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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

ITALIA E POPOLO GIORNALE POLITICO

Anno V— Genova— 1855

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ITALIA E POPOLO
GIORNALE POLITICO
Libertà Unità


Anno V
Genova— Venerdì 20 Luglio 1855
Num.199

Genova 19 Luglio

I MURATTISTI

Il colonnello Pisacane ci indirizzi una lettera sui piani dei muratisti Approviamo interamente quanto die 'esule egregio sull'assurdità e la ridicolezza dei maneggi di quei cospira lori di corte. La riprovazione generali dovrebbe, ci pare, far ricredere i noi tristi; quanto ai servitori di ogni dinastia, sempre pronti ad indossare tutti le livree, non troviamo che la berlina della pubblicità sia castigo soverchio.

Gentilissimo sig. Direttore,

La voce d’un illustre cittadino, la cui vita onora la nostra comune patria, avendo richiamato la vigilanza degl’Italiani sulle mene murattiane, credo cosa utile ragionare di esse, e porne sempre in maggiore evidenza l’assurdità; gli sarei, perciò, gratissimo se volesse concedere a questa mia un posto nelle pagini del suo pregevole giornale.

Primieramente, supponendo, che Mazzini mi annoveri fra gli scettici, che diffidano della potenza del popolo, mi è forza respingere cotesta taccia.

Gli ostacoli morali e materiali, che si oppongono all'unità ed al risorgimento italiano, sono tanti, e di tal falla, che io non veggo possibile, che un principe, un partito, o qualunque siasi forza che non sia l’intiera nazione, possa inalberare la sua bandiera. L'unità italiana, secondo me, non potrà mai essere l'effetto d'un nuovo patto, ma un fatto, che emergerà dall’abolizione d’ogni patto esistente, dall’assoluta libertà del comune e dello individuo. Gli stati presenti, i partiti, le pretese straniere, in un'epoca più o meno vicina, verranno sommersi dal fluito rivoluzionario, e rimarranno fatti storici e nulla più. Ogni altra modificazione, che per caso potesse avvenire, io la considero di ninna importanza, e quale cagione di ritardo, e non già di avviamento, al nostro risorgere.

I principi ed i partiti, che per loro natura, tentano d'angustiare in picciol giro, l'ampio cerchio dell'universale cittadinanza, in una simile impresa, o sarebbero, come per lo passalo, vinti da' nemici d'Italia, o travolti dalla rivoluzione.

Gli eserciti permanenti, io li riguardo come una macchina, studiosamente formala, ma privi affatto di vita, ed, in tale condizione, atti solo ad opprimere i cittadini, e non già a combattere guerre di libertà. Chi lanciasi alla corsa, bisogna, anzi tutto, che svincoli le membra da inutili ed importuni impacci, epperò gl'Italiani non debelleranno i loro nemici, avvinti, come sono, fra le pastoie domestiche. Il senno e l’utile d'un ministro, o d'un dittatore, eziandio onestissimo, non rappresenteranno mai, il senno e l’utile della nazione intera.

Mi dichiaro poi scettico, in tutta l’estensione della parola, nel credere alcuni poveri esuli (che si considerano ben fortunali di conservare, sotto sferza de' bisogni materiali, l'indipendenza delle proprie opinioni) arbitri delle sorti d'Italia; cotesta idea è puerile. Se ciò fosse gl'Italiani sarebbe vilissima gregge, che si lasciano con durre secondo il capriccio di pochi armentieri. Il 48 siamo stati vinti, quindi uomini e principii vanno cangiati. Il fatto storico immancabile, che, ad ogni nuova rivoluzione, sorgono nuovi uomini e nuove idee. In Italia gli uomini Nazione^ non ^ettan mai profonde radici, havvi troppa vita individuali per verificarsi ciò. Coloro che vorrebbero tutto un popolo, ubbidiente alla voce d'un capo, non comprendono k 5 rivoluzione, son vecchi servi mascherati col saio repubblicano. Inoltre, tengo opinione, che un individuo ha tanta probabilità di suscitare una rivoluzione, quanta ne avrebbe, un altro, che volesse sollevare una tempesta nell’Oceano affannandosi ad agitarne le acque delle sponde. Dopo queste breve professione di fede, facciamoci a ragionare dei murattiani.

Sembra impossibile come fra gl’ltaliani, assennati da tante miserie, da tante umiliazioni, che sono scaturite dalle invasioni straniere, si trovassero uomini, come che pochissimi, i quali, sotto gli auspicii del due dicembre, scegliessero a loro padrone il figlio di un soldato sublimalo, che per caso regnò sopra alcune provincie italiane, ed osassero baciar la mano agli assassini di Roma.

Ma come dai dolori e dalle miserie dei popoli, nascono le rivoluzioni con, le loro pleiadi di eroi, così le medesime cause agitando il fondo delle società ne sollevano alla superficie questi cotali, che di tutto fan mercato, sacrificando, all’utile loro, sinanche le sorti e l’onore della patria.

Quali sono gli argomenti di costoro? Cominciano con asserire, che la rivoluzione è impossibile, che nulla si può sperare dal popolo, e da tale asserzione, assurda quanto l’altra, il popolo è pronto, prendono le mosse. Profittiamo, dicono essi, de' mezzi che ci vengono offerti, e così tanti prigioni che marciscono ne' ferri saranno restituiti a libertà, tanti esuli ripatrieranno. Il partito nazionale, ora oppresso, acquisterà lena, potrà abbrivarsi, il paese sarà liberato dalla codarda ferocia del B.... ma coteste ragioni non sono che speciose.

Il cangiamento di dinastia è sempre dannoso al paese che lo subisce, e non avviene per conquista, esso non può essere che il risultato di un basso intrigo di pochi imbrogliatori, che usufruttano i favori del nuovo padron:o. Gli Stati napoletani, lo sanno per esperienza: ai magnanimi Svevi, successero i tiranni e dissoluti Angioini; a quegli infami Aragonesi, poi i B, che, avendo riguardo ai cangiati costumi furono peggiori dei loro predecessori. Mal si giudica, e non è guarentigia indi carattere di un individuo, per un'inera schiatta; ad ottimo padre può succedere pessimo figlio, e viceversa; anzi lo stesso principe può cangiare, se cangiano gli eventi. Chi avrebbe creduto, che i due Ferdinandi e Francesco, fossero stati i successori di Carlo III? Chi, osservando la prosperità e le riforme intraprese ne' primi anni del regno di Ferdinando I, avrebbe creduto agli orrori, all'efferata tirannide che poi spiegò quel principe indotto, ed indolente? Una donna intrusa nella famiglia, un favorito, un pregiudizio religioso facile ad apprendersi, ad uomini privi d’istruzione e di convincimenti, bastano per far uscire un principe dalla sua momentanea noncuranza, e distrugger tutte le concepite speranze.

Noi chiederemo guarentigie, dicono i murattiani. Ma che cosa valgano le guarentigie che voi chiedete, lo dice il quindici maggio, il due dicembre, la dolente storia della Spagna. Stretti da necessità non contende il nuovo padrone l’allargarsi della libertà, basta che la FOBZA di mutilarla sia nelle sue mani, esso non larderà a coglier cagione, e stringere le catene.

Nuovo sul trono, straniero al paese l’usurpatore si adopererà a tutt'uomo onde crearsi un partito su cui appoggiarsi, quindi nuova schiera di corruttori, ed avida plebe di corrotti. Il partito Nazionale, in luogo di respirare, come voi dite, sarà logorato; il popolo, che ora soffre ma freme, si abbandonerà all’aspettazione dei bugiardi benefizii, che gli promettono i suoi Giuda, Coloro i quali, vorranno consacrare i loro sforzi alla redenzione della nostra gran patria, e quindi voi stessi se non mentite, ritornerete, dopo breve tempo, all'esilio, alle galere. Dopo pochi anni tutto sarà rinnovato, il despota, i suoi satelliti, le sue vittime; non saranno cangiati che i nomi, molti da oppressi diverranno oppressori, ecco tutto. Non parlo de' nuovi balzelli, da cui verrà l’esercito del 1815, il nome di Murat non ha in esso alcun prestigio esso è l’esercito nato il 1850, e quando non sarà più di Ferdinando II, sarà del paese, non già di Murat. L’esercito ha discernimento abbastanza, per comprendere, che un nuvolo di favoriti e di stranieri verrebbero ad occupare i gradi i più eminenti, è diventato lo Stato un'appendice di Francia, sarebbe inviato ad esser distrutto dalla peste in lontane regioni, per soddisfare a' capricci d’un uomo. L’esercito che ora sente il peso della tirannide, di cui fecesi sostegno, comprende che: non è il maestro di cappella che bisogna cangiare, ma la musica. É questa una frase venuta da Napoli, in risposta ad un murattiano, che leggendola se la rammenterà.

Agii eserciti non convengono i cangiamenti di padroni, imperocché, egli è cosa ormai conosciuta, essi giovano solamente ad una fazione, a pochissimi capi, e nuocciono alla generalità. Inoltre, se ne’ passati rivolgimenti l'esercito disconobbe il proprio utile osteggiando la libertà, e staccossi cosi dal popolo con danno gravissimo della Nazione, ora non gli conviene imporre ai paese un nuovo padrone, il quale dovendo accordare qualche cosa ai partiti, l’esercito scapiterebbe d'influenza, ed acquisterebhesi, senza vantaggi, nuove odiosità. All'esercito conviene solo unirsi col popolo, e proclamare la libertà del paese, e con essa i proprii diritti. Farsi arbitro de' suoi destini, scegliendosi i capi, e premiando con pubblico suffragio, il merito universalmente conosciuto.

Or dunque possiamo conchiudere, che le speranze dei murattiani sono codarde, antinazionali, bugiarde, inattuabili.

Il Piemonte condannò Mazzini, perchè minacciava svelare i nomi de' murattiani. Io, comechè non divida l’opinione del detto giornale, considero i carnefici di coloro che soffrono per la nostra causa, come esseri indegni, di farne strumento onde vendicare il vilipeso onore della nazione. Nondimeno, declinare i nomi dei murattiani che sono in esilio non è delazione, né essi correrebbero rischio di sorte alcuna: da Napoli nulla temono; in Francia son protetti; in Piemonte havvi di diritto, libertà di opinione, oltreché il governo Sardo, come alleato di Francia, per ragion di stato, deve favorire il murattismo, avvegnacchè se avesse luogo la guerra con l’Austria, che molti ritengono come inevitabile, io come impossibile, sarebbe pei Stati Sardi cosa di sommo rilievo di avere un re nel napoletano devoto alle armi di Francia e non già nemico.

Finalmente, un mio conterraneo D. M. che mi ha preceduto in tale argomento dice: che potrebbe indicare i futuri Ministri e Legislatori di questo nuovo regno. Io invece conosco particolari, che mi danno facoltà, facendo fascio di questi colali, d’anatomizzarne le opinioni. Tutti protestano di non professare il murattismo come principio, ma come mezzo. Scorgendo ogni altra cosa impossibile prendo questo dicono alcuni. Altri: serviamocene co me leva onde dare il crollo alla tirannide che ci opprime, poi ci sarà facile cacciare il nuovo venuto. Perchè debbo esser condannato, dice un altro se una voragine attraversandomi il cammino, io divergo dalla linea retta, (cerco raggiungere lo scopo per altri via? Molti fra questi confessano chi il pretendente è uno stupido. In ultimo, vi sono eziandio alcuni, che di cono, di fingersi murattiani per carpir danaro, e promuovere la rivoluzione in altro senso. Eccovi svelato il brulichio di costoro, essi non hanno il coraggio di manifestare le loro opinioni: che cosa temono? perchè non si dichiarano? Si vergognano, e verrebbero nascondersi a loro stessi. Dunque il murattismo non esiste, non vi sono che murattiani occulti.

Nondimeno ira questi potrà esservi, per aberrazione, qualche onorevole cittadino; speriamo che non perseveri, o almeno esponga francamente ai paese le sue ragioni, ci confuti se può. Gli altri poi, vanno recisamente definiti: codardi ed infedeli servi d impotente padrone.

Genova, 19 luglio 1855.

Salute

CARLO PISACANE

Esule Napoletano.

UNA CURIOSA RISPOSTA DEL PIEMONTE

Crediamo che la nostra polemica col Piemonte sia chiusa. Infatti ci dice nel suo ultimo numero:

«L’Italia e Popolo risponde una seconda volta a quanto abbiamo scritto sulla lettera di Mazzini, e anche noi avremmo molto a ridirle; ma come si fa a discutere con chi vi dice sul serio che le indicazioni contenute in quella lettera erano indirizzate ai murattiani di Napoli per metterli in avvertenza contro la polizia, come se a Napoli le lettere di Mazzini potessero andare attorno pubblicamente come tra noi? — In verità questo è un altro tour de force più maraviglioso del primo.»

La risposta è bella e fatta: se non vi possono andare le lettere di Mazzini, vi potranno andare quelle dei Murattiani che stanno a Parigi, a Torino, a Genova (?) Dobbiamo supporre che questi, almeno per carità, non permetteranno che i loro amici restino vittima delle denuncio di Mazzini (!!)

Scrivono da Parigi alla Gazzetta d'Augusta in data del 12:

Il ministero sardo non è rimasto soddisfatto della risposta data dal governo francese al suo ambasciatore a Parigi e il marchese Pes di Villamarina ha ricevuto di bel nuovo ordine di far sì che il Moniteur ovvii in qualche modo al silenzio offensivo pel Piemonte. A tal uopo il suddetto ambasciatore ebbe ieri una lunga conferenza col ministro degli esteri in cui un convenuto che toglierebbesi occasione dalla morte del generale piemontese La Marmora per far menzione nel Moniteur dei servigi resi dal Piemonte al ripristino della pace del mondo e dell’equilibrio politico europeo, mercé la sua cooperazione alla guerra contro Ih Russia con la clausola che il Piemonte, atteso i sacrificii fatti, avrà diritto di prender parte alle future trattative di pace.


ITALIA E POPOLO
GIORNALE POLITICO
Libertà Unità


Anno V Genova— Mercoledì 25 Luglio 1855 Num. 204

Genova, 24 Luglio

IL DISCORSO DI L. PALMERSTON

La mozione Roebuck è terminata m Parlamento come poteva terminare un proposta qualunque, tendente a prove care un volo di biasimo sulla condotta del Ministero. Lord Palmerston ha anzi colto occasione a tessere un’ apologia di tutti gli errori commessi dal governo inglese nella guerra d’Oriente e un panegirico alla sua amministrazione, come la sola, che potesse averi coscienza della situazione e provvedere.

Il nobile lord avvezzo alle lotte par lamentar!, non ha risparmiato il ridi colo ai propri avversari e valendos del sentimento concorde a spingere alacremente una guerra, da cui il go verno britannico non si potrebbe pii ritrarre che coll’onta e col danno, ha accumulato tali paradossi, che basterebbe formularli in altrettante proposizioni per porre in evidenza lo scetticismo politico di quell’uomo di Stato, che si volle far credere un rivoluzionario, un tribuno.

Palmerston asserisce francamente che la guerra è stata intrapresa per difendere l’integrità della Turchia e la sua indipendenza. Intanto due delle più belle provincie dell’impero ottomano sono occupate, e quello che è ancora più grave, sono manomesse dall’Austria. Colla insidiosa neutralità essa ha prima tenuto a bada gli alleati, poi coll’attitudine assunta e la minaccia di collegarsi alla Russia, gli ha resi impotenti. L'integrità della Turchia è guarentita con un occupazione che non si sa quando avrà a finire. Questo da parte degli austriaci; quanto agli alleati si parla già di un’occupazione permanente nei Dardanelli e nel Bosforo. l’indipendenza della Turchia è stata assicurata come l’integrità. Nelle trattative di Vienna non si era fatta la proposta di sottrarre il governo turco al protettorato della Russia che per assoggettarlo a quello di tutte le potenze rappresentale alla conferenza.

Palmerston dichiara anche la guerra essere stata promossa per far argine ai dispotismo e alle invasioni russe. In nome forse della libertà? in nome delle nazioni? La libertà è stata conculcata da Napoleone, le nazioni furono minacciate per rendersi amica l’Austria, e quelle che presero l’armi per rivendicare l’indipendenza si ricacciarono immediatamente sotto la verga del dispotismo.

A quest'apologia della guerra d’Oriente tanto stupida quanto impudente il ministro ha posto il suggello facendo dalla tribuna il più largo elogio al Grande Uomo che oggi governa le sorti della Francia. L'elogio di Napoleone stava bene sulla boccia del ministro, che aveva battuto le mani al colpo di Staro e che poco tempo fa aveva portalo a cielo la lealtà e la moralità a del governo austriaco.

La colpa di una spedizione rovinosa e imprudente, la colpa di avere affamato i soldati, di averli fatti morire di stento, di sete, di freddo, di averli abbandonali alle intemperie di un clima micidiale senza riparo, senza tende, senza ospedali, senza medici, senza rimedii: la colpa di avere fatto uno sbarco in un sito inopportuno, d’avere ignorato le condizioni della guarnigione di Sebastopoli, lo stato delle sue fortificazioni, i punti che bisognava attaccare. le forze del nemico che era mestieri combattere; la colpa di aver ।

preteso ridurre una piazza fortissima con un colpo di mano, senza investirla, senza precluder la via a nuovi rinforzi, tutto questo è attribuito, indovinate a chi? Al partito della pace — come presso a poco in Italia si è attribuita la mancanza dei viveri, la penuria degli abiti, la scarsità delle munizioni al partito repubblicano nelle campagne di Lombardia.

Palmerston termina decantando lo stato magnifico delle truppe inglesi in Crimea ed esprimendo la fiducia anzi la certezza di un colpo decisivo dalla parte della Francia e dall’Inghilterra.

Sullo stato stupendo dell’esercito abbiamo già le relazioni del Times e i rapporti dell’ispettore generale degli ospedali: quanto al colpo decisivo abbiamo quello del 18, e se si rinnova avremo pur troppo un colpo decisivo davvero.

Il discorso di Palmerston non sì può compendiare. Eccolo intero:

La Camera mi perdonerà ch’io prenda la parola in ora sì tarda, ma non ne posso a meno per notare quanto, a mio giudizio, v’ha di strano nella mozione dell’onorevole sig. Roebuck; e ciò non per declinare la mia parte di responsabilità personale in quanto si è fatto, ma per far conoscere che i segretari di stato, di cui si è occupato maggiormente il comitato nella sua troppo voluminosa inchiesta (si ride), e furono il segretario di stato della guerra v e il primo lord dell’ammiragliato.

«Di fatto son essi i ministri che dovevano più direttamente occuparsi della guerra. Ebbene! il signor Roebuck ha pagato a ragione un giusto tributo di elogi a questi ministri. Quindi non so spiegarmi le critiche che lancia contro gli altri ministri, che non partecipavano tanto direttamente alle operazioni della guerra. (Risa ed applausi) ti Non posso nemmeno comprendere quanto si è detto rapporto a lord Derby, che cioè quando fu momentaneamente incaricato di formare un gabinetto, non si era volto ad altri ed a me che à pensiero di eliminarne dal ministero un dato tempo.

«Conosco e stimo troppo il carattere personale di lord Derby per supporre in lui tali intenzioni; io non lo credo (applausi), e respingo questo sospetto, come ho respinto la preferenza dell’onorevole sig. Roebuck.

«La mia intelligenza, lo confesso, non giunge a comprendere come si faccia pesare sull’attuale ministero gli atti dell’antico.

«Sarebbe per avventura sulla politica della guerra che volete invocare il giudizio della camera? In tal caso lasciate ch’io vi dica che è questione già decisa dalla pubblica opinione. (Sentite!)

«Ho io qui bisogno di ripetere le ragioni che impegnano il governo e i paese ad armarsi contro gli ambiziosi disegni della Russia?

«Devo ripetere le considerazioni chi trassero in errore il governo prussiano facendogli credere eh’ era venuta l’ora di avverare progetti accarezzati da lunga data?

«M’è d’uopo parlare dell’opinione concepita dalla Russia, che fossero in sorte tra Francia e Inghilterra difficoltà tali da impedire la cordiale loro unione, opinione smentita dalla nobile condotta del grand’uomo, che sta a capo dell’impero francese? (Applausi).

«Tacerò pure altre circostanze di questo paese che possono avere indotto in errore la Russia; ma non esito a proclamare altamente che fra le numerose circostanze che hanno potuto impegnare la Russia a tentar di realizzare i suoi progetti ambiziosi, il linguaggio e la condotta del partito della pace in Inghilterra deve aver contribuito ad accrescere le sue illusioni. Sì, una gran parte delle miserie della guerra pesa sul partito della pace. (Sensazione)

«Lo stesso partito pretende che non si doveva andare in Crimea. Ma, chiedo io, dove si doveva portar la guerra? Ci dovevamo contentare d’un lungo blocco dei porti della Russia, blocco che avrebbe fatto eterna la lotta? Dovevamo lanciare i nostri soldati nelle vaste steppe della Russia?

«Ah! certo la nostra armata avrebbe là riportato vittoria sopra vittoria ogni volta che la vittoria fosse stata possibile; ma queste vittorie non sarebbero riuscite a risultato decisivo (Sentite?). Gli è in Crimea che si poteva e si doveva tentare un colpo decisivo.

«La Crimea era il centro e l’anima della potenza e della dominazione russa era nel mar Nero. Questa potenza e questa dominazione costituivano il pericolo della Turchia, e gli è per mettere un termine al pericolo della Turchia che l'Inghilterra ha sguainato la spada. La bravura delle armale alleate le ha coperte d'onore immortale.

«Esse hanno sofferto molto in un rigido inverno, ma il loro eroismo fu al disopra dei rigori della stagione e spero che sia loro riservato di riportare una vittoria definitiva ad onore di esse e delle patrie rispettive. (Bravo!)

«Se l’onorevole membro desidera che la camera si pronunci formalmente sulla questione d’opportunità dell’attacco contro Sebastopoli, accetto la sua sfida sopra questo terreno, e riclamo a tutt'uomo la mia parte di responsabilità a questo riguardo, perchè, ho intima e ferma convinzione che abbiamo fatto bene ad andare in Crimea, e che nessun’altra spedizione poteva meglio assicurare lo scopo che ci eravamo proposti. (Sentite!)

«Che non si è detto della negligenza del duca di Newcastle rapporto all’organizzazione della milizia? Sarebbe stato necessario che mi mettessi in misura, come se avessimo dovuto temere un’invasione della Russia, mentre blocchiamo il Baltico, e siam padroni del Mar Nero.

«Si parla della mia negligenza! Ma si dimentica che d’aprile a settembre noi abbiamo organizzato militarmente 17 reggimenti di milizia; da ottobre a dicembre altri 35 reggimenti di più; di modo che abbiamo ora sotto le armi 50 reggimenti che danno una forza effettiva di 38 mila uomini. (Applausi)

«Aggiungo che dal principio della guerra in poi la milizia ha dato più di 18 mila uomini alla nostra armata regolare.

«Noi dobbiamo questi risultati importanti allo zelo e allo spirito degli officiali comandanti i reggimenti della milizia. Ma in fin dei conti noi abbiamo dato l'impulso. Domando ora perché ciascun dei ministri che il signor Roebuck voleva includere nella sua censura non fu sentito davanti al Comitato. (Sentite!)

«Non fummo sentili, e fu così disconosciuto per noi il sacro principio della difesa. Fummo accusati, condannati pure, senz’essere sentiti.

«L’onorevole Roebuck fa la sua mozione in luglio, e per giustificare il biasimo che provoca, bisogna riportarsi a o fatti arretrati del novembre e dicembre. (Sentile!) Rammenta lo stato deplorabile dell'armata or sono più mesi, dietro circostanze indipendenti dalla volontà umana, ma non aggiunge che quest'armala è ora in uno stato magnifico. (Sentite!)

«L’armata, in quanto a sanità e disciplina, è un modello da citare, non un esempio da deplorare (applausi). Questo modo di procedere non è né giusto, né leale.

«Se criticate il male, lodate il bene almeno in qualche parte (applausi), e non venite a parlare sdegnosamente della negligenza del ministero, perchè i ministri, sempre ai loro posti, sempre pronti a consultarsi tra loro, non si allontanano un momento da Londra per ritornarvi, e lungi dal mostrarsi negligenti nell'esercizio delle loro funzioni, ne erano, come dovevano esserlo, gli schiavi più sommessi (bene).

«Non voglio abusar oltre dei momenti della camera. Dico solo, che noi adottiamo la questione pregiudiciale proposta dal bravo generale Peel, perché crediamo con lui che le informazioni raccolte dal comitato furono incomplete, e che non è sopra bili basi che il signor Roebuck doveva cercar di fondare una mozione sì grave. D'altronde questa mozione non è in armonia coll'opinione del paese. Essa non vi troverebbe alcun eco.

«Siamo impegnati in una guerra grande e importante. Questa guerra richiede l’unione degli spiriti, e la risoluzione del paese a proseguirla. L'opinione pubblica ha parlato, il paese ha deciso. Il paese s'occupa della guerra, e non delle rivalità di partito di questa Camera; poco gli importa il partito che regge il governo, purché i ministri proseguano la guerra con vigore, come esso l'intende, com' esso lo vuole.

«Non credo che il paese sia soddisfatto di vedere la Camera perdere il suo tempo a discutere mozioni di censura, senza altro scopo che la ricomposizione del gabinetto. La sua volontà è che il governo disponga di tutte le risorse nazionali, e spinga vigorosamente la guerra, questa guerra dalla quale ora non può uscirsi che colla vittoria! Questa vittoria non l’otterremo che coll'unione dei partiti qui ed altrove.

«Per me son pronto a lasciare il posto che occupo, se si possono trovare altri uomini che abbiano maggior titolo alla fiducia nazionale, e sieno più capaci a dirigere i pubblici affari. Ma finché non si giunga a ciò (e finora non mi si è mostrato come vi si possa giungere) (si ride), noi conserveremo fedelmente le funzioni che ci hanno fedelmente affidate gli ordini della Corona, la fiducia della Camera e la voce del paese.

«Non ostante leggere interruzioni cagionate da mozioni come quelle dì questa sera, continueremo a secondare la decisione più matura, più coscienziosa, e più fortemente sentita che abbia mai animato un popolo grande e potente, e noi ci proponiamo di spingerla con vigore e farla progredire con tutta l’energia possibile, e di coronare col successo una guerra, che ragioni maggiori di necessità e di giustizia ci hanno astretto ad intraprendere».

Scrivono alla Gazzetta di Milano:

Le lettere,pervenuteci dalla Crimea, ci fan sapere che fra i morti nella zuffa del 18, da noverarsi il figlio del signor Roger, orleanista notissimo, antico deputato ed amico intimo de! sig. Thiers.

Passiamo alla parte aneddotica; Oggi, in fatto di aneddoti, ho da contarvene uno assai curioso, il quale valse la proibizione del Morning Advertiser agli ufficii postali, ma che sperar voglio non rechi questo danno al vostro, giacché i falli son fatti, ed io non mi permetto commenti.

Il generale Castellan, comandante della guarnigione di Lione, ricovrite giorni fa un dispaccio telegrafico in cui gli veniva annunciata la morte del suo generale Meyran, avvenuta in Crimea, pei fatti del 18, come già vi è noto. Sia che il dispaccio fosse malscritto, sia che il generale Castellan, di corta viste. leggesse male, invece del nome di Meyran, egli vide il nome di Napoleone. Non so dirvi quale rivoluzione accadesse in lui. Bensì so dirvi che pochi minuti dopo, un proclama concepito nei termini più caldamente legittimisti, veniva recato alla Gazzetta di Lione. Brevi momenti erano scorsi e l'ottimo generale veniva tolto d’errore dal prefetto. Come togliere il documento compromettente dalle mani dei gazzettieri, razza nemica dei segreti e del riguardo. Il mezzo più pronto fu per esso il migliore.

Un forte distaccamento militare andò al passo di carica a circondare il tipografico stabilimento che racchiudeva nel suo seno più mali di quello che un dì non racchiudesse il famoso vaso di Pandora. Il documento fu esso ricuperato? Il Morning Advertiser non lo dice, e non posso dirvelo neppur io. Anzi, io spingo più oltre i miei dubbi, e voglio credete che il racconto stesso di queste fatto, vero in quanto al fondo, giacché parecchie lettere qui giunte da Lione ne fanno menzione dettagliatissima, sia alterato e pecchi di esagerazione nei suoi particolari.


ITALIA E POPOLO
GIORNALE POLITICO
Libertà Unità

Anno V Genova— Mercoledì 12 Settembre 1855 Num. 253

Genova, 11 Settembre

LA RUSSIA

Dopo la caduta di Sebastopoli tutt si chiedono: la guerra è finita? Li Russia sarà costretta a trattare di pace e accettarla, come si può avere dopo una sconfitta? Oppure potrà continuare la guerra, farla generale? Avrà le forze e il denaro necessario per sostenere una lotta così lunga e colossale? Il popolo seconderà l'ostinazione del governo? Darà l’ultimo soldo e l'ultimo uomo per estendere il dominio della santa Russia e disperdere i nemici della fede ortodossa?

Crediamo che a tutte queste dimande non si possa dare altra risposta, che facendo un'esposizione delle condizioni interne di quel paese. Pubblichiamo in questo intendimento alcune lettere, che ci invia di Costantinopoli un nostro amico, che ha vissuto per molti anni in Russia ed ha potuto studiare quel paese nel suo organismo interno e nelle sue attinenze all'estero.

Costantinopoli, 30 agosto 1853.

Non v’aspettate da me notizie del teatro della guerra o di qui. Sul primo argomento potrei dirvi soltanto cose già ripetute con poche variazioni nei giornali, in quanto alla politica della Porta e alle eventualità del suo avvenire, non potrei trasmettervi che frivole particolarità d’oscuri raggiri del serraglio e delle ambascerie, e indicazioni generali, vaghe ed esposte ad essere contradette all'indomani.

L’impero ottomano se ne va: quest’è il criterio che ognuno si fa della situazione delle cose.

Se la mezzaluna sia per disparire dal cielo politico per lento tramonto o per subitaneo cataclismo, difficile è il predirlo. La sola cosa certa è che l'ammalalo, il quale eccitava le interessate cure di Nicolò, morrà a giorni nostri.

La razza turca conquistatrice, scemata di numero, infiacchita e degenerata anche fisicamente, senza il fervor religioso e il vigor giovanile, che le avevano dato vittoria e dominio sui Greci, gli Armeni, gli Albanesi, gli Arabi, i Rumeni, gli Slavi, i Curdi, i Maroniti, i Drusi, gli Ebrei e tante altre popolazioni sparse sul vasto territorio che era venuto a occupare — un partito delle riforme, stretto a pochi individui, superficiale e senza radice nel paese — un partito delle vecchie credenze che s’appoggia sul fanatismo, ma che non ha organizzazione, né idee, né scopo d’avvenire, impotente a

tutto fuorché a osteggiare il governo — una tacita confessione d'inferiorità in faccia all'Europa — terrore ed odi per la Russia, diffidenza verso l'Occidente — una guerra disastrosa da sostenersi con popoli indocili o mal di sposti, con finanze esauste, con um amministrazione stupida, confusa e ra pace, con un nemico terribile e con a miei sospetti — un Sultano pressoché eviralo di corpo e di mente, e ministri che salgono e scendono a secondi della volontà dell'harem o delle cancellerie — nulla fiducia della nazioni imperante nelle proprie forze, e previsione quasi convertita in credenza popolare, che le tribù turche dovranno ben tosto ripiegar le loro tende e abbandonare l’Europa.

Ecco il concetto, e non ben chiaro anche questo, che delle cose turche voi potreste formarvi da lunghe e noiose corrispondenze. 0 una provvisoria prolungazione di artificiale e mutilala esistenza, se la crisi attuale riesce ad un diplomatico scioglimento; o lo sfascio totale dell’impero dei Solimani; colla restituzione della stirpe ellenica, sul Bosforo e delle nazionalità rumena ।

e slava sul Danubio, se i popoli d’Europa entrano nell'arena; tale è l’altcrnativa in cui si trova questa bella e vasta; contrada.

Ma giacché voi insistete perchè di I tempo in tempo vi dia segno di vita, penso che vi riescirà più gradito avere | alcune nozioni sulla Russia, questo gigante (il quale), come mostruoso ragno dal centro della sua tela, stende le proprie branche sull'Europa e sull’Asia. Non vogliate però immaginarvi ch’io sia per isvelarvi cose nuove e importanti sui misteri del palazzo degli autocrati russi, o sui Comuni Agricoli o sulla storia di quel grande impero. Non potrei farlo, e lo potessi anche, non farei che darvi qualche brano incompleto di quanto competentemente fu già trattato dallo spiritoso viaggiatore gentiluomo Gustine, dal coscienzioso statista Haxtausen e dai gravi storici Hermann e Schlosser.

Quanto vi posso dar io, mano mano che l'occasione si presenterà, sono alcune nozioni o piuttosto particolarità intorno alla Russia, che raccoglierò dalle reminiscenze dei viaggi e dalle corrispondenze, che la cura de' miei interessi m’obbliga a mantenere con quel paese.

Ho appunto ricevuto, per mezzo di un capitano che ha caricato grano a Braila una lettera d'Odessa. Non potete figurarvi le difficoltà che impacciano le relazioni coll'interno della Russia. Una lettera confidenziale d'Odessa che porti una data di 50 giorni non è considerata come vecchia, tanto son rare le occasioni e tanti i giri i rigiri che deve fare per giunger sicura. La mia è del 12 agosto ed è venuta ripidamente fino ad Ismaìl nel furgone d'un colonnello e da Ismaìl a Braila entro la sella d'uno scozzone zingaro, e Braila con una furiosa tramontana celeremente fin qui. Io ve la dò, spoglia delle particolarità che interessano me solo o che possono tradirne la sorgenti.

Permettetemi un’avvertenza preliminare. La lingua russa, avendo un alfabeto differente da quello adottato in Europa, ogni nazione ha cercato di figurare sulla carta, secondo le regole della propria lingua, le parole russe, come sono pronunciate dai nazionali.

Ne viene quindi una multiforme varietà nel modo di scrivere in caratteri latini le parole russe, e mi accade se venie di leggere in una medesima or il nome d’una città o d’un general russo, diversamente scritto dai fogli inglesi, francesi e tedeschi, che lo presentano al lettore nelle diverse svariate combinazioni di caratteri, che ciascun di quelle lingue esige per pronunciarli.

In quanto ai pochissimi giornali italiani che m’ è occorso di leggere, m sembra che non abbiano regola propria, ma che trascrivano indifferente mente i nomi russi dagli altri periodici esteri. Procurerò dunque di dar in italiano ai nomi russi quella convenzionale veste di lettere, che possibilmente corrisponda al suono in cui que nomi vengono espressi dalla parola del russo: dico possibilmente, perchè il russo ha tali aspirazioni gutturali tali inflessioni di vocali e tali combinazioni di consonanti, che non si possono spiegare colle regole della nostra pronunzia, né tradurre nel nostro alfabeto, anche togliendo a prestanza il forastiero K. Per norma vostra, indicherò con un accento la vocale, su cui la voce deve fermarsi più che sulle altre.

Ecco la lettera:

Odessa, 12 agosto (31 luglio).

Le cose nostre vanno a precipizio. I crediti vistosi che avevamo sulle case russo-triestine L...ch e R...ch; sulla ditta spagnuola B....r, e sulla greca M....to, sono perduti, o la loro liquidazione e realizzazione, se pur è possibile, tramandata ad un incerto e lontano avvenire. La spedizione degli alleati nel mar d'Azoff ha ruinato quelle case, o ha servilo di pretesto a simulare la loro ruina. Quella spedizione è stata eseguita in modo si stupido e barbaro che, a udirne quel che ne dicono le gazzette russe e le persone venule di laggiù, sembra legger la storia delle invasioni vandale o tedesche in Italia. 1 sedicenti propugnatori della civiltà han fatto a Kerc (1), a Berdiànska e a Taganròg cose da far invidia al mongolo Batù Kan in Russia, a Genserico e al contestabile di Borbone in Roma.

Se eccettuate da quella spedizione l’occupazione di Jenì Kalé, il taglio della strada d'Arabat e la distruzione dei magazzeni, gli alleati han recato ben poco danno alle forze vive del nemico, bensì un immenso al commercio estero ed agli inoffensivi abitanti. Non voglio perder tempo a raccontarvi le rapine e le crudeltà commesse a Kerc e altrove; se mai arrivo a Costantinopoli vi narrerò la brutta storia che fa torto al nome europeo. Mi restringo a ciò che risguarda gli affari nostri. Sapete che, chiusa la via d’Odessa a Sevastopoli, ed essendo malagevole e lunga quella di Perekop, il governo russo radunò ingenti depositi di grani sul mar d'Azoff, che dai porti d'Azoff, di Taganrog e dell’isola di Tamàn penetravano in Crimea per Kerc, Jenì Kalé e Caffa. Il commercio seguì quella via, e le case colle quali noi siamo disgraziatamente legati, avevano fatto considerevoli inedie di cereali a Novo-Cerkask e in tutta la fertile pianura coltivata dai cosacchi del Don, e li avevano distribuiti lungo il mar d’Azoff, e particolarmente a Taganrog e a Berdìanska, vendendoli all'Intendenza dell'esercito a misura dei bisogni.

Gli alleati ne trassero pochissimo profitto, perfino a Kerc dove rimasero per molti giorni, ma incendiarono o guastarono quantità enormi di questi depositi di farine e di grani, appartenenti sia al governo, sia al commercio. Gli è da una tale promiscuità di proprietà distrutte che, a torto o a ragione, molti negozianti ripetono la loro ruina, e noi ci troviamo compromessi. Buona parte dei contralti fra i privati e il governo trovandosi in corso d’esecuzione, o non ancora ratificati, voi potete immaginarvi la latitudine che rimase agli impiegali e l’illimitato uso che ne fecero nell’interesse del governo, e più spesso nel proprio. Voi dovete conoscere meglio di me la proverbiale venalità dell'amministrazione. russa, dai più alti gradi fino all’ultimo scrivano. Se la venalità è una piaga di tutti i governi, essa è lo stato normale in Russia, ed è sì profondamente entrata nelle abitudini e nella moralità dell'universale, che le onorevoli eccezioni che s' incontrano, come Richelieu e Worootsoff in Odessa, e Kaznacejeff in Crimea, eccitano nelle masse meraviglia piuttostochè gratitudine, e provocano l'ostilità di tutta la burocrazia collegata. (Continua).

Scrivono da Napoli al Diritto in data del 20 agosto:

È stata giudicata dalli gran corte criminale la causa del negoziante de Lorenzo, clic venne soggettato a cento orribili colpi di bastone. È stato dichiaralo che il de Lorenzo non aveva punto resistito alla forza pubblica, ma aveva solo risposto con parole vivaci ad un basso agente di polizia. Conseguentemente dovea essere invialo al regio giudice per esser giudicato correzionalmente. — Un capitano delle guide, certo de Liguoro, godeva la confidenza dei re, ed era addetto anche ad ammettere i supplicanti all’udienza del re. Ora è stata invinto a servire il reggimento. Una delle sue colpe è stata la venalità scandalosa in questo incarico delle udienze, mentre già era famoso per le espilazioni commesse a danno del corpo. Era stato protetto e tollerato, come anche gli altri dì sua casa, perchè discendente di S. Alfonso de Liguoro.

Vari intendenti sono stati chiamati nella capitale per ricevere istruzioni col vivo della voce per l'esempio della diffusione della famosa circolare, che ha mostrato il pericolo di certe disposizioni per iscritto. Del rimanente è noto che un valente funzionario dee sapere interpetrare il suo tempo e i fini del governo, e così legittimare quanto su questa via gli sanno ispirare il proprio ingegno e il proprio cuoce. L’intendente di Capitanata, a mo’ d'esempio, ha bene interpretato, che bisogna tenere dalla parte del governo e contro i proprietari e borghesi la gente del popolo più oziosa e disperata. A Foggia vi sono i casi detti terrazzani, orde di famelici senza tetto, nomadi per le campagne, costoro vanno devastando i terreni, rubando ricolte, tagliando gli alberi che pure ivi sono così rari e preziosi, e mettono a contribuzione i proprietari, spalleggiati apertamente da' funzionari, i quali alle doglianze che si fanno rispondono con una sirena nelle spalle, e mostrando di commiserare la infelicità di quei predoni. Ecco il comunismo messo in pratica al servigio del più osceno e demagogico dispotismo! — La polizia va spargendo che l'ambasciata inglese ha speso una ingente somma per avere la famosa circolare. Così viene a confessare la turpitudine de' propri funzionari che si lasciano corrompere dall’oro. È perciò che dimostra gran risentimento contro gli inglesi.

Giovedì, 16 corrente, entrò in Napoli, proveniente da Castellamare, il principe Massimiliano d’Austria. La polizia ordinò, in tutte le strade che dovea percorrere fino alla reggia, di spandere arazzi sui balconi, a' suoi fidi per gridare sulla strada: viva il re nostro padrone, ccc. Cosi si burlano in questo paese i principi ed i diplomatici!! — il ricco proprietario Barracca, calabrese, stando nelle sere passate al teatro S. Cario, discorreva con amici nel suo palco che non è molto discosto da quello del direttore di polizia. Questi manda a dimandare chi erano le persone che col Barracca parlavano, e cosa dicevano. L’ispettore reduce, non sappiamo che riferisse, per cui il direttore levatosi, ad alta voce minacciò il Barracca di toglierli i suoi immensi beni, e farlo morire nel carcere.

Esco di casa, e mi si racconta che la famiglia Pacelli, ricchi e conosciuti proprietari, due sere or sono, passeggiavano lungo la strada Forio. Alle sue figlie nubili venne desiderio di non so qual mangiare, per procurarsi il quale spiccarono il loro servo, e l’attendevano fermati. Una pattuglia di polizia li sorprese, e dimandatogli cosa facessero lì fermi, gli fu detta la vera cagione, al che l'ispettore Cuticchio ordinò che si fossero condotte al commissariato. Quivi dopo lungo dibattersi, perchè quei signori volevano che almeno le figlie si ritirassero, gli venne concesso a due ore dopo mezzanotte poter spiccare un poliziotto con righello al segretario generale della polizia Silvestri, il quale diede ordine di farli ritirare.

QUESTIONE ITALIANA

L’Economist contiene un articolo, che viene da qualche parte attribuito al signor Gladstone: ne togliamo il seguente frammento:

Il rapido e segnalato successo del primo scoppio milanese, nel quale in cinque giornate ogni austriaco fu scacciato dalla Lombardia, o rinchiuso in poche cittadelle e fortezze, dimostrò grande energia dove era meno sospettata, mentre le valorose difese di Roma e Venezia e più ancora il mirabile governo di quelle città durante il regime repubblicano, diedero evidenti prove; di talenti bellicosi ed organizzatori, assai rari in qualunque paese, ma in quei casi i affatto inattesi. Tutti ora convengono che non vi fu mai colà più perfetto governo; spontaneo, meno delitti e minori disordini in uno stato, come in Venezia durante la dittatura di Manin, in Roma sotto il triumvirato, di cui era capo Mazzini.

Sulla questione italiana il Daily News dice:

Fra le notizie che pervengono ora ogni giorno dall’Italia, ve ne sono alcune che sembrano rendere necessario di ravvivare! queste ricordanze nella mente degli italiani. Pare che nelle Due Sicilie si ponga speranza in malintelligenze allegate fra i governi di Francia e di Napoli, e nelle provocazioni fatte da quest’ultimo verso l’ambasciata inglese. La manifesta ansietà degli austriaci in Lombardia è attribuita all'agitazione popolare suscitala dalle voci!()che corrono intorno alla situazione degli affari di Napoli. In breve vi è molto dal temere che gli italiani si lascino di nuovo precipitare in un'azione prematura per affetto d’illusioni sull’intervento estero.

Ora è d’uopo riflettano seriamente e si convincano della verità che la loro indi।

pendenza ed emancipazione deve principalmente e sopra ogni altra cosa ottenersi ì coi loro propri sforzi.

Certo vi sono sintomi nello stato presente della politica italiana ed europea i quali garantiscono con molto fondamento che il tempo è vicino in cui gli italiani potranno fare un colpo efficace per ricuperare! la loro libertà, purché sappiano combinare la risolutezza colla prudenza. La difesa sostenuta da Venezia contro gli austriaci e da Roma contro i francesi durante l’ultima rivoluzione, come anche la condotta delle truppe piemontesi nella campagna di Lombardia, ed ora in Crimea, hanno di mostrato che agli italiani non fa difetto quel valore prudente che è indispensabile per sostenere la libertà degli uomini e dei cittadini. La condotta degli improvvisati governi repubblicani di Roma e Venezia e del governo siciliano durante l’ultima rivoluzione prova chiaramente che gli italiani sono abbastanza savii e virtuosi per esercitare un governo spontaneo.


ITALIA E POPOLO
GIORNALE POLITICO
Libertà Unità


Anno V Genova— Giovedi 13 Settembre 1855 Num. 254

Genova, 12 Settembre

UNA NUOVA SOLUZIONE NELLA QUESTIONE ITALIANA

Il diplomatico che, all'epoca delle conferenze di Vienna, diceva: la parole est aux èvènements, direbbe oggi: la paròle est aux aventures.

Dopo che l’Austria, col suo dubbio contegno, ebbe fatto svanire l’ufficiale soluzione dei quattro punti delle conferenze, non è passala settimana senza che i giornali, o i partiti o gli ufficiosi imbroglioni ne abbiano presentalo una nuova. Malgrado l'inutile campagna fatta col suo libro contro Napoli, Gladstone ne ha pubblicato un secondo per proporre in odio a Roma, una soluzione protestante al Piemonte: Palmerston opinò per un migliore indirizzo da darsi ai governi borbonico e papale, in concorso dell’Austria e del 2 dicembre: il partito dei nobili lombardi in Piemonte mise sul tappeto l'Unione Italiana col mezzo delle strade ferrate, e per fin la compera della Lombardia a peso doro: il Times alzò lo stendardo dell’insurrezione contro il papa e Ferdinando: il Sacco Nero parlò di porre ad alcuni re d’Italia due dita in gola, per dar gusto e profitto ad un altro re: les enfànts terribles della nostra dinastia scioglievano la quistione italiana col dare i ducati al Piemonte e il resto a chi lo prende, anche al demonio.

Le nostre opinioni son note Profondamente convinti che non appartiene né a conferenze, né a guerre governative, né a Napoleone né a Palmerston, dare soddisfazione all'Europa; che l’Italia non può esser salvata che dalla nazione, noi abbiamo combattuto ad una ad una quelle pretese soluzioni e le combattiamo tutte, come illusorie, immorali, assurde e supremamente antinazionali.

Ma ecco venula or ora da Parigi ima nuova soluzione, che si dice soluzione suprema, unica per l’Italia e che alza bandiera di libertà e d’unione italiana. Benché la parola unione sia una bandiera che può coprire mercanzia di contrabbando, e che a noi unitarii sembra sospetta, pure l'affermazione d’essere la soluzione unica, e la promessa di libertà che ci porta, ci trattengono dal farne un fascio colle altre.

E chi ce la dà questa miracolosa soluzione? chi è che dice all’Italia: Io tono la strada, la salute e la vita?

È Luciano Murai, figlio di Gioacchino, re di Napoli per la grazia di Napoleone I.

Dov’è questo Salvatore? Che ha fatto per l’Italia? Che vuol fare per essa? Dov’è? È a Parigi e vi era quando il suo virtuoso cugino, L. Napoleone; ristaurava il papa in Roma: era nei consigli dove fu giurata morte alla libertà di Francia, dove fu preparata, l’orribile tragedia del 2 ottobre; è a Parigi e siede, principe francese e napoleonide, sui gradini del trono, che sotto i tappeti nasconde appena il sangue onde contaminato.

Che ha fatto e che farà? Noi non iscruteremo la sua vita privata: lasceremo questa cura a chi lo incensa oggi principe pretendente, e lo insulterà domani se sventurato e fuggitivo. Suo।

padre lo seppe al Pizzo di Calabria. Non faremo questo, ma chiederemo: ha forse abbandonato gli agi della sua nuova patria americana per associarsi ai quindici prodi che scendevano coi Bandiera a Cosenza? è forse venuto nel 1848 in Sicilia a redimerla dal suo carnefice? ha versato il suo sangue a Curtatone, allo Stelvio o sulle barricate di Brescia a fianco dei Lombardi e dei Toscani? era forse a Bologna a trascinar coll esempio e col ।

prestigio del suo nome l'esercito napoletano sui campi lombardo-veneti? o era a Napoli, combattendo il 15 maggio nella via Toledo? Era a San Pancrazio fra i Trasteverini e la legione Garibaldi a difender Roma dal nuovo contestabile di Borbone, Oudinot, o a Velletri sotto la bandiera Italiana contro i gigli borbonici? 0 forse a Venezia, a gittar l’ultimo grido della guerra Italiana, sul ponte della Laguna con i Cosenz, a Malghera ed a Mestre con Poerio e con Rossarol, degno erede di un nome ben nolo a Gioacchino? Ha forse confortato d'aiuti o di consigli i generosi conati che fa da sette anni l’Italia?

No. Egli era a Parigi e si vantava francese quando suo cugino esercitava, collo sterminio della Repubblica romana, la mano dei soldati francesi a trucidare la repubblica in Francia. Egli era a Torino e ministro francese imponeva al Piemonte la politica retrograda d’un dominatore francese. Egli non ebbe né una parola d'affetto né un compianto pei martiri delle barricale e dei pali boli, e s’aggirava nelle sale imperiali e sedeva ai festosi conviti, col collo e col petto fregiati di stelle e di croci, mentre il collo del patriota italiano era stretto dal capestro borbonico, o il petto trafitto dalle palle austriache.

Né Italiano per elezione — né credente — né martire della causa italiana, egli, da vero principe si porta erede dei meriti di suo padre. Gioacchino Murat! splendido nome, in verità, per valor militare. Ma s’eredita il valore, come un nome ed un podere?

E il principe Luciano avrebb’egli su, focoso cavallo la mano maestra, il marziale aspetto e lo slancio affascinante ch'aveva lo strenuo padre suo, quando i guidava due volte la ruina di dodicimila cavalli a traverso l’esercito russo sui campi d’Eylau, e rinfrancava la pericolante fortuna di Napoleone? Noi non siamo avari di lodi a Murat: ma la quistione che pone innanzi il tiglio suo non è questa. Egli si propone quale erede dei sentimenti italiani di suo padre e qual continuatore della sua politica d’emancipazione e di unione italiana; e su queste basi l’Italia lo respinge. Murat non fu re di scelta italiana: straniero, fu imposto a Napoli dalle armi straniere, e perchè imposto, fu avversato da una parte del regno, i sentimenti italiani di Gioacchino? Intendiamoci, principe, sulle date. Se voi accennate alle parole del manifesto del 1815, noi vi richiameremo agli atti della sua quinquenne signoria. Ha egli fatto la minima concessione liberale, s’é egli associato al vasto lavoro d’emancipazione esteso a tutta Italia dai patrioti napoletani?

Chiedetelo alte memorie di Colletta e di Pepe e vedrete che egli perseguitò a oltranza per città, per monti e per boschi, i generosi italiani che stavan raccogliendo le aspirazioni e le speranze della patria intorno al fuoco del carbonaio. Disseppellite le ossa di quei nobili cospiratori che, in faccia alla sterminata potenza di Napoleone, osarono pensare e operare per la libertà del paese; quelle ossa vi diranno per qual mano furon poste sotterra!

Voi invocate il nome del padre vostro, qual vessillo d’indipendenza? Quando? Allorché s’avanzava nel 1815 verso il Po contro l’Austria, o quando, alleato dell'Austria nel 1814, combatteva a fianco degli austriaci contro un esercito d’italiani? Era forse per l’indipendenza d’Italia ch’egli aveva abbandonato Napoleone, suo benefattore e che s’era fatto campione dell'Austria?'

No — fu perchè la fortuna abbandonava Napoleone e per mendicare dall'Inghilterra e dall'Austria la conservazione del suo trono. Fra i titoli d’eredità paterna che vantate, vi sarebbe forse anche l'ingratitudine, e intendereste forse susurrarci sommessamente all'orecchio che, l'occasione venuta, voi tradireste il vostro protettore cugino, come il glorioso padre vostro tradì già il suo benefattore e cognato? E, diteci in cortesia, se ci condurrete contro Luigi Napoleone, farete anche di noi tanti alleali dell'Austria?

Dovrebbe in verità l'Italia essere altera d un pretendente, che dice: «Su, Italiani, fatemi dei vostri cadaveri gradini al trono presso al quale sono nato; ho vissuto finora tra gli agi e i piaceri; non ho vinto battaglie né mosso un dito per l'Italia. Ma mi chiamo Murai: sono — non italiano — ma principe francese e nondimeno io sono l’ancora di salute, la necessità d’Italia. Levatevi tutti, affrontate battaglie e supplizii, cacciate, atterrate troni; poi rimettetevi a riedificarne un nuovo e fate loco ond’io possa salirvi.»,

Il vero principe, la degnazione vostra è mirabile, e l’onor che fate a 25 milioni d’Italiani è ben grande. Ma, badate! il nostro popolo è ignorante e malcreato; non apprezza i meriti vostri e potrebbe accogliervi in modo villano. Rimanete, finché Francia il sopporta, principe francese, e ricordatevi del consiglio di Béranger a un principi del conio vostro: Prince. faites-moi des sabots!

E pure il riso ironico non ci va!

Noi siamo sinceramente democratici, e come tali vogliamo che a tutti rimanga aperta la strada al bene. Udite, principe Luciano Murat! Vi illudete; fondando speranze sulle disposizioni degli Italiani per voi. L'Italia ha da Roma e dal medioevo tradizioni tutte repubblicane; la monarchia è venuta d’oltre mare e d’oltramonti, e l’ha subita per forza. Tutte le sue glorie le deve alla repubblica! la monarchia non ha avuto mano nessuna delle grandi opere, che illustrano il nome italiano.

Se voi mirate al solo trono di Napoli, divenite, come gli altri principi, un ostacolo all'unità senza la quale l’Italia non può esser nazione. Se la vostra ambizione è più vasta e agognate all'impero di tutta la penisola, o vi bisognerebbe avere gli eserciti e il genio del magno vostro zio onde vincere l’Austria e i sette governi italiani. E se, ridotta la vostra potenza al solo nome che portate e al nome di quell’italiano che, per tessersi fatto servitor vostro, ha perduto ogni simpatia, voi a invitate la nazione a insorgere, come potete logicamente pretendere che un popolo dopo aver fatto sforzi sovrumani per liberarsi da’ suoi principi, voglia poi riporsi nelle mani d’un altro?

Pensereste forse a ritentare l’ardita prova, che costò la vita al padre vostro, sbarcando con qualche drappello d'amici, sulle terre di Napoli? E credereste con sì piccole forze aver buona ragione dell'esercito napoletano? Sono stati in questi ultimi tempi stranamente calunniati i sentimenti e il valor militare di quell'esercito.

Voi dovreste, meno d'ogni altro, credere a quelle calunnie; chè non v’è terra d'Europa dove i napoletani non abbiano valorosamente combattuto col zio e col padre vostro. Se poi vi lusingate di trarlo facilmente a rivoltar contro il Borbone per amor vostro, più tosto che per amor del paese v’esponete a un tristo disinganno. Ricordatevi che nel 1820 l’iniziativa della libertà sorse dal soldato napoletano; e il soldato appunto perchè uomo d’istinto più che d'istruzione, ha sempre seguiti nel bene e nel male l’impulso de' suoi capi, e che oggi buona parte di quegli ufficiali è eminentemente italiana. No dimenticate che non v’è stato angolo di terra italiana insorta, dove non vi sia un nome napoletano. Pisacane, Mezzacapo a Roma. Rossarol, Poerio, Ulloa, Cosenz, Boldoni, Pepe a Venezia Tutti furono e sono pronti a morir per la Repubblica; nessuno per un cambiamento di dinastia. La semente d tali uomini e il germe di tali senti menti esiste tuttora nell’esercito napoletano; un oscuro esule italiano colla magica Italia sveglierebbe in esso maggior simpatie che non un candidato di corona.

Volete voi sinceramente l'indipendenza d’Italia? Le reminiscenze della vostra infanzia, del cielo sereno che sorrise sulla vostra culla, dell’aria pura che vi rinfrescava la fronte, delle canzoni che v'addormentavano, hanno esse in un tratto trasformato miracolosamente il principe francese in un patriota italiano, e vi hanno esse messo nelle vene la febbre del sagrilicio? Ditelo francamente: noi chiuderemo il libro del passato e vi apriremo il libro dell’avvenire. Se volete essere italiano, rinunciate al nome francese; spogliatevi delle dorate assise di principe, e vestite la gramaglia dello schiavo italiano, o cingetevi le reni del soldato che si prepara; levatevi dai gradini del trono insanguinato; abbandonate la tenda dell’oppressore e ricoveratevi nel campo degli oppressi; chiedete perdono alla Francia e per vostro padre che l'abbandonò nel pericolo, e per vostro cugino che le ha rapito la libertà; gittate al parente l’oro e gli onori suoi; scuotete da’ vostri sandali la polvere della sua corte; scioglietevi da ogni solidarietà con esso; domandate perdono ai patrioti italiani perseguitati dal padre vostro; poi scendete in Italia: noi vi riceveremo.

Nel santo nome d'Italia, vi accoglierà il vecchio guerrigliero calabrese che combatté vostro padre; vi accoglierà il giovane lombardo, figlio del soldato che vide vostro padre alleato dell’Austria. Venite! combattete con noi la tirannide straniera e domestica. Noi vi invitiamo a un ballo che non sarà quello delle Tuileries; v’invitiamo, come diceva Garibaldi a’ suoi, al sole, alla pioggia. alla fame. alle lunghe corse, alle ferite, alla morte e forse al patibolo; vi trarremo con noi in una via ardua e faticosa, ma che ha per meta la libertà italiana. Siate valoroso saldato e, se bisogna, martire sereno. E quando vi troverete schierato con tutta la nazione sotto la bandiera italiana, in atto di dar battaglia al nemico, dite pure allora senza tema di essere smentito: Quest'è l’unica soluzione per l’Italia.

Se no, no.

IL GOVERNO DI NAPOLI E IL TIMES

Il Times inveisce fieramente contro il Borbone di Napoli, salvo decantarlo domani come un buon re, quando il popolo accogliendo i suoi consigli si sollevasse contro quel principe e riuscisse, s’intende infelicemente nei suoi tentativi.

Una corsa a Napoli sarebbe una punizione conveniente pel delitto del suo autore: egli quivi imparerebbe ben presto che un governo può far peggio del cholèra e della malattia delle potale. In tutto il globo abitato non havvi una regione più bella di quella che ha avuto il nome di regno delle Due Sicilie. Osservando quella grand’isola che è soggetta al suo scettro, o alla parte dei suoi domini che giacciono all'estremità meridionale della penisola italiana, non vi è un luogo in tutto il mondo in cui la mano dell'uomo sia stata cosi attiva per sfigurare l’opera più eletta del Creatore. Chi mai, che abbia veleggiato tra quei mari estivi, respirata quell’aria balsamica, o ammirata la rigogliosa vegetazione di quello splendido clima, potrebbe dimenticare lo spettacolo che ha avuto sotto gli occhi? Chi mai, capace d apprezzare gli umani interessi di quella scena, potrebbe altrimenti che rabbrividire alla ricordanza? Quel bel paese parrebbe dover essere un paradiso, invece è un inferno. Le sue vigne, i suoi uliveti i suoi boschetti d’aranci, le sue selve di castagni accennano ad una promessa che in realtà è crudelmente violata. In quel mezzo l'infame spia di polizia, il malvagio armato in vergogna del nome di soldato, lo sbirro e la guardia delle galere esercitano il maledetto loro mestiere. Colà vediamo il regno del sospetto e del terrore. Il parlare è delitto, il tacere è ancora più odioso. Sorridere è uno scherno alla suprema autorità nella persona de' suoi agenti, affanno è interpretato come malcontento, e malcontento come fellonia. Nei teatri, nelle vie, la gente si guarda con occhi strani, imperocché nessun detto può pronunciarsi cosi nascostamente che un uccello dell'aria non lo rechi alle orecchie del padrone. Vi può essere l’apparenza che egli sia lontano, ma i suoi agenti infestano l’aria come una epidemia, ed egli saprà tutto quello che si dice, sfigurato ed esagerato da labbra ostili. Le notizie che abbiamo pubblicate nella scorsa settimana sul suo modo di vivere, dimostrano però che egli non è il solo uomo felice del regno. Egli sfugge la capitale, ma non può sfuggire a se stesso, cerca la solitudine, ma non può segregarsi dai proprii pensieri. Non tollera che si venga a parlargli d’affari, perchè quali possono essere questi affari? È difficile immaginarsi una situazione più penosa di quella del governo delle Due Sicilie, col ministro degli affari esteri alla destra, il ministro degli inferni alla sinistra, mentre questi fanno i loro onesti rapporti sulla situazione del regno. L’unica posizione analoga che possiamo rammentare è quella di un uomo che verso la fine di una vita lunga e mal impiegata soffre i rimorsi di due coscienze, in luogo di una. Non è quindi da farsi stupore se paventa gli affari; ma egli non può liberarsi dai timori neppure in questa vita. Quante volte il suo occhio deve riposare sulla vetta di Capri coronata di rovine, quante volte deve egli desiderar la maggior sicurezza, sebbene precaria, quell'imperatore romeno che, or son quasi due mila anni, cercava su quell’isoletta un

rifugio contro la vendetta dei suoi sudditi e le suggestioni ancora più terribile del proprio cuore!

Non si creda che noi ci abbandoniamo ad una diatriba retorica, ovvero che vogliam leggere la storia di Napoli come si fosse un capitolo degli annali di Tacito. Ecco un estratto del Diario di corte di Napoli in data 20 agosto:

«Nel mese di ottobre S. M. abbandonerà Castellamare per andare a Resina, e già vengono quivi praticate le stesse precauzioni e severe misure che sono in pieno vigore a Castellamare. I nomi, cognomi, il tempo della dimora, i motivi del soggiorno tanto pei forestieri come per gli indiani sono notati, e i padroni dei caffè sono tenuti a mandare settimanalmente i più minuti rapporti intorno alle persone che li frequentano, come anche intorno agli argomenti della loro conservazione.»

La settimana scorsa noi pubblicammo una esposizione delle precauzioni usate a Castellammare. che sotto ogni riguardo rassomigliano alle accennate, coll’aggiunta che agli stranieri, giunti per la strada ferrata o per qualche altro mezzo non si permette di fermarsi «Avanti, avanti, vi è qui il re!» Ha la storia di qualche nazione in Europa un parallelo a questa agonia delle apprensioni? Alessandro, lo czar delle Russie, verso il termine della sua accidentata carriera, fu spinto ai suoi rapidi e quasi incessanti viaggi dai rimorsi della coscienza, ma non da vil terrore del coltello di un assassino, sebbene niuno meglio di Alessandro conoscesse come può morire uno czar in Russia. Luigi XI nella storia di Francia, sebbene empio e timido non ha mai mostrato al mondo una fronte si codarda. È d’uopo però concedere a giustificazione del governo, che se ciò, di cui si accusano gli agenti; di polizia è vero per metà, non vi può i essere motivo di maravigliarsi che si tema tanto il ferro vendicatore. Le vie di Napoli sono il teatro dei saturnali nei quali regnano in trionfo gli sbirri e gli agenti di polizia. A Napoli un agente di polizia, un certo Pierro denunciò una società numerosa nella quale eranvi avvocati ed altre persone di riguardo. Furono tutti immediatamente arrestati. Nell'alloggio di una di queste persone si rinvenne una lista di persone alle quali dovevano mandarsi i biglietti d’ingresso al Circo Olimpico. Tutte le persone registrate in quella lista furono immediatamente arrestate, pena ben severa per aver avuto la volontà di recarsi in un teatro di Napoli che è come quello di Astley a Londra! Due avvocati furono bastonati senza processo, e uno di essi perdeva quasi la vita; di fatto furono trattati, come i miserabili cittadini Hindu sono trottati dai fanti indigeni nei nostri domini delle Indie, e ciò in Italia, nella seconda metà del secolo XIX! L’insolenza degli infami agenti di polizia eccede ogni idea. Se ricordiamo che uno di essi osò ancora l’altro giorno risultare un gentiluomo addetto al servizio diplomatico della Gran Bretagna, posiamo facilmente supporre che sia ben scarsa la cortesia che usano verso i propri concittadini la preda contro la quale vengono aizzati.


ITALIA E POPOLO
GIORNALE POLITICO
Libertà Unità


Anno V Genova— Sabbato 15 Settembre 1855 Num. 256

Genova, 14 Settembre

LA RUSSIA

Pubblichiamo la continuazione della corrispondenza sulle condizioni interne della Russia, che constata la scandalosa venalità dei pubblici funzionari in quell’impero (2).

Dal tempo che voi mancate di qui, molti cambiamenti sono stati introdotti nello Stato: nuovi ukasi contro la concussione, nuove e più severe pene sanzionate contro i prevaricatori, ma lutto è rimasto sulla carta, nulla ha potuto agire sulle abitudini, che sono divenute per l’impiegato russo una seconda natura. Nulla è cambiato in sostanza: l’amministralo è tuttora come era al tempo vostro, proprietà, materia imponibile, preda, cosa dell’amministratore. Tutto si vende negli uffici. Cominciando dal diploma (3) d’uno dei quattordici gradi della gerarchia burocratica e della ratifica d’un contratto col governo, fino al rilascio d’una quitanza e alla consegna d’un passaporto, tutto vien pagato dal petente all’impiegato, spesso sfrontatamente dibattuto fra le due parti in presenza di terzi.

Se la necessità di mantenere un lusso asiatico, l’esempio e la quasi certezza dell'impunità trascinano all'abisso i grandi che occupano i primi posti dello Stato, la meschinità degli emolumenti (4) serve in certo modo di scusa agli impiegati

secondarii che sono per la maggior parte poverissimi. L’occasione era bella e ne profittarono largamente. L'incendio che distrusse tante proprietà pubbliche e privale fu per essi e per chi patteggiò con essi una ricca miniera. Aveva un negoziante venduto all’Intendenza un magazzino di farine, più tardi incendialo? Il minimo appiglio, il minimo dubbio sulle formalità «lei contratto bastavano perchè l’impiegato minacciasse di annullarlo, e di far in modo che il danno del governo diventasse il danno del negoziante. Era già stata pagata dal tesoro al privato una parte del prezzo? Dipendeva dall’impiegato che le quitanze scomparissero nell’incendio e che il credilo rimanesse intiero.

Ardeva un deposito ad un d’accettare’un ’’ Cinmmik (imP'<’galo) data ani» conlratlo di vendita, con addossata^ "e8^ negoziante legittimar» a<l ““ «"hi ilesuoi «.iuiereM“

V’ e N. 2:,4

zione, anteriore all'incendio, vendita però d’un ente non esistente.

L’amministrazione, dal canto suo, ricusava, per vizio di forma, la ratifica e il pagamento. Di quella fraudolente connivenza non soffriva, è vero, né lo stato né il commerciante, ma ne soffrivano i creditori di questo che si dava fallito. Pasticci di simil fatta ebbero luogo, ed è a mia cognizione che alcuni dei nostri debitori, i quali accagionano della loro ruina quel disastro, nov hanno perduto la metà di quanto accusano, e che altri non hanno perduto un solo rublo. Ma in quell’inestricabile matassa come trovar il bandolo? In quella confusione di magazzeni, di case, d’uffici, di merci distrutte, o guaste, o frettolosamente ricoverale alla rinfusa nell’interno, come scoprire la verità? come provare la validità o la falsità delle vendite, la quantità delle consegne; come costatare il terzo o la metà delle merci salvale, quando il proprietario pretende esser tutte perdute? È voce comune che parecchi membri dell'Intendenza, dell'ufficio di controllo e dello Stato Maggiore hanno espresso somme enormi da quella calamità, e non dubito che il governo ne chiami alcuni a rendiconto.

Ma voi sapete meglio di me a che cosa riescano simili processi. I membri del ramo giudiziario sono della casta nobile, come è l’imputato; di più, sono affetti della medesima malattia, la venalità, e v ha in tal caso una non so qual framassoneria tra l’accusato e il giudice; e quei processi vanno trascinandosi d’anno in anno, terminando frequentemente coll’assoluzione dell’accusato o colla sospensione degli atti. Vi ricordate del singolare spediente a cui s’appigliò il ricco possidente Tarassoff per guadagnare contro un suo parente una lite nella quale era impegnato tutto il suo patrimonio? La causa si trovava d’istanza in istanza finalmente giunta al Senato. Tarassoff prende 100,000 rubli in carta monetata, taglia ogni biglietto in due, e ne manda la metà al relatore incaricalo del rapporto della causa con queste parole: «Mi riservo a spedirvi l' altra metà, quando avrò ricevuto la sentenza che mi dà vinta la lite.»

Il ripiego era sfrontato, ma riesci. Non credo che voi foste in Russia verso il 1825; ma dovete aver inteso parlare del clamoroso processo intentato dal fisco contro l’amministrazione dell’ammiragliato di Nicolajeff, nel quale si trovava compromesso l’ammiraglio Greig. V’era un deficit di sette milioni nei conti: i boschi del Dniester e il legname dei cantieri erano stati manomessi: parecchi vascelli marcivano innanzi tempo, perchè si era accettato legno verde: il sartiame della flotta era inservibile, perchè v’era connivenza con i cordai di Cherson. Tre commissioni d’inchiesta furono nominate successivamente. Cuna dopo l’altra, non solo per esaminare i fatti e gli accusati, ma ben anche per esaminare e giudicare le commissioni precedenti. E nondimeno tulio fu inutile, almeno in quanto ai principali colpevoli. Si condannò, tanto per dar soddisfazione ai fisco, qualche povero diavolo d’ufficiale subalterno e un (fornitore già minato e impotente a corrompere, e tutto fu finito,

E bensì vero che talvolta nei casi urgenti, l’imperatore giudica e punisce egli stesso sommariamente i colpevoli, come accaduto in questi due anni a un senatore, a un generale a Sveaburgo e ad un altro a Kieff. Ma nel fatto della spedizione d’Azoff la calamità è sì grande e ha colpito in tanti modi e tante persone; il fuoco ha d’altronde distrutto coi cereali tanti documenti utili, che l’inchiesta sarà infruttuosa e l'imperatore non vorrà intervenire. Bisogna dunque che ci rassegniamo a perdere la quasi totalità dei nostri credili, se pur non vi piegate a tentare certe vie che forse vi ripugnano, ma che varrebbero se non altro a ricuperare la metà dei capitali.

Avendo avuto seniore questi giorni passati che R....ch avesse comprato una grossa partita di fromento tenero a Human, feci una corsa colà, nello scopo di porvi il sequestro per conto nostro. Le mie carte erano in perfetta regola, ma il murinolo è stato più fino dì me, ed ha potuto mostrare una cessione del suo contralto all'ufficio della Provincia. Come abbia fatto quel tiro stupendoci mariuoleria, non lo so: ma capite bene che non ho più ardilo fiatare, perchè si capiterebbe male, soprattutto in questi tempi, a voler cozzare coll'amministrazione della guerra. Se non mi fu dato menar a buon fine l’affare che mi aveva spinto colà, non ho però del tutto perduto il mio tempo, e mi son carata la curiosità intorno alle sommosse delle popolazioni serve di questi paesi, che erano smentite dai giornali russi e di cui non si ardiva parlare in Odessa.

Human è una cittaduccia di distretto, cioè un ammasso di capanne, coperte di paglia, con una quarantina di case di legno o di pietra; il lutto decorato, come in Russia si suole, del nome di città. Fa parte dell'Ukraina, una delle più fertili e meglio coltivale provincie della Russia meridionale, e apparteneva altre volte, con 15 mila servi sparsi nelle terricciuole circostanti a Hùman, a! conte Alessandro Potocky, uno dei sette figli del celebre Felice Potocky, il più ricco signore della Polonia, e capo della ribelle confederazione di Targowice, la quale consegnò la Polonia alla Russia. Il vecchio satrapo, quando non andava a far pompa del suo lusso a Parigi o a Napoli, o che non correva da Pietroburgo a Varsavia a cospirar per la Russia, faceva la sua residenza a Hùman e vi aveva piantato il più vasto giardino d Europa. Alessandro, compromesso nella rivoluzione del 1830, emigrò; la sua magnifica proprietà fu confiscata e data da Nicolò in usufrutto temperano a non so quale dei suoi generali. (Cont.)


ITALIA E POPOLO
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Anno V Genova— Domenica 16 Settembre 1855 Num. 257

Genova, 15 Settembre

GLI AFFARI DI NAPOLI E  LE MINACCE CONTRO IL BORBONE

Gravissime sono le notizie che da qualche tempo ci giungono dal mezzogiorno d'Italia.

Il governo delle Due Sicilie ha rotto ogni freno: dopo avere tormentato in cento modi, dagli assurdi processi fino alle stupide persecuzioni di polizia i cittadini sospetti di idee liberali, dopo avere empiuto le carceri e i sotterranei di prigionieri politici, gli uni colpevoli di una parola, gli altri di qualche irriverenza a un Commissario di polizia, è disceso alle bastonate e le ha fatte dispensare a persone di tutte le classi, a seguito di una denunzia o di una semplice indicazione.

Un sistema così brutale non poteva a meno di esacerbare vivamente gli animi e vincere ogni prova di pazienza anche nei più longanimi. È per questo che oggi a Napoli e nelle provincie serpeggia una effervescenza febbrile; per cui ogni scintilla basterebbe a destare un incendio pari al vulcano che ad intervalli spande luce sinistra e vomita lave ardenti.

A tutto questo si aggiungono le minaccie aperte della Francia e dell’Inghilterra, di cui certo il Borbone non mostra una grande paura. Egli sa troppo bene che L. Napoleone e l'incendiario ministro di S. M. britannica non j alzeranno mai un dito per far crollare! il suo trono.

Fidato nei suoi Svizzeri si lusinga di contenere le inermi popolazioni, fidalo nel suo titolo e condizione di re, non ha la menoma apprensione né dei quarantamila francesi, che debbono sbarcare a Civitavecchia, né dei vascelli alleati, che minacciano comparire nelle acque di Napoli e di Sicilia.

Quelle minacciate dimostrazioni erano piuttosto rivolte contro l’Austria che contro il re di Napoli. La prospettiva di una rivoluzione in Italia è il mezzo di cui sperano i due governi valersi utilmente per contenere l’Austria dall'abbracciare più decisamente le parti dello czar; ma dal momento, che quelle dimostrazioni potrebbero esser prese sul serio, non dall'Austria, ma dai patrioti italiani, non dubitate che se ne asterranno, e. per via della stampa da essi stipendiata procureranno di sconsigliare da una minaccia che non sia di parole.

L’Observateur Belge ha una curiosa corrispondenza nella quelle mette in campo una ragione di sicurezza pel re di Napoli, alla quale non avevamo pensato e giungerà nuova a molti dei nostri lettori.

Ecco come si esprime il corrispondente dell’Observateur Belge, scrivendo da Berlino:

«Si appongono due colpe a questo sovrano, la prima di voler rimanersi neutrale, la seconda di mal governare i suoi sudditi. Ora, il nostro governo ha qualche motivo di considerare più da vicino codesta faccenda. Prima di tutto noi siamo neutrali come il re di Napoli e se lo si attacca a cagione della sua neutralità, chi c’entra mallevadore che non verrà fatto il somigliante anche a noi?

«Siate dunque persuasi che questo lato della quistione basterebbe per occasionare un intervento diplomatico, da prima, del nostro governo in ogni attacco diretto contro il re di Napoli. Ma ciò che cagiona qui un' impressione ben più profonda si è la pretesa d’intervenire negli affari interiori di quel regno. Quantunque lutti sappiano non esser questo che un pretesto tanto più inaccettabile in quanto che se il governo di Napoli è dispotico, il dispotismo in Francia non è meno esoso per essere mascherato, questo pretesto dee essere consideralo come serio dalla maniera con cui i giornali ufficiali spingono avanti i governi alleati.

«Se gli alleali attaccano il re di Napoli pel suo mal governo chi entrerà mallevadore, lo ripeto, alla Prussia che un bel giorno l’imperatore francese non trovi reazionario il re di Prussia e non lo assalga per questa ragione nei suoi stati?

«Oltre la quistione politica il nostro re Federico Guglielmo trovasi personalmente offeso in questa vertenza. Non avvi forse monarca in Europa che consideri più di lui il monarcato e la regal volontà, come cose sante ed inviolabili; è questa una sua idea ereditaria rafforzata dal partito retrivo nelle cui braccia ei si è gettalo dopo gli avvenimenti del 1848. Siate dunque persuasi ch'egli non patirà mai che venga assalito il re di Napoli, e che egli opporrebbesi al bisogno con la forza delle armi.

«Il perchè il re di Napoli può dormire tranquillamente fra due guanciali a meno che gli alleati non desiderino una guerra contro la Prussia, il che è tosto poi possibile in quanto che il nostro re è devoto intieramente alla Russia e non ama inoltre l'imperatore dei francesi. Per ispiegare questo sentimento basta rammentare, prima di tutto, che la Prussia ebbe a soffrire dai primo Napoleone, e che non havvi alcuna famiglia regnante che sia stata tanto umiliata come gli Hoenzollern da quel terribile conquistatore.

«Simili ricordanze, non si dimenticano sì facilmente e Napoleone III non è uomo da farle dimenticare; tutt'al contrario, i suoi decreti contro le possessioni degli Orleanesi hanno ridestato la memoria di certi atti non men violenti del primo imperatore dei francesi.

«Quanto ad una chiamata alla nazionalità la non incute verun timore. Il nostro governo sa troppo bene, per mezzo dei suoi agenti segreti, che i democratici tedeschi non si fidano di Bonaparte. Napoleone I ha mostrato come intendesse la parola: nazionalità. D'altra parte, egli, Bonaparte non oserà mai fare appello alla rivoluzione in altri paesi; egli non ignora che sguinzagliata che fosse la rivoluzione non rimarrebbesi nei limiti da lui prefissi, ma che cambierebbesi immediatamente in minaccia pel suo proprio governo.

Quest'ultima considerazione è sufficiente per se medesima a disingannare chiunque credesse mai Bonaparte capace di dar fuoco al vastissimo incendio che cova in quattro quinti d’Europa. Ferdinando, per grazia 'di Dio re di Napoli, lo sa meglio di noi. Perciò se i patrioti di quelle flagellate e generose provincie non si sentono tanto ardimento nel cuore e tanto vigor nelle braccia da impugnare le armi contro l'esosa tirannide del Borbone, egli può fidente aspettar l'indomani. La diplomazia e specialmente l’Inghilterra e la Francia di Napoleone non gli faranno mai altra guerra che di protocolli o anche solamente di qualche articolo di giornale.

I RUSSI E I POLACCHI

Un importante lavoro è stato testé intrapreso dall'esule russo A. Hertzen, tendente a diffondere nella Russia le idee democratiche, che la rivoluziune ha divulgate nel resto d'Europa. Essa è la Rivista politica intitolala La Stella Polare di cui l’Italia e Popolo ha già fatto menzione. Per dare un' idea dello spirito che presiede al patriotico lavoro del proscritto russo rechiamo il frammento d’un articolo indirizzato dall'Autore ai suoi amici di Russia:

Gli infaticabili lottatori del pensiero e dell'azione, gli apostoli dell'indipendenza e del rigeneramento sociale, i forti, gli ultimi, rimasti nucleo piccolissimo ma in piedi, colla fronte alta in mezzo di questa febbre ardente di abbassamento universale, come per fare testimonianza ai secoli avvenire, che vi aveva ancora un lampo di dignità ai tempi dell'ordine trionfante; costoro ci hanno steso fraternamente la mano, al primo invito.

V. Hugo, G. Mazzini, L. Blanc, P. G. Proudhon, G. Michelet, G. Lelewell sono con noi.

Quest'atto di simpatia da parte loro non ci ha recalo meraviglia, usi come siamo, a conoscerli, a vivere degli stessi patimenti e dello stesso amaro pane dell'esilio: ci pareva talmente naturale che abbiamo dimenticato di ringraziarli. Ma il valore del fatto è grande.

Potrebbe accadere che la Stella Polare brillasse sopra una culla, sopra la culla di una nuova lega, di una nuova Carboneria, Carbonerie alla luce del sole — dell’unione futura degli uomini liberi da una parte e dall'altra.

Le nostre notizie sul mondo Slavo, che parevano stravaganti nel 1849,cominciano ad aprirsi la via, ed uno storico illustre ha già detto che la soluzione del problema sociale non può essere completa senza l'elemento slavo.

Ci vien porta la mano con amore, perchè si sente che vi ha una qualche cosa che vive, che si agita sul nostro mulo mondo. Si raccontava un tempo che certi minatori balzavano scossi, avvicinandosi sotterra ad una vena metallifera; si arrestavano, ricercavano e trovavano la vena. Sono i grandi minatori dell'anima umana che hanno sentito da lungi il vostro arrivo!

Sarà dunque eterna necessità che i popoli si stringano fra loro mediante il sangue? Non sarebbe possibile riunirsi che su cadaveri?

No. Io credo alla potenza dei Verbo e della Ragione.

Che cosa è diventato il troppo giusto rancore dei Polacchi contro i Russi? Il giorno in cui Bakounine presentandosi ad una tribuna polacca, vi proferì alcune parole di amore e di riconciliazione, i Polacchi gli diedero la mano, mostrando da lontano il comune nemico.

Che cosa è avvenuto da questo riavvicinamento dei Polacchi proscritti e dei Russi perseguitati? Eglino desiderano la libertà per noi, l’indipendenza per essi, e questo più sinceramente che la maggior parte dei loro amici dell'occidente.

Qui si vuole restaurare la Polonia contro la Russia, si vuole una barriera vivente, un campo polacco e non un foro9come ha detto il grande filosofo della forza, Napoleone, al conte di Narbona. Noi desideriamo una Polonia indipendente. La missione di

questo paese non è di essere un cordone militare per le altre nazioni e servire di barriera per separare due grandi famiglie della razza umana. — No — essa deve essere il campo del Vello d’oro della i loro alleanza.

La Polonia indipendente col sangue slavo nelle vene e la civiltà europea nei costumi prenderà le mani dei due avversari per unirli senza vittime: ve ne ha di troppe e non è col sangue che è d’uopo inaffiare i santi cimiteri, ma. con le nostre lacrime fraterne.

La prima messa funebre per Pestel ed i suoi amici fu celebrata a Varsavia. Siamo i primi ad inginocchiarci dinanzi alla tomba in cui dormono i difensori della Polonia.

Il 6 agosto, or sono 29 anni, perirono per mano del carnefice i cinque martiri russi: perirono sereni e sicuri senza perdonare ai loro nemici, ma legandoci la loro causa.

Che abbiamo fatto dell'eredità? Lasciamo i rancori? guardiamo piuttosto all’avvenire: abbiamo ancora qualche giorno da vivere. Ridestatevi dunque, date la libertà alle vostre parole, alle vostre lagrime, alle vostre speranze, deponete ogni inimicizia se ve ne ha.

È una fievole luce per festeggiare il nostro giorno della Passione, accesa sul suolo straniero, colf aiuto d’amici stranieri; tocca a voi farne una vera stella; e se noi abbiamo contribuito, nel senso più modesto della parola, ad un principio di propaganda russa, ad un accordo fra i rappresentanti dell’idea rivoluzionaria in Europa e voi.... i sacrifici della nostra vita intiera saranno largamente rimunerati.

E qui dirò qualche cosa intorno a me.

Giovinetto di 15 anni, in mezzo alla moltitudine, io assisteva a Mosca al Tedeum per cui Nicolo celebrò il suo trionfo sui cinque martiri. In mezzo del Kremlin sorgeva un altare su cui uffiziava il metropolitano Filarete. Tutta la famiglia imperiale era presente, circondata dal senato e dai ministri. Più lungi in un immenso circolo era addensata la guardia in ginocchi. e i cannoni tuonavano dalle alture del Kremlin.

Giammai nessun patibolo aveva avuto siffatta festa! Nicolò sentiva che la vittoria era grande, fo osservava con dispetto e colle lacrime agli occhi quell’altare prostituito, l’insolenza del più forte; e giurai di vendicare i martiri, di lottare contro quel trono,’quell’altare, quei cannoni... Io non ho niente fatto — il trono, la guardia, l’altare, i cannoni sussistono ancora, ma da quel giorno non ho più abbandonato la mia bandiera.

Questa lunga perseveranza mi diede una sembianza di diritto a farvi appello in nome di queste grandi ombre, in i nome dei nostri padri nello spirito rivoluzionario.

Indirizzo alla democrazia europea

A Londra fu pubblicato un indirizzo, di cui il corrispondente inglese del Diritto ci dà il sunto seguente:

L'indirizzo di Kossuth, Ledru Rollio e Mazzini delinea con gran precisione e nettezza d’idee la condizione presente dei governi europei, l'occasiona che oggi si offre ai popoli per insorgere, la missione che spetta al partito militante della democrazia d’iniziare la grande riscossa, i governi (scrivono i tre patrioti) seno materialmente divisi, li pensiero della santa alleanza vive nel loro cuore come ai giorni del 1815; il fatto della santa alleanza è distrutto. La sua forza, che abbia potuto sospendere il moto assordante dei 1848, la forza collettiva più non esiste, il concentramento dei mezzi di molti su ciascun punto dato, non è più possibile. Il campo nemico è oggi smembrato in quattro campi: il campo russo, il campo anglo-francese, i due campi, sui quali l’Austria e la Prussia si contendono i piccoli governi germanici. E tra questi campi non può esistere vincolo o direzione comune, né accordo pratico contro noi.

Ciascun popolo ha in oggi da combattere un solo nemico; or nel 1848, non bisogna dimenticarlo, bastò ad ogni popolo l’assalire per vincere.... Non basta. In conseguenza della discordia presente, le forze del governo sono inevitabilmente smembrate: i loro moti non sono più liberi, è d’uopo alla Russia proteggere il proprio terreno. È d’uopo all’Austria, impegnata nei Principati, perfida con tutti, sospetta a tutti, mantenere la più gran parte delle forze lungo le sue frontiere per resistere ad un assalto che potrebbe venirle dall’una o dall’altra delle potenze belligeranti. È d'uopo all'Impero, già costretto a serbare in Francia gran parte dell'esercito per reprimere il crescente fremilo della nazione, provvedere alla perenne minaccia dell’Austria e della Prussia e proteggere le frontiere nord est. E che può l'Inghilterra? Esaurita fin d'ora in conseguenza del difetto d’ordinamento militare, essa è ridotta a chiedere alla venalità e alla miseria altrui un’accozzaglia straniera che colmi il vuoto delle sue file.

«I triumviri son d’avviso che spetti all'Italia e 'alla Francia l’iniziativa del movimento, e che l’Ungheria e la Germania, ricinte d'ogni banda di nemici, debbano venire in seconda linea nella battaglia. Non fissa norme, né condizioni all'insorgere; abbandona al partito di fissare il giorno e il luogo in cui la riscossa debba aver cominciamento. Conchiude «che la prima bandiera di popolo innalzata in nome della patria e dell'umanità, sarà tosto seguita dall’altro. L’insurrezione darà moto all’insurrezione: la prima vittoria è dieci vittorie su dieci diversi punti.»

Non un’idea si svolge nel manifesto sul regime futuro delle nazioni, se non questa: libertà per tutti, associazione fraterna di tutti. La formola è abbastanza lata, e, com’essi dichiarano, non appartiene ad alcuno decidere sui mezzi pratici onde la rivoluzione darà rimedio ai mali della società. I popoli ci penseranno dopo la vittoria.

«La vita genera la vita, la libertà feconda e suscita le menti; e l'uomo che impalma la propria alla destra de' suoi fratelli riuniti in entusiasmo di sagrificio, di trionfo ed amore, riceve una rivelazione della verità che Dio ricusa allo schiavo isolato, che non s’attenta rompere la propria catena. Rompiamola adunque e uniamoci.»

La presa di Sebastopoli

La Gazzetta della città e sobborghi di Vienna ha notizie di Sebastopoli dell’8. Esse annunziano aver il generale Pélissier ricevuto positive notizie che il principe

Gortschakoff concentrava considerevoli forze Dicevasi persino essere giunti i granatier della guardia. Il principe sarebbe stato risoluto a rinnovare l'offensiva del 16 agosto sulla Cernaia. I progressi straordinarii fatti ultimamente dagli alleati dinanzi a Sebastopoli, costrinsero il condottiero dei russi a sforzi disperati. Il principe sapeva benissimo che una seconda sconfitto ia una battaglia campato non avrebbe una sì triste influenza morale sugli animi dei suoi soldati, quanto la temuta conquista della Karabelnaia.

I lavori d’assedio erano proceduti quasi (fino alfe fosse della città: le batterie dei mortai degli alleati, raggiungevano i navigli russi e li facevano colare a fondo, mentre la città non offriva più alcun punto sul quale le bombe non producessero il loro terribile effetto: cosicché facevano scoppiare incrudii ed anche esplosioni. È dunque naturale che il principe Gortschakoff deve tentar di ottenere un qualche vantaggio strategico sulla Cernaia, alto scopo di raggiungere nuovamente lo statu quo per la durata dell’inverno.

La succitata gazzetta fa in seguito alle ultime notizie telegrafiche le seguenti riflessioni: «Gli alleati hanno dunque la torre di Malakoff! Che cosa ottennero con ciò? Essi stanno nella Karabelnaia ed in tutta la parte meridionale di Sebastopoli. Che cosa hanno conquistato con questo? — Nient’altro che il risultato che la preponderanza russa nel mar Nero fu rotta da sé colla distruzione della flotta nel porto, risultato che da mesi si riteneva quale unico scopo della guerra. Se gli alleati si attenessero oggi ancora ai quattro punti dì guarentigia, dopo questo successo potrebbero essere rinnovate le conferenze, ma da più mesi la guerra tende ad altri scopi; ora non si tratta più di quei pochi navigli del mar Nero.

Leggendo con attenzione gli ultimi dispacci telegrafici si deduce che i francesi combatterono nuovamente con bravura mirabile, che però il Redan non fu preso ma abbandonato dai russi, ì quali si sono ritirati nella parte settentrionale. Ciò vuol dire lo stesso che: i francesi conquistarono un mucchio di pietre, sulle quali non potranno sostenersi, imperocché la parte settentrionale di Sebastopoli giace più alto che la meridionale. Quindici forti del Nord dominano la parte più bassa del Sud. Se i francesi vogliono impossessarsi di tutta Sebastopoli, essi debbono ricominciare al Nord tutto quel lavoro che compirono in un anno nella parte del Sud, colla differenza soltanto che nella parte settentrionale non trovano un porto come quello di Ramiesch e Balaclava; con una strada ferrata per facilitare le comunicazioni, non vie battute e nuovi edifizi. Grande fu la vittoria perigli alleati, immensa le perdite di materiale dei russi, triste l'influenza morale per questi ultimi; pure l’avvenire mostrerà se il possesso di quel mucchio di rovine, che un di chiamava Sebastopoli, offrirà agli alleati un vero e pratico vantaggio. Noi crediamo che con ciò fu chiuso solo un atto del gran dramma, ma non già il dramma stesso.

Il Nord che sì stampa a Bruxelles fa le seguenti riflessioni sulla presa di Sebastopoli:

Dopo la presa di quella che uomo si ostinava a chiamare torre di Malakoff, i comandante in capo russo risolvette d sgomberare tutto il mezzodì della piazza e di concentrare le sue forze sul lato boreale della baia di Sebastopoli.

Una tale risoluzione era da prevedersi. Nella presente situazione la guarnigioni di Sebastopoli si sarebbe esaurita lo isforzo inutile per conservare un mucchio d’insanguinate rovine. La Russia vi avrebbe sacrificato il migliore del suo sangue per tenere una posizione insostenibile.

La risoluzione del principe Gortschakoff attesta l’energia di un gran capitano. Ella salva la Russia dall'angiporto in cui l’aveva gettata una falsa interpretazione dei punto d’onore.

L'esercito russo, concentrato a borea avrà quind’innanzi l'unità di movimenti e di azione che gli mancò fino ad ora.

Il Sebastopoli da ostro è surrogato dal Sebastopoli da borea, posizione formidabile, irta d’innumerevoli bocche da fuoco, a che difenderà quind’innanzi un esercite cosi compatto.

La storia imparziale parlerà della difesa di Sebastopoli, come dei suoi attacchi, e farà giusta parte dell'abnegazione e dell'ostinato coraggio così gli assediati, come degli assedianti; e renderà giustizia eziandio alla risoluzione colla quale il principe Gortschakoff facendo un sacrificio momentaneo ed evitando un inutile spargimento di sangue, seppe conservare alla Russia un esercito agguerrito da un anno di lotta inaudita nei fasti militari, e collocarlo in posizioni che gli permettono di dominare la situazione.


ITALIA E POPOLO
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Anno V Genova— Martedi 18 Settembre 1855 Num. 259

Genova, 17 Settembre

UN ITALIANO AL PRINCIPE LUCIANO MURAT

Un italiano da Napoli che secondo i desiderii ed i calcoli dei Murattiani sarà la sede del futuro regno meridionale d’Italia, come Torino deve essere del settentrionale, ci invia una graziosa lettera in risposta al principe Luciano, già ambasciatore francese ed ora per grazia di Napoleone, Grande dell’Impero del 2 dicembre. La lettera cade in acconcio dopo la bevve, che ci ha regalato nel n.° 252 l'Unione, che noi fedelmente ieri abbiamo riprodotta, l'indirizzo d’un Murattiano.

Siamo ceni che tutti gli Italiani di senno e di cuore come rideranno della strana tirata dell'Unione, cosi divideranno i sentimenti espressi dall'Italiano di Napoli, che rivelano vero intelletto e amore di patria. Se tanta bella parte d’Italia non agonizzasse sotto il bastone, l'appello di S. A. imperiale non desterebbe che una prolungata ilarità. Ma i tempi sono tristi e calamitosi e noi ci contenteremo di riportare la lettera come un episodio, una tregua ai dolorosi pensieri, che evoca la condizione presente d'Italia.

Ecco la lettera:

Principe,

Essendo stata la lettera da voi scritta al conte Pepoli fatta di pubblica ragione, soffrirete, spero che un Italiano dirigga pure a voi queste poche linee.

Se privato qual io mi sono, non ho titolo per iscrivervi a nome del mio paese, ho però almeno la fiducia che quanto scrivo non venga smentito dalla immensa maggioranza degli Italiani, che aspirano ad aver una patria.

E anzi tutto concederete che con voi mi rallegri e vi renda grazie perche, onde non complicare viemmaggiormente la nostra già assai intricata condizione, vogliate di buon grado astenervi dal mettere fuori pretese e diritti dei quali non è luogo ad esaminare il valore, forse minimo o nullo affatto, che loro avrebbe potuto accordare la pubblica opinione nella penisola.

Voi vi limiterete dunque a stare a pur disposizione dell’Italia, non è. vero? Ciò, vuol dire che non verrete se non chiamato: se non siete chiamato, intendiamoci bene, come diceva il commissario avv. Buffa. Io prendo atto di questa vostra dichiarazione.

Tanta cortesia e bontà da parte vostra, o Principe, si merita una reciprocanza, ed io non potrei corrispondere meglio alla gentilezza vostra che parlandovi quel linguaggio

che è raramente, ascoltato dai pari vostri, il linguaggio della verità e della schiettezza.

Lo stare, o Principe egregio, cosi a disposizione d’Italia potrebbe forse ((pensateci bene) riuscirvi di troppo incomodo, in ispecie se vi toccasse aspettare a lungo, quanto p. e. il vostro augusto cugino per ripetere ancora una volta: l’impero è la pace! Ora siccome mi spiacerebbe sommamente del vostro disagio, reputo quindi farvi cosa utile e grata, illuminandovi sopra alcune circostanze che i vostri cortigiani; vi hanno senza fallo dissimulato e che forse potrebbero rendere quel vostro aspettare pena e tempo sprecato.

Le severe lezioni della storia hanno scolpito nel cuore del nostro popolo alcune verità luminose: ora fra queste tiene posto precipuo quella che nulla di buono, quanto alla nostra indipendenza, ci venne mai d'oltrementi. Egli 1 è perciò che la pubblica opinione nella penisola si allontana ogni dì più dallo straniero. Sarebbe poi vera fatuità immaginare che, se fra stranieri alcuna eccezione avesse a tarsi (che io non i credo assolutamente) potesse cader mai a favore di coloro che hanno fallo la spedizione di Roma, e cui testé contendeva palmo a palmo il sacro terreno l’inutile valore di Garibaldi.

Devo dirvi poi, onorando mio principe, che generalmente in Italia si sente più il bisogno della cosa che dell'uomo, e poiché se avremo la cosa, degli uomini ne avremo anche troppi, e non mancheranno per certo altri non meno di voi generosi, pronti a mettersi a nostra disposizione e paratissimi a fare il penoso sacrifizio del loro tempo e della loro quiete pel bene d’Italia.

Finalmente poi (ma vi prego non recarvelo ad oltraggio) la mia franca sincecità mi obbliga a confidarvi che, quando all'Italia occorresse un uomo, poco vi raccomanderebbero a lei, non solo la vostra straniera origine, ma benanco i vostri intimi rapporti col 2 dicembre, verso il quale al di qua delle Alpi sono più ristrette che forse voi non credete, le simpatie. Se voi avete dunque qualche cosa di meglio da fare, io vi consiglierei in verità di non perdere il vostro tempo, che deve esser prezioso, dacché siete principe, stando ad aspettare che l’Italia vi chiami, poiché la chiamata potrebbe avvenire assai tardi e forse non mai, e voi, onorevole principe, avreste pentirvi di essere stato colle mani alla cintola, anziché andare in Crimea a mietere allori e meritarvi così il trono di Tigrane o quello di Mitridate, giacché la corona di Ferdinando par che, cadendo, dovrà andare in frantumi.

Principe, credete a me: è vero che in un certo momento un detto celebre a gettato al popolo forse per avventatezza e o forse anche per secondo fine, nocque all'Italia: ma i tempi sono oggi molto cambiati, sicché quel molto abbia a o diventare opportuno ed espressione d’un vero.

Dite, dite che suoni dal Campidoglio l'ora predestinata, che l’Italia aspetta a con fede e con paziente calma e vedrete, vedrete, o principe Luciano, se adesso davvero l'Italia non saprà fare da sé.

Un Italiano.

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LA RUSSIA

Pubblichiamo la continuazione della nostra corrispondenza di Costantinopoli li che descrive le condizioni interne della la Russia (5). lo

)_ 1 torbidi dell'Ukraìna sono un fatto

|B reale: i contadini dei villaggi aU’intorn no 'vi preso parte, e i vestigi dell’agitazione sono ancora visibili nelle cam-

la pagne e nella città moderna. Il moto fu più serio che non si credette e si

(0 estese a Tulezin (6), grossa terra di Micislao Potocky, uno dei fratelli d’A-

v lessandro, si manifestò a Balta e fin verso le rive del Dniepr. L'Ukraina faccva già parte della Polonia e la mag8'or Pa,,tc dei possidenti sono ancora a polacchi. Ma i coltivatori del suolo appartengono alla razza malarossiana(piccola Russia), che non è né polacca né pe moscovita, e che sembra formale una e suddivisione slava particolare. Professa il rito greco-russo e parla un dialetto e slavo che ha la sua grammatica e una ristretta letteratura propria. Posti fra i i Polacchi, i Russi, i Tatari e i Cosacchi Zaporoghi (7), che spesso venivano a urtarsi nelle loro pianure, gli Ukraìni (8) hanno conservato un'indole bellicosa e ben sovente hanno violentemente reagito contro i loro padroni, polacchi e russi. Nel 1783 tentarono una sollevazione che aveva tendenze all'indipendenza, e ci volle un grosso corpo d'esercito a domarla. Sono in generale più alti e più snelli dei moscoviti, di colorito e di capegli comunemente bruni, ed hanno nello sguardo un non so che d'ardito che manca al contadino russo-polacco.

Voi conoscete abbastanza la triste condizione dell’uomo della gleba nell'impero russo (9).

Questa condizione s’è fatta peggiore pel fatto della guerra attuale. Ordinariamente, la leva lo colpiva nella proporzione di 4 o di 5 per mille: oggi le leve sono più frequenti e raggiungono fin la cifra di 4 e o 5 per cento. L'Ukraina essendo posta sulla grande strada che dal centro dell'impero conduce al teatro della guerra, e il continuo passaggio delle truppe l'emunge e la rovina.

Se il nobile dispone arbitrariamente del servo, il sovrano dispone egualemente del servo e del nobile; e quando a la sua volontà, che rappresenta la vita dello stato, ha parlato, tutto ciò che e esiste in Russia, mobile e stabile, animato e inanimato, deve servire al soddisfacimento di quella volontà indiscutibile, suprema. Quindi e viveri e mercanzie, uomini e bestie, sono sagrificate al bisogno più urgente del momento, che è la guerra; il tutto eseguilo colla brutalità d’un'autorità, che le necessità della guerra rendono irresponsabile, collo spreco delle cose che fa il soldato a che transita, collo sprezzo delle vite umane, proprio al potere intermedio, il quale, nell'esecuzione rapida e piena del cenno supremo ravvisa la probabilità di salire d’un grado. Passa una divisione di cavalleria; le cataste di fieno spariscono, il fromento nascente è divorato in erba. Passa un corpo di fanteria: ogni casa deve alloggiare e nutrire più soldati, che molestano, derubano e battono i loro ospiti (10).

Passa un convoglio: è una tempesta ancor più temuta: il villaggio deve non solo completare le provviste dell'esercito, ma deve altresì fornir buoi, cavalli, carri e conduttori. Giustizia e buon governo esigono che quella corvée straordinaria sia prestata soltanto fino alla prossima stazione. Ma ben sovente accade, che il signore dell’altro villaggio perviene, corrompendo i capi militari, a sottrarsi a quella prestazione, e i primi vengono trascinati più lungi e non ritornano più; le bestie cadono morte o son vendute, e gli uomini o soccombono vittime della ferocia del soldato, o sono violentemente incorporati all'esercito, o si gettano nelle steppe e si danno alla vita delle masnadiere, pronti alla prima occasione e a fomentare una sommossa ed associarvisi.

Il transito delle truppe continuando, l'ultimo arrivato trova sulla via minori risorse dei primi: a misura che diminuiscono i mezzi crescono le esigenze; a bastonate si costringe l’abitante a dar l'ultimo pugno di farina, l'ultimo bue, l'ultimo figlio. Il proprietario che, indipendentemente dal danno che gliene viene dal mal governo che si fa de' suoi servi, soffre dallo stato di guerra decremento nelle sue Rendite, cerca rifarsi sul coltivatore e gli fa sudare le ultime goccie (11).

L'oppressione facendosi così di giorno più pesante, diventa finalmente insopportabile e la rivolta scoppia, ed è da questo accumulamento di cattivi trattamenti che è nata la sommossa dei contadini dell'Ukraìna. Questa volta non s'è limitata ad una o due terre. Cominciata nelle vicinanze di Balta, sé rapidamente propagata in quasi tutta l'Ukraìna, toccando anche ad alcuni punti della Podolia. In più di venti località gli insorti circondarono la casa del nobile o del suo agente, e con una ferocia eguale alla barbarie dell’oppressione, vi arsero vive o trucidarono le famiglie che vi si trovavano. Per bande di 100 a 500 uomini, armati di fucili, di falci e di scuri, percorsero le campagne, misero a morte quanta gente del governo cadeva nelle loro mani e ruppero in varii scontri le prime truppe regolari in cui s’avvennero. Si narrano fatti meravigliosi e probabilmente esagerati del valore dei ribelli. Un capitano del reggimento di Cernigòff m’ha raccontalo ieri a tavola fra due bottiglie che un trecento Kossineri (12), trincerati dietro una barricata di carri, si lasciarono venir sopra due squadroni degli ussari del Principe d’Orange, e quando li ebber veduti imbarazzati fra i carri, li assalirono disperatamente e li ridussero a mal partito, tagliando colle loro falci le gambe e il ventre ai cavalli e trucidando poi gli scavalcati ussari. Un'altra banda si difese per due interi giorni in una vasta osteria a venti werste (13) di qui contro due battaglioni? e din cannoni, e si lasciò bruciar viva piuttosto che arrendersi.

LA DIFESA DI SEBASTOPOLI

La Rivista di Edimburgo nell’ultimo suo fascicolo ci dà i seguenti cenni sulle fortificazioni, al tacchi e difesa di Sebastopoli, a et gli ultimi avvenimenti comunican un'importanza speciale. Ne traduciamo una parte:

La città propriamente detta è situata tutta intiera sulla parte meridionale della baia. La sua figura è a un dipresso quella d’un semicircolo d'un miglio di raggi (metri 1600). Essa è divisa in due quarti di circolo eguali all’incirca, dal seno del l’arsenale che corre dal sud al nord cade ad angolo retto nella baia che forma la rada.

I cantieri, gli arsenali, gli ospedali tutù i principali stabilimenti militari son rinchiusi nel quarto di circolo a levante contro cui è diretto l’attacco degli inglesi La sezione occidentale comprende l'area della antica città tartara d’Aktiar, accresciuta e trasformata ormai in città russa sotto il nome di Sebastopoli.

Quando gli alleati comparvero sotto la piazza, la sola fortificazione compiuta dalli parte del mezzodì era la torre di Malakoff, che, denominata in quel tempo li torre Bianca rassomigliava molto alle torri staccate di Bomarsund ed occupava la posizione dominante del quarto di circolo a levante. Siccome è stata atterrata dal fuoco degli alleati fino dalla prima giornata d’attacco, il suo nome non rimane più che per designare le opere in terra che sono state successivamente alzate intorno alla sua base.

La sola fortificazione esistente dalla parte sud ovest era un muro screpolato e vecchio che si distendeva dal seno dell’arsenale fino ad punto posto dietro il cimitero.

Questo muro sembrava meno destinato a difendere la città che a servire di trincieramento alla guarnigione, onde impedire al nemico di stabilirsi nel forte della Quarantena, nel caso, in cui quest’opera, essendo stata distrutta dal fuoco dei vascelli, uno sbarco fosse stato tentato sulla sua area.

Gli ingegneri russi consideravano indubitatamente l’attacco per terra come improbabilissimo e allorché gli avvenimenti ne mostrarono la possibilità, è a credere che i generali alleati non si ingannassero, pensando di aver trovato nella parte del sud della piazza il punto debole, il vero difetto della corazza. Se avessero dato lo assalto al domani del loro arrivo, è certo che sarebbero penetrati nella città e preso quanto non avesse potuto sfuggire al di là della baia, non avrebbero potuto mantenersi nella loro conquista.

Essi non avevano che uno scarsissimo numero di pezzi da campagna da opporre ai cinquecento o seicento grossi cannoni della russa che, occupando una posizione d’onde poteva battere tutti i punti della città, sarebbe probabilmente stata capace coll'appoggio dei forti del Nord a cacciare i vincitori dalla piazza, facendo ad essi provare perdite enormi.

Ogni scacco in quel momento avrebbe potuto riuscire funesto alla spedizione, ogni sbaglio fra le due armate che si conoscevano appena, ogni disputa relativa al bottino, ogni timor panico cagionato di una esplosione inaspettata, avrebbe potuta destare una confusione generale. Non si aveva verun appoggio dalla parte del Mare, nessuna amministrazione età stabilita, nessun ospedale era apparecchiato; non esisteva alcun punto di riunione e Menschikoff con un’armata abbastanza forte poteva approfittare di ogni circostanza propizia.

L’assalto poteva riuscire senza dubbio, ma era una eventualità terribile che si sarebbe sfidata senza che nu la avesse potuto giustificare la precipitazione dei generali, giacché secondo tutti i principi ammessi, una città aperta doveva cadere tra le mani degli assedianti appena la prima parallela fosse stata armata di cannoni e che i lavori di zappa avessero raggiunto le prime case.

Tale, sarebbe stato l’esito se i russi avessero affidato la difesa di Sebastopoli ad alcun venerabile generale del genio, testimone nella sua gioventù delle grandi guerre di Napoleone, nelle quali avrebbe avuto campo a distinguersi per la parte che avrebbe presa alla costruzione dei ridotti celebri di Borodino o di Bautzen.

Ma sembra che nel servizio russo un buono stomaco e i numerosi anni che ne sono la conseguenza non sono il solo titolo di raccomandazioni agli onori ed al comando. L’uomo che fu scelto, era un giovanissimo uffiziale che si era fatto conoscere unicamente pel suo merito e per la superiorità del suo genio. Invece di difendere la piazza, secondo le regole, per renderla dopo il numero dei giorni tradizionali, si è posto immediatamente a praticare gli insegnamenti di Bomarsund e di Silistria, di cui aveva inteso il valore: ha voluto provare se un poco d’audacia e d’inventiva non metterebbero Sebastopoli in istato di fare una resistenza più seria di di quello che si credeva possibile.


ITALIA E POPOLO
GIORNALE POLITICO
Libertà Unità


Anno V Genova— Mercoledì 19 Settembre 1855 Num. 260

Genova, 18 Settembre

LA RUSSIA (14)

Quando i gagliardi abitanti della Ukraina ebbero scosso l'incubo della obbedienza passiva, parve che acquistassero coscienza d’esser uomini combattenti per un dritto, e non fuggitivi schiavi; parve che s'accorgessero essere della medesima natura dei loro padroni, e parve finanche che un sentimento di nazionalità, probabilmente suggerito da emissari! polacchi, li animasse. Vi fu un momento in cui si sarebbe detto che la brutale ragione sociale stava per trasformarsi in lotta d’emancipazione nazionale. Se da quelle masse fosse uscito un uomo intelligente e audace, come altre volte, ne ebbero i Cosacchi in Chmielnicky, in Mazeppa, in Pugacceff (15), l'insurrezione avrebbe potuto divenir fatale ai russi, guadagnando le provincie polacche. Ma l'istinto della loro forza e il segreto dei loro diritti sono ancora troppo confusi in essi. I nobili che potrebbero farne loro la rivelazione, sono ancora considerati nemici e complici della loro oppressione, e finora non v’è accordo possibile fra le due classi (16). Quando la

nobiltà polacca ha potuto emancipare la classe coltivatrice, non l’ha voluto: oggi, che le lezioni del passato e il sentimento della giustizia han predisposto una gran parte dei proprietarii a quella emancipazione, essi noi potrebbero, perchè il padrone dei nobili e dei servi è interessato a mantenere fra loro la muraglia di separazione, la servitù.

Allorché la rivoluzione del 1850 penetrò dal piccolo regno di Polonia nelle antiche provincie polacche occupate dalla Russia nel primo e secondo riparto, l'insurrezione non fu mantenuta che da poche grandi famiglie e dalla numerosa nobiltà minuta che montò bravamente a cavallo: il contadino di quelle contrade se ne stette inerte, perchè non ha nessuno di quei diritti d’uomo, di proprietà e di famiglia che gli costituiscono una patria: abituato da secoli a veder un conquistatore cacciar l'altro dalle sue terre, senza che veruna guerra avesse mai mutalo la sua condizione di servo, si sentiva anche allora poco inclinato a partecipare ad una(lotta il cui risultalo si sarebbe per lui ridotto ad un cangiamento di padrone.

La posizione naturalmente ostile delle due classi, di cui l’una è la proprietà dell'altra, fu dunque il motivo principale per cui il moto degli ukraìni non cercò né ebbe l’appoggio dei proprietari polacchi, i quali l'avrebbero potuto generalizzare fra i loro sudditi, proclamandone l'emancipazione. Abbandonala a sè stessa quell'insurrezione, il lampo di speranza e la scintilla a di nobile vita che aveva dato, fu di corta durata. Si esaurì in atroci vendette, ih saccheggi, in incendii, e fu. soffocata nel sangue. Trovandola [isolata in circoscritto terreno, i russi vi conversero il nerbo delle loro forze. Le bande furono disperse, le terre occupate, una parte dei rivoltosi cadde sotto le baionette e sul patibolo o fu cacciata in Siberia. Più di 2,600 persone perirono in quei torbidi, più di venti villaggi furono devastati. L’occupazione militare dura su parecchi punti e le commissioni inquisitorie che percorrono il paese finiscono di minarlo.

Il silenzio ricomincia a regnare, finché le stesse cause tornino a produrre qui o altrove i medesimi effetti. Ma, siccome l’emancipazione nazionale non può farsi senza l’emancipazione dell’individuo, così ci sembra molto difficile o accompagnata da orribili sconvolgimenti. Che la nobiltà polacca, al prepararsi d’una insurrezione, tenti di associarsi i contadini, andando a prometter loro di porla in porta la libertà; e la partecipazione alla proprietà, è cosa quasi impossibile ad eseguirsi. Che il governo russo introduca a poco a poco l’emancipazione dei servi, e che da quell'affrancamento personale ne venga col tempo l’affrancamento politico, è possibile, ma sarà lavoro malagevole e lentissimo. Che la democrazia, trionfante in Europa, cacci sulle ।

frontiere russo-polacche un esercito con un vanguardo dei migliori esuli polacchi, e bandisca risolutamente la libertà individuale e nazionale, sarebbe questa la soluzione più completa e pronta. Fuori di queste tre ipotesi, non v’è che una generale e subitanea sollevazione dei servi che ne possa romper le. catene, ed essa comincerebbe la sua ।

opera col massacro dei padroni. È una eventualità troppo spaventevole! Per ora il fuoco sembra spento; ma dalle truppe che stanziano tuttora nei dintorni, è chiaro che il governo non è ancora rassicurato. Intanto gli avanzi dell'insurrezione si aggirano per le steppe a (bande di dieci a quindici individui, infestando le strade, assalendo talora distaccamenti isolati e saccheggiando convogli. Pochi giorni prima ch’io giungessi a Hùman s’erano impadroniti di due carri contenenti una forte somma appartenente alla cassa militare, massacrandone la scorta composta di nove cosacchi, sulla strada che da Kremenciùk conduce a Hùman.

Leggendo la mia lunga lettera, voi dovete ridere. Ho cominciato a parlarvi d’affari e finisco coll’annoiarvi di politica, quasi volessi distrarvi dai molesti pensieri in cui naturalmente dovete trovarvi per la infelicissima piega che i han preso gli affari nostri. Che volete? Quando mi son trovato fra quei ruderi fumanti d’una insurrezione (17) ho sentito risvegliarsi in me il vecchio uomo, e mi sono accorto che sotto la scorza di uno strozzino, o se volete, d’un negoziatore, sta l'Italiano, le cui simpatie corrono irresistibili verso ogni popolo che si rivolta contro un’assurda e brutale oppressione. Una voce segreta dice a noi che tutti gli oppressi sono fratelli. Da questa predisposizione e dal mal umore che sento pei danni nostri che attribuisco in buona parte all'amministrazione russa, è probabilmente venuta una tendenza a gittare una tinta scura su di essi, in ciò che risguarda i loro rapporti coi polacchi e coi malorossiani.

Intanto che mi trovava a Human vi ho veduto passare da quattro a cinque mila uomini della guardia, parte di maggior corpo che viene di tutta fretta mandato al sud. Un’altra divisione, dicesi, discendeva il Dniepr da Kieff a Cherson; una terza veniva dalla Podolia. Credo che una parte si fermerà; a Nicolajeff, dove si aspetta un assalto i dagli alleati; il nerbo maggiore andrà in Crimea. A intendere alcuni officiali: che han la lingua sciolta il dopo pranzo, si pi e para un colpo di fulmine ai confederati: si direbbe che sperano tuffarli tutti in mare. Staremo a vedere. Non capisco però come fin dall’anno passato i quando ancor la Russia non s’aspettava che ad una campagna sui Balkani o sul Danubio, non abbia l’occidente pensato a distruggere l’arsenale e il cantiere di Nicolajeff, che allora era senza difesa, e a dominare con barche cannoniere a diritta e a sinistra l’istmo di $erekop e ad impedirne cosi il passo ai russi. Quando si seppe qui lo sbarco in Crimea, si temette molto di quell’impresa. Ora la credo difficilissima poiché i russi vi hanno eretto validissime difese. Vivendo a Human in una medesima casa d'ebrea con un ufficiale russo, ho avuto occasione di parlar sovente coi soldati. Quei della guardia sono gente ben piantata, m’è sembrata mal nudrita. Il pane di munizione è nero, fatto d’una mescolanza d’orzo e di segala, macinato quasi senza scevero di crusca: è malcotto, viscoso, senza sale, pesante e inacidisce facilmente.

Cosi orrido pane nel paese che negli anni di carestia fornisce di fromento tutta l'Europa, è possibile soltanto in Russia dove gli appaltatori, comprano i a grossissimi prezzi dagli impiegati dello Stato il diritto di speculare sul ventri colo dei difensori della patria. Ogni soldato, quando parte per una spedizione che non ammette perdita di tempo, porta con sé viveri per 5 giorni: cioè i pane, un sacchetto di farina d’orzo e di segale, o di un tritello di grano saraceno che fanno bollire, fino a che divenga compatto molto, e che condiscono con un po’ di lardo. Ogni dieci uomini hanno un vaso di rame e più spesso di terra, dove preparano; quel cibo che chiamano cascia. Hanno i carne — per Io più porco salato — ogni due giorni, ma sovente manca; è ben vero che, dove il possano, se ne rifanno a scapito dell'amico e del nemico, divorandone enormi quantità. Nel 1828, ho veduto sei Baschiri (18): mangiarsi uno smisurato montone in un pasto. I russi han conservato l'Orbitudine di deporre i loro sacchi, allorché han da fare un attacco difficile: l’uomo acquista maggior leggerezza e risparmia meglio le sue forze, ma se l'attacco fallisce, se a seguitarne successo, la colonna deve progredire, si trova allora per molti giorni o per sempre senza sacco, ed esposta quindi alla fame e al freddo. Le malattie e la tdemoralizzazione han così perdute molte i truppe nelle scorse guerre.

Non m’è sembrato scorgere, nemmeno nelle guardie, grande entusiasmo:, personificano la patria nella parola madre Russia-màtuska (((19))) Rassia. Interrogati contro chi andassero a combattere, rispondevano: contro i Francesi e i Bissurmani: il primo di quei due nemici non è noto nella lingua popolare che dal 1812 in poi, col secondo, che è una corruzione di Mussulmani; intendono non solamente i Turchi, ma i qualunque altro che non sia della Chiesa greco-russa. La truppa russa, se non ha grande slancio, ha però una mirabile solidità che le viene da una ferrea disciplina: riceve, finché l’ufficiale gliene dà l’esempio, impassibile, senza muoversi la mitraglia che la miete. Federigo il Grande soleva dire che non basta uccidere il russo, ma che bisogna demolirlo. Voi conoscete la predilezione del russo per l’acquavite; prima d’ogni combattimento se ne dà una buona razione al soldato, il quale ne acquista furia, se non entusiasmo. Quando ne trova a sua disposizione e che ha cominciato a sentirne gli effetti, non, v’è forza capace di distoglierlo dal tracannarne fino a morire.

Federigo narra che alla battaglia di Zorndorff le colonne russe s’erano spinte fino al suo Magenburg, il campo degli impedimenti. La vittoria sembrava sicura pei russi, quando fortunatamente si posero a sfondare le botti contenente acquavite. Una volta ch'ebbero gustato di quel liquore, non vi fu più modo di staccameli. I battaglioni si gettavano carponi a bere al fiume alcoolico che scorreva pel campo. Federigo profittò di quell’incidente, e tanto era l’abbrutimento di quei beoni, che li potè fulminare a bell’agio, senza che si movesserò (20).

Ma è oramai tempo che ponga fine a questa lunghissima mia lettera che forse v’informa di cose, o già a voi note o che non v'interessano molto.

L’antico nostro governatore general Annenkofl' non so per qual motivo, stato richiamato; gli è succeduto il conte Osten-Sacken, sotto il quale successe il bombardamento. Ora si trova a Sebastopoli, e si dice che vi si difenda felicemente. Avrete probabilmente saputo che il palazzo Worontsoff, che sta sull'orlo della ripida costa che guarda il ponte, fu in parte diroccato il teatro italiano, l’ultima casa dove stava il caffè Lemmi, più a sinistra la casa Narìskin, e molte altre case e cascine fuor di città ebbero grandemente a soffrire. La cascina Langeron non è più riconoscibile. Qualche cosa

ne toccò pure alla casa Renand, dove era il club dei forestieri in estate.

Scrivono all’Opinione da Napoli 4 settembre

Recentemente con regio rescritto si è ordinato di approvvigionare la piazza d Gaeta con una quantità di grano e di biscotto: questa notizia ve la dò per certa potendovi dire che gli appaltatori di questi approvvigionamenti sono i signori Falange e Montuoro.

Ora il governo ha posto una nuova tassa del 3 0|0 sulla fondiaria della città: l’animo dei proprietari è per tale deliberazione irritato, tanto più che da 13 anni essi pagano un'altra imposta del 3 0|0 da servire al ritiro de' poveri e loro mantenimento i quali continuano del resto a popolare le strade e le piazze indecorosamente.

Con un altro recentissimo rescritto il re volle essere informato della spesa che occorrerebbe per l’armamento di dieci legni di vela quadra e due vascelli, al che fu risposto abbisognare almeno 300,000 ducati, salvo le ulteriori spese di manutenzione. A questo il tesoro aggiunse non esservi adesso un soldo disponibile. Il re montò sulle furie; ma la sua furia tornò vana, e l’armamento andò in fumo.

Nella zecca si è scoperto ultimamente un vuoto di quarantamila ducati fatto dal cassiere, e vuolsi che un altro vuoto maggiore (di 200m. ducati) siasi verificato nella cassa dell'orfanotrofio militare: tutte circostanze che concorrono a peggiorare le finanze, in un paese che ben amministrato potrebbe essere uno de' più ricchi della terra. Di opere pubbliche non vi parlo perchè non vi si fa nulla.

Vi posso dire con sicurezza che, non vi è un solo cittadino, tranne chi è idiota, il quale non sia ostile al sistema feroce e insopportabile che ci governa.

Il ceto medio perseguitato, si che può dirsi non esservi famiglia, la quale non abbia sperimentato in qualcuno de' suoi le persecuzioni della polizia. Il basso popolo finalmente oppresso e malmenato. I preti jd i frati, classe finora trattata sempre:on estremi riguardi, son pur essi tolti li mira e feriti.

La camarilla ha perduta ogni sua influenza ed è abbattuta, si che per dispetto suoi membri sono i primi a sparlarne.

Sembra però che il governo sia alter rito sempre dall'incubo del partito muratigno, che offre al presente motivi di timori a lui e di speranza ad altri, e di ciò i nuovi arresti fra ogni ceto di persone, non esclusi alcuni preti ed una quindicina di monaci fra Pasqualini, Carmelitani, Domenicani e Francescani. Per queste sospetto furono arrestati l'avvocato Settembrini (fratello di quello che, condannato nel 1852 a morte, andò per grazia agli ergastoli) ed altri avvocati, fra cui i signori Mignogna e Bascone, i quali due ultimi ebbero testé nel carcere di Santa Maria Apparente le legnate, mezzo adoperato qual tortura a far loro confessare le trame della supposta setta, ed il signor Bascone è tuttavia nei criminali.

Si sia intanto compilando il processo aperto contro la setta ed è passato alla gran corte criminale, la quale alla sua volta. proseguendo l’istruzione, manda fuori di quando in quando dei mandati di cattura, pei quali sono fatti legalmente nuovi arresti.

L'affare delle legnate cominciava a commuovere vivamente le famiglie, perchè la pena, oltre d'esser crudele, è degradante, e per evitare dei guai e ad istanza del procuratore generale di Napoli, il re bà mandalo fuori un rescritto col quale stabilisce che la commissione delle legnate non possa più d'or innanzi radunarsi se non d'ordine superiore, ciò che farebbe supporre che la commissione delle legnate debba rimanere sospesa; ma finché non sia abolita, il timore rimane ed il pericolo.

Veniamo ad altri fatti. É morto nei giorni scorsi il dottore Ferrarese, riputato frenologo e direttore del collegio medico. I professori e gli studenti di medicina essendosi radunati per onorare la spoglia con funebre corteggio, trovarono un commissario di polizia, il quale intimò loro di separarsi e di ritornare subito alle loro case, dicendo che simili dimostrazioni sentivano di protestantismo.


ITALIA E POPOLO
GIORNALE POLITICO
Libertà Unità


Anno V Genova— Giovedì 20 Settembre 1855 Num. 261

Genova, 19 Settembre

IL PRINCIPE MURAT E I SUOI PARTIGIANI

Gli uomini che amano sinceramente la patria e ne vogliono l'indipendenza dallo straniero, qualunque si sia, tendono oggi a separare pubblicamente la loro causa da quella del pretendente al regno di Napoli. In ciò fanno opera di buoni e saggi cittadini e i loro compatrioti, a cui non è data oggi la parola, lor serberanno viva e perenne riconoscenza pel coraggio civile e i sentimenti italiani manifestati in mezzo all'avvilimento generale e alla corruzione.

Il Siecle e la Presse hanno riprodotta di questi giorni una dignitosa protesta di G. Ricciardi, esule chiaro per ingegno e per iscritti di argomento politico e letterario, in cui era sempre caldo e palese il culto alla patria. Noi riportiamo questo onorevole documento:

«Un opuscolo, attribuito generalmente ad uno dei più benemeriti ed onorandi tra i fuorosciti napoletani, è testé uscito in luce (non so se in Londra o in Parigi, essendo stampato alla macchia) col titolo: La quistione italiana, Murat e i Borboni. Comincierò dal notare lo scritto esser opera di mano maestra, anzi tale, e per la dottrina che vi risplende, e per le riflessioni profonde e i fatti gravissimi che: contiene, da dover destare interesse vivissimo nei leggitori italiani. Gran danno che l'opera spesa dall’autore a dimostrare la mala natura del dominio Borbonico, e segnatamente, la scelleratezza del presente governo di Napoli, sia fatta servire a pro di Luciano Murat. La salute d’Italia, egli scrive a pag. 8, quando il Piemonte solo non possa riunirla, né liberarla, stassi a nostro parere, nelle Due Sicilie. Nell’irreconciliabilità dell’attuale suo dominatore con ogni sentimenlo di giustizia, il sol uomo che per potenze di tradizione possa convenire a quel paese non altri sarebbe che il principe Murat. E si dicendo intendiamo esprimere in piena indipendenza di pensiero, e dopo lungo meditare, una nostra spontanea convinzione suggeritaci da sola carità di patria.»

«Ed io, cui ben noto è l'animo dell'autore, presto pienissima fede alla sincerità del suo dire, senonché sembrami che l'odio giustissimo da lui nutrito contro l’oscena tirannide borboniana gli faccia velo al giudizio, e lo induca a proporre ai mali immensi ed orribili delle Sicilie un rimedio, le cui conseguenze riescirebbero forse

tristissime. E invero, prescindendo da quello che tutti sanno dei pretendenti, i quali furono e saran sempre promettitori larghissimi, per indi, saliti appena sul trono, fare al modo degli altri re, se non pur peggio, non sarebb’ella una somma sventura per le Sicilie il cadere sotto il dominio dei forestieri? Che forestiero, checché ne dica l’autore dell’opuscolo, è Luciano Murat, e da forestieri non pochi seguitato sarebbe fra noi, non migliori al certo di quelli, che seguitarono il padre. Oltre di che non va tenuta chimerica affatto ogni speranza di libere istituzioni per mano. di un re francese? Il quale in niun modo potrebbe concedere alle Sicilie ciò che l'imperiale cugino rapiva quattr’anni fa, né or pensa certo a restituire alla Francia.

Né basta, chè il nostro paese rìdiventerebbe ciò che fu visto fra il 1806 e il 1815, durante i regni di Giuseppe Buonaparte e Gioachino Murat, vale a dire vivaio e miniera d'uomini e d’oro, non già a pro di sé, né dell'indipendenza ed unità nazionale italiana, avversata più o meno dai governi tutti d' Europa e da quello di Francia, ma।

a pro dell'ambizione di questa, o per parlare più rettamente, del!' uomo che dispoticamente la regge. E poiché ho accennato dell'unità e indipendenza italiana, che prima d'ogni altra cosa dee starci a cuore, dirò dovere sol essa bastare a farci abbonire da qualsivoglia mutamento od impresa, da riuscire parziale anziché universale, municipale anziché nazionale, salvochè non si voglia da qui veder rinnovato il miserando spettacolo del 1848 e 49. Guai a noi ove Italia sia per levarsi qua e là con grida e bandiere diverse, e non già da una unica mente e da un sol desiderio sospinta, e con questa divisa in sullo stendardo: Indipendenza italiana e sovranità nazionale!

Nell’applicazione di questi sacri principii sta la nostra salute, chè, lo straniero cacciato dalla penisola, la nazione italiana sarà per elegger con liberissimo voto la forma del proprio governo. Ma, a poter ella raggiungere tale altissimo scopo, cessare si veggia dall’aver fede nell’estero, in cui fisso pur troppo tiene ai continuo lo sguardo, dimentica dell'antico dettalo: Aiutati, che Dio l'aiuta, non che degli insegnamenti portigli dalle sue storie sul fatto degli aiuti stranieri, massime poi dei francesi, i quali, io non so vedere il come, di amici, anzi ristauratori e sostenitori del maggiore nemico d Italia, sien per mutarsi subitamente in nostri liberatori...

«Ah! sol uno liberatore d’Italia io veggo nell'avvenire, cioè il braccio de' popoli suoi, levatisi al suono del duplice grido che ho detto, e deliberati a non porre giù l’armi, se non purgata la terra italiana da qualsivoglia straniero! Dico nell'avvenire perchè l’Italia presente non parmi gran fatto disposta a risoluzioni di colai foggia, intesa qual è pur troppo, ripeto, a sperar più dall'estero, o almeno dagli avvenimenti che l’estero può suscitare, che non nei proprii suoi sforzi. Per ora altro io non veggo da potere aver luogo fra noi, se non lotte ambiziose di principi, se non pure novelle battaglie di forestieri sui nostri poveri campi. Il perchè neutrale, secondo me, rimaner debbe la nostra parte, ma pronta al tempo stesso a discendere nell'arena, ove il minimo destro sia per esserle porto di levare con frutto un'insegna veracemente italiana! Questi pensieri a me veniva dettando l’esperienza acquistala in diciannove anni di esilio. E voi pubblicateli costà per poco che util vi sembri il farli conoscere ai nostri fratelli di patria.

«Tours, 10 settembre 1855.

GIUSEPPE RICCIARDI.»

La Specola delle Alpi considerando l'esempio dato dal Ricciardi, fa i seguenti riflessi, che ci rechiamo a pregio di riportare ed appoggiare:

«Poiché l’Unione pubblicando quel proclama, ha pressoché motivata la necessità di una manifestazione, noi facciamo altrettanto. Né si dica che in ciò siavi pericolo, perchè se in Francia, nella patria di Murat, si è potuto accettare una protesta di Giuseppe, Ricciardi, della quale se ne son viste due edizioni diverse, l’una nel Siècle e l’altra nella Presse, potrebbesi con più di ragione e di dritto levar la voce Piemonte, e profferir liberamente propria sentenza. Gli emigrati napolitani avranno a questo modo allontanato da sé alcuni sospetti ingiuriosi, avran data una prova luminosa del vero spirito nazionale da cui sono infiammati, il quale esclude ogni coni; partecipazione al pensiero Murattiano. Seguano pure i fatti contrari all’idea essi avranno almeno salvalo il principio, ch'è quello stesso pel quale si tra vagliano duramente da sette anni il esilio.»

Leggesi nella Gazzetta Austriaca in data di Napoli:

Nell’antica Partenone si crede, com sembra, che si debbano forzare le cosementre che a Berlino si procede con grande cautela. Eppure la Prussia potrebbe calco lare sopra un valoroso esercito di 2 a 500,000 uomini, mentre nel regno dell Due Sicilie, fatta eccezione dei 10 ai 15 mila Svizzeri, l’esercito napoletano si è mostrato impotente financo a petto d Garibaldi e della sua marmaglia. Un paio di fregate anglo-francesi basterebbero per ispargere lo spavento al Largo del Castello dove le truppe austriache già per due volte hanno condotto i Borboni. Se siamo bene informati, il Gabinetto di Vienna avrebbe fatto comprendere a quello di Napoli che alla fin fine l'imprudenza potrebbe essere abbandonata alla propria sorte.

Frattanto il contegno di Napoli fu causa che gli animi nella penisola italiana fossero presi da gravi apprensioni. Dove Mazzini era già impotente, gli coadiuvò il governo delle Due Sicilie. Il linguaggi de’ partiti nella Sardegna, ed il loro atteggiarsi inspirarono spavento allo stessi governo di Torino. Già erasi dileguata la falsa idea, come se la situazione d’Orienti potesse facilitare un movimento rivoluzionario al di là delle Alpi, ed ecco ricevere essa nuovo fomite ora che a Napoli si opera come se l'intenzione fosse quella di provocare un conflitto colle Potenze occidentali; e che un pretendente alla corona, da tempo in dimenticanza, è ritornato in campo.

Di tutto ciò è risponsabile il governo napoletano. L’Austria è forte abbastanza per proteggere se medesima; ed inoltre gli abitanti del Lombardo-Veneto sono avversi a qualsiasi disordine, da cui non possono emergere che gravi sciagure; altri Stati però, di natura non tanto robusta, dovrebbero bene riflettere prima di gettare scintille nell’esca, le cui fiamme potrebbero facilmente distruggere il loro tetto di paglia.

Le ultime parole contengono una minaccia, che svela abbastanza la paura del governo, di cui è organo la Gazzetta.


ITALIA E POPOLO
GIORNALE POLITICO
Libertà Unità


Anno V Genova— Venerdì 21 Settembre 1855 Num. 262

Genova, 20 Settembre

I PROGETTI DEI REGII SULL’AVVENIRE D’ITALIA

Il nostro corrispondente del Verbano ci promette una serie di lettere sui progetti dei monarchici relativamente all’Italia, alla dinastia di Savoia e al Piemonte. Il nostro corrispondente si offre pronto a rimaner sentinella per sorvegliare il campo degli avversari osservare le mosse ed avvertire di tutti i passi che i soldati nemici possono fare onde guadagnar terreno alla loro causa. Noi accettiamo volentieri l’offerta e riconoscenti alla scolta che ci dà l’allarme, pubblichiamo oggi il suo primo avviso.

I soldati che nel medio evo, al silenzio della notte ed al chiaror della luna dovevano far la sentinella alle vaste rovine di Roma, sepolcri delle grandi memorie, ad intervalli mandavano un grido, che trovava un eco nel Colosseo, ed era in pari tempo un avviso ed un saluto una chiamata ed un segno. Noi che dobbiamo vigilare non tombe di morti, ma prigioni di vivi, raccoglieremo studiosamente le voci che si levano dai cortigiani, faremo tesoro di tutti gli avvertimenti per tener desti i patrioti, finché le tende del nemico scompaiano dalla terra italiana. Ma lasciamo le figure rettoriche e diamo ascolto al corrispondente.

Dal Lago Maggiore, 18 settembre.

Voi e i lettori vostri vi siete, senza dubbio, dimenticali delle lettere che vi scrissi nello scorso mese di giugno intorno ai raggiri del partito dinastico e agli strani progetti che i suoi giornali mettevano innanzi. Tre mesi d’un’epoca di febbre come questa, valgon tre anni a giustificare ampiamente l’oblio di superficiali articoli di giornale. Credo non pertanto buona cosa il persistere nell’ufficio d’avvisatore che mi sono assunto, e siccome i maneggi e i piani di allora si vanno ogni giorno ripetendo sotto varii aspetti, cosi reputo obbligo mio di chiamare sovr’essi l'attenzione del paese, onde li conosca e se ne guardi.

Cormenin qui depuis… mais alors il était vertueux— Cormenin e Paul Louis Courier, coi loro immortali pamphlets esercitavano al loro tempo un virtuoso ministero, e risparmiarono sovente amare delusioni alla Francia, dando un tocco alla campana ogni volta che il governo meditava qualche follia o tradimento. Uno scrittore di fibra popolare e di sentimenti puramente nazionali, che possedesse l’ispirazione, i forti

pensieri, la fina ironia e lo splendido stile di Courier, l’argomentare stringalo e un po' iroso di Cormenin, od anche soltanto la bella lingua, la copia di cognizioni e l'armonioso periodo di Mamiani, eserciterebbe oggi sulla nazione una salutare influenza, stimmatizzando coll’autorità di una voce potente e ascoltala, i tentativi stolidi od empii che si van facendo per traviarla, la complicità in una guerra senza scopo a cui l'hanno trascinala, le alleanze antinazionali che furono concluse, e gli accordi che si van meditando, ancor più funesti alla sua indipendenza.

A me, oscuro patriota, manca affatto l’ispirazione del genio, e quelle qualità acquistate che lo rendono attraente: non ho che la volontà del ben fare e un grossolano buon senso. Nondimeno, finché altri meglio ispirato non faccia, continuerò a esporre nel vostro giornale, se lo permettete, la mia opinione un sulle quistioni e sui fatti riguardanti l’Italia, mano mano che si produrranno. Per debole, incolto e umile che sia per riescite il lavoro, non credo che sia interamente perduto. Se anche non ।

mi tosse dato altro che di fare svanire una sola illusione, non crederci aver fatto opera inutile.

L’Espero s’è assai piacevolmente burlato di me e della mia fazione da sentinella sul lago Verbano; m’ha costruito un casotto e una gherita e m’ha piantato su d'uno scoglio a far la guardia.

Siccome lo scherzo era abbastanza spiritoso senz’essere inurbano, non mi spiacque, e abbondando anzi nel senso dello scrittore dell'epigramma, risi di buon cuore all'idea di vedermi ritto e immobile sopra una rupe del lago, come un cormorano che spia la preda guizzante fra due acque, come S. Carlo che tien distesa la mano senza stancarsi mai, o come un piantone della ferrovia che delle sue braccia fa un telegrafo. Ma l’Espero ha guastato il suo scherzo, spingendolo troppo oltre e facendo allusione al G. Changarnier.

Questo generale africano, superbo della sua posizione, della sua fama militare, de' suoi legami cogli orleanisti e coi e legittimisti, si atteggiava ad arbitro supremo della situazione, e rassicurava l’Assemblea e la Francia, inquiete pel minaccioso contegno del cospiratore presidente e de' suoi pretoriani en goguettes.

«Délibérez en paix, représentants du peuple,»diceva loro, quella parola, voleva dire: «dormite, io veglio per voi». S'addormentarono e una mattina, Assemblea, Francia, Repubblica e di Changarnier si svegliarono nelle pri gioni di Mazas. Il colpo era fatto: la Francia era schiava.

L’umile sentinella del Lago Maggiore è lungi d’avere l'autorità e l’importanza di Changarnier, ma non ne ha nemmeno la ridicola presunzione, né la stolida fidanza. Il soldato che serve di ultima scolta d'un campo, osserva la circostante contrada con occhio vigile, appoggia l'orecchio al suolo per indovinare i suoni lontani, e ad ogni oggerro o romore che gli sembri sospetto, ad ogni nemico che s’innoltra sotto le vesti d’alleato, e sotto la bandiera d'amico, getta il grido d’allarme. Non a sicurezza fallace, non a sonno lusinghiero il patriota Italiano invita l’Italia, ma col grido e col braccio la scuole ad ogni tratto «onde la neghittosa esca del sonno», e non si perda dietro i sogni ridenti, che i Morfei della Monarchia le mandano per la porta di avorio.

L'umile sentinella continuerà dunque a gittar il suo grido: allevia. Chi sa? Forse un di quei gridi giungerà alle tende del campo italiano, e forse l'esercito della nazione si desterà.

Siamo in tempo di crisi, i giornali e gli uomini del privilegio, delle transizioni e dei ripieghi rimestano ogni giorno la materia e presentano le loro soluzioni. Aspettatevi una serie di lettere sugli argomenti all’ordine del giorno.

La missione d’Azeglio è ritornala a galla, e questa volta fiancheggiala da illustri personaggi e da esperimentati compari. Si parla di ospiti augusti peregrinanti presso ospiti non meno augusti; si susurra di congressi diplomatici. Vi saranno discorsi imparali e recitati a memoria, parate, balli, caccie i e sirene di mano più o meno sincere; poi parole all'orecchio, ipotesi ed eventualità insinuale, patti scritti sulla carta, e mercati di popoli e terre, tenacemente discussi. Dio mi guardi dal chiosare sui personaggi augusti di fresca o di antica data! Il fisco potrebbe farmene pentire con un anno d’arresto preventivo, senza pregiudizio del consecutivo processo. Dio mi guardi anche dal contraddire al panegirico che fa il Globe del re di Sardegna, e agli osanna con cui i nostri giornali monarchici l’accompagnano: sarebbe un prenderlo sul serio più che non merita. Lo voglio anzi ripetere a edificazione di coloro che non leggono che l’Italia e Popolo.

«… Non facciamo che esprimere il sentimento d'ogni classe della popolazione in Inghilterra, se diciamo che in tutta Europa non havvi un uomo che sia ritenuto dotalo di maggior buon senso, di un cuore più generoso e di maggior previdenza politica come conviene ad un uomo di Stato, qual è il re di Sardegna. È vero che aveva i consigli d'un Cavour e dei colleghi d'un Cavour… La messe di prosperità e gloria che Vittorio Emanuele s'è già assicurata la dimostra ch’egli possiede saggezza e di generosità nel grado più elevato. L’uso di queste qualità lo ha innalzato al primo scanno fra i sovrani statisti dei nostri giorni, ecc., ecc.».

Se le persone comprese in quel panegirico non se ne contentano, bisogna le dire che siano ben difficili. Non contraddico in nulla: soltanto nel leggere le lodi prodigate dagli inglesi ai nostri governanti, e dai nostri di ricambio ai governanti britannici, mi sono ricordato dei due medici di Molière che fan la pace, perdonandosi scambievolmente i loro spropositi. «Passez-moi la séné, je vous passerai la casse»di dicono i due Galeni, senza inquietarsi se l’infermo morrà per aver preso la cassia o la senna. Viva Palmerston! Viva Cavour! le partile son pareggiale, le Se il paese è malcontento, tanto peggio per lui. Ma, come dissi più su, non discuto quel panegirico: anzi, trovo quasi che il Globe è stato parco di lodi al suo santo. Se fosse stato un sincero entusiasta, avrebbe dovuto rammemorare che è un vero rampollo dell’albero sabaudo; che, a provare che non traligna da' suoi, egli s'è prefisso, come fanno tutti i grand'uomini di Plutarco, un modello da imitare, e questo è un suo antenato.

Il magnanimo duca menò vita sì austera e santa in un romitaggio a Ripaille sulle rive del Lenano, che la memoria ne vive fin nel dizionario delle l’Accademia francese, la quale ne trasse motivo d’arricchir la lingua patria d'una nuova energica frase: faire ripaille. Se il Globe fa de! suo panegirico una seconda edizione, vi inserirà quel pregio linguistico del grande antenato, il quale, posto fra i predicati di saggio, assennato e previdente statista, brillerà come diamante gentilmente incastonato in mezzo a perle.

Ma già ve lo dissi; di augusti personaggi non mi voglio occupare. Allorché toccai della missione d’Azeglio, intendeva accennare alle quistioni politiche che potrà esser chiamata a trattare, ed è di queste che convien parlare.

Quando vi scrissi sul medesimo argomento nel mese di giugno, sostenni l’opinione che la missione non avrebbe luogo, o, se avvenisse, riescirebbe nulla o funesta all’indipendenza italiana. (Continua)

L’EMIGRAZIONE ITALIANA IN PARIGI E L'UNIONE

L'Unione pubblica come inviatele da... Parigi le linee seguenti:

«È uscito qui un opuscolo, stampato alla macchia, col titolo: Murat e i Borboni, che vi spedisco. Viene attribuito al Saliceli: ed ottenne la simpatia di tutta la nostra emigrazione. Solo Manin dissente, ed io con lui. Una sua dichiarazione su questo proposito sarà pubblicata dal Siècle, dalla Presse e dal Times. Se l’Italia, egli dice, deve soggettarsi ad un re, questo re non può essere altri che il re di Sardegna.»

Non vogliamo credere che l’emigrazione italiana residente a Parigi (giacché il corrispondente non parla solo dei napoletani) accordi le sue simpatie ad un opuscolo, che consiglia l’’impianto d’una dinastia nuova in Italia. I Cernuschi, i Montanelli, i Mazzoni, i Maestri ecc. avrebbero servito assai male il loro paese se l’opera loro dovesse contribuire a dare alla patria un nuovo tiranno, legato per tradizioni e per sangue ali uomo, che con una mano ha rovesciato lo stendardo repubblicano sul Campidoglio, coll’altra ha rialzato il vecchio trono di Gregorio VII.

Quanto alla dichiarazione di Manin noi abbiamo ragione di dubitarne, finché non sia pubblicata, perchè abbiamo ragione di credere che Manin già capo d’una repubblica, non può pretendere che l’Italia debba assoggettarsi a principi e re, ma solo può dichiarare che egli, individuo, si assoggetterà a quel potere, che la nazione avrà decretato.

Indipendenza e sovranità del paese, ha detto Ricciardi: chi pretendesse scindere questi due termini attenterebbe ai diritti della nazione.ù

NOTIZIE DEL CORPO DI SPEDIZIONE

— Scrivono all’Unione da Balaclava, 4 settembre:

Nei tre ospedali di Balaclava contiamo tuttora circa 2000 ammalati, ma pochissimi di gravi: ora abbiamo il vantaggio che stante le misure prese si può loro prestare lutti quei soccorsi che il loro stato esige. Fra un mese speriamo che si potranno ultimare tutte baracche destinale per gli ospedali, alla cui costruzione sono addette tre compagnie del nostro genio e varii greci, e una volta che si possano ricoverare tutti gli ammalali sotto le baracche in legno, speriamo che saranno rimandati ai corpi intieramente ristabiliti.

Ieri sera salpavano dal porto di Baiaclava due vapori, il Lombardo e Sardegna, entrambi carichi di ammalati e feriti; il primo viaggia alla volta di Genova, l’altro per Jenikoi.

Bisogna proprio convenire della stravaganza dei nostri alleati inglesi, i quali, sebbene inciviliti, pure non derogarono dalle loro leggi il bastone, e uno di questi giorni arrivò qui una macchina per eseguire tale castigo sulle truppe. (Avviso alla legione anglo-italiana).

— Allo stesso giornale scrivono da Costantinopoli, 6 settembre.

Il regio piroscafo Tripoli, comandato dal capitano di vascello Lomaglio, è arrivato qui lunedì scorso da Balaclava con cento e più ammalali, e riparte il 10 per Genova onde effettuarvi certe necessarie riparazioni e poscia raggiungere la flotta nel mar Nero.

Il colonnello Berretta, ristabilito in salute, ritorna al campo sulla piro-corvetta Monzambano.

I seguenti navigli nazionali noleggiati dal governo piemontese per la Crimea, trovavansi alle ultime date ai Dardanelli, cioè il Bark, Matilde, capitano Francesco Baffo, con carico di paste e fieno; brigantino Ermenegilda, capitano G. C. Marengo, con carico di fieno e biscotto, ed il brigantino Elisa Maria, capitano Giuseppe Sartorio, con carico di biscotto e fieno.

Una parte ragguardevole della caserma di Cuteli, sita sulla sponda asiatica del Bosforo. venne messa a disposizione del cav. Della Chiesa Della Torre per ricoverare i nostri soldati ammalati che giungono dalla Crimea,

— Il ministro segretario di Stato del dicastero della guerra inglese, avuto notizia della battaglia della Tchernaya, indirizzava al tenente-generale Alfonso Lamarmora, comandante in capo del Corpo di spedizione Sardo in Oriente, questa lettera:

Dipartimento della guerra

Londra, 18 agosto 1855.

Generale,

Il telegrafo mi ha informalo ieri che dopo mesi d'inazione e durante i quali la infermità ha cagionalo vuoti così dolorosi nelle file del vostro nobile esercito, la vostra brama d’incontrare il nemico è stata finalmente appagata. Con quella prodezza, che io prevedevo, voi avete sostenuta la rinomanza delle armi del vostro paese ed avete aggiunto alla loro fama sulle rive della Tchernaya. In nome della mia Sovrana io vi manifesto la Sua ammirazione per i vostri fatti d’arme; non faccio altro se non essere interprete della voce della nazione richiedendovi di accettare da’ miei colleghi e da me le nostre congratulazioni cordiali per la vostra brillante vittoria. La confidenza che è sempre esistita tra i nostri due eserciti è ora indissolubilmente cementata, e mentre noi siamo intenti alle fatiche dell’assedio sperimentiamo la più perfetta sicurezza contro le irruzioni del nemico alle nostre spalle.

Possiate conservarvi, a raccogliere per voi nuovi allori, per la vostra patria onori maggiori.

Credetemi, ecc.

Firmato: L. PANMURE.



ITALIA E POPOLO
GIORNALE POLITICO
Libertà Unità


Anno V Genova— Sabbato 22 Settembre 1855 Num. 263

Genova, 21 Settembre

IL PARTITO MURATIANO E LA QUISTIONE ITALIANA

La lettera di un Muratiano pubblicata dall’Unione ha provocato la seguente risposta da parte di un distinto esule Napoletano:

I vari partiti politici, che tutti possono comprendersi sotto il nome di opportunisti, accusano la democrazia d’impotenza. Voi, dicono essi, mancate di armati, di pecunia, di accordi, quasiché la democrazia fosse un poter e fuori della Nazione, al quale corresse l'obbligo di soccorrerla.

Gli esuli che si raccolgono sotto questa bandiera, non dicono agl'Italiani: attendete da noi la libertà e l'indipendenza, ma si fanno a rammentare i mali sofferti e le severe lezioni dell'esperienza, e vanno ripetendo che gli stranieri son tutti nostri nemici, i principi larghi promettitori quando vogliono acquistare o conservare un trono che temono di perdere e nemici naturali della sovranità nazionale quando sono forti; quindi non bisogna sperare né in questi né in quelli, ma solamente in noi stessi. Facciamo come fecero la Svizzera, le Fiandre, l'America, la Francia, la Grecia? l’Italia stessa, ed i nostri nemici saranno vinti; rimosse le cagioni che ci dividono e ci opprimono, noi troveremo in noi stessi esercì ti, tesori e capi.

La democrazia non è setta, chiunque vuole, con forze italiane, conquistare l'indipendenza e la sovranità nazionale è compreso sotto il suo ampio vessillo. Essa non ammette sovrani, perchè sovrana è la nazione, non idoli perchè altro non sono che bassa imitazione del reggimento monarchico. Gli uomini in essa si succedono come ombre; ne sono capi non coloro che la padroneggiano, ma coloro che la servono, quelli le cui idee e le cui azioni si conformano all’universale sentimento; quando il pensiero di un capo abbandona questa via, ed al concetto universale tenta di sostituire il suo proprio concetto, immediatamente sparisce dalla scena, egli altro non è che un rappresentante a cui i committenti, ai più picciolo errore, ritirano il mandato. Disconoscono la natura della democrazia coloro che la credono simile a quei partiti del medio evo, i quali cacciati in bando facevano armi e danari, suscitavano nemici alla patria, e si presentavano da conquistatori.

Gli armati, i tesori, t'accordo, bisogna die lo mostrino quei partiti che in nome d’un idolo, d’un padrone si fanno promettitori di futura prosperità. Gioacchino Murat altro non era che un Generale di cavalleria, un seide di Napoleone, e chi mai, per poco che abbia cuore italiano ed amor di patria i può rammentarsi, e non sentir vergogna dei dieci anni di conquista francese che subì il regno di Napoli?

Il miglioramento nelle leggi avvenuto in quell'epoca, miglioramento poco adattato a' bisogni, a' costumi, alle tradizioni di quel popolo, miglioramento, pel naturale corso dei tempi ora cangiato in tirannide, non è dovuto a Napoleone ma alla rivoluzione! francese.

Napoleone, altro non fece, che restringere, mutilare nel codice da esso compilato, que' principi! e que diritti banditi dalla rivoluzione, frutto di questa il bene che si ottenne in quell'epoca, opera di Napoleone i soli mali che afflissero i popoli.

Murat impose al nostro paese quelle leggi, che a lui venivano imposte dal ।

suo protettore; e siccome quel Murat introdusse nel regno il codice di Napoleone I, cosi questo Murat introdurrebbe quello, che Napoleone III, ha scritto con le stragi del 2 dicembre.

A questo si riducono le promesse dei muratiani. Domandiamo ora quali siano le loro forze, e come ci assicurano del loro trionfo? Dal bando pubblicato dall’Unione, risulta ch’eglino accusano l’emigrazione d’indifferenza, e con Murat a duce, si dicono pronti a liberare il paese; ma chi sono essi? Niuno, sino ad ora, si è dichiarato muratiano; è il solo partito politico che vergognasi dell'esser suo, e si nasconde. Chi è convinto di operare per amore di patria, non tace il suo nome, forse la modestia è cagione del loro silenzio?

Solo Saliceti si conosce per tale, e non già perchè egli lo abbia detto, ma perchè non ha smentito coloro che tale lo han dichiarato. Egli dice che dopo profonda meditazione siasi risoluto ad abbracciare un tal partito, e la meditazione, noi crediamo, ha dovuto essere profondissima. Egli che proponeva a Ferdinando II un manifesto che niun principe, senza suicidarsi, avrebbe potuto accettare; egli deputato alla Costituente Romana, che fece parte del potere esecutivo, che compilò la costituzione di quella Repubblica, distrutta dai francesi; egli che diceva, non sacrificare né meno la Repubblica di San Marino all'unità monarchica italiana; egli stesso, ora si adopera per dare al suo paese un nuovo padrone, un padrone forestiero, un padrone servo, a sua volta, di quei francesi che spensero in Ruma la nascente libertà, che l'hanno spenta nella propria patria…….. per fare un tal mutamento, ripetiamolo; le meditazioni hanno dovuto essere profondissime………. A noi pare che la stampa italiana, dovesse essere concorde, nel far violenza alla modestia di questi svisceratissimi amatori di patria e chiedere i loro nomi.

Inoltre vorremmo aver risposta ad un'altra quistione; Voi vi stringete intorno all'augusto perchè disperate delle forze del popolo, né lo credete capace di liberarsi dal Borbone, ma Murat non è un esercito, non è un Orlando, come dunque quel popolo stesso da voi dichiarate impotente, diverrà potentissimo se al Borbone dovrà sostituire il vostro idolo?

In due modi potrete farlo: o fidando nell'appoggio delle armi francesi (di che non avete certezza veruna), ed in tal caso, non dubiterei dichiararvi vili e traditori, perchè condotti in patria da un esercito straniero, elevereste le vostre fortune sulle vergogne del paese. O pure giovandovi dei milioni di Murat, potreste corrompere i capi della milizia, ed in tal caso sareste una fazione, che usufruttando i vizii dal pessimo governo fomentati, imporreste di sorpresa al paese il vostro protettore, e voi con esso; quindi non veggo ove sia in questo procedere la carità di patria. Voi siete impotenti a promuovere la sollevazione, ma capaci solo, se avviene, di sviarla dal suo corso, volgendola a vostro profitto.

Finalmente, avete pubblicalo un libro, e questo libro per noi profani, è un mistero, mentre esso dovrebbe servire a convertire gli eretici. Perchè! non lasciarci la libertà di esaminarlo?

Volete parlar soli, e senza contraddittori? Ma questo è un tristo preludio della libertà che vi degnerete accordarci. Se voi in esso dite il vero, la nostra critica accrescerà lume alle vostre ragioni.

Queste idee mi venivano suscitate dalla lettura di quel bando dell'ignoto i muratiano, ho creduto mio debito palesarle, mi son perciò giovato della bontà del Direttore di questo giornate.

Mi sottoscrivo, non per la vanità di far leggere il mio nome, ma perchè invitando i murattiani a palesarsi ho creduto mio debito il farlo.

Genova, 21 settembre 1855.

CARLO PISACANE

Esule napoletano.

LA CADUTA DI SEBASTOPOLI GIUDICATA DA KOSSUTH

La presa di Sebastopoli ha ispirato a L. Kossuth un bell'articolo pubblicato nell’Atlas e intitolato La Vittoria.

Dopo tanti giudizi emessi dalla stampa di tutti i paesi e di tutti i colori, piacerà conoscere il parere dell’agitatore ungherese.

«Sebastopoli è caduta. Le corone insanguinate della vittoria, vivamente contrastate e comprate a caro prezzo, adornano finalmente la fronte del vincitore.

«lo penso che dopo ringraziato Dio, ogni buon inglese avrà pagato un giusto tributo d’ammirazione ai coraggio indomabile, al valore eroico, alla perseveranza di questi guerrieri gloriosi i quali, dopo essere rimasti esposti per lo spazio d’un anno alle influenze micidiali di quel terribile angolo di terra, si sono slanciati arditamente sui mucchi dei morti e dei morenti per piantare lo stendardo della vittoria sulle rovine fumanti della città conquistata.

«Siami lecito unire il mio umile omaggio ai tributo d’ammirazione universale dovuto all’eroismo. Qualunque sieno i resultati positivi del primo atto di questo dramma sanguinoso sì splendidamente terminalo: qualunque sia il biasimo che deesi alla politica che ha presieduto a tutte le fasi di questo conflitto, i soldati hanno pagalo nobimente il debito d’obbedienza verso il paese; nessuna macchia offusca lo splendore del loro nome; ad essi tutta la riconoscenza de' loro' concittadini; ad essi l’ammirazione del mondo intiero.

«Noi non dubitiamo che i comandanti non abbiansi gli onori meritati; ma l'Inghilterra non dee dimenticare e non dimenticherà certo gli eroi sconosciuti, morti nell'adempimento d’un dovere sublime di sacrifizio, d’abnegazione e di patriottismo.

«Per quanto appartato sia il luogo in cui sto scrivendo codeste righe, io odo risuonarmi intorno le grida dell’entusiasmo nazionale. Avvi alcunché nella gioia d’una nazione, che impone il rispetto.

«Guai all'indifferenza che insultasse alla gioia di una nazione. Il popolo si rallegri pure, e coloro soprattutto, cui l’annunzio della vittoria fu in pari tempo un messaggio di morte, schiudano il loro cuore ulcerato al balsamo della gioia generale e trovino nel pubblico successo una consolazione pei loro dolori privati.

«Tuttavia quando le prime commozioni della gioia nazionale si saranno acchetate, la riflessione verrà alla sua volta a rivendicare i sooi diritti. I patrioti non debbono dimenticare che è loro dovere prendersi cura dell’avvenire anche, in mezzo al tripudio d’un trionfo pubblico lungamente aspettato, lungamente desiderato e comprato a si caro prezzo.

«A questo patriottismo intelligente e riflessivo, io farò questa domanda:

«Ebbene, dopo questo trionfo ottenuto che farem noi? La caduta di Sebastopoli acquista una grande importanza a cagione della durata eccessiva dell’assedio. Le operazioni della guerra essendo state compendiate in questa intrapresa isolata, la presa o la conservazione della piazza era la pietra di paragone della potenza comparativa delle due parti guerreggienti. Gli occhi dell'intiero universo rimasero confitti, durante un anno, in quell'angolo di terra.

«Se l’intrapresa fosse andata a vuoto, gli alleati avrebbero perduto tutto il prestigio della loro potenza. La Russia dal canto suo, avendo resistito per un anno intiero a tutti gli attacchi, senza che le sia però venuto fatto salvar Sebastopoli, ha perduto non poca parte dei suo prestigio militare: e il colpo è tanto più grave, in quanto che questo prestigio erasi accresciuto in virtù appunto di questa resistenza prolungata. In siffatte circostanze la vittoria presente è incontrastabilmente un gran fatto, come è altresì dal punto di vista strategico.

«Vuolsi eziandio confessare che il sud di Sebastopoli essendo caduto immediatamente dopo che Malakoff cadde in potere degli alleati, lo spirito si ricorda involontariamente che Malakoff, la chiave di Sebastopoli, la fortezza delle fortezze non esisteva quando ebbe principio l’assedio.

«Questa circostanza, posta a confronto delle perdite numerose che ha costato il trionfo, dee necessariamente occasionare molti rimpianti. Ma ciò non attenua menomamente il valore militare del fatto. Non bisogna considerare la cosa dal punto di vista di ciò che è; più grandi furono le difficoltà, più grande è la gloria di averle superate.

«La caduta, di Sebastopoli è un fatto d'armi illustre, un gran trionfo militare, che sparge uno splendore immortale sugli eroici eserciti, che l’hanno compiuto, e che aggiunge una grande gloria alla fama militare dell’Inghilterra e della Francia, e un nuovo peso alla loro potenza.

«Ma la questione più importante per gli uomini di stato e per tutta l’Europa in generale si è questa: Quali saranno i risultati politici permanenti della vittoria? Qual benefizio reale ne ritrarrà la causa della libertà e della civiltà? Avvi egli uno scioglimento soddisfacente — uno scioglimento qualsiasi — del gran problema implicato in questa guerra? Lo scopo della guerra è o no raggiunto? Quale linea di condotta dovranno seguir quind'innanzi le potenze alleate? E quale condotta hanno risoluto seguire?

«Siffatte quistioni sotto d’immensa importanza e d'immenso interesse. Più grande è il sacrifizio con cui fu bisogno comprar la vittoria, più dobhiam ricordarci di questa verità: Che la vittoria non ha valore se non in quanto se ne sa trar profitto».


ITALIA E POPOLO
GIORNALE POLITICO
Libertà Unità


Anno V Genova— Domenica 23 Settembre 1855 Num. 264

Genova, 22 Settembre

I PROGETTI SULL’AVVENIRE D’ITALIA E IL MARCHESE D'AZEGLIO

Il corrispondente del Verbano ci manda la 2° sua lettera sul progetto di viaggio a Parigi del marchese Massimo D’Azeglio.

Dal Lago Maggiore, 20 settembre.

Il viaggio a Parigi potrà aver luogo: negoziati politici sono possibili. Siano essi un simulacro onde strappar l'Austria alla sua immobilità, e finiscano poi col sagrificare il povero Nano piemontese alle esigenze dell'Austria: conducano essi a complicità di scomparti italiani: sia la missione di Azeglio corroborata da Cavour, il gran prestidigitatore del ministero, da Dabormida con in tasca il suo memorandum dei sequestri e da Librario armato da un altro memorandum sui conventi, non è questo che mi tiene in pensieri. Se fossi un deputato della sinistra dinastica che si mantien fedele alle tradizioni lasciale da Odilon-Barrot in Francia, che s’illude con lui è che finirà come lui, mi affannerei forse a raddrizzar la politica dello Stato, potrei gridare ai ministri: «voi siete ingannati o ingannate il paese: la guerra nella quale avete impegnato le risorse del Regno, non ha scopo italiano: il campo di battaglia dei valorosi nostri figli dev’essere l’Italia non la Crimea: voi ci lasciate con 20,000 uomini, il cui ordinamento è scompigliato, esposti a un colpo di mano di Radetzky: voi vi mettete nella necessità di chiamare in aiuto un esercito francese che si pianterà arbitro in mezzo a noi, occuperà la culla della nostra dinastia e si porrà in tasca le chiavi delle Alpi: voi compromettete l'onore del Piemonte in alleanze immorali e antinazionali: voi perdete la monarchia e la libertà.»

Questo non farò io, che non credo nella compatibilità di questi ultimi due termini, e che credo unicamente nella nazione. É sarebbe inutil pena il gridare. Là monarchia è condannata dalla sua origine, da’ suoi interessi, dal suo parentado, dai precedenti diplomatici sui quali è fondata la' sua esistenza e dal corteo obbligato che le fanno le classi privilegiate, a patteggiar coi governi, non coi popoli, a mercanteggiare genti e terre, non a liberarle. La quadriga della monarchia non può uscire dalla carreggiata sulla quale è lanciata: bisogna che fornisca la sua corsa. Se torcesse da quel cammino, si perderebbe. Trovo logico e fatale che agisca così; non me ne adiro, e per quanto sta

in me, l’abbandono alla sorte sua, con tutti i Librari, i Dabormida e i Cavour che la guidano e le fanno scorta. Corrano, e tal sia di loro! Ma confesso che mi duole d'Azeglio. Non mi faccio illusione veruna sul valor politico di quest’uomo: so che è inconseguente e leggiero, che è un artista della scuola materiale, cui ogni effetto di luce abbaglia e attrae, tributando oggi al tetro quadro del 2 dicembre la stessa ammirazione che dava ieri al quadro della battaglia di Vicenza: so che non: ha fede nella nazione, bensì nella forza che trionfa: so che è l'autore del manifesto di Moncalieri. So tutto questo e il paese lo sa. E tuttavia non posso difendermi da un senso di dolore nel pensare che il suo nome fu associalo ad alti dannosi all’Italia e che può assolcarvisi ancora.

Racconta Maometto d’aver veduto nelle sue peregrinazioni a traverso i cieli, in Paradiso, un piede umano senza il resto della persona. Chiesta la spiegazione dell'enigma, la sua guida gli disse: «l'uomo, a cui appartenne quel piede, fu altre volte un malvagio re, la cui vita fu bruttata d’ogni vizio e delitto, e che ora ne sconta la pena in inferno. Essendogli un giorno accaduto di vedere un cammello, cui la troppo corta cavezza vietava di giungere col muso all'acqua, senti quel tristo un fuggitivo movimento di compassione, e approssimando col piede all'assetata bestia la secchia le diè modo di bere. La giustizia divina non aveva sopportato che quell’atto di pietà andasse perduto e ne. aveva tenuto registro».

D’Azegiio è divenuto miscredente, il soldato s'è fatto ministro, il poeta s'è trasformato in diplomatico; ha calunniato la nazione ne’ suoi scritti; ha firmato il proclama di Moncalieri e trattò coll'Austria; ha spedito ciambellani itai iiani a dare a Francesco Giuseppe il benvenuto sulle riconsegnate terre lombardo-venete, e generali italiani a complimentare Radetzky; ha avuto paura del papa; ha fatto in somma irrevocabilmente divorzio colla rivoluzione italiana. É vero. Ma d'Azeglio ha diretto altre volte parole d'affetto all'Italia, ha; scritto pagine che tornano ad onore dell’Italia; d’Azeglio ha combattuto ed è stato ferito a Vicenza. L'Italia ha raccolto quelle parole e quelle goccie di sangue in una delle sue bilancie; nell’altra stanno la sua defezione e gli errori suoi. Egli è ormai straniero alle aspirazioni del popolo italiano, e irremissibìlmente perduto per la cooperazione attiva all’emancipazione: è questo un triste fatto al quale mi rassegno; ma non vorrei, se dipendesse da me, che il suo nome fosse ancora accoppiato ad avvenimenti funesti al paese; non vorrei che l'Italia avesse a porre nuovamente quel nome sulla bilancia dove s'accumulano i vergognosi patti, le immorali transazioni, che la tradiscono e la disonorano.

Ad ogni costo vorrei pur trattenerlo dal correre in sì mala compagnia a convegni, dove si congiura alla ruina della patria nostra; e se fossi amico gli direi: — Fermatevi: non è questa la parte che s' addice ad un uomo il cui cuore ha palpitato un giorno per l’Italia — Ritraetevi da questa via. La monarchia non per questo si ristarà. Essa è condannata a proseguire sii furioso cavallo la precipitosa sua corsa, come i morti di Burger: lasciatele compiere il suo destino, e lasciate ch’altri galoppi coi morti. Potete voi, autore della Sfida di Barletta partecipare a ritrovi dove si trama la continuazione del servaggio italiano, come al tempo di Fieramosca, nei due campi, di Francia e di Spagna? Potete voi stringer la mano a gente che, con parole bugiarde, con veste mentita e con armi nascoste, macchinò la sfida e la morte di Roma? Potete voi, scrittore del Nicolò de' Lapi, assistere a congressi che vi rinnoveranno la memoria del congresso di Bologna, dove Firenze, ultima figlia della libertà italiana, fu assediata e data ai Medici, Asti al duca di Savoia e il resto dell’Italia all'Austria? Potete voi consentire al rinnovamento di siffatti riparti, anche se fra quelli si trovasse un'altra città d'Asti, due o Ve ducati, ceduti al Piemonte? Potete voi, ferito di Vicenza, porre la vostra firma ad atti che confermeranno, anche alterandoli, gli empii trattati di Vienna e lasceranno l’Italia schiava e divisa? Potete voi supporre carità per l’Italia nei napoleonidi che ebbero governatori a Roma e a Torino, un viceré a Milano, una vice-regina a Firenze e un re a Napoli? Potete voi fidarvi delle parole di Palmerston che si beffò nel 1814 delle promesse fatte alla Sicilia e a Genova? Potete voi, soldato di Vicenza, sottoscrivere trattati che riconoscano e consacrino il possesso di Vicenza all'Austria? Invano torcete lo sguardo e crollale il capo in segno di protesta. Nella compagnia in cui vi trovate, nell'incarico che v’assumeye, voi non potreste vergare che patti fatali all'Italia.

«Assez! assez!» Non più, non più vergogne! gridavano i patrioti francesi a Guizot che ogni giorno umiliava la Francia. Il gridar dei francesi fu vano. Guizot, con un freddo sorriso sul labbro, persistette, e tratto dal suo orgoglio sulla ruota addentellata degli errori, l’antico liberale si trova essere oggi un di coloro che nell'odio alla libertà vanno innanzi agli altri, ed è capo schiera d' una fazione, che simpatizza collo straniero e grida: «Piuttosto i cosacchi che la libertà.»

«Non andate a Roma,» dicevasi dai buoni italiani al general Zucchi, chiamato nel 1848 da Pio IX a far parte del ministero Rossi: «voi vi perdete: la ruota degli intrighi papali vi attrarrà fra' suoi denti e farà di voi uno stromento funesto al paese.» Zucchi si turò le orecchie, protestando che ben lungi dal lasciarsi volgere al male, trascinerebbe egli al bene e papa e ministri renitenti, andò, stelle col papa contro Roma, e fini col capitanare contro la repubblica un branco di disertori, agli ordini di Gaeta e del Borbone. Oggi la fama dell'intrepido luogotenente di Napoleone, del patriota del 1821 è cancellata dalla memoria degli italiani, e tramonta oscura in qualche angolo degli Stati del papa.

«A rivederci in faccia al patibolo» diceva in pien parlamento, il patriota Pym all'amico Strafford, che aveva disertato la bandiera della libertà per farsi ministro di Lario I, re d'Inghilterra. Strafford tenne l'invito, e i due amici si trovaron di nuovo in presenza; Pym fra i giudici, Strafford sul palco, dove il re l’aveva codardamente abbandonato.

Voi ben credete, d’Azeglio, non voler io minacciarvi di morte e atterrirvi coll’esempio di Strafford: che ben so io non temer voi la morte. Ho voluto soltanto mostrarvi che la colpa politica la quale stenda una volta su d'un uomo la sua mano di ferro, gli ficca le unghie profondamente nelle carni e difficilmente l’abbandona. É una camicia di Nesso. Il concatenamento di quegli errori sembra fatale. Una volta entrato in quella via, l'uomo è spinto irresistibilmente dai complici che gli si accalcano dietro, e va e va, senza potersi fermare, anche fin dove gli sarebbe ripugnato dapprima. Amico sospetto, come tutti i transfugi, nel nuovo campo, si esige da lui un eccesso di zelo che non è necessario agli altri; ogni giorno bisogna fornir testimonianza nuova: «ancora, ancora, gli gridano gl'incontentabili partigiani, lava con nuovi fatti il tuo peccato originale, lievi il calice sino alla feccia.» La colpa chiama la colpa: quell'uomo trova un giorno che la feccia è troppo amara ed esita alfiere, e allora i suoi partigiani lo spezzano come inutile arnese: o l’uomo prende gusto al liquore e se ne lambe le labbra, e allora la trasformazione è completa.

A Carlo Alberto, pentito del suo fuggitivo pensiero italiano, e ritornato Del grembo della monarchia, fu imposta per la prima volta la pena di combattere al Trocadero gli antichi amici di rivoluzione, e la penitenza della bianca austriaca assisa. Il penitente cospiratore avea preso tal gusto alla reazione che mal ne avvenne a Volonteri, a Tola ed a Vochieri. Alla seconda prova lo strumento fu trovato logoro e inetto e la monarchia io spezzò e C. Alberto morì nell’esilio.

Sapete che avvenne a un re di Spagna che in sua gioventù era stato gran persecutore d’eretici? Assisteva egli in anni più lardi ad un Auto-da-fè. Fra le numerose vittime che, in nome di un Dio di pace, l’inquisizione mandava al rogo, si vedevano venerabili vecchi e giovani donne. Lo spettacolo di quelle fiamme che, a guisa di serpenti, salivano a spira lungo le membra di creatine umane. L’abominevole odore di rami abbrustolite che montava, come incenso, al cielo, le dolorose strida dei morenti, fecero una profonda sensazione sul vecchio re, i cui nervi dovevano pure essere abituati a simili scene. Una lagrima gli sfuggì dagli occhi e gli corse lungo le rugose gqancie. Quella lagrima fu registrala nei libro dell inquisizione e gli fu scritta a delitto.

Domato dai pregiudizi dell’epoca e dalle inquietudini d’una talliva coscienza, e legata da' suoi antecedenti, il re subi passivamente dall'Inquisizione il processo e la sentenza che dannava di eretica la lagrima da lui sparsa. Ad espiazione di quella colpevole stilla di pianto, consentì che gli fosse cavata una stilla di sangue: e nella stilla fu bruciata come eretica!

So che il patibolo di Strallòrd non v'incute paura e non vi farà dare addietro d’un passo: ma varresti, d Azeglio, il pensiero della terribile responsabilità che assumete. partecipando a consigli, in cui si cospira contro l’ emancipazione della patria nostra. Ritraetevi. La monarchia si sforzerà di compiere l’opera sua anche senza di voi; ma agognerebbe aver l’aiuto della mano vostra, e sa ben essa il perchè! Essa vorrebbe farvi espiare le belle pagine che già dettaste per l'Italia, col farvi scrivere un alto diplomatico che la mantien serva e divisa. Ottenuto questo, essa s’incaricherebbe poi, se trionfa, di farvi scontare più lardi con lagrime dolorose quelle stille di sangue rivoluzionario già da voi sparse, come l'Inquisizione aveva fatto espiare col sangue del re la lagrima che gli era sfuggita.

Dio vi preservi da una tale espiazione che sarebbe senza conforti; perchè nel giorno — e l’alba di quel giorno già spunta — in cui l’Italia, fugando i diplomatici e i loro padroni, si sarà levata a nazione, voi non potreste più mostrarle le traccie del sangue del soldato di Vicenza; F inchiostro dello scriba diplomatico le avrebbe già cancellate.

LE VITTIME DELLA GUERRA!

Un corrispondente del Times fa seguente calcolo sulle perdite cagionate dalla guerra in Crimea:

Da una autorità, in cui ho ogni ragion di confidare, apprendo che l'impero ture ha perduto 150,000 uomini dalla dichiarazione di guerra, nell’autunno del 1853. I francesi, dal loro arrivo in Oriente hanno perduto 70,000 uomini tra mori e resi invalidi; gl'inglesi 28,000. Mettendo insieme francesi, inglesi e turchi, hanno perduto gli alleati 230,000 uomini. Anche la perdita dei russi è stabilita da lord Lansdowne parimente in 250,000 uomini ma vi sono ragioni per credere queste calcolo al di sotto del vero. Facendo calcolo della mortalità a bordo delle navi da guerra e dei trasporli, e fra i lavoranti di differenti specie addetti alle armate, di cui ve ne sono alcune migliaia in Crimea, si può calcolare che da 500 mila a 600 mila uomini perirono o diventarono invalidi dal principio della guerra. Se le operazioni avessero ad essere condotte sopra un campo più vasto, dovremmo attenderci perdite ancora maggiori, ed essere disposti a fornire rinforzi in numero maggiore, e con maggiore regolarità che finora non si sia creduto necessario.

NOTE

1 Nei nomi russi, la nostra lettera C, posta alla fine d’una sillaba, conserva il valore, che ha quando si trova innanzi ad un I od a un E. I nomi russi cambiano di desinenza, e dicesi Kerc, Kerei, Kercia ecc. secondo i casi. Mi attengo a Kerc che è il primo caso, serbando al C la pronuncia che avrebbe se precedesse l’I o l’E. Lo stesso dicasi di Kamiesc (canna e canneto) che si pronuncia come se fosse scritto Kamiesci, sopprimendo però l’I. I francesi, scrivendo Kamiech, ottengono il risultato della pronuncia russa. Ad evitare incertezze, sostituisco il forastiero K al nostro C, quando questi, in fin di sillaba, conserverebbe il valore del Q.

2 V. Italia e Popolo N. 254

3 L'importanza personale consiste io Russia nei servìgi che si rendono allo Staio. Le ricchezze e gli illustri natali servono a facilitar la strada agli impieghi, come altrove, ma non costituiscono da se una potenza. La nobiltà non è obbligata al servizio militare, ma perde le sua prerogative se per tre generazioni non serve lo Stato nella carriera militare o civile. A un banchetto di corte, in una cerimonia pubblica, un povero alfiere ha la preeminenza su d’un principe milionario che non sia o non sia stato al servizio. La Russia ufficiale, dirci quasi la Russia attiva (e per regola generale non è che la nobiltà che la compone; il resto è la Russia passiva) vien distribuita in quattordici classificazioni di gradi, che si chiamano cin (atti), dal Registrator collegiale fino al Cancellier dell’impero! le quali classificazioni corrispondono a quattordici gradi della gerarchia militare, dall’alfiere al maresciallo d’impero. Gli impiegali civili si chiamano quindi cinovniki.

4 La cifra del soldo degli impiegati è presso a poco ancora com’era 150 anni addietro, sotto Pietro il Grande, benché i metalli preziosi abbiano d’allora in poi perduto quasi la metà dei loro valore, e che i viveri di prima necessità abbiano acquistato un prezzo maggiore del doppio. Aggiungasi ei e fino al regno di Caterina II lo Stato pagava i suoi servitori in argento suonante. D’allora in poi paga in carta monetata che a poco a poco ha perduto i tre quarti del suo valor nominale. Ci vogliono dai 3,70 ai 4 rubli in carta per far un rublo in argento che è un piccolo scudo, volgarmente dello kartovanz.— Un impiegato di Pietro I che aveva, a mo’ d’esempio, uno stipendio di mille rubli, non ne ha sempre che mille anche oggi, colla differenza che ora con quella somma non può comprarsi che la metà del pane che comprava allora. — La sua paga si trova dunque ridotta a 500 rubli. Infine quei 500 rubli gli vengono pagati in caria, e non valgono più che da 125 a 150. Questa insufficienza, questa specie di fallimento dello Stato in faccia a’ suoi servidori è talmente riconosciuta, che l’esercito sul piede di guerra vien pagato in moneta fina, in veri rubli d’argento o suoi equivalenti. Cosi malamente retribuito, come volete che l’impiegato subalterno si conservi puro? La concussione e la malversazione sono dunque inevitabili, e il governo lo tollera fino ad no certo punto. Bisogna che gli abusi siano bene scandalosi e il danno recato allo Stato ben grande, perché il grido ne giunga fino all’imperatore. Se un siffatto processo vien sottoposto ai tribunali, gli agenti della giustizia che son pur essi esposti esposti alle medesime tentazioni, giudicano ordinariamente con parzialità gli accasali di venalità.

5 V. Italia e Popolo N. 253 e 256.

6 Essendo i nomi polacchi scritti in caratteri latini, li trascrivo tali e quali senza alterarli per indicarne la pronuncia, come s’usa con tutti i nomi propri forastieri, che non sono abbastanza celebri per essere volgarizzali nelle altre lingue. Si volgarizza bensì Londra, Parigi, Varsavia, ma non già Aberdeen, Charter, Przeimyst ecc.

7 I cosacchi, sorta di predoni, disertori delle contrade circostanti, formarono per più se coli una repubblica guerriera sulle sponde del Dniepr. Nata e mantenutasi per un dato tempo, come Roma, fra guerre e saccheggi, mancò a questa repubblica il pensiero d’unificazione e di civiltà che fece la Unga potenza di Roma. Erano valorosi ed instancabili particolarmente a cavallo, e tennero per gran tempo lesta a tartari, ai polacchi ed ai russi. Il soprannome di Zaporoghi venne lor dato, perchè la loro principale stazione era posta presso la cascata o salto (in malorossiano poròg, scalino, d’onde si fece zaporoghi che suona = al di là degli scalini) che fa Dniepr al disotto di Kieff. La posizione era mirabilmente scelta: all’intorno, immense steppe gremite di cavalli selvaggi; il corso rapidissimo del Dniepr in quel punto impacciava la navigazione commerciale, e li rendeva padroni del passo. Divennero quindi audacissimi scorridori a cavallo e nelle loro navicelle. Caduti in servitù della Russia, furon levati dal loro nido sul Dniepr, e trasportati sul Don, sul Volga, sul mar Nero, al Kuban, a Oremburgo, e organizzati in colonie militari. Formano il cordone e la guardia mobile di tutta la frontiera sudest della Russia.

8 Ukraìna, da Arai, paese, terra, quasi si dicesse la terra per eccellenza, tanta è la sua fertilità in grani.

9 Il nobile, solo può posseder la terra e i coltivatori. Egli fa della terra due parti: l’una per sé, l’altra pel Comune agricola che deve in contraccambio lavorare quella del padrone. Sebbene vi siano leggi che stabiliscono i riporti fra il proprietario e il contadino, pure pratica quest’ultimo appartiene corpo ed anima al primo. Il titolo di proprietà del nobile sul servo (mugik e rab in russo, chlop in malorusso e in polacco) vien definito dalla parola anima — duscia — e invece di dire che possiede tante pertiche di terreno, si dice che possiede tante anime. Il servo deve al padrone non più di due giorni per settimana dei suo lavoro; le sue masserizie, i frutti della raccolta e i suoi buoi gli appartengono; non può essere staccato dalla gleba, cioè venduto isolatamente; non può essere punito che entro certe misure; questo vuole la legge, ma in pratica il signore dispone arbitrariamente del di lui lavoro, nel tempo e nella quantità; elude la legge, ritirando il coltivatore alla terra per applicarlo ai suo servizio personale e vendendolo poi; lo punisce come e quanto vuole, talvolta in modo che ne avvien morte. Permette o vieta il matrimonio suo, gli toglie la moglie o la figlia se gli talenta, e col potere che ha di allontanarlo, far soldato o punirlo, rende quasi impossibile la resistenza, e colla connivenza degli agenti dell’amministrazione, possidenti di schiavi al par di lui, rende vana ogni speranza di ottener giustizia. Tale è la condizione del servo coltivatore.

10 L’aquartieramento delle truppe nei villaggi è considerato dagli abitanti come un flagello anche in tempo di pace, e i proprietari se ne riscattano, quando il possono, con grosse somme presso lo stato maggiore. Il soldato russo dimentica con una triste smemoratezza d’essere stato contadino, e d’avere in qualche angolo dell'impero una capanna e una famiglia esposta alla prepotenza militare. Il contadino fornisce il letto e il vitto al soldato e ne riceve in cambio o la di lui razione o un tenuissimo compenso in denaro. Egli deve soffrir tutto dal soldato od è costretto di comprarsi con tributo continuo la protezione del superiore contro la rapacità del milite comune. Due anni di coabitazione col soldato mina i terrazzani e ne deprava i costumi. Questi mali s’aggravano al decuplo in tempi di guerra. Ho udito un possidente paragonare la venuta d’un battaglione sulle sue terre alla gragnuola, alla carestia: i contadini la caratterizzano con un nome ancor più energico: «voi sarancià, ecco le cavallette» — Vi sembra forse ch’io esageri nel parlarvi della rapacità russa? Sentite il giudizio che ne parlava Pietro il Grande. Avendo egli dietro grossa somma, concesso agli ebrei l’entrata nell'impero, un bojar del vecchio stampo, volendo stornare dal farlo, gli disse essere gli ebrei una razza ingannatrice e ladra; «non temere, rispose Pietre: toccherà piuttosto all’ebreo guardarsi che non sia derubato dal russo».

11 Il proprietario della dell’Ukraìna deve essere a metà ruinato. Non solo non può più vendere i suoi grani in Odessa, ma è costretto a cederli a basso prezzo allo Stato che lo paga in quittanze per le imposte future; oggi deve fornir un soldato equipaggialo, domani gli vien chiesto panno, tela, lana, montoni, cuoi; viene invitalo a versar doni volontarii, a sottoscrizioni patriottiche, sotto pena di comparir traditore se rifiuta. Allora e per mal umore e per avarizia se la prende col contadino e gli cava la pelle, se pur il soldato glie l'ha lasciata. Spogliato in parte e in tutto dei mezzi di coltivazione, distrailo a forza da’ suoi lavori, il servo deve anzitutto consacrare il tempo e le braccia che gli restano ad adempiere agli obblighi che ha verso il padrone, prima di pensare al suo proprio campo e alla sua famiglia. Gli cadono allora le braccia dallo sconforto, si abbandona ad una non interrotta ubbriachezza che lo abbrutisce, niega di lavorare, benché spietatamente battuto, non opponendo che una resistenza d'inerzia, finché la misura si colma. Finalmente vien desto, non dal sentimento della umana dignità, ma dalla sensibilità della fibra animale offesa dai colpi, e si rivolta, e la sua rivolta è cieca, brutale a sanguinaria, come fu l’oppressione. Profondamente ignorante, non fa risalire la responsabilità della sua sventura ai despota sovrano, molta motrice di tutti i despoti inferiori: egli non vede che la mano che lo colpisce, l’autore immediato della sua miseria, il proprietario e l’ufficiale governativo del suo distretto, specie di commissario civile e giudiziario. Son questi i suoi nemici capitali, e siccome al momento che la sua ira trabocca, il più alla mano si trova essere il suo signore, cosi è contro di esso che scoppia, e allora che accadono nei villaggi quei fatti atroci, sui quali il governo tace e vuole che si taccia.

12 Koshneri, segatori; i contadini polacchi armati di falci, erano stati nel 1830 organizzati in bande speciali, e fecero gran male alle truppe russe.

13 Werstvia, misura di distanze in Russia equivale pressoché al kilometro; 104 werste fanno un grado.

14 V. It. e Pop. N. 255, 256 e 259.

15 Chmietnicky fu un uomo superiore, Hetman dei Cosacchi al secolo xvn aveva prestale alla Polonia, di cui disconosceva la nominale supremazia, segnalati servigi contro i turchi e i russi. I Grandi polacchi, e i primi fra essi, i Potochy che fin d’allora avevano i loro possedimenti verso quelle frontiere, rimeritarono con offese la repubblica cosacca e il suo capo. Da alleati che erano, volevano farne dei sudditi. Chwietntcky si strinse colla Russia, ed è da quell'epoca che data l'assorbimento della potenza rosacea nell'impero russo. Gli Tsar moscoviti accarezzarono i nuovi alleati, li corruppero, li divisero e infine li accomunarono net servaggio comune. Caterina rompi l’opera, trasportando quella valorosa e irrequieta razza in altre regioni. — Mazeppa è noto nella storia di Cario XII di Svezia, per aver tentato di ribellare in suo favore i cosacchi contro Pietro il Grande. — Pugacceff era un cosacco il quale ode sollevare contro la Russia la popolazione del Sud-est, si spacciò per Pietro III, l'assassinato marito di Caterina seconda. Ebbe gagliardi eserciti, sconfisse molti generali russi; vinto tre volte, rifece sempre nuove forze e minacciò Mosca. Esaurita la sua forza morale e materiale io crudeltà inutili, in pompe puerili, in mosse senza intelligenza, fu abbandonato dai popoli, preso e messo a morte.

16 L’amico mio di Odessa allude soltanto alla nobiltà polacca, come elemento che possa associarsi ai contadini in un intento di emancipazione comune. È un torto che fa agli ottimi elementi d’opposizione che si vanno formando anche nella nobiltà russa. Il nucleo di questi preparatori della libertà russa è ancor debole, ma va ogni giorno aumentandosi, e nel 1825 contava cinque martiri. Il principale fra questi, il colono. Pestel, era uomo di alti sensi e di suprema energia. Nun era soltanto un gentiluomo malcontento, era un repubblicano sincero. Rottasi la corda che teneva sospeso il suo corpo, cadde a terra incolume, u Povera gente, non sanno nemmeno impiccare n disse finalmente il colonnello, e aspettò tranquillo che il boia si cercasse altra corda.

17 Ripeto che quel mio socio d’Odessa al quale sembra che l'aspetto dell’Ukraina abbia messo in corpo la febbre politica, on guarda che alla Polonia, e non tien conto dei russi. I fatti atroci dì ribellione contro i cattivi padroni e gli impiegati più tristi ancora, sono ancor più frequenti fra le popolazioni moscovite pure che fra i malorossiani e i polacchi. Un appello armato e l'esempio della rivoluzione europei agirebbe anche sui servi russi, e non mancherebbero nobili russi, che si associerebbero al moto per guidarlo al meglio. Bakunine è morto per la libertà europea. Uno dei più nobili cori e de' più forti ingegni dell’emigrazione europea è Alessandro Herzen. A me sembra che l’impero russo — se previene l’incubo che l'opprime — è destinato a formare uno stato federativo delle diverse tribù slave comprese tra la Vistola, il Doiester, e il mar Nero, il mar d’Azoff, il Caspio e il Baltico. Era una tendenza intraveduta anche da Pestel e da suoi compagni nel 1825.

18 I baskiri sono una razza tatara, che forniscono all’esercito imperiale il loro contingente ancora armate come lo erano gli sciti, cioè arco, scimitarra o lancia e qualche vecchia pistola. Montano cavalli brutti, ma sobrii e infaticabili. Ne ho veduti nel 1828 colpire alla distanza di 150 passi e uccidere colle loro freccie un montone corrente, scorticarlo, sbranarlo, arrostirlo e mangiarlo in men di due ore.

19 Non v’è modo in italiano di esprimere colla scrittura la pronuncia di màtuska, se non e figurandosi che sia scritto cosi: màtuscìka, opprimendo la lettera i nel pronunciarla, e conservando al se la pronuncia che dànno i francesi al ch. Segnerò con un accento la lettera s che dovrà avere il valore del ch francese.

20 Sono stato io stesso testimonio d’un fatto strano che conferma quanto il mio socio asserisce intorno all’ubbriachezza dei russi. Pieno giorno il fuoco a un magazzeno che al pian terreno in una delle vie d’Odessa conteneva una cinquantina di botti d’acquavite. Le bolli scoppiarono ad una ad una con fracasso e il liquido infiammato scorreva per la via. In un batter di ciglio, accorse la folla e avreste veduto i popolani russi, uomini e donne, buttarsi a terra e bere a quel gigantesco puncio senza zucchero? che aveva per tazza la strada. Ho veduto i cocchieri abbandonare i loro droski per non lasciare andar a male quella grazia di Dio.


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LA BILANCIA - Napoli e Piemonte

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Documenti ufficiali della corrispondenza di S. M. Siciliana con S. M. Britannica

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Ferdinando Starace - Esame critico della difesa del Cagliari

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Sulla legalità della cattura del Cagliari - Risposta dell'avvocato FerdinandoStarace al signor Roberto Phillimore

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The Jurist - May 1, 1858 - The case of the Cagliari

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NICOLA FABRIZJ - La spedizione di Sapri e il comitato di Napoli (relazione a Garibaldi)

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Giuseppe Castiglione - Martirio e Libert࠭ Racconti storici di un parroco dicampagna (XXXVIII-XL)

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Vincenzo De Leo - Un episodio sullo sbarco di Carlo Pisacane in Ponza

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BELVIGLIERI - Storia d'Italia dal 1814 al 1866 - CAP. XXVII

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F. Palleschi - Giovanni Nicotera e i fatti Sapri - Risposta alla Gazzettad'Italia

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ANGIOLINI-CIACCHI - Socialismo e socialisti in Italia - Carlo Pisacane

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MICHELE ROSI - L'Italia odierna (Capitolo 2)

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NELLO ROSSELLI Carlo Pisacane nel risorgimento italiano

1937

GIORNALE storico letterario Liguria - CODIGNOLA Rubattino

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GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano






Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin)















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