Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024) |
PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO |
I MARTIRI PER LA LIBERTÀ ITALIANADELLA PROVINCIA DI SALERNO DALL’ANNO 1820 AL 1857con appendice intorno al moto rivoluzionario del 1860per Antonio P izz o lorussoSalvete ombre d eroi!... Ne’ forti secoli Delle patrie future, spirto e soniti Di nostre glorie, volerete specoli D’amor, di libertà! Tito Mammoli: Maratona » SALERNO TIPOGRAFIA NAZIONALE 1885 |
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Al
Chiarissimo Commendatore
Antonio Cassano
Nelle Giuridiche e Storiche Discipline
Patriota Integerrimo e Leale
Raro Esempio di Gentilezza e Cortesia
In Segno di Alta Stima e Sincera Osservanza
Ill.mo Signor Commendatore
Alla S. V., abbenché dissenzienti in fatto di politica, è devoluto questo libro: perché nel suo alto patriottismo fu il primo ad ispirarmelo.
Sono io riuscito nell'intento che mi prefiggeva: di riassumere come in un quadro tutto ciò che questa provincia, cui meritamente la S. V. ha governato, operava per la redenzione della madre comune, l’Italia, e l'altro di tramandare ai posteri i nomi di quei generosi, che obliando famiglia, amici, averi, tutto insomma; si offrirono volontarie vittime in olocausto sull’ara della patria oppressa, o che soffrirono torture, carceri od esili per renderla libera, forte e temuta a segno da far dire al Sabaudo Sire nella Eterna Città, divenuta la capitale degli. Italiani: In Roma ci siamo e ci resteremo?
Nulla ho trascurato perché questo lavoro riuscisse possibilmente esatto e se tal non è lo ascriva non alla poca volontà nel fare, perché non sempre volere è potere, bensì all'arduità del compito e alle innumeri difficoltà che ad ogni piè sospinto sorgono ad attraversare la via a colui che imprende a trattare la storia moderna.
In ogni modo lo gradisca, si degni accordarmi il suo compatimento e lo ritenga almeno quale pegno di stima e di affetto sincero.
Salerno, 20 luglio 1885.
Devotissimo
A. PI ZZOLORUSSO
Mio Egregio Amico
Mi felicito con voi per aver con nobile costanza di propositi, menato a termine il libro : I MARTIRI PER LA LIBERTÀ ITALIANA DELLA PROVINCIA DI SALERNO; e vi ringrazio dal cuore del generoso pontiere avuto di dedicarlo a me.
Immeritevole come sono di qualsivoglia benevola considerazione, ritengo ad onore altissimo che il mio povero nome prenda modesto posto tra quelle pagine, le quali nel rammentare ai posteri i nomi venerati dei Martiri della Libertà dovranno far risplendere ancora più vivamente le glorie tradizionali di codesta illustre Provincia.
Gradite anche una volta i miei ringraziamenti e le riproteste della mia stima.
Cosenza, 30 luglio 1885.
Devotissimo
Antonio Passano
Appena Napoleone ebbe sconfitti gli Austriaci ad Ulma e ad Austerlitz e concessa loro la pace, che fu detta di Presburgo, a gravissime condizioni, tra cui il riconoscimento del regno Italico accresciuto degli stati veneti; nel 15 decembre 1805, dichiara la guerra al Borbone, ché, in onta al trattato del 29 settembre, col quale prometteva serbarsi neutrale durante la guerra che la Francia combatteva contro la Russia, l’Inghilterra e gli altri stati d’Europa alleati tra loro; dimentico dei milioni pagati, pei quali soltanto i Francesi abbandonarono le posizioni occupate nel 1803; gli si era dichiarato nuovamente nemico alleandosi con le potenze belligeranti; accogliendo festosamente nel loro passaggio pel suo regno quattromila uomini di truppe Russe, duemila di Montenegrine e settemila d’Inglesi e inviati con esse alle frontiere buon numero dei suoi soldati affidandone il comando al Russo Lac y . Il prescelto per tale spedizione fu il generale Massena, che a grandi giornate si avvanzò verso la capitale del regno delle Due Sicilie.
Re Ferdinando saputo l'avvicinarsi dell'esercito invasore, su di una nave da guerra Inglese il due gennaio 1806, si ricovera a Palermo, come pochi anni prima all'annunzio dell'arrivo di Championnet; mentre i Montenegrini, i Russi e gl'Inglesi si ritirano nelle isole Jonie.
La regina Maria Carolina ostentando coraggio non segui il marito; ma nel 15 febbraio ella col resto della famiglia lo raggiunse e il regno venne occupato militarmente dai Francesi.
Napoleone in un proclama diretto ai Napoletani, in data del 30 marzo, dichiara di riconoscersi per re il fratello Giuseppe, e più tardi il marito di sua sorella Gioacchino Murat, soldato valoroso e intrepido guerriero, inviando Giuseppe a governare la Spagna, perché spinto dalla insaziabile cupidità di dominio aveva tratto in inganno quel monarca, Carlo IV, e costrettolo ad abdicare in suo favore.
Il Borbone dalla Sicilia, ove regnava con una larva di costituzione, protetto dalle navi Inglesi che lo avevano scortato nella fuga, non lasciavasi sfuggire veruna occasione per riconquistare il perduto reame, tanto che avendo saputo la ripresa delle trattative tra Giuseppe Bonaparte e la corte di Roma pel suo riconoscimento, scrisse al Pontefice una dichiarazione in data del 26 maggio, in cui diceva: Che ove la divina provvidenza l'avesse ricondotto sul trono di Napoli, sarebbesi mostrato ossequente figlio della S. Sede e volenteroso avrebbe prestato l’antico omaggio della chinea e del censo». Con la più raffinata ipocrisia faceva lanciare dai suoi partigiani in mezzo al popolo napoletano dei proclami, nei quali si dava i lusinghieri titoli di padre e liberatore, che venivano poi avvalorati dagli Inglesi e dagli Austriaci che in suo nome promettevano: una costituzione basata sulla vera politica, che rendesse il suolo italiano inaccessibile a qualunque forza straniera.
Nell'animo dei napoletani ad onta delle ottime leggi civili dai nostri dotti proposte, ma solo dai francesi attuate, cominciava a serpeggiare un odio contro la dominazione straniera, perché imponeva immoderate gravezze e faceva massacrare migliaia di giovani vite in lontane guerre, che non tornavano ai alcun utile al paese.
La Carboneria, associazione segreta che cominciò ad aver vita nello Calabrie per opera di tal Capobianco sin dai tempi di Giuseppe Bonaparte, attratta dalle promesse di cui rendevansi mallevadori i difensori del tiranno, tuttoché di essa f o ssesi dichiarato protettore il Murat, organizzatasi in congiura permanente, col vincolo del segreto per giuramento; fomentando quell’odio fu essa che principalmente lavorò per la rovina dei francesi.
Gl'insuccessi di Napoleone, procuratigli dagli alleati, paventandone la possanza, spinsero Gioacchino a parteggiar pei tedeschi, volendo riunire sotto il suo scettro l’intera Italia; ma il popolo non comprendendolo lo accusò di slealtà e d’ingratitudine verso il cognato e non lo seguì nel generoso tentativo.
La fuga di Napoleone dall'isola d’Elba, ov'era stato confinato, che gli fruttò il derisorio governo dei cento giorni, Waterloo e lo scoglio africano di S. Elena, indusse Murat ad accorrere in aiuto delle aquile francesi per riparare in certa guisa il malfatto. Raccolti in fretta ottantamila uomini, cui mancava ogni perizia di guerra e la disciplina, ed invade le Romagne, le Marche e la Toscana. Sconfigge i Tedeschi a Modena; ma i popoli rimasero freddi ed inerti, tanto che serratoglisi il nemico addosso fu disfatto a Tolentino e a Ceprano, ed egli dopo aver fatto grandi prodezze si ritrae a Napoli, abdica e fogge mentre il vecchio Borbone vi rientra.
Dopo non molto volle imitare il folle tentativo di Bonaparte e dalla Corsica, ove si era rifoggiato, con appena duecentocinquanta uomini, male armati, e messi sopra sei navi mercantili, muove alla riconquista del regno. Suo intento era di approdare a Salerno ove trovavasi l’avvanzo del suo esercito, ma una tempesta lo sbalza sopra altro lido e il sette ottobre con due soli bastimenti e venticinque uomini approda nella rada di S. Lucido e solleva il proprio vessillo al grido di Viva Murat, Viva la Libertà. Il popolo gli fu ostile, i soldati borbonici andatigli incontro, sbaragliano le sue genti e fattolo prigioniero, Ferdinando per la sua quiete avvenire lo fa condannare a morte mercé giudizio sommario da un consiglio di guerra per coprire l’assassinio con la larva della lealtà. L’ordine che Ferdinando mandò al comandante le armi al Pizzo era cosi concepito: Il generale Murat sarà tradotto davanti un consiglio militare, i cui membri saranno nominati dal nostro ministro della guerra e non sarà accordato al condannato che mezz’ora di tempo per ricevere i conforti della religione.»
Un nuovo congresso di sovrani europei aveva luogo a Vienna, il quale dopo d’aver sanzionato l’assassinio di Gioacchino, ribadiva le catene del servaggio agli Italiani, che ritornarono sotto il regime dei diversi principi travolti dalla rivoluzione francese, singolarmente quelle dei Napoletani e Siciliani, avvincendoli al carro della esosa tirannide del Borbone; il quale, trascorso appena poco tempo, appoggiandosi alle deliberazioni del congresso, le quali lo riconoscevano padrone di Napoli e Sicilia, calpestò la costituzione giurata a Palermo, unii due regni in uno e si disse: Ferdinando primo, per grazia di Dio, re del regno delle due Sicilie.
Invano i liberali, che tanto avevano operato pel ritorno del despota, attesero le promesse riforme, che anzi, nominato direttore di polizia tal Giampietro, uomo perverso e consigliere del re di opere nefandissime, cominciò ad inveire contro di loro facendone condannare moltissimi senza giudizio e senza difesa. In una adunanza di Carbonari ne fu decisa la morte, e una sera venti persone penetrarono in sua casa e fra i pianti della moglie e di nove figliuoli lo colpirono ciascuno con lo stesso pugnale infigendogli sulla fronte un cartello su cui eravi scritto: Numero Primo.
Gli amatori di libertà, sprezzanti il terrorismo in cui era immerso il regno, associavansi alla Carboneria, la quale diveniva sempre più possente per le persone, sotto ogni rapporto autorevoli e amatissime dal popolo, che vi si affiliavano e pel numero stragrande a cui era pervenuta, calcolandosi a oltre duecentomila aderenti, solo nelle provincie al di quà del Faro, che nelle loro segrete e misteriose conventicole d’altro non si occupavano, che della scelta dei mezzi atti a cambiare la forma del governo dispotico in un’altra migliore e più liberale.
Nel 1820, Giuseppe Dongiovanni, gran dignitario dell'ordine Carbonaro e appartenente alla Alta Vendita, centrale di Salerno, dal titolo: Risorta dei Benemeriti Carbonari, invitò i rappresentanti delle associazioni filiali della provincia e i graduati delle medesime ad una riunione settaria, che prese il nome di Gran Dieta e alla quale aderirono moltissime vendite tra cui: Risorta dei Benemeriti Carbonari e I Normanni, di Salerno; Neospar t a Febea, di Polla; Filan t ropa tra le Spine, di San Pietro al Tanagro; Consilina Cosmopolita, Scuola della Virtù e Sferza dei Vizii, di Sala Consilina; I distruttori dei Malvagi, di Montecorvino e Faiano; I Veri Figli di Pesto, di Vallo della Lucania; I Forti Atenesi, di Atena; Vera Scelta, di Nocera; I Seguaci di Scevola, di Padula; La Virtù Trionfante e Gli Amici sul Tanagro, di Diano; I Liberi Brucari, di Cuccano Vetere, ecc. Tale adunanza riuscì solenne pel numero delle persone che v i vennero (1) per le importanti quistioni che vi si discussero, per le diverse commissioni che vi si nominarono, tra le quali, quella per discutere la condotta di taluni non meritevoli di appartenere alla Carboneria e quella per la rettifica dello Statuto Sociale, che riuscì composta di Pietro Sessa, Giuseppe Bongiovanni, Giuseppe Nicola Rossi, Giacinto Farina, Luigi Vernieri, Domenico Giannattasio e Matteo Bufano. Si elesse la Magistratura Esecutiva e vi appartennero: Raffaele Pagliara, Gennaro Pastore, Raffaele Avossa, Pietro Sessa, Francesco de Vicariis. e Gerardo Mazziotti, e il Comitato di Salute Pubblica di cui fecero parte: Raffaele Pagliara, Pietro Sessa, Luigi Carelli, Giuseppe Bongiovanni, Gaetano Bellelli, Domenico Cicalese, Raffaele Avossa, Carminantonio Amato e Gaetano Pascale. Si acclamò inoltre il generale Pepe comandante unico di tutte le forze del regno, inviandogli il diploma e il proclama dell'insurrezione ad Avellino a mezzo di Pietro Sessa e si incaricarono Gaetano Pascale di scorgere i sentimenti delle popolazioni di Cosenza, Giuseppe Dongiovanni quelle dei Potentini e Domenico Cicalese quelle dei Napoletani.
In diversi luoghi della provincia i più ferventi d’amor di patria, tentarono sollevare il popolo — Il 30 maggio a Salerno una moltitudine di gente capitanata dai più noti carbonari, preceduta dalla bandiera, dai colori della setta, rossonero-turchino, e gridando: Viva la Libertà, si condusse al palazzo dell'intendente, appiccò ad un fanale i ritratti del re e della regina e poi vi accese il fuoco. — A Mercato Cilento, furono arrestati Nicola, Isidoro, Andrea e Giustino Giordano, Gaiatro Francesco di Lustra; De Caro Francesco di Ascea, Patella Gaetano e Garofalo Francesco di Torchiara; perché in occasione di una fiera, tuttora solito tenervisi, affissero un cartello che eccitava i sudditi allà rivolta. —Il 17 giugno sei giovani animosi: Antonio Giannone, Giovanni de Vita, Clemente Prota, Federico Cimmino, Felice Tafuri e Francesco Saverio Menichini, sergente dei cannonieri, dettero il segnale della rivolta percorrendo in carrozza, adorni di coccarde dai colori carbonari e cantando canzoni ispirate a liberi sensi; la strada che da Materdomini mena a Salerno — Molti furono arrestati, altri fuggirono per le campagne, tra i quali Pietro Sessa, Pasquale Lombardi e Rosario Macchiaroli, che presero alla volta di Fisciano, ove vennero ricevuti dai carbonari del paese e dal loro dignitario Nicola Lombardi. Durante il giorno ammanirono armi e munizioni e nella notte seguiti da non pochi settari, si gittarono per le masserie di Pandola per promuovervi la rivoluzione.
Saputesi in Napoli le notizie di tanta novità, venne inviato a Salerno con pieni poteri il generale Nunziante, il quale appena vi giunse, nel 30 giugno, assicurato dalle autorità cittadine che più migliaia di cospiratori erano disparsi per le campagne e facevano temere per la pubblica quiete; primo suo atto fu quello di concedere amnistia generale a tutti coloro che si erano resi colpevoli dei fatti del 30 maggio e del 17 giugno tranne i capi: Rosario Macchiaroli, Antonio Giannone, Clemente Prota, Gaetano Pascale, Raimondo Grimaldi, Pietro Sessa, Pasquale Lombardi, Matteo Bufano, Francesco Maselli, Giuseppe Bongiovanni, Ferdinando Giannone, Andrea Vallenoto e Domenico Cicalese, dichiarandoli pubblici nemici e additandoli alla pubblica esecrazione.
Molti si apprestarono a godere del conceduto perdono; ma quelli che ne erano stati esclusi, favoriti nella fuga da Saverio Avossa, si condussero a San Cipriano Picentino e attesero al modo come portare a termine la iniziata rivoluzione.
Erano a tal punto le cose quando il 2 luglio i sotto te nenti Michele Morelli e Giuseppe Silvati, del presidio di Nola, disertarono con molti sottufficiali e soldati del reggimento Borbone, innalzando il grido di re e costituzione. Vi si aggiunsero non pochi carbonari condotti dal sacerdote Luigi Menichini, e le milizie di Avellino agli ordini del generale Pepe; che inalberarono tosto la bandiera della libertà.
La gioventù salernitana e moltissimi congiurati, guidati dal capitano Bartolomeo Paolella, inviato da Avellino a dirigere l’azione in Salerno, cercò raggiungere i rivoltosi.
Il Re tentò reprimere quel movimento e fece pervenire ordini severissimi ai generali Nunziante e Campana, i quali con buon nerbo di truppe si rivolsero prima verso Solofra per porre un argine agli insorti, che avevano prese le alture di Monteforte; poi sopra Nocera per tenere di fronte gli altri; ma i sollevati salernitani, il cui numero si era immensamente accresciuto; perché aggiuntivisi quelli di Montecorvino, Faiano e di altri paesi, entrarono la sera in Salerno senza colpo ferire tra il giubilo del popolo festante.
Il generale Nunziante visto che la insurrezione era pervenuta a segno da non poterla reprimere, né in alcun modo frenarla scrisse al sovrano: non trattarsi di combattere pochi uomini malamente armati e senza piano, come in tante altre occasioni diretti solo da privati interessi e da malnate passioni; stavolta le intere popolazioni dimandavano una costituzione e la speravano dal cuore e dall’accorgimento suo.
L’indomani la Magistratura Esecutiva e il Comitato di Salute Pubblica, eletti nella Gran Dieta, cominciarono a funzionare e d’accordo deliberarono conferire al capitano Paolella il grado di maresciallo.
Appena questi si ebbe la nomina, con un ordine del giorno l’annuncia ai carbonari e ai soldati di ogni arma, invitandoli puranco a tenersi pronti per ogni evenienza e sino a quando il monarca non avesse conceduta la costituzione.
Più tardi il Comitato Esecutivo portava a conoscenza generale essersi dal popolo e dall'armata no, minata la Giunta Provvisoria di Governo, composta: di Gaetano Belletti, Giuseppe Nicola Rossi, Rosario Macchiaroli, Giuseppe Torre, Giacinto Farina, Gerardo Mazziotti, Raffaele Pagliara, Vincenzo Gatti, Carminantonio Amato, Giandomenico Marcelli, Domenico Giannattasio, Raffaele Avossa, Michelangelo Mainenti, Giuseppe Bongiovanni, Luigi Vernieri, Giuseppe Viesti e Luigi Carelli; alla quale avrebbero dovuto tutti obbedire, perché rivestita di ogni potere costituzionale.
Nei paesi della provincia di Salerno, generale fu l’entusiasmo con cui si accolsero le notizie dell’avvenuto cambiamento e i liberali di ogni gradazione si affrettarono a proclamare un governo provvisorio. In un baleno la rivoluzione fu al colmo. Il Vallo di Te g giano prima che possedeva l’ Alta Vendita (1) e quindi Vallo della Lucania, avvegnacché i capi della Carboneria di questa contrada intervenuti alla Gran Dieta fossero discordi circa l’epoca della sollevazione e perciò non preparati pure molti paesi imitarono quei di Sala Consilina e procedettero con somma gioia al cambiamento della forma del governo. A Laurino, Benedetto Sangiovanni, Tommaso, Francesco e Benedetto Vairo, Crescenzo Valente, Francesco Molinari di Pellere e Francesco Alario, parroco di Moio della Civitella, che direttamente corrispondevano con Luigi Carelli, e da più tempo riunivansi per cospirare, nel 5 luglio sollevarono i loro concittadini e proclamarono la costituzione — In Castellabate un Costabile di Mauro, comparve solo in uno dei punti più frequentati del paese, adorno di coccarda tricolore e con parole e con atti incitò i cittadini alla rivolta, i quali andarono sul comune, abbatterono le insegne reali e vi sostituirono quelle della nazione — A Celso, ove era Giuseppe Mazziotti, che di tutto era informato dal fratello Gerardo, residente in Salerno, si proclamò la costituzione per opera di costui, che organizzò pure una spedizione di gente, la quale fu armata a proprie spese e venuta in Salerno la pose agli ordini del fratello — Perdifumo anch'esso procedette al cambiamento della forma di Governo per opera di una provata famiglia di liberali, di cui un prossimo parente era morto a Vallo della Lucania per opporre resistenza ai Sanfedisti del cardinale Fabbrizio Ruffo, nel 1799; quella dei Guglielmini, Andrea e Nicola, capitanando molta gente, andarono al Municipio e proclamarono la costituzione — Giungano accolse Francesco Maselli, implicato nei fatti del 30 maggio a Salerno, che trovò asilo presso Erasmo Pieilli, notissimo carbonaro. Nel 5 luglio, il Mas e lli si condusse ad Omignano, suo paese nativo, ed insieme ai fratelli Vasaturo, de Feo e Giuseppe Catarina, con indicibile giubilo proclamarono la costituzione. Ridottisi quindi a Porcili, S. Giovanni, Acquavella, Casal ic chio, infine a Giungano, seguiti da molta gente che avevano nominato comandante il Maselli, fecero altrettanto.
Il Re intanto alla lettura del dispaccio del generale Nunziante, vedendo che in pochi di l’insurrezione aveva fatto immensi progressi e conveniva sedarla non con la forza delle armi, ma con le promesse; nel giorno seguente emana il qui appresso manifesto:
«Alla Nazione del Regno delle due Sicilie.
«Essendosi manifestato il voto generale della Nazione del regno delle Due Sicilie, di volere un go verno costituzionale, di piena Nostra volontà vi consentiamo e promettiamo nel corso di otto giorni pubblicarne le basi. Sino alla pubblicazione della Costituzione le leggi vigenti saranno in vigore.
«Soddisfatto in tal modo il voto pubblico, ordiniamo che le truppe ritornino ai loro rispettivi quartieri e ogni altro alle sue ordinarie faccende.
«Ferdinando »
« Il Segr. di Stato, Ministro Cancelliere
«Tommasi»
Pubblicato tale atto, adducendo motivi di salute, chiama quale Vicario Generale del regno il figlio Francesco, come colui che era destinato a succedergli, e volontariamente, in apparenza però, si ritira dagli affari. Il principe reggente in un altro appello alla Nazione e all’armata ripete le promesse paterne e si mette a capo del governo.
Nei paesi indescrivibile fu l’agitazione del popolo: ovunque per le piazze vedevansi capannelli di gente p arlar sommessa, paurosa quasi di farsi sentire a l l’aria circostante, per tema che questa rapportasse alla regia le loro aspirazioni e i voti che facevano alla lettura dei due manifesti.
Il ministero composto di gente amante del dispotismo fu esautorato e ricomposto con elementi che ispiravano piena fiducia nei cittadini e questi furono Ricciardi al dicastero di Grazia e Giustizia, il marchese di Campochiaro a quello degli Esteri—Zurlo agli Interni — Macedonio alle Finanze — Carascosa alla Guerra— e De Thomasis alla Marina. Tale scelta valse in certa guisa a rassicurare le masse, che fecero prognostici per un più glorioso e lieto avvenire della patria.
Il generale Pepe prese il comando degl’insorti che numerosi ed entusiasti affluivano in Salerno da ogni parte della provincia e il 7 luglio, in presenza di una gran calca di gente li passa a rassegna e quindi si rivolge loro col seguente ordine del giorno:
«Secoli di barbarie, di servaggio e di avvilimento avevano immerso nella miseria la nostra bella patria; ma l’entusiasmo di cui sono tutti i cuori agitati per avere una costituzione ci annunzia che ci mettiamo al livello delle più colte Nazioni d’Eu ro pa — Noi eravamo poveri nonostante abitassimo il più beato suolo della terra, eravamo poco avvanzati nella civiltà nonostante che i migliori ingegni nascessero tra noi, avevamo poca riputazione militare, nonostante fossimo animati di coraggio e d’ordine — Ma queste contradizioni eran ben facili a spiegarsi, gli errori del governo non potendosi smascherare eravamo nella guerra comandati da esteri mercenari, l’amministrazione interna manomessa dalle più vili passioni era garantita da tenebre impenetrabili. — Tutti questi mali sono fugati dal governo costituzionale. Lo slancio unanime della Nazione non ha più misura, l’armata ogni giorno più s’ingigantisce, i soccorsi delle province limitrofe sorpassano la richiesta e l’aspettativa. Chiamato dai nostri concittadini ad assumere il comando dell'esercito nazionale ho giurato di assicurare alla patria, comune madre, una costituzione o di morire.»
«Io dichiaro che mi dimetterò da questo comando appena saremo sicuri che i nostri voti saranno esauditi».
Il giorno 8 il generale Pepe a capo dell’esercito nazionale parte e il 9 entra in Napoli.
La popolazione facile a cedere ai sentimenti che ispirano gaiezza, moto e vita mosse incontro a coloro che si mostravano forti e arditi per assicurare alla patria un governo libero.
Al loro apparire gli applausi e gli evviva echeggiarono dai veroni, sui quali sventolava la bandiera della nazione; stipati di gente che faceva cadere una pioggia di fiori, misto ad un vivo agitar di fazzoletti, che simile ad uno stuolo immenso di bianche farfalle salutava quegli eroi precursori dell'avvenire.
Appena l’esercito pervenne alla piazza della regia nuove grida di acclamazione alla libertà, alla costituzione si udirono e tanta possa ebbero sull'animo del Borbone, che lo fecero deliberare ad accogliere il generale Pepe con volto ilare e giulivo, mentii il suo cuore di tempra feroce era propenso piuttosto a far fulminare dalle castella la strage e la morte.
Nel 13 luglio, il re fra il tuonare delle batterie, le salve delle artiglierie delle navi ancorate nel porto militare, lo scampanio dei sacri bronzi a festa e l’entusiasmo generale; nel tempio del palazzo al cospetto della famiglia, della Giunta di Stato, del Ministero, dei Grandi della Corte, del Corpo diplomatico accreditato presso la sua Real persona; dei rappresentanti dell'armata e di qualcuno del popolo, legge la formola, giura solennemente la costituzione spagnuola, difenderla e mantenerla senza tralasciare di aggiungervi di proprio le seguenti parole:
«Onnipotente Dio che con lo sguardo infinito leggi nell’animo e nell’avvenire, se io mento o sé io dovrò mancare al mio giuramento, tu in questo istante rivolgi sul mio capo i fulmini della tua vendetta.»
Immediatamente dopo ordinò s’inviasse a Salerno il generale Colletta ad annunziare un tanto fausto avvenimento e a rendersi mediatore di pace e d’ordine.
Il 22 luglio, convoca i comizi per la elezione dei deputati al Parlamento e pel primo giorno di ottobre ne decreta l’apertura.
Intanto i rappresentanti di Russia, Prussia ed Austria riuniti a Troppeau protestarono alacramente contro il nuov'ordine di cose avvenute in Napoli e i loro Sovrani a Laybach idearono un sistema di principio d’intervento reciproco negli affari interni degli stati e per applicare poi siffatti principi al regno delle Due Sicilie, di cui non vollero riconoscerne il mutamento e di reprimere in qualunque modo l’insurrezione, che di quivi si propagava in Piemonte ed in Lombardia.
Il principe di Cariati mandato a Vienna a persuadere l'imperatore delle ragioni che avevano indotto il Borbone a violare la promessa data di non mutare la sforma di governo, il gran cancelliere dell'impero, principe di Metternich, si ricusa di riceverlo. Il duca di Serracapriola, latore di un autografo di Ferdinando, e il duca del Gallo, nuovo ambasciatore accreditato presso quella corte furono respinti alle frontiere. Per la qualcosa il Campochiaro, ministro degli esteri, si affrettò a spedire alle corti d’Europa un dispaccio del tenore seguente:
«Il Re, libero nel suo palazzo, in mezzo al Consiglio composto dei suoi antichi ministri aver de terminato di soddisfare il voto generale dei suoi popoli; non convenire ai gabinetti di mettere in problema se i troni fossero meglio garantiti dal l'arbitrio o dal sistema costituzionale, conforme all'articolo segreto delle convenzioni con l’Austria al tempo della restaurazione, aver egli adempiuti agli obblighi assunti in proposito: Ora egli Re, e la Nazione erano risoluti a proteggere fino all’estremo l’indipendenza del regno e la Costituzione».
Ferdinando, intanto, non seppe resistere al procedere delle potenze e scrisse al Cancelliere dell'impero austriaco a mezzo del principe Ruffo, che Agitava L o il pensiero di fuggire dal regno per riprendere poi coll'aiuto degli austriaci il potere; che con un sotterfugio lo invitassero a Lubiana» — Tale lettera era in forma sì tetra che i Sovrani credendo in serio pericolo la sua vita, fecero dichiarare al ministro degli esteri di Napoli dai loro legati: che ponevano la persona del Re e della famiglia reale sotto la tutela di ciascun napoletano; e rimisero al Borbone tre lettere identiche con le quali lo invitavano a Lubiana a trattare di affari inerenti al suo governo. Ecco quella dell’Imperatore d’Austria:
«Signor mio Fratello e carissimo Suocero».
«Tristi circostanze non mi hanno permesso di ricevere le lettere che la M.( a) V.( a) mi ha dirette da quattro mesi. Ma gli avvenimenti, a cui tali lettere han dovuto riferirsi, non han cessato di formare l'oggetto delle mie più serie meditazioni, e le Potenze Alleate si sono riunite a Troppeau per considerare insieme le conseguenze, di cui questi avvenimenti minacciano il resto della penisola Ita liana, e forse l’Europa intera. Nel deciderci a questa comune deliberazione Noi non abbiamo fatto che conformarci alle transazioni del 1814, 1815 e 1818; transazioni delle quali V.( a) M.( a) non meno che l’Europa conosce il carattere e lo scopo e sulle quali riposa quell’alleanza tutelare unicamente destinata a guarentire da qualunque attacco l’indipendenza politica e l’integrità territoriale di tutti gli Stati, come altresì ad assicurare il riposo e la prosperità di ciascuno dei paesi che la compongono. V.( a) M.( a) dunque non dubiterà che l’intenzione dei Gabinetti qui riuniti non sia se non quella di conciliare l'interesse ed il benessere di cui la paterna sollecitudine della M.( a) V.( a) deve desiderare di far godere i suoi popoli con i doveri che appartiene ai Monarchi alleati di adempiere verso i loro stati e verso il Mondo. Ma i miei alleati ed io ci felicite r emmo di eseguire questi solenni impegni con la cooperazione di V.( a) M.( a) e fedeli ai principi che abbiamo proclamato: Noi domandiamo oggi siffatta cooperazione.
«Appunto per questo solo oggetto proponiamo alla M.( a) V.( a) di riunirsi a Noi nella città di Lubiana; la vostra presenza, o Sire, affretterà, ne siamo sicuri una conciliazione così indispensabile; ed è in nome degli interessi i più cari del vostro Regno e con quella benevole sollecitudine, di cui crediamo di averle dato più di una testimonianza, che Noi invitiamo V. M. di venire a ricevere nuove pruove della vera amicizia, che le portiamo e della franchezza la quale forma la base della nostra politica.
«Ricevete le assicurazioni ecc.»
Il buon Fratello, Genero ed Alleato
Francesco
Com'era da prevedersi il re si mostrò sollecito ad accettare l’invito che venivagli, come ei diceva, dalle potenze amiche ed alleate, e comunicò i messaggi, e la sua volontà al Parlamento.
Alle 7. a. m. del giorno 8 e 9 dicembre le tribune del Parlamento erano ingombre di cittadini. La lettera indirizzata dal Borbone alla Camera il giorno precedente rendeva universale il più ardente desiderio di conoscere senza indugio la deliberazione dei Rappresentanti del Popolo. In mezzo a quest'agitazione somma era la calma della città, e la folla dà cittadini riunita nel Parlamento serbava rispettoso contegno.
Alle 10 il Presidente dà principio alla tornata con la lettura della lettera di Ferdinando e appena terminata da ogni parte si gridò Viva la Costituzione o Morte; grido che fu ripetuto dalla Guardia Nazionale che ivi era di servizio.
Di fronte a tanto entusiasmo il Presidente rivolse al popolo sapientissime parole, rammentando: che se la rappresentanza Nazionale aveva avuto ragione di applaudirsi della nobile tranquillità costantemente osservata in tutte le precedenti sessioni; aveva ora ferma sicurezza che si sarebbe serbata quella nobile calma, che accompagnar deve le discussioni di un congresso, a cui è commessa la tutela delle franchigie e della prosperità pubblica.
L’universale silenzio provò la profonda impressione, che avevano fatto quelle parole negli animi dei cittadini, pei quali sono potentissimi bisogni l'amore della Libertà e dell’onore.
Dopo molto discutere i deputati sulle convenienze o meno di lasciar partire il re, discorde la maggioranza, tra cui i rappresentanti della provincia di Salerno (1), alla fine si permise al Borbone di recarsi a Lubiana.
Una commissione parlamentare di ventidue persone presentò l'indirizzo al monarca con l’assentimento di poter partire ed egli rispose:
« Io vado nel congresso per adempiere quanto ho giurato. Lascio con piacere l'amato mio figlio nella reggenza del regno. Spero in Dio che voglia dare tutta la forza necessaria alle mie intenzioni.»
Il 14 dicembre 1820, Ferdinando parti sul vascello inglese il Vendicatore promettendo di andare al convegno di Lubiana quale difensore dei dritti Napoletani e qualora non riuscisse a far conoscere la necessità di una costituzione nel suo regno, di tornare a difenderla con le armi.
Il 7 gennaio 1821 il Borbone giunge a Lubiana, accolto festevolmente dall’imperatore d’Austria, che lo aveva preceduto, e cominciati i negoziati nel 12, all'arrivo dell'autocrata di Russia; acconsentì egli ad abbattere la costituzione in Napoli; ma tremò all'idea dello spergiuro e della vendetta popolare. Ad ovviare quella donò alla Vergine Annunziata di Firenze ricca lampada d’argento, per cui dal pontefice venne prosciolto dal giuramento, e questa scrivendo al figliuolo una lunga lettera, in data del 28, nella quale atteg gi avasi a martire per far ritenere esser lui costretta dia sola forza a operare quanto dagli alleati gli si suggeriva. Eccone i brani più rilevanti.
«Carissimo Figlio»
«Voi ben conoscete i sentimenti che mi animano per la felicità del mio popolo, ed i motivi pei quali solamente ho intrapreso ad onta della mia età e della stagione un così lungo viaggio.
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« Fin dai miei primi abboccamenti con i Sovrani, ed in seguito alle comunicazioni che mi furono fatte delle deliberazioni che hanno avuto luogo a Troppeau non mi è rimasto dubbio alcuno sulla maniera con la quale le Potenze giudicano gli avvenimenti accaduti in Napoli dal due luglio fino a questo punto. Le ho trovate irrevocabilmente determinate a non ammettere lo stato di cose risultato da tale avvenimento, né ciò che potrebbe risultarne e riguardarli come incompatibili con la tranquillità del mio regno e con la sicurezza degli altri stati vicini, ed a combatterli piuttosto con la forza delle armi, qualora la forza della persuasione non produrrà la immediata cessazione».
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Questa è la dichiarazione che tanto i Sovrani quanto i plenipotenziari mi hanno fatto ed alla quale ni u no potrebbe indurli a rinunziare.»
Dopo aver detto molte altre cose intorno al modo come intendeva riorganizzare il regno, soggiunge:
«È mio divisament o, carissimo figlio, che voi diate alla presente lettera la più grande pubblicità che deve avere, affinché nessuno possa ingannarsi sulla pericolosa situazione nella quale ci troviamo. Se questa lettera produce l'effetto immediato che mi promettono aspettarne tanto la coscienza delle mie paterne intenzioni quanto la fiducia nei vostri lumi e nel retto giudizio dei miei popoli, toccherà a voi frattanto mantenere l'ordine pubblico, finché io possa farvi conoscere la mia volontà pel riordinamento dell'amministrazione.»
«Di tutto cuore.... ec.
« Ferdinando»
Tale lettera Francesco la divulgò in modo ammirabile e convocò straordinariamente e d'urgenza il Parlamento perché deliberasse sul da farsi.
Appena propalossi questa notizia il popolo con l'ira nel volto e la disperazione nel cuore corse alle armi.
Il generale Pepe con un ordine del giorno si rivolge ai legionari e a coloro che avevano a cuore la costituzione di accorrere a difenderla e a sostenerla.
Nel 4 febbraio a Salerno doveva aver luogo un banchetto per rendere grazie al popolo inglese, che in una simile occasione aveva fatti voti per la prosperità del regno; ma fu deliberato che il denaro raccolto s’invertisse nella compera di armi e munizioni.
Riapertosi il Parlamento nel 12, dopo che i nuovi deputati ebbero dato il voluto giuramento di fedeltà al re e alla costituzione, il presidente Matteo Galdi, comunicando il messaggio reale pervenuto al reggente, pronunziò un eloquentissimo discorso, dimostrando la prepotenza dei sovrani formanti la santa alleanza nel non voler rispettare gli accordi avvenuti tra re e sudditi e conchiuse dicendo: Un nuovo turbine si è innalzato dall'ultimo settentrione e minaccia la nostra libertà. Non avendo il paese desiderato la guerra, né provocato in alcun modo, si respingerà la forza con la forza e si difenderà quanto si ha di più caro; le leggi, l’indipendenza, la costituzione. » Non andò guari e seppesi che il re tornavane c ondotto da cinquantaduemila austriaci comandati dal generale Frimont e tutti imprecarono al papa e al fedifrago monarca.
Quarantamila soldati di truppe regolari e molte migliaia di milizie cittadine agli ordini del generale Pepe e Carascosa partirono per le frontiere, presero il campo e attesero il nemico.
Frimont pervenuto a Foligno nel 27 febbraio, dirige ai popoli delle Due Sicilie il seguente proclama:
«Nel momento che l'armata sotto il mio comando mette piede sulla frontiera del regno mi vedo obbligato a dichiararvi francamente ed apertamente qual è lo scopo della mia operazione.
«Una rivoluzione deplorabile ha perturbata la vostra tranquillità interna e rotti i legami amichevoli che tra stati vicini non altrimenti possono riposare che sulla condizione fondamentale di una reciproca fiducia.»
«Il vostro re ha fatto sentire al popolo la sua reale paterna voce. Esso vi ha avvertiti sugli orro r i di una guerra inutile, di una guerra che nessuno vi porta e che per opera vostra soltanto potrebbe cadere sopra di voi.
«Gli antichi e fedeli alleati del regno hanno anche dal canto loro parlato a voi. Essi hanno dei doveri verso i loro propri popoli, ma anche la vostra vera e durevole felicità non è punto a loro straniera e questa voi non la ritroverete giammai sulla via della dimenticanza dei vostri doveri e della ribellione. Rigettate volontariamente un prodotto a voi straniero e confidate nel vostro re. Il vostro bene e il suo sono inseparabilmente congiunti.
«Nel procedere oltre i confini del regno nessuna mira ostile guida i nostri passi. L’armata che è sotto il mio comando guarderà e tratterà come amici tutti i Napoletani sudditi fedeli del re loro, che sono amanti della tranquillità: osserverò dappertutto la più rigorosa disciplina e solamente riguarderò per nemici coloro che come nemici ad essa si opporranno.»
«Napoletani, date ascolto alla voce del vostro re e dei suoi amici che sono anche i vostri. Riflettete ai tanti e diversi disastri che vi attirereste addosso mediante una vana resistenza, riflettete che la transitoria idea con cui cercano abbagliarvi i nemici dell'ordine e della tranquillità, che sono i vostri propri nemici, non può mai divenire la sorgente della vostra durevole prosperità.»
Il 7 marzo, il generale Pepe voleva impadronirsi di Rieti per assalto, profittando dello scarso presidio che vi tenevano gli austriaci, ma questi ricevettero nuovi rinforzi, ed egli allora fu costretto di convertire in una ricognizione il suo piano d’attacco.
All'alba s’impegna la battaglia e la fortuna delle armi in sulle prime parve arridere all'esercito della libertà, ma fosse sventura o tradimento operato dal Carascosa, che comandava la fanteria, meno i bersaglieri, non facendole eseguire alcuna mossa strategica, più tardi la vittoria si cangiò in isconfitta. Tutti si sbandarono lasciando libero il passo al nemico di entrare in Napoli tra lo sbalordimento dei cittadini, che pensavano alla perduta libertà e alla soprastante persecuzione, la quale fu ferocissima e proprio alla maniera borbonica.
I capi delle milizie civiche dispersi retrocedettero e di nascosto rientrarono nei loro paesi, lusingandosi poter raccogliere ancora gente e affrontare l'esercito austriaco che a grandi marce s’avvanzava verso la capitale.
Pietro Sessa pervenuto a Nola concertò coi pochi suoi compagni di proclamare la repubblica in Salerno e a tal uopo fece loro cambiar di montura — La notizia precedette il suo arrivo e la sera del 25 marzo, che vi giunse, fu accolto entusiasticamente dal popolo, guidato dai tre fratelli De Robertis, due dei quali sacerdoti, di Giffoni sei Casali, e sulla piazza detta del Campo al grido di Viva la repubblica, che sfuggi dal petto di migliaia di cittadini ivi assiepati, elevarono l’albero della libertà.
Francesco Maselli e Rosario Macchiaroli col medesimo intento si ridussero in diversi paesi e finalmente in Eboli; ma il popolo scoraggiato non volle saperne, ed eglino visto tornar vano ogni tentativo, pensarono rivolgersi altrove. Maselli di nascosto e di notte per luoghi remoti usci dal paese e’ Macchiaroli volendo imitarlo, meno fortunato, fu riconosciuto ed ucciso.
A San Valentino Torio si ribellarono e vennero arrestati: D’Ambrosio Francesco, Giudice Antonio, D’Ambrosio Andrea e Carlo, Vastola Aniello, Giudice Giuseppe, Carlo e Marzio, Sarno Aniello, Capozucca Biagio e Ferrara Luigi.
A Giffoni furonvi voci allarmanti e si trassero in arresto: Mancino Gaetano, D’Arminio Amato Maria, Punzi Francesco, Masucci Francesco, Basso Giovanni e Sante, Daino Giovanni, Russomando Matteo, Gustosi Andrea, Del Pozzo Giuseppe, Troise Giannandrea, Cevaro Nicolangelo, Rizzuti Sabbato, Immediato Nunzio.
I carbonari di Calabritto corsero alle armi, ma una denuncia privata feceli cogliere in flagrante dalla forza pubblica, la quale procedette all'arresto dei capi: Cozzi Raffaele, Vincenzo, Pasquale e Pietro, e dei gregari: Antonino Luigi, Pasquale, Nicola e Andrea, Solimeo Nicola di Campagna, Papa Carmine, Luigi, Michele e Antonio di Senerchia, Caruso Angelo, Robertiello Giuseppemaria di Quaglietta, Trimarco Michele e Giovanni e Patrizio Raimondo di paesi ignoti.
In Valva s’imprigionarono: Finiello Michele di Pasquale e Finiello Michele di Angelo, Marcelli Antonio, Francesco, Emanuele, Giovanni e Saverio.
A Roccadaspide i carbonari riunironsi presso Gennaro Quaglia, notissimo settario e da gran tempo ricercato dalla polizia — I gendarmi avutone sentore mossero per arrestarlo, ma trovarono tutti pronti a resistere. Dopo breve scaramuccia furono incarcerati Giuliani Arcangelo, Gorga Giuliano e Giustiniano, Schiavetti Michele e Antonio, Quaglia Donato e Scarsiello Antonio.
Molta gente in Vietri sul Mare, armata di grossi bastoni e adorna di coccarde tricolori, istigata da Vitolo Antonio e D’Andrea Giovanni, presso cui i liberali riunivansi per cospirare; si ammutinò a scopo di combattere i tedeschi — I gendarmi andarono loro incontro, vennero alle armi e nella mischia furono dispersi. Il giorno seguente si tradussero in carcere gl'istigatori non solo, ma benanco: Pastore Francesco, Candarella Raimondo, Farano Giuseppe, Savastano Bonaventura, Falcone Francesco, Della Monica Francesco di Vietri, e Palmieri Giuseppe di Napoli.
I fautori della costituzione in Maiori, tentarono armare i loro compaesani e combattere i tedeschi che si avvicinavano. Scovertasi la trama furono arrestati: Salzano Giambattista, Baccaro Giuseppe e Salvatore, Baccaro Giuseppe fu Angelo, Amatruda Ferdinando e Raffaele, Abate Salvatore, De Angelis Pompilio, Apicella Andrea, D’Amato Gaetano, Imparato Angelo, Vitagliano Nicola e Pasquale, Sassano Nicola, Bove Andrea, Capone Francesco, Cariello Filippo, Fierro Domenicantonio, Giordano Luigi, Sassano Francesco, Medica Tommaso e Del Grosso Diodato.
In Eboli, dopo la uccisione di Rosario Macchiaroli, a capo a qualche giorno furono tradotti in carcere come sospetti rei di carbonarismo: Lampi Ermenegildo, magistrato, Bottiglieri Felice, ricevitore del registro e bollo, Del Mercato Francesco e Castagna Biagio.
Angri levossi in arme appena dopo il ritornò di Domenico Cicalese dalle frontiere, ma vennero subito arrestati quali promotori della rivolta: Rossi Francesco, Mauri Scipione e Domenico, Montefusco Bartolomeo, Liguori Beniamino e Cammarota Francescopaolo.
Tenevano discorsi e spingevano i contadini di Palo a rivoltarsi alle autorità Massa Agostino e Giambattista, Cupo Luigi e Valitutto Antonio.
I cittadini di campagna vennero a vie di fatto con le guardie di pubblica sicurezza e le avrebbero sconfitte se non fossero stati presi alle spalle dai gendarmi. Qualcuno mori o fu ferito gravemente nella zuffa, altri si salvarono con la fuga. Coloro che li avevano aizzati furono imprigionati e tra essi erano Mantenga Gaetano, Pastore Antonino e Giordano Bernardino.
Ad Agerola predisponevano gli animi degli abitanti ad assalire i tedeschi: Coccia Giuseppe, Avitabile Gennaro, Meampora Bartolomeo, Lauricano Federico, Pinto Feliceantonio, Pisacane Salvatore e Lauritano Antonio. Sottoposti al Giudizio della Suprema Commissione pei reati di Stato, furono tutti condannati a cinque anni di prigionia, ducati cento di malleveria e alle spese del procedimento.
Anche San Cipriano Picentino alla notizia dello spergiuro del re e della disfatta di Rieti si sollevò come un sol uomo per venire a Salerno e mettersi a disposizione di Pietro Sessa che vi aveva pro cla mata la Repubblica. — Restaurato il potere assoluta furono arrestati o banditi i migliori cittadini (1). A Vallo della Lucania convennero molti dei paesi vicini, armati dai fratelli Gregorio e Giulio Positano, per spingersi verso Salerno a sostenere la costituzione; ma imbattutisi nelle regie truppe furono sbaragliati e dispersi. Dopo pochi giorni furono arrestati quasi tutti quelli che vi avevano preso parte (1). Infine in ogni parte i liberali come che poca speranza avessero di vincere, perché di numero inferiore d’assai alle truppe; si battettero da forsennati.
Ferdinando finalmente ritornò in Napoli con l’iniquo e crudelissimo principe di Canosa quale ministro di polizia e primo suo atto fu quello di disperdere il Parlamento. I deputati che trovavansi nell’aula unanimi firmarono la seguente protesta dettata dal Poerio:
«Dopo la pubblicazione del patto sociale del 7 luglio 1820, in virtù della quale Sua Maestà si compiacque aderire alla Costituzione attuale, il Re per organo del suo augusto Figlio, convocò i collegi elettorali. Nominati da essi, noi ricevemmo i nostri mandati, giusta la forma prescritta dallo stesso Monarca. Noi abbiamo esercitate le nostre funzioni conformemente ai nostri poteri, ai giuramenti del Re e dei nostri. Ma la presenza nel regno di un esercito straniero ci mette nella necessità di sospenderlo, e ciò perché dietro l’avviso di S. A. R. gli ultimi disastri accaduti all'esercito, rendono impossibile la traslocazione del Parlamento, che d’altra parte non potrebbe essere costituzionalmente in attività, senza il concorso del potere esecutivo. Annunziando questa dolorosa circostanza, noi protestiamo contro la violazione del diritto delle genti.
«Intendiamo serbare saldi i diritti della Nazione e del Re, invochiamo la saviezza di S. A. R. e del suo Augusto Genitore e rimettiamo la causa del trono e dell’indipendenza nazionale nelle mani di quel Dio che regge i destini dei monarchi e dei popoli.»
La costituzione venne abolita e le condanne, gli esili, le morti punirono o bandirono i migliori cittadini (1) e da per tutto cominciò a governare lo sgherro e il prete.
Nel 15 marzo il re accetta le dimissioni del ministero e stabilisce una specie di governo provvisorio, del quale fece anche parte quel tigre porporato di Fabrizio Ruffo; si abolì la libertà di stampa e cessò la pubblicazione dei giornali.
Or m ai tutto era finito. La rivoluzione del 1820 cominciata con tanti felici auspici fu spenta e soffocata nel sangue in nome della Santissima ed indivisibile Trinità dai Sovrani della. Santa Alleanza — Il regno che si era desto dall’ignavia come uomo che tenta spezzare le catene e riconquistare là libertà, si riaddormentò nella schiavitù, nelle lagrime e nel lutto; per violazione di giuramenti e di patti sacri anche ai selvaggi.
Alla notizia degli avvenimenti di Salerno e di quei di Avellino, quasi tutti i paesi del Vallo di Te g giano corsero alle armi e proclamarono il governo provvisorio.
A Sala Consilina vi erano tre vendite e vi appartenevano quali capi e dignitari Domenico Siciliani di Nola, che vi era sott'intendente, Tommaso Cestan Filadelfo Bove ed altri, tra cui parecchi preti, e tenevano le loro riunioni o in casa di tal Provenzale o in quella di certo Marsilio oppure presso il sacerdote Michelangelo Bosco — Avvenute sommosse in diversi paesi della Basilicata, alcuni tra loro spontaneamente accorsero ad accertarsene e al ritorno assicurarono; che pei primi giorni di luglio vi doveva esser tale una sollevazione di popolo da arrecare cambiamento alla forma del governo. I cuori si aprirono alla speranza e si aspettava il desiato giorno, quando nel pomeriggio del 6 luglio si seppero i fatti di Salerno e la gioia apparve sopra tutti i volti — Cestari, capitano dei militi, riunì tutta la sua gente, distribuille armi, munizioni e quant'altro le occorresse, acquartierolle in una chiesa soppressa ed egli andò a raggiungere Filadelfo Bove e Michele Pessolani che si erano recati dal Siciliani per pigliare gli opportuni accordi — La dimane una folla immensa acclamante alla costituzione e al re, percorse le vie del paese inalberando la bandiera tricolore e recatasi in casa del ricevitore del registro e bollo, ove impauriti st erano rifugiati tutti gli addetti a' pubblici uffici, col maggiore di gendarmeria, De Liguori, e P obbligarono a scendere in chiesa ove si cantò il Te Deum e si recitarono preci.
Finita la cerimonia il sacerdote Michele Palladino dal pergamo lesse un proclama a firma del generala Pepe, datato dal quartier generale di Avellino, in cui era detto; che il potere sovrano era coordinato a. quello del popolo, togliendosi al re il potere legislativo, — che i funzionari dovevano prestare giuramento al nuov'ordine di cose entro le ventiquattr’ore, se non volevano rimaner privi dei loro impieghi — che il sale si ribassava a grana quattro il rotolo, rimanendo sospesa la fondiaria, per esser poi tolta addirittura, e infine che sarebbero stati condannati da una corte marziale tutti coloro che non si uniformavano a quella dichiarazione.
A Diano, oggi Tegiano, che possedeva due vendite dirette da Donato Ferri, e quali capi e dignitari vi erano Luigi Corrado — Rosario Lobuglio — Gaetano e Agostino Macion — Crisostomo, Cono ed Alfonso Santoro — Benedetto de Honestis — Giulio Capobianco — Cono Trezza — Cono Candia — Cono de Honestis e Onofrio Macchiaroli, nel 6 luglio levarono a rumore il paese e si recarono in casa di Stefano Santoro chiedendo si proclamasse la costituzione. Questi diresse loro belle ed acconce parole esortandoli ad aspettare il ritorno di Benedetto Dono e Gaetano Maggiore, che erano andati a Sala per notizie. La folla si diradò, ma divenne più compatta e numerosa allorché seppesi del ritorno dei due inviati, verso le cui abitazioni si rivolse, e tanto fece che uniti andarono prima in chiesa e poscia partirono per Sala.
Anche Polla avea due vendite, fondate sin dal 1811 da Giuseppe Poppiti e Domenico Annuola, delle quali era alto dignitario Vincenzo Parisi, che le rappresentò pure alla Gran Dieta, da dove appena ritornato, per esser più libero nel preparare il movimento finse essergli necessario ridursi in campagna a causa di malattia e andò perciò ad abitare presso Giampietro Wancolle, anche egli cospiratore. Quivi riceveva e spediva messaggi e talvolta vi riuniva i capi della carboneria dei paesi vicini. Diverse volte vi furon visti Angelo Pessolani — Vincenzo Caporale — Francescantonio e Vittorio Morrone, coi quali aveva stabilito, che il paese si sollevasse in occasione di una fiera, ma alcune circostanze fecero si che il movimento ritardasse. Il 6 luglio reduci da Salerno alcuni carrettieri, tra cui Vittorio Cangiano, fecero noto quanto vi era avvenuto e come il generale Pepe accingevasi a partire per Napoli per indurre il re a concedere la costituzione
Il mattino seguente i cittadini preceduti dal monaco agostiniano, Gennaro Ripa, che inalberava la bandiera, su cui era scritto: Ferdinando I, re costituzionale, si diressero all’abitazione del Parisi, ove già erano convenuti altri capi della congiura, e diuniti mossero per la chiesa. Poco prima di giungervi si ani a loro la compagnia dei militi condotta da Nicola Tramontano, ed entrati nel tempio si cantò il Te Deum e quindi si parti per Sala.
Sant’Arsenio aveva pure la sua vendita e ne erano capi: Giuseppe d Andrea—Giuseppe Pandolfi — Crescenzo e Gerardo Pecora — che erano in continue relazioni col Parisi, il quale loro comunicava gli ordini opportuni — Nel 6 al 7 luglio si vociferò che Parisi aveva fatto intendere potersi proclamare la costituzione, avendola il re già firmata—Un’allegrezza inusitata videsi scolpita su tutti i volti, si suonarono le campane a festa, e uno stormo di cittadini si uni sulla piazza, ove alcuni lessero un proclama che terminò con un grido unanime al re e alla costituzione. Più tardi videsi sulla casa del comune sventolare la bandiera Carbonara, fatta nella notte costruire da Crisostomo Splendore, da dove si tolse da alcuni popolan i, i quali seguiti da innumerevoli altri entrarono in chiesa, vi cantarono i Inno Ambrosiano e recitarono preci in onore dell'Eterno, perché il cambiamento della forma del governo avvenisse senza spargimento di sangue. Verso sera il popolo mosse incontro alla gente condotta dal Parisi, che si avvanzava e rientrò in paese tra la generale acclamazione.
In San Pietro al Tanagro molti erano ascritti alla carboneria sin dal 1811. Pasquale Mangeri di Pio — Pasquale Mangeri fu Nicola — Francesco Leopardi e Franc e sco Spinelli —Nel 1817, deliberarono fondare una vendita e chiamarono a dirigerla Giuseppe Pagano di San Rufo — Nella notte del 6 al 7 luglio Rosario Macchiaroli spedi a costui delle persone avvisandolo esser giunto il momento di proclamare la costituzione, ed egli non tardò ad avvisare il sindaco Nicola Mangeri, che in sua assenza funzionava da capo della vendita, e questi fece in modo che all’alba gli operai che recavansi ai loro abituali lavori rimanessero stupiti nel vedere sventolare sulla casa comunale la bandiera Carbonara. Più tardi rinfrancatisi gli animi andarono in chiesa, cantarono il Pro Regio e la litania dei santi, quindi moltissimi si armarono e partirono per Sala Consilina.
I dignitari della vendita di S. Rufo, Nicola de Petrinis, Crescenzo Spinelli, Cono Marmo, Pietro de Vita, Giuseppe Pagano, Giuseppe Somma, Eustachio Fiore, Pasquale Curcio e Vito Palladino il 6 luglio spedirono un corriere a Parisi dimandandogli il da farsi e questi a sua volta aveva già inviato al Sindaco De Petrinis, capo della vendita, le relative istruzioni intorno al modo da seguire per la proclamazione della costituzione — Il di seguente il De Petrinis accennando al popolo quando negli altri paesi erasi praticato, lesse un proclama firmato dal Parisi in cui si accennava che i carbonari riuniti a Sala Consilina avevano proclamata la costituzione, per la qualcosa rimaneva sospesa la fondiaria, si ribassava il prezzo del sale e perciò invitavali a fare altrettanto. Un grido di evviva alla costituzione parti spontaneo dagli astanti e la gioia divenne frenetica al punto di condursi nello spaccio delle privative ad imporre il decreto. Quindi col più vivo entusiasmo si dettero a percorrere le via acclamanti alla libertà.
In Padula, abbenchè non vi fosse vendita, molti erano ascritti a quelle di Sala e Polla. Michele Netti, Antonio Cancro, Francesco Santomauro, Francesco Forte, Fedele Rizzo, Gaetano Scalea, Raffaele e Domenico Cauli, Angelo Crisci, Paolino de Giuda, Antonio Giordano, Luigi Gandolfi e Francescosaverio Coppola, i quali lontani come erano dal luogo delle riunioni erano a queste talmente assidui d'aver piena conoscenza di quanto dovevan praticare — Nel 7 luglio Raffaele Cauli, Michele Netti, Matteo Buonomo e Angelo Curto sollevarono il popolo, lo armarono e dopo di essere andati in chiesa a cantare il Te Deum andarono a raggiungere il Parisi.
In Atena si rifuggiò Gaetano Pascale, profugo da Salerno pei fatti del 17 giugno e posesi subito d'accordo coi liberali del paese e con quelli delle vicinanze; u n viavai indescrivibile ved e vasi in casa di Saverio Arcangelo Pessolani e in quella di Vincenzo Giacchetti per sapere il quando e il come dovesse avvenire la sollevazione. La sera del 6 luglio Antonio Felitto, capo dei militi li riunì e li passò a rassegna. La mattina seguente il paese videsi tutto parato a festa e poco prima del mezzodì i cittadini si condussero in chiesa ove fu celebrato la messa in ringraziamento all’Altissimo che aveva fatti paghi i loro voti. Quivi Pessolani, Macchiaroli e Pascale parlarono al popolo dei benefici che era in grado d’attendersi dal nuovo ordine di cose: e quando Gaetano Pascale disse di essere stato dichiarato nemico pubblico, lui che avrebbe dato anche la vita per la prosperità del paese; gli applausi scoppiarono come un tuono dalla folla, che attentamente lo ascoltava. Dopo che tutto ebbe termine i capi invitarono i più volenterosi ad armarsi e seguirli in Sala.
Pertosa infine scarso di abitanti, ma abbondante di cuori fervidi d’amor patrio, tra cui Vittorio e Francescantonio Morrone, Angelo Beltotti, Giovanni de Santis e Gennaro Solinas, che andavano d’accordo coi liberali delle provincie; il 6 luglio provocarono la rivolta nel loro paese prima, poscia andarono a sommuovere altri comuni.
La sera allorché pervennero a Sala Consilina i carbonari e i militi dei paesi vicini, vi furono feste e luminarie e alla dimane si dispose il bisognevole per sostenere la Costituzione — Si prelevarono rilevanti somme dalle casse pubbliche, si elesse la Commissione Militare, attribuendole la polizia del Circondario, durante lo stato di guerra, con facoltà di eseguire le sue sentenze fra le ventiquattro ore, si fece appello alla gente atta alle armi, la quale fu divisa in quattro battaglioni, se ne nominarono i comandanti e nella notte si parti per Salerno.
Durante i nove mesi di governo costituzionale i cittadini del Vallo di Tegiano mostraronsi degnissimi della libertà, che loro era stata accordata; in moda che quando vennero a conoscenza della nefandezza del Borbone, corsero alle armi per accorrere all e frontiere e combattere i tedeschi; ma non poterono effettuare la loro idea stante la notizia della disfatta dell esercito nazionale a Rieti.
Allorché Saverio Arcangelo Pessolani e Vincenzo Parisi vennero a Sala Consilina e incitarono il popolo a sollevarsi, il 28 marzo, gli agenti di pubblica sicurezza vollero opporre resistenza; ed ecco che un Nicola Cerchio e un Giuseppe Monzillo si slanciarono loro contro e l’inseguirono con pochi altri sino alla loro caserma ove si asserragliarono ed avrebbero vendicato certamente l'insulto, se il pronto accorrere dei gendarmi non li avesse sbaragliati—Verso sera i liberali riuniti in maggior numero andarono alla casa comunale e trovatala deserta infransero a colpi di pugnale il ritratto del Re e della Regina e quindi percorsero le vie gridando: Viva la repubblica. Tornato il Borbone moltissimi furono arrestati e condannati a diverse pene e tra questi: Parisi Vincenzo, Poppiti Giuseppe, Manganelli Vincenzo, Camerota Luigi, Curcio Domenico, Verlangieri Francesco, Sarno Romualdo, Bracco Onofrio, Cerchio Nicola e Monzillo Giuseppe di Polla, Pessolani Saverio Arcangelo, Caporale Feliciano e Vincenzo, Menafra Domenicantonio e Domenico, Filetto Antonio, Pessolani Vincenzo, Camarota Vincenzo, Silvestro e Francesco, Cerone Gerardo, Cupolo Giuseppe,Del Negro Vincenzo, Filippo e Giuseppe, Cancro Antonio, Puppolo Pasquale, Braica Cosmo e Biagio, Pandolfì Vincenzo, Brondo Giuseppantonio, Curcio Ciro, Durante Michele, Di Fiore Carmine, Di Marsico Nicola, Pessolani Francesco, Aloisi Matteo, Pepe Michele, Di Sante Michele e Damiano, Camerota Francesco, Lotito Angelantonio, Mango Rosario, Midolla Biagio, Cannalonga Michele, D’Elia Baldassarre, Di Falco Salvatore, Barile Vincenzo, Caporale Giambattista, Sambuco Paolantonio di Atena, Belletti Angelo, Morrone Vittorio e Francescantonio, De Santis Giambattista e Solinas Gennaro di Pertosa, D’Andrea Giuseppe, Pecora Gerardo e Crescenzo e Pandolfi Giuseppe di Sant’Arsenio, Mangeri Pasquale di Pio, Mangeri Pasquale fu Nicola, Spinelli Francesco, Leopardi Francesco e Tierno Francesco di San Pietro al Tanagr o, Matina Luigi, Pagano Giuseppe, Spinelli Francescosaverio, Marmo Cono e De Vita Pietro di San Rufo, Pessolani Michele e Giovanni, Bove Michelangelo, De Petrinis Gerolamo,Provenzale Gaetano, Labriola Francesco, Cicerale Giovanni, De Luca Felice, Bove Giuseppe, Cicerale Michele, Russo Andrea,De Rosa Michelangelo, De Petrinis Giuseppe, Romano Francesco, Cappelli Carminantonio, De Rosa Giovannantonio, D'Alto Nicola, Schiselli Francesco, Palladino Michele, Papa Pietro, Tuozzo Giuseppe, Labriola Francescantonio, Cerullo Domenicantonio, Ferretti Giacinto, Di Marsico Giuseppe, Nardeo Vincenzo, Ottati Nicola, Focarile Felice, Laino Domenico, Rossi Bruno, Focarile Vincenzo, Vitale Filippo, Aracri Nicola, Santoro Michelangelo, Cappa Giustino, Santocasiere Alessandro, Ricciardi Francesco, Pierro Arcangelo e Sabbia Pietro di Sala Consilina, Lapetina Saverio, Michele, Francesco e Tommaso, Abatemarco Vito, Casati Giuseppemaria e Antonio, Salamone Pasquale, Elia Carmine e Angelo, Leopardi Antonio, D'Elia Benedetto, Saverio e Michele di Buonabitacolo, Finamore Angelo, Cauli Raffale, Volpe Gerardo, Buonomo Matteo, Netti Michele, Vecchio Giovanni, Cancro Rocco, Santomauro Francesco, Forte Francesco, Rizzo Fedele, Scalea Gaetano, Cauli Domenico, Crisci Angelo, di Giuda Paolino, Giardini Antonio, Cantolfi Luigi e Coppola Francescosaverio di Padula, Gagliardi Francescomaria, Mea Francesco, sacerdote, Mega Francesco e Prospero di Montesano sulla Marcellana, Insero Giovanni di Casalnuovo, Vecchio Giosuè, Ramontini Angelanto n io e Rubino Valeriane di Sassano, Trezza Cono, Macchiaroli Onofrio e Cono, De Honestis Cono e Gerardo, Candia Cono, Ferri Donato e Nicola, Santoro Cono, Silvestri Vincenzo, Cavallaro Michele, Maggiore Agostino, De Luca Gennaro, De Martino Mariano, Guida Tommaso, Rizzo Vincenzo, d’Alto Giuseppe, Ripa Gennaro, Cicchetti Cono, Galella Filippo, Lamaida Andrea, Corrado Luigi, De Nicolellis Carlo, Santoro Crisostomo, Parisi Michelandrea, W a ncolle Giampietro, Tramontano Bernardo, Poppiti Giuseppe, Manzella Pasquale, Sarno Francescopaolo, Vincenzo e Carlo, Berlangieri Vincenzo, Curzio Luigi, Isoldi Felice, Lauria Antonio e Speranza Filippo di Diano.
Anche in Atena abbenchè fossero rimasti ben pochi carbonari, essendo tutti partiti per le frontiere, pure all'annunzio dell'arrivo delle armi tedesche si sollevarono istigati da Nicola Greco e Montino Nicola, da Montesano sulla Marcellana e da Vincenzo Alberti, Tempone Paolo e Gagliardi Francescomaria di Santa Marina, i quali assalirono e disarmarono i pochi gendarmi nella piccola caserma ed erano sul punto di recarsi a Sala Gonsilina per arrecare aiuto a quei che già avevano impegnata la lotta coi borbonici, ma avuto notizia che la forza aveva tutto sedato si sbandarono.
Di questi sei giovani, sui quali il Borbone, appena l’assolutismo fu restaurato sfogò prima la sua rabbiosa vendetta; scrisse quell’ardent’anima di patriota e martire, che fu Luigi Settembrini, nel giornale il Pungolo di Napoli del 24 agosto 1868. Ecco le sue parole:
« Il mattino del 12 settembre 1823 nella città di Salerno le case eran tutte chiuse, le strade senza popolo occupate da soldati Austriaci, in mezzo ai quali quattro giovani andavano a morire sul patibolo. Se uno avesse domandato a quei giovani: Come non vi duole il morire in tanto fiore di giovinezza e siete cosi sereni? essi avrebbero risposto: Noi moriamo per causa di libertà e saremo ricordati dagli avvenire e vendicati. Poveri giovani! Sono quarantacinque anni e nessuno parla di loro, non ci è una pietra che ne ricordi i nomi e la sventura — La vendetta fu fatta, i Borboni scacciati, gli Austriaci son fuori d’Italia, ma quei giovani sono dimenticati. È sacro dovere di pietà, di gratitudine rinfrescarne la memoria.
«Nel 1820 i Carbonari avevano deciso di fare la rivoluzione e fissato anche un giorno per cominciarla; ma esitanze, impedimenti, dubbi, paure, prudenza fecero differire più volte, finché il Morelli ed il Silvati ruppero ogni indugio e il due luglio levarono la bandiera tricolore in Monteforte. Prima di quel giorno, il 17 giugno, sei giovani salernitani focosi, insofferenti e persuasi che bastava levare un gridò perché tutti i carbonari si unissero e il popolo si levasse, tentarono un movimento. Essi erano Antonio Giannone, impiegato civile — Clemente Prota, scribente. — Giovanni de Vita, scr i bente — Federico Cimmini, negoziante—Felice Tafuri, orologiaro — e un Menichini, sergente nei cannonieri.
«Partirono da Salerno in carrozza per Vietri, Cava, Materdomini giunsero a Roccapiemonte, dove furono accolti da Pietro Amabile e con lui presero accordi. Ritornando dopo il desinare per la medesima strada, coi nastri tricolori ai cappelli e sventolando fazzoletti, andavano gridando: Viva la Costituzione—Viva la Libertà. Gli abitanti onde passavano si commossero, ma non si levarono, la polizia fu tutta sossopra e credette già cominciato il movimento che si aspettava. I giovani arrivati presso Salerno smontarono dalla carrozza e si divisero; nei giorni seguenti alcuni furono arrestati, altri rimasero nascosti.
«Questo fatto fu ricoperto dal gran fatto della rivoluzione scoppiata il due luglio 1820, dall’entrata dei carbonari in Napoli e parve fosse perdonato dal rea l indulto dell’otto agosto 1820. Il Giannone fu capitano dei legionari, il de Vita tenente, il Prota sergente, il Menichini tenente dei cannonieri, il Cimmini impiegato nella dogana del sale, il Tafuri non volle nulla, contento della sua professione di orologiaro.
«Entrò l’esercito Austriaco nel regno, tornò Ferdinando primo e nella sua ferocia non dimenticò i sei giovani di Salerno, li fece incarcerare e comandò che fossero giudicati da una Corte Marziale. Del Manichini non si ebbe alcuna nuova; però cinque furono sottoposti al giudizio della Corte Speciale di Salerno e tutti e cinque furono condannati a morte col terzo grado di pubblico esempio ed alle spese del giudizio il 13 agosto 1823.
«Il Tafuri aveva vent'anni e la moglie diciasette, questa giovane donna resa ardita dall'amore si presenta al re e più con le lagrime che con le parole chiede la grazia pel marito. La belva si commuove, si contenta di quattro e il giorno dieci settembre commutò al Tafuri la pena di morte in quella dell'ergastolo.»
«Il Giannone, il Prota, il de Vita, il Cimmini dopo aver subito per un lunghissimo mese quanto è amara una sentenza di morte, il 12 settembre ebbero mozzati il capo in Salerno.
«Il Tafuri condotto in Napoli nella prigione di Santa Maria Apparente per passare all’ergastolo,. ei vide entrare il sergente Menichini, che involto in altra congiura (1) fu poi giudicato ed impiccato sulle forche. Andò all'ergastolo, vi stette tre anni; per grazia del nuovo re Francesco fu relegato all'isola di Favignana nel 1831 e pel generale indulto di Ferdinando secondo tornò libero ed orologiaio. Egli solo vive, egli solo ricorda lo strazio che senti quando gli dissero: Tu all’ergastolo, essi a morte.
In patria il Tafuri non fu mai libero dalla polizia che lo perseguitava, scorgendo in lui il più acerrimo nemico dei Borboni e del dispotismo. Prese domicilio in Napoli e vi esercitò valentemente l’arte sua.
Appartenne a tutte le cospirazioni che prepararono l’unità d’Italia, tanto che nel 1848 quando re Bomba, pari a suo avo spergiurò la costituzione e sparse il terrore e la morte in Napoli nel nefasto giorno del 15 maggio, fu lui che armò di un cannone la barricata eretta a S. Nicola della Carità, e vi si battette valorosamente per vendicare l’ingiusta morte dei compagni spenti per mano del boia, e le sofferenze patite nel trasportare la catena del forzato di cui lo avevano cinto.
Ricacciato più volte indietro ritornò più energico alla pugna e dopo di aver aspettato invano, che una palla dei mercenari svizzeri gli spezzasse il cuore fu costretto ad arrendersi.
Coinvolto in altra congiura nel 1849, che aveva pe r iscopo di sollevare il popolo in Angri e sue a di acenze, fu arrestato e dopo di aver sofferto parecchi mesi di carcere, venne rilasciato per mancanza di pruova.
Nel 1859 che l’Italia preparavasi alla riscossa, fa incaricato dal Comitato d’Azione di raccogliere offerte volontarie dai patrioti del salernitano, per aiutare il movimento insurrezionale, fedelmente esegui la missione avuta, rimettendo le somme ricevute al marchese di. Villamarina, in quell’epoca diplomatico accreditato presso la regia di Napoli; e i nomi degli oblatori venivano pubblicati da un giornale di Genova con sigle e pseudonimi.
Allorché Garibaldi coi suoi mille argonauti sbarcò a Marsala e conquistata la Sicilia passò nelle Calabrie, il Tafuri lo raggiunse e lo seguì nel suo trionfale viaggio sino a Capua, ove combattette da disperato il primo ottobre 1860, la cui vittoria decise dei destini della patria e della libertà. .
Nel 1872 rese la sua grand'anima a Dio, e Napoli memore di quanto aveva egli operato per la sua redenzione, onorollo con solenni esequie e commoventi funerali.
Amatori sinceri di libertà si furono Saverio Arcangelo Pessolani e Vincenzo Parisi. Ascrittisi di buon ora alla Carboneria, in breve ascesero alla sommità dei gradi dell'ordine e si occuparono a tutt'uomo a fare proseliti al sodalizio, che in allora proponevasi di abbattere il dispotismo straniero.
In Atena, prima patria del Pessolani, insieme a Feliciano e Vincenzo Caporale, Domenicantonio Menafra e Vincenzo Giacchetti fondarono la vendita: I Forti Atenesi, e apertamente si dichiararono contro la dominazione francese. Perseguitati dalla polizia, che vedeva in loro due possenti nemici, sfuggivano alle ricerche mercé l’aiuto dei parenti, degli affiliati e degli amici.
Ritornato il Borbone, senza nulla chiedere, attesero le promesse riforme, ma quando videro abbattuta la costituzione in Sicilia e il Giampietro direttore della polizia incrudelire contro i carbonari e contro coloro che erano animati da sentimenti liberali, riorganizzarono nuovamente nei loro paesi la Carboneria. Richiamarono a vita diverse vendite, tra cui la Neosparta Febea di Polla, paese del Parisi, che fondata nel 1811 da Giuseppe Poppiti e Domenico Annuola; per screzi avvenutivi non teneva più le sue ordinarie riunioni. — Molti vi aderirono, tra i quali Francesco Verlangieri, Luigi Cammarota, Giampietro Wancolle e altri e quando Giuseppe Dongiovanni indisse la Gran Dieta di Salerno e pervenne loro l’invito, in una seduta plenaria vi fecero adesione e non esitarono punto a recarvisi pigliando parte a tutti i lavori di quell'assemblea.
Reduci nei loro paesi affrettaronsi ad amma n nire armi e munizioni, acciò il giorno della rivolta; che, se non fosse stato impedito da talune circostanze, doveva essere uno dei primi di giugno, non li cogliesse a ll a sprovveduta.
Fuggiaschi Gaetano Pascale e Rosario Macchiaroli, perché dichiarati dal Nunziante, Nemici della Par tria, vennero accolti fraternamente dal Pessolani; col quale poi appena si seppero i fatti avvenuti in Salerno nel 4 e 5 luglio, armarono più centinaia di uomini, se ne costituirono capi, dichiararono il governo provvisorio in Atena, come il Parisi aveva fatto a Polla e nei comuni limitrofi, recaronsi a Sala Consilina prima, di poi a Salerno e fecero parte della spedizione, che parti per Napoli, Comandata dal Pepe per indurre il re a sanzionare la costituzione, che col suo manifesto in data del 6 luglio aveva promessa alla Nazione.
Proclamatosi il governo costituzionale e convocatisi i comizi, Saverio Arcangelo Pessolani fu eletto deputato al Parlamento e fu tra coloro che si opposero a far partire Ferdinando pel congresso di Lubiana; e Vincenzo Parisi rappresentò Sala Consilina in grembo al Consiglio Provinciale di quell’epoca.
All’appressarsi delle truppe tedesche che venivano in Napoli ad abbattervi la libertà, dopo che l’esercito Nazionale era stato disfatto presso Rieti, ritornarono a Sala e capitanarono la sommossa del 3 aprile 1821; ma sopraffatti dal numero dei soldati ognor crescente furono costretti a fuggire e vagare per parecchio tempo, insino a che vennero arrestati, sottoposti al giudizio di una Corte Militare e condannati a morte col terzo grado di pubblico esempio, alla multa di ducati mille per ciascuno e alle spese del procedimento.
Un decreto del Borbone, datato da Caserta commutò loro la pena di morte in quella dell'ergastolo da scontarsi nell'isola di Favignana, nella quale rimasero fino a che il nuovo re Francesco ne li liberava, invia n doli a perpetuo esilio.
Nel 1832 per grazia speciale rividero i loro monti e i loro parenti.
Poniamo uniti questi tre martiri, perché insieme cospirarono, comune s’ebbero le gesta gloriose per la indipendenza Italiana e insieme s’ebbero spietata sentenza nel 18 ottobre 1825.
Pietro Sessa e Nicola Lombardi amendue di F isciano, paesello a pochi chilometri da Salerno, gongolarono di gioia insieme con Matteo Bufano, di Faiano, allorché Gioacchino Murat chiamò l’Italia a conquistare la sua libertà; ma non si tosto i Francesi fecero sentire l’intera gravezza del giogo sulle spalle dei miseri abitatori delle province napoletane; presero parte a tutte le società segrete affin di scacciare lo straniero dalle belle contrade.
Appartenenti da tempo alla Carboneria e raggiunti i più alti gradi nella setta, si cooperarono a procurare aderenti alla santa causa e vi riuscirono mirabilmente. Creduli alle promesse che il Borbone a mezzo di proclami faceva da Palermo; d’accordo coi carbonari della provincia cospirarono per l’attuazione del loro ideale.
Allorché il Borbone e la sua polizia inveì contro i liberali, riannodarono nei loro paesi le sparse fila della setta, rinnovarono il giuramento che ai tempi del Bonaparte e del Murat li aveva uniti e insieme s’intendevano a scegliere i mezzi per ottenere un governo migliore. Appartennero alla Gran Dieta e vi ebbero cariche e speciali mandati. Il Sessa, rappresentante della vendita: I Normanni di Salerno, f u eletto vicepresidente dell’assemblea, segretario della commissione per la revisione del codice carbonaro, e relatore di quella per discutere la condotta di certuni, ritenuta reprensibile. Fu inoltre incaricato di far tenere al generale Pepe la nomina di comandante in capo di tutte le forze del regno, assieme al proclama dell'insurrezione; cosa 'che esegui inappuntabilmente, senza por mente ai pericoli di ogni sorta per la sua vita, che in mille modi l’ostacolavano.
Nicola Lombardi fu uno dei membri titolari della commissione di censura e Matteo Bufano, fondatore della vendita: I distruttori dei Malvagi, fece parte della commissione per giudicare coloro che si opponevano al cosidetto Slancio Nazionale, e fu anche compagno del Sessa nella revisione del codice dell’ordine. Venuto il generale Nunziante a Salerno con pieni poteri, a punire coloro che eransi resi colpevoli dei fatti avvenuti il 30 maggio e 17 giugno, furono compresi nella lista di proscrizione e dichiarati: Nemici pubblici. Costretti a fuggire, aggiraronsi per le campagne dei loro paeselli, facendo intendere a tutti coloro che li avvicinavano esser imminente una crisi tale da arrecare uno sconvolgimento nell’ordine politico del regno.
Alla lieta novella degli avvenimenti di Nola, Avellino e Monteforte, promossi dai sottotenenti Stivati e Morelli, eglino a capo di molti settari e di altri, che pur non appartenendo alla congiura, amavano le libere istituzioni, armati mossero in aiuto degli insorti, e dopo che queglino non avevano più d’uopo del loro soccorso, per esser da se soli forti abbastanza da respingere qualunque assalto, che loro venisse fatto da parte dei sostenitori della tirannide; si ridussero nei rispettivi comuni, v'inalberarono la bandiera tri( 1) colore e corsero a Salerno a proclamarvi il governo costituzionale provvisorio.
Partito per Napoli l’esercito Nazionale per far si che la promessa costituzione venisse promulgata; al Sessa e al Lombardi si affidò il comando di una compagnia di legionari e Bufano s’ebbe il grado di commissario di guerra.
Appena il generale Pepe fece appello ai cuori fervidi di libertà per combattere gli Austriaci, Sessa si ebbe il comando di un reggimento e Bufano e Lombardi tennero quello che durante i pochi mesi di governo costituzionale avevano tenuto e partirono per le frontiere battendovisi da eroi.
Fallita l’impresa, che tanto sangue e tante lagrime doveva costare ai cittadini; respinti dall’agguerrito esercito Absburghese, si ridussero a Nola, ove idearono l’idea di proclamare la Repubblica in Salerno.
Pervenutivi infatti la sera del 25 marzo e acclamati dal popolo, ignaro del sovrastante pericolo, nella piazza detta del Campo, elevarono l’albero della libertà.
Pochi giorni dopo l’esercito invasore entrava da vincitore e i tre eroi si dettero alla fuga. Il 26 aprile furono arrestati e trasportati prima in Napoli e poscia in Salerno in cui un Consiglio di Guerra appositamente nominato li condannò a morte col laccio sulle forche; ma il re li volle salvi e furono gittati in un ergastolo a trarvi una vita cento volte peggiore della morte.
Rosario Macchiar oli nacque a Bellosguardo ed a Napoli fu educato a studi forti e severi, che lo fecero divenire dottissimo. Come gli uomini più illuminati e generosi accolse le idee di libertà importale a noi dalla rivoluzione francese e aspirando veder l’Italia unita, favori l'impresa del Murat; dopo i cui rovesci fu carbonaro ardentissimo e cospirò sempre per l’attuazione delle sue aspirazioni.
In più paesi istituì vendite carboniche; appartenne alla Gran Dieta, prese attivissima parte ai fatti del 30 maggio e dichiarato nemico pubblico dal generale Nunziante, si rifuggiò in Atena presso Saverio Arcangelo Pessolani, assieme a Gaetano Pascale e attesero che il trapiantato seme di libertà, arrecasse i suoi frutti.
Nel 6 luglio col Pessolani e Pascale sollevò e armò il popolo in Atena ed in altri comuni di quel di Sala Consilina, proclamandovi il governo provvisorio.
Venuta l’era di libertà Rosario Macchiaroli, anch'egli, venne chiamato a far parte della camera elettiva e si mostrò oratore facondo ed erudito in tutte le occasione che imprese a parlare.
Sconfitto l’esercito Nazionale a Rieti e sciolto il Parlamento, egli, insieme a Maselli si condusse ad Eboli per proclamarvi la repubblica. Trovatovi il popolo ostile tentò fuggire travestito; ma giunto ad un punto boscoso sulla strada consolare, detto: il Ceffata, si scontrò con una squadriglia del famigerato capitano Costa, dalla quale venne riconosciuto e arrestato. Mentre lo ligavano e lo insultavano in mille guise, un colpo di fucile tirato da uno dei zelanti fedelissimi, da un punto nominato: Pezza di Padano, lo ferì mortalmente. Trascinato, più che trasportato, per le vie che chiazzava del suo sangue, insultato, deriso, tra gli urli feroci di gente crudele, insino all'ospedale, appena vi giunse esalò l’estremo sospiro.
Gaetano Pascale di Napoli era impiegato a Salerno all'ufficio di registro e bollo. Carbonaro ardentissimo, si in pubblico che in privato, non si asteneva menomamente di far propaganda della setta cui apparteneva. Prese parte a tutti gli avvenimenti che prepararono e portarono a termine la rivoluzione del 1820, e dopo l’entrata dei Tedeschi andò ramingo e si tenne nascosto.
Trasferitosi a Napoli col Menichini fece parte della cospirazione: Gli Ordoni di Napoli, e quando questa fa scoverta e molti di coloro che vi appartenevano furono arrestati, egli tentò di ridursi all’estero; ma non gli venne fatto; perché arrestato, nel 1825, la Gran Corte Speciale di Salerno lo condannò alla pena di morte; la quale gli venne commutata in quella dell’ergastolo.
Non inferiore a Rosario Macchiaroli e a Gaetano Pascale per dottrina, amor di patria e libertà si fa Francesco Maselli, giudice appo il Tribunale di Salerno. Nato nell'ubertosa e classica terra Cilentana, ad Omignano, aveva la tempra forte e ardita propria dei montanari. Carbonaro per elezione e convinzione fondò la vendita: I Veri Figli di Pesto, che rappresentò pure alla Gran Dieta.
Nemico di ogni dispotismo e precisamente del Borbone, fu lui, che a capo della sommossa che ebbe luogo in Salerno il 30 maggio, ordinò che si staccassero dalle loro nicchie le statue del re e della regina, si appiccassero ai fanali, e quindi di propria mano vi accese il fuoco.
Dichiarato come gli altri suoi compagni, nemico pubblico, si condusse prima nel suo paese, prese degli accordi col giovane carbonaro Giuseppe Catarina e quindi si ridusse a Giungano, ove venne ospitato dal notissimo settario Erasmo Picilli, nella cui casa seppe dei fatti di Salerno del 5 e 6 luglio.
Immantinenti ritorna ad Omignano, vi assolda gente, ne affida il comando a Catarina ordinandogli di raggiungerlo e si porta a Giungano, ove già era pronta altra colonna di carbonari e vi aspetta il Catarina, col quale mosse per diversi comuni a dichiararvi decaduto il potere assoluto.
Nei nove mesi del governo costituzionale, adempì scrupolosamente ai suoi doveri di magistrato; ma quando i Tedeschi entrarono nel regno, gittò via la toga e parti per sommuovere loro contro Altavilla Silentina, Capaccio, Campagna ed altri paesi, e non riuscendovi si unì a Macchiaroli per proclamare la repubblica in Eboli; ma accolti ostilmente dai cittadini, più fortunato del suo compagno potè fuggire nella notte.
Il 15 maggio 1822 venne arrestato e cogli altri giudicato, condannato a morte e poi all'ergastolo dalla Corte Speciale di Salerno.
Carminantonio Amato, caldissimo amatore d’Italia, sviscerato pel Napoletano, gli pativa il cuore vedendo un' popolo cotanto generoso, crudelmente vessato dalla tirannia del Borbone.
Si affiliò alla Carboneria e ben presto pervenne al grado di alto dignitario; nella cui qualità fondò la vendita: i Veri Figli del Trionfo dell’Amicizia; nel suo paese di San Cipriano Picentino; della quale venne delegato alla Gran Dieta e vi fu eletto consigliere della magistratura.
Ospitaliere con tutti non lo fu meno con quei pochi compagni che fidenti gli si rivolsero per asilo dopo i fatti del 30 maggio.
Appena i paesi della provincia insorsero nel 6 luglio, egli costituitosi capo di molta gente armata, venne a Salerno pronto a partire con gli altri per Napoli; ma chiamato a far parte del Governo Provvisorio, dovette cedere il comando della sua gente.
Ritornato il Borbone si tenne per breve tempo nascosto; ma supponendo esser il suo nome stato compreso nell'indulto generale si mostrò ai suoi concittadini e in una notte di febbraio del 1823 fu arrestato e condotto in Napoli fu gittato nella orrenda fossa del coccodrillo.
Sorte non più grave, ma non meno orrenda e barbara ebbero Antonio Stassano, Luigi Carelli, Domenico Giannattasio e Giuseppe Nicola Rossi.
Antonio Stassano da Campagna, educato dallo Zio fece rapidi progressi nello studio delle lettere, delle scienze fisiche, matematiche, astronomiche e filosofiche.
Allorché il Napoletano, nel 1799, sorgeva da secolare schiavitù, egli in età appena di ventott'anni, fu acclamato duce supremo delle milizie cittadine e nei momenti più difficili, si condusse con molt'arte e prudenza.
Caduta la repubblica partenopea venne perseguitato crudelmente e quando l’esercito della santa fede entrò da vincitore in Campagna, mise la sua casa a ruba, a sacco ed a fuoco.
Ritornati i Francesi nel 1806 fu incaricato di organizzare la guardia civica, di cui fu prima capitano, capo battaglione poi del circondario nella legione provinciale.
Ai tempi di Gioacchino s’ebbe onori e titoli, ma venuto il Borbone e temendo degli uffiziali del Murat, pur fingendo di apprezzare le virtù dello Stassano, lo insigni prima cavaliere dell'ordine di S. Giorgio della Riunione e nominatolo maggiore lo passò alla riserva, ed è da quest'epoca che comincia la sua vita di cospiratore, che lo fece tanto distinguere nel periodo rivoluzionario del 1820.
Nel 1821, quale capo di stato maggiore, parti per le frontiere al comando del generale Carascosa, e comandò il presidio di Pontecorvo, allorché questa piazza venne attaccata dai tedeschi.
Fuggiasco e ramingo dopo il ritorno del Borbone, fu incarcerato nel 1824 e libero qualche anno dopo, fu sottoposto alla speciale sorveglianza della polizia, insino a che si moriva vecchio di ottantasette anni nella sua città, compianto da tutti e solo rimanendo ai suoi eredi un nome onorato.
Luigi Carelli era di Laurito e passò i primi suoi anni in pacifici studi che gli aprirono brillante carriera nella magistratura.
Congiurò contro il Murat e quando il Borbone imperversò contro i liberali nel 1816, sebbene egli nulla soffrisse, pure ebbe pena di veder colpiti molti dei suoi migliori amici e ridivenne carbonaro.
Alla Gran Dieta rappresentò la vendita: i Liberi Brucari di Cuccavo Vetere. Per le sue doti fu chiamato a far parte del Comitato di Salute Pubblica e più tardi allorché la rivoluzione aveva fatto indescrivibili progressi, e prima che il re avesse promessa la costituzione, fu uno dei segretarii del governa provvisorio proclamatosi in Salerno.
Restaurato il regno al dispotismo, fu arrestato è processato insieme a tanti altri e rilasciato per mancanza di prove, dovette rinunziare all'esercizio della sua professione, obbligandosi a viversene da privatone! suo paesello, nel quale la polizia di quei tempi non gli dava punto tregua.
Domenico Giannattasio, da più anni domiciliato a Salerno, e Giuseppe Nicola Rossi di Bagnuoli; avvocato distintissimo l’uno, magistrato integerrimo l’altro, esultarono alla notizia della cacciata dei francesi; ma ben tosto disillusi per le iniquità e barbarie della polizia borbonica, si affiliarono alla carboneria. Alla Gran Dieta il Rossi fu eletto vicepresidente dell’assemblea e col Giannattasio poi fece parte della commissione per la revisione del codice carbonaro.
Scoppiata la rivoluzione nel 1820 l’aiutarono con tutti i mezzi che erano in loro potere, ed ambidue vennero chiamati a far parte del governo provvisorio. Spenta la costituzione s’ebbero ugual sorte del Carelli e dello Stassano.
Ovunque il boia era in grandi faccende e le carceri di ogni benché minimo paesello riempivansi di gente, rea soltanto di aver amato la patria e la libertà. Ogni individuo tremava per se o per qualche suo caro, giacché bastava esser semplicemente indicato quale carbonaro anche da una denuncia anonima,' per esser sottoposti a crudi tormenti, o per lo meno ad esser gittati in una fetida prigione.
Tali e tante enormezze del Borbone, spaventarono lo stesso Frimont, comandante gli Austriaci che occupavano il reame, che fece intendere al tiranno non andare a cuore del suo Imperatore tanta effusione di sangue, amando piuttosto si martoriassero i nemici del trono e dell'altare in ben altra guisa.
«Eglino dimandano una patria libera i vostri nemici, avrebbe detto l'Austriaco, fate o sire che la trovino tra i selvaggi dell’Africa e. la Maestà Vostra, sbarazzandosi dei malcontenti e dei faziosi ci guada gnerà il titolo di magnanimo».
Accettò il suggerimento la iena e in men che si dica decretò: che tutti coloro che avevano cospirato per affrettare i passati politici avvenimenti, eran liberi di presentarsi per esser giudicati o di uscire dal regno con passaporti della polizia senza alcun, indizio di condanna.
Molti in attesa di tempi migliori accettarono l’offerta, che loro veniva dalla sovrana munificenza, e si accinsero a varcare le frontiere; ma quivi alcuni vennero arrestati e gittati nelle prigioni di Stato, vere tombe di uomini vivi, altri potettero rifuggiarsi. all’estero. Tra quelli cui fortuna arrise furonvi: Raffaele Avossa, Luigi Vernieri, Gennaro Pastore e Raffaele Pagliara.
Avevano ingegno e cuore nobilissimo, semplicità di modi ed incorrotti costumi. I buoni, gli onesti, i generosi li amavano e facevano a gara per cattivarsene l’amicizia.
Ben presto intesero quanto sia dura la condizione di chi era costretto a vivere sotto la sferza della tirannide e saputo che gente sprezzante ogni pericolo cospirava a conquistar miglior governo, le avvicinarono, si resero degni della loro confidenza, vollero appartenere alla congiura di cui erano capi o componenti e vi affermarono talmente le loro idee che in breve vi occuparono i può eminenti gradi.
Alla Gran Dieta fecero parte di diverse commissioni e quando la congiura svolse le sue spire misteriose e in un baleno proclamò la costituzione, eglino ne furono l’anima e i direttori essendo stati eletti del governo provvisorio non solo, ma quando nei nove mesi di costituzione si ebbero diversi ed importanti ufficii.
Avvicinandosi i Tedeschi, avendo in orrore gli stranieri, a non esser tacciati d’ignavia di fronte al pericolo, misurarono d'un colpo l’immenso abisso spalancato innanti a loro e la responsabilità che deriverebbe dalla loro inerzia, dettero di piglio alle armi e volontariamente accorsero a combattere.
Più fiate, in diversi fatti d’armi si distinsero e il Pepe nominol li sul campo comandanti di compagnie.
Finita la guerra con la sconfitta delle armi napoletane si ritrassero e vissero nascosti sino a che ottenuto dalla polizia passaporti liberi, pensando che l’atto di magnanimità compiuto da Ferdinando non poteva non nascondere un tranello per averli in suo potere; delusero ogni vigilanza, recandosi in Inghilterra, ove vissero per molti anni.
Coloro che potettero sfuggire al patibolo, alla carcere, alle rigorose misure di polizia o alla forzata deportazione, dovettero volontariamente abbandonare la patria e ritrarsi in paese straniero. Tra questi moltissimi della provincia di Salerno, che avevano avuto no n poca parte nella rivoluzione.
Gaetano Bellelli di Capaccio, nato da nobilissima famiglia, giovanissimo godeva fama d’integrità e di senno. Segui prima le parti dei francesi credendo potessero arrecar bene alla sua diletta Italia, ma quando si accorse che il dispotismo straniero era più insopportabile dell'indigeno, nelle file dei carbonari cospirò contro di esso e di poi per la rovina dei Borboni.
Col Bongiovanni ed altri convocò la Gran Dieta per intendersi come portare a termine la ideata sollevazione, e quando questa scoppiò tremenda come l’ira di Dio, e si proclamò il governo provvisorio, vi fu eletto presidente.
Uomo d’azione, sdegnò la vita d’inerzia a cui lo condannava la sua carica, depose il mandato affidatogli e ottenuto il comando di un battaglione di legionari, parte per Napoli insieme al Pepe.
Promulgatasi la costituzione ed essendogli stato riconosciuto dal nuovo ministero il grado di capo battaglione, vi spiegò tale e tanta attività di far apprendere in breve ai suoi uomini la tattica guerresca, in modo che quando partirono contro i tedeschi, in più rincontri riuscirono vincitori e meritarono pubbliche lodi.
Gerardo Mazziotti di Celso, nel Cilento, di cuor generoso, di spirito ardente, energico oltre ogni credere e sopratutto ricchissimo, insieme al fratello Giuseppe e pochi altri dei paesi vicini apertamente congiuravano.
Invitato dal Bongiovanni a pigliar parte dei lavori della Gran Dieta, v'intervenne e vi fu eletto consigliere della Magistratura Esecutiva. Scoppiata la rivoluzione e nominato comandante della spedizione organizzata da suo fratello, aveva in animo di partire coi suoi amici per la capitale, ma dovette depor n e l’idea perché chiamato a far parte del Governo provvisorio.
Sanzionata la costituzione e convocati i comizi fu con unanimità di suffragi eletto deputato al Parlamento e assieme al Pessolani e ad altri si oppose alla partenza del re per Lubiana.
Ritornato Ferdinando, Gerardo Mazziotti andò fuggiasco di terra in terra insino al 1827, che per grazia del nuovo re Francesco fu restituito alla famiglia.
Appartenne insieme all’altro suo fratello Pietro alla setta dei Filadelfi, fondatasi in Napoli, e quando questa produsse il movimento di Palinuro, potentemente e con tutte le loro forze vi coadiuvarono.
Avvenuta la carneficina operata nel Cilento per opera di Del Carretto Pietro fu arrestato, tradotto a Salerno, gittate in una malsana prigione, in breve colto da feral morbo vi morì; e Gerardo potè a stento guadagnare lontane sponde, ove visse una vita onorata, illustrando in mille guise il nome italiano.
Vincenzo Gatti, giovane egregio, forte di braccio e ardito di cuore, amava la patria con fervido amore. Domiciliato da anni a Salerno appartenne alla vendita i Benemeriti Carbonari, e più volte fu incaricato di condursi a Napoli per avere colloqui coi capi della cospirazione.
Arrestato pei fatti del 30 maggio, venne escarcerato nei momenti della rivoluzione alla quale consagrò tutta la sua energia.
Dopo la partenza del Re per Lubiana, prevedendo i grandi mali, che poi ne seguirono, dette un addio al la patria, alla famiglia, agli amici e si ridusse in Ispagna.
Pasquale Lombardi di Dupino e Domenico Cicalese, di Nocera, giovani impareggiabili, che in cima ai loro pensieri non avevano altro che quello della libertà della patria; erano ascritti ambidue alla vendita: La Vera Scelta, e furono tra i componenti la Magistratura Esecutiva. Nei loro paesi amati da tutti propagavano la setta; affiliavano persone e le preparavano pel gran momento.
Il 30 maggio si videro tra coloro che levaronsi a rumore in Salerno e costretti ad allontanarsi, per non essere arrestati, furono come gli altri capi dichiarati nemici pubblici dal generale Nunziante.
Ai tempi della rivoluzione comandarono ciascuno una compagnia di legionari e quando l’esercito nazionale parti per le frontiere, per combattere i tedeschi, Domenico Cicalese chiese e ottenne di formare un reggimento, armarlo a proprie spese e condurlo alla difesa di Pontecorvo agli ordini del comandante Stassano.
Tornato da quella sventurata, per quanto eroica spedizione, nel suo paese, a Nocera, sollevò il popolo e costretto a fuggire si. riunì nuovamente con Pasquale Lombardi e insieme potettero raggiungere le coste della Spagna, prima, quelle dell’Inghilterra poi.
Giuseppe Dongiovanni, domiciliato a Salerno, Giacinto Farina di Saragnano, Andrea Vallenoto di Torraca, e Ferdinando Giannone di Napoli; dichiarati nemici pubblici, preordinarono la rivoluzione e potentemente si adoperarono per portarla a termine. Comandarono i legionari nei loro paesi e restauratosi il governo assoluto battettero la via dell'esilio.
I mezzi adoperati per ristabilire e mantenere il potere assolato nel regno avevano immensamente accresciuto il debito pubblico, quindi aumento di balzelli per pagare i ligi ministri, il numeroso esercito, il lusso delle amanti, la miriade di ruffiani, direttori di grandi amministrazioni, generali volti a far dà carnefici, i quali dovevano sfoggiare pel grado e pel merito; erano causa di malcontento e di odio contro il Borbone.
D principe di Canosa, ministro di polizia, si era circondato, come dice il Colletta: di uomini perversi e malvaggi provenienti dalle disserrate prigioni del 1799; dall’anarchia di quell’anno, dal brigantaggio del decennio e dalle galere di Ponza e Pantelleria» aveva accordato loro patenti ed armi e per opporli alla setta dei carbonari l’aveva nomati fedelissimi Calderari; e questi aspettavano l’opportunità per erompere nelle città e rinnovare le crudeli scene dei sanfedisti del Ruffo.
Aveva elevato a titolo di onore lo spionaggio e i delatori pullulavano da per ogni dove, per cui moltissimi furono condannati all’estremo supplizio e all’ergastolo; moltissimi altri all’esilio e al bando.
Ciò in luogo di atterrire creava n o al despota nuovi e più formidabili nemici, che non si lagnavano solamente o, esprimevano vani desiderii, ma cercavano sempre più riunirsi con vincoli indissolubili e cospiravano.
La provincia di Salerno, che in ogni tempo è stata il focolare delle idee liberali, puossi affermare non esservi paesello che non avesse la sua vendita in diretta comunicazione con quelle centrali, sedenti nei capiluoghi di circondario e si ridevano di tutte le mene dei cagnotti sguinzagliati loro contro dal Canosa per nuocerli.
In Policastro, nel luglio del 1822, si scovrì una congiura tendente a cambiar la forma del governo; per cui molti dei conterranei fuggirono, altri vennero arrestati e tra questi: Corteo Domenico, Cobucci Carlo, Falcone Cristofaro, Bruno Gerardo, Pertagna Vincenzo e Giudice Pasquale.
A Vibonati nella stessa epoca per reato di lesa maestà furono imprigionati: Cioffi Giuseppe e Francesco, Curzio Vincenzo, Giffoni Lorenzo, del Vecchio Biagio, Giffolli Francesco e Belletti Antonio, di San Giovanni a Piro; de Marco Vincenzo, Abramo Giuseppe e Sampogna Pasquale, di Tortorelle; Brandi Nicola, di Battaglia; Pugliese Giovannangelo e Luisi Gerardo, di Casaletto Spartano.
Si arrestarono a Porcili: Monzo Domenico, Giovanni e Gennaro, Cona Pietropaolo e Angelomaria, Vassallo Pietro e Zamarelli Vincenzo e Giuseppe; nonché Granito Francescopaolo, di Rocca Cilento, Calemmo Luigi di Vallo Lucano, e di Polito Angelomaria di Salente. '
Una denuncia anonima fece sì che si scovrisse una congiura in Cardile ove gli agenti della forza pubblica sequestrarono gli emblemi della setta, i verbali delle tornate e si arrestarono: Ricci Alessandro, Cesare e Licurgo, Maucione Giovanni e Gabriele di Cardile; e Cinelli Pasquale, Buonfrisco Domenico e Torello Filippo di Magliano.
In Buccino i carbonari si riunivano in un a casa di abitazione di Giuseppe de Vita e vi cospiravano. Il primo aprile del 1823 furono sorpresi e arrestati prima che potessero dar di piglio alle armi, che vi erano nascoste, per difendersi: Goffredo Pietro, Giacchetti Nicola, Merlino Domenicantonio, Bellelli Pasquale, Padiglione Antonio, Curzio Giambattista, Gal l ucci Carminantonio, Fuccia Nicola, Amendola Giuseppe, Bosco Giuseppe, Guerdile Luigi, Masucci Ambrogio, Marano Nunzio, di Buccino; e de Vita Giuseppe di Angellara.
In Omignano il primo ottobre si scovri una setta, che teneva le sue riunioni in casa di Angelo Lerro, ove i componenti erano venuti armati e opposero viva resistenza alle guardie urbane che erano andate a scovarli. A capo di pochi giorni una brigata di gendarmi speditavi per l’arresto dei cospiratori procedeva alla incarcerazione di Maselli Francesco e Luigi, de Feo Prospero, Marfongelli Giuseppe, de Feo Girolamo, Vasaturo Andrea, Angelo e Leonardo, Pandolfi Angelo Raffaele, Elia Feliceantonio, di Marco Francesco, Lauriello Serafino, Lerro Domenicantonio, Coccoli Giuseppe e Angelo, Maselli Giuseppe e Giordano Ferdinando — Il primo gennaio del 1823 vennero a contesa i Carbonari e i Calderari ai quali toccò la peggio. Accorsero le guardie urbane per arrestare l’istigatore principale della baruffa, il noto Angelo Lerro; ma ne riportarono ferite e contusioni — Il Pretore inviato il suo rapporto, vennero subito imprigionati: Lerro Angelo e Giovannantonio, Catarina Giuseppe e Domenicantonio, Maurantonio di Marco; Elia Francesco, Giuliano Domenico, Luigi Lettieri, Maselli Gaetano, di Nicuoli Luigi, Migliorini Pasquale di Nicuoli Antonio, Sfella Costantino, Giordano Gaetano, de Feo Pasquale, Sabbatella Giuseppe, Vasaturo Antodio, Pandolfi Francesco e di Feo Giuseppe di Omignano, Buonadonna Giuseppe e Michelangelo, e Cona Giuseppe, di Porcili; Damiani Giuseppe di Cosentini e Venti miglia Raffaele di S. Mango.
A Montecorvino Pugliano si trassero in carcere: Budetti Pasquale, d’Aiutolo Michele e Antonio, Ponte Gaetano, Toriello Pietro e Filippo, Petrucci Vito, sacerdote, Budetta Luca, Grazioli Giuseppe, Leone Domenico, della Corte Giuseppe, Pasquale e Francesco, Toriello Pasquale, Campione Angelo, Budetti Diego e Antonio e Ponte Giuseppe, parroco di Montecorvino, Granozio Luigi, di Giffoni e Scognamiglio
Baldassarre, di Resina; quali aventi relazione con gente sospetta di carbonarismo.
In S. Mango, comunell o del Cilento, fra i suoi pochi abitatori contava molti carbonari che pure tenevano le loro segrete riunioni per intendersi. I principali componenti erano: Vitale Gennaro, Ventimiglia Raffaele e Pietrangelo, Verta Giancamillo, Buono Carmine, Piantieri Francesco, di Martino Pandolfo di San Mango, Buono Francesco di Casigliano, Coppola Silvestro, Donnabella Giuseppe e Raffaele di Valle.
In Moio della Civitella: Alario Giuseppe, Stromillo Liborio, Benedetto, Michelangelo e Nicola istituirono una vendita dal titolo I Maghi, sotto la protezione del potentissimo diavolo.
In Atena i carbonari si riunivano in casa dei Pessolani, o nel luogo detto il Sepone, é anche nel palazzo del principe. Nel 1823 vennero scoverti ed arrestati Giampietro Angelomaria, Sproviero Luigi e Nicola, Porcelli Raffaele, Viggiani Raffaele, Marini Saverio, Pessolani Giammaria, Caporale Feliciano, Biscotti Amato, Menafra Domenicantonio, e Cicchetti Cono fu Antonio di Atena e Romano Giovanni di Pietrafesa.
In diversi luoghi del tenimento di Capitignano si riunivano segretamente a scopo di cospirare: Jacuzio Vincenzo, Domenico e Francesco, Landi Francesco di Antonio, Landi Rosario e Francesco, di Lorenzo, de Robertis Mariantonio, e Parrilli Michelangelo.
Presso Cava dei Tirreni nella notte del 10 decembre 1822, mentre i carbonari erano intenti a cospirare, furono assaliti dalla forza pubblica e si misero sulla difesa. Al primo scontro rimase ucciso Saverio Cicalese di Nocera; gli altri incalzati dal numero furono arrestati. Essi erano: d’Amore Simone, Spatuzzi Sabbato, Nicola e Amodio, di Santi Quaranta; Conforti Antonio, di Galvanico; Solitto Antonio, di S. Eustachio; Postiglione Antonio, di Salerno C uomo Bernardo, Pecoraro Sebastiano, e Trapanese Bartolomeo, di Nocera; Ragone Francesco, di Cava, Nicoletta Sabbatino, Di Martino Francesco e Raimondo, d’Ogliara.
La Corte Militare nel 5 gennaio 1823, condanna alla pena di morte: Spatuzzi Nicola e Amodio e Antonio Postiglione, a 25 anni di ferri, Francesco de Martino e gli altri all’ergastolo.
In Amalfi si tenevano riunioni settarie in casa del carbonaro Domenico d’Auria di Galvanico e v’intervenivano: Amatruda Andrea, Antonio, Raffaele, Luigi, Ferdinando, Gennaro, Giovanni e Nicola, Bonito Salvatore, Lucibello Lorenzo, Torre Andrea e Raffaele, Vozza Gregorio, Laudano Gaetano, Cimini Francesco, Anastasio Casimiro, Colavolpe Salvatore, Parlati Giuseppe, Bonito Giuseppe e Andrea, Panza Luigi, de Stefano Antonio e Saverio.
Si riunivano in Santa Barbara per cospirare: Agresti Giuseppemaria, Testa Giulio, Scavarelli Rocco e Luigi, Fierro Rosario, Ogliaruso Domenico, fu Matteo, Esposito Giuseppe, Buonomo Nicola, fu Felice, Testa Tiberio e Ferrara Giovanni.
In Sacco il popolo si sollevò istigati dai componenti una congiura, che aveva per iscopo di cambiare e distruggere la forma del governo. Si arrestarono: Pagano Vincenzo, Angelo e Giuseppe, Monzillo Francesco, Monaco Gaetano, Imperiale Giuseppe, d’Andrea Angelo, Esposito Angelo, Salomone Antonio, Franco Silvestro, Gatti Salvatore, Perrone Nicola, Corbo Vincenzo e Domenicantonio, Consoli Antonio fu Carmine, e Zoccoli Giuseppe di Sacco. La suprema Commissione pei reati di stato condanna il solo Antonio Salomone a cinque anni di prigione.
A Campora pure vi fu sommossa; perché istigati dal sindaco! cittadini vennero alle mani coi gendarmi ferendone alcuni. Si trassero in arresto: Trotta Giovanni, sindaco e Trotta Pasquale, Laurito Silvestro, Morrone Francesco, d’Alessandro Angelo, Calabria Stefano, Voltai Giovanni, Ciardo Pietro, Roberto Pieirò, Galzerano Tommaso e Francesco, e Feola Pasquale.
Nella Pasqua di Resurrezione del 1823 vi furono commosse anche nei villaggi di Perito e Ostigliano, e si processarono: Cecchi Gerardo, Cirillo Giuseppe, del Baglivo Antonio, d’Apolito Pasquale, Miglino Nicola, di Perito, e d'Apolito Mauro, arciprete di O stigliano, che per mancanze di prove vennero assoluti dalla Suprema Commissione. Furono arrestati in S. Gregorio Magno quali rei di Stato: Vincenzo Coppola, Nicola Mele, e Stefano Robertazzi, Luigi Montemurro, Giuseppe Farasi, Domenico Saporito, Giuseppe e Francesco Lordi di Onofrio, Pasquale Bianchino, Natale Fresolone, Gregorio Lepore, Nicola Cozzolino, Martino Coppola, Pascasio Simone e Francesco e Vincenzo Carella di S. Gregorio Magno, Vincenzo e Luigi Bevilacqua, Volturo Gregorio e Vittorio di Baivano, Lepore Gregorio, Altieri Giuseppe, Logrippo Francesco di S. Gregorio, Cariucci Andrea di Picerno e Vito Caso di Baivano. La Suprema commissione nel 31 dicembre 1829 condanna alla pena di morte mediante fucilazione, Pascasio Simone, Vito Caso, Luigi Bevilacqua, Gregorio Logrippo, Lepore Gregorio e Vincenzo Bevilacqua minore degli anni diciotto a 24 anni di ferri duri.
In Battaglia i cospiratori riunivansi presso la famiglia Ragognetti. La sera del 24 decembre una denuncia privata feceli sorprendere e arrestare. Essi erano: Ragognetti Vincenzo e Feliceantonio, Ciuffo Felice, Lomonte Macario, Sampogna Pasquale, Bruno Nicola, Abramo Nicolangelo e Laguardia Lucio.
In Sicignano furono processati quali appartenenti a nuova congiura per cambiare la forma del governo: Gerardo e Lorenzo Cristaino, Nicola, Francesco e Vitantonio Pastore, Marcantonio Piccione, Giovanni Arciello, Giulio Giacinto Potolini, Felice Pepe, Giuseppe, Luigi e Nicolangelo Mele, Michele e Luigi Fraina, Beniamino Laurino, Pietro e Luigi Bilotti.
In Baggiano la notte del 5 novembre i carbona r i armati d’accette e picconi si levarono a rumore e minacciavano i gendarmi ivi residenti e le guardie urbane del paese. La dimane pervenuti altri soldati furono subito arrestati: Lupo Raffaele, Addesso Filippo, Pucciarelli Francesco, Pignato Vincenzo, Amanzi Vincenzo, Baggiano Giovanni, Monzillo Nicola, Isoldi Gennaro, Vistone Garmine, Morrone Francesco, Pepe Antonio, Marcigliano Vincenzo e Rosario, Macrini Giuseppe, Biccarone Vincenzo, Mignoli Francesco, Gagliardi Michele, Manisera Filippo e Baggiano Domenico.
La notte del 10 Aprile 1824 in Nocera i carbonari per istigare i calderari cantavano canzoni ispirate a sensi liberali, sopravvenuti i gendarmi arrestarono: Binque Teodoro e Sorrentino Francesco di C ava dei Tirreni e di Maio Raffaele, Bitarella Andrea, Sica Luigi, Genovese Nicola, Spera Giuseppe e Perrotta Ferdinando.
Ad Oliveto Citra vi era una vendita diretta dal sindaco Paolantonio Gaifi e tra coloro che vi facevano parte eranvi: Pirofalo Giuseppantonio, Freda Donatantonio, Pirofalo Filippo, Pizzarelli Giovanni e Cappotta Luigi.
Ad Eboli si arrestarono nel 28 dicembre del 1824: Santalucia Gaetano, Maglione Gaetano, La Francesca Angelo, e Giudice Nicola denunciati per carbonari.
A Postiglione Biagio de Pascale, il quale aveva, sottratto molti fucili al disarmo generale del 1821, tentò armare molti paesani. Scoverto venne arrestato e processato anche per aver ospitato i rei di Stato Bolletta e Lucente.
In Acerno in una sera di Ottobre del 1824 i carbonari furono sorpresi mentre congiuravano. Alcuni furono arrestati come: Paolillo Brescenzo, Petrelli Pasquale, Bozzi Francesco, Gervasio Donato, de Angelis Donatantonio, Panico Francesco, Cappetta Frani( 1) cesco, d’Urso Giovanni, Amatruda Michele, Vestuto Zaccaria, de Feo Nicola e Sansone Vincenzo di Acerno, Muscariello Raffaele di Montella, Simone Nicola, Marzullo Bernardo, arrestato ai confini dalle armi pontificie, Lopez Gennaro e Viglione Giovanni e Giuseppe, di Benevento e Cuozzo Luigi di Bagnoli. Si resero latitanti: Cozzi Giovanni e Vivolo Giovanni di Acerno, Lucarelli Antonio, Sambuchelli Giuseppe e Figlioli Giovanni di Benevento. Il Principe di Morra, Celli Ferdinando, Vincenzo, Amato e Lorenzo, Scarabino Luigi e Antonio, de Cusatis Vincenzo, Scarabino Michelangelo, Nicola e Raffaele, Lenza Francesco e Gaetano, Trottobia Tommaso, Covino Vincenzo, Bannera Vincenzo, Abruzzese Antonio, Mancatolo Paolo, Di Gregorio Raffaele e Gennaro, Maestro Rocco, Aufisi Raffaele, de Rogatis Domenico, Andretta Giovanni, Lambierto Gennaro e Lorenzo, Nigro Aniello, Capicchio Giovanni, Galeo Michele, di Raimondo Angelo e Cuozzo Lorenzo di Bagnoli, Caponeri Giuseppe di Napoli e Chiefib Giovanni di Bagnoli. La Suprema Commissione pei reati di Stato condanna alla pena di morte col laccio sulle forche e ducati mille d’ammenda per ciascuno e tutti alla spesa del giudizio: Giovanni Viglione, Giovanni Chieppo, Pasquale Petrelli, Crescenzo Paolillo, Francesco Panico ed Angelo de Marco. A ventiquattro anni di ferri duri e multa di ducati cinquecento per ognuno Francesco Cozzi, Angelo Maria Freda, Giuseppe Viglione, Francesco Cappotta, Giovanni d’Urso, Michele Amatruda, Zaccaria Vestuti, Vincenzo Sansone e Giovannantonio Maucione. Il 26 settembre 1824 il re commuta la pena di morte a Panico, Viglione e de Marco in ventotto anni di ferri duri, Petrella e Paolillo a ventidue anni, e tutti gli altri a diciotto anni.
A Palo vi furono delle voci di prossima rivoluzione per cambiare la forma del governo; sparse da Agostino Massa, Luigi Cupo, Valitutto Antonio e Massa Giambattista.
In Magliano Nuovo si rinvenne in un nascondiglio presso la chiesa parrocchiale, una gran quantità d’armi e munizioni, che fu sequestrata dai gendarmi e dalle Guardie Urbane.
Anche in Valva in una casa colonica dei Marcelli si rinvennero molte armi, di cui si appropriarono gli agenti della forza pubblica.
A Calabritto da qualche tempo, e proprio dopo l’entrata dei Tedeschi, si istituì una vendita Carbonara alla quale appartenevano: del Guercio Michelangelo e Napoliello Michele di Calabritto, Pizza Pasquale, Antonio e Bartolomeo e Martini Leone di Caposele.
Si perquisì la casa di Benedetto Maggiore a Diano e si trovarono parecchi proclami rivoluzionari, per la qualcosa fu arrestato.
Intanto nella notte del 3 al 4 gennaio 1825, la morte venne a colpire lo spergiuro Ferdinando, reo di mille nefandi delitti; e il cuore degli amatori di libertà si aprì alla gioia credendo che il nuovo Re, Francesco, il quale nel 1820, erasi mostrato proclive al mantenimento della costituzione, sino a chiamare i carbonari fratelli nella fede e nelle aspirazioni; avesse appagato le loro brame e concesse le desiate riforme. Il successore dei Borboni ascende il trono tutto brutto di sangue e di lagrime e con un manifesto indirizzato ai suoi amatissimi sudditi dichiara: di voler seguire la politica dei suoi maggiori, della quale non fu degenere, che anzi fu più iniqua e crudele.
In Napoli nei primi giorni del 1826, dagli attendibili politici che ivi residevano venivasi ordendo nuova cospirazione. Il canonico Antonio Maria de Luca, di Delle Bulgheria, che pei fatti del 1820 vi era stato sottoposto a severa sorveglianza, si circondò di tutti i Cilentani esuli come lui e per la medesima causa, e fondarono la congiura detta: i Filadelfi, che in breve assunse vaste proporzioni.
La vendita fondata a S. Giacomo prese il nome di Congrega e vi appartennero: Francesco e Giuseppe Marone, Zoppino Francesco, Romano Francesco, Policastro Giovanni, di S. Giacomo e Arenano Felice di Vibonati.
In Atena, il 3 agosto 1827, i Filadelfi si levarono a rumore, e uno di essi, Rosario Mango infranse, in una vendita di privativa, il ritratto di re Ferdinando e fu arrestato e con lui Nicola Pessolani, Giuseppe Spagna e Mangione Luigi. Fuggirono e perciò semplicemente processati: Cozza Francesco Maria, Carnerota Francesco e Tommaso, Valuzza Domenico, Giacchetti Giambattista, di Sante Serafino e Damiano, Fasano Cono, Setaro Francesco, di Muro Vincenzo e Curto Gaetano.
In Tortorella la vendita era composta: di Francescomaria Paradisi, Abramo Giuseppe, Timpanelli Felice, Domenico Abramo e Balbo Domenico. In Copersito capo della vendita era Ferdinando Nigra, che poi venne arrestato il 27 settembre del 1829, ché gli si rinvennero documenti settari ed armi.
Ad Aquara cospiravano: Andreola Vincenzo, Marra Nicola, Inglese Antonio, Campeglia Pasquale e Consulmagno Lucio.
Anche in quel di Laviano si cospirava da Ruggiero Domenico, Antonio Gibboni, Robertiello Vincenzo, Felice e Celestino, Raffaele Porcelli, Francesco di Donato, Francesco Ricciulli, Vitantonio di Girolamo, Vincenzo di Donato, Mengione Francesco, del Duca Antonino, Ricciulli Vincenzo, Jannuzzelli Luigi di Castelnuovo di C onza, Luigi Maio di San Menna e Rocco Stagno di Muro.
In Sant’Eustachio la vendita chiamavasi: Setta dei Cinque e vi facevano parte: Figliolia Nunziante, sacerdote, Cioffi Crescenzo, sacerdote, Cioffi Saverio e Pascale Vincenzo, di Sant'Eustachio e Capuano Giuseppe di S. Giorgio; i quali riunivansi in casa di Caterina Farina o in quella di Marina Figliolia.
Anche in Montoro si cospirava e numerosa era la vendita ivi esistente. Vi facevano parte: Ferrara Francesco, Giocolo Pasquale, del Cogliano Carmine, Crocetta Luigi, Mazza Gerardo, Alfano Pasquale, Clemente Antonio, Ferrara Magno, Fusco Tommaso, d’Argenzio Gennaro, Penna Giovanni, Ferrara Giuseppe, Mazzei Biagio, Rossi Felice, Clemente Gaetano, d’Amore Giuseppe, di Domenico, Tafuri Michele, Galise Giovanni, Rentile Francesco, Crudele Gaetano e Gisolfi Gregorio. Eglino ad esser sicuri dalla molestia della polizia d’allora, che sospettosa girovagava e tutto indagava, avevano scelto quale luogo di convegno l’abolito monistero dei Virginiani, che per esser messo lungi dall’abitato in un piccolo villaggio detto Borgo; ove si contano appena poche case di contadini, erano al coverto dello spionaggio e di altro che potesse tradirli.
Facevano parte della vendita di Montecorvino Pugliano, di Maria Giacomo, Buono Bartolomeo, Carmine, Domenico e Antonio, Tornello Gaetano e Nicola, di Maria Francesco, Agostino, Domenico, Raffaele, Pasquale e Pietro, d’Aiutolo Antonio, Ippolito Pietro, Schettino Carmine, Budetta Pasquale e Diego, d’Aiutolo Michele, Ponte Gaetano, Toriello Pietro, Donato e Filippo, Petrucci Vito, sacerdote, Budetta Luca, Grazioli Giuseppe, Leone Domenico, della Corte Giuseppe, Pasquale e Francesco, Toriello Pasquale, Campione Angelo, Ponte Giuseppe, sacerdote, Budetti Antonio, Oliva Raffaele, Cinque Donato, Bocchino Rocco, Lamberti Roberto, di Virgilio Matteo, Caropreso Giuseppe e de Angelis Giacinto, di Montecorvino Pugliano, Amatuzzi Raimondo di Napoli, Granozio Luigi di Giffoni e Scognamiglio Baldassarre di Resina.
San Cipriano Picentino anch'esso aveva la sua vendita e vi appartenevano: Roberto Bartolomeo, Giannattasio Nicola, Seduto Antonio, Cingolo Donato e Giovanni, Savarese Donato, Pennasilico Gaetano, Nobile Francescantonio e Vitantonio, di Muro Pasquale e Fortunato Michele.
Componevano la vendita di Penta: Guerrasio Sossio Francesco, Petrone Pietro, Gaiano Alessandro, Galdieri Gaetano, d’Auria Gennaro, Sica Francesco, Ricciardi Vincenzo e Antonio di Penta, Sica Raffaele di G aiano, Nastri Pietrantonio di Lancusi.
A Sarno i carbonari si davano convegno in campagna per non essere interrotti nei loro lavori. Eglino erano: Bencivenga Nicola, Sparano Filippo e Saverio, Donna Andrea, Sparano Luigi, sacerdote, Marciano Samuele, Gatti Pasquale, Rendina Domenico, Assanti Antonio, Sparano Giosuè e Somma Antonio.
In Roccagloriosa la vendita era diretta da Domenico Mangia, Domenico Speranza, Antonio Carelli e Petronelli Giuseppe di Roccagloriosa.
Molti altri paesi subito istallarono vendite carbonarie, ma non ardivano sollevarsi perché gli Austriaci, che per tanto tempo avevano felicitato il regno e che erano costato la bagattella di 74000000 di lire, da poco partiti, ancora a guardia sul Po, facevano comprendere la inu t ilità e il danno che ne deriverebbe da qualsiasi tentativo.
In Francia il ministero cadde in disgrazia del re, e costretto a dimettersi dette posto ad altro gabinetto più liberale, in cui entrò il generale Lafa y ette; il quale venne in relazione col comitato centrale dei Filadelfi, e promettevagli grandi aiuti morali e materiali, qualora la rivoluzione già. in pronto acclamasse allo Statuto Francese, in luogo di quello Spagnuolo adottato nel 1820.
Anche il presidente della Grecia, il conte Capo d’Istria, promise aiuti da parte della Russia, qualora una nuova rivoluzione nelle province del Regno delle due Sicilie, proclamasse la repubblica sotto la protezione dell’autocrata del Nord. Quest’offerta fu respinta dal Comitato dei Filadelfi, perché chiaramente scorgevasi la politica dell’imperatore Nicola, di voler occupare nella penisola una parte dell'armata Austriaca, che vi era in osservazione, potendo con minore difficoltà mandare ad effetto la sua idea di volgersi sopra Costantinopoli.
Fu in questa epoca, che a Raito, frazione del comune di Vietri sul mare, per rivelazioni fatte da un congiurato, si scovri un comitato filiale dei Filadelfi e si arrestarono: Rotondo Giovanni, Policarpo, Simone e Antonio, d’Addomino Raffaele, Trapanese Raffaele di; Luigi, Trapanese Pasquale, Catalano Alfonso, Sciavicco Nicola, Criscuolo Domenico, Bruno Vincenzo, Pagana; Giuseppe, de Cesare Antonio, Liguori Matteo, Autuori. Fortunato, di Gaetano, Liguori Raffaele, de Cesare Giovanni, Citarella Luigi, Giordano Saverio, Criscuolo Francesco e Bonaventura e Catino Francesco. La Suprema Commissione condanna Antonio Rotondo, quale capo e direttore della congiura, alla pena di morte col laccio sulla forca e alla multa di ducati mille. Vincenzo Bruno, Nicola Sciavicco, Francesco Catino, Bonaventura Criscuolo e Pasquale Trapanese, a diciannove anni di ferri e multa di ducati cinquecento. Gli altri furono assoluti. Con decreto del 7 aprile si commutò la pena di morte a Rotondo in quella dell’ergastolo e i 19 anni di ferri agli altri ridotti a tredici.
A Calabritto s’insultò e percosse il Giudice Regio, perché incrudeliva contro i Carbonari e la polizia sospettando operava molte perquisizioni.
Intanto verso la fine del mese di aprile dell’anno 1828, il canonico Antonio Maria de Luca, deluse la speciale sorveglianza in cui era tenuto in Napoli e a c compagnato dal suo parente Domenico de Luca venne in quel di Vallo della Lucania per accertarsi dello stato delle cose. Lo imitarono Diego ed Emilio de Mattia e Michelangelo Mainenti, i quali prima di recarsi nelle loro rispettive dimore, corsero quei paeselli per far sì che tutti si sollevassero nel medesimo giorno. Anche Raffaele Cricchio, dopo di essere stato in Basilicata, e in qualche paese delle Calabrie, ritornando riferì essere tutti pronti e che altro non aspett a vasi che il segnale della rivolta.
Il ministro di polizia Intont i, saputa la scomparsa dei de Luca, de Mattia e Mainente, temendone la possanza sguinzagliò i suoi più bravi ed esperti seguaci sulle loro orme per arrestarli; ma avvertiti in tempo potettero mettersi, in salvo precisamente il canonico de Luca, che avvisato da Giambattista Mazzara, mandato da Angelo Lerro, che un drappello di gendarmi era sulle sue tracce, potette sottrarsi alle ricerche ricoverandosi presso i suoi parenti, ove riceveva i capi della cospirazione di quei paesi.
Intanto la Camera Alta dei Filadelfi, o meglio il Comitato d’Azione, temendo che la rivoluzione potesse abortire se il canonico de Luca venisse arrestato, inviò subito uno dei suoi componenti nel Cilento. Il prescelto fu Giuseppe Catarina, come colui che in quel paese contava molte e autorevoli aderenze, e perciò più atto a preparare il movimento. Partito il Catarina da Napoli ebbe colloqui col colonnello Bianco e suo figlio, coi medici Giovenale Rossi e Luigi Pannuini, a Salerno, con Giuseppe Longo ad Ogliastro, con Luigi Magnoni, Cono Mercurio e i fratelli Vincenzo e Francesco Verdoliva a Rutino, coi fratelli Maselli ad Omignano, coi Cona a Porcili, col barone Prospero Landulfi con Pantaleo, Domenico e Liborio Guglielmelli, e Giuseppe Vallante a Rodio, con Pasquale Damiani e Felice Palumbo, a Santa Barbara, con Francesco Loffredo di Serramezzana, col dottore Signorelli di Celso e Vitagliano di Monte Cicerale — Si condusse a Celle Bulgheria dal canonico de Luca e convocò i capi della congiura residenti nei paesi circonvicini, Angelo Lerro e Felice Pandolfl, di Omignano, domiciliati a Licusati; Michele Bortone, Giuseppantonio Guida, e Michele de Luca di Celle, Giovanni de Luca, sacerdote e i fratelli Cammarano, di Montano Antilia, Domenico de Siervo di Acquavena, Domenicantonio de Luca di Licusati, Felice de Martino, Gennaro Greco e Gennaro Palermo di Cammarota; e con questi dispose: che pei primi di giugno tutto il Cilento si sollevasse.
In capo a pochi di si accomiatò il Catarina, convinto di aver fatto il suo dovere, e accompagnato da suo cugino Angelo Lerro si condusse dai Capozzoli, che scorazzavano le campagne, sia perché fuggiaschi pegli avvenimenti del 1820, sia perché avevano lavato col sangue un’offesa fatta alla loro famiglia; e anche a costoro dette le opportune disposizion i . Tutto sarebbe riuscito a meraviglia se Antonio Callotti, di Ascoli Piceno, inviando un messaggio a Vincenzo Riola, leale di Montefusco, non l'avesse affidato a persona del tutto ignara della trama; il quale paventandone le conseguenze, denunziò il fatto alla polizia e questa cominciò ad indagare e a voler sapere la verità dei fatti delle cose riferitele.
Accortosi Callotti dell’errore commesso si condusse travestito da frate in Napoli e saputo che doveva essere arrestato risolvette partire pel distretto di Vallo, quindi per Licusati da Domenico de Luca, il quale nella notte del 26 giugno lo condusse dai Capozzoli, a cui narrò la sventura di essere stato tutto scoperto, e li spinse ad innalzar subito la bandiera della rivoluzione. Detto fatto si inviarono persone in tutte le direzioni ad annunziare ai Filadelfi esser tutto pronto e si tenessero disposti ad operare.
All’alba del 28, giugno preceduti dalla bandiera bianca, costruita in poche ore da Domenicantonio Cartarma, partirono alla volta di Centola, ove disarmarono i pochi soldati che vi erano e li costrinsero a seguirli. Di quivi furono a Palinuro, piccola fortezza destinata a guarentire la costa, ove si assicurava esservi mille e cinquecento fucili con molta munizione, e qui arrestarono il comandante e lo costrinsero a condurli ov’era la polvere, che trovarono cattiva e perciò non atta a far fuoco, e non rinvennero le ami, le quali da oltre quindici giorni eran state spedite a Salerno. Allora a viva forza s’impadronirono dell’ufficio telegrafico, spezzarono i fili, acciò rompere qualsiasi comunicazione tra le autorità, vi dichiararono il governo provvisorio ed emanarono il seguente proclama, dettato da Arcangelo Dagrina di Palermo, impiegato al Registro e bollo in Napoli, e da quei carbonari inviato a capitanare il movimento insurrezionale.
«Piazza di Palinuro il 28 giugno 1828».
«Notate con stupore che nel 1820 questo spirito di amor di patria si cooperò per la felicità e vantaggio dell'intero regno di Napoli, come lo com provò il ribasso del sale e la libertà individuale del popolo tutto, e come comprovato l’avrebbe ancora il ribasso di tutti i pesi, se la mano di ferro con sforzi soprannaturali abusando del suo braccio superiore oppresso non avesse il popolo come pratticò con tutti i mezzi che erano in potere della forza e distrutto non l’avesse per fargli perdere quei vantaggi che si sarebbero sperimentati sugli interessi dei napoletani. Questo popolo ammiserito mosso da forte e positiva disperazione viene oggi a reclamare il buon governo della costituzione di Francia, chiamando in sostegno ed aiuto la mano forte di Dio, la bandiera francese in garanzia e l’armi di questo popolo tutto perché il nostro buon sovrano non sia renitente a determinarsi d’accordare la richiesta costituzione per esser oggimai tempo.
«Popolo! Sarete felice dal perché da questo giorno in avanti il sale non si comprerà che a grana quattro il rotolo, la fondiaria sarà sospesa per ora e quindi diminuita e tutti gli altri pesi e dazi saranno aboliti.
«Benedite adunque questa santa giornata con dire ad alta voce: Viva Dio, Viva il nostro Re, Viva la Costituzione di Francia.
«Domenico Capozzoli
«Antonio Galletti
«Domenicantonio Catarina
«Pasquale Novelli
«Antonio de Luca
«Nicola Cammarano
In breve entrarono da vincitori a Camerota, ove furono raggiunti da Angelo Lerro, il quale capitanava molta gente armata e dal P. Carlo da Celle, che strappato il vessillo costituzionale dalle mani del Dagrina, posesi a capo dei rivoltosi gridando: Viva la libertà! Viva la costituzione francese! Entrati in paese, egli montato su di un tavolo arringò il popolo sui diritti dell’uomo. Più tardi sopraggiunse il sindaco, seguito dal clero e si andò in chiesa ove si espose il SS. Sacramento e si cantò il Te Deum,
All'indomani Angelo Lerro parti per Lentiscosa con appena cinquanta uomini, vi dichiarò il governo provvisorio e dopo di aver inculcati i più volenterosi a seguirlo, raggiunse i suoi amici nelle vicinanze di Licusati, ove il sindaco e i sacerdoti vennero loro incontro; ed entrati in paese furono ospitati in casa di Francescopaolo Ga l atro, pervenendo la dimane a S. Giovanni a Piro. Al loro apparire tutti i contadini muniti di armi, condotti dai gendarmi e dalle guardie urbane, vennero loro incontro e gli fecero fuoco addosso. I sollevati a un tanto invito non tardarono a rispondere e lo fecero in si buona maniera che il nemico fu sparpagliato.
Entrati nel paese e ricevuti ostilmente dalle autorità municipali, incendiarono parecchie case per punirli del loro operato.
Volendo passare a Bosco, paesello limitrofo a San Giovanni, temendo non avvenisse loro quanto quivi era accaduto, inviarono al sindaco la seguente lettera da apposito messo.
«A vista della presente fate subito pronto cinquecento razioni per i Nazionali e siete avvertiti di non far appartare persona alcuna dal paese assicurandoli sulla persona di veri spartani la loro salvezza — Avvicinatevi voi con i galantuomini e il parroco a ricevere la bandiera della costituzione di Francia e in caso poi che vi negate vi succederà sicuramente come in questo momento è accaduto al vostro vicino indegno paese di San Giovanni.
«I Nazionali in capo sono i seguenti:
«Domenico Capozzoli
«Antonio Callotti
«Domenicantonio Catarina
«Angelo Lerro
«Nicola Cammarano
«Giuseppe Ferrara
«Domenicantonio de Luca.
Alla lettura di tal biglietto il sindaco e le persone più autorevoli del paese proruppero in unanime evviva al Re, alla Costituzione e disposero che i cittadini andassero incontro ai sollevati, li festeggiassero e che per tutto il tempo che rimanevano loro ospiti di nulla mancassero — Oltre duecento donne con i loro uomini portanti rami d’olivo andarono loro incontro invitandoli ad entrare in paese, e la sera tra lo scampanio dei sacri bronzi a festa, il giubilo di un popolo, assordante l’aria di evviva alla costituzione francese, vi pervennero e vi dichiararono il governo provvisorio. Non mancarono lo cerimonie religiose, né le centinaia di colpi di fucile, in segno di gioia.
La dimane ben per tempo passarono a Montano Antilia, ove il parroco Giovanni de Luca dopo che in chiesa ebbe benedetta la bandiera costituzionale, ornato degli abiti sacerdotali arringò il popolo incalcandolo ad essere il sostenitore della costituzione. Partitisi dichiararono decaduto il potere assoluto a Roccagloriosa, Cucca r o ed altri paesi che tosto si sottomisero. Si diressero verso Vallo della Lucania lusingandosi trovarvi soccorso di armati, secondo loro era stato fatto comprendere, e invece seppero da un individuo, da loro stessi inviato a riconoscere le forze della città essere ivi arrivato il generale Francesco Saverio Delcarretto con ottomila soldati, quattro pezzi di artiglieria da campagna, un reggimento di cavalleria della guardia reale e una compagnia di gendarmi per combatterli.
Si deliberò lasciare Cuccaro, accamparsi in una gola di montagna detta: la falda della Madonna del Monte, e mandare dal canonico de Luca per informazioni e consigli. Questi fece rispondere che prima del giorno si allontanassero sì perché il nemico disponeva di imponente forza, sì perché il battaglione di cacciatori, comandato dal generale Recco era già sbarcato a Palinuro, si perché altri due trovavansi già a Camerota con gran numero di gendarmi.
A tali notizie tutti in quei monti si sbandarono e si dispersero ad eccezione dei fratelli Cap o zzoli, Callotti Domenicantonio Catarina, Rossi e Ciardella che illudendo per più tempo i gendarmi, e talvolta venendo alle armi con essi, potettero emigrare.
Appena nei paesi pervennero le notizie del moto Cilentano, si accolsero con molta gioia.
In Alfano erano già pronti per partire in aiuto dei sollevati: Giuseppe Battagliese, Girolamo Cobucci, Pasquale Cobucci e Caputo Giuseppe, Michele e Domenico.
A Piaggine Soprane: Leonardo di Cesaree Nicola Caggiano aizzavano il popolo ad accorrere in aiuto dei rivoltosi.
Anche ad Omignano si aspettavano con anzia notizie dell’avvenimento e molti si accingevano a partire per Vallo della Lucania, quando i gendarmi vo l lero ostacolarli e vennero alle anni. Tra i più eranvi: Giuseppe Pizzuti, Pasquale Coccoli, de Feo Girolamo e Prospero, Maselli Francesco, Gaetano, Luigi e Giuseppantonio, Vasatur o Leonardo, Marcantonio e Antonio e Pandolfi Feliceantonio.
Diano pure era per inviare il suo contingente, ma venne trattenuto dalle notizie della disfatta. Esso si componeva di Benedetto e Vincenzo Dono, Crisostomo, Giovanni e Giuseppe Santoro, Silvestri Vincenzo e Michele, Cono Celio, Cono d’Alitta e Nicola Ferri,
In Castiglione molti carbonari partirono pel Cilento ma furono costretti indietreggiare. Essi erano condotti da Maddalo Gaetano, della Calce Domenicantonio, Vitolo Flaminio e Venturo Michele.
Intendevano arrecare soccorso agli insorti del Cilento: Cafaro Gerardo, Basilone Pasquale, Rumolo Gesualdo, Pucciarelli Gennaro e Michele, Morrone Angelantonio, Baggiano Pasquale e Oro Nicola tutti di Caggiano.
In Campagna furono arrestati quali sospetti di connivenza coi sollevati Onesti Antonio, Adelizzi Luigi, Cozzi Michelangelo, Corradelli Gioacchino, Copeti Francesco, Lambì Ermenelgildo, Giordano Giovannantonio, e del Mercato Francesco, che spediti alla Corte Suprema questa li rimise a disposizione della polizia.
A Porcili si tenevano pronti: Cona Giuseppe, Bertolini Antonio, Pietro e Mattia, Buonadonna Baldassarre, Michelangelo e Giuseppe, Massanova Biagio, Mazzarella Giovanni, Cono Vincenzo e Liti Pasquale di Porcili.
Del Carretto fece cose orribilissime, novello Barbarossa, forse più crudele ancora, comandò s’incendiasse il paese di Bosco, sin che fosse distrutto, per punirlo di aver accolto festosamente i rivoltosi, vi fece cospargere il sale e provocò un decreto col quale veniva radiato dall’elenco dei comuni del regno. Eccolo:
« Francesco I.... ecc.
« Considerando che la così detta comitiva dei Capozzoli, nelle ultime escursioni fatte nel distretto di Vallo, oltre ai ricatti, saccheggi ed altri ec cessi commessi, avevano anche sconsigliatamente per oggetto di distruggere e cambiare la forma del governo, eccitando i sudditi ad armarsi contro l’autorità Reale;
« Considerando che il piccolo comune di Bosco in quel distretto, fu il solo, che invece di manifestare un giusto abbominio alle turpi e criminose mire di quell’orda, si mostrò anzi aderente alla medesima e fece tutto che poteva per favorirla; per lo che dall'Ispettore comandante generale della Gendarmeria, Maresciallo del Carretto, commissario del Re, al momento fu disposto che fosse adequato al suolo.
« Volendo quindi che di questa punizione ne rimanga perpetua memoria;
«Sulla proposizione del nostro Ministro Segretario di Stato per gli affari interni.
«Abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:
«Art. I. Il Comune di Bosco nel circondario di Camerota, distretto di Vallo nel Principato Citeriore è soppresso. Il suo nome sarà cancellato dall’albo dei comuni del regno. Il suo tenimento aggregato a quello del comune limitrofo di S. Giovanni a Piro.
«Art. I I. Gli abitanti di Bosco potranno fissare il loro domicilio in S. Giovanni a Piro o dovunque loro piaccia; ma né essi, né altri potranno ricostruire mai più le abitazioni che formavano l’aggregato di quel comune, né in quel sito ove esisteva, né in altro dell’antico suo tenimento.
«Art. III. Il nostro ministro segretario di Stato per gli affari interni prenderà conto dei mobili e stabili appartenenti ai luoghi pii, laicali o di beneficenza e ci proporrà l’uso da farne.
«Art. IV. Lo stesso Ministro Segretario di Stato per mezzo dell'Intendente prenderà cura dell'archivio comunale e degli altri effetti mobili comunali per passarsi al Comune di S. Giovanni a Piro.
« Art. V. Tutti i nostri Consiglieri Ministri di Stato sono incaricati ciascuno per la parte che loro riguarda della esecuzione del presente decreto.
Napoli 28 luglio 1828.
« Francesco»
«Il Consigliere Ministro di Stato Interino,
« Presidente del Consiglio dei Ministri.
« Marchese Amati
Quelli che caddero in potere di Del Carretto furono trascinati semivivi a Salerno e alcuni morirono di disagio lungo la via. Tra questi Donato de Mattia e Bonifacio Oricchio di Vallo della Lucania, padre di cinque figliuoli, e Angelo Mazzarella di S. Mauro. I loro cadaveri trovati su l’erta salita che mena a Rotino furono ivi trasportati e pietosamente seppelliti nella chiesa parrocchiale di S. Michele — Altri affranti dagli acerbi strazi morirono o volontariamente si tolsero la vita nelle carceri nuove aggiunte di Vallo. È fama che Pasquale Catarina, ricchissimo proprietario di Omignano, domiciliato a Licusati quale amministratore della fortuna del cavalier Sofia, vecchio a sessant'anni, non ignaro della sorte serbatagli, pregasse la suocera che lo avvelenasse e così mori nella stessa notte in cui il Del Carretto firmava la sentenza che condannava l o alla fucilazione — Alessandro Ricci di Cardile, medico dotto e stimato, mentre accingevasi a porsi in salvo, nel di 11 agosto, fu nel tenimento del comune di Campora ucciso dai gendarmi, i quali si ebbero in premio mille ducati — Matteo Cirillo, contadinello di Perito sorpreso che portava del pane in campagna ad altri lavoratori, fu subito moschettato. Questi e non pochi altri fatti di inumanità e di ferocia che ebbero luogo in una delle più belle contrade d’Italia, guadagnarono al carnefice Del Carretto onori immensi, tra i quali il titolo: di marchese e quello più giusto ancora di sanguinario del Cilento.
Vennero nominate Commissioni Militari a Vallo, Salerno e Napoli, composte di gente prezzolate, perché giudicassero i rei di lesa maestà; e le sentenze furono degnissime dei giudici che le emanarono.
La commissione di Vallo condanna a morte Antonio Maria de Luca di Celle e Giovanni de Luca di Montano, dotti e degni seguaci del Nazzareno, i quali trascinati a Salerno vi vennero fucilati. Furono condannati alla stessa pena il frate Francescano P. Carlo da Celle, nipote del canonico de Luca, guardiano nel convento dei Capùccini di Maratea, Arcangelo Dagrina, di Palermo, Angelo Lerro, di Omignano, Gimbattista Mazzara, di Licusati, Michele Bortone, di Celle, Domenico de Siervo, di Acquavena, Filippo de Ruocco, di Massicelle, Davide Ricci, di Cardile, Antonio Lagatta, falegname, di Massa, Vito Giuseppe Tambasco, di Montano Antilia, Nicola Cobucci e Nicola Camello, di Bosco, Domenicantonio de Luca, di Licusati; Giuseppe Bufano, di Polla, Teodosio de Dominicis, di Ascea, Gennaro Greco e Felice di Martino, di Cammarota e Leonardo de Luca di Celle.
La Commissione Militare di Salerno emana sentenza di morte per Angelo Pandolfi, di Omignano, Tommaso Giansante di Rionero, Giuseppantonio Guida, di Celle e Carmine Cirillo di Perito.
A Napoli vennero arrestati ottantacinque individui per aver appartenuti alla setta dei Filadelfi; quasi tutti della provincia di Salerno, ivi esuli o domiciliati e sottoposti al giudizio della corte speciale, ilei 23 marzo 1829, ad ora tarda della notte condanna a morte: Antonio Migliorati, di Napoli, Francescantonio Diotaiuti, sacerdote, di Cammarota, Cesare Carola, di Minori, impiegato alla regia università, Gerardo Cristaino, di Sicignano, Emilio e Diego de Mattia, di Vallo della Lucania e Giuseppe Catarina di Omignano.
A Cristaino, Diego de Mattia, Catarina e Diotaiuti la pena di morte venne commutata in quella dell’ergastolo; gli altri salirono il patibolo il 27 marzo 1829 e morirono da eroi gridando: Viva l'Italia.
Moltissimi altri dalle dette commissioni vennero condannati a diverse pene e a cagion d’onore se ne riportano i nomi.
All’ergastolo: Carmine, Giovanni,Filippo e Paolo Vallante, contadini, del comune di Massiccile; Pasquale d’Urso e Filippo Passarella, contadini, di Forio, Cono Mercurio, possidente, di Rutino, Tommaso di Spirito, soprannominato Galloppo; Filippo di Benedetto; detto SiCiccio, di Montano Antilia, contadini, Ruggiero Cibone, proprietario, di Laviano, Tommaso Imbriaco, contadino, di Forio, Rocco Fatigati e Vincenzo Colonnese, contadini, di Bosco, Domenico Speranza, contadino, di Laurito, Pasquale Cigliante, contadino di Celle, Emanuele Costa, monaco Celestino, di Napoli, Antonio Bianco, colonnello del corpo del Genio, di Palermo, dimorante a Salerno, rei di complicità negli attentati per distruggere e cambiare il governo, con saccheggi, violenze, ferite e altri eccessi, con cooperazione tale che senza di essa tali misfatti non sarebbero stati commessi.
A 30 anni di ferri duri; Luigi Pannuini, medico, di Napoli, Gregorio Costa, maestro di scuola, di Na po li, Giuseppe Torre, maestro di lingua francese, dì N apoli, domiciliati a Salerno, Tortora Pietro, legale di Nocera, Gerardo Balbi, proprietario, Nicola Giudice, Giuseppe de Maria e Francesco Orsaia, contadini, del comune di Bosco.
A 28 anni di ferri duri: Michelangelo Mainenti, di Vallo della Lucania, già in esilio per causa politica e richiamato, Francesco de Vita, proprietario, di Contursi.
A 26 anni di ferri duri: Giuseppe de Caro, proprietario, di Roccagloriosa, Francescosaverio Longo, di Ogliastro, incisore, Saverio Nisi, orologiaio, di Castelluccio, domiciliato a Salerno, Andrea Savino, ricevitore del registro e bollo di Castel Ruggiero.
A 25 anni di ferri duri: Vincenzo Riola, legale, di Montefusco, Enrico Bianco, capitano dei Cacciatori Bersaglieri, domiciliato a Salerno, Raffaele Fatigati, sacerdote, di Bosco, domiciliato a Napoli, Giuseppe Cammarano, sacerdote, di Montano Antilia, Giuseppe Farao, medico di Napoli, Giovenale Rossi, legale, di Iago, domiciliati a Salerno, Vincenzo di Mauro, di Gaetano, Vincenzo di Mauro, di Arcangelo, proprietari di Camerota; con malleveria di ducati cento. Benvenuto Rossi, medico, di Iago, Benvenuto de Luca e Benvenuto de Cusatis, proprietari di Celle, Giovanni Caruso, proprietario, di Roccagloriosa, Vincenzo e Francesco Verdoliva, vetturini, di Rutino, Pietrantonio Sergente, medico, di Giffoni, Raffaele Sparano, legale, di Salerno, Michele de Robertis, sacerdote, di Giffoni, Gabriele Jannotti, proprietario, di Vallo della Lucania, Tommaso Guida, contadino, di Celle, Vincenzo Miraldo, contadino di Bosco, Antonio Cariello, contadino, di Aquavena.
A 24 anni di ferri duri, con la multa di ducati cinquecento: Saverio Malfitani, tenente dei veterani, di Vibonati, Domenico de Luca, arciprete, di Celle.
A 22 anni di ferri duri, con la multa di ducati cinquecento: Emanuele di Donato, medico, di S. Valentino Torio.
A 19 anni di ferri duri e multa di ducati cinquecento: Cristofaro Barberio, negoziante, di Napoli, domiciliato a Salerno, Andrea Lauro, legale, di Montano Antilia, Giuseppe Rodriquez, caporale di gendarmeria a cavallo e Andrea Bonito, di Napoli, domiciliati a Salerno, Pasquale del Vecchio, gendarme, di S. Martino nel Cilento, Alfonso Trucillo, scribente, di Salerno, Felice' Guida, pizzicagnolo, di Celle, Germano Riccardi, scribente, di Contursi, Domenico Calabria, di Vibonati, Biagio Saturno, di Licusati e Leonardo de Luca, di Celle.
A 10 anni di carcere: Michelangelo e Francesco Cammarano, di Montano Antilia, Antonio Parlati, medico, di Licusati, Prospero barone Landulfo, di Rodio, Gaetano de Luca, proprietario, di Celle, Pietro Bianchi, impiegato del comune di Montano Antilia, Giovanni Speranza, di Laurito e Giuliano Francesco di Cava.
A 7 anni di carcere e 100 ducati di multa: Silvestri Giovanni, Giuseppe, Vincenzo e Michele, Celio Cono, d’Alitto Cono e Ferri Nicola di Diano.
A cinque anni di carcere: Battagliese Giuseppe e Cobucci Girolamo di Alfonso.
A sette mesi di carcere: Ferdinando di Maio, sacerdote, di Bosco.
A due mesi di carcere: Vincenzo Pelosi di Montoro, domiciliato a Salerno, legale, Matteo Trotta, di Salerno, calzolaio.
Ad un mese Giovanni Palermo, di Cammarota, tenente quartier mastro dei cannonieri di marina.
Neanche le donne andarono immune da strazi e da pene: Seraflna Apicella Galletti, di Cetara, fu torturata e condannata a 25 anni di ferri duri, Alessandrina Tambasco, di Montano, per aver ospitato i sollevati a dieci anni e Rosa Bentivenga a sei anni di reclusione.
Furono sottoposti alle condizioni economiche: Luigi Magnoni, di Rutino, Diego Cirillo, di Perito, Raffaele e Ferdinando Gorga, di Monteforte, Giuseppe, Gennaro e Pasquale Marra, di Cicerale.
Ottennero la libertà provvisoria: Pasquale di Gregorio e Francesco Vairo di Laurino, Paolo Sabbatino, di Aiello, Giovanni Camello, contadino, di Acquavena, Prospero de Feo, di Omignano, Ferdinando del Duca, di Poderia, Vincenzo Galletti di Montano Antilia, Francesco e Andrea Apicella, di Cetara, Giuseppe d’Angelo, alias Baglivo, di Montano Antilia, Pasquale Damiani, di S. Mauro Cilento, Pavone Domenico, di Torchiara, Prospero Vigorito, di Montano Antilia, Raffaele e Luciano Speranza, e Alessandro Sala, di Laurito, Francesco Loffredo, contadino, di Serramezzana, Giuseppe Longo, di Ogliastro, Nicola Cobucci, arciprete, di Alfano, Francesco Tommasini, di Piaggine, Andrea e Nicola Cricchio, di Vallo della Lucania, Luigi Percopo, di Pisciotta, e Francesco Saverio Verrone, di Salerno.
Furono rilasciati per mancanza di prove dopo vari mesi di prigione: Pasquale Galiano, Antonio Gambardella, Eugenio Bortone, Pasquale de Luca, di Filippo, Pasquale de Luca di Giovanni, Carmine Forte, Luigi Guida, Giuseppe de Luca, di Domenico, Giuseppe e Vito Marotta, di Francesco, di Celle Bulgheria, Paolo Vincelli, Cosmo Gallo, Raffaele Crocco, Raffaele Abate, Fedele de Luca, Angelo Ragucci e Pasquale Mastrolonardo di Licusati, Giovanni de Cusati, di Giuseppe e Candeloro Sanseviero, di Camerota, Teodoro, Rocco e Giuseppe de Marco, Rocco e Carmine Nicoliello, Francesco Lianza, Nicola, Francesco, Biagio, Raimondo e Gaetano Jannuzzi, Rocco Cobucci, Rocco Angelo, Giuseppe Caruso, Rocco Guida, Paolo Greco, Vincenzo Gherardi, Giovanni Camello di Giuseppe, Pasquale Camello, Nicola Juliano, di Bosco, Cetrangolo Rocco, de Simone Domenico, Cavalieri Domenico, Mangia Giuseppe e Mattia, Mangia Giuseppe fu Antonio, Mangia Francescantonio, Calvino Giuseppe, Griffi Giuseppe, Finamore Giovanni e d’Andrea Lorenzo, di Roccagloriosa, Antonio Vecchio e Michele Abate, di Vibonati; Fiscena Francesco, Cariello Antonio e Giovanni, de Siervo Melchiorre, Cavalcante Andrea, Perilli Romualdo, Trotta Antonio, Carbone Giuseppe e Balbi Valeriane, di Aquavena Ferrara Giuseppe di S. Biase; Luigi Percopo, di Pisciotta; Franeesco Diotaiuto, Giovanni Mauro, detto Zichionne, di Camerota; Giuseppe Signorelli, di Celso; Giacomo Torraca, di Castelruggiero; Gaetano Maselli e Prospero de Feo, di Omignano; Vincenzo Schiavo, di Lustra; Raffaele e Giuseppe Donnabella, di Valle Cilento; Marino Carlo, di Trentinara; Nigra Ferdinando, di Copersito; Perazzo Giuseppe, Vassallo Raffaele, Prota Vincenzo, Falco Francesco, Cammarano Tommaso, Colucci Gennaro, e Forte Antonio e Giovanni di paesi non rivelati.
Furono processati per complicità nei fatti di Palinuro, Cona Giuseppe e Giovanni, Bertolini Antonio, Pietro e Mattia, Buonadonna Baldassarre, Michelangelo e Giuseppe, Massanova Biagio, Mazzarella Giovanni e Lisi Pasquale, di Porcili; Guarracino Giuseppe, Mottola Antonio, Vassallo Carmine e di Rosa Pasquale, di Celso; Sansone Pasquale e Gioacchino, di Massa Lucana; Elefante Giuseppe, di Roccagloriosa; Campanile Pantaleo, Paolino Gioacchino e Oricchio Raffaele, di Vallo della Lucania; de Feo Girolamo, Maselli Francesco, Luigi e Giuseppantonio, de Feo Michele, Vasatur o Leonardo, Marcantonio e Antonio, di Omignano; Cecchi Gerardo, di Perito; Spinelli Giovanni, de Feo Marco e Antonio, de Marco Gennaro, Severino Antonio fu Giuseppe, Volpe Pietro, Gnasso Angelo, Ambrosino Nicola, Rappo Andrea, Bronzo Marco, e de Marco Andrea, di Acquavella; Fiore Giovanni, sindaco, Monzillo Francescopaolo, Avella Saverio, Antico Nicola e Meriglia Matteo, di Castellabate; Di Giulio Gaetano, Finto Angelo, Longo Ignazio, Cuoco Pietro, Verdoliva Domenico, di Michele, e d’Agosto Fran cesco, di Rutino; Mazziotti Matteo, Giuseppe, Pietro e Antonio, di Celso; Capozzoli Giuseppe, Ant onio Maria, Michelina, Anna, Isabella e Maria Teresa, Gallo Giovanni, Giuseppe, Donato e Gennaro, di Giovanni Pasquale, Russo Gennaro, Donato, Gabriele e Rosa, Russo Donato, fu Gennaro, Rossi Giuseppe e Rossi Giuseppe, fu Rosario, e Giovanni, Cerullo Germano, Domenicantonio e Giuseppe, Orlando Domenico, Orlando Giuseppe, fu Carlo, e Orlando Giuseppe, fu Rosario, Scavaroni Luigi e Domenico, Gorga Raffaele, e Ferdinando, Ciardella Donato, Antonio, Domenico, Pasquale, e Nicola, Santalucia Giuseppe, Menniello Carmine e Clemente, Sangiovanni Giuseppe, Giordano Donato, Salerno Irene, Speranza Marco e Antonio, Schiavo Vincenzo e Giuseppe, Guerrieri Rosario, Varretta Pasquale e Donato, e Mottola Sabbato di Monteforte; Molla Giorgio, Tommaso e Giambattista di Monte Cicerale; Garofalo Francesco, di Torchiara; Ferrara Giuseppe, fu Gerardo, di S. Biase; Bartolomeo Giancarlo, di Perdifumo; Verta Giancamillo, di Castagneta; Ventimiglia Vincenzo, di S. Mango, Guariglia Stefano e Francesco, fu Filippo, di S. Mauro; Buccino Gennaro, di Lustra; Vecchio Angelo di San Martino, Vosi Angelo Raffaele, di Matonti; Caizzo Angelo, di Matonti; Monzillo Emanuele e Paolillo Francesco, di Castellabate; Della Cortiglia Francesco, di Nicola, Capograssi; Marotta Francesco, di Vatolla; Mangullo Sisto, di Laureana, Lieto Giuseppe, di Lustra, Torre Mattia, Cardone Nicola, Montelli Francesco, Pecora Giuseppe e Gorga Saverio di Matonti; Lieto Giuseppe, di Lustra.
Antonio Maria de Luca di Celle Bulgheria, compiuti gli studi teologici e filosofici nel seminario d i Novi Velia, prima di essere insignito prete, per difetto d'età, fu dai suoi superiori adibito quale insegnante di letteratura in quello di Policastro. A capo di poco tempo consacratosi prete, per dispensa avuta dalla Corte di Roma, in breve ascese al canonicato e dal Vangelo, che santam e nte osservava apprese quelle teoriche che resero grande l’Uomo-Dio: Voleva il bene pel bene e quando la patria era schiava e flagellata in mille guise dal Borbone fu Carbonaro e come capo dell'alta vendita di Vallo della Lucania prese parte alla Gran Dieta di Salerno nel 1820— Fu lui che propose a quel consesso la nomina del generale Pepe a comandante unico di tutte le forze del regno e dettò il manifesto rivoluzionario, che chiamava il popolo alla riscossa — Avvenuta l’insurrezione, poco prima che il Re proclamasse e giurasse la costituzione, arringò il popolo dal pergamo, gli dimostrò i vantaggi delle libere istituzioni e quando convocati i comizii fu eletto deputato al Parlamento Napoletano, discusse con facondia e ardore i dritti di quei cittadini, che a lui li avevano affidati.
Soffocata nel sangue la costituzione, per più tempo andò fuggiasco, insino a che ritrattosi in Napoli gli venne imposto di mai allontanarsene sotto qualsiasi pretesto e fu quivi che ideò e ordì la congiura dei Filadelfi, a cui appartennero i più zelanti Carbonari; che mercé la loro febbrile attività si propagò in tutto il Salernitano e nelle provincie limitrofe.
Il canonico de Luca pensò che le sole forze, delle quali i carbonari disponevano non sarebbero state bastevoli all’attuazione del loro ideale, si legò in intime e segrete relazioni con lord Kaning e Lafa y ette, che gli promisero aiuto di ogni sorta da parte dei loro governi sempre che scoppiata la rivoluzione essa accettasse la costituzione francese in luogo della spagnuola promulgata nel 1820 — Conchiuso un tale accordo, il canonico de Luca in una notte di maggio 1828 lascia la capitale e di nascosto insieme a Domenicantonio de Luca venne nel suo paese ed ebbe frequenti colloquii coi capi della congiura residenti in quella regione e preparò il movimento che ebbe poi luogo il 28 giugno a Centola prima, a Palinuro dopo — Avvertito intanto la polizia della sua scomparsa, sguinzagliò sulle sue orme i più abili suoi cagnotti per farlo arrestare, ma avvisato in tempo dagli affiliati ai Filadelfi, si tenne nascosto insino al dì in cui ebbe luogo l’insurrezione operata dai fratelli Capozzoli ed altri. Allora egli apparve con la fascia tricolore francese ad armacollo, insignito dei distintivi della setta e parlando al popolo lo aizzava ad abbattere il dispotismo mostrandogli l’immagine insanguinata del Cristo e dimostravagli essere stato proprio per quell'idea che il Nazzareno aveva tanto sofferto e morto da martire.
Giovanni de Luca suo nipote, anch'egli sacerdote e da lui appreso ad amare la patria e la libertà, era oratore facondo e parlava quale un ispirato. Carbonaro nel 1820, dall'altare su cui aveva santificato l’incruento sacrificio, insinuò gli astanti ad abbattere la tirannide. Più volte apparve nel paese adorno degli emblemi della setta e a coloro che gli suggerivano di essere più guardingo e a non esporsi all'odio del Borbone, rispondeva: L’iniquo oramai à finito di sgozzarci e di appropriarsi, dichiarandoci rei di fellonia, delle nostre sostanze e delle nostre persone — Un’altra fiata celiando con alcuni contadini disse: Vedete un po’ che sa fare il nostro S. Teobaldo, adesso fa ribassare il prezzo del sale e la fondiaria; e poi dicono che noi carbonari siamo i carnefici del popolo e trasciniamo Cristo. Noi vogliamo il benessere di tutti indistintamente.
Ritornato il Borbone nel 1821 soffrì persecuzioni ed esilio e reduce nel suo villaggio di Montano, per decreto del nuovo re Francesco, cospirò potentemente collo zio, sino ad essere uno dei promotori della rivoluzione del 1828.
Figlio naturale di un fratello del canonico de Luca era padre Carlo da Celle, cappuccino, il quale peri suoi modi gentili, per la sua non comune dottrina e severità di costumi, venne eletto a rettore del convento di Maratea. Ascritto ai Filadelfi dallo zio li propagò nel popolo che amava e ne era corrisposto ugualmente. In un antro del monastero convocava e conferiva cogli affiliati, i quali avevano in lui piena fiducia e loro annunciava la buona novella.
In una notte buia e tenebrosa di maggio, qualche giorno dopo la venuta del canonico a Celle Bulgheria, seguito da tre frati che scortavano un carretto carico di fucili e munizioni, coverte di paglia, anch’egli vi si condusse e dopo che ebbe di nascosto conferito collo zio, e con Angelo Lerro a Licusati, al quale consegnò quelle armi, attese il giorno del riscatto. La rivolta ebbe luogo ed egli arrecò soccorso agli insorti, insieme ad altri frati, di gente e danaro.
Del Carretto intanto, sedato il movimento, quale iena assetata di sangue, avente l’alterego, fecelo fucilare sul momento; quindi fatti arrestare anche i due preti ribelli, Antonio e Giovanni de Luca; voleva che all’istante subissero la medesima pena, ma a salvare le apparenze di buon cattolico, e perché collisione alcuna potesse venirne col governo del Papa, invitò il vescovo Laudisio a procedere alla loro sconsagrazione, e questi fuggi non bastandogli l'animo di esser causa della morte del suo maestro e di un suo compagno di studii — Condotti gli infelici a Capaccio si tentò adibire alla triste cerimonia monsignor Speranza; ma costui parimenti si negò, facendo intendere non aver egli alcuna podestà su preti suoi eguali.
Avvampante d’ira e di sdegno del Carretto ordinò si traducessero a Salerno, ed infatti su di un cattivo carretto ligati, insultati, derisi vi arrivarono e menati in carcere, il dimani si costrinse l’Arcivescovo Alleva a fare quanto i suoi colleghi si erano negati. Trasportati nella sagrestia del duomo, vestiti come per celebrare messa, in presenza del clero e dei notabili, dopo le dovute funzioni, il vescovo gli si accostò e cominciò a strappar loro le vesti di dosso e quando ebbe terminato con un pezzo di vetro rase loro la tonsura e la punta delle dita, ed era per consegnarli al carnefice, che il canonico con sguardo nobile, pieno di fiero disprezzo, gli si accosta e gli susurra all'orecchio: Adesso non siamo più preti!
A tale interrogazione Alleva pallido in volto, senza nulla rispondere frettolosamente si ritirò nel suo palazzo e i due sacerdoti messi nella cappella detta Monte dei Morti, da cui, a sera avvanzata, dovevano esserne tolti e menati al supplizio per atterrire vieppiù il popolo.
Già la pia opera di sant’Antonio dei Nobili, cui era devoluto l’accompagnamento dei pazienti al patibolo, si accingeva ad intervenire con torce a vento, allorché il capitano Caraba, aiutante di campo di Del Carretto, a mezzo di un soldato feceli avvertire, che il generale aveva rimandato al giorno seguente la esecuzione dei colpevoli, per aderire alla dimanda rivoltagli dai patrizi salernitani.
Nelle prime ore del di 24 luglio le campane delle chiese della città di Salerno suonavano funebri rintocchi e i due sacerdoti de Luca, tratti dalla cappella, ove avevano passata la notte, ligati dal carnefice, tenendosi per mano, scortati da immenso numero di soldati, s’avviarono al luogo del supplizio. Quivi giunti gli astanti e i sacerdoti intonarono la prece dei defunti e il canonico strappandosi la benda, di cui lo avevano ricoperto, tentò parlare al popolo; ma la sua voce fu ricoperta dal rumore dei tamburi, da una scarica di schioppettate… e cadde! insieme all'altro!
I cadaveri trasportati nella chiesa di S. Pietro in Vinculis, vennero gittati nella fossa comune e in. vano le famiglie seppero mai ove erano stati sepolti.
Or son due anni nel riattarsi il tempio si rinvennero i loro avvanzi mortali. insieme a quelli di Angelo Lerro, Arcangelo Dagrina, Teodosio de Dominicis, Carmine Cirillo, Gennaro Greco e Felice de Martino, anch'eglino morti per la medesima causa.
Sparsasi la voce di tale avvenimento per più giorni il popolo numeroso vi trasse insino a che per cura della congrega alla presenza delle autorità cittadine, di una rappresentanza della Società dei Reduci dalle patrie battaglie e di altri sodalizi della città; nonché dei parenti residenti in Salerno e gran folla di po polo; dopo d’aver proceduto alla desumazione e alla loro ricognizione, furono deposti in due urne di marmo e allorquando la chiesa sarà completata vi si apporrà una lapide che ne ricordi i nomi e li tramandi ai posteri.
Angelo Lerro, do p o gli avvenimenti del 1820, giovinetto, si ascrisse alla carboneria e in breve, per la sua indole e per le idee liberali che gli allignai vano nell'animo, assunse ai supremi gradi della setta. Ad Omignano, suo paese nativo, teneva riunioni carbonarie in sua casa e metteva in opera tutta la sua autorità di grande proprietario per procurare sempre nuovi aderenti alla santa causa. Una denuncia privata che lo indicava quale uomo pericoloso, fece si che si spedisse c on tro di lui ordine d’arresto, incaricandosi a tal uopo le guardie urbane. Il giorno 1 . ° ottobre del 1822, era quello destinato ’alla sua cattura e le guardie andati in casa lo rinvennero accerchiato dai suoi compagni, che gli protessero la fuga e ridottosi a Porcili presso Giuseppe Cona rimase ivi per più tempo suo ospite.
Ammogliatosi in Licusati con una parente del canonico de Luca, e perciò costretto a viversene in quel comune, non tardò a metterti d’accordo coi dignitarii della carboneria che ivi e nelle contrade adiacenti risiedevano e col Comitato Centrale dei Filadelfi in Napoli, di cui faceva parte il cugino Giuseppe Catarina. Avvisato di condursi alla capitale per affidarglisi importante missione, vi andò ed ebbe colloquii col canonico de Luca, coi fratelli De Mattia, col Catarina ed altri. Ritornato si vide attivamente percorrere i paeselli di quel mandamento, impartire ordini a questi o quel Filadelfo, perché tutto si approntasse pel giorno della rivolta. Nelle diverse volte che il Catarina si condusse nel Cilento a preordinarvi la rivoluzione si uni a lui e si abboccò coi Capozzoli, quindi col barone Landulfo a Rodio e coi Vasaturo e Maselli ad Omignano.
Venuto in Celle il canonico de Luca non passava giorno che insieme a Felice de Martino, Gennaro Greco e Francesco Serra noi visitasse per attingervi notizie. Avvisato in tempo che un drappello di gendarmi era sulle orme del canonico per arrestarlo, spedi ad avvertimelo Giambattista Mazzara, uomo a lui molto affezionato, appartenente anche ai Filadelfì. Quando il Comitato credette opportuno il momento, che la rivoluzione avvenisse e per darle un capo visibile credette inviarvi Arcangelo Dagrina, di Palermo, impiegato al Registro e Bollo, ufficio di Napoli, gli consegnò lettere speciali pel Lerro, il quale tosto che il seppe unito al Mazzara gli andarono incontro e dopo che per una notte lo fece rimanere presso di lui, all'alba lo fece accompagnare in casa di Pietro Bianchi, a Montano, affidandolo alle cure della moglie, Alessandrina Tambasco.
Rinfrancatosi dal viaggio il Dagrina e volendo adempiere al mandato ricevuto, il Lerro lo fece condurre dai Capozzoli dallo stesso Mazzara, e avvenuta la sommossa, fu. lui che nel forte di Palinuro dettò il proclama, che chiamava il popolo a prestar loro aiuto.
Angelo Lerro intanto ammaniva uomini ed armi e qualche giorno dopo insieme ad altri raggiunse gl’insorti e fu uno dei loro capi. Vuo l si fosse stato lui che avesse ordinato s’appiccasse il fuoco a diverse case dei comuni di S. Giovanni a Piro e Pisciotta, allorché le popolazioni gli si mostrarono ostili e fu quello che proclamò il governò provvisorio a Lentiscosa.
Domenicantonio de Luca e Giambattista Mazzara, entrambi di Licusati, coadiuvarono moltissimo alla rivoluzione. Carbonari nel 1820 fecero parte della spedizione guidata da Giuseppe Catarina e da Maselli, e dopo la restaurazione imprigionati. Rilasciati in libertà furono sottoposti ad esilio, il Mazzara a Vallo, il de Luca a Napoli, ove entrò a far parte dei Filadelfi. Col canonico de Luca suo parente di nascosto venne a Licusati e quivi molto oprossi per la rivolta.
Allorché gli insorti si sparpagliarono a Cucca r o, per più giorni andarono fuggiaschi; ma arrestati nelle vicinanze di Licusati, trascinati a Vallo, furono tutti e quattro condannati a morte e alla multa di ducati mille per ciascuno.
Domenicantonio de Luca e Giambattista Mazzara il giorno undici agosto furono fucilati a Vallo della Lucania. Le loro teste staccate dal busto furono man, date l’una a Licusati, l’altra ad Omignano e messe in gabbia di ferro sovra alti pilastri per esempio al popolo, vi rimasero sin che il trono del Borbone per volere di Dio crollò nel 1860.
Angelo Lerro e Arcangelo Dagrina trasportati a Salerno furono il giorno dopo moschettati e sepolti nell’istessa chiesa ove erano stati posti zio e nipote, de Luca.
Appena Del Carretto ebbe sedata la rivolta, fece arrestare tutti coloro che l'avevano fomentata, aiutata e fornito di armi gli insorti per punirli severamente quali rei di fellonia.
Nominò una commissione militare per giudicarli e, fece in modo che la scelta cadesse sopra tristi uomini, tra i quali tristissimo era tal Lanzara, che esercitava le funzioni di scribente presso il tribunale di Vallo della Lucania e in quella occasione elevato alla dignità di uomo della legge. Sprezzatore di ogni giustizia, amatore della tirannide sino al delirio, aspettandosene gradi eminenti ed onori, insultatore crudelissimo dei prigionieri, fu colui che infamemente inveì contro coloro che la mala sorte pose nelle sue mani.
Prime sue vittime si furono: Domenico de Siervo, medico dottissimo del comune di Acquavena, Michele Bortone e Davide Riccio, proprietari, di Celle Bulgheria l’uno, di Cardile l’altro, e Nicola Camello cont a dino di Bosco.
Tutti e quattro costoro furono iniziati alla setta dei Filadelfi dal canonico de Luca, ed ebbero conferiti i gradi superiori da Giuseppe Catarina, allorché venne diverse volte nel Cilento ad ordinarvi la rivoluzione.
Invitati dal canonico de Luca, dopo la sua fuga da Napoli, a venire in sua casa, di notte nascostamente vi si condussero e da quel tempo si tennero pronti pel movimento insurrezionale. Assoldarono gente, armarono i loro operai e contadini e non appena intesero dell’abbattimento del telegrafo di Palinuro e i fatti che ne seguirono, si riunirono coi loro uomini ad Acquavena presso Domenico de Siervo e quivi deliberarono inviare un messo ai Capozzoli a nome del Canonico de Luca, invitandoli a venire in quel paese, i quali vi giunsero la sera del di primo luglio e vi furono accolti e festeggiati.
Il de Siervo in propria casa, ove si eran condotti Bortone e Riccio, ospitò i capi, distribuì alla loro gente da mangiare e quindi dopo breve sosta venuta l'ora della partenza vollero seguirli e presero parte a tutto quanto avvenne a Roccagloriosa, Montano e Cuccaro. La Commissione Militare riunitasi nel giorno diciassette del mese di luglio, li condannò ad esser fucilati, e il mattino del 20, fuori l’abitato vennero moschettati.
Si narra che Saverio Del Carretto personalmente si recasse nella cappella ove eglino erano intenti a prepararsi al duro passo della morte e l’insidiasse facendogli sperare dal re una commutazione di pena, qualora acconsentissero a svelare i nomi dei loro complici. Forti nel sapersi martiri per una tanto santa causa non si fecero cogliere al laccio e impavidi morirono.
Teodosio de Dominicis, avvocato di Ascea, di carattere integro, caritatevole, ricchissimo, tutto operava per alleviare in certa guisa i mali e le sofferenze degli abitatori della sua contrada, e a buon diritto veniva contradistinto col nome di Re di Ascea. Ovunque era un dolore da lenire, una miseria da sollevare, egli era pronto a tutto operare pel benessere di colui che gli si rivolgeva — Liberale oltre ogni credere, si affiliò alla Carboneria e poi ai Filadelfi, nella quale setta egli molto operò.
In continue relazioni coi Capozzoli, col Lerro ed altri, allorché seppe esser in pronto la rivoluzione, la coadiuvò come meglio potette con uomini e danaro, e mentre era per dare anche se stesso fu arrestato.
Gennaro Greco e Felice de Martino di Camerota, parenti del canonico de Luca, e da questi iniziati ai Fi ladelfi, ricevettero gli ulteriori gradi da Diego de Mattia e Giuseppe Catarina. Furono loro che ritirar tisi in paese v'importarono la congiura, la propagarono, vi ascrissero gente e in ogni guisa operarono per riuscire nel nobile e santo scopo che avevano con giuramento accettato.
La rivoluzione li trovò pronti a tutto imprendere e d’accordo con Angelo Lerro, raggiunsero i Capozzoli e loro compagni dopo gli avvenimenti di Palinuro.
L’uomo fidato, colui che tutte conosceva le spire della congiura, anche non appartenendovi, che la propagava e la diffondeva era il contadinello Carmine Cirillo di Perito. Cresciuto in casa di Teodosio de Dominicis, questi intese il bisogno di confidarglisi la prima volta che dovette mandarlo latore di importanti segreti al canonico de Luca, da poco venuto a Celle. Nella sua qualità di campagnuolo non destava sospetti, allorché recavasi or da questi or da quel congiurato principalmente dai Capozzoli, ai quali rapportava tutto ciò che si ordiva e al ritorno non mancava di riferire l’impazienza che quegli addimostravano. Tutti lo amavano e gli dimostravano benevolenza indescrivibile, ed egli in nessun modo ne abusava; altero di tanta confidenza.
Profugo il de Dominicis ed altri, egli contro il divieto di Del Carretto di non portare viveri in campagna, agiva in modo da illudere ogni vigilanza e arrecava loro ogni cosa di necessario. Arrestato fu sottoposto alla tortura, perché svelasse il nascondiglio e i complici del suo padrone, ed egli piuttostoché svelare segreti sotto i più atroci dolori, continuamente diniegò.
Caduti nelle mani di Del Carretto, de Martino, Greco e De Dominicis furono insieme al Cirillo tradotti in Salerno, in cui riunitasi la Commissione Militare, difesi da un avvocato ufficioso, tal Anzani; per dare al giudizio una certa tal quale legalità; furono condannati a morte e la mattina del 22 settembre, ove gli altri loro compagni avevano subito la stessa sorte. fùrOno fucilati.
Capo dei Filadelfi in Rionero era Tommaso Giansante, surto da natura d’animo indipendente e liberale a malincuore sopportava la schiavitù della sua patria. Carbonaro nel 1819 cospirò per la rivoluzione del 1820; e caduta la costituzione, sottoposto a speciale sorveglianza in Napoli, vi conobbe il canonico de Luca, al qua l e si ligò sì intimamente, che questi riconosciuto in lui la vera indole del cospiratore, non tardò a comunicargli resistenza della congiura che ogni giorno assumeva sempre più vaste proporzioni. Liberato e prima di ritornarsene in paese, volle essere insignito dei gradi della setta, che gli furono conferiti da Gerardo Cristaino, e si ebbe con questi facoltà di propagare la cospirazione in tutta la sua provincia, cosa che ei fece inappuntabilmente.
Pochi giorni prima della rivolta di Centola e Palinuro scrisse una lettera al canonico de Luca, informandolo: essere nel suo e negli adiacenti paesi gli animi tutti disposti ad affrontare qualsiasi pericolo pel bene della patria. Sventuratamente tale scritto venne in potere della polizia che lo fece subito arrestare.
Angelo Raffaele Pandolfi, di Omignano, erasi tenuto lontano sino al 1822 di appartenere a qualsiasi cospirazione, ma in quest'epoca fu affiliato alla Carboneria da Giuseppe Catarina e insieme ad Angelo Lerro fondarono la vendita nel loro paese. Divenne Filadelfo e con ogni mezzo aiutò e prese parte all’insurrezione del 28 luglio. Arrestato con Giuseppantonio Guida, di Celle Bulgheria, proprietario, tradotto con lui a Salerno, la Commissione Militare richiamò paranco il Giansante e tutti e tre mediante un sol giudizio condannò a morte.
All'alba del due ottobre la campana della cappella del carcere di S. Antonio in Salerno sonava funebri rintocchi e tre individui incatenati aspettavano nel vaglio, pronti a subire la pena che carnefici colla veste di giudici avevano contro di loro emanata. Un ufficiale di gendarmeria ordinò si slegasse il Giansante e gli altri due si trasportassero fuori. Appena ciò fu fatto una scarica di fucilate si udì, un grido… e tutto era finito. Tommaso Giansante era morto!
Pandolfi e Guida messi su di una carretta, e condotti a Mercato Sanseverino nell’istesso modo perirono, il medesimo giorno.
Giuseppe Bufano, di Polla, domiciliato a Roccagloriosa, Vito Giuseppe Tambasco, di Montano, Antonio Lagatta, di Massa, Nicola Cobucci, di Bosco e Filippo de Buono, di Massiccile, semplici gregari nella insurrezione senza alcun procedimento e per solo terrore, d’ordine di Del Carretto furono moschettati a Vallo.
La repubblica Partenopea del 1799 era fatato dovesse essere spenta nel sangue, abbenché i fautori di libertà dessero non poche prove di abnegazione e di valore.
Il ferocissimo cardinale Fabrizio Ruffo a capo della sua bordaglia avvanzavasi a grandi giornate verso la capitale del regno, commettendo ogni sorta d’ ec cidi e di nefandezze.
I patrioti Cilentani per apporre un’argine agli in demoniati sostenitori della santafede e per dar tempo ai repubblicani di Napoli di fortificare le posizioni strategiche più importanti, deliberarono resistere ad oltranza e si riunirono in Vallo della Lucania.
Le orde dell'infame prelato apparvero e una v era battaglia fu impegnata. Le fucilate si succedevano alle fucilate, ma finì con la vittoria del Ruffo e con la morte di non pochi liberali, i quali caddero gridando: Viva la Repubblica. Tra questi il vecchio Diego de Mattia.
Più tardi quando la restaurazione dell'assolutismo venne a felicitare il popolo e il despota volle sfogare la sua ira di vendetta contro coloro che lo avevano spinto ad ignominiosa fuga; fra gli infelici che vennero gittati in oscure e fetide prigioni vi furono i fratelli dell'ucciso De Mattia, Nicola e Giuseppe, che per tre anni soffrirono crudelmente, prima di esser resi a libertà.
Reduci in patria colla loro specchiata onestà, col loro ingegno e più di tutto col loro esempio, infondevano negli animi dei loro concittadini l’amore vero per le libere istituzioni e l’odio contro il Borbone. Resisi capi di una congiura, costanti nei loro principi, prepararono la rivoluzione del 1820.
Da Nicola De Mattia, nacquero: Donato, Emilio e Diego, i quali educati alla scuola paterna e a quella dello zio, in breve dovevano emularli. Giovinetti ancora si ascrissero alla Carboneria e presero parte ai lavori della Gran Dieta di Salerno. All’epoca della rivoluzione furono nominati ufficiali dei Legionari e il governo costituzionale loro riconobbe tal grado.
Allorché le truppe tedesche invasero il regno e il generale Pepe chiamò le milizie cittadine per respingerle; eglino sotto il comando del capitano Luigi Scevola di Angellara, partirono per le frontiere, rimanendo in paese Donato ad arrollarvi gente per nuova spedizione. In più rincontri si segnalarono, ma alla battaglia di Rieti, che per l’inazione del generale Carascosa, comandante la fanteria, la vittoria si volse in isconfitta; vi si distinsero addirittura.
Ritornato il Borbone Nicola venne destituito dalla carica di giudice della Gran Corte Criminale di Salerno, e i figli dopo di esser andati per più tempo raminghi, potettero esimersi dalle persecuzioni, pagando una grossa somma alla venale polizia.
La setta dei Filadelfi ordita in Napoli dal canonico de Luca accolse nelle sue fila i fratelli De Mattia, ai quali il padre non tralasciava, esasperato com'era il suo animo per le patrie sventure, di animare a mostrarsi zelanti coop e ratori del patrio riscatto, ed eglino infatti con Giuseppe Catarina, Angelo Lerro, Teodosio de Dominicis ed altri furono i preordinatori del movimento Cilentano nel 1828.
La corte di Napoli presa da paura inviò il Del Carretto con l' alterego e questi dopo d’aver fatto un immane carneficina dei più chiari e noti Filadelfi, gli altri fece arrestare e tradurre in Salerno, tra questi i fratelli De Mattia, uno dei quali, Donato, insieme allo zio materno Bonifacio Cricchio, padre di cinque figliuoli, morirono di sevizie e battiture sulla erta salita che conduce a Rutino.
Emilio e Diego gittati in un oscuro sotterraneo soffrirono inaudite torture, fatte loro apprestare dal commissario Gennaro Cioffi, il quale voleva con tal mezzo estorquere i segreti e i nomi dei loro complici.
La Commissione Suprema pei reati di Stato li condannò alla pena di morte, col terzo grado di pubblico esempio, insieme ad altri cinque.
Le mogli, le figlie, i parenti di quei disgraziati, appena ebbero sentore dell'iniqua sentenza, vestite a gramaglia, si condussero al Re ad implorar grazia per la vita dei loro cari e tra queste una zia dei De Mattia, che amendue erano stati colpiti dal ferali pronunciato di giudici spietati. Invano la infelice donna, pregò e supplicò perché i nipoti avessero salva la vita ma il Borbone irremovibile nel suo proponimento, volle che uno di loro ascendesse il palco e impose alla misera donna di scegliere quale dei due volesse salvo, dicendole: Hai mezz'ora di tempo per deliberare, trascorsa la quale moriranno ambidue. La misera, fatto uno sforzo supremo, scelse Diego come il più giovine, ma tosto svenne, smarrì la ragione e andava ripetendo: Io ho ucciso il povero Emilio.
Il 29 Marzo 1829 la città di Napoli era in lutto, gran numero di soldati e una folla di popolo ingombrava la piazza del Mercato, in mezzo alla quale era stato rizzato il patibolo, che doveva accogliere le teste di quattro sventurati, tra cui quella di Emilio De Mattia.
All'ora stabilità i pazienti comparvero accompagnati dalla confraternita della Buona Morte, la quale appena le vittime montarono le scale fatali, intuonò la prece dei defunti e in men che si dica il sacrificio era compiuto. Erano giovani baldi, e morirono eroicamente gridando: Viva l’Italia.
Diego per sedici anni trasse una vita cento volte peggiore della morte in un bagno penale, la quale però non valse a mutarne la tempra, e quando per grazia speciale fu libero, tornò a congiurare.
Nel gennaio del 1848 fu tra coloro che potentemente contribuirono a far si che il re proclamasse e sanzionasse la costituzione, e avvenuta la infausta e micidiale giornata del quindici maggio, che il Borbone pari al suo avo, di obbrobriosa memoria, spergiurò; Diego si battette eroicamente e venne colpito dal piombo dei mercenari svizzeri.
Nelle province intanto, ovunque si spargeva sangue, e Diego si ebbe incarico dal Comitato Rivoluzionario di organizzare forze e correre in aiuto degli insorti Calabresi — Uomo d'azione venne a Salerno, ove sapeva trovarsi Giuseppe Catarina col quale aveva avuto comune la sorte nel 1828, si uni a lui e a pochi altri e partirono pel Cilento, in cui il Catarina contava moltissime aderenze. Presero parte all’attacco di Trentinara e sconfitti, per sconosciuti sentieri pervennero a Vallo della Lucania ed ivi saputo che la insurrezione delle Calabrie, era stata sedata, Diego congedò i suoi uomini, ed egli di nascosto si ridusse nuovamente in Napoli. Cercato a morte dalla polizia, sfuggi mercé l’aiuto di lord Temp l e che gli facilitò la fuga sulla fregata inglese: Dragon e sbarcò a Malta, in quell'epoca popolata da moltissimi profughi politici, e fu salvo da certa morte, cui il Borbone lo destinava.
Costituitasi in Torino la Società Nazionale, presieduta dal Conte di Cavour, Diego vi fu ascritto per acclamazione e a tutt'uomo si dette a propagarne il programma tra i suoi amici di Napoli e della provincia di Salerno, inviando loro scritti e stampe a mezzo di lettere chiuse e in tal modo contribuì al trionfo dell’epopea nazionale del 1860.
Diego vive tuttora circondato dall'affetto dei suoi cari, contento di avere speso tutta la sua vita a prò del patrio riscatto.
Da onesti e ricchi genitori discendevano Giuseppe e Domenicantonio Catarina, che educati dallo zio Pasquale a principii liberali, vennero poi iniziati alla Carboneria dal canonico de Luca e in breve ascesero ai supremi gradi della cospirazione. Convocata la Gran Dieta, Giuseppe tuttoché giovane vi p rese parte quale grande dignitario della vendita: I Veri Figli di Pesto, sede di Omignano, suo paese nativo.
Ostinatosi il Borbone a non voler concedere una costituzione, egli col profugo Maselli a capo di molta gente dopo d'aver dichiarato il governo provvisorio in molti paesi della loro contrada, vennero a Salerno, si misero a disposizione del generale Pepe e con lui partirono per Napoli.
Durante i nove mesi del governo costituzionale, Giuseppe conservò il grado di capitano dei legionari; ma quando a mezzo degli Austriaci fu restaurato il dispotismo, per molto tempo andò fuggiasco e quindi inosservato si ridusse a Napoli e sotto finto nome potette essere al sicuro dalle persecuzioni, vivendo in intime relazioni coi più noti e ardenti carbonari della provincia di Salerno.
Ideata dal canonico de Luca la vasta cospirazione: i Filadelfi, a lui si rivolse per consigli, aderenze e perché l'aiutasse a propagarla tra i suoi amici; ed egli si accinse all'opera con tanto buon volere che in breve tempo, non eravi paesello nel Cilento che non avesse il sottocomitato della setta.
Partiti i fratelli De Mattia, il canonico de Luca ed altri per la loro contrada onde sommuoverla, Giuseppe rimase quale capo assoluto della congiura e come tale ebbe continui e segreti abboccamenti con lord Kaning, diplomatico inglese accreditato presso la corte di Napoli, col principino d’Angri, e il duca dei Gasoli, i quali avevano promesso aiuti e protezioni. Saputo poter essere facilmente arrestato il canonico de Luca e la rivoluzione già in pronto potesse svanire, convoca i componenti della Camera Alta, espone la necessità suprema di recarsi nel Cilento, essendo oramai tempo di operare, e avutone permesso, lascia reggente la presidenza Antonio Migliorati, di Napoli e si conduce a Salerno, poi a Rutino, Vallo e in altri paesi quindi dal canonico de Luca e più volte dai Capozzoli, approntando il movimento pei primi di del luglio; ma che poi avvenne il 28 giugno, per imprevedute circostanze.
Non si tosto Giuseppe fu informato della carneficina operata da Del Carretto, si nascose, ma fu arrestato in una bottega di pizzicagnolo, per cui qualche scrittore lo designa esercente tale mestiere, e sottoposto alla tortura, perché svelasse i nomi dei complici; fu inutile giacché aveva deliberato piuttosto morire di patimenti, anziché perdere i compagni. La Commissione Militare di Napoli lo condannò alla pena di morte, insieme ad altri sette, ma il Borbone nel concedere grazia a quattro vi annoverò anche lui e allora fu condotto all’ergastolo. Il nuovo Re Francesco gli ridusse la pena prima a trent'anni di ferri duri, quindi a sedici e avuta la libertà nel 1844 fu assoggettato alla speciale sorveglianza della polizia; ad onta della quale continuò a cospirare e insieme ad altri preparò il movimento politico del 1848. Fu uno degli autori principali della rivoluzione del gennaio e del luglio di quell'anno nel Cilento, prendendo parte anche al sanguinoso attacco di Trentinara con le truppe Borboniche, le quali sbaragliarono i rivoltosi ed egli sfuggito si ridusse a Vallo nell'intento di passare in Calabria in aiuto di quegli insorti comandati da Giuseppe Ricciardi; e quivi saputo an c he la loro disfatta venne a Salerno e fu costretto latitare per parecchi mesi, insino a che ammalatosi pei gravi disagi patiti, si moriva nell'aprile del 1849.
Domenico Catarina non fu secondo al fratello, fu carbonaro, f iladelfo, e uno dei capi del movimento rivoluzionario del 1828. Fece parte per più tempo della comitiva Capozzoli e li segui in Corsica, quando emigrarono, e anche allorché tornarono nel regno. Pervenuto a Napoli vi si fermò e travestito assistette alla causa del fratello e degli altri suoi amici; e allorquando intese la sentenza che lo condannava a morte deliberò presentarsi e lo fece. Per la qualcosa gli venne fatto salva la vita e costretto andare però in un’isola del regno a tempo indeterminato.
Egli dopo d'aver passate tutte le isole di Sicilia, dalla Favignana a Lipari, quivi morì nel 1879 fra l’universale compianto.
Domenico, Patrizio e Donato Capozzoli trassero i natali in Monteforte, piccolo paese messo nel circondario di Vallo della Lucania, da ricchissima famiglia. Cresciuti in età si affiliarono alla Carboneria ed eglino si distinsero nel propagarla tra i loro conterranei ed amici. Presero parte ai movimenti del 1820 e sostennero a tutta possa la costituzione giurata dall’infido Re. Furono compresi nella lista dei proscritti e costretti a vivere raminghi ed erranti per monti e burroni sfuggendo l’incontro dei gendarmi e talora venendo con loro alle prese, trovavano nel loro ardimento e destrezza la salvezza. Una ingiuria fatta al l’onorato loro nome, che vendicarono col sangue, fece si che i più credettero fossero comuni malfattori e come tali trattati anche da qualche scrittore moderno.
Avvenuta la insurrezione del Cilento, i fratelli Capozzoli, a cui si erano uniti Antonio G allotti, Domenicantonio Catarina, Pasquale Rossi, ed altri ne furono l'anima. Primi nell'alzare la bandiera della rivolta corsero da vincitori i comuni di Centola, Palinuro, Pisciotta, Bosco, S. Giovanni a Piro, Cucca r o, e quivi vedendo inutile ogni resistenza a Del Carretto, accomiatarono quei generosi che avevano risposto al loro appello, e con Catarina, G allotti, Rossi e Ciardella presero pei monti con l’intento di ridursi in paese straniero ed ivi da sconosciuti vivere, aspettando un evento propizio per tornare ad offrire il loro braccio alla patria. La medesima sera si rifuggiarono sui monti di Vallo, ma assediati da per ogni lato dai gendarmi si incaminarono alla volta della Basilicata per andare a Bari e trovarvi un imbarco che li portasse nell’esilio. Molti giorni vagarono e nel bosco denominato Quarantana appicato ad un albero trovarono l'editto che il Del Carretto aveva emanato e nel quale era detto: che il governo del Re avrebbe dato in premio quattordicimila franchi a colui o coloro che avessero consegnati vivi o morti i ribelli e comminava la pena di morte a chiunque li soccorresse o li aiutasse a sfuggire il rigore della legge. Si ridussero a Ceraso, si provvidero di munizioni, abiti, vettovaglie e presero per alla volta di Pesto. Lungo la via arrestarono una spia che il Del Carretto aveva inviata ad esplorarli e la ritennero senza arrecarle alcun male e non sapendo come sfuggire alle continue persecuzioni, inviarono la persona arrestata a colui che l’aveva mandata, facendogli credere esser pronti a presentarsi a lui in Salerno, qualora ritirasse le truppe. Il generale credette a tali parole e comandò: che i soldati si riducessero ai rispettivi alloggiamenti ed egli parti per la sua residenza ad attendervi i ribelli, i quali appena seppero essere il loro stratagemma riuscito, corsero a Pesto e rinvenuto un brigantino, giuntovi da poco per caricar cocomeri, alla cui custodia eranvi delle guardie di finanza, a non destare sospetti, ornarono i loro cappelli di coccarde rosse, ligarono tre loro compagni come se fossero dei prigionieri e avvicinatisi al padrone della nave dissero essere le guardie urbane del comune di Ogliastro, che di gran premura, d’ordine del maresciallo comandante le armi, dovevano tradurre quegli arrestati alla sua presenza in Salerno. Inutile astuzia perché furono mandati al fiume Se l e che ivi avrebbero trovato delle barche pescherecce che acconsentirebbero a trasportarli. Non se l fecero ripetere, tosto partirono e alla foce del Se l e trovarono una grossa barca la noleggiarono, volsero la prua per Pesto, si provvidero di vettovaglie, ed entrati nuovamente in mare sciolsero le vele al vento e partirono. Allorché furono al largo fecero palese alla ciurma il vero esser loro e quella, fra la paura e i battiti del cuore, che spingevali ad una azione generosa, acconsenti a trasportarli nelle Romagne. Quattro di navigarono con buon vento, ma nel quinto il mare da placido e tranquillo divenne furioso, e poco mancò non naufragassero presso il monte Circello. Sbarcarono e pagati i marinari con centosessanta pezze d’argento, a piedi intrapresero la via di Livorno, ove giunsero a capo di cinque giorni. Da sconosciuti entrarono in città e alloggiarono prima presso un napoletano, che ivi dimorava, poi con un Felice Tristano di Corsica, al quale, conoscendolo fido, raccontarono le loro sventure e questi si offri di procurargli un imbarco e di accompagnarli nella sua patria. Vestiti da marinari sul molo, fingendo di andare a diporto, raggiunsero la nave, salparono e l'indomani sbarcarono a poche miglia da Bastia. Quivi idearono presentarsi alle autorità francesi; ma saputo che restando da privati nel l’isola, alcuno li avrebbe molestati, andarono in Aiaccio e lavorando chi in una cosa chi in un’altra, traevano innanti la vita. Cinque mesi trascorsero che il governo di Napoli avvisato da tal Morelli, ivi dimorante, che si finse anch'egli emigrato politico per rovinarli, li richiese alla Francia, protestando essere quegli infelici macchiati di comuni delitti e notificava ai rappresentanti francesi l'editto che li dannava. In men che si dica Antonio Galletti venne arrestato e restituito alla Borbonica iena, che lo destinava al capestro; ma dopo che dalla tribuna del parlamento francese tuonò la voce di Sebastiano Tiburzi, Beniamino Constant e del generale Lafa y ette, i quali provarono che il delitto comune punto esisteva, e in quella estradizione ne andava l'onore di Francia, più volte e con insistenza richiesto, alla fine venne restituito con minacce.
Informati i Capozzoli, Catarina, Rossi e Ciardella di quanto al loro compagno era avvenuto, pensarono mettersi in salvo e avendo conosciuto il capitano di una nave mercantile, pronta a far vela per Napoli, lo pregarono a che acconsentisse a trasportarli di nascosto in quella città.
Il 12 dicembre 1828, la nave salpava nascondendo nella stiva quegli infelici cui il fato serbava più terribile sorte. Il giorno 15 approdarono all’isola d’Elba, perché il mare diveniva tempestoso, il 21 a Civitavecchia e il 3 gennaio 1829 sorpresi da furiosa burrasca naufragarono in una spiaggia deserta, salvandosi a stento insieme ai marinai nella barcaccia.
Dopo poche ore si accomiatarono da quell'uomo generoso dopo essersi abbracciati e confusi tra loro le lagrime della riconoscenza, e della gratitudine. Vagarono affamati pei boschi di quelle vicinanze sotto una pioggia fitta e continua, insino a che incontraronsi in un lavoratore, che li ospitò per più giorni e poi con la sua stessa scorta passarono a Terracina, indi a Valli-Corsi, e quivi rimuneratolo presero la via di S. Germano e riposarono in una capanna.
Allo svegliarsi intesero lo scoppiettio della frusta di alcuni carrettieri, cercarono raggiungerli ed ecco che s’incontrano nei visi arcigni di due gendarmi, i quali loro chieggono le carte di passaggio. Non si smarriscono, non si perdono d'animo e loro presentano quelle che avevansi procurate in Corsica sotto falso nome, di vecchia data e scritte in idioma francese. Questi o non comprendendole o credendoli stranieri, li lasciarono andare; ed eglino raggiunti i carrettieri vennero in Napoli, ove si rimase il solo Catarina, e Capozzoli con Rossi e Ciardella raggiunsero i monti nativi.
La notizia del loro ritorno in breve si divulgò, ed eglino vivendo tra i loro compaesani, precisamente in casa di Luigi Magnoni a Rutino, che gli si mostrava affezionato e fido, di nulla temevano, tanto che riusciva vano ogni tentativo di arresto contro di essi. Alcuni però già compromessi nella loro stessa causa e in più rincontri da loro beneficati, spinti dalla cupidigia e dalla sete dell'oro deliberarono perderli e fissarono a compimento dell’impresa la sera del 19 giugno, in cui dovevano aver luogo le nozze di un figliuolo di Diego Cirillo, di Perito. Concertatisi tra loro, con inganno ve li trassero assicurandoli che agli sponsali vi sarebbero intervenuti solo parenti e gente a loro affezionata e devota. Credettero a tale assertiva, fidenti in quelli che più volte avrebbero potuto darli in mano al carnefice e non l'avevano fatto: vi andarono.
Sino a notte avvanzata durarono le danze e i tripud ii e tutti andarono a dormire. Non era trascorso molto tempo che i Capozzoli e Rossi furono desti dal lungo e continuo latrare di un cane che l’insospettì e Domenico fattosi alla finestra s’accorse che la casa era tutta circondata da soldati. Di un balzo si ritrae indietro, si slancia verso la stanza ove credeva dormissero i traditori e ucciderli; ma dessa era vuota. Allora si misero sulla difesa per vendere a caro prezzo la loro vita. All'invito che loro venne fatto di arrendersi, risposero con delle fucilate e allora una vera battaglia s’impegnò che durò parecchie ore; ma mancate loro le munizioni, sopraffatti dal numero, furono ligati, portati in Vallo della Lucania e sottoposti al giudizio della Corte Marziale.
Allorquando vennero interrogati alcun altro all'infuori di Domenico Capozzoli rispose e narrò tutte le loro vicende dal dì in cui emigrarono sino a quello del ritorno e del loro arresto. Aggiunse che più volte avevano invitate persone per aver del danaro nella casa di coloro che li avevano traditi, e di aver ricevuto solo da Luigi Verrone, di Rocca Cilento, la somma di ducati sessanta, che avevano consegnati a colui che li ospitava, quasi a pagamento del loro trattamento. Oltre a ciò aver al medesimo consegnato una collana e mostrina d’oro tolta alla famiglia Balbi di Roccagloriosa, due orologi d'argento, l'uno del marchese di Frignano, l’altro di Gerardo Marsilio, e diversi altri oggetti.
Trovandosi nella sala attigua uno dei traditori, che eravi andato per riscuotere, forse, il prezzo della sua infamia, fu fatto entrare e messo in confronto convenne essere in suo potere gli oggetti indicati, essendogli stato imposto dai compari di restituirli a coloro cui appartenevano.
La Commissione Militare, nominata per giudicarli, fu inesorabile e li dannò a morte.
Il 29 giugno 1829, condotti a Palinuro sotto il telegrafo, che un anno prima avevano distrutto, furono fucilati, e le loro teste staccate dal busto, infisse sopra pali, furono ivi esposte ad atroce spettacolo.
Venuta l’era di libertà, il 1860, il battaglione della guardia nazionale, agli ordini di Teodosio de Dominicis, nipote al giustiziato del 1828, comandato dal maggiore Pietro Giordano, di Ceraso; tolse quell'avvanzo di ossame, che ricordava la barbarie e la ferocia dei despoti, e celebrati solenni onori funebri, li uni ai loro corpi sotterra.
L’orrenda carneficina avvenuta in una delle più belle e fertili contrade d’Italia per conto di Francesco I di Borbone, le lagrime spremute ai popoli per opera dei suoi sgherri, precisamente dal suo ministro di polizia Luigi Medici, che ovunque seminava spie e supplizi, non ebbero possa di sradicare dall’animo dei patrioti l’idea di cospirare per la libertà.
Non eran trascorsi che pochi mesi dall’orribile massacro del Cilento e già in Ascea il figlio del giustiziato De Dominicis, il giovinetto Ulisse, con Luciano Fuccillo, Gabriele Guercio, Rosalbo, Pierri Pietro e Pirozzi Pietro, suoi compaesani e Vincenzo Petrelli di Terradura; veniva ordendo novella cospirazione, che faceva capo a Salerno e sue adiacenze; ideata e diretta da Pietro delle Serre e Felice Martusciello di Pastena; Luigi Gerenza, Francesco e Magno Sapere, e Marotta Pasquale di Salerno; i quali a non destare sospetti riunivansi in casa di un gendarme congedato, Domenico Vietri, esercente in quell’epoca il mestiere di fornaio. V’intervenivano pure Gaetano Maddalo, Domenicantonio Lacalce, Flaminio Vitolo, e Venturo Michele, di Castiglione del Genovesi; nonché Francescantonio Astuni e suo fratello Raffaele, Raffaele Fasano, Pietro Pellecchia, Gaetano Carlino e Biagio Mazz e o. Nel 30 settembre del 1829, re Francesco e la regina. Isabella, moglie di lui e donna di molti, si condussero nella Spagna, in occasione del matrimonio della vezzosa loro figliuola Maria Cristina, col decrepito Ferdinando VII, e al ritorno, nel 30 luglio 1830, il re cominciò ad accusare un malessere del quale non sapeva darsi ragione. Divenne mesto ed abbattuto, come se un truce pensiero gli logorasse l’esistenza e di tanto in tanto era preso dal delirio. Nella notte del 7 all’8 novembre; un tremore inusitato lo colse, il delirio divenne molto più intenso, e fa udito più volte esclamare: Che sono queste voci? Il popolo vuole la costituzione? Dategliela! Date gliela!». Era il triste ricordo della rivoluzione del 1820, che passava davanti la sua mente disordinata, richiamatovi dai recenti casi avvenuti nel suo Stato ed in Francia.
Del governo di quest'esoso e odiato tiranno cosi lasciò scritto il visconte di Chateaubriand: Sotto il regno di Francesco, il governo da una condizione detestabile passò al grado supremo d’ignominia. Infatti, sotto lui fu vista cosa: del tutto nuova, che i camerieri di palazzo prendessero il di sopra sui padroni e uniti in turpe lega tra loro facessero traffico delle cariche dello Stato. A capo di questa genia, che ci ricorda i liberti della corte dei Cesari, compariscono un Michelangelo Viglia e una Catterina de Simone, quegli valletto del re, quei sta cameriera della regina». Bastava rendersi ai mi e i di questi due individui, cattivarsene l’animo e sborsar loro del denaro per campare dalle condanne e ottenere impieghi civili, militari ed ecclesiastici; come lo dimostra il fatto di Camillo Caropreso, che per esser ministro delle finanze del regno, sborsò al Viglia ventiduemila ducati. Il re sapeva tutto, ne godeva e spesso soleva dire, parlando col suo favorito: Caro Viglia, fa buoni affari e profitta del tempo, che io non vivrò molto.
Tante abiezioni scandalizzarono l’istesso Metternich, che in un colloquio avuto col Frimont, conte di Pradormo, disse: Il maggiore dei mali e quello che si può considerare incurabile nel regno delle due Sicilie, è la corruzione e la venalità, che regnano pressoché in tutti gli individui dell’amministrazione napoletana. La pubblica opinione in quel regno va corrompendosi sempre più e degradandosi. Il re tentenna senza principi, i suoi ministri vacillano, il governo privo di morale non incute rispetto». Era un amico del Borbone e gran cancelliere dell’Austria che cosi parlava di un parente ed alleato del suo imperatore.
Due giorni dopo la morte di Francesco, il 10 novembre, ascende al trono il primogenito di lui figliuolo, Ferdinando, e in un proclama apertamente biasima il governo paterno e promette rimarginare le ferite onde lo Stato sanguinava da più anni.
Di vero appena pochi giorni dopo, nel 21 novembre, destituisce il Caropreso da ministro delle finanze, condona la metà della pena residuale ai condannati per reità di Stato; a quelli dell'ergastolo commutò la pena in quella del massimo del secondo grado di ferri; e assolve quelli condannati a questa pena e alla reclusione. Riduce a. cinque anni la pena dell'esilio perpetuo o temporaneo, dichiara abolita i azione penale per tutti i reati di Stato commessi sino all'8 luglio di quell'anno, e richiama agli impieghi tutti coloro che per causa politica n’erano stati esonerati. Diminuisce per metà il d azio sul macino, abolisce la comulazione di soldi, soprassoldi, pensioni ecc. al di sopra dei ducati venticinque e conferma il decimo e una ritenuta graduale, che saliva sino al cinquanta per cento, sugli stipendi degli impiegati.
Il ministro di polizia Intontì, credendo che gli atti del nuovo re gli venissero veramente dettati dall'animo, vedendo esaltato lo spirito pubblico per la rivoluzione liberale di Modena e delle legazioni, si spinse a raccomandargli di fare qualche concessione in senso più liberale per prevenire un qualche movimento popolare, proponendogli d’istituire un Consiglio di Stato composto di tanti membri, come se fosse una specie di Senato e di rinnovare il gabinetto, escludendone il Pietracatella, il d’Andrea, e il Fardella come uomini attaccati inflessibilmente al vecchio ordine di cose, avversi a qualunque riforma, e surrogarli con Ricciardi e Filangieri, liberali moderati che godevano grande e favorevole fama nel popolo.
Il re sembrò acconsentire, ma gli altri ministri essendone stati informati, gli rappresentarono: essere tale atto un principio di rivoluzione ordita dall’istesso ministro di polizia — Prevalse il loro parere ed ai 14 febbraio 1831, l’Intontì con le solite formalità e precauzioni che si usavano coi sospetti, fu mandato prima a Milano col pretesto di una missione, poscia confinato a Vienna e al suo posto venne chiamato l’ornai celebre Francescosaverio Del Carretto.
In men che si dica le ire rinfocolate pei provvedimenti presi da Ferdinando, scoppiarono e cominciarono gli sdegni, le congiure e le condanne fierissime delle Corti Militari e del Consiglio di Stato. Da questo punto non fuvvi anno in cui non si facesse uno sforzo, un tentativo di rivolta per rendere la libertà al paese; e non si commettesse una crudeltà dal governo.
Nel 1832, un frate Angelo Peluso di Nola, e nel 1833 i fratelli Rossaroll, figli di quel prode che nel 1821, tenne issata a Messina la bandiera della costituzione, ordirono una trama, la quale nell'istesso anno si radicò nel Cilento ove prese il nome: I Figli di Dio, i cui componenti tentavano tutti i modi consigliati dall’ingegno per conseguire l’intento bramato. Una sommossa avrebbe dovuto aver luogo in tutta quella regione nel giorno del Corpus-Domini, se una denuncia non avesse svelato il segreto e mandato a vuoto il disegno. Per la qualcosa furono processati come ordinatori e capi della congiura: Marrone Michele e Cuomo Gesualdo, di S. Mango; Volpe Giovanni e Pietrantonio, di Pollica; Elia Giuseppe e Feliceantonio, De Feo Michele, Prospero, Girolamo, Giovanni, Pasquale, Alceste e Antonio, Marfongelli Giuseppe, Vinciprova Raffaele e Leonino, Vasaturo Antonio, Angelo, Fiorigi e Leonardo, Maselli Francesco e Gaetano e di Nicuoli Luigi, di Omignano; Lagreca Giuseppe e Francesco, di Cannicchio; Amoresano Francesco, di Ortodonico; Pignataro Raffaele, Sodano Eduardo e Francesco, Signorelli Gabriele e Giuseppe, Mottola Giovanni e Mazziotti Giuseppe, di Celso; Lebano Luigi, di Sessa Cilento; Errico Nicola, di Perito, di Luccio Pietro, di Casigliano; Verta Giancamillo, di Castagneta; Spagnuolo Francesco, di Guarrazzano; Lippi Giambattista, di S. Giovanni; Granito Francescópaolo, di Lustra; Cona Francesco e Pietropaolo, Schiavo Saverio, Rizzo Domenico, e Vassalluzzo Saverio, di Porcili; e Galdo Giandomenico, di Galdo.
Le discordie esistenti tra il re e i suoi minori fratelli, Leopoldo, conte di Siracusa, e Carlo, principe di Capua, gli dettero non poco da fare, gli inasprirono l’animo e gli accrebbero d’intorno malumore e malcontento. Perciò Leopoldo fu inviato con mi s sioni speciali a viaggiare all’estero e Carlo, per aver voluto sposare l’inglese miss Smith di cui si era pazzamente innammorato e per essersi con lei rifuggiato a Malta, contro il regio volere, fu privato di ogni avere e ridotto quasi alla miseria.
Il popolo non potendo più oltre tollerare il governo di Del Carretto, che a tante inumanità aveva aggiunto, pure quella del supplizio delle verghe; e nutrendo molta simpatia pel diseredato principe, cominciò a cospirare a favore di lui per metterlo sul trono del fratello e ottenere quanto da Ferdinando invano aveva osato sperare.
Una congiura Car l ista si fondò a Salerno per opera di Francesco e Paolantonio Bufano, Michele e Vincenzo Spirito, Gaetano Alfinito, Antonio, Pasquale e Mariano Lamberti, Giuseppe Anastasio, Raffaele Caraffa, Vincenzo di Lecce, Donato Cinque, Carmine Capuano, Gennaro Castiglia, Matteo Virgilio, Matteo D’Urso, Francesco Mingo, Pasquale e Gaetano Budetta e Gaetano Ponte, la quale ben presto si diramò nelle vicinanze, avendovi fatto adesione: Alessandro Gaiani, Michele Cilentano, e Urbano Rio Ciardi di Penta, Agostino e Domenico Guerrasio di Pandola, Matteo Bruno, Francescantonio e Pasquale Pepe e Pasquale de Pascale di Montoro, Giosuè Piemonte di S. Agata dei Goti, Luigi Crocetta di Benzano e Paolo Fuscolo di Sanseverino.
Un’altra se ne formò nel Vallo di Tegiano e vi appartenevano come capi: Bernardo Tramontano di Polla, Michele Pessolani di Atena, Gaetano Moscarelti, Stefano Luongo, Luigi Cariello, Guglielmo Trotta e Michele Altiegro di Padula, Giuseppe Brandaleone, Gerardo Moscarelli, Nunzio Cartone, Stefano Mele, Michele Sansevero, Carmine Bruno, Arcangelo Petrella, Pietro Cariello, Costantino Sollazzo, Gaetano e Raffaele Sarti e Feticiano Robertucci di Buonabitacolo; e insino al 1837, in tutti i paesi si fondarono vendite.
La più numerosa era quella capitanata da Saverio Avossa, da poco tornato dall’esilio di Francia pei fatti del 1828, da Giovanni Bottiglieri e Nicola Giannattasio, denominata: Propaganda la quale si estendeva in tutto il Cilento, importatavi da certo Pasquale Marciani, di Matonti, che in grazia della sua arte, pittore, girovagando per tutti quei paesi, la disseminò, affiliò persone e vi procurò aderenti, tra cui Gaetano Rotoli, di Agropoli; Emanuele Giordano, di Lustra; Filadelfo Sodano, di Gelso; Giancamillo Verta, di Castagneta; Gervasio e Marino Cantarella, di Pollica; Vincenzo Gatti, di Laureana; Michelangelo Granito, di Rocca Cilento; Matteo Pinto e Giuseppe Lippi, di Casalicchio; Angelo Russo, di Cannicchio e moltissimi altri (1); a scopo di sollevarsi, allorché si sarebbe intesa la uccisione di Luigi Filippo, re di Francia.
In quest'anno, 1837, per la seconda volta apparve il morbo asiatico, che fece infinite vittime nelle provincie meridionali d’Italia; e il popolo nutrendo poca fiducia nel governo, avvezzo a ritenere che tutto quanto di male gli venisse, fosse tutta sua opera, apertamente lo accusava di avvelenatore. I liberali fomentarono quella credenza, per accrescere il numero dei malcontenti e organizzare piccole sommosse. Infatti in più paesi della provincia di Salerno si venne a vie di fatto con la forza pubblica ed in altri furonvi semplicemente voci allarmanti.
In Padula nell'attacco con la forza pubblica rimase ucciso Gaetano Volpe, che insieme ad Antonio P into, Michele Breglia, Nicola Carbone, Vincenzo Falcone, Giuseppe Riccio, Prospero Gallo e Michele D’Ambrosio eccitavano i loro compaesani alla rivolta.
In quel di Vallo della Lucania pure si venne alle armi con la gendarmeria è furono arrestati Parrillo Luigi, d’Aiuto Pasquale e Giovanni, Scarpa Ferdinando, Giuseppe, Raffaele, Giovanni, Gaetanomaria e Francescantonio, D’Agosto Felice, D’Orso Francescosaverio, Palazzo Francesco, De Marco Barbara, Angelantanio, Pasquale e Vincenzo, e Paolino Antonio.
Anche a Laurito vi fu attacco e le guardie urbane ferirono Giovanni de Siervo e quindi arrestarono: Romaniello Rosario, Mauro Antonio e Francesco, D’Angelo Rosario, Donnangelo Rosario e Antonio, Cono Sabbato e Mariosa Domenico. La Suprema Commissione pei reati di Stato, condanna a sei anni di relegazione: Mariosa, Romaniello, Donnangelo e Cono.
S’imprigionarono inoltre, per semplici voci allarmanti: Sica Vincenzo e Sarluca Pasquale a Filetta; Catucci Nicola ad Alfano; Esposito Bernardo, Caruso Angelo e Stanziola Prospero a Centola; de Luca Lorenzo a Torreorsaia, Piscitano Francesco, Nese Rosa, e Strommillo Giuseppe a Gorga; Tripodi Nicola a Castelruggiero; Vincenzo Guariglia, Antonio e Francescantonio Mazziotti, Antonio Rispoli e Pasquale, Giuseppe e Saverio Pignataro a Celso.
Intanto preparavasi la rivoluzione da parte della congiura, tanto che vennero a Salerno Michelangelo Granito e Carmine de Vita, per avere delle istruzioni dai capi, intorno al modo da seguire; ma essendo questi oltremodo sorvegliati, specialmente l’Avossa, a cui la polizia aveva messo alle calcagna un Raimondo Sampietro, capitano di fanteria, destituito per causa politica, che si era fatto sedurre per fare la spia; non potettero parlare con altri che con Giovanni Bottiglieri, il quale li esortò a perseverare nell'idea della riscossa, ma che pel momento non si movessero, stante le cattive nuove che aveansi del principe Carlo.
Reduci nei loro paesi i due cospiratori ebbero lunghi e frequenti colloqui coi loro compagni e finalmente in una riunione tenuta a Sessa Cilento presso i fratelli Gennaro, Gerardo e Raffaele Coccoli deliberarono rimandarsi a momento più opportuno il designato movimento.
Trascorsero alcuni mesi e la cospirazione diveniva sempre più numerosa e a tal uopo si occupavano a tutt'uomo Giancamillo Verta, Nicola Cembalo, Gaetano Maselli e Angelo Vasatur o ; i quali senza gran concorso di gente e vane formalità, non avendo la setta determinazione fissa di luogo, di giorni e di ora; eglino ovunque trovavansi in campagna, nei casini, nelle cantine, nelle case private, affiliavano persone, e loro assicuravano essere imminente nel regno la venuta di francesi e spagnuoli per porsi a capo della rivoluzione.
Intanto uno dei complici per paura si tradì e nella notte del 7 agosto, quasi tutti furono arrestati nei loro paesi. Trasportati a Salerno e gittati nella carcere di S. Antonio, dopo parecchi mesi di prigionia furono amnistiati e tornarono alle loro case.
Dopo qualche tempo un’altra congiura cominciava a radicarsi promossa, da Giambattista, Carlo e Francesco Forziati, Francesco e Giovanni de Angelis, Pepe Nicola, Coppola Fedele, Nicoletti Belisario, Costatole Acquaviva, Giuseppe Gorga, di Angelo, e Pasquale de Lilla, di Castella b ate; Guglielmini Luigi, di Perdifumo, Granito Michelangelo, di Rocca Cilento; Papa Luigi, di Guarrazzano e Cona Vincenzo, di Porcili; alla quale dettero il nome di Fratellanza » (1) ed era in corrispondenza coi ribelli d’Imola.
La Giovane Italia, ideata nel castello di Savona nel 1831, da quel grande che fu Giuseppe Mazzini, mercé le formole: Dio e Popolo e Libertà, Uguaglianza e Fratellanza; in breve tempo divenne num e rosissima nelle province settentrionali d’Italia e nel 1841 anche nelle meridionali, stendeva ovunque le sue fila e molte è autorevoli individualità della provincia di Salerno, già appartenenti alla Carboneria vi si aggregarono.
A Salerno, capoluogo, era diretta da Giovanni e Saverio Avossa, e vi appartenevano: Giovanni Bottiglieri, Costabile Carducci, Federico della Monica, Matteo de Vicariis, Raffaele Morese, Raffaele Rinaldi, Giovanni C entola, Francesco Gerenza, Pasquale Taddeo, Gaetano, Francesco e Pietro del Mercato, Carlo Alfieri, Carmine Ruotolo, Francesco e Achille Mezzacapo, Nicola d’Auria, Gaetano Macinante, Mattia Murino, G iacinto Maglietta, Raffaele Carelli, Matteo e Giovanni Luciani, Carlo e Giuseppe Bellotti, Errico Mambrini, Lanzilli Antoniomaria, Giardini Domenico, Donato de Maio, Cesare Bassi, Pacifico Giuseppe, Positano Rocco, Coppola Vincenzo, Alemagna Lorenzo, Ferretti Nicola e Naddei Raffaele, i quali per dirarmarla in tutta la provincia vennero subito in relazione con Bandinelli Gaetano e Rondinelli Giovanni, di Campagna; Freda Francesco, di Ricigliano; Antico Carmine e Vitolo Pietro e Gabriele, a Roccadaspide; Callotti Giovanni, di Sapri, Michelangelo Ronzini, arciprete, di Rofrano, Riccio Giambattista, Patella Filippo e Pavone Carlo, di Torchiara; Ovidio Senno, sacerdote, di Sanseverino; Magnoni Lucio, Salvatore e Michele e coi fratelli Verdoliva a Rotino; Emanuele Giordano, di Lustra; Pessolani Giuseppemaria, di Atena; de Petrinis Giuseppe e Girolamo, di Sala Consilina; Ferrara Giuseppe, di S. Biase; Vinciprova Leonino e Raffaele, di Omignano; Mazziotti Francescantonio, di Celso; Della Cortiglia Giuseppe, e Forziati Giambattista, di Castellabate; Del Mastro Francescopaolo, di Ortodonico; Del Mercato Ernesto, di Laureano; Michelangelo Granito, di Rocca Cilento; d’Aiutalo Giuseppe, di Montecorvino; La Bruna Ferdinando, di Novi Velia; Abbamonte Orazio, di S a lvitelle; Candia Ermiele, di Diano e Coppetta Francescosaverio, di Montecorvino; i quali tutti cospiravano per ottenere più umano governo; e sebbene non ci fosse stata rivoluzione, pure le condanne orribilissime per cospirazione non mancarono.
Il potere militare aveva evocato a se tutti i giudizi per reità di stato e precisamente quelli per coloro che avevano appartenuto o appartenevano alla Giovane Italia.
Nelle Romagne e nelle Calabrie insorsero alcune bande armate e ben presto furono represse. Ciò animò moltissimo i due giovani fratelli Bandiera, veneziani, ufficiali nella r. i. marina Austriaca, i quali sin dal 1842, erano in corrispondenza col Mazzini; al quale scrissero voler eglino ad ogni costo tentare uno sbarco nelle Calabrie, ove gli animi erano ancora eccitati dall’ultima sommossa repressa, pronti a ritentare la prova. Nella stessa guisa scrissero pure a Nicola Fabrizi e a Giuseppe Ricciardi e tutti li dissuasero; ma eglino nel 12 giugno 1844, da Corfù s’imbarcano, salpano per le Calabrie e nel 16 vi approdano. Presero pei boschi e i monti di quella contrada per arrivare a Cosenza, liberarvi i prigionieri, riunirsi alle bande di insorti che credevano corressero quei paesi, e far sommuovere il regno. Traditi da un Boccheciampe, corso, nelle vicinanze di S. Giovanni in Fiore, avviluppati da un battaglione di cacciatori, venuti da Cosenza, non potendo districarsene, vennero alle armi, in cui Attilio si ebbe il cappello forato da una palla, Emilio nel saltare un fosso si slogò un braccio, uno dei loro compagni rimase ucciso e vari feriti.
Fatti prigionieri e tradotti a Cosenza nel 25 luglio, un Consiglio di Guerra li dannò a morte e furono ivi fucilati. La confraternita della buona morte ne raccolse i cadaveri e pietosamente li seppellì. La polizia allora cominciò a perseguitare ed imprigionare chiunque le fosse sospetto; perloché vennero prima arrestati e poscia sottoposti a sorveglianza speciale; Pecori Luigi, di Serre, domiciliato a Salerno, legale, Botta Amato, di Giffoni, impiegato alla regia dei tabacchi; Petrone Giovannàdrea, di Penta; Gagliardi Gennaro, di Bella; Liguori Luigi, di Salerno; Mottola Sabbato, di Monteforte; Barone Lodovico, di Capriglia; Rosa Raffaele, Gargano Antonio, Giordano Giuseppe, fu Gaetano, Avossa Antonio, fu Francesco, Marchesano Matteo e Catalano Gaetano, di Salerno; Anastasio Tobia, di Cetara; Menafra Michele, di Sala Consilina; Ferri Gaetano, farmacista, di Sicignano; Mangeri Nicola, di S. Pietro al Tanagro; Marmo Emiddio, di S. Rufo, e Avenia Rosario, di Monte Cicerale.
Volsero cosi le cose sino all'anno 1846; allorché nel primo giugno la morte venne a colpire il vecchio pontefice Gregorio XVI; e le Romagne, che egli aveva. tanto barbaramente tiranneggiate, a tale annunzio gioirono; ma i cuori palpitarono per la nomina del successore, che per caso non dovesse cadere sopra, altri, ancora più perverso e crudele.
Nel 14, i cardinali si riunirono in conclave e discordi nella scelta del nuovo papa, si ripetettero lei votazioni per quattro volte, che durarono due intere giornate, alla fine nel 16, fu proclamato, quando egli stesso era lontano dal crederlo, Giammaria Mastai, Ferretti, che assunse il nome di Pio IX.
Il capo della Cristianità nel principio del suo pontificato procedette a grandi e mirabili cose, fece cessare, le Inquisizioni politiche, fissò un giorno della settimana per pubbliche udienze e infine pubblicò un editto col quale concedeva amnistia generale ai condannati, fuorusciti ed inquisiti politici, e condonò puranco il resto della pena ai rei di fellonia. Tali atti furono, causa d’immenso giubilo nel popolo, che ben presto si mutò in entusiasmo, allorché vide il pontefice fatto, segno ai congratulamenti di tutte le corti Estere.; non escluso Luigi Filippo di Francia, che a rendergli, omaggio v'inviò il principe di Joinville e il Sultano stesso, che commosso a tanta liberalità, spedì Cheichkr Effendi a rallegrarsi con lui e a fargli fare la so lenne promessa di proteggere e agevolare i cristiani del suo impero.
Un moto meraviglioso di qui si propagò in tutti gli stati italiani. Da per ogni dove inni, feste, ovazioni al nome del nuovo capo della chiesa e il granduca di Toscana ne seguì subito l’esempio, ma i governi di Modena, Parma, del Lombardo-Veneto, del Piemonte e di Napoli resistettero allo spirito riformatore.
Il 12 gennaio 1848, Palermo e con essa l’intera Sicilia, dopo aver per molto tempo attese le desiate libertà, si solleva, dà di piglio alle armi, scacciale regie truppe, le quali si ritirano nella cittadella di Messina, difesa dal mare, e proclama l'indipendenza assoluta dell’isola da Napoli, e la costituzione del 1812.
A reprimere quel moto si prescelse il conte d’Aquila, fratello del re, il quale salpa da Napoli con cinque fregate e quattro corvette ai suoi ordini, e su cui erano già stati imbarcati sei battaglioni di cacciatori, due di pionieri, uno dell’ottavo di linea. e sufficiente artiglieria, sotto il comando del generale De Sauget.
Il giorno 17 il Conte d’Aquila a bordo della fregata Borbone, ritorna dalla Sicilia portatore di cattive nuove della insurrezione e propone al re di adottare alcune riforme necessarie per disarmare in certa guisa i rivoltosi, che erano a tutto preparati.
Intanto il Comitato rivoluzionario Palermitano, che da parecchio tempo era in relazione con quello di Napoli, e di altri paesi, inviò nel continente il siracusano Antonio Le y p n eker, il quale giunse nella capitale la sera del 13, ricevuto da una commissione di cilentani composta di Leonino Vinciprova e Fiorigi Vasaturo, di Omignano; Antonio Guglielmotti e Filadelfo Sodano, di Celso; Carlo Bellotti di S. Giovanni a Piro, ed altri. La sera del 14 furono a Salerno presso Giuseppe Catarina, liberato dal carcere nel 1844: in cui fu visitato dai capi del partito d’azione: Costabile Carducci, Giovanni Centola, Raffaele Morose, i fratelli Luciani, Federico della Monica, Carmine Ruotalo, Enrico Mambrini, Gaetano del Mercato, e tutti furono d’accordo intorno alla necessità della sollevazione della provincia; e incontanente si spedirono persone in molti paesi ad avvertire i compagni della deliberazione presa.
La sera del 15, Le y p n eker e Carducci, seguiti da pochi altri partono pel Cilento e a Rutino s’intesero con Angelo e Carlo Pavone di Torchiara, Salvatore Magnoni e Giuseppe Verdoliva, e questi autorevoli com’erano chiamarono a raccolta gli amici e formarono campo ad Ogliastro; mentre Carducci e Leypneker passarono a Celso dal barone Francescantonio Mazziotti, che li accolse con gran distinzione.
Il 17 gennaio, insorge il Cilento al grido di Viva Pio IX; Viva la Costituzione, ed in breve la rivolta prese vaste proporzioni.
Ferdinando che erasi mostrato avverso ai suggerimenti del fratello, vedendo che un’altra parte del suo regno aveva seguito l’esempio dei Siciliani, senza frapporre indugio, richiama dal direttore di polizia l’elenco dei condannati politici e concede loro la grazia. Abolisce il ministero di polizia, come quello che era pii inviso al popolo, lo aggrega a quello dell’interno e ordina la revisione della stampa.
L’insurrezione cilentana ingigantiva sempre più e fu allora che Ferdinando adunò presso di sé i ministri e altre persone più autorevoli, tra cui il Filangieri e lo Statella, e inteso il loro parere chiede le dimissioni del gabinetto presieduto dal Pietracatella e nomina il nuovo cosi composto:
Il duca di Serracapriola, Nicola Donnarosa Maresca, presidente dei ministri e dicastero degli affari esteri.
Cesidio Bonanni, Grazia e Giustizia e Culto.
Il principe Dentice alle Finanze.
Il principe di Torcila ai Lavori pubblici.
Gaetano Scovazzo Agricoltura, Industria e Commercio.:
Carlo F anciulli agli Interni.
La mattina del 28 gennaio oltre quattrocento giovani spinti da Francescopaolo Bozzelli, percorsero le principali vie di Napoli acclamando al Papa, alla Costituzione, a Gioberti, e il Cianciulii, credendo che essi volessero arrecare offesa al re, fece circondare la regia d’imponente corpo di truppe, ordinò numerose pattuglie perché perlustrassero la città, in segno di ostilità contro il popolo fece innalzare sulle castella bandiera-rossa e la sera depose la sua dimissione nelle mani del re, che subito l’accettò e nominò il promotore del movimento popolare, il Bozzelli, in suo luogo, incaricandolo di redigere uno: Schema di statuto, che nel mattino vegnente l’annunciò ai cittadini col seguente proclama:
«Avendo inteso il voto generale dei nostri ama t issimi sudditi di avere delle guarentigie e delle 'istituzioni conforme all’attuale incivilimento, dichiariamo di esser Nostra volontà di condiscendere ai desideri manifestatici, concedendo una costituzione e perciò abbiamo incaricato il Nostro nuovo ministro di Stato di presentarci, non più tardi di dieci giorni, un progetto, per esser da noi approvato sulle seguenti base.
«Il potere legislativo sarà esercitato da Noi e da due Camere, l’una di Pari, e l’altra di Deputati; la prima sarà composta d’individui da noi nominati, la seconda sarà di deputati da scegliersi dal popolo sulle basi di un censo che verrà fissato;
«L’unica religione dominante nello Stato è la Religione Cattolica Apostolica Romana, e non vi sarà tolleranza di altri culti.
«La persona del Re sarà sempre sacra, inviolabile e non soggetta a responsabilità di tutti gli atti del governo.
«La forza di terra e di mar e saranno sempre dipendenti dal Re.
«La Guardia Nazionale sarà organizzata in modo uniforme in tutto il Regno, analogamente a quella della Capitale.
«La stampa sarà libera e soggetta solo ad una legge repressiva per tutto ciò che può offendere la Religione, la morale, l'ordine pubblico, la famiglia Reale, i Sovrani esteri, e l'onore e gli interessi dei particolari.
«Facciamo noto al pubblico questa nostra Sovrana e libera risoluzione e confidiamo nella lealtà e rettitudine dei Nostri popoli; per veder mantenuto( ) l’ordine e il rispetto dovuto alle leggi e alle autorità costituite.»
La pubblicazione di questo manifesto fu accolto ovunque da strepitosi applausi. Il popolo esultante, ornato di coccarde dai tre colori italiani, percorse le vie gridando: Viva il Papa, la Costituzione, l'Italia, Palermo, il Re e queste grida divenivano ancora più solenni allorché su qualche verone vedevansi esposte l’effigie del Pontefice e del Re.
L’istesso giorno Ferdinando verso il meriggio, circondato dai fratelli e seguito da molti generali ed uffiziali del suo stato maggiore, con fasce tricolori ad armacollo, usci a cavallo e fu accolto dalla tripudiante moltitudine con applausi indicibili, e fu ancora maggiormente fatto segno ad ovazioni la sera, che comparve con la regina in un palchetto del teatro S. Carlo.
Salerno, ignara di quanto a Napoli era avvenuto, trepidante aspettava le notizie della rivoluzione cilentana; quando nelle ore pomeridiane del medesimo giorno 29, arriva da Napoli tal Salvatore de Cesare, soprannominato il Siciliano, con la coccarda tricolore al cappello gridando: Viva la Costituzione. Una folla immensa gli si fece dattorno chiedendogli il motivo di quella, che ad essa pareva stranezza; ed egli subito a raccontare quanto nella capitale era avvenuto. In un baleno s’improvvisa una imponente dimostrazione al grido di: Viva Pio IX, il Re, la Costituzione e percorse la strada interna della città salutata da tutti. Prese per la marina, e pervenuta al palazzo Medici, ove avevano stanza i dragoni, questi uscirono di galoppo con le sciabole sguainate, caricarono la folla che impaurita davanti a loro fuggiva ferendone alcuni tra cui gravamento il professore di Diritto Francesco Romano e Michele Pironti. L’indomani pubblicatosi il manifesto reale, il popolo che nella lietezza e nella generosità è uso dimenticare i torti ricevuti, alle insistenti parole di pace, suggeritegli da coloro cui aveva imparato a stimare, non tardò a cedere agli impulsi del cuore e fraternamente strinse la mano di coloro che i giorni {recedenti l’aveva frustato, insultato, deriso; e in un anchetto tenuto, gli abbracciamenti e le lagrime d’affetto versate, furono suggello dell’amistà, che sempre avrebbe dovuto durare tra esso e l’esercito.
L’insurrezione cilentana durò ancora qualche tempo e si propagò in diversi paesi e sino a che non ri venne e conoscenza delle cose avvenute; non restando altro ricordo che l’errore di aver versato il sangue di due individui, del barone Andrea Marasca, ad Ascea, e di Costabile Rizzo, a Gioì, creduti delatori degli autori del movimento rivoluzionario del 1828; che d’ordine del Carducci vennero fucilati davanti le loro case; adibendosi per tale triste ufficio: De Mattia Luigi, De Sevo Luigi, Palladino Antonio, Raimo Filippo, Passano Giovanni e Gervasio, Pepe Francesco e Vincenzo, di Vallo della Lucania; Marino Pasquale, De Vita Francesco e Principe Francescosaverio di Laureane; Taddeo Francesco e Domenico e Agreste Angelo di Matonti e Fatti Nicolantonio di Ceraso.
Il 1 .° febbraio con un decreto, re Ferdinando amnistia tutti i condannati, imputati o che lo potevano essere in materia politica pei fatti avvenuti dal 1830 sino a quel giorno, sia che dimorassero nel regno o all’estero:
Il Bozzelli compilata la Costituzione, il re la promulgò e fa cagione di nuove e più strepitose dimostrazioni di gioia che durarono parecchi giorni.
Il giorno 8, il Re nomina a Intendente della provincia di Salerno Aurelio Saliceti, uomo a tutti caro, e nel prender possesso nel giorno 14 con un manifesto cosi si rivolge al popolo:
« Cittadini! «La nostra politica rigenerazione è compiuta. Iniziava l a il terzo Carlo, il quale come Q. T. Flaminio in Grecia venne a pugnare tra noi per cacciare e rilevare l’elemento nazionale. Ma non basta un uomo solo, né un età sola a rinnovellare un popolo. Quel possente legava alla sua discendenza il difficile e santo incarico di condurre a fine l'opera immensa.
«É cotest’opera è già assoluta. L’eroico Ferdinando II recava in atto il decreto divino della libertà del popolo.
«In simil guisa il Dio degli eserciti commetteva a Davide di disperdere Filiate e dar fermo stato al popolo d’Israele, ma serbava nella sua stirpe la gloria di edificare il tempio. Il nostro tempio è edificato, desso è la Costituzione e Ferdinando II è il nostro Salomone.
«Cittadini!»
«Non vi dirò ciò che dobbiate al magnanimo principe. So bene non essere la riconoscenza l’ultima delle vostre virtù, esser dessa per voi prepotente bisogno del cuore. Ricordate però che quando l’inclito Monarca sali sul trono, le sue prime parole furono: che tutti fossero eguali innanzi alla legge.
«Giudicate voi se egli abbia saputo svolgere il domma dell'uguaglianza, che si solennemente professava.
«Neppure diro vv i che libertà incarnasi nella giustizia, che l’osservanza delle leggi è il miglior culto da rendersi a cotesta diva de ll’incivilimento, che le proprietà debbono essere rispettate, ed inviolabile sia la persona. Ninno tra voi, che sì addentro sentite dei diritti dell’uomo, ha potuto giammai ignorare cose siffatte.
«Solo vi esorto a fare sull’ara della patria il nobile sagrifizio di ogni vostro risentimento ed a consegnare il passato all’oblio; poiché quanto avvenne fu sciagura di famiglia, e le sciagure domestiche non vogliono essere ricordate. Serriamoci intorno al trono del Re Costituzionale, stretti, uniti e compatti. Forti per unanime sentimento ed in el inabile per fermo volere dobbiamo avere un sol grido ed un sol colore. L’unione forma le masse e la divisione gli atomi, ma le masse stan salde, mentre basta un soffio a sperdere gli atomi.
«Cittadini, il mio venire tra voi vi annunzia solo che un nuovo fratello si aggiunge alla vostra famiglia.»
La sera in una numerosa riunione di quasi tutti i capi del partito liberale, presieduta da Giovanni Centola, dopo che tra vivissimi applausi si ebbe letto tal indirizzo, si dette incarico a Carmine Ruotalo di redigere una adeguata risposta, e questi nella tornata seguente, dopo di aver ringraziato per aver prescelto ad un tanto onore, lui di un estremo lembo della provincia, legge tra la comune attenzione il seguente indirizzo:
«Intendente! .
«Voi ci chiamaste cittadini e noi liberi come siamo e superbi di tanto nome, alla Patria, alla Nazione, al Re, all’Italia votiamo il nostro braccio, il desiderio, le speranze: in questo momento quanto vi ha in noi di più generoso, di più robusto lo depositiamo nelle vostre mani, perché al Sovrano Rigeneratore in nostro nome l'offeriate. Voi direte a lui che oltre mezzo milione di uomini è una famiglia sola,' ha un solo pensiero, una sola volontà: a Lui direte che tutti i cuori di questa provincia palpitano di un solo amore, di un indiviso senti mento di riconoscenza. A lui direte che è il nostro Benefattore, poiché figliuoli di un sol riscatto, dal suo fiat la fausta rigenerazione abbiamo ottenuta.
«Voi ci appellaste fratelli, e noi tutti ad una voce vi salutiamo nostro padre. Deh! vogliate tutti amarci col medesimo paterno amore. Vi rallegrino le nostre gioie, vi contristi il nostro dolore. Udite le nostre preghiere, ascoltate i nostri bisogni.
«Voi accennaste in quel vostro amorevole editto il tempio e Salamone; ed ahi! nostro infortunio non possiamo mostrarvi che sepolcreti, ossa e ruine! Ai tempi passati il longanime Sovrano edificava ed i traditori del popolo e del trono spianavano. Inviato voi in questa provincia gettate subito le fondamenta del tempio novello, né vi arrestate; elevatelo, finitelo, il tempio ed abbiatevi la gloria che i cittadini ed i fratelli sulla maggior fronte di loro mano incidano il vostro nome.
«A questa terra sanguinante di antiche piaghe, apportate balsamo di salute, a questo suolo glorioso dei Procida, ridonate lo splendore, al popolo che muore tra stagni e maremme, porgete un conforte, ridate loro la vita che è spiracelo di Dio; ai nostri municipi manomessi da una matta amministrazione, soccorrete di pronto ed efficace ringiovanimento; alla Guardia Nazionale, baluardo delle nostre istituzioni date sollecito e vigoroso ordinamento; e nel farlo intendete a coloro che come primi agognarono a libertà saranno ultimi a disertarla; a questo ferace terreno dell'ingegno, cui il Re ha largito il pensiero e la libertà, voi date protezione e difesa.
«Sperdete i reprobi, fugate i nemici, confondete. gli oppressori, ché essi non sono i nostri fratelli, ed a noi che li abbracciammo più volte, offrirono il premio, che il nefando primo nato d’Adamo offri al fratello.
«Questo popolo non ha risentimenti: generoso ha perdonato le ingiurie: ha cancellato dalla sua me moria le infamie. Ora però nella rettitudine e nella moderazione vi domanda i suoi diritti e vi chiede la giustizia da tanti anni desiderata ed invano. Deh! fate che il volere di un Re Costituzionale sia compiuto e che i spergiuri della causa del Re e del popolo non sperdano un bene largitoci nell’invocato Santissimo e temuto Nome di Dio.
«Questo popolo alla vostra fede ora tutto commette ed in voi riposa. Voi uomo di profonda dottrina, d’immenso sapere civile, di sensi liberi e leali, ascoltatelo per Dio!
« O voi sarete certo l’accetto messaggio del Signore! Voi benediranno questo mare e questa cerchia di montagne, voi loderanno gli avvenire e nell’amore del Re e dei cittadini e fratelli voi mette r ete le più profonde radici.
«Salerno 15 febbraio 1848.»
Intanto il 24 febbraio, il re con solenne pompa, accompagnato dalla famiglia e da numeroso seguito, si conduce nella chiesa di S. Francesco di Paola, messa davanti la regia, e giura la costituzione. In un attimo la nuova si sparse per la città e il popolo inebbriato dalla gioia, pieno di entusiasmo si abbandonò ad ogni specie di allegrezza.
Nelle province immenso fu il giubilo: luminarie, sollazzi, gazzarre, cuccagne, fuochi di gioia, ovunque banchetti festeggiarono quel giorno di rigenerazione.
La rivoluzione di Vienna, che produsse quella di Milano e le sue gloriose cinque giornate, in cui furono fugati gli Austriaci; la rivoluzione di Venezia; i moti della Toscana; la dichiarazione di guerra fatta da Carlo Alberto all’Austria; la partenza delle truppe e dei volontari dalle Romagne e da altre contrade, recarono grande commozione nell'animo dei napoletani, che diffidando sempre dei giuramenti del Borbone, s’abbandonavano a continue dimostrazioni, in cui gridavasi sempre guerra all’Austria.
La sera del 24 marzo una folla immensa si condusse al palazzo della legazione austriaca e stacca tono lo stemma ne fece scempio. Parecchie sere si rinnovarono tali scene, insino a che una commissione recatasi dal re e fattogli presente il volere degli assembrati, questi rispose: Guerra volere anch’egli, e risoluta, e gagliarda.
B 25 marzo, la Guardia Nazionale di Salerno, pressocché in 800 persone, schierati lungo la strada Marina, giurò fedeltà al re ed alla Costituzione; e dopo di aver visitata la tomba di Saverio Avossa, il comandante Giovanni Avossa si rivolse loro col seguente ordine del giorno:
«Guardie Nazionali di Salerno»
«Dopo l’augusta cerimonia del giuramento da noi questa mattina prestato innanzi a Dio, d’esser liberi e costituzionali, o di morire; dopo quel tributo d’onore che voi rendeste all’avello di un vostro concittadino, a cui furono i fati sì avversi, anzi crudeli; mi ribolliva tutto il sangue dal desiderio di rendervi col vivo della voce grazie vivissime, sì pel contegno mirabile e longanime che mostraste in tutto il tempo che steste in armi, e sì della prova d’amore che a me particolarmente deste. Ma voi che sapete quale accidente mi abbia rapita la dolcezza di ciò fare, aggradirete per i scritto i sensi della mia gratitudine e del cuor mio. Che io non mi lodassi veracemente di voi per quello che avete fatto, e quello che fate sperare; che io non sentissi in questo giorno solenne una emozione grandissima a vedermi Capo, o a dir meglio primogenito amorosissimo di cittadini interessanti e si generosi; sarebbe stata cosa per me non ché brutta ed inonesta, ma dolorosissima, a voi un ingiuria. Ai quali favellando voglio pur dare un ricordo di riconciliazione e di pace.
«Rimembrivi che le Guardie Nazionali sono il palladio della libertà e della Costituzione: rimembrivi però ancora che voi non potrete adempiere l’alto vostro mandato se non a patto di rivelarvi fautori sincerissimi di quei due principi costituzionali, che accennano alla legalità ed all’unione, all’unione siccome guarentigia di forza, alla legalità siccome guarentigia di ordine; all’una e all’altra siccome a promessa, anzi pegno e certezza di fraternità e d’amore. «Son queste, o inclite Guardie Nazionali, le condizioni e il debito dei dati giuramenti.
«C h e ratto Iddio saetti una folgore sul capo del primo spergiuratore.
«Viva la Costituzione: Viva il Re.
« Il comandante delle Guardie Nazionali
« Giovanni d’Avossa»
L’indomani il ministero si dimise e nel 29 marzo, reduce il generale Pepe dall'esilio, che ovunque sul suo passaggio aveva raccolto ovazioni, il Borbone con grandi infingimenti, lo incaricò di comporre il nuovo ministero. Prescelse i compagni il Pepe, tra cui il Saliceti, il Conforti, il Poerio e il Dragonetti, ed espose il programma che il nuovo consiglio dei ministri avrebbe seguito. In esso proponevasi: la riforma delle antiche e recenti leggi in senso più liberale; far partire tutte le truppe di linea alla volta di Lombardia, ove il re Carlo Alberto di Savoia combatteva l’Austria; lasciando la custodia delle fortezze alla Guardia Nazionale, e il suffragio universale. Il re non volle accettarlo e dopo non poche prattiche il ministero si compose di Carlo Trova, presidente del consiglio dei ministri—Dragonetti agli affari esteri — Ferretti alle finanze—Del Giudice, alla guerra —Vignale, grazia e giustizia — Degli liberti, ai lavori pubblici e Avossa, all'interno, il quale per la malferma salute non potette accettare e in sua vece fu nominato Raffaele Conforti.
Nell'istesso giorno il nuovo ministero espose il suo programma, che tra le altre cose conteneva: la riforma della legge elettorale, la facoltà data ai deputati di rivedere, svolgere e modificare lo statuto d’accordo col Re, e la cooperazione alla guerra Italiana.
Nel 29 marzo assoldati dalla principessa Cristina, Trivulzi-Pallavicino, oltre duecento volontari partirono alla volta di Lombardia; e il Borbone vedendo saltato lo spirito pubblico, pensò esser venuto il momento di sbarazzarsi della gioventù bollente ed entusiasta, ed inviò poche sue truppe in Lombardia, quindi nel 7 aprile emana il seguente proclama:
«Amatissimi popoli
«Il vostro re divide con voi quel vivo interesse che la causa italiana desta in tutti gli animi, ed è però deliberato a contribuire alla sua salvezza e vittoria con tutte le forze materiali che la nostra particolare posizione in una parte del Regno ne lascia disponibili. Benché non ancora formata con certi ed invariabili patti, noi consideriamo come esistente di fatto la lega italiana, dacché l’universale consenso dei principi e dei popoli della peni sola ce la fa riguardare come già conchiusa, essendo prossimo a riunirsi in Roma il congresso che noi fummo i primi a proporre, e siamo per essere i primi a mandarvi i rappresentanti di questa parte della gran famiglia italiana. Già per noi . si è fatta una spedizione di truppe per via di mare e già ima divisione é messa in movimento lungo la marina dell'Adriatico per operare di concerto con l’Esercito dell’Italia centrale.
«Le sorti della comune patria vanno a decidersi nei piani di Lombardia, ed ogni principe e popolo della penisola è in debito di accorrere e prender parte alla lotta che ne dee assicurare l'indipendenza, la libertà, la gloria. Noi benché premuti da altre particolari necessità che tengono occupata una bella parte del nostro esercito, intendiamo con corrervi con tutte le nostre forze di terra e di mare, coi nostri arsenali e coi tesori della Nazione. I nostri fratelli ci attendono sul campo dell’onore e noi non mancheremo là ove si avrà a combattere pel grande interesse della Nazionalità Italiana.
«Popoli delle due Sicilie!
«Stringetevi intorno al vostro principe. Restiamo uniti per esser forti e temuti, e prepariamoci alla pugna con la calma che nasce dal sentimento della forza e del coraggio. Confidiamo nel valore dell’esercito per aver quella parte nella magnanima impresa che si avviene al maggior principato della penisola. Per ispiegar tutto il vigore al di fuori, abbiamo bisogno di concordia e di pace nell'interno, e noi contiamo nell’ottimo spirito della nostra bella G. N. e sull'amore del nostro popolo per la conservazione dell’ordine e l’osservanza delle leggi, come esso dovrà contare sempre sulla nostra lealtà e sul nostro amore alle libere istituzioni che abbiamo solennemente giurate e che intendiamo di mantenere a costo di ogni maggior sacrificio.
«Unione, abnegazione e fermezza e la indipendenza della nostra bellissima Italia sarà conseguita. Questo sia l’unico pensiero, una si generosa passione faccia tacere tutte le altre men nobili; e ventiquattro milioni di Italiani di certo avranno una patria potente, un comune e ricchissimo patrimonio di gloria ed una Nazionalità rispettata, che peserà molto nelle politiche bilance del mondo.
«Ferdinando»
Il 13 aprile, per decreto del 29 marzo si riunirono i comizi per la elezione dei deputati al Parlamento e la provincia di Salerno fece cadere la scelta sopra Giovanni Avossa, Giovanni Centola, Costabile Carducci, Domenico Giannattasio, Gennaro Bellelli, Giosuè Sangiovanni, Francescantonio Mazziotti, Raffaele Conforti, Giovannangelo Positano, Ulisse de Dominicis, Michele Pironti, Filippo Abbignenti e Giambattista Bottiglieri.
Nei primi giorni di maggio partirono alla volta della Lombardia 14000 uomini, e tra questi non pochi volontari della provincia di Salerno, fra i quali Giuseppe d’Andrea, Raffaele Cavallo, De Ruggiero, Nacchia, Barrella, Mottola, Alfonso Manzo, che mori in difesa di Malghera; e Tommaso Bisogni, che peri a Venezia; con due batterie da campagna e sufficiente cavalleria; sotto il comando del generale Guglielmo Pepe.
Anche una parte della flotta comandata dall'ammiraglio de Cosa parti per l’Adriatico acciò unirsi alla squadra Sardo-Veneta e agire di concerto.
L’enciclica del 29 aprile, con la quale Pio IX, vista la buona piega che pigliava la guerra combattuta da Carlo Alberto contro l’Austria, apertamente dichiarava di non volervi contribuire, i tumulti che per essa ne seguirono; la venuta di Gioberti a Roma, spinsero lo sleale Ferdinando ad abbandonare la via delle riforme per riprendere quella della reazione.
Alcuni giorni prima del 15 maggio, decretato per l’apertura del Parlamento napoletano; cominciò a vociferarsi che il re abborrente la costituzione, avrebbe fatto di tutto per distruggerla, e che insieme ai suoi sgherri con ogni sorta di trame e di perfidi tradimenti preparava la controrivoluzione.
I sinceri amici di libertà, che conoscevano quanto potevano fidare sui giuramenti di un Borbone, corsero per le province aizzando il popolo e la Guardia Nazionale a tenersi pronta alle armi per qualunque evenienza e di accorrere a sostenere e garantire la vita dei loro reali rappresentanti, qualora venissero conculcati i decreti che legalmente riuniti erano per emanare.
Costabile Carducci, uno dei deputati di Salerno, il 13 maggio, da Napoli, ove si era condotto per assistere all'apertura della sessione, si conduce nel suo collegio e d’accordo con Enrico Mambrini, che nella sua qualità di segretario capo dell'intendente, per la sua assenza ne faceva le funzioni, convoca gli amici, fa loro presente la triste situazione e il fermento che da più giorni era nella capitale, e li esorta a non abbandonare le armi. Nel tempo istesso manda pel tipografo Migliaccio, il quale alla presenza del Mambrmi dovette accettare di stampare la seguente circolare:
«Cittadini!
«Voci allarmanti, che mettono il sospetto negli animi di tutti i buoni patrioti, sonosi levate in tutto il regno. Fatti deplorabili sono avvenuti che raffermano i nostri sospetti. Si vorrebbe dai nemici di ogni libertà mettere in pericolo quelle franchigie che a noi davano antichi diritti e che furono col sangue nostro riconquistati. Or che aspettate voi? Che le infami catene del dispotismo allaccino nuovamente i nostri piedi? Che i nostri fratelli, che combattono per la Santa causa dell’Indipendenza siano da noi abbandonati e traditi? No, per Dio! Prendiamo nuovamente le armi, anziché patir tanta ingiuria e non per combattere, per minacciare, non per versare l’ultimo sangue, ma per difendere i nostri diritti; non per rendere malsicure le altrui proprietà, ma per farle vieppiù rispettare. Colle armi alla mano noi attenderemo che l’Assemblea Nazionale allarghi ed assodi le nostre istituzioni e proclami innanzi all’Europa la causa dell’Indipendenza Italiana; in esse son riposte le nostre speranze ed i nostri voti non falliranno per essa. Se i suoi decreti saranno cancellati, sapremo allora che fare dei nostri moschetti.»
Poche ore dopo questa circolare veniva spedita ai comandanti le compagnie della Guardia Nazionale di tutti i paesi della provincia, a mezzo del funzionante. da Intendente; e qualche, momento più tardi, essendosi sparsa la voce, dai nemici del Carducci, che ei tentava alla guerra civile; a smentirle inviò quest’altra circolare:
COMANDO GENERALE DELLA GUARDIA NAZIONALE DI Principato Ci teriore N. ° 16.
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Salerno 13 Maggio 1848 |
«So che molti abusando del mio nome e male interpretando le mie intenzioni ed i miei principi!,. si sono lasciati correre a biasimevoli evidenze. Io col carattere di colonnello della Guardia Nazionale di questa Provincia e per politiche prevegenze ho sempre raccomandato due cose; la prima che i patrioti senza macchia e tutte le Guardie Nazionali si tenessero vigili ed armati in qualunque perigliosa emergenza; sopra tutto per assicurare la di gnità e la maestà dei Decreti del Nazional Parlamento, la tutela dell’ordine sociale; la seconda che tale loro contegno non dovesse mai degenerare in ostilità contro lo leggi o contro la gerarchia,nà turale dei poteri. Le medesime cose mi fo adess o ad inculcare colla presente, della quale avranno bontà di assicurarmi pronta ricezione.
«Il Colonnello Comandante
«Cav. Costabile Carducci».
La dimane del 14 maggio 1848, Carducci parte per Napoli e spinge il comandante della Guardia Nazionale di Salerno, Giovanni Avossa, anch'egli deputato, a scrivere un ufficio a Raffaele Morese, delegandolo, quale capitano della prima compagnia, ad assumerne il comando in sua vece.
Non sì tosto il Morese ricevette la lettera, corre per consigli dal Mambrini, il quale gli impone di seguire l’ordine del suo superiore e gli consegna una lettera pel direttore delle privative, che lo autorizzava a rilevare quanta polvere fosse disponibile nei magazzini.
Il decurionato riunitosi la sera, presieduto da Donato de Maio, nella sua qualità di secondo eletto, autorizzò il Cassiere del comune a consegnare ai comandanti di compagnia della Guardia Nazionale, ducati centodieci, ritirandone analoga ricevuta.
Intanto, nel pomeriggio del 14 maggio, i deputati resenti in Napoli riunironsi in una Sala a Montoliveto, residenza del Municipio, sotto la presidenza de l l ’ arcidiacono Oagnazzi, per intendersi intorno alla form ola del giuramento, che il re avrebbe dovuto prestare. Dopo non breve discussione, essa finalmente venne approvata e rimessa al Ministero perché la sottoponesse all’approvazione del re.
Ferdinando la respinse e fece loro presentarne una che toglieva la facoltà che si concedeva al Parlamento, col decreto del 5 aprile, di rivedere lo Statuto; e implicitamente sanzionava la guerra contro la Sicilia.
I rappresentanti della Nazione unanimamente la respinsero e si risolvette spedire una deputazione ai ministri, i quali promisero di adoperarsi presso il re perché il loro giusto desiderio venisse soddisfatto.
Tutta la giornata passò in tali prattiche, sinché verso sera il Conforti condottosi a Monteoliveto lesse una nuova formola di giuramento, a cui trovaronsi nuove e più gravi difficoltà.
Tali notizie si divulgarono e produssero viva e profonda sensazione in tutti gli animi. Da ogni parte ved e vasi gente correre alle armi col proposito di proteggere i deputati tuttora riuniti in Monteoliveto, i quali in vista di tanto entusiasmo, a proposta di Ricciardi, deliberarono si confidassero le sorti della città al deputato generale Gabriele Pepe, col comando di tutte le milizie cittadine.
Era alta là notte, già cominciavano a sorgere barricate e alcuni battaglioni svizzeri e della guardia reale avevano circondato la regia; quando il re fatto chiamare il Presidente del Consiglio, Carlo Tro y a, pelle sue mani depose un decreto con altra formola di giuramento, da cui eransi eliminati i punti controversi, ed il Trova lieto di aver ottenuto quando il popolo e i suoi rappresentanti chiedevano, ne fece pervenire notizia a Monteoliveto, ove poi dai deputati ai redasse un avviso, col quale portavasi a conoscenza di tutti aver eglino ottenuto l’intento e invitavano i cittadini e la Guardia Nazionale, a far scomparire le barricate ed a far rientrare la città nella calma.
Il mattino del 15 maggio un’immensa folla si assiepò davanti il palazzo del Parlamento e sommesso dicevasi che il re indugiava ancora a firmare la costituzione.
Dalla regia partivano numerosi messaggi con ordini speciali pei comandanti delle truppe e delle fortezze e l’agitazione nel popolo crebbe a segno che a mezzogiorno tutti erano con le armi in pugno pronti alla mischia. Dalle vicinanze della chiesa di S. Ferdinando due sconosciuti tirarono sui soldati uccidendo un uffiziale, e fu questo il segnale della battaglia.
I colpi si succedettero ai colpi, un reggimento di granatieri carica il popolo e assedia il palazzo Gravina, men tre dalle fortezze la mitraglie fulminava la città. Ove più ferveva la mischia era nella via Toledo, a S. Ferdinando e a Santa Brigida, dalle cui case, terrazze, barricate, che vi si erano innalzate, veniva una vera tempesta di fucilate. Tre volte i soldati, il cui numero si era accresciuto de' lazzari, ai quali era state promesso il sacco della città, furono respinti, ma alla fine i liberali dopo sei lunghe ore di sforzi sovrannaturali e d’infiniti prodigi di valore dovettero cederei
Descrivere gli orrori e i delitti commessi in quella fatale giornata è pressoché impossibile: basti solo dire che dappertutto non fuvvi altro che strage, stupro e rapina da parte dei sostenitori del dispotismo, che sorpassarono in ferocia le sanguinarie orde del cardinale Ruffo.
Terminato il combattimento un capitano di gendarmeria entra in Monteoliveto ordinando ai deputati di sciogliersi, ma con fiero contegno il presidente Cagnazzi gli impone di uscire e i deputati presentì dopo aver nominato un Comitato di Salute Pubblici composto di Cagnazzi, Bellelli, Giardini, Lanza, Petruccelli e Zuppetta con l'assoluto potere di tutelare l’ordine e provvedere all’urgenza del momento per mezzo della Guardia Nazionale, d’accordo emanarono la seguente protesta:
«La Camera dei Deputati riunita nelle sue sedute preparat o rie in Monteoliveto, mentre era intenta ai suoi lavori e all'adempimento del suo mandato, vedendosi aggredita con inaudita infamia dalla violenza delle armi regie nelle persone inviolabili dei suoi componenti, nei quali è la sovrana rapprese n tanza della Nazione, protesta in faccia all’Italia, l’opera del cui provvidenziale risorgimento si vuol turbare coll’eccesso; in faccia a tutta l’Europa 4 civile, oggi rideste allo spirito di libertà, contro q ue st'atto di cieco, ed indiscutibile dispotismo, è dichiara che non sospende le sue sedute se non perché costretto dalla forza brutale.
«Ma lungi dall'abbandonare l’adempimento dei suoi solenni doveri, non fa che sciogliersi momentaneamente per riunirsi di nuovo dove e appena potrà, affin di prendere quelle deliberazioni, che sono reclamate dai diritti dei popoli, dalla gravità della situazione, e dai principi della conculcate umanità e dignità Nazionale.
Prevedendo il Carducci quanto era per avvenire, dopo quel che a Napoli si diceva, già aveva scritto ed inviato un messaggio al Morese cosi concepito:
«Il capitano comandante la Guardia Nazionale di Salerno con tutti i militi che sarà per riunire si porti in Napoli per difendere la patria.»
«Il Comandante
«Cav. Carducci»
In vista di questo nuovo ufficio il Morese torna dal Mambrini e questi riunito d’urgenza il consiglio di pubblica sicurezza di comune assenso deliberano:
«Che la metà della Guardia Nazionale restasse, incaricata di tutelare l'ordine pubblico nella città, secondo la santità del proprio istituto, provvedendo ed ispirando il sentimento della pubblica e privata sicurezza personale e reale. Che due compagnie di cacciatori di linea con numero competente di so l dati, rinforzasse la custodia esterna delle carceri d’accordo con la Guardia Nazionale che vi sarebbe. destinata».
Gaetano del Mercato che trovavasi di guardia in qualità di uffiziale, riunisce i suoi uomini e loro dice dell’accordo avvenuto.
Durante la notte un fermento indescrivibile eravi a Salerno. I comandanti tutti della Guardia Nazionale unitisi in consiglio, che durò sino alla mattina, decisero che il Morese, quale comandante incaricato, facesse noto ai colleghi dei paesi della provincia, quanto alla capitale era avvenuto e i invitasse a marciare sopra Napoli. Il Morese accetta l’incarico e così rivolgasi agli ufficiali tutti della milizia cittadina.
COMANDO GENERALE DELLA GUARDIA NAZIONALE DI Principato Ci teriore N. ° 18.
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Salerno 1 6 Maggio 1848 |
«Nel ricevere questa mia chiamerà sotto le armi l’intera sua compagnia e sceltone gli uomini car paci di partire li farà subito muovere per questa città acciò uniti agli altri possano marciare per la capitale ove i nostri fratelli si stanno battendo per la causa comune.
«Il Comandante incaricato
«Raffaele Morese»
Alle otto e mezzo antimeridiane poi telegrafa nei seguenti termini:
Deputato Carducci, Comandante la Guardia Nazionale di Principato Citeriore — Napoli:
«In giornata riceverà un rinforzo di diecimila uomini.»
Durava ancora il consiglio dei principali ufficiali della Guardia Nazionale e si deliberò far battere a raccolta e pubblicare il seguente manifesto:
«Alla Guardia Nazionale e ai Cittadini!
«Essendo la patria in pericolo e la Rappresentanza Nazionale minacciata, s’invit a no i cittadini e le Guardie Nazionali di marciare sopra Napoli ben provvedute d’armi e di munizioni.
«Raffaele Morose
«Santo Mercato
«Matteo Natella
« Achille Mezzacapo
« Matteo Giannone
« Gennaro Ferrara
«Federico della Monica
« Carlo Pascarella
« Giovanni Negri
«Alessandro Baccaro
«Michele Lauro Grotto
« Lorenzo Alemagna.»
Alle 9 e mezzo a. m. perviene da Napoli al Morose quest’altro telegramma del Ministro della guerra;
«L’ordine in Napoli è perfettamente ristabilito.»
Il consiglio degli ufficiali della Guardia Nazionale che non si era per anco sciolto deliberò presentarsi alle autorità della Gendarmeria Reale, chiederne il disarmo o per lo meno mettersi a loro disposizione per procedere d’accordo alla tutela dell'ordine pubblico. Cosi fecero e dopo di aver esposte le condizioni anormali in cui trovavasi il paese aggiunsero: che negandosi in nessun modo avrebbero risposto di quanto poteva avvenire e che si disponesse inoltre che i militi i quali partivano per Napoli nei diversi paesi che attraversavano venissero forniti di quanto loro abbisognasse.
Il maggiore di Gendarmeria G uantel e un ufficiale di linea sdegnosamente si opposero a tale proposta; ma non potettero non prendere la seguente deliberazione: «Il comandante le armi della provincia, mette a disposizione della Guardia Nazionale le due compagnie del Corpo Cacciatori e la Guardia di Pubblica Sicurezza, sotto la condizione che tali milizie siano adoperate nei limiti principali della provincia.
« Delibera del pari che il signor Intendente disponga che i sindaci dei comuni della provincia pei quali transiterà la mentovata milizia cittadina, fornissero alla medesima militarmente e secondo le istruzioni in vigore, alloggi e mezzi di trasporto.
Tale decisione venne partecipata al Morese con la seguente lettera:
COMANDO DELLE ARMI DELLA PROVINCIA DI PRINCIPATO CI TERIORE |
Salerno 1 6 Maggio 48 |
«Godo manifestarle aver messo a disposizione di lei, per tutelare la tranquillità pubblica di questa provincia, secondo il voto espresso dalla Guardia Nazionale da lei comandata e secondo la deliberazione di questo Consiglio di Sicurezza Pubblica, tanto la forza di Sicurezza Pubblica, che le due compagnie di Cacciatori qui stanziate. « Son certo del nobile e leale uso ch'ella sarà per fare in benefizio del pubblico, di due Corpi Militari messi alla sua dipendenza.
«Il Comandante le armi
« Domenico Giardini. »
L’istesso giorno a riprese arrivarono Guardie Nazionali dai paesi vicini; e prima a giungere fu la ‘compagnia comandata da Francesco Bracale, da Baronissi; e più tardi ne vennero da Sanseverino, ove un Ovidio Serino, sacerdote e un Luigi Sessa avevano levato a rumore il paese; agli ordini del maggiore Carlo Gaiani, e dei capitani Carlo Alfieri, Ga b riele Sica e Aniello de Falco, i quali lungo la strada arrestarono un gendarme latore di un plico al comandante le armi in Avallino, nel quale erano ordini precisi di condursi a Salerno con quanta forza gli era disponibile.
Anche da S. Cipriano Picentino, da Giffoni e da Montecorvino vennero. Guardie Nazionali, comandate da Giuseppe Linguiti, Giuseppe Mancusi, Donato Dini, d’Aiutolo e Sica Alfieri.
Il Mambrini vedendo che la Guardia Nazionale con tanto entusiasmo aveva risposto all’appello loro inviato; manda all'impiegato telegrafico di Salerno, con l’ordine di spedirlo immantinenti, il seguente dispaccio:
«Deputato Carducci — Napoli.
«Da ieri al giorno si è qui riunita la Guardia Nazionale della città di Salerno e da iersera arrivarono numerose masse di truppe Nazionali dei circonvicini paesi. Unico è il loro scopo, cioè quello di venire nella Capitale — Si sa ancora che altre milizie cittadine verranno dai paesi vicini, specialmente da Vallo.
«La commissione di pubblica Sicurezza si è riunita da iersera ed è tuttavia in permanenza per dare provvedimenti affinché la tranquillità pubblica non sia turbata.
«Mambrini»
«Giardini, comandante le armi»
Più tardi i tre ufficiali della Guardia Nazionale: Federico Della Monica, Gaetano Del Mercato e Carlo Alfieri ebbero ordine d’impossessarsi degli strumenti telegrafici; e a tale scopo il Della Monica si condusse all’ufficio di Salerno, Carlo Alfieri con quattro persone, tra cui Matteo Scoles, a quello di Angellara, da dove vuoisi segnalasse in Calabria per avere rinforzi, a nome del Morese, e Gaetano del Mercato con altri, dopo di avere fatta pressione sopra certi marinai, perché gittassero le loro barche a mare, si ridusse ad Erchia.
Già sulla marina di Salerno le Guardie Nazionali eran pronte a partire per la capitale (1) quando arriva Giovanni Avossa, che testimone oculare delle stragi, dei saccheggi e delle turpetudini avvenutivi, cercò dissuaderle aggiungendo: che sarebbero stati tutti massacrati al di quà di Nocera, essendo ivi schierata molta artiglieria.
Tutti si partirono pei rispettivi paesi a portarvi la triste nuova, la quale ben tosto si sparse e tutti co r sero alle armi.
A Pagani un Luigi Calabrese, seguito da pochi altri, tra cui Francesco Tortora, Antonio Pepe, Giansaverio Mansueto, Luigi, Raffaele e Giuseppe Calabrese, Aniello Ruggiero, Prota Silvestro, Villani Giuseppe e Agostino, assalirono la caserma delle guardie, incitandole a partire e negatesi, le disarmarono.
A Sarno, ove era tornato il deputato Filippo Abig nen ti, anche egli profugo da Napoli, ed Ovidio Serico di ritorno da Salerno, si tentò radunare gente e partire, ma l’Abbignenti si oppose e prevalsero i suoi consigli, sicché il Serino si rivolse a S. Valentino Torio e secondato da Lucio D’Ambrosio, Mancusi Salvatore, De Crescenzo Ferdinando, Abbignente Pietro e Cesare, Pernici Antonio, Russo Sebastiano, Penano Girolamo e Giulio, Mangusi Lodovico, Serino Pasquale, De Geronimo Pasquale, Liguori Luigi, Concale Pietro, Squitieri Michelangelo e Squillante Giovanni, di Sarno, Contatoli Tommaso di S. Marzano, Vergati Sabbato, Martorelli Giovanni, Migliar o Giosuè e Antonio e Giosafatte Siano sacerdote di S. Valentino; si venne a vie di fatto colla forza pubblica.
Eccitarono i cittadini di Sanza ad armarsi de Stefano Francesco, Giudice Generoso e Domenico, Citerà Evangelio Domenico, d'Onza Cristina, di Spirito Sabina e Bianco Francescantonio.
,A Vibonati si venne a vie di fatto coi regi e tra i carbonari che vi fecero parte eranvi; Federici Nicola, del paese, e Mercadante Felice e Francescantonio, di Torraca.
A Palo per istigazione di Giuseppe Greco avvenne una sommossa e tra i tanti notaronsi: Michele, Angelo, Gaetano e Francesco Indelli, Sacro Giuseppe, Federico, Marcellino e Angelomaria, Rio Ferdinando, Battista Matteo, Rosania Sabbato, Pirofalo Modestino, e Sacco Antonio di Olevano, Lembo Gabriele, Muzio, Biagio e Vito, Galella Vincenzo e Francesco, Antico Giuseppe, Caporale Francescantonio e Conte Girolamo.
In Olevano ov'era una cospirazione presieduta da Nicola Desio, nel 16 maggio, i fratelli Denza Antonio, Gerardo, Pasquale, Giovanni, e Guglielmo con discorsi e con fatti istigarono il popolo ad armarsi ed inveire contro i borbonici. Moltissimi li seguirono e tra questi: Desio Nicola, Domenico, Cesare e Tommaso; del Greco Francesco, Giuseppe, Domenico, Sabbato e Luigi, Ferrara Alfonso, Francesco e Giambattista; Ricca Giuseppe, Costa Vincenzo, Pastorino Clemente, Felice e Pietro; Zecca Vincenzo, Remigio, Adamo e Giuseppe; Giannattasio Emanuele, Bufano Matteo, Briscione Domizio, Letteriello Antonino, Feccia Francesco e Giuseppe, Vicedomini Gennaro, Coscia Stanislao, Pasquale e Giuseppe; Verrioli Antonino» Volzone Luigi, Sica Salvatore, Carucci Federico e Domenico, Carfagna Michele, Salduzzi Pasquale, Attanasio Andrea, Latronico Andrea, Fierro Pasquale e Cesaro Domenico e Nicola.
In Eboli vi fu attentato contro la forza pubblica e vi si videro Vacca Domenico e Paolo, La Francesca Francescopaolo e Raffaele, Romano Cesareo Gerardo, Francesco, Raffaele e Michele, Laschena Girolamo e Francescopaolo, Barone Felice, Giudice Donato e Modesto, Merola Giuseppe, d’Angora Gaetano, Casati Pasquale, Postiglione Luigi, Solofra Michelangelo, Loriedo Cosmo e Vito, Resta Pasquale, Centanni Donato e Lodovico Ludovici di Eboli, Curzio Gaetano di S. Angelo Fasanella e Albanese Antonino di Campagna.
In Laviano vi fu eccitamento per opera di Finto Saverio, Masi Pasquale, Pelosi Antonio, Gibboni Antonio e Domenico, di Laviano.
In S. Gregorio Magno il popolo si levò a rumore istigato da Giovanni Tarantini, di Lecce; De Crescenzo Bernardo e Gerardo, Elia Giuseppe, Farasi Nicola, di Donato Ferdinando, Robertazzi Vincenzo, Pplicastro Luigi e Tuccino Felice di S. Gregorio.
Anche Campagna si sollevò per istigazione di Capopizzo Rosario, di Altavilla Silentina; Guerrieri Alessandro, Giuseppe e Giovanni, Giffoni Francesco, Piero Raffaele, Mantenga Raffaele, Copeti Francesco e Domenico, Filiuli Nicola, Rocco Giambattista, Onesti Antonio, Viviani Antonio e Antonino, Ricciardi Gennato, Adelizzi Benedetto, Castagna Pompeo e Vincenzo; Izzo Michele e Nicola, Perrotti Giacomo, Gioanni e Francesco,
Ascea si sollevò per opera di Achille de Dominicis, Cafaro Aniello e Angelantonio, Speranza Rosario, Vasiìe Michele, Palombo Luigi, Fierro Domenico, Aniello Pasquale e Giannantonio; d’Angelo Antonio, Guglielmelli Angelo, Criscuolo Aniello, Ametrano Francesco, Esposito Giovanni e Chirico Filippo.
In Contursi si ribellarono aiutati da altri: Taglianetti Angelo e Donato, Gabella Francesco, d’Angelo Lorenzo e Celestino, Sarro Antonio, Pignata Francesco, del Corso Sabbato, Parisi Giambattista e Villani Antonio.
Scafati pure corse alle armi, i cui abitanti erano spinti da Fienga Andrea, capitano della Guardia Nazionale.
Anche a Roccadaspide vi fu tentativo di rivolta; da parte di Rosario Ferrara, Cortazzo Michele, Troncone Giovanni, Glieimi Giuliano, Francione Giuseppe e Gorga Benedetto; aizzati da Luigi Albini venuto a ppositamente da Albanella.
In Lentiscosa, in cui era venuto Gennaro Palumbo di S. Giovanni a Piro ebbe luogo una sommossa e tra i paesani si videro: d’Onofrio Sabbato, Chiusola Nicola, Sanseviero Antonio, d’Alessandro Fedele, Marotta Sabbato, d’Onofrio Gaetano e Cernicchiaro Antonio.
A Torraca pure si venne a vie di fatto per discorsi tenuti dai fratelli Merendante Felice e Antonio, sacerdote, seguiti da Antonio e Pasquale Bifani, Cesar in i Nicola, C o sci Carmine, Barra Filippo e Galletti Giuseppe e Giovanni.
In Porcili ove era venuto Giuseppe Ferrara di S. Biase si sollevarono ed armaronsi per condursi a Salerno, Itri Tommaso, Giambattista, Giuseppe, Paolo, e Angelo, Zamarelli Francescantonio, Raffaele, Biagio e Pietro, Vassallo Giuseppe, Massanova Samuele, Cupido Rubino e Gennaro, Bertolini Pietro, Mattia, Raffaele e Fortunato, de Feo Biagio, Luciani, Giovanni e Angelo, Bracaliello Luigi, Mondelli Giovanni, Marine lli Francescantonio e Angelo e Bardascino Giuseppe.
Pegli avvenimenti del 15 maggio, provocati, ordinati e diretti dallo stesso Ferdinando Borbone; il ministero si dimise; ed egli decretò: la città in istat o d’assedio, la soppressione e il disarmo della Guardia Nazionale e la formazione del nuovo gabinetto con gente perversa e crudele, quale un Cariati per gli affari esteri, il principe d’Ischitella alla guerra, il generale Cara sc osa a i lavori pubblici, il principe di Torcila al l’apicoltura e com m ercio, Ruggiero alla finanza co n Nicola Gigli alla grazia e giustizia; e questi come primo loro atto aboliscono la libertà della stampa, sopprimono il diritto di riunione, stabiliscono una specie di Comitato di Salute Pubblica, con l’autorità assoluta d’imprigionare per preventivo provvedimento, sciolgono il Parlamento, non ancora legalmente costituito e richiamano frettolosamente i generali Statella e Guglielmo Pepe, il quale accingevasi a pigliare posizione sulla riva destra del Po.
Abbenché sulla via della reazione Ferdinando vedendo la Sicilia in arme, il Salernitano e la Basilicata in rivolta, le Calabrie che avevan proceduto alla nomina di un governo provvisorio nelle persone di Giuseppe Ricciardi, Francesco Federici, Stanislao Lupinacci, Benedetto Musolino e Luigi Miceli, che con un manifesto avevano già invitato i cittadini ad ar m arsi; vedendo che la rivoluzione in Italia non era stato punto domata dalla reazione, ebbe paura di abolire lo statuto, a viva forza strappatogli nel gennaio, e a dimostrare che aveva l’idea di mantener ferma la libertà accordata con la Costituzione, emana il seguente proclama:
«Profondamente addolorati dall’orribile caso del 15 maggio, il nostro più vivo desiderio è di raddolci rn e, quanto umanamente è possibile le conseguenze. La nostra fermissima ed immutabile volontà e di mantenere la Costituzione del 10 febbraio pura ed immacolata da ogni specie di eccesso. La quale essendo la sola compatibile coi veri e presenti bi sogni di questa parte d’Italia, sarà l’arca sacro santa, sulla quale devono appoggiarsi le sorti dei nostri amatissimi popoli, e della nostra corona.
«Le Camere Legislative saranno fra momenti r i convocate e la sapienza, la fermezza e la prudenza che attendiamo da loro saranno per aiutarci vigor o samente in tutte quelle parti della cosa pubblica, le quali hanno bisogno di saggi ed utili riordina menti. Ripigliate adunque tutti le vostre consuete occupazioni; fidatevi con effusione d’animo della nostra lealtà, della nostra religione e del nostro sacro e spontaneo giuramento e vivete nella purissima certezza che la più incessante preoccupazione del l’animo nostro è di abolire al più presto insieme con lo stato eccezionale e passeggier o in cui ci troviamo, anche per quanto sarà possibile la memoria della funesta sventura che ci ha colpiti.
«Napoli 24 maggio 1848.
«Ferdinando»
A capo a qualche giorno furono riconvocati i Comizi e le persone più autorevoli spingevano il corpo elettorale a riconfermare il mandato a coloro che nella precedente elezione avevano ottenuto il suo suffragio.
L’avvocato Carmine Ruotolo spinto dall’amore della patria e per le libere istituzioni; che per pochi voti nella elezione del 13 aprile non era riuscito rappresentante. del popolo, avendo appreso che i suoi amici lo vol e vano ad ogni costo candidato, con nobile annegazio n e si rivolge loro e agli elettori col seguente manifesto:
«Agli Elettori del Principato Citeriore
«Aspri e luttuosi avvenimenti, for se anche insidiosamente preparati dai nemici della nostra libertà, travolsero la Capitale in isventure gravissime nel medesimo giorno 15 maggio, che era destinato ad iniziare ed attuare l’esercizio della Sovranità del Popolo nel seno del Parlamento. Le quali sventure furono anche più aggravate nella dimane da un atto d’imperturbata severità da parte del governo, che dichiarò sciolta la Camera dei Deputati e rimandata la nomina di essi a nuovi Collegi Elettorali.
«Eccovi adunque di bel nuovo nel diritto di scegliere i vostri Legislatori.
«Eserciterete voi questo diritto? Due opinioni regnano nella nostra Provincia su questo punto controverso. Taluni avvisano che non si possa devenire ad una seconda scelta di Deputati senza riconoscere in certo modo ed accettare la illegalità dello scioglimento della Camera: e questi sono del minor numero. Altri opinano che si debba correre a folla nei Collegi Elettorali per riconfermare il mandato agli antichi rappresentanti con rarissime eccezioni.
«Coloro che sono avversi alla rielezione, favoriscano senza volerlo i segreti disegni dei nostri nemici, imperocché, l’interregno delle leggi è utile ai despoti, non ai popoli, all'anarchia, non alla libertà.
«Quelli poi che addimostraronsi volenterosi, anzi smaniosi della subita riconvocazione del Parlamento, risguardando quei sinceri ed illuminati patrioti che: ivi sederanno come i difensori nati delle loro libertà, come i vendicatori di tutti gli oltraggi fatti. al popolo, come i restauratori dell'ordine e della dignità Nazionale, come i datori di legge per tanto tempo sospirato, costoro mostrano di esser dotati di moltissimo senno pratico nella vita politica de gli Stati e meritano di essere uditi, assecondati.
«Date dunque opera, o egregi Cittadini, che il voto di questi ultimi pago rimanga, che desso è il voto della patria comune, e correte a legioni nei Comizi Elettorali a riscegliere i vostri Legislatori. Egli è tempo oramai di mostrarvi uniti, concordi e forti contro le invasioni e le tentazioni del potere, inaccessibili alla paura, confidenti in coloro che giurano di sfidare qualunque prepotenza governativa, qualunque pericolo, e giurano mille volte di morire pria di maculare con alcun atto di codardia o di improbità il purissimo onore, l’al t issimo mandato di cui sarete per riabellire la loro politica esistenza.»
Abbenché le elezioni avvenissero sotto le più gravi pressioni che possansi immaginare, pure furono rieletti quasi tutti i deputati di parte liberale.
L’insurrezione nel regno si allargava sempre più. Capaccio, paese del Carducci, fu primo ad insorgerò per opera di Giambattista Riccio e Carlo Pavone di Torchiara; Filadelfo Sodano, di Celso; Giuseppe PesSolani, di Atena; Filippo Vitagliano, di Montecicerale; Ernesto del Mercato, di Laureana; Filippo Patella, 3i Agropoli; Ovidio Serino, di Sanseverino; e Giuseppe Caputi, di Barile; i quali uniti ad altri (1) che vi si aggregarono per via, assalirono l'ufficio te le grafico e si appropriarono degli strumenti atti al la trasmissione dei dispacci. Quindi dopo di aver preso danaro dalla cassa fondiaria e da quella comunale passarono a Roccadaspide, ove furonvi delle violenze contro le autorità cittadine, costringendole a consegnar loro il denaro della pubblica amministrazione;, aiutati in ciò da quei del paese e da quelli dei comuni vicini, fra cui Passeri Gabriele, Ricci Giovanni, De Augustinis Michele e Teodosio, Musco Vincenzo, Croce Giovanni e Graziuso Vincenzo, di Castel S. Lorenzo; Sabbatella Giuseppe, Domenico, Gaetano fa Carlo e Gaetano, di Giuseppe, e Nicola; De Augustinis Giovanni, Migliacci Domenico, Florimonte Nicola, Giardini Domenico e Pecora Geremia, di F elitto; Antico, parroco, Francesco e Gerardo, Capuano Giuliano, Scorzelli Giacinto e Gabriele, Ferrara Rosario, Giuliano Maurizio, Eugenio e Lorenzo, Gorga Francesco, Vitolo Girolamo e Vincenzo, Tufani Carmine e Francesco, Caccavelli Gabriele, Moscarelli Giuseppe e d’Elia Giuseppe.
Nella notte un drappello, come per fere una ricognizione prese per S. Angelo Fasanella, guidata da Giuseppe Caputo, Giovanni Carducci; Rosario Bamonte, Ernesto Ricci, Valerio del Mercato, Lucio, Michele e Salvatore Magnoni, Salvatore de Cesare e Giuseppemaria Pessolani, e giuntovi bivaccò e passò a Roscigno, ove imposero alle autorità municipali e ai cittadini di consegnare armi e danaro; coadiuvati in ciò da quelli che li avevano seguiti da S. Angelo, tra cui Leggio Raffaele, Soldano Luigi, Zoilo Antonio, Maffei, Michele, Pierri Carlo e Nicola, Fasano Gennaro e Francesco, Vairo Nicola, Greco Crescenzo, di Matteo Fabio, de Filippis Antonio e Gabriele, Curzio Andrea, Mazza Michele, de Philippis Michele, Faccenda Angelo, Nigro Daniele, Garaldi Nicola, Corbino Gaspare e Luigi, Spina Gaetano, Amore Francesco e Manfredi Gerardo; nonché da quei del paese. Joca Aniello, Luigi e Rosario, sar cerdote, Palmieri Giuseppe, Francesco e Ottavio, parroco, d’Alessandro Giovanni, Gaspare Vincenzo, Rago. Luigi, Macchiaroli Scipione, Cestari, sacerdote, Giuseppe. Stabile Pasquale, di Lorenzo Ange l antonio, Rescinito S c ipione, Gasparri Isidoro e de Sa l is Filippo. Partirono per Corleto Monforte e vi aspettarono il rimanente della colonna guidata da Giambattista Ricc i o, che aveva distrutto processi e importanti documenti nel giudicato regio di S. Angelo, e liberati, scassinando il carcere sei individui che vi erano detenuti. Di quivi furono a S. Rufo, S. Pietro al Tanagro, S. Arsenio e dopo di essersi impossessati delle casse comunali e di beneficenza, pervennero a Polla seguiti: da Salvioli Pasquale, Fiore Nicola e Mea Pasquale di S. Rufo, Mangieri Luigi e Giuseppe, Costa Pietro, di Francesco, Morzillo Domenico, Pagano Francesco, di Giuseppe, e Pagano Francesco fu Pietro, Schiaffo Ferdinando, Accetta Michele e Savino Fortunato, di S. Pietro, d’Andrea Giuseppe, d’Andrea Arsenio, di Antonio, e d’Andrea Arsenio, fu Nicola; di Donato Angelo, Magnino Filippo, Ippolito Arsenio, Mele Domenico e Francescantonio, Splendore Paolo, Costa Antimo e Nicola, Giliberti Giuseppe, Mangieri Arsenio e Menzione Raffaele, di S. Arsenio.
Erano già sulle mosse di partire che seppero che Emanuele Castrataro aveva sollevata Sala Consilina e allora Giuseppe de Petrinis, con Giuseppe Caputi, Giuseppemaria Pessolani, Matteo Farro, Ovidio Serino, Pasquale Lamberti e Andrea de Focatiis vi si condussero immediatamente e posensi a capo del movimento con appena pochi cittadini di Polla che li seguirono; tra cui de Nigris Gerardo, Mauro Antonio, Samo Francesco, Carlo e Luigi, Isoldi Francesco, Ciliberti Alfonso e Nicola, Bracco Giovanni, di Donato Giuseppe, Raffaele e Giovanni, Manzione Antonio, Francescopaolo e Giuseppe, Curcio Domenico, Emanuele, Antonio, Vincenzo e Francesco, Curzio Amabile, Stabile Francescopaolo, Giuseppe e Francesco, Wancolle Francesco, Giuseppe e Florimonte, del Bagno Do, manico, Poppiti Vincenzo e Arcangelo, Bracco Davide Giuseppe e Onofrio, Rossi Matteo e Francesco, Sco l pino Giuseppe, Giallorenzi Giuseppe, Vincenzo e Francesco, Forlosia Antonio, Canoro Domenico, Siruba Antonio, Sessa Luigie Venosa Vincenzo e Mattia; e appena giuntivi assalirono il carcere e vi liberarono i prigionieri, distrussero lettere e pieghi e si appropriarono del denaro all’ufficio postale e venuti alle armi con la forza pubblica, questa fu disarmata e dispersa—Inoltre andarono al regio magazzino delle privative, spezzarono a colpi d’accetta l’insegna borbornica e costrinsero l’impiegato a consegnar loro tutta quanta la polvere che vi era in deposito (1). Di quivi passarono a Sacco in cui Giuseppe Ferrara, di S. Biase; e Ni c olantonio Causale, d’accordo col sindaco, An iell o Zoccoli, col parroco Angelo Consoli e con Felice Monaco, ufficiale della Guardia Nazionale, avevano assoldato parecchia gente (2) acciò muovere per Tegiano, sollevata da Tommaso Costa Capobianco, Cono Carpano, Filippo e Vincenzo Cavallaro, Giuseppe, Antonio e Francesco Galliani, Giambattista Cesareo Santoro, Girolamo Matera, Michele Candia, Antonio Aulisio e Nicola Silvestri; che facevano parte di una cospirazione a scopo di attentare alla vita del Borbone; ed ai quali si erano aggiunti in quella occasione: Rossi Cono e Paolo, Carrano Cono, Dionisio e Antonio, Corrado Benigno, Trezza Luigi, de Honestis Francesco, Gallo Gaetano, Francesco e Arcangelo, Matina Michele, Silvestri Vincenzo, de Martino Giuseppe e Vincenzo, Capobianco Francescantonio, Comparato Artonio, Cono e Benedetto, Capozzoli Amabile, Potignano Alfonso, Guerra Raffaele, Lamaida Cono, Bello Michele, Sirico Raffaele e Vincenzo, Gimignano Giovanni, di Mattia Francesco, Macchiaroli Cono, Fiore Carmine, Pellegrino Giambattista, Loprete Giovanni di Cruccio Gaetano, Silvestri Michele, Cesareo Luigi, d’Elia Cono, di Candia Raffaele, Gabriele, Uriele e Formiele, d’Alto Raffaele, Federico e Michele, Sgangarella Andrea, Casella Andrea e Maggiore Gaetano.
La colonna comandata da Giambattista Riccio dopo breve riposo prese la via di Aquara, che la trovarono in arme, sollevata da Carmine Mandicini, di Reggio Calabria, Tucci Nicola, di Vignola; Fascone Felice, di Napoli; i quali unironsi a Riccio, e proclamarono il governo provvisorio, aiutati dai paesani: Caruso Francesco, Serrelli Leonardo, Marino Pasquale e Paolo, Giordano Antonio, Palomone Giuseppe, Lu c ido e Giambattista, Andreola Vincenzo, Capozzoli Raffaele, Nicola, Vincenzo e Antonio, Valente Pasquale, de Sevo Giuseppe, Marcinone Lucido, Mario e Antonio, Peduto Diodato, Pasquale, Nicola e Sisto, Mastrantuono Giovanni e Vincenzo, Martino Giovanni e Crisonte, Pucciarelli Rosario, Botti Raffaele, di Gregorio Giulio, Ametrano Lodovico, Amabile Raffaele, Guadagno Daniele, Fanceglia Michele e Crisonte, Mottola Domenico, Niglio Pasquale, Marchese Carmine, Santoruso Michele, Pecora Antonio, Martiello Vincenzo, Gagliardo Domenico, Luongo Vincenzo, Consulmagno Michele, Fasano Lucido e Gaetano, Martiello Giuseppe, Minella Donato, Aloia Giovanni e Natale Giovanni. Passarono a Bellosguardo, in cui vi si aggiunsero: Pepe Antonio, Farri Matteo e Alessandro, Macchiaroli Rosario e Matteo, Pepe Domenico, Valitutti Antonio, Capo Francescantonio, Longo Angelo, Mauro Flaminio, Mortone Antonio, Palomone Marco e Francesco, Parente Giuseppe, Mortone Francesco, Pasquale e Giuseppe, Marmo Carlo e Valletta Giuseppe. Di quivi furono a Trentinara ove furono assediati da gran numero di soldati agli ordini del generale Recco, il quale appena seppe della loro presenza inviò un parlamentario ad intimargli la resa,' che arditamente respinsero.
Allora l'ufficiale incaricato di trattarla, avvampante d’ira si rivolge al sindaco imponendogli d’approntare, a nome del suo comandante, cinquecento razioni; e il drappello d’insorti che era a guardia del municipio poco mancò non lo fucilasse all’istante.
Ritornato dal Recco e riferitogli l’accoglienza ricevuta, e la situazione, questi ordinò si procedesse immediatamente all’assalto.
Parecchie ore durò la mischia, nella quale furonvi non pochi morti e feriti da ambe le parti; ma sopraffatti gli insorti dal numero de' soldati ognor crescente per l’arrivo di nuovi battaglioni sparpagliati in quelle vicinanze, furono costretti ripiegare e ri v olgersi nuovamente sopra Sicignano, P e tina e Postiglione; in cui formatisi a guerriglie per diverse vie intendevano arrecare soccorso ai sollevati delle Calabrie, di cui non ne avevano conosciuta la sconfitta.
Costabile Carducci, intanto, reduce dalla Basilicata a dalle Calabrie, ove insieme a Pasquale Lamberti e a Raffaele Ginnari di Maratea, aveva sollevati parecchi paesi, ma tosto repressi, con un pugno di uomini sbarca ad Acquafredda, solleva il vessillo della libertà, al grido di: Viva la Repubblica e la Libertà, intendeva trovare proseliti. Quei del paese raccolsero e lo festeggiarono, tra cui Cristofaro e Socrate Falcone, di Policastro, Salvatore Giovanni e Carlo Gallotti, di Sapri e Domenico Mercadante, di Torraca. L’indomani fu a Sapri, seguito da Giuseppe, Francescanto n io, Carmina e Raffaele Giffoni, Biagio, Nicola e Clemente Vecchio, Giuseppe, Francescomaria, Luigi, Vincenzo e Francesco Pugliese, Francescomaria Pugliese, fu Nicola, Francesco e Vincenzo Pugliese Ciccone, Vincenzo la Corte Pugliese, e Vincenzo Pugliese, alias Macrini e Domenico Pugliese, fu Agostino; Saverio Petiti, Mansueto e Giuseppemaria Brando, Vincenzo Eboli, Fulgenzio Falciatore, Giovanni Guzzo, Giovanni e Fabbrizio Pifani, Raffaele Gallotti, Biagio e Felice Felizzolo, alias Zuccariello, di Vibonati; Timparelli arciprete Nicola, della Corte Raffaele, Eboli Domenico, Riggione Pietro, Gaetani Felice, Tinelli Salvatore e Angelo, Curzio Francesco e Colimodio Francesco, di Sapri; Cataldo Nicola, e del Giudice Rocco, d’ I spani, Zoccoli Antonio, di S. Cipriano Picentino, e Vita Giacomo di Maratea. Tutti, chi presso l’uno, chi presso l’altro, vennero ospitati e il Carducci fu tratto in inganno dai modi gentili e cortesi del prete Peluso il quale ne aveva deliberato la perdita, che ad ogni costo lo volle con lui. Due giorni trascorsero, ed ecco che la sera del 6 luglio, dopo che Carducci e il Peluso ebbero cenato, non uno stratagemma ambidue discesero dov'era lo strettoio dell’olio, e in cui erano nascosti tre si c arii, i quali assalirono il Carducci, che inerme noti potette difendersi, con l'aiuto del prete infame lo pugnalarono; e quindi staccatala testa dal busto, il Peluso la portò in dono a Ferdinando II, che lo colmò di onori e ricchezze.
L’assassinio di Carducci indignò più vivamente i libe r ali ed ecco che il partito d’azione di Napoli credette opportuno inviare nel Cilento Diego de Mattia nell'intento di riunire le guerriglie e seguitare nel l’insurrezione. Il de Mattia si conduce a Salerno e fece capo da Giuseppe Catarina, suo commilitone nel 1828, reduce dalla disfatta di Trentinara, e con lui e pochi altri parte pel Cilento, e quivi con Angeloraffaele e Stefano Passare, convoca pochi capi di guerriglie tra cui: Francesco Molinari, di Pellaro; Salvatore d’Agosto, Pa l ladino Silvestro e Francescantonio e Alario Pasquale di Moio della Civitella; il barone Crescenzo Valente ed Ernesto del Mercato, di Laureana; Sodano Filadelfo e Vittorio, di Celso; Vinciprova Leonino, di Omignano; Curci Antonio, di Padula; Pavone Carlo di Torchiara; Magnoni Luigi, di Rutino; e Vitagliano Filippo di Montecicerale; i quali si conducono dai loro uomini (1) e deliberano di non deporre le armi.
Venuti a conoscenza della repressione del moto insurrezionale delle Calabrie, i più credettero ancora una volta che Ferdinando veramente fosse pentito del l’avvenimento del 15 maggio; e tanto più lo credettero avendo egli convocato pel di primo luglio la riapertura delle Camere Legislative, in cui U ministro Borrelli lesse il discorso reale, nel quale il Borbone chiamava in testimone Dio, i deputati e la storia della purezza delle sue intenzioni.
La Camera nella sua risposta chiese al re il cambiamento del gabinetto; la ripresa delle trattative con Carlo Alberto per la continuazione della guerra nazionale e la restituzione della libertà.
Il re negossi di ricevere quella risposta, i ministri non intervennero quasi più mai alle sedute della Camera, i deputati stessi se ne allontanarono; e fu cosi che la costituzione venne abolita di fatto, se non per decreto.
La reazione aveva trionfato nel regno di Napoli, ed era per trionfare in tutta la penisola, come lo dimostravano chiaramente gli avvenimenti che si seguivano, e da questo punto cominciarono nuovamente le crude persecuzioni e le inumani condanne dei più chiari e distinti patrioti.
Moltissimi, si rivolsero a Roma ed a Venezia, ove ancora il vessillo tricolore sventolava; altri andarono per più tempo fuggiaschi, ma poscia vennero arrestati e giudicati dalle Corti Speciali.
Per poco, alcune bande d’insorti tennero desta la speranza nel cuore dei napoletani; ma infine anch'esse vennero represse e sbaragliate e la maggior parte di quelli che le componevano, almeno i più noti, furono imprigionati.
Alcuni altri paesi, ad onta delle leggi repressive che con ferocia andavano mano mano attuandosi nel regno, si sollevavano o cospiravano.
In Castelluccio molte persone a mano armata assalirono la casa comunale ed impossessatesi della bandiera reale, a colpi di pugnale la ridussero in brandelli. Tra esse erano: Bamonte Berardino, Diodati Domenico, Grieco Nicola, Felice e Carmine, Forziati Feliceantonio, Nicola, Rosario, Giacomantonio e Francesco, Lucia Donato e Antonio, Forlani Nicola, Poto Nicola, Michele e Felice, Boezio Francesco, Soldani Gennaro, Giardini Gennaro e Raffaele, Smaldone Pasquale, Verlotta Francesco, Domenico, Vincenzo e Antonio, Lupo Donato, Scaramella Gennaro, Francesco, Vincenzo e Giuseppe, Cantalupo Michelangelo, Carmine e Vincenzo, de Vita Michele, Chiumiento Vincenzo, Gigliello Giuseppe e Antonio, Conforti Pasquale e Felice, Clavelli Angelo, Tancredi Pietro e Vincenzo, Zonzi Vincenzo, Maucione Francesco, Nisi Feliceantonio e Tortorella Vincenzo e Leonardo.
A Gauro si sollevarono i cittadini per opera di Salvatore de Cesare che vi sì era rifuggiate, e di Pisano Pasquale, Isidoro, Alessandro, Donato, Giacomantonio e Carmine. Notaronsi: Amato Gennaro e Bartolomeo, Marandino Casimiro, Granozio Nicola, Ferullo Vincenzo e Angelo, Vassallo Francesco, Pasquale, Domenicantonio, Cosmo, Geremia e Giuseppe, Cerino Sabbato, Lupo Vincenzo, Pasquale e Francesco, Fai t a Giuseppe e Domenico, Giffoni Sabbato, Alfano Saverio, Matteo e Salvatore, Linguiti Luca, Buoninfante Vincenzo e Andrea, Marino Andrea, d’Alessio Giuseppe e Francesco, e Vece Pietro e Matteo.
Eboli ancora una volta dette di piglio alle armi e vidonsi d'Urso Raffaele, Fucetola Amato, Palladino Francescopaolo e Nicola, Miglio Nicola, Mastrangelo Leopoldo, Romano Raffaele, Romano Cesareo Gerardo, Raffaele, Michele e Francesco, Costa Berniero, d'0nofrio Francescopaolo, Morrone Antonio, Francescopaolo, Raffaele e Vito, Pumpo Francesco, Manzo Leone, Mastello Luigi, Conversano Gaetano, Sansimone Vito, Postiglione Luigi e Cosmo, Vacca Domenico e Paolo, La Francesca Francescopaolo e Raffaele, Laschena Girolamo e Francescopaolo, Barone Felice, Giudice Donato e Modesto, Merola Giuseppe, d’Angora Gaetano, Cusati Pasqualantonio, Solofra Michelangelo, Loriedo Cosmo e Vito, Resta Pasquale e Ludovici Lodovico, di Eboli; Albanese Antonino di Campagna e Curzio Gaetano di S. Angelo Fasanella.
In Vallo della Lucania vi fu sollevazione per opera di Passaro Giovanni, Raffaele, Vincenzo, Angelo e Giuseppe, Oricchio Angelo e Giovanni, Passarelli Saverio, Pignataro Raffaele, Francesco e Pantaleo, Merola Silvestro, de Mattia Alfonso, Ferretti Raffaele e di Vietri Pantaleo. Eccitarono i cittadini di Laurino a rivoltarsi: Gregorio Francesco, Giuseppe, Giuseppenicola, Nicola e Pasquale, Monaco Andrea e Agostino e Consalvo Girolamo, i quali furono subito arrestati.
A Novi Velia pure vi fu attentato contro il governo da parte di quei cittadini, spintivi dai fratelli Carmine, Antonio e Luca Sparano e Gesuele Orazio.
In tenimento di Omignano si venne a vie di fatto con la forza pubblica e fra i moltissimi vi erano: Lerro Domenicantonio, Pietro, Raffaele e Giuseppe, Volpe Gennaro, Giammarione Giuseppe, de Feo Pietro, Giovanni, Francesco e Antonio, de Feo Raffaele, fu Fortunato e de Feo Raffaele, di Antonio, Mottola Raffaele, Laporta Francesco e Giovanni, Elia Gennaro, Francesco, Feliceantonio e Pasquale, Ambrosano Arcangelo, Gorga Carmine, Giuseppe e Maurizio, Lanàri Filippo, Cammarota Giuseppe, d’Amato Zaccaria, Ferrazzano Felice, Pasquale e Francesco, Tierno Luigi, Graziano Francesco, Conte Giuseppe e Giuliano Gesualdo.
A Mercato Cilento in occasione della festa di S. Francesco, gridarono: Viva Carlo Alberto, il Cilento e le Calabrie Lerro Raffaele, Vinciprova Raffaele e Achille Vasaturo, di Omignano; Nicola Giordano, Pasquale Gorga, Raffaele Lebani, Agostino Rizzo e Francesco Vitagliano, di Rocca Cilento.
In Poderia si sollevarono molti cittadini e incendiarono un mulino di Pietro Cerbali; tra essi i fratelli del Duca Ferdinando, Nicola, Domenico, Antonio e Andrea, ed i fratelli Giuseppe e Domenico Caputo. Intanto in alcuni paesi si cospirava nell'intento di sollevarsi.
A Polla la cospirazione era diretta da Bracco Giovanni e Davide, Maltempo Vincenzo e Manzione Pasquale e Antonio.
In S. Giacomo erano pure capi Monaco Luigi, di Gregorio Michele, Mastropaolo Michele e Marone Francesco e Gaetano.
In Controne Pepoli Francesco di Sacco e Panza Giuseppemaria di Controne, organizzarono una società segreta, alla quale si ascrissero moltissimi, e tra questi: Proto Nicola, Luigi e Raffaele, Pastore Sabbato, Odati Raffaele, Vecchio Domenico, Poto Luigi e Diodato Domenico.
In Vibonati una denuncia privata fece scoprire una congiura alla quale appartenevano; Cioffi Giuseppe, Del Vecchio Biagio, Pugliese Francesco, di Vincenzo, Pugliese La Corte Vincenzo, Curcio Francesco, Zoccoli Antonio, Colimodio Biagio, Coppola Ferdinando, Polito Saverio e Curzio Domenico.
A Montecorvino molti che già erano stati in esilio fondarono una congiura alla quale appartenevano: Fasano Michelangelo, Luigiantonio, Stanislao e Bonaventura; Sorrentino Pietropaolo, Foglia Vitantonio, Granese Carmine, d’Aiutolo Agostino, d’Agnes Saverio, Bassi Eustachio, Fasano Celeste, Fasul o Angelo, Budetta Pasquale, Gennaro, Giovanni, Pietropaolo e Agostino, Masucci Carlo, Giuseppe e Filippo, Pizzuti Luigi, Raffaele, Germano e Giuseppe, Vicinanza Giovanni, Vincenzo e Michele, Corrado Donato, Meo Ambrogio, Maratea Gaetano, Luigi e Antonio, Pizzuti Domenico, Gubitosi Domenico e Filippo, Punzi Giovanni, Michele, Errico e Antonio, Mancini Francesco, Somma Giuseppe, Budetta Vincenzo e Matteo, Morese Antonio, Cavaliere Giuseppe, Foglia Carmine, Costantino e Carminantonio, Borriello Angelo, Scavano Aniello, de Vitiis Pietro, d’Angora Francesco, Bassi Luigi, Fasano Michelangelo, Troiano Stanislao, Garzillo Domenico, Francesco e Marco, della Monica Carminantonio, sacerdote, e Pietro, Buonifante Arcangelo, sacerdote, Maiorino Francesco e Vincenzo, Rispoli Gaetano e Nunzio, di Giorgio Lucantonio e Vincenzo, Calabritto Domenico e Tommaso, di Maggio Gennaro, Ciriaco, Raffaele, Antonio e Stanislao, Calabritto Mattia e Gennaro, Schettino Donato, sacerdote, P. Luigi, da S. Angelo Fasanella, P. Francesco da Castellammare ed altri moltissimi.
Gli avvenimenti d’Italia cioè: la caduta della repubblica romana e quella di Venezia nel 1849, il ritorno di Pio IX a Roma, la disf a tta delle truppe Piemontese a Novara, che portarono seco la restaurazione del potere assoluto in tutti i stati Italiani, dettero l’ultimo crollo alle vacillanti libertà nel regno di Napoli.
Le persecuzioni ricominciarono e i più noti liberali emigrarono o furono imprigionati e per più anni vissero negli ergastoli e nei carceri.
La Gran Corte speciale di Salerno, nella quale eravi come procurator generale il famigerato Angelo Gabriele condannava alla pena di morte col terzo grado di pubblico esempio: Del Mercato Gaetano, di Laureana; Della Monica Federico, di Salerno; Serino Ovidio, di Sanseverino; Riccio Giambattista, di Tor. chiara; Pessolani Giuseppemaria, di Atena; Lamberti Pasquale, di Napoli; Lerro Raffaele, di Omignano; Aletta Michele, di S. Giacomo; De Mattia Luigi, di Vallo della Lucania, che solo, essendo stata agli altri commutata la pena, subì la morte nel 14 ottobre 1850; e Tofani Domenico, di Roccadaspide.
Furono condannati all’ergastolo: Malzone Francesco e Greco Bartolomeo.
A 30 anni di ferri duri: Principe Francescosaverio e Marino Pasquale, di Laureana; Inverso Domenico e Agrillo Angelantonio, di Matonti; Ferrante Pietro, di Colliano; Capozzoli Gaetano, di Monteforte; Cantalupo Domenico, di Altavilla Silentina e Durazzo Nicola di Castellabate.
A 26 anni di ferri duri Strommillo Saverio, Curciò Giuseppe e Ignazio, Santangelo Pietro e Domenico, di Gorga; Farro Matteo, di Bellosguardo; e e d’Angelo Antonio, di Trentinara.
A 25 anni di ferri duri: Magnoni Salvatore, di Rutino; Pavone Angelo, di Torchiara; De Niccolo Angelo, Santomauro Pasquale, Pellegrino Francesco e Lillo Alessio, di Stio; Barlotti Antonio e Ragone Zaccaria, di Capaccio; Picone Domenico e Pavone Carlo, di Torchiara; Giordano Emmanuele, di Lustra; Perniili Vincenzo, Lomanto Ca rm ine e Rossi Domenico Antonio.
A 24 anni di ferri duri: Parente Luigi, Dellipaoli Felice e Nicolellis Luciano, di Cosentini; de Sio Nicola, di Olevano; di Polito Angelo, di Novi Velia; Carnevale Lorenzo, di Campagna, de Lucia Gennaro, di Ortodonico.
A 20 anni di ferri duri, Granito Michelangelo, di Rocca Cilento; Galletti Salvatore, di Sapri; Ginnori Raffaele di Maratea.
A 19 anni di ferri duri: Morese Raffaele, di Salerno; de Angelis Carlo e Paolillo Costabile, di Castellavate; Sabbatella Giuseppe, di Felitto; de Focatiis Andrea e de Robertis Vincenzo, di Postiglione; Merendante Domenico, di Torraca, Cavallo Luigi e Felice, di Galdo; Vallante Andrea, di Catena; Postiglione Cosmo, di Eboli; Figurelli Giuseppe, di S. Menna; Vitagliano Giuseppe, di Lustra; Messane Vincenzo e Terrone Domenico, di Rocca Cilento; Stornelli Onofrio, di Scola Giuseppe e Guariglia Costabile, di Castellabate; Marone Giuseppe, di Frignano; Fiore Michele, di Galdo; d’Aiutolo Giuseppe, di Fogliano; Perrone Vincenzo, di Sacco; Buonora Pasquale, di Vatolla; de Vita Giovanni, Sacco Alessandro, Lettieri Antonio, Rocco e Angelo, Rodio Nicola, Ricchiuti Francesco, Giordano Francesco e Ruggiero Carmine, di Novi Velia, Puglia Domenico, Arena Angelo, Labruna Ferdinando e Antonio, Mautone Alessio e Milone Francesco, di Massa Lucana; de Mieri Raffaele, di Ceraso; Pisciottano Agostino, di Castellabate; de Luca Pasquale, di Eremiti; Magnone Lucio, di Rutino; Ferolla Francesco, di S. Barbara; Ferolla Raffaele e Speranza Rosario, di Catena.
A 13 anni anni di ferri duri: Nicoletti Belisario e Luigi, di Castellabate; Chiariello Nicola di Montecorice; de Feo Giuseppe e Angelo, di Serramezzana; di Cunto Costabile e Lombardi Costabile, di Castellabate; Eboli Domenico, di Sapri; del Grosso Francesco e Giuseppe, Ferrara Alfonso e Pastorino Pietro, di Olevano; Chiariello Nicola, di Montecorvino; Lombardi Domenico e di Cunto Costabile di Castellabate.
A 12 anni di ferri duri: Passato Raffaele e Vetrone Raffaele, di Castellabate; Greco Feliceantonio, di Cosentini; Sernicola Raffaele, Forziati Sabbato e Scotto Michele, di Agropoli; d’Aiutolo Giuseppe, di Pugliano; Peti ll o Raffaele, di Castellabate; Monaco Errico, di Fornelli.
A 10 anni di reclusione: Diodati Domenico, di Castelluccio; d’Agosto Orazio, de Feo Giambattiste; Landulfi Filippo e Gioas, di Cosentini; Pica Antonio di Trentinara.
A 7 anni: Pugliese Giuseppe, di Vibonati; Scaramella Germano, Poto Nicola, d’Amelio Ottaviano e Antonio, di Castelluccio; Ferrara Rosario, di Roccadaspide; Tafuri Gabriele, di Sala Consilina; Cusati Gennaro, di Cammarota; Provenzale Francesco, di Sala
Consilina; Mottola Elia, di Postiglione; Forziati Gabriele e Feliceantonio, di Castelcucco; Grizzullo Biagio e Medici Pietro, di Sala Consilina; Sodano Giambattista, di Celso; Pepe Nicola, di Castellabate; d’Ambrosio Lucio, di Sarno; Buccino Nicola, di Valle Cilento; Verlotta Domenico, di Castelluccio; Tringone Giovanni e Cortazzo Michele, di Cannalonga; de Cusatis Luigi, di S. Mauro.
A 6 anni: Verlotta Francesco e Vincenzo; Lupo Donato, Forziati Rosario e Gabriele, Chiumiento Vincenzo Maucione Francesco, Conforti Felice, Poerio Francesco, Lucia Antonio e Donato, Giardini Raffaele e Scaramella Francesco, di Castelluccio; Montemurro Nicola, di Acquavella; Passano Leopoldo, di Castellabate; Somma Angelo, di Corleto Monforte; de Mieri Raffaele, di Ceraso; di Spirito Luigi, di Montano Antilia; Pecora Mattia, di Camelia; Sabbatella Gaetano, di Felitto; di Leonardo Gregorio, di Quaglietta; Fortunato Pietro, di Torrearsia.
A 5 anni: Parlati Fiorindo, di Positano; Silvestri Michele, di Nocera; Manco Ciro, di Atena; Mancusi Giacinto e Angora Federico di Sarno; Botti Michele, di Rutino; Pirofalo Modestino, di Olivet o Citra; Paisi Alfonso, di Fisciano; Marone Vincenzo, di S. Giacomo; di Concia Domenico, di S. Menna; Vincenti Paolo, di Galdo; Danese Aniello, di Rodio; Coppola Giovanni, di S. Gregorio Magno; d’Aiutolo Nicola, di Pugliano; St r ommillo Giuseppe, di Go r ga; Gneco Angelo, di Rodio.
A 3 anni, Stnommillo Giovannangelo, di Gorga; Liguori Giuseppe, di Pugliano;
A 26 mesi: Correale Gaetano, di Sarno;
A 25 mesi: Gagliardi Giovanni, di Aquara; Gorga Benedetto e Glieimi Giuliani, di Roccadaspide; de Leo Prospero, di Contursi; Carelli Luigi, di Sala Consilina; Magno Carmine, di Camelia; Brunetti Giuseppe, di Bellosguardo.
A 2 anni; di Vito Aniello.
Moltissimi altri vennero condannati a pene inferiori, e all'esilio; moltissimi ancora alla speciale sorveglianza della polizia, e tra questi: Giuliani Guglielmo, di Roccadaspide; Cammarano Domenico, di Albanella; d’Elia Giuseppe, Rizzo Angelo e Ricci Catone, di Cardile; Romano Giovanni e Rocco, e Palladino Michele, di Sala Consilina; Trotta Annibaie, di Stio; Paolino Francesco e Quaglia Michele, di Trentinara; d’Agostini s Raffaele e Gennaro, di Frignano; Marotta Andrea, di Postiglione; di Marsico Domenicantonio, di Atena; Siniscalchi Sabbato, di Postiglione; Bamonte Rosario, di Capaccio; Vassallo Domenicantonio, sacerdote, di Torreorsaia; Pessolani Raffaele, di Atena; Capopizzo Rosario, di Altavilla Silenttna; Foti Lorenzo, di Postiglione; di Marsico Domenicantonio, di Atena; Verta Giuseppe, di Castagneta; di Costanzo Angelo, di Vallo della Lucania; Galloppo Matteo, di Sicignano; Galardi Rosario di Altavilla Silentina; Greco Gesualdo, di Rutino; de Dominicis Achille, di Ascea; Lafrancesca Raffaele e Francescopaolo, e Vacca Domenico, di Eboli; Giorleo Francesco, di Postiglione; Antico Francesco, di Roccadaspide; Petillo Francesco, di S. Mauro Cilento; Itri Tommaso e Massanova Gennaro, di Porcili; Matina Michele, di Diano; Capozzoli Raffaele di Aquara; Oricchio Pasquale, di Rutino; Savino Carmine, di Torreorsaia; Piantieri Antonio, di S. Mango; de Augustinis Michele, di Castel S. Lorenzo; Borrelli Gaetano, di Rutino; Giardini Antonio, di Ogliastro; Santelmo Vincenzo, Francesco e Antonio, di Padula; Zamarelli Raffaele e Pietro e de Feo Biagio, di Porcili; Lebano Pasquale, di Sessa Cilento; Rocco Giambattista, Onesti Antonio, Copeti Francesco e Domenico, di Campagna; Giorleo Pietro, di Postiglione; e Romei Gaetano, di Centola.
Di nobile stirpe discendevano Giovanni Avossa, Giovanni Bottiglieri, Domenico Giannattasio e Carmine Ruotolo distintissimi per virtù cittadine, alla patria, alla libertà votarono il loro ingegno.
Giovanni Avossa, fratello di quel Matteo che tanta parte ebbe negli avvenimenti del 1820; e di Saverio, il quale tenne acceso negli animi dei cittadini di Salerno e della provincia, la face del fuoco sacro alla patria libertà; fu lui che dopo la morte di costui p rese la direzione del partito e lo guidò attraverso e cospirazioni con Giovanni Bottiglieri, Nicola Giannattasio, Giovanni Centola e Carmine Ruotolo e fondarono la congiura la Propaganda, poi una sezione della Giovane Italia; e più tardi il Comitato d’Azione, che produsse il movimento politico del gennaio 1848.
Proclamatasi la costituzione Giovanni Avossa fu nominato comandante della Guardia Nazionale della città di Salerno, quindi deputato al parlamento, infine ministro dell'interno; che per la malferma salute non potette accettare.
Dopo l’eccidio del 15 maggio scrisse una lettera al Carducci, dissuadendolo dal tentare l'impresa delle Calabrie e della Basilicata. Eccola:
Salerno 21 maggio 1848.
«Ti recherà sui vapori francesi quest'altra mia lettera Ovidio Serino, che poco innanzi è qui arrivato da Napoli. La povera tua moglie sul rimbombo di certi rumori che le sono pervenuti all’orecchio, ha vivamente desiderato che io usassi la mia parola e la mia autorità presso di te a fine di preservarti da qualunque risoluzione subitanea ed arrischiata, che potessi per avventura tu prendere o seguire. Ebbene io accettando la sua preghiera ti dico — no, no, no, tu non devi ritentare la vita del rivoluzionario, la quale, caro Costabile, non si fa mai due volte al mondo, e se si fa non riesce. Prevengot i inoltre che né negli Abbruzzi, né nelle Calabrie, né nel Cilento potrai rischiar buona ventura. Nel Cilento verresti senza l’antico prestigio, trovando tu colà il tuo nome molto dilaniato: in Calabria, ed in Abbruzzo andresti tra gente straniera, ai primi rischi, agli ultimi onori, ed il tuo gran coraggio sarebbe minore dei tuoi perigli. Di guisa che potrei ben io da ora e di qui vaticinarti uno di questi crudelissimi destini; o tu cadendo nelle mani di un Governo inesorabile al legnerai i suoi trionfi, lasciando la vita su di un patibolo, o perirai per la mano comprata di un traditore. Per me me ne lavo le mani, e dichiaro innanzi a Dio che qualunque tuo tentativo discorde dal mio consiglio non solo è un’insania, una illusione puerile, ma è ima immoralità. Ed in vero in che deplorabile stato non rimarresti tu i tuoi miseri figli? Nudi, raminghi, sprezzati, avviliti ben avrebbero essi il dritto di maledirti fin dentro la tomba. Di quali e quanti dolori non hai tu straziata la scheletrita tua moglie? Ebbene! risparmiate almeno l'onta di vedersi chiamata un giorno la schernita vedova di un brigante… Ah! non ho il coraggio di finir la parola; ma tu ben sai che cosi si chiamano i ribelli che non vincono.
«Ma poi dimmi di grazia, qual è lo scopo che tu e gli altri compagni di sventura potreste proporvi nella fazion Calabra, Salernitana, o Abbruzzese?....
«Ma siete voi altri i giudici competenti di questa sovrana quistione? Sono gli errori e i delitti di una guerra civile buoni argomenti a risolverla? Anche io son di credere che la costituzione, dopo il giorno 15, poteva essere salvata colla Costituzione stessa, e senza violare la Costituzione; ma è sempre la rappresentanza Nazionale prossima a riconvocarsi quella che sola ha dritto di chieder conto ai Ministri dei loro traviamenti, è la tribuna il solo campo di battaglia, il solo Olimpo donde saranno saettati i nemici della Nazione.
«Fa che di questo mio coscienzioso avviso sien fatti consapevoli gli altri rifuggiati, e se il credi fa pur loro leggere questo mio foglio, senza curarti che dovesse venirmene mala voce. Addio, scrivimi una parola sola che sia di conforto alle angosce, in cui trovasi presentemente tua moglie, che sia di pegno a me di quella gratitudine ed affetto che mai fino ad ora hai violati.»
«G. D’Avossa»
Riconvocatisi i comizi elettorali, alla quasi unanimità di suffragi fu rieletto deputato insieme a Giovanni Bottiglieri e Domenico Giannattasio; ma poco dopo dovette esulare a Malta.
Giovanni Bottiglieri, oltre a ciò fu Carbonaro nel 1820 e dopo Filadelfo e sempre cospirò per la rovina della dinastia Borbonica.
Nel 1848, trovavasi in sulla barricata di S. Brigida ove combattette valorosamente; ma arrestato poco dopo che la reazione aveva trionfato, venne gittate insieme ad altri nella fossa detta del coccodrillo e giudicato poi dalla Corte Speciale di Napoli; nella famosa discussione della processura fatta a quarantadue sommi patrioti, che va riconosciuta sotto il nome di procedimento; della cospirazione per l'Unità Italiana, e ritornato nel 1860 fu tra quelli che dichiararono decaduta la dinastia borbonica.
Carmine Ruotolo, avvocato, onore del foro salernitano, puossi affermare essere stato l’oratore di tutte le adunanze politiche e l’educatore del popolo ai principi della vera libertà; non solo con la parola, ma benanco col giornale di quel tempo: La Guida del Popolo, di cui era uno dei principali redattori.
La polizia, non potendolo avere in suo potere dopo il 15 maggio, ne perseguitò la famiglia.
I due sacerdoti, Domenico e Giovanni, fratelli di lui, furono mandati nel monistero di Montoro con la qualifica di esaltati! la madre mori di dolore e quasi repentinamente nel 31 maggio alla vista degli sgherri che andarono a perquisire la casa; il fratello Daniele anch'egli mori a capo di pochi giorni, rimanendo sola e derelitta la sorella a nome Rosina; giacché i altro fratello Filippo era fuggiasco anch'egli, essendo stato condannato in contumacia dalla G. C. Criminale, perché, assalito dalle guardie urbane, oppose viva resistenza a mano armata; gridando: Viva la Costituzione.
Carmine Ruot o lo, del quale sonosi pubblicati i due indirizzi al Saliceti ed agli elettori (1) e che dimostrano la lealtà e la nobiltà del suo animo; dopo di essere stato latitante per più tempo, fu amnistiato e ritiratosi a Salerno, sempre sorvegliato dalla polizia, vi mori nel dì 8 novembre 1855, compianto dal popolo che aveva amato.
Nel cimitero di Salerno a cura del figliuolo Antonio, degno erede delle virtù paterne, gli venne elevato il seguente epitaffio: ,
ALLA
VENERATA MEMORIA
DI
Carmine Ruotolo
EDUCATO A FORTI E VIRILI STUDI
AMMIRABILE PER VIRTÙ DOTTRINA ED AMOR PATRIO
ILLUSTRE NEL FORO SALERNITANO
NATO IN SARNO IL 1810; MORTO ADDÌ 8 NOVEMBRE 1855
A. R.
POSE
Raffaele Morese, di antica famiglia patrizia salernitana, malamente vedeva il dispotismo col quale era governata la patria, perciò giovanissimo si affiliò alla Carboneria, e nel 1820 nei nove mesi di costituzione militò nei legionari; e quando il Borbone riprese il suo imperio se ne visse da privato, non tralasciando di nutrire odio intenso contro di lui.
Ebbe continue relazioni con i più noti liberali della provincia di Salerno e sebbene non pigliasse parte attiva ai diversi movimenti insurrezionali che avvennero, vi concorse con la sua agiatezza.
Appena la Giovane Italia cominciò ad aver vita, vi fu ascritto dal d’Avossa, col quale appartenne pure al Comitato d’Azione e preparò il movimento politico del gennaio 1848.
Decretatasi la formazione della Guardia Nazionale fu nominato comandante della prima compagnia e come tale ne assunse il comando affidatogli dal Carducci e dal d’Avossa, nel fatai giorno del 15 maggio, e devesi a lui, alla sua prudenza, se non si ebbero a deplorare disordini.
Chiamò i cittadini e le Guardie Nazionali alle armi e fece appello ai suoi colleghi dei paesi della provincia perché riunissero i loro militi e venissero in Salerno acciò d’accordo muovere per Napoli.
Onesto oltre ogni dire e fino allo scrupolo, non volle ritenere i ducati 110 affidatigli per decreto decurionale; e dei quali insieme all’ufficiale Leone, aveva rilasciato ricevuta; la ritirò dall'esattore comunale svagolandola col proprio danaro.
Restaurato il dispotismo, cercato a morte dalla polizia, essendovi contro di lui ordine di arresto, perché implicato anemie nella causa per la cospirazione, L’Unità Italiana e per la quale fu amnistiato con altri, andò fuggiasco per più anni in s ino al 1854, che si costituì spontaneamente in carcere e la gran Corte speciale di Salerno, sebbene difeso dal celebre Marino Serra, con sentenza del 19 gennaio 1855, lo condannò ad 19 anni di ferri duri.
Per ben tre anni soffrì in carcere e amnistiato nei primi del 1857, cospirò, sempre sotto la speciale sorveglianza della polizia, contro l’ultimo dei Borboni e mentre le sue aspirazioni eran per esser coronate, finì di vita nel 28 febbraio.
Federico della Monica e Carlo Alfieri, di Salerno, e Gaetano del Mercato, di Laureana, nel Cilento, erano delle forti e ardimentose nature. Amavano le più audaci imprese e le cercavano. Sprezzatoli dei pericoli, non badavano a quanto loro potesse avvenire, pur di conseguire l’intento.
Tutti e tre appartenevano alla Giovane Italia, e al Comitato d’Azione, s’intendevano con la gioventù più ardente e animata dall’amor di patria, tutti e tre uffiziali nella milizia cittadina e tutti e tre si distinsero nel 15 maggio 1848.
Non si tosto le libertà vennero represse abbandonarono il regno trasferendosi il della Monica e del Mercato a Torino, l’Alf ie ri a Londra, ove visse insegnando sino al 1860 lingua italiana, serbando sempre memoria della patria e di coloro che avevano tentato spezzarne le catene; precisamente col generale Pepe, che spesso gli scriveva dall'esilio, come fan fede le due seguenti lettere.
«Versa il le s 9 place d'arme s 31 Maggio 1850,
«Ho ricevuto la vostra lettera del 14 e vi ringrazio della memoria che di me conservate. Io nulla conosceva delle vostre vicende politiche e godo sentirvi campato dalle prigioni di Napoli.
«Mi dicono che le popolazioni di quelle province meridionali pensano in grandissima parte liberalmente. Sarà quindi agevole ritornare liberi nella nostra contrada se cambia la politica del governo francese.
«Auguriamoci il bene sopportando il male.
«Tra giorni apparirà il mio lavoro sulle ultime rivoluzioni italiane. Se con franchezza mi fate conoscere cosa se ne pensa costi dagli uomini sensati mi fate un vero regalo.
«Saluto caramente il nostro Rossetti: ditegli che appena ricevo il testo italiano di detto lavoro da Corina in molti esemplari gliene manderò una copia.
«Tutto vostro.
« Guglielmo Pepe»
«Mio nipote Damiano Assanti ritorna in Londra, ed io desidero che abbia il piacere di conoscervi e di darmi così notizie di voi, della vostra posizione, della vostra salute. Egli vi discorrerà dello stato politico della Francia, dell'Italia e sopratutto dell’infelice regno delle due Sicilie.
«Credetemi sempre a. voi affezionato.
«Guglielmo Pepe»
Ritornato nel settembre del 1860 fu incaricato dell’insegnamento della lingua francese nel liceo Tasso di Salerno e nel 1863, passò di questa vita.
Il della Monica fece in Piemonte un po’ di tutto, dal farmacista, al negoziante, al commerciante e quindi emigrò nella Svizzera, allorché;seppe che la gran Corte speciale di Salerno, insieme al del Mercato lo aveva condannato a morte in contumacia.
Reduce nel 1860, prese parte a tutte le campagne combattute per l’unità d’Italia, dal Volturno ad Aspromonte, al Tirolo, a Mentana, e sinanco per la repubblica francese nel 1870, nell'esercito dei Vosgi.,
In patria fu chiamato continuamente ad importanti cariche; come quella di consigliere municipale e provinciale e infine deputato al Parlamento, quale rappresentante il collegio d’Amalfi.
Fece rivivere la Massoneria e fu iniziatore di diverse istituzioni utili al popolo, tra cui la società operaia di mutuo soccorso fra gli industriali, operai ed artigiani di Salerno, e una società cooperativa alimentaria
Generoso, leale, probo, dissipò il suo avito patrimonio coi poveri e cogli operai senza lavoro e in non tarda età mori povero e compianto da tutto il popolo, che mestamente ne accompagnò la salma al cimitero e dove a cura della sventurata vedova, figlia della libera Elvezia, fu elevata la seguente modestissima lapide che ne ricorda il nome.
A
Federico della Monica
NATO IL 6 GENNAIO 1822
MORTO IL DÌ 8 GENNAIO 1877
LA SUA FIDA COMPAGNA
PRIMA DI TORNARE AI PATERNI LARI
QUESTA PIETRA PONEVA
IN MEMORIA
DEL LORO CALDO AFFETTO
E SU DI ESSA UN ULTIMO
E TENERO BACIO DEPONEVA
Gaetano del Mercato, fin dai suoi giovani anni trovossi impelagato nelle cospirazioni; precisamente in quella presieduta dal Poerio nel 1842 e nell'altra costituitasi in occasione della venuta in Napoli del conte Zambeccari; e per la quale, dopo aver subito un clamoroso giudizio, venne deportato alla Favignana, a disposizione del Borbone, e ritornato nel 1847 a Salerno a domicilio coatto fece parte del Comitato d’Azione.
Trionfata la rivoluzione in Sicilia; e decisa la necessità di far insorgere la provincia, egli se ne occupò a tutt'uomo scrivendo ai suoi amici nel Cilento.
Proclamata la costituzione, non essendo stato pubblicato alcun decreto d’amnistia raccomandò, con lettere, a tutti i comandanti le compagnie, che non abbandonassero le armi e le posizioni occupate sino a fatto compiuto e condugsesi dal ministro Bozzelli in Napoli a provocare il decreto della formazione della Guardia Nazionale provvisoria, nella quale fu capitano e come tale si distinse nel giorno 15 maggio e di successivi.
Condannato a morte esulò volontariamente a Torino per ritornare nel 1860.
Carlo Gaiani, nacque in Penta e fu educato al collegio di Pietrasanta in Napoli, e da tenerissima età mostrò animo nobile ed eminentemente liberale.
Completato che ebbe gli studi fu uno dei prescelti per componente la guardia d'onore del re Giuseppe Bonaparte, col quale parti per la Spagna, e si battette eroicamente in parecchi scontri, precisamente alla battaglia di Mirabona, in cui fu ferito e perciò nominato tenente e decorato cavaliere dell’ordine di Spagna.
Ritornato in Italia il generale Vicher y lo prescelse suo aiutante di campo e alla battaglia di Tolentino, nel 1815, combattuta da Gioacchino Murat, che decise delle sue sorti, ebbesi una letale ferita; per cui sul campo stesso venne proposto al grado di capitano, che non potè conseguire per l’abdicazione e la fuga di Murat.
In uggia al Borbone e suoi fautori, pel suo animo indomito, nel 1821, fu collocato quasi alla riserva, alla terza classe, e nel 1833 fu costretto addirittura a prender congedo dal militare e da quel di divenne cospiratore.
Fedele ai principi surti da natura, nemico acerrimo del dispotismo borbonico, congiurò e ne affrettò la caduta.
Fece parte della Giovane Italia e nel 1848, nominatisi gli ufficiali della Guardia Nazionale fu prescelto come capo battaglione e comandò una colonna di milizie cittadine nel 15 maggio, che si condusse a Salerno acciò muovere per Napoli in aiuto dei sollevati, e concorrere così con la sua opera all'Italico risorgimento. Scontratosi in un gendarme, latore di un plico al comandante le armi in Avellino, ne ordinò l’arresto e paralizzò il movimento delle truppe del tiranno, che doveva ostacolare l’insurrezione.
Mentre credeva realizzate le sue aspirazioni, fu costretto andare fuggiasco per più anni, fatto segno a nequizie, persecuzioni e sevizie; sino a quando si costituì in carcere e la Corte Speciale lo condannò, dopo un dibattimento di circa due mesi, ad anni otto di ferri, alle spese del giudizio e a ducati cento di malleveria.
Francesco Bracale, discendente da una delle famiglie più liberali della provincia, si ebbe uno zio, il sacerdote Antonio Bracale, fra i difensori della Repubblica Partenopea, nel 1799, il quale assediato in castel S. Elmo in Napoli dalle orde del cardinale Ruffo; avendo la guarnigione assoluto bisogno di viveri, tentò una sortita a capo di trenta Calabresi, e caduto in potere dell'esercito della Santa Fede, miracolosamente sfuggì a certa morte per opera di uno dei capimassa, tal Mariantonio Cosimato, suo compaesano, che per ignoti sentieri lo trasse in salvo. Cospirò poi per la rivoluzione del 1820 col fratello Giuseppe, padre di Francesco, il quale nei nove mesi del governo costituzionale, fu ufficiale dei legionari e prese parte alla guerra contro l’Austriaco che forzatamente veniva à ritogliere l e riforme liberali, ottenute con intimidazioni e paure dallo spergiuro Borbone.
In ogni tempo la casa dei Bracale fu soggetta a continuate perquisizioni e Francesco di tenera età, vedendo lo zio imprigionato, il padre fuggiasco prima, sottoposto ad esilio dopo, nutrì sempre odio intenso contro l'autore delle sciagure di sua famiglia.
Ascrittosi alla Giovane Italia, fece parte del Comitato Insurrezionale nel 1848; e proclamata la costituzione fu nominato capitano della Guardia Nazionale di Baronissi, suo comune natio; ed essendo stato il primo a venire con la sua compagnia in Salerno, all'invito fattogli da Morese nel 15 maggio, fu destinato a marciare coi suoi sopra Napoli per avanguardia.
Al tempo della reazione fu arrestato sotto la grave accusa di aver combattuto sulle barricate in Napoli; ma trovatala insussistente veniva rilasciato; e a capo di pochi giorni era imprigionato nuovamente quale appartenente ad una setta avente in mira la distruzione della famiglia regnante e suoi fautori; rinchiuso nelle segrete del carcere di S. Antonio ih Salerno e la compilazione della processura venne affidata al famigerato Siciliano, capitano di gendarmeria, che ad ogni costo voleva la ruina del Bracale.
Il processo precedentemente compilato, nella udizione dei testimoni, il Siciliano, operava l'infernale giochetto di non far scriv ere le dichiarazioni, sibbene firmarle soltanto con la formola: uniforme al comma: A. B. C; che confermavano esser il Bracale effettivamente capo di quella congiura. Chiuso il processo, nella relazione chiedevasi il rinvio dell'imputato alla Corte Militare; ma il Borbone a non suscitare scandali, negò la sua sanzione in Consiglio di Stato, e volle che fosse giudicato dalla Corte Speciale, la quale trovò difettoso il procedimento e ordinò si riesaminassero le prove, le quali dichiarando poi secondo coscienza, fecero cosi manifesta l’ infamia del prezzolato sgherro e si accordò al Bracale là libertà provvisoria.
Due altri procedimenti subì il Bracale, l'uno quale affiliato alla Giovane Italia, l'altro per esser venuto a Salerno il 15 maggio 1848; ma per mancanza di pruove fu assoluto e sottoposto alla speciale sorveglianza della polizia
In una delle tante perquisizioni fatte in sua casa dopo la reazione del 1848; dalle guardie urbane e dalla gendarmeria, si rinvenne la sua uniforme di capitano di guardia nazionale, che per solo disprezzo fu fatta indossare da un becchino che lo si condusse in berlina per tutto il paese.
Nel 1860, non ancora in tarda età appartenne a diversi Comitati Insurrezionali; e quindi come ufficiale della Guardia Nazionale, combattette sul Volturno insieme ai suoi due figliuoli Michele ed Ermenegildo.
Matteo Sica Alfieri e Aniello de Falco anch'eglino appartennero a diverse cospirazioni e capitani della Guardia Nazionale, vennero a Salerno il 15 maggio 1848 con la colonna del comandante Gaiani. Molto oprarono in quella giornata memoranda insieme ai loro uomini; e poco dopo furono arrestati.
La gran Corte Speciale condannò ad anni dieci di ferri duri l’Alfieri e il de Falco ad anni otto, alle spese del processo e a ducati 100 di malleveria per ciascuno.
Discendente di nobilissima e ricca famiglia di Celso, ridente paese del Cilento, era Fran c es c antonio Mazziotti, letterato insigne, versatissimo in diversi idiomi.
Giovanissimo assistette alla cacciata dello zio Gerardo in esilio; e più tardi alla morte del genitore, Pietro nelle malsane prigioni di S. Antonio in Salerno, arrestato pei fatti del 1828, e al quale negossi i estremo conforto di rivedere la madre, di stringere fra le braccia la compagna della sua vita e gli innocenti figliuoli.
Più che ad idolatrare e ad inneggiare tiranni, che in mille guise flagellavano il paese che lo vide nascere, volse il suo ingegno e la sua dottrina a cospirare pel patrio riscatto e con i suoi modi cortesi e gentili e più di tutto colla sua magnanimità spingeva i suoi compatrioti ad insorgere contro la tirannide; la quale, temendolo, l'obbligò nel 1838 a trasferirsi in Napoli con l’intera sua famiglia ove cospirò per gli avvenimenti del 1848 e insieme a Carducci, Le y pu c her ed altri, dopo d’aver debbellata la sua contrada, corse a capitanare il movimento insurrezionale in quel di Montecorvino.
Dopo la proclamazione della costituzione nella prima e nella seconda legislatura del parlamento napoletano vi venne eletto deputato a grande maggioranza e la sua parola facile e corretta a prò di coloro che a tanto lo avevano chiamato, e per la condotta da lui tenuta in occasione della famosa protesta del 15 maggio gli procurarono non pochi nemici nel campo reazionario; i quali non tralasciarono niun mezzo per annientarlo; sino a fargli attentare la vita da due sicarii, nella sera del 2 novembre 1849.
Già tutto era finito e il dispositismo faceva sentire nuovamente tutto quanto il peso della sua crudeltà sugl'infelici abitatori del regno delle due Sicilie, che Francescantonio Mazziotti deliberò di calcare la via dell'esilio e si ridusse in Piemonte, ove a capo di breve tempo seppe essere stato condannato alla pena di morte col terzo grado di pubblico esempio e alla confisca dei beni dalla Gran Corte Speciale di Salerno.
Affiliatosi al Comitato Rivoluzionario delle due Sicilie, fondatosi in Genova, nuovi e più acerbi dolori doveva provare il suo cuore. La polizia borbonica avuto sentore di tal fatto cominciò a perseguitarne i parenti e gli affini, tanto che nell’ottobre del 1854 comandò che si arrestasse la moglie, Annina Pizzuti e la si traducesse in Salerno. A stento la sventurata sfuggi alle prime; ricerche, conducendosi travestita e rinchiusa in una sporta atta a trasportar carboni; alla casina dei signori Moscati nella piana di Salerno, di quivi a Napoli, d’onde, protetta dall’amba sciatore di Francia, raggiungeva il marito; e la polizia napoletana delusa arrestava in sua vece il decenne figliuolo Pietro e moltissimi altri.
Nel 1860 Francescantonio Mazziotti, vedovo della sua degna consorte per essere ella morta colpita dal morbo asiatico, rivedeva i patri monti, e fu in quell’epoca, che si accentuò un movimento per mettere sul trono di Napoli il principe Leopoldo di Borbone e il marchese di Villamarina ambasciatore presso la corte di Francesco II dette incarico a Francescantonio Mazziotti di informarne il conte di Cavour; per la qualcosa partitosi non potette prender parte all'insurrezione cilentana di quell'anno.
Nel 1861 fu eletto deputato dei collegi di Montecorvino e Torchiara e accettò per quest'ultimo; che poi nel 1867 gli rinnovò il mandato.
Screzi, ambizioni mal represse, ire partigiane, per due legislature ei restò fuori l’aula parlamentare; sino a che nel 1878; ristucchi gli elettori dei bassi e volgari maneggi, mentre erano per affidargli nuovamente i loro interessi, la morte venne a colpirlo nel 29 gennaio di quell'anno.
Lasciò di sò, la fama d’uomo integro, leale, giusto, doti che oggi traspariscono nei degni figliuoli, Pietro e Matteo, amendue deputati al Parlamento per la terza circoscrizione di Salerno.
Medico dottissimo di Salerno si fu Giovanni Centola; canonico e sommo teologo di Sarno Filippo Abignenti, che in cima ai loro affetti avevano la libertà della patria e ad essa informarono i loro studi, non per desiderio di gloria, ma per vantaggio e onore dei loro nativi paesi.
Educatori severi e strenui parlavano alla gioventù di patria e libertà come le cose le più sante e le loro teoriche trasformate in succo e in sangue dai loro scolari arrecarono quale frutto la rivoluzione del 1848.
Carbonari prima, cospirarono a favore di Carlo Borbone e quindi nei loro paesi fondarono con altri una sezione della Giovane Italia, e poi il Comitato Nazionale.
Data la triste costituzione dal tristissimo Ferdinando furono eletti deputati al parlamento, tanto pei loro meriti patriottici che pel loro immenso sapere e dottrina; e nel fatai giorno del 15 maggio venuti, in Napoli per l’apertura della sessione furono testimoni degli scempi e delle turpitudini commesse dalle regie truppe e dai lazzari e costretti a fuggire andarono a ripetere commossi quelle scene di orrore ai loro concittadini.
Giovanni Centola perseguitato dalla polizia soffrì poi carcere ed esilio sino al 1860, in cui potette rivedere la patria e dai suoi concittadini resi liberi, venne nuovamente chiamato a far parte del parlamento, non più napoletano, ma italiano, acciò assicu, rare le sorti dell'Italia fatta una e libera.
L’Abignenti potè sfuggire all'ira del Borbone mercé l’aiuto dell'ambasciadore francese e andò prima a Civitavecchia, ove trovò il passaporto pronto e salpò per Marsiglia; ma a Genova il Lamarmora, i che assediava quella piazza, saputo che a bordo del vascello francese eranvi dei profughi napoletani, tra cui l'Abignenti, il Mazziotti e altri deputati li fece sbarcare e rimanere sotto la sua personale responsabilità.
Qui Abignenti fece parte del Comitato liberale per la corrispondenza con Parigi, e Londra auspice Aurelio Saliceti, e quindi, dopo dieci mesi appena, parti col Conforti per Nizza ove stette lungamente e volse la sua mente agli studi storici e filosofici, nei quali divenne maestro, e fu in relazione coi più eminenti filosofi e storici del tempo.
Pubblicista, scrisse sul giornale, l' Osservatore del Varo che sosteneva esser Nizza terra italiana, e vivissima polemica ebbe coll' Avènir de Nice, che parteggiava per l’annessione alla Francia.
Conobbe molti grandi, fu amico del generale Pepe e Fabrizii e avvicinò Garibaldi al ritorno dalle guerre d’America; e, nel 1859, fu incaricato dagli esuli napoletani di presentargli un indirizzo, che fece e lesse, a Porto di Limpia.
Entrato Garibaldi in Napoli, egli dopo tanti anni di esilio rivide la patria, e proclamato il governo Italiano fu capo ripartimento al ministero dell'istruzione pubblica e quindi incaricato di occupar la cattedra, istituita nella università di Napoli; della storia della chiesa, nel cui insegnamento levò alto grido.
Fu consigliere della cassa ecclesiastica, del Comitato per la spedizione di Mentana, scrittore nel giornale l’ Italia, Consigliere e presidente del Consiglio Provinciale di Salerno, consigliere comunale e assessore per la pubblica istruzione in Napoli e nel 1866, eletto deputato del Collegio di Angri, per equivoco la sua elezione, abbenché riuscita unanime, venne prima contestata, annullata poi, e rieletto nel 1867, appartenne alla sinistra della Camera, e fu uno degli oratori più stimati, pigliando parte a tutte le discussioni, precisamente a quella intorno alle guarentigie, alla soppressione delle facoltà teologiche nelle università e l’altra delle leggi eccezionali di pubblica sicurezza che combatté strenuamente.
Nel 1876 fu une dei vice presidenti della Camera e due volte sotto i ministeri presieduti dal Cairoli fu chiamato a reggere il dicastero dell'Industria e Commercio e costantemente rifiutò.
Fu membro del Consiglio superiore della pubblica istruzione, della Commissione di vigilanza per l’asse ecclesiastico e presidente e componente più volte quella dei bilanci.
Nominato consigliere di stato accettò, non cori l'ufficio di senatore a cui lo voleva il Depretis; dicendo essere il suo posto al fuoco vivo delle artiglierie della camera elettiva.
Uomo di vasta dottrina e somma erudizione, i posteri non potranno non onorarlo e dargli il nome di grande.
Giambattista Riccio, giovanissimo nel 1844, intraprese la carriera delle armi, quanto già faceva parte della Giovane Italia a Torchiara, ov'ebbe i natali; e nel 16 agosto del 1847 implicato in una cospirazione a Palermo, ove aveva stanza, la Gran Corte Speciale dell’isola, non trovando a deliberare sulla sua imputazione di attentato alla sicurezza interna dello Stato, lo rimise a disposizione della polizia, che lo ritenne in carcere sino a quando d’ordine del re venne trasportato in Napoli.
Appena intese gli avvenimenti del Cilento nel gennaio 1848 deserto dal reggimento la notte del 27, venne in Salerno e poi in quel di Montecorvino ove assunse il comando della rivoluzione, che appena sedata per la proclamazione dello Statuto, d’or d ine del Re venne congedato e quando la provincia di Salerno, com’un sol uomo insorse di nuovo dopo lo spergiuro di Ferdinando, capitanò la sollevazione nel territorio di Sala e Vallo, proclamando in diversi paesi il governo provvisorio.
Imprigionato, fu condannato alla pena di morte col terzo grado di pubblico esempio dalla Gran Corte Criminale di Salerno il 27 gennaio 1852, e dopo quasi un mese, il 21 febbraio, gli venne commutata la pena, prima a trent'anni di ferri duri, e più tardi a perpetuo esilio in America, ove non andò, e fecesi invece sbarcare in Inghilterra.
Nel 6 maggio 1859; prese soldo col grado di capitano nel primo reggimento cacciatori degli appennini, e nel 14 maggio 1860, nel cinquantaduesimo reggimento fanteria.
Il 23 maggio 1869 fu promosso tenente colonnello nel trentunesimo e il 26 aprile 1875 si ebbe la nomina di colonnello nella brigata Valtellina».
Prese parte alle campagne per l’Unità d’Italia che si combattettero nel 1859, 1860 e 1866, e a Custoza per aver condotto il suo battaglione con coraggio indescrivibile contro il tedesco e per aver coi suoi occupato una importante posizione sotto il vivo e continuato fuoco del nemico, venne decorato della medaglia d'argento al valor militare.
Nel 1882, fu nominato con buon numero di suffragi deputato al parlamento nazionale per la terza circoscrizione e in più occasione discutendosi leggi militari fece sentire la sua potente voce.
Filippo Patella, sacerdote, di Agropoli, appena apparirono i primi segni dell'Italica risurrezione, che manifestavansi con le congiure; volle appartenervi e fu di non poco aiuto alla causa della libertà.
Allorché dalla Roma dei papi partì il grido di costituzione, egli ministro del Dio liberatore, feciente già parte della Giovane Italia e del Comitato Nazionale; si uni ai generosi suoi compagni e nel 17 gennaio 1848 sollevò il Cilento, che corse quasi per intero proclamando ovunque il governo costituzionale, e non indietreggiò, né depose le armi se non quando il Borbone concesse lo statuto.
È doloroso il dirlo, egli dotto, sacerdote di Co lui che morendo perdonava i carnefici suoi, trascinato dall'idea della vendetta, e non sapendo opporre un diniego agli ordini del Carducci, fu uno degli esecutori della fucilazione dell'infelice Rosario Rizzo a Gioì.
Nel tempo che durò la costituzione venne vessato e perseguitato dal vescovo, suo superiore immediato; ed egli non se ne dolse, né fece rimostranze, pago di aver contribuito a render la libertà alla patria.
Appena Ferdinando II spergiurò riprese le armi e con molti altri sollevò non pochi paesi del natio Cilento, predicando ovunque e inculcando i cittadini a correre alle armi a sostenere la costituzione.
Carlo Pavone, come la maggior parte dei giovani ardenti di amor di patria, insieme al fratello Angelo, potentemente cospirò contro il Borbone ed ambidue furono preordinatori del movimento del 17 gennaio 1848, pel quale impaurito re Bomba promise la costituzione.
Appartennero alle diverse congiure che facevano capo a Salerno, si battettero nei diversi scontri che gli insorti ebbero coi borboniani e Angelo, anch'egli prese parte alla uccisione del Rizzo.
Istituite le Corti Speciali nel regno, ambidue, Carlo ed Angelo vennero condannati a venticinque anni di ferri duri.
Ebbero compagni nell'insurrezione Leonino Vinciprova, di Omignano; i fratelli de Augustinis, di Frignano; Giovanni de Angelis, di Castellabate; Ernesto del Mercato, di Laureane; Filippo Vitagliano di Montecicerale ed altri; i quali non solo presero parte alla rivolta del Cilento, ma alcuni coadiuvarono Riccio, come i de Augustinis e del Mercato, in tutti quei paesi ove entrò da vincitore; altri seguirono il Mazziotti, come Vinciprova, i fratelli Magnoni, i fratelli del Mastro e i fratelli Sodano e altri operarono da per loro, come de Angelis, che con molti suoi compaesani si condusse alla marina d’Agnone e spinse q uei cittadini a sollevarsi; e Rosario Ferrara che fece altrettanto in molti paesi.
Zelanti oltre ogni credere erano Giuseppe Maria Pessolani, di Atena Lucana, e Giuseppe e Girolamo de Petrinis di Sala Consilina; i quali da giovinetti dai loro congiunti, che tanto avevano operato per la patria, avevano appreso ad amare la libertà.
Appartennero alla Giovane Italia e al Comitato d'Azione e furono tra i primi a spingere i loro concittadini alla rivolta nel gennaio, e nel giugno e luglio 1848, dopo il nefando spergiuro di Ferdinando II; e unironsi a Riccio e lo aiutarono con tutte le loro forze nella impresa di liberare il paese.
Taluni potettero emigrare, altri imprigionati furono condannati dalla Gran Corte Speciale come il Pessolani alla pena di morte, che gli venne commutata in quella dell'ergastolo insieme ai fratelli de Petrinis, e alle spese del processo.
Nativo del Piano di Sorrento era Carlo Pascarella, versatissimo nelle scienze fisiche e matematiche, esercitava con nobile decoro la professione d'architetto a Salerno, ove conviveva con la famiglia; e dove cospirò per la rivoluzione del gennaio 1848, nella Giovane Italia e nel Comitato Nazionale.
Formatasi la Guardia Nazionale fu nominato capitano e da Costabile Carducci, che era stato chiamato ad organizzarla, s’ebbe l'incarico di andare a rilevare duemila e cinquecento fucili dalla fortezza di Capua e lo fece con amore e coraggio, dividendoli poi ai diversi comuni della provincia.
Il 15 maggio, fu tra i più ferventi e con parole e con atti incitò i cittadini a sollevarsi; e, appena il movimento fu represso, gli fruttarono continuate persecuzioni e vessazioni di ogni sorta da parte della polizia.
In una delle sue gite a Napoli per ragione di sua professione presso l'ingegniere Petrilli; una denuncia privata ve lo fece sorprendere e l'ispettore di polizia Palombo, d’ordine del direttore generale esegui in quella casa una minutissima perquisizione dovendovisi trovare un deposito d'armi e munizioni e gran numero di persone che vi si conducevano per congiurare. Abbenché tutto riuscisse a vuoto, vennero arrestati l’architetto Petrilli e il nipote, che alla dimane furono messi in libertà, ed egli, il Pascarella, venne trasportato nelle carceri di Santa Maria Apparente, ove era il barone Giovanni Bottiglieri, deputato di quell'epoca al parlamento e dove dopo breve tempo vi furono trascinati molti insigni patrioti, tra cui il de Falco e Francesco de Siervo, genero del barone Mazziotti.
Dopo alcuni mesi di carcere fu rimandato a Salerno a disposizione della polizia e l’intendente Valia rendevagli la libertà a patto della diurna presentazione in ufficio e con l'obbligo di mai allontanarsi dal domicilio prescelto.
Non immune da persecuzioni fu Matteo Pascarella, fratello di lui, perché dotato anch'egli di sentimenti oltremodo liberali, si era adoperato con ogni mezzo che era in suo potere, nel 15 maggio, al mantenimento della costituzione!
Dopo di quest'epoca fu destituito dall'impiego, che aveva presso l'archivio notarile e insieme al fratello fu assoggettato alla speciale sorveglianza.
Michele Lauro Grotto e Matteo Natella, di ricche famiglie salernitane, mostravansi amanti di libertà, seguirono quelli che per ingegno e virtù avevano accettato le nuove idee e fino dal 1844, con tutto l'ardore della loro età giovanile cospiravano col d’Avossa e con coloro i quali si era questi circondati.
Furono nominati capitani della guardia nazionale nel 1848, e nel 15 maggio aiutarono e diressero il movimento e si sarebbero condotti anche in Napoli a combattere le orde borboniche, se tale spedizione non fosse stata scongiurata.
Tristissimi volgevano i tempi pel regno di Napoli, giacché Ferdinando II faceva uso di una spietatezza senza confine per soffocare con ogni mezzo e con l’aiuto di mercenarie truppe ogni alito di libertà e ristabilire l'antico dispotismo.
Già tutte le leggi in vigore prima del 1848 avevan riprese il loro imperio e le prigioni di Stato eran colme di sventurati, che insultati, maltrattati, fatti segno ad atroci tormenti e crudeli sevizie, molti vi morirono affranti da acerbi strazi e tra questi: Marchionne Antonio, di Aquara; d’Aiutolo Giuseppe, di Montecorvino Pugliano; Strommillo Angelo, di Capaccio; Conforti Pasquale, di C astelluccio; Pascale Biagio, di Postiglione; di Grado Domenicantonio, di Castellabate; Procenzano Francesco, di San Cipriano Picentino; Comito Antonio, di Eboli; Palladino Pasquale, di Sala Consilina; Cantalupo Pasquale, di Altavilla Silentina; ed altri moltissimi.
La nefanda e proterva polizia operava arresti per proprio conto e sorvegliava aspramente i migliori patrioti, i quali per questo non si perdevano d’animo e congiuravano.
A Sarno si costituì una cospirazione da Fabio Ungerò, Lodovico e Giacinto Masucci, Salvatore Squillante e Michele de Vivo.
Un’altra cospirazione cominciava a diffondersi in Giffoni Valle e Piana, a cui appartenevano: Vincenzo di Sabbato, Domenico, Alfonso, Luigi e Aniello de Vita, Filippo, Luigi e Gennaro Tedesco, di Giffoni; Vincenzo Lombardi, Bernardino e Giuseppe Diletto, di Fisciano; Nicolangelo Lamberti, di Santa Lucia, villaggio di Cava dei Tirreni, e Filippo di Stasio, di Vietri sul mare.
In diversi paesi furonvi voci di prossimi rivolgimenti politici, come a Lone, frazione del comune di A m alfi, in cui vennero arrestati Mariano e Gaetano Carrano; ad Atrani Biagio Prota; a Bracigliano Francesco e Federico de Caro e Giovanni, Clemente, Raffaele e Ferdinando Basile; perché alla contrada denominata S. Nazzar i o spingevano alcuni loro compaesani ad iscriversi in una società segreta non essendo lontano, dicevano, il giorno di una nuova insurrezione.
Il Borbone proseguiva nella sua barbarie e altre moltissime crude sentenze faceva emanare da una magistratura totalmente ligia alla sua tirannide e nuovi sventurati si aggiunsero a quelli ritenuti rei pei fatti del 1848.
Intanto il ministro inglese Gladstone venne in Italia e al suo ritorno riportò tali tristissime impressioni delle condizioni in cui versavano le diverse regioni della penisola, che non potette astenersi di scrivere talune lettere e svelare all'Europa il modo barbaro come gli italiani eran governati, precisamente il regno delle due Sicili e, il cui governo non esitò a chiamar: Negazione di Dio.
Tali rivelazioni spinsero i gabinetti di Parigi e di Londra a far serie rimostranze a quello di Napoli, dichiarando che la quiete Europea sarebbe stata scossa qualora non si fosse conceduta una costituzione, non si riformasse la giustizia e l’amministrazione e non si trattassero in modo più mite i prigionieri di Stato.
Ferdinando non si mosse e per solo capriccio esautora Giustino Fortunato da presidente dei ministri e lo surroga con Terove, il quale per questo nuovo ufficio cede il portafoglio della pubblica istruzione, che aveva precedentemente, a Francesco Scorza; incarica il principe di Traetto, Luigi Caraffa, del ministero degli esteri e nomina il tristissimo Oronzio Massa a quello di polizia, in luogo del defunto triste Peccheneda; per la qualcosa Francia e Inghilterra ritirano i loro ambasciadori e troncano ogni relazione diplomatica con lo spergiuro.
In Napoli discutevasi la causa della cospirazione l’Unità Italiana e in Salerno quelle per gli avvenimenti del 16 maggio; e fra i tanti quattro Guardie Nazionali, che oltre a quell'imputazione avevano anche l’altra di voler sommuovere il regno il 15 e 16 gennaio 1849, e questi erano Criscuolo Francesco, Postiglione Simone, Barbato Giovanni e Marigliano Nicola; ai quali si aggiunsero: Scaramella Raffaele, d’Amato Luigi, Calieri Giovanni, Canoro Ferdinando, Napoli Luigi, Cositore Francesco, Plantulli Bonaventura e Grimaldi Giuseppe, contro di cui acerbamente inveiva il procurator generale, il famigerato Gabriele, e questo procedere indignava tutti.
Un nuovo partito si diffondeva nel regno, il mura t ista, per opera di Luigi Napoleone, il quale voleva porre in campo la quistione italiana, scacciar l’Austria dal Lombardo-Veneto, per cederlo al Piemonte; promuovere una sollevazione in Toscana e nelle due Sicilie, per dare la prima al principe Napoleone, la seconda a Luciano Murat; figlio del giustiziato del Pizzo.
Anche in Salerno si fondò con tale scopo un comitato nel giugno del 1854; e al quale appartennero: Giovanni e Gennaro Avossa; Alfonso Origlia, Giovanni e Matteo Luciani, Raffaele Rinaldi, Raffaele Naddei, Matteo Marchesano, Pietro Sessa, Francesco Gerenza, Carlo Maione, Raffaele Sparano, sacerdote, Michele Rossi e Lorenzo Alemagna, e ben presto si diramò nella, provincia avendovi aderito moltissime e autorevoli persone; tra cui: Carlo e Giuseppe Postiglione di Sanseverino; Giuseppe, Agostino, Pietro e Nicola d’Aiutolo, Filippo Jorio, Fortunato della Calce, e Carlo e Michelangelo Bruno, di Pugliano; Michele Melone, Vincenzo de Giorgio, Stanislao di Maggio, Saverio d’Agnese e Pasquale Duccillo, di Occiano; Pietro d’Alessio, di Orneto; Ciriaco di Maggio, Domenicantonio e Carmine Foglia, di Gauro; Francescosaverio ed Errico Cappotta, d’Elia Vincenzo, Potolicchio Carmine, Famiglietti Nicola, Andria Alfonso e Francesco, Greco Tommaso, de Martino Donato e Giuseppe, Foglia Lorenzo e Andrea, Fasano Michelangelo, Visconti Luigi, de Vita Aniello, e di Tore Aniello, di Giffoni; Cauli Raffaele e Gioas Angelomaria, di Padula; Cestari Gaetano, Nicola e Saverio, Greco Antonio e Nicola e Gerbasio Francesco; di Montesano sulla Marcellana; Gagliardi Francesco, Maccarone Vincenzo e Domenico, Giffoni Pasquale e Mega Prospero, di Santa Marina; Matina Benedetto, di Diano; Falcone Socrate, di Policastro; Passaro Giuseppe, Francesco, Vincenzo e Carmine, di Vallo della Lucania; de Stefano Silvio, Domenico e Alfonso e Torre Raffaele di Amalfi; ed altri, mentre a Parigi si costituiva solidamente il comitato centrale composto di Saliceti, Sirtori, Licabo, Ruffoni e Montanelli.
Il noto cospiratore Giuseppe Mazzini lavorava in senso perfettamente opposto, per l’Unità d’Italia; e perciò nuove congiure, dette mazziniane, o unitarie fondaronsi nel regno; e alle quali tosto fecero adesione i più zelanti di amor patrio, anche quelli che già avevano accettato il programma murattista, non volendo eglino in niun modo acconsentire a vedere una nuova dominazione straniera nel regno. In Napoli adunque costituitosi il Comitato Centrale Unitario deliberò si sollevasse la Sicilia, e in breve il barone Francesco Bentivenga, di Corleone, già deputato al parlamento siciliano del 1848, seguito da oltre duecento armati invade Mezzoius o, Villafrate, Ciminna, Ventimiglia e chiama il popolo a libertà ma questo gli si mostrò freddo e indifferente. Solo Francesco Guarneri con piccola, ma audace schiera di giovani ne segue l'esempio e s’impadrona di Cefalù, ove libera tutti i prigionieri politici e tenta di passare oltre; ma le autorità dell'isola, prima che i rivoltosi potessero ordinarsi mandarono loro contro molte truppe, li sbaragliarono e ne arrestarono i capi tra cui il Bentivenga, il quale sottoposto al giudizio della Corte Speciale f u condannato insieme ad altri ad esser moschettato.
Riuscito a vuoto questo primo tentativo, gli animi dei patrioti esacerbati pei fatti di Sicilia deliberarono uccidere il tiranno e la scelta cadde sul giovane calabrese, Agesilao Milano, che militava nelle file dell’esercito borbonico, e a compimento della impresa il dì otto decembre 1856, in cui Ferdinando in omaggio alla festa della Vergine Immacolata, passava a rassegna le truppe al campo di. Marte.
Venne il giorno fatale, e mentre il re assisteva allo sfilare dei soldati, il giovane Milano, del terzo battaglione cacciatori, con impeto col fucile armato di baionetta gli vibrò un colpo, che per subitaneo moto dell’aggredito, o perché male assestato, la punta colpi la fonda dell’arcione e si torse. Certo avrebbe egli replicato i colpi se un colonnello degli usseri, del seguito di Ferdinando non lo avesse atterrato spingendogli addosso il cavallo.
Arrestato, dopo tre giorni, condotto al largo del Cavalcatolo in Napoli, con un cartello al petto ove era scritto: Uomo empio, venne impiccato.
Due fatti, avvenuti pe r opera del caso; lo scoppio di un grosso barile di munizione, mentre trasportavasi alla polveriera, eretta sul molo militare, e quello della fregata Carlo III, pronta a salpare per la Sicilia, carica di armi e munizioni; che si ritennero opera dei rivoluzionari, impaurirono il Borbone, che si rifuggiò a Caserta e circondò la reggia delle sue più fidate milizie.
In si trist’epoca per Napoli, Mazzini non si scorava, anzi raddoppiava d’energia, non volendo in alcun modo che un movimento murattista, mettesse sul trono Luciano, che col potente aiuto di Napoleone sarebbe stato difficile rimuovernelo; e avendo saputo che egli, il pretendente, aveva convocato a Ginevra un congresso presieduto dal Saliceti, in cui erasi deliberato di attuare tre sbarchi nel regno di Napoli, uno dei quali da eseguirsi nella provincia di Salerno con truppe francesi e polacche; misesi all'opra con tutte le sue forze, perché un movimento nazionale avvenisse ed eccolo porsi d’accordo con Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera, ed altri emigrati nella casa Mignoga a Genova e stabilirono la spedizione di Sapri pel 13 giugno; ma che una tempesta fece sì che non si potesse effettuare.
Il Comitato Unitario della provincia di Salerno assicurava esser tutti pronti a dar loro aiuti qualora uno sbarco avvenisse perché in tutti i paesi eranvi gente affiliate; e tra esse: Magnone Luigi, Michele, Nicola e Domenico, Donnabella Carmine, Fucilli Antonio e Giovanni, Melella Antonio, e Andrea; Pizza Cosmo, Brigante Nicola, Rinaldi Giuseppe, Michele e Luigi, Verdoliva Pasquale e Longo Antonio, di Rutino; Giordano Matteo di Omignano; Giordano Pietro di Ceraso, Gemelli Luciano, di Frignano; Mazzarella Cristofaro, di Casigliano; Matina Giovanni e Agresti Filippo, di Diano; Lagalla Francesco, Romano Federico Santelmo Antonio, Giovanni, Francesco e Vincenzo, Vecchio Giovanni, Forte Francesco, Antonio e Angelo, Curci Basilio, Santoro Antonio, Mugno Fiorante, Scolpino Paolo, Masullo Raffaele, di Zero Nicola, Tabaco Vincenzo, Arato Michele, Romano Feliciano, Libertini Giuseppe e Padula Vincenzo, di Padula; Bellezza Angelo, di Buonabitacolo; Galletti Giovanni e Salvatore, di Sapri; Jannuzziello Vito e Caporale Vincenzo; canonico, di Castelnuovo di Gonza; Scarponito Giovanni, Sabbatella Gaetano e Parisi Nunzio, di Rofrano; Sabella Lorenzo, di Agnone; Ferracci Francesco, di Petina; Tommarella Felice, di Montesano sulla Marcellana; Cuccurullo Francesco, di Cava dei Tirreni; Cioffi Vincenzo, di Tortorella; Carini Pietro, di Pellere; Galardo Tommaso, di Roccadaspide; della Monica Alfonso, di Cava dei Tirreni; Melillo Luigi, di Montecorvino; Maccarone Giovanni, di S. Marina; di Nocera Saverio, di Siano; Panza Vincenzo, di Controne; Quaranta Angelo, di Palo; Romano Antonio, di Atena; Riviello Giuseppe, di Postiglione; di Stasio Pietro, di Vieto sol mare; Tiano Luigi, di Pagani; Tropiano Gaetano, di S. Pietro al Tanagro; Villani Nicola di Postiglione; del Pozzo Federico, di Montecorvino, e moltissimi altri.
Allora Pisacane, fattosi cedere dal generale Cosenz il passaporto che dovevagli servire per ridursi in Napoli ad assumere la direzione della rivoluzione, vi venne lui in sua vece per assicurarsi dello stato vero delle cose. Tre giorni rimase in Napoli e dopo di aver preso gli opportuni accordi cogli uomini del Comitato, che gli promise l’intero suo appoggio, ritornò in Genova e si occupò seriamente della spedizione, scrivendo all’uopo al presidente del Comitato di Napoli.
Il 24 giugno erano tutti pronti e già avevano imbarcate sul vapore «Cagliari » della Società Rubattino, le armi e le munizioni, e seppero che i macchinisti a bordo di quella nave erano inglesi, ed eglino ignari della lingua né sapendo come avvicinarli per farsi intendere pensarono far trascrivere in quell'idioma dalla signora W h ite, il seguente proclama:
«Noi desideriamo evitare spargimento di sangue, unico scopo nostro è di liberare i nostri fratelli dalle orribili prigioni di re Bomba di Napoli, si giustamente odiato dagli Inglesi.
«Aiutandoci nei nostri sforzi, voi dovete avere la coscienza di fare una buon’azione, la quale sarà approvata dalle due nazioni Italiana e Inglese.
«Voi inoltre avrete il merito di salvare la nave ai vostri padroni. Ogni resistenza è vana. Noi siamo risoluti a compiere la nostra impresa.»
Il giorno 25 s’imbarcano sul Cagliari, in qualità di passeggieri: Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera, Giambattista Falcone, Giovanni Galiani, Luigi Barbieri, Gaetano Poggi, Achille Perugi, Cesare Fardoni, Felice Poggi, Domenico Rolla, Cesare Pori, Federico Foschini, Lodovico Negroni, Domenico Lerici, Francesco Meduscè, Lorenzo Giannone, Giuseppe Falcone; Giovanni Gonnellari, Domenico Mazzoni, Giuseppe Daneri, Pietro Rusconi, Agostino Ghio; i quali appena a bordo scrissero e firmarono la seguente dichiarazione:
«Noi qui sottoscritti, avendo tutti congiurato, forti nella giustizia della nostra causa, e nella gagliardi a del nostro animo, ci dichiariamo gl'iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non ci asseconderà, noi senza maledirlo sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange dei martiri italiani.»
Avevan percorso appena poche miglia, e assalgono il capitano, Antioco Sitzia, e lo costringono a cedere il comando a Daneri, perché capitano marittimo, e si diriggono verso Ponza; ove approdano verso le 4 pom. del giorno 27, portando il Cagliari bandiera sarda a poppa e bandieretta rossa a prua in segno di avaria alla macchina, e chiamato a bordo il pilota con minacce, lo costrinsero a guidare il vapore all’imboccatura del porto. « Frattanto, cosi si esprime Vincenzo Giordano nel suo libro: La Vita e i discorsi parlamentari di Giovanni Nicotera», il comandante dell’isola, avendo incaricato il capitano del porto e l’aiutante di piazza di verificare lo scopo dell'arrivo di quel vapore con bandiera Sarda, costoro vi andarono personalmente e fecero salire a bordo due dei loro, i quali vennero fatti prigionieri dai congiurati. Il Nicotera costrinse costoro, tenendogli una pistola spianata contro, ad indurre il capitano del porto a salire a bordo, ed essi pre si dalla paura, riferivano al capitano le parole che l oro venivano suggerite dal Nicotera, che tenevano nascosto alle spalle. Ogni opera però fu inutile, dacché il capitano non volle salire. In questo mentre vennero gittate in mare tre lancie del vapore. I n una di queste discese Daneri, con in mano la patente sanitaria per la libera pratica, Nicotera, Falcone ed altri cinque che con ardimento più unico che raro avevano per iscopo di farsi consegnare le armi e le munizioni.
La lancia si accostò alla banchina del porto doganale, ove era anche l’ufficio di sanità. Quivi giunti il deputato di salute si accostò a Daneri e gli disse che aspettassero l’arrivo del cancelliere della deputazione. Mentre ciò avveniva il Pisacane in altra lancia con entro dieci compagni si diresse alle. spalle del porto, e sbarcarono gridando: «Viva l’Italia! — Viva la Repubblica! » . Allora il Nicotera cogli altri suoi saltarono a terra, arrestarono i due deputati di salute ed impadronitisi del posto doganale, ve li rinchiusero rimanendovi Daneri a guardia, armato di pistola. Dalla terza lancia discesero Agostino Ghio ed altri otto: si gittarono ad un tratto sopra da scorritoia reale ancorata nel porto, sequestrarono i due ufficiali e tre marinai che vi stavano a guardia, e ne inchiodarono il cannone. Il drappello di Pisacane assalì la gran guardia, disarmò i veterani che la custodivano, e s’impadron ì del posto e delle armi ivi esistenti. Nicotera coi suoi assali l’abitazione del comandante per farsi cedere tutte le armi dell'isola. Un ufficiale che Nicotera prese pel comandante, gli si pose di fronte colla spada sguainata e gl i impedì il passo. Il momento era decisivo: uno dei due doveva restare lì: non v’era da retrocedere: Nicotera in un subito vide e misurò tutta la posizione in cui si trovava: se il passo falliva ogni cosa era perduta, audace dunque quale egli era non si atterrì davanti alla spada di un ufficiale del Borbone e con un pugnale che aveva, e che mai si pensava di doversene servire in quel rincontro, uccise quell’uomo e ritornò in istrada. Quivi Pisacane gli ripeté che bisognava andare dal comandante dell'isola per farsi dare l’ordine di resa, le armi e le chiavi delle prigioni. Nicotera gli rispose che il comandante l’aveva ucciso. Uno dei soldati presenti disse allora a Nicotera che l’ucciso non era che un ufficiale e che il comandante era ancora nella sua abitazione. Nicotera( ; ) allora coi suoi compagni risalì la casa del comandante. Quel vecchio impaurito gli si fece innanzi accompagnato dalla moglie e dalle figlie piangenti, impetrando la vita. Il Nicotera gli rispose, consegnasse le armi e le chiavi delle prigioni, nulla avesse a temere, che non assassini, ma Italiani, venuti a combattere per l’indipendenza della patria, si trovavano a lui davanti.
I soldati, non ostante l’ordine scritto, intendevano di resistere ad ogni costo. Allora Pisacane fece dai suoi scortare il comandante dell'isola alla torre, perché personalmente ordinasse la resa e la consegna del l e armi e munizioni da guerra.
I soldati consegnarono le armi, il comandante le chiavi delle prigioni e cosi un pugno impercettibile di uomini non armati d’altro che di audacia e di fede nella causa per la quale avevano dato l’ardito passo, divenivano padroni dell’isola.
Immantinenti i relegati politici e non politici, vennero messi in libertà. Non tutti però presero le armi per la patria, che anzi molti di quelli che non partirono più che giovare nocquero, perché di fucili, con tutti quelli presi nell'isola, a bordo se ne trovarono meno di quelli che già vi erano.
Imbarcatisi sul «Cagliari» un 200 di quei detenuti ed un centinaio di quei militi in punizione, ad un’ora dopo mezzanotte si salpò da Ponza.
In questo frattempo un tal De Leo, murattista, avversando una spedizione, animato da spirito nazionale, non contento di aver insinuato a molti di non partire, anima vile e codarda qual’era, ebbe un pensiero triste: si mise in una barca e difilato corse a Gaeta, ove era il re per riferirgli l’accaduto. Ebbe in compenso del tradimento: condono di pena e licenza da farmacista. Ecco un murattista convertito in spia; quante spie non facevano i murattisti?
Durante il tragitto da Ponza a Sapri tutti gli uomini imbarcati sul «Cagliari» erano stati ordinati in tre compagnie di dieci squadre, generale Pisacane, Nicotera colonnello.
Intanto il Governo borbonico avvertito del fatto di Ponza prese subito le disposizioni le più sollecite e per mare e per terra. Se sbarcano neppure uno ne scamperà dalle forze di terra; se non sbarcano tutti saranno catturati dalle forze di mare. La sera del 28 giugno a Gaeta furono imbarcate quattro compagnie dell'undicesimo cacciatori sulle fregate « Ettore » e « Tancredi » che partirono alle prime ore del 29 per dar la caccia al «Cagliari».
Anche per terra furono prese tutte le disposizioni necessarie. Si avvertirono le autorità civili e militari della provincia di Salerno dell'intendimento dei rivoltosi; di sbarcare cioè in quelle spiagge, sollevare i paesi che percorrevano, far capo a Potenza, e crescendo di numero e di forza, dirigersi a Napoli e portarvi la rivolta.
I congiurati però dovevano, una volta sbarcati, passare il distretto di Sala, e qui si concentrarono le forze regie, e la mattina del 29 giugno già v'erano riunite diverse brigate di gendarmi a piedi, un buon numero di gendarmi a cavallo, le guardie urbane dei vicini comuni, ed il 7° battaglione cacciatori che vi si era recato da Salerno.
Intanto la notte tra il 27 ed il 28 giugno il Cagliari » si avvicinava intrepido verso il basso Cilento, dove portava tanto tesoro di patriottismo e di abnegazione: nuova falange delle Termopili eubee, destinata anch'essa ad empire la storia dell'eco dell’ultimo suo sospiro. Prima però che quei coraggiosi abbandonassero il battello del quale si erano impadroniti colla forza per tentare l'eroica impresa, scrissero la seguente dichiarazione che venne sequestrata a bordo dalla più esosa delle polizie, la polizia napoletana.
«Noi qui sottoscritti, dichiariamo altamente che avendo tutti congiurato d’impossessarci del vapore «il Cagliari» ci siamo imbarcati come passeggieri. Dopo che eravamo due ore lontani da Genova, abbiamo impugnato le armi, e forzato il capitano e tutto i equipaggio a ceder il comando del vapore. Il capitano e tutti i suoi, vedendoci decisi piuttosto di perire che di cedere, hanno fatto quanto era in loro per potere evitare lo spargimento del sangue e tutelare gl'interessi dell'amministrazione. Bravi a bordo come passeggier o per Cagliari, il capitano marittimo Daneri; avendolo saputo, l’abbiamo co stretto a prendere il comando: egli ha ceduto alla forza, né poteva fare altrimenti sprezzando le calunnie del volgo, stretto dalla giustizia della causa e dalla gagliardia delle nostre armi, ed operiamo da iniziatori della rivoluzione italiana.
A Sapri era allora giudice un tal Gaetano Fischietti, il quale ricevuto le istruzioni del suo Governo, sorvegliava la spiaggia in compagnia d’un capitano marittimo, che doveva riconoscere da lontano la nazionalità dei navigli che passavano per quelle acque, dacché ritenevasi per fermo che lo sbarco si sarebbe tentato con legni inglesi.
Un bel giorno venne segnalato un vapore sospetto. Il giudice si recò sopra un’altura col suo capitano a fianco per sapere di che si trattava. Il capitano giudicò che il legno era inglese, perché lo scafo presentava certe particolarità caratteristiche di costruzione, quali non ne presentava nessuno della marina napoletana. Subito il giudice dispose ogni cosa sia perché un possibile sbarco di ribelli fosse accolto a fucilate, sia perché nello stesso tempo si fossero potuto uccidere o arrestare i componenti la spedizione.
Fra il giudice a terra e Pisacane a mare cominciò una logomachia di astuzie, di espedienti, di finte, l’uno per riuscire a tendere il laccio nel luogo opportuno, l’altro per arrivare a compiere lo sbarco senza pericolo dei suoi uomini.
Il giudice fece mettere sotto le armi le truppe, chiamò le guardie urbane, sguinzagliò tutti i poliziotti vestiti e travestiti, sparse le spie per tutto é sorvegliò la costa, Il «Cagliari » durò un pezzo a bordeggiare poi spari, e quando meno se lo aspettavano quei di Sapri, venne effettui t o rapidamente lo sbarco nel luogo meno guardato, cioè tra Policastro e Sapri, in contrada Olivete nel tenimento di Vibonati. E così nella notte tra il 28 e 29 giugno Carlo Pisacane e Giovanni Nicotera si trovarono su quella spiaggia, seguiti da quel pugno di generosi, con coraggio più unico che raro, ed innalzarono lo stendardo dell'insurrezione al grido di «Viva l’Italia!». Cosi essi si spinsero in un’impresa, della quale nel loro patriottismo non si curavano neppure di misurare il temerario ardimento: era ardimento eroico dinanzi al quale chiunque ama il suo paese deve inchinarsi. Approdata che fa quella coorte sul lido di Sapri, Pisacane e Nicotera sparsero per quei luoghi il seguente proclama:
«Cittadini! — E tempo di porre un termine alla sfrenata tirannide di Ferdinando II; a v o i basta volerlo. La Capitale aspetta dalle provincie il segnale della ribellione per troncare la quistione in un colpo solo. Per noi il Governo di Ferdinando ha cessato di esistere, ancora un passo e avremo il tempo, facciamo massa e cominciamo dove i fratelli ci aspettano; noi abbiamo lasciato le famiglie e gli agi della vita, per gittarci in una intrapresa che sarà il segnale della rivoluzione, e voi ci guardate freddamente come se la causa non fosse la vostra? Vergogna a chi potendo combattere non si unisce a noi. La vittoria non sarà dubbia; il vostro esempio sarà seguito dai paesi vicini, il nostro numero crescerà ogni giorno più, e in breve tempo saremo un esercito di libertà.»
Gli abitanti però non risposero all'appello (1) dei rivoltosi, gli uni perché pensavano che quel manipolo di uomini non potevano avere probabilità di riuscita, gli altri perché affidandosi alle voci sparse dagli agenti del borbone, li credettero forzati evasi venuti a saccheggiare, si nascosero aspettando l’arrivo delle guardie urbane e dei battaglioni dei cacciatori. Intanto i sollevati si diedero alla ricerca di quella gente armata promessa dal Comitato nazionale di Napoli a Pisacane, mossero verso il fortino col disegno di prendere la volta di Potenza, che era stata destinata come punto centrale della rivoluzione, ove dovevano riunirsi gli affiliati di tutti i punti, per guisa da concentrarvisi trentamila uomini e marciare sulla Capitale, dove sebbene il partito nazionale era poco esteso, pure era audace e contavasi di impadronirsi per sorpresa di S. Elmo e del Castelnuovo.
Questo moto non essendo isolato doveva produrre il suo effetto, dacché contemporaneamente doveva avere un’eco a Genova, a Livorno, a Roma ed a Firenze. Ed in vero a Genova, che per la sera del 29 giugno v'era il progetto di impadronirsi dei forti e dell'arsenale per inviare armi e gente a Napoli, onde appoggiarvi il movimento, venne fatta una sommossa e si aggredì il forte Diamante. Questo però non fu eseguito a tempo perché un ordine contrario che era stato mandato ai capi, dopo che era stato preparato qualche cosa di più serio, non giunse. Gli esecutori del disegno non essendo avvertiti scoppiò quel piccolo movimento, che restò circoscritto al Diamante e che venne ben presto represso, restandone parecchi arrestati. A Livorno la sollevazione avvenne il 30 giugno; anch'essa venne repressa e tanto più facilmente in quantoché il Governo del Granduca era in sull’avviso e fin dalla metà di giugno popolavano le vie di Livorno pattuglie di 90 uomini.
Dunque il momento della riscossa doveva essere contemporaneo in parecchie parti della Penisola, meno la Lombardia, le Calabrie e gli Abruzzi, tra cui non erano state rannodate ancora le opportune corrispondenze. Ed invero il Comitato napoletano aveva già commesso a Pisacane di mandar corrieri nelle Calabrie e stabilire nessi di relazione con quelle contrade, per poter così fra l’altro ripiegare colà in caso di rovescio.
Pisacane ed i suoi seguaci nella sicurezza di trovare simpatie nei paesi che dovevano percorrere, giunsero a Torraca, ove incontrarono alcuni padulesi dai quali furono invitati a recarsi a Padula, dove cinque o sei cento armati si sarebbero a loro riuniti. Accettato l’invito, i rivoltosi si recarono a quella volta, spintivi ancora dal bisogno di provvedersi di viveri di cui assolutamente difettavano. A Padula però non trovarono amici né segni di rivoluzione; ma un paese atterrito. E come la voce della vendetta gridava: all'armi», gli uomini o fuggivano spaventati, o si nascondevano. I popoli più bellicosi, i più devoti alla libertà, quegli stessi che due volte in vent'anni, nel 1820 e nel 1848, avevano osato iniziare la rivoluzione, si mostravano allora imbelli e timidi schiavi della paura. Le sante ossa dei De Luca, dei De Mattia, dei De Dominicis e dei Carducci fremettero certo di sdegno. Pisacane e Nicotera si accorsero dell'inganno in cui erano caduti, poiché non vi rinvennero appoggio alcuno, che anzi venne loro consigliato da alcuni padulesi di partirsene subito, perché a Sala era riunita una forza imponente e già si disponevano per altrove.
In questo frattempo furono circondati dalla truppa; che incominciò a combatterli, coadiuvata dall'intera popolazione, la quale sparando e gittando per le finestre pietre e ciò che meglio le veniva fra le mani, cooperava efficacemente a scacciarli. Il conflitto fu lungo ed ostinato, perché per circa tre ore le guardie urbane con i gendarmi si batterono contro i rivoltosi, i quali solo quando sopraggiunsero i cacciatori furono obbligati a ritirarsi.
Pisacane e Nicotera avrebbero voluto eseguire la ritirata verso il Vallo, con la speranza di trovarvi simpatie. Essi avevano fede che le contrade del Cilento, sempre pronte e sempre prime a muoversi per spezzare le catene della tirannide, ricche di memorie e di sventure, avrebbero assecondato i loro di, segni. I Cilentani che per la libertà non avevano risparmiato né a pene, né a fatiche, né a perigli; che per la libertà avevano sofferto carceri, ergastoli, esili e capestri, che i borboni per quegli uomini avevano avuto sempre in pronto, onde spegnere nel loro cuore ogni scintilla di libertà, i Cilentani erano quelli che non sarebbero mancati all'appello. E Pisacane e Nicotera innanzi a tante tradizioni non potevano non pensare ad un potente ed efficace aiuto che loro sarebbe dovuto venire in quelle contrade.
E stavano per dirizzarsi a quella volta tanto più che erano restati profondamente meravigliati della resistenza sperimentata in Padula, ma non poterono che attraversare la pianura e guadagnare le montagne di Sanza. E là ebbe luogo un altro accanito combattimento tra le guardie urbane ed i villici dei paesi circonvicini, che come Aere si scagliarono contro quella generosa coorte. I ribelli comandati da Pisacane e da Nicotera, fecero prodigi di abilità e di valore. Scivolavano di mano alle truppe, guizzavano come pesci, sparivano, ricomparivano. Bisognò ricorrere agli stratagemmi per attirarli su di un terreno per vincerli. (1)»
Molti caddero! Carlo Pisacane non si sà come trovossi spento, vuoisi attratto con tradimento in casa di certi del paese e lo trucidassero. Giambattista Falcone, non vedendo più il suo capo rivolse contro se stesso le proprie armi.
Giovanni Nicotera, colpito da una palla di fucile alla mano, da forti colpi di clave in testa non volendo sopravvivere alla vista degli esanimi suoi compagni, si raccomandava perché lo avessero finito, non potendo egli servirsi della sua mano inerte per la ferita ricevuta!
Tutto era finito, in breve i superstiti del massa! ero di Sanza vennero arrestati e trasportati a Salerno, in cui la Gran Corte Criminale condannò: Nicotera, Va l letta e Galiani alla pena di morte, che i loro venne commutata nell'ergastolo, e moltissimi altri a diverse e gravi pene.
All'alba del 22 agosto 1818, Carlo Pisacane sortiva alla vita nella ridente Napoli. Il padre fu il Duca Gennaro di San Giovanni, e la madre Nicolin a Basile De Luna. Fin dalla più tenera età Carlo ebbe a pregustare le amarezze della vita, giacché toccava appena i sei anni quando perdeva il padre, il quale molto lo predileg e va. Non furono per altro dalla madre risparmiate cure e premure, perché il suo Carlo fosse sanamente educato. L’animo forte di lui inclinava alle cose di guerra, e la madre lo pose nel reai collegio militare della Nunziatella, dove Carlo riusciva sempre il primo in tutte le materie che ivi si studiavano.
Passati, nel 1839, in modo luminosissimo gli esami, amante com'era degli esercizii equestri, desiderò militare nella cavalleria, ma non avendo potuto ottenere ciò, recavasi, come soldato gregario, nella città di Nocera, e dopo sei mesi di tirocinio, veniva ammesso al corpo reale del Genio napoletano col grado di sottotenente. Più tardi adempì l’ufficio di condurre la ferrovia da Napoli a Caserta; poscia andò negli Abruzzi, e dopo quindici mesi di dimora colà se ne ritornò alla sua Napoli, ove fu promosso al grado di tenente.
Una notte ebbe la sventura di essere ferito da un ladro che voleva rubargli la borsa, e fu in fin di vita; ma si riebbe e guarì. L’ odio però che sentiva in petto pei tiranni del suo paese fece si che dette la sua dimissione, e partiva l'8 febbraio 1847 per la volta di Londra, donde si recò a Parigi, si arruolò come sottotenente nel primo reggimento della Legion Straniera; e il 5 dicembre dello stesso anno faceva vela per l’Africa, e dette prova di non comune valore nelle guerre contro gli Arabi. I grandi avvenimenti che commovevano l’Italia sorpresero Pisacane, il quale, data la dimissione, volava in patria per porre il suo braccio al servizio della libertà.
Alla metà di aprile giunse in Milano e si presentò a Carlo Cattaneo, che a sua volta fecegli conoscere il generale Lechi, il quale lo mandò a battersi al confine del Titolo, ove fu ferito al braccio destro. Guarì, ma appena convalescente volò a Milano per esibire la sua opera contro gli austriaci che ritornavano. In Milano ebbe amarezze dagli uomini che allora reggevano la pubblica cosa, e perciò, sdegnato, si ricoverò in Isvizzera. Poi si arruolò nel 22. ° reggimento di fanteria piemontese, che lasciò poco dopo per correre a Roma ove si era proclamata la repubblica e caduta questa si ridusse a Losanna, e scrisse nel giornale L’Italia del Popolo; di là si recò a Genova, e ideò con Mazzini e Nicotera la eroica spedizione, che trovò la sua ecatombe a Sapri, a Padula ed a Sanza, nel 1857, in cui mori, martire del suo paese (1). I salernitani, testimoni di tanta grandezza d’animo e di patriottismo, allorché l’Italia fu libera ed una, elevarongli un monumento, che oltre la data fatale della sua morte, ricorda i nomi di coloro che con lui s’imbarcarono sul Cagliari e quelli dei caduti sui monti di Sapri e di Sanza. Sulla facciata davanti poi porta la seguente epigrafe:
A
CARLO PISACANE
PRECURSORE DI GARIBALDI
I CITTADINI REDENTI
IL 2 LUGLIO 1864
Il 9 settembre 1828, in quel di Catanzaro, a San Biase, nasceva Giovanni Nicotera, da Felice e Giuseppina Musolino e in tenera età, alla scuola di quel grande, che fu Luigi Settembrini, apprese ad amare la patria, e per la sua libertà cospirò poi con Domenico Romeo, Pietro Mazzoni, Gaetano Buffa e moltissimi altri e preparò il moto rivoluzionario del 1848.
Dopo la reazione del 15 maggio, che il Comitato di Salute Pubblica di Cosenza, fece appello a tutti i patriotti di accorrere a difendere la costituzione; Nicotera, col grado di capitano della Guardia Nazionale del suo paese, si distinse in vari scontri con le truppe regie, precisamente a Spezzano Albanese, a Tirioli ed in altri punti, in fino a quando durò la insurrezione calabra, che per la insipienza del Ribotti, che la comandava, il quale non volle attenersi agli ordini del Comitato, fu doma e vinta; egli, il Nicotera, con molti suoi compagni, il 9 luglio si ridusse a Corfù, ove approdò il giorno 12, e poi a Roma dopo aver corso grandi ed immensi pericoli.
A capo di pochi giorni Giovanni Nicotera a Roma si arruolò volontario nel battaglione comandato dal prode Luciano Manara, e quando la fratricida repubblica francese mosse insieme ad altri eserciti, ai danni della repubblica romana, il 30 aprile 1849, si battette disperatamente, e con altri suoi commilitoni dopo di aver fatto prigioniero un battaglione francese, tornò alla pugna vi fu ferito, e m e sso fuori combattimento.
Caduta la repubblica i pochi superstiti calcarono la via dell’esilio e Giovanni Nicotera andò dapprima a Torino, di poi a Genova e a Nizza, quindi nuovamente a Torino, ove conobbe molte celebrità politiche, scientifiche e letterarie, tra cui il Mazzini, che sempre l'ebbe caro, e il Pisacane, coi quali a Genova concertò la spedizione di Sapri, in cui vi ebbe tanta parte e per la quale dannato a morte fu graziato e mandato alla Favignana a popolare la fossa di S. Catarina, che poi gli venne aperta dalla rivoluzione del 1860, e raggiunse Garibaldi, il quale lo destinò ad altra impresa più gloriosa e non scevra di pericolo; l’invasione del territorio della Chiesa, per congiungere Roma al rimanente dell’Italia. Per la qual cosa d’accordo col Pianciani, si gitta in Toscana e quivi col Ricasoli, governatore dopo la fuga del gran duca, assoldò gente, alla quale venne assegnato il locale di Castel Pucci e aspettò che Garibaldi gli ordinasse di marciare avanti, ma questo ordine non venne e il giorno in cui Nicotera e i suoi, impazienti di scontrarsi col nemico; salpavano dal porto di Livorno, il governo glielo impedì, furono costretti sciogliersi e per altre vie raggiungere Garibaldi a Capua ed aver quivi la somma ventura di salvare le truppe del generale Stocco completamente circondate dai regi.
Era il 1861, al compimento dell’unità della patria mancava Roma e Venezia e tutti avevano un palpito di simpatia per queste provincie, ancora soggette a straniero dominio, ed ecco che Garibaldi lascia la romita sua Caprera, viene nel continente, chiama a raccolta le antiche sue legioni, i suoi amici, tra questi il Nicotera, corre tutta la Sicilia e pervenuto a Catania, s’imbarca per le Calabrie attentandosi sulla collina di Aspromonte, in cui fu assediato dai battaglioni italiani agli ordini del generale Pallavicino e mentre egli, l’eroe, comandava non impegnarsi lotta tra i figli della stessa patria, una scarica di schioppettate s’intese e il conquistatore dell'Italia meridionale veniva da fraterno piombo colpito per ordine dei ministri di quel monarca, a cui egli aveva tutto sagrificato e ne aveva circondata la corona della più bella gemma; del regno di Napoli.
Inoltre il Nicotera combattette nel 1866 nella campagna contro l’Austria, col grado di generale, nel Tirolo, e nel 1867 nell'agro romano contro le truppe del papa e quelle di Francia, che vennero a provare i meravigliosi chassepóts, contro i petti di pochi ed inesperti giovani italiani.
Salerno memore del suo martirio, per ri m unerarlo dei sagrifizi fatti per la patria; dal 1861 in poi, gli ha sempre e in tutte le legislature, che da quell’epoca sonosi seguite, rinnovato il mandato di rappresentarla in Parlamento; nel quale egli da giovane acquistò subito brillante posizione, sino a che nel 1876, caduto il partito di destra dal potere, per sua principale attitudine, dal re Vittorio Emanuele, veniva chiamato al dicastero degli affari interni, nella cui qualità si distinse per ingegno e somma energia nel distruggere il brigantaggio, la camorra e la maffia.
Egli tuttora vive, vigile custode dei destini d’ I talia, e il suo paese, S. Biase, a perenne ricordo delle sue virtù, come cittadino, soldato e uomo di Stato, gli ha eretto un grandioso monumento.
Gli avvenimenti d’Italia, l'alito di libertà che da essi spirava, avevano esaltati gli animi dei più intelligenti ed onesti di tutte le province. I tristi ricordi del 1799, 1820, 1828 e del 1848 avevano indebolito e tolta quell'affezione che nei governi regolari unisce i sudditi al sovrano e la sola forza conteneva le popolazioni in ossequio.
Intanto nella notte del 22 maggio 1859, Ferdinando II, che vuoisi fosse stato avvelenato da un vescovo, dopo lunga e schifosa malattia, per la quale tutto il corpo brulicava di vermini, mori e gli furono elogio le imprecazioni di un popolo che aveva tanto martoriato.
Il medesimo giorno Francesco II, figlio di lui e di quella pia che fu Cristina di Savoia, cui i napoletani contradistinguono col nome di santa; giovane imbelle, la cui educazione era stata affidata ai gesuiti, ascende al trono e l’annuncia ai suoi popoli col seguente manifesto:
FRANCESCO II. ecc.
«Per l'infausto avvenimento della morte dell’Augusto e dilettissimo Nostro Genitore Ferdinando II, ci chiama il Sommo Dio ad occupare il Trono dei Nostri Augusti Antenati.
«Adorando profondamente gli imperscrutabili suoi giudizii, confidiamo con fermezza ed imploriamo che per sua misericordia voglia degnarsi di accordarci aiuto speciale ed assistenza costante, onde compiere i nuovi doveri che ora c’impone; tanto più gravi e difficili, in quanto che succediamo ad un Grande e Pio Monarca, le cui eroiche virtù ed i pregi non saranno mai celebrati abbastanza. Avva l orati pur nondimeno dal braccio Onnipotente po tremo tener fermi e promuovere il rispetto dovuto alla Nostra Sacrosanta Religione, l'osservanza delle leggi, la retta ed imparziale amministrazione della giustizia, la floridezza dello Stato, perché cosi, giusta le ordinazioni della Provvidenza, resti assi curato il bene degli amatissimi sudditi Nostri.
«E volendo che la spedizione dei pubblici affari non sia menomamente ritardata;
«Abbiamo risoluto di decretare e decretiamo quanto segue:
«Art. I. Tutte le autorità del nostro Regno delle due Sicilie rimangono nell'esercizio delle loro funzioni.
«Art. IL II Nostro Ministro Segretario di Stato, Presidente del Consiglio dei Ministri, tutti i Nostri Ministri di Stato, l’incaricato del portafoglio del Ministero degli affari esteri, tutti i Nostri Direttori dei Ministeri di Stato con referenda e firma, ed il Nostro Luogotenente generale nei Nostri domini al di là del Faro, sono incaricati della esecuzione del presente decreto.
«Caserta 22 maggio 1859».
«Francesco»
« Il Ministro Segretario di Stato
«Presidente del Consiglio dei Ministri
«Ferdinando Troja»
Dopo qualche giorno i fautori del Murat, tentarono una dimostrazione lungo la strada Toledo e C hiaia, ma furono dispersi dalla polizia.
I Comitati rivoluzionari, in relazione tra loro, lo erano pure con quelli di Torino e Genova, Londra e Parigi, e avevano stabilito d’insorgere, appena s’inviassero le truppe alla guerra dell'indipendenza, assalire il napoletano inerme e dichiarare decaduto il dominio del Borbone, ma mancata l’occasione per l’avvenuta pace di Villafranca, si accrebbero i malcontenti e i malumori verso il re, che aveva fatto decidere le softi d’Italia senza il suo concorso, e verso il ministero presieduto dal Filangieri; il quale conosciuta la profondità del male sistente nel regno e l’impossibilità di recarvi rimedio, nel 16 marzo 1860 rassegna le sue dimissioni e il Borbone in sua vece nomina il principe del Cassaro Antonio Statella.
Il reame fu dichiarato in istato d’assedio e pel fermento indescrivibile in cui era immerso, le prigioni si empirono nuovamente di generosi, e le liste degli attendibili politici accrescevansi dappertutto.
Nel Piemonte la invasione del regno delle due Sicilie maturavasi sempre più e il partito repubblicano e il monarchico, stretti fra loro, per pubblica sottoscrizione, nella quale Vittorio Emanuele e Mazzini, figuravano per discrete somme, si comprarono diecimila fucili, vapori: Washington, Oregon e Franklin, e si disse che quel denaro era stato prelevato dal fondo di riserva della Guardia Nazionale.
S'inviò quale ambasciatore alla Corte di Napoli il marchese Pes di Villamarina e costui, provetto nel l’arte diplomatica, informava il Conte di Cavour di tutto quanto nel regno avveniva.
Il Borbone avendo Francia e Inghilterra contrarie si adoperava con l’Austria a far si che essa nel prossimo congresso di Parigi appoggiasse la proposta della restaurazione dei diversi principi spodestati, per unirsi poi con loro in lega; ma l’idea del congresso andò a vuoto e la confederazione non potette più avvenire.
Il 4 aprile la eroica Palermo, al suono della campana del monistero della Gancia si solleva; le truppe regie andarono incontro ai rivoltosi e ne fecero carneficina. I superstiti pigliarono le montagne e mantennero viva la rivoluzione.
Garibaldi con un manipolo di volontari, poco più di ottocento, tutti emigrati, e di cui facevano parte alcuni della provincia di Salerno, tra i quali Michele Magnoni, di Rutino; Francescopaolo e Michele del Mastro, di Ortodonico, che ferito sulle barricate di Palermo ne mori in seguito, Vincenzo Padula ferito a Milazzo, morì a Barcellona e Antonio Santelmo, di Padula; Filippo Patella, di Agropoli, tal Mascolo, Bagnara e Leonino Vinciprova, di Omignano, salpò dallo scoglio di Quarto, nella Liguria, e il dì 11 maggio 1860, sbarca a Marsala e si dirige sopra Castelvetrano, Calatafimi, Partinico e Palermo, e in breve si fa padrone dell'Isola.
A tale annunzio il principe Caraffa, incaricato degli affari esteri, a mezzo del telegrafo partecipa ai regi rappresentanti presso le corti d’Europa: Malgrado avvisi dati da Torino e promesse di quel governo d’impedire spedizioni di briganti, organizzati ed armati pubblicamente, sono essi partiti sotto gli occhi della squadra sarda e sbarcati a Marsala. Dica a cotesto Ministero tale atto di selvaggia pirateria, permesso da Stato amico».
Austria, Russia e Prussia riprovarono altamente tale attentato; ma alcuno mostrossi disposto ad inviare soccorsi materiali al regno delle due Sicilie.
La rivoluzione siciliana intanto cresceva a dismisura e il governo napoletano mostrossi disposto a concessioni liberali e chiese a tal uopo la mediazione della Francia e dell'Inghilterra, le quali gli risposero: Esservi poca probabilità di riuscita in presenza di un moto insurrezionale trionfante. Tuttavia non credevano rifiutarsi, e non potendo pigliare su di essi tutti intera una tanta responsabilità; se il governo napoletano accettava, gli proponevano:
1.° Separazione della Sicilia, sotto un ramo della casa regnante in Napoli.
2.° Costituzione a Napoli e a Palermo.
3.° Patto d’alleanza tra Napoli, Sicilia e Sardegna.
In tal caso soltanto i loro governi, insieme a quelli delle altre potenze sarebbero intervenuti.
Francesco II, spinto dalla rivoluzione, non sapendo più a chi rivolgersi per aiuto e consigli, accetta le proposte dell’Inghilterra e della Francia e pubblica il seguente atto in data del 25 giugno.
«Desiderando dare ai nostri amatissimi sudditi un attestato di nostra sovrana benevolenza, ci siamo determinati di concedere gli ordini costituzionali e rappresentativi nel regno in armonia coi principi italiani e nazionali, in modo da garantire la sicurezza e la prosperità in avvenire e stringere sempre più i legami che ci uniscono ai popoli, che la provvidenza ci ha chiamati a governare.
«A quest'oggetto siamo venuti nella seguente determinazione:
«1. Accordiamo una generale amnistia per tutti i reati politici,sin a questo giorno.
« 2 . Abbiamo incaricato il comm. D. Antonio Spi nelli della formazione del nuovo ministero, il quale compilerà nel più breve termine possibile gli articoli dello Statuto sulla base delle istituzioni rappresentative nazionali e italiane.
«3. Sarà stabilito con S. M. il Re di Sardegna un accordo per gl'interessi comuni delle due co rone in Italia.
«4. La nostra bandiera sarà d'ora innanzi fregiata dei colori nazionali italiani, in tre fascie verticali, conservando sempre nel mezzo le armi della nostra dinastia.
«5. In quanto alla Sicilia accorderemo analoghe istituzioni rappresentative che possono soddisfare i bisogni dell'Isola ed uno dei principi della nostra rea l casa, ne sarà il viceré.
All'indomani di questo manifesto nomina un nuovo ministero presieduto dallo Spinelli, che fu accolto con gran piacere dalle persone intelligenti e il 27 giugno in esecuzione del medesimo, in tutto il reame con immenso giubilo si elevò il vessillo nazionale.
Con decreto del due luglio, dietro proposta del ministero, richiama in vigore la costituzione del 10 febbraio 1848, convoca i comizi elettorali pel 19 agosto e il parlamento pel 10 settembre.
Il 5 luglio decreta la formazione della Guardia Nazionale nel regno e in breve tempo, accolta festosamente ovunque, si vide la milizia cittadina gareggiare di zelo e di attività sotto la direzione dei loro capi, che a Salerno erano Raffaele Rinaldi, Giovanni Luciani, Francesco Mezzacapo e Giuseppe Pacifico.
Liborio Romano intanto preparava l'ultimo colpo alla borbonica dinastia, e da prefetto di polizia fece un giro per le provincie e venne anche a Salerno, dirigendosi a Gennaro D’Avossa, il quale gli presentò il Comitato d’Azione nelle persone di Giovanni Centola, Raffaele Rinaldi, Alfonso Origlia, Matteo e Giovanni Luciani, Raffaele Naddei, Matteo Marchesano, ed altri, e Liborio Romano loro promise che né a Salerno, ad onta delle truppe che il Borbone vi aveva scaglionate, né a Napoli sarebbe avvenuto alcun che di male.
Partitosi, il 14 luglio assume il ministero dell’interno, e Garibaldi resosi padrone della Sicilia, passa il Faro il 20 agosto, e ordina a Rustow di congiungersi in Paola al Generale Turr, ed egli imbarcatosi per Sapri li raggiunse il giorno 3 settembre ed ordina al primo d’inoltrarsi con una brigata verso Vibonati e avanzarsi sulla via consolare.
Rustow esegui perfettamente tali ordini, tagliò la via al generale Caldarelli, che secondo la convenzione di Cosenza si recava a Salerno, e l’indusse a deporre le armi; ed entrò la sera trionfante in Sala Consilina, pervenendo la dimane ad Eboli, ove fu raggiunto da Garibaldi, che con molta esultanza fu accolto dal popolo guidato da molti cittadini, che sin dall'anno primo congiuravano e tra questi erano: Santoro Vito, Melillo Vito, Selvaggio Nicola, Cavaliere Raffaele, Pisciotta Vincenzo, Postiglione Luigi, Sansimone Pasquale, Caputo Vincenzo, Principale Francesco, Scocozza Gerardo, Druella Vito, Sica Oraziantonio, Carnato Donato, Pintozzi Luigi, di Spagna Berniero, Bianco Vito, Nigro Leonardo ed altri.
Pervenuta la notizia a Salerno che Garibaldi era arrivato ad Eboli, molti giovani delusero la vigilanza della polizia e partirono ver quella parte e abboccatisi col generale Turr, spedirono poi al sindaco il seguente telegramma.
«Sindaco — Salerno
«Approntate 40000 razioni e alloggio pei garibaldini che arriveranno domani.»
In un baleno la voce si sparse per la città e le truppe in men che si dica si dettero a fuga precipitosa.
Non eran peranco partite e la Guardia Nazionale s’impossessa delle caserme, e il popolo e la gioventù festante improvvisarono dimostrazioni di gioia, e da tutte le parti videsi sventolare il vessillo tricolore.
Alcuni sacerdoti, che pel loro passato erano stati sottoposti a severa e speciale sorveglianza; invitavano i cittadini ad abbattere il regime borbonico e ad acclamare la costituzione, e tra essi notavansi: Antonio Catalano, Raffaele Maiorano, Antonio de Robertis, il canonico Pesce e altri, ma quello che più distinguevasi era il frate Francescano, Salvatore Marinari, col nome di P. Giovanni da Pescopagano, già cospiratore a Sicignano con l'arciprete Domenico Guerrieri, che a manca e a diritta, colla fascia tricolore nella vita che le pendeva dal fianco, faceva del suo possibile per sommuovere il popolo contro la tirannia.
La notte stessa Francesco II raccolse a consiglio i generali Ischitella, Desauget, Pianell, Von-Mechel e Bosco, chiede il loro parere e questi opinarono non doversi azzardare la sorte suprema del regno ad un fatto d’armi, né doversi esporre una capitale cosi magnifica al pericolo di esser presa d'assalto. Essere invece più prudente trasferire la sede del governo a Gaeta e preparare le difese sul Volturno e il Garigliano.
A tal partito si appigliò l'ultimo dei Borboni e comandò che ivi si concentrasse il rimanente delle sue truppe, che ascendevano a circa sessantamila uomini e dopo di avere scritta una protesta nella sera del 6 settembre, s’imbarca coi componenti la sua famiglia, che trovavansi in Napoli, su di una regia nave, scortato da due fregate spagnuole, seguito dal corpo diplomatico, meno i rappresentanti della Francia, dell'Inghilterra e di Sardegna; e vari personaggi della corte, fuggì a Gaeta.
Il mattino del 6 settembre, Salerno era tutta a festa e dai balconi sventolava il vessillo della nazione; giacché il generale Turr vi era arrivato solo sin dalle prime ore e tutto il popolo credendolo l’eroe immortale, faceva l o segno ad ogni specie di reverenza ed omaggio.
In sull'imbrunire, diverse carrozze mossero all'incontro del generale Garibaldi, che veniva da Eboli, e fra gli evviva, le acclamazioni di gioia, l’universale entusia s mo che destava il suo nome, entrò trionfante in Salerno.
Nelle prime ore del di 7 settembre, ricevette il comitato d'azione di Napoli, col quale poco dopo partì, lasciando prodittatore in Salerno Giovanni Matina, di Tegiano, accompagnato dalle benedizioni di tutto un popolo che per suo mezzo aveva spezzato le secolari catene di schiavo.
Molti generosi e ardenti giovani di tutta la provincia a misura che le vittoriose schiere dell'invitto Garibaldi giungevan o e proseguivano per la capitale, vi si unirono (1) e a Capua nella micidiale giornata del di primo ottobre, che decise dei destini d’Italia, rendendola libera, dall’Alpi al mare, vi si distinsero oltremodo sotto il comando del prode generale Sirtori, il quale in un ordine del giorno, d’ordine di Garibaldi sul campo stesso ne fece pubblica lode.
L’Italia intanto liberata acclamò con plebiscito a suo re Vittorio Emanuele II. di Savoia.
Gennaro d’Avossa, ultimo dei fratelli, cospirò con loro e sin dal 1854 era uno dei capi del Comitato d’Azione di Salerno e più tardi appartenne anche a quello di Napoli, capitanato da Liborio Romano, il quale appena fu prefetto di polizia, che venne a ordinare la rivoluzione nelle province meridionali, per affrettare la caduta del Borbone, si rivolse a lui, e da lui ospitato ebbe migliori spiegazioni e ottimi suggerimenti intorno al partito nella provincia di Salerno, che accingevasi ad abbattere la dinastia tanto e si. giustamente odiata, e lo spinse a non indietreggiare e a compire la santa opera, tanto felicemente cominciata.
Proclamatosi decaduto l’assolutismo, fece parte del governo provvisorio, e nel dì 8 agosto 1861, venne chiamato ad occupar alto posto in magistratura che non potette accettare, giacché il 6 settembre, mentre la città festeggiava il giorno della sua liberazione avvenuta l'anno primo, per opera del supremo duce dei mille, rendeva l'ultimo suo spiro.
Il compianto Michele Pironti in un giornale di quel tempo scriveva di lui le seguenti bellissime parole:
«Gennaro d’Avossa nacque da nobilissima, patriottica e splendida famiglia e per colto ingegno e per liberi e generosi sensi già distinta ed annoverata fra le più liberali della provincia: fu avvocato e giureconsulto, delle civili e criminali discipline peritissimo, di parola facile, di probità esemplare. Dal bel principio del suo mostrarsi nella sua nobile professione acquistò onore e fama nel foro salernitano, che pure era oltre ogni dire colto e fiorito; serbò costumi libatissimi, e nei tempi tristi per la patria tollerò esilio, carcerazione e persecuzione di ogni specie, senza codardia e ambizione, come nei prosperevoli fu senza orgoglio e senza iattanza. Amò la libertà e la patria per se stessa con quell'ingenuità che si ama la libertà e la virtù; non risparmiò né sostanze, né pericoli pel trionfo del bene comune, sfidò e disprezzò la tirannide della esecrata dinastia dei borboni di Napoli.
«Possa la sua memoria esser di guida e conforto ai figliuoli, come la sua vita patriottica fu di esempio ai suoi cittadini ed agli innumerevoli suoi compagni politici che ne piansero la perdita».
Alfonso Origlia, di Nocera, avvocato distintissimo anch'egli, del foro salernitano, consacrò l’intera sua vita alla causa nazionale, e per cui soffrì carcere ed esilio; che non l’affievolirono o gl’indebolirono l’animo; perché aveva fede incrollabile nei prosperi destini della patria, oppressa dall'immane tirannia che ne calpestava i diritti inflessibili, ed ei percorreva con energici mezzi ed attive relazioni la via, che menar doveva alla libertà.
Cospiratore col fratello Salvatore nel 1848, 1857, 1860, ebbe la fede dell'apostolo, e sul campo di battaglia, nei comizi popolari, dalla tribuna in parlamento, quale rappresentante il colleggio elettorale di Nocera, accoppiò tutto quel corredo di virtù pubbliche e private per cui fu da tutti stimato, ed onorato. Avvocato, consigliere comunale, provinciale, presidente dell'ordine degli avvocati e del consiglio provinciale, ammirato sempre per zelo e dottrina, costantemente sdegnò onori è ricompense.
Anch'egli come tanti altri patrioti mori povero e compianto, nel 27 settembre 1883, e di lui dissero commoventi parole gli avv. cav. Giacomo Mattia, e Andrea de Leo; nonché quell'animo ardente del prof. Giovanni Bovio, deputato al parlamento e decoro d’Italia.
Ecco le sue parole, che formano di lui il più bell’elogio:
«Decorosa testimonianza di città non obbliviosa, prova d’intelletti liberi, quest’accorrere frequente intorno a questo morto. Non era ministro, neppur deputato, e non eravi apparso dal palazzo baronale: onorate l’uomo.
«L’uomo: ritto in mezzo a questo precipitare di tempi, volle piuttosto rimanere dietro di tutti che mettersi dietro del più avventuroso. Solo in fondo, come Sisifo, riafferrato il sasso e con occhio alla cima.
«Risaliamo — Sei vecchio — Risaliamo —Sei povero — I più giovani ed i men poveri mi seguiranno — I tuoi compagni son fatti scettici — Ci sono i giovani — Sono divisi i giovani — Ci sono gli operai — Si oppressi — C’è l’Italia, risaliamo! — Oh non vedi come l’han fatta l’Italia?— C’è il secolo, c’è la scienza, c’è il cuore della umanità: risaliamo!
« E lo vedeste fiammeggiare ripercotendo del suo bastone la terra, come chiedendole militi e vampe, quella terra che nel 1820, lo aveva circondato di carbonari, nel 1848 di barricate, nel 1860 di volontari, nel 1883 di squallore e di morte.
«Ch'ei non temeva la morte sarebbe meschina lode: i giovinetti, le donne, i frati si suicidono. La vita è scaduta di prezzo da che si é veduta la distanza tra la realtà e gli ideali. Sfidare la povertà, ecco il difficile. Diogene e Francesco d’Assisi non sono tipi del secolo nostro. La vita, ricca delle scoperte, è vaga di lusinghe, e la povertà mette sgomento. Chi la sfida, oscilla tra l'eroe e il folle. E i gaudenti diranno maniaco della libertà questo morto, mentre voi onorate l'eroe.
«La tribuna poteva farlo titolato, il foro, farlo ricco, il patriottismo, farlo prevalente; il tempo poteva farlo tutto.... ed eccolo il titolato, il ricco, il prevalente.... Ed ora voi potete dire in viso ai beffardi, come Socrate a Protagora: C’è la virtù, o Protagora.
«E se c’è? Questo feretro vi grida che la Patria, l'onore, la libertà, la parità dei diritti non sono nomi vuoti. Voi facendo le onoranze a questo morto, provate all'Italia che qualche ideale è ancor vivo.
Fine.
(1) Presero parte ai lavori della Gran Dieta, come alti dignitari e graduati della Carboneria: Giuseppe Dongiovanni — Giuseppe Viesti, di Nocera—Giuseppe Nicola Rossi, magistrato, di Dagnuoli — Antonio Giannone, di Napoli —Federico Cimmino, di Montepertuso — Domenico Cicalese, di Nocera, domiciliati a Salerno — Raffaele Avossa — Giovanni de Vita — Clemente Prota — Francesco de Vicariis — Luigi Vernieri, e tal Casalbore, di Salerno — Felice Tafuri, orologiaio, di Benincasa — Gaetano Pascale, impiegato al registro e bollo, di Napoli — Pietro Sessa e Nicola Lombardi di Fisciano — Carminantonio e Francescosaverio Amato, di San Cipriano Picentino — Giacinto Farina, di Saragnano — Raffaele Pagliara e Gennaro Pastore di Capriglia — Giuseppe Torre, di Amalfi — Matteo Bufano, di Montecorvino — Antonio M.( a) de Luca, canonico della cattedrale di Policastro, di Celle Bulgheria — Francesco Maselli, magistrato, e Giuseppe Catarina, di Omignano — Luigi Carelli, di Laurito — Luigi Scevola, di Angellara — Michelangelo Mainenti, di Vallo della Lucania — Gerardo Mazziotti, di Celso — Andrea e Nicola Guglielmini, di Perdifumo — Gaetano Bellelli, di Capaccio — Cono Trezza — Cono de Honestis — Benedetto Dono — Cono Candia, monaco agostiniano — Michele Cavallaro, sacerdote —Onofrio Macchiaroli, sacerdote ed economo della chiesa parrocchiale di Diano — Vincenzo e Michele Silvestri—Vincenzo Rizzo — Donato Ferri, sacerdote — Luigi Corrado — Rosario Lobuglio — Gaetano e Agostino Macion — Cono Celio — Cono Nicolellis e Vito di Francesco, di Diano — Vincenzo Parisi — Vincenzo Manganelli— Giuseppe Poppiti—Domenico Cuccio — Onofrio Bracco — Luigi Camarota — Romualdo e Francescopaolo Sarno e Francesco Verlangieri di Polla — Saverio Arcangelo Pessolani — Feliciano Caporale — Domenicantonio Menafra — Vincenzo Giacchetti e Antonio Planzo, di Atena — Rosario Macchiaroli, di Bellosguardo — Vittorio Morrone — Angelo Beltotti — Giovanni de Santis — Angelo Solinas e Francescantonio Morrone, di Pertosa — Gerardo Pecora — Giuseppe d’Andrea Giuseppe Pandolfi, Crescenzo Pecora e Crisostomo Splendore, di Sant’Arsenio — Francesco Spinelli — Pasquale Mangeri di Pio — Pasquale Mangeri, del fu Nicola e Francesco Leopardi, di San Pietro al Tanagro —Michele e Giovanni Pessolani — Girolamo de Petrinis — Giuseppe Bove— Raimondo Cicerale, di Sala Consilina — Giuliano Arcangelo e Gorga Giuseppe, di Roccadaspide — Raimondo Grimaldi di San Giorgio—Biagio Castagna, e del Mercato Francesco, di Campagna.
(1) Vedi cap. II.
(1) Rappresentarono la provincia di Salerno Macchiaroli Rosario, Antonio Maria De Luca, Gerardo Caracciolo, Benedetto Rondinelli, Biagio Castagna, Gerardo Mazziotti e Saverio Arcangelo Pessolani, a supplenti Matteo Galdi, eletto anche in Napoli, e Domenico Furiati.
(1) Giannattasio Domenico, Amato Matteo, Alfano Gerardo, Carlantonio e Antonio, Laterza Ferdinando, Alfano Rubino, Cioffi Antonio, Michele, Amato, Vincenzo, Nicola, Alfonso, Gerardo, Pellegrino e Bartolomeo, Giannattasio Rocco, Felice, Antonio e Vincenzo, Laterza Ferdinando e Antoniomaria, Marotta Guglielmo, Pietro e Stefano, Noschese Luigi, Giuseppe e Nicola, Naddeo Raffaele, Antonio, Giuseppe e Gregorio, Petrone Aurelio, Sabbato Rocco, Tisi Gaetano, Vernieri Antonio e Raffaele, Noschese Vincenzo, Giannattasio Vincenzo,. Masturzo Magno, Sabbato, Giuseppe e Patrizio, Mandia Francesco, Potenza Gaetano, Tisi Filippo, Giannattasio Gabriele, Rizzo Gaetano, Alfano Ciriaco e Camillo, Procenzano Antonio, Petrone Gerardo, Barbarito Gaetano, Tisi Giuseppe, Bottiglieri Antonio, Sabbato Gaetano, Potenza Antoniomaria, Leone Amabile, Masturzo Antonio e Gaetano, Pennacchio Paolo, Marotta Giuseppe, Tisi Vincenzo, Martinangelo Antonio, Amato Nicola e Landi Matteo di S. Cipriano Picentino, Elia Giacomo, Stefano e Felice, Famiglietti Biagio e Mandia Francesco di Vignali, De Laurentiis Ciriaco, Di Marco Francesco, Beatrice Nicola, Fiumara Gerardo, Mazza Crescenzo, Malangone Sebastiano e Nicola, Alfano Giacinto, Naddeo Loreto e Diego, Fasulo Giuseppe, Gallo Tommaso e Palo Domenico di Prepezzano, Di Biase Magnantonio, Milione Carminantonio, Sarluca Pasquale, Di Biase Matteo, Aievoli Luigi e Naddeo Domenico di Feletta, Avossa Saverio e Raffaele di Salerno, Maselli Francesco di Omignano, Guarini Michele di Solofra, Sessa Pietro di Fisciano, Bufano Matteo di Faiano, Mandela Gaetano, Genovese Felice e Della Calce Domenicantonio di Castiglione del Genovesi, Roberto Luigia Plaitano Vincenzo, Di Muro Saverio, Amato Francesco, Landi Nicola e Bartolomeo, Ferrara Ruggiero, Citro Catello, Plaitano Antonio, Jacuzio Francesco, Vernieri Roberto e Serotti Antonio di Capitignano, Russo Domenico, Di Rosa Bernardo, Giannattasio Andrea, Romeo Diodato, Saggese Carminantonio, Moffa Giuseppe, Roberto Bartolomeo, di Muro Pasquale, Sfera Domenicantonio, Milione Giovanni e Carminantonio, e La Terza Gaetano di Sieti.
(1) Positano Gregorio e Giulio, Guzzo Giovanni, Melone Sabbato, di Caterina Sabbato, de Rubino Lucio, Jannuzzi Lucio e Luigi, Lettieri Pasquale, Sperano Carmine, Grogoleo Giuseppe, Sparano Giuseppe, Cuti Vincenzo, Sansone Angelo, Positano Vincenzo, Mautone Isidoro, Orecchiuto Francesco e Lettieri Vincenzo di Novi Velia, Maio Giuseppe e Luigi, Cortazzo Nicola, Curcio Nicola, Rubino Luigi, Cortazzo Antodio, di Veneri Francesco, de Vita Attanasio e Crispino, Combelli Pasquale, Morrone Ferdinando, de Vita Giuseppe, Balbi Rocco, Maise Leonardo, Compellis Pietro e Pasquale di Angellara, Piccinino Valerio e Donato, Nicoletta Gennaro, Melchiorre Luigi, Rubino Angelo, Nicola, Giuseppe, Giulio e Francesco, Battagliese Michelangelo, de Hippolitis Michele, de Vietri Antonio, Stasio Nicola, Positano Antonio, Filpo Reginaldo, de Ruocco Giandomenico e Angelantonio, di Leonardo Pantaleo, Gatto Gaetano, Erro Pietro, Rinaldi Luigi, Angelo e Alessandro, Sabbatino Saverio e Francesco, Turao Giuseppe, Mestone Giuseppe e Gaetano, Jannuzzi Francesco, Battagliese Gaetano e Giovanni e Stasi Tommaso di Vallo Lucano, Labruna Carmine, Gioacchino, Giuseppe e Pietrangelo, Scevola Carmine e Sansone Sabbato di Pattano, Maiese Felice, Gennaro e Giambattista, di Lorenzo Nicola, Sansone Pasquale, Jannuzzi Filippo, Tardio Filippo e Pantaleo, Cricchio Luigi e Pantaleo, Arena Agostino, Lorenzo e Felice, Ottati Pasquale e Pietro, Romaniello Carmine, Cafaro Agostino, de Sevo Francesco, Manganiello Francesco, Giuliano Giuseppe, Bellucci Michelangelo e Agostino di Massa Lucana, Valletta Sabato, Toribio, Domenico, Giuseppe e Giacomo, Cortazzo Nicola e Icario, Corneo Francesco, Rinaldi Sabbato, Merola Giuseppe, Matteo e Biagio, de Vita Biagio, Carmine e Toribio, di Nardo Carmine, Maio Matteo e Nicola, Va l letta Crescenzo, Laurito Luigi e Gennaro, Ruocco Francesco, Troncone Sabbato, Carbone Francesco, Filpo Carmine e Pasquale, lannuzzi Nunzio, Romeo Giovanni, Rega Annunziato, Guzzo Toribio e Sottoluno Domenicantonio di Cannalonga, De Lisa Giovanni e Ferdinando e lannicelli Giovanni di Ceraso, Fiorillo Giovanni di Rofrano, d’Agosto Giuseppe di Moio della Civitella, Sansone Pasquale e Vincenzo, di S. Biase, Manganiello Sabbato, Basile Michele e Manfuria Carlantonio di Massascosa, Sacco Ambrogio, d’Ambrosio Giovanni, De Vita Giovannangelo e Morrone Ferdinando, di Novi Velia, Bruno Francesco, Scarpa Gaetano e di Marco Antonio di Salento, Cammarota Donato, Giovanni e Antonio di A c quavella .
(1) Venuto il tempo del terrore furono arrestati o calcarono il terreno dell'esilio Mazziotti Gerardo e Giuseppe di Celso, Giordano Isidoro, Andrea, Giustino e Nicola di Lustra, Gaiatro Francesco, de Caro Francesco di Ogliastro, Garofano Francesco di Torchiara, Patella Gaetano di Agropoli, di Mauro Costabile di Castellabate, Sangiovanni Benedetto, Vairo Tommaso, Valente Crescenzo, di Cregorio Tommaso, Gaudiano Vincenzo e Gaetano di Laurino, Alario Giuseppe di Moio della Civitella, Mottola Vincenzo, Oranges Vincenzo, Signorelli Gennaro e Carmine, Zerillo Francesco, Guarracci Antonio e Sodano Pasquale di Celso, Volpe Cono e Scarpa Vincenzo di Pollica, Lista Luigi e de Feo Carminantonio di Casalicchio, Buonadonna Giuseppe di Porcili, Passerella Fedele di Vallo della Lucania, Pandolfì Feliceantonio di Omignano, Lombardi Angelo e Nicola di F isciano, Amato Carminantonio di Aquarola, Pascale Gaetano, Giannone Antonio e Vastalla Raffaele di Napoli, Grimaldi Raimondo di S. Giorgio, Torre Giuseppe di Amalfi, Rossi Giuseppe Nicola di Bagnuoli, de Vita Giovanni, Prota Clemente e Bongiovanni Giuseppe di Salerno, Cimmini Federico di Montepertuso, Tafuri Felice di Benincasa, Bellelli Gaetano di Capaccio, Farina Giacinto di Saragnano, Pagliara Raffaele e Pastore Gennaro di Capriglia, Viesti Giuseppe e Cicalese Domenico di Nocera, Lombardi Pasquale di Dupino, Mainenti Michelangelo di Vallo della Lucania, Vallenoto Andrea di Torraca, Marcelli Giandomenico di Valva, Chirico Carlo di Salerno, Santamaria Silvestro di Capriglia, Bracale Antonio di Antessano, de Robertis Michele, Antonio e Giuseppe, D’Andrea Giovanni e Troisi Giannantonio di Giffoni, Grimaldi Francesco di Sanseverino, Montefusco Michele di Sant’Angelo, Carnatù Pietrantonio, Franco Onofrio e Nicola di Pandola, Landi Marcantonio, Sessa Prospero e Ignazio di F isciano, Lamagna Vincenzo di Pessolano, de Filippo Francesco di Villa, Guerrasio Domenicantonio di S. Angelo, Prisco Gennaro di Torello, Loria Gabriele di Pandola, Corrado Crescenzo e Lorenzo, d’Arminio Amato, Russomando Matteo e Vincenzo di Montecorvino, Jorio Antonio di Occiano, Cavaliere Carmioe di S. Tecla, d’Aiutolo Antonio e Michele e Petrucci Vito di Montecorvino, del Grosso Francesco, de Sio Antonio e Michele, Volsone Michele, Mele Giandomenico, Cesareo Giovanni, Tramontano Giuseppe e Ferrara Biagio di Olevano, Plaitano Michele di S. Cipriano, Becchini Rocco e Ponte Giuseppe di Faiano, Guglielmotti Luigi, di Paolantonio, Pasquale e Aulisio Gennaro di Giungano, Rondinelli Benedetto e Castagna Biagio di Campagna, Andreola Vincenzo e Bernardino, Consulmagno Matteo e Peduto Sisto di Aquara, Maiori Giuseppe e Albini Luigi di Albanella, Mottola Crescenzo, Gaione Antonio, Carrara Angelo, Fresinga Orazio e Masi Antonio di Altavilla Silentina, Bellelli Michelangelo e De Feo Francescantonio di Capaccio, Sarluca Gaetano di Monte Cicerale, De Feo Prospero, Lerro Domenicantonio, Coccoli Francescantonio, Morelli Giuseppe e Giordano Gaetano di Omignano, Vietri Matteo, Guarini Felice, Amendola Giacomo, Orlando Giuseppe, Gonfalone Francesco, Vetromile Matteo, Orlando Giosuè, Capone Francesco, Casi Luigi, Lemme Francescantonio, Cerenza Luigi, Taddeo Pasquale, Arcella Salvatore, Martorano Giacomo, Trucido Alfonso, Santamaria Luigi, Parrilli Francesco, tal Parlante e certo Casalbore di Salerno o che vi domiciliavano, Greco Nicola e Martino Nicola di Montesano sulla Marcellana, Alberti Vincenzo, Tempone Paolo e Gagliardi Francescomaria di Santa Marina, Curto Arcangelo e Vecchi Giovanni di Padula, Giordano Emanuele di Lustra, Verrone Matteo, di Rocca Cilento, Magno Sabbato e Cagnano Fabio di Laureane, Portauova Gaetano, di Altavilla Silentina, di Marco Gennaro di Acquavella, Salati Giulio e Pietro di Gioi, Amabile Pietro, di Roccapiemonte, Franza Matteo, Pascale Giuseppe, Coppola Costantino, Annunciata Cosmo e Saverio e Calenda Gennaro di S. Marzano, Tommasiello Giovanni e Giordano Giovanni di Campagna, Maratea Pasquale di Rutino, de Laurentis Ciriaco di Giffoni, Mandia Stefano di S. Gregorio Magno, Gallo Pasquale, di Pastorano, Jorio Giandomenico di Gioi, di Marco Vincenzo di Tortorelle, Manzella Pasquale di Polla, Bufano Paolantonio e Raffaele di Montecorvino, Rizzo Francesco di Torchiara, Albino Giovanni di Copersito, Taiani Andrea d’ Amalfi, Nola Vito di Nocera, Fabiani Raffaele di Magliano, Genovese Tommasantonio di San Cipriano Picentino, Alduino Michele di Castiglione del Genovesi, Fierro Giovanni di Salerno, Abruzzese Angelo di Stio, De Filippis Giovanni di Castelnuovo, Aletta Michele di S. Giacomo, Trotta Giuseppe di S. Angelo Fasanel la, Bruno Francesco di Salento e Galzerano Mauro di Moi o della Civitella.
(1) La cospirazione cui qui allude l’illustre autore è quella degli Ordoni, fondata in Napoli nel 1825.
(1) Erano inoltre ascritti alla setta L a Propaganda» Antonio, Carmine e Vincenzo Schiavo, Antonio e Domenico d’Alessandro, Angelo, Antonio, Biagio, Carmine, Gennaro, Giuseppe e Pasquale Lista, Antonio Monzo, Angelo e Domenico Pinto alias Mazzuolo, Biagio e Francesco Pinto, Angelo, Francesco, Vincenzo e Angelantonio Tamasco, Antonio Consalvo, Antonio Pino, Biagio, Domenico e Vincenzo Morinelli, Biagio de Caro, Celestino Caruso, Carlo Lippi, Carminantonio e Pasquale de Feo, Carmine Garofalo, Gennaro, Luigi e Giuseppe de Crescenzo, Giovanni e Paolo de Marco, Giovanni Carracino, Giuseppe Fierro, Luigi e Vincenzo Spinelli, Michele Guida, Pasquale Lembo, Sebastiano Pensa e Vincenzo Giordano, di Casalicchio; Luigi delli Paoli, Domenico Salurso, Nicola Cembalo, Pasquale e Vincenzo Ventimiglia e Agostino di Buono, di S. Mango ; Antonio, Gennaro e Alceste di Feo, Achille, Angelo e Marcantonio Vasaturo, Domenicantonio Giordano, Giuseppantonio, Giuseppe e Gaetano Maselli, Giuseppe Marfongelli, Gesualdo Giuliano e Raffaele Lerro di Omignano ; Antonio Pisani, Angelo Pisani alias Ciancillo, Angelo Pisani alias Chiachieppe, Giovanni e Giuseppe Pisani, Antonio Lagreca e Angelo Piantieri, di Cannicchio ; Andrea e Luigi Guglielmini, di Perdifumo; Antonio, Giuseppe e Pasquale Sodan o, Carmine, Giuseppe, Antonio, Mauro e Nicola Signo r elli, Francescantonio e Giuseppe Mazziotti di Celso ; Agapito Nasta, Carmine Visco, Francescosaverio Garofalo, Emanuele Galano e Carmine de Vita di Copersito ; Angelo e Vincenzo di Feo, Carmine e Raffaele Salurso, Francesco Giordano, Francesco Volpe, Giuseppe Lembo, Giuseppe Pascale, Giuseppe e Giovanni Petillo, Giovanni Laudano, Nicola Errico e Sabato Matonti, di S. Mauro Cilento; Angelo Giordano, Domenico Malzone, Francesco Lembo, Nicola e Silvio Amoresano, di Ortodonico; Alessandro, Crescenzo e Francesco Langellotti e Donato Baratta, di O stigliano; Antonio e Francescopaolo Cantarella, Carmine Lagreca, Domenico Sansone, Gennaro Scarpa, Gioacchino e Pasquale Rispoli, Giuseppe Rasoio e Pasquale Scarano, di Pollica; Bernardo Gogliucci, di Orria, Carmine e Francesco d’Agosto, Donato e Giuseppe Immerso, Giovanni e Germano Bianco, Giovanni Palma, Luigi Longo, Nicola Fuccillo, Pasquale Maratea, Salvatore e Pasquale Rizzo e Vincenzo Puca, di Ratino ; Carmine Farro, Domenico Pavone, Domenico Picone, Domenico Guzzi, Francesco Proto e Nicola Farro, di Torchiara; Carmine Errico, di Biagio, Carmine, Francesco e Nicola Errico, di Perito; Domenico Amodio, Francescantonio e Michelangelo Granit o, Gioacchino de Vita e Gaetano Ferrara, di Rocca Cilento ; Domenico Pisciottano, di S. Lucia ; Ferdinando, Giovanni, Michele e Raffaele de Augustinis e Filippo de Renzi, di Frignano ; Francesco del Mercato e Silvio Cagnano, di Laureana; Francescantonio de Vita, Francesco Rotoli e Nicola Calabrese, di Lustra ; Filippo Lebani, Nicola Malzone, Vincenzo e Pietropaolo Cona, di Porcili; Fedele Pica, di Ascea; Giusepperaffaele e Giuseppemaria Picilli e Luigi Guglielmotti, di Giungano ; Gennaro e Gerardo Coccoli e Luigi Mercurio, di Sessa Cilento ; Giuseppe Capozzoli di Monteforte ; Luigi Garofalo, Pasquale de Marco e Pasquale Carleo, di Castelnuovo Cilento ; Michelantanio Caiazzo, di Vatolla ; Nicola Loffredo, di Serramezzana ; Nicola de Maio, di Galdo; Sabbato Sansone, di Pattano ; Saverio Fusco e Tommaso Rubino, di Novi Velia ; Giuseppe Rasoio, Francesco e Luigi Spagnuolo e Vincenzo Guariglia, di Guarrazzano; Giuseppe Ferullo, di Pisciotta; Nicola Cembalo, Pasquale e Giuseppe Ventimiglia di S. Mango ; De Feo Pasquale, Volpe Pasquale, Raffaele Elia e Raffaele Coccoli, di Sessa Cilento ; Raffaele Donnabella, di Valle Cilento e Domenico Bove di Cicerale .
(1) Erano affiliati alla congiura La Fratellanza» Romeo Domenico, Ciardo Angelo, Galzerano Giuseppe, Pietro, Saverio, Giandomenico, Domenico e Pasquale, Rocco Bonifacio, Mastrandrea Andrea, Feola Domenico, Michele e Pietro, d'Alessio Luigi, Gnarra Pasquale, Pàrriello Saverio e Bartolomeo e Loffredo Bartolomeo, di Campora ; Alario Luigiantonio, Giovanni e Michele, d'Agosto Giuseppe, Nicola, Mattia e Domenico, Di Lorenzo Filippo, Rizzo Giovanni, Genia Michelangelo, Sofia Nicola, Ruggiero Gennaro, Di Genio Raffaele, Luigi, Felice e Giuliano, Scelzo Angelo, Molinari Raffaele e Carmine, Lanzulli Matteo, Galzerano Pietro e Gnarra Francesco, di Moio della Civitella ; Tomeo Pasquale, Palladino Francescantonio e Vito, Sansone Paolo, Merda Valentino e Nicola, Troncone Francesco, Ruggiero Giuseppe, dì Cosmo, e d’Agosto Francesco di Pellere; d’Alessio Tommaso, d'Urso Cristofaro, di Vietri, domiciliati a Vallo Lucano ; Passaro Carlo e Giuseppe, d’Ambrosio Domenico, C o rtazzo Michele, Troccoli Francesco, d’Andrea Angelo ed Aniello, di Cicco Silvestro, Salomone Pasqualantonio e Carbone Donicantonio di Cannalonga ; Giuliani Girolamo, Sanza Andrea, Sacco Francesco e Alessandro, Orecchiuto
Domenicantonio, Rovezzi Luigi, di Fiore Bartolomeo; Grimaldi Carmelo, Sparano Giovanni, Rocco Leonardo, Nicola e Angelo, Lettieri Antonio, Ruggiero Giuseppe, Carmine e Franceseo, Cetrangolo Gaetano, Tortorella Gennaro, de Vita Giovanni, Luigi e Francesco, di Polito Pasquale e Giovanni, Bracco Francesco, Guzzo Carmine, Vincenzo, Michele, Nicola, Felice e Romualdo, Rodio Nicola e Raffaele, Russo Luigi, Bamonte Carmine, Fariello Antonio e Biagio, Giordano Francesco e Giovanni, Crocamo Giuseppe, Antonio e Pasquale, di Luca Giuseppe, di Catarina Antonio, Brancati Francesco, Filpi Vincenzo, Rubino Francesco e Romaniello Francesco, di Novi Velia; Amato Vincenzo, Agostino e Giovanni, Troccoli Giuseppe e Tommaso, Rinaldi Vincenzo, Tipoidi Giovanni, Giacomo e Pietro, Costanzo Angelo, Amendola Beniamino, Giuseppe e Tommaso, di Polito Luigi, de Sevo Giuseppe e Nicola, Retta Francesco, Passerella Leonardo e Gaetano, Coccola Annamaria, Pignataro Gaetano e Filippo, Santomauro Nunzio, Lombardi Francesco, Ronzino Carmine, Chirico Crescenzo e Domenico, Cammarano Angelo e Francesco, Mattone Luigi e Filippo, Fatigato Gaetano, di Giulio Angelo, Campanile Luigi, Melchiorre Domenico, Mautone Filippo e Mainanti Michelangelo, di Vallo Lucano ; De L u isa Gaetano e Andrea, Castiello Gaetano, Isabella Gaetano, Angelantonio, Giovanni e Mattia, Giordano Matteo e Antonio, Buonomo Giuseppe, Ca faro Emanuele e Anse l mo, Messano Pasquale, Fasano Nicola e Palumbo Nicola, di Ceraso ; Dura Mauro, Domenico, Felice, Pasquale e Sabbato, D’Alessandro Biagio e Domenicantonio, Manganella Nicola e Giovanni, Montuori Francesco, Rodio Paolo, Filippo e Giacomo, Petrillo Rocco, Ruso Giuseppe, Francesco e Crescenzo, Basile Francesco, Fiorillo Gaetano e Francesco, Mazziotta Gennaro, Tabasco Giuseppe, Scarabino Francesco, Sansone Mauro, Berlangieri Biagio e Filippo, Ferrara Pantaleo, Chirico Attanasio e Vito, Chiniso Giuseppantonio, Manganelli Mattia, Basile Martino, Juliano Filippo, Filpi Giovanni, di Spirito Luigi e Ricco Giuseppe e Andrea, di Massascosa; Arena Angelo e di Lorenzo Achille, di Massa Lucana ; Cafaro Tommaso, di Catone ; de Vita Luigi, Cobellis Antonio, di Pasquale, Maiese Paolo, Musto Antonio, Carmine e Francesco e Rubino Stanislao, di Angoliera ; Strommillo Saverio, Paolo, Angelo e Pietropaolo e Piantieri Giuseppe, di Cannicchio; Petrullo Pasquale, di Gorga ; Caputo Francesco, Salerno Barbato e Nicola, Moscarella Cosmo, Coccaro Francesco, Bruno Giuseppe, Pennone Giuseppe, Rizzo Giovanni e Cono Carmine, di Piaggine ; Bianco Paolo, Popoli Francesco, Corbo Giovanni, Rocco, Giuseppe e Francesco, Salomone Giuseppe e Franco Francesco, di Sacco .
La Suprema Commissione pei reati di Stato condanna a 6 anni di relegazione: Tomeo Domenico, Alario Luigiantonio, Galzerano Giuseppe, de Vita Giovanni, Sansone Andrea, Fiore Bartolomeo, de Lisa Andrea, Amendola Beniamino, Pepoli Francesco, Pisciottano Antonio e Mastrandrea Andrea.
Relegati a tempo indeterminato: Ciardo Angelo, Gnarra Federico, Bracco Francesco, d’Agosto Giuseppe, Sacco Francesco, Grimaldi Carmine, Passero Carlo, Galzerano Pietro, Giulio e Angelo, D’Agosto Francesco, Troccoli Francesco, Cono Carmine, Sacco Alessandro, Rovezzi Luigi, Palladino Antonio, Giuliani Girolamo e Tortorella Gennaro.
Tutti gli altri furono condannati all’esilio correzionale per la durata di anni tre.
(1) Avrebbero fatto parte di questa spedizione:
Della Monica Federico, Mezzacapo Francesco, Del Mercato Gaetano, Mezzacapo Achille, Taddeo Pasquale, Ruotalo Carmine, Coppola Vincenzo, De Vicariis Matteo, Positano Rocco, Alemagna Lorenzo, Giardini Domenico, Avossa Francesco, Contala Giovanni, Alfieri Carlo, Petrone Angelo, Linguiti Giuseppe, Mancusi Giuseppe, Dini Donato, Landi Francesco, Della Calce Domenicantonio, Ferrara Rocco, de Maio Donato, de Falco Aniello, Sica Matteo, Caputa Giuseppe, Sessa Luigi, Leone Francesco, Lamberti Pasquale, Aletta Michele, Bracale Francesco e Antonio, Pasquale Serino, Ricciardi Urbano, Celontano Rocco, Nicodemi Tommaso, Nicodemi Matteo, Celentano Vincenzo, Risi Michele, Galdieri Pasquale, Siano Carlo, Celentano Antonio, Amoroso Raffaele, Carlo Negri, Galdieri Bartolomeo e Francesco, Ricciardi Luigi, Conforti Riccardo, Sessa Daniele, Petrone Alfonso, e Mattia, Falivene Gaetano, Luigi e Antonio, Gubitosi Eugenio, Sica Carminantonio e Alfonso, Basso Gaetano, Falivene Agostino, Gubitosi Gaetano, d’Angelo Vincenzo, Ferdinando e Pietro, Gioia Gabriele, Giannattasio Giuseppe, Gubitosi Gabriele, Sica Donato e Domenico, Giraldi Alessandro, Gubitosi Filippo, Ferrara Raffaele, Laudati Bartolomeo, Francesco, Filippo e Leopoldo, Vitato Flaminio, Naddeo Tommaso e Gerardo, Genovese Gerardo, della Calce Giovannangelo, Naddeo Basilio, Tedesco Andrea, Pergola Luigi, Cappetta Ermenegildo, Gubitosi Gaetano, Sica Ferdinando, Bassi Filippo, de Angelis Vincenzo, Gubitosi Biagio, de Laurentiis Ciriaco, Laudati Alfonso, Mele Sebastiano, Giannattasio Raffaele e Giuseppe, Maddalo Raffaele, Naddeo Domenico, Marotta Francesco, Vernieri Francesco, Petrone Vincenzo, Cioffi Melchiorre e Pietro, Sarluca Paolo, Cioffi Angelo, Giannattasio Carmine, Noschese Custode, Rizzo Emanuele e Agostino, Laterza Vincenzo, Rizzo Alfonso, Amato Giosuè, Procenzano Luigi, Cioffi Nicola, Concilio Alfonso, Noschese Pietrantonio, Giannattasio Vincenzo, Mele Giovanni, Cioffi Vincenzo e Ferdinando, Naddeo Giovanni, Maltese Antonio e Pasquale, Vitolo Francesco Giannattasio Vincenzo, Sabato Luigi, Alfano Antonio e Alfonso, Napolitano Antonio, Noschese Luigi, Vernieri Paolo, Alfano Gerardo, Barbarisi Alfonso, Cioffi Vincenzo e Francesco, Noschese Federico, Procida Giuseppe, Bassi Nicola, De Vita Luigi, Mammola Ciriaco e Francesco, Sica Giuseppe, e Francesco, Cappotta Francescosaverio ed Errico, Falivene Gaetano, Luigi e Antonio, d’Angelo Vincenzo, Ferdinando, Pietro e Filippo, Sica Carminantonio, Sica Alfonso e Dofnenico, Gubitosi Filippo fu Gaetano, Gubitosi Filippo fu Luigi, Gubitosi Biagio, Rupoli Nicola, Troiai Giuseppe, Duccillo Pasquale, Di Tori Aniello, D’Angelo Girolamo e Domenico, Sica Luigi, Gubitosi Antonio, Fortunato Costantino e Francesco, Elia Francesco, De Vito Luigi, Bassi Gaetano, Gubitosi Felice, Foglia Domenicantonio, D’Aiutolo Giuseppe e fratelli, Minco Nicola, delle Donne Antonio, Elia e Michele, Rossi Gaetano e Giuseppe, D’Andria Lorenào, Naddeo Michele, Mele Gaetano, Naddeo Alfonso, Genovese Felice, Linguiti Antonio e Francesco, Mazza Agostino, Falivene Carminantonio, Jacuzio Antonio, Fumo Carmine, Bassi Scipione, Celentano Vincenzo e Rocco, Naddei Raffaele, Nicodemi Tommaso e Matteo, Risi Michele, Galdieri Pasquale, Siano Carlo e Celentano Antonio.
(1) Notavansi in tale spedizione: Granito Michelangelo di Rocca Cilento; Magnoni Lucio, Michele e Salvatore, e Botti Antonio, di Nicola, di Rutino; Giardino Antonio e Gennaro, Pisciottano Carmelo, e de Stefano Pasquale, di Ogliastro ; Cagnano Ignazio, di Laureana; Cernelli Girolamo e Vecchi Feliceantonio; d i F rignano; Picone Andrea e Domenico, Garofalo Salvatore e Francescosaverio, di Torchiara; Cairone Gi useppe, Ciuccio Guglielmo, Palombo Nicola e Avenia Antonio, di Montecicerale ; Vinciprova Leonino, di Omignano ; de Angelis Giovanni, Acquaviva Domenico e Costabile, Raso Sabbato e Raffaele, Mignone Domenico, Signorelli Francesco, Nicoletti Luigi Damiani Carmine e Gennaro, Cuoco Luigi e Francesco, de Lucia Nicola e Gennaro, Rubino Franc e sco e Costabile, Matarazzo Vincenzo, Pasquale Francesco e Domenico, Niglio Francesco, Nigro Francesco, Gorga Carmine, Caramoli Francesco, Passera Francesco, Raffaele e Filippo, Giaquinto Luigi, d e Santis Gaetano, Ventrella Francesco, Malzone Francesco e Filippo, d’Agosto Orazio, Chiariello Giammaria, Rossi Gaetano, Ciongali Francesco e Parente Luigi, di Castellabate ; Pianti eri Giuseppe di Cannicchio ; Palma Domenico, Capezzuto Francesco e Nicola e Nigro Raffaele, di Copersito; Scuotto Michele e Ignazio, Sernicola Raffaele, Benincasa Raffaele, Taddeo Onofrio, Forziati Sabbato, Luisi Nunzio e Ignazio, Voscio Pasquale, Rizzo Vincenzo, Guariglia Aniejlo, Landolfì Nunzio, Vitale Ignazio, Volpe Ignazio e Vincenzo, di Agropoli ; Daniele Pasquale e Daniele, Accarino Salvatore, Biagio e Antonio, Frajese Donato, Romano Rosario, de Feo Giovanni, Volpe Carmine, Rendine Mauro, Renna Marco, de Biase Francesco, Marino Nicola, Pasquale, Angelo e Carmelo, Rocco Celestino, de Angelis Domenico, e Matteo, Guerrieri Filippo, d’Angelo Rosario, Giuseppe, Luigi e Pietro, Guglielmotti Pasquale e Marco Principe Donato, Passero Z a cc a ria, Cavallo Angelo, Quaglia Michele e Ant on io, Trotta Annibale, Bosco Giuseppe, Vernaglia Antonio, Russo Pasquale, Bruno Raffaele e Michele, Paolino Francesco e Donato, Capozzoli Raffaele, Cuozzo Gaspare, Rizzo Michele, C iuccio Giovanni e Pietro, e di Cunto Marco di Trentinara; Aulisio Giovanni, de Angelis Giovanni, Giffoni Luigi, Orlotti Francesco e Nicola, Guglielmotti Pietrocarlo, Antonio, Filippo e Ignazio, Strommillo Antonio, Paolino Tommaso, Passero Pompeo e Luigi, di Fiore Giacomo, Curcio Domenico, Pieliti Bernardino e Biagio, Orrico Rosario, Colangelo Nicola, Cairone Giuseppe, Paruoli Mauro, Ceraso Domenico Di Vinci Saverio, Criscuolo Alfonso, di Zenzo Pellegrino, Cirota Bruno, di Paolantonio Giuseppe, di Napoli Marco, Molli Pasquale e Giovanni, e Comunale Pasquale, di Giungano; Gorga Ferdinando, Cernili Giovanni, Giordano Donato, Sangiovanni Donato, Cosmo e Gennaro, Mottola Nicola e Sabbato, di Fede Francesco, Imbriaco Donato, Montelli Clemente e Carmine, Farro Cosmo e Gallo Luigi, di Monteforte ; Giardini Giovanni, Diodati Domenico, Soldano Gennaro, Forziati Gabriele e Felice, Costantino Nicola, Bamonte Berardino, Grieco Nicola e Tommaso, Scaramella Giuseppe, de Vita Michele, Poto Mariano, Smaldone Pasquale, Rota Domenico, Conzo Pietro, Durazzo Francesco e Pepe Carmine, di Castelluccio ; Barlotti Francesco, Antonio e Barlotti Antonio fu Antonio, Ràgone Zaccaria, Santomauro Pasquale, Pellegrino Francesco, Galzerano Raffaele e Alfonso, di Lorenzo Francesco, Manna Raffaele, Baldo Francesco, Marandino Francesco e Giuseppe, Coletta Carlo, Angarola Ferdinando, Granata Pasquale, di Fiore Lucido, Andreola Lucido, Zerenga Giuseppe, Napolitano Gaetano, d’Anzi Giuseppe, Carzi Nicola, Sabia Germano, di Foggia Vincenzo, Desiderio Fortunato, Arcione Domenico, Rocco Silvestro, Quaglia Luigi, Bellelli Giovanni e d’Alessio Vincenzo, di Capaccio; Rizzo Gaetano e Filippo, Miniaci Antonio, Saviano Francesco, Guarracino Bartolomeo, Albini Vincenzo, Anzisi Gaetano e Antonio, Cammarano Domenico, Stasi Giovanni, di Cristofaro Francesco, Cantalupo Raffaele, la Corti glia Pasquale, Camera Andrea, Safere Carmine, Stabile Giovanni, Amendola Michele, ipoio Domenico, Spinelli Gaetano e Vito, de Simone Germano, lannoto Gennaro, Basile Vincenzo, Coiro Luigi, Principato Pasquale, Pipi Raffaele, Inglese Vito e Barlotti Gioacchino, di Albanella; Torre Andrea e Farro Saverio, di Torchiara ; Verdoliva Giuseppe, Borrelli Gaetano, Oricchio Pasquale e Pa l ladino Pasquale, di R u tino.
(1) Tra quei di Sala Consilina che presero parte a questi fatti d'armi eranvi: Tafuri Gabriele, Granieri Giovanni, Casale Giuseppe, Chirichella Francesco, Bosco Michelangelo e Gennaro, Carelli Luigi, Paladino Pasquale, Paradiso Giuseppe, Spinelli Angelo, Rossi Andrea e Giuseppe, I ascone Felice, Petrillo Luigi, Bigotti Andrea e Giuseppe, Provenzale Francesco, Giancristiano Vincenzo, d’Amelio Antonio e Ottaviano, Colonnese Michele, de Petrinis Girola m o. Novellino Domenico, Catalano Pietro, Boezio G iacomantonio, Falcone Raffaele e Bonaventura, Sasso Vincenzo, Giudice Lorenzo, Motta Giuseppe, Pappafico Salvatore e Giulio, Ferretti Michele, Gozzuti Giuseppe e Biagio e Medici Antonio, Pietro e Agostino.
(2) Tra esse erano: Zoccoli Carlo, Marino Carlo Pepoli Francesco e Nicola, Saggese Giuseppe Francesco, Pagano Rosario, d’Andrea Pietro e Giuseppe; di Ciccio Felice e Giuseppe Salerno Giuseppe e Francesco, Consoli Silvestro, Carmine e Luigi, Masullo Pasquale e Antonio, di Mango Vincenzo, Franc o Luigi e Silvestro, C orbo Francesco e Gaspare, Domenico e Luigi, Stabile Paolovito, Comunale Domenico e Giuseppe, Scodes Antonio, Francesco e Silvestro, Mainenti Pantaleo, Rocco Francesco, Accetta Sabbato e Vito, Salomone Pasquale e Giovanni, Perrone Gaetano e Giuseppe, Pepoli Francesco, Franco Silvestro, Dente Domenico, Piscitano Carmine, Rizzo Francesco, Cerasuolo Angelo, Pirrone Pietro e Vincenzo, Comunale Pietro, Pepe Francesco, Monaco Felice, e Macchiarulo Antonio.
(1) Salati Andrea, Michele, Achille ed Antonio, D’Apuzzo Alfonso e Michele, Errico Michele e Carmine, Gol l ucci Carmine, Bruno Vincenzo, Salati Nicola di Gioi; D’Aiuto Carminantonio e Angelo, Riccio Catone, Salati Giovambattista, Palladino Domenico e Giuseppe, Di Genio Giovanni, Rizzo Marcello, d'Aiuto Antonio, Rizzo Angelo, d’Elia Giuseppe, Rizzo Antonio, Siniscalchi Giovanni e Antonio, di Genio Carmine, Rizzo Giovanni, Manna Angelantonio, Riccio Giuseppe, d’Aiuto Carmine, Rizzo Nicola, di Genio Nicola di Cardile; Sollazzo Tommaso, Olivaro Paolo, d’Apolito Angelantonio, Nicastro Lorenzo, Scarpa Giovannantonio, di Salente; Gorga Ferdinando, Capozzoli Gaetano e Luigi, Tofano Carmine, D'Elia Giuseppe, Passaro Leonardo, Ferraro Rosario, Rizzo Gaetano, di Monteforte; Alario Nicola, di Moio; Alario Giovanni, Guerra Ferdinando, de Vita Giuseppe, d’Agosto Francesco, Ruggiero Antonio, Molinaro Francesco, Conti Michele, de Lisi Antonio, d’Agosto Salvatore, di Genio Luigi, Rizzo Giovanni, Maiuri Nicola, Alario Pasquale, Fedele Costantino, Molinaro Carminantonio, di Leo Pietrantonio, Puglia Luigi, Stifano Leonardo, Palladino Silverio, Imbriaco Bartolomeo e Zaccaria, Ruggiero Mattia, Antonio e Gennaro, Alario Pasquale, Agresta Angelo, Ruggiero Pasquale, Palladino. Francescantonio, Raggierò Giuseppe, Palladino Antonio, Conti Raffaele, di Pek lere; de Vita Giovanni, di Novi; Sacco Alessandro, Lettieri Antonio, de Lisa Francesco, Guercio Filippo, Ricchiuto Francesco, Guzzo Francesco, Rodio Nicola, Ruggiero Carmine, Recchiuto Giuseppe, Sparano Giovanni, Giordano Francesco, Sparano Luca, de Vita Filippo, Guzzo Nicola, Polito Angelo, fu Pasquale, Rocco Angelo, de Vita Francesco, Crocamo Antonio, Bracchi Francesco, Bamonte Melchiorre, Crocamo Gennaro, Tortorella Vincenzo e Venanzio, Sansone Andrea, Sacco Francesco, Guzzo Pasquale, Positano Francesco, Recchiuti Francesco, Gatto Vincenzo e Michele, Rocco Leonardo, Guzzo Antonio, Positano Giandomenico, Guzzo Felice e Vincenzo, de Luca Giuseppe, Sansone Cesare, Giuliani Girolamo, Guzzo Giovanni, Filpi Reginaldo, Crocamo Pasquale, Rodio Antonio, di Catarina Antonio, d’Antuoni Ignazio, di Polito Giovanni, Fazio Giuseppe, Corrente Andrea, Filpi Angelo, Ruggiero Giuseppe, Guzzo Domenico, Polito Antonio, Brancati Francesco, Bamonte Carmine, di Catarina Francesco, Guzzo Michele, Gennaro Pasquale, Rubino Gregorio e Francesco, Rodio Raffaele, di Sevo Carmine, Tortorella Tommaso e Raffaele, de Miero Raffaele, Labruna Ferdinando, Sansone Pasquale, Puglia Domenico, d’Arena Angelo, Milone Francesco, Battagliese Lucio, Labruna Antonio, lacovazzo Carmine, Labruna Francescantonio, Mautone Alessio e Nicoletti Luigi, di Massa Lucana.
(1) Vedi pag. 140 e 165.
(1) Dei pochi ohe. vi presero parte notaronsi Santelmo Antonio, Francesco e Giovanni, Forte Antonio, Francesco e Angelo, Romano Federico, Vecchio Giovanni, Cardillo Michele e Giuseppe e Cardillo Michele, di Giuseppe, de Marco Michele e Gaetano, Scolpino Felice, Paolo e Giuseppe, Tepidino Vincenzo, Padula Vincenzo e Michele, Masullo Raffaele, Gervasi Vincenzo, Bianco Angelomaria, Soriano Domenico, Robertucci Michele e Alferio, Ferrara Antonio, Gallo Michele, e Amabile, Faluotico Giuseppe, Mugno Vincenzo e Fiorante, Volpe Pietro, di Giuseppe Michele, sacerdote, Bruno Gabriele, Alliegro Domenico, Sanseverino Raffaele, Perillo Francesco, de Rosa Tommaso, Falce Antonio, Cernicchiaro Pietro, Bifano Pasquale, Zipparro Domenico, Viggiano Pietro e Carlo, Alfano Michele, Gallo Vincenzo, Patrizzi Giuseppe e Raffaele, de Simone Giovanni, di Giuseppe Evangelista, Arato Vincenzo, Barra Michele, Rizzo Ignazio, e Pierri Vincenzo, di Padula, La Corte Samuele, Brandi Mansueto, Callotti Raffaele, Filomena, Nicola, Diomede e Francesco, di Sapri, Curcio Giuseppe, Peluso Liborio, Cioffi Nicola e Vincenzo, Barra Carmine, Zipparri Pasquale, Caccurri Camillo, Gravina Pietro, Cernicchiaro Pietro, Felizzolo Biagio, Falce Giuseppe, P. Luigi da Torraca, Bifani Pasqule e Nicola, Brandi Pasquale, Falco Carmine, Viggiano Carlo e Cono, Zipparro Domenico e Antonio, Merendante Nicola, Cesarino Francesco, Falce Anna e Antonio, Fiorito Francesco, di. Torraca; Lenza Giovanni, di Roccagloriosa; de Benedictis Giuseppe, Brienza Angelo e Vincenzo, Cammarano Raffaele, Arenaro Vincenzo, Trotta Pietro, di Sassano; Morone Tommaso, di S. Giacomo; Matina Giovanni, di Diano, de Stefano Baldassarre ed Ermenegildo, di Casalnuovo; Bellezza Angelo, di Buonabitacolo e Rega Vincenzodi Giffoni; Scorziello Pasquale, di Roccadaspide; Orlando Pasquale, di Agnone; Mazzariello Angelo, di S. Giorgio; Mangia Nicola, di Poderia; Botta Pietro, di Giffoni, Budetta Pasquale, Pietropaolo e Agostino, Pizzuti Luigi, Masucci Giuseppe, d’Aiutolo Agostino, di Rovella; Calabritto Tommaso, di Fagliano; Quaranta Angelo, di Palo;,Esposito Anseimo, di Nocera; Sarnelli Gioacchino, di Bracigliano; Lobuglio Giuseppe, di Diano ecc.
(1) Giordano, op. cit.
(1) Vedi il Gazzettino Contemporaneo di Milano.
(1) Tra i moltissimi erano: Galdi Emilio, Casola Michele, Grimaldi Bernardo, Manganella Ignazio, Infranzi Vincenzo, d’Avossa Carlo, Cavallo Raffaele, Mauro Silvio, Luciani Giovanni, Natella Gennaro, e Gaetano, de Rosa Nicola, Gatti Stefano, Quartulli Enrico, Somma Giuseppe e Francesco, Scinto Nicola, Bassi Stanislao, Barrella Gaetano, Santucci Tobia, Amen Giuseppe, Carraturo Pietro, Ricciardi Luigi, Giacchetti Vincenzo, Colella Francesco, Ventura Saverio, e Antonio, Migliaccio Ernesto, Rossi Giulio, Consiglio Luigi, Stanile Alfonso, Messina Enrico, Mauro Angelo, Naddei Almerico, Nunziante Gaetano, Giordano Carmine, de Maio Francesco, Pilato Luigi, Vessicchio Saverio, Pignataro Nicola, Campanile Vincenzo, dAndrea Giuseppe, Sessa Tommaso Giannone Francesco, Quinto Errico, Daboval Errico, Pisapia Pasquale, Centola Achille, e Federico, Amaturo Vincenzo Rivello, Gaeta Francesco e Geetano, Moscati Filippo e Gaetano, de Feudis Matteo, Canoro Giovanni, Landi Pietro, di Gilio Marte, Giordano Carlo, Rossi Vincenzo, Maiorano Matteo, Francesco e Raffaele, Moscati Errico, Vernieri Antonio, de Maio Antonio, de Sio Gaetano, di Gilio Federico e Matteo, Pentagallo Matteo, Giordano Matteo, di Gaetano; Colurci Antonio, Marigliano Vincenzo, Pagliara Alfonso, Granozio Cesare, Luigi e Giuseppe, Trani Gennaro, Pagano Giuseppe e Alfonso, Farina Vincenzo, Carbone Vincenzo, Grimaldi Gennaro, della Monica Federico, Buccino Giuseppe Franco Errico, Leopizzi Salvatore, Naddei Vincenzo, Beliucci Francesco, di Salerno; Francesco Alario, di Moio della Civitella; Andrea Guglielmini, di Perdifumo; Matina Giovanni e Michele, Carrano Antonio e Angelogabriele e Comparati Antonio, di Tegiano; Armenante Federico e Trara Genuino Giuseppe, di Cava dei Tirreni; Prezioso Carlo, di Fratte di Salerno; Cammarano Raffaele, Passaro Stefano, Tipoidi Giovanni, di Vallo Lucano; Notari Gabriele, di Capriglia; del Mercato Errico, Caetano e Pietro, di Laureana; Avallone Mario, Cesario Errico e Raffaele, Milone Sabbato, Taiani Alessandro, di Vietri sul mare; Gaiani Ettore e Roberto, di Penta; Ghillot Carlo e Galise Giuseppe, di Cava dei Tirreni; Cimmini Raffaele, di Maiori; Amabile dottor Andrea, di Castel S. Giorgio; Calvanese Carmine, di Lanzara; de Bartolomeis Raffaele, di Pellezzano; Bottiglieri Diego, di Petina; Galloppi Cav. Francesco, di Polla; Abbondati Carlo e Pietro, di Montecorvino; Principe Gaetano, di Laureana; de Dominicis Teodosio, di Ascea; Giordano Pietro, Jannicelli Leopoldo e Basilio, di Ceraso; Coccoli Raffaele, di Sessa Cilento; Maselli Francesco e Pasquale, di Omignano; Tufani Carmine, di Roccadaspide; Matteo Sica Alfieri, Pacileo Antonio, fu Saverio, Pacileo Vincenzo, Antonio e Francesco, Napoli Stefano, Ricciardi Alfonso, fu Angelo e Temistocle, d’Auria Antonio, Gagliano Alfonso, di Nicola, e Petrone Luigi, di Penta; Luzzi Carmine e Luigi e Giuseppe Siniscalchi, di Lancusi; Raffaele Landi e Francesco de Falco, di Fisciano; Giuseppe Guadagno, di Gaiano, ecc.
Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura! Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin) |
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