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Alcuni articoli di Roberto Maria Selvaggi
tratti da "Il Sud quotidiano"




Fonte:
“Il SUD Quotidiano” del 8/2/97

Quei piccoli eroi di Gaeta

di Roberto Maria Selvaggi

Il 7 settembre 1860 alla Nunziatella regnava una grande agitazione: la notizia che il Re aveva raggiunto Gaeta e che l’esercito avrebbe tentato un’ultima difesa sulla linea del Volturno, nonostante i silenzi di molti ufficiali ed istruttori, era trapelata. Alcuni dei ragazzi decisero di fuggire dal collegio per raggiungere il loro Re e per poter partecipare all’ultima difesa.

I loro nomi non possono essere dimenticati, perché rappresentano sentimenti e valori che non hanno confini: il loro esempio sarebbe stato di grande aiuto al popolo meridionale, molto più che il ricordo di Garibaldi e di Cavour. Noi non possiamo ricordare come eroi positivi solo quelli che, venuti da fuori, ci avrebbero “liberato”.

Furono invece cancellati dalla storia.

I due fratelli Antonio ed Eduardo Rossi, 17 e 14 anni, erano figli di un ufficiale morto nella campagna di Sicilia del 1848. Un giornalista francese presente a Gaeta durante l’assedio li ricorda così: “Ho incontrato stasera su una batteria un sottotenente di 15 o 16 anni che serviva ai pezzi con due soli uomini per quattro cannoni, caricando, puntando e tirando con rabbia. Questo bravo ragazzo si chiama Rossi ed ha un fratello che, come lui, si è distinto durante l’assedio”. Eliezer Nicoletti, 17 anni, figlio del maggiore di fanteria che sbaragliò i garibaldini di Pilade Bronzetti alla battaglia del Volturn o, Ludovico Manzi, 17 anni, Ferdinando de Liguoro, figlio del colonnello comandante il 9° Puglia, reggimento da lui condotto da Capua a Napoli con i garibaldini ormai padroni della città. Dopo la resa fu come gli altri vessato e maltrattato.

Non riconosciuti a questi ragazzi nemmeno i gradi acquisiti sotto il loro legittimo Re.

De Liguoro emigrò in Austria, dove fu ammesso nell’esercito e combatté anche a Custoza contro i piemontesi nel 1866. Alfonso Scotti Douglas, 11 anni, il più giovane di questi ragazzi, figlio del generale di origine parmense Luigi, fu adibito ai lavori del genio nella piazza di Capua.

Carmine Ribas, 18 anni, che raggiunse l’anziano padre di stanza a Gaeta, fu anch’egli adibito ai lavori del genio nella piazza di Capua.

Francesco e Felice Afan de Riviera, 17 e 16 anni, figli del generale Gaetano, raggiunsero i fratelli maggiori che combattevano a Capua. Anch’essi dopo Gaeta emigrarono in Austria e Felice abbracciò in seguito la vita religiosa entrando in convento a Napoli, dove morì nel 1924.

Francesco Pons de Leon, 18 anni, raggiunse il padre, maggiore in servizio nella piazza di Gaeta e operò lui pure come semplice servente ai pezzi di una batteria.

Ferdinando Ruiz, 17 anni, nipote del generale Vial, fra mille peripezie riuscì ad arrivare a Gaeta solo nel gennaio 1861. Ferdinando e Manfredi Lanza, 17 e 16 anni, figli di un ufficiale del genio, si comportarono da piccoli eroi a Gaeta e Ferdinando, l’ultimo giorno d’assedio, fu colpito da una granata che gli troncò di netto un piede.

Infine Carlo Giordano, 17 anni, orfano da pochi mesi del padre, generale napoletano. Fuggì dalla Nunziatella il 10 ottobre, dopo i suoi compagni.

Durante l’assedio servì alla batteria Malpasso con abnegazione e coraggio, supplendo all’inesperienza con la forza della sua giovane età e con l’entusiasmo di chi difende la propria Patria da una vile aggressione.

L’11 febbraio 1861 iniziarono le trattative di resa della piazza di Gaeta. Il generale Cialdini preferì non interrompere il bombardamento, anzi lo intensificò perché, come scrisse a Cavour, naturalmente in francese, “le bombe fanno ragionare male e diminuiscono le condizioni richieste”.

Poche ore prima della firma della capitolazione, il 13 febbraio 1861, scoppiò con un tremendo boato il deposito di munizioni della batteria Transilvania, che travolse uomini e cose e distrusse la batteria servita da Carlo Giordano. Fu l’ultima vittima di una inutile ferocia e di una assurda guerra civile.

I suoi resti non furono mai trovati, ma il suo ricordo deve rimanere nei cuori dei meridionali perché il suo sacrificio non sia dimenticato.

Da nessuna parte, né a Gaeta né altrove esiste una lapide che ricordi questo ragazzo che, a torto o a ragione, considerò il Regno delle Due Sicilie la sua Patria.

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Fonte:
“Il SUD Quotidiano” del 14/2/98

Il 13 febbraio 1861 a Gaeta 

finivano tragicamente la libertà e l’indipendenza dell’antico e prospero Regno del Sud

Con la caduta della piazza dove per tre mesi 10000 napoletani con alla testa i loro giovani sovrani si erano eroicamente battuti di fronte all’intero esercito piemontese, iniziava una tragica parabola che in breve avrebbe trasformato una Nazione in una Colonia

di Roberto Maria Selvaggi


Alle tre del mattino del 2 novembre 1860 l’esercito napoletano, o almeno quel che ne rimaneva di quell’armata che dai primi di settembre combatteva una guerra estenuante, dovette abbandonare le posizioni lungo il fiume Garigliano.

La flotta francese, che aveva impedito a quella piemontese di cannoneggiare la costa, dovette all’improvviso ritirarsi: Cavour aveva un’altra volta convinto Napoleone III a desistere dal proteggere i napoletani.

Amm. Le Barbier de Tinan

L’ammiraglio francese Le Barbier de Tinan, che nutriva un profondo disprezzo per i piemontesi e per la loro barbara aggressione, dovette suo malgrado obbedire, ed ottenere soltanto di presidiare l’area antistante Gaeta.

Non mancò però di togliersi la soddisfazione di tirare qualche bordata contro le navi piemontesi che sconfinavano.

La flotta piemontese fu rafforzata da unità napoletane i cui ufficiali erano passati al nemico, equipaggiate da personale piemontese raccogliticcio, a causa della fedeltà assoluta dimostrata dai marinai napoletani che si recarono in massa a Gaeta.

Una batteria di artiglieria fu messa in campo in tutta fretta sulla vecchia torre di Formia al comando di un ufficiale svizzero, il capitano Enrico Fevot e del suo sottoposto tenente Casimiro Brunner: morirono tutti, ufficiali e soldati, ma prima di soccombere riuscirono a danneggiare gravemente alcune navi piemontesi.

A Mola si svolse una prima battaglia, nella quale i napoletani difesero palmo a palmo il passaggio, consentendo a buona parte dell’esercito di prendere la strada per Itri e Fondi.

In quella furiosa battaglia fu ferito gravemente l’anziano capitano del 10° cacciatori, Ferdinando De Filippis, che morirà in ospedale il 21 novembre dopo una straziante agonia.

Ristretti ormai al campo di Montesecco, antistante Gaeta, i napoletani per tre giorni e tre notti tennero le posizioni contro un esercito che li sovrastava in uomini e materiali, perdendo ben 2400 uomini tra morti, feriti e prigionieri.

Re Francesco allora comandò che l’esercito entrasse nella piazza, e a questo punto iniziò il vero e proprio assedio di Gaeta, una pagina che lascerà al popolo napoletano la memoria di una fine gloriosa e dignitosa, che rimarrà di esempio per i posteri.

Dal 12 novembre 1860 al 13 febbraio 1861 diecimila uomini decimati dalle fatiche, dai bombardamenti e dal tifo resistettero, senza mai piegarsi, ad un assedio condotto da vili quali furono gli uomini di Enrico Cialdini.

Con l’impiego dei modernissimi cannoni rigati, l’ex avventuriero romagnolo, divenuto generale piemontese, poté dalla sua comoda poltrona sul terrazzo della modesta villa privata comprata da Ferdinando II a Mola, far bombardare senza essere colpito la piazza ed i suoi abitanti.

La presenza del Re e della Regina fu determinante per tenere sempre alto il morale della guarnigione. La fedelissima isola di Ponza rifornì incessantemente la piazza di vettovaglie e generi vari, per mezzo dei suoi pescatori che mai dimenticarono che la loro stessa esistenza era dovuta alla lungimiranza dei Borbone, che colonizzarono l’isola a spese dello Stato.

Il maggiore Pietro Quandel fu incaricato di tenere il giornale degli avvenimenti dell’assedio e, grazie al suo lavoro poi pubblicato a Roma, abbiamo i particolari giornalieri di quell’avvenimento.

Il 29 novembre all’alba con una colonna di 440 soldati uscì dalla cittadina per compiere una importante ricognizione, onde scoprire lo stato di avanzamento dei lavori del nemico. Comandava la colonna il Tenente Colonnello dello stato maggiore Aloysio Migy, svizzero ormai naturalizzato napoletano.

Compiuta l’operazione nel più assoluto silenzio, il distaccamento si apprestava a rientrare nella piazza quando il nemico si accorse della loro presenza, ed attaccò la colonna con forze nettamente superiori. Migy si batté da leone, finché non fu colpito mortalmente da una scarica di fucileria insieme a tre suoi soldati.

Il Re volle che gli fossero tributati i massimi onori, e lo fece tumulare nel Duomo.

Il 2 dicembre partì da Gaeta, non senza protestare, l’ottantenne Tenente Generale Pietro Vial, indomito soldato, al quale il Re volle evitare, a causa dell’età avanzata, le immani fatiche dell’assedio. Vial morirà in Roma, in esilio, alcuni anni dopo, ed è sepolto nella Chiesa della Nazione Napoletana, in via Giulia.

Il governo della piazza fu assunto dal Brigadiere Gennaro Ma rulli, ufficiale giovane ed esperto.

Il 4 dicembre il Re emanò un proclama ai soldati, nel quale li incoraggiava a dimostrare il loro valore ed a difendere la causa del diritto e l’onore della Bandiera napoletana: “Voi avete ad emulare una guarnigione più antica quale è quella che nel 1806 resistette con impareggiabile valore agli attacchi dei primi soldati del mondo”.

L’inverno del 1860 fu fra i più freddi del secolo. Neve pioggia e vento battente flagellarono le coste tirreniche, ma il vero nemico della guarnigione fu il micidiale tifo, che si manifestò ai primi di dicembre e che mieterà un numero impressionante di vittime civili e militari, tra cui i generali i generali de Sangro, Ferrari e Caracciolo di San Vito.

Il generale Antonio Ulloa fu inviato a Marsiglia per trattare la vendita di tre navi militari ferme in quel porto per riparazioni. Con i denari ricavati si poté dare un po’ di sollievo alla guarnigione ed ai suoi ospedali ricolmi di feriti.

Il governo piemontese tentò di impedire la vendita sostenendo che i piroscafi erano ormai di sua proprietà, ma i tribunali francesi giudicarono diversamente, proclamando che l’unico Re delle Due Sicilie si trovava ancora sul suo territorio, ed era solo vittima di una vergognosa aggressione.

Il 14 dicembre venne ridotto drasticamente l’organico della guarnigione che era in assoluta sovrabbondanza, molti corpi furono sciolti e gli uomini inviati nello Stato Pontificio.

Rimasero così nella piazza fino al termine 994 ufficiali ed impiegati e 12219 soldati.

Il 20 dicembre gli ufficiali inviarono al Re un messaggio, nel quale ribadirono la loro ferma intenzione di resistere ad oltranza, per tener fede al giuramento dato: “Signore, in mezzo ai disgraziati avvenimenti, dei quali la tristizia dei tempi ci ha fatto spettatori afflitti ed indignati, noi sottoscritti Ufficiali della Guarnigione di Gaeta, uniti in una ferma volontà, veniamo a rinnovare l’omaggio della nostra fede innanzi al trono di V. M. renduto più venerabile e più splendido dalla sventura.

Nel cinger la spada noi giurammo, che la bandiera confidataci da Vostra Maestà sarebbe stata da noi difesa anche a prezzo di tutto il nostro sangue: noi intendiamo restare fedeli al nostro giuramento. Quali che sieno per essere le privazioni, le sofferenze, i pericoli, ai quali la voce dei nostri Capi ci chiami, noi sacrificheremmo con gioia le nostre fortune, la nostra vita ed ogni altro bene pel successo o pei bisogni della causa comune. Gelosi custodi di quell’onor militare che, solo, distingue il soldato dal bandito, noi vogliamo mostrare a V. M. ed all’Europa intera che, se molti dei nostri col tradimento o con la viltà macchiarono il nome dell’Esercito Napoletano, grande fu anche il numero di quelli che si sforzarono di trasmetterlo puro e senza macchia alla posterità.

Sia che il nostro destino si trovi presso a decidersi, sia che una lunga serie di lotte e di sofferenze ci attenda ancora, noi affronteremo la nostra sorte con rassegnazione e senza paura; noi andremo incontro alle gioie del trionfo o alla morte dei bravi con la calma fiera e dignitosa che si conviene a soldati, ripetendo il nostro vecchio grido VIVA IL RE”.

Il 7 gennaio il Re, la Regina ed i Principi Reali Conti di Trani e Caserta dovettero abbandonare i palazzi nei quali erano stati ospitati, perché i colpi nemici li avevano ripetutamente danneggiati, e si trasferirono tutti in una modesta casamatta della batteria Ferdinando.

Per iniziativa dell’imperatore francese Napoleone III fu stabilita una tregua dall’8 al 19 gennaio, in considerazione della partenza della flotta francese, che da quel giorno non avrebbe più garantito la città dal mare.

Scopo dell’armistizio era quello di convincere Francesco II ad abbandonare Gaeta, avendo ormai salvato l’onore.

Pochi giorni prima del suo scadere i rappresentanti diplomatici di Austria, Prussica, Sassonia, Baviera, Belgio, Paesi Bassi, Portogallo, Brasile, Toscana, Russia e Stato Pontificio raggiunsero Gaeta per presentare i loro omaggi al Re. Nonostante gli ordini dei loro governi rimasero nella piazza a sopportare i disagi ed i pericoli dell’assedio solo i ministri di Spagna, Austria, Baviera, Sassonia ed il Nunzio Apostolico.

Il 15 gennaio Francesco II, all’approssimarsi della scadenza della tregua e della partenza della flotta francese, scrisse una nobile lettera all’Imperatore, che lo esortava a cedere: “Come cedere, quando in tutte le province del mio Regno con sentimento spontaneo si insorge contro la dominazione piemontese? Il mio diritto è ora il solo mio patrimonio, ed è mestiere che per difenderlo io mi faccia seppellire, se necessario, sotto le fumanti rovine di Gaeta. Ho fatto ogni sforzo per persuadere S. M. la Regina a separarsi da me. Ella vuole dividere con me la mia fortuna, consacrandosi alle cure degli ammalati e dei feriti. Da questa sera Gaeta conta nelle sue mura una suora di carità in più”.

Il 22 gennaio, unilateralmente, i napoletani decisero di riaprire il fuoco. Alle 8 del mattino un colpo della batteria Regina dette il segnale: fu una giornata memorabile.

La flotta piemontese dovette allontanarsi per i danni che i colpi della piazza le avevano inferto: oltre 10000 colpi furono sparati dai napoletani, a dimostrazione che non si sarebbero arresi.

Il nemico ne sparò oltre 18000, ma il morale napoletano rimase alle stelle. Ad ogni colpo echeggiava il grido VIVA IL RE, e le bande militari intonavano l’inno di Paisiello. Ad ogni colpo mancato dal nemico una selva di uomini aveva ancora il morale ed il coraggio di fare gesti irripetibili dall’alto dei parapetti delle batterie.

L’11 febbraio il Re prese la decisione di interrompere la carneficina. Il colonnello Delli Franci fu inviato a parlamentare, ed a presentare una proposta di armistizio cui far seguire una vera e propria capitolazione.

Ormai i piemontesi tiravano soltanto da molto lontano, e non prendevano mai l’iniziativa di assaltare la piazza: “li prenderemo per fame” scrisse Cialdini a Cavour, naturalmente in perfetto francese visto che l’italiano non era molto contemplato da questi signori.

Quando iniziarono le trattative il vile assassino Cialdini non volle interrompere i bombardamenti, anzi li rinnovò con maggiore accanimento perché “sotto il tiro dei cannoni cederanno a condizioni più vantaggiose per noi”, scriveva ancora il generale a Cavour.

Fu così che a capitolazione già firmata venne centrata la polveriera della batteria Transilvania, dove morì l’ultimo difensore di Gaeta. Un ragazzo di sedici anni, Carlo Giordano, fuggito dalla Nunziatella per difendere la sua Patria. Egli non ha degna sepoltura, come non la hanno i tremila altri caduti di caduti di Gaeta perché, è bene saperlo, solo nel 1881 i parenti dei generali de Sangro e Caracciolo ebbero l’autorizzazione di apporre i nomi dei loro congiunti su di una lapide commemorativa.

I poveretti, gli umili, stanno ancora sotto la terra di Gaeta, magari nelle fondamenta di qualche nuovo ed orrendo palazzo costruito dai barbari che l’hanno calpestata dopo la resa.

La memoria dell’assedio e della sua meravigliosa difesa non passerà… Gaeta è stata punita più volte per la sua fedeltà a prova di bomba: è stata un famoso carcere militare, è stata retrocessa da vicecapoluogo provinciale a città qualsiasi, ed infine forzatamente collocata nel Lazio, in provincia di Latina.

La partenza del Re quella notte del 14 febbraio fu la prima di una serie di milioni di partenze di meridionali alla ricerca della dignità e di un futuro non di fame nera.

E’ bene non dimenticarlo.

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Fonte:
“Il SUD Quotidiano” del 21/3/98

La storia mai raccontata dell’eroica difesa di Civitella

Il 22 marzo 1861 cadeva, dopo sei mesi di strenua  ed indomita resistenza la piazzaforte di Civitella del Tronto, dove si erano asserragliate poche centinaia di soldati napoletani,  che con l’aiuto dei montanari abruzzesi tennero alta la Bandiera delle Due Sicilie

di Roberto Maria Selvaggi


Nella primavera del 1860 la vita trascorreva serenamente a Civitella del Tronto. Un corpo di spedizione perfettamente organizzato percorreva gli Abruzzi in lungo e in largo, al comando del più giovane generale dell’esercito napoletano: Giuseppe Salvatore Pianell.

Carlo Filangieri, ministro della guerra del primo governo di Francesco II, lo aveva voluto organizzare per sorvegliare la frontiera con lo Stato Pontificio, anche per prevenire una eventuale invasione garibaldina da quella direzione. La vita della Real Piazza di Civitella del Tronto si era così improvvisamente rianimata: reparti di passaggio, buoni affari per le locande, lavori di riparazione e di riassetto della fortezza e delle mura.

Per secoli Civitella fu la sentinella della frontiera napoletana a nord. Nel 1860 la sua importanza era scemata a causa della costruzione della strada litoranea, che la tagliava fuori della comunicazione con il Regno. Proprio a causa della ispezione del generale Pianell il comandante, colonnello Vallese, era stato richiamato e sostituito in tutta fretta dal maggiore Luigi Ascione, come si evince dai ruoli militari del 1860.

Con lui erano il Comandante in seconda Maggiore Salvatore Salinas, il Capitano Aiutante Maggiore Raffaele Tiscar, il Primo Tenente Pasquale Le piane, allontanato per viltà dal 10° Abruzzo e terzo qui al comando della Quattordicesima compagnia di fanteria di riserva, 142 uomini e l’Alfiere Raffaele Giudice, che comandava cento uomini dell’ottava compagnia del primo reggimento veterani. Quaranta uomini al comando dell’aiutante Giuseppe Santomartino componevano il distaccamento di artiglieria.

Il capitano del genio Menzingher era passato al nemico il 7 settembre.

A prima vista dunque una sorta di accozzaglia di anziani soldati e di ufficiali di secondo ordine, mandati nella lontana fortezza di frontiera. Ma un episodio cambiò il volto della guarnigione: il 4 settembre il comandante delle armi in Abruzzo, generale Luigi De Benedictis, già venduto al nemico, decide di compiere alcuni avvicendamenti per agevolare le forze rivoluzionarie nella regione. Questo anziano trombone, nato a Foggia nel 1793, era uscito dalla Nunziatella nel 1814 come sottotenente. Non aveva mai combattuto in vita sua, e si era trovato alla sciagurata battaglia di Antrodoco nel 1821 come ufficiale del genio.

Rimasto miracolosamente in sella con la reazione, fu capace di repentini mutamenti, entrando poi nelle grazie del generale del Carretto, e distinguendosi solo in repressive operazioni di polizia.

Dopo una carriera trascorsa a navigare con qualsiasi mare, fu inviato in Abruzzo alla promozione a Generale.

Quando il generale Pianell giunse nella regione nel luglio 1859, De Benedictis comprese quel che sarebbe accaduto e cambiò di nuovo e circospettamente casacca. A Teramo, nell’estate del 1860, stanziavano alcuni reparti del 3° battaglione della Gendarmeria Reale, un corpo simile agli attuali Carabinieri, compatto e fedele alla dinastia. Per levarseli di torno il De Benedictis ordinò il loro trasferimento nella Piazza di Civitella.

Ebbe poi la sfacciataggine di comunicare a Gaeta le dimissioni sue e dei suoi figli. Il 15 settembre a Gaeta fu condannato a morte in contumacia per diserzione e viltà.

Se di questi provvedimenti si fosse fatto uso dopo Calatafimi, forse oggi racconteremmo un’altra storia.

Quando Vittorio Emanuele II entrò in Abruzzo il De Benedictis andò ad accoglierlo, e si sperticò in mielose e stomachevoli manifestazioni di giubilo. Il Re sabaudo, per contro, trattandolo come una pezza da piedi arrivò persino a chiedergli se avesse mai fatto la guerra.

Comunque il nostro riuscì ad ottenere il passaggio nell’esercito italiano, nonostante la proibitiva età.

Il comandante dei gendarmi trasferiti a Civitella insieme ai suoi 380 uomini era Giuseppe Giovane, 60 anni di età e 44 di servizio. Da volontario di cavalleria nel 1817, l’anno successivo passò all’arma di artiglieria, percorrendo tutti i gradi della carriera prima da sottufficiale e poi da ufficiale; nel 1841, da poco promosso, era passato alla Gendarmeria.

Giovane aveva subito preso cognizione della grave situazione di disciplina e di armamento della piazza, e aveva operato con fermezza nei confronti del comandante Ascione, perché la fortezza fosse posta in stato di difesa. Il 7 settembre Garibaldi entrava in Napoli, ed il governo napoletano si trasferiva a Gaeta per preparare l’ultima resistenza.

Il 9 settembre venne affisso nella Piazza abruzzese, a firma del comandante Ascione, un bando militare con cui si comunicava lo stato d’assedio.

Il comandante militare borbonico di Teramo, generale Agostino Veltri, che aveva aderito al nuovo governo degli invasori, ordinò all’Ascione di cedere la Piazza alle forze rivoluzionarie. Anche quest’altro anziano campione di camaleontismo, nato a Forenza in Basilicata nel 1795, si descrive benissimo in varie fotografie dell’epoca: capelli tinti, forse in omaggio a Vittorio Emanuele, e sul petto un’accozzaglia di decorazioni miste borboniche e piemontesi, tanto per non rinunciare a niente e per dare buon esempio del praticissimo adagio “Comunque vada, me la cavo”.

Il consiglio di difesa della Piazza era ormai nelle mani del Capitano Giovane, e l’ordine fu rigettato: i rivoluzionari teramani tentarono di corrompere i soldati, come era uso da parte dei “liberatori”, ed il capo garibaldino Tripodi si recò ad incontrare l’Ascione per “far arrendere col denaro quei miserabili ivi rinchiusi”.

Ascione rifiutò e chiese ordini a Gaeta; questi giunsero immediatamente, con le istruzioni perentorie di prolungare ad oltranza la difesa della Piazza. Intanto iniziava spontanea e feroce la guerriglia: i contadini abruzzesi, realisti da sempre, come nel 1799 e nel 1806 si organizzarono in bande che battevano l’intera regione, opponendosi con tutti i mezzi all’invasione piemontese.

In proposito così scrisse un autore indiscutibilmente liberale come Marc Monnier sulla vicenda abruzzese: “Furono invasi con violenza i villaggi, rovesciate le autorità, assaltate le cose, scannati i liberali: tuttavia sarebbe ingiusto assimilare questi movimenti al brigantaggio. Legalmente parlando i montanari degli Abruzzi usavano del loro diritto”. Nel mese di ottobre insorsero numerosi comuni, dove i contadini impedirono lo svolgimento del plebiscito farsa, e l’episodio di Campli, un piccolo paese limitrofo a Civitella, è sintomatico del clima di quei giorni.

Un plotone di guardie nazionali si scontrò con una colonna di contadini armati, uccidendone il capo, Pietro Diodati. Il consiglio d’assedio della Piazza decise allora di effettuare una sortita armata per punire i rivoluzionari che avevano invaso il Paese.

Al comando del capitano Giovane e dei tenenti Le Piane e Giudice tre colonne di gendarmi e di contadini armati mossero su Campli: i rivoluzionari fuggirono verso Teramo, lasciando un gran numero di fucili e di cavalli.

In pochi giorni tutti i paesi vicini si ribellarono, e la bandiera napoletana tornò a sventolare su Campli, Nereto, Controguerra, Torrano e Corropoli. La repressione però non si fece attendere molto: il 2 novembre giungono in zona le prime truppe di occupazione piemontesi.

Sono 500 uomini, che si aggiungono ad altrettanti garibaldini al comando del maggiore Carrozzi.

Il governo provvisorio garibaldino emana un’ordinanza che fa già prevedere che fine faranno tutti quelli che non si uniformeranno all’occupazione: “Gli attruppamenti saranno dispersi con la forza. I reazionari presi con le armi alla mano saranno fucilati. Gli spargitori di voci allarmanti saranno considerati come reazionari e arrestati e puniti militarmente e con rito sommario”.

Ogni comunicazione con la Piazza di Civitella sarà senza meno punita con la morte. Inizia, prima da parte dei collaborazionisti e in seguito da parte degli invasori, il massacro dei meridionali.

La Piazza viene posta in stato di blocco, ma le bande partigiane molesteranno per lungo tempo gli assedianti, causando loro innumerevoli perdite.

Beniamino Di Pietro da Campli, Vincenzo Palmieri da Canzano, Giuseppe Padre da Cermignano, Giobbe Sbardella da Castellalto, Domenico Di Girolamo da Corropoli, Antonio Cucciola da Nereto, Pasquale Clemente da S. Omero, Bonaventura Di Zopito da S. Egidio, Eugenio Capone da Tortoreto e Generoso Volpi da Valle Castellana. Questi i nomi dei capi delle bande che, nonostante la cancellazione violenta della memoria storica e delle loro vite, ci sono stati tramandati dalla tradizione orale degli abitanti, e dai bandi da cacciatori di taglie dei piemontesi.

Ma il Capitano Giovane non rimane inerte ad aspettare che i nemici ingrossino le loro fila e compie alcune sortite. Il 1° dicembre i soldati della Piazza, di concerto con le bande partigiane attaccano i piemontesi, ma vengono respinti. Di sorpresa due giorni dopo la sortita si ripete, e con l’appoggio del fuoco d’artiglieria della fortezza, i reparti sardi vengono sgominati.

A questo punto entra in campo una sorta di belva senza alcuna pietà umana, degno rappresentante di quella progenie di barbari che ha invaso e martoriato il Regno delle Due Sicilie. Ferdinando Pinelli, piemontese doc, comandante militare negli Abruzzi, che giunge nella zona con tre compagnie di bersaglieri, una di fanteria e dieci cannoni, per “bonificare la zona”, come lui stesso amava dire.

Insieme all’invito ad arrendersi il 6 dicembre 1860 iniziano le minacce da bravaccio di terz’ordine: “se non vi arrendete non vi rimarrà che morire di fame o di essere passati a fil di spada”. Le spie napoletane raccontarono ai soldati della Piazza che il Pinelli avrebbe comunque massacrato la guarnigione anche in caso di resa, e questo costrinse il maggiore Ascona a declinare l’invito.

Per una ventina di giorni la Piazza fu bombardata continuamente, ma seppe rispondere all’assediante danneggiando molti cannoni. Per un errore di presunzione il Pinelli trasferì alcuni reparti ad Ascoli sguarnendo la difesa, e subito, il 21 dicembre il capitano Giovane, con 200 paesani armati e 100 gendarmi, effettuò una sortita che ebbe effetti micidiali sulla truppa piemontese ricoverata nel convento di S. Maria dei Lumi, con due ufficiali e 13 soldati morti.

Fino al 12 gennaio la situazione fu costellata da attacchi giornalieri da parte delle bande partigiane alle spalle dei piemontesi. Fu poi stipulato un armistizio che durò alcuni giorni, per un tentativo piemontese di giungere ancora una volta ad una resa.

Il fatto nuovo fu l’arrivo di un messaggio da Gaeta, anch’essa assediata, da parte di Francesco II. Questo messaggio, datato 17 gennaio, galvanizzò la guarnigione: “Un pugno di bravi, issando l’avito ed immacolato vessillo, combatte l’ira della rivoluzione e la più vile delle nemiche aggressioni. Sia a duratura gloria l’eroico vostro comportamento, modello ed esempio di fede e di valore, mentre, ammirati dall’Europa, compiamo l’opera di liberare dall’oppressione straniera questa bella nostra terra natale”, recitava il messaggio, insieme con la promozione di un grado di tutti i componenti la guarnigione, e la promozione a Colonnello del Capitano Giovane.

Il 3 febbraio il Pinelli getta la maschera, ed emana un proclama molto esplicativo, citiamo solo i passi più significativi: “Ufficiali e soldati! Voi molto operaste, ma nulla è fatto quando rimane qualcosa da fare. Un branco di questa progenie di ladroni ancora si annida fra i monti, correte a snidarli e siate inesorabili come il destino. Noi li annienteremo, e schiacceremo il sacerdotal vampiro che con le sozze labbra succhia da secoli il sangue dell’Italia nostra, purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infettate dall’immonda sua bava…”. E’ superfluo ogni commento su questa che doveva essere una “liberazione”!

Il proclama del generale Pinelli suscita orrore ed indignazione in tutta Europa, al punto da costringere il governo piemontese ad allontanarlo, anche se per poco, dal comando. Verrà sostituito, ironia della cattiva sorte, da Luigi Mezzacapo, disertore napoletano nel 1848, considerato, a torto, meno feroce e più disponibile a trattare la resa.

Mezzacapo rafforzò con uomini e mezzi la forza assediante, munendola di cannoni di grosso calibro poi, per l’ultima volta propose la resa al comandante, annunciando che Francesco II aveva lasciato il paese.

Il colonnello Giovane a questo punto aderì, ma non furono dello stesso avviso i sottufficiali ed i soldati, che pretesero di inviare dei messi a Gaeta per sincerarsi della resa della Piazza e della partenza del Sovrano.

Il Giovane, con il maggiore Salinas e pochi altri uomini fuggì la mattina del 16 febbraio e si consegnò ai piemontesi; la mattina seguente inviò una lettera al comandante Ascione in cui lo esortava a cedere. Questo atto provocò una sorta di ammutinamento degli uomini, che in pratica esautorarono gli ufficiali e si posero sotto il comando del tenente Santomartino e del sergente Messinelli.

Da quel momento un inferno di fuoco fu lanciato ogni giorno sulla infelice cittadina; il 14 marzo si arrende anche Messina, e da Roma Francesco II, pressato dalla diplomazia francese, decide di inviare il generale Giambattista della Rocca per convincere i difensori a rendere la piazza ed a cessare le ostilità. Questi giunge ad Ascoli accompagnato da un tenente di gendarmeria e da un capitano francese. Gli viene subito promesso di raggiungere Civitella ma, non essendo conosciuto dai soldati, la cui maggioranza sospetta essere tutto uno stratagemma nemico e respinge la proposta, chiedendo ancora l’invio di due staffette a Roma per conoscere direttamente la volontà del Re.

Ripartito per Roma il della Rocca gli assedianti ripresero il bombardamento, che fu eseguito senza sosta fino al 20 marzo, quando il comandante Ascione chiese la resa a qualunque condizione, e sul pennone della fortezza fu issata la bandiera bianca.

Alle 4 del pomeriggio Luigi Mezzacapo entrava trionfante nella cittadina, e provvedeva a far arrestare e fucilare immediatamente il sergente Messinelli ed il capo partigiano Bonaventura del Zopito. Nessun processo, ma solo questa frase su un telegramma inviato a Cavour: “Ho creduto di dover dare un pronto esempio facendoli fucilare”.

Volgari assassini, che continuarono a fucilare senza pietà anche nei giorni successivi. Giuseppe Santomartino sfuggì alla fucilazione per intercessione dei francesi, e fu incatenato e condannato all’ergastolo nelle orrende carceri di Savona, dalle quali tentò poco dopo di fuggire, tentativo che gli costò la vita. Padre Leonardo Zilli, frate cappuccino, anche lui una delle anime della resistenza, fu scovato nascosto in un pozzo ed immediatamente fucilato, negandogli anche l’Eucarestia.

Per maggior scherno e mortificazione il 25 marzo furono fatte saltare in aria tutte le mura di cinta e buona parte dell’antico forte, perché ancora una volta la memoria potesse essere cancellata, e a suon di bombe e di fucilazioni anche l’eroico popolo di Civitella dimenticasse le sue origini per diventare a pieno titolo degno di essere italiano.

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Fonte:
“Il SUD Quotidiano” del 28/2/98

Il re concede la costituzione e la Sicilia e' in rivolta

di Roberto Maria Selvaggi

Il 1848 si apre all’insegna della rivoluzione. Il 9 gennaio nella città di Palermo l’aria è quella che precede le insurrezioni e, in barba alle disposizioni, numerosi cartelli ed avvisi a stampa annunciano la futura sollevazione contro i napoletani.

Tre giorni dopo, al grido di “indipendenza”, la città si solleva. Luogotenente del Re è in Sicilia il Generale Luigi Nicola de Majo, di origine murattiana, incapace a fronteggiare la situazione.

Come sempre il Re agisce con fermezza da una parte, e con opportune concessioni dall’altra.

Due giorni dopo lo scoppio della rivolta una spedizione navale con 5000 uomini scelti sbarca a Palermo. Essa è comandata da uno di quegli ufficiali che si preferirebbe non avere in nessun esercito: Roberto de Sauget, un soggetto sempre dalla parte giusta, eternamente promettente e mai concretamente positivo.

De Sivo scrive di lui: “Si dicea che farebbe, ma mai fece. L’unica cosa che seppe fare il Generale, che durante il decennio starà in Sicilia e nel 1860 diverrà estimatore del Piemonte, fu quello di far raggiungere ai suoi uomini i vinti di Palermo senza tentare alcun movimento autonomo per tentare da aggirare le posizioni dei ribelli”.

Il 18 gennaio Luigi, fratello del Re e Conte d’Aquila, è nominato luogotenente in Sicilia. Il Principe di Campofranco, siciliano, è nominato ministro di Stato, affiancato da Giovanni Cassisi e Giuseppe Buongiardino, entrambi siciliani e noti liberali. Il 27 gennaio tutte le truppe napoletane lasciano Palermo e si imbarcano per Napoli.

L’ineffabile de Sauget se la caverà ancora una volta, e non avrà conseguenze sulla carriera, salvo che da quel momento fu masso in disparte.

Un comitato di governo siciliano decide di ristabilire la costituzione del 1812, e di sancire l’indipendenza assoluta da Napoli.

Nel frattempo, nella capitale avvenivano i primi fatti memorabili di quell’anno.

Il Re, ormai convinto della strada da percorrere, il 27 gennaio abolisce l’odiato ministero della Polizia, e ne accorpa le funzioni al ministero dell’Interno, da lui già riformato alla fine dell’anno precedente. Nello stesso giorno decreta una amnistia generale per i detenuti politici. Il ministero presenta le sue dimissioni, e Ferdinando nomina Presidente del Consiglio Nicola Maresca Duca di Serracapriola. Cesidio Bonanni, da pochi giorni consultore di Stato, è nominato Ministro di Grazia e Giustizia, il Principe Dentice, ministro delle Finanze, Carlo Cianciulli Ministro dell’Interno, il Principe di Torella ai Lavori Pubblici e Gaetano Scorazzo all’Agricoltura e Pubblica Istruzione. Tutti sinceramente liberali e devoti alla corona.

Quel giorno migliaia di dimostranti percorrono la città, da via Foria a via Toledo, gridando “Viva l’Italia, viva Pio IX, viva la Costituzione”.

Due diverse rappresentanze di dimostranti si presentarono al sovrano per chiedere la concessione di uno statuto rappresentativo: la prima fu guidata da Francesco Paolo Bozzelli, Carlo Poerio e Mariano d’Ayala, la seconda dal Principe di Torella e dall’Avvocato Francesco Paolo Ruggiero.

Secondo le ordinanze, in vista di una rivolta il Castel Sant’Elmo inalberò la bandiera rossa, sparò tre colpi di cannone a salve, e la città piombò in un silenzio totale, perché la folla si dileguò e le botteghe chiusero anzitempo.

Il giorno successivo vi fu una riunione dei Ministri, Generali e Consultori, ed il Re annunciò solennemente che avrebbe concesso la costituzione entro dieci giorni, costituzione basata su principi liberali e rappresentativi.

Due Camere, una di Pari nominati dal Re e l’altra di deputati eletti dal popolo, unitamente alla libertà di stampa, con una legge che ne regolasse i limiti.

Poco dopo il Re uscì a cavallo per la città, circondato dai suoi fratelli e seguito da alcuni generali, dalle guardie del corpo anch’esse a cavallo e dalle guardie d’onore. La percorse in lungo ed in largo, accolto dalla popolazione plaudente.

Il giorno successivo il Generale Giuseppe Garzia fu nominato Ministro della Guerra, e Francesco Paolo Bozzelli, autore dello statuto, sostituì Carlo Cianciulli agli Interni.

L’11 febbraio appare sul giornale costituzionale lo statuto concesso ed approvato dal Re; esso fu considerato per l’epoca moderno e liberale, ma i radicali, che desideravano stravolgere ed abbattere tutto, non sembrò sufficiente.

Per tre giorni e tre notti la capitale fu illuminata a festa e sembrò di aver toccato il cielo con un dito, ma purtroppo non sarebbe stato così.

Il 24 febbraio Ferdinando, unitamente alla sua famiglia, ai ministri ed a tutte le alte autorità del Regno, giurarono la costituzione nel tempio di S. Francesco da Paola, di fronte a Palazzo Reale. Nel frattempo la Sicilia era ormai tutta in mano ai ribelli, salvo la cittadella di Messina, che fu affidata al Generale Paolo Pronio per sostenere un lungo assedio.

Questa situazione durò pochi giorni, e la leggenda narra che Francesco Paolo Bozzelli, pugliese di Manfredonia, uomo retto e moderato che aveva vissuto in prima linea la tragedia del 1820, sia caduto in lacrime ai piedi del Re per ringraziarlo.

Scrive Paladino: “Del resto si aveva ben ragione di venerare il principe che aveva accordate franchigie di gran lunga superiori a quelle chieste, e che gli altri sovrani d’Italia erano ben lontani dal concedere”.

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Fonte:
“Il SUD Quotidiano” del 14/3/98

L’Inghilterra dietro le quinte sobillò la rivolta in Sicilia

di Roberto Maria Selvaggi


La rivolta siciliana iniziò il 12 gennaio 1848: essa non fu casuale né spontanea, bensì organizzata in modo particolareggiato dalla classe dirigente isolana, composta dai grandi latifondisti che sapevano di poter contare sull’appoggio dell’Inghilterra, da sempre interessata a porre una sorta di protettorato sull’isola e sulla sua economia.

Gli interessi inglesi riguardavano specialmente il commercio del vino, nella zona occidentale, ed il lucroso sfruttamento dello zolfo nella zona orientale.

Nelle riforme via via realizzate dal governo napoletano a partire dal 1815, nulla era stato omesso per accontentare le istanze di autonomia della Sicilia. Non va dimenticato che la sua popolazione era esente da obblighi di leva, e che soltanto i volontari siciliani erano ammessi a far parte dell’esercito nazionale in due reggimenti, l’11° Palermo ed il 12° Messina. Una consulta di stato era stabilita per i domini continentali ed una per i domini insulari, quest’ultima composta da soli siciliani.

Dal 1837 al 1848 si tentò senza successo di amalgamare l’elemento napoletano con quello siciliano; per quanti funzionari napoletani si trasferivano in Sicilia, altrettanti siciliani giungevano nel continente, ovviamente tale tentativo fu trasformato dai nemici in una sorta di tirannia colonizzatrice, nonostante le attenzioni del governo particolarmente doviziose.

Ben 1305 miglia di strade furono costruite ed altrettante erano in costruzione, ospizi, asili, scuole, moderne prigioni; a Messina una borsa ed il porto franco, il nuovo porto di Catania, tasse più tenui di quelle già lievi pagate dai napoletani, ed infine centinaia di ettari di patrimonio demaniale furono divisi in piccole quote ed assegnati agli agricoltori.

Il luogotenente del Re e comandante militare dell’isola nel 1848 era il Tenente Generale Luigi Nicola de Majo, Duca di San Pietro.

Militare formatosi nel periodo murattiano, seppe cavalcare tutte le emergenze, compresa quella del 1820/21, e non ebbe mai a subire nessuna conseguenza. Autentica nullità, il 12 gennaio fu preso alla sprovvista dalla rivoluzione, cui non seppe far fronte.

Disponeva di 5000 uomini, che si limitò ad utilizzare per inutili scontri che provocarono solo vittime e scoramento nella truppa. E’ ormai noto che molti radicali napoletani, come lo Spaventa, fomentarono i moti palermitani con la promessa di non far intervenire truppe nazionali.

Il Re ed il Governo si sforzarono di concedere tutto quel che si poteva all’autonomia siciliana, fin dal primo giorno. Il 18 gennaio il Conte d’Aquila, fratello del Re, fu nominato Luogotenente in Sicilia dove non poté mai sbarcarvi, perché nel frattempo gli insorti, mai combattuti per l’inerzia del de Majo e del de Sauget, occuparono tutte le posizioni strategiche della città di Palermo.

Il 27 gennaio le truppe si imbarcarono per Napoli, con il solo forte di Castellammare che continuava la resistenza fino alla resa con l’onore delle armi. Nel frattempo sorgeva un Comitato del Governo Siciliano, che ristabilì la costituzione del 1812 e l’indipendenza dell’isola da Napoli. A capo di tale Comitato venne posto l’ammiraglio Ruggiero Settimo, appartenente ad una delle grandi famiglie isolane e rivoluzionario del 1820.

Soltanto due anni prima, nel 1846, nel corso di un soggiorno del Re a Palermo, il vecchio ammiraglio chiese ed ottenne una lauta pensione per le sue precarie condizioni economiche.

Il 10 marzo, nel tentativo di evitare la separazione della Sicilia, il Re firma un decreto che nomina suo luogotenente proprio Ruggero Settimo.

Come per incanto, con singolare analogia a quanto accadrà nel 1860, il porto di Palermo si riempie di navi inglesi. Con la scusa di proteggere gli interessi e le sostanze dei suoi concittadini, la “Perfida Albione” soffia sul fuoco, ed invia Lord Minto, che diventa una sorta di consigliere occulto del governo siciliano. A Napoli intanto il ministero costituzionale, già oberato dalle lotte di potere dei soliti radicali, non riesce a fronteggiare la situazione, con il Re che, riguardo la questione della sovranità sulla Sicilia, non intende deflettere.

L’aiuto inglese consente ai siciliani di inviare rappresentanze ufficiali in tutta Europa, a raccontare di una persecuzione mai esistita. Nel frattempo il comitato di governo siciliano non seppe affrontare l’anarchia nella quale esso stesso aveva gettato il popolo minuto. Saccheggi, ruberie e violenze di ogni genere avvenivano in danno di chi aveva il solo torto di essere napoletano. La mafia tornò a primeggiare con il solito ricatto che è stato fatto a chiunque si sia presentato a governare la Sicilia: in cambio di un ordine e di una tranquillità mafiosa, l’impunità.

Migliaia di detenuti comuni della peggior specie tornarono in libertà, e quando il governo legittimo riuscirà a rientrare in Sicilia non trovò che debiti e macerie.

Le proprietà napoletane ed i danni subiti dai privati non saranno mai più risarciti perché Ferdinando volle che sul passato fosse posto un velo pacificatore. Ed anche in questa circostanza nessuno fu punito per l’aperta ribellione.

I siciliani dimenticarono troppo facilmente la comunanza di storia e di interessi con l’altra parte del Regno, e quando nel 1860 si ripeté la vicenda, ritennero ancora una volta di poter contare sull’impunità. Ma nel 1866 a fronteggiarli fu un generale piemontese che li massacrò senza pietà, ed allora capirono cosa avevano perduto.

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Fonte:
“Il SUD Quotidiano” del 21/2/98

Alla vigilia delle riforme i moti di piazza sconvolgono il regno

di Roberto Maria Selvaggi


L’anno che precede il fatidico 1848 fu denso di avvenimenti per il Regno delle Due Sicilie e, a chi è disposto ad osservare la storia con obbiettività e serenità di giudizio, appare come un anno di preparazione al disegno di riforma istituzionale dello stato che Ferdinando II, a dispetto degli storici di parte, portò avanti fin dalla sua ascesa al trono.

Dal 1830 questo Sovrano salito al trono appena diciottenne, ad un’età che divide appena l’adolescenza dalla gioventù, aveva iniziato la modernizzazione ed il cammino riformistico dello stato napoletano. Fra alterne vicende, e contro la sorda ed opprimente opposizione fomentata dalla risorta carboneria internazionale incarnata dall’Inghilterra di Palmerston, il giovane Re seppe traghettare la nazione verso una forma di stato sempre più rappresentativa. Ogni mezzo fu messo in atto dai detrattori dominati da quell’Inghilterra che, toccata nei propri interessi dal nazionalismo del Re, dimenticava troppo facilmente di essere la nazione campione nella repressione dei popoli da Lei sottomessi.

Il 1847 si era aperto con grande ottimismo e con ragionevole speranza in un futuro sempre migliore per il Regno. L’economia “tirava”, ed i provvedimenti di quasi un ventennio davano finalmente i loro frutti. Si erano aperte industrie metalmeccaniche e manifatturiere, le ferrovie erano in pieno sviluppo, il commercio prosperava, a Palermo si inaugura una nuova cassa di sconto del Banco delle Due Sicilie con 500000 ducati di capitale.

Numerosi Principi e Sovrani visitano Napoli: dal Principe ereditario di Monaco a quello del Baden, da quello di Baviera, che ottiene di erigere una statua alla memoria di Corradino di Svevia nella chiesa del Carmine, al Principe Oscar di Svezia, che rimase sbalordito dall’opificio di Pietrarsa.

A lungo rimasero nella memoria collettiva i viaggi trionfali che i Reali effettuarono nel Regno, ricevendo dappertutto accoglienze incredibili, con interi paesi che si stringevano attorno la carrozza reale. Un Paese descritto dai detrattori come un inferno poliziesco, nel quale i sovrani si permettono di sparire dalla Capitale per lungo tempo senza timore di rivolgimenti politici, un Paese dove si è fatto credere ad una sorta di lager pieno zeppo di poliziotti e gendarmi, quando il Re si muoveva scortato solo dalle guardie d’onore provinciali e dal popolo che lo acclamava. Ma tale idilliaca situazione non poteva andar bene ai nemici esterni ed interni.

Senza alcuna pressione Ferdinando inizia ad operare alcuni importanti cambiamenti nella compagine governativa: il 30 luglio sostituisce Scipione Sarli con il più liberale Cesare Gallotti alla Prefettura di polizia di Napoli; il 13 agosto abolisce il dazio fiscale sul macino, obbligando i comuni a non eccedere nella loro imposizione sullo stesso; diminuisce quello sul sale e sul vino in Sicilia.

Il 1° settembre 1847 una banda di rivoltosi assale la città di Messina al grido di “Viva Pio IX” e “Viva l’indipendenza”.

Il giorno successivo lo stesso tentativo accade a Reggi Calabria. Le carceri, piene di detenuti comuni e non certo politici, vengono assalite e gli stessi detenuti sono armati dai rivoltosi.

Sempre fermo nei suoi propositi, il Re invia una squadra navale davanti a Reggio, al comando del fratello Conte d’Aquila. Il generale Nunziante comanda i duemila soldati inviati da Napoli, ed in soli 15 giorni l’ordine viene completamente ristabilito sia in Sicilia che in Calabria.

Il Re, per nulla scosso da questi avvenimenti, prosegue nella sua determinazione di non farsi mai anticipare dagli avvenimenti, e di proseguire per la strada intrapresa fin dalla sua ascesa al trono. Mentre un tribunale condanna alla pena di morte, dopo regolare processo, i dodici capi della rivolta di Reggio, che vengono tutti graziati dal Re come del resto nei 17 anni precedenti aveva fatto quasi sempre, Ferdinando decretava la nomina di sette nuovi consultori, tutti noti liberali moderati e costituzionalisti: essi erano l’abruzzese Cesidio Bonanni, Emilio Capomazza, Roberto Filangieri, Francesco Gamboa e Rocco Beneventano. Nicola Santangelo, potente ministro dell’Interno fu giubilato, ed il ministero diviso in tre nuovi dicasteri, per rispondere alle mutate richieste dell’amministrazione.

All’Interno fu nominato Giuseppe Parisi, intendente di Catania e figlio del generale omonimo fondatore della Nunziatella, ai Lavori Pubblici Pietro d’Urso, presidente della Gran Corte dei Conti, e ad Antonio Spinelli, che sarà nel 1860 l’ultimo presidente del Consiglio del Regno, fu affidata l’agricoltura.

Alle finanze fu ritirato Ferdinando Ferri, il famoso amante giacobino della Sanfelice nel 1799, diventato poi borbonico ed assolutista, e venne chiamato a sostituirlo Giustino Fortunato, magistrato ed anche lui antico giacobino.

Tutto questo altro non era che il cammino previsto dal Re verso un vero e proprio sistema rappresentativo liberale e moderato, ma dal 22 novembre iniziano le dimostrazioni di piazza.

A Napoli e Palermo si sfila per la città chiedendo indipendenza in Sicilia e rivolta a Napoli; giunge così la fine del 1847.

Sta per scoccare l’ora delle rivoluzioni in tutta Europa ma, senza dubbio, il più preparato ad affrontare il momento ed a secondarlo fu il Regno delle Due Sicilie che, grazie alla preveggenza del suo Sovrano, si mostrava pronto ai nuovi tempi.

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Fonte:
“Il SUD Quotidiano” del 27/9/97

La vera storia di Luisa Sanfelice e dei suoi compagni

di Roberto Maria Selvaggi


Nel 1847 un decreto reale comunicava al paese che il Ministro delle Finanze Ferdinando Ferri era stato ritirato e sostituito con il Cavalier Giustino Fortunato. Il decreto in questione chiudeva la lunga, sorprendente e disinvolta carriera di un personaggio che fu protagonista, nella sua vita, di importanti avvenimenti storici.

Era nato a Napoli il 5 settembre 1767, e, nell’anno della sua giubilazione, aveva compiuto la veneranda età di 80 anni. Compiuti gli studi entrò in magistratura, e quando nel 1799 i francesi entravano a Napoli proclamandovi la repubblica, si trovava all’Aquila in servizio presso quel tribunale. Si trasformò immediatamente in repubblicano: dovette però darsi molto da fare per ingraziarsi le autorità, in quanto come magistrato aveva già giudicato individui accusati di giacobinismo.

A Napoli Ferri conosce una giovane ed avvenente signora, che conduceva una vita brillante e salottiera all’ombra della nascente repubblica: Luisa Molina Sanfelice.

Separata dal marito, viveva in un bel palazzo del centro, e tra i suoi amanti, oltre al Ferri, c’era uno dei figli del più ricco commerciante di Napoli, Gerardo Baccher.

34 anni, tenente di cavalleria e legittimista convinto, come tutti nella sua famiglia, era rimasto a Napoli e non aveva mai cessato di cospirare per il ritorno dei Borbone e per la fine della repubblica giacobina.

Finalmente la sollevazione della città era pronta per i primi di aprile del 1799; il Cardinale Ruffo era alle porte, e la partenza delle truppe francesi diventava sempre più imminente.

Gerardo Baccher decise di dare alla Sanfelice un salvacondotto che la mettesse al riparo da ritorsioni durante la sollevazione popolare, ma la donna, con estrema leggerezza, consegnò il salvacondotto al suo amante repubblicano, il Ferri, che svelò immediatamente la congiura mettendo al corrente Vincenzo Cuoco ed i componenti del Comitato di Salute Pubblica. Il Baccher e tutti gli altri capi realisti furono arrestati e gettati nelle carceri del Castel Nuovo. Il “Monitore Napoletano”, giornale del regime, annunciò con le parole di Eleonora Fonseca Pimentel: “Una nostra egregia cittadina, Luisa Molina Sanfelice, svelò venerdì sera al governo la cospirazione di pochi non più scellerati che mentecatti… La nostra repubblica non deve trascurare di eternare il fatto ed il nome di questa illustre cittadina. Essa superiore alla sua gloria ne invita premurosamente di far pubblico chi ugualmente come lei è benemerito della patria in questa scoperta: il cittadino Vincenzo Cuoco”. La repubblica aveva ormai i giorni contati e, come spesso accade nei regimi agonizzanti, iniziarono fucilazioni e massacri indiscriminati. L’ultimo giorno di vita della repubblica, il 13 giugno, nella piazza di Castel Nuovo furono giustiziati, dopo un sommario processo che apparve ai più come una farsa, e, come scrive Benedetto Croce, “la vendetta e la crudeltà presero la maschera di una necessaria misura di rigore…”, Gennaro e Gerardo Baccher, Ferdinando e Giovan Battista La Rossa e Natale D’Angelo.

Come raccontò un testimone oculare i condannati morirono intrepidamente “tutti contenti di morire per così degna causa”. Il giorno successivo Napoli era liberata, e poco dopo la Sanfelice fu arrestata e gettata in carcere. Nel mese di settembre iniziò il processo, che si concluse con la condanna a morte promulgata il 13 del mese.

Due giudici furono a favore ed uno, Antonio della Rossa, contrario: il 29 settembre la sventurata donna fu portata all’ultimo supplizio, ma uno stratagemma le permise di ritardare l’esecuzione per poi ottenere la grazia, si dichiarò incinta.

“La sorte fu più benigna a Vincenzo Cuoco e Ferdinando Ferri”, dice Croce, ed è quanto meno paradossale. Ebbero entrambi una condanna all’esilio.

I giudici vollero punire nella donna quel che causò con il suo leggero comportamento, più che il reato vero e proprio. Ferri, ma anche il Cuoco e lo stesso successore di Ferri alle Finanze nel 1847, furono in gioventù tutti giacobini. Luisa Sanfelice fu l’ultima dei condannati a morte ad essere giustiziata, quando fu evidente la falsità della sua gravidanza e quando il vecchio Baccher, che si era visto togliere due figli, si recò a Palermo dal Re chiedendo che la giustizia avesse il suo corso: l’11 settembre 1800 veniva decapitata in Piazza Mercato.

Vincenzo Cuoco morirà pazzo nel 1823 e Ferdinando Ferri, dopo una lunga carriera come magistrato della Corte dei Conti, fu nominato ministro nel 1841 alla morte di Giovanni d’Andrea, e morirà novantenne nel 1857.

Certo egli fu, dopo la restaurazione, uomo onesto e probo tanto che si trovano addirittura i nomi dei suoi figli nelle già povere liste di sussidiati da Francesco II e dalla Regina Maria Sofia dall’esilio.

Fino alla caduta del Regno nel 1860 si parlò e si scrisse rispettosamente della Sanfelice come di una sventurata, ma dopo iniziò una sorta di “trasformazione della sventura nella gloria… ed il suo nome cadde in balia degli scrittori di propaganda politica”. Parole di Benedetto Croce.












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