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PIO IX
ED IL SUO SECOLO
DALLA RIVOLUZIONE FRANCESE DEL 1789
ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA
PER
BIAGIO COGNETTI
DOTTORE IN TEOLOGIA
TIRTEO FRA GLI ARCADI, PIO METELLO
FRA I PELLEGRINI AFFATICATI.

SOCIO DELL'ACCADEMIA dei TRASFORMATI.
DELLA COSENTINA. etc. etc.
Vol. II.
NAPOLI
STABILIMENTO TIPOGRAFICO DI P. ANDROSIO
Cortile San Sebastiano, 51
1868
(2)

Parte prima (1)

Parte seconda (2)


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CAPITOLO X.

La Guèrronniere e la politica imperiale - L'Associazione Unitaria di Torino - Proclama. - L'Istituzione Lettere di Cavour a La Farina, ed a Cantelli - Ministero rivoluzionario a Londra- Una lettera importante alla Gazzetta d'Augusta - Napoleone a Bordeaux - Indirizzo dell'Arcivescovo - Risposta dell'Imperatore - Commenti della stampa all'oggetto - Un dispaccio imperiale a Roma - Dichiarazione del Duca di Grammont - Passaporti dati a Roma al plenipotenziario Sardo - Circolare del Card. Antonelli - Trattato di Zurigo - Dimostrazioni dell'Episcopato, e della stampa cattolica.

La Guèrronnière, dopo aver passati tutti i diversi stadi che possono incontrarsi in politica, divenne il più caldo partigiano di Napoleone 3.° A simiglianza di Talleyrand fu legittimista, repubblicano, e bonapartista; ma di quell'astuto uomo di Stato non ebbe la scaltrezza, l'ingegno e il tatto diplomatico. Niuno meglio di La Guèrronnière potea darci il ritratto morale del prigioniero di Ham addivenuto Imperatore del Francesi, ed arbitro della politica europea

274 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

«Vediamo l'uomo, egli dice -: vi cerco la luce e non vi trovo altro che ombra.... -pensa, e non discute; decide, e non delibera; opera, e non s'agita; pronunzia e non ragiona. I suoi più intimi amici noi conoscono-Ascolta tutto, parta poco, e non cede mai;.... calcola tutto, anche l'entusiasmo e l'audacia. Il suo cuore è schiavo della sua testa....»

Quest'uomo signoreggiava la rivoluzione italiana; l'affiancava; le dava aiuto morale, lenendo in soggezione alcune potenze, altre a sé conciliando. Minacciava il Gabinetto di Torino, ritirandone il suo ambasciatore, ma nel tempo stesso a Napoli gli dava braccio forte politicamente, e la sua squadra facea servire di sicurtà ai piemontesi, nel tempo stesso che assicurava Francesco 2° di Napoli di tenerla a tutela di lui.

Per altro, è nostra opinione, che mal s'appongano coloro i quali tengono per fermo, Napoleone voler l'unità italiana dall'Alpi all'Adriatico. Per noi stà, non esservi stato mai dell'unità italiana nimico maggiore dell'Imperatore del Francesi -: e se egli non ostacolò la caduta. del Principi, al che sarebbe bastata una semplice dichiarazione, fu perché avea calcolalo, impossibile essere il sostenersi del governo unitario, il quale dopo qualche periodo di tempo sarebbe affogato in difficoltà tali, che avrebbe richiesta la sua mediazione.

Secondo l'opinione del più accurati politici del giorno, fu questa la ragione per cui egli assisté impassibile alla rivoluzione del 1860.

Non appena le truppe Franco - Sarde dopo il trattato di Villafranca furono ritirate dal piede di guerra, l'Associazione Unitaria Italiana maggiormente allenò l'animo a fomentare la rivolta; e più facile le tornava conseguirla, avvegnacchè il nome Piemontese con la battaglia di S. Martino, Magenta, e Solferino, e quello di Garibaldi col vanto delle fazioni combattute a Varese avessero acquistato un fascino, che scuoteva i cuori del giovani.

La maggior difficoltà, altra volta incontrata nel tentare Napoli, era cessata con la morte di Re Ferdinando.

(1859) LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 275

Gli uomini, che fino a quel tempo ammantandosi in vili adulazioni, tramavano in segreto, presero vigoria, e si mostrarono, meno cautamente, partigiani della rivoluzione.

L'amore della novità è una malattia, che non si sana facilmente in Italia; un grido di libertà vera o falsa, che si prometta; avventure da romanzo esagerate dallo spirito di parte., sono sufficiente impulso a popolari commozioni.

Al Comitato centrale di Torino appartenevano gli emigrati di tutte le città d'Italia: per lo che sembrò facile cosa lo stabilire un programma che potesse accontentare le esigenze delle diverse popolazioni. Prometter molto, senza darsi carico se attender si potesse all'impegno, era politica della rivoluzione: lo che si rileva dal seguente documento, che fu diramato in tutte le città Italiane.

ASSOCIAZIONE UNITARIA ITALIANA

SCOPO DELLA SOCIETÀ

Cooperare al conseguimento dell'autonomia. dell'unificazione, e della libertà d'Italia.

PRINCIPII FONDAMENTALI

«1.° NELL'ORDINE POLITICO - Esclusione di ogni dominio ed influenza straniera in Italia per riunire la intera nazione sotto una amministrazione comune: abolizione di qualsiasi forma di caste e privilegi: eguaglianza del cittadini nei diritti politici: estensione del principio elettivo: guarentigie efficaci del diritto di associazione e di petizione, della libertà personale, e della libertà di coscienza.

«2.° NELL'ORDINE CIVILE - Riforma della legislazione per metterla in armonia col principio dell'eguaglianza nei diritti civili: abolizione totale del feudi (??), fedecommessi, manimorte; parificazione nell'ordine della successione: restrizione in giusti limiti della patria potestà; emancipazione della doma.

«3.° Nell'Ordinamento Amministrativo-Ordinamento del Comuni a sistema elettivo, e decentralizzazione del potere amministrativo.

276 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

«4.° NELL'ORDINE GIUDIZIARIO - Applicazione della procedura pubblica ed orale a tutta l'amministrazione della giustizia; estensione del sistema del giurati: limitazione del carcere preventivo: determinazione di pene più confacenti per la qualità, e per la durala con lo Stato presente della civiltà: abolizione della pena di morte.

«5.° NELL'ORDINE EDUCATIVO - Istruzione primaria obbligatoria; gratuita nell'insegnamento pubblico, e libero sviluppo del programma governativo: libertà nell'insegnamento privato: diffusione del sapere in tutti i celi del popolo; emancipazione della scienza dall'autorità del clero, e dall'influenza di ogni sistema religioso - (l'unica promessa che si vede attuata!).

«6.° NELL'ORDINE INDUSTRIALE E COMMERCIALE - Attuazione del principio di associazione in modo da non inceppare la libertà individuale, e da prevenire le coalizioni tanto fra gli operai, quanto fra i capitalisti; libertà del commercio; soppressione delle barriere doganali: sviluppo del mezzi di comunicazione: assimilazione del rapporti internazionali.

«1,° NELL'ORDINE FUNZIONARIO - Massima economia nella pubblica amministrazione, senza nuocere alla prosperità dello stato e delle sue istituzioni: Limitazione delle varie specie d'imposte: equità nel ripartirle: convenienza nel modo di riscuoterle.

«8.° NELL'ORDINE DELLA PUBBLICA DIFESA - Sviluppo di tutte le forze militari del paese: ordinamento e disciplina dell'esercito secondo i principii dell'eguaglianza e della giustizia, fino a che l'alleanza fraterna del popoli non permetta l'abolizione di ogni esercito stanziale....

Con siffatti proclami mistificavansi gl'Italiani; ed i congiurati sospiravano il momento di sentirsi salutati patrioti, e di prendere nelle loro mani le redini del governo, l'amministrazione ed il pubblico tesoro!

Simigliaci proclami si pubblicavano non solamente dai giornali del

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ma anche dalla stampa estera; la qual cosa maggiormente confermava, che Napoleone, ritiratosi a Villafranca, continuasse a dare il suo appoggio al gabinetto di Torino per organizzare una rivolta radicale in tutta la penisola.

Il ritiro di Cavour dal ministero era evidentemente un alto di simulala politica, avvegnacchè egli fosse sempre in animala corrispondenza col Comitato unitario di Torino.

Difatti dopo la ratifica del trattato di Villafranca, La Farina capo e centro degli agitatori, non sapendo in qual modo spiegare la politica di Napoleone, chiese al Conte di Cavour aiuto e consiglio, e ne ebbe risposta soddisfacentissima. Cavour e Napoleone s'infingevano tra loro contrari in politica, per stornare l'attenzione delle potenze nordiche da quanto dovea perpetrarsi in Italia.

L'Imperatore del Francesi a Villafranca avea ottenuto quel che desiderava; cioè togliere a qualunque potenza il diritto d'intervenire con le armi per sedare possibili movimenti rivoltuosi: egli avea dichiarato che né interverrebbe, né permetterebbe che altri intervenisse con le armi in un senso contrario ai voti delle popolazioni; e questo fu il colpo, che legò le braccia all'Austria ed agli Stati di Germania, sempre titubanti di compromettersi in una guerra, nella quale dubbio era il contegno della Russia.

Ecco la risposta, che Cavour inviava a La Farina: - «Prima di rispendere alla sua interpellanza, io debbo muoverle un rimprovero: perché non è venuto ella a vedermi? Crede ella, che io abbia dimenticato i distinti servigi, che ha reso alla causa italiana? oppure mi ritiene non più atto a giovare alla medesima? la prima ipotesi è contraria al mio carattere....; la seconda ipotesi ha forse maggiore fondamento.

«Il non essere pienamente riuscito all'alta impresa, che la mia mente avea concepita, mi rende inatto a dirigere d'ora in poi la politica italiana: ma quando anche ciò fosse,

278 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

ho tanto patriottismo per com

Qualche giorno dopo, Cavour riprendeva il posto di capo della rivoluzione, ed allo stesso La Farina scriveva-: «Venga da me a Torino lunedì all'ora antica (sic) - Se giunge lunedì, la vedrò martedì - Avrò molto piacere a ragionare con lei del passalo, del presente, e del futuro dell'Italia Nostra, ed a Ricominciare l'opera interrotta, ma non abbandonata

Cavour

Nello stesso senso scriveva al Comm. Castelli - «.... Io non ho rinunciato alla politica: vi rinunzierei, se l'Italia fosse libera: allora il mio compito sarebbe esaurito: ma finché gli Austriaci sono al di quà delle Alpi, è un dovere sacro per me di consecrare ciò che mi resta di vita e di forza a realizzare le speranze, che ho contribuito a far u concepire ai miei concittadini (1).

L'agitarsi segreto del comitati diretti da Torino non sfuggiva agli occhi della diplomazia.

Il ministero Derby conservatore era caduto in vista degli avvenimenti che avvicendavansi in Italia. L'Inghilterra, vedendo l'influenza francese acquistarvi preponderanza, credé necessario nei suoi interessi di mischiarsi nella quistione e portarla agli estremi con la sua morale mediazione, nel fine di ritrarne vantaggiosi trattati di commercio, se la rivoluzione riuscisse; e metter Napoleone nell'imbarazzo e dell'impopolarità verso la rivoluzione, se avesse desistito, o dell'attirarsi l'odio del elencato pel fatto degli Stati del Papa. Perciò fu formato un ministero progressista, Lord Palmerston Presidente; conservatore tenacissimo a Londra; protettore di sette, capo del frammassoni nel continente: Lord Russell, noto per idee rivoltuose; e Sir Gladston, il panegirista di Poerio, il nemico più acerrimo e dichiarato del Borboni di Napoli - Cavour in questo ministero ebbe braccio ai disegni della rivoluzione.

(1) Bianchi- loc. cit. pag. 13.

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Di fronte a lai fatto l'Imperatore, che volea agire senza rivelare i suoi intendimenti, ricorrendo al solito costume della pubblicità, fece inserire sulla Gazzetta, d'Augusta (1) una lettera che, come tutto quel che riguardava la politica imperiale, fece il giro di tutta la stampa estera. Essa era diretta a rassicurare la Chiesa e la diplomazia sulla leale neutralità della politica imperiale. Il documento è molto importante.

«Parigi 10 Settembre - A Napoleone 3.° venne l'idea dell'armistizio a Villafranca, principalmente perché profondamente disgustato della politica del Conte Cavour. Quest'uomo di stato e l'imperatore parvero per lungo tempo di accordo, perché andavano d'accordo nel pensiero di fiaccare la potenza austriaca in Italia. Ma non venne mai in mente all'imperatore di dividere l'Italia in tre parti; una pel Re di Piemonte sino alle porte di Roma; una per la città di Roma, e suo territorio in cui chiudere il Papa: ed una pel Re di Napoli.

«Questo fu il pensiero di Cavour, e da anni erano già di accordo perfettamente, e convenivano in quest'alleanza, i capi della nobiltà bolognese e Toscana, e i professori delle Università.

«Cavour lo dissimulò all'imperatore, e a lui, come anche a Mazzini e suoi seguaci, giuocò questo tiro alle spalle. Ma subito, dopo che per le battaglie di Magenta e Solferino le cose d'Italia erano state risolte principalmente dalla spada di Napoleone; in Toscana, a Parma, a Bologna, indi a Modena e in una gran parte dello stato ecclesiastico si svolse cosi mirabilmente la politica del Conte di Cavour, e l'attività di lui, che l'Imperatore ne sentì disgusto, e nella sua mente nacquero le trattative di Villafranca.

«Questa quistione già difficile in sè, e sempre più difficile per la situazione in cui si vuole mettere il Papa, come principe della Chiesa, diviene ancor più complicata in vista della politica del gabinetto inglese, che a Cavour ed ai suoi disegni è personalmente amica.

«La quistione principale non e più l'Austria e la sua posizione nel Veneto, e neppure la casa di Lorena in Toscana e Modena;

(1)

Gaza. d'Augusta del 14 Sett. 1859.

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ma da una parte è il Papato e la situazione del Papa, e dall'altra la potenza e l'ingrandimento della casa di Piemonte. (Questo era l'esordio per preparare gli animi alla cessione di Nizza e Savoia, che stabilita a Plombières, si faceva convalidare col PLEBISCITO).

«La potenza austriaca in Italia è infranta, perché ha contro di sé lo spirito popolare di tutta l'Italia, meno i contadini del Veneto e della Lombardia, come anche quelli di Toscana, tuttavia affezionati al vecchio Granduca»

Si attenda ora alla conchiusione, che sviluppa la più che intima certezza della rivoluzione protetta, che dovea scoppiare, fatta sicura dal non intervento, e dall'azione vivissima del comitati Piemontesi che guadagnavano terreno con le grandi aspirazioni d'indipendenza, con il prestigio di Magenta e S. Martino, e con gli errori degli uomini del governo di Napoli.

«Se il Piemonte (conchiude la lettera) possiede l'altitudine politica d'incorporarsi elementi così indipendenti, quali sono quelli della Lombardia, di Bologna e di Toscana, Io deciderà il tempo. Finora Cavour non si è mostrato che per una testa politica: ora egli è fuori servizio, intanto che Vittorio Emanuele raccoglie quanto è stato seminato! Il reame di Piemonte deve trovare un nuovo centro della sua potenza, mercé cui questa grande ambizione corrisponda ad una causa non più piemontese, ma PURAMENTE ITALIANA...

Con questo stile anfibio Napoleone, mentre non impediva alla rivoluzione il seguire le sue trame per detronizzare i principi Italiani, assicurava nel tempo stesso i cattolici francesi a nulla temere pel territorio della S. Sede. E Napoleone volte anche da sé stesso avvalorare le politiche menzogne.

Nell'Ottobre egli recossi a Bordeaux, là dove anche nel 1852 era andato a preparare il colpo di stato del 2 Dicembre!

Il Cardinale Arcivescovo nell'Indirizzo di forma gli disse:

«.... Sire, allorché otto anni fa, la città di Bordeaux vi faceva accoglimento cosi entusiastico noi pregammo per colui che avea

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Questa volta l'Imperatore fu preso alla schiaccia non preparata la risposta, come al salito, a due tagli, ne improvvisò una, che pur se non chiaramente, almeno metteva molto in dubbio, che egli fosse difenditore della sovranità temporale del Papa.

«La ringrazio, rispose al Cardinale, d'aver ricordato le mie parole, perché io ho ferma speranza, che un'era novella di gloria sorgerà per la Chiesa, il giorno in cui tutto il mondo parteciperà alla mia convinzione, che il potere temporale del papa non è opposto alla libertà ed alla indipendenza d'Italia.

«Io non posso entrare qui nelle spiegazioni, che esige la grave quistione che ella ha toccata, e solo mi limito a ricordare, che il governo che ha ricondotto il Santo Padre sul suo trono non potrebbe

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suggerirgli altro, che consigli ispirati da una sincera e rispettosa ii decozione ai suoi interessi: ma egli si attrista con ragione del {norie no, che pur non è lontano, in cui Roma sarà sgombrata dalle nostre truppe....; e quando il nostro esercito si ritirerà, che lascerà egli dopo di sé? l'anarchia, il terrore, o la pace? - Ecco questioni, la cui importanza non sfugge ad alcuno. Ma creda pure, nei tempi in cui viviamo, per risolverla, bisogna, invece di fare appello alle ardenti passioni, ricercare con calma la verità, e pregare la provvidenza d'illuminare i popoli ed i re sopra il saggio esercizio «del loro diritti, come sull'estensione del loro doveri....».

Questo discorso freddo ed incisivo, mentre da una parte mostrava che l'Imperatore non avrebbe abbandonalo il papa con i consigli; dall'altra preparava l'Episcopato a persuadersi, colpa del governo romano esser quanto avveniva ed avvenir dovea in quelle province.

Siccome di ogni parola dell'Imperatore il giornalismo facea tesoro; così oltre i consueti elogi dei diari francesi, sono significative le lodi sperticate, che ne fecero le effemeridi inglesi - «Il divisamento di Napoleone, scriveva il Times, è di far riforme a Roma, senza le quali è impossibile che ritiri le sue forze».

E il Morning - Post «il celebre discorso dell'Imperatore a Bordeaux, il quale proclamava, l'impero è la pace, presenterà minore interesse storico, che questo secondo, il quale dichiara esplicitamente, che l'Impero è La Riforma Papale il conflitto oggi cangia di arena: non si tratta più di una lotta tra l'Italia e l'Austria, ma tra la Francia imperiale e la Roma papale....»

Questi fatti politici, uniti agli avvenimenti delle Romagne, mostrarono nel modo più chiaro al governo di Roma, che fessevi segreto accordo tra i gabinetti di Francia e di Torino per eseguirsi lo spogliamene delle province pontificie; per la qual cosa il Cardinale Antonelli, richiesto al Duca di Grammont sino a qual punto potesse fiduciare nell'appoggio della Francia per la sicurezza del possedimenti della Chiesa,

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l'Ambasciatore Francese gli comunicò il seguente dispaccio ricevuto da Parigi, e che assicurava essere stato già trasmesso ai governi provvisori di Romagna intorno ai divisamenti dell'imperatore.

«L'Imperatore è deciso di sostenere, e raffermare il trono di S. Pietro, cui sono interessate 150 milioni di coscienze.

«Nell'attuale guerra d'Italia egli non ha avuto altro scopo, che liberarla dall'oppressione straniera.

«Questo scopo ottenuto, la quistione è divenuta europea.

«Un congresso solo avrà il diritto di decidere i destini dell'Italia renduta a sè, e guarentirla contro tutto e tutti.

«In questo congresso, se l'Imperatore sarà il sostegno del Trono Pontificio, non sarà meno l'avvocato dei piati legittimi e fondati del popoli.

«Restino quindi calmi e fidino per quel momento in lui».

E in questo senso rispose il Re di Sardegna agli inviati dell'Italia centrale; quindi era innegabile l'accordo che passava tra i due gabinetti. La Corte di Roma però non si facea certamente abbagliare da queste promesse, le quali non celavano volersi rispettato il voto del plebisciti; e se ne convinse, quando rifalle istanze all'ambasciata francese per aver spiegazione delle parole proferite dal Re Vittorio Emanuele alla deputazione, il Duca di Grammont rispose: l'imperatore averlo autorizzalo a dichiarare non aver egli garentito alla S. Sede, che quella sola parte di territorio, la quale era occupala dalle sue truppe. «Oggi, son sue parole, è tutto affatto impossibile agire contro uno e stato di cose compiuto per fatto proprio e volontario degli Austriaci, e contro popolazioni che sollevatesi a quell'appello, per la causa «italiana gli offrirono ventimila soldati».

Non v'era più dubbio sulle intenzioni della rivoluzione; laonde il governo di Roma vide la necessiti! di dare i passaporti al Conte della Minerva plenipotenziario Sardo, accompagnandoli con una Circolare a tutti i Gabinetti, nella quale, esposta l'accettazione delle Romagne fatta dar Re di Piemonte, dichiarò, che sin dal 1° Ottobre si eran mandati

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i passaporti a quel Ministro, il quale cessando di esistere le

Mentre così agitali erano gli animi, si unì a Zurigo la conferenza del belligeranti per ultimarsi ciò che già era stato stabilito a Villafranca dai due Imperatori. Rappresentavano la Francia il Barone di Bourqueney; l'Austria il Conte di Colleredo - Mansfled; la Sardegna il cav. Dos Ambrois de Nevache.

Standosi alle basi della Confederazione Italiana, i due Imperatori assunsero l'incarico d'indurre il Papa alle necessario largizioni per agguagliare gli stati Romani ai rimanenti d'Italia -; l'Imperatore del Francesi trasmetteva al Re di Sardegna la Lombardia; si fissarono i patti per gl'impiegati, e per le pensioni già accordale dall'Austria a famiglie lombarde; il Piemonte si obbligava di pagare all'Austria 40 milioni di fiorini, come quota spettante alla Lombardia sul prestito del 1854; e l'obbligo di rispondere per tre quinti del debito del Monte Lombardo - Veneto. Riserva espressa del diritti del Sovrani di Toscana, Modena e Parma. La Venezia farebbe parte della confederazione. partecipando agli obblighi e diritti del patto federale - Amnistia - L'Austria si obbligava di liberare dal servizio militare i soldati del territorio Lombardo. Mantenimento degli Ordini religiosi, e nel caso che fossero incompatibili col nuovo governo, potessero essi liberamente disporre del loro beni.

Non pertanto la rivoluzione nei Ducati e nelle Romagne era permanente; e stante il non intervento pattuito, stupenda macchina napoleonica per legare le mani a chi potea dargli fastidio, le assemblee dichiaravano voler la definitiva annessione al Piemonte.

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Fu allora, che il Moniteur, constatando il pregiudizio dei diritti stabiliti a Villafranca ed a Zurigo, manifestò la sua disapprovazione per questa rincrescevole risoluzione presa da quelle rappresentanze. A chi conosce, ed ha studiato il lavorio della politica imperiale ciò non reca maraviglia; poiché, se è innegabile che egli non avea intenzione di annettere la Toscana al Piemonte, non è men vero che avea stabilito, che tanto si facesse per Parma e Piacenza, com'egli stesso avea scritto a Re Vittorio Emmanuele in una lettera data da Saint - Cloud (1).

Il fatto però dell'occupazione degli stati del Papa eseguita dai governi della rivoluzione, e che dapprima credevasi certamente dover cessare, ciò presumendosi e dallo stile di disapprovazione del Moniteur, e dalle assicurazioni del Ministro, e finalmente per la pubblicazione del trattato di Villafranca, cominciò ad urtare positivamente le suscettibilità del cattolici; quando si vide, che ad onta di quel trattato, le province non erano restituite al Papa, e la Francia, che avea sempre dichiarato difendere i diritti della S. Sede, col suo silenzio quasi approvarne lo spoglio.

Lungo sarebbe qui rapportare tutti gli aurei ed eloquentissimi scritti, che dall'Episcopato Francese furono a protesta unanime pubblicali contro tanto sacrilego spogliamente; ma a pagina gloriosa, a documento di storia, a memoria eterna dell'Episcopato Francese quei nomi, e qualche brano del loro discorsi registriamo; per far risaltar più nettamente la politica del gabinetto imperiale, che, sebbene non mancasse mai di un apposito frasario di protezionismo, pure dal 1859 si palesò del Papato acerbissimo nemico: facendone sotto i suoi occhi stessi occupare gli Stati, non salvando che Roma e Civitavecchia, questa come punto strategico, quella come ostaggio a tenere infrenati i cattolici di Francia.... -! Napoleone 3° non è che il riflesso di Napoleone l.° Questi audace, battagliero, genio di guerra; quegli battagliero per calcolo; politico di occasione: ma l'uno e l'altro del papato nimici, il primo arrischioso fino a non temere di stendere la mano su di Pio VII, prigioniero a Fontainebleau;

(1)

L'Armonia N. 195 del 6 Nov.

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Napoleone 3° freddo e pacato, che senza giungere a tali estremi, con la mano della rivoluzione lasciò togliere a Pio IX ciò che niuna potenza uvea giammai ardilo di toccare. Ma i Bonaparte non poterono giammai distruggere la grandezza del papato:-l'uno cadde dall'alto della sua potenza, là dove credè umiliare il Vicario di Cristo; l'altro vide l'Episcopato e la Francia Nazione, (chè la Francia non rappresentano gli About, i Laguèronnière, i Rènan, e i framassoni) come un uom solo, generosi alzarsi e sostenere il Trono di Pietro con ogni sorta di pubblica dimostrazione. Grande lezione fu questa per Napoleone 3° e se la dissimulò, non la perdè di vista.

Sin dal 18 Settembre cominciò la manifestazione dell'Episcopato. Pier Luigi Parisis Vescovo di Arras fu il primo, che levò la sua voce. Una Ordinanza piena di fuoco e di zelo santissimo diresse, come appello, ai suoi filiani.

In essa esposte le speranze, che eransi concepite pel trattato di pace, prorompe: «-Così giuste e fondale speranze sono con nostro gran i: dolore svanite. Non che calmarsi l'insurrezione di quelle province ii dipendenti dall'autorità pontificia, si aumenta e si colma la misura.

«Alla ribellione s'aggiunge l'oltraggio; si lenta di velare l'ingratitudine con le accuse più ingiuste e le menzogne più laide: si rappresenta come tirannico ed inetto il più saggio e paterno governo, ed in assemblee, delle quali è impossibile sotto veruno aspetto riconoscere né la competenza, né la legittimità, si spinge l'audacia ii fino a dichiarar decaduto il Sovrano potere, il più antico, il più santo che stato siavi al mondo.

«... E quello che v'ha di peggio... non sono i colpi scagliali contro il potere temporale della s. sede: ma sono i maligni pensieri, gli ostili sentimenti diffusi, fomentali, e per così dire, connaturati per la prima volta nelle cristiane plebi contro il Capo della chiesa...»

Monsignor Pie Vescovo di Poitiers scriveva: « - Noi gemeremo e piangeremo -: il nostro pianto non ci sarà imputato a delitto: siam lontani, mercé Dio, dai tempi, in cui i cittadini, non potendo esser convinti di cospirazione contro lo Stato, erano accusati delle loro lagrime, processati per delitto di dolore...»

(1859) LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 287

e poi ricordando del gradinamento dato di fedeltà e di obbedienza alla S. Sede aggiunge che mancherebbe allo stesso, se non opponesse una smentita a tante accuse violente; a tante allegazioni oltraggiose, bugiarde, calunniose; a tante asserzioni erronee, scismatiche, eretiche; a tante provocazioni non meno vili che empie, rinforzale dalle lagrimevoli giunte che vi fa la fellonia di alcuni spiriti avventurieri e traviati... (1).

Protestavano sul Giornale L'Univers Mons. Plantier Vescovo di Nimes; Mons. Jaquemet Vescovo di Nantes, e Mons. Dufètre Vescovo di Nevers.

Gran rumore menò il redivivo Bousset del secolo, Mons. Dupanloup, che con la sua irresistibile eloquenza pubblicò una protesta robusta, forte, eminentemente dotta. Poggiandosi sulle parole dette da Napoleone 1°: «ella (la Chiesa) è questa un'opera del secoli e l'hanno fatta bene», così esprimevasi: «Si, è necessario per la libertà della chiesa e nostra, che il Papa sia indipendente e libero: è necessario che questa indipendenza sia sovrana; è necessario che il Papa sia libero, e tal comparisca; è necessario che sia libero si dentro come fuori; è necessario che lo sia per la dignità del governo della chiesa, e per la sicurtà delle nostre coscienze: è necessario che lo sia, per assicurargli nelle guerre che troppo spesso sorgono tra le potenze cristiane, la neutralità che si conviene al padre comune del fedeli....»

Spiegate dottamente queste ragioni, protesta in nome del cattolicismo, di cui si vorrebbe combattere lo splendore, la dignità e l'indipendenza; e in nome della riconoscenza che ai Pontefici si deve, come simbolo della civiltà europea, e come benefattori d'Italia.

«Protesto, son sue parole, in nome del buon senso e dell'onore, i quali si sdegnano di creder complico un Sovrano nelle insurrezioni e nelle ribellioni, e di cotesta congiura di basse ed insipienti passioni contro principii riconosciuti e proclamati nel mondo cristiano da tutti i veri e grandi politici.

«Io protesto in nome del pudore e del diritto europeo contro la

(1) Lettera Pastorale pubblicata a Poitiers il 28 Sett.

288 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

violazione delle maestà, contro le brutali passioni, che hanno cosi spesso spinto a più vili allentati.

«E se hassi a dir tutto, io protesto in nome della buona fede contro quella mal frenala e mal simulala ambizione; contro quelle risposte evasive, contro quella sleale politica, della quale ci sta dinanzi agli occhi il tristo spettacolo.

«Protesto in nome della giustizia contro la spogliazione a mano armata; in nome della verità contro la menzogna; dell'ordine contro la anarchia; del rispetto contro il disprezzo di tutti i diritti.

«Io protesto.... trovi o non trovi la mia risposta chi le corrisponde, io adempio ad un dovere».

L'Univers (8 ott.) pubblicò le circolari, che ai loro cleri avean dirette il Vescovo di Pamiers, l'Arcivescovo di Tours, e i Vescovi di Chàlons e di Met..

Poco di poi Luigi Veuillot sul medesimo giornale (11 Ott.) dava alla luce un articolo intitolato a L'Europa e l'Asia»; dove con civile coraggio rimproverava alla Francia ciò che in Italia avea fatto -«Quanto alla Francia, egli dice, un'incomparabile incuria or l'ha allontanala a da quel teatro... or vi si è portata per capricci, senza idea determinata, annunziando grandi cose per non farne poi, se non di meschine; avanzando per darsi il fastidio d'indietreggiare: seminando per acquistarsi nimicizie e raccoglier niente.... Che saprà ella fare allora n l'Europa, marcia d'empietà, perduta nelle rivoluzioni e dissensioni intestine, senza capi, o non avendone che di mal sicuri e disposti a tradirla, pronta a tradir sé medesima, perché ogni cosa la indirizza ad adorar la forza...?»

Il Ministro della pubblica istruzione diede per questo articolo a quel periodico un primo avvenimento. Non pertanto, ad onta di ciò, nel giorno dopo, esso pubblicò una lettera del Vescovo di Rhodez diretta alla Opinion nationale, nella quale quel Vescovo, rinfacciando le menzogne che continuamente spacciava, dice: «Non è il governo Romano che «deve accusarsi d'ipocrisia corrompitrice, sibbene cotesta lega d'ambiziosi

(1859) LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 289

Questo contegno così animoso e risoluto mise in grave apprensione il gabinetto dell'Imperatore, che credé esser sufficiente riparo il proibire la pubblicazione delle Circolari o Lettere Pastorali degli Ordinari. Ma il rimedio fu peggiore del male: poiché invece dell'inserzione sui giornali, si fece immediatamente una propaganda di libri e di stampe in favore del Papato, come di una pubblica solenne protesta di tutta la Francia cattolica.

Anche dalla Spagna giunse notizia, che tutto l'episcopato in massa avesse fatta solenne protesta; ed in Francia alle già annoverate proteste, altre furono pubblicate dal Cardinale Bonald Arcivescovo di Lione; di Mons. Garsignier Vescovo di Soissons; dell'Arcivescovo di Sens; del Vescovo di Digne; di tutti i Vescovi dell'Irlanda; ed una circolare del Cardinale Moriot Arcivescovo di Parigi, che ordinava pubbliche preghiere per la pace di S. Chiesa.

E l'Univers non potendo pubblicare documenti di tal natura, non tralasciava di dar notizia, che simiglianti proteste eransi fatte dai Vescovi di Versailles, d'Angers, e di Chartres: e che il Vescovo di Lucon avesse indirizzato al cardinale Donnei una lettera a nome dell'Episcopato cattolico.

Inimitabile per eloquenza e per sentimenti è la lettera pastorale del Vescovo d'Angers Mons. Angebaull.

«A quale tristo spettacolo assistiamo noi? (dic'egli)... Figliuol del profeta, che hai tu veduto? Oh! io vidi e caddi con la faccia per terra.... Ho veduto popoli in delirio e ingrati figli di nuovo misconoscere le virtù dell'ottimo fra i padri, celarsi dietro i vessilli coronali delle vittorie, per ordire vili tradimenti, aguzzare pugnali, insulare alla debolezza per far credere se stessi forti: minacciar sacerdoti, donne,

290 LIB. VII. - DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI (1859)

fanciulli senza difesa; assoldare e incoraggire giornalisti senza coscienza per vomitare ingiurie contro ciò che vi ha di più nobile e puro. Ho veduto quella che essi chiamano libertà, chiassona, scarmigliala, ebbra di sangue, spargere dapertutto il terrore: e a tale vista mi son messo a piangere.... ed ho esclamato....: fino a quando, o Signore, tollererete voi questi insulti?....»

Fecer seguito a queste le proteste del Vescovi di Frejus, di AuIim. di Clermont, e di La Rochelle: e quelle dell'Arcivescovo di Cambrai, del Vescovi di Tournai (Belgio), di Mende, di Strasburgo, di Tripoli, di Meaux; e di tutta l'Irlanda, la Svevia, la Baviera, e l'Alemagna.

Gli avvertimenti fioccavano sui giornali: n'eran colpiti l'Ami de la Rèligion, e il Correspondant; posto sotto processo uno scritto di De Montalembert intitolato «Pio IX e la Francia nel 1819 e nel 1859». E ne toccò uno anche all'Indèpendant, il quale avea accusato il governo di essere severo coi giornali monarchici, tollerante e protezionista con i rivoltuosi.

L'affare prendendo positive proporzioni, il Moniteur del 18 Novembre, con una sfrontatezza impareggiabile pubblicò un'articolo diretto ad assicurare esser maneggi del giornalisti il voler far partecipe di loro diffidenze l'Episcopato Francese. L'Univers, tuttocchè colpito dalla censura, non si ristette dal rispondere, che il Moniteur mentisse, ed esserne pruova la proibizione data dal Governo alla pubblicazione di circolari e pastorali Vescovili.

A tutto ciò si aggiunse la voce eloquente del Cardinale Gousset Arcivescovo di Reims, che con una dotta ordinanza dimostrò la nequizia dello spoglio fatto al Papa, sotto l'aspetto sociale, politico, religioso, accusandone gli autori come «rei di violazione del diritto pubblico, colpevoli di sovvertire la coscienza del popoli».

La stampa rivoltuosa e mercenaria, che si vedeva disfatta dalla voce eloquente del diritto, non avendo altre armi ad opporre, che svergognate calunnie, si spinse a tali estremi di scostumatezza, che le rimostranze severissime fatte dall'Episcopato al Ministero

(1859) LIB. VII. - ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE - 291

per gli oltraggi che

I troni si sfasciano; si dissolvono gl'Imperi; le aquile cadono abbattute; si storcono gli scettri; le corone s'infrangono, avvegnacchè fossero o di pietra, 'o di oro, o d'argento! - ma non s'infrange il Trono santissimo di Pietro, il cui piedistallo è la Redenzione; la cui fortezza è la Croce; la cui potenza è la mano Onnipotente di quel Dio, che i superbi atterra, siccome atomi di coronala polve!!


LIBRO VIII.

DALLA PUBBLICAZIONE DEL LIBRO LE PAPE ET LE CONGRÈS

ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA

CAPITOLO I.

Sotterfugi politici della Francia e del Piemonte - Reclami tra Napoli e Torino - Scioglimento del Corpi franchi - Opinioni discordi della diplomazia sull'Italia centrale - Le Pape et Ie Congres - Quali le proposte di quel libro? - Lettera dell'Imperatore al S. Padre - Risposta del Giornale di Roma - L'Univers pubblica un indirizzo dei Cattolici al S. Padretti augurii nel primo Gennaio - Propaganda del Constitutionnel - Dimissione di WaIewski - ThouveneI al Ministero Proposta alla S. Sede per la cessione delle Romagne - Rifiuto dato dal Card. Antonelli - Napoleone e Mons. Sacconi Risale al potere il Conte di Cavour - Sua lettera circolare aIl'Estero Enciclica (Nullis certe) all'Episcopato Cattolico - Persecuzione al giornalismo cattolico in Francia.

I nostri nepoti, allorché apriranno le pagine della storia del nostri miserevoli tempi, rimarranno atterriti in vedere con quali arti, con quali tradimenti, con quanta subdula e menzognera politica si fosse operata una rivolta radicale, i di cui effetti furon pessimi, e pessime conseguenze produssero nel mondo civile e sociale.

Scriviamo la Storia sino al 1860 -: il resto, se ci resterà nerbo nella mente e nei polsi, la scriveremo a tempi migliori, quando la calma subentrerà all'arbitrio, al sopruso, alle passioni di piazza...! Immensi argomenti avrà lo storico, che vorrà tessere la narrazione del fatti avvenuti dal 60 in poi. Garibaldi ed Aspromonte; una persecu

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA 293

le stragi di Fantina; il sangue versato nelle giornate di Torino e di Palermo. Pontelandolfo con sette paesi del Napolitano dati al ferro ed al fuoco; la legge Pica; i pieni poteri e la legge Crispi; una finanza dilapidata; Lissa a Custoza; e la soggezione del paese alla politica dell'Imperatore del Francesi!

Nostro compito è di svolgere i fatti, che prepararono tali avvenimenti! Narriamo di trattati delusi, di diritti internazionali infranti, di rivolte preparate, di vane promesse di libertà e d'indipendenza.

Non partiamo alla ventura, o per spinto di parte; chè nostra bandiera fosse la verità; e la sosterremo a base di documenti, parte diplomatici ed officiali, parte desunti dagli atti stessi del comitati, e della Società nazionale di Torino.

Non esageriamo, né Tacciamo vani commenti-; narriamo, mettendo a luce la verità; smascherando la diplomazia e le arti delle sette, che avvalendosi della inespertezza di giovani fastiditi del freno degli antichi governi, e solleticali da promesse di redenzione e di libertà, dell'Italia si resero padroni, lacerando a brandelli il manto di questa terra reina, su cui benedetto si posò il sorriso di Dio.

Narriamo avvenimenti tristissimi, incredibili, ma veri -: narriamo di eserciti rotti da un pugno d'uomini; di un pugno di uomini, che resiste ad eserciti; di soldati che han tradito; di ministri che han tradito; di cospirazioni violentissime preparate da lunga mano, e riuscite per la potenza della volontà di due grandi gabinetti, Francia ed Inghilterra; di due uomini che s'han disputato il campo della politica, Luigi Napoleone e Palmerston. Cavour, la rivoluzione, Garibaldi, e Liborio Romano dinanzi a quelli sarebbero stati atomi di polvere. Se Napoleone 3° non avesse voluta la rivoluzione, avrebbe detto ad una pattuglia francese «dèbarassez - moi de cette canaille» come lo disse per le truppe di Lamoricière a Castelfidardo.

L'occupazione dell'Italia centrale non solo continuava, sibbene prendeva un aspetto del tulio legale, in perfetta opposizione del trattati di Villafranca e Zurigo. Fosse politica,

fosse per togliersi dall'impaccio

Benché il sotterfugio putisse di troppo rancida diplomazia, pure la Francia ne fu contenta non solo, ma stimò eziandio di commentare la prudenza del Gabinetto di Torino.

Però cotesta occupazione, illegale ancora, afforzata dalla presenza delle squadre del volontari organizzate da Garibaldi diedero causa al governo napolitano di spedire alle frontiere d'Abruzzi, che dividono il Reame dallo stato del Papa, un corpo di truppe. Il Piemonte, tuttocchè nulla avesse di comune con quelle frontiere, volte farne reclamazioni; e n'ebbe in risposta, non essere quel movimento una minaccia, sibbene una precauzione per la propria sicurezza.

Nel contempo il Gabinetto di Napoli rappresentava al governo di Parigi aver ragioni a temere dell'invasione del corpi franchi, locchè avrebbe dato luogo a nuove complicazioni. Laonde la Francia, tenuto conto del reclamo, ne fece doglianze al gabinetto di Torino, il quale ordiné al Generale Fanti, poco amico di Garibaldi, di sciogliere i corpi franchi; locchè eseguitosi, il Nizzardo sdegnalo, rinunciando agli onori ehe gli furono offerti, si ritirò a vivere vita privala. Così acquetate le cose, Boncompagni restò reggente di tutta l'Italia centrale; e da lui, quale dipendenti, erano Ricasoli governatore per la Toscana, e Farini dell'Emilia, che comprendeva Parma, Modena, e Romagna.

In questo mentre si dava opera a riunire un congresso Europeo per basare le sorti d'Italia. Intorno alla confederazione tutte le potenze convenivano, raa discordavano, com'era naturale, sugli affari dell'Italia centrale. La Francia avrebbe voluto annesse al Piemonte, Massa, Carrara, Parma, e Piacenza, dandosi Modena con la Toscana a un altro Principe; ma l'Inghilterra, che col cambiamento di Ministero avea assunto un carattere eminentemente rivoluzionario, non solo tenea per fermo l'unico scioglimento della quistione italiana

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nell'annessione dell'Italia centrale, come trovavasi costituita, al Piemonte; ma anche protestava energicamente contro qualsiasi straniero intervento, che avversasse agli Italiani il diritto di eleggersi un governo che più adatto credessero; ed in tal senso Lord Russell parlava ad Aberdeen, e scriveva a Cowley, il quale trovavasi a Parigi per predisporlo al congresso. L'Austria stava ai trattati.

Con tali primordi di dissensi, coi quali da una parte sinvocava la teoria del fatti compiuti e il suffragio popolare; e dall'altra l'adempimento del trattati, era impossibile il riunirsi del congresso; anche perché né la Prussia, ne là Russia potevano sottoscrivere a questa nuova teoria di diritto pubblico, che per esse sarebbe stato coltello a due tagli. Napoleone da sua parte non avversava che esternamente quell'annessione, avvegnacchè l'avesse già pattuita con Cavour in cambio della Venezia non conquistata. senza che non avrebbe potuto reclamare la cessione di Nizza e Savoia stabilita a Pombières: non pertanto non potea mostrarsi cosi favorevole come l'Inghilterra, poiché ligato da un trattato, che non dovea lacerare se non con sottile artifizio politico; per cui a dichiarare il suo pensiero ricorse ad uno del mezzi che egli era solito adoperare; - la pubblica stampa; e fu allora pubblicalo un opuscolo col titolo le Pape et le Congrès.

Quanta importanza politica abbia avuto questo scritto attribuito a Laguérronière, ma in sostanza ispiralo dall'Imperatore, lo dimostrarono la gran pubblicità che gli fu data, ed i commenti che gli furon fatti dalla stampa estera.

John Russell in un dispaccio a Parigi scriveva a proposito: -«Per i tempi che corrono, i libelli sono avvenimenti; e noi non possiamo dimenticare, che dal libello intitolato le Pape et le Congrès si è avuto per conseguenza, il far perdere al Papa più della metà del suoi Stati, e l'impedirsi la riunione d'un Congresso Europeoi.

Difatti il Congresso non poté riunirsi per tanta divergenza di opinioni; e Napoleone ottenne l'intento di lasciar correre le cose in balia della rivoluzione, da cui egli avea sempre

da sperare più che dall'af

Il Papa e il Congresso è uno di quei libri che accarezza e morde; blandisce ed attossica; accende la scintilla della rivoluzione ed accuratamente nasconde la mano.

L'Autore, tutto spirante rispetto per la S. Sede, dal principio si fa credere puro cattolico, che imprende a difendere e propugnare il potere temporale del Papa, il quale assevera indispensabilmente necessario alla indipendenza del potere spirituale. Il pontefice, dichiara quello scrittore, deve avere un territorio a sé; non avendolo, sarebbe suddito di altro sovrano, locchè non potrebbe sussistere con la dignità del Capo della Chiesa; ma il suo governo, non potendo essere se non puramente teocratico e patriarcale, non può adattarsi a reggere popoli, i quali han bisogno di sviluppo politico - sociale: da ciò la conseguenza, che questo stato patriarcale - teocratico sia limitato per estensione di territorio, alfìn di poter rimanere sempre neutrale ed estraneo a tutto quanto succede di politico fra gli stati circonvicini. Riguardo ai mezzi finanziari per sostenere convenientemente la dignità del Sommo Pontefice, propone un tributo annuo da corrisponderglisi in rate da tutte le potenze cattoliche. Dal che, come per illazione, fa conseguire essere inutile la restituzione delle Romagne; ed impossibile per la deliberata opposizione di quelle popolazioni, per ridurre le quali a soggezione sarebbe stato bisogno ricorrere nuovamente ad un intervento straniero, locchè dimostra incompatibile e lesivo ad ogni diritto. Conchiude, altro mezzo non esservi quindi a dirimere le quistioni, che devenirsi al Congresso europeo!

Come non bastasse questa dichiarazione, Napoleone volte dare maggior pubblicità alle sue idee, e immediatamente dopo la pubblicazione dell'opuscolo indirizzò una lettera al S. Padre, nella quale dichiarava, unico rimedio per la restituzione delle Romagne, l'accordarsi a quelle province un governatore laico con un nuovo sistema di riforme politico

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Trascriviamo questa lettera, non solo per sempreppiù porre in evidenza la politica dell'Imperatore, ma anche perché dal parallelo delle idee espresse nella lettera con quelle già pubblicale nell'opuscolo, si deduca, che il libro le Pape et le congrès fosse stato ispiralo da Napoleone 3.° Ecco la lettera.

«Santissimo Padre (1).

«Uno del miei pensieri più vivi, sì durante la guerra, che dopo, è stato la situazione degli stati della Chiesa: e fra le potenti ragioni, che mi han spinto a far così prestamente la pace, certo è ad annoverarsi la tema di veder ogni giorno più allargarsi la rivoluzione.

«I fatti hanno una logica inesorabile, e malgrado la mia devozione alla S. Sede, malgrado la presenza delle mie truppe in Roma, io non potea sfuggire ad una certa solidarietà con gli effetti del movimento nazionale suscitato in Italia dalla lotta contro l'Austria.

«Conchiusa la pace, io m'affrettai a scrivere a V. S. per sottoporle le idee secondo me più acconce a pacificare le Romagne; ed io credo ancora, che ove la Santità Vostra avesse fin da quel tempo acconsentito ad una separazione amministrativa di quelle province, ed alla nomina di un governatore laico, esse sarebbero ritornale sollo la sua autorità.

«Sventuratamente ciò non ebbe luogo, ed io mi son trovalo impotente ad impedire che una nuova forma di reggimento si stabilisse. I miei sforzi altro non produssero, che proibire alla rivolte l'estendersi, preservando le Marche d'Ancona da una certa invasione mercé la dimissione di Garibaldi.

«Ora il Congresso sta per adunarsi. Le Potenze non potrebbero sconoscere gl'incontrastabili diritti della S. Sede sulle Legazioni;

(1) Dal Moniteur degli 11 Gennaio 1860.

pure è probabile, che esse non permetteranno ricorrersi alla forza per risottometterle; poiché se ciò avvenisse mediante intervento straniero, sarebbe necessario tener le Legazioni per altro tempo occupale militarmente. Tale occupazione terrebbe vivi gli odii ed i rancori di gran parte del popolo Italiano, e desterebbe la gelosia delle Potenze. Ciò sarebbe adunque perpetuare uno stato d'irritazione, di malessere, e di timore.

«Che deve dunque farsi, poiché tale titubanza non può durar sempre? Dopo un serio esame delle difficoltà e del pericoli, che presentavano le diverse combinazioni, io lo dico con sincero rincrescimento, e per quanto questa risoluzione possa esser penosa, ciò che mi parrebbe più conforme ai veri interessi della S. Sede, sarebbe di fare il sacrificio delle province ribellale. Se il S. Padre rinunziasse, per la pace di Europa, a quelle province, che da 50 anni in qua suscitano tanti imbarazzi al suo governo, e che in cambio domandasse alle potenze, che gli guarentissero la possessione del rimanente dello Stato, io non dubito, che l'ordine sarebbe immediatamente ristabilito. Il S. Padre allora assicurerebbe all'Italia riconoscente la pace per lunghi anni, ed alla S. Sede il tranquillo possesso degli stati della chiesa.

«V. S., io credo, non prenderà errore intorno ai sentimenti clic mi animano: comprenderà la difficoltà della mia situazione: interpetrerà con benevolenza la franchezza del mio linguaggio, rammentandosi di tutto ciò che io ho fatto a prò della religione Cattolica e del suo augusto Capo.

«Io ho espresso senza riserva tutto il mio pensiero, ed ho creduto indispensabile di far ciò prima del congresso. Ma io prego V. S. di credere, qualunque sia per essere la sua decisione, che essa non muterà mai la maniera di agire, che ho sempre tenuta a suo riguardo.

«Ringraziando la S. V. della benedizione Apostolica, che ha mandata all'Imperatrice, al principe imperiale ed a me, le rinnovo l'assicurazione della mia profonda venerazione. Di vostra Santità

Figlio devoto

Palazzo delle Tuileries 31 Dic. 1859. Napoleone.

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In questo mentre, il Giornale di Roma pubblicò un articolo sull'opuscolo le Pape et le Congrès, dando così officialmente una risposta esplicita e dichiarativa alle idee in quello esposte.

«È sorto recentemente alla luce (scrive il giornale) un opuscolo anonimo, stampalo a Parigi pei tipi Didot, ed intitolato le Pape et le Congrès.

«Quest'opuscolo è un omaggio reso alla rivoluzione, una insidia tesa a quei deboli, i quali mancano di giusto criterio per ben conoscere il veleno che nasconde, ed un soggetto di dolore per tutti i buoni cattolici. Gli argomenti che si contengono nello scritto, sono una riproduzione di errori e d'insulti già tante volte vomitali contro la S. Sede, e tanté volte confutali trionfalmente, qualunque sia del resto la pervicacia degli ostinali contraddittori della verità.

«Se per avventura lo scopo propostosi dall'autore dell'opuscolo tendesse ad intimidire colui, contro il quale si minacciano lanti disastri, può l'autore stesso essere certo, che chi ha in suo favore il diritto, ed intieramente si appoggia sulle basi solide ed incrollabili della giustizia, e sopratutto è sostenuto dalla protezione del Re del re, non ha certamente di che temere delle insidie degli uomini».

Alla esplicita proposta, più esplicita era la risposta; dalla quale rilevavasi non doversi più porre in dubbio quali fossero le intenzioni della S. Sede sullo spoglio, che si voleva legalizzalo col suo consentimento; e questa fermezza, se non fu freno al concerto preso tra l'Imperatore ed il gabinetto di Torino, raffermava però nel Pontefice il diritto di poter sempre reclamare contro la violenza che gli era fatta. E di vero così la lettera dell'Imperatore, come l'opuscolo, e l'articolo del Giornale di Roma destarono commozione immensa nel Cattolicismo, e segnatamente in Francia, dove l'Univers ebbe il coraggio di proporre un indirizzo del Cattolici al S. Padre a protesta della loro affezione.

«I vostri diritti (dice l'indirizzo) non vengono dagli uomini: voi non li avete acquistali con la violenza e con l'ingiustizia; voi non li mantenete per ambizione, né li esercitale con durezza. Voi siete il più legittimo e paterno Sovrano che siavi sulla terra: l'ingratitudine e la ribellione non potrebbero inventare motivi di spodestarvi, e di odiarvi.

«Quello che il vostro popolo ha potuto soffrire, non è a voi altrimenti imputabile, ma a lui medesimo ed ai suoi seduttori, insensati divenuti malvagi, che cospirano, dopo di essere stati perdonali, e che s'armano contro di voi di tutto il male da loro stessi commesso dopo che voi l'avete riparalo

«Difendendo la causa della vostra indipendenza, noi difendiamo la nostra, e quella di tutto il cristianesimo.

«Voi siete la luce e la difesa delle anime. È la vostra indipendenza che salva la libertà umana. Se il Papa non fosse più Re, sarebbe strappala la Croce a tutte le corone, nulla potrebbe salvare il mondo, che in breve tempo ritornerebbe al culto del gentilesimo. L'umanità adorerebbe idoli di fango, sarebbe schiacciala sotto idoli di carne»

Il Ministero dell'Interno vide in questo indirizzo non una pro lesta semplicemente religiosa, ma un tentare politiche agitazioni, sotto ti pretesto religioso. Su queste convinzioni spiccò legale avvertimento all'Univers, ed al Journal des Villes et des campagnes, che facendovi adesione lo avea riprodotto, e promulgalo in tutti i dipartimenti della Francia e del Belgio.

Erano in tale stato di agitazione le cose allorché, terminalo l'anno 1859 con avvenimenti sì funesti, spuntava l'aurora del 1860, funestissimo per sconvolgimenti universali.

I Troni d'Italia eran già minati dai comitati dipendenti dalla società unitaria - annessionista piemontese, la quale facea tesoro anche delle sette mazziniane, tuttocchè ne detestasse i principii energicamente democratici.

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 301

Della rivoluzione, Mazzini fu la lesta, Garibaldi il braccio; l'oro di Piemonte preparò il terreno; e compiuta la rivolta, sui ruderi del troni rovesciò Garibaldi e Mazzini, l'uno confinando a Caprera, l'altro condannando nel capo ed all'ostracismo perpetuo!

Nel primo giorno di Gennaio, in cui usanza diplomatica impone l'augurio ai Sovrani, il Generale Conte di Goyon Comandante francese delle truppe di occupazione in Roma, insieme ai suoi officiali ]n - . fiiiossi per fare omaggio al Papa; ed il S. Padre, nel ringraziarlo dissegli, aver certezza, che l'Imperatore dissaprovasse. le idee disseminate con l'opuscolo te Pape et le Congrès, stando alle assicurazioni antecedentemente date alla S. Sede.

Nel contempo lo stesso facea il Nunzio Apostolico a Parigi; e l'Imperatore rispondergli, non esservi in lui maggior desiderio, che di stabilire da per tutto, per quanto da lui dipendeva, l'ordini;, la tranquillità e la fiducia in Italia.

Queste parole di semplice formola non erano garanzia di pace né per i gabinetti, né per i cattolici; e siccome ben sapeasi rarissimamente potersi dalle parole di Napoleone desumere un concetto, se non quando volesse dichiararlo, così tutti stavano incerti sulla piega politica, che accennassero di prendere gli affari dell'Italia, e della S. Sede.

Ma ogni dubbio fu dileguato, allorquando avendo il Constìtutionnel cominciato a pubblicare articoli minaccianti la libertà delle associazioni cattoliche, e specialmente la società di S. Vincenzo di Paoli, indicandola come centro di reazione contro gli ordinamenti dello Stato, il governo, che altra volta fu sollecito ad impedire si crudi attacchi contro tali associazioni, serbò un inqualificabile silenzio.

Confermò la tema, che la politica delle Tuileries si accostasse a quella di Saint - James riguardo all'estero, il fatto della dimissione di Walewski Ministro degli affari esteri, che rappresentava i principii di Villafranca e

Il Gabinetto di Torino avea fin'allora mantenuto gran riserbo ad accettare legalmente l'offerta dell'Italia centrale, perché da una parte ostava la firma apposta al trattato di Zurigo, e dall'altra trovavasi sotto la pressione della politica Francese, che non volea si dasse appiglio a recriminazioni nel caso che il Congresso potesse riunirsi. L'Imperatore volea, senza compromettersi, contentare il Piemonte, formando il regno d'Etruria col Vicariato delle Romagne. E in tali sensi parlò il Duca Grammont Ambasciatore Francese al Cardinale Antonelli, proponendo a Sovrano del nuovo reame l'Arciduca Ferdinando; affinché più facile fosse stato di non urtare le suscettibilità austriache, salvo poi a vedere, se l'Arciduca Ferdinando avesse potuto regnarvi pacificamente, ovvero se un plebiscito gli avesse dato congedo e passaporto forzoso.

Il Cardinale si rifiutò ricisamente ad ogni cessione. «Alla forza, rispose egli, noi non possiam resistere; ma con la volontà nostra non cederemo un palmo di terra; e quando anche la rivoluzione fosse sostenuta da qualche gabinetto di Europa, noi non tralasceremo di protestare contro la violenza».

L'Imperatore ne fu sconcertato, poiché avea stimato, che la S. Sede sarebbe stata più docile e pieghevole dinanzi alla sua onnipotente parola; quando egli avea promesso, che con la cessione delle Romagne avrebbe guarentito al Papa il rimanente del territorio Pontificio. L'opposizione che trovò, lo metteva nella necessità di ricorrere agli estremi, lasciando libero il corso alla rivoluzione. Non pertanto volte tentar l'ultima prova, e chiamalo a sé Mons. Sacconi Nunzio apostolico a Parigi, gli disse, ("ripetendo a parola la lettera scritta al S. Padre, e da noi poco sopra enunciata) che niuno, ed egli meno di ogni altro, contestava i diritti che la S. Sede vantava sulle Romagne; ma che sendo passala la quistione sul campo del fatti, che presentavano difficoltà insormontabili, era d'uopo additarsi ad una sì lieve

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 303

Dietro tal fatto il gabinetto di Torino si dimise, e ritornò sulla scena diplomatica il Conte di Cavour, rappresentante il programma delle annessioni. Non era più dubbio quindi, che o col congresso, o senza, l'Italia centrale sarebbe stata annessa al Piemonte.

Infatti salito appena al potere il Conte, senza esitazione o sotterfugio alcuno, indirizzò ai rappresentanti della Sardegna all'estero una lettera Circolare, dichiarando, che la riunione sperata d'un congresso europeo per la pacificazione d'Italia non avrebbe raggiunto lo scopo che si prefiggeva; poiché i fatti, che da qualche tempo si succedevano nell'Italia centrale, mostravano chiaramente la impossibilità della restaurazione del Principi spodestati: per lo che conchiudeva, che il Piemonte servendosi del diritto che gli proveniva dal voto unanime di quelle popolazioni. avrebbe proceduto alla presa di possesso, per teina che l'ulteriore esitazione avesse potuto suscitare in quelle province altri tentativi di disordine.

A Roma non si faceano illusione sull'andamento della rivoluzione, e sull'idea del Piemonte di impossessarsi delle Romagne; ma il gabinetto del Papa era venuto nell'intendimento, di non cedere mai a pressione qualsiasi, che potesse con assentimento, sia tacito sia esplicito, convalidare lo spoglio che commetter si volea.

Perlocchè a solenne protesta di quanto operavasi, il Santo Padre Pio IX volte appalesare la sua volontà con una Enciclica (1) diretta a tutto l'Episcopato cattolico.

In essa il S. Padre, senza scendere a recriminazioni, contro lo spoglio che si consumava delle città dello stato Pontificio, si restringe a ringraziare il Signore per la unanimità con la quale tutti i Vescovi de) mondo s'eran levati e con circolari, e con pastorali, e con altri scritti, a difendere i diritti della Chiesa, confermando così la loro

(1)

Enciclica 19 Gennaio 1860. (Nullis certe).

fedele devozione e la venerazione verso il Papato e la S. Sede; detestando grandemente la rivoluzione e gli allentati commessi in alcune provincie; affermando e convalidando, che il Patrimonio di S. Pietro deve conservarsi assolutamente intero ed illeso, e difendersi da ogni smembramento. E poi con eloquenza e moderazione rimprovera al gabinetto di Francia, l'improvviso voltafaccia, destruendo da sé stesso il titolo di difensore della S. Sede, che avea convalidalo nel 1849. Eccone le parole.

«Venne testè, come molti tra voi sapranno, dal giornale Parigino, intitolato le Moniteur, pubblicala una lettera dell'Imperatore del francesi di risposta alla nostra, nella quale caldamente pregavamo S. M., perché nel Congresso di Parigi avesse voluto col suo validissimo appoggio difendere la integrità e la inviolabilità del temporale dominio di questa S. Sede. e dalla iniqua ribellione rivindicarlo.

«In questa sua lettera l'Imperatore, rammentando un certo suo consiglio, datoci poco prima riguardo alle province ribellale del nostri Stati, ci esorta a voler rinunziare al possesso delle province medesime; perché sembra a lui, esser questo solo il mezzo di rimediare all'attuale rivoluzione.

«Ognun di voi VV. FF. conosce benissimo, che Noi. memori del gravissimo nostro dovere, non abbiamo potuto lacere nel ricevere siffatta lettera. Quindi senza frapporre indugio alcuno, ci siamo affrettali a rispondere al medesimo Imperatore, dichiarando, con l'apostolica libertà dell'animo nostro chiaramente e francamente, di non potere in modo alcuno aderire al suo consiglio; giacché esso presenti difficoltà insuperabili, avuto riguardo alla dignità nostra e della S. Sede, al nostro sacro carattere, e ai diritti della medesima Sede che non appartengono alla successione di qualche famiglia reale, ma a tutti i cattolici; - ed insieme protestammo -; di non poter noi ceder ciò che non è nostro, e pienamente conoscere noi che la vittoria, che egli volea fosse accordala ai ribelli delle Romagne, sarebbe di stimolo ai rivoltuosi paesani e forastieri delle altre province a fare altrettanto, scorgendo quale prospera sorte fosse toccala ai ribelli.

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Fra le altre cose, abbiam dello all'Imperatore di non poter rinunziare alle mentovale province dell'Emilia soggette al nostro potere, senza violare i solenni giuramenti, da cui siamo vincolali, senza eccitare lamenti, e moti nelle rimanenti nostre province, senza fare ingiuria a tutti i cattolici, e finalmente senza indebolire i diritti non solo del Principi dell'Italia, i quali furono ingiustamente spogliali del loro Stati, ma altresì del Principi di tutto il mondo cristiano, i quali non potrebbero vedere con occhio indifferente messi innanzi certi perniziosissimi principii.

«Né tralasciammo d'osservare, - che la M. S. non ignorava per mezzo di quali potenze, con qual denaro, e con quali aiuti i recenti attentati di ribellione furono eccitali e consumali a Bologna, a Ravenna ed in altre città; mentre la massima parte del popolo a quei moli, che per nulla aspettava, fosse rimasta attonita, e si fosse dimostrata tutt'altro che disposta a secondarli.

«E poiché il serenissimo Imperatore ora di parere, che noi avessimo dovuto rinunziare a quelle province per le rivoluzioni, che a quando a quando colà si vanno eccitando, opportunamente rispondemmo: tale argomento, come quello che prova troppo, non provare nulla affatto; conciosiacchè moti non diversi sieno accaduti in Europa e fuori: e ognuno vede, che da ciò non si può dedurre alcun legittimo argomento per menomare gli Stati civili».

Il giornale l'Univers (1) fu il primo a pubblicare l'Enciclica del Papa, già comunicata a tutto l'Episcopato. La polizia Imperiale ne fu vivamente irritata; e il 29 Gennaio con Decreto del Ministro dell'Interno Billault fu soppresso quel Giornale, accusalo d'essersi fatto «organo d'un partito religioso, le cui pretensioni vanno ogni dì più direttamente mettendosi in opposizione coi diritti dello Stato. Gl'incessanti suoi sforzi (dice il Decreto)

(1)

Eran scrittori di questo egregio giornale Cattolico Luigi Veuillot, Du Lac, Eugenio Veuillot, Coquille, Aubinmu, Rupert, G. Chantrel, De la Roche - Heron, il Conte de la Tour deputato al Corpo legislativo, il Conte di Maumigny, l'Abate Carnet, Barrier, e Jacconet.

tendono a dominare il clero francese, a turbar le coscienze, ad agitare il paese, a scalzare le «basi fondamentali, su cui sono state stabilite le relazioni della Chiesa a e della Società civile....»

Gli scrittori di quel periodico indirizzarono al Santo Padre una eloquente lettera, protestando la loro devozione alla S. Sede, di cui non avrebbero giammai cessalo di propugnare i diritti conculcali dal partito rivoltuoso.

Il Santo Padre, commosso da tanto affetto, loro rispose con Breve Pontificio (25 Febbraio 1860), col quale loro rendeva grazie per l'abnegazione addimostrata, e li benediceva di cuore. Son notevoli queste parole -: «In mezzo alla licenza degli scritti pieni di malevolenza di questo tempo, e delle nere calunnie del nemici di questa S. Sede, questo colpo ci recò giustamente stupore e pena, o nostri cari figli, che da lungo tempo e di tutto cuore avete intrapreso a sostenere e difendere la bellissima e nobilissima causa di questa medesima Sede, e della Chiesa.,..»

Anche l'Indèpendant de l'Ovest ebbe a soffrire avvertimenti e persecuzioni per il medesimo oggetto; nel mentre che la stampa rivoluzionaria indecentemente s'avventava contro la S. Sede, contro la Chiesa e contro la Religione. Per essa non vi fu avvertimento, o censura imperiale di sorta; ma un monco e secco articolo del Moniteur, nel quale «il governo deplorava l'irritante natura delle polemiche religiose; e che dopo il provvedimento dato per l'Univers, le violenze che rispondessero a smaglianti provocazioni (?) sarebbero oggimai senza motivo, come senza scusa...»

Non pertanto le polemiche rivoltuose. acattoliche, ed alee continuarono a bandire la crociala avverso la S. Sede; ed il governo imperiale si tacque, come già taceva a Torino, per l'Idea di scalzare Chiesa, Papato, e Religione coi mezzi morali (???) della calunnia, delle ingiurie, e della detrazione! - Quanto valessero tali mezzi noi provammo; eppure la rivoluzione con le sue calunnie diede alla Chiesa più luce, di quanto n'ebbe in 19 secoli di gloria! - Non fu mai quanto oggi, avvinto al Trono di Pietro l'Episcopato ed il Cattolicismo.

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CAPITOLO II.

Roma terra d'astio alla sventura - Ragguagli e rivelazioni sulla rivolta nello Stato Pontificio - Lettera di Re Vittorio Emmanuele al S. Padre - Risposta del Pontefice - Nota del Ministro Thouvenel - Dispaccio del Cardinale Antonelli. - Dispaccio di Thouvenel, e confutazione fattane da M. r Nardi - Nota Francese sui fatti d'Italia - Risposta di Cavour - Risoluzioni dell'Inghilterra - Lettere di Cavour.

Roma, la città del Pontefici, fu sempre terra d'asilo per gli sventurati! I Re detronizzati ivi trovarono sicurezza, pace e difesa, poiché su quel suolo, neutrale ad ogni politica contesa, è la carità che splende, né lo turbano le politiche passioni.

Carlo Emanuele IV Re di Sardegna, accusato di tradimento da rivoltuosi traditori, abdicava il regno in favore di suo fratello Vittorio Emanuele 1°: e questi, non potendo resistere alla rivoluzione, dové esulare, a salvamento di sé e di sua famiglia. Per lui Roma fu terra ospitale, dove rimase sino al 1804: e quando Napoleone 1° Imperatore con voce di comando ordinò, che dagli stati Pontifici i sudditi Piemontesi fossero discacciati, Pio VII risposegli, come poi Pio IX a Napoleone 3.°-il suolo di Roma è sacro alla sventura!-Papa Pio VII difese e come figli amò i rifuggili dal Piemonte! - (1).

L'Aquila imperiale di Francia, quando il genio battagliero fu rilegalo sullo scoglio di S. Elena, non ebbe un palmo di suolo ove posare: da tutti i governi un bando terribile era fulminato sulla famiglia del Bonaparte, che gli Alleali del 1814 chiamarono usurpature. Madama Letizia si rifugiò a Roma, e Pio VII l'accolse benignamente; benché fosse la madre di colui, che avealo dispogliato, bistrattato, menalo in carcere. Napoleone Luigi, oggi - Imperatore, con suo fratello e con la madre fuggiaschi, trovarono in Roma l'asilo, contro cui nulla poterono le potenze alleale...! E Luigi Bonaparte in qual modo rammenta la gratitudine che deve all'Arcivescovo Giovanni Mastai, oggi che egli è Imperatore, questi Pontefice...??

Chi può mai scrutare i penetrali del cuore umano? - chi leggere

(1)

Cibrario - Storia di Torino - V. 1, pag. 495.

nel cuore dell'uomo politico? - Napoleone 3°, accettando la mano del Piemonte, era accorso a difendere l'integrità del territorio Turco minacciato dal Russo: e lo salvò nella Crimea ed a Sebastopoli. Napoleone 3° ed il Piemonte uniti smembrarono il territorio del Pontefice!

Il Turco avea armi per difendersi, e pure ebbe difenditrice la Francia contro la Russia.

Chi difese il Pontefice, senz'armi terrene, dalla prepotenza della rivoluzione, sostenuta dalle armi del Piemonte. che in faccia allo stato Romano potea dirsi potentissimo? Niuno! - la legge del non intervento era formate; ed il gabinetto Sardo, che agiva col consenso della Francia, animava la rivolta con minacce e con note imperiose esternamente, nell'interno con l'opera del comitati.

Benché il nascere e progredire dell'insurrezione apparisca dalla narrazione fatta finora, pure crediamo necessario citare altri fatti a complemento della storia.

Dopo il festoso accoglimento avuto da Pio IX nel viaggio che fece nelle Romagne, di che fu testimone oculare lo stesso Boncompagni; scoppiala la rivoluzione a Firenze, dove narrammo quanta parte costui vi avesse avuta, Marco Minghetti di Bologna fu assunto a Ministro degli affari esteri di Torino; sicché con più agevolezza si poté allora avviare il commovimento rivoltuoso.

Già se ne manifestarono i primi sintomi, allorché il Boncompagni temendo, che le truppe Pontificie facessero man bassa sui perturbatori, inviò sui confini del territorio pontificio buon nerbo di truppe per esser pronte a prestar braccio forte agl'insorgenti; della qual cosa fanno testimonianza gli organi liberali di quell'epoca (1).

La rivoluzione dovea scoppiare a Forlì, e danaro fu inviato per corrompere le truppe. Gli Svizzeri sventarono la congiura, ed i soldati compri dal Comitato. in abito borghese, ripararono in Toscana, d'ogni cosa provvisti: e colà non solo furono festosamente accolti, ma ai sottoufficiali più benemeriti fu accordalo aumento di grado, e furono fusi nelle truppe toscane.

(i) Monitore Toscano del 1° Maggio 1859.

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Un vascello francese approdò nelle acque di Rimini, e gli Uffiziali discesi a terra diedero un gran banchetto, in cui, levando grida sediziose, fecero sventolare bandiere tricolori. Un'altra fregata francese. l'Impetueuse, tentò approdare ad Ancona: ma non volte arrischiarvisi, standovi a guarnigione gli Austriaci.

Avvenute le prime fazioni della guerra ed usciti gli Austriaci da Bologna, Gioacchino Pepoli immediatamente vi si recò ad abbattere gli stemmi del Pontefice.

A Perugia, scoppiata la rivolta, gli Svizzeri la compressero, rispondendo con le armi alle armi delle barricate; e la stampa gridò all'eccidio, all'infamia, alle stragi. Furono sì sleali tali accuse, che. oltre a quanto dicemmo, lo stesso Ministro dell'Interno di Francia, al Sièole, che non ebbe parole più empie contro la S. Sede, mandò un avvertimento concepito in questi termini -: «Se una lotta dolorosamente deplorabile si è combattuta a Perugia, la responsabilità deve cadere su coloro, che hanno obbligato il governo Pontificio a far uso della forza. per sua legittima difesa».

Anche a Bologna il partito del Papa stava per dare uno scacco ai rivoltatosi: quando per aiuto chiesto da Pepoli, il Conte di Cavour spedì Massimo d'Azeglio in qualità di Commessario militare con un corpo di carabinieri, non che il battaglione Real - Navi, con larghi soccorsi di armi e di denaro!

Facciamo un passo indietro nei maneggi della diplomazia. Fin dal 3 Dicembre del 1859, quando l'idea del Congresso era caldissima e palpitante, Pio IX conoscendo che dal Piemonte venisse soffiata la rivoluzione nel suo territorio, trovò acconcio e convenevole di scrivere a Re Vittorio Emanuele, impegnandolo a sostenere innanzi al Congresso i diritti della S. Sede (1).

La risposta non fu data, se non due mesi dopo, (6 Febbraio 1860) quando al Ministero di Torino era risalilo il Conte di Cavour, di tanta rivolta anima, centro, vita e movimento.

Epperò essa non fu che l'estrinsecazione della politica

(1)

Documenti pubblicati dalla Perseveranza del 16 Aprile 1800.

del Gabinetto Cavour, avvegnacchè nei governi rappresentativi sia il gabinetto che rappresenti la politica dello Stato.

Riportiamo intiera la lettera menzionala, come documento che spande molta luce sugli avvenimenti dell'epoca.

«Beatissimo Padre.

«Con veneralo autografo del 3 Dicembre ora scorso, V. S. m'impennava a sostenere innanzi al Congresso i diritti della Santa Sede....

«V. S. nell'invocare la mia cooperazione per la ricuperazione delle Legazioni, pare voglia darmi carico di quanto è succeduto in quella parte d'Italia: prima di confermare così severa censura, supplico rispettosamente la S. V., a prendere ad esame i seguenti fatti e considerazioni.

«Figlio devoto della Chiesa, discendente di stirpe religiosissima, come ben nota V. S. ho sempre nutrito sensi di sincero attaccamento, di venerazione e di rispetto verso la Santa Chiesa e l'Augusto suo Capo. Non fu mai e non è mia intenzione di mancare ai doveri di principe cattolico, e di menomare, per quanto è in me, quei dritti e quell'Autorità che la S. Sede esercita sulla terra per divino mandato del Cielo. Ma io pure ho sacri dritti da compiere innanzi a Dio ed agli uomini, verso la mia patria, e verso i popoli, che la Divina Provvidenza volte affidali al mio Governo. Ho sempre cercalo di conciliare questi doveri di principe cattolico, e di sovrano indipendente di libera e civile nazione, sia urli"interno reggimento del miei Stati. sia nel Governo della politica estera.

«L'Italia da più anni è travagliala da avvenimenti, che tutti concorrono al medesimo scopo, al ricupero della sua indipendenza. A questi ebbe già gran parte il mio magnanimo genitore, il quale seguendo l'impulso del Vaticano, piglialo per divisa il detto memorabile di Giulio tentò di redimere la nostra patria dalla dominazione straniera. Egli mi legò morendo la santa impresa. Accettandola, credo di non allontanarmi dalla divina volontà, la quale certamente non può approvare che i popoli sieno divisi in oppressori ed oppressi.

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«Principe italiano, volli liberar l'Italia; epperò reputai debito mio l'accettare per la guerra nazionale il concorso di tutti i popoli della Penisola. Le Legazioni per lunghi anni oppresse da soldati stranieri, si sollevarono appena questi si ritirarono. Esse mi offersero ad un tempo il loro concorso alla guerra, e la dittatura. Io, che nulla avea fatto per promuovere l'insurrezione, rifiutai la dittatura per rispetto alla Santa Sede, ma accettai il loro concorso alla guerra d'indipendenza, come sacro dovere d'ogni italiano.

«Cessata la guerra, cessò ogni ingerenza del mio governo nelle Legazioni. E quando la presenza di un audace Generale poteva mettero in pericolo la sorte delle province occupale dalle truppe di Vostra Santità, adoperai la mia influenza per allontanarlo da quelle contrade. Quei popoli, rimasti pienamente liberi, non sottoposti a veruna influenza estera. anzi in contraddizione coi consigli del più polente e generoso amico che l'Italia abbia avuto mai, richiesero con mirabile spontaneità ed unanimità lii loro annessione al mio regno.

«Questi voti non furono esauditi. Eppure questi popoli, che prima davano si manifesti segni di malcontento, e cagionavano di continuo apprensioni alla Corte di Roma, da molti mesi si governano nel modo il più lodevole.

«Si è provveduto alla cosa pubblica, alla sicurezza delle persone, al mantenimento della tranquillità, alla tutela della stessa religione. È cosa nota, e ch'io ebbi cura di verificare, essere ora nelle Legazioni i ministri del culto rispettati e protetti, i templi di Dio più frequentati che noi fossero prima.

«Comunque sia però, è convinzione generale, che il governo di V. S. non potrebbe ricuperare quelle province, se non con la forza delle armi, e delle armi altrui.

«Ciò la S. V. non lo può volere. Il suo cuore generoso, l'evangelica carità rifuggiranno dallo spargere sangue cristiano pel ricupero di una provincia, che, qualunque fosse il risultato della guerra, rimarrebbe pur sempre perduta moralmente pel governo della chiesa. L'interesse della religione non lo richiede.

«I tempi che corrono, sono fortunosi; non tocca a me figlio devoto di V. S. ad indicarle la via più sicura per ridare la quiete alla nostra patria e ristabilire su salde basi il prestigio e l'autorità della S. Sede in Italia. Tuttavia mi credo indebito di manifestare e sottoporre a V. S, un'idea, di cui sono pienamente convinto ed è: che ove V. S. prese in considerazione le necessità del tempi, la crescente forza del principio delle nazionalità, l'irreflessibile impulso che spinge i popoli d'Italia ad unirsi ed ordinarsi in conformità alle norme adottale da tutti i popoli civili, credesse richiedere il mio franco e leale concorso, vi sarebbe modo di stabilire non solo nelle Romagne ma altresì nelle Marche, e nell'Umbria tale uno stato di cose, che, serbalo alla Chiesa l'atto suo dominio, ed assicurando al Supremo Pontefice un posto glorioso a capo dell'italiana nazione, farebbe partecipare i popoli di quelle province del benefizi, che un regno forte ed altamente nazionale. assicura alla massima parte dell'Italia centrale.

«Spero che la S. V. vorrà prendere in benigna considerazione questi riflessi dettali da animo pienamente a lei devoto, e sincero, e che con la solita sua bontà vorrà accordarmi la santa sua benedizione.

Torino 6 Febbraio 1860.

Vittorio Emanuele:

Con quanta scaltrezza in questo documento diplomatico il Conte di Cavour avesse sviluppalo il piano di annettersi non solo le Romagne, ma altresì le Marche e l'Umbria, si. rileva chiaramente dal contesto. che nella:prima parte non è se non la ripetizione della Nota circolare del 1859, ed una esalta uniformità alle idee dell'Imperatore; nella seconda è una prevenzione che il fuoco della risoluzione non avrebbe lardalo a svilupparsi nelle altre province.

Questa lettera non lasciava più a dubitare la Corte di Roma sugli intendimenti del Gabinetto Sardo; quindi Pio IX non facendo più mistero dell'averli compresi, diede risposta breve e sbrigativa, qual quella del debole che, certo di non poter resistere a forza maggiore, sino agli ultimi momenti non smette la propria energia a difesa del suoi diritti. Ecco l'autografo.

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«Maestà!

«L'idea che V. M. ha pensalo di manifestarmi, è un idea non savia, e certamente non degna di Re Cattolico e di un re della casa Savoia. La mia risposta è già consegnata nella Enciclica all'Episcopato cattolico, che facilmente Ella potrà leggere.

«Del resto io sono afflittissimo non per me, ma per l'infelice stato dell'anima di V. M. trovandosi illaqueato dalle censure, e da quelle che maggiormente la colpiranno, dopo che sarà consumato l'alto sacrilego, clic ella coi suoi hanno intenzione di mettere in pratica.

«Prego di tutto cuore il Signore, affinché la illumini, e le dia grazia di conoscere e piangere, e gli scandali dati, e i mali gravissimi da lei procurali con la sua cooperazione a questa povera Italia. Dal Vaticano 14 Febbraio 1860.

Pius PP. IX.

Intanto a Parigi grande era il commovimento per la lettura della Enciclica del Papa; ed il governo si vide obbligato, per calmare l'esacerbazione, che si manifestava da per tutto nel popolo, a spedire una Nota al Governo Pontificio, dandole la maggior possibile pubblicità, per dimostrare che causa della rivolta negli stati romani fosse l'ostinazione del Gabinetto Pontificio. Questa nota - dispaccio non è che una ripetizione delle accuse compendiate in altre note di Francia, e di Piemonte.

Il ministro Thouvenel, dopo aver manifestata l'impressione dispiacevole che avea cagionata al Gabinetto dell'Imperatore l'Enciclica del Papa, si fa ad esaminare tutti i fatti che erano occorsi prima della rivolta nelle Legazioni; ed assicura, son parole testuali «che partite le truppe Austriache, le popolazioni profitteranno dell'occasione, senza aver bisogno di essere trascinate da alcun eccitamento particolare, e si può dire che si sono trovate più ancora che non si sono rese indipendenti» e poi esclama: ecco tutto il segreto della ribellione delle Romagne».

È privilegio di lealtà diplomatica il niegare con una facilità simigliante non solo i fatti perpetrati a luce di sole, ma i documenti officiali, già da noi citati nel decorso della narrazione;

ed è cosa degna di attenzione il vedere, come sì il Gabinetto di Francia, che quello di Torino, a base del loro ragionamenti, partissero sempre dall'argomento della spontaneità del popolo, e dal non esservi stata mai eccitazione e pressione rivoluzionaria.

Da questa spontaneità il Ministro Thouvenel argomentava, che alla rivolta non avea dato causa la Francia. E come a prova di siffatta tesi, ed a mostrare l'impegno sposalo dall'Imperatore a benefizio del Pontefice, riporta la lettera di consiglio inviatagli, ed aggiunge: «esser certo che la sincerità del sentimenti, coi quali essi. (consigli) sono stati dati, è almeno assai bene dimostrata». Passa a lisciare il clero per ammansirlo e ritrarlo da quel fare riottoso spiegalo contro il governo; e dice -: «il clero di Francia sa con quale benevolenza e con quale larghezza di vista il governo imperiate ha sempre osservate le leggi, che governano i suoi rapporti con la corte di Roma. Esso pure sa di aver trovato nell'impero un potere riparatore; e sa che sotto quest'appoggio tutelare, esso ha ripigliato nella società francese l'influenza e l'autorità, che da altri governi erangli state contese». Aggiunge che sebbene sia grande il desiderio di giovare al Papa, pure si trovasse di fronte a difficoltà insormontabili; e conchiude che sarebbe necessario che il Governo pontificio alleluiasse le sue pretensioni; affinché, benchè tardi, pure permettesse al governo dell'Imperatore di prestare il suo appoggio ad una politica conciliante e ragionevole.

A tal nota fu immediatamente data risposta con un lungo, minuzioso, e dettaglialo dispaccio del Cardinale Antonelli.

Il Cardinale Ministro Seg. di stato respinge una ad una tutte le accuse che si appongono dal gabinetto dell'Imperatore al Governo della S. Sede. E pria di tutto dimostra che non fosse stata la qualità del regime applicato alle Legazioni la causa della rivolta; poiché reggimento libero, più che altrove, godevasi in Toscana, ciò che non è negato da alcuno, e pure quel principe fu slealmente detronizzato:

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lo che, prima delle Legazioni, avvenne pure a Modena e Parma «Basta l'aver dimorato in Italia, o l'averne seguito con qualche attenzione le varie fasi calamitose per comprendere da chi, e con quali mezzi fosse apparecchiata, compiuta e sostenuta la rivolta, ed il cui bono, pregiudizio gravissimo nelle materie penali, può aver qui un'applicazione tanto più evidente, quanto più patenti sono i maneggi di chi fa di tutto d'impossessarsi delle province... che vorrebbonsi sottrarre al patrimonio della S. Chiesa....» Viene poi a dire come il Conte di Cavour fin dal Congresso di Parigi avesse lanciata l'idea dello annessioni dell'Italia centrale. Paria delle macchinazioni del Pepoli, che il Governo di Roma non ignorava, e che sihbene avesse potuto molte volte assicurarsi della persona di lui, pure per riguardi all'imperatore, ne diede avviso all'ambasciatore Francese, che promise avvertirlo, ed assicurò potersi vivere tranquillo sul conto di lui. Denunzia le opere, certamente ad ogni principio di diritto internazionale opposte, perpetrate dal Boncompagni in Toscana, dalle quali non furon dissimili quelle del signori Migliorali e Pes della Minerva, agenti diplomatici accreditati presso la Corte di Roma. Non è dunque, dice il dispaccio, improbabile il vedere eccitato a sommossa. il popolo alla partenza degli Austriaci, quando gli eccitamenti veniano con promesse, e con profusione di danaro: ma con tutto ciò il partito della rivoluzione si trovava ridotto a qualche centinaio di facinorosi: epperò il Pepoli, quando volte togliere lo stemma Pontificio e si vide minaccialo dalla maggioranza, protestò farlo per metterlo in salvo dagli insulti delle plebe mentre di fuori facea venire truppe, armi e denari per tenerla in soggezione.

Dopo aver poi detto, che il Pontefice avea sempre tenuto a cuore i servigi resigli nel 1849 dall'armata francese, ribattendo sul partito preso dall'Imperatore, che non trova altro accomodamento, se non quello da lui designato, confessa, che veramente non ve ne può essere, perché i fautori della rivoluzione e con le parole e con gli scritti avean dichiarato,

Con uomini così disposti, domanda egli, è mai possibile venire a componimento per vie di riforme? Ricorda quindi, che non fu inaccessibile la S. Sede; e né da a prova le trattative stabilite, di cui il gabinetto Imperiale fu soddisfattissimo; come fu dichiarato dal Dispaccio del Conte Walewski del 13 Ottobre 1859. N, 1361. Spiega l'impossibilità in cui è il S. Padre di abdicare ad una parte del suoi Stati, e non valere l'esempio di Pio VI, il quale avea dovuto cedere alla forza materiale. Dimostra, che se stranieri sussidii aveano apparecchiata e compiuta l'opera della rivoluzione, non sarebbe a reputarsi inconveniente, se venissero stranieri, se pur così debbano chiamarsi riguardo alla S Sede i cattolici che corrono in aiuto del Padre comune del fedeli, a reprimere l'opera degl'intrusi; e conchiude, il S. Padre esser pronto ad intavolar nuove trattative, quando non ledessero i diritti del suo dominio.

Nel contempo, tutto essendo pronto per consumare lo spoglio del Pontefice, il sig. Thouvenel spedì dispaccio circolare a tutti i Gabinetti esteri per coonestare la condotta del Gabinetto Francese. Senza riportare questo documento, il quale non è che una ripetizione delle istesse accuse e degli argomenti già riportali, diamo un cenno della confutazione che ne fece l'ottimo pubblicista Mons. Nardi (1); poiché da essa si rilevano le accuse appettate alla S.° Sede.

«Il primo rimprovero, che il ministro fa al papa, (è il Nardi che «paria) si è di aver pubblicala l'Enciclica, quando dovea scrivere «un allo diplomatico. E noi cattolici, la prima cosa che domandiamo «al sig. ministro, si e: con qual diritto ei chiami a Sindacato gli atti pubblici ed ecclesiastici del papa, ed esso cattolico (almen lo crediamo) e ministro del sovrano primogenito della chiesa, dica al papa: dovevate fare così, e non così.»

Thouvenel scrive, che la storia rivelerà un giorno a chi imputarsi la responsabilità degli avvenimenti; ed il Nardi dopo aver domandato,

(1)

Scritti a difesa della S. Sede. Torino 1862.

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chi fosse stata la causa dell'insurrezione, risponde a proposito del rimprovero fatto al papa di non aver accordale le chieste concessioni: «Il papa... in altri tempi ne ha fatte, e tutti ne sanno le conseguenze: è da incolparsi, se ora vada più a rilento? d'altronde che concessioni e riforme si vogliono? si parli chiaro una volta: forse una forma rappresentativa, un Parlamento? Questa domanda non può u venirci dal presente governo di Francia: ESSO NON PUÒ CHIEDERE CHE ISTITUISCA A ROMA CIÒ CHE NON SI VUOLE A PARIGI!!

Rassegna poi dottamente lo stato del governo di Roma; parlando della legislazione, arricchisce la sua tesi con il paragone degli altri governi di Europa, ed esclama: «d'altronde, chi costituì sopra e di noi giudice e tutore un ministero straniero? La teoria, secondo i la quale uno stato rivede i conti ad un altro, distrugge ogni possibile ordine sociale, e ogni fermo sistema politico. Uno stato straniero non ha i mezzi per ben conoscere, e ancor meno il diritto di giudicare le cose interne di un altro....»

Alla protezione francese accordala alla S. Sede, rammentata continuamente dall'Imperatore risponde: è vero, perché in tutta Europa vedeasi, come il Piemonte, appoggiatosi alla rivolta, minacciava tutta l'Italia, e specialmente Roma «contro cui esso maturava le sue più antiche, e più fiere vendette, perché nessun governo l'è doppio titolo più nemico. Si chiesero garenzie per il papa a Parigi; se e n'ebbero promesse, e quali, tutta l'Europa conosce, mentre noi non chiediamo che di non essere insidiati ogni dì, ogni ora col denaro e con le seduzioni...»

Il Papa provoca alla coscienza del Clero, e all'ardore del popoli. Se il papa fa un enciclica, e la dirige in latino ai Vescovi, lo è per eccitarli, onde concorrano alla difesa della Religione Cattolica... «ma non infiamma passioni popolari...., mentre per le vie di Parigi i rivendiglieli dispensano per pochi soldi alla più minuta plebe l'infame satira di About, l'opuscolo il papa ed il congresso, e

Chi abbandona qui maggiormente le vie diplomatiche..?

Viene poi al nodo della quistione. «Il ministro dice: dominio temporale è questione politica, che non deve confondersi, né mescolarsi con la religione. Il papa dice: dominio temporale è questione religiosa, perché non v'ha chiesa Cattolica senza papa che governi. né governo senza libertà, né libertà di governo senza indipendenza e sovranità.» Aggiunge che ai primi cristiani potea bastare un papa profugo, suddito anche di Giuliano l'Apostata: ora le cose son mutale, e la dimostrazione sarebbe troppo dolorosa e affatto inutile. E qui si fa eloquentemente a narrare, che surta la necessità del potere temporale, fu sempre rispettato e difeso da tutti i Sovrani, come condizione essenziale alla vita della Chiesa; poiché se è vero che anche senza di esso la Chiesa non potrà mai perire, è pur vero, che ne resterebbe profondamente ferita.

Parla della pressione usala sopra Pio VI; ed infine, all'appunto dato alla Corte Pontificia per aver ceduto all'Austria una parte della legazione di Ferrara sulla riva sinistra del Po, risponde: che il Papa non cedette mai alcun pezzo di territorio, e se fu obbligato a subire la violenza di quella necessità, protestò vivamente contro lai fatto: che se dopo ciò trattò amicamente quella potenza, lo stesso è a dirsi della Francia, la quale possiede sempre Avignone.

Conchiude: n - inutili parole, dirassi; la penna non regge contro la spada. Ed io dico: la spada non regge a lungo contro giustizia...»

In questo mentre, da ogni parte la diplomazia battagliava, non potendosi servire di più potenti ragioni, poiché due ostacoli eransi frapposti dalla politica dell'Imperatore del francesi; la sconfusione nel sistema nordico, e la legge del non intervento. Non pertanto le discussioni andavano per le lunghe, e la Francia trovandosi pur troppo chiaramente in opposizione con tutte le altre potenze in appoggiare il fatto della rivoluzione, per uscire dallo stato di trepidazione

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«1. Annessione completa del Ducati di Modena e Parma alla Sardegna.

v 2. Amministrazione temporale delle Legazioni, della Romagna, di Ferrara, e di Bologna sotto la forma di un vicariato esercitato da S. M. Sarda in nome della S. Sede:

«3. Ristabilimento del Granducato di Toscana nella sua autonomia politica e territoriale».

Il Conte di Cavour non fu neanche contento di questa proposta: egli camminava certo del suo fatto; quindi rispose invocando il suffragio popolare, come la libera espressione della volontà del popoli; l'impossibilità del Vicarialo, perché il S. Padre «riguardandosi come indirettamente responsabile degli alti del suo vicario, non vorrebbe certamente lasciargli la libertà d'azione necessaria a far sì che la combinazione proposta avesse un utile risultato....» e affinché non si fosse detto, il gabinetto di Piemonte essere la pietra d'inciampo ad ogni accomodamento, con diplomatica furberia concludeva: «che qualunque sieno le risposte che gli Stati dell'Italia centrale emetteranno, il governo del Re ha in anticipazione dichiarato di accettarle senza riserva...» Cosi mostrava di conceder molto, perché non dubitava dell'esito. I suoi uomini erano là; la presenza della rivoluzione armata eragli leva d'appoggio; il non potersi manifestare la propria volontà, decretata come colpa di cospirazione, sgominava il partito conservatore; dunque lo spediente del libero voto era già un trionfo. L'Inghilterra, quando dietro l'esitazione ed i consigli della Francia, vide la verità, ossia l'acquiescenza alle annessioni, saltò in mezzo a proclamare giustissimo l'appello al suffragio popolare; e con tutta la sua potenza appoggiò la rivoluzione, non certamente per coadiuvare il Piemonte: non per lo scopo di voler l'Italia posta al rango di potenza di prim'ordine, poiché questo

avrebbe dato molto fastidio al commercio Inglese, ma per spingere le cose a tanto estremo, da porre in un tristo bivio la condizione politica della Francia.

Adunque l'Inghilterra, senza indugiare menomamente, rispose alla noto della Francia ritenendo come accettati i primi due articoli sull'annessione di Modena e Parma, e sul Vicarialo; e modificando il terzo nel senso che alla ricostituzione della Monarchia di Toscana fosse eletto a Sovrano un principe di casa Savoia, aggiungeva in fine che il suffragio non fosse dato dal popolo in massa, ma dai rappresentanti delle Assemblee! Locchè assicurava la vittoria con incontestabile certezza ai componenti la Società Nazionale di Torino, che la rivoluzione teneva desta e compatta! «Queste avventurose notizie, scrivea il Conte di Cavour, che non senza profonda commozione dell'animo vi partecipo, provano che l'annessione può dirsi oggimai un atto compiuto, e che è raggiunta la meta del comuni desideri...»

E siccome era uomo da saper battere il ferro ancor caldo, poiché dalla diplomazia avea sempre che temere, lo stesso giorno scriveva premurosamente a La Farina in termini, dai quali può rilevarsi l'attività della rivoluzione.

«Caro La Farina (1) Ecco il LA. Chiedere risolutamente, anche risentitamente una soluzione. Ripetere che a qualunque costo, anche col pericolo di commettere qualche irregolarità, bisogna convocare i Collegi senza ulteriori indugi.

«Spingere all'armamento, osservando che il voler fare assegnamento solo sulla diplomazia, è cosa assurda, non potendo essa riconoscere uno stato di cose che riposa sulla distruzione di troni, così detti legittimi, se non come fatti compiuti - Il tuono non dev'essere ostile, ma però un tantino minaccioso - Non già che io abbia bisogno di pressione per andare avanti, ma mi sarà utile il poter dire, che SONO PREMUTO

Cavour.

Cavour avea vinto con l'astuzia; avea vinto per il calcolo dell'Inghilterra, che nella rivoluzione volea la compromissione di Bonaparte; avea vinto per il patto di Plombières, con cui Nizza e Savoia cessavano d'essere italiane;

(1)

Nic. Bianchi - loc. cit. p. 81.

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e per la mal calcolata vendetta della Russia, che nella umiliazione dell'Austria credé lavare l'onta di Sebastopoli.

Il colpo era stato con arte immensa premeditato; e la diplomazia che avea rumorosamente intimata una guerra di Note, finì con dar mano alla rivoluzione.

CAPITOLO 3.°

Politica Napoleonica - Il suo discorso al Corpo Legislativo. - Il plebiscito dell'Emilia. - Farini ne porta a Torino la notizia officiale - Ricevimento che n'ebbe. - Decreto di annessione. - Annessione della Toscana. - Proteste del Duca di Modena; della Duchessa di Parma, e del Gran Duca di Toscana. - Protesta della 8. Sede. - Riconoscimento delle Potenze sui fatti compiuti - Una lettera di Vittorio Emanuele al Papa. Confidenziali tra Cavour ed Antonelli. - Lettera di S. S. IX al Re di Sardegna Commozioni in Francia. - Napoleone si smaschera. - Discussione al Corpo legislativo. - Bolla di Scomunica Cum Catholica Ecclesia. - di napoleone. - Il Moniteur la pubblicazione della Bolla - Il Plebiscito di Nizza e Savoia - Arresto del Cardinale Corsi. - Lamarmora al Parlamento.

Quale sarà la politica dell'Imperatore del Francesi? chiedevan tutti ansiosamente: rivoltuosi, e conservatori, e le stesse potenze nordiche! Invano speravasi un raggio di luce dai suoi discorsi, dalle sue Note, dai suoi dispacci. Egli col fatto lasciava progredire la rivoluzione, imperocché la sua sola volontà sarebbe stata bastevole a far rientrare ogni cosa nell'ordine! Per interrogarsi il voto delle popolazioni, scrivea un pubblicista francese, era d'uopo far ritirare Boncompagni, Farini, Pepoli, Migliorati ed altri consimili emissari del Piemonte: ma ciò non potea volersi dalla rivoluzione che avea tutta la certezza di uno scacco, non essendo un mistero, che forte fosse il partito del legittimisti. Napoleone intanto lasciava fare, mostrando di adontarsene!

Nel di 1 Marzo all'apertura del Corpo legislativo di Francia ne diede la pruova. Egli disse, aver consigliato il Piemonte ad accogliere favorevolmente i voti delle province, che si offerivano a lui; ma di mantenere l'autonomia della Toscana,

e di rispettare in Principio la S. Sede. Perlocchè l'ingrandimento di territorio, che veniasi ad effettuare nella Sardegna, lo avea spinto a chiederle la cessione delle frontiere della Francia. Il mistero era dunque svelato! L'Imperatore riprendea le Province di Nizza e Savoia, e nel Piemonte creava un regno forte, che gli sarebbe stato alleato, e di non poco giovamento nelle quistioni europee. I consigli di rispettare in principio la S. a Sede erano una potente dichiarazione del suo consentimento alla annessione delle Romagne.

Non più che quattro giorni dopo, gli ordini da Cavour dati nella lettera a La Farina, erano stati già mirabilmente eseguiti. Il plebiscito fu fatto, e stabilita l'annessione al Piemonte delle Province dell'Emilia.

Il Cav. Farini, nel 18 Marzo, si recò a Torino apportatore del plebiscito, e fu ricevuto con Reali onori dal Sindaco e dalla Giunta municipale, alla stazione della ferrovia: poi diplomaticamente rilevato in carrozza di Corte dal Senatore Marchese di Brème, presentò al Re i documenti legali del suffragio universale dei popoli dell'Emilia, dicendogli: - «la M. V., che ne sentì pietosamente le grida di dolore, ne accolga benignamente il pegno di gratitudine e di fede.»

Al che il Re rispose di accettare il voto, perché «la manifestazione della volontà nazionale è così universale e spontanea, che riconferma appieno al cospetto dell'Europa, e in tempi e in condizioni diverse, il voto espresso altre volte dalle assemblee dell'Emilia.

Nel giorno medesimo un R. Decreto annunziava, che le province dell'Emilia faceano già parte integrante dello stato Sardo.

Questo a Torino. Nel contempo a Parigi il sig. Rouland Ministro della pubblica istruzione e del culli facea spedire a tutto l'Episcopato Francese una Circolare per far loro intendere, che il governo dell'imperatore ha per la religione e per l'Augusto suo Capo la più grande venerazione!

Veramente, nel momento in cui si approvava lo spoglio delle Romagne, era molto opportuno il protestare la grande venerazione verso il S. Padre!

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Immediatamente dopo Farini giunse Ricasoli, che seco, portava gli altri documenti legali della manifestazione della volontà della Toscana; che il Re accettò con gran piacere, decretando anche senza indugio la seconda annessione.

Il Farini ed il Ricasoli furono fregiali del celiare dell'Ordine Supremo della SS. Annunziata, fondato da Amedeo VI.

Queste notizie, come lampo, si propagarono da per tutto - Napoleone infinse stupore, l'Inghilterra manifestò la sua gioia, e se ne diè vanto; l'Austria fremè di rabbia: le altre potenze rimasero impassibili: i Principi spodestali protestarono.

Il Duca di Modena accusò la Francia principalmente. «Tutti sanno i (egli scriveva) come il governo Francese incagliò coi suoi atti, e con ii le sue interpetrazioni, la possibilità della nostra ristorazione, e come il governo Sardo, quantunque segnatario anch'egli del trattato di Zurigo, continuò slealmente per mezzo del suoi organi e del suoi rappresentanti, qualunque fosse il loro nome, a disporre da padrone del nostro Stato, e ad assimilarlo al suo».

Dopo di aver date ragioni del come non debba tenersi conto di quanto erasi fatto, protesta «contro un alto... che difetta nella sua esecuzione di ogni garanzia di buona fede, stantechè è stato concepito, seguito e controllato da quei medesimi, che aveano escluso il voto in favore del potere legittimo e preesistente.... appoggiati ad una numerosa forza... onde esercitare una pressione opprimente sul voto popolare.........».

Protestò la Duchessa Reggente di Parma... contro la violenza imposta dagli agenti del governo piemontese al popolo parmigiano.... Conosciamo (essa dice) di lunga mano i veri sentimenti degli abitanti del ducato; e ne abbiamo avuto assai prove in memorabili circostanze durante la nostra reggenza, ed anche negli ultimi tempi: sono essi di attaccamento all'autonomia del paese, di fedeltà al loro sovrano legittimo. Egli è sotto l'intimidazione delle minacce, sollo la corruzione del raggiro, e l'oppressione del terrore: egli è in conseguenza

del giuramenti pel Re Vittorio Emanuele,. stati imposti sotto pena di destituzione agli impiegati di ogni sfera d'amministrazione: egli è per lo scoraggiamento generale cagionalo dai nove mesi di procurate incertezze, e di sofferenze perigliose...» che si è procurato l'attuale stato di cose.

Nobile ed eloquente è pure la protesta del Gran Duca di Toscana, che avrà ben più ragioni a dimostrare, che la rivoluzione avea parlato, non il popolo.

Egli, senza scendere a basse recriminazioni e ad accuse violente, si appella all'onestà dell'Imperatore del Francesi, il quale (dice) non può non esser convinto della slealtà usatasi in calpestare i trattati, e nel falsare la pubblica opinione.

L'Austria diriggeva nel contempo al gabinetto di Torino un dispaccio, che inviò pure a tutte le corti estere, col quale dichiaravasi, l'imperatore per ora (dans ce moment) limitarsi a protestare contro quanto era avvenuto.

In fine ecco la protesta fatta dalla 8. Sede.

Dal Vaticano 24 Marzo.

«Le mene del partito rivoluzionario, diventato più audace durante l'ultima guerra, hanno raggiunto lo scopo, al quale esso aspirava da lungo tempo: la ribellione degli Stati centrali della penisola e delle Romagne, e l'ingrandimento del Piemonte mediante la spogliazione del principi legittimi.

«In mezzo a questi dolorosi avvenimenti la fiducia, che alti riguardi per la religione e la giustizia avrebbero posto un argine al progresso del male, non diminuiva punto nell'animo del S. Padre. Ciò nonostante non si tenne conto del più sacri diritti, e si mandò ad effetto la spogliazione di una porzione del dominii della S. Sede.

«Con un decreto fatto a Bologna il primo giorno di questo mese i popoli dell'Emilia furono obbligati ad esprimere il loro voto in favore del Piemonte. Tutti i mezzi, tutte le violenze, e mille astuzie si posero in opera, affinché il voto risultasse corrispondente allo scopo premeditato.

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Con l'accettazione del 18 Marzo il re Vittorio Emanuele pose il colmo al dolore del S. Padre, che vide la chiesa spogliala del suo dominio temporale da un principe cattolico, erede del trono di monarchi illustri per la loro santità,

«Il Santo Padre mosso dall'obbligo che gl'incombe, di custodire e difendere il diritto della sovranità temporale, ha dato ordine al sottoscritto segretario di Stato di protestare contro la violazione del diritti incontestabili della S. Sede, che S. S. intende mantenere nella loro integrità, non riconoscendo e dichiarando nullo, e con ciò usurpatorio e illegittimo quanto si fece e si farà in quelle province.

«Il movimento del cattolici, che si è manifestato fin dai primi attentati contro il dominio temporale, persuade il Santo Padre, che i Sovrani non vorranno riconoscere questo atto di usurpazione sacrilega e fraudolenta.

«Il segretario di Stato pregando V. Signoria di portare a cognizione del suo governo questa protesta, deve pur aggiungere che il S. Padre spera che non gli mancherà la cooperazione del vostro governo, perché abbia un giorno a cessare la spogliazione, contro la quale reclama altamente il diritto delle genti».

L'Imperatore del Francesi, che avea protestato, consigliato, e che più tardi giunse fino all'atto, non saprem meglio deffinire che col nome di politica commedia, di ritirare il suo Ambasciatore da Torino, fu il primo con l'Inghilterra a sanzionare e riconoscere quello stato di cose; e non contento di averlo fatto egli stesso, sollecitò il riconoscimento della Russia e della Prussia, e della Spagna stessa. Però tutti riconobbero condizionatamente i fatti compiuti; ed a Madrid si aggiunse, riservati i diritti della S. Sede.

E pure -, dopo quanto era avvenuto, Cavour non peritò di tentare di bel nuovo la S. Sede, invitandola a sancire il plebiscito!

Vittorio Emanuele 2° con lettera del 20 Marzo scriveva al S. Padre; gli avvenimenti compiuti nelle Romagne imporgli il dovere di esporgli con rispettosa franchezza le ragioni di sua condotta.

E dichiarò, che sol

Ciò non era che la ripetizione dell'idea da Napoleone già prima proposta, cioè il Vicarialo; al che se la Corte di Roma fosse addivenuta, avrebbe di fatto riconosciuto il plebiscito e l'annessione, e rinuncialo quel territorio a favore del Re di Sardegna, che d'allora in poi lo avrebbe posseduto in buon diritto, senza timore di contestazione alcuna per parte della diplomazia.

Questo documento del gabinetto di Torino, e che per maggior valore diplomatico si era scritto a nome del Re, fu accompagnalo da una lettera confidenziale del Conte di Cavour al Cardinale Antonelli. In essa il ministro Piemontese scriveva «che ove le proposte fossero dalla Beatitudine del Sommo Pontefice accolte come principio di negoziali, S. M. avrebbe in animo d'incaricare il conte Federico Sclopis di trasferirsi in Roma per dar mano alle pratiche relative».

Perlocchè il Cavour mostrava aver tutta la fiducia dell'alto ingegno del Cardinale perché contribuisse «a rimuovere gli ostacoli che si potessero incontrare nel dare cominciamento ai negoziati.

Il Cardinale, nell'acchiudergli la risposta del S. Padre protestogli, esser dolente di non poter egli spendere in modo alcuno l'opera sua al compimento del voti del Re, giusta l'insinuazione del Conte: perché era impossibile aprire negoziati sulla base di uno spoglio, al riconoscimento del quale per dovere di onestà e di coscienza gli era vietato cooperarsi.

Or ecco per intiero la risposta del Papa.

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«Maestà -

«Gli avvenimenti, che si sono eccitati in alcune province dello stato della Chiesa, impongono il dovere a V. M., com'ella mi scrive, di darmi conto della sua condotta in ordine a quelli.

«Potrei trattenermi a combattere certe asserzioni che nella sua lettere si contengono, e dirle per esempio, che l'occupazione straniera nelle Legazioni era da molto tempo circoscritta alla città di Bologna, la quale non fece mai parte delle Romagne. Potrei dirle, che il supposto suffragio universale fu imposto, non spontaneo: e qui mi astengo dal richiedere il parere di V. M. sopra il suffragio universale, come ancora dal manifestarle la mia sentenza.

«Potrei dirle, che le truppe Pontificie furono impedite dal ristabilire il legittimo governo nelle province insorte per motivi noli anche a Vostra Maestà.

«Queste ed altre cose potrei dirie in proposito; ma ciò che maggiormente m'impone l'obbligo di non aderire ai pensieri di V. M. si è il vedere la immoralità sempre crescente in quelle province, e gli insulti che si fanno alla religione ed ai suoi ministri: per cui, quando anche non fossi tenuto da giuramenti solenni a mantenere intatto il patrimonio della Chiesa, e che mi vietano di aprire qualunque trattativa per diminuirne la estensione, mi troverei obbligato a rifiutare ogni progetto, per non macchiare la mia coscienza con una adesione che condurrebbe a sanzionare e partecipare indirettamente a quei disordini, e concorrerebbe nientemeno che a giustificare uno spoglio ingiusto e violento.

«Del resto, io non solo non posso fare benevolo accoglimento ai progetti di V. M., ma protesto invece contro la usurpazione che si consuma a danno dello Stato della Chiesa, e lascio sulla coscienza di V. M. e di qualunque altro cooperatore a tanto spoglio le fatali conseguenze che ne derivano.

«Io sono persuaso, che V. M. rileggendo con animo più tranquillo,

«Prego il Signore a darle quelle grazie, delle quali nelle presenti difficili circostanze ella ha maggiormente bisogno.

«Dal Vaticano 2 Aprile 1860.

Pius PP. IX.

L'annessione dell'Italia centrale non fece che poca impressione in Francia, ma quella delle Romagne fu sensibilissima. Invano il Ministero dell'interno fulminava il giornalismo con avvertimenti, e con comunicati; invano il Moniteur cercava rassicurare gli animi; le popolazioni francesi si commossero al grado estremo. In pochi giorni 42 petizioni furon presentate in Senato reclamando: «che i cattolici mal comporterebbero con ragione di veder introdotto nel diritto pubblico di Europa, e contro il potere che regge la coscienza, il principio sovversivo della legittimità, della sommossa, e dell'indegnità dal Sovrano. Che se non è sempre possibile, utile e politico l'intervenire con le armi, è sempre facile di non accordare la sanzione del diritto a fatti che son riprovati egualmente dalla giustizia e dalla storia, dall'onore del governi e dall'interesse del popoli».

Il Senato era diviso nelle opinioni; gli uni volevano, che si dasse corso alle giuste domande; gli altri si passasse all'ordine puro e semplice. Questo era il volere dell'Imperatore; il far constatare dal Senato che l'affare delle Romagne sfuggiva interamente all'azione detta Francia ed alla responsabilità del suo governo. Questa fu la proposta, che ne fece il relatore sig. de Royer.

Il Marchese di Gabriae, il cardinale Donnct e molti altri oratori caldamente cercarono propugnare la causa del Papa. Ma v'era il veto, e le voci del napoleonidi sursero a chiedere la clòtwre, la clòtwre; e la chiusura fu votata, ed approvata!

L'Imperatore oramai non volea più infignere la politica protettrice alla S. Sede, le mille volte manifestata nei suoi discorsi: dichiarava che per lui il potere temporale dovea perire! Era il fac-simile della teorica

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Negli stati altrui la rivolta era un dritto: per la Francia era summum jus, la carcere, ed il cannone!!

Nel Corpo legislativo la discussione si fece più animata e tempestosa. Il Visconte Lemercier, dopo aver tributale le dovute lodi al governo francese per quanto avea fatto nel 1849 in favore del Papa, va esaminando come dalla diritta via fosse deviato a riguardo della S. Sede il gabinetto delle Tuileries; e domanda: - «quali sono i motivi che fecer cangiare politica al governo? il congresso era sul punto di riunirsi; perché farlo andare a monte? Nulla eravi di più facile, che restituire e le Romagne al Papa. Bastava dire al Piemonte, che la Francia non presterebbe mano all'annessione, o piuttosto all'usurpazione delle Romagne; ed esigere dal governo Piemontese, che richiamasse gli autori delle mene da esso assoldati. I Romagnoli, lasciati a sé stessi, sarebbero stati lieti di riporsi sotto l'autorità del S. Padre; del che vi basti una prova sola;... il viaggio trionfale che tre anni or sono fece il S. Padre in quelle Province, ove si vedeva accolto di città in città, di villaggio in villaggio con vere ovazioni...»

Guyar - Delalein, tuttocchè persona attaccatissima al governo ed all'Imperatore, non poté frenarsi dal dire, parlando del fatto delle Romagne:-«rifiuto di riconoscere nell'avvenuto una manifestazione i legittima della sovranità del popolo; non ammollo, che una provincia possa a suo talento staccarsi dalla sua nazionalità, dalla sua «famiglia; giacché questo sarebbe un riconoscere in principio il diritto d'insurrezione. Ora l'insurrezione non può a meno di generare il disordine, lo sprezzo dell'autorità, delle leggi, della giustizia, della religione............»

Con egual facondia il Conte La Tour dicea, l'ordine sociale dipendere dall'esito del conflitto tra il Papato e la rivoluzione d'Italia. A tre capi restringe il programma rivoltuoso; libertà politica e nazionale; libertà religiosa; eguaglianza di diritti; e dimostra come esse «nel vocabolo rivoluzionario corrispondano ad abolizione della monarchia; abolizione del Papato; eguaglianza di godimenti; locchè è una minaccia per ogni specie d'interessi» - ed avea ragione, poiché il fine della rivoluzione nel mettere a base il principio popolare, sia quello di farsi una scala per attuare il socialismo, e da questo passare al comunismo. Ed è questa la ragione per cui, fatta eccezione di qualche ricco ambizioso, i settari, i rivoltuosi sono gente, che nulla possedendo, nelle rivolte han certezza di perder nulla, e guadagnar tutto.

«Per me, seguita a dire l'oratore, desidererei che la restaurazione del Papa si operasse per l'iniziativa di Napoleone 3.°... Sarebbe importante di lasciare divisi, per mezzo degli Stati Pontificii, il Nord, e il mezzogiorno d'Italia, cosi diversi di carattere, di costumi, e di linguaggio; e che non potrebbero restare uniti che sodo il despotismo rivoluzionario, o sotto quello di un conquistatore.....»E conchiude: - «io chiamo l'attenzione delle Camere su di un fatto additato da lord Normanby, cioè che gli unitari italiani tendono di più in più a formare un partito antireligioso, e ricordo il detto: la politica non si serve della rivoluzione, ma la serve...»

L'oratore avea toccato il vero punto della quistione, e con occhio finissimo e scrutatore erasi addentrato sin nel midollo dell'idea rivoluzionaria.

Non ostante questo commovimento nazionale, il Governo stiè fermo nel suo modo di procedere: e quando i discorsi del Corpo legislativo lo annoiarono, pronunziò il fatidico basta, che in bocca di Na

Oramai era certa ed indubitata pel Governo Pontificio la perdita di quella parte dello Stato!

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La Francia, l'Austria e la Spagna, sole potenze cattoliche, le quali potevano coadiuvarlo al riacquisto, erano o immobili, o frementi spettatrici: la Spagna perché non polente, l'Austria impossibilitata pel momento ad imprendere una seconda guerra; la Francia perché approvava!

Laonde il Pontefice si risolse di ricorrere a quelle armi terribili, che Dio gli affidò nelle mani; e nel 29 marzo pubblicò la Bolla Cum Catholica Ecclesia, con la quale fulminò di scomunica e di anatema gli usurpatori, i detentori delle sue province, e tutti coloro che vi aveano dato mano, o come mandatari, o come fautori, o consiglieri, e aderenti all'usurpazione. La bolla fu affissa ai soliti luoghi di pubblicità.

Tuttocchè l'Imperatore dovea attendersi a questo passo, cui la rivolta autorizzava. il Pontefice, e perciò mostrasse darsene poco carico, pure grandissima inquietudine addimostrò, allorché gliene pervenne la notizia. Egli certamente non temea la scomunica; ma temea dell'eletto, che avrebbe potuto produrre sul popolo Francese; per cui fu sollecito a far pubblicare sul Moniteur un ordine, che ben rivelava le sue inquietudini.

«Il governo crede nelle presenti circostanze dover ricordare la seguente disposizione della legge organica del Concordato. Niuna bolla, breve, rescritto, decreto, mandato, provvisione, segnatura valente per provvisione, né altre spedizioni della corte di Roma, anche non ispettanti ad altri che a privali, non potranno essere ricevuti, pubblicati, stampati né in altra guisa posti in esecuzione, senza l'autorizzazione del Governo.»

Oh! per quanto facciano i liberi pensatori, ed i coronati della ferra a dimenticare, o meglio, a sforzarsi di dimenticare che Dio e, materializzando l'anima e la coscienza, non possono far lacere la voce

Niegare Dio - è facilissimo: sbriglialo nell'orgia, con le labbra attaccate alla tazza delle impurità un uomo addiviene tutto terra; ma i piaceri lo stancano: ed allora nasce il vacuo dell'anima, vacuo mortale, il quale non può riempirsi che con la fede. Guai all'uomo, che misconosca Dio; misera la Società, se non si poggia sulla religione; infelicissimo il Re, il quale non comprenda che quella Croce, che s'alza sulla sua corona, dice; - è il Re del Re Colui che la sostiene, o dalla fronte del Principi la strappa...!

Non erano ancor compiute le annessioni al Piemonte delle province dell'Emilia, né il plebiscito erasi fatto, quando una circolare di Thouvenel facea noto alle potenze estere, come la Francia riceveva dal Re di Sardegna le Contee di Nizza e Savoia a rettificazione di frontiere, e le annetteva all'Impero in virtù di un plebiscito colà eseguito.

È da osservare, che la richiesta di quelle province si facea dalla Francia per ricostituire i confini, e controbilanciare la nuova posizione che prendea in Italia il Re di Sardegna: ma nel 13 Marzo, quando Thouvenel scrivea la nota, il plebiscito delle Province dell'Italia centrale non s'era ancora fatto, poiché la legale annessione fu eseguita nel 18 per l'Emilia, nel 22 per la Toscana; dunque era evidentissimo, che così a Parigi. come a Torino sapeasi l'esito del plebiscito prima di effettuarsi!

Agli uomini di buona fede questa cessione dovea recar meraviglia, non solo per quel che riguarda sentimento politico; ma anche perché, quando la stampa liberale, qualche tempo prima, cominciò a menarne rumore, il Ministero Piemontese niegò ricisamente esservi trattative su tal oggetto.

La meraviglia non era slogica. Niuno dovea dubitare, che terre italiane si dassero a governo straniero a compenso dell'opera dello stesso nel farsi propugnatore dell'Italiana nazionalità. Cavour un giorno avea detto (1), satirizzando il procedere di Napoleone 1.

(1)

Atti del Parl. Tornata 16 aprile 1858.

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che questi scacciò i Tedeschi dall'Italia per fare mercimonio delle province conquistate»: ed altra volta, levandosi contro i Principi Italiani, che per i trattati conchiusi con l'Austria avevano alienata la loro indipendenza, soggiungeva (1): «io dico essere principio del diritto pubblico moderno, essere uno del grandi progressi della civiltà e della scienza IL NON RICONOSCERE NEI PRINCIPI IL DIRITTO DI ALIENARE I LORO POPOLI «.

Ora avendo egli ceduto terre italiane, mentre negava il diritto a tale alto, dovea in seguito crederlo legittimo pel Piemonte.

Anche Napoleone 3. aveva sempre protestato «che giammai un interesse personale una meschina ambizione avrebbero dirette le sue azioni». E con più chiarezza (s'intende bene a distogliere gli occhi della diplomazia) gridò nel proclama, che dal Quartiere Generale di Milano diresse agli Italiani: «I vostri nemici, che sono i miei, hanno tentato di sminuire la simpatia che era universale in Europa per la vostra causa, facendo credere, che io facessi la guerra per ambizione personale o per ingrandire il territorio della Francia». E conchiudeva: - «Se mai v'hanno uomini, che non comprendono il loro tempo, io non sono certo nel novero di costoro - L'opinione pubblica è oggi illuminata.» - E veramente fu illuminata, poiché l'opinione pubblica vide chiaramente nella guerra del 1859 Napoleone spendere 300 milioni, e la vita di 50mila Francesi per l'acquisto di Nizza e Savoia; per soppiantare l'influenza austriaca ed impiantare la sua in Italia, ove avrebbe dominato a suo bell'agio.

Checchè ne sia, nel 24 Marzo fu firmato il trattato di cessione, e nel 18 Aprile fu fatto il solenne plebiscito!

Il 24 Marzo fu giorno fatale per Torino, poiché nella Storia segna Novara nel 1849, e Nizza e Savoia nel 1860. E Cavour dichiarò nel Parlamento, che quella cessione «era condizione essenziale del proseguimento di quella politica che in così breve tempo li avea condotti a Milano, a Firenze, ed a Bologna..» (2).

(1) Senato del Regno - Il febbraio 1859 n. 13 pag. 41.

(2)

Alti del Pari. Tornala 12 aprile 1860.

In queste parole si compendia tutto: ogni altro dire è superfluo. Mille proteste fecero i giornali ed il Parlamento, ma fra tutti il Bertani colpì nel vero esclamando:- «con questa cessione ci siamo aggiogati all'impero del Bonaparte!». E quest'è la più gran verità!!.

Diamo ora un rapido sguardo alle condizioni, in cui verteva dopo l'annessione l'Italia centrale.

Sovra ogni altro, l'odio del rivoluzionari, legalmente insediati al potere, si scagliava contro coloro, che veniano designati col nome di austricanti e di clericali; i primi legittimisti, ed i secondi quelli che eran devoti alla religione cattolica: e siccome non vi era legale imputazione per detenerli nelle prigioni, si facea ricorso a misure preventive ed extra - legali. Ma l'arresto di singoli cittadini, di preti, e di frati passava quasicchè inosservato; bisognava spaventare quelli, che essi guardavano sotto colore di partito, e che fu sempre l'incubo della rivoluzione, poiché non cessò mai dal perseguirli con l'arbitrio, che poi addivenne diritto con la legge Pica, e con quella del sospetto, relatore Crispi. E la rivoluzione sacrilegamente alzò le mani sull'Episcopato. Il Vescovo di Faenza, quello d'Imola, ed il Vicario di Bologna gemevano nelle prigioni, quando il Farini ordinava l'arresto del Cardinale Cosimo Corsi, Arcivescovo di Pisa, reo di essersi rifiutato a cantare il Te Deum nella festa dello Statuto. Cotesto venerando personaggio, grave di più che settant'anni, in mezzo ai carabinieri fu condotto a Torino per render ragione a Cavour del suo rifiuto! Narriamo senza far commenti. A Torino veniva consegnato ad una nuova specie di carabinieri, improvvisali dalla rivoluzione; all'Abate Vacchetta ed al teologo Vaccarone (1).

A quest'atto indegno di un governo, che proclamava la libertà e l'indipendenza; e che si dava vanto di sottrarre i popoli da schiavitù antica, seguiva un decreto del Ricasoli: con esso erano applicate pene di prigionia e pecuniarie non solo a chi dimostrasse con parole o con fatti avversione al governo, ma si facesse reo d'indebito rifiuto ai propri uffìzi e condannava a sei mesi di carcere ed a L. 500 di multa

(1) Armonia del 25 Maggio 1860.

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chi senza assenso del governo pubblicasse Bolle, o altri provvedimenti relativi alla religion Cattolica provenienti da Roma -; sicché con tali nuovi decreti, come diceva il dep. Cempini «si creavano... in Toscana nuovi reati: «comuni» (1): locchè era espressamente fatto per aver campo legale a perseguitare il Clero e l'Episcopato, che per obbligo di religione e di ufficio, doveasi rifiutare in alcuni casi alle sacre funzioni, quando con le stesse si potevano offendere i diritti spirituali di S. Chiesa. Or questi Vescovi, questi Sacerdoti da chi doveano esser giudicati? Lo diciamo con le parole ufficiali del Senatore Lamarmora.

Parlando del giurati egli diceva (2): «Supponiamo che tra i giurati vi sia un pizzicagnolo, un venditore di tessuti, un liquorista: il primo che saprebbe bene apprezzare un prosciutto (sic), sarebbe, io scommetto, un pessimo giudice per definire la qualità di un reato di stampa, o di politica; così del venditore di tessuti, il quale però sarebbe esperto nel riconoscere le quantità di filo di cotone introdotti in una tela di lino, e via via degli altri...»

E questi doveano giudicare il Cardinale di Pisa, ed altri venerandi Prelati. Qual meraviglia però, se in pubblico parlamento si scagliavano contro la religione ed il Papato le più esecrande bestemmie, e si destava l'ilarità nel sentir dire a Francesco Domenico Guerrazzi, il Papa sembrargli un vecchio imbecille Qual maraviglia, se Cavour lodandosi della lettera scritta da Napoleone 3. nel 30 Dicembre, annunziara, che si era messo fine al regno del preti altrettanto dannoso all'Italia quanto la signoria austriaca? A noi sembra, che più logico fosse il Deputato Ferrari, che a Cavour rispose: - «Il Papato che voi credete morto o quasi morto, io che non sono sospetto di troppo ciecamente venerarlo, io credo fortissimo; io vedo che quanti lo assalgono coraggiosamente, capitano male: non fu felice la fine di Napoleone 1.°; non furono vittoriosi né i filosofi del Secolo XVIII, né i settari della rivoluzione francese.

(1) atti Uff. n. 35 p. 531.

(2)

Senato del Regno - Tornala 25 Feb. 1852 n. 214 pag. 811.

V'ha un principio in fondo del Papato: il principio della religione, e della morale; l'idea di un tribunale universale e popolare di pubblica moralità..

«Da trent'anni avvilito, scosso, insultato, invaso, il Pontefice sopravvive alle proprie catastrofi, e non solo sopravvive, ma è difeso i dai Re, adoralo dalle moltitudini, rispettato dagli stessi eretici»

CAPITOLO IV.

Stato delle due Sicilie prima della rivoluzione - Primordi della rivoluzione - Come fu preparata - Cenni sulla Sicilia - Primi fatti a Palermo - Il convento della Gancia - Fatto d'arme - Errori del Generale Satriano - Combattimento a Carini - Stato di assedio a Messina - Fatti di Trapani - Proteste degli Ambasciatori Francese ed Inglese - Documenti - Lettera del Conte di Siracusa a Re Francesco 2° - I proclami rivoltuosi a Napoli - Proclama del Comitato di Torino - Proclama all'armata.

Morto Ferdinando 2°, al Trono delle Due Sicilie ascese Francesco 2° figliuolo di lui e di M. Cristina di Savoia. Ancor giovanissimo d'anni, si trovò a fronte della guerra accaneggiata che gli moveano i gabinetti di Francia e d'Inghilterra, l'ambizione del Conte di Cavour, le opere della rivoluzione ordita a Torino e nel reame propagata, e la viltà di alcuni Capi dell'esercito, i quali tradirono il loro dovere.

Lo storico narra, e documenta!

I Fratelli Bandiera, che nel napoletano, scesero, eccitando i popoli a ribellione, caddero fucilali: Bentivegna che, non senza materiali aiuti por sicura riuscita, tentò la Sicilia, cadde coi suoi. Carlo Pisacane, accompagnalo da oltre un migliaio di uomini, dal braccio risoluto pari al volere, cadde inonoratamente disfatto ed ucciso dagli abitanti di Sanza, paesello che non ne conta più di due mila. Eppure allora la semenza rivoltuosa era da per tutto sparsa, e la Società Nazionale di Torino da una parte e l'Associazione unitaria di Mazzini dall'altra non mancavano di emissari, di affiliati, e di mezzi. Perché tali tentativi abortirono? Perché la diplomazia non prestava ancor braccio forte alla rivoluzione; e l'esercito non era ancora tradito.

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Ferdinando 2° facea paura a coloro che, covando il tradimento, si studiavano a spandere qualunque sospetto sulla loro fedeltà, a raffermare la quale assediavano il Re, della cui persona si mostravano tenerissimi e quasi custodi gelosi; massime dal dì del regicidio tentato da Agesilao Milano.

Morto Ferdinando, i perfidi gettarono la maschera.

Prima che imprendessimo la narrazione del fatti che compierono la rivoluzione di Sicilia e di Napoli, fa d'uopo premettere qualche riflessione, come a prolegomeno di quelle vicende.

Il Reame di Napoli avea un esercito più che bastevole alla sua sicurezza; una marina che fra le Italiane era la prima. Esercito e marina defezionarono: ma defezionarono nei loro capi: - il soldato rimase vittima di costoro. Ecco l'opera a cui per la buona riuscita mirò precipuamente la Società Nazionale di Torino. Villamarina, plenipotenziario di Sardegna in Napoli, ebbe la gran parte in queste brighe; politicamente l'afforzò Brènier ambasciatore di Francia: il primo ripetendo a Napoli la parte che rappresentò Boncompagni a Firenze; il secondo incagliando il governo con una pioggia di note, di proteste, di minacce, alle quali fece spalla vigorosissima il gabinetto Inglese, il cui primo Ministro, lord Palmerston sfogava un'antica vendetta personale contro i Borboni di Napoli.

Sin dal 1849, dopo la disfatta di Novara, il solo Piemonte fu in Italia lo Stato, che tenne in piedi la carta costituzionale, ed ivi convennero gli emigrati di tutti gli altri Principati. Così nacque la Società Nazionale unitaria, fondata da Cavour e da La Farina, poggiandosi sulle basi già gettate da Manin e da Trivulzio Pallavicino vecchio cospiratore, che avea già fatto conoscenza.. con lo Spielberg. Ad Aix les - bains, ed a Ginevra si erano stabilite altre società, o sette segrete, la maggior parte di napoletani, in corrispondenza con la centrale di Torino. Di là i tentativi di rivolte del Bentivegna e di Pisacane; di là le lodi prodigate ad Agesilao Milano, lodi ignobilmente ripetute da tutto il giornalismo di Piemonte!

Il primo colpo cui bene mirò la setta, fu di corrompere i reggimenti svizzeri, e la qualità delle monete d'oro che si rinvenne su molti di essi, e i rapporti che n'ebbe il governo, non lasciarono dubbio al giudizio, quella essere stata opera del comitato confortato dall'oro straniero e dall'influenza degli addetti alla legazione Sarda.

Riuscita felicemente l'ardita impresa di far sciogliere i reggimenti svizzeri, della cui fedeltà e del cui coraggio si avea un ricordo nei fatti del 1848, e di cui temevasi fortemente; la corruzione si estese facilmente nella maggior parte dell'armata di terra e di mare.

A dichiarazione della narrazione storica segniamo i nomi più noti di coloro che furono i primi a defezionare.

Il Capitano Amilcare Anguissola, avendo a complici gli Uffiziali suoi compagni e subordinati, si recò presso Garibaldi nei primordi della rivolta della Sicilia, e gli si diede con la sua corvetta, dopo aver rifatto l'equipaggio che non volte partecipare a tale diserzione. Ritornato in crociera, sorprese con inganno due altre navi dello Stato, ed impadronissene: lo stesso fu tentato a Castellamare col vascello ti Monarca, il cui comandante Colonnello Giovanni Vacca era di concerto per farsi catturare; ma non riuscito il colpo, il Vacca rifugiossi a bordo di un vascello Inglese. Di Nunziante e di Pianelli parleremo a suo tempo.

Il Generale de Saugel ritenne il comando della Guardia Nazionale dopo l'entrata di Garibaldi, compenso ai dimostrati suoi principii politici. Allora la squadra Napoletana si diè tutta alla rivoluzione, e il solo Tenente Colonnello Pasca con pochi altri uffiziali accompagnarono Francesco 2° su di una fregata a vela, ultima reliquia della flotta disertata.

Chi avrebbe mai temuto che così felicemente avesse dovuto trionfare la setta, che non solamente nei bassi uffiziali ed uffiziali avea seminata la corruzione e la diserzione, ma anche nei più eminenti personaggi del regno?

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II Generale Ghio capitolò a Soveria senza colpo ferire, ed in compenso n'ebbe la carica di Governatore militare di Napoli.

Il Comandante del Forte di S. Elmo, Stanislao Garzia, si affrettò a cedere quella inespugnabile fortezza ad una deputazione di Guardie Nazionali, capitanata da una bettoliera conosciuta sotto il nome di Sangiovannara.

Il Maggior Generale Luigi Jauch ed il colonnello Nunziante si adoperarono alla defezione ed allo sbandamento del reggimento Real marina.

Il Generale Filippo Flores, dopo aver abbandonato le sue truppe, ad Ariano, ritiratosi improvvisamente, loro consigliava di far atto di sommissione a Garibaldi.

Il Generale Luigi De Benedictis, a prova dei suoi sentimenti unitari scrisse lettere ardite al Ministero del Re ritirato a Gaeta, e parole affettuose e di congratulazione a Garibaldi.

Il Generale Ferdinando Locascio, e con esso il Capitano Galluppi, cedettero la piazza di Siracusa senza difenderla: lo stesso fece il Comandante della piazza di Augusta, dando a credere ai soldati, il Re essere fuggito all'estero.

Il Generale Briganti, che avea messo nelle montagne di Calabria la sua brigata nella tremenda situazione o di arrendersi, o di morire senza poter difendersi, fu fucilato dai suoi stessi soldati.

Non aggiungiamo altri nomi, lasciando l'ingrata rimembranza a chi ci seguirà. Volemmo ricordar questi per aver ragione a dire che nelle truppe napoletane si propagò letale la corruzione dagli stessi comandanti già corrotti e venduti ai comitati rivoluzionari. Qual meraviglia dunque, se Garibaldi con mille uomini conquistò un regno? Meraviglia sarebbe stata se non avesse raggiunto il suo scopo.

Ora due parole sulla Sicilia.

La Sicilia è la più grande delle isole del Mediterraneo, e dalla sua forma quasi triangolare prese il nome di Trinacria. I suoi abitanti, pari alla terra di fuoco che abitano, sono di carattere ardente, vendicativo,

proclivi a novità, facilissimi a trascendere a rivolta, instabili come l'immensa massa delle acque del mare, che li circonda.

I Siciliani non si accontentarono mai di alcun governo che li resse. Il Siciliano non ama di essere soldato, ed allora perde slancio e vigoria: ma nella lotta cittadina, col pugnale alla mano, nel formar barricate non è secondo ad alcuno.

Per i Re di Napoli la Sicilia fu utile per sola posizione strategica e per commercio: in tutto il resto fu sempre il maggiore e più fastidioso peso che avessero -: per lo mantenimento di essa nel bilancio di quel governo, oltre all'entrata di poche e tenuissime imposte, era stabilita un'annua cifra di più che dieci milioni di Lire. La Sicilia godeva porti franchi; non dazio sui macinali, non sul sale, non sui tabacchi: non era soggetta a coscrizione; e dopo il 1848 le fu anche tolta la promiscuità degli impiegali.

Volubili e disiosi di novità, quegl'isolani erano il tormento del governo, e se si è tanto accusala quella polizia, composta per altro di Siciliani, narrando nel solito frasario da setta la sua mano ferrea, non era men vero che l'agitazione era un fatto costante; fatto che non si verificò solamente sotto il Reame del Borboni di Napoli, ma sotto tutte le dominazioni. Mori, Normanni, Saraceni la straziarono a vicenda, e ne furono straziali e malconci; Carlo di Francia non vi poté metter piede, ed i Vespri Siciliani sono una pagina terribile e pur vera di Storia: gl'Inglesi pel poco tempo che la tennero, stettero non come signori, ma come semplici mercanti, e pure i Siciliani si notarono del gentlmans. Un Principe di casa Savoia nello scorcio del passalo secolo fu eletto Re di Sicilia a voce di popolo, ed il suo regno durò meno dell'entusiasmo con cui era stato acclamalo. E dopo la sua annessione all'Italia nel 1860, fu dessa tranquilla? A ciò rispondono lo stato d'assedio ed un formate bombardamento inflittogli dallo stesso attuale governo d'Italia; lo pruovano le stragi e gl'infortunosi fatti del settembre 1866.

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E se anche alla Sicilia niun governo s'imponesse, i Siciliani, rimasti liberi a loro stessi, starebbero in una perenne guerra civile; poiché la rivolta è con essi connaturale.

Dopo che nel 1848 Ruggiero Settimo dové abbandonare il potere, disfatto dalle armi Regie, i Siciliani malcontenti che egli avesse tenuto per quel tempo la dominazione dell'isola, scrissero sul Parlamento - scusate le ciarle; ed in odio di lui dissero: «Settimo-non rubare». perché il settimo precetto delle tavole del divini comandamenti è appunto questo.

Mazzini nei primordi del 60 scriveva: «esser mestieri appoggiare i e Siciliani, perché da essi poteva e dovevasi aspettare la redenzione e italiana...» I comitati non stavano nighittosi: in ogni parte s'eran formate succursali per la rivolta; ed i Siciliani, che l'appoggiavano, yravi opposizioni faceano all'idea di unirsi alla patria comune, e perciò, più che la Società Nazionale di Torino, operava l'Associazione Mazziniana.

I continui proclami, e le incitazioni che venian di fuori, avvalorale sventuratamente da una stolida ed imprevidente polizia, che non ignorando esservi congiure e congiurati, e non potendo trovarne il covo, credea d'averlo sotto mano arrestando i più caldi leggitori delle battaglie combattute dai Sardo - Franchi contro gli Austriaci, mentre forse quelli erano i più innocenti, ed ignari di quel che si tramava. Non avea quell'Autorità politica mai volto l'occhio sui fratelli Mastricchi, che erano l'anima e il centro delle immense fila che dovunque s'estendevano.

V'erano allora in tutta l'isola un 50 mila uomini di regie truppe, afforzati da cavalleria, da buona artiglieria, da cittadelle, e da fortezze ben munite ed approvigionate, e garentiti da una valida squadra navale in crociera.

Accenniamo solamente i fatti d'arme avvenuti, e cerchiamo la causa delle vittorie, e delle disfatte. E poiché scriviamo sulla fede di solenni documenti, la campagna di Sicilia ci dà l'idea di una grande dramma, di cui l'attore principale è Garibaldi con i suoi mille;

l'e

Palermo fu il gran teatro della rivolta. Poco distante dalla città, evvi un convento di Minori Osservanti detto della Gancia,: là convennero i congiurati in forte numero, e bene armati, avendo come ritirata di scampo le collinette di Misilmeri che circuiscono la città all'est ed al sud - est.

Comandava la piazza il Generale Salzano, uomo più di esecuzione che capace di concepire un piano di battaglia. Egli era stato avvertilo di un insolito andare di gente alla Gancia, e la polizia seppe che due spingarde v'erano state trasportale. Allora fu dato ordine, che un Reggimento di linea con mezza batteria da montagna circuisse il convento, e come avanguardia si facessero appiattare poco di là discoste dietro le parteti del campi pattuglie di gendarmi e le compagnie d armi (1).

Il battaglione più prossimo al Convento era comandato dal Maggiore Ferdinando Beneventano Bosco, uomo intelligente, soldato intrepido, e fedele alla propria bandiera; l'uno del pochi, che si ricordò, che pel soldato non esistesse altra politica che la bandiera cui si serve.

Nel mattino (4 Aprile) i congiurati, scoverti gli uomini appianali, cominciarono a bersagliarli con colpi di fucileria, smascherando le loro ostilità. Allora il battaglione si avanzò sotto le mura del Convento, ed il Maggiore Bosco intimò, che si aprissero le porte, e fossero cedute le armi; un fitto fuoco fu la risposta, ed in conseguenza fu impreso un regolare attacco contro il convento, già munito all'intorno di barricate.

(1) Le compagnie, i armi erano una specie di guardia urbana, formata di cittadini stessi: vi avean diritto ad entrare anche i soldati congedati.

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Fu necessità di ricorrersi all'artiglieria; sfondale le porte, si venne ad un combattimento corpo a corpo, ed in poco d'ora gl'insorgenti furono domali.

Intanto, la campana della Gancia suonando a stormo, da ogni parte del paesi circonvicini accorsero altre bande, che attaccarono le truppe regie: ma benché numerose fussero, non avendo ordine e regolarità di comando, dopo breve resistenza, abbandonala l'impresa, diersi a fuggire sulle circostanti colline.

Di qui cominciano i fatali errori del Generale Salzano, il quale avrebbe dovuto non lasciar scorazzare quelle bande, che potettero a loro bell'agio ingrossarsi sulle montagne, ma inseguirle e distruggerle. In vece egli, contento del poco che avea fatto, e temendo che la sollevazione non si sviluppasse a Palermo, mise la città in pieno stato d'assedio.

Gl'insorgenti, non perseguiti, ripresero coraggio, e non tralasciavano di tener continuamente su vari punti molestata la truppa. Alla Favorita, a S. Lorenzo, a Baida presso Monreale e Parco, a Bagheria ed in diversi altri punti le bande mostravansi sempre risolute di avanzarsi su Palermo, che era designala come il centro di azione. Ai Porrazù si formò la banda più forte e più audace; ma all'avvicinarsi del regi, senza resistenza alcuna indietreggiò, nel fine di attirare altrove la vigilanza delle truppe e lasciar sguernita Palermo.

Di fatti, seppesi che quella banda, accresciutasi di altre squadriglie, erasi gettata su Carini. Là accorse la truppa, e la fazione combattuta fu sanguinosa, poiché un corpo d'insorgenti, respinto dall'avanguardia di Wittembach, credendo trovar scampo a Carini, ignorava che quello paese fosse giù occupalo dal Generale Cataldo: e quindi la lotta «la resistenza fu terribile. Gl'insorgenti si battevano ad armi corte; e presero parte alla mischia gli abitanti di Carini che dalle finestre scagliavano contro i regi quanto loro veniva a mano, non cessando mai

Anche a Messina cominciò il movimento insurrezionale. Venuto a conoscenza della polizia, che molti giovani bene armati sortivano dalla città avviandosi sui monti a rinforzare le bande degl'insorti, spedì sulle loro tracce qualche compagnia di linea, che dopo poca resistenza molti menò prigionieri; per lo che il Maresciallo Russo credè opportuno proclamare lo stato d'assedio, e minacciò far uso delle artiglierie nel caso di nuovo tentativo di sommossa. Più disastrosi furono i fatti di Trapani.

A capo della Provincia in qualità di Intendente vi era un Marchese Stazzone, siciliano; e comandante militare nel Forte Colombara, che guarda il mare, e domina la città era il Colonnello Jauch.

Le notizie del fatti del 4 Aprile giunsero appena, che i rivoltuosi si diedero con alle grida ad inalberar la bandiera rivoluzionaria, rompendo ad aperta sedizione. Notiamo avvenimenti, astenendoci dai commenti. Il Comandante del presidio minacciò; ma nulla operò a sedare il movimento coi molti mezzi che aveva -: sicché la rivolta si sbrigliò a man franca; e lo Stazzone, messosi a capo di essa, recossi a parlamentare col Comandante; il quale, più complice di tutti, aperte le porte della fortezza, con il suo corpo di truppe si ritirò fuori la città. Fu questo il primo esempio di manifesta defezione.

Pervenuta tal vergognosissima nuova a Palermo, il Generale Letizia a capo di una brigata vi s'avviò a sedare il tumulto. Un buon nerbo di truppe spedì per la via di Alcamo, ed altra forza imbarcò diriggendola con egual movimento sopra Trapani. Giuntovi appena. senza colpo ferire, la rivoluzione cessò; fuggirono i capi della sedizione, e i due complici Stazzone e Jauch, destituiti dalle loro cariche, furono tradotti a Palermo per esservi giudicati, molti degli insorti rifuggiaronsi sui vascelli inglesi, che contra il diritto delle genti s'andavan presentando dovunque la rivoluzione scoppiava, fomentandola con la loro presenza e con le loro simpatie.

Fin d'allora fu chiaro, che la Francia e l'Inghilterra macchinavano la ruina del Regno.

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È indubitato che un governo abbia il diritto di servirsi di quei mezzi che sono in suo potere per combattere gli attentati rivolutosi. Volergli interdire siffatto diritto sarebbe quanto autorizzare la rivoluzione a seguire nelle sue opere.

Di vero, che cosa avrebbero risposto Napoleone 3° e Lord Palmerston, se altre potenze fossero andate a dar braccio forte al partito repubblicano di Francia, o ai giusti lamenti del poveri Irlandesi trattati come iloti e schiavi dalla libera Inghilterra? Che cosa avrebbor fatto, se quelle potenze si fossero presentate nei loro porti per accogliere sui loro vascelli i rivolutosi, ed in attitudine minacciosa avesser protestato, se si fosse fatto uso delle armi per sedare la rivoluzione? Queste ragioni, che hanno tutta la maggior forza per i potenti, perché cessavano di valere negli avvenimenti di Sicilia, dove l'insorgere era chiamato diritto, e tirannide il reprimere la rivolta?

Appena scoppiati i primi tentativi della rivoluzione, gli ambasciatori di Francia e d'Inghilterra con una Nota complessiva protestarono contro qualsiasi uso di armi, cui avesse dovuto ricorrere il governo per reprimerli; mostrando desiderio che con gl'insorgenti non si adoperasse che la persuasione!

Di fronte a tanta non seria intima avendo il Generale Russo risposto, non potersi impromettere di riuscire nel gravo compito con la sola persuasione; e che a controcuore si sarebbe veduto obbligato di usare delle armi, come ogni altro governo avrebbe fatto, i Consoli di Messina abbandonarono la città.

Di ciò non pago, il Brenier Ambasciatore Francese a Napoli, scrisse al suo governo sollecitando a farne rimostranze al gabinetto Napolitano; e dal seguente contesto della lettera chiaramente rilevansi gli intendimenti di quel rappresentante.

«Io temo, scriveva il Brénier, che la repressione della giustizia militare faccia versare più sangue, che non n'abbia fatto spargere la lotta a mano armata.

«Le circostanze sarebbero opportune per dirigere al governo napoletano nuovi consigli sulle deplorabili conseguenze di un sistema, il quale produce periodicamente agitazioni, come quelle onde la Sicilia è al presente commossa. Le sole passioni politiche non possono alimentare questi germi permanenti di malcontento; mali reali, sofferenza incontrastabili sono la causa di queste rivolte, nelle quali la popolazione può essere vinta dall'esercito. senza che questo trionfo della forza possa essere raccolto dall'opinione imparziale, come la condanna di sudditi infelici ridotti dalla disperazione a prendere le armi per ricondurre il governo all'adempimento de' suoi doveri e all'osservanza delle sue promesse. Se il sollevamento della Sicilia non è generale e non è fortunato, esso è nondimeno un fatto considerevole abbastanza per richiamare l'attenzione degli uomini di Stato, e perché essi dimandino, se l'aspettazione dell'Italia non sia per rimanere delusa fino a che sussisterà fra il governo ed il popolo delle Due Sicilie un antagonismo minaccioso pel resto della penisola.»

E come se le rimostranze non fossero state sufficienti, si ricorreva ai dicesi, i quali fan vergogna a chi se ne serve per accusare, e sono una giustificazione dell'accusato. Il Vice - Console Boulard scriveva che «gli sforzi della popolazione, unanimi a dar rispetto, non aveano se non uno scopo, mantenere la tranquillità...» ma che il governo avea aperte le prigioni, e ridonata la libertà a tutti i ladri, ed assassini colà rinchiusi!

Anche nelle accuse bisogna essere prudente, per dar loro una probabilità di credito; e noi, che ci siam trovati nella rivoluzione, sappiamo officialmente, che allora le prigioni furono aperte, quando la rivoluzione ebbe bisogno di aiuti e di forza materiale! Però lo stesso vice - console confessava, che le stragi di cui erasi parlato, eran false, e che solamente dai gendarmi erasi tirato contro la popolazione; do

«Io stesso vidi, in principio, che alcuni soldati tiravano all'aria.

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«Questa lodevole moderazione non fu per mala sorte imitata dagli sgherri della polizia, e gl'infelici che rimasero uccisi, caddero appunto sotto le loro palle... A me pare, che sia un grande abuso l'affidare fucili a siffatti individui d'una moralità dubbia, e raccolti dalle classi più infime della popolazione, vestendoli di un uniforme militare, ch'essi non sanno portare convenevolmente.

«Non si può apporre a delitto, a quest'infelice popolazione siciliana, il desiderare un ordine di cose più sopportabile di quello che si fa pesare sopra di lei. Ogni sintomo d'un avvenire migliore deve necessariamente farla palpitare. Quanto a noi stranieri, testimoni di ciò ch'essa soffre, di ciò ch'essa dovrebbe essere, potendo giudicare che cosa meriti, e che cosa le si rifiuta, noi non possiamo, se non compiangerla e gemere sulla sua sorte.

«Insomma, la truppa... tirò all'aria, non sopra la popolazione inoffensiva, e solamente il fucile degli sgherri fece qualche vittima.

«Ma era ciò abbastanza per sospendere l'azione delle leggi civili, per proclamare lo stato di assedio, istituire delle commissioni militari e diffondere in tutto il paese un terrore tale, che forse un terzo della popolazione di Messina ha lascialo la città, per rifuggirsi nelle campagne vicine, a rischio di morir di fame?... Eppure abbisognerebbe pochissima cosa per accontentare la folla!... La polizia, lo dico altamente, è la causa di tutto il male.»

Il Brénier a Napoli non tralasciava nel tempo stesso di fare altre dimostranze, anche perché il Ministero di Polizia, temendo che gli studenti, sempre in prima fila delle rivolture, non tentassero qualche disordine nella Capitale, li costrinse a munirsi di carta di soggiorno, e di firmar obbligo di non girovagare la notte. Era una misura di precauzione, inqualificabile in altri tempi certamente, ma che in momenti cosi anormali non potea dirsi vessatoria.

Tante proteste, e note, e dispacci inceppavano siffattamente l'azione del governo, che o dovea romperla con quelle due grandi potenze, o lottare debolmente contro la rivolta.

E cosi avvenne, avvegnacchè non sospettandosi mai che la truppa fosse già in buona parte complice nella rivoluzione, teneasi per certo, che la cosa tutt'al più sarebbe terminata con una riproduzione del 15 maggio 1848! - Oh! come la corona fu circondata da menzogne e da tradimenti; avvegnacchè essa non avvertì quel movimento nella sua vera possa, che quando già Francia ed Inghilterra, gittata la maschera, cooperarono col Piemonte a rovesciare il trono delle Due Sicilie.

Fra i dolorosi ricordi di quell'epoca, tristamente memorabile, sta la lettera di Leopoldo Conte di Siracusa Zio del Re, la quale servi a rivelare il baratro terribile in cui stava per piombare il Regno e la Dinastia; e fu per essa che la Corte comprese la verità della sua situazione fìn'allora nascosta dai complici che attorniavano il trono.

La lettera è la seguente.

SIRE!

Il mio affetto per voi, oggi augusto capo della nostra famiglia; la più lunga esperienza degli uomini e delle cose che ne circondano, l'amore del paese, mi danno abbastanza dritto presso V. M., nei supremi momenti in cui volgiamo, di deporre ai piedi del trono devote insinuazioni sui futuri destini politici del Reame, animato dal medesimo sentimento che lega voi, o Sire, alla fortuna dei suoi popoli.

Il principio della nazionalità italiana, rimasto per secoli nel campo dell'idea, oggi è disceso vigorosamente in quello dell'azione. Sconoscere noi soli questo fatto sarebbe cecità delirante, quando vediamo in Europa altri aiutarlo potentemente, altri accettarlo, altri subirlo come suprema necessità del tempi. Il Piemonte per la sua giacitura e per dinastiche tradizioni, stringendo nelle mani le sorti del popoli subalpini, e facendosi iniziatore del novello principio, rigettate le antiche idee municipali, oggi usufruttua di questo politico concetto, e respinge le sue frontiere sino alla bassa valle del Po. -Ma questo principio nazionale, ora nel suo svolgimento, com'è natural cosa, direttamente reagisce in Europa, e verso chi l'aiuta, e verso chi l'accetta, e chi lo subisce.

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«La Francia dee volere, che non vada perduta l'opera sua protettrice, e sarà sempremai sollecita a crescer d'influenza in Italia, e con ogni modo a non perder il frutto del sangue sparso, dell'oro prodigato e della importanza conceduta al vicino Piemonte. Nizza e Savoja lo dicono apertamente. - L'Inghilterra, che pure accettando lo sviluppo nazionale d'Italia, dee però contrapporsi alla influenza francese, per vie diplomatiche si adopera a stender pur essa la sua azione sulla penisola, ed invoca sopite passioni nei partiti, a vantaggio del suoi materiali e politici interessi. La tribuna e la stampa in Inghilterra accennano giù lontanamente a doversi opporre alla Francia ben altra influenza nel Mediterraneo, che non sono Nizza e Savoja al piè delle Alpi.

«L'Austria, dopo le sorti della guerra, respinta nei confini della Venezia, sente ad ogni ora vacillare il mal fermo potere, e benché fosse presaga, che il solo abbandono di questa provincia potrebbe ridonarle la perduta forza, pur tuttavolta non ha l'animo di rinunziare alla speranza di una rinnovata signoria, in Italia.

«Né occorre che io qui dica a V. M. dell'interesse, che le potenze settentrionali prendono in questo momento alle mutate sorti della penisola, giovando in fine più che avversando la creazione d'un forte stato nel cuore d'Europa, guarentigia contro possibili coalizioni occidentali.

«In tanto conflitto di politica influenza, qual è l'interesse, e del popolo di V. M., e quello della sua dinastia?

«Sire! La Francia e l'Inghilterra, per neutralizzarsi a vicenda, riuscirebbero per esercitare qui una così vigorosa azione, da scuoter fortemente la quiete del paese ed i dritti del trono. L'Austria, cui manca il potere di riafferrare la preponderanza, o che vorrebbe render solidale il governo di V. M. col suo. più dell'Inghilterra stessa e della

«Francia tornerebbe a noi fatale, avendo a fronte l'avversità nazionale, gli eserciti di Napoleone III e del Piemonte, e la indifferenza britannica. Quale via dunque rimane a salvare il paese e la dinastia minacciati da cosi gravi pericoli?

«Una sola. La politica nazionale, che riposando sopra i veri interessi dello Stato, porta naturalmente il Reame del mezzogiorno d'Italia a collegarsi con quello dell'Italia superiore; è movimento questo che l'Europa non può disconoscere, operandosi fra due parti di un medesimo paese, egualmente libere ed indipendenti fra loro.

Cosi solo V. M. sottraendosi a qualsivoglia estranea pressione, potrà, unito politicamente col Piemonte. esser generoso moderatore dello svolgimento di quelle civili istituzioni, che il rinnovatore della nostra Monarchia ne largiva, quando sottratto il Reame al vassallaggio dell'Austria, lo creava sui monti di Velletri il più polente stato d'Italia.

«Anteporremo noi alla politica nazionale uno sconsigliato isolamento municipale?

«L'isolamento municipale non ci espone solo alla pressione straniera. ma peggio ancora, abbandonando il paese alle interne discordie, lo renderà facile preda del partiti. Allora sarà suprema legge la forza: ma l'animo di V. M. certo rifugge all'idea di contener solo col potere delle armi quelle passioni, che la lealtà di un giovane Re può moderare invece, e volgere al bene opponendo ai rancori l'oblio, stringendo amica la destra al Re dell'altra parte d'Italia, e consolidando il Trono di Carlo 3° sovra basi, che la civile Europa, o possiede o dimanda.

«Si degni la M. V. accogliere queste leali parole con alta benignità, per quanto sincero ed affettuoso è l'animo mio nel dichiararmi novellamente».

Aff. Zio.

Leopoldo Conte di Siracusa.

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Intanto proclami rivoltuosi correvan nelle mani di tutti; e quanto più se ne sequestravano, tanto più se ne ritrovavano. Nei teatri si faceano gettare in platea piccoli viglietti tricolori con le parole Viva l'Italia. Anche nella R. Marina circolavano di questi proclami, ed i Comandanti, che li vedeano affissi sulla tolda del R. legni, fingeano di non leggerli! Tutti si tenean pronti, e tutti temevano: in ogni amico sospettavasi un traditore, una spia, o un congiurato. E pure, con tutto questo panico la rivoluzione non avrebbe trionfato senza il movente di Torino.

Di fatti la rivoluzione non fu che l'opera di Cavour. «Questa stupenda creazione dell'Italia, dice il Bianchi (1), è opera nella maggior parte del grande partito nazionale, creato e sapientemente guidato dal Conte di Cavour...»

Quella società, avuta contezza dello scoppio della insurrezione Siciliana. vi spedì prima Francesco Crispi (Deputato al Parlamento) ad organizzarla; e poi nel 9 Aprile a Torino stabiliva il programma da seguire. Degli 84 presenti, 80 votarono per l'annessione delle Due Sicilie al Trono di Casa Savoia. Ciò fermato, si elesse una Commissione per provvedere a tutto quanto necessitava pel buon esito della cospirazione. Membri di essa furono Poerio, Mancini, Imbriani, Pisanelli, Amari, Stocco, Plutino, Interdonati e La Farina.

Fu quindi immediatamente pubblicato il seguente

PROCLAMA

«La sollevazione Siciliana ha confermato in modo evidentissimo, come il concetto e la coscienza dell'unità nazionale sia concetto e coscienza di tutta la nazione. Mentre in Firenze si festeggia al grido di Viva Italia e Vittorio Emanuele, a Palermo si moriva al medesimo grido, e quella bandiera che sventola incoronata di fiori sulle Torri della Toscana e dell'Emilia, sventola tinta di sangue sugli alpestri monti della Sicilia.

(1) Loc. cit. pag. 92.

«All'annunzio della sollevazione siciliana tutta Italia si è commossa: soscrizioni si aprono in Genova, in Torino, in Milano, in Firenze, in Livorno, in Bologna, in Ravenna ed in molte altre città; l'emigrazione siciliana e napoletana atta alle armi si affolla nei porti di mare in cerca d'imbarco; numero considerevole d'officiali offrono la loro dimissione per accorrere ad ordinare le forze insurrezionali; migliaia di volontari liguri, piemontesi, lombardi, parmensi. modenesi, romagnoli, toscani, non che Veneti, umbri e marchigiani chiedono a noi mezzi e possibilità di trasferirsi in Sicilia. Sventuratamente questo grande slancio di patriottismo e di amor fraterno è rimasto lungamente sterile per l'incertezza delle notizie, la distanza del luoghi, gl'indugi degli apparecchi. Finora era necessità; ora l'indugio sarebbe un vero abbandono, un fratricidio.

«La parte retriva di tutto il mondo cattolico manda danari, uomini ed armi a Roma; e quei danari e quegli uomini e quelle armi servono a tenere nella più atroce delle schiavitù i nostri fratelli, e a minacciar noi e le nostre libertà. Contrapponghiamo al danaro di S. Pietro, ch'è il danaro della tirannide, il danaro dell'Italia, che sarà il danaro della indipendenza, della unificazione e della libertà: e mentre gli stranieri aiutano i nostri nemici apertamente e sfacciatamente, mettiamoci in grado noi di aiutare efficacemente i nostri fratelli, che col sangue attestano l'unità morale e politica della nazione.

«A questo fine noi apriamo una sottoscrizione nazionale, e siamo convinti, che le generose oblazioni della sola Italia in pro di una causa, ch'è quella della civiltà, sorpasseranno quelle del retrivi di tutte le nazioni in pro del dispotismo e della barbarie.

Il Presidente - G. LA FARINA.

Mentre di questo proclama i comitati faceano affiggere e dispensare in Sicilia ed in Napoli quanti più esemplari potessero, un altro fu scritto appositamente per l'armata. Era un invito alla diserzione,

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Soldati!

«Mentre soldati italiani si coprivano di gloria sui campi lombardi, il governo di Napoli vi faceva compagni di gendarmi e di sgherri. Oh! soldati italiani acclamarono ed acclamano a re il campione dell'Indipendenza d'Italia, e voi servite di puntello ad un edificio di violenza e di ferocia. E pur voi, o fratelli, combatteste con valore una volta per causa d'onore e nella Spagna e nella Russia, e or son dieci anni sui campi di Mantova sotto il glorioso vessillo d'Italia. Mente dunque chi dice codardo il soldato di Napoli, quando esso abbia forti duci che il guidino, e bandiera d'onore che il copra. Ricordate dunque il passato e fate cuore.

Ricordate: a Monteforte foste voi che iniziaste il gran fatto della liberazione della patria. Allora cadeste per forza straniera, ma ora l'intervento è impossibile, e vel dicono Toscana e Romagna che sono libere, perché vollero ed oprarono. Gravi tempi e solenni ora volgono, e fatali perché si lotta contr'essi. L'ora della libertà s'avvicina, e chi vi spinge ad opporvisi, vi spinge al parricidio, all'insania. Concorrete dunque col popolo, che indefessamente s'adopera per insorgere, porgete la mano ai fratelli, che ve l'offrono, e ne sarete giudicati dal mondo, non quali vi vuole il governo, sgherri e gendarmi, ma quali vi comanda l'onore, cioè liberi soldati della risorgente Italia».

Spinta morale e materiale: aiuti di armi e di danaro; incitazioni, promesse, speranze, sollicitazioni, nulla in somma mancò ad affrettare la rivolta, che muggeva sordamente nel Napolitano. Non necessitava che un centro di azione, ed un uomo che sapesse attirare le simpatie degl'insorti: e quest'uomo fu Giuseppe Garibaldi, le cui prodezze sin dal 1848 non si cessò un'istante solo dal magnificare. Adunque tutti gli occhi erano rivolti su di lui! L'Imperatore del Francesi lasciava fare; Brénier impacciava il governo; l'Inghilterra permetteva meetings, nei quali si proclamava l'unità d'Italia: Mazzini gridava -: il momento è giunto; insorgete... E Cavour? Cavour era il motore generale: e con promesse e con oro si adoperava, perché l'opra della rivoluzione trionfasse...!!

CAPITOLO V.

Soscrizione a Torino per aiuti alla Sicilia - Invito a Garibaldi di recarsi in Sicilia - Garibaldi a Quarto - Spedizioni Garibaldine da Genova - Il biglietto misterioso di Cavour a Persano - Un articolo del Giornale Ufficiale di Torino - Organizzazione del Corpo Garibaldino - Zambianchi a Talamone - Proclama ai Romani Sbarco a Marsala - Lo Stromboli fa fuoco - Proteste inglesi - Proclama di Garibaldi in Sicilia - Dimostrazione a Palermo - Stato di assedio - Fatto d'armi a Calatafimi - Landi si ritira - Garibaldi ad Alcamo - Le bande Garibaldine marciano su Palermo - Fatto d'armi a Monreale - Morte di Rosolino Pilo - Rotta del Garibaldini - Nota del Gabinetto di Napoli a Torino - Risposta del Conte di Cavour - Arti della rivoluzione - Proclama di Lanza a Palermo - Risposta del Comitato - Combattimento al Parco - Turr ripara disfatto alla Piana del Greci - I regi assaltano Corleone - Fuga di Orsini - Garibaldi a Gibilrossa - Inqualificabile condotta di Lanza - Giudizio del Rustow - Bosco a Palermo - Perché si ritirasse - Colloquio tra Lanza e Garibaldi - Il banchetto del 30 Maggio - Consegna del Palazzo del Banco e delle Finanze a Crispi - Sgombro del regi da Palermo - Il Ministero rivoluzionario a Palermo - Due vapori d'insorgenti piemontesi son fatti prigioni dal Fulminante Nuove spedizioni piemontesi Fatti di Catania Fermezza del General Clary Fatto d'arme Provvedimenti militari di Garibaldi - Combattimento a Milazzo - Tradimento di Amilcare Anguissola - Come fu ceduta la fortezza di Milazzo - Capitolazione della piazza di Messina, restando la cittadella a' Regi.

Francesco Crispi da Sicilia fece ritorno a Genova, ove attendevanlo Nino Bixio e Rosolino Pilo, per aver ragguagli del vero stato morale degli Isolani. Pervenuta con lui la notizia dell'avvenuta sollevazione, ben a ragione temendo, che sarebbe stata prestamente soffocata senza stranieri aiuti, sollecitarono il Comitato di Torino a compiere la soscrizione già aperta per la compra delle armi, e per avere in pronto quanto necessitar potea nell'insurrezione.

Sin dal tempo della guerra di Lombardia, Garibaldi nutriva l'idea di un tentativo sulla Sicilia; ma fu trattenuto dalle condizioni della politica, e dagli ordini dell'Imperatore, che, almeno allora, non permetteva di toccarsi quella quistione, sendo ancor palpitante la vertenza dell'annessione dell'Italia centrale.

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Questo fatto, assopitosi con l'acquiescenza della diplomazia, né da Parigi, né da Torino si volte ostacolare una rivolta la quale era desiderata dai due gabinetti, benché con scopo diverso da quello, cui mirava la rivoluzione.

Quantunque Garibaldi non si fosse ancora rabbonacciato con Cavour per la cessione fatta alla Francia di Nizza, sua patria, e della Savoia, pure all'invito che fecergli gli amici per l'impresa di Sicilia, non esitò; ed accettò ricisamente poi che fu assicurato del tacito concorso del Governo piemontese. Stando egli adunque a Quarto, mise il suo quartier generale in una Villa abitata dal Marchese Spinola, proprietario della quale era quel Vecchi, che scrisse del fatti delle rivolture del 48 e 49.

Il La Farina, che guidava a nome del Conte di Cavour le azioni della Società Nazionale, fu pronto ad accorrere in aiuto di lui; perlocchè potette allora Garibaldi mettersi alla portata di disporre di mezzi efficacissimi.

Navi, danaro, ed armi abbisognavano; e tutto questo certamente non potea organizzarsi segretamente senza che se ne avvedessero gli esteri Ambasciatori: ma v'era la mano del governo, e la mediazione Anglo - franca. Cavour dicea ai suoi amici, giuocare una gran partita: se a Garibaldi capitasse male, il Gabinetto di Torino non ne avrebbe colpa alcuna; se al contrario il tentativo, come assicuravasi dai componenti la Società Nazionale, riuscisse a bene, il Piemonte non avrebbe avuto di meglio a desiderare, che mettersi a capo di uno stato capace di stare a fronte di ogni altra forte potenza d'Europa. «Bisogna adunque usar di audacia e di scaltrezza, diceva egli; farsi centro e movente di fatto, e protestare e mostrar d'impedire il tentativo»: in somma il solito stile diplomatico; prepararsi ad un epopea di menzogne.

Un ordine espresso del Governo di Torino fece rilasciare le armi all'uopo necessarie dall'arsenale di Modena; (1) e perché non gli si potesse imputare a colpa, fu simulata una vendita.

(1)

Bianchi loc. cit. pag. 94. Per compiersi questa compra vendita simulata, Cavour fu egli stesso, che consegnò l'equivalente somma ai sig. Finzi e Bessana.

Le navi cariche d'armi e munizioni passarono tranquillamente, non vedute, allo sbocco di Polcevera, né le videro le autorità che vegliavano al lido di Cornigliano; un vigliettino di Cavour, avea messa la benda a tutti, ed in tal modo l'Avv. Fasella, ispettore della questura di Genova, si prestò fraternamente a coadiuvare l'imbarco. Preveggente in tutto il Conte di Cavour, e temendo che la prima spedizione non fallisse, ne fece seguire altre due, capitanate da Medici e da Cosenz, dando ad entrambi quanto loro era necessario.

Così partirono da Genova le spedizioni garibaldine nello scopo di ultimare con le armi ciò che i comitati aveano preparato con l'oro piemontese, e con i proclami unitari. Non pertanto sapeasi, che una flotta napolitana era in crociera, e benché molti di quelli uffiziali fossero già affiliati. pure non lo eran tutti; la qual cosa avrebbe potuto far abortire sin da principio il progetto. Cavour, a spalleggiare Garibaldi, ordinò al Conte Persano, Ammiraglio della squadra Sarda, di tagliare la via allo sbarco del volontarii in Sicilia, ed il comando accompagnò con la riservata seguente «Signor Conte: vegga di navigare fra Garibaldi e gli incrociatori napoletani -: SPERO CHE MI AVRÀ CAPITO. E Persano rispose - «Signor Conte: credo d'averla capita: dato il caso, ella mi manderà a Fenestrelle» Con ciò Cavour dava maggior certezza alla riuscita, e nel tempo medesimo tenea nelle mani le ragioni di salvare la propria responsabilità. Anzi, perché sempreppiù si mascherasse la buona fede del Gabinetto Sardo, la Gazzetta Ufficiale del Regno del 11 maggio, appena il giornalismo estero cominciò ad alzar la voce accusando il Piemonte di connivenza con Garibaldi, pubblicò il seguente articolo, che mostra chiaramente qual fosse la politica di Cavour, ed il suo stile diplomatico.

«Alcuni giornali stranieri, a cui fanno eco quei fogli del paese che avversano il governo del Re, e le istituzioni nazionali, hanno accusato il ministero di connivenza nell'impresa del Generale Garibaldi. La dignità del governo ci vieta di raccogliere ad una ad una queste accuse, e di confutarle. Basteranno alcuni brevi schiarimenti.

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«Il governo ha disapprovato la spedizione del Generale Garibaldi, ed ha cercato di prevenirla con tutti quei mezzi, che la prudenza e le leggi gli consentivano.

«La spedizione ebbe luogo non ostante la vigilanza delle autorità locali: essa fu agevolata dalle simpatie, che la causa della Sicilia desta nelle popolazioni.

«Appena conosciutasi la partenza del volontari, la flotta reale ricevette l'ordine d'inseguire i due vapori, e d'impedirne lo sbarco. Ma la marineria reale non lo poté fare, nella guisa stessa e che non lo poté quella di Napoli, che pure da parecchi giorni istava in crociera nelle acque di Sicilia.

«Del resto l'Europa sa, che il Governo del Re, mentre non nasconde la sua sollecitudine per la patria comune, conosce e rispetta i principii del diritto delle genti, e sente il debito di farli rispettare nello Stato, della sicurezza del quale ha la responsabilità...»

Garibaldi, partito con il Lombardo e col Piemonte, Vapori della Società Rubattino, quella stessa che ne avea fornito Pisacane, fece sosta a Talamone, di dove spedì Turr al Governatore di Orbitello, richiedendolo di altre munizioni; ed ebbe centomila cartucce, e quattro cannoni da montagna con 300 cariche.

L'organizzazione del corpo fu pubblicata con un proclama.

Comandante in capo; Garibaldi - Direttore dello stato Maggiore. un ex prete Sirtori - Aiutante generale Turr - Commissario Civile, Crispi - Capo del Genio, Minutelli - Intendente, Acerbi - Medico Superiore, Ripari.

Sette compagnie formavano il corpo, di cui erano al comando, Nino Bixio, Orsini, Stocco, La Masa, Anfossi, Carini, e Cairoli.

A Talamone fu rimasto con un centinaio d'uomini lo Zambianchi, il carnefice di San Callisto, con l'incombenza d'invadere lo stato Romano, affin di sollevare quelle province, e così divertire l'occhio dallo scopo della spedizione principale di Sicilia. Ecco il relativo proclama.

ROMANI!

Domani voi udrete dai preti di Lamoricière, che alcuni Musulmani hanno invaso il nostro terreno. Ebbene - questi Musulmani sono gli stessi, che si batterono per l'Italia a Montevideo, a Roma, in Lombardia; quelli stessi che voi ricorderete ai vostri figli con orgoglio, quando giunga il giorno che la doppia tirannide dello straniero e del prete vi lasci la libertà del ricordo!

Quelli stessi che piegarono un momento davanti ai soldati agguerriti e numerosi di Buonaparte. - Ma piegarono colla fronte rivolta al nemico, col giuramento di tornare alla pugna,. e con quello di non lasciare ai loro figli altro legalo, altra credità che quella dell'odio all'oppressore ed ai vili!

Sì questi miei compagni combattevano fuori delle vostre mura - accanto a Manara, Mellana, Masina, Mameli, Daverio, Peralla, Panizzi, Ramorino, Danieli, Montaldi, e tanti vostri prodi, che dormono presso alle vostre catacombe, ed ai quali voi stessi deste sepoltura, perché feriti per davanti (sic).

I nostri nemici sono astuti e potenti, ma noi marciamo sulla terra degli Scevola, degli Orazii, e del Ferrucci; la nostra causa è la causa di tutti gli Italiani. Il nostro grido di guerra è lo stesso che risuonò a Varese ed a Como: «Italia e Vittorio Emanuele!» e voi sapete che con noi, caduti o vincenti, sarà illeso l'onore Italiano!

GIUSEPPE GARIBALDI.

Generale romano promosso da un

Governo eletto dal suffragio universale.

Intanto Garibaldi, ricevute assicurazioni da un legno mercantile inglese non esservi nel porto di Marsala alcun vascello della squadra napolitana, con tutta fretta vi entrò, e sotto gli occhi di due vascelli da guerra inglesi, che erano colà ancorati, requisirono quante barche pescherecce trovaronvi, ed incominciò lo sbarco. Il Lombardo era rimasto poco più addietro, ed avvertì che due vapori napolitani, lo Stromboli ed il Capri, lo seguivano a tutta macchina: per cui vi

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Posto appena piede a terra, Garibaldi fece affiggere questo proclama.

«Io vi ho guidata una schiera di prodi, accorsi all'eroico grido della Sicilia - resto delle battaglie lombarde. - Noi siamo con voi! - e noi non chiediamo che la liberazione della vostra terra. -Tutti uniti, l'opera sarà facile e breve. - All'armi dunque; - chi non impugna un'arma, è un codardo od un traditore della patria. Non vale il pretesto - della mancanza d'armi. Noi avremo fucili, ma per ora un'arma qualunque ci basta - impugnata dalla destra d'un valoroso. - I municipi provvederanno ai bimbi, alle donne ed ai vecchi derelitti. - All'armi tutti! - La Sicilia insegnerà ancora una volta, come si liberi un paese dagli oppressori, colla polente volontà di un popolo unito».

Ad onta di tale eccitamento, a Marsala i disbarcati non trovarono grande accoglimento, e molto pochi furono i giovani, che ad essi si unirono. Non così a Palermo, dove avutasi appena la notizia dello sbarco, fu fatta su via Macqueda una grande dimostrazione, mentre il Comitato da ogni parte spediva messaggi per far riunire agl'invasori il maggior nerbo di forze degl'insorti, che ancora scorazzavano per le vicine campagne.

Il General Salzano riproclamò lo stato d'assedio, e spedì Landi con due battaglioni e mezza batteria di campagna per arrestare il cammino degl'invaditori. Ma Garibaldi non restò neghittoso; in poco d'ora si trovò a capo d'un forte corpo, confortato dai comitati, che promettevano l'insorgere contemporaneo degli abitanti delle città e campagne, per dar molestia alle truppe con piccole fazioni.

Landi era stati spedito ad avanguardia; per cui, come per scienza strategica è notissimo, dovea appoggiarsi al corpo principale, nel caso che avesse trovala resistenza maggiore di quella che probabilmente attendevasi.

Di fatti, a Calatafimi si scontrò con i Garibaldini, e vivissimamente fu sostenuta la lotta; ma molestata la colonna regia in tutti i punti dal fuoco delle squadriglie, che si erano appostale ai lati delle vie, gli fu forza ritirarsi, credendo sempre di appoggiarsi al corpo principale dell'esercivo, che.... non fu spedito. Giunto ad Alcamo, e non trovando rinforzo di sorta, spedì un messaggio a Palermo per chiedere soccorso, ed avvisare che il corpo degl'insorgenti erasi fatto imponente. I telegrafi elettrici erano stati rotti dagl'insorti, ed il rapporto non pervenne a Palermo, essendo Stato, crediamo probabilmente, sequestrato sulla via.

Intanto al Landi giungevano notizie di altre bande d'insorti che avrebbongli spezzato il cammino; eppure si decise a marciar su Palermo, sperando di trovar soccorso nei circostanti paesi. Cosa incredibile! Salzano guardava Palermo senza curarsi d'altro.

Da Alcamo Landi marciò su Partinico: vi fu ricevuto con un vivo fuoco di fucileria dall'abitato, mentre le squadriglie lo affrontavano a suolo scoperto: a forza di eroico coraggio, i regi potettero entrare nel paese dopo la lotta ostinala. e senza riposarsi ripresero la via: altre fazioni doverono combattere a Montelepre, snidando gl'insorti da un imboscata preparata, donde grave danno venne alla truppa ivi decimata; e così finalmente, dopo una resistenza che può dirsi valorosa, Landi rientrò a Palermo.

Garibaldi, assunto il nome di Dittatore per Vittorio Emanuele Re d'Italia, entrò in Alcamo e Partinico, emanando ordinamenti e Decreti; requisiva quanto gli era necessario; creava nuovi maestrati; gli esistenti destituiva, e deliberatamente moveva su Palermo. A tal fine accampavasi presso Renna sulla strada consolare, che traversando Monreale conduce a Palermo. Il Comitato aveagli fatto giungere notizie, che al suo avvicinarsi la città sarebbesi levala in armi,

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e tutte le ban

Ma a Monreale vi era il 9° Cacciatori, comandato dal Maggiore Beneventano - Bosco, l'unico cui avrebbesi dovuto confidare il piano d'azione, poiché intelligente, coraggioso e leale. Bosco, avuto avviso dell'avvicinarsi del Garibaldini, non li attese, ma corse a sfidarli; ed incontratosi con essi presso S. Martino al nord - ovest di Monreale, attaccò battaglia. Cadde morto Rosolino Pilo comandante degl'insorti, i quali, abbandonato il campo, si rifugiarono sulle montagne, dove Bosco li inseguì sino ad un certo punto, non potendo più innoltrarsi, temendo giustamente, che altre bande non tentassero nella sua assenza un colpo di mano su Monreale, la cui posizione era importante (1).

Come la ritirata infelice di Landi, avvenuta per l'inqualificabile indolenza di Salzano, e non per colpa di esso e dei soldati che aveano adempito al loro dovere, fu nota a Napoli, si destò un'immensa impressione. I comitati augustarono la vittoria di Calatafimi, quasi fosse stata la battaglia di Marengo, di Ulma, o di Jena; mentre non più che tre mila furono i regi, i quali avean dovuto sostenere una lotta sanguinolenta contro un numero immenso d'insorti, ad ogni passo, e per ogni punto da quel paese fino a Palermo. Gli unitari appiccavano proclami, sublimavano il valore degl'insorti, chiamandoli salvatori; lo scoraggiamento si propagava nelle truppe già demoralizzate dalle suggestioni dei sotto ufficiali, e dalla palese indifferenza degli officiali.

Il governo allora vide il bisogno di togliere a Salzano il comando della Sicilia, e per surrogargli un uomo energico, vi mandò il Tenente Maresciallo Lanza, che dalle sue opere mostrò, non sapremmo dire, se più viltà, o tradimento!

Nel tempo stesso una Nota fu inviata al Gabinetto di Piemonte, che ancor dubbioso vivea sull'esito del tentativo.

(1) Noi qui accenniamo solamente a qualche fazione combattuta, non potendo descrivere minutamente quei fatti d'arme. Siamo però accertati, che verrà a luce opera scritta da un erudito Generale, nella quale si avranno officialmente documentati tutti i dettagli di questo periodo di storia militare.

In quel documento diplomatico la Corte napolitana chiaramente si lamentava col Piemonte pel pubblico diritto internazionale infranto; e simili lamenti mosse all'Inghilterra per il premeditato sostegno dato a Garibaldi con impedire ai Vapori Regi di servirsi di quel diritto di guerra, che ogni stato tiene in casa sua per difendersi da rivoluzionarie invasioni di gente raccogliticcia che veniva a mettere in soqquadro l'ordine pubblico e la tranquillità del Regno.

Il Conte di Cavour, improntando il linguaggio diplomatico del mentire rispondeva:

«Il sottoscritto ha ricevuto la Nota del 24 andante, con la quale l'Illustrissimo sig. Cav. Canofari inviato ecc. ecc. ha informato, che nei proclami sparsi dal Generale Garibaldi in Sicilia esso assume il titolo di Dittatore in nome del Re di Sardegna, e richiama su tal fatto la disapprovazione e la contraddizione del Governo di S. M. il Re di Sardegna.

«Benché non possa nemmen cader dubbio su questo proposito, il sottoscritto, d'ordine di S. M. non esita dichiarare- che il Governo del Re è totalmente estraneo a qualsiasi alto del Gen. Garibaldi; che il titolo da lui assunto è onninamente usurpato, ed il Real Governo di S. M. non può che fortemente disapprovarlo. Gradite ecc.

Torino 26 Maggio 1860.

Cavour.

Intanto mentre ciò da Cavour diplomaticamente dichìaravasi, la Società Nazionale di Torino, da lui diretta, spediva incoraggiamenti a Napoli per preparare la rivoluzione sul continente con la seguente lettera:

SOCIETÀ NAZIONALE ITALIANA.

«Il Comitato, che in Napoli ha per simbolo ORDINE, è dichiarato parte della Società Nazionale Italiana, ed è facultato ad assumere il nome di Comitato Napolitano della Società Nazionale Italiana.

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«Il Comitato Centrale di Torino prega quindi tutti coloro, i quali accettano il Programma, che si compendia nelle parole Indipendenza, o Unificazione, e Casa Savoia a cooperare col detto comitato napolitano pel trionfo definitivo della nobile causa che difendiamo.

Torino......... Il Presidente La Farina.

Giunto Lanza a Palermo, pubblicò un proclama, in cui a nome del Re concedeva l'amnistia a tutti coloro, che abbandonata la campagna Spatriassero, ed a tutti consigliava l'esser ragionevoli ed il non farsi nucleo di forza a stranii, le cui intenzioni non poteano esser plaudite, comechè poggiassero su di effimere speranze. A questo rispose il Comitato insurrezionale con un altro Proclama, che si trovò affisso nella città, nel quale diceasi «non aversi fede nei Borboni e nei Siciliani apostati, che con quelli fan causa comune.... e che l'unico grido ii di guerra della Sicilia dovea essere Viva l'Italia, Viva Vittorio Emanuele, Viva Garibaldi»

Una conciliazione era dunque impossibile. Come a parole frenare davvantaggio gl'insorti, quando aveano fondata certezza dai comitati, che le armi regie non avrebbero potuto trionfare? Era perciò d'uopo sostenersi con le armi.

Dopo la fazione di Monreale, Bosco e Von Mechel si recarono al Parco, di dove minacciavano gl'insorti. Di fatti là attendeali Turr, afforzato dai bersaglieri genovesi. Il combattimento fu ingaggiato con il fuoco della moschetteria e dell'artiglieria, di che i garibaldini eran stati provvisti. Turr sostenutosi per poco, e vedendo i suoi non resistere all'attacco della baionetta nemica, cominciò a indietreggiare, lasciando la posizione; ed assalito ai fianchi da altre compagnie, dovette darsi alla fuga e riparare alla Piana del Greci, dov'era Garibaldi col forte della truppa, e che non credé prudente l'arrischiare un combattimento, che avrebbe rovinato tutto il suo piano.

Nel tempo medesimo Orsini con cinque cannoni, a capo di una forte banda, e con un quaranta carri di munizioni e salmerie ben scortati, avviavasi a Corleone -: egli fece atto a Ficuzza, e nel mattino seguente. si rimise in via in buon ordine per esser pronto ad ogni evento.

I regi, avutane contezza, gli mosser contra. Orsini ben per tempo giunse a Corleone, i cui abitanti, impauriti dal potersi trovare in mezzo ad una lotta, ripararono sui monti. Orsini fu avvertito dell'avanzarsi del Regi: per lui era una buona fortuna il trovarsi in paese ed al coverto, perché potea opporre vigorosa resistenza. Postò quindi tre pezzi di artiglieria al ponte che sta presso a Chiusa, al Sud dell'abitato, e gli altri due pezzi fece situare su di un'altura isolala, da cui agevolmente potea bersagliare il nemico, signoreggiando la valle e la strada maestra. I Regi, giunti sul luogo furono accolti col fuoco contemporaneo del cinque cannoni; ma essi, affrettando il passo, corsero all'assalto di Corleone. Le squadriglie siciliane non li attesero, e si diedero ben tosto alla fuga, prendendo la direzione della Chiusa. Orsini, che trovavasi a difendere i tre cannoni, tirò pochi altri colpi; e vedendo che i Regi, avendo affrettata la marcia, l'artiglieria diventava inutile, cercò riunire i suoi per sostenere almeno una ritirala meno disastrosa; ma non gli andò prospero il disegno, poiché al grido-s'avanzo la cavalleria-ad una prima carica della stessa «tutti volsero precipitosamente le schiene» salvo pochi che voller resistere e furon sacrificati. Anche la squadriglia messa a difesa del due pezzi, veduto l'avanzarsi del cacciatori napoletani, si diede alla fuga verso Campofiorito, trascinando i cannoni; ma giunta a S. Giuliana ed avuto avviso d'essere inseguita, inchiodò i cannoni, bruciò gli affusti, e ritirossi a Sambuca (1).

Intanto che queste fazioni si combattevano, il Comitato di Palermo incitava Garibaldi a recarsi sulla città e tentare un colpo di mano. Garibaldi obbedì, e presso Gibilrossa passò in rivista la sua truppa, che non consistea, se non in tre migliaia di uomini. Il Tenente Generale Lanza ne avea un 30 mila, con cavalleria ed artiglieria, possedendo fortezze, e difeso anche dai battelli a vapore, che poteano benissimo far fuoco infilando le strade principali della Città.

(1)

Questi fatti d'arme sono distesamente narrati da W. Rustow. La guerra d'Italia del 1860. Cap. V. pag. 200 e seg.

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Con queste forze, Lanza lasciò tranquillamente passar la rivista delle truppe degli insorti!!! Avea egli paura, ovvero era un traditore? L'uno è l'altro sospetto corse immediatamente nel grido della pubblica coscienza, che ne condannò la codarda condotta, come dopo dovea condannare la vergognosissima capitolazione fatta in faccia ad un pugno di gente. Per lui non v'ha discolpa. A tenere in rispetto la città bastavano le artiglierie delle fortezze: perché dunque lasciarsi assaltare dal nimico? e se ripugnavano al suo animo gli orrori d'un bombardamento, avendo sotto il suo comando una numerosa truppa, perché non ordinare una sortita alla quale i soldati lo spingevano con coraggio? Egli oggi non è più: la pubblica fama narrò di lui fatti, che uno storico su questo solo fondamento non registra; ma la sua condotta lo accusa, o di viltà, o di tradimento.

Lasciando dunque agli scrittori militari lo smentire che gli insorti fugarono l'esercito, di cui solamente qualche reggimento fu messo, sparso in compagnie, come avanguardia a Palermo; Lanza abbandonando viveri e forniture che si trovavano nei magazzini fuori la città, fece concentrare la truppa a Piazza di Palazzo Reale e dintorni, esponendola così ai sicuri colpi, che sarebbero partiti non solo dalle finestre e dai lastrici, ma dalle spingarde, che a braccia s'eran trasportale dagli insorti sui campanili, e sui tetti più alti delle abitazioni.

È utile qui riportare l'opinione di uno storico (1), che, increduto come noi, non sa spiegare la condotta di Lanza, neanche nella più codarda paura.

«Vediamo, egli dice, quanta fosse questa paura, e quale fondamento avesse.

«I Regi avean perduto le comunicazioni nella città di Palermo fra i loro due posti principali, Castellammare ed il Palazzo Reale. Ottimamente -: ma era forse impossibile di ricuperare quelle comunicazioni?

(1)

W. Rustow, loc. cit. pag. 215.

I Regi dopo il ritorno del due vapori con le truppe estere, nel giorno 29 ascendevano, tra Palermo e la colonna spedita verso Corleone, a un 24,000 uomini -: 24,000 uomini di soldati effettivi, bene armati, esercitali ed organizzati, provveduti di munizioni e di vettovaglie, che in caso di bisogno poteano essere rinforzali dalla parte di mare, poiché le navi napoletane vi dominavano tuttavia, ancorchè i soldati regi (dovea dire il Lanza!) sconsigliatamente avesser già ceduto Costei del Molo ed il Molo stesso, che dominava il porto anche dal lato di terra.

«D'altra parte, che poteva opporre Garibaldi ai 24,000 regi? 800 cacciatori delle Alpi al più, e 2000 uomini delle squadre siciliane, che avea condotti seco; e gl'insorti di Palermo, i quali difettavano in armi!

«E le truppe del Palazzo reale, e quelle che si attendevano di ritorno da Corleone, non avrebbero potuto aprirsi la strada per Castellammare attraverso questo nucleo di soldati Garibaldini infinitamente più debole, ed eziandio pochissimo compatto? Quando pure quel passaggio a Castellamare fosse stato difficile per la città, mancava forse la via di comunicazione intorno ad essa?

«Tutta la forza napolitana poteva in ogni caso aprirsi con impeto la strada per Castellamare lungo queste vie di comunicazione; poteva in poche giornate erigere un campo trincerato intorno a Castellamare, ed appoggiato a quello, estendere vie maggiormente la sua azione, attendervi in ogni modo i momenti di rilassatezza e di scompiglio, che in Palermo non sarebbero mancati, e trarre profitto da quelle agevoli eventualità» -

Tutte queste ragioni sono assonnatissime, ma lo storico tedesco non ha raccolto che i fatti militari; bisognava, che nel suo racconto avesse ricordati anche i civili dell'insurrezione, ed allora avrebbe potuto giudicare, che la nomina dì Lanza fosse stata una vittoria del comitati, di cui parecchi membri signoreggiavano la posizione; e che la capitolazione di Lanza era una necessaria conseguenza di così fatali premesse.

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A noi che scriviamo, sulla fede di documenti officiali, e dopo otto

Stavano ancorati nel porto di Palermo alcuni legni inglesi comandati dal retro - Ammiraglio Mundy. Costui, che seguendo la politica fedifraga di Palmerston, era largo di ogni protezione agli insorti, fece energiche e perentorie proteste per impedire che dai forti della città si facesse fuoco: non pertanto vedute le cose ridotte a tal termine e comprendendo bene, che il trovarsi il Maggiore Bosco già padrone della Fiera Vecchia, era segno manifesto, che appena costui avesse ricevuto altro rinforzo, si sarebbe spinto in avanti per congiungersi al corpo principale dell'esercito rimasto come prigioniero ed inutilizzato, ed avrebbe riguadagnato in un giorno quello che Lanza avea perduto in quindici, si sollecitò a metter d'accordo Lanza e Garibaldi per farli venire a patti! Unico espediente che potea salvare la rivoluzione ed assicurarle una vittoria finale; che diversamente le sarebbe stato impossibile di raggiungere.

Lanza non si fece pregare, e scrisse a Garibaldi, invitandolo ad un colloquio sulla nave ammiraglia inglese l'Annibale. Su tanta vergogna non aggiungiam parola: il tremendo verdetto della nazione e della storia tramandano agli avvenire l'atto nefando e vile.

Garibaldi accettò immediatamente l'invito, che per lui era pegno di vittoria; poiché quantunque il suo piccolo esercito si aumentasse con le diserzioni del soldati napolitani, facilitale per l'attività e per l'opera del comitato, pure non avrebbe potuto resistere a lungo col solo fascino della rivoluzione, se a capo delle truppe regie fosse stato spedito un onorato, intelligente e fedele capitano. Basta per l'onore delle armi regie il ricordare i combattimenti di Parco e di Monreale

- Sull'Annibale recaronsi Garibaldi con Turr da una parte, ed il Generale Le

Armistizio completo per tre giorni: Consegna del Banco Regio a Francesco Crispi; imbarco del feriti; libertà scambievole di provvedersi di viveri; scambio di prigionieri.

La sera del 30 maggio vi fu combibbia fraterna, ed insieme a Garibaldi ed agli ufficiali Garibaldini convennero il Tenente Generale Lanza, i maggiori generali Salzano, Cataldo, Pasquale Marra, i brigadieri Landi, Letizia, il colonnello dello Stato maggiore Bonopane, e molti altri ufficiali napolitani.

Si bevve vin di Sciampagna fra gli evoe e gli evviva!

La storia conserva questa pagina pei presenti, e pei futuri. A base della convenzione, fu consegnalo a Crispi il Banco Regio col Palazzo delle Finanze: e quanta gioia avesse sentita il cassiere Garibaldino non è a dire; imperocchè luccicavano sotto i suoi occhi ben 5.200,000 ducati, di moneta effettiva, quasi pari a 22 milioni di lire; mentre la felice spedizione del Mille era partita da Genova con la magra somma di ottomila lire! Il trovarsi in tal modo ricco, diede agio, a Garibaldi di poter corrompere anche non pochi del reggimenti esteri Napoletani, che, mercenari com'erano, poco si curarono di volgere le armi contro chi li pagava meno.

Giunte tali notizie a Napoli, la Corte ne menò gran rumore; ed il Re emanò ordini, che si riprendessero le offese, mettendosi di concerto con i comandanti di Messina e di Catania, Gen. Clary e Generale Afan de Rivera.

Lanza e Letizia ricevettero tali ordini con la maggiore indifferenza; e convinti com'erano di non dover resistere, dopo un inutile andare e ritornar da Napoli, firmarono la convenzione vergognosissima, con cui meglio che 20,000 uomini con armi e bagagli sgombrarono Palermo, sfilando davanti a non più che quattro mila volontari.

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La sto

Garibaldi era padrone di Palermo, e s'installò al Palazzo Reale; di dove emanò una quantità di decreti, che ebber vita fino a quando egli fu Dittatore! Lanza, Salzano, Cataldo e tutti gli altri uffiziali, che avean fatto prova di tanta lealtà e coraggio, furono inviali in Ischia dinanzi ad un Consiglio di guerra per giustificare la loro condotta. Ma di essi niuno fu fucilato, come Remorino in Piemonte!

Perché? - giustificarono la loro condotta? - ovvero i giudici non vollero giudicarli? - È un mistero - Certo è, che nelle convenzioni e nel banchetto del 30 maggio non intervennero Bosco e Von - Mechel, che seguitarono a fare il loro dovere da soldati di onore. A questi prodi venga il tributo di giusta lode; a quelli il giudizio di tutte le armate dell'Europa!

Garibaldi pensò ad afforzarsi con un governo civile e militare. Elesse un Ministero, affinché non succedessero incagli nelle amministrazioni. Alla guerra e marina chiamò Omni; all'interno, Crispi; a grazia e giustizia, Guarnieri; all'istruzione e culto, Ugdulena (prete); alle finanze Dom. Perroni; ai lavori pubblici Raffaele; agli esteri Pisani, che era stato capo del Comitato insurrezionale, e cui doveasi in gran parte la felice riuscita della rivolta.

Decretò la formazione di una Commissione per la difesa della città (1); ed attese a formar l'esercito, giacché molto ancora rimaneagli a fare per reputarsi totalmente sicuro dell'Isola intiera.

Aiuti positivi gli furon mandati dal governo di Torino in uomini ed in denaro. Difatti altra spedizione fecesi da Genova di truppe comandate

(1) La Commissione fu composta del seguenti individui:

«1.° Duca della Verdura, presidente - 2.° Architetto Mangano Michele - 3.° Architetto Tommaso Lo - Cascio - 4.° Architetto comunale Pietro Raineri - 5.° Barone Michele Capuzzo -6.° Architetto Palermo -1.° Architetto Rubino -8.° Carmelo Trasseli - 9.° Architetto Benedetto Seidita - 10.° Pietro Messineo -11.° Marchese Pilo - 12.° Architetto Patricola - 13.° Architetto Girolamo Mondino - 14.° Vincenzo Scimeca segretario.

dal Maggiore Corte ed imbarcate sul vapore l'Utile e sul Clipper americano Charles - Jane. Nel porto di Genova trovavasi il vapore da guerra napolitano il Fulminante che uscì al largo per impedire che quella spedizione giungesse al suo destino. Presso al Capo Corso il Comandante Napolitano minacciando di far fuoco fe' intima a quei legni di fermarsi. I garibaldini gettarono subitamente le armi a mare, ma riconosciuti per una banda diretta ad afforzare gl'insorgenti, vapore e clipper furono rimorchiati e trasportati con i prigioni a Gaeta. Proteste e scalpori menarono il Console Americano e l'Ambasciatore Sardo Villamarina: e benché da principio non ebbero alcuna risposta, dopo non molto il Governo di Napoli si decise inconsultamente a rilasciar le due navi e i prigionieri, per non dar occasione al Piemonte, le di cui mire eran troppo dichiarate, di intervenire armata mano a completare l'opera della rivoluzione da esso organizzata e diretta. Fatti liberi, i prigionieri, che avean promesso di ritornare a Genova, si recarono in Sicilia ad afforzare Garibaldi!

La resa di Palermo, che avea sorpresa tutta l'Europa, mostrò al Conte di Cavour non doversi perdere l'opera sì bene incominciala; e se prima più cautamente avea agito, allora diventava interesse l'azione quasi senza maschera. Forte spedizione fu quindi organizzata a Genova sotto i comandi del Generale Medici, con volontari armati di fucili rigati, e bene equipaggiati, al numero di più che 2530; e furono imbarcati l'11 Giugno su tre vapori Washington, Franklin, ed Oregon. Con quest'altro corpo di armati Garibaldi si trovò a capo di una forza importante per tentare il resto dell'Isola: tanto più agevolmente, per quanto che la rivoluzione si sentiva sempre più forte, ed i comitati segreti agivano alacremente.

Bisognava guadagnar Catania e Messina, i di cui comandanti non erano accessibili alle lusinghe dei comitati.

Reggeva civilmente Catania il principe Fitalia, e militarmente il Generale Clary. Quando ferveva la rivolta a Palermo, i Catanesi anch'essi cominciarono a muoversi, ma Fitalia li acquetò assicurandoli, che senza

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I Catanesi, anzi che impaurire a tali minacce, subitamente dato piglio alle armi, fecer suonare a stormo tutte le campane della città, chiamando in loro aiuto i congiurati delle vicinanze, e le bande degli insorti, che scorazzavano nelle prossime campagne.

II fuoco fu aperto orribilmente dalle due parti, e micidiale s'impegnò la lotta sulla piazza del Duomo, e presso la via del Municipio. Dopo qualche ora di resistenza, gl'insorti abbandonarono il terreno; e Clary senza perder tempo sguinzagliò le truppe a disarmare i cittadini; ma represso quel movimento, ebbe notizia, che la rivolta era scoppiata ad Aci - Reale; dove immediatamente accorse, lasciando il comando di Catania al Gen. Afan de Rivera, che avea già sostenute fortunale scaramucce con le bande delle campagne.

I Catanesi allora tentarono di riprender l'offensiva, ma i loro sforzi non ebbero per risultato che nuove vittime.

Afan de Rivera dové poscia accorrere a Messina in aiuto di Clary, che vinti i ribelli di Aci - Reale là erasi recato per riunire il maggior nerbo di forze, nella certezza di una formate battaglia, cui lo sfidavano le bande garibaldine. Catania perciò rimase libera, né vide mai più i regi, avvegnacchè le sorti degli avvenimenti per costoro volgessero a male.

Il piano di Garibaldi era quello d'impossessarsi, prima di ogni altro, del capoluoghi delle province, tenendo agevol cosa vincere ed insignorirsi del paesi limitrofi, coadiuvalo com'era dagli insorgenti. All'uopo nominò Medici a comandante della Provincia di Messina, non ancor guadagnata. Barcellona era il punto più importante, dove accennavano i Regi, che stavano asserragliali a Milazzo, benché in numero molto

I regi non superavano un tremila. i Garibaldini eran quasi 11, 000 -: il numero quindi era grandemente sproporzionato.

Stavano a fronte il Maggiore Bosco da una parte; e dall'altra i due corpi di Medici e di Cosenz, cui erasi unito in tutta fretta Garibaldi con un altro corpo di mille uomini per la via di Patti. L'attacco fu aperto dal Garibaldino Malenchini sui recinti lungo la spiaggia di San Papino.

Seria resistenza vi trovò, e quantunque si sforzasse di far avanzare i suoi, ben presto dové abbandonare la posizione. Garibaldi, avutone avviso, vedendosi scoverto sull'ala sinistra, spedi Medici ad attaccare Milazzo, spingendosi dai mulini posti sul fiume Nocito, ed egli corse a sostenere la sinistra. Tornò ad assaltare le cascine a San Papino con lo intendimento d'impedire ad uno squadrone di cavalleria napolitana d'inseguire la squadra fuggitiva di Malenchini; ma essendosi di troppo avanzato, si trovò coi nemici a fronte in un viottolo, dove si combatté corpo a corpo, e Garibaldi dové la vita al Capitano delle sue Guide Missori, che subitamente là accorso poté liberarlo.

Intanto l'attacco era micidialissimo per i volontari, che immessisi in quelle vie, correvano alla rinfusa senza saper dove riuscire, ed i Carabinieri Genovesi, che teneano piè fermo, erano bersagliali da un continuo fuoco di artiglieria, che li obbligò a indietreggiare. Era sfavorevole a Garibaldi il non poter guardare sul luogo del combattimento trovandosi limitato l'orizzonte dall'abitato; per cui potea dirsi perduta la battaglia, quando un traditore napolitano, Amilcare Anguissola, sciolse il nodo gordiano. (1)

Egli che comandava il Vapore da guerra il Veloce, issò bandiera tricolore, e datosi a Garibaldi assunse il nuovo battesimo di Tukery.

(1)

Quando nel contesto del fatti chiamiamo traditori coloro che disertarono le bandiere Regie, noi facciamo pur spirito di parte, ma per indicare nell'andamento del fatti quelli che si unirono alla rivolta, mentre erano al servizio del Re. Lo storico non saprebbe trovare un altro qualificativo, per non essere obbligato a dire continuamente... X che mentre serviva il Re, serbava amor d'Italia ecc. e questa dichiarazione valga adunque per sempre.

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Garibaldi salito a bordo di esso, e riconosciuta la posizione della truppa napolitana, ordinò al Tukery di sostenere i garibaldini con fuoco di mitraglia, ed Anguissola obbedì immediatamente, portando grave scompiglio nella colonna napolitana, che vedendosi fulminala alle spalle, non sapeva di dove venisse quel nuovo attacco; e dové frettolosamente ritirarsi verso il Forte per mettersi al sicuro. Avvertitisi però del tradimento di lui, che ancora indossava l'uniforme regio, non poterono più riprendere la prima posizione, nella certezza di essere distrutti dalla mitraglia del capitano Amilcare Anguissola.

Cosi protetti i garibaldini, Bosco ordinò abbandonarsi del tutto la posizione dall'ala sinistra, e ritirò le truppe nel forte, lasciando operare le artiglierie. Il Tukery veduto inutile ogni altro suo concorso, imbarcò il nemico, che girando il capo di Milazzo condusse verso la baia orientale; ma nell'avvicinarsi colà, fu così improvviso e ben diretto il fuoco dell'artiglieria del Forte, che sfondato il legno in più parti, fu necessario farlo rimorchiare da barche a remi.

«La perdita del Garibaldini ascese a 150 tra morti e feriti. Quella dei Napolitani fu di 2 ufficiali, 38 soldati morti, 83 feriti, e 31 smarriti; in tutto 162 uomini».

Il forte di Milazzo non era tale da poter opporre una seria resistenza; mancava anche di provigioni da bocca e da guerra: bisognava quindi venire agli estremi. Di soccorsi non si sperava: di navigli mancavasi. In tante ambagi giunsero nel porto tre legni mercantili con previsioni da bocca pel presidio; ma non poterono sbarcare, e per tanto furono rispettati, perché appartenevano alla marina francese, noleggiali dal governo napolitano, il quale non potea servirsi del suo naviglio, nella certezza, che gli altri comandanti avrebber imitato Amilcare Anguissola; lo che avvenne di poi, benché degli Ufficiali molti si ritirassero, e andassero a servire il Re nelle truppe di linea.

Giunse nel tempo stesso un avviso di guerra a vapore francese Ln Mouette, il cui comandante Boyer volte veder Garibaldi, e con lui tenne parola di intavolar trattative con il Maggiore Bosco.

Garibaldi che in tutta l'isola non avea sostenuto, che scaramucce, ed avea fatto capitolare Lanza con 30mila uomini, stava seriamente inquieto per la resistenza trovata nel Maggiore Bosco, che a Monreale, a Parco, ed a Milazzo avea mostrato, che i napolitani fossero buoni soldati, e che ben guidali e non traditi dai loro comandanti, sapean morire combattendo: quindi con voce imperiosa disse non esservi bisogno di trattative; gli uffiziali liberi di andarsene; il presidio prigioniero di guerra, e nel caso che non si arrendesse (son parole storiche) lo avrebbe fatto balzar giù dalle rupi.

Bosco rispose aver munizioni e coraggio da resistere, e quando ogni speranza fosse per mancare, aver pronta una mina per far saltare in aria sé e il presidio, e così salvare il suo onore militare senza venire a patti....

Allora la Mouette con altri due legni francesi parli, lasciando il Prolis al servizio di Bosco. Le cose erano a tal punto, e l'irritazione del due comandanti comunicatasi nelle fila facea prevedere, che assalto e resistenza sarebbero stati terribili, quando il mattino di poi giunsero nella baia quattro fregate a vapore napolitano. Gioì Bosco al creduto soccorso, e già dava ordini opportuni per tener pronte le artiglierie a sostenere lo sbarco, allorché vide venirglisi incontro il colonnello Ansani, incaricalo di capitolare con Garibaldi. A Napoli ignoravasi la posizione del fatti; e si credette impossibile una rivincila. Bosco dové chinare il capo, ed ubbidire.

La capitolazione fu conchiusa; la truppa regia sarebbe uscita dal Forte con gli onori di guerra; consegnarsi il castello a Garibaldi con le armi e munizioni che vi si rattrovassero. Nel giorno 25 segui l'imbarco. Sembrava in somma, che il governo napolitano si determinasse di abbandonare del tutto l'isola, e trasportar le truppe sul continente.

Non resisteva che Messina, il cui comandante, ben approvvigionato in cittadella, già messa in pieno assetto di difesa, minacciava di bombardare la città: e per essere molto ben fortificala, era capace di lunga resistenza. Garibaldi non s'illudeva di guadagnarla coi suoi volontari, tanto più che nelle scaramucce impegnale tra i posti avanzati

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della cittadella e la Brigata Fabrizj, questa avea dovuto tenersi sempre fuori del tiro del cannoni; per cui si decise spedire a Clary un parlamentario.

Clary intanto avea già ricevuto istruzioni dal governo di trattare, se gliene fosse fatta proposta; epperò non fu difficile l'intendersi con Medici spedito da Garibaldi, e la convenzione fu firmata sui patti seguenti.

Le truppe regie sgombrare la città, che sarebbe consegnala ai Siciliani; abbandonati i forti Gonzaga e Castelluccio, i cui materiali ed attrezzi da guerra si sarebbero trasportali su di un terreno che di concerto sarebbesi dichiarato neutrale.

Niuno avrebbe molestato nell'imbarco le truppe. La cittadella coi suoi forti Don Blasco, la Lanterna, e San Salvatore resterebbero in potere del Regi con l'obbligo di non molestare la città, salvo il caso che si tentasse di aggredirla. Libero passaggio dalla parte di mare, e quindi reciproco rispetto delle bandiere. Liberi gli approvvigionamenti da bocca per il presidio, e sul modo di consegnarli i comandanti si metterebbero d'accordo.

Così tutta l'isola fu in potere di Garibaldi. Torino ideò l'opera, i comitati la prepararono, Garibaldi la pose in atto, ed il tradimento dei Generali Napolitani la condusse a termine. È questo il riepilogo del fatti su narrati.

CAPITOLO VI.

Il Governo di Napoli abbandona la Sicilia - Lettera di Cavour a La Farina - Nota francese a Torino - Cavour sconfessa la sua complicità! - Atto Sovrano del 25 Giugno - Proclama del Comitato Centrale. - Liborio Romano Prefetto di Polizia - Cenni biografici - Proclama di Liborio Romano - Come coadiuvasse la rivoluzione - Proclama rivoltuoso alla squadra - La nuova polizia - Ambasciatori Napoletani a Torino - Conferenza con Cavour - Lettera del Re Vittorio Emanuele a Garibaldi - Risposta di Garibaldi - I misteri del Gabinetto Cavour - - Lettere di Cavour a Persano - Alessandro Nunziante si dimette - La Duchessa di Mignano - Proclama di Nunziante alle truppe - Mancini e Poerio nel Parlamento Subalpino - Uno scritto di Settembrini ai Napolitani - Esilio del Conte di Aquila - Lettera del Re - Tentativi per l'annessione della Sicilia al Piemonte - Negativa di Garibaldi - Dimissione del Ministero Siciliano - Son convocati i Collegi - Lettera di Cavour a La Farina - Arresto di La Farina - I partiti a Napoli.

La Sicilia potea dirsi perduta. Il Governo di Napoli, aderendo al consiglio di Napoleone 3.°, aveala abbandonata ritirando tutte le truppe sul continente, per opporre più ostinata resistenza, se Garibaldi avesse voluto spingersi innanzi per ingigantire le sorti della rivoluzione.

La Corte di Napoli fiduciava sempre sulle sue forze: e non avvertiva, che Cavour mirava a compiere il programma dell'annessione totale d'Italia al Piemonte: lo che teneva poter sicuramente conseguire senza che Potenza alcuna gli arrecasse fastidio, avendo per sé le simpatie e l'appoggio del Gabinetti di Francia e d'Inghilterra. Di dentro e di fuori tutto era preparato per l'estrema ruina, ed i simulacri delle battaglie combattute in Sicilia doveansi ripetere sul continente.

Garibaldi a Palermo approntava armi ed armati, e semplice strumento nelle mani di Cavour e del Comitato, attendeva gli ordini per sbarcare sulle coste di Calabria, che alla Sicilia sono le più prossime. La Farina, che nulla operava senza prender prima l'imbeccata da Torino, date esatte relazioni della prospera fortuna nelle cose di Sicilia, ebbe dal Ministro piemontese la seguente risposta.

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Sig. La Farina - Palermo

Torino 19 Giugno 1860

«Sarebbe un gran bene, se Garibaldi passasse nelle Calabrie.

«Sto concertando un servizio diretto da Genova e Livorno per Palermo sotto bandiera Francese. Forse sarà necessario dare un grosso sussidio alla Compagnia. Figurerà il Governo Siciliano, ma all'uopo PAGHEREMO NOI.

«Qui le cose non vanno male. La diplomazia non è soverchiamente ti molesta. La Russia ha strepitato molto; la Prussia meno. Il Parlamento ha molto senno. Aspetto con impazienza sue lettere.»

Cavour

Questo documento di seguito agli altri che abbiamo riportati, e che man mano verremo annestando al nostro racconto, mostrano all'evidenza la precisa impotenza, in cui rattrovavasi il governo napolitano ad affrontare la rivoluzione. Qual contegno tenne la Diplomazia? Il Marchese Della Greca era stato inviato da Napoli ai Gabinetti di Londra e di Parigi, pregandoli ad impedire lo sbarco di Garibaldi sul continente. Napoleone vi si mostrò proclive, e almeno in figura spedì nota in tal sensi a Lord Palmerston; ma questi non solo rifiutò ricisamente di aderirvi, sibbene protestò contro tale intervento. La Francia allora si rivolse al Gabinetto di Torino, e Cavour a non porre allo «scoperto tutto il suo sistema di dissimulazione diplomatica» (1) si mise con arte ad involgerlo maggiormente nell'inviluppo delle tenebre, e con lucubrati articoli giurava e sosteneva, che né il gabinetto del Re, né il suo governo esercitavano influenza alcuna sull'animo del Generale Garibaldi, né s'immischiavano nelle faccende della rivoluzione di un altro Stato. Queste dichiarazioni erano pubblicale nel tempo stesso, che premurava La Farina per decidere Garibaldi a scendere sul continente!

(1) Bianchi - loc. cit. pag. 99.

- L'è facile così esser grande in politica, quando si può mentire impunemente, poggiato sulle arti segrete del comitati, e sulla certezza di non trovare

nella diplomazia resistenza alcuna al compimento dell'opera.

Intanto benché a Napoli tutto fosse preparato per la rivoluzione, niuno osava di essere il primo ad insorgere, e gli occhi erano costantemente rivolti a Torino ed a Palermo.

Alla Corte regnava la più gran confusione; gli animi erano divisi: chi consigliava la resistenza; chi associandosi al partito della rivoluzione mascheralo a monarchico, insisteva per la proclamazione dello Statuto. Quelli giustamente approvavano, che la Costituzione in quei momenti avrebbe accelerata la conflagrazione; i secondi dicevanla l'ultima ancora della salvezza del Regno. A questa pressione si unirono pure gl'instanti consigli delle Tuileries: è noto il famoso dispaccio da Napoleone III spedito a Francesco II-«vite, beaucoup, bonne fois!»- Sicché il Re lealmente stimando, che la proclamazione della Carta potesse vincere le trame della rivoluzione, si risolvette nel 25 Giugno ad emanare il seguente atto Sovrano.

«Desiderando di dare a 'Nostri amatissimi sudditi un attentato della Nostra Sovrana benevolenza, ci siamo determinati di concedere gli ordini costituzionali e rappresentativi nel Regno, in armonia co' principii italiani e nazionali in modo da garentire la sicurezza e prosperità in avvenire, e da stringere sempre più i legami che ci uniscono a' popoli che la Provvidenza ci ha chiamati a governare.

A quest'oggetto siamo venuti nelle seguenti determinazioni:

1. Accordiamo una generale amnistia per tutti reali politici fino a questo giorno.

2. Abbiamo incaricato il Commendatore D. Antonio Spinelli della formazione d'un nuovo Ministero, il quale compilerà nel più breve termine possibile gli articoli dello Statuto sulla base delle istituzioni rappresentative italiane e nazionali.

3.

Sarà stabilito con S. M. il Re di Sardegna un accordo per gl''interessi comuni delle due Corone in Italia.

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4.

La Nostra bandiera sarà d'ora innanzi fregiata de' colori Nazionali Italiani in tre fasce verticali, conservando sempre nel mezzo le Armi della Nostra Dinastia.

5.

In quanto alla Sicilia, accorderemo analoghe istituzioni rappresentative, che possano soddisfare i bisogni dell'Isola; ed uno de' Principi della Nostra Real Casa ne sarà il nostro Viceré.»

6.

Portici 25 giugno 1860.

Francesco.

Fu costituito un novello ministero sotto la presidenza del Commendatore Spinelli, e nel 1° luglio fu promulgato il Decreto col quale venne richiamata in vigore la Costituzione del 10 Febbraio 1848 data da Ferdinando 2°.

Quest'atto Sovrano apri le porte a tutti gli emigrati, la maggior parte componenti la Società Nazionale di Torino. Essi tornavano anelanti di vendetta; speranzosi di appagar le loro funeste ambizioni; certi di rifarsi, tenendo le più alte cariche dello Stato, delle privazioni sofferte nel dodicennio di emigrazione. Essi, appena giunti, informatisi personalmente dello stato delle cose, crederono non essere giunto il momento di insorgere; perlocchè, non tralasciando di preparare le fila della rivoluzione, pubblicarono il seguente proclama.

Il Comitato centrale di Napoli ai cittadini Napolitani.

Sui desideri espressici da molti uomini generosi di questa Città, di insorgere immanenti armata mano ad imitazione del nostri fratelli di Sicilia:

Considerando che questo generoso desiderio è nel momento attuale prematuro, menerebbe a troppo grande effusione di sangue, turberebbe il regolare andamento del fatti, il cui coordinamento e successivo sviluppo è stato da noi regolato e disposto, e perciò lungi dal favorire ritarderebbe il trionfo definitivo e completo della grande causa Italiana:

Provvediamo:

1.

Fino a nostro novello editto, la massima quiete dovrà regnare in questa Metropoli.

2.

Sarà serbato severo e decoroso contegno, ed evitata studiosamente ogni collisione cogli agenti del governo.

3. Qualunque apparente concessione, strappata dalla urgenza del tempi ed intesa a ritardare la piena ed intera attuazione dell'idea nazionale, sarà accolta con disprezzo.

Nel contempo a Prefetto della Città di Napoli (carica che equivaleva a quella di Questore) fu eletto l'Avv. Liborio Romano, colui che fu cieco strumento delle volontà della Società Nazionale.

Non sarà discaro un cenno sulla vita di questa sfinge politica, egualmente detestata poi dai legittimisti, dai costituzionali, dagli unitari e dai repubblicani.

Liborio Romano nacque di Alessandro e di Giulia del Baroni Maglietta nel 1793 in Patu (Provincia di Lecce). Studiò giurisprudenza sotto i chiarissimi Pasquale Borrelli e Barone Parrilli. D'ingegno svegliatissimo, a 22 anni ottenne per pubblico concorso il posto di Sostituto alla cattedra di diritto commerciale. Immischiatosi nelle vicende del 1820, e segnato come uno del più caldi rivoltuosi, a sfuggire la persecuzione della polizia, tennesi celato per bene due anni; dopo il qual tempo ebbe domicilio forzoso a Lecce, ove fino al 1827 esercitò con molto grido l'avvocatura. Nell'anno di poi recatosi in Trani, residenza di Tribunali, e venuto in sospetto alla polizia, fu condotto a Napoli e detenuto per pochi giorni a S. Maria Apparente; e dopo gli fu permesso restare nella Capitale. Nella quistione degli Zolfi tra il governo di Napoli e l'Inghilterra, egli prese le difese di questa, facendo all'estero pubblicare il corrispettivo Memoriale. Datosi allo studio dottrinale della giurisprudenza, pubblicò le annotazioni al Diritto commerciale di Delvincourt, opera che gli fè meritare il plauso del più valenti giureconsulti d'Europa.

Eletto deputato al Parlamento Napolitano del 1848, e parteggiando con coloro che spingevansi fino alla Costituente, fu nel 1850 imprigionato, e poi esiliato si ritirò a Parigi. Dopo quasi un anno, fatta petizione al Governo, ebbe condono, e ripatriò nel 53.

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Dopo le vicende del 1848, a Napoli non ebbe vita, che un solo comitato; il monarchico costituzionale. Nel 54 fu fondato quello dell'Associazione unitaria, ossia il Mazziniano; nel 56 l'annessionista piemontese.

Liborio Romano fu scelto per capo dal primo e dall'ultimo; ed egli accettò la presidenza del monarchico costituzionale, di cui facevan parte tutti i suoi amici; ma non si distaccò dall'altro, che vagheggiava l'idea di unità Nazionale. Egli, fino a che visse Ferdinando 2°, fu cauto per non dare occasione alla polizia di mettergli sopra le mani; ma quegli morto, cominciò a dichiararsi apertamente rivoluzionario; e senza scontentare o scomunarsi dai costituzionali e dagli annessionisti, si pose all'opera per riunirli nel principio d'azione. Il partito mazziniano non dispregiò, anzi tenne caro, come il più audace e pronto nell'operare; e di questo si valse per afforzare gli annessionisti, come veramente avvenne.

Fu allora stabilito il Comitato d'ordine, di cui il Romano fece parte. Entrata in grandi sospetti la polizia, di cui si beffava un giornale clandestino intitolato Corriere di Napoli; egli sarebbe stato di bel nuovo arrestato, o almeno esiliato, se non si fosse sventuratamente frapposto a guarentirlo il fratello di Re Ferdinando, D. Luigi Conte di Aquila. E Liborio Romano si diede allora a maggiormente congiurare, ed a tenersi in relazione con gli emigrati di Torino.

Proclamala la Costituzione del 25 giugno, il Conte di Aquila, ricordatosi di lui, lo fece invitare pel portafoglio di Grazia e Giustizia: ma siccome allora egli avrebbe dovuto, almeno in apparenza, spiegare una politica tutt'affatto contraria alle opinioni del Comitato, di cui facea parte, non volle accettare: ma non rifiutò la carica di Prefetto di Polizia, che lo metteva nella felice portata di celare legalmente il crescente lavorio delle selle, per avversare quanto dal nuovo Ministero si sarebbe disposto a sostegno della monarchia. Assunta la carica, diede fuori il seguente proclama.

«Cittadini

«Nella pienezza degli affetti in me destati per l'alta e difficile mis

io espressi, come il cuore dettava, e con la più grande esitazione, i sensi che voi leggeste nella mia precedente ordinanza.

«Confortato ora dal contegno dignitoso e tranquillo, con che avete tutti corrisposto alle mie esortazioni, debbo rendervene le più distinte grazie, confidando io interamente che vorrete continuarmi la cooperazione potente della vostra civile temperanza.

«E perché possa la vostra fiducia nel novello ordine di cose adagiarsi tranquillamente sulla operosità del Governo nell'attuarlo, debbo con letizia annunziarvi, che la Costituzione a noi promessa dall'alto sovrano del 25 di questo mese, sarà quella stessa del 1848 ed a momenti richiamala in vigore.

«Continuate, cittadini, a giovarmi dell'opera vostra, onde nella calma del consigli si altrui celermente l'alto sublime, il quale eleverà a vera grandezza la patria comune, l'Augusto Nostro Monarca ed il nome napoletano»

Il Prefetto - Liborio Romano

La politica nefasta di Liborio Romano cominciò a produrre gli effetti sperati. Proclami d'ogni specie eran pubblicali, e la polizia taceva. All'armata di terra e di mare, che ancor tentennava, si rivolgevano tutti gli sforzi della setta. Alcuni Ufficiali disertori aveano l'incarico di continuamente inondare l'armata di lettere suggestive per decidere i soldati a mutar bandiera. È notevole, tra le altre, quella scritta da un Biagio De Benedictis ex - tenente del Genio; poiché fu il primo a dichiararsi soldato non di Garibaldi, ma di Vittorio Emanuele Re d'Italia.

Un altro proclama fu diretto all'armata di mare, vile per quanto turpe, avvegnacchè dimostrasse la necessità della diserzione su di una calunnia, qual'era quella, che il Re di Napoli avea deliberato di consegnare la sua squadra all'Austria!-Non si tralasciava insomma mezzo intentato; e la menzogna, che il Conte di Cavour avea stabilita come domma e base della sua politica, fu per i comitati l'arma più efficace nelle loro arti. Ecco il proclama.

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SOLDATI E UFFIZIALI DELLA MARINA NAPOLETANA.

«Un principe, alla testa di un esercito di 90000 soldati, padrone d'un forte naviglio, in tre mesi è ridotto ad uscire del regno. Perché? perché tutta Italia Io voleva Italiano, ed egli volte serbarsi ostinatamente austriaco. Questo principe abbandona un paese che poteva, e non seppe difendere: e nel tempo stesso, che s'apparecchia a congedare e a prosciogliere dal giuramento l'esercito, prepara all'Italia il più infame e codardo tradimento, la consegna della flotta napolitana all'Austria.

«Proconsolo austriaco in vita, per testamento in punto di morte le cede la flotta, come se fosse retaggio privato. A questo infame tradimento voi siete chiamati per complici: guardatevene: fatti una volta traditori della patria, cesserete di essere italiani; diverrete tedeschi; e dagli stessi tedeschi sarete tenuti a vile, perché i traditori della patria sono in tutti i paesi del mondo spregiati.

«Soldati e uffiziali! In questo momento voi siete napoletani: è in vostra facoltà di scegliere tra la vergogna di tradire e rinnegare la patria o la gloria di servirla e di difenderla: in voi sta di farvi tedeschi o italiani. - Tedeschi, vivrete lungi dalla patria nelle miserie dell'esilio, lacerati da' rimorsi de' traditori, abbandonali da quelli stessi che vi spingono al tradimento, abborriti e maledetti dagli amici e da' congiunti: italiani, conserverete i vostri gradi, sarete ricevuti da fratelli nella flotta italiana, diventerete soldati di una grande Nazione, potrete vantarvi di esservi cooperati alla costituzione dell'Italia unita sotto il più leale del principi, e avrete la soddisfazione di poterlo un giorno raccontare a' vostri nipoti. Soldati e uffiziali! voi siete tra i cieli e gli abissi; fra l'Italia e l'Austria. Scegliete.»

Da per tutto si presentiva, come grandi fatti stassero per avvenire; il timore e la titubanza invadevano comitati e popolazioni. Sopra ogni altro miravasi a scemare l'influenza del partito legittimista - costituzionale, che potentissimi appoggi avea nel popolo, nell'aristocrazia e nel Clero; sicchè in buona parte dell'armata non si ardiva ancora par

che conosceva al fondo Napoli e l'indole del popolo, era il solo uomo che poteva compiere la rivoluzione. Egli avea fatto della Prefettura di polizia il centro e il convegno di tutti gli ardimentosi del paese (1); mentre con quanta più cautela potesse, tenea abboccamenti con l'Ammiraglio Persano e con Alessandro Dumas, uno del più interessati sostenitori ed emissari della rivoluzione.

Doveasi sopratutto provvedere a spezzare le fila, che forti stringevansi dai legittimisti per rafforzare la cadente Monarchia; il Romano vi pensò. Distrusse ogni elemento della vecchia polizia, ed una nuova ne costituì con individui a lui perfettamente devoti, e noti per idee unitarie; non esitò a servirsi anche dei cammorristi, ai quali diè una specie di potere, che produsse quelle violenti scene di cui fummo testimoni (2).

In tale stato di cose, il Ministero Spinelli ebbe elementi più simpatici: Pianelli fu assunto al Ministero della guerra, e Liborio Romano all'Interno -: il comitato unitario poteva esser contento.

Intanto circondato il trono da uomini, che doveano essere il suo sostegno ed erano coloro che lo demolivano a colpo sicuro, si aprirono col Piemonte le pratiche diplomatiche; e a seconda del consigli dati dall'Imperatore del Francesi, furono spediti a Torino i sigg. Giovanni Manna, e Barone Winspeare per intavolare con quel Gabinetto trattative di una confederazione italiana, già convenuta a Zurigo.

Cavour, che avrebbe dovuto accogliere con garbo le proposte, almeno per seguire il suo sistema di politica, fu invece, anzi fuor del solito, riottoso; e se apertamente non diniegossi ad aprir trattative, pose innanzi tali ostacoli da far ben comprendere che fosse risoluto a respingerle. In fatti rispose agli inviati: che il governo di Napoli non polea dare garenzie, se non dopo convocato il Parlamento; quindi esser d'uopo convocarlo per la guarantia politica del popoli che doveano stringere vincoli di federazione -

(1) Lazzaro - Vita di Liborio Romano pai] 'il.

(2) Loc. cit. pag. 39.

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Ed invitato a pronunciarsi sulla invasione di Garibaldi, ripeté non avervi parte alcuna il Governo di Piemonte; ad avvalorare l'asserzione promise che un documento diplomatico sarebbe stato pubblicalo.

La Gazzetta Ufficiale di Torino pubblicò infatti la seguente lettera di Re Vittorio Emanuele a Garibaldi -

«Generale - Voi sapete, che non ho mai approvato la vostra spedizione, ed anzi mi sono sempre tenuto estraneo ad essa. Ma oggi a la difficile posizione in cui trovasi l'Italia,, mi fa un dovere di mettermi in diretta relazione con Voi.

«Qualora il Re di Napoli acconsentisse al compiuto sgombro della Sicilia; volontariamente rinunciasse a qualunque influenza su di essa, e personalmente si obbligasse a non esercitare alcuna pressione sui Siciliani, tanto che essi fossero perfettamente liberi di eleggersi il governo che loro tornasse più gradito; in questo caso, io credo, sarebbe per noi il più saggio partito di astenerci da ogni ulteriore tentativo contro Napoli.

«Se voi siete di opposto parere, io mi riservo espressamente l'intiera libertà d'azione, e mi astengo dal farvi qualsiasi altra osservazione intorno ai vostri disegni».

Dopo questa lettera, bastantemente esplicita ed autorevole, dovea parere ad ognuno, che Garibaldi avesse dovuto rinunciare ad ogni intrapresa contro il continente Napolitano.

Qualche scrittore, commentando l'anormale disobbedienza di Garibaldi ad ordini cosi perentori del Re, ha fatto ricorso alla solita politica cormentale, mostrando nel condottiero dell'insurrezione l'uomo, che avendo in sé incarnala l'idea dell'Italia una, non volte dare ascolto a consigli, e si mise al pericolo di essere battuto non solo dai napolitani, ma anche dai piemontesi!!!-Necessariamente la facilissima e comica entrata di Garibaldi a Napoli dovea essere preceduta dalla commedia di vittorie e di trionfi nelle Calabrie!

La Storia tien conto di questa colluvie di romanzi, come di libri ispirati da settari, ed affidandosi a documenti incontenstabili scrive,

che Garibaldi non era che il braccio del Conte di Cavour; e però non dee recare maraviglia, se egli al Re rispose con la seguente lettera.

«Sire - A Vostra Maestà è nota l'alta stima e l'amore che vi por«lo. Ma la presente condizione di cose in Italia non mi concede di obbedirvi, come sarebbe mio desiderio. Chiamato dai popoli, mi astenni fino a che mi fu possibile. Ma se ora, non ostante tutte le chiamale che mi vengono, io indugiassi, mancherei ai miei doveri, e metterei in pericolo la santa causa dell'indipendenza d'Italia.

«Permettete quindi, o Sire, che questa volta io vi disobbedisca. Appena avrò adempiuto al mio assunto, liberando i popoli da un giogo abborrito, deporrò la mia spada ai vostri piedi, e vi obbedirò sino alla fine del miei giorni.»

Garibaldi

Oggi che son compiuti gli avvenimenti, alziamo il velo, che covriva i misteri del Gabinetto del Conte di Cavour.

Il Ministro Piemontese, sicuro appieno della Sicilia, voleva ad ogni costo, che la prova si tentasse anche sul continente, essendo molto ghiotta l'idea d'impossessarsi di quel regno, che era l'unico ostacolo al compimento delle vaste ambizioni del Conte. Benché difficile vedesse l'opera dell'annessione, pure noi pareagli improbabile, stando alle assicurazioni che gli veniano dai diversi comitati napolitani.

A tal fine scriveva all'Ammiraglio Persano: e.... Può assicurare il «Generale Garibaldi, che non meno di lui son deciso e compiere la grande impresa: ma che per riuscirvi, è indispensabile l'operare di concerto, adoperando tuttavia modi diversi.»

E in altra lettera diretta allo stesso, quando ebbe contezza dell'uscita delle truppe regie da Messina, scriveva:

«.... Dopo sì splendida vittoria, io non vedo come gli si potrebbe impedire di passare sul continente. Sarebbe stato meglio, che i Napolitani compissero od almeno iniziassero l'opera rigeneratrice, ma poiché non vogliono, e non possono muoversi, si LASCI FARE A

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La bandiera nazionale inalberata in Sicilia deve risalire il Regno; deve estendersi lungo le coste dell'Adriatico, finché ricopra la regina di quel mare.

«Si prepari dunque a piantarla con le proprie mani, caro ammiraglio, sui bastioni di Malamocco e di S. Marco....»

Cavour

Questi documenti constatano sempreppiù, a testimonianza dello stesso Cavour, che i Napolitani non voleano, e non poteano muoversi; ma s'incaricarono di rappresentarli, in Italia ed all'estero, il Gabinetto del Conte, Garibaldi, e i comitati. E questi specialmente, che lavoravano alacremente a superare le difficoltà, che incontravano nella maggioranza del partito legittimista costituzionale. il quale si adoperava a paralizzare gli sforzi della rivolta.

Penosissima impressione avea fatta la diserzione di Amilcare Anguissola, e l'indisciplina che s'insinuava nella squadra navale: massime dopo la tristissima condotta del comandanti militari in Sicilia; e cominciava a diventare eminentemente grave lo allontanarsi dal Re degli uomini che erano i più beneficali dalla Famiglia Reale; gli uomini, che ebbero potere illimitato.

Il Brigadiere d'Agostino, Generale Ispettore di Artiglieria, fodelissimo a Ferdinando 2°, allietato dai favori più insigni della Corte, si ritirava in momenti difficili. Chi non rammenta il Gen. Alessandro Nunziante, uno dei più splendidamante favoriti, su cui cadde piova abbondante di decorazioni, e di grandi ricchezze; egli, il più onnipotente cortigiano, il confidente di Ferdinando? Ebbene la sua turpe diserzione non poteva non destare nel mondo civile e politico il più profondo disprezzo.

Alessandro Nunziante diede le sue dimissioni; il Re non le accettò, ed invece gli accordò ritiro e permesso di recarsi all'estero: ma di rimando a tanta cortesia egli restituì le sue decorazioni, e la Duchessa di Mignano sua moglie il brevetto di Dama di Corte.

Ecco i due documenti relativi.

«Al Signor Ministro Presidente

«Non posso più portare sul mio petto le decorazioni di un Governo, il quale confonde gli uomini onesti, retti e leali, con quelli che meritano soltanto disprezzo. Io ho dimandato la dimissione e non il ritiro, e però non accettando questo, ed insistendo sulla prima mia inchiesta, le restituisco i diplomi del varii ordini a me conferiti, pregandola ad accusarmene ricevuta.»

Napoli 22 luglio 1860.

ALESSANDRO NUNZIANTE.

A S. Maestà

SIRE - Il posto di Dama di Corte non mi appartiene: e però restituisco a a V. M. il brevetto di nomina.

DUCHESSA DI MIGNANO.

Uno scrittore contemporaneo di principii ultra - esaltati. giunto a tal punto non poté frenarsi dal dire (1):

«Anche molti che avevano dalla Corte ricevuti immensi benefizi, l'abbandonavano in quei momenti supremi. Ciò è triste, è deplorevole, imperocchè non è più il soldato che spezza la spada, rifiutando di adoperarla contro i suoi concittadini: ma l'amico che volge le spalle all'amico, che lo ha colmato di carezze e di favori»

Nunziante partì recandosi a Berna, e di la a Torino, dove chiamato dal Conte di Cavour, e tenutovi abboccamento, fece segretamente ritorno a Napoli sulla fregata Sarda l'Adelaide a fine di completare la dissoluzione dell'esercito: ma temendo d'esser scoverto, rifuggissi a bordo della Costituzione, di dove emanava proclami. Eccone uno diretto alle truppe napolitano, datato dall'Italia settentrionale.

«Commilitoni!

«Poco fa, nel dare addio ad una parte di voi, io vi esortai a mostrarvi sempre soldati, non meno valorosi verso i nemici d'Italia, che generosi verso gl'inermi, ed a dare nobilissime pruove di questa vera virtù militare nella nuova via di gloria che la Provvidenza destinava a tutt'i figliuoli della gran patria comune.

(1) Romano - Manebrini - Docum. sulla Rivoluzione di Napoli pag. 48.

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«Il momento di attuare queste mie esortazioni è oramai giunto!

«Separato da voi, crebbe ancora più in mo il pensiero della vostra prosperità, del vostro onore, della vostra gloria. Ed avendo studiato le condizioni di tutta Italia e di Europa, mi sono profondamente convinto, clic per voi e per tutta questa bella parte d'Italia, non vi è altra salvezza, se non quella di appartenere alla intera famiglia italiana, sotto lo scettro glorioso di VITTORIO EMANUELE, quell'ammirabile Monarca, che l'eroico GARIBALDI venne non ha guari ad annunziare in Sicilia, e che fu evidentemente eletto da Dio, nei suoi fini imperscrutabili, a costituire in gran Nazione la nostra gran patria comune, sin ora così indegnamente spogliata ed assassinata.

«Questo pensiero mi ricondurrà irresistibilmente tra voi, risoluto di operare fraternamente con Vol. e con voi compiere il santo mandato, di cui dobbiamo sentirci tutti investiti dalle supreme necessità di patria.

«Finché la Provvidenza ha tollerata la Italia divisa, io ho saputo essere il più costante verso la causa che mi trovava di avere abbracciata. Ma quando la mano visibile di Dio intende onnipotentemente a riunirla, chiunque non ne segue lo impulso, è traditore della patria.

«Questa santa verità si fa strada da sé nelle vostre coscienze; e, nella compressione in cui vi trovalo, vi trascina alla diserzione spicciolala.

«Non seguite questa via, poiché ella è funestissima alla patria!

«Il Re VITTORIO EMANUELE. in cui l'ITALIA s'incarna, ha bisogno di avervi tutti intatti e disciplinati, per valersi del vostro fortissimo braccio a debellare quello straniero che fu lo nemico eterno di ogni nostra felicità».

«Italia settentrionale, Agosto 1860.

ALESSANDRO NUNZIANTE.

«Siccome sempre suoi avvenire, scrivo, sul proposito un (storiografo di quest'epoca. in tempi in che le politiche commozioni si trasfondono nel mondo morale,

l'armata, nel suo esempio, provò uno scoraggiamento profondo, e da quel punto i militari sentirono le tristezze della disperazione politica. Il materialismo politico è alla Società ciò che l'ateismo è alla religione...... (1)»

Queste poteansi dire formati vittorie della rivoluzione, ancora inabilitata pel contegno delle truppe. Ma che cosa non puote la corruzione, e l'ostinazione politica a non retrocedere? In ciò i rivoltuosi erano logici. Il loro fine era di dare l'Italia al Piemonte; quindi qualunque mezzo che là conducevali, non tralasciarono intentato: e gli emigrati Napolitani, che n'ebber tutto il vanto, sia in Napoli, sia a Torino, sia a Firenze, instancabili si affaticarono a raggiungere il loro scopo.

Nel Parlamento Subalpino, discutendosi sul progetto di confederazione chiesta dal Re di Napoli al Piemonte, i Deputati Mancini e Poerio vi si scagliarono contro con quella potenza che sviluppasi da un odio inveterato, da una bramosia di vendicarsi. «Non vogliate permettere, diceva il Mancini, che il governo di Napoli si dichiari l'amico di Vittorio Emanuele. Questo solo offuscherebbe la gloria del più bel nome che splende in Italia» e Poerio seguiva:

«Non c'è cosa al mondo più forte dell'istinto della propria conservazione. Ciò mi fa comprendere come il governo di Napoli, iniquamente e codardamente operando, cangi ora la politica, chiegga rifugio presso questo governo e ne voglia l'assistenza. Ma ogni alleanza dee mettere avanti le sue condizioni. Quali sono quelle del governo di Napoli? Il tradimento e lo spergiuro (Scoppio di applausi).

«Il governo di Napoli vuol conquistar la Sicilia, ed è perciò che s'infinge (bravo). Ma il governo del re non può stendere la mano al governo più fedifrago della terra (bene). Il Borbone di Napoli è il nemico più dichiarato dell'Italia, egli ha le tradizioni in casa sua dello spergiuro, e si prepara oggi a giurare per poter poscia spergiurare.

(1) Ulloa. Lettere Napolitane pag. 24.

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 391

«Membro di questo Parlamento, nucleo dell'Italia futura, voglio dar col mio voto piena fiducia al governo, sicuro che il prestito a cui lo autorizziamo, oli servirà perii bene della nazione (applausi vivissimi)».

Consentaneamente a queste opinioni che riscuotevano gli applausi del Parlamento Subalpino, l'Avvocato Luigi Settembrini pubblicava uno scritto intitolato - Di ciò che hanno a fare i Napolitani - per sempreppiù spargere nelle popolazioni la sfiducia contro il Governo, e prepararle all'annessione col Piemonte. Crediamo necessario di riportarlo per intero.

DI CIO' CHE HANNO A FARE I NAPOLETANI

«Gravi fatti sono stati in Napoli, e più gravi ancora ce ne saranno: onde io sento il dovere di dire a' miei cittadini la mia opinione schietta e senza riguardi.

«Re Francesco ha fatto come il castoro; vedendosi alle strette, ha messo fuori una carta di Costituzione: ma i Napoletani non se ne sono curati e non gli credono, e hanno fatto benissimo. Tra Borboni ed Italiani non v'ha patti, non v'ha condizioni possibili. Essi furono, sono e saranno perpetui nemici d'Italia: le loro promesse sono insidie: offrirebbero anche repubblica, e pregherebbero di rimanere privali cittadini. Gettate loro in faccia ogni concessione, e dite alto: Noi vogliamo Italia una, e Re d'Italia Vittorio Emanuele. Schiatta di lazzeri reali, schiatta codarda e bugiarda, sprezzata e condannata da tutta Europa, vergogna di re, flagello d'un popolo, credono e dicono, che Dio li ha fatti padroni di nove milioni di uomini, e sono sì ignobili che io non li vorrei neppure per servitori. Non Costituzione, non promesse, non giuramenti, non alleanze, non concessioni, niente è da accettare da essi. Vadano via, e tutti, grandi e piccoli, maschi è femmine, quanti hanno nome Borboni. Avete regnalo abbastanza; via bombardatori de' popoli; via, carnefici, che non avete dignità di principi, non avete fede di galantuomini, non avete senso ed umanità di uomini. Quella mano che ieri ha bombardato Palermo, oggi scrive la Costituzione, domani toccherà il Vangelo per giurare?

Oh! avete spergiurato abbastanza; i bugiardi non sono più creduli. Siete caduti troppo basso: anche per onore di re non potete più regnare.

«Intanto che fare ora? Voi di dentro seguitale nel magnanimo disprezzo, non fate atto alcuno che dimostri approvazione a questa insidia che si chiama Costituzione, e non istate a udire parole di eunuchi liberali che vi consigliano contentarvi. Se siete chiamali ai collegi elettorali, non v'andate, perché se anche mi nominiate deputato, io non accetterei, non riconoscendo altro governo legittimo in Italia che quello di Vittorio Emanuele. Ogni atto che voi fate d'approvazione al Borbone, è tradimento all'Italia. Intanto se vi da le armi, e voi pigliatele - , se v'è stampa libera, e voi scrivete e dite coraggiosamente che s'ha a fare Italia una; se potete riunirvi, e voi riunitevi: pigliate insomma ogni arma che essi vi danno, per rivolgerla contro di essi: e se non potete altro, state saldi nel vostro contegno, abbiate il coraggio d'astenervi, ed aspettale poco altro tempo. Il Garibaldi ha giurato di tornare per terra a Torino, e condurre a Re Vittorio un esercito d'Italiani di tutte le province. E Dio protegga il Garibaldi. perché è l'eroe d'Italia. Quando udrete che Garibaldi viene di Sicilia, pigliate le anni e seguitarlo, ed egli vi dirà quello che avete a fare.

«E quelli che son fuori? Tutti vorrebbero accordarsi in un consiglio comune, e decidere se tornare, o se rimanere. Io per me credo c«questo accordo generale sia impossibile. Chi può dare un consiglio a tanti esuli? Dopo dodici anni d'esilio, di miseria, di fame, di dolori di ogni specie, si apre finalmente una porta per tornare a rivedere la cara patria e i parenti e figliuoli, e le madri, ed ogni persona diletta: chi può dire a chi ha tanto sofferto e soffre ancora: Non tornare, e soffri un altro poco: chi torna, accetta in parte quello che il popolo con lauto senno ha rifiutato? Chi può dire: va ed opera, se la Polizia, i Borboni, e i loro cagnoni possono costituzionalmente incarcerare, e scannare chiunque loro capila nelle unghie? Non è solamente quistione ancora di doveri e di affetti privati, che sono anche sacri.

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Però consiglio non bisogna chiederne né darne: ognuno faccia quello

Chi crede di poter meglio operare lì, vada ed operi: chi no, no: chi poi vuoi sapere la via più breve e più bella, vada in Sicilia dal Garibaldi.

«Io ho fede ed aspetto, che gli Italiani con la spada e la fortuna di Garibaldi cacceranno via i Borboni. mandate via questi, e caduta in fascio quella sozza ladronaia del loro governo, chi piglierà a reggere le cose pubbliche, chi riordinare il governo civile, chi frenare i pessimi che desiderano la cuccagna borbonica, ed i pessimi abusano della libertà a strazio, e sono i più pericolosi, e carcerabili da ogni governo? Ci vuole un uomo che abbia autorità dittatoria ed animo saldo, che non si lasci trasportare da odii o da affezioni particolari e paesane, che regoli imperturbato l'indirizzo politico; che voglia sopra tulio e ad ogni costo l'unità d'Italia e Re Vittorio; che non discuta ma si faccia ubbidire; che sappia fare quello che per bene ei fa, e che per vincere le invidie e le gelosie municipali non sia nato napoletano. Fra quei di dentro e quei di fuori, io conosco e pregio ed amo molti uomini intemerati per virtù, ed onorandi per senno e per sapere; ma (lo dico schietto, e nessuno se l'abbia a male) nessuno mi sembra capace di pigliare a tenere questo potere dittatorio, di vincere l'invidia, e di farsi ubbidire. Un uomo è in Italia, il quale ha fatto questo e l'ha fatto bene, e in paese che per indole degli abitatori e per l'oppressura clericale trovavasi in condizione molto simile alla nostra. E già tutti intendono che quest'unus homo, provato di fede, di animo saldo, e di pratica nel governo del Due Ducati e di Romagna, è il Farini. Il Farini solo, per quanto a me pare, può assumere tanta impresa: ed egli deve, senza addurre alcuna scusa, deve salvare quel paese dall'anarchia, da quell'anarchia che i Borboni ci voglion lasciare dopo le bombe. Il Farini dittatore governerebbe l'alta politica: uomini nostri, noti per fermezza di animo, onestà e sapere, le faccende interne dello Stato. E tutto questo fino al giorno in cui dovremo vedere nella bella e popolosa Napoli l'onesta faccia del Re galantuomo.

Oh, io l'attendo quel giorno, e allora dirò: Nunc dimittis servum tuum, Domine, quoniam (sic) viderunt oculi mei salutare tuum.

«Quei di dentro e quei di fuori adunque sieno d'accordo in questo: dicano, stampino, ripetano per tutto il mondo, che sarà necessario un dittatore, e questi non potrà essere che il Farini. E specialmente tra gli esuli gli uomini di maggiore autorità dicano questo, facciano alla patria questo sacrifizio d'un po' di amor proprio. Diciamo da ora tutti: Farini, Farini; e quando sarà il tempo, chiameremo l'egregio uomo, e lo pregheremo.

«Questa è la mia opinione. La dico e la pubblico a scarico della mia coscienza e affinché tutto il mondo lo sappia. Chi ha di meglio, dica pure: ed io sono pronto a seguire il meglio. Ma via i Borboni, Italia una, e re d'Italia Vittorio Emanuele: questo è il fine unico e supremo. Uniamoci e adoperiamoci tutti a conseguire questo fine con tutti i mezzi più efficaci».

LUIGI SETTEMBRINI.

Però i monarchici non requiavano. Ben vedevano essi come la rivoluzione tendesse a rovesciare la Dinastia, e che i Ministri Romano e Pianelli vi tenessero bordone; quindi cercarono di organizzarsi a resistenza lenendo a capo e guida S. A. R. il Conte di Aquila. Diressero al Re un memorandum col quale lo avvertivano del tradimento del ministero; che molti stranieri cospiravano nel regno; che numerosi depositi d'armi esistessero; che la polizia fosse caduta nelle mani del rivoltuosi.

Non poca maraviglia arreca su tal punto l'udire da alcuni scrittori, che han creduto a lor modo trattare la narrazione di quei tempi, scagliare diverse ed incoerenti accuse contro il Conte di Aquila per salvare Liborio Romano dal misfatto di complicità nella caduta del Trono di Napoli. È d'uopo narrarle, perché se ne rilevino le inesattezze, e non si tolga alla narrazione il pregio della verità.

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 395

Dicono, che i Conti di Siracusa e di Aquila, Zii del Re, fossero insieme al Nunziante intesi col governo di Torino per la caduta di Francesco 2.°, destinandosi ad uno di essi Principi la vice - reggenza di Napoli (1). Che il Conte di Siracusa avesse estrinsecati sentimenti non favorevoli al Re, non è a niegare; ma volersi accusare il Conte d'Aquila senza addurre pruove, che in avvenimenti siffatti dovrebbero essere eminenti, ne sembra assurdo. Liborio Romano, che dapprima godeva la fiducia di questo Principe. ne cadde subitamente in sospetto. Il Conte d'Aquila vide tutto il pericolo, che correva la Dinastia, ed avvisò un rimedio, che se fosse stato tradotto in atto, avrebbe strozzata la rivoluzione, ad onta del suoi progressi giganteschi, rendendo all'armata la fede abusata ed il tradito coraggio. Egli propose al Re un nuovo Ministero presieduto dal Principe d'Ischitella, il cui programma era la sospensione della Costituzione sino a che l'ordine sconvolto dall'invasione rivoltuosa non fosse stato ripristinato; l'allontanamento da Napoli di tutti gli esteri, che non avessero potuto dare una valida garentia; l'ingiunzione agli emigrati, entrati nel regno per cospirare, di uscirne immediatamente, e proibizione di rimpatrio agli emigrati ancora assenti. Infine dimandò. l'arresto di Liborio Romano, del Generale Pianelli e del Commendatore Spinelli, ministri convinti di tradimento. Questa energica proposta del Conte d'Aquila, che dovea essere circondata dal più profondo mistero, e che dovea avere un esecuzione istantanea, sventuratamente fu nella notte stessa del 11 agosto, rivelata al Romano, che tremò nel vedere questo principe mettersi a capo del monarchici! Egli seppe che il Re avea ordinato di spedire commissari straordinari nelle province, per indagare quali fossero i desideri ed i bisogni del popoli; per cui telegrafò ai comitati ordinandone l'arresto. (2) Liborio Romano ricorda nomi e fatti.

(1) Rustow. loc. cit. pag. 210.

(2)

Tra i Commissarii straordinarii, con pieni poteri spediti per ordine del Re, fu l'Avvocato Salvatore Cognetti Giampaolo, mio fratello, Direttore del coraggioso e perseguitato giornale politico il Conciliatore. Costa da un processo penale per cospirazione contro lo Stato, espletato a danno del detto mio fratello nel 1866, quando fu gittato nelle carceri di Castel Capuano - processo

Vide che le truppe stanziate a Napoli, specialmente i cacciatori ed i bersaglieri di Barbalonga, erano decisi a qualunque resistenza; laonde necessitavagli un buon colpo di mano, e spezzare così tutte le fila del monarchici, arrestandone i capi.

Giustificò tale misura con dirla precauzione per infrenare il partito, a cui dava nome di reazione; e presentatosi al Consiglio di Stato, accusando il Conte di Aquila, come movente della reazione contro gli ordinamenti dello Stato, ne propose l'esilio immediato. Il Re fu obbligato a decretarlo, ma con qual cuore lo dice la seguente lettera che diresse allo Zio.

«Mio carissimo Zio,

«Nel momento in cui vi disponete a lasciare il nostro suolo natale. io non posso passarmi dallo indirizzarvi queste due linee per darvi con tutta l'effusione, che voi conoscete, un addio.

«Son persuaso, che accetterete queste dichiarazioni, le quali emanano dal fondo del mio cuore. A nome della nostra affezione vi chiedo, che mi diate spesso vostre notizie, e siate convinto che le riceverò sempre con gioia: quale che sia il luogo, dove io mi trovi, non vi dimenticherò giammai.

«Fo dei voti, perché il vostro viaggio e la vostra futura dimora vi siano i più favorevoli possibili, come alla mia zia, cui voi farete i miei più affettuosi complimenti, ed ai miei cugini, vostri figli, che stringo al mio cuore.

«Vi prego di accordarmi la continuazione del vostro antico affetto, ed in qualsiasi luogo voi potrete essere, vigliale contare sui miei sentimenti costanti.

che abortì con la dichiarazione d'innocenza dell'imputato - che il Romano, tosto che il Cogneti parti per le tre Calabrie, ove il Re lo destinò Commissario straordinario, ne fece subito avviso a quei comitati, ed ivi egli miracolosamente scampò il pericolo di essere fucilato prima a Cosenza e poi a Spezzano Albanese, ove i rivoltuosi lo condussero prigioniero. Di questo fatto, giuridicamente entralo negli avvenimenti della Storia della rivoluzione, il Cognetti ha pubblicalo i dettagli nel suo libro Le memorie del miei tempi.

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 397

Adempiendo ai doveri di un nipote verso suo zio, vi do con tutto cuore il mio addio, e mi sottoscrivo.

Napoli 18 agosto 1860.

Il vostro affezionato nipote

Francesco

Mentre tali avvenimenti rapidamente succedeansi in Napoli, la rivoluzione di Sicilia minacciava già i suoi tristi effetti per la divisione in cui si trovavano i partiti.

Due erano stati i moventi della rivolta, Mazzini con l'associazione unitaria, e La Farina per Cavour col Comitato della Società Nazionale. Garibaldi avea servili entrambi i partiti, che poi disputaronsi il potere. Cavour che ben conoscea l'audace condottiero, gli avea attaccato ai fianchi il Marchese di Torrearsa e La Farina, entrambi accanitissimi delle annessioni. Costoro eran siciliani, e perciò Garibaldi dapprima non concepì di loro sospetto alcuno; anzi fidando sulla popolarità del Torrearsa, nominollo Presidente del Consiglio del Ministri. Essi, collegatisi ad altri emissari spediti da Torino, cattivandosi con ampie promesse i più influenti capi della rivoluzione, tendevano ad ottenere un voto pubblico, che dichiarasse esser desiderio della Sicilia annettersi al Piemonte.

Difatti il Consiglio Comunale di Palermo, rappresentato dal Duca della Verdura, presentatosi a Garibaldi per offrirgli la cittadinanza; come interpetre di tutta la popolazione, gli espresse il voto dell'annessione. Garibaldi, che senza essere uomo politico, pure avea cominciato a diffidar di La Farina, rispose con un no decisivo, dando a ragione del rifiuto la sua idea di fare Italia una ed indipendente, e non annettere al Piemonte singole province! Aggiunse aver aperta la campagna al grido - Italia e Vittorio Emanuele - per cui non doversi sospettare di lui; voler per altro, che l'opera fosse compiuta, sino al qual tempo non accettava ordini da alcuno.

Allora Torrearsa e Pisani diedero le loro dimissioni; e pochi giorni

ordinato da Crispi, levatosi il popolo a grida sediziose, Garibaldi accettò la dimissione di tutto il ministero; e a non mostrarsi ostile alle continue ingiunzioni del Ministero di Torino, decretò la convocazione del collegi elettorali per sentire il voto comune della Sicilia sull'annessione. Con ciò Garibaldi temporeggiava, per premunirsi contro le pratiche del gabinetto di Torino, che volea l'immediata annessione.

Ecco come all'uopo Cavour scriveva a La Farina.

«Non mi posso indurre a credere, che in Sicilia si voglia sul serio fare l'annessione per corpo dittatoriale. Questa non avrebbe alcun valore in faccia all'Europa, la cui diplomazia non cessa di gridare contro l'occupazione della Sicilia per parte del volontari di Garibaldi. Ora se si può sino ad un certo punto affrontare la diplomazia, quando si ha l'opinione pubblica con sè, è d'uopo ascoltarla, quando non si scosta, come avviene spesso, dalla coscienza del popoli Europei. Il Governo dunque è deciso di non accettare l'annessione, se essa non si fonda sopra un voto popolare. Ella può dichiararlo ai suoi amici. Intanto adoperi, caro La Farina, la sua influenza in Sicilia per mantenervi la concordia e la moderazione.»

Cavour

A norma di queste istruzioni, La Farina cominciò a spargere dubbi sulle intenzioni di Garibaldi; e facendo presentire, che se un tentativo repubblicano scoppiasse, il Governo del Re avrebbe dovuto abbandonare a se stessa la Sicilia, per non compromettersi di fronte alla diplomazia, fomentò un sordo malcontento: del che avvertito Garibaldi, senza servirsi più delle mezze misure, fece arrestare La Farina, insieme a due altri Tolti e Griselli, sospetti come agenti di sovversione, li fè imbarcare all'istante sulla M. Adelaide, ed ordinò che difilati fossero condotti a Genova.

Né a Napoli minore era lo scompiglio. Come altrove dicemmo, eran tre i partili che dividevansi il terreno; i Mazziniani, gli annessionisti Piemontesi, ed i monarchici costituzionali, cui faceano spalla i le

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 399

I primi poggiavansi sulla rivoluzione; i secondi sulla influenza di Liborio Romano; i terzi sulla popolazione, che non amava innovazioni. Di questi ultimi non prendeasi pensiero alcuno il Conte Cavour, assicuralo, che continuando nelle truppe l'opera della dissoluzione, il governo non avrebbe trovalo appoggio. Ma non era cosi del mazziniani, i quali, se avessero potuto afferrare le redini del governo, avrebbero fatta positiva resistenza all'idea annessionista.

Giunti a Napoli, gli emigrati già dal comitato augustati col nome di martiri della libertà, i mazziniani (chiameremo sempre così quelli dell'Ordine) compresero, che quelli avrebbono ben potuto togliere, o almeno diminuir loro l'influenza sulle masse; perlocchè diedersi a levare a cielo le imprese di Garibaldi, promettendo ogni sorta di franchigia a nome del nuovo Dittatore; e tali promesse e lodi facean divulgare con un segreto giornaletto intitolato il Garibaldi. Uno del loro recossi a Messina a chiedere istruzioni dal Generale, e ritornato, diè opera con i suoi a stabilire il modo come affrettare lo sbarco del volontari sul continente; ed a cooperarsi coi comitati di provincia per tentare un movimento generale in tutto il regno.

Gli emigrati, più freddi e riflessivi, stabilirono attirare nelle loro file il partito d'Ordine, facendosi vedere più forti, avvegnacchè si fosse con essi fusa buona parte dell'elemento costituzionale, che cominciava a disperare delle sorti del reame.

Furono tenute all'uopo due sedute, una in casa del Barone Rodrigo Nolli, e l'altra in quella dell'Avv. Gennaro De Filippo.

Ma non potea venirsi ad accordi, perché partivano da punti opposti; gli uni volendo la pronta annessione al Piemonte, gli altri la Dittatura di Garibaldi. Non pertanto gli emigrati, a non perder terreno ed influenza, non avendo relazioni nelle province,

mostrarono di acconciarvisi, assicurati da Torino, che scoppiando la rivoluzione sul continente, quel governo non avrebbe tralasciato di trovar mezzo per fare un dichiarato intervento con un buon nucleo di truppa, avendo agio a giustificarlo col pericolo che la rivoluzione senza un freno, avrebbe potuto dare in eccessi compromittenti per la pace di Europa.

La polizia intanto come funzionava? - ossia che cosa faceva egli Liborio Romano Ministro degli Interni?- Perseguitava, arrestava, carcerava, dava l'ostracismo ai monarchici legittimisti, accusandoli di reazionarii; e proteggeva con tutto il potere che tenea nelle mani, la gran tela che si preparava per l'annessione del reame di Napoli al Piemonte. Un ministro di Francesco 2. scrivendo su questo argomento al Duca De la Rochefoucauld - Dondean, diceva: «.... Egli è ben facile il dire, che con un poco più di energia la rivoluzione di Napoli sarebbe stata domata. In quanto a me non vi ci presto credenza: giacché quella di Napoli non era solamente una rivoluzione intestina, che fosse più nelle idee che nei fatti: ma era una rivoluzione complicata ad esterne quistioni, cosicché tanto i concetti, quanto l'appoggio partivano dall'alto anziché venire dal basso...» (1).

(1)

Ulloa - Lettere Napolitano pag. 16.

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CAPITOLO VII.

Cavour invia un milione di lire a Garibaldi esortandolo a passare sul continente - Il nuovo intendente a Reggio (Calabria). - Sbarco di Garibaldi in Calabria. - È battuto a Bagnara - Briganti capitola senza colpo tirare - Il Bollettino del Comitato d'Ordine - Ruiz chiede aiuti a Cosenza. - Non ne ha risposta. - Morte di Briganti - Il Gen Caldarelli capitola con il Comitato e cede Cosenza. - Proclami in Calabria Appello di Garibaldi alle truppe regie - Insurrezione in Basilicata - Resistenza del Maggiore Castagna - Governo Provvisorio, e suoi decreti - Sbandamento del 6.° di Linea inviato a Potenza - Sollevazione a Bari - Defezione del Generali Flores, Ghio, Galloni, e Caldarelli - La squadra piemontese a Napoli - Lettera di Francesco 2° a Napoleone. - Memorandum di Liborio Romano al Re - Proclama del Comitato di Napoli Dimissione del Ministero - Il Ministero Ulloa non può costituirsi - Liborio Romano resta al potere - Dimissioni di Generali in massa - Il Re si decide ad abbandonare la Capitale - Un'altra lettera del Conte di Siracusa - Il Re parte per Gaeta - Proclama Reale - Governo provvisorio a Napoli - Tre documenti della politica di Liborio Romano - Garibaldi giunge a Napoli ricevuto da Liborio Romano - Il Generale Garzia cede il forte S. Elmo alla Sangiovannara.

Cavour era l'uomo, che sapea transigere; tenendo a base che anche le vie oblique, benché ritardino, pure conducono al luogo prefisso. Così fece con Garibaldi, con Mazzini, con Bertani, e con gli altri, che rappresentavano il partito esaltato. Accertato che costoro godessero popolarità nei partiti del Napolitano, lo che necessitava per agire sulle masse, inviò a Garibaldi, che trovavasi ancora a Palermo il Deputato Bottero con 500 mila franchi, ed altri tanti per mezzo di Bartolomeo Casalis, affinché avesse avuto mezzi per affrettare il passaggio sul continente; e per agevolargli il tentativo, scrisse a Persano, perché lo avesse posto al coverto da ogni aggressione dei vapori napolitani, che sbavano in crociera.

«Ho notizie non cattive da Napoli, scriveva confidenzialmente ad un amico. V'ha ivi un gran numero di elementi di unione: vi manca la volontà energica e coordinatrice. X. promette di provvedere».

Ed anche Terenzio Mamiani, presidente della pubblica istruzione, scrivea in questo senso a Biagio Miraglia. «Carissimo signore - Appena ricevuta la sua stimatissima,

stimai bene darne notizia al più illustre del miei colleghi. Il consiglio, che Ella porge con tanta modestia, era stato prevenuto, e se ne attendono i frutti. Al giungere di questa spero le cose di costà esser meglio avviate. Le sorti d'Italia pendono dalla risoluta energia del Napoletani.

«Quanto ai mazziniani, Ella non se ne conturbi troppo. Il Governo è fermissimo a non tollerare, che essi menino a male il movimento attuale, come fecero nel 48...»

Garibaldi, ricevute perentorie assicurazioni da Torino sulle intenzioni del Conte di Cavour, e migliori dal comitato di Calabria, cominciò ad allestirsi per eseguire lo sbarco.

Reggeva la Provincia di Reggio il Segretario Generale Cammarota, geloso nell'adempimento del suoi doveri; ma poco energico, sebbene non avesse mancato di fare quel che poteva, per arginare il movimento insurrezionale. I congiurati perciò voleano che fosse ad ogni costo rimosso, all'uopo fu dal Comitato spedito a Napoli Salvatore Rognetta per premurarne Liborio Romano. Il Ministro ricevé il Rognetta insieme a Demetrio Salazaro, ed intesa la domanda, li autorizzò a proporre una persona che al Comitato potesse ispirar fiducia. La proposta cadde su Domenico Spanò - Bolani allora Sindaco di Reggio; il quale immediatamente fu nominato Intendente dopo le commendatizie di Alessandro Avitabile. Così lo sbarco di Garibaldi potea dirsi assicurato -; ed il giornale l'Opinione Nazionale già pubblicava articoli pronunzianti l'invasione.

A sorvegliare le coste occidentali di Calabria, eran state dal governo mandate due brigate comandate dai Generali Briganti e Melendez; oltre una riserva concentrata a Monteleone; che in uno formavano una forza di quasi 20 mila uomini.

Garibaldi, accompagnatlo dalla squadra sarda, non visto dai vapori napolitani in crociera, sbarcò felicemente, e senza ostacolo alcuno: e divisa la sua truppa in distaccamenti, si avviò per attaccare i regi. Scontratosi con essi presso Bagnara, rotto o respinto, si rifugiò nelle circostanti montagne.

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 403

Intanto altri garibaldini erano sbarcati sulle coste orientali della Calabria meridionale presso Bovalino; e i vapori il

Presso Reggio avvenne una scaramuccia di niun calcolo; ma dicevasi che gran giornata sarebbevi stata a Villa S. Giovanni, essendo là concentrate le Brigate di Briganti e di Melendez. Ma tutta l'agitazione s'invertì subitamente in strepitose grida di gioia. Briganti avea capitolato! I panegiristi di quella campagna narrano, che vi fosse stato obbligato, perché trovandosi concentrato in una vallata, i garibaldini lo avessero circuito in modo da rendergli impossibile la resistenza.

È vero che Briganti si trovò in quella posizione, ma per propria volontà. Prima dell'attacco, i due comandanti napolitani erano andati a tener colloquio con Garibaldi. Ciò è confermato dalla relazione che ne dava il Comitato dell'Ordine -BOLLETTINO N. 11 - «... A villa S. Giovanni le truppe napoletane hanno fraternizzato coi garibaldini. Garibaldi ed il Generale Briganti passeggiavano insieme per la piazza di Bagnara, per ordinare provigioni. Il Gen. Briganti ha accettato l'invito di Garibaldi, e del suo Stato Maggiore, di desinare alla loro mensa. Lo stesso scambio di complimenti ha avuto luogo coi Gen. Melendez al campo di Piale...»

L'altro bollettino, dandone l'avviso a Napoli, cosi scriveva: «La notte scorsa 130 barche, due piroscafi, sedici barcacce e cinque brigantini mercantili hanno eseguito un altro sbarco fra Bagnara e a Sciita. LA MARINA HA LASCIATO FARE.....

Il Colonnello Ruiz, che poco di là discosto rattrovavasi, radunò sotto di sé quanti poté del soldati sbandati, poiché già buona parte s'era incorporata alle truppe insurrezionali, e chiese soccorsi a Cosenza, perché di concerto si operasse contro il nemico. Questi avvisi non furono ascoltati; e se ne diede colpa alla mancanza di telegrafo, i cui fili eran stati spezzati. Intanto le truppe gridavano al tradimento; e questa convinzione fu tale, che, nel giorno dopo,

un distaccamento scontrato il Briganti, che si dirigeva alla volta di Mileto, emesso un grido di esecrazione, chiamandolo traditore, con una scarica dì moschetteria lo rese all'istante cadavere.

Questa vendetta non fece però indietreggiare i traditori, e il Generale Caldarelli, che con unaltra brigata poteva benissimo appoggiare Ruiz, ed impedire l'avanzarsi di Garibaldi a Cosenza, senza trar colpo, abbandonò la piazza capitolando col comitato. E cosi avvenne, che le truppe insurrezionali facessero per quelle province una marcia trionfale, come dissero gli scrittori della rivoluzione. Il Comitato (1) annunziava nel tempo stesso che «la truppa di Tiriolo persuasa del nostri poteri ha deposto le armi» e che in Catanzaro già sventolava la bandiera di Savoia. I Proclami si succedevano rapidamente con i Bollettini - A Napoli si leggeva il seguente:

Napoletani!

«Gli avvenimenti incalzano: il Borbone, erede delle infamie secolari del suoi maggiori e infame anche lui, è per scappare. I suoi satelliti fan di tutto per lasciar dietro loro confusione e scompiglio. Né mancano mestatori che l'aumentano, la cui indole è di servirsi d'elementi vecchi per intorbidare i nuovi. Non v'è che un'idea, la quale possa mettere ardire in tutto, l'Idea della Unità Italiana: essa ci ha animato ed essa ci guidi. Non a ministri, che tra le incertezze e le paure e le vili adesioni han tenuto il potere, si dee ricorrere per un Governo Provvisorio; ma ad uomini d'azione, di franco carattere, che abbian già dato pruova d'amore sopra ogni altra cosa all'Unità Italiana. Garibaldi è con essi. In breve verran momenti, in cui quelli che finora sono stati incerti e han cercato d'addormentare, si faranno avanti. Cittadini! siate decisi! Ove c'è azione, dirittura di proposito, ivi sta l'avvenire.

«Viva l'Unità d'Italia- Viva Vittorio Emmanuele Re d'Italia-Viva Giuseppe Garibaldi Dittatore.

(1)

Il comitato di Cosenza era composto dai signori Franc. Azzalino, Pietro Campagna, Donato Borrelli, Carlo Compagna, Domenico Furgiuele. Quello di Rotondo avea per presidente B. Toscanelli, e segretario Girolamo Jorio.

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Né faceansi giammai mancare esortazioni, lusinghe e promesse nelle truppe, già scorate e demoralizzale dalla diserzione degli Ufficiali, e dagli stessi Generali Comandanti. È notevole il seguente indirizzo che Garibaldi lanciò nell'esercito regio.

«Signori!

«Noi dobbiamo creare un esercito di 200, 000 uomini.

«lo apprezzo e stimo molto volontari, nondimeno amo meglio nominar colonnello un capitano leale, che conosca bene il suo mestiere, che un avvocato.

«Amo meglio far capitano un sergente che un medico.

«Se voi siete realisti, io lo sono egualmente;

«Ma Re per Re, preferisco Vittorio Emanuele, il quale ci condurrà un giorno tutti contro gli Austriaci, a Francesco Borbone che pone italiani contro italiani.

«Signori. La scelta è a Voi.

«Noi vinceremo senza Voi; ma io sarei superbo di vincere con Voi.

GIUSEPPE GARIBALDI.

Il movimento insurrezionale dilatavasi dovunque, e i fatti di Calabria destarono la Basilicata, dove non attendevasi che il segnale per insorgere: Nicola Mignogna e Giacinto Albini furono promotori ed organizzatori della rivolta.

Stanziava in quella città uno squadrone di gendarmeria a cavallo, comandato dal Maggiore Castagna. Egli non mancò ai suoi doveri; impedì l'insurrezione nel paese, la cui posizione è difficilissima, situalo come trovasi in mezzo a numerose montagne.

Ma il Comitato che attivamente operava, avea radunali un cinque a seicento volontari, ed il comando ne fu affidalo ad un Camillo Boldoni, il quale prese posizione sul monte Cerreto, con ordine di attaccare Potenza. Il Castagna, benché minacciato all'interno e dalle bande, e non avesse truppe sufficienti a far fronte agli insorti, pure non facendosi intimidire dal contegno ostile della G. N. e dalle barricate che andavansi costruendo nel paese, non lasciò,

né volte lasciare il suo posto, che do

Non essendovi altro ostacolo, i Potentini stabilirono il governo provvisorio, ed eccone i Decreti; notabili documenti a dichiarare, che la rivolta fosse giù organizzata su larghe basi.

VITTORIO EMANUELE RE D'ITALIA

IL GENERALE GARIBALDI DITTATORE DELLE DUE SICILIE

1.° Un governo Pro - Dittatoriale si è stabilito per dirigere la grande insurrezione Lucana.

2.° I suoi componenti sono i cittadini

Nicola Mignogna - Giacinto Albini. Segretari - Gaetano Cascini - Rocco Brienza - Giambattista Malora - Nicola Maria Magaldi - Pietro locava.

3.° I sudetti componenti sono in seduta permanente nell'antica sala dell'Intendenza

Pel Dittatore Garibaldi.

I Prodittatori - N. Mignogna - G. Albini.

VITTORIO EMANUELE RE D'ITALIA

IL GENERALE GARIBALDI DITTATORE DELLE DUE SICILIE

Essendo necessario nella condizione eccezionale, in cui si trova costituita la Provincia di Basilicata, di provvedere urgentemente, e per quanto

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 407

proceda energicamente senza incontrare ostacoli che ne potessero ritardare il movimento, ed onde rassicurare la tutela dell'ordine pubblico, e delle famiglie:

SI ORDINA

1. le autorità restino nei di loro posti, e prestino utili uffizii per l'ordine pubblico, e per lo esalto andamento dell'amministrazione giudiziaria e civile;

2.

Gli atti del Governo, tanto relativi all'amministrazione civile che giudiziaria, avranno la intestazione di Vittorio Emmanuele Re d'Italia, Giuseppe Garibaldi Dittatore delle Due Sicilie.

3. È stabilito un Comitato di sicurezza pubblica, ed una Commissione d'ingegneri per barricare la Città.

I componenti del primo sono

1. Angelo Spera - 2. Domenico Montesane - 3. Michele Luciani - 4. Gerardo Maffei - 5. Leopoldo Viggiani - 6. Domenico Viggiani - 1. Leonardo Cortese - 8. Giuseppe Abbruzzese.

Della seconda sono

Ingegneri 1. Alfonso Giambrocono-2. FrancescoPagliuca-3. Orazio Petruccelli-4. Giuseppe Pippa-S. Antonio Ferrara-6. Gerardo Grippo.

4. Tutti i patriotti atti alle armi faranno parte della Guardia Nazionale, a meno che non fossero intaccati di reati infamanti. La Guardia sarà divisa in tre categorie. La prima comprenderà i giovani da 18 a 30 anni, e questi formeranno la categoria della Guardia attiva fuori del Comune. La seconda categoria comprenderà i patriotti da 30 a 40 anni, e questi faranno parte della Guardia attiva per lo servizio interno del Comune. La terza categoria comprenderà i patriotti da 40 a 60 anni, e questi formano parte della Guardia Nazionale sedentaria di ogni Comune.

5. Si nominano;

Per Maggiore della Guardia Nazionale Emilio Petruccelli. Per Capitani della medesima in questo Capoluogo 1, Giuseppe Grippo-2. Giovanni Corrado - 3. Federico Addone.

6. Sarà incarico de' sopraddetti uffiziali formare il seguito di detta Guardia.

1. È stabilita una deputazione per vettovaglie e vetture, 1. Angelo Maria Addone - 2. Francesco Scafarelli - 3. Pasquale Ciccotti 4. Angelo Castellucci - 5 Giuseppe Viggiani - 6. Ascanio Branca - 1. Giovanni Giura - 8. Malico Pantaleo.

8.

È stabilita una deputazione per gli alloggi.

Suoi componenti sono

1. Bonaventura Ricotti - 2. Giulio Naffei -3. Nicola Oppido - 4. Raffaele di Pierro - 5 Gaetano de Marco.

9. È stabilita una Commissione per gl'infermi e i feriti- Ne sono componenti

1. Nicola Alianelli - 2. Gerardo Arcip. Lapenna - 3, Giuseppe Cantore Jannelli - 4. Giuseppe Teologo Tancredi - 5. Luigi Canonico Grippo - 6. Domenico Canonico Pergola - 1. Annibale Canonico Pacilio - 8. Michele Canonico Carbonara - 9. Nicola Canonico Pace. Potenza, il dì 19 agosto 1860.

Pel Dittatore Garibaldi.

I Pro - Dittatori N. Mignogna - G. Albini.

Il Maggiore Castagna bivaccava ancora sulle montagne, quando ebbe l'avviso che da Salerno gli si inviava il sesto reggimento di linea, il quale era più che sufficiente, sostenuto dalla cavalleria, per riconquistare Potenza: ma questo reggimento, giunto ad Auletta, non volte più procedere; e dei soldati molti al grido di - Viva Vittorio Emanuele - disertarono armi e bagaglio passando nelle file degl'insorti; per cui fu d'uopo far rientrare a Salerno il resto del reggimento pel timore che non facesse lo stesso. Da Potenza la rivolta si comunicò facilmente ad Altamura, dove si riunivano volontari, che si provvedeano di armi; ed un Liborio Romano (altro dal ministro di tal nome) si mise anch'egli a raccozzare un corpo.

Nel Capoluogo della Provincia, Bari, stava il Generale Flores con il 13.° di linea, una batteria, due squadroni di cavalleria, oltre il corpo

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 409

Egli sembrava ostinalo a non retrocedere dinanzi all'urto della rivoluzione, che avrebbe facilmente sedala, sendo quel territorio una continua pianura; però poca cura si diè ad inviare qualche compagnia per disperdere gl'insorti di Altamura, mentre tutto il giorno facea sfoggio della truppa facendola sfilare accompagnala dai treni per le vie della città; quasi ad incuter timore agli abitanti.

Dopo qualche giorno soppesi, che l'insurrezione era scoppiata a Foggia, e che il 2.° Dragoni che colà era stato inviato a comprimerla, avea fatto causa comune con gl'insorti. Flores vi mandò subito due Compagnie del 13.°, le quali fecero altrettanto -: vi andò egli stesso, e possiamo affermare da fatti che avvennero di poi, che anch'egli fu preso dallo spirito insurrezionale; poiché senza più ostacolare la rivolta. abbandonò le Puglie ritirandosi nel Principato Ulteriore, di dove diresse alle sue truppe proclami per fare adesione agl'insorti, e sbandarsi!!!

Ecco come annunziava questi fatti il Comitato.

BOLLETTINO DELLA RIVOLUZIONE

N.° 3.° - 22 agosto

«La rivoluzione trionfa. -I momenti sono contali all'esecrato ed imbecille despota briaco di sangue e di lagrime - I tetri cavalli dell'esigilo battono alla porta del suo palazzo.

«Potenza è libera. Il governo Pro - dittatoriale si e istituito, e ci sono già pervenuti i primi atti, che pubblicheremo separatamente nel corso della giornata.

Una colonna d'insorti, forte di 3mila uomini, si e situata sui piani di Santa - Loja, e sulle gole di Vietri - Dentro Potenza vi sono 10 mila insorti forniti di armi: in tutti i punti della città si elevano barricate: e la strada consolare è interrotta da grandi fossati 50 passi larghi, e 10 profondi - Da tutti i punti della provincia accorrono numerosi gl'insorti, e ben provvisti di armi.

«Il movimento trova nelle popolazioni tale slancio, che le truppe anche esse, penetrale da tanto entusiasmo,

hanno rispettato il sacro limite di quella provincia, ed al grido di Viva Garibaldi si sono fermate al ponte d'Auletta.

«Molti soldati ed ufficiali passano sotto il vessillo della Patria».

Il Generale Ghio, più vilmente di tutti, avea capitolato consegnando a Garibaldi 10mila fucili, 12 pezzi di artiglieria, 600 tra cavalli e muli, oltre un abbondante munizione da guerra; lo stesso facevano il Generale Gallotti, e il Generale Caldarelli, che a Salerno erasi con la sua brigata posto agli ordini del Garibaldi (1).

Questa insomma era la vergognosa posizione, in cui gli uffiziali napoletani avean messo l'esercito.

Il Conte di Cavour seguiva allentamento e con gran gioia il progredire della rivoluzione; ma gli occhi suoi eran fisi principalmente su Napoli, dove il dramma dovea sciogliersi: per cui a tener tutto in pronto, v'inviò una squadra con un corpo di Bersaglieri Piemontesi, sotto vista di proteggere i suoi sudditi nel caso di rivolta; ma col fine manifesto di fare un colpo di mano, se la necessità lo richiedesse.

Dal Reale Palazzo erano poco a poco scomparsi tutti quelli, i quali per l'addietro si strisciavano per aver grazie, gradi ed onori: pochi eran rimasti fedeli al Principe nella sventura: gli altri non che ritirarsi, gli s'eran fatti nimici apertissimi; e si affrettavano a dare le loro dimissioni con la speranza, che questo fosse stato per essi titolo di merito per essere richiamati al servizio dal nuovo governo.

I pochi rimasti intorno al Re gli davan speranza di prendere la rivincita, e lo consigliavano a resistere. Ed in questi sensi il Re scrisse a Napoleone 3.° il di cui ambasciatore Brénier, benché avesse sempre date assicurazioni, che non sarebbesi permesso a Garibaldi attentare al continente, terminò col conchiudere, nulla poter fare in aiuto del Governo napolitano il Gabinetto Francese.

Ecco la lettera:

(1)

Rustew - loc. cit. pag. 348

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 411

«Sire

«Voi mi avete consigliato di dare delle istituzioni costituzionali ad un popolo che non ne dimandava: io ho aderito al vostro desiderio. Voi mi avete fatto abbandonare la Sicilia senza combattere, promettendomi che così facendo, il mio regno sarebbe stato garentito. Ora io debbo prevenire V. M. che sono risoluto di non discendere dal mio trono senza combattere; io farò un appello alla giustizia di Europa, ed essa saprà, che io difenderò Napoli, ove sia assalito».

Ma Liborio Romano vegliava! Egli comprese, che l'esilio del Conte di Aquila non era stato sufficiente a slargare la via al tradimento. Necessitava allontanare lo stesso Re da Napoli; senza di che, impossibile sarebbe stato attuare l'entrata di Garibaldi. Per aggiugnere tal fine, egli propose al Ministero di esporre al Re il vero stato della rivoluzione con un memorandum particolareggiato; e consigliarlo ad abbandonare la capitale per qualche giorno, sino a che le truppe non avessero trionfato della rivoluzione. Nessuno del ministri volte far questa proposta né sottoscrivere tal foglio.

Liborio Romano lo fè da sé solo, e con tetri tristissimi colori dipinse lo stato delle cose; il suo memorandum merita essere attentamente considerato, non solo perché sviluppa l'origine ed il procedere della rivoluzione, ma perché senza politiche esitazioni dichiara essere il Re già di fatto decaduto dal trono. La protesta, che come esordio premette «per testimonio solenne della devozione profonda alla causa, del trono, e del paese» sarà meglio spiegata nel corso della narrazione.

Ecco il memorandum:

SIRE

«Le circostanze straordinarie in cui versa il paese, e la situazione gravissima nei rapporti ed esterni ed interni, che ci è fatta dagl'imperscrutabili disegni della Provvidenza, c'impone i più alti e sacri doveri inverso la M. V. di rassegnarle libere, e rispettose parole, come a testimonio solenne della devozione profonda alla causa del trono e del paese.

«Affermiamo gravissima la situazione, ed eccone la dimostrazione.

«Per un cumulo di cagioni deplorabilissime, sulle quali ci piace gettare un velo, la gloriosa dinastia fondata dal magnanimo Carlo III, e continuata per 126 anni fino alla Al. V. il cui animo è fregiato di tanto fior di virtù morali e religiose, ora la veggiamo per fatalità di tempi, e per tristizie di uomini, venula a tali termini da rendere nonché difficile, impossibile il ritorno, e lo scambio di confidenza tra principe e popolo. Noi non intendiamo, che sol rilevare cotesto fatto sociale il cui giudizio appartiene alla posterità ed alla storia.

«Ma perché è pur forza riconoscerne l'esistenza, e né a noi Ministri della Corona, né ad altri sarebbe concesso il modificare, e raddrizzare il sentimento pubblico, ci rimane solo la triste necessità di rivelarlo alla M. V. con libera e dolente parola.

«Ci sarà forse permesso di tenere in poco conto questa universale espressione della pubblica sfiducia, che scoppia da tutti i pori della società nostra, e che sciaguratamente si va travasando nelle masse; e quel che è più grave, in una parte altresì dell'armata di terra e di mare, che fu e sarà sempre la suprema guarentigia del troni, come dell'ordine sociale?

Noi sentiamo, Sire, la fermissima convinzione di non esser punto in poter nostro né il modificare, né il disprezzare il sentimento pubblico, perciocchè ne' tempi che corrono, la forza bruta rimarrà inefficace e nulla, se la pubblica opinione non la sorregga e giustifichi.

«Né questo è tutto: alle interne difficoltà inestricabili si aggiungono le gravissime complicanze esterne.

«Noi ci troviamo in presenza dell'Italia, che si è lanciata nelle vie della rivoluzione col vessillo della Casa di Savoia, il che vuol dire colla mente ed il braccio di un governo forte, ordinato, rappresentato dalla più antica dinastia italiana. Ecco il pericolo, e la minaccia che si aggrava fatalmente sul Governo della M. V.

«Né poi il Piemonte procede isolato e spoglio di appoggi. Le due grandi potenze occidentali, la Francia e l'Inghilterra, per fini diversi stendono l'una e l'altra il loro braccio protettore sul Piemonte;

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 413

Garibaldi

«Pongasi l'ipotesi della resistenza a oltranza. Confessiamo innanzi tulio alla M. V., che le forze di resistenza a noi appariscono svigorite, mal sicure ed incerte. Che assegnamento farà il governo della M. V. sulla regia marina, la quale, diciamolo con franchezza, è in piena dissoluzione?

«Né maggior fiducia potrebbe ispirare l'esercito, che ha rotto ogni vincolo di disciplina e di obbedienza gerarchica, e però inabile a guerra ordinata. Quale adunque del capi dell'armata oserebbe in buona fede assumerne la responsabilità? Né il piccolo nucleo di soldati esteri saprebbe ispirar la fiducia che l'esercito nazionale più non ispira. Sarà un accozzaglia di gente ardita, spoglia di ogni sentimento di onor militare, e di devozione vera alla M. V., sospetta ai compagni d'arme del paese, aborrita da tutta l'onesta cittadinanza, perché tutti minaccia e niuno assicura.

«Chi dunque tra i consiglieri onesti della Corona oserà fiducioso approvare la resistenza e la lotta, appoggiandosi sopra elementi così deboli, incerti, malfidi? La lotta sarebbe in vero sanguinosissima e disperata.

«Poniamo pure il caso della vittoria momentanea dell'esercito e del Governo. Sarebbe questa, o Sire, ci si permetta il dirlo, una di quelle vittorie infelici, peggiore di mille disfatte. Vittoria comprata al prezzo di sangue, di macelli e di rovine; vittoria che solleverebbe la universale coscienza dell'Europa, che farebbe rallegrare tutti i nemici della Vostra Augusta Dinastia, e che forse aprirebbe veramente un abisso tra essa e i popoli affidati dalla Provvidenza al Vostro cuore paterno.

«Rigettando adunque, come a noi pare nella onestà della nostra coscienza il partito della resistenza, della lolta, e della guerra civile, quale

«Quest'uno noi sentiamo il dovere di proporre, e di consigliare alla M. V. Che la M. V. si allontani per poco dal suolo e dalla Reggia del suoi maggiori; che investa di una reggenza temporanea un ministero forte, fidato, onesto, a capo del quale ministero sia preposto non già un principe reale, la cui persona, per motivi che non vogliamo indagare, né farebbe rinascere la fiducia pubblica, né sarebbe garentia solida degli interessi dinastici; ma bensì un nome cospicuo, onorato, da meritar piena la confidenza della M. V. e del paese. Che distaccandosi la M. V. da' popoli suoi, rivolga ad essi franche e generose parole, da far testimonio del suo cuore paterno, del suo generoso proposito, di risparmiare al paese gli orrori della guerra civile: che ne appelli al giudizio dell'Europa ed aspetti dal tempo e dalla giustizia di Dio il ritorno della fiducia, e il trionfo del suoi legittimi dritti.

«Eccole, o Sire, il partito che noi sappiamo, e possiamo consigliare alla M. V. con franchezza di coscienza onesta. Noi portiamo fiducia, che la M. V. non vorrà disdegnare i nostri rispettosi e schietti consigli, diretti all'onore ed al decoro della sua dinastia, nonché alla tutela dell'ordine pubblico pericolante.

«Che se per disavventura V. M. nell'alta sua saggezza non istimasse accoglierli, a noi non rimarrebbe altro partito, che rassegnare l'alto officio di che la M. V. onoravaci, riconoscendo mancata a noi la sovrana fiducia».

Napoli 20 agosto 1860.

L. Romano.

Il Re non diede a tale scritta una immediata risposta, perché vi era ancora chi sperava salvare la monarchia.

I Napoletani non ardivano levarsi a sedizione; ed il comitato, bollente d'ira di fronte a questa esitazione, pubblicò il seguente proclama.

«Napoletani-È tempo di farla finita con la progenie di Carlo 3.° Voi conoscete ora il diritto divino, e non avete nulla, più nulla a fare con esso.

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 415

«In tutti gli angoli è rimbombo di armi da fuoco, in tutti gli angoli si ode il grido; viva l'Italia.

«Voi soli sembrate sordi e muti! Reggio, Potenza, Bari, e Foggia o sono in piena insurrezione: voi soli rimarrete spettatori del generale incendio della nazione con occhio così tranquillo, che vi si potrebbe tenere per indifferenti? Napoletani! Non temete di arrivare troppo tardi? Non temete, che quando alla fine arriverete, Lombardia, Sicilia, «Calabria, Basilicata non vi abbiano a gridare con la voce del tuono;

«Indietro, bastardi Italiani, voi non siete più nostri fratelli, voi non appartenete più alla santa famiglia?

«Napoletani all'armi».

Questa indolenza, e la quasi fiducia che addimostravano i legittimisti, misero in sospetto Liborio Romano, l'unico, che dominava la posizione delle cose; ed egli venne a sapere, che il Generale Cutrofiano, coadiuvato dal Principe d'Ischilella, lavorava a disperdere le trame della rivoluzione. Liborio Romano allora decise dare un colpo risoluto, e ricisamente disse al Re, che tutta Napoli era in fermento per un tentativo di reazione; che la G. Nazionale in armi chiedeva la rimozione di quei due Generali, ai quali sarebbe stato utile far succedere Viglia e De Sauget, entrambi di confidenza del Comitato. Conchiuse esser più che necessario l'allontanarsi da Napoli, ed istituire una reggenza.

Il Re non volte ad alcun palio accettare Viglia e De Sauget, ed il Ministero si dimise. Al Consigliere Pietro Ulloa fu dato l'incarico di comporre un nuovo Gabinetto; ma essendo egli costituzionale - monarchico, ed uomo che accoppiava ingegno ed attività, sarebbe stato lo scoglio positivo che avrebbe innalzata contro la rivoluzione fremente una barriera la quale avrebbe potuto diventare insormontabile. Liborio Romano accortosi del pericolo e non volendo farsi di mano scappare il potere, avversò e fece ritirare il mandato dato ad Ulloa, e rimase al ministero e mostrando di cedere consentì che rimanesse nel suo posto Cutrofiano.

Intanto i due partiti rivoltuosi cozzavano fra loro, e le ampie e sperticale promesse che Alessandro Nunziante avea date,

di far valere il

Saputosi che il Re decidevasi ad uscire di Napoli, tutti coloro che ancor stavano trepidanti, gettarono la maschera dell'infignimento. 1l Maggior Generale Ispettore d'Artiglieria D'Agostino, il Generale Pianelli, il Direttore della Guerra Generale Fonseca, il Capo dello stato Maggiore Gen. Garofano, il Generale Conte del Balzo furono i primi a presentare le loro dimissioni, e li seguirono moltissimi, sui quali credevasi poter fare fondamento di fedeltà! - Oh! quanto è terribile il disinganno- Francesco 2.° tranne un pugno di uomini, forse i meno beneficali, si vide abbandonato da lutti. I soli tenenti - generali, che lo seguirono, furono il Duca D. Riccardo di Sangro, il Principe di Ruffano, e il Comm. Leopoldo Del Re. Questa diserzione fece impressione allo stesso Cavour, che non potette non dire come trangosciato... - «credeva men vile questa gente... »

A tanti dolori che si aggravavano sul Re, si aggiunse anche la voce di suo Zio il Conte di Siracusa, che così scriveagli:

SIRE,

«Se la mia voce si levò un giorno a scongiurare i pericoli, che sovrastavano la Nostra Casa, e non fu ascoltata, fate ora che,

(1) Lazzaro. Vita di Liborio Romano pag. 63.

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 417

presaga di maggiori sventure, trovi adito nel vostro cuore, e non sia respinta da improvvido e più funesto consiglio.

«Le mutate condizioni d'Italia, ed il sentimento della unità nazionale, fatto gigante nei pochi mesi che seguirono la caduta di Palermo, tolsero al Governo di V. M., quella forza onde si reggono gli Stati, e rendettero impossibile la Lega col Piemonte. Le popolazioni della Italia superiore, inorridite alla nuova delle stragi di Sicilia, respinsero co' loro voti gli ambasciatori di Napoli; e noi fummo dolorosamente abbandonati alla sorte delle armi, soli, privali di alleanze, ed in preda al risentimento delle moltitudini, che da tutti i luoghi d'Italia si sollevarono al grido di esterminio lanciato contro la Nostra Casa, fatta segno alla universale riprovazione. Ed intanto la guerra civile, che già invade le province del continente, travolgerà seco la dinastia in quella suprema rovina, che le inique arti di consiglieri perversi hanno da lunga mano preparata alla discendenza di Cario III Borbone; il sangue cittadino, inutilmente sparso, inonderà ancora le mille città del Reame; e Voi, un dì speranza ed amore del popoli, sarete riguardato con orrore unica cagione di una guerra fratricida.

i Sire salvate, che ancora ne siete in tempo, salvale la Nostra Casa dalle maledizioni di tutta Italia! Seguite il nobile esempio della nostra Regale Congiunta di Parma, che allo irrompere della guerra civile, sciolse i sudditi dalla obbedienza, e li fece arbitri del propri destini. L'Europa e i vostri popoli vi terranno conto del sublime sacrifizio; e Voi potrete, o Sire, levare confidente la fronte a Dio, che premierà l'atto magnanimo della M. V. Ritemprato nella sventura il vostro cuore, esso si aprirà alle nobili aspirazioni della Patria, e Voi benedirete il giorno in cui generosamente vi sacrificaste alla grandezza d'Italia.

«Compio, o Sire, con queste parole il sacro mandato, che la mia esperienza m'impone; e prego Iddio che possa illuminarvi, e farvi meritevole delle sue benedizioni.

Napoli 24 Agosto 1860. Affezionatissimo Zio

Di V. M. Leopoldo Conte di Siracusa.

La misura era ormai calma; ed il Re fece disporre tutto per ritirarsi a Gaeta.

Pria di partire pubblicò il seguente proclama, a cui fa seguito una protesta a tutte le Corti dell'estero.

PROCLAMA REALE

«Fra i doveri prescritti ai re, quelli del giorni di sventura sono i più grandi e solenni; ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza; con animo sereno e fiducioso, quale si addice al discendente di tanti monarchi.

A tale scopo rivolgo ancora una volta la mia voce al popolo del mio regno, da cui mi allontano col dolore di non aver potuto sacrificare la mia vita per la sua felicità e la sua gloria.

«Una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei Stati, non ostante che io fossi in pace con tutte le potenze Europee. I mutati ordini governativi, la mia adesione ai grandi principi nazionali non valsero ad allontanarla, chè anzi la necessità di difendere la integrità dello Stato trascinò seco avvenimenti che sempre deplorai - Ond'io solennemente protesto contro tale invasione e ne faccio appello alla giustizia di tutte le nazioni incivilite.

«Il corpo diplomatico residente presso la mia persona seppe fin d'allora da quali sentimenti era compreso l'animo mio verso questa illustre Metropoli del regno. Salvare dalle rovine e dalla guerra i suoi abitanti e le loro proprietà, gli edifizj, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni d'arte e tulio quello che forma il patrimonio della sua civiltà e della sua grandezza, e che appartenendo alle generazioni future è superiore alle passioni di un tempo.

«L'ora di profferire questa parola è giunta. La guerra si avvicina alle mura della città, e con dolore ineffabile io mi allontano con una parte della mia armata, trasportandomi là dove la difesa del miei dritti mi chiama. L'altra parte di questa nobile armata resta per contribuire alla inviolabilità e incolumità della capitale, che come un palladio

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La prova che chiedo all'onore ed al civismo di essi, è di risparmiare a questa patria carissima gli orrori del disordini interni e i disastri della guerra vicina, al qual uopo concedo loro tutte le necessarie e più estese facoltà di reggimento.

«Discendente di una dinastia, che per 126 anni regnò in queste contrade continentali, i miei affetti sono qui. Io sono napoletano, né potrei senza grave rammarico dirigere parole di addio ai miei amatissiini sudditi. - Qualunque sarà il mio destino, prospero od avverso, serberò per essi forti ed amorevoli rimembranze. Raccomando loro la concordia, la pace, i doveri cittadini: e che uno smodato zelo per la mia sorte non diventi face di turbolenze.

«Quando alla Giustizia di Dio piacerà restituirmi al trono del miei maggiori, quello che imploro, è di rivedere i miei popoli concordi, forti e felici.

«Napoli 5 settembre 1860.»

PROTESTA DIPLOMATICA

FRANCESCO II ECC. ECC.

«Poiché un'ardito condottiero con tutte le forze, di cui l'Europa rivoluzionaria dispone, ha attaccato i nostri dominii, invocando il nome di un sovrano d'Italia, parente ed amico, abbiamo con tuTt'i mezzi in nostro potere combattuto per cinque mesi per la sola indipendenza de' nostri Stali. La sorte delle armi ci è stata contraria. L'ardila impresa, che questo Sovrano con la maniera più formate protestava non riconoscere, e che pertanto nel corso delle trattative, tentale per stabilire un accordo intimo, riceveva, sopratutto ne' suoi Stati, soccorsi ed appoggi; impresa, alla quale tutta l'Europa, dopo aver proclamalo il principio del non intervento, assisté indifferente. lasciandoci solo a lottare contro il nemico di tutti, è sul punto di stendere i suoi tristi effetti fino sulla nostra Capitale.

«D'altra parte la Sicilia, e le province del continente, di lunga mano, e con ogni maniera travagliate dalla rivoluzione, la cui pressione le ha sollevate, hanno formato governi provvisori,

col titolo e sotto la protezione nominale di questo Sovrano, ed hanno confidalo ad un preteso Dittatorie l'autorità ed il pieno arbitrio de' loro destini.

«Forte de' nostri dritti fondati sulla Storia, e sugl'impegni internazionali, e sul dritto pubblico Europeo, mentre contiamo prolungare per quanto ci sarà possibile la nostra difesa, non ci siam men decisi, non importa a qualunque sacrificio, per risparmiare gli orrori di una lotta, e dell'anarchia a questa vasta Metropoli, sede gloriosa de' più antichi ricordi, culla delle arti, e della civilizzazione del regno.

«In conseguenza usciremo con la nostra armata fuori delle sue mura, confidando nella lealtà e nell'amore de' nostri sudditi, pel mantenimento dell'ordine, e del rispetto dovuto all'autorità.

«Prendendo una simile determinazione, sentiamo nello stesso tempo il dovere, che ci dettano i nostri antichi ed inviolabili dritti, il nostro onore, l'interesse de' nostri eredi e successori, e più ancora quello de' nostri amatissimi sudditi, e protestiamo altamente contro tutti gli atti finora consumali, e gli avvenimenti che si sono compiuti, e si compiranno in avvenire. Riserviamo tutt'i nostri titoli, e tutte le nostre ragioni, emananti da' trattati, e dai dritti sacri ed incontestabili di successione. Dichiariamo tutti gli avvenimenti, e tutt'i fatti menzionati nulli, illegali, e senza valore, rimettendo per quel che ci riguarda nelle mani di Dio Onnipotente la nostra causa, e quella de' nostri popoli; nella ferma sicurezza di non aver avuto nel tempo sì corto del nostro regno un sol pensiero, che non sia stato consacrato al loro bene ed alla loro felicità. Le istituzioni, che loro abbiamo irrevocabilmente garentite, ne sono il pegno.

«Questa protesta sarà trasmessa da noi a tutte le Corti, e vogliamo che firmala da noi, munita del suggello delle nostre armi regali, e firmala dal nostro ministro degli affari esteri, sia conservala ne' nostri reali ministeri di Stato, degli affari esteri, della presidenza del consiglio de' ministri e di grazia e giustizia, come un monumento della nostra costante volontà di opporre sempre la ragione ed il dritto alla violenza, ed all'usurpazione.»

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Partito appena il Re, Garibaldi sapendo delle quistioni insorte fra gli annessionisti e i componenti l'associazione, scrisse in Napoli, perché si fossero messi subitamente d'accordo a proclamare un governo provvisorio, che sarebbe cessalo col suo arrivo. Ed infatti all'uopo riunironsi G. Ricciardi, G. Libertini, Pii. Agresti, Camillo Caracciolo, Andrea Colonna, Raf. Conforti e Gius. Pisanelli, come rappresentanti il Governo Provvisorio; ed immediatamente decretarono la dittatura di Garibaldi. Liborio Romano, che dimessasi la più parte del Ministri, avea presa su di sé ogni responsabilità, insieme ai due ex - direttori Giacchi e De Cesare, senza perdita di tempo gl'inviò un indirizzo, accompagnato da una sua lettera particolare, e nel tempo stesso pubblicò un proclama in Napoli.

Ecco questi tre documenti, che sono la conferma della politica di Liborio Romano, il Cavour della rivoluzione delle due Sicilie.

AL GENERALE GARIBALDI DITTATORE DELLE DUE SICILIE

Signor Generale

Voi vedete al vostro cospetto un ministero, che ricevette il potere da Francesco II. Noi l'accettammo come un sacriflzio dovuto alla patria. L'accettammo in momenti difficilissimi, quando il pensiero dell'unità d'Italia sotto lo scettro di Vittorio Emanuele, che già da lungo tempo agitava i napoletani, sostenuto dalla vostra spada, e proclamato dalla vicina Sicilia era divenuto onnipotente; quando ogni fiducia tra governo e governati era già rotta; quando gli antichi sospetti e gli odii repressi eran fatti più palesi mercé le nuove franchigie costituzionali; quando il paese era fortemente scosso da gravi timori di nuova e violenta reazione. la tali condizioni accettammo il potere per mantenere la pubblica tranquillità, e preservare lo Stato dall'anarchia, e dalla guerra civile. Ogni nostro studio fu rivolto a questo scopo. Il paese ha compreso il nostro divisamento, ed ha saputo apprezzare i nostri sforzi. La fiducia del nostri concittadini non ci è venula mai meno; e dobbiamo alla loro efficace cooperazione, se fra tante ire di parli si è pure mantenuta questa Città scevra di violenza e di eccidii.

«Generale, tutte le popolazioni del Regno, dove con l'aperta insurrezione, dove con la stampa, dove con altre manifestazioni hanno svelato in modo evidente il loro volo. Vogliono anch'esse far parte della Gran Patria Italiana sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emanuele. Voi siete, o Generale, il simbolo più sublime di questo volo, e di questo pensiero; e perciò tutti gli sguardi si rivolgono a voi e tutte le speranze in voi riposano.

«E noi depositarii del Potere, Cittadini ed Italiani anche noi, confidenti lo trasmettiamo nelle vostre mani, certi che lo terrete con vigore, e che con sapienza indirizzerete questo paese al nobile scopo che vi siete proposto, il quale va scritto sulle vostre vittoriose bandiere, e che è nel cuore di tutti; Italia e Vittorio Emanuele.

Napoli 1 settembre 1860.

Nella lettera poi scriveva.

«Con la maggiore impazienza Napoli attende il suo arrivo per salutare il Redentore d'Italia, e deporre nelle sue mani i poteri dello stato ed i proprii destini.

«In questa aspettativa, io starò saldo a tutela dell'ordine e della tranquillità pubblica; la sua voce, già da me resa nota al popolo, è il più gran pegno del successo di tali assunti.

Mi attendo gli ulteriori ordini suoi e sono con illimitato rispetto, «Napoli, 1 settembre 1860.

Di lei, Dittatore Invittissimo,

LIBORIO ROMANO.

PROCLAMA

Cittadini!

Chi vi raccomanda l'ordine e la tranquillità in questi solenni momenti è il liberatore d'Italia, è il generale Garibaldi. Osereste non esser docili a quella voce, cui da gran tempo s'inchinano tutte le genti italiane?

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 423

Non certamente. Egli arriverà fra poche ore in mezzo a noi, ed il plauso, che ne otterrà chiunque avrà concorso nel sublime intento, sarà la gloria più bella, cui cittadino italiano possa aspirare.

«Io quindi, miei buoni Concittadini, aspetto da voi quel che il Dittatore Garibaldi vi raccomanda ed aspetta.»

Napoli, 1 settembre 1860.

Il Ministro dell'interno e della Polizia Generale

LIBORIO ROMANO.

In vista di questa lettera Garibaldi, messosi da Vietri sulla ferrovia. con pochi del suoi Uffiziali giunse in Napoli, ed alla stazione fu ricevuto dai ministri ancor funzionanti, a capo del quali Liborio Romano, che gli indirizzò un eloquente discorso a nome della cittadinanza napoletana. Garibaldi ringraziatolo, lo decretò salvatore della patria,, e seco lui fece il suo ingresso trionfale.

I castelli, domandano i critici, erano in mano del regi; perché dunque non difesero la loro causa? Senza parlare degli altri, che fecero la loro spontanea dedizione. è veramente a meravigliare della resa di Castel S. Elmo, non solamente invincibile per la sua posizione, ma pel modo ancora. com'era armato ed approvigionato. Eppure quel Comandante Stanislao Garzia si arrese ad un tale Calicchio e ad una bettoliera detta la Sangiovannara, che eransi colà recati con una schiera di popolani armati di bastoni. non certo per assaltare il castello. Questo fu il complemento dell'opera. Qual meraviglia adunque, se Garibaldi. da Marsala a Napoli trovò la via spianata dall'oro del Piemonte; dalla viltà e dal tradimento del Comandanti militari, e dalla forza dei comitati??

CAPITOLO VIII.

I Decreti dittatoriali - Confisca del beni della Famiglia Reale di Napoli - Liborio Romano esautorato dal potere - La reazione nelle province napolitane - Cavour si mostra a volto scoperto - Dualismo tra Cavourristi e Mazziniani - Una lettera di Garibaldi - Il Ministro minaccia dimettersi - Nuovo ministero in Sicilia - Politica di Cavour - Le bande insurrezionali in Romagna - Cavour e Gualterio - Farini e Napoleone 3° - Ultimatum Conte di Cavour alla Corte Pontificia - Nota Gen. Fanti a Lamoricière - Risposta del Cardinale Antonelli - Giudizio di un autore tedesco sull'intervento Piemontese nelle Romagne - Le note Napoleone 5° Ordine del giorno Cialdini da Rimini - Memorandum di Cavour ai Gabinetti esteri.

Garibaldi proclamato Dittatore di Napoli con l'intesa di Liborio Romano qual pubblico rappresentante del comitati, si diede a provvedere ed a regolare le faccende del regno, lasciando la polizia affidata agli uomini del Romano, confermato a Ministro dell'interno nel ministero dittatoriale!

Sarebbe troppo lungo riportare l'immensa quantità del Decreti, i quali non ebbero che la vita del fuoco fatuo; essendo stato poco di poi tutto derogalo, meno qualche pensione, che seguitò a pagarsi per non mostrar tutta l'odiosità che dove» spiegarsi contro gli uomini del partito avanzato. Ne riporteremo alcuni che meritano di essere ricordali.

Primo fra gli altri fu quello, con cui si ordinò che la squadra napolitana restasse fusa alla Piemontese, e l'Ammiraglio Persano ne assumesse il comando. Sciolse tutta la fanteria di marina, considerata reazionaria per esser stata restìa ai consigli della rivoluzione, e fedele alla famiglia del suoi Re ed all'onore della bandiera. Poi una sequela di provvedimenti che accenniamo.

Abolizione immediata d'ogni barriera doganale ed ostacolo commerciale: 1.° Fra Napoli e Roma: 2.° Fra Napoli e la Sicilia: 3.° Fra Napoli e la rimanente Italia, esclusa Venezia.

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Riforma delle tariffe doganali, per modo da rendere inutile il contrabbando e facilitare l'applicazione piena ed intera del libero scambio.

Incameramento de' beni di manomorta, previa l'abolizione del concordalo con Roma.

Incameramento de' beni di Casa Reale, salvo i diritti da riconoscersi dalla Rappresentanza nazionale italiana.

Abolizione de' Dazii di consumo.

Abolizione graduale del giuoco del lotto.

Rete di strade ferrale da abbracciare l'intero Reame.

Estinzione della mendicità per via di lavoro agli uomini validi, e di soccorsi settimanali da distribuirsi da' municipii a' poveri d'ogni Comune, inabili a lavorare.

Riforma radicale de' luoghi pii e Stabilimenti di beneficenza.

Riforma delle prigioni.

Riforma del sistema monetario.

Riforma postale.

Riforma dell'insegnamento, cominciando dall'istruzione primaria, da dover essere generale, gratuita, obbligatoria.

Ricostituzione de' Municipii per via d'elezione popolare.

Demolizione de' forti S. Elmo, Carmine e Nuovo, rispettando la parte storica di quest'ultimo».

Tutti questi decreti non ebbero effetto alcuno, e furono immediatamente abrogali dal Ministero formato e nominalo a Torino. Quello. cui per altro senza perdita tempo si volsero gli occhi, fu l'incameramento del beni di casa Reale: ed il ministro Conforti, eseguendo il Decreto Dittatoriale, vi mise le mani sopra. Trattavasi di una rendita, che oltrepassava gli undici milioni, costituita da beni particolari della famiglia Reale. In questi eran compresi i beni dotali della Regina Cristina di Savoia Madre di Re Francesco 2°; le doli delle Reali principesse, ed il peculio particolare del Re.

Trascriviamo su tale importantissimo oggetto la protesta del Re Francesco 2°.

«Le rendite (leggesi nella protesta) occupale violentemente dal sig. Conforti, e violentemente confiscate dal Governo di Garibaldi, si compongono di quelle due partite accennate nel suo giornale di Napoli (1). La prima, cioè quella di 184,608 ducati, rappresenta l'eredità lasciata ai suoi dieci figli ed ai poveri dal defunto re Ferdinando 2°. Questo è frutto delle economie personali di 30 anni di regno: e dichiarare illegittima questa eredità vai tanto che attaccare la legittimità della lista civile, e del patrimonio che hanno posseduto tutti i monarchi delle Due Sicilie.

«I.'altra partita si compone, nella maggior parte. del maggiorati del Reali Principi, e delle doti delle R. Principesse, costituiti in virtù di antiche e finora rispettate leggi. Là stanno pure piccole economie fatte in favore di orfani durante la loro infanzia, come può rilevarsi dalla lista stessa pubblicata nel giornale della rivoluzione, trovandosi sole due partile appartenenti al Re, una di D. 5415, economie della sua assegnazione di Principe ereditario, e un'altra di D. 61, 500 interessi composti ed accumulati durante ventitré anni della dote, ed eredità proprio dello suo illustre e Venerabile madre Maria Cristina Di Savoia.

«La dole di questa Principessa Piemontese è stata confiscala dal governo di Garibaldi, in nome del Re di Piemonte, e si contesta al figlio il diritto a questa santa e legittima erediti! di sua madre, dovutagli in virtù di un trattato con la Sardegna a

A nome del Piemonte adunque furono confiscate queste ricchezze, e la rivoluzione saccheggiò tutti i reali palazzi; ma né il denaro né la roba saccomanata andò a Torino. Rimase buona preda pei compromessi politici, pei martiri, per coloro che avean sofferto l'esilio! Senza indagare i modi, come queste rendile sieno sparite, ed il perché il governo italiano alle continue e replicate istanze del giornalismo non avesse giammai risposto, basta leggere il Decreto di Garibaldi del 23 Ottobre, col quale distaccavasi da quelle rendite la somma di Sei unioni di bacati per dispensarli a coloro

(1) Gior. di Napoli 20 Sett. 1860.

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«che furono carcerali e condannati per causa politica... o che furono violentemente espulsi dallo i) Stato....»!!!

Qual meraviglia dunque, se abbiam veduto individui, che viveano magramente a Torino, in un momento addiventate ricchissimi? Setta famelica, che in nome della libertà e della rigenerazione d'Italia, cominciava dal porre a sacco quattro Reali famiglie spodestale, i cui beni particolari sparvero; mentre il Conte di Cavour su tanta rapina non uno ma entrambi gli occhi chiudeva! In ogni commovimento politico si può legittimare il fine della rivoluzione. Nel 1860 non si vide che il materialismo, la sete dell'arricchire di un partito, il quale, una volta afferralo tenacemente il potere, rovesciò a sua volta la rivoluzione, e si impadronì delle finanze. E quando il popolo, commosso e sdegnalo per le mancale promesse, e per l'intristire delle sue condizioni, chiese al partito governativo, stimmatizzato col nome di Consorziero, conto delle tristi opere, e si credé nel diritto di riprendere l'azione fermala al Volturno, quel partito rispose come Silvio Spaventa nel Dicembre 1860 coi Garibaldini, Urbano Rattazzi ad Aspramente, il Ministero Minghetti - Peruzzi nel 21 e 22 Settembre 1864 in Torino; e Cadorna nelle terribili giornale di Settembre a Palermo nel 1866.

Il partito dell'Associazione unitaria si agitava potentemente a sostenersi contro gli annessionisti di La Farina, che tentavano di ripetere le scene di Palermo. E questa gara irritava grandemente il Conte di Cavour, che ben vedea troppo dubbia ancora la posizione delle cose. Liborio Romano, che avea servito Garibaldi come mezzo, ma come fine avea guardato al Gabinetto di Torino, si trovò imbarazzato sotto la pioggia del nuovi decreti, e di fronte alla resistenza che trovò in Bertani, su cui grandemente flduciava Garibaldi. Di più, tuttocchè egli fosse ligio a Cavour, pure gli emigrati il vedevano male al potere per l'influenza che ancora esercitava sulle masse; per cui si diedero a renderlo impopolare; i garibaldini accusandolo di venduto al Piemontesimo; i piemontisti accusandolo di ambizioso, che per non perdere il potere avversava il sentimento unitario.

In questo frattempo, mentre che le truppe ancor rimaste fedeli al Re si andavano riunendo per fortificare la linea di Capua, di Santa Maria e Caserta, la reazione cominciò ad ergere il capo nel Napolitano. Descriverne i particolari sarebbe troppo lunga cosa. Trattandosi di fatti orribili e sanguinosi; di lolle cittadine, d'incendi, di saccheggi, di fucilazioni arbitrarie, cercheremo d'esser brevi.

Ariano ne diede il segnale, e terribili ne furono gli effetti: quella città posta sul vertice di un monte, e da erte montagne circondata, sarebbe stato punto importante, e centro di un'azione che avrebbe polIilo diramarsi, se fosse stato sostenuto e difeso. Sollevalasi quella popolazione, accorse un corpo di Garibaldini, ch«ebbe moltissimo a soffrire contro il fuoco del regi. Mentiscono - e noi che scriviamo, possiam dirlo, sincroni come siamo - coloro i quali asserirono Flores e Bonanno aver sostenuta la reazione: ù falso questo asserto. Flores avea già capitolalo, ed avea inoltre lasciala a sé stessa la truppa, consigliando i soldati di sottomettersi a Garibaldi, o di tornarsene alle loro case. Bonanno senza tirar colpo capitolò dando in potere di Cosenz armi, artiglieria e cavalli! La reazione colà non potette sostenersi, e fu vinta. Ma si riaccese altrove, e terribili furono i fatti di Frasso, Paduli, Montemiletto, Torrecuso, Paupisi, S. Antimo, Isernia, Castelluccio, Castelsaraceno, Carbone, e Latronico, dove a torrenti corse il sangue del cittadini e degl'invasori.

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Dimenticherà la storia la distruzione di S. Marco in Lamis, di Viesii, Cotronei, Spinello, Rignano, Barile, Vico di Palma, Campo di Miano, Guardia Regia, Montefalcione, Pontelandolfo, e Casalduni dati a ferro ed a fuoco dalla licenza militare? Cialdini scriveva più tardi. «Giustizia è stata fatta di Pontelandolfo e Casalduni....» e quei due paesi furono ridotti ad un mucchio di rovine. Il Questore di Palermo sul giornale Officiale facea pubblicare: «- a Castellamare i colpevoli sono stati rigorosamente puniti...» ossia passati per le armi.

De Virgiliis fucilava a Teramo; si fucilava a Livardi, a Caserta, a Noia. Pinelli, Neri, Galateri, Fumel, Bigotti, Del Bosco fucilavano. Quarantasette ne facea fucilare un De Luca prefetto d'Avellino. A San Giorgio La Molara furono arrestati alcuni proprietari designali complici della reazione; la corte Criminale pronunziò verdetto d'innocenza - ma gl'innocenti eran stati già fucilati! - Tredici ebber la stessa sorte vicino a Lecce, infastiditi i soldati di scortarli; nel distretto di Gerace non men che Ottantadue furono passali per le armi in pochi giorni.... Un velo su questi fatti orribilissimi, che se tutti raccontar volessimo, avremmo bisogno di volumi interi, giacché la storia di quel tempo per le province napolitano non è che una pagina sola! Ma se in seguito il governo Italiano poté coonestare il suo operare, dichiarando servirsi di mezzi eccezionali per abbattere il brigantaggio, e sostenere il suo diritto sulle province napolitano, quale diritto si avea quando non ancora era stato votato il plebiscito? Qual diritto, se una parte dei. il imi ini non rispondeva agli appelli molteplici di coloro che arrogavansi le ragioni del popoli, e chiamavan reazionari e fucilavano coloro, che non partecipavano delle loro idee? Oramai questi non son più misteri -: oramai tulio è passalo nel dominio della storia, e l'ecatombe di sangue fratricida, consumalo impunemente sollo il nome di patriottismo, è una macchia che non laverà mai tu Ila l'acqua del Mediterraneo e dell'Adriatico.

Seguiva intanto la pioggia del Decreti di Garibaldi, ed uomini nuovi, sconosciuti, eran messi a capo delle province di terra ferma; i quali saliti così anormalmente al potere, diedersi sfrenatamente

a farla da proconsoli. abusando in quei momenti nefasti dello spavento che avea invasa la maggior parte del cittadini. Garibaldi per altro cambiava gli uomini, e decretava stabilimenti per i figli del popolo, orfanotrofi e simiglianti istituti, mentre non pochi ve n'erano nel Reame, ma che il Dittatore ignorava, ed in buona fede credeva che si potessero fondare con un Decreto Dittatoriale. Con Garibaldi stava la maggioranza del partito della rivoluzione; epperò il partito annessionista, temendo che quello stato di cose non degenerasse in un tentativo di Repubblica, si diede a lisciarlo, affinché avesse promulgalo lo Statuto piemontese. Ed in fatti Garibaldi lo promulgò con decreto del 14 Settembre Fu una vittoria per gli annessionisti, i quali nondimeno non avrebbero potuto imporsi al paese sino a quando non si fossero insediati nei principali posti del governo. A raggiungere questo scopo si lavorava indefessamente dal Gabinetto di Torino, poiché difficilissimo era soppiantare quell'uomo che per la sua indole democratica avea simpatizzalo col popolano: sicchè da ogni banda il comitato spediva messi nelle diverse province, affin di formare un partito, che proclamasse l'annessione, che Garibaldi e i repubblicani a niun costo voleano, prevedendo che i popoli avrebber cambialo padrone, non sistema: si sarebbero rovesciali gli uomini della vecchia scuola per farli sostituire da altri, che con le leggi Pica e Crispi avrebbero autorizzate le fucilazioni, finanche quelle inutile e barbare di donne e di fanciulli; condannando all'ostracismo ed al domicilio coatto migliaia di famiglie.

Il Conte di Cavour, che non perdevasi di coraggio, e mostrò carattere risolutissimo nelle difficili contingenze in cui versava l'Italia meridionale, comprese molto bene che la inazione del gabinetto Sardo, in quella circostanza, avrebbe compromesso tutto quanto erasi conseguito; giacché irritali gli animi, una lotta stasse per accendersi tra i due partiti della rivoluzione; lotta in cui il partito conservatore - costituzionale - borbonico avrebbe potuto trovare occasione per riorganare le forze e riaversi da quell'istantaneo sbalordimento, chiamando in aiutò l'esercito che a Capua si riordinava

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per sostenere una pruova a tutt'oltranza: nella certezza che non avesse più a temere il tradimento, giacché le maschere eran tutte cadute, e sotto le bandiere non eran rimasti che i soli fedeli alla causa del Re. Laonde si decise ad agire e ad uscire dal riserbo diplomatico in che fino allora gli era stato giuocoforza rimanere. Ed a tal passo lo spinse il crescente disaccordo tra gli annessionisti ed i Mazziniani.

Quelli, per guadagnare proseliti all'annessione, avean fatto propalare voci che affermavano la connivenza di Garibaldi con Cavour; lo che dissestava i piani della rivoluzione. Andarono così oltre le cose, che un avvocato Brusco di Genova ne scrisse di proposito al Dittatore, dimandandogli fino a qual punto dar credito a quelle voci. Garibaldi rispose.

«Ella mi assicura, che Cavour dà intendere che io sono suo cordiate amico, e che opero di piena concordia con lui. Benchè io sia stato sempre disposto a sacrificare sull'altare della patria le mie antipatie personali, la deggio però assicurare, che non potrò mai riconciliarmi con uomini, che hanno vilipesa la dignità della Nazione e venduta una provincia Italiana» (1).

Questa lettera significantissima fu stampata e pubblicala, lo che fu un colpo mortale alle mire degli annessionisti. Risentironsene i ministri Dittatoriali, e tra gli altri il Conforti, che soprantendendo alla polizia avea messo all'indice di - un novello libro di attendibili, i costituzionali - borbonici ed i Mazziniani! - gli uni e gli altri, nimici giurati dell'annessione...!

Il Ministero minacciava dimettersi, e Garibaldi, per scongiurare una crisi che sarebbe stata fatale in quei momenti, cercò di racquetare gli animi con promesse, che decisero Conforti, il quale più degli altri avea chiassato, a ritirare le dimissioni!! In Sicilia fu nominato il nuovo ministero. Mordini Prodittatore -: Perenni, Finanze -: Parisi, Interni - Tamajo, Polizia-: Fabrizi, Guerra-: Oriunda, Lavori pubblici-: l'ex - prete Ugdulena, pubblica Istruzione.

(1)

Rustow. La Guerra d'Italia del 1860. Milano 1862.

Ma costoro avversavano anch'essi l'annessione chiesta da Cavour, e non poteano essere accetti al gabinetto di Torino. Non pertanto si usò prudenza per togliere ogni occasione di recriminazioni; mentre dietro ordini di Cavour il partito lavorava zelantemente a raggiungere il prefisso scopo.

L'idea di Cavour era d'impadronirsi della posizione delle cose, affinché non si dasse pretesto a qualche potenza straniera interessala d'intervenire a spegnere un fuoco, che minacciava divampare in elemento repubblicano. Egli, dopo compiuta l'invasione della Sicilia, quando vide la rivoluzione progredire anche sul continente, studiò il modo d'intervenire mascherando l'intervento. A tal fine giovavangli i disordini che parca degenerassero in anarchia. Perciò lasciava fare a Garibaldi, mentre gli emigrati cingevano il Dittatore di tale catena, che impossibile sarebbegli stato spezzare. Garibaldi non celava il suo pensiero di marciare direttamente su Roma; e questo era un fatto che avrebbe guastato tutto, poiché all'Imperatore del Francesi, che avea chiusi gli occhi sulle invasioni delle Legazioni, stava molto a cuore la Francia Cattolica; a prescindere. che una invasione a Roma poteva giustificare l'intervento della Spagna e dell'Austria, ed accendere una guerra novella.

Per tradurre in alte tal progetto e scansarne le conseguenze. con ogni riserva fece raccogliere buon nerbo di truppe sul Mincio per resistere, ove bisogno il. richiedesse, ad una invasione Austriaca; ed inviò il Ferini a Chambery, ove trovavasi Napoleone 3.° a visitare la Savoia da poco cedutagli dal gabinetto di Torino, nello scopo di scandagliarne l'animo, o per meglio dire, a prenderne il tacito consenso. A coonestare questo inqualificabile intervento, furono spediti emissari ad eccitare le popolazioni dello stato pontificio; ed affinché esse avessero avuto un appoggio efficace alla insurrezione, si fecero organizzare bande armate nella Toscana e nelle Romagne per capitanare la sommossa. Il colonnello Masi ne ebbe il comando. Questo pensiero il Cavour area già estrinsecalo con lettera al Marchese Gualterio, che era uno del

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Ecco la lettera.

«Caro Gualterio. Mi affretto di riscontrare la vostra lettera del 24. Consento pienamente con voi: l'ora di agire nell'Umbria e nelle Marche s'avvicina. Il Ministero è deciso non solo di secondare, ma bensì di dirigere il movimento. Onde preparare i mezzi di azione l'invito perciò di portarvi a Firenze voi pure, non più tardi di domenica prossima. Giunta l'ora d'agire, saremo non meno decisi né meno audaci del Bertani: ma all'audacia accoppieremo l'oculatezza e l'antiveggenza. Facciamo affidamento su voi e sui buoni d'oltre confine, che ne si dice esser molti.

Torino 26 Agosto 1866.

Vostro aff. Cavour.

Mentre Gualterio correva a Firenze, Masi si avanzava sulle Romagne col grido dell'insurrezione, ed i comitati organizzati nelle province Pontificie appiccavano cartelli e bandiere. Tanto bastava per coonestare l'intervento secondo l'idea del Conte di Cavour, il quale stimò dovere d'umanità volare in aiuto del romagnuoli tormentati dai carabinieri del Papa, i quali laceravano i cartelli sediziosi, e metteano in prigione qualche più avventato, che già conoscendo ciò che si preparasse a Firenze ed a Torino, si faceva martire volontario della polizia Pontificia!!

Farini tirava da ciò il diritto di far osservare a Napoleone 3. la necessità di permettere ai popoli anche una volta di pronunziare il libero volo: e l'Imperatore, cedé alle fattegli istanze. e permise l'annessione al Piemonte di quelle province pontificie. E fu allora che pronunziò le solenni parole ormai divenute storielIe: allez; frappez fort; debarassez moi de cette canaille! Alcuni vogliono, che queste parole fossero dirette ai Garibaldini: altri che parlasse delle truppe di Lamoricière.

Qualunque fosse stata però la sua idea, Farini si recò immediatamente a dar la nuova solenne a Torino; ed il Piemonte, fattosi proteggitore della rivoluzione, inviò a Roma il Conte Della Minerva portatore di un ultimatum della Corte; quello stesso Della Minerva, che pochi mesi prima avea avuto i suoi passaporti dal Governo Pontificio, come perturbatore dell'ordine pubblico.

Giunto egli a Civitavecchia, non poté proceder oltre, poiché impeditogli da quel Delegalo di polizia; e si dové contentare di spedire al Cardinale Antonelli la Nota seguente.

Torino li 7 Sett. 1860.

Eminenza

«Il Governo di S. Maestà il Re di Sardegna non poté vedere senza grave rammarico la formazione e l'esistenza del corpi di truppe mercenarie straniere al servizio del governo Pontificio. L'ordinamento di siffatti corpi non formati, ad esempio di tutti i governi civili, di cittadini del paese, ma di genti di ogni lingua, nazione, e religione, offende profondamente la coscienza pubblica dell'Italia e dell'Europa! L'indisciplina inerente a tal governo di truppe, l'improvvida condotta del loro proclami, suscitano e mantengono un fermento oltremodo pericoloso.

«Vive pur sempre negli abitanti delle Marche e dell'Umbria la memoria dolorosa delle stragi e del saccheggio di Perugia. Questa condizione di cose, già da per sé stessa funesta, lo divenne di più dopo i fatti che accaddero in Sicilia e nel reame di Napoli. La presenza del corpi stranieri, che ingiuria il sentimento nazionale, ed impedisce la manifestazione del voti dei Popoli, produrrà immancabilmente l'estensione del rivolgimenti alle province vicine.

«Gli ultimi rapporti che uniscono gli abitanti delle Marche e dell'Umbria con quelli delle Province annesse agli stati del Re, e le ragioni dell'ordine e della sicurezza del propri Stati impongono al governo di S. M. di porre, per quanto sta in lui, immediato riparo a questi mali. La coscienza del Re Vittorio Emanuele non gli permette di rimanersi testimonio impassibile delle sanguinose repressioni,

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con cui le armi del mercenari stranieri soffocherebbero nel sangue italiano ogni manifestazione di sentimento nazionale. Niun governo ha diritto di abbandonare all'arbitrio di una schiera di soldati di ventura gli averi, l'onore, la vita degli abitanti di un paese civile.

«Per questi motivi, dopo avere chiesti gli ordini da S. M. il Re mio Augusto Sovrano, ho l'onore di significare a V. Eminenza, che le truppe del Re hanno l'incarico d'impedire, in nome del diritti della umanità, che i corpi mercenari Pontificii reprimano con violenza l'espressione del sentimenti delle popolazioni delle Marche e dell'Umbria.

«Ho l'onore d'invitare Vostra Eminenza per i motivi sopra espressi a dare l'ordine immediato di disarmare e disciogliere quei corpi, la cui esistenza è una minaccia continua alla tranquillità d'Italia.

«Nella fiducia che Vostra Eminenza vorrà comunicarmi tosto le disposizioni date dal governo di Sua Santità in proposito, ho l'onore di rinnovarle gli atti dell'alta mia considerazione.

Di Vostra Eminenza

Firmato - C. Cavour.

Chi segue il racconto di siffatti avvenimenti senza spirito di parte, deve profondamente valutare l'ipocrisia di questa nota, che calpesta e lede il diritto pubblico internazionale da una parte, e ad ogni parola mentisce, accollando al governo Pontificio quanto era opera del Gabinetto di Torino. Volea dunque il Conte di Cavour, che un Re fosse spogliato del suoi Stati, sol perché voleanlo i comitati, cui non prendea parte la gran maggioranza del popolo? Chi erano gli autori di quella perturbazione, non erano gli emissari di Torino? senza di essi chi potea sconvolgere l'ordine e la tranquillità negli stati del Papa? - Cavour era solito dire, che il fine giustifica i mezzi! a noi duole che sia morto immaturamente quest'uomo politico; imperocchè oggi egli avrebbe ricordalo che un altro politico suo maestro, il Macchiavelli, scriveva: «tutti i mezzi son buoni, purché però ottenutosene il fine, sappiano quei mezzi coonestarsi col buon andamento del Governo!»

Se questo siasi ottenuto, come forse era nella mente del Conte Cavour, lo vediamo noi, lo vede l'Europa tutta; e ne parla già il giudizio severo delle popolazioni.

Intanto che della Minerva spediva la Nota riportata al Card. Antonelli, il Generale Fanti che allora reggeva il Ministero della Guerra di S. M. Sarda, altra Nota facea tenere al Gen. Lamoricière Comandante in capo delle truppe Pontificie. Essa era del tenore seguente:

Arezzo 9 Sett. 1860.

«Eccellenza

«S. M. il Re Vittorio Emanuele 2.° che si grandemente è interessalo alla felicità d'Italia, è molto preoccupalo per gli avvenimenti. che succedono nelle Province delle Marche, e dell'Umbria.

«S. M. non ignora che ogni manifestazione fatta presso le frontiere del suo reame in senso nazionale, la quale fosse repressa da truppe straniere, non essendovi fra loro alcun vincolo di nazionalità, produrrebbe inevitabilmente un controcolpo funesto negli Stati suoi.

«È in seguito a queste gravi considerazioni, che S. M. ha comandato il concentramento delle sue truppe alle frontiere delle Marche e dell'Umbria, affidandone a me l'alto onore del comando in capo.

«Egli mi ha prescritto nel tempo stesso di far sapere a V. E. che queste truppe occuperanno al più presto quelle province nei seguenti casi:

«1.° Se le truppe sottoposte agli ordini di lei, trovandosi in una citlà delle Marche e dell'Umbria, si permettessero di far uso della forza per reprimere una manifestazione in senso nazionale.

2.° Se le truppe di suo comando ricevessero ordine di marciare su di una città dì coteste province Pontificie, quando colà nascesse manifestazione in senso nazionale.

«3.° Quando repressa la manifestazione in una città, dove sia avvenuta, con la forza delle truppe, queste non ricevessero istantaneamente l'ordine di ritirarsi, lasciando liberi i cittadini di pronunciare liberamente i loro voti.

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«Niuno meglio che V. E. potrà comprendere, come il sentimento nazionale deve risentirsi contro la oppressione straniera, ed io oso confidare, che accettando Ella francamente e senza dilazione le proposizioni che vi ho proposto a nome del R. Governo, impedirà l'intervento delle nostre armi in coleste Provincie d'Italia, e le dispiacevoli conseguenze che ne potrebbero avvenire.

«Aggradisca, Eccellenza etc.»

Basta leggere questo secondo documento per qualificarne la morale. Era il forte che accasciava il debole; era la rivoluzione che si poggiava alle armi; insomma era un fatale dilemma; o lasciale liberi i nostri comitati di fare ciò che abbiamo stabililo a Torino, o verremo noi con le armi ad imporci e sostenerli.

A queste due Note con una sola rispondeva il Cardinale Antonelli, qual Segretario di Stato: è la parola di chi invano ricorre al diritto; e sapendo di dover soccombere alla forza, non lascia di mostrare quel contegno, che onora la sventura.

«Roma 11 Settembre 1860.»

«Eccellenza

«Astraendo dal mezzo, di cui V. E. stimò valersi per farmi giungere il suo foglio del 1 corrente, ho voluto con tutta calma portare la mia attenzione a quanto ella mi esponeva in nome del suo Sovrano, e non posso dissimularle, che ebbi a farmi una ben forte violenza. I nuovi principii di diritto pubblico, che Ella pone in campo nella sua rappresentanza, mi dispenserebbero per verità da qualsivoglia risposta, essendo essi troppo in opposizione con quelli sempre riconosciuti dal!'universalità del governi e delle nazioni.

«Nondimeno, tocco al vivo dalle incolpazioni che si fanno al governo di Sua Santità, non posso ritenermi dal rilevare dapprima essere quanto odiosa, altrettanto priva d'ogni fondamento ed affatto ingiusta, la taccia che si porta contro le truppe recentemente formatesi dal governo Pontificio; ed essere poi inqualificabile l'affronto, che ad esso vien fatto nel disconoscere in lui un diritto a tutti gli altri comune;

«Niente poi potrebbe essere più falso e più ingiurioso che l'attribuirsi alle truppe pontificie i disordini deplorabilmente avvenuti negli stati della Santa Sede, né qui occorre il dimostrarlo. Dappoiché la Storia ha già registralo quali e donde provenienti sieno state le truppe che violentemente s'imposero alla volontà del popoli, e quali le arti messe in opera per gettare nello scompiglio la più gran parte della Italia, e manomettere quanto vi ha di più inviolabile e di più sacro per diritto e per giustizia.

E rispetto alle conseguenze, di cui si vorrebbe accagionare la legittima azione delle truppe della S. Sede per reprimere la ribellione di Perugia, sarebbe in vero stato più logico l'attribuirle a chi promosse la rivolta dall'estero: ed ella, sig. Conte. troppo bene conosce donde quella venne suscitata; donde furono somministrali denaro, armi, e mezzi di ogni genere; e donde partirono le istruzioni e gli ordini d'insorgere.

«tutto per tanto dà luogo a conchiudere, non avere che il carattere della calunnia quanto declamasi da un partito ostile al governo della S. Sede a carico delle sue milizie, ed essere non meno calunniose le imputazioni che si fanno ai loro capi, dando a crederli come autori di minacce provocatici, e di proclami propri a suscitare un pericoloso fermento.

«Dava poi termine alla sua disgustosa comunicazione l'Eccellenza Vostra con l'invitarmi a nome del suo Sovrano ad ordinare immediatamente il disarmo e lo scioglimento delle sudette milizie; e tale invito non andava disgiunto da una specie di minaccia

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di volersi altri

«In ciò si manifesta una quasi intimazione, che io ben volentieri qui mi astengo dal qualificare.

«La Santa Sede non potrebbe che respingerla con indignazione, conoscendosi forte del suo legittimo diritto, ed appellando al gius delle genti, sotto il coi egida ha fin qui vissuto l'Europa. Qualunque sieno del resto le violenze alle quali potesse trovarsi esposta, senza averle punto provocale, e contro le quali fin d'ora mi corre il debito di protestare altamente in nome di Sua Santità;

«Con sensi di distinta considerazione mi confermo.

Di Vostra Eccellenza.

Firmato. G. Caro. Antonelli.

Il Conte di Cavour non attese questa risposta officiale per attuare il suo divisamente: ogni giorno che passava, era una pietra che si toglieva ai progetti dell'ambizione rivoluzionaria.

Il partito mazziniano, che avea fatto centro d'azione Napoli e Palermo, si preparava a gettare su Roma le sue bande garibaldesche, e questo era stato altamente e sotto ogni risponsabilità proibito dall'Imperatore del Francesi: laonde fu ordinala alle truppe Piemontesi d'invadere il territorio Pontificio.

Il corpo d'armata era composto dai più scelti reggimenti Sardi, forniti di buona cavalleria e di ottima artiglieria, formanti in uno 45 mila uomini!!!.

Non volendo noi su tal riguardo pronunziare un giudizio, che è pur quello che han dato tutti gli uomini più eminenti dell'estero, riproduciamo alla lettera un brano del Rustow: il quale, tuttocchè infiammalo di unità italiana, pure non può reprimere un movimento di sdegno.

«E qui osserveremo, dice l'autore, che la campagna del Piemontesi negli stati Pontificii dovea riuscire sommamente brillante, poiché il Cavour vi destinava 45,000 uomini,

i quali doveano combattere contro soli 8,000, quanti ne poteva disporre Lamoricière in campo aperto. E per ciò v'era materia pronta da compilare splendide relazioni di fatti guerreschi, che non avrebbero richiesto grande perizia, e con quelle relazioni si poteva agevolmente scemar lustro alle opere di Garibaldi. Cavour avea grande favore presso i compilatori del diarii di Europa, e mandando loro le esagerate relazioni di ciò che operavano i Piemontesi, faceva in modo che sui fatti di Garibaldi dicessero, o mentissero a disonore dell'esercito meridionale; in tal modo veniva a toglier favore a Garibaldi.... e faceva che gli sguardi di Europa si rivolgessero sopra di lui, e se vogliamo tener conio della sua modestia, sopra Vittorio Emanuele» (1).

Ed in fatti era così. Cavour, che vedea gigante questo portento della rivoluzione. conservatore quale fu sempre in politica, avea premura di soffocarlo; ed al movimento tutto democratico volea dare un aspetto di legalità, almeno nella forma, se non nella sostanza, per impedire ogni piato estero sulla tema dell'estendersi della rivoluzione. Perciò prima di andare a Napoli, bisognavagli quel colpo sulle truppe pontificie, perché queste non avessero potuto prestare aiuto armato alle truppe di Francesco 2.°, il quale impaccialo a tener fronte all'esercito meridionale, non avrebbe potuto accorrere a sostenere i pontificii. In questo modo Cavour, ridendosi del dritto, correva ad una vittoria certa; nelle province Romane non essendovi che soli otto in nove mila uomini di fronte ai suoi 45 mila; e nelle province Napolitano, dove forte era il suo partito; e dove l'esercito a combattere era già sgominalo dai tradimenti di Sicilia, del continente e della marina; assottiglialo nelle file per le diserzioni che tuttodì succedevano per opera di ben organizzati comitati; mal nutrito, e forse anche sfornito di molti mezzi di difesa. Di chi temer dovea? Dell'Austria o della Francia? Alla prima si era pensalo, ed i proclami che segretamente stampavansi in Italia, cominciavano a muovere gli animi degli Ungheresi; e perciò il gabinetto di Vienna avea altro a fare che correre in Italia; dippiù la Francia vigile, e sempre gelosa del dominio austriaco nella penisola,

(1)

Loc. cit. Parte terza. Cap. XI.

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avea pronunziata con voce ferma la parola non intervento; e l'Austria assisté, o dové assistere impassibile al detronizzamento del Borboni di Napoli, ed allo spoglio delle province del Papa. Napoleone, a non mostrarsi solidale in faccia all'Europa di tali avvenimenti, con le solite note diplomatiche disapprovò l'entrata del piemontesi nelle Romagne; e giunse sino a minacciare il ritiro del suo ambasciatore da Torino!

Intanto il Generale Cialdini passò i confini, ed annunziò il rompere delle ostilità con il seguente Ordine del giorno, pubblicato dal Quartier Generale di Rimini l'11 Settembre.

«Soldati del 4° Corpo d'Armata

«Vi conduco contro una masnada di briachi stranieri, che sete d'oro e vaghezza di saccheggio trasse nei nostri paesi.

«Combattete, disperdete inesorabilmente quei compri sicari, e per mano vostra sentano l'ira di un popolo, che vuole la sua nazionalità, e la sua indipendenza!

«Soldati! l'inulta Perugia domanda vendetta, e benché tarda, l'avrà.»

Enrico Cialdini.

Mentre che così l'armata Piemontese sconfinava sul territorio Pontificio, il Conte di Cavour spediva alle Corti Estere un Memorandum scritto con quella penna che sa simulare e travisare i fatti, per coonestare gli strani avvenimenti! Questo documento è degno di esser tramandato ai posteri, per la sua furberia politica; e noi lo riportiamo per intero. In esso vi è scaltrezza ed accorgimento: tende a legittimare una aggressione, protestando rispettare Roma e il Papa: anzi esser pronto il Piemonte a difenderlo da ogni aggressione. Finisce con una lode al Pontefice, cui fa l'augurio di essere il padre degl'Italiani!

Ecco il documento.

«La pace di Villafranca, confermando agl'Italiani il dritto di disporre di sé stessi, concesse a' popoli di parecchie provincie del Nord e del centro della Penisola la facoltà di sostituire a' governi sottoposti ad influenze straniere, il governo nazionale di re Vittorio Emanuele.

Quel gran rimutamento si operò con un ordine mirabile, e non un solo di que' principii su cui è stabilito l'ordine sociale venne scrollato. Gli avvenimenti che compironsi nell'Emilia e nella Toscana provarono all'Europa che gl'Italiani, lungi dall'essere agitali da passioni anarchiche, non chiedono altro che esser retti da istituzioni libere e nazionali.

«Se quel rinnovamento si fosse dilatato per tutta la Penisola, la quistione italiana sarebbe a quest'ora risoluta compiutamente; ed in cambio di venir riguardala dall'Europa come una causa di preoccupazioni e di danni possibili, l'Italia sarebbe ormai un elemento di pace e di conservazione. Sciaguratamente la pace di Villafranca non poté comprendere che una parte della penisola; lasciò difatti la Venezia sotto la dominazione austriaca, e non apportò cangiamento alcuno nell'Italia meridionale e nelle provincie rimaste sotto il governo temporale del Pontefice.

«Non intendiamo in questo luogo trattare la quistione della Venezia; ricordiamo solamente che finché quella quistione resterà sospesa, l'Europa non potrà godere il benefizio di una pace durevole e sincera. Vivrà sempre nell'Italia una causa possente di torbidi e di rivoluzioni, che, ad onta degli sforzi de' governi minaccerà di continuo prorompere nel seno istesso del continente con l'insurrezione e con la guerra. Ma una tale soluzione bisogna commetterla al tempo. Qualunque sia la simpatia inspirala giustamente dalla condizione di giorno in giorno più infelice de' Veneziani, l'Europa tanto si lascia spaventare dagli effetti non prevedibili di una guerra, tanto è sospinta dal desiderio vivissimo o meglio dal bisogno irresistibile della pace, che sarebbe al certo stoltezza non rispettare la sua volontà. Non è cosi per quelle quistioni che riguardano il centro ed il mezzogiorno dell'Italia.

«Devoto ad un sistema tradizionale di politica, il quale non è tornalo meno funesto alla sua famiglia che al suo popolo, il giovine re

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repugnante agli stessi avvisi che gli veniano porti da un governo, di cui non poteva rivocare in dubbio l'amicizia costante e sincera e l'affetto al principio di autorità, egli respinse pel corso intero di un anno gli sforzi del Re Sardo che volea indurlo ad abbracciare una politica più conforme ai sentimenti de' popoli italiani.

«Ciò che la giustizia e la ragione non potettero conseguire, il conseguì la rivoluzione. Rivoluzione prodigiosa, che ha riempito di stupore l'Europa pel modo quasi provvidenziale con cui è avvenuta, e l'ha compresa di ammirazione per quel guerriero illustre di cui le geste gloriose rammentano ciò che la poesia e la storia narrano di più maraviglioso.

«Il rimutamento avvenuto nel regno di Napoli, benché sia stato operato con mezzi meno pacifici e regolari di quelli dell'Italia centrale, non è però meno legittimo: ed i suoi effetti non saranno meno favorevoli a' veri interessi dell'ordine ed allo stabilimento dell'equilibrio europeo.

«Poscia che la Sicilia e Napoli anderanno a formar parti integranti della gran famiglia italiana, gl'inimici de' troni non avranno alcun possente argomento da far valere centra i principii monarchici; le fazioni rivoluzionarie non avranno più un campo aperto in cui le loro stolte intraprese avrebbero speranza di riuscire, o almeno di eccitare la simpatia di tutti gli uomini generosi.

«Si sarebbe adunque autorizzati a pensare che l'Italia potrebbe infine rientrare in una fase pacifica, adatta a dissipare le preoccupazioni europee, se le due grande regioni del nord e del mezzogiorno della Penisola non fossero separale da provincie che versano in una miserevole condizione.

«Il governo romano essendosi ricusato ad unirsi in un modo qualunque al risorgimento italiano, ed avendo ostinatamente proseguito

«Per contenerli, per impedir loro ogni via di manifestare quei sentimenti italiani da cui sono accesi, si è valso di quel potere spirituale che la Provvidenza gli affidò con un intento assai più alto di quello commesso ai reggimenti politici.

«Rappresentando a' popoli cattolici la situazione d'Italia con colorì foschi o menzogneri, rivolgendosi a' sentimenti o per dir meglio al fanatismo, che tanto può ancora sulle classi umili ed ignoranti della società, il governo romano è riuscito a raccoglier danaro ed uomini da tutte le parti dell'Europa, formare un esercito composto esclusivamente da gente straniera non solo agli stati pontificii ma a tutta l'Italia.

«Spettava agli stati romani di porgere nel nostro secolo lo strano e lagrimevole spettacolo di un governo ridotto a mantenere la sua autorità su proprii soggetti per opera di stranieri mercenari acciecati da fanatismo o infervorati da promesse che non potrebbero altrimenti effettuarsi che gittando nella miseria intere popolazioni.

«Tali fatti eccitano altamente l'indignazione di quegl'Italiani che han ricuperata la loro libertà e la loro indipendenza. Pieni di simpatia pe' loro fratelli delle Marche e dell'Umbria manifestano ardentemente il loro desiderio di volere accorrere da ogni lato per far cessare uno stato di cose, il quale ad un tempo è un oltraggio a' principii d ella giustizia e dell'umanità, ed offende vivamente il sentimento nazionale.

«Benché il governo del re partecipasse a que' vivi e penosi sentimenti, nondimeno giudicò suo debito impedire e prevenire ogni tentativo disordinalo per riscattare i popoli dell'Umbria e delle Marche dal giogo che gli opprime. Ma non poteva a se stesso dissimulare che la crescente irritazione del popoli non potrebbe a lungo esser rattenuta senza doversi ricorrere alla forza ed a misure violenti

«Da un'altra parte avendo la rivoluzione ottenuto un trionfo a Napoli, si sarebbe mai potuto arrestare ai confini degli Stati Romani ove la chiamavano abusi non meno gravi di quelli che hanno condotto irresistibilmente in Sicilia i volontari dell'alta Italia?

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«Ai gridi degl'insorti delle Marche e dell'Umbria, l'Italia latta si è commossa. Niuna forza potrebbe impedire che dal mezzogiorno e. dal nord della Penisola a migliaia gl'Italiani accorressero in aiuto del loro fratelli, minacciali da disastri simili a quelli di Perugia.

«Se il governo del Re rimanesse impassibile in mezzo di quel movimento universale, subitamente si metterebbe in opposizione con la nazione intera. La generosa effervescenza che gli avvenimenti di Napoli e di Sicilia hanno destato nelle moltitudini, degenererebbe tosto nell'anarchia e nel disordine.

«Sarebbe in tal caso possibile e forse probabile che quel movimento che sino ad ora è proceduto con tant'ordine, ad un tratto rivestisse il carattere della violenza e della passione. Qualunque sia l'efficacia che le idee d'ordine hanno su gli animi italiani, v'ha provocazioni tali a cui i popoli più civili non sanno far contrasto. Al certo sarebbe più da compiangerli che da riprenderli, se per la prima volta si lasciassero trascinare a reazioni violente, generatici di funestissime conseguenze. L'istoria c'insegna, che dei popoli che sono oggi a capo della civiltà, han commesso, sotto l'imperio di cause meno gravi, eccessi deplorabilissimi.

«Se il governo del Re lasciasse la Penisola in balla di tali danni, sarebbe colpevole verso l'Italia, e più colpevole al cospetto dell'Europa.

«Mancherebbe al debito suo inverso gl'Italiani che hanno accolto sempre i consigli di moderazione partili da Torino, e gli hanno confidata l'alta missione di dirigere il movimento Nazionale.

«Mancherebbe ai suoi debiti al cospetto di Europa, perché ha assunto l'obbligo morale di non voler permettere che il movimento italiano si snaturasse nell'anarchia e nel disordine.

«Gli è per adempire a questi due gran debiti che il governo del Re, tostochè i popoli insorti dell'Umbria e delle Marche gli ebbero

di cui non altrimenti potea valersi per comprimere le manifestazioni delle provincie confinanti con le nostre frontiere, che sforzandoci ad intervenire in loro favore.

«Essendosi rifiutata la Corte di Roma di accettare sì fatta domanda, il Re ha dato ordine alle sue truppe di entrare nell'Umbria e nelle Marche, con la missione di ristabilirvi l'ordine e concedere libera facoltà alle popolazioni di manifestare i loro voli.

«Le regie truppe rispetteranno scrupolosamente Roma e il territorio che la circonda; concorreranno, se vi sarà bisogno, a preservare la residenza del Santo Padre da ogni attacco e da ogni minaccia. Il governo del Re saprà conciliar sempre i grandi interessi dell'Italia col rispetto dovuto al capo Augusto di quella Religione, a cui è sinceramente divota la Penisola.

«Comportandosi in lai guisa il governo del Re ha la convinzione di non offendere in modo alcuno i sentimenti di quei Cattolici illuminali che non confondono il potere temporale, di cui la Corte di Roma è stata rivestita durante un periodo della sua storia, col potere spirituale che è la base eterna e incrollabile della sua autorità religiosa.

«Ma le nostre speranze vanno ancora più lungi. Noi confidiamo che lo spettacolo del sentimenti unanimi e patriottici che oggi si manifestano in In Ila la Penisola, ricorderà al sovrano Pontefice che egli fu, ora è qualche anno, il sublime ispiratore di quel gran risorgimento italiano. Il velo, che alcuni consiglieri mossi da mondane mire han tirato sopra ai suoi occhi, cadrà; e ravvisando che la rigenerazione dell'Italia è nei disegni della Provvidenza, egli ritornerà il padre degl'Italiani, come fu sempre il padre augusto e venerabile di tutti i fedeli.

«Torino, 12 settembre 1860.

La diplomazia ricevé questo memorandum con la più pronunziata indifferenza. L'Inghilterra di Lord Palmerston batté le mani in segno

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CAPITOLO IX.

L'esercito pontificioLa Francia assicura al Governo Pontificio l'inviolabilità del territorio Situazione dell'esercito pontificio Cialdini entra sul territorio del Papa Le bande garibaldine invadono le Romagne Masi ad Orvieto Lamoricière e la politica francese Ordine del giorno del Generale Fanti Bombardamento di Pesaro Il Generale Zappi fa capitolazione Una lettera - documento Un dispaccio dell'Imperatore al governo pontificio Pimodan guada il Musone Brillante combattimento alle Cascine Combattimento di Castelfidardo Morte di Pimodan Assedio al castello di Spoleto Cortesia del Gen. Brignone O' Reilly capitola dopo ostinata resistenza L'Assedio di Ancona Persano apre il bombardamento Assalto alla Lunetta di S. Stefano Capitolazione di Ancona Ordine del giorno di Fanti e di Penano Le vittorie piemontesi opere di Napoleone 3° Restituzione di Viterbo al Papa Lettere di Goyon al Gonfaloniere di Viterbo Risposta della Giunta.

L'ultima lotta avvicinavasi. La presentivano il gabinetto di Torino e quello di Napoli: - e tutta Europa l'aspettava ansiosamente, poiché da essa dipendeva il risorgimento o la caduta della Dinastia napolitana. Quel corpo di esercito, che ancor rimaneva a difendere Capua e Gaeta, sarebbe stato sufficiente a resistere contro le forze garibaldine; contro le bande di esteri volontari che d'ogni parte piombavano a Napoli, ungheresi, polacchi, francesi, e fino eccentrici Inglesi; non che contro la rivoluzione armata; e gli avvenimenti di quella campagna ben l'addimostrarono: ma resistere non potea all'esercito Piemontese forte di 45 mila uomini. È un fatto, che diniegar non possono gli stessi scrittori della rivoluzione, che l'intervento del Piemontesi fu Io scioglimento del terribile problema; poiché le decantale vittorie di ottobre attribuite alle bande rivoltuose, non furono che una maschera per incoraggire la rivoluzione, e scoraggiare la reazione conservatrice, che cominciava ad elevarsi forte e minacciosa.

È questa la ragione, per cui Cavour mandava un forte esercito in Romagna; affinché schiacciata la piccola truppa degli Stati Pontificii, fusse accorso a dar braccio forte ai rivoltuosi di Napoli, sgominali da si lunga resistenza.

Storici imparziali, narriamo le due lotte combattute a Castelfidardo ed a Capua, come le rileviamo dai documenti officiali e dai bollettini della guerra.

Compito difficile è il nostro, poiché le menzogne pubblicate in quel tempo dalla stampa venduta, e la pressione esercitata fin con vie di fatto sulla stampa onesta, quei fatti snaturarono. Epperò dietro le accurate indagini che facemmo all'uopo, potemmo mettere al suo posto la verità, senza timore di vederla contestata. Diamo incominciamento dalla campagna degli Stati pontificii, affinché potessimo rannodarne i fatti con quelli della campagna napolitana.

Tutta la forza, di cui potea disporre Lamoricière in campo aperto, non ammontava che a un 9,000 uomini, divisi in quattro brigate, di cui comandanti erano i Generali Schmidt, Pimodan, De Courten, e il Colonnello Cropt. In queste truppe, che Cialdini chiamò orda di briachi stranieri, di stranieri non vi era che un reggimento estero nella 1 brigata; un mezzo battaglione di franco - belgi nella 2 brigata; ed un reggimento nella 4° brigata. Il rimanente era formato di sudditi pontificii, uomini che lealmente difesero la bandiera del Pontefice, cui aveano giurato fedeltà. Il soldato non dee aver altra politica che la propria bandiera! Se questo non fusse, la milizia non sarebbe più atta a difendere i diritti ed il territorio del proprio paese, e la diserzione e il tradimento sarebbero giustificati.

Il Generale Lamoricière con un numero sì scarso di uomini vedea r impossibilità di sostenersi contro la interna rivoluzione armata, ben ordinata da Gualterio e dagli emissari piemontesi, e contro una invasione straniera; per cui dichiarò lealmente, che non avrebbe spiato

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Promessa solenne, di cui i fatti posteriori addimostrarono la lealtà. Ogni uomo imparziale, ed onesto dirà, che una leale dichiarazione della Francia di non voler impedire alle truppe del Re di Sardegna l'entrata sul territorio del Papa, avrebbe deciso Lamoricière a non impegnarsi in una lotta così sanguinosa e per tutti i versi disuguale. L'annessione delle Romagne e dell'Umbria sarebbe avvenuta per la forza sì, ma senza sangue! Perché dunque la Francia permise questa ecatombe di carne umana? per intimidire forse il cattolicismo francese? Perché si sacrificavano alla politica le vite di migliaia di uomini? Ecco una grave responsabilità, che pesa sul secondo impero e dalla quale non potrà mai sottrarsi! Le stragi successe nella invasione di quelle province, la morte di migliaia d'italiani che eroicamente si batterono a Castelfidardo, sono e saranno un'accusa per l'Imperatore del Francesi! Una sua parola avrebbe risparmiata quell'inutile carneficina! Non una, ma cento volte ciò dissero il Gabinetto di Roma e Lamoricière!!! Lo ripeterono la diplomazia ed il giornalismo estero!!!

A Lamoricière non era stato affidato altro còmpito, che quello di reprimere la insurrezione nelle province pontificie, ed impedire l'invasione delle bande del volontari, che erano le più arrischiate e terribili, non ostante le reiterale promesse dell'ambasciatore francese. Laonde egli credé disporre così il suo piccolo esercito. La brigata di Pimodan a Terni, la brigata di riserva a Spoleto, dove era fissato il Quartiere Generale; a Foligno la brigata Schmid; e quella comandata da De Courten a Macerata, tenendo l'ala desina affìn di poter accorrere ad Ancona per rinforzare quella guarnigione.

Prese poca cura di far guardare i confini dalla parte del Nord, assicuralo dall'Ambasciata francese, che i piemontesi non avrebbero sconfinato. Sicchè questi potettero passarti senza scontrarsi nel nemico: e potettero perciò nelle città, di dove transitavano, animare l'insurrezione. Cialdini, con tre divisioni di 12,000 uomini ognuna, si era avvicinato dalla parte meridionale delle Romagne per invadere le Marche; e il Generale della Rocca con una divisione e mezza teneva l'ala destra in Toscana, prendendo posizione tra Borgo San Sepolcro ed Arezzo. Evidentemente, le truppe pontificie non poteano tenere fermo, per quanta valentìa spiegassero, se non per pochissimo tempo. Arrogi, che ora in una, ora in altra città eccitavansi subugli per distrarre l'attenzione dal punto principale dell'azione: e cosi avvenne a Frosinone ed a Ceprano, dove accorse la truppa, essendosi fatta sparger la voce, che stassero per entrare dal napolitano forti bande garibaldine.

Mentre così stavano le cose, e l'ambasciatore Francese ogni di reiterava le sue assicurazioni, le bande del volontari, organizzate in Toscana con armi e denaro piemontese, invasero Urbino e Fossombrone nelle Marche, e Città della Pieve nell'Umbria; proclamando di prenderne possesso in nome di Vittorio Emanuele. Fu costretto Lamoricière a mandare in quella città buona parte delle sue truppe; sicché non restavagli a disporre che di oltre un migliaio d'uomini! Però i volontari aveano ordine di non fare resistenza, ma di tenere sempre in moto i pontificii: di modo che Schmid, che era accorso a Piegaro ed a Città della Pieve, dove era andato Masi con i volontari garibaldini, non trovò l'inimico; perché il Masi si era recalo ad Orvieto, nella quale città, non essendovi che un centinaio e mezzo di uomini per presidio, facilmente potette impadronirsi...! E questa fu una delle prime vittorie tanto decantate!

Contemporaneamente a queste mosse garibaldesche, l'esercito piemontese passò i confini; e Lamoricière, clic non potea neppure sospettare siffatta aggressione, dovette frettolosamente scovrire le sue posizioni per correre ad Ancona con il maggior numero di forze

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che potea staccare dal suo piccolissimo esercito, il quale non giungea ad una delle tre divisioni di Cialdini!

Da generoso sdegno e dolore fu compreso quell'uomo, che avendo acquistato fama di valoroso Generale nelle guerre d'Africa, vedeasi ridotto a difendersi disperatamente con pochi uomini contro un esercito di 45 mila uomini, che aggrediva il territorio pontificio senza dichiarazione alcuna di guerra.

Ci si narra da testimonio oculare, che allorquando il Generale Fanti inviò a Lamoricière la lettera che più sopra riportammo, questi ebbe un colloquio con Farini, e dissegli, che il suo onor militare era in ogni modo compromesso pel procedere del gabinetto piemontese; poiché, se questi avesse apertamente dichiarato guerra agli Stati pontificii, egli sapendo di non poter opporre resistenza per manco di forze, avrebbe date le sue dimissioni: ma non essendovi tale dichiarazione, il risolversi a tale alto sarebbe stato lo stesso che aprire largo campo ad una calunnia di diserzione o di viltà. Il Generale Pontificio rifuggiva dal credere che stando il veto dell'Imperator del Francesi, le truppe piemontesi lo avessero trasgredito; e tanto più se ne tenea sicuro, per quanto che pochi giorni prima avea ricevuto il seguente dispaccio!

L'Ambasciata Francese è stata avvisata avere l'imperatore Napoleone 3° scritto al Re di Piemonte, dichiarandogli che si SAREBBE OPPOSTO CON LA FORZA ad un assalto contro gli Stati pontificii.

Qual trista impressione dunque non dovette arrecargli la notizia, che ad onta delle Imperiali promesse, il nemico avesse sconfinato, e la truppa francese d'occupazione stasse impassibile a Roma? Chiamato dalla voce del dovere e dell'onore, concentrò le sue truppe ad Ancona, risoluto di resistere per quanto più potesse, attendendo che la Francia intervenisse in una lotta così ineguale e contra ogni legge di diritto pubblico internazionale tentata! - Ma la Francia non interveniva.... perché, scrissero i giornali che prendeano l'imbeccata dal

In questo modo era stata tradita l'opinione pubblica del Cattolicismo e dell'Europa intera, che stretta tra le morse della politica Imperiale non poté che assistere freddamente allo sfascio ultimo del trattato del 1815; sfascio che Napoleone 3° avea ottenuto, incredibile a dirsi, con le mani delle istesse potenze Nordiche! L'Inghilterra sola, che avrebbe potuto profferire una parola in appoggio dell'Austria, non la disse -: a Saint - James regnava Palmerston, il capo della propaganda protestante....... l'uomo che si compiaceva della fusione del regni Italiani in un solo, a fine di più facilmente ottenere un ottimo trattato di commercio, e valersi della compromissione di Napoleone 3°.

La campagna delle Marche sarebbe rimasta un enigma, se i fatti e i documenti che gelosamente furono tenuti nascosti, non fossero stati dissepolti.

Il Generale Fanti pubblicò un Ordine del giorno. Lo riportiamo per intiero, nello scopo di farne rilevare il duplice senso, e con quant'arte e malizia fosse stato scritto! Dove fu idealo?-A Torino, o alle Tuileries? -

Soldati!

«Bande estere, raccolte da tutti gli angoli di Europa, hanno piantata sul terreno delle Umbria e delle Marche la bugiarda bandiera d'una religione, che esse vilipendono. Senza patria e senza terra, esse provocano ed offendono le popolazioni per avere un pretesto ad assoggettarle al loro giogo.

«Siffatto martirio deve aver fine; cotesta impudenza dev'essere raffrenata, e le nostre armi accorreranno in aiuto di quei sventurati figli d'Italia, che lungo tempo hanno indarno speralo nella giustizia, e nell'amore del loro governo. Noi compiremo questo assunto affidatoci

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Se questo proclama fosse stato scritto da Lamoricière, non sarebbe stato storicamente vero, per quanto era assurdo in Fanti?

Quest'Ordine del giorno era diretto a calmare le apprensioni del gabinetti esteri, e far loro credere, che fosse giunto il momento per il gabinetto di Torino di frenare la rivoluzione e raccogliere il frutto delle fatiche della stessa!

Le bande erano i garibaldini; l'avventuriere audace, Garibaldi, che piantava la bandiera di una religione, cui non credeva; quindi il Fanti, dileggiando Garibaldi e le sue milizie, scendeva nel territorio pontificio, in alto nemico, a capo d'un annata e si dichiarava proiettore della religione!!! Egli in lai modo recava alle popolazioni degli Stati pontificii quella giustizia e quell'amore, che invano, a suo dire aveano sperato dal loro governo!!!

Entriamo ora sul campo di battaglia!

I Piemontesi, diviso l'esercito in tre colonne, con movimento isocrono erano entrati sul territorio pontificio. La quarta divisione aggredì Pesaro, difesa da soli 500 uomini: e subitamente aprì contro la città un fuoco terribile e micidiale di cannoni rigali, senza che colpo alcuno le fosse risposto. Il colonnello Zappi, che colà era di guarnigione, fu obbligato a capitolare, sì perché non potea opporre resistenza contro i 12,000 uomini che lo aggredivano, sì perché vedea bombardare vandalicamente la città.

In appoggio di questa parola, che ad alcuni parrà forse esagerata, o dettata da spirito di parte, riproduciamo una lettera di un Ufficiale Pontificio di quella guarnigione, scritta nel 13 Settembre, pubblicata dal Giornale di Roma, riprodotta dall'Armonia, e da molti altri giornali.

«... Avrà sentito la nostra sorte: siamo prigionieri di guerra a discrezione del nemico. L'attacco cominciò con quattro batterie allo 3 p. m. e durò sino alle 8. Ripigliò alle 4 ant. sino alle 9. Poi fecesi la resa al nemico infuriato, che non volte venire a patti.

ii Avea ordinato l'appressarsi di altre quattro batterie, per cui saremmo Stati, dentro un'ora, sepolti dalle macerie, o passali a ili di spada. Avemmo 14 morti, e 22 feriti; tra i primi il tenente Riccardi. Le bombe, i razzi, le palle grandinavano orribilmente. Il forte è tutto in isfascio. Ora ci mandano a piedi, dicono ad Alessandria. Immagini la nostra condizione e quella delle famiglie! Questa nelle si è dormito in terra senza paglia, esposti a tutte le intemperie, incerti della nostra sorte. Monsignor Delegato accompagnato da Simonetti è stato trasportato a Torino. Alla caserma, ove mi era stabilito, hanno portato via tutto. Sono etc....»

La settima Divisione operava per impedire a Kanzler di riunirsi a Lamoricière in Ancona; ma quegli ben avvisando, che se fosse rimasto taglialo fuori. avrebbe compromesso sé ed il corpo principale, ostinatamente seguì il suo cammino; respinse varii attacchi, e tuttocchè non avesse seco che due mila uomini, lasciandone soli 150 tra morti, feriti e prigionieri, pervenne al suo intento. In questo modo le truppe pontificie eransi attestate ad Ancona, mentre i piemontesi, senza colpo tirare, padroni di Orvieto, di Foligno e di Jesi la stringevano dappresso, minacciandola con tutto il nerbo delle forze da tre punti.

Cialdini, avuta notizia, che Lamoricière slava per la via tra Tolentino e Macerata. accennando dirigersi ad Ancona, con le sue Divisioni marciò alla volta di ponte del Musone presso Barca: e impadronitosi di quella eccellente posizione, senza trovare resistenza alcuna. spinse gli avamposti fin sulle alture di Loreto.

Lamoricière informato a sua volta del movimento del nemico, stava indeciso, se attendere Pimodan che anche ad Ancona s'avviava; o tirar dritto, sperando di essere sostenuto dalle truppe di De Courlen, di Ranzler, e di Vogelsang, che dopo brillanti combattimenti, non sconfessali dagli stessi bollettini piemontesi, eran pervenuti a farsi strada in quella città; allorché un apposito corriere recogli il seguente dispaccio di Monsignor De Merode pro - ministro delle armi, ed a questi comunicalo dall'ambasciata Francese.

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«L'Imperatore ha scritto da Marsiglia al re di Sardegna, che se ruppe piemontesi fossero penetrate nel territorio pontificio, egli si riterrebbe costretto ad oppor loro resistenza. Essersi dati gli ordini per l'imbarco di truppe a Tolone, e questi rinforzi sarebbero giunti senza indugio. Il governo imperiale non voler tollerare gl'iniqui assalti del governo piemontese. In qualità di vice - console della Francia dover esso regolare di conformità il suo contegno».

Questa esplicita dichiarazione fu lotta onninamente nel dispaccio spedito al Console Francese in Ancona; e solo i fatti dichiararono quello essere stato un giuoco politico per tenere a bada le altre Potenze, le quali al fatto compiuto, come avvenne, non avrebbero aggiunta una parola!

Non ostante tutte queste assicurazioni, Lamoricière avea notizie dell'avanzarsi delle altre colonne piemontesi, contro cui non potea disporre che di soli 5, 000 uomini; ma da soldato di onore si preparò ad opporre una resistenza eroica, che il nome di Lui avrebbe onoralo nelle pagine della storia. Dispose quindi quel piccol corpo di truppe; e al Generale Pimodan fu dato l'incarico, difficile ed azzardoso, di assaltare le alture fra Arenici e le Crocette, mentre egli medesimo avrebbe guadalo il Musone, affln di entrare in Ancona a marcia sforzala; e nel tempo stesso poter accorrere in aiuto di Pimodan, poiché le vie che batter doveano, s'incrociavano ad un punto.

Cialdini, saputo il movimento di Pimodan, con tutte le sue forze si distese per impedirgli l'andar oltre; lo che agevolissimo esser poteva, avvegnacchè i Piemontesi formassero tre divisioni complete, ed i pontifici aveano appena tre reggimenti non completi, e per soprappiù con fucili di vecchio modello.

Pimodan comprese subitamente il piano di Cialdini; o tosto con un movimento sollecito ed inatteso fece passare a guado il Musone dai tre battaglioni, con l'artiglieria composta di otto pezzi da sei, comandati dal Colonnello Blumenstihl, quattro obici e dalla cavalleria, che consisteva in pochi squadroni sotto gli ordini del Maggiore Ode

Guadato il Musone, era necessario ad ogni costo o sostare, ciò che avrebbe dato tempo al nemico di più concentrarsi, giacché nelle vicinanze Cialdini avea radunato il nerbo della 4, e 1» divisione; ovvero energicamente impadronirsi per assalto delle cascine. poste sulle alture di Castelfidardo già cadute in potere del Piemontesi. Audace era il tentativo; ma bisognava affrontarlo; e Pimodan il primo ne diè l'esempio.

Il fuoco fu vivissimo, ma breve: attaccati alla baionetta, i piemontesi ripiegarono ad una cascina posta più nell'atto e guardala dal 10° Reggimento di linea, dove anche erano molestali dal fuoco ben diretto della piccola artiglieria Pontificia. Non ostante la malagevole posizione, i pontificii attaccarono il nemico: ma scarsi com'erano di numero, furono tenuti in soggezione; respinti respinsero; obbligati in fine ad indietreggiare, il battaglione franco - belga asserraglialosi attaccò il nemico alla baionetta, dando agio ai compagni di ritirarsi senza essere molestali; e pervenne nell'intento, obbligando i piemontesi di riguadagnare a gran passi l'alto della cascina. In questa fazione fu ferito il Gen. Pimodan.

Cialdini e Lamoricière entrambi furon spettatori del conflitto; perlocchè istantaneamente ordinarono il rinforzo. Cialdini fece avanzare 8000 uomini con tre batterie, mentre il 26 Bersaglieri, ed il 10 di linea cominciavano l'attacco. Lo stesso Battaglione Franco - Belga, tuttocchè stanco e defalicato, sostenne l'assalto, e respinse il nemico. Lamoricière accorse con truppe novelle a sostenerlo, ma non poté servirsi che del solo 2° Battaglione Cacciatori Austriaci, poiché i cacciatori Romani, abbandonando le armi, insieme agli Uffiziali si diedero alla fuga. Non pertanto quei due Battaglioni esteri seppero in modo sostenersi, che diedero agio a salvare l'artiglieria, sempre tenendo in rispetto il nemico.

Ma a nulla valer potea tanto coraggio. I piemontesi ingrossavano per truppe fresche, facendo un continuo fuoco di moschetteria; sicché quel pugno di uomini, lasciatine quasi una metà sul campo, ritirossi sulla cascina, trasportando i feriti. Il nemico non davagli tregua,

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Uno degli episodi più dolorosi di essa fu la morte del valoroso Gen. Giorgio Pimodan. Ecco come la narra un suo compagno d'armi, in una lettiera riportata nella Biografia di lui pubblicala in Francia (1). «In un allimo Pimodan ha veduto smascherarsi 16 pezzi di artiglieria, che da un rialto vomitavano mitraglia su i suoi soldati già crivellati dalle palle del bersaglieri nascosti dietro le fila del pioppi. Pimodan fu colpito da una palla sotto un occhio: non è niente cari miei, gridò: - Avanti. E si continuò la marcia. Un'altra palla lo colpi nel braccio destro: allora prese la spada con la sinistra, e ripeté: avanti, giovinetti. Una terza gli penetrò nella coscia destra: restò mal fermo in arcione, e disse a gran voce: Dio è con noi, figli miei Avanti. Poco dopo cadde colpito in mezzo al petto...» Il cadavere di Pimodan, trasportato alla cascina già caduta in mano del piemontesi, fu consegnato a due parenti di lui il Conte de Couronnel e il Conte de Miropoix, e ai suoi aiutanti di campo De Renneville e Principe de Ligne....» Questi erano i briachi stranieri! Cialdini volte coronar brillantemente l'opera di questa vantata campagna facendo scrivere sulla bara del defunto:

IL GENERALE CIALDINI ALLA MARCHESA DE PIMODAN

Oltre il rogo non vive ira nemica!

Lamoricière allora vedendo che impossibile e disastrosa sarebbe stata una maggiore resistenza, fe' marciare quel residuo di truppe per guadagnare limami, e di là recarsi ad Ancona; ma l'avanguardia. composta di 270 uomini, fu circondata dal 9 Reggimento di linea piemontese, e dopo breve conflitto cedé le armi;

(1) Biografia di Giorgio Pimodan- Versione dal Francese; di G. Acquedarni - Bologna 1861.

locchè conosciutosi dal Generale pontificio, mascherò la sua marcia, e così poté entrare in Ancona; e fu salvezza per lui, poiché un altro residuo di truppe, accozzaglia del fuggitivi riunitasi a Loreto, fu circondato da due intere divisioni del Cialdini e fatto prigioniero. Erano 2500! i piemontesi 24 mila!!!!

La battaglia di Castelfidardo è una pagina di gloria militare dovuta al coraggio spiegato dai pontificii: e gloria militare è pure la resistenza fatta da O' Reilly con un altro pugno di uomini alla difesa del Castello di Spoleto. Diciamo anche noi castello, perché cosi s'intendeva quel luogo guernito. come ai tempi del mori o del saraceni, allorquando faceasi la guerra con le frombole e con le catapulte. Scarsissima era la guarnigione, ed un solo era il cannone allo a far fuoco. Il comando di assaltarlo fu affidalo al Generale Brignone che mosse a capo del 3.° Reggimento granatieri, del 9.° Bali. Bersaglieri, di due squadroni di cavalleria, e con 8 pezzi d'artiglieria. Intimala la resa, il comandante O' Reilly rispose con un niego. I piemontesi cominciarono allora vivissimo fuoco di artiglieria, mentre dalle vicine alture i bersaglieri tempestavano gli assediati con fitta moschetteria.

ll generale Brignone era un gentiluomo, e dolevasi di usare mezzi di distruzione. L'Arcivescovo di Spoleto si frammise per indurre O' Reilly alla resa, ma questi ostinatamente rifiutò, rispondendo:-il suo onor militare non permetterlo. Allora non volendo il Brignone porre più tempo in mezzo, decise di adoperare quanto era in lui per terminare tale faccenda, giacché vera niente discapitava di onore il non impadronirsi di un simulacro di castello, difeso da un cannone e da pochi uomini. Non pertanto, avendo saputo esservi colà dentro delle donne, mandò a dire al suo avversario, che le prendeva in parola di onore sotto la sua protezione; ed O' Reilly, senza farselo ripetere, gli inviò sua moglie, e le altre signore appartenenti agli ufficiali del presidio. Tratto delicato, e cavalleresco del Gen. Brignone, che nell'obbedire ai comandi del proprio governo, non dimenticava di essere gentiluomo.

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 459

Dopo sì fatto scambio di cortesie ricominciò il fuoco. Già la porta era in più luoghi rotta, e le mura minacciavano rovina; ma i pontifici resistevano. Si venne all'assalto, e la difesa fu così ben condotta, che i piemontesi furono obbligati a ritirarsi con perdite considerevoli, guardalo il numero degli assediati. - Brignone non si espose ad un secondo assalto, ma si limitò a far continuare il fuoco incessante dell'artiglieria, quando O' Reilly chiese capitolare, e l'ottenne a patti onorevoli. Allorché i piemontesi vi entrarono, trovarono l'unico cannone........... smontato, e terminata la munizione! - O' Reilly avea brucialo l'ultima cartuccia, e poi avea capitolalo......!

Impadronitosi di Spoleto, Brignone unitosi a Masi marciò sopra Viterbo e se ne impadronì: passò oltre, congiungendosi al grosso dell'esercito, che concentrale tutte le forze disponibili ed all'orzato da artiglierie di grosso calibro da terra, e dalla squadra navale da mare, si preparava ad espugnare Ancona, come se colà fosservi cinquanta mila Austriaci, mentre non v'era che il residuo delle assottigliale truppe di Castelfidardo.

L'assedio di Ancona, dissero i giornali mercenari, fu splendido! La storia invece lo dice brutale, condotto vandalicamente, poiché non era contro la sola fortezza che s'inveiva, ma contro la città medesima, che ne soffrì immensamente!- La brillante valentia fu dell'Ammiraglio Persano; quest'uomo indiato come il sommo genio della marina, genio che si spense vilmente nel 1866 nella battaglia di Lissa, dove con forze maggiori lasciò colare a fondo la capitana, salvandosi nel momento della mischia sul famoso Affondatore, che dovea essere il terrore della squadra austriaca!! Contro l'inerme Ancona questo eroe fu terribile, inesorabile, barbarissimo - La flotta era composta di quattro fregale e di sette navigli di minor portata. Le prime armate «di morrai da 80 e di cannoni rigali per proiettili cavi da 138 libbre di peso; le navi minori aveano cannoni rigali da 40. a

A dì 18 settembre Persano aprì vivissimo il fuoco con ogni sorta di proiettili, che gravi danni arrecarono alla città

- Le batterie della piazza della Lanterna, e successivamente tutte le altre risposero con tale energia, che il fuoco incrocialo da Monte Murano, Cappuccini, e Monte Gardello impedì alla flotta di accostarsi, tuttocchè questa avesse il vantaggio di tirare con cannoni rigati.

La Gazzetta Ufficiale piemontese del 28 settembre tessé un elogio al sangue freddo del marinai, quasicchè fosse stata prova di valore tirare a bersaglio, con la sicurezza di non poter essere offeso-Una sola nave ebbe ardimento di avanzarsi sollo il tiro del cannoni della fortezza, e ne fu malconcia talmente da chiamare all'aiuto, che per altro non ebbe a tempo, in grazia dei colpi ben diretti dalla fortezza, alla quale ninna nave osò accostarsi - Questo cannoneggiamento per altro non polea certamente risolvere la vittoria per gli assediati, i quali non aveano che pochi reggimenti da opporre ai quarantamila uomini del nemico.

Fanti, Della Rocca, e Pinelli stringevano la cerchia delle operazioni - Vane ed infelici riuscirono agli assediati le sortite. Il Comandante di Pelago non avea che quattro Compagnie a fronte di diecimila uomini; cercò di salvare l'artiglieria, ma non vi giunse, poiché i bersaglieri erano già entrali nelle gole del monte -Il distaccamento clic teneva Monte Polito resisté quasi sino all'audacia; ma dovendo combattere uno contro venti, fu obbligato ad abbandonare la posizione, e si ritirò esso pure nella città - Dove più si battagliava con valore e con ardimento degno di miglior sorte, era alla lunetta di S. Stefano. Là le truppe piemontesi, comandate da Cialdini, nell'assalto dato con grande slancio, trovarono una resistenza, alla quale non si attendevano; resistenza tale che le costrinse ad indietreggiare precipitosamente.

Ma all'immenso coraggio del pontificii era pur d'uopo cedere a fronte del numero degli assalitori, ed al fuoco incessante che venia

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 461

giacché da terra e da mare il nemico non prendeva quelle precauzioni, che si doveano in un conflitto, in cui trovavasi esposta una città italiana!! Si aggiunse, che un proiettile cavo, entralo nella polveriera, la fe' saltare in aria con uno scoppio tremendo, e con immenso danno del caseggiato. E qui la Storia condanna e chiama vandalico il contegno del nemico; imperocchè, quantunque bandiera bianca fosse inalberata e le fortezze non rispondessero più ai colpi nemici, né Fanti, né Cialdini facessero cessare il fuoco e la pioggia delle bombe.

Non fu che nel mattino dipoi (29) che si cessò dal bombardare; e fu fatta capitolazione accordandosi alla guarnigione gli onori di guerra. I Piemontesi ebbero una perdita di 579 uomini tra morti e feriti: e tra essi 49 uffiziali, come si rileva dal bollettino del governo.

Due Ordini del giorno furono promulgati per dare questa nuova solenne. Li riportiamo, affinché si veda a quale e quanta ampollosità di stile ricorressero Fanti e Persano, che magnificarono per vittoria una guerra sostenuta con 45 mila uomini, oltre ad una flotta munita di tutti i mezzi di distruzione, contro un esercito di 12 mila uomini, del quali soli 9 mila erano entrati in campagna. Ecco quello di Fanti.

«In 18 giorni voi avete battuto il nemico in campo, preso i forti di Pesare, di Perugia, di Spoleto, di S. Leo, e la fortezza d'Ancona, a cui ebbe gloriosa parte il raro ardimento (?) della nostra squadra. «L'armata del nemico, ad onta del suo valore, fu intieramente sconfitta e prigioniera, meno un'accozzaglia di gendarmi e di fuggitivi di ogni lingua ed arma, raccolti da Monsignor Merode, che campeggiano ancora, ma per breve, nella Comarca di Velletri.

Io non so, se più debba in voi ammirare il valore nei cimenti. la sofferenza delle marcie, o il contegno amoroso e disciplinato verso

«In nome di Vittorio Emanuele io vi ringrazio, e mentre la patria vi ricorderà con orgoglio, Sua Maestà compenserà largamente, come suole, coloro fra voi, che ebbero l'occasione di maggiormente distinguersi.

«Abbiatevi la viva riconoscenza da chi ha l'onore di comandarvi, e col cuore pieno di gioia ripetete con me:

Viva il Re, Viva l'Italia!

«Dato dal Quartier generale d'Ancona 29 di settembre 1860.

Il Comandante in Capo - M. Fanti

L'altro è del Conte di Persano! - II suo stile, al solito è enfatico, orgoglioso, pieno di burbanza! Fa pompa delle lodi ricevute, e per queste si crede grande! Il bombardamento d'Ancona è per lui certamente una pagina di gloria militare ben più meschina della sua viltà a Lissa!

«OGNI VOLTA CHE AVETE SPARATO IL CANNONE CONTRO IL NEMICO VI SIETE DISTINTI (1).

«L'armata di terra vi guardava, volevate emularla.

«Ho l'onore di dirvi, che avete pienamente ottenuto il vostro intento. In meno di tre ore, con due fregate e due corvette, avete annientato tutte le fortezze che difendono Ancona dal lato di mare.

«Il vostro ardire, la vostra perizia hanno sorpreso tutti. Il ministro della guerra, comandante generale, si degnava esternarmi la sua soddisfazione. Il Generale Cialdini, alle cui mosse strategiche si deve il termine della guerra in sì breve tempo, mi mandava congratulazioni. Il Gen. Della Rocca, che prese i monti Pelago, e Polito (furono abbandonati dai pontifici, per manco di difesa, perciò non debbonsi dire presi) vi complimentava!

(1)

Facciam notare, per vieppiù constatare la spavalderia di Persano, che la flotta sarda era la prima volta che si provava al fuoco, e contro un nemico ili gran lunga inferiore. Nel 1848, unica guerra che in questo secolo ricorda il Piemonte, la flotta non prese parte alcuna. Contro chi dunque si era distinta??

(1860) ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 463

«Evviva dunque a voi (sic). Io vi ringrazio, e di clic cuore; voi che mi conoscete, ben lo sapete. Iddio vi benedica, e benedica il nostro Re, primo alletto di ogni cuore italiano.

EVVIVA A VITTORIO EMANUELE!

EVVIVA ALL'ITALIA

Il Comandante la squadra

C. DI PERSANO

Ancona era caduta! e la Francia era rimasta immobile spettatrice dinanzi a quell'ecatombe! Il Governo Pontificio e Lamoricière non credevano mai, che le ripetute assicurazioni fatte dal Gabinetto delle Tuileries per mezzo del Duca di Grammont avessero dovuto essere in tal modo osservale! - Eppure vi è stato chi, smentendo i fatti, avesse immaginato e scritto: l'Imperatore aver veduto di mal occhio, e contro voglia assistito a questo dramma, unico nelle storie della rivoluzione, perché impotente a fermare la pietra che rotolava precipitosamente.

Ma la pubblica opinione in Europa ha emesso il suo solenne verdello, sostenuto dai fatti medesimi! Da qual mano era trattenuto Napoleone? dunque la rivoluzione avrebbe dovuto andare a Roma! Non andò. - Le armi piemontesi tolsero a Giuseppe Garibaldi il prestigio delle prime imprese; a Giuseppe Mazzini ed ai suoi mostrarono la bocca del cannone; impedirono ogni altro movimento aggressivo sul patrimonio così detto di S. Pietro... - e la palla d'Aspromonte fu la risposta al grido «O Roma, o Morte...» Eppure Cavour, il Parlamento, le aspirazioni, il giornalismo designavano Roma a capitale della nascitura Italia - Perché non si compié la rivoluzione? perché Napoleone 3° Imperatore del Francesi avea pronunziato il Veto solenne - Fu un pronto ossequio ad un suo comando la restituzione di Viterbo. Essa era divenuta Italiana, come le altre città conquistate; ed occupala da Masi, dopo il combattimento avuto a Montefiascone con i pontificii. Eppure fu restituita appena lo volte l'Imperatore-Una lettera e pochi uomini fecero immediatamente sgombrare quella città-! Napoleone 3° volle che Viterbo rimanesse al patrimonio di S. Pietro.

I rivoltuosi già aveano abbassato lo stemma pontificio ed innalzato quello del Re di Sardegna; quando il Generale Goyon vi spedi due Battaglioni del 25° di linea e due pezzi di artiglieria.

Goyon, prima di fare questa spedizione, indirizzò la seguente lettera al Gonfaloniere di Viterbo:

«Quartier generale di Roma 1 ottobre 1860.

«Signor Gonfaloniere.

«Ho l'onore di prevenirla, che una colonna di truppe francesi, composta di due Battaglioni del 25° di linea, di una sezione di due pezzi di Artiglieria, e di 20 (dico venti) uomini di cavalleria, formanti insieme un effettivo di 60 ufficiali, 1260 uomini, e 10 cavalli, partiti da Roma il 9 ottobre mattina, ed alla destinazione di Viterbo, giungerà il giorno 11.

«La prego di prendere le necessarie misure per assicurare l'alloggio degli ufficiali, degli uomini, e del cavalli che fan parte di questo distaccamento.

Riceva, Sig. Gonfaloniere, l'assicurazione della mia distinta considerazione.

Il Gen. Comand. in capo le truppe francesi di occupazione

in Italia aiutante di campo dell'Imperatore.

G. Goyon.

Non sembra essa questa lettera scritta da un Barone ai suoi vassalli?

Quale fu la risposta? Prima di trascrivere la risposta, facciam notare, che il Gonfaloniere di Viterbo, appena Masi invase il paese, dové dimettersi dalla carica. -Il Governo era quindi caduto nelle mani del Duca Sforza, nominalo Commissario del Re dal Gabinetto di Torino, e questo Duca avea stabilito temporaneamente una Giunta municipale a capo di cui era stato eletto, un Alessandro di Agostino Polidori. Questi appena ricevuta la lettera del Generale Goyon, lettala

soltanto, non tardò di far abbassare l'arma di Savoia, di rimettere la Pontificia, e rispondere in questo modo:

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 465

«Noi abbiamo acclamato il governo di Vittorio Emanuele 2° Re amico ed alleato della Francia: S. M. ci ha mandato un Commissario per governarci, ed abbiamo conservato l'ordine il più perfetto Se ad onta di ciò, gli ordini che voi avete., Sig. Generale, sono tali che non ammettono cangiamento, voi qui non troverete la «menoma resistenza....»

E subito pacificamente i Francesi vi entrarono; la rivoluzione riverente diè loro libero passaggio; e il Duca Sforza, Commissario del Re, e il Polidori mossero per Torino a meditare sulla onnipotenza di Napoleone 3° Imperatore del Francesi!!!!

Pio IX. adunque rimaneva dispogliato di quei beni, che tutti i Sovrani, e tutte le nazioni, anche divise dal seno della Chiesa, crcdetlero necessario mantenergli pel decoro e per la libertà del Papato. - Napoleone 3.° avea ormai compiuta l'opera sua, che nel 1830 fu un tentativo, nel 1848 un'idea da portafoglio; che nel 1859 cominciò a svilupparsi, e nel 1860 fu ultimala, restringendo la dominazione del Papa al solo patrimonio di S. Pietro - A fronte di questa coalizione dell'imperatore del Francesi con il Re di Sardegna e con la rivoluzione europea, Pio IX non avea ad opporre che la sua spada morale: - la parola; e nel 28 settembre nel Concistoro segreto pronunziò una Allocuzione eloquente pel dettato; forte e dignitosa per concetto e per forma; terribile per chi non ha interamente dimenticato, che il solo insipiente dice: non vi è Dio! Noi la riproduciamo intera, come documento vitale delle patrie storie.

ALLOCUZIONE (1)

DEL SS. N. S. PER DIVINA PROVVIDENZA PIO PAPA IX

TENUTA NEL CONCISTORO SECRETO

del 28 Settembre 1860.

Venerabili Fratelli!

Siamo nuovamente costretti. o Venerabili Fratelli, a deplorare con incredibile dolore o piuttosto angoscia dell'animo Nostro, ed a detestare i nuovi e fino a questo dì inauditi attentati, commessi dal governo subalpino contro di Noi e di questa Sede Apostolica e della Chiesa Cattolica. Questo governo, come sapete, abusando della vittoria che coll'aiuto di una grande e bellicosa nazione riportò da una funestissima guerra, dilatando per l'Italia il suo regno contro ogni diritto divino ed umano, sommossi a ribellione i popoli e cacciali per somma ingiustizia dal loro dominio i legittimi Principi, invase ed usurpò con ardimento iniquissimo e al tutto sacrilego alcune provincie del Nostro Salo Pontificio nell'Emilia.

Ora mentre tutto il mondo catabolico, rispondendo alle Nostre giustissime e gravissime querele, non cessa di gridare altamente contro quest'empia usurpazione, il medesimo governo determinò di impadronirsi delle altre provincie di questa S. Sede, poste nel Piceno, nell'Umbria e nel Patrimonio. Ma vedendo che i popoli di quelle provincie godevano perfetta tranquillità, ed erano a Noi fedelmente congiunti, né per danaro largamente profuso, né con altre arti malvage si potevano alienare e divellere dal civile dominio di questa Santa Sede, per questo scatenò sopra le stesse provincie non solo bande di uomini scellerati, che vi eccitassero turbolenze e sedizioni, ma eziandio il suo numeroso esercito, che le medesime provincie con impeto di guerra e colla forza dell'armi soggiogasse.

(1)

La traduzione che alleghiamo è esattamente fatta dall'originale pubblicalo a Firenze nel 1865 dall'Archivio dell'Ecclesiastico. . all'insegna di S. Tommaso.

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 467

Voi ben conoscete, Venerabili Fratelli, l'impudente lettera che il governo subalpino scrisse in difesa del suo latrocinio al Nostro Cardinale segretario di stato (1) nella quale non ebbe pudore di annunziare, aver esso dato ordine alle sue truppe di occupare le predelle Nostre provincie, se non venissero licenziali gli stranieri arruolali al Nostro piccolo esercito, che del resto era stato raccolto per tutelare la tranquillità dello stato Pontificio e de' suoi popoli. E non ignorale che le medesime provincie vennero invase dalle truppe subalpine quasi al tempo stesso che ricevevasi quella lettera.

Per fermo, niuno può non sentirsi altamente commosso e preso da indignazione nel considerare le bugiarde accuse e le svariale calunnie e contumelie, colle quali l'anzidetto governo non si vergogna di coprire l'ostile ed empia sua aggressione, e d'investire il governo Nostro. E chi non si stupirà sommamente nell'ascoltare che il Nostro governo viene ripreso per essersi al Nostro esercito ascritti degli stranieri, mentre tutti sanno non potersi negare ad alcun legittimo governo il diritto di arruolar forestieri nelle proprie schiere?

Il qual diritto con più forte ragione compete al governo Nostro e di questa Santa Sede; giacché il Romano Pontefice, essendo Padre comune di tutti i cattolici, non può non accogliere volentierissimamente tutti quei suoi figliuoli, i quali mossi da spirito di religione vogliono militare nelle schiere Pontificie e concorrere così alla difesa della Chiesa. E qui crediamo opportuno di osservare, che questo concorso di cattolici stranieri fu specialmente provocalo dall'improbità di coloro che assalirono il civil Principato di questa Santa Sede. Imperocchè niuno ignora da quanta indignazione e da quanto tutto l'universo orbe cattolico venne commosso, tostochè seppe che una così empia e così ingiusta aggressione era stata consumala contro il civile dominio di questa Sede Apostolica. Da che è avvenuto che moltissimi fedeli da varie regioni del mondo cristiano

(1)

Optime nostis, V. P., impudentes litteras a Subalpino Gubernio ad suum tuendum latrocinium Nostro Cardinali a pubblici negotiis scriptas, quibus haud erubuit nuntiare...

per proprio impulso e con somma alacrità sono insieme volati ai Nostri pontificii possedimenti, ed hanno dato il loro nome alla nostra milizia, affine di difendere valorosamente i dritti Nostri e di questa Santa Sede.

Con singolare malignità poi il governo subalpino non si vergogna di dare con somma calunnia a questi nostri guerrieri la taccia di mercenarii, quando non pochi di essi, sì indigeni che stranieri sono di nobile prosapia e cospicui per nome illustre di famiglia; e da solo amore di religione eccitali vollero, senza alcuno stipendio, militare nelle nostre schiere.. ò è ignoto al subalpino governo con quanta fede ed integrità il Nostro esercito si comporti, mentre esso sa benissimo essere riuscite vane tutte le fraudolenti arti da lui adoperale per corrompere le Nostre milizie. Né poi ci è ragione di soffermarci a confutare l'accusa di ferocia data improbamente al Nostro esercito, senza che i detrattori potessero recarne in prova argomento alcuno; che anzi una tale accusa giustamente può ritorcersi contro di loro, secondochè manifestamente dimostrano i truculenti bandi del Generali di esso esercito subalpino.

Or qui conviene notare come il Nostro governo non avesse mai potuto sospettare di codesta ostile invasione; conciossiachè gli fosse dato per certo che le soldatesche del Piemonte avvicinavansi al nostro territorio, non già per intendimento d'invaderlo, ma sì al contrario per tenerne lontane le masnade de' sommovitori. l'elianto il supremo duce delle. Vostre milizie non potea pur pensare di dover affrontare in battaglia l'esercito piemontese. Ma quando fuor d'ogni aspettazione, essendosi le cose perversamente cangiate, conobbe lo irrompere nemico di quello esercito, che certamente pel numero de' combattenti e per la potenza dell'armi prevaleva moltissimo, tolse il provvido consiglio di ritirarsi in Ancona munita di fortezze, affinché i Nostri soldati non fossero e sposti a così facile pericolo di soccombere. Ma essendogli taglialo il passo dalle schiere del nemico, fu costretto di venire alle mani per aprirsi il varco a viva forza con tutti i suoi.

Del resto, mentre tributiamo le meritale e dovute laudi al mentovato condottiero supremo delle nostre milizie ed ai loro capitani e soldati,

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 469

i quali assaliti improvvisamente e stretti d'ogni parte dal nemico, sebbene di numero e di forze molto disuguali, pure combatterono fortemente per la causa di Dio, della Chiesa e di questa Sede Apostolica, e della giustizia; appena possiamo frenare il pianto, sapendo quanti valorosi sodali e principalmente elettissimi giovani, che con animo veramente religioso e nobile erano accorsi a difendere il civile Principato della Chiesa Romana, furono spenti in questa ingiusta e crudele invasione. Sommamente ancora ci commove il tutto che se ne sparge nelle loro famiglie; e volesse Iddio che Noi potessimo con le Nostre parole asciugare quelle loro lagrime! Ci confidiamo però che debba tornare loro a non lieve consolazione e conforto l'onorevolissima menzione che degli estinti loro figliuoli e consanguinei Noi qui meritamente facciamo per l'esempio veramente splendido da loro dato con immortale gloria del loro nome al mondo cristiano d'una esimia fedeltà, pietà ed amore verso di Noi e di questa Santa Sede. E certamente Ci confortiamo della speranza che tutti coloro, i quali incontreranno sì gloriosa morie per la causa della Chiesa, ottengano quella sempiterna pace e felicità che loro pregammo e non cesseremo mai di pregare da Dio Ottimo Massimo. E qui ancora ricordiamo con i dovuti economii i Nostri diletti figliuoli Presidi delle provincie, e specialmente quelli della Urbinate e Pesarese, e della Spoletina, i quali in queste tristissime vicende del tempi satisfecero al loro ufficio con sollecitudine e costanza.

E cosi, Venerabili Fratelli, chi mai potrà tollerare la insigne impudenza ed ipocrisia, con la quale gl'iniquissimi assalitori non dubitano di affermare nei loro bandi, che eglino entrano nelle Nostre provincie e nelle altre dell'Italia, affine di ristabilirvi i principii dell'ordine morale? (1) E ciò senza vergogna si afferma da tali, che rompendo già da lungo tempo

(1)

Jam vero, V. F., quis ferre unquam poterit insignem impudentiam et hypocrisim, qua nequissimi invasores in suis programmatibus asserere non dubitarit, se Nostras aliasque Italiae adire provincias, ut ibi moralis ordinis principia restituant?

una fierissima guerra alla Chiesa Cattolica, a' suoi Ministri, ed alle sue cose, e in nessun conto avendo le ecclesiastiche leggi e le censure, hanno osalo di gettare nelle prigioni Cardinali della S. R. C. e Vescovi specchialissimi e uomini commendevolissimi dell'uno e dell'altro Clero; di cacciare da' proprii claustri famiglie religiose; di sperperare i beni della Chiesa; e di porre a soquadro il civile Principato di questa Santa Sede. Appunto i principii dell'ordine morale si ristabiliranno da coloro che aprono pubbliche scuole di ogni falsa dottrina, ed ancora pubbliche case di prostituzione; che con abbominandi scritti e spettacoli teatrali si propongono di offendere e sbandeggiare la verecondia, la pudicizia, l'onestà e la virtù; e di schernire e sprezzare i Misteri, i Sacramenti, i precetti, le instituzioni, i sacri ministri, i riti, le cerimonie sacrosante della nostra divina Religione; di togliere dal mondo ogni ragione di giustizia, e di scrollare e rovesciare le fondamenta sì della religione come della civile società! Pertanto in questa così ingiusta, così ostile ed orrenda aggressione ed occupazione del civile Principato Nostro e di questa Santa Sede, perpetrala dal Re Subalpino e dal governo di lui contro tutte le leggi della giustizia e l'universale diritto delle genti, ben memori del Nostro uffizio, in questo Vostro amplissimo consesso e alla presenza di tutto l'orbe cattolico, di nuovo alziamo con veemenza la Nostra voce, e riproviamo e onninamente condanniamo tutti i nefandi e sacrileghi allentali del medesimo Re e Governo (1) e dichiariamo e condanniamo come nulli ed irriti tutti gli alti, e con tutta la possa ci richiamiamo e non mai cesseremo di richiamarci per l'integrità del civile Principato che possiede la Romana Chiesa, e pe' diritti suoi che a tutti i cattolici appartengono.

Peraltro non possiamo dissimulare, Venerabili Fratelli, che Noi ci sentiamo opprimere da somma amarezza, perciò che in una aggressione tanto scellerata e da non mai esecrarsi abbastanza, per cagione di varie difficoltà insorte, ancora ci vediamo privi dell'altrui soccorsa Notissime a Voi sono per verità le iterate dichiarazioni

(1)

…...Nostram vocem denuo vehementer attollimus, ac omnes nefarios sacrilegosq. eiusdem Regis et Gubernii ausus reprobamus, peniIusque desinamus

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fatte a Noi da uno del più potenti Principi dell'Europa. Con tutto ciò, mentre già da un pezzo ne aspettiamo l'effetto, non possiamo non affliggerci e turbarci altamente in mirare che gli autori ed i fautori della nefanda usurpazione, con audacia ed insolenza persistono e progrediscono nel malvagio loro proponimento, quasi di certo confidino che niuno si opporrà loro effettivamente.

E questa perversità è giunta a tal segno, che, spinte le forze ostili dell'esercito piemontese fin quasi sotto le mura di quest'alma nostra città, è rimasta intralciata ogni comunicazione; i pubblici e i privali interessi sono posti a pericolo; sono interchiuse le vie; e, ciò che è gravissimo, il Sommo Pontefice di tutta la Chiesa è ridotto in una penosa difficoltà di provvedere, secondochè conviene, ai negozii della Chiesa medesima, stantechè si è oltremodo ristretta la via di comunicare con le varie parti dell'orbe. Per lo che in tante Nostre angustie, ed in così grande estremo di cose, facilmente intendete, Venerabili Fratelli, che Noi oramai siamo spinti quasi da una trista necessità a dovere, ancorchè mal nostro grado, prendere consiglio opportuno per guarentire la Nostra dignità.

Frattanto non possiamo astenerci dal deplorare, oltre agli altri, quel funesto e pernicioso principio, che chiamano di Non Intervento, da certi governi poco tempo fa, tollerandolo gli altri, proclamalo ed usato ancora quando si tratti dell'ingiusta aggressione di qualche governo contro un altro: cotalchè par che si voglia coonestare, contro le umane e divine leggi. una tale impunità e licenza di assalire e manomettere gli altrui diritti, le proprietà e i domini stessi conforme vediamo accadere in questa età luttuosa. Ed è veramente cosa da stupire, che al solo governo piemontese sia lecito di violare immunemente un tal principio e di averlo in ispregio, mentre scorgiamo clic esso con le ostili sue schiere, guardandolo tutta Europa, negli altrui dominii irrompe, e da quelli caccia i legittimi Principi:

Quindi ci è offerta opportuna occasione di eccitare tutti i Principi d'Europa, affinché con tutta la sperimentata gravità e sapienza delle loro menti prendano seriamente a considerare quali e quanti mali siano accumulati nel detestabile fatto di cui parliamo. Imperocchè si tratta di un'immane violazione, che iniquamente fu commessa contro il comune diritto delle genti, sicché, dove questa non sia al tulio repressa, oggi mai non potrà durar saldo, inconcusso e sicuro qualsiasi legittimo diritto. Trattasi del principio di ribellione, a cui il governo subalpino vergognosamente serve, e dal quale è facile intendere quanto pericolo di giorno in giorno si prepari a qualsiasi governo, e quanto danno provenga a tutta la società civile, aprendosi per tal modo l'adito ad un fatale comunismo. Trattasi di solenni convenzioni violate, le quali come degli altri Principali in Europa, così ancora vogliono intatta e sicura l'integrità del dominio pontificio. Trattasi della violenta distruzione di quel principato, che per singolare consiglio della divina provvidenza fu dato al Romano Pontefice, perché esercitasse con pienissima libertà l'Apostolico suo Ministero in tutta la Chiesa. La quale libertà senza dubbio deve stare sommamente a cuore di tutti i Principi, affinché il Pontefice stesso non soggiaccia all'impulso di veruna podestà civile, e sia così ugualmente provveduto alla spirituale tranquillità del cattolici che vivono nei dominii del medesimi Principi.

Debbono per tanto tutti i Principi sovrani essere persuasi che la nostra causa è intimamente congiunta con la loro, e che essi, recandoci il loro soccorso, provvederanno non meno alla salvezza del loro che del Nostri diritti. Perciò con somma fiducia li esortiamo e li scongiuriamo che Ci vogliano porgere aiuto, ciascuno secondo la sua condizione ed opportunità. Non dubitiamo poi che massimamente i Principi e popoli cattolici non abbiano a congiungere con ogni ardore le cure e l'opera loro per affrettare di soccorrerci in tutti i mo

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Siccome poi anzitutto sapete, Venerabili Fratelli, che ogni nostra speranza è da collocarsi in Dio, il quale ci è aiuto e rifugio nelle tribolazioni Nostre; il quale ferisce e medica; percuote e sana; mortifica e vivifica; conduce agli abissi ed indi ne ritorna alla luce; così in ogni fede ed umiltà del cuor Nostro non tralasciamo di spargere continue e ferventissime orazioni a Lui, valendoci primieramente dello efficacissimo patrocinio dell'Immacolata e Santissima Vergine Maria Madre di Dio e del suffragio del Beati Pietro e Paolo, affinché usando la potenza del suo braccio conquida la superbia del nemici suoi, ed espugni i Nostri nemici, ed umilii ed abbatta tutti gli avversari della sua santa Chiesa; e con l'onnipossente virtù della sua grazia faccia che i cuori di tutti i prevaricatori rinsaviscano, e che della loro desideratissima conversione la Santa Madre Chiesa quanto prima si rallegri.»

Il potente aiuto che il Pontefice tiene nella mano di Dio fu deriso dai giornali rivoluzionari di Torino, che sin dal 1848 si diedero a demoralizzare il principio religioso per materializzare il cuore del popoli sotto il bugiardo titolo di libertà, che tradussero in libertinaggio. Folli!- i popoli, educati alla scuola del disinganno, svegli da quella fatale ebbrezza delle prime rivolture, han compreso, che libertinaggio sia radice di schiavitù; e che tiranni sien coloro che li demoralizzano per stringerli sotto più pesante catena; avvegnacchè smorzata la luce della fede, madre e sementa d'incivilimento sociale, morale e scientifico, essi si tuffino nella bozzima del vizio, della miseria e della dissoluzione! Coloro che per trista convinzione, e per calcolo, misero al mercato della politica coscienza, morale e dritto, ed esultarono allo spandersi del veleno da loro propinalo nelle città d'Italia, ebber sempre trepidante la fede nel futuro; e se furon forti a soffocare l'eloquente voce della coscienza, che altamente li accusa e condanna, non potettero far tacere l'altra voce la quale dice: «Iddio saprà mantenere la sfida! - Quando egli sembra cedere ai suoi nemici, li abbarbaglia con l'altezza medesima del loro trionfi, e li accieca per perderli.

Ed è allora, che la sua giustizia fa strepitosa vendetta di quei lunghi indugi, che sembrarono scandalo della sua provvidenza.» (1)

CAPITOLO X.

Posizione delle bande Garibaldine a Capua - Prime avvisaglie tra regi e garibaldini - I regi riprendono Cajazzo - Combattimento a Monte Vairano - I regi guadano il Velturno - Combattimento di 8. Maria e di S. Angelo - I regi guadagnano le alture di Saot'Angclo - Garibaldi chiama la riserva - Combattimento a Sant'Agata - Trista condizione dei rivoltuosi - Cavour e il suo noi siamo l'ItaIia. - Una lettera di Giuseppe Giusti a Maizoni - Proclama del Comitato Napolitano a Re Vittorio Emanuele - I partiti a Napoli - Giorgio Pallavicini Pro - Dittatore a Napoli - Suo proclama - Conforti al Ministero - Una lettera della Marchesa Pallavicino - Conforti sostiene gli annessionisti - Garibaldi consente l'annessione di Napoli al Piemonte - Ordine del Giorno di Garibaldi che annunzia l'intervento delle truppe piemontesi - Petizioni per l'annessione - Comunicazione del Gabinetto di Torino all'Ambasciatore Napolitano - Risposta dell'Ambasciatore Wispeare.

Re Francesco 2.°, ritiratosi a Gaeta, avea colà nominato il suo nuovo ministero. Una parte delle truppe rimaste fedeli alla dinastia lo avea seguito, tenendo a linea di difesa Capua e Caserta con il Volturno ed il Garigliano; il primo del quali fiumi scorre presso Castel Volturno, dove fu il maggior punto combattuto - Senza intrattenerci minutamente sulla posizione strategica del due eserciti nimici (cosa che allungherebbe molto il racconto e ci farebbe discostare dal nostro principale compito) narriamo brevemente le fazioni battagliate, i cui fatti furono dai bollettini della rivoluzione costantemente snaturati per non iscoraggiare gl'insorti.

Presso Santa Maria avean preso posizione le brigate garibaldine Eber e La Musa: presso San Leucio la brigata SacelIi con il ballagliene Ferracini, la Compagnia del genio Milano, e la brigata Bologna. Il Colonnello Winkler ne dirigeva le operazioni.

Nel racconto delle gesta della rivoluzione c'incontriamo spessissimamente in nomi esteri;

(1)

Paul. Sauzet. Le due politiche pag. 48.

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ed in fatti, francesi, inglesi, ungheresi, e polacchi combattevano nelle file garibaldesche! È giusto domandare al governo Piemontese, che si attribuiva il doveroso patriottismo di accorrere ai lamenti del sudditi pontificii oppressi da stranieri briachi, con qual diritto questi esteri s'immischiassero nei fatti della rivoluzione italiana? Ci risponderebbe, perché gli stranieri dividevano con lui il sentimento di libertà! - Ebbene, perché lo stesso non si ha diritto a dire di coloro, che convinti cattolici combattevano a difesa del territorio della S. Sede? Inutile indagine: la rivoluzione è assolutista e tiranna: ed assolutamente trova colpevole in altri ciò che in se crede ragione e diritto.

Un tale Csudafy avea l'incarico di assicurare la linea di Maddaloni; e Turr quella del Volturno, afforzato da altre truppe sollo il comando del Rustow!!

A dì 15 settembre cominciarono gli scontri parziali. La colonna Spangaro attaccò le truppe Regie, che aveano preso posizione presso la cascina Vitale; ma ne fu bruscamente respinta. I bersaglieri milanesi ritentarono la fortuna nelle vicinanze di Virilasci, e non ebbero miglior sorte; poiché assaliti alla baionetta, dopo aver conteso per poco H terreno, indietreggiarono disordinatamente.

Riattaccossi la pugna; e le bande, unitesi in forte numero, aprirono un fitto fuoco, cui i Regi rispondevano poggiandosi alla linea coverta di Capua. Il Comandante garibaldino, credendo aver già nelle mani la vittoria, imprudentemente fece avanzare i suoi; ma appena i regi furono al coverto. dagli avamposti e dalle mura della fortezza sì aprì tale un fuoco di artiglieria per quanto che i garibaldini sgominali'non poterono salvarsi che fuggendo alla dirotta, lasciando seminalo il terreno di morti e di feriti. Essi ripararono alla così detta taverna Virilasci, dove altri corpi erano accampali.

Intanto d'altra parte saputosi, che debole fosse il presidio di Caiazzo, là fu spedito Cattabene coi cacciatori Bologna. Con coraggio fu dato l'assalto; energica la difesa: più volte i garibaldini, sempre da

infine il presidio, scarso come era, dovette ritirarsi, lasciando Caiazzo in potere del nemico, che l'occupò; ma molto costò questa fazione, poiché stragrandi furono le perdite che soffrirono i garibaldini, mentre poche furono quelle del Regi, i quali per lo più avean fatto fuoco dal coverto. I giornali della rivoluzione menarono gran rumore di questo fatto, narrando, tra le altre menzogne officiose, che duemila fossero stati i garibaldini, e ventimila i regi! P. Gavazzi gridava al prodigio, ed il Municipio di Napoli fece grandi luminarie per magnificare il valore del vincenti.

Ma tutte queste gioie terminarono subitamente, poiché i Regi nel dì 21 smentirono con i fatti le ampollosità della rivoluzione.

La posizione di Caiazzo era molto importante per la linea strategica del regi; ed averla perduta era un grande avvantaggio per il nemico. Era d'uopo quindi riprenderla; prevedevasi che sanguinoso sarebbe stato il combattimento, tra perché i volontari eran stati rafforzali dalle truppe di Medici; tra perché avean costrutte barricate per mascherare le artiglierie.,

Il Brigadiere Colonna, avendo a riserva il Brigadiere Won - Mechel, mosse ad attaccare Caiazzo. Avea con se cinque battaglioni, e sei pezzi di campagna.

Il nemico, avvertito di questa mossa, uscì dalle mura, e prese posizione sulle alture vicine, dove trovava una difesa naturale nei folti oliveti. Si venne alle mani: i regi, scoverti come si trovavano, soffrivano moltissimo pel fuoco che li fulminava sui fianchi, e fu necessità di attaccare il nemico alla baionetta, e snidarlo da quel luogo. I Garibaldini respinti in ogni punto diedersi alla fuga, nascondendosi dietro le barricate, dopo non lievi perdite. I regi s'avanzarono sulla città, e diedero l'assalto, mentre l'artiglieria di ambo le parti tuonava seminando la morte e la strage. Già le barricale erano state disfatte, respinti i rivoltuosi e messi in scompiglio; allorché gli abitanti di Caiazzo unanimamente alzarono la bandiera Borbonica al grido di Viva

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Gravissime furono le perdite di ambe le parti. del regi un cento dieci uomini tra morti e feriti, come il bollettino officiale riporta; del nemico un 500 oltre un 200 prigionieri. senza tener calcolo degli uccisi nella lotta avvenuta nell'abitato. Prigionieri furono il Maggiore Callabene, ed altri otto ufficiali.

Dalla ripresa di Caiazzo in poi il campo garibaldino sembrava caduto nella inerzia. Le truppe indisciplinate e senza conoscenza alcuna di servizio mili lare non ispiravano troppo fiducia per tentare Capua.

Vi è stato chi di questa inerzia accusò i Generali e i Colonnelli sbucciati dalla rivoluzione come funghi; e forse il sospetto di crederli più obbedienti alla volontà del gabinetto di Torino, ed al partito che fu poi detto della consorteria, fu giustificato dai fatti posteriori, e dal vedersi questi Generali improvvisali addiventare fedelissimi sostenitori del ministeri.

Le poche scaramucce clic avvennero sino al 1° di ottobre furon di lieve momento, a meno del combattimento di Monte Vairano, che merita essere ricordato. Csudafy teneva Piedimonte d'Alife con forte distaccamento garibaldino; ma non sicuro in quella città, essendo «continuamente minacciato dalla popolazione quasi tutta appartenente al partito borbonico -» come il confessa lo stesso Rustow Capo dello stato Maggiore di Garibaldi (1), afforzato da 600 uomini, dei quali avea fatto cerna, si diresse per i monti di Vairano.

A poca distanza dall'abitato si scontrò coi Regi; ed in modo da non poter scansare il combattimento, come sarebbe stato suo desiderio. Attelò i suoi uomini alla difesa; ma dopo pochi momenti di resistenza i suoi battaglioni si dispersero, ed egli stesso per non restar prigioniero dové darsi alla fuga. Più vergognoso fu il fatto del Regg. Dunne, che «dopo due soli tiri fatti dai Napoletani, fu colto da timor panico e fuggì a spron battuto» (2). Dov'erano dunque i miracoli del Garibaldini, che in soli mille disfecero l'esercito Regio di Sicilia, e conquistarono città e castella con la sola presenza delle camice rosse?

(1) loc. cit. pag. 412.

(2)

loc. cit. pag. 413.

Confessino i rivoltuosi ciò che ormai non è mistero; esser stato il tradimento e l'oro di Torino quello che vinse; non i mille!

Intanto Garibaldi con ripetuti proclami cercava di sollevare gli spiriti abbattuti. «Allorché, egli faceva scrivere, il pensiero d'una patria Italiana ancora non era vivo che in pochi, si congiurava, e si moti riva. Ora si combatte e si trionfa.... Radunatevi sulle piazze delle vostre città: ordinatevi con quell'istinto che ha il popolo per la e guerra, che basta a renderlo capace di attaccare in massa il nemico.... ii Egli avea messo il suo Quartier Generale a Caserta, e dai movimenti delle truppe regie, prevedeasi prossimo il giorno di una battaglia decisiva, tutte le forze, di cui disponea la rivoluzione, erano colà concentrate, ed il partito Mazziniano non tralasciò mezzo veruno intentato, perché arridesse al Dittatore la fortuna delle armi - Due ragioni lo spingevano a farlo trionfare assolutamente; cioè che la vittoria fosse stata tutta sua, e che questa fosse avvenuta prima che l'esercito piemontese, disbrigatosi dalle poche migliaia di pontificii. che gli attraversavano il cammino, invadesse il reame. Vincere i regi, e vincere da sé soli sarebbe stato assicurare la vittoria del partito. L'entrata del piemontesi sul territorio pontificio ben facea avvisalo Mazzini e i suoi, che Cavour mascherava il disegno di annessione: epperò una battaglia campale dovea decidere di tante esitazioni. E la battaglia fu data nei successivi giorni 1 e 2 ottobre.

Senza che descrivessimo strategicamente la posizione delle due armate nemiche, ci alterniamo al racconto del singoli combattimenti, che ebber luogo in quei due giorni, nei quali l'armata rivoltuosa avea perduto ogni prestigio, e la restaurazione sarebbe stata effettuala, ove non si fosse consumalo l'inqualificabile intervento del Piemontesi.

Il brigadiere Won - Mechel si avanzava sull'ala sinistra pel Volturai superiore, ed accennava a Ducenta per guadagnare Maddaloni; quella linea era difesa da Medici, che avea il suo centro a S. Angelo in For

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Appena i Regi cominciarono quel movimento, il Gen. Colonna, a sostenerlo, apri un fuoco di artiglieria e di fucileria contro le bande, che riportarono positive perdite, scoverte come si trovavano nella posizione. Questo fuoco era diretto a mascherare l'idea del regi che voleano guadare il Volturno. Dapprima i garibaldini, avvertitisi del tentativo, cominciarono a far fuoco per impedir loro il passaggio; ma molestali dalla incessante mitraglia, che contro loro scagliavano le artiglierie di Colonna, dovettero ritirarsi. Sicchè i regi ottennero il loro intento

Spuntava il 1° Ottobre, ed il cannone tuonava contemporaneamente a S. Maria ed a Sant'Angelo. Due combattimenti erano ingaggiali. Da una parte Milbitz, che coi rivoltuosi tenea la linea di S. Tammaro a Sant'Angelo, contro i Generali regi Tabacchi e Sergardi; dall'altra Medici, che si estendeva da Sant'Angelo a Santa Maria, contro il Gen. Afan de Rivera. Nelle truppe di Milbitz militavano fra i molti esteri, mille e cento francesi che formavano la compagnia De Flotte!

Il Generale Tabacchi, respinti gli avamposti di Milbitz, che non sostenendo l'urto, indietreggiando s'erano poggiati al grosso dell'esercito, stendendosi in due ali, con la sinistra attaccò La Masa. Il combattimento fu animalo, ed il sangue scorreva a rivi.

Intanto che le due armate nemiche, rinforzate da truppe fresche, misuravano il terreno, i due Regg. di Lange e Sprovieri, accorsi a sostenere i garibaldini che ripiegavano, respinsero l'assalto del regi, che giusta gli ordini avuti, indietreggiarono in buon ordine, ponendosi sotto la protezione delle artiglierie. Non ebbe egual sorte La Masa, che per quanto valore addimostrasse con la sua brigata, fu rollo e respinto con immense perdite. Intanto i Regi, che sulla destra aveano indietreggialo, ristorali alquanto, s'avanzarono animosi a respingere un secondo assalto della brigata Milbilz, ed ottennero l'intento rincacciandola sin sotto le trincee di Santa Maria: ma là dovettero ristarsi, non solo perché stanche e defatigate erano le truppe, ma perché sarebbe stato lo stesso che esperte al fuoco delle artiglierie nemiche - In questa giornata i più accaniti al combattimento furono i volontari napolitani!

-

e del cadaveri di essi in maggior numero fu seminato il terreno! - La mano non regge a vergare queste pagine dolorose!

Quel terreno scalpicciato e reso quasi paludoso di tabe; quel carnaggio era conseguenza dell'odio di partito, che la mano del fratello avea armata contra il fratello - Il pensiero spaventato rifugge da questa tristissima scena di sangue.

Né meno accanita fu la fazione combattuta a Sant'Angelo. Mentre Afan de Rivera attaccava tutta la linea tenuta da Medici, il Gen. Colonna, passando presso la Scafa di Triflisco, mise fuori ritirata un distaccamento nemico, e poté attaccarlo contemporaneamente senza che quegli ne avesse avuto il menomo sentore-Medici così preso ai due fianchi, spiegò quanto poté di coraggio e di energia: ma impossibilitato a resistere, dové ripiegare dopo aver perduti quasi 2000 uomini tra morti, feriti e dispersi.

Perché non sembri esagerata questa cifra, ci vediam nell'obbligo di noverare le truppe di Medici giusta il Bollettino della guerra.

Della 17 divisione

2500

Carabinieri genovesi 200

Dal Reggimento Brocchi (Genio).... 300

Brigata Spangaro 15 divisione 1000

4000

Il Rustow, testimone e combattente in questa guerra, non può celare il vero, ed asserisce: «che le truppe di Medici dalle nove ore di mattina erano ridotte a poco più di 2000 uomini....» (1).

I Regi aveano guadagnala l'eccellente posizione delle alture di Sant'Angelo in Formis, e di là con le artiglierie da montagna grave danno arrecavano al nemico. In questo giorno fu ucciso il cocchiere della carrozza di Garibaldi, il quale in quel comodo modo correva il campo per dare le sue disposizioni!

(1) loc. cit. pag. 428.

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Afan de Rivera intanto, volendo completare l'onore della giornata, senza dar tregua al nemico, si spinse fin sul villaggio di Sant'Angelo, dove i volontari di Medici, fatta poca resistenza, diedersi a fuga precipitosa, lasciando in potere del Regi armi, munizioni, artiglieria, e fino il presi loro preparato.

Eppure nella sera di questa terribile giornata, in cui le truppe Garibaldine aveano sofferte perdite così positive, oltre all'essere state sloggiato dalle loro posizioni, i comitati faceano imbandierare Napoli, ed il telegrafo annunziava: Vittoria su tutta la linea!!

Si vivca di menzogne!. Garibaldi era stato obbligato a chiamare tutta la riserva, ultimo baluardo delle sue forze, e fatta marciare per i monti giacché la strada consolare trovavasi guardala dalle artiglierie regie, e dai regi anche occupalo Sant'Angelo.

Questi fatti che addoloravano il cuore del partito ultra - liberale, faceano gongolare di gioia i Cavouriani annessionisti, i quali avean già ricevuto l'avviso, che le truppe regolari Piemontesi a gran passo si avanzavano per sconfinare nel napolitano. Costoro, che poi furono designati col nome di consortieri, gioivano delle disfatte di Garibaldi! Questo era il loro sogno dorato, poiché Garibaldi disfatto era impossibile al potere! - E così avvenne.

La posizione delle bande garibaldesche era tristissima; e Garibaldi facea l'ultimo sforzo, se non per vincere, ciò che egli stesso vedea impossibile, almeno per arrestare il passaggio del Regi.

Won - Mechel accennava di attaccarlo sul fianco sinistro per marciare a Caserta vecchia, mentre simultaneamente un altro corpo di regi lo minacciava sulla destra per la via di Sant'Agata del Goti. Bixio avea assunto il comando del Garibaldini, e sotto i suoi ordini avea la brigata Eberhard, che dovea impedire a Won - Mechel il passo a Sant'Agata; non che le brigate Spinazzi, Dezza, e altre colonne raccogliticce da diversi corpi.

Won - Mechel era già sopra Valle. Con il fuoco di artiglieria impegnò la pugna, mentre nel contempo le due ali assalivano l'armata nemica.

La brigata Dezza, non sostenendo l'urto, indietreggiò fino ai monti; e lo stesso avvenne di Eberhard, che fu scacciato da tutte le posizioni prese. Dapprima egli, rinculando, si studiava a sostenere la ritirala, ma poco dopo i garibaldini, abbandonale le armi, si diedero a rotta precipitosa. Eguale fu la sorte dell'artiglieria, che in parte smontata, dovette frettolosamente ritirarsi a Maddaloni. Il solo Bronzetti, benché gravi perdite avesse sofferte, tenne in soggezione la colonna regia Perrone, e fino al mezzogiorno conservò la sua posizione-; ma se ne ritrasse più tardi, non avendo forze sufficienti a sostenere un secondo assalto per la gran quantità del feriti delle sue truppe.

Dopo qualche momento di sosta, il combattere ricominciò più accanito. Garibaldi avea fatto appiattare fra gli albereti i cacciatori calabresi, mentre attaccava Tabacchi con la brigata Milano. Il Generale regio molestato così alle spalle, ordinò indietreggiarsi per snidare i calabresi. Garibaldi, credendo che quella fosse una ritirata, animoso si diè ad inseguirlo. Allora Tabacchi ordinò una carica di quattro squadroni di cavalleria, che a tutta briglia, slanciandosi sulle bande, le scompigliò in modo, che posele in piena rotta, ed inseguendole, ne fece aspra carneficina. Accorse Sirtori con altra Brigata, con la legione ungherese, e con le compagnie estere; ma non potette ottenere altro che impedire ai regi di avanzarsi.

Non pertanto la cavalleria regia, prima di ritirarsi, volte dare un'altra carica agli ungheresi, con i quali diventò sanguinosa più che mai la lolla, essendo venuti corpo a corpo. Gli ungheresi non abbandonarono il terreno, che cadaveri!

Cosi ebbe termine questa seconda giornata.

I Regi avean combattuto con valore, ma non aveano ottenuto l'intento d'impossessarsi di Caserta, come avrebbero desiato. I rivolutosi, e specialmente gli esteri, anche con coraggio, degno di miglior causa, avean sostenuta la giornata, ma niun utile aveano potuto conseguire. Era stato un duello terribile, che ripetuto dovea essere fatale ai garibaldini, sgominali per la gran quantità del morti e del feriti.

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Una nuova cerna di uomini era inutile; poiché il volontario, buono nelle guerriglie, disadatto a guerra, reca più impaccio che forza nell'azione. E così in quei giorni grave addiventò la condizione, in cui versava la rivoluzione. Per essa non vi era altra speranza, che sostenersi con uno sforzo supremo, fiduciando sempre nell'aiuto del comitati. Ma sostenersi era pur dubbio, poiché non pochi i quali, quando si arruolarono, sembravano voler conquistare il mondo intero, non resistettero all'ardua pruova. Su ciò ricopiame le parole del Generale Rustow (1).

«Il numero degli smarriti, egli dice, è alquanto rilevante tra gli smarriti è da annoverarsi quelli, che per riguardo di salute, appena comincia la pugna e s'odono i primi colpi di fucileria, si fan piccini piccini, e quando veggono il destro, se la svignano vituperosamente. Costoro per altro non arrossirono di ritrovarsi al Corso la sera dell'uno, ed anche del due Ottobre per la i distribuzione del pane, o per ridurre gli animi loro in piena tranquillità, di riparare negli spedali di Napoli, o in altro luogo di sollazzo....»

In tale stato di cose il Conte di Cavour vide, che se le truppe regie, in un secondo prevedibile assalto, avessero guadagnato Caserta e Maddaloni, in men che non si pensasse, sarebbero entrate in Napoli, dove il partito legittimista - liberale ricominciava a riacquistar, forza, coadiuvalo dalla reazione che in quasi tulio il regno erasi svegliata; sicché perduta gli sarebbe andata la speranza dell'intervento,'che non avrebbe più potuto giustificare con la maschera di pacificatore.

Senza por tempo in mezzo, facendosi dritto, popolo, nazione, protettore, ed idea, disse all'Europa: «.... Noi non abbiamo nulla da nascondere; nulla da dissimulare! NOI SIAMO L'ITALIA: noi operiamo in nome suo; ma nel medesimo tempo siamo i moderatori del movimento nazionale; i nostri sforzi, le nostre più assidue cure non hanno altro fine all'infuori di quello di dirigerlo nelle vie regolari, e che esso non venga snaturato da innesti impuri.

(1)

Loc. cit. pag. 447.

Noi siamo i rappresentanti del principio Monarchico, che in Italia era scomparso dai cuori prima d'esser riversato dalla vendetta popolare. Questo principio noi lo abbiamo temperalo, e datogli una novella consecrazione. Esso fu la nostra forza al presente, e sarà il nostro scudo nell'avvenire. Confidenti nella giustizia della causa che difendiamo e nella equità delle nostre intenzioni, noi nutriamo la speranza di sciogliere e di vincere le difficoltà dello stato attuale delle cose. Quando il regno d'Italia sarà costituito sulle basi saldissime del diritto nazionale e del diritto monarchico, noi siamo convinti che l'Europa non ratificherà punto il giudizio severo, che or si fa pesare sull'opera nostra...» (1).

Chi dava al Conte Cavour il diritto di dire: noi siamo l'Italia? chi gli avea affidalo il mandato di operare? Risponde la storia:-un'idea che da secoli vagheggiò il gabinetto di Torino - mangiarsi l'Italia a foglia a foglia come un carciofo! Qual'era la giustizia, in cui confidava; quale 1'equità delle intenzioni? stipendiare nei regni Italiani settari e rivoltuosi: con l'oro demoralizzare gli eserciti: allettare con promesse e speranze, che degenerarono nella schiavitù politica. nel commercio eviralo, nel caos governativo ed amministrativo, nello sfacelo finanziario, nella sparizione del contante, nell'inondazione della carta - moneta, in una miriade d'imposte, e nelle leggi eccezionali di Pica e Crispi! Ed ottenuto lo intento di sconfonderc l'edificio, e di calpestare il diritto internazionale, con la forza delle armi imporsi alle popolazioni!. Il fine giustifica i mezzi, ripetiamolo pur una volta, diceva il Conte di Cavour: ma sventuratamente non è stato giustificalo. All'Italia fu promesso libertà, ordine, commercio, garentie costituzionali, e si ebbe arbitrio nei singoli maestrali, deportazioni, domicili coatti, fucilazioni, e stati d'assedio! Se il Conte di Cavour fosse vissuto, avrebbe potuto persuadersi una volta, che gl'innesti impuri non avvennero solo nel 1860, ma crebbero smisuratamente dal 1861 in poi; innesti impuri,

(1)

Nota del Conte di Cavour al Conte De Launay Ministro Sardo a Berlino 9 Novembre 1860.

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che han falsata la via, e scavala una fossa immensa, che difficilmente potrà ricolmarsi intorno alla misera Italia.

Al proposito, non è disutile riportare una lettera che Giuseppe Giusti fin dal 1848 scriveva ad Alessandro Manzoni. È un nome pur troppo nolo per idee liberali.

«I piemontesi, dic'egli, (ma zitto per l'amor di Dio, se non mi vuoi veder lapidato) i piemontesi hanno la voglia e la forza di salvare l'Italia; ma ne hanno anche la presunzione, e, starei per dire, la pedanteria. Non dicono ego primam tollo nominor quia leo, ma giù di lì. Cesare Balbo è il paese incarnato. Leggi i suoi scritti, ascolta ciò che ti dice, e li pare, ed è di fatto il primo amico della libertà; toccato nelle sue opinioni, allora lui è l'Italia, e l'Italia è lui, e addio roba mia..........

A proposito del Piemonte, avrei altre cose a dire; ma assai vostra signoria è repubblicana, e non vorrei per tutto l'oro che è sotto la cappa del cielo, che i giornalisti mezzani di Carlo Alberto, avessero a dire che io gli seduco le g........ lombarde. Credo che sia tua l'osservazione, che il partito repubblicano ha sul partito costituzionale il vantaggio di dire ciò che sente alla faccia del sole, senza ricorrere a mezzi termini, per tirare dalla sua chi la pensa diversamente. Quanto alle parole, siam d'accordo; quanto ai fatti no. Conosco i polli, e so che a un punto preso, fanno di tulio, e in nome dell'Italia una e indivisibile non hanno scrupolo di barattarsi a le carte in mano. Ma il mondo è mondo per tutto, e per tutti:

E tutto si riduce a parer mio

A dire; esci di lì, ci vo' star io.

E il sapere stare sul suo, è un microscopio, che ti scopre il baco dov'è....» (1).

Intanto Cavour, benché non dissimulasse davvantaggio, che niuno avrebbegli accordata fede, anche se avesse voluto farlo, trovò opportuno far precorrere qualche proclama, che surto dall'eterno ed infaticabile Comitato centrale, significasse, o almeno significar volesse la volontà del popolo!

(1)

Lettere del Giusti - Vol. 2°, Lett. 350 - coi tipi Lemonnier.

Ed ecco il proclama, che fu diretto al Gabinetto di Torino dal comitato Napolitano!

«Sire,

«Voi siete il Re nostro. Noi vi abbiamo susurrato Re nei convegni segreti; noi vi abbiamo gridato Re per gli atrii e per le piazze; noi vi abbiamo proclamato colle insurrezioni e colle armi. E il Dittatore Giuseppe Garibaldi, la cui lealtà d'animo è pari al coraggio e il coraggio pari alla fortuna, è entrato in Napoli pronunciando questa prima parola: Vittorio Emanuele e i suoi discendenti sono i Re rostri e d'Italia.

«Sire, perché noi dovremmo essere gli ultimi degli Italiani ad accogliervi e festeggiarvi nel grembo delle nostre città? Perché dovremmo essere gli ultimi a godere i beneficii di un governo, in cui tutti i principii di libertà, d'ordine, di progresso e d'avvenire che si compendiano nel Vostro Nome, sieno la norma e la guarentigia dell'indirizzo politico dello Stato?

«Sire, venite! Noi Napoletani vogliamo, che in Napoli Voi venite a suggellare l'Unità Italiana; Voi venite a restaurare la tranquillità e la pace nel Regno. Noi vogliamo che quei prodi, che hanno difeso Voi e l'Italia a Palestro e S. Martino, si abbraccino qui con quei valorosi giovani che sbarcati in poche centinaia a Marsala, hanno, aiutati dalle popolazioni, liberato le fedeli e non le meno belle delle provincie del Vostro Regno; affinché tutti, guidali dalla saggezza vostra, moviamo poi di qui a sgominare colla forza del Vostro braccio, colla scienza del Vostri Generali, coll'ordine e il genio del Vostro Garibaldi, i residui nemici d'Italia, e coronare così l'opera della sua redenzione».

Che questo proclama fosse opera del Comitato, e fosse fatto anche contro la volontà della maggioranza della rivoluzione appare dalla opposizione energica, che si movea contro l'idea di pura e semplice annessione, secondo la mente di Cavour; e questo dualismo stava per

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Garibaldi nell'arrivo della truppa Piemontese vedea spenta la sua azione; ma pure senza di questo soccorso comprendeva che la rivoluzione sarebbe stata schiacciala al Volturno dall'armata napolitana e nelle rimanenti province dall'insorgere della reazione. Laonde da Caserta, ov'egli ancor trovavasi col Quartiere Generale, spedi il seguente telegramma a De Virgilii Prefetto a Giulia Nuova «Se i piemontesi venissero sul nostro territorio, si ricevano come fratelli».

La lontananza del Dittatore facea intanto più aizzare i due partili che disputa vansi il potere; ond'è che Garibaldi inviò al Marchese Giorgio Pallavicino a Genova una lettera, premurosamente chiamandolo all'ufficio di prodittatore. Questi, venuto appena, pregò Mazzini ad allontanarsi da Napoli, e poi diè fuori il suo proclama tutto annessionista, cavouriano, piemontese nell'ossa, checchè abbian dello per difenderlo i suoi amici. Pubblichiamo questo proclama, perché ognuno possa da sé stesso formarsene un adeguato concetto.

«Cittadini!

«Chiamato dall'eroe, che vi redense con una serie di miracoli, io vengo a dividere con voi le fatiche e i pericoli che accompagnano la grande impresa da noi assunta in pro d'Italia. Incanutito nelle battaglie della libertà, io avrei dritto a quel riposo che suoi concedersi al soldato dopo lunga e laboriosa milizia: - ma la Patria mi chiama, ed io non fui mai sordo all'appello della Patria.

«Cittadini!

«In nome del Dittatore io vi prometto uno splendido avvenire: prometto a queste nobili province, regnando Vittorio Emanuele, l'ordine con la libertà. E ciò significa, o cittadini, amministrazione imparziale della giustizia, base d'ogni Governo civile; sollecito riordinamento dell'esercito e della flotta; accrescimento e migliore organamento della Guardia Nazionale; scuole popolari, strade ferrate, incoraggiamenti d'ogni maniera all'agricoltura, al commercio, all'in

«Ma, sopratutto, il nuovo Governo proverà l'unificazione, bisogno supremo d'Italia. Non salverà l'Italia la fiducia nel patrocinio straniero, non la sonora ciancia delle sette impotenti; ma la concordia e le armi italiane. Armiamoci dunque, ed uniamoci tutti sotto il vessillo tricolore colla Croce Sabauda, che tiensi inalberato dal Salvatore delle Due Sicilie: ecco l'orifiamma, ecco il palladio della Nazione. Rannodiamoci intorno ad esso, gridando: Viva Garibaldi! Viva il Re Galantuomo! Viva l'Italia! Italia una ed indivisibile! I, " Italia degl'Italiani!»

Il Prodittatore

GIORGIO PALLAVICINO TRIVULZIO.

Il colpo era ben tratto, e Cavour se ne tenne contento; tuttocchè qualche poco tempo prima erasi doluto, che il Pallavicino lo sconfessasse! - Nominò quindi il novello Ministero affidando a Raffaele Conforti l'Interno e Polizia. Se altra prova non vi fosse, questa sarebbe stata bastevole a qualificarlo annessionista, poiché il Conforti era del più accreditali membri del Comitato Nazionale di Torino. Garibaldi vide il suo errore, e non esitò a dichiararlo; lo che offese grandemente la Marchesa Pallavicino, che cosi ne scrisse risentila al Generale Turr a Napoli:

Cher General

Je suis furieuse contre Garibaldi: accuser mon mari d'être sous l'influence de Cavour, c'est trop fort: ne sait - il pas que Giorges a été toujours il bersaglio del Cavouriani?.... Si vous avez occasion de le voir, dite - le lui.

En hàte, mais de cœur.

ANNA PALLAVICINO

La Marchesa forse parlava per sua convinzione; ma il fatto è la più gran smentita alla sua opinione. Pallavicino propugnò furiosamente la

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«No, noi Napoletani non dobbiamo fare condizioni che son cose da medio evo. Noi non ci diamo ad una potenza straniera, a cui sia necessario imporre del patti: noi ci diamo a noi stessi, alla nostra gran patria, che fu il sospiro di tanti secoli, alla Italia una e indivisibile. Dall'altra parte, gl'Italiani dell'Emilia e della Toscana che vantano sì nobili memorie, non posero condizioni, ma si preoccuparono solo di riunire le sparse membra dell'Italiana famiglia. - Questa, questa è l'idea grande, che dee dominare tutte le altre. Perché non dobbiamo imitare i nostri fratelli? Perché dobbiamo domandare privilegio, quasi non fossimo figli della medesima patria?»

E conchiudeva con molto calore: «Noi Napolitani non consentiremo giammai a quest'onta, che alcuni ci vorrebbero imporre: noi che fummo tanto calunniati nel mondo, noi non vorremmo certo colle nostre pretese municipali tramutare le vecchie calunnie in novelle accuse: noi non vogliamo altro, se non che si faccia l'Italia presto. E mi meraviglio, come una quistione siffatta si possa tanto agitare in presenza del Generale Garibaldi, che è la personificazione dell'unità italiana.»

Garibaldi era fermo nella sua idea - pochi giorni prima avea detto a Palermo:

«A Roma, popolo di Palermo, noi proclameremo il Regno Italico e là solamente santificheremo il gran consorzio di famiglia tra i liberi e gli schiavi ancora figli della stessa terra.

«A Palermo si volte l'annessione, perché io non passassi lo stretto.

«A Napoli si vuol l'annessione, perché io non passassi il Volturno.

«Ma fin quando vi siano in Italia catene da infrangere - io seguirò la via - o vi seminerò le ossa.»

Ma che non puote la forza dell'intrigo? Gli uomini, che avean seguito Garibaldi, il quale dal nulla aveali innalzati a gradi supremi, furono avvisati, che tuttii aveano a perdere restando con lui, tutto a guadagnare stringendosi ai Cavouriani. Garibaldi fu da ogni parte assediato;

al che si aggiunsero le petizioni molteplici che gli si facean spedire a nome del popolo, e della G. Nazionale firmate da O. Topputi, e da De Sauget!!

Garibaldi alla fine si piegò dicendo: «se questo è il desiderio del popolo, sia soddisfatto....» Conforti avea vinto - Crispi solo si dimise! Egli non volea l'annessione per non piemontizzare le due Sicilie. Eppure Crispi, che allora spingeva lo sguardo nel futuro, fu colui che dovea proporre la famosa legge del 1866, oltraggio alla libertà, derogazione alla legge costituzionale, arbitrio a danno della inviolabilità del cittadino e del suo domicilio!

Mentre in questo modo stavan le cose, il Conte di Cavour vide la necessità di far approvare l'annessione dal Parlamento, prima che fosse fatta, per togliere al partito di opposizione ogni discussione su di un argomento cosi impaccioso e dilicato.

Il progetto di Legge fu il seguente:

«Il Governo del Re è autorizzato ad accettare e stabilire per reali decreti l'annessione allo Stato di quelle provincie dell'Italia centrale e meridionale, nelle quali si manifesti liberamente, per suffragio diretto universale, la volontà delle popolazioni di far parte integrante della nostra Monarchia Costituzionale».

Quattro giorni dopo, fu promulgato dal gabinetto di Torino un proclama ai popoli dell'Italia meridionale a nome del Re, il quale andava a mettersi a capo delle truppe che doveano invadere il regno di Napoli. Garibaldi, cui si era fatto comprendere, clic l'opporsi sarebbe stato un prendere su di sé la più terribile delle responsabilità; cioè dichiararsi nemico di Vittorio Emanuele, diè fuori il seguente ordine del giorno.

«Il Quartiere Generale è a Caserta.

«I nostri fratelli dell'Esercito Italiano comandati dal bravo Generale Cialdini combattono i nemici dell'Italia, e vincono.

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«L'esercito di Lamoncière è stato disfatto da quei prodi, tutte le Province serve del Papa sono libere. Ancona è nostra. I valorosi soldati dell'Esercito del Settentrione han passato la frontiera e sono sul territorio napoletano. Fra poco avremo la fortuna di stringere quelle destre vittoriose.»

G. Garibaldi

Cavour avea vinto, ed i comitati diretti da La Farina poterono a lor agio far petizioni al Re per la pronta annessione. Delle tante, che furono spedite, riportiamo quella fatta dagli Abruzzi, e da una Deputazione appositamente spedita da Napoli a complire il Re e fargli atto di omaggio.

Sire,

«Noi siamo i più nuovi, ma vorremmo essere, e ci sentiamo già sin da ora i più costanti ed i più fedeli de' vostri sudditi.

«Di fatti, o Sire, a nessuna delle popolazioni Italiane, che si raccolgono sotto il vostro scettro, ed alle quali l'abilità del vostri uomini di Stato, o l'ardire de' vostri Generali ha dato modo di palesare il loro animo, il vostro nome suona una maggiore fortuna ed una più grande liberazione.

Per voi, Sire, noi cambieremo una patria, se troppo favorita dalla natura, troppo oltraggiata dagli uomini, in una patria gloriosa, potentissima, e tale che noi ci sentiamo orgogliosi di appartenere, come gli altri saranno guardinghi ad offenderla.

«Sire, voi siete già il Re nostro, e nel nostro regno non vi ha altro nome che suoni ordine e pace, che il vostro. Se il Dittatore Garibaldi, alla cui fortuna ed ardire l'Italia dovrà il compimento de' suoi destini, ha proclamato voi e i discendenti vostri a Re d'Italia, gli animi nostri, impediti a manifestarsi alla più dura delle tirannidi, vi aveano già prima proclamalo tale sino dal giorno che voi avete assunto il nome di primo soldato della indipendenza Italiana, e per questa Italia che amate di un santissimo ed efficace amore, avete messo a repentaglio trono e vita sui campi di Palestro e Sanmartino.»

(Seguono le firme)

L'entrata delle truppe piemontesi sul territorio di Napoli, territorio di un Sovrano, con cui non era in guerra quel gabinetto, dovea sorprendere la diplomazia; tanto più che il Re di Napoli, benché non ignorasse come il denaro, le armi e il movimento rivoltuoso venisse da Torino, pure non avea richiamalo ancora l'ambasciatore accreditato presso quella Corte, Barone Winspeare. Era questo un momento supremo pel Conte di Cavour, il quale sfregiando il diritto pubblico internasionale, ed il non intervento idealo da Napoleone 3°, pur volea mostrare alle potenze di Europa, che il gabinetto di Torino era obbligato a quel passo. A tal fine inviò all'ambasciatore napoletano la seguente comunicazione.

«Gli avvenimenti ch'ebbero luogo a Napoli in questi ultimi momenti, hanno indotto il governo del Re a spedire a quella volta alcune navi per proteggere i sudditi Sardi. Dopo allora la situazione non andò che peggiorando. Francesco 2° abbandonò la sua capitale e con tal fatto agli occhi della popolazione depose il potere.

«La guerra civile che infuria negli stati Napolitani, e la mancanza di un governo regolare mettono in pericolo grande i principii sui quali riposa l'ordine civile.

«In tale stato di cose i cittadini, e le autorità nel regno di Napoli hanno fatto pervenire a S. M. il Re Vittorio Emanuele indirizzi coperti da numerose sottoscrizioni, implorando l'aiuto del Principe al quale la Provvidenza diede l'incarico di ristorare l'Italia e ritornarle la pace.

«A tenore del doveri impostigli da questa missione, il mio eccelso Signore ha ordinato che venga spedito a Napoli un corpo d'esercito. Questo provvedimento porrà fine ad una condizione di cose, che potrebbe degenerare in anarchia, e salverà da un gran pericolo l'Europa, impedendo una ulteriore effusione di sangue.»

La maschera cosi cadeva dal volto della politica del gabinetto di Torino. Cavour, egli stesso, finissimo com'era in maneggi politici, non avea potuto usare quella scaltrezza di che era stato felice in Toscana.

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il Conte non avea saputo dissimularlo; e intervenire nel territorio di uno stato amico, armata mano, senza dichiarazione di guerra, quando l'armata del legittimo Sovrano trovavasi alle prese con la rivoluzione, riportandone vantaggi non equivoci: intervenire con l'idea non di recare aiuto ad un'altra monarchia, ma per impadronirsene con la forza, e con la preponderanza delle armi, era un impresa di una morale e di un diritto contestabile sotto tutti gli aspetti. Quale era il pericolo che poteva devenire all'Europa, a sperdere il quale si affrettava in quel modo il Conte di Cavour?

Il pericolo era-il trionfo delle armi regie su quelle di Garibaldi; trionfo che non potea più mettersi in dubbio dopo le tristi giornale di ottobre!

La risposta fattagli da Winspeare spiega più chiaramente questo giusto concetto, e perciò intiera la trascriviamo.

«Eccellenza

«L'occupazione del Regno delle Due Sicilie da parte delle truppe piemontesi, della quale io ebbi notizia mediante la comunicazione di V. E. in dati di ieri. è un fatto tanto apertamente contrario ai principii di ogni legge e di ogni diritto, che sembrerebbe quasi inutile che io mi occupassi a dimostrarne la illegalità; i fatti che hanno preceduto questa invasione, ed i vincoli di amicizia e di parentela, tanto intimi quanto amichi, che esistevano tra le due corone, la rendono tanto straordinaria, e tanto nuova nella Storia delle nazioni moderne, che lo spirito generoso del re, mio augusto padrone, non sapeva determinarsi a crederla possibile; ed in vero nella protestazione che il Gen. Casella suo ministro degli affari esteri indirizzava il 16 sett. scorso da Gaeta a tutti i rappresentanti delle potenze amiche, era chiaramente dimostrato, che S. M. avea la fiducia, che S. M. Sarda non avrebbe mai potuto dare la sua sanzione agli atti di usurpazione compiuti sotto l'egida del suo real nome, nel seno della capitale delle Due Sicilie.

«È parimenti cosa superflua per me il cercar di dimostrare a V. E. che questa protestazione solenne, unita ai vari proclami del mio augusto Sovrano ed agli eroici sforzi fatti sotto le mura di Capua e di Gaeta, rispondono in modo incontrastabile alla strana argomentazione di abdicazione di fatto di S. M. che io fui sorpreso di leggere nella lettera su menzionala di V. E.

«L'anarchia ha trionfato negli stati di S. M. Siciliana in conseguenza d'una rivoluzione venuta di fuori, della quale, fin dal primo momento tutti presentivano i futuri travolgimenti, ed alla quale il re mio augusto padrone proponeva da gran tempo, ma invano, a S. M. il Re di Sardegna di opporre, con un vicendevole accordo, una diga, perché non avesse a traripare ed a mettere in pericolo, coi suoi eccessi, la vera libertà e l'indipendenza d'Italia.

«In quest'ora fatale, in cui uno stato che novera 10 milioni di anime, difende con le armi alla mano gli ultimi avanzi della sua istorica autonomia, sarebbe cosa vana il ricercare da chi questa rivoluzione sia stata sorretta, per guisa da divenirne colosso, ed in qual modo essa abbia potuto giungere a tanto da effettuare tutti quegli sconvolgimenti che avea immaginali.

«Quella provvidenza divina, della quale V. E. ha invocato il santissimo nome, pronuncerà entro non lungo tempo le sue decisioni in un combattimento supremo; ma qualunque sia per essere questo solenne giudizio, la benedizione del cielo non discenderà certamente sopra coloro che si apprestano a violare i grandi principii dell'ordine sociale e morale, facendosi credere gli esecutori di un mandato di Dio.

«La coscienza pubblica, dal canto suo, quando non sarà più soffocala dal giogo tirannico delle passioni politiche, saprà determinare la vera indole di un'impresa usurpatrice, cominciala con l'astuzia, e compiuta con la violenza.

«La cortese accoglienza avuta da questa popolazione generosa e leale; accoglienza della quale sarà sempre viva

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nel mio cuore la rimembranza (1), mi vieta di addentrarmi più minutamente nella critica severa degli atti del Governo di S. M. Sarda: ma V. E intenderà di leggieri le ragioni per le quali un più lungo soggiorno a Torino del rappresentante di S. M. Siciliana sarebbe incompatibile colla dignità di S. M. non meno che con le consuetudini internazionali.

«E per siffatti motivi, protestando solennemente contro l'occupazione militare sovradetta, e contro qualunque usurpazione del sacri diritti di S. M. il re del regno delle Due Sicilie, già intrapresa e che sta per essere tentata per opera del governo di S. M. il re di Sardegna, riservando inoltre nello stesso tempo al re Francesco 2.°, mio augusto padrone, il libero esercizio del potere sovrano, che a lui spetta, di opporsi con tutti quei mezzi ch'egli stimerà più opportuni ad ingiuste aggressioni ed usurpazioni ingiuste....»

Francesco 2.° fiduciava ancora nelle potenze Nordiche, custoditrici del diritto monarchico; fiduciava ancora nelle assicurazioni di Luigi Napoleone, e gli accordò fede sin sotto Gaeta! Ma le potenze nordiche in quel momento erano affascinate dalla politica imperiale; esse si contentarono di protestare!

Il solo gabinetto di Saint - James, rappresentato da Lord John Russel, trovò giusto «che i sudditi pontifici, ed i napoletani aveano manifestamente ragioni buone per prendere le armi contro i loro governi; per conseguenza di che Vittorio Emanuele si era reso benemerito accorrendo in aiuto di quei sudditi...» Il fatto era compiuto; e questo desiderava il gabinetto di Torino, per mettersi in possesso delle nuove province; questo il desiderio dell'Imperatore, che fin'allora avea con raggiri politici rattenuta l'Austria e la Russia dall'intervenire in sostegno del diritto internazionale oltraggiato. Ormai nulla era più a temere, e la rivoluzione italiana scriveva nel codice delle Nazioni:-che la politica insidiosa di un gabinetto

(1)

Questa testimonianza che dà il Barone Winspeare all'accoglienza fatta dai piemontesi ai napoletani è confermata generalmente, e senza eccezione di sorta da tutti coloro, che negli anni posteriori vissero in Torino o nel Piemonte; sicché ogni napolitano che ripatria, porta seco cara rimembranza dell'affetto piemontese.

abbia il diritto di sollevare contro il proprio Sovrano i popoli d'uno stato amico, per spianarsi così la via ad invadere armata mano quello stato e rendersene padrone! Questa teoria riconosciuta a danno del Principi italiani, la riconoscono le potenze di Europa, e l'ammetterceli.: jgi lo stesso governo della rivoluzione?

La storia contemporanea ha risposto negativamente in Ungheria, in Polonia, in Turchia, in Spagna, e sino al Messico. Rispondono in Italia la legge Crispi, i domicili coatti e gli stati d'assedio; Sarnico, Brescia, Aspromonte, Palermo; ed attestano come al diritto si supplì la rivoluzione; alla rivoluzione la forza!

CAPITOLO XI.

Le truppe Piemontesi sul territorio Napolitano - Sortita del regi contro le posizioni di S. Angelo - Combattimento al Macerone - Abboccamento tra Cialdini e Salzano - Assedio di Capua - Il 1° Novembre - Capitolazione di Capua - Proclama di Vittorio Emanuele ai Napolitani - Entrata di Vittorio Emanuele a Napoli - Il Rustow ne fa la descrizione - Giudizio di Cavour sui settari Napolitani - Reazione e Brigantaggio - Vittorio Emanuele accetta il plebiscito con un proclama - Garibaldi si ritira a Caprera - La petizione del Napolitani rivoluzionari al Re - Scioglimento delle bande garbaldine.

Le truppe Piemontesi aveano già sconfinalo; e mentre qualche compagnia, come avanguardo, si affratellava ai rivoltuosi accampali nelle prossimità di Capua, il Generale Cialdini si avanzava sovra Iberni». precedendo un corpo d'armata, che bivaccava al Piano di cinque miglia, ed un terzo corpo che trovavasi a Solmona comandato da Re Vittorio Emanuele; in complesso 36 mila uomini con ottime artiglierie, parchi, e carri carichi di ogni sorta di equipaggi e di viveri. Ormai non vi era chi potesse più porre in dubbio, che l'armata napolitana, a voler spiegare tutto il maggiore eroismo, non avrebbe potuto più sostenersi. Non pertanto i regi tentarono la prova, e con quale coraggio ed energia il facessero, non niegano gli stessi scrittori della rivoluzione.

I Garibaldini, dopo le due giornate di ottobre, avean pensalo a ben fortificarsi più per difesa, che per aggredire i regi;

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e a tal uopo a destra della strada di S. Angelo avean costrutta una lunetta barricata

Ed in fatti era così. Cialdini marciava sopra Isernia. Là due volte la reazione armata erasi levata a difesa del proprio diritto; e con il fatto addimostrava, che vi erano ancora città che non parteggiavano per la rivoluzione. Isernia era punto che si rendeva molto importante per le operazioni del piemontesi non solo, ma per togliere alla reazione quel luogo, che potea farsi centro di forte accozzamento di volontari pel Re - La città stava in mano del regi. Scacciati, battuti, passati a fil di spada i garibaldini ed i loro pochi partigiani, il popolo delle campagne era accorso a combattere con ogni sorta di armi; falci, ronche, accette e simili. Teneva quella posizione il Generale Scotti, che avea un sette in ottocento uomini di truppe regolari, e qualche compagnia di volontari, fin'allora bastevoli a tenere in soggezione la rivoluzione. Saputo egli l'avanzarsi di Cialdini, mosse per tagliargli la strada; e giunto presso il Macerone scontrassi con due battaglioni di Bersaglieri, afforzati da artiglieria di campagna. Benché minori in numero, i Regi sostennero valorosamente lo scontro, ed il combattimento durava già da due ore, quando Cialdini, avvisato della resistenza, a marcia forzata con un nucleo di ottomila uomini venne a decidere la battaglia.

Cialdini ebbe sempre l'accortezza, così nella campagna di Roma, come in quella di Napoli, di entrare in campo con venti contro uno per esser sicuro della vittoria.

Per augustare siffatto valore i periodici della rivoluzione dissero, che Scotti avesse avuto sotto i suoi ordini una Divisione intiera, e che i regi si dassero a. pronta fuga appena veduti i piemontesi. Ma qual meraviglia vi ha nell'udire tali farse, dopo i poemi scritti sulle vittorie di Garibaldi? Scotti, come dicemmo, non avea seco che 7 in 800 uomini, e qualche compagnia di volontari; epperò, impossibilitato a resistere contro quella forza imponente, dové deporre le armi, avendo salvalo l'onore della bandiera (1).

Questa disfatta di Scotti annunziò ai regi la presenza del corpo d'esercito piemontese: perciò fu deciso di restringersi la cerchia delle operazioni; al qual fine il presidio di Caiazzo e le altre truppe postale al Volturno furono ritirale; e rimanendo solo una guarnigione a Capua, che polea considerarsi perduta, gli altri Corpi furono disposti in modo da poter battere in ogni emergenza la ritirala sopra Gaeta. Intanto, mentre Cialdini attelava l'esercito per tentare l'attacco, le truppe garibaldine, tra le quali la legione inglese, e le rimanenti estere quasi tutte comandate da Eber e da Rustow, presero posto presso Triflisco verso Capua, per sostenere e difendere alle spalle l'esercito piemontese.

Cialdini comprendeva bene, che l'esercito regio si sarebbe disperatamente battuto: ma quantunque per la superiorità del numero, e per l'aiuto che ancor non sdegnava del volontari, fosse moralmente certo di riportar vittoria, pure volte tentare, se quei pochi rimasti fedeli nella sventura a Re Francesco fossero della medesima risma del campioni di Sicilia, di Calabria e di Puglia; o tutt'al più convincerli dell'impossibilità della resistenza. Invitò a tal uopo ad un abboccamento il Generale Salzano, il quale ignorando a quale scopo mirasse l'invito, vi andò; ma intesa la proposta rispose:

(I) Ritucci - Riscontro all'opuscolo. Campagna dell'esercito napoletano - Napoli. Stabilimento poligrafico dell'Alta Italia. Vico del Nilo.

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che sino a quando nel campo regio fosse rimasto un solo soldato, si sarebbe combattuto. Noi siamo certi, che Cialdini, soldato affezionatissimo alla sua bandiera ed al suo sovrano, non avrà dovuto in cuor suo, che lodare la dignitosa ripulsa! - Se da Marsala a Capua tutti i Comandanti dell'esercito fossero stati uomini d'onore, la rivoluzione sarebbe morta a Palermo, e queste pagine non sarebbero state bruttate da ricordi vergognosi. L'assedio di Capua fu affidato al Generale Della Rocca, che assunse il comando anche del volontari. Da Sant'Angelo e Santa Maria s'avanzò l'esercito piemontese afforzato dal Genio, e da artiglierie fornite di cannoni - cavalli! - Gli assediati tentarono parecchie sortite, che sostennero con onore, ma senza frutto, poiché non erano numerosi a segno da poter sopraffare l'inimico. Si cominciò allora a parlare di resa, ed intatti fu proposta; ma il Generale piemontese esigeva condizioni cosi umilianti, che fu d'uopo rifiutarle, tuttocchè il governo di Gaeta vedesse l'inutilità di tenere d'avvantaggio quella piazza. Spuntava appena l'alba del 1 Novembre, e le batterie piemontesi aprirono il fuoco con quanta più veemenza potettero!

I proiettili sorpassando le mura andavano a piombare nella città, dove seminavano le rovine, il terrore e la morte. Il Generale Cornei, sollecitato dal Sindaco e da quell'Arcivescovo, vedendo quanto soffrissero i miseri cittadini, e che due giorni di simigliante bombardamento sarebbero stati bastevoli a schiantare Capua dalle fondamenta, annuì di capitolare, purché fosse a patti onorevoli; e la capitolazione fu fatta. Il 2 Novembre i piemontesi entrarono nella Città...!

La resa di Capua scoraggiò i legittimisti. Il Colonnello Lagrange che avea promesso mari e monti, fece più parole che fatti, e le sue bande, dopo qualche scaramuccia, delle quali qualcuna di non lieve momento sul Liri, si dissolvettero, impossibilitale a tenere più il campo. I rivoltuosi, che fin allora eransi per paura tenuti nascosti, si mostrarono arditi; e da quel tempo cominciò la storia degli arbitri, degli arresti, delle fucilazioni, degli esili, delle carcerazioni di gente d'ogni sorta, o pel delitto di esser più ricchi dei rivoltuosi, o per private vendette,

o per aver sostenuta la loro opinione con le armi alla mano, quando ancora Francesco 2° era re; quando nessuna forma legale avea per anco del Regno di Napoli fatta una provincia del nuovo reame d'Italia.

Intanto a Cavour premeva in ogni modo, che non si temporeggiasse più a pronunziare l'annessione del reame di Napoli al Piemonte, non solo per poter intervenire legalmente a prender le redini della pubblica cosa, ma anche per isbarazzarsi di Mazzini e di Garibaldi, il primo che non volea un Re; il secondo che volea Italia con Roma, e non l'Italia delle annessioni. Ed il plebiscito fu organizzato con un proclama dato a nome di Re Vittorio Emmanuele. Eccolo:

POPOLI DELL'ITALIA MERIDIONALE!

Le mie truppe si avanzano fra voi per raffermare l'ordine: Io non vengo ad imporvi la mia volontà, ma a fare rispettare la vostra.

Voi potrete liberamente manifestarla: la Provvidenza, che protegge le cause giuste, ispirerà il voto che deporrete nell'urna.

Qualunque sia la gravità degli eventi, io attendo tranquillo il giudizio dell'Europa civile e quello della Storia, perché ho la coscienza di compiere i miei doveri di Re e di Italiano.

In Europa la mia politica non sarà forse inutile a riconciliare il progresso del popoli colla stabilità delle Monarchie.

In Italia so che io chiudo l'era delle rivoluzioni.

Dato da Ancona addì 9 ottobre 1860.

VITTORIO EMANUELE

Farini

Dopo questa proclamazione, il Re fece la sua entrata in Napoli accompagnalo da Garibaldi, Mordini, e Pallavicino: i due primi come moventi della rivoluzione siculo - napoletana; il terzo come nucleo degli annessionisti, che avea saputo spezzare il nodo gordiano, e allontanare Mazzini da Napoli, sotto l'accusa di sovvertitore della volontà nazionale. La festa però non fu troppo clamorosa. «

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e le gocce che cadevano dal cielo, per lagrime di gioia, erano davvero un pò troppo fitte. Le porte d'onore, e gli archi trionfali erano stati per la massima parte sconnessi, e le corone e i festoni di fiori sgocciolavano sconciamente.»

La fredda accoglienza diede poca noia a Cavour; il quale era contento di aver raggiunto il suo fine con un plebiscito.

Chiunque fu testimone di quei fatti, non può sconfessare che la maggioranza fu astensionista, e che la votazione fosse stata fatta sotto la pressione della presenza delle armi piemontesi, delle orde Garibaldine, e della potenza del comitati. Non può negarsi che si facea gridare: Fuori Crispi! via Mazzini, non osandosi aggiungere Abbasso Garibaldi, lo che sarebbe stato troppo impudente; e queste ostili dimostrazioni si organizzavano da quelli stessi che avean servito la rivoluzione da settari, e da congiurati: e del quali stomacato lo stesso Conte di Cavour, manifestando per loro il più profondo disprezzo, disse: «turba di mercanti di libertà, questuanti d'impieghi, i quali non mai sazi di chiedere, per quanto loro si conceda, così scrive il Bianchi (1), finiranno per divorare il cuore stesso della patria, se i reggitori della cosa pubblica non li affideranno una volta per sempre a un compiuto disprezzo senza curarsi dei loro clamori, o delle loro immonde adulazioni.»

Sventuratamente, il Bianchi studiando la mente di Cavour l'avea indovinata; e sotto i nostri occhi cade miserevolmente lo spettacolo di questa lurba di mercanti di libertà, che non tralasciano sorta alcuna di adulazioni immonde per sbramare due passioni potentissime, che sono il movente delle loro azioni: ambizione e danaro!

Ciò che lo storico non può dimenticare, senza offendere la verità del fatti che oramai non sono più un mistero, è che nel plebiscito compiuto a Napoli votarono quanti delle schiere rivoltuose vi si trovarono, inglesi, francesi, tedeschi, svizzeri, polacchi ed ungheresi...

(1) Il Conte di Cavour. Docum. pag. 121.

Non è nostro assunto l'enarrare altri fatti che avvennero in tale occasione. Chi ci seguirà, avrà agio di farlo. Noi non possiamo dir altro, se non che la rivoluzione nulla tralasciò d'intentato per conseguire il suo fine, che poi legittimò col fatto compiuto. Ciò che non può niegarsi, è che le rivoluzioni sieno opera di setta, e non di popolo; e quali fossero state le conseguenze di questo vero, dal 1860 in poi esse son cadute sotto gli occhi di tutti.

La reazione armata fu di breve durata; ma alle misure di terrore impoliticamente spiegate rispose il brigantaggio e rimase fatto nefasto e costante a riempiere di duolo, di sangue, di rapine, e di assassina queste nostre province; massime quando la miseria e la fame divennero aculei potenti al delitto per le classi infime del popolo, le quali mancando di lavoro e di pane si abbandonarono disperatamente alla vita del brigante.

Alla reazione, che fu da passioni politiche ancor calde suscitata, il governo di Torino anzicchè controporre lodevole amministrazione, immegliamento sociale, e larghe riparazioni di buon governo, ricorse alle fucilazioni. Bastava per spegnere la vita di un cittadino una denunzia, una calunnia, per lo più derivala da odii inveterati!

Per dare una idea al lettore dello stato delle province napoletane nell'epoca, di che parliamo, trascriviamo il Decreto con cui P. De Virgilii, Governatore della Provincia di Teramo, fa testimonianza delle opinioni che colà allora si manifestavano.

IL GOVERNATORE DELLA PROVINCIA DI TERAMO

Vista la risoluzione presa nel consiglio del Ministri il di p. p. con cui si concedono ai Governatori delle province poteri eccezionali ed illimitati per reprimere il brigantaggio e i disordini, che in talune di ili esse si vanno manifestando;

Visto lo statuto penale, e l'ordinanza di piazza per la proclamazione dello stato di assedio, e la creazione del Consigli di guerra subitanei,

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 503

ORDINA:

1.° Tutti i comuni della provincia dove si son manifestati, e si manifesteranno movimenti reazionari o briganteschi, son dichiarati in istato di assedio, o vi saranno sottoposti al primo manifestarmi del Minimo disordine.

2.° In tutti i detti comuni, fra le 24 ore dall'affissione della presente ordinanza, sarà eseguito un rigoroso e generale disarmo dai comandanti del distaccamenti in essi accantonati.

3.° I cittadini che mancheranno alla esibizione, entro il detto spazio di tempo, delle armi di qualunque natura di cui sono detentori, saran puniti con tutto il rigore delle leggi militari da un Consiglio di guerra subitaneo, che verrà stabilito dai rispettivi comandanti!

4.° Gli attruppamenti saran dispersi con la forza. I reazionari presi con le armi alla mano SARAN FUCILATI. Gl'illusi ed i sedotti che al giungere delle forze nazionali depositeranno le armi e si renderanno, avran grazia. Ai capi e promotori non si accorderà quartiere, purché non si arrendessero a discrezione, e senza la minima resistenza; nel qual caso avran salva la vita, e saranno rimessi al potere militare.

5.° Gli spargitori di notizie allarmanti, e che direttamente, o indirettamente fomentano il disordine e l'anarchia, saran considerati come reazionari, arrestati, e puniti militarmente, e con RITO SOMMARIO.

Teramo 2 Novembre 1860.

P. DE VIRGILII

Il segretario generale

E. MEZZOPRETI

Se questo decreto fosse stato promulgato sotto il governo del Borboni, la stampa liberale di Torino l'avrebbe propalato con i soliti commenti in faccia all'Europa, reclamando contro la tirannide. Per la rivoluzione era laudevole, e meritevole della gratitudine del cittadini un governo novello, che esordiva con le fucilazioni?

Astraendo da qualsiasi spirito di parte, è un fatto innegabile che dal novembre 1860 sino ad oggi in che scriviamo, le Due Sicilie possono dirsi vivere sotto un continuo e larvato stato militare. Dai terrori di Cialdini, di Fumel, di Galateri, e dei Prefetti del 1861, si passò alla legge Pica; dalla legge Pica alla legge Crispi! In queste due parole si compendia la storia degli anni dipoi.

Il plebiscito fu annunziato all'Europa. Napoleone lo tenne come un pegno di sicurtà per la gratitudine del regno neonato; ed i Gabinetti non pronunziarono verbo di fronte al magnetismo della volontà dell'Imperatore del Francesi.

Fatto il plebiscito, Vittorio Emanuele emise un proclama, che era l'accettazione di questo reame che diventava provincia del regno Italiano.

«AI POPOLI NAPOLETANI E SICILIANI.

«Il suffragio universale mi dà la sovrana Podestà di queste nobili provincie. - Accetto quest'altro decreto della volontà nazionale, non per ambizione di regno, ma per coscienza d'italiano. - Crescono i doveri di tutti gl'Italiani. Sono più che mai necessarie la sincera concordia e la costante abnegazione. Tutti i partiti debbono inchinarsi devoti dinnanzi alla Maestà dell'Italia che Dio solleva.

«Qua dobbiam instaurare un governo che dia guarentigia di viver libero ai popoli, e di severa probità alla pubblica opinione. Io faccio assegnamento sul concorso efficace di tutta la gente onesta. Dove nella legge ha freno il potere, è presidio la libertà, ivi il governo tanto può pel pubblico bene, quanto il popolo vale per la virtù.

«All'Europa dobbiamo addimostrare, che se l'irresistibile forza degli eventi superò le convenzioni fondate sulle secolari sventure d'Italia, noi sappiamo rìstorare. nella nazione unita, l'impero di quegli immutabili domini, senza dei quali ogni società è inferma, ogni autorità combattuta ed incerta.

«7 novembre 1860.

VITTORIO EMANUELE.

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 505

Garibaldi rifiutò onori, croci, tutto quanto gli fu offerto. Contrarialo nelle sue idee, e lenendo in cuor suo che quest'accozzaglia di popoli un dì si sarebbe urlala nella confusione di gare, di odii e di guerre intestine, volontariamente si ritirò a Caprera.

Infatti, era ancor calda la rivoluzione, e Io sgoverno degli uomini, che vantavansi rigeneratori, incominciò a dimostrarsi in tutta la sua virulenza. A pruova di ciò, riportiamo qui per intiero una petizione che al Re fu presentata da una rappresentanza di cittadini napoletani-

«Sire,

«Il dritto di petizione è uno de' dritti de' Cittadini d'Italia. Non si ricorre al Re che in ultima istanza, ed a questa suprema necessità ci sembra fossimo giunti. Noi, Sire, non domandiamo grazie, non vi siamo a tedio con lamenti da mendicanti, che implorano in secreto limosino ed impieghi. Altamente, a fronte scoverta, assumendo ogni responsabilità dell'atto, accusiamo oggi il vostro governo; e vi dimandiamo giustizia per tutti.

«Sire, queste province d'Italia allarmarono l'Europa col loro silenzio, fecero una rivoluzione, non per V. M., non per un pugno di accaparratori politici, ma per sé, ma per l'Italia. Per l'Italia, essi vollero l'Unità: per se, vollero l'eguaglianza innanzi a' dritti, a' doveri, a' sacrifizi, a' benefizi della patria. Noi condannammo il Governo della casa del Borboni perché esclusivo. Noi biasimammo quello della Dittatura, perché partigianamente inintelligente. Noi acclamammo V. M. perché la credemmo al di sopra di tutt'i partiti, di tutte le antipatie. E dal canto nostro noi facemmo eguale sacrifizio all'altare d'Italia, sul quale innalzammo V. M. Primi ne' giorni del periglio, ci siamo trovati ultimi all'indomani della vittoria, inoffensivi nelle ore della lotta, ci àn reputati pericolosi alla proclamazione della pace. Ingiustizia di pari di cui non muoviamo lamenti, ma indichiamo in passando.

«Noi subimmo senza neppure mormorare il regime della Dittatura, perché lo credemmo, com'era, transitorio.

Sperammo nel Governo che V. M. andava ad inaugurare. Ma l'alba di questo Governo non si è mostrata più clemente. La necessità del regime eccezionale è divenuta la norma del regolare. V. M. è, municipalmente, straniera: e ciò non è danno. L'amministrazione di Luogotenenza che la M. V. ci ha data, è, per lungo esilio, straniera altresì: e ciò è fatale. Perocchè un Popolo non cangia in un giorno la tempra di dodici setoli; ed è mestieri conoscerlo. Perocchè l'opera dell'intelligenza, del sentimento, della ragione di stato non si attua in un di; ed è mestieri attuarla. Noi abbiamo ancora bisogni peculiari, come province: noi abbiamo doveri, come parte della Nazione. L'amministrazione di V. M. non conosce o sconosce questo nostro elemento individuale nella vita collettiva d'Italia. In queste province la lotta civile è in germe, perché le cause storiche de' partiti non sono né allontanale né molcite. La miseria inoltre è suprema, per causa del disquilibrio economico che segue fatalmente i cataclismi civili; per causa del subilo ritorno all'attività sociale di tanta massa di cittadini, cui l'esilio, il bagno, l'embargo della polizia, la carcere tenne esclusi dal banchetto della vita civile e politica, e che ora a questo banchetto non trovano più posto. Questi due principii organici de' nostri mali passano inosservati dal Governo di V. M. Ora, Sire, chi vi dice che, V. M. regna sur un popolo contento, v'inganna. Chi vi dipinge color di rosa la situazione di questa parte meridionale d'Italia, vi oltraggia. Il malcontento, il malessere, il dubbio dell'indomani, le apprensioni, la sfiducia sono supremi, universali, profondi; ciò allarmerebbe gli uomini di Stato, se i commessi che attorniano il Luogotenente di V. M. fossero tali.

«Noi aspettiamo dal tempo la calma del malessere: dal Parlamento, il dissipamento del dubbio: da V. M. la fiducia: dal governo luogotenenziale che V. M. si darà, la tranquillità ed il soddisfacimento del malcontento. L'amministrazione attuale, Sire, non gode la pubblica confidenza; non è all'altezza della situazione; non à idee; non sa dove va. Dessa non è il paese, ma una consorteria: la è il Mazzinismo della moderazione.

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 507

«I. Come province Italiane, Sire, noi vogliamo la pubblicazione immediata delle Leggi Organiche delle altre province di V. M.: e perciò la legge Municipale o provinciale, la legge sulla guardia nazionale, la logge sulla stampa, la legge su la istruzione pubblica, l'applicazione del Giurì, la legge su' conventi, quella sulle tariffe portali, e l'organizzazione della posta giornaliera; in una parola, quelle leggi politiche ed amministrative che reggono il nucleo degli Stati di V. M., il Piemonte. Dal dì che, per plebiscito, V. M. fu acclamato Sovrano di questa parte d'Italia, e clic accollò il plebiscito, queste leggi divennero il nostro dritto pubblico, ed un dritto del popolo. Gli amministratori quindi, che ne negligono la promulgazione e l'applicazione, sono colpevoli.

«II. Noi dimandiamo, Sire, che l'amministrazione di questa parte d'Italia, finora in proporzione di uno stato autonomico, sia ridotto a proporzione di provincia. E perciò, diminuzione di due terzi degli attuali 60mila impiegati. Questa diminuzione debbo domandarsi all'abolizione dell'alunnato, e ad uno scrutinio inesorabile dogl'impiegati dal 1848 fin oggi - i tempi della Dittatura compresi - Il terzo che deve continuare a servire, debb'essere di morale pura, di capacità senza equivoco, uomini a fede Italiana, e principalmente galantuomini. Gli archivi della polizia, gl'incartamenti di ogni singolo impiegato, l'opinione pubblica... possono servire di elemento di scrutinio e di criterio. A coloro che si congedano per soprabbondanza, un anno di stipendio: a' destituiti, un Decreto motivato sul giornale officiale, dove eglino si mostrassero irrassegnati.

«III. Noi domandiamo, Sire, una Commissione permanente, sufficiente numerosa, di abitanti di ciascuna provincia presso il Governatore di quella. E ad ogni singolo Consigliere della Luogotenenza, obbligo d'interpellare questo Consiglio, per mezzo del Governatore, sulle misure generali di pubblica amministrazione.

«IV. Noi domandiamo un consiglio di Finanza, composto di banchieri e di economisti, onde provvedere senza indugio, anche con misure eccezionali, al ristauro delle Finanze, a' provvedimenti a prendere per dare uno slancio al commercio; alla semplificazione delle operazioni della dogana; alle diminuzioni successivo de' dritti sul commercio straniero, a fine di proporle al Parlamento; ed altre misure efficaci onde pruomuovere il credito, far circolare liberamente ed utilmente il capitale. I banchieri, uomini pratici, suggerirebbero i mali ed i rimedii; gli economisti sintetizzerebbero. Presidente di questa Commissione permanente, il Consigliere del ramo delle Finanze.

«V. Abolizione del Ministero de' culti, dell'agricoltura e del commercio, della polizia, della guerra, della marina, dell'istruzione pubblica, dell'estero, de' lavori pubblici, nonché della Consulta di Stato. Parte delle attribuzioni di questi Dicasteri, al Ministero centrale: parte agli altri Consiglieri della Luogotenenza, ed ai Governatori, e rispettivi Consigli provinciali.

«VI. Libertà delle Banche; e creazione di una Banca di sconto e circolazione, a cui, mediante un compenso, si debba confidare l'incarico della riscossione delle rendite e del pagamenti dello Stato, un pò sul tipo della Banca dell'Inghilterra. E perciò, soppressione del Ricevitori generali e distrettuali. Ogni consiglio municipale risponda della sua quota parte del budget al consiglio provinciale, e questo alla soccorsale della Banca. Perciò soppressione della Tesoreria Generale.

«VII. Preparare gli elementi onde proporre al Parlamento la fusione de' debiti pubblici degli ex - singoli stati d'Italia, in un debito pubblico Italiano; proporzionando il compenso alle provincie meno gravate con assegni più generosi sullo stato discusso per pubblici lavori.

«VIlI. Autorizzazione ai municipii ed ai Governatori, con assentimento de' rispettivi consigli, di intraprendere immediatamente lavori di vie pubbliche; e contrarre, so d'uopo l'è, prestiti, ipotecando i beni comunali e provinciali. Autorizzare di dare al più presto in enfiteusi questi beni a' lavoratori naturali, gravati di famiglia.

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«IX. Dichiarazione della libertà de' culti, e permesso del loro pubblico esercizio.

«X. Creazione immediata di una scuola normale per gl'istitutori delle provincie del due sessi. Infrattanto, ordine a' Governatori di approntare per mezzo de' consigli municipali, a che niun comune manchi di scuole, d'asilo d'infanzia, di case di ricovero-Ordino altresì ai Governatori di appuntare gli elementi per una legge, che riduca a 15 gli 89 Vescovi dell'ex Reame, e ne incameri i beni- da addirsi ad opere pubbliche, alla pubblica istruzione, alla pubblica beneficenza, ed ai monti frumentari gratuiti.

«XI. Applicazione immediata del principio elettivo alla municipalità di Napoli.

«XII. Fusione immediata delle singole parti e del singoli provventi della pubblica beneficenza di Napoli, incamerandone i beni ed addossandone gli obblighi, come un debito dello Stato, allo Stato. E perciò abolizione della mendicità, condannando alle case di lavori forzati i mendicanti validi, dando ricovero negli ospizii e negli Ospedali a' mendicanti storpii o malati.

«XIII. Organizzazione della polizia ad istituzione municipale, col sistema Inglese, affidandole principalmente la sorveglianza e la nettezza urbana. Concentrazione della polizia civile e politica nel ramo dei Carabinieri sotto la responsabilità del Consigli provinciali e municipali - come in America.

«XIV. Dimandare alle singole province provvedimenti onde mettere in coltura i tre milioni di ettari di terre incolte dell'ex Reame, affine di proporne una legge al Parlamento. Dimandare inoltre ai Governatori gli elementi per una statistica di ciascuna provincia.

«XV. Istituzione di una scuola normale agricola in ogni Capo luogo della Provincia, non che di una soccorsale della Banca di Sconto e Circolazione, ed erezione di una prigione di repressione col regime misto.

«XVI. Vi dimandiamo, Sire, che i giudici regi, i cancellieri comunali, ed i parrochi siano eletti, come i sindaci ed i consiglieri municipali, pro tempore, a suffragio universale, per eccezione fino a che la legge municipale d'Italia non sia diffinitivameule elaborata dal Parlamento Italiano. È in questo modo, Sire, che queste Province potranno infine sentire la benedizione della libertà, e reprimerannosi cosi gli attentati illegali dei partiti anti - Italiani.

«XVII. Dimandiamo, Sire, l'epurazione dell'amministrazione delle Dogane. Dimandiamo la soppressione della dotazione di S. Carlo e degli altri teatri. Coi 70 mila duc. annui dati a questi teatri val meglio fondare una scuola politecnica ed una scuola normale, o quattro collegi gratuiti di marina e di milizia per i figli di coloro che ben meritarono della patria. L'Italia ebbe troppo cantori. Cominci, Sire, ad avere soldati e marinari!

«XVIII. In fine, Sire, noi dimandiamo, che i fondi dello stato discusso non sieno scioperati in favori, in pensioni di grazia, in pensioni di giustizia esagerate per compiacenza, in spese inutili, o utili solo agli agenti dell'amministrazione. Che si aboliscano i passaporti. -Che i doganieri non sieno mendicanti, e si mostrino urbani nello esercizio del loro doveri... Ed altro aggiungeremmo ove di già questa petizione non fosse troppo lunga.

«Per ciò fare, Sire, non ci vogliono anni, non ci vogliono uomini di genio. Basta vedere, intendere, volere e sapere.

«Sire, in voi sta far sentire a queste province, che vi elessero, l'abisso che separa il vostro dal passato regime. L'amministrazione di V. M. dev'essere un premio, o un carico eguale per tutti, non la privata di una consorteria per moderazione implacabile, per cieco ossequio ad un uomo e ad un partito intollerante, intollerata, germe di odio e di separazione, origine di guai che sono forse alla vigilia d'irrompere.

«Il parlamento non può essere panacea universale, né spandere le sue cure allo squittinio dell'amministrazione delle province.

(1860) LIB. VIII. - ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA - 511

«Che il luogotenente di V. M. ordini provvedimenti opportuni. Egli

Quale risposta avesse questa petizione, vide l'Europa nel governo del ministeri italiani, i quali non seppero far altro che smungere le province con tasse fastidiose, esorbitanti, dalla ricchezza mobile al macinato; mentre le popolazioni vivono sotto il terribile incubo del mal governo, di burocratici dilapidatori, di brigantaggio, di assassina, di grassazioni; senza pane, senza lavoro, senza commercio, senza pubblica sicurezza!

Partito Garibaldi, l'esercito meridionale, come appellaronsi le bande Garibaldine, fu disciolto, dandosi a ciascun volontario sei mesi di soldo. Degli ufficiali, i soli superiori ebbero onori e conferma nei loro gradi: degli altri, pochi furono incorporati nell'armata regolare; i rimanenti rimandati nelle province ad essere invigilati come perturbatori dell'ordine pubblico.

L'entusiasmo, gli evviva, i proclami cessarono: e ad essi tenne luogo il sorgere della stampa, che sin d'allora cominciò a scagliarsi contro gli uomini del governo - partito, i quali afferrato il potere, lo mantennero tenacemente, niun mezzo tralasciando per non farselo strappare di mano. Brescia, Sarnico, Aspromonte, Torino, Palermo, Montana, Bologna furono gli effetti politici: la minaccia di bancarotta, il risultato finanziario; Lissa e Custoza i ricordi delle glorie militari.

512 CAP, UNICO - DALL'ASSEDIO DI GAETA (1861)

DALL'ASSEDIO DI GAETA

alla partenza di Re Francesco II.

CAPO UNICO

La fortezza di Gaeta - La squadra francesi nello acque di Gaeta - Politica di Napoleone 3.° - Illusione e disillusione di Cavour - Persano bombarda Mela di Gaeta - Porzione delle truppe Napolitane si getta sopra Terracina - Goyon fa loro deporre le armi - Proclami di Re Francesco 2° - Attacco a Gaeta - La squadra francese si ritira - Armistizio di sette giorni - Scoppio delle polveriere - Morte del Generale Traversa - Altro armistizio - La Piazza chiede di capitolare - La Capitolazione - Proclami di Re Francesco 2.° alle truppe - La Partenza.

Non rimaneva a Re Francesco 2.° che Gaeta, ultimo asilo del suo Reame! - Questa fortezza, abbenchè fosse stata da Ferdinando 2.° posta sul piede di guerra, pure non era tale da sostenere lungo assedio contro un'armata fornita di tutti i mezzi di distruzione. Avrebbe potuto sostenersi anche lungamente contro le bande di Garibaldi e del rivoltuosi: ma non resistere alle nuove artiglierie ed ai cannoni cavalli, il cui lungo tiro metteva gli assedianti al coverto da ogni offesa - Gaeta infatti era ben fornita di artiglierie, ma dell'antico modello; sicché, i suoi colpi non poteano offendere il nemico che, tenendosi fuori tiro, ottenea il suo scopo di distruggere comodamente gli assediati.

E qui importa domandare anche una volta: Quale dichiarazione di guerra oravi stata tra le Due Sicilie e il Piemonte, perché questo, sciolti i corpi franchi, impossibilitali a più sostenersi dopo le perdite sofferte nelle giornale di Ottobre, prendeva sopra di sé il carico di compiere la rivoluzione? È egli dunque lecito a uà governo, non solo prestar mano forte alla rivolta, con darle armi, uomini e danaro per rovesciare un altro governo; ma smascherarsi eziandio complico della rivoluzione, e dichiararsi nemico di una potenza, con cui le relazioni internazionali non furono mai turbale?

(1861) ALLA PARTENZA DI RE FRANCESCO II - 513

E ciò può essere consentito nel momento stesso in cui tra queste due Potenze trattasi diplomaticamente per ultimare nel comune interesse un accordo politico già pattuito in un precedente trattato?

La rivoluzione e la politica del gabinetti rivoluzionari han risposto alla moralità dell'atto, giustificato da un così detto nuovo diritto, che nacque col secondo Impero francese.

Laonde al Piemonte, dietro lo scudo del gabinetti di Francia e d'Inghilterra, tutto era lecito. La sua opera, cominciata nei Ducati, proseguita nelle Romagne, fu compiuta a Gaeta.

Là il diritto fu sfasciato; e si deizzò inneggiando al diritto nuovo. E quando fu raggiunto lo scopo di annettere tutta l'Italia al Piemonte, il nuovo diritto, fu a sua volta anche torturato, e sursero gli uomini del governo - partito, che polluirono la libertà con la legge del sospetto e del terrore; ed ai popoli che reclamarono, risposero come Cavour: lo Stato siam noi!

L'armata di terra insieme alla squadra piemontese si preparavano all'assedio della piazza-Cialdini da terra; e da mare l'Ammiraglio Persano, che celebre bombardatore, mostrò la sua viltà nelle acque di Lissa!

Prima di narrare gli avvenimenti di questo assedio, è d'uopo ricordare un fatto politico, che è di grave importanza; avvegnacchè confermasse la tacita annuenza dell'Imperatore del Francesi in questa lotta così disuguale, e contraria ad ogni diritto internazionale.

Allorquando Garibaldi nei primordi di Ottobre ordinò il blocco di Gaeta e di Messina, la cui cittadella era rimasta in potere del Regi, Francesco 2° protestò contro tale violenza, proveniente da un sedicente governo insurrezionale.

Napoleone 3°, cui nulla sfuggiva, vide allora la necessità d'intervenire, prevedendo bene che qualche potenza interessata avrebbe potuto sostenere le ragioni del gabinetto di Napoli contro la rivoluzione. A tal fine inviò nelle acque di Gaeta una squadra comandata dall'Ammiraglio Le Barbier de Titan.

514 CAP, UNICO - DALL'ASSEDIO DI GAETA (1861)

A quale scopo mira l'Imperatore del Francesi; domandavansi tutti? Per proteggere forse gli avanzi dell'esercito napolitano; per difendere l'ultimo baluardo, ove riparava un principe tradito dai suoi Generali, venduto da ministri sleali e dagli uomini i più beneficali dalla sua Real famiglia? Nessuno osava supporto: quando la rivoluzione, organizzata a Torino, era stata sostenuta dalla politica francese e dal]'odio di Lord Palmerston; quando Brènier era anima e movente della rivoluzione: quando niuna potenza protestò contro l'inqualificabile intervento piemontese a Napoli nel momento in cui le truppe regie aveano già preso il disopra alle bande garibaldesche, e le popolazioni davano prova non dubbia del loro sentimenti a favore della dinastia; sentimenti che prima la rivoluzione (non un governo, chè governo costituito non eravi; non ancora essendo stato compiuto il plebiscito); e poi il governo novello cercò affogare nel sangue dei fucilati, con gli arresti, con gli ostracismi, con i domicili coatti.

Il fine di Napoleone nell'inviare la squadra fu quello di tenersi pronto ad intervenire in qualsiasi modo, nel caso di un probabile rovescio del piemontesi. A Gaeta ripeté la scena politica di Ancona; si presentò proteggitore, e rimase immobile ed influente spettatore.

Infatti Cavour, quando vide l'Imperatore assistere freddamente allo intervento piemontese così nello stato pontificio, che nel napolitano, credette all'italianismo dell'Imperatore del Francesi; sicché quando fu padrone di tutti gli Stati del Papa, sperò che Napoleone gli avesse permesso di usare anche per Roma i mezzi morali, di che erasi servito nel resto degli Stati Italiani; e scriveva al Senatore Pietri -: «Dando alla quistione Romana la soluzione legittima, che attendono Roma e l'Italia, l'Imperatore può fare per noi più che se tutt'affatto ci liberasse dai Tedeschi. Per questo egli si renderebbe immortale nella Storia, ed acquisterebbe un titolo imperituro alla nostra riconoscenza...» (1). L'Imperatore rispose mandando a Roma altri dieci mila uomini, e formando a Civitavecchia un campo trincerato.

(1) Bianchi - loc. cit. pag. 121.

(1861) ALLA PARTENZA DI RE FRANCESCO II - 515

Con ciò addimostrava qual calcolo facesse del voto parlamentare che dichiarava Roma Capitale d'Italia. E lo addimostrò costantemente negli avvenimenti di Mentana, ed oggi impone formalmente all'Italia una franca dichiarazione di rinuncia a Roma.

Con quello scopo la squadra francese si presentò a Gaeta; e con ciò mostrava pure ai Nordici, spaventati dall'audacia del Piemonte e dalla rivoluzione, com'egli si facesse difensore del dritto vecchio, proteggendo il tradito Re di Napoli! Eppure vi fu chi gli accordò fede!!!

La presenza di quella squadra impedì a Persano di accostarsi alla costa del Garigliano; sicché nel 29 ottobre l'armata di terra piemontese non poté conseguire quella vittoria, nella quale avea sperato. Non pertanto Persano, furioso di non potere là che per poche ore adoperare i suoi cannoni, si andò a sfogare contro Mola di Gaeta tirandole sopra un rovinio di bombe: mentre là non vi erano fortezze o truppe che potessero rispondergli. Ciò non impedì, che il bollettino della rivoluzione aggiungesse un altro alloro alla gloria di Persano.

I Regi marciavano sopra Gaeta, ma le due ali erano state separate: la dritta, dopo fiero combattimento, avea potuto guadagnare la strada: non così la sinistra, comandata da Ruggiero, che non fidandosi di tentare la sorte delle armi, né di aprirsi un passaggio a traverso il nemico, lo che merita biasimo, avendo egli con sé il maggior nerbo di truppa, si ridusse sul territorio Romano: e a Terracina un ordine del Generale Goyon lo costrinse a deporre vergognosamente le armi!- Che giova dire in difesa di Ruggiero, quasi ad ostentazione di fedeltà, non aver annuito alla capitolazione propostagli dal Generale De Sonnaz, quando con una forza di forse più che 20 mila uomini non ebbe il coraggio di tentar la sorte delle armi? Per la storia colui che o non ha energia, o nei pericoli più solenni addimostra viltà o paura, si mette al pari del disertore.

Intanto a Gaeta si raggranellò quel resto di truppa, che era sparso nelle vicinanze; era l'estremo sacrificio che della propria vita consumavasi da coloro che non disertarono la bandiera, ma morirono in essa avvolti nelle forate sue pieghe, come soldati di onore.

516 CAP, UNICO - DALL'ASSEDIO DI GAETA (1861)

Vari proclami furono promulgati: noi ne riportiamo due, uno diretto alla Sicilia, e l'altro ai Napolitani; gli altri non essendo che l'espressione dell'idea stessa sotto forma diversa.

AI SICILIANI

Siciliani,

Il giovane Re delle Due Sicilie fu vittima di pessimi consigli. E circondato da ignominiosi tradimenti, resiste da eroe in Gaeta. Con un piede in Gaeta od un altro nella cittadella di Messina, sembra militarmente un colosso di Rodi, sotto cui passano le discordanti nati di una diplomazia estera da tartarughe. Una monarchia di otto secoli è stata violentemente scrollala da uu'orda di avventurieri, invitati, accolti da voi settariamente. Sotto la speciosa larva di unità italiana, con un plebiscito brutale, strappato dalla forza, voi siete divenuti un armento già piemontizzato. Avete perduta l'autonomia nazionale. Le venerande memorie storiche della Sicilia naufragarono sotto la pressione straniera: la legittima dinastia barcollò. Puntellatela, sostenetela con la concordia inconcussa. Preferireste l'anarchia ad un governo regolare ed intemperato?

Il vostro re vi apre le braccia ed affida il suo cuore da padre a Voi. Deplorabilmente non ha più un esercito, perché in gran parte infedele.

Egli riproduce per voi lo Statuto anglo - siculo del 1812. Parlamento, e ministri responsabili siciliani. Amministrazione assolutamente separata dal continente. Libertà di stampa. Diminuzione di Dazii. Coscrizione abolita, armata e marina siciliana.

Egli stesso soggiornerà fra voi quattro mesi all'anno, col corpo diplomatico, i suoi ministri e la real corte. Vi lascerà in sua assenza, un real principe da viceré, con pieni poteri.

Che potreste bramare di più?

Consultate i propri interessi. L'Europa minaccia una rediviva coalizione del 1815. Non vi lasciate illudere da gente compra; sanguinari

(1861) ALLA PARTENZA DI RE FRANCESCO II - 517

Accettale i 10 articoli del nuovo Statuto, qui appresso inserto. Esso è la colomba, che dopo un cataclisma diluviano, torna all'arca e vi reca il ramo dell'ulivo di pace.

AI NAPOLITANI

«Popoli delle Due Sicilie,

«Da questa Piazza, ove difendo più che la mia corona, l'indipendenza della patria comune, il vostro sovrano alza la voce per consolarvi nelle vostre miserie, e per promettervi tempi più felici. Traditi egualmente, parimenti spogliali, ci alzeremo insieme dai nostri infortunii. L'opra dell'iniquità non è mai durata lungamente, e le usurpazioni non sono eterne.

«Ho lasciato cader nel disprezzo le calunnie, ho guardato con disdegno i tradimenti, tanto che tradimenti e calunnie si sono attaccati solamente alla mia persona. Ho combattuto non per me, ma per l'onore del nome che portiamo. Ma quando veggo i miei amatissimi sudditi in preda a tutti i mali della dominazione straniera; quando li veggo, popoli conquistati, portare il loro sangue, i loro beni in altri paesi, calpestati da un popolo straniero, il mio cuore napoletano bolle d'indignazione nel mio petto, e son consolato soltanto dalla lealtà della mia brava armata, dallo spettacolo delle nobili proteste, che da tutti i punti del regno s'innalzano contro il trionfo della violenza e della furberia.

«Io sono Napoletano, nato fra voi; non ho respiralo altr'aria,

518 CAP, UNICO - DALL'ASSEDIO DI GAETA (1861)

«Il mondo intero l'ha visto; per non versare sangue ho preferito rischiar la mia corona. l traditori pagali dal nemico straniero, sedevano nel mio consiglio, a fianco ai fedeli servitori; nella sincerità del mio cuore non poteva credere al tradimento. Mi costava troppo di punire, soffriva di aprire dopo tante sventure un'era di persecuzioni: e così la slealtà di certuni e la mia clemenza han facilitata l'invasione, che s'è operata col mezzo degli avventurieri; paralizzando la fedeltà de' miei popoli ed il valore del miei soldati.

«In mezzo a continue cospirazioni, non ho fatto versare una goccia di sangue, e si è accusala la mia condotta di debolezza. Se l'amore più tenero per i miei sudditi, se la confidenza naturale della gioventù nell'onestà degli altri; se l'orrore istintivo del sangue, meritano tal nome; si, certo io sono stato debole. Al momento in cui la ruina de' miei nemici era sicura, ho fermato il braccio de' miei Generali per non consumare la distruzione di Palermo.

«Ho preferito abbandonar Napoli, la mia cara capitale. senza essere cacciato da voi, per non esporla agli orrori di un bombardamento, come quelli che hanno avuto luogo più tardi a Capua e ad Ancona. Ho creduto di buona fede, che il re di Piemonte, che si diceva mio fratello e mio amico; che mi protestava disapprovare l'invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo un'alleanza intima peri veri interessi dell'Italia, non avrebbe rotti tutti i trattati, e violate

(1861) ALLA PARTENZA DI RE FRANCESCO II - 519

Questi sono i miei torti. Preferisco i miei infortuni ai trionfi degli avversarii.

«Avea dato un'amnistia, avea aperto le porte a tutti gli esiliati, avea accordalo ai miei popoli una Costituzione, e non ho certo mancalo alle mie promesse. Mi preparava a garentire alla Sicilia istituzioni libere, che avrebbero consacralo, con un Parlamento separato, la sua indipendenza amministrativa ed economica, e messo da parte in un colpo tutti i motivi di diffidenza e di malcontento.

Avea chiamato nei miei consigli gli uomini, che mi sembravano i più accettevoli dalla opinione pubblica in questa circostanza, e, per quanto me l'ha permesso l'incessante aggressione, di cui sono divenuto la vittima, ho travaglialo con ardore alle riforme, al progresso, alla prosperità del nostro comune paese.

«Non sono le discordie intestine che mi strappano il regno, ma son vinto dall'ingiustificabile invasione di un nemico straniero. Le Due Sicilie, ad eccezione di Gaeta e Messina, questi ultimi asili della loro indipendenza, si trovano in mano del Piemonte. Che cosa ha procurato questa rivoluzione ai popoli di Napoli e di Sicilia? Vedete la situazione che presenta il paese. Le finanze, non guari sì fiorenti, sono completamente ruinate, l'amministrazione è un caos, la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni sono piene di sospetti; in luogo della libertà, lo stato d'assedio regna nelle provincie, e un Generale straniero pubblica la legge marziale, decretando la fucilazione istantanea per tutti quelli de' miei sudditi, che non s'inchinano innanzi la bandiera di Sardegna. L'assassinio è ricompensato, il regicidio ottiene un apoteosi, il rispetto al culto santo de' nostri padri è chiamato fanatismo; i promotori della guerra civile, i traditori del loro paese ricevono pensioni, che paga il pacifico suddito. L'anarchia è dovunque. Gli avventurieri stranieri han messo la mano su tutto, per soddisfare l'avidità, e le passioni del loro compagni. Uomini, che non hanno mai visto questa parte dell'Italia, o che in una lunga assenza ne hanno dimenticalo i bisogni, costituiscono il vostro governo.

520 CAP, UNICO - DALL'ASSEDIO DI GAETA (1861)

In luogo delle libere istituzioni che io vi avea date, e che desiderava sviluppare, avete avuto la dittatura più sfrenala, e la legge marziale rimpiazza ora la Costituzione.

Sotto i colpi de' vostri dominatori sparisce l'antica Monarchia di Ruggiero e di Carlo terzo; e le due Sicilie sono state dichiarate province di un regno lontano. Napoli e Palermo saran governale da Prefetti venuti da Torino. Vi è un rimedio a questi mali, ed alle calamità più grandi ancora che prevedo: la concordia, la risoluzione, la fede nell'avvenire. Unitevi attorno al trono de' vostri padri. Che l'oblio covra per sempre gli errori di lutti; che il passalo non sia mai il pretesto di vendetta, ma una salutare lezione per l'avvenire.

«Ho fiducia nella giustizia della Provvidenza; e qual che sia la mia sorte, resterò fedele ai miei popoli, come alle istituzioni che loro ho accordale. Indipendenza amministrativa ed economica tra le due Sicilie, con Parlamenti separati, amnistia completa per tutt'i fatti politici: ecco il mio proclama. Fuor di queste basi, non resterà nel paese che dispotismo ed anarchia. Difensore dell'indipendenza della patria, sto, e combatto qui per non abbandonare un deposito sì santo. Se l'autorità ritorna nelle mie mani, sarà per proteggere tutt'i dritti, rispettare tutte le proprietà, garentire le persone, ed i beni de' miei sudditi contr'ogni sorta di oppressione e di saccheggio.

«Se la Provvidenza ne' suoi profondi disegni pennese che l'ultimo baluardo della Monarchia cada sotto i colpi di un nemico straniero, mi ritirerò con la coscienza senza rimprovero, con una fede stabile, e con una immutabile risoluzione; ed aspettando l'ora vera della giustizia, farò voti i più fervidi per la prosperità della mia patria, per la felicità de' miei popoli, che formano la più grande e la più cara porzione di mia famiglia.

«Il Dio Onnipotente, la Vergine Immacolata, ed invincibile protettrice del nostro paese sosterranno la nostra causa comune.

Firmato - FRANCESCO

(1861) ALLA PARTENZA DI RE FRANCESCO II - 521

Tali proclami, tuttocchè non si fosse tralasciato mezzo per impedirne la diffusione, produssero immensa commozione nell'animo del Napolitani, perché quelle parole aveano toccato qualche corda che vibra ne! cuore di queste popolazioni, come lo confessa lo stesso Rustow (1).

Niuno ardì prendere la penna per svilire quel proclama, poiché un avanzo di verecondia ancor rimaneva negli stessi più accaniti nimici del Re. Lo fece solo Alessandro Dumas, un avventuriere che ci piovve dalla Francia per far da romantico ed assurdo paladino in un campo che non era il suo!

Fu sempre sventura d'Italia l'essere adoratrice del forestierume. Tra costoro non comprendiamo chi ha cuore e mente italiana; non i figli di Giambattista Vico e di Filangieri; non i Siciliani del Vespri. né i piemontesi di Pietro Micca, ma coloro che per spirito di dominare si fecero ciecamente schiavi della politica francese, compromettendo le sorti e l'avvenire del paese. La politica del gabinetti Italiani dal 1860 sin oggi ne diede una continua prova, la quale gran materia prepara allo storico che ne farà la narrazione.

Vivissimo era il cannoneggiamento tra assedianti ed assediati; ma lo batterie piemontesi, tuttocchè scagliassero un innumerevole quantità di bombe, pure alle mura della fortezza poco dànno arrecavano, mentre gravissimo era quello che l'abitato soffriva;

Fin allora la squadra Sarda nulla avea potuto operare per coadiuvare le operazioni dell'armata di terra, impedita dalla presenza della squadra francese. Però continuando così le cose, i piemontesi sarebbero andati troppo per le lunghe nell'assedio; mentre la reazione legittimista si accendeva vigorosamente in tutto quasi il continente napolitano. Napoleone 3° vide egli essere l'ostacolo che ancora ritardava la caduta di Gaeta; e fattasi far violenza dal Gabinetto di Saint James, e da quello di Torino, i quali gridavano alla violazione del principio del non intervento (beffa sconcissima in barba del diritto, addivenuto un giuoco di parole,

(1) loc. cit. pag. 624.

522 CAP, UNICO - DALL'ASSEDIO DI GAETA (1861)

un insulto ad ogni legge internazionale!) ordinò a Le Barbier de Titan di ritirarsi, consigliando Francesco 2 ad abbandonare la piazza!

Scrissero alcuni, che l'Imperatore si fosse messo intermediario tra Francesco 2°, e Vittorio Emmanuele, ma che in costui avesse trovato le maggiori difficoltà per un bonario accordo. Quanto valga asserirlo. non diciamo: solamente crediamo di non apporci male sostenendo, che l'Imperatore seguisse fedelmente il sistema adottato dalla rivoluzione.

Fu concluso in tal frattempo un armistizio di sette giorni: benché fusse stabilito, che niuna delle due parti belligeranti potesse costruire nuove opere, pure, dissero i critici, all'esercito assediante necessitava quel tempo per far venire da Napoli nuove e più numerose artiglierie. Scorsi quei giorni, Persano cominciò ferocissimo il bombardamento. Questa smania è così radicala nell'animo di lui, che egli stesso, negli interrogatori subiti dalla Corte del Senato per render conto dell'infelice esito della battaglia di Lissa, dové confessare, aver creduto non venire a battaglia con gli Austriaci, ma trattarsi di semplice bombardamento! Non pertanto da Gaeta gli fu ben risposto, e se in quella fortezza non vi fosse stato difetto di cannoni rigati, Persano avrebbe prudentemente preso il largo; come fece quando volle con la barca cannoniera Guinzaglio oltrepassare la linea del fuori tiro. Quella nave restò così malconcia, che dovette essere rimorchiala ed inviala a Napoli per i necessari restauri.

Da terra il fuoco era violentissimo; e le bombe incendiarie... (fatalità forse) andarono a scoppiare quasi tutte sui magazzini di munizioni. Saltarono in aria quelli della batteria Cappelletti, quelli di S. Giacomo, di S. Antonio, e della Cittadella; e sollo quest'ultima specialmente perirono più centinaia d'uomini, tra i quali il Generale Traversa. In seguito di tale disastro, Cialdini accordò agli assediati 48 ore di armistizio, che protrasse per altre 12 ore, a dar agio che potessero dissotterrarsi i cadaveri; e ad onore del vero non possiam tacere, che per curare i feriti e gli ammalati della cittadella, essendone stato richiesto, inviò a Gaeta carri di neve e di medicinali, sendo là scop

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ed officiò che sugli ospedali e sulla casa del Re s'inalberassero segnali, affinché quei locali fossero rispettati dai tiri delle batterie.

Nel memorabile assedio della fortezza di Gaeta del 1860 fu salvato il diritto del caduto Monarca, se fu rovesciato il suo trono. -In quelle mura, ove si ridusse un pugno di bravi, fulminate dalla devastatrice mitraglia dell'inimico, si chiusero il giovine Re e la Reale sua Consorte Maria Sofia di Baviera, che sull'alba della vita avea appena cinta la corona di Regina per provarne i grandi dolori.

La Real coppia spiegò il più freddo coraggio quando più forte era il pericolo: essa bravando il fuoco micidiale degli assedianti animava quei prodi, che morivano al grido di Viva il Re, Viva la Regina!- E Maria Sofia, angelo di carità e di consolazione, accorreva negli ospedali, e di sua stessa mano talvolta prodigava le cure mediche ai feriti, i cui dolori erano sollevati dal mesto sorriso della Regina, che sui ruderi di Gaeta, tenne un trono, che tutti i Re della terra debbono invidiare.

Tristissime erano addivenute le condizioni degli assediati; e benché la piazza fosse ancora nello stato di resistere, pure cominciavasi a difettare di vettovaglie e di munizioni; oltre a che il tifo mieteva ogni dì moltissime vite, e mancavano anche i materiali a riparare i guasti prodotti dall'incessante cannoneggiare del nemico.

Per tali estreme ragioni fu chiesto a Cialdini un armistizio di quattordici giorni per trattarsi la capitolazione: Cialdini mostrossi pronto a trattare, ma non volle accordare l'armistizio, facendo anzi aumentare il fuoco, anche nel momento in cui si discutevano le condizioni.

La capitolazione fu onorevole, e vi si frappose tutta l'influenza del Gabinetto Francese. La guarnigione uscì dalla piazza con l'onor delle armi: riconosciuti gl'impiegati così civili che militari; gli uffiziali che volessero servire nell'armata Italiana rispettati nei loro gradi. Come fosse mantenuta la capitolazione in tutte le sue parti, narrerà lo storico che ci farà seguito!

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Francesco 2°, che con la giovino sposa, Maria Sofia di Baviera, cui la storia ha dato l'imperituro nome di Eroina di Gaeta, avea divisi tutti orrori di una guerra, e di una rivoluzione a tutt'oltranza, dopo aver dimostrato di esser discendente di Carlo 3.° in quest'assedio; dove, scrivono gli stessi inneggiatori della rivolta «richiedevasi un vero coraggio militare, una ferma costanza, e risoluzione» s'imbarcò con la R. Famiglia a bordo della Fregala Francese La Mouette. Alle sue truppe indirizzò il seguente proclama.

13 febbraio 1861.

«Generali, Uffiziali e soldati dell'armata di Gaeta.

«La fortuna della guerra ci separa. Dopo cinque mesi di sofferenze per l'indipendenza della patria nostra, durante i quali noi ah«biamo divise le stesse fatiche, e le stesse privazioni, è venuto per ii me il momento di mettere un termine ai vostri eroici sacrifizi.

«La resistenza è divenuta impossibile: e se da una parte il mio dovere di soldato m'impone il difendere con voi l'ultimo baluardo della Monarchia, il mio dovere di Re, il mio amore di padre mi comandano oggi di risparmiare l'effusione di un sangue, che nelle circostanze attuali non sarebbe che la manifestazione d'un eroismo inutile.

«Per voi, miei fedeli compagni d'armi, per riguardo del vostro avvenire, in considerazione della vostra lealtà, della vostra bravura e costanza, io rinunzio all'ambizione militare di rispondere all'ultimo assalto di un nemico, che per impadronirsi di una fortezza difesa da tali soldati, sarebbe obbligato di seminare di cadaveri il suo cammino.

«Soldati dell'armata di Gaeta, per più di dieci mesi voi avete combattuto con un coraggio senza pari.

«I tradimenti anteriori, l'attacco delle bande rivoluzionarie, l'aggressione di una potenza che ci si diceva amica, niente ha potuto arrestare la vostra bravura, affievolire la vostra costanza.

«In mezzo alle sofferenze d'ogni sorta, traversando i campi di battaglia, ed affrontando i tradimenti più terribili, che il ferro ed il piombo, voi siete venuti a Capua ed a Gaeta.

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Voi avete lasciato sulle rive del Volturno e del Garigliano le tracce del vostro eroismo; voi avete sfidato per più di tre mesi, in queste mura, gli sforzi di un nemico che dispone di tutte le forze d'Italia. Grazie a voi l'onore dell'armata delle due Sicilie è intatto; grazie a voi, il vostro Sovrano potrà portare alla la testa con orgoglio; e sulla terra dell'esilio ov'egli attenderà la giustizia del Cielo, la rimembranza dell'eroica fedeltà del suoi soldati, sarà la più dolce consolazione delle sue sventure.

«Una medaglia speciale vi sarà distribuita in memoria dell'assedio, e quando i miei cari soldati rientreranno nelle loro famiglie, tutti gli uomini d'onore chineranno la testa al loro passaggio; le madri mostreranno ai loro figli, per modello, i bravi difensori di Gaeta.

«Generali ufficiali e soldati, io vi ringrazio tutti; e vi stringo la i mano con effusione d'affetto e di riconoscenza. Io non vi dico ad«dio, ma a rivederci. Conservale sempre intalla la vostra lealtà, co«me si conserverà la gratitudine e l'affezione del vostro Re

FRANCESCO.

Giunti al termine della storia, dolorosa, che ci prefigemmo di narrare, la penna ci cade di mano, commossa alla grandezza di tanta sventura; anche ripensando, che mentre da quella rivoluzione si sperava conseguire la rigenerazione del popoli italiani, essa per contrario non dovea essere che preludio di tremendi dolori per l'Italia.

Francesco II non lasciava il Regno del suoi padri vilmente, fuggiasco ed indegno dell'ammirazione della diplomazia e della stima degli onesti.

Le ultime ore della sua dimora in Gaeta e gli stessi momenti della sua partenza sono narrati dal Signor Carlo Garnier, il quale, presente a quella scena, l'ha tramandata agli avvenire con quella espressione sublime e commovente, che rivela la profonda impressione di quell'ora solenne, in cui spariva dal Reame delle Due Sicilie l'ultima traccia d'una Dinastia secolare. Ed al Garnier lasciamo raccontare questo estremo episodio di Gaeta.

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14 Febbraio a bordo dell'Avviso la Mouette

innanzi a Terracina

«Se vivessi molti secoli, questo giorno non si cancellerebbe mai dalla mia memoria.

«A otto ore del mattino, l'avanguardia piemontese prese possesso delle batterie di terra, e gravava col suo passo la montagna della torre Orlando - La guarnigione, giusta gli accordi presi tra il governatore Luogotenente - Generale Milon, nominalo in rimpiazzo del Luogotenente - Generale Ritucci. dimissionario, ed il Generale in capo piemontese, sera ritirala durante la notte verso il fronte del mare. - Nell'ora stessa l'Avviso francese La Mouette, inviato da Napoli, giungeva nella rada di Gaeta.

«Le truppe napolitane erano schierate in linea di battaglia dalla casamatta del Re lino alla porta di mare. - Le loro Maestà sortirono dalla casamatta per recarsi a bordo della Monelle; il Re vestiva la tenuta di semplice officiale con la sciabola al fianco, e speroni agli stivali; la Regina avea un cappelline ornato di piume verdi.

«La musica intuonava la marcia Reale, il cui melanconico suono produsse una immediata commozione nella folla stivata sulla Piazza della Gran Guardia. Io seguiva il corteggio a qualche passo di distanza. Non saprei descrivere il carattere di augusta semplicità, di grandezza e di tristezza, che quella scena presentava agli occhi nostri - I soldati laceri, estenuati dalla fatiga, presentavano per l'ultima volta le armi al loro Sovrano, e grosse lagrime vedeansi gocciolare sulle loro guance.

«L'espressione del dolore generale si facea più grande a misura che il Re si avanzava verso la Porta del mare - Il popolo si preci

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«Gli onori Reali furono loro resi a bordo della Mouette.

«Uffiziali e marinai vestivano grande uniforme-La Reale Bandiera sventolava all'albero maestro. Un centinaio di persone, cioè a dire gli ambasciatori, i ministri, parecchi Generali ed Ufficiali, la servitù di Palazzo Reale e una mezza dozzina di officiali francesi salirono poi a bordo - Vari di essi, considerali come aiutanti di Campo del Re, sfuggivano così le ire di Cialdini, che contro loro avea profferite villane minacce - Cialdini chiese la lista delle persone imbarcate, ma non vi fece opposizione alcuna-Anch'io ebbi l'onore di essere ammesso sul naviglio su cui era imbarcata la R. Famiglia - I vapori della squadra piemontese s'avanzarono fin nella rada per meglio godere del trionfo, e vedere più d'appresso la partenza dell'esilialo. Il Re e la Regina guardarono freddamente con gli occhialini la flotta di Persano!

«La Mouette restò in rada più d'un'ora - Appena l'imbarco fu terminato, la bandiera Reale fu tolta, e la bandiera francese rimase sola per coprire con le sue pieghe il magnanimo vinto-Allorquando le ruote del vapore cominciarono a girare, le batterie del porto salutarono il Re con ventuno colpi di cannone - una grande bandiera in

528 CAP, UNICO - DALL'ASSEDIO DI GAETA (1861)

«Durante la breve traversala da Gaeta a Terracina, il Re e i Principi suoi fratelli mostrarono una serenità ammirevole, e si degnarono anche d'intrattenersi con alcuno di noi. - La Regina si tenne per lunga pezza sola seduta sulla tolda dal battello contemplando le rocce di Gaeta.

«Nel momento in che i francesi si posero a tavola per prender qualche cibo, il Re comparve sulla soglia della porta dicendo loro con la sua seducente affabilità: buon appetito. Noi ci levammo tutti, ma il Re si ritirò subito - «Ecco i tiranni, disse uno dei nostri, quando ci rimettemmo a tavola: il più umile borghese avrebbe mostrata forse più alterigia».

«Le LL. Maestà e le LL. Altezze sbarcarono a Terracina: la guarnigione francese le altendeva sulla riva-Gli esiliali si ritirarono provvisoriamente a Roma; il Vicario di G. Cristo sembrami il solo degno di offrire loro l'asilo».

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CONCLUSIONE

Rivisita politica dal 1861 al 1868.

Caduta Gaeta, caddero la Cittadella di Messina e Civitella del Tronto; da per tutto fu inalberata la bandiera Sabauda e proclamato il Regno d'Italia. Noi narrammo la storia della rivoluzione sino al 1861, lasciando ad altri il compito di narrare gli avvenimenti posteriori, e di reclamare il verdetto dell'opinione universale degli avvenire, imperocchè quello dei viventi è già inesorabilmente pronunziato. Se non che, mancheremmo ad un imprescindibile dovere, se trascurassimo di accennare rapidamente agli avvenimenti, sovra i quali dovea splendere divinamente la potenza del Papato e l'immortale coraggio del Sommo Pontefice Pio IX.

La rivoluzione credeva nelle assurde sue speranze, che le sue troppo brevi e troppo facili vittorie avessero dovuto renderla così onnipotente, per quanto che avrebbe potuto sfidare in Roma tutto il mondo cattolico, e tutte le potenze della terra, che s'inchinano innanzi al Vicario di Cristo. Ma era decretato lassù, che l'Italia passasse per questa terribile e forse ultima pruova, affinché nelle torture interne riconoscesse l'audacia del suoi voli, ed il risultato del suoi alti rivoluzionarii.

Roma è stata e sarà lo scoglio, su cui si frangerà, come vetro, il programma di coloro, che han reso il molto di unità italiana sinonimo di ateismo, d'insulto al Papato, di decadenza della religione del nostri padri, di abbattimento della Chiesa, di prostituzione morale, di devastazione delle forze produttive della nazione; di sistemi ispirati agli odii, alle ambizioni, alla sete di oro del partiti, che congiunti necessariamente sotto lo stesso vessillo rivoluzionario, nel momento di dividere la conquista misero le mani ai coltelli, per disputarsela fra loro.

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Quella Italia degl'italiani diventò l'Italia lacerata e pesta dai due partiti, che son detti l'uno consortiero, cui appartengono gli uomini che tengono il potere; e l'altro di azione o democratico, composto da quanti sognarono la repubblica e caddero nella rete di Napoleone III.

Francesco II insieme alla Regina Maria Sofia, seguito da tutta la Real famiglia e da un piccolo numero di gentiluomini, che vollero condividere con l'esule Sovrano le pene dell'esilio, fu amorevolmente accolto dalla Santità di Pio IX; e per i primi mesi pose stanza nel Quirinale, donde passò nello storico e monumentale Palazzo Farnese, avita proprietà della sua Real Casa.

La rivoluzione fu indispettita da tanto accoglimento, e mise in molo tutte le sue arti per costituire la così detta pubblica opinione su ciò, che la dimora di Francesco II a Roma fosse una causa permanente e prossima delle rivoltura, che agitano il Reame delle due Sicilie, divenuto dopo l'annessione, provincia d'Italia. E poi che per le premure delle Tuileries i gabinetti tutti di Europa, quantunque con le debite riserve, avessero riconosciuto il fatto compiuto della rivoluzione del 1860 in Italia; il nuovo governo italiano, prima da Torino, e poscia da Firenze si è sempre adoperalo per tentare l'allontanamento di Francesco II da Roma.

Napoleone III, certamente più nel suo, che nell'interesse del nuovo reame, mirava a questo grande risultato finale della sua politica in Italia; e non una, ma più volte son venute dalle Tuileries sollecitazioni al Vaticano per indurre il Re di Napoli a scegliere altra terra di esilio. Ma Pio IX nella sua grandezza d'animo e nella severa sua giustizia ha ricordato all'Imperatore del francesi, che anche la gran sventura di S. Elena, la quale avea colpita di proscrizione tutta la famiglia Bonaparte, trovò unico, fermo e generoso sostegno nell'ospitalità della Santa Sede.

Luigi Bonaparte, cosi personalmente, come membro della Casa napoleonide, dovea più che ogni altro Sovrano della terra piegare il capo riconoscente al Pontefice Pio IX ed alla sublime tutela con che il Vaticano

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al quale rendevasi eziandio la ospitalità, che nelle tregende rivoluzionario del 1848, Re Ferdinando II con tanta devota cordialità e con sua gloria ebbe la ventura di offrire a Pio IX. che, Pellegrino Apostolico, lasciando Roma per breve tempo, scelse a sua dimora il Reame di Napoli.

Nessun gabinetto europeo ha osato appoggiare presso la Corte romana questa pretesa della rivoluzione italiana e del Gabinetto delle Tuileries: come del pari nissuno ha preso sul serio le continue reclamazioni e le accuse levale contro l'esule Sovrano. E si noti, che non avendo potuto giammai questa pressione politica e pseudo - diplomatica, perché in forma confidenziale, raggiungere il suo scopo; si è fatto sinanche ricorso ad un altro mezzo, che dovea essere neppur pensalo dalla rivoluzione, la quale ha avuto il torto, e lo ha tuttavia, di misurare da se la virtù, l'onore e la nobiltà dell'animo altrui.

Si credette vincere lo stesso Francesco li dal lato dell'interesse: imperocchè essendo rimasti tutti i beni e le rendite di suo privalo diritto nelle mani della rivoluzione. che ne fece aspro e vandalico governo. egli trovavasi ridotto a tristi condizioni finanziarie. Laonde gli fu proposta la restituzione intera di tutti i beni confiscali purché avesse spontaneamente lasciato Roma; accordandogli la facoltà di rinnovare le sue proteste e riserve a salvezza del suoi diritti!. Qual risposta fosse stata data dal nobile per quanto sventurato Sovrano a tale proposizione, non sappiamo se più audace o vile, è facile comprendere. La povertà del Re di Napoli a Roma è il tesoro più splendido della coscienza che brilla di quella luce che non si spegne al soffio immorale e vandalico della rivoluzione.

Diremo anche di più: caduto a vuoto questo altro espediente, si fece ricorso a mezzi non meno subdoli per sorprendere la buona fede di Francesco II. Non si trascurarono tutte le piccole arti. le piccole guerre per rendere poco accetto alla Regina Maria Sofia il continuo dimorare in Roma, la cui aria altera alquanto la di lei salute. E prendendo argomento da una specie di dovere coniugale. si consigliava il

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che si era recala nel 1861 ai bagni presso Zurigo - Non mancarono al Farnese coloro, che sollecitavano Francesco II a partire; ma non mancarono coloro, e furono la generalità, i quali gli sconsigliarono fortemente un passo così imprudente; avvegnacchè una volta messo il piede fuori il territorio pontificio, gli sarebbe stato interdetto il ritorno.

Il Vaticano non avrebbe potuto difenderlo dagli attacchi della diplomazia franco - italiana, la cui vittoria, non oltrepassando Gaeta, perdeva l'importanza dell'avvenire, già calcolato nei misteriosi colloquii di Plombières.

Certo è, che il Re di Napoli nulla ha perduto nella stima e nell'ossequio di tutte le Corti di Europa: e le continue dimostrazioni venutegli dalla nobiltà di Francia e di Germania specialmente, sono testimonianza storica di quella riverenza, che si accresce nel convincimento universale a fronte di così grande sventura: tanto più nobile, quanto più immeritata, e prodotta da cause, contro cui l'opinione europea fu da principio avversa, e non lo è meno attualmente.

Allorché Garibaldi rassegnò il potere nelle mani di Vittorio Emanuele sotto le mura di Capua, la democrazia fu strozzata nella sua azione; e la rivoluzione, accentrata nel partito, che prese nome di consortiero, poté inaugurare col vessillo di governo - partito quel letale sistema che in otto anni, quanti sono al momento in che scriviamo, ha ridotto l'Italia in una condizione miserevole per finanze; miserevole per pubblica sicurezza; miserevolissima in politica di fronte alle potenze straniere! - Questo sistema non potea produrre che pessime conseguenze, come da albero marcio non si producono che frutta guaste e corrotte. Il governo italiano non già sull'amore deipopoli può fondarsi, ma sulla forza - Divisa in partiti l'Italia, i cittadini si mordono fra loro per vendetta, per invidie, per gelosie; il pugnale dell'assassino, i nefasti fatti del brigantaggio e la miseria desolano città e campagne.

Il governo, reso impopolare, in ogni voce che lo censuri, sente un nemico; in ogni persona che nol segua ravvisa un reazionario.

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Di qui la conseguenzadella libertà. E la stampa. vile o ricreata, non per amore e spirito di patria, ma per condannevole servilismo, si fece complice, anzi spesse volte autrice di calunnie, disonorando il nome d'Italiano e polluendo miseramente il santo palladio della libertà e della indipendenza.

Le fucilazioni, gli arresti, i processi, le accuse, le deportazioni, e i domicili coatti fulminati in questi olio anni dal governo d'Italia, sulla base di leggi eternamente eccezionali, sono pruova per significare all'Europa a qual punto la rivoluzione abbia trascinata l'Italia nella sua politica interna.

Coloro, contro cui maggiormente s'avventarono i rivoltuosi, furono frati e preti; e perseguendoli, sperarono sradicare dalle fondamenta la religione; quasicchè la forza umana avesse potenza di abbattere l'opera di Dio.

Una miriade di libri iniqui, laidi, immorali inondò le città d'Italia; pubblicamente s'irrise alla religione, si protestantizzò parlandosi della Casa di Gesù Cristo, come di casa di corruzione. Uomini rotti ad ogni vizio, sceltume di nefandezza, apostati nequissimi, tentarono schiantare il grano benedetto della morale cattolica, per impiantarvi loglio pernizioso di libertinaggio. Con la voce e con gli scritti se ne fecero banditori! Mascheratisi a profeti ed a veggenti, sperando illudere la buona fede del popolo, bugiarda dissero la religione: invenzione del preti il culto; tiranno il Papato e l'Episcopato; complice il sacerdozio! - «Il mondo languisce (scriveva un esaltato) in «questo tempo: soffre alterato, affamato! Che daremo noi al popolo....?

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Si dia un bricciolo a suo figlio, quando chiede del pane? (sic) La moltiplicazione, che si fece al sermone della montagna, non si è rinnovata. Ci avevano detto: chiunque avrà attinto alla mia sorgente, non avrà mai sete; abbiamo attinto per 2000 anni, e abbiamo sempre sete. E ciò che ci si offre a bere. nessuno può sopportarlo da lungo tempo:-un Salvatore per gli eletti, la religione del privilegio, e l'ingiustizia di Dio. No: - questo è troppo amaro.» (1).

Questo è il tipo delle idee della rivoluzione-: bestemmiare, ateizzare, corrompere il cuore, renderlo materiale: strappargli l'io ragionevole, e plasmarlo del loto, che si attinge dalle fogne del libertinaggio. Cotestoro, per dissetarsi di oro e di ambizione, ripudiarono quelle solenni basi di diritto, che solo il Vangelo seppe dettare, e dettò tali da porre la morale a fondamento ineluttabile della società civile; dottrine che non isviliscono la creatura, ma la nobilitano: dottrine che operarono la rivoluzione contro la tirannia del Cesari; abbatterono l'aristocrazia dell'oro, e dissero ai popoli: - voi siete tutti eguali, figli di un padre stesso; amatevi come fratelli!! Se i rivoltuosi avessero bevuto al fonte di acqua viva, cui crede far allusione il citato autore; a quel fonte di morale pura, vivida, razionale, della quale parlò Cristo; la Società non avrebbe deplorato scene obbrobriose di sangue; rapine, incendi, morti sciaurate, arbitrio, prepotenza, sfascio di diritto e di leggi!

Tra tutte le città, su cui passò il turbine della rivoluzione, Napoli ne fu più vivamente colpita. Sede d'un reame avito, Capitale d'uno Stato, il più grande d'Italia, la Città di Napoli dovea scadere a città di provincia non solo, ma perdere tutto quanto la rendeva cospicua e principalissima città d'Italia, terza città d'Europa.

Esiziale a Napoli diventò l'odio, che diremo nefando, dell'emigrazione napolitana; avvegnachè l'odiare una Dinastia, donde si reputa derivato il proprio danno,

(1)

Aurelio Romano - Manebrini - Doc. sulla rivoluz. di Napoli- pag. 118.

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è una logica inferma e continua della rivoluzione: ma odiare il proprio paese per servire ad innalzarne un altro; adoperarsi alla decadenza della propria patria; gioire alle sue sventure; desiare, come fece il Barone Poerio, che a Napoli non rimanessero che gli occhi soli per piangere, è stata opera così turpe della rivoluzione, per quanto che essa oggi raccoglie i frutti amarissimi del suo troppo falso ed impolitico sistema.

Messa in allo la legge per la soppressione del Monasteri e delle Corporazioni religiose, furono Napoli e Sicilia le due parti d'Italia, che maggiormente, e forse principalmente iic subirono i deplorabili effetti. Imperocchè la gran massa di quei beni, incamerali al demanio ed allìdati ad un'amministrazione speciale delta Cassa ecclesiastica, fu talmente dilapidala, che la finanza non ebbe a riportarne alcun vantaggio, mentre immenso impromettevaseno: e d'altra banda quelle Chiese monumentali, quei Conventi da secoli aperti al culto religioso, visitali ivi ammirali da viaggiatori, come luoghi in cui le arti belle e le scienze ebbero storica ed imperitura sede, furono abbandonali al genio vandalico di così eccentrici rigeneratori. E costoro, quantunque tradotti innanzi all'opinione di quello stesso popolo, nel cui interesse protestavano di aver compiute opere così gloriose, mentre avean fatto l'interesse proprio, pure non furon mai tradotti innanzi ad un magistrato penale, che avrebbeli sicuramente condannati. A riscontro di così brutta impunità dovea nascere la legittima ingiustizia di lasciar deperire sino per fame i frati o le monache, dopo averti spogliali del loro beni, in gran parte costituiti dalle doti private delle monache. Sicchè a stento, dopo lunghi reclami, e per la forza stessa della pubblica indignazione, il governo si decise a destinar loro lenuissime somme, che si esigono a stento, e talvolta non si riscuotono per improvvisi impedimenti finanziari nella stessa Cassa ecclesiastica!

Quei beni, che un tempo costituivano la ricchezza delle popolazioni agricole, massime della Sicilia, venduti in un modo, sotto tutti gli aspetti indegno di un governo costituito,

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son serviti unicamente alle in

Gl'istituti, i Collegi, le scuole militari di Napoli, rinomate non meno per gl'illustri professori, cui era affidato l'insegnamento, che per gli ottimi risultati, i quali si ottenevano dagli allievi, che ne sortivano, sono scomparsi, trasportati nell'alta Italia; e quel ch'è peggio, poco durati, ed anche stoltamente disprezzati quei professori, cui dopo lunghi anni di servizio è stata tolta la pensione di ritiro di giustizia.

I luoghi Pii ed i conservatori, gli Ospedali, le istituzioni d'arti e mestieri, tutto cadde sotto la falce rivoluzionaria. Oggi alcuni rari scheletri di quelle grandi istituzioni stanno per constatare o l'insipienza o l'avidità dei loro amministratori. Pietrarsa, questo grande opificio, ricorda ancora una scena di sangue consumata dai bersaglieri sugli operai che reclamavano un aumento di salario.

La fatalità degli uomini del governo dovea percuotere tutta l'Italia, e le province meridionali più specialmente, nelle loro ricche industrie e manifatture, in seguito del trattato di commercio conchiuso con la Francia. Il nome di Scialoia, sventuratamente napolitano, non si cancellerà giammai dalla memoria nostra: imperocchè a così nefasto ingegno, nimico certamente del bene della patria, dobbiamo la spaventevole decadenza delle nostre grandi e ricche intraprese di manifatture che in fatto di sete, di lane, di coloni, di panni ed in quasi tutte le branche d'industrie aveano alzato l'Italia al livello delle prime città industriali di Europa. Dopo otto anni, la ricchissima piazza di Napoli, è un deserto; il fallimento si moltiplica a misura che le nostre grandi fabbriche di manifatture si chiudono; e la decadenza delle industrie va pari passo con quella del commercio, divenuto languido, esinanito e meschino.

Si è avuto anche il deplorabile proposito di privare Napoli del suoi ricchi arsenali; e la nostra marina, che già attirava il plauso dell'estero, oggi è obbligata a torturarsi nel golfo della Spezia.

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Da tutto ciò

La rovina maggiore, che dall'imperizia, e più ancora dagli errori e dal ladroneccio e venuta all'Italia, sia nella finanza, la cui storia di otto anni si compendia in cinque miliardi e 500 milioni di debito pubblico; nel vuoto spaventevole di molti milioni di disavanzo per ciascun anno, preveduti nel bilancio; a prescindere dal vuoto che diventa maggiore a fronte del mancato introito delle tasse e del balzelli, che pesantemente gravano le popolazioni. L'ultimo vuoto preveduto pel 1868 è di 250 milioni, ed oggi che scriviamo (9 agosto) assistiamo alla votazione della legge esiziale per le finanze italiane, qual è quella sulla Regia dei tabacchi; e ciò per conseguire la miseria di 180 milioni!

Oh! la storia delle finanze italiane è qualche cosa di assurdo e di spaventevole. La mala amministrazione è giunta sino a distruggere la validità del nostro credito all'estero, dopo aver distrutto le casse ricolme di numerario in Toscana, in Modena, in Parma, a Palermo. e nella ricchissima Napoli, ove la rendita pubblica era salita sino al 121. Che su questo sfascio spaventevole della pubblica ricchezza dello stato regni un mistero impenetrabile, non è dubbio; ma è fatto unico in tutti i paesi ed in tutto le rivoluzioni, che, scomparso assolutamente dalle piazze il contante, che rigurgita all'estero, il governo non abbia altro mezzo per riparare alla crisi monetaria, che quello della carta - moneta, la cui emissione multiplice, svariata, permessa a diverse istituzioni bancarie e municipali, ha prodotto quel turbine nefasto di brogli, di falsificazioni, di avvilimento di questo disperato, estremo, unico rappresentante il danaro nella sventurata Italia.

E quasi che la Nazione avesse dovuto essere infeudata non meno alla politica francese, che al predominio d'una Consorteria così indegna della pubblica fede, si è veduta la Banca Sarda, diventata Banca nazionale, accentrare nelle sue mani le sorti finanziarie del paese.

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Avvegnacchè a detta Banca appartenendo i più atti consorti, che da Cavour in poi aprirono ferite così profonde nelle finanze dello stato, alle loro cure affidate, naturalmente essa dovea diventare il sifone della pubblica ricchezza, dal momento, che per l'influenza di così onnipotenti dispositori delle pubbliche e private fortune, si decretò il Corso forzoso del biglietti della Banca nazionale. Da quel giorno in poi non si sa a qual enorme somma ascenda tutta la carta - moneta messa 'n giro da questa malefica Banca; autorizzata solo per 300 milioni di franchi, e dei quali si servì il governo, che retribuisce così strano creditore con assurdi interessi, che sinora han raggiunta la cifra di 60 milioni!

Il commercio, le industrie, gli stessi privali interessi si sono ribellati contro siffatto dispotismo, che sente, più della violenza, l'onta del camorrismo; e ciò non ostante nel Parlamento di Firenze la discussione per la cessazione del corso forzoso non ha dato per risultato, che la riduzione della carta alla enorme cifra di 750 milioni.

Il bisogno crescente di danaro, conseguenza d'una pessima amministrazione, non che dei furti e delle frodi continue degli amministratori, consigliava il governo ad accrescere il numero delle tasse! Sistema assurdo e pericoloso, che accenna positivamente alla conseguenza d'infeudare allo stato non solo intera la rendita, ma anche i beni del privati. Ed infatti le tasse sono tali e tante, che per non esservi più maleria tassabile, si è dovuto ricorrere necessariamente all'aumento, e triplice aumento di decimo sulle tasse già esistenti. Tra le tante odiosissima è tornata quella sul macinalo; e tanto più, per quanto che sarebbe conceduta in appalto ad una società estera, che avrebbe a sua disposizione agenti e strozzini tutti propri. La disperata condizione della finanza italiana è tale, che dopo aver vendute le ferrovie a prezzi scandalosi, donde nacque la fama dei Bastogi e del Susani, ha barattati per pochi milioni i tabacchi, a pura perdita, e pel solo pagamento momentaneo di 180 milioni, che il Ministro Cambray - Digny ha dimandati sotto la minaccia

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di non poter pagare diversamente la rendita del debito pubblico alla scadenza di questo semestre!!!

In una parola, in Italia si parla sottovoce di bancarotta, ed i più franchi economisti prevedono imminente la liquidazione del debito pubblico.

Faremo grazia ai lettori del Caos, che rappresenta l'assurda massa di leggi, di decreti, di regolamenti, d'istruzioni, in tutti i rami così giudiziari, che amministrativi. La confusione è giunta all'apice; il motu - proprio si è affratellato all'irresponsabilità burocratica; l'impunità al delitto, la cui storia è tremenda, inaudita nei fasti dell'amministrazione del moltiplici rami dell'azienda pubblica.

A non entrare in discussioni e recriminazioni, che non cadono nella cerchia che ci siamo imposta, rimandiamo il lettore alle parole del Deputati stessi, che in questi anni scandolezzarono il Parlamento; alle inchieste per immorali ruberie perpetrate a danno del pubblico erario; inchieste che furono soffocate ingiustamente, ed involatine i documenti dall'Archivio della Camera del Deputati: agli arresti di pubblici funzionari malversatori; ai processi inauditi, che la Legge francamente intenta contro tanti, che liberali in apparenza, non lo furono che per spirito di vergognoso interesse.

La miseria, specialmente nelle classi povere ed operaie, giunta a grado non mai visto nei floridi regni di Piemonte e di Napoli. Da ogni parte si sono elevati e si elevano lamenti contro le smisurate e fastidiose imposizioni; eppure il governo italiano, Sella, Scialoia, e Cambray - Digny, non contenti di speculare su ogni branca di commercio, sovrimposero al sale, al vino, ai generi commestibili, e fino sul pane con la legge del macinato, non ostante che dazi comunali già gravassero i generi di prima necessità. La parola fame non fu conosciuta in questo Eden dell'Europa, che nei soli tempi di mezzo, e solo quando guerre ladre disertarono i nostri colli; e pure sotto il governo dell'Italia nelle più fiorenti città l'operaio muore per fame, mentre lo esattore ed il carabiniere gli sequestra, per rivalersi delle imposte, le poche masserizie, unico tesoro di ammiserite famiglie.

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Il brigantaggio feroce, truculento, terribile si aggira nel Napolitano, nella Sardegna, nel Piemonte, e nelle Romagne; e scene continue di sangue bruttano le pagine della stampa, scene a cui il popolo si è adusato.

Cosa dirà lo storico in riguardo a pubblica morale? Noi che viviamo sotto questo cielo, testimoni, assistiamo alle due orgie che camminano pari passo; corruzione del cuore e della intelligenza; depravazione di costumi; lussuria sfacciata addobbata di ori e di sete, legalizzata da permissioni governative!

Fu proclamato ad assioma - Libera Chiesa in libero Stato-e ciò non per lasciar libero il cittadino a seguire quella religione e quel culto, che più credesse confacente alle sue convinzioni, ma per aprire la più disonesta propaganda contro l'Episcopato ed il Sacerdozio, accusandoli in ogni maniera come nimici dell'ordine, perturbatori dello stato e reazionari. Erari questi i mezzi morali con cui la rivoluzione doveasi fare strada a Roma; invilendo cioè la religione, spargendo su di ogni cosa sacra il ridicolo, e facendo destare contro la Chiesa e i suoi ministri l'odio e l'abbominazione; o il dispregio con bugiarde sceniche rappresentazioni di suore, di frati, d'inquisitori, sempre col fine di svilirli, e additarli empi e tiranni!

Quando le Romagne furono annesse al Piemonte, e l'Imperatore del Francesi scrisse al Papa quelle essere irremissibilmente perdute per la S. Sede, il Conte di Cavour (1) stimando prossimo il momento della caduta del Papato, pieno di riconoscenza per Napoleone 3: disse «....con quella lettera (l'Imperatore) metteva fine al regno dei preti, il quale è forse altrettanto dannoso all'Italia della Signoria austriaca!» Ma sventuratamente Cavour mori; e non sei mesi, ma otto anni son passati, e il trono di Pietro vive più forte e più risplendente siccome il Sole, che non teme il nerore delle nubi.

Siamo al 1868. La politica di Luigi Bonaparte subì notevole cambiamento. Dopo la morte di Massimiliano al Messico,

(1).

Atti Uff. 1860 n.°42.

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dopo la battaglia di Sadowa, egli si svegliò come da tristissimo letargo. Il papato che dovea essere già morto, si vide ringiovanito; e l'Imperatore corse con i suoi a Mentana a porre una diga a quella rivoluzione, che oggi gli rode l'Impero. Pio IX ricco d'anni, di gloria e di martirio volte illustrare il suo secolo con opere grandiose. Alla memorabile festa della Canonizzazione del martiri Giapponesi seguì la temuta parola del Sillabo, innanzi a cui piegarono la fronte le più ribelli teorie della rivoluzione. Egli chiamò l'Episcopato ed il Clero mondiate a solennizzare il Centenario di S. Pietro, e, sfida sublime all'errore, indisse il Concilio ecumenico. Al suo appello risponde volenteroso l'Episcopato ed il Cattolicismo mondiate; al suo appello rispondono i Sovrani stanchi di rivolture e di trepidazione; e contro di lui vomita bava velenosa il serpente della rivoluzione, che invano si studia con l'affaticato dente di rodere la navicella di Pietro.

Se Cavour vivesse, avrebbe dovuto, genuflesso dinanzi a tanta potenza, confessare, che il solo stollo dice: - Non vi è Dio!!

La rivoluzione del 1860 non indietreggiò in faccia a questo potentissimo scoglio, ove vedea infrangere i suoi conati. Un giornalismo venduto, senza pudore, non fece altro che dar continuo fiato alla tromba della calunnia e della maldicenza...! In ogni città piccoli comitati, affiancati da coloro che nella rivoluzione trovarono esca per la loro ambizione, contro l'Episcopato si scagliarono; ed il Governo assecondandoli, i Vescovi imprigionò, svilì, ostracizzò, mandò a domicilio coatto!! Niuno si salvò da quella persecuzione; anzi più prestamente si alzò la mano a perseguire, dove maggiore era la dignità, non lenendosi riguardo neanche all'età senile di alcuni. Primi a soffrire questa guerra speciale, che ci rammenta quelle del Neroni, del Domiziani e del Giuliani, furono il Cardinale Sisto Riario Sforza Arcivescovo di Napoli, il Cardinale De Angelis Arcivescovo di Fermo, il Cardinale di Pisa, il Cardinale di Ferrara; gli Arcivescovi di Firenze, di Lucca, di Bari; i Vescovi di Avellino, di Foggia, di Faenza, d'Imola, di Piacenza, di Volterra, di Cortona; e poi quelli di Parma, di Modena, e dell'Emilia;

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insomma si fè man bassa per ogni dove; e per ogni dove incamerali i beni, e miseramente sciupali! Yi fu nel Parlamento chi su tal punto di amministrazione fece inchiesta; ma come tutte le altre di tal genere, non fu mai discussa!

Quale non fu la persecuzione ai preti? - universale! - prete, pel Governo italiano, fu sinonimo di reazionario, di persona venduta alla tirannide de' Sovrani spodestati: arrestati, esiliati, insultati...! E così fu posta in alto la formola: - Libera Chiesa in libero Stato!

Che del frati e delle monache? - Scacciali, come testè narrammo, dalle loro case, che pur erano proprietà loro; messi sulla strada con pensioni sufficienti appena a comperarsene pane! Eppure il Conte di Cavour una volta avea dello che: «la natura ecclesiastica del beni non «inferma per nulla il diritto di proprietà»... e lo Statuto avea proclamalo: «le proprietà sono inviolabili senza alcuna eccezione.» Or queste proprietà divennero violabili, e non a benefizio, ma a dànno del Governo stesso. 1l deputato Boggio al proposito diceva (1): «Quando si creò la Cassa Ecclesiastica, il motivo impellente di quella legge, secondo dichiarò esplicitamente il ministro che la propose, era quello di cassare la spesa delle 928,000 lire annue, che era iscritta sul bilancio per sussidio del Clero. Or bene sapete. o signori, che cosa invece abbiam fatto? Invece di spendere ogni anno quella somma, spendiamo qualche cosa di più.,

E Brofferio nella stessa tornata, disapprovando quella legge, aggiungeva: « una legge che in due anni ha prodotto più di 600 liti, che razza di legge può essere?.... questo ginepraio di liti prova, che noi abbiamo fatto una scellerata legge...»

Questo sperpero si fece universale negli anni di poi, ed il governo non guadagnò che impopolarità e malcontento per le misure violenti adoperale nel prenderne possesso. La così della rivoluzione di Sicilia nel 1861, e quelle stragi truculente compiute nelle chiese, ove le grida di tanti frati e di tante monache, spiranti sotto i colpi delle baionette italiane, erano eco alle grida del popolo mitraglialo dalle navi italiane,

(1) Atti Ufficiali n, 183, pag. 693 (30 Aprile 1858).

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furono un episodio di questa legge d'incameramento e di soppressione del luoghi ecclesiastici in Sicilia.

Eppure è così radicala negli animi degl'italiani la fede alla Religione Cattolica apostolica romana, che con la persecuzione governativa crebbe a dismisura la fede stessa; e si vide il popolo soccorrere il Clero indigente e con spontanee elargizioni provvedere al Culto divino, privalo del mezzi necessari a mantenerlo.

Il Santo Padre, spoglialo delle rendite del suoi Stati, fu soccorso dalle offerte del fedeli d'Italia: e l'Obolo di S. Pietro ha dato e dà a Roma continua pruova dell'affetto sempre crescente delle popolazioni alla Sede Pontificia.

Napoleone 3°, convinto del ruvido colpo scaglialo contro la Santa Sede e contro l'Episcopato mondiate, per arrestarne la veemenza, mentre da una parte tacque dinanzi a quanto in Italia si operava, abbenchè ne protestasse tutto il Corpo del Vescovi, dall'altra dava libero campo all'Episcopato ed al popolo francese di addimostrare pel Pontefice tutte le sue simpatie. Difatti permetteva, che a Parigi si fosse aperta l'emissione del prestito Romano, che fu in poco lempo coverto; tuttocchè i giornali dello stampo del Siècle e dell'Opinion Nationale ne reclamassero contra, con articoli, che non celavano il loro veleno contro la Santa Sede. Ma la Francia fu sempre campione di fede pel Cattolicismo; e possiam dire francamente, nessuno stato averla potuta né superare, né agguagliare. In sci mesi l'Opera della delle Scuole d'Oriente avea raccolti due milioni di franchi a benefizio del Cristiani del Libano, e lo stesso Moniteur se ne fece collettore. L'Imperatore, se nulla tralasciò per dichiarare nimicizia al potere temporale, nulla anche tralasciò per mostrarsi cattolico per eccellenza! - Una convenzione segnala a Parigi (3 Agosto 1860) tra le grandi Potenze e la Porta dio per risultato, che la Francia inviasse in Siria un corpo di spedizione in difesa del cristiani. Altro trattato fu conchiuso

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E stipulavasi pure il pubblico esercizio degli alti religiosi ai neofiti, e la libera via ai missionari in tutto l'impero. (1)

La Religione perseguita in Italia, e governativamente in Francia, dove si sopprimevano i giornali Cattolici, che contestavano all'Imperadore la figura di protettore del Papato!! (2), dispiegava i suoi vanni nelle regioni dell'Asia, della Cina, dell'America, e della Oceania; e Pio IX ebbe il consuolo di ricevere suppliche da vari Archimandriti bulgari, i quali uniti a tre preti, e a molti esnaf (capi di corporazioni) latori di una petizione munita di più che due mila firme, recaronsi a Costantinopoli presso Monsignor Brunoni Arcivescovo Cattolico Ialino e Mons. Hassoun, loro chiedendo di esser ricevuti nel seno della Chiesa Romana!

Gloria fu questa per la Chiesa e per Pio IX. Senza i fatti del 1859 e del 1860 niuno avrebbe potuto meglio riconoscere la compattezza dell'Episcopato e del Clero mondiate, non che la fede del popoli nel Papato.

Il Denaro di S. Pietro, istituito in Roma da una Arciconfraternita, ebbe sviluppo maggiore di quello che i rivoltuosi tomeano! Da ogni parte della terra vistosissime somme furono inviale a soccorrere il Santo Padre.

(1) Chantrel. Ann. Eccl. pag. 463.

(2)

Il 20 ott. 1860 fu soppressa la Gazzette de Lyon (tornate religioso, perché (come scriveva il Ministro francese nel suo rapporto) «coi suoi incessanti appelli all'agitazione, colla perfidia del suoi colpi al governo, e col sistematico disdegno si era opposto ai più benevoli avvisi»

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Noi non sapremmo decidere chi più avesse gareggialo in questa opera, che testimoniava le simpatie mondiali al Vicario di Cristo; e lo stesso Imperatore del Francesi avvisò essere impolitico il proibirla. Una nota del Moniteur dichiarò libere le oblazioni a tale oggetto: ma temendo che si potesse dar luogo a dimostrazioni contro la Dinastia ed ai principii (1) delegò, per raccogliere le offerte, i Curali ed i Vescovi; proibendo «l'organizzamento di comitati, decurie, centurie, che stringono ai vincoli di loro organizzazione un esercito di contribuenti, ed agitano gli animi con l'ardore di loro propaganda...» E l'Italia? L'Italia governativa si commosse a sdegno; la rivoluzione vomitò ingiurie, e minacce: ne seguirono dapprima arresti di parrochi, di preti e cittadini collettori, furono sequestrale le somme raccolte; ma poi, vedendosi impossibile il resistere ad una manifestazione così universale del popolo italiano, si tacque, imitando la politica Imperiale!!

A complemento del nostro lavoro, e di questo argomento, unico nelle Storie del secoli, rapporteremo le energiche e dotte parole pronunciale da Mons. Nardi il 6 Agosto nella Basilica Eudossiana di San Pietro in Vincoli a Roma.

«Un pensiero, dic'egli, (2) ed un affetto, che avea commosso gli estremi confini della terra, poteva esso non agitare questo nobilissimo paese d'Italia? Questo paese, che Dio volte così sovente sventurato, ma solo perché maggiormente spiccassero i doni immortali, di cui si compiacque sopra gli altri arricchirlo; poteva esso dimenticare il massimo e splendidissimo privilegio di possedere Colui, che Cristo lasciò sulla terra a tener le sue veci? No: ciò non potea avvenire, né avverrà mai! Italia tutta... dalle mie lagune alla punta di Sicilia, si mostrò ancora una volta ben degna del Sacro deposito affidatole da Dio; poiché non è già Italia quella che vomita ingiurie contro Dio,

(1) Chantrel. loc. cit. pag. 464, o. 465.

(2) Scritti a difesa della S. Sede Tonno 1862, coi tipi di Pietro di G. Marietti.

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la sua Chiesa, il suo Pontefice, i suoi ministri e corrompe, seduce, mentisce e calunnia. Italia è quella che soffre e prega, quella che da un capo all'altro solleva per bocca del suoi Vescovi e del suoi scrittori, a difesa della giustizia e religione oltraggiala, un forte grido, che le multe, le carceri, ed il prezzolato insulto popolare, e le più feroci minacce di morte non u valgono a soffocare. È quella che protesta assiduamente, coraggiosamente contro gl'indegni tentativi, coi quali si avrebbe macchiala u l'unica sua fede, prima e vera causa della sua grandezza nelle lettere, nelle arti, nelle scienze che più attamente onorano l'uomo, a È quella che in mezzo alle angustie più crudeli, dissanguala da imposte.... pur trova modo di mandare rivi incessanti di offerte di doni, del quali non altri giunger poteano più cari al suo diletto Pontefice

«E lo sappiano, e conoscano i sovvertitori, né si gloriino di qualche passaggero trionfo, ma guardino i fatti quali sono; e pensino alle severe lezioni della Storia, la quale dirà loro: che non si lotta a lungo, né felicemente contro il sentimento di un popolo e ancor meno contro le leggi di Dio!»

II ciclo di Europa è gravido d'una tremenda bufera: ambizioni, orgoglio, ed odii tra potenti s'urtano ferocemente tra loro ne' gabinetti diplomatici, mentre le ambizioni, l'orgoglio e gli odii della rivoluzione, che si è veduta improvvisamente strozzala nelle sue voglie, si leva come la iena che insidia la sua preda. E sventuratamente il governo italiano, in così terribili momenti, lotta tra le due correnti diplomatiche della Francia e della Prussia, le quali aspirano all'alleanza italiana per loro particolare vantaggio, e ciascuna di queste potenze minaccia l'Italia, se preferisse l'alleanza dell'avversario.

Il disinganno ed il pentimento turbano l'animo di Napoleone III, il quale avea bisogno di apprendere dalle stragi di Sadowa tutto il pericolo d'una politica enigmatica, infedele, e rivoluzionaria - Le armate di tutta Europa sono formidabilmente agguerrite:.. al grido della

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A questa lotta suprema ed a tutta oltranza, da cui si spera una pace duratura, indarno la diplomazia ha tentato di porre il veto del suo senno in un accordo bonario: imperocchè abbandonata la via del diritto, ognuno s'imprometta dalla forza quei vantaggi che il diritto non concede.

Il turbine minaccia ancora il Vaticano; ma esso si romperà in faccia a quelle mura, su cui veglia l'Angelo del Signore; e pur sperando che per questa travagliala Europa, e più ancora per la nostra infelice Italia, sorga il giorno della vera redenzione religiosa - politica - sociale, udremo dalla Sede del Vicario di Cristo alzarsi di bel nuovo potente la voce di Pio IX nel Concilio per ricordare ai troni ed ai popoli, che il progresso e la felicità delle nazioni sono una conseguenza non già delle ambizioni, della forza e delle funeste utopie delle rivoluzioni; sibbene dell'accordo della morale, della giustizia e del diritto, ispirati nei precetti eterni del Vangelo.

PIO IX ha dato il suo nome al nostro secolo; l'opera sublime del suo Pontificalo resterà eterna, e sarà redenzione per i popoli, vita e gloria imperitura per la Chiesa di Cristo!

FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME.

SOMMARIO

DELLE MATERIE CONTENUTE NEL SECONDO VOLUME

LIBRO VI.

DALLA PERSECUZIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA

AL VIAGGIO DI PIO IX NELLO STATO PONTIFICIO

CAPITOLO I.

Persecuzione della Chiesa in Spagna Vendita del beni ecclesiastici La Catalogna in stato l'assedio. Il Nunzio Pontificio chiede i suoi passaporti Tentativo socialista a Barcellona Il matrimonio civile in Svizzera Incameramento del beni ecclesiastici in Piemonte - Indirizzo del Vescovi - Discussione al Parlamento - Breve del S. Padre (Probe memineritis) - Tumulti a Val d'Aosta - 19 Sacerdoti arrestati - Ii Conte di Cavour e le fraterie del mendicanti - Le figlie della Carità difese da Cavour - Proposta dell'Episcopato Piemontese - È rigettata - Il maresciallo Della Torre al Senato di Torino - Soppressione dell'Accademia di Superga - Allocuzione del Papa per gli affari di Spagna - Anatema al governo Piemontese Concordato con l'Austria - Le quattro proposizioni dell'Arcivescovo di Parigi - L'Hatti - Humaioun del Gran Sultano.

CAPITOLO II.

Lamennais Dottrine del settari - I regicidi - Attentato contro Napoleone III. Agesilao Milano!! - Stampa Piemontese Vittorio Emanuele e Cavour a Parigi - L'Imperatore gl'insinua la pace col Pontefice - Cavour fa partire il Re - Nota Circolare del Piemonte alle Potenze - Lettera di Cavour all'Imperatore del Francesi - II Piemonte invitato al Congresso - Progetti di Napoleone sull'Italia Progetti di Cavour - I due progettisti si avvicinano - Una lettera di Luciano Murat - Il Moniteur la sconfessa - Aurelio Saliceti.

CAPITOLO IlI.

Affari d'Italia al Congresso di Parigi - Proposto di Walewski - Opinione di Lord Clarendon - Risposta del Bar. Manteuffel - Accuse di Cavour contro Ferdinando II - Accuse contro l'Austria e risposte che n'ebbe - Nota del Walewski al gabinetto di Napoli Ferdinando II - Il giornalismo piemontese - Discorsi sovversivi nel Parlamento Subalpino - Brenier visita le prigioni politiche del Napoletano - Dispaccio del Comm. Carafa - Francia ed Inghilterra richiamano i loro Ambasciatori da Napoli - Un articolo del Moniteur - Difesa di Ferdinando II. nel Parlamento di Londra - Bentivegna e la rivolta in Sicilia - Conseguenze diplomatiche.

CAPITOLO IV.

Nota di Cavour alla Francia ed all'Inghilterra - Alfa Nota verbale - II progetto del Conte di Cavour - Le due politiche della Francia -Cavour e l'Inghilterra - Dispaccio riservato del Conte Rayneval- Napoleone lo partecipa a Londra- Arti cavouriane - Nascita del Principe imperiale - Pio IX ne è il padrino per mezzo del Card. Patrizi- Ricevimento alle Tuileries- Risposta dell'Imperatore al Legato Apostolico. -La Rosa d'oro all'Imperatrice.

CAPITOLO V.

L'Episcopato Francese Concilio provinciale a Bordeaux La Liturgia romana restituita in Francia - Il cattolicismo in Austria - Indirizzo di quell'Episcopato all'Imperatore - Risposta di Francesco Giuseppe Patente imperiale sul matrimonio L'Imperatore alla Basilica di Gran - . Suo viaggio nel Lombardo - Veneto - Caduta di Esportero - Trionfo della Chiesa in Spagna Decreti della Regina Leggi sui benefici ecclesiastica, e sulla libertà di stampa - ll Cattolicismo in Russia Reazione protestante nella Svezia, e nella Svizzera - Persecuzione alla Chiesa nel Messico Incameramento del beni ecclesiastici - Protesta dell'Episcopato - Altra persecuzione alla Chiesa nel Piemonte - La Circolare Rattazzi - Protesta dell'Episcopato di Piemonte e di Savoia.

CAPITOLO VI.

Cavour e Ferdinando II - Proposte a Canofari - Risposta di Ferdinando Cavour non credeva all'Unità Italiana - Mazzini e la Giovine Italia Attentati contro Re Carlo AIberto. - I Comitati nel Napolitano Alessandro Nunziante ed Enrico Pianelli - Nunziante ed Agesilao Milano Scoppio delle polveriere e della fregata Carlo 3° - Cavour non ebbe parte in tali fatti - Accuse di Brofferio contro Cavour - Lettera di Mazzini - Congiura di Sapri.

CAPITOLO VII.

Il Discorso dell'Imperatore del Francesi - Arti di Cavour - Alleanza Austro - inglese, e sue conseguenze Politica austriaca - Politica di Cavour! Cavour e Mazzini - Tentativo d'insurrezione a Genova - Condanna di Mazzini - Medaglie commemorative per Pisacane, ed Agesilao Milano - La Francia si arma - Richiamo di Rayueval da Roma II - Duca di Grammont nuovo ambasciatore - Decreto imperiale che annulla alcune disposizioni emanate dal Vescovo di Moulins - Assassinio dell'Arcivescovo di Parigi - Il nuovo Arcivescovo e l'Imperatore - Il Grande Elemosiniere - Istituzione Canonica del Capitolo di S. Dionigi - Diritti giurisdizionali concessigli con Breve Pontificio.

CAPITOLO VIII.

L'Episcopato francese o Napoleone La religione in Spagna Discorsi della Regina - La Chiesa nella Svizzera Concordati cel Baden, e cel Wurtcmberg - Una medaglia a Cavour - L'Armonia, e il sedicente indirizzo - Carlo Poerio giudicato dalla Storia - Viaggio di Pio IX negli Stati Pontifici Missione del Boncompagni Il Papa a Firenze - Largizioni del Papa nei suoi Stati Ritorno del Papa a Roma - Allocuzione Cum primum - Pubblicazione del Giubileo - Il monumento a Piazza di Spagna in Roma.

LIBRO VII.

DALL'ATTENTATO DI FELICE ORSINI

ALL'OCCUPAZIONE DELLE ROMAGNE

CAPITOLO I.

Il giuramento degli miniati - La setta italiana a Londra - I congiurati - Biografia di Felice Orsini - La sera del 14 gennaio a Parigi - L'attentato Arresto di Orsini - Sua lettera all'Imperatore - Discorso dell'Imperatore all'apertura del Corpo Legislativo - Inghilterra reclama contro il Piemonte - La doppia politica di Cavour - Nota di Cavour al Governo Pontificio - Progetto Napoleonico proposto al Pupa.

CAPITOLO II.

Nota dell'Austria al Piemonte sulle sconcezze del giornalismo Risposta del Cavour. - Rottura delle relazioni diplomatiche tra Austria e Piemonte La Società Nazionale Italiana Accuse del Licurghi Lettere del Cavour Rivelazioni di Mazzini Plombiéres Confessioni di Cavour nel Parlamento Subalpino - I primi conati della rivoluzione Giornalismo piemontese e francese - Un articolo del Moniteur - Un altro del Giornale di Roma Napoleone e le due politiche Suo viaggio in Bretagna Pellegrinaggio a Sant'Anna d'Auray - Discorso al banchetto di Rennes Uno scritto di Edmondo About - La sireuse de cartes a Parigi! Libertinaggio nel giornalismo piemontese Libertinaggio sui teatri La Russia e Ferdinando II.

CAPITOLO III.

Enciclica Amatissimi Redemptoris Stampa libertina - Affare Mortara L'Episcopato in Francia Pace della Chiesa in Spagna II Pontefice fa da padrino del principe delle Asturie al fonte battesimale - Discorso della Regina - Progetto di legge alle Cortes sui beni ecclesiastici - Decreto che restituisce i beni alla Chiesa - Il Ministro O'Donnei - Un nuovo tempio monumentale a Madrid - L'Austria Cattolica Monsignor Rauscher e l'Imperatore Intolleranza religiosa in Svezia Ostracismo alle dame cattoliche - Le Suore di Carità a Lisbona - Persecuzione del cattolici in Arabia - I Martiri nell'Arabia, e nella Cocincina.

CAPITOLO IV.

Prodromi della rivolta - L'Imperatore del Francesi al Corpo Diplomatico - Un articolo pacifico del Moniteur - Dubbiezze del Gabinetto inglese Nota a Lord Cowley - Omaggio del Gen. Goyon al S. Padre nel 1° Gennaio - Il Discorso della Corona in Piemonte Risposta del Parlamento - Matrimonio tra Maria Clotilde di Savoia e Girolamo Napoleone - Apertura del Parlamento inglese - Napoleon et l'Italie di Laguèronnière - Discorso dell'Imperatore del Francesi - Dispacci del Gabinetto Pontificio a Vienna ed a Parigi chiedendo il ritiro delle truppe di occupazione - Armamenti e proclami - Nota inglese a Torino - Il Moniteur - Nota circolare del Gabinetto di Torino - Proclama rivoluzionario a Modena - Boncompagni in Toscana - Un articolo del Bollettino segreto - Lettera circolare della Società Nazionale Italiana - Lettera del Duca di Modena - Arruolamento di garibaldini.

CAPITOLO V.

Stato politico del Gabinetto di Vienna - Dichiarazioni inglesi Politica Napoleonica Politica Prussiana - Conferenza confidenziale proposta da Lord Cowley a Parigi - Memorandum del Conte di Cavour - La Confederazione Germanica si arma - Dichiarazioni del Moniteur - Il Congresso - La Sardegna non vi è ammessa - Contraddizioni diplomatiche Cavour a Parigi - Ultimatum dell'Austria - Il Moniteur pubblica la ripartizione del Comandi dell'esercito - Ultima proposta inglese - Non è accettata - Allarmi rivoluzionari in Italia - Parole storielle di Ferdinanda 2. di Napoli.

CAPITOLO VI.

L'Austria intima al Piemonte il disarmo - Cavour trascina la Francia alla guerra - Dichiarazione di guerra - Formazione del Corpi franchi Cavour e La Farina - Nota di Cavour all'Austria - Proclama di Vittotio Emanuele Primi movimenti in Toscana - Proposte d'alleanza fatte dal Piemonte alla Toscana - Rifiuto di questa - Dimostrazione militare a Firenze - Nuovo Gabinetto - Condizioni imposte al Gran Duca partenza del Gran Duca Governo provvisorio - Il proclama della rivoluzione - Requisizione di danaro e di cavalli - Offerta della Dittatura della Toscana al Re di Piemonte - Egli nomina un Commessario straordinario Cavour e il Marchese Gualterio - Lord Redcliffe all'Alta Camera - Una lettera di Carlo Boncompagni - Risposta di Lord Normanby - Il Conqueror a Livorno - Rimostranze di d'Azeglio a Saint - James - Risposta che n'ebbe - Proteste del Gran Duca - Rivolta a Parma - Proclama della Duchessa - Nomina di una Commissione governativa - La Duchessa a Verona - La Commissione è obbligata a dimettersi - Nomina del governo provvisorio - Suoi atti - Intima delle truppe alla Giunta - Questa abbandona il potere Restaurazione - I Piemontesi occupano Massa e Carrara - Nota del Duca di Modena - Ritiro dell'Ambasciatore piemontese - Gli Austriaci a Bologna dichiarano Io stato di assedio - Protesta del Pontefice - Lettera Circolare del Cardinale Legato di Bologna.

CAPITOLO VII.

Preparativi di guerra in Francia - Proclama di Napoleone al popolo francese - Gli Austriaci passano il Ticino - Posizioni degli eserciti nemici - Prime avvisaglie - Proclama dell'Imperatore del Francesi a Genova - Fazione atasteggio Battaglia di Montebello - Gli Austriaci abbandonano Casteggio - Cialdini alla Sesia - Garibaldi a Varese - Gli Austriaci abbandonano Como - Battaglia di Palestro - I Francesi a Novara Movimenti delle truppe alleate - Attacco al Ponte della Buflalora - Battaglia a Magenta - Descrizione delle feste fatte a Bari per lo sponsalizio di M Sofia con il Principe ereditario - Francesco 2° - Morte di Ferdinando 2° - Concordato della S. Sede col Portogallo - Enciclica del Papa per pubbliche preghiere.

CAPITOLO VIII.

Gli Austriaci evacuano Milano - Proclami di Napoleone e di Vittorio Emanuele - Combattimento a Melegnano L'armata Franco - Toscana marcia a Goito - Gli Austriaci evacuano l'Italia centrale - Proclama e partenza della Duchessa di Parma - Offerta al Re di Sardegna di Parma e Piacenza - Protesta della Duchessa di Parma - Il Duca di Modera istituisce una reggenza e parte - Commissari Sardi a Parma e Modena - Rivolta a Bologna Fatti di Perugia - L'Opinione e Fra Michelangelo da Perugia - Timori a Torino - Comunicato all'Ami de la Religion - Enciclica all'Episcopato sugli avvenimenti dello Stato Pontificio - Risposta del Papa al Sacro Collegio - Politica inglese! - Avvedutezza di Napoleone - Velleità della Russia - Battaglia di Solferino.

CAPITOLO IX.

I Sardi sotto Peschiera politica estera - Dispaccio di Cavour - Come la pensassero i gabinetti di Londra e di Germania - Un Dispaccio di Berlino - Commozione del cattolicismo francese. - Nota del Moniteur. Il Monitore di Bologna - Armistizio ed abboccamento del due Imperatori a Villafranca. - La pace. - Impressioni europee. - Dimissione di Cavour - La stampa inglese. - Discorso di Napoleone a Saint - CIoud - Un articolo del Moniteur - Arti del settari di Toscana - Una circolare significativa - Una protesta I commissari piemontesi partono dai Ducati, e dalle Romagne - Milano - Ricordi di Cesare Balbo La stampa milanese Fermezza del Vescovo di Bergamo - Aggressione armata al palagio Vescovile - Nota Circolare del Piemonte al gabinetti esteri politica del gabinetto di Torino - Protezionismo protestante in Toscana. - Propaganda di malcostume - L'Episcopato Toscano, e iI Ministero della rivoluzione Circolari governative - Lettera fiorentina al Times - Superbia del Farini - Persecuzione al Clero nei Ducati - Rivelazioni della Gazzetta di Lucerna - Deputazione delle Romagne a Vittorio Emanuela - Sua risposta - Preghiere ordinate dal Papa - Allocuzione Moxima animi nostri - Leonello Ciprigni a Bologna - Persecuzione violenta ai Cleri delle Romagne - Il commissario a Ferrara - Sue tirannidi.

CAPITOLO X.

La Guèrronniere e la politica imperiale - L'Associazione Unitaria di Torino - Proclama. - L'Istituzione Lettere di Cavour a La Farina, ed a Cantelli - Ministero rivoluzionario a Londra- Una lettera importante alla Gazzetta d'Augusta - Napoleone a Bordeaux - Indirizzo dell'Arcivescovo - Risposta dell'Imperatore - Commenti della stampa all'oggetto - Un dispaccio imperiale a Roma - Dichiarazione del Duca di Grammont - Passaporti dati a Roma al plenipotenziario Sardo - Circolare del Card. Antonelli - Trattato di Zurigo - Dimostrazioni dell'Episcopato, e della stampa cattolica.

LIBRO VII.

DALLA PUBBLICAZIONE DEL LIBRO LE PAPE ET LE CONGRÈS

ALLA PROCLAMAZIONE DEL REGNO D'ITALIA

CAPITOLO I.

Sotterfugi politici della Francia e del Piemonte - Reclami tra Napoli e Torino - Scioglimento del Corpi franchi - Opinioni discordi della diplomazia sull'Italia centrale - Le Pape et le Congres - Quali le proposte di quel libro? - Lettera dell'Imperatore al S. Padre - Risposta del Giornale di Roma - L'Univers pubblica un indirizzo dei Cattolici al S. Padretti augurii nel primo Gennaio - Propaganda del Constitutionnel - Dimissione di Walewski - ThouveneI al Ministero Proposta alla S. Sede per la cessione delle Romagne - Rifiuto dato dal Card. Antonelli - Napoleone e Mons. Sacconi Risale al potere il Conte di Cavour - Sua lettera circolare all'Estero Enciclica (Nullis certe) all'Episcopato Cattolico - Persecuzione al giornalismo cattolico in Francia.

CAPITOLO II.

Roma terra d'astio alla sventura - Ragguagli e rivelazioni sulla rivolta nello Stato Pontificio - Lettera di Re Vittorio Emmanuele al S. Padre - Risposta del Pontefice - Nota del Ministro Thouvenel - Dispaccio del Cardinale Antonelli. - Dispaccio di Thouvenel, e confutazione fattane da M. r Nardi - Nota Francese sui fatti d'Italia - Risposta di Cavour - Risoluzioni dell'Inghilterra - Lettere di Cavour.

CAPITOLO 3.°

Politica Napoleonica - Il suo discorso al Corpo Legislativo. - Il plebiscito dell'Emilia. - Farini ne porta a Torino la notizia officiale - Ricevimento che n'ebbe. - Decreto di annessione. - Annessione della Toscana. - Proteste del Duca di Modena; della Duchessa di Parma, e del Gran Duca di Toscana. - Protesta della 8. Sede. - Riconoscimento delle Potenze sui fatti compiuti - Una lettera di Vittorio Emanuele al Papa. Confidenziali tra Cavour ed Antonelli. - Lettera di S. S. Pio IX al Re di Sardegna Commozioni in Francia. - Napoleone si smaschera. - Discussione al Corpo legislativo. - Bolla di Scomunica Cum Catholica Ecclesia. - Inquietudini di napoleone. - Il Moniteur impedisce la pubblicazione della Bolla - Il Plebiscito di Nizza e Savoia - Arresto del Cardinale Corsi. - Lamarmora al Parlamento.

CAPITOLO IV.

Stato delle due Sicilie prima della rivoluzione - Primordi della rivoluzione - Come fu preparata - Cenni sulla Sicilia - Primi fatti a Palermo - Il convento della Gancia - Fatto d'arme - Errori del Generale Satriano - Combattimento a Carini - Stato di assedio a Messina - Fatti di Trapani - Proteste degli Ambasciatori Francese ed Inglese - Documenti - Lettera del Conte di Siracusa a Re Francesco 2° - I proclami rivoltuosi a Napoli - Proclama del Comitato di Torino - Proclama all'armata.

CAPITOLO V.

Soscrizione a Torino per aiuti alla Sicilia - Invito a Garibaldi di recarsi in Sicilia - Garibaldi a Quarto - Spedizioni Garibaldine da Genova - Il biglietto misterioso di Cavour a Persano - Un articolo del Giornale Ufficiale di Torino - Organizzazione del Corpo Garibaldino - Zambianchi a Talamone - Proclama ai Romani Sbarco a Marsala - Lo Stromboli fa fuoco - Proteste inglesi - Proclama di Garibaldi in Sicilia - Dimostrazione a Palermo - Stato di assedio - Fatto d'armi a Calatafimi - Landi si ritira - Garibaldi ad Alcamo - Le bande Garibaldine marciano su Palermo - Fatto d'armi a Monreale - Morte di Rosolino Pilo - Rotta del Garibaldini - Nota del Gabinetto di Napoli a Torino - Risposta del Conte di Cavour - Arti della rivoluzione - Proclama di Lanza a Palermo - Risposta del Comitato - Combattimento al Parco - Turr ripara disfatto alla Piana del Greci - I regi assaltano Corleone - Fuga di Orsini - Garibaldi a Gibilrossa - Inqualificabile condotta di Lanza - Giudizio del Rustow - Bosco a Palermo - Perché si ritirasse - Colloquio tra Lanza e Garibaldi - Il banchetto del 30 Maggio - Consegna del Palazzo del Banco e delle Finanze a Crispi - Sgombro del regi da Palermo - Il Ministero rivoluzionario a Palermo - Due vapori d'insorgenti piemontesi son fatti prigioni dal Fulminante Nuove spedizioni piemontesi Fatti di Catania Fermezza del General Clary Fatto d'arme Provvedimenti militari di Garibaldi - Combattimento a Milazzo - Tradimento di Amilcare Anguissola - Come fu ceduta la fortezza di Milazzo - Capitolazione della piazza di Messina, restando la cittadella a' Regi.

CAPITOLO VI.

Il Governo di Napoli abbandona la Sicilia - Lettera di Cavour a La Farina - Nota francese a Torino - Cavour sconfessa la sua complicità! - Atto Sovrano del 25 Giugno - Proclama del Comitato Centrale. - Liborio Romano Prefetto di Polizia - Cenni biografici - Proclama di Liborio Romano - Come coadiuvasse la rivoluzione - Proclama rivoltuoso alla squadra - La nuova polizia - Ambasciatori Napoletani a Torino - Conferenza con Cavour - Lettera del Re Vittorio Emanuele a Garibaldi - Risposta di Garibaldi - I misteri del Gabinetto Cavour - - Lettere di Cavour a Persano - Alessandro Nunziante si dimette - La Duchessa di Mignano - Proclama di Nunziante alle truppe - Mancini e Poerio nel Parlamento Subalpino - Uno scritto di Settembrini ai Napolitani - Esilio del Conte di Aquila - Lettera del Re - Tentativi per l'annessione della Sicilia al Piemonte - Negativa di Garibaldi - Dimissione del Ministero Siciliano - Son convocati i Collegi - Lettera di Cavour a La Farina - Arresto di La Farina - I partiti a Napoli.

CAPITOLO VII.

Cavour invia un milione di lire a Garibaldi esortandolo a passare sul continente - Il nuovo intendente a Reggio (Calabria). - Sbarco di Garibaldi in Calabria. - È battuto a Bagnara - Briganti capitola senza colpo tirare - Il Bollettino del Comitato d'Ordine - Ruiz chiede aiuti a Cosenza. - Non ne ha risposta. - Morte di Briganti - Il Gen Caldarelli capitola con il Comitato e cede Cosenza. - Proclami in Calabria Appello di Garibaldi alle truppe regie - Insurrezione in Basilicata - Resistenza del Maggiore Castagna - Governo Provvisorio, e suoi decreti - Sbandamento del 6.° di Linea inviato a Potenza - Sollevazione a Bari - Defezione del Generali Flores, Ghio, Galloni, e Caldarelli - La squadra piemontese a Napoli - Lettera di Francesco 2° a Napoleone. - Memorandum di Liborio Romano al Re - Proclama del Comitato di Napoli Dimissione del Ministero - Il Ministero Ulloa non può costituirsi - Liborio Romano resta al potere - Dimissioni di Generali in massa - Il Re si decide ad abbandonare la Capitale - Un'altra lettera del Conte di Siracusa - Il Re parte per Gaeta - Proclama Reale - Governo provvisorio a Napoli - Tre documenti della politica di Liborio Romano - Garibaldi giunge a Napoli ricevuto da Liborio Romano - Il Generale Garzia cede il forte S. Elmo alla Sangiovannara.

CAPITOLO VIII.

I Decreti dittatoriali - Confisca del beni della Famiglia Reale di Napoli - Liborio Romano esautorato dal potere - La reazione nelle province napolitane - Cavour si mostra a volto scoperto - Dualismo tra Cavourristi e Mazziniani - Una lettera di Garibaldi - Il Ministro minaccia dimettersi - Nuovo ministero in Sicilia - Politica di Cavour - Le bande insurrezionali in Romagna - Cavour e Gualterio - Farini e Napoleone 3° - Ultimatum del Conte di Cavour alla Corte Pontificia - Nota del Gen. Fanti a Lamoricière - Risposta del Cardinale Antonelli - Giudizio di un autore tedesco sull'intervento Piemontese nelle Romagne - Le note di Napoleone 5° Ordine del giorno di Cialdini da Rimini - Memorandum di Cavour ai Gabinetti esteri.

CAPITOLO IX.

L'esercito pontificio- La Francia assicura al Governo Pontificio l'inviolabilità del territorio Situazione dell'esercito pontificio - Cialdini entra sul territorio del Papa - Le bande garibaldine invadono le Romagne - Masi ad Orvieto - Lamoricière e la politica francese - Ordine del giorno del Generale Fanti - Bombardamento di Pesaro - Il Generale Zappi fa capitolazione - Una lettera - documento - Un dispaccio dell'Imperatore al governo pontificio - Pimodan guada il Musone - Brillante combattimento alle Cascine - Combattimento di Castelfidardo - Morte di Pimodan - Assedio al castello di Spoleto - Cortesia del Gen. Brignone - O' Reilly capitola dopo ostinata resistenza - L'Assedio di Ancona - Persano apre il bombardamento - Assalto alla Lunetta di S. Stefano - Capitolazione di Ancona - Ordine del giorno di Fanti e di Penano - Le vittorie piemontesi opere di Napoleone 3° - Restituzione di Viterbo al Papa - Lettere di Goyon al Gonfaloniere di Viterbo - Risposta della Giunta.

CAPITOLO X.

Posizione delle bande Garibaldine a Capua - Prime avvisaglie tra regi e garibaldini - I regi riprendono Cajazzo - Combattimento a Monte Vairano - I regi guadano il Velturno - Combattimento di 8. Maria e di S. Angelo - I regi guadagnano le alture di Saot'Angclo - Garibaldi chiama la riserva - Combattimento a Sant'Agata - Trista condizione dei rivoltuosi - Cavour e il suo noi siamo l'ItaIia. - Una lettera di Giuseppe Giusti a Maizoni - Proclama del Comitato Napolitano a Re Vittorio Emanuele - I partiti a Napoli - Giorgio Pallavicini Pro - Dittatore a Napoli - Suo proclama - Conforti al Ministero - Una lettera della Marchesa Pallavicino - Conforti sostiene gli annessionisti - Garibaldi consente l'annessione di Napoli al Piemonte - Ordine del Giorno di Garibaldi che annunzia l'intervento delle truppe piemontesi - Petizioni per l'annessione - Comunicazione del Gabinetto di Torino all'Ambasciatore Napolitano - Risposta dell'Ambasciatore Winspeare.

CAPITOLO XI.

Le truppe Piemontesi sul territorio Napolitano - Sortita del regi contro le posizioni di S. Angelo - Combattimento al Macerone - Abboccamento tra Cialdini e Salzano - Assedio di Capua - Il 1° Novembre - Capitolazione di Capua - Proclama di Vittorio Emanuele ai Napolitani - Entrata di Vittorio Emanuele a Napoli - Il Rustow ne fa la descrizione - Giudizio di Cavour sui settari Napolitani - Reazione e Brigantaggio - Vittorio Emanuele accetta il plebiscito con un proclama - Garibaldi si ritira a Caprera - La petizione del Napolitani rivoluzionari al Re - Scioglimento delle bande garbaldine.























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