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Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024)

PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO

RICORDI SU CARLO PISACANE

PER GIUSEPPE MAZZINI

(Estratto dall’Italia del Popolo)

GENOVA 1888

STABILIMENTO TIPOGRAFICO NAZIONALE-

Strada Sauli, N.° 7

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Un giorno in Roma, nel 1849, mentr’io era ancora semplice rappresentante del popolo e senza parte nella suprema direzione delle cose, saliva a vedermi un giovine ufficiale napoletano. Era Carlo Pisacane. Mi si presentava senza commendatizie; m’era ignoto di nome, e bench’io ricordassi d’averlo alla sfuggita veduto un anno prima fra quel turbinio d’esuli che la dedizione regia rovesciava da Milano e da tutti i punti di Lombardia sul cantone Ticino; io non sapeva né gli studi teorici e pratici, né la ferita di palla austriaca che lo avea tenuto per trenta giorni inchiodato in un letto, né i principii politici serbati inconcussi attraverso l’esilio e la povertà, né altro di lui. Ma bastò un'ora di colloquio perché l’anime nostre s'affratellassero, e perch'io indovinassi in lui il tipo di ciò che dovrebbe essere il militare italiano, l’uomo nel quale la scienza raccolta con lunghi studii ed amore non aveva addormentato, creando il pedante, la potenza d’intuizione e il genio, si raro a trovarsi, dell’insurrezione. Da quel giorno in poi fummo amici e concordi nell’opere a pro del paese.

La fronte e gli occhi di Cario Pisacane parlavano a prima giunta per lui; la fronte rivelava l’ingegno; gli occhi scintillavano di energia, temperata di dolcezza e d’affetto. Traspariva dall’espressione del volto, dai moti rapidi, non risentiti, dal gesto né avventato né incerto, dall’insieme della persona, l'indole franca, leale, secura. Il sorriso frequente, singolarmente sereno, tradiva una onesta coscienza di sé e l’animo consapevole di una fede da non violarsi in vita né in morte.

Era la FEDE ITALIANA:la fede nella patria avvenire, nell'unità repubblicana d’Italia e nel popolo per fondarla.

Fede io dico e non opinione: l’opinione nazionale è oggi universale in Italia; la fede rara tuttavia, fuorché tra i popolani delle nostre città, nei quali riposano le migliori speranze d’Italia. L’opinione, commossa dalle ingiustizie e dalle pazze ferocie che tuttodì si commettono dai nostri padroni in Italia, dal desiderio di sicurezza personale e di più largo sviluppo all'industria. e ai guadagni, dalle condizioni migliori in che versano le nazioni più libere, credeche una Italia dovrebbeessere; la fede, convinta che noi tutti siam posti quaggiù per compiere quando che sia un intento comune; che l'associazione di tutte le nostre facoltà e forzo por raggiungerlo, è nostro dovere; ohe il dito di Dio ha segnato nei caratteri geografici, nelle lingue, nelle tradizioni delle diverse terre, la distinzione dei gruppi nei quali deve partirsi l’associazione universale, mche una Italia torà. L’opinione vagante nella Sfera del pensiero, è presta a salutare, e seguir l'azione da dove che venga, non sente il bisogno d’iniziarla e rifuggendo dai pericoli che l’accompagnano, fa velo all’intelletto e trasforma volentieri le difficoltà in impossibilità; la fede anela all’azione, martirio o vittoria: sa che bisogna e educare il popolo a fare e fare con esso. L’opinione diplomatizza, si prostra i sprezzando nel suo segreto, a qualunque potere le faccia sperare un millionesimo di libertà, insozzerebbe dello stemma turco la santa bandiera, se il sultano s’arrendesse a dire: innesterò sul mio despotismo una frazioncella di miglioramento; la Fede intende che non si rigenerano i popoli colla menzogna; intende che le nazioni non siano se non hanno coscienza del loro diritto, e chiama coll’esempio il popolo a conquistarsi patria ed emancipazione col proprio sagrificio e col proprio sangue. L’opinione, piegando a seconda di tutti eventi, idea come grado a salire, le costituzioni strappate ai principi nel 1821, rinnega la fratellanza italiana coi governi provvisori del 1831. sostituisce alla bandiera nazionale la bandiera bianca dei moti di Rimininel 1843, fantastica le tre, le quattro, le cinque Italie coi Balbo, Azeglio, Durando; l’Italia del nord con Gioberti, l’Italia Muratista, Papale, Piemontese con Cavour e gli eunuchi politici che gli fan codazzo: la fede, logica, diritta, leale, non riconosce se non una Italia; una sovranità, quella della nazione, una guerra di tutti, in nome del diritto e dei principii che chiamano i popoli ad esser padroni di sé, per procacciare vittoria e vita normale a tutti. L’opinione cede cogli anni, sfibrata dalle delusioni e dai patimenti inseparabili da ogni grande impresa: la fede si ritempra nei Santi dolori e splende, come il sole sulle nevi dell’Alpi, sulle fronti incanutite nell’apostolato e nei tentativi d’azione. L’opinione sta alla fede politica come la filosofia alla religione. E religione, quali pur fossero l’altre di lui credenze, era l’amor patrio di Pisacane: occupava in esso tutte le facoltà della vita, non illanguidiva per anni o sventure, non s’addormentava nello sconforto, egoismo ammantato d’orgoglio ch'oggi pur troppo sottrae tante anime, un di generose, alla lotta. L’ultimo giorno da che ci abbracciammo, gli lampeggiava sul volto quel sorriso di fede ignara del tempo, che mi strinse a lui nel primo nostro colloquio in Roma. Gli uomini dei quali io parlo tradiscono, negli stanchi lineamenti e nei moti snervati, il guasto che si è fatto consumando il bollore del sangue giovanile, nell’anima loro; gli diresti reliquie galvanizzate di una vita spenta, fantasmi di un tempo che fu.

Erano giorni quelli nei quali gli affetti sgorgavano singolarmente rapidi e schietti fra i seguaci della bandiera. Non v’era menzogna tra noi; il Vero sfavillava, sereno e limpido, dal simbolo che avea sostituito Dio al papa, il popolo all'aristocrazia di un clero incredulo, inetto, corrotto; e nella luce di quel vero l’animo buone si ravvisavano, imparavano a conoscersi ed amarsi più facilmente. Tra noi non era diplomazia. Quando il nome d’Italia suonava sulle nostre labbra, volea dire Italia davvero; non una Italia dei centro o del nord. Quando dicevamo libertà, intendevamo libertà vera e per tutti, non una libertà di pochi e salvi i dirittid’una dinastia e de' suoi faccendieri. Roma era convegno d’uomini viventi la vita piena, attiva, volente, che Dio ci assegnava creandoci, e che noi stessi dovevamo serbarci, non di liberti, di servi emancipati che ne affidano la tutela ad un re e a un pugno di milizie assoldate da lui: tra i giorni sospettosi, dubbiosi, trepidi di Milano dopo l’ingresso di Carlo Alberto e i giorni di Roma repubblicana, correva lo stesso che fra un’alba dei cieli sereni d’Italia e le fredde nebbie di Londra. Luciano Manara di monarchico si tramutava in repubblicano e mi chiamava fratello; uomini imbevuti fino allora delle calunnie che ci chiamavano alleati dell’Austria, dopo un giorno trascorso in Roma, si ricredevano e Venivano, accolti con amore, a dichiararcelo lietamente. Da poche vanità incorreggibili in fuori, vivevano tutti nella patria nell’avvenire, non nei propri meschini rancori,. nelle povere ambizioncelle d’un’ora, o nei gretti sistemi architettati nel gabinetto. Era vita collettiva d’un popolo trasformato dal subito apparirgli del vero tradotto in fatti e d’uomini, scelti liberamente a capi, che avevano fiducia in quel popolo,

C’intendemmo rapidamente con Pisacane e m’occupai di metterlo in luogo dov’ei potesse rivelare le potenti facoltà che gli fremevano dentro e giovare alla causa d’Italia.

Gli uomini, che circostanze straordinarie e necessità imprevedute, avevano chiamato al sommo delle cose, avevano potuto far poco per un avvenire imminente: forse Incoscienza d’un diritto moralmente innegabile e la purezza delle intenzioni, li allettavano a sperare che non verrebbero assaliti mai. Il dicastero di guerra era singolarmente negletto; non ordini, non armi, non allestimento d’un esercito nazionale. Io, Pisacane e alcuni altri presentivamo il turbine che s’addensava tacitamente da lungi. Sapevamo che la bandiera repubblicana non poteva sventolare dal Campidoglio senza diventare più o meno rapidamente bandiera d’Italia: come potevano gli eterni nemici della libertà delle nazioni la sciarla in pace? E d’altra parte, a che la libertà in Roma se non significava libertà dell’Italia intera? Il turpe spettacolo d’una forte provincia italiana libera e in armi per dieci anni tra il gemito di venti milioni di fratelli e l’insulto dello straniero, e nondimeno inerte, e inutile anzi dannosa per lunghe inadempite sperauze all’Italia, era trovato serbato ai monarchici di Piemonte; i repubblicani da Roma guardavano all’Alpi. D’offesa o difesa a seconda dei casi, la guerra era dunque inevitabile a ogni modo per noi. Il 19 marzo 1849 io proponeva all’Assemblea Romana di costituire una Commissione di guerra composta di cinque individui che si occupasse, dande conto ogni dieci giorni dei suoi lavori, d’apprestare armi, armati, ordinamenti e studi guerreschi. Richiesto di consiglio quanto a quei che dovessero comporla, indicai fra gli altri Pisacane. Ed egli fu l’anima della Commissione e l’ispiratore dei suoi lavori Se le di lui cure attive non avessero apprestato i materiali alla difesa; i generosi propositi di Roma sarebbero forse stati strozzati in sul nascere.

Il piccolo esercito romano era male ordinato: gli uffici degli elementi diversi che lo componevano erano mal definiti: le paghe non erano eguali per tutti i corpi: non esisteva, se non di nome, stato maggiore. E questo piccolo esercito era disseminato in piccoli distaccamenti attraverso lo Stato. Un lungo cordone steso parallelamente alla frontiera napoletana ne assorbiva la maggior parte. L’idea di proteggere uno Stato con una forza smembrata in piccoli nuclei posti a difesa d’ogni punto esposto ad assalto, era militarmente falsa. Gli Stati si difendono non sul confine; bensì col concentramento delle forze ordinate sui punti strategici interni. Ma il sistema contrario era suggerito è appoggiato da tutte le paure locali: ogni paesetto della frontiera fantasticava difesa purché avesse un gomitolo di milizia regolare collocato sul proprio terreno: ed io solo ricordo la tempesta di opposizioni, lagnanze e deputazioni provinciali che mi fu forza affrontare quand’io e i miei colleghi decretammo il riconcentramento di tutte le truppe su due campi di Bologna e di Temi. Quel riconcentramento avversato da presidi, deputati e cittadini delle terre poste lungo ilconfine, sostenuto con ostinazione pari al convincimento da Pisacane e da me, fu cagione che noi potessimo,'al primo apparire dei francesi, raccogliere in Roma le forze.

L’unità dell’esercito, l’abolizione inesso di ogni privilegio e disuguaglianza, il miglioramento degli elementi direttivi, il concentramento su punti che gli assicurassero in un momento dato l’iniziativa, furono opere in gran parte di Pisacane. E quei che sentono quanto l’onore raccolto nel 1849 dalle armi italiane in Roma debba fruttare nell’avvenire all’unità della patria comune, gli serberanno lunga e amorosa riconoscenza.

Ricordo le ore notturne che passavamo sulla carta d'Italia, parlando dell’ultimo fine che la Repubblica Romana doveva proporsi, della guerra della nazione, dei modi coi quali avremmo potuto iniziarla, dei disegni che avrebbero dovuto presiedere al vibrarsi dei primi colpi. Parevami che in lui il concetto della guerra insurrezionale vivesse limpido, logico, rapido più che in qualunque altro da me interrogato; e gli studi da lui pubblicati intorno alla malaugurata campagna del 1848, lo riveleranno a chi vorrà leggerli attentamente. Ma quando, ad esplorare l’animo suo, io gli chiedeva chi guiderebbe militarmente,ei m’additava, senza pensiero di sé, un suo commilitone, allora colonnello, nel quale infatti ebbi campo a riconoscere doti singolari, e concetto altamente strategico della guerra nazionale, oscurato, in oggi miseramente da progetti colpevoli di monarchismo straniero. Pisacane aveva,. come dissi più sopra, giusta coscienza di sé, non ombra di ambizione o di vanità.

Il 29 marzo 1849, dopo la rotta di Novara, fummo eletti triumviri, io, Saffi e Armellini. Ci affrettammo a porre in atto le principali tra le idee maturate coll’amico. Un decreto del 16 aprile dichiarava che l’esercito romano raggiungerebbe la cifra di 45,000 uomini ed 80 cannoni, più due batterie di montagna. Se ci fosse stato dato tempo sino al finire di maggio, Carlo Pisacane sarebbe forse caduto, ma col sorriso della vittoria sul volto, appiè dell’Alpi Lombarde, non a Padula, per mano di fratelli e senza conforto di vicina speranza per la patria giacente.

Gli eterni nemici della nazionalità italiana sentivano intanto il pericolo e determinarono di prevenirlo. La morte della Repubblica Romana fu decretata nei conciliaboli di Gaeta. Importava che il principio repubblicano apparisse disonorato in Europa, e la Francia,. allora repubblicana di nome, fu scelta a vibrare il primo colpo. La Francia accettò-Il 24 aprile fummo assaliti dall’armi francesi codardamente, e sotto colore di proteggerci contro l'invasione austriaca, in Civitavecchia. La subita occupazione di Civitavecchia ci tolse 4000 fucili che avevamo comprato a denaro dal governo di Francia, un battaglione di bersaglieri, ingannato prima, poi disarmato, e tra sei mila soldati lombardi che s’apprestavano, a ricongiungersi sotto le nostre aquile, e ai quali il naviglio francese vietava il mare. Nondimeno l’onore della nazione, la necessità -di provare con fatti che il paese, fatto segno di sozza calunnia da tutta la diplomazia straniera, voleva davvero ed unanime le libere istituzioni proclamate in febbraio, l’immensa forza che una splendida difesa in Roma doveva procacciare alla futura Unità Nazionale, comandavano resistenza ad ogni costo, e decidemmo resistere. Pisacane fu scelto a capo dello Stato Maggiore.

La storia dell'assedio non entra nel disegno di queste mie brevi pagine. Dirò soltanto che le più gravi difficoltà superate non. furono le visibili a tutti; che s'affacciavano insistenti a ogni tratto; e che a vincerle nel silenzio, giovevole anch’oggi, allora imperioso, si richiedevano attività incessanti, presistenza indomita e singolare prudenza. Tutte queste doti s’avvicendarono in Pisacane colle più splendide virtù del soldato. Vivono i miei colleghi; vivono i più tra gli ufficiali che composero lo Stato Maggiore; nessuno di loro di certo mi smentirà, s’io qui dico ehe, condannati pur troppo a pentirci di parecchie scelte suggerite da circostanze insuperabili o dalla poca conoscenza degli elementi individuali coi quali ci trovavamo per la prima volta a contatto, scioglieremmo oggi di nuovo, s’ei vivesse, l’amico a quello o a più alto incarico senza timore d’illuderci.

Per me egli non era solamente il capo dello Stato Maggiore, esecutore rapido e diligente delle intenzioni del generale in capo e della nostra; era l’ufficiale nato per la guerra di insurrezione, dotato di quella potenza d'iniziativa che trova la vittoria dove il nemico, fidando nella scienza tradizionale, non. prevede l’assalto, ed al quale io poteva affacciare i più arditi consigli, securo ch'ei non li avrebbe respinti unicamente perché apparentemente contrari alle così dette regole dell’arte bellica. E da lui solo ebbi approvazione ed appoggio, mentr’altri in nome di quelle regole protestava,. in due di quelle determinazioni che sembrano gravi di pericoli agli ingegni timidi o pedanteschi, e trascinano, se non riescono, biasimo universale sulla testa di chi le prende. La prima fu quella di vuotar Roma d’ogni milizia e inviarla tutta contro l’esercito napoletano accampato in Velletri e d’intorni; la seconda quella di convertire, verso la fine dell’assedio, la difesa regolare in una giornata campale.

I Francesi stavano, quando il nostro piccolo esercito mosse alla volta di Velletri, appiè delle mura. V’era armistizio, ma a tempo indeterminato; ed io sapeva che Audinot era tale da romperle e ordinare l’assalto qualunque volta ei vedesse l’occasione propizia a impadronirsi di Roma. Togliendo a Roma ogni difesa di milizia regolare, io avventurava dunque i fati della città, e ricordo ancora i giusti terrori e i rimproveri di parecchi tra i membri dell'assemblea, i quali, vedendo reggimento dopo reggimento avviarsi fuor della cinta, correvano sospettosi a chiedermi ragione degli ordini dati. Ma d’altro lato, i napoletani eran giunti senza ostacolo ad Albano e Velletri e minacciavano Roma; ed io sapeva che le istruzioni date al generale francese gli commettevano di vietare r ingresso in Roma ad ogni altro straniero. L’assalire dei Napoletani trascinava dunque inevitabile la subita rottura dell'incerta tregua; e stretta fra due nemici operanti ad un tratto, Roma era irrevocabilmente perduta. Bisognava dunque scegliere tra Un pericolo,al quale potevamo in ogni modo opporre una. difesa di popolo, ed una certezzadi rovina. Bisognava liberarsi per sempre dei Napoletani per poter poi concentrare tutte le forze a sostenere l’urto dell'altro nemico. E bisognava ad accertarela rotta dei napoletani, cacciar loro addosso quante forze avevamo: il dimezzarle non avrebbe raggiunto lo scopo né salvato Roma. Forte dell'approvazione di Pisacane, m’avventurai. E il disegno riesci; riesciva ben altrimenti se l’incauto ardire del corpo di battaglia guidato dal generale Garibaldi, non mutava in un assalto a Velletri le istruzioni date ch'erano quelle di raggiungere cori una contromarcia Cisterna e troncare le comunicazioni e la via della fuga al nemico.

Più dopo, quando i francesi stavano per aprir la breccia, e. le cose allora mai disperate di Francia e l’inerte silenzio di tutta Italia non lasciavano alcuna via di salute visibile, pensai si dovesse convertire l’assedio in una battaglia. La disfatta avrebbe senz’altro accelerato il cadere di Roma; ma una decisiva vittoria ci avrebbe ridati due mesi forse di vita; e ad ogni modo il fatto splendido per sé e audacissimo, in chi era ridotto agli estremi-, avrebbe coronato Roma di nuovo lustro, prezioso come dissi e sentiva profondamente per l’avvenire davanti all’Italia. A-persi il mio pensiero a Pisacane, ed ei l’accolse lodandolo, e lo tradusse in un disegno pratico che gli dava, s’altri non lo rimutava poco prima dell’esecuzione, tutte le possibili probabilità di trionfo. Il disegno fu descritto da Pisacane medesimo in una relazione storicach’egli inserì nel 1849 in un fascicolo dell'Italia del Popolopubblicato in Losanna; e io ricopia perché rivela, parmi singolarmente la tempra dell'ingegno militare di Pisacane.

«Imonti dette Cave della Cueta sonori sentite ondulazioni, di terreno, comprese fra la strada di Tiradiavoli, che parte da 4 Porta S. Pancrazio, costeggia Villa? Panfili e svolgendo verso destra, conduce al canale di Pio V.; e l'altra che, movendo da Porta Cavalleggieri, rasenta le mura Vaticane, passa per la Madonna del Riposo, e fi curvandosi a sinistra, si unisce alla precedente.

«Queste duestrade formano quasi un triangolo mistilineo, la cui basa si estende lungo la cinta di Roma, compresa fra le due parti nominato; e questa base è un terreno intricato da casette e giardini, facilissimo a difendersi palino a palmo il rimanente del terreno, compreso nell’arca del triangolo, è sgombro affatto e vantaggioso a ogni truppa, che marciasse all'assalto di Villa Pamfili.

«L’esercito romano fa diviso in 5 brigate.

«La prima doveva uscire da Porta Cavalleggieri, prendere per punto di direzione il canale di Pio Ve portarsi a ridosso di Villa Pamfili, cercando penetrarvi.

«Tre brigate l’avrebbero seguita a giusta « distanza; ma giunta alla svolta, propriamente all’altura dell'angolo di Villa Pamfili, dovevano far alto e porsi per massa in battaglia parallelamente edi fronte alla strada dei Tiradiavoli, dalla quale erano separati dai monti della Creta; quindi cominciando il movimento dalla diritta marciare in (scaglioni per assalire la detta villa, non dovendo percorrere che uno spazio di circa 1200 metri. L’artiglieria doveva prendere posizione sopra una delle più vantaggiose elevazioni; e la quinta brigata, marciando lungo la base del triangolo, avrebbe occupato tutte le casette e giardini sgombri affatto dal nemico, assicurando la sinistra della linea. Guadagnata Villa Pamfili era girata la prima parallela, e per conseguenza tutti i lavori sarebbero Stati presi di rovescio e con tale manovra si poteva anche accollare al fiume il campo « nemico.

«La marcia doveva principiare due ore prima del giorno. . . Tutto era pronto e non restava che spedire gli ordini».

Del come l'operazione fosse strozzata in sul nascere, non importa qui favellare, chi vuole può rintracciarlo nel lavoro sopracitato, fascicolo VI dell'Italia del Popolo.

Roma cadde; infamia eterna all’assalitore; ai governi che intitolandosi pure Italiani, non protestarono allora, né protestano oggi contro l’oltraggio straniero; e agli ipocriti per codardia che innalzano un guaito di servi contro chi tenta frapporsi tra l’oppressore e gli oppressi, mentre tacciano davanti all’assassinio, che ancor dura, d'un popolo. Roselli generale in capo dell'armi Repubblicane ed uomo degno di tempi migliori, diede, protestando, la sua dimissione, e quella di presso che tutti gli ufficiali dei piccolo esercito; Pisacane la diede con essi e ripigliò le vie dell’esilio.

Ci ricongiungemmo a Losanna dove io lo vedeva ogni giorno, sereno, sorridente, nella povertà com’io l’aveva veduto in mezzo ai pericoli. Fondai allora l'Italia del Popolo, raccolta periodica di scritti politici; ed egli c’inserì uno scritto sulla guerra Italiana,alcuni Pensierinotevolissimi sulla scienza della guerra, una eccellente Relazione storica delle operazioni militari eseguite dalla Repubblica Romana, una serie d’osservazioni sulla, relazione scritta dal generale Bava della Campagna di Lombardia, lavori che dovrebbero raccogliersi in un volume. Poi spronato dalla necessità d’una occupazione utile,impossibile nella Svizzera, parti per Londra, dove visse otto mesi aiutandosi di qualche lezione di lingua; e riparti per l’Italia; dove io lo rividi nel 1857.

In questa sua vita errante, egli aveva un conforto. La maledizione del vae solinon si adempiva su lui. Unico raggio ai giorni di chi cerea patria e non l’ha, gli era compagno un amore nato fin dal 1830; infelice pur costante per diciasette anni; ricambiato apertamente e con rara e lieta fedeltà dopo, quel tempo e sino agli ultimi giorni. Dal 1847 in poi la donna del suo core lo seguiva e gli accarezzava della suprema carezza l’incerta vita. É storia d’amore questa che rivelerebbe, s’io la raccontassi, come all’indomita energia, di ch’ei fece prova, s’accoppiassero in Pisacane una potenza singolare d'affetto, e un sentir delicato raro a trovarsi, e che onorerebbe a un tempo l’anima sua. Ma non mi sento il diritto di sollevar quel velo che parmi debba quasi sempre lasciarsi sospeso trai più e il santuario della vita individuale. Dirò soltanto che quell’amore, mercé le nobili aspirazioni della donna, non infiacchì mai l’anima dell’amico, non si trovò mai a contrasto coll'adempimento de' suoi doveri, e gli accrebbe forza a lietamente compirli. Fu l’amore delle epoche di credenza, l’amore che ritempra l’animo a grandi cose, e tradizionale più che altrove, in Italia, prima che noi ci facessimo, come nell’ultimo mezzo secolo, imitatori servili — salve le eccezioni — delle idee e delle fogge straniere.

Da Genova, dov’ei rimase per due anni certamente, poi tollerato, ei mantenne corrispondenza con me: corrispondenza liberamente fraterna, come dovrebbe correre fra uomini che sentono la propria dignità eonorano anzi tutto il Vero, ma intendono la suprema necessità d’unità nel partito e non s’allontanano, per dissidii o vanità individuali, dal terreno comune conquistato coll’opera di tutti. E noi dissentivamo su parecchi punti; sulle idee religiose, ch’ei non guardava, errore comune ai più, se. non attraverso le credenze consunte e perciò tiranniche e corrotte dell’oggi. : sul cosi detto socialismo,che riducevasi a una mera questione di parole, dacché i siatemi, esclusivi, assurdi, immorali delle sette francesi erano ad uno ad uno da lui respinti e sulla vasta idea sociale, fatta oggimai inseparabile in tutte le menti d’Europa dal moto politico, io andava forse più in là di lui: sopra una o due cose delle minori spettanti all’ordinamento della futura milizia; e talora sul modo d’intendere l’obbligo che abbiamo tutti di serbar fede al Vero (1). Ma il differire di tempo in tempo sui modi d’antiveder L’avvenire, non ci toglieva d’essere intesi sulle condizioni presenti sulla scelta dei rimedii. Pisacane sapeva che tra le sue opinioni e le mie sarebbe sempre giudice supremo l’arbitrio della Nazione alla cui sovranità io avrei sempre piegato riverente il capo: io sapeva che ogni qualvolta avessi potuto additargliuna via di libertà o d’onore al paese, l’avrei trovato pronto a cacciarvisi. Però duravamo amici benché talora discordi. Se tutti sentissero a un modo-come sopra una terra oppressa e disonorata, davanti all'insulto perenne di chi ei nega Patria, libertà, dignità d’uomini e vita e bandiera ed ogni cosa ch'è santa e cara, il richiamarsi a piccole gare e lagnanze individuali per giustificare l’isolamento e la inerzia sia colpa a un tempo e meschinità, noi saremmo compatti come Legione e concordemente operosi e potenti e liberi forse a quest’ora.

Pisacane credeva, com'io credo, nel dovere e nella potenza educatrice dell'Azione; credeva che dalle vittorie popolari del 1848-49 in poi non fosse più concesso, senza sofisma o innata viltà, ciarlare di tempi immaturi, di popolo da educarsi. Quel popolo, ch'altri giudica senza curar di conoscerlo, ei lo area studiato e lo studiava dappresso, convivendo familiarmente con esso e aiutandone l’ordinamento; e lo sapeva capace d’emancipare la propria terra, se guidato da capi che vogliano e sappiano. Credeva con me che una splendida vittoria basterebbe a risuscitarlo da un capo all’altro d’Italia, e non sentiva così bassamente della nostra terra da dichiararla diseredata d’iniziativa e commetterne i fati a una vittoria straniera: vergogna senza nome che alligna tuttavia in molte anime e le accusa' di servilità e di mentito. 0 tiepido amore alla Patria. Pisacane Don dimenticava che le insurrezioni d’Europa aveano nel 1848 seguito, non preceduto, l’insurrezione della Sicilia; avea veduto i vecchi soldati austriaci fuggire davanti ai giovani volontari lombardi, e le temute insegne francesi, dar volta davanti ai militi improvvisati della repubblica appiè delle mura di Roma. Ei raccoglieva insieme a me, dall’attenzione di tutta Europa or volta su noi, dai vincoli che inannellano tutte le cause nazionali, dai terrori, dalle cure gelose dei governi risolutamente avversi e dalle speranze ipocritamente date da governi codardamente ambiziosi, che qui, sul vostro terreno, premio del martirio generosamente affrontato per lunghi anni dai nostri migliori, sta oggimai la potenza iniziatrice delle battaglie nazionali. E ripeteva spesso a ogni modo con me che, o le nostre moltitudini non erano preparate alla lotta suprema e bisognava educarle con forti fatti, o lo erano e bisognava guidarle. A questo dilemma non abbiamo mai né egli, né io, trovata risposta chiara da quei che dissentono; ben egli ed io abbiamo incontrato sovente diserzioni mute e doloroso abbandono da dove meno l’aspettavamo. Se non che vi sono uomini ai quali è impossibile tradire il proprio dovere perché altri tradisce il suo; ed egli era tale. Però, studiando, scrivendo, e vivendo con povertà lieta su qualche lezione di matematica, fissava l’occhio voglioso su qualunque angolo della Penisola rivelasse indizio di vita, tendeva intento l’orecchio, prestò a seguirla, ad ogni chiamata.

E la chiamata venne da quella parte d’Italia dov'egli aveva imparato a patire, a fare, ad amara: venne dalle insanie feroci di un Governo che un conservatoreinglese definì una negazione di Dio; dalle torture dei migliori del Regno; dal cupo malcontenti di tutti; da una serie di dimostrazioni piccole in sé, pure indicanti una crescente tendenza alfare; dal tremendo appello d’Agesilao Milano; dal linguaggio dei moderatistessi, ai quali è da parecchi anni fatto famigliare il mal vezzo di bandire all'Europa il fremito dei paesi per ottenere un brano di tiepida frase in un memorandumo in un discorso ministeriale, a patto di frammetterai con ogni sorta d’ostacoli agli audaci che s’affidano in quel fremito ed operano; venne dai nostri pure, or dirò in quali termini.

I nostri dissero: venite e faremo. Posero condizioni, alcune delle quali ci parvero inattendibili, altre esigevano mezzi ch'io sperava raccogliere e non raccolsi. Ma al di sopra di ogni particolare stava avverato per noi che i nostri forti d’ardire, d’attività, d’elementi, ma collocati tra un Governo insospettito e potente e la genìa moderataavversa a. ogni moto e ad ogni generoso concetto, avevano bisogno d’una scintilla che suscitasse a fermento le vaste moltitudini; e ci richiedevano d’appiccarla; indicando il come. Esaminata la proposta, Pisacane l’approvò e me le scrisse sollecitandomi, s’io pure approvassi, a recarmi ov’egli era. Esaminai, approvai; parvemi che le numerose difficoltà potessero vincersi; e, traversando Parigi e Lione, mi affrettai a recarmi in Genova.

Nessuno s’aspetta ch'io dica i concerti presi, i provvedimenti, gli ostacoli superati. Il fatto ha provato, credo, che anche sotto gli occhi d’un governo ostile, volendosi può; e noi volevamo e volevano davvero gli uomini che ci secondarono. E quanto ai modi tenuti, ai preparativi fatti perché una prima vittoria fosse veramente la scintilla che dà moto all’incendio, è debito assoluto il silenzio. Ben devo alcune parole all’energia singolare di Pisacane e alla condotta dei nostri in Napoli. Delle accuse gittate contro achi tenta da chi non fa dopo fallito un disegno, né io devo occuparmi né Pisacane, s’ei vivesse si occuperebbe. Ma le accuse gittate alla spensierata da chi non sa contro quei che non fecero, son poscia invocate dai nemici come prova che il paese rimasto inerte non vuole o non può, e giova ribatterle o togliere ai raggiratori il pretesto di cui si valgono a infondere lo scetticismo negli animi.

La spedizione in Ponza doveva aver luogo il 10 di giugno. Un incidente di quelli, che nessuno può prevedere o combattere, s’attraversò e distrusse tutto il nostro lavoro; lo stesso giorno in cui doveva tradursi in atto. Avevamo intanto poche ore prima, certi com'eravamo di mantener la promessa, avvertito i nostri del Regno che il battello partiva. Mancavano i mezzi per sollecite spiegazioni, e più assai della perdita del materiale e d’altro, temevamo gli effetti morali della delusione e i pericoli che il subito attivo prepararsi a seguire poteva moltiplicar sugli amici di Napoli. Partiva a quella volta un legno a vapore la stessa sera, e Pisacane determinò di portare egli stesso ai nostri la spiegazione dell’indugio e d’accertarsi a un tempo della realtà degli elementi sui quali si fondavano le nostre speranze. In due ore ei decise, fece tutti i preparativi opportuni, abbracciò la donna del suo cuore che si mostrò in tutto degna di lui, e parti Era determinazione per lui più grave dell’altra; era l’esporsi a torture e a morte solitaria senza difesa, non coll'armi in pugno e lottando. E nondimeno chi lo vide in quell’ore avrebbe detto ch'ei s'avviava a diporto. Era tanta in lui la religione del Dovere, che la coscienza di compirlo bastava a infiorargli la via.

Parti, giunse, rimase tre giorni in Napoli e tornò dov’io era. Tornò lieto, convinto, anelante azione, e come chi sente, toccando la propria terra, raddoppiarsi in petto la vita. Gli balenava in volto una fede presaga di vittoria. I nostri non lo avevano ingannato; non gli avevano celato le gravi difficoltà che si attraversavano alla riscossa; avevano ripetuto che un indugio le avrebbe spianate. Ma, al di là delle obbiezioni piratiche egli aveva veduto gli animi risoluti e vogliosi, il terreno disposto, il fremito dei popolani; ei sentiva che uno splendido fatto, un trionfo, sarebbero stati più assai potenti che non protratti e pericolosi preparativi, e mi scongiurò di rifar la tela pel 25, giorno dipartenza del Cagliarì. Fui convinto e diedi opera ai preparativi. Il tempo era breve, breve di tanto che io disperava quasi di condurli a termine. Ma il fervore dei nostri compagni di lavoro era tale che si riesci. Il 25 ei partiva, Genova doveva seguire, farsi padrona di sé e de' suoi materiali da guerra, consecrarsi ad afforzar l’impresa in Napoli, operare come riserva e chiamare coll’esempio alla crociata italiana il Nord e parte del Centro. Io rimasi a dirigere il moto. Genova, che nessuno oggimai può rapire alla causa della nazione, avrebbe fatto; e, al sorgere d’una generosachiamata, checché provveda il governo, farà. Il tentativo riesci quale l’avevamo ideato. La nostra parte era fatta, perché Napoli non fece la sua?

Io accennai altrove, e lo ridico oggi più esplicitamente, provocato dalle menzogne degli avversi a noi, e dalle ingiuste accuse gittate contro ai nostri da uomini buoni, ma precipitosi nei giudizi e incauti nel proferirli: se Napoli non rispose, è dovuto alla frazione cosi detta dei moderali.

Il dispaccio telegrafico che doveva avvertire i nostri della partenza e dar foro campo agli ultimi preparativi, non giunse in Napoli, per incidenti imprevedibili, se non contemporaneo allo sbarco. E fu grave danno. I nostri nondimeno si prepararono a fare e avrebbero fatto, se non che tra essi e il moto s’attraversarono i moderati.

Gli uomini che oggi s’adoprano a smembrare il nostro campo e impedire il moto, furono prima del 1848, taluni anche dopo, cospiratori, su tutti i punti d’Italia, con noi. E questo aver cospirato con noi li addita tuttavia al popolo come amatori caldi, attivi, volenti d’Italia, e rende impossibile una mossa imminente senza ch’essi vengano a risaperlo. Il popolo ricorda i loro lavori, gli imprigionamenti patiti, le persecuzioni governative, ignora il loro mutamento, e non sospetta la tattica perenne ch’essi adoperano in oggi.

E questa tattica, identica negli uomini del governo piemontese e nei moderalicostituzionali dell'altre parti d’Italia, ha invariabilmente tre stadii: promettere, agitare, illudere a sperare a cose quiete — dissuadere, ingigantire i pericoli e le tristi conseguenze d’un moto inopportuno, diffondere sfiduciamenti e paure quand’altri s’appresta a fare — affratellarsi, frammettersi apparentemente a chi fa, quando il fare pare inevitabile, e strozzare in sul nascere o sviare lentamente il moto dalla via diritta. Tattica siffatta fu adoprata con successo dai moderati,dal 1848 in poi, dieci volte su dieci punti diversi, tanto che pare oggimai più idiota che credulo chi tuttavia s’abbandona a quell’arti. E tattica siffatta fu adoperata in Napoli a tradire il concetto dei generosi.

All’annunzio della discesa su Sapri, fu deciso dai nostri d’agire in Napoli. Furono presi i concerti opportuni. Fu determinato il giorno. I capi-popolo aderivano tutti. Il momento era solenne e dimenticate tutte le gare, i nostri chiesero agli influenti fra i moderaticooperazione ad un fatto già iniziato da Pisacane e da' suoi compagni. Gli influenti fra imoderati non solamente risposero con un rifiuto alla generosa proposta, ma adoprarono a tutt'uomo a infiacchire, sviare, dividerei capi-popolo; e vi riuscirono. Venne allora proposta una vasta manifestazione tra il pacifico e l’ostile che suscitasse fermento nelle moltitudini. I moderati aderirono e s’assunsero l’ordinamento della dimostrazione: tradirono la promessa e non ne tentarono il compimento; poi, quando giunse l’infausta nuova della rotta di Padula e indovinarono diffuso lo sconforto nei ranghi, si ritrassero subitamente. Più dopo, s’avvilirono protestando anonimi contro il Patto di chi moriva per tutti.

A queste mie affermazioni potrei dare appoggio di dichiarazioni scritte; ma or non giova; e potrei dir nomi, ma finché vive la tirannide, non per essi, ma per la dignità dell'anime nostre, noi devo.

Io non ho dunque accusa pei nostri, per gli uomini veduti da Pisacane, se non quest’una che in parte li onora: l’avere essi, uomini di pure, generose intenzioni, sperato soverchiamente nell’altrui. E lo dico, perché alcune parole scritte da me nell'Italia del Popolo,potrebbero essere interpretate a loro danno, e me ne dorrebbe. Sia sprone ad essi nella santa impresa iniziata col proprio sangue dall’amico, il dolore profondo che la delusione deve aver confitto nell'anima loro.

Non mi tratterrò sugli ultimi fatti; mancano tuttavia i particolari; né io scrivo lavita di Carlo, ma soltanto alcuni ricordi del mio contatto con lui. Altri potrà forse dire un giorno le sue sensazioni scendendo sul suolo napoletano, i divisamenti che ne diressero i moti, l’arti inique del governo che, annunziando la discesa di una banda di prigionieri rei di delitti comuni fuggiti da Ponza, gli sospinsero contro le popolazioni ignare dei villaggi ch’ei traversava, i due scontri, vittorioso l’uno, fatale l’altro, e l’ultime sue parole. Io immagino gli ultimi suoi pensieri; cadde mentr’ei credeva incamminarsi a vittoria, cadde per mano di uomini che avrebbero dovuto secondarne l'impresa e abbracciarlo fratello e iniziatore di vita italiana ai giacenti; è nondimeno io son certo che se egli avesse potuto, cadendo, mandarci un ultimo grido, questo grido ci avrebbe detto: rifate tentate, tentate sempre fino al giorno in cui vincerete. Pisacane non era simile ai tanti che dopo aver cacciato il guanto al nemico si ritraggono per alcune disfatte, e dopo aver giurato che ora e sempreconsacrerebbero anima e vita a fondare una Patria, tramutano il semprein alcuni anni di sforzi e tradiscono nell'inerte stanchezza giuramento e Patria ad un tempo, perché non riescono a creare in quei pochi anni una Italia.

Perdendo Pisacane, noi abbiamo fatto una perdita grave: perdemmo l’ufficiale che avrebbe undi o l’altro guidato i nostri alle battaglie del popolo: perdemmo il cittadino al quale noi avremmo potuto fidare quell’alto incarico senz’ombra di timore ch’ei ne abusasse mai per ambizione o voluttà di basso egoismo; perdemmo l’uomo che fra quanti io conobbi identificava più in séil pensiero e l’azione e le doti generalmente disgiunte, scienza e spontaneità d’intuizione guerresca, energia e riflessione pacata, calcolo ed entusiasmo. Guardava d’alto le cose e nondimeno ne afferrava i menomi particolari. Amava di amore intensamente devoto l’amica la fanciulla che gli era figlia, ma non sagrificava a quei santi affetti un solo de' suoi doveri verso la patria. Moveva a una impresa che doveva costargli la vita, e dava lo stesso giorno l'ultima lezione di matematica ad un allievo.

E mori. Nai possiamo seguire ad amarlo; ma che cosa è l’amore a chi è morto alla terra se scompagnato dalla religione del pensiero che costituiva la miglior parte della sua vita quaggiù? Basta a compiere il legato ch’ei ci lasciava morendo un tributo di lode, una sottoscrizione per la fanciulla che non lo rivedrà mai più sulla terra? Son essi, o Italiani, i vostri martiri gladiatori al cui morire applaudono gli spettatori dal Circo, se muoiano composta in atto virile ed impavido? Non ha diritto la figlia di Pisacane di dirvi un giorno, quand’essa invocherà la carezza paterna e saprà il come e perché le fu tolta: se mio padre scendeva, mercé i vostri aiuti, con forze doppie sulla mia terra, forse ei sormontava gli ostacoli e giungendo ad uno dei centri ove vivono luce d'intelletto educato e fiamma di libertà, trovava fratelli. e vinceva? Rimprovero amaro è codesto, o Italiani, perché meritato; e viene a noi nel gemito non solamente della povera Silvia, ma dei mille orfani dell’amore dei tanti che da or mai dieci anni morirono vittime della tirannide straniera e domestica protestando per noi tutti controessa. Perché son orfani su questa terra che seppe sorgere e vincere nove anni addietro? Perché si more d’intorno a noi quando si potrebbe vivere col serto del trionfo sul capo? Perché move il vento e bagna la pioggia le ossa di Pisacane come fossero ossa di masnadiere, quando sta in noi di comporgli su terra libera una tomba sulla quale sventoli la sua bandiera? E come provvediamo noi a ch'egli sia almeno l’ultimo martire che cada nello sconforto nel silenzio comune?

Perché, noi siamo a tale che non possiamo oggimai evitare il martirio dei buoni se non coll’azione e colla vittoria. Un paese sul quale pesa l’oltraggio e il patir d’ogni genere, non può dare per cinquanta anni al patibolo o alla lenta morte delle carceri e dell'esilio, il fior de' suoi patrioti, e a untratto adagiarsi nella propria tomba ad aspettare muto ed inerte che gli squilli la tromba di risurrezione dall'Oriente o dall'Occidente. Un popolo, non può ricordarsi che pochi anni prima liberava con cinque giorni di lotta il proprio terreno e non cadeva se non per errori evitabili, e rassegnarsi immoto ai marchio della schiavitù sol perché a una genia diplomatico-letterata sfibrata e codarda piace di dirgli: tu aspetterai salute da una serie dr memorandio dall’ambizione d’un despota. Un Partito al quale la parola di tanti che non hanno se non parole tessè ogni giorno la storia de' suoi dolori e delle sue vergogne, non può impedire che i più bollenti fra i suoi non prorompano nel grido di Foscolo: chi non si tenta? morremo? ma frutterà almeno il nostro sangue un vendicatore;non può impedire che gli uomini non nati a gemere o a servilmente tacere tentino por fine al disonore o alla vita. Il sangue di quegli uomini sta su voi tutti, o Italiani, che potete e non fate; su voi che caldi di amor patrio a parole, non v’affratellate in concordia di lavori e di sagrifici con quei che s’adoprano a creare alle moltitudini l’opportunità; con voi che fatti pubblico ozioso di chi more, condannate freddamente i tentativi su piccola scalasenza far cosa alcuna che renda possibili i tentativi maggiori; su voi che profondete in capricci e sollazzi di schiavi inviliti ed immemori l’oro ohe potrebbe procacciar salute al paese; su voi die, teneri de' vostri impieghi o dei vostri riposi, date apparenza di dottrina al vostro egoismo e sviate colle illusioni, colle torte teoriche di progresso pacifico, e colle accuse ai migliori, la gioventù nostra dai diritto sentiero.

E il sangue di Pisacane e d’Agesilao Milano, il sangue di quanti morirono Col nome di Patria sul labbro, per suscitarvi ad opre virili, da Milano e Pisacane risalendo fino ai Bandiera, grida a voi segnatamente, Italiani di Napoli: sorgete e ribattete da uomini una accusa che serpeggia crescente per tutta Europa,Siete voi, iniziatori un tempo della lotta italiana, caduti per sempre? Non freme più vita sulle vostre terre fuorché quella dei vostri vulcani? Da parecchi anni voi diffondete attraverso l’Europa un lamento che riesce ignobile se non profetizza, dimostrandola legittima, l’insurrezione: voi snudate, popolo Giobbe d’Italia, le vostre piaghe davanti a tutte le Nazioni. E non temete ch'esse dicano: un popolo che soffre ciò ch’essi soffrono è un popolo degenerato, chi sopporta il bastone lo merita—?

Io ho, per amore del vero, scolpato i nostri, gli uomini che presero concerti con noi, dell’accusa di codardia: i nostri, comunque numerosi, son pur sempre minorità. Ma chi può scolpare un popolo iutiero? Il popolo napoletano sopporta in oggi una di quelle tirannidi che non solamente tormentano, ma disonorano. L’esercito napoletano serve ad un sistema che tramuta il soldato in birro e carnefice de' proprii fratelli. Napoli ha più che ogni altra parte d’Italia propizia al moto l’opinione europea, e nessun governo, dai-l’austriaco infuori, oserebbe combattere con armi aperte l’insurrezione. E dall’Austria l’assecurail resto d’Italia presto a rispondere alla chiamata. Perché non sorse quando intese l’annunzio della discesa di Pisacane? Manca pur troppo finora ai nostri, non il coraggio, ma l’intelletto rapido, audace, dell’insurrezione. Se ciò che noi predichiamo da ormai dieci anni, che al levarsi d’una bandiera di libertà, supremo dovere, suprema salute, è insorgere dove che sia,si facesse, Pisacane sarebbe in oggi a capo della rivoluzione napolitano. Se una delle provincie collocate fra il punto di sbarco e la capitale avesse, al primo giungere della nuova, romoreggiato armi e guerre, il concentramento di quei che oppressero Pisacane non s’operava. Mancò il tempo perché si ricevessero istruzioni dal punto centrale? che! non erano istruzioni viventi i generosi che venivano a sacrificarsi per voi? Aspettate, per farvi liberi, un cenno di Comitato?

Giovani del Regno! voi potete compiere una grande missione; e voi dovetecompirla, dapprima, perché in mano vostra sta la salute d’Italia; poi — non v'incresca la franca fraterna parola — perché v'è mestieri redimervi dalla accusa che vi dice scaduti e indegni de' vostri padri. Sorgete dunque e smentite l’accusa. Siano vostra parola d’ordine al combattere i nomi di Milano e di Pisacane. La terra che produce nomini, siffatti non è fatta per rimanersi schiava, segno al disprezzo dei padroni e al compianto dei popoli.

Febbraio 1858.

(1)Cito un esempio. In un bel libro ch'ei scrisse col titolo di Guerra combattuta in Italia negli anni1848-49, Pisacane giudica severamente la condotta e il genio militare di Garibaldi. Prima di pubblicarlo, ei mi mandò il manoscritto. Biasimai come inopportuna e dannosa più che giovevole l’inserzione di quegli appunti, e notai qual divario corresse tra il mentire e il tacere, reo sempre 1’uno, onesto sovente e prudente l’altro. Non assenti; l'amore al vero era in lui più potente d’ogni altra considerazione, la discussione fra noi fu animata abbastanza perché n» seguisse un lungo silenzio.





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GIORNALE storico letterario Liguria - PISACANE Epistolario a cura di Aldo Romano






Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura!

Le d鶥loppement in駡l et la question nationale (Samir Amin)










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