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Fonte:
https://www.ilbrigante.com - Il Brigante, dicembfre 2004

Seconda lezione sull’uso dell’arma televisiva per i nuovi briganti

di Luca Di Ciaccio

Ultimamente non si fa che parlare di fenomeni mediatici, e allora perché non tornare ai fondamentali? Quando parliamo di “fenomeni mediatici” parliamo di fenomeni che nascono, crescono e muoiono sui media, spesso urlati e pubblicizzati con eccessivo clamore, fino a sembrare parossistici e di valore universale, dove però quasi mai il “mito” corrisponde alla realtà. Così, quando spesso si sente dire che “tutta Italia ne parla”, tuttaitalia altro non è che sei salotti televisivi e una ventina di testate giornalistiche. Tutta qui l’Italia? Non sentite già mancarvi l’aria?


Spesso i “fenomeni mediatici” nascono per la volontà di parlare d’altro, di rimuovere la realtà. Nella tv italiana di oggi questa è ormai la norma: dalle Lecciso in su (o in giù, fate voi). Di guerra, di tasse, di Meridione sempre più demoralizzato, di povertà, dei leghisti che volevano mettere una taglia sugli assassini dei padani e poi si è scoperto che gli assassini erano vicini di casa, di processi e di condannati per mafia e di prescritti per corruzione, di tutto il resto è meglio che non se ne parli. Tanto c’è tutta una tv in mani fidate, pronta a parlar d’altro. Altre volte i “fenomeni mediatici” nascono per sensazionalismo, con grandi botti e solenni allarmi sociali, per poi tornare nell’oblio nel giro di una settimana, come lacrime nella pioggia: così tutto ad un tratto si scopre che a Napoli si muore ammazzati per camorra o per droga, in quartieri dove lo Stato non entra e se entra viene preso a sassate dalla donne alle finestre, e giù con dichiarazioni di politici ed esperti, finché non ci si stufa, noi a parlar d’altro e quegli altri a morire un po’ più in silenzio, fino al prossimo giro di giostra. Altri ancora sono quei “fenomeni” che nascono per obbedienza alle leggi dell’informazione, con le redazioni pigre e sempre alla ricerca di qualche “tendenza” con cui riempire le pagine, e altri disposti a offrirle magari con le migliori intenzioni: tipo certe improbabili “notizie” basate su sondaggi o ricerche sociologiche. Ma anche – diciamolo con cautela – tipo il “fenomeno telestreet”.


Le telestreet, come è noto, sono piccole emittenti pirata che trasmettono su porzioni di frequenze non occupate (i “coni d’ombra”), in quartieri o piccoli paesi: una specie di mediattivismo civico con rivendicazioni politiche. Orfeo Tv a Bologna è stata la promotrice. TMO Gaeta del meridionalista Ciano (vedi prima lezione sul numero di novembre) è una delle prime e delle più attive. DiscoVolante di Senigallia, gestita da una cooperativa di disabili, invece è stata chiusa dal ministero e rischia il processo. Ce ne sono altre, ma quante? Qualcuno davvero crede che duecentocinquanta tv di strada siano effettivamente attive in Italia, tutte insieme, un’enorme potenzialità contro il monopolio dell’etere? In realtà, le telestreet attive e presenti sul territorio, con impegno e continuità, si possono contare su due mani, o poco più. Una di queste si chiama Insù Tv, e si trova a Napoli, quartiere Forcella.


Insù Tv è la prima telestreet partenopea, animata da Sandro, esperto in grafica, e Raffaele, giovane medico, insieme a un gruppo di ragazzi volontari. Se ne è occupato un interessante articolo sul numero 48 di Avvenimenti. «Il nostro obiettivo – dice Sandro – è quello di ridare voce al quartiere, fare telegiornali per i bambini, fare servizi specifici sul territorio e trasformare le persone comuni in opinion leader». C’è anche un ragazzo che manda cartoni animati giapponesi, un gruppo di videoartisti, e un programma in preparazione gestito da immigrati. Quando si trasmette a corto raggio, in una realtà che è la propria, presenza e feedback tra emittenti e riceventi diventano fondamentali: «Abbiamo già tentato, ma è comunque in fase di sperimentazione, di proporre delle interviste su tematiche specifiche all'interno del quartiere per poi mischiarle nella playlist con una serie di filmati, documentari o film sul tema per verificare la settimana dopo se c'è stato un cambiamento sensibile nell'opinione del quartiere». La Forcella di Insù Tv è un impasto di realtà disperata e imperterrita speranza: è la Forcella del boss Giuliano, del traffico di droga e dei ragazzi allo sbando, ma è pure la Forcella che non si arrende, del parroco don Luigi Merola, del comitato di quartiere che si batte per aree verdi, asili e aggregazioni giovanili. Quando Insù Tv uscì allo scoperto furono gli stessi giorni in cui il quartiere fu scosso dalle pallottole che uccisero, per errore nella lotta tra clan, la giovane Annalisa Durante. «C’erano dirette televisive nazionali a tutte le ore del giorno e delle notte. Ma, a differenza delle altre, le nostre telecamere, comparse in quel periodo, sono rimaste anche dopo, quando i media sono andati via». In quei giorni nacque il reportage “Forcella non ride” (visibile qui: https://www.ngvision.org/mediabase/308), con le reazioni e le speranze del popolo di Forcella. «Siamo stati identificati come la tv che non si era dimenticata della ragazza e del quartiere, e ne continuava a parlare». La rivincita della marginalità come risorsa per quelli di Insù Tv non si ferma alle porte di Napoli: arriva a Bilbao, dove hanno aiutato un gruppo di giovani ad aprire la prima tv di quartiere basca, o all’università di Nablus dove collaborano per aprire una telestreet palestinese.


Quello di Insù Tv quindi è un esempio validissimo, dove il loro talento (tutto meridionale) non è quello di perdersi in proclami retorici oppure in tradizionalismi che riducono il mondo a caricatura, bensì il talento di scovare la realtà dove la realtà ha sempre due facce, tragedia e speranza. Le tv che nascono al Sud (ma tante ne potrebbero nascere) portano addosso questa impulsiva ambivalenza: prima di telestreet c’erano le losche tv pirata dei vicoli, nel 2002 ci fu la storica esperienza di TeleFabbrica degli operai in agitazione della Fiat di Termini Imerese, velocemente chiusa dal Ministero, c’è il prete di periferia che ha montato un ripetitore sul campanile, c’era TeleRobbinud di Squillace “paese più democristiano d’Italia”, e molte altre con le loro singolarità e le loro spezie.


Spesso sulla tv generalista (per tornare ai “fenomeni mediatici” e cose del genere) ci viene spacciato per “informazione” un servizio in cui si passa il microfono “per strada”, “alla gente”. È una cosa insopportabilmente demagogica, vista al Tg1 o su Canale5. Ma quando questo accade nella tua stessa strada, su una tv che è di quella strada, allora è diverso: è lì che le facce, gli accenti, valgono più di mille statistiche e di cento reality show. Paradossalmente, è lì che si svela la finzione di tutto il resto che è toccato dalla solita tv, e che si rivela invece il mediattivismo.

Così scrive Matteo Pasquinelli nel libro “Media Activism” (scaricabile liberamente dal sito https://rekombinant.org/media-activism/download.php?op=viewdownload&cid=1): “La comunicazione indipendente e il mediattivismo sono stati innescati da eventi come Seattle e Genova, sono stati spronati dall’emergenza monopolio, ma essenzialmente si sono sviluppati solo con la massiccia diffusione di tecnologie a basso costo, dei cosiddetti personal media e della rete…il mediattivista è una figura sociale, una nuova figura di operatore, militante, artista, cittadino impegnato a sperimentare, spesso nel proprio tessuto urbano, forme di autogestione della comunicazione”. Le telestreet possono essere in grado (ma molto c’è ancora da fare, e dal basso) di innescare una rottura, trasformare il mediattivismo in legame sociale, risposta di tante comunità globale ad un’informazione monopolizzata e indefinita allo stesso tempo, in grado di creare un immaginario alternativo, formare una massa critica, ribadire l’idea (fondamentale ma ormai in disuso) dell’etere come bene pubblico. La pratica telestreet può rivelarsi come il grimaldello che scardina l’impasto italiano fatto, da un lato, di controllo tecno-mediatico e, dall’altro, di arcaiche costruzioni identitarie.


C’è molto da riflettere, dunque, per chi voglia partire da qui per trovare una nuova via alla sua politica “corsara” ma consapevole. Anche i “nuovi briganti” aspiranti all’etere devono guardarsi intorno per non apparire mummie di un conflitto che continua ma ha cambiato dislocazione. Certo, si dice che in altri Paesi – dove non esiste una concentrazione mediatica del genere – non scoppino “fenomeni mediatici” con questa frequenza. E che pure le telestreet siano regolamentate in maniera diversa. Ma questo è il compito che ci spetta: lavorare in piccolo, pensare in grande.


(www.tmowatch.splinder.com)

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Vogliamo riongraziare Nino Gernone per averci segnalato le due "lezioni" sull'uso delle tv di strada e Luca di Ciaccio per averci informato che i suoi interventi cadono sotto le Creative Commons e che quindi potevamo tranquillamente riprodurli.

Prima lezione sull’uso dell’arma televisiva per i nuovi briganti (Luca di Ciaccio)

Terza lezione sull’uso dell’arma televisiva per i nuovi briganti (Luca di Ciaccio)

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