare, ma solo erami periglioso, difficile lottare colla comune aberrazzione. M'accostai a' no vatori, scrutai le loro intenzioni, sventai le loro nequizie, lessi nel profondo del loro cuore, mi procurai documenti contestanti l'inaudite scelleraggini perpetrate; e quando ebbi roba in mano, repente, inorridito, mi allontanai dall'impuro consorzio, deciso a combatterli,

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divise le opime spoglie del tradimento, e carco di doni e tesori, rivoltò sue armi contro i complici. Io ho abbandonato patria, famiglia, una posizione sociale piuttosto splendida, seduzioni, e vivo all'ombra di una coscienza tranquilla, contento della mia sorte.

M'insinuai nell'errore, non per associarmivi, ma per afferrarne i misteri, addentarlo, ed esporlo alla maledizione dei posteri.

A far ciò ho contribuito colla mia fortuna, col mio povero talento, con cimenti e vicissitudini.

Questo a confondere sospetti di versatili principii.

So, che a' nostri dì si vituperano le più sante cose, e quindi, me strombetteranno violatore di fede politica.

Si disilludano: io seguo il bene nelle sue manifestazioni, e mi onoro di denunziare il male, quand'anche fosse un secreto!...

Meglio uccidere la fama di pochi, che

Ciò premesso vengo all'argomento principale.

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I.

La-Farina e la sua Setta Giuseppe La Farina è astro maligno, che diffonde sinistra luce nel pelago della Rivoluzione Italiana.

Nacque in Messina, e trasse età giovanile, un po' negli studi, un po' negli stravizi. Svegliato di mente, perfido di cuore, settario per natura, figurò nei casi del 1848, e perciò fu dannato all'esilio dalla restaurazione. A Torino, ove fece stanza, cospirò indefessamente contro le monarchie, eperla republica; strinse amicizia con Mazzini, e scrisse in senso

dell'apostolo.,

parecchie opere. Al 1856 dopo il trattato di Parigi, si gettò in braccio a Cavour, fondando una società liberalesca, nominata

Nazionale,

per antitesi.

Soffiare là ribellione, metter l'Italia in fiamme, era la missione della società, avente programma

di unificare l'Impero costituzionale Italico.

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Su quest'uomo e la sua congrega dettò Augusto Licurghi, rivoluzionario, ma scrittore d'ingegno, le seguenti parole.

«Non à guari si costituiva a Torino una società sedicente Nazionale, che alacremente continua, benchè in una cerchia d'idee assai ristretta e limitata, l'opera dissolutrice del mazzinismo. L'uomo che una volta ha appartenuto a qualche società secreta, per una fatale aberrazione d'idee, non mai dimentica i pregiudizi di Casta, le abitudini del settario e la cospirazione in lui diventa natura. V'hanno poi taluni a cui le misteriose conventicole ed i segreti maneggi sono elementi indispensabili di vita come l'aria e la luce, né per volgere di tempo, né per cangiar di circostanze, mai cessano dal cospirare. Questi è il Signor La Farina. Qual è la base del suo programma politico?

l'Unità piena assoluta, imposta ipso facto, senza ritardo, senza contestazione. Per avere l'unità propugna la fusione, la dittatura militare e civile, la guerra a tutto ed a tutti, e non rifugge manco dalla guerra civile».

«Lo scopo principale a cui tende si è di confiscare le dottrine di Mazzini a vantaggio della Casa Sabauda.

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«Egli cospira per fondere tutta la penisola negli Stati Sardi, o per dir meglio

unire

tutta l'Italia in un sol corpo politico sotto la bandiera e il dominio di Savoia. I suoi pro«grammi sono vaghi, confusi, declamatori come d'uomo che non ha fede politica, ma tutto vende all'incanto, patria, onore, sapienza, di chi più lo compra.

«La Farina a dire schietto racimolò molti proseliti alla sua scuola. Avidità, ambizione, lusingate speranze, di gente, corrotta, disperata, abborrita in tempi buoni e sol fidente nei torbidi, contribuirono a rafforzarla.

La Farina ha trionfato?

Checchè ne dicano suoi zelanti partigiani, a nulla è pervenuto, se trionfo non vuoi dirsi avere squassato un flagello incontro al viso della povera Italia, è gettatola nell'obbrobrio, con una sequela di delitti e tradimenti più che barbari.

Le sue massime hanno rialzato il più grave ostacolo, all'attuazione dell'indipendenza nazionale. Per esse non solo Piemonte andrà confinato negli antichi territorì, e politicamente vincolato, che in avvenire non potrà più nuocere alla pace Europea,

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ma forse alle orrende vicissitudini sperimentate, alla esperienza di principi siffatti, che il genio del male ha suscitati, vedremo immolate le più preziose libertà civili.

Con queste idee, utopie, stravaganze, si voleva moralizzare il popolo Italiano e conquistargli politica indipendenza!....

Chi furono e sono i moralizzatori, i progressisti, i civilissimi dell'età nostra? Quando si hanno le carni ancora scottate, e delitti e vituperi sono all'ordine del giorno, andare investigando e fantasticando, lavoro sarebbe sommamente ridicolo. Appigliamoci a' fatti.

Aveva o no ragione Augusto Licurghi a scriver quei vaticini al 1858? Rispondano gl'Italiani del 1865? Le conventicole lafarinesche ci han costato onta, miseria, dissoluzione sociale.

Il governo Italiano è fuori legge.

Mi ricordo aver letto in insigne autore, parole che ripeto a mio utile. Fate che un ladro sia tradotto all'Assisie vi dirà: il governo d'Italia ha rubato quattordici milioni a Francesco II, Re di dopo averlo

il governo d'Italia ha assassinato a capriccio, moschettando 14 mila infelici a discrezione d'un caporale; il falsario ripiglierà: il governo d'Italia ha falsato i plebisciti, con orrendo monopolio di voti; il parricida esclamerà: il governo d'Italia ha sfolgorato suo padre ad Aspromonte, e noi potrebbe negare, perché Garibaldi è il capo visibile di quella rivoluzione che comanda a Torino; il bandito soggiungerà: il governo d' Italia è più colpevole di me: io meno nei boschi vita errante, perigliosa, ammazzo e rubo, col risico di essere inforcato, ma il governo d'Italia, impone taglie, ruba, scanna, costupra infama turpemente ogni cosa, e si gode tranquillo i frutti della rapina, perché egli stesso è la personificazione del furto riconosciuto, e tollerato.

Ladri, omicidi, carnefici, stupratori, sono colà ministri, giudici, senatori, deputati, soldati e tutto.... condannate dunque prima costoro, e poi inquisite su noi esclameranno a coro. Povero popolo! bestia da soma trattato a furia d'aggravii e di malanni.... lurido e pieno di pidocchi; tu batti le mani a questa schifosa libertà e per averla mantenuta?

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Libertà del delitto, unità dell'infamia è dessa; castigo celeste alla confusa Babilonia, alla Ninive peccatrice. Ma se non ha vigore e potenza la legge, a punire questi feroci cannibali e scellerati dell'età moderna l'avrà la storia. Essi cacceremo a' secoli futuri pieni d'ignominia e maledetti.

A quest'utile il mio libercolo.

II.Io e L a Farina Conobbi Giuseppe La Farina il 13 Decembre 1860.

C'incontrammo a Palazzo de' Ministeri in Palermo.

Egli con suo autografo mi avea invitato ad un colloquio.

Eran circa nove ore; lo trovai immerso in pensieri ed agitato.

Appena mi feci annunziare, rizzossi in piedi e mosse ad incontrarmi. Mi stese cordialmente la mano che strinse con emozione.

Fosse l'alito del cospiratore, o presenti

-

Restammo per cinque minuti senza proferir motto. Ognuno di noi cercava collo sguardo scrutare le scerete intenzioni dell'altro, ed il mistero di quella visita.

Egli mi guardava da capo a piedi con un'aria di meraviglia, e quasi fosse incerto delle prevenzioni avute, ritentava collo sguardo leggermi nel cuore.

Io fissai la sua fronte corruscata da rughe profonde, il suo sguardo scintillante; e pensava al contrasto di cuore sì perverso, nascosto in nobili e leggiadre sembianze Giovane tuttavia avea letto parecchie opere tenebrose, e singolarmente gli scritti del Mazzini.

Mazzini misconosce l'indole e le aspirazioni d'Italia, sembra ignorare le condizioni della penisola co' vari istinti politici delle provincie, ma in quel tipo originale 10 scemo l'onnipotenza di un genio creatore. È il fantastico, l'ideale della società perfetta; il poetico della vita; il Hoffman ed il Yung dei tempi nostri.

Parecchie fiate dopo aver meditato le

Prigioni di Pellico,le Memorie di un Cospiratore,

gli Statuti dei liberi Muratori dei Carbonari della Giovane Italia, e tanti lavori di questo genere, mi fermava col pensiero, analizzando il male che han fatto le società scerete all'incivilimento delle razze.

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Nella logica operativa delle sette ho sempre osservato il contrario dei loro principii. Fanno guerra al patibolo! Eppure, quante vittime sgozzate dalla bipenne, non cagioné la rivoluzione Inglese del XVI secolo e poi la Francese del secolo andato? Le sette hanno sete di sangue, sono come le Jene, che avendo disotterrato i cadaveri, e lambito i luridi carcami, rosicano le viscere della madre.

II palco fatale che in Francia accolse Girondini, Realisti e Monarchici, finì con ammazzarvi più fieri ed accerrimi republicani. Danton, Robespierre, Desmoulin La Fajétte, e soci furono in contempo, principi, giudici, boia e vittime. Ecco gli allori della demagogia. Davanti a Giuseppe La Farina io provai un fremito per ciò solo. Mille pensieri sorvennermi, e non ultimo l'orrido fantasma del serpente, che sorride alla Vergine.

Passò una nube e vi vidi schierati; Mi

-

M'assisi a lui vicino! Una lampada te. tra come la coscienza del cospiratore rischiarava le meste pareti; la porta che al mio entrare era custodita da un usciere e mezzo socchiusa, fu fermata col lucchetto; appena le raffiche del vento rompeano l'onde sonore dell'aria.

Dopo avermi contemplato bene, con modi gentilissimi prese a dire.


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III.Idee di La Farina sull'Unità Italiana. «Toccando la sua mano, ritengo, che è quella d' un uomo onesto e leale. Pel suo talento ho la maggior distinzione, apprezzo i suoi scritti, e m'auguro le nostre vedute si incontreranno. Non dico già che ho l'autorità. e la iattanza d'imporle, ma abbiamo un punto d'incontro: la libertà».

Qui è da sapere, che io fui costante e forte oppositore della prodittatura: io amo il mio paese, ed ho un'idea abbastanza esatta dell'uomo libero.

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«Uomo libero è colui che non serve a nessuna turpezza» scriveva Cicerone; e Cesare soggiungeva: «Uomo libero è colui che non serve alle proprie passioni.» Il Divino Redentore lasciava detto: «che uomo libero mira al bene altrui, come al proprio; la vera libertà spinge il mondo verso un avvenire di luce, di giustizia, di fraterna armonia.» Or nella prodittatura, i rigeneratori ci fecero perdere il vero significato della libertà. Uomo libero dissero l'empio, il bestemmiatore, l'irrequieto sdegnoso d'ogni freno, il rivoltoso distruttore d'ogni dritto, l'incameratore che rubò, l'assassino che ferì il nemico alle spalle.

Questo nefando procedere, questo chiamare galantuomo il ladro, il subornatore della pubblica e privata fede, e brigante lo spogliato, il tradito, il derelitto, m'infastidì non solo, ma irritò.

Non è progresso, né, quello che traversa per serie di delitti, stragi, ruine, morti, devastazioni ed incendi.

La Francia era in via di civile società

-

Molti sostengono che debba civiltà alla invasione delle idee socialiste. Menzogna! Voltaire, Lammenais, Luis Blanc e Mazzini, collo spirito di

associazione e comunione, non saranno mai i moderatori del mondo. Guardate la Francia del 1788 e del 1816! S'incontra nello identico. Lo spazio che corre da una data all'altra è la descrizione di un circolo fatale: La Francia intanto per piombare dov'era uscita sacrificò un milione di vittime, alla feroce ambizione d'un uomo; rovesciò gli altari, gavazzò nelle crapule, nelle orge, nei saturnali più orribili, annichili le finanze dello Stato, e dopo aver conquistato tutte le nazioni del mondo, s' arrese alla discrezione dell'Europa vincitrice.

Tutto questo perché? Perché quel bastardo progresso sociale non era l'espressione dei bisogni morali, materiali ed intellettuali del popolo, ma il delirio d'una setta.

Nello elemento garibaldesco scorgo gli stessi equivoci ed errori; e quindi pel bene

Appena udita sua locuzione senza tanto esitare risposi: «Poiché Ella fa appello a mia lealtà, sarò franco. Discorreremo non da politico e pubblicista, ma candidamente.

«Ella vuole affiliarmi alla sua bandiera, forse mie scritture le servono? Anzitutto le son grato: ma la prevengo che se detesto la fazione anarchica, non credo all'Unità d'Italia, di cui Ella è strenuo propugnatore.

«La credenza e la fede politica, non si comunicano, né s'ingaggiano, ripigliò Egli a me. Che Ella creda o no all'Unità d'Italia a me non preme, m'interessa sapere se stima proba l'odierna politica del Conte Cavour, e sarebbe al caso di sostenerla.

«L'Italia, mio caro signore, è difficile alla fusione dei costumi, delle leggi, delle abitudini, alla immedesimazione dei bisogni. Il contatto delle provincie è possibile politicamente, economicamente mai.

«La rivoluzione del 1860 fu come le altre; l'espressione d'un parosismo, la reazione ad una cupa tirannia; (?) il programma unitario, monarchico, dovemmo adottare per ischivare, nuovi

trìunvirati e costituenti: - 21 -

l'Europa sarà riconoscente in avvenire, alla generosa Casa Sabauda, della presa iniziativa, iniziativa che afferrò pei capelli il brutto fantasma del rosso ridesto e lo ricacciò nel sepolcro.

«Tra i principi spodestati e popoli, fresche essendo le antipatie, una transazione, era inconcepibile non solo ma esiziale alla causa, e supporla valeva lo stesso che spingere la rivoluzione a sfrenati deliri. Il testamento politico di Pisacane lo si sa, scosse e violentemente con elettrica possa Napoli e Sicilia. Se il Piemonte si fosse mostrato sordo a' lamenti, a recriminazioni, a querele, che giungevano da ogni angolo d'Italia mal per noi. La rivoluzione che invase Palermo, Napoli, Toscana Modena e Parma, avrebbe repente precipitato Casa Savoia, ed allora, o l'intervento straniero per domarla o la repubblica di Mazzini.

Io penso che all'Italia non convenga ne l'uno ne l'altro.

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La politica liberale di Vittorio Emmanuelle, rafforzò il sentimento monarchico negli Italiani. Le provincie schiave perciò non aborrirono la monarchia in ispecie, ma Borboni e Lorena individui; perciò nelle sventure d'Italia Piemonte solo tenne saldo la bandiera dalla dinastia, il che bastò onde a Villafranca mercato osceno fosse scongiurato ed abortito.»

-

Io avea ascoltato con singolare attenzione quella sparata rivoluzionaria, se non chè svoltando l'argomento, verso il quale, messer La Farina avea intendimento intrecciare la discussione, escii con una scaltra evoluzione.

« Ripeto, crede Ella all'Unità d'Italia?

«

La Farina non mi diè tempo di arringare che esclamò:

«Io credo alla fusione delle razze che hanno comune origine; io credo alla logica inesorabile dei tempi, al movimento precoce delle nazionalità, credo insomma, sia in urto col Gioberti, ad un rinnovamento politico Europeo, che il vecchio mondo farà subissare nella china delle idee moderne.

-

Gli unitari arrabbiati a sostegno della utopia loro, non sanno trovare ragione migliore che la necessità d'essere l'Italia, nazione forte, compatta, temuta, potente,

al livello delle cinque grandi Europee, la qualcosa non potrà mai ottenersi giaccendo disgregata, divisa in tanti piccoli Stati. Tralascio dire che questa è un idea anticivile, eziandio il progresso virtuale d'un popolo, non istà certo nella mole delle armi, ma nella disciplina delle scienze, nello sviluppo delle arti, della industria, del commercio; facciam pure plauso alla civiltà dal cannone, al medio evo, alla ragione della forza bruta, ai tempi di Carlo V, ed analizziamo se sotto questo riflesso è pur sostenibile la tesi.

«La forza materiale del popolo Italiano risulterebbe meglio nella confederazione che nell'unità.

«Scrive Carlo Farini, suo amico, che nell'anno 1804. la Russia e l'Austria divisando i modi se delle armi Francesi trionfassero di ricostituire L'Europa, non fossero aliene dal pensiero dell'Italiana indipendenza; che anzi nel 1805 la Russia facesse disegno di unire al Piemonte la a Liguria, la Lombardia e la Venezia in un solo regno, sotto i Principi di Savoia;

-

di creare nel centro d'Italia un regno di Etruria e di collegare l'uno e l'altro con Lucca, Ragusi, Malta, e le Isole Ionie in una confederazione della quale sarebbero capi alternativamente il re di Piemonte e delle due Sicilie ed il Papa sarebbe il Gran Cancelliere.»

«La confederazione vincolando stati e principi in concordato politico, gli obbliga a mutuamente difendersi nel caso di aggressione, fornendo ciascuno il proprio contingente di esercito. Ciò ottemprerebbe la voluta potenza da un canto, amalgamando le singole autonomie, l'indipendenza economica, amministrativa delle provincie e le agognate rappresentanze locali dall'altro; quindi, senza calpestare interessi, tradizioni politiche, costumi, aspirazioni, istinti locali, si otterrebbe la potenza militare, col vantaggio che la guerra e la pace, non giacerebbero alla discrezione di un sovrano, ma al comizio dei principi federati, quindi meno pericoli, ambizioni, e velleità.

«Io non trovo nella storia un cervello veramente serio, che abbia proposto attuabile l'unità Italiana.

«Quante preziose confessioni non abbiamo sul proposito da Napoleone I? Questo genio secolare, s'ornò a Milano della corona di ferro di re Longobardi, assunse titolo di re d'Italia, ma non pensò mai alla fondazione di questo regno, che oltre d'essere un assurdo politico, è una contraddizione latente al sentimento del popolo Italiano.

«Oh! misconoscerci, vale obliare le vecchie e le fresche tradizioni. Rovistando la storia io trovo ad ogni pagina, Venezia che insorge contro Genova, Ducato di Milano contro Toscana, e quell'eterna lotta di Napoli e Sicilia, che tante vittime ha mietute, e tanto sangue e lacrime à costato.

-

«Qual fu tipo, programma, a tanta congerie di ribellioni? Lo spirito d'aggiogare una provincia l'altra, e quello di emanciparsi.

«E vogliamo che d'un tratto si cancellino le memorie dei padri, e si snaturi il pensiero intimo del popolo italiano? Ma Dante primo, vagheggiò un Italia onnipotente, non un Italia fusa nel crogiuolo di opposte passioni.

«Al contrario, i maggiori statisti Italiani e forestieri e non ultimi Balbo e Gioberti, sostennero con buoni auspici, la federazione, e già sarebbe fatta se Carte lo Alberto non era lì, divorato da pazze ubbie, per sfruttarla a Novara. L'unità pura e semplice è una manifestazione del socialismo radicale; dottrina fatale che nacque nelle vene del panteismo. L'Unità fusione pretendono i rigeneratori alla Luis Blanc, Vittor Ugo e Ledru Rollin, colla stregua solita; e badisi, che alcuni come Proudhon la respingono.

«Che cosa è infatti il socialismo? Associazione, lavoro, ripartizione della proprietà senza privilegi!

E gli unitari aspirano alla assimilazione delle provincie, alla fusione degli interessi, al socialismo larvato, avente il trono nelle barricate.

«Ma è presumibile che il misto di razze, che si chiamano Italiani compiano questo progetto di assimilazione? Possiamo negare che noi non abbiamo un tipo, un carattere, una nazionalità vera mente intrinseca? Conseguenza d' essere stati preda e ludibrio continuo di avvoltoi stranieri. Se l'esser di stirpe latina, porta assoluta l'unificazione detta razza, allora il dritto è uno, è sempre uno, e vuoisi una rivoluzione mondiale, col programma che finì a S. Elena; avvegnachè, non so comprendere quale ragione abbiano i piemontesi di fondersi coi napolitani, più dei francesi cogli spagnuoli e portoghesi.

«Oh Signore (proferii con cupo accento) credete a me, noi ci siamo abeverati ad una putrida sorgente melmosa, perché limpida e chiara nella superficie.

«Quando quest'acqua ci avrà schizzato il veleno tremendo dentro le viscere, allora giungerà il disinganno, il pentimento, la rabbia, l'agitazione, la reazione, l'anarchia e il dispotismo.

-

«Tutto l'odierno periodo di flagelli sarà il fatto della dovuta espiazione. Le potenze non interverranno a camparci dall'ignominia e dalla guerra civile. Esse ci lasceranno gavazzare nelle dure tresche, e con brutale voluttà conteranno i palpiti della nostra agonia. Crede Ella che l'Italia possa tramutare la Carta d' Europa, senza eccitare lagni e querele? Questa indifferenza dei potentati è un egoismo calcolato. O si può supporre che minacciati nelle influenze, insidiati in vitali interessi, minato l'equilibrio europeo, stessero muti?

Perché non si riscuotono? Perché la rivoluzione Italiana non è l'espressione del concetto italiano ma un tenebroso prodotto delle sètte, sette che finiscono col suicidio.»

La Farina divorava colla febbre nel cuore la mia locuzione. Ad ogni espressione viva, la sua fronte si corruscava, il suo occhio torvo ed incerto balenava fiamme acutissime, il suo viso si animava, e mille pensieri vagavano per la mente. A questo punto m'interruppe:

«Ella par che discerna nel libro dell'avvenire. Non gli niego aver molte idee, azzeccate.... ma faccio senno colla sua logica.

«Or mi dica: Dopo Villafranca (ripeto) era realizzabile una federazione coi Borboni e coi Lorena? Potevano distruggersi mille prevenzioni, rancori, inimicizie ed ostilità?

«La politica di Ferdinando II dal 1848 in poi non fu la più barocca del mondo?

«Stabiliamo intanto la federazione immediata. Con quali elementi doveva comporsi? Coll'elemento forastiere! Oh! plaudisca il patriottismo del Re di Piemonte, che ponendo a risico la sua corona, ci sottrasse al grave pericolo. I Borboni potranno domani rinsavire e regnare, forse, ma purificati nel fuoco dell'esilio. L'occupazione straniera invece, ci avrebbe ridotti a servitù eterna, provocando serie complicazioni Europee, sempre a detrimento d'Italia, che come circa un secolo fa, sarebbe ridivenuta il terreno disputato di oltramontane conquiste. Tra' Principi Italiani in futuro potrà tentarsi un accordo, ma quando sovrasta l'oltramontismo, le quistioni assumono carattere difficile, e la soluzione traversa per un oceano di sangue.

-

L'unità, Ella assume, non può reggersi e andrà a sfasciarsi....; Ebbene se spunterà questo giorno, gli affari si acconceranno in famiglia, si tratterà di confinamento di territorii, non di mutamenti dinastici, d'influenze internazionali, con la falange dei mali conseguitanti.

«Io era repubblicano, eziandio non lo niego, seduzione esercitasse nello spirito mio impressionabile, l'oasis di una società emetica e perfetta. La sperienza dei tempi e la logica materiale dei fatti, mi fecero abbandonare questo partito, e lo derido perché la repubblica in sostanza è la negazione, l'ecatombe della libertà e della indipendenza italiana, per la posizione geografica della penisola, per relazioni politiche che ha con il mondo. L'Italia manda i suoi prodotti, le sue manifatture in tutta Europa.

Con esse le istituzioni democratiche comunicando comprometterebbe le monarchie esistenti; e noi avremmo positivamente contro la coalizione universale con la Francia tutrice e protettrice alla testa, ci intendiamo.

L'esempio di Roma basta a convincere i più tiepidi. Valore e virtù abhiamo al par degli altri e forse maggi ore; santo entusiasmo di libertà ci guiderebbe alla riscossa.... ma il numero prevale ed il diritto soccombe.

«In politica si calcola colla mente e non si giudica col cuore. Saggia dunque Ja tattica del Conte Cavour, che capendo a i tempi, s'impose al movimento, infrenando gli impeti della democrazia, e con scaltra evoluzione eluse le disgrazie del 1808.

«Questo mio parlare chiaro e franco, spero sia sufficiente a dimostrarle la fiducia e la stima che pongo in lui.

Confesso che me ne preoccupai. Fulton ha scoperto il Vapore, Galileo il pendulo, Colombo l'America, Gall la scienza di trovare nell'esame del cervello umano le tendenze è gl'istinti dell'individuo, La Farina inventò l'arte di ammaliare le genti.

-

Dopo un istante soggiunsi:

«Qual è il suo indirizzo?

«Con la prima bisogna riparare il mal fatto della rivoluzione operante.

«Coll'altra attendere a raggranellare le fazioni scompatte, aspettare la sentenza inesorabile dell'avvenire! e quel disinganno che ella accennò maestratemente.

«Siamo pienamente d accordo.

«Lo stesso linguaggio tenni a Garibaldi nell'Aprile del 1859. Egli era a Caprera, e con mio dispaccio venne a Torino, colla figlia Teresita. Lamarmora, era ostilissimo a lui, ricusava confidargli il comando dei volontari. Cavour all'incontro lo desiderava, essendo il nome di questo prode uno stimolo gagliardo alla democrazia militante, quindi un potente ausilio all'impresa. Vittorio Emmanuele era dello stesso parere.

«Bisognava conquistarlo insomma alla Monarchia, e strapparlo a Mazzini; ei mel promise dopo avere seriamente discorso parecchie ore.

«Accetto con buon viso le sue massime, risposi, e conti avermi seguace alla nobile impresa per la quale impiegherò penna e povero mio ingegno. Sono conservatore per istinto; mio dovere quinci di difendere quello che abbiamo conquistato e non perderlo per stupide intraprese. Salva la quistione di principio, ci intendiamo nei mezzi e nello scopo.»

Un momento dopo licenziandomi usciva dal Gabinetto, dopo aver con lui scambiato una stretta di mano assai cordiale:

-

Ma erano solo i mezzi legali che il Consigliere La-Farina stegmalizzava per battere gli avversar!? Né, e lo vedremo.

Taluni diranno e predicheranno che ingiurio ed insulto un cipresso! Baie: la viltà non è il mio tema prediletto. Scuopro un abisso e non un feretro.

IV.I Complici di La Farina Io vorrei qui col Monti evocare l'Ira e la Pietà a mie Muse, ma sono astretto scongiurare l'Onta e il Tradimento.

Il testamento l'ho fatto. Lego a miei nemici lo sprezzo; a miei amici, e ne ho virtuosi e probi, il coraggio e l'abnegazione che vanto.... alla mia famiglia un nome che non si è macchiato nel vituperio, nel ladronicio e nell'infamia odierna. Avanti dunque e Dio mi aiuti.

-

Nello Agosto del 1860 Giuseppe La Farina, capro emissario del Cavour, era venuto in Palermo, con incumbenza di preparare e compire l'annessione.

Il Governo Sardo, dopo aver trattato i plenipotenziari di Francesco II. amichevolmente a Torino, deluse scaltramente le prattiche e le promesse di alleanza, chiamando filibustiere e pirata Garibaldi, fino a dargli caccia co' suoi vascelli, domentre ordinava a Persano postarsi tra crociera napoletana e legni scorazzatori del Garibaldi. Però volte le cose in suo prò, obliando i dispacci di Colloredo a Carafa, i richiami e le proteste, con un atto d'inqualificabile rappresaglia, co' plebisciti, cementava alla coscienza Europea tutta la storia e la matassa dell'ordito tradimento.

Ad individui puri ed onesti non poteva l'agente Cavurrino affidarsi, perochè gente pura ed onesta rifugge mercato di popolo, che era proprio l'agognato..

Arroge, trafelieri, caporioni, mestatori,

-

necessità quindi ricorrere, a quanto di più sozzo, vile canagliume la società Siciliana offeriva, e con tali auspici, apparechiare l'opera iniqua, il Calvario alla generosa Isola.

Io segnerò i vili un per uno all'orrore dei contemporanei. Li vedremo, come dissi, passare chiusi in una gabbia di ferro, peggio di bestie feroci colla scorta delle commesse scelleragini, facendo bordone e codazzo ai Soluque, ai Riccardo, agli Errigo, e tutti gli assassini e venditori di popoli antichi e moderni.

Cominciamo da Romualdo Trigona, Principe di S. Elia, uno degli strumenti più efferati del dispotismo La Farinesco, lancia spezzata dell'usurpatore.

Ebbe costui discreti natali, ma pessima educazione, ribalde abitudini.

Ambizioso, ignorante, fanatico, sviluppò co' primi anni un carattere assai corrivo al vizio. E si ribellò al proprio genitore, che non volle saperne più nulla, e gozzovigliando nelle crapule, nelle taverne, nei ritrovi, sciupò buona parte del patrimonio e si ridusse al verde.

-

Per distrazione o capriccio sposò nobile con mediocre fortuna, che tantosto pei suoi vizi costrinse a divorzio. Allora conobbe tale Marchesa di S. Croce, ricca e cospicua giovinetta. Se ne invaghì, la sedusse, la conquistò con idea di sprecarle il reddito e sacrificarla a sue voluttà.

Costei non può veder luce di sole e chiaro di luna; quattro pareti raccolgono i sospiri della povera derelitta. Veste miseramente, e si nutre peggio. Suo vistoso assegno serve a riparare le strapazzate finanze del principe, che parte n'ha venduto, parte consunto in imprese di teatro, con favorite cantanti o danzatrici.

Io che scrivo, ho in potere un documento autentico di Salvatore Maniscalco, direttore di Polizia del Governo Borbonico in Sicilia.

Egli fu chiesto dall'Aiossa sulla condotta morale e politica del Principe, e rispose nei seguenti termini.

«Uomo ignorante, frivolo e stolto. Ama i liberali non per principio ma per diletto di accostarsi all'infima e corrotta

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Spregiato dai buoni s'accomuna co' tristi. Piacendogli l'adulazione la cerca nella celebrità dell'empio. Cattivo figlio, pessimo marito, scandaloso padre, maligno seduttore, di vilissimi e depravati costumi, ecco il tipo di colui che si estima campione di liberalismo: libertà che non intende e non comprende, ma affetta e scimmia per piacere al volgo speranzoso di cose nuove.

A suoi saturnali si associano, rompicolli barattieri e gente satanica che lo profuma co' nomi più illustri. Mirabile contrasto in bocche abiette. Oggidì abita un palazzo estorto alla buona fede del Duca Cumia. Costui giocatore, lo vendè per pochi danari, ed il principe glie lo carpì. Questa magione è un Harem. Ivi convengono ed abitano le concubine dei figli, che visita spesso il padre; vergognoso e sozzo commercio d' incesto ed adulterio. Possiede una buona libreria, ma giammai, credo, abbia rovistato un volume, tanto son nitidi, immacolati, senz'orma di mano.

Io potrei addentrarmi vieppiù minutamente nella biografia di lui, ma il puzze di vituperio, la lordura che emana, mi troncano

Antonio Principe di Pignatelli. Appartiene a nobile casato Siciliano, ma mente, criterio e senno gli mancano addirittura.

Declamatore di libertà per occasione, non sà che sia, ne come si ottenga. A mio parere la frivolezza del suo individuo vieta allo storico occuparsene; pertanto debbo dire che se male ha fatto, co' mezzi largiti alla rivoluzione, inopia, e triviali costumi lo consigliarono, fìsime di novità, e forse non malvaggia natura, Dio lo distolga da/le tenebre, e lo soccorra alla luce.

Meno ignorante, ma più funesto, Giulio Benso Duca di Verdura è del bel numero uno.


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Questi nasce molto illustre, ed abbenchè superficiale, ha certo spirito e loquacia sopratutto. Idee liberalesche, ed anfibeo programma politico. Fiero nemico ai Borboni, non si sa per qual ragione, gli mosse contro al 1848, e tanto si pronunziò ostile alla legittima dinastia che dovette emigrare. Visse parecchi anni nello esilio, amando e frequentando le combriccole, e capannello demagoghe. Epperò ha più del garibaldesco e mazzinesco che del moderato, benché sovente oscillando, or qua, or là, a tutte e due le fazioni declina.

-

Verso lo scorcio del 1859 per grazia speciale del Principe rientrò in patria, e se ne giovò congiurando alla rovina della monarchia.

È da compiangersi o deplorarsi? Con queste tre figure ho esaurita l'alta camerilla dei così detti moderati, picmontisti , italianissimi nell'arguto linguaggio del popolo, e da me, con quanti hanno logica, rinnegati.

Eglino furono e sono i bravi, i D. Rodrigo lafarineschi, i fautori del plebiscito, gli agenti d'ogni esecrando delitto e miserando tradimento, consumato all'ombra del governo, i flaggellieri dell'infelice e tormentata Sicilia.

Come è di leggieri comprendere hanno adepti e dipendenti in buona copia, e fra più noti, un Francesco ed Alessio Vassallo, spacconi ed ignoranti; un Gaetano Spina antico chierico, dalla carità Borbonica e cittadina mandato a Siena a studiar legge,

Perché avete svolto cronache così orribili, vergate parole piene di sangue e di vergogna, addentato misteri privati, diranno i lettori?

-

Ho sofferto molto, rispondo io, nell'oscena narrazione; libero pensatore, ho dovuto discendere ad intingere la penna nello inchiostro del vituperio, registrando nomi che ripugnano alla coscienza d'ogni onesto, ma con iscopo lodevole.

Da costoro hanno origine tutti i patimenti tremendi piovuti in viso alla Sicilia; costoro come Nerone avrebbero bruciato la patria e sorriso al fremito disperato dei torturati, ai lamenti, ai dolori, agli spasimi, alle angoscie degli arsi vivi» se ne avessero avuto il destro, e se noi fecero non pietà, o natura contraria, gli distolse, ma impotenza, e paura. Lo sovvengo ai leggitori puri, ai rivoluzionarii sorrido.

Rapinatori d'ogni dovizia, conculcatori d'ogni dritto, vigliacchi offensori di donne, derisori d'ogni fede, possono pretendere alla parte di Aristarchi?

«Atterrare un individuo sotto i colpi della censura, quando i suoi istinti e le sue massime sono l'espressione d'un vizio fatale alla società (diceva Reid) è missione

Infatti non s'uccide il verme che porta in seno il veleno, e l'ape non ammazza nell'alveare l'insetto che turba la sua economia industriosa?»

Comprendo che le son dottrine un poco trascendentali, ma quando s'affibia al dorso d'una nazione generosa il titolo di ribelle, d'indomita, di selvaggia, di nemica al suo Re ed alla sua autonomia, è dovere di pubblicista rivendicare la verità e confondere l'inganno.

No, i Siciliani sono e saranno sempre devoti alle vetuste loro tradizioni monarchiche, e se il popolo è stato trascinato turpemente al suicidio, lo fù, per questo pugno di scellerati, che a furia di cabale vi riescirono; lo fù per la paura dei buoni e l'audacia dei tristi, ed una febbre, ed un delirio che ha rimaste traccie profonde di disinganno e pentimento. Gente che sono l'obbrobrio della vita domestica, non rappresentano la civiltà e la luce dei tempi! Apriamo a caso il Rinnovamento Civile di Vincenzo Gioberti, e leggiamo com'ei sia severo censore dei contemporanei.

Cotesto Rinnovamento è un classico libro per le pitture che fa dei rivoluzionari. Gio

Urbano Radazzi dice: poco veridico che ha giuocato la patria, il trono e la vita di Carlo Alberto. Appella il Pinelli: oscitante, dappoco, ostinato al vizio e reo dell'eccidio Italiano. Accusa Cavour: di rovinare l'Italia dopo avere abbitttito egli stesso. Il Generale Dabormidia: di traditore per essere amico dell'Austria. Massimo d'Azeglio: di aver trascurato l'egemonia, gli aiuti e la dignità patria', e Farìni mette a fascio: coi dottorelli che insegnano quello che non sanno. Vittor Hugo, il republicano francese, che non scrive d' uomini pubblici, giovandosi della vita privata? Io pure, voglio adottare lo stesso sistema, a giuoco e solletico dei parassiti e studio dei profondi conoscitori delle vicende umane.

Sorga domani un Mauro Macchi e mi appicchi di superbo, sleale, diffamatore e menzognero.... Lo sfido!....

Del resto tolgo esempio dal Parlamento Subalpino ove si dileggia ed ingiuria ogni santa cosa; ove si processa il Cattolicismo e si batte le palme a Renan;

-

ove Montanelli insulta Farini con parole da trivio; Farini manda sfrontatezze a Sterbini; Pigli calunnia Guerrazzi. E Guerrazzi accusa di peculatogli. Se è permesso lacerare la fama dei maggiori, talvolta impunemente; rincrudire con le scimmie, lealmente, è logico; scimmie che d'ora innanzi chiamerò in complesso Camarilla LaFarinesca.

V.Il 21 Ottobre Cammina! cammina brutto fantasma ricomposto coi luridi carcami del 1789, non aver tregua, pace e posa, e finché sangue umano vi sarà per abbeverarti, e lembi di carne per satollare la cupida, vorace, lasciva tua fame! cammina, cammina come l'ebreo, deprecato, vagabondo, tra ruine e cimiteri.

Il popolo ti applaude, esso ti corre dietro, tuoi trionfi son noti e ti cinge il crine una corona.... di labaro? né, di cipresso!

-

- Hai pur delle gemme preziose: le giornate di Giugno, di Maggio, d'Aprile a Parigi; di Gennaro e Febraro in Austria; di Maggio in

e poi patiboli, teschi rotolanti circondano il tuo cammino; tu sei tutto, per fino il Dio di te stesso, come pretende l'empio egotecista!.. Cammina idolo arrabbiato, tormenta più che puoi, e quando sarai stanco scrivi sulla tua lapide: onta e maledizione. Eppure sai tu quel popolo che ti gavazza attorno chi sia? Odilo da Proudhon, uno dei tuoi superiori «Une coalition de chiarlatans.» Odilo da Dante nel Convito: «Non popolo d'uomini ma di pecore: che se una pecora si gettasse da una ripa di mille passi, tutte le altre le andrebbero dietro, e se una pecora per alcuna cagione al passare di una strada salta, tutte le altre saltano eziandio nulla veggendo da saltare, e ne vidi già molte in un pozzo saltare, per una che dentro vi saltò, forse credendo di saltare un muro.»

Questa e null'altra è l'idea del tuo popolo; la sintesi di plebisciti; insegnalo a'

Torniamo alla storia.

Giuseppe la Farina, come dicemmo, nell'Agosto, piantate le baracche in Palermo, tenne conferenze e concioni aperte, con la famosa camerilla, in casa S. Elia.

Scopo dell'associazione era

1.° Propugnare l'annessione pura e semplice di Sicilia a Piemonte, cioè venderla e barattarla a Gianduia. 2.° Fomentare la discordia nel partito liberale e dividere le fazioni, eccitandole l'una contro l'altra.

3.° Lavorare, coi mezzi della stampa, e con altra specie di propaganda, il movimento elettorale in senso Cavurrino: cioè, procurare deputati proseliti alla maggioranza ministeriale, onde concerta legalità coprire l'opera reproba e dissolutrice che andava ad intraprendersi.

Tutto ciò all'idolo profanato dell'Unità Italiana in apparenza, ad olocausto del Dio Mammona, e dei satrapi della cuccagna in sostanza!... Vi riescirono? Si! E come? Or or lo sapremo.

Dapprima fondarono un giornale intito

-Questo diario, avendo molta roba, ad inchiodare, poté agevolmente iniziare e compiere sua missione.

Io dissi testé, che il governo della prodittatura era un orribile sconquasso di leggi, d'economia, di personale sicurezza; insomma Saturno che divora i figli.

Gli scribacchiatori dell'Annessione, non bistrattavano la prodittatura, per opposizione sincera ma col pravo consiglio di sbarazzarsene a lor comodo.

Quindi al proletario dissero: bada a casi tuoi, l'imposta sarà così grave che non potrai sopperirla a duro stento dì lavoro. Le tue economie, il frutto dei tuoi travagli, il ricolto, l'annona ti prederanno scorazzatori garibaldeschi protetti dalla piazza in forma di governo e tutto massacreranno e deturperanno a stupida voglia.

Al proprietario fecero balenare il finimondo; l'annichilimento dei valori, la spropriazione delle terre, l'esautorazione delle gerarchie, il socialismo e Io sperpero del prodotto.

Il forense spaventarono coll'abbandono

Il commerciante, l'industrioso, coll'aumento dei balzelli, e la scadenza del traffico.

Il negoziante coll'apparato di mutui forzosi e taglie.

L'operaio colla squallida inerzia, ed arbitra fame. Arrogi, andavano sussurrando e zufolando di soppiatto che le vergini sarebbero tosto state violate nei chiostri, gli altari demoliti., invasi i santuarì ed abbattuti i simboli, il comunismo risoluto, ogni cosa manomessa e le private sostanze involate. Rammentavano i tempi feroci della repubblica francese, le stragi di conservatori, l'ordine pubblico negletto, le orgie intorno all'albero della libertà issato nelle piazze del napolitano. Famiglie intere derelitte, strozzate, sospinte a cruenta vendetta;il popolo sovrano, l'anarchia dominante, la società distrutta. Non leggi, non potere esecutivo, ma prepotenza, arbitrio, moschetti, pugnali invece di codici, lutto, squallore, sangue.

Lo Stato ammiserito, le finanze dilapidate i monti di pietà miseramente espilati, a satollare l'ingorda sete d'oro de' rivoluzionari;

-potersi però scongiurare la tempesta e l'obbrobrio, ove buone armi e genti disciplinate verrebbero di Piemonte, ma richiedersi l'annessione. Allora manderebbe Vittorio Emmanuele denari a bizzeffe, soldati, poliziotti, che tutelerebbero l'onore, la proprietà, il rispetto ai cittadini.

I malvagi anderebbero di nuovo confinati nelle galere, i buoni premiati, ammessi agli offici dello Stato i conservai ori, la canaglia depressa.

Scemerebbero dazi, il debito pubblico soddisfatto, l'economia pubblica rilevata, l'agricoltura incoraggiata, il commercio ampliato, perocchè, si aprirebbero nuovi tronchi di ferrovie, strade, ponti, incanalamenti di fiumi, ristagno di paludi, con altri mille progetti stupendi.

L'Europa, titubare, commuoversi ai progressi della rivoluzione, declinare all'intervento, ma se ciò fosse redi vi vere lo spettro del passato.

Riederebbe Maniscalco, con birri, manette, carnefici e pali infuocati. Quel feroce serbare alla Sicilia aspra vendetta, carneficina e bruciamenti.

-Il tedesco agitarsi, aver promesso aiuti a rafforzare la pericolante

Il popolo fremente, inorridito, tribolato, ascoltava attonito quelle eccellenti parole, con paura ed insidie elaborate, e faticoso domandava consigli, aiuti, lumi, che non era alla capacità intellettiva di ponderare gli effetti di un mal passo.

Epperò l'istinto della propria salute ed il pericolo attuale, prevalea ai sospetti ed alle dubbiezze dell'avvenire.

Del resto il linguaggio dei consòrtieri era così bene ordito, improntato di verità, fiducia ed interesse, che facile ad illudere, malgrado l'ostinata resistenza dei garibaldeschi, ammaliò le turbe e decise l'annessione.

-E già cominciava a sperimentarsene il fer

La Farina se ne avvalse per scrivere mari e monti.

«Il paese è risoluto all'annessione (riferiva); unico ostacolo frapporsi Garibaldi, le cui diffidenze e stravaganze subiva il popolo per un poco di prestiggio che gli avea. Facesse di tutto per sorvegliare (Cavour) la corrispondenza del comitato di Genova col Garibaldi, avendo positiva contezza, che di là partivano consigli e proteste contrarie all'annessione e puramente rivoluzionarie. Potersi contare sull'appoggio di molti lusingati e creduli, la piazza doversi comprare coll'oro ; agli elementi contrari e restii imporsi colla forza (1).

La cospirazione lafarinesca era così aperta, ributtante, fastidiosa, incalzante il popolo a guerra civile,

(1)

Il lettore chiederà a se stesso, come possa sapere di coteste lettere? Ecco tutto. Tornato La Farina in decembre consigliere di Luogotenenza, e dimesso a furia di popolo, volle giustificarsi, pruovando, i suoi servigi all'annessione, che reputava utilissima (sic) alla Sicilia. Mandommi dunque un volume di dispacci e lettere trascritte con suo autografo così concepito:

Onorevole Signore

Le invio carte e documenti, in dove Ella può formarsi concetto se abbia o no giovato alla libertà ed alla prosperità di Sicilia. -

che Francesco Crispi Segretario di stato nel governo Dittatoriale, viste le cose a mal partito, notte tempo lo fece arrestare e tradurre su bordo di nave da guerra ove salpò velocemente alla volta di Genova.

Giunto a Torino e sfogato la bile dello sfratto con stampe ossesse, confermò verbalmente, a Cavour le menzogne, e ne ebbe di rimando: = Agite e non badate ad ostacoli = «Il Piccolo Corriere ne ha parlato, facci Ella a suo modo nel suo animoso Cittadino. «La matassa Siciliana è così arruffata che non vi sarà uomo capace di trovarne il bandolo. Vuoisi un colpo ai cesoie e finirla.

«Grazie a Mordiniani, Crispiani, Autonomisti e Borbonici, il mio nome è stato gettato nel trivio, questo supponendo che non avessi pruove e maniere per contenda la calunnia, e raddrizzare la pubblica opinione sul» conto. A lei che tante testimonianze di stima e simpatia mi ha date, affido la partita di Palermo, e lasci che sbrighi quella di Torino.

«Dica al Barone Donnafugata che io presceglierei l'ufficio di deputato a quello di Governatore. Questo di risposta all'interpellanza fattami a suo nome. Del resto faccia a suo modo.

Mi creda con considerazione. Torino 17 Febraro 1861.

Suo Devoto

La Farina

All'Onorevole Sig.

Duchino Acquaviva

-Il che fu scrupolosamente ripetuto, motto d'ordine, agli agenti di Sicilia; i quali a dir vero non se ne stavano neghittosi e colle mani alla cintola, ma in acerrima polemica co' mazziniani, e speculando modi e mezzi di raggiungere lo intento. Verso la metà di Settembre giunsero da Torino i denari, in seguito a vivissimo scambio di note e dispacci.

Quanti fossero questi denari non posso precisare non risultandomi dalle carte che possiedo, in modo assoluto (1).

(1) So di una polizza di lire 50000, soddisfatta alla richiesta. Dippiù possieggo un piccolo autografo di La Farina, e qui è uopo risalire ad altro tema.

Il giornale Cittadino era allo stipendio del governo piemontese: e badisi, intendo, tipografi e redazione, perochè io faceva da direttore gratis. Un dì incorse diverbio tra me e lui sulla scarsezza dei mezzi che si apprestavano. e gli scrissi queste righe.

Onorevole Sig. Consigliere

«Le scrivo e non le parlo per lasciarle documento di quello che penso.

«Il giornale non può tirare innanzi, come risulta dalle fatture originali del tipografo Clamit che le compiego.

Non intendo sopperirci di tasca mia. Copie non se ne vendono, non essendo di colore molto in voga. Del resto le ho offerto l'opera mia, e per essa non pretendo anzi sdegno qualunque emolumento; sacrifici sono disposto farne sino ad un certo punto.

Il governo e V. S. non dimenticheranno le ingenti somme dell'Annessione (Giornale) per porte in contro ai bisogni del Cittadino: So d'ingenti somme donate ai paladini dell'Annessione, le quali servirono a comperare le masse dimostranti.

Infatti proprio verso la metà di Settembre come accennammo, nella tipografia di Domenico Lo Bianco, furono impressi a migliaia manifesti colla seguente iscrizione: VOGLIAMO L'ANNESSIONE;

mi risponda quindi per mia regola, si debbo o no sospendere le pubblicazioni.

Palermo 23 Dicembre 1860.

Suo Devmo

Duchino Acquaviva

Lo stesso giorno ebbi la seguente risposta.

Onorevole Signore

«Creda pure, che non mancheranno gli utili alla cassa del Giornale e vi penso! Quella specie di confronto tra Annessione e Cittadino, permetta le dica, non è opportuno e ben adatto, perocbè diversi i tempi, lo scopo e la missione.

Le ingenti somme alle quali allude, se furono erogate, non tutte servirono alla stampa, ma a soddisfare altri impieghi che non occorre ripetere.

Continui dunque nella sua intrapresa, e creda alla mia costante amicizia.

23 Decembre 1860.

Devotissimo Suo

La Farina

-e altri: VOGLIAMO L'ANNESSIONE CON VITTORIO EMMANUELE RE COSTITUZIONALE. Qui è a badare, che simili fruscole cir

Allora velocemente mandavasi la notizia; ed i giornali di Torino, al servizio di Cavour, predicavano, insultando con diatribe e contumelie la parte garibaldesca, l'ardore, l'entusiasmo dei Siciliani, onde presto annettersi a Casa Savoia.

E questo mercemonio orrendo dei destini di un popolo sapete chi lo consumava? Un Gallenza regicida confesso, un Borella, un ebreo lacob Dina, co' socii ammiratori di Agesilao Milano. Ma dico io, si può dare tanta corruzione, tanto vituperio nascosto sotto la candidissima immagine della libertà? Si, uomini dell'infausta rigenerazione, voi l'avete discinta, scalza, velata questa statua, anzi coperta col lembo dei delitti. Andavano così volgendo le cose a precipizio, e la setta macchinando di sott'occhio, lorchè Garibaldi stesso viste le faccende a risico pronto pel suo partito, e pericolante la fortuna rivoluzionaria,

-perché inorgogliata la parte annessionista, bisognò ripiegare e cedere; ed ecco che repente da mosse per Palermo, ove arringò il popolo all'annessione, non senza mischiarci il faceto, d'averla sino allora vietata desiando farla in Campidoglio.


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Questo broglio di locuzione, fu tal quale la pece nel fuoco, e vedesti gli agitatori lafarineschi darsi gran moto, ed i garibaldeschi sino allora ostili ausiliarli. Venne infine deliberato, prendere per la gola il paese, sforzarlo e strascinarlo con pressione al suicidio.

Era la sera del 19 Ottobre. Fin dal mattino mestatori, faccendieri, apparecchiavano il nuovo Varsaille; denari si prodigarono in gran copia, e si arruollarono gridatori, racimolando bravi, guappi, capaci ad imporre i dubbiosi e spaventare i restii. Di monelli si fece larga richiesta e loro si diedero istruzioni. Percorressero le vie, strepitando, schiamazzando, saltando, urlando, , e chiunque non volesse secondarli nel motto sedizioso, perseguissero, malmenassero, ingiuriassero. Imponessero ai cittadini far luminarie nei veroni, se no, pietre scagliassero, e minacciassero gli inquilini con imprecazioni e bestemmie.

Lo stravagante, il ridicolo stava in ciò:

-

Prova latente della spontaneità, convinzione) accorgimento, con che fu disposto, comunicato e compito il pseudo suffragio, Adunque, verso l'ave, mestamente domentre il lugubre rintocco delle campane deplorava il sagrificio della patria mia, proruppero in chiassi, fremiti e baccanali di popolo.

Strano spettacolo e tristo alla mente del filosofo! E vedevi, qua onde scorazzanti d'imbecilli, gongolanti di gioia, sbraitando di continuo, Si, che cittadini importunavano, assalivano, intimando il Si; laonde taluno noiato lo ribadiva, talaltro facendosi il segno della Croce, e raccomandandosi a tutti i santi, per campare alle inscienze di quella tribolante marmaglia, moveva ratto.

Né mancarono tratti da commedia ad accrescere la solennità della burattinata; perochè comparvero taluni con mortaro di bronzo nelle mani, scampanando, e chiamando il popolo a raccolta per esortarlo sulle future

Sovvengomi che andassi all'imbrunire, a far visita a cospicua famiglia. La novità dell'avvenimento, il ghiribizzo della cosa, dimentico che in mezzo a capriole e carnovalate si consumava attentato forte ai destini della patria, trasse il popolo come a festa errante per le strade.

Osservo per incidente che la torma dei curiosi molto male arreca in simile congiuntura; eziandio ingrossando la folla dà il carattere e l'apparato di popolo, a pochi rompicolli convenuti per intrigo e metallo a far cagnara in piazza. Ora, invitato a di porto io pure, bisognai per convenienza accettare. Potrei all'uopo dire il nome di questa famiglia, che è tra le più cospicue di Palermo.

Confesso, che la scena stuzicommi orribilmente i nervi.

-Nell'antiche repubbliche di Ilo ma Sparta ed Atene, il decidere sulle sorti della patria, era confidato a consiglio di 300 Seniori, ossia vecchi, maturi alle vicende ed alla esperienza; il progresso odierno sconfessando le giustissime tradizioni dei padri, ha stimato opportuno derogare alla piazza, alle pecore come dice Dante la suprema dignità; alla ragione dei più che è sempre la bestiale e la brutale.

Lasciate che si vadi innanzi con questo aborto di civiltà, ed il comunismo sarà impresso dottrina imperante; perochè, essendo i molti gli Aristarchi, i Legulei, i Licurghi del secolo, e stando a loro affidato l'arbitrio nelle faccende più gravi, col dritto del numero, cotesti molti che non possiedono, faranno guerra e comprimeranno i pochi possidenti.

Caso volle, che incontrassi un antico domestico di casa mia, licenziato da fresco. Al vederlo colle gote rubiconde e senza fiato per gl'urli terribili che avea fatti, sorrisi e lo interrogai: «Sai tu perché strepiti gli dissi? (Ed egli a me) Oh! mio signore, il mio di stasera è un mestiere come tutti gli altri. M'han dato tari sei, perciò fare, e lo fo.

-«Adunque non sei persuaso di quello che dici?

Che sappiamo noi grulli e povera gente come voi signoroni? Dicono che verrà Re Vittorio Emmanuele con casse d'oro, che darà a tutti l'impiego e la libertà, che d'ora innanzi potremo fare tutto quello che vorremo, senza tenerci dietro, birri, e commissarì di polizia, con tante belle storie che non ricordo tutte.... Ma saran poi vere?

Il Siciliano abbenchè caldo e precoce di mente, è sempre incerto e sospettoso per indole; io afferrai quel lampo per rimbeccarlo:

«E se questo, Sì, che vai sfinguellando, dovesse più tardi costarti di vedere Palermo, provincia di lontana capitale, dimmi un poco abborriresti profferirlo? Perché ti sei ribellato a Francesco II? Per non giacere alla discrezione e sotto il tirocinio di a 180 miglia? E vuoi darti a Torino a 800 miglia?

«Oggi i piemontesi ti carezzano per averti in pugno; domani, t'imporranno dazii, ti strapperanno il figlio di casa, per farne un soldato e non in Sicilia, ma assai lontano, ti..........

-

A questo punto, siccome la conversazione era vivissima, e la mia voce agitata, parecchi visacci di brutti ceffi si racimolavano intorno a me; la brigata che era meco si accorse che brontolavano parole misteriose, e volendo ovviare brighe mi pregò seguitarla.

Lasciai a mezzo interrotta la locuzione cominciata, ma un po' lontano rivoltandomi, mi accorsi che il vecchio domestico era sparito dal luogo attonito e pensieroso.

Ciò a provare l'indole docile ed arrendevole dei Siciliani a buoni consigli; non che la peste, le bugie e le improntitudini, usale dalla Camerilla lafarinesca, a traviare l'onesta coscienza del popolo.

Chi prendeva vaghezze a contare siffatte tresche e gozzoviglie, ovvero raccogliere le spontanee e preziose confessioni del plebeo, agevolmente il poteva fare; a me invece nauseavano, pensando tanto in giù prostrati i siciliani.

Se Vittorio Emmanuele si è illuso di acclamazione e complimenti, mal per lui. Il popolo batte sempre le mani all'astro che sorge e maledice quello che tramonta. E per non andar lungi, Siciliani e Napolitani,

hanno plaudito a' Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, e poi voltato contro.... Hanno portato sulle spalle Ferdinando III, Murat, Ferdinando II e finalmente Re Sabaudo.... Il popolo è come un fiume che si scarica laddove il vento lo spinge; ed io sul proposito cito un motto solenne di famoso scrittore.

«Il popolo scriveva Beid è come la paltottola del prestiggiatore. A che l'hai nelle mani a che sparisce; o per dir meglio, come l'ampolla di sapone che i fanciulli baloccando fanno colla cannella. Appena cavata fuori ti mostra un globo, indi svanisce e si confonde coll'aria.» Chi meglio di Alessandro e Napoleone I anno posseduto il popolo? Eppure l'un il perdè, sotto la pioggia ardente, e l'altro tornando da Lipsia!...

La dimani passò nelle stesso trambusto, e marasmo, finché giunse il 21 destinato a votare pubblicamente nelle Chiese.

Queste eran gremite di agenti lafarineschi travestiti, co' visi arcigni e l'aria misteriosa. In fondo al trivio e nella nave di centro assisi intorno a tavola a semicer

-

1000 votarono per progetto, 1000 per denari, ed il resto per ghiribizzo, paura, pressione, minacce, e far tempo.

Compita la cerimonia, non mancavano gli esortamenti e le speranzose proteste, a' quali credenzoni porgevano orecchio ripromettendosi giorni felici. Povero popolo così perfidamente raggirato!.. E questa è civiltà, progresso? No, fu lo stesso delirio di Francia ove s'infransero i sacri simboli, a gloria della dea Ragione, trascinando per le vie di Marsiglia una veneranda immagine del Salvatore: infamia! empietà inedita!!

Sono scappate rivoluzionarie, tutte del medesimo tipo e genere.

-Ma guai quando sorgiunge il disinganno! Voltaire il riformatore fu lapidato, e la stessa sorte toccherà agli odierni Aristarchi.

Tutto il dì 21 e parecchi appresso seguitarono con capriole, e smargiassate; intanto il telegrafo annunzio ad Europa, che per sola Sicilia 400000 voti aveano acclamato l'annessione agli stati Sardi, perocchè la stramba idea d'Italia una non era seria abbastanza per impaurire la diplomazia. Vittorio Emmanuele co' suoi centauri non tardarono a profittarne e ghermire la vittima.

Oh! questi 400000 voti sono tal roba che opprime l'anima. Se buona fede potesse un istante balenare nei giuntatori della rivoluzione io li chiamerei a rispondere... Chi ha votato,? Chi ha contato,? Chi controllato,? Chi registrato? Assassini hanno demolito e dissero volere edificare, hanno lusingato, orpellato, tradito, colla larva di galantuomini; hanno spogliato, venduto, esaninito, tormentato, immolato la patria, e scrissero averla rigenerata. Oh! nefandità, degli uomini!!! Oh! scelleranza del secolo!! abbominazione delle genti!!

-Ma chi sono essi al vostro confronto Malatesta Baglione e Cencio Guercio? Così va! e se noi credete a me credetelo al pseudo Regno d'Italia, che satira perennemente la sua origine facendosi chiamare per la volontà Nazionale. Per la bestialità delle pecore vuoi dire.

VIDal 8 al 31 Dicembre Il 2 Dicembre è memorabile tra fasti di tutti i tempi. Un 2 Dicembre Pietro il Grande incontrava per la prima volta la pastorella Svedese, che poi fu Caterina II Czarina di Russia, potente e temuta; il 2 Dicembre 1805 rotta la pace d'Amiens, le armate di Austria e Russia erano sconfitte ad Austerliz: ed il 2 Dicembre 1860 Vittorio Emmanuele, faceva ingresso trionfale nella metropoli Siciliana.

Dopo il 21 Ottobre, era naturale il 2 Dicembre, a confortare l'italianissima mistificazione.

Pria di tutto un poco di storia.

-Io non istarò certo a narrare segnatamen

Il nome di Ferdinando II, lo si sa, fu segno ad aspre contumelie sin dal 1852, quando Sir Gladstone pubblicava quelle famose lettere romantiche, tutte fiele e rancore pel Governo Partenopeo.

In esse furono descritte torture immaginarie, sevizie, cattivi trattamenti ai detenuti, rinchiusi in altre pareti, ed umide sepolcrali prigioni. Bugie che la storia ha smentite. Né le cose ristettero a tal punto perocché il congresso di Parigi, dopo la guerra di Crimea, vi pose mano.

Qual fosse lo scopo di Francia ed Inghilterra patrocinando la causa dei rivoluzionari nel Reame di se era un secreto al 1860, ormai più non lo è. Tutti sanno la catastrofe, il movente e l'occulto progetto che la favorì.

Sullo scorcio del 1855, quando gli alleati guerreggiavano in Crimea, parve a tutti un assurdo, che grandi potenze accettassero l'intervento del pigmeo piemontese in affare sì grosso. Ma siccome le cose andavano prospere,

-e quella era divisata una fazione di

In essa non solo doveasi discutere l'assestamento della quistione d'Oriente, bensì dare uno sfogo alla rivoluzione subalpina già sempre col subdolo pretesto umanitario.

Cavour ebbe assegnata tal parte, perciò fu chiamato alla lega, per indi averlo rappresentante nell'Areopago Europeo.

Difatti nel bel mezzo dei negoziati, egli sorse in bigoncia, e fece una tate tiritera drammatica, che il memorandum famoso, sdegnarono inserire tutti i plenipotenziari nel protocollo.Io spero (egli scriveva il 16 Aprile in una nota indirizzata a Walewscky e Clarendon) che il congresso di Parigi non si separerà senza prendere in seria considerazione lo stato d'Italia e recarvi rimedio. Né trascurò descrivere, con fervida mente e fantasia agevole, le nequizie del Borbone, non peritando l'intervento straniero a frenarle, mentre due giorni avanti erasi sfegatato, provando al Conte Buol, ministro d'Austria, l'ingiustizia dell'occupazione di

Ciò non pertanto il colpo non andò in fallo, e tanto fecero, e tanto dissero, Francia ed Inghilterra che nel protocollo XXII (1) registrarono il seguente paragrafo.

La maggior parte dei plenipotenziari non negarono la efficacia che avrebbero misure di clemenza, abbracciate in una maniera opportuna dai governi della penisola Italica, e sopratutto da quello delle due Sicilie. È da notare, che a tal protesta, violazione latente alla neutralità che debbono scrupolosamente osservare le potenze negli affari interni d'uno stato, non presero parte affatto i rappresentanti d'Austria, Prussia e Russia, anzi ciascuno a sua volta dichiarolla contraria al dritto internazionale.

Ed il Conte Buol per il primo esci allegando: Non ammettere che un intervento effettuato in seguito ad un accordo stabilito tra le 'cinque grandi potenze, possa divenire argomento di richiamo per parte di uno stato di Ordini. (1)

Traile de Paix Tourin p. 141.

-Il Barone di Mantouffel rappresentante la Prussia rispondendo agli ammonimenti che volevansi dare al governo delle due Sicilie osservò: che converrebbe esaminare se ammonimenti di tal natura non susciterebbero nel paese uno spirito di opposizione e moti rivoluzionari invece di rispondere alle idee che vogliono realizzarsi con certamente benevoli intenzioni. La Russia operò più francamente. Il Principe Gorciakoff in una nota che resterà famosa negli annali della diplomazia, respinse sdegnosamente ogni pressura al Re di Napoli.

Questa nazione che si volle combattere. in nome della civiltà, insegnò a Francia ed Inghilterra, gli elementi del dritto e della giustizia. Essa rammentò a' suoi antichi nemici: le guerre e le proteste fatte in nome della Turchia, a nome del debole contro ti forte e lasciò intendere che se avea una spada per difendere se stessa, l'avrebbe pure sguainata per difendere il diritto altrui soperchiato dall'altrui prepotere. Ma a che valsero i nobili sforzi delle tre potenze se Francia ed Inghilterra, col piccolo Sardo, aveano giurato la perdita di Re Ferdinando,

-ed agivano di concerto co' demagoghi?

Difatti appena fermata la pace il Conte Walewscky ministro per gli affari esteri di S. M. l'imperatore dei Francesi, inviava nota al Barone di Brennier a per darne lettura al Coni. Carafa capo del Gabinetto Partenopeo.

Questo documento che porta la data del 21 Maggio è un insulto ributtante, ribocca di contumelie non solo, ma col tuono di padrone, dà legge in casa altrui.

Chiede la Francia amministia, riforme nella amministrazione della giustizia, largizioni, e tante altre cose disdicevoli alla dignità d'uno Stato, quando sono imposte.

La fermezza di Ferdinando II prevalse ai conquistatori di Sebastopoli. Egli togliendo a dogma la teoria di Rayneval (1) fece rispondere il Carafa con dispaccio del 30 Giugno 1856 che: Nessun governo ha il dritto d'immischiarsi nell'amministrazione interna di (1)

Scrive Rayneval nella sua opera: (Institution de droit de la nature et de gens. p. 523.) Il faut être jouste o l'égard de toutes les nations puissantes, ou faibles amies ou non, mais il faut se refuser a l'égard des primiéresa tout acte d'une lâché complaisance, comme all'égard de dernières a tout acte de rigour, et d'indifférence.

-Il 26 Agosto dello stesso anno il Carafa avendo saputo per relazioni venutegli da Parigi e da Vienna che il governo imperiale s'era offeso della risposta dichiarò: che non avea avuto nessuna intenzione di offenderlo, ma che il re di è il giudice più indipendente e più illuminato delle condizioni di governo che si addicono al suo Reame. In seguito a questa seconda nota il Conte Walewiscky richiamò l'ambasciatore Francese da (10 ottobre 1856) annunciando: che una flotta era a Tolone per attendere gli eventi, mentre la flotta Inglese stava a Malta col medesimo scopo. Le simpatie Inglesi per la rivoluzione Italiana rimontano a più antico.

Tralasciamo la storia del 1793 al 1812 che è abbastanza nota nelle parole del Marchese Londonderry, ed appigliandoci alla recente.

L'Inghilterra fin dal 1846 ha capito che per mettere un piede in Sicilia le servirebbe assai la rivoluzione. Nel 1847 mandò Lord Minto,

-onde ottenere dal re concessioni

Andata in male la conciliazione, l'Inghilterra spinse la esautorazione dei Borboni e l'ottenne con atto del parlamento: pur tuttavia, volle confermata la forma monarchica per contenere la preponderanza della repubblica francese. Il Duca di Genova fu eletto re di Sicilia ed il 26 Luglio 1848 partiva una deputazione a complimentarlo, ed offrirgli il regno; ma il giorno innanzi Ferdinando II protestava, e la protesta veniva comunicata dal Conte Ludolf, ministro di a Torino al Marchese Pareto,

(1) Dispaccio di Lord Minio a Palmerston 18 Gen. 1847.

(2)

Idem al Sig. Goowin Console Britannico in Palermo 12 Febraro 1848.

-presidente del Consiglio Subalpino, che ne dava comunicazione a Lord Abercromby domandando consiglio. Costui rispose: che non avrebbe mai dato avviso, locchè importava rifiutare. L'Inghilterra voleva mantenere nella Sicilia lo stato precario per poi averla a se. Scrive Gioberti nel suo Rinnovamento: «L'Inghilterra nutriva gli spiriti municipali dei Siciliani per ridurseli in grembo.

Al Congresso di Parigi Francia ed Inghilterra s'intesero, e presso a poco convennero alla seguente teoria:

«È da tanto tempo che ci combattiamo a conquistare l'Italia del mezzogiorno ed essa per le nostre rivalità non è ne dell'uno nè dell'altra. Facciamo la pace, poniamoci d'accordo. a me, la Sicilia a voi, ed il Piemonte giocherà la partita per entrambi, facendoci il mezzano. Ecco lo scopo di tutta quella falange di pretesti utilitarii.

Forte di tanto aiuto il Piemonte cominciò a sfolgorare il Re di colla stampa, facendo di soppiatto manovrare il partito d'azione.

Il mattino del 4Dicembre 1856, leggevansi scritte su' portici del Pò le seguenti parole.

-Italiani sorgete. Aiutate la Sicilia, cioè, la fanfaronata d'un Barone Bentivegna, finito sul palco.

Il dì 8 Dicembre un soldato Agesilao Milano, ferisce Ferdinando II. Ebbene, dopo avere sfrontatamente calunniato, chiamando tiranno, con quanti nomi abbietti potevansi speculare questo Principe, la stampa piemontese osò perfino levare alle stelle il regicida, ed il governo di Torino consenti che il Municipio, a celebrare l'assassino, appellasse Via Milano l'antica Via Italia, in frattanto che l'Italia del Popolo profetava un monumento colla seguente iscrizione.

AD AGESILAO MILANO

IL MIGLIORE

DEI FIGLI D'ITALIA

I............ RICONOSCENTI

Che il Conte Cavour fosse a parte di queste infami macchinazioni non è a revocarsi in dubbio, avendosene egli stesso lodato in parlamento Italiano. Ho cospirato 1 2 anni (esclamò il 13 Marzo, 1861) per fare l'Italia, cioè per demolire la monarchia dei Borboni con altre di seguito.


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Né ivi fermarono gli assalti, imperochè attivissima era la corrispondenza,

-tra fuorusciti e demagoghi Siciliani, e singolarmente da Palermo a Genova, ove il comitato rivoluzionario dei S. Elia, Marinuzzi, Xaloggia, ed altri sobbillatori, mandava speranze a Crispi, Bertani, Corrao, Lafarina, Cordova, Ondes Reggio a Genova.

Il giornalismo democratico tribolava, come scorciammo di volo il Monarca Siciliano, nulla lasciando intentato, per aggravare la situazione. Conseguenza funesta dell'appello che i plenipotenziari Sardi fecero al congresso, nel celebre protocollo dell'otto Aprile, che lo stesso Sir Gladston ebbe a deplorare con acerbe parole un mese dopo:

«Dubito grandemente della prudenza di ciò che s'è fatto... È quistione molto grave ed anzi credo che sia un totale in novazione nella storia de' Congressi di pacificazione 1° occuparsi di tali argomenti in conferenze ufficiali, 2° rendere di pubblica ragione le risoluzioni prese.

La Camera dei Deputati di Torino non volle starsene neghittosa nella lotta, ma ruppe a sua volta una lancia della medesima razza.

-Il Deputato Valerio il 7 Maggio 1856, favellando del protocollo in atto proruppe in escandescenza: che le parole dei deputati non tarderebbero ad infondere audacia e coraggio nei fratelli. «Tutti rammentano (scriveva L'Italia del Popolo di Mazzini il 30 Luglio 1856) come all'epoca dalla memoranda discussione parlamentare, il governo Sardo, e la Camera, s'adoperassero, a far divampare il foco latente nelle altre provincie d'Italia, facendo stampare i discorsi di Cavour e Buffa, e distribuire, nelle Romagne, nei Ducati, nel Lombardo Veneto, in Napoli e Sicilia.

Indi a poco vennero le offerte pei cento cannoni d'Alessandria, il tentativo di rivoluzione a Massa e Carrara la notte del 25 Luglio, il sequestro d'armi a No vara la spedizione di Carlo Pisacane, ed il moto insurrezionale del Bentivegna.

Dopo Villafranca, i fuochi raddoppiarono in tutta la linea.

Il Conte Cavour, vincitore a S. Martino, si smascherò addirittura e dopo aver dichiarato il 6 Maggio 1856: che «non riconosceva il dritto d'intervento

-in uno

Alla quale protesta contraddittoria seguiva quella del Moniteur del 4Marzo 1859.

«Lo stato delle cose in Italia, sebbene antico, ha preso in quest'ultimi tempi agli occhi di tutti un carattere di gravità che preoccupa naturalmente lo spirito dell'Imperatore, perché non è permesso al capo di una grande potenza qual è la francese d'isolarsi nelle quistioni che interessano l'ordine Europeo.

E qui diessi principio inviando segretamente agenti rivoluzionari dappertutto, anzi dirò, infestandone le provincie meridionali in gran numero. Costoro si accinsero alacremente al lavoro, ovunque infiammando, eccitando alla ribellione aperta contro la dinastia legittima. Era il piano redatto dal Cavour, che sperava sin dal 1856: l'Italia levarsi come un sol wowo, per abbattere i governi locali ed unirsi al Piemonte , come disse il deputato Brofferio in parlamento Subalpino.

-Era il tranello teso alle Toullerie, come risulta da un dispaccio di Thouvenel, portante la data di Parigi 18 Ottobre 1860, nel quale sì confessa: l'Imperatore non disapprovare la invasione. Non è certo mia idea narrare la spedizione di Garibaldi, i mezzi che a costui largì il Piemonte, le menzogne ufficiali, le denegazioni escogitate, il licenziamento della brigata Ferrara, onde rinforzare le sparute legioni del capo rivoluzionario. Ormai sono fatti che la storia ha consecrati con una pagina di sangue e basta.

A sciogliere il nodo gordiano mi è troppo citare poche date.

Il 2 Maggio 1860 il Conte Cavour dirizzava una nota all'incaricato di affari di Sardegna a Parigi colla quale dichiarava essere disposto a ceder Nizza e Savoia; il 18 pubblicava il decreto d'annessione della Emilia; il 22 l'altro di Toscana.

Il 20 Agosto 1860 Cialdini e Farini recaronsi a Ciamberì complimentando Napoleone III in nome di Vittorio Emmanuele. Circa un mese dopo un esercito Piemontese, invase armata mano le Marche e l'Umbria, sbaragliando i generosi difensori di Castelfidardo,

-contro ogni legge e divieto calpestava le leggi internazionali e la teoria del non intervento, rincorava la sgominata e quasi spenta rivoluzione sotto i baluardi di Gaeta, ove senza intimazione di guerra, anzi sfogando continue dimostrazioni d'amicizia, assaliva uno sventurato Principe, che troppo tardi raccoglieva il frutto di sua lealtà, e i' abbondante messe del più nero tradimento.

Il 21 Ottobre succedeva quella trista commedia dei comprati plebisciti, mentre sotto la stessa data, ad attestare l'amore e l'inclinazione dei Napolitani per la nuova Signoria Cialdini mandava al Prefetto di Molise manifesto così concepito: Faccia pubblicare che fucilo tutti quelli che piglio colle armi alla mano, ed oggi ho cominciato (1)

Il 2 Dicembre, ad accettare il Plebiscito re Vittorio Emmanuele, colla parte, del nuovo governo che voleva istallare, formato da tre Lafarineschi arrabbiati, moveva per Palermo. Sin dalla metà di Dicembre, se n'era sparsa la voce, Carabinieri piemontesi furono:

(1)

Isernia 21 Ottobre 1860.

-inviati, al solito vestiti in borgese, per andare zufolando, ed infiammando il popolo a festa, il quale, se non altro per far cosa nuova, non si fece molto pregare.

Il mattino del 2 Dicembre i veroni erano parati di damasco, le vie gremite di baccanti; molti semplicioni al solito accorsero a godere dello spettacolo, associandosi alla folla accalcata; le campane suonavano a gloria, come stesse per giungere un novello Messia, col simbolo della Croce. Croce sabauda, che i popoli sgovernati, portano sulle spalle, con sette chiodi confitta, quanti sono i peccati mortali.

Verso le otto un naviglio pavesalo di bandiere, apparve in fondo all'orizzonte. Allora, un correre, un avvicendarsi di popolo, un andirivieni di persone faticose, uno stringersi scambievolmente la mano, cinguettando età d'oro. Vi erano fra la turba adiiltrice, savi, che scrollavan le spalle, e si fregavan le mani per dispetto deplorando quella mania di popolo venduto; ina io lo ripeto: la bizzarria era mutar padrone, e quale che fosse, un Nerone, un Caligola, un Maometto si sarebbe plagiato. Lo sparo delle artiglierie,

-Allo sbarcatoio della Sanità che giace ad un estrema della città, era la mascherata, dei così detti corpi costituiti della rivoluzione, la masnada de' sordidi imitatori di Robespierre e Ciceruacchio, ad attenderlo.

Vittorio Emmanuele giunto è ricevuto gli onori, sulla tolda del battello, onori condegni a chi si è fatto strumento di parassiti e demagoghi, pose piede a terra, e montato in calesse prese la via del Corso, che mena diritta al palaggio regio. Ma nel bel mezzo la compra plebaglia presa d'entusiasmo staccò i cavalli e ne cominciò a fare le veci.

Chi è Vittorio Emmanuele? Quali furono le sue emozioni? le impressioni? E ciò che vogliami delineare un poco.

Discendente di antica e generosa schiatta, comunque disparate opinioni corressero sulla origine di esso, Cibrario, illustrando nel 1840 il sistema di Delbene e Ludovico della Chiesa, provò che Umberto delle Bianche mani, le cui notizie risalgono al 1163, che gli storici Italiani chiamano Conte di Borgogna, era figlio di Àdalberto II

-nipote del re Berengario, Il rampollo di quella stirpe che prima nella Italia centrale reggeva il Ducato di Spoleto e passò poi al governo dei Marchesati d'Ivrea e di Torino. La quale opinione rafforzano i documenti trovati da Luigi Provana e Gustavo Avogadro.

Egli acquistò la Mariana, la Savoia, la Tarantasia, il Ciablese, il Bugery, e la contea di Voyron e dopo il matrimonio di suo figlio Oddone, Torino ed il Piemonte meridionale.

La storia di Casa Savoia, s'intreccia con fasti splendidi e turpi. Guerrieri per in dole, sono stati i Sabaudi, ambiziosi sempre, avidi della corona d'Italia come dice Mazzini. Difatti continua lotta sostennero, ora perdendo, ora racquistando territorii. Amedeo IV. Filippo I. Amedeo V, VI, VII, Ludovico, Filiberto il Bello, Carlo il buono, e fin Carlo Emmanuele e Carlo Alberto presentano lo stesso tipo.

Quest'ultimo poi, perfidiando la mal celata frenesia iniziò l'era delle usurpazioni, capitanando la ribellione, coll'annettere a sua corona nel 1848, i ducati di Parma, Piacenza, Modena, Reggio e Guastalla,

-La stella di Carlo Alberto tramontò a Novara, ove la fortuna delle armi lo precipitò nell'abisso. Rotte e sbaragliate le sue schiere, seguitando una serie di rovesci, ebbe a convincersi del famoso motto del Cardinal Gerdil, «che i regni comprati col «delitto si estinguono nel tradimento.»

Vittorio Emmanuele, ebbe serbato il regno, per pietà dell'imperatore d'Austria, che potendo toglierlo fu largo di clemenza col vinto. Ingrati suoi ministri se ne valsero per insolentire contro il benefattore nel congresso di Parigi, e poi consumare le orribili rappresaglie odierne che la storia rammenta con raccapriccio.

Il figlio dell'esule di Portogallo, non ha mentito a sue tradizioni. Però, se qualche volta ei guarda nel fondo del suo cuore, nel santuario di sua coscienza, vede ai piedi spalancata la voragine.

Deve alla falange dei collegati, al trattato del 1815 ed a Radescki l'avito scettro, che la rivoluzione francese, i principi dell'89 gli strapparono; frattanto egli ha negato il beneficio, sprezzato i più nobili istinti del l'uomo e non per amore all'Italia, che tatti sappiamo razza di libertà le ha donata, ma per libidine d'ingrandirsi.

-Sventurato! egli non è una delle grandi figure del secolo... ma sia - Annibale finì avvelenato, e dopo Austerlitz, Iena e Mosca, venne Waterloo e S. Elena.

Questo monumento rizzato sui ruderi di quanto più eccelso, vetusto, glorioso e sublime possedevano gli Italiani precipiterà nell'abominio e nella vergogna........ ed allora rimorso e squallore........ ecco la nenia del II Emmanuele Re d'Italia. Le impressioni che ei subì calcando la reggia di Federico e Manfredi, col fiore della cavalleria Normanna, Sveva, Angioina, Sveva e Farnese le abbiamo segnatamente raccolte.

Il primo suo motto fu chiamare: bestie selvaggie, popolo abbrutito nella ignoranza ed al di sotto dell'umana dignità que' buoni Siciliani che ebbero l'ignavia e la petulanza di portarlo sulle spalle.

Oh! popolo illuso, ormai che il velo è squarciato, rianda colla memoria altri tempi.

Incalzato da repubblicani, l'augusto Fer

-

Vittorio Emmanuele palpiti non ebbe allo spettacolo dell'impronte che avea lasciate in Sicilia la guerra fratricida, ne si commosse a mucchi di macerie, e case dirute; il suo sguardo incerto ed errante, andava spigolando matrone e donzelle sui veroni, e le salutava, meno fieramente, quand'erano gaie, vispe, e gettavan fiori e ghirlande sul suo cammino. Quattro giorni che dimorò in Palermo, li spese, mandando quà agenti lafariniani, e singolarmente i capi della camerilla, da prodittatori, ministri e dignitarii dello Stato, tra

La sera del 2 tenne ricevimento, a quale convennero, la schiuma della ribalderia siciliana. La dimane essendo i voti tribati, fu fatta la solenne accettazione del plebiscito, e rogata nella segreteria di Stato.

Il 3 passò tra orge e conviti.

Il 4 si fecondò negli onori di una Marchesa..... «'Il 7 credo o l'8 una carrozza con livree di Corte e coccarda a tricolore, scortata da Carabinieri, verso vespro, muovea alla rada. Ivi era il futuro re ci' Italia.

Le vie erano deserte, nessuno il contemplava, ed ossequioso si scuopriva la testa. L'indifferenza, il ripudio della commedia era dipinto sul volto di tutti. Appena una salve, poco corteo dei satiri, ruffiani, un battello snello e leggiero, che rapidissimo solcò le onde, e tutto scomparve il memorando episodio. Or si rimembra con pietà e dispetto, e nei tuguri del povero si narra ad esempio di avarizia e dissolutezza.

Il Governo ordinato dal Re comprendea i seguenti nomi.

-Un Marchese di Montezemolo, uomo inetto, stupido, gonzo ed incivile cosiddetto Luogotenente generale del Re, con sei consiglieri quanti dicasteri cioè il Lafarina, per gli interni, Cordova alle Finanze, S. Elia ai lavori Pubblici, (cosa sapea costui di ponti, strade, ed economie?) Raeli alla Giustizia ecc. ecc.

Qui cominciano le dolenti note: eziandio, il partito Crispiano, adontato, indispettito dalla sconfitta avuta, paventando persecuzioni, si strinse, compatto, alla bandiera d'un giornale intitolato il Precursore, e molcendo le tendenze del popolo, che sempre prende gusto alla maldicenza, massime in tempi di vergogna scagliossi addosso Lafarina, con vituperi ed improntitudini, degni degli uomini e dei principi in conflitto.

La Farina mandava fiamme e fuoco da tutti i pori, e volea annientato questo pugno di ribaldi, come sovente gli appellava «Se avessi forche a mia disposizione, le metterei tutte a profitto, persuaso che mai furono tanto bene impiegate come lo sarebbero, sgozzando, questi pipistrelli, alla 70. edizione dei Robespierre» egli mi disse una fiata, proprio in un parosismo gagliardo di bile.

-Trovandomi stretto a fil doppio coll'onorevole Consigliere, ed a capo d'un giornale, organo ministeriale, mi fu forza aprire miei fuochi nella lotta e lanciarmivi deliberato, comunque, scandagliato il terreno, e la debolezza del governo, io previdi la sinistra fine dell'impresa.Cittadino e Precursore si accapigliarono con modi acerbi; a buoni conti io e Crispi; e furon tale le insolenze, le virulenze, che da principi si venne a personali ingiurie e da questi a rappressaglie, come bx) da raccontare in appresso. Nelle freguenti conferenze, che avea col Lafaraa, egli m'infiammava a raddoppiare di zelo, e di audacia, ed a qualche mia obbiezione rispondeva: «Se osano, farò uso dalle ar mi, e con quella poca truppa ed artiglieria che ho mitraglio tutto e tutti.

Io calmo e freddamente, gli facea osservare che con tali trattamenti nelle primizie del potere, il governo italiano anziché celare e coprire le accuse di menzogna e tradimento nell'affare dei plebisciti, le avvalorerebbe. Reclamare quindi, maturo consiglio, e ragione di stato, pazienza e rassegnazione, anziché scandali e rigori.

-La polemica era spinta al segno, e gli animi cotanto infervorati e dispettosi, che uno scoppio, un'espulsione, pareva inevitabile.

L'opposizione si l'infuocava tanto gagliarda che ci assaliva da lutti i lati, e poco curando il discredito patrio sventava e perfidiava tutte le faccende Lafarinesche.

Ii dì 29 Dicembre, appena giunto in casa trovai un viglietto, autografo di Lafarina (1) nel quale, m'invitava a colloquio. Ebbi appena tempo di mutare gli abiti, desinare, e postomi in carozza, mossi pel palazzo regio L'usciere appena mi vide, s'affrettò a dirmi: «Il consigliere di stato ha chiesto mi ha domandato varie volte della S. V. par che l'attenda con premura.

(1) Onorevole Signore.

Sappia l'attendo immancabilmente. Ho da parlarle con premura. Io sono in casa, e non al palazzo del Ministero. Mi creda.

Casa li 89 Decembre 6 8/4 p. m.

All'Onorevole Signore D*** A*** Suo devotissimo Lafarina.

-«Ebbene annunciatemi

«Ho ordine di farlo passare senza ambasciata -» Come vi piace.... ed entrai.

La Farina era al suo tavolino abbandonalo in pensieri, coi gomiti appoggiati sul davanzale del legno, e le mani spiegate sul viso. La sua fronte era orribilmente corruscata e dimostrava, una lotta di pensieri, una mal frenata rabbia, ma nel contempo incertezza e molti propositi e dubbiezze.

Appena mi vide si scosse ed esclamò:

«L'aspettava con impazienza.

«Non son due ore che io ho ricevuto la sua lettera.

«Sieda: abbiamo a parlare di cose seriissime. Non badi alle parole con le quali verrò esponendo il mio pensiero. L'anima mia è in preda a mille emozioni. Ho voluto consultare lei solo a solo, per mio utile; la prevengo che ponderi maturamente mie impressioni e risoluzioni, ed ove scorge pericoli e sospetti me ne avvisi.

«Farò di tutto per esaudirla.

-VII.Trama I.afarinesca «Si buccina pel paese una dimostrazione, una delle solite baruffe chiozzotte, alla Goldonesca, contro me. L'hanno ordita i caporioni e rompicolli Francesco Crispi, Giovanni Raffaele, Giambattista Guccione, Turrisi e soci. Lo scopo secreto si sà: Attentare non solo alla dignità del governo, ma abbiettirlo, esautorarlo, innanzi alla piazza, e questi sono patrioti, amici d'Italia, devoti al re, ed al parlamento?... Né, sono lo straccio del mazzinismo puro, sono gli uomini di Genova, di Lugano, di Roma; coloro che libertà sospirano sulla punta del pugnale, con veleni, tradimenti e furberie.

Lo conobbi a prim'occhio. Lafarina era adirassimo, e l'alterazione del suo viso, la scaldata fantasia, lo inducevano a discorsi virulenti tutt'altro che accorti e diplomatici.

«Io (con cupo accento e calcolata freddezza) risposi: Se ella discerne una quistione personale, nell'attitudine odierna della piazza, un contracolpo, a mio modo, rimonto a cause più gravi. Sia pur calmo, ed esamini pria di risolvere.

-«Sappi che è responsabile al cospetto di Europa del fatto suo. Qualunque versione si vorrebbe fare, meditando la situazione emerge un criterio costante. La dimostrazione pretesa è una reazione di partito, oppure un trambusto di popolo?

«Nasce da disgusto d'uomini, o di cose? La maggioranza approva, o respinge il proggetto? Se nella prima ipotesi, l'assembramento, essendo una comitiva di venduta canaglia, potrà cagionare un minuto di parapiglia, che tosto verrà schiacciato dal popolo stesso, oramai stanco di vedersi nelle cose più serie imporre dalla piazza.

«Se nel secondo, e vuole Ella sgominare colla forza il popolo? Popolo lodato e celebrato poc'anzi, mezzo col quale si è pervenuto allo stato presente? Non sarebbe una negazione della propria origine, uno sconfessare in faccia all'Europa il valore dell'elogiato suffragio?

«Abbiamo gridato osanna a questo mite popolo, che edifica e distrugge, bisogna mostrarsi conseguenti e riverenti a' suoi decreti per esser logici.

-«Non abbiamo Stato discendente, ma saliente, avendo aderito l'aforisma; che il popolo è l'unica, la sola, la leggittima autorità d'una nazione, ed il sovrano un capo elettivo, un quissimile di presidente di repubblica che lo si può mandare a spasso, quando meglio talenta.

Ieri toccò a Francesco II la dura sorte, domani potrebbe succedere lo stesso a Vittorio Emmanuele col suo governo, e l'opporsi significherebbe tracciare la stessa via, adottare i medesimi provvedimenti condannati a re di Napoli.


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«Il deputato Borella previde nella Gazzetta del Popolo questo scoglio: Le idee propugnate dalla maggioranza ( piemontese) offrono, uno strano spettacolo ( scriveva il 7 Decem. 1857) esse si sostengono per la forza brutale del numero, che oggimai è l'assurdo programma del nostro progresso civile. Fiat voluntas tua e Dio ce la mandi buona, concludeva. Il suo parere ci minaccia il finimondo,

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(interruppe Lafarina con aria indispettita) senza andar troppo arzigogalando, e rovistando propositi, il bisbiglio attuale non è crisi politica, ma rabbia di partito.

«Allora se ne rida. Ma permetta che non divida il suo pensiero. Convengo che il pretesto è la briga personale, ma lì sotto si nasconde il malumore, la repugnanza del popolo al nuovo ordine di cose.

«Né, Ella si sbaglia.

«Ci scommetto. Conosco da cima a fondo il paese, e le dico schiettamente, che la metà agognata dalla rivoluzione non è quella ottenuta.

«È il borbonismo che alza la testa e fa comunella al mazzinismo, perciò il momento è nocoso.

«È la soluzione del quesito malamente ottemprato dall'annessione. È la palla che dal vertice si precipita al piati no, lungo il declinare, inciampa in un cespuglio, ma poi si svincola e riprende rapido il corso.

«Non ammette l'ascendente dei borbonici?

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«Mio Dio! ove sono i borbonici? Questo partito non ha proseliti in Sicilia, affatto. Forse Re Francesco II. ha amici e trovo che sia logico. Giovane, tradito, venduto, strapazzato dagli avvenimenti, che non poté scongiurare, ha per lui, il rispetto e l'interesse alla sventura, che è comune alle anime buone.

«Io e lei, con tutto che siamo schierati nel campo dei suoi avversari, possiamo dire che odiamo Francesco II? Odo sovente a ripetere che Egli non è all'altezza dei tempi. Ma chi può vantarsi di esserlo? Ella è uno degli insigni statisti d'Italia; arrogi, educato alla scuola delle rivoluzioni, che danno grande esperienza!... Eppure, ha la potenza di dominare il momento? Or che poteva fare un giovane nuovo alle faccende di stato, escito fresco dalle pastoie d' una rigida e severa educazione, limitato alle impressioni della sola Napoli, asceso sul trono, circondalo da rinnegati, minato dalle set te, e sfolgorato da sommi potentati Ferdinando II. s'impose alla rivoluzione del 1848, contese gli attacchi del forte, per tattica di governo e profonda cognizione degli uomini.

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Tralascio di osservare che il movimento del 1848 era meno serio e rovinoso dell'attuale per la Casa di Napoli; 1° perché non ausiliato da Francia ed Inghilterra, 2° perchè separatista, federale e non unitario; unità concepita e creata per mandare a spasso Francesco II; ma lo stesso Ferdinando sarebbe uscito salvo dai conati dell'odierna catastrofe?

«In quanto al Governo Borbonico poi è abborrito generalmente; e tutto po trà tentarsi in avvenire, meno la re surrezione di uomini stigmatizzati dallo abbominio universale.

«Nonpertanto, rispose La Farina, io so di cospirazioni, di comitati, che hanno le lor fila a Malta ed a Marsiglia.

«Animaletti innocui, risposi io - Conosco pure certi elementi del passato, che si riuniscono di soppiatto e leggono l'Armonia , fabricandovi sopra castelli di paglia Ma via, son umili assai, e non oserebbero mostrarsi in pubblico per paura di fare la stessa fine di San Stefano. Scapiteremmo di dignità, annettendo loro politica importanza.

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Eglino sono morti in presente ed in avvenire. Il sepolcro che li accolse, non si spalancherà mai per farli risorgere. Abborriti dal Re, cui diedero prova della più marchiana impotenza ed ignavia nelle cose di governo, imprecati dal popolo che flagellarono fino alle midolla dell'ossa, solo loro resta in perpetuo la memoria dei dì che furono , ed il fatale ricordo d'inonorato tramonto!...

«Questo non toglie che ove possano stuzzicare il popolo alla riscossa contro noi nol faccino? interruppe La Farina.

«Hanno paura! e se perfida propaganda tentano, colla calunnia, col mestiere di D. Basilio vi riescono, insinuandosi tra femmine, tugurii, arrandellati nei mantelli per non farsi conoscere. Questo scherzo è facile sventare. Purché un agente di polizia li tiene d'occhio, ne capita uno e lo si manda in prigione, tutto è finito. L'elemento che da fastidio non è il borbonico, cioè il così detto, ma il crispiano. Quello li scende in piazza e rannoda. uomini audaci, risoluti, adescati dalla rapina, gonfi dei passati trionfi e capaci di rovesciare governo e governanti, come si sa per pruova. Ad esso dobbiam pensare, non agli scoiattoli.

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«Ed è inesorabile con noi, per la ragione che gli strappammo l'autorità di mano. Se si agita e freme l'è giusto per riprendere e ricominciare le turpitudini e le vergogne d' un potere distruttore d'ogni principio e reietto da ogni consorzio, aggiunse La Farina.

«È troppo vero, ripresi, anzi le dirò che sue ribalde aspirazioni, trovano accesso nel popolo, perché imbellettate di lusinghe e promesse, e perfidiate nella cronaca de' disinganni (1).

La Farina, concitatissimo, levossi in piedi, camminando a gran passi per la stanza e sussurrando assai preoccupato quello che verrò dicendo.

Una riunione di liberaleschi è stata tenuta in casa Crispi. Colà, e nell'ufficio del Precursore si presero le disposizioni per levare a tumulto il paese,

(1)

Si narra nelle storie antiche, che una Contessa di Fiandra, partorisse in un giorno 365 figliuoli. È una legenda e niente altro. Or gli Aristarchi della prodittatura, ogni giorno creavano più di 365 decreti di nomina, quindi lo stato divoravano tanti inutili affiliati alla cuccagna, alla mangiatoia, che il bilancio rumavano. Venuto il governo Piemontese, poco a poco gli andò sbarazzando. Figurisi il lettore tempesta d'odio suscitò la provvisione. Io comprendo che la voracia subalpina pensò scemare gli esiti per assorbire l'introito a suo comodo, ma questo potrebbe essere un argomento di biasimo, non valida ragione a coloro che, senza merito d'idoneità, per aver gridato Viva l'Italia, esiggono una carica con stipendii.

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si mandarono ordini alle campagne, e per la sera del 30 piomberà in città, tutta la gozzoviglia dei rompicolli evasi dalle galere. Che vogliono? che bramano? noi si sa: è diletto di tempestare? è gelosia? è avidità di danaro? è gherminella per imbarazzare il governo e trarlo a partito ostile? è mena di sottocchio per acclamare un altro programma? Ad ogni modo la mia responsabilità è positiva, né vorrei scapitare di riputazione in Palermo dopo averla acquistata in Italia.

«Così va! il mondo paga sempre con ingratitudine. Cotesto Garibaldi, mito dei nemici miei, io l'ho salvato da certa morte, quando stretto da tutte le parti nella Valtellina, prima di Varese, mi scrisse che non avea più vettovaglie e munizioni, ed era circondato dagli austriaci. Io ruppi il cordone tedesco, con carri, e lo provvidi di tutto. Così suoi partigiani mi rendono il beneficio. Cosa farebbe ella al caso mio?

«Senza tanti orpelli m'affrettai a rispondere: ormai bisogna trasandare i mezzi termini. Qui dobbiamo prima misurare le proprie forze, e quindi usarle, o dimettersi.

«Facciamo un manifesto al popolo, esclamò lui, pieno di speranze ai buoni e contumelie ai crispiani.

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«Inutile, il popolo non s'illude più con parole. Ci vogliono fatti».

Un lampo, un baleno passò sulla fronte di La Farina, il suo occhio brillò come al solito, il viso pallidissimo divenne rosso, e battendo la palma sul tavolo, esclamò: a rivederci domattina. Il partito l'ho preso. Frattanto legga questa carta (e cavò dal tiratoio un foglio sugellato al mio indirizzo) e ne facci uso».

Io voleva leggerla, ma egli non mi diè tempo: Facci pure a suo comodo. Frattanto conto su lei per difendere la campagna di stanotte con la stampa.

«Sarebbe un colpo di stato?

«Tutto è probabile; or mi lasci che ho da dare talune disposizioni».

M'accommiatai, ma confuso e sbalordito, ruminando la natura di questo colpo di stato preconizzato, e cento idee sottentravano l'un l'altra nella mia mente.

Per distrarrai un poco cammin facendo, trassi di tasca il plico e lo apersi. Esso era una requisitoria a

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Francesco Crispi, anzi un processo per perderlo (1).

Lessi e rilessi quella carta, e mi turbai; assassinare così vilmente un uomo, demolire la sua opinione, era vendetta barocca, codarda, incresciosa, orribile.

(1) Lo trascrivo alla lettera.

Notizie su Francesco Crispi.

F. Crispi è un arrabbiato rivoluzionario. Sono note le sue vicende del 1848. Emigrato si ridusse in Torino, indi a Parigi e vivea esercitando il mestiere di avvocato.

È tenuto in qualche preggio nella famiglia Mazzinesca, per esserne strenuo campione. Visionario e cospiratore per sistema non lasciò mai di lavorare per la repubblica. Al 1859 veggendo le cose prospere per la monarchia di Savoia, si rivesti coi panni di monarchico. Questuava a Genova, per la riscossa Siciliana, ma i denari che raccoglieva, sprecava per suoi bisogni. Sbarcò in Marsala col Garibaldi, che creatosi dittatore, lo nominò suo segretario di stato.

S'accenni a' suoi lucri illeciti in questo posto, ed ove si vogliono schiarimenti si forniranno.

La sua gestione fu un seguito di violenze ed angherie, pel quale motivo il popolo lo volle dimesso.

Andò a e colà di concerto col Bertani stabilirono il contratto della concessione Ferroviaria, colla società Adami e Lemmi, ed in premio delle condizioni onerose n'ebbero in dono 60000 franchi. Da povero e negletto, ora vive agiatamente, e briga a comperare case e fondi.

Col complesso di questi elementi l'onorevole direzione del Cittadino, è pregata accozzare un articolo, pel bene del paese, ed illuminare il popolo sulla vera vita politica di questo pericoloso e fatale strumento di discordia.

N. B. Che Crispi e Bertani riscossero 60000 franchi, nell'affare Adami e Lemmi, risulta da documenti autentici. - 104 -

Tant'è gli uomini in politica purché trionfano non contano né i delitti, né il vituperio. La vertigine della passione offusca la mente, e l'agognato potere è uno stimolo violento a qualunque nefandità. Pensava, se questa narrazione, fosse un elaborata storiella, una leggenda, una calunnia per opprimere la vittima, ove ne andrebbe più tardi la mia fama? Ricusarmi ad inserirla non poteva; accettandola, pesava sulla mia coscienza una gran colpa morale, oltre i pericoli ed i cimenti conseguitanti. Con tai sospetti vagolanti nella testa, giunsi machinalmente a casa. L'ora era tarda, l'animo combattuto, il pensiero travagliato, e necessario, anziché utile, dar tregua agli affetti in lotta, quindi mi posi a letto, immerso sempre nella considerazione del domani.

VIII.Colpo di Stato. Erano circa le sei del mattino del 30 Dicembre, lorchè mi prevenne un dispaccio del consigliere La Farina, compilato sui fatti della notte. In esso mi raccomandava, sostenerlo, perochè viste le cose risicose avea deliberato prendere serie misure.

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Quali erano queste misure? Eccole:

Appena separatomi da lui, chiamava il Questore Fascila, un curiale piemontese, anima e corpo venduto alla Camerilla; dippiù appellava i soliti famosi, e dopo animatissimo consiglio senza forma di legge, imponeva l'arresto del Crispi, Raffaele, Ferro, e certi caporioni, notissimi mestatori.

Era ben considerato quell'ordine?

Ad uomo nuovo in politica, potrebbe parer sano e logico, ma a La Farina esperto diplomatico, cospiratore e rivoluzionario (conveniamo che tra rivoluzionari, sono i maggiori statisti e conoscitori del popolo), non è scusabile. La Farina, storico, non potea ignorare che la rivoluzione Francese ebbe origine dallo arresto del Consigliere Espremenaille; che a Vienna nel 1848 cominciò il sobbuglio della scolaresca, quando la truppa trasse prigione un professore, salito in bigoncia a perorare la rivoltura e così di seguito altrove, fino all'incidente del famoso fantoccio di carta pesta bruciato, che ruiné il regno di Luigi Filippo. È un fatto; frivoli avvenimenti emanano grandi disordini.

Adunque verso sera i poliziotti assalirono

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le case degli arrestandi Raffaele e Ferro che furon tratti per forza in caserma, ma Crispi resistette, e tanto fece strepito, schiamazzo, reclamando il mandato del giudice, che la folla del popolo ingrossando e gelosa delle prerogative costituzionali , sforzò i carabinieri a ritrarsi se no ne avrebbe fatto macello. Il colpo fallito, com'era facile a prevedersi, fu un esca al fuoco, sicchè la commozione giunse al colmo.

La dimani racimolaronsi i capi del popolo, formando capannello e cariatidi di persone moleste, e spargendo il mai abbastanza sedizioso motto: la patria è in pericolo, questa fatale parola è stata sempre segnale di stragi e terrore.

Era lo sconquasso minacciato, eziandio voleano aggredire il palazzo dei ministeri, trame il La Farina, indi ad esempio di quanto in altri tempi altra plebe fece col Duca Medino Celi, Conte Latour e Pellegrino Rossi, strascinarlo per le strade, con un capo di corda appeso al collo, sventrarlo, mutilarlo, ed esporlo alla pubblica vista.

Ciascuno arringava sul supplizio da infliggergli; e chi lo voleva impiccato, chi squartato, chi bruciato.

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Arrogi, fervendo

La folla sempre crescente non poteva anzi più frenarsi senza soddisfarla. Chiedeva si dimettesse un ministro nemico dalla patria, usurpatore della libertà guadagnata col sangue del popolo e colle macerie di Palermo, concultatore delle leggi, distruttore delle famiglie, che avea mandato in sul lastrico, privando d'impiego a chi il marito, a chi il figlio od il congiunto; la feccia del ribaldume mazzinesco, arzigogolava sul tema in voga, e spingeva per ogni verso alla guerra civile.

Io ero andato immantinente da La Farina, ma questi era scappato dal ministero e s'era nascosto non so in quale bugigattolo. Salito a palazzo, lo voleva vedere, ma un suo fido mi disse che avendo paura del popolo erasi trafugato. Allora non diedi né tregua né ritegno all'esaltato spirito e proruppi in escandescenze.

«Son questi (dissi a colui) i fiori che

Sbrigliate, sbrigliate il popolo, che come Medea finirà sgozzando i propri figli.

Frattanto che gherminella aveasi lavorato a mio danno in contempo? L'articolo, cioè la diatriba contro il Crispi era stata recata all'ufficio del Cittadino, per inserirla tosto e proprio nel giornale del 31. In essa era lanciata l'accusa, di peculato: accusa, che era una calunnia, una falsità, come più tardi verrò dicendo, con altre contumelie ed inscienze molto severe. Perciò si era negato alla mia visita prevedendo che la fosse per querelarmi della rappressaglia. Ma io n'ero ignaro addiritura, perochè avea il dì innanzi esaurito la materia del giornale, e rimasto gli ordini opportuni per. la pubblicazione, nulla sapendo dello incidente sorvenuto.

Il proto svegliato al tardi del messaggio Lafarinesco, e per la qualità della persona, e perché altre volte era così successo, inseri quella roba senza darmene avviso.

Avviandomi dal Palazzo regio all'ufficio per la via Toledo, scorsi gran moto nella gente ed un gran numero di copie del Cit -

Io non so ridire l'impressione. che provai scorgendovi quell'accozzaglia d'infamie, che doveva vere o bugiarde sostenere per dignità al mio nome. Come forsennato corsi alla tipografia, che trovai invasa da sgherri con nodosi bastoni ed arnesi per fare razzia. Ritrarmi era viltà. Quindi mi precipitai in mezzo a loro e li arringai il nome di quella libertà che tanto reclamavano a desistere da imprese liberticide, essendo l'attentato alla stampa ed alle scritture, il più grave torto e disonore ad un popolo che si vanta civile.

L'opposizione legale esser tenuta in pregio nella costituzione, ma le chiassate, i giudizi di piazza, potevano sfruttarci la libertà ottenuta.

Mi ricordo di aver molto perorato, a mano a mano che la folla convinta andava dileguandosi.

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Circa le tre del giorno mi venne trovando il Questore Fascila e mi annunciò che la sera si temevano gravi torbidi, e probabilmente la caduta immediata del ministero.

Io lo esortai a consigliarla, parendomi l'unico mezzo di salute e così avvenne. Ma verso al tardi il popolo smesse il pacifico contegno, e si sfrenò, in urli ingiurie e chiassi indiavolati. Una voce ad arte si sparse dagli agenti ministeriali che LaFarina erasi imbarcato ed il ministero di missionario. Così quetarono un poco gli spiriti esaltati, e la notte si ebbe tregua, e non i paventati tumulti. La dimani sull'angolo di ciascuna cantonata leggevasi la dimissione del Gabinetto, e l'invito del Marchese di Montezemolo, al Marchese di Torrearsa per comporne un altro.

I pericoli e le vicende di G. La Farina ristaronsi a questo punto, i miei processero oltre.

Verso le dieci del 3 Gennaro, mentre ero occupato all'ufficio del giornale per la redazione di esso, un commesso, m'annunziava la visita di tal Conte Navarro della Miraglia, giovane egregio e di feconda intelligenza,

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che io lodo moltissimo nella sua impresa, persona a me notissima. Sapea costui per riconoscenza e sentimento amico personale e politico del Crispi. Dippiù l'avermi invitato fuori il gabinetto ad un colloquio mi fù argomento a sospettare una spiegazione. Il Navarro era uno dei redattori del Precursore, il più fiero ed implacabile nemico del Cittadino. Messo in guardia da tutte queste ragioni, presi il mio revolver ed uscii. Allora corsero varie parole un po' spinte, sulla natura, indole e provenienza dello articolo ingiurioso al Crispi. Dalle parole si venne ai fatti. Confesso ero un poco adontato delle faccende del giorno. Due colpi di revolver schiattirono, mentre il mio avversario si precipitò per le scale, credendo averlo ucciso m'adagiai una tunica ed un bonnet di guardia nazionale, saltai per le tegole, e m'involai alle ricerche della giustizia, che tosto invase l'atrio della tipografia.

Non sì tosto m'era cavato da quel luogo periglioso, mandai persona a casa mia onde mi si recasse un agile cavallo di sella che ho meco tuttavia, sul quale montai a tutta corsa, abbandonai la Città.

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La notizia dell'accaduto si sparse frattanto, e ne fu avvertito il La Farina, che due ore dopo riceveva da me lettera, mollo virulenta (1).

(1) Onorevole Signor Consigliere

«Le scrivo con l'animo invaso da penosa emozione. Giammai in mia vita mi avea lordato le mani di sangue con rappresaglia. Ed ora! non so se l'abbia fatto. Costretto a respingere la forza con la forza, ho dovuto per necessaria conseguenza subire il risultato d'una politica fatale. E questo solo fosse!

«Perché ingannarmi, cimentando il mio onore ali onta di un libello famoso? E se fosse una calunnia il fallo attribuito al Crispi? un errore, un qualunque equivoco, foggiato su falsi rapporti, che non dico Ella capace di combinarlo con coscienza di causa, e dove n'andrà la mia opinione, lacerata da necessaria reazione?

«Frattanto io sono nella tremenda alternativa, o di propugnare a viso aperto quello che non so, anzi stento a credere, e perciò compromettermi con torto evidente, o di accaggionare alla S. V. il fatto, e declinarlo tutto intero a sua responsabilità. Questo la vede, m'indurrebbe a due estremi. Confessarmi cieco strumento di sue private vendette, e violare la fede di pubblicista. Il bivio e crudele! come crudele fu la sorpresa.

«Io non so accozzare parola né potrei ripetere l'accaduto. Mi rammento aver vibrato due colpi di revolver, in seguito od alterco col Conte Navarra, e che costui sdrucciolasse per i gradini. Nulla del resto mi sovviene.

«Che lo sappi Navarro era mio amico, e la difesa che egli assume e nobile se convinto dalla calunnia: Apparentemente son io il malvaggio, e se mi salvo dalla taccia di assassino, perochè provocato, non vien meno il rimorso d'avere attentato, senza astio o rancore alla vita d'un giovane onesto e generoso. Al momento scrivo da Casa P. Se potesse la prego mandarmi il Questore Fascila che avrei a dirle cose che non posso e voglio confidare alta carta.

Pieno di Ossequio

Palermo 3 Gen. 1868

Suo Dev. Servo

D. Acqaaviva.

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Era la sera lorchè mi venne trovando l'avvocato Fascila Questore di Palermo. Discorsino insieme circa due ore. Si parlò delle ostilità di una fazione nemica; della politica imprudente di Lafarina che spinse le cose allo estremo dei cimenti incorsi.

Parecchi amici la dimani intervennero a riconciliare gli animi inaspriti. Senza velare il fatto Lafarinesco scrissi al Crispi, dubitando della esattezza delle informazioni ricevute, ed egli mi rispose cordialmente, lieto di po'. ermi stringere la mano (1) I tempi e le vertigini di partito ci hanno staccato; eziandio abbiamo aspirazioni identiche per la libertà, ma egli crede ed io né all'Unità d'Italia, anzi la detesto e la stimo perigliosa, non solo ai bisogni politici del mio paese,

(1) La lettera di rimando alla mia è questa:

Onorevole Signore.

«Accetto le dichiarazioni che ella mi fa, ed in ricambio le stendo la mia mano. Deplorai il fatto di Navarra appena ne ebbi notizia e quando non poteva impedirlo. Preverrò il di lei zio dello equivoco. Non pubblicherò la sua dichiarazione perché non ho il diritto di farlo senza suo permesso. Però siccome pubblica fu l'accusa, pubblica dovrebbe essere la difesa. Del resto faccia a suo piacimento.

Mi creda con ogni riguardo

Pal. 10. Gennaro 1861.

Suo devotissimo

F. Crispi

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ed inefficace, impotente a reggersi come programma politico, ma micidiale alla patria e fatale alla dinastia Sabauda. Molti miei antichi amici politici a quali il culto alla unità infonde la più stolida e sdicevole intolleranza, me adesso stimmatizzano con nomi infami, abietti, per la validissima ragione che non ho venduto la mia penna ed il mio poco ingegno all'idolo del giorno, al fantasma delle selle teste, che tutto divora, alla rivoluzione insomma, e plagiato suoi flagelli. Perciò nell'arringo di pubblicista indipendente mi hanno flagellato, chiamandomi retrivo, borbonico, sanfedista, quasichè l'esser seguace d'un illustre e sventurato esule che solo può rilevare la patria mia dall'abbominio in cui è caduta fosse delitto, o vile mestiere.

Io però sfido i fulmini della loro rabbia, e mi onoro nel rispetto allo infortunio, e nel culto alle stelle cadute. Ai Borboni non debbo nulla e nulla ho mai chiesto - faccio appello a Palermo che conosce il mio casato e le mie sostanze, se ambizione od interesse fossero mia meta e scopo.

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No!.... sono fiero di reArda pure la rivoluzione miei scritti, mi danni all'ostracismo, mi. lanci contumelie: a bizeffe, la mia fama è incrollabile, né potranno demolirla i lafarineschi. Onori e stipendi non mi allettano, e molti ne tip sdegnati da governo Italiano. Sono convinto che l'attuale governo, la consorteria prevalente carca di vituperi, furti, tradimenti ed assassini, disonora l'Italia, insidia la religione, e mena diritto all'anarchia, al fallimento, al precipizio lo Stato.

Questa Sicilia, alla quale ho consacrato i palpiti della mia gioventù, e per la quale ho sofferto strazi, calunnie, prigioni, esilio, io l'amo come il sogno dorato, come la Vergine dei miei pensieri, con lo slancio, l'estasi d'un cuore fecondo nell'amore. La Sicilia per me è tutto, patria, parenti, amici, ho deposto ed immolato a'-suoi piedi, e son lieto d'averlo fatto.

Non ardisco paragonarmi a' grandi che troppo-umile sono, ma specchiarmi a loro soltanto.

Catone si uccise per l'Indipendenza di Roma. Sosistrate, e quanti martiri vanta la Chiesa, furono spenti per tenere alto e sublime il vessillo cristiano.

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Kutusoff bruciò Mosca anziché abbandonarla allo straniero.

Io se potessi seppellirei la terra mia, anziché mirarla prostrata, avvilita e negletta.

Questo non vuoi dire che vagheggio certa scuola e certi tempi. Io ripeto, applaudo alle giuste libertà di Vieo, di Filangeri, e di Beccaria, non alle stravaganze delle sette.

Coi liberali puri sto, ai falsi mi avvicinai come Giuditta ad Oloferne, e Carlotta Corday a Marat. Sono reo? A Dio giudi carmi!!! Ai posteri l'ardua sentenza.

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LIBRO SECONDO

Proemio Partito La Farina e soverchiata la sua camarilla dal partito d'azione, timida e codarda, s'atteggiò a vittima, campando così allo scempio ed all'ira popolare. Nondimeno giurò vendetta, ed aspra vendetta di tutto e tutti, e all'uopo stiede alcun tempo elaborando il progetto di compierla, che lungo era, difficile e risicoso. Nel qual periodo di raccoglimento il governo si venne fortificando d'armi e d'armati.

Siccome accennai il mio libro ha per iscopo principale mostrare:

1.° Che il fatto dell'annessione fu di La Farina.

2.° L'ordito delle scelleraggini conseguitanti, gli strapazzi e le disgrazie di Sicilia opera della sua setta.

Imperocchè, governo, magistratura, e più alti funzionari dello Stato,

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venuti in

Perché i popoli civili si edifichino di simil razza di vipere, dividerò questo secondo libro in 5 capitoli, intitolati: La, Giustizia, Le Finanze, Le Prigioni, Assassini, Fede e Speranza. I.La Giustizia Uno spettacolo assai umile, offre la giustizia nel regno d'Italia, e sarebbe difficile enumerarne i vizi e gli errori.

Laonde, tribunali trasformati in mercati, giudici in boia, e l'altare, il santuario della giustizia in osceno bordello di passioni e vendette Né voglio perdermi in vane dipinture e fantastiche descrizioni.

Riferirò fatti, con la incontestabile autorità dei documenti.

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La sola procura generale di Palermo, che comprende le cinque provincie di Palermo, Trapani, Girgenti, Caltanissetta e Noto ne' resoconti di giustizia penale, pubblicati, l'anno 1864 fè ascendere a 17 mille i processi espletati per crimine, e circa altrettanti, quei correzionali senza contare le contravvenzioni.

Or bisogna udire come si inquisisce e giudica, e la giustizia si dispensa, cioè si rinnega con violenze brutali. Colà mentre le povere terre usurpate dall'ingordigia straniera han perduto la prisca impronta di sicurezza, ed offrono un sinistro e feroce spettacolo di morte e di rapine, le prigioni sono ingombre di detenuti per sospetti e manutengoli, ma ribaldi ed assassini scorazzano impunemente boschi e contrade, tutto rubando, espilando, invadendo a sacco, a distruzione.

L'autorità siccome abborrita, è foggiata non sul morale prestigio, ma sulla leva della forza bruta, quindi impotente, frivola a reprimere i delitti, e si dimena inutilmente, senza poter raggiungere i colpevoli, e per mostrare un qualche zelo in

Appena denunziato un misfatto, subito cominciano le indagini, e si arresta per lontani indizi, per sospetti, per ignavia di persone e di circostanze, gente onesta e spesso cospicua. Siccome, massime nello interno dell'Isola, i faccendieri della cosa pubblica sono i consorti di Lafarina, costoro aguzzano l'ingegno, e la giustizia fanno servire, non a tutela delle proprietà, ma a tormento dei partiti avversi.

Basta per caso accennarsi borbonico, perché reo od innocente andasse in prigione, e poi in galera se occorre. Non aver fede all'unità d'Italia è tale un crimine, che guai a chi ci capita; esso non sfugge alle più severe contumelie, e, scandalo inaudito, se ne fa pompa nei processi, nei di battimenti, nelle accuse, e si aggrava la condizione del prevenuto, e spesso s'impone la coscienza dei giudici, per ciò che a Dio solo è serbato punire, la fede cioè, e l'occulta tendenza dell'anima.

Qualunque pensiero che non si traduce in atti, la stessa cospirazione che non ha un principio di esecuzione, sia con associarsi di persone, discutere di mezzi, provvedimenti e scopo per attuare e produrre un programma, non è reità.

-Nessuna legge al mondo castiga il sentimento, l'aspirazione che resta nell'individuo, e non si esprime, né con discorsi, né con propositi criminosi, e via di seguito.

Ma se queste leggi sono pure il codice delle genti, nei selvaggi dell'Abissinia, nei Sedami dell'Africa, uomini, che abenchè incolti, bruti, non lasciano di rispettare le o pinioni, anzi la lor vita nomade, errante, è un risultato del culto che hanno per l'indipendenza; se cotali dottrine si fecondano fin dove la civiltà non è penetrata, e dico nel regno degli Abouti, e fin forse negli Ottentoti, non hanno imperio, possanza, ascendente, appo i rigeneratori italiani.

È un fatto abbastanza deplorevole, ma evidente.

L'ebreo adora il Messia e n' ode ossequioso i decreti per mezzo del Rabino, il Maomettano s' inchina al pastore che gli spiega il Corano, il protestante pure, e perfino il selvaggio abitatore dell'Oceania, arde incenzi agli Idoli, sente la potenza e la tendenza alla sua origine, al creatore, l'istinto

che è la più bella manifestazione della gratitudine, e quando è giorno, nel suo errore pagano, si prostra e canta le lodi al sole, oppure issa un'immagine e la venera; questo deridono i Sacripanti della dea Ragione, e tentano svellere dal cuore degli italiani, luminarii dell'odierna rivoluzione, la fede nell'impresa nefanda ausiliati dal potere.

Si è mai visto compiere tanta empietà? La pietà, il rispetto alla religione degli avi, i ministri del santuario, sono fieramente stigmatizzati dai giudici d'Italia, ed i nomi di cattolico, cristiano, significano brigante, ribaldo, retrogrado, e peggio.

Nei pubblici fogli s'insulta la Croce, i simboli, il Redentore, la Divinità, la Chiesa, s'irride al suo Capo visibile, e se ne fa oggetto ridibile, con stampe oscene e scellerate; sì plaude al suicidio, si insultano i sacerdoti, ed i tribunali, la giustizia dormono; si scrive e si dice in Parlamento, che il Dio di Pio IX non è quello d'Italia e di Vittorio Emmanuele, infamia! ed il popolo, estatico, raccapricciato, testè tanto tenero del santuario avito non si commove, ma geme im

-Adunque io diceva per tutto sfogare la orribile cronaca della amministrazione della giustizia che i molti i quali cadono nelle ingorde unghia del fisco, non sono veramente rei, ma tormentati per politica rabbia.... Ma qual'è lor sorte appena colpiti da questa cosidetta giustizia? Gettati in un carcere vi restano anni e mesi intieri, senza essere sentenziati, e dopo lunga serie di patimenti rimangono assolti (1).

(1) Un tal Sacerdote Mucaluso, fu preso nel settembre del 1860, imputato d'avere eccitato il popolo a guerra civile, e consigliato omicidii e saccheggi avvenuti in Polizzi. Legato col padre e coi fratelli, fu orridamente gettato in una prigione, e dimenticato colà per quattro anni interi; e lasso quel tempo venne liberato dal giurì. Un Liborio Barrante di Termini, geme da tre anni prigione accusato di non si sa che, perochè mancano pruove ad un giudicato. Chiede in un modo qualunque una sentenza, ma le sue querele non hanno ascolto, eziandio, non si vuole liberare, né si può condannare.

Nella famosa causa polizzana, morirono nel tempo della processura, che durò quattro anni più di 13 individui, che la Corte di Assiste dichiarava innocenti.

Un tal Valenti ritenuto falsario di cambi in leva ebbe indiiti sei anni di reclusione: ma è uopo sapere che gli toccò si cruda sorte perché leggittimista, eziandio due soli carichi di falsità, pesavano sul suo conto. Pochi giorni dopo era graziato un tal L......... cui sessanta e più gravami della stessa natura addebitavansi per requisitoria del Procuratore Generale, a cagione che la moglie di costui si era data a quello emerito funzionario, inteso Marchese Maurici.

-Il vendersi dei Magistrati è continuo, avvegnacchè in buona parte tutti esciti dalla

Il Procuratore Regio Giovan Battista P. come intentò processo nel circondario di Sciacca ad un carabiniere, cke li divertiva a cacciare per la via uomini, come Nembrod, e, taluni rompeva un braccio, altri feriva nel corpo, altri miseramente finiva a colpi di moschetto, veniva destituito ed il carabiniere reso a libertà.

Un onesto e pio sacerdote di Misilmerì, essendosi ricusato di aprire ad un Carabiniere di sera, senza mandato di giudice, sapendolo invaghito di una sua fantesca, fu incatenato e tradotto a piedi per dodici chilometri, e quindi respinto in Vicaia, dopo aver patito battiture e tratti di corda per la strada. Andate le carte al potere giudiziario, fu rimesso in libertà, e ritenuto l'arresto per equivoco,. Il povero vegliardo soffrì tanta paura che miseramente morì.

Il Novembre 1862 avvenne uno scontro tra forza pubblica e malfattori, nel quale la prima ebbe la peggio e si ritirò in disordine. Ingrossala dopo cinque ore tornò sul luogo della mischia, ed arrestò cinque pacifici cittadini, da quali volea sapere ove erano andati i briganti. Ma questi lo ignoravano, e perciò noi potevano dire; per qual cosa indispettiti i carabinieri, li legarono con manette e li trassero in Palermo al forte Castellammare. Ivi senza forma di giudizio, allegando doversi dare un esempio di terrore, fu deliberato si fucilassero. La dimane avvinti per mani e piedi alla caprina, e camuffati in un carretto, li trascinarono presso a Bagherìa e brutalmente li moschettarono.

Un Giovanni Cappello uscito alla coscrizione temendo si fingesse sordomuto fu posto in sala d'esperimento, e colà torturato con bottoni roventi.

Or bene, un tal reato per sua indole ed essenza è crimine; eppure fu battezzato correzionale. La causa pende tuttora, e si rinvia sempre, volendosi salvi i chirurghi militari Maffei e Rastelli.

Prete Mazzarella fu imprigionato perché gli si rinvenne addosso una lettera comica. In essa era descritto un concilio di bestie, alla guisa degli Animali Parlanti del Casti. Perciò fu detto cospirasse contro i poteri dello Stato. Dopo un anno d'ingiusta detenzione fu deciso non esseni luogo a procedimento penale. -

rivoluzione, o residuo dell'antico governo, che per farsi merito, ed affettare principi

Inquisì il tribunale verso un carabiniere, che ammazzò il detenuto, mentre lo portava. La povera vittima, arsa dalla sete esaninito dal lungo cammino, non poteva reggersi in piedi e stramazzò per terra. 1I carabiniere volea che per forza camminasse, ma il prigioniero colla febbre dell'agonia non si rialzava; allora a colpi di daga lo stese morto. La Corte di Appello di Palermo ha assolto il carabiniere.

Nel Marzo del 1863 il Questore Bolis inventò una congiura. Buono è sapere, come egli avesse per farsi merito scritto e descritto della Sicilia le cose più tetre, e provocato il disarmo, le leggi eccezionali ed altri rigori.

Or bene, a trovar modo di giustificare le mensogne compilate, chiama a lui un tal Matracia, esecrato strumento di infamia, e lo induce a vergare una denunzia. Quarantaquattro cittadini, chiari per intelligenza, valore, nobiltà, dovizie, sono nottetempo arrestati. Essi appartengono a tutti i colori, e fra gli altri vi è Monsignor Calcara ottantenne. L'accusa è la solita gherminella di attentato alla sicurezza interna dello Stato; locchè significa che tutte le fazioni in Sicilia hanno per iscopo distruggere l'attuale forma di governo, (mirabile effetto del plebiscito). Dopo quattro mesi di investigazioni, il processo non offre elementi ed è pronunziato il non luogo al procedimento penale. Intanto dalle carte e dalle indagini opperisce che Bolis ha ordito quella orrende congiura di tradimenti d'accordo col Malracia.L'Unità e Libertà (giornale) il di 15 giugno pubblica per esteso il processo a questo funzionario pruovando la trama. Bolis prevenuto in tempo vuoi scongiurare la tempesta chiamando il tipografo, e pregandolo onde intercedesse presso il direttore. Si viene ad un colloquio fra questi ed il Questore. Si svela tutto alla presenza di Don Émmanuele Clamis e del Sig. Garaio - il direttore de! gloriale, rimprovera con parole severissime il poliziotto lo umilia sino a segno di chiamarlo traditore, vigliacco, assassino del paese. Bolis resta attonito e confuso e promette domandare la dimissione, purchè la sua fama non andasse lacerata.

- liberaleschi, sentenziano a mò delle idee in voga (1).

Quando dominavano i Borboni dispotici lo stesso Gladstone, nemico acerrimo di questa reale famiglia, in una lettera testè scritta al Deputato Berrier, fu costretto confessare: «che nessun foro al mondo godeva tanta libertà di parola, quanto il napolitano;

Generosamente gli si concede sospendere per 15 giorni la desiderata pubblicazione del processo. Elasso quel tempo chiede con altra proroga.... ma a qual pro?

Io sgherro combinava brutta gherminella per assassinare il direttore dell'Unità e Libertà. Venuta in chiaro la faccenda il foglio annunzia l'imminente pubblicazione che vien fatta con universale plauso, il popolo si indispettisce, s'aduna, corre alla casa di Bolis, prende a sassate le invetriate, lo vitupera coi nomi più infami, lo vuoi fuori per farne scempio e lo astringe a fuggire. Il governo intanto anziché castigarlo lo rimunera, e Matracia ottiene una pensione di franchi cinque al giorno che gode a Torino! A Contessa paese nella provincia di Palermo, nel 1860 avvenne tafferuglio, e certi liberaleschi sgozzarono molti borbonici. A Castellammare l'anno 1862 vi fu movimento in senso opposto. Ebbene i tribunali mandarono liberi i primi e condannati i secondi, comechè quelli fossero convinti di reità, e questi innocenti in gran parte.

Di siffatti esempi anziché rari, unici, nelle cronache dei tempi barbari, potremo coniarne a bizzeffe, che non hanno riscontro neppure a quelli del Terrorismo; ma per non aggravare con considerazioni la vergogna d'Italia ci limitiamo solo a' suddetti.

(1)

Ciuffo, Presidente della Corte di Accusa, contrattava per mezzodì suoi curiali il riscatto del prevenuto. Vi furon polemiche di giornali e stampe pubbliche che le accusarono, onde bisognò il governo traslocarlo.

-avere egli udito difese per causa politica ove gli avvocati si spin

Ora nel famoso celeberrimo regno d'Italia, la parola non può esprimere nulla di indipendente e libero, ed il difensore non può escire mai a chiarire il suo concetto, se oppone il governo usurpatore, a risico di essere imprigionato.

Bisogna plaudire a forza la camerilla, i piemontisti, i lafarineschi, e se capita per le mani un povero legittimista, declinare la difesa, chè la sua perdita è certa, e volerla scongiurare significa fargli compagnia. La stampa poi è così impastoiata, avvilita, depressa, perseguita, che il dire sia libera è un'amara irrisione.

Libera, finché impreca a Dio ed agli altari, oltraggia la giustizia, il dritto, l'equità, il buon senso; inneggia il furto, l'omicidio, la rapina, la spoliazione, i tradimenti, esalta l'empio, ed insidia la virtù.

Nel Napolitano in nome della giustizia si ammazza chi va fuori un chilometro del paese, col pretesto di manutengolo; a Bivona si scanna una madre, perché corre dietro al figlio arrestato e piange;

-a Licata giustizia del libero regno d'Italia (1).

(1) La statistica dei delitti e misfatti che avvengono od regno Italiano si fa ascendere a 7000 e più al mese.

Quella degli arresti a 4500. E sono notizie raccolte dalla Gazzetta Ufficiale del Regno. Tutta questa forraggine d'inquisizioni nasce dal difetto dei codici.

Si sono bandite dall'antico Regno delle Due Sicilie, le leggi patrie che erano eccellenti, il codice Napoleone insomma. per attuare quelle Sarde.

Giammai codice fu elaborato più inumano e stolto di questo. Esso è una emanazione di quello dell'impero del 1810. Gli attentati contro lo Stato, contro l'autorità, sono puniti severamente anche per tentativo, sospetto. Quelli contro il buon costume; il duello, molto lievemente. Vi è un bisticcio in quelli contro la fede pubblica.


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II.Finanze Non v'ha spettacolo più miserando di quello che offrono le finanze del Regno d'Italia (1).

Lasciamo per poco da banda l'eloquente discettare sulle cifre, il debito cumulato, la mole dei balzelli imposti, perché son cose trite e ritrite, scritte in opuscoli

Pene poi sono e furono atroci. Prima del 1831. era punito col supplizio della ruota, l' autore di furto semplice, che poi fu abolita dalla legge Albertina. Ai tempi di Madama era in voga la tortura coi bottoni roventi, le tanaglie infuocate, come dice Botta, storico molto partiggiano dei piemontesi. Vi era l'altra della Gogna. L'omicidio commesso dalla forza pubblica per eccesso di potere è punito colla prigionia che può scendere fino a cinque giorni. Dippiù è immorale; avvegnachè premia lo spionaggio. Infatti il complice che denunzia o fa scovrire il complica colpevole, è assoluto di pena.

I tribunali hanno condannato a 18 mesi di prigionia un gerente che ha occultato il suo vero nome, per istinto di propria conservazione e senza dolo e lucro, elementi intrinseci della falsità, ed assolvettero un altro che nel suo periodico evocò l'assassinio politico elevandolo ad eroismo da imitarsi!..

(1) Il Plebiscito di Sicilia e la missione la Farina costarono all'erario ben 700 e tante mila lire.

La tavola del Dittatore Garibaldi imbandivasi per sei mila lire al giorno.

Il ministro Conforti in quaranta giorni di ministero prese per suo stipendio 300000 franchi.

-e che poi si rivelano al nudo sguardo dell'osservatore il più scenico.

Ma quello che è strano e ridicolo in un tempo a meditare, non sono l'ingenti somme spese, chè è naturassimo lo spreco in una Nazione che vuole e pretende costituirsi, ma l'impiego di questo osceno scioperio.

Scialoia per lui e suo padre sottomisse un mandato di 200000 franchi.

Un Filippo Agreste direttore delle dogane, da povero che era, dopo avere occupato un mese quel posto, ne usci con una rendita di 12000 franchi all'anno.

Un Pietro Leopardi dopo essere stato due mesi incarica ottenne una pensione di 18000 franchi.

Un Luigi 'L'irrito falsario, e giornalista allo stipendio del ministero Rattazzi ebbe due sovvenzioni in danari di circa 30 mila franchi per un mese che visse il giornale, cosi detto Lo Statuto, avente lo scopo, di difendere lo stato d'assedio e le misure eccezionali, calunniando la generosa Sicilia.

Alla società Rubattino si pagarono 4,000000 di franchi pel Cagliari che l'era stato restituito, e per i due vapori Lombardo e Piemonte. Il plebiscito Napolitano costò molti milioni. Un direttore e due segretari di stato presero per distribuirli essi soli circa due milioni. Questo fatto rivelato dalla stampa destò gran chiasso.

Carlo de Cesari, Ferrigni, Trombini e Mogliano ricevettero una cifra di 400000 ducati (così scrissero i periodici del tempo) per preparare il Plebiscito. Ad Alessandro Dumas diedero 900000 franchi per prezzo di pochi revolvers -

Or bene se noi volgiamo uno sguardo ai maggiori caporioni e satelliti della setta Lafarinesca, avremo subito trovata la soluzione del quesito.

Appena venuto Garibaldi si fecero mutui, questue forzose, e ressia delle sostanze nazionali. Ma quelli eran tempi turbinosi; ogni soldato, costava il triplo del regolare, e si doveva come sopra descrissi, spargere oro a piene mani, versare a bizeffe per illudere il popolo e carpire da esso il voto che si chiama plebiscito. Passata quella prima tempesta e piantato un governo che si chiamava buono e costituito, ciascuno credea dovesse sparire questo primo flagello, gravitante sulla pubblica finanza; e se e la Sicilia ristabilire non potessero i valori ed il credito a quell'apice di floridezza, in che erano sotto il governo antico dei Borboni, nessuno sognava piombassero in tanto avvilimento, in tanta dissoluzione, che fa onta a dirlo: dovere l'Italia giacere a discrezione degli ebrei.

Dice Say nel suo trattato di economia politica e con lui Blununtal e Bruno stesso: che la forza effettiva di uno stato è riposta nel suo credito; perochè questa è un'asse che diffonde raggi per tutto il perimetro del cerchio. Ed il cerchio sarebbe lo Stato.

-L'abisso finanziario che ora sovrasta all'odierna Italia si può calcolare dalla media proporzionale di queste cifre.

La sola Sicilia per esempio pagava ai tempi dei Reali Borboni lutto compreso, il 23% sulla rendita imponibile, ora non basta il 37 o 38 per 100. Il debito pubblico italiano ascende all'enorme somma di 5 miliardi circa, perciò viene dopo l'Inghilterra che Do ha 20 miliardi e parecchi milioni, ma supera pur quello di Francia. L'Inghilterra però, oltre le grandi vicende politiche subite, ha speso tesori nella creazione di una flotta che conta 1008 legni da guerra; e la sua mercé si è arricchita coi tesori importati dall'India. Per contrario l'Italia che dovrebbe essere una Nazione eminentemente marittima, appena possiede 103 navi da guerra, che in paragone di sua decantata e pretesa potenza sono assai frivole per contendere come quella di prim'ordine.

Questo Drago con sette gole, questo Briareo con cento braccia che ha assorbito somme ingentissime, ed hanno estenuato sino alla consunzione l'economia nazionale sapete chi sono?

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Ripeto: i Lafarineschi, i cosiddetti rigeneratori della patria, che hanno riscattato l'Italia tuffati nell'oro,come i maiali nella melma; e per costoro soli si sono esauriti milioni e bilioni (1).

I mutui sinora contratti dal 1861 al 1865, hanno raggiunto l'enorme cifra di 1 miliardo e 600 milioni;or la quota nominale di debito in 8/22 che gravita su e Sicilia è 581,858,176.

Prima che le vicende del 1848 sorvenissero, Siciliani e Napolitani pagavano, dazi sparutissimi, comechè il pubblico erario godeva d'una dovizia invidiabile. La Sicilia singolarmente era l'unico regno in Europa che non avesse debito pubblico.

(1) Nel Regno di Napoli il numerario del banco era di Duc. 19,316,295,1 i, fino al 27 Agosto; la dimane era sceso a 10,930,811,69; al £8 Gennaro scendeva ancora a Duc. 7900,115,11; al 2 Aprile non si aveano più di Duc. 6,983,7 24,31 (segretariato generale delle Finanze di Napoli, documento pubblicato nel 1861). Dal 1 Aprile al 31 Ottobre 1861 nel solo primo quadrimestre, si ebbe un disavanzo di Duc. 8,365,331,94. Dal 7 Sett, al 31 Dicembre le entrate del reame di Napoli montarono a 6,970,347,82 e le uscite a Duc. 17,422,385,80; il disavanzo quindi Duc. 10,452,057,98 e per tutto il 1860 Duc. 25,086,771,74 (Idem).

II totale disavanzo del 1861 ascendeva a circa 20,000,000 di Ducati.

Il Governo Italiano per sopperirvi vendeva il prodotto d' una rendita pel capitale di 7,300,035,227,48, e Duc.2,335,938,80 di grani spettanti al governo.

La quota daziaria che paga la Sicilia ascende a circa 18,674,80 Ducati al giorno.

-Ma, avvenuta la restaurazione, furono emesse cartelle di credito per un milione di ducali, per riparare alle spese. di guerra, e con decreto del Re Ferdinando II, fu istituito il gran libro del consolidato. Non pertanto, anche prima del 1860, il Siciliano pagava 12 franchi all'anno, il Napolitano 14, il Romano e Parmense 18, il Toscano 17, il Modenese 15, mentre il Piemontese ne erogava da 19 a 20, per la ragionata. Oggidì tra tasse nuove e vecchie si paga più de' Francesi, imperochè colà la media individuale, ammonta a franchi 31, e tra noi a 32 i circa.

La natura delle imposte poi è così generale che lungo e fastidioso sarebbe ribadirle. Ve ne sono alcune che in Italia erano assolutamente ignote, e sol da Piemonte ci sori piombate addosso.

L'antica tassa di registro e bollo, che sotto il governo dei Borboni era calcolala nel budget di 500000, oggi si estende allo eccesso di 39000000, oltre a quelle che gravitano sulle successioni e sulla ricchezza mobile che sono al tutto nuove.

Il governo Italiano non può nemmeno giustificare lo stato rovinoso delle nostre finanze.

Risulta da documenti ufficiali che, le armi de' singoli Stati unite insieme sommavano a 236 mila uomini,

-

mentre l'Italia d'oggi non ne possedé più di 220,000; e deve badarsi al nutrimento ed al vestiario di quelli per paragonarli al sempre sucido abbigliamento e parca razione di questi.

L'Italia prima del 1860 sborsava 8 liste civili, compresa quella del Papa e la rata della Lombardia all'Impero austriaco; mantenea 7 rappresentanze diplomatiche, altrettanti consolati, Ministeri, Corti di cassazioni, e zecche; oltre i molti assegni ai Principi del sangue, ed al presente ne soddisfa una sola, quella cioè del Re Sabaudo.

Ministeri, Corpi diplomatici, Corti, Rappresentanze, sono cose tutte svanite ed assorbite in quella di Piemonte.

I risparmi prodotti da cotale assorbimento ascendono per la stessa confessione del ministro, a 10 000,000 di franchi all'anno; E ciò senza contare la soppressione di taluni ordini cavallereschi, come per esempio il Costantiniano ed altri che han portato una riduzione economica di 100 e più mila franchi all'anno (1).

(1) La situazione finanziaria. dedotta dalle statistiche e resoconti della ramerà, è la seguente.

Per l'anno 1861 il deficit, ammontò a 314000000 oltre a 77000000 di crediti supplementari.

- III.Assassini Questo capitolo sarà il più importante della mia narrazione, ed io provo, pensandolo, non rimorso, ma terrore. Benché, uso a descrivere nequizie e scelleragini, pure di tal risma, non credo siensi udite finora, e suppongo parranno incredibili, anzi si stenterà a prestarvi credito.

Quello del 1862 a 217 milioni, quali! del 1863 e 1864, calcolati complessivamente presentano uno scoverto di 368 072. 684. franchi, e quello del 1865 pubblicato nel bilancio è di circa 400, 000000.

Gli interessi del solo debito pubblico che paga il regno d'Italia ammontano a 250, 000000 all'anno.

Il viaggio di Vittorio Emmanuele nelle provincie Napolitane e Siciliane, costò parecchi milioni.

Nell'anno 1863 moveva il Re Sabaudo per ove eran le cosa torbide. Per quel tempo dovea a mò dei contratti essere finita la linea ferroviaria di Foggia. Per nascondere al Re il rilento dei lavori, e l'inadempimento del contratto, siccome mancava buon tratto, cosi fu supplita, con una provvisoria, per la quale furono erogati due milioni e più di franchi.

Giammai assegno principesco, fu così dovizioso quanto quello di un ministro che viaggia nel regno d'Italia.

Il noto agente del governo piemontese narra che, nell'affare dell'annessione delle Romagne, Pepoli e suoi cagnotti intascassero 30000 franchi.

Lo stesso dice: che Bertani prima della spedizione Garibaldi era semplice officiale di sanità e faceva visite a un franco ed a centesimi 50 per ognuna; era la sua fortuna raggiunge la favolosa cifra di 14 milioni.

-Giuro sul mio onore, che non fuorvierò una linea dai fatti. Né vivacità di concetti, né ire di parte, avendolo promesso, mi faranno sdrucciolare nel fantastico, o nell'iperbolico.

Quando i poeti antichi, empivano le loro carte degli orrori di Tebe, ed Omero cantava gli episodi dell'assedio di Troia, ed Alfieri l'incesto di Giocasta, la cena di Tieste, la morte di Agamennone e li strazi dei suoi figli, pensavano che i lettori della posterità, avrebbero letto inorriditi queste scene tremende dell'antica barbarie, perochè forse neppure sognavano la futura esistenza d'un regno italiano, i cui governanti sorpasserebbero in ferocia e crudeltà le Tigri ed i Leoni.

Ho studiato un poco sulla storia di tutti i tempi, e ne ho dedotte queste impressioni.

Non v'ha dubbio che in religione si sia progredito. Infatti ai penati del antico paganesmo,

Quattro di questi milioni furono fa mancia che pretese dai banchieri Adami e Lemmi di Livorno, perché fosse loro accordata una concessione ferroviaria.

A Ricasoli Governatore di Toscana diedesi 40000 franchi onde tacesse la spedizione della brigata regolare che si fece dal campo di Pontedera in Sicilia con divisa garibaldina.

Nella fusione del rame vecchio per la costruzione del nuovo, si è fatto un contratto tale oneroso che ha costato allo stato, 57000000 di perdita.

-

agli idoli falsi e bugiardi si è sostituita la Croce, che è il vero ed unico simbolo della morale, la divina espressione, dell'uomo Dio.

Il Cristianesimo perciò è la vera civiltà, se consideriamo le sue leggi e i suoi riti. Ove sono più gli umani sacrifici, le vittime immolate da feroci sacerdoti, e poi arse vive ad olocausto dei numi? Ove quegli altari lordi di sangue, e ministri armati dì scure? Con le vittime strappate da Ferdinando Cortez, certamente finirono questi riti nefandi ed obbrobriosi. L'impero di Guatimozino si è redento al Cristianesimo, e dove è penetrata la solenne parola del missionario sono scomparse le vestigia di lubriche atrocità.

Il Cattolicismo non può negar nessuno che sia un pregresso immenso dell'umanità, un orizzonte, tutto miriade di luce, venuto a dissipare le tenebre;ed i razionalisti stessi ne convengono. E come potrebbero allegare altrimenti, quando in XIX secoli di esistenza assorbe 208,000,000 di seguaci? In politica però, si è andato invece a ritroso.

-Guardate l'antica civiltà greca, latina, spartana e cartaginese. Quei popoli non vi ha dubbio, aveano, indomito coraggio, desiderio di conquista, ambizione di guerra, ma il bene della patria si fecondava in ogni loro impresa. Giammai si disputarono in intestine discordie, tranne poche eccezioni tra quali la Roma antica che ci decanta la guerra civile per le gelosie di Mario e Silla. Il culto poi alla propria grandezza, l'istinto alla nazionalità, attepidiva, dominava ogni altra passione e ne fan pruovà i primi romani che allargarono i confini dell'impero in Europa, in Asia, nell'Africa; e le aquile vittoriose portarono in pia remoti lidi del mondo. Caduto l'impero romano, e fondato quello d'oriente, col medio evo, principiarono in Italia le lotte interne, retaggio lasciatoci dalle barbare invasioni, dei Vandali, Goti, Ostrogoti, e sempre si sono ampliate, sino ad assumere proporzioni favolose, nella grande fazione di Guelfi e Ghibellini, al confronto delle quali sono frivole tradizioni Capuleti e Montecchi. Firenze sovrattutto sì feconda nel mal vezzo: quella Firenze che hanno scelta a pietra di concordia tutti gli stolti fautori del regno Italiano.

-Queste divisioni, antipatie, hanno animate le continue riscosse, perché non v'ha reggimento politico in cui possono adagiarsi tutti i partiti. La rivoluzione francese, per quanti martiri cagionò non ha rincontro in nessun altra prima di quell'epoca; ma quando sarà finita la tragedia italiana e si conteranno con calma i flagellati, allora sì che sapremo come e quanto strazio d'umana carne abbia arrecato.

Egli è per questa ragione che noi esaminando, lo sviluppo, politico e religioso cosmopolita, diciam che l'uno non è ali' altezza dell'altro; e se i rigeneratori vituperano il cattolicismo, lo fanno nella considerazione che esso è la vera culla della civiltà: civiltà che intendono estinguere nel baratro di una società ideale, senza leggi, costumi, autorità, e regola di governo.

Né più né meno, son essi i conati, e lo scopo dei nostri odierni padroni.

Non arrivino adunque nuovi, od incomprensibili, i fatti che andremo svolgendo, essendo una logica conseguenza delle premesse settarie.

Dopo la partenza di La Farina, io m'ero stufo di politica, in modo che stetti tempo neghittoso senza brigarmene affatto.

-Avvalorò cotesta risoluzione una lettera che verso la metà di marzo l'ex Consigliere di Luogotenenza, mi mandò inspirata da tremendi propositi (1)

(1) Alla mia, colla quale, gli rimprottava, i traviamenti di una casta ribalda, ecco in qual maniera rispondeva il La Farina.

Onorevole Signore.

Ho ricevuto la sua pregiatissima del 16 Marzo alla quale benché tardi rispondo.

Sento pur troppo l'asprezza delle sue parole, ed il risentimento che Ella mi mostra. Del resto eran cose ad attendersi da novizii in politica. Sa Ella cosa vuol dire gettarsi in seno ad un partito che aspira a ricostituire un regno, abbrutito dalla tirannia, a vera, e reale libertà? Significa valicare per tutte sorte di ostacoli. Chi non si sente l'animo di farlo, meglio non abbracciare l'impresa, anziché a mezzo corso ritrarsi o ripudiarla.

La mia età, la mia esperienza di venti anni, passati in mezzo alle vicende politiche, mi danno il diritto di potere affermare, se altri osasse dubitare, Duolmi sicuramente che Ella si voglia ritrarre, dal campo in cui si era messo con buoni auspici: mi duole, perché potrebbe rendere dei servigi alla causa Italiana, sia col suo ingegno o col suo coraggio. Eppure bisogna distrarsi da certi rimorsi e certe idee, ad esser superiore alla sua età. Quand'io lo conobbi ammirai in Lei un certo slancio, una certa abilità nel sapere afferrare le quistioni che mi andò assai a genio. Lo ingaggiai al governo, e credo avergli reso un segnalato favore, perocbè solo in tal guisa il suo avvenire sarebbe assicurato.

Comprendo che la sua sociale posizione, non richiede ne soccorsi, ne impieghi, ma distingua la vita pubblica dalla privata; e se le aggrada, la prima bisogna passare per questa via.

-Una sera verso i primi di febraro, io me ne stava tranquillo, lontano dallo attrito degli affari, perché venne visitandomi il Barone Donnafugata amico svisceratissimo del La Farina.

Il mio immutabile principio è il bene d'Italia, ed a questi scuola ho esortato mai sempre i miei amici. Ho l'orgoglio di poter dire: che mi costa assai la coerenza del mio carattere: e dodici anni d'esilio lo pongono in evidenza.

Se mi domanda che fare a questo punto glielo ridico senza equivoci. Demolire per edificare. I primi soli nemici nostri sono due, Borbonici e Mazziniani. A costoro guerra aperta. senza tregua, con ogni mezzo, ed in tutti modi. D'uopo è rialzare lo spirito pubblico depresso dalla audacia della piazza, ed a questo si può giungere per due modi: o col rigore dell'autorità e sarebbe troppo prematura; o spingendo le fazioni all'anarchia. L'uno partito ingenererebbe timore, l'altro ribrezzo. Prescelto il secondo che ponendo il governo nella necessità dispiegare arditamente le sue forze, con plauso universale, riagirebbe potentemente sullo spirito delle masse.

Ella poi studiando le impressioni del luogo, può rettificare queste massime, come meglio le piace nell'applicazione. Ma ripeto, certi scrupoli non giovano, anzi servono a distogliere l'unità del programma.

Le ho parlato chiaramente. Intanto veda il Luogotenente. Si accordi con lui: parli a Dannafugata, e mi scriva presto.

Prima di finire la ringrazio per quanto si compiace quei dire al Barone Turrisi, sul conto mio. L'avvocato Fascila me ne dava, ragguaglio.

Se vuoi mandare corrispondenze al Piccolo Corriere d'Italia (Espero) badi che arrivino a Torino verso il 20 d'ogni Mese. Buscaleoni Segretario Generale della società Nazionale le scriverà pregandolo di altrettanto.

Mi creda con invariabile costanza.

Torino 9 Aprile 1861.

Suo Devotis.

La Farina.

-Egli mi tenne presso a poco un discorso del tenore seguente.

-

Il Luogotenente Generale del Re bramerebbe vederlo.

Mi astenga, signor Barone, d'una tal visita, perché ormai mi è incresciosa la politica e bramo ardentemente distrarmi delle avute preoccupazioni.

-

Il caso è grave affermava il Donnafugata. S. E. ieri sera appunto mi parlava che gli servirebbero una dozzina di facinorosi, per opporli ai Crispiani.


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-

E che sarebbero destinati a fare costoro? - Usare tutti i mezzi e modi per tenere a freno i nemici nostri.

-

Lo dica schietto Signor Barone: son dodici sicari che si chiedono. E me ne fa la domanda proprio a me? Voleva seguitare in questo tuono, ma capendo aver commesso imprudenza, mi tacqui. La dimani frattanto concertammo, mi sarei per la sera associato a lui per andare dal Montezemolo. Lo feci e mi tenne presso a poco il medesimo discorso.

Inorridii. Quegli sgherri dovevano servire per assassinare i capi del partito d'azione. Incredibile a dirsi...

-Caduto La Farina, fu preso a malvolere, un G. B. Guccione, ritenuto del partito Crispiano; e che rovesciato il gabinetto dello statista messinese, era salito al posto di Segretario Generale di Polizia.

Giovan Battista Guccione è un uomo zelantissimo, culto ed amante della libertà, devoto allo Stato, al governo, e nemicissimo d'ogni tirannia.

Or bene verso lo scorcio del 1862. Paolo Paternostro amico di La Farina, giura fare scempio di Guccione; una riunione è tenuta in sua casa e si propina alla morte dell'illustre cittadino. Non dirò fecciume di gente libasse, orde di assassini, e corrotta marmaglia. Verso l'ave, due sicari si agguatano presso la dimora del Guccione, e quando il vedono rientrare in casa, gli vibrano un colpo di pistola a bruciapelo. L'avvenimento restò nelle tenebre.

Il 2 Ottobre 1862 all'imbrunire, la città di Palermo è contristata da aspro macello. Dodici cittadini cospicui, per natali e per virtù cadono feriti, o trafitti di pugnale. Tutti presentano il colpo all'inguine, e vien costatata unica la mano colpevole di sì orrendo misfatto.

-Fosse sciagura pel potere o caso, il sicario vien preso coll'arma grondante di sangue, presso la via S. Ferdinando, ove avea spento l'ultima vittima. Costui dichiara dodici complici che si arrestano immantinenti. Un processo è accozzato da giudice Butta, così alla carlona. Mille contraddizioni emergono, e fra tante una di fatto. Costava che i pugnalati erano 12 così divisi: 2 invia mercato vecchio, contemporaneamente da un solo: due in via Macqueda, egualmente: tre confessò averne percossi D. Angelo: cinque isolatamente. Adunque sette furono i delinquenti, e dodici i prevenuti. Si disse che tre fra i voluti assassini erano gli organizzatori, e sia pure.... sarebbero dieci i convinti di reato, e due innocenti per forza.

Dippiù dalle perizie di tempo, si ebbe, che gli omicidi furono consumati fra due ore, l'un dopo l'altro; e se deve starsi all'omogeneità dei modi, delle maniere, delle ferite istesse, risulta un istinto ed un'azione. Calcolato poi la distanza delle strade percorse, poteva bene uno solo trucidare tutti.

-Angelo d'Angelo era stato due sere prima in abboccamento col Questore Bolis, circa la mezzanotte, e n'era uscito pallido e confuso.

L'inquisizione giudiziaria nulla rese palese. Fu scoverto il braccio che scagliò il colpo, ma non la mente che l'ordinò. Le sole deposizioni di Angelo d'Angelo, sempre uniformi, dettate colle stesse parole, e quasi da supporle imbeccate, bastarono, ad emanare un verdetto di condanna. Il nove marzo 1863 tre teste rotolarono dal patibolo, quelle cioè dei cosidetti capi: Masotto, Cali e Castelli; otto furono condannati agli ergastoli; ed uno, Angelo d'Angelo a 20 anni di galera, ma tosto mandato a Tonno e colà dicesi liberato.

L'assessore di questura Paddi, insospettito che in tale affare si nascondesse un tranello, cominciò ad investigare segretamente, ed arrivò a scoprire fino l'armiere che aguzzò gli stilletti. Ma che? appena ciò fu noto al Bolis, Daddi fu imprigionato, e giacque 12 o 15 mesi in carcere, pel delitto, di aver tentato indagini sovra un avvenimento che dovea restare occulto. Carte e documenti irrefragabili hanno provato che quell'infamia fu ordita da Bolis,

- ed eseguita dal solo Angelo d'Angelo per Ho tuttora scolpiti nel cuore, e mi rintuonano nelle orecchie le grida di Castelli, che montando il patibolo, proclamava la sua innocenza.

Il Generale Giovanni Corrao, garibaldino Serissimo racimolava intorno a lui ardenti patrioti, i quali discutevano di politica, e contro il governo. La sentenza di morte di Corrao fu pronunziata dalla Camarilla. Mentre tornava dall'agro, il 9 agosto 1862, due mandatari gli tirarono addosso e lo stesero morto.

Si imprigionarono due fanciulli che dissero testimoni del fatto; si trattarono con riguardi e delicatezze, a far che colle loro rivelazioni allontanassero le tracce vere del reato. Si menò un poco di chiasso e tutto finì. Il mistero diffonde una coltre fatale sull'accaduto.

Giuseppe Badia amico del Corrao, e mio, dopo aver combattuto con Garibaldi, di nessun sospetto borbonico, emigrato per tutta la restaurazione, ed oggi giacente in carcere, perché ostile alla camarilla fu condannato a morte.

-Un venditore di coralli lo apposta all'angolo della sua casa, e quando lo scorge si prepara ad ucciderlo. Ma Badia cauto e guardingo, cava il revolver e lo agguanta pel collare. Il sicario sbalordito depone avere avuto onze dieci, pari a lire 120'dalla camarilla per ciò fare. Il tutto fu registrato in una dichiarazione autografa che ha in potere Badia.

Francesco Perroni Paladini, repubblicano spinto, ma onesto ed intelligente patriota, fu testé mortalmente ferito da colpi di pugnale in pieno giorno.

Badisi, che ho raccontato gli omicidi politici e nulla più.

Il Questore Serafini, giovane egregio, funzionario incorruttibile, e di cui Palermo conserva dolce memoria, commista a palpiti di affetto e riconoscenza, una sera del Dicembre scorso, mi chiamava, e con quella sincerità che ne forma il più bello elogio mi diceva aver saputo: «Che una riunione si era tenuta dai fautori della camarilla, per raccogliersi le somme onde farmi scannare, e che nulla era tuttavia successo, perché mancava il sicario. Averne avuto sentore, ma non potere inquisire la giustizia perché mancavano pruove e testimonii. -

Mi guardassi però, ed apprendessi che Carlo Trasselli, non certo mio amico politico, ma onorato cittadino, avea sdegnosamente, obbiettato il vilissimo divisamento.»

Nulla risposi e mi raccomandai ai Santi ed al revolver. I fatti non mancarono a giustificare le previsioni, ma la Dio mercé rimasi illeso.

IV.Le prigioni Un giorno del 1862 [1851 N. d. R] apparve in Inghilterra un libro che per la fama del suo autore, levò grande rumore in Europa.

Questo libro si chiama lettere di Gladstone. Parla di torture inflitte ai prigionieri nel Reame di e lo stato di squallore che in un giorno quei miseri stivati nelle prigioni presentavano. È una descrizione tutta fuoco, tutta brio. Un arcano racconto di fantastici ritrovi. Chi lo legge inorridisce, freme e manda un ruggito dall'anima, ed impreca la folgore, sul governo da lui detto: negazione di Dio. -

Le famose lettere posero in bisbiglio tutte le corti, e quella di Francia prima, protestò l'inqualificabile condotta del governo borbonico. Ma vi era nulla dì vero? Nulla!.. Questo romanzo di Gladstone fu un piano preconcetto per arrivare allo scopo di subissare il regno Partenopeo, che era il più invidiato del mondo.

Non è mio intento confutare quelle accuse. Già la storia ne ha molto discorso, e per me sarebbe troppo tardi. Hanno tutti letto gli opuscoli di Giulio Gondon, dì Mac Farlan, gli articoli dell'Ordine, dell'Armonia e dello stesso Times, e ciascuno ne ha dato il suo giudizio; ed anche lo stesso scrittore ne ha sconfessato il detto. Io poi, benché non son ligio ai principi dell'antico governo borbonico, non saprei propugnare la causa di quegli uomini. 1i Principe era irresponsabile ai trattamenti di un aguzzino, i quali, se pur furono crudeli, per nulla dovevano riverberare sulla Dinastia.

Alle patetiche impressioni dell'odierno Cancelliere dello Scacchiere, ai sogni fecondi dei patimenti di Carlo Poerio, che la Gattinà confessava non essere altro che un mito della favola, un eroe immaginario, io opporrò soltanto la pallida figura delle condizioni attuali, in cui sono i detenuti del regno Italiano.

-Io non dirò stravaganze e poetiche dipinture, non mi diffonderò a speculare torture. Se il volessi lo potrei cercandole nelle antiche costumanze piemontesi; ma narrerò il ritratto fedele, di quello che ho veduto, che ho toccato colle proprie mani, e Constatato co' miei occhi.

Nel capitolo della giustizia, denunziai, come e perché si arrestano i cittadini d'Italia. Or mi tocca dire i trattamenti che ricevono nel periodo dell'inquisizione, cioè, quando il delitto non è ancora giudicato, ed il prevenuto può essere innocente tanto che reo.

Appena arrestato, gli avviticchiano alle mani pesanti ferri, cosiddetti manette, che i carabinieri sovente stringono tanto a forza di vite da stritolare le ossa; poi vien tradotto alle Grandi Prigioni, in vernacolo Vicaria. Colà lo spogliano da capo a piedi, e con modi inurbani gli frugano le vestimenta. Compita questa prima cerimonia lo mandano in uno dei cinque raggi di questo vasto casamento, fabbricato a si

-In quell'anguste pareti il prigioniero non può comunicare con alcuno; e se il custode si avvisa di tanto, lo percuote a furia di chiavi, e lo sottopone a rigorose punizioni (1). In ogni 24 ore vengono soltanto aperte, all'ora del cibo, che a quei miseri si da come un pezzo di pane muffito al botolo;

(1) Dirò le punizioni in genere.

L'appalto pei prigionieri si enumera per individuo a 24 centesimi l'uno. Ora tra custodi del carcere e fornitori, avvi un segreto contratto, pel quale 40 50 e fino a 100 razioni al giorno debbono darsi di meno, e queste mentre figurano nel bilancio degli esiti restano assorbite dalla rapina dei carcerieri.

Per giustificare, con apparente forma legale, la vilissima specula/ione, ogni giorno si puniscono un n° di 50 60 o 100 prigionieri a quali viene inflitto pane ed acqua; perciò ogni gesto, ogni atto il più innocente, in mano di quei barbari, si traduce a delitto: e sovente si fustiga un intero camerone ove gemono da 40 a 50 individui, pel solo sospetto di essere complici al mancamento del compagno.

Vi sono poi altri castighi pia gravi. In ogni piano del raggio che ne comprende tre, vi è una stanzaccia umida, colle pareti roaspe, ed ove p, issa il canale della latrina, che esala un fetore pestilenziale. Ivi si getta a marcire una povera vittima per dieci o quindici giorni, e non gli si concede mai un po' d'aria La cameretta è buia perfetta, né vi penetra spiraglio di luce. Figurisi il lettore, quale orrore e disperazione, quale lenta tortura, pruova lo sventurato che vi mal capita!

- ed in quell'ora stessa destinata a sfamarli, i facchini del carcere, fanno la pulizia delle immondezze, che putrefatte, esalano miasmi pestilenziali e sviluppano morbosi contagi.

Vi sono poi le camere serrate ad un metro quadro, con umile finestrino, umidissime e piene d'insetti; colà si chiudono come in una tomba, prevenuti, badisi non sentenziati, e si lasciano marcire per interi mesi ed anni alla discrezione di un aguzzino o di un giudice qualunque.

A prigionieri non è concesso conversare secoloro mai, e nemmeno trovar refrigeri nel narrarsi le pene a vicenda: talvolta per caritatevole compassione ne serrano due in una cella, ma l'angustezza del luogo, il contatto di sudice vesti, li ammazza; e basta osservare le statistiche degli ospedali per dedurne che il 10 o 15 per cento del totale dei detenuti si ammala, e spesso miseramente perisce. AH' uopo dovrei riferire quanto ne scrisse il Fornitore ufficiale Michelangelo Cammineci, riportato dalla Gazzetta ufficiale del Regno d'Italia, parlando sulla seduta del 25 febraro 1863, ma me ne astengo, perché, oltre che tutti i periodici del tempo riprodussero questa lettera, Ausonio Vero nel suo Conte Durante la trascrisse in nota a pagina 112.

La media cifra dei detenuti ascendeva a 700 e più individui, e solo nei momenti della rivoluzione del 1860 raggiunse il 1200 sotto il passato governo. Ora è constatato nella Vicaria di Palermo, l'esistenza di 2000 carcerati, e nel 1862, montarono a 2400, come ho io stesso letto nei registri della custodia.

I favoriti e protetti stanno a 50 o 60 camuffati in un camerone, lungo una dozzina di metri, e largo quattro o cinque. Costoro perlomeno godono un poco d'aria, e ragionano fra loro. In tutti i paesi civili, il detenuto spende il suo tempo ai lavori, la qual cosa arreca molti vantaggi, e prima di tutto l'abitudine al travaglio, migliora il suo trattamento, potendolo sopperire co' suoi lucri, e cumola certi risparmi, che espletata la pena o il carcere preventivo, forniscono una momentanea risorsa ai poveri ed agli indigenti.

Ma in Italia, sciaguratamente si sdegnano siffatti provvedimenti, e la creatura di Dio che spesso innocente langue in un orrida

-negletta e dimenticata, è costretta a più abbruttirsi nell'inerzia, a considerare l'eccesso del suo delitto, oppure divorare l'ingiustizia degli uomini, nella convinzione della innocenza (1).

Né meno lurido e schifoso è il cibo, che si compone di pane nero cretaceo, che i prigionieri sdegnano e piuttosto soffrono la fame; perocchè è da sapersi che la parte più sana e pura del nutrimento serve ai custodi, ed ai direttori e carcerieri.

Una minestra orribile satolla quegl'infelici. Non medico, non medicine; eppure si spendono tesori per ciò.

(1) Tra i precettisti maggiori di medicina legale io cito il Descuret. Or bene a parere di questo insigne sdentato, egli asserisce che i frutti della sua sperienza gli àn mostrato che la pazzia è frequente nei detenuti, giusto per difetto di divagamento, e fissazione ai patimenti che loro sovrastano.

Il detto medico, raccomanda assai ai governi il lavoro ai detenuti, non solo come utile ma come distrazione.

Non v'è umana società che distrugge i vincoli del sangue o tenta attepidirli, perochè il cullo alla propria famiglia è una manifestazione di quella morale che regola gli umani rapporti. Il governo d'Italia, aggiogatore di ogni nobile impulso civile, per ricacciare l'uomo nel prisco brutisimo, senza affetti e senza Dio, attenta a questi dritti della natura ove impera.

Ai detenuti è vietato favellare a loro parenti da solo a solo. Se questo partito è in parte giustificabile pei versanti in processo, è inumano, ribaldo, pei condannati; e questa blandizia non si concede che a lunghi intervalli, perfino co' prevenuti politici, ai quali è colpa l'opinione, ed il suffragato alla gratitudine.

-Io ridico: ho veduti prigionieri ignudi, altri carichi di schifosi insetti, altri divorati dalla fame, dagli affanni, dai patimenti, andare rangolando per oscure pareti, ad implorare il soccorso di un medico, ma inutilmente. Sono stati colpiti a colpi di chiave di rimando e con verghe percossi (1).

Trentacinque mila di quest'infelici gemono in e Sicilia, ed il Sig. Gladstone finge ora non vederli. Il cosidetto crudele regime dei Borboni finì,

Io che vergo queste linee ho assistito a scene miserande. Muore talun all'ospedale della Vicaria di Palermo, e se implora per grazia I' ultimo addio ai suoi cari gli si niega.

Nell'Aprile del 1864, trapassò un giovane di bellissimi forine, che era stato ferito dai carabinieri in campagna.

Egli era un renitente alla leva!....

Io lo volli visitare nel letto dell'agonia, e mi associai perciò ad un pio sacerdote, che andava per prodigargli gli estremi conforti di nostra religione. La sua figura era squallida, la fronte corruscata, e soffriva dolori acerbissimi. la reggendo il ministro del santuario gli si gettò a stento al collo, e con voce singhiozzante gli chiese il Crocifisso che li pose al petto, poscia piangendo e scongiurando invocava dal celeste simbolo di potere per I' ultima volta baciare la vedova madre e l'orfana sorella. L'Autorità non volle.

Lo contemplava con una religiosa commozione: i suoi occhi non si staccavano mai dalla venerata Immagine del Redentore e pregava.... pregava.

Passò in tal guisa tutta la notte, le sue querele avrebbero perfino intenerito i sassi, ma non ammollirono il cuore dell'autorità rigeneratrice, ad onta che il pio Sacerdote pregasse a nome di Dio. L'infelice spirò, deluso e convulso!

(1)

Mi basta per tutto constatare l'esistenza di un certo

-ed il governo rigeneratore lo ha rimpiazzato con la tirannia, con l'inumanità, col disprezzo.

Povera Italia sempre schiava dell'ambizione!..!..

Fede e Speranza Il mio libricciuolo è compito. Mi resta ancora un voto ed una speranza.

Io sono, ripeto, e lo dico fino alla nausea liberale ed onesto per principi dinastici. Abborro le sètte, che sono sempre l'emanazione dei calcoli e private passioni, e non la manifestazione del bene patrio.

Riconosco nel partito garibaldesco il calvario ed il martirio. La rivoluzione mi colorì dell'utopia. I moderati puri, che servono la casa sabauda per fede e devozione ammiro; detesto ed esecro quei che per giovare a loro stessi ed alle parziali ambizioni, rovinano l'edificio della concordia, annientando lo stato, che potrebbe diventare forte

G. d'Amico nelle prigioni di Palermo. Ei fu dimenticato a camera serrata. Le sue guance colla continua umidità divennero livide, il colore cretaceo, i capelli irti, e perde l'uso della ragione. Comunque istupidito giace colà tuttora, né pietà né rimorso lo soccorre.

Egli ride a tutti, poi si concentra e prorompe in punto, indi fa capriole, e cade in deliquio. Orrore!....

-con una confederazione tra i legittimi Principi, che è il vero conato intimo del popolo italiano.

Se osteggiai il governo borbonico, non intesi far guerra alla dinastia, ma alla perversa camarilla, malamente sfrenata ad abusi e tribolante i soggetti.

Quando mi accostai al governo di Torino mi balenò il pensiero che questi attendesse a riparare il guasto ed i mali; ma quando fece peggio, me ne allontanai con disgusto, e perciò propugno l'autonomia e la personalità dei singoli stati.

Non odio nessuno, e neppure quei che mi hanno impunemente perseguitato, calunniato, esiliato, imprigionato, e mille volte processato senza nulla cavarne, fuorché rimorso e disinganno nella mia innocenza.

A Francesco II non solo serbo un culto che la sventura mi detta, ma un rispetto profondo per vederlo vittima di inauditi tradimenti e ribalderie di tanti che gli si dicono amici: questo stesso rispetto non seppe negargli anche Garibaldi, quando vide che tutti fuggivangli da! fianco nel momento del pericolo, né perirò stamparlo.

Onoro la generosa Monarchia di Savoia,

-Qual è la mia fede....

Io ritengo per certo ad una crisi politica, le cui vicende sono imprevedibili, ma sicure.

L'esquilibrio dei possessi, la china della nazionalità straripante, deve presto o tardi riscuotere l'odierna autorità.

Allora che succederà? Un rimpasto, un caos, ed un ordinamento sociale.

Che le potenze conservatrici, sieno sui sentiero delle concessioni è un fatto innegabile, ma che da queste trasmodino fino al suicidio, è un abberrazione.

Ecco tutto. Che spera? Spero, molto criterio nei governanti, e giudizio nel popolo per venire ad una conclusione, senza passare per stragi e carneficine.

In quanto a me aspetto giustizia dal tempo e dalla calma delle passioni, per essere appreziato nei miei veri sentimenti.

FINE

INDICE

Libro Primo



A chi legge

Pag.

1

La Farina e la sua Setta

«

9

Io e La Farina

«

14

Idee di La Farina sull'Unita Italiana

«

17

I Complici di La Farina

«

35

Il 21 Ottobre

«

40

Dal 2 al 31 Decembre

«

67

Trama La Farinesca

«

93

Colpo di stato

«

104

Libro Secondo



Proemio

«

117

La Giustizia

«

118

Le Finanze

«

129

Assassini

«

136

Le Prigioni

«

149

Fede e Speranza


«

157

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