Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024) |
PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO |
CARLO PISACANESAGGI STORICI POLITICI MILITARI SULL’ITALIATERZO SAGGIO - LA RIVOLUZIONEMILANOTIPOGRAFIA DI PIETRO AGNELLI 1860 |
I. La parola progresso suona nella bocca degli uomini di ogni condizione, d’ogni partito, ma è da pochissimi, anzi quasi da nessuno compresa. I sorprendenti trovati della scienza, che, applicati all’industria, al commercio, al vivere in generale, trasformano in mille guise i prodotti, sono fatti innegabili: noi vediamo ove erano gruppi di capanne sorgere superbe città; vediamo campi aspri e selvaggi squarciati dall’aratro, e resi fecondi; selve, monti, mari superali, rozzi velli trasformati in finissime stoffe; le intemperie vinte con l’arte, le tenebre cacciate da fulgidissima luce, il navigare contro i venti, il percorrere con portentosa celerità sterminate distanze, perfino il fulmine reso rapido messaggiero dell'uomo; l'immensità dei cieli, le viscere della terra esplorale, gli astri, gli animali, i vegetabili, i minerali tutti studiati, classificati, misurati… Se questo è il progresso, niuno può negarlo, o non comprenderlo.
Ma cotesto accrescimento continuo della ricchezza, e dell’umano sapere, spande egualmente la prosperità su tutti? Suscita nell’uomo il sentimento del proprio diritto, della dignità? Garantisce la libertà, garantisce il popolo dall’usurpazione di pochi, rende forse impossibile, sotto ogni forma, la schiavitù, ed assicura l’indipendenza dell’uomo dall’uomo, o almeno ne libra su giusta lance i rapporti? Ogni uno che vuol manifestare francamente la propria opinione, ogni uno che stadia la Storia, che osserva il presente, risponderà: No, l'apogeo della civiltà romana, il secolo d’Augusto fu il perigeo della libertà; i rozzi italiani dell’undecimo secolo erano liberi, e vilissimi piaggiatori quelli del civilissimo secolo di Lorenzo DeMedici; i Francesi dello splendido secolo di Luigi XIV non furono che spregevoli cortigiani. Ove riscontrasi, adunque, il continuato miglioramento delle umane condizioni?
Quale sarebbe il tipo ideale d’una società perfetta? Quella in cui ciascuno fosse nel pieno godimento de' proprii diritti, che potesse raggiungere il massimo sviluppo di cui sono suscettibili le proprie facoltà fisiche e morali, e giovarsi di esse senza la necessità o d’umiliarsi innanzi al suo simile, o di sopraffarlo; quella società, insomma, in cui la libertà non turbasse l’eguaglianza; quella in cui in ogni uomo il sentimento fosse d’accordo con là ragione, e in cui ninno fosse mai costretto di operare contro i dettati di questa, o soffocare gl'impulsi di quello. In tal caso l’uomo manifesterebbe la vita in tutta la sua pienezza, e però potrebbe dirsi perfetto. Ma chi trovasi più lontano da questo ideale, il mercante, e il dottrinario moderno, o il cittadino romano, il greco, e lo stesso italiano dell'XI secolo? La risposta non è dubbia, e facendo paragone del presente col passato, saremmo indotti a credere che i miracoli del vantalo progresso nascondano il continuo peggioramento del genere umano.
Libera la mente da idee preconcette o da sistemi faremo ricerca di questa legge del progresso, e del modo come essa opera.
Tutti i filosofi del mondo, da Platone ad Hegel, si accordano nel riconoscere l’esistenza di una legge che chiamano idea, sostanza, logica ecc… che regola le condizioni e relazioni degli uomini. Stabilito un tal principio, svolgono i ragionamenti; ma le conseguenze non sono d'accordo col principio, d’onde prendono le mosse. Quel primo concetto, tutto astratto, è crealo dal pensiero indipendentemente da falli: ma una tale astrazione non dura che un istante, la realtà riprende il suo imperio, e la ragione non può che insinuarsi attraverso i fatti, e quindi le conclusioni a cui ogni uno di essi giunge, si adattano alle condizioni di quei popoli fra i quali vissero. Platone ed Aristotile sacrificano l'uomo alla grandezza dello stato, perché tali erano le greche costituzioni. Locke riconosce la sovranità della nazione sul monarca, perché scriveva all’epoca de' rivolgimenti dell’Inghilterra, e per esso la Nazione è quale era l’inglese: col parlamento, coi grandi, coi publici funzionarti. I filosofi francesi, per contro, che scrivevano sotto l’impulso del bisogno di abbattere ogni privilegio, riconoscono il diritto, la sovranità del popolo nel puro senso democratico. Kant, comecché razionalista, era un inglese che scriveva nel 97; quindi afferma che il popolo francese non avea il diritto di giudicare, e condannare il suo re. Dopo la rivoluzione del 95 le condizioni del popolo sono cangiate, e con esse cangiano le idee sorte dai nuovi mali; la miseria crescente chiama a se l’anima dei pensatori, quindi essi non sacrificano più l'individuò allo stato, ma al diritto d’ogni uno vogliono che s’adatti la costituzione di esso, e mirano all’umana prosperità; d’onde l’idea del convitto umano, del socialismo, rivolto nell'applicazione alla ricerca dei godimenti materiali.
Nella guisa stessa, per le stesse ragioni, nel XVI secolo la vita politica essendo muta in Italia, la filosofia è costretta a rimanersi nell'astrazione, e si manifesta nel razionalismo di Bruno, che Vico e Campanella avvicinano alla realtà, perché cominciasi a sentire il bisogno d’un’esistenza politica; e quando questo bisogno manifestasi nell’azione, la realtà è raggiunta da Mario Pagano, svolta da Filangieri, da Romagnosi in tutti i rami della vita d’un popolo. Oggi finalmente nella dotta e pacifica Germania, in cui l’azione ha pochissimo imperio sul pensiero, rivive con forme anche più astratte il razionalismo di Bruno; e mentre cercasi anche negare fa realtà, procedesi cosi servilmente sotto l’imperio di essa, che deducesi dai ragionamenti come il costituzionalismo sia l’ideale dello stato perfetto. Dunque, dal principio del mondo, il pensiero umano non ha potuto mai procedere nelle sue ricerche indipendente dalla realtà; ed appena discende all’applicazione delle idee, esse si adattano ai fatti, e non mai i fatti procedono da esse. Ciò basta per dimostrare ad evidenza, quanto sia assurdo il concetto che le rivoluzioni, i mutamenti negli ordini sociali si facciano prima nel pensiero e poi nella realtà; essi sono conseguenza delle condizioni, e relazioni degli uomini, e cominciano a manifestarsi con l’idea quando già sono latenti nella società: dalla manifestazione procedesi all’attuazione, e spesso questa avviene senza di quella; nella guisa stessa che nell’uomo si manifesta un bisogno, poi un’idea, poi l’azione, e spesso l’azione segue immediatamente il bisogno di manifestarsi, o maturarsi nel pensiero. Quindi la filosofia è quella che esamina con pacata ragione sulle condizioni, sui rapporti sociali onde discernere ciò che si nasconde sotto l’apparente calma, trae in luce e presenta in concetti chiari e distinti quello che vagamente, ed universalmente è sentilo. La società ammira le astrazioni del pensiero come i giuochi dei funamboli, ma non apprende nulla da quelle, che possa migliorare le sue condizioni: come niuno impara meglio a camminare osservando le sorprendenti prove d’equilibrio di questi; le une e gli altri non sono che passatempi. La filosofia veramente razionale, ovvero la scienza che merita il nome di filosofia, è quella cominciata in Italia con Berardino Telesio e seguita da tutti i sommi Italiani sino al Romagnosi, che le diede il più vasto sviluppo; secondo i dettati di questa scienza noi seguiremo le nostre ricerche.
Io mi scorgo parte dell’universo; penso, ma penso ciò che è il reale; non si produce nella mia immaginazione nulla che non risulti da ciò che esiste. Ho un’idea chiara e distinta, senza conoscerne l’essenza della materia, del moto, delle sue proprietà; lo spirito è una negazione; è ciò che non è materia, un’incomprensibilità; una cosa, che non potendo essere avvertita dai sensi, non può essere nò pure immaginala; spirito è una parola che non ha significato.
Nel mondo osservo un incessante avvicendarsi di produzione, e di distruzione; due cose opposte, ma se meglio rifletto, ogni contraddizione sparisce, produzione e. distruzione non sono che l’effetto di una medesima causa, che è la legge della vita; produzione come distruzione vuol dire moto, ovvero vita.
L’uomo lo scorgo eziandio sotto mille aspetti contraddittorii: eroe e codardo, benefattore e crudele, avaro e generoso; ma ogni contraddizione sparisce quando riconosco queste diverse azioni effetto di una sola, e medesima causa, di una sola e medesima legge, la ricerca dell’utile, che secondo l’indole degl’individui, ed i rapporti che costituiscono la società in cui vive, cangia i modi ed il nome; chi lo cerca nella gloria, chi nell’ignominia; alcuni nel sagrifìzio, altri nei beni materiali… È questo un fatto che niuno può revocare in forse; esso è riconosciuto da tutta la scuola del sensismo francese ed inglese, dai nostri grandi italiani, Pagano, Filangieri, Beccaria, Romagnosi e sottinteso da Vico, da Campanella, da Telesio, da tutti gli economisti moderni, da tutti. i socialisti, dai razionalisti della Germania; Di buon grado, dice Schiller, io presto aiuto agli amici. Ma ahi lasso! lo fo per inclinazione; onde spesso mi contrista il pensiero di non essere virtuoso. Fichte dice; ama te stesso sopra ogni cosa, ed il tuo prossimo per amor di te stesso. Negano questa verità i paesi devoti ad un Dio personale, e gli ecclettici, cioè quelli che cercano conciliare i principii della scienza e lo stato presente della società; e così si fanno gli apologisti del sacrificio quelli che ne rifuggono con orrore!! A Giordano Bruno sarebbe stato più doloroso rinnegare la sua dottrina, che sentirsi ardere le carni; si gettònel rogo per fuggire il dolore di rinunziare alle proprie idee. I due ultimi versi del suo sonetto il dicono chiaramente:
Fendi secur le nubi e muor contento,
Se il ciel si illustre morte ti destina!
Chi ha creato il mondo? Nol so. Di tutte le ipotesi la più assurda è quella di supporre L'esistenza di un Dio, e l’uomo creato a sua imagine ovvero, non essendoci dato imaginare questo Dio, l’uomo fu creato ad imagine propria, e ne ha fatto il Creatore del mondo e così una particella diventata creatrice del tutto.
Ma quale utile può ottenersi dalla ricerca del Creatore del mondo?Nessuno. Il mondo esiste, e ciò è un fatto; in esso da pertutto io trovo moto, da pertutto la medesima causa della vita, che appare in mille guise: è latente nei minerali, vegeta nelle piante, guizza nei pesci, rugge nel leone, ragiona nell’uomo; la diversità dei modi coi quali manifesta la sua potenza, dipende dalla maggiore o minor perfezione del corpo da essa animato. Corpo ed anima sono entrambi immortali, non avvi nell’universo mondo un granello di sabbia che si distrugga; il corpo ridotto polvere, rientra in seno alla gran madre; l'anima o il fluido animatore esce dalla sua prigione che datagli forma, abbandona il corpo che si distrugge e più non si presta al moto, e confondesi con la gran massa di esso che voga negli spazii; la morte non è che la distruzione delle forme d’individualità. Da questo moto incessante risultano i rapporti dell’uomo colmondo esteriore, degli uomini tra loro, la società; e però non fa d’uopo ricercare la causa del moto, perché a nulla gioverebbe tale ricerca, ma la legge del moto. Tutti i filosofidel mondo convengono nell’immutabilità di questa legge; quelli soli che riconoscono l'esistenza di un Dio la negano.
Il concetto d'un Dio onnipotente è figlio dello scolasticismo in z cui cadde il mondo romano nella sua decadenza. La virtù, il gusto, il diritto sono incompatibili con l'esistenza di questo Dio che può tulio cangiare secondo il suo capriccio, che piegasi alle discordi preghiere dei mortali; nulla vi resta d’immutabile, tulio cangia secondo la sua volontà. L’unità nell’universo sparisce, non è una sola la causa del moto, e quindi una sola la legge di esso, ma son tante cause diverse quanti sono gli enti; l’anima dell’uomo è diversa da quella del bruto, questa da quella del vegetabile, anzi ogni uomo ha un’anima diversa. Ammessa tale ipotesi, là virtù non ha significato, la ricerca di una legge unica del moto è impossibile, impossibile il progresso; per un solo atto della volontà di questo Dio noi potremmo indietreggiare di secoli. L’unica regola, l'unica legge è la rivelazione che ci vien fatta da alcuni uomini in nome di questo Dio; questi uomini sono gli arbitri dell’umanità. La storia non ha più nesso, ma sono tanti fatti, manifestazioni della libera, e però mutabile, volontà j|i questo Dio. Ma quest'ipotesi scoraggiante e incomprensibile, questo Dio assurdo, imaginedella dissoluzione sociale, sparisce, non appena dalla corruzione comincia a manifestarsi novella vita.
Stabilito che una sola debba essere l’ignota causa del moto, ci faremo a rintracciarne la legge; non giù astraendo il nostro pensiero, e ricavando le conseguenze secondo i dettali della dialettica, ma seguendo da vicino i falli, studiandoli accuratamente, e conoscendo cosi la legge con cui gli uni dagli altri procedono; non già cercando quale, dovrebbe essere questa legge, ma quale è; non l’ideale, ma il reale.
Nell’universo scorgiamo armonia ed unità, tutto è regolato, il moto degli astri, il succedersi delle stagioni, il prodursi delle piante; tutto è l'effetto di una medesima forza attiva, la quale sospinge gli uomini al moto, e crea le loro diverse condizioni e relazioni, le diverse costituzioni della società; e però essendo la storia un effetto di questa forza, essa. deve procedere secondo una regola, secondo una legge immutabile e necessaria.
La noja che esagera il fastidio del presente, la speranza che abbellisce oltre misura l’avvenire; ed in altri termini la necessità di soddisfare ai propri bisogni, sospingono l'uomo al moto; dolore e piacere, suoi angeli tutelari, lo costringono a fermare la sua attenzione sugli oggetti circostanti. Ed in tal guisa da ogni sensazione, da ogni esperienza vien creata un’idea; se nulla v’è nell’esperienza, nulla v'è nella mente, ovvero come dissero i peripatetici: nihil est in intellectuquod prius non fuerit in sensu.
Le continuale sensazioni dirozzano le libre, che per soverchia rigidezza, come quelle del selvaggio, mancano d'irritabilità, e danno tono a quelle dei fanciulli per placidezza tarde. Appena la fibra acquista un certo grado d'irritabilità, l’uomo immagina; né ha più bisogno della presenza dell'oggetto per descriverlo e vederlo in sua mente. Segno in ultimo la ragione, facoltà di discernere, la quale classifica, compara, cerca la correlazione delle acquistate idee, e rischiara il tumulto degliistinti. Quindi tre età nell’uomo: dei sensi, dell’immaginazione, della ragione. Nella prima le fibre son molle, nella seconda cominciano a tendersi, nella terza hanno il giusto grado d’irritabilità con la vecchiezza diventano flaccide, l'uomo peggiora, e diventa di nuovo fanciullo.
Le facoltà dell'uomo sono inferiori ai bisogni; da ciò la perpetua operosità della vita. Ad ogni sensazione, ad ogni idea l'uomo subisce una modificazione, e con questa sorge un nuovo bisogno; e cosi la vita è un avvicendarsi continuo di bisogni, di idee, di nuovi bisogni.
L'uomo, se non è costretto da forze esteriori ad operare diversamente, segue per sua natura questa serie di movimenti, e trasforma tutti gli oggetti circostanti. L'indefinita modificabilità del mondo esteriore, che reagendo sull'uomo lo modifica indefinitamente, costituisce una indefinita modificabilità di rapporti fra uomo, fra esso e gli oggetti che lo circondano. Questi rapporti, ovvero l'azione degli uomini gli uni verso gli altri e sul mondo esteriore, costituiscono le umane società che per tal ragione sono indefinitamente modificabili. Dunque il continuo mutarsi di questi rapporti, ovvero delle costituzioni sociali, è una legge assolutamente necessaria, legge che risulta dalla natura umana; quindi fa duopo o migliorare, o peggiorare continuamente, oppure oscillare fra certi limiti.
Inoltre le fibre vengono modificate secondo il numero delle sensazioni: queste crescono a misura della trasformazione degli oggetti esterni; dunque in una società in cui la natura è selvaggia, e non ancora ha subito gli effetti dell'umana operosità, le sensazioni debbono essere pochissime, le fibre degli uomini rozze. A misura che le sensazioni crescono per la trasformazione che il mondo esterno subisce per mano dell'uomo, le fibre gradatamente si dirozzano; quindi le tre età che si riscontrano nell’uomo, esistono egualmente nelle società: d i sensi, il puro stato selvaggio; dell'immaginazione, l'epoca delle favole e degli eroi; della ragione,
l'epoca delle forti passioni, delle grandi virtù, perché la fibra ha raggiunto tutto quel grado d'irritabilità di cui è capace. Dunque per la natura umana il moto, il cangiamento delle condizioni e relazioni degli uomini, è immancabile; e per la stessa natura nelle società, debbono sempre migliorando succedersi tre clà diverse; dunque progresso. Ma le modificazioni, ed i rapporti, effetti dell'umana operosità, essendo indefiniti, indefinito eziandio il numero delle sensazioni che ne risultano; e siccome le soverchie, e continue sensazioni logorano cd ammolliscono le fibre, e gli uomini s’avviliscono ne risulta che le società debbono eziandio soggiacere allo stato di vecchiezza, e morire di sfacelo; il progresso indefinito è impossibile.
Ora ci faremo a particola reggi a re le nostre ricerche. Generalmente ogni modificazione che È uomo opera sugli oggetti circostanti è un prodotto, le modificazioni sono indefinite: dunque, i prodotti debbono indefinitamente crescere.
Discorremmo nel primo saggio come si formarono le prime famiglie, e quindi i vichi, i paghi, le città: quindi l'uomo tende all’associazione, o perché il debole donasi al forte per esser protetto, o perché questi lo fa suo schiavo, o perché vani deboli si collegano contro il forte. Insomma questa tendenza continua risulta dall'istinto della propria conservazione, dalla ricerca della prosperità, dalla brama della vendetta, non già dall'amore reciproco degli uomini. Come gli uomini, le famiglie, i vichi, i paghi per vantaggiare sé stessi si uniscono e formano le città, del pari vediamo le varie città formare le nazioni; e queste sotto l’imperio degli stessi moventi, formare gl’imperi. Quindi possiamo inferire che l'umanità ha una tendenza verso l'unità mondiale.
Néquesta è l'unica ragione, ma avvene un’altra non meno importante. La natura, quasi per confermare questa legge, ad ogni regione ha dato prodotti diversi, mentre il desiderio, ed il bisogno di giovarsene è lo stesso in tutti gli uomini della terra, i quali ricorrono alla forza, alla frode, al commercio, per fornirsi di ciò che difettano. Quindi è indubitato che un giorno, se il globo non formerà un solo ed unico stato, certamente la prosperità e la civiltà saranno uniformemente sparse sulla sua superficie. E come ne’ vichi, ne’ paghi, nelle città, nelle nazioni dai varii costumi e gerghi, nacque una pubblica opinione, ed una lingua comune, nella guisa stessa, un giorno vi sarà un’opinione ed una lingua mondiale (1).
Proseguiamo lo studio della natura umana. L’istinto avverte la esistenza dei fatti senza svolgerne le conseguenze. La ragiono le svolge, le studia, e le compara. Gli impulsi che riceviamo dallo istinto sono l’effetto dell'immediato piacere che può procurarci un’azione. Se a questa prima sensazione piacevole, ne succedano come conseguenza, altre dolorosissime, nei noi sappiamo. Solamente la ragione può avvertircene, la quale opera quando una sensazione dolorosa fissa su di un oggetto la nostra attenzione. L’uomo deve necessariamente errare; la sua ragione non evita l’errore, ma lo corregge quando i tristi effetti delle sue conseguenze lo costringono a ragionare. L’errore non è conforme alle leggi di natura, altri menti non sarebbe errore; i suoi tristi effetti sono la voce di queste leggi che ci richiama sotto il loro assoluto imperio. Dunque l’istinto ci allontana dalle leggi di natura, laragione ci rimena verso di esse. Il fine a cui tendono le leggi di natura, è il bene, è l'azione che risulta dalle ultime conseguenze dei loro effetti; lo istinto, invece, non mira che al bene immediato; la ragione c’insegna di sacrificare questo all’avvenire. L’istinto restringe il nostro sguardo in angusta valle, mentre per descrivere le leggi di natura, è d'uopo di ascendere una sublime vetta, ed in un fissar d’occhio tutto antivedere nell’avvenire. Fra i suggerimenti dello istinto, e le leggi di natura, avvi il medesimorapporto che passa fra una lettera dell’alfabeto e te scienza. Per il che lalegge del moto, della vita, è evidente: il moto è una serie non interrotta di azioni, le quali sono effetti erronei dell’istinto, che più tardi la ragione corregge, quello deviando, questa avvicinandosi alle leggi di natura. Inoltre le condizioni, e le relazioni degli uomini, te costituzione sociale insomma, è l'effetto detrazione degli uomini, gli uni verso gli altri; dunque le costituzioni delle società sono effetto dell’errare dell'istinto, che la ragione corregge avvicinandole sempre alle leggi magistrali della natura. Svolgeremo più diffusamente cotestaidea.
Seguendo l’istinto, l'uomo che trovasi sotto una sensazione dolorosa, cerca tutto ciò che allevia il dolore, che distrugge la causa del male; né riflette se il rimedio dall'istinto suggerito, svolgendo in seguito le sue occulte proprietà, possa cagionare un male maggiore del presente; ricalcitra con esso, e ciò basta. Con questa legge che risulta dall'indole sua l'uomo costituisce la società e muta la costituzione di essa.
Intanto ad ogni nuova costituzione accettata dagl’istintivi desiderii del popolo, esiste sempre un utile immediato, causa di coteste aspirazioni, e quindi nei primi istanti, rinfrancata da un tale utile, la società prospera. L’ulcera che dovrà roderla è nascosta, è appena in germe, i mali non sono sensibili. In tale stato la ragione non ancora costretta dal dolore a studiare i mali, segue ciecamente l’istinto, ed essendo costretta a serpeggiare nei suoi angusti giri, e comparando e studiando i rapporti delle cose in quelle condizioni che l'errore dominante la sociale costituzione le ha stabilite, risultano i pregiudizii e le opinioni, che un giorno dovranno tiranneggiare questa società, e pur non di meno in quest’epoca, la ragione, siccome segue l’istinto, è d'accordo col sentimento; gli uomini sentono e ragionano, non già giustamente, ma liberamente; la società è giovine, i costumi sono puri; il diritto, il giusto, le azioni virtuose sono quelle conformi al patto sociale.
Ma i rapporti sociali che si svolgono partendo da una base erronea, si scorgono diventare sempre più contrarii alle leggi di natura: quindi cominciano a manifestarsi gli inconvenienti, poi i mali, j quali rapidamente crescono ed ingigantiscono; ecco il periodo delle rivoluzioni, o delle dissoluzioni delle società.
In tal periodo il dolore obbliga la ragione a fare studio su i mali che tormentano il pubblico, ed è condotta a delle conseguenze opposte ai pregiudizii ed alle opinioni dominanti contraddittorie con le opere, coi costumi; quindi una lotta di motivi esterni con l’interno convincimento. La virtù, essendo la vittoria di questo su di quelli, ovvero quel sentimento superiore alla stessa fama che appellasi coscienza, per cui disse il Campanella Onor non ha chi d'altri il va cercando, non è più quella che opera secondo il patio, ma in contraddizione col patto. Il diritto, il giusto non più quello riconosciuto dal patto, ma quello che risulta dai nuovi rapporti delle cose scoverte dalla ragione. Se il patto, per cagione dei dolori che tormentano le moltitudini, non è riformato o cangiato, la società è condannata a perire. Allora scorgesi la virtù difettiva; quindi i motivi esterni prevalendo, la ragione è costretta a tacere.
Ognuno impotente a combattere i proprii inali, sì isola; non è più commosso dai mali altrui, e la ragione stessa impone per la propriaconservazione silenzio al sentimento; l’uomo èdepravato, è perfido ed infelice.
In questi diversi stati, in queste condizioni la società per mezzo degli scrittori manifesta le sue idee. Nell’epoca di prosperità l’erudizione ordinariamente sovrabbonda, gli scrittori sono puri, le loro opere, le loro dottrine sono d’accordo col patto sociale.
Cominciano i mali, i tormenti, e questo sentimento doloroso manifestasi con rimpiangere il passato, con maledire i depravati costumi. La Divina Commedia fu il canto solenne con cui l’Italia manifestò i proprii dolori, e rimpianse l'antica purezza dei costumi.
I mali cessano, la depravazione generale produce la sfiducia, lo scetticismo. Allora vediamo sorgere sovente gli apologisti del sentimento, i nemici del calcolo e della ragione; scrittori generosi ma non profondi, i quali credono cagione dell'Isolamento, dell’egoismo, non già i mali da cui l’uomo è tormentato, ma la facoltà che li fa discernere. Eglino vorrebbero porvi rimedio suscitando in altri quei generosi sentimenti dai quali si sentono animati. Melchiore Delfico, Giacomo Leopardi sono di un tal genere; la loro voce è lamento, protesta della società contro i mali che tutti sentono.
Contemporanei di questi scrittori, si mostrano i riformatori, nunzii di speranza e di vita, uomini di squisita fibra, che sottopongono a severo esame i inali che opprimono la società, mostrano a nudo le sue piaghe, ne ricercano la cagione, propongono i rimedii, e compongono la filosofia dell’epoca. Se i dolori non sono abbastanza sentiti, o l’indole nazionale è larda cd incapace di forte passione, costoro rimangono nell’astratto; e se discendono ad applicare le loro dottrine, si allontanano ben poco dallo esistente, adattano ad esso i loro ragionamenti. Se i mali soli gravi, le passioni violente, il ragionamento dei riformatori distrugge quanto esiste. Gli scrittori alemanni, e i francesi del presente secolo hanno questi due distinti caratteri. I riformatori debbono vincere l’aspra lotta del proprio convincimento, contro tutti i motivi esterni, i pregiudizii, la pubblica opinione, spesso la presunzione, l'esilio, il carnefice, il rogo. Sono gli eroi dell’epoca.
D'altra parte in molli l'utile privato trovasi strettamente legato alle leggi, alle opinioni, ai pregiudizii combattuti, e questi se ne fanno i difensori; ecco i conservatori, gli apologisti del presente, in cui essi trovano il bene, o almeno il germe d’ogni futuro bene.
In questi cotali scrittori depravati, i motivi esterni hanno sempre il trionfo sull’interno convincimento, la virtù è difettiva; sono turba vile e spregevole in perpetuo, se Io sprezzo potesse aspirare ad immortalità; l'opportunità è la legge suprema, il principio che li regola. Lodatori infaticabili, formano il corteggio della tirannide finché questa non diventa forte, da non aver più bisogno delle loro lodi, ed impone silenzio all’importuno garrito.
La lotta fra i riformatori ed i conservatori rischiara le tenebre, perfeziona le dottrine di quelli, che, originate da mali della società, acquistano maggior lume secondo che maggiori sono gli ostacoli che trovano al loro sviluppo. Per tal ragione, i conservatori, parte cancrenosa della società, loro malgrado contribuiscono al perfezionamento delle nuove idee. Così il pensiero nasce dai fatti fra il volgo, dai dolori; procede a traverso di essi, ma siegue poi fuor di volgo, i suoi voli, le sue astrazioni, mentre questo, senza mai addottrinarsi, dai soli fatti vieti balzalo da un'idea in un’altra.
Intanto le moltitudini, sotto lo pressura |ci crescenti mali, cominciano a manifestare un’irrequietezza, un odio al presente, un desiderio di migliorare vogo, confuso, non espresso in verun concetto. Ma questo desiderio, questo concetto non tardo a formolarsi nella mente di pochi in un’idea che diventa legame di sette, scopo di congiure, fede di martiri; e così essa manifestasi in una serie di fatti, di sensazioni, chela rendono comune, spontanea, concreta, immediata, sentimento insomma. Allora la rivoluzione delle idee è compita; quel concetto di pochi getta un seme nell’universale coscienza che frutterà, fecondalo dai fatti. Questa idea popolare legasi con le astrazioni dei filosofi, ma essa è quel primo suggerì mento dell’istinto movente, e punto di partenza dei ragionamenti di quelli; e però nasconde nuovi errori, nuovi mali, dai pensatori manifestati, comparati, contrappesati, ma sempre inutilmente pel volgo, che non cercherà il rimedio di mali non ancora esperimentati; e come quelli procedono seguendo i voli del loro pensiero sino alle ultime conseguenze, le moltitudini, lentamente operano, ed attraverso fatti, delusioni, errori, procedono verso la mela da quelli rapidamente raggiunta.
Sbattuto dalla tempesta sento il bisogno di un ricovero, penso di piantare degli alberi, e già li veggo nella mia immaginazione, in grandi rami diffusi. Li esamino minutamente, e mi convinco che non sarò da essi abbastanza guarentito, anzi mi attirerò i fulmini addosso. Come fare adunque? Quando saranno grandi, penso meco stesso, li abbatterò; coi loro fusti costrurreun ricovero più utile degli alberi. Esamino questo nuovo trovalo del pensiero, e, non iscorgendolo abbastanza perfetto, procedo; perfeziono il ricovero, e giungo, sempre migliorando, ad Un edilizio; e conchiudo che l'edilizio è il solo utile rimedio contro la bufera. Ma a quanti travagli, a quante fatiche, a quante delusioni non dovrò sottostare se voglio trarre in alto ii mio pensiero, e piantare gli alberi, attendere che crescano, abbatterli, ed adattarli all’ideato edificio? I riformatori son quelli che ragionando stabiliscono la necessità dell’edificio; il popolo comincia per attuare il pensiero con piantare l’albero, e non l’abbatte, se prima non ha esperimentato che esso non è sicuro all’ombra delle sue foglie, come aveva sperato; e cosi procede, perfezionando il proprio ricovero, sempre dopo avere esperimentati quei mali che la ragione avea già preveduti.
Nel pensiero di Campanella, di Pagano, di Filangieri, di Romagnosi noi scorgiamo, o espressa, o sottintesa, o come conseguenza di quei principii, la rivoluzione sociale. Quindi il pensiero italiano raggiunse ben presto le sue ultime conseguenze. Ma come procede il popolo verso questa meta? Ora oppresso da esorbitanti gravezze sollevasi nella gigantesca Napoli, terribile come la natura in corruccio, e, condotto da un pescatore, sbaraglia il mal governo che l’opprime; ora si raccoglie in Lucca intorno ad un nero e stracciato vessillo, e minaccia i ricchi; ora assale, al segnale di Balilla, e caccia Io straniero dalle mura di Genova; ora favorisce il Francese per odio contro il Tedesco; poi favorisce questo per odio di quello; finalmente, dopo tanti esperimenti e tante delusioni, comincia a riconoscere la necessità di conquistarsi una patria, e l’idea d’indipendenza Italiana la personifica in un Papa, poi in un Re, ed ora attende i nuovi fatti che verranno a trarlo dall’incertezza in cui gli ultimi disastri l’hanno gettato. A traverso di tanti esperimenti raggiungerà la mela, e, distruggendo l'edificio incantato dei pregiudizii e delle opinioni, adatterà la sua costituzione alle leggi magistrali della natura, le quali già da lungo tempo servon di norma ai nostri pensatori. Quindi è assurdo che il progresso dell’idea faccia progredire i fatti; è assurdo pretendere di giudicare dalle idee espresse dagli scrittori, il progresso di cui un popolo in una rivoluzione è capace. Per giudicarne, bisogna studiarne la sua storia, e dallo studio delle peripezie a cui è soggiaciuto, potrà conoscersi ciò che esiste nella coscienza nazionale, ovvero quell’universal sentimento che si manifesta nel moto, lo regge e ne prescrive i limiti. Se un tal sentimento non sarà un’idea chiara e distinta, ma prenderà norma dai mali esistenti che a pena cercherà di leccare senza distruggerli, il moto sarà svialo, represso, infruttuoso, non sarà che una nuova esperienza, che un ammaestramento universale, che allargherà per rinvenire i limiti di quel concetto esperimentato tropoangusto; in tal guisa si succedono le rivoluzioni, errori fatali dell’istinto nazionale, che la ragione corregge ed indirizza verso le leggi di natura.
Fin qui potrebbe conchiudersi che il progresso è continuato, che le nazioni percorrendo una sanguinosa via procedono sempre; ma bisogna considerare altri elementi, altre cagioni, che operano sull’indole umana e sulla coscienza dei popoli.
Se l’eccesso delle sensazioni, se le troppe delusioni logorano le libre, e gettano la sfiducia nell’animo, se le soverchie ricchezze di alcuni e. la miseria spaventevole dei molli troncano ogni nerbo alle moltitudini, e succede una solitudine di pensieri e d’interessi, che distrugge affatto la coscienza nazionale, allora le rivoluzioni sono impossibili. Allora maina quel sentimento universale donde i pensatori traggono le prime idee: mancano ai popoli le speranze, ai cospiratori i concetti; mancano le passioni che sospingono quelli a scrivere, questi ad agitarsi ed operarle. Cessa il moto, e con esso la vita: ed il difetto di ardenti passioni non è che preludio di morte, una nazione giunta in tale stato, è condannata a perire per vecchiezza: essa sarà preda dei più forti vicini.
Dal nostro ragionamento possiamo conchiudere. che ogni nazione, tende con le sue rivoluzioni verso le leggi di natura, ma nel suo aspro cammino, può incontrare ostacoli tali che ne logorano le forze e la distruggono. Quindi il corso e ricorso delle nazioni, non èlegge fatate ed inevitabile, ma nemmeno contraria all'indole dell’uomo e delle società. Néperché per lo passalo ebbe luogo, dovrà necessariamente ripetersi al presente: può non avvenire, o almeno seguire un’orbita più eccentrica di quelle già percorse. Intanto le ricchezze sociali, dimostrammo che sono in continuo aumento, le scienze che scrutano i segreti della natura, e si giovano delle sue forze, volgendole allo accrescimento dell'industria, in continuo progresso; ed i popoli del mondo tendono sempre verso l’unità; quindi le diverse nazioni corrono tutte verso questa meta comune: uniforme prosperità mondiale; ma nel loro cammino ciascuna sottogiace alle proprie peripezie; alcune migliorano nelle loro istituzioni, altre decadono, certe si dissolvono, altre ingrandiscono: sono come tante navi che navigano verso il medesimo porto, ma non vi giungono senza che ognuna non abbia corso fortuna a sua volta.
II. Fin qui non abbiamo fallo altro che seguire la dialettica, e rimanere nell'astrazione; ora l'accurato esame dei fatti, ovvero della storia d'Italia, che nel primo saggio abbiamo adombrata, servirà di riscontro a) nostro ragionamento.
Distrutto l'Imperio Etrusco, dal diluvio d'Ogige dalla crisi di fuoco di cui parlammo, fra i martiri dell’Italia, e della Grecia, per quell’incontrastabile legge di natura per cui l’uomo tende all'associazione, come il grave al suo centro, cominciarono a raccogliersi in varii gruppi i dispersi selvaggi. Le leggi da cui vennero retti questi primi gruppi, il dispotismo di uno su molli, ci dimostrano chiaramente il primo suggerimento dell'istinto. I deboli, onde esser garantiti dalla prepotenza dei forti, cercarono la protezione di altro forte, al quale si diedero volontariamente schiavi. Forse fuvvi ehi suggerì la lega di tutti i deboli contro i pochi forti, forse fuvvi chi fece riflettere che si sfuggiva un male, e se ne creavano degli altri conia volontaria schiavitù; ma queste ragioni, queste dottrine dell’epoca, questi voli del pensiero riuscivano infruttuosi; l’istinto diceva ad ognuno: donati ad un forte, e questi ti proteggerà: e cosi ognuno a schivare la probabilità d’un servaggio, rendevasi volontariamente servo.
Così si formarono i vichi e i paghi. I deboli si sentivano lieti del ritrovato di aver chiesto la protezione del forte, comenti lavoravano, ed il forte, loro protettore, godeva del frullo dei loro lavori; la ragione era d’accordo col sentimento; queste prime società prosperarono.
La guerra fra i vichi, e paghi fece che vai ii di questi borghi collegandosi formarono la città. I varii capi, re scettrati, e sommi sacerdoti dei loro dipendenti, si raccolsero in congresso nella città onde accordarsi riguardo il modo come condurre la guerra solo pubblico interesse allora esistente.
Intanto dal consorzio dei vichi e paghi risultò un culto comune, ed un paragone fra il modo di esercitare l’imperio dei diversi capi; quindi nei più oppressi sorse desiderio di migliorare: ed ecco i primi sintomi di una rivoluzione. Certamente soffrì pene acerbissime quel primo schiavo che si lagnò della propria condizione facendone paragone eoi più fortunati; questi fu un riformatore, un virtuoso: le sue ragioni furono soffocate con la violenza, e la virtù ignota a quella società si mostrò per la prima volta. Virtuosi furono quei primi plebei, che sfidando il corruccio dei loro padroni, proposero sottoporre alla concione dei forti le private contese; virtuoso fu quel primo nobile che l'approvò facendo prevalere il suo convincimento — motivi interno — alla seduzione, che lo attirava ai vantaggi del domestico imperio — motivo esterno. Fu questa una prima rivoluzione, un progresso; divennero più equi i rapporti fra i padroni ed i clienti, ma crebbe oltre ogni misura la podestà della concione, sovrana e giudice nel tempo stesso. Il suggerimento dell’istinto di surrogare all'arbitrio divarii capi il volere del congresso che essi medesimi componevano, si avvicinò assai più alle leggi di natura che la volontaria schiavitù ma diede corso a nuova tirannide.
Al crescere delle popolazioni e delle ricchezze, al moltiplicarsi dei rapporti tra gli individui, la podestà dell’oligarchia dei forti cresceva, pesava sempre più sulla plebe, le cui fibre d’altra parte venivano dirozzale dal crescente numero delle sensazioni. Cominciarono a sentirsi i dolori, che trassero a sé l'animo dei pili accorti, e la ragione dichiarò ben presto un'ingiustizia, che i soli nobili fossero sovrani. Ecco la lotta della ragione coi pregiudizii e colle opinioni di quelle società. Da questa lotta cominciò a sorgere naturalmente l’idea della colleganza della plebe contro i nobili, idea dalla quale l’istinto aveva deviato, prima col volontario servaggio, poi col concedere ogni podestà alla concione dei forti, ed a cui la ragione rimenava la società. Questa prima colleganza Ita in sé tutta l'avvenire della democrazia: dà principio alla lotta del popolo contro le caste ed i privilegii. ed entra nella sfera delle rivoluzioni dei popoli civili.
Quale sarebbe stato il suggerimentodella ragione per risolvere questa prima contesa fra nobili e plebei? Manomettere i nobili, e farsi la plebe arbitra della cosa pubblici). Ma conseguita la vittoria come reggersi ila sé? Faceva d’uopo rifletterci, pensarci, ed il volgo non riflette, né pensa. L'istinto suggerì di non distruggere i nobili, ma limitare la loro podestà, sottoporla a regole, e queste regole furono le consuetudini, rudimenti ilei codici di tutti i popoli: prima villoria della plebe sui nobili, prima idea del giusto, e dell'ingiusto.Dunque sulle consuetudini primitive si basarono i codici, e queste consuetudini erano risoliate dal volontario servaggio, dagli erronei. suggerimenti dell’istinto; quindi il lungo cercare, le laute esperienze ancora in corso, onde giungere da principii così ingiusti al semplicissimo codice della natura, l’uguaglianza.
Nuovi danni, e coi danni i dolori, sospinsero la plebe a nuova conquista. Si moltiplicarono i rapporti, le faccende, gli utili; la macchina sociale si complicò, In difficoltà ili reggerla crebbe. Alle qualità naturali dell'uomo, forza ed astuzia in guerra, si senti il bisogno d una qualità nuova, saggezza in pace; se quota saggezza era difettiva nei nobili, la società non tardava a provarne le conseguenze; ed ecco che il sostituire ad essi altri governanti più degni, idea un tempo suggerita dalla ragione, ora per lo svolgersi dei falli era suggerimento dell’istinto, effetto dei mali da cui la società era gravata, dei dolori, dai quali veniva stimolata. Quindi la storia dei tanti tumulti, dei martiri, delle rivoluzioni, con cui la plebe cercava conquistarsi il diritto di conferire ai suoi eletti i maestrali della repubblica. Dunque volontario servaggio; quindi il volere della concione dei forti sostituito all'arbitrio dei singoli capi; quindi la podestà di questa concione sottoposta alle consuetudini, ad una regola; finalmente gli eletti o i migliori sostituiti ai nobili; ecco i| progresso delle interne istituzioni seguito dai varii popoli italiani, progresso che lo troviamo conforme a quelle leggi di natura, di cui abbiamo nel precedente paragrafo ragionato. Ora abbandoneremo per poco un tale argomento, e ci faremo a ragionare sulle scambievoli relazioni che si stabilirono durante questo tempo fra i varii popoli d’Italia e l’effetto che esse produssero sulle interne condizioni di ciascuno di essi.
Quando i selvaggi cominciarono a raccogliersi in vichi e paghi si trovarono in contatto in Italia con i civilissimi etruschi superstiti del distrutto impero; quindi il desiderio in quelli di procacciarsi le ricchezze che questi possedevano; l’avidità dell'indole umana faceva tendere quei nascenti popoli a raggiungere la prosperità dei loro vicini. Di qui le guerre continue, le scorrerie che quei semiselvaggi fecero contro i civili etruschi, dai quali furono sempre respinti; d’altronde le comunicazioni dirette fra' monti, e però sommamente disagevoli, fecero sì che lo scambio dei prodotti, delle idee, dei trovati dell’industria, fu lentissimo fra gli Etruschi ed i popoli montani; e quindi lentissimo fra questi Io svolgersi della loro prosperità.
Non cosi sulle coste: il mare li abilitò a facilmente comunicare eoi civili orientali; lo scambio divenne facilissimo, ed arti ed industria rapidamente fiorirono, le ricchezze crebbero immense, ed ove erano agresti tribù si videro sorgere le MagnoGrcche repubbliche.
Ma come testédicemmo il codice di questi popoli, comechécivilissimi, era basato sulle consuetudini delle primitive società, in cui una parte erano servi destinati al lavoro, un'altra padroni i quali cautamente vivevano delle fatiche di quelli. Inoltre l’indispensabile gerarchia militare, in cui i privilegi di ogni grado venivano stabilitidai medesimi capi, introdusse l’ineguale riparto del bottino, quindi tali consuetudini, quantunque la condizione dei servi migliorasse, la base furono, i principii su cui venne stabilita la legge di proprietà, e quindi il diritto, non già quello giustissimo di usare ed abusare del frutto del proprio lavoro, ma l’altro sommamente ingiusto, che alcuni potessero possedere più del bisognevole mentre altri mancassero del necessario. Un tal diritto fondato su di uri principio affatto oligarchico venne scosso, temperato ad ogni rivolgimento a cui quelle società sottostettero, ma, rimasto fermo nella sostanza, conservò la sua tendenza all’oligarchia, e le immense ricchezze ammassate da quei popoli civilissimi, furono proprietà di pochi, e più non si videro che opulenti e mendichi, mentre fra gli abitanti dei monti, l'industria in difetto avendo impedito lo sterminato crescere delle ricchezze, serbossi una quasi uguaglianza.
Esaminiamo queste due società.I MagnoGreci e gli Etruschi dalla soverchia opulenza e dalla miseria di molli depravati; imperò i sensi di quei popoli erano dall’abuso o dall’inerzia attutiti, e le fibre per sopraabbondanza di sensazione rese flaccidi, e se teseper debolezza soverchiamente irritabili, e quindi gli umori dall’incostante tensione, o troppo impetuosamente sospinti, o troppo languidamente premuti; di quinci i loro vizii corrispondenti a questo stato dei loro sensi: sempre oscillanti, incapaci di durevoli proponimenti: gli effetti o troppo concitati ed al minimo ostacolo repressi, o soverchiamente rimessi: Incostanza, la calma impossibili: spesso li vediamo arroganti colnemico lontano, e se vicino codardi; iTarantini derisero i legati Romani, all’avvicinarsi poi dell'esercito, tremarono e si diedero a Pirro. Inoltre, a miseria degli uni, e,opulenza degli altri faceva abilità a questi di comprare il voto di quelli, ed ai ricchi, non già ai migliori, veniva conferito la suprema podestà, e le cariche della repubblica; e però più innanzi ancora crebbero i mali. L’oligarchia dei ricchi immersi nella mollezza cercò sempre di divezzare il popolo dalle armi; per loro difesa assoldavano Campani.... Galli ivi accorsi per amor di guadagno, terrore di quel,’imbelle plebe, ed eziandio de tiranni che li pagavano.
Se poi ci trasportiamo fra le robuste popolazioni che abitavano i monti, non troveremo né soverchia opulenza che attutisce i sensi, né miseria che logora le fibre, le quali dotate di giusta irritabilità, premono e sospingono a regolare e costante corso gli umori: onde fermezza ne’ propositi, calma ne, deliberare, costanza nelle opere; non insultavano, ma combattevano il nemico. Il valore in onore: e più del valore, la saggezza, e la disciplina dei guerrieri; eravi lusso, ma nei militari ornamenti. Inoltre l'agricoltura essendo la gradita occupazione di quei guerrieri, e le terre quasi ugualmente divise, l’utile privato trovavasi d’accordo con l’utile pubblico; i voti non venduti, e la suprema podestà, le cariche tutte della republica venivano conferite ai migliori. Ecco dunque nell’epoca medesima, nella stessa Italia due società, l'una pel rapido svolgersi della civiltà e l’accrescersi delle ricchezze, corrotta, e decadente; l’altra ove crasi conservata una giusta uguaglianza, giovane e fiorente.
Proseguiamo le nostre considerazioni: in una società depravata gli scrittori non possono essere che dotti e correttori di costumi; tali i Pitagorici, i quali non furono, come alcuni opinano, riformatori, ma propugnatori delle antiche virtù, apologisti del governo dei migliori, che avea già esistito, che esisteva presso i popoli montani, e che fra i MagnoGreei era degenerato, perché non bilanciate le fortune, e il governo dei più ricchi. «Il migliore dei Governi, diceva Clinia, non debb’essere affidato ad un solo, perchéun solo ha delle debolezze; non a tutti, perché fra tutti il maggior numero è di stolti, ma a pochi, perché pochi sempre sono gli ottimi.»— «Se una città libera, diceva Aristotile, non avesse che un solo uomo virtuoso, chi potrebbe negare che in tale città la dominazione di unosolo sarebbe necessaria. E Clinia, Aristotile, Platone, facendosi come è naturale all’uomocentro di ogni cosa, credettero scoverte del loro ingegno quelle massime, quei principii, che in quella società decadente erano un pallido riflesso, una debole eco di antichi costumi; e dando il nome di virtù, non già all’azione chi oppone nuovi principii a vecchi pregiudizii, ma ai principii, stessi, si credettero i soli virtuosi, né dubitarono per fare il bene, come essi dicevano, spacciarsi quali inspirati da Dio; e così l’amor proprio trovò in essi ragioni, come accordare impostura e virtù. Quindi diventarono setta, società secreta; ma le loro dottrine non erano conformi, alle istituzioni sociali, né cercavano riformar queste; ma rendere gli uomini con le istituzioni stesse migliori, opera vana e stolta; epperò li vediamo ora onorati e vezzeggiali, ora aspreggiati dai governi, ed in ultimo distrutti da Dionisio, quando da Sicilia passò a devastare la MagnaGrecia. Intanto quei principii, quelle massime dei Pitagorici si praticavano dai popoli montani: fra i Sanniti, forte federazione di tre milioni d’uomini raccolti intorno ad eccelsi monti, fra i Lucani, fra i Sabini... Sembrava strano ed inutile ragionare lungamente per dimostrare lagiustizia di quelle massime; fra essi tali idee erano sentimenti, e simiglianti costumi erano quelli dei nascenti Romani. Dunque i fatti sono in perfetto accordo col nostro ragionamento; le istituzioni di ciascun popolo progrediscono esattamente secondo quelle leggi fatali che sono effetto dell’indole umana: e se nelle società avvi sovrabbondanza di sensazioni, peggiorano e decadono. Nei primi setoli di Roma, si riscontrano in Italia tre diverse gradazioni, tre diverse età della vita dei popoli: al settentrione i Galli sono in uno stato di completa barbarie; i più forti fra di loro sono duci in guerra, ed arbitri digli altrui destini in pace; fra gli Appennini, giovani e fiorenti società, governale dagli eletti del popolo; sulle coste, popoli peggiorati, e decadenti. I primi secondo queste leggi avrebbero dovuto raggiungere lo stato dei secondi; questi o passare ad una ignota, ma migliore condizione, o decadere; gli ultimi erano condannati a perire. E così avvenne; i loro destini si compirono, e si compirono nel tempo medesimo che, per le stesse leggi regolatrici dell’universo, cotesti popoli soggiacevano a nuova trasformazione.
Da isolati selvaggi, per propria conservazione e per avidità, erano giunti a costituirsi in forti federazioni, ed opulente repubbliche. La civiltà, la prosperità, non erano in Italia ugualmente sparse; ne difettavano i Galli, ne sovrabbondavano i MagnoGreci.
Guerrieri i Galli e gli abitanti dei monti, e le comunicazioni difficili, quindi impossibile che avessero atteso dal lavoro pacifico e lento del commercio quest'opera unificatrice. L'autonomia di quegli stati, troppo recisamente costituita per sacrificarla all'unità, e sorgente di odi vicendevoli; niun nemico comune ed universalmente temuto che li avesse indotti per propria conservazione a confederarsi, quindi essi erano dal fato condannati a sottostare ad una forza prepotente che ne avesse formala una sola nazione. Intanto ad ognuna di quelle nazioni sarebbe stato difficile compiere tale impresa, e perché avevano in contro avversari di pari forza, e perché eravi in Italia stabilito un diritto pubblico che garantiva la loro indipendenza. I Romani in forza di questo diritto pubblico, perché nascente, ne vennero esclusi e sprezzali; essi per propria conservazione dovettero vincer tutti; prima dovettero essere guerrieri per procacciarsi il bisognevole; poi lo furono per difendersi da tante aggressioni, finché vinti i più forti avversarli, i Sanniti, divennero quella forza prepotente che unificò l’Italia.
Unificata l’Italia essa trovossi in quello stato fiorente in quella purezza di costumi in cui erano i Romani, i Sanniti, i Latini, ecc., che formavano la parie preponderante; il patrizia lo romano, i migliori l'Italia fu la sovrana concione che governò tutta la penisola. In tal guisa Galli, Sanniti, MagnoGreci corsero verso la stessa meta che raggiunsero, ma, nel compiersi cotesta legge, le istituzioni, i costumi delle società fiorenti prevalsero; i Galli ancora barbari furono inciviliti per forza: i MagnoGreci e gli Etruschi per vecchiezza perirono nella lotta. Roma fu il centro ove concorsero le varie istituzioni e i costumi di tanti popoli italiani: Roma fu il centro d’onde queste istituzioni si sparsero ugualmente in tutta l'Italia.
Gl’italiani retti dal saggio e guerriero patriziato romano si trovarono in contatto della vecchia civiltà d’Oriente e della barbarie d'Occidente; conquistarono gli uni e gli altri e sparsero la civiltà dei primi egualmente sul loro vasto impero. Ma le tante ricchezze acquistale colla guerra cominciarono a far sorgere l'opulenza e la miseria; il governo passò nelle mani dei più ricchi;. gli ordini sociali avevano compito il loro corso, i mali crescevano, quindi o dovevano con una rivoluzione rigenerarsi o peggiorare e dissolversi come era avvenuto ai MagnoGreci.
Le fibre non erano infracidite, le passioni ancora estevano; quella società presentò sintomi di rigenerazione; i Gracchi, i Saturnini, i Brusi furono i riformatori dell’epoca; essi mirarono a limitare i dritti di proprietà,ma i loro ragionamenti, i loro sforzi non furono compresi dal popolo italiano; questo seguiva i suggerimenti del proprio istinto e credeva cagione dei mali il potere usurpalo dai romani. Tutti vollero essere romani, e lo furono. Ma i mali, in luogo di diminuire crebbero; le loro forze, le loro fibre si logorarono nella lotta. Noi vediamo la stessa cagione — opulenza e miseria — produrre i medesimi effetti, i medesimi vizii. dai versi di Lucano, espressi con impareggiabile maestà ed evidenza:
In poter vasto il campicelsi estese.
Ed estraneo arator fe' lunghi i solchi
Dove brevi li fea l'irto Camillo.
E affondavan le mani i Curi antichi.
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…………………………. Alla ragione
Fu misura la forza, e parto iniquo
Della forza, le leggi, i plebisciti:
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Allor f«r compri i fasci, e mercatante
Dei suoi favori il popolo divenne
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Allor l'usura, lupa che fa d’oro
Ricolta ad ogni luna: allor la fede
Violata e la guerra utile ai nudi.
Tutti i maestrati della repubblica si ridussero nelle mani dei pochi ricchi, e con essi il governo, il tesoro, la guerra, le provincie. i trofei, le glorie; le guerriere prede fra capitani si dividevano, erano i snidali plebe misera e vendereccia, e se le proprietà dei padri o figli di qualche soldato collimavano a quelle di qualche polente, ne rimanevano spogliali. Così spalancossi fra i patrizii e la plebe — quelli diventati opulenta oligarchia, questa moltitudine di codardi e mendichi — la stessa voragine da etti furono inghiottiti i MagnoGreci. — Ben presto in Roma, come era avvenuto fra quelli amichi popoli, l'oligarchia ilei ricchi fu a sua volta oppressa dal militare dispotismo.
La storia d’Italia diventa ora la cronaca sanguinosa dei suoi tiranni, e Roma nella decadenza non cessò di essere grande. Gli eroici e puri costumi chedescrive Tito Livio e la corruzione ed i misfatti scolpiti da Tacito, rappresentano degnamente il sorgere ed il tramontare di un gran popolo. Lo stato di Libari, di Cuma. di Cotrone, di Siracusa.... è riprodotto su vastissime dimensioni. Sino a Neronela cronaca è italiana, poi perde questo carattere di nazionalità e diventa universale. Alle frontiere si creano gl'imperatori che si disputano il trono; il Senato, estraneo alla lotta, applaudisce al vincitore. Quest'impero cadente e ricco trovasi a contatto di Goti, Longobardi, Franchi, barbari affatto. Essi agognano d' impossessarsi di tante ricchezze, ma dubitano pel terrore che loro inspira il nome romano. Intanto per effetto della corruzione le feroci terre si spopolano, e si cangiano in deserti, gli uomini avviliti dalla miseria ed oppressi dalla tirannide cercano rifugio fra le caverne e le selve. I superstiti a questo cataclisma politico non differiscono gran fallo dai superstiti alle grandi crisi della natura; essi fuggono spaventali la violenza dei potenti, come questi lo scroscio della folgore ed il muggito della tempesta. Finalmente i barbari scacciano la paura e si rimescolano con le reliquie dell’Impero. I destini si compiono; i Romani periscono per vecchiezza, e la civiltà che arrestavasi al Reno ed al Danubio spa ndesi sino all'Oder.
Siamo ora alla barbarie ricorsa, che vedremo progredire sotto l’impero di quelle medesime leggi di cui discorremmo. All’imbelle patriziato romano si surroga la robusta e guerriera aristocrazia dei barbari. Quest’aristocrazia componeva la conciane sovrana da cui veniva eletto il re loro duce in guerra. I patrizii romani con l’usura e la frode vicendevolmente si distruggevano: i nobili barbari lo facevano con la forza, ed i piccioli proprietari erano da questi baroni talmente oppressi che rinunziando ad un’effimera libertà, si dichiaravano volontariamente vassalli del potente vicino onde esserne proietti; nella guisa stessa che nella primitiva barbarie quelli che meno potevano si donavano schiavi ai più forti. La società nuova che crasi costituita all’antica con nomi e costumi diversi conservò la medesima tendenza ad un’oligarchia di proprietari che andavasi sempre restringendo, allargava quella fatale voragine che separavate dalla plebe. Intanto in questa barbarie ricorsa era rimasto superstite il comune romano; esso fu punto di rannodamento alte maggior parte degli oppressi; questi comuni sottostettero all'assoluto imperio dei baroni, ma essi furono tanti centri di vita. Il misero popolo dopo, sei secoli cominciò a sentire i propri mali, venne scosso dalla lotta impegnata fra l'aristocrazia e te teocrazia, te rivoluzione cominciò; e questa rivoluzione che logorò le forze dei romani, fece inabbissare tutto l'Impero in quella voragine spalancata fra ricchi e poveri che trionfò dinante la barbarie riscossa, imperocché le sue mire furono più recise. Allora gliitaliani volevano conservare l’Impero, chiedevano solo di esser Romani. Vano rimedio ai loro mali. Ora che in diritto ed in fatto altro non esisteva che l’arbitrio dei baroni, il suggerimento dell'istinto fu di distruggere questi; non eravi nulla da conservare; i ricchi baroni vennero assaliti; le loro terre conquise, diroccate le loro castella, ed essi furono costretti a chiedere rifugio ai trionfanti comuni. L’Italia risorgeva. I comuni italiani, per foro interne istituzioni erano al medesimo punto in cui erano giunti i Sanniti e i MagnoGreci; quindi l’intera Italia sotto i Romani, il governo dei migliori, gli eletti del popolo. Quelli pel crescere delle ricchezze peggiorarono e perirono, questi corsero con più rapidità le vicende medesime. Nelle antiche città italiane formate dalla riunione di rozzi selvaggi, ed in cui l’agricoltura era in onore, i migliori erano considerati i più laboriosi, i meno ignoranti; per contro nelle città italiane surte sulla ritornata barbarie, dal lezzo della comune depravazione, cogli sforzi dell’industria e del commercio, i simulatori e gli scaltri erano quelli nelle cui mani veniva affidata la suprema podestà; nelle primitive popolazioni agricole tutto l’utile privato accordavasi con l’utile pubblico; in questo in cui tutto era industria e commercio, quelloera in opposizione con questo e vinto il nemico che li aveva costretti ad unirsi e concorrere al medesimo scopo, l’amor di patria cessò di fatto e fuvvi solitudine di pensieri e d’interesse. Le ricchezze degli antichi popoli italiani che abitavano i monti non poterono crescere che lentamente e per mezzo delle conquiste; ai comuni risorti invece che non aveano rivali nel resto d'Europa allora barbara, le ricchezze, come presso i MagnoGreci, crebbero rapidamente. Al XIII secolo le grandi fortune erano ammassate, la plebe compra, le città si dividevano in opulenti e mendiche: al XV secolo è riprodotto il medesimo fatto osservato presso i MagnoGreci ed i Romani. Alla cima dilla società un’opulenta e però molle e codarda oligarchia che sempre restringevasi, alla base plebe vilissima; dall'oligarchia si viene al dispotismo militare dei tirannelli. Sintomi delle rivoluzioni si manifestano; i tumulti si succedono, ma tutti mancano di un concetto dirigente. In quelle società parteggiate dall'oro, l'istinto altro non suggeriva che surrogare una tirannide ad un’altra; le forze si logorarono, e la voragine spalancata fra ricchi e poveri inghiottiva libertà. indipendenza, arti, industria, commercio, tutto insomma. Mentre l’Italia per le mal distribuite ricchezze perdeva ogni nerbo ed imputridiva nei vizii, la sua opulenza, la sua civiltà soverchiamente superiore a quella delle nazioni che l’accerchiavano, dando effetto a quella fatale legge per cui la prosperità tende continuamente a spandersi su tutti i popoli, produsse l'irruzione in Italia di quelle nazioni. L’Italia dei Romani era stata mirata dai barbari come lo schiavo mira il padrone; ora i semibarbari d’oltremonte la guatarono come il discepolo il maestro, come il mendico guarda l’agiato: la preda era facile e ricca, all’ammirazione prevalse il desiderio di rapina; i nostri lardi discepoli, gettandosi sul nostro corpo infralito da vecchiezza, lo sbranarono. L’Italia venne disseccata dalla vitalità che assorbirono i conquistatori; noi ricevemmo da essi barbarismo, vanità ed ozio. In tale epoca la degradazione comprese in noi ogni elaterio dell'animo; lo splendido medioevo moriva, e per indolenza si amò da noi la stessa tirannide, si abboni la libertà per amor dell’inerzia; obbedienza a chi comanda, disse con gran verità il Sismondi, fula formola che raccolse in sé ogni precetto politico fondato sull’avversione alla lotta, e nel costante desiderio del riposo.
Dall'Italia gettiamo un rapido sguardo al resto d‘Europa, che sorge anch'essa dalla rinnovala barbarie. Da per tutto vediamo la concione dei baroni sovrana, il popolo servo, il re magistrato. Il risorgimento dei comuni riformò in Italia questa società, ma presto cogli oltremontani, l'elementobarbaro prevaleva al romano, le città mancavano di quella vita che si svolse in Italia, e tale rivoluzione avrebbe dovuto compiersi su vastissimi impeci, e però le cose procedettero diversamente. Nelle città il re eletto dai forti, poco differiva da essi, né poteva per l’immediato contatto esercitare un grande ascendente. Quando il popolo sente il bisogno di distruggere l’oligarchia, la prima idea pratica che gli suggerisce l'istinto è quella di surrogare ad essi gli eletti del popolo; quindi la democrazia trionfa; per contro in un vasto impero in cui il re solo in una capitale si estolle agli occhi del volgo al disopra dei feudatari, i popoli per francarsi dalla prepotenza di questi divennero collegati del re, e poi si trasformarono da vassalli in sudditi della corona, e la regia podestà trionfò, e con essa venne stabilito il diritto divino; e questo diritto prova che l'opinione universale e la rivoluzione tendevano, come era naturale, al governo dei migliori; epperò i re per non concedere al popolo quel diritto di elezione che aveano i baroni, si fecero dichiarare i migliori da Dio, onde così la loro podestà più non dipendeva dalla volontà dei governati.
Possiamo finalmente conchiudere che quelle leggi fatali che reggono i destini delle nazioni si vedeano nei fatti con l'esattezza medesima con cui risultano dalla logica, e l'esperienza e la ragione si trovano in perfetto accordo. Ragionando della natura umana e del suo modo di essere nel mondo esteriore, dimostrammo nel paragrafo precedente, come essa con incessante trasformazione accresca sempre le ricchezze sociali: le «piali poi per legge della stessa natura, tendono a spandersi egualmente su tutto il globo; e mentre In. prima di queste leggi è per se medesima evidente, l’altra la troviamo esattamente confermata dalla storia. La civiltà tende all’equilibrio fra due nazioni vicine come il fluido elettrico fra due nubi; quella degli Etruschi e MagnoGreci era molto superiore a quella dei popoli montani d’Italia, quindi noi vediamo quelli conquistati da questi, e l'opulenza e l’industria spandersi ugualmente in tutta la penisola; nella guisa stessa le conquiste dei Romani in Oriente stabilirono l'equilibrio fra le due civiltà, l’uno si arsa, l’altra sovrabbondante: ed i Romani conquistando i barbari d’occidente la sparsero uniformemente sul vasto impero da essi fondato; finalmente l'irruzione dei barbari del settentrione fu conseguenza di questa mancanza d’equilibrio fra la civiltà corruttrice dei Romani ed i selvaggi costumi dei loro vicini, e con questa irruzione i limiti dell’Europa civile non furono il Reno ed il Danubio, ma l’Oder; d’onde poi col mezzo stesso delle guerre e del commercio penetrò in Prussia, e mentre con moto incessante tali destini si compivano in un periodo di forse quaranta secoli vedemmo in Italia tre società progredire e poi pei loro vizi dissolversi, i MagnoGreci, i Romani, i Comuni italiani. Dunque il progresso continuo è un sogno, i fatti sono troppo eloquenti per se medesimi, né possono distruggersi da studiati sofismi.
Nell'Europa moderna la costituzione politica dei varii stati, ha raggiunto quel punto medesimo in cui si trovavano quei popoli decaduti, il governo dei migliori; cotesto principio sotto diverse forme, e con diversi nomi regge tutte le nazioni,: o lo sono dichiarati da Dio, o, eletti, tali li dichiara il popolo.
Questo limite fatale nessun popolo antico come moderno è stato capace di oltrepassarlo, quantunque moltissimi tentativi si fossero fatti per conseguire un tale scopo. Le eloquenti orazioni dei romani tribuni contro il potere dei consoli, i tanti rivolgimenti delle repubbliche italiane del MedioEvo, e particolarmente di quella di Firenze, i tanti ritrovati dei moderni, ad altro non mirano che a garantirsi contro quella podestà dal popolo stesso conceduta, ma è forza confessare che lo scopo non si è raggiunto. Appena affidasi il maestrale supremo ad un uomo o a varii uomini, le forze di tutta la nazione sj volgono a profitto di questi pochi, e dei loro seguaci, e la schiavitù delle moltitudini in varie gradazioni è permanente.
È questo forse il limite fatale dalla natura stabilito? Declinano i moderni come i MagnoGreci, i Romani, i Comuni italiani? Abbiamo dimostrato che la possibilità di andare oltre è attributo della natura umana; come essa ha necessariamente corretto le diverse costituzioni, ed è giunta allo stato presente, non havvi nessuna ragione per credere che sotto il pungente stimolo del dolore non possa stabilire ordinamenti migliori. Ma se è possibile miglio rare, è possibile eziandio che i moderni si dissolvano come gli antichi prima di raggiungere il loro scopo. Ci faremo a svolgere tale argomento interrogando le tendenze della moderna società, ma prima di tutto fa d’uopo porre in vista, e richiamare l’attenzione del lettore su di unii glande verità che risulta ila quanto leste abbiamo detto. Quale fu la cagione per cui presso i MagnoGreci all’anticapurezza ili costumi successero i vizi che li corruppero Quale fu la cagione per cui tutte le cariche della republica un tempo concesse dal popolo ai più degni, caddero nelle inani dei pochi ricchi, i quali ad altro non pensarono che ad avvilire e tiranneggiare il popolo, e godersi la podestà usurpala e le esorbitanti ricchezze Quale fu la cagione per cui presso i Romani avvenne precisamente Io stesso? E quale la cagione che rinnovò il fatto nei comuni italiani la cagione fu sempre la stessa: la cattiva distribuzione delle immense ricchezze che divisero la nazione ili opulenti e mendichi: di qui tutti i mali accennati, e quella voragine spalancala in cui questi imperi sprofondarono. Quale fu la cagione per cui presso i MagnoGreci, i Romani, le ricchezze nell'accrescersi si sono sempre più ammassate fra un ristretto numero di cittadini, e la miseria della plebi è cresciuta in ragione diretta dell'aumento del prodotto sociale? La cagione e evidente, il dirittodi proprietà , il diritto che dà facoltà a pochi di arricchirsi a discapito di molli, ma tale diritto è l'asse intorno a cui queste nazioni, queste società hanno compilo il loro cielo. Sofisti!... apologisti della proprietà, osereste negare quaranta secoli d'istoria? Sareste voi capaci di dimostrare elle non fu la miseria della plebe e l'opulenza di pochi la sorgente di tutti i vizi che li distrussero; die la tendenza del prodotto sociale ad accumularsi in poche numi, (e quindi ragionare la miseria della moltitudine, non sia una conseguenza inevitabile del diritto di proprietà?
III. Le rapide e numerosi comunicazioni, che si aprono ogni giorno e traversano in ogni senso l’Europa, hanno fatto abilità ai prodotti dell'industria di spandersi quasi uniformemente da per tutto, hanno reso le idee, le scoverte di comune ragione: hanno talmente intreccialo gl'interessi ilei vari popoli che la guerra fra due Stati europei viene considerata dalla numerosa turba dei rominerrinnli ed industriali «piasi come guerra civile.
Intanto le due diverse civiltà di Asia e d'Europa debbono in un avvenire non lontano compenetrarsi, unificarsi; questa è una legge che abbiamo vista confermata dalla storia. Ma come avverrà questo fatto Sarà l'Europa che si rovescerà sull'Asia, o questa su quella?
Nél'uno, né l’altro: l'Europa non abbandona, né le converrebbe farlo, il suo commercio e la sua industria per correre alla conquista dell'Asia, né questa hatali moventi che la facciano sortire dalla indolenza per rovesciarsi sull'Europa; e se il facesse, il periglio comune unificherebbe le falangi di tuffi gli eserciti europei, al cui urto gli Asiatici verrebbero dispersi.
Se rivolgiamo lo sguardo all'America la vediamo posta fra i due continenti, fra le due civiltà, e parrebbe destinata a dar compimento a questa legge l'alale, nella guisa stessa che l’Italia il fece fra l’Oriente e l'Occidente. Ma gli Americani sono dediti al commercio, all'industria e non già alla guerra; i loro prodotti trovano sempre mercati abbastanza vasti, e l’estensione e feracità del suolo di cui dispone, fanno sì ch’essa non ha bisogno di cercare ventura per accrescere la sua prosperità.
La Russia per la sua apparenza guerriera, e per la velleità dei suoi autocrati c’indurrebbe a credere die. un giorno fosse destinata a compiere con la spada i decreti del fato; ma non vi è popolo meno del Russo adattalo alla guerra, esso non è abbastanza civile per sentito gli stimoli della gloria militare; né tanto barbaro d'abbandonare le proprie contrade e correre alla conquista di nuove regioni. La volontà dell'Autocrate baderà per esaltarlo in difesa de, proprio paese, ma non già per trasformare in conquistatore mi popolo di servi — La Russia contribuisce a compiere queste leggi fatali non giàcon la guerra, ma col lento lavoro del commercio.
La civiltà europea già varca gli Uralie penetra in Asia. Finalmente se ci faremo a considerare attentamente le condizioni del l'Inghilterra, ben lungi da, vedere in essa la Roma o la Cartagine moderna, voi crediamo che essa rappresenti ciò che era Venezia nel medio evo. L'Inghilterra vive d'industria, i suoi prodotti sono immensi e sempre crescenti, quindi essa ha bisogno di mercati vastissimi; essa deve, se le circostanze lo richiedono, aprila col cannone lo shocco ai suoi prodotti. Quindi a noi parcelle l’Inghilterra sia destinata a capitanare esercito di trafficanti, che unificherà la civiltà europea e l’asiatica se impreveduti avvenimenti non cangiano la condizione dei popoli.
Dunque, esclameranno i partigiani del continuo progresso, noi ci avviciniamo verso l’unità meridionale, che verrà quasi pacificamente attuata; noi ci avviciniamo ad un libero e facile commercio fra tutti i popoli della terra; i vari prodotti di tante nazioni, la loro industria, le attitudini speciali di ciascun popolo, di ciascun individuo, saranno volti a benefizio di tutta l'umanità; — questo è quello che desideriamo. Ma la storia e la logica ci conducono a queste incoraggianti conclusioni? Cerchiamo le sorti più vicine, a cui accenna la vita politica ed economica dei popoli moderni.
Sino allo scorcio del XV secolo l’Italia fu l’astro intorno a cui tutti i popoli hanno compilo il loro giro, il centro verso di cui tutti hanno gravitato. La sua luce offuscata, spenta questa signora delle genti, questo centro venuto meno, l'Europa abbandonata a sé stessa, per quasi tre secoli ha seguito un corso incerto e balenante. La Francia finalmente si è surrogala all’Italia per regolare il corso dei destini europei, ma il suo ascendente non è evidente, incontrastabile come fu quello dell’Italia, spesso è contrappcsato, quasi sempre resta in ombra e si discerne appena, qualche volta sparisce affatto. Non di meno in Francia possiamo fare studio sulle tendenze delle moderne nazioni.
Sappiamo dalla storia come in essa i comuni non poterono mai completamente francarsi; la regia podestà distrusse il feudalismo e surrogossi a lui. Ma il popolo non essendo libero, come in Italia, l'industria, il commercio lentamente progredirono, e il protezionismo, conseguenza della monarchia, tutto interdisse. Finalmente sotto Stilly cd Enrico IV fiori l’agricoltura, sotto Colbert e Luigi XIV l’indù stria, a cui Turgot con l’abolizione delle corvate e dei mestieri diede grandissimo impulso. Oggi i francesi, e quasi tutti gli ollremontani, raggiunsero quel grado di prosperità a cui erano giunti gli italiani allo scorcio del XIV secolo, e se presso gl’italiani, in quest'epoca ogni cosa accennava decadenza, quali sono le tendenze dei moderni? Come!... esclama Mercier de la Rivière, ch’è un partigiano del despotismo, l’agiatezza è sconosciuta a coloro che la producono. Ah!! diffidate di questo contrasto. Ma spingiamoci innanzi alla ricerca dell’ignoto avvenire.
È innegabile che la presente società può considerarsi divisa in due classi: da una parte capitalisti e proprietà, dall’altra operai e linaiuoli. Queste due classi sono in un’evidente e continua opposizione: quella prospera al deperire di questa. «Invano, dice Filangieri, i moralisti han cercato di stabilire un trattalo di pace fra queste due condizioni: quelli cercheranno sempre di comprar l’opera di questi al minor prezzo possibile; e questi cercheranno sempre di venderla loro al maggior prezzo che possono. In questo negozialo quali delle due parti succomberà?... Questo è evidente: la più numerosa». Cotalvero non può negarsi, che per ignoranza o per difetto di buona fede: il capitalista mira sempre ad accrescere il prodotto netto, quindi il ribasso della mercede alla mina. dell’operajo; il proprietario a trarre quanto più sia possibile dal linaiuolo onde alimentare i suoi ozii, poco curandosi dei bisogni di quello.
La proprietà fondiaria venne già scrollata dalle riforme del XVIII secolo, che scemarono molto il suo ascendente sui destini della società; oggi 6 il capitale l'arbitro dell'umanità, per esso corrono prosperi i tempi. L’umano ingegno datosi all'industria, non si lardò ad inventare macchine, strumenti, trovali che ne facilitano il progresso. Ma in questo progresso la vittima è stata l’operajo; le macchine e lo divisione del lavoro hanno accresciuto il prodotto netto, e nel tempo medesimo ribassato grandemente il salario; e quello e questa riducendo l’opera dell'uomo ad un atto puramente materiale e costante, non è rimasto al misero operaio nessuna attitudine di cui possa avvalersi. Un tal fatto gli economisti noi niegano, ma come rimediarvi, essi dicono? Sostituiremo i viaggi sul riarso d’uomini alle strade ferrate, la vanga all’aratro, il copista alta stampa? Non si arriva, soggiungono, senza perdite sulla breccia! A'è possiamo tener conto di coloro che il corso del progresso schiaccia nel suo cammino. E l'economista, atteggiandosi qual benefattore dell'umanità, con una gravità sotto cui nasconde la sua ipocrisia, vi dice; noi miriamo al bene pubblico, non già al privato. Meno quest’ultimo asserto, le loro risposte sono giuste; sarebbe stoltezza pretendere di arrestare i voli dell’umano ingegno; a noi basta registrare un vero, un fatto, un risultato ch’eglino stessi non possono negare, ed è che: la miseria dell'opernjo cresce ol crescere della ricchezza sociale e del prodotto dell'industrio.
Inoltre maggiore è il capitale, ed in parità di lavoro, maggiore è il prodotto, questo è un assioma in economia; e però un vistoso capitaleproducendo sempre più a buon mercato che un piccolo capitale, ne risulta che questi dovrà indubitatamente succombere nella concorrenza. D’onde risulta un altro fatto, che gli economisti non possono disconoscere, ma non vogliono confessare, cioè: nella continua lotta che si fanno i varii prodotti, i varii capitali, la ricchezza sociale si accresce ed il numero di coloro che, la posseggono diminuisce. L’Inghilterra produce quanto basta a 250milioni d’uomini; solamente 9 milioni sono i possessori di queste immense ricchezze. Perché avviene ciò? per legge di natura: ricerca continua di prosperità; bisogni crescenti al crescere de' prodotti, facoltà inferiori ai bisogni, ecco l’umana natura; d’onde l'operosità, il progresso dell'industria indefinito, la felicità ad onta degli umani sforzi impossibile, ed in questo continuo ed istintivo moto l'uomo cercando di volgere in suo profitto quanto rade sotto i suoi sensi, in urta società in cui i guadagni privati non sono cospiranti, ma contrarii ed in concorrenza, e cercano vicendevolmente distruggersi, bisogna inevitabilmente, fatalmente tendere ad una oligarchia di ricchi e raggiungerla.
Dunque i principiisu cui sono stabilite le leggi economiche, le leggi immutabili di naturali fatti in fine, ci dimostrano ad evidenza che le moderne società si avvicinano rapidamente a quelle condizioni medesime a cui giunsero i MagnoGreci, i Romani, i Comuni: cioè essi tendono a ridursi in un’opulentissima oligarchia, ad una moltitudine di mendichi.
Fin qui per ciascuna nazione in particolare. Ora ci faremo ad esaminare i destini dell’intera Europa. La giustizia, l’utile del libero cambio, astrattamente, è incontrastabile; esso è una conseguenza delle leggi naturali da cui viene regolato il mondo. Ma queste leggi naturali vengono esse osservate nel resto degli ordini sociali, nella distribuzione delle ricchezze? È questo il punto della quistione dagli economisti studiosamente evitato. La varietà dei prodotti delle diverse regioni, la diversità delle attitudini di ciascuna nazione e di ciascun uomo sono fatti da' quali risulta rutile, la necessità del libero cambio. Che ogbi popolo fruisca dei prodotti degli altri popoli e faccia loro fruire dei suoi; che ognuno possa giovarsi delle diverse attitudini di tutti, e tutti di quelle di ognuno, è il problema umanitario, il problema che il libero commercio, e la facilità e rapidità delle comunicazioni risolvono. Il libero cambio, produrrà l’altro grandissimo vantaggio che una nazione, destinata dalla natura ad essere agricola, non abbandonerà certo l’agricoltura per l’industria e viceversa, e così ogni popolo troverà il suo vantaggio rimanendo in quelle condizioni che natura gli ha fatto. Ma per ottenere cotesti risultamenti richiederebbesi che i prodotti sociali, le ricchezze insomma, scorressero e si diffondessero ugualmente in tutte le classi della società, non già, come avviene, che si andassero restringendo in pochissime mani. Questo fatto che abbiamo dimostralo fa crollare l’edilizio incantalo dei liberi cambisti; è questo lo scoglio ch’eglino vorrebbero nascondere curandosi poco, ottenuto l’intento, che la società si rompesse.
Discendiamo ai fatti: un paese abbonda di cereali, ed ivi la. plebe vive a buon mercato. Si ponga in atto il libero cambio, ed immediatamente gl'incettatori faranno acquisto di tutto il grano, e rinvieranno a quei mercati ove maggiore è il prezzo. Quale sarà la conseguenza? Il caro del pane! Ma vi rispondono i liberi cambisti: se il prezzo del pane sarà maggiore, vi sarà in compenso una grandissima diminuzione nel prezzo de' panni, delle stoffe, dei tappeti; ed inoltre non contate l’oro che entra nella scarsella degliincettatori? Tutto questo è vero, ma il popolo minuto, misero come è, non ha bisogno per covrirsi de' panni forastieri, né gode della diminuzione di prezzo di questi generi; l’oro che entra nella scarsella degl’incettatori. non arreca nessun vantaggio alle moltitudini, ma è volto ad affamarle l’anno seguente. Néqui finiscono i mali. La proprietà fondiaria è un monopolio permanente, ed in una nazione destinata dalla natura ad essere esclusivamente agricola, non tutti possono dedicarsi all’agricoltura; i posti sono occupali, quindi per necessità, alcuni capitati e moltissime persone si dedicano all’industria, che per l’indole nazionale, perle condizioni del paese mai potrà ingrandirsi e perfezionarsi in modo tale da sostenere la concorrenza di quelle fabbriche immense, di quei prodotti dei popoli esclusivamente industri, e però il libero commercio le distrugge immediatamente, e priva di lavoro quelli operai che già ha tormentato col caro del pane. I capitali poi escono immediatamente dallo Stato e passano allo straniero. Senza poter rispondere alle prime obbiezioni, i liberi cambisti credono di rispondere vittoriosamente a quest’ultima e dicono: Allorché il denaro passerà da A in B è segno che A ne abbonda; appena ne mancherà, il danaro ritornerà, per la ragione medesima che da A è passato a B. — Sì, vi ritornerà, risponde Proudhon, ma vi ritorna nelle mani dei capitalisti stranieri, i quali acquisteranno terre, stabiliranno fabbriche, ed A diverrà una nazione che vive dei salari che percepisce dagli stranieri.L’ascendente dell'Inghilterra in Portogallo è dovuto al libero commercio; il vasto impero delle Indie per questa ragione è divenuto proprietà di pochi mercanti.
In una parola: se le condizioni e le relazioni sociali non mutano, il libero cambio facilita la concorrenza, e questa il monopolio di sua natura oligarchico; quindi facilita la tendenza delle ricchezze sociali a ridursi in poche mani, ed il crescere incessante del numero dei mendichi e delle loro miserie.
Coteste verità che studiosamente si disconoscono fanno esclamare a Proudhon: «Illibero monopolio, è la Santa Alleanza dei grandi feudatarii del capitale e dell’industria, è lamostruosa potenza che deve compiere su ciascun punto del globo l’opera cominciata dalla divisione del lavoro, dalle macchine, dalla concorrenza, dal monopolio, dalla polizia: schiacciare le industrie minori e sottomettere definitivamente il proletariato. È la centralizzazione su tutta la faccia della terra, è il reggimento della spoliazione e della miseria, è la proprietà in tutta la sua forza e gloria. È per conseguire l'adempimento di questo sistema che tanti milioni di lavoratori sono affamali, tante innocenti creature gettate dalla mammella nel niente, tante fanciulle e donne prostituite, tanto riputazioni macchiate. E sapessero almeno gli economisti un’uscita da questo laberinto, una fine di queste torture. Ma no, sempre, mai come l'orologio dei dannati è il ritornello dell'apocalisse economica. Ohi se i dannati potessero ardere l’inferno!!... »
Néqui si arrestano i mali, né qui cessa il potere che hanno le leggi economiche sui destini sociali; esse informano, danno norma, indirizzano verso la stessa meta a cui esse tendono qualunque politica istituzione, eziandio quelle che sembrano volte a migliorare le condizioni delle moltitudini. Il governo vive delle gravezze pagate da' cittadini, e queste, meno pochissime su taluni oggetti di lusso, tutte gravitano sui poverelli, sul minuto popolo che paga nella più gran parte, e più delle altre classi sociali ne risente il peso; mentre i ricchi, e coloro che assorbono i maggiori stipendii sono in proporzione i meno gravati. Questi governi dovrebbero almeno proteggere i miseri. Ma no: è il ricco che neottiene protezione, è il povero che popola le prigioni, che vive sotto la sferza e la prepotenza dei birri.
Nel governo assoluto il povero può alcune volte ottenere da un monarca un provvedimento arbitrario, ma repressivo, contro il ricco; nel governo rappresentativo, coverto con la maschera della legalità, ciò è impossibile; elettori quelli che posseggono, i nulla tenenti sono fuori la legge, sono in una condizione peggiore degli schiavi; il governo è nelle mani de' capitalisti e de' proprietarii, l’industria progredisce, la miseria cresce, e la società corre verso l’oligarchia dell'oro.
Passiamo al suffragio universale, amara derisione pel popolo minuto. L’operajo, il contadino, che non votano pel capitalista, pel proprietario, vengono da questi minacciati della fame. I capitalisti fanno monopolio del voto come d'una derrata; il popolo nel governo rappresentativo è abbandonalo affatto in balia del ricco, i suoi mali giungono al colmo. U capitale dispoticamente governa: da ciò la codardia politica, co’ deboli superbi, e co' forti umili; la non curanza per l'avvenire, guadagni pronti e grossi è la massima de' presenti uomini di Stato; nelle loro mani il telegrafo elettrico cd il vapore, grandi trovati dell’umano ingegno, volti a perpetuare l’usurpazione e la miseria. Il Sismondi scriveva alla giovane Italia: «Affiderete voi la causa del proletario agli uomini che nc dividono le privazioni? essi non hanno forza. L’affiderete quindi ai ricchi? essi saranno i primi a tradire il povero». Ecco il problema fatale che tutte riassume le future sorti dell'umanità. Né questo è tutto: le ricchezze de' pochi, e la crescente miseria delle moltitudini producono l’ignoranza e fanno abilità agli usurpatori di salariare parte del popolo per opprimere il rimanente. Quindi le numerose soldatesche ed il militare dispotismo. La quistione politica è nulla in faccia all’importanza della quistione economica. Finché vi saranno uomini che per miseria si vendono, il governo sarà in balìa di coloro che più posseggono; la libertà è un vano nome. Invenzioni, scoverte, ordini nuovi, liberi reggimenti, altro non fanno che sospingere la società in quell’abisso verso cui le leggi economiche inesorabilmente la traggono. In quali Stati èmaggiore la miseria e più sensibile l’oligarchia dei ricchi? In quelli ove le moderne libertà e l’industria maggiormente fioriscono; più elio altrove in Inghilterra, poi nel Belgio, poi in Francia. Gli europei dalla burrasca economica che li travaglia sono cacciati a torme verso il nuovo mondo; e dall’Inghilterra emigrano il maggior numero perché, secondo i moderni, la più civile. Son fatti questi e non congetture che vengono in appoggio alla ragione; quindi il vantato progresso altro non è che decadenza. Ma ove giungeremo? Sarà un giorno l’affannata umanità governata da una gretta oligarchia di banchieri? É questa la domanda a cui risponderemo col ragionamento che segue.
Svolgiamo la storia: essa ci indicherà quali furono le sorti di quei popoli le cui ricchezze s’accumularono nelle mani di pochi patrizii. I MagniGreci sono lontani da noi, e comeché la loro storia ci tenga tramandata attraverso la nebbia de' secoli, pure vediamo che appena pochi divennero i possessori delle ricchezze sociali, cominciò in quelle repubbliche il parteggiarsi del popolo, sorsero t tumulti, d’onde risultò il militare dispotismo, quindi gli Aristodemi, gli Anapili, i Dionisii, i Faleridi.... Presso i Romani gli avvenimenti si disegnano con recisi contorni; appena la società vien divisa in pochi ricchi e numerosa ed ignorante plebe, cominciano, dai mali di questa suscitali, i tumulti: Tiberio e Cajo Gracco, Saturnino Apulliano, Livio Druso, lo stesso Catilina sono generosi che tentano francare il popolo da schiavitù, alleviare le sue miserie; la guerra sociale, la servile, la spartacida, la mariana, la sertoriana, la catalanizia, furono i conati di un popolo infelice contro l’usurpazione dei ricchi; ma la cagione dei inali non cadeva sotto i sensi, non poteva perciò suggerirsi dall’istinto il rimedio: mancò quindi il concetto che avesse unificata e diretta l’universalevolontà; il popolo fu sempre vinto, ma non perciò gli opulenti patrizi! gioirono delle loro usurpazioni; ad essi successe il dispotismo militare: quindi Mario, Silla, Cesare, poi l’impero, i pretoriani che spogliarono ed oppressero ricchi e poveri. E gli stessi avvenimenti li vediamo esattamente riprodotti nelle repubbliche del medio evo; l’oligarchia de' ricchi cade sotto il dispotismo dei venturieri. E presso i moderni quali sono i fatti che osserviamo? Chiunque senza spirito di parte si farà ad esaminarli potrà riconoscere ch'essi sono del medesimo carattere di quelli avvenuti presso i MagnoGreci, i Romani, il Medio Evo; i tumulti, le guerre civili si succedono, il dispotismo militare fra noi, a cagione degli eserciti permanenti, più pronto, già s’estolle su tutti gli ordini, viola giuramenti, calpesta leggi, vuota borse.... Banchieri! monopolisti! cercate gioire del presente, giacché l’avvenire non vi appartiene: il popolo non può ottenere il trionfo che scrollando ed abbattendo tutto ledilizio sociale, ed in tal caso voi perirete sotto le mine; se poi il popolo è vinto, il dispotismo militare vi aspetta, la vostra morte sarà più lenta. Vedrete a poco a poco vuotare le vostre borse, e morrete consunti; altra alternativa nonv’è; questo decreto del fato è incancellabile.
Ecco, o dottrinarii,il progresso sognato dalla vostra beata schiera. È meravigliosa l’astrazione in cui questi colali lontani dalla miseria e dall'opulenza vivono; essi credono in buona fede che dalle loro elucubrazioni fiorirà la libertà. Una catastrofe politica li sorprende, un soldato prescrive i limiti alle loro dissertazioni, come un pedagogo limita, minacciandoli della sferza, le ricreazioni dei fanciulli; essi senza perder coraggio velano le loro idee, le lasciano indovinare, e procedono sognando di far guerra al dispotismo. L’idea, il concetto dominano, è vero, il destino dei popoli: ma esse sono conseguenze de' fatti e non si traducono infatti che dalle rivoluzioni compite per forza d(?)armi, ed il popolo non trascorre mai alla violenza perché animato da un concetto, ma perché stimolato da' dolori. Cosa sono le idee senza le rivoluzioni, senza la guerra che le faccia trionfare? un nulla: sono le varie forme che i vapori prendono nell’aria, e che un zeffiro disperde.
Ma non bisogna arrestarsi alla superficie della società, su cui pur troppo chiaramente è scolpito un tale destino; fa d’uopo esplorare il fondo per pronunciare la sentenza. Discorreremo, come i pregiudizii e le false opinioni in origine più comuni, manifestando col tempo i loro attributi, cagionano, perché non concordi con le leggi di natura, mali gravissimi, ed il rispetto, anzi il cullo che il popolo aveva per essi, cangiasi in disprezzo e derisione. Coloro che primi scrollano tali pregiudizii sono i riformatori; affrontano questi l’ira sociale, sfidano l’esecrazione di quelle moltitudini i li eglino vogliono difendere, e tanti dolori immeritati, tanti martirii estremi vengono in essi ad alleviarsi pel convincimento di essere i propugnatori del vero.
Incontro a questi, dicemmo eziandio, sorgono gli apologisti dei presente, dediti sempre a sacrificare ogni loro convincimento ai vantaggi che loro vengono offerti dal mondo esteriore; sono questi i propugnatori degl’interessi che prevalgono, difensori delle classi che predominano, nascondendo sempre il male, sotto le apparenze del bene; — sono gli ottimisti. Queste due schiere nemiche possono dirsi il genio del bene e del male dell’umanità; quelli rappresentano il moto, la vita; questi, l’immobilità, la morte; sono due pleiadi che precedono sempre le grandi crisi sociali; una tramonta a misura che l’altra sorge sull’orizzonte. Queste due schiere nemiche vengono, fra i moderni, chiaramente rappresentate dai socialisti e dagli economisti, e noi ci faremo ad esporre per sommi capi la lotta che tuttora fra loro si combatte.
Tutti i riformatori osservando la cattiva ed ingiusta distribuzione delle ricchezze in una società che pretende di esser libera, cercano un mezzo acciocché essa venga ugualmente ripartita. Le idee di Campanella, nella Città del sole, di Cabet nell’Icario le teorie di Owen, di Louis Blanc tutte si propongono lo scopo di creare una forza estrinseca, artificiale, la quale presieda alla divisione delle ricchezze. Carlo Fourier, superiore a tutti, rinviene questa forza nella natura stessa dell’uomo: sciogliete il freno alle passioni, concedete ad esse piena libertà: e l’equilibrio, egli dice, si stabilirà da sé. Nondimeno all’applicazione di questo trovato egli prescrive alcune regole; grande nel rinvenire questa forza di cui si va in cerca, erra nel modo di adoperarla. Gli economisti hanno francamente appiccata la battaglia, ed abilmente ferito l’avversario nel debole della corazza. I vostri sistemi, dicono essi, non sono che il ristabilimento del dispotismo con tanta pena abbattuto. Incontro ad essi il passalo protezionismo può dirsi libertà: voi prescrivete il vestito, il cibo, la dimora, alcuni tra voi finanche l’ora del coito. La società sotto un tal reggimento perirebbe di languore: l’uomonon lavora che per sé; se distruggete la personalità distruggerete il prodotto. Pretendete forse con le vostre utopie cangiare le immutabili leggi di natura? Libertà a tutti e per tutti è la formoladegli economisti, e quindi, osservale superficialmente le rose, eglino in questo lotta sembrano i propugnatori della libertà e del progresso. La libertà ridona la dignità all'operajo, vi dicono essi; noi non possiamo né vogliamo lasciar da parte la sua volontà, altrimenti sarebbe ridurlo alla condizione del bruto che opera sotto l'impulso della sferza. Continuano, né tralasciano di servirsi giustamente, ed abilmente del sarcasmo — I vostri sistemi dicono ai riformatori, sono così complicati che solo il vostro grande ingegno che li ha concepiti può averne un’idea chiara e distinta; e però per attuarli fa d’uopo che la società abbandoni nelle vostre mani tutte le sue ricchezze, tutti i suoi diritti, che vi conceda illimitatissima podestà, acciocché voi possiate rigenerare l’umanilà. Le vostre filantropiche pretese, è forza confessarlo, non sono piccole.
Fin qui la vittoria degli economisti è completa. Ma quando si trasporta la quistione sul suo vero terreno, cambiano le veci. I riformatori, a lor volta, dicono: Voi parlate di libertà e dignità dell’operajo? Quale libertà gli concedete voi se non quella sola di morir di fame? Quale sferza è più umiliante e più potente della fame, solo ed unico legame che aggioga il proletario al carro sociale? Quando i riformatori notano la profondità delle piaghe sociali, e la statistica alla mano, terribile scienza, contano in Parigi 500 mila persone immerse nella miseria, ed in tutta la Francia sette milioni e mezzo d’uomini che vivono con soli cinque soldi al giorno, e nel Belgio un milione e mezzo che vivono di pubblica beneficenza; quando spalancano innanzi ad essi quei, tetri volumi delle ricerche fatte in Londra, delle condizioni dei poveri, quindi scorgesi che quasi tutti i malfattori sono miseri ed ignoranti; quando si osserva, finanche un morbo distruttore rispettare il ricco ed unirsi con gli altri innumerevoli mali sotto il nero e stracciato vessillo della miseria; quando ialine, la forzo delle stesse leggi economiche, gli mostra ad evidenza che questi mali debbono immancabilmente crescere con ispaventevole celerità, allora gli economisti rimangono atterriti. I loro sofismi sono impotenti, il sarcasmo cangiasi in ira, e prorompono alle onte: vi chiamano anarchisti e palleggiatori; ma i fatti sanguinosi e minaccianti noncessano di protestare.
Fra gli economisti il solo Malthus, coraggiosamente si è svincolatodalle fatali strette: Non sono le leggi economiche, egli dice, non è l'ingiusta distribuzione delle ricchezze, non le condizioni ed i rapporti della società la cagione di questi inali; ma essi risultano da due leggi immutabili di natura, che regolano la propagazione della specie, e l'accrescimento del prodotto, e fanno si che l’una procede in una progressione geometrica, mentre quella crescein una progressione aritmetica, e quindi conchiude: «Un uomo che nasce, in un mondo di già occupato, se la sua famiglia non ha come nutrirlo, e la società non ha bisogno del suo lavoro, quest’uomo dico non ha il minimo diritto a reclamare una porzione qualunque di nutrimento, egli è realmente di soverchio sulla terra. Al grande convito della natura non vi è posto per lui, la natura gli comanda d’andarsene, nò tarderà a porre essa medesima quest’ordine in esecuzione».
Non è necessario dimostrare per ribattere l’Argomento di Malthus, che in natura non esiste cotesta legge fatale e terribile; ma basterà rispondere che se essa esistesse, non dovrebbe avere effetto, se non quando ognuno non occupasse nel convito della vita che un posto solo; ma quella ingiusta distribuzione di ricchezze di cui si ragiona fa sì che uno solo occupa i posti di più: che 9 milioni per esempio, come avviene in Inghilterra, divorano la mensa che natura ha imbandito per 250 milioni. Or come impedire ai tanti esclusi di avvalersi di quella superiorità di forze dalla natura stessa concessagli, e calpestando quei pochi, farsi da loro medesimi giustizia?
Giunta la quistione a tal punto, entra in lizzaProudhon: la chiave della volta, secondo Garnier, dell’edifizio sociale è... –La proprietà è un furto, è la netta evidente incontrastabile conseguenza a cui perviene Proudhon colla sua inesorabile logica. Gli economisti hanno consumate inutilmente tutte le loro forze per difendersi, ma l’impresa era troppo ardua, massime per la proprietà fondiaria. Sarebbe soverchio venir ripetendo in queste pagine gli argomenti di Proudhon; il certo è che l’uomo ozioso, semplice consumatore inutile alla società, che impone patti a suo capriccio a coloro a' quali essa deve tutto, è l'immediata, lalegittima conseguenza del diritto di proprietà. L’ultimo fra i volgari, se i pregiudizii non l’acciecano, se la sua ragione può per un solo istante francarsi dall’imperio de' fatti, è nel caso di comprendere questa verità. Come mai può dirsi giusta una legge dalla quale risulta il diritto di non far nulla, e scialacquare il frutto dell’altrui sudore? Gli economisti hanno alzata l’ultima barricata dietro cui si credevano invulnerabili: La terra, soggiunge Bastia!, non ha valore (quasi che mancanza di valore in un oggetto da tutti desiderato potesse adonestarne l’usurpazione); la proprietà, egli dice, è un lavoro accumulato. Ma ad onta di questa ardita asserzione sono stati disfatti, e videro distrutte eziandio le ragioni con cui difendevano il capitale: L’uomo creato con facoltà inferiori ai suoi bisogni, non può bastare a sé medesimo, e solo associandosi coi suoi simili esce dallo stato selvaggio; isolato è inferiore a quasi tutti gli animali, associato diventa sovrano. Solo non può neppure procacciarsi il necessario; in società ottiene subito dal lavoro collettivo un prodotto sovrabbondante, quindi comincia il risparmio, il capitale; e siccome il lavoro, come afferma lo stesso Pellegrino Rossi, non essendo trasmissibile, non è neppure usufruttabile, ne risulta che il risparmio, ovvero il capitale, conseguenza di un lavoro collettivo, non può essere che una proprietà collettiva. Il capitalista che paga otto di salario ad ogni operajo che produce dieci, non solo ruba due ad ognuno di essi, ma ruba eziandio la loro potenza collettiva, quella potenza per cui razione simultanea di cento persone è superiore all’azione successiva di tutti gli uomini della terra; potenza per cui accrescesi oltre misura il’ prodotto, potenza generatrice del capitale. Per qual ragione adunque gli operai, padroni legittimi del prodotto del loro lavoro, padroni legittimi del capitale che la loro potenza collettiva ha accumulato, sottostanno alle esorbitanti e tiranniche esigenze d’un capitalista? La fame noli costringe. Se nella presente società cessasse la miseria, capitalisti, e proprietarii più non troverebbero né operai, né linaiuoli che volessero lavorare per loro conto; cesserebbe ogni produzione, la miseria fa loro abilità di usufruire gli altrui lavori; la miseria è il punto d’appoggio su cui librasi, è la base su cui poggia l'edificio sociale; è il solo movente che produce quella vantata armonia della società. I pochi si giovano del frutto dei lavori di molli. Gli economisti, vedendosi debellati, hanno 'eseguita un’abile evoluzione, sono ritornali sull’antico terreno; essi trascinarono nuovamente i loro avversari ad esaminare i sistemi che pretendono surrogare alle condizioni e relazioni presenti, e disser loro: «voi non fate che distruggere; edificate, ed esperimentiamo se i vostri concetti sono attuabili. I riformatori in quest’ultima contesa mancarono di carattere, si mostrarono deboli: eglino, credendo sincere le proposte dei loro avversari, si fecero a chiedere ai proprietarii i mezzi come esperimentare una società senza proprietà, la facoltà d’abolirla,... ammirabile innocenza!!. Eglino avrebbero voluto riedificare senza distruggere, vestire il povero senza spogliare il ricco... vana speranza! Lo stesso Proudhon pretende riformare la società con alcune istituzioni che tutti potrebbero accettare. I loro avversarii risposero con un sorriso di scherno, ed ascosero il loro veleno per servirsene a miglior tempo. Noi troncheremo il nodo della quistione, non essendovi alcuna necessità di scioglierlo.
Riscontrasi forse registrato ne’ fasti dell’umanità che le rivoluzioni si compiono con una discussione o con un’esperienza? Gl’interessi opposti da cui viene l'urlo si salvano entrambi. D’onde, se non dal torrente degli affetti che sgorgano dalle rivoluzioni, e travolgono nel loro rapido corso ogni ostacolo, sorte inaspettato il nuovo ordine sociale? A me basta d’aver provato, né ciò possono negare gli economisti, che i mali, le cagioni de' presenti dolori, esistono non solo, ma crescono continuamente, e questo fatto, scritto a caratteri indelebili negli eterni volumi del destino, racchiude in sé la rivoluzione, come i corpi il calorico. Quando il popolo non avrà più nulla da mangiare, mangeràil ricco ».
In questi termini, con queste parole Rousseau ha preveduto e definito la rivoluzione, e cosi avverrà. Inoltre le nazionalità compresse, le ingorde tirannidi, l’agitarsi delle sette, sono altre ragioni, effetti, e cause della rivoluzione, le quali ne avvicinano il momento, e vestono delle loro apparenze alcuni rivolgimenti, il cui movente principale, la miseria, il bisogno di migliorare, rimane nascosto.
Dunque, risponderanno esterrefatti gli economisti, la rivoluzione preveduta, desiderata è la strage, la spogliazione? Si, tale sarà; ma le sue vittime saranno in numero assai minore di quelle che voi spegnete coi lunghi tormenti della miseria. E fossero più, noi ripeteremo le vostre frasi: non si giunge senza perdila sulla breccia — non possiamo tener conto di coloro che il corro del progresso schiaccia nel suo cammino. —Conchiudiamo: la rivoluzione è inevitabile, essa si avvicina con caratteri chiari e distinti, e procede indipendente dalle discussioni dei dotti. — Noi ci faremo ad esaminarne più minutamente le tendenze.
La Provvidenza, esclama Alessio Battiloro in Palermo nei 1649, fa le campagne ubertose per tutti, né noi dobbiamo morire di «fame perché alcuni ladri s’impinguano».
É questa la formola della rivoluzione — che esiste latente da due secoli — dal momento che al popolo del medio evo successe il popolo moderno. Tutti i rivolgimenti che hanno avuto luogo da quell'epoca, che avranno luogo in avvenire, tutti, comechè in apparenza vestili di altri caratteri, sono l'effetto del medesimo movente: i bisogni materiali del popolo. Questi varii rivolgimenti sono stati vinti e sviali, imperocché l'istinto appigliandosi alle apparenze ha trascurata la realtà; sollecito della riforma politica non ha curato la sociale: ma il movente principale sino ad ora occulto, sconosciuto, non compreso dalla moltitudine, già comincia ad emergere dal fondo della coscienza sociale. Chi oggi è così semplice da supporre che un popolo corra alle armi per surrogare qualche scaltro ad un re, per inalberare uno straccio dipinto in un modo piuttosto che in un altro, per ottenere con le stesse misure un pomposo nome? Chi negherà che il popolo armasi perché spera in cuor suo, senza dirsi il come, migliorare le sue materiali condizioni? Chi negherà che libertà, patria, diritti, sieno vani nomi, amare derisioni per costoro, dannali in perpetuo dalle leggi sociali alla miseria ed all'ignoranza, inerenti al diritto di proprietà come l'ombra ai corpi? Perché amerà la libertà della persona, del pensiero, della stampa colui che non ha mezzi onde esistere, che, per ignoranza, non pensa e non legge? Sorrideva Mettermeli quando i sovrani spaventavano della quistione politica; il suo arguto ingegno scorgeva che la vittoria era certa pel dispotismo, finché la quistione non diventasse sociale. Ed oggi chi non vede che la quistione socialecomincia a prevalere alla politica? Gli stessi uomini tenacemente ristretti fra le antiche idee sono loro malgrado obbligati a concederle qualche pensiero, qualche frase. Non era la quistione sociale che scriveva nel 35 sulle bandiere dei ribelli di Lione Vivere travagliando o morire combattendo? Non era la quistione sociale quella a cui Cavaignac nel Giugno del 48 rispondeva a colpi di cannone? E le associazioni che si creano, appena ne hanno facoltà quasi istintivamente non accennano forse a cotesto avvenire? E l'indifferenza con cui il popolo francese mirò violala la costituzione dello sfato, arrestati i suoi rappresentanti, diroccato il palazzo dell’assemblea, non dice chiaramente che egli sperava con la repubblica migliorare le proprie condizioni, e,rimasto deluso, non trovò ragione sufficiente per difenderla contro l’Impero? Sono scorsi quasi due anni dacché ho scritto queste pagine, al cominciare del 1850; con mia soddisfazione posso aggiungere nuovi fatti in conferma del mio asserto. Ora che le dottrine socialiste più non si manifestano, ora che i dottrinanti d’ogni colore predicano l’assurda concordia de' partiti contro il comune nemico, il socialismo s’eleva alla pratica, è l'aspirazione di una società secreta, la Marianna.
Le concioni popolari in Londra già prendono questo carattere, aspreggiano i ricchi. Nella Spagna, ove non crasi mai scritto di socialismo, esso mostrasi nei tumulti popoleschi; e la sollevazione di Lione, quella di giugno, la Marianna, le concioni d’Inghilterra, i tumulti di Barcellona... sono quelle serie di fatti che spiegano trasformarsi l’idea in sentimento, ed in etti sembra suggerimento dell'Istinto ciò che a pena un tempo antivedeva la ragione. Quando un talfatto avverrà, in men che baleno, crollerà il moderno edifizio sociale, e su le sue rovine si vedrà sorgere l’era della libera associazione.
A cotesti fatti sappiamo quale sarà la risposta dei conservatori. Noi speriamo, dicono essi, che tutti i rivolgimenti vengano, come per il passato, soffocati nel sangue; noi non daremo campo alla rivoluzione di ergere il capo; noi cercheremo di comprimere ogni elatere dell’animo e vinceremo. Ed io rispondo: forse lo potrete: ma nell’aspra lotta le forze della società si logorano, e di vittoria in vittoria vi troverete inevitabilmente sotto il giogo del militare dispotismo, e quindi della decadenza e dissoluzione.
L’avvenire è già inesorabilmente stabilito: o libera associazione, o militare dispotismo. Quale di queste due condizioni sociali avrà il trionfo, è dubbio. Noi porremo fine a questo paragrafo paragonando le forze contrarie che debbono venire in lotta, e così manifesteremo un’opinione, se non esatta, almeno probabile, rispetto al nostro avvenire. Se il popolo si riscuote, rovescia facilmente nobili, ricchi, preti che l’opprimono; questa imbelle schiera d’oppressori non può paragonarsi alla gagliarda aristocrazia feudale; essi verrebbero fugati dal solo fragore della plebe in corruccio. La sola forza che li protegge, la sola forza che si opponga alla ebollizione, sono gli eserciti permanenti; ma quale è la loro natura.
Possiamo paragonarli ai satelliti armali di cui si circondarono i tiranni della Magna Grecia, a' pretoriani de' romani imperatori, a' venturieri del medio evo? No: pei moderni uffiziali la milizia è un mestiere, ma non lo è pei gregarii, per questi è un peso a cui con riluttanza si sottomettono. La disciplina adopera ogni meglio onde, quasi direi, affatturarli, e farne un sostegno alla tirannide, di cui i soldati sono le vittime più che le altre tormentale, ma non cessano di esser popolo, dal cui seno sono svelti a forza, e sempre agognano farvi ritorno. Perché dunque credere che il fascino, l'incanto che li aggioga ai dispotismo, non possa cadere, né possa sorgere in essi la speranza di un migliore avvenire da conquistarsi non già al prezzo di una battaglia, ma solamente rifiutandosi di combattere contro i propri concittadini ed amici? Chi più del semplice soldato deve desiderare un miglioramento nelle condizioni della plebe? Egli non è che plebe. Inoltre quell’amor proprio di corpo in cui risiede tutta la forza de' moderni eserciti è eziandio efficacissimo conduttore d’ogni nuova idea; un solo, in quei difficili momenti, in cui gli spiriti esaltali ondeggiano nell'incertezza, momenti nelle guerre civili comunissimi, un solo basterebbe per trascinare col suo esempio un reggimento intero, ed un reggimento, un esercito. Aggiungi che la polvere da fuoco ha reso facilissimo I'armeggiare; ha diroccato le torri dei feudatarii; ha sfondata la loro corazza: ha uguagliato il povero al ricco, il forte ai debole; ha reso impossibile alle soldatesche sostenersi in una cil(9, in cui i cittadini padroni degli edilizi sondecisi a combattere; e finalmente il vantaggio al numero sul valore pare che abbia favorevolmente decisa la causa dell’umanità.
Concludiamo: la moderna società trovasi in quel punto fatale d onde le antiche hanno rapidamente declinato. Ma facendo qualche considerazione sulle condizioni di quelle, vi osserviamo una grande differenza in confronto delle attuali. Il popolo è misero acome l'antico, ma non come quello parteggiato da' ricchi e legato alle loro persone; il prestigio di cui godevano gli oppressori più non esiste; le questioni sulle riforme, vaste, nette, non vaglie ed oscure come le antiche—esse dall’astrazione di pochi cominciano già a diventare idee pratiche, sentimento di molti: facili gli armeggiamenti, la trasformazione del cittadino in guerriero facilissima, prontissima; per nemici i soli eserciti permanenti, popolo anch'essi; e però può sperarsi che la società non declini, ma ascenda all’era della libera associazione, scorrendo cosi un’orbita più vasta di quella percorsa dai popoli che ci hanno preceduto.
IV. Discorremmo come i varii rivolgimenti trasformino la società, ed illuminali da fatti delle moderne condizioni e relazioni degli uomini, abbiamo sospinto lo sguardo nell’avvenire. La religione fra coteste vicende molto opera, ma pochissimo le modifica: quindi preferiremo per semplicità separatamente discorrerne.
La religione è un effetto dell’ignoranza e del terrore; l’uomo deifica ogni forza ignota che lo spaventa, e personifica coteste forze dando loro le proprie forme, le proprie passioni; quindi mutano i costumi, e gli attributi de' Dei al cangiar de' costumi dei popoli.
I primi numi furono i reggitori di quelle forze che la natura manifesta nel suo tremendo corruccio, e cotesti numi cosi possenti la sconvolgevano, al credere de' stupidi ed attoniti mortali, per muover guerra all'uomo. Di qui la credenza di averli offesi, il desiderio di placarli, e siccome la sola vendetta accheta l’uomo sdegnato, per placare gli Dei offrivano loro la vita dell’offensore, ed il cullo manifestavasi con gli umani sacrifizii. Isolati gli uomini, ogni uno ebbe i propri Dei, quindi gli Dei penali. Raccolti in città, surseil pubblico coito, come surse la pubblica opinione, il pubblico costume.
I popoli si mansuefecero, si assottigliarono le menti, e la religione cangiò. L’agricolo e placido Etiope adorò le costellazioni, che annunziavano le stagioni avverse o propizie ai suoicampi ed il dilagare dei fiumi fecondatori; le nominò con simboli conformi alle sue idee, ed adorò la Fede, la Pace, la Guerra... Infine coll’ingentilirsi dei costumi i sacrifizii umani cessarono. Nell’assottigliarsi della religione surse la Greca e l’Italica filosofia la quale era in opposizione, come ogni filosofia, coi principii religiosi. Gli Dei dei Greci e de' Romani non erano gli arbitri del destino degli uomini, ma di ajuto efficacissimo, se propizii, alle loro imprese, nemici terribili, se irati; al disopra di essi eravi l’immutabile destino, alle cui leggi sottostavano Dii, e mortali. La filosofia naturalmente concentrò tutti i suoi studii su questa forza, su questa legge suprema, e riconoscendo la frivolezza degli altri simboli, l’assurdità della numerosa turba di Dei, li dichiarò falsi, ed altro non riconobbe che questa potenza superiore, che fu l’unico Dio, le cui leggi essendo eminentemente giuste, e però immutabili, distruggono qualunque cullo, qualunque relazione tra Dio e gli uomini, e così, come era naturale, la filosofia stabiliva l’Ateismo.
Il riconoscere una legge suprema giusta e fatale regolatrice dei destini degli uomini, era idea che poteva allignare solamente fra un popolo puro e conscio della propria dignità, ma la buona semente fu sparsa su cattivo terreno, il degradato popolo del cadente impero; popolo avvilito, popolo schiavo, che le miserie avevano ridotto quasi nello stato medesimo del selvaggio, atterrito dalla sconvolta natura, venne naturalmente dal proprio scetticismo condotto a rimettere le sue sorti nelle mani di quest’unico Dio, e ne fece il vendicatore degli oppressi, l’arbitro degli umani destini: e siccome i popoli credonsi fatti ad immagine sua, così gli attributi di esso furono i loro: l'abbiettezza, l'umiltà, la pazienza, l’indifferenza per le cose terrene. Il culto onde adorarlo, i misteri, i riti li trassero dagli Orientali, quanto i Romani di quell’epoca schieri ed indolenti. Intanto le solitudini degli animi e degli interessi, l’egoismo umano, volto solo all’utile privato: questo in diretta contraddizione con l’utile pubblico, produsse naturalmente la reazione negli animi degli scrittori, i quali come vogliono i correttori de' costumi, senza comprendere che que’ vizii erano l'effettodello sfacelo in cui andava la società colle istituzioni che la reggevano, credettero porvi rimedio predicando corteo di essi ed opponendovi a bilanciarli massime di fratellanza ed abnegazione; e così da questa morale predicata, impraticabile, e dalla teologia orientale nacque il Cristianesimo, le cui regole e massime mostrano benissimo che sursero fra un popolo eccessivamente degradalo ed in balla di uno sfrenalo egoismo.
Quindi giustamente Hegel dichiara la modestia cristiana nel sapere il grado supremo dell’immoralità. Immorali e contraddittorie alla natura umana dovevano essere tali massime perché surte fra un popolo in cui ogni elatere dell’anima era spento, e predicale in contraddizione alla realtà dei fatti ch’erano effetti delle immutabili leggi di natura. Gli uomini deificati formarono, ad imitazione del paganesimo, la turba dei Dii minori, che, come gli antichi, presiedettero a tutte le operazioni della vita, a tutti i fenomeni della natura. Alcune madonne, alcuni santi con attributi speciali, gli amuleti, le reliquie, specie di feticci, si surrogavano agli dei penati, ai lari; e cosi con diversi principii e nomi, ma quasi con le stesse forme, alla religione di un popolo giovane e fiorente, si sostituì quella che convenivasi ad un popolo degradato e corrotto.
Gli Dei antichi erano eroi, perché eroico il popolo che li adorava:. quelli dei cristiani, eran martiri, perché schiavi ed oppressi gli adoratori. Avvezzi gli antichi a vedere il trionfo ed a rispettare il giusto, lo riguardavano come legge immutabile a cui sottostavano dei, e uomini; i cristiani, per contro che la miseria aveva sospinti allo scetticismo, ne perdettero ogni idea, e deificarono l’arbitrio, abbandonando i destini dell’umanità in balìa d’un Dio, secondo la preghiera degli uomini mutabile, e così al padrone che si creavano nel Cielo davano gli attributi medesimi che avevano i loro padroni sulla terra. La morale degli antichi risultata dall’azione era pratica, e però d’accordo con l’umana natura; quella dei cristiani impraticabile, perché volta a frenare le sue leggi.
La nuova religione, umile in prima, si propagò strisciando fra i potenti, ma, divenuta padrona della forza, mostrossi oltre ogni credere feroce e codarda. Inorridiscono i moderni in pensando a' terribili riti druidici ed agli umani sagrifìzii degli antichi; non conoscono, tanto da' pregiudizii è oscurato il loro intelletto, quanto più atroci e codardi sono gli assassinii del cristianesimo commessi nei tetrirecessi dell’inquisizione.
Coronata di fiori, resa ebbra dallo stesso sentimento religioso, alla splendida luce del sole, fra devota e festosa moltitudine, invilavasi la vittima degli antichi, la cui vita, in men che balena, veniva spenta dal colpo che vibrava il destro sacerdote.
Carica di catene, estenuata dalla fame, sotto oscure e solitarie volte de' sotterranei, circondata da carnefici, non già addestrati a recar pronta la morte, ma raffinati nel lento incrudelire, frusto a frusto consumavano fra tormenti atrocissimi la vittima dei cristiani.
Ne’ sacrifizii degli antichi l’aria risuonava dei canti dell’inneggiante e devoto popolo, ed era profumata dalle nuvole di fumo che s’innalzano dai brucianti incensi. Fra cristiani invece, veniva percossa dalle strida acutissime della vittima, ed appestata dal lezzo insopportabile di carni lacerate ed arse. E quindi i principii, i misteri, gli attributi degli dei, i riti, i sacrifizii, tutto insomma rivela un popolo generoso, e nel cristianesimo un popolo codardo e servo.
Fin qui della religione.
Ora diremo de' sacerdoti. Ogni eroe fu sommo sacerdote nella propria famiglia e fra i suoi clienti. Formati i vichi, i paghi, le città, la concione de' forti, spesso non potendo occuparsi delle cose divine concernenti il pubblico culto, delegò altri a compiere tali ufficii, ma costoro con tali facoltà acquistarono ben presto un grande ascendente sulla credula moltitudine, e l’aristocrazia si vide osteggiata, contrappesata dalla teocrazia; onde la lotta fra queste due caste, che si disputavano la sovranità. Uno dei fatti più antichi, che ci rammenta questa lotta accanito, è l’esterminio che Nob fece d’Achimelech con altri ottantacinque sacerdoti. E le mille volte presso i celti incalzati dal fulmine, brando de' prodi aristocratici, i tremanti sacerdoti dovettero riparare nelle caverne.
In Italia l’aristocrazia prevalse presso i Magno Greci come presso i Romani, i Numi obbedivano alla suprema podestà dello Stato.
Le medesime vicende si riscontrano nel cristianismo. Surto in uno stato già costituito, fu al principio indipendente dal governo. Come fra i vichi ed i paghi della primitiva barbarie il capo era sommo sacerdote, cosi ogni villaggio, ogni città de' primi cristiani elesse un cittadino a tale ufficio, il vescovo. In tal guisa cominciò la teocrazia, la quale, crescendo il suo potere, si rinserrò in una casta e si attribuì que’ diritti che ad essi venivano dal popolo ed erano inerenti al popolo.
La lotta con l’aristocrazia non tardò a dichiararsi; quindi i guelfi ed i ghibellini. La spada vinse il prete fra moderni, ove il reggimento è nelle mani di uomini né codardi né devoti; se non di diritto, di fatto il pergamo è soggetto a chi impera; i miracoli, le preghiere sono ai comandi del trono. Cerchiamo ora di scorgere quale sia l’avvenire a cui accenna, la religione. Vedemmo come essa ha seguito i destini de' popoli e sia conforme ai loro costumi.
In quella de' selvaggi sta impresso il terrore di cui è figlia, e il loro ingentilirsi ne rammorbidisce gradatamente i troppo duri contorni; la religione di una società fiorente è quale si conviene ad un popolo di eroi, ed è sempre in perfetto accordo con l’utile pubblico, come quella nata fra uomini dediti ai bene ed alla grandezza della patria.
Nella decadenza delle società poi si riscontrano in essa le contraddizioni e la viltà d’un popolo degradato, e, cercando rapire Tuomo alle cure di un mondo in cui soffre con la promessa di un futuro ed immaginario godimento, deve sempre trovarsi in opposizione con l’utile pubblico.
Dunque, affinché una nuova religione potesse sorgere, sarebbe indispensabile che un cataclisma confondesse In nostra mente, ne cancellasse ogni tradizione, e riproducesse in noi la meraviglia stessa, lo stesso terrore che i selvaggi sentirono al rombar del tuono. 0 pure è indispensabile che la corruzione e la miseria, comprimendo affatto l’elatere di nostra vita ci prostrino talmente che, disperando delle proprie forze, ci costringano ad invocare potenze imaginarie; non v’è che l’uomo atterrito e degradato che riponga le proprie sorti nelle mani di Dio. Nel primo caso si riprodurrebbero le primitive religioni con nomi diversi perché spontanee sono quelle tradizioni. Nel secondo, esistendo ancora una religione surta in simili condizioni non potrebbe che riprodursi, rifiorire la medesima. Quindi se la società moderna declina risorgerà il Cristianesimo e raggiungerà nuovo splendore con rifiorire il cattolicismo, stato di sua perfezione; e viceversa, se questa religione perde, il suo prestigio è indizio che la società si avvicina al suo risorgimento. Apriamo l'anima alla speranza, esso non dovrebbe esser lontano. Ma quale sarà la religione della società rigenerata? È questa l’ultima domanda a cui ci faremo a rispondere. La religione è fondata su di un’idea di podestà suprema, di dipendenza, senza della quale non potrebbe esistere. Senza preghiere, senza credenze, senza culto, senza autorità non v’è religione. Dunque sono indispensabili i sacerdoti che parlano in nome degli dei, che predicano la virtù che gli dei richieggono. È egli mai possibile che ciò avvenga? In una società la quale tende verso la libera associazione e l’eguaglianza, ove ogni gerarchia sarà abolita, potrà mai allignare l’idea di dipendenza da una somma sapienza? Chi oserà dirsi delegato da Dio a predicare la virtù? Chi nelle presenti condizioni può farlo senza essere deriso? Il popolo], dice Mazzini, sarà il solo interprete di Dio; ma in simile casoDio che cosa diverrà? I suoi voleri saranno quelli del popolo né potranno essere differenti, imperocché per esprimerli sarebbe d’uopo d’interpreti che non fossero popolo, quindi Dio diventa un vano nome, e non altro. Se poi, come soggiunge lo stesso Mazzini, Dio è la legge, allora fa d’uopo dichiarare di quale legge parlasi; se di una legge naturale, allora essa debbe assolutamente esistere nel popolo, quindi Dio sparisce Dio è il popolo. Se poi questa legge è differente da quelle di natura, sarà indispensabile un rivelatore, ma chi Toserà? Ognuno al giorno d’oggi potrebbe dire: Italiani! ascoltatemi! io vi darò le migliore leggi possibili, ma niuno avrà tanto ardire, o sarà così stollo d’aggiungervi: esse mi sono state rivelate da Dio!
La religione non è, come asseriscono alcuni, il desiderio, il bisogno di venirti alla conoscenza dell’assoluto; la religione è un sentimento di debolezza, che rendeci creatori ed adoratori di potenze sovrumane, e quando la ragione dimostra che queste forze non esistono, o almeno non impongono doveri, nò accordano premii, nò infliggono castighi, né avvi mezzo come placarle, e renderle a noi propizie, la religione più non esiste. Dicono alcuni: il simbolo della nuova religione sarà l'umanità, la ragione, la libertà. Ma coteste idee non essendo nò mistiche, nò sovrumane, non hanno in sò alcun sentimento religioso. Ma, senza andarci ravvolgendo in inutile giro di parole, domandiamo a costoro se nella nuova società a cui eglino medesimi accennano vi potrà essere un’idea mistica che ne modifichi la costituzione ed i costumi degli uomini. La risposta non può essere che negativa, quindi la società rigenerata dovrà essere indubitatamente irreligiosa.
Chiamare religione e deismo l’aspirazione alla conoscenza dell’infinito è un’improprietà di linguaggio, è oscurare le nuove idee con voci antiche destinate ad esprimere tutt'altro sentimento. Non ammettere che queste aspirazioni, dichiarare ogni simbolo di Dio assurdo, negargli ogni ingerenza nella vita dell’uomo altro non èche irreligione, ateismo.
In tutte le religioni sino ad ora esistite la fede ha creduto alla certezza e verità obbiettiva della parte sovrumana. La ragione altra non aveva fatto che distruggere un simbolo e sostituirne un altro accettalo come verissimo. Ma oggi siamo trascorsi più innanzi: studiando sul passato e scorgendo una successione di simboli religiosi, ogni uno a sua volta dichiarato falso, si èdedotto che tutti erano egualmente bugiardi, che tale è il presente, che tale sarebbe un nuovo simbolo che ad esso si sostituisse. Dunque la nuova fede qual è? Il non aver fede in nessun simbolo perché chimere della nostra immaginazione; ovvero, la nuova fede è l’irreligione. Tutti i riformatori, tutti gli apostoli del progresso sono irreligiosi ed atei, ma tutti non vogliono accettare questa conseguenza della loro dialettica e si dichiarano con enfasi religiosi e deisti. Per contro non tutti sono socialisti, ma tutti, comeché professando dottrine opposte al socialismo si compiacciono dirsi tali, e perché? La ragione è evidente: l’irreligione è già sentimento; quindi tutti la professano; ma sono riluttanti a confessarlo; il socialismo riguardasi ancora dottrina, e tutti cercano farne pompa senza comprenderlo o approvarlo. Un’altra ragione per cui la religione si dichiara indispensabile è che la storia la registra come un fatto universale e costante. Ma questa ragione non dovrebbe avere alcun peso per coloro che credono al progresso indefinito, imperocché tale credenza non può ammettere che una qualsiasi istituzione debba esistere per la sola ragione che ha sempre esistito; anzi la dottrina del progresso indefinito stabilisce il contrario. La religione ha sempre esistito imperocché tutti i popoli della terra hanno percorso sino ad ora la medesima orbita, sono soggiaciuti alle medesime vicende. Gli orientali, gli etruschi, i magnogreci, i romani, i moderni tutti, partendo o dallo stato selvaggio o dalla barbarie ricorsa, hanno raggiunto le medesime condizioni. Al termine poi di questo ciclo sociale percorso da tutti i popoli del mondo, si è accennato ad una legge di fraternità ed eguaglianza, quasi sintesi dell’idea sociale: vi accennarono le dottrine di Zoroastro e di Confucio, vi accenni Platone, vi accennò il cristianesimo, vi aspirano più recisamente i moderni. Quei popoli decaddero, né poterono raggiungere questo nuovo stato: noi, raggiungendolo, varcheremo un punto che nessun popolo ha varcato, quindi niuna delle istituzioni passate o presenti ci può. esser norma ad indovinare le future. L’irreligione sarà nuova, come è nuovo il socialismo.
Daremo fine a questo capitolo richiamando l’attenzione del lettore su di un fatto da cui moltissimi sono tratti in un grossolano errore.
Quelle aspirazioni alla fratellanza, che abbiamo scorto in tutte le società, cominciavano a dissolversi: la comunità de' beni predicata nel vangelo, ha lasciato credere quasi a tutti che quelle antiche idee fossero i rudimenti del moderno socialismo: ma quest’aspirazione ad un migliore avvenire che sentiva un popolo avvilito, un popolo in cui era spenta ogni energia, era conseguenza delle condizioni di quella società, che doveva o progredire o decadere. Ma essa non fu che una semplice aspirazione; le massime che prevalsero furono quelle dell’umiltà, dell’indifferenza alle cose terrene de' cristiani, effetto di loro degradazione e causa che ne accelerò la caduto; una tale aspirazione fu il crepuscolo d’un tramonto, o piuttosto fu Falba di nuovo giorno.
L’avvenire immaginalo da' cristiani in tale aspirazione sarebbe stato la trasformazione del mondo in un convento. Il fanatismo condusse que’ popoli al martirio, ma non potette elevarli alla battaglia. Per contro fra le dottrine de' moderni socialisti, fra le massime ricevute, non avvene alcuna che dissolva od avvilisca; gli uomini oggi si associano non già per pregare e soffrire, ma per prestarsi vicendevole ajuto, lavorando per acquistare maggior prosperità e per combattere; l’aspirazione del socialismo non è quella di ascendere in cielo, ma di godere sulla terra. La differenza che passa fra esso ed il vangelo è la stessa che si riscontra fra la rigogliosa vita d’un corpo giovane, ed ilrantolo d’un moribondo.
V. Senza obbliare le verità economiche rammentate nelle precedenti pagine, e le conseguenze da esse dedotte, restringeremo le nostre considerazioni fra i confini che le Alpi ed il mare segnano alla nostra patria: e prima di farci a scrutare l’avvenire verremo svolgendo quei popolari concetti che sembrano riassumerlo, mentre essi non potranno ch ’essere la conseguenza e l’effetto.
In Italia il concetto sociale appena albeggia, traspare appena fra i voli e la speranze universali, il politico predomina, e la ragione è per se medesima evidente; un popolo a cui negasi una patria crede un tal fatto cagione assoluta dei mali suoi, e conquistandola spera alleviarli; nondimeno i fugaci esperimenti del 48 e 49 hanno fatto scemare fra gl’italiani, e per essi non intendo una setta, ma l’intera nazione, il prestigio che aveva il politico concetto. Se malamente sopportansi le presenti miserie, sentesi eziandio che un cangiamento di forme, di nomi, d’uomini non è rimedio efficace; ed un tal sentimento comeché sconfortante pel presente è segno indubitato di migliore avvenire, avvegnaché sarebbe impossibile abbracciare nuove idee, nuovi ordini, prima che U fatto non avesse distrutto le presenti illusioni e gli antichi pregiudizi?. Inoltre sono le relazioni di stato a stato cosi intime e cosìintrecciate in Europa che gli esperimenti in politica fatti da una nazione, del pari che le invenzioni e le scoperte sono l’utile universale, non potendo rimanere inosservate cd infruttuose per gli altri popoli; epperò l’Italia va ammaestrandosi non solo con le proprie esperienze, ma ancora con quelle de' suoi vicini.
Gli stati europei navigano di conserva verso la stessa meta; il primo a giungervi determinerà la linea sulla quale gli altri verranno ad arringarsi.
La Francia, più che ogni altra moderna nazione, ha. fatto numerose esperienze nelle varie forme del suo reggimento.
Gli italiani hanno visto, tremendo esempio, crescere i loro mali senza verun vantaggio. Un tale fatto e le nostre passate speranze sono cagioni abbastanza gravi a determinarci allo studio accurato delle conseguenze a cui potrebbero condurci le nostre istintive aspirazioni. A coloro che credono che la buona scelta degli individui o qualche piccolo cangiamento facesse fruttare in Italia felicità quelle stesse istituzioni cadute in Francia nel dispotismo, è inutile rispondere: io non scrivo per costoro, i quali se non sono ignorantissimi, sono indubbiamente in mala fede.
Nazionalità è una parola che all'iniziarsi i rivolgimenti del 48 corse di bocca in bocca, ed è tuttora per gl’italiani di grandissima efficacia, ma sempre èstata malamentedefinita né mai profondamente meditata.
La nazionalità è l’essere di una nazione. Un uomo che liberamente opera, liberamente vive, ed esprime i propri pensieri, possiede completamente il suo essere, ma se un ostacolo qualunque impedisce lo sviluppo delle sue facoltà, ne interdice la volontà, ne arresta i moli, l'essere più non esiste. Nella stessa guisa per esservi nazionalità bisogna che non frappongasi ostacolo di sorte alla libera manifestazione della volontà collettiva, e che veruno interesse individuale non prevalga all'interesse universale; quindi non può scompagnarsi dalla piena ed assoluta libertà, quindi non ammette classi privilegiate o dinastie o individui, la cui volontà, attesi gli ordini sociali, debba assolutamente prevalere; è nazionalità quella che godesi sotto il giogo d’un assoluto sovrano? Quale utile ebbero i popoli dalle guerre che da tre secoli e mezzo si combattono in Europa? guerre di rivalità dinastiche e non d’altro? Gli austriaci i prussiani, i piemontesi, gli spagnuoli quali ragioni avevano di correre alle armi, e d'assalire i francesi per vendicare la morte di Luigi XVI? Il popolo sotto tali governi è un gregge vilissimo, tosato in pace con balzelli, stromento in guerra di vendetta e di odio personale fra i principi. La ricca vita nazionale si riassume e si angustia in quella ignobilissima d’un despota o d’un suo favorito, e diventa però mutabilissima; quindi la stessa nazione la vediamo ora superba, ora umile, ora bigotta, ora religiosa, ora debole, ora forte, il continuato progresso impossibile; ogni ministero distrugge, o sceglie via diversa da quella del predecessore, sempre suo rivale, e la nazione è condannata ad un perpetuo ondeggiare. Tutto ciò di' è collettivo, epperò nazionale, abborrito, interdetto. La storia della nazione riducesi od una cronaca menzognera o scandalosa delle virtù o de' vizi dei principi. Ove adunque trovasi la nazionalità? Quali vantaggi otterrebbe l’Italia con l’unità monarchica assoluta? Nuovi mali e non altro.
Tutte le miserie ed umiliazioni che ora si riscontrano in ogni principato in cui è divisa l’Italia non cesserebbero, ma a queste altre verrebbero aggiunte dell’accentramento del potere e dell’amministrazione che naturalmente risultano.
Come ora languono le provincie d'ogni stato, languirebbero allora egualmente le città che oggi sono capitali, eccetto una. Il male e l’ingiustizia che le provincie sieno governate da uomini spediti da lontane corti crescerebbero d’assai con l’unità. Gli abitanti delle varie capitali oggi usufruttano quasi tutte le cariche di ogni stato: in allora ad una sola città restringerebbesi un tale vantaggio. La probabilità di rinvenire fra Unti principi uno che sia meno cattivo, la loro debolezza che rende meno ardua l’impresa di rovesciarli, cesserebbero. Scapiterebbe l’industria che ora in ogni stato ha un centro di moto, scapiterebbe per la ragione medesima il commercio, non contrappesando i doni dell’accentramento, della più libera circolazione interna. Ogni governo, eziandio dispotico, è costretto alcune volte o perché l’epoca il comporta o per indole del principe, a proteggere le scienze ed avvalersi de' distinti ingegni; quindi, in ragione del numero de' governi, cresce la probabilità che abbia a splendere qualche face tra le fitte tenebre della tirannide. Né Boccaccio, né Filangieri, né Pagano, né Romagnosi conterebbe l’Italia se fosse stata una sola monarchia. Avvegnaché in un solo centro troppo lontano daglr estremi sarebbesi favorito lo sviluppo dell’ingegno, e difficilmente un sol governo sarebbesi mostrato in breve tempo più di una volta propenso alle riforme, né avrebbero avuto luogo le varie vicende che le promossero da capo. La forza è l’apparente vantaggio dell’unità; dico apparente, perocché l’esercito ed il tesoro sono mezzi di coi dispone il re, non già la nazione; volli ad opprimerla e non già a difenderla; non pegno di prosperità, ma incentivo a capriccio di qualche despota avventuroso.
Qual monarchia può reggere al paragone del nostro splendido medio evo coi suoi torreggianti edifizii, col suo Dante, col suo Macchiavelli, coi suoi guerrieri di ventura, e raggiungere in sì breve tempo quel grande sviluppo dell’industria e del commercio? L’Italia surse dalle barbarie, raggiunse l’apogeo della civiltà, decadde: ed allora le altre nazioni vennero ad attingere dalle sue ruine una scintilla di vita.
Non prima dell’epoca di Luigi XIV la Francia s’avvicinò a ciò ch’era stata l’Italia nel XIV secolo. La storia di Francia sarà sempre la cronaca di una corte dissoluta; e quella d'Italia la storia di libere genti; l’una è l’immagine de' dispotici imperi asiatici, l’altra della libera Grecia. Perché tanta differenza? Perché l’indole svegliata degli Italiani ed il loro spirito d’indipendenza, non si prestò mai, né mai sì presterà a seguire come stupido gregge le sorti di una dinastia. La libertà e non già la forza potrà unificare l’Italia; esempio la Francia, ove la fazione che ora trionfa in Parigi dispone a suo talento di 54 milioni di francesi. Nelle grandi monarchie, salvo la capitale, le altre provincie languono quasi membra inaridite e dogliose; minori assai sono i nostri mali, divisi come siamo in tanti principati di quello che sarebbe se fossimo tutti sottoposti al medesimo tiranno.
Passiamo ora a far paragone fra la monarchia assoluta e lo stato di conquista. Un paese governato dispoticamente subisce una perenne conquista. I principi non hanno patria: loro patria è il mondo che si parteggiano. Ove cercano le spose, ove gli amici? fra i connazionali forse? mai no! fra questi cercano sgherri e cortigiani; loro amici sono gli altri principi, pronti a muovere le armi in loro difesa.
Quale interesse possono avere gli italiani di favorire una dinastia piuttostoché un’altra? il medesimo di un condannato a cui fosse concesso di scegliere il carnefice. Se mai siamo destinati ad essere tiranneggiati ed oppressi, è meglio che i satelliti del despota, i sostegni del dispotismo siano stranieri. Ne verrà risparmiato il dolore di veder rivolti contro noi stessi i nostri concittadini, ed essendo maggiore il distacco fra il governo ed il popolo, più sentito sarà l’odio, più pronta e terribile la vendetta. Non è forse più onorevole pe’ Romani che il papa debba sostenersi per forza d’armi straniere anziché appoggiarsi alle armi nazionali? Non sarebbe stato per la Francia meno vergognoso il sottostare ad una conquista, che vedersi oppressa, umiliata, venduta da francesi stessi.? Si direbbe disgraziata la Francia, non già corrotta. La conquista può essere l'effetto di una momentanea prepotenza di forza, né dura, se lo spirito nazionale esiste. La tirannide domestica, per contro, sorge dalle viscere stesse della nazione e vi tiene profondate e sparse le barbe. In una parola, quando i tempi sono maturi a libertà, che un despota scacci un altro desposta o si sostituisca alla conquista straniera, il popolo, senza nulla guadagnare, sopporta infruttuosamente tutti i mali della guerra. Col dispotismo non v'è nazionalità; qualunque lingua parli il tiranno, qualunque sia il luogo ove ebbe i natali.
Della monarchia costituzionale dico brevemente, non perché dopo il già detto poco sia necessario, ma ad evitare l’accusa d’averne taciuto ad arte. Tal forma di governo è assurda: altro non è che un'ipocrita tirannide. Il principe capo delle armate, padrone del tesoro, distributore di tutte le cariche, di tutti gli onori dello stato, negoziatore con le potenze straniere, sorgente di tutte le grazie, solo inviolabile ed irreprensibile di qualunque atto, mentre non avvene alcuno che non sia sua emanazione e sua volontà. Adunque, gli attributi, la forza, i privilegi! del principe sono i medesimi che nella monarchia assoluta. Quali sono incontro ad essi le guarentigie del popolo? Un patto, ovvero il giuramento del principe stesso, ed un congresso che il governo, forte di tutti i favori, facilmente rende ligio a sé stesso. Credesi guarentigia la guardia nazionale? Questa istituzione è un accrescimento di forza al governo e non già una difesa del popolo. I suoi capi sono a scelta del re, e sarà perciò facilissimo se non d'avvalersi dell’opera di questi armati, paralizzare almeno la loro azione; perocché essi, loro malgrado, subiranno, quantunque leggermente, l’influenza dell’autorità dei loro capi, e moltissimi cittadini, che in qualche avvenimento prenderebbero parte attivissima, se ne astengono, se guardie nazionali. Inoltre l’inutile servizio ad essa imposto è, ai più, di gravissimo peso, sovente non proporzionato, attesa l’indole e la condizione dell’individuo ai vantaggi che esso ottiene dalle. franchigie accordate dal governo.
Dalla sola volontà dei re dipende l’esistenza di un tal governo, quindi è stabile per quanto può esserlo la volontà d’un individuo che un matrimonio, il eredito di un favorito, la paura, o qualche impreveduto avvenimento, cangia. Si attengono i ministri alle forme perché da esse dipende il loro utile personale, la loro carica; ma se credono necessaria una misura arbitraria come ne’ governi assoluti, e non altrimenti l’eseguono; sparla il pubblico, ne scrivono i giornali, qualche deputato ne chiede conto a' ministri, e qui finiscono le opposizioni; aquesto si riducono i diritti, le guarentigie del popolo.
Credo inutile distendere più oltre un tale ragionamento, non parendomi necessario addurre ragioni quando sonovi i fatti che parlano chiaramente. La storia delle monarchie costituzionali ècontemporanea, ricca, notissima. La Francia, dopo essersi dibattuta per ventun’anni sotto un tale governo (chetale eziandio deve considerarsi l'ultima sedicente repubblica), è ritornata al puro dispotismo; nella Spagna sono corsi infruttuosi fiumi di sangue; mollissime costituzioni. Nell’anno 1848 le abbiamo vedute soffocate in fasce da' principi medesimi che le avevano concesse e giurate.
Non è l'Inghilterra eccezione a questa regola generale; le sue grandiose apparenze non fanno che nascondere le cancrenose piaghe di quella società. Ora che scrivo, il governo inglese è una piramide alla cui cima pochi sessagenarii si ripartiscono le cariche dello stato; più sotto un congresso parteggiato non da principi! politici, ma dal credito personale di quelli, quindi gli elettori, commercianti ed industriali che mercanteggiano eziandio il loro voto; alla. base infine una plebe ignorante e misera oltre misura. Se meno che altrove hanno luogo nell’Inghilterra gli arbitrii del governo, ciò dipende dall’indole pacifica di quel popolo, dalle tradizioni d’alcune leggi, che l'avvicinano ad una republica aristocratica più che ad una monarchia.
Inoltre la monarchia costituzionale è corruttrice per eccellenza, è un armistizio segnato fra i principi ed i monopolisti, in danno dell’onestà. Il dispotismo non cerca l’appoggio della pubblica opinione, la nazione soffre e tace, ma non mentisce; il governo costituzionale ha bisogno dei plauso e dell’approvazione di pochi per opprimere i molli; la compra, e l’approvazione e le lodi si trasformano sotto tal governo in merci. Di qui l’ignobile e puerile schiera de' soddisfatti ad ogni costo, che si atteggiano, parlano, scrivono, lodando sempre, come se fossero davvero liberi cittadini, e le loro opinioni avessero peso nelle determinazioni governative. Vantano i loro dritti e la loro libertà che riduccsi al dritto ed alla libertà di applaudire al governo. Tra costoro, quelli che sono venduti materialmente rassomigliano a quei fanciulli i quali con elmo di carta, e spada di legno credono rappresentare Scipione o Marcello.
«...Il despota regna con la sciabola, il re costituzionale con l’oro; quindi appena il reggimento d’uno Stato d’assoluto cangiasi in costituzionale, le gravezze crescono in modo esorbitante. Il despotismo incatena i capi, il costituzionalismo perverte il morale; quello comprime l’elatere dell’animo, questo lo logora e lo distrugge, ed abitua il cittadino ad una continua transazione, a quel cinismo di cui la Francia è scuola e sentina e che da lei si sparse sull’Europa intera. Sotto nome di libertà favorito e protetta il monopolio, e quindi il proletario abbandonato affatto all’avidità de' monopolisti ed incettatori. La politica esteriore codarda ed ipocrita, dovendosi tutelare gl’interessi di una dinastia, facendo le viste di propugnare i dritti della nazione. Conchiudo, monopolisti, dottrinarii, giornalisti, editori..,. vantaggiano col reggimento costituzionale, mentre le sorti de' proprietarii, e quelle del minuto popolo peggiorano. Sovente una tal forma di governo è d’impaccio ad un principe, ad un ministro riformatore; se gli Stati napoletani avessero avuto uno statuto al tempo in cui Tanucci ne resse le sorti, probabilmente a questo ministro sarebbe riuscito impossibile attuare le tante riforme. Questo governo ermafrodito impaccia un principe che voglia far del bene, ma non frena le nequizie di un despota.
Panni di aver dimostralo che sia l’Italia divisa in varii principati, sia riunita sotto una sola monarchia dispotica o costituzionale, la nazionalità Italiana non esisterà per questo; l’Italia sarà scudo di varii principotti o di un solo, e gl’italiani non altro che vassalli.
Ma voglio supporre erronee le ragioni esposte, e concedere che la nazionalità esista ogni qualvolta le dinastie o la dinastia regnante siano indigene, e farmi a studiare sui mezzi e le sue probabilità di scacciare gli stranieri dal suolo italiano, e francare il paese da ogni loro ascendente.
Autorità, tradizioni, e forza sono i principii su cui sono costituiti tutti i governi d’Europa. La sola differenza che passa fra loro dipende dalle diverse gradazioni con cui la libertà individuale accordasi con essi; perciò nella sostanza differenza non v’è. Cotesti principi! sono già in discredito; libertà, nazionalità, diritto sorgono ad osteggiarli; quinci la lega dell’Europa intera contro le nuove idee. I governi occidentali più del nord temono queste idee, e quindi più immediatamente interessati ad osteggiare ogni rivolgimento; questa triade rivoluzionaria non può essere mutilata in modo alcuno, sconvolte le passioni popolari è impossibile arrestare il torrente, ed è assurdo per parte nostra il pretendere che ci facessimo a combattere, per giovare altrui, i principii su cui basano la sua esistenza; può mai suscitare la rivoluzione chi la teme più di qualunque altro nemico? Potranno esservi momenti come è accaduto, in cui le potenze occidentali, per loro mire particolari facessero le viste di proteggere i rivolgimenti popolari contro la prepotenza del nord; ma appena ottenuto il loro intento, s’unirebbero co’ nostri nemici per opprimerci, spezzare dopo essersene servito, un pernicioso strumento, e punire come delitto di maestà i fatti da loro promossi, e le speranze che hanno fatto sorgere. Se l’Austria che francamente ci osteggia merita l’odio nostro, Francia ed Inghilterra (parlasi qui del governo, non già del popolo) meritano odio e disprezzo perché nemiche occulte. Ali Tèbèlen diceva ai Greci «Non contate che su voi soli; Russi, Inglesi, Francesi, tutti vi saranno nemici dal momento che sapranno che volete essere un popolo; non perdete mai di vista questa importante verità». Ed è cosa naturale che la sola ragione d’impedire che un altro stato dalla condizione di Vassallo venisse a sedere a canto a loro ne’ congressi europei, sarebbe bastante per far volgere contro di noi tutte le loro armi. Dunque il risorgimento italiano altro non potrà essere che la vittoria delle nostre armi sull’Europa dei re. In qual modo compiere una loie impresa? Quali mezzi posseggono i principi italiani per combattere l’Europa intera è quello che verremmo ora studiando.
Ilprimitivo e naturale concetto è una lega dei principi italiani contro l’Austria che dirige la loro politica, che protegge i deboli dall'ambizione de' forti e tutti dalla rivoluzione. Quale utilità avrebbero essi di cacciarla dall’Italia privandosi così del più saldo sostegno de' loro troni? Del Lombardo-Veneto dovrebbero creare uno stato indipendente o spartirselo, cose entrambe di somma difficoltà ed imbarazzo. Il supporre che tutti cooperino all'ingrandimento d’un solo, è un assurdo mutile a discutersi, che il senso comune ed i fatti hanno dichiarato impossibile. Ma ponghiamo che i popoli con mezzi violenti e più stabili che nel quarantotto costringessero i principi a scendere nell’agone: quale speranza potrebbe porsi in una lega che porta con sé il germe della dissoluzione, il mal volere? Concedasi vinto anche questo ostacolo: restano sempre le discordie, il dubbiare, la poco energia, con cui operano le armi collegate; la storia registra fatti innumerevoli che ne dimostrano l’impotenza. L’Europa s’è collegata con Federico II contro l’Inghilterra durante la guerra americana, contro la Francia durante la rivoluzione; Federico uscì vittorioso dalla lotta, l’Inghilterra conservò sempre una grande superiorità sui nemici: fu la costanza degli americani e la abilità di Washington che la vinsero. I francesi vinsero sempre; caddero per propria stanchezza e non già per virtù del nemico. Chi è solo, ha il vantaggio incommensurabedell’unità e di comanda. Furono leghe coteste in cui ogni collegato da sé solo pareggiava se non superava di forze il comune avversario. Che sperare adunque da una lega di principi italiani di cui tutte le forze messe insieme sono inferiori alle austriache, e fra cui contasi il Papa cosmopolita e centro di dissoluzione e discordie?
Se l’Austria abbandonasse la sua abile politica er minacciasse di voler conquistare d’un sol tratto l’Italia, sarebbe il solo caso di una lega sincera, ma durevole quanto il periglio. Le leghe fra i despoti non sono mai concertale da mire comuni e durature; l’indole d’un principe, il suo capriccio, (in matrimonio cangia la politica, e si violano i patti. Basta promettere ad uno dei collegati vantaggi in preferenza degli altri per staccarlo dalla lega, è forse da amico farlo nemico. La colleganza dei re contro i popoli è la sola possibile e conseguente; essa esiste di fatto, essendo il periglio comune e durevole.
Facciamoci ora a discorrere del caso in cui imo solo de' principi italiani voglia assumere l’impresa d’unificare l’Italia; numeriamo i nemici. Prima l’Austria, che tre o quattro disfatte non debellano; mentre la perdita d’una battaglia prostra le forze d’un piccolo Stato; con l’Austria s’Uniranno gli altri principi italiani facenti ogni sforzo per salvare i loro troni, ed il Papa con essi che, oltre di chiamare l’Europa intera in sua difesa, la Beerebbe in campo la livida schiera de clericali con le armi che loro son proprie, tradimento e raggiro. Armi efficacissime in quello sciame di cortigiani di cui circondasi il trono, e che temono scapitare se il padrone vien costretto a spandere in circolo più ampio i suoi favori. Non trattasi di un re che caccia gli stranieri dai proprii Stati; ma di un piccolo Stato che conquista e debella Stati ad esso mollo superiori di forze. A contrappesare tanti nemici, il principe conquistatore si rivolgerà alle simpatie de' popoli italiani, che in un baleno potrebbero rovesciare i troni, soffocare le mene de' clericali, e schierarsi sotto il suo vessillo. Ma il trionfo del popolo in ogni Stato non basta ad ottenere l’unità di voleri e di sforzi che richiede l’impresa. Il volontario cangiamento di dinastia è per sé medesimo illogico: chi può rispondere della virtù di una schiatta? In parità di potere la miglior dinastia è sempre la regnante e perché la più affine, e perché il paese non sottogiace all’invasione d’uomini nuovi ed ignoti. Allorché tali cangiamenti non avvengono per forza d’armi sono tranelli di pochi imbrogliatori, che il futuro ed il presente bene della patria sacrificano a vantaggi personali che disperano dalla nuova corte. Arrogi che nel caso di cui parliamo, siccome gli Stati a conquistarsi cesserebbero d’esser monarchia per diventare provincia di monarchia, maggiori sarebbero le difficoltà, A tali unificazioni ripugnano i popoli e più che gli altri con ragione gl’italiani. Adunque ogni città, ogni Stato imporrebbe a questo principe patti, chiederebbe tali guarentigie da suscitare in esso gravi preoccupazioni; egli vedrebbe il trono de' suoi avi abbandonato in balìa de' muggenti fluiti de' popolari rivolgimenti, che potrebbero trarlo a guerra lunga e terribile.
Suppongasi ora cotesti ostacoli rimossi, ed il popolo italiano con illimitata fiducia abbandonarsi all’arbitrio di questo principe; e che niun partito, niun uomo sorga a propugnare idee contrarie, o a spargere diffidenza. In tale ipotesi, impossibile a verificarsi, esaminiamo se questo principe potrà osteggiare e vincere finterà Europa. Quanti ostacoli e di sommo rilievo non si opporrebbero al rapido andamento dell’impresa? Delle tasse, della coscrizione, due museali della guerra, per mancanza di ordinamento e d'unità, per diversità di leggi, d’usi, di tradizioni sarebbe quasi impossibile valersi. L’Italia deve costituirsi e guerreggiare nel tempo stesso; son miracoli questi che fanno le monarchie? Sperasi forse nell’esaltazione universale? Essa, senza dubbio alcuno, è arma terribile contro il nemico: spiana nell’interno ogni ostacolo, tien luogo di leggi e di magistratura: ma potrà un principe valersene senza temere di rivolgerne in sé medesimo la punta?
I liberi e popolari oratori che suscitano le passioni, le promesse e le speranze d'un migliore avvenire, schiusa la via a brillanti e rapide carriere, il magico nome di libertà che agita gli animi e li sospinge in cerca di molo e d'azione, I’ amore che tutti sentono per la cosa pubblica, perché a tutti è dato liberamente parlare, farà correre a torme gli uomini "alle bandiere, ed entreranno nel pubblico tesoro le sostanze de' privali. Ma potrà un principe avvalersi di questi mezzi? ordinerà invano ai suoi agenti di far suonare le parole di patria e libertà: il suono sarà fioco, il senso oscuro nella bocca di un cortigiano; unite con le Iodi della magnanimità del principe formeranno una discorde mistura. Gli uomini che fra l’universale esaltazione corrono alla pugna non possono che esser prodi; come sfuggire, se codardi, alla pubblica esecrazione? La libertà, facendo d’ogni cittadino un censore del governo, ne forma eziandio un sostegno. È cosa notissima come erano onorali presso le antiche repubbliche que’ cittadini che si facevano a scoprire e rivelare le trame dannose allo Stato; e fra i moderni stessi, non appena viene adottalo il reggimento a popolo, ogni cittadino non dubita farsi il persecutore de' contumaci, opera vilissima in una monarchia. La repubblica non escludendo nessuno dal sindacato, ogni cittadino avendo il dritto di censurare la condotta del generale, non esiterà denunziare il soldato a qualunque ufficiale, e la stampa, la libera parola ne’ circoli e nelle piazze, offriranno il modo onde farlo dignitosamente ed eziandio acquistarne fama. Per contro, un severo e pubblico censore trasformasi sotto il principato in un vile delatore: il silenzio è imposto, o almeno la parola limitala, è inviolabile il principe; e non è ragionevole, dicono i monarchici, trovare difetto d’ingegno, di carattere, di patriotismo negli uomini che il principe chiama a reggere lo Stato. Adunque la censura non colpirebbe efficacemente che il povero gregario e dovrebbe esporsi a voce bassa nelle anticamere delle F. E. LL. Quindi, quantunque rivolto al bene del paese, diverrebbe atto obliquo e degradante. Inoltre è natura dei cuori generosi, il non sentire simpatia pei re o altro potere che s'impone al paese, e sotto tali reggimenti i refrattarii trovano protezione e compatimento e non già riprovazione. Questa è una delle tante cause per cui gli eserciti regii, ad onta di pene rigorosissime, non sono mai saldi come le schiere repubblicane.
Né qui finiscono le cagioni che danno il primato agli eserciti di un popolo libero. È istituzione fra questi il dare campo al valore ed all’ingegno di palesarsi, e d’aspirare a balzi ai primi onori; da ciò l’universale operosità e l’ambizione madre d'eroi. Un generale d’esercito, avido di conservare l’aura popolare, stimolato dalla forza d’una stampa libera e severa, sollecito di soddisfare alla pubblica aspettazione ed impedire che un rivale con ardili disegni lo soppianti, precipitasi in quelle audacissime imprese che sono l’impeto di un popolo corrente verso la libertà. Nei regii eserciti è ben diverso il modo di governarsi: il campo della scelta angustialo fra un cerchio di favoriti; il duce supremo contento del favore del re, scudo e difesa sicurissima a qualunque errore; un ciondolo inviato dai penetrali della reggia, segno di schiavitù più che d’onore, tenuto m maggior conto che l’opinione pubblica. Da queste varie ragioni risulta la paralisi, il dubbiare continuo, il temporeggiare, la prudenza spinta alla pusillanimità, e per conseguenza meschine imprese, disastri o patti vergognosi.
Ne’ rivolgimenti popolari, egli è vero che accanto agli eroi si veggono codardi ed impostori, ed il disordine spesso accompagna le grandi imprese: ma non perciò viene turbato il rapido corso degli avvenimenti.
Le rivoluzioni sono come le onde d’un rapido torrente che, quantunque torbide della mota sollevata dal fondo, non s’arrestano perciò, né cessano di sgombrare con fremito gli ostacoli che contrastano al loro corso. Appena un principe o un potere qualunque sorge a reggere il movimento, e dice farò io: immediatamente ogni cittadino d’attore diviene spettatore, l’impeto della rivoluzione s’ammorza.
Suppongasi che dall’ignobile schiera de' moderni cortigiani, da quella turba di generali cresciuti fra le pedantesche discipline dei quartieri, sorga come dalla brillante nobiltà del medioevo, non serva, ma partecipe de' splendori del trono, un Condé, un Turenna, un Montecuccoli: esso non potrebbe menare a buon fine la guerra italiana; avvegnaché dovendo, durante la guerra, creare la nazione, gli farebbe d’uopo d’un potere più che sovrano. La sola libertà può risolvere il complicato problema, abrogando ogni legge, dichiarando libero ed indipendente ogni comune, ogni cittadino; si spezzano le pastoie domestiche, le differenze; i limiti de' varii stati spariscono, e dall'eguaglianza l'unita risulta di fatto, e così non sarà l’effetto d’un nuovo patto imposto agli italiani, ma la naturale conseguenza dell’abolizione di ogni patto. Reso libero ed indipendente ogni comune avrà il solo obbligo che gli viene imposto dalla necessità di conservare l’acquistata libertà ed indipendenza di concorrere con tutti i suoi mezzi a liberare l’Italia da' nemici esterni. Una Convenzione italiana ripartirà sui diversi comuni, ma senza ingerirsi della loro interna amministrazione, proporzionatamente le gravezze volte ad alimentare la guerra; e l’esercito eleggendosi, come è suo diritto, i capi, sarà l’esecutore de' voleri della nazione sgomberando l’Italia dalle Alpi al mare, da ogni elemento straniero tirannico. Potrà mai un principe operare in tal modo? non potendo accordare illimitata libertà o dovrà bandire in Italia nuove leggi, o pretendere che tutti si uniformino durante la guerra a quelle di uno stato: cose entrambe impossibili ad effettuarsi. In ogni provincia, in ogni Stato giungeranno i regii commissarii, ed il malcontento o l’indifferenza li accompagneranno come l’ombra i capi. L’Italia non subirà mai il giogo d’un potere che abbia il benché minimo carattere d’uno de' presenti Stati in cui essa si divide. Tutto ciò ch'è esclusivamente piemontese, napoletano, romano, non è italiano. Un principe durante qualche disastro (essendo puerilità supporre una sequela non interrotta di vittorie) può scendere a patti per salvare il trona degli avi; e però all’Italia fa d’uopo una rappresentanza nazionale, per cui non siavi altro utile se non quello dell’intera Italia, e che dirà: tutto o palla. Se vi fosse una città che venga dall’esercito considerata come capitale, sarà lo scoglio contro cui romperebbero i nostri sforzi. Carlo Alberto pensò a difendere Torino, i veneziani Venezia, i romani Roma.... tutti furono vinti perché angustiarono l’idea italiana fra le mura d’una capitale. Durante la guerra l’Italia non dovrà averne altra, che il punto strategico determinato dal corso delle operazioni militari. Un principe non può con animo sgombro da sospetti armare l’intero popolo italiano e trasformarlo in un esercito, e per tema di non poterlo padroneggiare, e perché la natura del suo governo noi comporta. Il principe dovrà guerreggiare con? esercito, e la nostra è guerra da combattersi dall’intera nazione. Solo un Alessandro, un Cesare, un Napoleone… potrebbe menare a compimento una simile impresa; ma questi grandi sempre o quasi sempre sorgono dalla rivoluzione; ed inoltre la monarchia italiana, fondata da un Alessandro, facendo cedere il fato alla prepotenza del suo genio, sfascercbbesi alla sua morte, come si sfasciano tutti gl’imperi fondati per conquista. I vantaggi che può offrire la monarchia non sono tali da far dimenticare agli italiani le loro splendide tradizioni municipali; le rivalità e l’odio fra i diversi popoli, con tale reggimento non si spengono, ma crescono, e le detronizzate famiglie non mancherebbero usufruttuarle in loro favore; soltanto la libertà assoluta e l’uguaglianza ponno cancellare le rimembranze del passato. I re che da disgregate baronie, formarono regni, sonovi riusciti distruggendo ed assorbendo nella corte le famiglie baronali, ed unificando i popoli con abolire il vassallaggio; ma i tempi sono mutati, ed assai diverso è il caso in Italia. La più larga promessa che farà un principe è uno statuto; cosa sia il sappiamo; promessa che non tarderebbero a fare, e più largamente, i suoi rivali, ed in parità di circostanze ognuno preferirà di essere monarchia piuttosto che provincia di monarchia. In una parola la storia e la ragione hanno dimostrato abbastanza che la forza non fonda nazione, ma conquista schiavi.
Finalmente se la sola guerra di popolo, e guerra affatto rivoluzionaria, può sola riscattare l’Italia del suo servaggio, non vi è luogo più a dubbii se debbasi o pur no lasciar campo alla monarchia d’immischiarvi. Una rappresentanza popolare che sorgesse in uno degli stati in cui è divisa l’Italia non potrebbe né dovrebbe porsi d’accordo per cacciar lo straniero con una delle monarchie italiane; troppo discordi sarebbero i mandati dei due poteri, troppo discordi le mire, per sortirne un buono effetto. Il principe più che all’indipendenza italiana, dovrebbe mirare alla salvezza del proprio trono, che il reggimento repubblicano, ricco in Italia di splendide tradizioni, minaccerebbe di ruina. Un potere nazionale, per contro, col mandato di sgombrare l’Italia di quanto osta alla sua nazionalità e libertà, dovrebbe in ogni modo impedire che il principato acquistasse credito e potere. L’uno direbbe: meglio io re, e l’Italia schiava, che questa libera ed io esule; l’altro non dovrebbe riconoscere altri limiti che le Alpi ed il mare, altro patto che l’assoluta libertà. Ma concediamo che o sconoscendo ognuno la propria politica, o per valore della nazione, s'accordassero: quale potrebbe essere il patto? Interrogare il paese a guerra vinta, siccome nel né pare che lo spirito di conciliazione potrebbe spingersi più oltre di quello che lo fu in quell’epoca fatale. Si mantenne il patto fra tanta concordia? No: l’atto della fusione il ruppe; e cosi avverrebbe sempre; da' regi o da' repubblicani, (a chi prima capitasse il destro) sarebbe infranto. Ed è poi da supporsi che un re, eziandio nella certezza di essere eletto, rinunzierebbe al diritto divino, per surrogargli quello del popolo? Dio non può interrogare il popolo sempre; concedere al popolo il diritto di fare un re è, vogliasi o no, concedergli il dritto di disfarlo.
Ma ammettiamo tutto possibile, la colleganza, il patio, la fede al patto. A chi verrebbe affidata la suprema direzione della guerra? Ai generali regii o ai repubblicani? Permetterebbero questi che le loro forze venissero logorate e distrutte dall’indubitata incapacità e dalla dubbia fede di quelli, o affiderebbe il re il proprio esercito a generali d’un partito avverso? Egli è facile in simili momenti gridare concordia, arrestandosi alle fallaci apparenze del caso, senza discernerne i veri rapporti, ma nella pratica poi si veggono sorgere gli ostacoli che generano disordini, codardia, illusioni, disfatte.
Finalmente le speranze di vedere ingranditi i possedimenti di casa Savoia con l’aiuto delle potenze occidentali, non essendo se non calcoli ed utili parziali, o tutto al più di una provincia d'Italia, non entrano nel quadro di questo libro. Nondimeno ne parleremo di volo. Un forte regno boreale, se non è vassallo della Francia, è dannoso per essa.
La Francia ogni qualvolta muove guerra all’Austria, debbe, per ragioni strategiche, dirigere i suoi sforzi nella vallata del Pò, mentre all’Austria, per contro, conviene tenersi in questa sulle difese, e schierare sul Danubio l’esercito maggiore; quindi alla prima rileva sommamente che in Italia, fra essa e l’Austria, non s’inframmettesse altra potenza capace, se non d’altro, di mantenere la propria neutralità. Il supporre questo regno sempre ligio a Francia è puerile concetto che non merita risposta. Una volta costituito, esso avrebbe proprii interessi, i quali attese le frontiere e la natura de' prodotti, ravvicinerebbero più alla Germania che alla Francia. E questo regno Italiano non potrebbe giammai dar norma (come asseriscono i suoi propugnatori) alla politica degli altri stati: Napoli, Toscana, il Papa, per non subirne la preponderanza, si getterebbero nelle braccia del Russo, dell’Austriaco, del Francese. Negarlo è disconoscere l’istoria de' Longobardi, degli Angioini dei Visconti, di Venezia. Mai gli stati italiani non vollero subire un protettorato italiano, perché natura de' principi come de' popoli è, allorché son costretti di avere un protettore, di scegliere sempre il più polente ed il più lontano. Quindi questa utopia che sperano o fingono di sperare i cortigiani, non vantaggerebbe, e forse ben poco, che soli i lombardo-veneti. Dò fine a questo ragionamento persuaso di aver dimostralo abbastanza che la nazionalità chiesta od una lega di principi, ad una monarchia, è un fantasma, un’illusione, non è nazionalità, né potrà mai attuarsi perché leghe principesche, o principi, non possono né conquistarla, né conservarla. L’Italia per vincere i suoi numerosi e polenti nemici bisogna che combatta svincolala dalle pastoie domestiche, la guerra del risorgimento: gli italiani debbono guerreggiarla da uomini perfettamente liberi: richiedere all’esaltazione le schiere, ed al bollore delle passioni popolari quei gcnii che mai non mancano nelle rivoluzioni, come le folgori non mancano alla tempesta. Il credere che la libertà debba seguire l’indipendenza è funestissimo errore, è quello che nel 1848 ci ricacciò nella schiavitù.
VI. Affermano alcuni, ma non molti, che potrebbesi, benché privi di nazionalità, godere libertà. La più parte di costoro sono dotti, pei quali, a loro credere, è patria il mondo, e cotesta vanità può, in parte, adonestare il loro asserto, che, assurdo quanto quello di nazionalità senza libertà, male adeguerebbesi colla loro dottrina.
L’essere privi di nazionalità vuol dire che un elemento straniero debba, nella nostra patria, preponderare, ed in tal caso è indubitato che la libertà individuale verrà lesa. L’Italia, o parte di essa, dicono costoro, potrà formar parte di un’altra nazione libera, e godere di una tal libertà. In primo luogo, come l’utile, le attitudini, le cognizioni non si riscontrano mai identiche fra due individui, del pari avviene fra due nazioni. Un italiano nonsarà mai né francese, nò tedesco senza una forza estrinseca che violenti il suo naturale. É questa una verità comunemente sentita, un assioma che non ha bisogno di dimostrazioni; una provincia italiana o finterà Italia, che facesse parte di liberissimo impero, non potrebbe perciò dirsi libera; gli italiani non sarebbero che schiavi beati (per quanto possa esservi beatitudine fra le catene), ma non altro che schiavi. Se poi l’Italia, o parte di essa, fosse confederala ad un altra nazione, in tal caso sarebbe libera se unita da volontario patto, ed allora di fatto esisterebbe la nazionalità; ma £e una ragione qualunque imponesse questo patto, nazionalità e libertà sparirebbero entrambe. Tali furono i cisalpini, vergogna maggiore del bastone tedesco. Tra i cisalpini ed i moderni lombardo-veneti havvi la differenza medesima che fra un vile cortigiano ed un fiero e dignitoso cittadino condannato per delitto di maestà. Se la semplice centralizzazione italiana può intaccare la libertà, come essa può mai rimanere intera sotto l’attrito che eserciterebbe su noi un popolo straniero? eziandio riducendo il tutto alla sola libertà di stampa, pure gli scrittori che si faranno a propugnare l’utile della propria nazione, giungeranno ad un punto che intaccheranno il protettore, e la forza li farà tacere se l’oro non giungerà a comprarli.
Facciamoci ora a considerare la libertà nel suo vero aspetto, nel suo vero significato: dritto di eleggersi i propri magistrati, di essere giudicati da propri conterranei; di essere legislatori di se medesimi, di non sottostare ad alcuna determinazione senza che venga ascoltato il proprio parere, o di chi eleggerà quale suo rappresentante. Possono tali condizioni verificarsi senza una recisa nazionalità? Oltrecché, come un individuo per esistere deve sentire il proprio essere, la propria sensibilità, ed avere un pensiero tutto suo, attributi che non solo non possono essergli comunicati, ma vengono distrutti o mutilati dalla benché minima influenza altrui, del pari ogni influenza straniera non potrà mai favorire, ma ritarderà il nostro risorgimento.
Sperano altri che un popolò straniero ci conquisti per poi donarci libertà: ed è questa delle utopie la più assurda e codarda ad un tempo stesso. Il forte troverà maggior vantaggio nel comandare, che nel francare completamente il debole, senza che la libertà ottenuta in dono non potrà essere che condizionata, quindi mutilala; non è libera una nazione convinta ch’altri, volendo, possa rapirgli la sua libertà. La piena fiducia nelle proprie forze è una condizione indispensabile; fiducia, che solo dai fatti può emergere: quindi la libertà deve non solo conquistarsi, ma conquistarsi senza aiuti. Se gl’invasori d’Italia, ritirandosi, l’abbandonassero a se medesima, non per questo l’Italia sarebbe libera: senz’alcuna fiducia, o almeno dubitando del proprio valore, ad ogni incontro non potrebbe che trattare umilmente con l’antico padrone temendo che questi gli rapisse il dono concesso: ed è spettacolo della schiavitù più umiliante lo scorgere una nazione che vantasi di essere libera subire le violenze d’un prepotente vicino. L’Italia per essere libera deve essere indipendente, e libertà ed indipendenza non altrimenti si ottengono che conquistandole; l’Italia deve: fare da sé, e tanto più salda sarà la sua futura libertà quanto più numerosi saranno i debellati nemici, più superbi i monumenti di gloria meritati per conquistarla.
Dicono i dottrinarii, i quali temono che i marosi della rivoluzione non li sommerga insieme alle lor dottrine, che bisogna educarsi al vivere libero, ottenere la libertà per gradi e non per salti, ed accettare una mezzana libertà come sgabello all’intera, come pegno di migliore avvenire. Strano ed assurdo argomento! La brama di libertà è sentimento, è aspirazione uaturale dell’uomo, e non già dottrina; ed i ripetuti sforzi del dispotismo non bastano a distruggerla. L’uomo soggiace all’altrui dipendenza, non già perché manchi in lui il desiderio di francarsene ed il convincimento di usare utilmente di sua libertà, ma perché teme maggiore tirannia ed altri mali, che la propria immaginazione, guasta dal desiderio della quiete, gli figura; ed è al bisogno, al desiderio di conservare parte di sua libertà, ch’egli sacrifica la rimanente. Lo schiavo è forza sia educato secondo i voleri del padrone; ma per vivere da uomo libero basta seguire gli impulsi della propria natura, né havvi necessità di educazione.
L’uomo, appena sentesi soverchiamente gravato dal peso della tirannia, e scorge la probabilità di rovesciarla, senza più insorge, ed i progressi della scienza, lo sviluppo della ragione che cosa valgono all’insurrezione ed alla battaglia? Quali dottrine sospinsero gli Svizzeri alle armi, o inaugurarono la guerra degli Olandesi, degli Americani? Quali dotti contava la barbara Grecia allorché dava l’esempio del più eroico coraggio e del più sentito patriotismo?
Ghermita la vittoria, il soccorso della scienza sembra indispensabile; essa può, svolgendo i tesori dall’esperienza accumulati, additare t mezzi come consolidare le conquiste. Ma questi vantaggi «fatto li dimostra più efimeri che reali; perciocché le nazioni non()accedano i suggerimenti della scienza, ed il volgo di niun progresso è capace se non vi è balzato dall’imperiosa necessità; né havvi ragionamento oltre il fallo che valga a convincerlo; i mali sofferti, il bene acquistalo, sono i soli argomenti che fruttano. La discussione, le opinioni, i sistemi emergono dai mali che soffre la società: e la dottrina, in politica, segue e non precede i fatti. Essa dimostra di quanta levatura sia il pensiero della nazione, ma non già la maggiore o minor probabilità d’un rivolgimento. Una nazione senza dottrina sarà cerne un uomo semplice, e di soverchia buona fede, che facilmente cade nell’inganno, ma non mancherà per questo di forza, di coraggio, d’eroismo e dell’ardente desìo di migliorare la propria condizione. E può eziandio avvenire che un popolo dottissimo imputridito nei vizj, abbandoni non curante il proprio destino al primo venuto. Né le nazioni si addottrinano e sortono dalla loro semplicità afuria di libri e di giornali, ma progrediscono, attuano una serie di fatti terribili e sanguinosi. L’opinione la più assurda è il supporre che una mezza libertà possa a grado, e senza veruna scossa, menarci all’intera; mentre cotesto vantato progresso legale mena dritto alla corruzione. Facciamoci a sviluppare un tale asserto.
Le condizioni indispensabili ad un popolo per conquistare una libertà duratura sono: lo sforzo per rovesciare la tirannide determinalo dai mali presenti, e per evitarli nell’avvenire; la piena conoscenza della causa di questi mali ricercati dalla scienza.
Esaminiamo la mezza libertà quanto favorisca coteste cagioni determinanti e dirigenti.
I reggimenti moderati per loro natura nascondono e leniscono i mali, che non essendo abbastanza sentili per obbligarci a ritorcere in noi medesimi lo sguardo, ci sospingono alla ricerca dei mali di popoli più infelici, che dalla nostra imaginazione esagerali, ci sembrano mollo più dì quello che realmente sono, facendoci perciò benedire le dorate catene.
Il morale non compresso, ma logorato, illanguidito, perde la sua elasticità, ed a suoi beali, l’insorgere riesce impossibile. Accettasi senza dolore la derisione, i nervi del pensiero e dell'imaginazione sono intorpiditi affatto; melodicamente vengono i sudditi a non pensare diversamente da quello che vogliono i governanti; si avr vezzano per mancanza di dolore a non rimontare all'origine delle cose; d’onde la mollezza. Per converso, dolori, afflizioni e ostacoli, l’isolamento stesso a cui astringe la tirannide, ritorcono il pensiero in sé medesimo; per la propria conservazione l’uomotenta ogni via, si fa alacre e consideratore, e suscitandosi le passioni s’accelera la reazione.
La congiura del Rulli che divampava con la battaglia di Morganten, ed inaugurava la libertà svizzera, non avrebbe avuto luogo senza l’avversione che Alberto d’Austria ebbe per le franchigie, e l’efferata tirannide di Gessler suo proconsole. Né l’Olanda senza il S. Uffìzio ed il duca d’Alba sarebbesi francata dal terribile giogo sotto cui gemeva. E se l’Inghilterra avesse rispettata l’indipendenza amministrativo delle sue colonie, l’America farebbe parte del suo impero. Avendo dimostrato come i reggimenti moderatiallontanano le cagioni dell’insorgere, ci faremo a studiare sino a che punto essi favoriscono lo sviluppo delle idee.
Pochi oggi giorno sono i cultori delle scienze economiche e politiche; la noncuranza che generalmente si ha per là cosa pubblica, l’utile individuale affatto disgiunto dall’universale, sono cause di cotesto male. Quei che se ne occupano non già per farsi ripetitori, ma per trarre nuove conseguenze, scovrire nuove verità, ed elevarsi all’applicazione, riscontrano nella società, in cui vivono, non solo le cagioni determinanti a farlo, come è naturale, ma eziandio le istituzioni, i costumi di essa società prescrivono i limiti alle loro ricerche a guisa che la scienza si distende, secondo l’intensità e la purezza delle cagioni determinanti. Tra le nazioni che godono qualche franchigia le cagioni determinanti sono numerosissime, ma valgono tali studii non già all’esplorazione dei mali, si piuttosto alla ricerca del bene; oltreeché soddisfatto un gran numero, pochissimi attaccano radicalmente il governo, e la libertà dei dire da questo concessa facendo screditare presso il pubblico gli attacchi e gli attaccanti si limita il campo della critica. Infatti presso queste nazioni il frutto che si ottiene dalle migliaja di volumi che si pubblicano da tante accademie, da tanti dotti e dottrinarii, riducesi a qualche microscopica riforma politica o ritrovato economico in apparenza utile. Gli onori, gli stipendii, di cui torreggiano questi governi coi dotti, sono incentivo a tali lavori che, mascherati da qualche umile osservazione, sono le più sfrontate apologie del presente. La tirannide, per inverso, tutto interdice; il mistero o la forza possono solamente salvare da' suoi artigli colui che ardisce alzar la voce; rarissime perciò le cause determinanti a scovrire le piaghe della nazione; ma se sorgono purissime, e fortemente sentite, altre non possono essere che i mali da cui è oppressa la società e la nobile ambizione dell’aura popolare comprata a caro prezzo. La moderazione dà niuna difesa a chi osa; l’opinione pubblica pronto a favorire colui il quale con più ardire muove i suoi attacchi, quindi libero, franco, appassionato il dire. Per lunghi anni 9i tace in uno stato dispotico, ma se la pazienza del popolo comincia a scuotersi appariscono quegli opuscoletti che suscitano una rivoluzione. Vi sarà poca erudizione e sfoggio di dottrina, ma questa a che giova se non scende ai fatti? Conchiudiamo, che la mezza libertà, le concessioni, non sono stato di transazione per giungere a liberarsi da ogni giogo, ma efficace mezzo di cui giovasi la forza per garantire le sue usurpazioni; è uno stato di continua paralisi. Né qui finiscono i mali dei moderati reggimenti.
I rivolgimenti di un popolo risorto sotto un duro dispotismo sono più terribili, più recisi e più atti a gettar radici che quelli di uno stato già a metà libero. Quale differenza fra la repubblica francese del 91 e quella del 48, l’una surta sulle radici d’un lungo regno assoluto, l'altra basata sul fango d’un moderato reggimento! Quella terrore dell'Europa, e sola pagina onorevole di quel popolo; questa oggetto di scherno e disprezzo universale, e macchia indelebile all’onore della nazione. Inoltre, istituzioni, caste, privilegi, culti, tutto è odiato sotto il peso della tirannide; perché tutte armi volte ad opprimere le moltitudini, però tutte nei rivolgimenti distrutte; quindi sgombero il cammino da ogni ostacolo.
Invece negli stati a metà liberi, quasi tutto salvandosi, la rivoluzione da mille impacci è arrestata o sviata dal suo corso. Dottrinarii! che a voi convenga la mezza libertà, che l'industria ed il commercio fiorisca alla sua ombra, concedo; ma non asserite che essa giovi al minuto popolo, e che ci meni ad un migliore avvenire. L'uomo ha bisogno di lunga e laboriosa esperienza per giungere alla conoscenza di quelli ordini (che sono le leggi naturali) i quali guarentiscono la conquistata libertà; ma per francarsi dalla tirannide che l'opprime, procede a salti; lo schiavo non ismaglia lentamente le catene, ma le spezza.
Conchiudiamo: la libertà non ammette restrizioni di sorte alcuna, né fa d'uopo d'educazione o di tirocinio per gustarla;essa è sentimento innato nell'umana natura: le franchigie concesse dai despoti nei momenti che non si vedono sicuri della vittoria non sono che un narcotico somministrato al popolo per addormentarlo fra le tentate catene ed annebbiarne l'intelletto; quindi senza nazionalità la libertà non può esistere. Ma oltre la nazionalità, essa per non dirsi una menzogna, una derisione, richiede un'altra condizione per molto tempo ignorata, ora ad arto disconosciuto, la uguaglianza. Egli è falso che l’uomo associandosi co’ suoi simili debba sacrificare parte di sua libertà; questa può definirsi il libero esercizio delle proprie facoltà fisiche e morali, che viene limitato dal mondo esteriore, dai bisogni, dai mezzi di soddisfarli. La società mediante la sua forza collettiva, trasforma in mille guise il mondo esteriore, giovandosi in infiniti modi delle forze naturali, e dei loro prodotti, quindi offre all'uomo un campo sempre più vasto per l'esercizio delle sue facoltà, accresce i suoi bisogni, facilita i mezzi di soddisfarli; la vita dell’uomo associato deve necessariamente essere più ricca di sensazioni di quella dell'uomo isolato, ovvero quello godrà di una libertà maggiore che questo. Proudhon scrive la libertà di ciascuno, riscontra, nella libertà altrui, non un limite, ma un ajuto; l’uomo il più libero è quello che ha maggior numero di rapporti coi suoi simili. Quindi se per un individuo o per una classe d’individui non si verifichi tale verità, è forza conchiudere, che i loro rapporti con l'intera società non sono equi, ma vi è indubitatamente ingiustizia.
Se da un uomo non richiedesi lavoro, mentre si costringe un altro a lavorare eccessivamente, havvi privilegio per quello, ingiustizia per questo, che sarà schiavo della società.
Il solo lavoro, che ogni mano senza distinzione alcuna deve per proprio utile compiere, è quello che le sue naturali attitudini indicano, ed i suoi bisogni richieggono. Con questa legge e non altra, tutti gl’individui componenti una società dovrebbero contribuire all’accrescimento del comune prodotto. Inoltre colcsta società dovrebbe porre a disposizione di ognuno dei suoi membri, senza veruna eccezione, tutti quei mezzi che essa possiede, onde facilitare lo sviluppo delle loro facoltà fisiche e morali e porlo in grado di riconoscere e utilizzare le proprie attitudini. Solo in tal caso dall’assoluta libertà d’ognuno risulterebbe massimo prodotto e massima felicità. Ma quanto siamo lungi da un simile stato!
Come provvedesi all’educazione del proletariato? In un modo negativo, costringendolo dall’infanzia a continuato lavoro che aggiunge alla mancanza dei mezzi, quella del tempo e delle forze. E sotto qual pena cotesta numerosa classe vien condannata all'ignoranza? la più terribile: la morte per fame in mezzo all'abbondanza) E mentre la fame interdice Io sviluppo delle facoltà, che la natura concesse al proletario, e lo spinge, suo malgrado, sulla via faticosa ed aspra percorsa dal padre; uno stolido, un idiota, dal quale mai potrà cavarsi frutto, perché ricco, avrà tempo e mezzi esuberanti per la sua educazione che verranno inutilmente sprecati. L’uguaglianza politica è derisione, allorché i rapporti sociali dividono i cittadini in due classi distintissime, l’una condannala a perpetuo lavoro per miseramente vivere, l’altra destinata a godersi il frullo dei sudori di quelli. L’uguaglianza politica non è che un ritrovato per isgravarsi dall'obbligo di nutrire gli schiavi, per privare il fanciullo, il vecchio, il malato d’assistenza, è un ritrovato per concedere al ricco, oltre i suoi diritti politici, la facoltà d'usurpare quelli dei suoi dipendenti.
Sonosi sciolte le catene degli schiavi recidendo loro i garetti. Una tale ingiustizia, che sacrifica a pochi i mollissimi, è eziandio danno manifesto all'intera società, perché riesce impossibile ai null'abbienti ingegnarsi, ed ai troppo facoltosi manca ogni stimolo per farlo, e, crescendo cosi la disuguaglianza, essa corre, siccome dicemmo, al deperimento, olla dissoluzione.
In una società ove la sola fame costringe il maggior numero a, lavoro, la libertà non esiste, la virtù è impossibile, il misfatto è inevitabile; la fame d’ignoranza, sua conseguenza immediata, rendono la plebe sostegno di quelle medesime instituzioni, di quei pregiudizii da cui emerge la loro miseria, rivolgono la spada del cittadino contro i cittadini medesimi a difesa di una tirannide che opprime tutti. La fame imbriglia il pensiero, aguzza il pugnale dell’assassino, prostituisce la donna. La società intera viene abbandonata al governo di coloro che posseggono, ed il suo utile, la sua volontà sarà sempre quella di cotesti pochi i quali ammolliti dalle ricchezze che temono di perdere, sacrificheranno sempre l’onore, la dignità, l’utile universale ai loro ozi beati, e l’ignoranza e la miseria interdicendo al maggior numero la libera espressione della loro volontà distruggono affatto la nazionalità espressa dalla volontà collettiva senza eccezione e senza prevalenza di classi.
Conchiudiamo; la libertà senza l’uguaglianza non esiste, e questa e quella sono condizioni indispensabili alla nazionalità, che a sua volta le contiene, come il sole la luce ed il calorico.
VII. Gl’italiani sono imitarli; tali furono gli antichi, ed una tale aspirazione fra moderni comincia da Dante. L’idea che nel 1814 ha cominciato a farsi popolare, che ha progredito sempre, che s’è mostrata dominante in tutti gl’istanti di vita vissuti dal popolo italiano è l’unità; ma gli ostacoli per attuarla sono più che moltissimi.
Un governo unico, pei più liberali, emanazione diretta dal popolo, responsabile, e revocabile, e per tutti poi, energico, compatto, distributore di cariche, premiatore del merito, èil concetto volgare. Ma se non vogliamo disconoscere l’umana natura, sarà facile scrivere le conseguenze di una tal forma di governo.
L’uomo o gli uomini componenti il governo, non potranno spogliarsi delle loro passioni, rinunziare a' loro concetti, abdicare infine alla loro individualità; questa pretesa sarebbe assurda e ridicola. Chi il crede possibile non legga questo libro, io non scrivo per esso. Eglino, come tutti gli uomini, vedranno le cose sotto quell’aspetto, che le loro passioni lor presentano, ed adattando i provvedimenti alle loro convinzioni opereranno coscienziosamente, e faranno quanto ad un uomo è dato di fare; quindi i loro desiderii, i loro concetti prevarranno su quelli dell’intera nazione, ed avverrà precisamente ebe, volendo il bene pubblico, conseguiranno uno scopo affatto contrario, imperciocché i desiderii, i concetti, le passioni di pochi non potranno essere quelli di tutti. La parte non può uguagliare il tutto; inoltre tal governo dovrà essere forte; quindi diverrà immancabilmente tiranno, imponendo con la forza ciò che egli con fini rettissimi vuole, e la tirannide sarà più dura per quanto maggiore sarà la forza dell'ingegno e della volontà degli uomini prescelti al reggimento; in altri termini per quanto migliore sarà stata la scelta fatta. La nazione sarà libera nel momento delle elezioni, poi abdicherà la propria sovranità nelle mani di coloro che l’aura popolare condurrà al potere; i candidati saranno varii, quindi il popolo si scinderà in partiti ed avverrà quello ch'è sempre avvenuto; il partilo prevalente sarà tirannico con gli altri, e questi schiavi ed In permanente cospirazione contro di esso: e le continue lotte intestine roderanno le viscere dello nazione e sarà impossibile la continuità di sforzi, la perseveranza, la costanza che formano la felicità e la grandezza dei popoli, come nel medio evo; l’opera di un partito verrà distrutta da quello che Io soppianta. Questo scoglio, contro cui rompe immancabilmente la democrazia, lo scansarono gli antichi popoli italiani, poi i romani, più tardi i veneziani con l'istituzione del patriziato; questo potere dava a tutta la macchina.. sociale un continuato ed uniforme impulso, che solo può condurre a grandi risultamenti. Adunque, democrazia ed unità così concepite conducono al governo dei partiti, e nazionalità e libertà sono nomi che servono loro di maschera, di pretesto onde lacerare la patria; né qui finiscono i mali. L'unità, facendo fluire tutti ad un centro gli umori vitali della nazione, ne consegue, come dicemmo nelle pagine precedenti, che Poltre parti d'Italia deperiranno quasi membra inaridite e dogliose.
VIII. La federazione èconcetto di pochi ma di uomini di svegliato ingegno e solleciti di libertà. Credono costoro, dividendo l’Italia in varii stati, che un patto comune unisca nella politica esteriore, garantirsi dal dispotismo; ma una tale opinione non ha fondamento. La tirannide del governo in un picciolo stato non è diversa da quella che opprime una grande nazione; anzi è peggiore, spesso, e più tremenda perché più difficilmente sfugge dai suoi artigli; e se eglino credono con una savia costituzione evitarla, in una picciola repubblica; perché in tal caso non applicare tale costituzione allenterà Italia? Lo stesso potremmo dire per la prosperità materiale del paese: se i privilegi di una capitale son dannosi al resto della nazione, in ogni Stato avverrà lo stesso, il male sarà minorato, è vero, ma non evitato; e nel caso che potranno esservi provvedimenti da evitarlo in un picciolo stato, questi provvedimenti stessi saranno applicabili ad uno stato più vasto.
Oltrecciò, se i varii stati, in cui si dividerà l’Italia, avranno simili interessi, perché non potranno reggersi coi medesimi ordini? se interessi diversi, allora gli stranieri saranno arbitri fra noi. Vedremo riprodotto il miserabile spettacolo delle repubblichette del medio evo, che civilissime com’erano, chiamavano i semibarbari a decidere le loro contese. Gli stati che succomberanno in una lotta parlamentaria, in un congresso federale, se non forti abbastanza per farsi ragione con le armi, invocheranno l’aiuto straniero. £ questo un fatto storico innegabile, è un fatto che lo vediamo riprodotto nell’Elvezia, e ciò vedrebbesi eziandio in America, se il vasto Oceano non la separasse dall’Europa. Non appena troncasi una parte di una nazione, per costituirne uno stato, questo immediatamente prende la propria autonomia, sorgono i suoi interessi, che non sono quelli dell’intera nazione, e ne sono tanto più discordi quanto maggiore è la sua estensione, e più sentita k possibilità di esistere da sé. Non havvi una teoria più assurda e volgare nel tempo stesso, di quella, che nell'ingrandimento successivo degli stati italiani, e nel minorarsi il numero di essi, scorge la tendenza all’unità; avviene precisamente il contrario. Se l’Italia si dividesse in due soli stati, l’unità diverrebbe quasi impossibile, i loro sacrifìzii sarebbero troppo grandi per sottomettersi volontariamente ad un tal patto; l’uno dovrebbe conquistare l'altro, che dopo esaurite le proprie forze chiederebbe l’aiuto straniero; un grande stato vuol conservar sempre l’esistenza propria, quantunque meno splendida. Per contro, se l’Italia venisse suddivisa in tanti stati per quanti sono i suoi comuni, ne risulterebbe di fatto l’unità, i sacrificii che gli verrebbero imposti da un patto comune.
IX. I legami indissolubili che esistono fra nazionalitàe libertà, le condizioni da cui quest'ultima non puòscompagnarsi, gli inconvenienti che si riscontrano nell'unità, come nella federazione, sono stati svolti nel precedente capitolo. Opera, diranno molti, di sola distruzione, perocchéniuna sostituzione s'fèfatta in loro vece. La risposta èsemplicissima: voi, che dagli individui pretendete sapere con quali ordini la societàdebba ricostituirsi, sconoscete affatto le leggi dell'feterna repubblica naturale, sconoscete i diritti dell'fintera nazione, e pretendete sostituire il concetto d'fun uomo, alla ragione universale.
Ogni nazione, lo abbiamo provato con la storia, deve sottostare al proprio fato, che, i rapporti sociali, il suo passato con le sue tradizioni, il presente, l'findole del popolo, le sue correlazioni co'f vicini costituiscono. Ogni nazione prossima ad un rivolgimento, nasconde nel suo seno il futuro reggimento, le sue future i sorti; esse non attendono a svilupparsi, che una causa, la quale! turbando l'fequilibrio la precipiti nel moto. L'favvenire d'fun popolo, facendo accurato studio sulla sua ragione storica, su i suoi rapporti sociali…c puòpcomprendersi nel suo insieme, come uno scienziato comprende la scienza, ma non puòmanifestarsi, che da una serie successiva di fatti, come la scienza non puòesporsi da quello, se non pigliando le mosse dalle semplici, e facendo seguire le une alle altre, le varie preposizioni.
Tale manifestazione comincia dall'fapparire de' riformatori, sagaci interpreti della loro età, di cui esprimono il sentire. La missione di costoro non èdi formulare nuovi ordinamenti, ma distruggere gli esistenti, esplorando sin nel profondo, e ponendo a nudo le piaghe della società. I riformatori sono la manifestazione della ragione collettiva, dal dolore costretta all'fesame de' mali sociali; sono piloti, che non determinano la meta del viaggio giàstabilita, ma indicano gli scogli contro cui la nave potrebbe rompere; sono quelli che fanno studio, che scrutano, registrano le sanguinose esperienze fatte dal popolo, ne traggono le conseguenze, le presentano ad esso dicendogli: rifletti, non fidarti, se non vuoi soffrirei medesimi mali.
Intanto i riformatori, non solo distruggono, ma non tralasciano di proporre nuovi ordini, di creare sistemi; ma la prima parte del loro lavoro èsempre incontrastabile, èla ragione universale (che predomina; nella seconda, sempre o quasi sempre, errano; èl'findividuo che parla; non raggiungono mai il vero, ma tanto piùvi si accostano, quanto piùèvicino un rivolgimento. Meno sentiti, meno gravi sono i mali, piùcalmi sono gli animi, piùprofonda, piùvasta èla dottrina de' riformatori, ma nell'fapplicarla, eglino poco o nulla si distaccano dagl'instituti vigenti. Se, invece, gli animi sono concitati, se l'odio al presente èfortemente sentito, i riformatori saranno meno dotti, ma di tempro piùgagliarda, d'findole piùaudace; le conchiusioni vogliono esser recise, non vaghe; tali le richieggono i tempi, e l'fapplicazione de' principii, scostandosi dagl'instituti in vigore, perchéuniversalmente odiati, piùsi avvicinano al futuro che prevedono.
La schiera de' riformatori surse in Italia assai precocemente: l'faccademia Telesiana, come accennammo nel primo saggio, quindi. Bruno, Vannino, Campanella riconobbero i mali da cui veniva roso l'fedifizio sociale, e dalla cima vollero diroccarlo. Cominciarono dal riscattare il diritto della ragione, e sostituirlo all'fautorità; era questa l'farma che dovevano guadagnarsi onde compiere la loro missione; questa prima tenzone costòloro la vita. I conservatori surti a combatterli, eziandio d'fingegno potente, furono i gesuiti rincalzati dalia schiera fratesca. La discussione condusse Bruno e Vannino al rogo, e Campanella soffrìla tortura e ventisette anni di carcere; e se oggi ne ammiriamo il profondo e splendido ingegno, i contemporanei ne ammirarono il sovrumano coraggio. Se i filosofi francesi del XVIII secolo poterono lietamente abbandonarsi ai voli del loro ingegno, ed oggi i socialisti disputano, senza tema del carnefice e del rogo, devesi ciòai riformatori italiani, che comprarono col sangue il diritto di ragionare.
Ai sullodati riformatori tenne dietro il Vico, il Gravina…c e tutta la nobile schiera dei nostri filosofi che termina con Romagnosi. Le leggi, come fugacemente dicemmo, che regolano le società, non furono piùignote, e la filosofia civile come un maestoso fiume, che raccoglie nel suo placido corso i spumeggianti torrenti, riunìle sparse membra dello scibile umano e formonne un tutto.
Intanto oltr'fAlpe s'finauguròil governo costituzionale, ecletismo politico, epperòsursero gli eclettici in filosofia, e la paralisi che da mezzo secolo ci opprime dalla Francia si sparse sull'fEuropa intera. L'fincerta e pallida luce dell'feclettismo riverberòin Italia, quindi venne interrotto il maestoso lavoro, che seguitava continuo da Telesio a Romagnosi. Le dottrine di Gioberti, Mamiani, Rosmini, Ventura vennero in luce. In esse non riscontrasi nulla del gran pensiero italiano, ma, invece, uno strano connubio de' piùcontraddittorii principii: ragione e fede, autoritàe libertà, diritti dei popoli e diritti dei principi; nécostoro, che intrecciano la loro filosofia sull'forditura imposta loro dai birri e dai preti, meritano il nome di filosofi italiani. Durante i rivolgimenti del 48, ligia l'fItalia a tali dottrine, naufragòprima di prendere il largo.
Se ci faremo a svolgere le pagine dei nostri filosofi, vi troveremo consacrate le leggi magistrali della natura. Eglino tentarono applicarle, ma troppo lontani dal risorgimento, subirono l'fascendente dei tempi, epperòvollero raddolcire i mali, rammorbidire le parti soverchiamente rigide, e non giàsbarbicare quelli e rompere queste. Ma oggi le passate esperienze, le tendenze della società, i suoi mali cresciuti, ci danno facoltàa farlo. Quelle leggi debbono formare i cardini su cui dovràequilibrarsi l'fedificio sociale. Ricercare le istituzioni contraddittorie con esse, annientarle, e sostituire in loro vece i principii che n'femergono, saràlo scopo del ragionamento che segue.
La prima veritàche non puòdisconoscersi, senza negare l'fevidenza, senza negare quaranta secoli di storia, è, che la ragione economica, nella società, domina la politica; quindi senza riformare quella, riesce inutile riformare questa. «Conservazione e tranquillità, scrive Filangieri, èil primo dato, e questo e non altro, èl'foggetto unico ed universale della scienza della legislazione. Ma l'fuomo non puòconservarsi senza i mezzi, la possibilitàdunque di esistere, e di esistere con AGIO.»A che servono infatti i diritti dalle leggi accordati se la miseria rende impossibile il profittarne? Inoltre non solo il difetto de' mezzi materiali necessarii ad esistere annulla la vita politica della piùgran parte della nazione, ma l'feccesso delle ricchezze, che si accumulano fra pochi, non produce danno minore: ingigantiscono le voglie, succede all'oporositàl'fignavia, ed in putredine di vizii si marcisce. La societàdall'ingiusto riparto delle ricchezze vien divisa in due parti, i pochi e i molti, e questi da quelli dipendenti; proclamare i diritti della democrazia èun'fimpostura, un'fipocrisia. Chi in buona fede puònegare che i capitalisti ed i proprietarii sono i soli a cui èdato godere de' diritti politici, che la societàègovernala dalla gretta aristocrazia dell'foro, inspiratrice della codarda e ruinosa politica moderna? Si rimedierà, dicono alcuni, a questi mali, con istabilire piùeque relazioni fra il proprietario ed il linaiuolo, fra il capitalista e l'foperaio; spariràla miseria, dicono altri, con lo sviluppo dell'findustria, con l'faumento del prodotto sociale. Abbiamo discorso nei precedenti capitoli dell'fefficacia di tali mezzi; ècosa chiara come la sostituzione d'fun nuovo protezionismo all'fantico riuscirebbe inutile tirannide, inutile inceppamento all'findustria, e dimostrammo come la miseria cresce al crescere del prodotto sociale. Finchéi pochi sono proprietarii dei mezzi, onde soddisfare agli incalzanti bisogni de' molti, questi saranno servi di quelli, qualunque siano le leggi; basta che esse riconoscano e proteggano il diritto di proprietà.
L'fassicurare a tutti un'fagiata esistenza, sarebbe al certo un mezzo efficace, ma ove cercare le ingenti somme? non potrebbesi che spogliare parte della società, per togliere all'faltra ogni stimolo al lavoro; la societàperirebbe; e riconoscendo il diritto di proprietà, come potràmutilarsi, come limitarlo? non potranno essere che leggi complicate e contraddittorie, incentivo alla frode ed all'fingiustizia.
Non resterebbe che l'fuguale riparlo delle ricchezze, ma spaventati rispondono gli economisti: in Francia, nazione ricca, avrebbesi appena 78 centesimi per caduno. Un tale asserto èassurdo e ridicolo; lo spirito di partito, o meglio l'famor dell'foro li costringe a mentire con inconcepibile impudenza. Se fosse esatto, la Francia altro non sarebbe che una nazione di mendichi. Avvegnachésarebbe tale il numero di coloro, che posseggono meno di si tenue somma, che appena raggiungerebbesi una tal cifra, facendo un eguale riparto di tutte le ricchezze di coloro che posseggono piùdi 78 centesimi. Questo calcolo deve essere assolutamente falso; ma noi vogliamo ammettere, che rappresenti il riparto del prodotto netto. In tal caso un operaio con moglie e cinque figli avrebbe il suo salario, piùsette volte 78 centesimi; néquesto ètutto, sarebbevi un aumento non picciolo, riducendo ad un medio salario tutti i pingui stipendi!, che i capitalisti insaccano come compenso alla fatica che durano per arricchirsi; epperòsaremmo al disotto del vero affermando che un tale operaio percepirebbe un dieci lire al giorno, ovvero un vivere agiato. E chi negheràessere piùgiusto che tutti vivano agiatamente, invece di far perire nella miseria nove decimi della nazione, acciocchépochissimi abbiano a possedere oltre il bisogno? Ma la ragione che rende impossibile la pratica di tale p idea èpiùpotente di questa ridicola menzogna.
Una tale ripartizione sarebbe operazione complicatissima, némai potrebbesi evitare la frode; la societàdovrebbe sottostare ad una continua forza tirannica, che spigolasse tutte le borse, altrimenti la materiale uguaglianza stabilita, non durerebbe che un giorno solo.
Sortono alcuni da questo campo, che per essi lo trovano troppo gretto e materiale, e dicono: noi allevieremo, anzi distruggeremo i mali del proletario con l'feducazione. Strana utopia di questa buona gente, condannata dalla natura a vivere d'fastrazioni! Come vi procaccerete le grandi somme necessarie all'feducazione dei proletarii, alla loro esistenza durante tale educazione; ed al compenso che bisogna pagare alla famiglia privata del guadagno che avrebbele fruttato il lavoro del giovane che voi gli rapite per educare? Con le gravezze forse? Ma non sapete che, rispettando il diritto di proprietà, esse ricadono precisamente sul proletarie, nel modo stesso che da base sopporta tutto il peso e le pressioni del soprastante edilizio? Voi l'faffamerete per educarlo. Ma vogliamo ammettere possibile la vostra utopia: cosa guadagneranno con l'feducazione? condannati, come Sisifo, ad un perpetuo lavoro, non avendo che qualche ora necessaria a rinfrancare le forze, l'feducazione ricevuta li farebbe piùinfelici. Se hanno da vivere da bruti, èmeglio lasciarli bruti quali or sono.
I piùpositivi propongono l'fassociazione, ed esaltano la sua innegabile potenza, ma piùche l'fassociazione èpotente il capitale. Non vale proporre come (regole alcune eccezioni; egli èuna delle cardinali veritàdi economia pubblica, non solo che l'fassociazione del lavoro deve soccombere in contro alla potenza del capitale, ma eziandio che i piccoli capitali sono inesorabilmente condannali ad essere associazione del capitale e del lavoro non specialmente se fa uso di macchine. Alcuni il negano asserendo che l'fassociazione del capitale e del lavoro, accrescendo il prodotto, debba riuscire ezíandio vantaggiosa al capitalista, senza riflettere, che il guadagno individuale del capitalista con tale associazione scema moltissimo. Infatti, eglino medesimi aggiungono: se questa associazione non èlibera, ma imposta da una legge, i capitali saranno trafugati. Contraddizione manifesta, imperocchése reali fossero i vantaggi del capitalista, sarebbero ben presto conosciuti, ed ognuno, senza contrasto, contentissimo sottoporrebbesi a tal legge. Quindi, per fornire di capitali il lavoro, altro mezzo non v'èche imporre gravezze a coloro che posseggono; ma quale ne sarebbe il risultamento il dicemmo: gli operai verrebbero affamati e non soccorsi.
Concludiamo, che l'foffrire a tutti un vivere agiato, cardine su cui, giusta la sentenza del Filangieri, debbono poggiare gli ordini sociali, non solo non éin uso nella moderna società, ma non, v'fèalcun mezzo onde soddisfare a tale condizione. La societàdivisa in due parti, possessori e nullatenenti, che il diritto di proprietàdetermina. L'feconomia pubblica, pigliando le mosse da questo diritto, sviluppa le sue leggi, che si basano su di esso. Queste leggi regolano inesorabilmente il rapporto fra queste due classi, e conducono a conseguenze inevitabili e funeste. Cotesti rapporti che risultano di fatto non possono modificarsi, sotto pena di un deperimento universale; unica legge possibile èla libertà: conseguenza di essa, miseria sempre crescente. Se togliete al ricco parte del suo avere onde soccorrere il povero, egli, mentre con una mano sborsa il danaro che gli vien chiesto, con l'faltra lo rapisce di nuovo; ben presto incarisce il vivere, e la miseria s'faccresce. Dunque: la causa che volge tutte le riforme in danno del povero, la causa che accrescendo continuamente la miseria, mena, come altrove vedemmo, alla decadenza, alla dissoluzione sociale, e contrasta allo scopo principale, che si propone la società, il benessere di tutti, o almeno de' più, èil mostruoso diritto di proprietà. La logica adunque impone di rimuovere l'fostatolo, poco curandosi delle conseguenze, la societàriprenderàda sél'equilibrio, dal caos naturalmente verràil cosmos. Verremo ora a rincalzare il nostro ragionamento, per sémedesimo abbastanza chiaro, con l'fopinione di due illustri uomini, Cesare Beccaria e Mario Pagano:
«lIl furto, dice Beccaria, non èper l'fordinario che il delitto della miseria e della disperazione, il delitto di quella infelice parte di uomini a cui il diritto di proprietà(TERRIBILE E FORSE NON NECESSARIO DIRITTO) non ha lasciato che una nuda esistenza.»
Molto piùa lungo ed esplicito ne ragiona Mario Pagano: «Quello che viene occupato, posseduto ed ingombro dal nostro corpo èpur nostro, perchéivi si estende la nostra fisica potenza, e morale benanche. Quell'faria che respiriamo, e ch'febbe eziandio, sotto la tirannide de' greci imperatori, a riscattare con un dazio l'favvilito mortale; quella porzione di terra che premiamo col «piede, la quale èsolo retaggio di gran moltitudine d'fuomini; quello spazio cui riempie il nostro corpo, il quale neppure ci si toglie con la vita stessa, ècosìnostro come le proprie membra. Quei prodotti della terra che, per sostenimento della nostra vita occupa la nostra mano, per la medesima ragione sono nostri, che della pianta sono non solamente il tronco, i rami, le radici, il suolo ove quelle vengono confinate, ma ben'fanche quel nutrimento, quell'fumore, quei succhi, che beono le sue rodici, e servono al conservamento suo.
«lMa come poi si appropria un uomo solo quelle ampie foreste, quegl'fimmensi campi che non misura il suo piede, la mano sua non occupa, e neppur signoreggia lo sguardo?
«lLa natura un patrimonio comune ha conceduto agli uomini tutti, ha legato loro un'fampia eredità, la quale èquesta terra, dal cui seno prodotti gli ha, e nel seno della quale, gli ha piantati e radicati. Come alle piante per nutrirsi ha dato le radici, cosìle mani all'fuomo per estendere la sua forza sul retaggio comune, e far proprio ciòche alla sua sussistenza faccia d'fuopo. Ma queste naturali potenze dirette dalla sua sensibilità, e sviluppata dalla sua mano, hanno un termine ed un confine, tra il quale quando esse sono racchiuse, divengono morali potenze, e diritti originali dell'feterna immutabile legge dell'fordine.
«lE quali sono mai questi confini, e quali gli stabiliti scopi? I limiti delle azioni sono, come si èdetto, dalle reazioni degli altri esseri circoscritti. Quando l'fessere dalla sua sfera uscendo invade ed occupa lo spazio e la sfera d'fun altro, quello reagisce e riurta, e nella propria situazione lo ripone. Quando un corpo vuol penetrare nell'faltro, cioèpassare in quella parte dello spazio occupato da quella, ritrova la resistenza che impenetrabilitàdiciamo, prova la reazione, e se mai persiste nello sforzo di compenetrarvi, vien finalmente distrutto. Cosi se tu, mortale, distendi la tua mano e la tua forza di làdei confini che ti segnònatura, se occupi dei prodotti della terra tanto che ne siano offesi gli altri esseri tuoi simili, e manchi loro la sussistenza, tu proverai il riurto loro; il tuo delitto èl'finvasione, il violamento dell'fordine; la tua pena èla tua distruzione.
Cosìi fatti, la ragione, l'fautoritàd'faccordo protestano e dichiarano il diritto di proprietàla causa dei mali, alla cui piena indarno la societàoppone argini e serragli. Egli ècosa mostruosa scorgere la proprietàdel frutto dei proprii lavori, non solo non protetta dalle leggi, ma annullata, manomessa, in vantaggio dell'fusurpazione dichiarala proprietàsacra ed inviolabile. Si garantisce la proprietà, e piùtosto che violarla si lasciano migliaja d'finfelici, ìj perire nella miseria; ma non proteggono le leggi il frutto de' lavori d'fun operaio, i sudori di un contadino, contro l'fusura e l'aviditàdei capitalisti e dei proprietarii. Èdichiarato assassino colui che uccide per rapire un pane necessario alla sua esistenza; uomo onesto chi, divorando il vitto sufficiente a dieci famiglie, lascia che queste periscano d'inedia. E ciòavviene in nome della giustizia; prova evidente che essa altro non èche una parola, il cui significato cangia al cangiar dei rapporti sociali: quello che oggi dicesi giusto, i posteri lo vedranno con l'orrore medesimo che noi riguardiamo il diritto di vita e di morte che accordavasi al padrone. sugli schiavi. Il frutto del proprio lavoro garantito; tutt'altra proprietànon solo abolita, ma dalle leggi fulminata come il furto, dovràessere la chiave del nuovo edilizio sociale. Èormai tempo di porre ad esecuzione la solenne sentenza, che la natura ha pronunciato per la bocca di Mario Pagano; la distruzione di chi usurpa.
X. «L'fessere senziente, scrive il Romagnosi, nel sentire, non puòmai uscire da se medesimo. Egli non puòsentire che con la propria sensibilità, non puòsentire che il proprio piacere o dolore; non puòamare o odiare che m sé, e per sé; agire cogli altri, ed a pro degli altri, o contro gli altri ma per sé.... Avviene che l'famor proprio d'fognuno trasportato in societàèun centro d'fattrazione, che tende ad appropriarsi il maggior numero di beni, e di servizii; e per sésolo opera anche quando agisce al pro d'faltrui, benchédi ciòegli per avventura non si avvegga.»
Ecco in poche parole messa a nudo l'fumana natura, trovata la cagione di ogni speranza, d'fogni pensiero, d'fogni atto: ricercare il piacere, fuggire il dolore; piaceri e dolori, che secondo l'findole dell'fuomo ed i rapporti sociali variano in mille guise, dall'fepicureo, che cerca il godimento nell'fozio e nella crapula, a Brutto, che preferisce il rogo al dolore dìrinnegare le proprie dottrine. Ogni atto èpreceduto dalla volontà, e la determinazione di essa èun effetto relativo e proporzionale alla specie ed all'fenergia de' moventi, che si riscontrano nel mondo esteriore. Una grande efficacia in questi motivi, esercitata in un individuo d'fun'findole capace a sentirla, genera le forti passioni, che richieggono fortissima dose d'famor proprio. Queste forti passioni formano gli eroi e gli scellerati, i grandi genii nelle scienze e nelle arti, ed i grandi corruttori delle une e delle altre.
In una societàin cui la fama, il potere, le ricchezze.... non possono sperarsi che dalla guerra, o dal bene operato a pro del pubblico, nascono gli Scevola, gli Attilii, i Curzii. «Chi piùdi loro, esclama Filangieri, fu agitato da una forte passione, chi piùdi loro amòper conseguenza se stesso, chi piùdi loro servìla societàe la patria?» Se poi un governo si faràil distributore; di onori, di ricchezze e di ogni altro bene sociale, tutti gli sforzi; degl'findividui saranno rivolti, non giàa guadagnarsi il pubblico plauso, ma le grazie di questo governo: quindi cortigiani, adulatori, sicari; e quanto piùl'findole della nazione saràcapace di forti passioni, tanto piùimpudenti e tiranni saranno i satelliti, che si stringono intorno a questo centro, usurpatore degli universali diritti. Quel popolo, che durante il suo splendore saràstato ricco d'feroi, nella sua decadenza i seidi avrànumerosissimi, e numerosissimi i martiri se comincia ad accennare al suo risorgimento. Per contro, ove tardo èil corso degli umori e le passioni rimesse non vi saranno néeroi néscellerati; all'fapogeo come al perigeo tutto saràpedestre e volgare.
La virtùed il vizio adunque, nulla hanno d'fassoluto; la loro;sede non ènell'fuomo ma nella società: i significali di queste parole cangiano al cangiar degli ordini sociali. Infatti, facendo astrazione della società, le virtùed i vizii spariscono, l'fuomo isolato non ha che due qualità, forza ed astuzia. Marco Bruto vicino a morte esclamò: Oh virtù, tu non sei che un nome, io ti seguiva come fossi cosa; ma tu sottostavi alla fortuna. Ingannavasi Bruto: essa non sottostava alla fortuna, ma ai tempi. L'fantica Roma riverberava nel suo cuore le virtùgiàtramandate all'fepoca di sua vita; esse erano sentite dall'funiversale come l'fultima e debole vibrazione di un suono che muore; alle virtùde' Bruti erano successe le virtùde' Cesari a cui la societàdestinava il trionfo.
Queste leggi magistrali della natura, svolte da Vico, da Beccaria, da Pagano, da Filangieri, da Romagnosi e dagli altri filosofi italiani non imbastarditi dall'feclettismo d'foltremonte, sono l'fordito su cui debbono adattarsi gli ordinamenti sociali, sono i veri che debbono dar norma a tutte le istituzioni; e noi su tali principii baseremo il ragionamento che segue.
Il fine che si propone la societànel costituirsi, altro non dovrebb'fessere che assicurare il pieno e libero sviluppo di queste (leggi, facendole tutte concorrere al pubblico bene. Se esse vengono violate o interdette nella benchéminima parte, l'fopera non solo ètirannica, ma stolta, perchéinvano combattesi contro le forze della natura.
Da questo vero il principio d'fautoritàviene completamente distrutto; chiunque vuole insegnarmi la virtù, o costringermi a seguirla, èun impostore o un tiranno; un impostore se a convalidare le sue dottrine chiama in aiuto il misticismo, un tiranno se I ricorre alla forza, e se non giovasi, o non puògiovarsi di alcuno di questi due mezzi. Le dottrine de' pittagorici, quelle di Platone, il manuale d'fEpiteto, la morale dei Vangelo, non hanno per tanti i secoli, non dico modificata, ma neanche scossa l'fumana natura; gli uomini usando diverse parole hanno sempre operato nel modo medesimo. Il Vangelo, non solo ha predicato la fratellanza e la mansuetudine, minacciando le pene dell'finferno, ma ha ricorso alla spada, ai tormenti, al rogo.... e che cosa ha ottenuto con tali mezzi? Ha costretto la natura umana, che sempre ubbidìalle medesime leggi, a covrirsi con la maschera dell'fipocrisia. Invano verràinculcato l'famor di patria ove la patria non dona che miserie e stenti; névi saràbisogno inculcarlo quando la felicitàdel cittadino dipenderàdalla grandezza e prosperitàdi essa. A che predicherete l'famore della gloria, il disprezzo delle ricchezze, in una societàove,non curata la fama, potentissimo èl'foro? E se i beni maggiori saranno conseguenza della fama e delle virtù, tale dottrina non avràbisogno di apostoli. Concludiamo, che il pubblico costume, assolutamente indipendente dalle dottrine, dalla fede, dalle pene, scalfisce immediatamente dai rapporti e dagli ordini sociali; voler cangiare i costumi, senza cangiar questi èimpossibile, quindi: un governo regolatore de' costumi èla piùstupida ed assurda tirannide che mai uomo possa imaginare.
L'forigine del governo fu il dominio eroico de' forti sui deboli. Le prime leggi, l'farbitrio di quelli, in seguito trasformaronsi in consuetudini. I famuli resi potenti per numero, impedirono i nuovi arbitrii, obbligarono i forti a sottomettersi alla ragione storica, a rispettare le consuetudini, le quali furono, perciò, il rudimento del patto comune, del codice. Questo patto, comunque modificato, non ba potuto, népotràmai librare su giusta lance i diritti di tutti: imperciocchétrae origine dalla violenza e dall'fusurpazione, e dovràesservi sempre qualche parte che preponderi, qualche altra che minacci reazione. A mantenere nella societàquesto labile equilibrio, ebbesi uopo del governo, che puòdefinirsi l'fostacolo allo sviluppo delle leggi, naturali, il sostegno de' privilegii. Ma se ogni privilegio cessasse, se i diritti risultassero dai rapporti reali e necessari delle cose, il dovere diverrebbe un bisogno; l'fuomo non servirebbe piùall'fuomo, ma, come scrive Romagnosi, solamente alla necessitàdella natura, ed al proprio meglio. In altri termini il Filangieri esprime l'fopinione medesima: «L'fuomo non puòes- sere felice, dic'fegli, senza esser libero. L'fuomo non puòessere felice senza convivere coi suoi simili. L'fuomo non puòconvivere co'f suoi simili senza governo e senza leggi. Dunque per essere felice deve esser libero èindipendente. Ma il dovere senza la «volontà esclude la libertà; la volontà senza il dovere esclude la dipendenza. Il nesso che unisce queste due opposte condizioni non puòessere che, la volontàdi far ciòche si deve. Quindi la societàcostituita ne'f suoi reali e necessari rapporti, esclude ogni idea di governo, e come ben equilibrato edilizio regge da sé, senza di aver bisogno di fasciature o di rinfianchi. Questi principii de' nostri padri ora cominciano a discutersi eziandio in Francia; ivi esclama Proudlion «chiunque mette la mano su di me per governarmi, èun usurpatore, un tiranno, io lo dichiaro mio nemico....»; ed altrove: «chi siete voi per sostituire la vostra saggezza di un quarto d'fora, alla ragione eterna ed universale?»
Ciascuno nasce con speciali altitudini ed inclinazioni, ed una societàben costituita dovrebbe offrire ad ogni individuo i mezzi onde soddisfar queste ed utilizzar quelle, e cosi, seguendo l'fuomo la propria volontàed il proprio utile, seconderàla volontàcollettiva e l'futile pubblico. Derogare a questa legge e costringere l'fuomo ad un lavoro forzato èuna tirannide. Quindi il governo,che lo abbiamo trovalo assurdo e tirannico, tanto come correttor e di costumi, quanto come sostegno del patto sociale, come educatore èinutile; l'feducazione altro non deve essere, che una legge; generate, con la quale pongansi a disposizione d'fogni cittadino, onde facilitare lo sviluppo delle sue facoltàfisiche e morali, tutti i mezzi di cui dispone la società.
Ma ancora piùinnanzi vanno i mali, che, senza utile veruno, sgorgano inevitabilmente dal governo. Se ad esso non concedansi néaltra forza, néaltri mezzi onde esercitare il. potere, se non quelli che potràtrarre dall'universale appoggio, che i cittadini darebbero ai suoi atti, credendoli giusti, ne risulteràun governo inutile e ridicolo: lo si vedràdarsi cura di educazione, di costumi, di patto sociale; fatti, i quali risultano e si sostengono in forza de' rapporti medesimi delle cose, che esso, privo di forza, non potràmenomamente modificare; epperòquanto piùoperoso, tanto piùsaràridicolo; se poi gli concederete forza materiale, o lo farete distributore di cariche, di premii, di onori, allora cominciano i perigli per la società. Colui o coloro nelle cui mani verràaffidato il maestrato supremo, come nel precedente capitolo dicemmo, dovranno, perchéuomini, soggiacere all'fimpero delle passioni e delle loro imperfezioni fisiche e morali: quindi il giudizio e le determinazioni di questo governo dovranno, senza dubbio, trovarsi in di accordo coi giudizi e le determinazioni del pubblico, che, essendo la media di tutti i giudizii e le determinazioni individuali, resta scevra da tali influenze. Dichiarare un governo rappresentante la pubblica opinione e la pubblica volontà, èlo stesso che dichiarare una parte rappresentante del tutto. Inoltre, l'uomo per sua natura sdegna i rivali e l'fopposizione, e gli amici del governo non saranno certamente coloro, che manifestano i suoi errori, che contrastano la sua opinione, ma bensìquei che lo piaggiano; gli oppositori saranno occultamente odiati, e, se lo si potràimpunemente, oppressi; negarlo èun disconoscere l'fumana natura, ènegare la storia, negare i fatti che tuttodìsi riproducono; quindi questo governo saràsempre un'fulcera che tende a spandere la cancrena sull'intiera società.
Se, cessando dal ragionare, ci faremo a scendere nel fondo della nostra coscienza, ad interrogare l'fintimo nostro sentimento, vi troveremo la condanna d'fogni governo. Quella complicazione di ruote, aggiunte alla macchina sociale, per tutelarsi contro l'fusurpazione e la tirannide de' governanti, ha giàfatto pessima pruova; senza impedire i mali, li accresce, e rende il procedere lento ed incerto. La pubblica opinione èaffatto cangiata su tale riguardo: ognuno, nei tempi passati, sforzavasi ad aggiungere qualche pezzo alla macchina, o come regolatore, o come moderatore, mentre ora, per contro, tendesi alla semplificazione, il cui ultimo tenatne èl'fanarchia, ove l'fumano intelletto s'faccheterà. I propugnatori de' governi forti fanno fine ad ogni loro diceria, ad ogni loro ragionamento, col proporre le misure da cui eglino sperano la pubblica felicità; cd il convincimento che riscontrasi in ogni individuo, che i soli provvedimenti per reggere con successo la cosa pubblica, son quelli che egli nasconde nel proprio cuore, èla condanna la piùaperta d'fogni forma di governo.
Da quanto esponemmo possiamo desumere, che le numerose esperienze registrale dalla storia, che nelle leggi regolatrici della natura trovano piena conferma, additano come terribili sorgenti di morale, come ostacoli all'fumana felicità, come scogli di sicuro di naufragio, il diritto di proprietàed il governo. Ma come la società, diranno molti, priva di questi mali, potràreggere? Cosa verràad i essi sostituito? Non sono quistioni che deve farsi il rivoluzionario, S néche si fanno le moltitudini. Quello addita la causa dei mali, gli ostacoli al bene pubblico: queste irrompono come marosi mugghienti e li rovesciano. La società, come le acque che tendono sempre a livellarsi, riprenderàda sél'fequilibrio; egli èstrano pretendere che un uomo dia conto di ciòche l'funiversale volontàpotràcompiere. Nondimeno, dalle leggi stesse naturali ed eterne, che ci hanno condotti a queste conclusioni, emergono alcuni principii inconcussi, che violati in tutto o in parte dalle varie societàantiche e moderne, sono state e saranno la ragione di loro ruina; questi principii, che ora verremo svolgendo, sono superiori ai diritti de' popoli, e sono gli incastri fra' quali l'fumanità, dopo tante penose oscillazioni, verràad assettarsi.
XI. La natura avendo concesso a lutti gli uomini i medesimi organi, le medesime sensazioni, i medesimi bisogni, li ha dichiarati eguali, ed ha, con tal fatto, concesso loro uguale diritto al godimento dei beni, che essa produce. Come del pari, avendo creato ogni uomo capace di provvedere alla propria esistenza, lo ha dichiarato indipendente e libero.
I bisogni sono i soli limiti naturali della libertàed indipendenza; quindi, se all'uomo si facilitano i mezzi a soddisfarli, la libertàed indipendenza èpiùcompleta. L'fuomo s'fassocia onde piùfacilmente: soddisfare a' suoi bisogni, ovvero ampliare la sfera in cui si esercitano le sue facoltà, e conseguire libertà ed indipendenza maggiore: epperòogni rapporto sociale che tende a mutilare questi due attributi dell'fuomo, non ba potuto, perchécontro natura, contro il fine che si propone la società, stabilirsi volontariamente, ma dovette subirsi a forza; esso non puòesser l'feffetto di libera associazione, ma di conquista o d'ferrore. Dunque ogni contratto, in cui una delle parti, dalla' fame o dalla forza, viene costretta ad accettarlo e mantenerlo, èviolazione manifesta delle leggi di natura; ogni contratto dovràperciòdichiararsi annullato di fatto, appena mancagli il liberissimo consenso delle due parti contrattanti. Da queste leggi eterne ed incontrastabili, che debbono essere la base del palio sociale, emergono i seguenti principii, i quali riassumono l'fintera rivoluzione economica:
1.°e‹ Ogni individuo ha il diritto di godere di lutti i mezzi materiali, di cui dispone la società, onde dar pieno sviluppo alle sue I facoltàfisiche e morali.
2.°‹ Oggetto principale del patto sociale, il guarentire ad ognuno la libertàassoluta.
3.°‹ Indipendenza assoluta di vita, ovvero completa proprietàdel proprio essere, epperò:
a) L'fusufruttazione dell'fuomo all'uomo abolita.
b) Abolizione d'ogni contratto ove non siavi pieno consenso delle parti contraenti.
c) Godimento de' mezzi materiali, indispensabili al lavoro, con cui deve provvedersi alla propria esistenza.
d) Il frutto dei proprii lavori sacro ed inviolabile.
Determinata con tre principii fondamentali la rivoluzione economica, passeremo alla politica.
I bisogni sono i limiti della libertà ed indipendenza. Questa legge èinnegabile ed universalmente sentita. Ogni altra legge o principio, non sentito ma predicato, non puòessere altro che impostura di qualche scaltro che tenda profittare dell'faltrui semplicità, ovvero effetto dell'fignoranza di chi predica e chi ascolta, e la gerarchia che viola direttamente libertà ed indipendenza, ècontro natura.
La sovranitàrisiede nella nazione intera. Gli alti di ogni uomo sono proporzionati e conseguenza della facoltàdi sentire, variabile in ogni individuo; del pari, gli atti della sovranitàsono proporzionali e conseguenza della media fra tutte le facoltàdi sentire de' varii individui chela compongono: media, in cui son distrutte tutte le particolari influenze alle quali ogni essere piùo meno soggiace: la sovranitàèil senso comune, ovvero, come dice Vico, quel giudizio, che senz'falcuna riflessione viene comunemente sentito da lutto un ordine, da tutto un popolo, da lutto il genere umano, ed il delegarla èun assurdo, come sarebbe quello di delegare la propria sensibilità; essa èinalienabile, risiede nell'fintera nazione, némai puòessere legittimamente rappresentata da una parte di essa. Le leggi di natura, sotto pena di gravissimi mali, proibiscono il comandare del pari che l'fubbidire. Un popolo, che per esistere piùfacilmente delega la propria sovranità, opera come uno, che, per meglio correre, legasi gambe e braccia. Da queste veritàemergono i seguenti principi!, che fanno seguito a quelli giàstabiliti.
4.°‹ Le gerarchie, l'fautorità, violazione manifesta delle leggi di natura, vanno abolite. La piramide Dio, il Re, i migliori, la plebe adeguata alla base.
5.°‹ Come ogni italiano non puòessere che libero ed indipendente, del pari dovràesserlo ogni comune. Come èassurda la gerarchia fra gli individui, lo èfra i comuni. Ogni comune non puòessere che una libera associazione d'individui, e la nazione una libera associazione dei comuni.
Intanto molti ostacoli materiali e morali vietano in molle occorrenze le funzioni della sovranità. I principii stabiliti, conseguenza delle leggi di natura, non sono che il primo ordito degli ordini sociali e non bastano: bisogna discendere a determinare i varii rapporti che dovranno essere d'faccordo con essi. In questa laboriosa ricerca, la nostra natura, vinta dal costume, e, smarrita nel suo corso, ad ogni passo cade nell'errore; quindi richiedesi una continuitàd'fattenzione, una serie di ragionamenti, cose per le moltitudini impossibili, e soventi mancherebbe il luogo e il tempo, onde far agio a sìnumerosa assemblea di riunirsi e deliberare.
Cotesti lavori sono da individui, ed uno solo dev'fessere dichiarato legislatore. Inoltre, èuna veritàdimostrata all'fevidenza da ' Romagnosi, che il giudizio di lutti i savii del mondo puòessere erroneo nel sindacare il lavoro compito da un solo; quindi un congresso di delegati del popolo avrebbe l'fincumbenza, non giàdi svolgere, di sopraccaricare di clausule ed emendamenti le leggi proposte, ma solo di verificare scrupolosamente se i principii immutabili, dichiarati base del patto sociale, vengano in qualche parte lesi da queste leggi. Fatto ciò, pubblicarle; népuòandar piùinnanzi il potere del legislatore e del congresso; la nazione le adotteràse vorrà, e quando-vorrà, non avendo il diritto di concedere ad uno o a pochi il potere d'fimporle leggi: l'fattuazione di esse èatto della sovranità, e la sovranitànon puòdelegarsi. I concetti di un individuo possono definirsi i pensieri della nazione; èil modo di cui essa si vale a manifestare il suo concetto collettivo. Per la ragione medesima, che la sovranitànon puòabdicarsi o trasmettersi, non potràdeterminarsi la durata delle funzioni del legistatore e del congresso; esse cesseranno, appena la nazione il vorrà; e la volontàdel mandante dovendo costituire la legge del mandatario, ogni deputato non puòessere che sempre Revocabile da' suoi elettori. L'fImporsi per un dato tempo un governo o un'fassemblea, èun assurdo, come lo èper un individuo il costringersi con un voto. Élo stesso che dichiarare la volontàe la determinazione di un momento arbitra e tiranna della volontàche progressivamente puòmanifestarsi in avvenire. Di qui i principii che seguono.
6.°‹ Le leggi non possono imporsi, ma proporsi alla nazione.
7.°‹ I mandatarii sono sempre revocabili dai mandanti.
Di piùla natura stessa, che ha creato l'fuomo indipendente e libero, ha dotato ogni individuo di altitudini speciali: d'fonde la potenza del lavoro collettivo, la sociabilità. Coteste attitudini sono quelle appunto che, nelle varie operazioni della vita, costituiscono la diversitàdelle incumbenze. Dichiarare un'fincumbenza piùnobile che un'faltra èun assurdo degno di una societàche ha vanitàe privilegio per base. «Ma qual si èl'farte vile, esclama Mario Pagano, quando ella giova alla società? vile èl'fopinione degli uomini, che avvilisce gli utili mestieri». Ed èeziandio assurdo dichiarare una funzione piùche un'faltra faticosa; la meno faticosa èquella che meglio armonizzi con le proprie attitudini ed inclinazioni, epperòesse solamente debbono dar norma alla distribuzione delle varie cariche e mestieri che nella societàsi riscontrano.
In tutte le varie operazioni dell'intera societào di un nucleo qualunque di cittadini, sono indispensabili gli ordini, e la distribuzione delle funzioni; egli èimpossibile operare tumultuariamente. Ciòdeve aver luogo nelle grandi, come nelle piccole cose, tanto nella guerra e nella pubblica amministrazione, come in qualunque altra speculazione o industria. A conservare illesa la sovranitànazionale, nel caso che una parte di cittadini debba compiere un'fimpresa che riguarda l'fintera società, due condizioni si richieggono, cioè: che l'fimpresa da eseguirsi e gli ordini d'fadottarsi siano il risultamento della volontànazionale, il che emerge di fatto da' principii 6.°‹ e 7.°‹; e che la distribuzione delle varie funzioni fra quel nucleo di cittadini operanti venga fatta da quei cittadini medesimi. Se lànazione valesse indicare i capi che debbono dirigerli, violerebbe manifestamente la libera associazione. Quindi i principii seguenti;
8.°‹ Ogni funzionario non potràche essere eletto dal popolo, èsaràsempre dal popolo revocabile.
9.°‹ Qualunque nucleo di cittadini i quali sieno dalla societàdestinali a compiere una speciale missione, hanno il diritto di distribuirsi eglino medesimi le varie funzioni, ed eleggersi i proprii capi. Finalmente l'uomo, facendo parte di una società, èimmedesimalo con essa; e questa societàproponendosi come fine principale non solo di guarentire, ma di ampliare quanto piùsia possibile la libertà ed indipendenza individuale, ed ogni offesa di individuo riducendosi alla violazione di questi due attributi, ne segue che le offese private debbono tutte considerarsi come offese pubbliche; ogni misfatto, ogni delitto, ogni errore offende diretta-mente l'fintera società, la quale giusta il tacito patio che ha con ognuno de' suoi membri, ha il dovere di vendicare l'foffeso, e con l'fesempio contenere i male-intenzionati; e questo dovere della società, per la natura medesima dell'fuomo, portato a vendicare altrui a tutela di sémedesimo, diventa, come dice Romagnosi, controspinta, ma non giàcriminosa; imperocchél'furlalo ha il diritto di riurtare, ed il riurto risulta, evitando la riproduzione del delitto utile. Se poi ci faremo a considerare come ogni delitto trovi la cagione promotrice negli ordini sociali, o nell'indole dell'findividuo, dovremo conchiuderne che il patto sociale debba esser volto a rimuovere le cagioni del delinquere ed all'educazione de' colpevoli onde non venga distrutto dalla societàmedesima uno de' suoi membri.
Egli èindubitato, che le leggi scritte, invariabili, fra il continuo mutar dei tempi e. dei costumi riescono, in alcune epoche, soverchiamente rigide, e troppo forte il loro contrasto con la pubblica opinione; quindi l'futile della giurisprudenza, che cerca rammorbidirle ed adattarle ai tempi. Ma se riesce soverchiamente duro il non lasciare al giudice altra facoltà, se non. quella di pronunciare la sua sentenza, dietro il sillogismo {prescritto dal Beccaria, l'fècosa egualmente perigliosa il dar luogo alla giurisprudenza, che conduce all'arbitrio. Come evitare entrambi questi inconvenienti che risultano dall'fordine stesso sociale, dallo svolgersi e modificarsi dei rapporti? rimandate il reo ai suoi giudici naturali, al popolo. Le leggi scritte siano di norma, e non d'faltro; le decisioni del popolo superiori ad ogni legge. Potràil popolo eleggere dal suo seno alcuni cittadini e costituirli giudici; ma i giudizii di questi saranno sempre annullati dalla volontàcollettiva, a cui deve riconoscersi come diritto inalienabile, inerente alla sua natura, alla sua sovranità, la decisione suprema di ogni contesa. Cosi non potràpiùavvenire, che vengano inflitte punizioni contraddittorie alla pubblica opinione ed ai tempi; cosi avverràche le leggi seguiranno lo svolgersi ed il mutare dei costumi, némai questi verranno in lotta accanita o sanguinosa con esse. Adunque:
10.0 La sentenza del popolo èsuperiore ad ogni legge, ad ogni maestrato. Chiunque credesi mal giudicato puòappellarsi al popolo.
E cosi prendendo le mosse da due semplicissime ed incontrastabili verità: 1.°‹ L'fuomo ècrealo indipendente e libero, e solo i bisogni sono assegnali come limiti a questi attribuii. 2.°‹ Per allontanare da séquesti limiti, a rendere sempre piùampia la sfera di sua attivitàl'fuomo si associa, epperòla societànon può, senza mancare al proprio scopo, ledere in minima parte gli attributi dell'fuomo; siamo stati condotti alla dichiarazione di dieci principi! fondamentali, de' quali un solo che non venga vigorosamente osservato, la libertàe l'findipendenza saranno violate. Dunque ogni contratto sociale, volto non giàa confermare l'fusurpazione di una classe, ma la felicitàdell'intera nazione, deve aver come base questi principii.
XII. Pria di procedere piùinnanzi, rileva rammentare per sommi capi quello di cui sino ad ora discorremmo in questo saggio. Ragionando del progresso abbiamo scorto come le societàtendono nelle varie loro evoluzioni ad assettarsi fra le leggi naturali, e quando, per errore dell'fistinto, per disaccordo del sentimento con la ragione, se ne allontanano esse rapidamente declinano.
Indi osservammo, come lo scambio facilissimo delle idee e dei prodotti, abbia folto di tutt'fEuropa un popolo di costumi, di leggi, di propensioni quasi uniformi; e noi abbracciandolo nel suo insieme ne siamo venuti scrutando le tendenze, sìeconomiche che politiche. Il continuo aumento del prodotto sociale, il restringersi il numero de' possessori di esso, il crescere incessante de' miseri e!j della miseria, sono cose evidenti, innegabili; e quindi i mali, la I necessitàdi migliorare, la reazione de' miseri, contro i pochissimi I ricchi, certa, immancabile. Quinci, sotto varie cagioni mascherato il connubio de' pochi agiati co'f despoti; e ad ogni minaccia, ad ogni rivolgimento, crescere le milizie perpetue, solo argine contro la numerosa plebe, e da questa lotta emergere indubitatamente il despotismo militare, o il trionfo della democrazia, l'funo seguito dalla licenza e dalla dissoluzione, l'faltro dal rinnovamento sociale. Altra alternativa non v'fè.
Incerti, ci siamo fatti a cercare quale delle due soluzioni fosse la piùprobabile. L'fatteggiamento, i tentativi, il cupo fremere del i proletario, fanno fede che la sua fibra èrozza, non flacida; l'felatere n'fècompresso, ma non spento; quindi havvi speme di vita. Il soldato che lo fronteggia non èpretoriano, non avventuriere, ma proletario anch'esso, affatturato da magica forza, che lo costringe a sacrificare sémedesimo in sostegno delle proprie catene e di 1 quelle de' suoi uguali, epperòla speme che la sua ottenebrata mente possa balenare per un istante; e ciòbasterebbe alla societàper risorgere. Questi incerti e pallidi raggi di luce ci sembrarono fulgidi, scorgendosi quasi nunzi del nuovo giorno la splendida pleiade de' socialisti, la tendenza delle moltitudini all'fassociazione, la preponderanza, che giornalmente il concetto sociale acquista sul politico. Ristorato l'fanimo, ci siamo ristretti all'fItalia solamente.
Abbiamo fatto studio sulle varie questioni politiche, che si agitano
in seno della nostra patria, e dimostrammo quanto vana ed inutile
sarebbe la loro soluzione, se non si sbarbicassero le due cagioni da.
cui la miseria, la schiavitù, la corruzione irraggiano, PROPRIETÀ' e
GOVERNO. lu ultimo abbiamo stabiliti dieci principii conseguenza
immediata delle leggi di natura come base del futuro contratto
sociale. Ora non verremo esponendo un sistema, proponendo ordini,
promettendo felicità, néesorteremo con gonfie declamazioni gli
italiani alla concordia o alla battaglia. Studieremo le forze che
operano nel seno della nazione, ne cercheremo l'fintensità, la
direzione, la risultante, onde conoscere cosa l'fItalia sarà, non
giàcosa i partiti vogliono che essa sia. Epperòcominceremo
dall'esaminare, quale sia lo stato dell'fItalia relativamente alle
altre nazioni dell'fEuropa.
XIII. Il volgo, il quale senza esaminare minutamente le cose, giudica dalla fallace apparenza di esse, considera la Francia e l'Inghilterra come le due nazioni, dalle quali debbono partire gli impulsi, che sospingeranno i popoli ad un migliore avvenire: quasiché la rigenerazione politica-sociale dipendesse dal progresso industriale di esse. Per non dilungarci soverchiamente su tale argomento, e perché cotesta missione rigeneratrice si attribuisce alla Francia più che all’Inghilterra, noi faremo paragone fra la prima di queste due nazioni e l’Italia. La rivoluzione francese del 1789 fu una grandiosa esperienza, che mise a nudo la poca importanza delle varie forme di governo relativamente ai mali che la società ammiseriscono. Coloro che governarono quella rivoluzione, cercarono guarentire la libertà, proponendosi a modello Grecia e Roma, e mostrarono ignorare affatto quelle storie. Se con maggiore oculatezza avessero cercato le cagioni di quello splendore, le avrebbero scorte ne’ rapporti sociali, nello stato economico di que’ popoli, per cui legavasi strettamente l’utile pubblico al privato; ed in quelle forme di governo, credute origine d’ogni bene, avrebbero riscontrato la causa della non tarda ruina di quelle nazioni. Se avessero fatto studio sui tanti esperimenti che fecero que’ popoli, e tutti invano, per impedire l’usurpazione di chi reggevali; se avessero meditata la storia d’un’epoca meno remota, quella degl’italiani del medio evo, che pel loro stato economico, religioso, morale, si rassomigliavano ai francesi più che i greci ai romani, si sarebbero convinti facilmente come sia cosa impossibile limitare l’abuso ed evitare il despotismo, allorché delegasi a pochi la sovranità ed il potere che risiede in tutti, e per sollecitudine delle forme lasciasi sfuggire la sostanza delle cose.
La Francia al novantatré subì l’esperienza medesima, che giù avevano subito gli italiani nel medio evo. I nobili, domati dal regio potere, avevano smesse le armi, ed il re aveva vinto un rivale, ma perduto un sostegno. Intanto come in Italia il popolo, combattendo a difesa del papa, conobbe di avere diritti, cosi in Francia, assumendo la difesa del re, imparò a difendere sé stesso. Parteggiando pel re, egli credette migliorare, ma svincolato dalle strette del feudalismo, videsi abbandonato, privo di mezzi ed appoggi, in una lotta ineguale co’ ricchi; sospinto dai suoi dolori rovesciò il trono; in tal modo la rivoluzione si compi, rivoluzione, che, come quella del mille in Italia, fu il trionfo del comune sul medio evo. Agli italiani bastarono sci secoli per cangiare in popolare il barbaro reggimento, ai francesi ne bisognarono quattordici. L’unità, l'indipendenza assoluta, le superstizioni del cristianesimo scrollate, il prestigio de' nomi caduto, resero, all’estremo, la Francia più maestosa dell’Italia; furono idee, non famiglie, che parteggiarono il popolo. Ma la stessa unità, la minore energia della plebe, lo spirito di libertà poco comune, insomma lo spirito repubblicano, universale in Italia, e difettivo in Francia, e per contro le tradizioni della monarchia fortemente sentite, distrussero in dieci anni tutte quelle conquiste del popolo, che gli italiani conservarono per quattro secoli.
La rivoluzione francese scosse dal loro letargo i popoli d'Europa, ed il governo, che i moderni chiamano rappresentativo, fu la barriera, l’ostacolo che gl’impotenti troni opposero all’esigenze del popolo. Abbiamo parlalo abbastanza largamente di una tal forma di governo, quindi non è mestieri ritornare sull’argomento; diremo solo che da tale epoca cominciò a germogliare l’ulcera che minaccia di cancrena l’Europa. Intanto l’industria, il commercio, le scienze progredirono; il secolo XIX venne chiamato il secolo del progresso, ed i dottrinarii credettero, o loro convenne credere, che, sotto tale reggimento si compisse gradamentel’educazione del popolo, navigandosi a vele spiegate verso la libertà; strana aberrazione, o strana menzogna. Il secolo decimonono sarà famoso nei fasti dell'umanità, non già per la servile e codarda schiera dei dottrinanti scaturiti dal suo seno, ma perché in tal epoca il socialismo, d'aspirazione fattosi sentimento, ebbe partito, ed avrà attuazione.
La grandezza, la dignità della nazione non va misurata dal nu mero dei libri che in essa si pubblicano, come la dottrina non è in sola qualità, che determina il conto in cui debba tenersi un individuo. Un dotto, che pone la sua penna a disposizione del maggiore offerente, lambisce la mano che lo sferza, bacia le catene che l'avvincono, e con facile viltà maledice chi cade, né mai osa di biasimare il potente, non può certamente preferirsi ad un ignorante, che, domo dalla forza, guarda torvo l'oppressore, minaccia ne’ ferri, né lasciasi intimorire dalla spada, né dall’oro corrompere; il primo sarà un uomo culto ma degradato, il secondo rozzo ma pieno del sentimento della propria dignità; nell'uno possiamo rappresentare il basso impero e l'Italia al secolo de' Medici; nell'altro la Roma de' Bruti, de' Scevola, e l'Italia del mille; nel primo possiamo scorgere l'odierna Francia, nel secondo l'Italia moderna. Colui che si crea un padrone è schiavo per natura, chi lo subisce non è che disgraziato.
Se i rivolgimenti avvenissero in ragione de' libri, non sarebbe stata la Sicilia la prima ad iniziare i moti del 48, né la dotta Germania sarebbesi rimasta quasi inerte fra l'universale sconvolgimento. Quali dotti contava la Grecia all'epoca della sua memorabile rivoluzione? Gli Hoche, i Moreau, i Kleber, i Marco Botzari, i Canarie. eroi da rivoluzione e non già da poltrona, non sono parto di dottrine. Primogeniti di queste sono i Guizot, i Thiers. La probabilità di un rivolgimento è in ragione diretta dei mali che opprimono il popolo e del grado d'energia che esso conserva. Faremo studio su ciò onde discernere se in Italia l'abilità t al moto sia minore che in Francia.
In Italia, come in Francia, la vita pubblica è difettiva, non curato l’utile nazionale, a cui viene sempre preposto l’utile privato. La vita pubblica de' moderni consiste nelle gesta da romanzo, che fo gioventù si propone nel suo esordire; una brillante comparsa, come dicono i Francesi, dans le tourbillon du monde, è l'ambizione de' moderni eroi, de' tieni, è la gloria che per essi adegua, anzi sorpassa quella de' Scipioni, e de' Marcelli. All’operosità succede il riposo, il non si trasforma e comparisce nel mondo sotto d carattere d'homme blasé. Il non ama i rischi del duello, di
una corsa a cavallo e … ma si guarda bene dal mischiarsi in politica; se le barricate ingombrano, le strade, chiudesi incasa curandosi poco dell’esito della lotta, ed aspetta tranquillo quando les nffaires ont repris, per essere richiamato all’azione. Allora si fa di nuovo ad usare in quelle numerose brigate ove lo scambio degli affetti è impossibile, ed in quei teatri ove con mostruosi drammi si tenta invano scuotere la flacida e logorata fibra dell’annoiato ascoltante. In Italia i lions, i grandi ridotti, quel genere di produzioni teatrali sono piante esotiche. Ci sforziamo, egli è vero, di affettare i medesimi gusti, e farci imitatori degli oltremontani, ma fortunatamente con pochissimo successo. Quanto ristretto è il numero de' romanzi e dei romanzieri in Italia. E perché? mancano forse gl’ingegni?!... o la favella, come alcuni asseriscono, non prestasi a tati letterarie produzioni? mai no; se esse venissero chieste dalla pubblica opinione, tutte le difficoltà sarebbero superate, né la tirannide le interdice. Ma quello poi che maggiormente ridonda a gloria nostra si è che i pochi romanzi italiani sono quasi tutti di fama imperitura, quasi tutti hanno uno scopo politico, ed i più accreditati fra essi, come l’assedio di Firenze, Nicolò de Lupi, Ettore Fieramosca,.... suscitando un torrente di affetti patrii, affogano, attutiscono ogni affetto privato.
Il prestigio del fasto è immenso in Francia; in Italia abborrita la pompa. Perciò gradirono i francesi il brillante corteggio di Bonaparte, più che la semplicità del provvisorio del 48, e di Cavaignac. In Italia, per contro, il modesto vivere di Mazzini e di Manin riscossero plauso ed universale simpatia.
La superstizione religiosa, in Italia come in Francia, non esiste che fra le donnicciuole; la religione è ridotta ad atti esterni, è una abitudine, non già un sentimento; e se sentimento religioso vi fosse ancora al giorno d’oggi, la sua sede sarebbe in Francia e non giù in Italia. Proudhon rinnegava la storia scrivendo Le bigot italien; egli non rammentavasi come i francesi, da Carlo Magno, sono stati sempre i difensori del papa, non per ragione di stato, ma per fanatismo; ed i nemici de' pontefici sono stati e sono gl’italiani, ai quali è riserbato d’inaugurare il trionfo su tutte le idee religiose.
Si eccettui il Piemonte, in cui, per soverchia docilità del popolo, il reggimento costituzionale dura, nelle altre parti d’Italia non ha potuto gettare le sue barbe; la violenza, la corruzione non sono bastate in Napoli, in Roma, in Toscana ad ottenere una camera suddita del ministero. Troverete in queste provincie satelliti efferrati ed impudenti delta tirannide, ma quei trafficanti in politica, pronti ad inchinarsi ai fatti compiuti, non esistono, feccia e non cima di società, come essi si compiacciono credere; in Napoli sono vi i Windishgratz egli Haynau, ma invano si cercano i Magnan, i Saint-Arnaud, i Maupas.... Gli ex-triumviri, gli ex-ministri, gli ex-generali italiani vivono tutti nella indigenza, mentre non trovasi in Francia un ex--impiegato, che non abbia sa petite fortune.
Secondo il proprio stato, i proprii bisogni, le proprie inclinazioni producono le nazioni gli uomini che le rappresentano, e viceversa dal carattere di questi uomini potrà inferirsi lo stato in cui esse si trovano. £ se non volesse considerarsi come passeggieroil presente stato della Francia, in vedendola padroneggiata dai Guizot, da' Magnan, da' Saint-Arnaud, da' Bonaparte — bisognerebbe conchiudere, che essa si dissolve, e che le ultime virtù rivoluzionarie sonosi spente con Armand Carrel. In Italia, per contro, si trovano esseri spregevoli; ma non sono che i rappresentanti de' varii governi locali, vicini a ruinare; mentre la nazione intera non onora, non apprezza né costoro, né i dottrinanti che predicano rassegnazione, ma i martiri suoi. Quindi essa è nazione, che sente il peso de' proprii mali, che onora quelli che danno la vita per combatterli, e dal martirio alla battaglia non havvi che un passo.
L'attacco di 70 mila stranieri contro Italia divisa, quasi non bastò per ristabilire il despotismo; essi per vincere hanno dovuto ricorrere eziandio al raggiro ed alla menzogna. Tre battaglie, quattro assedii, sessanta combattimenti, tre città messe a ferro e fuoco, sono i gloriosi monumenti di nostra resistenza; mentre gli esuli, i prigioni, le vittime che muoiono col nome d'Italia sulle labbra sono la nostra continua e gloriosa protesta. Come difese Francia la sua libertà? un pugno di compri francesi, in poche ore, da libera la fanno schiava; e la nazione, ben lungi dal resistere, col suffragio universale sancisce l'usurpazione ed appoggia la spregevole tirannide. Come negare che i rivolgimenti avvenuti in Francia, il 830, il 48, il due dicembre, sieno l’effetto d'una vittoria ottenuta da un ristretto partito in Parigi? Essi somigliano moltissimo alle congiure di palazzo del basso impero, a cui non prendevano veruna parte le popolazioni delle provincie; mentre in Italia, non v'è movimento che non trovi un eco in tutte le valli dell’appennino. Tre volte nel breve spazio di cinquanta anni, la Francia è stata arbitra de' suoi destini, tre volte da sé. medesima si è foggiala le catene, mentre, se non vi fosse stato intervento straniero, l'Italia, forse, sarebbe libera da molto tempo. I gusti adunque, i costumi, i fotti la dimostrano] meno indifferente a' suoi mali, meno degradata che Francia; quindi maggiore probabilità di risorgere, accresciuta eziandio dal desiderio ardente, che sente ogni italiano, di conquistare la propria nazionalità, efficace movente di cui difettano t francesi, perché credono possederla.
Esaminate le forze che sospingono al moto, ci faremo a studiare quelle che resistono. La nobiltà, la borghesia, i preti, gli impiegati d’ogni genere, un forte e numeroso esercito, sono una base di granito, che in Francia sorregge ogni genere di despotismo; ma ove sono queste forze in Italia? La più famosa nobiltà italiana, la vera nobiltà feudale venne distrutta al sorgere de comuni; solo nell'Italia cistiberina durò ancora lungamente, ma fu in continua lotta col trono. Doma da Federigo, riprese vigore per l’avarizia degli Angioini: di nuovo perseguitata dagli Aragonesi, durante il regno del perfido Ferdinando d’Aragona, fece l’ultimo sforzo con la famosa congiura. Dieci Baroni de' più famosi lasciarono la vita sul palco, altri fuggirono, furono occupate le loro castella, disarmato il vassallaggio. I discendenti non ebbero più forza: e per tradizione,e pel continuo cangiare della dinastia regnante essi non furono mai gli amici del re; undici nobili di primo rango perirono nel novantanove come repubblicani; fra questi il formidabile campione della libertà, Ettore Carafa conte di Ruvo. In Piemonte la nobiltà non conta che i fasti di sua docile servitù, nobiltà di secondo rango, perocché i grandi feudatarii si estinsero successivamente, e sulle loro ruine s’innalzò il trono di Casa Savoia. I numerosi titolati, che brulicano ne’ varii Stati d’Italia, sono nobili nuovi, ovvero non nobili (né formano casta), i cui privilegi li lega per utile proprio al trono; sudditi, come il resto de' cittadini, sono regii se percepiscono stipendio, liberali in caso contrario. I veri nobili d’Italia sono i patrizii delle varie repubbliche, ed in primo luogo i veneziani, e cotesta nobiltà potrà essere municipale e non regia. La borghesia italiana, non solo non sostiene, ma odia i presenti governi, e se non è sollecita al muovere, non avversa i movimenti. I preti, non essendo salariati come in Francia, contano moltissimi liberali, ed anche soldati della libertà. Infine possiamo conchiudere che se togli dall’Italia gli stranieri, l’appoggio dei troni riducesi alla codarda schiera degli impiegati e de' poliziotti. Solo in Napoli ed in Piemonte havvi un esercito, ma esso non si è mostrato in certe circostanze, inaccessibile alla brama di libertà. Quindi la tirannide non si sostiene che in virtù di forze straniere; aggiungi, le tradizioni degl’italiani repubblicane tutte, quelle de' francesi regie, e potremo senza errore concludere che l’esercito conservativo, potentissimo in Francia, in Italia quasi non esiste.
La sola cosa, che in apparenza favorisce la Francia, è lo scorgere, che in essa le idee di riforma sociale sono più generalmente sentile, sono già sorrette sulla bandiera d’un partito. Ma questo partito non è reciso ne’ suoi concetti e nella sua propaganda; lo stesso Proudhon spera accordare futile del proprietario a quella della borghesia; tutti sono, nella pratica, dubbiosi e timidi.
I riformatori, che svolgono le dottrine, foggiano sistemi, altro non fanno che delineare la prima orditura, che stabilire de' principii; un numero ristrettissimo di persone s’inspirano ne’ loro volumi, e questi volumi possono dirsi un retaggio europeo. Ma nulla apprende il numeroso volgo, ché, eziandio le cose volte a migliorare la sua condizione e minorare la sua fatica non le accetta che stretto dall’estremo bisogno, e non si lascia convincere se non dal fatto. I giornali, i ragionamenti e le corrispondenze pubbliche o private, gli scopi obesi propongono le congiure, le persecuzioni, le vittime, gli avvenimenti, sono quella serie di argomenti per cui le astrazioni de' riformatori divennero concetti popolari. I discorsi di Proudhon all’assemblea, i suoi articoli sul giornale da esso redatto, le lezioni di Louis-Blanc al Lucemburga, le ma Rifai tur e nazionali, le barricate del Luglio, hanno formato la propaganda, la quale cominciò a trasfondere nelle masse il socialismo; il popolo forse non ha compreso il significato dell’ordinamento del lavoro, ma sa di essersi, battuto per esso, e quindi può non sembrargli strano il ritentare l’impresa.
I due dicembre ha spaventato ogni partito: tutti avrebbero desiderato far tregua alle contese onde abbattere il nemico comune; i socialisti tacquero ed hanno quasi perduto il terreno che avevano guadagnato. Le dicerie pubblicate dai rivoluzionarli francesi non sono vuote declamazioni. Non si scrutano i varii rapporti, non si dimostra al minuto popolo quale sarebbe l’avvenire, che, volendo, può conquistarsi: coloro sono formalisti e non altro. Tutti, si eccettui Proudhon, persistono nel grave errore di pretendere iniziare lo riforme dall’alto al basso, imporle al popolo, e non farle sorgere spontanee dal basso in alto; e siccome ogni caporale di partito credesi il solo atto a praticare le proprie idee, che egli crede le sole vere e giuste, tutti si fanno propugnatori della dittatura, perché ognuno la spera per sé, non per ambizione, ma pour faire le bien, dicono i francesi, per educare il popolo, dicono gli italiani; epperò, comecché il moderno socialismo fosse nato in Francia, non è la Francia più innanzi dell’Italia nella pratica di tali dottrine. Inoltre il compimento della sociale riforma deve in Francia superare ostacoli assai maggiori che in Italia, e perché il grande sviluppo dell’industrio, accumulando grandi capitali, ha creato potenti e numerose forze che resistono; e perché bisogna ridonare la vita al comune, spenta affatto dall’unità francese, mentre in Italia essa è latente, ma vigorosa e pronta a svilupparsi. Quindi non solo l’Italia ha in sé probabilità di molo maggiori che la Francia, ma fa soluzione del problema sociale è molto più facile ed omogenea all’Italia, che alla Francia.
Seguiamo ilconfronto fra le due nazioni, e cerchiamo discernere per quale delle due, ammesso il molo, è più facile il successo. Parigi è la sola città della Francia ove l’insorgere è possibile; ivi, egli è vero, sono raccolti grandi mezzi di resistenza, ma il popolo parigino è numeroso ed arrischiato, il vacillare delle soldatesche facilissimo in una sì grande città; quindi facile la vittoria, che menerà un partito al potere. La Francia pensa ed opera come Parigi: a Carlo X succede Luigi Filippo, a questi la repubblica, poi Cavaignac, Bonaparte, l’Impero… ed in tutti questi cangiamenti, solo di nomi, la Francia intera si rimane tranquilla. Cangiano i pubblici funzionari!, più per premiare i partigiani del nuovo potere, che per punire quelli del caduto, pronti sempre ad inchinarsi al vincitore, tanto è cieca la disciplina. Ubbidienza a chi comanda è la formola che regge la Francia intera; il re, il governo provvisorio, il presidente, l’imperatore… qualunque, infine, sia il nome del potere che siede sovrano a Parigi, esso disporrà arbitrariamente delle forze di tutta la nazione. Fra i moderni, i suoi ordini militari sono ottimi, le schiere istrutte e costumale a fatica, il francese per indole prode e facile all'esaltazione, le tradizioni militari brillanti e recenti, la fiducia nelle proprie forze grandissima, quindi egli è formidabile, rispettato. Dopo l’esempio del 95 nessuna potenza d’Europa attaccherà la Francia per sostenere un partito: anzi tutti gli stati crederanno di avere ottenuta una grande vittoria, se, dopo un rivolgimento, la Francia si rimane nelle sue frontiere. Per essa, adunque, il cangiar forma di governo è un fatto il quale con pochissimo rischio compiesi in pochi giorni. Ma quale è il vantaggio di tali rivolgimenti? sotto altre vesti, forse più luride, il despotismo è permanente.
La forza cade nelle mani di uomini che, parlando libertà, si sostituiscono al despota, ne calcano le orme, ne seguono il sistema, e fannosi scudo, contro i cittadini, di quell’esercito stesso, che pochi istanti prima riguardavano loro nemico. Inesperti nel trattare un tanto terribile strumento di tirannide, ne rivolgono contro loro medesimi le offese: un soldato o il discendente d’un soldato, legittimo possessore e vero rappresentante del diritto della forza, impone silenzio al loro importuno garrire, e col piatto della sciabola li caccia ignominiosamente di seggio. Quando dittatura vi è in un paese, questa non può essere che militare, e se tale non la crea la nazione, essa per la natura stessa delle cose tale diventa; sono vani gli ostacoli, i raggiri dei curiali per garantirsi. Di un tal genere di rivolgimenti, cioè ad una fazione sostituirne un'altra al potere, la Francia può compierne uno Tanno; all’Italia sono impossibili. Ci faremo a dimostrarlo.
Non già in una sola città italiana, ma in ognuna d'esse, perché piene di vita municipale, potrebbesi iniziare un movimento, ma con poca speranza di successo. L'Italia intera seguirà l’esempio, ma senza unità; gli uomini nelle cui mani, in ogni regione, verrà affidato il potere, non vorranno sottomettersi gli uni agli altri, ed ogni stato, forse ogni comune, spererà salvezza isolando la propria causa. Ma poniamo il caso, che gli italiani, resi dotti dalle passate vicende, affidassero ad un centro comune la somma delle cose; questo governo unico, a quanti bisogni deve provvedere, e prontamente provvedere? Insorgere e vincere le prime prove non basta agli italiani; essi debbono combattere una delle più formidabili potenze militari, che possiede in Italia una munita e forte base d’operazione, alla quale s’appoggia un numeroso esercito; quindi è forza che, ad onta del difetto di milizie e di armi, un esercito italiano sorga in un baleno numeroso e compatto. Cerne provvederà il governo?., ricorrerà al terrore? Coloro i quali credono, che un illusorio potere, concesso da pochi ad alcuni uomini, possa: far loro abilità di comandare d’un capo all’altro l'Italia, s’ingannano; essi conoscono l'Italia, come può conoscerla un francese o un inglese, i quali giudicano dai proprio l’altrui paese.
La formola ubbidienza a chi comanda, che ora regge la Francia, resse eziandio l’Italia, nel secolo passato e ne’ due precedenti; ma il concetto del risorgimento italiano, fatto sentimento, dal quattordici, cangiolla. Ilcostume che ora dalle Alpi al Lilibeo hanno i popoli italiani, è, sempre che lo possano, resistenza a chi comanda, né esso può cangiarsi in un istante. Il terrore produrrebbe l'immediata reazione, favorevole al nemico già accampato fra noi; le passioni in Italia non sono tiepide; In forza medesima di esse rese gli italiani padroni del mondo, e ne fa un popolo ch'è assai difficile governare. Ed ammessa l’ubbidienza, cosa valgono que’ battaglioni per forza raccolti? ne’ tumulti ardenti, sono codardi in ordinate battaglie. La Francia stessa, su cui il terrore ebbe grandissimo successo, non ebbe esercito prima dd 94; per cinque anni rimase esposta ai colpi nemici, fu salva non già per propria virtù, si per gli errori di quelli. Ma l’Italia non può sperare tale fortuna; appena qualche mese sarà concesso all’insurrezione italiana, per poi trasformarsi in esercito.
Inutile, inefficace, ruinoso è il terrore in Italia. Quali mezzi rimangono, adunque, agli uomini eletti a governarla in si difficile emergenza? Uno solo: fare un fervido e continuato invito al paese, e proporre i mezzi come provvedere a tutto; dico proporre, imperocché, non potendo abusare della forza, i comandi non si ridurrebbero che a semplici proposte, il cui risultamento dipenderà dalla volontà del paese, epperò dalle cagioni, che determineranno questa volontà.
L’odio ai presenti governi, bastante ad insorgere, trionfata l’insurrezione, s’ammorza; quindi bisogna suscitare una passione, onde bilanciare i rischi e gli stenti della guerra. Il desiderio di libertà, d’indipendenza, l’amor della patria, hanno forza grandissima nei cuori di quella balda ed intelligente gioventù, che è sempre prima ad affrontare i pericoli delle battaglie, ma essi soli non bastano; f Italia trionferà quando il contadino cangerà volontariamente la marra col fucile; ora, per lui, onore e patria sono parole che non hanno alcun significato; qualunque sia il risultamento della guerra, la servitù e la miseria lo aspettano. Chi può, senza mentire a sé medesimo, affermare, che le sorti del contadino e del minuto popolo, verificandosi i concetti de' presenti rivoluzionari, subiranno tal cangiamento da meritare le pene ed i sacrifizii necessarii a vincere? Il socialismo, o se vogliasi usare altra parola, una completa riforma degli ordini sociali, è l’unico mezzo, die, mostrando a coloro che soffrono un avvenire migliore da conquistarsi, li sospingerà alla battaglia. Quindi, le difficoltà che presenta la guerra del nostro risorgimento, i numerosi nemici, l’indole italiana assai difficile a governare, la vita municipale prima a manifestarsi nelle rivoluzioni, il costume, ornai reso seconda natura, di resistere a chi comanda… costituiscono il fato della nazione; inesorabilmente le è segnato il destino. Schiavitù o socialismo; altra alternativa non v’è.
Poniamo ora il caso che in un rivolgimento il popolo italiano vegga la possibilità di migliorare il suo avvenire, ed animato da una passione forte e popolare, che unifichi e determini la sua volontà e la sua azione, corra volenteroso incontro al nemico; e facciamoci a ricercare, seguendo il paragone con la Francia, se i suoi mezzi materiali sieno tali da vincere.
La Francia, avanti la rivoluzione, contava 250 mila uomini, dei quali 10 mila erano milizie dorale della corte, sparite con essa; 77 mila erano battaglioni provinciali; 20 a 28 mila stranieri; quindi i soldati regolari nazionali si riducevano a 150 mila. In Italia, ammessa una rivoluzione universalmente sentita, che ne raccolga le forze sotto la stessa bandiera, non manca certamente un tal numero di soldati. Aggiungi che li abusi, dopo quell’epoca riformati, hanno reso gli eserciti più mobili e più compatti, e 150 mila uomini in oggi valgono assai più che 150 mila uomini in allora, e la superiorità di ordini e d’istruzione, che avevano gli eserciti alemanni sul francese, nel caso nostro non esiste, perocché gli eserciti stanziali, all'epoca presente, si pareggiano in Europa. Le schiere francesi rimasero quasi dissolte pel numero rilevante d’ufficiali che seguirono le sorti dei re; in Italia, per contro, probabilmente non se ne avrebbe che alcuno. Quindi le nostre forze materiali, possiamo dirlo, sono per numero ed ordinamenti superiori a quelle che possedevano i francesi al cominciare della rivoluzione.
Negare agli italiani il primato nelle armi, è negare la storia, che perciò siamo venuti rammemorando nel primo saggio. La nostra temperie fornita di una quantità sufficiente, ma non eccedente, di sangue igneo, accoppia il sangue all'ingegno, qualità che spesse volte si escludono; l’italiano discerne il pericolo, studia il proprio vantaggio, ed opera. Se noi siamo degeneri dagli antichi, lo sono del pari gli altri popoli d’Europa; quindi il vantaggio che deriva dall'indole nostra, dono della natura, rimane il medesimo. Ma il valore individuale non ci viene negalo, tutti sono convinti che un italiano valga assai più, o almeno quanto un francese. Ci faremo a discorrere del valore delle soldatesche.
Un contadino che difende il suo tugurio con coraggio da leone, un brigante che combatte valorosamente la sbirraglia, può, fallo soldato, mostrarsi codardo, perché non vede la ragione, non sente la necessità di arrischiare la propria vita; e qualunque sia la severità della disciplina, le pene da cui viene minacciato non controbilanciano mai i perigli immediati della battaglia. La disciplina, bastante a rendere il russo e l’inglese ottimo soldato, non basta, con diverse gradazioni, all’italiano, al greco, allo spagnuolo, al francese eziandio; questi popoli debbono combattere sotto il pungolo d’una passione che li esalti; questi popoli hanno troppo discernimento per sacrificarsi come ciechi strumenti dell’altrui volontà. I Suliotti di eroico valore fra le loro montagne, arrotati dalla corte di Napoli come soldati, non corrisposero alla fama che era corsa di loro; al 99 l'esercito napoletano fugge, ed il popolo napoletano combatte strenuamente il nemico in ogni vallata; Capua difesa da un esercito, e la fortissima Gaeta, non indugiano la marcia dello straniero, che vede in periglio la sua facile vittoria innanzi alla città di Napoli, aperta e priva di ogni genere di milizia. Non appena in Francia cessò il feudalismo, ed ai guerrieri feudali, guerrieri eroici, successero le regie milizie, i francesi perdettero il primato nelle armi, i lanzi e gli svizzeri vennero a loro preferiti. Fate paragone tra le gesta dei francesi durante la guerra dei sette anni e quelle durante la guerra della rivoluzione, e scorgerete quanta differenza passi fra le milizie regie e le repubblicane; quelle strumento d’un despota, queste animate da una forte passione. Paragonate le battaglie di Rosbach e Jemappes, la prima combattuta dal fiore delle regie milizie, l'altra da inesperti volontari! tumultuariamente accozzali. Paragonale il soldato italiano a Pastrengo e lo stesso soldato a Novara, e scorgete ad evidenza come il convincimento e l’esaltazione siano per tutti i popoli di svegliato ingegno moventi assai più efficaci, che la disciplina ed il terrore. In virtù del loro discernimento cotesti popoli, e particolarmente gl’italiani, combattono da eroi in lontane regioni, e mollemente, se manca l’esaltazione, nel proprio paese. Nel primo caso essi veggono nella disfalla la loro ruina, nel secondo un pretesto per tornarsene a casa. Solamente dopo una lunga carriera sui campi di battaglia ed una serie non interrotta di vittorie possono formarsi quelle schiere di veterani, che amano la guerra per la guerra, che tutto il loro utile riassumono nell’utile della vittoria, come erano le schiere napoleoniche; ma senza la rivoluzione, e per essa dieci anni di prospera guerra, non sarebbero esistile né quelle schiere, né Napoleone, né le vittorie di cui la Francia incoronasi degnamente. Adunque, la cagione medesima, la nostra temperie, che assicuraci il primato in guerra, è stata quella per cui i moderni eserciti italiani fecero cattiva prova; gli italiani discernono troppo il periglio, per incontrarlo in forza di una virtù negativa, l’ubbidienza. Questa virtù è efficacissima pei popoli del nord, che, dotati di una grande abbondanza di sangue caldo, sono stupidi e coraggiosi, atti ad essere menali come massa inerte contro il cannone, ma, per contro, incapaci di quegli sforzi che richiede la virtù ardita e libera allorché inspirasi nelle grandi passioni. In tali sforzi gli italiani non hanno pari che i greci; seguono con maggiore impeto, ma minor costanza, i francesi.
Un esercito regio d’italiani guerreggiando per conto di una dinastia e per cagioni che non comprende, sarà il peggiore degli eserciti europei; se poi combatterà per una causa sentita e popolare, sarà invincibile. Senza una passione universalmente sentita, gli italiani non potranno combattere con valore; se poi la passione e l’esaltazione esisteranno, le nostre schiere saranno tanto superiori a quelle degli altri popoli, per quanto lo furono i romani, i quali non vissero sotto clima diverso dal presente, né ebbero un maggiore numero d’organi sensorii, né temperie diversa da noi. Essi nella guerra vedevano un utile che noi non veggiamo; questa differenza, e nulla più, passa tra noi e loro.
La popolazione dell’Italia, oggigiorno, è quanto quella della Francia nell’89, mentre l’estensione della nostra frontiera è poco più del terzo di quella. La Francia mise in armi 800 mila uomini, ma questi ripartiti in quattordici eserciti (così richiedeva la ragion di guerra) non poterono in alcun punto ottenere sul nemico una significante preponderanza di forze; gli eserciti a' confini di Spagna, d’Italia, del Belgio, della Germania non potevano certamente operare con un comune disegno, ed ognuno d’essi rimase abbandonato alle proprie forze. La posizione degli italiani è molto migliore; difesi essi dalla cerchia delle Alpi, il nemico è costretto a raccogliere le sue forze in paese sterile e dirupato, mentre gli italiani si trovano nella valle del Po, regione ubertosa, ove popolose e ricche città, numerose strade, un maestoso fiume, forniscono, trasmettono facilmente le vettovaglie. Gli attacchi che le diverse potenze potrebbero intraprendere sui varii punti della frontiera, non possono riuscire simultanei, perché non sono prevedibili tutti gli ostacoli, che, attraverso i monti possono indugiare la marcia d’un esercito. Impossibile riescirebbe loro il darsi un vicendevole soccorso, perché l’asprezza del terreno noi comporta, ed ogni attacco, non solo rimarrebbe isolato, ma, sboccando dalle valli, non potrebbe che presentare delle teste di colonna agli italiani, i quali possono facilmente far massa contro il più vicino de' nemici; di modo che, i francesi con 800 mila uomini si difesero contro tutta l’Europa, né poterono sempre pareggiare in numero il nemico, sui diversi campi di battaglia, mentre agli italiani basterebbero 250 mila uomini, per conservare in ogni scontro la loro superiorità. I nemici della Francia, finalmente, ebbero uno scopo alle loro operazioni, Parigi; i nemici d’Italia non ne avrebbero alcuno; l’importanza delle varie capitali sparirebbe con la rivoluzione; né potrebbesi questa, ad onta degli sforzi che farebbero gli stolti, attribuire ad una sola fra esse, sia anche Roma, perché l’indole nazionale noltollera; quindi il nemico sarebbe costretto vincere in ogni vallata, in ogni borgo; troverebbe tante capitali innanzi a sé, quanti sono i punti strategici del nostro suolo.
Facendoci a riassumere il detto conchiuderemo che le tendenze e le probabilità di moto sono in Italia maggiori che in Francia, e minori le forze resistenti; che, quantunque i moderni socialisti siano francesi, la propaganda pratica di quelle idee non è in Francia più avanzata che in Italia. Nondimeno i vantaggi che esse promettono sono tali, che, se un rivolgimento ne permetterà la benché minima applicazione, esse diverranno in un tratto popolarissime in Italia come in Francia. Ammesso il moto prodotto da cagione universalmente sentita, abbiamo discorso del numero e valore delle soldatesche, delle frontiere, della guerra che dovremmo sostenere, e che la Francia sostenne, ed il vantaggio, evidentemente, è dalla nostra parte. Possa questo confronto rilevare gli animi, generare la fiducia in noi stessi, che è forza confessarlo, manca; imperciocché gli italiani hanno il torto di confondere le imprese dei nostri tirannelli con quelle della nazione. Perché essi non s’ispirano in quelle gesta, che l’Italia tutta unita compì? in esse, la cui memoria dura da tanti secoli e durerà lontana, avranno In giusta misura delle nostre forze, né ci sarà luogo a scoraggiamento.
Le nazioni, durante le medesime fasi di loro vita, sono sempre le stesse; credi tu, o lettore, che siamo in decadenza? non leggere oltre, non perdere il tempo, caccia le mani nella corruzione che ti circonda, usa ogni mezzo per arricchirti e godere della vita, inchinati ai tiranni, basta che ti assicurino i materiali godimenti, e se poi credi che possiamo risorgere, devi assolutamente credere che saremo grandi come furono i nostri progenitori; se nolcredi ti compatisco, il tuo animo poco gagliardo non regge alle impressioni delle conseguenze estreme, tentenni nel mezzo, e sei fra la turba di coloro che visser senza biasmo e senza lode; sarai poco Utile alla patria ed increscioso a se stesso.
Inoltre, il nostro ragionamento farà risaltare sempre più la stranezza di alcuni italiani di pregievole ingegno, di ottimo cuore, i quali credono fermamente adoperarsi per lo bene della patria, col tessere una continuala apologia di Francia, mostrandocela quale astro, che dovrà dar norma e rischiarare il nostro avvenire. E perché abbiamo qualche chilometro di meno di strade a rotaie e di telegrafi elettrici, perché l’aristocrazia bancaria non è così potente come in Francia, perché il monopolio, tra noi, non ha raggiunto l'apogeo, perché in Francia si pubblica qualche migliaio di più di bugiardi volumi, n’inferiscono che l’Italia non regge al confronto di quella nazione. I loro scritti, eziandio nel cuore dei,più imparziali non possono che suscitare un certo disgusto; pure considerando ogni libro che si pubblica come espressione di un sentimento nazionale, e lasciando all’intolleranza religiosa e regia la ripartizione fra libri buoni e libri cattivi, noi ci siamo dati alla ricerca. delle cagioni, che possono suscitare simili dottrine. L’apparenza degli eventi trasse fuori del loro proposito cotesti scrittori. Eglino, onde scrivere come rivoluzionarii italiani, sonosi dati a fare profondo studio sulle cose e sulle idee di Francia, che, al momento, avevano vita più rigogliosa, e tutti invasi di quelle idee si son fatti a ricercarle in Italia; cercavano Francia, ad essi notissima, han trovato Italia, che poco conoscevano; e, come se le nazioni durante la loro vita dovessero calcare le medesime orme, han dichiaralo Italia in ritardo. Intanto la loro posizione, dovendo scrivere d’Italia con idee francesi, era falsa, e la conclusione non poteva essere che una: l'Italia non è Francia. Allora colorirono diversamente il loro disegno, resero francese l'Europa, ed in questo quadro generale, in un posto affatto secondario, quasi totalmente in ombra, si scorge l’Italia in lontananza. Ma chi parte da falsi principii deve essere condotto naturalmente a false conseguenze. Infrancesato il globo intero, ne derivava la supremazia francese, e l’avvenire da essi pronosticalo sarebbe, come dice V. Hugo, il mondo francese; e quindi la rivoluzione, la rigenerazione umanitaria risultando d’un carattere speciale, e non già umanitario, veniva da essi, che se nc dicono i propugnatori, rinnegata affatto.
E tratti ancora innanzi da' loro ragionamenti additano la Francia come nostra protettrice, come fonte di ogni nostro futuro bene, e predicano la fratellanza con essa; assurdo manifesto. Avvegnaché tra il protettore ed il protetto, il maestro ed il discepolo, il difensore cd il difeso, fratellanza non può esservi mai, ma dipendenza. Senza che essi se ne accorgano, i loro ragionamenti pronosticano che un giorno Parigi sarà la nuova Roma, e come ora la Francia china il capo ai vitelli sublimati da compri pretoriani, nel felicissimo avvenire al quale ci avviciniamo, tutta l’Europa farà lo stesso. Se questo è il progresso auguriamoci il regresso, e regresso prontissimo.
Non si affretta né si propugna la rivoluzione con dottrine che la distruggono, od almeno la travisano, e sgagliardiscono l’animo; l’unità mondiale vi sarà, ma non già come pretendono costoro, distruggendo le nazionalità, incorporandosi insieme, o assorbite dalla preponderanza di una fra esse. Come un individuo associandosi co’ suoi simili viene abilitato ad uno sviluppo maggiore delle proprie facoltà, del pari, nell’associazione universale, ogni nazione, lungi dal perdere la sua individualità e l’indole propria, troverà campo più vasto a svilupparla; e nel modo stesso elio una nazione non sarà libera, in tutto il significalo della parola libertà, se ogni suo individuo non sente fiducia nelle proprie forze, dignità ed uguaglianza assoluta col resto dei cittadini, cosi l’associazione universale non potrà aver luogo se prima ogni nazione non si costituisca strettamente ne’ proprii caratteri, e non ei sia fra tutte che un’uguaglianza universalmente sentila. Quindi, perché si attui la nostra fratellanza con la Francia, bisogno combatterla e vincerla, o almeno è indispensabile, che in parità di circostanze e di forze, sul medesimo campo di battaglia, contro un nemico comune, meritassimo la palma in una nobile gara di gloriose gesta.
XIV. Se per numerare i partiti in Italia ci facessimo con microscopica diligenza a discuterne le minime gradazioni, e volessimo tener conto di una turba di persone che affannose brulicano intorno ai troni, l’impresa riuscirebbe faticosa ed ingrata. Cotestoro non sono che individui, le cui opinioni mutano al mutare degli eventi; ora veggono il re di Sardegna cacciare d'Italia stranieri, principi, papa ed incoronarsi re d’Italia, ora promettono corone ed assicurano successi in virtù d’un credito che mai ebbero o più non hanno; oppure distribuiscono l'Italia ai varii principi d'una dinastia, e cangiano il pensiero italiano in servitù per una schiatta principesca, e vorrebbero richiamare a vita antichi regni, coi loro baroni, i loro pari, i loro prelati, e tutta la pompa del feudalismo. Altri — e sono i più obbietti — cercano un re oltre Alpi invocando l’appoggio d'un avventuriero e degli assassini di Roma. Sono tra questi certi dottrinarii, paghi di esprimere moderatamente i loro pensieri, badando, come essi medesimi dicono, che la scienza non esca dalla sua innocenza, ovvero si riduca ad una pura perdita di tempo; vi sono banchieri e commercianti le cui faccende prosperano, quindi temono qualunque rivolgimento, che nc ristagni il corso. Ma questi non sono partiti, neppur sette, sono individui, ripeto, esuli i più, a' quali l’esilio, sorgente per la maggior parte di miserie e dolori, fruttò loro onori, considerazioni, lucri che mai non ottennero nel proprio paese. Rispettando in questa numerosa schiera i pochissimi illusi perché non vogliono darsi la pena di pensare, e perché natura li creò d'animo poco gagliardo, spregiamo la generalità; né ci faremo a rimescolare un talfango, le nostre riflessioni si rivolgeranno su coloro che meritano il nomedi partito.
I regii bramano la guerra europea; e leggendo come Casa Savoia, barcheggiando fra Austria e Francia, abbia ingrandito i suoi Stati, sperano che si possa porre ad effetto la cacciata dello straniero, e costituire un forte regno boreale arbitro de' destini italiani. Il principio loro è quello sviluppalo dal Balbo, tendere all’unità col successivo ingrandimento de' varii Stati italiani. Noi riteniamo e l’abbiamo dimostrato, che questo successivo ingrandimento è di ostacolo all'unità; che uno Stato italiano non darà mai norma agli altri, ma accrescerà in quelli l’occulto potere ed il credito degli stranieri. Abbiamo emessa distesamente la nostra opinione riguardo al significato che diamo alla parola nazionalità, epperò non possiamo riscontrare la nazionalità italiana negli abitanti della vallata del Po, retti secondo i capricci di un principe; ed in ultimo, insegnandoci la storia con severissima lezione, che le guerre regie combattute in Italia sono sempre state scaturigine di miserie ed umiliazione, rispettiamo una tale opinione, ma la logica ed il cuore si ricusano a dichiararla italiana.
L’altro partito che raccoglie sotto la sua bandiera la più ardita e generosa gioventù, è il repubblicano. Assennati da' passati disastri non hanno fede alcuna ne’ principi; il risorgimento d’Italia, la cacciata dello straniero, la sperano dalle proprie forze, da una rivoluzione.
Si distacca alquanto da questi un numero limitatissimo d’individui che si dicono federalisti. Per li unitarii lo scopo principale è la nazionalità, pei federalisti la libertà; quelli escludono qualunque intrusione straniera, questi accetterebbero la libertà dalla Francia, quasiché la libertà potesse riceversi in dono; e così federalisti ed unitarii, per soverchia esclusività ne’ lóro sistemi errano, non potendo esistere, come nei precedenti capitoli abbiamo dimostrato, nazionalità senza libertà, né questa senza quella. I federalisti hanno più chiari e recisi concetti politici, sono repubblicani di principii; gli unitarii sentono più fortemente la dignità nazionale, ma non sono repubblicani che di forme. Quindi repubblicani unitarii, federalisti e regii sono i tre partiti che si riscontrano in Italia; ma i due ultimi aspettano l’impulso altronde, e sono ben rari fra loro gli uomini d’azione, i più sono dottrinarii; i primi invece vanno fastosi di una schiera nobilissima di martiri, e contano quaranta anni di vita operosissima. Inoltre tanto i regii, come abbiamo detto, quanto i federalisti, appartengono quasi tutti all’Italia boreale o alla Sicilia, gli ani contenti di un regno, gli altri di una cisalpina; mentre gli unitari abbracciano nelle loro mire l'intera Penisola dalle Alpi al Lilibeo; epperò se non vogliasi disconoscere il vero, i soli che abbiano un carattere reciso di partito italiano sono i repubblicani unitaria Gli avversari accusano questo partito di debolezza e discordia, che corre dietro una chimera. Ma è forza riconoscere che sono i soli i quali si adoperino a dar corpo a cotesta chimera, senza attendere che la manna piombi dal cielo.
Dal detto possiamo conchiudere che, quantunque l’energia arricchisca l’Italia di tanti diversi concetti per quanti uomini pensanti essa conta il che dal volgo è tolto quale disgrazia), fatto studio sulle diverse opinioni, tre soli partiti abbiamo visto nettamente definirsi, de' quali due si limitano a sperare, uno solo è operoso. Senza che, fra queste tre parti, che in apparenza sembrano escludersi, havvi eziandio un punto di contratto; l’odio agli stranieri; sentimento ad ogni altro prevalente, in un cuore italiano. E fatta eccezione di alcuni servili, o salariati, o baroni, che ambiscono essere senatori, o strisciare nelle anticamere de' re, il partilo regio in Italia ha un carattere affatto diverso da quello che hanno i realisti d’oltralpe. Non è simpatia per la monarchia, o per una schiatta, ovvero, come dicono i francesi, dévouement, che li leghi al trono, ma è il bisogno che essi sentono d’un appoggio, per la poca fiducia che hanno ne’ rivolgimenti popoleschi. Del pari, le opinioni de' repubblicani, meno pochi, accostatisi assai più al dubbio, ovvero acl un’oscura ed incerta percezione di rapporti, che all'evidenza. Sono repubblicani perché convinti che i principi non vogliono né possono volere l’unità e l’indipendenza italiana; ma regii e repubblicani saranno tutti con quelle insegne, che prime muoveranno arditamente e LEALMENTEcontro li stranieri. Il modo adunque per discernere quale partito è il più forte, non è, in Italia, quello di numerarlo; l’azione indubitatamente farà sparire i partili, li raccoglierà sotto la medesima bandiera; ma invece bisogna studiare quale abbia maggior probabilità d’iniziativa, quale, pei principii che propugna, potrà superare più facilmente i tanti ostacoli che si presentano.
Nel ragionare della nazionalità abbiamo visto come lo stato presente d'Europa, le quistioni che vi si agitano, l’energia italiana, le tradizioni municipali, le difficoltà dell’impresa, non rendano possibile il risorgimento italiano, che da una rivoluzione radicale e sentita; epperò l’utile delle masse, come un torrente, che trarrà seco alla battaglia gli italiani d’ogni opinione.
Seguiamo ora ii successivo sviluppo di queste opinioni in tutte le diverse loro fasi, facciamo studio sugli insegnamenti del passato, onde scorgere ove la forza delle cose, ovvero il fatto della nazione ci condurrà.
XV. Allorché una forza prepotente opprime un rivolgimento qualunque, nel cuore de' vinti, privati de' loro beni, sorge a rattemprare i mali una fervida speranza della riscossa, che lo scorrere degli anni, in luogo di rafforzare, scema e dilegua. Imperocché essendo allora il disquilibrio dell’utile e delle affezioni private grandissimo, la natura umana creasi su puntello, la speranza volge tutta la sua operosità alla cosa pubblica, che, in que' fugacissimi momenti, riassume eziandio l’utile privato, mentre in seguito, l’imperiosa necessità li separa di nuovo, e l’abitudine scemando i mali ammorza il desiderio della riscossa.
Queste naturali ed universali disposizioni, cessata la repubblica romana, trovarono in Mazzini chi diede loro forma ed azione. Cosi surse l’Associazione Nazionale, poi il Comitato Nazionale, la cui importanza basta a farli entrare nel dominio storico, e meritevoli di riflessione. Epperò, innanzi tutto, ci renderemo. esatto conto, e sottoporremo a severa critica le dottrine che professa il Mazzini, inspiratore di tali fatti e degli avvenimenti che ne emersero.
Giuseppe Mazzini è una indole nobilissima. I suoi piaceri, i suoi godimenti si riassumono nel farsi strumento del risorgimento italiano; sospingere gli italiani alla conquista della loro patria fu il primo forte pensiero che balenò nella sua mente giovanile, poi la stella polare della sua vita, e sarà l’ultimo suo voto.
Se ragiona assistilo dalla verità, ha logica potentissima; il suo discorso è colorito e convincente; ma se qualche pregiudizio lo trae fuori di strada, allora declama, ripetesi sovente, quasiché delle idee fisse, de' punti di fede, angustiassero il suo grande ingegno in picciolissimo giro.
Facile all'amicizia, generoso, inaccessibile all’odio, e cor suoi nemici personali magnanimo.
La sua temperie non è robusta, ed a ninno meglio che a lui converrebbero gli agi della vita: nondimeno meno più di lui li sprezza; per esso la vita materiale non esiste.
Dorante la sua laboriosa e tribolata carriera, esposto alle ingiurie ed alle persecuzioni degli nomini e de' governi, essendo privo d’appoggio in sulla terra, ha inteso il bisogno di rivolgersi al cielo, ha ricorso alla religione, e perciò ne' suoi concetti politici avvi un poco del misticismo. La religione l’ha fatto propendere un poco verso il principio d’autorità; quindi le accuse mosse contro di lui, ora di assumere un tuono dittatoriale, ora profetico, mentre la sua indole lo rende capace della più pacata discussione e della più ampia tolleranza. Quindi i suoi difetti, i suoi errori prendono tutti origine da' suoi sentimenti religiosi; se Mazzini fosse irreligioso sarebbe l'ideale del cittadino. Su lui il mondo esteriore non ha potenza di sorte alcuna; mutano i tempi, cadono e sorgono troni, ognuno in questi mutamenti cerca fortuna, o salvarsi dalla caduta, egli invece costante ne’ suoi principii, marcia attraverso le rovine, come attraverso le ricchezze, verso il fine proposto. Il sentimento interno ha sempre la prevalenza sulle impressioni esteriori. Parlerò delle sue dottrine, esporrò più diffusamente quello di cui tante volle parlammo insieme.
Il fato di una nazione Mazzini nolcerca ne’ rapporti sociali ed internazionali d’onde scaturiscono le guerre, le conquiste, le rivoluzioni, ma abbandona la terra, e lo cerca nel cielo. La legge, dice egli, è un’emanazione di Dio, che impone di vivere nel vero, nel reale, nel giusto. Cotesto dovere non è, secondo lui, verso noi medesimi, ma verso l'umanità. Quindi la vita una missione a compiere, un continuo sacrifizio, che necessariamente deve aspettarsi un premio o una pena; altrimenti non avrebbe scopo. Ma ove conducono questi principii?
Questo dovere, questa missione, questo sacrifizio, secondo Mazzini, oggigiorno sono disconosciuti. Dal che risulta un fatto che gli è forza ammettere: il despotismo, forza mondana e materiale ha soffocato un’idea, una tendenza celeste, che Dio avrebbe dovuto infondere in tutti i cuori.
Per compiere la rivoluzione bisogna adoperare ogni sforzo onde far rivivere questo sentimento, questo germe divino, che trovasi in ogni cuore. Ma se la rivoluzione avvenisse quando esso sarà risorto, avverrebbe precisamente quando più non sarebbe necessaria, giacché se ognuno, trascurando sé medesimo, s’interessasse non d’altro che del bene pubblico, allora ad onta de' despoti e degli stranieri, la nazione, pare, dovrebbe essere felicissima; senza che, despoti e stranieri, uomini anch'essi, e perciò soggetti alla potenza di tale legge diverrebbero nostri padri affettuosi, nostri fratelli; e gli austriaci, volontariamente, senza bruttarsi le mani dissanguo, andrebbero a compiere, ne’ loro paesi, la missione della vita. — Tutta questa dottrina, altro non è che la sognata fratellanza del Vangelo. — Mazzini sfugge questa conseguenza; il despotismo, egli dice, impedisce che questa legge si trasfonda nell’umanità (cosi poco curasi Dio di propagare le sue leggi); solo pochissimi eleni, i migliori per senno e per virtù, hanno il privilegio di comprenderla, e nel tempo stesso il dovere di rovesciare gli ostacoli materiali, e fare agevole ai molli il riconoscere ove si (rovi il vero.
Suppongasi che alla voce, all'Impulso di pochi, ludi rispondessero, e la patria fosse conquistata: cosa ne seguirebbe? Il passato avendoci insegnalo quanto sia facile corrompere gli animi e cancellare da essi la percezione del vero e del giusto, bisogna che, in avvenire, s'adoperi ogni mezzo onde evitare, impedire ogni trista tendenza. D'onde emerge per necessità il governo de' migliori, de' padri della patria, che terranno le anime sotto la loro tutela, che diranno al cittadino: tu hai un'anima immortale, una missione da compiere, un vincolo con quanto ha vita, un dovere verso tutti, un diritto all’amore ed all’aiuto di lutti. Chiunque affermasse che l'anima non è immortale; che non abbiamo missione da compiere, ma un istinto, che si sospinge continuamente verso il nostro meglio; che, verso altrui, non abbiamo né doveri né diritti, ma vincoli di libera associazione che il nostro personale vantaggio determina, sarebbe un cretino, meriterebbe l'ostracismo, ed infamati dovrebbero essere i nomi di Beccaria, di Filangeri, di Romagnosi.
Conseguente a tali principii, Mazzini attribuisce i. mali, sotto cui ora geme la Francia, al cattivo apostolato: e perciò l'apostolato non potrà esser libero, ma bisogna in ogni modo adoperarsi onde l'anima non venga illaqueata da' sofismi de' materialisti; — indice adunque de' libri proibiti, censura, financo il rogo, per gli ostinati, se fa bisogno; eterno, inesorabile assurdo in cui cadono coloro, i quali riconoscono come una necessità imporre de' limiti alla libertà.
I libri e le azioni, ripetiamolo, che risultano dalla lettura di essi, altro non sono che la manifestazione della vita sociale, ne sono i pensieri e le opere. La tirannide che cerca interdire codesta manifestazione onde sostituirsi in sua vece, è naturale che la tema. Ma riconoscere il diritto e la sovranità della volontà nazionale, e declamare contro i cattivi libri è un grossolano errore; un popolo libero che volesse limitare la stampa, sarebbe come un individuo che per limitare i propri pensieri, le proprie azioni, mutilasse il. suo essere.
L'imperatore delle Russie Alessandro 1 dichiarò esservi al disopra di lui il principio della giustizia, ma chi proclamava questo principio? egli medesimo; chi n'erano i custodi? i suoi satelliti. Ogni epoca annovera il suo giusto ed il suo vero; di quali, fra' tanti, parla Mazsini? Riconoscere doveri è, né può negarsi, ammettere il diritto di limitare la libertà, e questo principio, più o meno largamente applicato, è quello su cui si fondano i moderni governi d’Europa. Voi siete liberi, vi dice la monarchia costituzionale, (in tanto che la vostra libertà non eccede i limiti dell’equo e del giusto; il fisco è incaricato di additarvi cotesti limiti.
Chiunque mi dirà: devi compiere il dovere di conquistarti la patria, assume su di me un tuono di superiorità e di comando; io noi patisco, e rispondo: chi sci tu che il dici? — Dio lo vuole — Ed io: dimostrami prima che esiste Dio, e poi dammi le prove che tu sei l’interprete della sua volontà, altrimenti, se puoi costringermi con la forza, non sei che un tiranno; nel caso contrario non posso che compatirti. Per contro, ogni individuo può farsi il propugnatore dei diritti universali senza arrogarsi autorità, e senza intaccare la libertà di alcuno. L’uomo nasce libero ed indipendente, dunque ha diritto all'esistenza, diritto di sviluppare ed utilizzare le proprie facoltà, diritto al pieno godimento del frutte de' suoi lavori.... ecco delle verità, che non hanno bisogno d'essere interpretate e svolte da' migliori per tenno e per virtù; chiunque le propugna, sia egli l’ultimo o il primo per senno, sia egli cultore della virtù o del vizio, esse non perderanno mai la loro evidenza, non cesseranno mai di essere verità. Costui potrà aggiungere: «la tirannide che sostiene i privilegi è quella che vi rapisce questi diritti; abbattiamola!» — ed ognuno senza fare alto di ubbidienza, potrà afferrare un fucile e seguirlo.
La società non impone doveri, ma li crea, promettendo solamente guarentigia de' diritti d'ognuno; il che limita di fattoi diritti altrui. La dissoluzione della società conducendo per conseguenza immediata alla perdita di questi diritti, ne emerge, senza aver bisogno apostolato o di educazione, l’impegno, la volontà d’adoperarsi con ogni possa onde difendere questa società. Ma se questi diritti si riducono a quelli del proletario, morir di fame, od essere tratto in prigione, allora la sola forza, favorita dall’ignoranza, potrà indurre cotesti iloti a difendere quel sistema e quelle istituzioni che li opprimono.
Questi diritti sono quelli che mantengono l’equilibrio sociale, senza vi sia bisogno di governo; ma non appena questi diritti vengono lesi nella benché minima parte, il governo diventa indispensabile, perché sostegno d’usurpazioni e privilegi, non di leggi eterne e naturali, che si reggono da sé.
Tanti fratelli messi sotto la tutela de migliori, è la società dallo nazione sognata da Mazzini, ovvero la nazione del cristianesimo.
Quale teoria ha un sì lungo apostolato, come l’evangelica, ed in quale epoca si è mai verificalo il sogno della fratellanza? I selvaggi in mortali duelli si disputano il vitto e la donna, si sbranano l’un l’altro; in essi è la. natura che parla in tutta la. sua purezza, e secondo i religiosi è Dio che manifesta le sue leggi. Le famiglie combattono fra loro. Dall’unione delle famiglie, prodotta dal bisogno di difesa, sorgono le città, le nazioni, che si conquidono, si distruggono, si fanno serve, quasi senza veruna regione sufficiente, il più sovente pel capriccio di un despota. Un soldato, per uno scarso guadagno, si dà al mestiere di uccisore d’uomini che non conosce, e con cui non ha astio veruno, anzi ha spesso vincoli di parentela, e di amicizia. Il forte cerca sempre di opprimere il debole: l’astuto profitta dell’altrui semplicità; il dotto dell'altrui ignoranza. Non havvi fortuna che non si elevi sulle altrui ruine. Fratelli contro fratelli, figli contro padre si armano, disputandosi il possesso di ricchezze che hanno usurpato ai povero. Un mercante vedrebbe ad occhio asciutto cadere a migliaia i suoi simili, piuttosto che ribassare il prezzo di una sua merce. Insomma, il mondo tempre in possesso de' più forti e de' più attuti è la storia dell’umanità. Finalmente, i primi cristiani, i più fanatici adoratori di Cristo, discutevano nella Tebaide di fratellanza e mansuetudine a colpi di pietre e di bastone. E più tardi gli ortodossi cattolici ponevano ad effetto il dogma della fratellanza con ardere vivo chi non voleva dirsi loro fratello. L’uomo, ben lungi dal propendere a dividere il suo con altri, mai sempre scontento di quel che ha, desidera ciò ch’altri possiede; da ciò l’infaticabile operosità. Il coraggio, in qualunque epoca fin qualunque nazione, dall’uomo timido come dal valoroso, nell’assassino o nell’eroe, è sempre ammirato; da ciò le ardite imprese. Sono queste le due propensioni, che donno norma alla vita dell'uomo, e sono in contraddizione manifesta col dogma della fratellanza.
Un uomo, in passando, scorge un moribondo per fame, oggetto che produce in lui, in ragione della delicatezza di sua fibra, una sensazione dolorosa; a sfuggirla, soccorre l’infelice. Il domani, esaurito il magro soccorso, quegli muore per fame, e questi che non è più sotto l’impressione dolorosa del giorno innanzi, neppur pensandovi, banchetta lietamente. Un solo fatto, argomento validissimo contro l’istinto della beneficenza, ètolto dai propugnatori di essa dallo stesso Rousseau come una dimostrazione favorevole, tanto scarsi sono gli argomenti che rincalzano la loro asserzione.
Ai Romani cd ai Greci non venne mai in mente di dirsi fratelli e ne ammiriamo, stupefatti l’amor di patria, gli atti generosi, il continuo prevalere dell’utile pubblico al privato: laddove il mondo cristiano, che si disse un mondo di fratelli, presentaci il miserando spettacolo d’una solitudine di voleri e di mire, scaturigine d'ignobili fazioni e guerre civili atrocissime. Egli è adunque ben meraviglioso il pretendere rigenerare il mondo, predicando la fraternità, che dopo diciotto secoli di apostolato è rimasta infruttuosa. L’indole umana, le sue propensioni, i suoi istinti sono inesorabilmente invariabili, e sono le forze di coi il sistema sociale deve valersi per produrre la pubblica felicità, la quale sarà necessariamente nulla, se coteste forze si combattono e si elidono perché applicate in opposta direzione, e massime se tutte cospireranno al medesimo scopo. Quindi non è l’uomo che deve educarsi, ma sono i rapporti sociali che debbono cangiare affatto, e ciò basterà per trasformare un popolo di egoisti e dissoluti in un popolo d’eroi; amor di patria vi sarà quando l’utile privato verrà indissolubilmente legato coll’utile pubblico, quando ognuno adoperandosi pel proprio bene, farà eziandio il bene dell'universale. Consolantissima verità, che sostituisce al lento, impossibile, assurdo sistema di educazione, quello prontissimo della rivoluzione, e che in luogo di escludere, come irriducibili, un numero considerevole d’individui, e restringere gli eletti a pochissimi, allarga in vasto campo la nostra coscienza, ed abbraccia senza eccezione di sorta l'universalitàde' cittadini; il traditore, l'assassino, il ladra... tutti potranno diventare utili al paese allorché saranno sparite le cagioni del delinquere e l’utile che dal delitto traevano. Il fine è l’unità d’interesse, la fratellanza; il mezzo, la riforma completa degli ordini sociali operata eoa la forza.
Inoltre, sarà sempre un enigma inesplicabile, come alcuni trovano nelle pagine del Vangelo l’inno delle battaglie; come il vangelo, oveè scritto: obedite principibus etiam discolis, [«Et beatus Petrus consentanea, ut pote eodem spiritu, scripsit dicens: Dominis carnalibus obedite, non tantum bonis et modestis, sed etiam discolis» passo di S. Pietro - NdR] racchiuda massime favorevoli alla libertà. Gli stranieri, i satelliti del dispotismo sono nostri fratelli, bisogna convincerli, non già ammazzarli! quale orrore!I versare il sangue fraterno!.... Ma questa èl’estrema contraddizione del mondo cristiano. I fiorentini dichiarando Cristo patrono della città ed armandosi contro il principe d’Orango, mentivano a loro medesimi: lungi da voi que’ micidiali brandi, calpestate i fregi dei vostri cimieri, inginocchiatevi e pregale, umiliatevi dinanzi al vostro nemico! il vostro regno è nel cielo, tanto più splendido quanto più umiliati in terra! ecco la dottrina di Cristo. Su, combattete innalzando il vessillo della croce! voi non siete che degli ipocriti o degli stolidi, che non sanno quel che si fanno. Un valoroso polacco, durante la rivoluzione di Polonia, fece scrivere sul vessillo della sua legione: tutti gli uominisono fratelli; e questa legione fu il terrore de' fratelli russi. E bene, metterò de' guanti, rispose un soldato francese il due dicembre od un popolano, che dicevagli di non bruttarsi le mani di sangue fraterno; sarcasmo meritato alla stupida ed ipocrita proposta. Allorché il popolo insorge, i soldati potrebbero fargli il medesimo rimprovero; nulla giustifica il fratricidio; è a Dio, secondo la vostra dottrina, il punire i colpevoli. Ma la digressione sulla fratellanza è già lunga e nojosa; — riprendiamo il filo delle idee, e continuiamo il ragionamento sul Comitato Nazionale.
Tutti coloro che speravano il risorgimento per mezzo delle forze della nazione, e non altrimenti, applaudirono unanimemente all’instituzione del Comitato Nazionale. Tutti rivolsero lo sguardo a questo nuovo faro; tutti fidavano nella candida fama degli uomini che lo componevano, guarentigia solenne della rettitudine di loro intenzioni. Il comitato non ebbe in suo potere alcun mezzo per farsi riconoscere, anzi v’era la minaccia di prigionia e l’esilio contro chiunque facessegli adesione. E nondimeno le adesioni furono numerosissime; prova incontrastabile di sua legittimità. Si confortarono le speranze, e generale era l'aspettativa. Il comitato esordì col prestito nazionale, e comeché il risultamento non abbia corrisposto alle speranze, fu un atto logico e necessario. Sarebbe stato follia sperare di più; ottenere denaro è cosa più difficile che ottenere combattenti; ed in simile circostanza tratta vasi di sborsarli correndo risebj gravissimi. La fama ne’ membri del comitato prestavasi egregiamente ad ogni operazione finanziaria, come quella superiore ad ogni villano attacco, che si potesse. muovere in materia d’interesse. Egli è cosa indispensabile per determinare quale avrebbe dovuto essere la condotta del comitato nazionale, fi rendersi conto esatto dello, stato in cui trovavasi il popolo italiano alla caduta di Roma. E poiché gli individui giudicar non si possono dallo vita monotona ed abituale a cui le circostanze li costringono, ma bensì da certi rarissimi momenti ne’ quali tutta e liberamente manifestano la forza della loro tempra, così i popoli non dalle leggi, noti dai costumi, non dall’inerzia, in cui oppressi trascorrono molti anni prima di manifestare la nuova vita, ma dai tumulti, dai martiri, dai grandi misfatti, dai tratti d’eroismo, si giudicano. Epperò senza troppo distenderci, e sorvolando sugli avvenimenti, prenderemo le mosse alquanto da lungi.
Le sollevazioni di Masaniello, dì Balilla, degli Straccioni... avevano, come dicemmo, annunziato un nuovo popolo italiano sulla scena politica del mondo, il popolo moderno. A Cosenza si concepiscono i primi forti e liberi pensieri, che poi Bruno, Campanella e Vico svolsero. Ma questi rapidi slanci furono ben tosto repressi, diè le armi straniere arrestarono Fazione nel popolo, ed i gesuiti spensero ogni scintilla di libertà che manifestatasi nel pensiero. L’Italia palpitò, ma i suoi palpiti furono repressi dalla barbara Europa, e l’Italia ritornata cadavere, tale si fu sino all'ottantanove. Poco prima della rivoluzione francese i monarchi, non ancora atterriti dallo spettro della rivoluzione, scossero tanto torpore. Tanucci, Leopoldo, l’imperatore, si diedero a migliorare la condizione dei popoli, e sursero scrittori che d’un balzo superarono gli oltremontani, ma il ruggito del popolo fecesi sentire, e lo riforme ristagnarono di botto. I principi ripresero le armi antiche; la tirannide, avendo a maestra la paura, mostrossi più atroce che mai.
La guerra tenne dietro alla rivoluzione; i principi italiani essendosi adoperati a tutto potere a spegnere ne popoli ogni sentimento nazionale, non poterono opporre al nemico che schiere di servi vestiti da soldati, che vennero sbaragliati al primo urto dei liberi irlandesi. Vinti, atterriti, si videro costretti ad invocare quella passione medesima, che prima avevano combattuto; i loro editti poco differiscono da quelli de' rivoluzionari moderni, ed il popolo rispose al generoso invito a Domodossola, a Pavia, a Lugo, a Verona, a Napoli, in Calabria. Gli stranieri cadevano sotto il brando italiano; tutte le valli dell’Alpi furono intronate dal fragor delle armi.
Approfondiamo un istante la nostra riflessione, e vedremo una riproduzione de' fatti del mille. In quell'epoca il Papa scosse il popolo dal letargo, lo eccitò ad essere italiano, e l’oppose all’imperatore. Il popolo, che per legge di natura fa sempre precedere i fatti al pensiero, senza riflettere, combatté lo straniero; nel modo stesso adoperò nel 96. Al mille sursero in Italia due partiti: guelfi o ghibellini. Questi, che avevano privilegi da conservare e difendere dall’avidità della teocrazia, parteggiarono per l’imperatore; quelli, che non avevano nulla da conservare, lo combattevano per' ché straniero. Similmente nel 96 i pensatori, gli amanti di libertà, erano coi francesi, considerandoli quai difensori di essa; il popolo» invece, che altro non vedeva in essi che invasori, osteggiavali. Al mille appena i popoli cominciarono ad avvertire dò che avevano solamente mieto, combatterono nobili e prelati, vollero governarsi da sé, e, dopo mezzo secolo, al cominciare dcll’undicesimo, il popolo era risorto. Dal 96 in avanti noi scorgeremo nel popolo italiano un continuo progresso, e lo stesso cangiamento, la stessa unificazione di partiti avvenuta nel mille.
Nel 1803 e ne’ quattro anni seguenti, l’agitazione contro gli stranieri manifestassi in diversi luoghi d'Italia, nel Polesine, nel basso Po, nelle Calabrie, a Parma, nel Tirolo; e questa volta il partita liberale, che sostiene gli stranieri, più non esiste, e ne sono partigiani non altri che gli impiegati. In tale epoca, gradatamente, la controrivoluzione comincia ad assumere i caratteri di rivoluzione; nel 14 la trasformazione è completa. Il popolo cominciava a comprendere il bene della libertà ed apprezzava le pretese dei liberali; questi, d’altra parte, s’erano convinti che i francesi con pompose e mendaci parole non portavano che tirannide,. e si erano ravvicinati ai popolo. Murat e Beauharnais venivano assaliti dagli italiani al nome di libertà. Gli inglesi, fondatori del dispotismo e della schiavitù d’Italia, per acquistare le simpatie dei popoli della Penisola, sbarcando a Livorno, scrivevano sulle loro bandiere, libertà ed indipendenza italiana. Al 44 gli sforzi degli italiani cominciarono ad avere unità, e la storia del nostro risorgimento comincia colla lotta continua fra la Giovine Italia, e l’Italia ufficiale; come quella che ebbe luogo dal 4036 all’undicesimo, fra i comuni, ed i feudatari ed ecclesiastici. I popoli ne’ loro risorgimenti seguono le stesse evoluzioni. Ugo Foscolo, prima che Bonaparte distruggesse Venezia, giura odio agli stranieri. Poi, rivolgendo un mesto sguardo all’Italia, e scorgendola priva di forze e di sentimento, dispera, ed accetta l’invasione come una crudele necessità; quindi la combatte con la parola, cospira contro di essa, e vorrebbe trarne profitto per la sua patria. La sua vita, le sue opere, le sue speranze, riassumono la vita, le opere, le speranze del popolo italiano dal 96 al 44, di cui Ugo Foscolo è la personificazione.
Qui cade in acconcio una digressione (cogliamone il destro) per combattere gli infrancesati, e distruggere il turpe vezzo d’idoleggiare gli stranieri, ed esaltarli in nostro paragone non solo, ma dichiararli nostri benefattori. Dalle continue irruzioni che han fatto i francesi in Italia, sino dall’epoca di Carlo VIII, traggono alcuni argomento a dimostrare la loro influenza; e, trascinati dall’amor di un sistema, veggono sempre in Italia partiti, che, secondo le varie epoche si agitano in favore o contro cotesti stranieri; una tale asserzione è assurda. La storia, durante tre secoli di guerra, ci mostra l’Italia cadavere; essa non era rappresentata. che da varie corti codarde e dissolute; in Malta non v’erano che individui; popolo e partili più non esistevano. All'epoca della rivoluzione francese s’iniziò il nostro risorgimento, non già perché di Francia si trasfondessero in noi idee di libertà, leggi, istituzioni, come alcuni asseriscono; coteste intrusioni non furono che dannose. Ilregno di Napoli, ove furono maggiori, quali vantaggi ne trasse?
Nessuno. Perdette invece le franchigie municipali di cui sempre aveva goduto. Il fragore di quella rivoluzione servì a risvegliarci dal nostro letargo, e non altro; fu lo scroscio di fulmine del Vico. I francesi altro non furono in Italia che predoni e tiranni. Gli uomini che governarono l’Italia durante l’occupazione francese furono quali il Foscolo li definisce: antichi schiavi, novelli tiranni La regia autorità era in essi senza il coraggio e senza il genio d’esercitarla; vili cogli audaci, audaci coi vili francesi in quell’epoca ci disarmarono perché temevano di noi; quindi ci dissero codardi, perché, cosi disarmati, gli italiani non combatterono i loro nemici.
Ripetiamo, senza mai credere d’averlo detto abbastanza, quale è la vantata superiorità della Francia su noi? forse perche havvi fra essa più vasta erudizione? No, unuomo potrà essere eruditissimo, dottissimo, non perciò essere grande, esser uomo modello. La vita della Francia, dal risorgimento alla rivoluzione dell'ottantanove, altro non è che un continuo strisciare dietro lo splendore, le dissolutezze di una corte. Nell’ottantanove una fazione la sospinse sul sentiero della gloria e della grandezza; ma il popolo stesso la rovesciò, e volle farsi sgabello a nuovo trono. Al 1830, padrona un’altra volta delle proprie sorti, fu suo primo pensiero crearsi un padrone. Nel quarantotto per la terza volta, nel torno brevissimo di mezzo secolo, la Francia è l’arbitra de' suoi destini. Quali sono le sue gesta? conserva nella sua costituzione tutto l’ordito d’un governo assoluto, ed affida il supremo maestrato ad un ambizioso e goffo pretendente, e suo primo pensiero è quello di assassinare l’Italia. Finalmente l’esercito, dopo poche ore di strage, proclama l’Impero; e la Francia applaude, la Francia affida i suoi figli ed i suoi tesori con codarda rassegnazione al più ridicolo regime, al più incapace fra gli usurpati governi. Non è nostro proposito ragionare dell'erudizione francese; a noi basta avere dimostrato che non abbiamo bisogno di cercare oltremente le leggi magistrali della natura, in Italia proclamate prima che altrove. Ma concediamo sotto tale riguardo qualsiasi superiorità alla Francia. Essa rappresenterà un dotto, la cui dottrina è al servigio del successo, de' fatti compiuti, e di chi meglio paga. Il dottrinario che trovasi bene in tutte le epoche e sotto qualunque reggimento, e smaltisce con guadagno la propria dottrina, è precisamente la personificazione della Francia. L’Italia invece è un colosso, cinto da catene, circondato d’armati pronti a soffocare in lui ogni palpito di vita; se il gigante svincola uno de' suoi membri, sbaraglia gli oppressori; ma immediatamente tutta l’Europa corregli addosso per opprimerlo. Facciamo fine alla digressione, che i gallomani hanno provocata, e rispettiamo tutti i popoli, ma senza ammettere, né popoli modelli, né popoli arbitri delle sorti d’Europa. Il carattere con cui si annunzia la futura rivoluzione, noi comporta. La prima nazione che senza curarsi dell’avvenire abbatterà tutto l’ordine sociale che l’opprime, estirpando fin l’ultime sue barbe, sarà la lesta di colonna dell’umanità, e questo popolo potrà essere l’italiano, come il greco, come il francese, come il tedesco; e questo popolo non sarà il più dotto, ma il meno degradato, e quello che maggiormente sente l’oppressione attuale.
Le sanguinose e tristi esperienze che gli italiani fecero dal 96 al 14 racchiudono importanti e gravissimi ammaestramenti. I liberali sperarono nei francesi, e n’ebbero invece disarmo, taglie di guerra e schiavitù; sperarono nella ristaurazione, ma mancando l’Austria alle promesse, le loro condizioni peggiorarono. Gli stranieri ci chiamano codardi se, fidando in loro, ci sottomettiamo al loro giogo; ribelli se insurgiamo. Quindi da essi non bisogna sperare che disprezzo o martirio: combatterli e vincerli è la sola risorsa che ci resta.
Dopo questi fatali disinganni, l’Italia comincia a vivere nelle società segrete che tutte vanno ad incorporarsi in quella famosissima de' carbonari, che dal 19 al 21 fu oltre ogni credere potente.
Al 20 il movimento si manifesta nel regno di Napoli, in vaste pròt porzioni, poi in Piemonte venne oppresso dalle bajonette straniere.
Le file de' settarj, quantunque decimate dalla paurosa tirannide, conservarono ordini e forza. I Capozzoli generosi, che dal 20, più tosto che inchinarsi alla ferocia del governo, battevano la campagna, si fecero iniziatori di una sommossa, che, non secondata e quasi preveduta e desiderata dal governo, fu soffocata nel sangue di numerosi cittadini e sotto le ruine di Bosco. Nel 51 Ciro Menotti muore da eroe a Modena; Bologna sollevasi. Tutti gli occhi si rivolgono alla Francia, essa proclama il non intervento; nuova menzogna per tradire i popoli. Gli italiani ebbero la stoltezza di credervi, ed osservarono il patto. I bolognesi non soccorsero perciò i modenesi, e non accolsero Zucchi, incalzalo da forze straniere, che disarmato.
Gli austriaci, ad onta de francesi, intervennero; più tardi intervennero eziandio i francesi in ajuto dei primi, e, secondo il loro costume, intervennero mascherandosi con bugiarde proteste.
Questi fatti furono nuovi ammaestramenti. Le società segrete sono mezzi poco efficaci. Esse, avvolte nel mistero, tolgono a modello il dispotismo come questo ad un cenno muove i suoi battaglioni, aggregato di armati uniti per disciplina e per utile, e materialmente concentrati, così quelle vorrebbero disporre de’ loro ascritti, separati non solo materialmente, ma eziandio dalle circostanze e dall’utile di ognuno. Vane speranze: sono sempre pochi che muovono; la nazione rimane indifferente spettatrice. Se qualche volta trionfano, allora hanno nel loro seno il germe della dissoluzione; la gerarchia della setta, e le sue esigenze si sostituiscono al governo, in cui prevalgono le cupe e torte abitudini de' cospiratori. Il cospiratore viene costretto a simulare, e la simulazione al governo trasformasi in moderazione e diplomatici raggiri; il cospiratore è avvezzo ad infiltrare gradatamente le sue idee, quasi mascherandole; mentre coloro, che sono chiamati a reggere una rivoluzione, debbono apertamente proclamarne i principj, e dai primi istanti affermare le ultime conseguenze; imperocché ivi solo si riscontra l’utile che può convincere le moltitudini. La Giovine Italia surse come conseguenza di tali ammaestramenti. Non fida più ne’ governi stranieri ma ne’ popoli; non più nelle società segrete, ma nelle masse popolari; ad esse, e non a capi, vuole affidare il risultamento della rivoluzione. Respinge perciò ogni idea di dittatura, e sminuzza il popolo in bande. Mazzini, non tace, non asconde i suoi principj, come i carbonari: Mazzini, da rivoluzionario, tuona, e fa nolo all’Europa dei popoli le miserie degli italiani, i loro diritti, le loro speranze. Le cospirazioni cangiano carattere; i vendicatori del popolo, gli amici del popolo non hanno il mistero e le discipline dei carbonari; sono più adattati all’epoca, ma più esposti agli attacchi de' governi. La cospirazione del 55 è soffocata al nascere; la spedizione di Savoja, come doveva, abortì. Nel 41 l’Aquila e la Civita di Penne rimangono isolate. Nel 43 il movimento doveva essere vasto, non iscoppiò; i Bandiera, se non estranei alla cospirazione, lo erano almeno per quella regione, ove sbarcarono; e ne furono le vittime. Attraverso a tali esperienze, e sacrificando numerosi e nobili martiri, l’Italia compiva la sua propaganda; di falli non di parole. Dietro i fatti sempre tardi, sempre incerti, sorgono gli scrittori. I primi scrittori cominciarono per rinnegare le nostre tradizioni: Mario Pagano aveva già dimostrato come arti, scienze, industria, tutto emerga dalia vita politica dei popoli. Romagnosi aveva raccolto tutto le scibile umano nella filosofia civile, la scienza del cittadino; ed essi invece, si dissero letterati, e si dichiararono estranei alla politica. Voi siete, diceva loro Mazzini, prosatori, verseggiatori, pedanti, non mai cittadini». Epperò con Mazzini e Guerrazzi comincia la letteratura italiana ad assumere un nuovo carattere. Ma i loro scritti in Italia sono soppressi sul nascere, e la voce d'Italia non può sentirsi, che fuori d’Italia. Allora gli scrittori, per ottenere. il favore alle loro dottrine, si rivolsero ai principi, sperando eziandio di aver un nuovo e saldo appoggio alle loro speranze. Eglino riassumevano le passate esperienze, dichiarando nostri nemici gli stranieri, impotenti le cospirazioni: d’onde le dottrine di Gioberti, di Balbo, e l’Italia deve far da sè, uniamoci tutti popoli e principi; eziandio i gesuiti, scriveva il Balbo.
I rivolgimenti del 48 ebbero precisamente questo carattere; tutto il popolo che si agita, i prìncipi sono travolti nel turbine, ed al termine di questa nuova fase succede una disfatta; ed un nuovo ammaestramento. Popolo e prìncipi hanno mire opposte: quindi diffidenza, dubbia fede, spergiuro, incapacità ne’ capi; e, dopo tanti sforzi, il popolo altro non guadagnò che persecuzioni ed efferata tirannide.
A Roma, a Venezia, il popolo combatte solo, quasi svincolato dalle pastoie domestiche; ivi combattesi con tutta l’anima; gregarj e capi non vogliono che la vittoria; hanno unità di mire, unita d’interessi; la disfatta è egualmente ruinosa per tutti; non vi sono cagioni estranee alla causa italiana, che distornino ed ammorzino l’impeto de' combattenti; non v’è nulla da conservare. Nondimeno Roma e Venezia cadono, e perché? perché angustiarono i loro sguardi fra le mura di una città: si combatté per Roma e per Venezia, non già per l’Italia. Come in Ugo Foscolo si personifica la vita del popolo italiano dal 96 al 14, in Mazzini si personifica la stessa vita sino al 48. Mazzini esordì per essere Carbonaro; poi osteggiò questa setta; fondò la Giovine Italia. Vinto in ogni tentativo nel 48, egli, repubblicano, fu costretto, come tutti i repubblicani, a rassegnarsi all’opinione universale. A Roma fu troppo romano.
In questi quarantanni di storia rinviensi l’avvenire d’Italia. E se ogni italiano appuntasse il suo intelletto sulle gloriose pagine di un tale libro, troverebbe in esso la soluzione di ogni dubbio che adombra la sua mente. Dalla vita de' nostri martiri, dalla narrazione di tutti gli sforzi fatti dagli Italiani, scaturisce un corpo di dottrine, donde dovrebbero prendere le mosse i ragionamenti, e trarsi le conchiusioni, che i dottrinanti, con poco senno e poco decoro, cercano altronde. In questo periodo di nostra storia, Mazzini, che vi occupa un posto glorioso, avrebbe dovuto trarre le norme per la condotta a tenersi dal Comitato nazionale, ivi scritto a caratteri indelebili: gli stranieri ed i principi nostri nemici; le sette impotenti; il municipalismo ruinoso; non eravi che un altro passo a farlo, ed egli lo avrebbe potuto, studiando sui passati avvenimenti, senza lasciarsi deviare da ciò che detestava presso gli oltremontani.
La prima esaltazione rivoluzionaria creò que’ battaglioni, che valorosamente difesero la romana repubblica. Quella ammorzata, quantunque tutti applaudissero al governo repubblicano, esso non trovava soldati. Il volgo in un tale fatto, altro non iseorge che un mal volere, una ripugnanza alla milizia, mentre esso emerge da più lontane fonti, da più importanti cagioni. È la quistione economica, che sotto varj aspetti padroneggia l’Europa, e reclama la sua supremazia. Il popolo non ottenne dalla repubblica vantaggi tali da impugnare le armi a sua difesa; in esso prevaleva l'odio al passato più che l’amore al presente. Mazzini, oltre a ciò, avrebbe dovuto ridursi alla memoria la lettera che Sismondi scriveva alla Giovine Italia: «Finalmente la stessa libertà, scriveva l'insigne pubblicista, offre il più tremendo di tutti i problemi, quello della protezione del povero e dell'ignorante.... affiderete voi la causa del proletario agli uomini che ne dividono le privazioni? Essi non hanno forza. L'affiderete quindi ai ricchi? Essi saranno i primi a tradire il popolo». — Di questo problema Mazzini avrebbe dovuto fare il cardine principale de' suoi sforzi, della sua propaganda: avrebbe dovuto svolgerlo, ventilarlo. L’adesione di molti sarebbe per ciò mancata al Comitato; ma le sue file in luogo di diradarsi, sarebbero andate sempre ingrossandosi dell’immensa moltitudine che soffre, e che sola combatte.
Mazzini avrebbe dovuto essere quale fu allorché iniziava la Giovine Italia: combattere i governi, le selle, ogni specie di dittatura; richiedere tutto alle masse popolari, ed aggiungervi una franca propaganda de' diritti del povero, una guerra accanita alle usurpazioni del ricco. Ma egli non ha presentilo allora la morte della borghesia, la supremazia della plebe; si diresse alla prima, questa gli è venuta meno di fallo; ed egli che credevasi isolato, ha visto sorgere spontanea la plebe e sostituirsi a quella.
Il mandato del Comitato nazionale era rivoluzionario; quindi era suo principale carattere quello di escluderete guerra regia,guerra antirivoluzionaria, e già dichiarata dagli avvenimenti del 48 e 4! impotente e volta solo a spegnere l’esaltazione nazionale. Il Comitato nazionale sorgeva per sostituirsi a quel trono, verso cui fugacemente s’erano rivolte le speranze d’Italia; accordarsi con esso era rinnegare te propria legittimità; era assurdo, era ridicolo. Il governo Sardo, quando voglia operare, non ha mestieri dell’adesione d’un comitato di esuli residenti a Londra. E se gli Italiani vogliono seguire le sorti del Piemonte, non dimanderanno certamente, per tarlo, l’adesione del comitato; e non volendolo, quell’adesione valeva poco. Il comitato, in luogo di farsi un organo, pel cui mezzo te pubblica opinione poteva manifestarsi ed operare, pretese darle forma e carattere; se ne credette l’arbitro, e parlava come un governo costituito, che offriva patti al governo sabaudo. Un tale errore fu di breve durata; il comitato, dopo poco tempo, si disdisse.
Unificare le volontà, sgomberando i dubbi, avrebbe dovuto essere l’opera principale del comitato; era seconda quella di ajutare con mezzi materiali l’azione ovunque spontaneamente sorgesse. Il primo lavoro avrebbe dovuto esser quello di distruggere l’antico errore. La rivoluzione non era, e forse non è compresa nel suo vero senso. Il prestigio di un nome superava quello delle idee; ed il nome di Mazzini aveva tanta autorità, da aggiungere grandissima forza alla verità per se medesima polente. «Italiani, avrebbe dovuto esclamare — in Roma io e tutti coloro che mi circondarono, non fummo rivoluzionarj, non fummo all’altezza delle circostanze, e per legge fatale noi potevamo essere; l’Italia doveva subire l’esperienza del 41. Noi avremmo dovuto con un decreto rovesciare l’antico edifizio, proclamare i diritti che ad ogni uomo le leggi di natura accordano. Lasciare ai cittadini libera lascelta de' magistrati, all’esercito lascelta dei generali e degli ufficiali d’ogni grado: chiamare tutta te nazione alle armi, bandire la guerra, intraprenderla con audacia; cosi operando, se il popolo secondavaci, l’Italia era salva; nel caso contrario, saremmo eziandio caduti, ma con te coscienza di aver fatto il proprio dovere. Noi invece calcammo le orme de' passati governi aggrediti, abbiamo resistito, ecco il nostro merito. Facciamo studio su questi errori, per non incorrervi nell'avvenire». Ben lungi dell'esserne oscurata, sarebbesi accresciuta immensamente lafama di Mazzini. Invece te repubblica romana venne dichiarala repubblica modello.
Mazzini, se erra, conserva sempre la coscienza la più pura, e le intenzioni le più rette. Egli non tradisce mai i suoi principi; sono i suoi principi. Qualche volta tradiscono lui. Egli propende a credere che gli individui non rappresentino le nazioni, ma che le nazioni seguano l'impulso de' pochi; e cotesto è gravissimo errore Mi spiego più chiaramente: L’individuo non potendo avere idee, che non siano state generate in lui dalla impressione che riceve dal mondo esteriore, non può mai svelare verità, il cui germe non si trovi già abbastanza sviluppato nella società. La fama immediata è retaggio di colui che afferra il concetto collettivo e lo svolge all'occhio dell’universale o di quello che, nel campo detrazione, non trae la nazione dietro di se (cosa impossibile), ma la regge in quel cammino, che la nazione medesima presceglie. La vanità dell'uomo lo induce a credersi creatore di quei concetti, che ha semplicemente svolto, inspiratore di quelle imprese, che, dall'universale volontà sospinto, produsse a fine; e mentre l'uomo così favorevolmente giudica sé stesso, ogni altro non trovando in sé o in altri tali concetti, conferma un tale giudizio, e di qui la personificazione de' principii, la deificazione degli uomini; mentre la società nell'onorare gli eroi, altro non fa che onorare le sue più eccelse opere; è un artista che ammira il proprio lavoro. Quando la fama di uno scrittore è universale, e finanche il volgo comprende le sue idee, esso sarà onoratissimo, produrrà alla patria beni in commensurabili; se poi questa fama restringesi nel picciol mondo di dotti, allora verrà dimenticato, non frutterà alcun bene, e tutto al più Io rammenteranno ed onoreranno i posteri. Eppure il secondo ha merito molto maggiore del primo. Questi ha schiusa la via ad un germe quasi impercettibile e diede un frutto tanto precoce che la società non vuol riconoscere come suo; quegli ha trovalo la pianta già rigogliosa e grande, ed il frutto già maturo; ha durato poca fatica a coglierlo. Secondo la teoria dei deificatori di uomini, se Romolo, Cesare, Carlo Magno, Napoleone... non fossero nati, l’umanità, non avrebbe storia. Così l’uomo per non riconoscere la potenza collettiva, cade nel puerile.
Gli eroi sono effetti, non causa degli avvenimenti sociali; i loro caratteri sono il complesso de' vizj, delle virtù, delle tendenze dell’epoca; la società può riconoscersi in essi, come un uomo nell’imagine che si restringe nel breve cerchio dello specchio di una picciolo lente. Un popolo che vi addita come suoi duci i Scipioni, gli Attila, i Cincinnati... è un popolo libero; la gloria e la grandezza della patria ne sono le passioni predominanti... Se, per contro, sono i Cesari che primeggiano, potete inferirne che la nazione inchinasi allo splendore guerresco ed alla forza; se volontariamente lasciasi reggere da uomini inetti e corrotti, la nazione declina. Facciamo fine alla digressione, per ritornare al Comitato.
Il concetto, non solo il finale, ma le prime linee dell’avvenire, mancavano all'Italia. Le questioni di unità e di federazione pendevano incerte, né sono ancora risolute. Per unità s’intende la francese; per federazione quella adottata nell’Elvezia o nell’America. L’opinione prevalente senza dubbio è l'unitaria; ma i fatti danno ragione ai federalisti; nei passati rivolgimenti fu impossibile tradurre in atto il concetto. Roma, Firenze, Genova, Venezia, Palermo furono libere; e ad onta;degli sforzi fatti dal partito unitario, non si unirono. Il modo come operare ne’ primi istanti d’un’insurrezione incertissimo; gli Italiani, vittoriosi in una città, non sanno, come governarsi, non sanno quale sia ii prossimo avvenire che li attende. Da ciòla deificazione de' nomi; «insorgiamo, concediamo al tale tutti i poteri, ed egli penserà al resto». Strana e ruinosa aberrazione è questa. Per essa si rinunzia alla libertà con tanti sagrifici acquistata; si ammorza l’esaltazione'; e noi che manchiamo di un prossimo e splendido passato, epperciò manchiamo d’uomini, fondiamo sugli uomini il nostro avvenire!!. Questi dubbii, questi errori, in luogo di venir attenuati con un esteso lavoro di propaganda; furono dai. Comitato nazionale confermali.
La propaganda rivoluzionariain Italia, pel numerodeinemici, per le varie divisioni politiche, per le sentite e numerose tradizionimunicipali, è lavoro difficilissimo, che solo la polente voce della nazione può compiere. E questa voce solenne viene espressa da ogni italiano, che paria, scrive, opera come meglio crede, in un campo libero e non già angustiato o dalle tiranniche esigenze dei governi e delle sette. Dalle discordi voci, dalle tante idee che si manifestano emerge il concetto collettivo, che notifica le tante volontà latenti sino all’istante detrazione, i fotti che si svolgono io manifestano. Tanto il federalista, quanto l’unitario che propugnano le loro dottrine, hanno eguale diritto alla gratitudine delta patria, perché entrambi, manifestando i pregi ed i difetti di due sistemi, rischiarano l’argomento, ed entrambi sono sotto l’ampio vessillo della rivoluzione, che il comitato avrebbe dovuto inalberare. Egli, elevandosi aldisopra di tutte le opinioni, avrebbe dovuto avere per missione il facilitare cotesta. propaganda, che sorge spontanea fra i cittadini, facendo abilità ad ogni scritto rivoluzionario senza prediligere una dottrina più tosto che un’altra, di circolare liberamente nell’interno, Il comitato non avrebbe dovuto credersi un governo, aggiunto a tanti che opprimono l’Italia, ma un mezzo di eludere la vigilanza di essi, e crollarne l'autorità, non crear ceppi, ma rompere gli esistenti; non chiedere silenzio, ma libertà di dire; non fare né dire, ma lasciar fare, lasciar dire; non governare ma rivoluzionare. Il Comitato volle imperare: la. sua formula fu tacete e fate: avrebbe dovuto essere; fate e dite come meglio credete.
Le città d’Italia, varie d’indole e di tradizione, e variamente oppresse, non possono astringersi ad un unico organamento, né da un sol centro dipendere, ma solo riceverne ajuto. Il popolo che in varie foggie vede sorgere i patiboli e cadere le vittime, è solo giudice del come i cittadini debbano tra loro intendersi, ed a quali uomini debbano fidarsi. Il comitato volle tutto accentrare nelle sue mani, e che tutti muovessero ad un suo cenno.
L’intolleranza nelle opinioni crebbe a tale, che il Comitato toscano escluse pubblicamente dalle sue file coloro i quali erano unitarj, dicendosi abbastanza forte, e mostrandosi quale fazione dominante in Italia; ingenua confessione della più assoluta mancanza d’idee pratiche.
Fu concetto di carbonari (ed allora era idea comunemente accetta) che liberata l’Italia, s’abbia a conservare, per un certo tempo, una dittatura educatrice. Ora le opinioni sono cangiate; non si fa guerra ai governanti ma al governo, al principio d’autorità; ed intanto Mazzini, il fondatore della Giovine Italia, che avea cosìbattuto la dittatura in quell'epoca, se ne fece al giorno d’oggi il propugnatore. Dittatura, dice il Mazzini, che preparerebbe l’educazione iniziatrice, con la stampa ordinata ad un fine; con l’associazione pubblica concentrata ad una sola bandiera, con l'esercizio delle facoltà elettorali sin dove i possibile ai militi. Ed è questo appunto il principio su cui fondasi il dispotismo; il quale. non dice voi dovete essere schiavi, ma ammette la necessità di ordinare e limitare la libertà. — Non anarchia, continua Mazzini, non tentativo di sovvertimentonelle condizioni sociali, predicazioni inconsiderate di sistemi stranieri, esclusivi, imperfetti, tiranni Quindi la censura, la persecuzione, io spionaggio per conoscere se alcuno secretamente si facesse l’apostolo: di tali sistemi, erano le conseguenze immediate di coteste massime. Egli è certo che scrivendo queste parole soggiacque ad un momento d’aberrazione. E chi sei tu, può rispondergli ogni italiano, che pretendi proibirmi di propugnare tali sistemi? D’onde traggi il convincimento che questa sia In volontà della nazione? se questi sistemi sono contrari al voto pubblico, essi saranno respinti;io, italiano quanto te, opinò, diversamente; e quale altro giudice se non l’universale volontà, ed il fatto, può decidere la nostra contesa? Tu dici, chela nazione in ceppi non può esprimere la sua volontà; ed ammesso questo» come puoi asserire che il tuo e non già il mio sia il concetto nazionale? E poniam caso che l’Italia risorga; che trascurando la sostanza delle cose ed attenendosi alla forma, ti conceda assoluti poteri, e col potere la forza, tu mi costringerai a tacere, ma non perciò avrai ragione, o ne avrai tanta, quanto ne ha Buonaparte contro i socialisti di Francia. È vano il dire, la nozione mi ha concessa la forza: tutti i tiranni possono dir altrettanto, allorché non reggono in virtù di «forze straniere. Furono francesi quelli che compirono il colpo di stato, francesi quelli che votarono; e se la Francia non volesse davvero» potrebbe reggere Bonaparte sul trono? Nel potere a te, o a chiunque altro concesso, io non vedrei, se questo potere restringe la mia libertà individuale, che il momentaneo trionfo d’una tirannica fazione. Come adunque decidere la questione? Se dal primo istante che in un angolo qualunque della terra italiana cesserà il presente stato di cose, avremo tutti prima libertà di dire» e nessuno la forza per porre altrui il bavaglio e la nazione accetterà le tue e non già le mie idee, allora io ti darò ragione. Ma finché tale prova non sia fatta, chiunque vorrà imporre una sua idea dicendo: cosi vuole il paese se ha forza materiale non èche un tiranno. La tirannide, la semi-tirannide, o qualsiasi specie di governo, esprimendo sempre la prepotenza di una parte più o meno numerosa della nazione, deve, per sua natura, temere la manifestazione dell’universale volontà; essendo dessa che l'osteggia e tende indefessa a sostituire la sovranità del tutto all’usurpazione della parte. Ma bandire la sovranità del popolo, e limitare la manifestazione del pensiero, èun chiedere la luce con favorire le tenebre. Le opere ed i pensieri di una società non possono mai minacciare l’esistenza di essa società, ma tendono sempre d’assettarla ne’ suoi incastri, e contrastano a tutto ciò che vuole spostamela, per mantenerla in un equilibrio che non gli è naturale.
Conchiudiamo. Al Comitato Nazionale è avvenuto quello che avviene ad ogni governo, cui non sia tronca affatto la possibilità di usurpar?. Per istinto invariabile dell’umana natura, gli uomini che lo compongono cercano farsi centro d’attrazione di quanto succede, e sempre, comecché spesso con rettissimi fini, pretendono che tutto pieghi alla loto volontà. Essi praticano e non dicono ciò che il XIV Luigi diceva e praticava: lo Stato son io. Il Comitato fece solitudine intorno a sé, allontanandosene tutti coloro, che non volevano abdicare alla ragione e credevano assurdo e ruinoso errore il rinunziare alla libertà per conquistarla.
La stampa che rappresentava il partito, in luogo di richiamarlo con severa critico sul diritto sentiero, sacro debito d’italiano, credette migliore tattica adularlo. Disconobbe cosi la proprio missione, e prese norma dagli scrittori ministeriali, i quali, in luogo di correggere, lodano a cielo gli alti del governo. I pochi utili atti che un governo o un centro qualunque può compiere portano scritta in fronte la loro apologia; sono innumerevoli i dannosi che la stampa dovrebbe energicamente attaccare. Ogni governo, ogni centro, a cui per necessità viene concesso un potere superiore a quello che per loro medesimi avrebbero gli individui che lo compongono, è un’ulcera che tende a spandersi sulla società; e bisogna che la pubblica opinione si adoperi ad arrestarne il progresso.
Intanto se, per aver visto gli Italiani uniti a rovesciare la monarchia, adottarne i principj, le forme e i costumi, bisognò conchiudere che la rivoluzione non era compresa; nella guisa stessa, scorgendo some il comitato cessò, perché successivamente gli vennero meno tutti gli appoggi, se ne deve inferire, che vi è stato progresso significante nelle idee. Conte il cristianesimo è sceso nel sepolcro coi panni da filosofo di cui l’hanno vestito Gioberti e Rosmini.... del pari il Comitato Nazionale (speriamolo almeno) èstatal’ultima prova dei principio monarchico, che, trasformandosi inmille forme, mascherandosi con varj nomi, si è spento con quello di comitato rivoluzionario.
Pongo fine. a questo capitolo consacrando a Mazzini le ultime parole. Ilo fatto lacere ogni simpatia personale, e com’era mio debito, l'ho severamente giudicato. Ora mi sarà caro il dire, che il suo nome, ad onta della mia censura, avrà sempre meritate le più splendide pagine nella nostra storia. Niuno, durante l'intera vita, ha operato con fini più retti; niuno ha rivolto con maggior costanza tutti i pensieri o tutte le opere ad un sol fine, cosi grandioso come è quella del risorgimento italiano. Una tale idea ha inspirato la sua giovinezza. e ne ha assorbito ogni affetto. Nella storiaantica e moderna non si riscontra un uomo, che abbia sacrificato tutto l’utile privato ad un utile pubblico sperato. Cotesto tipo, di cui tutti i pensieri e gli affetti si riassumono indefessi e costanti nell'amore alla patria, è frutto di terra italiana, è una gloria di più da aggiungersi alle tante che noi contiamo.
XVI. Cessato il Comitato italiano, gli Italiani ondeggiarono nelr l'incertezza. Era un sistema crollato, perché venuto meno il punto d'appoggio. Surse in alcuni l'idea di ricostituire un nuovo centro; fortuna che non si rinvennero uomini, che avessero raccolti i suffragi universali! altrimenti saremmo ricaduti nel fatale errore per cui tutte le rivoluzioni riescono infruttuose: cangiare gli uomini ritenendo i principii.
Il più grande amatore di libertà, non appena assume il potere, se non è uomo dappoco, vuole che tutto pieghi olla sua volontà; epperciò il nuovo centro, come il caduto, avrebbe personificato in sé medesimo la patria, dichiarando ambiziosi e corrotti coloro che si fossero opposti glie sue mire. Il comitato aveva fatto un gran bene; aveva incarnato il convincimento negli Italiani, di operare la loro salvezza dalla cospirazione e dalle proprie forze; aveva poi prodotto un gran male, quello di dare alle cospirazioni un carattere passivo, che, invece di operare da sé, aspettavano sempre e rimbeccata e gli ordini altronde. Per determinare il modo come governarsi in tale bisogna, è d'uopo esaminare come operino queste forze latenti che si nascondono nel seno di un popolo, e che in alcuni giorni fatali si manifestano terribili.
Le nazioni funzionano come l’individuo, che prima avverte appena, poi con turbamento, quindi riflette, in ultimo opera. Ma sovente il dolore troppo vivo precipita l’uomo dal turbamento all’azione, senza dargli campo a riflettere, mentre altre volte gli stimoli essendo leggieri, ne prolungano oltre il bisogno la riflessione. Nella guisa medesima; in una nazione ove godesi una certa libertà di pensiero ed ove i mali sono leggieri, si svolgono fra un importuno cicalio molte dottrine; per contro, ove forti sono i dolori ed interdetto il pensiero, i fotti abbondano e quasi sempre precedono le parole. Da ciò s’inferisce quanto sia assurdo il voler decidere se una nazione debba ragionare o combattere; egli è to stesso che pretendere di voler regolare secondo la propria volontà il moto degli elementi.
Le idee, i ragionamenti, le dottrine politico-sociali, non sono che lo studio dei mali che opprimono la società, e la ricerca dei modi come lenire questi mali. Secondo le circostanze e l'ingegno dell’autore più o meno inclinato all’astrazione, le dottrine si allontanano, o si avvicinano alla pratica. Vico; dai mali che opprimevano la sua patria, fu mosso a cercarvi un rimedio; e non potendo appigliarsi agli immediati e pratici, perché l’epoca glielo avrebbe interdetto, e la natura dei suo ingegno noi comportava, si elevò ad altissime regioni; e l’animo suo chetossi, trovando che una legge e non il caso reggeva i destini dell'umanità; legge ch’egli nominò provvidenza; e determinò così la periferia di quel circolo, su cui le nazioni dovevano compiere il loro giro. Mentre Vico rivela un fatto che riconosceranno sempre con maggiore evidenza le future generazioni, vi sarà altri d’animo rimesso e d’ingegno pedestre, che, stimolato dai medesimi moventi, dopo lunghi ragionamenti, chiederà il cangiamento d’un ministro o qualche insignificante concessione. Fra questi due estremi trovasi tutta la diversa gradazione degli scrittori. Or dunque scrittori le cui idee potranno giovare alla costituzione sociale non potranno esistere senza mali sociali. Oltreché fra placidi affetti e deboli passioni è assai raro che si promulghino, in tale materia, grandiose idee ed ardile verità, l’operosità umana manca di stimoli sufficienti; durante la tempesta, e non già durante la calma il pilota, manifesta la sua abilità. Quegli scrittori medesimi, che ora imprecano contro le insurrezioni, senza le tempeste del 48 e 49 sarebbero unnulla; sarebbero rimasti ai Prolegomeni di Gioberti. Epperò, ammettere il facile e lento progresso, fra il continuo prosperare della società, è un pretendere l'effetto senza la causa.
Come i mali sociali fanno sorgere li scrittori, i medesimi mali producono le sette, le congiuri, le insurrezioni. La gradazione che scorgesi fra gli scrittori, si osserva eziandio fra i cospiratori, stimolati essendo dai medesimi moventi. Avvi congiura per conquistare una patria libera, o solo per l’abolizione di una tassa. Cosi procedono le nazioni col pensiero e con le opere; e siccome l’uomo compie i più grandi fatti quando esegue energicamente ciò che maturatamente ha pensato; cosi le nazioni sono mature, e toccano quasi la meta alla quale aspirano, allorché li scrittori ed i conspiratori tendono al medesimo fine. Quale è in questo svolgersi delle umane vicende l’opera ed il dovere del rivoluzionario? Con la penna trattare tutte le quistioni che conducono al fine bramato; con la congiura far cospirare l'azione al medesimo fine, e cercar di legare strettamente il pensiero e l’azione. Dire fucili e non libri è un errare, come il dire, libri e non fucili.
Abbiamo già veduto in una sequela non interrotta di fatti, dal 1814 al giorno d’oggi, le varie esperienze attraverso le quali ha proceduto il popolo italiano. Da queste esperienze, e non già dai libri, risulta la coscienza nazionale. Ma questa coscienza ove si manifesta? negli scrittori o nei cospiratori? Indubitatamente nei secondi. Cotesta coscienza, cotesto sentimento è vago nella generalità, in pochissimi è reciso; esso per conseguenza è soggetto a vacillare sotto l’impressione dei fatti. Gli avvenimenti che si succedono, mostrano l’avvenire sotto tanti diversi aspetti, sempre erronei; come i gruppi dei monti, i quali sembrano cangiare la loro dispositura, al. cangiare del sito dell’osservatore; quindi quei mutare continuo delle opinioni. Una nota diplomatica, le parole di un ministro, la morte di un principe possono dar cagione ad una quantità di opuscoli; sono essi l’espressione della coscienza nazionale? no. Ma mutano la coscienza nazionale più o meno modificala da tale avvenimento, secondo la gagliardia d'animo di chi scrive. La cospirazione, per contro, non prende le mosse da tali avvenimenti, ma molto più da lungi; le sue aspirazioni e le sue forze non le cerca in ciò che mostrasi nella società, ma in quei sentimenti, in quelle aspirazioni occulte non solo, ma osteggienti; inoltre. il congiurare richiede fermezza di proposito e gagliardia d’animo più dello scrivere; quindi tutte le circostanze concorrono a mantenere salda cotesta coscienza nazionale più nel cospiratore che nell’autore. Epperò le aspirazioni di quello sono prove più evidenti che le ragioni, di questo.
Quanti libri, discordi fra loro, sonosi stampati in Italia dal 49al giorno d’oggi? Chi vuole l’Italia una; chi il regno boreale; chi due Italie; chi spera tutto dalla Francia; chi tutto dal Piemonte. Quale sarebbe la coscienza nazionale? impossibile a dirlo. Ma osservate le cospirazioni, le congiure, i martiri.... tutti indistintamente ed in tutte le epoche hanno accennato al medesimo scopo: Italia una e libera; e quindi è forza inferirne che, ad onta dei colpi di stato, dei protocolli, dei memorandum, la coscienza nazionale è rimasta salda. Sarebbe stoltezza attribuire al solo Mazzini, ispiratore della maggior parte di questi tentativi, tale fermezza di proposito. Mazzini non avrebbe potuto trovare mai tante braccia pronte ai suoi voleri; egli, cessato il Comitato, ritornò ad essere semplice cittadino, e, come tale, fece molto più bene di quello che noti aveva fatto come membro del Comitato; la sua operosità, la sua fortuna, il suo credito personale furono al servizio di coloro che volevano tentare di salvar la patria. Forse avrebbe potuto accettare con più riserva, o rifiutare ceni progetti che non promettevano riuscita; ma da questo picciolissimo torto, all’accusa stolta di mandare la gente al macello, avvi un abisso. Egli avrebbe dovuto, a parer mio, scegliere ima sola regione d’Italia, ed evidentemente il mezzogiorno, e su quella accentrare tutti i mezzi di cui disponeva.
Invece preferì farsi centro universale, a cui ricorrevano tutti coloro che volevano trarre io atto un pensiero generoso. Cosi governandosi, forse, avrà ritardato una rivoluzione; e se avesse negato agli operosi i suoi soccorsi, cosa non facile per chi sente sviscerato amore di patria, avrebbe risparmiato qualche vittima; ma non perciò il bene che egli ha fatto può disconoscersi.
Poniamo il caso che non fosse esistito il Comitato nazionale, né l’opera sua, né Mazzini, o altri come lui che avesse continuamente fomentato le cospirazioni e le congiure; e che in Italia, secondo avrebbero voluto i dottrinanti, niuno avesse pensalo a muovere; chi parlerebbe d’Italia? Forse l’Austria, rassicurata dallo spirito pacifico delle sue popolazioni, avrebbe imposto al Piemonte delle restrizioni alle sue libertà; ed il Piemonte stesso in una tranquillità generale, non avrebbe inteso il bisogno di mostrarsi ostile all’Austria. Su che si fondarono le ragioni addotte al congresso di Parigi, per chiedere riforme? sugli articoli di giornali e sui libri stampati in Italia, o sulle vittime, sui condannati, sui processi continui, che sono poi l’effetto delle congiure, di quella resistenza organizzata in Italia? Ed a quale partito è dovuta la presente agitazione in Inghilterra in favore d’Italia? Ai dottrinanti o ai cospiratori? Ripetiamolo; sono i fatti e non le dottrine che manifestano la vita della nazione.
Una nazione, ripeteranno i dottrinanti, che insorge senza un concetto politico reciso, ricade nella schiavitù. D’accordo in questo. Ma questo concetto politico non si forma né diventa popolare coi libri, ma coi fatti; i rivolgimenti del 48 falliti sono quelli che hanno convinto gli italiani di non aver fede nei principi, perché casta, la quale bo degl’interessi affatto staccati dal popolo; e, come nel 48 coloro i quali dimostravano questa verità non erano ascoltati, anzi maledetti, così io un nuovo rivolgimento rimarranno delusi coloro che vorrebbero rifare il 48. II popolo progredisce nelle sue idee, ma i soli fatti lo balzano da un concetto in un altro.
Se dai libri dipendesse il progresso di una nazione, gli. scrittori sarebbero gli arbitri delle sorti dell’umanità. Invece sono gli uomini d’azione che imperano; e tutti gli usurpatori da Cesare a Bonaparte, hanno sempre trovato un grandissimo appoggio nella coscienza nazionale, di cui quasi potevano dirsi i rappresentanti secondo i mezzi più o mena violenti, più o meno obliqui, con cui hanno raggiunto il fine.
Quale scrittore in buona fede può affermare che la plebe, che non sa leggere, si educhi coi libri? Non parliamo di coloro che sotto il despotismo pretendono che ilpopolo si educhi a libertà per poi esserne degno; lauto vale dire ad un uomo legato: prima di scioglierti è d'uopo che impari a correre: né diciamo degli altri che, vedendo un popolo corrotto, pretendono renderlo morale, non già sbarbicando ogni germe di corruzione, ma proponendo un reggimento fondato precisamente su di un sistema corruttore; ma di quelli i quali credono possibile, a furia di scritti, spandere le idee rivoluzionarie.
La plebe non è dotata di quelle eroiche qualità che alcuni gli attribuiscono; la plebe sovente, traviata dai pregiudizii ed angustiata la. mente dall’ignoranza, ondeggia fra la temerità e l’abbiettezza. Stimolata dai materiali bisogni, la sua mente non pub elevarsi a pensieri sublimi. Ma se tra la moltitudine uno giunge ad appuntare l’intelletto sulle quistioni politiche che agitano il paese, quasi per istinto ragiona con maggior esattezza che il migliore fra li scrittori; imperocché tutte le impressioni che il mondo officiale, o che l'attuale ordinamento sociale produce, sulle altre classi della società non hanno presa, come non hanno ascendente sull’uomo del popolo. Questi non è stimolato che da' mali; quindi, svincolato da tutti quei legami che lo incatenano allo stato. presente delle cose, oggi non vede che meli; ragionando, riconosce senza fatica dove è il bene. Ma coloro i quali non sentono il bisogno di migliorare, ed anzi temono che una scossa improvvisa li balzi fuori da quella nicchia ove godono, se non altro, l’inerzia, amano ragionare dell’avvenire, ma vorrebbero placidamente raggiungerlo, non rischiare per esso il placido presente; di qui l’innumerevole schiera dei conservatori, degli eroi da poltrona flagellati dal Giusti.
Tutti gli sforzi per sospingere un popolo al risorgimento debbono consistere nello svolgere e rendere popolari le idee, adattandole alla loro intelligenza e traendone quelle conseguenze che debbono condurre ad un utile materiale immediato, onde siano sempre fomite maggiore alle passioni, che debbono, essenzialmente, esistere nel popolo. Il rivoluzionario debb’essere apostolo e cospiratore.
«La passione, scrive Beccaria, è un’impressione sempre costante della sensibilità nostra, tutta rivolta ad un medesimo oggetto; essa è un desiderio di ottenere o di fuggire qualche cosa che sempre sì riproduce, ed è sempre riprodotta nello nostra mente quasi ad ogni circostanza».
Quindi, perché un desiderio si trasformi in passione, fa d’uopo che vi sia mancanza e percezione della cosa desiderata, il che troveremo verificarsi nel minuto popolo, se ci facciamo a riflettere sui suo stato. La mancanza è la miseria in cui esso geme; una vita più agiata è la cosa desiderata e percepita; e siccome la mancanza del necessario è continua, continuo eziandio è il dolore ed il desiderio del benessere, venendo perciò riprodotto ad ogni istante di sua vita; le passioni esistono e non resta che giovarsene eccitandole e dirigendole ad un giusto fine. L’impossibilità di conquistare il desiderato benessere le ammorza, la mancanza d'un obbietto determinato le svia dal diritto sentiero; e perciò il popolo, o adagiandosi ne’ difetti si rassegna, oppure con la forza e con la frode tenta rapire ad altri quello che esso agogna e corre cercando l'agiatezza, dall’ignoranza sospinto al patibolo. Scuotiamo adunque gli addormentali, ed agli sviati mostriamo il cammino. Se il despotismo promette come premio di loro rassegnazione i beni celesti, il rivoluzionario, con la spada della vendetta e la bilancia della giustizia, dovrà promettere beni terreni ed immediati, additando il modo come conquistarli. Esploriamo ogni piaga sociale, richiamiamo su di essa la pubblica attenzione, ed additiamo un solo mezzo come rimedio; la conquista della patria, ma non già di un pomposo nome e di vani diritti, ma la conquista del suolo della nazione e di quanti prodotti vi esistono. Ognuno diventi un Socrate, in piazza, ne’ trivii; al deschetto del ciabattino, al pancone del falegname, si faccia ad interrogare quelle rozze menti e le conduca passo passo alla scoverta della verità. Io sono simile a mia madre, diceva Socrate figlio di una levatrice, non creo nulla, ma aiuto gli altri a produrre. È questo il solo mezzo di rischiarare, in parte, la mente del popolo, di educarlo, e non già tenendolo a forza nelle scuole, o stampando libri che esso non legge. Ma neppur questo mezzo medesimo di propaganda volgare, ed adatto alla sua intelligenza, e che trae argomento dai suoi più pressanti bisogni, neppur esso è bastante a conseguire lo scopo desiderato.
La plebe non si lascia convincere che dai fatti; ma la propaganda di cui discorremmo elabora, fra un numero ragguardevole di giovani, la conoscenza de' diritti che ad ogni uomo accorda la natura; e codesti giovani, appena il popolo, sotto la sferza del dolore, si precipita nel moto, e dubbioso non sa ove dirigere gli attacchi e come colorire i desiderii, facendosi tutti oratori di circostanza dureranno pochissima fatica a far loro comprendere quello che in un secolo di calma ed in mille volumi non avrebbero mai appreso da' dottrinanti. Non già la profonda dottrina richiedesi in cotesti oratori, ma forza di carattere che non li faccia retrocedere di fronte alle conseguenze ignote de' principii da essi propugnali. Guai se essi si accostano alla spregevole schiera de' cosi detti moderati, se si atteggiano da rivoluzionarli, da riformatori, da amici de' popoli, perché si fanno a sostenere alcune franchigie che servono a riempiere le loro casse e soddisfare la loro bassa e puerile vanità. Il rivoluzionario di buona fede sospinge lo sguardo sulle moltitudini, e non mira che al trionfo della vera democrazia. Discendere alla benché minima transazione è un rinnegare la rivoluzione; tome la minuta polve che il turbo solleva, o poggiasi sulla corona de' re e sulle eccelse torri, o pure ricade sotto i piedi dei passanti, cosi il minuto popolo o acquista pieni ed interi i suoi diritti, o ritorna turba di vilissimi servi derisi con pomposi nomi. Quando non mirasi al trionfo d’una setta, o d’una classe di cittadini, il mezzo termine, qualunque esso sin, tronca i nervi della rivoluzione e l’uccide.
Finalmente agli spiriti rimessi e timidi, a cui è spavento l’assoluta libertà, e che chiedono programmi e nome, risponderemo che il programma già esiste. Siete voi rivoluzionarti? mirate al trionfo della vera democrazia? In tal caso per voi non può esservene altro che gli aforismi di cui ragionammo nel terzo capitolo. Se pretendete limitarne, nella benché minima parte, il significato, cesserete d’essere rivoluzionarii, non sarete che opportunisti e faziosi.
XVII. Fatto studio sul modo con cui la nazione elabora le idee ed opera onde prorompere all’azione, è mestieri segnarne, supposto inizialo il moto, le prime orme. I principii da cui bisogna prender nonna, sono quei medesimi accettali da rivoluzionarii; quindi ognuno altro non dovrà fare che mostrarsi consentaneo a sé medesimo, e respingere qualunque misura, comunque temporanea, che li leda nella benché minima parte. Da tale base prenderemo le mosse, e ci faremo a sviluppare un tale argomento.
La più importante quistione a risolversi è il determinare il potere che dovrà reggere quella parte d’Italia, che prima sarà sgombera da' nemici, e quindi, mano mano, l’Italia tutta sino al termine della guerra.
La sovranità del popolo, che tutti bandiscono, a cui tutti aspirano, è, col governo, la sostituzione del concetto collettivo all’individuale. Il concetto collettivo emerge dallo stato di progresso della nazione, costituito da' svariatissimi rapporti sociali. Chi parlasse di libertà a gente che avesse servo il cuore, non sarebbe compreso, i suoi sforzi tornerebbero vani; a gente di spiriti liberi farebbe schifo il linguaggio di uno schiavo. Il concetto della nazione è fatale, esso è il solo giusto ed il solo possibile, esso sarà, indubitatamente, l’arbitro delle nostre sorti; lasciamo adunque che si manifesti liberamente. Il pretendere di mutarlo è vano. Diremo solo che un popolo, il quale per esser libero vuol esser dominato, o erra o non è degno di libertà; e tanto nell’uno quanto nell’altro caso non sarà mai libero, e più che ogni altro popolo l’italiano, perché maggiori ostacoli si frappongono al suo risorgimento, e per superarli gli fa d’uopo libertà maggiore.
La dittatura debbe esser potente; se non è tale non è dittatura. Essendo scopo di un tale maestrato, il far prevalere la propria volontà a quella dell’intera nazione, bisogna che i capi dell’esercito e tutti i pubblici funzionari! siano di sua scelta; gli è mestieri d’una polizia onde spiare i passi ed i pensieri de' cospiratori, de' ribelli, immancabili, perocché essi sono alla dittatura come l'ombra ai corpi; e dovendo rivolgere in suo favore l’opinione pubblica, deve, per conseguenza, spiare i pensieri di ognuno; ed infine dovrà possedere a sua tutela una potente forza materiale. Un tale governo sarà divenuto ancora più solido per le ottenute vittorie; e quando l’epoca della sua missione sarà compita, chi potrà imporgli di cedere il posto alla Costituente? Cosi la libertà conquistata a prezzo di tante vittime, di tanti sacrifizii, sarà in balia di uno o più individui, dalla cui buona fede dipenderà la sorte della nazione.
Ma chi ignora quanto sia facile che nella mente de' dittatori surga l’idea che essi siano necessarii all’Italia, che abbiano una missione da compiere? Se tale idea diventa sentimento, eglino trucideranno e si lasceranno trucidare prima di abbandonare il seggio dittatoriale. L’amore stesso del paese, e la natura umana generano un tale sentimento. Ognuno credendo le proprie idee le migliori, crederà fare il bene dello patria costringendola ad accettarle. Chiunque è al potere (esclusi quei tiranni che per salvezza personale cercano tutto colpire perché di tutto temono) crede in ogni suo atto fare cosa utile o almeno necessaria al paese. Nel 1494 i fiorentini cacciarono i principi, e per porre rimedio a' tanti mali da cui erano gravati, confidarono pieni poteri a coloro che credevano atti a governarli. Ma ad onta del continuo cangiar di governanti, scegliendo coloro i quali con maggior veemenza declamavano contro cotesti mali, andarono sempre di male in peggio. D’onde l’adagio italiano: costoro hanno un’anima in piazza ed un’altra in palazzo. E pure il torto non era di coloro che erano assunti al potere. Un uomo non può cangiare mai totalmente i rapporti stabiliti dal lungo lavoro de' secoli. Solo una rivoluzione può farlo. I Fiorentini avevano nelle loro mani il modo di sciogliere il problema, dichiarandosi e rendendosi di fatto liberi ed uguali: la nazione sola poteva far ciò, non mai un individuo. I mali scaturivano da un solo fatto, i pochi straordinariamente ricchi, moltissimi mendichi, né vi erano governanti che valessero a dissipare tale mostruosità.
Ogni cittadino ha il diritto di proporre leggi e riforme, ma chiunque dice: «abbiate fede in me, affidatemi il potere, ed io vi renderò liberi e felici» costui. non merita neanche di essere ascoltato. Libertà ed uguaglianza sono i cardini su cui deve poggiare l’umana felicità; tutte le leggi che favoriscono questi principii, ottime, quelle che tendono a limitarle, pessime; la fede negli individui spalanca alla nazione l’abisso, imperocché la fede senza convincimento turba l'uguaglianza.
«L’autorità libera nel potere, limitata nel tempo, scrive il Machiavelli, è pericolosissima, perocché nell’uomo nasce brama di perpetuarla, né gli mancano i mezzi; ma questi non essendo dati dalla legge. a quel fine al quale egli l’indirizza, debbono per necessità diventare tiranni».
Ammettiamo che in Italia vi siano uomini di una tempra diversa di tutti gli altri, e che, debellati i nemici, educati tutti noi a libertà, essi ritornino, all’epoca stabilita, a confondersi nelle file del popolo. L’orditura del loro governo, l’innesto del governo dittatoriale, il principio che l’informa, l'ubbidienza; gli interessi creati da questo governo non potranno certamente sparire; quindi vi sarà sempre la dittatura. Cangeranno i nomi, le forme, ma non già la sostanza delle cose. II popolo continuerà ad ubbidire, i pubblici funzionarli a comandare, lo spirito della nazione sarà monarchico; od ogni governo che gli succederà, eziandio non volendo comandare (e chi non lo vuole?!), comanderà come quelli comandavano. Delle due cose l’una: o la dittatura non giungerà a comprimere ed aggiogare gli spiriti nazionali; ed in tal caso riesce inutile; o vi riescirà, ed allora, per rilevarli, fa d’uopo d’una seconda rivoluzione. Dopo lunghissimi anni di sforzi, di sangue sparso, di patimenti durati onde esaltare lo spirito nazionale, noi medesimi, mentre ci affatichiamo a ciò, andiamo in traccia del mezzo, come comprimerlo. Oh nullità dell’umana ragione!!!... Terminata la guerra sotto il reggimento dittatoriale, ci troveremmo una monarchia senza re, ed i re facilmente si trovano. Guai quando non si confermano da' primi momenti le conquiste del popolo!
Fino ad ora abbiamo ragionato ed abbiamo ammessa possibile la dittatura civile, me essa non può distinguersi dalla militare. Le forze armate della nazione saranno, oppur no, sotto le sua immediata giurisdizione. Se vi saranno, la dittatura sarà militare di fatto; se non vi saranno non esisterà dittatura. Ma ammettiamo eziandio coteste anomalia, vi sarà dittatura di nomini non militari. La loro sorte è irrevocabilmente decisa; eglino verranno cacciati di seggio col piatto della sciabola dal vincitore delle prime battaglie. Quei giovanotti medesimi, che ora parteggiano da fanatici per la dittatura, allora saranno gli stromenti che la cangeranno. La gloria militare ecclissa qualunque altra, rapisce l’animo de' guerrieri in favore di colui, dal cui braccio, dalla cui mente riconoscono l’inebbriante piacere della vittoria; quindi il Generale disporrà de' soldati. Intanto questo generale che periglia in campo, e credesi giustamente la salvezza di sua patria, con riluttanza riceverà ordini da un governo civile; egli crederà, e non a torto, che durante la guerra, da cui la nazione spera salute, sia più giusto, più logico, più utile, che un guerriero abbia questo assoluto potere, e non mancherà di ghermirlo, eziandio con la forza. Non senza ragione i principi cercano fra i più fidi servitori i capi dell’esercito, si circondano di prestigio, si rincalzano col diritto divino, si dichiarano guerrieri essi medesimi, anche senza esserlo.
I convenzionali francesi, uomini al certo di somma energia, caddero inesorabilmente sotto la spada di Napoleone; vissero otto ansi, ' e vissero a prezzo di moltissimo sangue, imperocché richiedendo la Francia quattordici eserciti, poterono contrapporre gli uni agli altri i varii generali; ma non appena la riputazione di uno elevossi su gli altri, quest’uno ghermì il potere. In Italia richiedesi un solo esercito, epperò dopo la prima battaglia vinta, il generale non avrà rivali. Nel 48 in Ungheria la dittatura finì per passare nelle mani di Georgey. La Repubblica francese del 48 creò una presidenza civile, ed essa ben presto si è trasformata in dittatura militare. Pare impossibile come l’amor proprio faccia disconoscere le verità più evidenti, i fatti più noti. E un assioma, è un fatto evidente, che ripetesi tuttogiorno, e può dirsi esistere nell’ordine naturale delle cose, che la forza militare s’impadronirà sempre della dittatura se essa esiste. Con facilità ed indifferenza cangiasi di padrone; anzi natura del popolo è, se lo accostumasi, ad ubbidire, di scegliere colui che più imperiosamente comanda, e tutto quello che viene creato dalla forza, presto o tardi in potere della forza ritorna. Per contro, se dai primi istanti cominciasi ad assaporare la libertà, niuno soffrirà ch’altri venga a rapircerla; e quanto è naturale e facile il sostituirsi in luogo d’un altro, tanto è difficile cangiare le istituzioni, ed un reggimento libero trasformarlo in dittatoriale.
Risuona nella bocca di molti il nome di Washington, quale argomento che dimostri l'Utilità della dittatura, la possibilità d’evitarne i perigli. Ma un tale fatto che verrebbe a rincalzare le nostre asserzioni (imperocché sarebbe stata una dittatura militare), non ha mai esistito, e chi il crede ignora affatto quell’interessante storia. Le leggi, le istituzioni da cui vengono rette le colonie inglesi in America, erano liberissime, quasi come lo sono al presente, eziandio prima della guerra. In ogni Stato i pubblici funzionarli erano eletti dal popolo, le leggi, le tasse decretate dalle assemblee, liberissima la stampa, garantita la libertà individuate. Scacciati i governatori che dall’Inghilterra venivano inviati in ogni Stato, le colonie furono di fatto liberissime senza aver bisogno di mutare la costituzione, o di far nuove leggi. Un congresso assunse il potere supremo, non di far leggi, non di educare, non di limitare i diritti de' cittadini, ma incaricato solo di riunire li sforzi dei varii Stati, richiedendo ad ognuno uomini e danaro per osteggiare il nemico comune.
Ogni Stato, con riprovevole costume, ebbe le sue milizie; eravi poi un esercito comune a tutti, e qualche volta due dipendenti dal Congresso. Di questi due eserciti, uno solo, il maggiore, fu capitanato da Washington; ma egli non ebbe mai ingerenza alcuna nelle faccende civili, ed il suo potere, come semplice generale, fu inferiore a quello che concedesi comunemente ai condottieri di eserciti; (a sua opinione, eziandio ne’ disegni di guerra, doveva sottostare a quella della maggioranza de' generali.
In un momento assai difficile il Congresso gli conferì sei mesi di dittatura; ma il suo potere in altro non consisteva che nell’eseguire gli arrotamenti, provvedere l'esercitonel modo il più spedito possibile; essenza dirigersi al Congresso, scorsi i sei mesi, i suoi poteri furono di nuovo limitati. Solamente la sua opinione ne’ disegni di guerra fu dichiarata prevalente, e così corressero un grave errore. Washington non fu mai dittatore nel vero senso in cui s’interpreta questa parola. Egli, per carpire in America un potere dittatoriale, non bastava che si fosse costituito al Congresso, ma sarebbe stato costretto a debellare ad uno ad uno i diversi stati e cangiarne le istituzioni. Washington salvò l’America, non già per gli estesi poteri a lui accordali, ma pel suo gran carattere mostrato come generale. Egli (concedasi a tale eroe una breve digressione) rimase saldo durante le avversità e le difficili congiunture in cui mettevalo la dissoluzione del suo esercito. Egli fu gran generale, e la sua condotta, forse, fu superiore a quella di Fabio Massimo. Questi ebbe forze sempre superiori al nemico, e comandava a Romani, per indole e tradizioni guerrieri per eccellenza; quello comandò esercito sempre minore del nemico, e composto di gente raccogliticcia a cui mancavano tradizioni ed abitudini militari.
Fabio non impedì le scorrerie del nemico; Washington, senza combattere, interdisse tutte le operazioni agli inglesi; ed in ultimo, ghermita l’occasione, e col semplice soccorso della flotta francese, distrusse un esercito nemico, e pose fine alla guerra.
La Svizzera, le Fiandre, l’America, la Francia, la Grecia hanno compilo memorabili rivoluzioni; martiri, eroi, battaglie, combattimenti, ostinate difese di città, nobili sacrifizii; nulla ad esse è mancato, e le gesta delle due ultime nazioni sono, è cosa innegabile, più brillanti, gli eroi più sublimi, e maggiore Io sviluppo delle passioni; nondimeno Grecia e Francia sono schiave, le altre libere; d’onde questa differenza? Le prime non dovettero far altro che rovesciare il giogo che interdiceva lo sviluppo delle loro libere istituzioni comunali, non concessero mai ad alcuno il potere di comandare a bacchetta, e noi potevano concedere senza ledere le libere leggi che si trovavano in vigore, e perciò il despotismo non trovò terreno da gittare le sue rodici. Per contro, tutte le nuove costituzioni francesi non hanno distrutta ma riformata l’antica, la quale è pura emanazione della tirannide, e corrivi i francesi, perché d’indole servili, a concedere estesi poteri, a crearsi le pouvoir fori, com’essi dicono, ad onta delle goffe e stolide complicazioni aggiunte alla macchina governativa per garantirsi, essi sono stati sempre schiavi, sempre tiranneggiati, durante la rivoluzione, e dopo la rivoluzione. La Grecia ebbe tutto a creare, ed in luogo di abbandonarsi liberamente alle proprie ispirazioni, prese norma da' Stati che si dicevano inciviliti, ritornò serva. In Italia, le istituzioni in vigore sono tali, tali le abitudini de' pubblici funzionarii, i quali si credono i padroni, non già i servitori del popolo, che se concederemo dieci gradi di potere ad un governo, esso, indubitatamente, ne usurperà altri dieci. Guai a noi se ci faremo a ritoccare e correggere l’antica legislazione, a conservare le vecchie basi, la vecchia orditura, noi non usciremo dalla schiavitù, ma stringeremo, complicheremo le nostre catene. Gli Italiani debbono spianare affatto il vecchio edilizio, e lasciare che i rapporti fra i cittadini nei comuni, e quelli de' comuni fra loro, vadano creandosi da sé, non assegnando loro altra norma che leggi di natura ed il Cristo passato. La nozione essa medesima prenderà l’equilibrio sul suo vero centro di gravità. Per condurre la guerra basta un centro, come diremo, ove facendo rapo i mezzi che lo nazione vorrà impiegarvi, verranno diretti contro il nemico.
Nell’antica Roma il potere dittatoriale non poneva ih nessun rischio la libertà: il paese era già costituito, le leggi quali si convenivano od un popolo libero, e queste leggi tacevano pel breve tempo che durava la dittatura, quindi riprendevano vigore. Eravi, inoltre, un potente patriziato, quasi tutti già generali di eserciti, guarentigia bastante contro ogni usurpazione. Né la dittatura doveva dar leggi o educare un popolo; essa era dittatura militare e non civile, e fu creata dai patrizii onde contrapporla al potere tribunizio. Propugnare in Italia una dittatura educatrice ed educatrice a libertà, è tale enigma, è tale frase che altro non racchiude, che una manifesta contraddizione.
Dimostrato come là dittatura altro non sia che una contraddizione con sé medesima per un popolo che aspiri a libertà, come sia impotente a produrre il bene, e scaturigine d’ogni male, come nasconda in sé medesima grandissimi perigli, ora ci faremo a dimostrarla impotente affatto a dirigere la guerra.
L’Italia potrà vincere solo a patto, il dice Mazzini, che la lotta sia lotta di giganti; abbiamo adunque bisogno di copi, i quali suppliscano con l'ingegno e con l’energia al difetto del materiale, alla propria inesperienza ed a quella delle soldatesche: di capi i quali non si credono impacciati, ma sanno giovarsi delle passioni che bollono nel popolo. Tali capi, ora che rivoluzione non v’è, non esistono, ma non mancheranno certamente fra i 25 milioni d’italiani. Quale stoltezza cercarli prima? I generali sono figli, e non padri della rivoluzione. Ma come sperare che sorgessero cotesti eroi, coteste folgori, se la dittatura verrà ben tosto a calmare la tempesta, ad ammorzare col suo soffio tiepido le passioni? Gli eroi non escono né da' guardinfanti delle corti, né dalla camera d’un dittatore, ma dal fermento delle passioni popolari. Se tutto dovrà piegarsi al volere d’un uomo, le forti passioni sono impossibili, ed impossibili per conseguenza gli eroi.
Oltreché, i dittatori, che verranno sostituiti alla nazione, come conosceranno le numerose capacità che l’Italia nasconde dalle Alpi al Lilibeo? La loro scelta dovrà aggirarsi nell’angusto campo dei loro aderenti, ed a questi, non già ai più capaci, verranno affidate alle sorti della nazione, perché, non essendo militari, non potranno essere giudici competenti, e perché la preferenza verrà naturalmente accordata a colui che sia più amico, più simpatico, per docilità e per dottrina ai dittatori.
Infine cotesti dittatori civili preferiscono, quasi sempre, generali stranieri a' nazionali, imperocché temono il credilo di questi, e più facilmente conservano il predominio su quelli, e cosi decretano la ruina e la vergogna della nazione; ed atterriti dalla popolarità che acquista un generale, sono riluttanti a condurre di forza la guerra, e se scorgono una probabilità di terminarla, senza più, eziandio con danno della causa, transigono. Finalmente è mestieri riflettere, comunque voglia supporsi perfetto un tale governo, che, ili caso di rovesci, il governo non essendo fondato su principii, ma sul carattere e l’opinione degli uomini, presso cui trovasi il maestrato supremo, si ricorrerà al volgare e puerile mezzo, quale è quello di cangiarli; e quindi un solo disastro, probabilissimo in simile lotta, basterà per sostituire al potere uomini d'altra gradazione di colore, che daranno alla rivoluzione un nuovo indirizzo politico, e da tale continuo ondeggiamento verrà strozzala. La dittatura in Italia, come in Europa, ha fatto le sue prove. Il Governo provvisorio di Milano, quello di Venezia, di Firenze, di Roma, di Sicilia... potevano decretare (asse, provvisioni militari, far la pace o la guerra, creare cariche (e ne crearono infinite), furono insomma poteri dittatoriali. Che cosa avvenne? Lo stato delle cose rimase ove la nazione l'avea condotto. Nel primo periodo di sua vita la rivoluzione non avanzò d’un passo, anzi, come è natura d ogni potere, si curò reprimerne gli slanci, senza accrescerne le forze. Se con la dittatura siamo stati mai sempre vinti, perché non provare la libertà?
Faremo fine a questo ragionamento con affermare, come cosa per sà medesima evidente, che se la dittatura fosse necessaria all'Italia, in tal caso bisognerebbe disperare affatto del nostro risorgimento. La dittatura in Italia è impossibile: sarebbe lo scoglio della rivoluzione, renderebbe inattuabile l’unità degli sforzi. Il fato che ha decretato per l’Italia la schiavitù o l’assoluta libertà conla grandezza che l’accompagna, ha reso impossibile la dittatura. Come supporre che tutta Italia s’inchinasse al potere assoluto surto dalle barricate di una città? Palermo, Napoli, Milano riderebbero degli ordini che si emanassero da Roma. Questa dittatura non solo dovrebbe combattere gli stranieri, ma per unificare l’Italia dovrebbe conquistare i varii Stati e tenerli soggetti, fare in un mese assai più di quello che l'antica Roma non fece in sei secoli. Quale erroneo giudizio dell’indole del paese!!
Dimostrata l’assurdità di tale concetto, e come in esso senza vantaggio veruno si riscontrino tutti gli inconvenienti e tutti i rischi della tirannide, e come le tradizioni e l’indole del paese sieno con esso riluttanti, ora verremo a discorrere di quello che bisogna sostituirvi. Lo stato presente d’Italia, il fine a cui tendiamo, i sacri principii che emergono dalle leggi di natura, determinano recisamente la forma e le attribuzioni del potere, che dovrà amministrare gliinteressi della nazione durante la lotta.
Le diverse condizioni in cui trovansi i diversi Stati non solo, ma le diverse città d’Italia, rendono quasi impossibile un insorgere simultaneo; ed eziandio che, per una favorevole circostanza ciò avvenisse, non in un tratto, ma successivamente ne verrebbe sgombro il suolo da' nemici. Quindi è forza che non già l’Italia tutta, ma una parte di essa, debba, prima che le altre, inalberare la bandiera comune, e nominare un maestrato, non municipale, ma italiano. Questi italiani, primi ad essere liberi, che dovranno al caso o alle loro speciali circostanze l’iniziativa, non potranno certamente pretendere che la nazione intera confermi o si sottometta al potere da essi eletto. Tale pretesa non solo sarebbe tirannica, ma vana; si vedrebbero sorgere tanti altri governi quante sono le diverse provincie, o almeno i diversi Stati in cui ora è divisa. Il maestrato che dovrà amministrare l’Italia, deve assolutamente procedere per addentellali, facendo cosi abilità ad ogni parte di essa, falla libera, d'unirsi alle provincie iniziatrici del moto, non già sottomettendosi, ma trovando {pronto il proprio incastro onde comporne un solo tutto. Quindi altro non potrà, essere che una Convenzione, un Congresso nazionale, eletto con suffragio universale, il quale verrà completandosi a misura che la rivoluzione proceda. Resta ora a determinar? le attribuzioni di questo Congresso.
Se ci faremo a considerarlo con quelle idee, che oggi si hanno in Europa del governo parlamentare, ognuno ne troverà, nel fondo della propria coscienza, la condanna. Garrule, lente, tumultuanti, snervate riescono coteste congreghe, ed esse o cagionano la ruina del paese, o si ristringono in una dittatura, essendo cosa impossibile ottenere l’unità dei fatti in tanta disparità di pareri. Ma ciò non è difetto di queste adunanze, bensì errore di popoli che loro concedono poteri, e ne richieggono opere con la loro natura riluttanti. Un tale Congresso debb’essere non imitazione della Convenzione francese, ma tutt'altro; avvicinarsi piuttosto al Congresso americano, a quello delle Fiandre, al greco, cercando la maggiore unità, ed energia, non già in esso, ina nell'ordinamento delle altre parti dello Stato. Prima d’ogni altra cosa, non bisogna mai perdere di vista il principio, che un popolo, per essere libero, bisogna che lino dal primo istante spezzi le sue catene, ed assicuri la libertà.
La sovranità per legge di natura è inalienabile, né havvi circostanza che possa giustificare la violazione di questa legge; concederla ad altri è un suicidarsi; consumato il suicidio è vana speranza il pretendere di ritornare in vita; quindi ogni membro di questo Congresso è sempre revocabile da' suoi elettori, e la stessa durata del Congresso non può prestabilirsi, dovendo dipendere dalla libera volontà della nazione.
Il suo compito è quello di mandare ad effetto il concetto collettivo della nazione, concetto chiaro ed innegabile, il quale comprende in sé la rivoluzione, né ammette restrizione di sorta alcuna: guerra allo straniero qualunque lingua esso parli finché non sia fuori d’Italia; guerra a tutto ciò che inceppi l’assoluta libertà. Questo concetto è il despota, il dittatore degli Italiani. Se eglino trasgrediranno i suoi assoluti ed imperiosi comandi, la pena sarà certa e terribile: schiavitù e miseria. I limiti poi, nei quali dovrà operare cotesto Congresso, o Convenzione nazionale, vengono tracciali dalle leggi di natura, che sono le basi del patto sociale espresse nel terzo capitolo di questo saggio, ed esse non danno luogo a dubbio di sorte alcuna. Essendo sacra la libertà individuale e quella de' Comuni, il Congresso non avrà la benché minima autorità sulla loro interna amministrazione; e nella nomina de' pubblici funzionarii; i Comuni assolutamente indipendenti provvederanno come meglio credono alla loro amministrazione, uniformandosi ai dettali di quelle sole leggi naturali, che formano l'unico patto costituente l’unità italiana. L’esercito essendo un nucleo di cittadini destinati dalla nazione a compiere una speciale missione, in virtù delle medesime leggi testé citate ha il diritto di eleggersi i proprii capi, ai quali, come nel quarto saggio ampiamente svilupperemo, per ragione di guerra s’addice il concetto de' disegni militari e l'esecuzione di essi. Svincolali dalle mille spine in cui la diplomazia si va ravvolgendo, questo Congresso non ha alcun trattato da lacerare in volto al nemico; finché esso sarà sul suolo d'Italia altra ragione oltre il cannone non v’è; cacciato d’Italia, Compiuta la missione dell'esercito, allora solo pacatamente il Congresso potrà discendere a ragionare, non avendo il diritto di nulla stabilire senza il consenso della nazione.
Adunque questo Congresso non ha cariche od onori da conferire, non leggi da fare, non trattati da conchiudere, non eserciti da dirigere. È sua missione accusare al cospetto della nazione ed eccitare a riprendere il diritto sentiero quel Comune o quell’individuo il quale violasse i principii da noi stabiliti come base del patto nazionale; èsua incumbenza il determinare, secondo la popolazione e la ricchezza d’ogni comune, la porzione contingente in uomini e denari con cui deve concorrere alla guerra, e cosi equamente ripartire i sacrifizii. È sua speciale opera raccogliere tutte le risorse materiali, e dirigerle ove l’esercito il richiede, onde fornire incessantemente il campo. In tal guisa la nazione assolutamente libera, appresta in ogni comune tutte le sue forze; il congresso le raccoglie, e le invia all’esercito; questo, secondo la ragione di guerra, le dirige contro il nemico. II congresso non è governo, ma centro su cui la nazione equilibrasi, verso cui tendono le sue forze, e vigile guardiano del patto nazionale. Esso può, in virtù di quelle medesime leggi, che gli danno vita e ne tracciano le funzioni, conferire a pochi individui o ad un solo, scelti dal suo seno o fuori, i proprii attributi, onde ottenere la massima energia nel disbrigo delle sue incumbenze; basta che non abdichi mai il diritto inalienabile della toro revoca, e del sindacato su di essi. In questo solo modo può concepirsi in Italia l’unità degli sforzi, senza ledere in menoma parte la libertà.
XVIII. Nei primi capitoli di questo saggio abbiamo cercalo quelle leggi di Datura e quei principii, non già deduzioni d’un ragionamento basato su di arbitrarli accordi o strani supposti, ma attributi della natura stessa, effetti invariabili dell’indole umana. Principii che una società non può riconoscere come veri, senza prima percorrere lunga, scabrosa ed intricata via, per cui il fugace utile immediato ed i pregiudizii, facendo ombra al suo intelletto, la costringono a serpeggiare. In seguilo abbiamo discorso del cospirare, dell'insorgere, mezzi di cui si valgono le nazioni onde sgombrare con fremito il cammino dalle incomode rovine del passato. Non ho creduto proporre un modo nuovo di cospirare, e dar norma ai primi passi della rivoluzione, ma bensì fu mio proposito il dimostrare logori i mezzi sino ad ora usati, e determinare, non quale dovrebbe essere, ma quale inesorabilmente sarà lo sviluppo ed il modo di operare delle varie forze che possiede la società. E porto ferma opinione, che la vera rivoluzione, il vero trionfo della democrazia, che suona trionfo del proletariato, non si otterrà con altri mezzi se non con questi, né si conquisterà la libertà, che liberamente operando.
Il sottostare a forza maggiore è necessità; il rinunziare volontariamente ad una parte o a tutta la libertà, non è prova di spiriti liberi, ma d’inclinazione al servaggio. Chi vende i proprii convincimenti ha cuore depravato, ma più libero di colui che volontariamente li abdica. Quello rinunzia alla libertà per un guadagno, patteggia col nemico. Questi per indole; l’uno, trovando il suo meglio saprà riacquistarla e valersene, l’altro eziandio volendolo, nolpotrà fare. È vano il dire che sarà cosa pregevole rinunziarvi per amor di patria; imperocché il sommo bene della nazione altro non è che l’assoluta libertà, che essendo costituita non dai limiti imposti alla libertà individuale, ma dal pieno sviluppo di essa, rinunziare alla propria libertà per accrescere quella della patria, è lo stesso che mutilarla, per renderla intera; è un assurdo. Agli Italiani è mestieri di educarsi a libertà; ma educatori e libertà sono materie eterogenee che si escludono affatto, la libertà non può apprendersi; essa è: sentimento, e nessuno può darci sensazioni non nostre. Per educarsi a libertà bisogna vivere, per quanto possiamo, liberamente; in tal guisa ognuno, educando sé medesimo, educa tutti, e tutti compiono l’educazione d’ognuno. Da ciò risultano spontanee le cospirazioni, le congiure, ma senza idoli, senza patroni, senza padri; niuno pretenderà comandare, come niuno si piegherà ad ubbidire. Se la nazione devierà ancora dalla linea retta, se ancora non è abbastanza assennata dall’esperienza, potranno de' strani connubii, delle strane combinazioni aver luogo, ma essa non raggiungerà con questi mezzi la sua piena libertà e la grandezza a cui è destinala.
Additate le piaghe della società, i diritti di chi soffre, le usurpazioni di chi gode; dimostrata la necessità di estirpare fin l’ultima barba della presente costituzione sociale, di sgombrare il suolo delle sterminale macerie dei pregiudizii, di leggi, di opinioni ammucchiate sul diritto di proprietà che gli serve di base, e che poggia a sua volta sugli omeri dell’immensa moltitudine de' null’abbjenti, come rivoluzionario, potrei far fine. La nazione penserà a ricostruirsi. Nondimeno. sospingeremo lo sguardo in questo ignoto avvenire, e procederemo in esso attenendoci strettamente a' stabiliti principii.
«Itiranni.... scrive Mario Pagano, col progresso del tempo., dalle continue reazioni degli oppressi, debbono rimanere disfatti. La legge è immutabile, l’ordine è costante, la pena è certa; benché col pié di piombo, giunge al fine.»Ora che scrivo, la miseria cresce ogni giorno; i governi moderati, corruttori e codardi in putredine vanno consumandosi, la tirannide mostrasi, perché minacciata, terribile ed ingorda, e cosi la sua azione affretta l’immancabile reazione. I popoli intolleranti dello stato presente fremono, il movimento non tarderà; e non già, come pretendono i dottrinarii, il popolo piùdotto e più incivilito, ma il più oppresso darà il segnale della battaglia. La quistione economica, quasi in tutt’Europa prevale, non solo fra i dotti, ma nella plebe, la questione politica n’è stata quasi del tutto eclissata.
Cominciato lo sbaraglio, vedremo il popolo, da' suoi dolori sospinto, con abbandonate redini precipitarsi nei pericoli, ma le sue prime orme saranno incerte, vacillanti; esso non saprà scorgere il vero nemico, né colorire i suoi disegni. In questi momenti la riuscita, l’indirizzo delta rivoluzione, dipenderanno da quella gioventù intelligente, che fornisce non dotti, ma illuminati combattenti di cui il popolo naturalmente si fa testa. Se questi desiderano il vero bene della patria, dovranno senza far gruppi o sette, ma ognuno secondo le ispirazioni del proprio genio, darsi a tutt'uomo, non già a calmare, ma a sfrenare per quanto può le passioni del popolo, e dando forma a' suoi desideri!, additargli il nemico. Colui che dopo tanti tristi e sanguinosi casi, che i popoli, nel fare transazioni e contentarsi di rimedii mezzani, patirono, in luogo di mirare alla riforma completa degli ordini sociali, broglia per afferrare una carica, o per donare i poteri a qualche suo idolo, e tutto fede spera che un. uomo compia la rivoluzione, ammorzando l’effervescenza popolare, presenti il dorso al bastone della tirannide, egli altro non è che vilissimo schiavo, mascherato col saio del repubblicano.
Ci faremo ora a compendiare quanto dicemmo del passato e del presente, dei mali sociali, e de' rimedii, delle usurpazioni della tirannide e dei diritti della democrazia. Così rileveremo le provvidenze da prendersi, le riforme d’adottarsi.
Son quasi quattro secoli di schiavitù; e durante quest’epoca quanti inutili tentativi, quanto sangue inutilmente sparso 1!! I popoli a noi vicini, dopo grandissimi sforzi non sono riusciti a migliorare la loro condizione. É dunque inutile l’insorgere? No. È questo un fatale cammino che il popolo è costretto a percorrere, onde dalle sanguinose esperienze venga condotto alla scoverta degli errori. Raccogliamo adunque i frutti del passato lavoro; gioviamoci di que’ fatti, e sia questa rivoluzione principio d'era novella, e non già nuova esperienza utile a' posteri, a noi dannosa.
Che cosa ha fruttato la moderazione? Patibolo, carceri, esilio. I nostri nemici sono inesorabili, ingordi; ad ottenere due gradi di libertà (sela libertà si ottenesse per gradi), e ad ottenerla intera ei è forza sostenere la lotta medesima. Perché dunque arrestarci ai primi passi i La moderazione ci ha fruttato, forse, la protezione di qualche altra potenza? Mai no: tutti i governi stranieri apertamente, o con l'inganno, sonosi coalizzati alla nostra rovina. Confidiamo adunque nelle sole nostre forze, e miriamo alla completa distruzione del nemico senza arrestarci alla minaccia; essa altro non è che un'arma nelle mani del minacciato.
Guai se la plebe, contenta di vane promesse, farà dipendere dall'altrui volere le proprie sorti! Essa vedrà molli di coloro che si dicono liberali, umili negli atti, larghi in promesse, con dolci parole adularla, come costumano adulare i tiranni, e carpirne il volo. Divenuti onnipotenti ed inviolabili, pensano al loro meglio e ribadiscono le catene di lei; ed alla richiesta di pane e lavoro, rispondono come l’assemblea francese rispose nel 48, col cannone. Finché la società verrà composta da molti che lavorano e da pochi che dissipano, e nelle mani di questi pochi sarà il governo, il popolo deriso col nome di libero e di sovrano, i molti non saranno che vilissimi schiavi.
Tutte le leggi, tutte le riforme, eziandio quelle in apparenza popolari, favoriscono solamente la classe ricca e culta imperocché le istituzioni sociali, per loro natura, volgono tutte in tuo vantaggio. Voi plebe, allorché crederete avvicinarvi alla meta, ne andrete invece più lontano. Voi lavorate, gli oziosi gioiscono; voi producete, gli oziosi dissipano; voi combattete, ed essi godono la libertà. Il suffragio universale è un inganno. Come il vostro voto può esser libero, se la vostra esistenza dipende dal salario del padrone, dalle concessioni del proprietario? Voi indubitatamente volerete, costretti dal bisogno, come quelli vorranno. Come il vostro voto può essere giusto, se la miseria vi condanna a perpetua ignoranza, e vi toglie ogni abilità per giudicare degli uomini e de' loro concetti? Come può dirsi libero un uomo la cui esistenza dal capriccio d’un altro uomo dipende?
La MISERIAè la principale cagione, la sorgente inesauribile di tutti i mali della società; voragine spalancata che ne inghiottisce ogni virtù. La MISERIAaguzza il pugnale dell’assassino; prostituisce la donna, corrompe il cittadino; trova satelliti al despotismo. Conseguenza immediata della miseria è l'ignoranza, che vi rende incapaci di governare i vostri particolari negozii, non che quelli del pubblico, e corrivi nel credere tutte quelle imposture che vi rendono fanatici, superstiziosi, intolleranti. La MISERIAe l'IGNORANZA sono gli angeli tutelari della moderna società, sono i sostegni sui quali la sua costituzione si innalza, restringendo in picciol giro l'ampio cerchio dell’universale cittadinanza. Il delitto e la prostituzione, conseguenze inevitabili, sgorgano dal seno di questa società. Bagni e patiboli sono le sue opere, volte a punire con raffinata ipocrisia i frutti medesimi delle sue viscere. La statistica, scienza moderna, che mostra come indissolubilmente si legano le varie istituzioni sociali, ha già registrato come la miseria e l’ignoranza non scompagnino mai dal misfatto. Finché i mezzi necessari all’educazione e l’indipendenza assoluta del vivere non saranno guarentigia d’ognuno, la libertà è promessa ingannevole.
I nemici che dobbiamo debellare sono molli, è vano 1 illudersi; se tutti vorremo combattere da liberi cittadini, vinceremo. Cerchiamo penetrare con lo sguardo attraverso l’atmosfera che i pregiudizii ci hanno addensato intorno, in questo istante che trovasi distrutta la gerarchia sociale, quanto siano mostruose le usurpazioni del ricco, e quanto grandi le miserie del popolo!!.;.. Con qual diritto un ozioso proprietario scialacqua col prodotto de' sudori del linaiuolo, mentre questi appena potrà offrire un pane alla sua povera e laboriosa famiglia? Con quale diritto, in un’officina in cui cento lavorano, uno solo oltre ogni stima arricchisce, non avendo gli altri, non dico assicurato l’avvenire, ma neanche la benché minima guarentigia del presente, bastando il capriccio di un solo per affamare centinaia di dipendenti? Distruggiamo codeste mostruosità, col garantire tri contadino ed all’operaio il frutto del loro lavoro; e questi e quelli saranno contenti di lasciare per poco la vanga ed il martello ed impugnare il moschetto a difesa degli acquistali diritti. Se la vittoria assicura n tutti l’agiatezza, e la disfatta li ricaccia nella miseria, tutti saranno valorosi. Ecco ii segreto di cui si valsero i nostri progenitori per soggiogare ilmondo.
Nei passati rivolgimenti sonosi cangiati gli uomini e le forme del governo, ma il principio su cui esso poggia, l’autorità insomma, cangiando nome, rimase. Come adunque potevano sparire i mali? Volete cogliere il frutto di tante pene? diroccale l’antico edilizio sino alle fondamenta, sgomberate il suolo dalle ruine, e su nuove basi riedificate.
Le leggi a cui ubbidiamo sono quelle stesse, che da tredici secoli, da Giustiniano, i despoti ed un ordine privilegiato, quelli che posseggono, hanno create, svolte e curatane l’esecuzione sempre in danno della plebe; e queste leggi che hanno si bene servila la tirannide, non possono certamente essere utili ad un popolo che vuole esser libero. E però la prima determinazione da prendersi è quella di annullarle tutte; una sola che ne rimanga basterà per dare alla rivoluzione un falso indirizzo, o almeno per ritardarne il naturale progresso.
La forza è fatto cardine sul quale poggia la tirannide. Qualunque siasi il nome del governo, Dittatore, Triumvirato, Congresso, se esso dispone di forza materiale, saremo schiavi. Non bisogna mai conferire ad altri la facoltà di nuocere. Gli uomini, buono o (risto sia lo scopo a cui tendono, sono o prepotenti, o deboli; questi inetti al governo, quelli oppressori; i primi avendone la forza, opprimono i secondi; ci abbandoneranno ai loro satelliti. Ognuno, in buona fede, crede che le proprie idee riescano di gran beneficio al paese; e però se avrà la forza d’imporle, le imporrà. Lasciamo a tutti libertà di proporre i proprii pensieri, ed a nessuno facoltà d’imporli. L’uomo crealo indipendente e libero non dovrà mai servire un altro uomo, ma solo la propria natura, ed il proprio meglio; e se in virtù di questa legge nelle specialità, conviengli alla direzione de migliori sottoporsi, non dovrà mai, in forza della legge medesima, lasciare che altri stabilisca i rapporti della società di cui fa parte, e dia norma a tutto il suo vivere. I diritti di ognuno limitano di fatto la sfera d’azione de' diritti altrui, le naturali inclinazioni ne distribuiscono le incombenze, e da questa libertà ch’altri limiti non conosce che l’altrui libertà, ne risulta l’armonia sociale. Chiunque pretende governarmi, chiunque pretende che io mi uniformi alle sue idee, alle sue abitudini, è uno stolto tiranno. Ad ottenere ciò dovrebbe trasfondere in me la sua sensibilità, le sue idee.
Or dunque, considerando questi veri come i punti di riscontro del nostro avvenire, verremo traducendoli in pratica esponendo le provvidenze, che sul retto sentiero indirizzeranno la rivoluzione, assicurando sin da' primi istanti il suo magnifico e semplicissimo procedere.
1.° Tutte le leggi, i decreti, le cariche, te incombenze insomma, tutte le esistenti istituzioni sociali, rimangono da quest’istante annullate.
a) Ogni contratto il quale non sussiste per la libera volontà delle due parti contrattanti, è sciolto;
b) Le tasse ed ogni specie di gravezze, imposte dal passato governo, sono annullate. Non vi sarà che un’imposta unica sulla ricchezza, da un congresso italiano ripartita sui comuni, dai consigli comunali ripartito sui cittadini.
Questa prima provvisione spezzando le ritorte da cui eravamo avvinti ci ridona la piena libertà delle membra, indispensabile a sostenere la gran lotta in cui dovremo impegnarci. Né la vittoria sarà mai possibile, se combatteremo impastoiati fra leggi ed istituzioni volte a sgagliardirci e toglierci qualunque libertà d'operare. Né qui Uniscono gli effetti di tale provvedimento: l'abolizione delle tasse, ecc. produrrà, cosa indubitata, un ribasso nel prezzo degli oggetti di prima necessità, ed il minuto popolo sentirà, dal nuovo ordine di cose, immediatamente sgravarsi dalle tante imposizioni da cui era oppresso, e quindi troverà cosa importantissima il difenderle ed assicurarle in avvenire. In tal guisa con un semplice decreto avremo ridonato al popolo tutta la sua forza, e creato il movente, che unificandone eziandio la volontà, lo sospinge alla difesa della patria.
Inoltre, se il concedere altrui il governo assoluto della cosa pubblica ci ricaccia nella miseria, e ci abbandona al dispotismo, il disordine conduce parimente alle conseguenze stesse; e però alla rivoluzione bisogna assegnare un Une così ampio ed incontrastabile da essere certi che nessuno possa durar fatica a riconoscerlo, o nessuno rinnegarlo. Quindi stabilire come punti di riscontro, come limiti e guarentigie della libertà, le leggi inviolabili della natura, le quali daranno norma, e determineranno tutte le provvisioni volte ad organare e dirigere le forze della nazione al conseguimento del fine prefisso. I due seguenti decreti basteranno per tradurre in fatti le idee esposte.
2.° Il fine che si propone la rivoluzione è quello di sgomberare l'Italia da' stranieri, qualunque lingua essi parlino, e da tutto ciò che viola l'indipendenza, la libertà individuale. La guerra sarà protratta per forza finché questo fine non sia compiutamente conseguito.
I principii da noi espressi nel terzo capitolo di questo saggio, resi di pubblica ragione sino dai primi istanti della rivoluzione, verranno presentati, in ogni comune, all'accettazione del popolo; che riconoscendoli come base del nuovo patto sociale, dichiarerà reo di lesa nazione chiunque attenterà di violarli. Se un tale decreto verrà bandito dal popolo, la rivoluzione da quell'istante sarà assicurata, la libertà e la grandezza d'Italia indubitata. Se poi uno solo di questi principj è rigettato, o ristretto, la rivoluzione non si compirà, verrà conseguito qualche cangiamento di forme,ed il popolo s'incamminerà, meritamente, in un nuovo corso di miserie, di dolori e di vizj.
Ridonata al popolo la sua piena libertà, creato il movente delle sue impre determinato il fine da conseguirsi, stabiliti i limiti dell'autorità, le guarentigie ed i diritti del popolo, la rivoluzione, senza tema d’essere fuorviata, potrà procedere nel suo corso, e poche e semplicissime provvidenze basteranno ad assicurare il suo progresso energico ed ordinato.
1.Tutti i cittadini, qualunque ne sia il sesso, l’età, pongono sé medesimi e le loro sostanze a disposizione della patria, finché non siasi ottenuto la prima vittoria sui nemici di essi.
2. Ogni comune verrà amministrato da un consiglio comunale formato da un numero di consiglieri stabilito dai cittadini medesimi. I consiglieri verranno eletti a suffragio universale, e saranno revocabili dagli elettori e Soggetti al loro sindacato. Il consiglio, affinché i comandamenti del popolo siano mandati ad effetto con la massima energia possibile, trasmetterà il proprio mandato ad un individuo che eleggerà nel suo seno, riserbandosi in ogni tempo, il diritto di revoca, e di sindacato.
a) La podestà politica e la giudiziaria risiederanno nel popolo del comune. L’ultima potrà conferirsi ad un certo numero di cittadini eletti dal popolo, che non cesserà di essere il supremo tribunale, al quale i giudicati potranno appellarsi.
b) La speciale incombenza de, consiglio comunale è quella di raccogliere ed apparecchiare nel comune tutte le risorse materiali, richieste dal nazionale congresso.
3.° Ilcongresso nazionale verrà eletto coi principj medesimi; cioè suffragio universale e diritto di revoca e di sindacato agli elettori. Come i consigli comunali, questo congresso potrà trasmettere il proprio mandato ad uno solo eletto dal proprio seno, riserbandosi sugli eletti i medesimi diritti accennati pei consiglieri comunali.
a) Le incumbenze di questo congresso saranno di rappresentare l’Italia verso le potenze straniere; potrà conchiudere trattali, ma essi non avranno effetto senza previa approvazione del popolo.
b) In forza de' principj stabiliti come base de, patto sociale, questo congresso non avrà sui comuni altra autorità, fuor quella di determinare ed esigere da essi la porzione contingente in uomini e denari, con cui dovranno concorrere alla guerra: inviare queste risorse ove l’esercito indicherà; accusare al cospetto della nazione quel comune, o quell’individuo che violasse il patto espresso dalle leggi di natura.
L’esercito eleggerà i propri capi e sarà l’esecutore supremo de' voleri della nazione.
Sono questi semplicissimi provvedimenti che potranno attuarsi da qualunque città o borgo che sarà sgombro dal nemico. Il popolo di questo borgo, che darà cominciamento alla rivoluzione, annullerà tutte le leggi esistenti, tutte le gravezze: bandirà i principj che dovranno essere la base del nuovo patto sociale, eleggerà il consiglio comunale, i deputati al congresso nazionale; e tutti i cittadini, con le norme che daremo nel quarto saggio, formeranno i battaglioni e si eleggeranno i capi. In tal guisa si procederà conformemente al naturale corso degli eventi, e la nazione da sé, senza crearsi padroni, senza concedere ad una città autorità o ascendente maggiore che alle altre, raccoglierà successivamente le proprie forze, e le adoprerà al conseguimento del fine che si propone, conservando la sua prima libertà.
Il popolo non avrà nulla a temere dagli errori, in cui per ignoranza o per intrigo d’altri, potrà incorrere nello eleggere questi diversi maestrati; imperocché non sono inviolabili né irrevocabili, e non dispongono di alcuna forza materiale. Essi non comandano, ma propongono. Il popolo con pochissima pena potrà francamente eleggere coloro che desiderano tali incombenze, trattandosi di crearsi servi e non padroni: quelli che volontariamente si offrono saranno i migliori. Negare questa verità, ricorrere a' ripieghi, è negare la rivoluzione; è lo stesso che restringere Futile universale a quello d’una fazione; è una questione di semplice forma che non vale ii pregio d’essere discussa.
Durante la guerra il congresso nazionale si occuperà a risolvere il problema sociale, e cercherà stabilire l’avvenire della nazione. Il congresso terrà ai fittajuoli il seguente discorso: «Il provvedimento preso di sospendere il pagamento delle rendile vi ha sostituito ai proprietarj, bene grandissimo per voi stessi e per la società; voi produttori per eccellenza ritenete e godete giustamente il frutto delle vostre fatiche, e la società si è sgravata da quella classe di oziosi digeritori, che, per sostenere il loro lusso, producevano l’incarimento dei viveri. Ogni cittadino soffriva per cagion loro; ad ogni poverello veniva tolto un pezzo del suo pane per impinguare i cani ed i cavalli di questi proprietari; ed oltre questi vantaggi evidenti, quelli oziosi, costretti ora a lavorare per vivere, hanno accresciuto eziandio il prodotto sociale. Ma fa d’uopo riflettere che, quali voi oggi siete, tali essi furono, e l’esperienza, varie volte ripetuta, ha dimostralo, che, eziandio ripartendo ugualmente la terra, dopo qualche tempo vi sarà tra voi chi per maggior forza, solerzia, od ingegno ingrandirà all’altrui spese; e così a poco a poco sorgerà di nuovo la classe dei proprietarj che avete annientata. Inoltre, il medesimo diritto che avete voi sulla terra, lo ha ognuno: la medesima ingiustizia che voi pativate, la patiscono i vostri giornalieri, e voi usurpate ad essi quel frutto dei loro lavori, che i giù proprietarj vi usurpavano. Finalmente rimanendo la vostra condizione tale quale ora è, i principj da voi stessi banditi sarebbero violati, il patto sociale sarebbe ingiusto come lo era prima, ed i vostri figli si troverebbero in una società non diversa da quella che ora vogliamo riformare.»
La cagione di questi mali futuri è evidente; la proprietà ha cangiato possessore, ma è rimasta illesa. È dessa che bisogna abbattere; è il principio che bisogna mutare; e perciò è necessario occuparci della situazione del problema. Impedire che i proprietari rinascano; questo è problema, che, unito agli altri riguardanti l’industria ed il commercio, formerà l’oggetto delle nostre cure.
Per riuscire nel nostro proposito non basta seguire i suggerimenti dell’istituto che ci trarebbero di via, ma bensì giovarci dell’esperienze che la storia registra. Le attinenze degli innumerevoli fatti consacrali nelle sue pagine hanno posto materia a studio profondo, da cui risultò una serie di proposizioni che formano la filosofia civile: la quale scienza universale, ove la seguiamo con attenta osservazione, traendoci dalla via fallace che il volgo per abitudine frequenta, in quella magistrale e permanente ci conduce; questa materia darà norma alle nostre ricerche.
Inoltre, il nuovo patto sociale, che verrà stabilito dalla costituente, non sarà come le passate costituzioni, imposto agli Italiani, ma proposto; e la costituente, non disponendo di veruna forza materiale, non potrebbe operare diversamente; quindi ii cuore, la fede, le intenzioni di coloro che dovranno comporla, in questo caso, non hanno importanza di sorte alcuna; queste qualità, impossibili a ritrovarsi, perché mutabili secondo l'utile individuale, queste qualità sempre cercate, né mai trovate dal popolo, oggi non debbono tenersi in verun conto; l’ingegno e la dottrina sono necessarie; eziandio i più perversi saranno utili; ma il popolo non potendo discernere queste qualità, la costituente sarà nominata dal congresso nazionale, che ammetterà in essa tutti coloro che volontariamente si offrono di farne parte. Questo sarà il campo ove la scienza, non avendo altri limiti che le medesime leggi di natura da cui essa risulta, potrà elevarsi dalle inutili astrazioni alla pratica, e stabilirà la felicità della nazione.
Questo congresso di scienziati dichiarato Costituente, determinerà e proporrà il nuovo patto sociale, le cui basi saranno. quei principj dal popolo dichiarali inviolabili, ed il fine quello di guarentirne l’inviolabilità per lo avvenire. Compito il lavoro, e reso di pubblica ragione, rimarrà esposto alla pubblica censura; e tutti i dubbi e tutte le considerazioni espresse per mezzo della stampa saranno accuratamente raccolte da coloro che presiedono all’amministrazione di ogni comune, ed inviate alta costituente, che, nel più breve tempo possibile, dovrà modificare, o rispondere a tutte le osservazioni fatte dal pubblico. Dopo questa prova, il patto, sottoposto in ogni comune alla finale approvazione del popolo, avrà effetto. Noi adombreremo questo nuovo patto sociale senza presumere d’aver risoluto un problema che dovrà risolvere l’intera nazione. É nostro proposito sgomberare il suolo, e scavare le fondamenta, non già riedificare.
Le siepi e quanto serve di chiusura o limite ai poderi si abbatteranno. Il suolo italiano verrà ripartito secondo le diverse specie di cultura a cui mostrasi alto. Una porzione di terra proporzionata alla popolazione verrà assegnata ad ogni comune, e coltivata da coloro che si dedicano all’agricoltura, i quali formeranno una società, che stabilirà essa medesima la sua costituzione in caso che non volesse accettare quella che la costituente le proporrà. Ma questa costituzione, dovendo essere conforme a que’ principj che formano la legge universale ed immutabile della nazione, non potrà essere molto diversa dalla seguente. Un amministratore ed un direttore eletti e soggetti al sindacato di un consiglio amministrativo, e di un consiglio di tecnologia dirigente. Tutte le altre incombenze distribuite secondo le inclinazioni e le attitudini di ognuno. Il guadagno netto, diviso egualmente fra tutti. In tal guisa, con grandissimo ed universale vantaggio, la proprietà fondiaria sarà distrutta.
Il compartimento del suolo determinalo dal genere di coltura e non dal caso; stimolo al lavoro, non già la fame, ma un maggior guadagno; una società di uomini agiati, tutti dediti, ognuno secondo le proprie attitudini, ad un medesimo lavoro, dovranno indubitatamente produrre un accrescimento grandissimo delle ricchezze sociali. Sosterrebbero gli economisti, che l'agiatezza degli agricoltori, la mancanza dei proprietarii che consumano senza produrre, facciano languire o scemare la produzione? Sosterrebbero che le facoltà d’una società numerosa ed agiata sieno inferiori a quelle d’una misera famiglia, capace a pena di quel lavoro che serve a pagare il vistoso tributo al proprietario e comperare per sé un affumicalo pane? Tutto può sostenersi col sofisma, ma esso perde la sua forza quando il minuto popolo non può più sopportare i suoi mali, e rovescia la soma che soverchiamente lo grava. Queste proposte non vengono fatte a congreghe di digeritori, di persone dedite all’usura e al monopolio ovvero di proprietarii, di banchieri, di trafficanti, ma ad una società in cui la forza ha già distrutto la preponderanza di queste classi. Con la spada bisogna adeguare alle moltitudini i più sublimi: quindi la legge stabilisce l’ordine e l’eguaglianza.
Il capitale, come già dicemmo, essendo proprietà collettiva, non può appartenere ad un uomo; l’appropriarsi il capitale è un’usurpazione, non così manifesta, ma simile a quella della proprietà fondiaria; tutti i capitali verranno dichiarali proprietà della nazione; il denaro potrà in parte involarsi, ma le fabbriche, le macchine rimarranno. Tutti gli impiegali, in ogni stabilimento. d’industria, comporranno una società, alla quale la nazione affida il capitale tolto al capitalista, e questa società potrà reggersi con una costituzione identica a quella stabilita per gli agricoltori.
Così trasformala e ricostituita l’agricoltura e l’industria, i mercanti che vendono in grosso si rinverranno nei depositi delle stesse società e saranno membri di esse; e socii a ciò espressamente ’ delegali saranno i merciaiuoli ce vendono al minuto.
I trafficanti, intermediifra i produttori ed i consumatori, a cui la miseria de' primi permette di speculare a scapito del popolo, verranno eziandio trasformati in società, composte ognuna del già capitalista sino all'ultimo facchino, marinajo, carrettiere, che trasporta le merci.
Tutti gli edificii saranno dichiarati proprietà nazionale, e gli edili eletti da) popolo, e soggetti al suo sindacato, destineranno ad ognuno sfondo il bisogno l'abitazione. In tal guisa, più non avvedranno spaziosi appartamenti deserti e destinati a semplice lusso, mentre a breve distanza dalle loro mura, in oscuri e malsani tugurii, giacciono ammucchiate le famiglie dell’infelice proletario, con danno manifesto della pubblica salute e del pudore.
Il testamento, mostruoso diritto, che oltre l’epoca dalla natura stessa prescritta prolunga la volontà dell’uomo, abolito. I risparmii accumulati da ognuno appartengono di diritto, dopo la sua morte, alla società di cui esso faceva parte, ed al comune ove crasi domiciliato, se il defunto esercitava una professione singolare, come architetto, medico od altro.
In ogni Comune vi sarà un banco di scambio, che porrà in relazione Vari comuni dello stato ed i varj stabilimenti d'industria, e dirigerà le derrate ove maggiore è il bisogno. Questi banchi, assorbiranno e faranno sparire i trafficanti.
Ogni cittadino, il quale trovasi isolato e privo di lavoro, ha il diritto di essere ammesso come socio in quella società di agricoltura e d’industria che da lui medesimo verrà scelta. La forza dell’intera nazione garantisce ad ogni Italiano un tale diritto, diritto che rende impossibile la miseria, e forma il cardine principale del nuovo patto sociale.
Stabilita la costituzione economica, la politica non offre alcuna difficoltà. UnConsiglio in ogni Comune, un Congresso per l’intera nazione, eletti col suffragio universale, amministreranno il paese. Questo e quello saranno sempre revocabili dagli elettori, e soggetti al sindacato del popolo. II congresso stabilirà la relazione con le altre potenze, avrà cura degli affari stranieri, rappresenterà la nazione; dovrà sopraintendere ai lavori, agli stabilimenti militari e di pubblica educazione, alle milizie (e di queste discorreremo minutamente nel 4° Saggio) in quella parte ohe non riguarda direttamente ai Comuni. Determinerà le spese, e quindi le gravezze le quali dovranno pagarsi dalla nazione per questi varj rami della pubblica amministrazione. Non avrà ingerenza alcuna nella politica interna e polizia; questa e quella non avranno altra norma che i principj da noi stabiliti come base del patto sociale. II Congresso denunzierà alla nazione quel comune, quel magistrato, quel cittadino, che violerà o tenterà di violare questi principii.
Il Consiglio ed il Congresso potranno, pel pronto spaccio degli affari, delegare o distribuire i loro poteri a persone elette dal proprio seno, che saranno sempre da essi revocabili e soggette al loro sindacato.
Tutti i pubblici magistrali saranno eletti dal popolo, revocabili dal popolo e soggetti al suo sindacato. Niuno percepirà stipendio; ma l’associazione di cui esso faceva parte sarà obbligata a considerarlo e retribuirlo come socio presente. Lo stesso dicasi dei consiglieri comunali e de' deputati al Congresso.
L’unica gravezza sarà un’imposta progressiva sulla rendita netta di ogni associazione.
Adombrato il nuovo patto sociale, ci faremo ad esaminare gli effetti, onde conoscere se i mali, i quali ora minacciano di annientare la presente società, spariranno.
É un fatto dimostrato ad evidenza, che la concorrenza, le macchine e la divisione del lavoro, mentre accrescono immensamente il prodotto, accrescono eziandio il numero de' miseri, ed avviliscono l’operaio peggiorandone la condizione. Esaminiamo se col nuovo patto sociale si produrrebbero i medesimi effetti.
Concorrenza. — Supponiamo due stabilimenti d’industria in concorrenza, uno composto da numerosa e cospicua associazione, l'altro meschino. Questo sarà costretto a smettere, non potendo sostenere la concorrenza con quello, e gli operai, come accade oggigiorno, rimarranno privi di lavoro; ma siccome la nazione guarentisce loro il diritte di essere ammessi in una società a loro scelta, questi operai, naturalmente, sceglieranno e dovranno essere ammessi come socii in quella società, e in quella società da cui sono stati soperchiati; e però questa, se distruggesse tutte le sue rivali, sarebbe sopraccaricata da un numero esorbitante di operai Per evitare il male, troverà il suo conto associandosi, piuttosto che distruggendo, le sue rivali. In talguisa la concorrenza, che nella presente società arricchisce uno a discapito di molti, col muovo patto sociale promuoverebbe l’associazione, e spanderebbe egualmente il profitto sugli operai dell’arte medesima.
Con le macchine e la divisione del lavoro ottenendosi il prodotto medesimo con un numero assai minoro di operai, nei quali non richiedesi alcuna speciale attitudine, si ribassano i salarii, e ne risulta la miseria. Col nuovo patto sociale, il numero degli operai non è quello che semplicemente è necessario all’arte, ma di quanti se ne rinvengono nel comune, nella città, nella nazione, che si dedicano a tale lavoro; il salario non è proporzionato alla loro abilità, ma al prodotto; quindi le macchine e la divisione del lavoro saranno la vittoria dell'ingegno umano sulla materia e gli operai, giovandosi di tali ritrovali, in poche ora di facile lavoro, guadagneranno moltissimo. Inoltre, come conferma della giustissima legge dell’uguaglianza il salario, le diverse incombenze si andranno pareggiando.
Inoltre, siccome crescendo il numero delle persone dedite alla medesima arte scema il guadagno, ne risulta, che il diritto riconosciuto e assicurato ad ognuno, di essere ammesso come socio in uno stabilimento di sua scelta, è la legge la quale stabilisce l’equilibrio fra le diverse diramazioni dell’industria nazionale.
Le ardite intraprese, l’esattezza del lavoro, la varietà, il buon mercato che si richieggono in un’arte, sono qualità chenon possono sperarsi dai piccioli capitali, i quali s’impiegano con la speranza di ottenere utili immediati e grossi. Solo dai vistosi capitali, che anticipano le spese e con picciolo profitto sull’unità della merce guadagnano sul grande numero, di esse unità, possono ottenersi tali risultamenti. D’altra parte, i grandi capitali formandosi con accumulare in poche mani le ricchezze sociali, ne risulta come legge inesorabile, nella presente società, che il perfezionamento dell'industria s’ottenga a prezzo della quasi universale miseria; laddove, col nuovo patto sociale, la formazione dei grandi capitali si avrà, non già con la distruzione de' piccioli, ma con l’associazione, che sarà la legge regolatrice della pubblica economia, come ora è la concorrenza.
Il bisogno che, hanno i produttori di smaltire al più presto possibile la toro merce, la mancanza del danaro necessario alte spese di deposito e di trasporto, hanno fatto sorgere l’avida classe dei trafficanti, i quali lucrano ed arricchiscono a spese de' produttori e dei consumatori.
Questo bisogno del produttore di vender subito fa opportunità a costoro d’esercitare il monopolio, di affamare una città e pro cacciarsi vistosi lucri sui pane che i poverelli comprano col sudore della fronte. La concorrenza è quella che più d’ogni altra cosa favorisce l’incettatore; l’associazione l’uccide. Col nuovo ordine di cose le diverse società produttrici facoltosissime, non han bisogno di vendere prontamente le merci, e potranno avere magazzini, vascelli e giovarsi di ogni sorta di veicolo onde, da sé medesime, o col solo mezzo del Banco di scambio, provvedere allo spaccio dei loro prodotti; e così, con vantaggio grandissimo della società, spariranno i trafficanti, e con essi il monopolio.
Nella presente società gli incettatori comprano il grano ove abbonda e lo spediscono ove scarseggia, quindi in quel mercato ove essi comperarono, crescendo il prezzo del grano, il pane incarisce. Questo fatto protesta contro la libertà del commercio Ma, vi rispondono i propugnatori del libero scambio: «s’introiterà maggior danaro, l’agricoltore che ha guadagnato, avrà molto danaro da spendere; il che torna in vantaggio dell’industria, non che di qualunque altro prodotto. Né qui Uniscono i vantaggi: gli operai se pagheranno più caro il pane, prosperando l’industria, crescerà il loro guadagno, e spenderanno pochissimo per l’acquisto di altri generi di cui fanno uso. Cosi gli economisti, con raffinata ipocrisia, fanno generali alcuni vantaggi che si restringono a pochissimi».
Non è l’agricoltore che ricava profitto dal caro del grano, ma son gl’incettatori, i quali accrescono i loro capitali, volti ad affamare le città; non è l’operaio che sente il vantaggio della prosperità dell’industria, ma il capitalista; o quelle derrate, i coi prezzi per la libertà del commercio scemeranno, sono oggetti di lusso che non usano né il povero contadino, né l’operaio; quindi il libero commercio, come tutte le altre leggi e tutti gli altri ritrovati che aumentano il prodotto sociale, altro non fa che vantaggiare i ricchissimi con danno manifesto de' poverelli. Per contro, rimessa la società secondo le leggi di natura, i vantaggi del libero commercio saranno evidenti per tutti. Reso impossibile il monopolio, sarà l’agricoltore che godrà del guadagno, il quale, come ora diremo, troverà maggior, vantaggio nello spendere i suoi danari che nel conservarli;; quindi prosperità dell'industria, di cui godranno tutti gli operai sui quali egualmente è distribuito il lucro ed infine, contadini ed operai, vivendo agiatamente, faranno uso di molti generi di cui ora neppur conoscono i nomi, e sentiranno il vantaggio di acquistarli a pochissimo prezzo.
Non è il solo aumento del prodotto che accresce la prosperità, ma questo, per riuscire veramente utile, deve accompagnarsi con l’aumento de' consumatori. Nella società presente cresce continuamente il prodotto, ma il numero de' consumatori, per la crescente miseria, scema. Pochissimi possessori di sterminate ricchezze, fra le miriadi di affamati, è il fine verso il quale inesorabilmente ci avviciniamo. Abolite la proprietà, supponete che la società abbia subito le proposte riforme, ed al crescere delle ricchezze, ugualmente sparse su tutti, crescerà per conseguenza il numero dei consumatori.
In ultimo, poniamo il caso che un capitalista coi suoi milioni venga in mezzo a una nazione cosi costituita, ed esaminiamo in che modo possa impiegare il suo danaro. Non potrà acquistar terre, perché là nazione è la sola padrona, ed essa non vende e non riconosce il diritto di proprietà; fabbricare palazzi nemmeno, perché la nazione, padrona di tutti gli edifizii, se ne impadronirebbe; affidare i suoi capitali ad una delle tante società in cui è ripartita la nazione sarebbe perderli, perché i capitali di esse sono proprietà nazionali, ed egli non potrebbe sperare altro guadagno che quello di essere ammesso come semplice socio, ed aver la sua parte al lavoro ed al lucro, come tutti gli altri operai; stabilire un lavoro, un negozio per proprio conto noi può, perché non troverebbe operai in uno stato, ove tutti fanno parte di società; onde trovarli, potrebbe forse giovarsi di operai stranieri, e così col suo stabilimento far concorrenza alle arti nazionali? Ma, appena fosse per cominciare il suo lavoro, il governo interviene, riunisce gli operai e dice loro: «Voi, per le leggi dello Stato, avete facoltà di amministrarvi e reggervi come meglio credete; tutti avete uguale diritto al godimento del guadagno, il capitale non può appartenere a nessuno, ma allo Stato, e voi nesarete gli usufruttuari!, ed il capitalista con voi, se gli conviene.»—Una tale sentenza, senza esservi bisogno dell’intervento del fisco, e dei birri, gli operai medesimi la porrebbero in atto. Dunque in una società, costituita nel modo indicato, chi riuscisse ad accumulare vistose somme, non potendo impiegarle in modo alcuno, né potendo disporne dopo la morte, troverà il suo miglior partito spendendole e godendosele; e cosi il nuovo patto sociale, non solo abolisce la miseria e la rende impossibile, ma bandisce eziandio l’avarizia, e mantiene il denaro in una continua circolazione.
A coloro, i quali riconoscendo i vantaggi di un tal sistema oppugnassero la. rivoluziono asserendo che la società, senza scossa veruna, ma con un successivo progresso, potrà trasformarsi, noi risponderemo che eglino disconoscono gli effetti inevitabili delle leggi di economia pubblica, applicate alle presenti condizioni dei popoli, che eglino disconoscono i fatti. che ogni giorno si compiono sotto i loro occhi. Lo numerose associazioni, di operai che spontaneamente sorgono, mostrano la tendenza della società verso un avvenire che comincia a presentirsi, ma non migliorano per ciò le loro condizioni. A queste associazioni si opporranno quelle dei capitalisti e quelle, con maggiori danni, dovranno soccombere nella concorrenza. Pretendere che possano sussistere e prosperare istituzioni di utile universale in una società costituita da forze tra loro riluttanti, che vicendevolmente si distruggono, ed il cui sistema è volto a favorire l'utile individuale a danno del pubblico, è pretendere una cosa impossibile; è pretendere che un picciolo rigagnolo segua il corso medesimo di un torrente senza venir travolto e confuso fra le sue onde. La condizione del proletario, senza una completa e violenta rivoluzione, non solo non può cangiare, ma né pure migliorarsi, anzi è forza che essa continuamente peggiori.
Non ei restano ora che due altri punti a prendere in considerazione; uno è di esaminare se manca lo stimolo al lavoro l’altro di vedere se mai siavi nel sistema ii nocivo intervento del governo.
Il lavoro non ò attraente, come asserisce Fourier, ma nemmeno ributtante; senza necessità non lavorasi, ma esistendo la necessità ed armonizzando il lavoro con le proprie inclinazioni, tutto ciò che in esso è penoso sparisce. Quale lavoro sarà più proficuo, quello del proletario che ha il solo stimolo della fame, il cui salario è invariabile, e le cui forze sono logorate dalla miseria; op pure quello di un agiato cittadino, che ha scelto il lavoro secondo la proprio inclinazione, ed il cui guadagno cresce ab crescere del prodotto? Gli infingardi esistono, ma essi, riconosciuti come tali dalla società di cui fanno parte, verrebbero assoggettati ad una multa all'epoca della divisione dei lucri.
Il governò interviene nel solo caso, che osserva la violazione di quei principiostabiliti come base del nuovo patio sociale. Prima che la nazione sia costituita, egli dice agli oziosi proprietarii: «voi non avete diritto alcuno sulla terra: se volete vivere, lavorate; ai contadini: la natura non ha concesso a nessuno la proprietà della terra, tutti sono padroni di coltivarla, e la nazione garantisce loro il frutto de' lavori; per far ciò con ordine, associatevi. Si rivolge al capitalista e gli dice: tu non sei che un usurpatore delle altrui fatiche, il capitale è proprietà nazionale, a le altro non ispetta che una porzione uguale a quella degli operai, e devi, secondo le tue attitudini, lavorare come essi lavorano. Il governo non farà che bandire leggi semplicissime e chiarissime, che nessuno avrà bisogno di ajuto per comprendere; e lascerà ai contadini ed agli operai la cura di porle in alto. Proporrà la costituzione delle varie società, che la Costituente, Congresso di scienziati, avrà compilato, rimanendo ai cittadini piena libertà di respingerli, o modificarli, purché rimangano inviolati i principii. Queste leggi, questi consigli verranno pubblicati dal governo, non già quando la mente è ottenebrata ed il senso comune pervertito dai pregiudizii, ma quando lo spada della rivoluzione ha già rimosso gli ostacoli, quando i contadini e gli operai avranno rotto l’incanto, che li mantiene tra i fragili ceppi del proprietario e del capitalista. Il governo non dovrà sospingere a fare, cosa impossibile ai governi, ma frenare alquanto, indirizzare, dirigere le passioni che la rivoluzione ha sfrenate.
Fin qui della parte economica.
Ora faremo un’osservazione, che riguarda la politica. Il governo rappresentativo è screditato in Europa; l’assemblea, eletta a rappresentare i diritti del popolo, ad altro non serve che a convalidare e vestire con una maschera di legalità e di giustizia le usurpazioni della tirannide. Non havvi principe, dittatore o ministro, il quale non faccia decidere secondo le proprie intenzioni il Congresso che la nazione ha eletto a guarentigia de' proprii diritti. Queste assemblee sovente sono d'impaccio al pronto operare, senza mai essere di ostacolo al male; nascono dalla corruttela, e vivono finché la forza crede dover subire il loro importuno garrito; odiose al tiranno, come che accarezzate, sono sprezzate dalla nazione. Questo tristo fallo, che sembra conseguenza di loro natura, è l'effetto del modo come oggi sono regolali i rapporti sociali: l’utile privato essendo in opposizione col pubblico, produce una diversità di mire, di desiderii, di speranze; e quindi la irreconciliabile discordia delle idee e delle opinioni, e di più, il potere che bn il principe, il dittatore, il ministro di concedere cariche, distribuire oro ed onori, fanno sì che le tante opinioni riluttanti, trovando l'utile su di una via comune, si accordano nel vendersi ad un padrone, e cospirano verso il fine che da esso viene loro radicato. Invece, se il governo non avrà doni da distribuire, né pene da infliggere, se l’utile d’un cittadino dipende dal guadagno della società di cui fa parte, e la prosperità di questa dalla prosperità dell’intera nazione, vi sarà in tutti unità di mire, di desiderii, di speranze, e quindi concordia nelle idee e nette opinioni. Ma quantunque il nuovo patto sociale deva ridurre all'assemblea quella forza, di cui ora manca, pure egli è cosa interessante di non perdere di mira una verità, che dalla stessa natura umana risulta. Le assemblee, capacissime nel sindacare, sono incapaci di conce pire e di eseguire: quindi, per conservare la necessaria energia nelle intraprese del governo, bisognerà sempre (adattando alle circostanze il principio) affidare ad uno solo l’incarico di concepire il disegno e di effettuarlo; quindi unità ed energia nell’azione, riserbandosi l’assemblea un perpetuo ed illuminato sindacato. Non altrimenti governa vasi fi Senato di Roma; e finché nella repubblica non vi furono poveri per vendersi, né ricchi per comprarli, ed ogni cittadino era soldato, la libertà non corse mai rischio veruno. Per contro negli Stati moderni, non v'è potere, per limitato che sia, il quale non tenti e non riesca ad usurpare. Ciò dipende dalla condizione economica della società; ed ogni rimedio, finché non si cangia il patto, è vano.
Molti osserveranno, che, per attuare una simile trasformazione, sarà necessario far violenza ai proprietarii ed ai capitalisti. E noi risponderemo che si; e ciò in forzo di quel diritto medesimo, che hanno gli oppressi di abbattere la tirannide, che ha la società presente contro i ladri.
Finalmente, se in cotesta trasformazione, certo meno violenta di quello che molti si vanno immaginando, motti interessi privati soffriranno, e moltissimi cadranno nella lotta, noi risponderemo che le rivoluzioni in cui tuttisi salvano, esistono solo nella mente dei dottrinanti e degli utopisti. La rivoluzione è sempre una lotta di oppressi contro una classe di oppressori. Quindi se vi sarà vittoria, vi sarà eziandio disfatta; scacciare un re dal trono non è rivoluzione; la rivoluzione si compie quando le istituzioni, gli interessi, su cui quel' trono poggiava, si cangiano.
Conchiudiamo, ripetendo agli economisti le medesime loro parole: Non ti giunge, senza perdile, sulla breccia. Né possiamo tener conto delle vittime, che il carro del progresso schiaccia nel suo corso .»Ed usando ti medesimo linguaggio di Malthus di remo: «La Natura ha prescritto all’uomo di lavorare per vivere; l’ozioso non ha posto nel banchetto della rifa; la natura gli comanda diandarsene, né tarderà dare ella medesima esecuzione alla sua sentenza.»
XIX. La filosofia della storia prova ad evidenza, che l'umano istinto, come è sua natura, considerando la sola apparenza e l’effetto immediato delle cose, senza riflettere sulle conseguenze che nc risultano, va soggetto ad un continuo errore; quindi la pubblica educazione, che ferma l’attenzione e sviluppa il pensiero, non solo è dovuta di diritto ad ognuno, ma è il cardine principale della libertà.
IlFilangieri, col suo naturale splendore, lungamente ha ragionato di ciò; ma, suo malgrado, soggiacque ai pregiudizii ed alle opinioni dell'epoca. Egli richiede la prosperità universale come una condizione indispensabile alla felicità di uno stato. Che può dirsi ricco e felice, egli scrive, solo quando, ogni cittadino, con un lavoro discreto di alcune ore, può comodamente supplire ai suoi bisogni ed a quelli della sua famiglia. Nell'epoca in cui visse l'autore, l'accrescimento continuo del prodotto faceva credere come cosa possibile, che la prosperitàpotesse un giorno non ugualmente ma equamente spandersi su tutti; non ancora l’esperienza avea dimostrato il contrario e disingannato gli illusi; non ancora la ragione avea sentenziato che: l’universale miseria e l'opulenza di pochissimi è il risultamento inevitabile del presente patto sociale.
Il Filangieri adattò il suo sistema d’educazione ad una società composta di due classi, ricchi e non ricchi; destinava i primi a servire la società con la mente, i secondi con le braccia, e quindi due metodi diversi di educazione. Per impedire che sorgesse un gran numero di semidotti, che ora si vedono, i quali senza utile della scienza privano il lavoro di braccia, fece in modo che la dottrina fosse accessibile, per le spese che richiedeva, ai soli ricchi. Ma cotesta base, sulla quale poggiano le diverse parti del suo sistema, egregie tutte, è erronea.
La diversità delle incombenze, cioè: servire la società con la mente e con le braccia, dal sistema del Filangieri era resa ereditaria, ed il popolo sarebbe stato diviso in due classi, non solo separate dal caso, distributore delle ricchezze, ma dalle leggi, che non per diritto, ma di fatto accordavano ai soli ricchi il monopolio della scienza. Né il vendere a caro prezzo la dottrina avrebbe minorato il numero de' semidotti, anzi ciò l'avrebbe accresciuto oltre misura. La vera dottrina è raggiunta solo da quelli che la natura predispone a ciò, concedendo loro le necessarie facoltà per conseguirla; ed a questa predisposizione, che sola non basta, fa d'uopo che si aggiungano de' gagliardi moventi, che gli avvenimenti, a cui la società va soggetta, creano; e tanto l’una, come gli altri, difficilmente si riscontrano, raramente operano fra il giro ristrettissimo dei ricchi, a cui l’abbondanza, il lusso inflacidiscono le fibre, e più all’ozio che alla solerzia li predispongono; i ricchi non sarebbero che semidotti, e divenuta la dottrina un privilegio da ottenersi a prezzo d’oro, i semiricchi, per far comprendere i loro figli fra coloro che debbono servire lo stato con la mente, ovvero comandare, farebbero qualunque sacrifizio, ed il numero dei semidotti verrebbe accresciuto in immenso. Inoltre ne seguirebbe lo scadimento, l'avvilimento del lavoro e di coloro che dai ristretti mezzi sarebbero condannati a servire la patria con le braccia. Cosi ogni legge, che per impedire un male qualunque, pregiudica la libertà e l'eguaglianza, produrrà sempre un effetto diverso da quello che si propone il legislatore.
Gli uomini sono naturalmente inclinati al lavoro delle braccia. Si giovano delle facoltà mentali, per agevolare il lavoro di quelle; la dottrina, l'astrazione non è naturale all’uomo. Ha, i governi d oggi, che per intervenire in ogni cosa creano un numero strabocchevole di salariali; la foraggine dileggi oscure e contraddittorie d’onde pullulano a sciami i curiali, come dalla putredine gli insetti; e salariali e curiali impinguandosi a spese di coloro che lavorano, hanno diviso la società in scorticatori e scorticati, ed avvilito il lavoro. Ognuno, se sa leggere, potendo farsi comprendere fra i primi, crede avvilirsi se adopera la marra, o conduce l’aratro. Ma allorché sarà data al lavoro la considerazione ché merita, nessuno l'abbandonerà per una semidottrina, che non potrà fruttargli né considerazione, né lucro. Lasciamo a tutti aperta la via che mena alla scienza, ed essa sarà percorsa, volontariamente, solo da coloro, che la natura ha destinato a sublimarsi in essa. Questo è il principio generale sul quale bisogna basare il sistema d’educazione, nei particolari, egregiamente svolto dai Filangieri; e però noi non faremo che accennare poche idee senza dilungarci su d’un argomento ampiamente trattato da altissimi ingegni.
Sino all'età dei sette anni, le cure materne sono indispensabili, sono prescritte dalla natura. Raggiunta questa età, lo sviluppo fisico è pienamente assicurato, l’educazione del fanciullo verrà affidata allo Stato.
Ogni comune avrebbe il suo ginnasio ove si troverebbero tutti i mezzi necessari! allo sviluppo completo delle facoltà fisiche e morali. Né dovrebbe trascurarsi la sublime idei) del Campanella, di adornare le pareli con dipinti che tutte le scienze rappresentassero.
Non dovrebbero i convittori vivere in comune, imperocché per ottenere l’unità nazionale bisogna riserbare integra ogni individualità, ed il vivere sempre insieme forma sette, quindi i giovanetti sarebbero tutti alunni esterni.
L’educazione in questi ginnasii durerebbe sino all’età di quindici anni, nel qual tempo ogni alunno apprenderebbe un’arte di suo gradimento. Dai quindici ai sedici tutti sarebbero obbligati di assistere ad un corso di filosofia civile ed origine di tutti i culti, onde ognuno imparasse i diritti di cittadino e potesse garantirsi dalla superstizione. Ai sedici anni le naturali inclinazioni sono pienamente sviluppate, ogni giovane dichiara la sua volontà, e sceglie l’arte o la professione alla quale vuol dedicarsi. Lo Stato gli accorda altri due anni d’istruzione nella specialità da esso prescelta, e queste scuole di tecnologia si troverebbero nelle principali città d'Italia. A diciotto anni la tutela della nazione cessa, ed il giovane, avendo il diritto di entrare in un’associazione di sua scelta, è dichiarato cittadino e milite, e deve da sé procacciarsi da vivere.
Ragioneremo ora dell educazione delle donne e di ciò che ad esse riguarda, con la brevità medesima che ci siamo imposti in questo ramo della costituzione sociale. Sarebbesi lasciata una lacuna troppo Significante, tacendo della più bella parte del genere umano, depositaria dei più vivi ed ardenti piaceri. La natura ha dato loro fibre più delicate e più sensibili delle nostre, e però le loro sensazioni vivissime, non possono essere che fugaci; elleno non possono sopportare lungamente l’impero d'una passione, che deve in loro ammorzarsi con la rapidità medesima con cui si desta. Capaci di quelle azioni ove il decidersi e l’eseguire succedonsi rapidamente, sono poi incapaci di sopportare a lungo dolori e mirare al conseguimento di un fine con attenzione profonda e prolungata: brillano s), ma non grandeggiano.
L’amore nelle donne ha un carattere diverso che nell’uomo; l’uomo s’accende delle bellezze della donna e desidera fortemente; la donna invece è presa dall’amore che inspira, non desidera, ma brama di essere desiderata. Dante, parlando di Francesca, ha espresse questa idea:
«Amor che a nullo amato amar perdona
«Sii prese del costui piacer si forte,
di qui il pudore, che accresce in altri il desiderio. Epperò la preponderanza dell’amore sulle altre passioni, aggiunte allecure ed agli incomodi di dovere esser madre, la rendono inabile al governo ed alla milizia; quindi essa non potrebbe aver voto nelle cose pubbliche. Ma, d’altra parte, la natura, avendo creato le donne abili a procacciarsi il vivere, le ha dichiarate, perciò, indipendenti e libere; e tale dovrà essere la loro condizione sociale. Esse saranno educate come gli uomini con i riguardi e le modificazioni nel metodo, che si debbono alla gentilezza del sesso. Al pari degli uomini, con eguali diritti, dovranno essere ammesse in quelle società che prescelgono. Probabilmente i lavori da sarto, da crestai, le belle arti, si eserciterebbero da donne.
Tutte le leggi sono scaturite dalle dipendenze che la violenza e l’ignoranza stabili fra gli uomini; ed in tal guisa il matrimonio risultò dai ratti, che i più forti fecero delle più belle, per usurparne il godimento. La natura, per contro, sottopone l’unione dei due sessi alla sola legge dell’amore, e se un’altra regola, qualunque siasi, interviene, l’unione cangiasi in contratto, in prostituzione. La meretrice che senza amore vende il suo corpo, la donna che senza amore sottoscrive ad un contratto matrimoniale, si prostituiscono ugualmente. La prima vi e costretta dal bisogno e vendesi per breve tempo; l’altra è più 'spregevole, perché, senza bisogno, vendesi per sempre; quella non promette amore né si obbliga a rinunziarvi, questa lo promette per sempre quasi premeditando lo spergiuro. L’amore adunque, nel nostro patto sociale, sarà la sola condizione richiesta a rendere legittimo il congiugnimento de' due sessi. Se manca l’amore, la volontà, la libertà, diventa prostituzione.
La comunanza delle donne non è naturale, l’amore è esclusivo; quasi tutti gli animali non si accoppiano che ad una sola femmina; le varie coppie si formeranno da sé, l’unione durerà finché dura l’amore. Cessato questo, l’unione è sciolta di fatto.
L’uomo deve provvedere alla sussistenza della sua compagna finché i doveri di madre le impediscono di lavorare.
I figli rimarranno con la madre, alla quale per legge di natura appartengono. Sino ai sette anni essa provvederà, con l’aiuto del padre, che dovrà concorrere alle spese necessarie per essi con una somma proporzionata ai suoi lacri. Dai sette anni ai diciotto la nazione ne assume la tutela e l’educazione; ai diciotto sono liberi affatto e provvedono a sé medesimi.
Non essendovi testamenti, né le altre mostruose leggi, che vorrebbero rendere ereditario finanche il merito, il formarsi e lo sciogliersi delle coppie non ha ostacoli, né impaccio di sorte alcuna.
Qui finisco, ed avendo misurato le vele col vento ed il timone con Tonde, non mi sono imposto l'obbligo.di risolvere il problema sociale. Il mio proposito è stato di mostrare la profondità delle piaghe, e l’inefficacia d’ogni rimedio, finché non venga estirpato il diritto di proprietà e la serie delle sue conseguenze: e questo proposito, credo d’averlo compito. Spetta all'intera nazione di stabilire, dopo aver tolto gli ostacoli che ho additati, la sua nuova costituzione; e se ho cercato d’indicarne i punti principali, l'ho. fatto solo per rintuzzare la stupida risposta: è impossibile vivere altrimenti. Il rinvenire in questo cenno degli inconvenienti non sarà difficile, ma saranno, certamente, molto minori dei mali sotto cui l’umanità geme oppressa; mali che fatalmente, senza tregua, ingrandiscono; mali, che la prepotente forza dell’abito fa credere inevitabili, e perciò vengono con pazienza sofferti.
Nella ricerca della nuova costituzione sociale ho seguito il metodo semplicissimo, che il corso naturale degli avvenimenti additavanli: distruggere il presente, e creare il nuovo patto sociale, basandolo su’ principii che le leggi magistrali della natura c’insegnano. Ilo svolto poi i vantaggi del sistema dimostrando, che le tendenze funeste della presente società, vengono completamente a cangiarsi.
Conchiudo con rammentare a' conservatori, che la rivoluzione sociale non sarebbe affrettata neppur d’un’ora, eziandio se tutto il mondo riconoscesse attuabile un nuovo ordinamento sociale. Questa crisi della società dipende da cagioni assai più terribili e fatali. Essa dipende dalle tendenze che inesorabilmente, in progressione geometrica, si manifestano. Potete voi, non già estirpare la miseria, ma evitare che cresca? Potete voi negare che la forza materiale è dalla parte di coloro che soffrono? E se le tradizioni e l’inerzia formano il solo fascino per cui la società presente non crolla, in un istante impreveduto può rompersi l’incanto.
XX. Senza accordare importanza soverchia ai colori d’una bandiera ed alla formola scritta su di essa, esporremo la nostra opinione su di ciò, poiché trattasi di cosa che richiede pochissima fatica; opinione di cui ci faremmo propugnatori in un’assemblea, se mai potesse capitarne l’occasione.
Fintanto che la nazione non sarà perfettamente libera, ed avrà completamente debellati i suoi nemici, non bisogna né discutere, né porre in dubbio, quale dovrà essere la bandiera che ci condurrà alla battaglia. Il vessillotricolore è da tutti riconosciuto, e ciò basta. Orò sventola, ei rannoda dei guerrieri intorno a sè, questi guerrieri combattono pel trionfo della rivoluzione italiana, e nessun rivoluzionario può astenersi dal seguirli. Ma se su tale bandiera, scorgesi un simbolo od una formola, allora ognuno ha il diritto di dire: quella causa non è causa che mi riguarda, e per la quale io combatto; proporre formole, è un dissolvere e dissolvere per puerile soddisfazione personale.
Terminata la guerra, ricostituita l’Italia, conserverà essa il tricolore vessillo, o adotterà un’altra bandiera? Pare che le opinioni potrebbero dividersi su tale argomento. Alcuni sosterrebbero con ragione che la nuova costituzione sociale non ammettendo divisione di potere, ma leggi, la loro esecuzione, il loro sindacato, tutto trovandosi nel popolo, la pluralità de' colori, che precisamente accenna, è assurda, e quindi diranno, sia qual si voglia il colore della bandiera, ma sia uno solo. Altri invece potranno sostenere che il vessillo tricolore, intorno a cui si saranno vinte (ante battaglie, è troppo caro, è troppo ricco di gloriose reminiscenze, per abbandonarlo, perché non trovisi perfettamente d’accordo con la logica. Noi saremmo tra questi ultimi, proponendo solo, che il berretto frigio ne sormonti l’asta, escludendo ogni altro simbolo di autorità e di conquista, e che nel mezzo di esso, l’archipendolo indichi come l’uguaglianza sia il patto fondamentale di nostra costituzione.
Rimane ora a discutere quale sarà la formola che adotterà la nazione. Noi trascriveremo il ragionamento sensatissimo, che troviamo nell’opera di Ausonio Franchi. La Religione del secolo XIX, in cui si fa paragone tra la formola francese Libertà, Eguaglianza, Fratellanza e la formola di Mazzini Dio e Popolo.
«Esaminiamo le differenze radicali, finora poco avvertite, e nondimeno importanti, che Mazzini scorge fra una formola e l’altra. La francese è essenzialmente storica; ricapitola in certo modo la vita dell'umanità nel passato, accennando poco definitivamente al futuro.»
Questo giudizio, né quanto al passato, né quanto al futuro, non parmi esatto. La formola: Libertà, Eguaglianza, Fratellanza, non può dirsi che ricapitoli la vita reale dell’umanità nel passato; perché non può ricapitolarsi quello che non è ancora esistito; e Mazzini per fermo non saprebbe indicarci nessun’epoca della storia, in cui già regnasse la libertà, l’eguaglianza e la fratellanza universale. Onde egli stesso, tracciando l’ordine e lo sviluppo con coi si vennero elaborando, i tre elementi della formola, pria sempre dell’idea, non mai del fatto. E però, Se la formola teoricamente è la ricapitolazione del passato, praticamente è la legge del futuro; legge non poca definita, ma così chiara, che non ha mestieri d’alcuna spiegazione; così vasta che abbraccia tutte le condizioni private e pubbliche della vita; così progressiva che nemmeno col pensiero si può oltrepassare la perfezione, che prefigge qual meta alla carriera dell'umanità.
«La formola italiana (così appella Mazzini la sua) è invece radicalmente filosofica; accettando le conquiste del passato, guarda risolutamente al futuro e tende a definire il metodo più opportuno allo svolgimento progressivo delle facoltà umane». — Confesso che tutto questo periodo è per me un enigma. In qual senso può mai chiamarsi filosofica l’espressione: Dioe Popolo? Nessuno di questi due termini ha qualche relazione particolare con la filosofia: non Dio, perché è concetto religioso, anziché scientifico; non il Popolo, perché è concetto empirico, anziché razionale. E come può dirsi, che quella formola accetti le conquiste del passato? Né Dio né il Popolo sono principii, che l’umanità abbia conquistato; ma l’uno è il simbolo di un sentimento connaturale allo spirito umano, e l’altro, per sé, non è che un fatto materiale. Come può dunque guardare al futuro? Come tendere a definire un metodo qualsiasi per lo svolgimento delle umane facoltà? Ho un bel ripetere a me stesso: Dio e il Popolo; io non ritrovo in queste parole né passato, né futuro; non ci veggo né definizione, né metodo di sorta; non ci 'sento né progresso, né svolgimento di nessuna facoltà: scientificamente non ci trovo nulla; perché Dio è un’incognita, e il Popolo è un fenomeno di storia naturale.
«La prima esprime compendiato un grande fatto . la seconda scrive su la bandiera un principio. La prima definisce, afferma il progresso compiuto: la seconda costituisce lo strumento del e progresso; il mezzo, il modo, per cui deve compirsi.» A me sembra tutto il contrario. La formola francese non esprime un fatto ma un principio; perché i suoi elementi sono idee, sono verità, che hanno ancora da incarnarsi e realizzarsi nella storia. Essa adunque afferma bensì un progresso compiuto nell'ordine del pensiero, ma determina insieme la legge del progresso da compiersi nell’ordine dell’azione. All'incontro, la formola di Mazzini non significa né il progresso compiuto, né quello da compirsi; né la verità d’un principio, né la legge d’un fatto; e l’ingegno il più acuto ed analitico del mondo non arriverà giammai a scoprire in quelle due voci la costituzione di uno strumento, di un mezzo di un modo quale che sia di progresso.
Ben ve lo scorgeMazzini, lo so; ma ve le scorge mediante un commento, che dà ai due termini unsenso tutto suo proprio. Egli Continua infatti: «Una formola filosofico-politica, per aver dritto e potenza d’avviar normalmente i lavori umani, deve racchiudere due sommi termini: la sorgente e la sanzione morale del progresso; la legge e l’interprete della legge.»
Questa nozione della formola politica, a mio avviso, è falsa. Una formola scientifica non è altro, che l’espressione chiara e concisa, e quasi la riduzione a' minimi termini di una legge. Ora che cosa sono, nel linguaggio filosofico, le leggi? Sono i rapporti naturali e necessari degli esseri Ma per determinare questi rapporti non fa d'uopo di assegnare la sorgente; e nessuna legge fisica, matematica, metafisica e morale si £a dipendere in alcuna guisa dal concetto della sua causo. Dunque il primo' termine, che Mazzini prescrive alla formola, non le appartiene.
E non le appartiene neppure il secondo, che è, giusta la sua dottrina, la sanzione o l’interpretazione della legge. In primo luogo perché la sanzione d’una legga non ha che fare con la sua interpretazione: identificare l’una con l’altra, è distruggerle entrambe. In secondo luogo, perché la formola d’una legge è affatto diversa ed indipendente dallo sua interpretazione e dalia sua sanzione: le sono quistioni d’ordine e di natura al tutto differente: confonderle in una; è renderle insolubili tutte.
La formola politica adunque non deve esprimere altro, che la legge sociale, ossia i rapporti naturali e necessarie de' cittadini verso la nazione, e delle nazioni verso l’umanità. La sorgente poi e la sanzione di questa legge sono due problemi a parte, gravissimi e importantissimi quanto ai voglia, ma indipendenti dalla formola. Dunque allorché Mazzini soggiunge: «Questi due termini mancano alla formola francese; costituiscono l’italiana,» pronuncia senz'accorgersene il più grande elogio di quella, e la più severa condanna della sua.
«La sorgente, la sanzione morale della legge sta in Dio, cioè in una sfera inviolabile, eterna, suprema, su tutta quanta l’umanità, e indipendente dall’arbitrio, dall’errore, dalla forza cieca e di breve durata. Più esattamente Dio e Legge sono termini identici.» Con questo commento, lungi dallo spiegare la sua formola, Mazzini la immerge in un pelago di nuove difficoltà e di nuovi misteri. Se Dio e Legge sono termini identici, la sua tesi, che la sorgente, la sanzione della Ugge eia in Dio, equivale precisamente a quest’altre: la sorgente della legge è la legge; — la sanzione della legge è la legge; — la sorgente di Dio è Dio; — la sanzione di Dio è Dio; — la legge è legge; — Dio è Dio. — E che senso daremo noi a questo gergo? Inoltre se la legge è Dio, convien dunque sapere che cos’è Dio, per conoscere che cosa sia la legge. E il Dio di Mazzini qual è? Ecco il nodo della quistione. L’accennare come egli fa ad una sfera inviolabile, eterna suprema non è definire; poiché a tutte quante le religioni e le sette possono appropriarsi quelle belle parole; ma sono parole! Avanti d'accettare la sua formola, dobbiamo chiedergli, che ci dica una buona volta, senz’ambagi e senza tropi, che cos’è Dio? Ovvero fra varii Dei presentemente noti in Europa, qual è il suo? Teologicamente noi possiamo annoverarne quattro, assai diversi fra loro: il Dio degli Ebrei, il Dio de' Cattolici, il Dio de Maomettani, e il Dio de Protestanti. Filosoficamente poi li Dei possono coniarsi a centinaia.
Ciascuno de' molti sistemi di panteismo, di materialismo, di spiritualismo, d’idealismo, ecc., ecc., ha un suo Dio particolare, che è sempre la negazione del Dio di ciascun altro. Or bene; fra questa turba di Dei, qual è il Dio che Mazzini adora e che vuol farci adorare? Da' suoi scritti noti mi venne mai fatto di raccapezzarlo; poiché ci sono frasi per tutti: ce n’è per il Dio del Papa, per quello di Lutero, per quello di Maometto, per quello di Socino, per quello di Rousseau, per quello di Spinosa... Non é dunque possibile che la sua formola abbia un valore, finché il primo e massimo elemento non è ben definito.
L’interpretazione della legge fu problema continuo all’umanità. — «La formola italiana affida l’interpretazione della legge al popolo, cioè alla nazione, all’umanità collettiva, all’associazione di tutte le facoltà, di tutte le forze coordinate ad un patto.»— Qui abbiamo una certa definizione; ma siccome è arbitraria, cosi non vale a costituire né legge, né formola veruna. Chi abbia già del Popolo la sublime idea, che a Mazzini venne inspirata dal suo nobile cuore, dirà come lui, certamente: ma i termini d'una formolo, di una legge sociale, devono portare in sé stessi il loro valore, e non ritrai lo dall'arbitrio e dall'intenzione dello scrittore. Fra i due termini Dio e Popolo, non è espresso alcun rapporto; dunque o bisogna supporre, che l'unico rapporto possibile sia quello di Mazzini; o altrimenti la suo formola non significa nullaperché non determina nulla. Il primo caso non è ammessibile, dacché ripugna egualmente alla logica ed alla storia, dunque stail secondo.
«La formola italiana, intesa a dovere, sopprime dunque per sempre ogni casta, ogni interprete privilegiato, ogni intermediario per diritto proprio tra Dio, padre e Inspiratore dell'umanità, e l’umanità stessa». Ma perché possa produrre tanti bei frutti la formola va intesa a dovere, cioè nel senso di Mazzini; ché altrimenti, preso ciascun termine come suona, non ha senso alcuno determinato. E questa clausola sola non prova abbastanza la completa nullità della formola mazziniana? La francese all'incontro sopprime ogni casta, ogni interprete privilegiato, senza bisogno di chiose, che ne la facciano intendere a dovere; ma semplicemente in virtù del senso naturale, ordinario e volgarissimo delle parole. Dovunque sia libertà, eguaglianza, e fratellanza, ivi è impossibile fino il concetto di casta e di privilegio; laddove Dio e il Popolo sono dappertutto, e pure dappertutto regna il privilegio e la casta.
«La formolaitaliana, generalizzata da una nazione all’associazione delle nazioni, dichiarata fondamento d’una teoria della vita: Dio è Dio, e l’umanità è suo profeta». Non so capire come un apostolo del progresso abbia potuto tenere questo linguaggio, che odora cosi forte di musulmano. Oh! Mazzini dovea lasciarlo a quei devoti e fanatici settarii, i quali credono tanto più fermamente una cosa, quanto più è incomprensibile ed assurda; ma egli parla ad uomini civili del secolo XIX, e sa meglio di me, che costoro non sono disposti a credere, se non quello che intendono. O spera forse d’aver loro tolto ogni dubbio e chiarita ogni difficoltà con quella strana definizione. Dio è Dio? E quando avranno imparato che Dio è Dio: conosceranno poi davvero, cos’è Dio? Quando pure gli concedano che l’Umanità è Profeta di Dio, potranno persuadersi d’aver trovato il fondamento d’una teoria della vita? Una teoria non può assumere per fondamento se non un principio certo ed evidente; e Mazzini vuol fondare la teoria della vita sopra un giuoco di parole, sopra un’incognita?
«La formola italiana è dunque essenzialmente, inevitabilmente, esclusivamente repubblicana; non può uscire che da una credenza «repubblicana, non può inaugurare che repubblica». —Ed anche questa conclusione è fallace. La formola Dio e Popolo non è, e non può dirsi né esclusivamente, né inevitabilmente repubblicana, poiché è essenzialmente indeterminata, ossia nulla. Essa riceve il suo significato dal carattere di chi la proclama; ed è repubblicana sulla bandiera di Mazzini, come sarebbe teocratica su quella di Pio IX.
«La formola francese, non accennando alla sorgente eterna della legge, ha potere per difendere con la forza, colterrore, non con l’educazione, alla quale manca la base, le conquiste del passato; è muta, incerta, mal ferma su l’avvenire.» V’ha qui un gruppo di metafore, in cui non veggo lume da nessuna parte. Accusare una formola di non potersi difendere! Mescolare insieme formola e forza; formolo e terrore, formola ed educazione! O che? la formola dev'essere dunque un esercito o una fortezza, una scuola o un’accademia? E la formola di Mazzini ha dunque il potere di educare? A crederlo però aspetteremo di vederla salire in bigoncia, e di ascoltare le sue pedagogiche lezioni! — Del resto che la francese non accenni alla sorgente della legge, è appunto il suo pregio e il suo merito principale; e che sia muta, incerta, mal ferma su l’avvenire, non può sostenerlo, se non chi ignori o voglia affatto dimenticare il senso più ovvio delle parole libertà, eguaglianza, fratellanza.
Il rimanente del suo discorso dovrei dire, se non si trattasse di Giuseppe Mazzini, che offende troppo il senso comune. « La formola francese non definendo l’interprete dalla legge, lascia schiuso il varco agliinterpreti privilegiali, papi, monarchi o soldati. Quella formola potè nascere dagliultimi aneliti d’una monarchia, sussistere ipocritamente in una repubblica, che strozzava la libertà repubblicana di Roma: soccombere sotto il nipote di Napoleone, che dichiarava: io sono il migliore interprete della legge, io sarà tutore alla libertà, al? eguaglianza, alla fratellanza de' milioni ». Come! Mazzini trova modo di associare insieme questi concetti: libertà e privilegio, eguaglianza e Papa, fraternità e monarca o soldato! Ma se questi non sono concetti rigorosamente, evidentemente, palpabilmente contradditorii, c’insegni un po’ che cosa sia ripugnanza e contraddizione; giacché se mi permette di ragionare con la sua logica, io gli convertirò tutti gli assurdi in altrettanti assiomi. — Inoltre, quel rimprovero ch'esso rivolge alla formolo francese, mi fa nuovamente dubitare, ch’egli esiga proprio dalle foratole l’officio degli schioppi, dei cannoni, e delle bombe.
Ma non è una stranezza, a dir poco, 1 imputare ad una formola le iniquità di un governo 1 quelle iniquità erano forse una conseguenza legittima e necessaria di quella formola? Questo governo era forse 'fedele al suo principio? A chi mai farà credere Mazzini, che se in luogo delle parole: libertà, égalité, fraternità, fosse stato scritto in fronte ai pubblici monumenti: Dio e Popolo, l’assemblea francese non avrebbe decretato la spedizione di Roma, né Bonaparte avrebbe fatto il colpo di Stato? Le parole: Dio e il Popolo ben erano scritte sulle bandiere di Roma; e perché non fecero il miracolo di salvarla? Perché Mazzini non isconfisse i battaglioni francesi, non disperse le artiglierie tedesche, non mantenne saldi ed incolumi i bastioni italiani, col suo magico grido: Dio e Popolo? — In verità, io arrossisco di dover discutere argomenti cosi stravaganti. No, Napoleone non commise la follia di dichiararti tutore della libertà, dell’uguaglianza, e della fratellanza dei milioni. Egli fu assai più consentaneo a sé stesso: « giù la liberti, egli disse, giù l’eguaglianza e la fratellanza! Io sono il vincitore e comando: il popolo è vinto e obbedisca.» — E quella povera formola, che Mazzini stima conciliabile di fatto col dispotismo, Napoleone non la giudicò compatibile, né pur di solo nome, col suo potere: la cancellò dappertutto! Ma invece quale è la formola, che trovò bella e fetta per lui? È quella di Mazzini: in nome di Dio e del Popolo (par la grace de Dieu et la volonté nationale)....
Ed è la storia, non io, che di una smentita cosi franca e solenne a quell’altra singolare asserzione: «Né papa né re potrebbero assumere co’ repubblicani italiani linguaggio siffatto. La formola Inesorabile gli direbbe: non conosciamo interpreti intermediarii privilegiati tra Dio e popolo: scendi ne’ tuoi ranghi, ed abdica. »
Si, Bonaparte ha attutito linguaggio siffatto co’ repubblicani; e la formolo di Mazzini si mostrò, non mica inesorabile, ma la più compiacente e pieghevole creatura del mondo. Essa non solamente stette cheta e si tacque; ma fece assai più, ed assai peggio. Si presentò lesta lesta al Bonaparte e gli disse: «Tu cerchi un’insegna per la tua bandiera, ed un’iscrizione pe’ tuoi decreti: eccomi qua, nata, fatta per te. Grida sempre: Dio e Popolo, e fa quel che vuoi: tu avrai sempre ragione.» — Oh! Mazzini è tornato in mal punto a celebrare la sua formola. Doveva almeno purgarla dal fango, di cui l'ha contaminata Bonaparte! e assolverla dall’infamia, onde l’hanno coperta i bonapartisti!
Ho cominciato a trascrivere questa splendida confutazione della formola mazziniana, col proposito di sceverarla de' periodi meno interessanti; ma, fatta eccezione di alcune parole, nel principio ed alla fine, le une che servono di legame con quello di cui precedentemente ragiona l'A. e le altre che riguardano lui personalmente, non ho trovalo nulla che ridondi, che non interessi, che non piaccia; perciò interamente e fedelmente l'ho trascritta. Aggiungo ora le mie osservazioni.
Le condizioni alle quali debbe soddisfare una formola politica, attenendoci alle opinioni medesime del Mazzini e del Franchi, sono che: deve esprimere la verità d’un principio, la legge d’un fatto; un principio che, base del patto sociale, determini i rapporti de' cittadini fra loro e con la società, ed accenni eziandio la legge che darà norma al progresso futuro. E tutto ciò, leggendo la formola, deve presentarsi chiaro, immediato, consueto alla mente d’ognuno, senza aver bisogno d’interpreti o di commenti.
A me pare che la formola francese non soddisfi a queste condizioni. Il suo merito altro non è che non contraddirle. Libertà non può esistere senza eguaglianza; quindi una di queste due parole è superflua; se tutti sono eguali non potranno essere che liberi, né potranno dirsi liberi i cittadini fra cui non siavi eguaglianza: e la fratellanza poi, come che accenni il fine a cui tende la nazione, il patto che lega i cittadini, è un ipocrisia, perché non esiste in natura; e se i cittadini vivranno come fratelli, perché tali li rendono gl’interessi tutti cospiranti al bene pubblico, non perciò saranno tali. Inoltre da questa parola viene l’odore del cristianesimo a mille miglia.
Non comprendo come sia sfuggita alla mente di tutti la formola semplicissima e chiarissima, già titolo d’un savio giornaletto che pubblicavasi in Genova: LIBERTÀ d'ASSOCIAZIONE!
Questa formola, evidente per sé medesima, non ha bisogno né d’interpreti, né di commenti; essa è un principio, ed è quello appunto su cui deve basarsi il patto sociale: la libertà esprime il diritto d’ogni italiano, l’associazione la sola legge a cui si sottopongono, il solo patto che li unisce, l'unico rapporto sociale e sotto questa unica legge, eziandio, deve svilupparsi l’indefinito progresso sociale.
Come Ausonio Franchi, dico che per noi deve essere: nostrale ogni verità, straniero ogni errore; ma in parità di circostanze preferisco ciò ch'è italiano a ciò ch'è straniero. E quando ad una formola adottata da un’altra nazione io trovo di sostituirne altra uguale o migliore, non dubito un istante; perché l’imitazione, non è mai scompagnata da qualche cosa di servile. Sono umanitario; ma innanzi tutto italiano; e come in una nazione non può costituirsi il nuovo patto fra i cittadini, se ognuno di essi non acquisti piena ed intera la sua individualità, così non vi sarà fratellanza, o meglio associazione di popoli, se prima ogni popolo non ottenga là sua completa autonomia; e come è impossibile sorgere a libertà prima che ognuno senta ed operi liberamente, del pari il primo passo che dobbiamo fare noi Italiani, onde avviarci alla soluzione del problema umanitario, è quello di sentirci e di costituirci esclusivamente italiani. Come dalla libera manifestazione del pensiero d'ognuno, risulta il vasto concetto nazionale; dalla libertà ed esistenza propria ed assoluta d’ogni nazione, può risultare il patto umanitario. Chi ammette supremazia di nazione, astri e satelliti, nega la rivoluzione verso cui aspiriamo.
FINE DEL TERZO SAGGIO.
(1)Se tale fatto è una legge che si riscontra nell’ordine della natura, e però immutabile, è un fatto altresì che questa opinione, questi costumi, questa lingua mondiale non sarà né tedesca, né francese, né inglese, né italiana. Supporre che il mondo abbia a parlare un giorno o francese, o tedesco, vale disconoscere l’origine delle lingue, e per stabilire la lingua da parlarsi universalmente, e da popoli che non balbettino gerghi, ma favelle illustrate da sterminale elaborazioni, e che narrano un passalo ricco di gloriose vicende, e potentissime tradizioni, non varrebbero tutti i decreti del mondo. La lingua studiata, la lingua dei dotti, soggiace sempre alla preponderanza dei dialetti, e la lingua, come i costumi mondiali, sorgeranno dal rimescolamento sociale senza che nessuno degli elementi che era esistono prevalga; la prevalenza suppone conquista, stato antirivoluzionario, violento, e però passeggiero. Si parlò forse francese in Italia all'epoca che questi stranieri la conquistarono? No; corruppesi la nostra favella, e se il sentimento nazionale non l’avesse ritornata alla sua purezza, gli Italiani non avrebbero più parlato italiano, ma neppure avrebbero parlato francese.... Da tutte le moderne lingue dovrà' sorgere uh dialetto prima plebeo, poi illustralo da' poeti, dagli scrittori, per diventare in ultimo lingua mondiale. Dire che il mondo parlerà francese, significa rinnegare assolutamente la rivoluzione per la smania d’infrancesare il globo.
Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura! Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin) |
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