Ringraziamo
l'amico Nicola Zitara che ci ha autorizzato a pubblicare l'intervista e a Pasquale Zavaglia per averci chiarito alcuni dubbi inerenti il diritto d'autore) |
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“…Da che si parla della cosiddetta questione meridionale, di programmi e programmini di rinascita ce ne sono stati decine, a cominciare da quello nittiano per Napoli. Ma tali progetti, alcuni dei quali condotti con buona volontà e persino portati a compimento, non hanno cancellato la cosiddetta questione, semmai l’hanno aggravata. Perché tutto è fallito e il Meridione continua a mostrarsi insuscettibile alle cure? La verità è che ognuno di tali progetti fu impostato e messo in atto in modo che non avesse effetti negativi sul resto d’Italia. Da ciò si può ragionevolmente dedurre: 1) che, tra il Sud del paese italiano e il resto, esiste un’inconciliabile contraddizione d’interessi; 2) che lo Stato italiano, l’ente giuridico-politico generale che governa il popolo nazionale, predilige gli interessi del resto del paese e sacrifica a questi gli interessi delle popolazioni meridionali…”. In queste righe di Nicola Zitara, e soprattutto nelle due deduzioni, è con-centrato uno dei nodi di alterità interna tra questo Stato (l’improprio connubio dello Stato-nazione ha anche in Italia ‘coperto’, sin dalla sua storica formazione, specifici interessi di classe, quindi la sua funzionalità alla logica capitalistica, essendone un suo prodotto) e la nazione italiana. Una notazione critica a queste deduzioni verte sui presunti interessi del resto del Paese ‘prediletti’ dallo Stato: così enunciati si con/fonderebbe –impropriamente– la stratificazione interna degli interessi di classe (e nazionali) nell’area ‘colonizzatrice’ e quindi, pur ad un differente grado di intensità e ‘qualità’, l’ulteriore alterità interna tra gli interessi di (questo) Stato –quale luogo conflittuale tra diverse frazioni di classe dominante– e gli interessi nazionali anche nell’Italia del Nord. Fare il punto con Nicola Zitara dei termini della questione sudica ci pare comunque imprescindibile: se l’Italia ha un futuro come nazione, questo dipenderà anche dalla possibilità che un progetto di liberazione nazionale riesca a ribaltare l’inconciliabile contraddizione d’interessi, sinora determinata dalle diverse frazioni della classe capitalistica dominante che in centocinquant’anni si sono avvicendate nel controllo dello Stato.
Ovviamente non esiste, né è mai esistita ufficialmente una statistica dell'avere del Sud nei confronti del Nord. D'altra parte, se in Italia c'è una cosa che si vuol tenere nascosta è proprio questa. "Al villan non far sapere…". Tuttavia, si possono avere delle stime attendibili se evidenziamo situazioni e fatti: scambio diseguale tra aree a diversa quota di capitale per addetto; uso del risparmio meridionale per finanziare gli sbocchi dell'industria padana sul mercato meridionale; esportazione di capitali (attraverso Banche, Poste, Cassa Depositi e Prestiti); concentramento al Nord del sistema assicurativo privato e a Roma di quello assicurativo e previdenziale pubblico; protezionismo agricolo ed industriale comunitario.
Prima mostriamo la chiusura di un secolare e disastroso bilancio. Confrontando il numero degli abitanti con quello degli occupati, si ha che al Centronord questi sono circa il 40%, mentre al Sud circa il 25%. Il deficit occupazionale del Sud si avvicina alla cifra di tre milioni di non produttori. Gli occupati sono circa cinque milioni in bianco (e forse 500-600mila in nero) in larga parte nel terziario, nell'artigianato delle riparazioni e nell'emarginata agricoltura. In sostanza, producono poco o niente. Una percentuale significativa inoltre –a partire dai grossi commercianti, per arrivare ai giornalieri che vanno la notte a scaricare le cassette di frutta trentina ai mercati generali– è legata allo smercio di prodotti settentrionali, che dalle macchine al prezzemolo hanno ormai fatto tabula rasa di ogni produzione meridionale. Si può complessivamente stimare che il Sud manchi di attività produttive vere e moderne per una cifra di 5 milioni di uomini e donne. Considerando che un posto di lavoro vero e moderno impegna una cifra media di un miliardo e mezzo, si arriva a definire in otto milioni di miliardi ciò che il Sud ha perduto a causa della colonizzazione italiana. La cifra definisce il costo complessivo di macchine, impianti, economie esterne, necessari a ricostruire il Sud foss’anche in termini capitalistici. Il conto, poco elegante, è tuttavia utile a mostrare le dimensioni del fenomeno improduttivo. E la situazione peggiorerà.
Declinata, a partire dagli anni Settanta, la domanda europea di lavoratori italiani (troppo caro impiegare manodopera comunitaria!), il Sud ha varcato il confine tra sovrappopolazione e disastro antropologico. Con la sua ingordigia (in ultima istanza, perdonabile), con la sua insipienza (non perdonabile), con le sue scomposte velleità, lo Stato italiano ha rovinato un paese di gente civile e laboriosa. Ormai siamo al punto che, se non ci fossero gli stipendi dei nullafacenti del terziario statale e degli incendiari regionali, le pensioni degli ex nullafacenti statali, il commercio lecito e illecito, la vita al Sud sarebbe già a livello somalo. Cosa che rappresenta una ineluttabile prospettiva per le future generazioni, salvo che il sistema coloniale non vada a gambe all'aria.
Nel 1860. L'agricoltura meridionale era in pieno sviluppo, anzi a stare a quel che ha scritto Rossi-Doria –uno che di economia agraria se ne intendeva– in una fase rivoluzionaria.. Al momento dell'annunciato (ma falso) pareggio (di bilancio) tra entrate e uscite statali –1875– fu detto che le esportazioni meridionali avevano salvato l'Italia. Sottinteso: dalla situazione di bancarotta che Cavour e compari avevano provocato saccheggiando lo Stato. Se si seguono le curve delle esportazioni italiane tra il 1861 e il 1914, si osserva che l'olio, il vino e gli agrumi –arance e limoni– (significativa anche la produzione di fichi secchi) seguono da vicino la seta greggia, tipico prodotto da esportazione delle regioni padane, poi lentamente abbandonata quando il Nord poté industrializzarsi con i dollari delle rimesse degli emigranti. Scorrendo le tabelle di studiosi come il Tagliacarne si apprende che, dall’Unità (1861) fino al decennio 1891-1900, le esportazioni italiane di manufatti propriamente industriali furono vicine allo zero, insignificante la partecipazione del centro-settentrione al flusso commerciale in uscita, crescente invece la produzione agricola meridionale.
Sì, fino agli anni Cinquanta del secolo ventesimo. Rispetto all'Inghilterra, la Francia, la Germania e altri paesi dell'Europa continentale, l'Italia del 1860 è un paese povero che paga le sue importazioni con l'esportazione di prodotti agricoli. Affievolitasi l'esportazione serica, sul proscenio degli scambi mondiali la sua forza economica viene essenzialmente dalle quattro produzioni su elencate. Anche il surplus sociale –sia quello creato spontaneamente dai produttori sia quello coattivo realizzato con l'estorsione di famelici super tributi– viene ottenuto in detti settori. Basta scorrere un sommario di statistiche storiche per sapere che le esportazioni meridionali pagarono (senza una vera contropartita) gli interessi per i debiti contratti all'estero, più gli intrallazzi dei mediatori padani, più gli smodati lucri che gli stessi fecero con i subappalti. La preminenza commerciale del Sud si prolungò oltre il secondo dopoguerra: l'olio, il vino, i limoni, le arance, le essenze di bergamotto e di gelsomino restarono per lungo tempo il biglietto da visita delle esportazioni italiane in Europa e Oltreatlantico, molto più accattivanti di quanto oggi siano le scarpe e il formaggio parmigiano. Se aggiungiamo la produzione di zolfo, di cui la Sicilia fu il primo esportatore mondiale, abbiamo le voci di esportazione che consentirono il ripianamento del debito piemontese, l’importazione del grano, del ferro e del carbone, gli investimenti negli armamenti e nei 18mila chilometri di funeste rotaie costruiti fino al 1920.
Perché una grande responsabilità nel crollo dell'imprenditoria sudica l'ebbe anche lo sviluppo della rete ferroviaria pensato in funzione degli interessi padani. Precedentemente il commercio napoletano d'esportazione si era svolto via mare, animando una quindicina di porti, tra siciliani, calabresi, campani, pugliesi e abruzzesi. Persino approdi che mancavano d'un pontile riuscivano a imbarcare e a sbarcare ogni anno merci per centinaia di migliaia di tonnellate, creando una fitta rete di armatori, mercanti minori, operatori vari, nonché quelle percentuali elevate di addetti al settore secondario registrate nei primi censimenti italiani. La rete ferroviaria ebbe come esito quello di abolire le strade marittime e le attività connesse, nonché quella fetta di mondo meridionale che vi operava: centinaia di migliaia di persone.
L’Italia è divenuta un paese dotato di un'industria capace di
vendere all'estero solo a partire dalla Vespa e dalla Lambretta,
cioè nel secondo dopoguerra. Nel 1860 esisteva la sola area
industrializzata del napoletano ben impiantata e ricca di mille
attività. Prima dell'unificazione, il Regno delle Due Sicilie
era lo Stato più grande e popolato d'Italia, più
industrializzato del Piemonte e della Lombardia. Sorvolando sui dati
relativi alle grosse fabbriche private presenti a Napoli e dintorni,
specialmente nel campo meccanico, tessile, cartaio, nel vasto e
fiorente tessuto di industrie alimentari, seriche e altre minori, va
detto che intorno al trasporto navale e all'esportazione dell'olio e
del vino esisteva a Napoli e in Sicilia una diffusa borghesia
armatoriale e commerciale, con vasti contatti mediterranei e mondiali.
Migliaia gli armatori –fra cui qualcuno dovette esser ben grosso se le
navi napoletane erano in Italia le uniche che raggiungevano l'America e
l'Australia, oltre che i porti di Genova, Marsiglia, Trieste, Lisbona,
Amsterdam, Londra, Stoccolma– e parecchie decine di grandi esportatori
d'olio e di vino, gente ricchissima che non era necessario che fosse
presentata attraverso la fratellanza massonica, come Cavour, ma si
presentava con il suo nome e cognome. L’indotto coinvolgeva un cospicuo
numero di agenti, procuratori, procacciatori, mediatori, accaparratori,
quindi parecchie case d'assicurazione navale ed infine un vero esercito
di lavoratori portuali, di scaricatori costieri, di trasportatori, di
barcaioli, di sensali.
Il governo borbonico dava un contributo a fondo perduto ai costruttori
navali e un privilegio doganale alla bandiera. Non fece i porti, come
avrebbe dovuto, solo per avarizia. Ma non li fece neppure l'Italia Una,
che i soldi se li scialacquava e che fu di una prodigalità
sperperona con Genova, La Spezia, Livorno e Ancona, per non parlare di
quella mussoliniana per Trieste e Venezia. Quel mondo marinaro, molto
più attivo e anche più ricco di tutti gli imprenditori
toscani, lombardi e piemontesi messi assieme, doveva andare distrutto
perché Genova risorgimentasse agli antichi splendori navali e
bancari. Il Sud era ed è rimasto, nel sistema italiano, un
prolungamento demografico, ferroviario, stradale, aeroportuale del
paese padano. Sarebbe facile affermare che Bombrini, con le sue
emissioni di cartamoneta garantite solo dagli archibugi dei
bersaglieri, Bastogi, con la quarantennale truffa della Società
delle Ferrovie Meridionali, Balduino, con i suoi loschi traffici
intorno al tabacco e allo zucchero, annichilirono il Sud. Ma metterei
in trono dei pidocchi. No, questi ladri, mai finiti in galera, furono
soltanto i legittimi e unici avi del salotto buono della borghesia
padana. In effetti, il Sud fu distrutto dai debiti che il Piemonte
aveva contratto e che l'Italia continuò a contrarre per le
costruzioni ferroviarie e per l'armamento dell'esercito e della marina
sabaude.
Negata dagli storici, la verità emerge attraverso i fatti e i
manufatti. La testimonianza più eloquente la fornisce la vicenda
dei cantieri navali di Castellammare di Stabia. Dopo la vergognosa
sconfitta di Lissa, in gran parte dovuta all'inefficienza delle
artiglierie piemontesi, per ricostruire la flotta colata a picco,
l'Italia non ebbe altro che gli antichi e gloriosi cantieri stabiesi,
dove –a detta di un senatore USA– prestavano la loro opera le migliori
maestranze navali del mondo. Le corazzate Lepanto, Duilio, Roma, Italia
e altre furono, nello scorcio di fine ottocento, le più ammirate
al mondo. Mi è capitato persino di leggere che qualcuna di
quelle navi –certamente ristrutturata– combatté la Seconda
Guerra Mondiale. Ma quando si trattò di costruire dei cantieri
militari moderni, il paterno Stato nazionale li volle a La Spezia, dove
spese per trent'anni una fetta consistente di quel terzo del bilancio
che era destinato alle forze armate, tanto che la cittadina, che nel
1861 aveva trentamila abitanti, al censimento del 1901 ne
registrò più di centomila.
Dò solo un dato sulla dote economica all’atto dell’Unità. Il Sud del 1860 era a tal punto la parte d'Italia più ricca di risparmio e possedeva il doppio di monete d'argento dell'Italia restante che Garibaldi e in appresso i luogotenenti sabaudi trovarono nella sede palermitana del Banco delle Due Sicilie 5 milioni di ducati, pari a 21 milioni di lire, e nella sede napoletana una ventina di milioni, pari a 85 milioni di lire oro. La Banca Nazionale Sarda, prima che il Piemonte assoggettasse l'Italia, non riusciva a mettere assieme sette o otto milioni di lire. E questa non è la sola ragione per cui ritengo che il liberismo dei cosiddetti moderati italiani sia stato l'argent des autres, il coperchio sotto cui è germogliato un sistema finanziario intrallazzistico, passato onorevolmente alla storia vera sotto l'efficace espressione di carnevale bancario. Il conclamato primato padano sta tutto in questo: nell'abilità a rubare, con i carabinieri impiegati come guardaspalla. Se l'Italia è stata ed è un paese politicamente cinico, non è tanto alla Curia che bisogna guardare, ma nei corridoi dei palazzi di Piazza Castello.
Si tratta di un tema cruciale nella ricerca delle cause vere del sottosviluppo meridionale. Dopo il 1861 non si ha quel che cantano gli storici prezzolati dalla massoneria, cioè uno scambio tra merci moderne del Nord e prodotti agricoli (scalcinati) del Sud (scalcinato), ma lo scambio tra valori reali e cartamonetata inconvertibile, cosa che nell'interscambio tra due formazioni sociali, ancora chiuse in sé stesse, è lo stesso che dire furto (quella stessa cosa che vediamo con i nostri occhi a proposito del dollaro inconvertibile). Con capitali di carta, spesso biglietti dalla serie duplicata –in sostanza emessi con frode dalla stessa legge fraudolenta che aveva imposto con subdoli artifici, senza che fosse necessario, il corso forzoso dei biglietti di Bombrini– i padroni della Banca genovese di Sconto invasero il Sud, in ciò protetti dai prefetti, dai questori, dai carabinieri e dagli onorevoli meridionali, e lo schiacciarono.
Da un lato si usava la Banca Nazionale per raccogliere danaro da prestare allo Stato sabaudo, che non badava a spese, e dall'altro si finanziavano antiche e nuove industrie genovesi e torinesi. Ufficialmente queste operazioni erano effettuate dal Credito Mobiliare di Torino e Firenze, dal Banco di Sconto e Sete di Torino, dalla Cassa Generale di Genova e dalla Cassa di Sconto di Torino, che erano a loro volta finanziate sottobanco dalla Nazionale. Dopo l'unificazione nazionale, anche il Banco di Napoli, quello di Sicilia e la Banca Toscana presero ad emettere biglietti secondo il rapporto di valore di tre unità fiduciarie, in circolazione, per una unità metallica di riserva, sistema già vigente per la Nazionale. Ma nel 1866, la Banca Nazionale ottenne dal governo di essere esonerata dall'obbligo di convertire i suoi biglietti in valuta metallica. Per la Banca toscana e i Banchi meridionali rimase in piedi l'obbligo di convertire a vista i propri biglietti, tanto in metallo, quanto in biglietti sfregiati della Nazionale. Attraverso tale doppio passo, la Nazionale riuscì a risucchiare ingenti quantità d'oro e d'argento circolanti al Sud e a ricostituire le sue riserve metalliche. Infatti, appena per un qualsiasi versamento –ad esempio l'acquisto di una cartella del debito pubblico– un biglietto o una fede di credito del Banco di Napoli e di Sicilia finiva nelle mani della Nazionale, il direttore dell'agenzia spediva un suo impiegato allo sportello del Banco emittente per farsi dare dell'argento. Fu una vera spoliazione coperta dallo Stato. Tutto il risparmio meridionale che ovviamente veniva effettuato in moneta, quello dei ricchi e quello dei poveri, fu drenato al Nord, dove veniva moltiplicato per cinque, dieci, venti volte, attraverso l'emissione di moneta cartacea. Una cosa che il governo vietò si facesse al Sud. Questo fu il carnevale bancario. Bombrini usava lo Stato e i privati, pur di portare avanti il progetto cavourrista. Lo scandalo portò a un'inchiesta parlamentare, che si concluse senza un'aperta condanna del malfattore, come è inveterato costume padano. Risultò tuttavia che il corso forzoso –cioè l'inconvertibilità della moneta bombriniana– era un'escogitazione interessata.
Non lo si disse, ma lo si capì. E siccome quelle carte si
possono leggere anche oggi, lo si capisce ancora: a salvare le quattro
banche d'affari sovvenzionate dalla Nazionale ed in sostanza le
industrie che stavano dietro, accollando il prezzo della loro esistenza
parassitaria ai meridionali, gli unici che in quel passaggio della
storia nazionale possedevano argento monetato. Un intrallazzo che
costò agli italiani, e specialmente ai risparmiatori
meridionali, una cifra di centinaia e centinaia di milioni del tempo,
forse di miliardi. Il corso forzoso salvò il capitalismo
decotto, portato in auge da Cavour e protetto dalla Banca Nazionale.
Contemporaneamente decretò la fine del capitalismo meridionale,
privato delle risorse storicamente accumulate che gli servivano per
lavorare.
Nei quattordici anni carnascialeschi che trascorsero prima di arrivare
all'emissione sotto il controllo dello Stato, Bombrini ne fece
più di Arsenio Lupin. Tanto per darne un'idea, dal 1859 al 1874
passò da meno di 20 milioni di carta fiduciaria a circa 2
miliardi. Tutti soldi incassati dall'illustre padre degli intrallazzi
patrii, più ovviamente gli interessi che pagavano i debitori.
Più –e qui siamo al codice penale, un codice penale mai
spolverato nei suoi confronti– la speculazione sul debito pubblico.
In breve, questo signore, nonché i suoi compari liguri,
toscani e piemontesi prestavano allo Stato italiano l'importo delle
emissioni di buoni del tesoro, ottenendo, su cento lire, uno sconto che
andava dalle venti alle trenta lire. Collocavano le cartelle facendoci
qualche guadagno. Giacché il corso calava inesorabilmente,
ricompravano –con carta emessa dalla loro banca– le cartelle a un
prezzo che scese fino a 21 lire. Siccome non avevano messo fuori che
carta stampata da loro stessi, potevano tranquillamente aspettare la
scadenza del titolo e incassare le 100 lire promesse. Era solo carta,
ma carta che per legge si gonfiava di vera capacità d'acquisto.
Molto spesso si pigliavano anche la briga di viaggiare fino a Parigi,
dove i biglietti della Nazionale non li volevano e la povera Italietta
era costretta a pagare in oro le sue cartelle del debito pubblico, per
lucrare –senza aver rischiato un centesimo– anche l'aggio dell'oro
sulla loro lira.
Un patriota, più patriota di questo esultante amico del Conte
(dalle braghe onte) è difficile non dico trovare, ma solo
immaginare. Peraltro il galantuomo non poteva mangiare da solo e,
quindi, oltre a smazzettare danari fra i ministri, i deputati, i re, i
principi e le principesse reali, doveva dar da vivere anche agli
illustri patrioti che gestivano le quattro banche di credito
industriale già citate, nonché i grandi precursori
dell'industria padana che incassavano danari meridionali. I trucchi e
le ladronerie di questi signori, nel quadro dell'agire capitalistico,
rappresentano la norma, e sono additati solo quando non vanno a buon
fine. Celebre a tal riguardo la censura di Maffeo Pantaleoni al Credito
Mobiliare e al boss Balduino.
Per concludere: è falso che il capitalismo padano fosse
industriale sin dalle origini. Con una parola asettica si potrebbe dire
che era finanziario. Ma non sarebbe la verità. La verità
è questa: il rapporto tra Nord e Sud, sin dal primo momento,
dette luogo a un saccheggio, a un caso quasi incredibile di
accumulazione selvaggia di tipo coloniale, che si è protratto
fino al 1970 e oltre.
Certamente Cavour fu la testa più lucida e la guida
più capace dell'azione politica che portò alla nascita
dello Stato italiano e al trionfo della borghesia quale classe
dirigente nazionale. Quando, a metà del cosiddetto decennio di
preparazione, Cavour si rese conto che avrebbe potuto contare su
Napoleone III per scacciare l'Austria dal Lombardo-Veneto e che anche
l'Inghilterra auspicava tale risultato, da abile giocatore puntò
forte: cedette ai banchieri inglesi e francesi il diritto di costruire
una rete ferroviaria che congiungesse la Svizzera, e in prospettiva
anche l'Austria, con il porto di Genova e fece ogni tipo di debito a
lunga scadenza (o comunque facilmente rinnovabile), pur d'apprestare
armi e logistica per i contadini liguri e piemontesi che avrebbe
schierato in combattimento. Solo degli storici poco seri riescono a non
scrivere che almeno una parte dei debiti sperava di farli pagare ai
lombardo-veneti, una volta liberati. Gli andò meglio di quanto
sperasse, perché Toscana, Emilia, Romagna, Umbria e Marche gli
caddero fra le braccia.
Il peso fiscale che avrebbe dovuto scaricare sulla sola Lombardia (non
avendo ottenuto il Veneto) poté ripartirlo su una popolazione
più vasta e non sprovvista di risparmi. Appena l'Austria, che
teneva sotto il suo tallone l'intero sistema italiano, venne sconfitta
dall'esercito francese sceso in Italia, le borghesie terriere di dette
regioni si resero conto che al potere degli Asburgo, fortemente
ammaccato, potevano sostituire un nuovo potere. Nuovo non solo in senso
geografico, ma anche in senso sociale: la loro stessa classe, guidata
da Cavour. I fatti attestano che un identico sentimento e non minore
ardimento percorreva la borghesia meridionale, particolarmente la
siciliana, alla quale dava motivo di gran malumore la condizione di non
parità con Napoli, appena dissimulata dai gesti retorici dei
Borbone.
Ministro, e quasi dittatore, del Regno sabaudo, Cavour era un
conservatore moderno e si conquistò un grande prestigio
perché, meglio di chiunque, fece capire alla borghesia
redditiera delle varie regioni che doveva rapidamente tramutarsi in
borghesia moderna, se voleva ottenere il governo dello Stato e se
voleva disporre di una forza capace di tenere a freno quelle
rivendicazioni popolari, che pochi anni prima, nel 1848, avevano
mostrato la loro virulenza. La sua lungimiranza, che si espresse in
tante vicende, rifulse allorché, a regno già praticamente
fondato, non si rimangiò le aperture fatte agli esponenti
filosabaudi delle altre regioni.
Si può obiettare che, a Italia fatta, non promosse una
costituente nazionale, che creò un esercito falsamente italiano,
che conservò l'amministrazione piemontese.
L'interregionalità si ridusse al solo parlamento, anzi
essenzialmente alla camera dei deputati e solo in qualche modo al
senato. Lo assolve, però, il fatto che il governo piemontese era
già strutturato, mentre un governo nazionale sarebbe stato una
vera incognita, per giunta in un momento in cui le potenze europee, la
Francia essenzialmente, che pure della causa italiana era stata la
fautrice pagante, non avevano pienamente assimilato l'idea che l'Italia
non era più un'espressione geografica.
La risposta è ancora nei fatti. La Toscana, l'Umbria, l'Emilia, la Lombardia, la Liguria, il Veneto, la Romagna, le Marche –realtà di splendori rinascimentali non interamente archiviati– avevano elaborato una cultura e un sistema sociale cittadino, signorile, urbano, alla fine del percorso borghese, che il Piemonte aveva lentamente interiorizzato. Al Sud il sistema e la cultura sociale erano significativamente ben diversi: nazionali, regi, ancora cripto-feudali nonostante l'evoluzione mercantile delle campagne, e mercantilisti. L'illuminismo napoletano, che aveva pervaso prima il governo borbonico e poi quello degli occupanti francesi, era sì moderno, ma nel senso amministrativo, e quindi propugnatore di una rivoluzione che calasse dalle brache del sovrano. Il Napoletano era moderno, ma di una sua modernità nazionale, dove nazionale significa dinastico e borbonico.
Per l’appunto. Trent'anni fa, Antonio Carlo ed Edmondo Capecelatro, sulla scia delle precedenti ricerche di Domenico Demarco, scrivendo contro il concetto di questione meridionale, posero il tema della diversa linea di sviluppo adottata dai Borbone: uno sviluppo guidato dall'alto, che andò a scontrarsi con l'animalità predatoria dell'invasore cavourrista. Il Regno si era strutturato in modo organico nel corso dei lunghi secoli in cui Napoli e la Sicilia avevano fatto da retroterra alle città rinascimentali, rifornendole di grano, d'olio, di materie prime e di semilavorati, nonché pagando ai loro usurai interessi sugli interessi di inestinguibili debiti francesi e spagnoli. Il regno aveva raggiunto un'autonomia economica di tipo autarchico, con le proiezioni mercantili di cui si diceva sopra, un'economia del tutto diversa da quella tosco-padana, il cui costante punto di riferimento era la quieta Lione. In un mondo ancora largamente agricolo, Napoli contava sull'olio padronale, come surplus da utilizzare per gli scambi internazionali, mentre la Padania assegnava l'identica funzione alla seta contadino-artigianale. Al Sud un'eventuale avanzata voleva dire vino e frutta, nelle terre padane grano, carne e latte. E intorno a tali diversità si era andata sviluppando una manifattura di servizio e specialmente un terziario di servizio coerenti con i rapporti sociali vigenti, sostanzialmente alquanto diversi fra loro.
Quando ebbe in mano anche il Sud –in pratica tutta la penisola, meno il Veneto e il Lazio– e i sudditi sabaudi passarono da cinque milioni a più di venti milioni, Cavour fu costretto a cambiare il suo gioco, che da consociativo divenne accentratore. Il Regno d'Italia, così miracolosamente fondato e divenuto una potenza europea in fieri, non doveva sfaldarsi per amor di democrazia e di eguaglianza. Perché ciò non avvenisse, il nuovo venuto, il paese meridionale tanto diverso e infestato di mazziniani, doveva essere solo apparentemente sé stesso, cioè libero. Nella pratica, invece, bisognava che fosse omologato d'imperio al Piemonte, visto che non era possibile che lo facesse da sé, come le regioni del Centro. E per il Sud ebbe inizio il disastro, che con il trascorrere dei decenni divenne epocale: assistito, senza produzione, milionariamente inoccupato, tuttavia benestante. La cosa è durata trenta o forse trentacinque anni. Il consociativismo, l'avvento al governo del craxismo, marcato da ombre thatcheriane, hanno portato a un ripensamento. Adesso, senza lavoro e senza assistenzialismo, siamo come color che son sospesi.
Precisiamo un punto su cui la capziosità nordista regna sovrana. Il Sud ne ha goduto solo in un ambito limitato. Beneficiari i contadini, a partire dagli anni Cinquanta, quando con un ritardo di mezzo secolo fu loro riconosciuta la pensione e altre forme complementari d'assistenza, in particolare un premio di maternità (si era ancora in quella fase in cui la nostra amorevole patria faceva assegnamento sulla manodopera sudica per mantenere il livello dei salari vicino alla fame). In precedenza aveva diritto alla pensione soltanto chi avesse le marche sul libretto. Ora, il libretto di lavoro, qui al Sud, non l'avevano neppure gli operai, figurarsi i fittavoli e i coloni! La cosa corrispondeva a uno zappatore meridionale, sostegno essenziale dell'economia nazionale per più di cento anni (e pilastro dell'esercito nazionale), senza quel riconoscimento che i lavoratori della parte ingorda d'Italia avevano invece sin dal tempo di Giolitti. Per il resto dei lavoratori non c'era, e non c'è tuttora, una vera copertura. Infatti l'indennità di disoccupazione, l'integrazione dei guadagni e simili forme d'intervento –queste sì assistenza vera– al Sud non scattano perché, per legge, è disoccupato soltanto chi ha prima lavorato. In sostanza, l'inoccupazione permanente, la vera dis-occupazione di cui il Sud soffre e di cui ha sempre sofferto da quando è stato sottomesso alle ingordigie e alle angherie settentrionali, non è mai stata assistita da alcuna indennità.
La Cassa per il Mezzogiorno e lo stato sociale sono stati le più pesanti alluvioni capitate addosso al Sud, ma non per quel che si progettava di fare. Fatte le cose come la Confindustria volle che si facessero, il Sud, da vittima che era, è passato alla storica condizione di reo. Un meccanismo dialettico di calibro diabolico che vuole i meridionali responsabili di un disastro del quale non solo assolutamente colpevoli, né retrospettivamente (la famosa arretratezza storica e le colpe dei Borbone) né contemporaneamente né posteriormente. Peraltro, se così fosse, è difficile capire dove stia il buongoverno successivo, se a tutt'oggi siamo costretti a domandarci dove poter emigrare. E si badi, l'Italia non è l'Albania, ma il sesto o settimo Pil del mondo. Il tentativo che lo Stato italiano fece, a partire dagli anni Cinquanta, per riparare a qualcuno dei guasti provocati da una politica imbecille e malvagia –intendo dire proprio una politica così sciocca da ammazzare la gallina dalle uova d'oro– assunse la tipologia dell'intervento speciale. La Cassa per l'intervento straordinario nel Mezzogiorno prese dichiaratamente abiti rooseveltiani, da Tennessee Valley, con il professor Rostow accampato a Roma, a misurare la pressione al Sud. Veramente, in tale circostanza, la straordinarietà era tutta nella tabularità delle azioni rispetto a un fine, che poi non fu in effetti raggiunto. Per il resto, l'intervento, straordinario non fu; ma solo l'ordinaria politica che qualunque Stato, che non fosse miserabile come quello italiano, avrebbe fatto. Straordinario dunque solo per il metodo, e forse anche per il fatto che, per la prima volta nella storia italiana, lo Stato nordista veniva a dare e non a prendere. Con la speranza di non essere picchiato a sangue, oserei aggiungere qualcosa.
A distanza di trent'anni si deve onestamente ammettere che, al principio, la Cassa non fu solo una grancassa. Nella prima fase conseguì i risultati che si prefiggeva. In appresso, rimangiatosi il governo una larga parte del progetto, non conseguì i risultati che non si prefiggeva più, sebbene continuasse a strombazzarli, onde portare voti ai partiti di centrosinistra. Comunque, nel giro di dieci o quindici anni, il Sud ebbe la luce e l'acqua dove non c'erano; e dove c'erano già, li ebbe a immagine e somiglianza della madrepatria padana. E poi centrali elettriche, strade, edifici scolastici, ospedali, attrezzature sportive ecc. La profusione di cemento e le architetture moderne cambiarono il volto dell'ambiente urbano, tanto che i contemporanei s'illusero che ci sarebbero stati altro lavoro e nuove produzioni. La mancanza di occupazioni era il male più doloroso. Le nuove e diffuse assunzioni clientelari, che coincisero con l'arrivo delle opere pubbliche, configurarono un modello nuovo (e scorretto) di occupazione; nuovo per la strada che bisognava percorrere onde arrivarci, e nuovo in quanto, più che di un lavoro, si trattava di uno stipendio così generoso che, in un ambiente dove i privati, per campare, lavoravano dieci e dodici ore al giorno, pareva un regalo.
Nel settore primario si ebbe la riscoperta delle pianure e delle terre vallive (la cosiddetta polpa), dove furono realizzate opere stabili di notevole consistenza e furono riportate alla produzione terre antiche, abbandonate da millenni (per esempio il Metapontino e la Sibaritide). Purtroppo, l'intervento in agricoltura entrò in contraddizione con la politica economica nazionale. Infatti, mentre la Cassa puntava alle colture alberate, e in particolare agli agrumi, a livello di politica comunitaria erano le industrie meccaniche –la FIAT e gli altri produttori di macchinari– a dettare legge. Ora, le mire espansionistiche di tale comparto s'indirizzavano verso i paesi del Mediterraneo, in particolare la Spagna. Questi paesi accettavano di buon grado le forniture italiane, ma dal canto loro chiedevano di equilibrare la bilancia commerciale proprio con l'esportazione degli agrumi. L'Italia acconsentì alle richieste. Il risultato fu Fiat-Meridione 5 a 0. L'agrumicoltura prese l'andamento folle della tela di Penelope, di giorno s'allungava e di notte veniva scorciata.
Fummo più fortunati: non ci volle molto a capire che i
progetti governativi erano bloccati da resistenze industriali, le quali
assunsero toni –è dir poco– scomposti. La Confindustria
ingaggiò in Inghilterra un'economista di mezza tacca, Vera Lutz,
che ai suoi occhi aveva il merito di sostenere che sarebbe stato
più economico per l'Italia spostare popolazioni dal Sud al Nord,
anziché spostare quattrini dal Nord al Sud. La Confindustria
volle dare al pubblico l'idea che, a gestire la nazione, meglio del
padronato non c'era nessuno. Quello sciamano di Montanelli fu messo,
come Gino Capponi, in cima al campanile, a suonare le campane della
padanità über alles. L'Italia, dalla cintola in su, fu
tutto un tremore. Le colonne del Corriere della Sera sputavano fuoco.
La Stampa era piombo rovente. Qualcuno temette che il Duce sarebbe
risorto e che questa volta avrebbe marciato su Catanzaro. Alla fine si
misero di mezzo Aldo Moro ed Emilio Colombo, che, come era loro
mestiere, allungarono il vino con l'acqua.
Montanelli fu messo a cuccia, la Stampa e il Corriere incassarono un
premio sulla carta e il padronato padano ebbe l'assicurazione che lui
–e lui soltanto– avrebbe ottenuto soldi per industrializzare il Sud.
Come a ciò abbia provveduto, lo vedono tutti. Lasciamo in pace
Rovelli e Ursini nella loro tomba, a fornire alimento ai vermi, e anche
Pomigliano d'Arco, che poco mancò che non fosse paragonata
all'Arca di biblica memoria. Segnaliamo invece ai posteri l'unico
risultato ricavato dal Sud da tanto arrovellarsi di cervelli e da tante
imposte straordinarie: l'inquinamento di Taranto e di Siracusa.
Nient'altro, perché persino l'ipotesi di rilanciare la piccola
industria nei settori maturi –a partire dall'industria bianca che era
nella tradizione sudica– morì sul nascere. E con lei migliaia di
piccoli fessi che, stimolati dalle promesse, s'erano avventurati nelle
nuove imprese, immolandoci i loro scarsi danari (il Sud è un
cimitero d'industrie, annotò il Corriere, e ancora si sta
asciugando le lacrime). Da quella marcia funebre che diventò la
Cassa è venuta fuori, però, a distanza di alcuni decenni,
qualcosa di veramente galvanizzante, il primo presidente sudico della
Confindustria. E poi c'era qualcuno che sosteneva che l'Italia era
fatta, e che mancavano soltanto gli italiani. Tutto ciò comporta
una considerazione non confutabile.
Che a governare l'Italia è il capitalismo padano, ed esso
presenta in modo spiccato il profilo dell'accattone che stende la mano
allo Stato per vivere di sovvenzioni pubbliche. Lo fu al tempo degli
elogiati Bastogi & C., lo fu al tempo di Albertini dei
trionfali
padroni (falliti) del Corriere della Sera, lo fu ancora al tempo di
Valletta e degli aiuti americani, lo è stato di recente quando,
senza l'aiuto di Gheddafi, la Fiat non sarebbe uscita dai pasticci, e
lo è tuttora, perché se i lavoratori d'ogni settore e
persino l'infima classe di reddito della popolazione non avessero
generato, attraverso l'astinenza, 700 mila o forse un milione di
miliardi, che per vie traverse sono finiti nelle mani di Lor Signori,
con il cacchio che l'Unione Europea ci avrebbe preso con sé.
Sprechi! Ma quali sprechi? Sono Loro, i capitalisti, che di giorno
rubano all'erario statale e la sera vanno a pavoneggiarsi alla Scala.
Ernesto Rossi ricorda che dopo aver ingurgitato decine di miliardi
durante la prima guerra mondiale, l'industria dilapidò tutto nel
giro di pochi anni, e che il popolo italiano dovette sborsare ben sei
miliardi, in un tempo in cui le entrate tributarie non arrivavano a
dieci, perché potesse continuare a produrre. Data la sua
posizione politica, Rossi non aggiunse che Mussolini, giustamente
spaventato dalla voragine senza fondo e senza costrutto che Lor Signori
costituivano, fece bene ad avallare la creazione dell'IRI, una forza
intelligente che l'Italia si è ritrovata dopo la guerra.
Perché, senza di essa, non avrebbe saputo approfittare del
momento magico della grande trasformazione in Europa. Questi
prosciugatori di pubbliche e sociali risorse, tornati in trono
mercé la manipolazione di un'opinione pubblica capace di bere
l'acqua salata e di affermare poi, a comando, che l'ha trova insipida,
hanno voluto impedire l'industrializzazione anche in senso
capitalistico del Sud. Era ancora un tempo in cui i settori più
consistenti della classe politica –quello di estrazione cattolica e
quello comunista– si appellavano alle forze popolari, per essere
sostenuti. Potevano –forze di tal natura– farsi legittimare
dall'elettorato se non avessero colmato con qualche toppa il divario
tra un Nord in rapida crescita e un Sud che precipitava in caduta
libera?
Una rivolta contadina che tra il 1861 e il 1865 pose con perentorietà il problema dell'assetto fondiario rimescolandosi con il lealismo verso una dinastia che non simpatizzava con i liberali, eversori dei feudi e degli antichi diritti dei contadini. Nell'antico sistema meridionale la tipologia dei contratti agrari accoglieva forme diminuite di proprietà, di cui beneficiavano i contadini, in particolare l'uso del demanio feudale per piccole colture annuali, per il pascolo e il legnatico. Tra gli enti ecclesiastici –conventi, abbazie, vescovati, parrocchie– e i coltivatori più poveri si praticavano alcuni negozi direi di soccorso, che prevedevano la cessione temporanea o permanente dell'uso del campo, in cambio di un canone o interesse ad aeternum, la decima, una rata annuale in natura o danaro, il più delle volte non consolidabile. Contadini e proprietari –fra cui abbazie e conventi– convivevano sulla terra, e giuridicamente separando il dominio utile dal dominio eminente. Questo mondo si scontrò ferocemente con la concezione anglosassone e giacobina della proprietà borghese, dell'utilitarismo e del liberismo gran-proprietario.
Infatti. Senza rivoluzioni francesi e senza risorgimenti, i contadini sarebbero arrivati a fagocitare il dominio eminente un secolo prima della legislazione che unifica tutti i contratti agrari all'affitto. La soluzione moderna data al problema nel corso dell'occupazione francese del napoletano (1806-1814) era stata quella di escludere i contadini da tali antiche consuetudini e di trasformare il feudo in piena proprietà. Quanto ai beni della chiesa, qualcosa era stata venduta già al tempo del primo Ferdinado (la famosa Cassa Sacra in Calabria), il rimanente si prometteva di alienarlo. Ma, in effetti, tanto i Napoleonidi occupanti quanto i Borbone restaurati non avevano fatto alcunché, sebbene gli uni e gli altri avessero fatto rutilanti promesse a favore dei contadini. In effetti i Borbone avevano deciso di far dormire il problema e lasciare che la situazione si decantasse da sé: i medi proprietari avrebbero fatto fruttare la terra, qualunque fosse il titolo del possesso; a loro volte i latifondisti avrebbero venduto fette di terra, man mano che il bisogno di danaro li avesse spinti. Quando Garibaldi invase il Sud, per acquistarsi la simpatia popolare proclamò a destra e a manca immediate distribuzioni di terra, per poi fare tutto il contrario (strage di contadini a Bronte). I sopraggiunti piemontesi forse pensavano di fare come i Borbone, ma la questione dell'assetto fondiario era ormai aperta. Ciò che i loro leccapiedi meridionali chiamarono brigantaggio (eterna memoria a Giuseppe Pica, firmatario dello stato d'assedio che portò al massacro intere popolazioni). A questo punto, i cavourristi potevano fare due cose, entrambe positive: o dare le terre degli antichi demani e della manomorta ai contadini, o alimentare la spinta verso la proprietà capitalistica, che era già in accelerazione nel settore olivicolo, viticolo e agrumario. Invece, siccome avevano bisogno di soldi, vendettero le terre della manomorta ecclesiastica e dei demani comunali a chi poteva comprarle, e spedirono l'argento ricavato a Bombrini (il quale l'intascò e mise in circolazione cartamoneta inconvertibile). Quelle terre che non riuscirono a tramutare in moneta sonante, le lasciarono ai liberali ultimamente battezzati, e come tali messi al comando dei comuni sudichi.
In assenza di uno Stato indipendente che affrontasse i
problemi
connessi al passaggio a nuove forme di produzione, il processo di
superamento della servitù contadina prese la forma
dell’emigrazione di massa. Né la prima grande migrazione
meridionale –tra il 1883 e il 1914 (che toccò 1/3 della sua
popolazione)– né la seconda –tra il 1948 e il 1973– servirono a
fondare uno Stato o a inserire il Sud come componente paritaria dello
Stato sedicente nazionale. Il mondo contadino sopravvisse alla prima e
sarebbe sopravvissuto anche alla seconda, se l'area padana non avesse
avuto, a quel momento, bisogno d'inaridire l'economia meridionale con
lo smercio delle sue produzioni. Nei due periodi indicati, questa
penetrazione di merci si è presentata con intensità
diversa. Al tempo della prima emigrazione, l'industria padana non era
ancora nata, e tranne lo zucchero, il tabacco, il grano importato e
poche altre mercanzie, aveva ben poco da vendere al Sud.
Le risorse meridionali venivano quindi risucchiate attraverso altre
vie, principalmente il fisco, l'ufficio italiano cambi e il sistema
bancario cavourrista, che emetteva carta-moneta e al solo costo di
stampa comprava al Sud prodotti veri per poi venderli all'estero. Si
tratta di un risvolto decisivo –anche se poco investigato– per il
sottosviluppo sudico. Infatti la valuta che il Sud procurava alla
nazione (in questo caso come non mai Una) veniva controllata dal tesoro
nazionale e da questo ceduta, a prezzi artefatti, agli industriali
cavourristi, che se ne servivano per pagare le materie prime, e agli
importatori genovesi, che la usavano per speculare patriotticamente sul
prezzo del grano. E tuttavia non fu tanto il drenaggio delle risorse
che portò il Sud alla completa rovina –malgrado tutto,
l'agricoltura continuava a produrre– quanto l'insipienza,
l'estraneità e la malvagità della classe dirigente.
Mercé gli aiuti e le idee americane, e la partigianeria dello Stato sedicente nazionale, l'apparato industriale padano decollò. Di conseguenza ebbe un impellente bisogno di clienti. E quale cliente più addomesticato del Sud? L'offerta di merci –si sa– crea i consumatori di merci. Però le merci importate andrebbero pagate con la produzione e l'esportazione di altrettanto valore (Antonio Serra, economista del 1600). L'assetto coloniale del Sud non resse all'esborso, perché i prezzi agricoli perdevano insistentemente in termini di ragioni di scambio. Incassando ben poco per pagare gli acquisti, il Sud dovette alienare una parte del capitale naturale, cioè gli uomini che andarono a ottimizzare i pallidi bilanci dei padroni di casa delle sette o otto province piemontesi e delle nove province lombarde. Subito dopo svendette anche il territorio, che divenne la fogna in cui (in attesa delle discariche, si fa per dire, abusive) il capitalismo nazionale ha piazzato le sue raffinerie e i suoi altiforni. Però nessuna emigrazione è possibile se il paese d'immigrazione non ha bisogno di mandare la cartolina precetto ai militi a riposo dell'esercito industriale di riserva.
Enormi. Una voce importante dell’economia meridionale colonizzata e, tuttora, una costante del reddito nazionale. Difficile è invece offrire un conto consuntivo. Secondo la logica già vista (al villan non far sapere…) che presiede ai riti della storiografia patria, le fonti fanno scarsa luce. I movimenti connessi a (anzi permessi da) questa fondamentale voce dell'economia italiana sono celati da dense cortine fumogene. Tutto è serrato negli archivi del ministero del tesoro, le cui porte, ovviamente, non si schiudono a chi non è sufficientemente cialtrone. Avendo l'accumulazione capitalistica interna impoverito l'intero paese (soprattutto il Sud), le emigrazioni presero a salire a partire dal 1880. La prima ondata non fu tutta di meridionali, ma a partire dal 1887 e fino al 1914 nella quasi totalità. Da allora si fa molto consistente il flusso di dollari e di pesete argentine (un tempo parecchio titolate). Le rimesse Usa non si sono mai esaurite. A partire dagli anni Trenta, si sono aggiunte quelle provenienti dall'Australia e del Canada, e dal dopoguerra quelle dal Belgio, dalla Svizzera, dalla Germania, dalla Francia, dall'Inghilterra. Gli italiani residenti all'estero oggi sono 28 milioni, cioè la metà degli italiani residenti in patria; i figli di oriundi dispersi nel vasto mondo si dice siano 60 milioni. Ma forse sono molti di più. Ancora oggi, al Sud ci sono centinaia di migliaia di famiglie che vivono con le rimesse dei congiunti emigrati o con pensioni straniere.
A casa i soldi arrivavano regolarmente. Però sotto forma di
lire, in quanto il tesoro nazionale o si teneva d'imperio la valuta
estera e spediva alle famiglie la meno preziosa moneta con l'effigie di
Umberto I, oppure incassava valuta pregiata in cambio delle lire (pezzi
di carta) vendute all'estero. Il valore internazionale di una moneta
dipende dalla facilità con cui lo Stato che la emette può
spendere valuta estera. Mi spiego. La ricchezza internazionale
dell'Italia, anche oggi, viene valutata dalla quantità di
dollari che può spendere. Se non avesse dollari da spendere,
sarebbe giudicata povera. Invece può spenderne molti ed è
giudicata ricca e civile. L'Italia del 1880 era appena in condizione di
far debiti ad alti tassi d'interesse; non di più. Svoltato il
secolo, nei primi anni del 1900 si trovò a poter pagare con
dollari e pesete. Di conseguenza cominciò ad esser giudicata, se
non proprio ricca, almeno benestante. Siccome a livello internazionale
un biglietto di banca è solo una cambiale emessa da un dato
Stato, la cambiale-lira prese a circolare benaccetta, in quanto
sottoscritta da un paese solvibile.
Il miracolo compiuto dalle rimesse portò i creditori (delle
aziende italiane che importavano merci dall'estero) a tal punto di
fiducia che preferivano avere in mano lire, per venderle a chi voleva
spedirle in Italia, anziché oro. La domanda di lire nelle borse
estere era elevata e per averne da inviare in Italia si era disposti a
pagare più (in termini di prezzo dell'oro) di quanto il tesoro
Italiano avrebbe versato a chi le presentasse per il cambio (a quel
tempo i saldi del dare/avere internazionale venivano pagati in oro
sonante). Tant’è che nei bilanci consuntivi dello Stato degli
anni Novanta dell'Ottocento era indicata anche la voce rimesse degli
emigrati, un surplus altamente strategico, più di quanto
l'Italia incassasse vendendo all'estero prodotti semilavorati,
essenzialmente seta greggia. Una crescita esponenziale, tra il 1881 e
il 1910, sul reddito nazionale, di sonante valuta estera, senza
spendere una lira.
Periodo | Esportazione di semilavorati. Valore in milioni di lire. Media decennale. | Rimesse degli emigranti. Importo in milioni di lire. Media decennale. Mil. | Reddito nazionale nell'anno iniziale del decennio. Milioni di lire | Percentuale delle rimesse su Reddito Nazionale |
1881-1890 | 377 | 694 | 9.360 | 7,4 |
1891-1900 | 381,5 | 1.574 | 11.200 | 14,0 |
1901-1910 | 587,5 | 3.734 | 12.700 | 29,4 |
Elaborazione di N. Zitara da: (prime colonne) Guglielmo Tagliacarne, "La bilancia dei pagamenti", in AA.VV. L'economia italiana dal 1861 al 1961, Giuffré editore, 1961; (ultima colonna) Paolo Ercolani, "Documentazione statistica di base", in Giorgio Fuà (a cura), Lo sviluppo economico in Italia, vol. III, Franco Angeli editore, 1969.
Con queste rimesse lo Stato pagò i suoi debiti più che quarantennali. In una parola, il Sud che aveva fatto l'Italia con i suoi danari, adesso con il suo umile lavoro ne faceva un paese benestante. Infatti si poté attrezzare industrialmente. Prima non l'aveva potuto fare perché non aveva i soldi. Nel primo decennio del Novecento lo può finalmente fare. Il movimento è questo: su pressioni governative, una banca apre un conto a favore di un padrone padano (i Toscani intanto erano usciti di scena). Adesso che la lira gode di una totale fiducia, il padrone padano spende la somma in Inghilterra, nell'acquisto di macchine. Quelle lire girano un po’ per il mondo e alla fine tornano in Italia, per essere convertite. Il tesoro tira fuori i dollari e le pesete spedite dagli emigrati, e salda. La banca lucra i suoi interessi, la Fiat diventa ogni giorno più grande, gli emigrati, la domenica, raggiungono un prato intorno a New York, si calano le brache, e mentre fanno quel che volevano fare all'aperto, gridano: viva l'Italia.
Nella prima parte dell’intervista, abbiamo messo in evidenza con Nicola Zitara le modalità con cui venne avviata l’unificazione e che andarono configurando ciò che si può definire colonialismo interno. Questo si è esplicato, principalmente, nella spoliazione dei proventi dell’agricoltura sudica e nel drenaggio di liquidità, sia attraverso il sistema bancario sia attraverso le rimesse degli emigrati. Il tutto finalizzato a gettare le basi finanziarie dello sviluppo del capitalismo del Nord. Uno sguardo che, attraversando la storia, arriva ai giorni nostri, indispensabile per capire anche come e perché si sia configurato l’”assistenzialismo” di cui avrebbe ‘goduto’ il Sud, da taluni considerato addirittura come una pratica confacente ad una sorta di atavica condizione parassitaria dell’antropologia sudica.
La ragione per cui spesso parlo della necessità di una banca
centrale del Sud (insieme con uno Stato funzionale alla produzione e
all'occupazione) non sta certamente nel corso dei cambi, ma nella
funzione predatoria che la lira cosiddetta nazionale ha svolto e svolge
in un assetto cripto-coloniale, qual è quello meridionale. Il
problema sociale e politico non è rappresentato tanto dal fatto
che il risparmio meridionale è sempre finito a Milano, quanto
dall'altro che la banca, qui da noi, finanzia soltanto i consumi,
mentre si guarda bene dal finanziare gli investimenti, evidentemente
molto più rischiosi.
Con questo sistema il Sud spreca i suoi surplus in consumi e non
può finanziare l'allargamento delle sue produzioni. Se la banca
usa i soldi che Ciccio ha risparmiato per fare un prestito a Mico, che
vuole comprare una bella cucina Scavolini, il risparmio dei meridionali
finisce nel consumo di merci nordiste. Certo Mico ha la sua bella
cucina, ma la collettività meridionale ha sacrificato, a favore
di un consumo vistoso, dei mezzi che sarebbe stato meglio destinare ad
investimenti produttivi…
Ma cosa succede di così politico dietro le arcigne vetrine delle
agenzie bancarie, ubicate sulle strade principali di città e
paesi meridionali? Semplicemente questo. La banca riceve risparmio e
paga un interesse. Se non commercia la raccolta, non lucra, e se non
lucra la borsa la punisce. E se la borsa la punisce, il direttore
generale, i suoi più stretti collaboratori e il personale
dirigente pagano con la carriera.
Non bisogna dimenticare, infatti, che il guadagno di qualunque banca
è dato dalla differenza tra il totale degli interessi che paga e
il totale degli interessi che le vengono pagati. Ma gli affari
potrebbero andare male anche se la banca presta troppo facilmente il
danaro all'impresa che sta già rischiando il suo, cioè a
quella che ha più bisogno di credito. Cosicché la banca
italiana (nazionale), che è costretta a rischiare perché
il danaro raccolto deve pure commerciarlo, rischia al Nord, dove il
rischio è minore. Ciò vale anche per le banche locali, le
quali, nel caso che i depositi non possano essere commerciati con
tranquillità sul posto, li affidano alle loro consorelle del
Nord.
Al Sud, il cliente più tranquillo e più disposto a pagare interessi è il commerciante; anche lui inconsapevolmente attivo in politica più di un leader. Il commercio è un mediatore essenziale della politica nazionale, in quanto assolve inconsapevolmente al dovere patriottico di drenare il risparmio dal Sud al Nord. Infatti usa il risparmio sudico per comprare al Nord. In buona sostanza, più che di un commerciante si tratta d'un importatore di merci padane (adesso anche europee) che offre in vendita al pubblico meridionale. Non è necessario che questo meccanismo compia giri vorticosi. Basta il normale consumo per trasformare il finanziamento bancario in una forma di sbocco pre-finanziato dell'industria (ovviamente) padana. La cosa non solo è antieconomica, distruttiva; è anche e soprattutto immorale. Immancabilmente il liberismo commerciale arricchisce i padroni e i proletari di un paese, e fa un autentico cimitero del mondo restante. Il sistema del libero scambio potrebbe andar bene solo se tutti i popoli possedessero la stessa tecnologia e lo stesso numero di portaerei. In mancanza di ciò, è un vero veleno. Non dico che le nazioni non debbano intrattenere fra loro scambi commerciali, ma l'azienda-nazione non è diversa dall'azienda famiglia. Se un membro della famiglia, che non ha niente da fare, sa pescare, diventa ridicolo andare al mercato a comprare il pesce.
In sé la moneta è solo una convenzione. Perciò,
quando parlo della necessità di una banca centrale meridionale,
esprimo un'esigenza subordinata. La principale consiste nel restituire
agli uomini del Sud italiano la sovranità sul loro paese;
sovranità di cui, il diritto di lavorare e produrre, costituisce
la bussola. Quando i dentifrici, i rotoli di carta igienica, la
televisione non bastano, è regolare che arrivino i
cacciabombardieri e le bombe al Napalm, come nel Vietnam. Comunque
dentifrici e televisione sono un'arma capace d'assoggettare i cervelli
di masse sterminate di uomini. Ed è giusto e anche necessario
difendersi.
Al Sud italiano, la banca si è concretizzata in un'istituzione
malefica a base usuraia, parassitaria e burocratica. Il prolungamento
sudico della banca nazionale italiana configura un'istituzione che sta
fuori del mercato. Non opera come un'azienda commerciale, ma come un
robot, come una macchinetta per le sigarette. Segue schemi, e non
l'economia.
Per prima cosa le aziende nazionali sono troppo numerose in rapporto al
prodotto interno lordo meridionale. Ognuna di esse sostiene spese fisse
incongrue rispetto al modesto giro d'affari, e ciò ricade in
modo negativo sia sul risparmiatore sia sul mutuatario, riducendo la
remunerazione del primo e aggravando i tassi a carico del secondo. In
un paese che produce poco e dove il risparmio è scarso (in
rapporto al Nord), esso dovrebbe andare incoraggiato, sollecitato con
interessi più elevati. Almeno così vorrebbero gli
automatismi di mercato. Però le banche, su questo versante,
fanno finta di niente e danno sempre una spiegazione che sembra logica
e pratica: il costo del servizio è eccessivo rispetto agli utili
che produce. Esatto, ma perché vi scapicollate ad aprire tanti
sportelli? Rispondono: ci assicuriamo delle buone posizioni per il
futuro. Sottinteso: il quale sarà certamente migliore. Speriamo
che sia veramente così, intanto i costi del futuro non li
sopporta l'azienda che ci scommette, ma i suoi clienti. Comunque sia,
il risparmio meridionale è sovrabbondante rispetto
all'utilizzazione che il Sud ne fa. Infatti una parte consistente,
circa il 25%, parte dagli sportelli meridionali e fa un lungo viaggio
per essere messo a disposizione degli sportelli centrosettentrionali.
Siamo, qui, alla seconda violenza che l'istituzione bancaria nazionale
fa agli automatismi di mercato.
La regola sarebbe che, quando una merce è sovrabbondante, il suo prezzo scende. A depositi sovrabbondanti (rispetto alla domanda di credito) dovrebbero corrispondere tassi di sconto ribassati. Invece il Sud paga interessi almeno doppi che a Milano, Torino e Bologna. Fino a qualche tempo fa, banche come la Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania spogliavano letteralmente il debitore con tassi spesso superiori al 30%, che quando il rapporto finiva in tribunale diventava, per via delle spese legali spropositate, il 100, il 200 e anche il 300 o il 500%. Pareva che i tribunali meridionali non avessero altra funzione che quella di portare alla totale rovina i debitori inadempienti. In un paese dove una causa civile dura mediamente dieci anni, le banche ottenevano giustizia a tamburo battente e senza che mai un giudice nominasse un perito per stabilire se il credito vantato non fosse infarcito di profitti illeciti e correttamente definito nell'ammontare. Sentenziavano che la banca aveva ragione, e che, meglio di lei, nessuno poteva fare i conti. Oggi che la soglia dell'usura si è dimezzata, non c'è banca che non spelli il cliente con un tasso reale del 14,75%. Le banche mangiano pure la notte, si diceva al mio paese quand'ero bambino. Con questo vampiro che succhia il sangue degli innocenti annidato alle sue spalle, nessuna azienda meridionale, fermo restando il sistema, può avere un avvenire. Prima o poi la banca se la mangia. Si tratta di una regola storica, e sarebbe bene che la storia la santificasse e i compilatori delle leggi la rendessero visibile.
Sì. Maggiore è il risparmio disponibile sulle piazze settentrionali, minore è il tasso di sconto. E qui abbiamo la vera spiegazione del numero di sportelli sproporzionato rispetto alle attività del povero Sud. Il danaro sporco è un bene nazionale, e niente è più autenticamente nazionale nel Nord. Il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia e centinaia di altri minori istituti sono arrivati sulla soglia del crac a causa di una selezione fra la clientela mafiosa. I mafiosi ricchi e portatori di danaro trovavano larga accoglienza nelle agenzie milanesi e torinesi; i mafiosi scalcinati e truffatori, invariabilmente raccomandati dal notabile di turno, finivano in quelle meridionali. L'ammontare del risparmio meridionale drenato a favore degli sportelli padani, è dato pubblico, visibile. Ma vi è un drenaggio ancora maggiore. In un tipo d'azienda in cui il personale costituisce il costo più importante, la sede centrale attira le rendite realizzate in periferia e fonda la sua corte. È lì che si concentra il lavoro meglio remunerato dei consiglieri d'amministrazione, dei dirigenti generali, dei dirigenti centrali, degli addetti agli uffici studi e agli uffici legali. Ed è in queste stesse capitali che si riversa la munificenza delle banche, i cui azionisti sono in genere pubbliche istituzioni locali e non possono per legge mirare al lucro. Teatri, biblioteche, pinacoteche, musei, case editrici, bande musicali, stampatori, designer dell'Italia padana vivono una vita prospera, mercé i donativi di banche nazionali. Una forma di colonialismo anche nella dislocazione del personale. Gli addetti più capaci, che sarebbero sommamente utili dove la vita economica mostra maggiori difficoltà, sono attirati nelle capitali bancarie, dove basterebbero capacità mediocri. Lo spettacolo che offre il personale bancario impiegato al Sud è desolante. A volte il livello scolastico è buono, ma la formazione economica fa letteralmente sorridere. Totale è, poi, la sconoscenza della specificità dell'ambiente economico in cui operano. Informazioni a livello di marciapiedi. Giudizi da caffè. I dirigenti si muovono a lume di naso: fiutano l'aria come il Commissario Rex. E vanno avanti con il fiuto, rimescolato alle prescrizioni evangeliche delle direzioni centrali. Da questo impasto viene fuori quello che tutti vediamo: il monte di pietà, il credito di consumo. Per giunta concesso solo ai pubblici dipendenti, sulla base della cedola del tesoro. La più impegnativa tra le operazioni attive è rappresentata dall'acquisto, per conto del cliente, di un Bot; eccezionalmente, quando il cliente si lascia convincere, dell'acquisto del titolo che la direzione centrale spinge in quel momento. Spesso mi chiedo perché non ci lasciano con le vecchie e rassicuranti Poste Italiane e non se vanno. Infatti, al Sud, la banca nazionale fa un'altra cosa, non certo la banca. È come se fosse un travestito, un'azienda né carne né pesce, che non osa fare il suo mestiere, né nella forma antica del monte di pietà, né in quella moderna. La banca moderna è nata per mettere a disposizione degli operatori economici il risparmio raccolto e il danaro fiduciario che è autorizzata a creare. Come annotò Schumpeter, la banca è un polmone che dà l'ossigeno con cui l'industria respira. Mobilizzando ricchezza immobilizzata e creando danaro fiduciario, la banca alimenta la produzione e l'attività delle persone. Tutto questo, qui da noi, si riduce a una bomboletta di gas lacrimogeno. Chi ha da fare con la banca, piange soltanto. Mai uno che rida.
No. Sulla cosiddetta Politica Agricola Comunitaria –concordo
con
l'economista agrario Roberto Fanfani (L'agricoltura in Italia, il
Mulino, 1998)– il sostegno effettivo dei prezzi e dei mercati ha
privilegiato i prodotti tipici delle agricolture continentali: cereali,
seminativi, latte, carne bovina e suina, eccetera. Le colture
mediterranee, circa il 25% della produzione agricola dell'Unione
Europea, beneficiano solo del 12% del totale della spesa per il
sostegno dei prezzi. Il mercato agricolo comunitario è
evidentemente falsificato dal fatto che l'Unione Europea, come tutti i
paesi imperialisti –dall'Inghilterra di Gladstone agli USA di Bush–
è liberista a casa degli altri e protezionista a casa propria.
Il Sud, pur essendo dentro l'U.E., fa parte degli altri, e
perciò soggiace –invece che partecipare– al protezionismo
comunitario e alle frontiere daziarie elevate a difesa dei settori che
s'intende proteggere.
Ma è in generale la filosofia agricola comunitaria che non va
per il Sud. A noi tocca prendere coscienza che l'Europa inglese,
tedesca, francese, e adesso anche quella spagnola, guarda al
Mediterraneo centrorientale –al quale il Sud italiano appartiene– con
gli occhi smarriti del consumatore di petrolio e contemporaneamente con
gli occhi cupidi del venditore di macchine. Altro Mediterraneo, per la
cultura europea, non c'è. In questa materia bisogna essere
chiari e precisi. Non è il fatto che gli agricoltori meridionali
ricavino un introito minore, e neppure l'altro che debbano sostentare
quelli continentali –i poverini, quelli che marciano in trattore, anzi
in Trattore, su Roma, Parigi e Bruxelles, perché non amano
pagare le tasse, sebbene guadagnino ogni anno cento volte ciò
che guadagna un lavoratore meridionale. No, non è per giocare in
borsa che i contadini meridionali dovrebbero essere sostenuti.
Né è in ballo il pane quotidiano. Qui è in gioco
la dignità dell'uomo: cittadino solo nelle carte fondamentali
–in effetti sberleffi costituzionali– e quando si tratta di assicurare
con il voto una congrua parlamentare a gente inutile, impotente e per
giunta nemica acerrima dei suoi stessi elettori.
Quando, quarant'anni fa, fu avviato il Mercato Comune, i governanti dei sei paesi partecipanti immaginavano che l'esercito industriale di riserva, tenuto in congedo illimitato, senza soldo e senza rancio, sarebbe stato allevato in eterno dai paesi del Sud: il Meridione italiano, la Spagna, la Grecia, il Portogallo, la Turchia. Pertanto vollero che l'agricoltura meridionale continuasse a produrre disperati. Per ottenere tale risultato bastava non fare: l'incompatibilità economica tra l'alto costo della vita –quella di un paese industriale– e il basso valore di mercato delle produzioni, deliberatamente esposte alla concorrenza dei produttori extracomunitari (a basso costo della vita) avrebbe provocato l'auspicata disoccupazione. A distanza di qualche decennio, gli eupatridi si sono resi conto, però, che si sbagliavano. I morti di fame non era necessario allevarli, arrivavano spontaneamente da altri continenti. L'Inghilterra, madre di ogni sapere capitalistico, era già zeppa di gente colorata. Così hanno cambiato politica. Aiuti allo sviluppo a piene mani. L'Irlanda, la Spagna, la Germania Est, il Portogallo vi attingono –come è giusto– a piene mani e vanno ristrutturandosi. L'Italia no! L'Itaglia è sempre figlia di Cavour. Se al Sud giova qualcosa, si decide di farla solo se prima giova al Nord. Facciamo gli acquedotti, le strade, gli ospedali? Sì, certamente, i cementieri e i tondinari ci lucrano. Facciamo le scuole? Si, certamente, se no la Zanichelli e la Paravia vanno a gambe levate. Gli mettiamo anche il telefono? Ma certo, anche loro debbono contribuire a pagare gli ammortamenti. Gli diamo i soldi per coltivare? Ma sei pazzo! Ci farebbero concorrenza, diamogli meglio i soldi per una casa. Ci guadagniamo tutti. Più grande è la casa, più interessi pagano in banca e più detersivi consumano.
Non va la politica e nemmeno la filosofia agricola
comunitaria, per
i maltrattamenti che ha inflitto e infligge agli agricoltori
meridionali (e non solo per questo). In sede di reddito pro-capite, il
protezionismo agricolo comunitario non sarebbe da avversare, essendo in
generale diretto a colmare il divario tra produttività in
settori esposti alla concorrenza dei paesi poveri e settori industriali
protetti dai loro stessi standard tecnologici. Basterebbe combattere la
politica dei due pesi e delle due misure fra agricoltori continentali e
agricoltori mediterranei, e rispettare la vocazione dei terreni (la
terra s'intristisce quando viene trattata da fabbrica).
L'agricoltura meridionale, deliberatamente distrutta
dall'attività contraria della Comunità, va ricostruita,
mentre la politica comunitaria tollera appena l'esistente agricolo, e
solo per finalità demografiche. Figurarsi se si piglia la pena
d'investire in strutture agrarie! L'ipotetica azione dovrebbe
rispettare la logica dualistica dell'assetto fondiario meridionale nata
ad opera del mercantilismo borbonico e sviluppatasi poi, pienamente,
sotto il governo della Destra Storica (al fine di estrarre dal
Meridione il surplus occorrente alla costruzione dello Stato nordista).
Tale dualismo si fonda su colture rivolte a produrre un surplus
nazionale e colture per il mercato locale.
La storia agraria del Sud conosce parecchie colture d'esportazione. Al
grano ho già accennato. Un tempo ci fu il gelso, in connessione
con la produzione serica, ma i baroni genovesi, venuti qui come usurai,
mandarono quell'arte a gambe levate. C'è ancora l'olivo che, pur
essendo stato una costante dell'agricoltura italiana, domina –tranne
alcune aree– le terre del Sud a partire dal Settecento. C'è
ancora il vino, che altrove dà una produzione magnifica. Al Sud,
però, sappiamo ottenere soltanto un semilavorato, il vino da
taglio. La coltivazione del gelsomino è stata abbandonata, e
quella del bergamotto è fra color che son sospesi. Prospera
è invece la coltura dell'uva da tavola. Ci sono infine gli
agrumi e gli ortaggi, che nella prima metà del ventesimo secolo
ebbero una notevole fortuna, e che non mi pare possano superare le
attuali difficoltà. In Sicilia e in Calabria occupano la
superficie irrigua, che si estende su 349 mila ettari (185 + 164).
Come in numerose altre terre del mondo, al Sud convivono
colture per
il mercato mondiale (che davano surplus spendibili di grandezza
nazionale) e colture autarchiche, rivolte all'autoconsumo e al mercato
locale. Fino al tempo di Mussolini, la coltura principale fu il grano.
Le terre del Sud non hanno, però, una gran vocazione per i
cereali. I contadini li coltivavano perché affamati. Cercavano,
con il superlavoro, di sottrarsi al fabbisogno di moneta; i proprietari
invece per il bisogno opposto, quello di acquisire entrate monetarie.
Ma, dopo la grande trasformazione e la conseguente fuga dei lavoratori,
produrre ancora grano è divenuto un non senso. È la
stessa cosa che riprodurre l'improduttività.
Tanto per dirne una, sulle colline meridionali, prima dell'antica
produzione granaria, c'era il bosco –querce principalmente– e a bosco
esse dovrebbero tornare. Ciò darebbe una produzione dal valore
economico sicuramente maggiore, e dal valore ambientale
incalcolabilmente maggiore, perché renderebbe più fertili
le zone vallive e le cimose costiere. Ma, il bosco, mai è stato
opera dei contadini, dei piccoli privati agricoltori, che si applicano
a produzioni che maturano nell'annata. Storicamente è opera: o
della natura, o del feudatario, o dello Stato. Ma questo Stato, del
Sud, non sa niente. Neppure la storia e la geografia. Né la sua
sapienza negativa può essere colmata da una sapienza positiva
delle classi dirigenti locali, che non avendo proprie fonti di reddito
(ma solo entrate provenienti dal centro romano), si applicano a rubare
coscienziosamente allo Stato.
Niente al bosco, niente all'uva, ben poco all'olio, zero agli agrumi
–le colture classiche alla vocazione delle terre sudiche– lo Stato
continua a regalare settecentomila lire ad ettaro a chi semina grano.
Insomma alimenta una coltura contraria alle vocazioni ambientali, e per
giunta in una fase economica in cui non è utile; dimenticando
poi che, qui, grano vuol dire stoppie, che le stoppie, qui, vogliono
dire fuoco, che fuoco, qui, vuol dire migliaia di miliardi in fumo ogni
anno.
L'impegno profuso dagli agricoltori meridionali tra il 1835 e
il
1950 non è ripetibile. Accadeva, allora, che la quota di surplus
proveniente dall'esportazione olearia venisse in parte reinvestita
nelle piantagioni agrumicole e nell'orticoltura d'esportazione. Ma
oggi, al Sud, non esiste più un surplus agricolo (e neanche un
surplus fondato sulla produzione in generale, ma esiste solo del
risparmio da lavoro subalterno effettuato al Nord, o anche effettuato
qui, alle dipendenze dello Stato o di imprese nazionali) e manca
qualunque vocazione all'investimento privato. Nella sua faccia
meridionale il sistema non dà la necessaria fiducia. Al Sud
l'agricoltura è vista come un'attività marginale rispetto
all'impiego pubblico e a quello nelle filiali meridionali di aziende
private settentrionali, rispetto alla libera professione e al commercio
di distribuzione di merci settentrionali.
Ora, per portare nuovamente alla produttività le terre
meridionali ci vuole una rivoluzione politica e mentale. Infatti la
filosofia comunitaria prevede interventi di orientamento (recte: di
sostegno all'iniziativa privata) e mai un'opera d'intervento (che
sarebbe peccaminosa). Ma, ammesso e non concesso che l'Unione Europea
prenda a cuore i problemi del Sud, quale orientamento potrebbe mai
rianimare la libera iniziativa di atomistici produttori, la cui fiducia
è spenta ormai da quarant'anni? Quale privato piccolo
capitalista s'impegnerebbe in attività perdenti a livello
continentale?
Eppure la prima cosa che il Sud dovrebbe fare è riuscire a
formare dei surplus permanenti che gli consentano di pagare le
importazioni di grano e di carni vaccine. E se tale risultato si vuole
ottenere è necessario ridare una nuova destinazione produttiva
alle cimose costiere, rese irrigue dall'opera secolare dell'uomo; le
terre in cui, attualmente, è insediato l'agrume, non più
competitivo.
Si tratta di una scelta non facile che, se lasciata ai singoli,
impiegherà cinquant'anni a farsi chiara. Solo gli studiosi
possono ridefinire le nuove opportunità economicamente vincenti
e solo il potere politico può agevolarne l'adozione (e non
è certo fatuo per un meridionale rimpiangere il ruolo che ebbero
in passato l'università di Portici e il centro agrumario di
Catania).
Aggiungo un’istanza irrazionale (ovviamente per la logica
capitalistica), del tutto diversa, quella che attiene alla
qualità della vita. Sulle rive del Mediterraneo l'agricoltura
è così antica da essere l'estensione più
importante della cultura privata e collettiva. Direi che è
amore, un amore simile a quello che gli uomini hanno per i cani e i
gatti, che continuano a vivere con noi sebbene le case possano essere
difese dai topi con mezzi chimici e dai ladruncoli con strumenti
elettrici ed elettronici.
Gli storici di scuola francese credo abbiano ragione d'insistere sui
caratteri di lungo periodo che coinvolgono i popoli e le terre. Nella
storia economica del Sud –non solo italiano– la base sociale
dell'agricoltura è l'orto, che non è fatto solo di agli e
cipolle, ma anche dell'albero da frutta. L'orto non è
antieconomico. La storia mostra come esso si coniughi bene con la
mercatura e il commercio. Se il piccolo commercio funziona, anche le
aziende atomistiche danno risultati accettabili. Se ci si guarda
attorno, non è difficile capire che il lavoro nell'orto
può ben essere una specie di part-time, o forse è meglio
dire un dopolavoro economicamente proficuo. Il podere mediterraneo,
come si ebbe in Attica e in Palestina duemila e cinquecento anni fa,
esiste tuttora e ovunque nel Meridione. Oggi viene condotto
specialmente da pubblici dipendenti, donne e pensionati. Di regola la
produzione non è orientata dalla domanda di mercato, ma è
rivolta al consumo familiare. Ma qualche eccedenza, complessivamente
non insignificante, arriva sul mercato. Solitamente è genuina,
ma non viene adeguatamente premiata. Ora la logica dominante sconsiglia
che nelle piccole aziende si facciano investimenti di qualche
serietà. Ma è un errore. Servirebbero, invece, degli
interventi promozionali idonei a dare sicurezza e guadagni a questo
tipo di conduzione.
Il reddito pro-capite ne gioverebbe. Inoltre, l'impegnato impiego del
tempo libero gioverebbe a migliorare la generale qualità della
vita. Le famiglie avrebbero un radicamento più sano, non
convulso, e i giovani crescerebbero conoscendo meno la TV pistolera e
più la natura. Quello che imparano a scuola –specialmente le
scienze– non resterebbe conoscenza astratta e inutile ai più.
Con il doppio lavoro –e il doppio interesse– paese e campagna
potrebbero unificarsi esistenzialmente, come un tempo. La campagna non
sarebbe più un deserto messo a produzione e la città
un'isola congestionata di abitatori motorizzati e alienati. Ne
guadagnerebbe anche la salute alimentare, perché i prodotti
agricoli sarebbero meno appestati di concimi, diserbanti e
anticrittogamici. In effetti la prima regola di una buona agricoltura
è rappresentata dal rispetto della naturale vocazione dei
terreni, o per dir meglio, del particolare assetto ecologico. Torna
così, inevitabilmente, il discorso politico.
L'agricoltura meridionale –direi la stessa vita dei meridionali– soffre della logica delle grandi dimensioni, su cui si sono orientati gli Stati europei perché essa è funzionale all'industria, che sostiene di aver bisogno di larghi sbocchi perché possa raggiungere dimensioni di scala. Ora noi abbiamo di fronte due esiti diversi della grande scala in agricoltura: quella trionfale dell'America del Nord e quella fallimentare della Russia sovietica. Applicata in Europa, nei settori dell'allevamento bovino, del grano e della barbabietola, mi pare che abbia prodotto più disastri che utili. Infatti la qualità delle produzioni se n'è andata a ramengo; quanto, poi, al conto profitti e perdite, è visibile a tutti che non ci sarebbe una sola azienda non fallita, se la Comunità non si fosse accollata gran parte dei costi. Credo che l'esigenza di grandezza, oggi, sia più supposta –per nascondere fini di classe– che vera. È probabile –e adesso ne abbiamo anche qualche prova– che piegando la macchina all'uomo si ottenga un miglior risultato che piegando l'uomo alla macchina. Cosicché, per rianimare il Sud, non basta uscire dall'Italia Stato e dall'Europa - mercato unico dei prezzi e della moneta. Il Sud italiano dovrebbe uscire da una cultura economica e morale alla quale è subordinato, nella quale però non s'è mai veramente integrato, che viene dall'utilitarismo inglese e americano, e dal liberismo gran-proprietario, duro da digerire fra gente d'antica civiltà.
Per il popolo meridionale, scarso di redditi e totalmente
spogliato
di un apparato produttivo, sicuramente l'euro è meglio della
lira. La moneta comunitaria si è rivelata parecchio più
debole di quanto qualcuno (compreso me) immaginava. Tuttavia,
nonostante il calo sul dollaro, l'euro aspira a conservare la sua
capacità d'acquisto all'interno dell'area monetaria europea,
cosa che sicuramente non si può dire della lira, che, nei
cinquant'anni trascorsi, gli italiani furono loro malgrado costretti a
vedere passare senza soste da una parità a una minore. E non
tanto per debolezza propria, quanto perché FIAT & C.
imponevano alla Banca d'Italia l'aggiotaggio al ribasso,
affinché essi non perdessero i mercati a moneta forte. Certo la
scala mobile imponeva la scala mobile opponeva una qualche difesa a
tali giochetti, ma al Sud, dove di grandi aziende, obbligate al
rispetto dei contratti collettivi di lavoro, ce n'erano (come ce ne
sono) poche, il meccanismo fu un flatus vocis per la generalità
degli occupati. Figurarsi per il senza lavoro! Di fronte
all'inflazione, il venditore di merci reagisce subito aumentando i
prezzi, il lavoratore dipendente (se manca un automatismo che fa
scattare il salario) prima o poi impianta una lotta per tentare di
recuperare la capacità d'acquisto perduta, ma il lavoratore
senza lavoro e senza salario può solo impetrare la giustizia di
Dio.
Ogni collettività produttiva (un'azienda-nazione), se vuole
continuare a produrre, deve risparmiare una parte del valore prodotto
(surplus) e investirlo in macchine e impianti (capitale). Accade,
però, che l'azienda-Sud (coloniale rispetto all'azienda-Italia e
al sistema capitalistico europeo) sia invisibilmente depredata del suo
risparmio ad opera del corso nazionale della moneta; e già ora
-e molto più in futuro- della moneta comunitaria.
Per niente. È evidente che il mercato europeo è giunto ad un alto grado d'integrazione e di penetrazione. Storicamente l'ampiezza del mercato (nella categoria mercato includo le infrastrutture e tutte le economia esterne) definisce anche l'ampiezza geografica dello Stato, della funzione politica, del prelievo fiscale e dell'ordinamento militare. La categoria Stato implica a sua volta la categoria governo, e quindi la categoria sovranità. Subiremo una sovranità europea formalizzata, ma questo Stato continentale non sarà una nazione. Torneremo indietro (per qualche decennio o qualche secolo) al federalismo dell'Impero Carolingio, alla contea di Borgogna e al ducato di Allemagna, cosa di cui il federalismo fiscale di Miglio, Tremonti e Cacciari, che pedinano gli gnomi di Francoforte, è la versione pacchiana (il fottisterio legalizzato di industrie e banche). Così com'è organizzata l'Unione Europea somiglia a uno zoo. Una sommatoria di popoli impediti alla fusione e confusione dalle gabbie confindustriali e sindacali frapposte dai padroni e dai sindacalisti nazionali. Popoli senza un governo che possa porsi i problemi di fondo e senza un parlamento che possa decidere altro se chiudere o meno le finestre dell'aula. Il Sud non ha niente da sperare nella Comunità Continentale Europea. L'inclusione sarebbe, infatti, servile, e non solo a causa della scarsità di attrezzatura industriale che porta all'idea di ricostruzione, ma anche nel senso che saremmo ulteriormente costretti a piegarci a una cultura che non è nostra e che istintivamente non riteniamo meritevole d'imitazione.
Che federalismo è mai questo che ripartisce le entrate fiscali, in modo che le regioni ricche possono spendere di più senza aumentarsi le tasse? Un federalismo che assegna il gettito dell'Iva alla regione che incassa e non a quella che la paga? La sola versione di federalismo che farebbe al caso nostro è quella che ripartisce le banche nazionali, le industrie nazionali, il turismo nazionale e straniero, la Scala di Milano, l'Arena di Verona, i mesi di pioggia, la Galleria degli Uffizi e magari il Colosseo, un tanto per regione. Dal canto nostro potremmo dare una quota parte delle giornate di sole e di quelle di scirocco, qualche milione di disoccupati e perfino una gamba dei Bronzi di Riace. Il federalismo è un’idea di Bossi. Sembra concepita da Molière nelle more tra la composizione dell'Avaro e quella del Tartufo, e alla Padania serve per non fare il soldato. Come idea liberatrice dei pesi che il Nord sostiene a favore del Sud, è solo un'idea cretina. Infatti il sistema è già strutturato in modo che il Nord abbia dal Sud quel che il Sud è capace di dare, e dà patriotticamente. E non l'opposto. Certamente il tribalismo federale non cambierà i rapporti Sud/Nord, che sono già iscritti nei meccanismi di mercato, nelle merci che tolgono lavoro, nella gestione nordista del credito. La cosa nuova dopo cinquant'anni è che il Sud non avrà più soldi da spendere. Ma anche il Nord avrà ben poco da incassare. Il Sud –che nella vita nazionale prima contava poco, perché dava senza fare la fattura, e adesso conta zero, perché funziona da imbuto: rilascia ciò che incassa, senza pretendere lo scontrino– che farà di sé?
Rimessa in riga la spesa, il Sud sarà consegnato alla classe politica locale, fatta dalle stesse persone che, avendo la residenza a Roma, fanno parte della classe politica nazionale. Cioè gli ascari.
Gaetano Salvemini definì ascari i sostenitori meridionali del governo padanista, impiegando per traslato il termine con cui venivano chiamati gli eritrei assoldati dall'Italia per combattere il loro stesso popolo. Un disastro di inaudite proporzioni è stata la dilatazione del pubblico impiego, un provvedimento stimolato dall'esigenza di salvare i rampolli delle classi redditiere che avevano fornito –e avrebbero dovuto ancora fornire– i reggimenti aborigeni (gli ascari) a difesa del sistema cavourrista. Dilatando il concetto salveminiano, credo sia consentito affermare che, in Italia meridionale, l'ascarismo è la cultura adottata da tutte le forze politiche e sindacali unitarie, e oggi anche dai federalisti. Consegnati in mano agli ascari, il pubblico intervento e la spesa ordinaria fornirono gli ormeggi a una classe sociale e politica già alla deriva, inchiodandola sulla testa dei sudichi, come una corona di spine. Pagato il pizzo alla Confindustria, fatte le cosiddette opere di civiltà (quasi che la civiltà potesse essere opera di Misasi e di Mancini), per il resto la spesa pubblica è servita ad appaesare i partiti padani e i sindacati nordisti. Mezzo milione –poco meno o poco più– di occupazioni improprie hanno guastato il mondo meridionale nel profondo. Il degrado morale, deliberatamente esteso alle classi subalterne, ha portato allo sfascio l'antico civismo ed ha alimentato la mafiosità. Casi esemplari ne sono le decine di migliaia di forestali calabresi –dei nullafacenti coccolati dai sindacati e dai partiti– che incendiano i boschi per assicurarsi la pagnotta, e quegli altri nullafacenti dei cosiddetti lavori socialmente cosiddetti utili (due falsificazioni cavourriste in un concetto di appena tre parole).
Prima dell'ultima Guerra Mondiale, nella Sicilia occidentale e
nel
reggino calabrese, la mafia (sinteticamente per malavita contadina)
aveva uno spazio sociale e lavorativo nelle guardianie dell'acqua per
l'irrigazione dei preziosi agrumeti –preziosi non solo per i
proprietari, ma anche e forse soprattutto per l'economia nazionale,
essendo arance, limoni e mandarini la voce più importante delle
esportazioni nazionali. Al tempo del fascismo la mafia era soltanto un
problema criminale. Un problema sociale –e non solo nelle zone mafiose–
era semmai la netta separatezza tra mondo urbano e mondo contadino. Gli
urbani, non solo volevano che i contadini avessero una condizione
sottomessa, ma una parte di loro –la piccola borghesia impiegatizia e
commerciale– inclinava anche a emarginarli, a tenerli fuori: i forisi.
Nel dopoguerra il problema criminale diventa secondario. Con la
democrazia politica si fa spazio una cultura criminale più
tollerante. Cresce invece, nelle zone agricole, la frizione sociale, in
quanto il mercato nero (prima) e la più efficace penetrazione
dell'economia di scambio (poi) spingono intere falangi di contadini a
inurbarsi, per inserirsi nel piccolo commercio. I nuovi orientamenti
politici nazionali portano infatti all'eliminazione degli impedimenti
precedentemente frapposti alla penetrazione dei contadini nel
territorio degli urbani; quelli legali voluti dal fascismo e quelli
classisti –invisibili legislativamente, ma molto forti– dell'epoca
anteriore. Il nuovo conflitto è alquanto rispecchiato, nello
schieramento politico, dalle formazioni estreme: la destra
monarchico-fascista a favore degli urbani e il partito comunista a
favore dei contadini. Dal canto loro i partiti intermedi
–democristiani, socialisti, repubblicani, liberali, socialdemocratici–
accettano l'esodo contadino e cercano di mediare le frizioni, con
parecchia tolleranza per l'aspetto criminale.
Alla genesi dello Stato repubblicano bisogna riportare anche la
rinascita del vecchio clientelismo prefascista. Sul piano elettorale i
contadini meridionali hanno lo stesso diritto al voto dei veri
cittadini. Anzi negli anni del dopoguerra sono persino politicamente
rappresentati da due partiti: i comunisti, che fanno immaginare la fine
dei padroni-redditieri, e la democrazia cristiana che offre i mezzi per
la formazione di una classe di coltivatori diretti. Ma nel corso della
Ricostruzione cosiddetta nazionale l'immaginario comunista sfuma,
mentre sul versante della formazione della piccola proprietà
coltivatrice il processo è lentissimo.
Quando l'arcaicità del progetto comunista diviene chiara, i contadini perdono almeno uno dei due punti di riferimento endogeni, essendo, gli altri partiti, delle formazioni politiche nordiste, calate al Sud con programmi fatui ed esotici. Siamo nei primi anni Cinquanta. A questo punto comincia la farsa. Il PCI ripiega senza una vera resistenza; la DC incalza, ma nel frattempo il suo progetto ruralista viene superato dai fatti, cioè dalla fuga dalle campagne in seguito alla più penetrante diffusione delle merci settentrionali. Messo in difficoltà, il partito cattolico risuscita il modello giolittiano di governo del Sud, e lo estende alla campagna.
Sì. Per il candidato –regolarmente un urbano– i contadini
sono difficili persino da raggiungere; e se raggiunti, contestano,
perché l'interessata intrusione d'un urbano fa riemergere
l'antica sfiducia e i temi del permanente conflitto. Comprare il
consenso del capobastone contradaiolo diventa, allora, per il
candidato, il passaporto per ottenere il voto contadino. Il risultato
è positivo (ovviamente per la DC) cosicché, dove la mafia
è assente o ha una debole presenza, l'eletto fomenta i
capibastone perché si prodighino a suscitare imitazione intorno
al voto di scambio. I nuovi adepti vengono accarezzati, coccolati. Nel
reggino, i gruppi mafiosi, che avevano complessivamente la dimensione
di qualche migliaio di adepti, passano ad averne decine di migliaia. Ma
cosa riceve il boss campagnolo dal politico? Certo non terra, non siamo
più all'assetto feudale. Il candidato può donare solo
Stato, spesa pubblica. La sanità ospedaliera non è ancora
nata e la Cassa per il Mezzogiorno è solo al decollo. D'altra
parte il sistema centrale, se incoraggia il malaffare a livello locale,
a livello centrale ha ancora qualche pudore. È quindi sui
bilanci dell'ente locale che finisce per gravare il costo del voto
mafioso. Le opere pubbliche comunali e provinciali diventano la merce
di scambio, il premio per i servigi negoziati. Vedendo premiato il
rurale, il piccolo borghese mugugna e porta il suo voto alla destra. Il
mondo contadino in crisi senza altra uscita lecita che l'emigrazione,
invece apprezza. Un salario settimanale, per una fatica molto meno
pesante di quella agricola, rappresenta un passo avanti, schiude la
strada all'inurbamento.
Fatto il primo passo verso i commerci e la cultura del profitto,
diventa facile per il boss campagnolo capire l'affare delle bionde che
qualche confratello arrivato dall'America offre. Poi, negli anni
Sessanta i suoi orizzonti mercantili si allargano. La Cassa per il
Mezzogiorno, gli ospedali, le strade che vengono aperte per una
più agevole penetrazione delle merci settentrionali, si
coniugano meravigliosamente con il voto clientelare. Il partito
vincente non è una formazione politica ma il notabile elargitore
di appalti. Intanto matura un'altra generazione. Gli appaltini
truccati, i subappalti concessi dal grande appaltatore, sempre padano,
che si adatta al sistema pur di far quattrini, e il commercio delle
bionde, non bastano più a impiegare tutti. Le nuove leve
scalpitano; le gerarchie, che in campagna avevano il valore di regole
tradizionali, entrano in crisi. Un carattere saliente del mondo
borghese, la reattività alle nuove offerte, penetra nelle
arterie contadinesche. In termini mafiosi siamo ai sequestri di
persona, al racket all'americana, alla polverina. La mafia, uscita
penosamente dalle riserve contadine di giolittiana e mussoliniana
memoria con i buoni uffici del clientelismo politico, arricchisce.
Complessivamente il budget è consistente, ma individualmente non
va al di là di una ricchezza locale. I boss sono ancora dei
paesani. La loro ambizione è d'ottenere il rispetto dei
borghesi. Si mettono, così, ad acquistare terre e vi piantano
vigne e oliveti; si fanno costruire palazzi signorili, aprono alberghi,
spesso lussuosi. I loro figli vanno a scuola per diventare medici e
ingegneri. Insomma i figli dei corsari di Sua Maestà Britannica
nominati baronetti.
Sulla soglia degli anni Ottanta, quando è ancora vivo fra i contadini il bisogno sociale del riconoscimento borghese, con un po’ di sapienza politica, forse, il processo capital-mafioso avrebbe potuto essere rovesciato e –forse– azzerato. Il boss proprietario di oliveti, il figlio medico ospedaliero: alla fine, la cosa sarebbe stata digerita dai borghesi, tanto più che si era verificato un ribaltamento del predominio culturale. La mafiosità, cioè la prepotenza e l'incivismo, si era diffusa, come stile negoziale, fra i ceti borghesi. Avvenne invece che il PCI di Berlinguer –non mordendo più nelle campagne, anzi in tutto il settore meridionale del lavoro– decise di cambiare la classe di riferimento. Abbandonato il popolo alla sua secolare dannazione, passa ad amoreggiare con la piccola borghesia. La Rivolta di Reggio è la cartina di tornasole di detta involuzione. Ma cosa portare in dono a una borghesia allo sfascio e senza più ideali? Se il PCI non poteva dare in positivo, poteva dare in negativo. Il numero vincente sulle ruote di Napoli e di Palermo è il disagio dei borghesi sopraffatti dai rustici, la profonda avversione degli urbani verso il contadino invasore. Quando il PCI decide di passare dall'altra parte, diventa immediatamente il paiolo in cui l'antico odio sociale può cagliare una nuova fermentazione. È difficile dire se fu una deliberata scelta della direzione centrale, oppure l'insipienza dei quadri periferici –il tema merita approfondimento– fatto sta che l'offensiva contro la mafia si trasformò nell'imputazione di delinquenza alla cultura contadina (Pino Arlacchi). Il fatto che la quasi totalità dei magistrati venisse dal mondo urbano, e nutrisse verso i contadini l'avita avversione, fece il resto. Con tutte le morbidezze che partiti e magistratura avevano avute con il malaffare, che coinvolgeva contemporaneamente mafiosi e politici, sparare sulla mafia soltanto –assolvendo pregiudizialmente i notabili e il sistema politico e amministrativo– dette l'idea di una caccia alle streghe, di un'operazione hitleriana, di una notte di San Bartolemeo giudiziaria (i cui nefasti lasciti divennero peraltro nazionali nel caso di Tangentopoli). E infatti molti non accettarono l'idea d'invertire le colpe: di assolvere la politica e di sparare a zero su tutto il mondo rurale e di origini rurali.
Uno di questi spari, la Legge Rognoni-La Torre, ebbe la
portata di
un disastro sociale. Infatti i mafiosi cessarono d'investire in roba al
sole, in piccole cose che in sostanza rianimavano lo stanco spirito
d'impresa meridionale. La mafia piantò le sue tende a Milano.
L'allarme di Piero Bassetti, al tempo presidente della Regione
Lombardia, non allarmò né la banca, né la borsa,
né il governo. Pecunia non olet. Quei soldi servivano
all'economia nazionale, completamente piegata. Con Milano come base, i
mafiosi hanno impiegato meglio i loro danari, abbandonando ideali
familiari appartenenti a un mondo antico, per ideali amerikani. I loro
figli non studiano più da medico e da ingegnere, ma imparano le
tavole dell'economia bostoniana. Però la mafia ha bisogno di
uomini. Essendo una potenza economica pari a più volte la FIAT,
usufruisce al Sud di un possesso degli uomini simile a quello della
Chiesa, che vince le sue battaglie senza schierare una sola divisione.
A entrambe basta condividere il territorio con lo Stato italiano.
È supponibile che Stato e mafia intrattengano un tacito
concordato, il quale prevede ciò che la mafia deve dare e
ciò che le è concesso in cambio. I giudici in prima
linea, il pentitismo, i morti, non sono finzioni, anche se allo Stato
servono da alibi: coprono inconfessabili vergogne italiane, come il
berretto a sonagli di Pirandello. Ma la guerra vera non c'è,
ciò che vediamo sono scaramucce. La mafia è ben
più vasta. Essa ha copiato il sistema capitalistico di comando,
che usa la democrazia come un ballo dei pupi. Non siamo più
all'onorata società, gerarchizzata, di sessant'anni fa –un corpo
immobile e immobilistico– ma una dinamica ONU del malaffare, con un
Consiglio di Sicurezza composto da multinazionali senza sede visibile e
con un marchio di fabbrica ignoto (o non noto alla gente comune).
Questo potentato, ufficialmente illecito, lascia che la plebe mafiosa
si formi all'impiego dei mitra e dei bazooka. Non le interessa uno
scontro con uno Stato italiano, che, volente o nolente, le mette a
disposizione le economie esterne necessarie alle sue attività, a
cominciare dai clienti, dai committenti, dalle scuole, dai servizi, per
finire ai porti, agli aeroporti e alle reti telematiche.
Con l'incalcolabile potenza economica di cui dispone, essa comanda
lavoro (nel significato che Adam Smith dava alla parola: paga un lavoro
a) milioni di meridionali. Oggi tutto il Sud è mafia, e la mafia
è tutto quel che il Sud può essere. La sovranità
statuale sul Sud non le serve. Ma, se per ipotesi decidesse d'averla,
l'avrebbe nel corso di una sola notte. Perché è
certamente in condizione di mettere assieme, in ogni paese e
città, un plotone di arditi disposti a tutto. Più un
corpo di riservisti allargato ai componenti di sette/ottocentomila
famiglie. Molto, ma molto più delle camicie nere che il 28
ottobre del 1922 marciarono su Roma. Certo, mille plotoni non fanno un
esercito. Per avere un esercito bisogna che ci sia la tenda del
generale, l'accampamento per i militi, le vettovaglie, un sistema di
comunicazioni, la polveriera, la torre con le sentinelle, lo stendardo,
ecc. Ma più d'uno ha il dubbio che abbia già provveduto a
queste cose, magari stanziando all'estero tutta la sua logistica.
Se l'Europa ha accettato l'Italia, vuol dire che ha accettato anche la mafia. Con le sue attività illecite, la mafia tiene legato economicamente, socialmente, militarmente, il Sud all'Italia. La sua funzionalità per l'esportazione delle armi serve a tutti i grandi paesi di Maastricht. I dollari che incassa rappresentano una voce attiva nella bilancia europea dei pagamenti, specialmente in una fase di euro calante. Semmai, per l'Europa, il pericolo è che essa cambi banchiere. Ciò ulteriormente chiarito, va da sé che, se il Sud vuole liberarsi dalla mafia, deve liberarsi dall'Italia e dall'Europa. Eliminato il doppio gioco, sarà possibile, anche se non facile, battere la mafia. Come? Se minacciata nei suoi interessi di lungo periodo, la mafia diventa pronta alla guerra, quindi non c'è altro mezzo che la guerra.
Il federalismo non frenerà il rastrellamento dei surplus, l'invasione delle merci padane e comunitarie, non porrà riparo all'improduzione, non inventerà il lavoro che non c'è. Anche una speranza generalizzata, quella di diventare tutti forestali, pare svanire. Ma la sola ricchezza propria –quella che viene dalla produzione interna– non permetterà al Sud di continuare nell'attuale livello di benessere privato. Con quello che riuscirà a sborsare all'erario, poi, il Sud non potrà permettersi dei servizi sociali come quelli attuali che, sebbene funzionino male, costano tuttavia i soldi che le case farmaceutiche e le industrie sanitarie pretendono, cioè molto. Bossi, quando dice questo, dice cosa assolutamente esatta. Dove sbaglia è quando sostiene che al Sud non spettano, per il solo fatto che non ce le ha. L'attuale condizione di sviluppo e pieno impiego nel Centronord è stata pagata dal Sud, che non solo ci ha messo tanto lavoro quanto gli altri, ma ci ha aggiunto l'astinenza, a cui gli altri non si sono dovuti piegare nella stessa misura, e il dolore degli emigrati, che in nessun altro luogo hanno raggiunto eguale numero.
Mettiamola così. A Cavour bastarono poche centinaia di
migliaia di lire per comprarsi gli ammiragli, i generali, i tenenti
d'artiglieria e i cadetti di marina. Il sistema padano se n'è
giovato in modo a dir poco vergognoso. Ora, stante il clima che regna a
livello di classe politica, il federalismo non farà altro che
dare una mano all'ascarume corrotto, il quale sin dal tempo
dell'occupazione sabauda gode di una tacita impunità quando
ripiana i bilanci familiari –sbilanciati dal tenore di vita padano–
ficcando le mani nei cassetti dell'erario. Lo Stato –un estraneo
predone– ha tanto tollerato queste ladronerie, che la morale sociale vi
si è conformata.
Ma ipotizziamo pure che la nostra classe politica regionale assuma
imprevedibilmente la tipologia della classe politica irlandese, e
chiediamoci cosa mai potrà fare di brillante –a meccanismi di
mercato immodificati– se non guidare la ritirata. Quali sarebbero mai
le libertà nuove associabili al federalismo? Da una tabella
elaborata dal Sole24Ore, in materia di entrate regionali si apprende
che in Lombardia l'incidenza delle entrate erariali regionali è
calcolata in misura dell'81%, mentre l'erario calabrese avrà un
incasso pari al 23% delle attuali entrate correnti. Traducendo le
parole in fatti, la Calabria avrà il 60% di minori entrate.
È facile stimare che, con le entrate proprie, le Regioni
meridionali, Sicilia inclusa, non riusciranno a pagare i medici, gli
infermieri e le medicine. Altro che ripulire i fiumi e ripiantare i
boschi! Qui, non dico dopodomani, ma da domani stesso sarà
un'impresa diabolica per le Regioni assicurarci l'acqua da bere. A noi
serve altro.
Ben altre cose che il fisco. Il nostro problema riguarda, per esempio, gli impedimenti che l'economia privata subisce dal confronto perdente con le economie evolute; la formazione e l'uso del surplus sociale; la forma d'aiuto che si dà a chi perde il lavoro; le regole che disciplinano il mercato, e chi ha il diritto di dettarle; la stessa legge, che appare uguale solo per chi ruba al popolo e diseguale per i ladri di polli; il traguardo esistenziale, che si presenta equo per chi lavora in banca, al servizio dell'usura, e iniquo per chi ha spinto per tutta la vita la carretta.
Se potessimo definire o quantomeno influenzare le regole del gioco mercantile, se avessimo le mani mezze libere in materia di credito, di commercio internazionale, di politica estera, di politica agricola e industriale; se avessimo voce in capitolo nel campo della sanità e dell'istruzione; se potessimo lavorare a favore di una moralità restaurata in materia di spettacoli e tempo libero; se ci fosse consentito avere in gran dispitto la Ferrari e le Juventus, o fabbricare automobili che vanno a metano e non superano i 100 chilometri l'ora; se potessimo fare del turismo una cortese forma di ospitalità non gratuita e non l'immonda speculazione che oggi è; se ai nostri figli potessimo fornire una cultura gentile ed educarli allo spirito critico; se potessimo formarli al coraggio fisico e morale, all'onore, alla lealtà, all'amore degli altri esseri sensibili e delle cose –delle stelle, del sole, della luna, del mare, dei campi coltivati e dei boschi– allora, solo allora, il federalismo avrebbe un senso.
La loro abolizione ebbe il fine precipuo di legare al PCI gli
operai
occupati nelle industrie di Stato a Napoli, a Taranto, in Sicilia. Su
tale fronte l'esito fu positivo. Per il resto fu una autentica
stronzata, in quanto slegò gli occupati dalla massa dei
diseredati. Il Sud proletario, in mano al populismo di destra… I fatti
di Battipaglia e di Reggio sono l'esito più dissuadente della
politica delle cosiddette sinistre nel Sud.
Reintrodurle ora? Non pare serva più. Non mi pare che
l'industria padana, persino quella triveneta, abbia un radioso
avvenire. Meno che mai le sue eventuali proiezioni al Sud. La strada
ciampista che il lavoro nazionale sta percorrendo è a ritroso.
Non so se il traguardo di miseria verso cui marcia è vicino o
meno vicino. Io vedo la cosa in questi termini: se il capitalismo
italiano va avanti con il piglio attuale, l'indifeso lavoratore padano
vedrà scendere il salario ai livelli croati. Qui al Sud, fra non
molto il lavoratore dipendente arretrerà allo standard egiziano.
Per il livello dei salari vale, infatti, una legge simile alla legge di
Law (la moneta cattiva scaccia dalla circolazione quella buona): il
lavoro portato al sud del mondo scaccia le aristocrazie operaie.
Circa la condizione operaia, per rispondere non ci vuole la zingara.
L'alleanza secolare tra capitalismi nazionali e aristocrazie del lavoro
sta andando al macero. Non c'è Cofferati che tenga. Il panorama
salariale non è più nazionale, ma globale,
cosicché ogni capitano d'industria che si rispetti intende
correre l'avventura dei salari albanesi o indiani. Ora, né in
Germania, né in Francia e neppure in Italia c'è la
possibilità di un'occupazione da primari ospedalieri che pareggi
nel numero le forze del lavoro manuale, o quasi manuale, che rimangono
senza lavoro. La corsa all'esternazione del lavoro subordinato ci
darà quel che già vediamo: il declino inarrestabile delle
remunerazioni operaie, il tramonto della parte normativa dei contratti
collettivi, il ritorno al primo Ottocento per la condizione operaia, la
resurrezione della questione sociale. Se questo non vi convince,
osservare la curva delle nascite. Fra i produttori, il malthusianesimo
volontario si ha quando regna la paura per ciò che aspetta i
figli da concepire. Siccome l'Occidente è –alla fin fine– figlio
di Socrate e di Cristo, la Caritas internazionale avrà anch'essa
un otto per mille, con cui offrire qualche minestra calda agli
indigenti.
Non sono il padre dell'espressione proletariato esterno, l'ho
soltanto usata come titolo di un mio libro. Padre ne è il grande
storico delle civiltà –in particolare di quella mediterranea–
Fernand Braudel (Il mondo attuale, Einaudi). Rifiutata in Italia sia
dalla letteratura gramsciana sia dalla pubblicistica d'ispirazione
padronale, era usata disinvoltamente (e suppongo lo sia ancora) in
Francia. Il proletariato esterno è quello senza fabbriche;
quello che non ha rivendicazioni salariali e normative da avanzare,
perché, fisicamente e politicamente, non ha di fronte a
sé un padrone. Sottomesso al mondo occidentale –un padrone
esterno, lontano anche fisicamente e tuttavia così forte da
imporre le sue regole commerciali e le sue tecnologie avanzate, tanto
con le armi, quanto più attraverso una catena di mediatori
locali– chiede la libertà. Ha continuato a chiederla anche dopo
che i colonizzatori se ne sono andati, perché il loro dominio
continuava attraverso le merci capitalistiche.
Socialmente, il mondo del proletariato esterno corrisponde a quello
dell'artigianato tradizionale, che impiega come motore la forza umana e
che è stato superato dal macchinismo industriale. Questo mondo,
per liberarsi, deve necessariamente imparare l'uso delle tecnologie
avanzate. Non essendo contagiato da pruderie liberali e amerikane posso
tranquillamente ricordare il motto di Lenin secondo cui il comunismo si
componeva di due cose: l'elettrificazione della Russia e il potere dei
Soviet. La faticosa operazione d'assimilare e usare il sistema
macchinistico si scontra, oltre che con i tempi necessari
all'apprendimento e con gli immensi costi degli impianti, anche con i
mediatori locali del capitalismo occidentale. Lo scontro di interessi
fra mondo avanzato e mondo arretrato ha perduto i toni battaglieri di
un tempo e inclina al sociologico e all'umanitario. Lo stesso termine
sottosviluppo, che definiva perfettamente la causa propriamente
commerciale della regressione dei paesi non industriali, non viene
più usato. Anche l'espressione corrente per indicare i mercanti
infeudati, la borghesia compradora, è uscita dall'uso dei colti.
Così pure quella di lumpen-borghesia, borghesia stracciona,
coniata da Paul Grunder Frank echeggiando Marx. In Italia, una parola
adeguata esisteva già. Da noi, sotto l'etichetta di
meridionalismo erano fioriti importanti studi sul sottosviluppo ante
litteram.
Mi sono già dilungato sull'argomento, debbo soltanto aggiungere
una mia ferma convinzione: i lavoratori meridionali sono nel budello
senza uscite del sistema unitario, a causa della strategia decisa da
Togliatti al suo rientro in Italia, e in appresso sempre seguita, la
quale consisteva nell'assorbire la spinta alla rottura del sistema, che
veniva dal proletariato meridionale, per dirottarla verso traguardi
elettorali. Detta linea è limpidamente espressa dalla parola
doppiezza, da lui stesso adottata, la quale doppiezza aveva come fine
di non incrinare il patto tacito con cui, a partire dalla Ricostruzione
nordista, la classe operaia andava consegnandosi al padronato
industriale, onde non vanificare la crescita e per partecipare ai suoi
benefici: e cioè l'aumento dell'occupazione e la trasformazione
dei contadini in salariati. Insomma, per opportunismo, il PCI fu in
Italia una stravagante frangia riformista dell'Internazionale Comunista
(rivoluzionaria). La conseguenza per il proletariato meridionale fu che
–non potendo essere riformista perché non è riformabile
quello che non c'è– non poté neanche portare avanti una
lotta pienamente riformatrice. Quanto alla contrapposizione più
generale tra proletariato occidentale e proletariato esterno, mi pare
che si vada perdendo quel velo di pudore con cui la pubblicistica
italiana voleva dissimularla. Oggi, il proletariato occidentale va
orientandosi verso posizioni già viste: Stato sociale
all'interno e imperialismo all'esterno. Con il razzismo come fattore di
depistaggio delle masse. Il bossismo non è una generica forma di
antimeridionalismo borghese; non se la prende con Gaetano Salvemini o
con me. È contro lo Stato sociale all'esterno della Padania,
mentre l'operaio padano non trova difficoltà a mescolarsi con il
leghista tipo. Dopo il crollo dell'URSS, il capitalismo sente molto
meno il bisogno di blandire i suoi operai e in genere i suoi
dipendenti. Il privilegio delle aristocrazie operaie va affievolendosi.
Sempre più largamente i padroni esternano le loro fabbriche nei
paesi sottosviluppati. A questo si aggiunge che gli stessi richiamano
all'interno fette dell'esercito del lavoro mondiale di riserva. La
curva dei salari, la condizioni di lavoro, la sicurezza del posto,
vanno abbassandosi, quantomeno in termini reali (i salari, mi pare pure
in gretti termini monetari). In Germania, Francia, Austria, Svizzera,
Italia, la spinta xenofoba si allarga fra i lavoratori subalterni, i
quali mal sopportano l'omologazione in basso. L'avversione, forse
l'inimicizia tra proletariato esterno e interno va crescendo.
Ciò nonostante si può immaginare il contrario, e
cioè che l'omologazione in basso possa restituire quel vigore
che il pragmatismo e riformismo hanno stemperato. Se la condizione
operaia continuerà a cadere, potremmo –forse– essere alla crisi
del riformismo. Il moto di Seattle e le sue recenti code potrebbero
esserne il segnale, ma tutto dipende dalla consistenza e
leggibilità di una nuova teoria della liberazione e della
rivoluzione.
Volendole riassumere. Uno, il capitalismo europeo, con atti concreti e convergenti, ha escluso il Sud dall'area del pieno impiego. Due, le formazioni politiche della sinistra italiana hanno voltato le spalle alla domanda di rappresentazione dell'esercito industriale di riserva meridionale, in forza di un patto tacito con la classe dei capitalisti padani. Tre, non c'è un solo segno che possa fare immaginare diversa la sinistra europea unita. Quattro, il capitalismo occidentale sta portando morte e devastazioni in tutto il mondo. Noi che abbiamo la ventura di non partecipare alla cultura dello sterminio senza campi di concentramento, della distruzione degli uomini e della natura portata avanti con non chalance; noi, che per nostra fortuna siamo altri, dovremmo opporre una resistenza organizzata alla suggestione che il successo economico dei capitalisti suscita. Cinque, pur essendo anche noi italiani a causa del prevalere della geografia sulla cultura, è necessario che prendiamo atto del fallimento dello Stato nazionale e dell'inguaribile padanismo delle forze politiche che si atteggiano ad oppositori del capitalismo. Perciò ci distacchiamo dall'uno e dalle altre. Il capitalismo non mira alla piena occupazione, ma al profitto. La crescita capitalistica non porta nuova occupazione nella misura che eravamo abituati a vedere. Per giunta, la crescita vertiginosa del profitto ha ripercussioni più negative che positive sulla condizione delle aristocrazie operaie. Per quanto concerne il Sud, lo sviluppo capitalistico è stato azzerato quando era già un fatto in itinere. Oggi è impossibile. Questo paese è stato consegnato e affidato alla mafia, alla quale è però negato un inserimento nelle attività cosiddette lecite (l'illecito è commerciare le Marlboro, non produrle appositamente per i commercianti in nero!). C'è poi il gioco sporco dei sindacati, che, per continuare a governare il mondo del lavoro pretendono di essere essi, ed essi soltanto, a contrattare la ritirata dei salariati e a firmare contratti sempre più giugolatori per i lavoratori, tipo l'abdicazione alla scala mobile. Non mancano infine gli interessi degli ascari, i quali, in un Sud di occupati, non avrebbero più modo di contrattarsi il voto. Ma forse peggio. Uno sviluppo del Sud potrebbe essere impedito con la violenza, attraverso qualche forma di violenza politica, perché farebbe venir meno ogni forma di disoccupazione, persino quella intellettuale. Si sa, il pieno impiego è nemico delle paghe basse. Un aumento dei salari porterebbe a consistenti aggravi nel settore del pubblico impiego e le aziende capitalistiche, in particolare le mai troppo lodate banche, vedrebbero diminuire pericolosamente i profitti. Insomma altererebbe la condizione del mercato del lavoro in Italia, provocherebbe una crescita nazionale dei salari proprio adesso che i nazionali capitalisti –dopo tanto soffrire– stanno facendo affari d'oro a duemila carati.
Sarebbe un non senso. Il capitalismo attuale è uno, e uno soltanto. È apolide, già globale. Solo il livello dei salari è nazionale e subnazionale, in corrispondenza della disoccupazione. D'altra parte l'oggetto del separatismo meridionale non è lo sviluppo, almeno in prima istanza. Ma è la fine dell'inoccupazione, cioè la piena occupazione anche a costo di trascurare la produttività del lavoro. A un lavoratore che, in una fase avanzata, produce due sedie al minuto, con una ricchezza prodotta che si irraggia per vie traverse sulla società, noi preferiamo quattro lavoratori occupati che producano ciascuno una sedia ogni due minuti. Infatti produrre –e farlo nel proprio ambiente– rappresenta l'appagamento di una vocazione generale degli uomini. La produttività deve essere contemperata con l'occupazione, altrimenti non ha senso umano. Se invece del profitto capitalistico si avesse un normale frutto del proprio lavoro, solo chi lavora meglio o produce in tempi minori guadagnerebbe di più. Chi fosse fuori mercato avrebbe il tempo di trovare un diverso lavoro, senza incorrere in una punizione stupida e rovinosa per il debitore e i creditori, qual è il fallimento. Ora, il capitalismo non può dare questo. Qui siamo al capitolo centrale del marxismo. I rapporti di produzione di tipo capitalistico sono divenuti al Sud un vincolo allo sviluppo economico. Il Sud può essere portato avanti solo da un lavoratore senza padroni. Ho sviluppato questa tesi nell'opuscolo Tutta l'égalité, il cui punto nodale è l'abolizione del lavoro dipendente, conservando però lo scambio di valori. Cioè: resterebbero in piedi il mercato e la proprietà (di macchine e attrezzi), che non sono stati inventati certamente dai capitalisti, ma dall'uomo indistinto nel processo di socializzazione e nel corso dei millenni. L'abolizione del lavoro dipendente è il fine politico e pre-politico –morale, religioso, civile, cristiano, umano– dell'indipendenza. La restituzione ai produttori della libertà ed eguaglianza che la natura proclama in ogni sua manifestazione, è anche il grimaldello per aprire la porta della piena occupazione, una porta fragile e tuttavia tenuta serrata con tutti i mezzi dai liberal-capitalisti, per ricattare, a fine di dominio, gli altri esseri umani. La mano che porterebbe avanti il progetto non potrebbe essere altro che quella socialista. Un socialismo capace di avere perplessità, timori e rispetto dell'umana dignità.
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