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Per gentile concessione de "ilportaledelsud"


Carlo Pisacane a Ponza

di Brigantino


pisacane

All'isola di Ponza si è fermata ...

E' nota la storia di Carlo Pisacane che nel giugno del 1857, partito da Genova con 30 uomini, raggiunse prima la colonia penale di Ponza per imbarcare 300 detenuti e quindi proseguire per Sapri dove, scontratesi più volte con la popolazione, fallì nel suo intento di innescare la rivoluzione nel Sud d'Italia.

Conosciamo pure la "Spigolatrice di Sapri”, poesia di Luigi Mercantini che, insieme alla storiografia ufficiale, contribuì ad infondere all'impresa un alone di misticismo laico teso a sfruttare, a fini liberal-monarchici, ben lontani dal pensiero politico del Pisacane, il fallimento della spedizione.

Al di là delle controversie storiche che sono tuttora oggetto di dibattito, appare interessante soffermarsi su un aspetto trascurato, ma sicuramente importante dell'intera impresa rivoluzionaria: lo sbarco a Ponza.

Negli stessi versi del Mercantini troviamo che la nave a vapore battente bandiera tricolore "all'isola di Ponza si è fermata, è stata un poco poi è ritornata”. Cosa esattamente accadde nell'Isola in quel "poco" né il poeta né la storiografia ufficiale lo dicono. Invece un'analisi dei fatti isolani risulta fondamentale per comprendere i veri motivi del fallimento politico della "storica" spedizione e le reali cause della reazione violenta delle popolazioni meridionali contro chi andava "a morir per la Patria bella".

Il 27 giugno del 1857 a Ponza vi era una gran calura, il mare era calmo e nel cielo splendeva un sole estivo senza precedenti. Alle ore 16 tutta l'isola era impegnata nella quotidiana siesta: i Ponzesi, i detenuti del bagno penale, i militari addetti alla loro sorveglianza, i relegati in semilibertà. Nella rada del porto di fronte alla batteria "Lanternino" apparve ed accostò lentamente una bella nave a vapore dal nome in oro: "Cagliari". Non issava la bandiera tricolore, come dice il Mercantini, bensì la bandiera di avaria alle macchine. Dal porto mosse una lancia che accostò alla nave per parlamentare ed offrire assistenza secondo le regole marinare. Fu un efficace stratagemma per prendere ostaggi.

Il Pisacane, accompagnato dai compagni armati di fucili e pistole, sbarcò con la stessa lancia aggredendo la guarnigione portuale ed intimandogli la resa, pena la morte degli ostaggi trattenuti sulla nave. Nonostante le minacce alcuni militari del presidio reagirono, prima di arrendersi, generando un vivace conflitto a fuoco che causò morti e feriti.

Gli echi dello scontro ruppero il silenzio pomeridiano e la gente, destata di soprassalto, raggiunse incuriosita le finestre, i balconi ed i tetti per osservare cosa stesse accadendo al porto. Il gran trambusto, gli spari, il fermento di uomini, divise e bandiere rosse mai viste prima di allora fecero emergere nella mente dei Ponzesi un ricordo antico e tremendo: i pirati. Terrorizzati dalla notizia cominciò un fuggi fuggi in un crescente panico generale che, in breve, fece perdere la calma anche a chi non sapeva cosa stesse esattamente accadendo. Isolani, militari e relegati in regime di semilibertà scappavano per ogni dove a cercare un nascondiglio sicuro.

Mentre il Pisacane raggiungeva il quartier generale presso la Torre di Ponza ed intimava la resa, i suoi compagni, Giovanni Battista Falcone e Giovanni Nicotera, issarono una bandiera rossa nella piazza principale e quindi a gran voce cominciarono a dar spiegazioni di quanto stava accadendo. Ripresisi dallo spavento si affacciarono timidamente dapprima i militari della sorveglianza, quindi i relegati semiliberi ed infine i residenti che, comunque diffidenti, si mantennero a distanza di sicurezza.

Ma quelle teorie politiche così lontane dalla realtà del popolo non attecchirono anzi causarono sgomento e maggior timore. Addirittura reazione quando il Falcone, con dire sicuro e sprezzante, inveì contro la religione, il Re e le terre demaniali. I Ponzesi solo sette giorni prima avevano celebrato solennemente il Santo Patrono Silverio e le parole dissacranti del Falcone non piacquero affatto; inoltre a Ponza, così come in tutte le regioni del Sud, i contadini coltivavano, in uso civico, le terre provenienti dallo smantellamento graduale degli antichi feudi. Essi sfruttavano terreni dello stato in "enfiteusi perpetua" tuttavia senza divenirne mai veri proprietari. Sconvolgere quel delicato equilibrio, che comunque assicurava la vita e la pace sociale, spaventò i Ponzesi ancor più dei detenuti tanto che, alla chetichella, lasciarono il luogo della riunione.

Intanto i rivoluzionari infervorati dai loro stessi discorsi parlavano di repubblica e di fantomatiche rivolte a Napoli, Roma, Genova, Livorno e Reggio Calabria ed i militi sembravano dar molto credito a quelle parole. Ma ciò non bastava a Pisacane: egli aveva bisogno di far scattare sul serio la scintilla della rivolta generale, non limitarsi a fare un comizio in quella semideserta ed ambigua piazza isolana. Avrebbe voluto cominciare proprio da Ponza la sua rivoluzione coinvolgendo la popolazione di quella sperduta isola per poi sbarcare con essa lungo le coste e propagare i moti.

I rivoluzionari si resero conto però che, nonostante i loro incitamenti, la popolazione non aveva alcuna intenzione di unirsi ad essi. Pensarono di riuscire a coinvolgere tutti con l'azione e l'esempio innescando loro stessi la scintilla della rivolta. Per rendere la cosa più coinvolgente la scintilla la fecero partire proprio da dove si governava la popolazione: gli uffici del Comune. Qui Giovanni Nicotera, futuro Ministro dell'Interno dello Stato Unitario, appiccò il fuoco agli archivi ed all'antica biblioteca dei monaci cistercensi quindi, guidato dai relegati in semilibertà, fece il resto assaltando il dazio ed il giudicato (la pretura). Ma, com’era prevedibile, fu peggio: i Ponzesi presi da maggior sgomento si rinchiusero a doppia mandata nelle case e nelle caverne. Il Pisacane innervosito e deluso dall'atteggiamento di quella "strana popolazione a cui non andava di rivoltarsi contro il tiranno" aprì i cancelli del bagno penale della "Parata" che allora accoglieva 2000 delinquenti comuni.

Una minacciosa turba di individui invase vicoli e strade come un torrente in piena. Le loro scarpe chiodate crepitavano a centinaia sul lastricato ed il brusio iniziale diventò man mano un vociare sguaiato e terrificante. Anni di lavori forzati, rabbia repressa mista ai più profondi e bestiali istinti avevano trasformato quegli uomini in belve dai lineamenti vagamente umani.

Il paese fu messo a ferro e a fuoco da quei forsennati: gli spari, le violenze, le urla, i lamenti echeggiarono per molte ore. Il fumo soffocante degli incendi, propagatisi fino ai vigneti ed agli uliveti delle colline, contribuì a rendere ancora più tremendamente infernale quella notte di anarchia.

Il Pisacane per inibire ogni reazione contro la sua operazione si era preoccupato sin dallo sbarco di prendere in ostaggio il comandante della guarnigione ed i suoi ufficiali ma si dimenticò del prete: Don Giuseppe Vitiello. Questi, di fattezze minute, ma intelligente e di temperamento energico, comprese subito la natura e gli intenti di quegli uomini.

Già dallo sbarco, senza perdere tempo e, soprattutto, senza perdersi d'animo. Don Giuseppe si era dato da fare per creare una vera e propria linea difensiva a metà isola, raggruppando militari ed isolani, impedendo così che Pisacane ed i detenuti del bagno penale liberati invadessero tutto il territorio. Così parte della popolazione poté mettersi in salvo raggiungendo a nuoto nella notte la zona nord dell'isola. Don Giuseppe, inoltre, ordinò un'incursione notturna per l'affondamento silenzioso di tutte le imbarcazioni isolane all'ancora nel porto per evitare fughe di massa ed infine organizzò un equipaggio che, con una lancia forte di 6 remi, partì alla volta di Gaeta per dare l'allarme e chiedere aiuto.

Fallita la rivolta popolare il Pisacane si preoccupò di reclutare tra i relegati stessi quanta più gente possibile per lo scopo primario della sua missione: lo sbarco a Sapri.

Ma anche questa volta la sua delusione fu tanta. Di quelle migliaia di detenuti solo pochi si fecero avanti e nei volti di quei pochi si leggeva l'unico e vero obiettivo: raggiungere il continente per darsela a gambe. La maggior parte dei forzati che accettarono di seguire la spedizione erano di Sapri e dintorni, e si erano macchiati di delitti e violenze per i quali erano stati condannati ai lavori forzati nel bagno penale di Ponza. Gli altri preferirono restare ed accontentarsi di quella inaspettata ed insolita festa: dopo aver abusato di vino, cibo, canti, balli e violenze si disseminarono lungo spiagge, grotte e campi per abbandonarsi ad un profondo sonno. Molti di loro alle prime luci dell'alba preferirono rientrare prudentemente nel bagno penale.

Fatto giorno lo spettacolo era sconvolgente, ma Don Giuseppe, come al solito, non si perse d'animo. Assicuratesi che il Pisacane fosse effettivamente ripartito, fece liberare il comandante Astorino, gli ufficiali, i graduati ed il resto dei militi che immediatamente si diedero a riacciuffare qua e là i relegati ormai fiaccati dai bagordi notturni. Si spensero gli incendi, si recuperarono masserizie e suppellettili, si risistemò alla meglio la chiesa, si recuperarono gli animali, si ritirarono su le imbarcazioni, si aprì l'infermeria ai feriti, si ripulirono le strade e le piazze, fu issata in torretta la bandiera delle Due Sicilie.

In serata arrivò una nave militare che sbarcò alcune centinaia di gendarmi con il compito di completare la bonifica ed arrestare i più ostinati ancora barricati e nascosti nelle campagne e negli anfratti.

Intanto il Pisacane ed i suoi trecento il 28 giugno 1857 sera sbarcarono sulla spiaggia di Sapri ma qui la popolazione fu lesta a riconoscere tra quei "trecento giovani e forti" gli artefici di ruberie e delitti e non esitò ad imbracciare forconi e schioppi. Il 2 luglio i «trecento» vennero sopraffatti dalle guardie urbane e dai contadini. L'episodio ebbe la sua tragica fine del Pisacane.

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La vicenda del vapore Cagliari

Carlo Pisacane e i suoi si erano impadroniti il 25 giugno 1857, a Genova, del piroscafo Cagliari di Raffaele Rubattino, comandato dal Capitano Antioco Sitzia. Diressero prima verso Ponza, come si è visto, e quindi a Sapri.

Il Cagliari, dopo aver sbarcato Pisacane ed i suoi,  riprese il largo, diretto a Genova, allorquando il 29 giugno, a circa 12 miglia a ponente di Capri, fu raggiunto dalle pirofregate napoletane Fieramosca e Tancredi: quest'ultima gli intimò di fermarsi e quindi lo rimorchiò a Napoli, ove l'Intendenza della Real Marina chiese alla Commissione delle prede di Napoli, presieduta dal Brigadiere Chrétien, che il vapore sardo fosse dichiarato «buona e legittima preda». Ne sorse una lunga vertenza innanzi alla Gran Corte Criminale del Principato citeriore a Salerno, che il 28 novembre 1857 emise sentenza «di buona e legittima preda, perché bastimento di natura piratica, servito di mezzo a' nemici del Regno». A seguito del ricorso del Rubattino, ebbe inizio nel gennaio 1858 un complicato processo, che ebbe vasta eco, essendosene interessata la stampa europea, conclusosi l'8 giugno 1858 con la restituzione del piroscafo al suo armatore e proprietario, anche per l'intervento del governo di Torino e di quello di Londra, a tutela degli interessi dei due macchinisti inglesi che vi erano imbarcati.

Nel 1860, la Rubattino si farà "rubare" altre navi da tale Garibaldi Giuseppe ...

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Cenni biografici su Carlo Pisacane

(Napoli 1818-Sanza, Salerno, 1857). Ufficiale borbonico di famiglia aristocratica e di idee liberali, nel febbraio 1847 fuggì da Napoli a Parigi con Enrichetta di Lorenzo, moglie di tale Domenico Lazzari. Dopo una breve parentesi nella Legione straniera in Algeria, nel 1848 accorse in Lombardia e combatté sul Garda. Accostatosi intanto a Cattaneo e a Mazzini, partecipò alla difesa di Roma nel 1849. Caduta la Repubblica, riparò all’estero e poi a Genova (1850) dove, allontanatosi da Mazzini, precisò il suo orientamento ideologico in senso nettamente socialista e proudhoniano.  Denunciò la natura essenzialmente conservatrice dell’intervento di Carlo Alberto e del fallimento della guerra a causa dell’incapacità delle forze democratiche di prospettare come fine di essa una concreta rivoluzione sociale. Ripresi infine i contatti (1855) con Mazzini, ma ormai più sul piano della pratica immediata che su quello teorico, avversò come lui la spedizione di Crimea e organizzò la spedizione insurrezionale nell’Italia meridionale. Accolto ostilmente e sconfitto una prima volta a Padula, fu finito a Sanza dove perdette la vita in combattimento. Deve infatti considerarsi leggendaria la notizia spesso ripetuta che si sia suicidato.

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Bibliografia:
  • Alessandro Romano, CARLO PISACANE: un altro mito ..., 11/00

  • Lamberto Radogna, “Storia della Marina Militare delle Due Sicilie”, Mursia, 1982

  • Giacinto De Sivo, Storia delle Due Sicilie, Del Grifo, 2004

 

 

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