Eleaml


Per essere scritto a breve distanza temporale dai fatti del 1848 questo testo del Gualterio (di cui mettiamo  a disposizione i capitoli inerenti il Regno di Napolil) ci pare abbastanza onesto, Tantopiù se consideriamo il fatto che l'autore fosse filosabaudo, come si evince da certe lodi sperticate alla dinastia torinese.

Nonostante ciò è lontano anni luce dallo stile che avranno altri più quotati scrittori di storia napoletana, citiamo il De Cesare, il cui stile aneddotico a nostro avviso falsa qualsiasi tentativo di ricostruzione storia.

Zenone di Elea – 24 Luglio 2012

GLI ULTIMI

RIVOLGIMENTI ITALIANI

MEMORIE STORICHE

DI F. A. GUALTERIO

CON DOCUMENTI INEDITI

SECONDA EDIZIONE

RIVEDUTA ED ARRICCHITA DI NUOVI DOCUMENTI

VOLUME QUARTO


FIRENZE

FELICE LE MONNIER

1852


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DELLE CAGIONI

E DEI PRECEDENTI

DELIA RIVOLUZIONE

ITALIANA.

DELLE CAGIONI DELLA RIVOLUZIONE

ITALIANA.

CAPITOLO XXVI.

NAPOLI.

Da ultimo mi resta a parlare del regno napoletano, a fine di progredire nella mia rassegna. Le condizioni intime di questa parte d'Italia sono meno note, perché vive separata dagli altri Stati per la sua naturale posizione all'estremità della Penisola. Regno forte e grande tanto da essere cosa da sé, senza probabilità vera d'ingrandimento che lusinghi il paese, come quello che è prossimo ad altro Stato minore sì, ma difficile ad assorbirsi; lontano dall'aver subito la fusione generata dalle comuni speranze, e per la sua natura stessa e per le tradizioni autonomiche, e fui quasi per dire per la diversità di razza; esso è distinto e separato dagli altri, e quasi ambizioso d'essere e di apparir tale. La storia del passato e le intrinseche condizioni del paese facevano come riguardare il Garigliano più vero limite nazionale, che divisione di Stato; perciò alludendo a queste circostanze soleva appunto l'alto ingegno del Forti dire iperbolicamente, che l'Italia finiva al Garigliano. Ma questa non era che un'iperbole; conciossiaché, se il Napoletano spesso pensò meno degli altri Italiani alla sua italica nazionalità, non è già che la rinneghi, non è già che non senta appartenere ad essa.

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Anzi la natura stessa più che altrove rigogliosa, il cielo più che altrove ridente gli parla altamente d'Italia; e tutto gli ricorda che la sua terra n'è la parte più bella, la parte più invidiata. Appunto sulle sue coste i poeti avevano fatto approdare i progenitori di Roma; e son quelle le coste che Virgilio fece salutare con entusiasmo di gioia dai suoi eroi col dolce e santo nome d'Italia. Ma oltre la situazione topografica del regno, molte sono le cause che vi tennero sempre men vivo il sentimento dell'italianità. La potissima di tutte apparisce il non avere avuto mai né sostenuto lotte vere d'indipendenza, della quale se fece jattura non fu né senza rimedio né senza speranza. Nel medio evo ebbe la ventura di essere tenuto anzi feudo dei Papi che dell'Impero; e la chiamo ventura, perché se l'alto Signore poté cambiargli sovente il diretto padrone, non poté riprenderne per sé il dominio, oltre che questo alto Signore non era straniero. Onde può dirsi che Napoli per principio non subisse quella sventurata condizione, la quale generò n protrasse nel resto della Penisola la schiavitù. Infatti nell'alta Italia e nell'Italia centrale scendevano ad ogni istante gl'imperatori a rivendicare i loro pretesi diritti; e fatta sentire la padronanza e l'onta, ripassavano le Alpi. Anche Napoli ebbe al certo straniere signorie, ebbe anzi una serie di estranei dominatori, ma sia per la sua posizione, sia per l'importanza del regno, giunse sempre a naturalizzarli e farli suoi: e se gli stessi imperatori dettero una volta speranza agli Italiani di cessare dall'essere stranieri, fu appunto quando. Federico ebbe la corona del Regno. Aragonesi, Angioini e Borboni divennero Napoletani; e allorché nell'invasione francese il Piemonte perdeva la sua dinastia, Roma non aveva compensi per la desautorazione del papa, e Milano acquistava solo un viceré, Napoli non faceva che cangiar dinastia ed ottenevane una sua propria.

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Contro gli Spagnuoli replicatamente protestarono quei popoli ancora, e durante quel periodo di servitù di popolo a popolo, il sentimento locale dell'indipendenza più volte e con energia si manifestò; tanto più che da quella dominazione vedevano prodotta, ed ogni giorno cresciuta, la rovina materiale e morale del paese. Ma nella provincia che quasi non ha memorie di prolungati dolori patiti per opera degl'imperatori germanici; nella provincia anzi che ebbe sempre a lottare contro i capi di parte guelfa, i Papi, per non essere assorbita novellamente dalla loro potenza; nella provincia che ha pianto Manfredi, che ha veduto fra il lutto universale cadere la testa di Corradino; nella provincia che non patì servitù di popolo a popolo, se non per opera di Carlo d'Angiò e dei suoi Francesi, e di Carlo l'e dei suoi Spagnuoli, non è a maravigliarsi se non trovasi nel popolo quella profonda avversione (la quale ha origine soltanto nelle storiche tradizioni) contro il tedesco dominatore che impedisce alla nazione, di cui pur essa è parte, di poter essere indipendente. I sentimenti non si generano che dai fatti, non si istillano nel popolo se non con l'opera della storia; ed il popolo odia sempre ciò che lo fa soffrire, o che ha udito aver fatto soffrire i padri suoi. Queste memorie, queste tradizioni non parlavano ai Napoletani il linguaggio che parlavano agli altri popoli d'Italia. Per la stessa guerra di successione, la quale ricondusse i Tedeschi in Italia dopo quasi dugento anni di assenza (che pur potevano essere una ragionevole prescrizione), per quella stessa guerra o piuttosto per i trattati che ne seguirono, in cui le ultime conseguenze dell'ambizione medicea a danno di Toscana si verificarono, e si cominciò a preparare le catene o la morte al Leone veneto;

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Napoli, se vide i Tedeschi per brevi istanti ed ebbe un saggio del loro dominio, che fece quasi al primo momento dimenticare le prepotenze di quel di Spagna, pure ne uscì non solo con una dinastia sua, come ho detto, ma con una dinastia che faceva parte di quella regnante a Parigi e a Madrid, di quella che avea lottato recentemente con l'Austria, di quella infine che reggeva nazioni per loro natura necessariamente nemiche dell'Austria. Il Piemonte ancor egli si avvantaggiava in quei giorni alla pace di Utrecht, come altrove non lasciai di osservare: ma i vantaggi del Piemonte lo ponevano in grado da sentire naturalmente maggiori appetiti, da destargli più vaste ambizioni e quasi da imporgliele, per conservare sicuramente quel che aveva acquistato. Napoli all'incontro scuoteva il giogo di due secoli, ritornava nazione separata, con i Reali suoi propri, ed a nulla ormai più aspirava che a riparare gli antichi danni. Ciò era naturale, perché lunga impresa ed ardua compariva il rimediare alle interne piaghe lasciate dalla dominazione di Spagna; e perché non potendo ingoiare gli Stati della Chiesa, non aveva speranza d'ingrandirsi, mentre che era lusingato dall'idea di essere il regno più vasto e popoloso della Penisola. Queste cose volli discorrere, affinché le ragioni storiche appaiano manifeste non della mancanza del sentimento italiano, ma dell'assenza dell'avversione vera contro gli Austriaci nel popolo napoletano, e della rara e poca sua compartecipazione ai dolori ed ai bisogni de'  suoi confratelli. Questa divisione fu accresciuta dai governanti, i quali alle questioni d'interesse o danno comune di tutti gli Stati italiani meno degli altri attesero; comecché minore fosse il pericolo per essi, situati nell'ultima estremità della Penisola, abituati perciò a riguardare le sventure altrui, se non quasi propria difesa, certo come riparo.

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Né i Napoletani avevano ragione di dolersi o nulla da invidiare agli altri, quando cominciarono ad esperimentare sotto Carlo III i beneficii dell'indipendenza, allorché il primo impulso alla pacifica rivoluzione in Italia dalla sua reggia partiva. Breve regno, il quale riparò ai danni della lunga servitù spagnuola che sembrava avere isterilito quelle contrade. E invero questo pare appunto che fosse il carattere costante della dominazione di Spagna, rendere sterili moralmente ed intellettualmente quegli Stati che dal superbo suo scettro erano governati. Quell'impero di breve durata desolò le Indie, spopolò le Americhe, avvili le contrade italiche, lasciò in preda alla guerra più spietata le Fiandre; e lo stesso suo centro, la Penisola Iberica, lungi dall'arricchire per le sue conquiste, si vuotò di popolo ed impoverì; e quando la sua grandezza efimera scomparve, rimase un cadavere in mezzo al Mediterraneo. La maggiore corruzione napoletana a quel dominio si deve. Quell'azione corruttrice ed eviratrice non fu però tale che ivi non trovasse resistenza; trovonne anzi una che altrove non aveva potuto rinvenire, la quale le rese impossibile stabilire nel regno l'Inquisizione. Questa opposizione dall'istituzione favorita di Filippo II trovata in Napoli sempre, è un fatto notevole che onora il paese; mostra come il germe della civiltà fosse colà custodito, e spiega come l'opera della riforma di Carlo IH potesse incontrare immediatamente l'aiuto del paese, e fosse secondata da uno stuolo di valenti uomini rispettati da tutta l'Europa. Il movimento intellettuale del secolo XVIII aveva non solo fatto progredire alcune scienze, ed alcune ne aveva sollevate dal fango dell'empirismo, ma ne aveva arricchito la famiglia di una nuova, l'Economia Pubblica.

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Questa scienza potè dire d'avere la culla in Napoli, come vi ebbe la più antica cattedra; e se oltremonti parve emersa dalla rivoluzione, a Napoli l'aveva preceduta, o meglio aveva accompagnato l'opera della riforma. La quale compita dal governo e dai più lucidi e pratici intelletti del tempo, fu la causa che fece sorgere il liberalismo nel regno. La patria di Antonio Serra calabrese,1 del Vico, del Genovesi, erasi sollevata ad un tratto non al pari, ma sopra di tutte le altre nazioni civili, come essa medesima aveva già rinnovato la filosofia in Italia.8 Dell'opera delle sétte ragionai altrove. Le sventure pubbliche le avevano generate, novelle sventure dovevano resuscitarle ed ampliarle: e io tengo per fermo che senza la gran catastrofe della rivoluzione francese, e più senza le inique stoltezze dell'Acton e di Carolina, quelle non si sarebbero poscia così estese e moltiplicate da cambiare quel regno in un vero vulcano, nelle cui viscere la potente lava di continuo bolliva.

Gli Spagnuoli avevano rispettato un altro avanzo dell'antica civiltà, le apparenze cioè della libertà nazionale. Le ombre dei parlamenti vivevano a Napoli tuttavia nei Seggi, e non furono distrutte se non come privilegi allorché il livello della legge passò sui baroni per eguagliarli alle altre classi della società. Combattendo l'aristocrazia, avevasi certo in animo di crescere ancora l'assolutismo regio e fortificarlo. Era tempo di transizione. I principi stavano perplessi fra l'idea assorbente ed unificatrice di Luigi XIV, e il gran sentimento dell'eguaglianza, che ogni giorno cresceva minaccioso e mirava ad abbattere l'antica feudalità.

1 Amico del Campanella, con cui ebbe comuni le persecuzioni.

2 La Scuola Cosentina nel secolo XVI aveva rinnovata la filosofìa Platonica, e Bernardino Telesio ne fu il grande luminare. Non e fuori di proposito ricordare, come San Tommaso d'Aquino illustrasse ancor egli con la sua dottrina la città di Napoli, ove ebbe la cattedra per molto tempo.

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L'opera di Carlo Magno crollava, la sua epoca si chiudeva; i principi stessi più o meno vi prestavano mano, e niuno avrebbe sospettato che le ultime ore di quell'epoca sarebbero state cotanto sanguinose. Il genere umano entrava in un altra èra, della quale le prime aure già soffiavano sull'Europa. A Napoli poi l'aborrimento popolare controia feudalità trovava un'altra potente ragione nella lotta, che contro la medesima i Comuni avevano sempre combattuta, e nelle ingiustizie sopportate per quella dai dominatori spagnuoli. Essi ricompravano sovente a danaro la loro libertà dal governo; e questo non di rado, dopo avere ricevuto il prezzo dell'emancipazione, ad altri baroni li rivendeva e gl'infeudava. Questo metodo di far danaro usato dagli Spagnuoli fece naturalmente più odiosi i baroni, i quali per tal guisa ricevevano investiture sopra Comuni che avevano sborsato il prezzo della loro libertà.

La storia degli avvenimenti napoletani è inutile farla, e sarebbe temerità dopo il lavoro del Colletta. In nessun paese aveva la rivoluzione pacifica prodotto frutti più maturi, in nessun paese le sue traccie furono più belle, in nessun paese i veri della nuova civiltà furono difesi e consecrati col martirio di tanti e sì generosi campioni. Mentre a Parigi la rivoluzione, cioè l'èra nuova, tuffava le mani nel sangue di quella che distruggeva; a Napoli la reazione, cioè l'èra antica, nuotava egualmente nel sangue di coloro che alle nuove dottrine erano devoti. Coi Pagano, coi Cirillo, coi Conforti, vendicava il vecchio assolutismo le vittime immolate a Parigi dalla giovane libertà. I quaranta mila periti nelle carnificine napoletane attestano chiaramente, che i partiti estremi non hanno nulla da invidiarsi, nulla da rimproverarsi vicendevolmente.

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Erano due secoli (per usare la poetica, ma vera espressione del Manzoni), uno armato contro l'altro: erano due epoche che si contrastavano il dominio del mondo: erano due principj che cominciavano una lotta sanguinosa, perché sapevano entrambi che doveva essere lunga e mortale. No: le colpe e le virtù di quei giorni non appartengono alle nazioni che ebbero per esse gloria od infamia, ma bensì ai due partiti. Se gli orrori di Parigi hanno riscontro nelle carnificine napoletane, entrambi attestano l'epoca di transizione: ma sventuratamente all'inversa. La reazione che trionfava a Napoli nei sanguinosi baccanali del cardinale Ruffo e di Fra Diavolo, mostrava al mondo, come la reazione contro la novella civiltà non presentasse minori scompigli sociali di quelli che erano seguiti al primo irrompere del torrente rivoluzionario.

Ma l'epoca civile a Napoli era stata troppo breve, e quindi i frutti della riforma caddero; quelle striscio luminose scomparvero irraggiando più il passato che l'avvenire. Che se l'opera della riforma non ebbe durata, ne furono in parte causa gli avvenimenti, e in parte le condizioni intime del paese, a cangiare le quali è necessario il lavoro assiduo di più generazioni. Carlo III aveva trovato nel regno la feudalità cresciuta ai maggiori eccessi dagli Spagnuoli; i quali esagerando quell'assurdo sistema, se n'erano fatti forti, e con esso avevano cercato di porre al coperto da ogni pericolo la loro dominazione in quelle contrade. Il movimento municipale del medio evo era già stato meno sentito in Napoli che nell'Italia centrale (salvo Roma, città eccezionale), e quindi la feudalità né aveva trovato inciampo, né aveva dovuto sostenere lotte con l'altro elemento rivale, la borghesìa. Per conseguente, Carlo III aveva ereditato quel regno senza quasi ceto di mezzo, e col diritto feudale stabilito nelle campagne; la qual cosa specialmente era funesta al regno, poiché all'antico sistema teneva vincolate tutte le provincie, ed impediva uno slancio delle classi povere verso migliori destini.

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Queste non aveano quasi dato un passo fuori del medio evo. Il perché non è da maravigliarsi, se con poca borghesia, col solo soccorso dei nobili ingegni, colla inimicizia degl'interessi de'  baroni, con l'apatia e dipendenza da questi dei coloni, la riforma di Carlo IH e della Reggenza fece prova di non avere salde radici; e la reazione, cioà il partito degli antichi ordini, si trovò padrone tuttavia del terreno che altrove gli era più radicalmente contrastato. Siffatte sono forse le ragionale quali resero possibile la feroce reazione distruggitrice della riforma di Carlo re e del Tanucci (che aveva felicemente innestata la toscana sapienza alla napoletana); riforma gravida di così belle speranze, e che fece più difficile per l'avvenire il rinnovarla. Il Tanucci avrà in quella riforma preso in specie di mira gli abusi della clericale potenza: combattè acremente e vigorosamente l'immunità ecclesiastica e tutti i diritti del clero, che facevano parte od avevano origine nel diritto e nel sistema feudale. Questi diritti erano eccessivi in Napoli. Così, a modo d'esempio, l'abate di Monte Cassino aveva il titolo di primo barone del regno, e prendeva sempre, come tale, il primo posto a Corte e nelle pubbliche comparse; e la badessa di Santa Chiara aveva nulla meno che il titolo di regina di Pozzuoli, e poteva, quasi ad insegna di sovranità, inalberare bandiera sul campanile.

La rivoluzione avendo preso novellamente il suo corso, quei due ostacoli che avevano rovinato la prima opera e distrutto i frutti già da essa prodotti, furono di più colpiti; alla feudalità cioè si fece guerra, e si procurò di formare una borghesìa. Ma la seconda è opera lenta e lunga, e in gran parte la sua formazione dipende dalla mina della prima; cosicché non essendovi che nobili e servi nel paese, la borghesìa si cominciò a formare in parte di forestieri, al che l'incremento del commercio e dell'industria giovò assaissimo.

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Dico in parte, perché esisteva sempre in Napoli un nucleo di borghesìa. Era questa formata dalla gente malcontenta che veniva a ricoverarsi dalle provincie nella capitale; tutti i migliori, stanchi delle oppressioni feudali, vi accorrevano per godervi quei privilegj, che erano loro negati nelle provincie. Questa è la causa dello straordinario accrescimento della popolazione nella capitale, che è fuori affatto d'ogni proporzione colle provincie. La terra vicina a Napoli non era soggetta a servitù: i suoi possessori godevano del pieno diritto di proprietà sulla medesima. Ciò aveva cominciato a faré ricca la borghesìa napoletana. La peste eziandio che nel secolo XVII afflisse Napoli, aveva cresciuto quel ceto. Famiglie intiere si erano estinte, e nuovi possessori avevano preso il luogo degli antichi.1 In appresso, massime nella Curia, questa borghesìa cominciò a formarsi e crescere progressivamente; in guisa che oggi nel solo grande commercio (senza la curia cioè e il commercio minore) su quattro quinti di stranieri, non meno d'un quinto di nazionali la compongono. L'abolizione vera della feudalità non fu compita che nel 1806. Questo provvedimento più necessario bensì a Napoli che altrove, ma insieme più difficile ad eseguire, perché la signoria baronale era forse ancora nella pienezza de'  suoi poteri, fu fatta con precipitazione e con forma alquanto dura; il che fu conseguenza della trista prova subita dal paese pochi anni innanzi. Quelle leggi fecero sì che l'aristocrazia, la quale non era stata prima stazionaria, ma anzi aveva preso parte grande alla prima rivoluzione forse per vendetta, ora per interesse di conservazione divenne tale; e per la forma cui esse ebbero, si fece anche reazionaria per rancore.

1 Una delle famiglie più ricche di Napoli, ora estinta, ebbe origine in quel tempo da un Notaro, nei protocolli del quale si trovarono atti di donazione e lasciti fattigli da persone morte durante la peste; atti rogati da lui medesimo.

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Alla reazione contro le idee del giorno più agevolmente queil'aristocrazia diè mano, in quanto che le sue tradizioni erano al tutto germaniche. Gli uomini illustri della nobiltà napoletana (eccetto nell'ultimo tempo) non furono quasi mai tali per le opere dell'intelletto, che ella ebbe per lo più a sdegno, come servili. Dimenticò peraltro in quei giorni, nei quali prestava il suo braccio alla più cieca resistenza, che la sua ruina era cominciata appunto sotto il dominio assoluto, anzi era stata una speculazione del dispotismo; illuminato se vuolsi, o meglio aurora di libertà, ma pur dispotismo. Obbliarono i nobili che questo per giungere all'ideale da essi poi desiderato dovè calpestare la feudalità, la quale non era istrumento ma inciampo al capo dello Stato; inciampo che non modificava in lui quel dispotismo, se non in quanto lo voleva esso stesso sminuzzatamente esercitare. Ora l'opera di Carlo III e del Tanucci stette, come già ho detto, fra l'idea di Luigi XIV e quella dei filosofi; e a Napoli come in Francia il livello del dispotismo era passato sulla feudalità, innanzi che vi passasse quello del liberalismo. Gl'inviti diretti ed indiretti ai baroni di venire a far pompa dei nomi e gareggiare di lusso nella capitale ed alla Corte, non era stato che un mezzo per far ad essi consumare le immense loro fortune, a fine di poterli abbattere più agevolmente, e farli intanto dimenticare dai loro vassalli; distruggendo cosi a poco a poco il prestigio della signoria baronale e quel nesso immediato fra vassalli e signore, che aveva tutta la sua forza nella presenza del barone. Questa opera d'altri tempi, io dico, avevano dimenticato gli aristooratici, e più tardi rivolsero tutto l'odio contro i principj liberali che loro toglievano i diritti feudali, le limitavano i fedecommessi; facendosi campioni della monarchia pura, della monarchia assoluta, della monarchia legittima, della quale vollero diventare satelliti inseparabili.

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Ma quella reazione facevasi meno temibile, perché l'effetto immediato delle leggi di svincolamento era di formare novelli interessati; e la borghesìa crescente, in cui si concentrava la coltura e quanto aveva in sé di speranze il paese, le opponeva un argine che ogni giorno diventava più alto e più forte, e giungerà una volta ad esser tale a bastanza da dominare le forze reazionarie e tenerle come acqua nel loro alveo, perché non straripino a desolare affatto quelle misere contrade. Questo lento lavoro, continuato senza interruzione e senza contrasto per dieci anni, doveva poi essere novellamente arrestato, o reso più tardo per il turbine reazionario che soffiò su tutta l'Europa. Se però esso porgeva per isventura apparenze meno luminose del primo, ne aveva in compenso più salde radici, e quindi con la nuova bufera contrastava in modo più saldo: inoltre il sangue dei martiri aveva fruttificato, e le idee liberali sotto la francese dominazione eransi fatte più generali. In questo tempo le sétte presero una estensione quasi favolosa, ed ogni partito a vicenda speculò su di esse e sulle loro divisioni. Risuscitate per naturale effetto delle stragi del cardinal Ruffo (il Robespierre dell'assolutismo), furono fomentate ora dai re della razza Borbonica esuli in Sicilia contro il Murat, ora dal Murat contro Napoleone prima, e poi contro gli Alleati. Il liberalismo abbandonando allora le tradizioni della riforma col mezzo del governo, si fece quasi tutto Massone o Carbonaro, e il principio della libertà cercava rendersi forte sotterra,e nell'ombra si addestrava alle future lotte con l'assolutismo.

1 L'atto del 1806 dichiarava che nei fondi baronali, nei quali il barone cacciava a suo piacimento i coloni perpetui o esistenti, e vincolava il genere di coltura facendosi pagare il canone in natura, i coloni diventassero inamovibili; e si tenesse per massima e per fondamento di contratto che in origine la proprietà della terra fosse stata loro.

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La natura fantastica, e le abitudini superstiziose di esso popolo meridionale, facevangli trovare gradito pascolo nelle esagerazioni e nei misteri di quelle politiche catacombe. Il Murat da un lato cercava non senza fortuna, non ostante le antiche persecuzioni, tirare a sé questo partito promettendogli la libertà. Egli erasi presto pentito di aver fatto chiudere le Vendite dei Carbonari, ed il giorno del pericolo o quello in che sentì destarsi in cuore novelle ambizioni, chiamò alla Corte i capi dei Carbonari; come appunto il re di Prussia aveva fatto venire al suo quartier generale di Breslau gli agitatori più autorevoli della così detta associazione del Tugendbund. I Borboni dall'altro lato cercavano di accaparrarsi il partito medesimo con eguali menzognere promesse. A niuno è ignoto il famoso Manifesto di re Ferdinando del primo maggio 1815, all'istante che era per porre novellamente il piede nel perduto regno, col quale non solo volle promettere Costituzione, ma le più ampie forme democratiche. «Tutto, diceva, sarà sacro come proprietà del cittadino.... Un governo stabile, saggio e religioso, vi è assicurato. Il Popolo Sarà Sovrano, ed il principe il depositario delle leggi che detterà la più energica e la più desiderabile delle Costituzioni.» Promesse d'un giorno, rinnegate poscia e dichiarate apocrife, quando non ve n'era più bisogno, quando l'Austria aveva voluto contrarj patti a suo vantaggio. Ma era già quel re assuefatto alla mancanza di fede, e faceva gitto imprudentemente, anzi sconsigliatamente, della base più solida della monarchia, del prestigio che mantenne sempre in onore la regia autorità: l'inviolabilità cioè e la santità della parola reale.

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Così la forza materiale accieca sovente e fa porre in non cale la forza morale, che poi all'occasione cercasi invano, e se ne menano irragionevoli lamenti. Ma un terzo elemento era nato durante il governo francese nel regno di Napoli, la milizia; la quale era tutta devota al suo capo e ne partecipava la fortuna, come accade sempre delle soldatesche di un ardito e felice capitano di ventura. Veramente pochi capitani avevano mai potuto del pari infiammare, non che lusingare, l'ambizione dei loro soldati, come Gioacchino Murat; e perciò la milizia napoletana fu esclusivamente murattiana, e non la fortuna solo, ma eziandio le tendenze politiche del suo capo seguitò. Quindi, allorché nacquero i primi dissapori fra il Murat e Napoleone, per la promulgazione di un Ordine del Giorno che ledeva l'onore del primo, e maggiormente poi quando l'impallidire della stella del gran conquistatore fece temere per la solidità del trono novello di Napoli, come opera napoleonica; la truppa del Murat si volse col suo capo ai Carbonari per rafforzare il suo duce dell'aiuto di questi. Che anzi, come dissi, professando i Carbonari il principio della nazionale indipendenza insieme a quello della libertà, ed essendo il primo preponderante negli animi dei loro confratelli di setta in Lombardia e in Romagna, Gioacchino fece invito a quel principio, che fu scritto sulle bandiere dei suoi soldati. Quel principio infatti, se da un canto lusingava l'ambizione ed il genio venturiero del Murat, davagli ancora dall'altro speranza di assicurare ed avvantaggiare i suoi interessi nella ruina dell'impero francese. Due volte rinnovò a questo fine i suoi tentativi, e tutte le vie sperimentò per riuscirvi. La difficoltà e la incertezza dei tempi lo costrinse la prima volta a mantenere relazioni con gli Alleati, nel tempo stesso che congiurava coi Carbonari: sperava o addormentare i primi tuttavia dubitanti e mal sicuri della loro vittoria e dell'avvenire, o giovarsene.

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Ma questo scabroso stato, non saputo neppure da lui mantenere con accorgimento per la sua indole troppo aperta ed impetuosa, ed oltre a ciò l'esitare del principe Eugenio, l'avversione d'un partito lombardo a tutto quanto era francese, el infine il sospettoso contegno degli stessi Carbonari lombardi, fecero andare a vuoto i suoi disegni e le ambiziose speranze della sua truppa, quando cadde Napoleone. Il secondo tentativo poi, operato durante i Cento Giorni, fu guasto da lui medesimo per soverchia precipitazione, scoprendo agli Austriaci la sua doppiezza, mentre non era ancora sicuro dell'aiuto del reduce imperatore. Forse con l'aiuto di un esercito sulle Alpi questo secondo tentativo avrebbe avuto esito più fortunato, e gli Austriaci non sarebbero giunti a soffocare quel movimento sul suo nascere. Quella precipitazione gli costò il trono e la vita, e ridonò i Borboni al regno napoletano. Ma l'esercito, più ancora del paese, non ne aveva dimenticato il nome; ed associato da lui ad una impresa generosa che solleticava la loro ambizione e come soldati e come napoletani, provò un sentimento fino a quel tempo insolito, quello della nazionale indipendenza. Furono quelle campagne, che destarono in certo modo il sentimento nazionale nel regno di Napoli e ne scaldarono l'ambizione; al Muratsideve il merito d'aver fatto partecipare il regno napoletano alla grande e generosa idea, alla nobile agitazione che nel resto d'Italia già esisteva, ed era antica. Quindi è che la tradizione dell'indipendenza restò a Napoli tradizione murattiana, tradizione militare, fino al 1820. Il seme era sparso, e doveva fruttificare. Tutte le idee e le speranze di quei giorni ebbero messo radici nel paese, e qualcuna eziandio nel governo che aveva raccolto l'eredità del valoroso ed infelice venturiere già suo rivale, e poscia sua vittima.

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I soldati s'intertennero sempre d'indipendenza italiana, i Carbonari moltiplicati dalla reazione borbonica in quella idea si fecero forti, ed il governo di Napoli non dimenticò che le Marche pontificie erano state promesse dall'Austria stessa a re Gioacchino innanzi ai Cento Giorni. Perciò nell'incertezza delle sorti italiane, nell'agitazione che ormai dopo quei tentativi vedeva bene sarebbe sempre cresciuta e venuta un giorno o l'altro all'aperto, la diplomazia napoletana tenne sempre fissi gli occhi sopra di Ancona; vagheggiando non solo di acquistare un bel porto nell'Adriatico, ma di togliere in tal guisa al regno la gran difficoltà d'ingrandimento futuro, la quale consisteva, come ho detto, nell'essere confinante ai domimi papali. Questa era la mira costante di quel governo. La Corte di Roma minacciata nelle Romagne dall'Austria, vedeva le sue Marche ambite da un re, che già era da lei riguardato come suddito ribelle, perché negava pagare il tributo per l'investitura del suo regno, e perché, anzi che a quel pagamento, preferiva soggiacere annualmente ad una rinnovazione di protesta e ad una scomunica. Strano esempio veramente era questo che si dava ai popoli degli Stati romani, ai quali l'inviolabilità dei diritti della Chiesa si predicava, e mentre veniva proclamata l'intangibilità dei suoi dominii come massima piuttosto cattolica che europea, non già dal clero solo, ma dal partito che aveva compiuta la restaurazione del 1815! Così in quel congresso, come alla torre di Nembrot, aveva origine la confusione di tutte le idee, di tutti i principj, di tutte le parole, e l'accozzamento di tutte le contradizioni, germe delle posteriori confusioni, e causa delle conseguenti rivoluzioni.

Il regno di Napoli dunque, che aveva già dato 40,000 vittime alla causa costituzionale, sentiva ancor esso il gran movimento nazionale che si propagava in tutta la Penisola, e cooperava potentemente ad estenderlo.

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Benché il partito militare che rappresentava per rimbalzo l'idea nazionale, ed il partito carbonaro rappresentante dell'idea costituzionale, non fossero uniti che per caso negli ultimi giorni del Murat, i loro legami allora si fecero più saldi durante il tempo delle insanie restauratrici. I primi però rappresentavano una forza vera, mentre i secondi, se erano forti per numero, non eguagliavano a gran pezza per mente e per vigore, salvo poche eccezioni, i giacobini loro antecessori. Ma intanto quei due elementi riuniti prepararono la rivoluzione del 1820. L'esercito, cioè il partito murattiano, tolse sopra di sé di eseguirla, mentre che i Carbonari se ne fecero capi. Una delle cause potissime dell'irritamento dell'esercito si era in quei giorni il procedere del generale Nugent, il quale aveva diminuito il soldo e minacciava sempre nuove diminuzioni. Questo irritamento era così grande che, anco domata la rivoluzione, il governo non si teneva sicuro dell'esercito, se lo avesse di nuovo sottoposto agli ordini di quel generale; dichiarò quindi esplicitamente, che il Nugent non sarebbe tornato a Napoli. Le vicende del 1820 e del 1821 sono universalmente note. Il partito costituzionale era riuscito a procacciare al suo paese quelle istituzioni, le quali avevano già veduto immolarsi tante vittime, ed erano state invano promesse dal re nel 1815.1 Il partito militare non si dissimulava il pericolo che l'esistenza di quelle istituzioni correva, e sperò essere destinato a salvarle. Vide bene che probabilmente avrebbe avuto a sostenere una guerra con la naturale nemica delle medesime, l'Austria: ma e perché difensiva, e perché in casa propria, sperava sarebbe di esito più fortunato dell'altra offensiva già tentata dal Murat.

1 Riporto fra i documenti il noto proclama del re di Napoli, allorché nel 1815 sbarcava dalla Sicilia. Vedi Documento CXCIX.

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Si confidò forse ancora che la seconda campagna avrebbe riparato all'onore della prima. Molte cause fecero perdere al regno il frutto di quella rivoluzione felicemente riuscita; ma tra queste le principali sono senza fallo, la buona fede del parlamento nel permettere al re di recarsi al congresso, la scelta di una costituzione impropria, le dissensioni colla Sicilia sempre infauste, e la scienza militare dei capi dell'esercito non pari alla occasione.

Così quando la rivoluzione del 1820 fallì, si fece universale non solo l'idea della necessità d'istituzioni rappresentative (la quale più evidente appariva per la colpa e la doppiezza del re), ma il sentimento della nazionale indipendenza, già custodito qual tradizione nell'esercito del Murat, crebbe e si dilatò nel paese più di quello che per lo innanzi fosse mai stato. Ciò fu pure conseguenza del peso e della vergogna dell'intervento austriaco, con cui il re abbattè la rivoluzione, e rientrò nella pienezza de'  suoi poteri. In tal modo Napoli, già per la stessa sua posizione indipendente dall'Austria, solamente alleato politico sotto Carolina, più stretto amico e dipendente nel 1815 per gratitudine dei Borboni che dovevano al gabinetto viennese il loro ritorno sul trono di terraferma, può dirsi che diventasse nel 1820 un satellite dell'Impero. Il re di Napoli non regnava più che per mezzo degli Austriaci, secondo l'espressione del diplomatico francese da me spesse volte citato; e in conseguenza solamente per gli Austriaci.

Ma questa unione, non che l'abbattimento dello spirito liberale, si operò lentamente e con accorgimento singolare. Col pretesto della passata ribellione, le forze interne furono avvilite, e ormai gli eserciti del regno non erano altro che austriaci.

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Così si fece guerra al principio nazionale veramente nel cuore; imperocché togliendo ogni potere, ogni ascendente ed ogni stima all'esercito, s'impedì che da esso come da centro quel principio si spandesse, e nel medesimo potesse il partito vedere un sussidio.

Frattanto alla costituzione disconosciuta e posta in non cale, non ostante i giuramenti prestati e rinnovati, si fece sperare che succederebbero leggi tali da rendere felice il paese. Si diceva questo non maturo alle istituzioni rappresentative: si faceva sentire che le nuove leggi organiche lo educherebbero a quelle. Solita tattica, solite ragioni, con le quali si dà principio alla reazione, e si cerca palliare la mancanza di fede od attutare la coscienza. Ma oltreché i popoli si educano alla libertà soltanto col goderla (come non è possibile assuefarsi ad un'atmosfera nuova, senza vivere in essa), il parlamento napoletano del 1821 aveva dato saggi di perfetta maturità, e nulla poteva per senno invidiare ai più vecchi parlamenti d'Europa. Anzi gli uomini di Stato più sapienti e coloro che non erano devoti ad una setta, non disconoscevano gli elementi di durata che il sistema rappresentativo aveva in Napoli, e il clero stesso rendeva sinceramente omaggio al nuovo stato di cose; omaggio che se incontrava la disapprovazione dei Canosini, era approvato nel seno stesso del Sacro Collegio dagli uomini leali ed indipendenti.1

1 Così il cardinal Ruffo faceva una Pastorale, che veniva approvata dal temperato cardinale Spina Legato di Bologna, ma altamente disapprovata dai reazionarj cardinali napoletani, Arezzo e Sanseverino. A questo lo Spina scriveva da Bologna il giorno 18 ottobre 1820: «Ho letta una pastorale dell'arcivescovo di Napoli sugli avvenimenti di quel regno. £ veramente bella Im E il 28,udite le opinioni avverse, si restringeva a soggiungere: «Ho mandata all'Em. Rusconi la pastorale dell'Ero. Ruffo. Gli scriverò di passarla a lei. Ha fatto molto inquietare l'Eni. Arezzo. Non interloquirò sulla materia, giacche sarebbe necessario a sapersi quali ordini abbia avuti dal re medesimo o dal suo Vicario generale.

Ma lo stile a me è parso bellissimo.» [l cardinal Con salvi medesimo nelle relazioni col governo costituzionale di Napoli usò molta circospezione, e non volle inimicarselo; la qual cosa prova che alla possibile durata Hi quello non era lontano dal credere, e che non teneva per anarchico quel nuovo stato di cose. Ho di ciò la prova in un'altra lettera del medesimo cardinale Spina del 2 dicembre 1820 al cardinale Sanseverino:

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Quelle leggi promesse si compilavano a Laybach; e per amore del vero convien dire che, se si fosse potuto riguardarle come avviamento al sistema rappresentativo e anche giustificare l'abolizione d'un dritto acquisito.

Accludo la risposta data dall'Em. Consalvi alla Nota di Napoli. E nella sua semplicità giudiziosissima, e doveva piacere a tutto il corpo diplomatico, ed al governo stesso di Napoli, come di fatto e piaciuta.» E la ragione di tal circospezione del Consalvi era nella credenza che egli avea del progressivo incremento dello spirito nazionale in Italia, fuori del giro tenebroso delle sétte. Eglie il cardinale Spina, unico fra i cardinali Legati di quei giorni che servisse lealmente la sua politica, non disconoscevano l'odio che si accumulava sul capo degli Austriaci; perciò prevedevano che i tempi un di o l'altro si sarebbero fatti più grossi, e forse non ignoravano che l'incremento del sistema rappresentativo in Italia sarebbe stato fatale alla dominazione austriaca nella Penisola. Onde il Consalvi non solo non volle romperla col governo napoletano, ma cercò scansare il passaggio delle truppe austriache a traverso gli Stati romani, secondo che dissi a suo luogo, per impedire l'accresci mento dell'influsso imperiale; come apparisce chiaramente dalle lettere che ho fatte di pubblica ragione nei Documenti del primo volume,le quali pienamente comprovano la mia asserzione. La lettera che citai del cardinale Spina del 2 dicembre 1820, esprime ancor essa la convinzione dell'incremento dello spirito nazionale; e termina appunto così: «Sembrano ora in silenzio i settarj, ma non perciò hanno rinunziato alle loro idee; e quel che poi è più notabile, è l'odio che da tutti i ceti si esterna contro gli Austriaci. Guai se in Italia avessero uno scacco qualunque!» Notai peraltro la differenza d'opinione dei due cardinali napoletani. Essi infatti non si stettero contenti a disapprovare a bassa voce la Pastorale del cardinal Ruffo, ma rifiutarono apertamente di riconoscere il nuovo stato di cose, e non vollero prestare il giuramento alla Costituzione, che loro venne richiesto come sudditi napoletani. Credo opportuno riportare qui per esteso alcune lettere del cardinale Arezzo al cardinale Sanseverino Legato di Forli, su questo proposito; altre di lui e di altri cardinali riguardanti le cose romane si trovano fra i Documenti, e spargono molta luce sullo stato delle Romagne nel 1821.

«Eminentiss. Padrone ed Amico.

«Coll'ultimo ordinario mi è giunta lettera del cav. Cattaneo, incaricato di Napoli a Roma, nella quale m'invita a prestare il noto giuramento alla Costituzione, come suddito del re. Io gli risponderò sabato prossimo, e gli dirò che le circostanze della Sicilia da tutti conosciute, l'incertezza dei futuri eventi sul destino di quell'isola, il pericolo a cui esporrei le mie sostanze e forse anche i miei congiunti, non mi permettono di aderire ad una tal proposizione; ma che non perciò S. M. il mio re dev'essere men persuaso dei sentimenti di fedeltà, di rispetto, di devozione ed attaccamento alla sua sagra persona,

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furono certamente lodevoli e degne della civiltà dei tempi. Alle medesime successe l'ordinamento dei Consigli provinciali, ed a compimento del sistema medio seguitato, o promesso di seguitare, usciva finalmente alla luce nel 1822 una bella legge sulla Consulta.

sentimenti che io gli debbo per tanti titoli, ma specialmente poi come a mio special benefattore. Questa sarà ad un dipresso la sostanza delle cose che io penso di esporgli brevemente; ne venga poi quel che ne vuol venire, Dominus providebit. Ne do -t V. E. questo cenno per suo lume, sebben io vegga che diverse sono le nostre circostanze, e che ciò che è ragione per me, non lo può essere per Lei. Amerò di sentire come si sarà ella contenuta, non dubitando io che l'ìstessa intimazione sia pure a Lei pervenuta.…..............................................................................................

» La marcia delle truppe austriache continua e continua con rapidità, checche ne dicano e ne spargano in contrario i liberali ed i carbonari. La dichiarazione delle alte Potenze non si sentirà che quando le forze che dovranno agire contro di Napoli, saranno tutte riunite ed in istato d'incominciare l'impresa. Se vi saranno altre notizie interessanti, V. E. le saprà dal solito foglietto settimanale. E senza più bacio all'È V. umilissimamente le mani.

» Ferrara, 19 settembre 1820.

» Umil. Dev. Serv. e Amica

» X. Card. Arezzo-»

«Eminentiss. Padrone ed Amico.

M Ho fatto più matura riflessione su la risposi a da darsi al cavalicr Cattaneo, ed ho veduto che dopo le ultime notizie delle cose di Sicilia o già composte u prossime a comporsi, una risposta evasiva non era più conveniente. L'ho dunque data decisa, ed ho detto che se si trattasse di dare il giuramento al re, non v' incontrerei alcuna difficoltà; che l'ho dato altre volte, l'ho dato con trasporto, e mi piacerebbe sempre di replicarlo. Ma trattandosi della Costituzione, io non sono in grado di giurare una cosa che non conosco, che non ho avuto tempo di esaminare, e che si riferisrc a modificazioni che io non posso prevedere. Concludo poi che anche senza quest'atto io sarò invariabilmente quello stesso che sempre fui nella lunga e disastrosa mia carriera, fedele cioè ai doveri dell'onore e della religione. Questo ad un dipresso è il sentimento della mia lettera, di cui le manderò copia subito che potrò.

Comincio a dubitare che sia veuuta a V. E. l'istessa intimazione che si 8 fatta a me, giacché né il cardinal De Gregorio ne alcun altro dei sudditi Napoletani e Siciliani l'aveva ricevuta alla partenza dell'ultimo corriere. Non saprei, in tal caso, perché si sia voluto cominciare da me, se non forse perche sono il più lontano ed il più esposto al contatto dei Tedeschi. Siane quel che si vuole, il mio partito è preso, e preso coram Domino} onde ne sono tranquillo.

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Nella gran lotta fra ¥ assolutismo e la libertà sembrò forse questa una vantaggiosa transazione per il momento, una via pacifica dellneata per giungere tacitamente al governo rappresentativo, senza urto e senza rivoluzioni.

Avrà inteso le brutte novità del Portogallo: Oporto era in insurrezione, e si temeva di Lisbona. Oh! veda che tempi! Si figuri quanto si esalteranno le teste dei nostri liberali e dei Carbonari. Se i sovrani non fan presto, e non agiscono con vera gagliardia, temo assai che si faccia a tempo per arrestare il torrente. Pare che l'imperatore Francesco dica davvero. Cerio che le truppe avanzano, e tutto si dispóne con rapidità.

» V. E. sì conservi, e creda sempre ai sentimenti di ossequioso attaccamento, con cui le bacio umilissimamente le mani.

» Ferrara, 21 settembre 1820.

» Umit. Dev. Servii, ed Amico

» T. Card. Arezzo.»

Al cav. Cattaneo.

» Eccellenza.

«Se il giuramento, al quale V. E. mi invita col pregiato suo foglio 13 corrente, dovesse darsi da me alla Sacra Persona di S. M. il Re, di eui ebbi la sorte di nascer suddito, Ella può ben credere che sarei pronto a darlo con quello stesso trasporto, col quale altre volte lo diedi, e mille volte il darei in attestato della mia fedeltà, del mio ossequio e di quel sincerassimo divoto attaccamento che ho avuto ed avrò sempre per un Sovrano, a cui strettamente mi legano, oltre i tant'altri titoli, dei vincoli di speciale riconoscenza, per i molti benefizj che mi ha compartiti.

» Ma se (come sembra) io debbo dare un tal giuramento alla Costituzione, non posso a meno di pregarla a riflettere, che lontano come sono dal regno e distratto in gravissime cure per il servigio che sto qui prestando alla S. Sede, non ho avuto ne il tempo né il comodo di applicarmi a ben conoscere questa Costituzione; e d'altronde non essendo essa ancora compiuta, attese le modificazioni che vi si debbono fare, per quanto si asserisce, e che io non posso prevedere, azzarderei un atto così venerabile e santo, qual è il giuramento, nell'oscurità e nell'incertezza; la qual cosa Ella ben vede, quanto ripugni alla validità dell'atto medesimo, ed alla quiete della mia coscienza. Yoglio anche lusingarmi che nelle mie circostanze sarà per valutarsi l'attuale situazione della Sicilia, che è la mia patria, ov'è ancor dubbio qual ordine di cose sia per istabilirsi.

» Queste considerazioni, che prego V. E. di volere sottoporre in mio nome alla R. Corte di Napoli ec.

» Ferrara, 23 settembre 1820.»

«Eminentiss. Padrone ed Amico.

» Noi ci siamo incontrati nella stessa idea, vale a dire che non può giurarsi una cosa che non si conosce, ed io ho aggiunto, che non si può conoscere, giacché si tratta di modificazioni che ancora non esistono.

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Queste apparenze indicavano un buono spirito nel governo e nel re, il quale appariva vincolato dalla volontà dei potentati alleati che non volevano Costituzioni in Italia (perché vedevano che il tollerarne anche una avrebbe in breve tempo irreparabilmente fatto compiere la trasformazione di tutti i governi della Penisola da dispotici in costituzionali),1

V. E. ha preso tempo, e ciò è analogo alla prima mia idea, che io però credetti di abbandonare subito che mi accorsi non potersi più contare sulla separazione della Sicilia da Napoli, e mi risolvetti perciò di prendere decisamente il mio partito. In somma confidenza accludo a V. E. copia della lettera che ho scritto al cav. Cattaneo, e che la prego di tenere a se o di bruciare, letta che l'abbia. Questa lettera ho stimato bene di mandarla al card. De Gregorio, perché vi dia corso, sempre che dal card. Segr. di Stato, cui ne ho pur mandato copia, non vi si trovi cosa che sia in opposizione con i nostri principj (che non parmi) o con le intenzioni del S. Padre. Eccole detto tutto su questo proposito. Ella ne sa ora quanto ne so io che sono tranquillissimo, perché la coscienza mi dice che ho fatto il mio dovere.

» Le poche notizie che qui vi sono, le troverà nel solito foglietto settimanale. La più interessante è quella, secondo me, della ripulsa da Vienna del principe di Cimitille, perché ciò prova decisamente il concorso della Russia nelle risoluzioni dell'imperator Francesco. Qui tutto è quieto, grazie al cielo, ed io bacio a V. E. umilissimamente le mani.

» Ferrara, 26 settembre 1820.

» Umit. Dev. Serv. ed Amico

» T. Card. Arezzo.»

«Eminentiss. Padrone ed Amico

» Ho riscontro da Roma che il mio Agente ha presentato la lettera sulla richiesta del giuramento al cav. Cattaneo. Egli l'ha letta, e ne ha mostrato della dispiacenza. Il resto o lo saprò dai pubblici fogli, o mi sarà annunziato particolarmente. Io lo prevedo, e non mi pento di quel che ho scritto. Quanto alle modificazioni, perché non potrebbero cadere anche sull'articolo della religione? Per esempio se si aggiungesse, bene inteso che vengono tollerate anche le altre o una tal altra: questo basterebbe a rendere illecito il mio giuramento, come V. E. m'insegna. Ma sia di ciò quel che si vuole. O buone o cattive che siano le ragioni da me addotte, ognun vede qual è la vera, e che per prudenza si tace, la non liberta del Re, o per meglio dire la violenza usatagli nel fargli accettare la Costituzione. Le altre sono pur vere, ma non principali.

» Ferrara, 7 ottobre 1820.

» Umilisi. Serv.

» T. Card. Arezzo.»

1 Questa convinzione era in tutti i governanti. Il cardinale Spina Legato di Bologna scriveva il 4 ottobre 1820 al cardinal Sanseverino Legato di Forli: «Se si tratta con Napoli, e se gli si accorda una Costituzione qualunque, ben presto bisognerà trattare e accordarla a tutta l'Italia.»

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vincolato dall'imperiosa volontà in specie dell'Austria, che metteva innanzi gl'impegni contratti con lei dal monarca napoletano nel 1815; e davano luogo a sperare che i bisogni dei tempi fossero compresi, e a questi si volesse soddisfare. Ma sventuratamente queste apparenze erano menzognere. Non c' era altra volontà che di camminare lentamente, ma progressivamente, nella via della reazione, ed ingannare i popoli e il mondo con leggi che non costava nulla porre sulla carta, quando si aveva volontà di farne quel conto che si era fatto delle promesse del 1815 e de'  giuramenti del 1820. Così ogni passo che il governo napoletano, e massime la dinastia borbonica faceva, poneva sempre più la diffidenza fra lei e il regno datole a governare. Infatti la legge sulla Consulta, sola che potesse avere conseguenze vere e stabili, dopo essere rimasta due anni come lettera morta, fu abrogata nel 1824 da un'altra peggiore ed illusoria, e tutte le altre leggi ebbero o in diritto o in fatto la sorte medesima.

 Ma ben vedeva quel cardinale, retto e temperato uomo com'era, le difficoltà che verrebbero dall'esistenza d'una Costituzione giurata. Perciò il 27 dicembre 1820 soggiungeva al medesimo: «Pare che i sovrani alleati siano decisi di non voler sentire a parlare di Costituzioni in Italia: e se la cosa è così, come la credo, qual politica transazione si potrà fare col re di Napoli?» L'apprensione invero del cardinale, come si rileva da queste parole, era fondata sull'opinione che il re fosse in buona fede e i suoi atti fossero spontanei, come suonavano le sue parole. Egli peraltro si disingannò, non appena Ferdinando si appressò a Bologna, e potè quindi respirar l'aria della Corte. Infatti la lettera del 3 gennajo 1821 è del seguente tenore: «Giunse finalmente il re di Napoli a Lojano alle tre dopo il mezzogiorno di domenica scorsa, ne volle proseguire il viaggio, non volendo decisamente trovarsi per strada nelle ore della notte Nella scorsa notte è giunto il sig. duca di Gallo che seguita il re, e parte in questa per Mantova. Mi ha favorito questa mattina. Egli vede assai diffìcile il conciliare una transazione, al punto nel quale le cose di Napoli sono ridotte. Mi ha parlato de'  giuramenti c delle promesse fatte dal re, e dell'esaltamento de'  spiriti di tutta la popolazione. Non so qual impressione faranno a Layharh queste osservazioni, e quali ne saranno le conseguenze. L'affare certamente è serio, ma io credo che il re transigerà benissimo, e farà poi valere colla forza la sua transazione.» Questo linguaggio indica confidenze ricevute, tanto più che è in opposizione alle convinzioni espresse sei giorni prima: prova quindi che Ferdinando non costretto già dalla volontà assoluta dei potentati, ma con dellberato animo si era preparato a rompere la fede data ai Napoletani.

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La Francia che non aveva compreso il vero senso di quella rivoluzione, si commosse allo spettacolo delle conseguenze dell'intervento austriaco; e il conte di Blacas, ministro francese a Napoli, non ostante le sue inclinazioni affatto retrograde e gesuitiche, ne parve oltremodo desolato. Il governo francese non aveva veduto che quella rivoluzione non solo era stata un lamento dei dolori patiti dal regno dopo il 1815, ma un vero anelito ancora verso le glorie dell'antica Francia; ché in altra guisa non potrei chiamare il commuoversi dell'esercito e di quanto formava l'elemento murattiano. Non avendo il governo francese compreso questo, per l'abituale leggerezza con cui furono, sono e saranno mai sempre studiate da quella nazione le questioni che si riferiscono agl'interessi degli altri popoli, e dell'Italia in singolar modo; non potè prevedere né guidare il movimento e (che pel suo ascendente fu ancor peggio) ripararne in veruna maniera le conseguenze. Ebbero però almeno gli uomini di Stato di Francia il merito di riconoscere il pericolo di tali conseguenze, e la franchezza di chiamare scacco subito dalla loro politica la preponderanza austriaca e il trionfo della reazione. Questa perspicacia e questa franchezza dei politici della monarchia non fu ereditata dai politici della repubblica francese. La confusione babelica delle lingue, lo scambio del significato delle parole e delle cose non era giunto ancora al colmo: ad altri tempi, ad altri uomini era serbato il vederne e l'appresentarne il tristo spettacolo.

Abbattuto l'esercito, ingannati tutti gli uomini onesti, lusingata l'aristocrazia, il governo si ristabili. La pace europea lo assicurava da un lato, e dall'altro il sistema austriaco pienamente seguitato lo teneva tranquillo. Il medio ceto, benché progressivamente crescente, non era ancor in grado da sfidare l'aristocrazia e la plebe; la quale più che altrove a Napoli numerosa, è un vero gregge di schiavi ai servigj del governo.

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Ignorante e rozza, superstiziosa ed imbestiata, laboriosa però sopra ogni credere e soggetta a pochissimi bisogni, può a buon mercato essere comprata, nel modo stesso che è scarsamente retribuita delle sue dure fatiche, e porge propriamente lo spettacolo della schiavitù delle colonie. Un sistema di perfetto isolamento con l'estero e di corruzione nell'interno, una guerra costante ai buoni intelletti ed una continua protezione dell'ignoranza, un'ampia tela -di spionaggio, l'appoggio delle forze brute, cioè le moltitudini incolte, le baionette straniere, i soldati di ventura, ed infine gli esigli, le prigionie, le morti e le verghe, davano speranza al governo borbonico di spegnere il mal seme del liberalismo, ed assicurare un trono che aveva fatto in pochi anni prova di. crollare tante volte sotto i piedi dei suoi signori. Ne vedevano che se la guerra alle idee liberali moderate era ovunque una scempiezza, a Napoli era doppiamente assurda e pericolosa. Le tradizioni non si obbliano, le memorie degli spergiuri non si cancellano. Se tutti i popoli sentivano la necessità di quelle guarentigie che trovansi nelle istituzioni rappresentative, i Napoletani avevano, oltre il sentimento del bisogno, la coscienza del loro diritto; e se il sistema di corruzione adoperato dal governo napoletano poteva togliere la forza di rivendicarlo in alcune poste circostanze, non poteva levarne la volontà né spegnerne la rimembranza. Che anzi la mancanza di fede del re in un paese, ove non esistevano quasi repubblicani, ove ogni giorno diminuivano gli avanzi degli antichi giacobini, ingenerò gran numero di radicali antidinastici. Le azioni del governo borbonico, le replicate prove fatte dai popoli dei due regni ed i replicati disinganni, accreditavano pur troppo ogni giorno l'opinione, non esservi con quella famiglia transazione possibile.

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Il fatto di questa convinzione che era nel fondo di molti cuori e non ignoravasi dai re napoletani, conviene per tempo notare, affinché la diffidenza reciproca che poscia apparve e fu causa di molte sventure, o non faccia soverchia maraviglia o non sia attribuita ad altre idee, le quali ebbero pochissimo credito nel regno, ove la maggioranza serbava come un culto i principj della monarchia costituzionale. Ma intanto quelle convinzioni antidinastiche erano il frutto che ritraevano dai loro falli i discendenti del re Giovanni di Francia, i quali per loro mala ventura avevano obbliato il generoso motto dell'antenato. Molti mali a sé ed alla patria avrebbero essi risparmiati, rammentando ciò che egli fatto prigione dal Principe Nero aveva detto: «Se la buona fede sparisse dalla terra, dovrebbe ricoverarsi nel cuore d'un re.1»

1 A confermare non solo quanto grande e sacro sia per un re il dovere della buona fede e del mantenimento delle promesse fatte ai suoi popoli, ma quanto eziandio veramente utile alla monarchia, amo ricordare ciò che scriveva il più insigne politico dei nostri giorni. Si legga quel che dettava a proposito della Costituzione promessa ai Greci dal re Ottone dopo la famosa giornata del 3 (15) settembre 1843, e le sue parole autorevoli non parranno mai a bastanza raccomandate; tanto più che sono dette in occorrenza di concessioni, fruito del tumulto e della rivoluzione (promossa e suscitata, se vuolsi, da esterni potentati non certo amici né di Costituzione né di tumulti, e che non rifuggivano dal farvi i loro conti—ma sempre rivoluzione). «Le roi sera peut-être tenté, et même, peut-être, parmi les hommes qui ne l'ont pas soutenu au moment du péril, il s'en trouvera probablement qui lui conseilleront de tenir une conduite différente, de travailler à retirer ce qu'il a promis, a détruire ce qu'il a accepte, M à faire échouer sous main le nouvel ordre de choses dans lequel il s'est officiellement place. Une telle conduite, nous en sommes profondément convaincus, est aussi peu prudente que peu honorable. C'est quelquefois le devoir des rois de résister aux concessions qui leur sont demande'  es; mais quand ils les ont accueillies, c'est leur devoir aussi d'agir loyalement envers leurs peuples. La fidélité aux engagements, le respect de la parole donnée est un exemple salutaire qui doit toujours descendre du haut du trône, et qui sert tôt ou tard les.. grands et vrais intérêts de la royauté.» (Dispaccio di M. Guizot a M. Piscatory, ministro francese in Grecia, del 27 settembre 1843.)

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CAPITOLO LVII.

FERDINANDO PRIMO E FRANCESCO PRIMO.

Ma la dinastia borbonica, la quale aveva raccolto in Napoli odio per le mancate promesse, per le altre qualità personali degli ultimi re che da essa discesero, fu del tutto disistimata. Le orme di Carlo III non solo furono cancellate, ma ricalcate a ritroso. Egli avea fondato la stabilità della sua stirpe sull'amore del popolo, sulla prosperità degli Stati, sul miglioramento del regno datogli ad amministrare, che non era certo da lui riguardato come una proprietà da usufruttuare: egli protesse le scienze e le arti, che i suoi successori sovente derisero o non compresero, carezzò gli uomini illustri che i suoi discendenti vilipesero, e anche imprigionarono o uccisero: egli non rese omaggio alla civiltà dei tempi, ma la precorse, mentre coloro che da lui derivarono vollero fare retrocedere il secolo, e disconobbero tutte le verità e i diritti più luminosi che invadevano l'Europa trionfalmente: egli rispettò fin l'ombra del parlamento nazionale, benché fosse un'ombra e nulla più. Il quale rimasto vano per le trasformazioni subite anche prima del dominio spagnuolo dai re Angioini ed Aragonesi, avanzo glorioso del regno della stirpe Normanna, fu rispettato dal re a segno da convocarlo appena salito al trono; più invero per venerazione che per utile potesse derivare dall'opera sua allo Stato, pel modo vizioso con cui era costituito.

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I successori suoi però, non solo ebbero in non cale quelli antichi dritti, rispettati fino dalla brutale tirannide di Spagna, ma non dubitarono promettere guarentigie novelle ed istituzioni veramente rappresentative; prometterle nel modo più solenne qual mercé di servigj ricevuti in momento di bisogno e di pericolo, e violatele una volta, giurarle nuovamente, e quel giuramento poi nuovamente infrangere. L'antitesi fra Carlo III ed i suoi discendenti fa tornare alla memoria i versi, che l'Alighieri per cagione somigliante scriveva:

Jacomo e Federigo hanno i reami;

Del retaggio miglior nessun possiede.

Rade volte risurge per li rami

L'umana probitate: e questo vuole

Quei che la dà, perché da lui si chiami.1

Ma cotale antitesi in che ha ella le sue cagioni e la sua origine? Qual è il sangue che mescolato a quello di Carlo ne fece degenerare la discendenza? qual è il genio del male che prese a turbare l'opera così bene incominciata? quale l'elemento antinazionale che venne a rendere quasi estranea al suo regno una dinastia già divenuta nazionale così presto e così sapientemente, accomunando la sua alla fortuna dei suoi popoli, ponendo a base di dominio la pubblica prosperità ed a strumento l'intelletto, e facendo per un istante, come non era stata mai, italiana e rispettata in Italia quella provincia, respingendo gloriosamente con le armi napoletane sui campi di Velletri gli Austriaci, ed inseguendoli fino in Lombardia? Questo genio malefico fu Carolina d'Austria. Può veramente dirsi che il matrimonio di Ferdinando I con quella principessa fu un divorzio dall'italianità, un'apostasia dalla civile religione di re Carlo.

1 Purgatorio, Canto VII.

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Delle qualità personali di Ferdinando I, della sua doppiezza politica, del governo dell'Acton e di Carolina è inutile parlare, perché ampiamente ne ragionarono gli scrittori. Niun re ebbe al pari di lui mancanza di coraggio e di personali virtù, allorché gli animi volgentisi a repubblica avrebbero avuto bisogno di trovare la monarchia rispettabile, non alieni dal rispettarla quando lo meritava: testimonio la fortuna napoleonica. Niun re trovatosi in balia de'  suoi sudditi, perduto il prestigio della fortuna, seppe con più belle arti lusingare e carezzare non solo i bisogni dei popoli, ma le passioni ancora della plebe, per poi farsene giuoco e dimenticare beneficj e promesse, ed attentare fino ai diritti dei benefattori, mentre tuttora durava il bisogno del beneficio. Ferdinando e Carolina non rispettarono neppure l'ospitalità concessa loro dalla Sicilia (e veramente era tale); e dettero agli stranieri che li soccorrevano d'armi e denari, il più vergognoso spettacolo ed ai popoli ragioni della maggiore diffidenza.

Quello però che ogni napoletano non dimenticherà mai di quel re si è, che per esso un esercito austriaco si accampò in Napoli; che egli la sua fortuna, non che la sua politica, a quella di Vienna per qualche tempo accoppiò, facendo così gitto totale dell'indipendenza del regno. Nè il sistema di governo da lui stabilito dopo le violate promesse del 1820 fu nell'interno tale da fargli perdonare dai suoi popoli (se fosse giammai perdonabile) questo fallo e questa onta: eglino ebbero anzi talvolta a trovare negli Austriaci protezione contro il suo governo, contro le enormezze dei suoi ministri. Per essi appunto, vergogna a rammentarlo! il principe di Canosa, il suo Sejano, fu rimandato, come alcuni anni innanzi era stato cacciato per opera dell'ambasciatore di Russia, nel mentre si apprestava per mezzo dei suoi Calderari ad empire di lutti e di stragi tutte le città del regno, con una specie di vespro politico.

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Quel mostro, cacciato da Napoli la seconda volta, cercava ricovero presso il duca Francesco di Modena, e vendevagli i suoi accorgimenti sbirreschi, facendosi capo della polizia austriaca in Italia. Ma restava in Napoli la sua memoria, ed il suo nome ripetevasi con ribrezzo dai miserandi sudditi di Ferdinando; il quale reduce da Laybach, ponendo l'autorità in mano del Canosa, poteva gloriarsi di aver portato un orso di più, oltre quelli recati seco di Germania, quasi insultando ai suoi popoli che domandavano civili e liberali istituzioni. Parve con ciò che il re a quelle domande rispondesse: volere anzi popolare d'orsi il suo regno che ammetterlo nel consorzio delle nazioni civili. E veramente bestiale fu il governo dei suoi ministri dopo il 1821. Il paese fu desolato da condanne, da imprigionamenti, da esigli, da forche, e spessissimo dalla frusta. Niun altro governo d'Italia in quei giorni era caduto sì al fondo, niuno (se si eccettuino le voglie di alcuni prelati governatori di Roma) erasi innamorato a tal segno del sistema austriaco, da copiarne infino la vergognosa e barbara pena della fustigazione che l'Austria medesima non voleva adoperare in Italia, fuorché nella milizia. La Giunta di scrutinio generale diede ordinata forma a vasto spionaggio, e fu novello istrumentp di vendetta, novello trovato di reazione cieca e stolida. Quelle follie dovevano essere più tardi prese in gran parte a modello quasi di politica sapienza da altri governi italiani; obbliando quant'odio per esse alla dinastia borbonica di Napoli ridondasse, e come ad esse (e non ai repubblicani né vecchi né nuovi, i primi ormai spenti, i secondi pochi e disistimati) dovevasi l'opinione sventuratamente invalsa, dell'impossibilità di transazione fra i popoli e i re di quella stirpe.

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Re Ferdinando non sopravviveva lungamente alla sua ultima mancanza di fede. Forse in quell'estremo momento rammentò le parole solenni con cui aveva chiuso l'atto, che proferì il 1 ottobre 1820 innanzi al Parlamento napoletano: «E se in ciò che ho giurato, o in parte di esso, facessi il contrario, non debbo essere ubbidito, anzi in quello che contravvenissi, sia nullo e di niun valore. Così Iddio mi ajuti e sia in mia difesa: in contrario, me lo imputi.» Egli moriva nel 1825, e il trono era occupato per cinque anni dal figliuolo Francesco I. All'innalzamento al trono di questo principe gli Austriaci partirono dal regno, ma non l'ascendente né il sistema loro; né al partire delle forze straniere vide il paese subentrare forze proprie rispettate. Il peggio è che il regno napoletano sentì durante questo breve dominio consumata l'opera della più vasta e più mostruosa corruzione che imaginare si possa. Gli Spagnuoli, come già dissi, avevano corrotto il regno, la feudalità e la miseria avevano resa profonda questa piaga. Per tal modo Carlo III aveva ereditato un regno malmenato dai baroni e dalle classi privilegiate d'ogni razza, senza borghesìa e con una plebe ignorante, superstiziosa, povera e venale; ma egli ai primi mali poneva riparo, e agli ultimi sarebbesi provveduto dal tempo, se l'opera sua fosse stata dai discendenti con senno e con coscienza continuata. Ferdinando I invece volle, com'è noto, imitare e quasi gareggiare d'ignoranza e di rozzezza con la plebe, e Francesco suo figlio lasciò salire la corruttela di questa a tutti i rami della pubblica amministrazione, a tutte le più elevate classi della società: la qual cosa non era per altro difficile, perché l'effetto delle leggi antifeudali essendo inesorabile e progressivo, l'aristocrazia stessa sentiva ogni giorno novelli bisogni,

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e la mina delle sostanze la rese più aperta alla corruzione, facendola spesso correre più dietro al denaro che all'onore, nella cui religiosa custodia consisteva prima l'essenza di quella classe. È incredibile a dirsi, a qual punto sotto questo re la corruzione crescesse. Nulla di simile trovavasi presso alcun popolo d'Europa, e solo la corruzione della burocrazia romana potrebbe stare d'appresso alla napoletana. Tutto si comprò, tutto si vendè in quei giorni: la giustizia, gli onori, e i primi impieghi del regno furono tutti messi all'incanto. La corruzione già dal basso ascesa all'alto, da questo ora partiva, e s'insinuava con l'esempio in tutte le classi della società, in tutte le gerarchie del governo. Le più vergognose concussioni per tal modo furono scusate, i più scandalosi mercati creduti e tenuti legittimi. Il senso morale del pubblico e del governo soffrì in questo periodo, più di quello che non aveva sofferto al tempo degli Spagnuoli. Questi mantennero la corruzione nella plebe; il governo di Francesco seguendo l'opera cominciata da Carolina, la fece salire in alto, o piuttosto fece scendere, in ciò, le alte classi alla pari della plebe. Sotto questo re, Luigi Medici fu onnipotente e padrone di tutti i ministeri, e si rinnovò il tristo esempio dell'Acton. Con lui e coi familiari del re tutti gl'impieghi dello Stato si contrattavano; e più vituperevole e reo fatto si è, che il re non l'ignorava, ed abituato ormai a quell'atmosfera ne faceva soggetto di celia scandalosa. I familiari erano singolarmente il cameriere del re, il Viglia, e la camerista della regina, Caterina de Simone. Tali contratti erano così impudentemente eseguiti che si costringeva il compratore a depositare il prezzo convenuto, innanzi di ottenere quanto per lui si desiderava. Il Viglia adunò con questo mezzo una ingente fortuna.

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Lo stesso ministero delle finanze si disse essere stato conceduto in quella guisa vergognosamente, con lo sborso cioè fatto al Viglia di quasi trentamila ducati. Qual meraviglia, se non ostante che Cammino Caropreso non fosse cattivo e rapace uomo, si reputassero allora universalmente male amministrate le finanze dello Stato da lui, il quale in tal maniera e per tali mezzi aveva ricevuto il portafoglio delle Finanze dalle mani di un cameriere? Il regno di così fatta genia può veramente reputarsi il colmo dell'avvilimento d'una nazione. Era il Viglia uomo accortissimo, benché all'eccesso ignorante, secondo la legge prescriveva. La Corte napoletana, la cui politica tradizionale era il più alto mistero, aveva voluto con tal legge porre al sicuro i segreti reali, ordinando che il cameriere regio non sapesse né leggere né scrivere; ma quella legge non impedì che il Viglia diventasse padrone della somma delle cose. Francesco però, parte immerso in questa che non posso altrimenti chiamare se non melma schifosa, parte vincolato dall'influsso dell'Austria ancora forte, comecché da poco uscite fossero dal regno le sue truppe, non si tenne obbligato a mantenere quel che aveva egli stesso (non che suo padre) giurato nel 1820, nella qualità di Vicario del regno. Non si rammentò non solo le promesse fatte e il linguaggio tenuto allora, ma neanche d'aver partecipato alla protesta armata contro l'invasione straniera, e firmato di sua mano tutte le disposizioni sopra di ciò.1 Non si rammentò neanche i più antichi giuramenti prestati da lui stesso in Sicilia; e gli errori del padre in quell'isola e le loro conseguenze, che più volte pur troppo ebbe a toccare con mano, nulla gl'insegnarono.

1 Il 15 settembre 1820 avvertiva egli stesso di suo pugno il generale Pepe dell'avanzarsi degli Austriaci a traverso le Marche, per provvedere alla difesa della patria. Firmò anche, cinque giorni dopo, le istruzioni pel medesimo generale che recavasi negli Abruzzi — (Guglielmo Pepe, Relazione degli avvenimenti di Napoli del 1820 e 1821, Doc. 15» e 18») —Egli poi aveva mostrato di gioire della promulgata Costituzione, poiché cominciava quel giorno appunto una lettera al Pepe (ivi, Doc. 3°) con queste frasi:

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Se non erano stati fondati i sospetti di un delltto troppo contrario alle leggi di natura, in occasione della sua grave malattia in Sicilia, ai giorni che i suoi genitori volevano togliergli l'esercizio della sovranità costituzionale da lui esercitata sotto la protezione inglese, per regnar essi assoluti; certo, all'udirli, il suo animo non potè non esserne scosso, e vedere gli eccessi cui può giungere una sfrenata ambizione di dominio. Così per non aver voluto nulla apprendere a quelle lezioni della sventura e dell'esperienza fatta presso i popoli dei due regni, non solo non riparò al fallo del padre, ma le sue orme seguì contro ogni previsione, quanto ai giuramenti già da lui medesimo prestati. I più acerbi rimorsi bensì, se la fama dice il vero, lo divorarono, e vide poco innanzi di morire (1828) gridata la Costituzione nella provincia di Salerno; e i mezzi con che in suo nome dai suoi ministri fu vinta quella rivolta, sono incredibili. I più malvagi elevati per ragione, o meglio per vendetta di partito, come sempre accade, al governo, non tardarono a dare spettacolo di quel che erano capaci. Il De Mattheis a Cosenza e il Del Carretto nella provincia Salernitana, con le loro iniquità avevano fatto chiamare tirannico il governo di Francesco, che fino allora non poteva veramente appellarsi se non debole e corrotto, strappando vere grida di disperazione a quei popoli. Il primo agl'imprigionamenti e alle persecuzioni di ogni sorta aveva aggiunto le più orrende torture, e per finte congiure fatti perire molti innocenti. Private nimistà del Medici lo fecero poi comparire innanzi a un tribunale, e condannare per quella scelleratezza a dieci anni di relegazione, che si ridusse, per opera di Ferdinando II, a pochi giorni di prigionia nel Castello dell'Ovo.

«La risoluzione presa dal re, mio augusto genitore, di accettare la Costituzione, come ha chiaramente manifestato col suo decreto della data d'oggi, ci rende tutti uniti, e ci spinge tutti a travagliare alla grande opera della rigenerazione politica della nostra nazione. Voi siete stato dei primi ad inalzare il glorioso grido etc.

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Ma questa soddisfazione al pubblico sdegno ebbe un tristo contrapposto nel procedere del Del Carretto, il quale non dubitò nella provincia di Salerno atterrare a colpi di cannone un intiero paese (Bosco ) in pena della ribellione, ed innalzarvi una colonna infame, che però rammenta ai posteri un misfatto degno d'altri tempi, qual non sarebbesi creduto possibile veder rinnovato in mezzo all'Europa civile. I ministri di Ferdinando e Francesco furono veramente i maggiori nemici della dinastia napoletana, di cui usufruttuavano per sé gli sdegni e le paure, mentre i rancori e i semi di diffidenza ogni giorno moltiplicavano per opera loro. Questi orrori precedevano di poco la rivoluzione francese del luglio, e re Francesco moriva qualche mese dopo la medesima (8 novembre 1830), lasciando al successore Ferdinando II uno Stato desolato, avvilito ed altamente sdegnato. Gli animi bollivano in tutta Italia; e se quella commozione non ebbe eco nel regno, fu in parte per la memoria dei recenti dolori, in parte per le speranze che i primi giorni del nuovo re avevano destate nell'universale.1

1 Fra gli orrori accaduti nel periodo di tempo che intercesse fra il 1820 c il 1830, non deve tacersi la misteriosa fine del generale Giovanni Russo, uno dei prodi soldati, i quali aveano preso le armi per la Costituzione. Imprigionato dopo la restaurazione, fu tenuto per qualche tempo a languire nelle carceri, e quindi si seppe che egli era fuggito. Nessuno, allora e poi, poté saper più nulla di lui. Parlai anche dell'intendente De Mattheis, del suo processo e della sua condanna. Il processo durò più anni; e benché risultasse che sopra l'accusa di congiure da esso inventate e dimostrate con false prove, le Commissioni militari aveano mandato a morte alcuni innocenti, si volle punir lui, perché ciò premeva al Medici, ma si vollero salve le Commissioni. Questa fu forse la cagione della lunghezza del processo. Il De Mattheis fu in appresso graziato da Ferdinando II, la qual cosa parve alle Calabrie sdegnate pegno di crudele avvenire.

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CAPITOLO LVIII.

RE FERDINANDO SECONDO.

Tristo soprammodo fu il retaggio che re Ferdinando raccolse nel 1830 dall'avo e dal padre. Lo Stato scomposto e corrotto nell'interno, avvilito all'estero; gli animi irritati ed anelanti a vendetta; mal ferma la base del dominio della sua famiglia, perché fra essa e la nazione era il sangue e la fede violata. Incerto il governo, perché le leggi fondamentali del regno da lui medesimo infrante, e continua la lotta ed ostinata fra quello ed il popolo, non già per acquistare da un lato e negare dall'altro miglioramenti e guarentigie novelle, ma per riconquistare le antiche, sebbene perdute, non mai rinunciate. Il governo avevasi dai Costituzionali per illegale, perché in atto di permanente ribellione contro i dritti della nazione, e contro la legge dello Stato solennemente promulgata. Conseguenze di questa condizione anormale erano naturalmente la niuna riverenza in cui ogni legge tenevasi dal popolo, che traeva dall'alto gli esempj, ed una continua congiura delle classi pensanti. I patiboli, le torture, i birri e gli Svizzeri, erano le sole armi che puntellavano il governo. Il popolo veniva mantenuto quasi con scrupolosa cura nell'ignoranza, e pasciuto di superstizione, alla quale però e per la sua naturale leggerezza e per la forza scettica dei tempi, cominciava a subentrare l'indifferentismo.

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Sole cure del re Francesco e della Corte la caccia e i bagordi, e fra i balli e le maschere vedevasi la pompa delle più impudenti lascivie che ricordavano i tempi della Reggenza e di Luigi XV; sole cure dell'aristocrazia il lusso più sfrenato ed i vizj pur troppo più vergognosi. Il furto coonestato negli uomini del governo, mal punito nella plebe, ed in alcune provincie, come nella Calabria, quasi legittimato ed appellato guadagno (l'abbusco). L'esistenza politica del paese annullata, ed il regno tornato di fatto, se non di diritto, vicereame non dei re di Spagna, ma degli eredi di Carlo l'dominatori a Vienna. Questo era lo stato miserando del regno, allorché re Ferdinando ne prese le redini. L'onnipotente Medici era morto prima del suo signore, e quindi il malgoverno non aveva più neppure quella forza di compattezza, che talora tien saldo anche un sistema sfasciato, quando quella è concentrata in una valida mano.

Ferdinando II aveva sortito col nascere un'avidità di possanza, una brama d'autorità personale, la quale ricordava meglio la natura dell'ava Carolina che non quella del padre o dell'avo paterno. L'ingegno diplomatico di quella principessa, così bene ereditato dalla duchessa di Berry e da Cristina di Spagna, era in lui pure; ma secondo la naturale varietà del sesso e la diversa condizione in cui egli era posto, prendeva in esso forme differenti. Non meno destra però la furberia, non meno grande l'ambizione, l'alterigia non inferiore. Abile dissimulatore e simulatore ancora più accorto, i suoi modi avevano la grettezza dell'avo e la bonaria rozzezza, che facevalo quasi popolano. I suoi educatori avevano avuto cura di fomentare in lui quella superstizione che è comune nelle classi inferiori del regno, di coltivare il meno possibile il suo spirito (al quale la Provvidenza non era stata avara dei suoi doni),

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di non correggere le poco miti inclinazioni del cuore, di non frenare l'eccessiva smania di possedere, ed infine di non rettificare le sue idee d'autorità, di cui tristi definizioni e più tristi esempj ancora aveva dentro le domestiche pareti. Due difetti peraltro della famiglia apprese per tempo ad odiare: la corruzione e il lusso. Le lascivie e le venalità della Corte del padre suo non potevano non averlo stomacato; come quelle che avvilivano oltremodo la maestà regale, e rendevanla men venerata, nel tempo stesso che più divisa e più spregiata facevano l'autorità. L'alterezza del suo spirito ne fu dunque di buon'ora offesa. Egualmente il lusso che minacciava trarre a ruina la famiglia e lo Stato insieme,1 e toglieva al governo il mezzo più efficace e più potente nei difficili momenti, l'oro (sprecato nelle caccie, nei bagordi e nella profusione per acquistarsi il favoritismo1), fu da lui riguardato ragionevolmente come una fonte di debolezza, come una piaga pericolosa del governo napoletano.

1 E cosa incredibile, ma confermata dall'autorità non sospetta del cavaliere Bianchini nella sua Storia delle finanze del regno di Napoli, vol. III, p. 763, che il solo viaggio di Spagna costò allo Stato ducati 692,705 e grana 99. S'ignora ciò che costasse l'altro viaggio fatto dallo stesso re a Milano nel 1826, non che i viaggi fatti dal padre nel 1821 e 1822 a Laybach e a Verona. La dissipazione del danaro pubblico era favolosa. Così nel 1819 sotto titolo di risparmi fatti sull'azienda della guerra (singolare teoria), i ministri Medici e Tommasi e l'austriaco generale Nugent, capitano generale, prendevano la grave somma di 60,000 ducati (circa 252,000 franchi) per ciascuno; e nel tempo stesso il Tommasi prendeva 80,000 ducati per un Concordato fatto con la Corte di Roma. Incredibili cose, ma registrate dal Bianchini con rara ingenuità. Non tace pure che la finanza del regno dove sottostare a 6 milioni di ducati di spese per titolo di alta politica nel ritorno de'  Borboni, cioè per stipulazioni diplomatiche; e nota esplicitamente che 2 milioni si dettero ad illustri persone sostenitrici della causa de'  Borboni all'estero. Questa confessione del Bianchini che a fonti certe ed autentiche attingeva le sue notizie, getta un gran lume sulle stipulazioni fatte a Vienna Del 1815. Quei principi ruinavano per tal modo la finanza dello Stato, prima ancora di possederlo.

2 Le pensioni di grazia.

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Egli non ignorava la potenza di quel metallo, del quale la destra Carolina aveva saputo fare un uso tante volte a lei proficuo; ed il genovese monsignore Olivieri, suo istitutore, aveva per tempo procurato di fargliene conoscere il pregio. Sembra anzi che quel gretto ed insipiente prelato si fosse proposto di fare del suo allievo reale un avaro, con la pazza idea di opporre un eccesso all'altro, e di rimediare con l'economia del regno di Ferdinando alla profusione di quello di Francesco. Infatti, allorché Ferdinando fanciullo voleva regalare taluno o dare in elemosina una moneta d'argento, si narra che l'Olivieri ordinasse di cambiarla nei più minuti piccioli di rame; per mostrare al principe, quanto grande fosse il valore di quella moneta che egli così inconsideratamente voleva gettare, e quanti potevansi contentare con quel che credeva sufficiente appena ad appagare un solo. In tal modo non era permessa da lui al principe l'elemosina, se non con quelle sole minute monete di rame. Con questi insegnamenti fu educato re Ferdinando II, il quale scandolezzato del lusso e del favoritismo ideò tosto dei miglioramenti, che giusta i suoi principj si formulavano in un governo più ristretto nelle mani del capo dello Stato, ed in un'amministrazione più economica.

Ma l'ambizione, lodevole in un principe quando ad equo fine è diretta, e vantaggiosa alla patria o alla società, fecegli anche guardare di mal occhio l'avvilimento del suo regno, e il suo essere sotto tutela dello straniero. Pare che ambisse ad avere un regno forte e non dominato da chicchesia; ma niuna tradizione di nazionale indipendenza, niun amore dell'Italia intera, istillavano forse nel suo cuore questo sentimento, dettato da tradizione ereditaria nei Borboni, di contrappesare cioè la potenza austriaca, da influsso francese e da orgoglio personale. Nel mentre quindi smaniava, perché cessasse del tutto la preponderanza che il gabinetto viennese pretendeva esercitare a Napoli, nulla curossi di ciò che quel potentato faceva nel rimanente d'Italia.

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Chiuso negli stretti confini del suo regno, volle un esercito che lo facesse riguardare come cosa capace di reggersi colle sue forze, e di esistere da sé e per sé: perciò le sue brame si volsero a rinnovare l'esercito del Murat distrutto ormai totalmente, dacché l'avo ed il padre, dopo la rivoluzione del 1821, formando la forza dello Stato di Austriaci e di Svizzeri, lo avevano avvilito e maltrattato in tutti i modi e moralmente annullato. Richiamò alle armi coi loro gradi molti ufficiali licenziati, fra i quali Carlo Filangieri; e teneva quell'esercito non come gloria italiana, ma sì napoletana. Non saprei dire, se egli medesimo vagheggiasse di diventarne il Gioacchino, o qualche cosa di più ancora; certo è che la sua ambizione militare non era per nulla inferiore all'ambizione di governo, e tanto nella prima stimavasi abile, quanto voleva che i suoi popoli lo reputassero potente. Credeva che ormai solamente un principe a cavallo fosse rispettabile e sicuro, e in parte non s'ingannava; poiché ogni altro appoggio, ogni altro prestigio sfuggiva alla Monarchia.

Queste disposizioni di buon'ora in lui si manifestarono. Quando Francesco I recossi in Spagna a condurre solennemente la figliuola Maria Cristina menata in consorte da re Ferdinando VII, Ferdinando rimase Vicario del regno e libero padrone del maneggio degli affari, sotto le ispirazioni però de'  generali Nunziante e Saluzzo, e del colonnello Cacciatore, tanto più che il Medici e il Viglia avevano seguito il loro signore a Madrid. In quel tempo i ministri rimasti a Napoli trovarono nel Vicario una soldatesca volontà ed una risoluzione, fino a qui inusitata per essi, di conoscere tutti gli affari del governo:

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e la resistenza da lui trovata allora nel ministro dell'interno Amati1 doveva essere più tardi punita. L'esercito nazionale, rimasto l'ultimo dei pensieri del governo, tenuto depresso per diffidenze, posposto agli stranieri (la presenza dei quali aveva rovinato le finanze dello Stato2), spregiato dal paese per la mala prova di sé fatta a Rieti ed a Palermo, in odio egualmente a tutti i partiti, e indisciplinato oltremodo nell'abbandono, vide per la prima volta un principe, anzi l'erede del trono, occuparsene, compassionarne l'avvilimento, carezzarne le ambizioni, eccitarne le speranze. Mostrò il principe fin d'allora una evidente predilezione per la milizia, ed amò trovarsi in mezzo a quella. Nulla invero è più agevole del farsi idolatrare dai soldati; basta scendere fino ad essi, accomunarsi a loro, distinguerne il merito, apprezzarne i bisogni. Se ogni esercito a queste cure d'un principe è ognora sensibile, il napoletano, avvilito e posposto agli estrani ed ai venturieri, non poteva non esser tale doppiamente; vedendosi alla fine non più sospetto al governo, e del pubblico spregio con un lustro novello sperando compensarsi.

1 Gretto, ubbidiente alla commissione lasciatagli dal Medici, ed uomo da nulla. La sua fu resistenza passiva, e non altro.

2 In sei anni gli Austriaci costarono al regno napoletano 85 milioni di ducati; l'ordine legittimo fu comperato dai Napoletani a caro prezzo Ciò asserisce il Bianchini, il quale soggiunge che «nel chiarirsi i conti delle spese del mantenimento di tale esercito, si credette da taluni che più di undici milioni e da altri più di sette milioni e mezzo di ducati si fossero pagati oltre di quello che dovevasi. Molto si discusse quest'affare, e la tesoreria austriaca pagò alla nostra finanza 750,000 ducati. Varj doni fece re Ferdinando ai generali austriaci, c in ispecialità, nominato avendo il general Frimont principe di Antrodoco, gli regalò ducati 200,000 etc.» Si diceva poi, la rivoluzione essere stata la causa dei debiti che aggravavano lo Stato. Costano sì le rivoluzioni, ma le restaurazioni ancora si fanno sovente a più caro prezzo assai. Gli Svizzeri assoldati poi nel 1825 costarono per ingaggio ducati 592,274 e 15; per primo vestiario e stabilimento ducati 1,200 000, e infine per stipendio annui ducati 566,542 e 55. Erano quattro reggimenti con artiglieria: in tutto 6,000 uomini. Tania profusione per gli stranieri e per i mercenarj non poteva non avvilire ed irritare le milizie napoletane. Vedi Bianchini, Vol. III, p. 794 e seg.

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Ma questa fu forse ambizione e passatempo giovanile. Imperocché allora la marineria formata dal ministro inglese Acton, e salita a tanta gloria, fu da lui del tutto trascurata,1 perché non poteva occuparsene, ignaro com'era di quanto alla medesima concerne. Quei giorni di governo del Vicario alimentarono però nell'esercito le più grandi speranze sul futuro regno, e di buon'ora svegliarono in mezzo ad esso le simpatie per l'erede della Corona. Le destituzioni, le prigionie, gli esigli, le Commissioni di scrutinio, e più che altro lo spregio universale per gli sventurati avvenimenti del tempo costituzionale, avevano cancellato ogni memoria del 1821 nella truppa napoletana; e se Murattiani dappoi rimasero nell'esercito, non vi rimasero quasi punto liberali né costituzionali. Lo stato morale dell'esercito napoletano ha qui la sua origine; come dell'affezione per Ferdinando II sono queste le vere e antiche cagioni.

Né minori erano le speranze che allora il pubblico aveva riposte in un principe, il quale da tutti sapevasi sdegnato coi favoriti del padre, ed alieno dai ministri che manomettevano il regno, e ne derubavano impudentemente le sostanze. I popoli stanchi di quel mal governo scorsero un barlume di speranza nel suo inalzamento al trono; e quelle virtù che s'intravvedevano, parvero foriere di giorni meno infelici al regno, e d'una benefica e desiderata riforma apportatrici.

Con questi prognostici, con queste speranze saliva al trono di Napoli Ferdinando II di Borbone, il giorno 8 novembre 1830. I suoi primi atti non fecero che confermarle, ed anzi le aumentarono.

1 Infatti diminuì nei primi anni di regno il numero dei bastimenti, e lasciolli nei porti senza armamento. E vero che più tardi se ne occupò: ma non può tacersi esserne stata causa la persuasione, che quello fosse il mezzo più forte, e forse unico, per mantenere la Sicilia all'ubbidienza della sua Corona. Aveva eziandio quasi sciolti i due collegi delle Guardie Marine e dei Pilotini. Anche a questo errore in appresso riparò.

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Gli spiriti commossi per la recente rivoluzione francese e per l'eco ancora sotterraneo che aveva avuto in Italia, dapprima esitarono; e disposti alle speranze com'erano, non pensarono a rivoluzioni, benché cause e materia quanto altrove, e più che in molti altri paesi d'Italia, in Napoli e nel regno abbondassero.

I primi suoi pensieri, appena assiso sul trono, si volsero alla milizia. Una rassegna fatta con gran pompa entro la città in contrada Foria diè alla capitale del regno lo spettacolo del novello principe in mezzo ai soldati; nella qual comparsa alcuni vedevano solo un frivolo passatempo, altri una superba ambizione vi ravvisavano, pochi il vero scopo ne indovinavano. Forse la trista opinione comune intorno a quella truppa avvalorava le prime sentenze, e si ripeteva, quasi motto ingegnoso, una risposta che il nuovo re aveva già ricevuta dal padre a proposito di quella milizia;1 risposta che nella sua bocca era uno scherno indecoroso. Invero, avvilire le forze nazionali ed avvilire il paese è la cosa medesima; e non senza trascinare nel fango il proprio onore, un re vi getta colle sue mani quello del proprio regno. La forza di uno Stato è in proporzione della sua reputazione: quindi non può aversi maggiore idea dell'avvilimento del regno napoletano, quanto dal vedere il conto in che il re Francesco permetteva fossero tenute le forze del medesimo.

Dopo questa rassegna, che fu quasi il solenne possesso e l'investitura presa della regia autorità, come già soleva accadere nel Basso Impero su gli scudi dei Pretoriani, non solo Ferdinando manifestò chiaramente, ma fece pompa di volere riordinare le dilapidate finanze dello Stato.

1 Si narrava che alle insistenze del principe ereditario per rinnovare il vestiario dell'esercito, rispondesse: «Vestili come vuoi, fuggiranno sempre,»

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Era la grande riforma cui le sue inclinazioni lo portavano, essendo nello stesso tempo urgentemente domandata dai popoli aggravati e spaventati dalle conseguenze della passata amministrazione; cosicché i suoi affetti collimavano coi suoi interessi, e questi a quelli dei suoi popoli erano conformi. Un primo suo Manifesto deplorava lo stato in che aveva trovato le finanze del regno; e svelando la piaga fino allora accuratamente coperta dal governo, diceva di partecipare al dolore del popolo, e prometteva efficaci rimedj. Un secondo editto non tardava ad uscire, nel quale i rimedj cominciavano a farsi palesi, e per primo se ne poneva uno che doveva dare immensa popolarità al re, ed essere in pari tempo alla nazione guarentigia di radicale ed imparziale riforma. Essendo necessario con l'economia equiparare le rendite alle spese, primo ristoro, o meglio primo riparo a ruine maggiori, si decretava frattanto una tassa graduale sulle paghe di tutti gli impiegati, che cresceva in proporzione dell'importanza dell'impiego, e per i maggiori, a modo d'esempio per i ministri, era portata fino al 50 per cento. Accortissimo artificio fu questo per ottenere plausi, essendoché le grida su quelle paghe levavansi alte, assidue, universali. Era quella diminuzione un'assoluta giustizia, se non che per essere veramente chiamata tale, non avrebbe dovuto farsi sotto forma di temporanea imposta, ma rendersi stabile e perpetua: cosi la riforma sarebbe stata solida e vera. Invece l'imposta durò 15 anni, e gli abusi, cessato il bisogno dell'erario, e più che questo, il bisogno della popolarità, tornarono tutti in essere. Per dare un'idea di queste enormezze, dirò solamente che i ministri non avevano meno di dodicimila ducati annui, e poi gl'incerti che si calcolavano poter ascendere ad altrettanto.

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Gl'incerti sono la fonte di tutti gli abusi, il mezzo di tutte le ingiustizie e il velo che coprir suole tutti i furti e le nequizie d'ogni genere, per coonestare le quali soltanto trovossi questo appellativo nelle due più corrotte amministrazioni del mondo, la romana e la napoletana. Il Presidente del Consiglio aveva di più ancora, ed il ministro degli Affari Esteri non meno di diecimila ducati sopra lo stipendio per le spese dei pranzi che era obbligato, in grazia della carica, di dare al corpo diplomatico, e per le così dette spese di scrittoio. Qual meraviglia se il popolo, che nel paese più bello e più ricco d'Italia vive in molta parte la vita dei bruti, e non di rado come il misero Irlandese, quasi ad insulto dell'abbondanza della natura, muore di fame, era scandolezzato di tali enormità? Qual meraviglia se si levavano al cielo sincere benedizioni per il principe che metteva il ferro nelle piaghe più cancerose di quel corpo politico, e non rifuggiva dal cominciare la bramata riforma dalle dilapidazioni, le quali facevansi nelle regioni più elevate dello Stato, fino allora credute dalla plebe intangibili? Quello però che pose il colmo alla gratitudine di questa, fu il terzo reale decreto; nel quale re Ferdinando diceva, che per il bene dei suoi sudditi, nella necessità in cui era l'erario di fare economie, voleva egli ancora soggiacere alle privazioni: rinunziava quindi non senza grande ostentazione alla somma di 360 mila ducati che ogni anno il re suo padre soleva prendere sotto il titolo di borsa privata, per fare elemosine e beneficenze in suo proprio nome. Era una tal somma impiegata in soccorsi che si dispensavano a numerose famiglie, ed in singolar modo veniva destinata al mantenimento di molti giovani nei collegj del regno. Ferdinando rinunciava a quella rendita, ed il popolo applaudiva; ma da tutti ignoravasi che la Corona si sgravava contemporaneamente del peso correspettivo.

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Era quella generosità un utile giuoco di parole, un'accorta ostentazione politica, e nulla più. Infatti le sovvenzioni reali furono insieme soppresse, ed un ordine segreto del ministero dell'Interno ingiunse di mettere nei posti gratuiti, onde disponevano per lo innanzi lo Stato, le provincie od i Comuni, a mano a mano che vacavano, i giovani che erano in quel momento pensionati dalla cassa reale. Nello stesso tempo i numerosi assegnamenti privati concessi con profusione dal padre in gran parte abolì, e questa fu giustizia, perché quasi tutti erano di turpe origine: quelli dell'avo eziandio ridusse a metà, benché molti ve ne fossero giustamente conferiti, che quindi avrebbero dovuto con ragione essere rispettati come sacra proprietà.

A questi primi atti del re, altri se ne aggiunsero che gli accrebbero il favor popolare, e fomentarono molte speranze. I mali del regno e le piaghe dell'amministrazione si addebitavano, e non a torto, ai ministri, e su questi più ancora che sul re n'era fino allora caduta l'odiosità: il popolo assuefatto a mormorare di loro, non poté adunque non applaudire, allorché ne vide alcuni privati dell'ufficio. Gran parte dei miglioramenti sogliono il più delle volte dalle moltitudini intendersi dal mutamento delle persone, e in specie delle più elevate, come quelle che sole dei mali dello Stato si accagionano. Ma questa non è spesso che parte di riforma; necessaria bensì, anzi essenziale, ma inutile se fatta isolatamente, quando il complesso della macchina governativa è corrotto o guasto. Né il re aveva intenzione unica e ben risoluta di migliorare lo Stato, facendo quei cangiamenti: voleva solamente togliere di mezzo uomini assuefatti ad usufruire il dominio per sé, ad amministrarlo in forma del tutto indipendente, e porre in loro luogo gente nuova, a lui devota, la quale non governasse che per lui e con lui.

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Pochi peraltro videro queste mire segrete e questi secondi fini del re, e i cangiamenti fatti furono applauditi dalla plebe come esaudimento dei pubblici voti e lamenti; ma non vennero salutati dagli uomini di senno come forieri di sostanziali e stabili miglioramenti dello Stato, anzi per i sintomi che ad essi apparivano, si appresero con dolore. Il Viglia fu primo fra gli espulsi, e andò a godere in pace la grande fortuna da lui radunata in pochi anni, che ben potrebbe appellarsi con Dante la mal tolta moneta. Fu con lui cacciato anche il ministro delle Finanze Caropreso, accusato universalmente d'insufficienza, del quale narravasi che avesse comperato con enorme prezzo quella carica dal Viglia medesimo. Il ministro dell'Interno pure venne rimandato; e questa fu personale vendetta del principe, che aveva risoluto la sua disgrazia dai giorni della reggenza, benché fosse grato fino allora al governo per la grettezza e buaggine sua. Quella che più piacque fu la cacciata del ministro della Guerra Ruffo principe di Scaletta, accusato di concussioni; e fu per tal causa posto eziandio sotto processo, ma senza séguito, perché con assai scaltrezza seppe recare documenti, che sembravano gravemente compromettere Francesco I. Allora il re gli diede un'ambasciata straordinaria a Vienna, per far tacere il processo ed allontanare l'imputato. 1 Il Pietracatella ebbe la nuova presidenza del Consiglio; l'antico ministro di Grazia e Giustizia marchese Tommasi, il ministero dell'Interno, e il D'Andrea la Finanza; alla Guerra prepose il generale Fardella, uomo stimato per fermezza d'indole, per rettitudine e vigore di disciplina. Il re cercò in questi cangiamenti uomini da dominare e, che non dee tacersi, servi provati e scaltrissimi dell'antico assolutismo.

Contemporaneamente a tali riforme apriva l'udienza pubblica, e da questa prendeva occasione di fare molti atti di giustizia e riparare a molti torti parziali, la qual cosa gli accrebbe le simpatie popolari.

1 Fu licenziato col Ruffo anche il Sabatelli.

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Quell'udienza però si ridusse ad un'apparenza e non altro; e quando il primo fine fu raggiunto, diventò nulla. Ma frattanto era cosa nuova ed edificante dopo i regni di Ferdinando I e di Francesco I, presso i quali ogni udienza del principe si comperava a prezzo dai familiari, il vedere il re (essere fino allora estraneo ai dolori ed ai bisogni di tutti, beato nell'ozio e nelle crapule) venire appresso i sudditi, prender parte alle necessità loro, e porgere ascolto alle loro supplicazioni. A tal fine fece ancora due viaggi nelle provincie, affinché la popolarità non si restringesse negli angusti confini della capitale, ma in tutte le parti del regno si dilatasse: e di popolarità era vago, non a soddisfazione di vanità, ma con l'intenzione di ottenere per essa un elemento di forza personale. Per contrapporre allo sfarzo dell'ultimo viaggio di Spagna fatto dal padre una pompa d'economia, re Ferdinando in questi viaggi alloggiò talora fino nei conventi dei Mendicanti. Nel primo viaggio rapidissimo, fatto in sei giorni, riportò a Napoli non meno di seimila petizioni. Fu allora che, non certo per ventura del regno, conobbe il Sant'Angelo Intendente in una provincia, da lui poi chiamato al Ministero. Ma quelle corse non furono senza le maggiori cautele; imperocché oltre alla celerità con cui erano compite, niuno poteva conoscere innanzi il luogo che voleva visitare.

Né il regno napoletano solo, ma tutta l'Europa, non ignara del precedente mal governo, rimase ingannata da queste apparenze; e chi bene osserva non maraviglerà che fossero sufficienti, per quella forza che le pubbliche speranze sogliono avere in un cominciamento di regno, a trattenere in Napoli la rivoluzione del 1831.

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Inoltre il partito carbonaro era quasi spento dopo la prova del 1828, e il repubblicano unitario che in gran parte dirigeva il movimento nel resto d'Italia, a Napoli non trovavasi; il costituzionale poi del 1820 e quelli della truppa, avanzo trasfigurato del murattiano, l'uno era lusingato e speranzoso per quelle apparenze, l'altro per amore di casta era perfettamente soddisfatto, vedendo un principio di regno militare. Il partito retrogrado, monarchico puro (o Austro-Spagnuolo, come Giuseppe Massari1 l'appella con vivace anzi storica espressione), non si spaventava gran fatto di queste apparenze di riforma; conoscendo il re più da vicino, si compiaceva di veder passare senza pericolo una tempesta, e non dubitava che i destini del regno sarebbero da esso più tardi in gran parte regolati. Notai, non senza ragione, più d'una volta la differenza del partito costituzionale dal murattiano. Erano bensì uno solo nel 1820, ma per accidente, poiché l'elemento liberale, come già ho detto altrove, era stato introdotto nell'esercito dal Murat per uno scopo del momento, per solleticarne l'ambizione, e nulla più: un esercito formato alla napoleonica poteva mostrarsi liberale in teoria, ma la sua essenza era necessariamente dispotica. Tornò liberale, anzi si strinse coi Carbonari, quando la restaurazione avvilì entrambi; ed ebbe allora con questi comunanza di malcontento più che di principj. La disfatta di Rieti separò dai liberali il più dell'esercito. Abbandonato e spregiato dai secondi, rialzato poi dal fango per opera del re medesimo, non è da maravigliarsi, se anche quella parte di esso che non obblia le tradizioni murattiane e dice non obbliare quelle del 1820, tende al dispotismo, e mostra poche simpatie per le idee liberali, non ostante che sia già stato esercito carbonaro e costituzionale.

1 I casi di Napoli. — Lettera prima.

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Ma nol fu che per le cause da me accennate: quindi per la sua origine, per le sue vicende, e per i modi dal re usati verso di esso doveva diventare regio, non che inclinato al dispotismo.

Ma l'opinione costituzionale, quantunque in parte soddisfatta, apriva il cuore a maggiori speranze. Questo partito è forte nel regno, novera molti fautori nell'aristocrazia, ha per sé presso che tutto il ceto medio, e tutti gli uomini di buono intelletto. Più napoletano, se vuolsi, che italiano, ed anche più francese che napoletano, aveva ereditato soltanto le tradizioni delle domestiche libertà, l'amore del governo rappresentativo; facendo però quasi del tutto gitto del principio dell'italianità, che avevagli dato lustro ed influsso in Italia ai giorni del Murat, ed al tempo della rivoluzione del 1820. La formazione del vero partito italiano è dovuta all'azione esercitata dagli scritti dei liberali moderati, in un tempo molto più recente. Quindi eccettuati pochi uomini privilegiati che l'Italia onora ed apprezza come gemme della sua corona, quel partito non fu numeroso, e trovò quasi intieramente i suoi sostenitori nella generosa gioventù, la quale presentiva i giorni che si preparavano alla nazione. Né solo quelli che appartenevano all'opinione liberale, e che vedendo le cose da lungi male potevano discernere la realtà dalle apparenze, rimasero ingannati dai primi atti di Ferdinando II. Si lusingarono essi che se il novello re, anco non memore affatto delle promesse, come erede dei doveri del padre e dell'avo, non fosse per isciogliere il debito da essi trasmessogli verso il popolo napoletano; alle forme almeno di più libero o certo più civile reggimento volesse accomodarsi. Nella punizione dei ministri sembrava loro forse vedere un'applicazione della ministeriale responsabilità: la guerra da lui intimata al dispotismo di costoro appariva, se non in nome, in vantaggio della libertà, e non era in verità che in pro dell'assolutismo regio.

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Un membro eziandio del gabinetto, se non rimase preso all'amo di queste apparenze, credè l'assolutismo reso ormai impossibile per le condizioni europee; e fu il ministro della Polizia Intonti, uomo illuminato ma di ambizione smodata, sul quale naturalmente e giustamente pesavano molti odj, e massime quelli dei liberali per le sofferte persecuzioni. Stante la sua ambizione, fu anche agevolmente trascinato da quelle speranze, perché cercava un'occasione di farsi capoparte, e guadagnare con ciò autorità maggiore: non disperava forse di raccogliere l'eredità della potenza del Medici, e impadronirsi d'ambe le chiavi del cuore, di Ferdinando. Dopo l'Acton, i Borboni avevano sempre avuto il ministro che concentrava in sé tutti i poteri, e tale sperava diventare l'Intonti; non s'accorgendo che il novello re non voleva dividere con alcuno il regno. Costui adunque si rivolse al partito costituzionale, singolarmente della classe aristocratica: profittando dell'opinione che il re erasi procacciata, delle speranze nate nel pubblico e delle circostanze europee e italiche di quei giorni, sperò (e sperarono molti con esso) costringere con accorgimento il re a fare una riforma radicale, della quale al re stesso sarebbe toccato il merito, come spontanea era stata l'iniziativa da lui presa coi primi atti del suo regno. Imaginava l'Intonti fargli vedere coi mezzi di polizia un gran pericolo e metter su, qua e là, piccole sommosse, e con queste minaccie o meglio paure spingere il re più innanzi; pensando che re Ferdinando per seguire del tutto le orme del Murat potesse appoggiarsi all'esercito ed ai liberali. Era una notte, in cui il ministro d'accordo con molti membri primarj dell'aristocrazia voleva fare il primo tentativo (avendo già predisposto i cartelli provocatori di sommossa, che dagli agenti di polizia dovevano essere affissi per la città),

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quando giungevagli come un colpo di fulmine, in mezzo alle tenebre e in nome del re, la destituzione, la condanna dell'esilio, una scorta militare, e l'ordine di recarsi immediatamente a Vienna. Così pagò l'Intonti i suoi capricci liberali, o meglio la sua ambizione; cosi il re disingannò presto i troppo creduli. Ma il re non senza accorgimento aveva fatto conto sul partito militare, che a lui presto si strinse, e quindi ogni giorno più si distaccò dagli antichi alleati suoi del 1820. Il disinganno pubblico fu alla fine compiuto, allorché si conobbe il successore dell'Intonti nel ministero della Polizia. Esso fu Francesco Saverio Del Carretto, che doveva la sua fortuna alla carriera militare, ma era già troppo noto ed universalmente detestato per le infamie commesse nella Provincia Salernitana. Saliva costui al governo con le mani ancora tinte del sangue dei costituzionali, e mentre le ruine di Bosco erano tuttavia fumanti. Trista e crudele risposta a coloro che avevano sperato il risorgimento della libertà! Questa mutazione di ministero fu il discoprimento della politica personale del nuovo principe.

Nel 1832 Ferdinando recavasi in Piemonte e si univa in matrimonio con Cristina, sorella di re Carlo Alberto, donna di rare qualità di animo, buona come una principessa di Savoja; la quale guadagnossi presto l'amore dei Napoletani, in guisa che questi poi sempre la designarono coll'appellativo di santa. Le virtù ereditarie di tutti i membri della famiglia Sabauda ricordavano veramente, e ricordano tuttavia, ciò che dei Malaspina cantava l'Alighieri.1 Questo matrimonio sarebbe stato propizia occasione di stringere nodi all'Italia proficui, che avrebbero potuto forse salvarne l'indipendenza in un avvenire non lontano.

1 La fama che la vostra casa onora,

Grida i Signori, e grida la contrada,

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Ferdinando di Borbone non andava a cercare la sua consorte oltre le Alpi; ed il parentado contratto coi Reali di Savoja mostra, in lui essere stato allora un istinto di buon senso che ancor lasciando la quistione nazionale gli faceva sentire, come per la reciproca sicurezza i due governi più forti della Penisola dovevano, secondo le ragioni di buona politica, stringersi fra loro. Certamente più all'interna forza che non alla sicurezza comune dall'estero, credo io che mirasse: a questo fine mostrossi forse propenso in quei giorni a porre le basi di una lega fra i governi italiani, che non si poté condurre a termine per le opposizioni venute dal governo romano.1 Ma quelle idee erano per lui secondarie soltanto, essendo sempre la prima quella di rassodare il suo governo sulle basi d'un dispotismo militare; e il viaggio fatto in Piemonte parve dare ancor più forza a questo suo disegno. Aveva veduto un esercito bello e bene ordinato, un governo fondato sulle tradizioni militari, quasi un popolo di soldati; e quel sistema peculiare del Piemonte, che si andava però in quei giorni medesimi lentamente modificando, diventò il suo ideale, il non plus ultra del concetto d'un buono e forte governo.

Sì che ne sa chi non vi fu ancora.

….......................................................

Uso e natura sì la privilegia,

Che, perché'1 capo reo lo mondo torca,

Sola va dritta, e il mal cammin dispregia.

Purg. VIII.

1 Queste idee di Lega non erano nuove, e venivano talvolta poste innanzi dallo stesso principe di Metternich a vantaggio dell'Austria. Ciò accadde anche nel 1821. In prova delle opposizioni che da Roma sempre si facevano, a causa della condizione del papa nella confederazione, reco qui un brano di lettera scritta allora al cardinale Spina Legato di Bologna, da persona autorevole e alla politica romana non estranea, residente in Milano, il 26 maggio 1821. «Il ministro russo conte Pozzo di Borgo, che ho veduto ed è ripartito per Parigi, assicura che il nuovo congresso dei due Imperatori annunziato nella dichiarazione ultima di Lubiana avrà luogo in Firenze, forse in primavera del venturo anno, e si susurra sempre questa idea e piano di federazione italica, M che nei rapporti della Santa Sede è un po' difficile a conciliarsi.»

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Queste impressioni furono così profonde che pur il suo esteriore aspetto si cambiò, ed i suoi sudditi dissero che era tornato di Piemonte mutato in peggio. Notai che le sue mire erano già rese a bastanza esplicite fino dalla cacciata dell'Intonti; solo forse può aggiungersi, che queste idee di dispotismo erano per lo innanzi vaghe, scucite e per così dire a balzi, e che tornò da Torino coll'intenzione di farne un sistema.

Ma le relazioni con la Casa di Savoja dovevano essere brevi, e non intime. L'indole e i modi di lui forse mal si confacevano con quelli amabili ed eleganti della gentile principessa, usa ad una Corte che aveva rigorosamente serbato le forme francesi e l'etichetta spagnuola. Nondimeno essa parve talora modificare e temperare i suoi trasporti; e l'ascendente suo avrebbe forse un giorno conferito a migliorare le sorti del regno. Ai primi di gennaio del 1836 la regina metteva alla luce l'erede della Corona, e un'amnistia concessa a molti esuli politici (16 gennaio 1836) rendeva memorabile questo felice avvenimento che rafforzava i legami contratti fra le due Case sovrane dei due maggiori Stati italiani. Ma l'ultimo giorno di quel mese una morte prematura rapiva al suo regno una principessa, la quale, cosa per certo non comune nei Reali di Napoli, fu accompagnata al sepolcro dalle più sincere lagrime del popolo. Sembrava istintivamente sentire, come quel matrimonio fosse quasi arra della sua indipendenza, e come in esso fosse pur la speranza di futuro miglioramento nel governo. Il re infatti pareva in quei giorni emancipato interamente dal gabinetto di Vienna. Il suo spirito era per sé stesso indipendente, già lo accennai, ed il governo austriaco molto si diede pensiero di questo; non perché forse temesse di assalti diretti dalla sua parte, ma perché dei principi italiani esso può dire per i momenti di crisi, che chi non è con lui deve essere necessariamente contro di lui.

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Perciò i rappresentanti austriaci a Napoli si succedettero uno all'altro senza posa, ed anche dipoi il principe di Metternicli non trovò mai l'uomo che potesse a suo modo dominare re Ferdinando. Ma la morte della principessa di Carignano fu un avvenimento fausto per la politica austriaca, che seppe profittarne con molta abilità. Quel re invero era in una linea governativa, che non dava al gabinetto viennese nulla per allora da ragionevolmente temere, e le sue tendenze dispotiche non turbavano i sonni del Gran Cancelliere dell'Impero; quanto alla politica italiana, le relazioni con Carlo Alberto erano rotte, e con nuovi legami si sperava poter prevenire ogni futuro pericolo. Erano ancora calde le ceneri della buona principessa (maggio 1836), quando re Ferdinando visitava tutta l'Italia, eccetto il Piemonte, ove non osò forse porre il piede: la mano della morte aveva segnato una fatale separazione, le cui conseguenze dovevano essere funeste alla patria. Niuno ignorava, che lo scopo di quel viaggio di Ferdinando era di trovare una seconda consorte da recare sul vedovo talamo reale: visitato Roma, Firenze e Modena ove soffermossi alquanto, recavasi in Austria, e vi si tratteneva un mese per istabilire i preliminari accordi. Le relazioni fra re Carlo Alberto e Vienna erano già più che acerbe, quando il suo cognato abbrunato pel lutto della consorte passeggiava le aule imperiali; e questa fu forse l'origine di assai rancori. Fatta dimora finalmente in Parigi, dove avea dato credere di togliere in isposa una principessa d'Orléans, e percorsa la Francia, ritornava a Napoli, allora desolata dall'orrendo flagello del cholèra che mieteva le vittime a migliaia, ed era subbietto di grave malcontento nella plebe, presso cui le credenze di avvelenamento davano segno di prorompere in aperte rivolte.

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Il mal governo frattanto peggiorava, i popoli s'agitavano, Sicilia minacciava, la discordia anche nell'interno della famiglia reale sembrava prossima a scoppiare. Circolavano Manifesti di opinione costituzionale, provenienti da Malta, in nome di un fratello del re, del principe Carlo: il conte di Siracusa era stato tolto dalla luogotenenza di Sicilia egualmente per sospetto di mire ambiziose. Il re s'inaspriva, e rimasto solo senza alcun freno domestico, tutto si abbandonava alle sue voglie dispotiche; e per isventura sua, del regno e d'Italia, cadeva affatto in mano di pessimi uomini, e massime del marchese Del Carretto, che diventava onnipotente sul suo animo, e vero arbitro dei destini del regno. Le tradizioni reazionarie di famiglia rivissero, ed il governo entrò in una infausta via. In questo stato di cose, mentre non più di nove mesi erano scorsi dacché la principessa di Casa Savoja calava sotterra, re Ferdinando incaricò, il 31 ottobre, il principe di Salerno di chiedere per lui la mano d'un'arciduchessa d'Austria, della figlia dell'arciduca Carlo. La nuova principessa giunse con cattivi auspicj. La memoria della prima troppo recente e troppo buona, il pubblico lutto mal sofferente di pompe nuziali, gli spiriti in uno stato già di esaltamento, il liberalismo crescente, il principio italiano che lentamente ma continuamente si andava in esso innestando, ed oltre a questo la ricordanza di Carolina d'Austria non ancora spenta ed inseparabile da quella degli orrori del 1799; tutto pur troppo disponeva gli animi contro la novella regina. I liberali furono irritati di tal rannodamento di legami con Casa d'Austria,poiché il governo del re, oltre all'esser cattivo e dispotico, diventava per i Napoletani straniero ancora: tutti gli sdegni per l'indipendenza della nazione, se non italiana almeno napoletana, immolata a Vienna, spenti da pochi anni dopo la partenza delle truppe austriache, si riaccendevano.

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La venuta dell'arciduchessa fu quasi riguardata come il ritorno di quell'esercito, di quel dominio, di quell'influsso. Di più, quel matrimonio sembrava ed era un insulto alla memoria dell'estinta regina, e perché austriaco e perché fatto senza rispettare neppur l'anno vedovile, e infine senza necessità alcuna, mentre l'erede della Corona era già nato. Su questo erede si rivolsero allora le simpatie popolari; e la disapprovazione del novello nodo del re nelle basse classi si esprimeva coi saluti a quel bambino, che appellavano il figliuolo della Santa.

L'assolutismo napoletano rinforzossi dell'appoggio austriaco, ed il partito austro-spagnuolo governò il regno; ma non si che il re non si ribellasse talora dalla supremazia viennese, e non riguardasse quell'influsso solamente come un appoggio al suo sistema, ed ancora come un modello, e nulla più. Egli voleva sempre serbarsi la padronanza, e lo avrebbe forse fatto viepiù, se la gelosia non lo avesse rattenuto, vedendo volgersi al Piemonte le tendenze liberali dell'Italia; e la rottura accaduta con la Casa che ivi regnava, lo rendeva certo più accessibile a quelle gelosie. I possibili ingrandimenti di Casa Savoja entrarono più che mai nelle previdenze del governo napoletano, e nelle tradizioni murattiane che dissi esistenti in esso si cercarono i compensi. Non ostante i legami novelli col gabinetto di Vienna, sembra che re Ferdinando egualmente sarebbesi consolato della sventura degli Austriaci in Italia; senonché credendo che l'antico suo cognato tenesse fisi gli occhi sopra Milano,

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egli li volse verso Ancona.1 Appoggiando il suo dispotismo a quello del principe di Metternich, non gli vendeva del tutto e alla cieca i suoi interessi, come aveva fatto l'avo, e come più recentemente aveva fatto Gregorio XVI. L'Italia però lo tenne per straniero, dacché le due cause della libertà e dell'indipendenza camminavano di pari passo, e le rivoluzioni interne del regno, quantunque avessero indole ed importanza meramente locale, come peculiari erano i diritti di Napoli e di Sicilia, furono dagl'Italiani riguardate come rivoluzioni italiche. Vi fecero anzi talora conto anche soverchio le altre provincie della Penisola, e le società segrete di queste si posero in accordo con i comitati del regno: ebbi già luogo di osservare che appunto le speranze riposte nelle commozioni e negli aiuti napoletani dettero la spinta a qualche movimento nell'Italia centrale. Lo scopo di siffatte agitazioni essendo nazionale, la resistenza violenta trovata nel re e nel governo fu reputata austriaca, perché importava indirettamente a quel potentato; e il supplizio dei Bandiera alla fine unificò del tutto nel concetto

1 In prova di queste tendenze mi piace citare un dialogo fra due persone a me ben cognite (che non credo dover nominare), del quale posso guarentire l'autenticità. Calda la prima d'amore per Carlo Alberto, discuteva con un diplomatico napoletano innanzi l'ultimo periodo del movimento italico (allorché non si presentiva certo la guerra dell'indipendenza) sulle convenienze della formazione d'un regno dell'alta Italia; e combatteva le difficoltà dall'altro oppostegli, sul disequilibrio che ne verrebbe alla Penisola, e sui danni che a Napoli in specie ne toccherebbero. Fattosi caldo il colloquio, la prima in un impeto conchiudeva esclamando: «Il più bel giorno della mia vita sarà quello, nel quale potrò assistere alla coronazione di Carlo Alberto nel Duomo di Milano.» Al che soggiunse focosamente il Napolitano: «E il più bel giorno della mia vita sarebbe quello, in cui potessi prendere possesso d'Ancona a nome del mio re.» Questo può servire di chiosa ad un ampolloso articolo pubblicato già dal Del Carretto nel giornale ufficiale del regno, in cui dicevasi che Napoli era destinato in Italia ad un ingrandimento. Cosi tutti speculavano sulle possìbili cessazioni del dominio temporale dei papi. La volontà conservatrice, non che la cattolica devozione di molti protettori, potrebbe equipararsi alla custodia proverbiale del cane dell'ortolano; cioè al non permettere ad altri di toccare quel che si spera di prendere per se, od almeno finche non se ne può prendere per sé la sua parte.

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degli Italiani la politica, il governo e la persona di re Ferdinando con quella del principe di Metternich. Né gli Italiani soli, ma gli Austriaci medesimi così giudicarono. La setta da essi istituita negli Stati romani per far propaganda in favore del governo imperiale e mantenerne vivo l'influsso, la setta capitanata dal generale Nugent, la quale svegliò i sospetti e le gelosie dello stesso governo di Gregorio XVI, prendeva appunto nome di Ferdinandea dall'alleanza dei due Ferdinandi, l'uno regnante a Vienna e l'altro a Napoli. È indubitato che l'Austria con l'aiuto di quella setta mirava ad ingoiare le Romagne alla prima occasione; e le speranze del re di Napoli sulle Marche non potevano esserle ignote. Ma nell'istituire la setta Ferdinandea, l'Austria fece ella esplicitamente per quelle provincie un mercato contingibile con Napoli, o pensò semplicemente di abbandonargliele nel caso? Cosa difficile per vero dire ad indovinarsi. Certo è però che come gli Italiani tennero d'allora in poi re Ferdinando per satellite dell'Imperatore, così il governo di questo aveva caro che diventasse di fatto, e sopratutto che apparisse tale. La dominazione di tutta l'Italia in modi diretti od indiretti era, lo ripeto ancora una volta, il costante concetto e la smania prepotente del principe di Metternich.1

1 Avendo nel principio di questo Capitolo, non che nell'antecedente, abbozzato lo stato di Napoli durante i regni che precessero a quello di re Ferdinando; per non esser tacciato di qualche esagerazione aggiungo qui in prova e a conferma insieme della mia asserzione alcune parti d'un dispaccio del visconte di Chateaubriand, ambasciatore francese a Roma nel 1820, scritto al ministro degli Affari Esteri a Parigi e da lui stesso pubblicato nelle preziose sue Mémoires d'Outre-tombe. Non manca oggi d'importanza.

«Dépêche à M. le comte Partati.

» Rome, ce 16 avril 1829.

» Quant a la position de l'Italie, monsieur le comte, il faut lire avec précaution ce qu'on vous en mandera de Naples où d’ailleurs. Il est malheureusement trop vrai que le gouvernement des Deux-Siciles est tombe au dernier degré du mépris.

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La manière dont la cour vit au milieu de ses gardes, toujours tremblante, toujours poursuivie par les fantômes de la peur, n'offrant pour tout spectacle que des chasses ruineuses et des gibets, contribue de plus en plus dans ce pays à avilir la royauté. Mais on prend pour des conspirations ce qui n'est que le malaise de tous, le produit du siècle, la lutte de l'ancienne société avec la nouvelle, le combat de la décrépitude des vieilles institut ions contre l’énergie des jeunes générations; enfin, la comparaison que chacun fait de ce qui est à ce qui pourrait être. Ne nous le dissimulons pas; le grand spectacle de la France puissante, libre et heureuse, ce grand spectacle qui frappe les yeux des nations restées ou retombées sous le joug, excite des regrets ou nourrit des espérances. Le mélange des gouvernements représentatifs et des monarchies absolues ne saurait durer; il faut que les unes ou les autres périssent, que la politique reprenne un égal niveau ainsi que du temps de l'Europe gothique. La douane d'une frontière ne peut désormais séparer la liberté de l'esclavage; un homme ne peut plus être pendu de ce coté-ci d'un ruisseau pour des principes réputés sacrés de l'autre côté de ce même ruisseau. C'est dans ce sens, monsieur le comte, et uniquement dans ce sens, qu'il y a conspiration en Italie; c'est dans ce sens encore que l'Italie est française. Le jour où elle entrera en jouissance des droits que son intelligence aperçoit et que la marche progressive du temps lui apporte, elle sera tranquille et purement italienne. Ce ne sont point quelques pauvres diables de carbonari, excités par des manœuvres de police et pendus sans miséricorde, qui soulèveront ce pays. On donne aux gouvernements les idées les plus fausses du véritable état des choses; on les empêche de faire ce qu'ils devraient faire pour leur sûreté, en leur montrant toujours comme des conspirations particulières d'une poignée de Jacobins, ce qui est l'effet d'une cause permanente et générale.» Telle est, monsieur le comte, la position réelle de l'Italie.»

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CAPITOLO LIX.

IL GOVERNO NAPOLETANO.

Qual fosse il governo napoletano sotto re Francesco, già per me fu detto: ora più ampiamente dirò qual fu sotto il regno del figliuolo. Non tendente mai certo a liberali forme, anzi sempre essenzialmente dispotico, ma più tollerante negli anni primi, perché il re era voglioso di migliorare l'amministrazione del pubblico tesoro, di crescere la prosperità dello Stato e di porre rimedio ai mali frutti del cessato favoritismo; italianizzato (per così esprimermi) col primo matrimonio, benché non per questo speranze vere nazionali si destassero nel regno, il governo napoletano restò comportabile fino al secondo matrimonio di Ferdinando II. Da quel tempo in poi si fece più apertamente dispotico, ogni ombra di speranza anche circa gl'interni miglioramenti si andò attenuando, e progressivamente, dal 1837 cioè dopo la rivoluzione siciliana, peggiorò, divenendo pessimo. La distinzione di questi due tempi debbo qui fare e fo sino dal principio del capitolo, in cui succintamente bensì, ma partitamente ragiono delle diverse parti del governo napoletano sotto Ferdinando II e delle cose che da quello dipendono; affinché contradizioni non appajano, e, che più monta, imparziali siano i giudizj dell'istoria. E innanzi tratto dirò del Ministero.

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Come questo fosse composto da re Ferdinando, non appena salito al trono, come i vecchi ministri fossero da lui deposti, dissi nel precedente capitolo; non tacqui quali fossero le mire del re, di concentrare cioè l'autorità nelle sue mani, e come piuttosto uomini fidati e maneggevoli che uomini d'ingegno venissero da lui scelti a tal fine. Il suo nuovo sistema dopo la caduta dell'Intonti fu intravveduto nell'innalzamento alla Polizia di Francesco Saverio Del Carretto, ispettore generale dei gendarmi. Conviene per amore della verità dire che se sotto di lui la polizia fu più organata di prima, in apparenza però fu meno tormentatrice nelle inquisizioni politiche, le quali erano state più frequenti sotto i passati governi. Esecuzioni pronte e feroci fatte qua e là, a quando a quando ne ricordavano l'esistenza e la forza; ma le forme erano meno violente, e lo stesso esteriore aspetto del Del Carretto illudeva molti. Uomo socievole e non scevro di pretensioni d'amabilità, atante della persona e non ingrato al bel sesso, alle lascivie per quanto si narrava abbandonato, mascherava abilmente la sua ferocia, non ignota peraltro per fatti solenni. Non può dirsi che il re lo amasse, né che amasse mai alcuno dei suoi ministri.1 Della sua destrezza faceva stima grande, e utilissimo al suo governo lo reputava; il Del Carretto in questa credenza lo teneva fermo, non solo corteggiando il confessore, ma compiacendo a tutte le voglie del re e carezzando le sue debolezze.

1 In conferma di questo non sarà discaro conoscere un fatto certissimo. Il generale Fardella ministro della Guerra era riguardato da tutti come l'uomo più caro al re, il quale a lui che era stato suo istitutore, e veramente per le sue virtù lo meritava, mostrava non deferenza solo ma quasi rispetto. Venuto a morte di cholèra, dovendovi esser consiglio di ministri per urgenti affari alla reggia di Capodimonte ove il re si tratteneva durante il morbo, tutti i ministri erano turbati attendendo il re, e studiavano le parole di condoglianza e di consolazione che dovevano dirgli. Il re entrò gioviale ed allegro come non era stato mai, e al più anziano de'  ministri disse: «Oggi abbiamo una sedia vuota; fatevi più innanzi, e prendete un posto più presso a me.» Tutti rimasero stupefatti, ed ebbero da quelle parole la misura di ciò che ciascuno di essi era nell'animo del re.

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Uno specialmente fu il mezzo, onde servivasi costui per aumentare l'opinione della sua abilità presso Ferdinando II. Il ministro austriaco Lebzeltern che faceva la polizia in Napoli per conto del suo governo, non si stava sovente dal denunciare al re trame e pericoli imminenti, dei quali ingigantiva ai suoi occhi l'importanza; come sempre suole la polizia austriaca, considerando le cose in ragione dei pericoli del suo dominio in Italia, maggiori sempre di quelli che possono correre i governi della Penisola. Queste denunzie fatte o prima o in modo più esagerato che non aveva fatto il ministro di Polizia al re, e l'esito quasi sempre vano di quelle trame e quindi contrario alle previsioni del Lebzeltern, assicuravano il re che poteva dormire tranquillo sull'onniveggenza del Del Carretto, e ne lusingavano l'amor proprio per l'abilità superiore della sua polizia. Ancora sospettoso il re, come altrove notai, delle ambizioni del gabinetto viennese, temeva forse, non senza ragione, che delle sue paure volesse profittare; e reputava che l'abilità del suo ministro di polizia gli fornisse mezzo di non lasciare attentare alla sua indipendenza di cui era sommamente geloso. Queste sono le ragioni della prevalenza che sull'animo di Ferdinando II ebbe il Del Carretto. Come costui divenne il precipuo stromento del governo di Ferdinando, così i suoi ottomila gendarmi ne divennero la forza maggiore. Ebbero titolo di magistratura armata, ed a tale salì nel secondo periodo del regno la potenza loro e del loro capo, che veramente poté dirsi il governo di Napoli a poco a poco diventato tutto una polizia, un governo di polizia, portando i soldati fra'  birri, e i birri fra'  soldati, e tutti sotto il comando d'un generale ministro, più potente di certo del ministro della Guerra. La qual forza misteriosa era superiore ad ogni imaginazione, e le attribuzioni di quel dicastero eccedevano eziandio quelle amplissime che gli aveva date il principe di Metternich nei suoi Stati italiani.

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Questa superiorità d'un dicastero ad ogni legge, questa magistratura col fucile in spalla e le ritorte in tasca, senza forme e senza appello giudicante, offriva veramente una strana sembianza. Il governo napoletano si faceva bello all'estero del suo codice civile e penale stupendo, anzi dei più perfetti che siano stati fatti giammai, e si acquistava a buon mercato titolo di sapiente, di buono ed illuminato; ma questo non era nel fatto una verità. Se le leggi civili erano, salvo alcune eccezioni, rispettate, quelle criminali parevano scritte più per pompa che per l'esercizio; quasi monumento di sapienza d'altri tempi, e nulla più. Quelle leggi erano state compilate dopo il 1816 dagli uomini più saggi, educati alla scuola del governo francese, i quali avevano posto in opera il codice napoleonico, e ne poterono apprezzare i beni e conoscere in pratica i difetti. Questa compilazione fu fatta da essi, perché il trattato di Casa Lanza aveva guarentito la conservazione degli antichi impiegati; perciò era frutto della maggiore sapienza e insieme della forza delle circostanze, non della volontà del governo restaurato. Il Codice fu pubblicato nel 1819. Niuno dunque deve stupire, studiandone l'origine, e dell'essersi fatta una compilazione così sapiente, e di vederla poi tenuta in non cale dal governo medesimo che l'aveva promulgata. Ma nell'interno quel governo ne scemava il valore, non presentando ai sudditi che le ordinanze del Del Carretto, ed i suoi manigoldi per giudici. Con questi e per questi, vedeva il regno napoletano restare sempre in piedi ed in perfetto vigore i modi e mezzi di giustizia più barbari. Due soli ne accennerò, e valgan per tutti, come più contrari alla civiltà dei tempi: la tortura e le verghe.

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È cosa notoria, e divenne tale in occasione del Congresso degli Scienziati, che la polizia per i processi politici non solo ma anche per gli altri criminali di qualsiasi specie, in cui soleva assumere l'iniziativa estragiudiciale (mostruosità della legislazione napoletana), poneva in uso le più barbare torture, imitando quelle che nel medio evo eransi adoperate, quando con siffatto mezzo dicevasi domandare ai rei la verità. Queste torture esercitavansi sia dentro le prigioni, sia nelle stanze dei commissarj di polizia. Il Codice le aveva abolite, e proscritte; la polizia le aveva fatte rivivere, le esercitava, e ne faceva scopo di vendetta, o pubblica o privata, e sovente mezzo di vendette anche maggiori. Alcune di queste barbarie vennero denunciate al pubblico, e siccome non furono mai smentite, così la storia non può lasciare di registrarle. La sola guarentigia vera che rimase ai Napoletani, si fu la pubblica discussione e il pubblico confronto dei testimonj nelle cause criminali; e se per la corruzione governativa questo che poteva e doveva essere freno all'ingiustizia nol fu, in tutti i tempi restò sempre un intoppo al governo, e un mezzo d'appello alla pubblica opinione, in non rari casi anche vantaggioso. E qui non devo tacere come quella pubblica discussione, l'uso della quale non cessò giammai, ebbe due effetti: di fornire cioè al foro napoletano eloquenti oratori, che poi in ogni congiuntura dovevano agevolmente tramutarsi in oratori politici, e rendere splendidi e celebrati i parlamenti napoletani; e l'altro di alimentare negli uomini del foro il desiderio delle forme rappresentative di governo, cui essi sentivansi adatti, scorgendovi pure una speranza di maggior gloria insieme al maggior bene della patria loro. La polizia aveva però invaso talvolta l'autorità giudiziale, e sottoposto a sé buona parte della magistratura.

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Nelle stesse cause civili essa volle sovente aver parte, come in tutto che riguarda il buon costume esercitò l'arbitrio più illimitato; nelle criminali poi è lecito dire con verità che fin l'applicazione delle sentenze fosse per lei talora adulterata. Imperocché non solo la specie di prigionia non era quale il codice prescriveva, ma veniva spesso cangiata in relegazioni non indicate nò consentite dalle leggi. La durata stessa qualche volta non era quella prescritta dalla sentenza; perché non mancò il caso di veder ritenute nelle prigioni alcune persone per conto della polizia e per ragioni di polizia, quando avevano scontata tutta la loro pena. Inutili furono talvolta gli ordini del re medesimo sulle istanze del ministro di Grazia e Giustizia, al quale non poteva negarlo, per far cessare questa supremazia vergognosa. Il re regnava per quella arcana autorità, e per necessaria conseguenza quella arcana autorità si era fatta a poco a poco più forte di lui. Poté anzi dirsi, che re Ferdinando emancipato nei primi tempi dagli influssi, i quali avevano tratto in perdizione il regno ai giorni del padre suo, finì col cadere anch'egli sotto altri non meno fatali influssi. Vi ebbero tali difetti nella sua indole che furono più forti della sua smania di personale indipendenza, della sua voglia di comandare: il sospetto lo ridusse schiavo del ministro di polizia, la superstizione lo fece soggiogare dal confessore. Nel primo decennio del suo regno la fazione clericale era rappresentata dal prete Giuseppe Caprioli, che pareva amato dal re di affetto quasi fraterno e compendiava in sé tutto il dispotismo; a lui caduto dal favore reale, nel 1840, subentrò in possanza il confessore. Così l'autorità del re, che unica nei primi anni pesava sul regno, diventò poi triplice; fu presto divisa fra lui, il Del Carretto e monsignor Cocle arcivescovo di Patrasso, accorto religioso Liguorista, che voleva presso il Borbone risuscitare la misteriosa potenza dei confessori delle Corti di Francia e di Spagna.

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Le tradizioni spagnuole rendevano ciò forse più agevole a Napoli che altrove, non ostante i tempi cangiati. In tal guisa le speranze, sorte sull'aurora del regno di Ferdinando II, svanirono; e neppure la giustizia fu più guarentita, neppure la corruzione ebbe un riparo. Siccome tutto vendevasi per lo innanzi dal cameriere e dalla camerista, così tutto fu poscia venduto dal confessore e dalla polizia; i quali non erano sempre d'accordo, anzi s'intralciavano a vicenda, e speculavano fin sulla disubbidienza agli ordini provenienti dall'influsso dell'autorità rivale. I furti dei commissarj e le rapine di tutti gl'impiegati di quell'autorità, che potrebbe propriamente appellarsi un organamento della corruzione, dagl'imi gradi fino ai sommi, son cosa affatto incredibile. Qual fosse questa corruzione, ben si vide più tardi in tempi calamitosi, quando sparita ogni legge ed ogni legale governo, rimase in certo modo la polizia padrona dispotica del regno. Essa fece mercato di tutto: le condanne, gli esigli, le carcerazioni, le evasioni, tutto fu soggetto di speculazione. Questa era la malvagia genia, che il Del Carretto formò e fece partecipare al governo: novello strumento di cieca compressione, novello esempio di corruzione e mezzo di abbrutimento. A tal potenza serviva quanto vi era di più laido in quella città, in cui pur troppo la corruzione era assai estesa: la delazione si organava, i ladri e le prostitute offrivano a gara i loro servigj, ed il governo se ne valeva a difesa, come dicea, della società minacciata e della religione combattuta dai liberali. E qui convien dire che i liberali temuti dal governo di Napoli erano i costituzionali del 1820, perché forti del dritto già posseduto, non i repubblica ni, che ben si sapeva essere di numero scarsissimi. Vi era pur colà certamente della feccia che desiderava agitazioni a solo fine di venire a galla; ma questa non è elemento politico, ed avrebbe servito qualunque degli estremi le avesse dato speranze.

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Infatti di quella feccia medesima facevasi forte l'assolutismo. I liberali temuti ben si conoscevano da Francesco Saverio Del Carretto che appunto era uscito dalle loro file, quando stavano costituiti nella estesa congrega dei Carbonari, cui egli pure fu ascritto.

Dissi che fra le vergogne di quell'arcana potenza fuvvi eziandio il ripristinamento del supplizio delle verghe. Questa pena cancellata da tutti i codici, insopportabile a tutti i popoli, eccetto ai più abbrutiti, come degradante l'umana natura, aborrita in singolar modo dagl'Italiani, era stata introdotta nel regno di Napoli durante l'occupazione austriaca, dopo la rivoluzione del 1820. Allora il modello favorito di quei restauratori era il sistema austriaco, e quindi coi battaglioni croati furono introdotte nel regno anco le bacchette, che mantengono quelle milizie sotto il ferreo giogo della disciplina militare. Dimenticata in appresso per i cittadini questa legge, quando prima si stancarono i restauratori di colpire che i popoli di sopportare, fu richiamata in vigore dal Del Carretto in via di fatto; il quale istituì una Commissione faciente parte della polizia, incaricata dell'applicazione di questo supplizio massime per i prigioni, o come pena arbitraria senza forma di processo, o come tormento da strappare confessioni che fossero base di più gravi processi e di maggiori condanne. Questa Commissione segreta era appellata la Commissione delle mazzate. Vergogna inaudita! A quella pena, dall'Austria applicata, allora, soltanto ai soldati, il che forse per una parte di quelle truppe poteva chiamarsi imperiosa necessità di conservare la disciplina militare, furono dalla polizia napoletana assoggettati tutti i cittadini; e si volle applicata, benché inumana e degradante, senza cautela veruna e con tutto l'arbitrio (mi si perdoni il termine) caporalesco.

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E ciò si eseguiva nell'ombra; poiché frattanto non si cessava di vantare al mondo l'umanità del codice, l'equità della procedura. Forse ancora un resto di pudore impediva che si confessasse in faccia all'Europa l'esistenza di quell'autorità eccezionale e di quella legge scandalosa; forse per questo la Commissione operava nel mistero. Infatti, quando una volta il Del Carretto si credè necessitato di ricordare l'esistenza del decreto con cui quella pena veniva istituita, non ardiva di spiegare la qualità della medesima; quantunque si trattasse nel caso di applicarla in punizione di orrendi e detestabili misfatti, cioè del tentativo fatto successivamente per un'intiera stagione d'incendiare le vesti addosso alle donne col mezzo di un liquido infiammabile, a fine di profittar forse della confusione e della folla per derubare impunemente gli spaventati e i fuggiaschi. A documento irrefragabile dell'esistenza di quella pena e dell'applicazione arbitraria della medesima per parte della polizia, sopra ogni classe di persone e senza riguardo di sesso, riporto fra i documenti 1 il decreto del Del Carretto pubblicato nella occasione da me accennata.

Ma i delltti politici e le congiure erano la prediletta occupazione della polizia. Nelle provincie queste cause venivano giudicate da Commissioni militari sempre ligie della polizia, cioè della polizia stessa che istruiva il processo. La Giunta suprema pe' reati di Stato in Napoli, istituzione da Francesco I formata nel maggio 1826 per giudicare i delltti di lesa maestà, o meglio per servire le vendette dell'autorità e della polizia, allorché questa infieriva maggiormente contro i liberali, non era essa pure indipendente dagl'influssi del governo;

1 Vedi Documento CC.

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e quando più tardi essendo entrati a far parte di quella uomini integri e rispettabili magistrati, volle una volta fare atto di giustizia e d'indipendenza non condannando alcuni prevenuti dalla polizia, fu abolita per cura del Del Carretto. Ciò avveniva nel 1846. Questo atto di abolizione dell'autorità eccezionale parve ad alcuni un miglioramento, e non fu; essendo anzi stata abolizione di un'autorità che sembrava al Del Carretto diventata troppo forte o che poteva diventar tale, avendo riacquistata la sua indipendenza. Quei giudici che osavano dichiarare, non constare della reità dei prevenuti e degli accusati dalla polizia, e si sentivano a bastanza indipendenti da poterlo dichiarare suo malgrado, non ostante i servigj resi e la servilità precedente del tribunale, furono ancor essi per poco riguardati come giacobini. Cosi allorquando, decretata questa abolizione, equa in apparenza ma non tale per lo spirito che la dettò, furono in Napoli trasmesse ai tribunali ordinarj le cause politiche, la sicurezza dei cittadini non diveniva già maggiore. Il Del Carretto ereditò quindi coll'andare del tempo tutta la trista fama e tutto l'odio del Canosa, nel regno e nel resto d'Italia.

Il favoritismo, cangrena del regno di Francesco, si era, come notai, rinnovato a poco a poco sotto altra forma, cioè sotto la forma religiosa. I costumi della Casa reale, od almeno di molta parte di essa, avevano assai migliorato; il che deve tornare a lode del re, perché a lui questo si doveva. Mentre peraltro egli offeriva l'esempio di lodevoli costumi, non si può tacere che molti dei suoi cortigiani e qualche persona ancora a lui attinente porgevano il singolare contrasto della più sfrenata corruzione, né si giunse mai dal re a farvi impedimento. Ma le sue inclinazioni non al misticismo, sibbene alla rozza superstizione, avevano dato luogo ed agio al furbo monsignor Cocle di profittarne; e l'accortezza del clero seppe di quelle giovarsi per crescere oltremodo la sua potenza.

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Il re non tralasciò occasione di far pompa dei suoi principj. I rescritti regj stabilivano gli onori militari dovuti alle imagini dei santi: gli ordini regj provvedevano alla moralità degli spettacoli e regolavano il pudore delle ballerine:1 infine la regia volontà direttamente sottraeva con estremo rigore alla pubblica vista molti monumenti d'arte e molti oggetti provenienti dalle ricche escavazioni di Pompei e di Ercolano, per un riguardo esagerato al buon costume. Alcuni di questi ordini apparivano prove ridicole o contradizioni in mezzo ad una Corte in cui la corruzione gavazzava, e mentre di essa si giovava il governo e facevane istrumento di polizia. Ma se tali ordini piacevano ad una parte del clero, erano sovente inutili alla morale, e dannosi al re; anzi su questo punto i due influssi della polizia e del confessore trovavansi talora in singolare contrasto. Per tal guisa, mentre il re sotto la dettatura di monsignor Cocle pubblicava decreti per infrenare il mal costume e punire le donne di mala vita, la polizia non solo se ne valeva, e dava loro adito nei lascivi gabinetti del ministro, ma i commissarj facevano mercato dei privilegj, e gl'infami ricoveri dati al maggior offerente erano da loro protetti. I Gesuiti si propagarono assai sotto il regno di Ferdinando II.

1 E famoso il regolamento tutto scritto di pugno del re, nel quale si stabilivano le lunghezze delle gonne, dei calzoni verdi e delle maniche delle ballerine e di tutte le altre donne che andavano sulle scene. La cantante Goldberg minacciata d'esser messa in prigione, perché le sue maniche si trovarono più corte della misura prescritta dal re, fuggì a piedi a cercar rifugio nella casa del Lebzeltern ministro d'Austria. Non si può peraltro tacere che mentre tali scrupoli regolavano le vesti delle cantanti e delle ballerine, le dame della Corte più conosciute oltrepassavano senza misura quei limiti che alle prime eran rigorosamente prescritti.

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Essi vi erano tornati sotto quello dell'avo in conseguenza del Concordato con Roma, pel quale tutti gli Ordini religiosi furono ripristinati e dotati nel regno coi beni demaniali; e poi si erano ampliati ed avevano cresciuto la loro potenza per le cure del conte di Blacas ministro di Francia. Il re non aveva, innanzi di regnare e nei primi anni di regno, contratto con loro legami di sorta, né sentito simpatia che apparisse. Quando il suo cammino nella via della reazione si fece più manifesto, anche la sua deferenza per quei religiosi crebbe, perché li reputò utile elemento conservatore ed appoggio del partito dell'assolutismo. Che tale fosse la sua idea, a bastanza lo palesò coli' affidare alle loro cure quanti più collegi poté, a fine di crescere una generazione secondo le sue brame, e col giovarsene sopra tutto per la milizia, i cui sentimenti stavangli sommamente a cuore. Egli diè dunque ai Gesuiti l'incarico di farne uomini a lui devoti e unicamente ubbidienti; poiché se desiderava vedere stabilito dovunque il principio della passiva ubbidienza, più voleva e cercava che fosse nell'esercito, sicché il padre Cappellone, gesuita, fu sempre, finché visse, il confessore e il predicatore delle Guardie reali e della Gendarmeria. Nulla omise per lusingare da questo lato l'amor proprio dei Gesuiti, e la sua smania quasi di corteggiarli si palesò singolarmente in un rescritto ignorato come molti atti di quel governo, come molti dolori di quel popolo; rescritto che pèr la sua stravaganza parrà a molti incredibile, e pure autentico, col quale Sant'Ignazio di Lojola veniva da lui eletto maresciallo di campo col soldo conveniente al grado. Il soldo era usufruito dalla casa professa di Napoli. Questo assurdo decreto basterà per molti a conoscere sino a qual punto giungesse la inclinazione superstiziosa di cui sopra ho discorso, e come venisse intrecciata con le arti più fine di governo.

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In tali cose anche il re secondava i desiderj di monsignor Cocle devoto ai Gesuiti, comecché Liguorista; e ai desiderj del re si conformavano pure tutte le dame che disputavansi a Corte i favori e l'influsso, ponendo i figliuoli nei collegi dei Gesuiti, e mettendo nelle mani di questi le loro coscienze. Il Del Carretto, ligio alle brame regali, non trascurò di affidare a quella corporazione medesima la direzione spirituale delle prigioni. Ma la smania di porre in loro balia i collegi e i licei fu quella che non ebbe alcun freno, comecché conseguenza di un concetto prestabilito nella mente del re: e il Santangelo ministro dell'Interno, che fu più degli altri ministri studiosissimo adulatore di tutte le voglie del re, lo secondò in questo. Così volle che avessero il liceo di Salerno ed il collegio di Lecce, istituzioni provinciali mantenute a spese della provincia: e la loro istallazione seguì per conseguenza a danno dei professori laici che vi erano per lo innanzi. Il che fu improvvido consiglio per parte di quella congregazione, la quale nello estendersi ebbe sovente in non cale il danno che per sé dall'altrui scapito raccoglieva. Avute senza opposizione le scuole di Lecce e di Salerno, chiese per mezzo del Cocle anche il liceo ed il collegio di Aquila: il consiglio provinciale di quella città interrogato si oppose e protestò contro, ma il re non curò né voto né protesta, e volle che tutto le fosse concesso. E ciò non per altro qui noto, se non per mostrare chiaramente come nel fatto fossero illusorie quelle istituzioni medesime, che in apparenza potrebbero venire riguardate come argine anche debolissimo all'assoluta regale onnipotenza.

Questo miscuglio di potenze eterogenee, militare cioè, poliziesca e religiosa, formavano il complesso del governo di Ferdinando II.

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Come i vizj che da lui volevami togliere dal reggimento pubblico ripullularono sotto altra forma, così pei mali influssi che lo dominavano, gli effetti furono eziandio i medesimi. Le pubbliche sostanze non vennero per alcuna parte meglio guarentite, e la popolarità, fondata sulle belle apparenze dei primi atti del nuovo regno, fu dai seguenti distrutta. Le finanze non prosperarono, i popoli non furono sollevati, le accuse di furto e di concussioni contro qualche ministro con più o men fondamento si rinnovarono, e gli elogj per i personali sacrificj fatti dal re si convertirono presto nei più acerbi lamenti. Si dissero i pubblici funzionarj sicuri dei loro furti all'ombra del prelato confessore, come una volta erano stati ai giorni di Francesco dietro le spalle del venduto cameriere. Quello forse che crebbe e portò al colmo il malcontento dei Napoletani sotto il regno di Ferdinando II, fu il ministero degli Affari Interni, il quale riuniva in sé l'istruzione pubblica, l'agricoltura e il commercio, la beneficenza e i lavori pubblici delle Comuni e provincie. Il mal governo che esso fece dell'amministrazione civile, fu dannosissimo; poiché ligio a monsignor Cocle, soprattutto in quanto riguardava l'istruzione pubblica, non rispettò alcuna delle leggi e delle guarentigie che pure il regno possedeva nelle sue istituzioni, e massime in quelle del 1816. Il ministro Santangelo che lo reggeva, era piuttosto uomo ambizioso, anzi inebriato della sua ambizione, che veramente cattivo. Aveva voglia di procurare miglioramenti nella condizione materiale dello Stato; ma queste voglie erano deboli, e ad ogni impedimento che da qualunque parte venisse, piegavano e rimanevano del tutto vane. Il Santangelo era però dotato d'un ingegno pronto e svegliato, benché non nutrito di solide dottrine. E poiché accennai alle leggi sull'amministrazione civile del regno, dirò di volo come esse discendano dalla prima fondamentale che fu del 12 decembre 1816.

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Quella legge fu molto predicata e vantata dal governo napoletano e dai suoi fautori, poiché veramente in tutta Italia era la sola che desse un ordinamento compiuto e uniforme all'amministrazione civile dello Stato: anzi era una maravigliosa opera per lo incentramento di una potestà unica nel ministro degli Affari Interni, che soprastava cosi a tutta l'amministrazione delle provincie e dei municipj. Era quindi legge di squisito artifizio dispotico, perché assoggettava pienamente al governo superiore l'elezione agli uffici municipali ed ai consigli distrettuali e provinciali, e perché rendeva impossibile il disporre delle rendite delle provincie e dei Comuni senza il beneplacito, sempre necessario, del ministro dell'Interno o del re. Sicché (e questo non voglio qui tacere ) quando seguirono le prime riforme piemontesi, toscane e romane nelle cose di amministrazione delle provincie e dei municipj, male ed a torto il governo napoletano rispondeva con amaro disdegno, che quelle erano leggi vecchie nel regno: dico male ed a torto, perché le leggi delle riforme partivano da un principio liberale, mentre le napoletane non istabilivano che l'ordinamento informato da un principio assoluto e dispotico. Gl'influssi che dominavano il re, dominavano poi per necessità il ministro dell'Interno, il quale sapeva che solo a quei patti non sarebbe l'autorità sfuggita dalle sue mani. Innanzi di ragionare delle diverse parti dell'amministrazione dello Stato napoletano, dipendenti dal ministero degl'Interni occupato da Niccola Santangelo (che giunto all'apice della possanza, in gran parte veniva accagionato dei gravami dei sudditi), non posso non toccare, come il ministero stesso in generale né alcun ministro in particolare, neppure i due più potenti, il Del Carretto e il Santangelo, non potessero mai prendere la padronanza vera degli affari, che il re sapeva sempre serbarsi.

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Notai più volte che questa era la speciale impronta del governo, cui egli aveva voluto formare. Ciò peraltro lo poneva nella necessità d'indebolire il ministero con le interne scissure; il che se non infiacchiva il governo, rendeva vani sovente i benefici influssi di alcune sue buone volontà, sempre relative ad aumentare i beni materiali dei sudditi, o le forze dello Stato. Il Consiglio de'  ministri adunavasi periodicamente nella presidenza, e là si discutevano preparatoriamente i negozj più rilevanti di ciascun ministero. Inoltre vi era il Consiglio di Stato che si adunava alla presenza del re ed era da lui presieduto, nel quale si decidevano gli affari preparatoriamente trattati nel Consiglio dei ministri, e altri ancora che venivano a un tempo presentati alla discussione dei ministri e del re. Seguivano infine le particolari Conferenze di ciascun ministro col re, in cui si risolvevano gli affari che si volevano sottrarre alla discussione degli altri ministri. Intanto nel Consiglio di Stato i conflitti de'  rivali ministri nascevano, la qual cosa piaceva al re che soleva dire: «essere arte buona di governo (e da lui praticata per questo) lo aver sempre nel gabinetto la destra e la sinistra; perché per l'opposizione soltanto si può da un re conoscere la verità degli affari.» Questi ministri fino al 1842 erano otto, ed essendo o parendo al re che le scissure fossero diminuite e il ministero potesse farsi più compatto e troppo forte, credè utile e saggia cosa aumentarne il numero, aggiungendo alcuni ministri senza portafoglio, i quali però avevano il diritto di assistere sì al Consiglio di Stato come a quello dei ministri. A costoro soleva il re delegare talora la trattazione di alcuni affari speciali che con un disordine inconcepibile sottraeva ai rispettivi ministri. Erano i ministri senza portafoglio naturalmente per la loro condizione ambiziosi di maggiore possanza, e non potevano non invidiare lo stato de'  ministri veri: formavano dunque per sé stessi elementi dissolventi che entravano ad aver parte nel Consiglio.

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Tre di questi ministri entrarono nel 1842, e furono Giustino Fortunato, Niccola Niccolini, e il siciliano principe di Comitini. Il mal governo del regno essendo già al colmo e i lamenti universali, si volle forse con questi nomi dare ad intendere al pubblico che si cercasse una transazione con le idee e coi bisogni del tempo e del paese. La nomina de'  due primi voleva farsi credere transazione col partito e con le idee francesi, quella del terzo si bramava interpretata come una transazione coi Siciliani. Invero la nomina del Fortunato era strana per i suoi precedenti, poiché al tempo della dominazione del Murat, la dinastia e il partito de'  Borboni non avevano forse avuto nemico al pari di lui acerrimo. Denunciata a quei giorni dal Fortunato una congiura borbonica, della quale accusò capo il marchese Taccone, che imprigionato e inutilmente sottoposto alla tortura fu assoluto e dichiarato innocente dal tribunale, il Fortunato denunciò a Gioacchino i giudici come uomini sospetti, e li fece destituire. Ognuno credeva che un tal fatto sarebbe stato origine di perpetua separazione fra lui e i Borboni, allorché questi riacquistarono i perduti dominj; ma invece i nuovi tempi e i nuovi uomini non lo spaventarono, ed egli trovossi ognora pronto a servire i dominatori del giorno. Uomo di versatile intelletto, di finissimi accorgimenti e di dottrina non comune nelle cose di giurisprudenza amministrativa, ed anche forbito scrittore in quelle materie, il suo ingresso nel consiglio dei ministri doveva naturalmente ecclissare gli altri, e dare a lui modo di concepire ed eseguire più ambiziosi disegni.

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Fino al 1846 ebbe bensì sempre influsso molto per l'ingegno e la destrezza sua, ma non ebbe portafoglio né, a quel che parve, l'affetto speciale del re.1

Egli per servire alla sua ambizione adulava il presidente del consiglio Pietracatella, e col presidente stesso e col principe di Comitini cercarono sempre di combattere il ministro degli Affari Interni Santangelo che più degli altri sembrava potente. Contro il Del Carretto più potente ancora e' non osarono muover guerra, e non lasciavano di corteggiare il Cocle ciascuno per la parte sua. Per tal modo, d'allora in poi il Consiglio diventò una vera palestra d'intrighi e una arena di ambizioni sfrenate; i quali conflitti furono forse causa potissima della ruina dell'amministrazione napoletana. Il governo di Ferdinando II che nei primi anni, cioè fino al 1836 circa, come già notai, era stato non che ragionevole, subbietto di speranze, peggiorato dopo il secondo matrimonio del re, e successivamente più ancora dopo la rivoluzione siciliana del 1837, diventò pessimo dopo il 1842; quando cioè con la formazione dei ministri senza portafoglio si aprì l'adito a queste ambizioni e a questi dissentimenti intestini. Da indi in effetto il consiglio dei ministri poco più poteva, e le peggiori risoluzioni furono prese sempre, né a buone leggi si diede più luogo. Il re essendosi stabilito arbitro e giudice delle questioni e delle rivalità dei ministri, concentrò quasi nelle sue mani la risoluzione di tutti gli affari. Perciò nell'impossibilità in cui era di dare sentenza sopra tanti e così disparati negozj, sovente fuori della sfera delle cognizioni sue, ebbe a ricercare altri segreti consiglieri, secondo che il Cocle gli additava; e prese il mal uso ne' consigli di Stato e nelle Conferenze, che dando la decisione sua non la comunicava poi ai ministri per l'adempimento, se non il giorno appresso per mezzo del suo segretario particolare, e spesso era partecipata diversamente da quel che era stato risoluto in presenza dei ministri.

1 Fu fatto ministro di Finanze solo alla morte del Ferri nel 1847.

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La potenza dei favoriti, e singolarmente del confessore, che erano dal re in questo frattempo consultati, crebbe oltremodo: le risoluzioni, come è naturale, furono rade volte secondo il giudizio migliore, e spesso anco contrarie al parere della maggioranza del Consiglio, raccolto dopo lunghe discussioni. Questa è l'origine della potenza nuova del favoritismo sotto re Ferdinando II, ben diversa da quella che ruinò lo Stato sotto il padre suo, e cui aveva egli medesimo cercato riparo. I ministri stessi furono per tal guisa costretti a mercare il favore del confessore o per risolvere gli affari secondo i propri desiderj, o per combattere l'influsso dei rivali e salvare sé; così il Santangelo ebbe da monsignor Cocle l'appoggio che gli diè forza di render vani gl'intrighi dei suoi nemici, i quali nel Consiglio avevangli mosso guerra. In questo stato di cose però i ministri non soddisfatti si laceravano a vicenda con pubblico scandalo; e lo facevano senza ritegno nelle stesse udienze pubbliche da loro concesse, se accadeva in specie che da taluno venisse interposto appello al Consiglio intiero contro la decisione ingiusta o contro la prepotenza di un collega. Queste sono pur troppo conseguenze quasi inevitabili dell'assoluto reggimento, che è sempre sbalzato a vicenda fra l'oligarchia ministeriale e il favoritismo; e le divisioni e le gare procedenti da ciò sono sovente uno dei germi di morte che in sé racchiude, o seme di rivoluzioni anche negli Stati maggiori e più potenti, come la storia antica non solo, ma la contemporanea pure ce ne offre esempj luminosissimi. Dissi che l'interna amministrazione dello Stato manomessa, e col crescere degli anni di regno di Ferdinando II fatta peggiore, massime in quanto dal ministero degl'Interni dipendeva, crebbe più che le vessazioni di polizia, l'universale malcontento.

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Di questa e delle finanze ora ragionerò, distribuendo per maggior chiarezza il soggetto per materie anzi che per tempi (accennandoli però), affinché più chiaro venga per me esposto il complesso di quell'amministrazione. In tal esposizione che farò partitamente, si vedrà palese la distinzione fra i due tempi in cui si chiude questo regno innanzi al 1846, l'uno di speranze, e l'altro di disinganno.

Le pubbliche sostanze non erano riguardate come proprietà della nazione; ma di fatto si faceva rivivere il dritto feudale più assurdo, quello cioè che stabiliva doversi tenere la riscossione delle imposte qual regalia, o doveroso tributo da pagare alla sovranità. Invero il principe ne disponeva nei modi più strani ed arbitrarj, ed anzi che amministratore, pareva volerne al tutto essere tenuto dispotico padrone. Le dogane gravosissime nel regno erano date in appalto con regìa, e quelle regìe fomentavano ogni sorta d'immoralità sotto colore di crescer denari all'erario. Quindi con esempio unico, non una somma, come per lo innanzi, era stabilita sull'erario per il mantenimento della reale famiglia e per le spese necessarie al decoro della sovranità; ma il re invece disponeva a suo pro degli avanzi di tutte le casse, ingente, mostruoso e sempre incerto modo di far denari. Gli amministratori facevansi in tal guisa merito col re dei risparmj, e con questi imponevano silenzio, e facevano che egli ignorasse i loro furti; gli impieghi rimanevano lungo tempo vacanti, e talora sempre, come nell'esercito e nella marineria, perché il re potesse frattanto riscuoterne gli emolumenti. Così le magnificenze regie si mantenevano non coi sagriflcj solo dei contribuenti (il che in uno Stato monarchico è cosa ragionevole), ma con gli stenti del prigione e del soldato, ai quali si toglieva sovente il necessario, e si faceva menare, massime ai prigioni, la più misera vita, o si faceva subire una lenta morte per crescere i sopravanzi nel rendiconto.

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Cotal metodo di prendere un assegnamento per la Corona era crudele, enorme e immorale: né basta, era pur grandemente odioso. Questi ingenti risparmj e questa gara degli amministratori di speculare a loro pro sui medesimi, accreditarono le voci di milioni estratti così dal tesoro e passati nelle mani del re, e da lui assicurati e resi fruttiferi nelle banche estere. L'incertezza dei tempi, la cupidigia di famiglia, quel che si narrava e si esagerava, per politiche passioni, del duca d'Orléans, e la stravaganza del trovato, diedero forza a queste voci, che attirarono sul re l'odio della nazione, la quale oltre al sentirsi mal governata credè ancora di essere dilapidata. Certo le sue sostanze non erano punto rispettate, e il re arbitrariamente ne disponeva; il qual sistema può dirsi che da lui si esplicasse, in specie dopo il secondo suo matrimonio. Un atto più singolare fece gridar per la sua enormezza. Crescendo ogni anno dopo quel connubio la prole regale, egli pose fuori un decreto con cui, ringraziando Iddio che benediceva i frutti del ventre della sua augusta consorte, dichiarava essere giusto che la nazione sopperisse a questi aumenti di pesi della regia Casa: ordinava perciò di sua piena podestà, che per ogni figliuolo che nasceva, dovesse sul tesoro stabilirsi un majorascato di un mezzo milione di ducati, da rimanere a moltiplico dal giorno della nascita di ciascheduno, affinché fatti adulti trovassero un patrimonio al loro essere conveniente. Più che il peso di questo gravame, era intollerabile il modo arbitrario con cui veniva imposto. Le esagerazioni del sistema assoluto non erano per tal guisa meglio da altri poste in opera a quei giorni; ed a niuno pareva serbato il merito, più che al governo napoletano, di mostrare chiaramente la necessità ed il diritto della nazione di mettere un freno o alla cupidigia del capo dello Stato, o all'ignoranza ed alla corruttela dei suoi beneaffetti.

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Già dissi che quella cupidigia sembrava e si credeva naturalmente nella real Casa napoletana fatta maggiore per l'esempio delle sventure domestiche, per le incertezze dei tempi, e per gli avvenimenti che apparivano minacciare se non l'avvenire dei troni, quello certamente di alcune dinastie.

Né questi atti furono il solo spoglio delle nazionali sostanze. Altri ne seguivano, benché minori, come l'appropriazione dei quadri moderni dell'accademia di belle arti, premiati dallo Stato nell'annuo concorso, con cui fu adornata la reggia di Capodimonte; non che quella di molti anche antichi nel Museo Borbonico esistenti. Questa seconda appropriazione fu bensì fatta talora, per la deferenza del ministro degli Affari Interni Santangelo, sotto colore di cambio, ma sempre nella forma più dispotica. Il ministro secondava gli scrupoli del re e sottraeva al Museo quadri sacri di antichi maestri, facendo prendere il loro luogo a quadri di minor pregio, i quali o per il soggetto che rappresentavano, o per le nudità, sembravano al re osceni e indegni di adornare le sue stanze regali.

Così lo scrupolo della morale era norma anche in questo, né avevasi riguardo alcuno alle proprietà dello Stato: speciosa contradizione degna di altri tempi, ma conseguenza naturale dei principj e della natura del re. Egli salito al trono con la fiducia sincera di poter temperare la rapina delle pubbliche sostanze estendendo la sua assoluta autorità, ebbe presto ad accorgersi che all'ombra di questa la prima ripullulava più rigogliosa; e siccome i più zelanti fautori dell'assoluto governo erano sovente fra gli uomini avvezzi alle antiche rapine, entrò nella persuasione che era per lui giuocoforza subire il peso delle circostanze, e per istarsene sicuro sul trono essere cosa per lo meno malagevole il togliere le redini dello Stato da mani ladre.

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Solo ad attenuare la copia delle ruberie preferì poi tenere coloro che avevano già fatto una larga fortuna, anzi che cangiarli con altri che avessero da farla. Cosi il furto rimase tuttavia impunito e sicuro, e molte amministrazioni furono infedelmente rette, sopratutto la militare e la marina, nelle quali più agevoli sono sempre i guadagni e più difficili a scoprire le ruberie.1 II re ne andava persuaso, ma non sapeva porvi riparo: era una conseguenza fatale del suo sistema, e conveniva la subisse. Inoltre anche senza tali cagioni, non è meraviglia che non ostante il ribrezzo da lui mostrato e certo sentito per le ruberie dei pubblici funzionar), le tollerasse poscia in silenzio; imperocché coloro pure che vivono in corrotta atmosfera, se al primo istante se ne lamentano, a poco a poco vi si assuefanno, e possono vivere tranquilli nella medesima. Si direbbe che in tal modo appunto cangiossi l'antica inclinazione di Ferdinando II, il quale si fece tollerante di quello che prima destava la sua maggiore indignazione.

Ferdinando II, regnando assolutamente per mezzo di uomini corrotti, non perdè di mira l'opinione liberale che si andava stendendo in Europa; ma guardò con seria apprensione l'invincibile forza delle idee che come mare in tempesta mugghiava alle sue porte, tenendo pur d'occhio la possente memoria delle tradizioni locali.

Erano questi elementi che minacciavano la stabilità dell'opera del suo governo; e per ovviare ai medesimi cercarono i ministri accuratamente di mantenere i suoi Stati nell'ignoranza e di segregarli non che dai loro confratelli italiani, ma, per quanto era possibile, da tutta l'Europa civile. Stolta idea!

1 I guadagni fatti nelle costruzioni navali furono enormi, e fornirono mezzo, a chi seppe profittarne, di gigantesche fortune.

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Nel secondo assunto però, meglio che nel primo, riuscì il governo napoletano:1 imperocché dovizioso sempre il regno d'ingegni pronti e svegliati, coltivando i buoni studj e le utili scienze qual patrimonio prezioso loro tramandato da una forte generazione, non poterono i ministri vantarsi, come forse avrebbero bramato, di avere reso quei miseri Stati una terra d'Iloti. L'Italia, compiangendo lo scempio che facevasi degli studj in quel regno, la pubblica istruzione non che avvilita, osteggiata, ed alle infime classi tolto il mezzo d'informarsi alla luce della civiltà moderna, salutò con doppia compiacenza quegl'ingegni possenti, i quali seppero brillare anche in mezzo alle tenebre, e spezzando le ritorte di cui gravavali un governo ignorante, poterono levarsi a voli sublimi. Se l'Università infatti era caduta in abbandono o disonore e per poco chiusa e deserta, uomini insigni e celebrati esercitavano sempre il privato insegnamento, e negli studj privati, come li chiamavano, educavano alle scienze la gioventù che avida e in folla vi accorreva. Fra questi uno dei più frequentati negli ultimi anni era quello del profondo legista Roberto Savarese. Le scienze filosofiche salutavano Pasquale Galuppi, e le storiche veneravano il redivivo Muratori, l'insigne Carlo Troja (già stato esule dopo la rivoluzione del 1820), il quale ne indagava i segreti con una sagacia e profondità che non avevano pari fra i moderni, e lasciavano sovente indietro lungo tratto gli antichi.

1 Non può tacersi come nel 1840 le scuole dei Comuni fossero anche sottoposte non solo alla vigilanza, ma alla supremazia del Clero. I vescovi ebbero in tutto il regno la direzione delle scuole dei Comuni: del quale atto è inutile cercare le conseguenze non certo vantaggiose né al Clero e alla religione che di tali privilegi non ebbero mai pro, né allo Stato che (colpa la deferenza del Santangelo) per tal modo rinunziava la sua autorità; né agli studj e al popolo.

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Uomo impareggiabile e venerando, in cui non sapevi meglio se tu dovessi apprezzare l'ingegno e la dottrina, ovvero le qualità dell'animo: cosicché in esso si accoglievano di buon'ora le speranze e la venerazione dei suoi concittadini e la stima dell'intera nazione. Già notai altrove, come gli studj storici fossero diventati in Italia l'occupazione prediletta della parte liberale e nazionale moderata: schierandosi sotto quella bandiera, il Troja fu riputato appartenere a quel partito che vedeva finalmente l'Italia in luogo del municipio e della fazione. Se alle sue dottrine storiche talora non consentirono in ogni parte gli uomini del suo stesso partito in Italia, erano varietà di opinioni che nella parte essenziale non alteravano la sostanza del concetto politico e le pratiche conseguenze di quegli studj. Né solo molti furono nel regno napoletano i preclari uomini che dell'antica sapienza erano rimasti testimonj, custodi e vindici, ma molta gioventù eziandio sulle loro orme, specialmente nel ceto medio, con grandi sforzi d'ingegno crebbe a fama di sapere, e fu subbietto di belle speranze per la patria. Lo stato però in cui erano posti dal governo gli uomini di mente elevata, riusciva intollerabile. In un tempo che le censure italiane erano più o meno tutte irragionevoli, la napoletana certamente tutte le sorpassava. Il governo del regno non volle neppure accedere con gli altri Stati della Penisola al trattato che guarentiva agli autori la proprietà dei loro scritti; la qual cosa insieme ai gravissimi dazj imposti sui libri esteri, compresi gl'italiani (dazj che spesso ne superavano il valore), come pure alla vietata introduzione dei giornali, al rigido esame e alla frequente confisca di tutte le produzioni contemporanee dell'umano sapere, separava affatto dal mondo intero gli uomini studiosi, e cresceva le loro tristi condizioni.

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Quello peraltro che supera quasi la credibilità, si è la tortura durissima cui quegli ingegni furono sottoposti. Pare che la censura napoletana si sforzasse di rendere assolutamente impossibile ogni produzione dell'umano ingegno; ebbe anzi l'incarico speciale e preciso di tarpare le ali massimamente alle discipline filosofiche, come quelle che dai paladini delle forme di assoluto governo furono sempre tenute per cagione precipua di ogni disordine sociale. La censura era doppia, politica e religiosa; e così serviva nel modo più stravagante le voglie e le paure del re. La censura religiosa fu composta in gran parte di Gesuiti, i quali molto atti a questo ufficio erano giudicati dal re, che sperava sarebbero al governo proficui, come quelli che non parevano lontani dall'ambirlo. Non ignoravasi anzi come quei religiosi vedessero con gelosia il privilegio che i frati domenicani possedevano in Roma, ereditato dall'inquisizione, di tarpare le ali all'ingegno. Veramente strana era questa politica dei Gesuiti, certo non malaccorti, di accettare cioè gli uffici più odiosi, e cercarli per isfoggio di potenza, che spesso più pare, e meno è solida.

Ma questa censura, già eccessivamente tormentatrice, diventò intollerabile dopo il 1844. Una di quelle raccolte di scritti che appellansi strenne, pubblicata il primo giorno di quell'anno, fu la ragione dello inasprimento. Il ministro degli Affari Interni avevane fatto omaggio al re, che non ne avrebbe forse esaminato il contenuto, se la regina non lo avesse incitato. Due furono gli articoli incriminati. Uno fu una traduzione dal greco di Basilio Puoti che alla regina sembrò oscena: l'altro una descrizione d'un viaggio al Pizzo di Calabria di Mariano d'Ayala, ufficiale dell'esercito e professore nel collegio militare, com'era anche il Puoti.

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Lo scrittore di questo viaggio, cognito egualmente per la onestà come fu poi per i suoi principj liberali, aveva detto, che sulla piazza ove venne fucilato l'infelice Murat, sorgeva ora la statua di re Ferdinando I che nobilmente volgeva le spalle al luogo del supplizio. Tali parole in cui si volle vedere scherno al re ed animo murattiano, e quindi Italia, carbonarismo, rivoluzione e che so io, furono la causa in apparenza lievissima che fece scoppiare una grave tempesta. Il re forte si adirò: il d'Ayala e il Puoti furono entrambi destituiti, ed al censore, sebbene gratuitamente prestasse quell'odioso servigio al governo, non si risparmiò l'onta medesima. Il censore era appunto un Gesuita, il padre Liberatore. Colse il Del Carretto l'opportunità, e tirò alla polizia quasi ogni ingerenza negli affari di censura: d'allora in poi tutti i giornali anche filosofici, come il Museo di letteratura e filosofia che poi si chiamò di scienze e letteratura, in cui scrivevano forti ingegni napoletani, furono sottoposti alla revisione d'un regio revisore di polizia, cosa non tanto dura, quanto eziandio ridicola. Le trasgressioni non solo degli autori, ma le inavvertenze pure del censore di polizia erano in conseguenza punite col carcere, al quale però veniva sempre condannato lo scrittore, perché il censore di polizia sapeva sempre abilmente sottrarsi ad ogni specie di responsabilità. Questa fu cosa speciale e notevole nel governo di Ferdinando. I Gesuiti altamente si commossero di questo sfregio fatto loro dal re; e per mezzo del padre Provinciale tutti quelli fra essi che nel regno avevano il medesimo incarico del Liberatore, ed erano moltissimi, rinunciarono. Cominciavano per quella Congregazione giorni di amarezza; poiché la tempesta si scatenava da tutte le parti contro di lei.

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Mentre romoreggiava terribile in Francia ed in Svizzera; mentre la potente penna del Gioberti l'ingrossava in Italia; mentre in Gregorio XVI trovavano un amico mal fido, un appoggio più che incerto; mentre l'ascendente di che godevano in Piemonte era presso a calare, ebbero a trovarsi in aperta opposizione anche con re Ferdinando. Ma questa opposizione non fece neppur essa comprendere loro che avevano scelto mala via. Legami più solidi vincolavano quella corporazione al sistema tenuto dal governo napoletano; ed entrambi erano tanto innanzi nell'intrapresa carriera, che il ricalcare le proprie orme si faceva impossibile. I legami erano la comunanza del pericolo e la comunanza degli odj onde portavano il peso; ma se questi erano legami di necessità, la loro solidità dipendeva soltanto dal variare delle circostanze. Le forze dei Gesuiti in Napoli, più che nell'appoggio reale, consistevano nella simpatia di molta parte dell'aristocrazia e massime delle donne. Le loro scuole e i collegj erano tanto più frequentati, in quanto che la scarsezza degli altri istituti di pubblico insegnamento toglieva altri mezzi facili d'istruzione. Invero non mancavano in quella Congregazione uomini ricchi d'ingegno e di dottrina, ai quali, facendo astrazione dai politici principj del Corpo, io amo tributare per imparzialità un omaggio di riverenza e di stima. Alcuni appunto di questi trovavansi nel regno napoletano: fra loro surse il più acuto ed acerbo contradittore del Gioberti, il padre Curci, ed il filosofo Taparelli piemontese, la cui fama fu dalla Congregazione opposta a quella del Gioberti che empiva di sé tutta Italia. Abbandonata la censura dai Gesuiti, divenne, come dissi, ancor essa ancella della polizia; e niuna penna varrebbe a descriverne l'ignoranza.

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Non dico che venivano per lei cancellate le parole Italia, popolo, nazione, cittadino ed altre di tal fatta, comunque si trovassero nelle scritture, perché erano queste pur troppo stoltezze comuni a quasi tutte le censure italiane; e la romana specialmente gareggiava in questo con la napoletana. Ma non era a Napoli facile cosa il trovare neppure un linguaggio di convenzione, usando reticenze eloquenti ed un fraseggiare avviluppato che desse un certo sfogo al torturato pensiero; e se talora facevasi colà, era men facile che non sotto la sferza della censura austriaca. I più innocui scritti, quelli più alieni dalla politica, che trattavano o di statistica o di economia o di storia o di somiglianti materie, se davano appicco a sospetti di tendenze, avevano fino la sorte d'essere proscritti nella patria della scienza dell'economia pubblica. Gli scrittori erano anzi sovente costretti a cercare altrove quell'agio che non potevano trovare in patria, sottoponendosi ancora a lasciare ignorato il proprio nome, pur di arricchire dei loro pensieri la scienza. E accadde non di rado che ottennero a Milano il permesso di stampare ciò che a Napoli era stato loro vietato: era dunque incontrastabilmente più mite la censura austriaca! Nulla dico della censura teatrale, che trovava spesso sufficiente guiderdone della sua ignoranza nel ridicolo di cui presso il popolo la coprivano le sue medesime insensate correzioni e mutilazioni.

E poiché ragiono della cura di mantenere quei popoli nell'ignoranza, non posso tacere aver essa fatto sì che fossero trascurate le altre istituzioni, le quali presso ogni popolo civile sono primo pensiero d'ogni buon governo; e impedì pure che altre se ne introducessero, o avessero l'incremento alla civiltà dei tempi conforme, quelle cioè più di tutte a Napoli ne cessane, concernenti all'istruzione ed all'educazione popolare.

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Sforzi individuali tentarono bensì d'istituire gli asili d'infanzia, a malincuore, si può dire, del governo; e i liberali non tralasciarono anche colà di pigliarsi cura del popolo e di fare qualche prova per renderlo migliore. Se la loro opera fossesi potuta condurre a compimento e non avesse trovato opposizione nel governo, e in quella parte che fa norma delle sue azioni non il volere ma eziandio la simpatia del governo, forse il popolo meno rozzo e meno ignorante non sarebbe stato o vittima od istrumento delle maggiori improntitudini dei due estremi partiti. Nel 1842 questa impresa ebbe cominciamento, e con fatiche e stenti non pochi si aprirono quattro asili che in breve si ridussero a due; l'abbandono era cagionato appunto dal sapersi mal vista quella istituzione dalla Corte e dal governo.

Questo infatti contrariava o guastava tutto, e la mala amministrazione toglieva al povero, oltre ai sussidj della rigogliosa natura, quelli d'una carità che forse non ha pari. La miseria del popolo è tanto più lagrimevole quanto maggiori sono le proprietà del povero, cioè i luoghi pii o di pubblica beneficenza istituiti per sollevare la miseria. In un paese di fede rozza sì, ma in altri tempi vivissima, i lasciti dei privati che legavano le loro sostanze ai poveri erano cosa quotidiana, e a tale salirono, che si direbbe loro mercé impossibile del tutto la povertà in Napoli. Invero si calcola che il reddito annuo di quei lasciti, un sull'altro cumulati, nella città di Napoli non ascenda a meno di tre milioni di ducati, e i redditi sono avanzo d'istituzioni più ricche ancora.1 Questo è certo il più eloquente elogio della carità napoletana, ma forse una delle cagioni della più deplorabile incuria: quei redditi per mala amministrazione distratti nutrono caterve d'impiegati, e non possono a gran pezza supplire ai bisogni della pubblica miseria.

1 Vedi il Saggio Politico pubblicato da uno degli stessi ufficiali del ministero delle Finanze, Mauro Luigi Rotondo, che era lo scrittore economista ministeriale del marchese d'Andrea ministro delle Finanze.

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La beneficenza male amministrata suol diventare mai sempre protettrice d'ozio e vagabondaggio. Il Clero ha larga parte, in specie nelle Provincie, all'amministrazione dei luoghi pii e alla dispensa dell'elemosine, sopratutto dopo il decreto del 17 decembre 1832, cioè dei primi anni di regno di Ferdinando II. Non può tacersi che il regolamento dei principali luoghi di beneficenza è vizioso, a segno che possono i più di essi veramente appellarsi ricoveri d'ozio; e massime in ciò era riprovevole il reggimento interno dell'Albergo dei Poveri, la principale casa di mendicità che sia in Napoli, la quale racchiude fino 4,000 persone fra uomini e donne in un solo edificio, ed ha poi nella sua dipendenza altri stabilimenti minori, con una rendita complessiva di circa 250,000 ducati. L'Annunziata poi o la Casa dei Trovatelli, ricca di un reddito di 80,000 ducati,1 era pur essa male amministrata, e la Commisione di Statistica nel 1845 verificava che ne perivano (orribile a dirsi) non meno di 82 per cento. Tali cose o molte almeno non sono taciute dallo stesso cav. Bianchini, che stampava nel 1835 sotto la censura del governo napoletano; scrittore scevro al certo da ogni più remoto spirito d'opposizione, poiché ligio affatto al governo cui serviva, ma interprete talora delle rivalità fra i ministri. Gli Ospedali stessi erano cosi male e miserabilmente tenuti, che la Commissione medica formata dal Congresso degli Scienziati ed incaricata di visitarli, credè fin necessario farne rapporto al governo ed al re, che supponeva ragionevolmente ignaro di quelle nequizie. Mi si perdoni l'amarezza del vocabolo; ma altro nome veramente non merita lo aver ridotti a luoghi di abbandono i ricoveri della povertà e degl'infermi.

1 Nel 1820 il numero dei trovatelli era di 15,544.

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Il Santangelo ministro dell'Interno e presidente del Congresso, fece sopprimere negli atti quella relazione, e volle che tanta vergogna dell'amministrazione sua fosse celata, come già molte altre; né si sarebbe conosciuto il fatto, se i relatori stessi non lo avessero più tardi pubblicato, nel marzo del 184-6, negli Annali universali di medicina che vedevano la luce in Milano. Ned era senza ragione che il Santangelo era stato preposto dal re a quel Congresso. Non aveva voluto forse comparire più reazionario o più timido degli stessi Austriaci col proibirlo nei suoi Stati; ma provvide facendone presidente un ministro, ed un Santangelo. La condizione degli altri stabilimenti di beneficenza non era punto migliore; ma pessima sopratutto quella delle carceri. Ciò in gran parte dipendeva dai furti e dalla corruzione degl'impiegati, che speculavano su tutto per guadagnare; e lo stesso vitto e le vesti dei prigioni appaltate erano subbietto di grossi guadagni.

Non sarà discaro che su questo un poco mi soffermi. Quanta fosse nel regno napoletano la trascuranza in cui erano tenute le prigioni, è cosa che sorpassa del tutto il credibile. Antri di belve, o sepolture di viventi potevano bene appellarsi, rimaste com'erano nello stato nel quale trovavansi pur troppo tutte le prigioni in altri giorni, quando la civiltà progrediente non aveva ancora imposto di ridurle a luoghi di sicurezza sì, ma ad abitazioni di uomini. Nulla dirò della salubrità dei luoghi di pena, ma non posso tacere qual era l'interno sistema con che in tali caverne veniano tenuti quei miserabili. Ridotti allo stato più di bestie che di uomini, gli avresti veduti ammassati a centinaja (nelle prigioni della Vicaria se ne trovavano talora non meno di 700) ammontichiati in ampj saloni, nudi le membra,

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perché gli appaltatori dei vestiarj non a questi provvedevano ma al proprio guadagno, e perché essi medesimi li vendevano per piccola moneta; senza tavole su cui riposare le membra stanche, sdrajati la notte sull'umido suolo, procacciandosi un poco di calore non con altro che col contatto reciproco delle membra. Tacerò delle nefandezze di ogni genere, frutto di cotanto abbrutimento. Simili veramente quei miseri a un'orda di selvaggi rinchiusi, privi perù del gran compenso di questi, cioè la libertà delle selve e la padronanza dell'ampio deserto, sentono anche più di loro la necessità d'una regola, dirò quasi d'un governo, a fine di portare un'imitazione di ordine in mezzo a questo spaventoso pandemonio. Cose comuni al certo in tutte le prigioni sono tali ordinamenti ed associazioni, ma in Napoli sono più bestiali quanto maggiore è l'abbrutimento di quelle genti sotterrate vive. I capi di questo governo di galeotti appellansi i camurristi, i quali possono dirsi giudici delle questioni che sorgono fra loro; e come è naturale, la maggiore tristizia e il maggior numero di delltti, e insieme la maggior forza fisica, sono i meriti che procacciano il grado e l'onore di camurrista. È quello invero il regno della forza. Il capo dei camurristi dispone dispoticamente e a suo talento delle rare e lacere vesti e del denaro d'ognuno, giudica inappellabilmente e condanna a severe punizioni e fino a ferimenti coloro che a lui pajono colpevoli. Tolti all'umano consorzio, senza mezzo di migliorarsi, repudiati dalla società, ne formano essi là dentro una novella; una società, stetti per dire, d'antropofagi. Tal è lo stato delle prigioni napoletane, mentre non havvi nazione sì in Europa come in America, la quale non abbia fatto subbietto alle disquisizioni della scienza, alle cure della carità cittadina e al dovere governativo, il miglioramento materiale e morale di quei luoghi, che non dovrebbero essere destinati solo alla sicurezza della società ed alla punizione degli scellerati, ma eziandio alla possibile loro rigenerazione.

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Questo abbandono conveniva alla polizia napoletana; e perciò il governo non giudicava mai che l'erario avesse modo di disporre la somma ai miglioramenti necessaria, benché non il dovere solo, ma un odioso confronto e la vergogna lo sospingessero più volte a comandarli. Infatti trovavasi in gravi imbarazzi, quando giungevano a Napoli stranieri incaricati dai loro governi di studiare (essendo questo studio in onore) le condizioni di quei luoghi di pena, per farne materia di disamina e di confronti. A questi come a chicchessia negavasi per lo più il permesso di visitarli, perché quell'obbrobrio non si facesse al mondo manifesto. Non che talora non dovesse arrendersi alla raccomandazione di chi gli spediva, e alla vergogna che sentiva nel dare una ripulsa, la quale poteva interpretarsi come una confessione di colposa incuria. Quindi è che nel 1839 Carlo Lucas ebbe modo di visitare quegli antri; e la trista impressione che ne riportò non si potò altrimenti dal governo napoletano attenuare, se non facendogli larghe promesse e manifestandogli le più belle e civili intenzioni di prossimi miglioramenti. Vane parole e politici accorgimenti! Nel decembre del 1845 giungeva infatti da Parigi monsieur Boilay, uno degl'ispettori generali delle prigioni di Francia, inviato dal Guizot per istudiare lo stato delle prigioni napoletane; ed ottenuto con incredibili stenti il permesso di vedere quei luoghi di pena, ne rimase per tal guisa inorridito, che all'uscire dalle prigioni della Vicaria, spaventato, e bagnata la fronte di un nero sudore, sclamò:

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«Ma questa è una bolgia d'inferno!» 1 E di somigliante espressione si servì nel rapporto che poco stante inviò a Parigi al ministro Guizot, nel quale partitamente espose l'orrendo e dirò anche pericoloso spettacolo cui aveva assistito.

Né queste furono le sole cagioni di pubblico malcontento. Durante questo regno poco operossi per far prosperare l'interno dello Stato. Le strade che sono le vene del commercio, chieste dai sudditi e specialmente decretate dai consigli provinciali, non vennero compiute mai né in proporzione dei bisogni, né in proporzione dei desiderj. Talora eziandio le somme destinate a ciò dai consigli provinciali stessi erano dal governo arbitrariamente erogate in altri usi. Per tal modo la provincia di Lecce avendo raccolto con sacriflzj non tenui l'ingente somma di 300,000 ducati, e stabilito di compiere con quelli le strade della sua provincia al proprio commercio necessarie, nol potè con grave suo danno; poiché il ministro dell'Interno Santangelo per compiacere al re s'impadronì di quel danaro, e lo consumò nel prosciugamento delle maremme intorno a Brindisi, e nel cominciamento dei lavori necessarj (che dovevano ascendere a qualche milione) per tornare il porto di Brindisi qual era al tempo dei Romani, per farne poi scalo principale del commercio di Levante. Opera invero grandiosa e dal re vagheggiata, ma all'utilità della quale era stolta idea sacrificare utili certi, e ingiusta cosa intraprenderla col danno e coi denari altrui. Così dei beneflcj del commercio libero e dei numerosi trattati con l'estero non poté giovarsi l'agricoltura, e le migliori istituzioni furono travisate, rese inefficaci o mandate in ruina. Il regno di Napoli, ricco di ogni specie di prodotti, il cui suolo è in molte provincie di una feracità che non ha pari in Italia, trovossi infino nel 1846 (incredibile a dirsi!) a mancare di pane per deficienza di strade, e per ignoranza dei governanti.

1 Gouffre d'enfer.

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E qui non dee passarsi sotto silenzio come nei primi anni di regno di Ferdinando II la fiducia rinata per le speranze concepite in lui, anzi che far presentire cotanta miseria ed avvilimento,avesse destato quasi una gara di miglioramenti materiali, e sollevato nei commercianti e nei possidenti uno spirito di associazione, pel quale solamente le grandi imprese si compiono, e la prosperità d'uno Stato può crescere a vaste proporzioni. Vane erano riuscite per lo innanzi durante il regno di Francesco I tutte le prove tentate per raccogliere i capitali necessarj a fondare banche, che potessero poi volgerli in pro della pubblica ricchezza e ad incremento dell'industria e del commercio; né dopo quanto narrai dello stato del regno napoletano a quei giorni, ciò deve fare ad alcuno maraviglia. La prima banca fu appunto fondata sul cominciamento di regno di Ferdinando II nel 1831, e fu la banca fruttuaria, che raccolse non meno di 600,000 ducati divisi in 10,000 azioni; ad esempio di questa altre molte se ne formarono, e i capitali che per tal guisa si riunirono ascesero a molti milioni di ducati. Quei capitali adunati dalle banche e dalle Società Anonime e destinati allo incremento progressivo di tutte le industrie (coi quali, oltre l'assicurazione e l'incremento del commercio marittimo, si aveva in mira di promuovere l'esito dei prodotti delle ricche terre napoletane, non che la formazione di fabbriche d'ogni specie, di filande in singolar modo e di raffinerie di zucchero, e infine l'introduzione di novelle utili colture, cui dava speranza di buona riuscita la feracità del suolo napoletano, come la coltura della robbia), si accumularono con una gara che può dirsi favolosa per mezzo di azioni. Queste in forza non solo delle speranze concepite, ma della lealtà e buon volere che appariva nel governo, il quale sembrava proteggere siffatte istituzioni,

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crebbero di valore grandemente, come sempre in tali casi suole accadere.1 Frattanto per impiegare capitali così ingenti e non lasciarli inoperosi nelle casse a danno dei contribuenti, cominciossi da quelle Compagnie a scontare pensioni e soldi agl'impiegati governativi ed ai militari; e questi sconti facevansi con utile della Società, ma non senza rischi gravissimi. Erano veri contratti d'assicurazione, poiché coloro che così scontavano i loro soldi e cedevano i loro crediti sul governo, cedevano crediti di molto incerta durata; sì perché la vita dei contraenti non era sicura, sì ancora (che più è) perché l'impiego o il grado poteva essere loro sempre ritolto dal governo. Erano contratti onerosissimi codesti, e ne parlo volentieri, perché danno quasi un adequato ragguaglio dell'illimitata fiducia onde allora godeva il governo napoletano presso i suoi sudditi, confortati dai primi atti del re e dalle disposizioni che dell'animo suo e delle sue intenzioni per quelli apparivano. Ma avendo alcuni suoi favoriti ufficiali dell'esercito assicurato per tal modo i loro soldi, e credutisi danneggiati dai patti onerosi a che avevano dovuto soggiacere (patti imposti in parte dai rischi sopraccennati), denunciarono al re quei contratti come usure; il re proclive a dare ascolto a somiglianti ragioni, fatto il caso di coscienza col suo confessore, credè esser tali, e come illeciti li condannò ed annullò: non considerando punto né l'equità che pur vi era per il rischio cui andava sottoposta la parte assicuratrice, nè, che più monta, l'inviolabilità di contratti fatti, né la ruina delle banche che all'atto arbitrario sarebbe seguita, e quindi il danno funesto dell'industria dello Stato, la quale riponeva tutte le sue speranze nella sicurezza e prosperità di quelle banche. Il 17 febbrajo del 1834 usciva un sovrano rescritto in questi termini:

1 Fino al centotrenta.

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«che restava proibito alle banche, società anonime ed altri corpi, di anticipare agl'impiegati soldi, pensioni, o altri assegnamenti provenienti dal regio erario; che per coloro i quali avessero preso in anticipazione più di sei mesi di quei soldi, pensioni e assegnamenti, fosse proibito ai pubblici ragionieri di continuare le ritenute in favore delle società, oltre delle somme di sei mesi.» Ognuno può imaginare, quale scossa fosse questa al credito pubblico. Tutti quegli stabilimenti minacciarono d'un tratto ruina e fallimento, e ottennero solo a titolo di grazia e per iscemare cotanto danno, in cui persone d'ogni classe erano involte, di poter ridurre il premio di vita a un quarto meno di quello già stabilito, e l'interesse del denaro prestato al solo tre per cento. Il fallimento non si compiè meno per questo; e i danni riuscirono incalcolabili per tutti, eziandio per alcuni che furono poscia favoriti del principe, i quali ebbero a perdere per cotale atto inaudito d'arbitrio ingenti capitali da loro collocati in quelle speculazioni. Così perito il pubblico e privato credito, vennero meno quegli stabilimenti, che erano riusciti dal 1831 al 1834 a riunire una somma di oltre a cinque milioni di ducati (quelli esistenti nel 1831 non avevano che 1,051,100 ducati) e si confidavano, anzi erano quasi certi di riunirne più di altrettanti in breve tempo; e con quelli stabilimenti svanirono pure tutte le speranze che in essi da tutti si collocavano per la prosperità del regno. Questo fatto fu, com'è naturale, sorgente di malcontenti infiniti, e non ingiusti. La mala amministrazione della pubblica cosa, e l'abbandono o mal governo di ciò che alla ricchezza pubblica concerne, crebbe poi sempre.

Le strade ferrate principiaronsi nel regno più per esperimento piacevole e per comodo regio che per utilità vera del commercio nazionale; ma quando la grande questione della rete ferrata italica cominciò a discutersi, il re di Napoli ancora ne parve scosso.

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Si avvicinavano i giorni solenni dell'Italia, e la lotta fra Austria e Piemonte stabilivasi appunto, come altrove largamente discorsi, sul sistema da tenersi per la rete delle strade ferrate in Italia. Voleva la prima un sistema che raddoppiasse le catene della Penisola, e gliene assicurasse la soggezione; voleva il secondo un sistema che ne preparasse l'emancipazione, dandole modo di potere esistere per sé, di collegare le sparte membra, e di non essere più sotto l'esclusivo ascendente dell'Austria. In quel tempo una Compagnia di cui si diceva capo un ingegnere napoletano, il Melisurgo, il quale erasi associato i negozianti inglesi Pook e Carvalho, sollecitava dal re di Napoli una concessione della strada di Brindisi che sembrava destinata a compiere la rete ferrata italica ed era contrariata dall'Austria. Il re, timoroso dell'influsso inglese, sospettava che potesse crescere a dismisura, quando l'Inghilterra interessata quanto i governi della Penisola nel sistema di strade odioso all'Austria si fosse potuta impadronire della gran linea che doveva percorrere i suoi Stati; ma credendo di veder lusingato il suo e l'amor proprio del regno nel concedere il privilegio ad una Compagnia che per il nome del suo capo appariva napoletana, e quindi non poteva in verun modo e per verun titolo sottrarsi al dominio e all'azione del suo governo, potendo in pari tempo rimanere esente da ogni influsso straniero, aderì alle istanze del Melisurgo. Piaceva poi al re sulle istanze del Santangelo di dare al Melisurgo la concessione sollecitata, perché il suo governo era ognora propenso, per la consueta imprevidenza, a favorire ciecamente colui che offriva patti nell'apparenza più vantaggiosi e meno onerosi per lo Stato; non comprendendo che per tal guisa sarebbero sempre state preferite quelle Compagnie, le quali altro scopo non avevano se non di speculare sulle azioni e sulla concessione, senza alcuna seria volontà d'intraprendere la costruzione della linea domandata.

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Ciò accadde veramente', ed era agevole prevederlo. Inoltre il Santangelo, facendo dare la concessione d'una impresa senza apparente sacrificio del governo, si procacciava presso il re stima d'uomo necessario, e si valeva di questa per vincerla contro gli altri ministri che gli avevano mosso guerra in quei giorni, nei quali il gabinetto napoletano si travagliava in compiuta dissoluzione. Questi oppositori erano, come già dissi, i suoi compagni e rivali Pietracatella e Fortunato. Ai 2 marzo 1846 il re concedeva dunque il privilegio di una parte di quella strada ferrata alla Compagnia Melisurgo, con la'  promessa di poterla poscia proseguire fino a Brindisi. Il governo austriaco, il quale non avrebbe mai voluto che il re di Napoli pensasse alla linea longitudinale e desiderava si restringesse a formare la comunicazione dei due mari da Napoli a Manfredonia, non fu certo favorito dal reale decreto; ma questo era in pari tempo contrario all'interesse nazionale, perché poneva la concessione in mani che non avrebbero potuto giammai compierla. Il che non fu opera di malizia, ma bensì prodotto delle cagioni che accennai sopra. Cosi quel decreto del re rimase inefficace, e svanì la speranza degli economisti italiani; i quali eransi confidati veder compiuta una strada longitudinale non interrotta da Arona ad Otranto, o almeno a Brindisi, che abbreviando le distanze e rendendo più frequenti i contatti da un'estremità all'altra d'Italia, cominciasse la lenta fusione degl'interessi, pegno di fusione maggiore politica, cioè di federazione fra i due Stati maggiori della Penisola. In tale occasione, per il modo con cui da lungi si sogliono apprezzare fuor del vero i fatti, il re ebbe la sua parte degli applausi dei liberali intelligenti, e quelli specialmente più stimabili di tutti che gli vennero tributati da Ilarione Petitti e da Cesare Balbo.

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La volontà di far prosperare i suoi Stati non mancava certo nel re; ma negl'istrumenti che adoprava, difettava assolutamente il consiglio. Il governo inglese non era estraneo a questa lotta, e lord Palmerston teneva l'occhio fisso al possibile incremento della prosperità italica nel Mediterraneo. Né poteva essere altrimenti; imperocché nella questione delle strade ferrate agitandosi quella della sicurezza e celerità del trasporto della valigia delle Indie, trovavansi gl'interessi inglesi mirabilmente d'accordo con gl'italiani, nell'evitare cioè le linee austriache come più lunghe, e come quelle che presentavano agl'Inglesi il grave imbarazzo di dover transitare in caso di guerra o di minaccia di guerra per il territorio di un potentato di prim'ordine, forse nemico o amico non sincero e mal fido. Il Waghorn adunque fu spedito più lardi a Napoli, e propose a quel governo di concedere a qualche Società inglese il privilegio di costruire la strada di Brindisi, poiché la Compagnia del Melisurgo non aveva corrisposto alle concepite speranze; e quelle proposte erano aiutate dall'incaricato inglese Sir Tempie, il quale faceva chiaramente presentire i soccorsi che il suo nobile fratello lord Palmerston non avrebbe trascurato di fornire all'impresa. Qui non devo tacere tali cose, sebbene al 1847 appartengano, poiché nei Capitoli che riguardano il Piemonte parlai ampiamente di siffatte questioni, ancora in quanto si riferisce a quel tempo. Accenno dunque di volo come il disegno del Waghorn fosse pienamente secondo gl'interessi italici, qual cioè veniva predicato necessario dagli economisti piemontesi e combattuto dai giornali che il governo austriaco aveva preso ai suoi stipendj per combatterli, vale a dire ostile del tutto all'Austria;

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a tal segno da proporre perfino di evitare il transito per quei piccoli Stati, che sembravano voler accomunare ed identificare la loro alla sorte dell'impero austriaco, i ducati cioè di Modena e di Parma. Proponeva infatti d'interrompere la strada a Viareggio, e stabilire un servizio di battelli a vapore da quella spiaggia sino alla foce della Magra. I sospetti da me notati contro l'Inghilterra, alimentati nel re da chi aveva caro che la proposta del Waghorn non fosse ascoltata, e i rancori dei ministri contro il Santangelo fecero si che tale proposta venisse respinta. Il re adunato il Consiglio votò contro la proposta inglese con la maggioranza dei ministri, non eccettuato il Del Carretto. Fatale risoluzione!

L'interna prosperità aveva per colpa dei ministri le ali tarpate, e tutto languiva nella miseria. I dazj erano gravosi e malamente amministrati, ed il loro prodotto non rifluiva sulla nazione ad accrescerne ed ajutarne la prosperità. Aristocrazia rovinata in parte, e perciò servile e cortigiana, rifuggentesi nelle sole vanità di Corte: medio ceto non ancora tanto forte da avere grande influsso, e plebe numerosa ed ignorante nella capitale: nelle provincie o piccoli possidenti gravati di dazj ed isolati nei loro paesi senza modo di potere comodamente trasportare le merci e i prodotti del loro suolo, stagnanti per colpa del governo, e che non essendo da questo agevolati i trasporti, perdevano ogni giorno di valore; o pochi grossi possidenti, cresciuti sovente per le usurpazioni delle terre demaniali, i quali dominavano la provincia intiera, e la cui fortuna era più a danno che a vantaggio dei paesi e de'  piccoli possessori.

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Così trovavasi e trovasi tuttavia nelle provincie del regno miseria di molti accanto all'opulenza dì pochi: oltre che l'agricoltura è depressa non solo per le ragioni indicate, ma si ancora per la schiavitù a cui sono ridotti i coloni e per l'ignoranza assoluta di tutte le buone pratiche agrarie. Vaste estensioni di alcune provincie sono più delle altre sempre rimaste in perfetto abbandono: e quanto a queste, non posso passare sotto silenzio che la colpa è interamente del governo, perché sono proprietà del demanio pubblico o dei Comuni, e quindi potrebbero essere possente mezzo di popolare e nazionale ricchezza. È d'uopo rammentare in primo luogo l'immensa superficie di terre che costituisce il così detto Tavoliere di Puglia; patrimonio del governo napoletano da oltre tre secoli e mezzo, essendoselo appropriato gli Aragonesi nel secolo XV, quando desolate quelle provincie da una peste micidiale rimasero deserte e vuote di abitatori. I governi che in Napoli l'uno all'altro sino al francese successero, poco o nulla operarono per restituire alla coltura quei terreni, in molta parte abbandonati al pascolo delle greggie. Una fida, come suole appellarsi, pagata all'erario per il dritto di pascere, costituì per lo innanzi l'unico reddito a profitto di questo: molte terre si erano poi date a censo, e nel 1805 si promulgò una legge, cui altre successero dirette ad agevolare l'affrancamento di quei canoni, affinché liberando la proprietà del suolo fosse questo più agevolmente ridotto a coltura. Se il governo francese non potè operare ciò, seppe almeno migliorare l'amministrazione del Tavoliere, e far sì che rendesse all'erario non meno di un mezzo milione di ducati annui. Non parlerò delle improvvide leggi fatte in appresso dal governo restaurato, dalle quali la santità dei contratti fu violata per sanarne (sono precisi termini, benché incredibili, della legge dei 13 gennajo 1817) i visi per effetto della pienezza della sovrana potestà; e non dirò come la condizione economica di quelle provincie fosse ridotta allo stato più miserabile.

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La progressiva decadenza della pastorizia stessa,la diminuzione dei bestiami, non che l'abbandono della coltura, era a tale nel 1821, che conveniva sequestrare in pegno del livello dovuto all'erario il grano raccolto, e quindi restituire una parte del pegno, perché gli enflteuti avessero modo di seminare. La ruina crebbe progressivamente sì negli ultimi anni di regno di Ferdinando I come durante il regno di Francesco, malgrado delle buone intenzioni speciali che pure erano state da questo mostrate innanzi di salire al trono. Anche per il Tavoliere di Puglia, come per tutto il rimanente, grandi speranze di miglioramenti eransi concepite nell'inalzamento di Ferdinando II, allorché in specie l'industria napoletana sembrava volesse sollevarsi pei soccorsi e incoraggiamenti governativi. Quelle speranze ragionevolmente aumentarono, vedendo dal re lasciato libero campo alla pubblica discussione col mezzo delle stampe su ciò che riferivasi al miglioramento delle Puglie: cosa nuova e tolleranza reputata liberale, stante il rigoroso silenzio finallora imposto sopra tutto quello che comunque riguardava gl'interessi del regno. Ma anche questo fu lampo che sparì dopo avere momentaneamente guizzato nelle tenebre, quasi a rischiararne e addimostrarne l'oscura profondità. Le discussioni fatte tornarono inutili al governo e al paese; e quando più dispotico si fece il governo, quella libertà non venne più da lui conceduta, come quando l'industria fu depressa nei modi che accennai, non fu forse neppure cercata o curata dagli economisti.

Già dissi che il re voleva sinceramente il bene materiale del paese.

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E mezzo precipuo dopo tre lustri di regno gli parve giustamente potessero essere i trattati di commercio, per cui fossero tolti o diminuiti i gravissimi dazj differenziali che danneggiavano nei porti esteri di alcuni Stati la bandiera napoletana. Il re adunque elesse tre plenipotenziarj a concludere in suo nome quei trattati, ma volle si fermassero in Napoli per potere da sé medesimo tener d'occhio questa operazione che a ragione stimava vitale per il regno intero: i plenipotenziarj furono Giustino Fortunato e il principe di Comitini ministri senza portafoglio, ed Antonio Spinelli di Scalèa soprintendente degli archivi generali del regno e consultore, uomo di natura più dei due primi indipendente, e che in altri tempi vedremo ministro.

Né ciò basta. Il re sempre fermo nell'idea medesima, allorché Roberto Peel propose e vinse nel parlamento inglese la celebrata legge finanziera della diminuzione dei dazj sui cereali e delle tariffe doganali, volle anch'egli imitarne l'esempio in parte, cioè in quanto alle tariffe doganali. Questa opera arrecò bensì qualche sollievo ai consumatori, ma non essendo stata condotta con principj veri e saldi di buona scienza economica, e ondeggiando secondo un empirismo economico fra il libero cambio e le teorie protezioniste, nocque anzi che giovare alle industrie manifatturiere del regno. Invero le buone volontà del re non erano sempre, come avrebbero potuto essere, efficaci, perché tenuti in non cale gli uomini di buone dottrine, l'ignoranza dei favoriti e l'intrigo si frapponevano, e, che è peggio, l'arbitrio guastava tutto.

L'impronta dell'arbitrio parve in singolar modo e fu esiziale nei provvedimenti che dal re ad istigazione del principe di Comitini si volle fossero presi nel 1815 circa il debito pubblico, per farne una diminuzione e agevolarne l'estinzione.

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Cresciuto allora, in grazia della fiducia, a prezzi elevati (il cinque per cento fino al centododici), e contrattato a tali prezzi nella Borsa, si volle dal re che annualmente si estraesse un numero d'iscrizioni alla sorte, per estinguerle alla pari; la qual cosa recava perdita enorme ai possessori delle medesime e discredito allo stesso pubblico debito, che tutto cadde di prezzo, stante il pericolo della sorte da cui era annualmente minacciato. Cotal provvedimento fu in Napoli tanto più fatale, in quanto che non esistendo in quella città Casse di Risparmio od altre istituzioni somiglianti, e potendosi iscrivere sul Gran Libro anche per un ducato di rendita, quella perdita doveva, come accadde, essere sopportata non solo dal piccolo possidente, ma pur dal povero che aveavi collocato i suoi risparmj; e doveva quasi per intiero colpire i sudditi napoletani; imperocché il credito precedentemente goduto dal pubblico debito aveva fatto sì che le iscrizioni sul Gran Libro (benché i prestiti fossero stati contrattati all'estero per mezzo di banchieri) fossero ritornate in gran parte nelle mani dei Napoletani; i quali avevano per tal guisa impiegato i loro capitali e i piccoli risparmj di ciascuno in modo da essi creduto sicuro e ad un tempo vantaggioso.

Certo il regno di Napoli per la sua posizione geografica, per la ricchezza interna, per i trattati di commercio vantaggiosamente conclusi, e per l'incremento delle sue forze marittime (che pur si fece in cotanto universale abbandono per opera e volontà del re tardiva sì, cioè nel secondo periodo del suo regno, ma attiva e nei suoi risultati felice), avrebbe potuto occupare un posto primario fra le nazioni di second'ordine commercianti specialmente nel Mediterraneo. Ricco di numerosi ed arditi marinari, sarebbe stato in grado di far gareggiare nei più lontani Oceani con quella di molte altre nazioni la sua bandiera, la quale va fino all'Attantico e al Pacifico, ma scarsa e non come potrebbe, perché le condizioni d'interna prosperità mancavano od erano venute meno.

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Agricoltura avvilita, medio ceto non ancor forte quanto era necessario, amministrazione ignorante, furono appunto le tre cause che contrariarono l'incremento del commercio del regno, a dispetto dei doni della natura, dell'ambizione e della voglia del re, la quale non può in verun modo mettersi in dubbio da chicchessia.

L'unica cosa cui il re pose vero amore, fu l'esercito. Quali fossero le sue mire in questo non tacqui; ma non può né dee negarsi, che ne ampliò gli ordini, che lo rese più forte numericamente, più severamente ma apparentemente disciplinato e materialmente più istrutto. Niun principio, tranne la passiva ubbidienza, informava quella truppa: senonché l'amore per un re di Stato secondario, che non aveva probabilità d'essere in guerra con alcuno, non era certo sufficiente esca d'entusiasmo e di generose passioni. La passiva ubbidienza in un esercito di un grande Stato può essere ottimo mezzo a tenerlo compatto, quando e finché ne è possentemente eccitato l'orgoglio dalla coscienza di appartenere e di formare la forza o di una grande nazione, o di un principe temuto; ma nulla di tutto questo poteva dire l'esercito napoletano, ridotto a semplice strumento di governativa compressione. Esso sentiva gratitudine per il re, perché era stato da lui sollevato dall'avvilimento, e andava superbo di essere la sua prediletta occupazione: il re sovente mescolato nelle file del soldato, imitandone anche i semplici atti e le soldatesche maniere, ne riscuoteva ammirazione e simpatia, che non era certo entusiasmo, ma poteva forse all'occasione diventarne elemento. Le tradizioni italiane dell'esercito peraltro non rivissero, eppure sarebbero state le sole, che avrebbero potuto sollevarlo e destare in esso ambizioni giuste e nobili emulazioni: le quali ambizioni accomunate col re potevano essere e sarebbero state fonte di vero entusiasmo verso di lui.

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Esse avrebbero suscitato l'amor proprio, dato un significato alla bandiera, che è al soldato insegna vana e muta, quando non rammenta o glorie passate o speranze avvenire, ed avrebbero affezionato a quella il milite napoletano; poiché l'onore della bandiera era il solo capace, più che l'affezione ad un uomo, per le condizioni in cui l'esercito trovavasi, di ridurre veri soldati i coscritti napoletani. Ma la formazione d'un esercito bene ordinato a Napoli fu ciononostante un fatto di grave importanza nazionale; e non è sua la colpa, se i difetti che ho accennato lo resero più tardi inutile alla patria. Ho detto inutile, e forse doveva dire dannoso, e, che è peggio, in altri tempi odiato anche da quelli, dei quali poteva e doveva essere, anzi era stato, il vanto. Questo esercito fu adunque bene istruito, ed il re si compiaceva occuparsene da sé medesimo, come quegli che della manovra militare era intendente a bastanza. L'artiglieria singolarmente era dotata di abili ufficiali, l'ingegneria militare fornita di tutto il bisognevole, la cavalleria bella e gagliarda, tutto l'esercito vestito ed equipaggiato in modo da appagare la vista e da soddisfare pienamente i più scrupolosi e valenti nell'arte. I generali erano tutti vecchi; e se i più di essi militarono col Murat, avevano dalla memoria quasi cancellate le tradizioni di quei giorni, e modificate le loro opinioni. Diventati la maggior parte uomini di Corte, si dedicarono agl'intrighi ed ai maneggi, anzi che agli studj e all'esercizio delle armi; e quantunque alcuni di loro fossero senza dubbio abili e valorosi, mancavano di quell'aureola che rende veramente rispettabile il nobile carattere d'un prode soldato, l'indipendenza.

Quello però che manteneva l'esercito sempre in equivoca condizione, se non come prima in avvilimento, si era la presenza permanente delle soldatesche svizzere, meglio pagate e più fastosamente vestite delle nazionali;

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le quali trovandosi in tal guisa al secondo posto, non potevano neppur sentire la vanagloria di essere la forza vera d'un regno italiano di nove milioni d'abitanti. Gli Svizzeri ed i gendarmi erano la forza che il re prediligeva, come quella che lo rassicurava contro gl'interni mali, il cui perpetuo timore gli consigliava cotale atto di diffidenza verso l'esercito. Che i generali napoletani non sentissero il peso di questa onta, o palesemente facessero le viste di non sentirlo, io non so veramente comprendere. Nel regno di Napoli la truppa si forma colla coscrizione: i soldati servono sei anni, per altrettanti possono essere richiamati sotto le armi. Sicilia esente dalla coscrizione dava solo volontarj, e di questi eranvi due reggimenti arruolati fino dal regno di Francesco, che si tennero per fidi, ed erano gente pessima e corrottissima, in parte avanzo delle carceri. Tuttavia erano comandati da giovani ufficiali, i quali, se non avevano alcun merito militare, avevano educazione e amor proprio, e volevano in certo modo rivendicare la loro nascita soldatesca per via del danaro e della condizione siciliana. Le forze marittime ancor esse, dopo la trascuranza dei primi anni di regno di Ferdinando II, più tardi crebbero, e massimamente la marineria a vapore si fece la più poderosa di quante ne possedessero Stati di second'ordine, e di quante solcassero le acque del Mediterraneo. Essa però sembrava chiedere ed aspettare che sorgesse un ammiraglio Caracciolo, vendicatore di quell'eroe, il quale n'elevasse di nuovo la riputazione, e la rendesse debitamente rispettata. L'abbandono dei primi anni di regno era stato deplorabile: causato da imperizia e difetto di cognizioni speciali dell'arte che impediva al re di potersene occupare da sé stesso, produsse irreparabili danni.

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La scuola di marina, dell'antica e gloriosa marina napoletana, era stata interrotta, e più che i legni disarmati e giacenti nei porti, gl'intendenti piangevano il successivo scomparire degli ufficiali; i quali non lasciavano allievi, oltre che i rimanenti viveano condannati a un ozio infingardo. Chiuso il collegio di marina, non venne poi ripristinato, se non quando il re volle la riattivazione di quanto riferivasi alla marineria, e l'incremento delle forze già abbandonate, e singolarmente l'armamento dei battelli a vapore, per la convinzione ingenerata dopo i fatti di quell'anno nell'animo suo, che solo con quel mezzo avrebbe potuto tenere in soggezione della sua Corona la Sicilia. Anche la marina, come l'esercito, venne quindi destinata a fine di compressione; e si dee convenire che l'accorgimento politico del re intorno a questo ebbe, come tale, pieni resultati.

Ma nell'esercito e nella marina soltanto non consistevano le forze materiali carezzate dal re e su cui poteva far contò, per sicurezza sua e del suo governo, contro i malcontenti antichi e nuovi che continuamente ne minacciavano la tranquillità. Eravi la Guardia urbana in tutte le provincie, armata e obbligata a sussidiare le truppe di linea, o a supplire alle medesime col restare anche in guernigione nelle città ove quelle non erano. L'ordinamento di questa guardia era tale che veramente poteva dirsi nel suo complesso una fazione armata: anzi era tale del tutto, perché composta sol del partito devoto ciecamente al governo e nemico di ogni miglioramento per ignoranza; partito che non può mancare giammai in paesi rozzi e scissi per lunga stagione da fazioni politiche. Niun milite era ammesso nella guardia senza essere stata prima disaminata la sua vita da severissimo scrutinio; e il capo urbano (così s'appellò) d'ogni Comune doveva essere tal uomo che potesse dare evidente prova d'aver reso servigio sincero alla Casa dei Reali di Borbone.

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Ordinamento di partito era questo e quasi diramazione della polizia, perché la guardia urbana né al ministero della Guerra né a quello dell'Interno, ma sibbene a quel della Polizia era compiutamente ed esclusivamente soggetta. Cotale ordinamento nel suo scopo e in parte dei suoi modi pare che corrisponda a quello dei Centurioni stabilito dal cardinal Bernetti nel 1832 nelle Marche e nelle Romagne, e forse ne fu il modello. Le provincie sole avevano questa guardia; la capitale ne andava esente.

Nell'anno 1835 il re pensò non di estenderla alla capitale, ma di dare a questa un attestato apparente di fiducia con l'istituzione d'una guardia che avesse l'aspetto di guardia civica, senza dargliene però né il nome né molto meno la forma intrinseca. Si chiamò Guardia di sicurezza interna: il nome di guardia civica avrebbe rammentato il 1820, e il re volle evitarlo. Questo accadeva nei giorni che il suo governo era tuttavia temperato, e gli uomini proclivi a speranze; le quali furono brevi, perché nell'anno seguente cominciò il secondo e più doloroso periodo, dei due in cui già dissi potersi dividere la storia del regno di Ferdinando II innanzi al 1847. Questa guardia di sicurezza non aveva armi in casa; il re eleggeva a suo beneplacito tutti i gradi, e i ruoli venivano fatti dai comandanti scelti da lui. Erano circa ottomila gli addetti alla guardia, benché fosse costituita in guisa da portarne il numero fino a 12,000. Il Del Carretto sembrò incoraggiare questa istituzione, e la fece poi vassalla al suo Ministero. Il principe di Salerno ne ebbe il comando, e non vedevasi tutta riunita giammai, se non alla solenne annuale festa religiosa e militare chiamata di Piè di Grotta, destinata a celebrare la vittoria dell'esercito napoletano di Carlo III sugli Austriaci. L'essere il servizio in questa guardia obbligatorio per i cittadini, i quali trovavansi posti nei ruoli, fece sì che da molti fosse riguardata come un peso.

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Gli uomini del 1820 esaminandone l'ordinamento e notando il timore che il re ebbe di chiamarla con un antico nome, se ne sdegnarono e vollero anche tenerla per una derisione. I gradi furono non ostante ambiti da nobili e da cortigiani, spettacolo meschino non d'ambizione militare, ma di formosità; benché non mancassero alcuni giovani liberali che vollero farne parte e cercare gradi non solo per fiducia da essi riposta nelle apparenze, ma con la speranza di trarne un dì o l'altro profitto, e di cangiare in meglio questa istituzione. Nè tali speranze erano vane del tutto; od almeno non era irragionevole partito il prepararsi le armi, per così esprimermi, entro gli stessi arsenali del governo.

Ora riepilogando il fin qui detto sul governo di Ferdinando II di Borbone, posso concludere che non ostante alcune disposizioni dell'animo suo e le concepite speranze, esso governo fu mai sempre personale, e più tardi diviso con la polizia e col confessore. Da queste due forze distratto sovente in opposti lati: le pubbliche sostanze mal rispettate, e riguardate come regia proprietà: gli amministratori, gente spesso corrotta ed ignorante:1 gli studj non curati, e condannati alle torture ed all'inquisizione della censura: il commercio voluto proteggere per ambizione del re, e non saputo per ignoranza del governo: l'esercito forte e numeroso, ma inutile alla patria, non già perché devoto alla persona del re, ma perché non adoperato a pro del paese, sibbene esclusivamente alla sicurezza regia.

1 L'agitazione degli spiriti e il malcontento delle popolazioni del regno napoletano non erano ignoti al governo e al re; perciò le voci di congiure nelle Calabrie nella primavera del 1844 non lo lasciavano senza timore. Quelle congiure andarono a vuoto, come dissi, e il tentativo susseguente dei Calabresi non trovò consenso in provincie nelle quali, secondo le apparenze, doveva covare un gran fuoco sotto la cenere.

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La smania di autorità personale riuscì funesta a Ferdinando, perché cambiò il governo in polizia, e fece ricadere l'odiosità di tutto sulla persona del re, che quanto più trovasi esposta alle accuse, tanto meno è sicura. Perciò anche sotto un illuminato dispotismo i ministri intelligenti e devoti seppero ognora, quando furono onesti, prendere sopra di sé la responsabilità degli atti odiosi e toglierla al principe; ma questo a Napoli non segui, perché mal vezzo di quei ministri era lo accagionare il re degli atti contro cui facevasi richiamo da cittadini dolenti o danneggiati. Temé re Ferdinando II le idee liberali, come diminuzione di autorità regia: temé tutte le preponderanze, sia estere sia nazionali, perché diminuzione della forza sua. Era questa una idea immutabile e fissa che fu causa di tutte le ingiustizie e di tutte le persecuzioni, le quali fruttarono poscia al regno i mali che lo desolarono. Qual meraviglia che un popolo male amministrato, condannato all'ignoranza, avvilito e tolto dal consorzio delle nazioni civili, mormorasse?

Non deve tacersi come quell'apatia popolare e il vigore della repressione operata dall'autorità furono forse causate da un atto segreto di re Ferdinando II, che voglio testualmente riportare fra i Documenti, perché, se alla sua data si osservi, può spiegare in parte la ragione dell'esitanza del popolo e della sicurezza del governo, non che della prontezza di tutte le autorità a spegnere quella favilla d'incendio. Se si guardi allo scopo politico, spiega come a tempo sapesse il re versare su coloro che governavano in suo nome la responsabilità di quei mali, che erano cagione dell'universale malcontento; e infine se si consideri il suo senso letterale, è un ampia conferma nella bocca medesima del re di quanto fu per me detto a proposito del governo napoletano. Questo documento sconosciuto in Italia, e pure importante pel tempo in cui fu dettato, fu comunicato dal presidente del Consiglio dei ministri marchese di Pietracatella alle autorità del regno, sotto forma e titolo di Reale Rescritto, il giorno 11 maggio 1844. Vedi Doc. N° CCII.

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Non aveva il Napoletano neppure la soddisfazione che il governo austriaco lasciava al Lombardo, quella cioè di veder prosperare materialmente almeno la sua patria. La Lombardia era ricca, e Napoli pativa; né l'amministrazione, benché pessima, del governo austriaco era giunta a desolare le sue provincie, come delle napoletane non meno belle era accaduto.

Un mezzo avrebbero potuto avere per la parte amministrativa quei popoli di far giungere al trono i loro lamenti, e stava nei Consigli provinciali: ma la corruzione generale, l'inutilità delle domande e l'inefficacia delle preghiere, resero veramente in fatto, come già notai, nullo quel diritto di petizione così limitato alle cose dell'amministrazione delle provincie. Quanto al diritto però che racchiudeva, non cessava di essere una spina confitta nel profondo del cuore del re, cui sembrava, a cagione di quello, non essere al postutto né signore a bastanza, né a suo talento; e difatti, per mezzo del Santangelo mai sempre si adoperò alla maggiore soggezione dei Consigli. I quindici Consigli delle quindici Provincie del regno, non che i sette delle provincie sicule, negli ultimi anni (dopo il 1837) mandavano i loro atti al ministero dell'Interno, il quale ne riferiva al re, accompagnandoli con rapporti e con la propria opinione. Ferdinando poi tirava tutto a sé, e risolveva non in Consiglio di Stato ma in Conferenza, per aver sotto i suoi occhi questo che egli reputava pericoloso elemento del suo governo. Per tal cagione nelle nomine dei presidenti dei Consigli provinciali e distrettuali si sceglievano sempre persone devotissime al re; e le liste degli eligibili al grado di consigliere erano sempre rivedute dalla polizia, affinché ne fossero accuratamente esclusi tutti quelli, dei quali il governo non era contento.

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Ma qualunque governo, forte di qualsivoglia numero di soldatesche, può bensì chiudere il necessario sfogo alle legali rappresentanze, può con tal mezzo impedire le più giuste domande; ma non può cancellare i proprj doveri, spegnere gli altrui dritti, soffocare i sospiri d'un popolo. In queste compressioni anche impolitiche hanno la loro origine le congiure: in queste appunto ripongono le loro speranze i favoreggiatori delle esagerazioni, gli speculatori di disordini. La mala signoria di Napoli, erede veramente dell'infausta angioina, generò come quella, congiure e speranze pur degli estremi partiti. L'odiosità che durante il secondo periodo del regno di Ferdinando II il governo si procacciò, inasprì le vecchie piaghe, le antiche antipatie accrebbe, i rancori contro la dinastia aumentò; rancori peraltro indefiniti, i quali esprimevano soltanto un'idea negativa e quindi vana in sé, e che tutto, non che la natura stessa dei Napoletani, annunciava avrebbero fine in cospetto di una speranza fondata di poter costituire lo Stato sotto forma rappresentativa, ma in modo sicuro da novelli inganni e da sventure novelle per la patria. Non si vuol negare peraltro che questi rancori non fossero in Napoli l'ultima delle sventure di quel regno, e il più grave intoppo che incontrasse sulla sua via il partito liberale, costituzionale certo, ma nella sua più gran parte, anzi nella quasi totalità, sostanzialmente e lealmente monarchico.1

1 Vedi la nota (A) a pag. 385 di questo volume.

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CAPITOLO L.

CONGIURE NAPOLETANE.

Esaminate le cause, ragionerò alquanto degli effetti, e porrò sott'occhio ai lettori il frutto del mal governo di tre generazioni; riandando sommariamente le congiure fallite nel Regno dal 1821 in poi.

La terra dei vulcani romoreggiava minacciosa, e le materie combustibili si accumulavano nelle cupe e cavernose viscere della medesima. Che cosa fossero le Società segrete nel regno di Napoli innanzi la rivoluzione del 1820, è inutile replicare; l'opera per lunga stagione preparata dai Carbonari si manifestò in quei giorni. La reazione accrebbe i mali della nazione, ed il numero dei malcontenti si aumentò in proporzione delle persecuzioni. Queste erano dettate sia dalle Commissioni di scrutinio, sia dagli arbitrj della polizia: le prime avevano per base gli avvenimenti dei-tempo del reggimento costituzionale; gli altri prendevano occasione da ogni più lieve disordine, che tosto era travestito sotto le forme di politica congiura. Quanto il procedere della polizia napoletana fosse maisempre stolto, e come essa ampliasse ciecamente le sue vendette, si può a bastanza immaginare dal vedere che nella sola Sicilia per una congiura da lei supposta vennero imprigionate, secondo ci narra l'autorevole Palmieri, meglio di ventimila persone, le quali furono poi processate e trovate innocenti.

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Ma la Carboneria rimase sgomentata anch'essa dal prorompere della rivoluzione del 1820. È cosa naturalissima, che se un grande movimento politico fu prodotto da Società segrete, cessando quello, esse pure si dissolvono: il prestigio del mistero sparisce, gli uomini all'aperto si chiariscono per quel che veramente sono e per quel che valgono, molte illusioni sui medesimi e sulle cose cadono. Quello però che al cessare di quelle commozioni cresce e si diffonde, si è la verità dei principj, la cui compressione e persecuzione le ha occasionate, e il bisogno che talora le ha rese anche inevitabili. Quanto per una fallita rivoluzione perdono le sétte, altrettanto guadagnano i principj; il che specialmente avviene, se la reazione segue il naturale suo corso, e si porta, come il più delle volte suole, ai contrarj eccessi della rivoluzione. La Carboneria dunque fu sgominata dopo il 1820. L'esercito caduto in dispregio, molte gare e dissensioni suscitate, molte acerbe recriminazioni, molte vigliacche diserzioni, e lo sperpero degli uomini più autorevoli, parte gettati nelle prigioni, parte cacciati in esilio, ridussero la vera Carboneria, eccetto piccoli centri parziali, più che altro, ad una memoria. Ma quelle istituzioni costituzionali, le quali erano state desiderio degli aggregati a quella setta, possedute dal popolo del regno avevano avuto seguaci ed entusiasti approvatori moltissimi, che, tornato Ferdinando, ebbero a scontare la loro gioja col lutto e colla miseria. Quindi il numero dei malcontenti maggiore, il mormorio cupo ed il lamento, per poco interrotto, reso più universale ed acuto. Ma il governo rideva, e sperava col tempo far obbliare tutto, fin la viltà durante la rivoluzione, la fede non serbata e le vendette: mentre gli Austriaci, contenti di essere indirettamente padroni del regno, cercavano acquistarsi a danno del re Ferdinando I la gratitudine del popolo di Napoli, con l'allontanamento del Canosa, i cui successori però non furono punto migliori.

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Gli ultimi tre anni di Ferdinando I fecero degno séguito al 1799, e la loro storia sarebbe una pagina da disgradare quelle della sanguinosa rivoluzione francese. Il regno era desolato ed avvilito, quando egli scese nella tomba. Siccome la dominazione del figliuolo Francesco, la partenza degli Austriaci, ed il governo del Medici non ne migliorarono nulla la condizione, così il malcontento si accrebbe tuttavia. La partenza della forza estera (1825), la quale non è se non mezzo temporaneo e mal sicuro di compressione (perché sta nella coscienza dell'universale che la sua occupazione non può essere eterna, e perché in una nazione divisa, ove si combattono diversi e contrari influssi, è soggetto a molte crisi e pericoli); quella partenza dunque non fece che rialzare gli spiriti alquanto avviliti, ed appunto perché era reso men saldo l'ordinamento clandestino dalle sétte, i mali umori apparvero più aperti e più minacciosi. Il governo, partiti gli Austriaci, non si era fatto men crudo, né le persecuzioni divennero meno acerbe, come a suo luogo discorsi. L'amministrazione del regno, in tutte le diverse gerarchie dei suoi impiegati, si volle dal governo stabilire, direi quasi, in falange estirpatrice del liberalismo. Perciò ad ognuno di essi la persecuzione era comandata rigorosamente e minacciosamente sotto pena di essere eglino stessi riguardati come ribelli; e una Circolare che porta la data del 26 settembre 1826, la quale è in tali incredibili termini espressa, fu spedita a tutti gl'impiegati del regno. Così fra le lusinghe e le minaccio si aumentavano le braccia dei persecutori, e si sperava bandire una vera crociata antiliberale. Ma il malcontento che si manifestava, diceva al governo che mal si apponeva; e perché avendo piene le carceri, e disertate le case di liberali gettati raminghi in terre straniere, si era per poco creduto sicuro, si adirò e parve imaginare di esterminarli del tutto.

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La polizia richiese ed ebbe, nel 1827 da ogni provincia le liste di coloro che non si sperava far transigere col governo, il quale opprimeva la loro patria; nulla peraltro si osò contro di essi, perché i nomi denunciati in quelle liste Sillane superavano i centomila. Né questi erano già centomila Carbonari, ma centomila malcontenti ed adirati contro le nequizie che si commettevano, confessate poscia nei primi Manifesti suoi da Ferdinando II.

Dissi che i Carbonari erano disgregati e sgominati, benché non potessero credersi del tutto spenti; la qual cosa accadde più a Napoli che nel resto d'Italia, perché maggiore ivi era stata azione e reazione. Ove la rivoluzione non avea potuto prorompere, come negli Stati romani, rimasero tuttavia forti della loro forza, il mistero ed il segreto. Ma frattanto anche a Napoli molti vecchi Carbonari eccitavano e soffiavano in questi sempre crescenti rancori, tentando eziandio trarne profitto: a questi si deve in gran parte la rivolta che l'anno appresso, cioè nel 1828, fece centro nella provincia salernitana Principato Citeriore, e specialmente nel Cilento. Colà cercarono levare il grido di Costituzione, in mezzo ad una popolazione esacerbata dal tradimento e dai dolori che sopportava; idea non savia, come tutte quelle che mirano ad impegnare una grande causa in parziali e mal divisati tentativi. Ma non poteva negarsi la giustizia di quelle domande, e ciò era la cangrena che rodeva il governo di Napoli. Imperocché, se la pressura della forza, anche giunta all'estremo, non fa prorompere se non di rado e per cause accidentali una spontanea popolare rivoluzione, la giustizia conculcata è un fomite inestinguibile di agitazione, un vincolo che lega gli oppressi più saldamente ed in maggior numero d'un giuramento settario.

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I principali attori della rivolta salernitana furono i tre fratelli Capozzoli. Ben sei paesi della provincia gridarono la Costituzione, e fra questi il primo fu la patria dei tre fratelli, cioè Bosco nel distretto di Vallo: quindi Centola, Camarota, Licusati, Rocca Gloriosa, e San Giovanni a Piro. La giustizia aveva preparato questa rivolta, le residue Vendite dei Carbonari l'avevano disciplinata, ed il fremito delle pubbliche sofferenze avevala fatta prorompere. Il governo di Francesco I se ne atterrì, o s'infinse; e spiegò contro di essa, quantunque ristretta ad una provincia ed a paesi anzi che a città, una forza d'armi terribile. In questo non poteva dirsi che non fosse coerente a sé stesso: poiché se contro congiure imaginarie tanto accanimento per lui si adoperava, se a cagione di quelle si empivano di dolori, di terrore e di costernazione le Calabrie, che cosa doveva farsi per una che non poteva negarsi essere veramente ribellione armata? Era bensì questa, se vuolsi, in piccole, anzi in minime proporzioni, e poco funesto poteva esserne l'esempio, stante la mancanza di capi, che fossero uomini dall'universale cogniti e rispettati. La fiducia dunque del governo riposava in quei giorni quasi affatto sui gendarmi, capitanati dal già carbonaro Del Carretto; e l'anno innanzi il re aveva già ordinato con un decreto, che «i gendarmi si dovessero considerare sempre ed in ogni luogo, come sentinelle in attualità di servigio, ed i loro processi verbali facessero piena fede in giudizio.» A costoro fu affidata la cura di estinguere la rivoluzione salernitana, ed a ciò furono concessi i pieni poteri, o come suol dirsi, l'alter ego a Francesco Saverio Del Carretto, eguagliata così la sua autorità a quella più assoluta del re, e fattolo superiore alla legge e pari al legislatore.

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Stolto mezzo e pericoloso è sempre questo di affidare ad un uomo, e specialmente ad un soldato, autorità senza limiti: gli eccessi sono inevitabile conseguenza di ciò, ed il peso della responsabilità ricade sempre sopra il governo. E invero, se mai sfrenata autorità giunse ai nostri giorni ad eccessi vergognosi, fu appunto in questa congiuntura.

Il Del Carretto, come tutti coloro che si fanno istrumenti di polizia e di politica compressione per salire in alto, diè a quella rivoluzione le più grandi proporzioni, e volle mostrare d'affrontarla con tutti gli apparecchi di guerra. Le artiglierie lo seguirono con non meno di seimila uomini per domare i paesi ribelli, nei quali sapeva benissimo che poca e non ordinata resistenza potevasi per lui trovare. Bosco, ove la rivoluzione aveva fatto centro, fu lo scopo principale delle sue operazioni, o per meglio dire delle sue vendette. Egli credè che un esempio solennemente crudele e spietato avrebbe, più che atterrito i liberali, mostrato al governo come niuno meglio di lui fosse in grado di domarne le male voglie e soffocarne i sospiri; e in questo secondava gli ordini superiori che ingiungevano di recare nei paesi ribelli il fuoco e il saccheggio. Le artiglierie furono adunque da esso condotte sotto le mura dell'infelice paese, che vuotato di abitatori, fu atterrato e ridotto a colpi di cannone un mucchio di fumanti rovine. Lo scoppio delle artiglierie distruggitrici annunciava con eco lugubre la caduta delle domestiche mura a quei meschini, i quali rimasti senza tetto vagavano per la campagna abbracciati e desolati, stringendo al seno i miseri loro pargoletti, ed invocando la vendetta del Cielo sopra colui che li costringeva in modo sì crudele a ramingare. Il Del Carretto mirò forse con compiacenza questo nefando spettacolo, che non posso veramente trattenermi dal chiamare non dissimile a quello che Nerone aveva voluto podere; e sperò che quelle macerie, trofeo di non contrastata vittoria, sarebbero il fondamento di sua grandezza futura.

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Né s'ingannò. Una colonna infame fu innalzata dov'era Bosco; ma essa ricorderà ai posteri, più che il delltto, la sventura del misero paese. Venti infelici, alcuni dei quali erano fra i principali proprietari, furono fatti da lui morire; fra questi due ecclesiastici, cioè un canonico ottuagenario, il venerando e dotto arciprete De Luca, ed un guardiano di cappuccini, dopo molte e crudeli torture impiccati a Salerno. Altri quindici andarono a languire negli ergastoli, quarantatre nelle galere e molti furono relegati nelle isole. La provincia rimase sottoposta al governo militare. Con queste spoglie opime, con questi trofei di stragi cittadine tornava a Napoli a trionfare nelle sale dorate della reggia il Del Carretto. Io non dubito di appellare ingiuste quelle condanne: e niuno mi opporrà di contradire a me stesso, per il modo con cui altre ne giudicai. Oltre il dritto incontrastabile dei Napoletani alla loro Costituzione solennemente giurata, le sentenze promulgate da un'autorità senza freno né legge, che non aveva altra norma nella scelta delle pene se non l'arbitrio, e nella designazione delle vittime se non il proprio utile, erano immani fatti indegni di qualsiasi governo, indegni di un secolo civile. In tal guisa appariva sull'orizzonte questa infausta cometa di Francesco Saverio Del Carretto, nunzia pur troppo al regno napoletano di maggiori sciagure. Essa correva una via segnata col sangue. L'indignazione contro il governo di Francesco si unì allo spregio universale, e il re portò la pena delle crudeltà dei suoi satelliti, che della sua ignavia e pochezza di mente si valevano a proprio profitto. Guai al debole sovrano, che i servigj alla Corona prestati misura con le sole manifestazioni di forza! Egli non vede o non cura le lagrime dei popoli e l'odio dei sudditi; e tranquillo preferisce menare la vita piuttosto in una casa puntellata che non in una, la quale abbia le fondamenta salde ed inconcusse.

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Francesco di Borbone sopravvisse breve tempo a quelle stragi, e morì con tristi presentimenti, se vero è ciò che si narra degli ultimi istanti della sua vita: forse allora vide, che i colpi di cannone tratti contro Bosco colpivano la sua reggia. Ma intanto la fortuna dell'ispettore dei gendarmi era fatta. La sua fama di uomo che non si ritrae da qualunque estremo, si stabiliva ormai fra quei del partito reazionario, i quali speravano un valido appoggio nel Carbonaro convertito; e la sua spavalderia militare avevagli anche cresciuto il credito di fiero e ardito soldato. Perciò il principe ereditario che vagheggiava sempre in cuor suo la milizia, forse di buon'ora sentì simpatia per un uomo, le cui militari qualità sembravangli essere conformi alle sue inclinazioni ed ai suoi disegni. Così fino dai primi istanti gli si parava dinanzi questo tristo istrumento, che doveva poi trasmutarsi in più tristo consigliere: fu questa una sventura non meno per il principe che per i popoli. La rivoluzione salernitana fu l'ultimo anelito della Carboneria napoletana, e l'aurora della potenza del Del Carretto.

Il movimento italiano del 1831, come già dissi, non ebbe eco a Napoli (salvo le speranze date per poco dalle brighe dell'Intontì), per qualche buona fiducia di mite governo; per un grande apparato di forze militari spiegato minacciosamente e come per prevenire qualunque moto, massime nella capitale; per il colpo con cui era stato dimesso e mandato in bando a Vienna l'Intontì; per l'assunzione del Del Carretto al Ministero, tenuto per uomo rabido e crudele, e infine forse perché molti Napoletani erano già assuefatti a riguardare la causa loro come segregata dall'italiana, e stimavano peculiari i loro bisogni. Avevano un fine determinato ai loro sforzi, in luogo di quello più vago che le altre provincie italiche si proponevano; agognavano cioè non l'acquisto di dritti nuovi, ma il riconquisto di quelli sanciti nel 1820, ed a tale scopo soltanto furono quindi sempre intenti.

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Le tendenze unitarie e repubblicane della rivoluzione del 1831 non potevano essere sentite a Napoli, perché qui erano diametralmente opposte a quelle, tanto più che avevasi allora la più viva speranza di vederle soddisfatte. E lo stesso può dirsi della Sicilia, benché colà la fiducia fosse alquanto minore per ragioni tutte proprie dell'Isola, e di cui tratterò in altri Capitoli. Fuvvi peraltro in Sicilia a quei giorni un leggiero tentativo fatto da uomini, i quali volevano, più che partecipare alla commozione del resto d'Italia, giovarsi della medesima per tutelare i propri locali interessi e per rivendicare i diritti dell'Isola. La Sicilia aveva avuto già le sue congiure anche dopo 1l 1820, e come isolate non erano mai riescite a nulla. Due furono le principali, innanzi quella onde faccio cenno, tramate nel 1823 e nel 1825; ed entrambe avevano lo scopo di sterminare le truppe straniere e rimettere in opera la Costituzione siciliana. La prima, più vasta e meglio ordinata, aveva per capo l'Abela, che fu perciò impiccato: la seconda era ristretta in Messina, ed ebbe esito ugualmente infelice. La morte di Francesco I parve portare qualche calma eziandio negli animi dei Siciliani, ma i più impazienti sperarono potersi valere della commozione del 1831, e decisero di prorompere novellamente. Questo tentativo fu fatto in Palermo, e non trovò seguaci. Il primo settembre usa in quella città celebrare con religiose cerimonie l'anniversario della cessazione d'un grande terremoto, attribuita dai Palermitani a speciale grazia del Cielo; e in tale occasione si suole nelle ore notturne suonare tutte le campane, quasi a rinnovamento della preghiera dei padri loro.

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Ora nel 1831, in quella notte appunto, circa cinquanta cittadini armati di fucile entrarono in città, e sollevarono audacemente il grido di Viva Sicilia, Viva la Costituzione. Ma l'accordo falli, e si disse doversi ritentare il giorno dopo la prova, che venne anche meno per caso impreveduto. Quegli audaci non avevano pensato che l'Isola, come il resto del regno, nutriva in quei giorni le vaghe speranze, e perciò era impossibile una di quelle spontanee sollevazioni, le quali non si destano per un grido conosciuto, ma hanno d'uopo per essere mosse dell'impulso della disperazione. Quali fossero queste speranze, vedrassi altrove. Tal fu la sorpresa popolare a quelle grida inaspettate, che quegli uomini vennero in qualche bottega creduti fin ladri; e non mancò chi loro offerisse denari tra la compassione ed il terrore. Al che peraltro sdegnosamente risposero: «Ciò che vogliamo, non sono denari: ma sol che ci seguiate in nome della patria e dei suoi conculcati diritti.» Alcuni caddero in mano del governo, fra i quali il Di-Marco, e tredici di essi furono con lui fucilati. Questo parziale tentativo fece più apertamente manifesto, quanto possente fosse in tutti i popoli del regno delle due Sicilie la fiducia nel cambiamento delle pubbliche sorti, e quanto pronti fossero ad accettare l'iniziativa delle riforme e dei miglioramenti dal re stesso, poiché sembrava volerla prendere. Tanto la maggiorità di quei popoli era aliena dall'esagerazioni e dalle fantasie rivoluzionarie, che nonostante i disinganni recenti rinunciava a profittare d'un'occasione propizia, e dall'esempio della Francia e delle altre provincie italiche non lasciavasi traviare. Credevano quei popoli saggiamente più solide le basi delle fondamentali istituzioni e delle libertà degli Stati, quando partono dal reciproco accordo ed hanno sorgente nell'equità del principe e nella temperanza del popolo,

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che non quando sono dal secondo guadagnate col sangue, con le civili lotte e col disordine rivoluzionario; il quale pur troppo ne vizia le radici, allorché la fatalità degli avvenimenti fa sì che non siensi per mala ventura ottenute per altra via. Accanto al diritto incontrastabile della giusta libertà, del civile governo e della partecipazione dei cittadini al medesimo, sorge allora il diritto insurrezionale, che pone lo Stato sopra una base sempre incerta, sopra un vulcano che minaccia continuamente di erompere, finché sono vivi i partiti, e le passioni non sono spente.

Il governo più temperato dei primi anni di regno di Ferdinando II operò che durante il primo dei due tempi in cui si distinse, non fossero fatti se non tentativi parziali, o meglio sforzi individuali. Nel 1833 uno appunto si fece dai fratelli Rossaroll, figliuoli a colui che ultimo nel 1821 aveva tenuta in Sicilia sollevata la bandiera costituzionale, e che esule dalla patria morì in guerra combattendo per la libertà di una gloriosa nazione, sorella all'italiana nella grandezza della civiltà e nelle sventure della servirti. Dio voglia che come la civiltà greca fu l'aurora della latina, così l'indipendenza della nobile nazione sia il segno di quella della sorella! I giovani Rossaroll trovavansi sottufficiali nei cavalleggieri. Mossi da'  pubblici rancori, pensarono cogliere l'opportunità, e nella truppa e nei Corpi facoltativi specialmente formarono una congiura, che fu svelata: accusati di trama contro la vita del re, vennero quegl'infelici condannati alla morte dalla Commissione suprema per i delltti di Stato. Giovani di ardente natura, caldi d'amor patrio, essi avevano più di chicchessia l'anima esulcerata.

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La loro origine svizzera, e del cantone di Guglielmo Tell, la libertà politica e nazionale adorata sempre dal padre, l'accompagnarlo nelle guerre nazionali di Spagna e di Grecia, spiegano a sufficienza come avessero succhiato col latte l'odio contro la Casa reale, e fosse in loro cresciuto ad ira ed a prepotente bisogno di vendetta nell'età delle vive passioni, nell'età che l'uomo è predominato dalla bollente fantasia. Non voglio certo giustificare il loro concetto; ma dico che esso era prodotto da cause eccezionali, le quali non potevano nella prima età non trasmodare. Quell'ira era però infruttuosa per la patria. Il 14 decembre 1833 il misero Cesare Rossaroll doveva subire la condanna di morte; ma la grazia reale sopraggiunse al momento che era per salire al patibolo. Egli era da Dio serbato a morte molto più gloriosa! Il suo nome è fra i più santi del martirologio italico. Anche l'ufficiale Angellotti e molti altri parteciparono alla congiura, e il primo toccò la condanna del Rossaroll; ma un altro sottufficiale per nome Romano si sottrasse al giudizio con un colpo di pistola. Un segreto scrutinio fu fatto allora nelle truppe, e molti di essi vennero severamente puniti. Sembra che pure alcuni cittadini non militari fossero partecipi di quelle trame.

Io mal saprei definire se questo o il seguente tentativo avesse relazione con quelli che faceva contemporaneamente la Giovine Italia in Piemonte: peraltro credo che no. Anche la misericordia senza dubbio lodevole usata dal re verso il Rossaroll e l'Angelotti per un tentativo più grave certamente del salernitano, accaduto negli ultimi giorni del padre suo, accrebbe le speranze che i suoi primi atti avevano destate. Torno a ripeterlo, fu grave sventura per Ferdinando II il trovare sulla sua via un Del Carretto.

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Il tentativo poi detto del Peluso doveva essere un colpo di mano, col quale alcuni degli uomini del 1820 volevano per sorpresa costringere il re a mantenere il giuramento violato dall'avo e dal padre suo. Erano presi i concerti per assicurarsi del Del Carretto, poiché ufficiali della gendarmeria ed amici di quel ministro si posero in questa congiura. Il suo compagno d'armi, il capitano Nirico, era fra i capi: il Peluso frate converso ed antico Carbonaro veniva dai congiurati adoperato a portare i carteggi. Il Del Carretto, venuto in possesso delle carte dei congiurati, rapite loro per domestico tradimento e consegnate per vendetta personale, ebbe cognizione di ogni cosa; ma volendo salvare gli amici suoi, e non avendoli potuti né comperare1 né porre da banda, fece portare la pena di tutto al Peluso. Costui fu posto nell'ergastolo, e non si ebbe poscia più notizia di lui fra i vivi; il che è uno dei misteri d'iniquità di quel famoso ministro di Polizia.

1 Egli stesso fece chiamare a sé il Nirico, che per essere infermo non vi andò. Allora il Del Carretto si recò all'albergo ove egli dimorava,c in un lungo abboccamento del quale può indovinarsi lo scopo, con mille lusinghe gli offrì di sua mano la decorazione. Ma il Nirico sdegnosamente la respinse, e la gettò in mezzo alla stanza. Non ostante, alcuni dubitarono della sua fede, ed ebbe voce di traditore.

2 Questa congiura, detta del frate, è involta nel maggiore mistero. Furono posti da banda tutti i nomi conosciuti, e non s'inquisì che il frate Angelo laico, cuciniere de'  frati della Sanità, un Lombardi contadino, il tenente Filippo Agresti, D. Michele Porcaro d'Ariano, e il capitano del genio Domenico Morici calabrese, deputato al Parlamento del 1820. Motore principale di questa macchina, per quanto dalla difesa del Morici e degli altri accusati scritta da G. Badolisani apparisce, e non senza sospetti di agente provocatore, era un tal Francesco Vitale che con le più impudenti menzogne trasse molti in inganno. Partivano l'Agresti, il Morici e il Lombardi il giorno 17 agosto 1833 alla volta d'Ariano ove credevano ritrovare 12 mila insorti sotto le armi, e trovarono invece gl'inquisitori di Stato che imprigionavano molti sospetti; nelle mani di essi non cadde l'Agresti che ritornò a Napoli, ma bensì il Morici che era rimasto fuggiasco per le campagne un mese intero. Partiva lo stesso giorno da Napoli il frate alla volta del piccolo borgo di S. Gennaro in Palma, lasciava la tonaca e la barba, e indossava lo schioppo e poche cartucce, più un canocchiale e alcune carte topografiche, unici arnesi di guerra per cominciare quella spedizione. Cercò far gente nelle campagne e (se vero è quel che narra la difesa stessa del Morici) non rifuggì dalle più ridicole ciurmene per riuscirvi, perché predicava andare in cerca di un tesoro.

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In tale occasione venne prima carcerato e poi esiliato Pietro Leopardi, e il marchese Dragonetti fu posto ancor egli in prigione; avanzi entrambi della rivoluzione del 1820, uomini per le loro cittadine virtù, per ingegno e per indole rispettabili.

Con essi il Mayo, Giuseppe Mauro ed oltre cinquanta cospicui proprietarj. In Cosenza e Catanzaro fu inviato il generale Pastore che desolò quelle contrade, ricordevoli tuttavia degli orrori ivi commessi dal famoso Intendente De Mattheis, graziato allora dal nuovo re.

Il Del Carretto per tal guisa tutelava la sicurezza del trono di Ferdinando con la prigionia dei cittadini più ragguardevoli e con un esercito di spioni, con cui la polizia napoletana vigilava come un Argo non solo nell'interno, ma fuori ancora.

Giunto in un vallone, aperse intiero l'animo suo, lo scopo e i mezzi dell'insurrezione che meditava; ma si vide tosto abbandonato da quasi tutti coloro che l'avevano nei primi istanti seguito. Il frate però asseriva di aver parlato di un deposito d'armi, del quale andava in traccia, e non mai di un tesoro; e magnificava avere le migliaia di armati. Suoi ajutanti in quella impresa erano un Pesce, ed un Ascoli. Colti tutti o sbandati innanzi che compiessero alcun tentativo, la congiura non ebbe effetto. Il frate aveva seco anche alcune patenti in bianco destinate forse ai capi delle bande che dovevano cominciare la guerra, tre liste coi Ire colori italiani preparate per farne la bandiera, e un proclama nel quale si parlava di patrie glorie, e si chiedeva la Costituzione. Ferdinando II era lusingato in quel bando, in rui si leggeva «la nostra felicita è sua gloria possa egli gustare il dolce sentimento d'essere chiamato padre della patria;» e conchiudeva intimando alle popolazioni di gridare «Viva Ferdinando il Grande.» Erano questi forse principi dell'ordinamento della Giovine Italia sempre stolti egualmente? Ovvero la polizia non eTa estranea a tali maneggi? Certo è che la condotta del Vitale fu misteriosa, e i sospetti contro la polizia traspariscono dalla stessa difesa del Morici, benché coperti di quel velo che il difensore non osava strappare troppo apertamente dinanzi a giudici ligi al governo. «Il Morici pone il piede nel precipizio, perché ingannato. Il frate il pone forse anche ingannato. I Porcaro sollevino eziandio la testa a vedere qual aura spiri, perché ingannati; ma chi ingannava l'ingannatore di tutti? a nulla (esclamava quindi il difensore per accennare più chiaramente ove mirava) a nulla valgono le arti, nulla possono nella mente del principe le vane caligini sparse ad alienargli l'animo dall'amore ardentissimo ch'egli porta a'  suoi popoli!» Ma del frate non seppesi più altro; e quindi il forse del difensore del Morici si fece ancora più dubitativo, come delle trame della polizia crebbero più sempre i sospetti nell'universale.

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Gran numero di anime prezzolate secondavano per danaro li opera del ministro, e trovò istrumenti sino fra gli emigrati che congiuravano in Francia. Fra costoro era specialmente uno dei più furiosi, uno che poscia si adoprò forse più d'ogni altro per trarre il moto italiano alla demagogia; il quale, assoldato dal marchese Del Carretto, riceveva da lui cinquanta ducati mensuali in Lione, come fanno fede le carte che si serbano negli Archivj della polizia napoletana.

L'amnistia, o per meglio dire, la diminuzione di pena già promulgata all'inalzamento al trono di Ferdinando II,1 per la quale i condannati all'esilio potevano

Il decreto è del 18 dicembre 1830 e dice:

«Ferdinando II per la grazia di Dio re del regno delle due Sicilie ec. ec.

» Volendo contrassegnare con atti di clemenza il nostro avvenimento al trono delle due Sicilie, che la divina Provvidenza ba affidato alle paterne nostre cure, ci siamo determinati a fare sperimentare gli effetti della nostra reale indulgenza a coloro tra i nostri amatissimi sudditi che per politiche vicende trovansi in diverse epoche o condannati, o sotto giudizio, o in esilio, o nelle Isole, o in prigione, o inabilitati all'esercizio delle pubbliche cariche: pienamente convinti Noi ch'essi continueranno a dar positive ripruove di devozione e di fedeltà al nostro real trono.

» Quindi seguendo i moti del nostro real animo,

» Articolo 1. E condonata la meta della pena residuale a tutti coloro che trovansi condannati per reità di Stato. La pena de'  condannati all'ergastolo discenderà al maximum del secondo grado di ferri.

» Art. 2. È commutata nella semplice relegazione la pena che i condannati per le reità suddette dovrebbero espiare nei ferri, o nella reclusione.

» Art. 3. La pena dell'esilio perpetuo dal regno pei condannati medesimi è ridotta a quella di cinque anni di esilio da decorrere dal giorno 8 novembre 1830, epoca del nostro avvenimento al trono.

» Godranno dello stesso benefizio della riduzione a cinque anni anche i condannati all'esilio temporaneo, che dovessero espiare una pena maggiore.

» Art. 4. Rimane abolita l'azione penale per tutti i reati di Stato commessi sino all'indicato giorno degli 8 novembre corrente anno.

» Art. 5. Saranno abilitati coloro, che per interesse pubblico trovansi in linea di prevenzione politica nelle Isole, in esilio, o in prigione.

» Senza un ordine o permesso particolare non potranno per ora godere della stessa abilitazione quelli tra i succennati individui, che son compresi nel notamento da noi approvato.

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rientrare dopo il lasso di cinque anni, e oltre a questa varie concessioni parziali di perdono riconducevano in patria nel 1836 molti esuli. L'esclusioni prescritte si ridussero infatti presso che a nulla per gli emigrati del 1821. Vi erano però alcuni, esiliati dopo ed anche uomini di vaglia, i quali non furono compresi in quella grazia, fatta solamente a coloro che erano stati proscritti dall'avo e dal padre: ma pure agli esuli antichi non fu concessa se non lentamente la grazia, in guisa che né tutti insieme, né immediatamente poterono fruirne. Fra coloro che rientrarono negli Stati napoletani circa due anni dopo, cioè nel 1838, fu il cavaliere Francesco Paolo Bozzelli. Egli rimpatriava dopo 17 anni d'esilio, con fama di uomo integro e dotto, di politico profondo e di cittadino benemerito della patria, e infine colla venerazione dovuta al martire. Le sue opere, i suoi viaggi nei centri della civiltà europea, e la sua assenza, avevano cresciuta la sua fama nel regno; né vi era se non Giuseppe Poerio, che potesse contrastargli il primato dell'opinione.

» Art. 6. Alla occupazione de'  pubblici impieghi in qualunque ramo e rimosso ogni ostacolo derivante dalle vicende politiche sino al dinotato giorno 8 novembre. Tutti i nostri sudditi potranno senza alcuna distinzione essere ammessi ad esercitarli, quando abbiano i requisiti corrispondenti alle rispettive cariche.

» Art. 7. Gl'impiegati destituiti per le stesse vicende sono ugualmente abilitati all'esercizio delle pubbliche cariche, quando Steno forniti de'  suddetti requisiti.

m Art. 8. I militari come sopra destituiti, ed attualmente in sussidio, sono compresi nella divisata abilitazione. Essi potranno del pari concorrere alla provvista delle cariche civili, ed amministrative, ove non manchino de'  succennati requisiti.

» Trovandosi di presente l'esercito al completo, saranno prese in seguito particolari determinazioni per quelli tra i detti militari destituiti, che potessero essere richiamati al servizio militare.

» Art. 9. I regolamenti finora in vigore per la spedizione de'  permessi di armi saranno modificati in quanto agli ostacoli derivanti da politiche vicende. Simili permessi potranno essere accordati specialmente ai proprietari, quando concorrano le qualità corrispondenti degl'individui, e le vedute di pubblica sicurezza.»

Napoli, 18 dicembre 1830.

» Ferdinando, II

(Giorn. delle Due Sicilie)

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Certamente per i servigj resi alla patria, per il civile coraggio, e per il profondo, antico e vero amore della libertà, Giuseppe Poerio non temeva il paragone di chicchessia, non che del cavaliere Bozzelli. Ma costui, a chi più da presso lo conosceva, anche nell'esiglio, appariva altro uomo da quello che l'universale lo reputava; e la presenza di lui, ambizioso oltre ogni credere, tenace delle sue opinioni e inetto politicamente,1 fin nei convegni dell'emigrazione era d'imbarazzo più che di vantaggio. Quanto gagliardo in esso mai fosse il sentimento dell'italianità, rimase dubbio sempre, ma era prepotente l'opinione di sé medesimo; nonostante, ai suoi difetti la scienza e il bando sofferto facevano ammenda e velo. Il pubblico non li vedeva; e quando tornò a Napoli, fu uno degli uomini su cui i liberali del regno volsero principalmente gli occhi. Egli si pose ad esercitare l'avvocheria, e le sue cognizioni e il facile eloquio gli valsero un accrescimento di fama.

Ma il ritorno degli emigrati del 1821 era stato per isventura accompagnato dalla morte della buona regina sorella di re Carlo Alberto, e dalla celebrazione del secondo matrimonio; da cui se non potè dirsi iniziata una politica nuova, certo il re fu sospinto con maggior violenza sopra una via, nella quale fino allora non aveva camminato che lentamente e con piede incerto. Questo inasprimento aggiunse sventure a sventure, rancori a rancori, e da indi in poi ogni anno fu segnato con le lagrime e col sangue. In quel tempo appunto le congiure novellamente si ordinarono, e si stabilì una non interrotta serie di trame e di vendette che desolavano quel misero regno.

1 Eravi fin d'allora chi esattamente lo dipingeva, applicandogli per la sua superbia e caparbietà il soprannome di Don Pomponio. L'egregio Massari (Casi di Napoli, Lettera Terza) così ce lo dipinge: «Figuratevi un uomo con la mente informata dai principj filosofici di Destutt-Tracy e del padre Soave, con l'ingegno arcadico dell'ahate Chiari, ricco di studj politici, ma poverissimo d'idee politiche, valentissimo nell'arzigogolo e nel cavillo, ostinato come un leguleio, ed orgogliosissimo; figuratevi, dico, un uomo foggiato a questa guisa, ed avrete il ritratto veridico e somigliantissimo del cavaliere Francesco Paolo Bozzelli,»

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Il cholèra-morbus seguiva nel 1836 alla morte della regina, ed era tornato poi ad infierire nel 1837. Il regno era desolato, e vi suonava quel cupo mormorio che sempre accompagna in un paese la presenza del contagio. La diffidenza reciproca, il timore, l'esaltamento dell'immaginazione e le recriminazioni contro l'autorità, sono fenomeni che non vanno mai disgiunti da quel flagello; e il volgo videsi non di rado nei pestilenziosi contagi fantasticare veleni e nequizie d'ogni fatta, farneticando quasi in un'agonia morale, in una febbre prodotta dallo spavento. Se ciò accadde anche in paesi ove l'istruzione aveva distrutto molti popolari pregiudizi in paesi agiati e tranquilli; che cosa non doveva succedere nel Regno, ove un popolo lasciato nella più brutale ignoranza era avvezzo a disistimare e ad odiare il suo governo? ove da lunga mano erano tutti assuefatti a mormorare a bassa voce contro di esso e del re? Già alla prima apparizione del cholèra nella capitale, la state del 1836, il volgo aveva manifestato sospetti di veleno; ed il re non aveva tardato a calmarlo, con un coraggio veramente meritevole di encomio. Imperocché egli verso quel tempo non solo era tornato nel regno, donde trovavasi assente, ma aveva voluto personalmente girare la città, ed entrare anche da un fornajo a gustarvi del pane alla presenza del popolo, per tranquillarne le apprensioni: esempio di fortezza d'animo degna del capo d'uno Stato, che non fu certo imitata l'anno seguente a Roma, quando il centro della Cristianità soffrì pure l'orrendo flagello. Ma in quell'anno medesimo 1837 il cholèra era tornato a funestare il regno napoletano, e massime le Calabrie, gli Abruzzi e la Sicilia.

Erano quelli i popoli più addolorati e più maltrattati: quindi l'esaltamento delle imaginazioni popolari fu maggiore e si aggiunse all'esaltamento politico preesistente.

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Di Sicilia ragionerò peculiarmente altrove. La noncuranza del governo e la sua imprevidenza erano il soggetto delle grida universali; naturale lamento in popoli funestati da cotanta sventura, e più naturale ancora in popoli che avevano perduto ogni fiducia nel loro governo. Invero le Calabrie avevano veduto con ribrezzo graziato ed arricchito d'un pecuniario assegnamento l'iniquo Niccola De Mattheis allievo del Canosa, sotto il regno di Francesco per opera del Medici processato a cagione delle scelleraggini da lui commesse come Intendente di Cosenza, dove aveva empito tutta la provincia di lutto, cercando ed inventando congiure, per farsi merito delle persecuzioni degl'infelici. Il Medici però in quella che fu giustissima punizione, non aveva fatto se non una vendetta personale contro un satellite del rivale Canosa; ma i Calabresi, che ne avevano goduto e avevano sospinto in ogni modo il ministro e secondato le sue mire, videro con vero fremito d'orrore liberato e premiato da Ferdinando II l'iniquo uomo. Così l'esacerbazione dei Calabresi era più forte ancora di quella degli altri popoli del regno. Inoltre, l'ignoranza del volgo era ivi più crassa, e la ferocia maggiore; in guisa che rendevasi più agevole, che offuscato l'intelletto dalla presenza d'una morte spaventosa si lasciasse trascinare ad idee strane e ad eccessi di febrile imaginazione. Ciò che altrove chiamavasi inerzia del governo, in Calabria appellossi tradimento. Si affermò che la polizia aveva pensato nel cholèra un novello trovato per addormentare le fantasie politiche del popolo, e per acquetarne le incomode domande e gl'importuni lamenti. Si narrò con la più grave asseveranza, che da Napoli era spedito agl'Intendenti il veleno in acconce cassette, e che con quello (orrendo a dirsi!) si attossicavan le pubbliche fonti, l'aria, le frutta, le farine.

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Si assicurava di avere veduto uomini, a quell'ufficio destinati, eseguirlo di nascosto. L'ignoranza delle popolazioni (parlo della gente minuta, essendo anzi in quelle provincie stata sempre una quantità di eletti e studiosi ingegni, ai quali il naturale ardore cresceva forze e dava un'impronta particolare alla civiltà del paese) spiega essa sola in qual modo sì fatte stoltezze potessero trovare credenza. Ma la Calabria trascurata del tutto dal governo, e nello stesso tempo in continua lotta col medesimo, era disposta a tutto credere, né la plebe, fantastica per natura, scerneva il ragionevole dall'impossibile; oltre di che essendo quella corrotta all'estremo, abituata al quotidiano spettacolo di delltti e di tradimenti, coonestati presso di lei col titolo di guadagno, sospettava senza ritegno enormezze e scelleraggini in chi odiava e disprezzava. Le grida dei Calabresi furono alte e minacciose. Il governo napoletano, non ignorando i dolori dei sudditi, e conoscendo gli eccitamenti che di continuo ricevevano dai centri dell'agitazione italica stabiliti a Parigi (i quali anzi che veri proseliti, noveravano nel regno ausiliarj onde speravano valersi all'opportunità), alle prime manifestazioni di malcontento non tardò a spaventarsi. Ma l'esempio del 1828 era funesto, e doppiamente, dacché l'eroe della carneficina di Bosco teneva il governo. Era la prima volta che gli si presentava l'occasione di manifestarsi ancora al pubblico in tutta la pompa della sua ferocia, non coperta d'oblio dopo quasi un decennio. Siccome la Sicilia erasi agitata contemporaneamente e più fortemente delle Calabrie, si credè occasione opportunissima quel momento d'universale costernazione per esterminare i nemici del governo e domare quelle popolazioni, che per loro natura lo ponevano in maggiori apprensioni.

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Fu colto quell'istante di sciagura pubblica per compiere un atto di politico machiavellismo, un atto che veramente può chiamarsi un funestissimo colpo di Stato. Il Del Carretto adunque s'addossò le prime parti dell'impresa ed assunse di domare la Sicilia, mentre all'Intendente di Catanzaro Giuseppe de Liguori, che era stato con lui al sagrifizio di Bosco, affidò con pieni poteri l'ufficio della pubblica vendetta nella desolata Cosenza. Costui trasse innanzi alla Commissione militare, secondo gli ordini ricevuti, non solo coloro che vociferavano dello sparso veleno, ma eziandio i creduti avvelenatori. Singolar modo invero di tranquillare gli animi commossi! I primi vennero in gran numero mandati alle galere, come eccitatori di rivolte e spargitori di voci rivoluzionarie; dei secondi furono sette condannati a morire. La pubblica voce non dubitò di asserire, che questi miseri erano detenuti politici, dei quali il governo volle così liberarsi;

Il sospetto di veleno fu l'occasione ed il pretesto d'imprigionare ogni uomo temuto ed odioso alla polizia. Questa, nell'occasione di cui parlo, alienò affatto dal governo quelle provincie, e rese ogni conciliazione difficilissima; essendo veramente arduo cancellare dalla memoria di quei popoli persecuzioni così fiere commesse in un momento di lutto universale. In quell'occasione medesima a Civita di Penne, a Chieti e in altri paesi d'Abruzzo le voci stesse di veleno sparse esacerbarono il popolo. Alcuni costituzionali, fra cui i fratelli Niccola e Domenico De Cesaris, reputati e ricchi negozianti, se ne valsero per far sollevare il grido di Viva la Costituzione; levato il quale, i popolani si gettarono sui gendarmi, e li disarmarono. Il comandante della Provincia, colonnello Tanfano, accompagnato dal maggiore Ducarne di Gendarmeria, si recò dopo tre giorni colà con circa 400 soldati fra gendarmi e soldati del reggimento siciliano ch'erano in Pescara.

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Giunse poscia in Teramo il generale Lucchesi col consueto apparato della Commissione militare, e pose la sua sede a Teramo. Otto sciagurati vennero condannati a morte e moschettati: oltre a 120 individui furono messi in prigione, esiliati o mandati alle isole. Il governo non volle por mente né allo spirito della rivolta, né alle straordinarie circostanze che l'avevano eccitata. Per dare credito alle voci d'avvelenamento eransi gettate delle ostie nelle fonti, e quel volgo ignorante credè vedere in quei segni galleggianti la prova manifesta dell'assassinio. Infelici mezzi erano veramente codesti per ispingere i popoli alla rivoluzione; ma più stolto ed irragionevole ancora si era da parte del governo il volerla soffocare nel sangue degli innocenti, e crescere così le cause del pubblico esacerbamento. Cominciava con questi atti il secondo periodo del regno di Ferdinando II, che parve tornare le cose quali erano ai giorni del padre suo, da lui medesimo lamentati.

Queste commozioni succedute agli sforzi individuali possono appellarsi moti popolari non uniti, o spontanei o meramente locali; ma non si tardò a collegarsi ed a stringersi, secondo che le sevizie si facevano più crude e che il mal governo cresceva. Se l'organamento si faceva per una parte necessario, dall'altra nel paese ove la memoria della Carboneria e di tutte le Società segrete era forte e recente, non potevano indugiare naturalmente a costituirsi centri d'agitazione; i quali col nome di Comitati non certo stabili, ma alternativamente e a balzi or qua ed or là surti, cessati e via via rinati, assunsero il mandato di dirigere all'opportunità le rivoluzioni. Imperocché fatalmente, caduta ogni illusione, affranta ogni speranza, non appariva altra via per cambiare le sorti del regno, e, quando che sia, una grande popolare commozione sembrava inevitabile e volevasi perciò tentar di dirigerla.

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Inoltre, il movimento italico sempre crescente aveva fatto indirettamente partecipare anche i Napoletani a tutto quello che si operava nel centro della Penisola. I capi agitatori di fuori dovevano per necessità far capitale sui malcontenti del regno, che non potevano non istar sulle intese di ciò che altrove si operava. Per la sicurezza e per la regolarità di questi contatti, un ordinamento qualsiasi non poteva a meno di parere necessario: sursero quindi in Napoli ed in Sicilia quei Comitati, che erano bensì una modificazione, ma anco una non utile imitazione delle Società segrete. La Giovine Italia fece in questi tempi e con tali mezzi alcuni proseliti, ma non molti, perché (e ciò era pur effetto della idea regnicola preponderante in tutto) oltre le tendenze universali apertamente avverse a repubblica, i più preferivano riconoscere l'autorità di uomini proprj, che sapevano apprezzare le speciali necessità del regno, ed erano degni della loro fiducia e riconoscenza.

Ma le utopie della Giovine Italia si trasfondevano sovente in tutte le parziali congiure italiane, fino in quelle preparate da uomini che a lei non appartenevano. Così, quando la vana idea delle bande partì dal centro mazziniano, fu accettata in Toscana ed in Romagna anche da molte associazioni indipendenti dalla Giovine Italia; e accadde in tal modo che, come a suo tempo narrai, trovaronsi dopo il 1840 talora a camminare di conserva (ili uomini di due partiti, che professavano dottrine le une alle altre opposte. Lo stesso fu in Napoli. Gli Abruzzi e le Calabrie erano in terraferma i due centri d'agitazione interna: forse quelle montuose regioni fecero vagheggiare colà e parere più che altrove possibile l'idea di quei parziali tentativi, e persuasero gli altri congiurati italiani a volger l'occhio a quelle provincie, le quali sembravano prestarsi mirabilmente ai disegni allora dominanti.

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Nel 1841 infatti il primo cenno di quelle sollevazioni, che poscia non s'interruppero mai nel resto dell'Italia, parti dagli Abruzzi. L'Aquila, retta (incredibile a dirsi) dal colonnello Gennaro Tanfano che era stato capo dei briganti col cardinal Ruffo in quel tempo luttuoso, poscia uno degli agenti più fidi di Carolina in Sicilia, e quindi dopo il 1820 uno dei membri della Commissione di scrutinio, sollevossi all'improvviso, e vittima della rivolta cadde-questo fedele e costante istrumento dell'assolutismo. Egli veniva assalito e pugnalato in una via della città, mentre usciva dalla casa d'una cortigiana, e la sua morte fu segnale dell'insurrezione. Le armi però domarono subito i ribelli, ed una Commissione, come a Salerno e a Cosenza, fu istituita per giudicarli. Non meno di centotrentadue furono condotti innanzi a quel tribunale, e cinquantasei di essi vennero condannati, e tre fucilati, Gaetano Ciccarelli, Raffaele Scipione, abruzzesi, e Gaetano Carnevale calabrese, dimorante in Aquila da molti anni. I signori marchese Dragonetti, barone Cappa, avvocato Marrelli e barone Calori, con circa altri trenta nobili furono mandati in prigione. Più di trecento individui fuggirono nello Stato romano e a Malta, fra'  quali il barone Ciambelli, pure condannato a morte.

Le Calabrie non furono sorde agl'inviti degli Abruzzi; ma promisero invano per qualche tempo. Anzi, allorquando l'anno seguente (1843) nell'estate macchinavasi una rivoluzione, cui si sperava dare grandi proporzioni e farla generale, e che per le cagioni altrove narrate si ridusse al moto di Bologna, le mancate promesse dei Calabresi ruppero gran parte degli accordi romagnoli e toscani. Ma le congiure permanenti cercarono di rannodarsi l'anno vegnente, ed un parziale moto si fece in Calabria (marzo 1844), al quale, perché inaspettato, niuno rispose, e la stessa Giovine Italia si astenne dal prestarvi mano.

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Alcuni cittadini diedero di piglio alle armi, i gendarmi si posero tosto ad affrontarli, ed il capitano di questi, il Galluppi, figliuolo primogenito del rinomato filosofo, ne cadde vittima, con due de'  suoi soldati nella piazza di Cosenza. Quattro ancora degl'insorti morivano colle armi alla mano;1 gli altri inseguiti da forze superiori, come sarebbe stato agevole il prevedere, ebbero a rendersi, e furono condotti innanzi alla Commissione che sei ne fucilò,2 ed ad altri quattordici, dopo averli condannati a morte, commutò la pena, mandandoli a languire per sempre nell'ergastolo. Gran numero eziandio di altri infelici furono gettati nelle galere. Questi esempj dovevano sufficientemente far palese l'inefficacia dei mezzi proposti dai congiurati, e il danno che al paese veniva da parziali rivolgimenti. Ma i più esaltati del regno e molti anco fuori di esso riguardavano quelle due rivolte come sintomi di buon augurio; e dalla grande audacia di pochi conclusero che i popoli di quelle provincie fossero pronti a secondare un movimento, qualora si facesse più generale in Italia. A queste illusioni però, se più o meno partecipavano i liberali napoletani, non si lasciavano prendere i moderati delle altre provincie italiane, e in specie delle Romagne. La rivoluzione preparata, come dissi, per l'autunno del 1843, era stata eccitata con promesse di sollevazioni nel regno, che dovevano esserne il perno e la forza maggiore: erano disegni combinati nel cervello di pochi, e i popoli i quali non erano certamente indifferenti ai dolori del loro paese, avevano imparato per lunga e trista esperienza, che le parziali rivoluzioni peggioravano e non miglioravano la loro condizione.

1 Francesco Sali, Michele Musacchio, Francesco Coscarella, e Giuseppe De-Filippis.

2 Niccola Origliano, Antonio Rago, Pietro Villaci, Giuseppe Camodeca, Giuseppe Franzate, Santo Cesareo. Ma il Rago si avvelenò nel carcere.

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Questa convinzione fece sì che sovra di essi agevolmente guadagnassero influsso coloro che parteggiavano per le idee moderate, e avrebbero voluto una riconciliazione coi governi, per compiere poi di comune accordo l'opera d'importanza e di vantaggio comune. Mentre questi tentativi si facevano, moriva in patria reduce dall'esiglio e compianto da tutti il barone Giuseppe Poerio, il quale lasciava ai figliuoli Carlo ed Alessandro l'eredità della simpatia dei suoi concittadini. Carlo Poerio già godeva meritamente fama e fiducia fra i liberali, che in lui e nel Bozzelli del tutto confidavano; ma il primo, più del secondo informato dall'idea italiana, riguardava il movimento nazionale con affetto, e quindi non alle sole costituzionali libertà del regno badava. Conviene però dirlo: non erano molti, che nelle provincie napoletane meritassero il medesimo elogio. Forse fu questa la precipua ragione, perché non solo i congiurati della Giovine Italia, ma bensì di tutte le altre frazioni congiuratrici dell'Italia centrale, non riuscirono mai ad essere secondati dai Napoletani in un'impresa generale, la quale uscisse dalla linea provinciale, e facesse scopo alla sollevazione meno gl'interessi regnicoli che gl'italiani. L'esitazione dei Napoletani fece andare a vuoto molti disegni, e nel 1843, come si è detto, la rivoluzione fatta dai soli agenti della Giovine Italia si ridusse ad una meschina dimostrazione, contro cui protestarono non solo Napoli e Sicilia col loro dissenso, ma sì ancora il flore delle Romagne e la Toscana.

Ma i sospetti del governo napoletano si risvegliarono in quei giorni, ed il nesso delle agitazioni del regno con le altre d'Italia turbò i suoi sonni angosciosi ed eccitò la sua vigilanza. L'anno seguente (1844) esso poneva le mani sugli uomini che stimava più autorevoli, i quali godendo di maggior credito presso i liberali, si nell'interno come all'estero, erano naturalmente sospetti.

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Furono adunque per tal titolo consegnati alle prigioni del Castel Sant'Elmo, di cui era comandante il generale Ruberti, Francesco Paolo Bozzelli, Carlo Poerio, Mariano d'Ayala, Matteo de Augustinis e molti altri rei del delltto di opinioni liberali, senza timore professate,e della simpatia dei loro concittadini. Il governo napoletano sentiva che la congiura italiana si faceva ormai nei buoni intelletti, e contro questi diresse specialmente la sua inquisizione. Se il carcere fruttò popolarità immensa a quegli uomini, accrebbe eziandio in molti il desiderio di vendicarli: dove anche l'opinione pubblica non avesse preso per norma le loro dottrine per lo innanzi, lo avrebbe fatto adesso, dacché la loro fronte portava l'aureola venerata del martirio. Il Bozzelli ebbe il primato di questa popolarità, il che soddisfece non poco il suo orgoglio; ma neppure dalla carcere nulla apprese, come nulla avevagli insegnato l'esiglio. Uomo scettico ed ambizioso, si compiacque forse di essere individualmente temuto, e di sé più che dei principj, che cominciavano la gran lotta sulla scena politica, si curò. In tal modo vi si trovò spinto, senza forse la convinzione e la fede necessaria ad uomo, che sembrava a molti destinato ad esserne campione, e negli scritti suoi aveva propugnato virilmente la libertà; della quale sì tenero aveva voluto parere da non mostrarsi pago neppur delle guarentigie che sembravano assicurarla ai popoli che la possedevano o l'avevano acquistata. Così aveva professato la dottrina del non doversi in un governo costituzionale concedere alla Corona il diritto, che chiama ingiusto e pericoloso, dello scioglimento delle assemblee legislative; del quale diritto egli più tardi ministro doveva tanto solennemente due volte abusare.1

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1 È prezzo dell'opera riportare qui testualmente le sue dottrine intorno a ciò; tanto più che a queste coi fatti così manifestamente contradisse, usando due volte d'un diritto che avea condannato.

«Ce droit abusif de réunir les assemblées législatives en a amené un autre de la plus grande absurdité: c'est celui de les dissoudre, quand le pouvoir exécutif le juge convenable à ses intérêts. D'abord il est impossible de méconnaître qu'une nation dont les représentants, légalement élus, peuvent être dépouillés de leur caractère politique par un acte qui émane du trône, n'est plus rien en elle-même. Le droit inaliénable de se gouverner n'est alors pour elle qu'une concession temporaire que le roi peut lui retirer quand il le veut: ce qui renverse tout principe d'ordre social: car la liberté des peuples est un bienfait de la nature et no» pas le bienfait d'un homme; et sitôt qu'un homme s'attribue la prérogative de ne plus reconnaître les représentants des peuples, et de les renvoyer de l'assemblée où ils sont appelés à siéger, la liberté est détruite, le gouvernement n'est plus national, et la société ne se compose que d'une masse d'esclaves, régie par un maître indépendant et absolu. On motive ordinairement cet abus sur ce que les assemblées législatives manifestent quelquefois un esprit turbulent et subversif qu'il est impossible de calmer, et auquel on ne pourrait laisser un libre cours sans menacer l'ordre public de crise et de bouleversement. Mais ce motif est absurde, et le remède qu'on adopte pour éloigner le mal est tout-à-fait inefficace Je demande d'abord: cet esprit turbulent d'une assemblée élective se borne-t-il à faire retentir la tribune parlementaire de discours violents et impétueux? La dissolution de Vassemblèe n'a alors d'autre objet que de garantir l'existence du ministères car c'est le renversement du ministère que ces discours doivent alors produire, en lui arrachant une majorité qu'il n'est plus digne d'avoir. Et qu'importe à la nation, qu'importe au roi lui-même qu'un ministère tombe? Les mots de turbulent, de subversif sonnent si mal à des oreilles préoccupées! On peut dire tant de choses pour justifier un gouvernement qui s'en laisse effrayer! Mais que dira-t-on quand on voit décréter la dissolution d'une assemblée, sans motif ni réel ni apparent, comme cela est arrivé en France après la dernière invasion d'Espagne? Ce fut pour le bon plaisir, ou, ce qui est encore plus hideux, pour arranger des plans, pour préparer des coups, pour servir à l'ambition du ministère, en un mot, pour écraser la nation et en même temps l'insulter La dissolution de la Chambre dont il s'agit, ou n'a pas eu le motif, quel qu'il soit, que la Charte a supposé, et, dans ce cas, on doit me permettre de la considérer comme un acte de délire; ou ce motif a été contraire à relui que la Charte suppose, et on doit alors me permettre de l'appeler un acte d'oppression et de violence. Ainsi la prérogative accordée au pouvoir exécutif de dissoudre une assemblée législative est fausse, parce qu'il n'y a aucune raison qui puisse la justifier: elle est avilissante pour le monarque et pour le peuple, parce qu'en l'appuyant même sur une raison quelconque, on peut aller jusqu'à l'exercer sans raison pour servir à des intérêts qui ne sont ni ceux du peuple, ni ceux du monarque; elle est dangereuse pour toutes les parties intégrales d'une association politique, parce qu'elle peut allumer le flambeau de la guerre civile, et détruire de fond en comble le bonheur d'un État.» (Esquisse politique sur l'action des forces sociales dans les différentes espèces de gouvernement.)

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È cosa deplorabile vedere questi traviamenti di un uomo, in cui la patria riponeva molte speranze. Le persecuzioni si fecero in quegli anni continue, e colpirono gli uomini più eminenti e inoffensivi, solo che fossero chiariti di tendenze liberali e che le loro opinioni per i precedenti della vita fossero manifeste. Fra questi credo debito di giustizia nominare specialmente il marchese Luigi Dragonetti, già deputato al parlamento del 1820, uomo d'ingegno lucido, e d'idee italiane e liberali. Il governo napoletano si studiò travisare le opinioni di uomini di tal fatta, e accomunarli coi sognatori delle più pazze fantasie sociali: quanto ai Calabresi poi, tutte le volte che per causa politica si commossero, li confuse fino coi briganti. La frase sacramentale del governo napoletano (e non era il solo) nel narrare le turbolenze che qua e là andavano succedendosi, era appunto questa: «Una mano di facinorosi ha preso le armi.» Ma l'opinione pubblica non s'ingannava: e l'arresto di alcuni uomini diceva alla nazione e al mondo, che di ben altro trattavasi che di briganti o di socialisti. Per il governo napoletano però alcuni nomi, come quelli del Poerio e del Dragonetti, erano una congiura permanente: entrambi (il Poerio per la paterna eredità) rappresentavano la coraggiosa e nobile protesta, nella quale vivevano i diritti della spenta Costituzione del 1820. Quindi essi, allorché l'agitazione italiana cominciò a farsi più estesa e più profonda, furono gettati quasi tutti a languire nelle prigioni, o sottoposti alla più rigorosa sorveglianza della polizia.

Al tentativo del 1844, fatto in Calabria da uomini estranei al regno e di cui farò soggetto il seguente Capitolo, altro ne successe che fu l'ultimo innanzi la morte di Gregorio XVI. Questo accadde all'Aquila, ove le faville del 1841 non erano spente, e segui di poco al movimento di Rimini nel 1845.

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Erano sempre le stesse tendenze di formare un nesso fra le rivoluzioni del regno e quelle dell'Italia centrale, nella quale impresa la Giovine Italia consumava le sue forze, e malamente riusciva. Infatti la rivolta dell'Aquila si mostrò piccola cosa, e fu soltanto, come sempre, causa di novelle persecuzioni, di nuovi dolori e di accecamento ed ostinazione nel governo napoletano. Questo, preso particolarmente di mira dai congiurati interni ed esterni, fu per tal causa forse più restio a porgere l'orecchio alle parole di concordia fra principi e popoli che si proferivano allora da una frazione dei liberali. Siccome queste voci sorgevano a utile italiano, che non offriva al re di Napoli alcuna speranza di guadagni territoriali, sarebbe stato prudente consiglio non irritarlo almeno, suscitandogli interni continui moti. La rivoluzione italiana si maturava secondo l'indirizzo prognosticato dal Gioberti e dal Balbo, mentre appunto il re di Napoli, sovrano del regno più popoloso della Penisola, trovavasi più che mai irritato, e fatto bersaglio delle congiure. Ciò non iscusa certamente Ferdinando II di non avere scorto i suoi veri interessi, come principe italiano; ma spiega pur troppo l'avvenire e il suo procedere. Non possono peraltro tacersi queste sue disposizioni che furono dannose all'Italia; tanto più perché accompagnate dalla persuasione della sua forza, avendo fino allora combattuto sempre con energia, e sempre vinto.

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CAPITOLO LI.

I BANDIERA.

La Giovine Italia, dopo il 1840, si studiava di crescere i suoi proseliti in tutte le parti della Penisola, e non disperava potervi cominciare la guerra, come chiamavala, del popolo, per conseguire con essa l'atterramento dei governi esistenti, insieme alla cacciata dello straniero che tenevala dipendente. Come se la guerra dell'indipendenza non fosse impresa a bastanza grave da occupare tutte le forze dell'intera nazione, avrebbe voluto contemporaneamente compiervi una rivoluzione radicale, al pari della francese. Gli avanzi di tutte le sétte sperperate, di tutte le sollevazioni riuscite a mal fine, erano adoprati a quest'uopo; e dovunque sorgevano uomini generosi, giovani caldi d'amor patrio, o malcontenti d'ogni sorta, i suoi agenti cercavano d'insinuarsi e far proseliti. Il gran nemico che ella temeva e sempre più detestava, era il partito delle idee moderate; come quello che faceva ogni giorno disertar gente dalle sue bandiere. Una parte di esso che veniva da lerappellato per ischerno Neo-Guelfo, destava le sue ire, e verso il 1845 (e i fatti glielo avevano dimostrato) confessava con dolore che a quello sarebbe toccato il primato dell'opinione in Italia.1 Ma la guerra di Spagna che volgeva al suo termine, pasceva le sue speranze, perché i suoi capi speravano o poter assoldare colà abili soldati da bande,

1 Questa dolorosa ed involontaria confessione, nei termini della più grande amarezza, trovasi specialmente nella narrazione della morte dei Bandiera fatta da Giuseppe Mazzini.

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o ricondurre in patria Italiani che esercitavano con onore in quel regno il mestiere delle armi, sotto le bandiere della regina Isabella; ed in fine non disperavano che l'influsso inglese sarebbesi prestato a secondarne indirettamente le mire. Essi, conoscendo che l'Inghilterra per interesse del suo commercio aveva veduto di buon occhio, e forse agevolato il politico rivolgimento della Penisola Iberica, credevano che non tarderebbe a profittare delle agitazioni da loro preparate, per aiutare una sollevazione in Italia. Preconizzavano ed auguravano tali cose, e ponevano in bocca agli uomini di Stato d'Inghilterra queste parole: «Lasciateci finire l'affare di Spagna, e poi penseremo all'Italia.» Vane idee, e non vere che per metà.

Il grande agitatore era avvilito, più che della vanita, dei suoi sforzi, dell'esistenza di altri moderatori dell'opinione italiana. Egli voleva che si bandisse il pratico ed il possibile da un'impresa politica. Pur troppo l'Italia ha veduto che cosa sia il popolo,e se le forze siano o no da mettere in conto in una grave impresa. II capo della Giovine Italia parlava dei moderati in tal modo: «Influenti, taluni per condizione sociale o ricchezza (ninno non comprende a chi l'agitatore alluda), tutti per opinione di liberalismo forse sentito, ma di certo tiepidamente sentito, non privi d'ingegno, ma senza scintilla di genio, e guasti dalle abitudini di un'analisi gretta, sterile, cadaverica, tolta in prestito al secolo XVIli stanno fatalmente capi ed oracoli della gioventù buona della Penisola, e s'inframmettono inevitabili moderatori e te» Il Mazzini detestava nella sua politica il lato pratico e l'analisi; e l'Italia ormai dopo l'esperienza che ha fatto, detesta l'idea e la poesia. Egli stesso, sceso dalle nuvole, dovè pure abbandonare il vago, ed attendere all'analisi gretta, sterile e cadaverica. Forse,mentre la Costituente romana lo destituiva da un lato, e i repubblicani francesi cannoneggiavano dall'altro l'opera delle sue mani; mentre le voci non solo degli ultra-conservatori europei, ma quelle ancora degli onesti liberali si volgevano contro di lui in quel tempo medesimo che i campioni della sua setta, o gridavano (come il Garibaldi) «che egli guastava tutto ciò in che metteva l'opera sua,» o si lagnavano di non vederlo giammai a San Pancrazio ove si combatteva; mentre, dico, trovavasi in questa crudele, ma ineluttabile e cadaverica realità, in questo terribile disinganno, avrà ricordato forse le profezie degli uomini dall'analisi gretta e sterile, e forse anche bramato di non essere venuto mai all'azione (uomo come egli era d'idea e non di realtà) e di non avere perduto quindi la nubìlosa sua veste d'agitatore e di congiurato.

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Imperocché, se l'influsso inglese non può non guadagnare dal progresso ragionevole del liberalismo in Europa, se l'interesse di quel potentato è senza dubbio di affievolire la Russia sua rivale, al che nulla può giovarle più dell'atterramento dell'assolutismo e del resuscitare alcune spente o sparse nazionalità sul Continente; all'incontro l'Inghilterra ha tali interessi di conservazione da essere costretta a non porsi alla discrezione dei demagoghi, e sopra tutto da non confondere le idee di giusta e saggia libertà con quelle del più pazzo radicalismo, il quale presso i popoli stanchi dei disordini non è che una propaganda utile alla sua rivale. Poteva quindi volere l'Inghilterra il progresso di alcune idee, la modificazione di alcune condizioni politiche, ma con passo lento e sicuro, e massimamente senza trascendere gli ordini governativi e sociali che essa ha, conserva e difende a casa sua, e che da cento sessanta anni sono la sua forza e fortuna. Ma frattanto la Giovine Italia di tutto si giovava per esaltare le fantasie della generosa gioventù; e dove i suoi agenti non potevano giungere, penetrava la sua stampa, il suo giornale che clandestinamente introduceva in tutte le Provincie italiane, anche nei dominj austriaci, e sino nelle file delle sue milizie. Questo giornale che subì varie trasformazioni e a cui prestavano la loro opera molti emigrati, non mancava sovente di fatti di un'esattezza non comune in quei giorni, nei quali la pubblicità in Italia era oltremodo ristretta e contrastata dal governo.

La marineria dell'Impero, formata quasi di soli Veneti, era naturalmente scontenta, come tutti i condannati a servire lo straniero, e più che scontenta, avvilita. E ciò ben si comprende. I Veneti vedevano la loro flotta, nella quale era la tradizione di tutte le glorie loro, tutto l'orgoglio della cessata grandezza della patria, servire agli interessi stranieri: sui navigli che superbi già solcavano il loro mare, non più la gloriosa bandiera di San Marco, ma i colori austriaci e l'aquila imperiale sventolavano.

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Era questo un avvilimento che doveva rendere più sensibili all'onta del servaggio straniero gli ufficiali veneti a bordo dei loro vascelli, e farli più impazienti dei concittadini che l'Italia credeva baciassero più o men rassegnati le loro catene sulla piazza di San Marco. Questo malcontento però della marineria austriaca era lontano dal dare copioso contingente alla Giovine Italia; ma avrebbe potuto darlo all'Italia, se se ne fosse saputo trarre partito all'opportunità. Tre di quegli ufficiali, più degli altri impazienti, spontaneamente si aggregarono alla sétta. Secondo i documenti dati al pubblico dallo stesso Giuseppe Mazzini, non prima della seconda metà del 1842 si sarebbe spontaneamente a lui diretto per primo uno di essi, Attilio Bandiera, figlio dell'ammiraglio barone Bandiera. Egli era alfiere di vascello sulla fregata Bellona, e si era associato nelle speranze il fratello Emilio alfiere di fregata, e Domenico Moro luogotenente sull'Adria. La professione di fede che Attilio fece all'antesignano della sétta, è una lacrimevole prova della inestricabile confusione d'idee, la quale si era formata nel suo capo alla lettura degli scritti del Mazzini. Di cuore buono e accesa fantasia, egli si abbandonava non a disegni politici soltanto, ma alle più pazze utopie umanitarie. Diceva schiettamente, formulando le sue idee su quelle del Mazzini: «Io mi persuasi facilmente, che la via più probabile per riescire ad emancipare l'Italia dal presente suo obbrobrio consisteva forzatamente nel tenebroso maneggio delle cospirazioni.» Emilio poi, l'altro fratello, compieva la comune professione di fede con queste parole: «Noi volevamo una patria libera, unita, repubblicana.» Non ci fermiamo sul rifacimento della Carta dell'Europa che essi desideravano, e che il Mazzini fece conoscere pubblicando il loro carteggio; quelle idee mostrano a bastanza che se il cuore era puro e generoso, la mente era traviata da strane illusioni, e pasciuta di vani disegni.

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Infelici! troppo presto rapiti all'Italia, senza potere ricevere la lezione dei tempi che s'annunciavano maturi per l'effettuazione di più sani concetti e per l'applicazione di principj più ragionevoli; lezione, cui pure s'illuminavano tanti altri giovani già imbevuti dei pregiudizj medesimi, e trascinati fuori di via a sventura loro e della patria! Io credo che i Bandiera, soldati, non avrebbero esitato all'occasione nella scelta fra il pratico e l'immaginario. L'impazienza di naturale e la smania d'azione gli spinse nella Giovine Italia, come molti altri; e come questi, l'avrebbero l'orse abbandonata, quando quell'impazienza poteva trovare giusto sfogo in più sane e ragionevoli speranze. Le loro tendenze repubblicane non apparivano municipali; poiché abbracciando il concetto unitario dell'italianità, facevano volentieri sagrifizio dell'autonomia veneta all'unità nazionale. Ma io stimo che le tendenze repubblicane non fossero dissociate dal loro essere e dalle loro tradizioni veneziane; la qual cosa era molto naturale e facile a comprendersi. Perciò, se fra le dottrine contrastanti allora in Italia abbracciavano la repubblicana, benché la formula di questa fosse affatto diversa da quella sulla quale era foggiata la morta repubblica di San Marco; certo è che le reminiscenze della seconda succhiate col latte dovevano avere ingenerato nel loro animo questa tendenza coesistente con essi e, quasi ho detto, preesistente ad essi. All'occasione spontaneamente erompeva: e se quella dottrina vestiva altre forme, ripeteva bensì un nome cui erano abituati a rispettare. Questa aggregazione dei Bandiera alla Giovine Italia fu una sventura per essi e per la patria, mentre il Mazzini credé di essersi avvantaggiato assai coll'avere sull'albo quei tre nomi, parendogli quasi di tenere con loro in sua mano la flotta imperiale.

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Le dichiarazioni di Attilio Bandiera furono accompagnate da altre più esplicite fatte verbalmente da Domenico Moro, il quale con la fregata su cui prestava servizio aveva approdato in Inghilterra, ed erasi procurato col Mazzini stesso un segreto abboccamento a Londra. Era quel tempo appunto, in che la Giovine Italia si adoperava a preparare la rivoluzione del 1843. Accennai in più luoghi le cause dello scioglimento di quella macchina di guerra preparata dai Mazziniani. I Bolognesi erano eccitati con le speranze di Napoli, i Napoletani con quelle delle insurrezioni generali: ai Siciliani si prometteva l'aiuto di tutta la Legione Straniera che combatteva in Spagna, mentre i settarj non disponevano che di pochi uomini della medesima: a questi pochi poi si dipingeva l'Italia pronta a gittarsi tutta sugli Appennini, e molte bande dicevansi già esservisi gittate; mentre le tendenze rivoluzionarie tanto diminuivano, quanto quelle liberali e nazionali crescevano. Delle voci di tutta questa agitazione si empivano le orecchie ai Bandiera ed ai loro simili per viepiù esaltarli, e con tali mezzi si sperava compromettere tutti contemporaneamente, l'uno nella speranza dell'altro: ma si raccolse, come sempre si raccoglie dalla frode, amaro disinganno. Il Mazzini si lamentò degl'indugi dei prudenti che volevano accertarsi della verità delle promesse. E perché ciò? Perché l'attendere metteva in chiaro quella complicata matassa di esagerazioni. I Siciliani stessi, benché fossero il popolo più bollente ed esacerbato d'Italia, e proclivi a dare ascolto agli emissarj della Giovine Italia, non certo per secondare i principj unitarj e repubblicani di essa, ma per averne soccorso a rivoluzione che ad un odioso stato ponesse termine, respinsero le proposte dei settarj; ed all'offerta fatta loro dal maggiore Ribotti della Legione Straniera, risposero che sarebbero insorti, quando avesse messo piede in Sicilia.

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Così la congiura mal divisata e fondata sul falso non riesciva a nulla in quei giorni, e sarebbe riescita a peggio ancora, se i concerti non si scioglievano di per sé. Imperocché (e i fatti l'hanno pur troppo chiarito) il popolo facile a farsi guidare ed a seguire l'impresa nazionale, se sia condotta da capi conosciuti e rispettati, non sarebbesi mai gittato in una rivoluzione tumultuaria, contro la quale stavano le abitudini sue medesime, e, conviene anche dire, molte delle sue idee. Nè può tacersi che una parte del popolo, la più rozza sì ma la più numerosa, non comprendeva molti dei più nobili sentimenti che agitavano la nazione, e molti eziandio temeva, perché altre volte avevali veduti congiunti ad idee criminose o matte, che ne spaventavano o le credenze o gl'interessi. I fatti parlarono chiaramente nel 1848. Giuseppe Mazzini non comprendeva questo vero stato del popolo: perciò scrivendo della resistenza dei moderati, e delle opposizioni che per parte loro trovava nel 1844 alle sue improntitudini, diceva: t Tutta la questione sta nel decidere se, per malcontento, per istinto di patria, per universalità d'opinione, il popolo d'Italia è pronto per il tentativo o non è. I Bandiera, ed io consentiva con essi, ritenevano che fosse maturo; però anelavano azione: e se gli uomini della primavera non erano,1 avrebbero agito.» Difatto i due fratelli avevano sin da quei giorni meditato la diserzione, sperando che l'esempio loro avrebbe imitatori nella flotta quasi tutta italiana; anzi se si deve credere a quel che afferma Giuseppe Ricciardi1 (e trattandosi di un disegno non lo ricuso), levavano le loro speranze fino a credere di potersi impadronire d'una fregata austriaca, e condursi con quella improvvisamente a Messina a piantarvi bandiera italiana.

1 Così chiama per ischerno coloro che prendevano tempo, a fine d'ottenere da esso più sani consigli per gli sfrenati ed avventati.

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Era forse anche questa una delle mille illusioni e delle mille fantasie del Comitato mazziniano. Né riflettevano costoro, Messina esser guardata da una delle più forti e munite cittadelle, che è la miglior guarentigia del re di Napoli per la sua signoria sull'isola intiera; e perciò, qualunque altra città essere stata meglio di Messina opportuna per eseguire l'audace tentativo. Ignoravano pure che la Sicilia, pronta sempre ad una rivoluzione siciliana, non accoglieva se non con freddezza e diffidenza quei divisamenti di gente a lei ignota, ispirati da vaghe idee; perché ella aveva sempre uno scopo unico e preciso nei suoi sforzi e nelle sue mire. E la forza dei suoi conati stava appunto in questo scopo concreto.

Una guerra di popolo, quale volevasi, speravasi e sospiravasi, se ovunque appariva impossibile, in Sicilia era più che altrove. Il popolo pronto ad insorgere al grido di viva Sicilia, sarebbe stato muto spettatore all'udire l'altro di viva Italia, espresso anche con la formula più astratta possibile. Lo stesso poteva con poca differenza dirsi del regno di Napoli. I fratelli Bandiera non sapevano questo, usi com'erano per natura a vedere tutto con l'imaginazione, e condannati per la loro qualità d'ufficiali austriaci ad essere ignari di ciò che veramente accadeva, e a dover per trista necessità credere ciecamente alle relazioni del Mazzini e degli altri congiurati, che tenevano con essi clandestino carteggio. L'essere venuto il governo austriaco a notizia delle loro trame (od almeno lo ebbero a temere con fondamento), li spinse alla fuga ed alla diserzione. Alla metà di marzo 1844 Attilio Bandiera era in salvo a Sira; Emilio poté ancor egli fuggir da Trieste e guadagnare Corfù, ove il governo austriaco gli fece promettere amnistia che non accettò, benché la madre medesima fosse apportatrice delle lusinghiere offerte.

1 Ragguagli Storici sui fratelli Bandiera.

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Aveva a cuore quel governo che non si propalasse il fatto della diserzione, e che l'esempio non procurasse seguaci. Non è da stupire se il Bandiera non credette a tali lusinghe: niun uomo di senno avrebbe forse approvato, dopo la diserzione, il ritorno alle bandiere sotto la fede d'una pro messa, che per di più non veniva fatta se non indirettamente. Citati poscia offlcialmente dal Comando dell'imperiale marineria a comparire il 4 maggio per esser giudicati, negarono ancora più ragionevolmente. Alla metà di quel mese Domenico Moro, toccando Malta col vascello Adria su cui era luogotenente, disertò per raggiungere i suoi compagni e sottrarsi a personali pericoli. Non aveva che 22 anni! Quali che fossero i disegni del Mazzini sui Bandiera, certo è che questi disertarono nel mese appunto che si tentava un'insurrezione nelle Calabrie. Sembra che in quei giorni il primo volesse profittar di loro per una spedizione, la quale forse non ebbe luogo per la poca importanza di quel movimento, che da più di un anno si prometteva e si preconizzava per sicuro dagli agenti della Giovine Italia. Che nel marzo e nell'aprile qualche accordo fra il Mazzini ed i Bandiera vi fosse, non posso dubitarne; giacché in una lettera di Attilio al primo, scritta il 21 maggio, si dice d'aver domandato al Fabrizi i 3000 franchi «dei quali mi avevate un tempo accordata autorizzazione.» Fallito quel tentativo, speranzosi per le notizie che ricevevano di Calabria, ove dicevasi gl'insorti essersi ricoverati nelle boscaglie e nelle gole montuose, volevano sui primi di maggio rompere ogni indugio.

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L'impedirono il Mazzini da Londra, e Niccola Fabrizi da Malta, perché non volevano che la mina scoppiasse innanzi tempo. Il disegno dello sbarco degli emigrati da operarsi in alcuni punti d'Italia e della guerra di bande da cominciare, essi lo credevano un segreto, mentre da tutti era conosciuto. Da una parte il governo inglese apriva le lettere del Mazzini, dall'altra i suoi più fidi si facevano delatori presso le polizie italiane; infine poca disciplina era nella setta stessa, e i liberali moderati le intralciavano il cammino ad ogni passo. Il Mazzini, a togliere dal suo capo la responsabilità di quel crudele sacrificio di venti miseri giovani, pubblicò il suo carteggio (cioè parte di esso) coi Bandiera. Stando a questo, è certo che il tentativo dei primi di maggio, vale a dire l'impazienza dei due fratelli fu raffrenata. Intanto però il disegno dello sbarco su qualche punto d'Italia era in massima stabilito, e gli emigrati avevano versato anche una tassa di volontaria contribuzione nella cassa della Giovine Italia per quell'impresa, in quei medesimi giorni. Ma gli accordi essendo presi in massima, in pratica poi regnava sui mezzi il maggior disparere; poiché il sistema d'ingannarsi reciprocamente, di parlarsi sempre un linguaggio esagerato, produceva i suoi frutti, cioè l'anarchia al momento dell'esecuzione, entro le file medesime dei congiurati. In ciò la Giovine Italia era meno forte dei Carbonari e dei Massoni, perché meno compatta. Dal carteggio del Fabrizi rilevo che le sue idee e gli accordi presi concludevano di dovere attendere, ed anzi insisteva per un'altra impresa diversa dalla calabra. Qual si fosse questa, se non ce lo dicessero i fatti, ce lo dice la narrazione del Ricciardi (uomo certamente non ignaro dello stato delle cose), il quale accenna manifestamente al disegno di sbarcare negli Stati romani.

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Infatti le trame bolognesi in quel tempo medesimo si stringevano, e si andava pensando che l'irritazione sarebbe grande in Romagna dopo le esecuzioni del 7 maggio. Non era dunque fra i Bandiera e il Mazzini questione di cosa (come sembrerebbe voler egli far credere), ma di luogo e di tempo, e di breve tempo. I Bandiera attesero, ma vollero far prevalere la loro opinione circa il luogo. L'uomo destinato a cominciare la guerra sull'Appennino romano era un nativo dello Stato pontificio, che militava con gloria in Spagna: antico liberale, ma sì ancora antico amico del Mazzini e proclive sempre al partito esagerato, ripromettevasi molto per il suo personale ascendente. Era questi Niccola Ricciotti. A norma dei presi concerti, abbandonò la sua carriera intrapresa in Spagna: congedatosi di colà recossi in Italia, allorché alcuni altri Spagnuoli pratici della guerra per bande, lusingati dalle promesse e dalle esagerate notizie dei Mazziniani, erano allo stesso fine sbarcali in Toscana, donde fieramente sdegnati presto tornarono in patria. Il Ricciotti trattenuto a Marsiglia, recossi poscia a prendere gli accordi a Londra, ed eccolo sopraggiungere a Corfù ai primi di giugno. Egli era destinato a farsi capo del nuovo tentativo. «Il luogo d'Italia dove egli per propria scelta, per invito d'altri, e per ingiunzione strettissima degli amici che gli spianavano la via, doveva cercare d'introdursi, non apparteneva ai dominj del governo napoletano.» Così il Mazzini nel suo racconto. Questo luogo era manifestamente, già lo dissi, lo Stato romano. Dovevano eglino i Bandiera far parte della spedizione, o attendere l'esito di quei primi tentativi per aiutare un moto calabrese, se sorgesse a secondare il romagnolo e il marchigiano? Probabilmente il primo supposto è il più vero. La Giovine Italia dunque, che cercò liberarsi dalla responsabilità di quelle morti, voleva sacrificare questi uomini piuttosto nell'Appennino romano che nella Calabria.

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A ciò si riduce il giuoco di parole della difesa del Mazzini, cui presta appoggio fortuito il caso dell'insubordinazione di quei meschini.

Il Ricciotti, giunto a Corfù, trovò la piccola compagnia apparecchiata dai Bandiera fino dai primi di maggio, e volle profittarne per la sua spedizione; ma la mancanza di mezzi per tragettare il mare, le nuove di Calabria e l'antico desiderio de'  Bandiera medesimi, fecero prevalere altro consiglio. Come l'amico di Parigi aveva dato notizia al governo romano della tempesta che il sinedrio mazziniano contro di esso slava adunando; così questi o partecipò al governo napoletano quello che lo concerneva, se i Bandiera erano realmente destinati a scendere in Calabria, o prese accordi (cosa eziandio non improbabile) per eccitare i rifuggiti che trovavansi a Corfù, a tentare uno sbarco in luoghi preveduti o ben muniti dal governo di Napoli, e men pericolosi delle provincie romane incitate in quel tempo soverchiamente. È certo che una comunicazione fu fatta in proposito dalla Corte di Roma al governo di Napoli, e non può essere stata se non in uno dei due modi da me indicati;1 com'è pur certo che queste comunicazioni ebbero per fondamento le denuncie ben pagate, delle quali feci motto altrove. La spedizione di Calabria fu risoluta, a quanto dice il Mazzini, il giorno 9 o 10 giugno improvvisamente, mentre l'8 il Ricciotti annunciava la partenza con tutta la banda per gli Stati romani. Se altri ordini loro sopraggiunti, o le nuove di Calabria, come assevera il Mazzini, o il dissenso fra i Bandiera e il Ricciotti, come dice il Ricciardi, decidessero quel cambiamento, è difficile poter affermare.

1 La polizia romana aveva sempre prestato soccorso alle altre polizie italiane, ed alla stessa polizia austriaca di Milano. Fino dal 1814 la polizia austriaca dicevasi debitrice alla prima dei lumi che riceveva sull'ordinamento delle sette, e sullo scopo e sulle diramazioni della Carboneria.

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Nella notte dal 12 al 13 giugno salpavano per la Calabria, ed invitavano Giuseppe Mazzini a volerli seguire nella impresa concordemente stabilita. Essi gli narravano mirabili cose udite da capitani provenienti da Napoli, sulle insurrezioni di più provincie, e più mirabili speranze ancora. Il Mazzini accusa in questo di tradimento la polizia napoletana ed i suoi emissarj, né invero è cosa impossibile; ma può essere diversamente. L'uso delle esagerazioni ed invenzioni per accendere e spingere non era nuovo in quella setta, e pur troppo anche l'anno innanzi gli agenti della Giovine Italia, e non le spie del re di Napoli, narravano, con lo scopo medesimo di promuovere una rivolta, le fole stesse in Toscana ed in Romagna. La spedizione fu composta di venti: Niccola Ricciotti, i due fratelli Bandiera, Domenico Moro che il lettore conosce, Anacarsi Nardi della Lunigiana, nipote del dittatore di Modena e segretario di quel governo provvisorio nel 1831, uomo di toga, Francesco Berti di Lugo, Domenico Lupatelli di Perugia prigione nel 1831 e poi esiliato, il Rocca di Lugo e il Venerucci di Rimini, giovani artigiani, e uno d'essi ai servigj del poeta greco Salamos, il Mazzuoli bolognese, il Miller di Forlì, esule nel 1832, l'Osmani di Ancona, il Manessi di Venezia, il Piazzoli di Forlì, il Natali di Forlì, il Pacchioni di Bologna, il Napoleoni di Corsica, il Mariani di Milano, cannoniere ai servigj dell'Austria, i due fratelli Tesei di Pesaro, il Boccheciampe còrso, e un calabrese, la cui venuta aveva forse deciso il cambiamento fatale.1

1 In questo cambiamento rimane sempre un mistero il non vedere, dal tenore della stessa lettera scritta al Mazzini dai Bandiera, discusso o espresso un disegno nuovo. I termini anzi sembrano annunciare cosa concertata. Di più, il danaro necessario per noleggiare la barca, donde venne?

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Dopo quattro giorni di penoso viaggio prendevano terra, e con sincero entusiasmo baciavano il suolo d'Italia la sera del 16 giugno agli sbocchi del fiume Neto. S'imboscarono immediatamente e presero la via di Cosenza, ove speravano fare una sorpresa. Il Mazzini1 assicura che essi pensavano liberare i detenuti politici, cominciare così la sollevazione, ed ingrossarsi con loro. Recavano seco proclami già fatti, uno agli Italiani, e l'altro ai Calabresi, che ambedue erano un compendio dei principj della Giovine Italia. Dopo avere camminato un giorno ed una notte per boscaglie e dirupi, giunti presso Santa Severina si adagiarono per riposare: quivi il Boccheciampe disparve, e recatosi a Cotrone denunciò infamemente i compagni. L'Intendente pose tosto sotto le armi la milizia urbana, guardia istituita, come già dissi, a soccorso della polizia; e cominciò a dare la caccia a quegli infelici, come a briganti.

 Il Fabrizi avevalo negato nel mese di maggio, e allóra i Bandiera eransi spropriati di tutto per acquistare le armi All'improvviso ai primi di giugno cessarono le difficoltà pecuniarie. Non credo inutile far vedere partitamente come la difesa del Mazzini sia un giuoco di parole e nulla più, per mostrare assai chiaro come sia vero quel che diceva più tardi lo stesso generale Garibaldi «che quell'uomo guasta tutto ciò che tocca.»

2 Se il disegno della spedizione calabra era improvvisato, essendo stati presi tutti quegli sventurati e i capi morti, come il Mazzini ne conosceva egli le intenzioni? Non v'ha in ciò più apparenza di accordi? E naturale poi la contradizione fra il racconto del Mazzini e quello del Ricciardi. Il primo accusa di traditrici le voci che correvano sulle cose calabresi in Corfù, asserisce niun accordo esservi stato, e la partenza risoluta improvvisamente. L'altro dice chiaramente: «ma qui mi e forza limitarmi ad affermare ai miei leggitori che terra amica era quella (la Calabria), e che l'impresa tentata da quei vatorosi non venne tentata alta cieca.» Dice inoltre' che la partenza fu procrastinata da Corfù d'un giorno, perché si temeva fosse impedita dal governo inglese. Dunque non necessitarono forse spie ne provocatori, e l'impresa lungi dall'essere improvvisamente risoluta, era giù anche nota pubblicamente. Tutti gl'indizj e i confronti ci dicono chiaramente che il Riccioli! fu il portatore degli ultimi ordini del Mazzini, e che per aspettare lui soltanto si facessero le opposizioni ai Bandiera nel mese di maggio. Dunque non solo non inconsapevole il Mazzini, ma lui consenziente ed ordinante fu stabilita la spedizione; e vi è ragione di credere che anche del luogo non fosse ignaro, od almeno fossero al Ricciotti lasciate le facoltà sulla scelta del medesimo.

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Una prima imboscata presso a Spinelli fu respinta con la morte del capo urbano Arcuri e d'un gendarme, non ostante che meglio di settanta fossero gli assalitori. Ma il giorno 19 giugno denunciati i loro passi dai contadini e da un oste ove si erano rifocillati (questi i principj della guerra del popolo!), furono avviluppati da molti armati di S. Giovanni in Fiore, parte urbani e parte zelanti realisti, e alla sprovvista vennero fatti prigioni. Alcuni poterono evadere allora, ma il giorno seguente si presentarono al principe di Cerenzia, che poi fu crocesegnato: il Miller e Francesco Tesei morirono nella zuffa, il Nardi, il Moro vennero feriti, ed Emilio Bandiera si slogò un braccio. Così in dieci minuti era distrutto questo nucleo di guerra, e per opera di urbani e col soccorso dei contadini. Amaro disinganno! fin la parte della popolazione che non sarebbe stata sorda ad altri inviti, fatti da uomini nativi del regno e in nome d'interessi locali, stava muta e stupefatta, non sapendo ciò che accadeva, non intendendo il significato della cosa, né le intenzioni di quei venturieri. La loro età peraltro e il nome non tardò ad eccitare qualche simpatia; e per molti furono eroi, solo perché avevano preso le armi contro un governo da loro universalmente detestato. La prigionia durò trentadue giorni. Questo avvenimento fece grande impressione in Italia. Gli uomini dalle bande, gli adoratori della mistica divinità che dava da Parigi i suoi responsi, rimasero storditi; i moderati liberali deplorarono la sventura di quegli infelici direttamente od indirettamente sospinti al sacrificio, e, che più è, le conseguenze naturalmente prevedibili d'un fallito tentativo. Molti anche degli altri cominciarono a mormorare contro il Mazzini per la sua avventatezza, vinti dalla pietà di quelle vittime veramente immolate alla sua idea: egli tentò purgarsene, e male vi riuscì.

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In mezzo a tutto questo molti non disperavano. Il giudizio era ritardato oltre il consueto; perché, secondo il costume del governo napoletano in altri simili casi e secondo gli ordini del ministero giunti, a quanto si disse, il primo giorno, crede vasi che sarebbero stati fucilati 48 ore dopo la loro cattura. Dicevasi che essendo sudditi esteri verrebbero consegnati ai rispettivi governi, e specialmente i Bandiera, su cui si rivolgevano le simpatie universali, sarebbero resi all'Austria; si aggiungeva eziandio che l'arciduca Federico compagno d'armi e d'educazione d'Emilio, uno dei due fratelli, aveva intercesso presso la regina sua sorella per ottenergli col suo mezzo dal re la grazia della vita. Vanamente il pubblico sperò. Il re trovavasi allora in Sicilia. 0 credesse doversi usare l'estremo rigore, o prendesse opportuni concerti col governo austriaco, e questo fosse pago di trovare chi si facesse suo carnefice, e desse in suo nome (e senza sua odiosità) un esempio di terrore anche ai suoi soldati men fidi; certo è che si lasciò libero corso, non dico alla giustizia, ma alla ferocia del tribunale eccezionale. Invero non essendo cominciata sollevazione, la sola presenza nel regno, le sole intenzioni espresse con proclama, e la difesa contro l'assalto, non erano delltti tali da costringere il governo alla trista necessità di spargere tanto sangue, e sangue cosi generoso. Ma il governo napoletano era ormai da lungo tempo avviato su quella strada; e fece a Cosenza ciò che aveva fatto altrove. I particolari di quel processo sono ignoti al mondo, perché stanno registrati negli atti deposti negli Archivi del regno napoletano. Niuno li vide, e perciò in mancanza di altre più gravi e coscienziose autorità, la storia, benché ripugnante, trovasi fin qui costretta a cercarne una nelle pagine del visconte d'Arlincourt; alle quali non attingerebbe invero, se non fosse il difetto assoluto di testimonianze migliori

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e la certezza che egli abbia avuto il raro privilegio di esaminare liberamente le carte di quel governo, che contro ogni legge furono tolte dagl'archivj della provincia insieme col processo del fatto colà avvenuto. Ma citando questa autorità, non posso a meno di protestare che mi duole non poterne recare una migliore. Narra dunque il d'Arlincourt, che due giorni dopo la cattura, cioè il 22 giugno, Attilio Bandiera aveva scritto una lettera a re Ferdinando per esporre le sue intenzioni; la quale, mentre palesa l'eccesso della sua buona fede, conferma i prognostici da me fatti sulla sostanza delle sue idee, e sul modo con che, io mi credo, avrebbe combattuto per la patria nel 1848, se la sventura non lo avesse colto quattro anni innanzi. Benché unitario, avrebbe sacrificato sinceramente le idee repubblicane all'indipendenza della patria, a cui si offeriva in olocausto. Scrivevagli adunque in questi termini che traduco dal testo francese del visconte legittimista: «Il vero scopo proclamando l'indipendenza in Calabria, era di servire la causa dell'Unità Italiana. Se voi volete diventare il sovrano costituzionale di tutta la Penisola, io mi dedicherò, corpo ed anima, a V. M.»t Oh perché, anima generosa, non ti serbasti con più senno a quei giorni, nei quali la bandiera da te vagheggiata doveva sventolare gloriosa sugli scudi di Savoja, e il re che tu cercavi, sarebbe sceso alla pugna bramata per la indipendenza della tua patria? Al terzo interrogatorio che quelli sventurati subirono il 23 luglio innanzi la corte marziale,

1 Il d'Arlincourt cita il fascicolo 19 del processo Bandiera, nel quale dice trovarsi la lettera di Attilio di cui dà il brano trascritto. £ qui è facile l'osservatone che distrugge del tutto l'asserzione del visconte, cioè che dal processo ahhia egli cavata cotesta lettera. Imperocché diretta essendo la lettera al re, o il re la passò alla corte giudicatrice siccome elemento di prova a danno di quei sciagurati, o debbessere falsa la lettera, o falso il modo di pubblicarla.

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il procurator generale Giuseppe Dalia domandò la pena di morte per tutti, e per tutti fu proferita la sentenza di morte; salvo che pei cinque presentati, in forza di una legge del Regno, ebbe a farsi la solita raccomandazione alla grazia sovrana. Il Boccheciampe era solo per forma condannato a cinque anni di prigionia: trovavasi presente al giudizio delle vittime da lui vilmente tradite. Tutto il giorno 2ì luglio i 13 condannati furono rinchiusi in cappella, cioè i due Bandiera, Ricciotti, Moro, Nardi, Berti, Lupatelli, Venerucci,Pacchioni, Osmanni e Natali. Ma di Napoli si segnalava che se ne moschettasse la metà fra tutti, cioè i primi nove. La lunghezza del processo, le grida d'ogni parte d'Italia, le qualità personali dei condannati, l'atrocità della pena mossero poscia a sdegnosa compassione i Calabresi. La mattina del 25, quei nove miseri velati a bruno e vestiti di nera cappa traversarono la città di Cosenza, in mezzo ad un popolo cupamente silenzioso. La truppa eseguiva la sentenza, ed essi morivano gridando Viva Italia; alla quale pur troppo la loro impresa, se togli l'esempio del coraggio e il merito del sacrificio, doveva essere più di danno che di vantaggio. I Calabresi li compiansero sinceramente, benché essendo ignoti al loro cuore innanzi la sventura, non gli avessero secondati nei loro tentativi. Il sepolcro dei Bandiera fu oggetto di venerazione, e il loro nome volò da un capo all'altro della Penisola, cinto dalla luminosa aureola del martirio. La Giovine Italia li vantò martiri del proprio partito, la qual cosa nocque doppiamente all'Italia, cui era già grande sventura che fossero spenti innanzi tempo ed in vane imprese giovani coraggiosi e fervidi amanti della sua indipendenza. L'impazienza gli aveva fatti consorti dei radicali, e l'impazienza li trasse a rovina.

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Essi avevano fremuto all'aspetto delle tristi condizioni della loro patria, e si erano scaldati agli eccitamenti che ricevevano continuamente dagli emigrati; dimenticando la gran verità del Machiavello sugli esuli, che non fu mai così vera come in Giuseppe Mazzini. Essi avevano mormorato coi loro concittadini sulla differenza dai detti ai fatti di molti esuli, che da luogo sicuro eccitavano a farsi ammazzare, e nelle diverse rivolte italiche non comparivano mai:1 fatti esuli, anch'essi secondarono i più impazienti partiti e ciecamente si prestarono ad un'idea stoltissima, per non far cadere sul loro capo l'accusa che avevano forse scagliata, o udito scagliare sull'altrui.

Cosi perivano i fratelli Bandiera e i loro compagni. Il re di Napoli ne raccoglieva l'odiosità presso gl'Italiani; e se fino a quel momento era riguardato come capo di uno Stato male e crudelmente governato, d'allora in poi la sua causa da quella degl'Italiani parve onninamente disgiunta. Invero quel macello (che fu tale anco nei modi dell'esecuzione) fu cosa non solo ingenerosa ed ingiusta, ma sommamente impolitica. Conciosiaché niuna necessità lo spingeva a quel rigore, e nell'immolare i Bandiera appariva, anzi che padrone in casa sua, ubbidiente esecutore di ordini ricevuti da Vienna; tanto più che il ritardo, e qualche parola postagli in bocca mentre era a Palermo, dinotavano nel suo animo esitazione gravissima.

1 Emilio Bandiera schiettamente esprimeva al Mazzini questo pensiero, che mi piare vedere da lui riprodotto; poiché per ogni parte ci palesa lo stato degli animi di quei giovani: «E in Italia (diceva Emilio, ed era santa verità) si comincia a credere che quei di fuori, impazienti di trionfare, fanno vedere ogni cosa in color di rosa, e sperano che un caso trarrà d'una debole scintilla un generale divamparsi, e però stanno pronti a profittare del buon esito senza durare la prima incertezza. E noi recentemente proscritti, fummo testimonj quanto siate voi (ingiustamente, lo accordo) calunniati per non esservi fatti ammazzare ec.»

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La Giovine Italia, non ostante le grida dei più saggi italiani e fin della più sana parte degli emigrati, prosegui imperturbabile l'opera sua. Il tentativo di Rimini e quello dell'Aquila l'anno appresso furono altri sforzi conformi a questo ed ai precedenti. Anche negli ultimi giorni di Gregorio XVI, nella primavera del 1846, i suoi capi volevano tentare un altro sbarco di emigrati su quella costa d'Italia; tanto poco avevano appreso dalla sventura dei Bandiera. Ma dopo questa rivolsero gli occhi più verso il centro che verso l'estremità della Penisola. Dissero non riuscita l'impresa, perché operata erasi in Calabria anzi che negli Stati romani, ove, secondo il parere del Ricciotti, doveva compiersi. Quindi il tentativo di Rimini prima non voluto e poi secondato; quindi forse l'altro sbarco, ideato e non compiuto nel 1846, che doveva eseguirsi in Civitavecchia, ove però un bastimento sardo si pose in crociera per prevenirlo. Ma il credito della Giovine Italia si andava logorando per i mali successi, e questa fu la maggior ventura dell'Italia; poiché se qualche cosa poté tentarsi poi, se si riusci a gettare le basi almeno dell'avvenire, si deve in gran parte all'ecclisse momentanea di quella infausta cometa, alla quale ormai non guardavano i più degl'Italiani come a norma del loro viaggio. E così pur troppo, se tanti sforzi furono poscia vani, se l'opera ben cominciata non poté compirsi, l'Italia lo ripeté dall'essere quell'astro infausto novellamente comparso sull'orizzonte, dopo la malaugurata rivoluzione parigina del 24 febbrajo 1848.

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CAPITOLO LII.

LA SICILIA E LA COSTITUZIONE.

In mezzo a tutto questo movimento delle singole parti d'Italia, in mezzo a tutti questi elementi di disordine, di ruina e d'incendio che ne rendevano incerta la condizione, l'isola che giace alla sua estremità, non era rimasta estranea pur essa all'agitazione, la quale di tutti gli animi si era impadronita, sì dei governati come dei governanti. La terra che fu cuna dell'italico linguaggio, la terra che ai popoli oppressi da un altro popolo lasciò l'unico e tremendo esempio palermitano, la terra che aveva le tradizioni più gloriose delle lotte d'indipendenza, e aveva saputo serbare più degli altri intatti i diritti alla libertà, freno al dispotismo; questa terra non poteva non commuoversi fino nelle più profonde sue viscere, allorché quelle due idee facevano battere i cuori, e preparavano strepitosi rivolgimenti alle provincie ad essa contermini ed a tutta la nazione, di cui ella sentiva con fiero e giusto orgoglio essere una delle più nobili parti.

Ma la comune agitazione era, più che causa, occasione alla sicula. Imperocché essa aveva cause sue e speciali, per cui fin nell'universale silenzio avrebbe certamente fatto sentire il minaccioso suo grido. Se anche tutta Italia avesse seguitato a danzare sui ruderi della propria gloria e sulle spoglie lacere del proprio onore, come faceva nel secolo XVIII;

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se avesse continuato a baciare le catene che le stringevano i polsi, a dormire sonni voluttuosi e vigliacchi; se non avesse partecipato alla gran rivoluzione che aveva cambiato la faccia di tutta l'Europa, ed avesse benedetto gli accordi del 1815, i quali le assicuravano il bene di godere l'azzurro del proprio cielo, e di far godere ad altri le ricchezze del proprio suolo; se anche tutto questo, per impossibile, fosse potuto accadere, la Sicilia sarebbesi agitata senza e a malgrado del resto d'Italia. E quali erano queste cause di speciali commozioni? qual era questa fiamma tutta propria che guizzava nelle ime latebre dell'Etna? Non è difficile invero il raffigurarla. La Sicilia aveva diritti reali riconosciuti ed assicurati per lungo tempo, i quali le avevano fatto per secoli possedere ciò che fa grande ed invidiata l'Inghilterra, ciò che gli altri popoli caldamente bramavano, e minacciosamente e come naturale diritto dai loro governanti chiedevano. La Costituzione in Sicilia non era di data recente, e quindi le sue radici non istavano a fior di terra, né la sua memoria era distinta da quella delle tradizioni del paese, né obliata: non aveva la base nella rivoluzione né nella lotta cittadina, e quindi non era condannata sul nascere dalla violenza, né consacrava dritti pericolosi che ne minacciassero continuamente l'esistenza, né infine poteva essere pretesto di contrasti e dissensioni civili. Una Costituzione era stata la base del primo ordinamento dell'isola nel secolo XI sotto i Normanni conquistatori. Essa, come in Inghilterra, passò nel sangue delle generazioni, dalle abitudini dei padri si trasfuse nelle tradizioni dei figli: modificata più volte, ma intatta nella sua sostanza, vide passare sopra di sé le umane vicende, le dinastie o le signorie mutarsi, ma non succedersi senza prestarle omaggio e rispetto.1 Ad essa la Sicilia doveva la sua forza e la sua grandezza, e perciò l'amò non come cosa sua soltanto, ma come cosa cara e gloriosa.

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Così passò per lei l'epoca del feudalismo temperata da queste istituzioni, le quali facevano sì che gli stessi baroni non fossero esclusivamente per sé o per il proprio castello, ma per la nazione. Così passò l'epoca della libertà e delle lotte municipali in Italia, meno gretta in Sicilia mercé delle medesime istituzioni, che allargarono l'angusto confine del municipio e condannarono le tristi dissensioni: ond'è che ignoti furono Dell'isola i malaugurati nomi di Guelfo é di Ghibellino. Così passarono i giorni dell'efferate tirannidi che uccisero la libertà, e furono la base del dispotismo in Italia e in Europa; e quelle istituzioni salvarono la Sicilia ancora da questo flagello. Ma l'assolutismo piantato in Europa dalla monarchia spagnuola,

1 Non deve dimenticarsi che queste libertà siciliane includevano la più estesa sovranità nazionale; imperocché il parlamento disponeva della corona dell'isola, e ninn principe credè validi giammai i suoi diritti, oè saldo il suo dominio se non aveva la base nella elezione fatta dal parlamento. In tal guisa fino dal 1166 era stato eletto Guglielmo II, come pure la buona Costanza sua figliuola nel 1185, che fu poi imperatrice, moglie al crudele Borico figliuolo di Barbarossa. Così più tardi nel 1189 era tolta allo stesso Enrico dal parlamento siciliano la corona per la sua crudeltà, e posta sul capo di Tancredi; cosi lo stesso Enrico vincitore non aveva creduto sciogliersi dall'obbligo di chiedere l'investitura al parlamento nel 1194; così nel 1218 era eletto Federico II, e nel 1258 l'infelice Manfredi; e così gli Angioini non furono voluti ne sopportati, perché imposti dai pontefici e non scelti dalla nazione. Questa è l'origine dell'irritazione che scoppiò tremenda nei Vespri Palermitani. Gli Aragonesi successi agli Angioini furono liberamente chiamati dal parlamento nella persona di Pietro d'Aragona, e di padre in figlio riconosciuti e' rieletti uno all'altro successivamente; respingendo i tentativi di riunire le due corone fatti da Giacomo, e spossessando anche costui nel 1295 e coronando il suo fratello Federico. Agli Aragonesi successero i Castigliani eletti pur essi liberamente nella persona di Ferdinando di Castiglia. E qui non è fuor di luogo notare come alla morte di Ferdinando il Cattolico, il suo successore Carlo I non fu riconosciuto immediatamente. Ebbe l'investitura più tardi nel 1518 dal parlamento, e come gli antecessori suoi prestò giuramento di serbare le franchigie del regno. Fatto imperatore, tornò in Sicilia, e il gran despota del secolo XVI nel 1535 volle confermare nella cattedrale di Palermo i suoi giuramenti, e aprire in persona la sessione del parlamento. Singolare fenomeno, il quale quanto è più strano, tanto più chiaramente spiega l'attaccamento dei Siciliani alle loro istituzioni che pur furono giurate e rispettate dai successori di Carlo, non escluso Filippo II, secondo i costumi dei tempi comportavano.

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benché avesse reso omaggio alle libertà siciliane, per le sue conseguenze doveva minacciare pur la Sicilia. I diritti di successione le erano stati fatali, e ancor essa senza conquista trovossi incorporata nel vasto impero di Spagna; se non che quel dominio fu più un abbandono che una dominazione, e se corruppe e disertò la Sicilia, ne rispettò mai sempre e ne lasciò inviolati i diritti e le libertà. Fu necessità ineluttabile in un impero soverchiamente grande, e formato di parti troppo disformi; necessità pari a quella che, a malgrado certo dei governanti viennesi, salvò poi sempre le libertà ungariche. Le condizioni dei tempi, la natura degli uomini, l'evirazione morale di quelle generazioni non fecero però germinare quel seme, sicché producesse frutti di gloria e di civiltà.

Alla guerra di successione quel trono fu disputato con tutti gli altri dominj spagnuoli di Carlo II. La pace d'Utrecht che la Sicilia a Vittorio Amedeo di Savoja, e l'articolo 7° del trattato imponeva a quel re in nome di tutti i potentati di «aprohar, confirmar y ratifiar todos los privilegios, immunitades, exempeiones, libertades, stilos y otras costumims de que el dicho re ino goza ó ha gozado por lo pasado.» Così le libertà siciliane passarono a far parte del diritto pubblico europeo. Vittorio Amedeo fu leale osservatore dei patti, recossi nell'isola nel 1714, vi fu coronato e convocò il parlamento. Alcune questioni però avute con la deputazione del regno motivarono e fornirono il pretesto al cardinale Alberoni di far rivendicare la Sicilia alla Casa di Spagna. Il suo Manifesto pubblicato in nome di Filippo l'è in questo singolare, che fondava appunto i diritti sopra pretese violazioni fatte a quelle libertà guarentite dal trattato d'Utrecht. Finalmente nelle varie vicende di quella lunga guerra, la Sicilia contrastata fra Casa d'Austria e Casa Borbone dispose sempre liberamente della sua sorte, e del suo voto era richiesta dagli ambiziosi che se la disputavano. 1 Borboni ebbero la Sicilia rispettando le prerogative della nazione e in forza delle prerogative della nazione, come ai loro antecessori era accaduto. Così passò di ultimo quell'isola a Carlo III di Borbone. — Queste poche parole erano necessarie non solo per dimostrare dritti riconosciuti e ricordare fatti noti, ma perché da quei fatti riuniti in breve e lucida serie si abbia spiegazione del vivo affetto dei Siciliani alla loro Costituzione, come cosa loro e cosa gloriosa, secondo dissi nel testo. Tali diritti storici sono chiaramente e in compendio trattati nella Me moria pubblicata da due Siciliani a Parigi nel 1849: «Mémoire historiqn sur les droits politiques de la Sicite, par MM. Bonaccorsi et Lumia.»

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Ma il seme non fu calpestato, ma il germe non fu divelto: e la dominazione spagnuola, che aveva tutto isterilito e disertato in Sicilia, come nelle altre provincie e negli altri regni su cui gravava, non si attentò, né ebbe agio di distruggere quel che era uscito intatto dalle vicissitudini di tanti secoli. Essa che aveva rispettato le ombre dei parlamenti a Milano e a Napoli, rispettò a più forte ragione la sostanza del governo rappresentativo in Sicilia. Forse perché le basi della Costituzione sicula erano aristocratiche, nonostante la smania dominante allora del concentramento dei poteri, furono rispettate quelle forme dal governo di una nazione, presso cui le borie e i privilegj dei nobili erano molto in onore. Anzi le due aristocrazie sicula e spagnuola assai parevano l'una all'altra confarsi; ed in Sicilia, più che a Napoli o in Lombardia, si fece, in specie nelle alte classi, la unione fra dominatori e dominati. I suoi re giurarono dunque costantemente nel salire al trono la Costituzione siciliana, rispettarono sempre il parlamento, e non alterarono le imposte, né usurparono il diritto nazionale. Era quanto bastava ai Siciliani, per i quali in tal modo, a causa di loro abitudini, il diritto fondamentale di ogni Costituzione, cioè il diritto d'imporsi le tasse, era inviolabile; com'era egualmente per essi ovvio e naturale che la nazione fosse riguardata qual cosa diversa e distinta dal re, e questi fosse bensì per lei, non essa per lui. Tuttociò per il Siciliano era un criterio di naturale ragione, una verità primitiva e di fatto, dimostratagli da tutta la sua storia; e questa verità era nel suo animo non al grado di cosa caldamente bramata e sentita, ma sibbene fatta sacra dall'esperienza, dall'uso antico e dal diritto. Questa Costituzione fece che l'isola trovasse in sé stessa le forze di riformare, quando i tempi altamente lo richiedevano; e poté farlo all'opposto degli altri popoli, esempio unico allora, senza rivoluzione, senza sangue, senza sciagure.

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Essa le diè poi mezzo di esplicare i principj liberali senza pericolo; e muovendosi attorno ad un proprio centro, impedì che fosse trascinata dal turbine delle idee francesi, e non la trasse, come gli altri popoli inebriati dal conquisto non sperato delle libertà, a diventare prima satellite dell'astro francese, per finire schiava legata al suo carro trionfale.

Ma ciò pose la Sicilia in condizioni tutte sue proprie. La Sicilia non seguì punto il movimento francese, allorquando su questo le diverse frazioni dei liberali si modellavano: essa rafforzava ed ampliava le sue libertà con principj affatto diversi, molti dei quali erano in contradizione con quelli che si pregiavano sul Continente. Sostanzialmente monarchica, salvò la monarchia, quando i tempi volsero a repubblica; assodò le libertà, e fu con l'esempio propaganda di liberalismo, in grazia del raffermato sistema rappresentativo, quando l'assolutismo napoleonico opprimeva i popoli, spegneva la libertà di tutti, e la patria egualmente di tutti, fuori che della Francia. Così la Sicilia fece sempre parte da sé, corse una via diversa dal resto d'Italia, e potè salvarsi prima dagli eccessi della rivoluzione, poi dalla conquista straniera, ed infine dalle male voglie e dalla libidine di dominio del suo re. Imperocché l'ambizione di Carolina d'Austria, la trista fede dei suoi satelliti, e le tendenze assolutiste di Ferdinando ruppero allo scoglio di quei privilegj, i quali si seppero serbare dai Siciliani, benché combattuti dalle aperte violenze e dalle occulte trame di principi che scacciati da Napoli pessimamente ricambiavano il beneficio dell'ospitalità. Questo facevano quei popoli senza gettarsi a stolte rivoluzioni, senza promulgare principj sovversivi, o non effettuabili fantasie. L'interesse politico diede alla Sicilia per alleati gl'Inglesi, e col mezzo di questi non solo la sua indipendenza, ma le sue libertà furono salve.

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Mentre dunque la sua Costituzione ordinava la Sicilia nell'interno in guisa al tutto diversa da quella degli altri Stati italiani, la medesima anche all'estero le procacciava legami egualmente suoi proprj: per dir tutto in breve, mentre idee ed influsso francese agitavano il partito liberale in Italia, in Sicilia non quel partito, ma tutta la nazione s'informava dalle idee inglesi, e sentiva l'ascendente inglese. Queste differenti condizioni politiche, che facevano muovere la Sicilia attorno ad un asse suo proprio, erano pur conseguenza di condizioni morali affatto diverse. L'assenza di ceto medio recentemente surto che faceva mancare molte ambizioni, il patriottismo e l'intelligenza di molti membri dell'aristocrazia, i quali non avevano resa odiosa e spregiata la loro classe, ed infine la legge fondamentale tutelante il paese dall'assoluto governo, erano le cause che impedivano non fosse la Sicilia involta nel turbine delle idee francesi. Certo un partito democratico esisteva anche in Sicilia, ma le condizioni da me accennate, e l'intelligenza di chi si fece guida della nazione, operarono che la Sicilia dovesse la sua felicità e salute alla concordia di tutte le classi, alla cospirazione di tutti ad un fine solo, cioè al bene della patria,1 e non alle guerre di casta ed alla civile discordia. Invero se i Belmonte e i Castelnuovo non fossero stati solo in Sicilia, ma ne avesse avuti uguali l'aristocrazia francese; se soprattutto questa non avesse, all'opposto della siciliana, disgiunto la sua dalla causa della patria e della libertà, forse molte sventure si sarebbero risparmiate all'Europa. L'edifizio della libertà sorgerebbe ormai maestoso, e sarebbe giunto al fastigio per opera della concordia, né lo vedremmo bruttato di sangue presentare colà pur troppo lo spettacolo più desolante sì per il presente come per l'avvenire.

1 E infatti, se più tardi quelle istituzioni pericolarono e vennero più agevolmente violate da Ferdinando I, ne furono causa appunto le discordie insorte nei partiti, e le lotte delle ambizioni individuali. (Vedi Palmieri.)

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La Sicilia dunque aveva diritti reali alla sua libertà, allorché tutta l'Europa ne andava in traccia. Non è qui mestieri parlare di questi antichi e costanti suoi diritti, dei quali l'illustre Niccolò Palmieri fece la storia; essi furono riconosciuti sempre e riconquistati, se pur ve ne fosse stato bisogno, con un beneficio indelebile, infine vennero difesi con perseveranza ed abilità. L'Inghilterra li protesse per molte ragioni. In primo luogo la conformità di quelle con le sue istituzioni doveva eccitare la simpatia di sì nobile nazione; inoltre già dissi come opinione del suo gabinetto fosse che, dopo accaduta la rivoluzione francese, l'Europa non poteva riposare stabilmente se non sui governi rappresentativi. Stolti ed inetti sono coloro che nel preparare l'avvenire non vogliono o non sanno fare ragione dei fatti consumati, sieno essi cari od ingrati. Restaurare ciecamente il passato, era un radunare i materiali per ridestare di necessità in breve tempo la rivoluzione. Quei consigli dell'Inghilterra furono variamente considerati e giudicati, ma i fatti però le resero fatalmente giustizia. L'opera del 1815 crollò, e mal si prova anche adesso a ricomporsi. I potentati in quel tempo ostinati o non fidi alle proprie promesse, sono costretti a fare ora, dopo una lotta terribile, dopo una grande irritazione universale, dopo essere state accese mille passioni, suscitate diffidenze senza numero, e aver compromessi mille interessi, quel che avrebbero potuto fare allora pacificamente ed averne la gratitudine dei popoli. Questi avrebbero forse prese le loro guarentigie dalla mano dei governi come un beneficio, in luogo di prenderle come una necessità ineluttabile. Vinti ora nel conflitto materiale delle armi, sentono d'aver trionfato nel conflitto morale delle idee, e quindi s' accorgono benissimo che la vittoria di una fazione è di quelle che valgono una sconfitta.

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Tuttociò rende incerto il presente, l'avvenire minaccioso. Se a questo eravi rimedio, stava appunto nel consiglio dell'Inghilterra, respinto allora imprudentemente dai ciechi restauratori, i quali forse ora invano Io domandano e Vi si affaticano senza intendersi, smanianti nella novella prova restauratrice, come a un'altra torre di Nembrot. L'altra cagione che muoveva l'Inghilterra a sostenere la Costituzione siciliana, oltre queste generali ed intrinseche, era affatto speciale e temporanea. La propaganda liberale fu uno dei mezzi usati a crollare il despota, che con la spada brandita comandava imperioso a lutto il Continente. L'esempio della Sicilia faceva volgere gli occhi di tutta Italia al potentato che guerreggiava quel despota, alle istituzioni che sotto la sua protezione fiorivano. Per questa parte può dirsi che fin le umiliazioni date da lord Bentinck al Borbone fossero a lui salutari. Imperocché senza la Costituzione in Sicilia, Napoli non avrebbe riposto le sue speranze negli antichi signori, né i Carbonari, dimenticate le stragi dei Giacobini, avrebbero certamente tentato di rannodare pratiche con chi cinque lustri innanzi li mandava al patibolo o li lasciava scannare. La Sicilia era un'oasi nel deserto, e gli occhi di tutti gl'Italiani anelanti si rivolgevano

A così riposato, e così bello

Viver di cittadini, a così fida

Cittadinanza, a così dolce ostello.

Queste furono le varie ragioni del procedere degl'Inglesi in Sicilia durante i giorni della possanza napoleonica. La Costituzione sicula in quel tempo, dopo essere stata difesa dalla gloriosa resistenza dei quarantatré baroni che costò a cinque di loro la prigionia, cioè ai principi di Belmonte, di Castelnuovo, di Villafranca e d'Aci, e al duca d'Angiò,1 riguardati come rei di Stato per un indirizzo di protesta contro l'illegale imposizione d'una tassa non consentita dal parlamento, fu poscia rassicurata, confermata, migliorata, e cominciò a produrre i suoi frutti.

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Il parlamento del 1810 aveva fatto spontaneamente le riforme richieste dai tempi e abolita in ispecie la feudalità, chiudendo per tal modo le porte di un'epoca sociale finita per tutti; il che aveva costato alla Francia un mare di sangue. La riforma della Costituzione stessa si compieva d'accordo fra la nazione e il principe, il quale invano lottò con lord Bentinck per impedire quella riforma che consolidava e rendeva più vere le istituzioni rappresentative, secondo chiedevano i tempi e l'esperienza fatta della mala fede della Corte. Il parlamento siciliano fu convocato il 1 maggio 1812. Questo riunitosi il 18 luglio, anniversario appunto dell'arresto dei cinque baroni, ed esaminata la proposta della riforma presentata dai ministri e compilata dal famoso abate Balsamo, finalmente il 10 agosto vedeva con l approvazione del re compiuta quell'opera

1 I due primi furono deportati nell'isola di Favignana, il terzo a Pantelleria, il quarto nell'isola d'Ustica e il quinto in quella di Maretimo. Questo atto arbitrario e stolto fu quello che decise la lotta fra il re e la nazione, la quale ebbe un potente soccorso in lord Guglielmo Bentinck arrivato in Sicilia in sì gravi e dolorose contingenze. La protesta dei Baroni fu pubblicata dal Bianchini, riprodotta anche nella raccolta di documenti siciliani che vide la luce in Inghilterra nel 1849 «Sicily and England. A Sketch of events in Sicily in 1812 and 1848, illustrated by Voucher and State Papers. London, James Ridgway, n° 169 Piccadilly, 1849, pag. 4, Doc. C.

2 Alle resistenze di Carolina dové minacciosamente rispondere lord Bentinck con le famose e solenni parole: «Madama, non vi è via di mezzo: o Costituzione o Rivoluzione.»

3 E notevolissimo il discorso d'apertura fatto dal Vicario o luogotenente generale del regno di Sicilia, il principe Francesco, nel quale dice ai Siciliani nulla esservi che più potentemente conferisca all'accrescimento della ricchezza nazionale come le savie leggi atte a guarentire tanto la civile libertà, quanto la proprietà; e ricorda loro come l'Inghilterra doveva appunto la sua prosperità e la forza, a quei giorni meravigliosa ed invidiata, al felice equilibrio di una saggia Costituzione.

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 che poteva essere la base della felicità del popolo siciliano.1 Quel giorno fu e sarà sempre solenne per la Sicilia. Le vicende di quegli anni, le stoltezze del re, le nequizie di Carolina, la sapienza dei Siciliani, anche gli errori da loro commessi, e il procedere d'Inghilterra a loro riguardo, furono ampio soggetto di molti lavori storici, e specialmente di quello stupendo del Palmieri. Inutile dunque il riandarlo: è storia già fatta. Solo conviene notare e stabilire che la Costituzione antica di Sicilia fu allora riconosciuta e giurata dal re con le modificazioni e i miglioramenti dovuti all'intervento amichevole dei consigli inglesi, guarentita in tal modo indirettamente dall'Inghilterra, e sostenuta da lord Bentinck anche con le armi in pugno. Allorché tutti i potentati congiuravano con l'Inghilterra per abbattere Napoleone, ed all'opera di lei massimamente avevano ricorso per riacquistare la perduta indipendenza; allorché promettevano ai popoli loro ciò che alla Sicilia faceva godere pacificamente la protezione inglese; allora, dico, tutti i potentati prestavano pur essi moralmente guarentigia al diritto dei Siciliani. Nell'Europa da ricomporre dopo la guerra, nei territori da scompartire, nei confini dei regni da dellneare, non entrava punto la Sicilia, perché non involta mai nella rivoluzione, né dominata dai Francesi.

1 Vedi il testo di quella Costituzione nel Palmieri al Cap. IX, con la sanzione ad ogni articolo data dal Vicario del regno in nome di suo padre Ferdinando, il quale avevalo espressamente autorizzato a ciò; non che nella Raccolta dei documenti pubblicata nel 1849 per cura del governo inglese, in appendice al volume che riguarda Napoli e Sicilia. Questa autorizzazione fu richiesta da Francesco al re, che in margine rispose di suo pugno: «Essendo ciò conforme alle mie intenzioni, vi autorizzo a farlo., Firmato, Ferdinando di Borbone. — La lettera di Francesco è riportata nella Memoria dei sigg. Bonaccorsi e Lumia.

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Sia lo statu quo ante bellum, sia il rispetto alla legittimità (la Dea del giorno che era dietro I' altare, pronta a montarvi non appena fosse caduto il Buonaparte), sia qualunque principio che volesse porsi innanzi; non era vene alcuno che non guarentisse ineluttabilmente alla Sicilia in faccia all'Europa l'esistenza del suo parlamento, della sua legge fondamentale. Di più, quando i soldati siciliani combattevano contro i Francesi sotto lord Bentinck a pro della lega europea, non veniva ella questa implicitamente a contrarre l'obbligo di rispettare quella libertà e quei privilegj, guarentiti loro da lord Bentinck stesso anche con la mano sull'elsa? Così la Costituzione siciliana non solo era di antico dritto giurata dal re e riconosciuta dall'Inghilterra, ma aveva buona ragione d'essere riconosciuta da tutta l'Europa.

In tale stato di cose sopravveniva la caduta del grande colosso. Ad essa seguivano le trattative di Vienna; e pendenti queste, la novella apparizione dell'imperatore e la gloria di cento giorni. L'imprudenza del Murat (se pure altre cagioni non vi furono, delle quali la storia attende tuttavia la spiegazione) trasse in rovina questo valoroso ed infelice principe, fece decidere a Vienna la sua decadenza, e riapri ai Borboni rifuggiti in Sicilia anche le porte degli antichi loro Stati di terraferma. La Sicilia, la quale, come regno separato, non aveva da temere per la sua libertà, nella riunione non poteva non temere ragionevolmente, perdendo la guarentigia che aveva nella dimora del re medesimo entro lo Stato. Ciò in specie e per l'esperienza fatta delle tendenze nemiche alle sue istituzioni espresse dal re e innanzi e durante l'esiglio, e per le vendette che dovevano aspettarsi da parte dei realisti napoletani, i quali (e il famoso Canosa erane capo) avevano incontrastabilmente malmenato il regno siciliano, finché furono potenti, ed erano stati posti in non cale dai Siciliani e fatti espellere da lord Bentinck; ma sopra tutto per le vendette che dovevano attendersi da una Corte irritata e umiliata.

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I Siciliani avevano quella guarentigia massima, andata in disuso, nella riforma dello statuto voluto appunto ripristinare, profittando dell'occasione che loro si presentava propizia, non tanto a lustro dell'isola e per la vanagloria di possedere una Corte, quanto per avere in mano un pegno dell'inviolabilità delle libertà loro.1 Ma gli accordi segreti fra l'Austria e Ferdinando fecero sì, che avendo questo dovuto seguitare in Napoli il sistema voluto dalla Santa Alleanza, anche le libertà siciliane furono spente. Non si osò farlo apertamente e violentemente, ma lentamente; perché era cosa troppo iniqua, e troppo scandalosa per il recente benefizio. L'Inghilterra che aveva salvato la Sicilia dalle pretensioni del re e di Carolina quando entrambi erano nell'isola, non fece altrettanto allorché la Corte trovavasi in Napoli, ed era spalleggiata dall'Austria. Gli accordi presi dai potentati del Nord impedirono all'Inghilterra di poter far rispettare ciò che ad essa pur dovevano i Siciliani e che sulla fede del suo governo riposava. Ma non potendo rompere accordi fatti fra'  terzi né rinnovare una guerra, non essendone certo sufficiente pretesto la sua parola verso i Siciliani,.questi rimasero sacrificati con frivoli pretesti e con mezzi, a dir vero, poco onorevoli. Il re andò a Napoli, Guglielmo Bentjnck fu richiamato, e mandato in suo luogo Guglielmo A'Court. Di questi due Guglielmi, uno recò all'isola fortuna e l'altro sventura, il perché furono ricordati dal popolo col titolo di buono il primo, e di cattivo il secondo; e l'Inghilterra che non aveva più interesse diretto a sostener la Sicilia, non ebbe più per lei se non sterili voti.

1 Il capitolo I di Federigo I era intitolato: «De sacramento et obligatione Domini quantum ad nos aiculos, et priesertim quod rex non recedat e Sicilia.» Su questo nel 1813 il parlamento fondò il nuovo articolo, che dopo lunghe discussioni fu accettato. (Vedi Palmieri, Cap. XII.)

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Forse, senza la morte del principe di Delmonle, senza dirò anche l'inopportuna opposizione fatta al governo dal parlamento siciliano io quei critici giorni, nei quali non conveniva dare pretesto alcuno ad un governo che ne andava dolosamente in traccia, e senza l'ignoranza dei siciliani ministri, quell'opera ingiusta ed insipiente non sarebbe stata consumata. L'Inghilterra non era solamente impegnata nella persona e negli atti di lord Bentinck, ma la parola dello stesso lord Casttereagh era nel più stretto modo vincolata per una lettera da lui scritta al principe di Belmonte. La condizione dell'Inghilterra era oltremodo spinosa. Non aveva essa, per vero dire, potuto far prevalere il principio politico, in cui aveva fede; non aveva potuto impedire la formazione della Santa Alleanza nata con lo scopo di arrestare la propagazione delle idee liberali, e di guarentire anzi la mancanza di fede di alcuno dei più forti potentati legato da promesse fatte ai suoi popoli nei giorni della sventura; non aveva potuto impedire specialmente che il nuovo re di Napoli firmasse l'articolo segreto per il medesimo fine con l'Austria circa gli Stati che riconquistava (il che lo poneva nell'alternativa di mantenere nei suoi Stati due forme di governo, o di sacrificare il minore al maggiore): l'Inghilterra, stretta da queste necessità, non andò più oltre, e fu paga solo che si salvassero alcune apparenze a tutela del proprio onore. Certamente il procedere inglese non fu né conseguente con se stesso, né generoso, come non fu tale neppure il linguaggio tenuto nel 1821 dal ministro Londonderry alla Camera dei Comuni;1 ma non posso, volendo parlare senza passione, per quanto dolorose ne fossero le conseguenze, tacciarla di doppiezza e di secondi fini.

1 Lord Londonderry rispondendo il 21 giugno 1821 alle onorate proteste ed alle ragioni ineluttabili di lord Guglielmo Bentinck, il quale sentiva il bisogno di purgare almeno la sua fama personale presso il mondo, non avendo buone ragioni ricorse a fatti falsi ed a sconce ironie che potevano ingenerare gravi sospetti sulla fede del suo governo.

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Altrimenti non posso definirla che un accomodarsi soverchio ad una trista necessità; 1 né però è nuovo veder piegare il capo a questa anco i grandi potentati senza curare non solo parole date, ma vanii e minacce precedenti. Così accadde all'Inghilterra in quei giorni. Essa piegò e tacque, dimentica d'avere scritto nelle istruzioni al suo ministro A'Court: «Che se si fosse fatto alcun tentativo per ristringere i privilegi della nazione siciliana, sarebbe cessata l'amicizia fra il governo inglese ed il re di Napoli.» Siffatto esempio vedemmo ripetuto altre volte. I Siciliani si adirarono con l'Inghilterra, ed a ragione. Dolenti del proprio danno, non erano assuefatti a veder sacrificare tutto alla necessità della pace, o meglio del sollecito assettamento dell'Europa, perché pericolo di guerra non sarebbe stato allora per certo.

 Era il ministro su falso terreno, aveva per le mani una cattiva causa, e veramente la sua difesa, come suol dirsi, la peggiorò:

«Causa patrocinio non bona pejor erit»

1 Non altrimenti erano deGniti i primi atti di abbandono dell'Inghilterra dallo stesso duca d'Orléans, che trovavaaì colla real famiglia rifuggito in Sicilia. Esso partendo per Francia, in compenso dell'ospitabtà ricevuta fu largo di franchi ed onesti consigli al re. «Il rapido cambiamento (egli diceva) nel sistema politico d'Europa, ha fatto momentaneamente pigliare all'Inghilterra un aspetto d'indifTerenxa sugli affari di Sicilia} ma io prego V. M. a sovvenirsi che il decadere nell'opinione della Gran Brettagna può un giorno esserle fatale. Sire, io parto per non ritornare più io questo paese; da ciò può la M. V. conoscere che nessun motivo di personale interesse mi muove ad avvertirla: ma anche da lontano mi dispiacerà il sentire disgrazie d'una persona cui tanto devo, e non potrò far di meno di dividere con una moglie che amo, le lacrime cagionate dalle disgrafie del suo genitore.» Cosi parlava il duca d'Orléans a Ferdinando I nel l814. (Vedi Palmieri.)

2 Ne vedemmo recentemente uno esempio. Nonostante le proteste e le minacce del gabinetto di Pietroburgo, espresse in termini così fuori dell'ordinario, non fu sacrificata la Grecia alle pretensioni inglesi? E perché? per non fare per ora la guerra. Si dirà che l'atto del gabinetto russo può aver effetti col tempo. E non e Io stesso dell'atto inglese a proposito della Sicilia? Forse che il gabinetto di S. James dimentica più agevolmente di quello di Pietroburgo?

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Ma questa novella politica internazionale, sorta dopo il 1815 in Europa, era nata precisamente dalla stanchezza universale per le guerre napoleoniche, e l'abbandono della Sicilia ne fu il primo esempio e la prima conseguenza;1 essa venne sacrificata

1 Gl'Inglesi non disconoscevano, come lo stato in cui si erano messi in Sicilia, fosse per il loro onore compromettente. Approvata la massima di non vincolare il re di Napoli, cercarono il mezzo termine per salvare il proprio onore e nulla più. Questo fu trovato dall'inviato A'Court e dal ministro Casttereagh in due dichiarazioni che s'imposero al re Ferdinando I in compenso del lasciargli la mano libera in tutti i cangiamenti cui egli faceva, e che l'Inghilterra sforzavasi di creder buoni per uscire da quello spinoso affare: fra questi era compresa in special modo l'unificazione dei due regni, che certamente gli uomini di Stato della Gran Brettagna non potevano ignorare quali conseguenze porterebbe per la Sicilia. Le due dichiarazioni che si vollero dal re furono: 1° che egli non molesterebbe coloro che si erano compromessi con l'Inghilterra durante le vicende sicule; e 2° che la condizione dei Siciliani non sarebbe sostanzialmeute peggiorata da quella che era in allora. Questa frase equivoca era a tutto profitto dell'Inghilterra in qualsiasi congiuntura: con soli cotali patti rinunciava l'Inghilterra al diritto d'intervenire nelle cose siciliane. Riporto per più chiarezza le frasi del dispaccio scritto all'A'Court da lord Casttereagh in quella occasione, col quale egli dà le norme circa le condizioni da imporsi al governo napoletano. Il dispaccio è in data del 6 settembre 1816. Esso dire: «Voi informerete il Ministro Napoletano che il Principe Reggente riterrebbe il suo intervento come un dovere se (il che dietro le assicurazioni di S. M. Siciliana non accadrà mai) gl'individui che hanno operato con le autorità inglesi nei tempi difficili ultimamente passati, fossero esposti a maltrattamenti, o a persecuzioni in forza di questa condotta.

» S. A. R. si crederebbe ugualmente obbligata di prendervi parte, quantunque a malincuore, se essa avesse la mortificazione di osservare che si tenterebbe di ridurre i privilegi della nazione siciliana a un tal punto, che esponesse il governo inglese al rimprovero di aver contribuito in Sicilia a un cambiamento di sistema, il quale in ultima analisi avesse deterioralo la libertà e il benessere dei suoi abitanti, proporzionatamente alla loro condizione precedente.

» Con queste riserve S. A. R. rinuncia interamente alla responsabilità di un qualunque intervento.

» Voi non mancherete in tutte le vostre comunicazioni di rendere giustizia ai principj che soli hanno determinato il governo inglese a partecipare degli affari interni, quando egli s'incaricò della difesa e della sicurezza di questa parte dei dominj di S. M, Siciliana: la necessità costituì il diritto, e col cessare di questa necessità, è cessata pure ogni pretesa disposizioue per parte del governo inglese ad intervenire; escluso il caso in cui il punto d'onore e la buona fede, di cui bo parlato, e che derivano dall'ultima nostra condizione in Sicilia, ce ne faranno di nuovo un dovere.

» Ognuno vede come le due promesse fatte att'Inghilterra furono osservate

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alla pace europea, e non ad altro. I partiti gettarono molte accuse in faccia all'Inghilterra; ma gli stessi Siciliani più teneri della patria loro, più addolorati della sventura della medesima, confessarono, pure in mezzo alle più irose recriminazioni, che quell'abbandono non

dal re di Napoli, il quale sfidò per lunghi anni quel potentato che sapeva non voler lottare con la Santa Alleanza. Con le sue pratiche l'A'Court non solo riuscì ad avere le due promesse richieste da lord Casttereagh, ma ottenne eziandio un decreto che lasciava intero il diritto della Costituzione in Sicilia: decreto che violato ancor esso fu una nuova mancanza di fede verso la Gran Brettagna. Ecco le parole con cui l'annunciava il sig. A'Court al suo gabinetto: «S. M. dichiara finalmente che in nessun tempo, né per qualunque circostanza, essa non si arrisicherà di porre tasse in Sicilia oltre la presente dote, senza il consenso det partamento. Quest'ultima espressione che luogo ad una grande discussione tanto in questa conferenza, quanto in molte altre susseguenti desiderando di sostituire le parole senza il consenso della nazione siciliana. Io mi vi opposi saldamente. V. S. conosce benissimo l'alta importanza di questa espressione.»

— La violazione di tutte le promesse del re di Napoli fu constatata nel 1821 nel parlamento inglese (tornata della Camera dei Comuni del 21 giugno) dallo stesso lord William Bentinck, personalmente interessato per proprio onore in quelle trattative. Le sue parole valgono un documento. «Quando io partii di Sicilia (egli diceva), due condizioni sono state stipulate solennemente in favore del popolo: l'una che alcun individuo non sarebbe molestato pei vincoli cogl'Inglesi, fino che essi dirigevano gli affari dell'isola; l'altra che i diritti e i privilegj dei Siciliani non soffrirebbero alcun attentato di cambiamento nell'amministrazione. In qual modo queste solenni stipulazioni sono state eseguite? Lungi dall'essere state eseguite nella più piccola parte, io so dalle più sicure autorità, che giammai non vi fu annichilamento più compiuto di tutti i diritti, giammai un cumulo d'ingiustizie, d'oppressioni, di crudeltà maggiori non segnalò gli annali di alcun paese (ascoltate, ascoltate). Se la Camera mi segue in questo modo di guardare il soggetto, qual più opportuno momento troverà ella per manifestare i suoi sentimenti di giustizia, che quello con cui il re di Napofi, eseguendo le sue promesse, si occupi di stabilire la Costituzione siciliana sopra solide basi?»

— E parlando delle istruzioni del ministero inglese nel 1816, dice: «Quanto alle istruzioni inviate di qui, devo assicurare che se io stesso le avessi scritte, non avrei aggiunto nulla che potesse meglio sodisfare al profondo affetto che sento per i Siciliani, più di quello che esse contengono. Ma quali sforzi si sono fatti per dare effetto a quelle istruzioni? Ricevute con gioia dei Siciliani, esse furono immediatamente seguite dal decreto del re, che riuniva i due paesi. Questo atto di unione non solo violava la Costituzione, ma la rovesciò interamente. Egli annullò i diritti, i privilegj del popolo, e fece della Sicilia una provincia di Napoli (intendete). Ecco come si trattò la Sicilia.» Poteva aggiungere lord Bentinck, che la dote cui aveva promesso il re di non aumentare senza il consenso del parlamento, e che consisteva in onze 1,287,687, con decreto del 20 novembre 1819 fu cresciuta ad onze 1,637,332. Poscia si rinnovò più volte quell'atto, finché si giunse prima a duplicarla e poi a triplicarla.

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fruttava nulla alla Gran Brettagna.1 Molti accusarono l'Inghilterra di mire ambiziose sulla Sicilia, e l'accusa trovò eco presso molti, e fu ripetuta in altre occasioni, ed anche in tempi da noi non lontani. Nulla di più assurdo, lo non mi faccio invero campione del disinteresse della politica inglese, come di altra qualsiasi; essa è politica, e lo so bene: ma nel fatto concreto, per l'Italia, e per la Sicilia soprattutto, non giungo a discoprire traccia di queste ambizioni. L'Inghilterra è un gran potentato, che fa certo i suoi interessi e non gli altrui; ma eccettuato rari casi, non è costretta, appunto per la sua forza, a scendere a bassezze o a codardi sotterfugi, parte propria solo dei piccoli e degl'impotenti. È la medesima differenza che corre fra i grandi e i piccoli mercatanti. Nei primi si trova spesso maggior lealtà che nei secondi: gli uni e gli altri fanno i negozj loro, i primi però, perché con maggiori mezzi, con più utile e più invidia. Lo stesso accade dei governi. Invero chi nel 1815 avrebbe impedito agl'Inglesi di ritenere per sé la Sicilia, se avessero avuto sulla medesima mire ambiziose? Non era sancito in quei giorni fra i potentati vittoriosi il diritto del possesso del momento? E le truppe inglesi non stanziavano appunto in Sicilia? Il governo siciliano non era già da lunghi anni sotto il protettorato della Gran Brettagna? Inoltre chi avrebbe osato rinnovare la guerra per questo? Chi poi contro l'Inghilterra che contava fra i suoi debitori tutti i più forti governi continentali, ai quali essa sola aveva prestato denari per durare la guerra contro Napoleone? Niuna difficoltà dunque dall'estero sarebbe per certo venuta: né meno si dirà che le potesse venire dall'interno.

1 «La storia ci offre mille esempj di governi che hanno sacrificato le leggi della buona fede e dell'onore a qualche loro particolare vantaggio; ma era riservato al ministero della Gran Brettagna il dare al mondo un esempio così luminoso di perfidia, senza ricavarne altro frutto che la maledizione di tutti i Siciliani.» Così il Palmieri al Cap. XII, chiudendo la sua Storia Costituzionale di Sicilia, che e la più chiara c incancellabile protesta dei diritti dei Siciliani.

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 Il re in Sicilia odiato da tutti, umiliato già dagl'Inglesi fra gli applausi del popolo che era già corso in folla a vedere la sua villa della Favorita circondata dagli armati di lord Bentinck, come si corre a vedere uno spettacolo di piacere, i baroni legati col vincolo dei benefizj alla Gran Brettagna, l'odio contro i Napoletani e la gioja di esserne per sempre disgiunti, l'ambizione di restare autonomi anche sotto un protettorato; tutto avrebbe cospirato a pro dell'Inghilterra pur nell'interno, se essa veramente avesse bramato perpetuare sull'isola l'indiretta signoria che fino a quell'istante vi aveva esercitata. Frattanto, compiuto l'abbandono, il governo restaurato a Napoli spegneva le libertà sicule, senza che alcuno potesse opporvisi; e compiva questo atto di proprio moto, parificando le istituzioni del regno siciliano a quelle che dava al regno napoletano, ove ristaurava il più puro assolutismo e il dominio della più molesta polizia. Il diritto della nazione fece ostacolo per poco. Si tentò avere dai Comuni siciliani una spontanea domanda di abolire la Costituzione, e se ne ebbe invece la petizione di tornarla in vigore. Allora i partigiani dell'assolutismo non ebbero più freno, e la libidine di assoluto reggimento ruppe ogni argine e devastò il regno. Ma i processi, le sevizie, le oppressioni d'ogni sorta non crescevano punto la forza del governo. I Siciliani riguardavano il re come infedele alle sue promesse e come ingrato; l'ingratitudine anzi irritava maggiormente gli animi, e faceva più detestare quella infedeltà. Certo che sarebbe stato forse più agevole svellere dal cuore dei Siciliani il sentimento del loro diritto, se questo non avesse avuto la base nel recente benefizio. Inoltre, se la Costituzione era stata per lo innanzi sempre cara ai baroni,dal momento che essa fu riformata dal parlamento stesso e per opera di questo venne abolita la feudalità, diventò cara egualmente a tutte le classi, cara al popolo tutto.

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I Siciliani adunque si affezionarono alla Costituzione anche più dopo averla perduta, di quello che prima nol fossero. Questo atto dei ministri di Ferdinando, improvvido quanto ingiusto, fece entrare i Siciliani pure nel numero dei malcontenti; e il movimento costituzionale che si preparava in tutta Italia, incominciò a un tempo in Sicilia, ma sempre in modo tutto proprio. In terraferma le classi colte se ne occupavano, cercavano ottenere le forme rappresentative col mezzo di congiure, ed avevano gli occhi fissi (non avendone una propria) sopra una legge fondamentale di altre nazioni. In Sicilia all'incontro era essa il desiderio di tutti, del popolo come dei signori, degli zotici come degli uomini d'ingegno: non se ne cercava il modello fuori, ma si teneva sempre di mira quella del 1812, opera delle proprie mani. Infine in Sicilia, ove erano ignote le sétte, e massime la Carboneria vera (e il dissenso dei Siciliani nel 1820 ne fa testimonianza), non si congiurò; stavano bensì tutti pronti a profittare di una occasione, detestando egualmente tutti il presente stato di cose. Nella sola Sicilia era quindi forse possibile una rivoluzione popolare, mentre altrove non potevasene fare che una ordinata e preparata; e questo perché nella Penisola l'agitazione era fino allora ristretta nel cerchio degli uomini che pensavano, nell'isola a tutti si estendeva.

La mancanza delle sétte fece anche battere ai Siciliani una via diversa, e non nutrì le loro menti di molte utopie che in quelle germinavano. Ma la loro agitazione fu poco studiata ed esaminata; e come contemporanea, e come diretta ad uno scopo apparentemente uguale, fu tenuta dalla maggior parte degli Italiani del tutto simile alla loro. Errore grave e fatale.

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I Siciliani dal canto loro non istudiarono sempre chiaramente il movimento che si operava nella Penisola, solleciti di sé medesimi e dei proprj bisogni. Gl'Italiani poi non badarono quasi punto a questi, e non considerarono la differenza che intercedeva fra le tendenze siciliane e le proprie: la natura del popolo e la forza dei suoi diritti non conobbero né apprezzarono. Gl'istessi Carbonari di Napoli non ne tennero verun conto, e fu errore funesto, anzi non ultima delle cagioni della loro rovina.

La Sicilia non preparavasi alla rivoluzione, come la Penisola; ma ciascuno agognava in quella sopra tutto il ripristinamento dei propri diritti. Gli uomini che potevano dirigere l'opinione pubblica ed erano degni di fiducia, non mancavano; come non sogliono mancare mai, quando i cittadini hanno partecipato per qualche tempo alla cosa pubblica, avendo il paese avuto agio di conoscerli e apprezzarli. È questa la ragione, perché la Sicilia non cadde in mano di demagoghi.

Il principe di Belmonte, l'uomo più autorevole, moriva contemporaneamente alle prime violazioni della Costituzione per parte del re, ed alle prime indecorose compiacenze per parte dell'Inghilterra; morì per via, mentre andava a perorare a voce la causa della patria. Il suo compagno principe di Castelnuovo moriva più tardi anch'esso; ed il suo ultimo atto pure fu un testamento politico, col quale divisava la strada da seguire ai suoi concittadini, cui fece ugualmente un cumulo di beneficenza. Egli legava 20 mila onze a quell'uomo di Stato che avesse indotto il re a riconoscere la Costituzione siciliana, giurata sempre dai re di Sicilia. Qual patriottismo, qual costanza, qual forza di convinzione, e insieme qual temperanza! Il tribunale cassò quel legato, che era una nobile protesta fatta nel momento più solenne dell'uomo, da quel cittadino benemerito in vita e in morte della Sicilia.

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L'uomo che rimase, dopo la morte di questi due, rispettato dai Siciliani pel suo procedere e per il senno, fu il principe di Villafranca martire del suo paese, per cui molto soffri nel 1820, oltre quanto aveva sofferto nella sua relegazione del 1811, allorché fu dei primi cinque baroni che gettarono il guanto al governo assoluto; e dopo lui rimase giustamente venerato sopra gli altri il retroammiraglio Ruggero Settimo. Esso rappresentò poi sempre ai Siciliani quasi personificati in lui i comuni diritti, e la Costituzione del 1812; e la Provvidenza prolungava oltre l'ordinario dell'umana natura i giorni dell'uomo venerando, per farlo istrumento di nuovi tentativi a pro della patria, e per salvare i Siciliani dal pericolo di lasciarsi traviare dai cerretani politici e dai venturieri.

Ma questo isolamento della Sicilia fu anche sorgente di mali non piccoli. Il maggiore di tutti fu, che tenendosi per lungo tempo estranea all'agitazione italiana, non sentì altro che indirettamente e tardi la spinta nazionale. Il sentimento della nazionalità italiana, cresciuto sotto la dominazione francese in Lombardia, nutrito di speranze francesi, stato per un momento capitanato fin dal Murat, fatto scopo delle Società segrete non penetrate nell'isola, non penetrò neppur esso se non tardi negli animi dei Siciliani. Essi certamente si tennero sempre per Italiani, si fecero gloria della nazionalità loro e della nobile parte che avevano nella storia e nelle lettere patrie; ma la tendenza alla emancipazione era da essi meno sentita, essendo loro ignota la oppressura straniera. La propensione a costituire un tutto, sia sotto forma unitaria, sia sotto forma federale, era meno viva per essere abituati a far parte da sé, e per aver prescritto un altro scopo più immediato alle proprie brame, cioè una grandezza propria, una libertà propria.

 

1 Di questo ragionerò più estesamente ancora nel seguente Capitolo.

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Perdutala recentemente, riconquistarla era il primo e il più immediato, dirò anche, il più naturale dei desideri siciliani: tutto il resto era secondario. Certo non vi avea nobile cuore in Sicilia che non battesse al pensiero di giorni più prosperi per tutta l'Italia, al sogno di vederla ricomparire fra le nazioni; ma erano voti meno efficaci di quelli che facevansi in tutta la Penisola. Vedevansi con compiacenza queste idee, ma non erano materia di agitazione. Coll'andare degli anni, le pubblicazioni fatte in Italia e le comuni sventure crebbero invero in Sicilia il sentimento italiano; ma rimase sempre secondario e dipendente di fatto dal sentimento siciliano. Fu una sventura per l'Italia; ma insieme una fatale necessità. Ciò era conseguenza delle vicende subite dalla Sicilia e dell'usurpazione fatta di ogni suo diritto, la quale le diede tanto da pensare a se, che non ebbe troppo agio di pensare ai bisogni altrui. Essa prepose la questione di esistenza propria a tutte le altre, che maggiormente occupavano l'universale degl'Italiani. Io deplorando il fatto, non getto accuse, e non posso nella mia coscienza trovare parole di rimprovero.

Compiuta la restaurazione e parificata la Sicilia agli Stati di terraferma, l'irritazione di tutte le classi dei cittadini non ebbe più limiti. Fu un fuoco che covò quattro anni sotto la cenere, alimentandosi continuamente. Dopo quattro anni, sopraggiungeva il moto del 1820 a Napoli: una Costituzione si promulgava colà e si giurava dal re, impropria al paese, inopportuna nelle condizioni d'Europa, quella cioè delle Cortes di Spagna. Napoli si mosse, cioè i Carbonari compirono la rivoluzione, come se la Sicilia non facesse parte del regno, come se i suoi diritti non esistessero: essa non fu neppure consultata, e il desiderio di riavere la Costituzione giurata dal re stesso, e antecedentemente alla napoletana, fu chiamato ribellione.

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Il procedere del saggio parlamento napoletano in questo proposito è inconcepibile; esso bruttò anco la sua storia con la trista pagina della mala fede usata coi Siciliani, che fu causa di giuste recriminazioni e di fatali diffidenze. Vinte le truppe napoletane, firmata da Florestano Pepe una convenzione nei termini delle istruzioni ricevute, non si volle questa riconoscere dal parlamento. Questo tratto sleale sgravò presso i Siciliani d'una parte dell'odiosità il re, e la fece ricadere sui liberali del regno. Non s'accorsero i Carbonari che autorizzando il re a calpestare un antico e solenne giuramento, gli si apriva la strada a fare altrettanto del secondo; non videro che l'eccitare una dissensione era un minare l'edificio troppo recentemente costrutto. Era la insania del momento, e i Napoletani, come i Piemontesi, ne subivano le conseguenze e ne sperimentavano i tristi effetti. La Costituzione del 1812 a Napoli o una giusta transazione fatta di buon accordo con la Sicilia, e una legge diversa da quella delle Cortes chiesta per tempo a Torino, avrebbero certo assicurato all'Italia fin d'allora il governo rappresentativo. Se ciò poteva essere nel 1821, e se le improntitudini non trascinavano invece gl'Italiani agli eccessi, qual sarebbe stata mai l'Italia nel 1848?

Questa dissensione fra i costituzionali di Napoli e i Siciliani pose gli uni e gli altri in diffidenza reciproca. Ciascuno accusò l'altro di fare da sé; e infatti i liberali dei due regni non ebbero a causa di quei fatti uno stesso punto di partenza. La base dell'agitazione napoletana restò sempre la rivoluzione del 1820, e la memoria di questa fu ognora di trista ricordanza per la Sicilia: come i Napoletani nella massima parte sollevarono poi, più che il grido italiano, quello del 1820, così i Siciliani per le discordie insorte allora sollevarono sempre quello del 1812. Di queste gare rise e profittò l'assolutismo.

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La Costituzione siciliana non potè rivivere nel 1820 e nel 1821. Benché la resistenza opposta dall'isola al parlamento di Napoli rendesse più agevole il distruggere la Costituzione napoletana, appoggiandosi sulla discordia di cui il re fece suo pro, incoraggiandola sottomano;1 benché la rivoluzione in Sicilia fosse opera soltanto della truppa napoletana, non fu nell'isola men fiera la reazione dopo quelle luttuose vicende. Queste ne accrebbero i mali a dismisura. Il partito siciliano vide di mal occhio quei moti, e si discostò sempre più per qualche tempo dalle idee degli altri liberali d'Italia, che non di rado confuse coi Napoletani; la qual cosa provenne dall'aver preso la rivoluzione napoletana del 1820 i apparenza nazionale, mentre le sue tendenze erano francesi. Le vicende della Sicilia durante la prima rivoluzione non avendo lasciato adito alle idee francesi, neppure quelle tendenze potevano poscia sentirsi nell'isola: questa speciale condizione dai liberali napoletani non fu compresa. Il partito democratico si cominciò invero a formare anche in Sicilia, ma quello delle locali tradizioni fu sempre preponderante.

Questo peraltro ebbe in quei giorni un'amara prova della dubbia fede della dinastia, poiché s'accorse della duplicità del re e del figliuolo. Udì dalla bocca di entrambi voti per la Costituzione siciliana, e conobbe nelle rivolte popolari contro le volontà napoletane la mano del re; ben s' avvide che lungi dal proteggere e riconoscere i diritti siculi, egli non mirava se non a porli in lotta coi napoletani per dominare sicuro nella divisione. Questo politico accorgimento, questa palese mala fede, e le vendette che si compierono dopo la rivoluzione, crebbero all'estremo la diffidenza;

1 Al grido Viva la Costituzione levato dalla truppa entro la chiesa, il popolo siciliano rispose: Viva l'Indipendenza.

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 la quale è pur troppo causa potissima e fatale dell'instabilità delle politiche istituzioni. d'allora in poi il Siciliano, che come ogni isolano obblia difficilmente, guardò con sospetto i propri re, ogni giorno divenne men propenso a fidarsi alle loro parole, e maggiormente persuaso della necessità di estreme guarentigie.

L'ultimo anelito nel 1821 della rivoluzione napoletana fu tratto a Messina, allorché gli Austriaci erano già padroni del regno. Il maresciallo Rossaroll tentò rinnovare la resistenza, e forse l'avrebbe prolungata, se dopo aver fatto fuggire il luogotenente principe Scaletta ed occupato il suo posto, avesse potuto propagare l'incendio per tutta l'isola. Ma l'accortezza e la sollecitudine del maresciallo Nunziante l'impedì; e la rivoluzione essendo isolata in Messina, fu costretto il Rossaroll a fuggire e recarsi in Grecia. Egual sorte toccava a Santorre Santarosa, che aveva procurato di eccitare gli ultimi sforzi della rivoluzione piemontese. La rivoluzione però del 1820 fatta in Palermo, e la resistenza contro i costituzionali napoletani, produsse due tristi effetti nel popolo. Il primo fu una gran diffidenza delle agitazioni liberali, tutte le volte che il centro fosse fuori di Sicilia, e specialmente a Napoli, non dimenticandosi mai dal popolo le lotte fortunate: quindi l'influsso dei liberali non siciliani non poteva essere giammai grande nell'isola. L'altro fu la persuasione della niuna forza dell'esercito napoletano, e per conseguente della facilità e possibilità di scuotere da sé il rude giogo borbonico: quindi la certezza ancora del bastare a sé stessi. La vittoria di Palermo e la sconfitta di Rieti avevano tale disprezzo generato nell'animo dei popolani di Sicilia, da tenersi ciascuno di essi sufficiente a combattere dieci soldati napoletani.

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Cotale illusione impedì che si facesse alcun ordinamento, e solo ognuno attendeva una propizia occasione; il che poteva esser causa di più gravi sciagure, come sono tutte le rivoluzioni tentate all'impazzata e a forze dispari, poiché raddoppiano il giogo. La dolorosa lezione del 1837 doveva cessare questo pregiudizio.

Sicilia rimase dolente, umiliata e isolata, ma non perdè mai di vista il. suo scopo politico. Partito repubblicano non sorse in Sicilia, e al partito assolutista non aggregaronsi che le spie e qualche venduto magistrato; i costituzionali formarono la immensa maggioranza del paese. Mentre l'aristocrazia nel resto d'Italia erasi non poco stretta coi restauratori, e faceva in molti luoghi la forza del partito retrogrado, in Sicilia era l'anima e il nerbo del partito costituzionale. Il Clero eziandio appariva in Sicilia meno retrogrado e più nazionale; anzi è notevole, come non vi fu mai rivoluzione in Sicilia senza che qualche membro del Clero vi partecipasse e ne fosse vittima ancora. Che più? i liberali lodavansi fino dei Gesuiti, e dicevano che nell'isola parevano men che altrove ligi all'assolutismo. Il convincimento della ragione dei Siciliani era universale nel Clero dell'isola, il quale risguardava lo stato di cose stabilito dai re di Napoli come una usurpazione.1

1 Ciò deve notarsi non tanto per amore di giustizia, quanto anche per impiegare la condotta del Clero e dei Gesuiti durante la rivoluzione del 1848. Questi non solo la soccorsero, ma fatto il caso di coscienza per assolvere i moribondi durante la lotta (come dirò a suo luogo), stabilirono unanimemente che i combattenti non dovevano riguardarsi come ribelli né giudicare come tali nel foro della coscienza, perché la rivoluzione siciliana era legittima. Questo fatto è strano, ma pure innegabile.

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CAPITOLO LIII.

IL SICILIANISMO.

Ma una barriera più forte ancora divideva la Sicilia da Napoli, ed era, se non l'odio, un'avversione profonda ed implacabile reciproca fra gl'isolani ed i popoli di terraferma; era il sentimento dell'assoluta indipendenza, per parte dei primi, e il bisogno sentito di essere regno da sé, con separazione da Napoli. Ciò dagl'Italiani venne genericamente, e senza esame delle peculiari condizioni della Sicilia, appellato il Sicilianismo, e questa tendenza fu compianta in tutta la Penisola; poiché la brama di fare un corpo delle sparse membra della nazione italiana, faceva vedere con rammarico uno di quei membri far tutti i suoi sforzi per essere divelto dall'altro, cui trovavasi congiunto. Il partito nazionale dividevasi in unitario e federale (non parlo delle forme di governo cui aspiravano); e gli uni e gli altri vedevano con egual dispiacere questa tendenza dei Siciliani. Non è mestieri dire come tal cosa turbasse i disegni degli unitari: se i federali partecipavano con minor ragione ai loro timori, era perché molti credevano men facile la federazione quanto più fosse il numero degli Stati onde essa doveva essere formata, e perché la separazione della Sicilia pareva potesse essere principio a disgregamento anco maggiore. Tutti gli Stati italiani essendo formati dell'agglomerazione di più altri Stati già indipendenti, di città e provincie una volta rivali e nemiche, taluno temeva che si sarebbe perduta la lenta opera di unione operata dai secoli; e che l'Italia, divisa di nuovo in cento piccoli Stati indipendenti, non sarebbesi potuta alla fine collegare, né avrebbe potuto conquistare tanta forza da proteggere efficacemente la propria esistenza.

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Né alcuni di questi timori erano privi di fondamento; conciossiaché (lasciando il dritto, la ragionevolezza e la convenienza) né rancori né ambizioni vecchie in molte parti d'Italia erano al certo dimenticate.

Altri poi, e massime i Napoletani anche liberali, consideravano come grave pericolo per il regno e per l'Italia intiera, se la Sicilia rimanendo regno da sé non a bastanza forte per difendersi, dovesse soccombere agli assalti e all'ingiustizia di potentati maggiori, in specie marittimi. E questo pericolo era riguardato qual pericolo comune e nazionale, perché Sicilia è cittadella di Napoli non solo, ma d'Italia ancora; come ne può far fede la Guerra Punica, quando i Romani preferirono rompere la fede de'  trattati per togliere ai Cartaginesi il vantaggio che avevano acquistato coll'avere un piede in Sicilia, tenendosi per cosa sommamente pericolosa a Roma. Ma, a dir vero, le guerre napoleoniche mostrarono che se la Sicilia poteva essere ricovero alla dinastia, non era punto cittadella del regno napoletano; e quanto all'Italia, posto l'ordinamento federativo della nazione, poteva e doveva essere baluardo nazionale ugualmente, o comparisse nella Lega come cosa separata, o come parte del regno napoletano. Nell'un caso e nell'altro difenderebbe del paro e sarebbe difesa da tutta Italia; e forse può aggiungersi che non sarebbe più spinta da domestici rancori a volgere gli occhi all'estero per cercarvi un disperato rimedio.

Questo spirito di separazione palesavasi in tutto, costantemente e presso tutti. Quanto veniva da Napoli, era per ciò appunto odioso ai Siciliani; quanto da questi operavasi, era per i Napoletani una congiura sicula. Le gare fra popolo e popolo altrove non si fanno manifeste (eccettuato nelle occasioni straordinarie che accendono le grandi passioni) se non nel volgo: non così in Sicilia, dove se la separazione desta l'ambizione del popolo, solletica eziandio l'interesse dei grandi.

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Non avvi discorso, non scritto del più illuminato Siciliano, che non sia informato da quella idea, e non la faccia trasparire più o meno chiaramente. Così non può farsi movimento politico, senza che prenda siffatta tendenza, la quale è nella natura di quel popolo, e comune abituale desiderio. Due scrittori ebbe la Sicilia negli ultimi anni, che riscossero gli applausi e l'ammirazione di tutta la Penisola, Michele Amari e Niccolò Palmieri, ambedue storici. Il primo riandava le pagine delle antiche glorie siciliane, il secondo delle recenti ragionava con più immediata utilità dei suoi concittadini. La storia del Vespro Siciliano di Michele Amari fu uno dei più belli scritti che l'Italia vedesse: assennatezza di critica, profondità di cognizioni, dovizia di documenti, limpidezza di racconto si congiunsero a farne un'opera degna di un tempo, nel quale il rovistamento delle patrie memorie poteva dirsi diventato primo studio degl'Italiani. Egli distrusse affatto il prestigio della congiura di Giovanni da Procida, e con l'inesorabile guida della critica storica spense quella riputazione: che più? fece un servo venduto dell'eroe del Vespro, e il merito di questo tornò tutto intero allo spontaneo moto della plebe, cioè al caso e alla tirannide giunta all'estremo.

Il Palmieri nella sua Istoria Costituzionale della Sicilia tesseva il racconto degli antichi e inviolati diritti dei Siciliani, e con maestra semplicità dipingeva le vicende del regno di Ferdinando e di Carolina. Narrava come la libertà fosse prima consolidata, poi difesa, infine perduta.

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Addetto al partito dei baroni, il Palmieri non lascia di fermarsi con compiacenza sui meriti di questo partito, che riconquistò alla patria i suoi diritti, lottò il primo contro le usurpazioni, procurò il soccorso inglese, e sacrificò anche sull'altare della patria i suoi privilegj. Nel tempo medesimo sferza acerbamente gli errori del partito democratico, che con una opposizione inopportuna diè occasione e pretesto alla mala fede della Corte. In un'appendice il Palmieri narrava pure gli avvenimenti del 1820 e 1821. Questa opera ancora si deve riguardare come classica nel suo genere, e poche storie contemporanee possono starle a fronte. La storia del Palmieri non fu pubblicata che postuma, e quella dell'Amari valse a lui l'esiglio, e la persecuzione al tipografo, nonostante che la censura l'avesse permessa. La ricchezza dei documenti inediti procuratisi dall'Amari negli archivj Angioini diè pregio grande al suo lavoro; il quale peraltro per lo spirito accennava che il suo autore era di un partito diverso da quello del Palmieri, di un partito surto dopo il 1820. Questo partito essendo sempre siciliano nelle midolle, anzi facendo dell'indipendenza il fondamento delle sue opinioni, erasi accostato più degli uomini del 1812 alle idee democratiche, ed insieme alle idee italiane. Esso era andato crescendo in Sicilia e fattosi numeroso; ma in lui sempre l'idea italiana appariva secondaria all'idea siciliana.1

1 Che il sentimento italiano fosse nuovo in Sicilia, lo confessa anche l'egregio siciliano Raffaello Busacca. «Ora, non v'ha certamente (egli dice) contrada in Italia in cui questo sentimento di personalità politica propria sia più univer. sale e più veemente che in Sicilia: tra due milioni di abitanti difficilmente ne troverete uno solo che non ne partecipi. Il sentimento nuovo è quello della nazionalità italiana; questo vi ha fatto rapidi progressi. Ma non c'inganniamo su cosa importantissima; il sentimento di subnazìonalità lungi dallo svanire collo sviluppo delle idee politiche, si è corroborato più che prima E se alla parola Italia, il popolo replica Italia; alla parola Sicilia, quella sua maravigliosa energia diventa veemente, irresistibile ec.» — (La Sicilia considerata politicamente in rapporto a Napoli c all'Italia.)

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Che di quel partito fosse l'Amari, il mostra lo scopo del suo libro; il quale rivendicando al popolo di Palermo tutta la gloria del Vespro (la tradizione che destava maggiormente l'orgoglio dell'isola), cercava quasi di porre un peso nella bilancia che, per i meriti del 1812, traboccava in favore dell'aristocrazia.

Volendo forse, per agevolarlo, equiparare il movimento siculo a quello di tutto il Continente, inclinato alle forme democratiche, quel partito entrava nella via della scuola francese, abbandonando le tradizioni proprie e le inglesi. L'odio contro l'Inghilterra per l'abbandono del 1815 non contribuì poco certamente ad accrescere il partito delle idee democratiche, che però se aveva il difetto di essere più nel vago, non potè accusarsi mai di andar dietro ai demagoghi. Ma per trarre il paese in quest'altra via conveniva opporre tradizioni a tradizioni; e alla memoria della Costituzione assicurata dai baroni si oppose l'indipendenza, anco più cara a quel popolo, conquistata dalla plebe. Non dico che l'Amari avesse uno scopo prestabilito alla sua storia, il quale gli facesse toroere i fatti al senso voluto; no, poiché la sua critica fu esatta e severa: ma l'autore prescelse il racconto di avvenimenti che all'assunto politico del suo partito erano vantaggiosi. Questo partito era quello che aveva fatto buon viso anche al sentimento dell'italica nazionalità; ma non volendone cercare le tradizioni recenti nei moti fatti sotto l'influsso diretto o indiretto delle idee francesi, non familiari al popolo siciliano, la cercò nelle proprie lontane storie. E di ciò sappiamo buon grado all'Amari. Egli diè ai suoi compatriotti la stupenda lettera dai padri loro scritta al pontefice, dopo rivendicata la indipendenza, allorché questi voleva di nuovo sottoporli al giogo degli Angioini.

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Quelle solenni parole non potevano non echeggiare nel cuore dei Siciliani, e certo esse sole valgono a fare del Vespro non una gloria municipale, ma bensì nazionale. La Sicilia parlava in quell'istante in nome dell'Italia intera; e il puro sentimento dell'indipendenza di tutta la nazione in nessun altro patrio documento di quei giorni traluce così chiaro, così scevro di gretto municipalismo, come nelle alte parole che erano a un tempo amara rampogna, dirette dai Siciliani al pontefice: «Respuit, Pater, Italia, respuit peregrina dominia!» La storia dell'Amari fu vero incitamento ad una guerra d'indipendenza, benché il presente non venisse mai da lui accennato; imperocché i ravvicinamenti e le similitudini erano tali e così evidenti, che la storia di quasi 600 anni indietro sembrò al governo napoletano storia contemporanea,1 e il nudo racconto minacciosa provocazione. Ma se i lavori del Palmieri e dell'Amari erano distinti, se i partiti cui erano devoti i due scrittori, battevano via diversa, uno in entrambi era lo scopo finale, uno il voto del loro cuore, una la indicazione del rimedio ai mali della patria: l'indipendenza cioè della medesima da Napoli, se non dalla corona napoletana. Non discuto le loro opinioni politiche, ma le accenno chiaramente, perché sono la miglior pittura dei veri sentimenti e delle tendenze dei partiti in Sicilia. L'antagonismo fra l'aristocrazia e la democrazia, che altrove spingeva le due classi ad opposto scopo, nell'isola non si prefiggeva se non diversità nei mezzi.

1 Sembrava infatti la storia contemporanea travestita in antica; e tal sembra oggi più, se il confronto si fa con l'ultima rivoluzione, palermitana anch'essa, popolare e vittoriosa, e sostenuta poi anch'essa da un Ammiraglio, da un Ruggero. Così pur troppo I' abuso della vittoria non avesse rovinato la seconda come la prima, la moderna come l'antica. So bene che ora ed allora i Siciliani avevano ragioni di diffidenza; ma il summum jus non è, pur contro la mala fede, guarentigia giammai.

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Questa tendenza alla separazione era effetto degli errori politici del governo napoletano, e della smania di concentrazione voluta applicare alla Sicilia; la qual tendenza apparve meno chiaramente, mentre i suoi bisogni furono sodisfatti e non compromessi da una stolta idea. I Siciliani nulla avevano per lo innanzi da bramare, finché i loro re tenevano il reame di Sicilia come distinto, finché ne osservarono le leggi, e giurarono il rispetto ai suoi diritti. Il titolo di re delle Due-Sicilie e l'unità della dinastia non erano allora subbietto di apprensioni ai gelosi isolani: da Napoli nulla avevano da temere, né avevano perciò occasione di sentire il malaugurato sospetto dei vicini. Gli avvenimenti produssero o diedero vigore a quello che era latente: l'effetto di avvenimenti compiuti è. inesorabile, e chi non vuole farne conto, quasi non siano accaduti, perché gli tornerebbe più gradito, fa opera politicamente folle. La rivoluzione francese e il ritiro Dell'isola dei Reali di Napoli cambiarono la condizione politica dei due paesi. Il rifugio dato dai Siciliani al re destò l'ira dei giacobini napoletani, e gli assolutisti del regno, i quali avevano ruinata la dinastia in terraferma con le loro nequizie, si adirarono pur essi contro l'isola che offriva loro un ricovero; perché coglieva con retto accorgimento quella propizia occasione di consolidare i propri diritti. Le vanità repubblicane dei Napoletani e l'ambiziosa febbre dei satelliti di Carolina fecero i Siciliani prima contrari, e poscia nemici aperti ai Napoletani: la tendenza politica più saggia sì, ma tutta propria della Sicilia, messe i due paesi in un contrasto d'idee, anzi in un antagonismo perfetto. La Sicilia quindi sperimentò che gl'influssi francesi, irresistibili in terraferma, non avrebbero potuto, se essa così voleva, penetrare nell'isola: come la dominazione angioina si era impossessata e viveva sicura di Napoli, mentre diè di cozzo contro Palermo, egualmente accadde al torrente della francese rivoluzione.

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Vide la Sicilia di poter bastare a sé, di avere alleati naturali opposti a quelli di Napoli, e di essere invincibile anche dalla potenza di un Buonaparte. A queste convinzioni che nelle menti siciliane si andavano radicando, si aggiungeva l'esperienza di poter riformare e rendere veri i suoi diritti in quel momento, solo per la propizia congiuntura d'esser separata da Napoli, e di avere i suoi Sovrani per fatale necessità residenti nel regno siciliano; e se vide talora in quei giorni compromessa fin questa sicurezza, l'attribuì appunto agl'influssi napoletani della Corte, ai consigli di quei tristi che avevano seguito il re profugo. Nè i soli Siciliani erano persuasi di questo, ma lo stesso lord Bentinck; allorché faceva andare a vuoto una trama di Carolina, ed assicurata malgrado del re ai Siciliani la loro libertà, imponeva a Ferdinando fra gli altri patti l'allontanamento dei Napoletani. I Siciliani non potranno quindi mai dimenticare il procedere di costoro, finché non siano costretti ad obliare i dritti e le gloriose loro lotte. Molte condizioni imposte all'Europa dalla rivoluzione francese, furono pur troppo gravide d'ineluttabili conseguenze; e fra queste fu la forzata divisione in due del regno Siculo-Napoletano, che suscitò antagonismo d'idee, lotta di principj, gare, ambizioni e una serie di odj interminabile. Se mai fosse stata per lo innanzi unita la Sicilia con Napoli (e non era stata, giacché gli speciali privilegj la facevano cosa da sé, e i re fin nel titolo mostravano riconoscere la distinzione compiuta dei due regni), l'essere stata divelta in quel tempo, e soggetta alle vicende cui soggiacque, produsse senza riparo possibile difficoltà immense per l'avvenire, destò speranze che non potevano impedirsi, e che nulla valeva né giovava disconoscere. I Napoletani cortigiani e consiglieri di Ferdinando che non riuscirono in Sicilia, presero la rivincita a Napoli nel 1815.

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Era naturale, e conveniva aspettarselo. Le umiliazioni subite cercavano occasione di vendetta; e venuta questa favorevole, ne profittarono. Nello stesso tempo i Napoletani liberali, o in qualsiasi modo affezionati all'ordine novello di cose che durante la dominazione francese si era in terraferma stabilito, e specialmente i murattiani, risguardarono la Sicilia come l'arca che aveva tenuto in deposito i Borboni per restituirli al regno, e distruggere l'opera della rivoluzione. Così i Siciliani si trovarono odiatori e odiati da entrambi i partiti di terraferma.

Queste novelle divisioni risuscitarono la memoria delle antiche. Due paesi che avevano ciascuno una storia propria, e non ebbero giammai comunanza di vicende, anzi sempre opposizione di principj, dotati d'istituzioni sostanzialmente diverse, infine l'uno dall'altro per natura, per origine e per indole del tutto distinti; sembravano destinati dopo le novelle scissure o ad essere affatto disgiunti, o a stabilire i punti di contatto fra essi, in guisa da essere in minor numero possibile e in modo regolati che l'attrito ne venisse impedito. G1 indomiti isolani, che non volevano rinunziare alle leggi e alle libertà loro, non volevano egualmente diventare provincia di regno maggiore. Finché il loro diritto non fu contrastato, vi ebbero fra essi ed i Napoletani piccole gare, di cui più o meno si vedono esempj non certo fatali in tutti gli Stati italiani, e causate da ragioni e tradizioni somiglianti. Inoltre, l'influsso napoletano era stato sempre minimo in Sicilia: niuno se ne scorse sotto gli Spagnuoli che avevano tenuto i due reami affatto separati con distinto viceré, e sotto Carlo III e la reggenza fu scarso e benefico. L'odio peraltro si generò, come ho detto, durante la separazione per le male arti di quelli che avevano accompagnato il re.

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Costoro poi, allorché la Sicilia trovossi isolata, violarono la sua Costituzione, calpestarono i suoi diritti, la manomisero, ruinarono le sue finanze, sostituirono un governo assoluto ed arbitrario ad uno libero, e finirono con spegnere del tutto l'autonomia siciliana; dichiarando che avendo il congresso di Vienna riconosciuto Ferdinando re del regno delle Due Sicilie, egli regnava in forza di questi novelli diritti, e assumeva nuovo nome (era fino allora Ferdinando III per la Sicilia e IV per Napoli, e diventava 1° per entrambi) per reggere con nuove forme il nuovo regno. Questo pretesto era veramente assurdo; perché né le parole del testo del trattato furono queste, né il titolo di re delle Due Sicilie era nuovo, ma sempre usato da quei Reali che riconoscevano non ostante i diritti distinti di ciascheduno dei loro regni, né la Sicilia poteva essere neppure soggetto di quel trattato, essendo qual era innanzi la guerra europea. Ma questo assurdo decreto doveva essere il mezzo per ispegnere non solo la Costituzione siciliana, ma per mancare altresì alla fede data ai Napoletani e agl'Inglesi, e per mantenere le segrete promesse fatte all'imperatore austriaco. Quel decreto fu adunque nello stesso tempo ingiusto, stolto ed ipocrita. I Siciliani che tutto perdevano per esso in un giorno, tutto, in compenso del beneficio dell'ospitalità; che non vedevano la pretensione austriaca, ma solo la mano che lo dettava, e la sapevano certamente guidata dallo spirito di naturale vendetta contro l'isola; i Siciliani sono da compatire se pensarono da quell'istante, come a cosa necessaria, alla loro assoluta separazione. Gli uomini del 1812, tutti i costituzionali, tutti i baroni divennero separatisti; e l'amministrazione napoletana tenuta dai satelliti del dispotismo di Ferdinando I, confermò e fece universale quella convinzione. Sopravvenne la rivoluzione del 1820.

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Dissi qual fu allora il procedere dei Carbonari napoletani verso la Sicilia. Il niun accordo precedente coi Siciliani, la promulgazione della Costituzione delle Cortes,1 e infine il rifiuto del parlamento di riconoscere la capitolazione di Florestano Pepe, posero una barriera che li divise dai liberali napoletani. Questa avversione verso tutti i partiti di terraferma, causata nei Siciliani pur troppo dall'esperienza dei fatti, generò un odio ed una diffidenza che sovente portavansi all'eccesso e all'incredibile. L'Italia vedeva e deplorava questi eccessi, ma poco ne studiava in genere le cagioni. Nulla dico degli anni che seguirono, del regno di Ferdinando l e di Francesco I, perché Sicilia trovossi accoppiata al giogo medesimo di Napoli: solo dirò che le scelleraggini degli agenti del governo, le quali a commettevano del paro in terraferma e nell'isola, furono in questa addebitate totalmente ed unicamente ai Napoletani. Gli avvenimenti seguenti peggiorarono ancora le condizioni.

Fu questa certo una sventura; ma non dubito di asserire che soverchiamente esagerati apparivano in Italia i timori su ciò, e che una transazione non era impossibile. Io credo che non fosse se non questione di buona fede. Il ridare alla Sicilia il suo parlamento e la sua amministrazione, qual era innanzi, e guarentita solennemente, avrebbe attutato le brame di assoluta separazione, che furono in astratto comuni, come si disse, ma non forti giammai; e può aversene prova in questo che i Siciliani né piegarono l'animo a repubblica, né volsero gli occhi verso un'altra dinastia, quantunque certo della loro diffidentissimi, colpa degli eventi passati pur troppo incancellabili.

1 Essendo quella rivoluzione in sostanza murattiana, non è da stupirsi dei dispareri fatali che produsse fra Napoletani e Siciliani. Questi non avevano certe affezioni murattiane, né potevano partecipare coi Carbonari ai desiderj francesi rimasero adunque estranei alla rivoluzione.

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Esagerati dunque erano i timori sul sicilianismo. Molti non vedevano che Napoli e Sicilia, congiunti con quei vincoli che soli fra loro sono possibili, potevano per ventura d'Italia unirsi sotto una sola corona, e che solamente l'aver voluto alterare questi punti di contatto gli aveva divisi e non uniti. L'atto del 1815 passò inosservato in Italia, e non se ne pensarono le conseguenze. Forse parve ad alcuno che l'unità del reame, anche di nome, avrebbe fatto questo più forte e gioverebbe all'Italia. Ma quell'alterazione, invece di render forte il regno, l'indebolì, destando lotte intestine che con un popolo tenace e indomito per natura dovevano esser lunghe e fatali, e che niuna necessità aveva comandate. Quanto poi all'Italia e alle sue tendenze nazionali che si andavano afforzando, pochi in Italia compresero che quella maggiore unione era a prezzo, ed anzi espressamente per disfarsi della libertà siciliana, la Costituzione del 1812. Una Costituzione in una parte, benché piccola, d'Italia fino da quel tempo, che poteva presentare punti di transazione vera fra i due partiti estremi contrastantisi il campo del mondo, avrebbe spinto i governi italiani per una via forse fatale all'Austria. Essa certo lo temette, e perciò l'impedi.

I Siciliani non furono per questo solamente sdegnati, ma scorsero nella trista esperienza che avevano, la conferma dell'equità delle loro brame. Essi videro ogni cosa operata a rovescio e i loro interessi mal compresi e rovinati: e ciò dissero frutto dell'amministrazione napoletana. Infatti era cosi, ma per conseguenza e della condotta politica tenuta dal governo napoletano, e della incredibile ignoranza di molti agenti suoi; e per conseguenza della spenta libertà. I due paesi più non s'intesero. L'opinione italiana crebbe invero nell'isola; ma non avendovi allignato le idee esagerate, non essendovi stata fatta né anco la prova della repubblica, non si sognò neppure l'unità.

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I Siciliani in genere non si mostrarono unitarj, né potevano esser tali mai per loro natura, ma bensì la maggior parte furono federali; la quale opinione con le idee loro, in quanto alla Sicilia riferivasi, perfettamente consonava. Nel caso d'impossibile transazione con Napoli astrattamente da loro considerato, essi non vedevano il perché l'Italia avrebbe ricusato d'essere costituita di otto anzi che di sette Stati; e non essendovi una necessità che a ciò costringesse, non comprendevano come una federazione potesse formare l Italia in nazione, e non potesse formare ugualmente delle due sue parti il regno siculo-napoletano. L'isola, con confini precisi, ricca di due milioni d'abitanti, di razza, costumi e bisogni distinti, diceva avere una personalità propria; e mentre aspirava cogli altri Italiani alla nazionalità, non sapeva perché non potesse aspirare eziandio alla sua subnazionalità (come la chiama Raffaello Busacca in un suo pregevole scritto), della quale diceva possedere tutti i necessarj elementi. Torno a ripetere che molta parte di vero era nel ragionamento dei Siciliani; e se in luogo della separazione si fosse loro dato il dicentramento, sarebbero soddisfatti i giusti bisogni. Ma l'incentramento era una delle due eredità dell'impero francese, raccolte volontariamente dai Sovrani che erano a quello subentrati. Esso ruinò la Francia stessa; e se fu in molti luoghi tollerabile, non poteva essere al certo tale a chi non vi era assuefatto sotto il governo napoleonico, e a chi vedeva con quel mezzo calpestar senza riparo i proprj diritti e le proprie guarentigie. Se l'opinione dell'assoluta separazione surse in Sicilia, si deve appunto a quelle stoltezze. Intesa come la intendevano i Siciliani nella congiuntura della riunione che facevasi nel 1815, non era né ingiusta, né irragionevole, e per l'Italia, dirò pure, era del tutto indifferente:

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imperocché ad essa l'unità della corona, dell'esercito e della, rappresentanza all'estero apparivano più che sufficienti, anco per acquetare coloro che temevano la scissione dei due regni. Le modificazioni degl'interni mutui contatti erano o dovevano essere a questi indifferenti; ma essi le chiamavano pericolose, perché le umane passioni tendono ognora a trascendere, e sì la fortuna come la disperazione potevano farle trascendere. I Siciliani però, studiando la loro istoria, dovevano apprendere: la loro salute consistere nel chiedere e volere con energia i proprj diritti, e nello stesso tempo nel non abusare della vittoria e della fortuna. L'intemperanza dei padri loro, allorché si gettarono con le armi alla mano sul Calamandrano, il quale recava le bianche pergamene in nome del pontefice, offerendo di scrivere su quelle i patti che bramavano, aveva fatto loro perdere i frutti del Vespro e delle successive vittorie.

La vera sventura d'Italia non fu adunque siffatta tendenza per sé stessa, ma bensì il diventar preponderante e primo, e, stetti per dire, unico sentimento nel cuore dei Siciliani. Essi pensarono all'immediata loro indipendenza prima che alla nazionale: distratti ed occupati nelle discussioni, nel desiderio e nelle lotte per ottenere quella, ebbero poco tempo ed agio di attendere a questa. Ognuno poteva prevedere che agitandosi un giorno l'Europa ed accadendo uno sconvolgimento in Italia, la Sicilia avrebbe cominciato dal pensare a sé medesima. Ciò era non solo il primo desiderio, ma il bisogno sentito più profondamente e più universalmente; perché dal barone al proletario, dal vecchio al fanciullo, tutti ardevano in un solo pensiero, quello della patria siciliana. L'esercito napoletano che occupava le sue città e fortezze, non riguardavasi come truppa del re, ma come truppa dell'odiato paese.

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Questa fu certo sventura per l'Italia, perché la diffidenza essendo reciproca, e dovendosi attendere ostinatezza per parte di Napoli come impazienza per parte di Sicilia, né vedendosi possibile da un lato la rassegnazione di perdere, e dall'altro di non giovarsi d'un'opportunità per acquistare, si temeva di vedere divise le forze in qualche congiuntura, aia la colpa non era nella maggior sua parte dal lato dei Siciliani: era conseguenza ineluttabile dei fatti precedenti. Inoltre niuno poteva dire, se alla occasione questi non avrebbero abbastanza forza d'animo da differire le questioni loro e transigere in nome d'Italia. Tutto questo invero non era impossibile; e i fatti mostrarono che non era, quanto almeno alla parte pensante. Le vicende posteriori per altro, se avevano reso i più culti Siciliani quasi guardinghi e sospettosi di ciò che veniva dal re o da Napoli, avevano nel popolo destato una diffidenza così invincibile, da renderlo poco maneggevole su tal punto anche dai proprj moderatori. Ma questa non era colpa solo del sicilianismo, bensì degli atti del governo napoletano. Nel ritorno dunque alla libertà e in un procedere veramente leale del governo stava la sola salute, il solo possibile rimedio per la dinastia, più minacciata da tali tendenze, a quell'elemento dissolvente che corrodeva il regno unito. Conchiudo dicendo che se la Sicilia forse non comprese con suo danno l'Italia, l'Italia neppur essa e molto meno comprese la Sicilia, ed ancor essa con suo danno; poiché nella Costituzione siciliana poteva essere il germe delle italiche libertà, ed il mezzo più valido per contrastare all'influsso austriaco. La Sicilia lamentavasi che l'Italia non pensasse a lei, non la conoscesse, non tenesse conto della peculiare condizione sua; ed era pur troppo vero, essendoché l'Italia dopo il 1815 guardasse tutto con occhi abituati al sistema francese.

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Era peccato di governanti e di liberali egualmente. Non potevano dunque imaginarsi uno Stato modellato su forme proprie, modificate in parte sulle inglesi; non potevano sopratutto spogliarsi del pregiudizio dei vantaggi dell'incentramento amministrativo. I Siciliani dall'altro canto sul principio confusero il movimento nazionale col francese ad essi disforme, poscia lo temettero come soverchiamente unificatore; e quando infine l'intesero, lo tennero al secondo posto, cioè dopo il proprio. Allora la Sicilia ebbe due movimenti contemporanei, l'uno attorno al proprio asse, l'altro attorno al pianeta nazionale. N'ebbero colpa gli avvenimenti, se non diventò questo il principale; e se fu colpa di persone, fu di molti e non dei soli Siciliani. Inoltre questi nulla potendo sperare dall'Italia non ancora costituita, e oppressi da mali gravissimi, non disperavano giammai che l'Inghilterra alla prima solenne occasione avrebbe rammentato le sue parole e le guarentigie date. Questa speranza che naturalmente era rivolta più verso l'Inghilterra che verso la Penisola, isolava sempre più la Sicilia, e teneva presso di lei più che mai secondario il sentimento nazionale italiano. È vero che i Siciliani maledicevano l'Inghilterra, e non cessavano mai dal ripetere e bestemmiare il tradimento e l'abbandono: ma il linguaggio dell'ira e del dolore si faceva più rimesso, ogni qualvolta il re di Napoli aveva gare con l'Inghilterra, e l'opinione naturalmente volgevasi anche ai proprj danni contro il re. Sotto l'ira e il dispetto vi era sempre la speranza. Cosi Niccolò Palmieri, mentre diceva agl'Inglesi che non sperava punto in essi, e che «un popolo quando non può acquistare la libertà con le proprie forze, chiedendola per mercé ad altri, ottiene solo nuove catene,» non si stava però dal dedicare quella sua stupenda storia costituzionale della sua patria al parlamento della Gran Brettagna.

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CAPITOLO LIV.

IL 1837 IN SICILIA.

L'innalzamento al trono di re Ferdinando II era stato per la Sicilia pure occasione di facili speranze. Siccome l'oppressione e il mal governo che i reggenti napoletani facevano dell'isola, avevano cresciuto il funesto spirito di separazione fra i due popoli, e la divisione almeno delle due amministrazioni era domandata come rimedio unico alle più flagranti e non mai cessate ingiustizie; cosi gli animi dei Siciliani si aprirono alla speranza. E ciò accadeva, come a Napoli, per i primi atti di regno di Ferdinando. Il suo primo proclama non disconosceva, anzi (cosa incredibile) confessava i torti de'  passati regni, e assicurava quei popoli fidenti che «sanerebbe le piaghe della Sicilia fatte dal padre e dall'avo.1» Nato in Sicilia, e facendosene un merito con quegl'isolani, parlando con essi il loro linguaggio, parve quasi studiare di farsi loro concittadino; affinché lo spirito che non ignorava essere in que' popoli, venisse almeno sopito, e si lusingassero per queste apparenze di avere un re proprio quasi più Siciliano che Napoletano. Ma, più che per ogni altra cosa, la speranza dei Siciliani sorse per la destituzione del marchese delle Favare luogotenente generale dell'isola, il quale era odiatissimo (destituzione improvvisa ed inaspettata, e primo atto del nuovo regno, che fu accompagnata da immediato arresto nella sua villa, donde incolpato di tradimento venne tradotto a Napoli);

1 Queste parole rimasero impresse indelebilmente nella memoria del popolo, il quale confrontandole coi fatti che poi ne seguirono, soleva dire: «che per meglio curare le sue piaghe, il governo del nuovo re avevagli tolta la camicia.»

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e, che più monta, per la nomina che il re fece di un suo fratello, il conte di Siracusa, alla carica medesima di luogotenente. Ciò sembrava, per le tradizioni che quella carica aveva in se, dover importare la istituzione di un'autorità locale tutrice dei diritti e dei bisogni dell'isola, e, se non indipendente, tale almeno da poter frenare le ingiustizie, e illuminare sui veri bisogni di quei popoli lontani il governo centrale. Una persona prossima al trono, chiamata ad esercitare quella carica, era (credevano) guarentigia solenne contro gl'intrighi della Corte, contro le prepotenze ministeriali, o, come essi le appellavano, napoletane. Il decreto che stabiliva questi cangiamenti, era pubblicato con la data del giorno stesso in cui Ferdinando II saliva il trono, cioè del giorno 8 novembre 1830: ma siccome il conte di Siracusa non poteva recarsi colà immediatamente, si faceva assumere, dopo l'arresto del suo antecessore, il governo al marchese Nunziante comandante generale delle armi nell'isola stessa. II principe di Campofranco poi essendo stato nominato, insieme all'altro ministro di Stato cavalier Antonio Mastropaolo, ad assistere il nuovo luogotenente, prese le redini del governo, finché quegli noii recossi a Palermo, cioè fino al 9 marzo 1831. I primordj del novello vicereame furono buoni: il governo fu, si può dire, affatto siciliano. Ma poco durò l'accordo. Un luogotenente a Palermo e un governo locale quasi indipendente, immedesimato nei bisogni dell'isola, e facendo scopo delle sue ambizioni il contentamento e la prosperità degl'isolani, destò naturalmente se non le gelosie, i sospetti del governo di terrafferma; il quale, come in parte si disse, non era per quelli ciò che è un governo locale, e neppure ciò che era per le provincie immediatamente annesse.

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La felicità comune e la uguaglianza di fortuna sono il cemento delle diverse parti d'uno Stato: ora, questo manca tutte le volte che i mezzi di difesa non sono comuni a due Provincie di uno Stato medesimo, poiché la comunanza di fortuna allora non vi è più, e il legame di reciproca guarentigia è spezzato. L'avvenire, più che il passato, collega i popoli; e l'avvenire non può essere uniforme per due popoli che non hanno comunanza di pericoli e di speranze. Questa per me è la trista condizione che divide forse radicalmente Napoli dalla Sicilia, questa l'eterna cagione del loro antagonismo accresciuto dalle cause accidentali, cioè dagli errori reciproci dei due popoli e dalle insipienze dei governi. Nel solo spirito della italianità vede la Sicilia o può vedere un compenso, un nesso stabile non solo fra lei e la Penisola, ma fra lei e il Regno. Or dunque questo spirito d'antagonismo si ridestò durante il governo del principe di Siracusa. Uomo fatuo e leggiero, non idolatra però delle tradizioni assolutiste della sua famiglia, se non morigerato, certo più colto ed elegante nei modi di alcuni dei suoi fratelli, aveva questo principe anche qualità in sé stesso per farsi amare dai Siciliani; i quali potevano giudicarlo buono, comparandolo ad altri principi che disonoravano a un tempo con la loro vita la famiglia, il principio monarchico e l'umana natura. Il cozzo fra i due governi, isolano e centrale, si fece frequente ed acerbo, dacché le speranze da un lato e i timori dall'altro eccitarono le passioni, ed a queste la direzione della politica venne affidata. Fuvvi chi giunse a sospettare che la nobiltà siciliana, insofferente da lungo tempo del giogo, avida di una rivincita per il doppio tra dimento del 1815 e del 1821, tentasse l'animo del giovane principe, e cercasse insinuare in lui un'ambizione, per la quale l'interminabile questione della separazione si sciogliesse radicalmente; e così si prestasse alla nazione una solida guarentigia delle libertà due volte ad essa rapite.

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Si bisbigliò ancora d'una mascherata stabilita dai baroni col luogotenente e da farsi in un giorno di carnevale per le vie di Palermo, da cui dovevasi trarre occasione per gridare re indipendente dell'isola il conte di Siracusa.1 Checché sia di queste trattative, certo è che Ferdinando II o le sospettò vere, o le credè possibili; e già col decreto del 19 gennajo 1833 aveva ristretto nelle sue mani in gran parte l'autorità, istituendo ai suoi fianchi in Napoli un ministro a posta incaricato di trattare e proporre a lui gli affari di Sicilia. I suoi consiglieri, gli uomini che serbavano le tradizioni di Carolina e odiavano nei Siciliani il freno da questi opposto con tanta fermezza durante le sventure della monarchia borbonica all'insaziabile loro sete di comando e alla loro ignorante tracotanza, alimentarono i sospetti del re, e ne agitarono l'animo in modo da persuadergli la necessità di togliere al fratel suo le conferite facoltà: e questi sospetti furono aggravati dalle insinuazioni di Antonino Franco, ministro per gli affari di Sicilia, che sperava con l'allontanamento del conte di Siracusa avvantaggiare d'autorità. Sotto pretesto adunque di congedo, il principe di Siracusa veniva richiamato a Napoli dal reale fratello suo, per non tornare mai più a Palermo, per non essere più investito della rappresentanza della sovranità; e a lui successe nuovamente il principe di Campofranco, prima provvisorio e poi assoluto luogotenente. Ciò accadeva nel marzo 1835. Le speranze della Sicilia cadevano d'un tratto, e le disposizioni d'animo dei popoli si mutarono, come quelle del re si erano cangiate.

Questi non vedeva ornai più nell'isola che una provincia ribelle ed indomabile, e la sua mira fu quindi innanzi non di rendere più ragionevole e più equo il governo nell'isola, ma di farlo più forte; non di consolidare i legami dei due Stati col rispetto reciproco dei diritti della nazione e della corona,

1 Il soggetto della mascherata era nazionale e allegorico, cioè l'entrata del conte Ruggero in Sicilia

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ma con uniformità assoluta di reggimento, cancellando ogni tradizione e ogni diritto parziale; insomma, per usare la frase vera, benché dura, con l'uniformità della schiavitù. Invero questa tendenza del governo di Ferdinando II doveva produrre una unione fra la terraferma e l'isola, una unione di dolori e di congiure, una comunanza di speranze e di disegni, pei quali la cieca opera dei politici dell'assolutismo doveva farsi men salda e men sicura. Nel primo istante l'odio degli isolani si volse ugualmente contro il re e contro i Napoletani; il che era naturale, tutte le disposizioni liberticide partendo da Napoli. Di parlamento più non si parlava, ed era delltto farno motto, benché le imposte si aggravassero sopra la somma determinata e guarentita dall'Inghilterra, che si prometteva non oltrepassare senza il consenso del parlamento. Così gli animi restarono in una tremenda incertezza, e ormai l'opinione pubblica degl'isolani e il governo di Napoli erano in aperto stato di reciproca ostilità. Ogni desiderio del popolo era una congiura, ogni atto del governo un'ingiustizia, e peggio: tutto era occasione di scandalo, mezzo di divisione, subietto di contestazioni o di richiami, non sempre ragionevoli né da una parte né dall'altra. Correva il 1836, e una vera rivoluzione poteva dirsi non solo preparata nell'isola, ma compiuta negli animi dei Siciliani. Sopravveniva il funesto flagello del cholèra.morbus ad agitare varie parti d'Italia; e il governo di Napoli istituiva cordoni, e dichiarato il morbo contagioso, cercava evitarne lo incremento con impedire ogni sorta di contatto.

Forse fin d'allora si servi dell'esagerazioni di quei mezzi, comandati in parte dalle voglie dell'universale paura, per rendere più agevole e più sicuro il politico isolamento dei due Stati: ma ciò non servì a nulla, ché nell'estate del 1836 il cholèra-asiatico invadeva in modo tremendo la capitale stessa del regno.

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I cordoni sanitari divennero allora come in ogni altro luogo un imbarazzo; e se altro non fosse, oltre i bisogni governativi, le pretensioni medesime della paura che gli avevano fatti inalzare, li facevano abbattere per non trovare ostacoli alle fughe precipitose ed innumerevoli, che andavano spopolando la flagellata città. Queste disposizioni inconseguenti bensì e contradittorie, e se vuolsi, in parte per la loro inconseguenza ingiuste, furono dalla Sicilia interpretate nel modo più odioso, cioè come veri atti di ostilità verso di lei; e si disse asseverantemente ed universalmente, che il re, il governo e Napoli volevano dare alla Sicilia il contagio. Il popolo che aveva subito tutte le noje ed il peso dei cordoni sanitarj, quando il cholèra era tuttavia in Russia, e che vedeva atterrate quelle barriere quando la capitale del regno era infestata; il popolo che si vedeva naturalmente ricambiato dal governo dell'odio a lui portato, credè agevolmente all'esecrando assassinio. Era un vero parosismo di passione che giungeva al dellrio. Non posso altrimenti appellare questi eccessi dell'imaginazione umana, sopratutto quando veggo che anco gli uomini di senno (che non potevano credere certo a siffatte assurdità) per accagionare l'odiato governo della desolazione di loro patria, per rimproverare, e non a torto, al medesimo l'ingiustizia delle sanitarie disposizioni, le quali avevano tolta quella che sembrava guarentigia contro il contagio di un male da cui gli animi erano in singolar guisa spaventati, usarono allora e poi frasi cosi energiche e violente, che rassomigliavano molto alle accuse del volgo. «Si era dato il cholèra alla Sicilia, perché l'aveva Napoli,» scriveva un illustre economista siciliano nel 1848.

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Tal frase in bocca di uomo assennato, undici anni dopo i tragici casi, dipinge abbastanza l'esaltamento delle passioni a quei giorni: il quale non può veramente misurarsi se non con l'intensità della sciagura sopportata dalla Sicilia, e con la malvagità di coloro che per politico accorgimento aggravarono i suoi dolori.1

Non avvi città, dove il morbo asiatico abbia fatto così miserando strazio delle vite degli uomini come in Palermo, ed era qualche secolo che la storia non rammentava in Europa per opera di contagio uno scempio eguale a quello. Non meno di 2000 al giorno, allorché il male era nel suo colmo, morivano. In un solo mese, fra una popolazione di 170 mila uomini, la morte mieteva non meno di 24 mila, e al dire di alcuni, fino a 40 mila vittime. Il vero numero non s'ebbe mai, né si poté avere; perché lo spavento generò tale e tanta confusione, che anco lo stato delle anime fu interrotto, ed ogni esatto calcolo fu cosi reso impossibile,. Per questo la fantasia, accesa e sbrigliata dal terrore, perdè la norma della ragione, e più che mai dellrò. La imprevidenza del governo aveva in quell'istante conseguenze tanto funeste, che non potevano non essere qualificate per delltti. Invero togliendo le quarantene e conculcando i diritti, fino a quel tempo inviolati, del supremo magistrato di Sanità dell'isola,

1 Anche nella Memoria pubblicata nel 1849 in lingua francese a Parigi durante le trattative che dovevano essere, come speravasi, base di accordi con cui si fermassero a Bruxelles le sorti dell'Italia men tristi di quello erano state fino allora; in quella Memoria eziandio trovansi queste strane parole che esprimono la salda credenza del paese: «On s'écria non sans quelque raison que le gouvernement de Naples avait à dessein introduit la maladie.» Mémoire historique sur tes droits politiques de la Sicile, par MM. Bonaccorsi et Lumia. Paris, Franch, libraire, 69 rue Richelieu. 1849.

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il quale aveva avuto sempre autorità propria e indipendente da Napoli (cui lo stesso Ferdinando I aveva soggiaciuto, allorché fuggiasco dalla capitale non aveva ottenuto libera pratica se non dopo av&r serbato le prescritte formalità), e con questo avendo non solo esacerbati gli animi, ma eccitato imprudentemente i già accreditati sospetti, nulla fu predisposto per il caso che il male si manifestasse nell'isola. Al momento del bisogno mancarono ogni specie d'impiegati, mancarono fino i becchini; cosicché accadde che talora gli estinti rimanessero a spettacolo spaventoso nelle vie e dentro le case, e forse la ritardata tumulazione di molti rese più micidiale la già corrotta atmosfera. Inutile parmi narrare le tristi scene di lutto della misera città, quando lo spettacolo delle pesti è pur troppo uniforme, come quello di un incendio e d'un naufragio. I Palermitani spaventati dal progresso del male, che sembrava minacciare l'estremo sterminio a tutta la popolazione, persuasi di essere avvelenati dal governo di Napoli, non dimentichi peraltro delle prime non tristi idee avute riguardo al nuovo re Ferdinando II, tenendolo fermamente per migliore dei suoi ministri e consiglieri, asserivano e giuravano, quantunque egli fosse in Napoli, averlo veduto cogli occhi loro aggirarsi fra le tenebre per le vie della città, seguire i funebri carri, entro i quali erano stivate le vittime che portavansi a sotterrare, e lamentarsi che i governanti iniquamente abusassero dei suoi ordini, e morissero più sudditi di quello ch'ei non avrebbe voluto. Singolare travolgimento d'intelletto! L'idea del veleno predominava, e divenne certezza in tutti, dacché due uomini di alto senno e venerandi, colpiti da quel male, parvero non porne in dubbio la causa venefica.

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Primo fra questi fu l'illustre Domenico Scinà, che assalito dal cholèra corse dal direttore di polizia Fardella duca di Cumia, amico suo intimo, a chiedergli il contravveleno. Poco stante colpito dalla sventura medesima l'arcivescovo di Palermo, il cardinal Drigona, uomo a giusta ragione venerato, moriva anch'egli respingendo ogni soccorso e dicendo con tranquilla rassegnazione, non esservi rimedio contro il veleno. Da quel giorno in poi niuno più dubitò del misfatto governativo; e il popolo siciliano, tuttavia persuaso di tanta nefandità, crolla il capo a chi di cholèra gli faccia motto come di morbo endemico od epidemico, e con l'accento d'una fiera incredulità risponde, che il cholèra si cura con l'odor della polvere.

Mentre infatti queste cose accadevano in Palermo, mentre nella capitale dell'isola e per l'imprevidenza del governo e per l'universale terrore passeggiava baccante a fianco della pestilenza la più spaventosa anarchia; sembrando questa irritazione febrile un mezzo opportuno per riunire le forze necessarie ad abbattere un governo, che si voleva reputar più debole che non era, parendo già scomposto nel centro dell'isola, nacque in alcune città secondarie, o nulla o meno flagellate dal morbo, l'idea di una sollevazione isolana sulle eterne ed immutabili sue basi del riconquisto della libertà e della indipendenza siciliana. Non si accorgevano come l'anarchia palermitana fosse impaccio e non sussidio, come la presenza del cholèra, rendendo intralciate ad ogni passo fra una città e l'altra le comunicazioni, impediva che il moto si dilatasse con quella velocità che sarebbe stata necessaria per renderlo energico ed universale; non apprezzavano la vera forza della truppa novellamente da Ferdinando II disciplinata, fondandosi essi sui fatti del 1821; infine dimenticavano, come in quel momento la disunione e la gara fra diverse città dell'isola avesse tolto un centro, il quale è necessario in ogni rivoluzione, perché possa compiersi con la rapidità che è la miglior guarentigia del suo buon esito.

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Forse il governo napoletano non ignaro (come non era il romano ancora) delle congiure delle sette in quell'anno medesimo, lasciò in preda della propria fantasia le teste più calde; forse i visionari che mai non mancano, e qualche settario con false promesse ed assurde notizie diedero la spinta a quello sciagurato moto, Mario Adorno, uomo ardente, si valse della credenza del veleno (forse essendone convinto egli medesimo, come molti), e corso a Siracusa fece processi agli avvelenatori, destò gli sdegni, eccitò le vendette, e da questa disposizione traendo profitto, gridò la sospirata Costituzione siciliana. Catania pur essa bolliva, e pigliando vantaggio per l'inerzia dei governanti1

1 Il comandante di Catania, colonnello Santanello, aveva fino dai primi di luglio manifestato i suoi timori; ma non ebbe dal comandante generale dell'Isola se non questa vaga risposta, la quale è riportata nella Difesa fatta per il medesimo innanzi all'alta corte militare, e in cui si trovano qua e la lacune, perché tutto ciò che censurava il governo, fosse pure in difesa del prevenuto, non era permesso: «Comando generale delle armi in Sicilia — Sezione 3, n. 1352. — Palermo 9 luglio 1837. — Signor comandante. — Ho letto il rapporto di lei, del 5 andante n. 173, e non posso in risposta che far plauso a quanto fu dalle autorità amministrative, militari, e giudiziarie di cotesto capovalle stabilito, allora che conobbero le voci allarmanti sparse da qualche malintenzionato per turbare l'ordine pubblico. Io voglio sperare che l'attitudine spiegata dalle ri dette autorità voglia imporre soggezione ai cattivi, e calmare le sollecitudini de'  buoni; ma laddove ciò infelicemente non avvenisse, Ella, sig. comandante, dovrebbe (come ha di già lodevolmente praticato) mettersi in combinazione con m l'intendente del Valle, ed emettere quei provvedimenti che meglio potranno m convenire alle circostanze. — Non ignoro io già che di limitatissimi mezzi può Ella disporre per far fronte all'impero di tali circostanze, ma gli è certo che l'ingegno, le militari conoscenze, di cui Ella va fornita, e lo zelo adoperato mai sempre nel disimpegnare gl'incarichi che le si sono affidati, potranno elevarla bene al di sopra degli stretti mezzi surriferiti. — Mettere la poca truppa costà in guardia de'  locali che abbandonati, del tutto o in parte, nuocer potrebbero essenzialmente alla quiete del paese, come a dire le prigioni, è tutto quello che io possa dirle; e questo stesso il credo superfluo, perché sicuro che n'abbia Ella già presentita la necessita.

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e per la scarsa guarnigione, poco più di cento uomini essendo destinati a guardare una popolazione di 70,000 anime, compieva nei giorni 29 e 30 luglio la sua rivoluzione, inalzava la bandiera siciliana, atterrava le statue dei Borboni e costituiva un governo provvisorio, promulgata la Costituzione del 1812. La truppa fu disarmata il 30 dopo vani tentativi fatti il 29, ai quali si oppose inutilmente il comandante della piazza offrendo anche ai ribelli la propria testa. Il comandante stesso avendo rifiutato il giorno 30 di giurare ubbidienza alla forma novella di governo, ed essendo accusato di delltto d'avvelenamento (globetti di nera polvere si trovarono presso la sua abitazione), ebbe a nascondersi, e poscia fuggì a Reggio, per essere più tardi sottoposto ad una corte marziale con imputazione di viltà e tradimento. Le altre città dell'isola, eccetto una parte del Valle di Messina e i piccoli paesi prossimi a Palermo, cioè Abbate, Bagheria, Torretta, Misilmeri, Marineo, Carini e Corleone, nei quali la credenza del veleno erasi fatta universale, ignorarono quanto accadeva in Catania e in Siracusa, ed avevano in quel momento assai più dolorosi pensieri che le agitavano. Il governo, risoluto di profittare d'una occasione opportuna ai suoi disegni (il cui svolgersi può destare anche sospetti più gravi), ed ansioso di abolire fin l'ombra di quelle libertà, il diritto e il nome. delle quali erasi serbato all'isola, non

— Alcune piazze di questi reali dominii sono invero dotate di una guarnigione, ma queste guarnigioni sono inferiori di molto ai bisogni di esse piazza, e si è nell'obbligo assoluto di non ismembrarle per custodire le piazze stesse. — Non mi dilungo in dimostrarle come ragione consigli a mantener custoditi i detti punti della Sicilia, e mi astengo altresì dal dirle quanta imprudenza sarebbevi nel dividere e suddividere i presidii in discorso; dappoiché, mi piace il ripeterlo, dotata come Ella, è di esperienza nelle cose militari, ne vedrà di leggieri gl'imperanti motivi.—

 Il maresciallo di Campo comandante generale, Tschuily. — Al sig. colonnello Santanello comandante il Valle di Catania.»

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che di compiere ciò che esso chiamava unificazione del regno, togliendo la separazione delle due amministrazioni, conceduta alle insistenze inglesi in compenso della libertà che di fatto a quei popoli si usurpava; spedi prima sui bastimenti a vapore, insieme ai soccorsi sanitari per Palermo, un forte nerbo di truppa, che approdò in Solanto, e poscia il 31 luglio con grande apparato di guerra e con facoltà sovrane, cioè con l'alter ego, l'uomo di Bosco, Francesco Saverio Del Carretto, accompagnato da tre generali. La rivoluzione era già cessata, prima che vinta, quando il Del Carretto fa inviato in Sicilia; il che mostrerebbe, esser egli colà inviato non a vincere, ma sì a cogliere i frutti della vittoria, se già non lo dicesse apertamente il decreto che conferivagli le straordinarie facoltà, dopoché l'invio della truppa aveva o già conseguito il desiderato scopo.» — «Volendo or noi (così proseguiva il decreto reale) nella sollecitudine dell'animo nostro convenevolmente raffermar l'ordine con provvidi temperamenti governativi ec,» la qual cosa palesa chiaramente che le riforme amministrative erano premeditate. Questa solennità di spedizione contro una rivolta come la catanese, era quasi ridicola, e dinanzi poi al lutto dell'isola appariva una bassa crudeltà: se al politico fine di essa si voglia riguardare, era ingiustizia solenne, e ancor peggio quanto al momento prescelto a compierlo. Invero il governo napoletano, prendendo tale occasione, sapeva di poter riuscire senza difficoltà a domare quegl'isolani che pur turbano e turberanno sempre i suoi sonni, essendo allora naturalmente avviliti e spaventati; e propalando le più stolte calunnie ed esagerando i fatti, sperava trovare giustificazione in faccia all'Europa in un istante che il silenzio universale lo lasciava senza contraddittori.

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Ma i Catanesi, saputo della spedizione e vistisi soli ed abbandonati da tutti innanzi d'essere vinti, ordirono èglino stessi una reazione, e la compierono prima che giungesse sotto le loro mura l'inviato reale, spedito al conquisto delle ultime libertà siciliane piuttosto che a domare i ribelli. Coloro che erano più compromessi, si salvarono tutti con la fuga. Ma l'esito non fu qual essi speravano, perché il ministro di Polizia Del Carretto, se non poté combattere, non per questo rinunziò ad infierire. Furono per lui stabilite le corti marziali, e imprigionate migliaja di cittadini: quelle sentenziavano sommariamente e quasi sempre a morte senza formalità, senza esami, senza contradizione e senza confronti. Si voleva per sé l'apparenza di vincitori, si voleva per quei miseri popoli l'apparenza di ribelli. I capi erano fuggiti (eccettuato l'infelice Mario Adorno che venne fucilato in Siracusa), e quindi non si percuotevano se non coloro che avevano lievissima colpa, o quelli che erano del tutto innocenti. Ma pensava il governo napoletano, che le vittime attesterebbero all'Europa la resistenza, e farebbero prova della necessità dei provvedimenti governativi susseguenti a danno dell'isola intera. Un cotale disegno ideato e consumato in guisa così crudele, fra mezzo al furore del cholèra, era per vero dire da parte del governo napoletano una rinunzia ad ogni transazione avvenire coi Siciliani; era per questi un'eterna causa di rampogna da gettare in faccia al primo. In breve, da quel momento il diritto napoletano per i Siciliani si fondò soltanto sulla forza, e quindi il popolo non reputollo duraturo e valido, se non quanto essa durava. Non il popolo spezzava i vincoli che al governo lo legavano; ma questo era che compieva la sua morale abdicazione con insano modo. Se persone probe ed istrutte degli avvenimenti non lo narrassero, e se i precedenti del Del Carretto non rendessero tutto credibile, esiterei ad asserire che molte centinaja furono i condannati a morte con sentenze date dalle corti marziali

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(né deve tacersi che allora e sempre erano esse state formate, massime in Sicilia, d'uomini non solo venduti al governo, ma rotti ad ogni vizio e venali al segno di mercanteggiare, non qualche volta ma spessissimo, la vita e la libertà degli imputati),1 e non meno di cento di loro subirono la condanna; che tanta era la furia dell'ammazzare, che si trovò una volta, noverando i cadaveri, una vittima di più di quelle designate dalla sentenza; che queste crudeli esecuzioni, le quali non risparmiarono preti, donne, e fin qualche fanciullo,' si facevano compiere dal feroce ministro a suono di banda; e che frattanto in mezzo al lutto universale del cholèra, raddoppiato dalle sue ferocie, egli si dilettava di banchettare e sollazzarsi con le danze, cui costringeva a intervenire e prender parte le mogli e le figlie dei miseri Catanesi o fuggiaschi o compromessi nella ribellione. Incredibili cose veramente! I Siciliani immersi nel dolore non avevano allora mezzo di sollevare la voce; anche il conforto della pubblica opinione e quello miserissimo della compassione era loro tolto. E il Del Carretto, non contento di desolare la Sicilia, non si astenne fino dal calunniarla: onde i fogli ufficiali parlarono della rivoluzione domata in Catania, e dei disordini avvenuti in Palermo durante il cholèra, della maggior parte dei quali era senza dubbio cagione la grande imprevidenza del governo.

1 A Bagheria, villaggio distante otto miglia da Palermo, più uomini miserabili si riscattarono con danaro che pagarono ai giudici, per ishorsare il quale furono costretti a vendere il podere che alimentava la loro famiglinola.

2 A Bagheria fu fucilato un ragazzo di 14 anni. Ivi la credenza nel veleno erasi fatta più che altrove universale, e quindi le popolari vendette furono maggiori. Uno speziale era stato denunziato come avvelenatore governativo. Egli fatalmente possedeva arsenico, e intimorito da quelle voci avevalo nascosto sotto il tetto, finché crescendo le voci che l'accusavano crasi fuggito. La serva denunciò il segreta deposito, cosi celato per eccesso di paura: si frugò, si trovò, se ne fece esperimento sui cani, e la riuscita ribadì nel popolo la credenza dell'avvelenamento e fece diventare furiose le ire della plebe.

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Per quei disordini appellaronsi barbari i Siciliani, forse perché l'isola non solo venisse reputata indegna delle sue libere istituzioni, ma, quasi direi, appena degna d'un governo, qual potrebbe concedersi alla razza più abbrutita dei Negri. Ma fra le sventure dei Siciliani e le iniquità compiute dal Del Carretto è giudice la storia; e da qual lato debba restare l'accusa di barbarie, ha quella già sentenziato. Qui peraltro non deve tacersi come uno dei generali che accompagnarono il Del Carretto, il generale Reggio, non dimenticò in quei giorni funesti che nelle sue vene scorreva sangue sicifiano. Molte vittime campò dalle corti marziali in Catania, dove il suo nome era già noto, e la temperanza dei suoi modi già per antica esperienza provata, allorché succedendo al generale Statella nel comando di quella provincia aveva alleviati molti mali e mitigati molti dolori, ponendo anche in libertà buon numero di coloro che erano detenuti per politici reati.

Compiuta la solenne conquista, e premiato il Del Carretto con le insegne dell'Ordine di San Gennaro, non tardarono a comparire gli atti governativi, che svelarono l'arcano senso di quella tragedia rappresentata in Catania dal ministro di Polizia. Con quegli atti ogni orma di privilegio siciliano venne cancellata; le tasse furono accresciute, concentrato tutto in Napoli, e l'amministrazione empita di Napoletani. Siracusa fu desolata e toltole il titolo e i vantaggi di capitale della sua provincia, della quale venne fatta capo la città di Noto, non tenendo conto del nome e della storica importanza della prima. Il Bianchini, nella sua Storia Economica e Civile della Sicilia, col suo stile velatamente cortigiano chiama questo fatto «degno di memoria;» ma io non esito a chiamarlo degno di obbrobrio, perché il fare sparire le città storiche e monumentali è destino concesso alla sola barbarie.

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In pari tempo abolì con decreto del 31 ottobre 1837 tutto quanto aveva l'apparenza di governo separato, cioè le cariche di direttori (come gli appellavano ) dei ministeri che risiedevano in Palermo presso il luogotenente, non che lo stesso ministero istituito in Napoli nel 1833 per gli affari di Sicilia. Fin allora gli atti dei Consigli Provinciali di Sicilia facevano capo ad una Consulta formata per l'isola nel 1815, quale ombra del parlamento che si aboliva, qual compenso del più che si toglieva, come la limitazione delle imposte, e la non promiscuità d'impieghi. Nonostante che queste assai lievi concessioni fossero guarentite dal governo napoletano non ai Siciliani, ma in via d'accomodamento al governo inglese, pure Ferdinando II credè non dover far caso, non dico dei doveri verso i sudditi, ma di quelli eziandio che lo legavano alla stessa Inghilterra, e compié il sacrificio dell'isola. Alla partenza del Del Carretto fu inviato luogotenente novello D. Onorato Gaetano duca di Laurenziana, homo pazzo e bisbetico, liberale in gioventù, e vittima anzi di Ferdinando I che avevalo rinchiuso nella colombaja di Trapani. Egli non amava il re, nel cui nome esercitava il governo, ma di questo era ambizioso, e godeva aver modo di esercitarlo nella forma più assoluta ed irresponsabile, anzi di prepotere. Gli atti di costui e le sue parole erano non solo incongruenti sempre, ma spesso anche folli e stravaganti. Cosi, a cagion d'esempio, alla madre del duca di S. Giuliano, la quale chiedevagli grazia per il figliuolo fuggiasco per la cessata ribellione, rispondeva che «suo figlio meritava d'essere fucilato;» e alle insistenze della medesima per conoscerne il delltto replicava: «perché ha cominciato bene e finito male.»

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Medesimamente i suoi rescritti sono improntati d'una singolare stravaganza.1 Egli però fu presto destituito, quando specialmente il governo centrale si accorse non tanto dell'umore bisbetico, quanto della sua renitenza ad ubbidire; poiché talora giunse fino a rispondere agli ordini che riceveva dal re stesso: «Non posso eseguirli, e non voglio.» Allorché fu richiamato, gli successe il generale Tschudy comandante generale delle armi; e così si riunì nella Luogotenenza l'autorità militare per lo innanzi disgiunta, ma se ne scemarono le facoltà, riducendola a null'altro che a mezzo della regia volontà. L'odio crebbe per conseguenza negl'isolani in proporzione della persistenza d'incentramento, nella quale il governo si ostinava; gli uomini più esperti del governo napoletano non dubitarono anche, quando se ne videro gli effetti, di confessare che questi tentativi di assoluto incentramento furono le cause vere del malcontento dell'isola e della successiva rivoluzione. E qui non voglio tacere, come lo stesso generale Carlo Filangieri, quando nell'estate del 1849 trattavasi nei Consigli del principe del modo di ordinare il nuovo governo dell'isola da lui riconquistata alla corona del suo re, altamente confessò questa che per me è grande e innegabile verità, in una Memoria al re medesimo diretta in risposta a quella presentatagli da un altro ministro; il quale, insistendo bensì sulla necessità delle forme rappresentative, esponeva i suoi pensieri e disegni sulla assoluta unificazione dei due regni necessaria, secondo lui, a farsi, profittando della compiuta conquista. Di queste due Memorie ragionerò a suo luogo: ma i principj in esse posti essendo appunto quelli di cui ora parlo, e trattandosi di cagioni delle commozioni posteriori, credo necessario, non che utile, riportare qui testualmente le parole autorevoli di Carlo Filangieri.

1 In uno si leggeva a tergo cV una supplica: «Non si può, perché il re è uno stolto.»

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«Non intendo poi (egli dice) come possano chiudersi talmente gli occhi alla evidenza, da non convenire che i tentativi per più anni consecutivi fatti affine di giungere a quella fusione, a quell'intima unione di che trattasi, sono stati la immediata e diretta cagione dell'ultima rivoluzione.» In questa parte storica cito volentieri l'autorità del Filangieri, e sono con lui pienamente concorde, serbando però ad esaminare altrove l'intero documento e la sua parte politica. Ad un solo privilegio non si osò attentare, all'esenzione cioè dalla coscrizione; sia perché si temesse, per l'avversione universale del popolo, che ciò fosse occasione di perpetua resistenza, sia perché all'incontro si temesse di formare un nucleo disciplinato di forza siciliana, la quale un giorno o l'altro avrebbe potuto prestare il braccio alla ribellione. Invero io credo che questa per l'isola fosse una sventura. Infatti lo stesso Filangieri, autorità non sospetta e in materia militare competente, non temeva nella Memoria da me citala di asserire che appunto per la non preesistente coscrizione del regno il conquisto dell'isola eragli stato, non che più facile, possibile; e non taceva la necessità politica in cui era il governo napoletano, di non introdurre giammai le istituzioni militari in Sicilia. Su questo punto io qui a piè di pagina reco le sue parole, anticipando a porre sott'occhio ai lettori un documento che appartiene ad un tempo posteriore, perché mettono in chiaro la politica anche precedente del governo napoletano intorno a ciò, e confermano del tutto la mia asserzione.1

1 Ecco le parole del Filangieri:

» Che l'essersi poco anzi parlato di esercito e di armata navale mena ad un'altra disamina, cioè quella se sia utile o dannoso lo stabilire in Sicilia il reclutamento forzoso per via di coscrizione, come praticasi nelle provincie continentali del reame.

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La maggior parte di queste riforme, con le quali si pensava rendere il regno unito più forte concentrandone l'amministrazione, furono imaginate dal re medesimo, che un anno dopo la pacificazione dell'isola erasi a tale effetto colà recato insieme al ministro Santangelo, percorrendola e visitandola tutta.1

Per questo modo in Sicilia rendevasi inutile l'opera delle congiure, imperocché di nessun'altra provincia d'Italia poteva dirsi con tanta verità, che il governo congiurava contro sé medesimo. Tutti i diritti erano stati violati, tutti i sentimenti crudelmente calpestati, tutte le classi del pari rese a lui nemiche.

 Se vogliasi por mente alla somma avversione nel popolo siciliano per la militare disciplina e pel mestiere delle armi, non che alla necessità in cui saranno per molti anni ancora i Sovrani di Napoli di occupare militarmente quell'isola, sotto questo aspetto non sì può disconvenire che una istituzione la quale renderebbe fra non molto militare una popolazione che ora n'è affatto aliena, sembrerebbe poco politica: oltre che, se le reclute siciliane vogliansi riunire in corpi separati, come lo erano altra volta i reggimenti 1I e 12 di fanteria di linea, questi in circostanze, come se ne sono ultimamente presentate, potrebbero essere pericolosissimi; e forse anche peggio sarebbe il ripartire annualmente ed in proporzione delle forze rispettive le reclute siciliane in tutti i corpi dell'esercito; perché necessariamente! così praticandosi, nel volgere di cinque anni per la fanteria e di etto pe'corpi speciali, ogni compagnia nella prima, ed ogni squadrone nelle truppe a cavallo e nell'artiglieria avrebbero per lo meno un quarto di Siciliani nelle loro file. Ora comunque colui, al quale rispondo, abbia riputata facilissima e forse occupazione di picciol momento la rioccupazione della Sicilia per la niuna avversione per noi delle popolazioni, senza volerlo menomamente contradire sulla meschina importanza delle fazioni di guerra ivi combattute da settembre 1848 al maggio 1849; pure dobbiamo in onore del vero convenire che se i capi dell'esercito di spedizione si fossero trovati possedere nelle loro file un quarto di Siciliani, la cennata facilissima conquista, anzi, come sembra dal suo dire, questa passeggiata militare, non avrebbe certamente raggiunto lo scopo che si è conseguito, m

1 Rettifico un errore, nel quale incorsi al Cap. XXXIII, allorché ragionando appunto di questo tempo, cioè dell'estate del 1838, posi il re di Napoli fra ì principi che recaronsi ad assistere alla coronazione dell'imperatore Ferdinando nel Duomo di Milano. Ferdinando di Napoli allora era in Sicilia, trattenuto dalle cure del riordinamento di quell'amministrazione sopra le basi da lui vagheggiate dell'unità del regno, di che colse più tardi amari frutti.

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Ben è vero che talora si videro nobili accettare onori ed impieghi; ma niuno o quasi niuno di essi rinunciò per questo mai al suo spirito siciliano.

Fra il presente e l'avvenire era nell'animo loro una fossa di separazione profondissima, che ne impediva ogni contatto. L'avvenire era sempre da tutti vagheggiato in speranza, e niun legame presente credevano aver facoltà di vincolare queste brame, le quali aveano salda radice nei più puri e sacri sentimenti dell'animo. Cosi, essendo reso il presente odioso e ingiusto, non avvi giuramento che ne guarentisca la durata; poiché i giuramenti voluti da un governo in una condizione di cose insopportabile e dopo aver mancato a solenni promesse, e che per conseguenza non derivano né da una convinzione, né dà un affetto, né da un assoluto dovere, sono forme vane. Non intendo certamente con questo giustificare lo spergiuro, ma solo spiegarlo. Pur troppo è doloroso lo spettacolo di siffatta immoralità sociale; ma come potremmo maravigliarcene, quando chi ha la responsabilità e l'incarico non solo del governo ma dell'educazione ancora dei popoli, non porge loro con l'esempio la scuola della lealtà? Richiedere giuramenti per guarentire uno stato di cose che ha la base nello spergiuro, non è egli il massimo degli assurdi?

Gli effetti adunque del 1837 in Sicilia furono stoltezze governative sempre crescenti, e odio popolare sempre più intenso ed universale. La Giovine Italia non ebbe proseliti o pochi: i suoi tentativi non trovarono credito né seguito. Dissi già come la congiura, o meglio, la direzione della politica opinione si formasse in Sicilia, e come i dolori del 1837 ponessero i Comitati Siciliani in relazione coi Napoletani. Tutti però faceano fondamento più sul caso e sulla popolare disperazione, che sullo scoppio di una congiura ordita e preparata; e in pari tempo non eravi chi non meravigliasse della pazienza di un popolo fremente, che non rompeva il freno all'impazzata.

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La condotta della truppa nel 1837, e i soccorsi a lei giunti con tanta rapidità sui bastimenti a vapore, avevano fatto ai cittadini conoscere che non era impresa da prendersi a gabbo l'impadronirsi del governo, e che non sarebbesi potuto mai promulgare l'indipendenza dell'isola con una insurrezione o inerme o male armata. Quello che nell'isola erasi chiarito mal ordinato, o piuttosto non resistente in quegl'istanti, si fu il governo civile. Infatti l'isola rimase per un momento abbandonata alle autorità municipali; autorità primitive, l'argine più solido e forse l'unico veramente solido che la società nelle crisi più tremende possa opporre all'anarchia per non esserne ingojata, poiché la loro azione (ove esistono) sopravvive alle maggiori catastrofi. Ogni Comune fece allora parte da sé; alzò barriere, e stabilì cordoni che inceppavano ogni forza governativa ed amministrativa centrale. In cotanto disordine, all'aspetto di tanta ira popolare che mal frenata scorgevasi su tutti i volti, il mal governo non solo non rallentava, ma sembrava voler raddoppiare ciascun anno. Queste medesime autorità municipali non furono sempre da esso rispettate, e le loro attribuzioni vennero sovente invase; il che fu ai Siciliani grave oltremodo. I municipj non valsero mai a migliorare neppur lo stato materiale dell'isola, e non ebbero agio di supplire ai bisogni più urgenti delle loro città. La noncuranza del governo centrale, aumentata dalla distanza, faceva talora raddoppiare e triplicare il costo dei pubblici lavori, tardando l'approvazione richiesta per lavori urgenti, e nel ritardo i danni cui dovevasi porre riparo, si accrescevano; talora poi l'usurpazione dell'autorità governativa distraeva (come accadeva anche in terraferma) ad altri usi somme che erano destinate ad opere di pubblica utilità, e specialmente alle strade, il difetto delle quali è una grandissima sventura della Sicilia.

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Si tentò più volte costruirle per consorzio di privati, cioè per mezzo di associazione di possidenti interessati, e queste associazioni si stabilirono dalle stesse Intendenze e dai consigli d'Intendenza: ma a poco o nulla si riuscì, e molte strade per tal modo promesse a quelle popolazioni, o non si cominciarono, o cominciate si abbandonarono dal governo, non ostante che i proprietarj avessero sborsato fino a due e tre volte il loro contributo. Lo stesso governo preso aveva a tal fine in prestito un milione di ducati, del quale aggravò il debito pubblico siciliano, e per soddisfazione di questo aveva aumentato dell'uno e mezzo per cento il tributo fondiario per 18 anni, dal 1826 al 1844, e stabilito dazj di barriere sulle strade che dovevansi costruire: nel 1835 aveva fatto anche sotto il titolo medesimo un prestito novello di 150,000 ducati, e sempre senza ottenere lo scopo, giacché, come non tace il Bianchini stesso, nonostante tali enormi dispendj una sola via venne portata quasi a compimento, quella cioè che taglia trasversalmente la Sicilia per Castrogiovanni con un ramo per Caltanisetta. Ciò dovevasi più ad incuria che a infida amministrazione; poiché secondo lo stato pubblicato dal Bianchini sovraccitato, in cui si ha il riscontro dell'entrata ed uscita delle somme destinate alla costruzione delle strade siciliane dall'11 settembre 1824 al 30 settembre 1838, resulta in quel tempo esser giaciuti inoperosi ne' banchi i sopravanzi, che costituivano la grave somma di ben novecentomila e più ducati. «I quali (sono sue parole) provenivano da somme che non s'impiegavano d'anno in anno alla costruzione delle strade: malintesa e rovinosa economia che privava la Sicilia in gran parte d'uno de'  suoi primi e principali bisogni, e la mantenevano stazionaria senza comunicazioni! Le opere pubbliche a carico delle provincie e dei comuni giacevano in peggiore condizione, sicché essendo decorso oltre il terzo del secolo che volge, la Sicilia presentava tuttavia,

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quanto alle sue opere pubbliche, lo stato stesso di quattro in cinque secoli indietro, e tranne poche strade malcostruite e malissimo mantenute, si difficili erano i cammini tra i diversi paesi, che con istento si poteva transitare in lettiga e sulla schiena de'  muli, quando pur con pericolo estremo non si fosse costretto ad arrampicarsi colla persona per balze e dirupi!» Niuno accuserà certo il Bianchini né di esagerazione né di animo avverso al governo napoletano, né ripudierà la sua testimonianza, quando asserisce queste cose e soggiunge che «i Siciliani avean sempre reclamato compiersi le strade, avevan durato sacrifizj, e fatta presente la dura condizione in che si trovavano con sentite parole;» e quando dice che Ferdinando li stesso chiamava questo il primo bisogno della Sicilia, al quale invano credè sopperire coi decreti del 17 dicembre 1838 e del 16 febbrajo 1841. Tali cose sopratutto sollevarono l'ira. dei Siciliani.

I balzelli e le tasse erano frattanto non solo enormi, ma vessatrici, perché appaltate ad avidi e superbi pubblicani; e fra queste tasse le più vessatorie erano il macino, la fondiaria e la dogana. Molte disposizioni del governo, dopo che fu concentrato in Napoli, portavano impressa la nota d'ignoranza o di malevolenza verso l'isola; molte, pretestando unificazione, furono o ingiuste o improvide ed impudenti; tutte accrebbero l'odio, e la separazione degli animi aumentarono in luogo di compiere la sperata unificazione. I Siciliani avevano eziandio creduto vedere per aperti segni lo sdegno del cielo punire gli oppressori loro; e ciò persuadeva della bontà della loro causa anche i superstiziosi popolani.

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Cosi il Rega, rimasto prefetto di polizia dopo la partenza del Del Carretto, mentre era intento a compiere la mina di quanti avevano partecipato al moto del 1837, moriva di penosa e atroce malattia, un vespajo; e più tardi perivano, cosa straordinaria, del male stesso il generale Tschudy luogotenente successo al Laurenziana (ed a cui successe nella luogotenenza il maresciallo Majo), il direttore di polizia Fardella duca di Cumia, e infine il vicario generale Spera, il che si riguardò come segno palese ed indubitato della vendetta celeste.

Re Ferdinando II non ignorò questo annuo incremento di sdegni che alienavano da lui e dal governo i popoli della Sicilia, e nel 1842 cercò porvi un riparo e procurare una pacificazione, recandovisi ancora, come aveva fatto più volte, personalmente. Mal punto però fu da esso scelto, perché allora gli animi erano più accesi e le congiure fra gl'impazienti ed animosi più strette, in guisa tale che la sua vita stessa poteva e doveva forse, se la fama dice il vero, correre pericolo. La sua dimora nell'isola fu breve; e quei giorni furono al certo per lui amara rivelazione dell'universale opinione degli abitanti. Giunto a Messina, aveva trovato nella piazza una popolazione fremente e minacciosa, ed alla sua statua che sorge in mezzo a quella, aveva osservato essere state turate le orecchie, amaro rimprovero degl'inutili e lunghi lamenti degl'isolani; e, che più è, avevala scorta bruttata di segni di sfregio, che indicavano aperta minaccia d'espulsione. Pensò quindi recarsi immediatamente a Palermo, ove sperava migliore accoglienza; ma precorso da una staffetta de'  Messinesi, i quali, deposto ogni antico rancore ed ogni sentimento d'invidia verso i Palermitani, non avevano più che un comune pensiero con essi, trovò le vie mute e deserte, le porte e le finestre delle case chiuse in gran parte, la città intera somigliante ad una tomba.

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Questa silenziosa ed universale protesta lo scosse altamente, e fatti a sé chiamare gli uomini più autorevoli, volle sapere il perché di tanto sdegno universale: ignaro (com'egli diceva) del mal governo fatto dell'isola, ne chiese aperta esposizione e promise rimedj pronti ed efficaci. Tornò poco dopo in Napoli, e i rimedj promessi non essendo stati apprestati, parve ai Siciliani estinto l'ultimo raggio di speranza per una conciliazione, nella quale alcuni di loro aveano confidato. L'anno seguente infatti i Comitati insurrezionali di Sicilia si ponevano d'accordo con quelli di Napoli, e persuasi di non potere riescire a nulla soli (dopo l'esperienza del 1837) cercarono forza nell'unione; non alterando però lo scopo delle loro mire, sì quanto agl'interessi della Sicilia, come quanto alle forme governative da instaurare, che essi non imaginarono mai, almeno sostanzialmente, diverse da quelle del 1812, cioè la, monarchia rappresentativa. Per questo vane tornarono le pratiche che in pro della Giovine Italia fece in quell'anno stesso il Ribotti; e i Siciliani rifiutarono, come stolta ed ineseguibile cosa, di aderire al disegno dei Mazziniani, di cominciare cioè la guerra dei partigiani, e non prestarono fede alle larghe promesse di soccorsi della legione straniera che combatteva in Spagna. Il buon senso siciliano, rendendo il dovuto onore al coraggio individuale del Ribotti, seppe respingere lo stolto messaggio onde egli era portatore, e i principj che voleva inaugurare, come incomprensibili al popolo siciliano e contrarj alle convinzioni, alle simpatie, alle tradizioni sue. Il governo intanto proseguiva nella trista via.

Nel 1843 si vollero anche applicare le leggi promulgate a Napoli nel 1808 contro la feudalità, delle quali altrove discorsi; leggi rivoluzionarie che serbavano in qualche parte le forme di violenza, non rispettavano alcuni diritti separati dai feudali, e stabilivano un principio che applicato in modo assoluto, massime nelle enfiteusi, diventava ingiusto, modificando sostanzialmente il diritto di proprietà del direttario.

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Queste leggi non solo scusabili ma necessarie in Napoli, ove si trattava nel 1806 di dare col ferro nella radice feudale, si vollero applicare alla Sicilia, ove il feudalismo vero non esisteva più, abolito com'era per opera del Parlamento siciliano medesimo. Furono quindi ingiusto ed inutile aggravio all'aristocrazia siciliana, irritazione improvida di quella classe per parte del governo, senza il compenso per lui dell'appoggio delle altre classi minori; e perciò errore politico. Quella legge era poi doppiamente odiosa ai Siciliani, come ipocrita, perché con l'apparenza d'uno scopo liberale il governo napoletano seguiva il sistema iniziato nel 1837, quando gridò all'Europa esser l'isola indomita per la sua barbarie; al che nel 1843 aggiunse il farla credere tuttavia in stato degno del medio-evo, soggetta alle leggi e agli usi feudali. Né l'Italia né il mondo tenevano punto d'occhio queste cause di speciali rancori, che si aggravavano tuttodì in Sicilia e per cui l'avvenire non del solo governo di Ferdinando II, ma del governo napoletano ancora rendevasi oltremodo incerto. La censura impediva che gli scrittori palesassero all'Europa queste piaghe, le quali abbandonate minacciavano volgersi in dolorosa cangrena. Qualche concetto bensì traspariva, come in enigma, negli scritti dei Siciliani, e forse indicava l'estremo delle condizioni loro più apertamente dì quel che negli scritti napoletani non si vedesse. Questo era in parte effetto della maggior tensione degli animi, in parte se non del maggior coraggio, certo dell'artificio maggiore negli scrittori siciliani di saper volgere le frasi a senso equivoco e far uso delle allusioni, in parte infine della minore ferocia dei censori. I quali veramente erano (almeno i censori religiosi) meno severi dei napoletani; perché il clero siciliano, al pari della nobiltà, non è retrogrado come altrove, mercé delle tradizioni patrie, massime in quanto riguarda direttamente l'isola.

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Quello però che forse da molti non si crederà (e pure è vero e per ragione di giustizia non deve tacersi), si è che i censori più miti di tutti erano i Gesuiti. Per tal modo fra la connivenza, di questi e l'artificio degli scrittori, non di rado la fierissima legge di censura veniva elusa. Il libro di Michele Amari uscì alla luce per siffatti mezzi, e forse fu l'unico che sotto al velame delle cose antiche poté palesare la crudeltà delle condizioni presenti. Ma esso diè luogo a vendette governative pazze ed ingiuste; perché la lettera della legge non era punto stata violata, e perché ove la censura preventiva esiste, autori e stampatori non possono chiamarsi responsabili d'avere stampato un libro approvato dalla censura.

La Sicilia rammenterà sempre come titolo d'odio il 1837 e il decennio che dopo di esso trascorse, nel quale il governo si adoperò ad annullare ogni resto di guarentigie siciliane. Se l'avversione fra popolo e governo era estesa in altre provincie del regno, in Sicilia fu dopo quei fatti universale; poiché in questa era sentimento di nazione, e non di fazione.

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CAPITOLO LV.

LE RELAZIONI ESTERE DEL GOVERNO NAPOLETANO.

Poche invero e di nessuna importanza sono il più delle volte le relazioni fra uno Stato di secondo ordine e quelli maggiori, se la positura topografica o circostanze eccezionali non fanno del primo un punto d'equilibrio. Il quale o viene disputato fra due grandi rivali, o come muraglia di divisione vien mantenuto gelosamente in piedi; intorno alla quale però da una parte e dall'altra si gira, si scandaglia, o si lavora in opere di fortificazione per ogni caso possibile. Solo per tal modo uno Stato secondario può talora diventare centro, o scopo d'intrighi diplomatici in tempo di pace, e teatro anche di guerra all'occasione; il che volentieri convengo essere sciagura somma. Tale certamente non è per alcun conto lo Stato napoletano, perché le sue condizioni topografiche, non accennandone altre, glielo contendono: quindi per i contatti internazionali, per tutto quello che può presentare in un avvenire più o meno remoto la possibilità di cangiamenti territoriali, i grandi potentati e l'Austria medesima non presero di Napoli se non cura secondaria. L'Austria volse il pensiero a Napoli, solo finché fu fresca la memoria gloriosa del Murat, finché le tracce del sangue generoso di quell'ardito venturiere (il quale meglio e più presto di qualsiasi altro principe straniero conquistatore aveva saputo farsi Italiano) ricordavano non pure a Napoli ma alla Penisola intiera, più che un nome, la bandiera da lui sollevata e salutata con gioja dagl'Italiani per un momento.

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Dimenticato quel nome, e passata ad altri la rappresentanza dei principe onde si era costituito campione, l'Austria guardò altrove, bastandole solo che Napoli fosse mal governato, peggio governato della Lombardia. Il matrimonio di un'arciduchessa d'Austria con Ferdinando II, ottenuto dal gabinetto viennese, non fu fatto per vincolare il re di Napoli, che come tale (stando cioè lo scompartimento topografico dell'Italia qual è) non le dava gran pensiero; ma bensì ebbe di mira in lui il vedovo d'una principessa di Carignano, il padre d'un nepote di Carlo Alberto di Savoja. Rotti quei legami, distruggendone la forza con altri opposti, l'Austria aveva fatto a bastanza.

Peraltro l'equilibrio europeo non dipendeva solamente dallo scompartimento territoriale e dal sistema di compensi, stabilito a Vienna, il quale assicurava gli Stati minori, incatenando ciascuno dei grandi potentati (eccetto l'Inghilterra) ad un punto determinato, cioè la Russia ai Dardanelli, la Francia al Reno e l'Austria al Po, i tre punti cardinali di quell'equilibrio; ma dalle condizioni anche interne dei diversi governi poteva subire modificazioni, che alcuno troppo rinforzando, altro soverchiamente indebolendo, minacciavano pure indirettamente e a lungo andare la divisione territoriale. Questo concetto, o meglio questo timore, che luogo alla Santa Alleanza. L'Inghilterra, sicura e libera nel primo trattato, non ebbe bisogno di tali precauzioni, perché ponendosi anche in convulsione e sbilanciandosi il Continente, essa non aveva nulla da temere. Imperocché quanto all'imperatore delle Russie, come lo aveva frenato da un lato ai Dardanelli nel primo trattato, così tenevasene sicura per lungo tempo nel cuore del Continente, stante l'alleanza con l'Austria; la quale doveva a lei soltanto di essersi rialzata, e non fu certo rialzata se non nel concetto dell'interesse inglese, cioè per supplire in cotal guisa all'estinta Polonia.

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Ma queste minacce d'interne perturbazioni, che tenevano mal sicuri molti dei colossi continentali collegati, e in specie la Russia per le mancale promesse e l'Austria per la sua conformazione di parti l'una all'altra etprogenee, furono quelle che causarono le previdenze, i trattati, i sospetti e le compressioni. Sapevano bene i governi del Nord che la fiaccola della libertà, viva in Francia, illuminava ed irradiava in modo irresistibile tutto il mondo, e che una Carta guarentita a Parigi era una propaganda terribile; non ignoravano pure che quel desiderio di libertà conculcato da essi, in parte per necessità, era stato tremendo soccorso ed abilmente maneggiato dagl'Inglesi contro il Buonaparte; e tutto doveva far loro credere che sarebbe ancora le mille volte e con tanta maggior efficacia, perché fatto gigante, adoperato contro quelli che alla supremazia inglese attentassero, o volessero togliere il suo influsso in ogni parte d'Europa.

In questa lotta Napoli trovossi accidentalmente e per qualche momento punto importante, non per la sua posizione, ma per conseguenza dei suoi precedenti. La Sicilia, come isola e come punto centrale nel Mediterraneo, era già stata il fuoco di quei maneggi inglesi, cui accennai, contro il Buonaparte padrone del Continente; e la Sicilia occupata già dagl'Inglesi teneva moralmente fino ad un certo segno vincolato il governo britannico a pro delle sue libertà. A favore di quell'isola non esitava l'Inghilterra, benché ottenuto avesse lo scopo dell'interesse proprio, di riconoscere un suo debito d'onore, come apparisce dal carteggio del 1816 fra il ministro inglese lord Casttereagh e il rappresentante britannico a Napoli sir Guglielmo A'Court. Nello stesso modo e in pari tempo tutti i potentati riconoscevano i debiti del denaro con l'Inghilterra contratti, per condurre a buon termine la confederazione contro Napoleone.

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A dire il vero, questo debito d'onore dell'Inghilterra non fu giammai pagato, per non turbare la pace del Continente; ma il riconoscerlo, o meglio il sapersi che era riconosciuto, dava all'Inghilterra un ascendente sopra tutti, ogni volta che doveva rivolgere la parola al re di Napoli. Questo suo influsso doveva essere tanto maggiore, quanto più si considera che la dinastia Borbonica in mano degl'Inglesi, mentre tenevasi confinata in Sicilia, era stata quasi quasi quello che ora nelle mani medesime sono le razze de'  regoli indiani. Quindi era venuto il trattato segreto del 1815 con l'Austria per contrappeso politico; quindi una lotta indiretta bensì e sorda, ma una vera lotta di ascendente. La Sicilia essendo rimasta per l'Inghilterra, anziché un punto d'appoggio commerciale o politico (imperocché nel Mediterraneo, cessati i pericoli che la minacciavano quando il dominio del Continente era in una sola mano, non ne ha bisogno a cagione dei moltiplici suoi possedimenti) una comoda leva contro gl'interessi degli altri, cioè un punto debole da tener d'occhio come accessibile e senza difesa, naturalmente ne venne che anco gli altri potentati non vollero perder di mira la Sicilia; e non potendo vincere un influsso come l'inglese, che ivi ha radice nella storia del passato e nelle intime condizioni dell'isola, finsero sovente di temere molto da quel lato gli ambiziosi disegni della Gran Brettagna,quantunque ciò fosse anticipatamente dichiarato assurdo dal suo stesso procedere. Poter mantenere l'isola sotto il governo assoluto, era un assicurare il sistema nel regno, era un conseguire lo scopo della Santa Alleanza; all'incontro, il mantenere una certa trepidazione, per non poter compiere mai tali disegni, era un serbare un punto debole nel cuore dei Santi Alleati, era un tener vivo e pascere l'insetto che doveva rodere la fatale pergamena su cui stava scritto l'atto, col quale si era preteso porre un argine insuperabile alla civiltà del mondo.

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L'Inghilterra dopo il 1821 non ebbe occasione d'interporre la sua voce, a pro dei Siciliani, e forse nel 1831 quel governo ebbe fede, come tutti gli altri, nelle men tristi intenzioni di re Ferdinando II: solo il periodo dal 1836 al 1840 le fece chiaro l'inganno che aveva illuso tutti e la politica del re sì generale come particolare all'isola, serbata alla sua corona dalle armi e dai buoni officj dell'Inghilterra. Ma il novello re, oltre le sue tendenze all'assoluto reggimento, oltre le rannodate relazioni col gabinetto di Vienna, mostrava a bastanza palese il suo astio verso l'Inghilterra; quasiché le stipulate condizioni col governo britannico fossero al suo governo impaccio, alla sua corona vergogna o all'animo suo rimorso.

Nè, a dir vero, le tendenze della politica estera, le simpatie e le antipatie del governo napoletano potevano addebitarsi unicamente ai ministri, ma in buona parte al re medesimo. Imperocché oltre la responsabilità che in un governo assoluto pesa soltanto sul Sovrano, era notorio che Ferdinando II aveva esclusivamente a sé riserbata la direzione degli affari esteri; i quali a sua volontà erano affatto regolati, e non si discutevano quasi neppur coi ministri, ma pressoché solo con l'abate Giuseppe Caprioli, uomo che godeva allora tutta la fiducia del re, come suo segretario privato e segretario anche del Consiglio di Stato, e pareva esercitare sopra di lui un influsso singolare.

 Così volgevano le cose, quando sopraggiunsero giorni più critici. L'Inghilterra pareva quasi da qualche tempo dimentica di Napoli e della Sicilia, allorché le minacele di una guerra in Oriente, e dell'esecuzione degli ambiziosi ed immutabili disegni di Pietroburgo, le fecero volgere gli occhi con più attenzione verso il Mediterraneo, e cercarvi gli amici ed i nemici.

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Intanto il re di Napoli, parte per le sue tendenze, parte per le segrete speranze che fondava in quell'opportunità, e parte forse per istigazione della Corte di Pietroburgo, verso la quale i suoi voti erano diretti, credè utile e possibile non solo mostrar di volersi emancipare dalla tutela inglese spontaneamente finita nel 1815 e di cui altro non rimaneva che il debito di gratitudine, ma di sfidare eziandio i suoi antichi benefattori e attentare agli interessi del commercio britanno in Sicilia; mettendo in vigore provvedimenti finanzieri, che equivalevano ad una politica dichiarazione di aver concluso alleanze coi nemici dell'Inghilterra. Imperocché tale, in un secolo in cui gl'interessi predominano ed uccidono e attutiscono ogni principio generoso e doveroso, tal è la forma pur troppo ingenerosa adoperata a trattare le politiche questioni e le relazioni internazionali; la forma cioè di gare e di questioni commerciali. All'onore, cardine della vecchia società perita nella corruzione del secolo XVIII e sepolta dalla rivoluzione, è subentrato il danaro, ai cavalieri i mercatanti, l'utile alla generosità.

Il re di Napoli adunque, non provocato in verun modo, credè poter egli stesso gettare il guanto di sfida, prendendo per soggetto o per pretesto il commercio dello zolfo, che è una delle fonti più doviziose delle ricchezze dell'isola, e in cui i negozianti inglesi avevano da lunga mano ampj interessi. I prezzi dello zolfo eransi negli anni precedenti elevati oltre l'usato, e ciò aveva fatto ricercare e trovare cave in gran numero, le quali tanta quantità ne fornirono, che per l'aumento del prodotto, come era da prevedersi, i prezzi novellamente | scemarono.1 Questa diminuzione colpì molti nuovi speculatori, che erano già sul punto di abbandonare assai parte delle cave ultimamente trovate.

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L'ignoranza d'ogni principio di politica economia in coloro che reggevano la somma del governo napoletano, della quale ebbi luogo anche altrove di ragionare, fece loro porgere le orecchie ad alcune proposte di monopolio, che non potevano non essere presentate in un paese ove tutto si dava ad appalto. Quelle proposte che tendevano o a restringere la privativa del commercio in poche mani, o a fissare i prezzi o ad altre somiglianti follie, furono dal governo spedite alla Consulta siciliana. Gli uomini di Sicilia mostrarono col fatto che dei principj delle novelle scienze erano meglio imbevuti, e nelle conquiste della moderna civiltà meglio iniziati essi che non molti di coloro i quali tenevano in Napoli le redini del governo centrale del regno unito. Questo era naturale, perché la Consulta andava composta di uomini indipendenti, il che non era di una gran parte degli impiegati principali del governo. I membri della Consulta siciliana respinsero quelle proposte, parto dell'ignoranza e dell'avidità, e rimandandole a Napoli, le accompagnarono col loro voto negativo.

1 Il consumo dello zolfo era eziandio cresciuto, perché l'uso era aumentato, fin da quando adoperavasi per le fabbriche d'acido solforico e di soda artificiale non in Marsiglia solo, ma in Inghilterra, in America, negli Stati Sardi, in Austria, nel Belgio e nell'Olanda. Allora l'estrazione dello zolfo dalla Sicilia, che era da 300 ai 350 mila quintali l'anno, si elevò nel 1832 fino a 400,890 quintali, i quali rappresentavano un valore di 1,282,848 ducati. I prezzi che erano già di 10, 12 o al più 15 carlini il quintale, salirono talora fino a 55 carlini. L'estrazione del 1833 quindi crebbe, e fu di quintali 495,769 pel valore di ducati 1,929,006:e nel 1834 fu di quintali 676,413 pel valore di ducati 1,952,067. La produzione però era stata maggiore dell'estrazione, perché nel 1832 la prima aveva superato la seconda di non meno di 500,000 quintali; e negli anni successivi, quantunque l'estrazione fosse cresciuta, come dissi, a circa 600,000 quintali, il superfluo della produzione crebbe tuttavia, stanteché questa era annualmente non minore di 900,000 ducati. Cosi, sebbene il superfluo del 1832 fosse diminuito, perché oltre 300,000 quintali erano stati comprati da speculatori inglesi, restava sempre un enorme sopravanzo che fu causa dell'abbandono di molte cave e della diminuzione dei prezzi eccessivi, come eia da prevedersi.

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Ancora fu interrogato l'Istituto d'incoraggiamento, che si oppose vivamente ad ogni monopolio.1 Ciò accacadeva nel 1834. Ma la presente non essendo questione di solo interesse, le cose non rimasero a questo punto. Una novella offerta fu fatta al governo napoletano da alcuni speculatori francesi il 1 marzo 1836, cioè da Amato Taix e da Arsenio Aychard, la quale poco differiva da quella già rifiutata nel 1834; e si volle asserire che per ottenere una preferenza sopra qualsiasi altro competitore, i novelli concorrenti non fossero avari verso chi poteva favorirli efficacemente, e molte scandalose dicerie, forse esagerate, corsero per le bocche di persone bene istruite.2 Il Taix si vide quasi ogni giorno frequentare la casa del Filangieri, che pareva come il faccendiere e l'avvocato di cotesta impresa. Costoro offrivano al governo 400 mila ducati e si obbligavano, fra molte altre cose, anche a costruire alcune strade, delle quali la Sicilia tanto difettava, ed a pagare 120 mila ducati ai produttori come indennità dello zolfo che non si scaverebbe più.

1 Lo stesso Istituto sempre instava per la modificazione delle tariffe, come via per giungere alla libertà di commercio. Una volta si reputò ai membri dell'Istituto delltto rivoluzionario l'aver proposto per concorso, di esaminare quali sarebbero stati gli effetti del presente sistema doganale in Sicilia. II governo per tal delltto non voleva meno che la soppressione dell'Istituto, e per transazione si accomodò ad ordinare al Luogotenente Generale dell'isola di fare ai membri di quel corpo scientifico una severa ammonizione, che neppure fu fatta.

2 Il Bianchini non tace che i direttori (i quali allora stavano nel ministero presso il Luogotenente Generale di Sicilia) disapprovarono la proposta, appoggiata però dal Luogotenente stesso, e che ebbe favorevole il voto della Consulta napoletana; di esso riporta testualmente il singolare sofistico raziocinio con cui volevasi scusare l'attentato alla libera proprietà. «Non e già nello interesse della proprietà che bisogna rispettare gli uomini, ma nello interesse degli uomini le proprietà deggiono essere rispettate. Se il progetto accrescerà il valor dello zolfo, se verserà in Sicilia maggior numerario e tutti gli altri vantaggi che esso promette, non offende ma salva i diritti di proprietà.» Cosi tutto il sistema proibitivo e ogni monopolio salva e non offende i diritti di proprietà!

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Infine questa società prometteva di comperare annualmente 600 mila quintali di zolfo e non più, che avrebbe potuto liberamente esportare, mentre il governo poneva sul resto di quella produzione tale un dazio1 da duplicarne il prezzo; il che equivaleva ad impedire qualsiasi concorrente, sia grande, sia piccolo, alla società parigina. Questo contratto, che non fu firmato se non il 10 luglio 1838, era assurdo ed ingiusto ad un tempo. Assurdo, perché gli obblighi assunti da quegli speculatori erano così fattamente gravosi che in breve tempo si sarebbero veduti costretti al fallimento; ingiusto, perché toglieva modo di commerciare ad ogni altro sullo zolfo, a quelli pure che, come gl'Inglesi, avevano già precedenti contratti col governo, rimasti lesi dall'appalto novello.

1 Di 20 carlini al quintale che dovevasi pagare alla Compagnia Taix e Aychard, se volevasi vendere a chicchessia fuor che alci od asportare per proprio conto lo zolfo.

3 Questi trattati richiamati dall'Inghilterra consistevano nel trattato del 1816, che guarentiva le proprietà dei sudditi inglesi nell'isola di Sicilia. Ecco gli articoli del trattato del 24 settembre del suddetto anno, sull'interpretazione dei quali surse questione fra i governi inglese e napoletano, allorché questo favorì la Compagnia francese a danno dei commercianti inglesi:

«Art. 4. Promette inoltre S. M. il Re delle Due Sicilie che il commercio britannico in generale ed i sudditi britannici che l'eserciteranno saranno trattati in tutti i suoi Stati sullo stesso piede delle nazioni le più favorite, non solamente riguardo alle persone ed alle proprietà de'  detti sudditi britannici, ma ben anche per ogni articolo del quale essi fanno commercio, e per le imposizioni o altri pesi pagabili su' detti articoli o su' legni co' quali si farà l'importazione.

» Art. 5. Riguardo a'  privilegj personali di cui dovranno godere i sudditi di Sua Maestà Britannica nel regno delle Due Sicilie, S. M. Siciliana promette che avranno essi libero e non dubbio diritto di viaggiare e risiedere ne' territorj e dominj della prelodata Maestà Sua, salve le precauzioni di polizia che vengono usate colle nazioni le più favorite. Essi avranno dritto d'occupare delle case e de'  magazzini, e di disporre delle loro proprietà personali di qualunque natura c denominazione per vendita, donazione, permuta, testamento, ed in qualunque altro modo, senza che si ricerchi loro a tale effetto il menomo ostacolo o impedimento.

«Non saranno i medesimi obbligati sotto verun pretesto a pagare altre tasse o imposte che quelle le quali son pagabili o potranno pagarsi negli Stati di S. M. Siciliana dalle nazioni le più favorite.

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Ma il governo napoletano, non scrupoloso punto verso le proprietà dei cittadini, credeva poter operare in modo eguale verso gli stranieri. Gli Inglesi quindi inutilmente fecero richiamo. Veramente quale appoggio, quale guarentigia potevano essi mai trovare in un governo corrotto, in una legge instabile, in magistrature venali? Le Note del governo inglese non tardarono a presentare richiami nelle forme consuete fra governi; e non ricevendosi che evasive e non soddisfacenti risposte, si fecero nel mese di agosto più forti e più definitive. Il governo napoletano, il 24 agosto 1838, per prender tempo chiedeva ragguagli statistici delle solfatare possedute dagl'Inglesi e l'importare de'  danni sofferti, non riconoscendo però alcun diritto per parte de'  mercatanti, e solo facendo sentire che o si sarebbe in via di particolare condiscendenza (sono parole della Nota napoletana) stabilito un compenso, o si sarebbe fatto un accordo con la Compagnia. Così si sfuggiva dalla questione, e si cercava guadagnar tempo. Ma inutile essendo questa via onesta e ragionevole tenuta dall'Inghilterra, e d'altra parte facendosi palese l'animo del re e la sua intenzione di recar danno ai commercianti inglesi per onta alla loro nazione; il governo della Gran Brettagna dopo lunga e vana aspettativa, e saputo che lungi dal rendergli ragione, tre mesi dopo quella evasiva risposta (il 27 novembre) il governo napoletano nominava una Commissione cui affidava l'esecuzione del contratto Taix, dové intervenire direttamente per tutelare gl'interessi dei suoi.

» Saranno essi esenti da qualunque servizio militare sia per terra sia per mare: le loro abitazioni, i magazzini c tutto ciò che ne fa parte e loro appartiene per oggetti di residenza o di commercio, saranno rispettati: non saranno soggetti a visite o perquisizioni vessatorie: non potrà farsi nessun esame arbitrario o ispezione de'  loro libri, carte e conti, sotto l'apparenza dell'autorità suprema dello Stato; né potranno altrimenti che in seguito di sentenza legale de'  Tribunali competenti.

» Sua Maestà Siciliana si compromette di garantire in tutte le occasioni ai sudditi di Sua Maestà Britannica che risederanno nei suoi Stati e dominj, la conservazione delle loro proprietà e della loro sicurezza personale, nello stesso modo ch'è guarentita a'  suoi sudditi ed a tutti i forestieri appartenenti alle nazioni le più favorite e le più privilegiate.»

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E resi infruttuosi i richiami pacifici già mandati in tempo, e le proteste fatte in via diplomatica,1 fu costretto di ricorrere alle minacce di valersi delle armi, per ottenere coi modi voluti dalla giustizia il compenso negato ai danneggiati. Il sig. Tempie, ministro d'Inghilterra presso la Corte napoletana, diresse nel mese di febbrajo 1840 una Nota al governo di Napoli, con cui domandò l'immediata rescissione del contratto concluso coi sigg. Taix e Aychard, non che il pagamento dei danni fino a quell'istante sofferti dai commercianti inglesi in Sicilia. Insisteva sopra l'abolizione immediata del contratto, mediante la quale si faceva presagire che sarebbe scemata la somma delle indennità. Ferdinando II, parte per istinto naturale che alle bravate facevalo proclive, parte per avere un'occasione di porsi al fianco o di poter domandare la protezione di maggiori potentati, sprezzò le minaccie, come aveva ricevuto disdegnosamente le richieste. Alle minaccie anzi rispose con altre minaccie, e si lusingò con questo di comperarsi o popolarità o compassione, qual debile vittima dell'oppressione di un forte. Egli rispose all'inviato inglese: «Il trattato del 1816 non è violato dal contratto dei zolfi. In luogo di danni, gl'Inglesi hanno ricevuto beneficj considerevoli. Io ho dunque per me Dio e la giustizia, sicché fido più nella forza del dritto che nel dritto della forza.» Dignitosa risposta invero, se non fosse stata accompagnata da vani preparativi guerreschi nel golfo di Napoli e in Siracusa.

1 Lord Lyndhurst levossi il 2 marzo 1840 nel parlamento inglese a protestare per i danni che i suoi connazionali soffrivano da quel contratto; e il sig. Mac Gregor era stato inviato dal governo britannico a domandare l'osservanza del trattato del 1816, dopo un viaggio fatto nell'isola nell'ottobre del 1839, ove, dice un opuscolo napoletano (Sulla proposta del trattato di reciprocarmi e di commercio fra l'Inghilterra e la Francia col Regno delle Due Sicilie e sulla disputa de'  zolfi, osservazioni di Michele Solimene) si comportò con una arroganza dittatoria. Il che vuol dire, levò altamente la voce.

 

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Gl'Inglesi adunque intimarono il blocco alla Sicilia, e un naviglio comandato dall'ammiraglio Stopford nelle vicinanze di Capri si che a catturare i legni che veleggiavano con bandiera napoletana; e siccome re Ferdinando ordinò, come suol dirsi, l'embargo sui legni inglesi,1 a scherno di questa vana e impari bravata gliene catturarono alcuni entro i porti medesimi di Napoli e di Sicilia, sotto gli occhi dei suoi soldati, sotto il tiro dei suoi cannoni apprestati minacciosamente colla miccia accesa. Se questa lotta disuguale fosse continuata, il commercio napoletano sarebbe andato presto in ruina. Niuno dirà che fosse stata seriamente provocata né voluta dagl'Inglesi; anzi questi non si prevalsero neanche dell'opportunità (come forse avrebbero potuto) per far valere il loro diritto di patronato, e per domandare l'esecuzione delle promesse politiche loro fatte nel 1815 a pro dei Siciliani. La qual cosa pure sarebbe stata più a vantaggio del nome che dell'interesse inglese, tanto più che la questione dei zolfi versava sull'interpretazione che poteva essere sempre equivoca di alcune parole di un trattato, e sopra pretensioni di danni certo esagerati. Non deve tacersi questa esagerazione, ma né dimenticarsi che questa lotta era ingaggiata sopra pretesti per evitare le cagioni più vere e più pericolose. Può quindi tenere ciascuno l'opinione che vuole, sul merito della questione mercantile in quanto riguarda il diritto, e la più o men vera interpretazione dei trattati;1 ma non si ha da negare all'Inghilterra la piena ragione nella questione politica che non appariva.

1 Ecco l'ordine del 24 aprile 1840:» Officialmente informata S. M. che 1 kgni da guerra inglesi da più giorni sulle isole del Golfo di Napoli abbiano predato diversi legni mercantili di real bandiera, ha ordinato di mettersi immediatamente l'embargo su tutti i legni mercantili inglesi, che si trovano al predite sulle coste o nei porti del regno, o che potranno in seguito giungerti.»

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Ma l'Inghilterra, paga di umiliare in quella contingenza un alleato della Russia e di avvertire della vigilanza e della forza sua questa rivale potente, volle scrupolosamente evitare ogni pretesto ad accuse di mirare a crescere la sua potenza e autorità nel Mediterraneo, rovistando nelle carte dei suoi archivj vecchi diritti ed antiche questioni: il ben'essere della Sicilia, la libertà siciliana, si sacrificò di nuovo, come nel 1815. alla pace del mondo, che dava timori d'essere compromessa dall'ambizione dello Czar. Non ostante però che l'Inghilterra fosse al sommo moderata e cauta in questa occorrenza, non evitò le accuse consuete di ambiziosa e perturbatrice. Il re presto si accorse che a mal fine lo guidavano la sua capricciosa politica, e le folli speranze in altrui e forse le subdole insinuazioni: imperocché pur troppo rimase responsabile dei mali che ricaddero sul commercio napoletano. Il ministro degli Affari Esteri ebbe prima le mani legate, e poscia per non essere connivente in ogni parte coi desiderj e colle opinioni reali, ricevette anche la licenza. Era questi il principe di Cassero.

1 Molti scritti furono pubblicati a Napoli sulla questione degli zolfi, per mezzo dei quali il governo napoletano fece appello all'opinione pubblica contro le accuse di lord Lindhurst, e cercò appoggi nella simpatia europea contro la violenza del gabinetto inglese. Oltre la Storia economica e civile della Sicilia del Bianchini, vedi Io scritto già citato di Michele Solimene dedicato al re — Un Saggio storico~politico sui provvedimenti nella mercatura degli zolfi in Sicilia di Francesco P. Mortillaro — Un Opuscolo anonimo Delle solfatare in Sicilia e de'  nuovi provvedimenti per la industria e spaccio dello zolfo — Una Memoria Sulla controversia per l'appalto de'  zolfi della Sicilia anonima e stampata con la data d'Italia, che è una risposta al discorso di lord Lindhur,i e par fatta da un Francese interessato nella questione — Un'altra simile intitolata Di una questione sorta tra il governo delle Due Sicilie e in Inghilterra in marzo i 840, in data di Napoli 22 marzo — Un esame critico intitolato Se nel contratto de'  zolfi abbiavi contravvenzione al trattato per gli affari di commercio fra il governo di Napoli e quello della Gran Brettagna — io fine una Memoria anonima, ma scritta dal ministro di Giustizia Niccolò Parino, che porta per titolo: nostri trattati non sono lesi, se il Re concede ad un estero un privilegio ed una privativa sopra un ramo di commercio, applicazione di questa proposizione al contratto de'  zolfi.

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Ma re Luigi Filippo, stretto da vincoli di parentela col re di Napoli, e, che più è, desideroso d'impedire nel Mediterraneo ogni turbolenza, la quale potesse compromettere quella pace di cui il mondo credevalo destinato ad essere il custode, e da esso sperata fondamento dell'avvenire della sua stirpe; Luigi Filippo non tardò di far interporre efficacemente a Londra i buoni uffizi del suo governo fra le due parti contendenti, e l'arbitrato prima dall'Inghilterra e poi da ambe le parti venne accettato. Il 26 aprile, cioè due giorni dopo il decreto di rappresaglia pubblicato dal re, il conte d'Haussonville, incaricato d'affari del re dei Francesi, faceva fermare in Napoli un accordo preliminare, pel quale vennero restituiti dagl'Inglesi tutti i legni napoletani non ancora trasportati a Malta fino a quel giorno, e fu promessa la restituzione anche degli altri. Il giornale ufficiale delle Due Sicilie del 28 annunciava al pubblico ansioso ed agitato questi accordi.1 I legni napoletani dichiarati liberi in Malta con notificazione del governo dell'isola del 30 aprile, non vennero rilasciati se non quando la questione sui zolfi volse definitivamente al suo termine pacifico; ed allora il 14 giugno ne venne data facoltà all'ammiraglio.

Questo accomodamento fu anche sollecitato dagli stessi francesi speculatori, con cui era pure interessato il Laffitte,1 i quali erano già pentiti degli obblighi assunti verso il governo di Napoli, che ormai sentivano essi medesimi non essere in grado di osservare, se lo zolfo non fosse da loro venduto a prezzo elevatissimo. Fu stipulato adunque che il contratto sarebbe rescisso, che la Compagnia sarebbe indennizzata delle spese fatte e degli utili presunti, e che uguale indennità sarebbe data agl'Inglesi per i danni da essi sofferti.

1 Ecco l'ordine del governo napoletano del 26 aprile: «Appianate essendosi le differenze esistenti tra il real governo e quello della Gran Brettagna, e cessando in conseguenza di ciò tutte le misure straordinarie di rappresaglia prese dai due governi, S. M. vuole che sieno interamente rivocati gli ordini dati il 24 corrente per lo embargo de'  legni inglesi nei porti e sulle coste del regno. Nel R. nome partecipo a V. E. questa sovrana determinazione, perché ne curi lo adempimento di sua parte.»

Napoli, 26 aprile 1840.

Sottoscritto — Niccolò Santangelo.

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Con tale stipulazione la vanità del governo napolitano rimaneva, a vero dire, oltremodo umiliata, conciossiaché veniva implicitamente riconosciuta l'ingiustizia del contratto da esso conchiuso, e gliene era imposta l'ammenda. Solo per salvare in qualche parte l'amor proprio del re fu lasciato il novello dazio imposto da lui sullo zolfo che esportavasi dallo Stato; il qual dazio però fu più tardi ancor esso abolito. Riporto qui a piè di pagina parte della convenzione speciale che fu poi nel 1841 stipulata con la Compagnia francese; documento tuttavia inedito e non conosciuto. Per tal guisa toccò al governo

1 Egli pubblicò una Memoria per sostenere i diritti della Compagnia e del governo contro gl'Inglesi, intitolata: Exposé de In question des souffres de Sicile.

2 1841.— Convenzione colla Compagnia francese per l'affare dei zolfi di Sicilia.

Art. 2. I zolfi che la Compagnia ba acquistato fino alla concorrenza di quintali 900,000, intera fusione del 1838 e prima metà del 1839 per quella parte che fin oggi rimane invenduta, restano per conto del Real Governo, e messi in conseguenza a disposizione di un Commissario Regio, il quale li farà vendere per conto del Governo stesso e per suo solo vantaggio o perdita.

La quantità totale de'  quintali 900,000 di sopra segnata, sarà diminuita da un cento di quella quantità di zolfo che si è esportata dai particolari, con pagamento di premio nel tempo in cui è stato in vigore il contratto per conto della fusione 1838, e della prima metà del 1839 in cui gli enunciati quintali 900,000 riferisconsi, e sarà accresciuta dall'altro di quella quantità di zolfo che la Compagnia ha già acquistata per conto della mezza metà del 1839, in cambio delle anticipazioni alle quali era obbligata; ben inteso che cotal quantità di zolfo per conto della prima metà del 1839 da fare aumento ai 900,000 quintali suddetti non potrà eccedere la metà di quintali 14,000 di cui soltanto è stato assicurato dai signori Taix e Jouet di essere seguita la compra, e che S. M. accorda per grazia e per deferenza allo ambasciatore.

La Compagnia rimetterà al R. Governo degli ordini sopra i suoi Commissionari all'estero per le quantità in loro potere, e s'intende che mediante questi ordini cede la Compagnia medesima al R. Governo i suoi dritti e carichi verso i detti Commissionari. Però è la Compagnia obbligata di esibir preventivamente al R. Governo le convenzioni da essa stabilite cogli enunciati Commissionari. La Compagnia resta garante dei suddetti Commissionari ugualmente garantiti dai signori G. Laffitte e C, beninteso che il R. Governo pagherà ai Commissionari medesimi, sia che si valga o no dell'opera loro per la vendita idei cennati zolfi, ciò che gli usi commerciali stabiliscono in ciascun dei suddetti casi.

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di Napoli una severa lezione dal governo inglese, e per la spavalderia inutilmente fatta il re ne ebbe anco titoli di scherno in Italia, ove non gli si seppe neppur grado del modo col quale aveva preteso tutelare la propria indipendenza.

I zolfi esistenti ancora in Sicilia, appartenenti alla detta partita di quintali 900,000, saranno immantinenti consegnati al R. Governo, il quale nel riceverli ne pagherà il prezzo di carlini 56 a quintale, peso di Sicilia, posto in barca, ossia comprese tra i 36 carlini le spese di trasporto sino al bordo della nave, coll'interesse alla ragione del 6 per cento a contare dal primo marzo sino al giorno del pagamento, o in contante o in certificati della Tesoreria; beninteso che in quest'ultimo caso gl'interessi di tali certificati cominceranno a correre dal giorno in cui saranno rilasciati. Porteranno i medesimi delle scadenze certe coll'interesse del 6 per cento a scalare, con che la scadenza della prima rata non debba essere prima di sci mesi. Però a misura che il R. Governo venderà quei zolfi, il prezzo de'  medesimi sarà versato alla Casa Meuricoffre in Napoli o ad altra qualunque in Napoli che sarà designata dai signori Laffitte e C, in disconto di tutto il credito in massa della Compagnia, operando la corrispondente riduzione degl'interessi; la quale riduzione resta garantita sul prezzo dei zolfi all'estero, e se questi fossero già venduti, resta la Compagnia obbligata a rimpiazzarlo sulle prime rate del premio di cui sarà fatta menzione agli articoli seguenti.

Art. 3. Il prezzo che si ritrarrà dallo zolfo che si anderà vendendo all'estero sarà versato presso i signori La Ritte e C. in Parigi, o presso i suoi delegati in Londra e Marsiglia; come si faranno man mano le vendite e sino alla concorrenza dell'intero credito della Compagnia dal giorno di ciascun versamento, saranno accreditati al R. Governo gl'interessi al 6 per cento sulla somma versata, li quali opereranno in risultamento compensazione cogl'interessi accreditati alla Compagnia.

Art. 4. Il prezzo di tali zolfi resta nell'interesse della Compagnia liquidato a carlini 36 il quintale, peso di Sicilia, posto in barca; qualunque vantaggio o perdita su questo segno andrà per conto del Governo.

Art. 5. Nel ricevere gli ordini della Compagnia sopra i suoi Commissionari, e dopo accettati gli stessi, e colla medesima garanzia stabilita nell'Art. 2 il R. Governo pagherà alla Compagnia medesima sia in contanti sia in certificati della Tesoreria a scadenze certe, la prima delle quali non prima di un anno, coll'interesse del 6 per cento all'anno a scalare, metà del prezzo di carlini 36 sopra tutte le quantità menzionate negli ordini suddetti, deducendo dalla detta metà del prezzo quelle somme che la Compagnia avrà ricevute dai suoi Commissionari, e ciò in conto del prezzo dello zolfo, dovendo poi il saldo dello stesso prezzo pagarsi alla Compagnia giusta l'Articolo coll'interesse del 6 per cento a scalare sino al rimborso di tutto il suo credito, che sarà stabilito e riconosciuto nell'intera finale liquidazione del medesimo.

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Imperocché, fino a costo dei proprj interessi, quando maggiori cose sono in conflitto, i popoli non signori di sé stessi ed aspiranti a libertà sogliono o con indifferenza

In tale liquidazione opereranno a pro della Compagnia 1° II costo de'  zolfi alla suddetta ragione di carlini 36 il quintale, posto in barca, per quanti quintali ne avrà effettivamente messi a disposizione del R. Governo.

2° L'interesse a scalare del suddetto corso alla ragione del 6 per cento dali° marzo 1840 sino alla restituzione della totalità del Capitale all'uopo impiegato, meno però l'interesse sulle somme pagate a conto.

3° L'ammontare delle rate della prestazione che siano state pagate al R. Governo dallo scorso mese di marzo fino alla scadenza del 15 luglio ultimo inclusivamente, ai termini dell'Art. 14 del contratto.

4° La quarta rata dell'indennità pagata ai produttori per la quantità non prodotta,

5° La rata delle spese di amministrazione dal 1° marzo sino a tutto luglio, mese dentro il quale è seguita l'abolizione del Contratto per lo cennato decreto de'  21; ritenuto che la totalità di esse ammonti a ducati 100,000 all'anno.

6° Le spese che dal di 1° del corrente agosto in poi sino al giorno della consegna al Governo de'  zolfi esistenti in Sicilia, saranno necessarie pella custodia, conservazione, e consegna dei medesimi.

Art. 6. A fronte di queste partite si addebiteranno alla Compagnia per la corrispondente compensazione

1° L'importare di tutto lo zolfo che sarà consegnato di meno de'  quintali 900,000 della fusione del 1838, e della mezza metà del 1839, o che il governo potrà dimostrare di avere la Compagnia esportato. oltre la suddetta cifra di quintali 900,000, tenuta debitamente ragione della diminuzione dell'aumento da portarsi alla suddetta quantità di quintali 900,000, per le operazioni indicate nell'Art. 2°, le quali operazioni riguardano l'esportazioni fatte dai particolari per conto della fusione del 1838 e della mezza metà del 1839, e le compre per conto della seconda metà del 1839 in cambio di anticipazioni, da non potere eccedere quintali 14,000. Cotale importare sarà fissato giusta i conti di vendita colle legali giustificazioni, i quali conti non potran produrre di netto al R. Governo meno di carlini 41 il quintale, con doversi bensì dedurre il costo dello zolfo alla suddetta convenuta ragione di carlini 36 il quintale per la quantità venduta.

2° L'importare del premio di ducati 2 a quintale, che la Compagnia ha esatto a'  termini dell'Art. 18 del Contratto da coloro ai quali abbiano esportato zolfo direttamente a tutto il tempo in cui è stato in vigore il contratto.

3° Debbe oltreciò la Compagnia restituire a di più al Governo lo eccedente dello zolfo che ha per errore ricevuto nei caricatori per lo sfrido di R. 2 a quintale che potea solo riscuotersi nella consegna alle cave.

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od anche con giubilo vedere l'umiliazione del governo che gli opprime, e non riguardano l'indipendenza e l'onore di chi li governa come identificati con l'indipendenza e l'onore della patria loro. Ciò mostra l'assurdità di chi ormai crede poter ripetere il detto di Luigi XIV: «Lo Stato son io.»

Per effetto di questa restituzione resta la Compagnia liberata da qualunque obbligazione verso i produttori che consegnarono quell'eccedente. Abt. 7. La Compagnia sarà responsabile verso i produttori

1° Di aver ritirato per soddisfatte a ciascun di essi un'annualità e mezzo del rispettivo prodotto a'  termini del ratizzo.

2° Di avere a'  termini del ratizzo stesso pagato a ciascun de'  medesimi le 4 rate della indennità per la quantità non prodotta.

3° Di avere erogato ducati.400,000 in spese di stabilimento, trasporto di capitali, perdite al cambio, provigione di negoziazione delle azioni ai banchieri di Parigi, Londra, Marsiglia e Napoli, interesse dei capitali e salario di N. 180 impiegati per venti mesi a ducati 6000 al mese.

La giustificazione delle enunciate spese sino al montare di ducati 400,000 e non più, debb'esser fatta nel termine di sei mesi al più tardi, elasso il quale, e non prodotta la giustificazione, resta in questo caso la somma di ducati 400,000 ridotta di fatto a ducati 350.000.

Qualunque attenuazione nelle cifre delle partite contemplate nei tre suddetti numeri di questo Articolo produrrà la corrispondente attenuazione de'  suoi compensi nel conto definitivo.

Art. 8. Il prezzo di costo di 36 carlini a quintale posto in barca, stabilito negli Articoli precedenti tanto per i zolfi esistenti in Sicilia, quanto per gli altri che si trovano all'estero, componesi dal prezzo d'acquisti, dalle somme soddisfatte alla Tesoreria, dalla indennità a'  produttori per la quantità non prodotta, dai 400,000 ducati menzionati nell'Art, precedente, e da qualunque altra siasi erogazione fatta dalla Compagnia sino a febbraio 1840 inclusivamente, che restan tutte ne' suddetti 36 carlini comprese e calcolate.

Art. 9. Il Governo accorda alla Compagnia ed a'  suoi direttori Taix ed Aycard e C. un premio di 700,000 ducati all'anno per 8 anni, il quale premio sarà pagato a rate semestrali pospostamente, senza interessi.

Accorda altresì per tratto di sovrana generosità, per la speciale indennità istantamente dalla Compagnia domandata, anche vigente il contratto a motivo della libera esportazione di luglio 1838, il premio di ducati 160,000 pagabili in due anni e mezzo a rate semestrali pospostamente e senza interessi, le prime 4 alla ragione di ducati 30,000 I' una, e l'ultima di ducati 40,000.

In questi due premj s'intendono fuse generalmente, e senza veruna esclusione di sorta, tutte le indennità c i compensi.

258

Ma le conseguenze di questo trattato caddero sulla Sicilia, quasi a vendetta dell'umiliazione patita dal re, della quale era quella provincia riguardata compito moralmente per i legami che all'Inghilterra la stringe vano. Volle adunque il re (e fu ingiustizia solenne) che le indennità sì alla Compagnia Laffitte come agi' Inglesi fossero a tutto carico della sola Sicilia, come già a danno del suo commercio erano state le rappresaglie del governo inglese. L'influsso di questo raddoppiò in Sicilia e in Napoli stesso per quel trattato. I Siciliani non potendo per allora professare altra gratitudine verso gl'Inglesi, ebbero cara la punizione inflitta da essi al comune avversario. Dopo questo fatto il governo britannico sembrò rimanere inoperoso, lasciando che gli eventi si compiessero, e in apparenza parve anche non curante della schiavitù degli antichi suoi alleati, i Siciliani, e delle mancate promesse dei re di Napoli; sapendo che tutti gli eccessi si uccidono da sé medesimi, che le sfrenatezze dispotiche al paro delle follie demagogiche portano in sé stesse il germe della propria distruzione. Perciò diè una lezione al governo napoletano; e più non badò.

Ma il governo russo non vide con occhio indifferente l'esito di questo trionfo dell'Inghilterra, che era pure solenne avviso a chicchessia come ella non fosse disposta a tollerare leghe a suo danno, e sopratutto che avrebbe sempre tutelato i suoi interessi ovunque energicamente, e massime nel Mediterraneo. L'imperatore di Russia dunque, quantunque per la sua posizione fosse cosa affatto assurda, volle far mostra anch'egli di tener di mira la Sicilia, e di prendere il re di Napoli sotto la sua protezione, come a minaccia di poter aver un piede nel Mediterraneo, quando gli fosse piaciuto. Persona autorevole e creduta non estranea alla sua politica aveva cercato destare nell'isola simpatie per lui e acquistargli ascendente, quasi a preparargli la via.

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Queste pratiche non erano ignote al re, che però non mostravasene punto diffidente né geloso; la qual cosa dà a divedere come avevano un comune interesse, quello cioè di combattere l'influsso inglese, dove aveva più salde radici. Né qui si rimasero le brighe della politica russa, che si appigliò a mezzi più efficaci e diretti. Nell'autunno adunque del 1845 per ragioni di salute andava l'imperatrice a Palermo in cerca di un clima temperato, e lo Czar seguivate dopo qualche tempo con l'apparenza di vedere la consorte; né pago di abbacinare (come sperava) la Sicilia con lo splendore del suo oro e col fasto delle sue pompe imperiali, carezzava queil'aristocrazia che sapeva essere potentissima. Poscia recavasi a Napoli, confidandosi forse di aver compiuto la pacificazione del popolo e dei signori siciliani con quel re, il quale appariva in modo così solenne protetto e caro a lui che aveva seminato l'oro e gli onori nell'isola indomabile. Si potrebbe asserire che Niccolò di Russia lusingossi in questa gita di piacere di aver compiuta un'impresa di pacificazione, o meglio di aver sodisfatto al dovere cui credevasi destinato dal cielo, di combattere cioè il liberalismo europeo; reputando la Sicilia uno dei focolari inestinguibili di esso mercè dell'influsso inglese, al quale per la sua posizione doveva essere sempre punto accessibile. Ei volle prendere tal fortezza come Filippo il Macedone, intromettendovi cioè un somiere carico d'oro. Questa fu, a mio credere, una parte dello scopo della politica imperiale in quella gita, nella quale eziandio mostrandosi benevolo e munificente tentò riacquistare l'autorità morale e l'opinione che aveva perduto in Europa, ove le lacrime e il sangue dei Polacchi, e le proteste della Chiesa di Roma avevano sollevata contro di lui l'universale indignazione.

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Siffatta avversione europea non solo contrastava ai suoi disegni ambiziosi, ma gli toglieva agio di poter farsi centro e anima del sistema d'assoluto reggimento, che, sparito l'influsso della Russia, rendevasi ormai impossibile in Europa, e che era ed è da lei protetto e sostenuto nel Contenente, perché esso è il solo mezzo capace d'ivi assicurare l'avvenire della politica russa. In ciò devono cercarsi appunto le cagioni arcane delle carezze dall'imperatore prodigate a re Ferdinando II nella occasione presente, non che quelle de'  suoi tentativi sull'animo de'  più autorevoli Siciliani. Infatti non senza una mira politica colmò di favori i più spettabili membri dell'aristocrazia, conoscendo che in essa lo spirito siciliano ebbe sempre ed aveva tuttavia uno degli appoggi più forti: s'ingannò soltanto nel crederli venali, e stoltamente ambiziosi. Quel che fece l'imperatore Niccolò dopo la rivoluzione siciliana, mostra chiaramente queste sue mire; imperocché valendosi del suo preteso diritto di patronato ritolse ai nobili siciliani le insegne dei suoi onori, quando seppe che non erano state scudo né freno alla ribellione, o prezzo, come avrebbe bramato, di tradimento verso la patria. La visita dell'imperatore di Russia in Sicilia fu adunque un inutile tentativo per infirmare l'influsso inglese, e ancora pur troppo un tristo incoraggiamento per il re Ferdinando di ostinarsi in una politica esiziale ai suoi popoli e all'Italia.

 385

 Nota(A) a pag. 118.

 Credo prezzo dell'opera riprodurre, in conferma di quanto bo discorso sul governo napoletano, come autorità irrefragabile, alcuni brani d'un libretto pubblicato nel 1836 in Napoli con la falsa data di Livorno, intitolato Sedici Anni, e da tutti attribuito al ministro marchese Del Carretto. Lo scopo di crescere a quei giorni in potenza presso il re e di vendicarsi del ministro di Grazia e Giustizia Parisio, il quale tentava impedire che la Polizia usurpasse il luogo della legge e soggiogasse la magistratura, intromettendosi in tutto ciò che alla medesima spettava, dettogli quelle fiere pagine. La guerra accanita con esse mossa al Parisio, accusandolo anche di nefandezze incredibili, da lui comparale a quelle abominevoli di Ciro (sic nel libretto, ma certamente si deve leggere Gioirò) e Mirra, gli elogi tributati alla Polizia, il vedere che quel libro vendevasi liberamente non solo in Napoli, ma nelle provincie e in tutte le fiere, lo stile stesso gonfio e goffamente declamatorio quale il ministro di Polizia soleva nelle sue scritture adoperare, furono gl'indizj che ne palesarono apertamente l'autore. L'anno 1837 crebbe la sua potenza, cui nel 1836 aspirava combattendo con siffatti mezzi i suoi colleghi, i quali avevano parte con lui nei consigli del principe. — Ecco i brani principali del libretto sopraccitato che era dedicato a re Ferdinando II.

 «Nel 1819, rette dallo scettro del figlio del terzo Carlo, di Ferdinando primo, le popolazioni delle Due Sicilie respiravano appena dagl'inevitabili mali delle politiche commozioni, quando l'uomo fatale, la causa delle nostre sventure, Medici, regolava l'amministrazione della finanza. Orgoglioso pel suo cognome, pieno di miserabili astuzie, e col talento naturalmente vergente all'insubordinazione, era costui fatto per accordare protezione agli uomini da poco.

Egli odiava l'uomo di genio poiché temea d'essere scoverto; il discacciava quindi dalla reggia, noi volea in posti luminosi. Quando non era ancor giunto il propizio istante di annientarlo, assassinandolo con la calunnia, formidabile sempre e sempre vittoriosa afforzata dalla possanza il soffrìa solo nelle cariche dello Stato, che quantunque influissero direttamente sulla felicità od infelicità de'  popoli, sulla vita, l'onore e la proprietà de'  cittadini, pure eran lungi dal sovrano, o la voce che da esse venia, disperdeasi pel frastuono che innalza sempre l'industriosa adulazione ne' palagj de'  re. I suoi protetti eran sempre o di niuna cognizione, od empj, o perfidi. Le cariche primarie dello Stato furon distribuite quindi a queste tre classi di persone....................................................

Il sovrano riede recando nel regno il principe di Canosa, uomo d'idee esagerate: tradito eziandio in poche sue buone intenzioni da quei che ravvicinavano, troppo franco per poter resistere alle insidie, amico del re per sentimento, ma di una politica non confacente a'  nostri tempi, egli non conoscea che la forza: nulla dalla morale, nulla dalla clemenza, nulla dall'esperienza attendea: immaginava in buona fede che il XIX secolo potesse e dovesse regolarsi col terrorismo: uomo molto versato nell'istoria, non puossi comprendere come questa costaste fiaccola del passato che getta un sì costante e sicuro lume sulle tenebre del futuro, non avesse fatto cangiare il suo sistema!!.....................................................

Intontì giunge al ministero di Polizia: ateo per inclinazione, rigiratore.

386 NOTA A PAG. 118.

perfido e traditore; avea costui odi particolare caratteristica che il rendea aggradevole più che mai al primo ministro, quella cioè di assassinare la stima d'un suddito del re usando tulle le più vili vie, e promettendo a' delatori onori e ricompense. Cosi caddero mille innocenti vittime; furono cosi annientati i germi di virtù; cosi spaziossi la nequizia, e l'innocenza oppressa si tacque................

Simile (Medici)pe' soli difetti al porporato Richelieu, egli non avea un solo de talenti di Plessis. Volle imitare, nel malversare le finanze napolitane, il malversatore delle finanze francesi, sotto il regno del qaattordicesimo  Luigi (Fouquet) e lo fece. Uguali pel delitto, non ne riportarono ugual pena; Fouquet si moria condannato e prigioniero nel fondo d'un castello, Medici a fianco del suo sovrano che di continuo tradiva. Sire, a Fouquet successe un Colbert................. Puossi dire altrettanto di noi?.... V. M. ne giudichi.....................................

Quai sono i rimedi apprestati a tanto male? Forse la pubblica istruzione attuale? le scuole elementari? le private instituzioni? Esaminiamole, vediamo quali norme, quale base presenta la nostra pubblica istruzione, da cui dipendo quindi e le scuole elementari e le privale instituzioni. Chi mai n'è il capo? Un  uomo molti gradi al di sotto dalla mediocrità. Dove sono le opere che lo caratterizzano di tanto sublime ingegno da poter dirigere l'educazione di una nazione, e d'una nazione italiana? il suo nome è divenuto forse europeo? La ripubblica letteraria saluta forse in costui il benemerito suo figlio ? In qual rane dell'umano sapere eccelle l'intelletto del vescovo presidente della istruzione pubblica? Oscuro per se stesso, il suo nome non giunse ad oltrepassare l'ambito della stanza ove comanda a'  suoi subordinati, ovvero, per meglio dire, dove vien regolato da manuensi che lo circondano, e che son pure quei che dovrebbero investigare dove lo spirito delle popolazioni verga, per potere con la possente molla dell'educazione, secondarlo od opporsi, a norma ch'esso sia o pur no regolare. Ma qual colpa hanno costoro se non conoscono più di quello che insegnano?.................................................................................

V. M. resterà sorpresa nel riconoscere la causa di tanto male dipendere in gran parte da que' medesimi a cui è affidato il sacro deposito della religione. Sire, sacerdoti non sono sventuratamente quai li vuole Gesù Cristo, ma bene spesso sentina de'  più nefandi vizj. Eccettuati alcuni, ove si troverà nella immensa massa de sacerdoti regolari e secolari una sola dramma di dottrina?............................

Allora il furto organizzato in tante e sì vaste amministrazioni, cesserà per morale e sarà annientato co' fatti; allora le immense spese che il governo saggiamente adopra par la felicità delle popolazioni, non saranno invertite ad arricchire pochi soggetti; esse perverranno allora al fine proposto....................

 Vengo ora all'attuala amministrazione della giustizia, o per meglio dire all'organizzata ingiustizia. Da questo ramo principale del pubblico e privalo interesse, l'animo d'un uomo di onore rifugge: il disordine n'è completo, ed il baratto delle vite e delle proprietà de' vostri sudditi viene eseguito infelicemente con la medesima forza della legge, chè pur santa nelle sue prescrizioni, ma che diviene fatale nelle mani di coloro che la travolgono, l'annichilano, l'insultano, invece di esserne zelanti difensori, i saldi sostegni, costoro in somma a' quali è stata commessa per applicarla nella sua forza contro l'omicida ed il ribelle, e per farne salda difesa e baluardo impregnabile a favore dell'innocenza oppressa e de diritti conculcati. Non di rado. Sire, si è giunto col rigiro, con la cabala,

1  Monsignor Colangelo.

387 NOTA A PAG. 118.

con la seduzione, con l'oro a spogliare una famiglia od un comune delle sue proprietà, per farle passare nelle mani della prepotenza; si son commessi tali assassini col palladio della legge, e ne sono stati premiati con ascenzi ed onori, dal medesimo intrico, quei che avean consumato un tanto misfatto. La vita de'  cittadini non fu maggiormente rispettata. Talvolta forse non si videro soppresse o disperse le traccie d'un misfatto consumato con l'assassinio o col veleno, sol perché la vittima era stata immolata a'  furori d'una tenebrosa combriccola, o per appagare l'orgogliosa baldanza d'un ricamato potente, rintuzzato in qualche suo capriccioso disegno dalla formidabile voce dell'innocenza armata dell'ultrice spada di giustizia?

» L'uomo si avvezza a tutto. Giudici ingiusti familiarizzano i cittadini coll'ingiustizia. Senza un lungo abito di veder malmenati i nostri diritti garantiti dalia legge, noi fremeremmo all'aspetto de'  mali che ci circondano, delle violenze che da ogni parte ci sovrastano, e de pericoli ai quali k esposta la nostra innocenza. I nostri clamori s'innalzano con forza e fiducia al trono, quando gì' intrichi degli adulatori che strisciano sempre nelle reggie, spargendovi il più mortifero losco, fecero intrudere nel sacro tempio di Temi uomini venduti all'altrui volontà. Noi per venti anni chiedemmo giustizia fino a nome della pietà.'I Ora i clamori sono cessati perché istupiditi sotto al peso delle nostre sventure, la maggior parte de'  vostri sudditi non ardirebbe neppure di pensare che i nostri mali potrebbero essere curati: essi son tanto inoltrati che solo la mano del sovrano potrìa squarciare quel velo che nasconde a'  suoi occhi le piaghe del popolo e vedere insieme i rimedj che potrebbero cicatrizzarle. Sire, ormai pochi magistrati onesti son già ridotti a scegliere tra l'ingiustizia, o la povertà e la persecuzione; ed essi vivono poveri e perseguitati!!! Oggi noi camminiamo sopra un prato di ridentissimi fiori, ma orrido, spaventevole, immisurabile abisso sta sotto a nostri piedi, e pochi sostegni corrosi ed invecchiati ne reggono le pericolanti volte!!!.....................

L'attuale pubblica istruzione ci demoralizza rendendoci ignoranti. La nostra attuale morale ci rende irreligiosi, poiché con l'immoralità ci fa conseguire gli onori del governo. La nostra religione ci rende empj, poiché stravolta, annientata, resa da'  sacerdoti nemica della filosofia, mentre è pur madre di essa, perché e madre e figlia predicano giustizia, bontà, amore; ed essi (i sacerdoti) vogliono ingiustizie, purché riescano a lor prò; nequizie, purché sieno ad essi vantaggiose, restringendo poi l'amore al solo sentire di libidinose passioni. I nostri padri?......... Ah! essi discesero nella tomba, oppure versano inutili lagrime mirando l'attuale adulta generazione, e la loro impossente canizie!...................................

Cinque anni scorsero che il ministero della Giustizia reggesi da un immorale. Dove il risultamento che attendeasi? dove sono i santuarj? dove i sacerdoti di Astrea che dovean resistere alla foga delle passioni e ricondurla nella sua dignità, su quel seggio ch'ella timida, senza difesa, abbandonata da que' che dovean sostenerla, lasciava in preda agi' indegni, insieme a quel sacro palladio, a quel complesso di leggi che uguaglia tutti agli occhi del sovrano, e che tanti perfidi vendettero per si- lungo tempo alla potenza, alla corruzione, alla cabala ed alla seduzione, in danno sempre dell'innocenza, della virtù, dell'onestà, del diritto e della verità?..................................

Qual paragone non si è fatto tra il passato tremendo ministero di polizia, quando non bastava essere innocente per andarsene esente dagl'invisibili lacci, tanto simili a quelli della esecrala Inquisizione, e l'attuale che garantisce la vita.

 388 NOTA A PAG. 118.

le proprietà, l'onore dei cittadini, seguendo con risibili pasti le orme dell'omicida, del ladro e dell'uomo corrotto, le di cui destre nel mentre credono di ferire la vittima, d'involare le altrui dovizie, oppure dal paterno tetto la semplice donzella, trovansi ritenute da quell'autorità, il di cui potere non conosce limiti o leggi, ch'è fuoco sterminatore dei malvagi quando contro di questi costantemente rivolgesi; ed esterminio de' buoni, peste devastatrice de' regni, quando segue dispotici principi, investigando il pensiero e non le azioni de'  cittadini?..........................

La giustizia non è più ora che un'eccezione, la regola è l'ingiustizia. Sire, ciò non è esagerato: l'ingiustizia è la regola; io lo ripeto. Oh! se un raggio della divinità potesse far patenti i lordi cuori dell'attuale magistratura agli occhi di V. M.!! Oh! se voi poteste osservarvi quanti torti, quanti furti, quante prepotente vi si annidano. Vi scorgereste sterminate ambizioni, infami passioni, finti sentimenti di piedi, egoismo, e non abitarvi niun Dio. Voi fremereste, e la spada di vendetta balenerìa nella vostra destra....»

DOCUMENTI.

DOCUMENTO CXCIX. (Pag. 19.)

Proclama del Re di Napoli Ferdinando I innanzi di prendere possesso del regno, in data di Palermo 1 maggio 1815, col quale promette ai Napoletani una Costituzione.

Napoletani.

La causa di Marat è Anita: essa era per quanto ingiusta, altrettanto vergognosa. Già una nuova scena si prepara ai vostri occhi.

Popoli del Sannio, della Lucania, della Magna Grecia, e delle Puglie, affrettatevi a rivendicare i vostri diritti. Uno straniero li ha violati. Entrato nella più bella parte dell'Italia, egli si diede il titolo di conquistatore. Con questo titolo si è fatto lecito dilaniare le vostre sostanze, esporre i vostri figli ed i vostri fratelli ai pericoli ed agli orrori della guerra. Rammentate che un tempo le vostre armi si estesero alle sponde del Nilo; che al solo strepito delle vostre trombe guerriere, i Tolomei, i Filippi, i Massinissa, gli Antiochi ed i Mitridati chinarono d'innanzi a voi la loro fronte orgogliosa. Italiani, bagnerete le vostre mani nel sangue degl'Italiani? I vostri figli ed i vostri padri accorreranno da Roma per sottrarvi dal servaggio e dal disonore. Ardireste respingerli, al punto di divenir parricidi? Cosa sperate mai da un soldato fuggitivo e perfido? L'obbrobrio, la miseria, la disperazione, la morte; questi sono i frutti che raccogliereste da colui che vi comanda per condurvi alla vostra ruina. Quello che cerca nella disperazione l'ultimo suo soccorso, puote promettervi la gloria e la pace?

Un principe si avanza per la vostra salvezza. Le sue aquile vittoriose non porteranno sul vostro territorio che pace, calma e ricchezza. Il ferro e la morie allontaneranno dalle vostre contrade il vostro oppressore ed il vostro nemico.

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Tutto sarà sacro come proprietà del cittadino. Voi, figli docili del Sebeto, venite con i stendardi della concordia, venite innanzi al vostro Padre, al vostro liberatore, il quale sta già sotto le vostre mura. Esso non aspira che al vostro bene ed alla vostra felicità durevole. Esso travaglierà per rendervi l'oggetto d'invidia pel resto di Europa. Un governo stabile, saggio e religioso vi è assicurato. Il popolo sarà il sovrano, ed il principe il depositario delle leggi che detterà la più energica e la più desiderabile delle costituzioni. Spalancate le vostre chiese ed i vostri santuarj. Il vostro Padre vi entrerà a lesta scoperta per liberare dalla persecuzione i suoi ministri, e le sue leggi. Cantate degl'inni di gloria al Dio delle armale, il quale vi ha sottraiti dall'oppressione e liberati dalla vostra ruina. Che siano per sempre invincibili e rispettati gli ornamenti ed i segni sacri di quella Religione che ha piantato i suoi vessilli nel mezzo delle guerre le più ostinate e le più crudeli. Venite, correte tra le braccia di un Padre generoso. Esso è pronto ad alzar la mano del perdono. Esso non si rammenta delle offese che per unirvi, per governarvi da Padre. Dubitereste forse delle promesse di un Padre; di quello che, nato tra voi, ha tutto comune con voi, leggi, costumi e religione?

In nome del Congresso, io rimonto sul mio trono legittimo, ed a questo stesso nome io vi prometto in riguardo a tutto, amore e perdono.

Ferdinando.

DOCUMENTO CC. (Pag. 72.)

Notificazione pubblicata in Napoli contro gl'incendiari della strada Toledo, nel 1843, dal Generale Del Carretto, Ministro di polizia.

Il pubblico è prevenuto che il sistema di procedura e di giudizio eccezionale e sommario, adottato contro i perturbatori della sicurezza e buon ordine pubblico con Notificazione del 5 agosto 1822,1 prorogato fino al termine del corrente anno con altre

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Ordinanze successive e reiterate, è sempre in vigore, e colpisce evidentemente l'atto crudele che si è ripetuto due o tre volte in questa capitale, che ha consistito nel dar fuoco, con un mezzo particolare, alle vesti delle donne.

Che il pubblico sappia altresì, che la pena straordinaria c ben conosciuta 2 che la polizia infligge immediatamente per un tal delitto, avanti eziandio il giudizio della Corte competente, sarà più forte, se vi è bisogno, in ragione del carattere perfido del delitto, e sarà applicata senza riguardi e in lutto il suo rigore, qualunque sia il rango del colpevole, che sia vestito d'una veste o d'un abito: (!) perocché si tratta dei diritti sacri della protezione dell'ordine e della pubblica sicurezza.

DOCUMENTO CCI.
Lettera di D. Neri Corsini al Consigliere Leonardo Frulloni, da Laybach, sulle segrete trattative di quel Congresso riguardo alle cose italiane, e specialmente sulle leggi colà discusse per il regno di Napoli, innanzi la rivoluzione piemontese.

Pregiatissimo e carissimo amico.

Laybach, li 30 gennajo 1821.

Ho promesso di scrivervi particolarmente tosto che avessi potuto veder chiaro sulle intenzioni che qui si avevano intorno al regime interno futuro dei Stati d'Italia, ed in specie del regno di Napoli.

Oltre tutto ciò che vedrete nel dispaccio che indirizzo alla Segreteria degli affari esteri, devo aggiungervi, che non ci è stata né poteva esserci idea alcuna di proporre istituzioni da adottarsi da tutti i Stati d'Italia come statuto comune, e molto meno di suggerire cambiamenti in veruna parte della legislazione dei Stati respettivi.

1 Questo decreto fu fatto durante l'occupazione austriaca.

2 Sono le bastonate che il Del Carretto, autore della Notificazione, non osa nominare. Si osservi che per sua confessione la polizia ne usa, e la applica avanti il giudizio.

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Non può essere questione neppure di una Confederazione fra i Stati Italiani; progetto che incontrerebbe opposizione invincibile anche in varie Potenze straniere, e che la saviezza del Ministero austriaco si è astenuta dall'accennare, attesa la gelosia che il protettorato di questa Confederazione, necessariamente esercibile dall'Imperatore, avrebbe ispirato nell'altre principali Potenze; ed attesa anche l'opposizione che la Corte di Sardegna, diretta ed ispirata dalla Corte di Russia, avrebbe fatta ad un tal progetto.1

D'altronde, i principi che vedrete sviluppati in una Memoria del Governo inglese contro l'intervento dei tre potenti alleati nelle cose interne dei Stati indipendenti d'Italia, fuori del caso di avvenimenti che per il loro carattere minaccino la sicurezza dei Stati vicini, sarebbero stati sempre un ostacolo a questa Confederazione, quando anche, come veniva fatto nelle deliberazioni di Troppau, si volesse colorire sotto l'aspetto di ammissione o esclusione della alleanza di cui le (re Potenze d'Austria, di Russia, di Prussia si sono dichiarate capi e direttrici.

Dileguati cosi, e nella parte più essenziale, i dubbj che aveva destato l'improvvisa chiamata dei Stati Italiani a questo congresso per provvedere insieme con loro alla sicurezza dello stato futuro d'Italia ed alle misure che dovevano garantirla, la questione si è assai semplicizzata; giacché si è ridotta a deliberare quali istituzioni dovranno essere stabilite nel regno di Napoli: ed in questa dellberazione si è voluto fare intervenire i Stati Italiani, perché nulla si facesse di contrario a quello che esiste negli altri governi della penisola, onde non si eccitasse appunto nei popoli desiderio inopportuno di innovazioni.

La Casa d'Austria, più di tutte interessata ad allontanare queste innovazioni, era esitante per il dubbio precorso sulle disposizioni del governo Sardo, a cui, o almeno ad un forte partilo in quel Ministero, si attribuiva l'idea di voler introdurre

1 È notevole questa opposizione della Sardegna alle mire austriache, la quale conferma il concetto che ho avuto sì del re Vittorio come del suo ministero, retto a quei giorni dall'insigne Prospero Balbo.

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un regime costituzionale 1 o quasi analogo, attese le discussioni che si facevano di piani relativi ad interna organizzazione, e de'  quali nel mio dispaccio ragguaglio la Segreteria degli affari esteri.

Una spiegazione che, o spontaneamente o per ordine della sua Corte, 2 il ministro Russo a Torino ebbe col primo ministro del re di Sardegna, fece conoscere quanto si era ivi lontani da idee costituzionali, e dissipò il timore eccitatosi, spiegando su quali oggetti si stava travagliando per migliorare molte parti della legislazione interna di quel regno.

Un lungo dispaccio del ministro Russo a Torino, comunicato al Ministero Austriaco, avendo rassicurato pienamente sulle intenzioni di quella Corte, fu proposto immediatamente ed adottato di far chiamare i ministri dei Stati Italiani.

Dall'istoria che vi ho tracciato, vedete chiaramente che la direzione e le intenzioni sono state sempre pure in tutti anche in rapporto a Costituzioni, delle quali l'istesso imperatore Alessandro ha veduto i pericoli: per lo che non solo ha cambiato linguaggio, ma lo ha fatto sul suo esempio cambiare anco al ministri. 3

Non si tratta più dunque di difendersi da progetti lesivi dell'indipendenza dei Stati, o per un vincolo federale, o per una Costituzione di Statuto comune; ma solo di preservare il regno di Napoli da istituzioni pericolose per lui e per gli altri, e di fare evitare gli errori nei quali anche con retto fine potrebbero cadere i ministri delle principali Potenze, non conoscendo gli umori politici delle popolazioni d'Italia, e stimando indifferente quello che nelle circostanze diverrebbe funesto per la tranquillità di tutti.

A tal effetto, ho creduto prima d'ogni altra cosa di far sentire al plenipotenziario del re di Napoli, uomo savissimo e di antichissima mia relazione, che quanto il suo sovrano

1 Ciò conferma i dubbj dei quali feci motto.

2 Questa spiegazione, non al certo amichevole, pone in chiaro la cagione delle incertezze ed esitanze del ministero sardo, per cui fatalmente non fu prevenuta la rivoluzione piemontese.

3 E notevole questa rivelazione circa l'imperatore Alessandro.

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aveva bisogno di lasciar fare agli altri ciò che volevano per distruggere la rivoluzione di Napoli, altrettanto doveva farsi padrone assoluto del nuovo ordine di cose da stabilirsi nel suo regno; e che quindi non doveva aspettare che altri prendessero l'iniziativa, ma doveva egli stesso portare un progetto approvato dal suo re, e di questo progetto formare la base ed il soggetto della discussione.

Adottata da lui subito questa idea, ha desiderato concertarsi col marchese di San Marsano e meco per la redazione di questo progetto, che hanno voluto farmi redigere, c che ho corretto a misura delle discussioni che abbiamo avuto fra noi.

Partendo dal principio, che nelle monarchie pure, quali sono tutte quelle d'Italia, su di che non nasce controversia, il potere legislativo non può essere disgiunto dall'esecutivo, direttivo ed amministrativo, siamo rimasti tutti d'accordo, che nelle presenti circostanze neppure la discussione delle leggi poteva separarsi dalla dipendenza dell'autorità reale,1

1 Queste opinioni del Corsini confermano ciò che dissi di lui; che se fu propugnatore costante dell'indipendenza toscana, non potè tenersi per amico delle istituzioni liberali. E però singolare il contrasto fra l'esposizione assoluta di queste idee nel 182I, e l'omaggio reso alle opposte dieci anni più tardi dal Fossombroni (Vedi Documento CXLVI, a pag. 264 del voi. II0), che aveva comuni con lui idee e potere. Il mondo avanzava senza riparo, e trascinava nel suo moto anche chi non voleva, o meglio non credeva camminare. Ben diverso era il concetto che si faceva in quei giorni medesimi dei bisogni delle popolazioni italiche e dei doveri, o meglio, del senno necessario ai governi italiani, da uno straniero più sinceramente e più passionatamente monarchico dei più di coloro che addirizzavano allora la monarchia sopra una via pericolosa e poco accorta; dico il visconte di Chateaubriand. Egli scriveva da Berlino al presidente del Consiglio, barone Pasquier, in data del 20 febbrajo 1821, dando il suo parere sugli affari napoletani, non credendo forse possibile né compatibile con la politica naturale di Francia una prolungata occupazione del regno: «Il faut affranchir Naples de l'indépendance démagogique, et y établir la liberté monarchique; y briser des fers, et non pas y porter des chaînes. Mais l'Autriche ne veut pas de constitution a Naples: qu'y mettra-t-elle? Des hommes? où sont-ils? Il suffira d'un cure libéral et de deux cents soldats pour recommencer. C'est après l'occupation volontaire ou forcée que vous devez vous interposer pour faire établir a Naples un gouvernement constitutionnel, où toutes les libertés social soient respectées.»

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e che sarebbe stato pericoloso di introdurre la forma dell'interinamento, o registrazione delle leggi già sanzionate dal sovrano,1 quando questo interinamento o registrazione dovesse farsi sia da un corpo politico, sia da un corpo giudiciario, benché nominato dal sovrano; specialmente quando a questi corpi si dasse una autorevole rappresentanza, che potesse riputarsi equivalente di una rappresentanza nazionale.

Quindi, nel nostro concetto, la sanzione sovrana deve essere l'ultimo sigillo della legge discussa consultivamente avanti un Corpo non molto numeroso e scelto dal sovrano; ed in tal guisa non vi può mai esser luogo a rimostranze da avanzarsi da corpi politici o giudiciarj contro la legge già firmata: e voi sapete dall'istoria, che queste rimostranze sono state sempre il principio delle turbolenze, anco nei Stati monarchici. Si è rigettata ancora l'idea di fare che in questo Corpo da istituirsi ci devano essere necessariamente soggetti scelti dall'uno o l'altro degli ordini dello Stato, come nobiltà, ecclesiastici, giudici, cittadinanza; poiché non si è voluto risuscitare idea di ordini o privilegi: tanto più che lo spirito rivoluzionario agisce adesso in senso inverso da quello che faceva nei principj della rivoluzione francese; ed in luogo di corrompere ed agitare il popolo, attacca e corrompe le classi superiori, per giungere al popolo per il loro mezzo, e per la loro influenza.

Fissate cosi le nostre massime, ho redatto un progetto di decreto, o legge normale, ove si stabilisce un Consiglio di ministri, col voto dei quali il sovrano decide (utti gli affari ordinarj che devono risolversi dal potere direttivo ed amministrativo supremo; ed una Consulta di Stato, che dovrebbe essere divisa in due, l'una per il regno di Napoli, l'altra per la Sicilia: ed a queste Consulte 2 dovrebbero essere rimesse, per l'ulteriore esame e parere, tutte le proposizioni che devono essere convertite in leggi, e promulgate come tali; ed inoltre varj altri affari più gravi, come il budget annuale dello Stato,

1 Il San Marsano non dimenticava che questo diritto esisteva in Piemonte, come si vedrà più sotto; ma non tace il Corsini che si discusse sull'opportunità di conservarlo.

1 Questa è la prima legge sulla Consulta, della quale feci motto parlando di Napoli.

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 il reparto delle imposizioni dirette fra le diverse provincie, il contenzioso amministrativo nella parte in cui non dovesse secondo le leggi essere deciso dai tribunali, l'omologazione di tutte le alienazioni di beni demaniali, ecclesiastici, comunicativi, e di tutte le corporazioni qualunque.

Queste Consulte peraltro non dovrebbero prendere l'iniziativa di alcun affare, e solamente opinare sopra gli affari che gli venissero rimessi per ordine del re, a cui dovrebbero poi sottoporre il loro voto, e il re decidere; e dopo la sua sanzione non ci dovrebbe essere altra formalità da adempire che la pubblicazione della legge.

Voi sapete che in Piemonte i quattro Senati di Torino, Genova, Nizza e Chambery, interinano ancora le leggi, e che il tribunale denominato la Camera de'  Conti interina quelle di finanze; e tutti hanno diritto di fare delle rimostranze, che il re attende o non attende, ma che queste rimostranze si protocollano, come la risoluzione negativa del re.

Simili forme, che in Piemonte lasciano sussistere perché sarebbe oramai urtante l'abolirle, e perché non producono fin adesso inconvenienti, sarebbero pericolose a Napoli dopo tutto quello che vi è accaduto, e presto diverrebbero un mezzo di aperta opposizione al sovrano.

Quanto alla scelta dei membri delle Consulte, si è inserito un articolo ove si dice che il re li sceglierà fra gli impiegati che esercitano le cariche più eminenti dello Stato, e fra i proprietarj tanto della capitale che della provincia. Questi consultori non si sono costituiti inamovibili, ma dopo due conferme da darglisi di tre in tre anni diverranno consultori a vita, ed allora essendo messi in stato di ritiro otterranno una pensione; ma si riserva sempre al sovrano di non comprenderli nel ruolo annuale che deve fare delle Consulte.

Tali sono le basi del lavoro di cui è stato già parlato al re; e quando esso l'avrà approvato, si prepareranno le strade cogli altri principali ministri per schiarire e superare le difficoltà.

La parte riservata agli altri ministri d'Italia sarà quella di non aderire e di opporsi a qualunque istituzione pericolosa, e che non possa combinarsi con quello che esiste nei loro Stati, o eccitare desiderio d'innovazione.

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Qualche difficoltà peraltro si trova nel re di Napoli, il quale, come suole accadere nelle disgrazie dei Stati, ne dà la colpa ai suoi ministri, e crede che non convenga lasciare ai ministri che poca autorità,1 dicendo che quando essi sono soli a decidere gli affari, nasce fra loro una coalizione, di cui divien padrone il più astuto o il più ardito.

Quindi il suo concetto sarebbe, ammesse le Consulte, che vorrebbe meno numerose di quelle proposte (di 21 membri per Napoli, e 12 per la Sicilia), di creare un Consiglio di Stato composto di ministri senza dipartimento, e che questi dovessero dare il loro voto al re sulla decisione degli affari che venissero presentati da ciascun ministro avente dipartimento, introducendo in questo Consiglio ad uno per volta, e non insieme, i ministri per render conto degli affari e dare il loro parere.

Di questa circostanza, per buone ragioni, non ho fatto menzione nel dispaccio indirizzato al dipartimento degli affari esteri; ma la confido a voi, senza che ci sia bisogno di spiegarvi che la trovo soggetta a molti inconvenienti, tanto più che si lascia nel progetto la latitudine di chiamare altre persone, o altri ministri, ma quelli con dipartimento si fanno intervenire insieme. Vi ho voluto mettere a portata con dettaglio di tutto questo, perché possiate dirmi il vostro parere sopra questo piano d'organizzazione anche in particolare, oltre quello che mi sarà scritto officialmente dal dipartimento.

In altri tempi una simile organizzazione interna si sarebbe potuta variare in mille maniere a Napoli, senza che gli altri Stati avessero da temerne alcuna conseguenza: ma adesso tutto serve di pretesto per domandare innovazioni, ed ogni esempio può essere motivo di agitazione degli spiriti.

Spero sempre che il mio soggiorno qui sarà breve, perché questi signori vorrebbero che il re di Napoli partisse presto per approssimarsi al suo regno, e rientrarci appena l''armata ci sarà arrivata; giacché veggono impossibile e pericoloso di lasciare la reggenza al principe ereditario, stranamente compromesso nella rivoluzione:

1 Da queste parole del re di Napoli si ha il vero concetto tradizionale dell'assolutismo personale.

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 ma il re ha della repugnanza a tornar cosi presto a Napoli, e veggo che, per conciliar tutto, più probabilmente si trasferirà a Firenze. Siccome peraltro prima della sua partenza devono essere fissate le basi del nuovo governo, ed è interessante che lo siano nel Congresso, credo che non si tarderà ad ultimare anche questa parte dell'affare, e che quindi noi altri Italiani non avremo più nulla da far qui.

Anche per lo sviluppo ulteriore di questa organizzazione di governo, molto sarà rilasciato alla commissione dei ministri che accompagnerà il re.

Mi sono dimenticato dirvi, che nel formare il piano delle Consulte di Stato ho avuto avanti gli occhi l'istituzione del Consiglio di Parigi, le di cui attribuzioni da chi comandò in Francia fino al 1814 erano state modellate in guisa da servire d'equivalente al Corpo legislativo, che voleva abolire come dispendioso, inutile e non consentaneo ai principj di una monarchia assoluta.

Pare che questa volta non avremo aggravj nel passaggio, o almeno leggieri; e mi lusingo che avrete potuto mettere in esecuzione il vostro piano per risparmiare l'incomodo degli alloggi, seppure la quantità della truppa e l'ordine della sua marcia non vi si sono opposti. Bensi, se non riesce nel primo passo, può riuscire benissimo in progresso, per i molti corpi che alla spicciolata continueranno a transitare.

Mando al Nomi una Memoria, che vi farà leggere, sul budget dei Spedali come li sistemai prima della mia partenza.

Salutate assai lui, Puccini, e tutti di vostra casa, e di Segreteria.

(Di propria mano del Corsini l'appresso):

Non veggo l'ora di esserne uscito, e di tornare a casa.

Ottima però e fiducialissima è stata l'accoglienza che ho qui trovata, e l'opinione favorevole al nostro Governo non può essere meglio stabilita in tutti, tanto sovrani che ministri. l'abbraccio di cuore, e sono

affezionatissimo amico vostro

N. Corsini.

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DOCUMENTO CCII. (Pag. 116.)
Rescritto reale di Ferdinando II sull'amministrazione del Regno Napoletano, dell'11 maggio 1844. 
«Dal Presidente del Consiglio dei Ministri è stato comunicato il seguente Real Rescritto.

» Sua Maestà il re (N. S.) sempre più contento del buono spirito che mostrano i suoi fedeli sudditi, e specialmente quando alcuni malvagi hanno tentato sovvertire la pubblica pace, non può esternare la stessa sodisfazione a vari dei funzionari pubblici, ai quali è affidato il sacro deposito dell'ordine pubblico, e della retta amministrazione in ogni ramo.

» Il re vede con dispiacere che la debolezza, la determinazione (sic), il poco zelo, la poca laboriosità di alcuni dei pubblici funzionari sia la vera cagione dei disordini che avvengono.

» ll re vuole che il ministro di Grazia e Giustizia faccia conoscere ai Procuratori Generali, che la fermezza, lo zelo, ed un deciso contegno sono il loro principal dovere, e che lo tradiscono ogni qual volta o per timore o per riguardi non prevengono i disordini, o non accorrono fortemente a reprimerli. Che è loro obbligo severamente vigilare che i giudici regi, magistratura più vicina al popolo, si penetrino di questi principj, che è dovere dei giudici regi nell'amministrare la giustizia far amare il governo; e che l'arbitrio, le vessazioni, il disprezzo degl'infelici non sono i mezzi che possono raggiungere questo santo scopo.

» Che il ministro imponga alla magistratura tutto il contegno e la laboriosità, penetrandosi della ovvia verità, che anche la sola lenta negligente amministrazione della giustizia basta ad eccitare il pubblico malcontento.

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» Che si frenino le esazioni non dovute nelle cancellerie dei tribunali e dei giudicati regi, e che i procuratori generali ed i procuratori regi severamente veglino su di tali disordini.

» Il re vuole che il ministro delle finanze inculchi severamente a tutti i suoi funzionari, che nella riscossione delle pubbliche imposte sieno allontanate le ingiuste vessazioni, e che le punisca immediatamente a tenore delle sue attribuzioni. Le imposte pubbliche sono un peso indispensabile al mantenimento dello Stato, ma le interessate vessazioni nella riscossione di esse sono spesso più dure delle stesse imposte.

» Sua Maestà vuole che il ministro degli affari interni ricordi ai suoi subordinati le gravi parole che sono imposte nella Legge organica dell'amministrazione civile, di essere cioè la prima base di tutte le amministrazioni dello Stato la prosperità nazionale.

» Il ricordare agi' intendenti, ai sott'intendenti ed ai sindaci i loro doveri, sarebbe lo stesso che il trascrivere la Legge ed i regolamenti. Ma il re non può ad alcuni di essi esternare la sua sovrana sodisfazione, particolarmente nelle circostanze nelle quali l'inclemenza delle stagioni esigeva sopraffina diligenza, attività somma.

» Il re è malcontento in generale della poca e negligente cura che gl'intendenti e sott'intendenti pongono nella scelta dei Sindaci, Eletti, Decurioni; nell'arbitrio che permettono esercitarsi dalle segreterie delle intendenze e sott'intendenze; nella non meditata proposizione di sempre nuovi dazi comunali, e del metodo parziale della loro riscossione, dell'abbandono infine dell'amministrazione.

» È volontà ferma del re, che i funzionari pubblici sieno convinti, che i soldi, le onorificenze, le distinzioni non sono per essi un beneficio gratuito, e molto meno una sine cura. Servitori del re e dello Stato, a questo solo titolo sono stipendiati, onorati.

» Ha dichiarato il re che prenderà stretto e periodico conto del contegno di tutti i pubblici funzionari nella indicata gelosa linea di loro adempimento, in ispecie per attaccamento al re ed alla pubblica tranquillità, onde dispensar cosi la Maestà sua dall'obbligo di adottare per esso esemplari misure di rigore.

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» Ha infine ordinato il re che si richiami a stretta severa osservanza il prescritto dal real decreto dei 4 ottobre 1832 per le ingiuste esazioni degl'impiegati subalterni, non dovendo cadere nel suo real animo il sospetto, che questo si avveri negl'impiegati di grado superiore.1

» Nel real nome si partecipano queste sovrane determinazioni, rimanendone a sua cura la esecuzione nella parte che riguarda il suo ministero, e per presentare secondo i casi speciali rapporti alla Maestà sua.

» Napoli, 22 maggio 1844.

» Giuseppe Ceva Grimaldi.»

DOCUMENTO CCIII.
Lettera del Ministro di Prussia a Napoli, diretta al Re di Prussia, del 15 gennaio 1836, sulla nascita del principe ereditario, e sui tentativi vani d'imprestito fatti in Italia da Don Carlos pretendente di Spagna.

Naples, 1er janvier 1836.

S. M. la reine est accouchée très heureusement ce matin à 7 heures et demie d'un prince fort et bien portant, et qui dans le baptême auquel le Corps diplomatique a assisté, a reçu le nom de François d'Assisi. La reine se porte aussi bien que les circonstances le permettent. Cet heureux événement a répandu la joie à la Cour et dans la ville, et le roi surtout parait sentir vivement le bonheur d’être père et de voir sa descendance assurée.

Les essais que les agens de l'infant Don Carlo sont faits ici auprès de quelques maisons de banque dans le but de contracter un emprunt pour ce prince, ont été infructueux; à Gênes et à Turin des essais du même genre ont été également faits sans fruit, et il est donc à craindre que sans avoir préalablement remporté des avantages plus décisifs, l'infant ne puisse pas réussir à se procurer des sommes considérables par le moyen d'emprunt.

1 E singolare questa mal dissimulata confessione!

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DOCUMENTO CCIV.
Lettera di Gaetano Bellotti, Console di Baviera a Napoli, al Ministro degli Affari Esteri a Monaco, del 12 gennaio 1836, sulla fuga del Principe di Capua.

Naples, 18 janvier 1836.

Indépendamment des démonstrations générales de joie pour la naissance du duc de Calabre, on ne parle depuis quelques jours dans tous les salons de cette capitale que du départ clandestin et inopiné de S. A. R. le prince de Capone Don Charles, frère de S. M. le roi des deux Siciles.

Depuis assez de tems se trouvait à Naples une famille irlandaise, composée de deux sœurs et d'une dame de compagnie, appartenant à des parents honnêtes, mais d'une fortune médiocre, et jouissant d'ailleurs d'une réputation bien famée.

S. A. R. devenue éperdument amoureux d'une de ces demoiselles nommée miss Pénélope Smith, se proposa de l'épouser, et il en demanda la permission au roi de Naples, qui la lui refusa par de bonnes raisons de famille et de convenance.

Le prince de Capoue, entraîné par sa passion, ne se rendit point aux persuasions du monarque son frère, et dans la nuit du 12 au 13 de ce mois, jour anniversaire de la naissance du roi de Naples et de grand gala à la Cour, après le spectacle du théâtre de Saint Charles, partit secrètement de cette ville, déguisé en domestique de M. O'Connor irlandais, confident de la maison de mademoiselle Pénélope Smith. Celle-ci l'avait devancé de quelques heures, emmenant avec elle sa dame de compagnie et un domestique du prince Charles.

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Avant de franchir la frontière du royaume à Portella, le prince Charles fut atteint par un capitaine de gendarmerie expédié à sa poursuite et porteur d'une lettre du roi de Naples qui lui mettait sous les yeux les graves conséquences de son départ. Le prince fit d'abord difficulté de recevoir la lettre, mais enfin il céda aux instances du capitaine, et lui livra un reçu écrit avec le crayon. Après cela il poursuivit son voyage, et on sait maintenant qu'à Terracine il rejoignit la demoiselle, et qu'à Rome tous les deux ne s'arrêtèrent que le tems indispensable à changer de chevaux de poste. On conjecture qu'ils s'adressent en Suisse.

Le départ de ladite demoiselle avait été disposé ici par ordre de la Police. Avant son départ elle s'était, dit-on, mise d'accord avec S. A. R. pour se réunir à Terracine.

L'autre demoiselle Smith est restée à Naples toute seule. S. M. Sicilienne a fait fermer l'hôtel du prince Charles, et a donné l'ordre de procéder à un exact inventaire de tous les effets qui y existent. En attendant, S. M. a disposé d'entretenir les domestiques de S. A. R. qui vient de partir.

On prétend savoir que le prince de Capoue en partant de Naples n'avait devers lui que la somme modique de 900 ducats, et même qu'il l'avait empruntée. S. A. R. a cependant un riche patrimoine.

DOCUMENTO CCV.
Lettera del Ministro di Prussia a Napoli, al Re di Prussia, del 22 gennaio 1836, 
sulle condizioni politiche di quel regno.

Naples, 22 janvier 1836.

S. M. la reine continue à faire des progrès rapides dans sa convalescence, et le jeune prince François se porte également bien. Ce prince a déjà le titre de duc de Calabre.

Le roi a saisi l'occasion de la naissance de l'héritier du trône pour exercer plusieurs actes de générosité, et pour répandre des bienfaits sur son peuple.

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Le journal ci-joint des deux Siciles du 18 de ce mois contient les décrets qui ont été publiés jusqu'ici à ce sujet, et qui, à ce qu'on'assure, seront suivis, lors des relevailles de la reine, de plusieurs autres, conférant à un grand nombre de personnes des avancemens et des décorations. Les grâces que le roi accorde par ces décrets sont réparties avec une grande sagesse et un parfait esprit de justice, car il n'y a presque aucune classe de la nation qui n'en éprouve les effets bienfaisans. Si comme de raison la classe des pauvres et des prisonniers a été plus particulièrement l'objet de la sollicitude du roi dans cette occasion, les employés d'un ordre élevé et surtout les diplomates napolitains ressentiront aussi la munificence de S. M. par la révocation du décret 11 janvier 1831, qui avait établi une retenue graduée sur tous les appointements excédant une certaine somme. Un des décrets les plus importons, publié le jour de naissance du duc de Calabre, est celui qui rappelle dans la patrie une partie des exilés pour délits politiques d'après une liste qui n'a pas été publiée. Le duc de Gualtieri m'a assuré, que les personnages les plus marquans des dernières révolutions, comme Pepe, de Conciliis, Capucci, Minichini etc., sont exclus de cette amnistie, et que celle-ci n'a été accordée qu'à ceux des exilés sur la conduite desquels pendant leur exil on avait obtenu des renseignemens favorables. Il faudra espérer que les amnistiés sauront mériter aussi ce bienfait par leur conduite future.

Les largesses et les grâces décrétées par le roi à l'occasion de la naissance du duc de Calabre, ont certainement beaucoup contribué à augmenter la joie générale qu'a causée cet heureux événement. Le roi étant venu le 18 au théâtre S. Charles, S. M. a été reçue avec un grand enthousiasme, qui s'est manifesté par les plus vifs applaudissemens. J'ai en général pu remarquer que depuis quelques mois l'esprit public s'améliore visiblement à Naples, et je sais qu'on fait la même observation dans toutes les provinces en-deçà du Phare.

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La grossesse de la reine et l'espoir d'une descendance directe du roi, qui a été si heureusement réalisé aujourd'hui, y entre sans aucun doute pour beaucoup; mais une autre cause essentielle de ce changement favorable se trouve dans l'essor que, depuis l'abolition des mesures sanitaires contre le cholèra, a pris le commerce d'exportation, et dans la hausse des prix des principaux produits du pays, comme les huiles et les vins, qui, quoique au fond ne touchant immédiatement que les intérêts des propriétaires, réagissent cependant sur toutes les autres classes de la nation. Cette amélioration de l'esprit public sera certainement encore fortifiée par la cessation décrétée aujourd'hui de la partie la plus onéreuse des retenues sur les pensions et sur les appointements. Il est peut-être doublement heureux que ce changement en bien se soit opéré, car divers indices font croire que les propagandistes préparent de nouveau quelques essais de troubles dans la Péninsule.1 Les bruits sur des mouvements révolutionnaires en Sardaigne, et ceux qu'on fait courir aujourd'hui sur des troubles qui auraient éclaté en Piémont, et qui sont probablement aussi faux que les premiers, puisque le bateau à vapeur arrivé de Gènes n'en a apporté aucune nouvelle authentique, n'ont certainement pas été répandus sans but coupable, et doivent peut-être être regardés comme des précurseurs d'une tentative de mouvement dans quelque partie de l'Italie. Le duc de Gualtieri m'a dit à cet égard, que d'après des rapports secrets qui lui sont arrivés, les propagandistes en France, dont au reste l'attention et les forces principales sont dirigées aujourd'hui de préférence sur l'Espagne, ne discontinuent pas de représenter, dans leurs correspondances avec les libéraux d'autres pays, le royaume de Naples comme se trouvant à la veille d'une révolution;

1 E singolare come questo sia l'oggetto che preoccupava più vivamente i politici dei potentati del Nord, cioè il malcontento dei cortigiani e degli uomini che arricchivano a spese dello Stato. Quanto enormi fossero quei soldi, noverai nel testo, e parlai del contento popolare per la loro diminuzione a profitto delle finanze minate dall'amministrazione di Francesco I. Da queste parole però si ha la certezza degli sforzi che facevano il vecchio partito e i potentati del Nord per trarre Ferdinando li sopra un'altra via, a fine di non perdere i vecchi amici e non porsi su quella delle riforme, per loro pericolosa.

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qu'ils annoncent que l'armée napolitaine est gagnée, et que les chefs révolutionnaires lient ici entr'eux les mécontens nombreux, et que des émissaires, qui n'attendent que le mot d'ordre, parcourent le pays dans tous les sens: qu’en un mot tout était prêt ici pour frapper un grand coup.

Le duc de Gualtieri a ajouté qu'heureusement rien n'était plus faut que le tableau de l'état des choses à Naples; que le Gouvernement non seulement pouvait compter avec confiance sur l'armée, mais qu'il avait encore la certitude qu'à l'heure qu'il est aucun chef ni aucune association révolutionnaire n'existent dans le royaume,1 et qu'il cherchait à empêcher autant que possible l'entrée des émissaires propagandistes, ou au moins à surveiller leurs menées. Le duc de Gualtieri croit avec raison, à ce qu'il me parait, que le tableau trompeur n'est destiné qu'à encourager les libéraux dans d'autres parties de l'Italie; mais il m'a assuré qu'il était pourtant devenu un motif pour les autorités de police du royaume de redoubler de vigilance.

DOCUMENTO CCVI.
Altra del medesimo, del 22 gennaio 1836, sulla fuga del Principe di Capua.

Il est à regretter que le roi, après la fuite de son frère, n'ait pas pris des mesures pour le faire arrêter soit à Capoue, soit aux frontières: cet acte d'une sévérité bien méritée, aurait prévenu les inconvéniens graves que dans la position fausse où le prince s'est placé, son séjour dans les pays étrangers entraînera certainement pour lui et pour la Cour de Naples; mais il parait que S. M., soit par amour fraternel, soit par crainte d'un acte de désespoir, que la violence du caractère du comte de Capoue rendait peut-être probable,

1 Le Calabrie e gli Abruzzi si commossero nell'estate di quest'anno, e la Sicilia l'anno seguente.

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a voulu épuiser jusqu'au bout les voies de la douceur.1 Le prince n'a donné jusqu'ici de ses nouvelles à aucun membre de la famille royale, et on ne sait que par des voyageurs qui ont rencontré le prince en route, qu'il a déjà passé la frontière des États romains. On n'a aucune idée sur la direction ultérieure que le prince donnera à sa fuite après qu'il aura passé la Toscane: on forme des suppositions à cet égard à la Cour de Naples; l'une, qu'il se rendrait à Madrid auprès de sa sœur la reine d'Espagne, à laquelle on suppose beaucoup d'indulgence pour les faiblesses provenantes de l'amour; l'autre, qu'il se rendrait en Suisse, où il trouvera peut-être plus de facilité qu'ailleurs de faire bénir son mariage avec miss Smith. Dans l'incertitude où l'on est de la route que le comte de Capoue a prise, il paraît qu'on se résigne ici pour le moment à laisser faire le prince. Il est vrai que depuis la naissance du duc de Calabre, l'importance qui s'attachait auparavant à son nom a diminué beaucoup, et je ne crois pas que la famille royale après l'esclandre que sa fuite a causée ici puisse désirer que le comte de Capoue revienne de sitôt à Naples. On sait que S. A. R. a pris à peu près 12000 ducats avec lui, somme suffisante pour pourvoir à ses besoins pendant plusieurs mois. La sœur aînée de miss Smith, qui ne parait pas avoir été dans le secret de la fuite, est toujours encore à Naples, ainsi que la famille de M. O'Connor qui a dirigé le voyage, et dont la conduite mérite d'autant plus de blâme, qu'il avait déjà passé plusieurs années à Naples, et avait toujours été reçu avec bonté par la famille royale.

La Cour reproche à M. Temple, ministre d'Angleterre, d'avoir, en invitant trop souvent le prince Charles et miss Smith à de petites réunions données seulement en leur faveur, favorisé une passion qui n'a jamais pu plaire à la Cour.

1 I particolari sulla fuga del principe di Capua sono importanti, e gli uomini di Stato se ne preoccupavano per le conseguenze politiche, temendo che quel principe non fosse per diventare un istrumento in mano degl'Inglesi.










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