Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024) |
PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO |
DELLA VITA DI GIUSEPPE MAZZINIPER JESSIE W. MARIOOpera illustrata con ritratti e composizioni d'insigni artisti MILANO EDOARDO SONZOGNO, Editore Via Pasquirolo 14 1886 |
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«La difesa di Roma per il valore e la magnanimità di cui fece prova il latin sangue gentile pare un grande episodio dei poemi di Virgilio e del Tasso.
«G. Carducci.»
«Ne pleurez pas ceux qui sont morts; ne plaignez pas ceux qui vont encore mourir. Ils pavent leur dette. Ils valent mieux que ceux qui les égorgent. Ah, ce n’est pas sur les martyrs qu’ il faudrait pleurer: c’est sur les bourreaux.
«Giorgio Sand a Mazzini, 1849.»
Al cominciamento del 1849 Roma era ancora senza governo.
Il papa, intimorito dalle voci di scisma in Germania, indispettito perché il governo piemontese ricusava mandare i suoi ambasciatori a Roma pei' firmare i patti della lega, sordo alle mitissime rimostranze del proprio ministero, preferendo i consigli dell’ambasciatore di Russia e dell’Austria, aveva nella famosa allocuzione del 29 aprile, benedetto i croati che appiccarono i volontari suoi lasciando su i cadaveri le parole: Così si trattano i soldati di Pio IX. In Roma si tumultuò. Invano il papa mandò fuori un nuovo proclama: la sua parola non aveva più efficacia: ognuno disse «Chi non è per l’Italia è contro di noi». Il ministero Antonelli-Minghetti si dimette, succede quello di Mamiani. Dopo la defezione del re di Napoli, sempre più il papa si gettò in braccia alla reazione: cosi al secondo anniversario della sua elezione non ebbe che ministri e preti a gratularlo. Dopo l’armistizio di Salasco ecco il Lichtenstein in Ferrara, ecco in Bologna Alpi e Welden con una masnada non di soldati ma di briganti e di belve, quest’ultimo dichiarando che l’Austria era d’accordo col papa. Il popolo di Bologna eroicamente resisteva, ma alle truppe pontificie strette dalle capitolazioni di Vicenza e di Treviso il combattere fu proibito. Gloriosa rimarrà nella storia d’Italia la difesa della Montagnola fatta dai popolani, dai cittadini e dalla guardia civica: ma il papa non volle la guerra, anzi licenziò Campello ministro delle armi che l'aveva bandita; e in ultimo ricorre a Pellegrino Rossi, nominandolo ministro dell’interno e delle finanze. Egli era in uggia al partito piemontese, essendosi pronunciato avverso ai disegni di Carlo Alberto, col quale però tentò un ultimo progetto di lega; ma sopra tutto era segno all'odio de' gesuiti, i quali con ragione vedevano in lui l’unico possibile salvatore del trono costituzionale del pontefice. Il giorno 15 novembre il Rossi fu assassinato nell’atto di salire la scala del parlamento. I gesuiti tentarono di gettare l’onta del delitto sui repubblicani: i moderati che lo esaltarono dopo morto, trovarono il tornaconto a divulgare le stesse calunnie: anzi i loro scritti dopo il 1849 fanno derivare la repubblica di Roma direttamente da quel delitto, mentre nulla ci ebbe che fare, e nessunissima prova o indizio ci è che un repubblicano o liberale avesse parte nel complotto (1). Una aurora boreale che infuocò il cielo di Roma accrebbe i terrori superstiziosi del papa: il quale, ricevuta da ignote mani la teca d'argento in cui Pio VII tratto prigioniero da Napoleone custodiva l’ostia consacrata, tenendo questo quale ordine di Dio, fuggì travestito colla contessa Spaur a gettarsi in braccio del re di Napoli; fino all'ultimo ingannando il ministro di Francia, duca d'Arcourt, al quale aveva data parola di rifugiarsi in Francia; Cavaignac aveva mandato a Civitavecchia navi con 3000 soldati per riceverlo. Giunto a Gaeta si rivolse ai potentati stranieri: la Spagna voleva un congresso per garantire la libertà al pontefice; il re offrì Napoli per sede, ma voleva partecipassero la Russia, la Prussia e l’Inghilterra; la Prussia acconsentì; la Russia disse, bastare diecimila napoletani e diecimila austriaci; Carlo Alberto si oppose recisamente a un congresso ove sarebbe rappresentata l’Austria, protestando contro ogni nuovo intervento straniero, e offrì Nizza per asilo; ma del Piemonte il papa non volle saperne. L’Antonelli lo dominava come Pellegrino Rossi non era mai riuscito a fare. A Gioberti, finché Mamiani rimase al potere, un lembo di speranza avanzò che il papa avrebbe accettato la mediazione del solo Piemonte: ma ben presto Mamiani dové avvertirlo che «la idea della Costituente Romana a suffragio universale ha invaso in quindici giorni come la febbre tutti i circoli dello Stato. Non è possibile un «governo oggi in Roma, se non promette anzi non effettua, al più presto che potrà, la detta «costituzione». Gioberti voleva a tutta forza occupare Ancona, Carlo Alberto negò l’assenso: allora Gioberti tentò di indurre il papa a permetterla, il papa rifiutò asciutto. Intanto durava la commissione provvisoria; ma i suoi membri costituzionali ebbero in risposta dal pontefice non potere egli in contemplazione della causa italiana recare pregiudizio agli interessi veri di Santa Chiesa, e il 23 gennajo 1849 disse ad Enrico Martini, tornato nuovamente a mestare, che, «per quanto l'Italia gli stesse a cuore, egli doveva invocare e usare le armi di tutti i cattolici e non le italiane a difesa del territorio della Chiesa». Il 7 febbrajo un concistoro di cardinali deliberò di chiedere immediatamente all’Austria, alla Francia, alla Spagna e a Napoli soccorso a liberare i domimi pontifìcii da un’onda di scellerati che vi esercitava il più atroce dispotismo.
Così le speranze di un risorgimento italiano col papa erano svanite per sempre, dimostrata impossibile la trasformazione civile del papato, impossibile l’indipendenza italiana col potere temporale non duraturo senza l’appoggio di bajonette straniere.
Seguitavano i casi atroci dei siciliani vilmente abbandonati dall’Inghilterra e dalla Francia, traditi dal Piemonte (2), il quale, avvertendo il Borbone che il duca di Genova non accettava la corona dell'isola, non fece questa dichiarazione ai siciliani per paura che proclamassero la repubblica. Messina stretta dalle armi napoletane protestava: «anche venuta meno l’accettazione del duca di Genova, rimane per sempre impossibile qualunque accordo della Sicilia coi Borboni». Caduta Messina, la Sicilia giurava guerra disperata, perché «se prima della caduta di Messina venire ai patti coi Borboni era errore e vergogna, dopo sarebbe tradimento e «infamia». Malgrado questa condotta del Piemonte furono interrotte le pratiche per una lega tra i governi di Torino e Firenze, e più tardi tra le corti di Napoli e Torino.
Venezia difendevasi repubblicanamente, colonna delle speranze popolari, centro dell’ammirazione mondiale (e, sia detto a sua lode, neppure per riavere il parco d'artiglieria lasciato a Monza volle Carlo Alberto che si ritirassero le sue navi dall’Adriatico): il parlamento subalpino votava 600,000 lire mensili, e ajuti privati affluivano all’appello di Mameli «per la gran mendica.» Nell’ottobre 1848 erano state riprese le pratiche della lega tra Torino e Toscana, ministro Gino Capponi. Il 22, Montanelli divenne ministro, e l’onore suo fu avere pel primo riconosciuto il governo della Sicilia. La sua idea era una costituente eletta a suffragio universale, che avrebbe condotta la nazione ad esercitare la sovranità con un patto fondamentale. Il Consiglio generale votò la nomina di trentasei deputati alla costituente da raccoglierai in Roma. Il Gran Duca acconsenti, poi scrisse al papa; il papa minacciò scomunica, e il Gran Duca fuggi a Porto Stefano., Qui nuovi intrighi tra il Gioberti e il Gran Duca, per una restaurazione da operarsi con le armi piemontesi; ma intanto il papa raggiunse l’intento suo di trarre il Gran Duca a Napoli, e Gioberti cadde con l’ignominia dell’avere voluto contaminare le armi piemontesi, colla guerra civile. Null’altro rimaneva ai toscani che fare un Governo provvisorio; e cosi fecero coll’approvazione di Gino Capponi.
Questo lo stato delle cose quando Mazzini giunse da Marsiglia a Firenze. Sbarcato a Livorno l’8 febbrajo, fu pregato dal governatore Pigli di annunciare la fuga del Gran Duca al popolo raccolto a festeggiarlo. Alcuni temevano violenze contro i noti fautori del fuggiasco principe, ma la buona nuova fu accolta lietamente dal popolo, che gareggiò a provare potersi vivere comodi e amorevoli senza principe. «Mai — scrive Mazzini — vidi città più lieta ed ordinata. «A taluni che parlavano di atterrare una statua del Duca bastò suggerire che la velassero. «Livorno è città repubblicana e onorerà tra le prime l’Italia futura».
Il 9 febbrajo la repubblica era proclamata in Roma (3). Goffredo Mameli dava a Mazzini il sublime annunzio: «Roma. Repubblica. Venite!» Questa l’iniziativa che egli cercava. A Firenze presenziò l’adunanza pubblica del Circolo popolare; e, votata il 18 febbrajo l’adozione della forma repubblicana, l’unione a Roma e il comitato di difesa composto di Guerrazzi, Montanelli e Zannetti, si adoprò perché la Toscana congiungesse le sorti sue a quelle di Roma. Agli amici di Elba e di Livorno che gli avevano conferito il mandato di rappresentante scriveva ringraziando:
«11 programma nostro è stato eseguito degnamente a Roma, tocca a noi secondare. Bisogna che la «Toscana s’unifichi con Roma e presto.»
E il 17 marzo ancora scriveva pur da Firenze:
«Fanno il loro mestiere; e sono furenti, idrofobi per ciò che facciamo nel centro. E più lo saranno se,» come spero, riesco a far pronunciare qui l’unificazione con Roma nella settimana ventura, forse domani.
«Del resto siam minacciati, non solamente d’intervento austriaco, ma piemontese; rotti tutti i rapporti, minacce reali. Dentro lavorano per la reazione in un modo strano, e nelle campagne con qualche successo. Non s’era fatto nulla per l’armamento; ma ora si comincia. Il governo è debolissimo. Il peggio è al solito la finanza: non vi è denaro. Vedremo. Il fatto è che ora siamo in ballo noi repubblicani e che bisogna sostenerlo. Bisogna che la stampa muova guerra ai Giobertisti, avances invece al Piemonte, a Genova e all’esercito. Ogni repubblicano faccia qualche cosa per la causa; se no, colla coalizione di Napoli, Austria ecc., ecc., siamo iti; e ne abbiamo allora per venti anni almeno. Sai che la Costituente Romana mi ha fatto a voti unanimi cittadino? oggi ho ricevuto la lettera del Presidente dell'Assemblea che m’invita a Roma. Andrò; ma, se posso, voglio portare a Roma il decreto d’unificazione repubblicana della Toscana. Il Duca è qui ancora a Santo Stefano: i diplomatici presso a lui: una Gaeta nel territorio «toscano. Se riesco all’unificazione, l’impulso partirà da Roma. L’organizzazione è pochissima. Se siamo, come ho ragione di prevedere, invasi, Dio ce la mandi buona! 11 governo è buono, ma incerto della sua via.»
Insiste perché Livorno mandi 31 casse di armi «perché il governo è senza armi e senza denaro.»
«Ma tutte queste misure sono avversate dai ministri Romanelli, Marmocchi e C. che negano l’opportunità, e s’avrà tra non molto, se non lasciano fare, l’opportunità del Gran Duca.»
E, deferita all’assemblea la decisione intorno all’unione con Roma, scriveva:
«Fate quanto e dovunque potete perché allora non venga fuori la repubblichetta toscana: se dobbiamo rinunziare alla potenza dell’unità, meglio è che ci mettiamo addirittura sotto gli Austriaci.»
E prima di partire insisteva col governo
«… di curare la difesa, ordinare, pel caso d’assalto, per ogni città e comune murato, sotto la scorta d'un ingegnere, un sistema di barricate a punta, tanto che ogni colonna mobile potesse fare, occorrendo, della città o comune una base d’operazione. Questa è cosa essenziale — egli ripeteva agli amici ovunque —. La difesa ordinata della città in una guerra nazionale e il cui fato dipende non tanto dal vincere quanto dall'indugiare il nemico mi pare una cosa vitale. Dalla durata della resistenza nel centro d’Italia dipenderà la guerra della Lombardia....»
Perduta la speranza che «questa benedetta unificazione» fosse fatta subito, parti per Roma ove era stato eletto deputato. E, come prima di arrivare tutte le sue lettere parlavano di armi, di ordinamento, di difesa (4), cosi le prime parole sue all’Assemblea furono «bisogna lavorare come se avessimo il nemico alle porte e a un tempo come se si lavorasse per l’eternità.»
Come anche prima del suo arrivo lo spirito di Mazzini avesse compenetrato l'Assemblea Costituente, si vede nei primissimi indirizzi e decreti. Il 10 febbrajo era votato il seguente indirizzo al popolo toscano:
«Noi, sul punto di pronunciare la gran parola di libertà, guardavamo d’intorno per saper da qual parte udremmo prima una risposta generosa, e tenevamo fede che da cotesta terra non poteva venirci che un grido di affetto e di concordia. Piacque a Dio che nello stesso momento aveste a compiere Voi pure una grand'opera, volgendo a Roma un pensiero di aspettazione. Le due rivoluzioni hanno manifestato che i Popoli Italiani sono fratelli nei voti e nei destini. L’antica calunnia è vendicata. L’Italia nutre i suoi figli di uno stesso pensiero. — Toscani! 11 vostro governo è il nostro, Voi l’avete detto: si uniscano e stringano tanto, che agli occhi d’Italia e del mondo ne compongano un solo. Ebbene! la formola della fratellanza noi l’abbiamo proferita la notte degli otto febbrajo: non è ignota alla vostra istoria, come non era al Campidoglio. Procediamo insieme, e la Costituente Italiana sarà suggello al patto della Nazione.»
Il Comitato Esecutivo di tre italiani responsabili ed amovibili a volontà dell’Assemblea, eletto quello stesso giorno in Armellini, Saliceti, Montecchi, decretava che Le leggi saranno emanate e la giustizia sarà fatta IN NOME DI DIO E DEL POPOLO, che la bandiera della Repubblica Romana sarà l’italiana tricolore col? aquila romana sull’asta.
Eran nominati ministri: Carlo Emanuele Muzzarelli, della pubblica istruzione e presidente del consiglio; Aurelio Saffi, dell’interno; Giovita Lazzarini, di grazia e giustizia; Carlo Rusconi, degli affari esteri; Ignazio Guiccioli, delle finanze; Pietro Sterbini, dei lavori pubblici e commercio; Pompeo di Campello, di guerra e marina; tenente colonnello Luigi Mezzacapo e maggiore Alessandro Calandrella sostituiti al ministero della guerra e marina; Federico Galeotti, primo presidente del tribunale d’appello. E tutti, seguirono una stessa politica informata in tutto e per tutto al pensiero nazionale.
Il 16 marzo Mazzini propose e ottenne dall’Assemblea la nomina d’una commissione di guerra composta di cinque individui, che dovesse studiare i modi migliori d’ordinamento per l’esercito e provvedere alle necessità di difesa e d’offesa. Carlo Pisacane ne fu l’anima e l’amicizia nata allora fra loro dalla stima e dal comune lavoro crebbe poi sempre in forza e costanza, e in Mazzini durò oltre la tomba che quel martire eroe trovò sulla barbara terra di Sapri. Al sistema inefficace dei distaccamenti sparsi su tutti i punti della lunga frontiera meridionale sostituirono, pensando alla difesa, il concentramento delle forze su’ due punti di Bologna e Terni; e a questo concentramento anteriore fu dovuto in parte la possibilità della prolungata difesa di Roma. La cifra dell'esercito fu fissata a 45,000, da raggiungersi colla coscrizione nello Stato e cogli elementi che affluivano dall’altre parti d’Italia. E al Piemonte che stava per rompere nuovamente la guerra all'Austria la Repubblica decretava spontanea senza patti l’invio di 10,000 uomini, con alla testa il tenente colonnello Mezzacapo. Spontanea ripetiamo; perché il decreto fu firmato prima che Lorenzo Valerio giungesse con missione semiufficiale per intendersi e il 21 marzo fu decisa la partenza dei soldati di Roma per la frontiera: decisione tanto più nobile quanto il governo piemontese aveva rifiutato di riconoscere i governi della Toscana e di Roma; anzi, aveva sospeso le pratiche per la confederazione, chiuse le cancellerie in Roma lasciando soltanto un console per gli affari di commercio, congedato i deputati che il popolo mandava a Torino; e Gioberti in uno dei suoi più ignobili discorsi aveva qualificato i partigiani dell’unità assoluta e della repubblica per «un piccolo stuolo di audaci, di malvagi, di sconsigliati (5)».
Lo stesso giorno furono, nelle provincie, mobilizzati dodici battaglioni di Guardia Nazionale in vista della guerra dell'indipendenza italiana e le guardie di finanza furono formate in battaglione, sostituiti al servizio i molti impiegati dell'abolito macinato; fu mobilizzato il battaglione universitario e messo a disposizione del ministro della guerra per il pronto e completo armamento; cosi il corpo dei carabinieri, considerato «fra i più distinti della Repubblica Romana», e il servizio di pubblica sicurezza fu affidato alla Guardia Nazionale. Tutto ciò non ostante che Haynau avesse già invaso Ferrara e rapitone duecentomila scudi e sei cittadini in ostaggio, nonostante che le truppe napoletane ingrossassero ai confini; anzi un corpo di cento splendidi ricordi questi del come Mazzini romanamente e i romani mazzinianamente, sprezzando i pericoli che da ogni parte minacciarono le provincie e la città, pensarono soltanto alla gran madre Italia, e a secondare chiunque movesse la guerra italiana.
Non nostro è per fortuna l’ingrato ufficio di sviscerare i secreti di Mortara, ove 7000 austriaci fugarono 22,000 piemontesi, e di Novara ove 25,000 austriaci disfecero 130,000 piemontesi, né d'indagare perché, perduta il 23 la battaglia, stipulato l’armistizio il 24, il 25 Krzanowsk «più russo che polacco» imposto generale in capo a Carlo Alberto, fosse insignito del Gran Cordone dell’ordine Mauriziano! Ricordiamo con orgoglio la risposta al discorso della Corona votata da quattro quinti della nuova assemblea piemontese il giorno 11 marzo «Rincorati dall’energico voto della nazione la quale non può durare più oltre nella fatale incertezza, i deputati del popolo si confortano, o Sire, a rompere gl’indugi e a bandire la guerra. Si, guerra, e pronta. Noi confidiamo nelle nostre armi sole e nel nostro diritto abbiamo fiducia.» E con mesta ammirazione seguitiamo Carlo Alberto, che, rifiutando di rinovellare l’armistizio, si spinse anelando la squilla della tromba guerriera sui campi lombardi; che trovando invaso il regno si spinse primo a Magenta con una compagnia di fucilieri, e in tutto il tempo della battaglia corse dove il pericolo era più grande; che, saputa la ritirata del duca di Savoja a Castel d’Agogna, costretto il valoroso duca di Genova a ritirarsi da Olengo, respinta la sua proposta di difendere il Piemonte in Alessandria sulle due linee del Tanaro e del Po, esclamando — Tutto è perduto, anche l’onore! — depose la corona, solo valicò le Alpi, e, aiutato dal figlio di Santa Rosa, andò a morire di crepacuore in Oporto. Biasimi chi vuole il popolo, i ministri Cadorna, Tecchio, Chiodo, di avere col re voluto la guerra contro i consigli dell'Europa: era un nobile volere, e, se audace, non presuntuosamente avventato. Coll’Ungheria vittoriosa, con 18,000 veneti pronti a fare impeto contro le diminuite schiere dell’assedio, colla Lombardia fremente, i ducati minacciosi, toscani e romani spesseggianti alla frontiera, l’esercito piemontese forte di 135,000 uomini comprese le truppe lombarde, si poteva, si doveva sbaragliare 50,000 croati (6).
Comunque sia, il fatto sta che, se Carlo Alberto fosse sceso a patti coll’Austria prima di tentare per l’ultima volta le sorti delle armi, avrebbe finito ingloriosamente una vita ingloriosa, né egli né i suoi figli avrebbero potuto reggere quei piemontesi e liguri bollenti di patrio amore, frementi per l’ignominioso armistizio imposto a Custoza. Vinto combattendo, abbandonato fin dalla morte sul campo, abdicando pur di ottenere patti meno duri pel suo popolo, morendo dignitosamente e silenzioso in esilio, Carlo Alberto salvò l’onore della casa, l’avvenire della dinastia. Fece di più: mostrò agli oppressi e agli oppressori che un re italiano può essere più grande di tutti gli altri re e nel male e nel bene e sopra tutto nel sacrificio.
MAZZINI, SEMPLICE SOLDATO, PORTAVA LA BANDIERA DIO E POPOLO |
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La notizia della disfatta di Novara non suonò a Roma se non una battaglia perduta (7): si raddoppiarono gli sforzi per accorrere in ajuto. E nominato un triumvirato di Saffi, Armellini e Mazzini, questi indirizzò ad Alfonso Lamarmora il 30 marzo la seguente lettera, tuttora inedita:
«Generale, — Noi non possiamo nell'incertezza delle notizie e dei casi attuali tenervi linguaggio positivo sulle operazioni che a vantaggio della causa comune potrebbero intraprendersi; ma crediamo debito nostro dichiararvi che la Repubblica rimane, a fronte dei rovesci patiti dall’armi dei fratelli piemontesi, ferma in operare, come può e come è debito, a pro dell’indipendenza; e che nel caso in cui siano per insorger dissidii fra poteri — l’uno dei quali intendesse continuare la guerra e l’altro cessarla — sia per isolamento delle forze che comandate, venisse il momento per voi di consultare per la salute e per l’amor della patria comune la sola vostra coscienza, voi vi ricordiate che noi siamo pronti a secondarvi e che qualunque proposta di piano d’operazione comune credeste dovere affacciare sarebbe accolta e discussa e secondata fraternamente. L’accordo più intimo fra le forze che dirigete, le forze toscane e le nostre, potrebbe non solamente proteggere il centro, ma operare un fatto importante per l’attuale teatro della guerra. Credete, Generale, alla nostra profonda stima e alla nostra decisione di contribuire in tutto che possiamo alla santa causa per la quale voi combattete. — Pel Triumvirato: GIUSEPPE MAZZINI.»
A questa lettera il Generale Lamarmora scrisse di proprio pugno la seguente postilla:
«Questa lettera mi fu rimessa la vigilia che io attaccassi Genova. La presa di quella fortezza dalle mani dei ribelli era la sola risposta che io dovevo dare all'impudente proposta di quel cospiratore.»
«ALFONSO LAMARMORA. (8)»
Di fatto, il generale, che, mentre le armi austriache rumoreggiavano sul Ticino, marciava sulla Macra verso il confine toscano alla testa di una divisione di diecimila uomini, che, denunciato l’armistizio, stette sei giorni in Parma, e, passato il Po, incappato nello stuolo di Benedeck, gli sfuggì a pena, lasciando addietro i soldati che dovettero deporre le armi — conquistava i primi allori, bombardando Genova la superba. Inutile barbarie — perché egli era già in possesso dei folli e degli spaldi, della porta di San Tommaso e del Molo nuovo — perché il Municipio, già in concerto col Governo provvisorio, chiedeva di trattare. Ma Genova era in voce di repubblicana; e dall’amnistia furono esclusi i sospettati repubblicani e tra essi Avezzana, che, con Bixio e Goffredo Mameli, tornarono a Roma: ove oramai dovevano concentrarsi tutte le forze per difendere l’eterna città contro quattro eserciti: napolitano, spagnuolo, austriaco, francese.
Novara, ben detta Waterloo della libertà italiana, fu il primo disastro di quella fatai primavera; ma l’eroismo del popolo garanti l’avvenire. A Casale, inermi petti di cittadini opponevansi alle orde di Wimpfen, e le ricacciavano oltre Sesia. Titanica lotta ebbe con gli stranieri, furiosi e ammirati, «Brescia la forte, Brescia la ferrea, Brescia leonessa d'Italia beverata di sangue nemico.» Né la Sicilia desisté: vide Catania, Agrigento, Siracusa messe a fuoco e a ferro dagli Svizzeri e dai Napolitani sotto Filangeri; e ancora ci vollero ingannevoli promesse dall’Inghilterra e dalla Francia di amnistia generale e di costituzione del 1812 per costringerla sotto la mannaja borbonica. Nella Toscana, Guerrazzi, benché gigante, non bastò da solo ad impedire ai moderati pigmei di ricondurre il fuggiasco principe, che, beffandosi di loro, tornò cinto di bajonette austriache a sospendere la costituzione. E gli austriaci occuparono le legazioni.
Intanto i lazzaroni del re bomba, invadendo Velletri ed Albano, rumoreggiavano lungo la frontiera romana. Mazzini prima e più chiaramente che gli altri vide addensare sopra Roma il turbine che da lungi minacciava, e capì che la bandiera repubblicana, sventolando sul Campidoglio, sarebbe fatta bersaglio dagli eterni nemici della libertà, che la temevano e odiavano come segnacolo di riscossa all’Italia doma non vinta. D’accordo con Garibaldi, che da Rieti gli scrisse una lettera affettuosa (9), e con Pisacane, anima della commissione di guerra, fu stabilito di fare una dimostrazione a Tolentino, quindi movere con rapida marcia per la via di Fano e presentarsi riconcentrati alle spalle degli austriaci nelle Romagne (10). Ma il 21 aprile si seppe della partenza da Marsiglia di una spedizione francese. Vero è che, come Abele non potè sospettare l’idea fratricida di Caino, i repubblicani romani non poterono indovinare il delitto covato in seno dal presidente della repubblica francese; nondimeno al preside di Civitavecchia fu ordinato di difendere il suolo della repubblica, contro qualunque straniero e da qualunque parte esso venisse; il forte fu munito di centoventi cannoni; il presidio sommava a settecento uomini; di più fu mandato un battaglione di bersaglieri sotto Mellara. Decretata nei conciliaboli di Gaeta la morte della repubblica romana, la Francia repubblicana si offri a vibrare il primo colpo. Persuadendo coll'inganno il credulo preside che i francesi venivano per difendere Roma contro gli austriaci, Oudinot, generale della spedizione, scese a Civitavecchia; e — dopo avere impedito in Marsiglia alla legione straniera di ottocento volontari di venire in ajuto, alla legione lombarda forte di ottomila uomini di imbarcarsi: sequestrati a Marsiglia seimila fucili, altri quattromila trattenuti in Civitavecchia, e tutti già pagati al governo francese — osò domandare di essere ricevuto a Roma fraternamente: e avutone un fiero rifiuto, disse ai soldati: Entreremo lo stesso. Gli italiani non si battono.
Mazzini avvertì i romani: «L’assemblea ha decretato che la repubblica sarebbe salva e che alla forza opporrebbe la forza.»
Il popolo e la guardia nazionale rispondevano a Mazzini: Guerra! guerra! guerra! e fatti un animo solo con Mazzini, un sol braccio con Garibaldi dispersero e ricacciarono le genti di Oudinot, mal presentatosi sotto le mura di Roma. Concesso il domandato armistizio per verificare se la Francia tutta intendeva essere segnata in fronte col marchio di Caino, Mazzini non esitò vuotare Roma di tutta la milizia e mandarla sotto Garibaldi e Roselli contro i napolitani. Egli, in mezzo al popolo plaudente, liberò e rinviò al loro campo tutti i prigionieri francesi. Allo stesso tempo, impensierito dei delitti di sangue che si commettevano nelle Romagne e nelle Marche, il triumvirato inviò Felice Orsini, commissario straordinario in Ancona, con un mandato di repressione che può essere riepilogato in due parole: «Restituite Ancona alla repubblica: l’assassinio non è ia repubblica.» E Orsini adempiva nobilmente il suo dovere, arrestando i malfattori, mandandoli incatenati a Civitacastellana, incutendo salutare terrore nei loro partigiani, incorando i cittadini onesti a prestare man forte al governo, insomma restituendo Ancona alla repubblica.
In una cosa Mazzini non riuscì, affidare a Garibaldi il comando dell'esercito. «Garibaldi è l’uomo della situazione», disse egli che conosceva le gesta di Montevideo e intravedeva il genio. Ma vi si opponevano troppe invidie, troppi pregiudizi: i romani volevano un romano: Carlo Pisacane, educato nei collegi e milite negli eserciti regolari, era contrario: Avezzana solo stava con Mazzini. Pietro Roselli fu confermato generale comandante in capo delle armi repubblicane in Roma. Quanto Mazzini fece per lui, Garibaldi non seppe mai; ed egli e i suoi allora e sempre dieder carico a Mazzini dell’avere impedito che il 30 aprile i francesi fossero inseguiti e cacciati in. mare, dell’avere rimandato i prigionieri, accusandolo che aspettasse da Ledru Rollin e dalla montagna francese la salute di Roma. Ingiusti rimproveri. Se nell’assemblea francese gli uomini della montagna avessero vinto, quel nobile procedere del governo romano avrebbe fortificato i democratici nel proposito di richiamare la spedizione da Civitavecchia in ossequio all'articolo l'della loro costituzione — la Francia rispetta le nazionalità straniere: essa non impiega mai le sue forze contro la libertà d’alcun popolo — d’altra parte, un’ecatombe di anche centomila francesi non avrebbe certo trattenuto Bonaparte e la reazione vincenti dallo spegnere la repubblica romana. E fu in ossequio ai membri onesti dell’assemblea francese, i quali accusarono i ministri di essere bugiardi e sleali, di aver fatto della Francia il gendarme dell'assolutismo, i quali insistettero per il richiamo del generale Oudinot, per l’invio a Roma di un degno rappresentante delle libere intenzioni della Francia; per ciò, avvenne, dico, che Ferdinando Lesseps fosse inviato a Roma come uomo che aveva sempre servito la causa della libertà e dell'umanità.
Giunto in Roma il Lesseps, «Mazzini da vecchio cospiratore agiva con molta abilità diplomatica» dice Nicomede Bianchi, e noi soggiungiamo, colla lealtà dell'uomo onesto, colla grandezza del patriota investito da liberi cittadini del supremo potere. Dimostrava che il governo romano era legittimo quanto quello della Francia, che nessuno poteva contestare a Roma il diritto di scegliere qual più le convenisse forma di governo, che la repubblica eletta dal suffragio universale aveva dato quiete ad uno stato sempre agitato da secoli sotto il governo papale, che il popolo avrebbe sostenuto la repubblica contro tutti, pur contro la Francia, fino all’estremo. E Lesseps, ammirato dell’ordine che regnava per tutto, dell'entusiasmo che animava il popolo, non sospettando l’ignobile complotto ordito contro lui tra il ministero francese e Oudinot, credendosi investito di pieni poteri, dopo lunghe proposte e controproposte convenne un patto con l’assemblea ed il triumvirato. E per avvalorarlo avvertì il suo governo del pericolo a cui andava incontro volendo entrare in Roma per forza.
«Io veggo una città intera in armi — egli scrive — e abituato a giudicare delle città in rivoluzione, trovo qui l'aspetto di una popolazione risoluti alla resistenza, sostenuta senza esagerazione da 25 mila combattenti seri. Se noi entriamo a viva forza in Roma, non solamente passeremo sopra il corpo degli avventurieri stranieri (11), ma lasceremo sul pavimento i borghesi, i bottegai, i giovani di famiglia, tutte le classi infine che difendono l’ordine e la società a Parigi.»
Bisogna leggere il libro di Lesseps intitolato Ma mission à Rome, per intendere come Mazzini, tutto occupato della difesa e dell'onore di Roma non si lasciò un istante smuovere, dimostrando che, né per proteggere Roma contro il re di Napoli né contro l’Austria, era giustificato il non domandato intervento dei francesi; che essi anzi interrompendo le comunicazioni tra la capitale e le truppe nelle provincie erano di impedimento e non di ajuto: chiedeva:
«O che, perché proteggiate il nostro territorio, dobbiamo cedere a voi tutto l’intero. Ma il nodo della questione non è là: sta nell’occupazione di Roma: questa domanda è fin adesso la prima condizione di tutte le proposizioni presentate. Ora abbiamo l’onore di dirvi, signori, che questo è impossibile e che il popolo non vi consentirebbe mai. Esso si sente capace di proteggere Roma con le proprie forze, si crederebbe disonorato ai vostri occhi facendo atto di impotenza dichiarando che per difendersi ha bisogno di qualche reggimento di soldati francesi.»
Tutto invano! Profittando delle negoziazioni, l’Oudinot s’impossessò di Monte Mario e del ponte sul Tevere a San Paolo fuori le mura; poi, saputo il richiamo di Lesseps, denunciò l’armistizio, impegnandosi di non attaccare sino al lunedi mattina 4 giugno. Ritornate da Velletri le truppe della repubblica, dopo che Garibaldi con duemilacinquecento soldati aveva fugato ventiseimila napoletani, trovarono che nella notte del 2 i francesi, rompendo la fede, s’erano impadroniti di Villa Pamphili, di Villa Corsini e di Villa Valentini, le quali posizioni li abilita. vano a tirare trincee.
Non è nostro ufficio di narrare i fieri combattimenti di Villa Corsini, le prodezze del Gianicolo, la lotta titanica del Vascello, i prodigi delle artiglierie che dal Testaccio da Sant’Alessio e da San Pietro in Montorio tenevano in iscacco trentamila francesi sudanti diciotto giorni ad abbattere le decrepite mura a sinistra di Porta San Pancrazio per potere finalmente il 12 giugno intimare la resa. Roma non commette viltà, bombardate: fu la risposta; e intanto in Campidoglio l’assemblea serenamente discuteva la costituzione, il popolo armato accampava agli asseragliamenti, Mazzini e Saffi, presenti sugli spaldi e nei quartieri ove più frequente rovinavano le bombe, incoraggiavano, confortavano, ispirando la forza tranquilla della resistenza. Perduta ogni speranza di vincere, tutti cercarono di prolungare le ore, i minuti, i secondi alla vita della Repubblica. Mazzini, sempre fisso nell’idea che si sarebbe potuto difendere Roma strada per istrada, barricata per barricata, e convertire l'assedio in una battaglia, viveva in mezzo al popolo; e il popolo fissando l’occhio in quell’onniveggente, traduceva il pensiero di lui in opera. Il 29 giugno, la vigilia di San Pietro, la festa secolare fu solennizzata secondo l’usato, la cupola di Michelangiolo illuminata; e il popolo sulle mura e sul Tevere, lanciando barche con materia incendiaria, sorrideva ai sagrifici fatti e a quelli che era preparato a fare.
Anche queste feste religiose e l’esposizione del Sacramento e l'avere impedito l'abbruciamento dei confessionali fu recato colpa a Mazzini; ma egli era troppo profondo conoscitore della storia e dei popoli per sognare che le religioni anche decrepite si spengano con un colpo di bajonetta o un tratto di penna. L’assemblea avea decretato: «Il pontefice romano avrà tutte le garantigie necessarie per la indipendenza nell’esercizio della sua potestà spirituale.» Né Mazzini né gli altri esecutori dei decreti dell’assemblea potevano o volevano sottominare nel popolo la fede alla parola data, né violentare le conscienze che soltanto usando del libero arbitrio potevano sotterrare la religione dei loro padri. Tra Mazzini e l’assemblea fu sempre la più assoluta, la più armoniosa concordia. Solamente, quando l'assemblea, sentito il parere di tutti, sentita da Garibaldi l'impossibilità di resistere al di là del Tevere, decretò «in nome di Dio e del Popolo, cessare da una difesa oramai impossibile e restare al suo posto», solo allora Mazzini rifiutò l’esecuzione del decreto, e cogli altri triumviri rispose che il mandato da loro assunto era di salvare la repubblica, che, questa abbandonata al nemico, l'incarico cessava. In una lettera a me diretta per ¡spiegare questo suo unico e irrevocabile dissenso, scriveva:
«A me il continuare la guerra fino allo sterminio erasi presentato come cosi elementare per un partito repubblicano al potere, che non avea preparato gli animi nell’assemblea. Errore capitale! La discussione divenne amara. Finalmente per la prima volta in Roma perdetti la calma e diventai poco parlamentare. Tacciai l’assemblea di codardia, e l’avvertii che il popolo era pronto a tutti gli sbaragli; poi abbandonai «la sala dicendo che aspetterei la sua decisione. Quando io uscii, fu chiamato Garibaldi che proponeva come unico scampo lo sgombro del Trastevere sull’istante ché allora si potrebbe prolungare la difesa per qualche giorno ancora: essi finirono col sancire il decreto; che conoscete. Il decreto mi fu mandato colle istruzioni di comunicarlo all’Oudinot. Intanto aveva visitato le truppe; erano veramente esauste, stanche a morire. Il dividerci in quel momento avrebbe distrutto l’insegnamento che l’unità della difesa avea dato all’Italia; forse la guerra civile ne sarebbe stata il risultato, e cosi le accuse vigliacche dei nostri nemici giustificate. Cosi io mi limitai a scrivere all’assemblea, che mi avevano eletto per difendere la repubblica non per farla abdicare, che perciò mi rifiutavo di comunicare il decreto. Rassegnai la mia dimissione insieme a quella dei miei colleghi. Un nuovo triumvirato fu eletto per cotesto scopo speciale. Il giorno seguente, andai all’assemblea e rimisi una violenta protesta di cui nemmen oggi mi pento. Credo che non fu mai stampata.»
«Cittadini rappresentanti. — Voi avete, coi vostri decreti del 30 giugno e del 2 luglio, consumalo involontariamente, — voi incaricati dal Popolo di tutelarla e difenderla sino agli estremi, — il sagrificio della Re«pubblica; ed io sento, con un immenso dolore nell’anima, la necessità di dichiararvelo, perché non rimanga taccia a me stesso davanti alla mia coscienza e per documento ai contemporanei che non tutti disperavano, quando voi decretaste, della salute della Patria e della potenza della nostra bandiera. — Voi ave«vate, da Dio e dal Popolo, il doppio mandato di resistere, finché avesse forza, alla prepotenza straniera e di santificare il principio incarnato visibilmente nell’assemblea, provando al mondo che non è possibile esitare tra il giusto e l’ingiusto, tra il diritto eterno e la forza brutale, e che le Monarchie fondate sull'egoismo delle cupidigie possono e devono cadere o capitolare, ma le Repubbliche fondate sul dovere e sulle credenze non cedono, non capitolano, muoiono protestando. (12)»
Se questo sdegno era naturale in Mazzini, intento a tessere nuovi nessi non pur tra Roma e l’Italia, ma tra il popolo italiano e gli altri popoli, nessuno potrebbe biasimare l’assemblea, che rifiutava di aggiungere altre vittime all’ecatombe di quattromila giovani fiore d’Italia. L’onore di Roma era salvo; ma non si potè salvare il sacro suolo dalle galliche torme, spiananti con le loro bajonette la via a Pio IX verso il suo trono di cadaveri. I triumviri, i ministri, tutta l’assemblea, tutti i superstiti difensori poterono andare a continuare i loro patriotici lavori o a morire in esilio, colla conscienza del dovere compiuto ad ogni istante ed in ogni particolare (13), certi anche delle simpatie e dell'ammirazione del mondo civile. Alla repubblica romana i più accaniti nemici della democrazia tributano involontaria lode. Nicomede Bianchi esclama:
«Volevano i governanti di Roma resistere ad ogni costo; non miravano all'utile particolare dello Stato romano, ma alla gloria, al trionfo della democrazia italiana, anzi europea; e combattevano nella certezza di essere sopraffatti, per lasciare gloriosa eredità di memoria e fruttuosi ricordi, che la monarchia in Italia, non la repubblica, avea patteggiato collo straniero.»
Vero in parte, ma una parte del vero è omessa. Nessuna cura che mirasse all’utile materiale o morale dello stato romano fu tralasciata. L’assemblea confermava le riforme liberali proposte dall’Armellini nell’ordinamento giudiziario, nella procedura penale, nella legislazione civile; prescriveva con legge proposta da Saffi, ministro dell’interno, norme per verificare la idoneità e il merito nel conferimento degli impieghi governativi; riconosceva il debito pubblico; deliberava l'incameramento dei beni ecclesiastici da dividersi in piccole porzioni enfiteutiche, con censo redimibile tra gli agricoltori poveri; sovveniva con savii procedimenti di credito alle difficoltà del commercio; tutelava la sicurezza dei cittadini, inculcando fiducia ed energia nei buoni, autorizzando i ministri dell’interno e della giustizia ad usare rigori straordinarii contro i malvagi, salve le comuni libertà. Mazzini ebbe cura speciale delle classi più povere, assegnando alloggi salubri a tenue prezzo di affitto alle famiglie degli operai nei locali appartenenti al Demanio (in Roma, nel locale del Santo Ufficio), «consacrando a beneficenza quanto la passata tirannide destinava a tormento;» abolì il macinato e l’appalto del sale, riducendo la tassa a dieci centesimi la l libbra. E lasciando libero ognun di seguire la propria conscienza, abolì, per parte dello Stato, la sanzione dei voti religiosi. Tutti i provvedimenti d’ordine sociale furono basati sul suo programma:
«Ordine e severità di verificazione e censura nella sfera finanziaria, limitazione di spese, guerra a ogni prodigalità, attribuzione d’ogni danaro del paese all’utile del paese... Non guerra di classe, non ostilità alle ricchezze conquistate, non violazioni improvvide o ingiuste di proprietà; ma tendenza continua al miglioramento materiale dei meno favoriti dalla fortuna, e volontà ferma di ristabilire il credito dello Stato, e freno a qualunque egoismo colpevole di monopolio, d’artificio o di resistenza passiva, dissolvente, tendente di alterarlo.»
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Così si provvide all’istruzione popolare gratuita e laica e all’educazione superiore.
Quali furono le conseguenze? Non un delitto funestò la città durante il governo della repubblica, non una condanna a morte, non un imprigionamento, un esilio, un processo per ragioni politiche; e sì che i preti tramavano con Gaeta e i moderati sollecitavano i municipii a domandare l’intervento dei francesi. Il governo conduceva imperturbata la sua vita, nessuna passione lo alterava: non aveva bisogno di soldati, né di polizia a proteggerlo. Onde il popolo, cioè tutta là classe dei cittadini, sentiva per la prima volta di avere dei beni comuni da conservare e una patria da difendere e la difese. Onde la pagina gloriosa, profetica, iniziatrice che scrisse in quei tre mesi di guerra il popolo di Roma, rifatto grande da un principio, affrontando con calma romana le privazioni, scherzando sotto le bombe: Popolo, Assemblea, Triumvirato ed esercito erano un valore solo rafforzandosi a vicenda d'illimitata fiducia. E, curati così quegl’interessi, la Repubblica Romana volle lasciare e lasciò gloriosa eredità di memorie e di gloriosi ricordi, E mentre le monarchie — o spergiuro come la napolitana, o traditrici come la toscana, o timide e grette come la piemontese — si gettarono in braccio dell'eterno nemico o patteggiarono con esso, la repubblica di Roma sfidò un quadruplo esercito, né patteggiò mai con nessuno; la repubblica di Venezia in diciassette mesi di sagrifizi di eroismo non sostò mai né cedette, se non quando cadde abbandonata dall'Europa e dall'Italia, esausta dal colera e dalla fame non che dalle bombe. Quell’eredità giace intatta, e quei ricordi frutteranno alle generazioni che oseranno reclamale l’una e appropriarsi gli altri.
E la costituzione bandita dall'assemblea in Campidoglio all’istante che i francesi entravano, e ogni atto di quel governo rimane esempio e faro per la Roma dell’avvenire. L’epopea del 1849 manca ancora del suo poeta e del suo storico; ma i documenti esistono in abbondanza, l’aurora d’un giorno non lontano li illuminerà. Chi voglia conoscere dappresso e dentro Mazzini triumviro di Roma, legga gli scritti contenuti nei volumi settimo e ottavo delle opere, legga gli scritti di Lesseps, che, venuto a Roma pieno di prevenzione contro il triumviro, conchiude: «è puro «dovere rendere omaggio ai suoi sentimenti, alla convinzione dei suoi principii, alla sua capacità, «alla sua integrità e al suo coraggio. (14)»
Oggi, lo sdegno, il ribrezzo, mosso da quel gratuito delitto della Francia, ha dato luogo ad un’immensa pietà, nel vedere quella nazione dibattersi ancora nel sangue romano da essa versato, nel vedere come ogni volta che essa si affaccia alla riva i bonapartisti e gli ultramontani, per i quali essa scannava la repubblica romana, la ricacciano a fondo con sogghigno, gridando: affogati. Dopo la nobile vendetta da Garibaldi presa a Autun e a Digione, non c’è italiano che non desideri vedere la Francia ritornata padrona di sé e di offrirle ancora la mano fraterna che essa nel 1849 respinse. Ma, prima che essa giunga a tanto, bisognerebbe sorgesse nel popolo francese un uomo come Mazzini, un uomo grande e privo di egoismo, il quale viva e lotti per i diritti della nazione francese, e afferrati questi diritti, servirsene come istrumenti di ajuto e di protezione alle altre nazioni lottanti per lo stesso fine. Che questa fu la stella polare che guidò ogni pensiero di Mazzini, ogni suo atto in Roma, tutte le voci confermano; ed è gloria sua suprema che nella breve ora del trionfo egli non mancò ad una sola promessa, non deviò da un principio dato o proclamato nella sua lunga vita di insuccessi e di prove.
«.... superstite»
«A i fati è amor.»
«G. CARDUCCI.»
La caduta di Roma fu per Mazzini tale una catastrofe che egli non potè su le prime rassegnarsi a crederla vera o irreparabile. Un tumulto di passioni gl'invadeva l’anima; errava tra i morti insepolti, tra le rovine di quella città che fu il sogno dei suoi giovani anni, «la religione dell’anima sua», di quella Roma che pur jeri risollevandosi sul suo passato era tornata l’espressione più alta della conscienza nazionale. Entrando nello spedale dei Pellegrini dove i feriti giacevano più dolenti per la presenza degli stranieri e dei preti che per le fisiche sofferenze — ove jeri Goffredo ferito delirava patria e libertà, mormorando ancora «Stringiamci a coorte, Siam pronti alla morte», finché la morte e non più l’Italia lo chiamò — egli invano invocava sul volto dell’amico uno dei dolci sorrisi che per lui serbò fino all’ultimo. E sulle rovine dei Quattroventi, rievocando la epica figura di Masina spronante su per le scale il cavallo contro cinquecento francesi, e tra le macerie del Vascello ove schiacciati dalle colonne e ricoperti dalle crollanti mura giacquero centinaja d’eroi (15), e a Villa Spada ove Manara invocò ed ebbe, unico premio, l’ultima palla tirata su Roma; egli ai pochi amici i quali, paventando per lui o la pazzia o le vendette dei preti e dei francesi lo supplicavano di partire, rispondeva e pregava: — Se m'amate, lasciatemi morire con Roma (16). — Poi, mescolandosi tra il popolo, cupo, sprezzante, fremente di sdegno, cercava illudersi che un leva leva fosse ancora possibile; o che i militi accantonati fuori di città potrebbero, riposati e riordinati, gittarsi a sorpresa sul nemico dentro. «Pazzi e rovinosi consigli», lo dice egli stesso; ma in quei giorni tutte le potenze dell’anima sua non vivevano che d’una idea: ribellione ad ogni patto contro la forza brutale «che, in nome d'una repubblica, annientava, non provocata, un’altra repubblica. Ma quel dolore e quello sdegno ribollente, a poco a poco dieder luogo al solenne proponimento di ridestare in tutta Italia quella vita novella che la Francia non avea spenta, ma battezzata di gloria e di sangue, in Roma.
Concordato con Giuseppe Petroni (17), anima romana, quello che in Roma dovesse farsi; ricordato ai romani che angosciati gli si stringevano intorno «che i loro padri furono grandi non tanto perché sapevano vincere quanto perché non disperavano nei rovesci, che essi avevano un mondo, il mondo italiano in custodia (18)»; egli guardando al sole occidente su Roma si fortificava, pensando che le nubi che velavano l’orizzonte erano nubi d’un’ora (19). Giunto a Civitavecchia senza passaporto, l’ambasciatore americano Cass, voleva dargliene uno, ma, non degnando egli domandare il visto del preside francese, la carta a nulla avrebbe servito. Dové a un De Cristoferi, capitano del Corriere Corso, al quale disse il suo nome, se potè giungere a Marsiglia e quindi a Ginevra (20), ove dettò, concitato, la lettera ai ministri della Francia, ammonendoli: che il nome francese è segno di scherno da un punto all’altro d’Italia: che essi volendo salvare il re hanno ucciso il papa: che Roma e l’Italia non perdoneranno mai al papa l’avere, come nel medio evo, invocato le bajonette straniere a trafiggere petti italiani: che, se la repubblica romana è caduta il suo diritto vive immortale, fantasma che sorgerà sovente a turbarvi i sogni e sarà nostra cura evocarlo (21). Serbò una parola di riconoscenza per Victor Hugo, «la cui voce muta da lungo tra le nostra fila s’è riscossa al grido di Roma, della città madre al genio e alla poesia»; ed a Luigi Blanc, per le belle e forti parole scritte «a scolpare la Francia del delitto commesso contro la nostra nascente nazionalità»; e aggiungeva: «Noi amiamo, come combattiamo, ora e sempre; e il nostro amore è il vostro, le vostre le nostre battaglie (22)». Per Luigi Napoleone non ebbe che parole di freddo disprezzo: ricapitolando le colpe e le menzogne recenti addita il suo governo come ultima prova dell’ignominia in cui la Francia era caduta:
«Ma si desterà. E in quel giorno, signore, abbandonato, schernito, maledetto da quei che oggi s’avviliscono più di menzogne e di lodi davanti a voi, andrete vittima espiatrice di Roma a morire in esilio (23).»
La Svizzera intanto traboccava di profughi da Roma, da Napoli, da Toscana, dalla Lombardia, dei molti a cui non era aperto il Piemonte (24): ove governo e re stentarono a convincere il popolo della necessità ineluttabile di accettare i termini duri della pace, senza speranza di addolcire la sorte dei lombardi, salvando a pena lo statuto e l’esercito per migliori destini.
A Losanna Mazzini con Salii e Montecchi, poi Giovanni Battista Vare e Pisacane e Quadrio e De Boni, riuniti in comune alloggio nella villetta Montallegro sul pendio dei colli che guardano il lago (25), scrivevano l’Italia del Popolo (26). Gli scritti principali di Mazzini trovansi quasi tutti nel VII volume delle sue opere. Nella Sant’alleanza dei popoli dimostrava la necessità dell’alleanza tra gli oppressi, per l’emancipazione dagli alleati ad opprimere. Nell’articolo Dal Papa al Concilio chiariva che «la sovranità nazionale è il rimedio universalmente accettato a salvare la società dalla negazione d’ogni autorità.»
Nei Pensieri ai sacerdoti italiani sull'enciclica di Pio IX, «la quale non esce da Roma, ma da Portici», tuona la chiamata all’armi, l’inno della battaglia.
Nel maggio del 1850, chiamata l’assemblea francese a discutere una legge tendente a restringere il suffragio universale, aperta violazione del terzo articolo della Costituzione, Mazzini, sperando in un prossimo rivolgimento, a grave rischio suo si recò a Parigi. Montalambert propose «la spedizione di Roma all’interno», Thiers insultò la vil moltitude; ma la legge fu approvata, i circoli chiusi, i condannati politici relegati alle isole. Mazzini si struggeva a persuadere i liberali che la repubblica agonizzava, che il presidente la tradiva; gli rispondevano «che se mai il ridicolo uomo avesse tentato un colpo di stato, sarebbe condotto quietamente a Charenton o sia al manicomio.»
Non ascoltato passò a Londra, ove molti esuli illustri da tutte le parti d'Europa sì erano rifugiati; e diede opera alla formazione del Comitato italiano e al prestito nazionale, prevalendosi dell’autorità conferita a lui, a Saffi ed a Montecchi dai sessanta deputati romani. Formò anche il Comitato Centrale Democratico Europeo, e firmò il primo proclama con Ledru Rollin e Arnoldo Ruge d’Arras (27). Nel settembre 1850 comparve il primo proclama del Comitato Nazionale Italiano. Principii fondamentali erano: indipendenza, liberty unificazione, come scopo; guerra e costituente italiana, come mezzi. Oltre che dei tre eletti portava le firme del Saliceti, del Sirtori e di Cesare Agostini. Questo proclama suscitò tutte le ire dei partiti. I lombardi fusionisti e i piemontesi municipali gridavano all’utopia e alla demagogia, i repubblicani puri vi ravvisavano un atto di abdicazione e di pie monte sismo. Montanelli trovava Mazzini troppo poco liberale, perché «in quel suo bando lasciava una porta aperta a Casa Savoja»: Cernuschi era persuaso che Parigi rivoluzionaria avrebbe abbattuto Roma reazionaria, e andava dicendo che bisogna cominciare a repubblicanizzare Mazzini: Ferrari scrisse un libro appositamente per distruggere l’influenza di Mazzini, per dimostrare che l’unità d’Italia era un sogno, che l’ideale era la repubblica federale da inaugurarsi coll’ajuto della Francia. Cattaneo, che aveva riconosciuto legale il mandato dei sessanta deputati, che aveva steso egli stesso la modula per il prestito, non era contento neanche lui del proclama, perché lasciava l’adito al Piemonte di prendere parte nella guerra all’Austria. Ma certo! Mazzini voleva unire tutte le forze nazionali contro gli stranieri e i nemici della nazione! ma non è vero che egli abbassasse la bandiera repubblicana per inalberare la monarchica: ecco un brano di lettera inedita che va letto insieme con gli scritti pubblicati (28).
«AGLI AMICI DI PIEMONTE. — Londra, 1850. Prima condizione per procedere concordi è quella di sapere ciò che si vuole. Le credenze della nostra associazione son note da ornai vent'anni. L’Italia del Popolo insiste anche a pubblicarle e diffonderle. Nondimeno può giovare all’accordo una dichiarazione quando si rientrasse in azione. E la dichiarazione è questa: Finché noi siamo sul terreno dell’apostolato, della predicazione, crediamo debito nostro il non transigere colle condizioni che, secondo noi, possono, sole, fare quando che sia il bene dell'Italia. Noi dunque predicheremo costantemente e con tutto l’ardore possibile repubblica ed unità: unità s’intende non alla francese e sulle fogge dell’impero; ma quale consuona colle nostre tradizioni nazionali, fondata sui tre elementi di concentramento politico, di larghezza amministrativa e di libertà quanto più si può di comune. Ma, scendendo dalla teoria educatrice sul terreno dell’azione, sentiamo sottentrare nuovi doveri: doveri verso il popolo italiano, verso la nazione che oggi non può esprimere i suoi voleri e allora lo potrà. La sua sovranità deve essere la legge per tutti noi. Noi dunque, avendo anche forza per farlo, non intendiamo d’imporre repubblica o altra forma governativa. Intendiamo di far quanto è d’uopo perché il popolo parli liberamente, universalmente, legalmente, ciò ch'egli crede. La parola Costituente Nazionale fu prima nostra che d’altri. E intendiamo «serbarla. Quanto può contribuire a cacciar lo straniero e a rivendicare libertà piena alla popolazione italiana, è non solamente diritto, ma dovere. La guerra dev'essere dunque diretta da un potere eccezionale, rivestito d’ogni facoltà che possa organizzar la vittoria. Emancipato il territorio, la Nazione parlerà e ubbidiremo. Ogni nucleo di patrioti che accetti queste basi ci è fratello e gli saremo fratelli. Con qualunque sostituisca l’autorità di un partito a quella della nazione, e intenda muovere per un re, per un papa, per una provincia, noi siamo apertamente e ostinatamente dissenzienti.
Come dunque potè Nicomede Bianchi asseverare che Mazzini, «chiamati a raccolta gli amici suoi più fidati, erasi dato ad impiantare conventicole in tutta la penisola per fare precedere il crollo della monarchia piemontese costituzionale all'assalto da darsi all'Austria, che i mazziniani cospiratori si adoperarono a rovinare la monarchia sarda e minarla per farla saltare in aria per la prima (29)? No, tutti i patrioti con lui consenzienti in Italia e fuori cospirarono e lavorarono a fare saltare in aria l’Austria e il trono del papa circondato da quarantamila bajonette francesi; e l’Austria e il papa, i preti e i loro campioni, si difendevano a meraviglia! Le condanne politiche del 1849 sommarono a duemila cinquecento quattordici, nel primo semestre del 1851 a duemila cinquecento e cinquantadue: cento e quindici furono condannati a morte dalla corte marziale di Este. Le commissioni miste austriache, e le cardinalesche, e il Sant’Ufficio coll’approvazione del generale Oudinot, non solo fucilarono e imprigionarono, ma fecero scomparire gli inquisiti, molti dei quali o non più tornarono al mondo dei vivi o tornarono impazziti. A Roma sbirri papalini e picchetti francesi perlustravano assieme le strade; parecchi furono i feriti dalle fiere donne trasteverine col tremolante (lo spadino che quelle popolane portano nei capelli): molti assessori, monsignori, spie, poliziotti furono acconciati per le feste dai poderosi pugni dei trasteverini. Comitati segreti esistevano in tutte le città; il prestito passava quale moneta legale nei pagamenti, nei negozii, sui mercati; col ricavato i cospiratori provvedevano alle spese di viaggiatori e alle armi: ciò per molto tempo: né la polizia né i militari potevano mettere mano sui congiurati. La prima vittima fu un popolano delle cinque giornate, Antonio Sciesa, arrestato nell’atto di affiggere sulle cantonate del corso di Porta Ticinese un proclama del Comitato nazionale dell’olona in risposta al feroce bando di Radetzky del 19 luglio. Minacciato, tormentato, promessogli libertà e premio se volesse rivelare i complici, rispondeva: «So già quale sorte mi aspetta». Condannato alla forca, e, mancando il giustiziere imperiale, ad essere fucilato, interdetto di abbracciare la famiglia, negatogli un confessore, ad un ufficiale superiore che gli offriva di nuovo il perdono «tiremm innanz», rispose; e cadeva crivellato dalle palle austriache. A Padova il professore Giacomino mori sotto il bastone, e un Varolin fu fucilato per possesso di una cassa d’armi. L’undici ottobre 1851, Luigi Dottesio di Como, dedicatosi a salvare dopo il 1848 dall'ira croata i patrioti più minacciati, a spargere gli scritti rivoluzionarii e a organizzare dimostrazioni contro Francesco Giuseppe venuto a festa in Italia, fu impiccato a Venezia. I mantovani, umiliati per la loro città a cui fu impedito dai moderati di segnalarsi come le altre nel 1848, rivendicarono a sé l’iniziativa della riscossa. Ogni classe di cittadini, proprietarii, professionisti, studenti, popolo, persino preti, si fecero cospiratori. Costituito un comitato segreto di diciotto patrioti con a capo Don Enrico Tazzoli, Attilio Mori, Carlo Marchi, Giuseppe Finzi intermediario tra loro e Mazzini, Alberto Cavalletto capo del comitato rivoluzionario a Padova, la cospirazione durò tutto il 1850 e 1851. Gli affiliati annoveravansi a migliaja: tipografi e litografi ristampavano clandestinamente gli scritti rivoluzionari: le cedole del prestito passarono per moneta effettiva ovunque. Il 20 ottobre arrestato Don Giovanni Grioli, denunciato falsamente da un soldato ungherese come instigatore alla diserzione, negò, ma aggiunse — Se mi si vuole colpevole, però, sono pronto a subire il fato estremo —; e condotto a Belfiore il prete martire mori benedicendo.
E NTRATA DI MAZZINI IN ROMA NEL 1849 |
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Intanto il 2 dicembre 1851 «la spedizione di Roma all'interno» ferì a morte la Francia colla spada da essa arruolata per l’immolazione di Roma (30), ma il colpo di stato in Francia persuase i cospiratori esser venuta l’ora di passare dalla congiura alla rivoluzione. Un caso mise in sospetto le autorità, e Don Enrico Tazzoli il 27 gennajo 1852 fu arrestato e tradotto alle carceri del castello: la cifra del comitato, che era il paternoster, incautamente adoperata per corrispondenza privata colla sua famiglia fu spiegata (31). Sequestrati in casa Tazzoli i registri coi nomi dei congiurati, fu facile seguire la trama di filo in filo; e il 4 dicembre 1852 dieci degli accusati condotti dal castello alla piazza di San Pietro ascoltarono la sentenza che cinque ne condannava ai ferri, gli altri a morte. E Tazzoli, Scarselli, De Canal, Zambelli, Poma, il 7 dicembre serenamente morirono. E il 13 marzo 1853 caddero con uguale intrepidezza Tito Speri di Brescia, Bartolomeo Grazioli arciprete di Revere, il conte Carlo Montanari di Verona. Altri trentasei furono condannati alla galera; amnistiati sessantasei, perché l’Europa cominciava a commuoversi di tanti strazii. Dei condannati alla galera molti erano riusciti a fuggire; tra i quali Benedetto Cairoli, Achille Sacchi, Giovanni Chiassi, Giovanni Acerbi.
La cospirazione nel popolo di Milano cominciò, si può dire, dalla rientrata degli austriaci. Mortale era l’odio dei popolani contro quei barbari bastonatoli di donne e di fanciulli, contro quei burbanzosi che essi avevano posto in fuga e che non sarebbero mai ritornati se lasciavasi fare al popolo. Si organizzarono, per iniziare la rivoluzione, a fratellanze in più gruppi contrassegnati dalle lettere dell’alfabeto. Erano migliaja li affratellati; e nella esasperazione delle stragi di Mantova risolsero, il gennajo 1853, di insorgere nel seguente mese. Depositaria di tutti i loro segreti era una nobilissima famiglia di donne, la madre, la moglie, la sorella di Scipione Pistrucci: la loro abitazione era il centro dell’organamento: il dottor Giuseppe Piolti De Bianchi era il capo civile. Nuclei d’azione erano sparsi nei vari quartieri della città, diretti dal letterato e patriota Giovanni Battista Carta, dal ragioniere Strada, dal Vittadini, dal cappellajo Vigorelli, dal tintore Azzi, dall'oste Monti, dall’ottoniere Fronti e da altri popolani. I nuclei erano decurie, che ogni dieci formavano una centuria: il capo di decuria corrispondeva soltanto col capo di centuria, questi col capo del nucleo d'azione. Il segreto fu cosi strettamente serbato che gli austriaci non ne sospettarono mai nulla. Mancavano le armi: affilarono lunghi chiodi a servir da pugnali.
Avvertito dell'intenzione di agire con o senza il suo consenso, Mazzini mandava un maggiore della repubblica romana, Eugenio Brizzi nativo di Jesi; e fu dal popolo chiamato il romano. Emilio Visconti Venosta, Allievi e altri rivoluzionari attivissimi nel 1848, non approvarono il moto; ma promettevano a Piolti avrebbero aiutato il secondo giorno. Mazzini col generale Klapka venne alla frontiera: Kossuth, consenziente e Armatore di un proclama agli ungheresi, stette sulle mosse a Londra, e aveva ricevuto dal comitato degli amici d'Italia danaro per il viaggio, essendo certo che riuscita l’insurrezione gli ungheresi in Milano si sarebbero uniti agli insorti (32).
L’emigrazione lombarda in Piemonte era divisa: ai messi Medici da Genova rispondeva «Impedite il moto, se ancora siete a tempo, altrimenti aiutate». Molti emigrati accorsero alla frontiera, pronti a passare. Più ardente degli altri Giovanni Acerbi, che, scampato appena il pericolo di Mantova, stava sul Po, con armi e munizioni e un bel gruppo di volontari. Aurelio Saffi: «non curante del mortale pericolo», corse le città della Lombardia e del Piemonte, raccogliendo, fra altre somme, venticinque mila lire da Depretis; poi coree nella Romagna, ove più di tremila cospiratori stavano pronti. Fu, di comune accordo, fissato per lo scoppio il giorno 6 di febbraio. Vero è che molti dei popolani avrebbero voluto cominciare la sera prima, che tutti gli ufficiali austriaci erano raccolti ad una festa di ballo al Palazzo Marino. Ma il Piolti non credeva poter deviare dagli accordi presi colle altre città e provincie. Fu. deciso che alle due pomeridiane del 6 febbrajo (domenica grassa) il Brizzi attaccasse il castello, Piolti De Bianchi il palazzo reale, Z...., il mandato di Kossuth, d’accordo con alcuni degli Howed, la caserma di San Francesco. Il segnale del moto doveva essere dato dal cannone in Castello; e proprio l'assalto al Castello mancò, e invece riuscì l’occupazione della Gran Guardia al palazzo reale, e gli assalitori s’impossessarono d’un cannone colla miccia accesa. E così la sommossa in San Pietro di Gessate ove accorsero tutti gli affigliati di Porta Tosa, e nell’osteria condotta da Monti avevano organizzato seriamente la difesa stabilendo una barricata ai due capi della strada, e suonarono a stormo. Ivi la sommossa si mantenne fino a sera; e Radetzkv dovè mandare un battaglione per soffocarla. Tutta la truppa di Milano fu scagliata contro quel pugno di popolani, che combatterono senza capi e isolati, specialmente presso Porta Romana, e uccisero centocinquanta soldati e due ufficiali superiori: i feriti di ambedue le parti non si sapran mai. Ma al calare della notte gli austriaci erano sicuri padroni della città; e tre giorni dopo impiccarono Scannini Alessandro, Taddei Siro, Bigatti Eligio, Faccioli Cesare, Canevari Pietro, Piazza Luigi, Piazza Camillo, Silva Alessandro, Broggini Bonaventura, Cavallotti Antonio, Diotti Benedetto, Monti Giuseppe, Saporiti Gerolamo, Galimberti Angelo, Bissi Angelo, Colla Pietro: tutti accettarono da eroi la morte che avevano così audacemente sfidata. Ma gli austriaci non riuscirono mai a scoprire i capi, tanto stoicamente si condussero i superstiti. Si segnalarono le donne. Il De Bianchi fu nascosto in casa della signora Piccaluga: le signore Pistrucci accolsero il Brizzi e l’ungherese; poi, non credendo sicura la loro casa, persuasero le sorelle Vandoni a ricoverarli; dopo li condussero uno ad uno fuori di città, ove un’altra signora, Ester Cufica, li affidò alla famiglia Arpesani, un medico condotto fuori porta Tenaglia. Cosi tutti poterono passare il confine! (33) E pure per molto tempo nessun sospetto cadde sulla famiglia Pistrucci, né questa seppe mai perché più tardi avesse tante persecuzioni e pericoli da dovere fuggire da Milano (34).
Pur troppo a Torino il triste sistema dell'apertura delle lettere continuava; specialmente quelle all'abate Camerini lombardo furono tutte disuggellate e lette. L’Angela Pistrucci, moglie del romano poeta improvvisatore, si raccomandava al Camerini, che prima del 1848 abitava con loro, perché gli ottenesse che il figlio Scipione, scampato alle granfie austriache, ma imprigionato in Alessandria, potesse recarsi a Torino. Il contenuto di questa lettera fu mandato al governo austriaco con altri avvisi circa gli emigrati che si eran concentrati sulle frontiere di Romagna e di Toscana, alcuni ritornati ora a Torino, altri avviati alla Svizzera!
Al solito scoppiò sulla testa di Mazzini una tempesta di oltraggi e di calunnie; ma egli, e i popolani di Milano e i loro capi, che vittoriosi sarebbero stati portati alle stelle, serbarono intatte fama ed anima di patrioti puri e audaci e continuarono per l’ardua strada. Che si ha da dire invece dei firmatari degli indirizzi a Radetzkv, dei denigratori dei martiri del 6 febbrajo, dei denunciatori d’un vero o supposto tentativo alla vita dell'imperatore nello stesso mese? E come si qualifica la condotta degli esuli aristocratici, il cui organo era l’Opinione, che dissero gl'impiccati «ribaldi e barabba», i croati «innocenti assassinati», additando all'Austria nuove vittime, incitando il Piemonte allo sfratto di tutti gli esuli che non volessero aspettare la liberazione d’Italia dal beneplacito di Casa Savoja? Il governo piemontese non tardò a seguire l’ignobile consiglio; imprigionò, sfrattò, cacciò in America, con accompagnamento d’infami calunnie, quanti emigrati erano sospetti di repubblicanesimo e di amicizia con Mazzini.
«Questo procedere — scrive Nicomede Bianchi — apparve così franco e leale al gabinetto di Vienna da fornire argomento al conte Buoi di ringraziamenti e di profferte di buon vicinato «al legato sardo in Vienna, 16 febbrajo 1853.» E Drouyn de Lhuys chiamò «ammirabile e delicato il contegno del Piemonte verso l’Austria». Ma questa, ottenuto l’intento di avvilire il Piemonte in faccia ai liberali, sequestrò i beni di tutti gli esuli, anche di quelli che avevano ottenuto la sudditanza sarda. Invano Cavour si vantava «di aver scacciato dallo stato a centinaja i fuorusciti, che si apparecchiavano a dar mano ai ribelli di Milano, ricordando che «nella negoziazione di Milano si fecero aperte dichiarazioni che nel rimettere in vigore il trattato per la consegna dei malfattori facevasi la riserva per gli imputati di crimini politici». Invano Lord Clarendon, che non aveva avuto una parola da stigmatizzare l’impiccagione dei tredici popolani, biasimava la condotta dell’Austria verso il Piemonte. L’Austria si beffava di tutti, e disse «buon viaggio» al Revel richiamato da Vienna a Torino. E Milano continuava a sfidare l’Austria; e proprio mentre si pronunciavano le condanne ai lavori forzati co’ ferri, o all’arresto in fortezza co ferri, d’una sessantina di cittadini, in Milano, rannodavansi le file della cospirazione, per una rivolta da scoppiare insieme ad altro movimento insurrezionale nel Cadore, di cui si era incaricato il colonnello Pietro Fortunato Calvi. Questi, che avea proclamato la repubblica nell’arsenale il 18 marzo 1848 e guerreggiato negli altipiani cadoresi, e sui monti del bellunese con seicento guerriglieri contro ventiduemila austriaci — illustre poi tra i difensori gloriosi di Venezia — dopo il 6 febbrajo, scampato alla razzia fatta dal governo sardo a Stradella, sguizzò fuori del Piemonte, e convenuto con un buon arciprete di Cadore per sollevare il paese scelse a compagni Morati, Roberto Marin, Fontana e Chinaglia. Traditi dalla spia Felicità Bonvècchiato, tutti i cinque furono arrestati; e così a Milano il dottor Ronchi, Zafferani, il dottor Carlo Arpesani, Tito Vedovi.
Ora, tutti questi audaci tentativi, che senza soluzione di continuità mostravano la indomita risoluzione dell’Italia, facevano capo a Mazzini ed erano diretti solo contro l’Austria. E pure più feroce che l’Austria contro Mazzini si mostrava il Piemonte. Fallito il tentativo de Paschetta sicario accreditato di Ponza di San Martino (35), ogni sforzo fu fatto per indurre il Governo Svizzero a cacciare Mazzini e gli amici suoi da Ginevra e da Losanna; poi, sognandolo in Genova, parecchia gente fu arrestata in isbaglio (36). E il dall'Ongaro nel 1851 felicemente canzonava:
«Chi dice che Mazzini è in Alemagna,
«Chi dice ch'è tornato in Inghilterra.
«Chi lo pone a Ginevra e chi in Ispagna,
«Chi lo vuol sugli altari e chi sotterra.
«Ditemi un po’, grulloni in cappa magna,
«Quanti Mazzini c’è sopra la terra?
«Se volete saper dov’é Mazzini,
«Domandatelo all'Alpi e agli Apennini.
«Mazzini è in ogni loco ove si trema
«Che giunga a' traditor l’ora suprema.
«Mazzini è in ogni loco ove si spera
«Versar il sangue per l’Italia intera.»
La stampa piemontese poi lo vilipendeva ogni giorno: i diarii del partito municipale e dell’aristocrazia lombarda gareggiavano a gettargli addosso calunnie le une più basse che l’altre; mentre la Tribuna e poi l'Italia Libera dirette da Alberto Mario, e più tardi l'Italia del Popolo diretta da Savi, ove scrivevano Maurizio Quadrio, Civinìni, Saffi e Mario in difesa del diritto calpestato e dell'Apostolo dell'Unità così ingratamente insultato, erano sequestrate, perseguitati gli scrittori e internati, e i gerenti imprigionati uno dopo l’altro; al punto che questi, prima di accettare il pericoloso posto, patteggiavano di essere mantenuti durante la certa carcere; ove di fatto si trovavano a due a tre fino a quattro insieme. Ad alcuni dei più vili assalti rispondeva Saffi (al quale, riparato in Genova dopo scampato alla forca in Romagna, i sicari della penna appuntarono avere «svelato il segreto del suo viaggio ed esposto così i suoi complici della Romagna.») Questi difendeva l'amico a viso aperto (37). E quando Mazzini scrisse l’opuscolo Affli Italiani — non per la propria difesa, ma per giustificare l’operato del comitato nazionale pur separandosi per sempre dalla cospirazione ufficiale — il governo sottraeva con la corruzione dalla stamperia Moretti in Genova l’opuscolo, arrestava prima della pubblicazione l’editore e i tipografi; e Ponza di San Martino, interpellato da Brofferio, beffandosi del parlamento e della legge, vantava la potenza del governo a frenare cogli arbitrii e coll’oro i cospiratori e i loro difensori (38).
Nicomede Bianchi poi scrisse un intero volume delirando d'odio contro Mazzini, ravvivando le rancide calunnie già smentite, additando l’esule e i suoi compagni alla vendetta dei governi, mettendoli al bando del mondo civile (Vicende del Mazzinianismo politico e religioso dal 1832 al 1854). I socialisti francesi, molti dei quali erano stati amici e collaboratori di Mazzini, non tollerarono le critiche da lui fatte ai loro sistemi con l’intima conscienza e con l’intendimento di salvare l’Italia dalla dannosa propaganda; e feriti a morte dall’aver egli dimostrato come la rovina della Francia procedesse in gran parte dalle loro dottrine, che avevano con false promesse e illusorie deduzioni ridotto il popolo indifferente a tutto che non promettesse immediati e impossibili godimenti materiali (39), lo gravarono di recriminazioni, rimproverandolo «di aver approfittato del momento in cui la democrazia era schiacciata per muoverle guerra.» Ai calunniatori volgari egli nulla rispose, ma in lettera splendida alla Nation di Brusselles dimostrava che quanto oggi scriveva sull'iniziativa rivoluzionaria aveva scritto e ripetuto da oltre vent'anni, che l'adulare un popolo non è amarlo, che egli «la Francia ama e la crede capace d’ascoltare, senza ribellarsi, la verità.»
«Ciò che m’occupa — ciò che dovrebbe oggi occupare quasi esclusivamente quanti, come Ledru Rollin, conoscono i santi sdegni e le sante esperienze — ciò che ci chiama, malgrado lievi dissidi], al comune lavoro — è il senso di ribellione che freme nell’anima davanti all’insolente trionfo della forza brutale: è la deportazione, l’esilio, la morte dei nostri fratelli nei due terzi d’Europa: è il lungo gemito delle loro sorelle, delle loro madri: la menzogna, lo spionaggio, l'immoralità corruttrice che sottentrano, per opera dei nostri padroni, alle pure ispirazioni del Vero: il grido delle oppresse popolazioni: l’insegnamento che ci porgono quei che combattono e muoiono silenziosi: il rossore che incolora la nostra fronte per quei che soggiacciono, si vendono, si suicidano, disperando nell'anima. Di fronte all'Europa anelante sotto l'incubo della menzogna, sotto la pressione dell'ingiustizia sostenuta dalla violenza, l’anima è tormentata di rimorso e d’un senso di noja per quanto non è azione o preparativo all'azione. Muoiono altrove, mentre noi consumiamo la vita in discutere. La corruzione s’innesta, mentre noi, per qualche parola un po’ acremente proferita, accenniamo a dividerci, nel core dei popoli. E s’abbandona l’iniziativa all’impero, mentre noi affermiamo, irritati, ch'essa appartiene alla Francia, all’Italia o all’Ungheria. L’iniziativa? Essa è oggi in mano al nemico. È necessario riconquistarla e ingigantirla col lavoro di tutti. Là sta l’avvenire. Là deve concentrarsi ogni nostro pensiero (40)».
E da Emilio Visconti Venosta e da altri «traviati giovani di Milano» si accomiatò con una lettera che ancor commuove alle lagrime, tanto vi traspira l’angoscia per l’abbandono di uomini i quali avevano vissuto della sua vita, giurata la sua fede, corsi gli stessi pericoli, serbate le stesse speranze dopo il 1848, e ora freddamente impassibili davanti la lotta titanica del popolo rallegravansi della disfatta perché distruggerebbe la influenza di lui.
«Io ho la morte nel cuore, Emilio, scrivendovi. Le codardie, le bassezze, il gelo che m’è toccato vedere e palpare in questi ultimi mesi, hanno superato quello ch’io, nei momenti più neri, poteva idearmi.... Io vi portava un vincolo di simpatie straniere, un vincolo con importanti elementi, un po’ di fascino esercitato sui giovani d’azione. Non potevate giovarvene, e spegnermi, annientarmi il di dopo? Non avreste avuto un rimprovero da me, com’è vero ch’io esisto! Ho il tarlo nel cuore; non posso più gioire, e la vita mi pesa dacché io non stimo più i meglio educati fra gli uomini del mio paese. E in Italia io non ho più che sepolture. E all'estero non so più come parlare dei nostri patimenti: le ciglia s’inarcano, e mi sento dire: Come fate a sopportare tanto? il popolo è visibilmente con voi: aiutatevi dunque, o soffrite uniti(41)».
De’ suoi dolori personali non una parola mai, né anche accenna alla sventura che nell’anno del maggior lavoro l'aveva colpito, la morte della madre. Quando tutte le lettere di lui a lei saranno pubblicate, allora si conoscerà meglio che cuore era il suo, quali tesori di tenerezza, di semplicità, di squisita gentilezza racchiudeva la vita intima di quell’uomo condannato dalla sua missione a vivere solo, frainteso, consolato soltanto da quell’amore materno, sostenuto dall’unica e speranza di potere confortare gli ultimi anni di lei e riceverne l'ultima benedizione. Il primo giorno dell’anno 1852 egli scriveva:
«Madre mia. — Buon anno; cioè possa l’Italia emanciparsi, e noi riabbracciarci — e se no, possa Id«dio darci rassegnazione e calma e costanza nella nostra fede. L’anno si chiude con un’apparenza ostile a noi e ai nostri desideri. La reazione ha preso l’iniziativa quando pieno ce lo aspettavamo. La Francia è in mano di un despota militare, e, per qualche speranza d’interessi materiali, lo acclama. In Piemonte «i primi passi son mossi verso un sistema retrogrado. Nella Spagna avrà luogo tra pochi giorni probabilmente un colpo di Stato. In Inghilterra concedono codardamente al desiderio della pace il rinvio di Lord Palmerston, inviso, benché con poca ragione, ai despoti. Note minacciose della Francia, dell’Austria, della Russia, della Prussia, della Confederazione Germanica, piovono contro noi sull’Inghilterra. I nostri padroni millantano volere e potere mettere fine radicalmente alle tendenze rivoluzionarie. Ma io ricordo un vecchio proverbio che dice: l’ora più tenebrosa è l'ora ultima della notte. Chi sa che il proverbio non abbia ragione?... Amatemi.»
«8 gennajo 1852. — Ricevo lettere dai prigionieri di Roma, i quali condannati a cinque, a dieci, a quindici anni di ferri, gridano Viva la repùbblica e mi scrivono parole d’entusiasmo e d’affetto da far piangere. E Roma è pure una città delle più ineducate, ma il pensiero nazionale profondamente sentito l’ha nobilitata.»
E sempre la ragguagliava di ogni cosa sua, nascondendo solamente ì pericoli e la malferma salute; in trattenendola dei suoi prediletti compagni d’esilio Maurizio Quadrio e Aurelio Saffi e dell’affetto dimostratogli dagli amici inglesi, la famiglia Stansfeld, Ashurst e gli italianissimi Nathans; pregandola di rimandargli l’anello, Ora e sempre, che il povero Lamberti dal suo letto di morte circondato di sbirri, aveva destinato a lui; ma l'argenteria vuole convertita in denaro, per potersi tenere segretario Quadrio qualche mese ancora altrimenti quell'esule del 21, venduto tutto il suo, dovrebbe andare in Egitto in cerca di lavoro. In ogni lettera quasi parla dell’Italia del Popolo, pregando la madre di incoraggiare i giovani che scrivano e di darsi attorno per trovare abbonati. Assai gli dispiacque un duello che ebbe Carlo Pisacane, e la spinge a usare della sua influenza per evitarne altri quando Carlo fosse guarito. La casa di Scia Maria era il centro di tutta l’emigrazione, e agli amici essa leggeva le lettere di Pippo; in alcune egli scherzava colle sue paure, in altre con molta delicatezza cercava scuotere le sue ardenze religiose.
«20 aprile 1852. —.... Sicuro che abbiamo gesuiti che lavorano qui; ed anche apertamente; se ne incontrano per le strade in roba lunga, cappello un po’ meno largo, lisci, sbarbati, giovani, ch'io non vorrei punire se non mandandoli ad arar la terra, per insegnar loro che l’uomo è nato al lavoro e a cibarsi col sudore della propria fronte. Ma, quanto a ciò che possano fare contro di me, non ci pensate: la mia sorte non è in mano loro...., Aurelio viene sott’altro nome e con cautela, perché i primi tra i cacciati di Svizzera, la quale la Francia avea promesso il passaggio per Londra con tutta cortesia, sono «stati invece trattenuti come soldati refrattari e condotti di tappa in tappa. Governi codardi e meschini! incapaci d’orgoglio e di trattare cavallerescamente i loro nemici.... Perché trovate troppo energico quello che dico del governo romano? Non dobbiamo noi rovesciarlo? Possiamo noi fare un Italia col Papa? Credete voi che Pio IX sia veramente il Vicario di Cristo? o che i cardinali operino per ispirazione dello Spirito Santo? No, in fondo del core non lo credete. Dunque sono impostori. E, noi mille volte più religiosi di loro, dobbiamo rispettar gl’impostori? Meglio è dire tutta la verità.... L’associazione dello scellino comincia a diffondersi Credo che ne avremo un certo risultato.»
LA LOTTA TITANICA DEL VASCELLO |
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E a proposito dell’Associazione degli Amici d'Italia in Inghilterra:
«30 marzo 1852. —.... Il meeting ebbe luogo: io era nervoso all’ultimo segno: quelle cose mi sono antipatiche, e inoltre, per quanto io conosca abbastanza bene la lingua inglese, il volere costringere un uomo a parlare in pubblico una lingua che non è la sua, è una curiosa pretesa. Notate che m’è impossibile prepararmi. Non posso pensare che colla penna in mano. La gente che studia un discorso o uno scritto, passeggiando su e giù per la camera o in un giardino, m'è inconcepibile. Potrei passeggiare per una giornata intiera, senza che mi venisse una sola idea. Siedo, prendo la penna, l’intingo nell’inchiostro, comincio a scrivere, buone o cattive, le idee scendono dal cannello della penna. In ogni modo è andata bene: non per me, il giudizio mio m'è stato decisamente sfavorevole; ma a giudizio degli altri; basta. I giornali inglesi hanno riportato quanto hanno potuto. L’articolo sul Westminster Review deve uscire domani
E intorno ai socialisti.
«Ora quello scritto che avete veduto sull’Italia e Popolo ha suscitato un’altra grande tempesta: i socialisti Louis Blanc, Leroux, Cabet, ed altri tre o quattro m’hanno fatto una risposta violenta, piena d’assalti personali, ripetendo la solita stolida accusa che voglio essere il Cesare della Democrazia, e paragonandomi a Luigi Napoleone. É stampata qui in Inghilterra e in inglese. Se si limitano a questo, non risponderò. Fra gl'inglesi, essi mi fanno un vantaggio immenso. Ma, se vedrò che abbia grande pubblicità in francese, risponderò. Del resto, i francesi in genere son furenti — perché trovano un uomo che dice loro la verità. Anche Ledru Rollin, benché legato con me nel lavoro, ha scritto, senza dirmene cosa alcuna, una risposta nella quale, dopo aver detto in tutti gli atti del com. Europeo, con me, che i popoli sono eguali, che l’iniziativa appartiene all’Alleanza delle Nazioni, dice che l’iniziativa permanente spetta alla Francia.... Quanto al lavoro contro il nemico compie, siamo con Ledru in perfetto accordo; e bisogna dirlo ai nostri, i quali crederanno forse per quell'articolo, rotto il vincolo della nostra fratellanza politica....»
«8 aprile 1852, —.... Avrete udito il grande assalto di Louis Blanc e dei socialisti: ingiurie e calunnie, come potrebbe inserirle l'Opinione. Così doveva essere, e questa rottura non mi dispiace. In Francia il partito sano degli operaj è con me; e qui sopra trecento francesi che avevano riunito per protestare, non hanno potuto trovare che nove o dieci. Qui in Inghilterra la loro risposta mi fa un gran bene.... Voi badate a star bene, nei cangiamenti di stagione, tanto da potere abbracciarci in gaudio, se ci riesce di vincere questo duello, che abbiamo col diavolo, cioè colla tirannia. Il principe corre all’Impero; poi, subito, giù dalla Rocca Tarpea, parodia dell'Imperatore morto a Sant'Elena...»
«17 aprile 1852. — Non pensate alle guerre dei capi socialisti. Le prevedeva non solamente, ma «quasi le desiderava. Essi hanno contribuito largamente a rovinare la Francia, e non è che sottraendola «ad essi che potremo rialzarla. Non rispondo alle accuse personali mai, e tanto meno quando mi vengono da essi. Ma continuo e continuerò a parlare ciò ch’io credo vero. Se ho ragione, come credo, la «mia parola farà bene; contribuirà a ritrarre dal fango del materialismo gli spiriti; e gli stessi che mi «fanno guerra saranno costretti, per non far vedere che meritano le accuse, di modificare il loro linguaggio... Ho scritto un altro articolo sulla Nation; a un dipresso sullo stesso argomento. Se avessi tempo potrei scrivere utilmente per l’Inghilterra e per l’America. Da quest'ultima sopra tutto ho continue ri chieste. Ma non posso. Ho in capo un libro vivo, che merita tutta la mia attenzione....»
L’ultima lettera fu cominciata il 30 luglio e finita il 2 agosto.
«Madre mia — egli scriveva. — Ho ricevuto le vostre linee del 21. Rispondo breve, perché ho un mondo di cose da fare, e perché suppongo che riceverò presto un’altra vostra alla quale risponderò... Sembra che siamo nelle stesse condizioni di tempo, le vostre lettere sono corte come le mie: è una burrasca di «faccende che passerà. L’essenziale è per ora che stiamo in salute e ci vogliamo bene. Ho sempre intenzione di scrivere alla signora Nina, ma mi manca assolutamente il tempo; ricordatemi a Lei. Abbiatevi cura, madre mia, cara tanto e amate il vostro figlio che v’ama.»
Questa lettera giunse a Genova la domenica dell'8 agosto; e mentre la madre, di ritorno dalla messa nel prossimo oratorio, leggeva alla signora Nina (Isabella Cambiaso Zerbini) intimissima sua le prime linee, fu presa d'un capogiro, le si oscurò la vista, gridò: Mio figgiù! mio figgiù! e cadde nelle braccia dell’amica. Le fu prestata ogni cura, ma appena più parlò. Alla Zerbini disse: «O che ci lasciamo? Signore, abbiatemi in misericordia». Fu tentato invano un salasso dopo l’altro. Alle il e 25 antimeridiane del 9 agosto si avvoltolò al collo un braccio della Zerbini, e mormorando: — Vi raccomando tanto il mio Pippo — la santa donna morì. Tutta Genova segui il cadavere all'ultima dimora. Fu una vera perdita per l'emigrazione, che per mezzo della madre aveva immediato contatto col figlio.
La notizia, comunicatagli, non appena spedita un’altra lettera, da un inglese, lo ammutolì. Non ne parlò né allora né mai, ma chiuso nella sua stanza solitaria tenne per più giorni comunione con quella che jeri gli era una madre in terra oggi un angelo altrove. E così combatté solo, domò quel dolore solenne e santo, dicendo a sé stesso che la morte non esiste (42). E uscì più mesto, ma gagliardamente ritemprato alla battaglia, giurando di dar gioja allo spirito di lei con far passare su l’avello un alito della Vita Nuova che egli andava infondendo alla gran madre Italia.
Condotta di Mazzini durante la guerra della Crimea — In Inghilterra — In Italia — Corrispondenza con Kossuth — Persecuzioni in Svizzera — Pallavicino, Garibaldi, Manin e il partito monarchico — Lavoro per la Sicilia — Spedizione di Pisacane — Processo di Salerno e Genova — Condanne a morte.
«Il mio convincimento è che lo Czar non può esser vinto tranne sulla linea che si distende dalla Vistola al Dnieper e che il colpo decisivo non può esser dato che dalle mani della Polonia.
«Bisogna rifare la carta d’Europa a seconda delle tendenze naturali, delle tradizioni e delle aspirazioni legittime liberamente «espresse dalle nazioni.»
MAZZINI.
(Sulla politica inglese al tempo della guerra d’Oriente.)
«Eran trecento o non voller fuggire,
«Parean tre mila e vollero morire...
«E li sentii mandare un solo grido:
«— Siam venuti a morir pel nostro lido. —
«Eran trecento, eran giovani e forti,
«E sono morti!
MERCANTINI
La linea di condotta morale, logica e praticamente attuabile, che Mazzini tracciava per l’Italia e per l’Inghilterra durante la guerra dell’Oriente — seguita, avrebbe cangiato la carta dell’Europa, messo fine alle guerre di conquiste, e alle rivoluzioni — negletta allora la idea che la informa, ha pure dominato tutti gli sforzi dei popoli per costituirsi, tutte le concessioni dei governi per sottrarsi dalla rovina totale: quella idea svolta fino alle ultime conseguenze può solo assicurare lo sviluppo progressivo sino al trionfo necessario delle nazionalità.
Da quando lo czar Nicolò, al principio del 1853, mostrò di volere abbattere l’impero ottomano e dietro le orme di Pietro il Grande giungere a Costantinopoli per ristaurarvi l’impero bisantino, tutta l'attenzione dell’uomo di Stato si risvegliò in Mazzini con potenti facoltà. Nessuna manifestazione della vita morale, religiosa, politica e letteraria delle diverse popolazioni civili o semibarbare dell’Europa gli era ignota; e con intuito maraviglioso, a cui fa giustizia il presente, egli intendeva la differenza che intercede tra il popolo e il governo della Gran Bretagna. Aveva afferrato, e questo era facile, i motivi che spinsero Luigi Napoleone ad intromettersi nella questione, la necessità cioè di pascere l’esercito con un fantasma di gloria, di solleticare la Francia col sogno del ricuperato impero, di procurarsi alleati tra i governi dell’Europa col mostrarsi intento al mantenimento del diritto e degli interessi europei; poi, fattasi una dinastia, umiliare uno ad uno tutti i membri dell’alleanza che aveva rovesciato lo zio, consolidare quella dinastia accapparrando per i Murat e per i Bonaparte i troni dispersi d’Europa. Sogni, come ben sapeva Mazzini, conoscendo il carattere ignobile, la nessuna fermezza dell’uomo; ma sogni che avrebbero un disastroso principio di effettuazione, se l’Inghilterra fosse scesa ad allearsi con lui. Onde, svestendosi del sentimento puramente italiano, Mazzini, in cento lettere e discorsi e scritti avverti gli inglesi.
«Volete impedire che la Russia effettui i suoi disegni, alleandovi colla Francia, per puntellare quel decrepito impero turco, erigendovi l’Austria a barriera tra l’uno e l’altro impero? Badate, l’alleanza col l’uomo del due dicembre non é soltanto mostruosa, é insana. L'Austria poi non tirerà una sola schioppettata per voi; non uno dei suoi seicentomila uomini, sopra i quali voi contate, si moverà dalle sue posizioni forzate; anche volendo non può. La Russia conta sulla gratitudine di lei per avere, attraverso la Transilvania, la Gallicia, la Moravia, con tre eserciti domata l’Ungheria, gettandola sanguinolente ai piedi di Haynau. La Russia s'inganna: la gratitudine è parola ignota ai governi, all’Austria anzi tutti. Ma nemmeno avrete l’Austria con voi contro la Russia: centosessanta mila austriaci stanno allineati sulla frontiera turca da Ragusi a Cronstadt in Ungheria; novantacinque mila uomini sono agglomerati sulla frontiera russa nella Bucovina e in Gallizia; novantamila tengono oggi l'Italia sopra una linea che si prolunga dal Tirolo ad Ancona, e non bastano a tenere quiete le popolazioni, neppure coll’ajuto della forca e del piombo: pensate poi alle forze necessarie a custodire l’interno, nel quale i quattro sesti della popolazione sono di razza slava: calcolate i presidii delle fortezze: ricordate sopra tutto che tra le sue truppe ci sono settantamila ungheresi costrettivi dopo le stragi dei fratelli; cento e più mila italiani, odiatori della bandiera gialla e nera, anelanti alla patria: pensate tutto questo, e vi convincerete che l'Austria oggi non può fare la guerra con voi, anzi farà di tutto per impedirla, e che voi volendo ristretta la Russia entro i suoi limiti, invece di proclamare l’integrità dell’impero turco, dovete intendere l’inutilità di frapporre un cadavere come barriera fra la Russia e Costantinopoli. Lo czarismo è un principio, il principio dell’autorità illimitata; né può essere vinto che da un altro principio, quello delle nazionalità, quello della libertà universale.
«La vostra nazione è libera, si chiama religiosa; voi, discendenti di Milton e di Cromwell dovete dire: — L’Austria è la China d’Europa; dispotismo, ferocia, immobilità; nulla abbiamo comune con essa — dovete intendere che una guerra contro la Russia ha da essere guerra di libertà contro il dispotismo europeo; che i casi di guerra, dieci volte evitati fino a quest’ultimo, originarono tutti dai trattati del 1815: — che l’equilibrio conducente alla pace, la cosi detta bilancia dei poteri, è menzogna inefficace, se non è bilancia ed equilibrio di giustizia: che a fondarlo è necessaria una revisione di quelle ingiuste, ineguali, tiranniche convenzioni, alle quali i popoli non intervennero né diedero conferma mai: che bisogna rifare la carta d'Europa, a seconda delle tendenze naturali, delle tradizioni e delle aspirazioni legittime, liberamente espresse dalle nazioni: bandire arditamente queste verità: bisogna intendere che né l'Austria, colle sue nazionalità malcontente, co suoi milioni di Slavi, con un principio identico allo czarismo, colla maledizione d’Europa sulla sua bandiera, né il condannato impero turco, projezione dell’Asia sul mondo europeo, co’ suoi milioni di cristiani soggetti a una sempre decrescente minoranza di maomettani, colla sua visibile incapacità di progresso, possono mai costituire una valida difesa contro la giovine, crescente, compatta potenza russa, e che a nuove forze può solo esserne commesso l'ufficio: — fare appello alla Polonia, alla Germania, all'Ungheria, all'Italia, a tutti quegli elementi rumeni, serbi, bulgari, albanesi, che devono, presto o tardi, forse sotto l'impulso guidatore della razza ellenica, oggi sprezzata ed oppressa, formare concordi una grande confederazione: — sottrarli all’influenza russa, ajutandoli a ottenere quella vita che invano sperano dalla Russia: — innalzare intorno all'impero moscovita una barriera vivente di giovani nazioni associate....»
Per quanto l'Italia gli stesse a cuore, e bisogna notare che scriveva questi consigli viaggiando e cospirando in Italia, egli non cercò di attrarre l’attenzione e l’ajuto degli inglesi su la sua patria, se non come una delle nazionalità che avrebbe servito di barriera contro il dispotismo. E al comitato degli amici d’Italia a Newcastle, scriveva:
«Le mie profonde simpatie verso la Polonia sono note fino dal 1831: non sarei degno di difendere la mia nazionalità italiana e di amare la libertà, se potessi porre in dimenticanza o in non cale i patimenti e i diritti delle altre nazioni, e di quelle, in particolare, che hanno, come la Polonia, combattuto e versato il loro sangue per tutti noi. — Il mio convincimento è che lo Czar non può esser vinto, tranne sulla linea che si distende dalla Vistola al Dnieper, e che il colpo decisivo non può essere dato che dalle mani della Polonia.... La quistione vitale per voi è la necessità di mutare politica. A Vienna troncherete il nodo gordiano! Finché sarà concesso ai vostri ministri di menar vanto di esser gli alleati dell’Austria, comeché in certi limiti, non v'ha speranza per la Polonia. Finché ai medesimi sarà lecito dichiarare, compiacendosene, che i sentimenti morali e politici dell’Austria sono identici ai loro, v'è forza respingere ogni disegno che metta a repentaglio il possedimento della Gallizia. Finché gli eserciti austriaci occuperanno i Principati, ogni campagna per terra vi sarà interdetta. Finché lascerete l'iniziativa dello scioglimento diplomatica della questione alla casa d’Austria, non v'è dato pensar di ricorrere all'insurrezione (43).»
E dopo la presa di Sebastopoli, quando si credeva appena cominciata la guerra, egli scriveva al Daily News:
«Voi mi chiedete perché io non esprima le mie opinioni sulla guerra. Sono sconfortato. Voi mi sembrate combattere, come Aiace, nelle tenebre; se non che, egli pregava agli Dei perché gli concedessero la luce, voi chiudete deliberatamente gli occhi al raggio che v'illumina da tutte parti.... Le tre parole, Polonia, Italia, Ungheria, proferite dal vostro Roebuck (44), rimangono solitarie, senz'eco, come profezia minacciosa, che ricorderete indarno quando sarà troppo tardi.... Dichiarandovi ostili ad ogni moto nazionale, strisciandovi per sedici mesi intorno al più abbietto di tutti i governi assoluti, l’austriaco, rinnegando ogni intento morale, ogni nobile aspirazione, per seguire le triste esigenze di una malintesa opportunità e dello stata quo, voi avete rinunziato a favore dei migliori in Europa, avete impedito un moto polacco, avete perduto l’alleanza della Svezia, avete schiuso il campo a tutti i raggiri germanici; e, contendendo a voi stessi libertà d’azione e scelta di luoghi, di mezzi e disegni militari, avete, come Carlo Alberto nel 1848, convertita la guerra in assedio, sopra un terreno che si chiamerà, temo, a breve andare, la sepoltura dell’onore e dei figli dell'Inghilterra.»
Poi colla mappa alla mano dimostra l’inutilità di quella ossidione:
«Se voi non vi decidete a levar l’assedio; se non volgete tutta la vostra energia contro l'unico punto vulnerabile della Russia — la Polonia; se non mutate radicalmente la politica che oggi governa la vostra guerra; voi non potete che consumarvi in una serie d’inutili tentativi contro Sebastopoli.... Adotterà mai spontaneamente il vostro governo una nuova politica? No, giammai. Gli uomini che non seppero proferir parola in nome dell'onore inglese, quando nel 1848-49 lo Czar invadeva i Principati e calpestava l’Ungheria, perché egli aveva allora per compito l’opporsi alla libertà e ai moti nazionali — gli uomini che possono, per sedici mesi, esaurire ogni forma di compiacenza servile verso un governo come l'austriaco, e, derisi da esso, non osano indirizzargli una minaccia — sono capaci d’allearsi con ogni usurpatore dispotico; non «di gridare a un popolo: sorgi!… Uomini siffatti possono rompere i patti colla Sicilia; non mai quelli che li legano all'assolutismo continentale. Ma che voi, cittadini d’Inghilterra, adoratori della libertà e veneratori della morale — voi, che applaudiste unanimi il glorioso sorgere della Polonia e dichiaraste delitto la sua disfatta — voi, i cui figli e fratelli muoiono nella Crimea, vittime d'una torta politica, mentre vincerebbero nella Podalia e in Lituania — che voi, liberi, e potenti a costringere, sol che vogliate fare atto di forte volere e manifestare energicamente i vostri intendimenti, possiate assistere tranquilli a cotesta lenta inutile opera di distruzione, e fidare i vostri fati ad uomini che, mercé la loro politica e l’Austria, stanno dopo nove mesi di fazioni guerresche, assediando un’opera esterna, è cosa ch'io non posso spiegare né ad altrui né a me stesso. Ogni uomo, che ha un figlio, un fratello o un amico in Oriente, dovrebbe recarsi, con una carta della Crimea spiegata sul petto e con in mano una bandiera polacca, di luogo in luogo, di parco in parco, di casa in casa, e ammonire e predicare, finché centinaja di migliaja d'uomini, raccolti insieme, significassero, pacificamente severi, la loro volontà ai non curanti reggitori, gridando: mutamento di politica: giù l'Austria: su la Polonia. Poi dovreste piegare il ginocchio e ringraziare Iddio, ch'egli abbia degnato di porre il facile compimento d’un grande atto di giustizia sulla via che guida alla sicurezza e al trionfo dell’Inghilterra… Fuor della via ch’io v’accenno, voi non avrete per fermo guerra che vinca, né pace onorata. Nella lettera da me scritta agli amici d’Italia il 2 marzo io diceva: La vostra politica è assolutamente torta e immorale; però non avete diritto di vincere e non vincerete (45).»
Con Kossuth e cogli altri generali ungheresi e polacchi egli teneva assidua corrispondenza e concerti. Kossuth, rifugiato a Costantinopoli, aveva indotto Omer Pascià ad inoltrarsi verso le frontiere dell’Austria; l’Austria, impaurita che Omer Pascià potesse «portare le guerre e le dottrine di Mazzini nei territori suoi (vedi i Blue Books inglesi)» aveva insistito per la consegna di lui e di Bem: non riuscendo ad averli in mano, tentò assassinarli. Kossuth s'illudeva pensando sempre che l’Austria avrebbe preso parte attiva nella guerra, e a Mazzini scriveva il 16 febbrajo 1854:
«Vi predico ora che l’Austria esposta a un fuoco incrociato dovrà prendere un partito in un senso o «nell'altro: disegnatasi nettamente la situazione, se l’Austria entra in guerra, io inalzerò la bandiera in Ungheria, voi in Italia: in causa di neutralità armata, agiremo in Italia.»
E quella sua Italia Mazzini incitava ad afferrare un’occasione che forse non si presenterà più mai, per un movimento popolare che spingesse il Piemonte alla terza riscossa; e, informato delle pratiche francesi e inglesi per tirare il Piemonte nella rete, domandava al governo: Siete con l’Austria o contro? — E ai soldati piemontesi: Volete battervi per l’Austria, con l’Austria, o contro di essa? (46)
Tutto invano; la regina d'Inghilterra, il suo marito tedesco e il pedagogo Stuckmar e gli aristocratici ministri non sapevano balbettare altro che della necessità di tenere equilibrato la bilancia dei poteri, rinforzare l’Austria nel centro dell'Europa, allearsi con Napoleone che aveva infranto la rivoluzione e cancellato l’aborrito nome della repubblica, e che ora unito all'Inghilterra avrebbe debellato la temuta Russia e infrenato il più temuto Demos, il quale, non solo in Irlanda, ma nella stessa Inghilterra minacciava la corte, l'aristocrazia, il privilegio.
Il conte di Cavour, grettamente municipale sino a quando afferrò il potere (novembre 1852), vedeva in Napoleone l’uccisore della Repubblica Romana, e, calcolando su lui, gli si umiliava ai piedi. Chiaro dev'essere stato a un uomo di sì acuto ingegno che quanto Mazzini diceva era vero, che una ben organizzata cospirazione avrebbe nel Lombardo-Veneto e nelle Legazioni, in Romagna e in Toscana, fatto la rivoluzione col grido — di Piemonte alla riscossa. — Ma alla rivoluzione egli avrebbe preferito un regno ristretto anche a solo Torino o a Susa: onde, malgrado il rifiuto di Dabormida a rimanere in un ministero che firmava il patto d’alleanza coll'Inghilterra e con la Francia e per conseguenza coll’Austria, la quale ricusava di levare i sequestri, né accettava richiami intorno alla sua condotta in Romagna, e giungeva a insultare con modi plateali il re, il Parlamento, e i ministri, Cavour riuscì a strappare i voti della Camera e del Senato (10 aprile 1854), e scoprendo la corona spedì in Crimea quindicimila italiani, il cui valore, che i fatti attestarono, con quello del resto dell’esercito e di tutto il popolo, avrebbe costretto l’Austria, accampata sul Danubio, ad abbandonare il Po.
La guerra di Crimea verificò con esattezza matematica le predizioni di Mazzini: l’Inghilterra, per l'abbiettezza degli uomini al governo, per l’incapacità de' suoi aristocratici generali, per il disordine permanente in ogni dipartimento ufficiale, scrisse allora la più vergognosa pagina della sua storia; ma, perché il popolo non aveva perduto il suo antico valore, esso riuscì a mettere a posto la graziosa regina, o sia il suo tedesco marito, ad abolire il privilegio e la corruttela nell’esercito e nella marina, e prevalersi del diritto di scegliere dal suo seno uomini, i quali col popolo e per il popolo intendano e promuovano i diritti e i doveri di una grande nazione. Napoleone, coll’esercito francese non ancora guasto da vent’anni di corruttela, ebbe tutto l’onore e la gloria: l’Austria non si muoveva; fece i suoi patti colla Prussia, occupò i principati, poi, quando l’Inghilterra si lusingava di prendere colla sua flotta la rivincita nel Baltico, l’Austria, d’accordo con Napoleone a non volere portata la guerra nell'Europa, impose alla Russia l’accettazione dei quattro punti e la pace perpetua, che durò quel tanto che sappiamo. Cavour si tenne pago a trascinare il suo re, escluso da Vienna e da Costantinopoli, in Inghilterra e in Francia, e a poter presentare un memorandum, nel quale fu costretto a tacere del mal governo del papa perché il papa in quei giorni tenne a battesimo il povero Lulu; non che riuscisse ad aver nemmeno Parma e Modena e addossarne alla Moldavia e Valacchia gli abbietti principotti, dové acconsentire alle mene di Napoleone, secondando le cospirazioni muratiane in Napoli, consolandosi che Napoleone, alla peggio, se non tenesse la promessa di fare «qualche giorno qualche cosa» per aggiungere un palmo di terreno ai domini del re Sardo, avrebbe per lo meno tenuto in freno la rivoluzione anche in Italia.
In quegli anni 1853-56 Mazzini quasi giustificava la paura che della sua onnipresenza avevano i nemici: nel marzo del 1854 era a Londra, discutendo con Garibaldi, ritornato dall'America, intorno alla possibilità di una spedizione nella Sicilia; nel giugno a Losanna, concertando coi proscritti raccolti nei cantoni limitrofi alla Lombardia.
In Losanna, centro e conforto all’emigrazione era la casa della signora Luigia Casati, madre della nostra compianta Elena (47), là quale, tra gli emigrati conobbe allora il ferito di Roma, il cospiratore scampato alle forche di Belfiore, brutalmente cacciato dal Piemonte — Achille Sacchi, futuro sposo suo, da Garibaldi chiamato «il medico che combatte» — designazione del resto che è vera di quasi tutti i medici chirurghi italiani. Da Losanna, Mazzini, dopo una corsa nel Ticino e nei Grigioni, — sguinzagliando i volontari per diverse vie ai confini, Saffi a Lugano ove Grillenzoni instancabilmente lavorava, Chiassi a Coira, Quadrio a Silvaplana, — avendo seco a San Maurizio Orsini, Campanella, Conti, Ferrari e altri, — si teneva pronto a scendere nella Valtellina e nel Comasco, ove l’insurrezione dovea iniziarsi. Ma l’Austria tempestava i governanti di Berna, arrestava tutti i cospiratori nella Valtellina e nel Comasco; e l’ambasciatore francese a Berna domandava nientemeno che l’arresto e la consegna di Mazzini. E il governo federale sarebbe venuto a questo, dacché lo cercava sui monti e sui laghi, negli alberghi e nelle case private, sui piroscafi e nelle diligenze, senza l’abilissimo stratagemma di Campanella, il quale profittando di uno sbaglio della polizia si lasciò arrestare in vece sua, dando così agio a Mazzini ’ di svincolarsi; Campanella poi tirò fuori il suo passaporto inglese, e fu rilasciato entro ventiquatti’ore, ma bandito dal Cantone.
PORTA SAN PANCRAZIO BATTUTA DALLE ARTIGLIERIE FRANCESI |
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Mazzini, contro ciò che dicevasi e credevasi, non si faceva illusione intorno alla situazione in Italia; aveva seguito passo a passo la cospirazione monarchica iniziata coll’arresto di Petroni e dei membri del comitato nazionale a Roma; consisteva nell’infondere in tutti gli stanchi e sfiduciati ed egoisti la massima «fate di non fare», e aspettare il cenno di Cavour che pendeva da quello del dittatore francese. Egli capiva perfettamente che l’iniziativa repubblicana era per allora perduta, e vedeva chiaramente che l’idea accarezzata da Napoleone per l’Italia, secondata da Cavour, era del federalismo monarchico, di un’Italia sminuzzata tra principotti vecchi e nuovi, casalinghi e stranieri. Ed egli, dolente, ma rassegnato a rilegare a un forse lontano avvenire la vagheggiata repubblica unitaria, sbalzò, quale leonessa per difendere la sua prole, ad afferrare per i capelli chi minacciava la voluta e possibile Unità. E da quel momento tra lui e Cavour s’intraprendeva quella sorda ed incessante guerra, la quale non cessò mai se non colla disfatta del grande piemontese e il trionfo dell’italianismo il giorno che Garibaldi dal Volturno telegrafò all’Europa: Vittoria su tutta la linea — o sia, l’unità italiana è un fatto compiuto. Commosso negli imi visceri suoi unitari dalle mene muratiane in Napoli e dal rimescolarsi di agenti inglesi di una parte e di Carlisti dall’altra in Sicilia, Mazzini accettando il Delenda est Carthago di Nicola Fabrizi, si dedicò anima e braccia al lavoro della cospirazione in Napoli e nella Sicilia.
Fabrizi, che si era illustrato come ufficiale di Garibaldi a Velletri e in tutti i combattimenti di Roma, passò, caduta la repubblica, con Giuseppe Fanelli in Corsica, poi a Malta, consigliando Fanelli di rimpatriare in Napoli e là costituirsi centro d’azione. Così fece Fanelli, ajutato da Nicola Mignona e Giovanni Mattina, da Chiarini, Rizzo e Lancilotti; e impiantò comitati figliali in Salerno e nella Basilicata, ove i fratelli Magnoni e Padula e Matera e Lacerenza si riferivano a lui; Fabrizi impernando, come diceva, in sé medesimo tutta la combinazione, e tempestando Mazzini e gli amici del continente «di fissare gli occhi, per ragioni politiche e militari, al mezzodì quale punto di partenza alla sognata unità e grandezza d’Italia.» Non che Mazzini avesse mai negletto il mezzodì, come adesso non tralasciava il lavoro iniziato e continuato, benché lentamente, nell’Alta Italia e nel centro; ma dal 1854 allo scoppio della rivoluzione nel Convento della Gancia non passò giorno nel quale Mazzini non scrivesse o mandasse uomini, armi e mezzi o a Napoli o nella Sicilia, battezzata da Fabrizi prima che da Garibaldi «l’isola delle iniziative.» (48) E al fine del 1853 e nel gennajo e maggio 1854 egli scriveva a Nicola:
«Malgrado tutto, ritengo inevitabile e imminente la guerra tra l’Inghilterra e la Russia. L’Austria è colla Russia e finirà per smascherarsi. Ciò di cui siamo minacciati è questo: guerra regia e imperiale al «nord dell’Italia; guerra francese e muratista al sud; influenza ministeriale inglese in Sicilia: pasticcio «peggiore di quello del 48...» — «Tu devi intendere quello ch'io tenterò, e per cui veggo spronare a cercare che si faccia su quanti punti si può. E tra questi punti m’importa sommamente l’isola, non solamente per la posizione geografica e le connessioni, ma per considerazioni derivanti da quello che io so dei progetti francesi; ai quali dobbiamo seminare quanti più imbarazzi possiamo......» — «Devo nondimeno dirti che nel momento stesso in cui ti scrivo un fatto potrebbe iniziarsi — quello progettato nella Valtellina e nel Comasco. — Se quel fatto accade, bisognerà a ogni costo secondarlo nel centro e possibilmente nel sud. Eccoti ragione della mia premura e del mio insistere...»
Nicola, contentissimo, s’era già messo in intimi rapporti coi siciliani, i quali, sfidando le stragi borboniche, avevano formato fino dal 1850 un comitato nazionale col motto Italia e Libertà, Dio e Popolo (49). E nel gennajo 1852, proprio nel giorno onomastico del re Ferdinando, un manifesto proibì ai patrioti di assistere all'apertura del nuovo teatro in onore della madre del «Fulvo Caligola.» Onde perquisizioni e arresti; ma nel teatro non entrarono che cinquantotto realisti, i cui nomi, per cura del Comitato capitanato da Fabrizi, furono stampati. Giovanni Corrao si offerse «a tagliare la testa all’Oloferne delle Due Sicilie:» un moderatore vi si oppose. Concerti furono presi, e lettere ed emissari giungevano da Malta e da Palermo a Messina, da dove si tentò d’allacciare i Comitati in tutta l’isola e nel continente calabrese. Anche in Genova c’era un forte partito nell’emigrazione per l’iniziativa dal sud. Tra altri, mentre duravano incerte le conseguenze del colpo di stato in Francia, Alberto Mario, in un’adunanza ove intervennero molti romani e veneti e lombardi, opponendosi alla proposta di Medici e Bixio di irrompere in Lombardia, propugnava l’idea di gettarsi al sud per creare alla rivoluzione una base tale da bilanciare l’influenza sabauda allora insignificante; e quest’idea Mario ostinatamente sostenne finché fu tentata da Pisacane e compiuta da Garibaldi. Cacciato nel 1853 Francesco Crispi da Genova — ove e a Torino potevano rimanere Rosolino Pilo, Miceli, G. M. Damiani, Cosenz, Nicotera, Falcone ed altri — egli e Giorgio Tamajo e Onofrio Giuliano rafforzarono il lavoro di Fabrizi in Malta. Cacciato, con ¡sfregio all’onore inglese, anche di là, volò a Londra, ebbe mezzi da Mazzini, con lui concertò il da farsi, e andava e veniva, a rischio ogni volta di farsi impiccare, per sei anni di seguito.
Nel marzo 1854 Mazzini avvertì Fabrizi che Garibaldi sarebbe pronto a capitanare una spedizione in Sicilia, se ivi fosse iniziata l’insurrezione ed egli fosse chiamato. Giunto Garibaldi in Italia e scoppiati due moti in Lunigiana e Parma, la gioventù di buona fede li credeva capitanati da lui e in lui salutava il vessillo di ogni futura rivolta contro l’Austria e il papà. Garibaldi scrisse bruscamente agli «ingannati o ingannatori» che egli disapprovava quei moti; e pur troppo il Roselli rispose con una lunga requisitoria contro Garibaldi per il fatto di Velletri nel 1849, accusando «il generale subordinato di avere abbandonato il posto e la gente statagli affidata» soggiungendo «un tale delitto fu certamente più complicato e peggiore di quello commesso dal generale Ramorino in Piemonte.» Male fece il direttore Italia, del Popolo, che passava per giornale mazziniano, a raccogliere quelle parole. Garibaldi sdegnò rispondere; ma in cuor suo e negli sfoghi famigliari teneva ostile a sé Mazzini, né per quanto questi fulminasse di rimproveri gli amici di Genova e additasse Garibaldi «braccio indispensabile all’italico risorgimento» a nessuno fu dato sradicare dalla mente di Garibaldi la convinzione dell’ostilità di Mazzini a lui. Ma da questo al gettarsi per dispetto tra le braccia di Cavour e tra i cospiratori monarchici, come fu accusato non da Mazzini, ma da molti troppo zelanti mazziniani, ci corre; ci corre quello che tra un settario e un patriota, tra un serpente e un leone. La disgraziata polemica avvenne nell’agosto e settembre del 1854: io allora trovandomi a Nizza con inglesi intimissimi di Garibaldi, lo vedeva ogni giorno. Contento del mio entusiasmo per la sua patria mi partecipava le sue idee e le speranze; e in tutti lasciava l'indelebile convinzione che gli pesasse la vita, sintanto che potesse tirare la spada contro l’Austria, coi repubblicani, coi monarchici, col diavolo stesso se il diavolo fosse antiausiriaco. Al contrario di tutti i liberali noti in Italia e tra gli esuli — mentre Manin, Mazzini, Tecchio, Sineo, Valerio, Pallavicino, Brofferio, tutti insomma inferocirono contro Cavour per l’alleanza col Due Dicembre e coll’Austria — Garibaldi, cercando dimenticare i due odiosi alleati, si rallegrava al fatto di vedere scendere in campo soldati italiani e sventolare il tricolore accanto all’Union Jack. Ma non per questo egli si rifiutava ai tentativi. Si offrì nel 1855 a liberare Ripari dalle carceri di Roma; e nel 1856 venne in Inghilterra a trattare con Panizzi un disegno studiato con Bertani e Sir James Hudson per la liberazione di Settembrini, Poerio e di Spaventa dall’ergastolo di Santo Stefano. In Inghilterra fu ospite di mio padre; e io ebbi ancora occasione di notare la sua crescente ammirazione per l'esercito e il re di Piemonte.
Avendo in quei mesi avuto la fortuna di conoscere in persona anche Mazzini, convinta allora, come ora, che la via di lui era la più diritta, la più corta e certamente la più bella per giungere all’Italia una e indipendente (50); conoscendo anche le speranze immediate di Kossuth, di Mazzini, di Orsini che allora lavorava con lui, di Fabrizi Nicola per mezzo di Paolo suo fratello, feci quanto era in me per dissipare dalla mente di Garibaldi le nubi contro Mazzini, e riuscii quel tanto che bastava per il momento. Pareva che proprio in quell’anno una forte iniziativa sarebbe mossa dalla Sicilia e da Napoli insieme; e tutti, Mazzini come Garibaldi, e Cosenz pronto a scendere in Napoli, e Crispi con Fabrizi in Sicilia, accettarono di tacere sul programma politico tenendo alto soltanto quello dell’unificazione e dell'indipendenza della patria. Tutti i veri patrioti s’impensierivano ogni dì più del muratismo, che aveva già dei proseliti tra l'aristocrazia feudale napoletana; la quale, pure odiando il Borbone, avversava l’unità per paura di perdere, messa al pari dell’Italia settentrionale e centrale, prestigio e potenza. Cavour vedeva sempre più di buon occhio Luciano Murat, e perché così piaceva a Napoleone, e perché con Murat sul trono meridionale «sperava accostare Napoli e Piemonte, e così uniti dare legge in Italia. (51)» E il 10 aprile 1856 a Urbano Rattazzi, dopo narrato un colloquio con Lord Clarendon in Parigi, scriveva:
«Nell’uscire gli dissi: Mylord, lei vede che non vi è nulla da sperare dalla diplomazia, sarebbe tempo di adoperare altri mezzi, almeno per ciò che riflette il re di Napoli. Mi rispose: Il faut s'occuper de Naples bientôt. Lo lasciai dicendoli: J'en viens causer avec TOUS. Credo potere parlargli (a Clarendon) di gittare in aria il Bomba. Che direbbe di mandare a Napoli il principe di Carignano? 0, se a Napoli volessero un Murat, di mandarlo a Palermo? Qualche cosa bisogna pure fare. L’Italia non può rimanere nelle «condizioni attuali. Napoleone ne è convinto; e, se la diplomazia fu impotente, ricorriamo a mezzi extralegali. Moderato d’opinioni, sono piuttosto favorevole ai mezzi estremi ed audaci. In questo secolo ritengo essere soventi l’audacia la miglior politica. Giovò a Napoleone, potrebbe giovare a noi.»
Né durante la guerra della Crimea né dopo, l’idea dell’unità d’Italia pur colla monarchia entrò mai nella mente di Cavour, né come desiderio, né come possibilità. Era riuscito nel 1855 al Murat di guadagnarsi Saliceti povero e derelitto; cui fece seguito Giuseppe Montanelli e Sirtori. Venuto il principe a Ginevra con Saliceti, ebbe visite di molti amici di Cavour; ma, quando l’opuscolo di Saliceti La questione italiana Murat e i Borboni stampato in Inghilterra fu noto in Italia, scoppiò un uragano da tutte le file dell’emigrazione e dalle prigioni, donde Carlo Poerio, Spaventa, Mauro, Bianchi risposero «preferir morire in carcere che stendere le loro mani pure a quell’avventuriere straniero.»
E nell’agosto 1885 Mazzini scriveva a Fabrizi:
«… Lo stato attuale diventa una vera vergogna; bisognerebbe escirne a ogni patto. I Muratisti son nulli in sé, come partito; ma possono con danaro comprare uno o due colonnelli. Dall’altro lato i regii di Piemonte, i bolognesi Minghetti, Audinot e compagni loro aderenti, millantano promesse dell’Impero, in caso di successo muratista, d’ajuti per ingrandimento fino a Bologna. Tutti questi raggiri frutterebbero a noi, se prendessimo l’iniziativa; ma come prenderla? Il centro sarebbe pronto negli elementi subalterni; e si potrebbe determinarli a dispetto dei Comitati, se uomini, noti ad essi, si recassero «arditamente sui luoghi e ne prendessero la direzione...»
Fabrizi rispose domandando scritti e proclami contro i muratiani, incitamenti all'esercito napoletano e ai siciliani ad insorgere. Dei molti scritti d’allora antimuratiani di Mazzini ecco alcuni frammenti inediti: Protesta contro i muratiani:
«Pochi uomini, schiavi d’anima o compri, contaminano la causa nostra, cercando sostituire alla santa bandiera della Nazione il nome di un uomo straniero, Murat. Davanti all'Italia, in nome del popolo e dell'esercito napoletano, gli uomini del Partito Nazionale protestano contro l’esoso raggiro e respingono solennemente ogni solidarietà che i loro fratelli illusi ponessero tra essi e quei pochi. Il popolo napoletano soffre e combatterà, quando che sia, per la propria libertà e per quella della Patria comune, non per sostituirsi un altro padrone. L’esercito napoletano sarà un giorno Legione Sacra nell’Esercito Nazionale,. non mai coorte di pretoriani a servizio d’un prefetto di Francia. Tra Murat e noi, soldati della Nazionalità Italiana, sta la sua patria non nostra: sta la sua dipendenza da un Impero dispotico che lo vincola ad esser tiranno: sta la rovina d’ogni avvenire italiano tra le due influenze di Francia al sud e dell’Austria al nord: sta la vergogna che scenderebbe dall'opinione europea su questa parte d’Italia se si dichiarasse incapace d’emanciparsi da un giogo senza ricader sotto un altro: sta il voto che Murat diede a favore della spedizione contro Roma. Consegneremo alla pubblicità e al disonore i nomi dei pochi cospiratori, se mai accennassero a fatti che costituirebbero un doppio tradimento al Partito e alla Patria, a Napoli ed all’Italia.»
Poi all’esercito napolitano:
«No; io non temo il Muratismo. L’ho denunziato come si denunzia un’infamia, quand’anche non ci minacci, perché nessuna colpa rimanga senza il debito vitupero, e perché gli stranieri, facili al biasimo e a rovesciare su tutti l’accusa meritata dai pochi, non dicano di noi: Son tuttora gli uomini irrequieti e impotenti dell'ultimo medio evo: passano da un padrone all’altro: non vive in essi coscienza, di libertà e di diritto. Ma ho detto che m'assicuravano il retto senso e l'affetto all'Italia degli abitanti del sud.
«Quando Napoli ridesta manderà un grido d’insurrezione, sarà grido che annoderà intorno alla sua bandiera d'iniziativa i milioni che soffrono e fremono dall’Alpi all’ultimo mare italiano; sarà grido creatore d'un popolo, non d'un dipartimento francese in Italia.
«Odo che taluni fra i raggiratori stranieri parlano d’insurrezione militare a pro loro. Essi calunniano «l’esercito napoletano.
«Che guadagnerebbe l'esercito napoletano a cacciare un Borbone per sostituirgli un Murat? Gloria? incremento di nome? Napoleone il Grande taceva, nei suoi bollettini, i forti fatti degli Italiani di Napoli combattenti per lui nella Spagna ed in Russia; pur nondimeno le sue aquile passeggiavano, trionfando l'Europa; ogni passo del suo Grande Esercito rimaneggiava la carta d'Europa, e un’aureola di gloria collettiva si diffondeva di battaglia in battaglia sull’armi che vincevano le sue guerre. Ma ora? colla Francia scaduta in faccia a sé stessa e all’Europa? con un impero parodia dell'antico, che si regge unicamente sulla corruttela dei sudditi e i cui fatti stanno sulla punta del pugnale d'un uomo che sprezzi la morie? con un esercito capitanato da avventurieri incapaci che dopo dieci mesi di prove contro Sebastopoli assediano un’opera esterna? Aggiogarsi ai fatti di un Governo straniero è in ogni tempo delitto di lesa nazione; ma se l’esercito napoletano potesse mai scegliere, per commetterlo, questo momento della storia francese, meriterebbe più che ribrezzo pietà, e avrebbe derisione dall’Europa intera.
«Le milizie di Napoli non romperanno il giuramento prestato al Borbone se non quando ricorderanno l’altro più assai solenne che ogni uomo nato in Italia deve alla patria comune; farla una,indipendente, libera e grande. Noi ruppero, come dovevano, nel 1848, perché invece di presentire l’avvenire possibile si contentarono di guardare al presente; e il presente era allora pur troppo l’ambizione d’un principe che sera fatalmente sostituita al concetto della nazione; era la malaugurata parola Italia, del nord cacciata da faccendieri inetti quasi ad antagonismo coll’Italia del sud; era una chiamata agli Italiani perché dessero il sangue a benefizio dell'ingrandimento d’un re che non avea però il coraggio di dire: Fo in pezzi la, corona di Piemonte per cingere quella d’Italia, Ma ciò che allora non fecero, credete lo faranno oggi per un prefetto regio spedito dal tiranno di Francia?
«E nondimeno anche allora, quando la santa bandiera d’Italia vincente nel marzo cominciava a velarsi, mentre i raggiratori monarchici s’adopravano a sostituirvi il vessillo savojardo e rovinavano le nostre speranze cacciando un equivoco a far le veci d’un principio, quelli fra gli ufficiali napoletani che intendevano la suprema necessità di protestare a ogni modo contro lo straniero e gittargli come guanto da raccogliersi nell’avvenire un simbolo di fratellanza universale italiana, escirono dalle file e mossero dove si combatteva per quella, sotto una insegna non di re ma di popolo. Il popolo di Venezia li ricorda, gran parte dell'eroica difesa, con affetto ed ammirazione. Io li vidi ed imparai ad amarli in Roma. L’avvenire dell’esercito napoletano fu troppo degnamente rappresentato in quelle due città che non riconoscevano padroni se non Dio e il Popolo, perché esso possa mai avvilirsi a riconoscere per capo un delegato principesco dell’uomo che si dichiarò colla spedizione di Roma nemico irreconciliabile della gloria e dell’avvenire d’Italia.
«L’avvenire dell’esercito napoletano è, purché il voglia, d’essere il nucleo primitivo dell'Esercito Nazionale Italiano, dell'Esercito Liberatore. La proposta dei muratiani dovrebbe esser considerata da esso un insulto straniero, al quale unica degna risposta è sorgere in nome d’Italia, per tutta l’Italia e con tutta l’Italia.
«Ufficiali dell’esercito napoletano: dalla vostra città enne a noi tutti il primo incitamento all’opere patrie; da voi mosse, trentacinque anni addietro, il primo solenne grido di libertà. Una lunga tradizione di nobili tentativi e di martirio per la Patria Italiana segnata dai migliori tra i vostri concittadini e tra voi insegnava negli anni anteriori al 1848 la costanza nell'impresa nazionale al nostro popolo. Perché interrompeste a un tratto quella tradizione d'onore? Perché, da quando il popolo nostro accennò sette anni a dietro d’aver raccolto l’insegnamento e d’essere presto a combattere e vincere in nome d’Italia, v’allontanaste da esso, e sembrate dimenticare i guai della vostra terra e la vergogna che pesa sovr’armi alle quali è vietato di chiamarsi italiane? Non siete più nostri? Non batte più il vostro core del nostro palpito? É spento in voi ogni orgoglio di patria? Non v'è più Italia per voi? Non sentite l'oltraggio che vi viene dallo straniero? Quando a smoverlo dal manomettere due terzi d’Italia, dall’opprimere, dall'imprigionare, dall'uccidere, i governi che vorrebbero persuadere all’Austria un più mite e prudente sistema le additano, dietro il nord e il centro d’Italia frementi, le vostre bajonette, Radetzkv risponde: Quelle bajonette son nostre: i soldati di Napoli non hanno patria: hanno un padrone che dipende da noi,
«Respingete, per dio, l’insulto villano. Scrivete una pagina immortale di storia italiana. Siate grandi. Fate corona alle vostre bandiere delle benedizioni di ventisei milioni d’uomini che vi sono fratelli. Sperdete le poche mìgliaja di mercenari stranieri che il re vostro v’antepone: essi sono una macchia perenne sull’armi vostre: le accusano avanti all’Europa di codardia. Aprite al merito di ciascun tra voi la vasta carriera di promozione che la Patria Italiana darà al primo nucleo dell’Esercito Nazionale. Dite all'Europa: Gli uomini ai quali voi guardate sprezzando come a soldati schiavi, a macchine stipendiate d'un tiranno, senza core, sono gli apostoli armati della libertà, il solo esercito cittadino ch’esista in oggi. Siate i creatori d’un popolo. Potete ideare più bella gloria?
«Dite queste cose alle vostre truppe. L’esercito napoletano sarebbe morto davvero ad ogni nobile senso, se non trovaste in esso un ufficiale capace d’intenderle. E nella presente condizione del nostro popolo, da un ufficiale che dica ai suoi cento: Sorgete in nome d'Italia! pendono forse le sorti di una nazione
«9 agosto 1855.
«GIUSEPPE MAZZINI.»
Questi e simili scritti si sparsero in quegli anni a migliaja tra le fila dell’esercito napolitano, ed è incalcolabile l’influenza che ebbero sulla condotta di esso quando nel 1860 Garibaldi passò nel continente.
Allo stesso tempo tutti i più e meno noti tra gli ufficiali, e tutta l'emigrazione napolitana e siciliana, tranne i due fratelli Mezzacapo, sottoscrissero la seguente protesta:
«I sottoscritti emigrati politici delle Due Sicilie, conservando ciascuno l’indipendenza delle proprie opinioni, si credono in debito dichiarare: che, siccome avversano l'attuale governo delle Due Sicilie perché incompatibile colla nazionalità italiana, per la ragione istessa avversano qualsiasi forma di go«verno che potesse costituirsi col figlio di Giochino Murat, e tanto maggiormente che in tal caso quel regno diverrebbe indirettamente una provincia francese.»
Solo Francesco Trincherà osò pubblicare un infelicissimo scritto contro la protesta. Tutto, intanto, raddoppiava l’ardore dei cospiratori. Mazzini si portò segretamente a Genova, ove io lo vidi nascosto in casa della nobile popolana Carlotta Benedettini, e in comunicazione con quanto v’era di più ardente e fervente tra piemontesi, liguri ed emigrati. Medici, che lentamente si era staccato da lui, pure accettava di essere cassiere per la sottoscrizione dei diecimila fucili da darsi alla prima provincia insorgente: complemento e ad un tempo contrabilancio alla sottoscrizione monarchica per i cento cannoni di Alessandria. Sventuratamente il disegno della spedizione di Cosenz non si potè colorire. In Sicilia poi il giovane barone Francesco Bentivegna di Corleone — fallito il tentativo di sollevare la popolazione di Termini, mentre Guarneri sorprese la città di Cefalù — preso, condotto a Palermo e condannato a morte per giudizio sommario, fu fucilato il 23 dicembre in Mezzoiuso. Falli anche un altro moto tentato nel Carrarese. Questi mancati tentativi davano forza al marchese Giorgio Pallavicino (52), il quale, trascinati a se prima Gioberti, poi Manin, audacemente provocando i repubblicani ad abbassare la bandiera neutra e inalzare quella dell’Italia con Vittorio Emanuele, ottenne ora per mezzo di Foresti l’adesione di Garibaldi, che fu suggello al suo audace concetto. Inconcepibile l'ingratitudine dei monarchici a quel nobilissimo; il quale, diffidando di Cavour, affrontò cavouriani, muratiani, mazziniani, scrivendo il 15 ottobre 1856 «Vittorio Emanuele, re d’Italia: ecco la formola salvatrice: o adottarla o non insorgere.» Questo, come ogni altro atto di Pallavicino, fu inspirato dal più puro patriottismo: egli, magnificando Manin come aveva magnificato Gioberti, lasciando tutto l’onore al faccendiere Lafarina, mettendo al servizio della propaganda l'intiera sua fortuna appena riscossala dal sequestro, fu il vero portabandiera di Vittorio Emanuele; e avere guadagnato alla sua fede Garibaldi decise per l’Italia monarchica contro l’Italia repubblicana. Si può deplorare il fatto; ma non per questo negare a Pallavicino un posto secondo a nessuno tra i fautori e fattori dell'Italia una.
Naturalmente tutto questo dimenarsi del partito monarchico raddoppiava il fervore di Mazzini e dei patrioti napoletani e siciliani, i quali ben sapevano che senza una continua perseveranza dell’opera loro il federalismo o con Murat o con altri avrebbe il sopravvento, per la politica anti-unitaria di Cavour. Così Mazzini, prima di lasciare nel 1856 l’Italia, ordinava con Pisacane la spedizione che fu fatta nel ’57; Fabrizi coadiuvando e continuando con Crispi il lavoro non mai interrotto in Sicilia. Tornato in Inghilterra Mazzini trovava, con grande sua soddisfazione, riordinata la società degli Amici d'Italia. La trista realizzazione di tutte le sue profezie intorno alla guerra dell'Oriente gli aveva raddoppiato autorità e aveva guadagnato alla causa italiana nuovi organi nella stampa. La dolorosissima polemica con Manin, alla quale, malgrado suo, fu costretto, volgevasi tutta in suo favore (53).
Nelle città principali dell'Inghilterra e della Scozia si organizzavano meetings, ove Saffi esponeva con eloquente chiarezza la situazione italiana e lasciava caro ricordo di sé tra i coltissimi uomini di Edimburgo e i forti figli del lavoro a New-castle-on-Tyne. Orsini stette per poco tempo con noi, poi separatosi per questione personale da Mazzini si mise a fare da sé; Saffi ed io continuavamo la propaganda; finché Mazzini, risoluto in aprile di ritornare in Italia, dopo lunga conferenza a Londra, ove Saffi per la prima ed unica volta in vita sua dissentiva dal maestro intorno all’agire in Genova, parli. Io, pregata, partiva per Genova quale corrispondente del Daily News. Questo noto soltanto per testimonianza, che, mentre dopo la non riuscita, tutti furono addosso a Mazzini, nessuno prima, all’infuori dei clericali, dissentiva dalla progettata spedizione nel napolitano. I fatti di quella spedizione sono oramai notissimi, ma non è ancora spenta la calunnia, che Mazzini volesse aizzare Genova, proclamarvi la repubblica e separarla dal Piemonte.
VILLA SAVORELLI, QUARTIER GENERALE DI GARIBALDI |
Il fatto è che quanti non erano guadagnati alla politica dell’aspettare l’unità d’Italia dall’iniziativa del Re, quanti non si accontentavano di una federazione qualsiasi, lavoravano con lui e con Pisacane.
Da altro mio scritto riporto dei passi che si riferiscono a quei venturosi giorni (54).
«Molti emigrati volevano partire con Pisacane; ma Carlo Pisacane aveva firmato che solo tre meridionali, Rosolino Pilo, Nicotera e Falcone, con piccol numero di operai e marinai, dovevano accompagnarlo, per non dare sospetto, e perché, in sua opinione, solo di armi e di munizioni avean bisogno gli anelanti patrioti napolitani. E allora insorgeva la questione intorno alla opportunità della cooperazione di Genova. Le obbiezioni fatte dai più erano: la quasi impossibilità dell’impossessarsi, per sorpresa, di navi, armi e munizioni, le conseguenze disastrose di un possibile conflitto tra cittadini e militari, che avrebbe alienata la simpatia dei liberali fuori e degli oppressi delle altre provincie, i quali nello statuto rispettato, nell’esercito ordinato, nel tricolore a tutt’asta vedevano l’arca santa, non tangibile da mano profana. Quadrio e Savi e i due comitati di operai e di borghesi sostenevano con Mazzini: che il Piemonte era il punto libero, dove gli Italiani potevano intendersi e apprestare senza pericolo gli apparecchi della lotta: sacro per questo il Piemonte: se l’Austria o altri osasse assalirlo, tutti sarebbero insorti, monarchici e repubblicani, a difenderlo: ma sacro come mezzo, non come fine; non ente per sé, che bisogna salvare a patto d'abbandonare la causa italiana: nessuna questione di bandiera, perché, se il Piemonte iniziasse la guerra all’Austria, tutti lo avrebbero seguito: ma essere rimasto libero — liberi da nove anni quattro milioni e mezzo d’italiani, con esercito proprio, con arsenali, con navi da guerra, con mezzi finanziari sufficienti a ogni impresa; e né un palmo di terreno conquistato alla libertà di là dai confini, né una sola vittima strappata per opera loro in Italia alla tortura o al patibolo: a che ciarlare di riforme o di rivoluzioni, quando le riforme erano, sotto la verga, impossibili, e le rivoluzioni, se non coadiuvate dai liberi, mal potevansi iniziare dagli schiavi e sorvegliati a vista?
«Tale il tema che si dibatteva sempre; e senza dubbio la grande maggioranza era, per dir poco, titubante. — Anche Pisacane, che aveva consacrato tutto se stesso a quell'impresa, esitava nell'esprimere il suo parere. Sua speranza e fiducia era che si decisiva sarebbe la sua riuscita, da sollevare l’entusiasmo spontaneo dei popoli e rendere obbligatorio l’ajuto, o attivo o passivo, del governo.
«Ecco una delle tante lettere che Mazzini mi scriveva in quei giorni:
«Fate pur sentire a tutti — intendo gli esuli, non quelli che lavorano — che non vi sarà mai un moto in Genova, se non alla fine dei secoli. Pure, se non volete diventar matta com’io incomincio ad esserlo, non fate alcuna propaganda — eccettuato per denaro pel Sud — con alcuno, buono o no.
«Fatevi un concetto chiaro della situazione: se mai io mi risolvo ad agire qui, non ho bisogno d’alcuno, fuori di quelli che ho. Dopo, vedremo.
«Se vi chiedono delle mie opinioni, dite dopo un certo tempo — tanto che credano almeno ch'io sono fuori di Genova, alla distanza di un giorno o un giorno e mezzo — le seguenti cose da parte mia, a meno che preferiate non dirle:
«Che io non ricevo consigli da chi non fa nulla: soli consiglieri non li voglio:
«Che se mai, come essi suppongono, io dovessi agire in Genova, lo farei evidentemente col consenso dei Genovesi, e che non chiederei il consenso dei signori Lombardi, che ora sono qui:
«Che io mi sento preso da rossore e da sdegno nel vedere Italiani, i quali otto o nove anni fa gettarono il guanto di sfida all’Austria e giuravano di fare la nazione, cosi abbietti e privi di ogni senso dell'Unità d’Italia, da dichiarare che l'unico terreno sul quale possa innalzarsi il vessillo d’Italia sia quello al quale, appunto perché possiede libertà e mezzi d’azione, incombono eminentemente ed eccezionalmente maggiori doveri.»
Ora devesi constatare che moltissimi genovesi popolani e altri si erano persuasi del dovere di usare ogni mezzo per fare l’Italia; e per ogni mezzo intendevano vapori e cannoni, armi e munizioni: perciò risolsero di prendere tutto questo ove lo trovavano, cioè dalle fortezze e dagli arsenali dello Stato.
«Fissato il 10 giugno per la partenza di Carlo Pisacane e de' suoi, un capitano del numero, impossessandosi di un vapore postale doveva guidarli in una spiaggia del regno. Ma la barca a vela, carica di armi e munizioni, sorpresa da burrasca, gettò tutto in mare e ritornò vuota in porto. — Bisogna prepararne un’altra: — disse Carlo — io parto solo per combinare da capo tutto a voce per evitare sospetti e complicazioni. — Cosi fece: tornò trasfigurato e raggiante: tutto era come Nicola Fabrizi da Malta aveva combinato cogli amici a Napoli e indicato a voce per mezzo di Giovannino Falcone. — Vince remo — disse — basta una scintilla; per tutto la mina è preparata, le comunicazioni stabilite, audaci i capi, sicuri i loro seguaci. La rivoluzione è nei cuori di tutte le classi còlte: il Napolitano andrà in fiamma. Il Muratismo non esiste se non nella testa di Napoleone e de' suoi fidi di Piemonte. L’ esercito sarà con noi, la plebe con chi vince. — Si rifece tutto da capo, Lemmi fornendo tutte in una volta 22 mila lire. Si prepararono i telegrammi e le lettere di commercio convenzionali: Pisacane mi consegnò il suo testamento politico, una stupenda lettera di Carlo Cattaneo a lui (55), e altri scritti che voleva stampati all’estero, in tutti i casi o di vittoria o di morte. Non voleva crescere il numero de' suoi compagni, già sufficiente a liberare i prigionieri dell'isola di Ponza che egli credeva tutti condannati politici. Fu ridiscussa tra lui ed Alberto Mario, che avrebbe voluto accompagnarlo, la questione di Genova; ma egli contava sull’entusiasmo che la notizia della prima vittoria avrebbe suscitato nel popolo, contava su Garibaldi e Medici capitani. — Voi — gli diceva Carlo — avete molta influenza su l'emigrazione, ci raggiungerete coi migliori. — E, dato un sereno addio alla sua Silvia adorata e alla madre di essa fieramente rassegnata, ma divinatrice, come lo è sempre l’amore, egli sali sul Cagliari, ove Nicotera, Falcone e altri dieci erano già imbarcati passeggieri per la Sardegna o per Tunisi. Qui cominciarono le ambasce: gli ufficiali della sanità potevano insospettirsi! No! essi se ne andarono, non sognarono che quei supposti lavoranti erano eroi devoti alla morte per la libertà. Li veggo tutti ancora come li vidi a bordo del Cagliari, sorridenti, risoluti, raccomandando a noi i loro cari. — I vostri operai liberi, Scia Jessie — mi «avea detto Poggi — vedranno che siamo degni della loro stima. — Molti non dovea più vedere mai, altri, come Carlo Bonomi e Carlo Rotta prigionieri, poi feriti o come Sant’Andrea morti sul campo di Milazzo.
«Dall’alto del Carignano si vegliava, finché si vide il fumo del vapore confondersi colla nebbia dell’orizzonte. — Per Mazzini erano cominciati i momenti terribili — l’aspettare, — mentre per loro il pericolo era avviato. — Accettava l'offertagli casa modesta di Mario, a pena sarebbe certo che le barche nuovamente cariche avessero raggiunto il vapore in alto mare. Queste erano condotte da Rosalino Pilo, che Carlo stesso avea prescelto per la difficile impresa. Le letterine di quei giorni, che conservo, rispecchiano l’indicibile ambascia di Mazzini. — (Sera del 26). «Fin ora nulla di certo: tutto è mistero; ma temo, orribile a dirsi, che non si siano incontrati! Se il Vapore è nostro, a Carlo mancherebbero 19 uomini, e tutti i fucili e le munizioni. — Si troveranno costretti a prendere l’isola coi soli revolvere e le daghe.
«Egli non può retrocedere. Impadronirsi cosi per forza del vapore è delitto di pirateria. — C’è da impazzire pensandoci, e ogni minuto che passa perdo l'ultima speranza. Se le barche e il vapore si fossero incontrate jeri notte, le barche e i pochi uomini dell'equipaggio sarebbero ritornati in pieno giorno. Il non essere, giunti dimostra che le barche, cariche come erano di uomini e di fucili, non osano venire se non di notte.... Che che sia avvenuto, domenica mattina il governo saprà se il vapore manca. Fin ora nulla sa, nulla sospetta.... P. S. Più tardi. No! i vapori e le barche non si sono incontrati!»
«Di fatto Rosalino Pilo, affranto, delirante per dolore, riavuto da uno degli attacchi tremendi che spesso gli minacciavano la vita, narrava che, malgrado i fuochi ed i convenuti segnali e l’avere veleggiato per tempo intorno al luogo designato per incontrare il vapore non fu veduto. Rimaneva il timore, o più tosto la speranza, che per ragioni ignote Pisacane non si fosse impossessato del vapore; ma prima, che il governo lo sapessero, un avviso venne a Mazzini che a Cagliari il vapore non era giunto. — Dunque Pisacane era già fuori delle acque sarde! — Devesi allora attendere notizie dello sbarco o iniziare il movimento in Genova? Questa fu la questione. Chi pro, chi contro. Si temeva che il segreto trapelasse, che il governo insospettito del vapore mancante potesse fare perquisizioni, scoprire i depositi, rendere possibile la sorpresa. Di più i capipopolo riferirono che gli arrolati, e ce n’era mille, difficilmente potevano radunarsi se non nelle feste: qui ce n’erano due di seguito, la domenica e il San Pietro: e più di tutto io credo pesasse l’insistenza di Pilo, che dipingeva a tetri colori lo stato di Pisacane senz’armi e con si pochi uomini Mazzini era di già nella casa di Mario da dove mi scriveva il sabato. — Vado calmandomi a poco a poco. Il governo prenderà tempo per agire. Il non giungere del vapore a Cagliari non sarà tenuto cosa grave per un giorno: sono cosi irregolari! Poi telegraferà a Genova: Genova risponderà: poi faranno lo stesso a Torino: quindi, ordineranno un’inchiesta. — Here's a heart for any fate.»
«L’indomani ancora nessuna nuova. Si che non erano presi: altrimenti il governo napolitano avrebbe avvertito il governo amico del Piemonte. Il movimento in Genova era fissato per la sera 28-29. Alberto Mario correggeva le bozze del proclama di Mazzini ai Genovesi, e mi mostrò otto o nove lettere, che egli stesso doveva recapitare l'indomani in caso di riuscita ad alcuni cittadini odiati dal popolo perché si sottraessero alla possibile vendetta. Tutto era fissato. Il conte Pasi doveva impadronirsi del palazzo ducale; Antonio Mosto della darsena; Mario, dello Spirito Santo, ove era il corpo d’artiglieria; altri del forte Diamante, altri del forte Sperone: questo unicamente per impedire le autorità e il presidio di agire, fin tanto che armi e munizioni e la batteria da campagna, che trovavasi a Spirito Santo, potesse essere tutta imbarcata sul Carlo Alberto, ancorato nel porto, ove coi marinai si ebbe intelligenza: partire poi per le spiagge napolitane.
«Non si dubitava più dell'esito. La città era in festa: tutti i capi sicuri che i loro uomini avrebbero risposto all’appello, che il governo non aveva sentore di nulla fino alle otto: ci si sentiva certi già di correre in ajuto dell'eroico drappello. — Ma un’ora prima di mezzanotte il governo ebbe avviso, ossia il generale Durando l’ebbe da un suo amico, uno dei capi fra i cospiratori, il quale allo stesso tempo avverti Mazzini che il governo era all’erta, che la sorpresa sarebbe stata impossibile. Mazzini dié sull’istante il contrordine, non volendo conflitto tra cittadini e militari; e tutto sarebbe stato rimesso a tempo migliore, se Pisacane fosse riuscito, o come non avvenuto in caso contrario. Ma sventuratamente il contr’ordine non giunse in tempo a quelli del lontano forte del Diamante; i quali, amicatasi la guarnigione giuocando da varie settimane alle palle e suonando l’organetto, quella notte entravano nel forte invitati a festa già concertata, e di repente impadronitisi della guarnigione occuparono il forte e approntarono le artiglierie. Cadde il sargente Pastrone ucciso da un giovinetto, uno dei cospiratori, che tirò per paura e senza necessità.
«Riuscendo la sorpresa, tutte le posizioni avrebbero potuto esser prese senza spargimento di sangue. Nella notte le case, fin allora non sospette, si riempivano di persone che si supponevano già denunziate: l’Elena Casati, instancabile nel lavoro con Quadrio il quale la predilegeva come figlia, nella sua solita munificenza, si sarebbe profusa in soccorsi per mandarli tutti in salvo, ma si decise di aspettare fin tanto che si conoscesse la sorte di Pisacane e null’altro fosse possibile fare.
«Mazzini scrisse: «A che avete pensato quando al tocco la città rimase silenziosa? Non vi dissi che entre la coupé et les lévres? Se ci sono degli esuli poveri minacciati, fateli partire; ma non badate alle paure fantastiche: mi occorrono pur sempre mezzi qui. — Se avete notizie certe e importanti, speditele.... Mi è stata data una speranza poco fa. Conservate il proclama e tutto, ma accuratamente nascosto. É interrotto quasi ogni contatto. Domani potrò forse veder più chiaro nella nebbia.»
«Di fatti l'indomani giunse, con dispaccio convenzionale, dal Napolitano la notizia che Pisacane era sbarcato felicemente a Ponza. E non avea egli detto partendo: — Basta che io possa uscire dalle acque Sarde e non sia preso dai bastimenti napolitani, del resto rispondo io? — Nulla dunque sembrava perduto. Il governo non aveva scoperto gran che nelle sue perquisizioni: nessuno dei capi, arrestato. Il marchese Ernesto Pareto e la sua signora, inglese, non credendo sicura la casa di Mario vollero Mazzini ospite loro.
«Ma pur troppo le dure, atroci verità non tardarono. Pisacane e Falcone barbaramente trucidati: lo stesso si diceva di Nicotera e di tutti gli altri. Dio senza misericordia, uomini senza viscere! i morti erano da invidiare, i vivi da maledire. Le calunnie oscene della stampa moderata vincevano le clericali: il cinismo degli uomini che si chiamavano liberali passava ogni limite. Il Bianchi Giovini, non potendo chiamare codardo Pisacane, lo disse campione di Murat: Ausonio Franchi malediceva il tentativo di Genova chiamandolo trama ordita contro la libertà, affermando che dove non è tirannide le sommosse sono attentati contro la libertà, base di guerra civile. E il procuratore del Re non tardava a inventare di pianta scritti come il seguente e spacciarli per proclami di Mazzini: Coraggio! Le prime case e famiglie che dovete saccheggiare nella strada Re sarà la famiglia Teregallo, essendo i più ricchi proprietari, spie e crudeli nemici della libertà. Saccheggio e fuoco. Coraggio.»
Al solito le più atroci calunnie erano serbate per Mazzini. Le autorità furibonde per non poterlo agguantare lo dissero fuggito. Invece, egli, rimasto tutta la notte del 29-30 giugno in piazza, non volle allontanarsi dallo stato se non quando tutti i capi più compromessi furono in salvo, e finché rimase un barlume di speranza che i napoletani riavuti dal disordine gettato nelle fila ai primi arresti volessero insorgere. Ma per mancato telegramma i promotori non poterono raggiungere Pisacane: lui trucidato, chi era preso, chi fuggiva, chi restava paventando l’arresto. A Livorno Quadrio e Civinini, che Lemmi salvò dagli sbirri del gran duca, ebbero il coraggio di venire a Genova, e, nascosti, continuare il giornale L'Italia del Popolo; essendo stato carcerato il direttore F. B. Savi e condannato poi a dieci anni di galera, benché fosse provato che egli non aveva partecipato alla cospirazione. Mazzini, con grande affanno degli amici, persisteva nel rimanere. Perquisita la casa del marchese Pareto suo ospite, egli apriva la porta agli agenti della forza, accendeva il sigaro a quello di uno degli sbirri; poi a braccio di una popolana usci da Genova, e si poneva ancora a Quarto. Il suo sangue freddo e la fedeltà dei popolani gli furono unico scudo. Egli non fuggiva mai né lasciava un posto ove credesse utile la sua presenza, se non quando a lui pareva e piaceva: tra le fila dei suoi non c’era ancora il Giuda che doveva finalmente venderlo. Il sei agosto l’avvocato Garcassi, splendido. ingegno e forte cuore di patriota, ài quale i processati politici e la stampa democratica tanto devono quanto dimenticano, scrisse a me in prigione: Finalmente oggi Pippo è fuori dello stato.
Fucilati, dopo il sanguinoso fatto di Padula, dal generale Ghio, trentacinque prigionieri, trucidati e orrendamente mutilati Pisacane e Falcone con altre centinaja; Nicotera, ferito quasi a morte, fu coi superstiti trascinato a Salerno, ove, mirabilmente fiero e audace, sostenne la santità della causa per la quale i suoi eroici compagni caddero, e al procuratore del re che osò insultarli scagliò un calamajo sul volto; sostenne impavido con i compagni di martirio la prigione nei sotterranei di Favignana. (56)
Le prigioni di Genova riboccavano. Il fisco sardo nel perseguitare ed infamare vinceva il suo collega di Napoli. L’istruttoria durò otto mesi. I giudici interroganti sembrarono tanti agenti del re Borbone: invece di limitare i quesiti ai fatti di Genova, cercavano carpire i segreti della spedizione di Pisacane; e durante il processo imputati e difensori dovettero ricordare al pubblico ministero che egli era al servizio del re di Piemonte e non del Bomba (57). Ma le ridicolaggini e le male arti degli uomini ligi al potere (58) e il tentativo del pubblico accusatore di infamare i patrioti furono messi in luce e vendicati dalla eloquenza e dalla fierezza dei difensori (59): i quali miravano a salvare ciascuno i suoi clienti speciali, ma poi uniti a una difesa generale vollero restituire la. verità dei fatti ed illuminare l'opinione pubblica intorno ai motivi puri e nobili dei cospiratori. La difesa di Mazzini fatta dal Carcassi e la sua protesta contro la feroce requisitoria del pubblico accusatore Galliani (60), sono cosa unica per dialettica eloquenza, per nobiltà del sentire, per l'audacia nel dire (61). Gli accusati poi, popolani i più, si mostrarono pensosi più di salvare l’onore della bandiera e constatare le prepotenze dei processanti che non di ottenere l’assolutoria. L’arguzia di alcuni fu nuova prova di quell'intelligenza che distingue il popolo italiano di sopra ogni popolo. Nondimeno la Corte d’Appello condannò Giovanni Battista Capurro alla pena della reclusione per anni sette, all’interdizione dai pubblici uffici ed alla sorveglianza speciale della polizia per altri sette anni (62) — Luigi Stallo, Giacomo Profumo, Luigi Roggero, Michele Tassara, Francesco Demartini, Giuseppe Develasco, Bartolommeo Francesco Savi, Domenico Castello, Stefano Castello e Gio. Batt. Pedemonte alla pena dei lavori forzati per anni dieci — Bernardo Oliva, Enrico Taschini, Luigi Stallaggi, Giuseppe Canale, Gio. Batt. Armellini, Tommaso Battifora e Agostino Castello, alla pena dei lavori forzati per anni dodici — Agostino Marchese alla pena dei lavori forzati per anni tredici. — Teobaldo Ricchiardi, Andrea Sanguinetti, Ferdinando Deoberti, Francesco Canepa, Gerolamo Figari, Antonio Pittaluga, Tommaso Rebisso, Carlo Banchero e Francesco Moro alla pena dei lavori forzati per anni venti — e tutti alla interdizione dai pubblici uffici ed alla sorveglianza speciale della polizia per anni dieci; — Giuseppe Mazzini, Angelo Mangini, Antonio Mosto, Gio. Batt. Casareto, Michele Lastrico e Ignazio Pittaluga, ALLA, PENA DELLA MORTE ed alla perdita dei diritti specificati nell’art. 44 del Codice civile.
Questo fu l’ultimo atto del dramma degli insuccessi che da trent'anni durando preparava il terreno per il trionfo finale a Marsala e a Palermo, a Napoli e sul Volturno; e il trionfo diede al re che firmò quelle sentenze un nuovo regno e dieci milioni di sudditi. Ma né egli né essi si ricordarono del Grande, il quale prevedeva, preparava e durava solo a volere quella consumazione.
Vittor Hugo scrisse «John Brown è più grande di Washington, e Pisa cane più grande di Garibaldi». Ben detto; ma sovra ambedue grandeggia Mazzini genio solitario dell’italico risorgimento.
«Io non sono se non una voce che grida Azione.»
«MAZZINI, La Situazione.»
«Al centro, al centro mirando al sud.»
«MAZZINI, dopo la pace di Villafranca.»
La vita di Mazzini da quando malato e affranto, giunse a Londra nel dicembre ’57 fino allo scoppio dell’insurrezione al Convento della Gancia nell’aprile ’60, fu spesa giorno a giorno cospirando e lavorando per ridurre e costringere la popolazione del centro e sud all’idea dell’unità. Gli scritti suoi di quegli anni, sparsi nell'Italia del Popolo nel Pensiero ed Azione (oggi radunati nei volumi IX, X e XI), versano tutti sul dovere di agire, dovere divenuto per lui tanto più urgente, quanto egli più chiaramente vedeva ove Cavour, per incapacità di abbracciare l’idea unitaria, e per odio della rivoluzione trascinava il Piemonte e l’emigrazione lombarda. Luigi Napoleone, nel concetto di Mazzini, raccoglieva in sé tutte le parti che costituiscono un mortale abbietto; ed egli, che mirava non pure all'indipendenza e all'unità materiale della patria; ma più assai alla dignità e grandezza morale nell'avvenire, raccapricciava all'idea sola di vedere alle mani di quel malefico la ristaurazione nazionale. La posizione, a quei giorni, del Buonaparte in Europa non lo segnava alleato desiderabile; anzi l’alleanza in Inghilterra divenne sempre più impopolare, quando l'imperatore, designando la patria britannica per un covo di assassini, domandò l’estradizione di Mazzini, di Ledru Rollin, di Kossuth, e la consegna di Simon Bernard, supposto complice di Orsini (63).
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Comizi di sdegno (indignation meeting’s) in Inghilterra e in Iscozia, presieduti dagli uomini più influenti, costrinsero il Parlamento a rovesciare lord Palmerston, per avere presentato una legge contro le cospirazioni. Il Bernard fu assolto dal giuri inglese; e centomila volontari si armarono alla difesa delle coste contro gli spavaldi colonnelli francesi che le minacciavano a parole. Il Belgio e la Svizzera, richiesti di fare leggi speciali in difesa di colui «che s’era messo al disopra e al di fuori della legge,» resistettero almeno con dignità. Il contegno di Parigi durante l’esecuzione di Orsini, nonostante le numerose vittime dell’attentato, parve un’apoteosi del regicidio. «Qual passo — si diceva — ha fatto la decadenza del secondo impero, dall’attentato di Pianori a quello di Orsini.» All’occhio chiaroveggente di Mazzini l’impero era per cadere, se non riuscisse a stordire i francesi con nuovi sogni di gloria; e all’infuori di una guerra col Piemonte contro l’Austria, possibilità di guerra in Europa non ci era. La lettera a Luigi Napoleone, dettata da Mazzini nell’aprile del 1858, rimarrà sempre mirabile come storia del secondo impero fin allora, come vaticinio della ruina futura. Stampata in tutti i giornali, fece un’impressione profonda negli animi inglesi, creando loro un rimorso dell’avere, coll'alleanza britannica, reso possibile la maggior durata dell'impero. Fu, contro tutte le precauzioni, sparsa a migliaja nella Francia: fu tradotta da Saffi per l'Italia del Popolo, non ultima causa della morte di quel giornale.
Solo in Europa il conte di Cavour si prostrava ai piedi di Napoleone, ottenendo per lui dal Parlamento nuove leggi contro la stampa (64) e contro le associazioni, infierendo di nuovo contro l’emigrazione liberale. Gli Italiani sentivano una molto mediocre simpatia per Napoleone scampato al pericolo, e una simpatia invece vivissima per Orsini: onde fu necessario a Cavour di inventare un complotto ordito da emigrati in Genova per assassinare Vittorio Emanuele e lui. Magnifica la lettera di Mazzini a Cavour, dove, pur non discendendo alle sentimentalità di Manin o di d’Azeglio e non ammettendo meno delitto nell'ammazzare un popolo col cannone che un tiranno con un pugnale o con una bomba, esce a dire:
«Stolto e calunniatore foste di certo ad un tempo, quando, a carpire un voto di concessione obbrobriosa, dichiaraste alla facile Camera che si minacciava con voi la vita di Vittorio Emanuele. Se la vita di Vittorio Emanuele fosse minacciata davvero, non la proteggerebbero le vostre leggi. Ad uomini della tempra di Pianori, di Milano, di Orsini, poco importa di giudizi o giudici: uccidono o muojono. Ma la vita di Vittorio Emanuele è protetta prima dallo Statuto, poi dalla nessuna utilità del reato. Anche mutilata e tradita spesso da voi, la libertà del Piemonte è tutela che basta ai giorni del re. Dove la verità può farsi via nella parola, dove anche a patto di sacrifizi l’esercizio dei propri doveri è possibile, il regicidio è delitto ed insania. Ci credete scellerati ed insani? A che mai gioverebbe, ed a chi, la morte di Vittorio Emanuele? Egli regna, ma non governa. L’indole indifferente, non tirannica, può procacciargli biasimo forse da chi ricorda quali solenni doveri ei potrebbe e non cura compiere; non odio mai. Io lo credo — malgrado i difetti della sua natura — migliore dei suoi ministri. Per chi lo uccidesse, avremmo noi tutti il ribrezzo che s’ha per l’assassino.» (65).
Mentre egli scriveva quelle linee, l’imperatore, contento delle concessioni fatte alle sue minacce (66), chiamò a sé Cavour; e il patto fatale di Plombières fu accordato tra loro. Diciamo fatale, perché le cose erano giunte in Italia a tale, che non poteva passare molto tempo senza che una spontaneità d’insurrezione in tutte le provincie desse al Piemonte il diritto e il dovere di assalire l’Austria o di lasciarsi assalire, certo di vincere colle forze alleate della rivoluzione e dell’esercito. Tutta l’Europa era contraria all’Austria. Il figlio dello czar «ucciso per l’ingratitudine sua», per voglia di vendetta: la Prussia, per gelosia del primato e dell’unità germanica: l’Inghilterra, per memoria della Crimea e per desiderio di vedere pacificata la penisola, tolto il potere temporale del papa, fortificato il Piemonte costituzionale. L’Italia non avrebbe trovato un solo nemico alla sua unità, compiuta per mezzo del Piemonte solo; trovava tutta l’Europa ostile all’alleanza con Bonaparte, a ragione sospettato di ambizioni dinastiche. Ma il grand’uomo di Stato piemontese nulla intendeva fuori delle tradizioni di Casa Savoja, scendere, in virtù di baratti e di conquiste, dalle Alpi per il Po all’Adriatico: accettava dunque con serena conscienza i patti adombrati a Plombières (67).
E Cavour ritornando in Italia era padrone della situazione. Egli s’irritava bensì della «irreprensibile vitalità dei Mazziniani.» E il conte Buoi a Loftus ambasciatore dell’Inghilterra diceva: Credete voi, milord, davvero che la pace o la guerra sieno nelle mani dei governi? Esse sono strette in pugno dai mazziniani. Ma Mazzini non s’illudeva: — quando uomini quali Garibaldi, Medici, Bixio, Cosenz e Foresti, facevano propaganda aperta e cospiravano col Piemonte, egli si faceva certo ogni dì più che la barca della nazione veleggiava per il porto monarchico. Ben è vero che teneva alto nel Pensiero ed Azione l'idea repubblicana, come un faro acceso in caso di naufragio, e cercava «ritemprare la moralità guasta e sviata dalla stampa monarchica;» ma avvertiva «Noi avversiamo la monarchia, non perché repubblicani, ma perché unitarii;» e al fine del primo articolo la Nostra Bandiera, scoppiava il lamento: Noi scriviamo perché ora non c’è dato di fare.
Nei primi otto mesi di quell’anno avemmo la ventura di vivere nell’intimità di Mazzini: veniva egli spesso la mattina a distorre Alberto Mario «dagli inutili suoi studii letterari» e a costringerlo a combattere con la penna nell’Italia del Popolo finché potesse cambiare la penna nel fucile. «Mi fo frate piuttosto che combattere per il vostro re (68) — rispondeva Alberto — bisogna andare in Sicilia per rovesciargli l’Italia addosso: né mi stamperebbero in Genova quanto ho in cuore di scrivergli contro. — Scrivete nondimeno, e quando colui che chiamate il mio re sguainerà la spada, sarete il primo a seguirlo.» E fu profeta! E fu pensando agli anni dal ’57 al ’61 che Alberto, parlando di Mazzini dopo morto e accennando le differenze politiche insorte tra loro, scrisse: «Aver io lavorato con G. Mazzini negli anni tetri della preparazione; esser vissuto lungo tempo nella sua intimità; averlo conosciuto non solo nelle giornate solenni quando l’uomo diventa tutto ciò che può essere, ma nelle ore della spontaneità e dell'abbandono confidente dell'essere senza il parere, nelle ore in cui il personaggio non è che un uomo, in cui l’eroe della storia non sembra che un tuo pari, il quale ti narra l’aneddoto, ti canterella una canzone sulla chitarra, giuoca una partita alle carte, si turba se perde a scacchi, ride come uno di noi a un motto arguto, ti dice una freddura, ti fa la caricatura ama«bile degli amici più diletti, ti parla svolazzando di lettere, di filosofia, della religione futura, e pur spandendo luce multicolore cambia tema e stile con agile fantasia se una pleiade di gentildonne gli forma improvvisa ghirlanda: tutto questo conferirà, spero, qualche valore alla mia parola....» E ogni sera ci radunavamo in casa dei Stansfeld, ove Saffi, colla bellissima Giorgina, novella sposa, era ospite prediletto. E Campanella e Quadrio e la Sarina Nathan e molti esuli polacchi e russi e francesi e tedeschi venivano di tempo in tempo. E bastava, in quelle sere, quando tutti si era «in famiglia,» che qualcheduno lasciasse scappare una frase dubitativa sulla futura unità dell'Italia o sulla fede nell'immortalità, per fare che Mazzini, per quanto sembrasse mesto o assorto in pensieri, uscisse a parlare sì sublimi cose su le nazionalità, sul certissimo avvenire dei popoli uniti nella fede del progresso, forti dei diritti conquistati, dei doveri, da tenerci tutti, e per ore, rapiti e risoluti di vivere per attuare il suo ideale. Talvolta irrompeva sdegnato contro «l'egoismo e l’ipocrisia dell’Inghilterra libera e religiosa a parole», e trovava i risentiti che gli rinfacciavano l’apatia degli Italiani; ed egli soffrendo, li difendeva. Quello che più lo distingueva da tutti gli esuli, da tutti gli altri uomini, era l’assoluta sua indifferenza ad ogni cosa sua personale. Non volle mai che per difenderlo dalle calunnie quotidiane del Times ispirato da Gallenga, si occupasse il pubblico della sua persona: «Scrivete, parlate contro il dominio austriaco, contro gli infami disegni liberticidi di Napoleone; raccogliete denaro per i prigionieri, per le armi, per la nostra stampa segreta. Non occupatevi delle persone.» Nemmeno della sua fama presso i posteri si occupava mai. E spesso a un mio quesito in parole rispondeva con letterine o lunghe lettere, che sono trattati di filosofia, di religione e sopra tutto di moralità. — Credete, come Carlyle che l’uomo è immortale quaggiù finché il suo lavoro è compiuto? gli domandai. «Non importa saperlo rispondeva. — Il lavoro è immortale: quando un uomo muore, se il suo lavoro vale, un altro prende il suo posto, lo continua, lo porta al trionfo. Fissato l'occhio sul da farsi, fate; non occupatevi del quanto e del quando voi potrete mostrare il risultato.» Un’altra volta, intorno alle missioni speciali: «Spesso, quasi sempre, gli uomini si creano delle missioni imaginarie, secondo le proprie inclinazioni ed egoismi. La mia, secondo queste, sarebbe di vivere in un (nook) nido e scrivere la storia dell’Italia, la religione dell’avvenire and other things vet afloat (e altre cose che mi volano per la testa); ma sono condannato a fare o tentar di fare le rivoluzioni. La vostra è di non fare l’egoismo a due ma di continuare la propaganda nelle provincie inglesi, poi di andare in America, come avete promesso prima di sposarvi.» —E bisognava andare: e Alberto, come Saffi, doverono tralasciare il caro leggere e lo scrivere secondo l’indole loro, e dedicarsi alla propaganda a viva voce ubbidienti al manifesto dovere. Gli avversari chiamavano Mazzini dittatore, noi idolatri; ma era il genio e la virtù che costringevano quanti non erano privi di conscienza alla volontaria e spesso entusiastica ubbidienza.
Intanto la febbre d’azione lo divorava. Egli seppe subito quanto si poteva sapere dei patti di Plombières. Non ne scrisse subito in patria, certo che avrebbe aggiunto olio al fuoco; sperava e lavorava per una iniziativa rivoluzionaria in Italia, in Ungheria, in Polonia. Si acconciava a vedere quell’iniziativa cadere in mano della monarchia piemontese, certo che qualunque movimento diverrebbe unitario; e sperava ancora che i disegni bonapartisti andrebbero sparsi al vento. E per promuovere l’azione, e per essere pronto a secondarla, egli stringevasi con quanti emigrati allora eransi rifugiati in Inghilterra. La morte di Worcell'(1857), il polacco idealista da lui amato e venerato, aveva reso più affettuosi i suoi rapporti con Alessandro Herzen, tipo ideale anche lui di quella giovane Russia, che per lui e per i suoi simili vivrà, nell’avvenire, rigeneratrice dell'Asia e perdonata dalle popolazioni ora tormentate e schiacciate dal czarismo in Europa. Worcell morente, quando non potè più parlare, tracciò con lapis le seguenti parole immortali: Soldat fidèle, fai achevé ma faction; qu'un autre me relève! Herzen alla tomba, singhiozzando come un fanciullo accanto a Mazzini, che non potè articolare una parola, esclamò La Polonia ci dà l'amnistia, e nella Stella Polare scrisse tali verità intorno a Worcell e a Mazzini e intorno alla Polonia, da meritare quell’amnistia. In Mazzini, Herzen concentrava l’affetto appassionato che questi sapeva inspirare e come Worcell meritava. E Kossuth e Ledru Rollin e Herzen scrivevano nel Pensiero ed Azione parole di fuoco per movere i loro compatrioti a riunirsi contro i comuni oppressori.
E Saffi continuava la sua propaganda, efficacissima, anche per la forma, tra gli inglesi; e Alberto Mario traversò l’Atlantico per concertare con Avezzana, Magni, Ancorani, Biseo e gli altri esuli l’ordinamento del partito d’azione in America e per raccogliere fondi. E Maurizio Quadrio, partendo da Genova con un passaporto di commesso di una casa commerciale, giunse a Messina, ove, come nelle altre città dell’isola, stavano ordinando la guerra per bande, ad avvertire che una spedizione verrebbe mandata, capitanata da La Masa. Ma gli arresti e gli sfratti dopo fallita la spedizione di Sapri troppo avevano disorganizzato i patrioti, sì che potessero allora agire di concerto e con speranza di riuscita; nondimeno Quadrio diede forte impulso alla cospirazione, capitanata dal «padre dei patrioti del mezzodì d’Italia» Emanuele Pancaldo, che Crispi poi e Rosalino Pilo sempre, secondato da Fabrizi in Malta, da Mazzini a Londra, coi mezzi forniti continuamente da Lemmi, aumentavano a valanga. Il partito d’azione in Napoli e nelle provincie, umiliato ed esasperato dall’eccidio di Pisacane, lavorava coll’intensità del rimorso. Anche nella Toscana e nell’Italia centrale Mazzini non dava pace a quanti si chiamavano patrioti, avvertendoli dei pericoli che soprastavano dai disegni bonapartisti per impiantare luogotenenze francesi. La guerra sembrandogli pur troppo certa per l’anno successivo, egli nell'ottobre 1858 avvertì che il primo danno dell'alleanza era la sanzione data dal Piemonte alla prolungata occupazione di Roma e che «l’occupazione di Roma non è che la prima stazione francese sulla via che conduce a Napoli.» E sapendo quanto fosse intenso l'odio dei lombardi e veneti contro l’Austria (prova la nessuna influenza acquistata da Massimiliano, che pure tanto s’industriava a placarlo) si struggeva a persuadere gli italiani che la monarchia, voluta a capo della nazione, non poteva prendere l’iniziativa; che essi invece, quell’iniziativa prendendo, impedivano anche l’apparente necessità della fatale alleanza. Dimostrava che né la politica tradizionale della Francia né gli interessi del Bonaparte consentono che una potenza forte ed estesa tenga le chiavi dell’Alpi senza pegno dell'equilibrio e compenso. Dunque, se a condurre la monarchia salvatrice sull'arena delle battaglie è indispensabile l'insurrezione di «popolo, a che giova discutere e dividerci sulla questione? Lavoriamo tutti a preparare e promuovere la rivoluzione, poi scenderà il monarca invocato a compirla. E scenderà senza fallo, chiamato o no, fatale o liberatore. Nessun re di Piemonte può reggersi in trono tre giorni davanti alle rinnovate cinque giornate, s’ei non accorre a combattere.» Ci vorrebbero due grossi volumi a pubblicare tutte le lettere indirizzate a patrioti in ogni angolo d’Italia per convincerli di queste verità, così evidenti, così palpitanti; ma per tutta risposta la società detta «Nazionale» proponeva la dittatura regia. Stupenda la risposta di Mazzini a questa sfida: narrò nel dicembre 1858 quanto doveva accadere nel ’59.
«Quali sarebbero per l’Italia le conseguenze d'una guerra impresa con disegno simile e sotto auspicii siffatti? La lega e la vittoria dei due Czar trascinerebbero con sé il riparto fra i due, per conquistata influenza, di quasi tutta. l'Europa, e l’abolizione d’ogni libertà, d'ogni indipendenza dei piccoli Stati. Alla questione di libertà verrebbe sostituita, allettamento, ai popoli e agli umori di razza, la questione di territorio. Rinascerebbe, per mezzo secolo, il medio evo. Solamente, invece del papa e dell'imperatore, starebbero al sommo dall’edificio lo Czar del nord e dell’est e lo Czar dell’ovest e del sud dell’Europa. Ma quanto all’Italia — dacché il retrocedere dell’intera Europa al medio evo è impossibile — le conseguenze d’una guerra combattuta sulle nostre terre e capitanata dal Bonaparte sarebbero: rimpianto della dina«stia di Murat nel sud della penisola, compenso naturale ai pericoli e ai sacrifici della guerra e disegno vagheggiato in tutti questi ultimi anni da Luigi Bonaparte: lo smembramento dell’attuale regno di Na«poli in due: la Sicilia, avversa dichiaratamente al muratismo, avida di sottrarsi, non all'Italia, ma alla dominazione di Napoli, e aiutata dall’Inghilterra che non può concedere alla Francia di stabilirvisi diventerebbe feudo d'una o dell'altra famiglia principesca, inglese o germanica: l’impossibilità d’ogni libero reggimento nelle provincie che muterebbero padrone: ogni libertà concessa dal Bonaparte o da' suoi all'Italia ferirebbe mortalmente l'orgoglio francese; chi è tiranno in casa propria non può dare, senza suicidio, istituzioni libere ad altri: una pace subita, rovinosa, fatale agli insorti a mezzo la guerra, un Campoformio che darebbe alle vendette nemiche le più tra le provincie sommosse: non appena Luigi Napoleone avrebbe conquistato l’intento nel sud, egli, temente in una guerra prolungata dei popoli, accetterebbe la prima proposta dell’Austria; e i desiderii pacifici dell’altre potenze costringerebbero il monarca sardo a desistere concedendogli una zona di terreno qualunque a seconda dei casi, E ABBANDONEREBBE TRADITE LE PROVINCIE VENETE E PARTE DELLE LOMBARDE: e finalmente, prezzo dell’ingrandimento territoriale, l’abolizione della libertà piemontese: la nuova dinastia mal potrebbe impiantarsi, senza libere istituzioni, al sud di fronte ai liberi o semiliberi Stati Sardi, né i pretoriani dell'impero potrebbero, senza pericoli di propaganda o d’esempio, attraversare terre italiane rette a forma costituzionale.» (69).
Quando Napoleone diede il brusco capo d’anno all'ambasciatore d’Austria e Vittorio Emanuele si dichiarò «non insensibile al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi»; Mazzini, leggendo le parole del Bonaparte nel Times, disse, presente Saffi: —Il dado i tratto, siamo spacciati — e senza cedere allo scoraggiamento studiava la nuova situazione per trarne il massimo vantaggio. L’entusiasmo universale che accolse le parole dettate al re da Napoleone, come allora Mazzini scrisse e più tardi Massari ingenuamente confermava, non gli lasciava illusione: quell'entusiasmo divenne delirio quando fu nota la promessa di Cavour a Garibaldi ch’egli capitanerebbe un esercito di volontari per promuovere l’insurrezione. Nulla restava per il momento a Mazzini e ai repubblicani, fuorché protestare contro l’immorale alleanza e che in una guerra capitanata dal solo re avrebbero seguito come semplici soldati colui che innalzasse la bandiera dell’unità (70). — Durò per qualche mese l’altalena; Cavour esaurì ogni sforzo per tirare il Borbone e il Lorenese di Toscana a federarsi colla Sardegna, accontentandosi poi della loro neutralità, la quale offendendo le popolazioni avrebbero offerto adito a Napoleone per rimpianto di una dinastia di famiglia. A giustificare l’apprensione di Mazzini intorno a questo punto, sopravenne il matrimonio tra la principessa Clotilde e il cugino dell’imperatore. La paura di una guerra anglo-prussiana per il sospettato tramutamento della guerra dal Po al Reno fece un momento indietreggiare Napoleone. Ma l’Austria aggredendo diè al Piemonte il sacro diritto di difendersi e al «magnanimo alleato» di venire in soccorso. «L’unità è salva» fu il giubilante grido dell'anima di Mazzini al vedere una dopo l’altra la Toscana, l’Umbria, Modena, Parma e Piacenza, Bologna e le Romagne, insorgere, licenziare i tirannelli, affermare la loro solidarietà coll'Italia sotto un re italiano, al vedere Garibaldi primo passare il Ticino, riconoscere solo Vittorio Emanuele per capo, parlare solo «dell’Italia insorta per purgarsi dalla dominazione straniera, per ripigliare il posto che la provvidenza le assegnò tra le nazioni.»
Mazzini, per passare in Italia, sospese il giornale, dettando però nell'ultimo articolo questo avvertimento:
«Il vero della situazione è questo. — Come, e più assai che nel 1848, il moto italiano tende a libertà e ad unità di nazione. La guerra iniziata dalla monarchia sarda e da Luigi Napoleone ha scopo interamente diverso. Come, e più assai che nel 1848, l'antagonismo che esisteva allora tra le tendenze della nazione e quella dei capi accettati, e che trasse la guerra a rovina, minaccia tremende delusioni all'Italia. L’Italia vuole Unità Nazionale. Luigi Napoleone non può volerla. Ei cerca, OLTRE NIZZA E SAVOIA CONCESSE GIÀ DAL PIEMONTE in premio degli aiuti alla formazione d’un Regno del Nord, opportunità per innalzare un trono nel sud a Murat, un trono nel centro al cugino. Roma e parte dello stato romano devono rimanere al governo temporale del Papa. Sinceramente o no, poco monta, il Ministro che regge in oggi supremo le cose del Piemonte ha dato la sua accettazione al disegno. L’Italia avrebbe cosi quattro stati: due sarebbero governati direttamente dallo straniero: indirettamente, la Francia avrebbe tutta quanta l’Italia; il papa è dipendente francese dal 1819 in poi; il re sardo sarebbe, per obbligo di gratitudine e per inferiorità di forze, vassallo all'Impero. Tali sono i disegni del dispotismo alleato con noi. Gli uni possono negarli, come Luigi Napoleone negava ogni intenzione del colpo di stato, per ciò appunto che' hanno a cuore di compirli; gli altri, per cieca credulità ad ogni parola che vien dai potenti, o per cieco desiderio che fa velo all’intelletto: non però sono men veri; noti a chi scrive, noti ai governi, e traditi in parie dalle parole e più dagli atti di Luigi Napoleone e del conte Cavour. Io dico del conte Cavour, perché inclino a credere Vittorio Emanuele ignaro di ciò che si pattuiva a Plombières ed a Stuttgart. E nondimeno, la guerra è un fatto iniziato, un fatto potente che crea nuovi doveri e modifica essenzialmente la via da tenersi. Tra il concetto di Cavour e la minaccia della coalizione, fra Luigi Napoleone e l’Austria, tristi egualmente, sta l’Italia: l’Italia che amiamo sovra ogni cosa, e il cui avvenire è troppo alto fine perché in esso non si sommergano biasimo, dolore, amarezza di delusioni e coscienza di gravi e meritati pericoli. Il fatto è iniziato: bisognava cercare di mutarne le condizioni prima; è dovere in oggi cercare di migliorarle.
SARA NATHAN |
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Quanto più gravi sono i pericoli della situazione, tanto più gli sforzi di tutti devono concentrarsi a salvare da quei pericoli la patria comune. Se la guerra non si combattesse che tra governi, noi potremmo rimanere spettatori, vegliando il momento in cui, indeboliti i combattenti, l’elemento nazionale potrebbe innoltrarsi sul campo. Ma quell’elemento è sorto. Illuso o no, il paese freme azione e crede poter giovarsi della guerra regioimperiale a raggiungere il fine. Il moto toscano, moto spontaneo di militi e cittadini italiani, l’agitazione universale e il campo dei volontari oltrepassano il cerchio dell’opera dei faccendieri: sono palpiti della nazione. Bisogna seguirla sull’arena: bisogna allargare, italianizzare la guerra. Gli uomini di fede repubblicana sentono quant'altri questo dovere, e sapranno compirlo. L’Italia può, volendo, salvarsi dai pericoli che accennammo e far uscire dalla crisi attuale la propria unità. È necessario che l’Austria cada…
L’insurrezione dovrebbe essere per ogni dove; al nord, per conquistarsi, non ricevere la libertà; al sud per ordinare la riserva dell'esercito nazionale… Napoli e la Sicilia potrebbero assicurar salute alla causa d'Italia, e costituirne la potenza, rappresentata da un Campo Nazionale. Mercé quel Campo e i volontari del nord, l’Italia, sul finir della guerra, sarebbe, qualunque fosse l’intenzione degl'iniziatori, arbitra suprema dei proprii destini… Il grido dell'insurrezione, dovunque ha luogo, dovrebbe essere Unità, Libertà Indipendenza nazionale… L’insurrezione e il grido unanime d’unità non possono che aiutare i disegni dei dittatori se buoni: li freneranno, se tristi, e non italiani davvero. La nazione in armi somministrerà all'Europa, che diffida di Luigi Napoleone e si ricaccerebbe presto o tardi allato dell’Austria, un punto d’appoggio per collocarsi fra la vecchia tirannide e le ambizioni dinastiche dell'Impero. Insorgere; armarsi; combatter l’Austria sulle terre che essa occupa; accettare la direzione militare dell'oggi per questo scopo; mantenersi indipendenti nel resto sino a quando l’Italia emancipata da tutte le tirannidi straniere o domestiche potrà rivelare il proprio concetto, affermare intanto energicamente, in tutti i modi possibili e in ogni circostanza, quella parte del concetto pel quale l’Italia soffre e combatte da un terzo di secolo, l'UNITÀ NAZIONALE; far prova di concordia e disciplina, ma meditando su peri«coli che accennammo e vegliando; è debito questo inviolabile per ogni italiano. Davanti ai fatti iniziati contro un impero fondato sulla negazione assoluta d’ogni nazionalità, davanti a una guerra dalla quale un governo italiano può, volendo, far sorgere la nazione, cessa ogni opposizione sistematica; cessa la cospirazione segreta; non cessa il dovere d’affermare il diritto italiano e la volontà del paese tanto che ogni deviazione riesca difficile; non cessa il dovere della santa cospirazione pubblica che dovrebbe fare di tutta l’Italia da un capo all’altro un programma visibile di Libertà e d'Unità. Compia ciascun di noi la sua «parte sulla linea indicata, e malgrado gli ostacoli più gravi in oggi che non erano nel ls 18 l’Italia sarà.»
Quest'articolo uscì proprio lo stesso giorno (3 maggio) che l'imperatore proclamò al popolo francese la necessità che l'Italia fosse libera dalle Alpi all’Adriatico. La morte di Ferdinando II, non appena liberati Poerio, Settembrini e altri sessanta patrioti, diminuì la probabilità d’un pronunciamento muratiano a Napoli. Ma la manovra dell’imperatore per imporre il principe Napoleone ai toscani impensieriva Mazzini: il quale tanto era certo della corta durata della guerra bonapartcsca, che non disse verbo a quanti tra i firmatari della protesta repubblicana sguizzarono in Italia per arruolarsi nelle fila di Garibaldi. E noi in America avvertì che egli stesso partiva per l'Italia. S’affrettarono gli esuli in America nell'idea «di giungere a tempo per prendere parte a una guerra nazionale».
Alberto Mario, ritornato col primo vapore, sempre coll’occhio fisso sulle due Sicilie, appellava i meridionali a sorgere in nome dell’unità e della libertà d’Italia. Scriveva: «Soldati e cittadini delle Due Sicilie, Dio vi ha serbato la missione sublime di salvare l'Italia: voi ora dovete scegliere fra la gloria e l'infamia.»
La tregua di Villafranca che percuoteva improvvisa il re e l’offendeva, firmata come fu senza che neppure gli se ne desse contezza, (71) che indispettiva Cavour personalmente umiliato, (72) fu l’unico servigio reso da Bonaparte all’Italia. Per quali motivi agisse così — o per sua infida e voltabile natura, o per timore d’una coalizione europea, o perché spaventato dalla prima battaglia a cui si trovò — sono disquisizioni da dilettanti. Un motivo a noi basta: l'insuccesso del cugino in Toscana. I toscani, licenziato il granduca, avevano acclamato Vittorio Emanuele dittatore durante la guerra: il re, senza accettare la dittatura, scriveva il 23 maggio ai soldati toscani:
«Stimandovi degni di combattere al fianco dei valorosi soldati di Francia, vi pongo sotto gli ordini del mio amatissimo genero il principe Napoleone, a cui sono dall’imperatore dei francesi commesse importanti posizioni militari.»
L’amatissimo genero, lo stesso giorno, dalla rada di Livorno a bordo della Reine Hortense, pubblica un manifesto, col quale, senza mai nominare Vittorio Emanuele né come re né come suocero, avvertiva i toscani: — «l'imperatore a chiesta dei vostri rappresentanti (sic) m’invia nei vostri paesi per sostenervi la guerra contro i nostri nemici, gli oppressori d'Italia (73).» Ma Gino Capponi non era mica discendente da quello delle campane per nulla, né il fiero barone né quell’ultimo dei tribuni toscani che fu Beppe Doli! per nulla erano compatrioti di Machiavelli. Il principe trovò ogni cortesia, ma nessuna cordialità tra le popolazioni; mentre nell'esercito, nota la gran malattia che l’afflisse in Crimea, nessun entusiasmo accendevasi per lui duce.
Comunque fosse, coll'onta e il dolore di Villafranca raddoppiavasi l’entusiasmo per la guerra nazionale. Mazzini colla parola d’ordine — AL CENTRO AL CENTRO, MIRANDO AL SUD! — penetrò in Toscana; ove ospitato in casa di quel buon patriota che fu Fabbrini, lavorò per tenere ferma l’Italia centrale a unirsi coll'Italia già libera e continuare il moto nel resto della penisola.
«Noi seguiremo — scrive — sull’arena la monarchia piemontese, e promoveremo con tutti i nostri sforzi il buon esito della guerra, purché tendente in modo esplicito all’unità nazionale italiana; e ripeteremo a Vittorio Emanuele — Fate l’Italia, e la riconoscenza nazionale vi porrà in capo una corona che niuna forza potrà strapparvi.»
Lo stesso appello fu ripetuto da quanti esuli precipitarono in Italia, nuovamente fiduciosi nei suoi destini, da poi che Garibaldi era comparso anch’egli in Modena; ove il generale Fanti rivoluzionario allora anelava l’insurrezione negli Stati del papa (74). Gran senso fece in tutti l’aver Fanti chiamato Agostino Bedani per ordinare le ambulanze nell'Italia centrale. L’accordo tra Favini Garibaldi, Fanti, e a quanto pare, un alto personaggio rallegrava tutti: guastava soltanto la presenza di Cipriani, sgherro còrso di Bonaparte, governatore in Bologna. La condotta dì Rattazzi allora come sempre fu ambigua. Cavour, per quanto esacerbato cospirasse con Farini e Ricasoli a tenere duro per le annessioni, tuttavia, assaggiata la potenza militare di Garibaldi, temeva più che mai una iniziativa popolare; e, sospettando la presenza di Mazzini in Toscana e l'accordo tra lui e Garibaldi, consigliò al ministero rigori e riumiliarsi a Napoleone anziché lasciare l'Italia in balìa a una rivoluzione anche in senso monarchico diretta da essi. Già erasi fatta una grande retata di tutta la emigrazione militante: Saffi rientrato con Mazzini aveva, sdegnoso d’arresto, ripreso la via dell’esilio: Mario aveva scritto sotto la barba di Maurizio Quadrio che viveva a Milano,
«Fratelli repubblicani! conserviamo la nostra fede politica, il diritto di farne pacifico apostolato rispettando la libertà veramente espressa dalla nazione; ma adesso corriamo all’armi francamente e lealmente, DUCE VITTORIO EMANUELE: è il nostro dovere.»
Per questo fu trascinato dalla forza armata, additato quale spia dell’Austria alle popolazioni e rinchiuso nella torre di Bologna, ove venne a fargli compagnia Rosalino Pilo tacciato di spia borbonica, Corrao ed altri patrioti molti. La Masa, Monticelli, De Boni, Dall'Ongaro, Gavazzi, Galletti, Mattioli furono cacciati o partirono per non essere arrestati. «Di me — scriveva Mazzini sempre in Toscana — si cerca coll'ira invereconda con che si cercherebbe di chi cospirasse pei vecchi padroni o per l’Austria.» E pure a Ricasoli, consapevole della sua dimora in Firenze, avea mandato il suo piano di riconquistare Perugia dopo gli strazi degli svizzeri. Esponeva:
«Che tra Perugia e gli Abruzzi non esiste forza capace di resistenza: che le poche truppe pontificie ingrosserebbero le file delle colonne: che otto o diecimila uomini e il nome di Garibaldi, e il moto di Sicilia preparato da lunga mano e che scoppierebbe all'annunzio, sono l'insurrezione del regno: che l’insurrezione del regno costituirebbe il moto italiano in condizioni da potere trattare da potenza a potenza con chicchessia: che il moto d’Italia trascinerebbe Piemonte e re sull’arena: che la Francia non potrebbe opporsi con l'armi, senza provocar guerra europea dalla Prussia, dalla Germania e dall'Inghilterra. Queste cose io le avrei dette a Lei e agli altri uomini che reggono, se, invece di essere trattati siccome nemici e costretti a trafugarci in patria, fossimo trattati come uomini che amano di certo l’Italia e da trenta anni l’educano come possono all’Unità: la proposta può, in ogni modo, essere prematura e tenuta per imprudente, non per colpevole. Ho accennato al Piemonte ed al re: Ella deve credermi quanto io le dico — e se i ministri italiani si curassero di sapere ciò che scriviamo da un anno, lo saprebbero — che noi non parliamo da un anno, di repubblica: che protestammo per dignità, moralità e antiveggenza contro l'alleanza col dispotismo imperiale, ma dichiarammo sempre che accettavamo la monarchia, se essa voleva l'Unità, e avremmo combattuto con essa e per essa. — Sono, fui, sarò, anzitutto, unitario. Chi mi conosce dappresso, sa ch’io posso avere ogni difetto fuorché quello della menzogna. Ho l’anima troppo altera... Ho sentito il bisogno di dire a Lei queste cose, e le dico. Ella non voglia adontarsene, ma vedervi la coscienza di un uomo che ama l’Italia e l'Unità nazionale più assai che sé stesso. (75)»
E da Firenze (20 settembre 1859), scrisse quella splendida lettera al Re che commosse fin Nicomede Bianchi a riconoscerlo e salutarlo patriota puro e intelletto sommo; ove afferma e dimostra che l’Italia vuole costituirsi Nazione Una e Libera e che quell’italiano che la condurrà a quella meta sarà amato adorato, deificato.
«L’unità è voto e palpito di tutta Italia. Una patria, una bandiera nazionale, un solo patto, un seggio fra le nazioni d'Europa, Roma a metropoli: è questo il simbolo d’ogni italiano. Voi parlaste d’indipendenza. L’Italia si scosse e vi diede 50,000 volontari. Ma era la metà del problema. Parlatele di libertà e d'unità: essa ve ne darà 500,000.... Ma Voi non siete più vostro. Fatto, a Villafranca, vassallo della «Francia imperiale, v'è forza chiedere, per le vostre risposte all'Italia, ispirazioni a Parigi. Sire! Sire! in nome dell'onore, in nome dell'orgoglio italiano, rompete l'esoso patto! Non temete che la storia dica di Voi: ei fece traffico del credulo entusiasmo degli italiani per impinguare i propri domini?... I padri nostri assumevano la Dittatura per salvar la Patria dalla minaccia dello straniero. Abbiatela, purché siate Liberatore. Dimenticate per poco il re, per non essere che il primo cittadino, il primo apostolo armato della nazione. Siate grande come l’intento che vi ha posto davanti, sublime come il dovere, audace come la fede Vogliate e ditelo. Avrete tutti, e noi primi, con Voi. Movete innanzi senza guardare a dritta o a manca, in nome dell'eterno diritto, alla santa crociata d’Italia. E vincerete con essa. E allora, Sire, quando dimezzo al plauso d'Europa, all'ebbrezza riconoscente dei vostri, e lieto della lietezza dei milioni, e beato della coscienza d'aver compito un’opera degna di Dio. chiederete alla nazione quale posto ella assegna a chi pose vita e trono perch'essa fosse libera ed una — sia che vogliate trapassare, ad eterna lama tra i posteri col nome di preside a vita della repubblica italiana, sia che il pensiero regio dinastico trovi pur luogo nell’anima vostra Dio e la nazione vi benedicano! — Io, repubblicano, e presto a tornare, a morire in esilio per serbare intatta fino al sepolcro la fede della mia giovinezza, esclamerò nondimeno coi miei fratelli di patria: — preside o re, Dio benedica a Voi, come alla nazione per la quale osaste e vinceste.»
Il re ebbe quella lettera, e ne senti grande impressione. Ogni parola era il vero. Mazzini Credeva fermamente il re migliore dei suoi ministri: credeva che, emancipato da Cavour il quale lo voleva e lo tenne schiavo di Napoleone, sarebbe stato capace di una politica italiana forte e semplice, — lasciar fare la rivoluzione pacificamente ove possibile; — alla insurrezione nelle provincie sommesse soccorso immediato dalle provincie libere; — assemblee poi votanti l’unione dell’Italia sotto il re Vittorio Emanuele. — Il re non aveva che da accettare — ai rimproveri di Napoleone rispondere: «Mi avete consigliato di ascoltare il grido di dolore: eccone le conseguenze. Mi avete detto di pagarvi le spese di guerra: pagheremo. Non avendo potuto ajutarini a fare libera l’Italia dalle Alpi all’Adriatico, lasciate fare a me e agli Italiani.» Molti derisero Mazzini per quella lettera e per avere creduto capace il re di una scintilla d'entusiasmo e di un pensiero italiano. Certo ò che fu Cavour che, per la invincibile ripugnanza all'idea unitaria e alla rivoluzione, per l’odio suo contro Mazzini e più tardi per la gelosia dell’onnipotenza di Garibaldi, sagrificò inutilmente Nizza e Savoja, ingannando l'Inghilterra che l’avrebbe sostenuto nel rifiuto e facendo l’Italia vassalla della Francia a segno che il re nò anche colla sua personale intromissione potè mai liberarsi dall'insolente alleato (76).
Visto impedita dai moderati la rivoluzione in Sicilia (77), perduta la speranza di espanderla al centro, per il divieto a Garibaldi di passare il Rubicone (78); mentre Crispi seguitava a mettere insieme soccorsi a Modena e a Torino (79); Mazzini venne a Lugano, ove con Pilo eravamo anche noi rifugiatila indurre Alberto a pubblicarvi il Pensiero ed Azione da: introdurre clandestino in Lombardia. «State sicuro — diceva Alberto — che, se il conte torna al potere, né il giornale vivrà, né alcun di noi potremo stare nel Cantón Ticino»: e pur troppo fu profeta. Ma a Mazzini premeva avere un organo per la propaganda dell’azione al sud e al centro, per raccogliere danaro, per tener desta la questione di Nizza e Savoja.
Partito Rosalino Pilo per Genova a intendersi con Crispi e Bertani, Mazzini sul fine di dicembre ripartiva per Londra, per incoraggiare gli amici inglesi ad osteggiare i bonapartiani disegni e ad ajutare le provincie del centro nell’annessione al Piemonte, per animare il governo ad accettare e mandare al diavolo Napoleone. Nel gennajo Mazzini scriveva a Garibaldi per mano nostra:
«Non avete risposto all’ultima mia. Ma non monta. Vi scrivo pensando al paese. So quanto accadde tra voi e Torino: le vostre proposte, le promesse, i rifiuti per debolezza. Ma s’altri è debole, non dovete, non potete esserlo voi. Siete vincolato al paese e non ne tradirete la fiducia e l’aspettazione. — Fratello e non capo — ch'è parola non intelligibile per due come noi che lavorano a raggiungere uno scopo come il nostro — volete avermi con voi? Volete aver fiducia in me, nella mia lealtà, nel mio amore al paese, com’io l’ho in voi? Ditemelo. Io sono per ragioni nostre per poche settimane in Londra, ma appena importasse che ci unissimo anche personalmente per fare sarò con vol. Non v’è che uno scopo: l’Italia libera, Roma centro, i francesi fuori. Quanto al re, io sono e rimango repubblicano. Se fossi un giorno chiamato ad una assemblea, proporrò come individuo per lui — se avrà agito — la presidenza a vita della repubblica italiana; ma, ripeto, come individuo e per debito di coscienza. — Sento i tempi, rispetto il paese, non agirò contro lui, non cospiro per repubblica: non do che la parola uniti, spingo all’annessione, a riuscire a far moto in Sicilia od altrove, patteggiando solamente l’accettazione immediata. Se il paese lo elegge a re, sia: a lui di meritarlo separandosi di chi lo tiene vassallo e cacciandosi in braccio alla nazione. Quanto a noi e al modo di raggiungerlo, non no vedo che uno: l’insurrezione di Sicilia e, o contemporaneamente o subito dopo, un moto per liberare Perugia e fino agli Abruzzi. Credo che uniti francamente, lealmente, potremo riescire. Se questo è possibile, ponete in mano mia due linee firmate da voi (contate in me pel segreto) ch’io possa mandare o portare se riesce: un moto in Sicilia essenziale alla salute d'Italia, promettete di appoggiare quel moto nel centro, girandovi a minacciare il regno dall'altro lato? Venendo il caso, o ottenete da chi credete, o provvederete mercé gli elementi nostri e vostri un pronunciamento per passar oltre. Io sarò con voi, o in Sicilia, come vi parrà meglio. So che si ciarla di guerra all’Austria pel Veneto; ma se si facesse, sarebbe coi francesi e a condizione d'abbandonare il resto d’Italia. — Il mezzo ch’io propongo salva i due pericoli. Torneremo dal regno, per terra e per mare a Venezia. Garibaldi, tra noi sono poste nubi, raccolte specialmente da falsi rapporti. Due anime come, le nostre eran fatte per intendersi e amarsi. Ma comunque, il paese è al di sopra di noi due, ed è in «suo nome ch'io v'offro lealmente d’intenderci. Rispondetemi, vi prego.»
Sulla fine di marzo Garibaldi rispondeva, e Mazzini scriveva a noi:
«Garibaldi mi ha scritto: dice che il Io aprile egli partirà per Genova poi per Nizza, che intende agire e impedire la cessione di Nizza, ecc. Ma egli non sapeva che la cessione era già un fatto compiuto. Non sa nemmeno della sua elezione. Per parentesi, io sono tornato Fratello! Ma cosa ora può fare è una questione difficile. L’ occasione per passare la frontiera è perduta. Ma avremo la Sicilia in piede.... Io vado in Italia; ma sono dolente trovarmi come intruso (a self intrudine man), chiuso come in prigione, mal interpretato e sospettato di lavorare per l’ambizione dalla maggioranza dai miei compatrioti; mentre Dio sa che ogni cosa che fo è un vero sforzo, moralmente e fisicamente esausto e stanco come sono. Insistete con tutti per le petizioni contro la cessione di Nizza e Savoja. c’è tempo prima che la ratificazione abbia luogo. Non si riescirà; ma quell’atto che tradisce l’unità rimarrà atto di Cavour, del governo. Non può essere detto che gli italiani cedano una provincia per avere libere le loro.»
La prigionia di Nicotera e di Petroni lo tormentava: quando riuscimmo a mettere insieme una somma per il primo, raccomandava non dimenticare il secondo. «Il pensiero di loro mi tortura: la loro liberazione è il mio sogno.» Egli continuava a raccogliere denaro per il milione di fucili in Inghilterra e a mandarli tra gli amici d'Italia. Molte di quelle sottoscrizioni furono pubblicate nel Pensiero ed Azione altre diecimila apparirono nel resoconto di Bertani: bisogna tenerne conto per ismentire quanti dissero che Mazzini faceva cassa a parte per la repubblica. Un’altra cosa gli premeva: che le elezioni portassero al parlamento subalpino romani, siciliani, veneti, tanto da dargli aspetto di un’assemblea nazionale. Grande fu la sua gioja per l’elezione di Cattaneo tanto osteggiato da Cavour, e scrivevami:
«Non potete voi e Alberto indurre Cattaneo di andare alla Camera per la discussione di Nizza e Savoja? C’è un lembo di possibilità; nulla di più, badate, ma pure un lembo. Ci sono molti desiderosissimi di rovesciare Cavour, unico modo per salvare Nizza; ma mancano di arditezza (pluck) e direzione. Tutti accetterebbero Cattaneo per capo. Una grande manifestazione protestando avrebbe in tutti i casi una grande importanza. Cattaneo in verità deve andare, noi lo sosterremo con tutte le nostre forze. Non potrebbe andare, parlare; poi, se la votazione gli va contro, dare la sua dimissione? Sarebbe una via onorevolissima per lui, da seguire. La discussione verrebbe inaspettata: statene sicuri, si cerca di ingannare tutti, di tenere lontano tutti gli oppositori.»
E in altre lettere:
«Sono disgustato dall'apatia per Nizza. 0 che Nizza non è italiana? L’unità d’Italia non è il nostro ideale? Può essere l’Italia una senza una parte sua?»
Nelle lettere ad Alberto concernenti il giornale, mentre gli faceva amichevoli rimproveri per la ferocia dell’articolo «Micromega» (scritto quando Cavour tornò al potere) lo scongiurava di parlar forte per Nizza, mostrare che non c’era nemmeno la necessità diplomatica per cederla, che né l’Austria poteva intervenire per costringere le provincie del centro ad accettare i principi scacciati, né Napoleone oserebbe alzare il dito contro l’Italia per imporre il cugino al centro né per prendere Nizza a forza; bastava tenere duro, lasciar fare; la Sicilia stava per insorgere; insomma Nizza era salvabile: dunque bisognava salvarla.
Rosalino Pilo stanco d’indugi, andò a Londra; e ivi fornito da Mazzini di somma sufficiente, passando per Lugano, ove vedemmo quel santo eroe l’ultima volta, ritornò a Genova per comunicare a Crispi e a Bertani la sua risoluzione di passare in Sicilia. Approvarono ambedue: tanto più che lettere recenti dall'isola accennavano a risoluzioni virili e irrevocabili. Garibaldi, che era a Fino per il malaugurato matrimonio colla Raimondi, a una lettera di Bertani, che lo rimproverava di avere abbandonato gli amici e la causa per deferenza al re, rispose:
«Potete assicurare gli amici dell’Italia meridionale ch’io sono sempre a loro disposizione quando vogliano veramente fare — e che avendo io delle anni — queste serviranno pure per loro — ove ne vogliano fare un uso proficuo. — Dalle lettere che mi avete diretto — io vedo un vero desiderio di fare «bene per parte di tutti — e bramo — lo sa Dio — come chiunque di menare le mani una volta ancora.»
Ritornato che fu a Caprera, Pilo, di concerto con Bertani, gli scrisse: «mezzi essere stati preparati e messi insieme da Mazzini che non fa questione di Repubblica:» altro denaro occorrere per acquisto di fucili e di munizione, per il nolo di un bastimento: partisse con gli amici per un punto designato dai siciliani all’interno: domandargli «di capitanare militarmente il paese, appena ricevuto avviso telegrafico della rivoluzione scoppiata.» Garibaldi risponde: «intendersi con Bertani e colla direzione del milione di fucili» per avere armi e mezzi possibili: ricorda che «nel caso di azione il programma è Italia e Vittorio Emanuele»: non crede opportuno un moto rivoluzionario «a meno non avvenga con non poca probabilità di successo.» Questo bastò per decidere Rosalino a partire solo in una vecchia barcaccia con Corrao, lasciando, d’accordo con Mazzini, Crispi e Bertani a preparare i mezzi e gli uomini per accorrere in ajuto.
ALBERTO MARIO |
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I siciliani animosi, ribelli ai palliativi dei cavouriani, furiosi per l'insuccesso del 4 ottobre erano tornati da capo — da buoni mazziniani — a rifare cartucce, delle quali erano state gettate in mare 24,000, a trasportare polvere dai magazzini, ove era scoppiato il fuoco in casa di un noto retrogrado per arti conosciute solamente a chi ha il genio delle rivoluzioni (80). Tenevano poi vive le corrispondenze coi comitati di Malta (ove Fabrizi manteneva nascosi tanti piccoli arsenali nelle case di amici, e ove Abele Damiani e i fratelli d’Anna indefessamente lavoravano) e sempre informavano Crispi e Mazzini. Pur troppo, nel gennajo, la polizia assalendo la casa Pancaldo, arrestava quell’uomo «che timoneggiava in Messina il partito d’azione.» Fu imbarcato per Palermo, poi al castello di Alcamo. «A vendicare la perdita dell'uomo tanto amato», due professori d’orchestra, Agresta e Jonata, Betti, il tintore Diego d’Amico, Luigi Caccia, Pasquale Tallone, Nino Conte e Raffaele Villari, fecero scoppiare una bomba enorme, custodita dal ’48 in poi nel palazzo della polizia, ove non restò né una finestra né una porta sana. Immenso spavento nel governo. Crisafulle, Sferruzza, Lo Giudice Vitale, Ottaviani Arcidiacono, Lo Cascio, rivaleggiarono in audacia.
L’ultima spinta venne dalla famosa lettera di Mazzini del 2 marzo che finisce:
«Osate, per dio. Sarete seguiti. Ma osate in nome dell'unità nazionale: è condizione sine qua non. Osate; chiamate al potere un piccolo nucleo d’uomini energici; i primi atti parlino d’Italia, di nazione; chiamino in ajuto gl'italiani del centro e del nord. Li avrete. Avvertiteci prima. Noi determineremo la mossa del centro verso il sud. Susciteremo assalendo il nord delle provincie napolitano, smembreremo le forze che vi sono nemiche. Fra i due moti Napoli seguirà. Ma l’inerzia d’oggi — il titubare continuo — il parlare di fare e l’indietreggiare per una lettera che vi giunge da Torino o Firenze — non é da vol. Voi avete in mano le sorti del sud; ma a patto d’un momento di suprema energia.»
Fu stabilito accordo tra Messina, Palermo e Catania, che il movimento dovesse cominciare dalla capitale il giorno 6 o 7 aprile e a Messina dovesse essere annunciato con questo telegramma: «Domani avrà luogo il matrimonio di mia figlia.» Il movimento fu precipitato come si sa. Lo scoppio alla Gancia era prematuro; ma resta gloria eterna ai siciliani di fede mazziniana esser riusciti dopo l’insuccesso dell’ottobre procurato da La Farina e malgrado le sue perverse mene.
A provare come l’idea unitaria di Mazzini fosse discesa e comunicata al popolo, venne la sentenza pronunciata in Palermo il 14 aprile alle ore cinque antimeridiane, e alle quattro pomeridiane eseguita, contro i tredici popolani, dei quali ecco i nomi: Sebastiano Camarrone, pizzicagnolo; Domenico Cucinotta, muratore; Pietro Vassallo, operajo; Michele Fanara, carbonaro; Giovanni Riso, fontaniere; Giuseppe Teresi, guardiano; Andrea Coffaro, operajo; Michelangelo Barone, carbonaro; Liborio Vallone, calafato; Nicola Di Lorenzo, muratore; Francesco Ventimiglia, operajo; Gaetano Calandra, calafato; Cocco Cangeri, calafato.
Intanto Rosalino Pilo era partito solo. Le angosce di Mazzini ci descrive Pietro Bellini, modesto e fermo patriota che pochi conoscono, il quale rifugiatosi in Londra, fu compositore poi proto del Pensiero ed Azione. Partito improvvisamente Mazzini e noi dopo la pace di Villafranca, egli rimase scrittore e direttore, e se ne cavava stupendamente: ritornò a Londra su i primi del 1860; e chiamato da Mazzini lo trovò a S. Mark’s Cottage.
«Quale impressione ne provai! — mi scrive — mai aveva veduto Pippo cosi desolato. — Ho speso l’ultimo centesimo per la spedizione in Sicilia, e non ho notizia alcuna di Rosalino: temo per la causa e per lui. — Era esso in uno stato di eccessivo orgasmo ed esclamò: Quante cose aveva qui — e si batteva la fronte —: e la politica mi ha sempre impedito di scrivere quello che poteva e voleva. Almeno avessi il conforto prima di morire di vedere l’Italia unita. Io ne subii tale impressione che mi rimase incancellabile nella mente.»
Di fatto Mazzini per la spedizione di Rosalino aveva speso tutto il suo non solo, ma si era fatto anticipare quanto poteva sull'annuità lasciatagli dalla madre. Egli giunse a Lugano inaspettato, ancora angosciato per la sorte di Rosalino. — Ma Bertani, che aveva in mano tutta la matassa, ci aveva avvertito proprio in quel giorno che Rosalino era sbarcato e in salvo, che le notizie di Palermo non erano così brutte come sì diceva. Intanto Garibaldi ci aveva scritto di tenerci pronti; altri, di non muoverci fino ad avviso certo, perché certissimo l’arresto nostro per opera di Cavour. Ci fu un istante che eravamo pronti per partire tutti tre insieme, quando un dispaccio in cifra di Maurizio Quadrio ci fermò di nuovo; egli affermava che Garibaldi aveva dimessa l’idea di partire, visto che dalla Sicilia venivano notizie che tutto era finito. Tant’è; si decise di partire tutti separatamente per Genova: Mazzini partì primo giunse a Genova incognito due giorni dopo la partenza di Garibaldi coi mille, e fu consolato dalle lettere di Rosalino a Bertani.
«12 aprile. — Pensa che contiamo sugli ajuti promessi. La sorte d’Italia si decide nel mezzogiorno della penisola. Qui già siamo al fuoco: nel momento che ti scrivo si tirano fucilate e cannonate sulla città di Palermo: fra un’ora sarò in cammino per piombare con forti masse su Catania. Addio: salutami tutti quelli che mi ricordano, e di a Bixio e Medici che qui si fanno fatti e non ciarle e che avrei da loro dovuto esser creduto quando li ragguagliai sulle condizioni dell’isola....» — E più tardi: — «La Sicilia sente più d'ogni altro paese che si deve far questione d'essere italiani. Io ritengo che la vittoria sarà per noi e che l'ora è vicina della distruzione del dispotismo: però fa d'uopo che si pensi ad ajutarci e spingere col mezzo della stampa il governo piemontese. E’ venuto il tempo d’essere audaci; ma d’essere audaci non come il vigliacco La Farina che se ne sta in Torino a fare il buffone... Milazzo è insorta: la piccola guarnigione si è chiusa in castello e sarà attaccata. — Barcellona è insorta.... (81)»
Vennero le lettere di Garibaldi a Bertani, da Talamona l'8 maggio, da Salemi il 13: «Sbarcammo avanti jeri a Marsala felicemente.» Poi da Calafatimi il 16: «Jeri abbiamo combattuto e vinto (82).» Mazzini era raggiante. «La Sicilia ci salva, l’Italia sarà,» egli disse. Ma quanto non fu amareggiata la sua gioja da un dispaccio che giunse a Genova da Napoli, via Parigi, il 23 maggio:
«Lunedi i ribelli accampati a San Martino presso Monreale, furono gagliardamente battuti. Ma il cap Rosalino Pilo fu ucciso!»
I ribelli non furono battuti; ma l’eroico pioniere era morto. Egli, dal giorno dello sbarco, combatteva e raccoglieva uomini, armi e denaro. Era giunto, attraverso pericoli e agguati, fin sui colli che sovrastano Palermo. Là egli ricevette lettera di Garibaldi, ragguagliante della vittoria di Calatafimi.
«Riunitevi a noi, oppure inquietate il nemico in cotesti dintorni se però vi conviene: qualunque arma è buona per un valoroso: fucile, talee, mannaja, un chiodo alla punta di un bastone. Fate accendere fuochi su tutte le alture che contornano il nemico. Tirate quante fucilate si può di notte sulle sentinelle e sui posti avanzati. Intercettate le comunicazioni. Insomma circondatelo in ogni luogo. Spero ci rivedremo presto.»
Con quanto zelo ubbidiva, si capisce! Raddoppiava gli sforzi; tempestava il comitato di Palermo per denaro; ordinava a tutti gli insorti da Carini, da Capaci, di avviarsi al campo di Garibaldi. Poi, il 18, da Carini scrisse:
«Domani parto con 1000 uomini verso Partinico per unirmi a Garibaldi. Non puoi credere come la rivoluzione si è fatta gigante.... Ho rimesso Carini in piena rivoluzione. Sui campanili sventola la bandiera tricolore.... Da otto giorni non dormo tre ore.... La causa è vinta; e fra tre giorni saremo a Palermo, dove spero di abbracciare gli amici se le palle mi rispettano!»
Il 20, Rosalino accampò a Renna di Ponte, a Monreale; la notte dal 20 al 21 a San Martino, con piccoli posti di picciotti in lunga catena. Questi attaccati all’alba del 21, Pilo con una manata de' suoi accorse attaccando i Borbonici; e per due ore resistette. Mentre appoggiato a un sasso dettava un dispaccio a Garibaldi per domandare rinforzi, una palla colpiva la bella sua fronte. Rosalino era morto. Il 27, Garibaldi entrò vittorioso in Palermo, città nativa di quel martire eroe.
«Genova, 3 maggio 1860. — Mio caro Berlani — Spinto nuovamente sulla scena degli avvenimenti patrii, io lascio a voi gl’incarichi seguenti: Raccogliere quanti mezzi sarà possibile per coadiuvarci nella nostra impresa. — Procurare di far capire agli italiani, che, se saremo ajutati dovutamente, sarà fatta l’Italia in poco tempo, e con poche spese: ma che non avran fatto il dovere, quando si limitano a qualche sterile sottoscrizione. — Che l’Italia libera d’oggi in luogo di centomila soldati deve armarne cinquecentomila, numero non certamente sproporzionato alla popolazione, e che tale proporzione di soldati l’hanno gli Stati vicini che non hanno indipendenza da conquistare. Con tale esercito l’Italia non avrà più bisogno di padroni stranieri, che se la ingoieranno a poco a poco col pretesto di liberarla. — Che ovunque vi sono italiani che combattono oppressori, là bisogna spingere tutti gli animosi e provvederli del necessario pel viaggio. — Che l’insurrezione siciliana non solo in Sicilia bisogna ajutarla, ma nell’Umbria, nelle Marche, nella Sabina, nel Napoletano ecc. dovunque sono dei nemici da combattere. — Io non consigliai il moto della Sicilia, ma alle mani quei nostri fratelli ho creduto obbligo d'ajutarli. — 11 nostro grido di guerra sarà sempre — Italia e Vittorio Emanuele — e spero che la bandiera italiana anche questa volta non riceverà sfregio. Con affetto vostro
«GARIBALDI.»
Con Garibaldi vittorioso in Palermo, restava a Mazzini un barlume di speranza che i deputati italiani avrebbero rifiutato la sanzione alla vendita della sua patria; e le petizioni furono numerosissime. Eloquente quella di De Boni, che terminando si esprimeva così: «come italiano, come cittadino, come uomo, in nome d’Italia, della libertà e dell’eterno diritto, domando che non sia sanzionata dal vostro voto la cessione di Savoja e di Nizza alla Francia.» Guerrazzi disse che cedendo Nizza alla Francia si seppelliva l’Italia, e a seppellire i morti si chiamano i becchini, non liberi italiani. «E Cattaneo:... smantellare le più sicure difese della patria, vendere il proprio terreno ad un’altra nazione, mutilare l’Italia? Piuttosto morire!»
Ma Cavour, sforzò i deputati renitenti; strozzò la discussione e precipitò il voto. L’Art. 7 del Traité de réunion de la Savoje et de Nice à la France portava: Pour la Sardaigne, le présent traité sera exécutoire aussitôt que la sanction législative nécessaire aura été donnée par le Parlement.» Dunque, senza quella sanzione necessaria, Nizza era salva. Ma il 29 maggio il sacrifizio fu consumato: 229 deputati avevano votato per la cessione, 33 contro!
Prendendo alla lettera le istruzioni di Garibaldi e vedendo che naturalmente tutti cercavano raggiungere l’eroe nell'isola, Mazzini concentrò ogni sua energia a continuare la missione troncata alla Cattolica. Bertani, (83) capito l’impossibilità di mettere d’accordo Cavour e Garibaldi o sia il partito che voleva l’egemonia del Piemonte ingrandito e quello che voleva l’Italia tutta unita, aveva accettato l'esplicita missione di essere il rappresentante di Garibaldi. Donde la guerra accanita ad ambidue dalla consorteria cavouriana. Ma non bisogna dimenticare che Garibaldi, toccando Orbetello, lasciava a terra un centinajo di volontari coll'ordine di sollevare le popolazioni e di portare la rivoluzione negli Stati pontificii. «Che le Marche, l’Umbria, la Sabina, Roma, il Napoletano insorgano per dividere le forze dei nostri nemici,» gridò egli da Talamona; e chiamato al quartiere generale nella casa del gonfaloniere lo Zambianchi, gli proponeva di mettersi a capo d’una schiera di Cacciatori delle Alpi per tentare l’invasione dell'Umbria dal lato di Orvieto, dandogli affidamento che a poche miglia avrebbe trovato e sarebbesi unita a lui una colonna livornese già in marcia. Errore capitale la scelta del famigerato Zambianchi per capo; ma, trattandosi di far guerra ai preti, Garibaldi non badava tanto. Bella prova di abnegazione diedero Guerzoni e gli altri; che, supplicato invano di non essere staccati dai camerati con cui erano partiti, non volendo in quell’ora solenne dar l’esempio d’indisciplina, si rassegnarono al sacrificio. Non erano dubbie le intenzioni di Garibaldi, il quale nel manifesto ai Romani disse:
«Domani voi udrete dai preti di Lamoricière che alcuni Musulmani hanno invaso il vostro terreno. «Ebbene, questi Musulmani sono gli stessi che si batterono per l’Italia, a Montevideo, a Roma, in Lombardia'... quelli stessi che piegarono un momento davanti ai soldati agguerriti e numerosi di Bonaparte, ma piegarono colla fronte rivolta al nemico, feriti per da tanti; ma col giuramento di tornare alla pugna, e con quello di non lasciare ai figli loro altro legato, altra eredità che quella dell’odio all’oppressore ed ai vili.»
E neppure erano dubbie le sue istruzioni allo Zambianchi:
«… Invadere il territorio pontificio ostilizzando le truppe straniere mercenarie di quel governo antinazionale con tutti i mezzi possibili: suscitare all’insurrezione tutte quelle schiave popolazioni contro l’immorale governo....: trovandosi con altri corpi italiani nostri, procurare di accordarsi circa la operazioni: se alla testa di quei corpi si trovassero i brigadieri Cosenz o Medici, egli si porrà immediatamente ai loro ordini ecc. E firmava G. Garibaldi, generale del governo di Roma, eletto dal suffragio universale e con poteri straordinari. (84)»
Importa tenere a mente questi fatti per respingere l’accusa dei moderati, che Mazzini e Bertani cercarono di attraversare i disegni di Garibaldi. «La Sicilia è salva — disse Mazzini — pensiamo al resto.» Ed a quanti opponevano «Ma avrà ancora bisogno di uomini, di armi, di consigli» rispondeva: «Non conoscete il genio di Garibaldi e l’indomita volontà dei siciliani di sbarazzarsi dei Borboni. Poi la Sicilia si ajuta dal centro e negli Abruzzi. Garibaldi ha seco buon nerbo dei suoi ufficiali. Crispi è con lui ed è unitario jusequ'au bout des angles. Prevaliamoci degli elementi ovunque sparsi frementi d’azione liberandoli dall’incubo lafariniano. L’ira degli italiani contro Napoleone per averci carpita Nizza la patria di Garibaldi crescerà in ragione delle vittorie dell’eroe. Al centro tutti: liberata l’Umbria e le Marche, raggiungeremo Garibaldi attraverso gli Abruzzi. Accettiamo il programma che il paese vuole (85). Non imponiamo alcuno. Non si ha più diritto di imporre né il re né la repubblica alle popolazioni che si battono per liberarsi.. Tocca a noi ajutarne la liberazione in nome dell'unità.»
Era una gara solenne, non mai più veduta, di ufficiali, di volontari, di tutta la gioventù per imbarcarsi e combattere per la libertà e l'unità della patria. Unico impedimento il manco di mezzi: unica questione se l’andare in Sicilia o tentare il centro per mare o dalla Toscana. Giacomo Medici, entrato dal febbrajo nell'esercito regolare col grado di tenente colonnello, mandò le dimissioni: incerto da principio tra raggiungere Garibaldi e preparare e capitanare una spedizione per il centro (86).
Garibaldi con la lettera del 5 maggio lo aveva lasciato libero.
«É meglio che tu resti — e puoi essere più utile restando, Bertani, la Società nazionale, la direzione dei fucili di Milano ti forniranno, alla presentazione di questa, tutti i mezzi di cui avrai bisogno. — Non solamente tu devi fare ogni sforzo per inviare soccorso di gente ed armi in Sicilia, ma per fare lo stesso nelle Marche e nell'Umbria, ove presto sarà l'insurrezione e dove presto conviene promuoverla a tutta oltranza. — Dirai agli italiani che ti seguano con tutta fiducia; che l’ora alfine è venuta di fare questa Italia che tutti aneliamo, e che, per Dio! capiscano una volta che in molti la finiranno presto, e che i nostri nemici sono forti della nostra paura e dell’indifferenza.»
In pochi giorni Medici allestì e mandò il piccolo piroscafo l’Utile con armi munizioni e una sessantina di Siciliani con Malenchini. Poi, capacitato che Cavour non avrebbe mai permesso alle forze rivoluzionarie di entrare negli Stati del papa, accettò ajuto dovunque lo trovava, e con quattro piroscafi, quattromila volontari e ottomila carabine Eufield, munizioni e vestiarii, parte da Genova per la Sicilia. Saputo la sua risoluzione, Garibaldi da Palermo indicò il golfo di Castellammare per lo sbarco e finisce la lettera: «T’aspetto dunque con impazienza.» E chi vide l'incontro tra Medici e Garibaldi, venuto questi in persona ad Alcamo per riceverlo non dimenticherà facilmente la festosa accoglienza che ebbe la seconda spedizione da tutti i superstiti dei mille.
Medici partendo lasciò a Cosenz la lettera di Garibaldi; e questi anche parti il 2 luglio con altra spedizione di 1200 volontari, 4000 fucili, vestiario per 4000 uomini. Bertani, coll'energia e pertinacia tutta sua, oltre mandare a Garibaldi quante armi e munizioni e volontari domandava, si diè ad allestire una vigorosa spedizione per invadere gli Stati romani eseguendo alla lettera e nello spirito le istruzioni di Garibaldi. Mazzini con Saffi e Maurizio lo secondava in tutto, eclissandosi per non creare a Cavour pretesti di stogliere le genti dall'impresa collo spauracchio della repubblica. Le lettere di lui (87) a Bertani, agli amici nel centro, agli amici in Inghilterra, suonano tutte e solamente — ajuto per l’Unità — siamo tutti concordi volenti. — L’11 maggio scriveva ai toscani:
«Fuoco in ogni direzione. Bisogna concretare, organizzare rapidamente a centurie, a compagnie i nostri discepoli, mobilizzarli, ed intendersi sui punti, sui modi. Non diffondete il mio nome: abbiamo elementi diversi e non bisogna spaventarli. Sarò con voi nondimeno.»
Il 18 dello stesso mese:
«Se non avete armi, ve le daremo noi, ed ogni altro mezzo. Si tratta di sapere il come; di sapere se, mandate in Livorno e in parte per la frontiera di terra, possano essere ricevute e mandate sui luoghi. Abbiamo bisogno d’istruzioni precise; datecele.»
A Giuseppe Dolfi, il quale metteva tutto sé stesso e il suo denaro più che il modesto suo stato gli permetteva:
«Il centro dei pericoli per la Sicilia, ora che Garibaldi vi è, non è in Sicilia; è in Napoli, nel regno. «È là che bisogna vibrare tutti i colpi; là si salva la Sicilia per sempre e si fa l’Italia. Conquistando al moto il terreno pontificio ed il regno, si fa atto di solidarietà italiana, mentre il metodo di ajutare i fatti compiuti senza mai promuoverli la nega ed accetta la tattica governativa. Garibaldi intende perfettamente questo; e lasciò detto, e replicava pochi giorni sono in una lettera scritta da Salemi a Bertani, che bisogna invadere gli Stati pontificii e andarci oltre. Serbate e organizzate, in nome d’Italia, gli elementi per questo. Sapete che è lo scopo di Bertani e il mio;.... lasciate i toscani all’azione su punti più vicini ed importanti.... Raccogliere e concentrare offerte. Raccogliere e preparare gente ordinata, in tutte le località che stanno meno lontane dalla frontiera.»
A noi giunti in Sicilia mandò, il 28 giugno, la seguente lettera per consegnare a Garibaldi:
«Caro Garibaldi. — Non venni e non vengo, perché la mia presenza vi susciterebbe ostacoli. Malgrado le mie franche e leali dichiarazioni, la stampa ministeriale mi dipinge come occupato a soffiarvi repubblica. Spero che ci ricongiungeremo; ma solamente attraverso l'azione. Aspettiamo Sacchi con impazienza febbrile. Dio faccia che non ci apporti un divieto all’azione! Sarebbe una rovina. Rispondendo al grido che lasciaste partendo, noi apriamo un adito a tutta la bollente gioventù italiana che non può sempre trovare vapori: — impiantiamo col fatto la solidarietà italiana: — vendichiamo Perugia nel mese di Villafranca: — emancipiamo decisivamente il Piemonte dalla politica napoleonica: — stringiamo il regno fra due: — facciamo l’Italia.
ELENA CASATI SACCHI |
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Garibaldi, fratello, ricongiungiamoci cosi. Tutto è pronto da questa parte. E possiamo forse ancora prevenire la realizzazione delle concessioni borboniche. Spero nell’arrivo di Sacchi (88); ma se per caso aveste mandato di divieto, tornate a considerare, ve ne scongiuro: e se vi convincete, telegrafate l’assenso. Se scendete — e la nostra fazione vi renderebbe più facile lo scendere anche con forze minori — non badate a ciò che vi dicono uomini che parlano del loro paese e hanno raccolto le loro inspirazioni in Torino dalla «Società Nazionale»; scendete in nome dell’Italia una e libera. Non abbiate l’apparenza di negare la volontà del paese. Se il giorno dopo scoppierà spontaneo il grido di viva V. E. ognuno lo accetterà. Avrete tutti i partiti. Non avrete violato la dignità d’alcuno. Il risultato sarà lo stesso; ma senza violazione della libertà. Imponendo oggi il re, imponete Cavour. Il vostro scopo avrebbe dovuto essere quello d’emancipare il re da Cavour; e voi lo potete, volendolo. L’Italia è con voi. Sappiate valervi della vostra forza pel bene.»
A Crispi, il 9 giugno, scriveva:
«I siciliani, Dio li benedica per sempre, hanno dato per la seconda volta una gloriosa iniziativa di «popolo. Se l’Italia sa trame partito, hanno salvato l’Italia. Ma bisogna seguir l’esempio; e lo seguiremo.»
E il 17 giugno:
«A Napoli minacciano moti serii concessioni di costituzione, ecc. Guai se avviene questo! Addio l’unità. Importa quindi sollecitare l’assalto del regno per conto nostro.»
E il 22 giugno, di fronte ai dissensi surti in Sicilia:
«Se siete certi di rimanere al potere, dovreste prolungare il provvisorio.... Se non siete certi di rimanervi, è altra cosa. Allora, piuttosto che lasciar prender piede agl’indipendentisti, affrettate il suffragio e l’assemblea.»
E in una lunga lettera a Savi, Mosto e Nicotera appena liberato:
«No; dacché non ho potuto prima del moto, non verrò in Sicilia. Sono stanco d’essere male interpretato; e venendovi ora, tutti direbbero ch’io vi vengo per controminare Garibaldi o per Dio sa che. E del resto, quanto alla Sicilia, sarebbe tardi ecco ciò eh'io tento: recarmi nel regno per altra parte e attraverso l’azione. Non diffondete romore del progetto. Stiamo preparando una irruzione verso il regno attraverso gli Stati pontifici. Accettando io la parte non solamente di subalterno, ma d’uomo che si cela come un colpevole, e mercé il buon volere e i buoni istinti di Bertani siam giunti a tale che possiamo «operare nei primi giorni del mese venturo vi dico fin d’ora, che se quei che saranno pubblicamente capi dell’impresa s’ostinassero nel grido col quale Garibaldi scese in Sicilia, non mi ritrarrò e non dirò agli elementi nostri di ritrarsi. Seguirò la colonna in silenzio — non firmando, ben inteso, atto alcuno, non giurando ad anima viva — en amateur, — Se giungo a salvamento negli Abruzzi, mi ritirerò libero e vedrò ciò che il terreno può dare.»
E negli stessi giorni a Nicola Fabrizì sbarcato nell’isola:
«Se gli autonomisti si agitano, precipitate l’annessione, (89)»
Nelle due spedizioni per mare e per terra, che furono da Bertani, concorde Mazzini, apparecchiate per il centro e per il continente napoletano, il primo segnale del moto doveva essere dato dai patrioti nelle provincie non libere: si doveva accorrere in loro ajuto dal Montefeltro per un lato, dall’Aretino e dalla Maremma per un altro: duemila uomini tra volontari e soldati in licenza eran pronti a marciare nelle Romagne, altrettanti dalla Toscana: novemila uomini da Genova dovevano partire e scendere per le spiagge romagnole: primo oggetto la liberazione di Perugia. Si desiderava Cosenz capo, come pegno a tutti che non si meditava una deviazione dal programma; ma egli aveva preferito andare in Sicilia. Desideratissimo fu Charras (90), ed aveva fatto un piano magnifico; ma voleva un numero di forze e un’organizzazione impossibile. Sì che fu deciso di affidare il comando generale a Pianciani con Rustow capo di stato maggiore, e i volontari toscani a Nicotera; il quale, rifiutando a Garibaldi di capitanare una brigata per invadere la Calabria, venne a posta dalla Sicilia per unirsi a Mazzini. Egli, circondato dall'aureola gloriosa di Sapri e della Favignana, era perfettamente inteso con Garibaldi. Il quale a Bertani da Salerno aveva raddoppiato l’insistenza per il moto del centro. E prima di passare lo stretto telegrafava:
«Io scenderò in Calabria il 13 agosto: voi operate ad oltranza sugli Stati Romani.»
E il 30 luglio a Bertani scriveva da Messina:
«Io spero poter passare sul continente prima del 15. Fate ogni sforzo per mandarmi fucili qui a Messina o a Torre di Faro prima di quell'epoca. Circa alle operazioni negli Stati pontifici e napoletani, spingete a tutta oltranza.»
Nicotera giunto in Toscana scriveva a Mazzini:
«Qui tutto va benissimo. Lo spirito dei volontari è eccellente.»
Ma già si sentiva che qualcheduno metteva il bastone nelle ruote; Bertani però contava di vincere, Mazzini impazientava più sempre:
«Vengo domani? — scriveva. — Per l'amore del cielo, sollecita la spedizione, anche perché l'amico tuo — innominato — possa avere opportunità di finirla décemment. Questo resto di vita comincia ad annojarmi in un modo strano.»
Bertani partì colla spedizione per il Golfo degli Aranci; Mazzini, Saffi, Campanella, Quadrio per Firenze. E Mazzini scriveva agli amici del Comitato di Firenze:
«Vogliamo l’unità e la libertà dell'Italia. Accetteremo ciò che proclamate. Vogliamo una patria. Non ci preoccupiamo di forme politiche. Chiniamo la testa al paese. Noi non operiamo contro il governo, ma senza il governo. È ciò che fece Garibaldi andando in Sicilia; ciò che fa scendendo sul continente. Do«mandare a un governo che si faccia apertamente rivoluzionario, è domandargli una impossibilità. Un governo — Cavour lo disse un anno addietro alla tribuna — accetta non provoca i fatti.»
Ma, mentre i patrioti proponevano, Cavour disponeva. Non riuscito con gl’intrighi di La Farina e la flotta di Persano a togliere di mano a Garibaldi la Sicilia, ora faceva sforzi sovrumani d’accordo con Napoleone per impedirgli la discesa in Calabria; e, fallitagli l’alleanza col re di Napoli, sperava fare insorgere Napoli per conto della monarchia prima dell’arrivo di Garibaldi. Attaccare di fronte la onnipotenza allora di Garibaldi, era impossibile: per impedire la sollevazione nel centro e lo sbarco sul litorale, persuase Ricasoli a dargli mano. Favini andò a Genova ed assicurò Bertani che per la liberazione delle provincie romane, il governo era dello stesso avviso che il partito d’azione, ma non poteva per riguardi diplomatici permettere che da Genova i novemila uomini veleggiassero diritti al luogo designato; invece tutti i vapori dovessero andare nel Golfo degli Aranci sulle coste della Sardegna, poi toccare la Sicilia, liberi allora di andare dove volessero. Bertani non esitò un istante: ordinò alla sua piccola flotta di andare al Golfo degli Aranci, temendo che il governo a Genova. facesse man bassa sui vapori e il materiale: corse al Faro, spiegò tutto a Garibaldi, e con lui tornò al Golfo degli Aranci per cedergli il comando. Ma intanto erano mancati tre vapori: per ordine del governo erano partiti per Palermo (91).
Collo stesso metodo Ricasoli, costretto da Cavour, agì in Toscana. Egli aveva acconsentito alla formazione della brigata di Nicotera, forte di duemila uomini, ed assegnata la Villa Pucci per quartiere; quando venne da Cavour e da Napoleone il divieto di operare nelle provincie romane, e anche Nicotera dovette dare parola d’onore di non isbarcare né sul litorale toscano né sul romano, se prima non avesse preso terra sullo Stato napoletano; dichiarava però che in nessun caso avrebbe approdato in Sicilia. Poi a Nicotera, arrestato e condotto in prefettura, fu ordinato, in nome del re, di sciogliere la brigata. I volontari fecero il muso duro, e Nicotera ottenne di adempiere ai primi patti. Ma, giunto a Livorno, un commissario di polizia, in compagnia d'un ufficiale dei carabinieri, gli ingiunse di imbarcare i volontari per essere scortati a Palermo: «rifiutandosi, sarà dichiarato ribelle, e come tale processato a termini di legge.» E i cannoni del forte in faccia furono puntati! Nicotera, dichiarando che considerava il governo sardo né più né meno che il governo austriaco, il borbonico e il pontificio, pur di impedire la guerra civile, si dimise, dichiarando però che come semplice cittadino avrebbe condotto i volontari a Palermo, perché non voleva defraudare Garibaldi di un utile soccorso. Inserì la protesta sull’Unità Italiana a Garibaldi scrisse addirittura (92).
Amaro più della morte era a Mazzini questo fine imposto al lavoro, alle speranze, all’entusiasmo di quattro mesi. Alla minacciosa circolare di Farini, al fatto che una nave da guerra con un battaglione di bersaglieri scortava l’Aventino ove era lo stato maggiore della spedizione, come se fossero delinquenti, egli rispondeva con splendide parole nell’Unità Italiana (23 agosto); ove anche (11 settembre) si legge la confutazione delle accuse contro Nicotera. S’intende come lo sdegno suo fu contenuto in gran parte dalla volontà di non aumentare i dissensi, mentre Garibaldi volava in su per la Calabria, disperdendo le forze del Borbone e le mene di Cavour colla magica parola, unità. Mazzini sentiva libera Napoli e pensava subito a Roma e Venezia, e nello scritto splendido: Né apostati, né ribelli, esclama:
«Chiediamo libertà per dire che tra il programma di Cavour e quello di Garibaldi scegliamo il secondo; che senza Roma e Venezia non v’è Italia; che, eccettuata la guerra del 1859, provocata dall’Austria e sostenuta a prezzo di Nizza e Savoia dall’armi dell’impero francese, eccettuata l'invasione delle provincie romane, provocata da noi, dalla necessità che creammo noi, nessuna iniziativa d’emancipazione italiana appartiene al programma Cavour; che Roma e Venezia rimarranno schiave dello straniero, se l’insurrezione e la guerra dei volontari non le conquistano a libertà.»
Intanto l'entrata di Garibaldi a Napoli aveva finalmente persuaso Cavour che l'unità era inevitabile. 0 tutta l’Italia libera e una, o il Piemonte perduto per il suo re; ed a Villamarina e Persano scriveva Cavour:
«Non è più a Napoli che possiamo acquistare la forza morale necessaria per signoreggiare la rivoluzione. Per impedire che essa s’estenda nel nostro regno vi è un mezzo solo; bisogna impadronirsi senza indugio delle Marche e dell’Umbria. Il governo è deliberato a tentare questa impresa ardita. A questo fine si é stabilito che dagli otto ai dieci di settembre in quelle provincie debba scoppiare un moto insurrezionale. Sia o no represso, i nostri soldati entreranno in quelle provincie.»
Entrarono e vinsero, naturalmente; ma non si sarebbero mai mossi, come si vede, senza la certezza dell’entrata dei volontari. Perché creare questo dualismo? perché impedire a Garibaldi e Bertani, a Mazzini, di fare quello che poi fu permesso a Cialdini? L’Umbria e le Marche si sarebbero liberate lo stesso, e infallibilmente si sarebbero annesse al Piemonte: di più, all’Italia sarebbe stata risparmiata la nuova umiliazione di mendicare permesso da Napoleone per liberare la tèrra sua dai masnadieri mercenari del papa. Garibaldi, il generoso, manifestò «gioja schiettissima» a Villamarina; però, pensando che l’effetto della spedizione sarebbe stato quello di tirare un cordone di difesa attorno al papa, osservò che farebbe un pessimo effetto sull'animo degli Italiani. E soggiunse che: «Se il governo sardo era capace a costringere la Francia di richiamare i suoi soldati da Roma, bene; ma se tarda, niuno mi potrà trattenere di sciogliere «la questione colla sciabola alla mano (93).»
Mazzini, sapendo che la redenzione di Roma era divenuta il punto culminante della politica di Garibaldi, venne a Napoli con Saffi, anche per consultarsi cogli amici intorno all'annessione delle provincie meridionali e il modo di essa. Il partito moderato inferociva, aizzava la plebe comperata a gridare sotto le finestre di Mazzini «mora! mora!»: e dacché Bertani, contro il quale tutta l’ira della consorteria era fino allora diretta, aveva dato la sua dimissione ora se l'erano presa con Crispi, suo successore. E ci duole il ricordare che Giorgio Pallavicino, nominato prodittatore di Napoli, dopo che Cattaneo aveva rifiutato quell’ufficio (94), non agì col suo solito buon senso patriottico. Egli consigliò Garibaldi di accettare la dimissione che Crispi immediatamente aveva offerto; e di più scrisse a Mazzini, facendo appello al suo patriottismo, che partisse da Napoli. Amara per Mazzini fu questa lettera, e il primo suo impeto fu di andarsene; ma Garibaldi non lo volle a qualunque costo, mandò amici a distoglierlo. Mazzini allora rispose splendidamente, dimostrando che il desiderio di vederlo partire veniva non dal paese, ma dal ministro torinese, verso il quale egli non avea debito alcuno e che credeva funesto all’unità della patria.
«Il più grande dei sacrifici ch’io potessi mai compiere, l’ho compiuto, quando, interrompendo per amore all’unità e alla concordia civile, l’apostolato della mia fede, dichiarai ch’io accettava per riverenza, non a ministri o monarchici, ma alla maggioranza — illusa o no poco monta — del popolo italiano, la monarchia; presto a cooperare con essa, purché fosse fondatrice dell’unità; e che, se mi sentissi un giorno vincolato dalla coscienza a risollevare la nostra vecchia bandiera, io lo annunzierei lealmente, anzi tratto e pubblicamente, ad amici e nemici Non posso compirne altro, spontaneo.»
Garibaldi, sdegnato con Pallavicino perché aveva lasciato credere possibile una guerra civile stando lui in Napoli, venne da Caserta e parlando al popolo dal balcone della Foresteria, tra le altre cose disse:
«In questi tumulti soffia un partito avverso a me e ad ogni opera mia. Quel partito mi impedì dalla Cattolica di venire in vostro soccorso; quel partito m'impedì che prendessi le armi del milione di fucili per la spedizione della Sicilia; quel partito mandò a Palermo La Farina per affrettare l’annessione della Sicilia, annessione che se io avessi fatto non avrei potuto venire a liberarvi, popolo di Napoli. Si è gridato morte a questo, morte a quello, ai miei amici. Gli italiani non debbono gridar morte che allo straniero e fra loro rispettarsi e amarsi tutti, perché tutti concorrono a formare l’unità d’Italia.»
Il proclama del re alle popolazioni meridionali in data di Ancona il 9 ottobre è una cosa brutta pur troppo. Fu firmato da Farini e dettato da Cavour; occupa quattro colonne di giornale e allude appena a Garibaldi, mentre dice:
«Le mie truppe si avanzano fra voi per raffermare l'ordine!... In Italia so che io chiudo l'era delle rivoluzioni.»
Quando lo lesse, Garibaldi comprese che il volere andare avanti avrebbe prodotto per forza conflitto tra i soldati piemontesi e i suoi volontari; e il 15 ottobre da Sant’Angelo scrisse la seguente:
«Italia e Vittorio Emanuele. Onde soddisfare ad un desiderio senza dubbio caro a tutta la nazione determino: Che le due Sicilie, le quali devono la loro redenzione al sangue italiano e che liberamente mi hanno eletto dittatore, formino parte integrante dell’Italia una ed indivisibile sotto il re costituzionale Vittorio Emanuele e suoi successori. All'arrivo del re deporrò nelle sue mani la dittatura che mi venne conferita dalla nazione. I prodittatori sono incaricati dell'esecuzione del presente decreto.»
Questa consegna arbitraria di un popolo senza averne avuto il suo consenso offese tutti i patrioti e Mazzini; essi ottennero se non l'assemblea desiderata un nuovo decreto per il plebiscito puro e semplice il giorno 21. Il 18 da Caserta Garibaldi scrisse a Mazzini questa lettera tuttora inedita:
Entrato il re con Fanti e Farini, ogni offesa immaginabile fu fatta a Garibaldi ed a' suoi volontari; non fu loro permesso nemmeno di assistere alla battaglia sul Garigliano. Non dimenticherò mai l’accento di dolore col quale Garibaldi, avendogli io domandato a Calvi provvedimenti per l’ambulanza, mi rispose: «i miei feriti giacciono all’altra riva del Volturno,» e poi «Jessie, ci hanno messo alla coda!» Fu l’unico lamento. Egli da quell’istante si decideva di partire per Caprera, permettendosi una sola preghiera al re: «accogliete nel vostro esercito i miei commilitoni che hanno bene meritato di voi e della patria.»
SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) PISACANE ASSALITO DAI CONTADINI FURIBONDI |
Mazzini ebbe l’ultimo abboccamento con Garibaldi il 5 novembre: egli aveva adoperato ogni forza per istituire l’Associazione Unitaria Nazionale, per fondare L’Italia del Popolo che fu affidata a Giovanni Nicotera, e per intavolare una sottoscrizione per Roma e Venezia. Garibaldi approvò tutto; e si lasciarono pienamente concordi sul da farsi nell’avvenire; tanto che Mazzini potè scrivere agli amici in Firenze:
«In un lungo abboccamento avuto la sera del 5 in Caserta con Garibaldi, ci ponemmo interamente d’accordo. Le sue idee son tutte su Roma. Me ne chiese con desiderio; mi parlò della necessità che un «giorno può sorgere, d’iniziarvi un’azione; mi autorizzò a usare del di lui nome coi romani e a promettere l’intervento suo personale, se quel tempo venisse. Vediamo insieme di concretare un lavoro serio «in quel punto vitale.»
Garibaldi parti il 9 novembre. Non si rividero se non nel 1864 in Inghilterra, cioè dopo Aspromonte.
«...in faccia a lo stranier, che armato accampasi
«su 'l nostro suol, cantate: Italia, Italia, Italia!
G. CARDUCCI — Saluto Italico.
«Italia e Roma.»
TASSO.
Venezia e Roma. Strappare la prima all’Austria con tutte le forze nazionali — l’esercito, i volontari, il popolo armato — associati alle altre nazionalità, slavi, ungheresi, polacchi ripugnanti egualmente al giogo dell'impero, costringere i francesi a lasciar Roma per la volontà unita degli italiani e dell’Europa, preservare l’Italia ad ogni costo dalla contaminazione di una seconda alleanza volontaria con Bonaparte: era questo il lavoro di ogni giorno, di ogni ora degli ultimi dieci anni della vita di Mazzini. Egli lasciò Napoli «coll’anima in pianto» per le brutali repressioni, le indegne persecuzioni dei luogotenenti di Cavour contro il liberatore ed i liberati delle due Sicilie, per le nuove cessioni di territorio italiano alla Francia meditate, per le cospirazioni a Roma e Gaeta ordite tra il papa e Bonaparte contro l’unità, per i disordini in Sicilia, per il brigantaggio risorto nelle provincie napoletane, fomentato dalla miseria, dai preti, dai borbonici, accarezzati questi e preferiti dal governo ai patrioti, mentre gli ufficiali di Garibaldi erano cacciati, insultati e calunniati. Garibaldi aveva detto partendo «eravamo mille soldati nel maggio 1860, siamo un milione nel maggio del 1861, avremo Venezia, incoroneremo Vittorio Emanuele re in Campidoglio.» E prevalendosi dell’immenso entusiasmo popolare, organizzando e disciplinando tutti i volontari, tutti i soldati degli eserciti dispersi, le migliaja di veneti che avevano risposto alla chiamata di Cavour, ora raminghi e derisi sulla terra italiana, l’Italia poteva avere quel milione e compiere il lavoro già per tre parti così miracolosamente raggiunto. Ma Cavour non volle l’Italia fatta così, ma coll’ajuto di Bonaparte. Venezia sperava avere da lui in cambio di qualche altro territorio Italiano. A Roma rinunciava acconsentendo al trattato che divenne poi la famosa convenzione del settembre 1864 (95). L’avere Roma per mezzo di Garibaldi, al detto di Boggio Valter ego di Cavour, sarebbe la più grande sciagura nazionale. Donde la dualità fatale scientemente generata tra l’esercito e l’elemento volontario, sinteticata da Cialdini nella sua infelice lettera a Garibaldi, conducente a frequenti duelli tra ufficiali regolari e volontari, a conflitti e scandali ovunque. E pure i prodi di San Martino, di Palestro, di Castelfidardo, fratelli dei vincitori a Calatafimi, a Palermo e al Volturno, avevano combattuto per lo stesso santissimo ideale, e in fondo si amavano e si ammiravano. E conscio di questo Mazzini sentiva che nessuna potenza d’uomo basterebbe ad impedire l’attuazione materiale di quell’Italia una e indivisibile, conquistata su tutta la linea nel primo ottobre, sanzionata dal plebiscito dello stesso mese. Dunque il procacciare armi e danaro per la guerra all’Austria, protestare contro l'occupazione di Roma, cementare l’unione tra i popoli oppressi era il lavoro immediato, al quale si misero d’accordo Garibaldi, Mazzini e le associazioni che in ogni angolo della penisola fiorivano rigogliose della nuova vita nazionale. Unico punto non perfettamente accordato fra loro era se si dovesse cominciare il lavoro prima per Roma o per Venezia. Mazzini disse:
«È voto unanime degli italiani d’andare a Roma e a Venezia e sfondare l'unità. Si tratta del come. Ma ora, checché si pensi o si faccia, noi non possiamo oggi andare a Roma, noi non indurremo mai il governo a rompere guerra coll'alleato. Per avere Roma bisogna — quando Napoleone non ne parta spontaneo — essere preparati ad affrontare una guerra colla Francia imperiale. Impegnandoci in questa lotta, noi somministriamo all’Austria opportunità di invadere dall’altro lato; inoltre avremo contrario e anche coi fatti il governo. Bisogna dunque continuare l’agitazione per Roma, ma nei termini possibili, isolare Bonaparte nella sua ostinazione di rimanervi, lavorare a fare si che il popolo di Roma senta i propri doveri, si separi — come un tempo i lombardi dall’Austria — dai soldati francesi, e si prepari occorrendo ad insorgere, non altro per ora, e concentrare tutti gli sforzi per un’azione sul Veneto; conquistare qualche «località nell’alto Veneto sulle Alpi per sorpresa, e darci cosi agio di raccogliere un campo di volontari. Nel Veneto abbiamo una popolazione unanime a voler sorgere, e un elemento ungarese presto alla diserzione. L’iniziativa popolare sommoverebbe l’Italia intera, la Lombardia segnatamente: i duecentomila soldati, che il governo ha, bastano ad assalire l’austriaco di fronte, quando l’insurrezione abbia tagliato il quadrilatero dalla sua base e lo minacci alle spalle. Luigi Napoleone non potrebbe scendere ad appoggiare una iniziativa popolare garibaldina, né a combatterla a pro dell’Austria: sarebbe quindi condannato all’inazione. Finalmente — ed è ciò che dovrebbe or deciderci e che parmi impossibile non s’intenda dagl’italiani — nella Venezia sta l’iniziativa italiana fra le nazioni: sta il segnale dato all’insurrezione ungherese che aspetta noi, all’insurrezione polacca che aspetta l’Ungheria, ai moti boemi ed altri in seno all’impero austriaco, ai moti maturi dell’elemento elleno e delle popolazioni dell’oriente d’Europa. Là sta il mutamento dei fati europei e la guerra delle nazionalità. Avremo l’Austria sfasciata, come nel 1848, e rapidamente. «L’Austria cacciata al di là dell’Alpi toglie l’ultimo argomento a Luigi Napoleone per Roma. La parte dell’Italia è questa. Non v'è altro disegno pratico. Dunque bisogna aprire un campo a Garibaldi sull’Alpi.»
Su questo programma — la rivoluzione e la monarchia strette in nodo pel riscatto italiano — prima Venezia, poi Roma — Mazzini insistette con tutti e in centinaja di lettere agli amici, con istruzioni segrete e pratiche a quanti acconsentirono,ad attuarlo e in ogni suo scritto pubblico dal ’60 al ’66. E Garibaldi era d’accordo, solamente egli sognava Vittorio emancipato dai suoi ministri iniziatore del riscatto; e il 4 febbrajo 1861 scrisse a Mazzini fra le altre cose le seguenti:
«Io preferirei molto, secondo l’opinione vostra, poter operare sul Veneto —ma non so se lo potremo. «Noi abbiamo una scena d’azione immensi — cioè dalle Bocche del Danubio alle Bocche del Po. Se lo potete, mettetevi in comunicazione coi popoli che si trovano sotto la dominazione dei due imperi, Austriaco e Turco, non eccettuata la Grecia, ove credo vi siano dei buoni elementi.
«Ripugno a confidare certe cose alla carta. Rimetterò questa a Mosto, e bisognerà in cose urgenti «servirsi d’emissari. Non penso come voi circa a Vittorio Emanuele. Egli ha la fatale educazione dei principi, e non conosce come noi la scuola del mondo; ma egli é buono — ed in sostanza è la leva e perno che cercava l’Italia di Machiavelli e di Dante.
«Noi dobbiamo ispirargli illimitata fiducia: credo sia il modo di staccarlo dalle male piante che lo «circondano, e che non si sostengono senonché per la diffidenza di noi che sanno ispirare a Vittorio. Nell’avvenire dunque credetemi com’io vi credo, e non date ascolto a chi vi ciarla di progetti miei, che non siano per il bene d’Italia — e a chi mi faceva vittima dei mazziniani non è molto, e che oggi mi vuole affratellato al trafficante del mio paese.
«Una cosa ancora: giacché la fortuna mi ha favorito sin’ora senza mancar di consigliarmi, lasciatemi «scegliere la via da prendersi — suonando l’ora dell’azione. Predichiamo concordia a tutta oltranza»
E pregato dai napoletani, esasperati dalle sevizie di Fanti e Farini e tormentati dalle nuove mene borboniche per Murat, egli a Salviati e agli altri, che portavano una petizione con migliaja di firme per ottenere ch’egli ritornasse alla sua Napoli e volesse rappresentarla nel parlamento, rispose:
«Non vengo a Napoli, perché la mia presenza non varrebbe che a far incrudelire sempre più contro i «miei amici e i miei soldati chi mira al solo scopo di cancellare la memoria del bene che essi hanno fatto all’Italia. Né accetto la candidatura. Il mio posto non è sugli scanni del parlamento. Qui aspetto la chiamata a nuovi cimenti.»
Ma la desolazione dei napoletani vinse la sua resistenza, e il 31 marzo egli spediva questo dispaccio:
«Agli elettori del quartiere di S. Ferdinando a Napoli. — Accetto la candidatura del primo collegio di Napoli che avevo rifiutata.» E Mazzini diede nuova prova del suo volere adoperare tutte le forze vive della nazione a pro di essa nella sua insistenza cogli amici di mandare patrioti al Parlamento.
«Mazzini e il partito d’azione — scrive Saffi (96) il quale ha compiuto il più grande sacrificio della sua vita acconsentendo di entrare in Parlamento — credevano opportuno in quei giorni, in faccia alla questione nazionale dominante sulla politica, valersi anche dell’agitazione parlamentare: far si che la protesta e la lotta morale per Roma e Venezia avessero un’eco dinanzi all’Europa, nella rappresentanza del paese. Fu questo il motivo che determinò parecchi patrioti di parte repubblicana — e me con essi — subordinando all’unanime volontà della nazione e al dovere patrio i nostri ideali sulla forma dello stato — ad accettare il mandato.»
Intanto, mentre raccoglieva armi e danaro per Venezia, la protesta contro l’occupazione francese in Roma si copriva di migliaja di firme con quella di Garibaldi in cima. Cosi la Rimostranza all’imperatore dei francesi che si riassume nella frase: «In nome dell’eterno diritto, il suolo italiano non appartiene se non all’Italia. Sgombrate.» Un altro indirizzo contro l’occupazione, scritto anche da Mazzini per gli Amici d’Italia, circolava per tutte le città d’Inghilterra; e coperto di migliaja di firme, fu presentato al parlamento britannico. Quanta importanza egli attribuiva alla pressione morale del mondo civile contro quella violazione dei diritti delle genti e il suo rispetto per i diritti altrui, si capisce dalle seguenti parole a Dolfi:
«Gl’indirizzi per Roma diventano tanto più importanti, in quanto che si sta oggi trattando per Roma tra Napoleone e Cavour sulla base che — oltre ad altre condizioni già firmate, probabilmente — l’Italia debba vincolarsi a far guerra con Napoleone per l'acquisto delle provincie renane. Se l’Italia dovesse sorgere per farsi conquistatrice, a pro del dispotismo, delle terre altrui, meglio le sarebbe rimanere schiava «e smembrata. Sola via di evitare quel rischio è strappargli Roma, per mezzo di un’immensa dimostrazione Italo-Europea e senza patti. L’Inghilterra, vi ripeto, è disposta ad appoggiarci. Indirizzi e liste per formare una cassa nostra, della quale mercé vostra abbiamo il cominciamento: ecco ciò a cui dovreste pensare sempre. Le sciabole d’onore, le medaglie, ecc., son tutte bellissime cose; ma Roma e Venezia anche più. E tutti gli uomini che vogliono Roma e Venezia senza disonore dovrebbero unirsi per rovesciare Cavour, che è il materialista, immorale ministro dello straniero.»
Un barlume di speranza per la fusione di tutte le forze nazionali ci fu quando, morto Cavour in giugno, gli successe Ricasoli. Egli venne al potere con istinti italiani, egli aveva sacrificato l’autonomia della sua Toscana all’unità ed infrante le mene di Napoleone per porre il cugino sul trono dell’Italia centrale. Soffriva nel vedere l’Italia vassalla alla Francia, e nell’ammirabile contegno delle popolazioni durante l’anno di altalena in cui furono tenute aveva appreso a non temere il popolo. Stimava Mazzini, e volle cancellata l’italica vergogna del suo esilio.
Come sollevate da un incubo, tutte le commissioni, le assemblee, le associazioni lavorarono solenni per numero, per concordia d’intendimenti e per serietà di propositi; e fu deciso di formare una federazione di esse per dare un impulso unico al comune lavoro mediante comitati di provvedimenti eletti sulle rispettive sedie a suffragio degli associati. Fatta una commissione per compilare lo statuto e un nuovo comitato, fu deliberato di continuare con pubbliche dimostrazioni e comizi popolari l’agitazione per Roma, promuovere l’istituzione dei tiri a segno e l’istruzione militare del popolo, chiedere l’estensione della cittadinanza italiana a tutti gli esuli trentini, veneti e romani, chiedere il suffragio universale politico e amministrativo, inviare una rappresentanza del popolo al re pel richiamo in patria di Giuseppe Mazzini, e una deputazione a questi, allora gravemente ammalato, con voti per la guarigione e coll’espressione di riverente amore. Fissato che fu il 9 maggio 1862 per discutere lo statuto della federazione da intitolarsi Unione delle associazioni liberali democratiche italiane, ogni sforzo fu fatto dai moderati, ajutati da alcuni traditori e ambiziosi intrusi, per rompere il sublime accordo, per dividere Garibaldi da Mazzini persuadendogli che questi voleva la supremazia. Insani e iniqui! La commissione non era composta dai deputati Bedani, Mordini, Nicotera, Saffi, Cadolini? e il comitato dei cittadini Mosto, Burlando, Cuneo, Savi, Campanella, Mario e Sacchi?
In parte i mestatori riuscirono; se non che — scrive Saffi — una lettera di Mario contribuì grandemente alla riconciliazione di Garibaldi con Mazzini e coi patrioti del comitato centrale.
Non riusciti dunque a rompere gli accordi tra i patrioti, i moderati capitanati da Boggio cercarono di impedire la riunione dell'assemblea. Ricasoli, interpellato, rispose:
«Non cader dubbio sulla legalità, non solo dei comitati di procedimento, ma d'ogni associazione politica: l'associazione essere un diritto che la legge non vieta: aver egli consultato il procuratore del re e il guardasigilli, concordi entrambi nel riconoscere il diritto d'associazione: avere il consiglio di Stato confermato questo parere.
E la Camera, confermandosi alle dichiarazioni del ministro, riconobbe e sancì col suo voto il diritto d’associazione. Allora, risoluto a promuovere l’armamento popolare, Ricasoli, per mezzo del senatore Plezza aveva chiamato Garibaldi da Caprera per formare due battaglioni di carabinieri genovesi affinché cooperassero alla repressione del brigantaggio. I veri autori di quel progetto furono Bertani, Mosto, e Corte, i quali, in nome dell’Associazione Unitaria, formolarono uno schema d’ordinamento da sottoporsi al ministro e alla Camera: questi patrioti erano con ragione spaventati dalle stragi che si compivano nelle provincie napoletane ove il brigantaggio assunse tutte le forme della guerra civile. Accettate in generale le proposte del ministero, Garibaldi acconsenti a promuovere i tiri a segno per abituare i giovani italiani alle armi. Ma precisamente per questo suo volere armare la nazione e compire l’unità con mezzi propri, per l’affermazione altera dei diritti di un popolo libero, e finalmente perché i cortigiani e la consorteria avevano inasprito il re contro il fiero barone, Ricasoli cadde il 3 marzo; e Rattazzi, sinonimo di equivoco, gli successe. Egli allora pei' conciliarsi i voti dell'opposizione largheggiava con Garibaldi in promesse e permessi; tanti è vero che il generale, così già maltrattato da Cavour e cavouriani, visse e viaggiò in Piemonte e Lombardia coll’autorità di un dittatore aumentando così il suo fascino sulle moltitudini. La storia di Sarnico ed Aspromonte sta scritta tutta di pugno di Garibaldi: la nazione aspetta ancora la sua eredità senza la quale ogni narrazione resta e resterà incompiuta (97). Certo è che sotto i viaggi trionfali per il tiro nazionale si nascondevano altri disegni. Rattazzi nella sua difesa alla Camera il 6 giugno disse: «A Garibaldi ho promesso l’unità e l’indipendenza del paese e l’armamento nazionale». Gli promise anche un milioncino, ma colla speranza di poterlo mandare fuori dell'Italia, sia nella Grecia, ove si combatteva già, sia nell’Ungheria. Garibaldi invece, d’accordo con moltissimi dei suoi (ma non con tutti), vagheggiava una spedizione per il Trentino, ove già erano depositi di armi, di munizioni, vestiario e ambulanze.
Evidentemente gli arruolamenti additavano al Tirolo. Di fatto il 14 maggio i giovani convenivano da ogni parte nei dintorni del lago d’Iseo, apparentemente coll'obbiettivo della Valcamonica. Nullo e Ambiveri con più grossa squadra stavano per raggiungerli, quando, per ordine di Rattazzi, vengono arrestati tutti e come sfida alle popolazioni tradotti nelle prigioni di Bergamo e Brescia. Il popolo insorge, la guardia fa fuoco, sangue cittadino bagna il suolo dell’eroica città. Garibaldi chiama la guardia «sgherri mascherati da soldati», propone una spada d'onore all'ufficiale russo Popoli il quale spezzò la sua piuttosto che usarla contro il popolo di Varsavia! Però, giorni dopo si abbocca coi ministri Rattazzi e Depretis reduce da Napoli, poi verso il fine di giugno andò a Villa Spinola presso Quarto, ove da capo radunò gli amici, i commilitoni e i delegati delle associazioni, ai quali parlò vagamente di Roma e Venezia insistendo sempre sull'armamento. Là dagli amici tutti, e specialmente da quanti credevano con Mazzini che egli era il braccio indispensabile dell’Italia, gli furono fatte ferventi preghiere di non lasciarsi indurre in nessun caso ad allontanarsi dall’Italia. E più di uno gli disse: «Generale, quello è lo scopo «di Bonaparte e di quanti cospirano con lui contro l’unità». Garibaldi né negava né affermava che tali proposte gli fossero fatte; partì, per Caprera, e il 28 giugno giunse da Palermo la notizia che ivi era disceso il generale accolto con onore solenne dal municipio.
Il resto si sa, ma non è ancora chiaro se Garibaldi avesse già in mente di andare a Roma o se l’idea gli venne nella città delle iniziative. Lo accompagnarono a Palermo Menotti, Enrico Guastalla, Missori, Bruzzesi, Lombardi, Guerzoni, Civinini e l’inseparabile Basso.
«Nessuno infatti — scrive Guerzoni — di quanti, invitati da lui, lo accompagnarono da Capua a Palermo, seppe mai dal suo labbro né dove s’andasse, né perché s’andasse! Soldati, seguivano il capitano: credenti, seguivano l’apostolo.»
Missori afferma che lungo il viaggio Garibaldi non parlò mai di Roma, che il re avea proposto una spedizione in Grecia, che anzi il re gli scrisse una lettera colla quale gli offriva i mezzi e chiedeva di quanto abbisognasse, che Garibaldi rispose:
«Mi dia vostra maestà trentamila lire per poter mandare in Grecia alcuni miei ufficiali per verificare e preparare, poi mi faccia trovare a Catania diecimila fucili, diecimila camicie rosse, diecimila paja di scarpe con una fregata a mia disposizione.»
Il grido di Roma o morte! non venne da Garibaldi, ma da ignote labbra a Marsala durante un discorso di Garibaldi, ed egli rispose: «da Marsala sorse il grido di libertà ed ora «sorga il grido di 0 Roma o morte». Dunque si direbbe che, non trovando in Sicilia la fregata aspettata, visto l’entusiasmo frenetico degli isolani per Roma, Garibaldi si decise li per 11 all’impresa. Un fatto molto significante è narrato da Nicola Fabrizi, il quale con Mordini, Calvino, Cadolini ed altri, andarono a persuadere il generale dell’inopportunità dell’impresa, poi, trovando questo impossibile, si diedero a scongiurare rincontro di Garibaldi coll’esercito.
«Era — scrive Fabrizi — ignoto lo scopo dell'improvvisa apparizione a Palermo del generate Garibaldi, «e dicevasi per un’impresa orientate. Un senatore defunto, calabrese, Lo Schiavo, parente del Benedetti còrso, si diresse a me perché avvisassi Garibaldi, che Jo scopo che si nascondeva sotto l’obbiettivo orientate era quello di eliminare la di lui personalità dall’Italia in modo definitivo. Io non posi tempo in mezzo, e gli feci tenere la comunicazione, indicandone l’origine.»
Ora, questa comunicazione può avere influito assai sulla risoluzione di Garibaldi, quando, giunto nel porto di Catania dietro convegno datogli dall'ammiraglio Albini, egli profittandosi dei due vapori «che la provvidenza ci inviò — egli dice — presi la subitanea risoluzione di imbarcare quanta gente poteva stivare in quei due bastimenti e toccare la sponda meridionale della Calabria, a pochissima distanza ove sbarcammo nel 1860». Lo stesso giorno dello sbarco in Calabria occupò Melito, e sperava entrare in Reggio; ma avvertito che quella città era posta in istato d’assedio con un presidio di quattromila uomini, prese a destra la direzione di Aspromonte; ove, mentre ordinava ai suoi di non tirare sui fratelli, fu ferito dalle truppe, che avevano ordine di schiacciarlo. — Fin qui i fatti. Il resto è bujo, ma è certo che il Rattazzi dando a Cialdini l’incarico della soppressione sapeva con che ferocia la missione verrebbe compiuta. La Marmora a Napoli secondava con fervore al punto, non solamente di arrestare Fabrizi, Mordini e Calvino, ma di mandare a Rattazzi il famoso telegramma: «Ho arrestato i deputati — li fucilo Al quale il Rattazzi rispondeva: «Li metta in libertà e si scusi.»
Fabrizi nella lettera ove dà questi particolari dice:
«Non so se Mazzini tenesse o no sul proposito relazioni con Garibaldi; ma, come l'intrapresa fu il prodotto d’istantanei eccitamenti, non escluso l'entusiasmo dell’accoglienza fattasi a Garibaldi reduce in Sicilia, cosi mi sembra che concerti non potessero esservi, né potessero comporsi lungo il corso dell’avvenimento per la varietà delle incidenze istantanee.»
No di certo, Mazzini non fu complice, essendo fisso sempre nella sua idea per il Veneto; come viene provato da tutte le lettere e le istruzioni che egli dettò in quei momenti. Citiamone una inedita al venerando patriota G. B. Zeneroni di Desenzano, dalla quale si desume tutto il suo piano pratico (98).
«.... Per ciò che concerne l'azione, è necessario: connettere relazioni pratiche, positive col Tirolo italiano. Bisogna che voi, Gualla in Brescia, che mi saluterete con affetto, e gli altri amici dell’alta Lombardia, vi dichiariate davvero a lavoro siffatto. Si tratta d'avere il Tirolo italiano in mano nostra, in un dato tempo. Ben inteso con ajuto d’azione esterna. E Garibaldi sarà con noi al primo fatto compiuto. Per ciò bisogna impiantare relazioni nel paese, collo scopo dichiarato d'agire connettendone il moto con quello dell’alto Veneto. Bisogna ottenere un ragguaglio minuto, esatto, militare, del nemico: fortificazioni agli sbocchi, numero d’uomini, natura degli elementi, difesa della posizione di Riva, ecc. Bisogna tener «conto dei volontari reduci, farne statistica; costituirli capi di gruppi nelle località dove vanno, organizzare compagnie nelle valli, mobilizzabili all’uopo: constatare le, condizioni e i bisogni di armamento, ecc. Bisogna per quest’organizzazione militare far capo a Missori in Milano e a Nullo in Bergamo. Son d’accordo con me, e hanno la fiducia di Garibaldi.»
Ma, disapprovando fino all'ultimo un tentativo sopra Roma, a pena riecheggiò da Marsala grido di Roma o morte, egli, come sempre, si decise a secondarlo e scrive a John Me Adam, uno dei più caldi patrioti scozzesi:
«É perfettamente vero — malgrado le calunnie del Times — che, per diciotto mesi, mi sono provato di persuader Garibaldi, dover noi anzitutto dirigere i nostri sforzi verso Venezia. Ora però il dado è gittate. L’assurda opposizione del governo ad ogni disegno concernente Venezia, l'insolente ostinazione di Luigi Napoleone e gl'istinti del popolo italiano hanno deciso la questione, e ogni discussione sull’argomento è oggimai fuor di luogo. Un popolo intero ha ripetuto la parola d’ordine — Roma — noi dobbiamo obbedire; e, in quanto a me, ajuterò, secondo le mie forze, il mote.»
E lasciò Londra immediatamente. Giunto a Lugano, io gli fui portatrice dell'atroce fatto onde Aspromonte è infame. Trovai colà Cattaneo e Mazzini nello stesso luogo. Cattaneo pianse come un fanciullo; ma il grido che scoppiò dalle labbra di Mazzini, bianco per l'angoscia, mi parve dovesse essere quello di Davide pel figlio: chi l'avesse udito non avrebbe potuto mai dubitare dell’intenso affetto che egli nutriva per Garibaldi.
CARLO PISACANE |
«..... a Pola presso del Carnaro
«Ch'Italia chiude e i suoi termini bagna.»
DANTE — Inf. IX, 113,114.
La palla regia ferendo Garibaldi al piede ferì l’Italia al cuore e nell'intelletto, generando tale confusione d’idee e di proposte che era difficile evocarne unità di lavoro e né pure di scopo. Chi propose la dimissione in massa della sinistra, protesta solenne contro chi aveva fermato l’eroe sulla sacra via di Roma e violato lo statuto ed offeso il popolò. Venti motivando le ragioni si dimisero. Saffi, Robaudi e Campanella soli stettero fermi nella rinuncia, ma né essi né Mazzini approvarono l’astensione dalla lotta elettorale, né mai biasimarono coloro i quali entrando o rientrando nella Camera conscienziosamente lavorarono per il complemento dell’unità nazionale.
Una minoranza del partito d'azione disse:
«Abbiamo sbagliato strada, bisogna conquistare la libertà e condurre la nazione all’unità per quella via.» Garibaldi, che alla prima aveva dichiarato di voler dire tutto, non fiatò: previde che dicendo ai suoi — dividiamoci dai monarchici — un Aspromonte sarebbe successo in ogni città del regno, ove i militari potenti e prepotenti avrebbero soffocato nel sangue ogni tentativo, ogni protesta; tanto era giunto allo stato acuto il dualismo seminato ad arte, tanto l’invidia delle glorie dei volontarii, e lo sdegno nella consorteria dell’aver dovuto riconoscere Garibaldi liberatore di dieci milioni di italiani. E poi egli sapeva che quella palla fu fusa dall’uomo del due dicembre: e non accampava costui ancora in Roma? avrebbe esitato, anche non chiamato, ad uscirne, e col pretesto di ristorare l’ordine dar mano alla reazione in Napoli e imporvi un suo luogotenente? Poteva, volendolo, il re a ciò opporsi? Non avrebbe in questo caso caricato il fucile né dato l’ordine di fucilare lui — lui l’artefice della corona d'Italia — nell'atto che stava apponendovi la maggior gemma! Cosi ragionando soffri torture indicibili fisiche e morali, poi a pena estratta la palla che entrando di rimbalzo nell’osso del malleolo avea presa la forma precisa del berretto frigio, ei sorrise e baciando gli amici smarriti affollati al suo letto parti in silenzio per Caprera. Il popolo ravvolto in quel mistero di dolore e di vergogna che ebbe nome Aspromonte ammutolì. Destato dal sogno — ove vide Garibaldi in atto di incoronare Vittorio in Campidoglio — dalla scarica fulminea credette in uno sbaglio, in una vendetta, in un tranello di Bonaparte. Quando vide decorato e premiato il feritore, promosso a luogotenente colonnello il maggiore de Villata il quale fucilò a Fantina senza processo cinque disertori e due volontari che si presentarono a lui sulla parola di esser liberi — quando seppe la Sicilia e le provincie napoletane in istato d'assedio — intuì tutta la verità. Il re non vuole Roma e per questo ha ferito Garibaldi; e cadde per la fulminea delusione in un abbattimento profondo. Mazzini stesso fu colpito da un’angoscia inconsolabile, muta: — quella stanchezza suprema, quel cheto tedio della vita e d’ogni cosa terrena, quell'illanguidimento senza nome e senza dolore, peggiore di tutti i dolori, quasi una morte dell'anima, che ogni tanto l'assaliva, allora lo atterrò. Non dormiva o sognando delirava. Jacopo! Carlo! Garibaldi! Una notte precipitammo in camera (99) sua al sentire un grido straziante — egli trasognando proferì: É morto anche lui, è morto Garibaldi! Di fatto erano giunte a Lugano nel giorno le notizie più allarmanti. Né s’acquetò fino all'alba. Gli comparivano davanti gli spettri dei martiri, e gli sembrava sentirne le voci rimproverantigli d’averli uccisi per fare rivivere Iti terra de' morti. Per molti giorni parve egli stesso un morto che camminasse; né si riebbe se non quando fu rassicurato della vita dell'eroe. Un giorno ritornato da una passeggiata solitaria tra i monti mi diede le sue parole «Ai giovani d’Italia» dettate dopo la pace di Villafranca, inno alato di vittoria. — Lo riscriverei oggi — mi disse — e mise il dito sulle linee: «No, la vita e il martirio, non sono menzogne: l'amore consacra e luna e l’altro all'eternità. Il dolore è santo, la disperazione è codarda (100)» E questa sua fede incrollabile egli cercò infondere negli amici, che vennero a tenere un consiglio a Lugano; ma dai discordi consigli nulla di pratico o di unanime poteva uscire onde egli, visto che pochi concordavano con lui in una decisiva e aperta rottura colla monarchia (101), la fece per conto proprio e per i pochi che con lui stettero: Saffi, Quadrio e Campanella tra i primi, e in settembre dettò agli italiani il Dopo Aspromonte.
«La palla di moschetto regio, che feriva Giuseppe Garibaldi, ha lacerato l'ultima linea del patto che a' era stretto, or sono due anni, tra i repubblicani e la monarchia... Noi ci separiamo oggi per sempre da una monarchia, che combatte in Sarnico per l’Austria, in Aspromonte pel papa.»
Era la seconda forma del con, senza, contro; tant’è vero che continua:
«Noi ci distacchiamo dalla monarchia, perché la crediamo incapace di quella iniziativa — non per «lottare deliberata niente contr’essa, non per imporre, s’anche potessimo, la forma d’istituzioni ch'è sola logica, «non per sostituire la questione politica alla questione nazionale. — La monarchia s’assuma l’impresa di Garibaldi A quel patto essa può vivere ancora la vita d’un tempo in Italia.»
Era dunque perfettamente coerente lavorando per l’apostolato repubblicano e allo stesso tempo col re, col permanente Piemonte, con chiunque si fosse mostrato intento alla guerra per Venezia, emancipato dall'imperialismo francese. In quanto a Roma, assemblea Costituente, un patto nazionale sostituito allo statuto piemontese del 1848. E li per li si rimise al lavoro per la liberazione del Veneto, deducendo speranze nuove dalla Polonia insorta, dalla dichiarazione di Garibaldi,
«.... che un movimento nel Trentino e nel Veneto e quindi nell'Ungheria era il modo più efficace per ajutare i polacchi» — dal fatto resogli noto per volontà dello stesso re, che «egli non intendeva questo cospirare continuo, questo dualismo impiantato tra il governo ed il partito d’azione in cose nelle quali si era, in sostanza, d’accordo: volere egli Venezia quanto Mazzini, avere egli fede nell’onestà, lealtà del suo procedere; donde volere venire a un patto per l’intento comune.»
Riletta or ora quella singolare corrispondenza consegnata alla pubblicità dall’intermediario (102) non ci sentiamo in grado di entrare in merito né di aggiungere sillaba a quanto scrisse Saffi nel proemio al volume XIV; perché per vederci dentro chiaramente bisognerebbe avere anche tutta la corrispondenza e le trattative tra Garibaldi e il re, tra il re e il principe Couza, tra il re e Klapka, e sopratutto sapere quanto si tramava tra i ministri e Bonaparte. Stiamo ai fatti dunque. All’apparenze re, Garibaldi e Mazzini erano d’accordo per un’insurrezione generale di polacchi, ungheresi, svevi, slavi, da sollevarsi alle spalle dell’Austria, e che Garibaldi doveva essere serbato per il Veneto. Su questo punto il re sempre insistette: volere egli solo decidere il come e il quando per il Veneto. E mentre tutta questa mirabile armonia apparentemente durava, i ministri sequestravano le armi destinate alla Venezia in Milano, processando i cittadini che le custodivano; e parimenti perdurando l’accordo tra tutti i tre, il giornale officioso del ministero fabbricò una lettera, ove Mazzini figurava come insultatore di Garibaldi, intento a separare il figlio Menotti dal padre, menare un colpo mortale alla monarchia spergiura. Poi sospettati gli accordi tra Mazzini e il re e che questi per moto proprio era deciso di richiamare l’esule in patria, che un moto nel Veneto solleverebbesi in primavera, il ministero mandò un loro fido a Napoleone il quale ritorna col veto per Venezia. E 11 per 11 fu architettato a Parigi il complotto contro la vita di Napoleone, capo Pasquale Greco, notorio e provato agente della questura di Torino, preteso complice Mazzini.
Frattanto al finir di aprile Garibaldi, desiderato più che il Messia, passò in Inghilterra: condotto all’isola di Wight, ove vennero a visitarlo da una parte tutti i nobili e gli uomini di Stato inglesi, dall’altra tutti gli esuli tedeschi, polacchi, russi, ungheresi.
«Per desiderio suo espresso, andò all'isola anche Giuseppe Mazzini in persona, il quale il generale stesso — scrive Guerzoni — aveva desiderato vedere prima del suo arrivo in Londra, col quale s’abbracciava affettuosamente, e restava in lungo e segreto colloquio. (103)»
Il 17 maggio in casa di Alessandro Herzen ci fu un banchetto, ove assistettero Garibaldi e Mazzini, gli amici inglesi, il tedesco Blind, Aurelio Saffi, Antonio Mordini e Giuseppe Guerzoni. E fu a quella colazione che Mazzini con ispirate parole brindò: «alla libertà e associazione dei popoli, a Garibaldi vivente incarnazione di quest'idea, alla povera santa Polonia, alla giovine «Russia»: e che Garibaldi a lui con caldo accento rispose:
«Al mio amico e maestro Giuseppe Mazzini! Sto per fare una dichiarazione, che avrei dovuto fare da molto tempo: v'ha tra noi un uomo che rese i massimi servigi al mio paese ed alla causa della libertà. Quando ero giovane e non aveva che aspirazioni, ho cercato un uomo che potesse consigliarmi, guidare i miei giovani anni; io lo cercai come l’uomo assetato cerca l’acqua. Questo uomo l’ho trovato; egli solo ha conservato il fuoco sacro, solo vegliando quando tutti dormivano. Egli è rimasto mai sempre amico mio, pieno d’amore pel suo paese e di devozione per la causa della libertà! Questo uomo è il mio amico Giuseppe Mazzini. Al mio maestro.»
Mancò un pelo che Garibaldi ritornato dall'Inghilterra non uscisse d’Italia per andare in Oriente, precisamente al momento che la convenzione di Torino dovea suggellarsi col trasloco della capitale a Firenze. L’Italia deve agli amici suoi ch’egli non andasse: avvertiti del suo desiderio di averli compagni, sospettando essi un tranello, protestarono nel Diritto, e rivelarono il progetto: onde la rottura di ogni trattativa tra Garibaldi e il re, e il suo ritorno da Ischia a Caprera. Chi ha la curiosità di saperne di più ne cerchi, vivono gli autori della convenzione e i ministri di quegli anni: l’episodio è interessante, perché quella corrispondenza fornisce una nuova e lampeggiante prova della schietta lealtà e del sublime patriottismo dell’apostolo dell’unità. — Volete il Veneto? — egli disse — Siamo con voi per strapparlo dall’Austria. In faccia ad essa, visto che la Venezia ha bisogno dell’esercito di cui siete capo, mi sembrerebbe delitto inalzare la bandiera repubblicana; ma ripeto, conquistato materialmente il Veneto, io farò di tutto per evangelizzare l'Italia tutta repubblicanamente. Rovesciato a Roma il potere temporale, vogliamo dal suffragio universale l’assemblea costituente, la quale detterà il nostro patto nazionale. — Perché poi Mazzini ruppe ogni contratto, ogni trattativa col re? Perché fin dai primi di luglio scopri la convenzione e la denunciò come una formale rinunzia a Roma: onde la lettera sdegnosa all’intermediario: No: non scriverò più una sola parola al re. Ei non è che un prefetto di Bonaparte. L’ira invereconda della consorteria per Mazzini deve attribuirsi in gran parte alla impossibilità nella quale si trovavano di tenergli nascosto un progetto, un atto, un pensiero. Egli non solamente dissotterrava i loro più coperti segreti di fatto, ma vi leggeva dentro i più reconditi fini e deducevane logicamente tutte le inevitabili conseguenze; e nell'Unità Italiana rivelava gli uni e le altre. E l’Opinione sfrontatamente negava, e l’Italia ne avrebbe ancor dubitato senza la notturna carneficina di Piazza San Carlo. Rimasto invendicato il sangue sparso ad Aspromonte, fece pochissima sensazione quello di duecento plebei. Fuori del Piemonte, Mazzini fu quasi solo a compatire le vittime del delitto. Ma in che modo nobile, con che santissimo scopo!
«Vedete, — egli diceva — l’Italia teme che la vostra protesta provenga da un gretto municipalismo, provatele che non lo è. Fondete le vostre lagrime in palle per ferire l’Austria; sul marmo del monumento cretto al fondatore del Piemonte, macchiato dal sangue delle vittime, aguzzate le spade, che liberando i Veneti, vi chiariranno primi tra gli italiani per virtù di sagrificio, e per la via di Venezia si giungerà a Roma. Per fondere la corona di Roma, tutte le città sorelle getteranno le coroncine loro nella fornace; voi che avete dato averi, sangue, nobilissime vite per l’indipendenza, offerta ospitalità agli esuli delle altre provincie, compite l’opera rovesciandovi su Venezia, additando Roma capitale.»
Questo il senso di ogni sua lettera e trattativa colla Permanente, sia con Villa o con Boggio; avvertivali anche del protocollo segreto aggiunto alla convenzione del 15 settembre, ove si dichiarava:
«Il governo italiano s’assume d’astenersi da ogni impresa sul Veneto e d’impedire energicamente qualunque impresa su Roma volesse tentarsi dal partito d’azione o da altri: che, se avvenimenti imprevedibili e più potenti degli obblighi assunti concedessero sia Roma sia Venezia all'Italia, avrà luogo una rettificazione della sua frontiera colla Francia: che la discussione esordirà dal fiume Sesia, considerato «come frontiera della Francia.» Il protocollo ha la firma del ministro Visconti Venosta e d’altra persona. «A protocollo siffatto una nazione educata, come l’Inghilterra, alla libertà apporrebbe l'accusa di alto «tradimento e il patibolo per gli uomini che lo firmarono. Io, avverso alla pena di morte, credo una sola «risposta degna dell'Italia e segnatamente del piccolo paese appiè dell’Alpi: dire con fatti all'imperatore straniero: Sire, voi errate; avremo Venezia e non avrete il Piemonte.»
Questa lettera firmata Giuseppe Mazzini e inserita il 13 marzo nelle Alpi commoveva l’Italia tutta. Il generale Lamarmora, dimissionario o licenziato che fu il ministero delle stragi notturne di Torino, avendo accettato per salvare la dinastia di tradurre in atto la convenzione che egli disapprovava e il trasloco della capitale che gli ripugnava, e che giorno e notte sognava il riscatto di Venezia per riconciliare l’Italia col re, potè a fronte alta dichiarare sull’onor suo che nessun patto segreto esisteva; ma il signor Visconti Venosta sebbene affetto di non degnarsi rispondere «volendo che fossero meno ridicole le voci per poterle meno disprezzare» non diede mai una formale smentita alla formale accusa del suo ex maestro; e restava pur fisso in mente degli italiani che fin all'ultimo istante era stata negata la cessione di Savoja e di Nizza e la già firmata convenzione.
A Mazzini bastava avere avvertito il pericolo evitabile di ulteriori cessioni, ma si martellava per l’inevitabile convenzione; tanto più che molte e molte città italiane a vedere scoronata Torino godevano per antiche gelosie, per una gioja fanciullesca della partenza dei francesi da Roma, dicendo: da cosa nasce cosa; i francesi una volta fuori chi vivrà vedrà. Nuova stilettata questa per Mazzini:
«Insensati — egli gridava — e non vedete che Bonaparte in Roma com'è rappresenta la forza brutale dell'invasione, l'usurpazione in permanenza, il diritto delle genti per quindici anni violato da un solo; che patteggiando con lui, promettendo di sostituirvi guardiani del papa, versando in mano sua il danaro vostro per raccattare mercenari, voi giustificate quegli atti di masnadieri e vi offrite a continuarli! Roma è la città sacra, il santuario d’Italia. Roma appartiene all'Italia, e voi ad essa rinunciate.»
E a chi rispondeva no, egli di ripicco:
«Come No? Allora siete di mala fede; allora promettete decisi di mentire, giurate colla bocca di fedifrago. La convenzione, se il governo mantiene i patti, decreta Roma abbandonata fra due anni a una lotta feroce senza pro: l’Italia legata ad assistervi immobile: Aspromonte in permanenza: decreta — se l governo non li mantiene — il disonore della nazione; la guerra della Francia per violazione di trattati liberamente sanciti; l’incredulità dell'Europa in ogni futura promessa dell'Italia (104).» .
E pensare che queste parole profetiche furono pubblicate il 1.° ottobre 1864! Chi dava retta ad esse se non quando apparvero scritte in sangue sul campo di Mentana? Sì! la convenzione significava la rinuncia a Roma nella mente del re e dei ministri; e lo disse il conte Pasolini cinicamente a Massimo d’Azeglio! «Finalmente, grazie a Dio, siamo liberati di Roma.» Lamarmora costretto a porre in atto la convenzione disse: «veggo innanzi a me un triste dilemma, o un Aspromonte in permanenza o pure la vergogna e la slealtà.»
E lo sapevano e lo credevano i cattolici campioni del potere temporale: d'Ondes Reggio diede giubilante il suo voto per la convenzione. Davanti a quell’atto che violava il plebiscito, perpetuava lo smembramento d’Italia, infrangeva la mutua fede tra la nazione e la monarchia dinanzi al voto che approvando il passaggio della capitale da Torino a Firenze sanciva la convenzione cui il Parlamento non fu chiamato a discutere; Mazzini sperava che gli uomini della sinistra avrebbero rinunciato ad una missione che fu loro impedito di compire. Noi fecero; e Mazzini prese di sbalzo la frase di Crispi: La monarchia ci unisce, la repubblica ci divide, per scrivergli la fulminea lettera che va letta unita alla risposta di Crispi e romperla per sempre con la sinistra parlamentaria. Giustizia vuole si dica che Crispi in uno splendido discorso avea flagellata la convenzione il giorno prima e che in risposta al mellifluo Mordini, il quale sostenendo la convenzione tacciò Crispi di repubblicano, questi additò la non compita unità come ragione di stare saldo al vessillo del plebiscito. Ma ciò non cambia il fatto, che, se l’impero non fosse stato infranto a Sedan, giammai la monarchia sarebbe entrata a Roma.
Quella lettera rimproverava alla sinistra il suo opportunismo insensato, il suo servile contegno, e, conseguenza inevitabile dei vizii e degli errori precedenti, dimostrava l’azione corrompitrice dei raggiri e del promuovere l’interesse dinastica invece del progresso nazionale. Mazzini fu poi in quel momento straziato dall’ultimo delitto del governo contro i devoti ed audaci esuli veneti e sempiterni esuli trentini, i quali soli da Aspromonte al 1866 cospirarono, combatterono e morirono per l'Italia libera dallAlpi al mare, soli fecero sventolare il vessillo tricolore in faccia all’Austria, bagnandolo col proprio sangue. Nessuno, fuorché l’oggi compianto Tecchio, intimò al parlamento e al governo il dovere di secondare la lotta iniziata dagli insorti friulani, vittoriosi ogni volta che potevano venire alle mani coi tedeschi. Grande era lo sgomento che ingenerò l’insurrezione che rumoreggiava alle porte di Udine, di Cividale, di Belluno; tanto era l’entusiasmo nelle campagne, che i commissari imperiali emanavano ferocissimi bandi e ponevano sotto la legge stataria i distretti dove fossero comparse le bande. La Gazzetta Ufficiale di Venezia pubblicava il 14 novembre un comunicato del comando militare, dicendo essere ormai divenuta un’operazione propriamente militare l'inseguimento di quelle ciurme. Il giornale della consorteria lombarda. La Perseveranza li chiamava pazzi e colpevoli; ma gli italiani finalmente scossi si decisero ad ajutarli, e l'ordine fu dato e lo slancio cominciava; quando Lanzà, allora ministro dell’interno, dichiarò al Cairoti che il governo reprimerebbe qualunque moto anche colla forza, e i generosi furono abbandonati, là imprigionati dall’Austria, quà dal governo italiano. Ma, quando la nazione voglia veramente riprendere la tèrra stia, la storia pubblicata di quei fasti gloriosi dimostrerà che i trentini, i quali avevano sparso il sangue loro per la libertà di ogni altra provincia italiana, non meritavano quell'abbandono, e pagherà il debito si lungo tempo contestato (105).
Finalmente nel 1866 ideata e conchiusa da Lamarmora l’alleanza colla Prussia sembrando la guerra inevitabile, Mazzini salutò la promessa con schiettissima gioja, e dettò nell'Unità, Italiana fino dal maggio il programma e il piano di guerra, che solo poteva condurre alla pace con onore.
«Uniche sul campo le forze italiane: chiamate tutte le forze della nazione a concorrere, esercito volontari, guardie nazionali: numero dei volontari illimitato; unica promessa ad essi chiesta, di non posar l’armi finché lo straniero non sia cacciato dal suolo italiano: unica promessa chiesta al capo, di mantenere le proprie operazioni in armonia col disegno di guerra: non violazioni di libertà, non repressioni straordinarie di stampa, non poteri d'eccezione applicati all’interno, non inceppamenti alle pubbliche adunanze: provvedimenti siffatti spirano sospetto e lo inspirano: seminano diffidenza e sconforto tra gli amici e poco nuociono alle trame coperte degli avversi... La guerra deve farsi in nome, non d'un interesse, ma d’un principio: deve, non localizzarsi, ma farsi guerra despansione: deve scegliere ad obbiettivo, non Verona, Mantova, Venezia; ma Vienna... La nostra guerra, la guerra dei popoli, la guerra ultima, condizione d’una pace perenne, la grande guerra degna di noi, la guerra che, iniziando sotto auspicii italiani il rifacimento della carta d’Europa, ci porrebbe a capo d’una alleanza di popoli, e di una nuova epoca di civiltà, si combatte sulla via d’Udine e di Laybach, mirando a Vienna e sollevando Magiari, Romani e Slavi...
GIOVANNI NICOTERA |
L’impero d’Austria non è nazione, né popolo: non ha unità alcuna di vita; è un governo sostenuto da una gerarchia d'un centinajo di famiglie e da un esercito... L’esercito si compone d’uomini appartenenti a quelle nazionalità malcontente... L’Austria non può checché scrivano i suoi, porre in armi più di 600,000 uomini: poniamone 650,000. 300. 000 devono rimanere liberi, di fronte ai 300,000 che la Prussia può porre in linea. La Moravia, la Slesia austriaca, la Boemia (Olmutz, Josefstadt, Theresienstadt, Praga) richiedono 40,000 uomini almeno. 50,000 devono inevitabilmente stanziare nell'Ungheria e Transilvania, 20,000 sono da lasciarsi s'anche la Russia non minacci, in Cracovia e nella Gallizia; 30,000 in Dalmazia e nell’Istria, 10,000 bastano ai paesi tedeschi e a Vienna. Rimangono all’Austria 300,000 soldati disponibili per la guerra italiana. Ed è la cifra che non potè mai essere oltrepassata in Italia da essa.
«Ai 300,000 soldati dell’Austria noi possiamo opporre 350,000 uomini d'esercito regolare e, volendo, 400,000: 200,000 guardie nazionali da mobilizzarsi: 50,000 volontari, facili a raccogliersi, purché si modifichi l’assurdo decreto. Sono 60,000 uomini almeno, ai quali devono aggiungersi, sulla prima zona di guerra, gli elementi insurrezionali del Veneto e del Trentino. E finalmente i 200,000 combattenti dell’Austria devono smembrarsi in 70,000 richiesti da Mantova, Peschiera, Verona, Legnago, Venezia, e in 130,000 soli componenti l’esercito d’operazione... O i 130,000 soldati dell'esercito attivo austriaco si ritirano — cosa possibile, non probabile — per la via del Tirolo, o per quella d’Udine, davanti alla nostra «invasione; e l'esecuzione del concetto riesce agevole e semplice. Ponete fra il Po e l'Oglio un campo trincerato di 45,000 uomini, tra guardie nazionali e soldati; un altro di 25,000 in Ferrara; un corpo di osservazione di 65,000 uomini sul Veneto; cacciate i 50,000 volontari e Garibaldi nei paesi Slavi meridionali; e seguite col grosso dell’esercito sino a Vienna il nemico. O i 130,000 dell’esercito d’operazione austriaco rimangono a osteggiarvi sul Veneto; e aumentate allora il primo campo destinato a proteggere la Lombardia sino a 90,000 uomini (45,000 guardie nazionali e 45,000 soldati regolari): aumentate il secondo, destinato ad assicurarvi sul Po fino a 55,000 uomini (25,000 guardie nazionali e 30,000 soldati); v'avanzano per compire il disegno, 275,000 soldati, lasciando i 50,000 volontari all'impresa tra gli Slavi del mezzodì. Con questo o diverso metodo poco monta, punto obbiettivo della guerra italiana deve essere, «io lo ripeto, Vienna. Se manca l’animo all’audace impresa, s’aggiungano almeno 50,000 uomini dell’esercito ai 50,000 volontari e operino congiunti sui paesi slavi meridionali. Nella questione politica, nell'insurrezione suscitata fra i popoli, sta la certezza del trionfo per noi. Mirate segnatamente all’elemento slavo. Affratellatevi con esso e affratellatelo a vol. Nei paesi dov’esso predomina, fatelo, ponendovi piede, «partecipe dell’azione. Proclamatene l’indipendenza; chiamatelo, cacciando gl’impiegati dell’Austria, a eleggere i proprii nei comuni e nei distretti. Provocate l’elezione di uomini che rappresentino in un’assemblea nazionale Carinzia, Fraina, Dalmazia, Croazia, Slavonia, ecc. Promovete rimpianto della stampa nazionale. Incitate alle armi. Promettete alleanza offensiva e difensiva alla confederazione, appena s’ordini legalmente. Io v’affermo che dalle sponde dell’Adriatico alla Polonia avrete alleati. Nel quadrilatero potete «soccombere: su questa via noi potete (106).» Questo piano di guerra, consegnato da Mazzini all'Unità, Italiana, il 26 maggio, fu identico a quello ideato da Moltke e spedito a Lamarmora per mezzo dell'ambasciatore Usedom, ma il generale ministro sprezzò il consiglio dell’alleato e disse avere letto simili fandonie nei giornali dei rompicolli. Centomila volontari s’inscrissero: Ma è una leva in massa, diss’egli, non la vogliamo; e Garibaldi non ne ebbe mai più di 30,000.
Quello che sempre più illustrava la fedeltà di Mazzini ai suoi principii è la insistenza e persistenza con tutti i suoi amici e seguaci perché si arrolassero sotto gli ordini di Garibaldi, malgrado che questo fosse agli ordini del re. Il piccolo testardo partito della «libertà per l’unità» si era arrotato tra i primi: ma alcuni repubblicani unitarii si chiarirono ripugnanti a combattere un'altra volta col governo monarchico: a capo di questi c’era l’eroico Bezzi, al quale Mazzini scriveva:
«Caro Bezzi. — Ebbi la vostra. — Più che mai infermiccio e scontento, non posso entrare in polemiche. Mi duole assai del dissenso vostro e degli amici; ma confesso non intenderlo. Ho predicato con voi tutti guerra d’iniziativa popolare: Veneti e Italia non l’hanno voluta. Intanto, viene guerra governativa. È guerra per Venezia, contro l’Austria, con un fine nazionale. È chiaro che dobbiamo prendervi parte. Il continuare a dire Vogliamo guerra d'iniziativa popolare quando nessuno risponde, in verità tocca il ridicolo. La questione politica rimane la stessa. Rimaniamo repubblicani: continuiamo a fare apostolato in quel senso. Se vien tradimento, se disfatta a modo Novara, se concessione di territorio, se altro di simile, siamo perfettamente liberi di sollevarci potendo e sollevare la nostra bandiera. Verrei — se capace di movermi — in Italia io stesso a tentarlo. Dovremmo con precisioni siffatte lavorare ogni ora per avere, occorrendo, i volontari con noi. Ma astenersi in verità, non ha né senso né moralità.»
Bezzi andò: fu il primo a passare il ponte di Caffaro, primo dunque a segnalare una vittoria contro l’Austria, e, ferito a Bezzecca, l’ultimo ad uscire dal Tirolo. Così Giuseppe Nathan, il Beniamino dei discepoli di Mazzini si illustrava tra le guide. Così Giorgio Imbriani diciottenne, il quale tenne sempre ad onore di essere «un umile ma devoto gregario della gloriosa falange mazziniana.»
E chi non si distingueva tra quel fiore dell’italica gioventù? Duemilatrecentottanta cadaveri rimasero nel Tirolo italiano, sgombrato per ordini del re al momento che le vittorie di Bezzecca, di Gondino, di Monte Navone avevano condotto i volontari a Pieve di Buono, mentre Medici, avanzato sulla sinistra dell’Adige per Val Sugana, impadronitosi di Borgo, disfatto le truppe del generale Kuhn a Levico e a Pergine, dalla Val Sorda s’affrettava a congiungersi con Garibaldi in Riva. Venezia fu gettata da un luogotenente di Bonaparte come un osso al cane. Così «la monarchia sotto il consolato del partito moderato con Custoza, Torre Malimberti, Lissa, Pace di Vienna coronava il disonore d’Italia.» Bixio riassume i giorni di guerra: «Quello che so si è che siamo disonorati.» Mazzini correndo da Como e Varese a Milano, Saffi a Cremona, intesi a promuovere una forte agitazione fra i volontari contro la pace, dovettero constatare che materialmente disfatti dalla fame, dalle fatiche, dalle malattie, moralmente affranti, convinti che l’obbedisco fu strappato a Garibaldi da ineluttabile necessità e che senza lui ogni sforzo sarebbe vano, nulla volevano tentare o potevano sperare (107). Mazzini sì ritirò angosciato a Lugano; ove, per scherno, quasi a dirgli — mercé nostra l’Italia è strema d’ogni spirito vitale, la vostra parola non può oggimai scuoterla dall'inerzia in cui giace, venite! non vi temiamo — gli giungeva la notizia dell’amnistia. Stava scrivendo l’articolo stupendo «La pace» ove addita la via dell’onore, il dovere di rivendicare le Alpi Giulie, il Litorale Istriano, l’alto Friuli, Trieste, l’Istria, il Trentino, e cosi chiude le roventi pagine:.
«... Odo oggi appunto che mi si concede amnistia. Nessuno, che sappia alcun che dell'animo mio,. si aspetta ch'io contamini gli ultimi miei giorni e il passato, accettando oblio o perdono per avere amato sovra ogni altra cosa la patria, e tentato la sua unità quando ogni uomo ne disperava: né mi darebbe il cuore di rivedere l’Italia il giorno stesso in cui essa accettasse tranquilla il disonore e la colpa.»
Solenne protesta contro la politica antinazionale del governo fecero i messinesi, eleggendo per la terza volta Mazzini a loro rappresentante. Già dalle elezioni generali del 1865-66 Mazzini fu portato candidato, senza essere consultato, ben inteso, in varii collegi, per esempio a Genova e a Napoli. A Napoli, nel collegio di Monte Calvario, il candidato dei moderati vinse per soli cinque voti con grande dolore degli studenti dell'università, capitanati da Giorgio Imbriani. A Genova fu osteggiato dalle forze riunite dei moderati e dei clericali. Ma in Messina né preti né consorti poterono influire sul patriottismo puro e fervido degli isolani iniziatori. L’idea di portare candidato Mazzini, come protesta contro la condanna a morte che pesava ancora su quel capo glorioso, fu di Saverio Friscia, oggi anche lui rapitoci; e la proposta (108) fu raccolta dal venerato padre dei siciliani, Emanuele Pancaldo, presidente del Comitato elettorale messinese e sostenuto dall'indomito Salvatore Besaja. Vinsero, e Pancaldo annunciava la vittoria cosi:
«Messina. — La tua fede e la tua costanza furono consacrate dalla dignità de' tuoi immediati rappresentanti, quali sono i tuoi elettori. Essi scelsero GIUSEPPE MAZZINI. — Elettori. Voi avete ben meritato della patria. Patria. I tuoi figli da Messina hanno corrisposto alla grandezza dei tuoi dolori, delle tue glorie e dei tuoi destini. Sia plauso a tutti. — Messina, 27 febbrajo 1867. — IL COMITATO.»
Il popolo esultava, la consorteria inferociva. Mazzini, ringraziando, conchiudeva:
«Ignoro, mentr’io vi scrivo, ciò che la Camera farà a mio riguardo; ma so ciò eh io debbo fare, per morire in pace colla mia coscienza e non indegno di vol. Io giurai — trentaquattro anni addietro — fede all'Italia una e repubblicana. Tacqui della mia fede, quando il paese intiero dissentiva e decretava un esperimento su via diversa: non la rinnegai. Secondai, come mi parve debito e quanto a me individuo era dato, ciò che poteva giovare a risolvere la prima metà del problema; ma senza mai convertire, come altri fece, in principio assoluto ciò che non poteva essere per noi tutti se non base, per un tempo, allo esperimento. Spinsi l’abnegazione fino ad additare alla monarchia per quali gloriose e non difficili vie essa avrebbe potuto compirlo; ma non rivocai quel primo mio giuramento; non contrassi vincolo alcuno con chi poteva deludere; non cancellai la libertà dell’intelletto e dell’anima dietro a una ipotesi. Ed oggi che, per me almeno, quell’esperimento è, senza frutto, compito — oggi che la monarchia, statuita, con aperta violazione dei plebisciti, Firenze metropoli, accetta, da un lato, una convenzione che sancisce l’esistenza in Italia di due sovranità temporali, e sbanda dall'altro un esercito che con rovina della finanza era stato ordinato per emancipare Venezia — io non potrei — né voi lo vorreste — falsare l’antico unico mio giuramento, giurando alla monarchia e ad uno Statuto anteriore alla vita nazionale d’Italia, e che non è né può esserne la formola. Convinto più sempre, che l’istituzione dalla quale oggi è retto il paese è inefficace a fare l’Italia una, libera, prospera e grande, come noi — voi ed io — l’intendiamo; darei, giurandole fedeltà, un esempio d’immoralità politica a' miei fratelli di patria e un perenne rimorso all’anima mia. Abbiatemi, ora e sempre, fratello ed amico riconoscente.»
Nell’ufficio della Camera l'elezione fu conosciuta regolare, ma il governo unì ai verbali le due sentenze di morte, la piemontese per i fatti di Genova nel 1857, la bonapartista per il supposto complotto del 1857. La sinistra, per voce di Nicotera, di Zanardelli, di Guerrazzi, insisteva per la convalidazione: «finché siete in tempo — disse Zanardelli — fate che Mazzini non debba chiudere gli occhi in terra straniera.» Bixio domandò: «Oh! volete escludere un uomo, che, quando sia morto, sarà conosciuto il primo uomo d’Europa?» Crispi dimostrò che l’amnistia del 1859 comprendeva anche Mazzini, e citò in prova le parole del decreto, e la sentenza della Corte d’Appello di Genova che lo assolveva dal pagamento delle ottocento lire, reclamate dall’usciere che doveva impiccarlo. Ma gli uomini del terzo partito, cioè i piemontesi capitanati dal Rattazzi, uniti ai ministeriali di Lamarmora, votarono l’ostracismo al sommo fattore dell’italica unità; e di trecentodue presenti, centonovantuno confermarono l’esilio, centosette votarono il ritorno, quattro tacquero. Messina torna alla riscossa, e il 6 maggio rimanda Mazzini al Parlamento: egli di nuovo» ringrazia, rinunciando di nuovo: il Parlamento italiano, malgrado l’approvazione con 16 voti contro 11 nell’ufficio, conferma l’esclusione di Mazzini, plaudente con sogghigno l’ambasciatore francese Mallaret dalla tribuna diplomatica.
Messina, splendidamente ostinata, vuole Mazzini e non vuole altri, e lo rimanda per la terza volta, e la Camera finalmente conferma l’elezione. Mazzini di nuovo ringrazia e nuovamente rifiuta, e al presidente della Camera manda la seguente lettera da Londra, 7 febbrajo 1867:
«Signore. — Credo debito mio verso i miei elettori di Messina e verso la Camera, che approvò l’elezione, di significarvi, perché lo facciate noto, l’animo mio. Non accetto, comunque riconoscente, l’onore che mi è fatto; noi potrei senza contaminarmi di menzogna; e parmi che primo ufficio del cittadino — «segnatamente in una nazione che sorge — sia quello d’educare, come si può, coll’esempio i proprii fratelli, col culto della pura coscienza, all'adorazione del Vero. Repubblicano di fede, ho potuto tacerne quando importava che l'Unità materiale d’Italia, condizione indispensabile d’ogni progresso per noi, si fondasse a ogni patto e sotto qualunque bandiera; ma non potrei con tranquillità di coscienza giurare fedeltà alla monarchia, incapace, come io la credo, di fondare l'Unità morale della nazione. E profondamente convinto che l'istituzione fondamentale di un popolo deve rappresentarne la vita attuale — che l'unità della vita nazionale italiana, elemento nuovo e ignoto al passato, non può essere definita se non da un patto, liberamente discusso e votato dagli eletti del popolo tutto quanto d’Italia, — che senza quel patto ogni assemblea è condannata a errare nel vuoto, nella incertezza del fine nazionale e nella impossibilità di ottemperare i suoi atti a quel fine — io non potrei giurare fedeltà a uno Statuto, largito vent'anni addietro, senza discussione e in circostanze anormali, a quattro milioni e mezzo d’italiani del Settentrione, quando l'Unità d’Italia non era. Credetemi, signore, col dovuto rispetto.»
Egli frattanto, finita la guerra e perduta ogni speranza di ripigliarla, aveva radunato di nuovo gli amici vecchi e i nuovi convertiti dalla sventura, e formato con essi l’alleanza repubblicana, proclamandola pubblicamente nel Dovere del 29 settembre e ordinandola in ogni città italiana: ordinandola, intendiamoci chiaro, non più come semplice apostolato, ma con la doppia mira dell'educazione e dell'azione. Né mai più abbassò la bandiera che voleva e sperava far trionfare per voto di un’assemblea costituente eletta da suffragio universale in Roma.
A Roma teneva l’occhio fisso all’attitudine dei romani nel partire dei francesi. Insorgendo, avrebbero deciso li per lì i destini dell’Italia. Ma la forte generazione del 1849 era spenta. Diecimila romani erano in esilio, Petroni e tanti valorosi in prigione per sedici anni, una consorteria ordinata e pagata dal governo italiano predicava:
«Fate di non fare! — Cavour disse, — che andremo a Roma col beneplacito della Francia e col consenso del papa: fidiamo dunque nel re, e nel governo e nella diplomazia e nell’esercito del re. E neppure Napoleone è contrario: dové rimettere il papa sul trono per accontentare il clero francese, ma vedete che ha liberato la Lombardia, non si è opposto alle annessioni, non si è opposto a che il re cingesse la corona delle Due Sicilie, né anche alla battaglia di Castelfidardo: egli ci aveva ottenuto dall’Austria la cessione della Venezia senza sangue, quanto meglio sarebbe stato accettarla! Ora è venuta la volta nostra. State zitti: non cospirate, non date retta a chi parla del dovere di agire: se c’è bisogno di insurrezione, vi diremo noi il tempo e il modo, le armi ve le daremo noi; ma vedrete che si avrà Roma dai romani senza spargimento di sangue.»
Questo il sugo di tutti i discorsi, proclami e indirizzi del già Comitato nazionale: sue gesta i petardi di carta, i palloncini, le coccarde tricolore alle code dei cani (109). E Ricasoli (110) intento al giuoco tra la borsa e la sacrestia, o sia al contratto Langrand-Dumonceau, deprecò ogni dimostrazione nazionale, mentre era in Roma un inviato della corte d’Italia. Poi il Comitato sapendo quanto fosse ancora l'amore al loro triumviro, simularono una lettera di Mazzini ove sembrava fosse d’accordo con essi. Ond'egli:
«Perché gli uomini di parte monarchica imposturarono come mia una stolta lettera nella quale v’è predicata la pazienza e sono tacciati d’imprudenti, i nostri bei fatti del 1849, vi scrivo:.... Ignoro quale situazione impreveduta possano creare per voi le tattiche oblique del governo del regno e le trame degli agenti francesi con esso e col papa; e spero che voi vi governerete in ogni modo da forti, a seconda dei casi. Ma io vi parlo come se la Convenzione franco-italiana dovesse essere unica norma alle vostre condizioni. E di fronte a quella Convenzione, che comanda al governo italiano di non promuovere azione contro la potestà temporale del papa, di non tollerare ch’altri la promuova dalle terre italiane, e di serbare capitale d’Italia Firenze, voi avete due solenni doveri da compiere: il primo verso Roma e voi tutti, che portate sulla fronte quel santo nome; il secondo verso l’Italia e l’Europa.»
Il primo dovere, s’intende, era di agire, il secondo d’insorgere proclamando Roma metropoli d’Italia e sventolando la vecchia bandiera brutalmente strappata di sul Campidoglio dall’invasore straniero. Qui riassume la storia dal 49 in poi, e della monarchia dice:
«L’istituzione è moralmente condannata, l’esperimento è compiuto. Posso io suggerire a Roma, il santuario della terza vita che albeggia e darà vita al mondo nell'avvenire, di consecrare del suo prestigio senza delitto di profanazione una istituzione incadaverita, di cuoprire coll’immensa ombra della sua gloria le colpe, gli errori, la servilità allo straniero di una monarchia che non ebbe per voi una protesta nel 1849, che non trovò una parola da proferirsi a pro vostro nei vostri diciassette anni di servitù, che disse per bocca de' suoi ministri. — Non andrò in Roma se non col beneplacito della Francia e del papa? — «No: Roma non deve annettersi a Firenze; dobbiamo noi tutti annetterci a Roma. Ma per questo abbiamo bisogno che Roma risorga quale era quando salvò l’onore d’Italia, perduto in Milano e Novara dalla monarchia: abbiamo bisogno ch’essa si levi dal suo sepolcro, in nome, non del passato, ma della nuova vita dell'avvenire: abbiamo bisogno ch’essa splenda, per breve tempo isolata, siccome faro di verità e di progresso, alle incerte, desiose popolazioni d’Italia. L’Unità materiale d’Italia è pressoché fondata: oggi è necessario un simbolo che rappresenti l’Unità morale; e quell’unità non può venirci che dalla fede repubblicana. Ciò che abbiamo è forma senz’anima: l’anima aspettiamo da Roma: ma Roma non può spirarla nell’inerte forma, se non a patto di serbarsi pura dalle sozzure presenti. Accettandole, Roma cade; e con essa cadono, per non so quanto, i grandi fati d’Italia in Europa.»
Ma intanto in Roma il comitato della consorteria vigilava, e la loro polizia superava quella di Antonelli per il papa e del duca di Grammont per Napoleone. Mazzini aveva un comitato d’azione di pochi ma risoluti, alcuni in contatto anche diretto con Petroni in San Michele; ma uno ebbe cinque pugnalate, due furono imprigionati, e non si riuscì mai a introdurre armi in Roma o il nascondiglio fu sempre indicato alla polizia papalina.
Intanto i progetti di Ricasoli per la riconciliazione dell'Italia col papato mercé l'amplesso tra vescovi e banchieri non essendo riusciti, né approvata la proibizione delle riunioni di protesta, egli sciolse la Camera, e trovandosi di fronte gli stessi elementi, indispettito, si dimise: gli subentrò il Rattazzi che da tempo faceva gli occhi dolci alla sinistra. La sinistra, nel suo programma di opposizione parlamentare, aveva protestato contro
«La spontanea genuflessione colla consegna dell’armi al temporale pontificato che fulmina la città e contende all’Italia la sua capitale.»
Garibaldi, venuto sul continente, scrisse da Firenze il 22 febbrajo:
«Non solamente io aderisco al manifesto dell’opposizione parlamentare con tutta l’anima — ma spero che la gratitudine del paese non mancherà a quel patriottico documento.»
Rattazzi, notoriamente contrario alla Convenzione e al contratto Langrand-Dumonceau, per mezzo del suo collega Durando aveva proclamato l’urgenza di sciogliere il gran problema, affermando di non voler fare alcuna concessione alla chiesa se non quando fosse cessato il potere temporale dell’autorità ecclesiastica ed il governo italiano insediato in Roma. Donde nel popolo la convinzione che colle buone o colle cattive a Roma si andrebbe. Questa convinzione Garibaldi aveva fatta intensa con le sue concioni nel Veneto, a Torino e ad Alessandria.
— A Roma con Garibaldi — gridava il popolo; ed egli, incarnazione del popolo, rispose: «Si, a Roma. Eleggete uomini che vi conducano presto a Roma. Mandate al Parlamento uomini che vi facciano andare a Roma come a casa vostra, e che abbiano più a cuore gli interessi del popolo che quelli dei preti. A Roma sono persuasi che l’Italia ha abbastanza valorosi per prendersela colle armi. Ma non credo che sia il caso. Roma è nostra. È nostra legalmente. Andremo a Roma come andiamo nella nostra stanza in casa nostra.»
E al congresso della pace a Ginevra, il suo programma si riassumeva nei due articoli:
«Il papato, essendo il più nocivo delle sette, è dichiarato decaduto. — La democrazia può sola rimediare al flagello della guerra, lo schiavo solo ha il diritto di fare la guerra ai tiranni»
Qui cominciava il grande equivoco. Rattazzi non aveva intenzione di violare egli o di permettere che altri violasse la Convenzione: la sinistra non più di esso, benché si ordinasse colle nuove reclute per inaugurare una politica italiana dopo un moto da promuoversi in Roma. Ma Garibaldi ingannato dal Comitato nazionale che disse necessaria un’iniziativa nelle provincie, vinta l’opposizione de' suoi spinse Menotti a Rieti, Acerbi ad Orvieto, Nicotera a Napoli, poi arrestato da Rattazzi, il 24 settembre, mentre viaggiava pacificamente nelle provincie italiane, dalla fortezza di Alessandria gridava:
«I romani hanno il diritto degli schiavi, insorgere contro i tiranni, i preti: gli italiani hanno il dovere di ajutarli a dispetto della prigionia di cinquanta Garibaldi; avanti dunque, o italiani (111).»
E il popolo in tutta l’Italia e di tutte le classi si mostrava risoluto a completare il suo programma. Mazzini, benché consolato a vedere il rapido passaggio dal pensiero all’azione, nel popolo suo, previde, angosciando, l’inevitabile conseguenza dell’equivoco.
«Non a Roma andate — egli scriveva a tutte le associazioni e agli amici — cosi non andate a Roma, ma ad un nuovo Aspromonte. Fomentate, organizzate un moto in Roma, portando dentro o vicino armi e munizioni. Un moto nelle provincie è uno sbaglio madornale, dà la sveglia alla polizia papalina che concentrerà le truppe in Roma. Pur riuscendo, può essere annessa un’altra striscia di terra italiana: ma Roma e Civitavecchia resteranno al papa. Se anche il re volesse violare la Convenzione e far passare la frontiera all'esercito, il clero francese inferocito costringerà Napoleone a intervenire. Quest'intervento egli forse non desidera, perché Sadowa gli ha dato una forte scossa, il fiasco del Messico ha indispettito i francesi, l’abbandono di Massimiliano gli ha reso nemica l’Austria; e ora egli conta sulla monarchia italiana alleata al Reno; ma tutte queste cause sommate non contrabbilanciano la necessità di non rompere coll'ultramontanismo. In nome dunque di Roma e della patria, ajutate un moto in città, non lasciatevi sedurre per le provincie: sareste perduti e la questione romana rimandata alle calende greche.»
NINO BIXIO |
«L’ali un di spiegherà sul Campidoglio
«La libertà regina.»
CARDUCCI.
Senza l'accusa lanciata contro Mazzini ch'ei fosse stato causa della catastrofe di Mentana, quella gloriosissima tra le gesta italiane non avrebbe luogo nella nostra narrazione. Ma dacché l’accusatore fu il «vindice di Mentana», indotto alla non vera credenza dai veri autori della sciagura, dacché l’accusa non fu lanciata nell'angoscia della sconfitta, ma detta e scritta a mente riposata, ripetuta dopo la morte dell’apostolo dell’unità, riconfermata l’ultima volta che l’eroe beava il popolo col suo sorriso inaugurando il monumento ai caduti in Mentana in Milano; giustizia vuole che a fine di vero si tracci la serie dei fatti del 1867.
L’Italia, all’arresto di Garibaldi, fu così fieramente commossa che, oltre le dimostrazioni di Milano, Torino, Genova, Bologna, Napoli, Palermo — scrive Mauro Macchi —
«A Firenze, in quella stessa cosi tranquilla capitale provvisoria, a stento il Rattazzi riuscì a salvare la vita, dové rinunziare a tornarsene a casa sua, e fu fortuna se ricoveratosi in una vettura potè recarsi e fare sua stanza nel Palazzo Pitti.»
Allora Rattazzi capì che senza mettere in arresto mezza Italia non si poteva fermare il movimento nazionale. I fatti di Alessandria e le parole di Garibaldi «nella cittadella d’Alessandria mi fu offerto di andare libero a Caprera senza condizione», e poi saperlo a Caprera prigioniero, aveva raddoppiato l’ardore di andare a Roma. Più di trentamila volontari spesseggiarono alla frontiera. Rattazzi intese necessario seguire il consiglio di Garibaldi: invadere Roma coll’esercito italiano, e subito; ma l’impediva la volontà del re, ferma a rispettare la convenzione, quando altro non avesse permesso Bonaparte. Ma se costui avesse pur un momento pencolato, lo avrebbero raffermato la lettera insolente del vescovo d’Orleans e l'attitudine minacciosa del clero francese. E mancava l’unico pretesto, l’insurrezione in Roma. Non ostante gli sforzi di Castellazzo, il quale, inviatovi da Garibaldi, riuscì a ordinare un migliajo di popolani pronti all’azione, mancavano le armi. Né di più ottennero. Cucchi, nominato da Garibaldi suo rappresentante in Roma, con Guerzoni, Adamoli e Bossi. Fino al 16 ottobre Roma — scrive Guerzoni —
«Non aveva una sola arma; e quanto a cospirare, la sveglia data alla polizia papale dalla invasione garibaldina nelle provincie l'avea reso cosi pericoloso e difficile, che poteva dirsi un miracolo se la trama. non fosse scoperta dieci volte al giorno e disfatta.»
Intanto, non ostante che mezza flotta italiana lo tenesse prigioniero, Garibaldi eseguì quella maravigliosa fuga, che, gettandosi egli tra le braccia di Benedetto Cairoli, gli facea dire:
«Di tante rischiate imprese che ho tentato in vita mia la più ardua e la più bella, e di cui sentirò un «certo vanto fino che campi, è questa mia fuga da Caprera.»
Indescrivibile il tumulto di sentimenti contrari cagionato da quella miracolosa apparizione. Il popolo, il re, il governo, il parlamento, erano tutti sossopra; qua la gioja e l'esultanza, là la costernazione e lo sgomento che paralizzava le autorità. E qui bisogna ricorrere al carteggio telegrafico personale tra Napoleone e Vittorio Emanuele, trovato tra le carte delle Tuileries. Il 13 ottobre Napoleone minaccia l'intervento: il re lo stesso giorno alle ore 10 di sera rispondeva:
«Devo confessarvi che lo spirito delle popolazioni italiane è eccitato, e che la sola idea di un intervento francese potrebbe avere conseguenze della più alta gravità, ch’io desidero impedire ad ogni costo. Noi continueremo a fare tutto il possibile onde paralizzare l’invasione dei volontari; ma, se le cose arrivassero al punto previsto da V. M., l’unico mezzo per. accomodar tutto sarebbe quello di mandare le nostre truppe a Roma. Quanto alla questione politica, potremo intenderci dopo.»
E il 19 ottobre:
«Fo appello alla vostra antica amicizia per me e per l’Italia, pregandovi di ascoltare quanto segue. Io so che V. M. si trova, per le circostanze presenti, in una situazione difficile in Francia; ma io pure «mi trovo in una situazione assai più tesa qui, ove l’opinione nazionale é eccitata. Sarei ben dolente oggi se i legami d'amicizia che ci hanno sempre uniti dovessero spezzarsi. V. M. desidera che si ristabilisca l’ordine nel territorio romano, dove la rivoluzione fu causata dalle aspirazioni nazionali. Il mio governo ed io, per mantener fede al trattato di settembre, l’abbiamo combattuta con tutte le nostre forze al di «qua dei confini di quel territorio. Ora che, d’accordo anche colle popolazioni, minaccia la sicurezza della Santa Sede, io non posso far nulla per impedirla, non potendo passare il confine. Se V. M. crede dover inviare truppe a Civitavecchia o a Roma, io dovrei simultaneamente oltrepassare il confine, e si metterebbe ben tosto termine a cotesto stato anormale di cose. Farei nel medesimo tempo un proclama nel quale dichiarerei di non avere alcuna idea ostile contro l'appoggio francese, e dichiarerei anche formalmente che è per ristabilire l’ordine, violato nostro malgrado, che noi ci avanziamo. V. M., nell’alta sua saggezza, troverà poi il modo di accomodare le cose in guisa che gl’interessi delle due nazioni sieno messi in salvo.»
Dunque l'intervento misto fu proposto dal Re. Napoleone rispondeva il 22:
«Un’occupazione mista non farebbe che complicare la quistione pei due governi.»
E il re senza il permesso di Napoleone non permise a Rattazzi di mandare le truppe al di là della frontiera. A questo accenna chiaramente l’ex ministro nel discorso dopo i fatti di Mentana (112).
Napoleone tentennava ancora, per avere l’Italia alleata sul Reno; ma, visto la violenza dei clericali da una parte e l’ostilità all’Italia di Thiers e compagni dall’altra, fece uno dei suoi scaltrissimi calcoli: «Intanto mi riprendo Roma: quando m’occorrerà l’esercito italiano sul Reno, torneremo a parlare di Roma.» E avvertì il re della partenza della flotta. Dimissionario Rattazzi; non riuscito Cialdini a persuadere Garibaldi di rinunciare alla spedizione, vedendolo anzi partire, passare la frontiera e vincere a Monterotondo (23 ottobre), non volle o non potè formare un ministero; perciò il re chiamò a se Menabrea, ugualmente devoto al papa e a Napoleone.
L’atroce proclama del 27 ottobre resterà documento delle intenzioni della monarchia intorno a Roma. Ma ne meno questo placava Napoleone: ad una nuova preghiera del re risponde telegraficamente il 27 ottobre: «Mi è moralmente e materialmente impossibile arrestare la spedizione.» E la spedizione sbarcava a Civitavecchia.
Intanto i romani, ricevuta dal comitato di Firenze a nome del Rattazzi, dal generale Fabrizi e da tutti la reiterata preghiera: Una schioppettata, una sola schioppettata, per carità! si decisero di fare l’impossibile. Nel disegno dei congiurati (Castellazzo era già arrestato) era assalire il Campidoglio e il corpo di guardia di Piazza Colonna, condurre un carico d’armi arrivato la vigilia, dalla villa Matteini e, sfondando la porta San Paolo distribuirle a Campo Vaccino, far saltare la caserma Serristori, inchiodare l’artiglieria di Sant’Angelo: tutto questo a giorno ed ora fissa, il 22 ottobre alle ore 7 della sera. E non ostante l’immenso sconforto della prigionia di Garibaldi, sconforto non pure per la mancanza dell'aspettato Messia, ma per la prova che il governo italiano stava contro, gli animosi popolani risposero tutti all’appello. Ma la polizia era informatissima: il governatore Zappi murava sei porte della città, raddoppiava i posti della piazza Colonna e del Campidoglio, tratteneva le truppe in quartiere. E le comunicazioni furono in tale guisa intercette che nessuno dei capi in Roma ebbe avviso dell’avvicinarsi i fratelli Cairoli colle sospirate armi: i quali coi 76 compagni furono costretti fra i canneti della riva, poi a far sosta a Villa Glori sui monti Paridi; ove soverchiati da nemici tre volte superiori, mori Enrico nelle braccia del dieci volte ferito Giovannino, e fu decimato il fiore dell’italica prodezza. La caserma Serristori saltò, ma con poco danno ai zuavi, i quali coi gendarmi e i dragoni stavano sequestrando a Guerzoni e altri sette valorosi le armi nascoste a Villa Matteini. Ma non doveva essere detto che Roma si levava senza le romane: e nel lanificio Ajani in Trastevere assalito dagli zuavi la Giuditta Tavani Arquati gli sfidò a morte. Dal tetto, dai balconi, dalle porte combattono tutti: passata la soglia gli zuavi pugnalarono quanti trovarono sulle scale é nelle camere: sempre avanti la Giuditta, con un figlio in braccio e un altro in seno, incoraggia gli eroi maledicendo i carnefici; finché, morto il figlio quattordicenne, morto il marito e altri nove difensori, cadde morta anch'essa salvando l’onore di Roma.
La notizia della mancata insurrezione e della catastrofe di Villa Glori fu data a Garibaldi dai superstiti; mentre egli gettatosi negli Stati del papa ordinava le forze di Menotti per la marcia in avanti. E proseguì, e vinse a Monterotondo (24-25 ottobre); il giorno stesso in cui Acerbi s’impadronì di Viterbo insediandovi la prodittatura e proclamandovi i plebisciti, come fece il Nicotera a Frosinone e a Velletri (28 e 30 ottobre). Poi venne al generale da Roma un messaggio bugiardo, annunziando Roma pronta a ritentare nella notte del 29 al 30 una riscossa: onde egli, ordinando ad Acerbi e Nicotera di raggiungerlo, mosse difilato con tutte le sue forze su l’eterna città; ma sopravvenuti travestiti da Roma Guerzoni ed Adamoli gli tolsero ogni illusione — tutto spento — i romani non potevano fare né tentare altro. Egli guidò le sue genti a una ricognizione su Ponte Nomentano: «L’obbiettivo — egli scrive — di riconoscere la presenza del nemico sul Teverone.» E mentre stava con ottomila uomini sotto Roma a Casal dei Pazzi gli giunse per speciale messaggero il proclama del Re: la sera stessa diè ordine di ritornare a Monterotondo. Da quel momento i volontari, già lieti per la presenza di Garibaldi, fieri della vittoria di Monterotondo, disciplinati, entusiasti come nel 1860, cominciarono a sbandarsi: chi gettava i fucili, chi partiva con le armi. Nel ritorno, quella notte a Marcigliano e l’indomani da Marcigliano a Monterotondo, i carri destinati da Bertani per l'ambulanza furono pieni dei fucili gettati. A Monterotondo venne con la posta il proclama del re a migliaja di copie; ed emissarii giravano tra i volontari dicendo:
«I francesi sbarcano a Civitavecchia, là truppa italiana passa la frontiera per arrestarvi, l’ordine è dato che non passi più nemmeno una briciola di pane, sarete presi tra due fuochi, tornate a casa.»
Non tocca a noi indagare i motivi della marcia retrograda volontaria, ignota nei precedenti fasti garibaldini: certo nella mente degli animosi significava un secondo esodo del Tirolo, mentre gli indispettiti e quanti non vollero passare per ribelli abbandonavano il campo. Qui è il punto di esaminare la condotta di Mazzini da quando fu gittato il dado. Abbiamo visto che egli, con tutti gli uomini esperimentati, vedeva impossibile un’insurrezione in Roma senza l’armamento clandestino e il paziente ordinamento. Era poi chiaro che il re non volle denunciare la convenzione; altrimenti avrebbe colto il legittimo pretesto offertogli dalla violazione di essa per parte della Francia colla legione d’Antibo composta di soldati tolti ai reggimenti attivi francesi, dalla lettera famosa del ministro della guerra maresciallo Niel al conte d’Argey comandante la legione, dalla rivista passata alla legione dal generale Dumont. Era certo che il re l’avrebbe rispettata e fatta rispettare a costo di un nuovo Aspromonte. Mazzini, pure disapprovando la mossa in provincia, soltanto perché rendeva «impossibile ogni sorpresa in Roma», visto il fermento di tutto il paese, accettava l’inevitabilità del moto, e fece ogni sforzo per spingere gli amici tutti. E a tutti scrisse:
«Se mai Garibaldi raccogliesse volontari senza opposizione del Governo, i nostri come i non nostri lo «seguiranno: se quel caso venisse, i repubblicani non dovrebbero astenersi, dovrebbero andare tutti, e toccando il suolo di Roma mandare il grido di repubblica, al quale gli istinti del popolo assentirebbero. Nulla lo impedirebbe, quand'essi lo vogliono. Non si tratta più di guerra governativa a fianco dell'esercito con giuramenti di fedeltà e di obbedienza: si tratterebbe di un campo indipendente, di volontari che accettano per le operazioni militari la direzione di Garibaldi, ma conservando intatti i loro diritti di cittadini e la loro fede politica.»
E tutti andarono, i vecchi e la nuova gioventù «nello splendore delle armi prime.»
Guerzoni mette i mazziniani tra i primi seguaci di Garibaldi nella campagna Romana del 67.
«Indi quà e là nelle città costituiti in Comitati gli impenitenti superstiti delle Loggie e delle Vendite di trentanni; gente incorrotta, austera, tenace, che è nata congiurando, che morrà congiurando, il cui «sommo gerarca è Mazzini; ma ora per l’idea carissima di aver Roma richiamata a nuova vita è raccolta tutta intorno all'uomo che Roma invocava.»
«Cito — scrive Aurelio Saffi, vero alter ego di Mazzini in Italia — un esempio domestico. Nella mia «città nativa, Forli, l'ufficio di arruolamento fu aperto nel quartiere della guardia nazionale. Il Comitato di arruolamento era composto di assessori e consiglieri del Comune, fra" quali io e Alessandro Fortis, oggi deputato. Il Consiglio comunale votò una somma di lire 500 in sussidio dell'impresa e diede facoltà alla Giunta di disporre dei fucili della guardia nazionale per l’armamento dei volontari La Prefettura non frappose ostacoli alle deliberazioni consigliari. Furono così armati ben quattrocento giovani, che mossero, senza impedimento, ordinati in battaglione, con viaggio gratuito sulla ferrovia, alla volta del confine romano. Li comandava il maggiore Cantoni, giovane prode, gentile, caro, per private e pubbliche virtù, a suoi concittadini; e del loro patriottismo e valore fecero ottima prova nell’agro romano da Monterotondo a Mentana, dove parecchi d’essi caddero feriti a morte insieme al loro comandante.»
E Antonio Mosto, capo cospiratore e condannato a morte nel 1857, duce dei carabinieri genovesi nel 1859 e tra i Mille di Marsala e nel Tirolo, repubblicano di fede e a Mazzini devoto, come Burlando, Stallo e Uziel, partirono da Genova coi loro militi; e Uziel morì, e Mosto fu storpiato a Monterotondo e Stallo ferito a Mentana. A Bezzi, che lo interrogava se si fosse opposto alla consegna dei fondi ch’erano nelle mani del comitato di Londra, Mazzini rispondeva:
«É falso: non ho mai dato quest’ordine, anzi le mie istruzioni furono di consegnare il tutto, e cosi avvenne. Non è vero ch’io ponga ostacolo alla vostra spedizione; diedi anzi ordine ai nuclei, che dipendono da me, di seguirvi. Chi vi dice il contrario v’inganna sapendo d’ingannarvi.»
E Bezzi conducendo la sua brigata combatté valorosamente a Monterotondo e fu degli ultimi ferito a Mentana. Repubblicani erano Missori, Caldesi, Valzania, Tanara, Bianchini e Zambonelli, sul cui cadavere Giorgio Imbriani giurò «fedeltà a quella idea che avemmo comune teco» e il giuramento fu mantenuto da lui e dagli altri prodi che combattevano e morirono per la repubblica vendicando Mentana a Digione. Ora a tutti questi repubblicani venuti al suo campo che motivo diè Garibaldi per disertare? Egli nel 1867 non disse o scrisse una parola che potesse interpretarsi un volere imporre ai romani la bandiera regia.
Egli riprendeva «con orgoglio il titolo di Generale Romano che la repubblica gli avea conferito nel 1849»; e fra le istruzioni ai capi delle colonne dava questa:
«Scopo del movimento è il rovesciare il governo dei preti, proclamare Roma capitale d'Italia e lasciare il popolo romano in piena libertà sulle proprie condizioni di plebiscito. (113)»
E dopo la vittoria di Monterotondo:
«Noi siamo sulla via di Roma i precursori del popolo. Sulla sua bandiera, che noi abbiamo risollevata, sta scritto: ABOLIZIONE DEL POTERE TEMPORALE DEL PAPA — ROMA CAPITALE D’ ITALIA — LIBERTÀ DI COSCIENZA — UGUAGLIANZA DI TUTTI I CULTI INNANZI ALLA LEGGE. Questa era pure la bandiera del popolo romano quando il 22 e il 24 ottobre con disperato ed eroico sforzo tentava stenderci la mano ed «aprirci le porte di Roma. Questa e non altra è la causa per cui combattiamo: contro di noi non stanno che coloro i quali hanno obliato di Roma persino il nome e cospirato per il ritorno dello straniero sul suolo italiano... L’irrevocabile impegno d’onore assunto dal governo col popolo era ed è: L’Italia una e indivisibile. Quando ad un tanto impegno un governo vien meno, il popolo subentra e salva sé stesso......»
E quando seppe passato l’esercito italiano oltre la frontiera per impedire a lui d’andare a Roma:
«Il governo di Firenze ha fatto invadere il territorio romano da noi conquistato con prezioso sangue «sui nemici d’Italia. Noi dobbiamo accogliere i nostri fratelli dell’esercito con la solita amorevolezza ed ajutarli a cacciare da Roma i mercenari stranieri sostenitori della tirannide. Se però, fatti infami, continuazione della vigliacca convenzione di settembre, spingessero il gesuitismo di una sudicia consorteria a farci mettere giù le armi in obbedienza agli ordini del Due dicembre, allora ricorderò al mondo che qui io solo, generale romano con pieni poteri, dal solo governo legale della repubblica romana eletto con suffragio universale, ho il diritto di mantenermi armato in questo territorio di mia giurisdizione: che se questi volontari, campioni della libertà ed unificazione italiana, vogliono Roma capitale d'Italia, compiendo il voto del parlamento e della nazione, essi non deporranno le armi se non quando l’Italia sarà compiuta, la libertà di coscienza e di culto edificata sulle ruine del gesuitismo, ed i soldati dei tiranni saranno fuori del nostro libero suolo.»
Mazzini, a Lugano, letto il proclama del re, saputo l’invasione francese e le intenzioni del governo, mandò a Garibaldi Giuseppe Barboglio nipote di Gabriele Rosa col seguente proclama che egli volle da Garibaldi firmato.
«Abbiamo di fronte l’invasore straniero, tra noi un governo che invece di respingerlo patteggia vilmente con esso. È governo decaduto: l’onore d’Italia è fidato al paese. Chiamo gl’italiani alla guerra nazionale: ma per farla é necessario si faccian padroni dei propri mezzi. — Insurrezione dunque. — Nessuno può accusarmi di non essere stato paziente. Ho esaurito colla monarchia tutte le prove, tutte le concessioni, tutta l’obbedienza possibile. — Dispero d’essa, non dispero dell'Italia; ad essa la risposta.»
E nella lettera che accompagnava il proclama scrive:
«Sono malato seriamente, ma tenterò di fare il mio dovere: in nome di Dio e del paese che può avere salute da voi fate il vostro... Non mettetevi in gabbia da per voi, il vostro posto è in Napoli. Se non potete ora più coi vostri, cercate andarvi voi con due ufficiali; chiamate Napoli ad insorgere; risponderà: — Avrete una base. — Fate appello all’esercito: si pronuncierà. — Disperdete le vostre colonne in nuclei armati che portino ovunque possono l’insurrezione: agirò io simultaneamente nel nord. È il mio ultimo grido a voi dal fondo dell’anima. Sappiate intenderlo. — Vostro sempre GIUSEPPE.»
Quando giunse il messaggiero Garibaldi era già di nuovo in gabbia. Oltre i fatti, il senso comune dimostra che Mazzini, ansioso di vedere risollevata in Roma la bandiera abbattuta dallo straniero nel 1849, non avrebbe mai consigliato i suoi di tornarsene, mentre altri combattevano contro il papato; e spiega perché li spingesse tutti verso Roma per fare propaganda di repubblica tra i romani. Nondimeno, due anni dopo Mentana, venute fuori le voci che i mazziniani disertando cagionarono la ruina, io raccolsi i giudizi dei più noti capi. Cito alcuni (114): Nicola Fabrizi mi scrisse:
«La mia convinzione fondatissima su tutto che prevedeva e udiva e riconosceva è che il proclama reale con cui s’iniziò il ministero Menabrea fosse quello che decise moralmente la situazione. L’accusa di insinuazione per parte di Mazzini all’abbandono, la ritenni sempre un equivoco del generale Garibaldi e una calunnia di chi gliel'aveva riferito.»
All'inaugurazione del monumento a Mentana, Garibaldi ripeté l'accusa (115) e nessuno la contraddiceva. Scrissi da capo al generale Fabrizi, il quale mi promise di smentire pubblicamente le false voci e diceva:
«Mi sembra d’aver altra volta scrittole sul come si attenuasse di forza morale e reale l’intrapresa del 1867. — L’impressione del proclama reale creò nei volontari due correnti: nei moderati, o desiderosi di non oltrepassare certi limiti di rischio, servi a pretesto o motivo per dichiararsi contrarii ad un’impresa apertamente contraddetta dal governo: invece presso i repubblicani eccitò un sentimento di ripugnanza ad un’impresa che conservava il titolo politico e la insegna di un regime che si dichiara ostile all’impresa stessa. Questi due sentimenti furono istantanei e spontanei, tanto più certo in quanto che si sviluppavano nella bassa forza, la quale non aveva corrispondenze coi loro paesi. Un fatto però tutto «speciale a nuova truppa, non abituata alle alternative delle combinazioni militari e specialmente invigorita nella propria influenza dalle consuetudini delle campagne garibaldine, cioè del procedere sempre innanzi, fu quello della ritirata da Monterotondo dopo la ricognizione eseguita sino alle vicinanze di Roma. «Fu in quel primo fatto di contromarcia che si sviluppò la diserzione.»
Finalmente, e perché Alberto Mario, che dopo la morte di Garibaldi stava preparando una seconda edizione della Vita del Duce al quale la morte lo congiunse un anno dopo, dichiarò rimettere la decisione della questione a Elia, «più competente — secondo lui — di Fabrizi capo, o di lui vicecapo di stato maggiore, e per questione di servizio più in rapporto cogli ufficiali che coi soldati»; io chiesi al nobile ferito di Calatafimi, che nell’agro romano comandò tremila romagnoli, il suo autorevole giudizio.
Ecco la sua risposta:
«Isola di Tremiti, 12 novembre 1885. — Carissima signora. Sono stato per qualche tempo poco bene in salute e non ho potuto subito rispondere alla gradita vostra. Voi mi domandate se è mia opinione che la catastrofe di Mentana fu causata dall'abbandono dei mazziniani prima del combattimento — abbandono ordinato da Mazzini. — A ME CONSTA IL CONTRARIO — La verità è che: — Ritornati a Monterotondo dopo la ricognizione fatta sotto le mura di Roma, de' miei tre battaglioni, ognuno dei quali numerava più di mille volontari e coi quali si era formata la sesta colonna da me comandata, non ne rimasero che gli scheletri. Sparsosi fra le file de' miei volontari il proclama del re Vittorio Emanuele, tutti quelli che «temettero di essere considerati ribelli, ed altri ancora che avevano abbandonato impieghi e famiglia, convinti, dopo la ritirata, che a Roma non si andava, deposero le armi e si ritirarono. E fu con vivissimo dolore che io vidi assottigliarsi le file nei miei battaglioni in modo tale, che, allorquando li riunii per farli marciare secondo le istruzioni avute, dei 3000 e più volontari che li componevano, non ne rimanevano che sette od ottocento in tutti! E dei rimasti che fecero bravamente il loro dovere molti professavano principii repubblicani e pagarono di persona, come il capitano Grassi, morto 'a Mentana, gli ufficiali Tironi e i fratelli Zeri! e Occhialini feriti gravemente ed altri volontari feriti e morti, i nomi de quali stavano inscritti nel rapporto, sulla parte presa dai miei nel combattimento, trasmesso al capo dello stato maggiore generale N. Fabrizi, la cui perdita oggi deploriamo. E non professavano principii repubblicani Canzio, Valzania, Maver, Frigesi, Statlo, Missori, Burlando, Bezzi e il compianto Mario vostro consorte e tanti altri che condussero alla pugna i pochi volontari rimasti e fecero pagare si caro le. meraviglie dei Chassepots del generale De Faillv? Questa è la verità, che del resto è conosciuta da quanti si trovarono al — se son fortunato — certo non inglorioso combattimento di Mentana; — ed io non ho mai inteso che si sia detto il contrario. Le cause, secondo il mio avviso, che fecero ritornare alle loro famiglie un numero si forte di volontari furono diverse: ma due ebbero grande prevalenza. La prima, la credenza che dopo la ritirata a Monterotondo non si andava a Roma. La seconda, che a molti non piaceva di essere considerati ribelli e temevano le conseguenze. Vi prego credermi sempre devot. vostro A. ELIA.»
AGOSTINO BERTANI NEL 1860 |
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Credo che questo basti per tutte le persone di buona fede; e avrebbe di certo bastato a Garibaldi, se una tale giuria si fosse pronunciata lui vivo. Né di altri ci curiamo: Certamente non di quelli che, come ben disse il Bertani, negarono agli eroi di Mentana «l’onore di essere morti».
Non v’è dubbio che, senza l'intervento dell’esercito francese, Garibaldi riunendo a sé le genti di Acerbi e Nicotera, deludendo la vigilanza della polizia papalina e beffandosi di zuavi e francesi travestiti, sarebbe piovuto a Roma nel 1867 come a Palermo nel 60. Egli stesso nella lettera a Quinet dice non si sarebbe mai aspettato che i soldati di Solferino e di Magenta assalissero i volontari; ed era cosi ferma in lui questa convinzione che, scrive il Bezzi:
«Quando i francesi erano già usciti da Roma, Garibaldi disse: Vedrete che i francesi per ora non ci attaccheranno; prima di farlo, a mezzo del governo nostro mi intimeranno di sgombrare dall'Agro Romano.»
Invece il suo governo di nulla l’avvertì, ma mandò l'esercito italiano ad assistere fremente con l’arma al piede, al macello. I posteri si maraviglieranno non della disfatta, ma della più che umana gloria che ha nome Mentana. Certo che non v’è italiano degno del nome, il quale salendo i colli che chiudono nella sua conca l’indifensibile villaggio, non si prosterni «su quelle zolle di strage livide», non baci lagrimando quei «cespugli di sangue roridi, dovunque era un brano dei cuori delle madri italiche!» Pensare che in quattromila volontari sfidarono e per mezza giornata vinsero due eserciti — francese e papalino —, undicimila uomini sui colli, con quattordici pezzi d'artiglieria, colla riserva distesa fino a Roma! Pensare che, fortificatosi Garibaldi in Monterotondo, i millecinquecento rimasti a Mentana tennero il campo per 24 ore, costringendo gli alleati a passare l'ingloriosa notte fuori del campo e all’aria aperta, tremando d’un attacco! I vincitori non vollero persuadersi che un pugno di giovani armati di catenacci avessero fatto si splendida difesa, che non vi fossero «battaglioni piemontesi travestiti;» e gli ufficiali francesi ne domandarono a Bedani. E a Roma, ove fui spedita da Garibaldi per ricuperare il cadavere di Enrico Cairoli e il ferito Giovanni, me ne domandarono il generale Kanzler e il generale Zappi. Il giorno appresso nel nostro ospedale a Monterotondo trovai il De Charette capo dei zuavi al letto del ferito capitano Quatrebras, meravigliato di quanto da questo udì. E un ufficiale di marina francese mi narrava le prodezze degli ufficiali garibaldini che sempre condussero i volontari alla mischia. Ma la testimonianza inappellabile è di quel gran francese che amò sempre e sempre sostenne il diritto degli italiani alla loro unità, di Edgardo Quinet; il quale, ricevute le notizie ufficiali telegrafiche, scrisse a Garibaldi due lettere di ammirazione attonita, terminando la seconda così:
«A misura che si conosce meglio l'enorme disuguaglianza delle armi, la giornata di Mentana apparisce una delle più gloriose per voi e per gli Italiani... I nostri amici siano superbi di tale giornata. Essi ne hanno il diritto. Quanto a me, la mia sola consolazione, il mio sol orgoglio è di dirmi vecchio amico» dell'Italia e vostro amico.»
Sola al mondo la consorteria negò e nega essere Mentana una gloria d’Italia! Dinanzi ad una Camera, ove signoreggia quel partito che non volle Roma capitale d’Italia, occorreva l'ingenuità d'un poeta, per domandare, quasi a placare i mani del superbo vindice, testò morto,. che i vinti di Mentana fossero riconosciuti benemeriti della patria (116). Creda Cavallotti, prode e generoso! ci vuole la luce di un giorno che nato non i perché siano resi a quei gloriosi i meritati onori. Ben dice Giosuè Carducci: «Surse in Mentana l’onta dei secoli Dal triste amplesso di Pietro e Cesare: Tu hai, Garibaldi, in Mentana Su Pietro e Cesare posto il piede:» ma quegli splendidi ribelli, quel popolo incarnato in Garibaldi, non demolirono soltanto il passato, edificarono per l'avvenire. Quei vinti resero impossibile un alleanza allo-brogo-bonapartesca per soggiogare il popolo germanico sul Reno, provarono che il popolo italiano, maestro Mazzini, duce Garibaldi, sapeva fare il dover suo, combattendo e morendo per il diritto italico in Roma; mentre la monarchia, obbedendo all’uccisore di due repubbliche, lasciò uccidere i volontari nel 67, poi nel 70 agguantò Roma solo quando le baionette straniere che per vent’anni sorressero il papa furono infrante a Sédan. Allora i superstiti di Mentana, ancora duce Garibaldi, suggellarono col purissimo sangue la vera alleanza tra i popoli. Cristo crocifisso dai nemici perdonò. I repubblicani d’Italia si offrirono di portare la croce dei nemici, della Francia due volte fratricida, ora schiacciata e invasa. E caddero vittime volontarie, cuori dedicati alla morte. E là tra i due termini — Mentana e Digione — giustificarono l'altera sentenza di Mazzini: che dall’Italia del popolo per la terza volta escirà il verbo dell’umanità!
Ritornata da Roma, e sapendo che Mazzini gravemente malato desiderava vedermi, andai a Lugano, ove egli e Quadrio e la cara e bella Giulia Modena erano ospiti della Sarina Nathan alla Tanzina. Benché quella dolce amica mi venisse incontro, nessuna parola poteva prepararmi allo spettacolo del cambiamento prodotto nell’amico da tre anni di incessante soffrire. Distrutta era il perfetto ovale della faccia, la ricca carnagione olivastra cangiata in terreo pallore, i folti fini e nerissimi capelli erano scarsi e bianchi; senza la intensa luminosità degli occhi e il sorriso che al vedermi irraggiò il volto, ove un istante prima regnava una mestizia ineffabile, non avrei riconosciuto in quella fragile forma distesa ed inerte colui che lasciai nel 1864, pur dopo due malattie, rifulgente di energia e di vigore! — Potei a pena articolare una parola, stringendogli la mano che non avea più quella singolare forza nella stretta che tutti gli amici ricordano. Tutti noi e Cattaneo insistevamo per la chiamata di Bedani, nel quale esso Mazzini aveva un’illimitata fiducia (117); ma egli non volle chiamarlo, temendo nella sua squisita gentilezza di far dispiacere al medico curante, amico e antico cospiratore. Avvertito, questi fu il primo a volerlo; e allora e ancora due volte Bertani richiamò Mazzini dall’orlo della tomba.
Cattaneo, il quale né allora né mai era d’accordo con Mazzini in teoria o in pratica, altamente lo venerava e si struggeva all’idea che l’Italia dovesse perderlo. Bertani (118), annunciandomi nel 69 la morte di quel sommo, narrava quanto Mazzini godé di una sua visita e come nell’anno appresso il Cattaneo morente riconobbe Mazzini, il quale era salito a Castagnola per salutarlo; né dopo riconobbe alcuno. Quando il Canton Ticino unito in fede si unirà di fatto all’Italia, Lugano diverrà un vero santuario, ove i pellegrini affolleranno a rivedere quegli ameni luoghi così cari ai due grandi estinti. E tributeranno pensieri di riconoscenza alla sante donne che furono la Maria Guerri, la Sarina Nathan e la famiglia Grillenzoni, per le costanti e amorose cure che prodigarono all’uno e all’altro.
Durante il mese che io vi passai Mazzini ebbe parecchi giorni sollevati, tanto da potere scendere a pranzo all’ampia tavola cui la Sarina circondata dai figli, dalle figlie e dai nipotini amorevolmente vigilava. E Mazzini si trovava bene in quella geniale atmosfera di affetto giocondo e di delicate premure; volle che io per filo e per segno narrassi gli avvenimenti dell’anno fortunoso. Voleva sapere di Dolfi, di Cironi e «dei buoni fiorentini», e dei signori di sinistra» in parlamento. Poco di consolante io potei dire; e ripetutamente tentai persuaderlo che, fino all’entrata degli italiani in Roma, un partito repubblicano per azione non era pensabile.
«E pure — egli disse — se io potessi recarmi in Sicilia e rimanervi nascosto tanto da intendermi coi buoni che là giù soffrono per l’ignominia del presente e aspirano alla vera Italia, vedreste scomparire ogni sintomo di separatismo e solo il repubblicanismo procedere trionfale sulla via di Roma.»
E, a dire il vero, io avea riportato dalla Sicilia sì profonda ammirazione, sì cara memoria di quegli isolani fieri, degli audaci picciotti, delle colte e gentili donne, che anch'io credevo capaci i Siciliani di atti eroici più che altri popoli, purché guidati da uomini puri e disinteressati e che sappiano farsi amare. Ed era assai più grato discorrer di loro che non discutere sui fatti di Roma o di tentare difendere dai suoi strali i cari incorreggibili membri della sinistra, che credevano in buona fede gli errori commessi colpa degli uomini e non del sistema. Fatto è che della Sicilia si parlava spessissimo; e ogni sua parola mi tornava m mente quando lo seppi partito per l’isola nel 1870. E un altro ricordo mi tornò a mente: per quanto egli sprezzasse le calunnio e le menzogne ogni volta che l’accusarono di stare dietro le scene e mandare altri al macello, pure ne soffriva, specialmente se le accuse venivan fuori in Inghilterra. E in quei giorni il solito ex regicida, il reietto dalla Camera italiana, il difensore degli schiavisti in America, il costante calunniatore della. patria e dei suoi grandi all’estero, nel Times, travisò un verso di Byron che del Corsaro dice «l’ultimo dei suoi uomini che non potè morire,» per dire di Mazzini l’ultimo dei suoi che non volle morire.» L’articolo era anonimo, ma egli lo riconobbe di Gallenga.
«É dal 1849 — disse — che costui fa strage della mia fama in questo modo vile. E pure non dispero di morire anch'io sul campo.»
Verissimo, e nello stesso anno a quel rinnegato Medici scrisse:
«Signor Gallenga (119). — Eccovi i fatti. Mazzini venne a raggiungere Garibaldi a Bergamo, tre o quattro giorni prima della capitolazione di Milano. Si sa che il loro piano era di concentrare tutte le forze nell’alta Lombardia dove, coll’ajuto di forti posizioni e di popolazioni ancora insorte ed armate, potevasi rinnovare la lotta con speranza e probabilità di successo. — È inutile ora dire perché e come l’ardito tentativo fallisse. Garibaldi, il solo fra i capi dei corpi volontari che non volle consentire né a patti umilianti col nemico né a ritirarsi in Piemonte o in Isvizzera, senza prima tentare la sorte delle armi, provò, sebbene con schiere di molto diradate, come si poteva ancor portar il terrore. nelle file dei baldanzosi vincitori di Custoza. Mazzini armato della sua carabina e Pistrucci suo inseparabile amico si arruolarono, appena raggiunto Garibaldi a Bergamo, come semplici militi nella compagnia che portava il mio nome, da me comandata e che formava l’antiguardo della colonna Garibaldi. A Mazzini poi, per voto generale, venne affidata la nostra piccola bandiera. — Io non so se voi abbiate mai preso parte in operazioni militari in tempo di guerra; ognuno sa del resto che vi si fa una vita di continue fatiche; però si credeva che Mazzini, cui natura non fortificò con omeri da caricar sacco e fucile, dovesse tosto soccombere; nullameno egli volle, e gli riusci, sopportare come gli altri, per più giorni, marcie forzate, privazioni e fatiche straordinarie. Chiamata la nostra colonna in soccorso a Milano, incontrato il 5 agosto il nemico a Monza in forza assai superiore, Garibaldi dovette ripiegare sino a Como, e toccò alla mia compagnia di sostenere le ritirata: ad ogni istante pareva inevitabile la lotta colla cavalleria, noi eravamo pochissimi in confronto ed in terreno sfavorevole, talché a chiunque poco avvezzo a tali pericoli dovevano quei momenti sembrare assai critici. Non lo meriterebbe forse, né spetta a me il dire quanto si è fatto in quel giorno: dovendo soltanto parlare di Mazzini dirò, che nessuno poteva mostrare più freddezza e coraggio; pareva anzi compiacersi dei pericoli che incontravamo, e coll’esempio e colla parola lo viddi io incorare i compagni, che dal canto loro erano fieri di dividere con lui tali pericoli; e tanto era l'amore di tutti che per salvarlo ognuno gli avrebbe fatto scudo della propria persona. Da Como Mazzini dovette recarsi a Lugano; la difficoltà in cui eravamo cosi lo esigevano: diffatti si ebbero per opera sua, soccorsi d’uomini e di denaro, senza di che Garibaldi non avrebbe potuto sostenersi per tanto tempo. Mazzini adunque si è esposto a perder la vita in guerresche imprese qual semplice milite; la carabina regalatagli a Londra l'ebbe con sé sul campo, e non già sempre chiusa in una cassa: queste sono verità incontrastabili —a chiunque volesse mantenere il contrario, gli si potrebbe, in onore del vero, provare CHE È UN VILE MENTITORE. Ora io spero che essendo venuto a cognizione di fatti che sono in manifesta contraddizione con quanto avete scritto di personale contro Mazzini, penserete immediatamente alla riparazione. — Col. G. MEDICI. — Londra, 10 Golden Square, 17 dicembre 1849.»
Mazzini desiderava l’alleanza colla Germania anelante all’unità; e nel novembre 1867 mandò al conte Usedom una nota per Bismarck; l’avvertiva che, risoluta nella mente di Napoleone la guerra contro la Prussia, questi avea domandato all'Italia il soccorso di sessantamila uomini e di molta artiglieria e che le proposte avevano avuto l’assentimento del re.
«Io non partecipo punto alle viste politiche del conte di Bismarck; il suo metodo d’unificazione non ha le mie simpatie; ma ammiro la sua tenacità, la sua energia e il suo spirito d’indipendenza in faccia allo straniero. Credo all’unità della Germania, e la desidero come desidero quella della mia patria. Aborro l’impero e la supremazia che si arroga sull’Europa. E credo che un’alleanza dell’Italia con esso contro la Prussia, alle cui vittorie noi dobbiamo la Venezia, sarebbe un delitto che imprimerebbe una macchia incancellabile sulla nostra giovane bandiera. Pur conservando la nostra indipendenza reciproca per l’avvenire, io penso adunque che vi è luogo a ciò che chiamasi un’alleanza strategica contro il nemico comune fra il governo prussiano e il nostro partito d’azione.»
Ma Bismarck, benché impressionato, diffidava dell’elemento rivoluzionario e repubblicano. Restano però sempre memorabili gli sforzi fatti da Mazzini per salvare l'Italia dall'immoralità di un’alleanza colla tirannide contro un popolo lottante per la propria unità.
A me le ultime sue parole furono: «addio, cara incredula; ma ci vedremo quand même colla bandiera repubblicana sventolante sulla via di Roma!» Fidandosi troppo delle sue forze nel dicembre, accompagnato da Giuseppe Nathan, devoto infermiere e fedele discepolo, passò le Alpi coperte di neve; onde s’ammalò di nuovo, e giunto a Londra la gioja dei vecchi amici di riaverlo fu terribilmente contrastata dalla paura di perderlo per sempre.
Nonostante il voto solenne di biasimo inflitto al ministero di Menabrea, egli per volontà del re si ripresentò al parlamento capo del gabinetto di prima, escluso soltanto il Gualterio promosso a prefetto della casa reale. La maggioranza vittoriosa, non unita da un principio, senza comunanza di aspirazioni o conscienza di fini, cadde a pezzi: nessuno capace di iniziare una politica nazionale, di ottenere — per la continuata occupazione del suolo italiano — la rottura diplomatica con la Francia, che fino il Ferrari invocava: di porre freno agli arbitrii che infuriavano come al peggior tempo del dominio austriaco, di assestare le finanze senza dissettare i fonti della produzione, di riordinare lo scomposto esercito e la sconquassata flotta. Il popolo minuto nelle città e nel contado, affamato, furente per vedere tradotti i suoi cari a domicilio coatto, per i balzelli odiosi estorti da brutali esattori, tumultuò; e le violente repressioni e le scariche sugli inermi aggiunsero al malcontento la voglia di vendetta. Mazzini, il quale all’indomani di Mentana dichiarando esaurito il procedimento delle due prime formóle con o senza la monarchia, si chiarì ora contro. E nella circolare privata alla alleanza repubblicana scriveva:
«Fratelli — Il recente fallito tentativo su Roma ha sparso lo sconforto nelle vostre file. Ogni sconforto negli uomini d'una fede che ha l'avvenire per sé è colpa: di fronte all’insulto che l'insolenza straniera versa ogni giorno, ogni ora, sul nome d'Italia, è delitto supremo. Nel caso attuale, quello sconforto è inoltre un errore. Privo della sola bandiera che possa restituir Roma a vita, e dominato da un errore strategico, il tentativo doveva inevitabilmente fallire. Roma non può rivivere se non continuando la tradizione del 1849. A quella spetta ridare l’iniziativa morale all’Italia in Europa, proclamando dal Campidoglio la nostra unità nazionale, proclamando dal Vaticano la santità della coscienza, l’inviolabilità del pensiero, la libertà dell’anima umana. Ma l’emancipazione di Roma deve oggi conquistarsi sulle nostre città. L’Italia è la nostra base d’operazione. È necessario un governo nazionale che abbia e diriga al fine le immense onnipossenti forze della nazione. La monarchia non può, per una lunga serie di fatti e confessione propria, essere questo governo: il nostro è dunque un problema d’insurrezione: bisogna prepararvisu... Sia la repubblica parola d’ordine a tutti: Roma,il punto obbiettivo: Insurrezione e guerra nazionale allo straniero invasore, il mezzo. Cosi vincerete; non altrimenti.»
E poi, riavutosi alquanto dalla malattia in Inghilterra, agli amici di Bologna:
«Amici — Le parole d’affetto che a voi, raccolti a convegno per celebrare il ricordo del 9 febbrajo in Roma, piacque d’inviarmi, e alle quali l'esser malato m'impedì di risponder prima, mi suscitarono nell’anima un vivo senso di riconoscenza, di giusto e presago orgoglio italiano e a un tempo — perché non dirvelo? — di profondo dolore. Quelle parole sono un fiore cacciato sulla via d’una tomba: parlano conforto e tristezza. Né scrivendo tomba intendo — comunque senta d’affrettarmivi — della mia. Parlo di Roma, tomba oggimai dell’onore italiano. Là, di fronte a quel glorioso ricordo evocato da voi e che do vrebb’çssere programma d’azione al paese, sorge una realtà vergognosa, che dichiara la nazione italiana moralmente codarda. La mano mi trema scrivendo questa parola della mia patria. E nondimeno è la vera. Allora, quasi a solenne disfida e per chiudere le porte dell’avvenire, un ministro si leva nella camera di Francia e dichiara davanti all’Europa: l’italia non avrà MAI Roma; la Francia nol vuole. Re, ministri, parlamento, in Italia, ascoltano muti. Il paese rimane stupidamente inerte, e accetta l'insulto. Potete additarmi, nella storia delle nazioni, pagina più vergognosa di questa?»
E tutto quell’anno, pur ricadendo malato, ad ogni breve sollievo continuava l’ordinamento repubblicano nelle città principali del regno, e con infinita cura nella Sicilia, ove incoraggiava gli amici ad unirsi e in nome dell’avvenire far fronte alle miserie presenti combattendo le mene dei separatisti, tenendo l’occhio su Roma, ove può solo la nazione sperare salute, libertà e onore. E il 2 dicembre di quell’anno, mentre il governo invaso da terror panico per l’anniversario di Mentana, si atteggiava nelle città italiane, tutte alle mani di generali, come conquistatore in paese straniero, egli scriveva agli amici di Milano:
«Miglioro. E in verità il nuovo guanto di sfida che il papato e lo straniero protettore del papato ci mandano coi due cadaveri di Monti e Tognetti, Tira italiana e il terrore di scendere nel sepolcro coll’immagine della mia patria disonorata, inchiodata nell’anima, operano, credo, a guisa di tonici sul corpo infiacchito. E i nuclei dell'alleanza repubblicana, — scrive Saffi, — stendevano, intrecciavano le loro file di regione in regione, aveano aderenti nella bassa ufficialità dell’esercito, patrocinatori segreti nell’opposizione parlamentare: e i loro atti di propaganda correvano per ogni terra d’Italia, erano diffusi «nelle officine, penetravano nelle caserme.»
Il governo scioglieva le società democratiche, perquisiva le case dei patrioti, le persone dei militari sospetti, arrestava in massa, sequestrava tutti i giornali liberali, l'Unità Italiana si può dire ogni giorno. A Bologna l’arsenale fuori Porta San Mammolo e i fortilizi suburbani furono muniti a difesa e a minaccia; cosi a Napoli e a Genova. A Palermo navi da guerra erano pronte ad operare sulla Sicilia. Caprera fu per tre anni bloccata, Milano guardata come città in istato d’assedio. E Milano non soffre in silenzio simili oltraggi; onde fu indetto tra il marzo e aprile un comizio di resistenza per le violate libertà di riunione, di associazione e di stampa, e fu risoluto, se il governo si opponesse, di respingere la forza colla forza. Intanto Mazzini venuto a Lugano vi chiamò i delegati repubblicani dalle provincie d’Italia: giunsero ventidue, e tutti dissero, proceder bene il lavoro, ma occorrer tempo per ordinare le forze in azione. A Milano convennero patrioti da tutte le città, tra altri Edoardo Pantano e Greco Ardizzone dalla Sicilia. Il governo insospettito o informato di quanto si trattava fece man bassa, arrestò gran numero di patrioti in Milano, in altre città e specialmente in Napoli. Ma, invece di processare i cospiratori come repubblicani, sparse la voce che il comitato milanese avea chiamato duecento accoltellatori da Palermo per dare di piglio nel sangue e negli averi. L’Opinione fu come sempre la banditrice di queste infamie; e nella prima pagina del n. 22 aprile, sotto il titolo Vasta cospirazione mazziniana scoperta dall’autorità, si leggeva che:
«La setta pei suoi fini aveva assoldati duecento accoltellatori di Palermo, per gittarsi sugli ufficiali, sulle prime autorità civili e militari e su altre persone distinte ed assassinarle nelle vie e nelle case: il capo loro si sa essere in Milano.
Quest’articolo, s’intende, fu dettato per aizzare i milanesi contro gli arrestati: fra i quali a Milano c’erano il Missori, il Cavallotti, il Bizzoni, il Castiglioni, Giuseppe Nathan, Ernesto Pozzi; a Genova Canzio, Mosto, Stallo, Gattorno, Pasetto, Stragliati, Pasqua; a Napoli Procaccini, Colajanni, Marziale Capo; e ammanettati si trascinavano per le pubbliche vie Pantano e Greco Ardizzone e stivati, con questi, nelle orrende prigioni del Borbone. Accusato di calunnia in parlamento il Cantelli nulla smentì: disse che gli arrestati erano per la maggior parte di «dubbia fama ed estranei al movimento nazionale.» Mazzini nello scritto altero Ai Nemici meritamente castigava il governo e i consorti, e ricordava che la calunnia era una proprietà del loro sistema.
«I milioni di onesti cittadini che hanno veduto voi escire dal potere impinguati di facoltà e noi quanti siamo escirne più poveri, conoscono voi, conoscono noi. Quando il paese vede a infamare davanti all’Europa la Sicilia, come capace di spedire, viaggiatori commessi a sgozzare, duecento accoltellatori a una città del settentrione italiano, e i repubblicani della nostra tempra come capaci d’assoldarli; il paese torce nauseato v il suo sguardo da voi, che non rifuggite, per combatterci, dal calunniare la patria vostra, e desume intanto dalla scelta delle vostre armi, che le altre vi sfuggono, che siete oggimai vittime votate alla Dea Paura, che siete e vi sentite perduti. Noi, per provarvi tristi, inetti e fatali all’Italia, non abbiamo bisogno d’arti siffatte. — Io, dacché l’insistenza vostra ad attribuirmi ogni cosa che vi conturba mi riduce a parlar di me — vi sono e vi sarò, fìnch’io viva, nemico inconciliabile: voi avete crocifisso al cospetto delle nazioni l'onore della mia patria e fatto, per quanto é in voi, retrocedere un avvenire che Dio le assegnava. Ma né l'immenso amore eh io porto all'Italia, né lo sdegno profondo contro ognuno che la vituperi a cerchi di corromperla e traviarla, m'hanno fatto mai adottare armi sleali con voi, o scendere ad accuse ch’io non credessi fondate, o rifiutarvi quella libertà d'esperimenti, che voi con ipocrite promesse invocaste più volte negli anni addietro. Reprimete, finché avete modo, e tacete. Avete troppo mentito perché altri vi presti fede. La coscienza irritata del popolo italiano vi toglie oggimai il diritto della parola.»
Inviperirono quegli arnesi dei «tempi borgiani,» come li stimatizzava Garibaldi; e nonostante che le inchieste giudiziarie per tanti arrestati riuscissero tutte a vuoto e i detenuti fossero rilasciati, non bastò sequestrare gli scritti di Mazzini, che del resto furono tutti riprodotti alla macchia; quei lividi di paura costrinsero il governo federale della Svizzera ad espellere gli emigrati italiani dal Canton Ticino, Mazzini per il primo. I ticinesi l'esortarono a rimanere in «terra sua in mezzo ai suoi fratelli;» ma egli ringraziandoli in una splendida lettera diceva:
«Non uso a cedere a governi ingiusti, accetterei il vostro consiglio, se potesse escirne un bene qua«lunque alla sacra causa che voi ed io sosteniamo; ma oggi io non resisterei che per me; e ripugna all'animo mio' di procacciare, per compiacere ad una tendenza individuale, noje o collisioni coll'autorità, centrale a voi e occasione ai vostri consigli di scendere più basso sulla via di una persecuzione che disonora la vostra bandiera.».
E lasciò il Canton Ticino mentre. dettava quello scritto Dal concilio a Dio, che è la più. calma, tremenda e. inappellabile sentenza che fosse mai data contro il papato. Questo scritto egli continuò a Induno e lo fini a Genova, insieme con l'Iniziativa, l’Agonia d’una istituzione e Agli uomini dell’istituzione, processi alla monarchia e agli istrumenti di essa. Si direbbe leggendoli, che Mazzini, risoluto a una levata di scudi repubblicana per Roma, volle lasciare un documento dimostrativo del diritto d’un popolo accanto alla bara di un’istituzione morente, di proclamare la buona nuova davanti. la. culla d’una istituzione nascente. Certo è che le infamie commesse, l’immoralità, eretta a scuola, la sfacciata propaganda del bisogna fare quattrini, l’affare della regia, il processo Lobbia, le pillole Scotti, i cinque testimoni dell’attentato assassinio, che finirono uno dopo l’altro di morti violente, la magistratura costretta a vendersi o punita — erano prove così, spaventose della corruzione e del delitto legalizzato, da giustificare ogni patriota a qualsiasi tentativo, anche disperato, per salvare la patria dall’imminente rovina. Gli effetti dell’alleanza coll’osceno jmpero erano così flagranti e visibili, che c’era da temere non la giovine nazione, nata dal purissimo connubio del genio colla virtù, rovinasse addirittura nei vizi più turpi. 6 schifosi delle nazioni. Senili e decrepite. La gioventù fremeva, la liberazione di tutti gli arrestati raddoppiava il fermento: e il ministero MenabreaCantelli caduto sotto l’obbrobrio dell’intero paese — salvo s’intende i suoi simili — ebbe per successore il Lanza e il Sella. Questi, trovandosi sull’orlo del fallimento — trovando venduti i beni demaniali, venduti i beni ecclesiastici, vendute fin le sabbie del mare — non potè altro che tentar di mettere argine tra la nazione e la bancarotta. 'Ma come salvare i rami dell’albero nazionale mentre il verme stava alla radice? I rimedii stessi necessarii, come il macinato, esasperavano il popolo; e si aggiungevi ai sentimenti e alle aspi razioni repubblicane ereditarie e tradizionali in Italia, la Convinzione che il sistema monarchico ’col privilegiò accresciuto, con una' nuova plutocrazia illegalmente arricchiti,col sistema fiscale, oltre ai suoi prefetti, Botte prefetti, e migliaja d’impiegati mal pagati ma schiavi di potere, avrebbe sostituito alla schiavitù straniera l’ignominia della tirannia domestica, la miseria universale. In Genova a Mazzini, nascosto per mesi in casa di popolani, venivano riferiti e anche esagerati, crediamo, questi sintomi del malcontento e della voglia universale di finirla. E specialmente dalla Sicilia e da siciliani noti per forti fatti e per purissima fede gli vennero incitamenti a riprendere la via da Marsala a Roma ma con bandiera schietta. Già a Lugano due egregi siciliani erano andati a pregarlo di fissare in Sicilia per qualche tempo la sua dimora. Benché convinti che senza Roma e patto nazionale ogni speranza di progresso morale e di miglioramenti materiali era impossibile, questi lo avvertirono essere risoluti a non più sollevare da soli la bandiera insurrezionale per non essere accusati di separatismo, di borbonismo, di clericalismo; ma in mezzo a loro Mazzini sarebbe pegno di un moto unitario e nazionale. Egli allora aveva creduto possibile un'iniziativa in Genova, e abboccandosi cogli operai e con buon numero di bassi ufficiali dell'esercito è della marina perdurò qualche tempo in quella speranza; mai tentativi di Pavia e di Piacenza falliti avevan resi cauti anche i numerosi repubblicani della Liguria. Di più Mazzini era accorto per il mancato tentativo della banda armata a proprie spese dall’audacissimo giovane Giuseppe Nathan. Egli all’insaputa del maestro aveva ordinato i militari rifugiati nel Canton Ticino; ma dopo un mese che tennero i monti intorno al lago di Como, non vedendosi secondati, dovettero rifugiarsi in Svizzera, ove furono disarmati e imprigionati in Coira. Intanto silenzio sulla questione romana, certa la guerra tra l’impero francese e la Prussia, fondata la credenza d'un’alleanza tra il re d’Italia e il Caino imperiale (120): quand’ecco giunse a Mazzini dalla Sicilia una nuova commissione con premurosa insistenza perch’egli passasse nell’isola. «Siamo pronti a Palermo, pronti a Messina — essi dissero — vogliamo però un capo militare.»
Mazzini acconsentì di andare, e mandò Wolff che si sapeva coraggioso soldato e maggiore di Garibaldi nella campagna del 1866, che egli non volle mai credere spia, anzi rimproverava fortemente quanti insistevano nella crescente diffidenza. Costui andò in Sicilia, ordinò i moti in Messina e in Palermo, rappresentando gli animi per esaltatissimi e pronti a qualunque cimento. Gli amici di Mazzini tutti, Saffi, Mosto, Quadrio, si opponevano di tutta forza alla partenza di Mazzini; essi volevano andare in vece sua, almeno per verificare.
«No, — egli disse, — non sarà mai che, trattandosi di iniziare un moto repubblicano per andare a Roma, non sia io agli avamposti primo al pericolo colla bandiera in mano.»
E risolse di partire, e prese compagno fino a Livorno il Narratone e poi il Castiglioni; e travestito arrivò senza incidenti a Napoli. Là tanto al prefetto quanto al questore era giunta la notizia della sua partenza coll’ordine d’immediato arresto. Ma il questore a Napoli era il barone Girolamo Scoppa, che non aveva indole o spirito sbirresco. Avvertito a Palermo il questore Albanese e il Medici prefetto e comandante il corpo d’armata, che per la via di Napoli Mazzini sarebbe giunto a quella città, Medici insistette col governo affinché l’arresto, se dovesse aver luogo, fosse eseguito sul continente; ma il questore di Napoli rispose: «È qui, ma non mi dà fastidio.»
ROSALINO PILO |
A Napoli però Mazzini capi di essere stato riconosciuto, e, per essere sicuro di poter giungle a Palermo, mandò avanti Castiglioni, e rimase alcuni giorni nascosto nella casa della figlia della Carlotta Benettini, moglie a Profumo, uno dei condannati del 1857. Il Wolff non avea inspirato fiducia ai siciliani; però essi non erano disposti a cercare il pelo nell’uovo; e i due valorosi giovani, barone B. G. e F. S. (quest’ultimo ebbe slogato le ossa per la tortura sofferta nelle segrete di Palermo), tornati da Lugano innamorati dell’esule genovese, esaltarono le anime specialmente in Messina nell’idea della venuta dell’apostolo. E veramente questa certezza colmò di gioja i comitati segreti, perché la presenza di quell'italianissimo avrebbe chiuso la bocca ai detrattori della Sicilia e perché si ripromettevano un entusiasmo universale all’arrivo dell’uomo che i messinesi soli in tutta l’Italia avevano e per tre volte eletto a loro rappresentante. Il lavoro ferveva da per tutto, e gli animi si agitavano davanti al fantasma di Roma. (121)
«I nostri bravi emissari erano passati da Napoli, dove avevano trovato le più liete accoglienze presso i compagni di fede attiva: la patria di Mario Pagano fioriva in quell'epoca di una schiera di giovani calabresi e siciliani La casa di Marziale Capo era un tempio, sacro alla scienza ed ai convegni politici. Giovanni Nicotera era ancora il rivoluzionario di Sapri, il compagno illustre di Carlo Pisacane. Invidiabile sembrava l'accordo fra il genio teorico e pratico, e si ripetevano il vecchio adagio: Quando la Sicilia è accatarrata, Napoli starnuta. L’Etna ed il Vesuvio si scambiano sovente un saluto di fiamme. Padre Pantaleo, che aveva mutato la sottana del frate per la camicia rossa, faceva vita politica nella clamorosa Napoli e col suo fegato di buon cristiano alloggiava i pellegrini, vestiva i nudi e spezzava il suo pane coi fratelli Wolff in tutto questo frattempo viaggiava tra Messina e Palermo, dove trattava col comitato B.; e tra le due città si fissava d’accordo il giorno dell'azione. Il fiore dei patrioti circondava il signor B.; ed una rivoluzione sarebbe stata per Palermo una festa da ballo, perché si trattava di liberare Roma dalla duplice tirannide e niuno temeva una seconda edizione di Aspromonte o Mentana. Si contava per certo che, data l’iniziativa dalla Sicilia, le città del continente l’avrebbero secondata, dall'esercito nulla si temeva e tutto si sperava.»
Mazzini da Napoli partì solo; e al solo Wolff il Castiglioni avea avvertito che col vapore successivo al suo sarebbe arrivato. Mazzini era fiero di speranze, tanto più che Nicotera lo assicurava nel lasciarlo, che al primo annuncio dell'insurrezione di Palermo egli si sarebbe messo alla testa di una banda di trecento giovani e prenderebbe la montagna. Al mezzogiorno del venerdì 15 agosto il Castiglioni ed il Wolff andarono alla marina: il primo fu, e il secondo sembrava fulminato, a vedere la spiaggia occupata da truppa, carabinieri e guardie, vietata l’imbarcazione di recarsi incontro al vapore, il quale fu trattenuto fuori del porto. Appena ancorato il piroscafo, salì a bordo l’ispettore Buindi, che assunse il compito a malincuore e con riverenza all’illustre uomo.» Mazzini pareva un gentiluomo inglese; e alla domanda dei passaporti ne presentò uno in nome di John Braun. Allora l’ispettore tirando fuori una fotografia gli disse: «Lei è il signor Giuseppe Mazzini, ed io ho ordine di arrestarlo.» Egli non fece il minimo atto di resistenza: fu condotto a bordo del vapore Ettore Fieramosca già fumante accanto al piroscafo giunto da Napoli; ed entro un’ora fece rotta per Gaeta. L’arresto fu fatto con tanto silenzio e rapidità, che i cospiratori per la più parte l’ignorarono: però, tenuta una numerosa adunanza di capipopolo, il Castiglioni, esponendo il lavoro compito da Mazzini sul continente, la certezza che Genova ed altre città avrebbero appoggiato l'iniziativa di Palermo, rammentò che il solo mezzo di liberare Mazzini stava nell'insurrezione. Questa proposta Wolff combatté a tutta voce; fu forza arrendersi al suo parere.
Non ci occupiamo di costui se non perché i siciliani sono stati accusati di dappocaggine e quasi quasi di viltà, mentre essi non ebbero altro torto che di non avere avvertito un traditore nella persona mandata loro come possedente tutta la fiducia e investita d'ogni autorità da Mazzini. E tanto più gli accuoravano i rimproveri quanto più acerbi venivano da Maurizio Quadrio, che essi avevano conosciuto e ammirato cospiratore fra loro. Alle calunnie che corsero contribuirono le lettere di Wolff, che diffamarono i palermitani per inetti, a cui — diceva — mancava la sacra ira, lo slancio impetuoso, l’impazienza di agire subito. (122) Passò qualche tempo prima che imessinesi sapessero l’accaduto: appena saputolo, il presidente del comitato coll’ingegnere De Leo giunti a Palermo insistettero per l’azione, e, caso mai che Palermo non fosse pronta all’iniziativa, Messina avrebbe iniziato. Ci voleva del bello e del buono per la pure abile spia a persuadere l’ingegnere De Leo che, non essendo pronto Palermo, Messina non doveva insorgere. Egli volle la proibizione in iscritto e l'ebbe.
A Mazzini chiuso in Gaeta, fu per qualche tempo negato lo scrivere; quando ebbe carta e penna, scrisse molte belle lettere; per sé non ebbe, né volle che altri si prendesse pensiero.
«Ho il mare davanti a me: è la posizione stessa ch'io avea, all'altro polo della mia vita, in Savona. É generalmente, e malgrado il vento che soffia, tranquillo come un lago svizzero. Le notti sono bellissime: le stelle splendono di una luce che non si vede se non tra noi Le amo come sorelle, le collego in mille modi all’avvenire. Ebbi trattamento d’amici caro e commovente, fui come in mezzo a fratelli Ho udito a poca distanza il canto di un passero solitario, e mesto e più bello assai del cantore; ma si fa invisibile come il cuculo, ed io non lo vedrò. E ho veduto volare sull’onde, come pensieri che attraversino una mente agitata, due di quei bianchi uccelli che noi chiamiamo col nome il più prosaico possibile.... Non ho sofferto un momento sul mare, era tranquillo come un lago. Ebbi l'ultimo giorno un magnifico temporale, «e ne invoco un altro da allora in poi inutilmente. Sempre ebbi in mente fisso Punico lavoro che io vivendo potrei ancor fare, un lavoro storico sulla missione italiana, documentata dalla storia, e che dedicherei non agli uomini del presente, ma dell’avvenire.»
Ancora pensa «a tentare un saggio su Byron», e ne domanda le opere.
«Esiste un'opera di Taine sulla letteratura inglese recente in quattro grossi volumi, e in uno ei tratta di Byron... È scrittore materialista,e di certo non avrà un'idea che consuoni colle mie; ma sono intellettualmente semiaddormentato; e calcolo sullo stimolo della contraddizione, sulla irritazione che per me ne verrà. Taine ha potenza di genio pervertito per ridestarmi... Ho riletto Hamlet, nell'italiano; mi rifulse più sempre come il capolavoro di Shakespeare; superiore al Macheth, eh è pur magnifico. Hamlet è il dramma nel quale sta più che altrove ritratta l'individualità psicologica di quel grande per intelletto. In tutti gli altri Shakespeare può aver trovato inspirazioni e modelli ne' suoi tempi o negli anteriori, per Hamlet no. Quel prototipo di natura, creata buona ma incompleta, con un perenne squilibrio tra il pensiero e l’azione, tipo tedesco dei tempi di Schiller e di Goethe, quando Werner e tanti altri, sotto il peso dell’idea, insanivano o quasi, non esisteva ai tempi di Shakespeare o d’Elisabetta. Egli, per crearlo, ha dovuto mirare in sé: Shakespeare non poteva insanire, era troppo scettico per questo; non amava abbastanza, checché ne dicano, gli uomini o l’uomo, ma analizzava tutto e le proprie idee: quell’analisi continua aveva ucciso in lui lo spirito dell'azione, e poteva intendere come in un’anima nata più debole quello squilibrio potrebbe operare. Hamlet finse, per deludere il re, la follia; questo è certo da molti brani, ma la follia ch’ei recita minaccia di conquistarlo davvero. Tutto quel carattere è di tempi che vennero dopo».
Verso gli ultimi giorni della sua prigionia ebbe giornali, e da questi seppe il grande avvenimento del giorno. Fu angosciato per la fucilazione del Barsanti, il cui arresto lo preoccupava tanto prima di lasciare Genova. (123) E il fatto che l’esercito italiano, non temendo più l’alleato vinto e prigioniero, fosse entrato in Roma, non potè altro che rattristare ed umiliare l’animo suo pieno d’italico orgoglio. L’Italia non era dimentica di lui; anzi da ogni città e associazione insorsero proteste e sottoscrizioni per mandare Saffi in Gaeta. E Bertani e Fabrizi e Nicotera assediavano Lanza, il quale si diceva e si disdiceva e aveva del tutto perduto la testa.
«Che fare con questo gran reo, tenuto con tanta cautela coi cannoni irti intorno alla fortezza, cinque corazzate giacenti al piede? che fare con questo uomo, il quale ebbe sempre la virtù di cacciare avanti il popolo per le vie dritte ed aperte, quel popolo che oggi cospirava cogli stessi equipaggi delle corazzate per liberarlo, se non che egli sdegnosamente rifiutò di fuggire? Che fare con questo prigioniero contro il quale il procuratore del re non seppe formulare un atto d’accusa, salvo che per avere viaggiato con un passaporto inglese? Che fare con un uomo, il quale per quarantanni aveva dichiarato: Roma è degli italiani, andiamo a Roma? Ora che la monarchia si avea presa Roma, qual giuri avrebbe pronunciato una condanna su di lui?»
L’arma della calunnia c’era però sempre; e i giornali monarchici scrivevano:
«Ci si assicura che in una lettera di Giuseppe Mazzini al generale Medici il grande cospiratore affermi ch’egli non si faceva nessuna illusione sul carattere reazionario che potrebbe facilmente prendere a Palermo un movimento repubblicano; ma ch’egli lo avrebbe visto sempre di buon occhio, perché sarebbe un mettere la scintilla ad un barile di polvere. Quando si deve dar fuoco ad una mina — diceva il Mazzini — che importa se chi avvicina la miccia sia rosso o nero?...» Mazzini ribatte la calunnia avvertendo di avere informato il procuratore del re:
«Che non intendeva scolparsi, ma condotto davanti ai giudici spiegare il perché, esaurite le prove, egli «si trovasse nel campo avverso».
Questo saputo, il ministro decideva di amnistiarlo. Ora egli, il quale solo tra il cielo e il mare serenamente confermava la grande anima nell'ideale intuito con l'entusiasmo giovanile nella prima prigionia di Savona, fu da quell’amnistia, turbato. Tutto l’essere suo si ribellava a quell'insulto. Tacque però, e sperava giungere incognito a prostrarsi sulla tomba di sua madre, calmare il suo spirito, poi nascondersi nella solitudine delle sue Alpi o tra le nebbie dell'amata Inghilterra. Ma riconosciuto a Formia e Ceprano, quando vide «lo spettro della dimostrazione» minacciarlo da parte di giovani entusiasti, domandava: «Entusiasti di che? Non potersi con onore solennizzare la liberazione di un amnistiato.» La stessa gioja che gl'italiani dimostrarono per il fatto di avere Roma in quel modo lo avviliva.
«Nessun di voi — egli scrisse — ha saputo capire le condizioni dell’animo mio, uscendo da Gaeta in virtù d’amnistia per vedere la mia Roma profanata, per colpa di tutti noi, dalla monarchia; l’ideale della vita sfumato... Tornate all’antico intelletto di me, lasciate che passi questa nerissima nube che mi fascia l’anima.»
Costretto, perché non partivano treni, a pernottare in Roma, passò qualche ora in un albergo vicino alla posta, e si rifugiava a Livorno nella casa di Enrichetta degna figlia della Sauna Nathan maritata con Sabatino Roselli. In via di raggiungere Garibaldi in Francia, io andai a trovarlo. Era mesto a morte, desolato che il fatto materiale dell’entrata in Roma bastasse agli Italiani, afflitto per la risoluzione di Garibaldi a passare in Francia, traendo seco il fiore della gioventù a morire per una repubblica proclamata per ripiego.
Invano cercai di consolarlo: trapelava troppo la mia britannica contentezza per il fatto compiuto ch'egli fortemente rimproverava. E pure la gioja che gli Italiani sentivano per le vittorie di Wissemburgo e Worth, per l’impero napoleonico infranto a Sedan, non era ingenerosa; se essi godevano della calpestata superbia francese, si rallegravano anche per il trionfo d’una causa che fino a Sedan fu giusta. Ma Mazzini scuoteva mestamente il capo dicendo:
«Siete tutti incorreggibili, guasti dal materialismo, punto commossi a vedere la più grande questione del secolo ridotta alla più piccola, ad una questione territoriale. Roma cosi non significa più di Gubbio, se non che la supera in chilometri quadrati. Bella cosa un altro plebiscito colla città tenuta quasi in ¡stato d'assedio dalle truppe italiane, e invece del patto nazionale fin Roma stesa sul letto di Procuste dello statuto piemontese. Né c’è posto per le illusioni: gl’italiani andati a Roma cosi, non sapranno scuotere il giogo: il governo immorale e corrompitore trova nuova forza per sostenersi, nuovi mezzi per corrompere. La monarchia è andata a Roma, e a Roma starà per chi sa per quante generazioni.»
Volle che io lo precedessi a Genova ad avvertire Felice Dagnino, dal quale aveva accettato l’offerta ospitalità, di tenere nascosta la sua venuta ad ogni anima viva, non volendo che visitare la tomba di sua madre poi partire. Ma il popolo indovinò l'arrivo, e parecchie volte tentò una dimostrazione: egli l’evitò, scrivendo all’avvocato Carcassi che era già partito dalla città. E di fatto cacciatosi in una vettura andò a Staglieno a conversare collo spirito di Lei che così presto doveva raggiungere. Ritornato lo vidi per l'ultima volta: deplorava di nuovo l'affluire dei suoi migliori in Francia, ravvisando in quella generosa intrapresa una nuova prova della nessuna fede degli Italiani in sé medesimi, una nuova prova che tutto s’aspettasse dalla Francia, da una generazione scettica e materialista corrotta in vent’anni di servitù. Scrisse qualche parola per gli amici; e altre lettere mi scrisse in Francia, ma tutte suonavano:
«Giacché andate, rendetevi degni del nome italiano. Io non vi do consigli; a guerra finita parleremo. Se la guerra durerà abbastanza da guadagnarci la gratitudine della Francia, sono certo che Garibaldi si ricorderà di Nizza, e scriverà un’altra pagina nel volume immortale della sua vita (124).»
Poi il 24 ottobre, sottraendosi ad una nuova dimostrazione lasciò la seguente:
«Genova, 24 ottobre, 1870. — Genovesi, fratelli miei, io attraverso l’Italia con un peso sull'anima. Io ho veduto, ignoto e come chi fugge, Roma, la città sulla quale si concentrarono i sogni dorati dell’anima fin da' miei primi anni giovanili, la città dalla quale si svolsero, come da santuario della nazione, i nostri fati, nel passato, e si svolgeranno, checché facciano gli uomini, i nostri fati nell’avvenire. La sventola, non la bandiera che la richiamò a vita d’onore nel 1849, ma quella che tradì, nel 1848, l’eroismo lombardo-veneto delle cinque giornate, e. abbandonò, nel 1819, Roma e Venezia, combattenti con braccia di popolo l’armi straniere. Genovesi, io porto con me, oltre l’Alpi, un doppio dolore. L’iniziativa repubblicana, che doveva ribattezzare l’Italia alla sua terza missione, è sorta, per durarvi o no, dalla Francia. E Roma, patria dell’anima, è profanata da una monarchia, che non rappresenta la coscienza della nazione. Io non ho saputo trovare in me accenti efficaci a persuadere gli Italiani perché evitassero questa doppia vergogna. Non merito applausi da vol. E voi siete buoni e prodi; ma non possedete ancora tutta la «coscienza della missione italiana e della potenza ch'è in voi. Lavorate, muti e severi, a conquistarla, a cancellare dalle anime vostre l’ultimo solco della catena, lasciato da secoli di schiavitù. Ordinatevi a forti fatti, preparatevi alle sante audacie. Se un giorno potrete dirmi: — Ci sentiamo capaci e degni dei fati della nazione, e desideriamo avervi con noi, io, se vivrò, accorrerò benedicendo e altero del vostro amore. Oggi sento che non potrei incontrare la manifestazione senza gemito e non so quale senso quasi di rimorso nel core. Addio: abbiatemi vostro e riconoscente delle intenzioni. — GIUSEPPE MAZZINI.»
Rinfrancatosi lo spirito sulle sue Alpi, che erano per lui quasi esseri umani che amava come si ama una madre, anzi chiamava «le madri», partiva per l’Inghilterra. Di là si occupò ad ordinare società operaje italiane a nazionale fratellanza, e del periodico La Roma del popolo che si può chiamare il suo testamento, ove riassunse la tradizione della scuola repubblicana unitaria fondata dalla Giovine Italia interpretandone al popolo le dottrine morali, politiche e sociali.
Quanto però gli dolesse rinunciare all'idea dell'azione, traspare da tutte le lettere di quella epoca. Riferiamo il brano d’una ad Achille Sacchi sui primi del 1871.
«La vostra mi fu cara assai; mi fu caro il vedervi favorevole ai modi e alle idee della Roma del Popolo. Vi confesso che non è se non dopo d’aver tentato, l’anno scorso, quanto uomo può perché si operasse e si salvasse, secondo me si poteva, Roma dalla profanazione d’una monarchia corrotta e disonorata, che mi sono ricacciato nell’apostolato dei principii. E se vedessi un ragionevole barlume d’altro, lo lascerei. Un mese atti trasforma assai più un popolo, che non dieci anni di predicazione. Vi sarò grato per quanto farete a pro della Roma etc. Mio scopo é di raggruppare a nucleo quanti giovani intelligenti possono dividerne le idee: bisogna dissotterrarli. È quindi preferibile per me l’avere un abbonato in una località di terzo o quarto ordine, che non dieci in una importante città. La vita è triste come ogni missione; ma voi, Achille mio, siate lieto d’aver ancora il supremo conforto d’una madre, d’una donna, come è la vostra Elena, e di figli che non possono, co’ suoi e vostri esempi, se non crescer buoni Vorrei, ma temo di non potere riabbracciarvi in Mantova. Pure, chi sa? Ricordatemi ad Elena con molto affetto e alla madre che forse mi ricorda ancora. Vogliatemi sempre bene. Io vi stimo e v’amo. Vostro GIUSEPPE.»
E pure, senza l'incontentabilità di ogni anima che vive per un ideale non mai raggiunto, Mazzini avea diritto di godere del trionfo della su£ idea delle nazionalità vittoriose in nome dell’Unità. Di là dell’Atlantico Lord Garrison, il Mazzini del mondo nuovo, avea lavorato da trentanni per l'abolizione della schiavitù, invocando la costituzione fondata «sul diritto di ogni uomo alla libertà» — e gli schiavisti rispondevano per bocca del grande Calhoun «la libertà dei bianchi è fondata sulla schiavitù dei negri» e i puritani nel nord protestantemente egoistici tenete pure gli schiavi negli Stati del Sud, ma non invadete i nuovi territori.» Ma quando da Fort Sumpter fu tirato il primo colpo sulla bandiera stellata — simbolo e vessillo dell’unità — sorsero come un sol uomo i suoi difensori, e con guerra colossale di quattro anni liberarono gli schiavi non in nome della libertà nò del diritto, ma in nome dell'Unità; e per conquistare ad essa nuovi fedeli e nuovi difensori, al negro aborrito tanto al Nord quanto al Sud furono concessi i diritti civili e politici — il voto — e la rappresentanza della Nazione!
E fu l’idea di ricostituire la gran patria d’Arminio, fu per la nazionalità germanica minacciata sul Reno, che cattolici e protestanti, monarchici e repubblicani, seguirono il re del diritto divino perché scese sul campo ravvolto nella bandiera dell'Unità.
E nella patria sua non trionfava come fatto l’idea nazione, vaticinio di Dante, ideale di Petrarca? Le cento città non furono battezzate col nome d'Italia in Roma? non fu questo il fine ch’egli si prefisse da giovine e che si prefissero quanti morirono col nome d’Italia sulle labbra? Non fu per questo che dopo il 1848 egli, mettendo le mani nei capegli dei liberi e inerti, li trascinava al piè del palco per udire il rantolo delle vittime; nelle segrete, per ascoltare i sospiri dei prigionieri; sui campi, per vedere le ossa insepolte dei caduti? Non era per questo che in risposta al soave suo ammonire — Donne che avete intelletto d’amore, da voi non poco la patria aspetta — le madri e le spose spinsero i loro diletti alla battaglia e alla morte — che le giovani rifiutarono all’amato il bacio supremo dicendo — Chi salverà dal patibolo o dall’infamia i figli del nostro amore? — E ora in Roma non fu portato per la breccia, e sul Campidoglio non sventolava il tricolore?
«Si, egli diceva; ma al corpo manca l’anima. Questa è l’Italia del passato con due cadaveri imbalsamati, seduti in fàccia l’uno all’altro nel santuario della nazione. E l'Italia, la mia Italia, l'Italia dei nostri sogni? L’Italia, la grande, la bella, la morale Italia dell’anima mia? Io ho creduto evocare l'anima dell'Italia, e non mi vedo innanzi che il cadavere. E questi giovani che si lagnano, che bestemmiano, che sono repubblicani, e non sanno trovare in sé energia che basti a organizzarsi e agire! — Lasciamo questo discorso che mi fa entrare la morte nel cuore... In verità questa vita di macchina che scrive, scrive, scrive da 35 anni, comincia oggi a pesarmi in modo strano... ma non vorrei, non potrei addormentarmi come nella baja di Napoli o in riva ad un lago. Amo l'Italia e avrei rimorso, se anche potessi, di esser felice mentr’essa è disonorata, mentre il suo sorgere, invece di essere di un grande e virtuoso popolo, è il sorgere di un numero di raggiratori materialisti e prosaici adoratori di sé stessi e non dell'avvenire nazionale. Non posso dunque aver pace.»
Questo era il segreto dell'angoscia sua. Avea sognato il suo popolo unito nella fede, nella virtù e nell’amore, ordinarsi a nazione con patto liberamente consentito; con forza equilibrata, con sciolte membra, scendere nell'arena e lavorare seriamente, moralmente, intellettualmente — uno per tutti, tutti per uno, allo sviluppo e al progresso della nazione, — luce, faro, alle altre nazioni. Lo destò dal sogno la prima proclamazione del primo Parlamento dell'Italia Una:
«Art. 1. — Roma e le provincie romane fanno parte integrante del regno d’Italia.
«Art 2. — Il sommo pontefice conserva la dignità, la inviolabilità e tutte le prerogative del sovrano.
«Art 3. — Con apposita legge verranno sancite le condizioni atte a garantire, anche con franchigie territortali, l’indipendenza del sommo pontefice e il libero esercizio dell’autorità spirituale della Santa Sede.»
E si struggeva d’angoscia nel vedere la risorta Italia costretta a lavoro più assurdo e sterile che non quello di Sisifo, cioè a risolvere insieme e nello stesso tempo l’insolubile problema, essere non essere. Momentaneo però fu lo scoraggiamento, e nell’anno novissimo della intensa sua vita vigoreggiava di nuova potenza l’apostolato suo.
MAZZINI PRIGIONIERO NELLA FORTEZZA DI GAETA |
«Il porre l’uomo, così completo come ora l’intendiamo, con tutte le sue tendenze, con tutte le sue facoltà, con tutti i suoi diritti e doveri di libertà, d’eguaglianza, d'individualità, di socialità oggimai definiti, sulla via umanitaria, con indirizzo cioè conforme alla sua legge — tale è la missione di qualunque dottrina che aspiri, nella crisi che ci sovrasta, a colmare il vuoto e farsi credenza comune.
GIUSEPPE MAZZINI — La legge umanitaria, 1836.
«Il maggior numero di quelli che rigettano la fede comune come quelli che difendono la fede comune considerano un vuoto, che i primi desiderano, gli altri temono. Il mutamento che questo stato promette o minaccia di produrre, desiderato o temuto, è rapidamente in progresso; e coloro che credono che il vuoto possa colmarsi e debba colmarsi sono chiamati a fare qualche cosa secondo la loro fede.
HERBERT SPENCER — Prefazione a Le basi della morale, 1879. (125)
Congiungiamo questi due nomi e queste due date per ricordare alla gioventù italiana avere essa un espositore della legge umanitaria anteriore a Spencer salutato il filosofo dei due mondi, un etico il quale con audacia di sintesi, con ampiezza di dottrina ha elevato il concetto sistematico ed organico della vita umana ad un’altezza da nessuno raggiunta. E la ricerca delle leggi della Vita Umanitaria è stato il fine di tutta la esistenza etica di Giuseppe Mazzini: in essa consiste la sua religione; per essa volle e cercò e scuoprì la patria italiana, la personalità nazionale del suo popolo, senza la quale l’uomo individuo nulla o poco assai può fare pel miglioramento, pel progresso dell’umanità. Italianissimo, imparentò sempre l’idea al fatto: traduceva i pronunciati della speculazione nella vita reale: donde, afferrato il pensiero dell’associazione di tutti gli uomini nati sul suolo italiano per tradurre la legge in atto, scese dallo studio tra le genti per conquistare il campo d’azione: per ciò non ebbe tempo di formulare definitivamente tutte le sue conclusioni specifiche, ma tutte possono dedursi logicamente dagli scritti suoi religiosi, morali, politici e sociali. E questa deduzione, fatta in linguaggio semplice e intelligibile al popolo, si aspetta ancora dai giovani colti e spregiudicati: i quali, avendo a mente le dottrine delle scuole individualiste e socialiste e la fraseologia moderna, sapranno dimostrare come Mazzini trovasse il nesso tra le une e le altre — l’io e il noi, l’uomo individuo e l’uomo collettivo — assai prima che Spencer o altri si mettessero ad accordare l'egoismo e l'altruismo: come, condannando l’esclusivo utilitarismo di Bentham perché cerca la felicità immediata dell’uomo, egli l’ammetta e la congiunga al sacrificio per raggiungere l’ideale supremo dell’attività umana. Certo è che Mazzini dà alla virtù, al sacrifizio, al disinteresse un’importanza che la nuova scuola disdegna — perché questa, nata in paesi liberi ove veramente ha chi vuole, crede facile il lento lavoro dell’evoluzione; e c’entra nei capi di quella nuova scuola anche il desiderio di dimostrare la facilità dell'accordare il bene individuale al bene comune, e ciò per indurre le genti a mettersi su la via morale.
Ora Mazzini aveva sì alto concetto delle facoltà umane, delle forze latenti nel popolo, che non discese mai alla seduzione. Non esagerò, perché era impossibile esagerare, le difficoltà di creare la patria libera, indipendente, una: ma non cercò mai di attenuarle, disse «il fine è là, è dovere raggiungerlo a traverso tutte le privazioni, le sofferenze, i sacrifici, il martirio, la morte». E gli italiani afferrando l’altissimo concetto si slanciarono alla conquista, e oggi il mondo applaude al trionfo dell'unità materiale. Né altra via egli indicò per raggiungere l'unità morale; e a giudicarne dal poco o nessun avanzamento fatto in sedici anni di vita nazionale, e osservando che l’Italia dal rispetto morale e sociale ha piuttosto retrocesso, viene naturale la domanda se non sarebbe bene provare la via indicata dal maestro. Che il governo d’oggi condanni le dottrine di Mazzini, escludendole dalle scuole, sequestrando i giornali che ne fanno propaganda, processando e imprigionando i poveri contadini (126) che da lui apprendono i doveri conducenti alla conquista dei loro diritti, si capisce. Il sistema non è nuovo, ma ritenuto efficacissimo da tutti gli oppressori. Basta ricordare che l’evangelo, un dì parola di vita, di libertà, di progresso, fu ed è tutt'ora divietato ai popoli latini. Nessuna meraviglia dunque della guerra fatta allo spirito di Mazzini morto, come all’uomo quando viveva in terra. Ma è strano che i malcontenti e avversi alle istituzioni presenti non cerchino nelle parole di colui che diede loro una patria qualche consiglio e norma a rendere quella patria degna dei suoi destini e della sua missione nel mondo.
Lungi da noi la presunzione di presentare un riassunto delle dottrine di Mazzini: vorremmo che tutti cercassero da sé negli scritti di lui il suo concetto della vita, principio, legge, metodo, fine; certi che nella ricerca essi resterebbero affascinati dall’armoniosa, continuata, ascendente unità che in ciascheduno e in tutti quegli scritti rifulge.
L’intenso sentimento dell'animo umano, della volontà autonoma, dell'individualità dell'io, allontanava Giuseppe Mazzini fin nei primi anni da certa dottrina, per un lato fatalistica, per un altro dispotica. «Ho la facoltà di pensare — diss’egli — e di tradurre in atto il pensiero per virtù di volontà; dunque di prefiggermi un fine e di camminare deliberatamente verso esso, scartando gli ostacoli materiali, vincendo in me stesso l’egoismo, l’inerzia, la paura del dolore che s’infrappongono tra me e quello. A che dunque parlare di una forza fatale che domina tanto i fatti sensibili quanto i moti dell'animo ai quali un sentimento arcano spinge l’uomo dietro la scorta della propria mente?» E allo stesso tempo in cospetto degli uomini che chiamandosi Papa o prete, Re o rettore, dicono: «Siamo noi la legge, rivelataci da Dio: con noi sta la forza, da lui accordataci per farci ubbidire» egli rispondeva: «Dove le vostre credenziali? l’affermazione non mi basta: non mi sento di ubbidirvi, mi comandate troppe cose che ripugnano alla mia conscienza e al mio cuore.» E così viva in lui fu quell'autonomia dell'io, che, senza l’altre qualità, l'amore vivissimo per i suoi simili, la compassione infinita per gli oppressi e sofferenti, egli sarebbe divenuto un idealista puro e semplice, un ribelle solitario e sdegnoso, non mai l’apostolo di un’idea redentrice, il trionfante vindice di essa, la guida, l’educatore del popolo redento nell’avvenire.
Cotesto gagliardo sentimento dell’autonomia individuale fu urtato in lui dall’ordinamento della società fra cui nacque, dalla bigotteria della città nativa, dalla tirannia uggiosa che l’autorità politica e universitaria estendeva a ogni pensiero e atto della gioventù. L’amore ai suoi simili fu contristato dalle miserie e sofferenze che egli vedeva accompagnando il padre medico e la madre pietosa tra i malati ed i poveri, e, più tardi, dallo spettacolo degli esuli cacciati da quegli stessi nemici che opprimevano la sua personale libertà. Non trovò il fine della vita, il perché di se stesso e di quanti amava: fu infelicissimo e tacque. Il materialismo, egli ci dice (127), sfiorò l’anima sua per alcun tempo; ma — e qui si noti la modestia e la tolleranza sua — non ne troviamo traccia negli scritti suoi. — Egli non fece professione di fede del negare, del deridere la fede altrui. Non disse mai — Perché io non posso credere in quel dogma religioso, perché mi offende quell’oppressione che si chiama governo; le religioni sono tutte importune, l’anarchia deve prendere il posto di ogni governo. — Lesse molto e assai meditava, interrogando la propria conscienza e la tradizione del passato. Il primo raggio di luce gli venne dal suo Dante, che gli additava l’unità dell’universo, l’unità della vita, il fatto che una legge regga l’uno e l’altra. L’instante che egli apri il libro De Monarchia fece epoca nella storia dell’anima sua. Vi lesse:
«L’officio principale di tutti gli uomini superiori tirati ad amare la verità è questo, che, come eglino si sono arricchiti per la fatica degli antichi, cosi s'affatichino di dare delle medesime ricchezze a quelli che dopo loro verranno... — Ho desiderio di dare a posteri non solamente copiosa dimostrazione, ma eziandio frutto, e dimostrare quelle verità che non sono dagli altri tentate... confidandomi, non tanto nella propria virtù quanto nel lume di quel donatore che dà a ognuno abbondantemente e non rimprovera. Perché ogni verità che non è un principio si manifesta per la verità di qualche principio, è necessario in ciascheduna inquisizione avere notizia del principio al quale analiticamente si ricorra per certificarsi in tutte le proposizioni che dopo quella si pigliano... Perché nelle operazioni il principio e la cagione di tutto è l'ultimo fine il quale move colui che fa, è ragionevole che tutta la ragione di quelle cose che sono a fine ordinate da esso fine si pigli; e non è ragionevole che, s’egli è certo fine di questa o di quella civiltà, non sia ancora di tutte le civiltà un fine comune... — È adunque alcuna propria operazione della umana università alla quale tutta questa università è in tanta moltitudine ordinata: alla quale operazione nò un uomo, né una casa, né una vicinanza, né una città, né un regno particolare può pervenire. Qual sia questa operazione sarà manifesto, se la ultima potenza di tutta la umanità apparirà... È manifesto che l’ultimo della potenza umana è potenza o virtù intellettiva. — E perché questa potenza per un uomo o per alcuna particolare congregazione di uomini tutta non può essere in atto ridotta, è necessario che sia moltitudine nella umana generazione, per la quale tutta la sua potenza sue? in un atto si riduca.,. La propria operazione della umana generazione tutta insieme presa è riducere in atto sempre tutta la potenza dello intelletto possibile, in prima a contemplare e quindi ad operare.» (128)
Afferrati questi concetti dell’unità dell’universo, dell’eredità del passato, dei doveri per l’avvenire, della necessità dell’associazione, per raggiungere il fine, Mazzini si diè a studiare la storia di tutte le religioni, di tutte le istituzioni politiche e sociali derivate da esse (129), e giunse alla sua credenza nell'immensa Epopea Religiosa che ha l’ideale per oggetto, la serie delle generazioni per poeta: le quali generazioni hanno già dettati i tre primi canti: — Dio — Dio e la Natura Dio la Natura e l’Uomo. — Ed egli già intuiva il nuovo canto che mormora sulle labbra della creazione, ed è: Dio, la Natura, l’Uomo e l’Umanità.
Pare impossibile che ci siano ancora molti i quali di buona fede dicono che Mazzini fu un vero cristiano; se non cattolico, almeno protestante luterano, oppure un seguace di Soci no, un capo degli Unitarii. Forse quell’errore proviene dalla sua squisita tolleranza, dalla riverenza con cui egli s’avvicina agli altari deserti per raccogliere l’eco della voce che un di proclamava il frammento di vero dell'Epoca, per cercare l'impulso che animò gli uomini i quali agirono in quell’età, lo spirito che informò le istituzioni politiche e sociali, l’arte e la scienza di quei giorni. Ma questo fu il suo metodo e per mezzo di questa accumulazione di verità e di questa eliminazione di errori egli giunse alla sua formola DIO E IL POPOLO.
— Ecco che Mazzini parla sempre di Dio! — si urla in coro. — Ebbene? E Darwin, quel sommo, quel modesto, quel geniale scopritore delle leggi che governano le cose create, non parla ad ogni momento del Creatore? Per Mazzini non sono sinonimi — Dio—mente suprema supremo intelletto — principio — creatore — fonte di vita — padre — legislatore — supremo amore? — 0 che il suo Dio era uno degli dei Panteisti? o il Dio di Moisè? o il Dio di Cristo? Credeva egli forse in un uomo intermediario tra il creatore e il creato? nella grazia? nella caduta e nella redenzione? nella giustificazione per la fede? nell'uomo-dio? Che dunque significa Dio e il Popolo, se non un ideale supremo, una legge di vita, il popolo scopritore di quella legge, solo interprete senza intermediario, senza ajuto fuorché nella tradizione derivata dal passato, dalla conscienza sua interiore, messa per le associazioni degli intelletti in comunicazione di tutte le conscienze? (130) Se egli avesse avuto tempo di riassumersi, nessuno avrebbe detto essere egli un mistico o un dogmatico, un prete travestito, un despota; nessuno avrebbe osato affermare che negasse ora l'autonomia dell'io ora l’uomo collettivo, tanto meno che sconoscesse la sacra fratellanza degli uomini, il dovere in tutti di conquistare i diritti dell’umanità. Eppure tutte queste accuse gli sono state, e tutt’ora gli sono, rivolte. Prendiamo a caso un paragrafo ove egli parla delle religioni del passato.
«La vasta sintesi religiosa attraverso la quale noi moviamo a grado a grado verso la conquista dell’ideale, si svolse come una equazione, a un numero indefinito d’incognite. Ogni epoca religiosa ne svincola una, e la colloca tra le quantità cognite) e da non negarsi più mai, dei termini del problema. Due prime grandi epoche consacrarono mente, aspirazione e lavoro intorno ai due termini: Dio e la Natura; e furono quelle delle gigantesche religioni dell'Oriente Arjrano. Ma in quelle mancava, schiacciato — cancellato dal panteismo materialista o spiritualista — l’uomo, E mentre il Mosaismo serbava, quasi sacro deposito all’avvenire, elaborato e incarnato in un popolo, il dogma dell'Unità Divina, una terza grande Epoca s’assumeva in Europa di svincolare e aggiungere ai termini conquistati l’incognita umana cominciando dall’individuo. — Come l’individuo umano manifesta sotto due aspetti la vita, — vita propria e vita di relazione,) rappresentate dai due termini libertà ed eguaglianza — quell'epoca si parti in due lunghi periodi. Nel primo il politeismo affermò l’individuo, ne elaborò in termini angusti l’emancipazione e svolse nel mondo greco-romano l’idea libertà; ma in quel primo lavoro e nell’ebrezza della ribellione contro il panteismo orientale, ruppe in frammenti l'Unità divina e sottrasse così la base a ogni conquista durevole. Nel secondo la religione, ereditata dal Mosaismo la fede nella Unità, ricollocò Dio al vertice della piramide e compì a un tempo il lavoro intorno al problema dell'individuo definendone la vita di relazione, proclamando l'eguaglianza delle anime e tutti gli uomini figli d’un unico Padre. — Fu questa la missione storica del Cristianesimo. Né l’epoca, quando s’adoprò, come sempre, a desumere dalla religione 'accettata la propria costituzione politica ed economica, potè mai varcare oltre la dottrina dell’individuo e dei due termini libertà ed eguaglianza che lo rappresentano. Mentre le sette protestanti — quando commosse dalla corruzione del Cattolicismo tentarono richiamare le moltitudini alla vita iniziale del Cristianesimo — non seppero trovare criterio di verità da quello infuori della coscienza individuale, le grandi Rivoluzioni politiche che sul finire dell’ultimo secolo cercarono, conscie o inconscie, tradurre nei fatti della vita pratica il principio cristiano, riassunsero tutta l’opera loro in una dichiarazione di Diritti comuni ad ogni individuo e prefissero allo sviluppo della doppia vita morale e materiale dell’uomo una sola, inefficace norma di libertà.»
E l’edificio politico e sociale, come lo vedeva egli in via di sorgere? Base, l'uomo, la famiglia, il comune, lo stato, la patria, tutte le patrie, l’umanità. E notate. Mazzini era cosi innamorato dell’essere umano che non potè soffrire la soppressione di un solo individuo. Nessuno ha riconosciuto la entità della donna come lui. Egli prima di John Stuart Mili in Inghilterra, primissimo, affermò l’uguaglianza della donna all’uomo, mentre il cristianesimo la nega, anzi erige in dogma la di lei inferiorità. Egli prima assai dello Spencer scrisse nel 1840:
«Amate, rispettate la donna. Non cercate in essa solamente un conforto, ma una forza, una inspirazione, un raddoppiamento delle vostre facoltà intellettuali e morali. Cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità: non ne avete alcuna. Un lungo pregiudizio ha creato, con una educazione disuguale e una perenne oppressione di leggi, quell'apparente inferiorità intellettuale dalla quale oggi argomentano per mantenere l’oppressione. Ma la storia delle oppressioni non v’insegna che chi opprime s’appoggia sempre sopra un fatto creato da lui? Le caste feudali. contesero a voi, figli del popolo, fin quasi ai nostri giorni l’educazione, poi dalla mancanza d’educazione argomentarono e argomentano anche oggi per escludervi dal santuario della città, dal recinto dove si fanno le leggi, dal diritto di voto che inizia la vostra missione sociale. Da mezzo secolo, i fautori delle famiglie regnanti affermano noi italiani mal atti alla libertà, e intanto colle leggi e colla forza brutale d’eserciti assoldati mantengono chiusa ogni via perché possa da noi vincersi, se pure esistesse, l’ostacolo, come se la tirannide potesse mai essere educazione alla libertà. Or noi tutti fummo e siamo tuttavia rei d’una colpa simile verso la donna. Allontanate da voi fin l’ombra di quella colpa; però che non è colpa più grave davanti a Dio di quella che divide in due classi l'umana famiglia e impone o accetta che l’una soggiaccia all’altra. Davanti a Dio Uno e Padre non v’è uomo né donna ma l’essere umano, l’essere nel quale, sotto l’aspetto d’uomo o di donna, s’incontrano tutti i caratteri che distinguono l'umanità dall’ordine degli animali: tendenza sociale, capacità d’educazione, facoltà di progresso. Dovunque si rivelano questi caratteri, ivi esiste l’umana natura; uguaglianza quindi di diritti e doveri. Come due rami che movono distinti da uno stesso tronco, l’uomo e la donna movono, varietà, da una base comune, che è l’umanità. Abbiate dunque la donna siccome compagna e partecipe, non solamente delle vostre gioje o dei vostri dolori, ma delle vostre aspirazioni, dei vostri pensieri, dei vostri studi, e dei vostri tentativi di miglioramento sociale. Abbiatela eguale nella vostra vita civile e politica.
Siate le due ali dell’anima umana verso l’ideale che dobbiamo raggiungere. La Bibbia Mosaica ha detto:
«Dio creò l’uomo e dall'uomo la donna; ma la vostra Bibbia, la Bibbia dell’avvenire dirà: Dio creò l’Umanità, manifestata nella donna e nell’uomo.»
«V’additerò, nell'accommiatarmi da voi, un altro dovere, non meno solenne di quello che ci stringe a fondare la Patria Libera ed Una. — La vostra emancipazione non può fondarsi che sul trionfo d’un Principio, l’unità della Famiglia Umana. Oggi, la metà della famiglia umana, la metà dalla quale noi cerchiamo inspirazione e conforti, la metà che ha in cura la prima educazione dei nostri figli, è, per singolare contraddizione, dichiarata, civilmente, politicamente, socialmente, ineguale, esclusa da quell’unità. A voi che cercate, in nome d’una verità religiosa, la vostra emancipazione, spetta di protestare in ogni modo, in ogni occasione, contro quella negazione dell’Unità. L’emancipazione della donna dovrebbe essere continuamente accoppiata per voi coll'emancipazione dell'operajo e darà al vostro lavoro la consecrazione d’una verità universale.»
Anche nel penultimo anno di vita, proprio dalla fortezza di Gaeta, a proposito d’un libro di Mazzoleni, scriveva:
«Quanto al soggetto vitale che avete trattato, non v’arretraste voi un po’ timidamente davanti alla questione dei diritti politici della donna? Religiosamente, moralmente, fisiologicamente, per me almeno, la questione è risolta. Ma anche praticamente non dimenticate che la coscienza d’una missione da compierai è coi diseredati primo e potentissimo stadio di educazione. Se volete che la donna ami davvero e insegni efficacemente e con zelo ad amar la patria, fate ch’essa entri a parte de' suoi destini.»
L’equilibrio che Mazzini voleva tra Dio e il noi, tra l’uomo e gli uomini, risulta dall’insistenza sua sull'educazione di ogni individuo. Un governo scelto da tutti gli individui di una nazione per condurla al fine da essa prefisso sarà intelligente e virtuoso, se gli individui hanno intelligenza e virtù; sarà stupido e vizioso, se gli individui mancano d’intelligenza e sono viziosi. Onde a ogni uomo e donna:
«Voi siete educabili. Esiste in ciascun di voi una somma di facoltà, di capacità intellettuali, di tendenze morali, alle quali l’educazione sola può dar moto e vita, e che, senza quella, giacerebbero sterili, inerti, non rivelandosi che a lampi senza regolare sviluppo. L’educazione è il pane dell’anima. Come la vita fisica, organica, non può crescere e svolgersi senza alimenti, cosi la vita morale, intellettuale ha bisogno, per ampliarsi e manifestarsi, delle influenze esterne, e d’assimilarsi parte almeno delle idee, degli affetti, delle altrui tendenze. L’individuo s’innalza, come la pianta, varietà dotata d’esistenza propria e di caratteri speciali sul terreno comune. Condizione in separabile della vita è la famiglia: potenza umana non può sopprimerla, la parte della famiglia è di educare cittadini.»
E passando dall'uomo alla famiglia ammoniva i genitori:
«Amate i figli di vero, profondo, tenero amore; non dell’amore snervato, irragionevole, cieco, che è egoismo per voi, rovina per essi: non dimenticate che voi avete in cura le generazioni future, che avete verso di esse la più tremenda responsabilità che l’essere umano possa conoscere: voi dovete iniziarli non alle gioje o alle cupidigie della vita, ma alla vita stessa, ai suoi doveri, alla Legge Morale che la governa. Educate coll’esempio: come voi siete essi in gran parte diverranno. Se siete disonesti, inumani, intemperanti; come sperare da essi onestà, pietà, temperanza? come elevarli a la virtù se oltraggiate il pudore con atti indecenti o con oscene parole? Educate colla parola; ridite ad essi i grandi fatti dei popolani delle antiche nostre repubbliche; insegnate loro i nomi dei buoni che amarono l’Italia e il suo popolo e per una via di sciagura, di calunnie e di persecuzione tentarono migliorarne i destini. Instillate nei loro giovani cuori, non l’odio contro gli oppressori, ma l’energia di proposito contro l’oppressione. Imparino dal vostro labbro e dal tranquillo assenso materno come sia bello il seguire le vie della Virtù, come sia grande il piantarsi Apostoli della verità, come sia santo il sagrificarsi, occorrendo, pei propri fratelli. Infondete nelle tenere menti, insieme ai germi della ribellione contro ogni autorità usurpata e sostenuta dalla forza, la riverenza alla vera, all’unica Autorità, l’autorità della Virtù coronata dal Genio. Fate che crescano avversi egualmente alla tirannide ed all’anarchia, nella religione della coscienza inspirata non incatenata dalla tradizione.»
FRANCESCO CRISPI |
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Mazzini attribuiva speciale importanza in Italia all’azione del comune. Con orgoglio rintracciava il primo elemento dei comuni nel passato, «nel lavoro sociale che informandosi ai ricordi dell’antica civiltà italica fondò le nuove associazioni paesane delle arti: elemento (trasformato) della futura associazione nazionale.» Nei comuni italiani egli trovava il lavoro di fusione sociale che oggi ci rende idonei a farci nazione: lavoro che si rifece per intima spontaneità e localmente dal popolo — le popolazioni, disgiunte com’erano, — ubbedendo a una forma identica per ogni dove, tanto le vie seguite da quel lavoro apparvero simili e generatrici di conseguenze uniformi.
«L’elemento municipale che, sopravvivendo profondamente italiano alle invasioni, logorò, appoggiandosi sul popolo, il predominio successivo delle razze straniere e le ineguaglianze sociali che la conquista aveva impiantato o radicato in Italia: questo elemento è alle radici della vita italiana. Il moto fu tutto di popolo, e contro le aristocrazie politiche, feudali, territoriali, che avrebbero, perpetuandosi, perpetuato lo smembramento. Al di sotto dei nobili, degli eredi dei conquistatori, sprezzatori, alteri, ignoranti e infangati di passioni sensuali, i lavoratori delle terre, gli uomini di commercio e d’industria, gente di razza nativa, si giovavano della noncuranza dei padroni per l'arti utili e produttive ad arricchirsi; e si giovavano financo delle triste necessità che. rotte le comunicazioni tra l'Italia e l'altre parti d'Europa, imponevano agli abitatori delle nostre contrade di nutrirsi coi prodotti del suolo, a richiamare in vita l’agricoltura decaduta negli ultimi tempi dell'impero. La piccola coltura sottentrò all’inerzia degli spenti o scacciati proprietari di latifondi. La vita localizzata, migliorando tacitamente e afforzandosi delle immortali tradizioni romano-italiche e riconquistando inavvertitamente terreno, preparò il moto splendido dei nostri comuni; e creò una classe operosa, industriale, avversa a tutte le distinzioni arbitrarie, a tutte le ineguaglianze non fondate sul lavoro, a tutte le supremazie traenti origine dalla conquista o da permanenti influenze straniere. Nella storia di quella classe è il vero criterio col quale devono giudicarsi le nostre vicende. In essa è la norma del progresso italiano e della nostra unificazione: in essa il segreto delle tendenze democratiche, onnipotenti, checché si faccia, sulla nostra vita, e che condurranno quando che sia inevitabilmente l'Italia all’ideale repubblicano.»
E quando egli era tutto rivolto all’unità dell’Italia, quando doveva combattere i tiranni domestici e gli stranieri, non perde mai di vista il comune a lui caro e per la tradizione italiana e per vivo senso della sua utilità. Ma non potè mai dividere l'idea del comune da quella della nazione, dello Stato; non dello Stato gendarme dello Stato tiranno, ma dello Stato che consiste nell’associazione di tutte le membra della nazione: non potè separare i due termini del problema, Associazione e Libertà, ambi sacri e inseparabili dall’umana natura, che possono e devono armonizzarsi, non escludersi l’un l’altro. In un buon ordinamento di stato la nazione rappresenta l’associazione, il comune la libertà. Nazione e comune sono i soli due elementi naturali di un popolo, le sole due manifestazioni della vita generale e locale che abbiano radice nell’essenza delle cose. Egli studiava con interesse crescente lo sviluppo in Inghilterra del governo locale coetaneo alla nascita della nazione, che man mano va distribuendo tra le città e le provincie quelle funzioni che non è assolutamente dovere dello Stato esercitare — cioè l’interna amministrazione, il controllo di tutte le scuole conformate all’idea educativa emanata dal parlamento, — dell’igiene — della tutela dei poveri; e ora sembra che ai corpi locali andranno assegnate certe fonti di tasse e certi diritti sull’acquisto della terra per migliorare le condizioni delle classi lavoranti. Nello scritto sull’Unità Italiana (1833) egli entra in molti particolari circa le funzioni del comune indicando
«... quali i doveri dello Stato, quali i diritti del comune: questo non vuole servo come in Francia (e come ogni giorno più é in Italia), astretto a ricevere capi e ufficiali dal governo centrale e a soggiacere al di lui intervento in ogni menoma operazione. Necessario egli vede un nuovo riparto territoriale, perché causa alla servitù dei comuni è la loro piccola estensione. Il comune è una associazione anch'essa destinata a rappresentare quasi in miniatura lo Stato; e bisogna dargli le forze necessarie a raggiungere il fine: l’impotenza dei piccoli Comuni a raggiungerlo e provvedere coi propri mezzi al soddisfacimento dei propri bisogni materiali e morali li piega a invocare l’intervento governativo e sagrificargli la coscienza e l’abitudine della libera vita locale.»
Egli insiste sulla necessità per il comune ampliato
«... di affratellare nella stessa circoscrizione la città e parte delle popolazioni rurali: perché, oltre il vantaggio d’associare cosi interessi strettamente connessi come sono gli industriali e gli agricoli e riunire in una tutte le manifestazioni della convivenza sociale, se v’è piaga che in Italia minacci l’armonia dello sviluppo collettivo, è senz’altro lo squilibrio di civiltà esistente tra le città e le campagne; fonte di vita progressiva e d’associazione nazionale le prime, campo le seconde, mercé l’assoluta ignoranza, di tutte le influenze che resistono al moto. E solo rimedio ch’egli vegga, potente a combattere e distruggere a poco a poco quella funesta disuguaglianza è il congiungere possibilmente si che la luce delle città si diffonda a raggi sulle terre che le ricingono.»
Come suonano oggi efficaci queste parole davanti al fatto tremendo, che, dopo sedici anni di vita nazionale il lavorante del suolo è lasciato in disparte, isolato, ignorante, misero, costretto a lavorare in segreto alla propria emancipazione, senza lume di economia politica, senza ajuto di coltura morale e sociale, colla convinzione che il cittadino non avrà per lui che manette, bajonette, carcere, o, come alternativa, l’emigrazione.
Importante quello che Mazzini scrisse sulle tre unità politico-amministrative:
«Il Comune, unità primordiale — la Nazione, fine e riunione di quante generazioni vissero, vivono e vivranno tra i confini assegnati visibilmente a un popolo — la Regione, zona intermediaria tra la Nazione.. e il Comune, additata dai caratteri territoriali secondari, dai dialetti e dal predominio delle attitudini agricole, industriali o marittime. Ben inteso che tanto le autorità regionali quanto le comunali debbono essere elette da tutti gli uomini e da tutte le donne che hanno l’età.»
E in questo esercizio del diritto di voto egli vedeva un’educazione efficace al suffragio politico. Ed è questa senza dubbio la' scuola alla quale gl’inglesi e gli Americani apprendono il valore del voto: ognuno sente che ha un diritto in tutto quanto concerne l’interesse del consorzio civile e il dovere di esercitarlo per il bene di tutti; e inoltre dall’opera degli eletti nel comune intendono come opereranno quelli nel parlamento.
Veduto come Mazzini intendesse l’educazione dell’uomo e della donna nella famiglia, del cittadino nel comune, è facile comprendere come egli considerasse il governo della nazione quasi una necessità, un naturale prodotto, un risultato del consenso di tutti per il progresso intellettuale, morale, sociale di tutti. Si capisce subito come e perché egli sempre insistesse sull’assemblea costituente emanata dal voto dell’intera nazione, e come, mano mano che la nazione andava verso la conquista della sua Unità, l’insistenza raddoppiasse, perdurando la colossale assurdità che un popolo di 30,000,000 accettasse a legge regolatrice d’ogni manifestazione della sua vita nazionale uno statuto concesso da un despota, sotto pena di perdere la corona, a 4,000,000 di uomini nati, cresciuti e abituati al dispotismo.
Né egli intendeva futilità di avere una patria, se ogni uomo e donna vivente sul suolo di quella non avesse campo, istrumenti e coltura per progredire entro il limite della propria capacità e promuovere il progresso della nazione e per essa dell’umanità. Egli delle parolone sostituito al fine non sapeva farne, scriveva:
«La teorica dei diritti può compir la rovina d’una società incadaverita o tirannica, non fondarne, su buone e durevoli basi, una nuova. La sovranità dell’io non può creare che dispotismo e anarchia. La libertà è mezzo al bene, non fine. L’eguaglianza intesa in un senso materialmente assoluto è negazione impossibile della natura; e, se mai fosse possibile, condurrebbe all’immobilità. Il segreto d’una ordinata convivenza sociale non può scoprirsi dal suffragio esercitato ad arbitrio d'uno, di pochi o di tutti, se base e punto di mossa del suffragio non é l’accettazione comune anteriore d'un principio morale supremo, chiamata dalla tradizione armonizzata colle intuizioni della coscienza a esser vita d’un’epoca e interpretato e applicato dal popolo. Popolo non è una frazione, comunque vasta, di popolo, ma l’insieme di tutte le classi, di tutti gli individui associati a formar nazione sotto la scorta d'una fede e d’un patto che additino un fine comune; e quello è solo sovrano. Le rivoluzioni sono legittime e sante soltanto quando propongono, sulla via del progresso, un nuovo fine capace di migliorare le condizioni morali, intellettuali e materiali di tutti: quelle che tendono a sostituire la supremazia sistematica d'una frazione di popolo sulle altre non sono che ribellioni infruttifere e pericolose. Ogni rivoluzione è un problema d’educazione sostituito all’antico. Governo è il senno d’un popolo consacrato a promuovere quel nuovo principio d’educazione nella sfera dei fatti. Tutto sta nell’ordinare un governo che possa e debba essere interprete di quel principio e non abbia allettamenti o forza a falsarlo; e tutte le teoriche fondate organicamente su diffidenza, sospetto, resistenza, libertà sola o antagonismo tra governanti e governati, sono caratteri d’un periodo di transizione, protesta generosa per un tempo contro una condizione di cose anormale e tirannica, ma inefficaci a istituire vita normale e feconda. L’autorità è santa, quando non è cadavere o menzogna d’autorità, ed è ordinata e potente a rappresentare e svolgere il principio morale dell’epoca; e l’eterno problema del mondo è, non la distruzione dell'autorità, ma la ricerca e la sostituzione d'una autorità vera ai cadaveri e alle menzogne d’autorità. Nulla si distrugge, nulla si crea; ma tutto si trasforma a seconda dello stato d’educazione che abbiamo raggiunto o possiamo raggiungere. Educazione, patria, libertà, associazione, famiglia, proprietà, religione, sono elementi immortali dell’umana natura: nessuno può cancellarli; ma ogni epoca ha dovere e diritto d’ottemperarne lo sviluppo alla ragione dei tempi, ai progressi della scienza e dell’umane relazioni mutate.»
Onde l’insistenza sull’assurdità di separare la questione politica dalla questione sociale. Da questa profonda convinzione moveva la guerra sua costante contro tutti i sistemi parziali proposti a rimedio del cancro sociale che rode le viscere delle nazioni. Per contrario vogliono separate le due questioni i nemici degli operai e dei contadini, i quali dicono:
«Pensate a migliorare le vostre condizioni materiali; lasciate stare la politica; questa è una scienza occulta che non vi riguarda.» Ed è strano in un popolo così intelligente vedere quanti sono cascati niella rete, quanti dicono «A che serve il voto? A mandare Tizio o Gajo a Roma ove tutti pensano al proprio interesse, non al nostro. A questo pensiamo noi: vogliamo guadagnare e risparmiare.»
A combattere questo fatale pregiudizio, a educare il popolo gli artigiani e i contadini, Mazzini dedicò più che la metà dei suoi scritti: questo fu lo scopo del suo apostolato. Egli stimava quanto amava i figli del lavoro: e di essi e ad essi parlava come ad amici ed uguali: «Non fui mai tradito da un popolano, non ho mai trovato un uomo del popolo ingrato» egli scriveva nel 1834. «Non ho mai trovato ingratitudine od oblìo nel popolano d’Italia» ripeteva nel 1862. Unico vanto, scrivendo ad un’amica francese, madame Angoult, era: «Si je suis aimé quelque part, c’est dans la classe ouvrière italienne.»
E pochi mesi prima di morire:
«Sarò vostro, operai fratelli miei, finché rimarrà in me un alito della vita terrestre. V’amai fin dai primi passi ch’io mossi sulla via che il dovere e gli istinti dell’anima mi fecero scegliere, perché fin d’allora intravidi i fati ai quali oggi vi sospinge la legge provvidenziale del progresso e la splendida parte che aveste nel risorgimento di questa sacra terra che Dio volle darci a patria. V’amai come s’ama chi merita amore, rispettandovi e non contaminando voi e me con ipocrite adulazioni o accarezzando in voi illusioni condannate anzi tratto, perché evocate da passioni latenti o da promesse che si risolvono in sole parole. V’ho sempre detto ciò che credo esser vero. E voi mi avete ricambiato d’amore per questo: di quell'amore sincero, puro, spontaneo, che porgo conforto, nelle più dure prove, alla vita e non concede all'anima stanca di travolgersi nell'ira, nel dubbio o nell'egoismo. Rimanga tra noi quel patto d’amore. E possa io, non foss’altro, vedervi prima dell'ultima ora concordemente avviati al compimento della vostra missione.» (Ottobre 1871).
Parole soavi e vere come quelle che sgorgano dal cuore di padre morente. E per Mazzini gli uomini del popolo furono davvero come figli. Da bambino il mendicante romano era il «suo povero». Nell’esilio i fanciulli abbandonati che egli raccolse e innalzò educando a dignità di uomini e cittadini gli furono conforto unico nell'isolamento e nel distacco da ogni cosa cara. Povero al punto di dover impegnare non solo gli oggetti preziosi, doni della madre sua, ma più le scarpe e l’abito, egli mantenne per anni la famiglia Tancioni nessuno lo sapeva: né lo saprebbe, se Saffi intermediario non l'avesse detto dopo la di lui morte. Egli amava il popolo perché soffre e lavora, perché si slancia in ogni nobile tentativo, che esige sacrificio senza domandare se frutterà o no la vittoria. E nell’amore suo era misto quel nobile orgoglio italiano, che radicato nel passato sosteneva nei momenti di dubbio e di sfiducia le speranze sue per l'avvenire. Non mai poeta cesareo dettò per conquistatori ambiziosi canto più fiero che il suo per i trionfi popolari.
«Chi vinse il 29 maggio 1176 contro Federico Barbarossa in Legnano la prima grande battaglia dell’indipendenza italiana? Il popolo. — Chi sostenne per trentanni l’urto di Federico II e del patriziato ghibellino, e ne logorò le forze davanti a Milano, Brescia, Parma, Piacenza, Bologna? Il popolo. — Chi franse in Sicilia la tirannide di Carlo d’Angiò e compì nel marzo del 1282 i Vespri a danno dell’invasore. francese? Il popolo. — Chi protestò in Napoli a mezzo del secolo XVII contro la tirannide di Filippo IV di Spagna e del duca d’Arcos? Il popolo. — Chi vietò con. resistenza instancabile che l’Inquisizione dominatrice su tutta Europa ’impiantasse nelle due Sicilie? Il popolo. — Chi scacciò da Genova nel dicembre del 1746, di mezzo al sopore di tutta l’Italia, un esercito austriaco? 11 popolo. — Chi difese due volte nell’agosto del 1848 e nel maggio del 1819, contro gli assalti dell’Austria? Il popolo. — Chi salvò in Roma, Venezia e Bologna l’onore d’Italia prostrato dalla monarchia colla consegna di Milano e colla rotta di Novara? Il popolo.»
E dopo? Chi furono le vittime della Gancia? Popolani tutti. — E i compagni di Pisacane? E i volontari di Garibaldi sul Volturno, nel Tirolo, a Mentana? Il popolo senza nome, combattente senza premio di fama; l’eroe-collettivo; l’uomo-missione che non fallì mai alla chiamata ogni qualvolta gli vennero innanzi, in nome della Santa Libertà, uomini che incarnarono in sé l'azione e la fede!
Egli s’indignava e soffriva, proprio come uno del popolo, dell’abbandono in cui i popolani sono così ingratamente lasciati dalle classi per le quali e colle quali essi hanno combattuto, sofferto e vinto. E, verso il fine della vita, egli che vantava impossibile una guerra tra classe e classe in Italia, cominciava a temerla possibile, se le classi abbienti e colte persistessero nel negare al popolo la parte sua nella comune eredità. Ma invece di suggerir rappresaglie egli al popolo insegnava la via del progresso, parlandogli del dovere, della legge morale, in nome della missione che esso è chiamato a compiere per l’Italia e per l’umanità. Da quarantanni predicava esplicitamente che ogni rivoluzione dalla quale non esca una trasformazione delle condizioni sociali torna inevitabile delusione, e che il progresso sociale da compirsi è la sostituzione del lavoro associato all’ordinamento fondato sull’esistenza del capitale da un lato e del salario dall’altro: ma sempre e con più accentuata risoluzione da ultimo si separava, e chiamava gli operai italiani a separarsi, dai sistemi socialisti esclusivi e dall’Internazionale; perché i mezzi adottati a raggiungere quella trasformazione, cioè abolizione d'ogni credenza comune, sostituzione dell'individuo e del comune alla nazione, soppressione della proprietà individuale, negazione dello Stato (lo Stato s’intende fondato sul libero patto formulato dalla libera volontà di tutti) e d’ogni autorità, gli sembravano radicalmente contrari all’intento. Egli congiungeva i due problemi, politico e sociale, perché vedeva l'associazione unica fattrice oggi di progresso. Il tempo, lo sviluppo intellettuale, la certezza della vita fisica necessaria per compire i doveri, per esercitare i diritti, questi elementi di progresso mancano alle masse, dacché la loro vita è una continua incerta battaglia per conquistare i mezzi di sostenere l’esistenza materiale. Il vizio profondo radicale della società, come è in oggi ordinata, rende quasi impossibile il vivere, assolutamente il progredire. E questa tristissima condizione egli voleva mutata; e capiva benissimo che senza questa mutazione il parlare agli uomini della classe operaja, agricola o industriale, per i quali la vita è una lotta d’ogni giorno, che non frutta il necessario alla sussistenza, il parlar loro di vita intellettuale e morale, di educazione, è una vera ironia. Ammettendo nella grande famiglia disuguaglianze generate dalle diverse attitudini, dal diverso desiderio di lavoro, afferrò il principio che deve signoreggiarla tutta.
«Qualunque, egli affermava, è disposto a dare per il bene di tutti ciò ch’ei può di ¡acoro deve ottenere com«penso tale che lo renda capace di sviluppare più o meno la propria vita sotto tutti gli aspetti che la definiscono. Questo l’ideale che tutti debbono cercare di raggiungere. Ogni mutamento, ogni rivoluzione che non vi si accosti di un passo, che non faccia scendere dal progresso politico un progresso sociale, che non promova d’un grado il miglioramento materiale, viola la legge; ogni istituzione che a questa non tende e non giunge, è una menzogna e un male.»
E tracciando il progresso storico trova le masse prima schiave, poi serve, oggi assalariate. E come uomini buoni e grandi, e le istituzioni, finché sante e vitali, le emanciparono dalla schiavitù e dal servaggio, oggi si tratta di emanciparle dal giogo del salario, perché diventino produttori liberi, padroni della totalità del valore e della produzione che esce da loro.
E convinzione sua era che sotto un governo nazionale, come egli l'intendeva,t tra l’opera delle masse e l’opera della società che ha doveri sacri verso tutti i suoi membri, si può compire pacificamente la più grande e bella rivoluzione che possa idearsi, quella che dando come base economica al consorzio umano il lavoro, come base alla proprietà i frutti del lavoro, raccoglierà sotto una sola legge d’equilibrio tra la produzione e il consumo, senza distinzione di classe, senza predominio tirannico d’uno degli elementi del lavoro sull’altro, tutte le classi, tutto il popolo, tutti i figli della stessa madre, la patria.
«La piaga della società economica attuale sta nel fatto che il capitale è il despota del lavoro. Delle «tre classi che oggi formano economicamente la società — capitalisti, cioè detentori dei mezzi o stromenti «del lavoro — intraprenditori, capilavoro, commercianti che rappresentano o dovrebbero rappresentare l'intelletto — e operai che rappresentano il lavoro manuale; — la classe dei capitalisti sola è padrona del campo, padrona di promuovere indugiare, accelerare, dirigere terso certi fini il lavoro.»
I rimedii degli specialisti, applicati isolatamente e coll’ingannevole promessa di rimediare tutto, non hanno rimediato fin’ora a nulla. Eccellenti le casse di risparmio e altre simili istituzioni che tendono a moralizzare l’operajo.
«Bene tenere conto di alcuni trovati della scuola detta degli economisti, ma la loro formola — ciascuno per sé, la libertà per tutti — è insufficiente per creare anche un graduale equilibrio approssimativo d’agi e conforti fra le classi che costituiscono la società. I loro sforzi possono accrescere per un certo tempo la produzione della ricchezza, non farne più equa la distribuzione. — Sotto il regime di libertà esclusiva che essi predicano, e che ha più o meno regolato il mondo economico nei tempi a noi più vicini, i documenti più innegabili ci mostrano aumento d’attività produttrice e di capitale, non di prosperità universalmente diffusa; la miseria delle classi operaje è la stessa di prima. La libertà di concorrere per chi nulla possiede, per chi non potendo risparmiare sulla giornata non ha di che iniziare la concorrenza, è menzogna, non giova a emancipare il lavoro dalla tirannide del capitale, non dà i mezzi del lavoro a chi non li ha. E per difetto di un’equa distribuzione della ricchezza, d'un più giusto riparto dei prodotti, d’un aumento progressivo della cifra dei consumatori, il capitale stesso si svia dal suo vero scopo economico, s’immobilizza in parte nelle mani dei pochi invece di spandersi tutto nella circolazione, si dirige verso la produzione d’oggetti superflui, di lusso, di bisogni fittizi, invece il concentrarsi sulla produzione degli oggetti di prima necessità per la vita, o si avventura in pericolose e spesso immorali speculazioni. La concorrenza illimitata, non moderata e ristretta dall'Associazione, sancisce infallibile il dominio economico dei pochi ricchi di mezzi sui molti possessori di piccoli capitali o soltanto delle loro braccia, e condanna alla lunga, col tristo ineguale riparto dei prodotti, a inaridire le sorgenti della produzione.»
Colla soppressione delle Corporazioni religiose e l’abolizione delle mani morte un’immensa quantità di terreni ridonati alla libera circolazione offriva all’Italia ottimo mezzo per accrescere il numero del piccoli proprietari, ma il sistema con cui si fecero le alienazioni esclusivamente inspirato ad un concetto fiscale lasciava passare infruttuosa la propria occasione; ed avvenne che le terre vendute andarono ad accrescere l’estensione dei possessi degli antichi proprietari, i quali impiegano i capitali sui nuovi acquisti: ne mancarono poi per coltivare le terre acquisiate: perciò essi non pagano le braccia che restano inoperose, e la terra inoperosa non produce pane per gli affamati. Le terre incolte in Italia corrispondono come due lagrime alle terre tenute a parchi, alla caccia riservata ed altre cose inutili nella vecchia Inghilterra. E tutte queste cose Mazzini non pure osservava è notava; ma nella breve ora del suo potere a Roma fece che tutte le leggi, lo spirito stesso della costituzione, s’informassero al miglioramento economico della classe dei lavoranti delle città e del contado (131). Ma per conciliare il capitale al lavoro egli non volle mai ammettere l'abolizione della proprietà, né l’altra proposta di fare solo proprietario lo Stato.
Considerava la proprietà tra gli elementi della vita umana, rappresentante la necessità della vita materiale, mezzo del lavoro materiale, segno della quantità di lavoro col quale l'individuo ha trasformato, sviluppato, accresciuto le forze produttrici della natura.
«La proprietà è in oggi mal costituita, perché l’origine del riparto attuale sta generalmente nella conquista, nella violenza, colla quale in tempi lontani certi popoli e certe classi invadenti s’impossessarono delle terre e dei frutti d’un lavoro non compito da essi. La proprietà è mal costituita, perché le basi del riparto dei frutti ehm lavoro compito dal proprietario e dall’operajo non sono poste sopra una giusta eguaglianza proporzionata al lavoro stesso. La proprietà è mal costituita, perché conferendo, a chi l'ha diritti politici e legislativi che mancano all'operaio, tende ad esser monopolio di pochi e inaccessibile ai più. La proprietà è mal costituita, perché il sistema delle tasse è mal costituito, e tende a mantenere un privilegio di ricchezza nel proprietario, aggravando le classi povere e togliendo loro ogni possibilità di risparmio. Ma se, invece di correggere vizi e modificare lentamente la costituzione della proprietà, voi voleste abolirla, sopprimereste una sorgente di ricchezza, di emulazione, d'attività; e somigliereste al selvaggio che per cogliere il frutto troncava l’albero. Non bisogna abolire la proprietà, perché oggi è di 'pochi; bisogna aprire la via, perché i molti possano acquistarla. Bisogna richiamarla al principio che la rende legittima, facendo si che il lavoro solo possa produrla. Bisogna avviare la società verso basi più eque di rimunerazione tra il proprietario o capitalista e l’operajo. Bisogna mutare il sistema delle tasse, lasciando libera d’ogni gravame la vita, cioè il necessario alla vita, da gravitare proporzionatamente sul superfluo, evitando le soverchie spese di percezione».
Una tassa unica proporzionata alla rendita di ognuno cominciando dalla somma necessaria per vivere del frutto del lavoro, era una delle idee economiche su cui egli insisteva: poi quella delle Associazioni operaje e agricole per la coltivazione delle terre incolte delle vaste zone mal. sane dell'Italia: poi delle banche di credito veramente per il popolo.
«Associatevi egli esortava in tutto e per tutto: associatevi per educarvi: associatevi per eleggere, anche colle istituzione di oggi, uomini che intendano i vostri bisogni, le vostre aspirazioni, che conoscano la vostra miseria. Dite ad essi cosa volete entro i limiti del quanto può fare una legislatura, sorvegliateli, notate se i vostri rappresentanti veramente vi rappresentano: se no, rimproverateli e al fine della sessione cambiateli adducendone il motivo. — Associatevi per fondare società di consunzione e di produzione. Ma anche qui siate morali e giusti e vigilanti. Un’associazione è composta di individui; e se questi sono pigri, disonesti o cupidi, l’associazione fallirà. Non affidarne la direzione ad altri; non mettere a capo delle vostre associazioni politiche o economiche genti estranee, perché hanno nome o gradi o ricchezze — voi sapete quel che per voi è il meglio — non delegare ad altri quanto potete fare per voi stessi: scegliete l’uomo e gli uomini che conoscete per probi, intelligenti, e attivi».
Altro provvedimento sul quale egli fondava molte speranze per l’avvenire era la mezzadria e ne cercava informazione ovunque; sapendo come Arthur Voung per il primo e John Stuart Mill dopo, tornando dall’Italia, ossia dalla Toscana, gridavano: «Eureka! l’Italia ha sciolto il problema del lavoro e del capitale in quanto al suolo condividendone il prodotto tra il possessore e il contadino.»
MAZZINI NELLE ULTIME ORE DI VITA |
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E non c'è dubbio che ove quel sistema regna, la miseria non esiste e la prosperità cresce (132).
Ma Mazzini distinguevasi da tutti nelle sue relazioni col popolo pel rispetto che sentiva e manifestava ad esso. Egli dopo tanti studii di ogni sistema economico, seguendo e pregando gli amici di seguire i tentativi economici fatti nei due mondi, non faceva altro che suggerire.
«Nell’associazione — diceva — sta la vostra forza, il vostro avvenire; perché, libero da ogni coercizione, cosa inseparabile dai sistemi speciali; ognuno suggerisca un’idea, un piano, un tentativo, tutti la discutano, la rigettino o decidano di metterlo alla prova; poi quello che è approvato da una associazione è oggetto di proposta dai delegati di quella all’associazione centrale, la quale da capo la trasmette alle altre associazioni sorelle; tutte poi libere, anzi in dovere, di additarne l’utilità o l’inutilità; volta per volta e anche dopo la prova.»
Non mai forse Mazzini fu tanto offeso nella dignità personale quanto dal detto di Bakunine. «Bisogna insegnare all'operajo ciò ch’ei deve volere.» Scelto da molte società a rappresentante nel Congresso operajo, tra altri motivi di rifiuto scrive:
«Ottobre 1871. — La mia presenza nuocerebbe probabilmente al fine che vi proponete. Voi non potete, operai italiani, rinnegare, come tentarono e tentano in altre terre, l’unità del problema umano e separare dalla questione nazionale e di progresso politico la questione economica: siete uomini e cittadini come operai e non può compirsi progresso per voi, se prima non lo si compie nell’elemento patrio in cui foste posti a vivere. Ma l’intento principale del vostro Congresso è oggi quello di costituirvi, di raccogliervi tutti quanti siete smembrati tuttora in nuclei locali sotto il Patto di fratellanza: è la Direzione Centrale che deve farvi capaci d’esprimere oflìcialmente ed efficacemente al paese i vostri bisogni, i mali che vi affliggono, i rimedi che intravedete possibili. E per questo voi non avete bisogno di me. Importa anzi tutto che la vostra voce e le vostre deliberazioni escano spontanee e libere — per tutti quei che guardano in voi — da ogni sospetto d’influenza straniera al fine che ora vi proponete. — Quando udrò determinato il tempo pel vostro convegno, io vi porgerò pubblicamente quei pochi consigli che il mio cuore mi suggerisce opportuni. Ma il mio intervento personale darebbe pretesto agli avversi a voi per accusarvi d’aver ceduto in qualche vostra determinazione, all'amore che, meritamente o immeritamente avete per me e per accusarmi, di tendere a mutar la vostra in una manifestazione esclusivamente politica e favorevole alle credenze dell’anima mia. Parmi debito d’evitarlo.»
E nella lettera «ai rappresentanti gli artigiani nel Congresso di Roma», esposto ciò che la parte buona e sinceramente italiana del paese aspettava da loro, aggiunge:
«Voi volete costituito un centro che, rispettando i diritti e i doveri puramente locali delle Società, possa legalmente rappresentare doveri, diritti, tendenze,, interessi comuni a tutta quanta la Classe Artigiana ed esprimere, convalidato dalla potenza del numero, i mali che affliggono in Italia gli uomini del lavoro, le cagioni che secondo voi li producono, ed i rimedi che secondo voi potrebbero cancellarli. — Ed è la cosa la più importante che possiate fare. Dal giorno in cui l’avrete fatta comincerà la vita collettiva degli Operai Italiani; avrete costituito lo strumento per progredire concordi: la questione sociale, oggi lasciata all’arbitrio di ogni nucleo locale, potrà definirsi davanti al paese, forte dei fatti raccolti da tutte le Società e del consenso indiretto di quasi dodici milioni tra operai manifatturieri, dati all'industria mineraria, ed agricoltori: petizioni, reclami, statistiche concernenti alcuni fra i mali immediati e dovuti al malvolere o all’arbitrio degli uomini più che alla costituzione sociale potranno escire dal vostro centro in nome non d’una ma di tutte le Società Operaje esistenti in Italia e saranno per questo ascoltate. E finalmente potrete allora stringere, nei modi e coi patti che vi parranno opportuni, coi vostri fratelli dell’altre n azioni vincoli d’alleanza, che tutti intendiamo e vogliamo, ma dall'alto del concetto nazionale riconosciuto, non sommergendovi individui o piccoli nuclei in vaste e male ordinate Società straniere, che cominciano dal parlarvi di libertà per conchiudere inevitabilmente nell'anarchia o nel dispotismo d’un centro e della città nella quale quel centro è posto».
Con queste poche parole Mazzini additò agli operai italiani quel molto che possono fare a sciogliere il problema, oggi questione di vita o di morte per la società. In questo modo la libertà individuale è rispettata: l’individuo propone, ascolta i suoi fratelli: essi deliberano, decidono, delegano. E la voce dei loro rappresentanti, voce unanime di dodici milioni, sarebbe ascoltata ed ubbidita in patria. Di più, avrebbe un’autorità immensa in un congresso europeo, perché voce non di un individuo, di una parte, di una frazione, ma di tutti i figli del lavoro di un grande popolo. Per questi e simili consigli agli operai italiani, Mazzini fu accusato di farsi inspiratore di una gretta nazionalità, di dimenticare l'Umanità, per promuovere gli interessi di una sola classe, di una sola patria. Sempre calunniato, noi fu mai tanto quanto in quell’ultimo anno di vita; perché egli riunì tutte le sue forze per salvare l’Italia dalla perniciosa influenza delle sette, degli anarchici, degli uomini dei piccoli sistemi (133), che pretendevano e pretendono trasferire con un colpo di mano i diritti e i beni di tutte le classi a una classe sola, senza che questa con paziente e costante lavoro, compiendo individualmente e collettivamente i doveri suoj morali, sociali e politici, abbia dimostrato che il bene da lei conquistato sarebbe bene di tutti. Il lavoro di Mazzini, e la minuta e paziente esposizione ch’egli fece dei fini, dei mezzi e dell’operato degl’internazionalisti, diede il colpo mortale a quell’assurdo e immorale tentativo. Cosi egli salvò per allora l’Italia dalla guerra civile e dai disordini che minacciarono e minacciano resistenza di altre nazioni. Quella guerra è ancora evitabile? Sì certo, se i principii di Mazzoni divengano fede comune. Ma una sola classe non può riuscire ad impiantare quella fede, se tutte le altre si uniscono a impedirla. È strano che le classi abbienti non si mettano a fare propaganda delle dottrine di lui. Forse egli solo tra quanti hanno lavorato e scritto per il popolo vede in esso tutte le classi e tutti gli individui uniti in un santo fine; e parlando della borghesia, tra molti altri ricordi di quello che merita e di quello che vale, egli scrive:
«Numerosa e importante è questa classe, non solamente per la condizione d’intelletto educato e di possedimenti che la farebbero, se volesse, arbitra dello Stato, ma perché in essa sono latenti i germi del bene isteriliti negli altri. Tolta,via una genia di speculatori e di banchieri insaziabili che contaminano le contrade del commercio e preparano crisi tremende ai popoli, gli uomini delle classi medie furono e sono tuttora uomini di lavoro e ne sanno il valore e la dignità. In un periodo nel quale, sciolti per molte cagioni tutti i vincoli d’unità morale, di viva fede e di culto a un fine comune, non rimane a norma di vita che l’io, hanno ringrettiti affetto e virtù, ad affetti verso l’angusto cerchio privato, a virtù domestiche e inoperose oltre il recinto della famiglia e dei pochi amici; ma la facoltà d'intendere e d’operare il bene vive in essi più sviata e intorpidita che spenta. Da queste classi borghesi, che si affermarono coll’antica emancipazione dei nostri Comuni, escirono, in tempi più recenti, forti fatti di lunga ostinata resistenza ai dominatori stranieri, e torme di giovani volontari per le battaglie dell’Unità nazionale e apostoli incontaminati del Vero e di questa stessa emancipazione del popolo che noi predichiamo. Gli artigiani d’Italia lo sanno e serbano, buoni come sono, animo grato ai fondatori degli asili per l’infanzia, delle casse di risparmio, delle prime scuole popolari: rimedi inefficaci ai loro mali, ma creduti allora i soli possibili e occasione del ridestarsi del popolo alla coscienza di fati migliori. Chi s’adopra fra noi a seminare astio fra classe e classe e irritare il povero popolo contro chi s’emancipò primo e contro ai detentori, quali essi siano, di capitale, fa opera trista che non giova agli artigiani, e suscita a sospetti di pericoli che in realtà non esistono tutta una moltitudine di cittadini necessari al progresso della nazione. Non esistono, per chi ama e intende, se non due classi di cittadini, i buoni e i tristi, gli amorevoli al bene altrui e capaci di sagrificio, e gli egoisti, se borghesi o artigiani non monta, che non pensano se non al proprio benessere. Se la tendenza a questo egoismo s incontra più frequente tra quei che possiedono, la cagione sta nelle più numerose tentazioni materiali che l’accarezzano, nei governi che, a serbarli amici, circondano di monopolio e privilegi civili e politici la loro ricchezza — e in una dottrina economica buona a suo tempo, funesta in oggi — che dei due elementi d’ogni progresso, Libertà e Associazione, non conosce che il primo, e che, travolta nel materialismo del periodo in che nacque, sostituisce al problema umanoil semplice problema di produzione... L’errore, l’errore fondamentale che addormenta nella classe d’uomini alla quale accenniamo la tendenza a esaminare seriamente il problema e tentar di risolverlo concordemente con noi, è quello di guardare al moto artigiano, non come a fatto provvidenziale e ineluttabile, ma, come a frutto di tempi politicamente agitati e fenomeno che un migliore assetto governativo e alcuni lievi miglioramenti ai mali più urgenti dileguerebbero. Nessuna rivoluzione politica può d’altro lato farsi legittima e riescire a buon porto, se non modifichi gli ordini sociali e non inizi alla vita nazionale una classe d’uomini fino a quel giorno diseredati: dove noi faccia, credo irrevocabile la necessità d’una nuova rivoluzione dopo non lungo intervallo di tempo e una sorgente di perenni contese civili in questo intervallo.» (Roma del Popolo 1871.)
Ha o non ha Mazzini indovinato i segni dei tempi? Queste contese civili si fanno o no ogni giorno più acute, ogni giorno più frequenti? Perché gli uomini delle classi medie, i quali capitanarono il popolo in tutte le patrie battaglie, ora abbandonano quel popolo, soffrente e risoluto a non più soffrire in silenzio, ai primi arruffoni che con fallaci promesse di immediato sollievo l'aizzano contro tutto e tutti, per poi piantarlo, quando, sopravvenuto il disinganno, esso lasciasi andare ad atti disperati? Perché, in primo luogo, queste classi abbienti non si associano tra loro per investigare i mali e cercare i rimedii? — Essi dicono: Colle tasse di oggi non possiamo accrescere il salario né degli operai né dei contadini. — Perché dunque non associarli al capitale affinché apprendano i rischi e le responsabilità? — Sento subito una risposta: Mazzini e i mazziniani vogliono la repubblica; e noi, appena usciti da una rivoluzione, non ne vogliamo un’altra. — No: Mazzini additava la repubblica come mezzo, non come fine. Mazzini avrebbe voluto che a Roma il popolo fosse chiamato liberamente a formulare il patto nazionale. Ma egli mai e nessuno de' suoi veri seguaci sognò o sogna di imporre con violenza una forma di governo qualsiasi. Mazzini aborriva dalla violenza, né ammetteva la guerra se non contro lo straniero Insediato sul suolo della patria: Mazzini non volle mai imporre un’opinione; ma aveva le opinioni sue, e ne era così persuaso da essere certo del lento finale trionfo di esse.
Dio e Popolo non era per lui vacua formola o dogmatica affermazione, ma esprimeva la sua credenza nell’eterno continuo progresso. Dio principio, padre, intelletto e amore, educatore dell’umanità: l’umanità scopre la legge progressiva o frammenti di essa e i modi di applicarla, Si vive, dunque c’è legge di vita; la vita esiste secondo certe condizioni, con una certa legge, scoprire, sviluppare, agire, vivere secondo questa legge, è scopo di ogni individuo: l’individuo unito ai suoi simili nella famiglia, nel comune, nella patria ha missione speciale nella confraternita delle patrie o delle nazioni. E tutte queste separate famiglie di fratelli, o sia le nazioni, hanno, per tradizione, clima, lingua, indole, una parte del lavoro comune che è dover loro compiere; e compiendolo conquistano il loro diritto ad una vita come uomini, e come nazioni al maggiore sviluppo di ogni facoltà umana: sviluppo che cresce con forza accelerata, ajutandosi l'una l’altra, mettendo in comune forze fisiche e intellettive, in comune tutte le scoperte delle leggi della natura, delle leggi morali, insistendo a provare che un membro della famiglia non può essere sano e felice se altri membri della stessa famiglia sono mal sani o infelici, che l’egoismo che è il male danneggia chi fa il male come quello a cui è fatto il male, che il sacrificio e l’abnegazione — istrumenti per combattere il male — fanno bene a chi li adopera come a cui pro sono adoperati. Così ogni nazione compiendo il suo dovere o la sua missione dà e riceve benefici; e le nazioni d’oggi, eredi di quanto hanno fatto e scoperto e sofferto le generazioni passate, hanno uguale dovere verso le generazioni avvenire o sia verso l’umanità intera. Per questo e in virtù del progresso egli invitava tutti a sviluppare le loro credenze, a formolare le loro dottrine; avvertendo che la negazione di un frammento di verità, perché l’applicazione è esaurita, è un non senso e un danno. Al contrario devesi rintracciare, riunire, tesoreggiare i frammenti di verità scoperte nel passato, sceverarli dagli errori che l’egoismo, l’ignoranza dei molti e la sciente malvagità dei pochi ha incrostato intorno ad essi, e serbarli, preziosi tesori acquistati, punto di partenza per nuove scoperte di nuove verità. Per mezzo di questa accumulazione di verità non si crea una dottrina, ma la si trae dallo studio coscienzioso del passato, dalla tradizione rivelatrice, dalle verità irrevocabilmente conquistate, dalle immutabili condizioni dell'umana natura: dai più urgenti bisogni e dalle tendenze dei tempi, quindi dalla coscienza, dalle inspirazioni del genio,' dalla luce divina che la virtù irradia sull’intelletto, dalla carità, dall’amore. Egli andava alla sorgente, cercando ogni manifestazione della vita umana o della vita umanitaria: cercando la scienza sociale nella vita sociale, ne ammetteva vera e viva una credenza, se non ne afferrava la dottrina in azione. .
Egli voleva che tutto il popolo fosse chiamato a sciogliere il problema politico: osservando e studiando il popolo, trovò che esso ha un senso retto della bontà e intelligenza altrui, e che però tolto ogni impedimento alla scelta, esso saprà eleggere le persone degne di rappresentarlo e di formulare il patto nazionale ossia la legge fondamentale di tutta la nazione. Solamente così si può costituire un governo che coordinando le forze, gl'ingegni, le virtù, le operosità, renderà facile il compimento dei doveri di ciascheduno per impedire la. lesione dei diritti di alcuno.
«Quel governo si occuperà della questione morale coll’educazione nazionale accoppiata coll'insegnamento libero e protetto di ogni diversa dottrina — unità di difesa o nazione armata — unità di patto e diogni istituzione che rappresenti il progresso civile, politico ed economico di tutti gli italiani — attività perenne del. potere legislativo e amministrazione delle istituzioni concernenti il progresso nazionale — commissioni delegate da esso e non dal potere esecutivo — libertà di comuni sancita per quanto riguarda il progresso speciale delle diverse località — soppressione di tutti gli ufficii destinati oggi a rappresentare una indebita influenza del governo sulle diverse circoscrizioni locali — divisioni dei poteri desunta, non da un assurdo riparto di sovranità, ma dalle diverse funzioni governative — diminuzione del numero degli impiegati, e più eguale retribuzione tra essi — abolizione del giuramento politico — voto universalizzato, come cominciamento d'educazione politica — tendenza della legislazione a far salire nella via del progresso intellettuale ed economico le classi che più ne abbisognano, e incoraggiamento dato dalla nazione alle associazio ni operaje, industriali e agricole volontariamente costituite sotto condizione di certi patti generali e di moralità e capacità dimostrate — cure speciali date alle terre incolte d’Italia, alle vaste zone malsane, ai beni comunali negletti donde coll’equo riparto di questi la creazione d'una nuova classe di piccoli proprietari — unificazione del sistema dei tributi in modo da lasciare libera d’ogni gravame la vita, cioè il necessario alla vita da gravitare proporzionatamente sul superfluo e da evitare le soverchie spese di percezione — abolizione d’ogni vincolo che sopprima o inceppi la libera circolazione dei prodotti all’interno o all’estero — sistema economico fondato sul risparmio d’ogni spesa inutile e sull’aumento progressivo della produzione — riconoscimento d’ogni obbligo contratto anteriormente dalla Nazione — tendenza ad agevolare la mobilizzazione del suolo — abolizione dei monopolii — responsabilità d’ogni pubblico agente — politica intemazionale governata dal principio morale dominatore della Nazione — alleanze fondate sulla uniformità delle tendenze e del fine cercato.» (Programma del Roma del Popolo, 1871.)
Quelli i sommi principii sopra i quali Mazzini voleva fondato un governo. — Ma questa è la repubblica, voi dite? È il Commonwealth sicuramente — verso il quale, come egli vaticinava, l’Inghilterra, pur chiamandosi monarchia costituzionale, cammina con passi accelerati. — Là — e non mi stanco di dirlo, è in gran parte dovuto a Mazzini — le classi ricche cólte e potenti hanno capito a tempo la necessità di dirigere il moto democratico senza tentare di sviarlo dal suo fine. Chiamatelo repubblica o commonwealth, è quello che egli intendeva con la breve ed eloquente formola Dio e il Popolo! formula da lui spiegata quarantanni addietro inscritta poi per volontà di popolo sulla bandiera incontaminata di Venezia e di Roma; e che
«... splenderà nuovamente su Roma, splenderà sull’Alpi, splenderà sul Mare, benedicendo all'Italia e insegnando alle Nazioni un frammento dell’eterna rivelazione di Dio. (1851, vol. VIII, pag. 115.)»
Le parole che ora citiamo hanno una mesta importanza, perché dettate nel febbrajo 1872, nell'ultima sua lettera agli operai:
«Ma quella bandiera che porta scritto Dio e il popolo fra le sue pieghe, santa per noi tutti un giorno e sotto la quale salvammo l’onore d'Italia in Venezia e in Roma, non s’impone, né chicchessia può tentare d'imporla senza mentire a sé stesso. Io la sollevo scrivendo per profondo convincimento, e perché non mi è fatto di trovar finora un’altra che più di questa assicuri la Libertà e il Progresso dei Popoli; ma chi oserebbe tentar di farla bandiera della Nazione in nome d’una minoranza e senza il consenso della Nazione medesima?»
Ora, poiché tutti sono oggi persuasi che il problema sociale batte alle porte, persuasi che il negarlo, il reprimerlo è inutile, persuasi che il governo d’oggi è la negazione del progresso, perché non si mettono a ricercare negli scritti di colui che risuscitò l’Italia alla terza vita i consigli e le norme per vivere bene, per vivere buoni e per ciò prosperi e relativamente felici? Non merita Mazzini un più diligente studio da parte de suoi compatrioti? E finché non l’abbiano studiato hanno essi diritto di giudicarlo guida fallace, educatore incompetente?
Nei primi suoi anni egli si dedicava alla ricerca della vita umanitaria:
«... Troviamo la sorgente in tutto ciò che è manifestazione della vita umana o della vita umanitarla; perché la scienza sociale deve avere per base la conoscenza della vita sociale, perché una credenza non è se non una dottrina in azione. Ora, una dottrina deve essenzialmente riassumere in sé la più completa esplicazione possibile degli elementi sociali che emergono dalla vita dell'umanità in una data epoca; la serie di quelle esplicazioni può sola farci conoscere con certezza la progressione delle epoche; e tale conoscenza deve, presto o tardi, rivelarci la legge della vita umanitaria, la scoperta della quale è il fine, l’unico fine di ogni lavoro, di ogni rivoluzione e di ogni dottrina... Noi diciamo la legge della vita umanitaria, perché quella legge esiste. Tutto ciò che ha vita è sottoposto ad una legge. Ogni essere, dal granello di sabbia alla pianta, dalla pianta all’uomo, ha la sua legge: come dunque non l’avrebbe l'Umanità, posta nel mezzo dell'universo, le cui menome parli hanno movimento e sviluppo positivo organico manifesto? come potrebbe solo l'umanità non esplicarsi a sua volta in modo organico regolare e verificabile? E perché il Pensiero di Dio, che riveste forma evidente e determinata nel più minuto e impercettibile frammento della sua Creazione, andrebbe disperso, come si smarrisce il pensiero dell’uomo colpito da demenza, a traverso questa Umanità, che, non foss'altro per l’audacia dei suoi concetti e per la grandezza delle sue manifestazioni, si rivela ognora più come destinata ad avvicinarsi a quel pensiero? Il porre l’Uomo cosi completo come l'intendiamo, con tutte le sue tendenze, con tutte le sue facoltà, con tutti i suoi diritti e doveri di libertà, d’eguaglianza, d’individualità, di sociabilità oggimai definiti, sulla via umanitaria, con indirizzo cioè conforme alla sua legge — tale è la missione di qualunque dottrina che aspiri, nella crisi che ci sovrasta, a colmare il vuoto e farsi credenza comune....» (La legge umanitaria, vol. XII, pag, 283-287.)
E dopo quarantanni di sforzi coronati dal successo per fondare l’Unità materiale della patria, dopo profondi studi ed incessanti osservazioni sulle fasi successive del moto democratico di emancipazione da una parte e dell’alleanza del papato, del cesarismo e del monarchismo dall’altra per impedire e sviare quel moto, egli colla morente mano scrisse:
«Ogni esistenza ha un fine. La vita, la vita umana ha coscienza d’averlo: è dunque missione per raggiungerlo, battaglia perenne contro gli ostacoli che s’attraversano, azione incessante sulla via che conduce ad esso. L’ideale è fuori di noi, supremo su tutti noi; non è creazione, è scoperta dell’intelletto. La legge che dirige quella scoperta ha nome PROGRESSO; il metodo col quale il progresso si compie è l’associazione delle facoltà e delle forze umane. Un disegno educatore provvidenziale assicura la conquista del fine; ma il tempo e lo spazio sono dati alle opere nostre, campo di libertà, di responsabilità, quindi per ciascuno di noi. La scelta nostra sta fra il male ch'è l’egoismo e il bene ch’è l’amore portato da noi ai nostri fratelli, il sagrificio per essi. Le facoltà per iscegliere, per intendere le vie del progresso, furono poste in noi: gli stromenti per incarnare in atti il pensiero e inoltrarci a poco a poco nella realizzazione del disegno d'educazione, sono le istituzioni sociali. Ogni lavoro collettivo esige una divisione del lavoro. L esistenza delle nazioni è la conseguenza di questa necessità. Ogni nazione ha una missione, un ufficio speciale nel lavoro collettivo, una attitudine speciale a compir l’ufficio; è quello il suo segno, il suo battesimo, la sua legittimità. Ogni nazione è un operajo dell'umanità, lavora per essa, perché si raggiunga a prò di tutti il fine comune: se tradisce l’ufficio e si travolge nell’egoismo, decade e soggiace inevitabilmente a una espiazione più o meno lunga, proporzionata al grado di colpa. Per le nazioni come per l’umanità, gli stadii dell’educazione hanno nome d’epoche. Ogni epoca rivela un frammento dell'ideale, una linea del concetto divino: una filosofia prepara la scoperta, una religione compendia e santifica la nuova idea, innalzandola a dovere: una scienza politica la traduce gradatamente nei fatti, nelle manifestazioni pratiche della vita: un’arte la simboleggia. L’iniziarsi dell’epoca ch’è l’annunzio solenne del nuovo principio, si compie con una rivoluzione: l'evoluzione, lo svolgersi pacifico e lento del principio, costituiscono la vita successiva dell'epoca intiera. In quella evoluzione le nazioni si giovano progressivamente d’elementi diversi, che sono gli stromenti del lavoro. Monarchia, patriziato sacerdozio, sono strumenti della nazione, mutabili a seconda dei tempi e della maggiore o minore potenza che è in essi, finché il popolo intiero, iniziato alla coscienza e all'intelletto del principio, non ne diventi l’interprete progressivo. Le rivoluzioni sono per le nazioni e per l'umanità ciò che l'istruzione è per gl’individui. La tradizione d’un popolo si divide anch’essa in periodi, ciascuno de' quali è contrassegnato da una rivoluzione che addita e chiama in azione, invece del logoro, un nuovo più efficace stromento. Lo studio della tradizione e l'ordinamento che contrassegna ogni nuovo periodo non devono quindi fondarsi sullo studio o sull'accettazione degli elementi che promossero in uno o in altro periodo «il lavoro, ma sulla serie dei passi fatti dalla nazione verso il fine assegnato e sulla scelta del nuovo elemento più efficace a proseguire e inoltrare sulle vie del futuro (134).»
Collo studio di Dante l’Italia si risvegliò all’intuizione della vita intellettiva e dell’opera nazionale: con lo studio di Mazzini s’incamminerà al progresso verso il fine morale che i suoi fati le segnano.
MAZZINI NEL LETTO DI MORTE |
(1)Importantissime sono le rivelazioni di Piersilvestro Leopardi,accanito avversario di Mazzini e dei repubblicani, e per ciò noninteressato a scolparli. — Egli, «convinto che Rossi runico uomodi Stato che facesse paura ai gesuiti» fosse vittima di quelpartito, seppe «che il capo della dimostrazione lazzaresca del 5settembre, il segretario della prefettura di polizia a Napoli,Niccola Merenda, aveva in quei di fatto una gita clandestina a Roma,ove per fermo s'aggirarono parecchi de' suoi fidi cagnotti.» Dipiù riusci ad additare uno di questi sospetti al ministro GiuseppeGalletti che lo fece arrestare, e «gli si erano trovati addossovari ricapiti di persone «sospette e persino d'un cardinale dei piùgesuitanti.» (Vedi Narrazioni storiche, Torino 1856, pag. 365-370.)Nicomede Bianchi biasima PellegrinoRossi «il quale indispettito della repugnanza del Piemonte aseguirlo nella via in cui egli voleva far entrare la politicaitaliana dimenticò la moderazione necessaria all'uomo di Stato: sipose a incolpare per le stampe il governo sardo d'aver mandata amonte la lega per avidità d'acquisto territoriale e col sarcasmosulla penna si fece a deridere la proposta di lega venuta da Torino»(pag. 15). E a pagina 17: «Fondale un governo di schietta indolecostituzionale presso un popolo che vivevasi in contrarietàsostanziale col principe suo, era stato il tentativo disperato alquale erasi sobbarcato Pellegrino Rossi con confidenza superlativa,ma con coraggio indomito. Addì 14 novembre egli diceva al conteSpaur: — Non si abbatterà l'autorità del papa senza passare sulmio corpo—. Scelleratamente così bentosto avvenne e una turpepagina venne scritta nei troppo mesti annali d'Italia.»
Null'altroaggiunge colui che ha tutti i più reconditi documenti a suadisposizione.
(2)Scrive Nicomede Bianchi. «Mancate le guarantigie formali della granBretagna alle speranze lusinghiere sul conto della fatta elezione(del duca di Genova), subentrarono nei diportamenti del re subalpinoe de' suoi ministri verso la Sicilia stiracchiamenti d'accoglienze,le quali venuto l'agosto del 48 presero l'aspetto in buona partedi simulate per non sospingere con un aperto rifiuto quegli isolania proclamare la repubblica.» Ma il ministero aveva compresol'importanza grande di venire in termini d'alleanza colla cortenapoletana. E il 10 agosto il Pareto avverte il conte di Collobiano«poterle con fondamento notificarle che il duca di Genova hadeclinato l'onore che gli «presentava l'affare della corona diSicilia.» Ma non si avvertì i poveri siciliani. (N. BIANCHI, vol.VI, pag. 75.)
(3)«DECRETO FONDAMENTALE. — Art 1.° Il papato è decaduto di fattoe di diritto dal governo temporale «dello Stato Romano. — Art 2.® Il pontefice romano avrà tutte le guarentigie necessarie per laindipendenza nell'esercizio della sua potestà spirituale. — Art3.° La forma del governo dello Stato Romano sarà la democraziapura, e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana. — Art.4.° La Repubblica Romana avrà col resto d'Italia le relazioni cheesige la nazionalità comune. — Il Presidente: G. Galletti. — ISegretarii: Giovanni Bennacchi,
«AriodanteFabrettl, Antonio Zambianchi, Quirico Filopanti Barilli.»
«Roma,9 febbrajo 1849, un’ora del mattino.
«Innome di Dio e del Popolo, l'Assemblea Costituente, seguendo iprincipii più sani di moralità e d'interesse «pubblico, decretache la Repubblica Romana riconosce il Debito Pubblico come nazionaleed inviolabile.
«IlPresidente: G. Galletti, — Il Segretario: A. Fabretti.»
(4)Nella primissima lettera, che egli indirizzava ad Aurelio Saffi il18 gennajo, felicitandolo per la convocazione della CostituenteRomana dovuta in gran parte a lui e a Filopanti, scriveva:
«Tuttele cu re vostre fin dora, anche in questo breve intervallo, dovrannorivolgersi alla guerra. La guerra è inevitabile; anzi è decisadall’Austria; e l’unica cosa che possiate sperare è di nonaverla prima della Costituente, quando vi troverebbe con un governod'uomini non abbastanza energici e non uscito dalla volontàpopolare. Questa guerra è già decisa, e non ha che fare collarepubblica: dovendo aver la guerra è bene che abbiate repubblica; èbene che facciate quanto più potete per italianizzarvi, permostrare che voi siete disposti a trattare la causa della nazioneintera, perché avrete bisogno d'accendere l'entusiasmo di tuttaItalia per sostenervi.... Tentennando, non salverete il vostro paesee non farete cosa alcuna per l'Italia. Voi dovete intendere che inRoma ha da essere l’iniziativa della Rivoluzione Italiana, chedeve fare della vostra metropoli la metropoli della nazione. Ben miduole che poco o nulla si faccia intanto fra voi per la guerraimminente. Bologna dovrebb'essere fortificata, cinta di fortinistaccati, com'è Lione a un dipresso. Foligno pure dovrebb’esserefortificata. Dovreste provvedere fucili. Dovreste far pratiche perraccogliere legioni straniere di còrsi, svizzeri, tedeschi,polacchi, spagnuoli. Dovreste chiamare ufficiali italiani capaci edecisi, come per esempio il generale D'Apice. E dovreste sopratuttoorganizzare il partito nazionale perché potesse tutto operare conunità d'azione, sotto impulso derivato da un centro.»
(5)Vedi Atti ufficiali della Camera Subalpina 10 febbrajo, ove si leggeanche la splendida risposta di Brofferio; che, domandò: «In qualmodo intendete voi di unire l'Italia, voi che l’avete cosìfatalmente disunita?» Narrò poi la fuga del papa e del duca,affermò che «fatto astrazione del Piemonte, dove un provvido reseppe con maturo «consiglio comprendere i tempi, io non vedoprovincia in Italia che non vada in debito della libertà a sémedesima; e Roma, e Palermo, e Napoli, e Milano, e Venezia, eFirenze non avrebbero mai alzato il capo dal servaggio «senza ilbraccio potente delle sue popolazioni da lungo tempo risvegliate ecommosse.» (Storia del Piemonte, parte III, p. 161.) E domandòanche: «Farete voi la guerra italiana, senza l'Italia e malgradol'Italia?» Per vendicarsi Gioberti aizzò la plebe controBrofferio; e tant'oltre si spinse la demenza, che nella seduta del27 fu letta alla Camera una petizione di certo Gallo Leonardo, ilquale chiedeva che si «cavassero gli occhi con tanaglie infuocateall'avvocato Brofferio, e si esponesse poscia il medesimo allapubblica vendetta in una gabbia di ferro!» soldati era già entratosul suolo romano, capitanati dal generale Zucchi, quello che cedéPalmanova senza colpo ferire, ora palesemente ostile allarepubblica.
(6)Scrive Brofferio: «Se il governo avesse, come gli correva obbligo,pubblicati i documenti della Commissione «d'inchiesta sui casi diNovara, la patria saprebbe a quest'ora da quali mani fu immolata; manon vuoisi, risolutamente non vuoisi che la luce aia fatta: e quandoalla Camera si chiese che si rompesse una volta l’indegno«silenzio, levaronsi a protestare tutti i ministri non solo, matutti i generali che avrebbero dovuto alzar primi la «fronte perinvocare il giudizio della patria… Il deputato Lanza sorseimpetuosamente a chiedere come mai «un esercitoci 130,000 uominiavesse potuto lasciarsi sbaragliare in due giorni da 50,000 croati.Facile non era la risposta; e più difficiledivenne quando proclamò esservi stato tradimento, e non nelle Aledei soldati, ma in quelle dei superiori. Ciò dicendopresentava un foglio stampato proveniente dal campo, in cuileggevansi queste «parole: Soldati, per chi credete voi dicombatterei II re è tradito: a Tonno si è proclamata larepubblica,» (Storia del Piemonte, parte III, pag. 102 e 103.)
(7)Scrive Michelangelo Pinto nella sua Storia: «Piangeva l'Italia lasua sventura a Novara, quando, al primo annunzio della rotta fatale,l'inviato di Torino, chiesto e ottenuto di conferire coi capi delgoverno e fatto appello ai colleghi di Firenze e Venezia, secolororecavasi al palazzo legislativo ove sedevano in comitato segreto ideputati romani. Ma l'Assemblea, fatta conscia di loro presenza,invitavali agli onori della seduta, accogliendoli coi più vivisegni di simpatia. Saliva la tribuna per primo Lorenzo Valerio, ilquale, dolente, non invilito, chiudeva in cuore l'angoscia chel'opprimeva, ed affermava non aversi a disperare delle sortid'Italia, non aversi a disperare del Piemonte, che compirebbe finoall'estremo il suo debito. Osservò infatti come ai vinti di Novararimanessero ancora mezzi bastanti a respingere il nemico comune, secoadiuvati dalle forze di Venezia, di Toscana e di Roma. Alle paroledel rappresentante di una monarchia costituzionale, pronunziate conpatriotico slancio da una tribuna repubblicana, faceva eco la vocedi Giuseppe Mazzini; il cui discorso, consigliando l'obblio d'ognialtro affetto che non fosse di patria, d'ogni sentimento chearrestasse il concorso alla santissima guerra, determinava launanime deliberazione dell'Assemblea, la quale, dietro proposta diLorenzo Valerio, assentita dal veneto e dal toscano legato,decretava: che le truppe della Repubblica si spedissero insieme alletoscane sul Po a congiungerai colla guarnigione di Venezia; cheGaribaldi co' suoi si richiamasse da Rieti a rafforzare quest'armatadel Veneto; che si ordinasse, per cura di appositi commissari laleva in massa lungo i confini napoletano ed austriaco; e, perchél'energia dell'azione fosse pari alla gravità del bisogno,sostituito con decreto del 29 marzo al comitato esecutivo untriumvirato, «confermagli illimitati poteri per la guerra dellaindipendenza e per la salvezza della Repubblica. Ai propositirispondevano i fatti. La sera stessa una divisione comandata dalvalente Mezzacapo, con due batterie di cannoni, si dirigeva aBologna. La notte dava conto al suo governo, Valerio, degli appagatisuoi voti; la seguente mattina era noto l'armistizio e l'abdicazionedel re.» (BROFFERIO — Storia del Piemonte, parte III, pag.129-30).
(8)Esposto a Torino nell'Archivio del Risorgimento, copiato e mandato ame dal signor A. A.
(9)Demmo nei capitoli XXIII, XXIV e XXIX, pag. 236334, del Garibaldi ei suoi tempi, gran numero di documenti riguardanti Garibaldi,Mazzini, Saffi e i difensori di Roma, con quanti nomi di morti eferiti e lettere di Manara, Pisacane, Daverio, Goffredo Mameli ci fupossibile radunare. Qui bastino due di Garibaldi a Mazzini. La primada Rieti il 3 aprile, appena questi fu nominato triumviro: «FratelloMassini. — Questa mia non ha altro oggetto che di rimandarvi unsaluto e scrivervi una volta di mio pugno. Sorreggavi la Provvidenzanella brillante, ma ardua carriera, e possiate fare tutto ciò chesente l'anima vostra a benefizio del nostro paese. Ricordatevi chein Rieti esistono i vostri amici di credenze, ed immutabili. — G.GARIBALDI.» — La seconda, quando insorse dissenso tra Roselli eGaribaldi, intorno al comando dell'esercito: «Comando della 1.°divisione. Repubblica Romana. — Mazzini. — Giacché mi chiedeteciò che io voglio, ve lo dirò: qui io non posso esistere per ilbene della Repubblica che in due modi: o dittatore illimitatissimo,o milite semplice. Scegliete. Invariabilmente vostro G. GARIBALDI.»
(10)Quell'ingegno paradossale, ma stupendo di Giuseppe Ferrari, chenella Federazione repubblicana fece una requisitoria più fiera chenon quella di Cattaneo contro Mazzini, per non aver egli volutorovesciare il Governo provvisorio di Milano, proclamare laRepubblica e chiamare la Francia in ajuto, anche più fieramente loaccusa dell'avere spinto Roma e le provincie alla guerra nuovamentebandita da Carlo Alberto all'Austria. «Aquest'errore (l'unionedella Toscana a Roma)Mazzini aggiunge quello della guerra.Qui egli combatte apertamente la rivoluzione, continua francamenteMamiani, lo supera ne' suoi conati contro la rivoluzione. Il giornodopo l'assalto di Carlo Alberto contro l'Italia centrale, vuole chela Repubblica, senza trattati, senza leggi, senza patti, senzaessere «riconosciuta, secondi, tosto, la nuova guerra del re control'Austria. Vuole che i soldati della Repubblica, sufficienti appenaa difendere Roma contro l'esercito di Napoli e contro le perfidie diGaeta, abbandonino la Repubblica, per gittarsi in Lombardia alseguito del re che li disprezza. La guerra contro l’Austria devepremere più che altro, dice egli, quindi unione e concordia inRoma; quindi conciliazione e fusione di parti; quindi si combattauniti al re; quindi fusione tra regi e repubblicani: quindi larepubblica sparisca, la romana assemblea tomi indietro, né più siarepubblicana, ma una Costituente pronta ad accogliere il re; quindiniun problema, niuna quistione tornino a turbare l’armonia depopoli col re; quindi la stessa Assemblea ceda il luogo ad unadittatura. Tal era la proposta di Mazzini il 18 di marzo; e ilcardinale Antonelli non avrebbe tanto domandato!» (G. FERRAREFederazionerepubblicana.)Come antiunitario, Ferrari non ha torto; a lui bastava che laLombardia salvasse la Lombardia, Roma felicemente sgombra dal papapensasse a sé; ma una Roma senza l’Italia sarebbe stata perMazzini uguale all'Italia senza Roma. L'idea federalistica annuvolatalmente il giudizio chiaroveggente di quell'insigne filosofo, dafargli veder contraddizione tra Mazzini deputato, che vuoldisperdere l'Assemblea nei varii punti della frontiera per sollevaree tener desto l’entusiasmo del popolo (in marzo) che vuoledifferita la costituzione sino all'Assemblea unitaria, e Mazzini«che l'Assemblea ebbe torto a nominare triumviro, che si mostròromano, firmò la legge, la costituzione, l’ordinamento delloStato Romano da aprile al giugno.» E non s'accorge il grand'uomoche tra Mazzini deputato e Mazzini triumviro era avvenuta lacatastrofe di Novara e dell'Italia tutta fuorché Venezia, cheperciò non restava se non di salvare l’onore italianoitalianamente a Roma?
(11)L’esercito romano non superò mai 18,000 uomini, dei quali soliduemila stranieri, se stranieri si osa chiamare Manara e i 500lombardi, Garibaldi e la sua legione, Medici e i prodi del Vascello!— Polacchi erano 200 e altri 100 volontari d’altre nazioni.Questi18,000 tennero fronte a 30,000 Francesi, 6000 Spagnuoli, 36,000Napolitani senza contare gli Austriaci i quali flagellavano Ancona ele legazioni e domavano finalmente l'eroica Bologna.
(12)Vedi anche la lettera inserita negli Scruti, vol. VII, pag. 195.
(13)In ogni particolare, anche in quello che le monarchie trovano cosiscabroso, la finanza, testimonio il Farini, nemico accanito deirepubblicani; il quale alla pagina 235, Libro VII, dello StatoRomano, scrive: «Avendo indarno il generale Oudinot pregato ilValentini a rimanere in carica coi suoi colleghi, deputò treufficiali a riceverne le casse ed i portafogli del Tesoro.Eseguirono essi la commissione il 7 e 8 di luglio; e certificarononon solo le casse integre e limpidi i conti, ma che la finanza erastata governata con tanta abilità, che a riscontro dei tempi edelle consuetudini dell'amministrazione clericale era maravigliosa;di che lasciarono scritto documento. Fra moneta metallica e di cartaerano in cassa scudi centonovantamila novecento cinquantatré; dicrediti, di biglietti di banca, di cambiali, scudi quattrocentoseimila duecento ottantasette; in tutto cinquecento e novantasette miladuecento quaranta scudi. Il Valentini consegnò tutta la cartapreparata e gli utensili acconci a prepararla, e il conto di quellache sino al 6 luglio era stata posta in corso; i metalli che eranoalla zecca e il conto di tuttala moneta erosa coniata; copia delleleggi che aveano creata questa e quella moneta: infine ogni altrocapitale e documento pertinente alla finanza ed all’erario. IlGoverno Pontificio aveva creati due milioni e cinquecento mila scudidi boni del Tesoro; la provincia di Bologna ne aveva creato duecentomila scudi; il Parlamento Costituzionale aveva provveduto se necreassero per un milione e duecento mila scudi: cosicché quando larepubblica fu instaurata; erano in corso quattro milioni ecentocinquant'un mila scudi di moneta di carta. L’AssembleaCostitu ente aveva dato valore di moneta ad un milione e centomilascudi di biglietti della Banca Romana. I Triumviri al 29 aprilecrearono un milione di scudi di Boni della repubblica, l’Assembleaai 15 giugno ne creò quattro milioni, ma non ne fu dato fuori cheun milione novecento sessantatrè mila scudi, perché i commissarisopra la finanza della repubblica non usarono l’autorità cheaveano di porre in circolazione gli altri tre milioni e tremilasettecento scudi di carta monetata. Cosi la somma totale di quellache era in corso nel momento in cui fu ristaurato il Governopontificio ammontava, compresi i biglietti della banca, a settemilioni ottocento ventottu mila e trecento scudi. Di moneta erosa edi piccoli Boni poteva per legge crearsi un milione di scudi, ma icommissari non ne diedero fuori che settecento settantacinque milacinquecento sessantacinque scudi; ond'è, che sommato tutto, framoneta erosa e carta, avendo essi podestà di mettere in corso seimilioni di scudi, non ne misero che due milioni settecento trentottomila, cinquecento sessantacinque: anzi, dacché ne lasciavano incassa e consegnavano ai francesi centottantaquattro mila trecento equindici, gli integerrimi commissari non diedero fuori che duemilioni cinquecento cinquantaquattro mila, duecento quarantanovescudi, tra boni e moneta erosa.»
(14)Altro vantaggio per l'avvenire fu, che Mazzini, in Roma fuconosciuto e conobbe una eletta schiera di patrioti che prima nonavevano di lui che un'idea vaga o esagerata. «Quando — scriveAurelio Saffi — io lo vidi la prima volta, la preoccupazionedell’animo mio dinanzi a tant'uomo cedette subito a un vivo sensodi fiducia e di simpatia. Al guardo aperto e sorridente, alla francastretta di mano, alle parole liberamente cortesi e volte senz’altroalle cose da farsi per la causa del paese, io mi sentii come incompagnia d’amico conosciuto da tempo; e si formò in breve franoi quel legame d’affetto, che più non si sciolse per volgerd'anni e vicende. E ciò che più di cuore mi strinse a Lui. fu lainconscia virtù che lo rendeva alieno da ogni pensiero di sémedesimo dinanzi al dovere di consacrarsi tutto all'alta Idea chegli occupava la mente. Néio lo vidi mai curante di onori per presunzione di merito, o timidodell'altrui biasimo per tenerezza di fama, quante volte sentiva didover preporre, anche solo o con pochi, ciò che teneva per veroalle opinioni del maggior numero. D’onde la perfetta semplicitàdella sua vita, al tutto spoglia di volgari ambizioni, e la stimaCh'Egli faceva degli amici, non per calcolo di personalisoddisfazioni e aderenze, ma pel bene che fossero disposti a farseco, affratellandosegli nel lavoro e nel sacrificio. Viveva, conparsimonia antica, del poco che possedeva del proprio, anche quandofu eletto triumviro, spendendo a beneficio altrui la mediocreprovvigione mensile assegnata dalla Repubblica a' suoi reggitori; eripugnante com'era per modestia nativa da ogni mostra di potere e dilusso, avea prescelto con me, prendendo stanza nel palazzo dellaConsulta, il quartiere più domestico della casa, lasciando chel'Armellini, come romano e più pratico delle cerimonie di Stato,facesse gli onori delle udienze o degli affarinegli appartamenti più sontuosi di quell’edificio.» (Scrittiediti ed ineditidi G, Massini, vol.IX, pag. 7 e 8.) E le stesse impressioni ebbero quanti avvicinaronoallora Mazzini. Quadriosegretario privato, Bertani angelo custode dei feriti allora comepoi, Pisacane, Nicotera, Achille Sacchi, Medici, Bixio, Roselli,Montecchi, tutta quella costellazione di stelle di varia luce cheintorno ai due astri di prima grandezza, Mazzini e Garibaldi, siraggrupparono, e, velati dalla notte succedente, ricomparvero poitutti e sempre intorno a questi finché il sole della libertàsplendette e dopo quello scomparvero a uno a uno e scompajono dalfirmamento. A Roma Mazzini ritrovò Campanella col quale rannodòl'amicizia giovanile, e Nicola Fabrizi,il quale sempre tenne in cuore la Sicilia e si struggeva perl’impossibilità di ajutarla, e Adriano Lemmi, al quale si deve sefu dato a Manara e ai suoi bersaglieri di scampare dai tranelli diFanti e del governo Piemontese e venire a combattere e morire perRoma. E non è dato misurare l’ascendentedi quella presenza benefica, di quel magnetismo personale chesvegliava in ognuno spiriti di virtù, d'eroismo, e sopratutto diabnegazione e costanza, infondendo intutti l’armonia delle sue credenze, iniziando tutti ad un nuovoconcetto della vita e dei suoi doveri.»
(15)Ancora nel 1870 errando con mio marito fra le rovine del Vascelloabbiamo visto gran quantità di bianche e insepolte ossa.
(16)Gli amici che non vollero abbandonarlo erano Gustavo e GiuliaModena, Scipione Pistrucci devoto come figlio a Mazzini, eMargherita Fuller, sposata al conte Ossoli, uno dei difensori diRoma. Essa assisté i feriti e scrisse giorno per giorno la storiadi quella eroica difesa. In una lettera a HoraceGreely(noto abolizionista) essa parla con ammirazione entusiasta deltriumviro e descrive lo stato suo dopo la caduta di Roma. «Halavorato tre mesi senza dormire, senza quasi nutrirsi; ora èridotto scheletro, sembra un morto che cammina. Ah Mazzini! Mazzini!«— conclude, — avrò io l’onore di rappresentare al mondocome siete grande!» Il vascello che dovea ricondurre la Margheritacol marito e col figlio alla patria (Boston) naufragò in vistadella terra. Tutti e tre perirono! Molte persone e cose furonosalvate, non il prezioso manoscritto. Garibaldi, che trovavasi inAmerica, da informazioni avute ritenne per certo che lo distruggesseun prete cattolico.
(17)Caduta Roma, una sessantina dì Rappresentanti del Popolo, convintinon essere quella se non la prima pagina dell'epopea popolareitaliana, dettavano, il 4 luglio, in nome di Dio e del Popolo,questo atto: «Noi, Rappresentanti del Popolo, membri dell'AssembleaCostituente Romana, ispirandoci alla nostra coscienza e ai bisognidella Nazione, costituiamo provvisoriamente, e finché i tempiconcedano al Popolo libera manifestazione de suoi voleri, unComitato Nazionale Italiano, composto dei cittadini GiuseppeMazzini, ex triumviro della Repubblica Romana; Aurelio Saffi, idem;Mattia Montecchi, idem, nel Comitato Esecutivo della RepubblicaRomana; conferendo ad essi mandato e poteri per contrarre unimprestito in nome del Popolo Romano e a beneficio della CausaNazionale, e generalmente per ogni atto politico e finanziario chepossa promuovere il ristabilimento della legittima autoritàpopolare in Roma — abilitandoli ad aggiungersi, occorrendo, due opiù cittadini italiani — e chiamando tutti i buoni d'Italia agiovargli con tutti i mezzi nell'opera loro e conformarsipossibilmente alle disposizioni che nell'interesse nazionaleemaneranno da essi.»
GiuseppePetroni stette alla testa del Comitato Centrale numeroso diassociati e che fu interamente e puramente repubblicano; solo quandole porte di San Michele si chiusero dietro quel forte, il partitomoderato, detto dei Fusi, prese il sopravvento e iniettò malva esiroppo nelle vene dei romani. Il Petroni, potendo, non vollefuggire solo. Dopo Mentana io vidi una sua lettera a Mazzini scrittanel sangue sopra un pezzo di tela da camicia: domandava notizieintorno alle persone e alle loro evoluzioni: «Pensate che mimancano sedici anni di storia contemporanea.» Liberato all'entratadegli italiani nel 1870, uscì quale entrò, repubblicano, romanoantico, esempio ai moderni.
(18)Scritti, vol. VII, pag. 59.
(19)Scritti, vol. VIII, pag. 67.
(20)Alcune lettere inedite di Mazzini e degli amici alla madre di luidipingono il momento e servono di guida a seguire il triumviroesule. — «3 luglio. —... Roma ha ceduto. Ceduto, mercél'Assemblea. La posizione, militarmente era cattiva, ma poteva farsiuna difesa di barricate tale da fare stupire il mondo. L'Assembleanon lo volle: un momento di paura ha perduto tutto. Quando fuordinato di cedere, io diedi la mia dimissione insieme a' mieicolleghi. Io proposi all'Assemblea, se voleva rinunziare alla difesain Roma, d'escire essa, noi, l’esercito, la cassa, tutto ilmateriale di guerra, ogni cosa, e andare a combattere altrove.L'Assemblea non ha voluto. E così finisce per ora il drammamagnifico in una tristissima conchiusione. Io ho dato oggi la miaprotesta in iscritto all'Assemblea. I Francesi hanno alcune porte, estanno trattando col Municipio. Io rimango qui per due o tre giorni;poi vedrò. Noli ho finora risoluzioni. Ma qualunque siano, fidatein me. Vi riscriverò presto. Scrivete, abbiatevi cura, e amatesempre il Vostro GIUSEPPE.» — Poscritta di Giulia Modena «Buonamadre. — Pippo è caduto salendo, grande più adesso cheprima. Non temete nessun sinistro per lui. Dio lo protegge. Amatemi.Vi abbraccio di cuore. — JULIE. — 7 luglio. — Miacara madre. — Due linee per tenervi tranquilla. Sto bene disalute. Ecco tutto. Dei Francesi non ho voglia di parlare; trattanoqui peggio assai dei Croati. Stato d'assedio; a casa alle nove emezzo; disarmamento; commissioni militari; arresti. Nessun onestovuol servirli. L'uffizialità dà la sua dimissione. La truppa è indisfacimento. Gl'impiegati buoni abbandonano. Essi si circondano dispie, ladri, vecchi agenti di Gregorio. — Sono circa 40,000 uominiin città... Fate leggere, vi jnego, agli amici la seguenteprotesta, ch’io inserii negli Atti della Camera. Non ho datopubblicità perché or non è tempo di far vedere al mondo dissensotra noi. Ma desidero che gli amici e le amiche sappiano che l'averceduto non istà sull’anima mia... Il povero Goffredo è morto:non gli valse l'amputazione. Povera madre sua!»
L’11luglio Mazzini scrive poche righe alla madre per dire che è sullemosse. Il 20 Scipione Pistrucci scrive alla stessa: «Mia carasignora. — Da che Pippo ha lasciato Roma ho ricevuto due suelettere che gli ho spedito a Ginevra. Le riceverà tardissimo, mameglio tardi che mai. Spero che nel porto di Genova, questa volta,avrà trovato il modo di vedervi. So che il poveretto n'eraansiosissimo quando mi lasciò. Io starò qui finché mi caccino,poi andrò a raggiungerlo... Il paese si conserva buono e i francesipeggiorano ogni giorno. Gli arresti sono continui e numerosi —uomini d'ojgni classe e d'ogni colore — l'altra notte fino ilmoderatissimo Monsignor Gazzola fu portato in Castello. Ogni giornos'aspetta una, minacciata da lungo, Commissione Governativa, e una,ch'essi chiamano amnistia, noi lista di proscrizione. Si tratta dibandire dallo Stato, triumviri e ministri s'intende, i deputati, imilitari dal capitano in su, tutti i capi d'uffici, più di trecentoindividui a scelta della Commissione — insomma quanto v'ha dimeglio in paese, e ch'essi chiamano fazioso. Questo sistema non puòdurare; e inasprito il paese vendicherà l'insulto non collamoderazione passata ma guidato dal dolore delle piaghe nuovamenteaperte...» — Lo stesso giorno Mazzini scriveva: «20 luglio. —Cara madre» — Sono a Marsiglia e parto fra mezz'ora perGinevra. Credo certo d'arrivarvi. Ho fatto il più; ch'era quellod'imbarcarmi senza passaporto e scendere senza a Marsiglia. Da qui aGinevra sono rose e fiori; e quando riceverete questa mia io vi saròe vi scriverò subito... Sono stato davanti a Genova, e senzadirvelo; figuratevi con che core; ma ho creduto doverlo fare piùper voi che per me. Sto bene; amate sempre il Vostro GIUSEPPE.» —«23 luglio. — Mia cara madre. — Scrivo questa sera,domenica; ma la lettera non partirà che domani 23. Son giunto oggia Ginevra. Voi mi credevate a Malta; e tutti cosi; ed era bene, mada' una mia che dovete aver ricevuto avrete capito ch'io mi avviavaqui; e ci sono: sono passato davanti a Genova e Livorno; e perultimo ho traversato non solamente la Francia, ma la Savoja... Caramadre, io non so bene ancora cosa farò: so che ho viaggiato sempre,e che, privo in parte di notizie, e dopo la dispersione dei nostri,ho bisogno, per decidermi, di guardare attorno. Bisogna anche vederefin dove la reazione europea va. È un duello a morte fra essi enoi; e da questo duello io non intendo per nulla ritrarmi...»
(21)Scritti. vol. VII, pag. 117.
(22)Scritti, vol. VII, pag. 34.
(23)E la profezia del dicembre 1850 si verificò nel settembre 1870.(Scritti, vol. VII, pag. 117.)
(24)Le trattative di pace onorano Vittorio Emanuele. Il suo inflessibilerifiuto di abbattere lo statuto deluse i traditoriretrogradi-aristocratici-gesuiti, i quali aveano scientementecondotto a rovina la guerra per ritornare all'assolutismoprivilegiato. Egli stette fermo «nel difendere la causa deifuorusciti lombardi come sua propria», nel volere l'amnistia, laricognizione dell'autonomia e della nazionalità. E lottava da solo:la Francia metteva a patto dei suoi buoni ufficii nientemeno chel'occupazione di Genova; e Gioberti ebbe l'infelice coraggio discongiurare Pinelli ministro dell'interno ad accettare la proposta.
(25)Nei cenni biografici e storici a proemio del volume IX Aurelio Saffitraccia uno schizzo delizioso della piccola colonia che spendeva dasessanta a settanta lire al mese per il mantenimento, riunendosialla frugale mensa fraterna, passando il giorno a scrivere per laRivista, a promuovere l’ordinamento della parte nazionaleall’interno e fra gli esuli, le prime ore della sera conversando,ricevendo amici poi separandosi di nuovo per lavorare... «Solo chiconobbe da vicino l’amico mio può farsi un'idea dellaintellettualità e piacevolezza ch'Egli infondeva con quelle nostreserate a Montallegro.» Quanta verità! Tutti possiamo più o menonarrare il fare di Mazzini, ma l'essere suo non è intendibile aquanti non ebbero il bene supremo di vivergli vicino!
(26)Bella pubblicazione quell'Italia del Popolo. e per gli scritti diPisacane sulla guerra combattuta in Roma, e di Saffi sulla difesadel Vascello, e di Maurizio Quadrio che conoscendo la storia e imoti segreti degli slavi per aver vissuto esule tra loro dettavaarticoli importanti su l'Oriente, e compilava la cronaca deldispotismo selvaggio che in Italia impiccava, bastonava donne efanciulli, torturava, imprigionava, bandiva quanti non siprostravano ai. piedi dei manigoldi. La Svizzera, malgrado leminacce del Piemonte, della Francia e specialmente dell'Austria,compromise i suoi interessi per difendere gli esuli; il CantoneTicino si segnalò per la sua «maravigliosa ospitalità.» Iviinsigni patrioti consegnavano alla posterità i Documenti dellaGuerra Santa d'Italia: Carlo Cattaneo raccoglieva ed ordinaval'Archivio Storico Italiano, ajutato da Dall'Ongaro e De Boni: AttoVanucci scriveva dei martiri italiani, libro prezioso, del qualeoggi, dopo la morte di lui, va stampandosi l'ottava edizione.
(27)Scritti, vol. VIII.
(28)Cioè i volumi VII e VIII degli Scritti suoi, gli ultimi da luiriveduti e annotati. La madre si affannava molto d'ogni guerrafattagli, e perciò egli mirava a prevenire le impressioni. Quandotutti gli davano addosso per il proclama colla bandiera neutra, egliscriveva: «5 ottobre 1851. —... Vedo che la dissidenza dialcuni dei nostri vi tormenta: non ci pensate, come non ci penso io,e sopratutto non ve l'esagerate. No, i dissidenti, come già vi hodetto, non m'amareggiano affatto. Mi duole pel paese lo scandalodella divisione quand'anche sia tra cinque o sei individui e tuttoil partito; ma quanto a me tutte le dissidenze del mondo noncangiano la mia condizione; so il mio dovere e non mi do inteso delresto... Per ciò che riguarda me e le accuse d’ambizione, m'èanche soverchia la fede che avete in me voi, e che hanno in me dueamiche e parecchi amici che amo non solamente di affetto patriotticoma di personale.» — «23 ottobre 1851. — No; madre mia,non temete ch’io abbia un solo momento di dispiacere per questecose. E quanto ai federalisti non hanno possibilità di riuscita.»
(29)Vedi volume VII.
(30)Alla madre Mazzini scriveva il 10 dicembre 1851. — «Le cose diFrancia vanno male. Luigi Napoleone non ha partito alcuno, enondimeno riesce. Guardia nazionale, borghesia, parte del militare,popolo, l'universo è contro di lui; e nondimeno i tentativi dilotta non abbracciano che una minorità. Due grandi ragioniproducono questo: il senso morale perduto in Francia, e le stoltefuribonde predicazioni del socialismo, che hanno spaventato laborghesia. A forza di predicare gl'interessi materiali all'operajo eal contadino, l'hanno reso egoista e violento. Louis Blanc,Proudhon, Cabet, e dieci altri stolidi che si credono salvatori delmondo, hanno empita la testa al popolo di miglioramentiimprovvisi,'di palazzi incantati, di paesi di cuccagna; e se ilpopolo non vede possibilità di realizzazione immediata di tuttiquesti sonni, non si move. L’onore, la libertà, l'opinioneeuropea son nulla per «esso. In alcune località dipartimentali, icontadini si sono levati, scannando i primi proprietari incontrati esaccheggiando le loro case... Il non muovere attuale in Francia nonè che la conseguenza di tutti i sistemi messi «fuori in questiultimi tempi, e dell'anarchia, della disorganizzazione moraleintrodotta. — È doloroso il vedere che la Francia non si sialevata come un sol uomo davanti a tanta infamia, e che si possanoscannare in Parigi 2700 persone, che è la cifra officiale, senzache le pietre stesse si sollevino contro il carnefice. Ma quanto alui, non può riuscire né durare. — Per noi nulla è cangiato.Bisogna che gl'italiani intendano questo, e raddoppino d’attivitàper prepararsi a cogliere l'occasione che sorgerà, e, se nonsorgesse, anche, a cercarla. Per dio! La Francia non è l'Europa.L'Italia e l'Ungheria unite insieme sono eguali in popolazione allaFrancia, superiori in tutto il resto. Se gl'italiani non intendonoancora questa verità elementare, danno loro.»
(31)Parlai lungamente nel Garibaldi e i suoi tempi, a pag.408-21, delle cospirazioni di Mantova e Milano. La verità sullascoperta della cifra sta in quelle parole. La cifra adoperata daTazzoli per scrivere alla sua famiglia fu nota alla C... M...Arrestata ella disse esser nota anche a Castellazzo, ma egli fuarrestato dopo che tutti i nomi erano decifrati; e Tazzoliscrisse egli stesso che, visto l'inutilità di negare, avea spiegatoanche i nomi di guerra. Il solo Finzi non parlò mai. Egli fuingannato a credere che Castellazzo fosse il rivelatore, né vollemai renderai all'evidenza. Le persecuzioni sue contro quel martireeroe furono fino ad un certo punto spiegate; e Alberto Mario eAchille Sacchi non vollero cedere alla volontà espressa a Mantovadi escludere Finzi dalla festa per i martiri nel 1872. (Vedil'articolo Il deputato Finzi di AlbertoMario nella Provincia di Mantova 2 Dicembre 1872). Non così si puòscusarlo di essersi prestato ai bassi intrighi di un partito chenulla sa di martirio e di eroismo. Ma speriamo ancora che Finziprima di morire ripeterò le parole ultimissime di Tazzoli: SONOCONTENTO DI SAPERE CHE NON FU CASTELLAZZO, TRE VOLTE BASTONATO, CHERIVELÒ IL CIFRARIO.
(32)I moderati anche accusano Mazzini di aver falsificato la firma diKossuth perché Kossuth dopo l'insuccesso non volle danneggiare lacausa ungherese. Ma gli amici inglesi non tollerarono lo sfregio esul Daily News stamparono la verità. Essi vivi tuttora sono prontia testimoniare.
(33)Molti particolari sull'insurrezione di Milano mi furono raccontatidall'amico Celestino Bianchi.
(34)La povera famiglia ebbe perquisizioni e persecuzioni senza fine. Lapolizia voleva a ogni costo sapere chi fosse «ill’ornano». Le Pistrucci fecero lo gnorri. Dovettero allabenevolenza del chirurgo del viceré se invece della prigione ebberolo sfratto. Scelto Locarno per asilo, ivi, entro tre mesi, mori ilpovero Scipione, lasciando madre, moglie, sorella e figlia nellamiseria. A Lugano con loro e «Pippo» e la nobilissima donna MariaFraschieri, esule del 1821, abbiamo passato molti mesi d'esiglio.Quattro anni fa vidi a Napoli quattro generazioni delle Pistrucci,intrepidamente e laboriosamente poveri, tutti fedeli alla vecchiabandiera, devoti alla memoria degli unici loro santi, Scipione eMazzini. La romana matrona mori l'anno passato in Milano di 90 anni.
(35)Tradotto il Paschetta innanzi alla Corte di giustizia dellaRepubblica di Ginevra mostrava un lascia passare del conte di SanMartino, contenente l'ordine di prestargli ajuto e all'uopomanoforte.
(36)Avendolo la madre avvertito che avevano arrestato un falegnamecredendolo lui, egli scrive: «Mentre interrogano il falegname (22gennajo 1851) per vedere s'io sia in Genova, in Lione arrestano unoin un Hotel dicendo ch'era io: in svizzera il Consiglio Federale mionora delle sue ricerche. Impazziscono. Dovreste secondo me,lasciare che i giornali dicessero ciò che credono bene intorno alfalegname: avrebbe forse qualche noia, ma non credo che potesseavere conseguenze gravi, ed anzi l'attenzione attirata su luigioverebbe forse le sue condizioni... Ho piacere che abbiate trovatobuona la mia lettera a Napoleone. L'hanno tradotta in francesestampata a parte: ma ben inteso, in Francia è proibita, e non puòfiltrare che di contrabbando. Le cose s'intorbidano per ogni dove:ma quanto all'Assemblea francese, la maggiorità vale quanto ilpresidente.
(37)E con che furore l'amico, usualmente cosi mite difendeva l'amicocalunniato e la santa causa calpestata. «L'insulto codardo aicaduti, le impudenti calunnie e gli indizii consciamente bugiardisulle intenzioni e sui fatti magnanimi nella sventura, l'abbiettoscherno a chi, col pensiero, col core e col sangue, cerca unapatria, sono turpitudini che i popoli non conoscono, e le lasciano,degno corrodo, ai servitori dei re. Però dite agli scrittorisalariati dei giornali monarchici di costà e a chi li paga, che illoro fango sta bene alle loro mani; né scendiamo noi arimescolarlo, per cercarvi corruttele che meritarono le grazie e lelodi dell'Austria. La nostra questione spetta tutta quanta allacoscienza e alla virtù del popolo; il quale sa che la indipendenzae la libertà d’Italia non potranno mai guadagnarsi con raggiridiplomatici e beneplaciti di sovrani domestici o stranieri, masibbene colla perseveranza della lotta e coll'audacia de' grandisacrifici.»
(38)Vedi sedute del 25 aprile 1853.
(39)In uno dei 16 fascicoli della Rivista l’Italia del Popolo che duròfino al febbraio 1851 egli ripubblicò prima del colpo di stato,dall'inglese I sistemi e la democrazia, ove dimostra che ilsansimonismo, il comunismo e anche il sistema di Luigi Blanc «hannoesaurito tutte le fasi possibili della dottrina che ha per base idiritti, per fine il «benessere dell'individuo, che senza lareligione del dovere ogni grande trasformazione sociale èimpossibile dacché «implica uno sviluppo più vasto e più intensod’associazione.» Avverte però gli Italiani di non dimenticare«che il socialismo fu sintomo di una crisi tremenda, che cova piùo meno in tutti i paesi di Europa e alla quale bisogna apprestarerimedio, se non si vuole che la società vada sommersa nella guerrafraterna e nell'anarchia.» (Vol. VIII, pag. 352). Questo scrittogli fu causa di fiera contesa e di acerbi rimproveri da tutta lascuola comunista francese e specialmente da Luigi Blanc, rimproveriche ruppero una amicizia alle due nazioni cosi benefica. E perambedue fu danno, ma se in oggi quello scritto fosse reso letturaobbligatoria per almeno la quarta classe elementare, né laborghesia avrebbe a tremare d’un socialismo inverificabile eminaccioso soltanto a parole; né il misero darebbe retta aqualsiasi predicatore di sistemi assurdi come unica panacea pertutti l'mali.
(40)Scritti, vol. VIII, pag. 170-71.
(41)Scritti, vol. VIII, pag. 313.
(42)Vedi la divina lettera colla quale nel giugno dell'anno seguenteegli annuncia al suo Aurelio la morte della madre di lui per cholerafulminante. (Proemio del vol. IX, pag. 66).
(43)Scritti, vol. IX, pag. 1021.
(44)Fra gli uomini i quali vedevano la questione dal punto di vista diMazzini, ce n'erano che divennero poco dopo e fino adesso capi delgoverno: Gladstone, che mette in azione molte delle idee di Mazzinisenza riconoscerne l'autore: Stansfeld, discepolo di lui e ancorasulla breccia: Cobden, Forster, Cowen, l'uomo dai concetti piùlarghi ed alti nella politica estera che oggi vanti l’Inghilterra:Roebuck, ora morto, ma fino alla morte, fiero. Nei suoi discorsi cisembrava di sentir parlare Mazzini; egli odiava l'Austria, maNapoleone gli faceva ribrezzo.
«Ionon ho fede in quell'uomo che ha sulla lingua lo spergiuro... Vidi aCherbourg quell'uomo montare sul vascello della nostra nobile’regina: e quando io scorsi le sue labbra spergiure toccai le goteintemerate di lei, mi si gonfiò il cuore a pensare di quella santae buona creatura così contaminata dal bacio di un despota senzafede. Ciò che io vidi allora era simbolo della situazionedell'Inghilterra... L'Inghilterra è grande perché è buona. Matenete per fermo, che non può farsi alleanza colla turpitudine,senza che la turpitudine s'attacchi al l'alleato.»
Eallo scoppiar la guerra del 1859: «L’Europa è alla vigilia d'unaguerra. Le nostre alleanze dovrebbero essere da per tutto collalibertà. Un despota, quantunque salito in potenza, dovrebb'esserepur sempre un despota per noi. Colla Francia come popolomanteniamoci pure in alleanza. Essa è una valorosa e grandenazione, ed è stata una luce alla umanità... ma non seppe dareesempio di buon governo. Vedemmo le sue istituzioni calpestate dalpiede di un tiranno volgare. Egli ha tentato ogni via per allearsicoi poteri tirannici dell'Europa; e voi potete esser certi diquesto, che la novella or messa fuori di voler ajutare l'Italia nonè che un pretesto per invadere quella nobile e grande contradacolle sue orde pretoriane ed inalzare l'aquila francese in luogodell'aquila austriaca.»
(45)Scritti, vol. IX, pag. 112124. Vedi anche Le lettere slaveripubblicate dall'Italiadel Popolo,1857, ove Mazzini ajutato da Quadrio narra la storia e sviluppa lamissione degli slavi meridionali.
(46)Scritti,vol. IX. — Ai ministri piemontesi — Ai soldati italiani —All'esercito piemontese.
(47)Quando morì quella santa donna, Mazzini scrisse ad Aurelio Saffi:«É morta la signora Luigia Casati calmamente, conscia: ha mandatoparole d'affetto a me e a te. Ha dichiarato non voler preti intorno,ma amici: avere accettato la formola Dio e il Popolo, come nonpolitica, ma religiosa, esclusiva d’intermediari tra Dio el’anima; voler quella formola sulla sua tomba.» Dalla morte dellamadre al matrimonio col suo adorato Achille, Elena dedicò l’ingegnonon comune e il patrimonio alla patria. Il dovere fu la suareligione, la repubblica suo ideale, ogni suo pensiero fu dedicatoall’educazione della numerosa famiglia, insegnando e praticandol’abnegazione come somma virtù, additando l'egoismo come germe diogni male. Ritenendo assoluta l’eguaglianza dell’uomo e delladonna, volle identica anche l’istruzione. La figlia maggiore èoggi laureata all'università di Pavia e sposa. — La morteimmatura dell'Elena lasciò nel cuore del fedele compagno e degliamici un vuoto che non può mai colmarsi; ma, guardando i suoifigli, si consolano che essa non ha vissuto indarno. L'Italiaschiava aveva bisogno delle madri Ruffini, Mameli, Cairoli, perallevar figli pronti a morire per la patria; oggi è supremanecessità avere madri simili alla Elena Sacchi e alla Sara Nathanper educare la gioventù alle maschie virtù che solo possono renderquesta patria degna dei martiri e degli eroi, i quali la crearono.
(48)Le lettere di Mazzini a Nicola Fabrizi mi ha favorite Adriano Lemmi.
(49)Le poche notizie che lo spazio mi consente intorno alle ininterrottecospirazioni e agli audaci tentativi dei siciliani dal 1848 al 1860debbo, oltre le raccolte a voce da Rosolino Pilo e da FrancescoCrispi ai patrioti prof. Raffaele Villari e Francesco Guardione. Ilprimo, autore di una bella monografia Cospirazionee Rivolta,ove a pena accenna alla parte sua attiva, mi è cortese di un tesorodi fatti e ricordi. Il secondo, autore dell'AntologiaPoetica Siciliana del Secolo XIXe delle biografie di Carlo Gemelli e di Saverio Friscia, cosìingiustamente dimenticato oggi, mi ha anche favorito lettere diMazzini e indicatomi ove trovarne altre. Essi e tutti i sicilianidei tempi eroici affermano eprovano che a Mazzini, a Fabrizi e a Crispi è dovuto se la Siciliasacrificandole sue idee autonome si diè con sangue e sacrifici all’ItaliaUna. Alla Sicilia manca ancora uno storico, al quale restal’invidiabile ufficio di scrivere una delle più belle pagine delrisorgimento italiano.
(50)A costo di esser tacciata di poca modestia, per provare che quantodico oggi di Mazzini pensava anche trentanni fa, cito il seguentebrano dall'esame subito in prigione nel processo del 29. giugno 1857a Genova. — «Interrogata Miss White se conosceva un certoGiuseppe Mazzini, risponde: — Lo conosco, lo tengo il Cristo delsecolo. — Interrogata per qual motivo abbia essa qualificato neiprecedenti suoi esami Giuseppe Mazzini il Cristo del secolo e a chepossa ciò aver allusione, risponde: — Primamente io non tengo perdivino il Cristo, e quindi non tengo nemmeno per divino Mazzini, enel qualificarlo il Cristo del secolo ho voluto dire che sia l'uomoscelto da Dio per dar la nuova parola a quest'epoca, ch'è Dio ePopolo. — Interrogata cosa intende per dar la «nuova parola aquest'epoca, risponde: — Credo che l'epoca dei tiranni è finita eche l'epoca del popolo sta per «cominciare.» (Vedi Supplemento alnumero 10 della Gazzetta dei Tribunali. Genova 21 febbrajo 1858).
(51)NICOMEDE BIANCHI, vol. VII, pag. 624.
(52)Nel Garibaldi e i suoi tempi, pag. 42710, ho narrato lastoria della cospirazione di Pallavicino e dato molti documenti elettere di Garibaldi a Cuneo e a me, chiarendo la sua azione e isuoi motivi. Dal 1856 all'indomani della pace di VillafrancaGaribaldi si tenne in disparte da Mazzini e seguaci ma ritornò adessi, quando capi che la politica di Cavour e dei suoi luogotenentinon avea in mira l’unità dell'Italia tutta.
(53)Anche circa la morte data da un individuo ad un altro o per volontàpropria o cosi detto legalmente, le frasi melodrammatiche di ManinSulla teoria del pugnale e più tardi quelle di Massimo d'AzeglioL'Italia ha la fronte macchiata, davano sui nervi a quanti fremevanodinanzi alle invendicate stragi di Parigi, e alle forche di Milano edi Arad. E certamente non toccava a Manin, vivendo a Parigi,redolente ancora del sangue delle vittime del colpo di Stato, diammettere, anzi propagare che nella nobilissima patria sua esistevauna teoria del pugnale. Manin stesso non avea scritto: «Agitatevi,agitate:l'agitazionenon è la rivoluzione ma la prepara.Spossiamo il nemico con migliaja di punture d’aghi, tentiamo diatterrarlo trafitto dalle spade». E splendidamente Mazzini a luiquesto rinfacciava. — La polemica faceva male a tutti gli amici edammiratori del grande veneto; e il fiero poeta Walter Savage Landor,portando all'esagerazione la ripugnanza veramente sentita da moltiper questo insultare e incrudelire contro chi spinto al deliriodall'impotenza di vendicare i torti inflitti alla patria sua cercavaspegnere l'autore di quei torti, mi scriveva: — «Signora. — Ionon posso disporre che di cento lire sterline, né avròprobabilmente mai tanto in mie mani nell’avvenire. Di questa sommaio vi trasmetto cinque lire per la sottoscrizione «dei 10 milafucili da darsi alla prima provincia italiana che insorga. Serbo lealtre novantacinque per la prima famiglia del primo patriota cheaffermerà la dignità e compirà il dovere del tirannicidio. Uominid’animo abbietto m'hanno bandito la croce addosso per la miacommendazione di questa virtù, la più alta che un uomo possaraggiungere, ed oggi comandata più che ogni altra dai tempi. Ma ilricordarmi che la semenza degli usurpatori è perpetua non èchiaramente un'assurdità? — Non è perpetua quella dei colpevolid'ogni maniera? E dovremo noi per questo rinunziare ai terrori dellapunizione o dare un certificato d'amnistia al più perverso tra ire? Sarà sempre concesso ad un solo d'opprimere milioni?Assisteremo noi impassibili al sovvertimento di tutte le leggi, eudremo rimproverarci che operiamo contr'esse o senza la lorosanzione, quando leggi non sono, e noi guidati dall'Eterna giustiziaci prostriamo al sovvertitore? Tre o quattro colpi vibratisubitamente e ad un tempo salverebbero forse al mondo molt'anni diguerra e di corruttela. Se v'è castigo per chi deruba un semplicecittadino lasceremoimpunito chi deruba un popolo intero? Ih qual mai terra, anche comequesta, soggetta generalmente all'insegnamento dei preti, non è ilfanciullo inconsciamente spronato da una mano invisibile adapplaudire al vendicatore che sorge nella potenza del sacrificio? Laferula batte sul banco, e il fanciullo grandeggia sino all'uomo d'unbalzo. — WALTER SAVAGE LANDOR.» Non siamo punto dell'avviso delfiero poeta: la storia da Bruto in poi dimostra, se non altro,l'inutilità della vendetta personale, mentre soltanto l'insorgered'un popolo può abbattere la tirannide. — La bellissima rispostadi Mazzini a Daniele Manin si trova a pag. 127-155 del vol. IX degliScritti.
(54)Molte sono le narrazioni della spedizione di Pisacane. Le piùautorevoli sono: La situazione e Ai Giudici di Mazzini1857 (voi. IX, pag, 260354) — Sapri, relazione di NicolaFabrizi — Cronaca del Comitato segreto di Napoli su laspedizione di Sapri (proemio di A. Saffi al IXvol. degli Scritti di Mazzini). — Gli scritti di Nicoteradurante il processo per libello da lui mosso contro la Gazzettad'Italia. — lo narrai l'episodio nel Garibaldi e i suoi tempi econsultai di nuovo scritture e documenti per la Vita di AlbertoMario. Non trovando nuovi fatti, cito di preferenza quella.
(55)Stampata nel Garibaldi e i suoi tempi.
(56)Ecco la sentenza di Salerno, ove Diego Tajani oggi ministro sidistinse per l'audacia e lo splendore della sua difesa: Nicotera,Gagliani, Sanlandrea, Giordano, Valletta, La Sala e De Martinofurono condannati a morte, due all’ergastolo, nove a 30 anni diferri, cinquantadue a 25 anni, Bonomi a otto anni di fortezza,ottanta ad un aumento di punizione, della relegazione, ad essereconfinati pel rimanente della loro prima sentenza, quarantotto allaprigionia, due all'esilio correzionale e cinquantasei da ritornare aPonza a disposizione della polizia. Sulle accuse di ladronecci chepesavano su loro, la corte colla formola di consta che non neassolvette Nicotera e i sedici compagni suoi, e per gli altri collaformola: non consta, decise che tali accuse non eranoprovate. Questa sola accusa era quella che fosse di peso agliinsorti, e un tale verdetto diede loro piena soddisfazione. Appenaletta la sentenza, il procuratore generale apri e lesse un plicoofficiale che annunziava che l'esecuzione dei sette con dannati amorte era sospesa. Fra i prigionieri politici di Salerno furonosottoposti al cavallettoAnseimo Esposito, Giuseppe Magno, Giuseppe Olivieri,Salvatore'Depadova, Giuseppe Tangrese, Giuseppe Riggione.
(57)Carcerato il Ballanti, perché trovatagli indosso un disegno dellacuffia di silenzio con un articolo che narrava la tortura diAgesilao Milano, egli indirizzandosi al presidente della Corte diAppello disse: «Mi perdoni, Eccellenza: la Cuffia del silenzio èscritto che si riferisce a Napoli e nulla ha che fare coi moti diGenova. Io sono da otto mesi in carcere ingiustamente.»
(58)L'assessore Basso dichiarò di aver trovato, in un appartamento cheperquisiva, fra altre cose, uno squadrone di cavalleria. Ad unadelle deposizioni per iscritto si trovava una nota per mano di unnoto funzionario. «Quest'esame è falso, come quelli che seguonodei cinque militari, che hanno deposto il falso per concerto colguardarme; come risulta dal processo dell'Uditoroto di guerra.» IlBaxaicò, capo ameno, che a rischio della vita aveva salvato Genovada un allagamento e che poi fu soldato di Garibaldi, rinfacciato didire all'audienza le cose in modo diverso da quello deposto nelleinterrogatorie, rispose: «Quando fui interrogato dall'assessore,egli non faceva che minacciarmi di galera, ed io Signor si! signorsì!»
(59)La difesa si componeva degli avvocati Castagnola, Brusco, Celesia,Bozzo A. G., Bozzo P., Maurizio Merialdi e Uff. dei Portieri,Gianelli Castiglione, Ronco, Cavagnaro, Oliva, Boldrini, Paganini,Romagnoli, Molfino, Zuppetta,. Chiodo, Carcassi, Severoni e Tofano.
(60)Più nefanda arringa di quella del pubblico accusatore Galliani nonsi può leggere in qualsiasi tempo o in qualsiasi paese; egli volleemulare il Galateri del tempo di Caldo Alberto. «Egli, dicendosiinformato a mitezza, vi chiese sei capitali condanne, e molte dilavori forzati a vita ed a tempo. Néalla fredda enumerazione dei risultamene della pubblica discussionesi limitava l'oratore della legge; ma, gridando vitupero sulconcetto dei moti del giugno e suoi autori o cooperatori, lichiamava assassini, dicea minacciata di eccidio la nostra città,nella notte del 29 al 30 giugno, stabiliva argomento di reità lamanifestazione di opinioni e di tendenze repubblicane non solo, madi quelle pure che di unità ed indipendenza nazionale favellavano,rendea comune la causa della Monarchia costituzionale con quelladegli altri Stati che si reggono a governo assoluto, disapprovavaogni moto insurrezionale della penisola che a farla libera tendesse;e credendo salvata e difesa col terrore la causa dell'ordineperorava onde la corte accogliesse siccome abbastanza mite ladomanda di innalzarsei patiboli, richiamando di nuovo i corsi pericoli, le minacciaterovine». — «Noi — diceva l’avvocato Bozzo — fummoesterrefatti a quelle parole, e più alla terribile perorazione,nuovo esempio tra noi nelle cause capitali.»
(61)Carcassi conchiudeva la sua arringa cosi:«Eccellenze! di una seriedi fatti vi si presenta doppia esplicazione — dovete forzatamentescegliere, o quella che proponiamo, o quella che il PubblicoMinistero propone. — Una è piana, facile, logica, irresistibile —la nostro — quella del Pubblico Ministero è artificiale, aspra,illogica, impossibile. — La nostra ha due supremi risultati, salvol'onore del nome italiano e miti condanne: quella del PubblicoMinistero è un'offesa per la nazione, inalzar sei patiboli. — Voiavete seguito Eccellenza, lo svolgersi delle istanze fiscali; avetenotato come siasi affaticato l'oratore della legge per istabilire lepremesse, dalle quali trarre conseguenze di pena capitale; avetenotato come per giungere a tanto ei dovesse, trascinato dalla chinasu cui era posto, porre in oblio tutto un passato di gloria,respingere le speranze di uno splendido avvenire; lo avete sentitorestringere i confini della patria italiana al Piemonte, chiamardelitto i desideri, i conati a pro della indipendenza italiana,delitto il grido di Viva la patria nostra, come se le ossa deinostri soldati non biancheggiassero invendicate sulla terralombarda, come se re Carlo Alberto non morisse solitario e lontanoper aver voluto la indipendenza e gridato Viva l’Italia, come selo statuto nostro, la bandiera tricolore che qui sventola, unfiorente e prode esercito coll’arme al braccio non esprimessero lostesso concetto, non fossero una solenne promessa, una cara e nobilesperanza. Lo avete sentito dire che la soscrizione dei centocannoni, a cui, plaudenti, concorsero milizia, municipi, guardianazionale, cittadini, è atto di virtù soltanto, perché accenna adifesa, — il pensiero di esser libero bensì, ma la manifestazioneeccessiva di esso doversi correggere e reprimere coi lavori forzati,col mozzare la testa a sei patrioti. E tutto questo perché! a chequesto sperpero della sublime eredità del 1848? — Avverta ilPubblico Ministero che, dove i fatti avessero il senso che eglicrede, si verrebbe alla dolorosa conseguenza che in questo unicostato d’Italia dove esiste libertà, esiste un vasto malcontentoeziandio, che gli italiani sono una razza selvaggia e feroce, che agran numero di essi sorride un futuro di strage ordinata a rapina.Colla nostra esplicazione, Eccellenze, le nobili tradizioni delpassato son sacre, sacre le speranze dell’avvenire, il malcontentosvanisce, non cade tant'onta sul nome italiano, è inutile l'operadel carnefice. — Scegliete». (Supplemento al N. 10 della Gazzettadei Tribunali, Genova, 8 marzo 1858.)
(62)Non avea che sedici anni! Sentita la sentenza, gridò: — Sonoinnocente: ma tant’è: VIVA L'ITALIA!
(63)Mazzini nulla sapeva del complotto di Orsini. Io era con lui nellapiccola stanza sua a Fulham Road, quandoGiacomoStansfeldentrò col Timescontenentela notizia fulminante.Da più di un anno, Orsini erasi staccato da lui per futili motivi;ma quando Mazzini vide addensarsi su quella testa calunnie di ognigenere, scrisse al Times,ricordando quello che Orsini, commissario della Repubblica Romanaaveva fatto contro l'anarchia e l'assassinio. — Io e gli altriamici d'Italia ne narrammo la vita devota alla patria; ed ElisaChesney,la donna da lui menzionata nel testamento, ci disse che quei ricordifurono l'unica consolazione sua nella prigione. Di lui manca ancorauna biografia imparziale. Mazzini capi subito che Napoleone avrebberiversato su lui la responsabilità del fatto: ma nulla mai impedivaquel magnanimo dal fare il suo dovere, tanto, più quando glicostava sagrificii. Quanto alle due lettere d'Orsini pubblicate dopola sua morte, dubitiamo della spontaneità della prima; la secondacertamente è apocrifa. Fu mandata a Cavour da Napoleone stesso conun preambolo scritto da mano fidatissima: Cavour omise il preamboloe pubblicò le lettere con a capo queste parole: «Riceviamo dafonte sicura gli ultimi, scritti di Felice Orsini. Ci è di confortocom'egli, sull'orlo della tomba, rivolgendo i pensieri confidentiall’augusta volontà che riconosce propizia all'Italia, mentrerende omaggio al principio morale da lui offeso, condannando ilmisfatto esecrando a cui fu trascinato da amor di patria spinto aldelirio, segnò alla gioventù italiana la via a seguire perriacquistale all'Italia 11 posto che ad essa è dovuto frale nazioni civili.».
(64)L'Italia delPopolo, il piùsplendido giornale democratico che l’Italia avesse mai, perl'altezza dei pri nei pii e la gagliardia nel sostenerli, per lavarietà degli argomenti interessanti la libertà e il civil viveredi una nazione, per il modo largo e sano con cui venivano trattatele questioni, sociali, dové cessare in agosto 1858 sottoi colpi del fisco chelo sequestròventi volte inun mese.Napoleone ne avea domandato per mezzo di Walewsky la soppressione:Cavour rispose:«No: la soppressione dell’Italiadel Popoloequivarrebbe a un colpo di stato; e il re e noi vogliamo serbarcifedeli allo Statuto.»Ma, sostenendo la legge De Foresta contro la stampa, disse: «Leleggi sono ogni giorno apertamente violate dalla pertinaceinsistenza di un giornaleche ha lo scopo evidente di rovesciare le nostre istituzioni, dipromuovere la rivoluzione non solo negli altri stati d'Italia, maanche nel nostro. Ciò è un'offesa continua alle leggi, unosconcio che non si può lasciar sussistere.Egli è per ciò che il Ministero domanda al Parlamento diprotestare altamente contro quelle dottrine di settari. Il secondomotivo da cui il governo fu mosso è la certezza che i settari nonvogliono solo attentare alla vita dei sovrani stranieri, ma anche aquella del nostro re. — Quattro gerenti furono in carcere allostesso tempo: i giurati li assolsero sempre, il famigeratoCotta-Ramusino fregandosi le mani diceva; «Assolvano pure, manemmeno Domine Dio può fare che la prigione non l'abbianosofferta.» — L'ultimo sequestro avvenne per la lettera di Mazzinia Cavour, e il giornale fu assolto. Ma, visto che il direttore Saviera in prigione condannato a dieci anni di galera, Maurizio Quadrioin Sicilia, Civinini condannato a vivere nascosto e tutti gli altriscrittori in esilio, fu deciso di stampare invece a Londra ilPensiero ed Azione, periodico diretto da Mazzini in persona.
(65)Scritti, vol. X, pag. 1849.
(66)«Badate — disse Walewsky al legato sardo — badate che noi siamodeliberati d'andare fino agli estremi; e nei paesi donde gliassassini e i cospiratori non verranno cacciati andremo noi acercarli colle nostre mani fin nelle viscere della terra.» (N.BIANCHI, vol. VII, pag. 595).
(67)«La storia minuta dei due lunghi colloqui di Cavour con Napoleone(a Plombières nel giugno 1858) è coperta da un bujo che non èpossibile che venga diradato da nessun scrittore, fintantoché nonsiano rotti i suggelli all'unico documento che la contiene, scrittodi mano del conte di Cavour. Però in ricambio della promessadell'ajuto armato della Francia al Piemonte per togliere all’Austriaogni dominio in Italia, Cavour assenti alla cessione della Savojaalla Francia. Il discorso intavolato sulla provincia di Nizzacondusse a concludere che delle sue sorti venture si tratterebbe aguerra compiuta. Stringere i vari stati italiani ad unità di regnonon poteva essere né fu argomento neanco di desideri! in quelconvegno, ove a grandi tratti si delineò un nuovo assetto politicodell'Italia.... L’assetto federativotrovò ragione d’intelligenza comune colla formazione di un regnoboreale d'Italia, costituito da dodici milioni di abitanti. Sarebberimasto ritto il principato temporale della Santa Sede, macircoscritto in confini assai più ristretti. (N. BIANCHI, vol. VII,pag. 407). — E nel volume VIII, pag. 6: «Nelle trattative,sepolte nel più profondo mistero, tra lui, Vittorio Emanuele eCavour, erano stati presi gli accordi seguenti: Vi sarebbealleanza offensiva e difensiva tra la Francia e la Sardegna percacciare l'Austria dall’Italia. L'imperatore Napoleone, a capo diduecentomila de' suoi soldati, avrebbe il comando superiore delleschiere alleate. Per operare nimichevolmentecontro l'esercito austriaco, si lascerebbe trascorrere l'aprile, manon il luglio del 1859. Ove la guerra riuscisse felice, la Sardegnaprenderebbe nome di regno dell'Alta Italia coll’aggregazione dellaLombardia, della Venezia, dei Ducati, delle Legazioni e delleMarche. Il dominio temporale dei papi verrebbe circoscritto allacittà e provincia di Roma. L’Italia centrale si ordinerebbe aregno indipendente. Il re di Sardegna cederebbe la Savoja allaFrancia. Le sorti della contea di Nizza si stabilirebbero alricomporsi della pace.» (Lettera di Cavour al marchese Villamarina,Torino, 21 dicembre 1858). — A prova di quanto avrebbe potuto ilsolo Piemonte, citiamo ancora Nicomede Bianchi: «A breve andar ditempo, i cospiratori più esperti, i guerrieri più audaci, compresoGiuseppe Garibaldi, si trovarono schierati sotto lo stendardoliberatore, tenuto ritto dal re Vittorio Emanuele. Nel febbrajo del1859 il primario ministro di Sardegna capitaneggiava a beneplacitosuo, ovunque suonava l’aureo idioma d'Italia, una sterminatamoltitudine effervescente di patrizi e plebei, di conservatori edemocratici, di monarchici e repubblicani, di federali e unitari,tutti anelanti in santa concordia, dalle Alpi ai tre mari, di farsonare alto il grido darmi e di patria. In quel tempo disobbollimenti travagliosi, d'impazienze entusiastiche, ditemporeggiamenti tormentosi, di necessarie tergiversazioni, disoste, di dubbiezze, di difficilissime lotte diplomatiche, rimarràa immortale gloria del conte Camillo Cavour d'aver saputopadroneggiare uomini e cose, vigile, infaticato, coraggioso,prudente, con sagacità di mente unica piuttosto che rara.» (Vol.VIII, pag. 1718). Che bisogno dunque dell'alleanza coll'uomo del Duedicembre?
(68)Questo a proposito dell'aver detto Mazzini essere il re migliore deisuoi ministri.
(69)G. MAZZINI — Pensiero ed Azione, 15 dicembre 1858.
(70)La protesta fa firmata da Saffi, Quadrio, Campanella, Mosto,Guastalla, Mario e da altri centocinquantasei: tra le altre cosedicevasi: «Che ogni guerra nella quale gl’italianis’illuderebbero a conquistare libertà e indipendenza sotto gliauspicii o mercé l’alleanza di L. N. Bonaparte sarebbe colpa adun tempo e follia: follia perché L.N. Bonaparte non può, senza suicidio, impiantare in Italiacoll'armi la libertà ch’egli affogava nel sangue in Francia:colpa perché l'alleanza col dispotismo rinnega i principii chefanno giusta e santa la causa d’Italia, rompe i vincoli difratellanza coi popoli che facevano della causa d’Italia una causaeuropea, e trascina la bandiera della nazione dall'altezza d'undiritto al fango d’un egoismo locale: colpa, e gravissima, perchéL. N. Bonaparte, mirando a riconquistare in Francia l’opinione chegli cresce avversa ogni giorno più e ad affascinare colla gloria egli acquisti territoriali le menti vogliose di libertà, non disegnascendere in Italia fuorché per acquistarvi compensi di terreno agliajuti,impiantarvi un ramo della dinastia e verificare l’idea napoleonicache il Mediterraneo deve essere un lago francese.» E poi «Che irepubblicani, serbandosi il dirittodi voto e di pacifico apostolato, pronti oggi, come sempre furono, asagriflcare il trionfo immediato della loro fede individuale al benee all’opinione dei più, seguirebbero sull’arena la monarchiapiemontese e promoverebbero con tutti i loro sforzi il buon esitodella guerra, purché tendentein modo esplicito all'Unità Nazionale Italiana.»
(71)Mentre Vittorio Emanuele trattava Napoleone colla cavalleria d'un reantico e la cortesia dell’ospite, Bonaparte tenne verso lui ilcontegno dell’impertinente avventuriero che fu. Svanite lesperanze di soddisfare dinastiche ambizioni, cinque giorni prima diSolferino, l’ambasciatore napoletano in Parigi telegrafava al suogoverno: «Si cerca di unire tutto in Verona»; poi inviava ilmeditato progetto della confederazione italiana. Il 5 luglio,l'imperatore mandò il generale Fleury all’imperatore d'Austriacon le proposte di un armistizio a preparazione della pace.L'Austriaco accettò l'armistizio» Il 7 giunse a Parigi il seguentedispaccio: «L’Imperatore all'imperatrice. Una sospensione d'armiè convenuta tra l’imperatore d'Austria e me. Saranno nominati deicommissari per assicurare le ultime clausole.» Dopo rincontro conFrancesco Giuseppe a Valleggio, Napoleone narrò a Vittorio Emanuelela sostanza dell'abboccamento; e gli lesse i preliminari di pacescritti di sua mano. Vittorio Emanuele nulla rispose se non: «PoveraItalia! Ma, qualunque siano per essere le deliberazioni definitivedi V. M., io le sarò sempre grato di quanto ha fatto perl'indipendenza italiana, ed ella avrà sempre in me un principeamico fedele e riconoscente.»
Nell’accommiatarsidal re, Napoleone gli disse: «Il vostro governo mi pagherà lespese di guerra, e non penseremo più a Nizza e alla Savoja. Oravedremo che cosa sapranno fare gli italiani da soli.» «Spero —rispose Vittorio Emanuele — che tutti faremo il dover nostro, comeconfido che l’Italia avrà sempre nella Maestà Vostra un amico.»
Ilre fu biasimato del non essersi opposto alla conclusione di si fattapace. 0 che avea da mendicare un appoggio negatogli dall'alleatoprepotente? A noi sembra che agisse da italiano gentiluomo; e oggiche si vuole tirare fuori la statua di Napoleone III bene ingabbiatanel cortile dell'archivio, mentre i democratici si struggono aprovare l'offesa che sarebbe questa al popolo francese, ci sorprendeche gli amici della monarchia non sorgano a dire: —Il terzoNapoleone fu pagato per la sua alleanza sul campo lombardo collacessione di Nizza e di Savoia e il compenso di guerra. Di più unBonaparte ebbe l’onore di sposare una principessa del sanguereale. Deista. Non desideriamo vederci innanzi colui che inflisse sisanguinose offese al nostro re. —
(72)Kossuth, ingannato anche lui da Napoleone, narra cosi il colloquiodi Cavour con Pietri, pochi giorni dopo l'armistizio in Torino:«Appena ricevuti nel gabinetto del conte, il signor Pietri attaccòil discorso. — Pietri. Si dice che abbiate data la vostradimissione, signor conte: spero che non sia vero. — Cavour. Ma siho dato la mia dimissione. — Pietri. Ah! è spiacevole, moltospiacevole. L'imperatore no sarà molto dolente. — Cavour. Chevolete? In politica si transige spesso con le questioni di tempo edi modo di azione, qualche volta anche, con i principii: ma c’èun punto sul quale l’uomo di cuore non transige mai, è l’onore.Il vostro imperatore mi ha disonorato! Sì, o signore, disonoratoegli mi ha disonorato! Mio Dio, egli ha dato la parola, ha promessoche non si fermerebbe prima di aver cacciato gli austriaci da tuttal'Italia; in ricompensa si è riserbato la Savoja e Nizza. Hopersuaso il mio re ad accettare, a fare questo sacrificio perl'Italia. Il mio re, buono, «onesto, ha acconsentito, fidandosidella mia parola. Ed ora il vostro imperatore porta via laricompensa, ma ci lascia in asso. Bisogna che la Lombardia ci basti!Inoltre, egli vuole incatenare il mio re in una confederazione conl'Austria e gli altri principi italiani, sotto la presidenza delPapa. Non ci mancherebbe altro che questo! Io sono disonorato alcospetto del mio re.»
SeCavour avesse voluto intendere «i nuovissimi voti della nazioneitaliana verso la sua unita,» si sarebbe risparmiatoquell’umiliazione. E1 era anche a tempo di impedire le nuoveoffese meditate all'unità da Napoleone prendendolo in parola esalvando Nizza e Savoja.
(73)L’imperatore consigliò il re di non accettare la dittaturatoscana e di tenersi al protettorato. Salvagnoli affermò, dopo uncolloquio con Napoleone in Alessandria, che propriamente tra isegreti disegni di lui c' era quello di un regno napoleonico nelcentro della penisola e che non bisognava contrariarlo. Cavour,saputo decisa l’entrata del cugino in Toscana a capo del quintocorpo d’esercito, corse ad Alessandria pei rimovere l'imperatoreda questa deliberazione: quegli l'accolse freddamente, poi disse:«Non è nei miei disegni di porre un principe francese sul tronodell'Italia centrale, e se sarà d'uopo ne farò sicurtà per ufficidiplomatici alle potenze.» Cavour si arrese, per non lasciare laToscana in balìa dei mazziniani; ma ottenne che il principe viprenderebbe stanza in virtù dei pieni poteri di cui era investitoil re di Sardegna, e quindi dal supremo comando suo dipenderebbeegli ed i soldati che seco conduceva. Vediamo invece come i cuginirispettarono questi accordi. Quando il principe s'avvide di non¡svegliare alcuna di quelle simpatie popolari che potevano essereforiero di future speranze, fece di tutto per partire coll'esercito;ma Napoleone gli ingiunse di rimanere, fino a nuovi ordini, fermo inToscana, a mantenere colla sua presenza l'influenza francese nelcentro d'Italia. (NICOMEDE BIANCHI — vol. VIII, pag. 97.)
(74)La prima idea venne da Ricasoli, il quale incaricò il valorosoMalenchini, già ufficiale dei Cacciatori delle Alpi e carissimo aGaribaldi, di invitarlo, e il generale a prendere il comandodell'esercito toscano. Ottenuto il regolare congedo il 7 agostoGaribaldi accettò. Quando fu stabilita la Lega militare tra gliStati di Toscana, Romagna, Modena e Parma, Fanti prescelto a capoparti l'esercito in tre divisioni comandanti Pietro Rosselli, LuigiMezzacapo e Garibaldi; nominando poi Garibaldi comandante in secondodell’esercito collegato, ciò è il suo alter ego erappresentante. Più tardi, sembrando che i mercenari pontificiminacciassero una seconda edizione di Perugia, e d’altra partesaputo che i popoli dell’Umbria e delle Marche si preparavano adinsorgere, Fanti d'accordo con Farini concentrò le divisioni diToscana e Modena intorno al confine, ponendole sotto il comandosupremo di Garibaldi.
(75)Il Ricasoli rispose facendo tenere per mezzo del Dolfi a Mazzini, leMassime generali. Dopo qualche giorno le riebbe collo stesso mezzo,postillate di pugno del Mazzini: importante documento ad attestarecome Mazzini non osteggiò mai, ma anzi promosse, le annessioni,insistendo soltanto che il Re le accettasse senza occuparsi né delbeneplacito di Napoleone né del congresso di Zurigo. (Vedi Saffi,Proemio, vol. X, pag. XCIV-VI).
(76)Vedi lettere tra Vittorio e Napoleone trovate nell’archiviosegreto dai comunardi.
(77)Crispi. il quale tutto quell'anno andò avanti e indietro per laSicilia d'intesa coi comitati segreti di Genova, di Firenze e diMalta, tutto aveva preparato per un movimento in settembre; e tuttiavevano accettato il programma — Italia e Vittorio Emanuele — emandavano pregando Garibaldi venisse a capitanare il moto. Egli, puravendo allora in mente di ¡lassare il Rubicone, rispondeva: «lacausa propugnata da sé e dai suoi compagni d'armi non essere quelladi un campanile, ma quella dell'Italia da Trapani all’Isonzo, daTaranto a Nizza; dunque la redenzione della Sicilia è pure laredenzione nostra: noi pugneremo per essa con lo stesso ardore concui pugnammo sui Campi Lombardi: confortatevi, le cose nostre vannostupendamente.» E prometteva sarebbe andato. Crispi. credendo conMazzini che un'insurrezione siciliana, contemporanea all'invasionedi Garibaldi nelle Marche e nell'Umbria, sarebbe decisivo perl'unita ritornò nell'isola: e fu fissato il movimento per ill'ottobre, dovendo Palermo iniziare la lotta, Messina e Cataniarispondere all'armi; munizioni e bombe all'Orsini costruite daCrispi stesso non mancavano. Un'amnistia del nuovo re aveva permessoa ccntotrentotto patrioti di rimpatriare: essi e altri amnistiaticonvennero nel portoa bordo di vaporiinglesi e francesi attendendo ansiosamente il segnale dellasollevazione: ma il Comitato Lafariniano era riuscito a persuadere ipatrioti clic, se essi si movessero prima del congresso il qualedovea decidere le sorti dell'Italia centrale rovinerebbero i destinid’Italia senza pro della Sicilia. Crispi a mala pena salvatosidové andare ad Atene por indi tornare in Italia e ricominciare.
(78)Il generale Fanti il 19 ottobre compartiva a Garibaldi le seguentiistruzioni: «1.° Tenersi in difesa sulla frontiera; 2.° Resistereal nemico se attaccasse; 3.° Dato questo caso e supposto di poterlorespingere, inseguirlo, oltre il confine sin dove la prudenzaconsigli arrestarsi; 4. Il Quando ciò avvenisse, altre truppe dellaLega accorerebbero immediatamente in appoggio di quelle che avesserooltrepassata la frontiera; 5.° Qualora un'intera provincia o ancheuna sola città si sollevasse e proclamasse volersi unire allaRomagna, e domandasse soccorso per essere protetta contro un nuovoeccidio simile a quello di Perugia e per mantenere l’ordinepubblico, in tale evenienza doversi spedire ai sollevati armi edarmati, in quella misura che le circostanze consiglieranno; 6.°Finalmente, se il nemico tentasse colla forza di riprendere queiluoghi, le truppe della Lega dovranno opporvisi difendendolienergicamente, né desisteranno dalle ostilità contro i pontifico,se non quando abbiano occupato tanto terreno quanto riterrannonecessario per garantire la loro sicurezza.» (Vita di M. Fantiscritta dal marchese F. Carandini). Saputo questo, Napoleoneminacciò occupare Piacenza con 30,000 soldati. Cavour consiglia ilre di togliere ogni comando a Garibaldi.Cipriani, Minghetti e Ricasoli, convenuti segretamente alleFiligare, deliberarono di sconfessare queste istruzioni. Ricasoli eCipriani separatamente ordinarono a Fanti di ritirare le truppedalla frontiera, questi telegrafò: «Nonaccetto ordini che dai tre governi riuniti.» Ma allora venneLa Farina portare dei consigli di Cavour, e il generale Solaroliaiutante di campo del re comparve col divieto. Fanti ordinòGaribaldi di ritirarsi. Garibaldi tentò resistere volendo cheFavini deponesse il comando e che Fanti lasciasse alni tutta laresponsabilità e il biasimo in caso di sconfitta. Ambeduerifiutarono. Garibaldi indispettito diede la sua dimissione, ma,rabbonito dal re, rifiutata la nomina offertagli contro al Consigliodi Cavour, di tenente generale, si dimiseanche dalla presidenza della «Nazione Armata», invitandogli Italiani a sottoscrivere per l'acquisto di un milione di fucili,né volle più per allora, prestarsi all'ideadi capitanare una spedizione in Sicilia.
(79)Crispi «nella cui testa vulcanica — ben dice M Villari — evasiincarnata la logica della rivoluzione», il quale nei due viaggiaveva esaurite le proprie risorse e quelle di Mazzini e quanto erastato raccolto dagli amici, sapendo Fabrizi a Modena in buonarelazione con Farini, si presentò ad essi e da Favini ebbe promessadi un milione di lire. E, poi che dopo la partenza di Garibaldi ilcorpo dei volontari andavasi in gran parte sciogliendo, si speròpoter raccoglierli all’Elba e movere Garibaldi a condurli inSicilia. Anche in questo Farini era d’accordo, ma voleva l’assensodi Ricasoli e di Rattazzi; e Crispi andò a Torino. Rattazzi accettòin massima, ma volle consultare La Farina; e Crispi che avea l'ottoogni rapporto con lui quando si fece agente di Cavour, si decise acercarlo e sollecitarlo al soccorso della patria. Senzal'Epistolario, cosi dannoso alla costui fama, sembrerebbe ingiustoattribuirgli motivi di invidia e di gelosia; ma quali altri motivipotevano spingerlo a rifiutare il suo ajuto quando il ministrostesso e il Farini e il Ricasoli acconsentivano? Fece un mondo diobbiezioni cominciando dalle diplomatiche e finendo alle tecniche; equando Crispi rivide Rattazzi (27 dicembre), questi, ripetendo leobbiezioni di La Farina, non solo rifiutò danaro, ma nemmeno vollelasciar fare. Quando Cavour riprese le redini del potere, Crispi fuchiamato in questura a dar conto della sua residenza in Torino: potècon molta cautela e prudenza sguizzare a Genova. Ricordando questolavoro a Mazzini nel 1861 Crispi scriveva: «A metter l'accordo frai due partiti allor militanti e «a raccogliere forze allarivoluzione non per mia iniziativa ma col vostro consenso, il 10dicembre 1859 fummo «(ciò è Crispi e Nicola Fabrizi intimo diFarini) in relazione col Dittatore dell'Emilia. — Pochi giornidopo «Rosalino si involse a Garibaldi e riebbe promesse di ajuti».
(80)Vedi Cospirazione e Rivolta di Raffaele Villari, pag. 392 eseguenti.
(81) — Gli originali, proprietà di Agostino Bertani, stanno nel suoarchivio da lui affidatomi.
(82)Idem.
(83)Agostino Bertani, da quando passò nell'Italia centrale, fece ognisforzo per giungere all’unità con tutte le forze nazionali. Eglinon voleva escluso che lo straniero: scongiurava i repubblicani anon dare corpo alle ombre, per togliere ogni pretesto a Cavour adubitare di essi e rivolgersi a Napoleone. Così scriveva a Panizziil 9 gennajo 18(30: «Medici ti scrive come andò l’ultimotentativo di Garibaldi. La colpa della caduta è un po’ di tutti,ma «sopratutto del sistema, che non permette assolutamente chel'Italia s’accorga della sua forza: e così verremo allarivoluzione inevitabilmente, e chi sa dove andremo; ed io vorreisapere e potere portarla fino alle ultime sue conseguenze perfinirla una volta e morir in pace colla coscienza e col dovere diitaliano e liberale. Se Cavour «volesse davvero intendersela conGaribaldi, questi smetterà ben facilmente da ogni piccolodissapore, insorto non per altro motivo d'altronde che per credenzadi far meglio e più presto il bene del paese. Nel mettere assiemeGaribaldi a Cavour sta per ora il difficile, ma più ancora l’utiledella nostra causa. Cavour col re e Garibaldi può «emanciparsi ingran parte dalla soggezione di Napoleone, e può giovarsi di questifintanto e fin dove si combinino con esso e per esso gli interessiitaliani.... Forse non sia quanto Napoleone possa e debba temereGaribaldi, il solo uomo capace di scomporgli i suoi disegni e diforzargli la mano.» E da Genova, 19 gennaio 1860.... «A nostro eparere Garibaldi, fatto maggiormente popolare ed acclamato costi inmodo significativo dagli uomini del potere, dovrebbe posciaandarsene ad ajutare la rivoluzione siciliana. Tu capisci che alloral'Italia si farebbe colle maggiori forze italiane, con minoreinfluenza francese, anzi con il pavento di questa ecoll'assicurazione dell’influenza e preponderanza monarchicaappunto per la personalità di Garibaldi. Se si tarda, si perderàcolà una «buonissima occasione ed avverranno inevitabilmente motiincomposti e senza probabilità di successo. Quest'idea di «dareajuto alla Sicilia dovrebbe tacersi da tutti a tutti, perchénessuno la vorrebbe proporre. Mi pare utile altresì «il pensare agiovarsidi Garibaldi per le Marche e l'Umbria, e riuscire cosi, coldesiderio dell’Inghilterra ed il «nostro gran bene, a finirla colpapa, del cui completo spodestamento non vuol la Francia sentirneparola.» Ma Cavour non voleva sapere di escludere l'influenza diNapoleone: Garibaldi rappresentava l'Italia fatta per forza dipopolo; e per demolirlo; egli con arte sottile si accaparrava deisuoi migliori. Fu tentato più volte di mettere dissidio tra lui eBertani. Ma quell'altero a pena capi che Cavour voleva cedere Nizzaad ogni costo, quando vide impedito da Cavour l'interpellanza diGaribaldi per la patria sua, si dedicò anima e corpo a secondare illiberatore; e lo fece fino al fine.
Errata-corrige.— Parlando di Bertani nel capitolo decimottavo, pag. 325 dissidi non trovare il suo nome tra i firmatari della protesta contro lafusione nel 1818. Di fatto non c’è nella Gazzetta di Milano néne 22 Marzo. Ora il signor Robecchi gentilmente m'avverte cheveramente Bertani ha firmato e che il suo nome è stampatonell'Italia del Popolo, giornale che non presi, bastandomi gliscritti di Mazzini da lui ripubblicati nelle opere. Ringrazio erettifico.
(84)Vedi Guerzoni, Vita di Garibaldi vol. Il, pag, 51, peril testo del manifesto, le istruzioni e la storia della spedizionedelle Grotte. Se quel prode ne avesse avuto la direzione, il fine dicerto sarebbe stato ben diverso.
(85)Il primo articolo che traviamo inserito nell’Unitàitaliana di Mazzini dopo la cessione di Nizza conchiude: «Unità,libertà, senza le quali non può esistere Patria. Lasciamo ognialtra grido al paese. E al paese repubblicani dissero e dicono: LaPatria italiana non conosce confini fuorché le sue Alpi e il suomare, né riposo prima d’averli conquistati; nessun modo diconquistarli fuorché fazione del popolo, né tattica da quellainfuori che più rapidamente può suscitarla, né inspirazionifuorché quelle che vengono ai cittadini dalla coscienza dei lorodoveri e del Diritto Nazionale. Sorgi ed opera: con chi regge, semuove innanzi alla meta; senza chi regge, se sosta; contro chiregge, se mai s’attentassse impedire. A questi patti, noicombatteremo per te, senz’altra bandiera spiegata fuorché la tua.La nostra non si spiegherà se non quando fai tre l’avrannotradito, o quando, conquistata con te l’Unità e ricalcate le viedell’esilio, noi non avremo altro debito che quello di salutare,prima di scendere nella sepoltura, l’avvenire immancabile.» Eriporta la dichiarazione lasciata da Mosto, Savi, Burlando e altricinquantasette repubblicani nelle mani di Maurizio Quadrio, primadella partenza, in Genova: «I sottoscritti,sentendo come patrioti«il dovere di partecipare alla lotta iniziata dalla Sicilia in nomed’Italia, dichiarano fin d’ora ch’essi intendono d’accorrerecome fratelli in ajuto de' fratelli, rispettando religiosamente labandiera degli insorti e combattendo sott’essa. A questa bandiera,per quanto è in loro, non cercheranno sostituire altra bandiera,non credendo averne il diritto. Fedeli al principio dellaSolidarietà Italiana, divideranno i pericoli dei combattenti; eriverenti a quello della Sovranità Nazionale, aspetteranno che laSicilia, vittoriosa come sperano, decida delle sue sortinell’interesse della Nazione.» (Unità Italiana, 1.°giugno 1860.)
FinNicomede Bianchi si convinse del patriotismo d'abnegazione deirepubblicani e di Mazzini per primo, e scrisse:
«GiuseppeMazzini, nel corso degli ultimi trentanni, avea propugnato con fedeindomabile il concetto dell’unità politica della nazione, comefine immediato d'ogni rivoluzione italiana. Dietro i suoi consigli,poco tempo dopo la pace di Villafranca, alcuni valenti di parterepubblicana si erano rivolti ad alcuni primarii di parte monarchicaper raggruppare le forze comuni, onde iniziare dalla Sicilia larivoluzione unitaria. Questi accordi rimasero sospesi, ma nonabbandonati.
Essifurono riannodati nel marzo del 1860, e nell’approvarli Mazziniscriveva:
— «Nonsi tratta più di repubblica o di monarchia; si tratta d'unitànazionale, di essere o non essere. Se l’Italia vuol esseremonarchica sotto Casa di Savoja, sia pure. Se dopo la riscossa, vuolacclamare liberatore, o non so che altro, il re o Cavour, sia pure.Ciò che ora tutti vogliamo, è che l'Italia si faccia. GiuseppeGaribaldi era pure di questo avviso; ma a prestare l’àjuto dellasua spada chiedeva che il grido dell’insurrezione fosse Italia eVittorio Emanuele. In effetto, a questo grido, nell'aprile del 1860,insorsero Palermo e Messina; ma le armi borboniche soffocarono, nonspensero, quella ribellione. Il bravo Rosalino Pilo, che si eraportato in Sicilia ad annunziare gli ajuti armati che i fuoruscitifratelli si apparecchiavano a portare ai fratelli insorti, vennefucilato dai soldati borbonici. Non meno ardimentoso, ma piùfortunato, Francesco Crispi sotto mentite vesti percorse l'isolamaterna, riconfortando gli animi a nuova risorsa. Alle animosesollecitazioni tennero dietro eroici fatti degni di eterna memoria.»(Vol. VIII.)
(86)Medici scrive a Panizzi il 7 maggio 1860:
«Ioson rimasto per appoggiare l'ardita iniziativa con una secondaspedizione, o meglio con potente diversione altrove; ma i mezzi cimancano. Bertani ha fatto miracoli di attività che molto hannoprodotto e che la prima spedizione ha completamente esauriti.» Imezzi veramente c’erano: a' 19 aprile raccoltisi Garibaldi.Medici, Bixio, Bertani in Genova, venne G. Finzi, che formava conBesana la Commissione pel milione di fucili, e offri quanto aveva:ma D'Azeglio per ordine di Cavour sequestrò tutte le stupendecarabine. «Perché — domandò Garibaldi — il governo monarchiconon ci permetteva di prendere le nostre 15,000 buone carabine chepossedevamo in Milano acquistate coi fondi del Milione di fucili?»Appena all'ultima ora potè il Migliavacca portare 60,000 lire. LaFarina diede qualche arme, ma rifiutò 1000 fucili. Medici capi avolo che per la Sicilia armi e denaro c'erano e che Cavour a luiavrebbe permesso di prenderle, sia dalla Commissione, sia altrove:le prese e fece bene. Ma non meno bene fecero quanti lavorarono peril centro. Cavour non riuscendo a scovar Mazzini in Genova, tantoera fida la custodia dei popolani, lo credè partito con Medici, egli telegrafo, non appena giunto a Cagliari, di sbarcare lui conMario e sua moglie cui egli aveva permesso di accompagnarlo sulWashington. Medici rifiutò; allora Cavour ordinò all'ammiraglioPersano di fare ricerca di Mazzini e di arrestarlo coi Mario. Ungiorno a Palermo Garibaldi ci disse ridendo: «Il conte di Cavour viha fatto l’onore di volervi consegnati dalle mie maniall'ammiraglio Persano per essere trasportati a Genova. Io per nonessergli scortese gli «ho rimandato il suo amico La Farina.»Parlando dello sfratto del suo La Farina, Cavour lo chiama unabrutalità. E la cacciata di tutti i patriotidall’Italia meridionale nel 1859? eil tentato arresto di Mazzini e Mario, che titolo ha?
(87)Avendo dato ad Aurelio Saffi per il proemio al vol. XI degli Scrittitutte le lettere di Mazzini a noi e al dottor Bertani (col suopermesso) qui cito soltanto quanto richiede la narrazione. E cosiper la spedizione delle Due Sicilie, avendo nel Garibaldie i suoi tempi,pag. 552-561 datoquanti documenti e lettere ineditepotei raccogliere, mi ristringo qui ai soli fatti nei quali Mazziniebbe parte.
(88)Achille Sacchi era partito, per desiderio di Bertani e Mazzini, aconcertare con Garibaldi il modo della spedizione nel centro.
(89)Molti puritani allora e poi rimproverarono a Mazzini il suofervore per queste annessioni; ed egli rispondeva:
«L’unità!l’unità!» e nelle lettere a Bertani spesso si firmava: Ilvostro annessionista. Tutti gli originali delle lettere diGaribaldi e di Mazzini a Bertani nel 1860 stanno presso di me:contengono, si può dire, la storia dei Mille e provano la fiduciaintiera e assoluta di Garibaldi nel suo rappresentante.
(90)Nel 1850, dopo il colpo di Stato, Lamoricière, Charras e Mazzinifirmarono assieme una protesta: ora che il primo si era venduto alpeggior dei despoti, Mazzini gioiva vedere il secondo capo delleforze della libertà.
(91)Cavour scrisse a Persano: «Il governo del re non fa chiassi, ma nonintende con ciò di lasciarsi giuocare «in tal guisa; quindi, dopola spedizione di Cosenz, già in corso, disporrà che nulla più,per parte sua, vada in «Sicilia, sino a che non sia affatto toltaal Bertani ogni sua ingerenza negli invii», e questo dietroesplicita domanda di Napoleone. E intorno alla spedizione: «Navicon volontarii, dopo formale promessa di portarsi in Sicilia,stanziano da due giorni nel sorgitore (?) degli Aranci dellaSardegna. Pensiamo intendano sbarcare negli Stati pontificii:cotesto rovinerebbe ogni cosa. Mandi senz’altro il Monzambanoin quelle acque, dove troverà il Tripoli, edia ordini positivi d'impedire lo sbarco in quelle terre aqualunque costo!»(DiarioPrivato-Politico-Militare dell'ammiraglio C.di Persano, Parte I e II). Promessa da chi? Il solo che potevapromettere era Bertani; or egli, avvertito per telegrafo cheGaribaldi stava per passare il Faro, non prese impegno qualsiasialtro che di mandare tutti i vapori al Golfo degli Aranci; e avendoseco Garibaldi sul Washington sperava che questi scenderebbepiuttosto sul lido pontificio od in Calabria, ma nessuna pressionegli fece. La mancanza dei vapori decise Garibaldi a non deviare dalsuo piano originale della discesa in Calabria, malgrado il divietodel re suggerito da Cavour e la flotta francese risoluta di impediretale sbarco e solo rattenuta dal veto assoluto dell'Inghilterra.Quando Napoleone volle impedire colla forzache Garibaldi passasse il Faro, i ministri inglesi si trovaronoconcordi nel rispondere che il governo della regina giudicava che,ovenon fosse sorto alcun fatto che fornisse qualche fondata ragione perabbandonare il principio del non intervento e la Francia volesseintervenire da sola, l’Inghilterraprotesterebbe:essa giudicava che i napoletani dovevano essere lasciati liberi diaccogliere o di respingere il generale Garibaldi. operando in sensoopposto si effettuerebbe un reale intervento nelle cose interioridel regno delle Due Sicilie e si assumerebbe la responsabilità deimali che accompagnerebbero la violenta compressione del partitoliberale. (Dispaccio Russell a Cowley citato da Nicomede Bianchi apag. 317). Cavour a Persano scriveva:» S'aggiunga il pazzo disegnodi Garibaldi d’andare a Roma, a dispetto e contro la Francia. Ciòsarebbe la completa ruina della causa italiana. È quindi necessarioche in Napoli abbia luogo un movimento nazionale prima che Garibaldivi giunga. Il tentativo è pericoloso; ma è necessario d’impedireche la rivoluzione non trabocchi in Napoli.» Ascusare Cavour, il suo apologista scrive:«Fu un contrasto radicale di metodo per fare l’Italia. Per Cavouril primario fattore dell'unita nazionale era il Piemonte, nel cuigrembo i vari Stati della penisola dovevano scomparire permoltiplicare i sudditi «piemontesi, fintantoché tutti, mutato nomee stato, alla fine divenissero cittadini italiani. Garibaldiintendeva all’opposto di conseguire lo stesso fine col dare vita aun nuovo Stato, retto bensì da Vittorio Emanuele, ma sorto sulle«rovine di tutti i principati italiani, compreso il sardo; e cheavrebbe avuta la sua costituzione definitiva soltanto dopo laliberazione di Venezia e di Roma. Cavour accettava francamentel'alleanza della parte democratica e della rivoluzione; ma nonvoleva la prevalenza, cercata con indefesso studio da Garibaldi. —Dopo le straordinarie fortune del dittatore in Sicilia, il primarioministro di Vittorio Emanuele misurò il pericolo e lo scredito checasa Savoja e la parte costituzionale potevano incorrere, se laparte democratica giungeva a rovesciare da sola il trono borbonico.»Passato il Faro, Cavournon si diè per vinto; volevache Villamarina e Persano facessero sorgere una rivoluzione inNapoli in nome di Vittorio Emanuele,che Villamarina accettasse la dittatura e che Persano s’impadronissedella flotta e dei castelli. «Ma — scrive Nicomede Bianchi — ladittatura accennata, oveanche si fosse giunti ad effettuarla, sarebbe stata un castello dicarta, che iltrapotente soffio della parola di Garibaldi avrebbe tostamentegittato in balia del vento. Gravido di più terribili pericoli eral’altro partito della reggenza del principe di Siracusa in nome diVittorio Emanuele. La rivoluzione procedeva vittoriosa,irresistibile, dietro l'impulso e il nome di Garibaldi; e senza ilsuo concorso nulla di utile e di stabile si poteva conseguirenell'Italia Meridionale.» Finalmente anche Cavour capì il vero escrisse a Villamarina: «Al termine in cui sono giunte «le cose,non bisogna più pensare a costituire un governo all’infuori diGaribaldi, col quale conviene metterci francamente d'accordo....Frattanto si dia una forte spinta ai voti per l'annessione alPiemonte, onde cavarne argomento d'intitolare gli atti del nuovogoverno in nome del re Vittorio Emanuele.» Questo fu il primo attodi Garibaldi il 7 settembre: «Tutti i bastimenti da guerra emercantili appartenenti allo stato delle Due Sicilie, arsenali emateriali di marina, sono aggregati alla squadra del re VittorioEmanuele comandata dall'ammiraglio Persano.» Bastò questo perconvincere Cavour? Che! Mandava Farini a Chambéry per indurreNapoleone a permettere la spedizione nell’Umbria e le Marche perdare battaglia alla rivoluzione sulla frontiera napolitana.»
(92)Nicotera scrisse a Garibaldi due lettere; la prima da Villa CastelPucci, Firenze, 15 agosto 1860, ove tra altre cose ricordava algenerale il loro colloquio intorno alla spedizione, e che egli avevariferito a Bertani e Mazzini le parole sue di non disapprovare mail'azione. «Queste parole sembrarono bastevoli a Bertani per metteremano all'opera, ed incaricò me di venire in Toscana per esaminarele forze di cui si sarebbe potuto disporre, e di portarmi ai confiniper prendere i debiti concerti con quei dell'interno. Eseguiiscrupolosamente la mia missione; trovai da circa 2000 volontariimpazienti di combattere, e quei dell'interno dispostissimi, nonsolo a rispondere al nostro appello, ma pure ad iniziare in qualchepunto la rivoluzione poco prima del nostro arrivo... Generale, io hoqui riuniti circa 2000 giovani, che al solo vederli scalderebberol'anima più fredda; ho assunto in faccia ad essi l'obbligo diguidarli al riscatto dei fratelli che soffrono, in faccia a questidelle solenni promesse di ajuti, ed in faccia al paese intero laresponsabilità dell’iniziativa... contrasterò palmo a palmo ilterreno a chiunque mi si parerà in mezzo al cammino.» La seconda èda Palermo, 6 settembre 1860. — «Unità Italiana— EsercitoNazionale — Comando della 5 Brigata. —Generale. I documenti che unisco alla presente contengono quanto èpiù necessario che voi conosciate, onde farvi un criterio giustodella mia condotta e della condotta del governo sardo nell'affareche riguarda la spedizione nelle provincie romane soggette al papa,che era lo scopo cui io mirava, quando mi posi a capo della colonnadi volontari, organizzata in Firenze. Io non poteva desistere dalproposito di questa spedizione, perché io aveva assunto impegnid'onore con molti patrioti di quelle oppi esse provincie, e perchémi lusingava di portare «ajuto alla vostra impresa liberatrice,appoggiando con duemila uomini risoluti un moto interiorenell'Umbria, o nelle Marche, che non poteva fallire. Del resto, voistesso, generale, prima per lettera, mi raccomandaste caldamente diagire nelle Marche e nell'Umbria, poi, per mezzo del colonnelloPianciani, mandaste dirmi che duemila «uomini per me erano fintroppi, che operassi energicamente, evitando le grosse battaglie, eche fra poco sareste venuto dalla parte di Napoli a darmi la mano.Quegli impegni, più ancora degli oltraggi recati a me e a' mieivolontari dal governo sardo, mi consigliano a deporre il comandodella quinta brigata, la quale va a raggiungere il vostro valorosoesercito. Io mi ritiro con dolore dal campo dell'azione, dovesperava di rendere qualche utile servizio alla causa della Patria. Ivolontari che io doveva guidare alle battaglie, pieni d'ardore, didisciplina e d'istruzione, saranno per voi, io lo spero, unopportuno sussidio; e i fatti dei quali io sono la vittima varranno,se ce ne fosse bisogno, a farvi edotto della lealtà con cui ilgoverno Sardo risponde alla magnanimità vostra nell’offrire alladinastia sabauda tutte le provincie italiane che la spada vostrainvincibile va togliendo alla dinastia borbonica. Per conto mio,dopo questi fatti, dichiaro a voi, generale, come ho già dichiaratoper le stampe, che non prenderò più le armi finché sul biancodella tricolore bandiera vi sia uno stemma di principe. Io mi sonoritirato dal comando della brigata, ma non dal campo dell'azione; ese farà d'uopo saprò offrire il mio braccio alla patria anchecolle istesse condizioni della spedizione di Sapri. Abbiatevi unastretta di mano dal vostro affez. G. NICOTERA.»
Inposcritto alla lettera di Nicotera troviamo anche questa: «Miogenerale — Raggiungendolo ora sarei venuto troppo tardi perprestare un servizio qualunque. Cercherò invece di venirlo adincontrare coi montanari dell'Umbria e della Sabina. Aggradisca imiei omaggi. — Di lei devotissimo ACHILLE SACCHI.» — E vennenominato dal ministro di guerra Cosenz medico primariodell'ospedale, ma il ferito di Roma preferì il campo e a tutto il1° ottobre raccolse e medicò i feriti sotto le palle.
(93)E ad Elliot ambasciatore inglese, il quale disse che provocherebbequestione colla Francia rispose «Che Francia! Roma è cittàitaliana, e Napoleone non ha il minimo diritto d'interdircene ilpossesso. Cavour, colla cessione di Nizza e di Savoia, hastrascinato la Sardegna nel fango, e l’ha buttata ai piedidell'imperatore. Io non temo la Francia, e giammai non avreiassentito ad una cosi profonda umiliazione. Magnifica epopeanazionale, ma che alla mente sagace e pratica del conte Cavourappariva intentabile, senza rovinar tutto il nascente edifizio delriscatto italiano.»
(94)Garibaldi pensò a Cattaneo per Napoli, a Saffi per la Sicilia:ambldue rifiutarono.
(95)Nella Rivista Europea, anno 1884, vol. XXIX, comparve per laprima volta la lettera del principe Napoleone (13 aprile 1861)proponendo a Cavour la convenzione tale e quale. Il signor LuigiChiala nel quarto volume delle Lettere edite e inedite di CamilloCavour a pag. 214, doc. XCLXXIII, pubblica la risposta del contein data del 17 aprile 1861. Il grande ministro confessando che daprima si è spaventato delle difficoltà e dei pericoli del progettoche l’imperatore sarebbe disposto di adottare (e notasi che ilcugino sottolineava le parole: Voi non otterrete nulla piùdall’imperatore continua: Gli obblighi che dovremo assumere dauna parte e dall'altra, lo stato di Roma allorché le truppefrancesi si saranno ritirate, ci creeranno enormi imbarazzi colparlamento, col paese, co' Romani e specialmente poi conGaribaldi. Nondimeno, giacché non vi sono altro che due modi daseguire, bisogna scegliere il meno pericoloso.... Ilfondamento della nostra politica essendo l’alleanza francese visono perciò pochi sacrifici ai quali io non sia disposto affinchénon sia messa in pericolo. Il Re, al quale ho immediatamentepartecipato la lettera di V. A., è stato del mio avviso.» Dice cheMinghetti e Ricasoli dopo qualche esitanza e non senza unaripugnanza molto visibile si sono finalmente impegnati a secondarmi:«Non ho dunque nessuna osservazione essenziale da fare allecondizioni espresse da V. A., cosicché rimane inteso: 1.° Che iltrattato sarebbe conchiuso direttamente tra la Francia e l’Italiasenza l'intervento della Corte romana; 2.° Che la Francia, dopoaver messo il Papa al sicuro d'ogni attacco straniero, faràevacuare Roma da' suoi soldati in un certo tempo determinato, ilquale sarebbe ben fatto di restringere quanto più fosse possibilecioè a quindici giorni, o ad un mese al più; 3.° Che l’Italias’impegnerebbe a non assalire, e ad impedire anche con la forzaogni attacco che venisse fatto da fuori all'attuale territorio delPapa; 4.° Che l’Italia si asterrebbe da ogni qualunque lagnanzacontro l'ordinamento d’un esercito papale sia pure composto distranieri cattolici, sempreché cotesto esercito non oltrepassi lacifra di diecimila soldati; 5.° L'Italia si dichiara pronta aentrare in negoziati col governo del Papa, per caricarsi dellaporzione che gli spetta proporzionalmente dei debiti degli antichiStati della Chiesa!» Cavour conviene che il più assoluto segreto èuna condizione indispensabile al buon successo e desidera che laconclusione potesse effettuarsi senza molto ritardo. — Solacondizione nuova imposta da Napoleone ai successori di Cavour era iltrasloco della capitale da Torino a Firenze.
(96)Vol.XIII, pag. LXXVI.
(97)Aurelio Saffi scrive: «Quale la natura e il grado delleintelligenze tra il Rattazzi e Garibaldi, e in che termini ne fossepartecipe il re, è mistero vietato forse per sempre alla luce dellastoria; dacché le carte private d'entrambi,nelle quali si vuole che n’esistessero i segni, comparvero, come èfama; e la testimonianza orale dei consapevoli del segreto non bastaad autenticare la realtà.» (Proemio, vol. XIII, pag. 6). —Speriamo invece che questi documenti non sieno distrutti, macustoditi, come di dovere, per una posterità imparziale e nonappassionata.
(98)Ho anche presente tutta la serie delle lettere di Mazzini a EgistoBezzi, quell'audace trentino il quale godeva l'uguale fiducia diGaribaldi e di Mazzini, fiducia ben meritata tanto per il suo francoe leale agire quanto per la sua prodezza sul campo, ove semprericevè qualche decorazione dalle palle nemiche. Guida di Garibaldinel 1859, uno dei Mille, uno dei primi a sbarcare in Calabria nel1860, guadagnò i suoi gradi passo passo. Nel 1862 Bertani lo mandòin Roma col Tranquillini sperando in una insurrezione interna. DaAspromonte alla guerra del 1866 cospirò sempre con Mazzini, col suoindivisibile Manci, con Zancani, Tranquillini, anche Trentini; fuferito a Bezzecca nel 1866, e ancora a Mentana, trasportato a Romaprigioniero: rifiutò la medaglia e la croce di cavaliere di Savojacolle ìispettive pensioni, vive e lavora in Milano coll’orecchioteso per la nuova chiamata alla liberazione della patria sua!
(99)Mazzini, Alberto ed io eravamo ospitati dalla Maria Gnorri, donnasanta, repubblicana, intemerata: le stanze nella piccola casaaprivano l’una nell'altra.
(100)L’opuscolo fu stampato a Lugano, tipografia Fioratti nel 1859, nél’edizione di Napoli né il volume XI degli Scritticontiene la fulminea postilla dettata dopo la proibizione aGaribaldi di passare la Cattolica, che conchiuse: «E se la gioventùd’Italia si rassegna a programma siffatto, la causa nazionale èperduta e perduta nel disonore... innalzi un monumento, non aicaduti in battaglia, non al re liberatore o al generoso alleato, maa Lamartine. «Eglisolo ha inteso l’Italia. La nostra èTerra dei Morti.» (20 novembre 1859.)
(101)Mario in nome delle associazioni disperse, disse indispensabile unatto politico, se pur non si volesse perire di inanizione e con pocoonore. Scrisse una pagina di protesta e dimissione, unadichiarazione di principii conformi atlantica fede politica, non fuaccettato. Altri proposero un indirizzo al re contro i ministri, edegli: «Io né scriverei né firmerei un indirizzo al Galantuomomacchiato del sangue di Garibaldi... Or ecco la serie: Associazioni,libertà, suffragio universale, nazione armata, unità. È assurdodi promettersi dal sistema inaugurato Roma e Venezia.» ObbiettòMazzini: per avere la libertà bisogna conquistare la Venezia,completare la unità materiale. Ecco l'unico dissenso tra loro. Laquestione della federazione come forma politica una voltaconquistata l'unità per mezzo della libertà sorse dopo.
(102)Questo fu l’ingegnere Diamilla Müller, il quale nella PoliticaSegreta Italiana 186370 ne dà la storia documentata. Nessuno deidocumenti fu contestato né smentita la storia in alcuna parte. Ioin Londra nel 1861 interrogai Mazzini e ne ebbi la narrazioneidentica a quella di Müller e da lui confermata nello scritto:Mazzini e Vittorio Emanuele,vol. XIV, pag. 153.
(103)Guerzoni era allora segretario privato di Garibaldi e per gli affariin Inghilterra, e più tardiper Ischia, è il più attendibile dei narratori e testimoni.
(104)Quanto l’ideache un italiano, fosse pure un re o un ministro, potesse andareincontro alla taccia di slealtà crucciasse Mazzini,trasparisce datutte le sue lettere private: citiamo un brano di una, del 6 ottobre'61, a Daniel Stern: «Rassicuratevi. Io ed i miei siamoperfettamente estranei ai moti di Torino. Essi furono assolutamentespontanei, e a dire il vero non me li aspettava. É inutile dire cheio biasimo la convenzione, che ho protestato contro, e che sisequestrarono i giornali contenenti la protesta. Per me laconvenzione è eminentemente immorale; essa «mette il governoitaliano nella necessità o di decapitare l’Italiao di essere sleale scientemente, di proposito deliberato. Essadecreta Aspromonte in permanenza; ajuta il papa a costituirai uncredito ed un esercito di banditi pronti a sgozzare i romaniquand’essi insorgano. Essa abolisce la protesta italiana control'invasore straniero. Essa patteggia un silenzio di due anni. Essafonda il diritto — non quello della forza brutale, ma quello delleconvenzioni scritte — per lo straniero di dirci: Se chiamati dairomani voi entrate, voi tradite i vostri impegni ed io ci rientro eci resto. Essa rimanda — parlo sempre del governo — la questioneromana all'infinito, dichiarando che Roma non potrò aversi se noncoll'influenza morale, cioè, suppongo colla conversione del papa. —E finalmente essa dà una smentita ai plebisciti, alle dichiarazionidel parlamento, a quelle di tutti i gabinetti da quello di Cavour inpoi. — Quanto a noi essa lacerando i plebisciti ci rende la nostralibertà d’azione; e noi studi e ramo d’usarne. Una volta pertutte — ritenetelo, ve ne prego — la questione morale è tuttoper me. Mi importa assai poco che l'Italia, territorio di tanteleghe quadrate, mangi le sue biade o i suoi cavoli un po' a migliormercato — e notate che oggi avviene il contrario —; m'importache l'Italia sia grande, buona, morale, virtuosa — m'importach'ella compia una missione nel mondo. Oggi invece i nostridottrinariiin32(m)(o)inoculano al fanciullo appena nato il concetto dell'opportunismo,della tattica, della menzogna, della fiacchezza, dell'ipocrisia, chesono state inoculate alla Francia dalle due Ristorazioni. Questo èil principale mio addebitoalla monarchia, questa la ragione del mio disprezzo per questipretesi adepti del Machiavelli, che fanno dell’anatomiaintorno una culla, mentre egli, il Machiavelli facevalasanguinando e piangendo sopra una tomba.»
(105)Tutta questa storia che mi sfa davanti coi documenti, le lettere diMazzini e Garibaldi e di tanti patrioti, morti e ancora sotto ilgiogo, è una splendidissima pagina di storia italiana. Saffi ne hadato molti estratti nel proemio al vol. XIV: perché Ergi sto Bezzi,che ne è l'autore, non la pubblica per intera! forse per modestiaessendo stato egli l'anima per quattr'anni della cospirazione e ilbraccio più robusto? che altri dunque lo facciano in vece sua: èun debito sacro non lasciare più a lungo quella storia ignota.L'indice del futuro libro è questo:
ErgistoBezzi all'indomani d‘Aspromonte con Filippo Manci, FilippoTranquillino, Camillo Zancani, Giuseppe Fontana, trentini tutti deimille con altri ancora pur troppo sotto il duro giogo, incarnando ildisegno di Mazzini, si assunsero il lavoro per il Tiralo italiano.Bezzi sguizzando da Milano a Peschiera, a Roveredo, fino a Trentoistituì un comitato centrale con figliali in tutte le città; poiritornato per miracolo trovò arditi cospiratori veneti in Bilia,Cella, Mattei (morti), Cesare e Vittorio Parenzo, Cavalli, Babaran,Donato, Tivaroni, Bonaldi e altri, centro Traviso, ove Mattei,penetrando nominò un comitato e corrispondenze in tutto il Cadore ei sette comuni. Nel Friuli il patriottico medico Andreuzzi fecealtrettanto. Ovunque andavano intesi cogli Ungheresi dellaguarnigione imperiale. Esausti i mezzi che Mazzini solo provvedeva,Garibaldi nominò, d'accordo con Mazzini, un comitato di Bezzi eManci (al quale rimase il lavora d'organizzazione all'interno e lecorrispondenze dei comitati veneti e trentini), Corte, Guastalla,Guerzoni, Missori, Lemmi cassiera, s'intende, vittima come sempredelle strettezze del partito. E in tutte le città della Lombardia enell'Emilia rinacque l’entusiasmo. A Desenzano lo Zeneroni, aBrescia Frigerio Antonio, a Castiglione delle Stiviere Chiassi eranoinstancabili. Garibaldi istituiva un nuovo comitato d'azione,presidente Benedetto Cairoli. E il danaro con discreta scarsitàraccolto dalle signore, fu convertito in armi e bombe, carabine emunizioni; fu dal centro in Milano nello studio di Carlo Antonginimandato alla spicciolata alla frontiera. Il governo. italiano feceman bassa, sequestrò quanto potè, processò Antongini, questiassolto dalla giuria, non potè riavere le armi Nel settembre moltiemigrati frontini erano entrati al momento stabilito; quando ilgoverno austriaco, messo sulla traccia, arrestò quanti non poteronofuggire; tradotti ad Innspruck furono condannati chi a tre, chi acinque, chi a dieci anni di carcere. Nel Veneto fu ordinato di starecauti e zitti. Ma nel Friuli vollero agire, capitanati dall'audacegiovane Tolazzi e dall'audacissimo vecchio Andreuzzi. E insorserorisoluti, e le bande attaccarono. «Aiutiamo gli insorti» fu ilgrido di tutti; e Cella si spinse ad Udine e ordinò nuove bande. Ilministro Lanza, allora all'interno, avvertì Cairoli che il governoreprimerebbe qualunque moto anche colla forza. Ma intanto i veneticombattevano e ovunque vinsero, qui pattuglie, là gendarmi. EBezzi, ordinando in casa di Antonio Frigerio di Broscia una bandadi' centocinquanta, partì in tutta segretezza alla spicciolata,riunendosi a Pieve Lumezzano, ove erano depositati i fucili. Giuntisul giogo del Monino in mezzo alla neve furono raggiunti da uncapitano del carabinieri co' suoi soldati a bajonetta in canna.Intimata la resa a patto di essere a Brescia lasciati liberi diritornare alle loro case, furono invece condotti a Palazzolo, poinella fortezza di Alessandria; ove Villa e Mancini si offersero adifenderli, questi scrivendo l'Italia a voi debbe plauso ed onoranzainvece di prigione e pena.» Il Lanza pensò bene di aprire lecarceri e liberarli senza processo. L'infame traditore della piccolaspedizione fu il Wolff, spia di Napoleone, che disgraziatamente eratra essi. Erano anni che alcuni degli amici di Mazzini protestavanocontro il suo fidarsi in quest'uomo. A Lugano nel 1859 fuispecialmente turbata dalla scoperta di un suo nascondiglio e quellodi Alberto, e trovo tra le sue lettere di quell'anno rimproveri dalui per i sospetti intorno al lupo e per il mio rifiuto di riceverelettere sue dalla mano di «quel povero e buon diavolaccio!» Peròin sì grave faccenda ho voluto sentire anche Pietro Belliniindefesso cospiratore di quei tempi; e mi risponde, col permesso distampare. «Vengo ora al Wolff. Io lo conobbi a Torino quando eglientrò come aiutante maggiore nella, Legione Anglo-Italianaformatasi a Tonno che parti per la Crimea. Trovai un anno e mezzodopo Wolff a Londra. Cercava ricavare da me notizie da mandare aParigi. Da me nulla mai seppe. Una Commissione di francesi venne ungiorno da me a Londra verso il 58. Mi dissero sospettavano di Wolff,e mi pregavano di chiedere a Mazzini quello che egli ne pensava ecome lo conosceva. Pippo sfogliò le sue memorie raccolte in unpiccolo portafogli che mi par di vedere ancora e che rimontavano Anoa Roma 49. Mi disse Che nulla sapeva, che il Wolff era stato sempreun bravo soldato, che gli sembrava strano che fosse una spia, chedel resto poteva essere benissimo, come egli asseriva, che uno ziogli passasse 500 lira al mese. Questo io inferii alla Commissione.Dopo il 61 il Wolff venne a Milano, s'insinuò amico agli amici diMazzini ovunque e cercò sempre di sorprendere segreti.»
(106)Le due Guerre, vol. XIV, pag. 191-201.
(107)Giorgio Imbriani cosi scrive il 7 agosto ad un amico: «La nostranon è ritirata, ma fuga, e Alga vergognosissima; le nostra poveregambe non sono nemmeno sorrette da quel dignitoso orgoglio, datoreinfinito di forze. — Il Trentino è sgombrato dai volontari, chelo hanno conquistato palmo a palmo col valoree col sangue; e noi cheabbiamo lasciato sul campo i nostri fratelli, col cuore raso darabbia, dobbiamo abbandonare alla ferocia croata la terra italianache liberammo. — Sciagurato chi ebbe per un momento fede nelleistituzioni monarchiche. — Sciagura a me stesso. — Ho sete dibattaglie e di sangue. — Non veggo salvezza che nella rivoluzione,e forse avremo quest'ancora dalla disperazione nazionale. —Fortunato abbastanza se morrò per Vitalia! Salutami Napoli. Tuonella fede. GIORGIO IMBRIANI.» — E il 12 agosto: «Tutte questedelusioni hanno rapito all’animo mio la speranza; ed ora la miamente ha compreso che posizioni sì difficili creano il fataledilemma della vergogna o della morte; la mia scelta non può esseredubbia; io morrò da repubblicano...» E per la repubblica morì.
(108)Vedi la bellissima biografia di Saverio Friscia per FrancescoGuardione.
(109)L’azione malefica di questo Comitato fu provata in Parlamento dopola catastrofe di Mentana. Nicotera disse: «Ministro il baroneRicasoli, il Comitato nazionale spingeva ad un movimento nelleprovincie, lasciando da parte Roma e Civitavecchia. Nell’aprile1867 alcuni individui, non del partito garibaldino né mazziniano,si presentarono e dissero al generale Garibaldi: Tutto è pronto,non manca che la scintilla! Questi furono membri del Comitatonazionale, che riceveva le sue inspirazioni da Firenze e i fondi dalministero dell’interno...» — Gualterio, ministro per l’interno:«Da quale?» — Crispi: «Da tutti.» — Nicotera: «Rattazzi liha tolti, il ministro dell’interno attuale li ha ridonati.» Edifatto, Rattazzi appena venuto al potere, cancellò le seimila lireal mese, sempre pagategli dai fondi segreti. E il deputato Montecchi(sempre nella tornata) disse del cosi detto Comitato nazionale chedipendeva prima da Torino, poi da Firenze, e che nessun movimentopotè riuscire in Roma perché, quantunque questa gente cheparlavano di avere le truppe indigene a loro disposizione, epotessero essere facilmente creduti perché erano sette anni circadacché divoravano i tesori, né materiale da guerre esisteva, né ipreparativi c’erano.»
(110)Non bisogna dimenticare che fu sotto il ministero Ricasoli che vennefirmata la Convenzione finanziaria ancora più umiliante perl’Italia che la Convenzione politica. L’Italia assumeva ildebito dello Stato Pontificio senza che il governo domandasse lalibertà dei cittadini italiani come Petroni di Bologna e di tantialtri. Con due miliardi di passività, conquattro milioni di deficit per quel solo anno, l'Italia regalava alpapa, che la insultava e la scomunicava, i suoi milioni perassoldare mercenarii e briganti per scannare gli italiani. QuestaConvenzione fu firmata da Minghetti, da Visconti Venosta ed altridue ministri firmatari della Convenzione di settembre; quando fupresentata alla Camera, il 24 aprile 1867, il De Boni disse:«Non possiamo votare questo progetto senzavotare la nostra morte.» Il Ferrari: «Mancano i contraenti,noi ci siamo disdetti in tutto, il nostro governo si è alleatocolla reazione.» Crispi rilevò l'inconcepibile vergogna dicendo:«Noi siamo di nuovo insultati, né la firma reale, né l'onore, néla parola d'Italia bastava alla Francia, l'imperatore vi hacostretto di depositare venti milioni nella cassa di depositi aParigi.» Ma la Camera sanzionava l'affronto votando l’articolounico: «Il governo del re è autorizzato di dare intera esecuzionealla Convenzione finanziaria firmata tra l'Italia e la Francia neldicembre 1866.»
(111)Pur di andare a Roma Garibaldi non poneva questione di monarchia odi repubblica, tanto meno imponeva la prima. L’ultima lettera cheMazzini ebbe da lui nel luglio «era un rifiuto di prenderel'iniziativa repubblicana, ma coll'aggiunta che inizii io ed egliseguirebbe.» Appena ricondotto a Caprera, scrive: «Caro Crispi.Dopo ben maturo esame della situazione, io vedo un solo modo dirimediarla a soddisfazione della nazione e del governo. InvadereRoma coll'esercito italiano e subito. Non creda il governo dicontentare l'Italia in altro modo. Essa perdonerà le sue miserie,ma non la sua degradazione. Ed oggi non solo la nazione italiana sisente oltraggiata, ma si sente oltraggiato l'esercito; e se inAlessandria, quando ero acclamato dall'intiera guarnigione, ioavessi detto una parola che suonasse lavacro delle vergogneitaliane, uffiziali e soldati mi avrebbero seguito ovunque. Percotali considerazioni il governo si persuada che con pochi giornid'energia, esso tutto accomoda, si concilia la nazione intiera edove vi fosse minaccia estera di volerlo inceppare noi solleveremofino alle donne, ai bambini, e certo il mondo vedrà risoluzione dipopolo, come forse non ha veduto ancora. Rispondetemi subito. VostroG. GARIBALDI. — 27 settembre 1867.» — (Garibaldi, di G.Guerzoni, vol. II, pag. 496.)
(112)Rattazzi dichiarò formalmente che il governo francese instava, il19, perché si facesse, a nome del re, un proclama che disapprovassequesto movimento, e si esprimesse la ferma intenzione del governo direprimerlo. «Io non volli prestarmi a questi atti, perché noncredeva che la Francia avesse diritto di imporceli: volendo noiintervenire, l’intervento nostro aveva per iscopo di prenderepossesso di Roma per impedire che fossero messi a pericolo tutti gliinteressi del romani, tutti gli interessi religiosi, salvo poi airomani di decidere le sorti di Roma. Abbandonai il governo perchénon potei fare prevalere quella sola politica che credevarispondente agli interessi e alla dignità della patria.» — Einveendo contro la destra: «Io si, o signori, avrei ragione di diròa voi che ci avversaste in questa politica, a voi che ne seguisteun'altra, io si avrei ragione di dirvi che, se fosse stato dato allanostra amministrazione di liberamente compiere ciò che ci eravamoprefisso, a quest'oro la questione romana avrebbe fatto un passograndissimo, l'intervento francese si sarebbe evitato, ed aquest'ora i romani avrebbero già deliberato di voler far parte delregno d’Italia.» La gravità di queste parolesta nel fatto che, chiusa la Camera dall’agosto al dicembre,opposizione legale della destra non era possibile; e Sirtori, quandoRattazzi ribatte «Ripeto ancora che voi non volete che questopensiero si effettui,» Sirtori gridò con impeto: «Ella scuopre ilre!» E di fatto, chi altro era scuopribile? Ed è certo che vi fuun momento che Napoleone esitò: onde Pio IX, scherzando,, dicevade' Piemontesi: «Fostegrandi imbecilli vi aveva lasciato otto giorni»come ricorda il Cantù nella Cronistoria.Di fatti dal 17 al 25 ottobre, l'ordine di partenza da Tolone fusospeso.
(113)Garibaldi di Guerzoni, vol. II, pag. 490.
(114)Vedere molti altri documenti da me dati ad A Saffi per il proemio alvol. XV degli Scritti di G. Mazzini.
(115)IlGuerzoni si era spiegato chiaramente nel suo rapporto bellissimointorno alle cause della catastrofe non solamente nell’Antologia,febbraio-marzo 1868, ma, nella Vita di Garibaldi, scrive:
«Iopure fui a visitarlo il 5 novembre 1880 in Milano, e mi disse:Sapete voi chi ci portò via la gente a Monterotondo la vigilia diMentana! «Furono i mazziniani...» Io l'avevo sentito dire piùvolte questa cosa, e non l’aveva mai creduta, ANZI SAPEVO CHE NONERA VERA.... ma non era quello il luogo e il momento di discutere elo lasciai nel suo errore.»
Peccato!La testimonianza di quel valoroso avrebbe controbilanciato leasserzioni, di cento calunniatori.
(116)Vedi la proposta di Cavallotti alla Camera dopo la morte diGaribaldi.
(117)Mazzini inoltre il vivo affetto ebbe per Bertani la stima meritatada quel sommo. «Uomo di fede nostra — egli scrive — èl’individuo che fu l'anima della rivoluzione del ’60: chemalfermo in salute spiegò un’attività erculea a prodell’impresa: che nuovo per vocazione diversa e abitudini allefaccende amministrati ve trovò in sé per miracolo d’amore alpaese, facoltà che io desidero invano ai nostri ministeri di guerrae finanza. E fu ed è tuttavia turpemente calunniato da chi piùdovrebbe e non saprà mai imitarlo. Parlo d’Agostino Bertani.»
(118)«Quando, poco più di due mesi or sono, Cattaneo venne meco alletto di Mazzini allora aggravato, egli era già sofferente; ed ioche, commosso da quella scena di affetto e da quel colloquio, sicchémi parve un episodio' «della nostra storia, da piedi del lettocontemplavo mestamente quei due uomini si cari all’Italia, tremavaper la vita d’entrambi, e scacciava il pensiero che la prepotenzadella professione voleva impormi librando quale delle due naturefosse più infiaccata e prossima alla fine; e ripensava alla miseriadei superstiti, e raddoppiava allora di preghiere e di sforzi apersuadere entrambi di essere più accurati e gelosi nel conservarela vita. Quella sera, che Vi descriverò rivedendovi, fu una seramestamente solenne per me, ma non credeva allora che i patimenti di‘Cattaneo dovessero si presto distruggerne la vita.»
(119)Debbo questa lettera a Enrico Guastalla, e la pubblico qui, benchéfuori dell'ordine cronologico, perché risposta inappellabile aquanti hanno detto o dicono esser mancato in Mazzini quel coraggioereditario a ogni nato di madre italica, purché non calunniatore.
(120)Prova dello spirito d'allora, riferiamo, fra i tanti, questoproclama: «Fratelli delle città e delle campagne. Unaguerra infame fra due monarchie coprirà in breve la terra di unaimmane ecatombe di popolo. Napoleone III, il calpestatore del nostrosuolo, il più feroce nemico della libertà, lui che è già coipiedi nel sepolcro, alza un’ultima volta il braccio parricida, echiede sangue, e l'Italia, l’Italia dei Sabaudi, ha patteggiatol'alleanza col delitto. Oh! è tempo alla fine che il popolo siscuota e faccia sentire la sua voce terribile e vendicatrice. Ètempo che si getti il guanto a questa gente senza cuore e senzapatria che ci governa, a questo re che ci avvilisce carpone dietrolo strascico del manto imperiale. Il governochiederà uomini milioni per ribadirci in fronte colla alleanzafrancese il marchio della prostituzione politica. Ebbene, ilpopol.. m dia nò uomini né un centesimo. Cittadini, noi viscongiuriamo per quanto avete di più sacro, se vi è cara la patriae l'onore italiano, a non mandare i vostri figli alla ingloriosacarneficina. Rimangano essi ai loro focolari e si conservino alladifesa della libertà, di cui in un giorno assai vicino il grandepartito repubblicano alzerà la santa bandiera. Il popolo dellecampagne rifiuti concordi i contingenti e non ceda a minaccie di unpotere da tutti gli onesti esecrato, che idebiticontratti per coprire di vergogne il paese pretende pagarecoll'imposta sulla fame, e questa spegnere nel sangue deimigliori patrioti. Non verrà meno questa volta, noi ne facciamosolenne promessa, l'appoggio delle città, dalle quali non tarderàmolto a sorgere potente il grido della riscossa.»
(121)Debbo a molti patrioti le notizie che qui riassumo, e specialmenteal prof. Raffaele Villari.
(122)Vedi lettere firmate Orti, a pag. 124 del Proemio al vol. XV degliScritti di G. Mazzini.
(123)Egli, il 23 giugno da Genova, avea scritto a Domenico Narratone, perla commemorazione di Vochieri, prode soldato d'ogni patria battagliae repubblicano puro: «Oggi, ogni commemorazione che non è unapromessa ò una. profanazione. Se il concetto dei nostri grandi perintelletto e per opere non si trasfonde da essi nelle anime nostrenon siamo degni d’onorarli. Convenuti nel nome d'un martire perun'idea dovete raccogliere dalla sua tomba l'anatema contro quei chetentano soffocare le idee nel sangue e versarlo sulla testa di chioggi lo osasse tra voi— dalla vostra adunanza deve uscire unaunanime solenne protesta contro l’esecuzione della condannapronunziata contro il giovane Barsanti.» E in tutta l ’ Italia cifu un grido di doloree di protesta, per Barsanti che, se colpevole, (e non lo Ai), la suasola colpa era di avere voluto dare all'Italia Roma. Pietàimplorarono 40 mila donne italiane per bocca dell'Anna Pallavicino,la quale indarno cercò di essere ammessa al cospetto di sua maestà.Non per toccare ragioni giuridiche o politiche — essa scrive —no: io, moglie di Giorgio Pallavicino, mi proponeva di rammentare alre d'Italia che mio marito parimente condannato a morte per delittopolitico, se non fosse stato graziato da un imperatore austriacosovrano assoluto straniero e nemico, non avrebbe potuto più tardirendere alla patria e alla casa di Savoja quei servigi che ha resi.»Ma le fu rifiutata nonostante chiedesse direttamente l'audienzareale, siccome moglie d’un cavaliere dell'Annunciata. Si volle unavittima degna di stare accanto a Vochieri ed Effisio Tola, accanto aMonti e Tognetti, impiccati dal dolce vicario di Gesù Cristo. E ildiciottenne Barsanti fu fucilato.
(124)Egli fu commosso e rallegrato dalle bellissime lettere che GiorgioImbriani dettava dalla Francia alla Unità Italiana, delle quali ibrani seguenti servono a dimostrare di che santi principii fupenetrato quel giovane purissimo, il quale suggellò la fede collamorte agli estremi avamposti dell’esercito garibaldino. Giorgiocadde per il primo, nella prima delle tre gloriose giornate diDigione. L’ultimo a cadere nell’ultim’ora dell’ultimagiornata fu il suo amico adorato e intemerato repubblicano AdamoFerraris.
«Repubblicaniconvinti del pari che amanti appassionati d'Italia, noi abbiamocreduto di fare opera italiana non meno che repubblicana, nel venirqui a combattere per la repubblica francese; noi abbiamo creduto chequi fosse oggi il terreno propizio per lavorare alla redenzionedella nostra patria; noi abbiamo creduto di venir qui a preparare edaffrettare ¡’avvenire repubblicano d’Italia.... È d’uopouscire da certe frasi scientificamente equivoche per usare unaparola praticamente chiara: è d’uopo tacere di civiltà latina edi barbarie teutonica, per dire a fronte alta ed a viso aperto: Noicombattiamo oggi per la repubblica francese affine di combattere piùefficacemente domani per la repubblica italiana; noi ci affermiamoin (Uccia al mondo come partito repubblicano italiano. Solo cosi lanostra manifestazione e la nostra Opera avranno un valore moralecollettivo, ed usciranno dallo sterile per quanto glorioso campodelle abnegazioni individuali.»
(125)Il primo libro di Herbert Spencer, The properSphere of Govemment, data dal 1842. — La Sociologia fupubblicata nel 1876.
(126)Nel processo dei mantovani a Venezia, l'atto d'accusa portava tra iprincipali capi di reato la diffusione del noto opuscolo di GiuseppeMazzini, intitolato Idoveridell'uomo. E ivisi legge i principii dai quali egli (il Sartori) era condotto: equesti si rilevano e dai suoi scritti, e dal fatto delladistribuzione agli associati dei tanti esemplari dell'opuscolo «eper il gerente del giornale La libera parola..... portato adesercitare uffici di presidenza provvede alla distribuzione deglistatuti e dell'opuscolo: 2 doveri dell'uomo cosi per altri quattrocapi sezione.»
(127)È bene dire una volta per sempre che Mazzini non applica la parolamaterialismoa una scuola o ad una dottrina, tanto meno ad una scienza, ma allanegazione e allo scetticismo eretto in dogma. Ad ogni passo si trovaquesta espressione: per esempio «In giovani di mente angusta esuperficialmente educata, ma bollenti di cuore, irati esageratamentea un passatofatto cadavere e che pur vorrebbe dominare il presente, accarezzatinella vanità di ogni audacia d'emancipazione, e solleciti, perimpotenza di scoprire in ciò che fu la legge dell'avvenire, aconfondere la negazione auna esaurita formadi fede e quella dell'eterna ingenita fede dell’anime, ilmaterialismo assume sovente aspetto di ribellione generosa es’accompagna con virtù di sacrificio e culto sincero di libertà;ma spegne diffondendosi ai popoli,lentamente, infallibilmente, ognifiamma d'alti pensieri, ogni scintilla di libera vita, rovinandoliprima nel culto esclusivo del benessere materiale, poi prostrandolialla violenza che riesce, alla prepotenza del fatto compiuto;spense, tre secoli addietro, ogni favilla di vera vita italiana franoi, come aveva diciassette secoli prima spenta ogni virtù divolontà repubblicana in Roma; e spegnerebbe, se riescisse aimpiantarsi nel core delle moltitudini, ogni germe di futuragrandezza nell'Italia nascente. Moralmente, il materialismo èdiseredato d'ogni criterio, d'ogni diritto, d'ogni principio dieducazione collettiva. Fia una legge intelligente che assegni unfine alla vita e la forza cieca irrazionale fatale dei fatti ofenomeni passeggerì non c' è via di mezzo; e i materialisti,ignorando la prima, devono necessariamente adorar la seconda eprostrarsi presto o tardi al dispotismo — poco monta se dibajonette bonapartiste o di ghigliottina repubblicana — che è ilmetodo della Forza.» DalConcilio a Dio,pag. 7.
(128)Abbiamo citato questi brani dal libro De Monarchia, perché sempreegli vi ritornava. Citiamo ancora le seguenti parole dettate aglioperai perché chiaramente esprimono le sue idee religiose: «Milletrecento anni a un dipresso dopo le parole di Gesù, un uomo,Italiano,il più grande fra gl'italiani ch'io mi conosca, scrivevale verità seguenti: Dio è uno; l'Universo è un pensiero di Dio;l'Universo è dunque uno esso pure. Tutte le cose vengono da Dio.Tutte partecipano, più o meno, della natura divina, a seconda delfine pel quale sono create. L’uomo è nobilissimo fra tutte lecose: Dio ha versato in lui più della sua natura che nonsull'altre. Ogni cosa che viene da Dio tende al perfezionamento delquale è capace. La capacità di perfezionamento nell'uomo èindefinita. L’Umanità è Una. Dio non ha fatto cosa inutile; epoiché esiste una Umanità, deve esistere uno scopo unico per luttigli uomini, un lavoro da compirai per opera d'essi tutti. Il genereumano dovrebbe dunque lavorare unito sì che tutte le forzeintellettuali diffuse in esso ottengano il più alto sviluppopossibile nella storia del pensiero e dell'azione. Esiste dunque unaReligione universale della natura umana. L'uomo che scriveva quelleidee aveva nome DANTE. Ogni città d'Italia, quando l'Italia saràlibera ed una, dovrebbe inalzargli una statua, però che quelle ideecontengono in germe la Religione dell'Avvenire. Egli le scriveva inlibri latini e italiani che s'intitolavano. Della Monarchia eConvito, difficili a intendersi ed oggi negletti anche dagli uominiche si dicono letterati. Ma le idee, cacciate una volta che sianonel mondo dell'intelletto, non muojono più. Altri le raccoglieanche dimenticandone la sorgente. Gli uomini ammirano la quercia:chi pensa al germe dal quale esciva? Il germe che Dante cacciavafruttò. Raccolto e fecondato di tempo in tempo da qualche potenteintelletto, si svolse in pianta sul finire del secolo passato.L'idea del Progresso siccome Legge della Vita, accettata,sviluppata, verificata dalla storia, confermata dalla scienza,diventò bandiera dell’avvenire. Oggi non v'è ingegno severo chenon la ponga a cardine de' suoi lavori. Oggi sappiamo che la leggedella Vita è PROGRESSO; progresso per l’individuo, progresso perl'Umanità. L'Umanità compie quella Legge sulla terra; l’individuosulla terra ed altrove. Un solo Dio, una sola Legge. Quella Legges’adempie lentamente, inevitabilmente, nell’umanità fin dalprimo suo nascere. La verità non s'è mai manifestata tutta o ad untratto. Una rivelazione continua manifesta, d’epoca in epoca, unframmento della Verità, una parola della Legge. Ognuna di quelleparole modifica profondamente, sulla via del Meglio, la vita umana ecostituisce una credenza una fede. Lo sviluppo dell’idea religiosaè dunque indefinitamente progressivo; e quasi colonne d'un tempio,le credenze successive, svolgendo e purificando più semprequell’idea, costituiranno un giorno il Panteon dell’umanità, lagrande unica Religione della nostra Terra.
(129)Forse non c’è uomo che abbia letto più libri antichi e moderniche Mazzini. Egli letteralmente divorava i libri, e aveva unapotente facoltà critica di afferrare il concetto di ogni autore, dianalizzarlo, e additandolo per vero o falso dimostrare se loconseguenze tiratene furono legittimamente dedotte dalle premesse.La sua critica dei libri di Carlylerimane sempre la più completa fatta di quel colosso; cosi deiromanzi di George Sand: cosi l’ultimo lavoro suo su Renan. Eparlando e scrivendo lettere famigliari il tema era spesso l'ultimolibro letto durante la notte; p. es., scrive a madame D’Angoult:«Leggo in questo momento la Storia della rivoluzione del 1848. È,per un’imparzialità rara, per l'apprezzazione degli uomini, perla giustizia del colpo d'occhio generale e per il puro amore delpopolo che ivi respira, il miglior lavoro che io abbia visto intornoa quell'argomento oggi difficile. Solamente io non sono cosìindulgente quanto voi siete al socialismo. Voi flagellate icomunisti materialisti. Essi non hanno che spinto all’assurdo esenza pudore il vizio nascosto al fondo di tutti questi sistemiesclusivi, che hanno fatto quasi retrocedere il pensiero socialecomune a tutti I repubblicani i quali capiscono, credono e amano.Tutti questi uomini, Fourier, Cabet, Louis Blanc, Proudhon cheavevano l'intelligenza e, per quanto il loro spiccato individualismopermetteva, l’amoredel popolo, sono tutti sprovvisti di fede. La ricerca della felicitàè per essi tutta la definizione della vita. Essi hannomaterializzato il problema della vita. Hanno sostituito al progressodell’umanità — scusatemi la parola — la cucina dell'umanità.Hanno ristretto, hanno falsificato l'educazione dell'operajo. È perciò che gli operai sono stati inerti e passivi nel dicembre 1852.»Saggi della sua potentissima critica avremo nell'Epistolario cheAurelio Saffi pubblicherà, finita la serie degli Scritti.
(130)Per esempio, Darwin domanda: «Non c'è una vera grandezza in questomodo di riguardare la vita colle sue potenze diverse comunicateprimitivamente per il Creatore a un piccolo numero di forme o anchea una sola?... A mio avviso, quanto sappiamo delle leggi impressealla natura dal Creatore s'accorda meglio coll'ipotesi che laproduzione e l’estinzione degli abitanti passati e presenti delglobo sono il risultato delle cause secondarie, come quelle chedeterminano la nascita e la morte dell'individuo, ecc.» (Originof the species).
(131)«Repubblica Romana. In nome di Dio e del Popolo. — Il ComitatoEsecutivo della repubblica, decreta: Art. 1. — Una grande quantitàdei beni rustici provenienti dalle corporazioni religiose, o altremanomorte di qualsivoglia specie, che in tutto il territorio dellarepubblica sono o saranno posti sotto l'amministrazione del demanio,verranno nel più breve termine ripartiti in tante pozionisufficienti alla coltivazione di una o più famiglie del popolo,sfornite di altri mezzi, che le riceveranno in enfiteusi libera eperpetua, col solo peso di un discreto canone versol’amministrazione suddetta, il quale sarà essenzialmente ed inogni tempo redimibile dalla enfiteuta. — Art. 2. — Unregolamento particolare specificherà distintamente il modo diprocedere all’attuazione di questa salutare provvidenza. — Art.3 — Sui fondi urbani altresì della stessa provenienza e qualitàverranno prese delle analoghe misure ad oggetto di rendere piùcomodo e meno dispendioso l'alloggio del povero. — Articolo 4. —Rimangono ferme lo disposizioni annunciate sulla congrua dotazionedel culto, del ministero pastorale de' parrochi e deglistabilimenti di pubblico interesse, sia coi beni in natura, sia colprodotto delle corrisposte enfiteutiche, sia con altri mezzi delpubblico, del provinciale, e del municipale patrimonio. — Iministri delle Finanze e dell'interno sono incaricati, ciascunorispettivamente, della esecuzione della presente legge. — Datodalla residenza del triumvirato li 15 aprile 1819. — I triumviri:— CARLO ARMELLINI — GIUSEPPE MAZZINI — AURELIO SAFFI.»Considerava la proprietà tra gli elementi della vita umana,rappresentante la necessità della vita materiale, mezzo del lavoromateriale, segno della quantità di lavoro col quale l'individuo hatrasformato, sviluppato, accresciuto le forze produttrici dellanatura.
(132)La più bella esposizione di questo sistema fu fatta da AdrianoLemmi nel Roma del Popolo, n. 32, pag. 38-39. «E quello — scriveLemmi — che in Toscana si è fatto per l'industria agricola, credoio, potrebbe farsi per tutto le altre industrie,» e dopo averdeclinato a grandi tratti il modo, conchiude con quantagiustizia!... «Vorrei che dal Congresso degli operai uscissequalche effetto pratico e non qualche vaga manifestazione di teorie.S'intende che qualunque siano le risoluzioni che in quello siadotteranno, per parte mia sono fin d'ora disposto ad ajutarnel'esecuzione, certo come sono che da un'assemblea raccolta sottol'inspirazione di Giuseppe Mazzini non potrà uscire nessuna diquelle proposte che implicitamente comprendono la distruzione diquanto gli uomini hanno di più caro e di più sacro, èl'annientamento della Società. Sarà questo uno dei meriti nonpiccolo che a G. Mazzini attribuirà la storia, d'aver avuto ilcoraggio di combattere quelle selvagge teorie che, sotto apparenzedemocratiche, tenderebbero a rendere vano il lavoro di lunghi secolie a ritardare il corso della civiltà. Non è per tali modi che lalibertà che noi invochiamo può acquistare amici e dominio inEuropa. Coloro che professano tali teorie e che vorrebbero farne ilfondamento di una nuova credenza popolare, sono tanto nemici dellalibertà quanto coloro che credono si possa e si debba rispondere adogni domanda delle classi povere e laboriose colla forca e coifucili ad ago.»
EAurelio Saffi, pochi giorni dopo l'articolo di Lemmi, usciappoggiando come soluzione pratica del problema sociale il contrattodi mezzadria:
«Credo,egli dice, che il sistema della colonia parziaria, frutto di anticaconsuetudine italiana tramandata all'età nostra dal senno civilede' nostri Comuni del medioevo possa somministrare, salva ladiversa natura degli elementi da ordinai insieme, un tipo di equacomposizione fra capitale e lavoro nelle relazioni dell'industriamanifatturiera. E confutare la teoria con bei esempii praticitentati e riusciti in Inghilterra e in America.»
Cosierano pratici ed educativi i giornali democratici in quei giorni. —Roma del Popolo 35-60.
(133)Egli già da quarantanni aveva esaminato tutti questi sistemi econsegnato la sua profonda critica alla stampa; e per l’amor alvero, per l’imparzialità, per la «tolleranza nell'esame e nelgiudizii, tolleranza, non indifferonza, che è l'immoralità dellementi, lebbra invadente e dissolvitrice» questi scritti sonocapilavori. Abborriva da ogni lotta in campo chiuso, nella quale ilterreno viene conteso palmo a palmo con accanimento all'ultimo chegiunge;guai a questi se si lascia per un istante soverchiare. Icombattenti hanno l'arme in pugno, l'ingiuria sulle labbra, l’odionel cuore, la parola è fiele.» (Associazione degli intelletti,vol. XII, pag. 256.) — Quando non trova che un sistema additi lavia per raggiungere il fine, non incolpa gli autori, né maicalunnia i motivi. Parla spesso e sempre con rispetto delSansimonismo: scrive nel 1831: «Provammo quel senso di affettorispettoso che ogni credenza fortemente sentita ed espressa dovrebbeinspirare, quando vedemmo i sansimonisti consacrare sostanza e cuoree tutte le facolta delle menti alla diffusione della loro dottrina.Se il sansimonismo ò riuscito impotente, ciò avvenne appuntoperché trascurò uno degli elementi indispensabili allo stato, cioèl'individualità umana e le istituzioni assicuratrici della libertàche aveva conquistate nel passato.» (Sulla Nazionalità, vol. XII,pag. 274.) E quindici anni dopo che il sansimonismo giacque spento,sepolto, dimenticato: fu la più importante, la più inoltratamanifestazione del nuovo spirito che suscitò gl'intelletti; edisseminò maggior copia di verità, idee più fertili e vaste, chenon le più tra le scuole del socialismo. Costituì inoltre iltentativo più arditamente sincero che si sia fatto sinora pertradurre in pratica il principio fondamentale di Bentham,ordinamento sociale fondato sull'idea dell'ut, e quando — perdutoil principio fra contradizioni nelle quali, per fatalità di logica,doveva trascinarsi — cadde per non risorgere più mai, dimostrò atutti noi l'accennata impossibilità di produrre il benesseregenerale, ponendo scopo alla vita i diritti e i godimentidell'individuo. Giovevole nel suo discioglierai come nella sua brevema splendida vita, meritò sovente biasimo, indifferenza non mai. Ei molti che guardarono al suo sviluppo con sorriso di scherno el'obbliarono appena caduto, fecero prova, parmi, di meschinointelletto e si svelarono incapaci di sentire la santità delleidee, inetti a in tende re i segni dei tempi e i bisogni reali delFumanità..... Fondato su profonde credenze, il sansimonismo ci diedespettacolo abbastanza raro — potrei forse dir unico — d'armoniatra i pensieri e le azioni di un’associazione numerosa compostad'uomini di potente intelletto, di cittadini benestanti e dipopolani. In un tempo nel quale la distinzione immorale fra teoricae pratica è norma pressoché generale alla vita e la questionefilosofica religiosa e la politica procedono su due parallele, isansimonisti si levarono e dissero: noi crediamo in ciò chediciamo, e però, predicheremo e praticheremo. Essi videro chel'uomo deve congiungere in unità il pensiero e l'azione, ilpensiero che è il germe, l’azione che è l'albero dai folti ramisotto il quale le generazioni vengono a ricoverarsi.» (Sistemidella Democrazia, 1847.) Poi si volge ai cosmopoliti, i quali perparentesi non citano mai il gran mar tiro dell'idea che fu ilTommaso Campanella. Fino dal 1836, criticando un articolo di ungiornale spagnuolo, Il Vapor, che dichiarava che l'amor della patriaera in opposizione coll'amor della libertà e colle teorie delprogresso — egli dice — per ottenere praticamente il trionfo delprogresso e della libertà contro la lega dei governi fondati sulprivilegio un ordinate mento è necessario. Ogni ordinamentorichiede un punto determinato onde si muova, un fine determinato alquale si miri. Perché una leva operi, bisogna darle un puntod'appoggio e un punto sul quale s'eserciti la sua potenza. Per noiquel primo punta è la patria, il secondo è l'umanità collettiva.Per gli uomini che s'intitolano cosmopoliti il fine può esserel'umanità, ma il punto d'appoggio è l'uomo individuo, il suo campod'azione, ove tutte le forze degli intelletti associati, degliaffetti, delle tradizioni, delle abitudini, delle braccia possonounirei per vincere, è soppresso: la differenza è vitale: è lastessa a un dipresso che separa i fautori dell'associazione da queiche non riconoscono come stromento d’azione se non la libertàsola e senza limiti.» (Sulla Nazionalità, vol. XII, pag. 278. )Spiega sin d'allora che intende per nazionalità, non la nazionalitàdei re che non ha più sostegno che nella cieca forza e rovineràinevitabilmente un di o l’altro. Parlando di nazionalità,parliamo di quella che soli i popoli liberi, fratelli associati,definiranno. La nazionalità dei popoli non ha finora esistenza:spetta al futuro. Nel passato noi non troviamo nazionalità, fuorchédefinita dai re e da trattati fra famiglie privilegiate... Patriadei re era la loro famiglia, la loro razza, la dinastia. Il lorofine era il proprio ingrandimento a spese d'altrui; l'usurpazionesugli altrui diritti... Come mai l’Europa dei re avrebbe potutoconcepire e verificare un pensiero d'associazione e un ordinamentopacifico delle nazioni? Il cosmopolitismo predicò l'eguaglianza deidiritti per ogni uomo, qualunque ne fosse la patina: predicò lalibertà del commercio: ebbe interpreti politici in Anacarsi Klootze altri oratori della Convenzione: creò una letteratura colromanticismo; e fece in ogni cosa ciò che fanno generalmente leopinioni: esagerò le conseguenze d'un principio giusto in sé; enon vedendosi intorno che nazionalità regie e patrie senza popoli,negò patria e nazione; non ammise che la terra e l'uomo....Pretendere di cancellare il sentimento della patria nel cuore deipopoli — di sopprimere in un subito le nazionalità — diconfondere le missioni speciali assegnate da Dio alle diverse tribùdell’umana famiglia —di curvara sotto il livello di non so qualecosmopolitismo le varie associazioni schierate a gerarchia neldisegno provvidenziale, e romper la scala per la quale l’umanitàva salendo all'ideale è un pretendere l'impossibile. I lavoridiretti a quel fine sarebbero lavori perduti; non riuscirebbero afalsare il carattere dell'epoca che ha per missione di armonizzarela patria colla umanità; ma ritarderebbero la vittoria. Il pattodell'umanità non può essere segnato da individui, ma da popoliliberi, eguali, con nome, coscienza di vita propria e bandieraParlate loro di patria, se volete ch'esse diventino tali; e stampatea caratteri splendidi sulla loro fronte il segno della loroesistenza, il battesimo della nazione I popoli non entranosull'arena dell'iniziativa se non con una parte definita,assegnata a ciascuno d'essi. Voi non potete compire il lavoro erompere lo stromento; non potete usare con efficacia la leva,sottraendole il punto di appoggio. Le nazioni non muojono primad'aver compita la loro missione. Voi non le uccidete negandola; mane ritardate l'ordinamento e l'attività. — Il cosmopolitismo hacompito l’opera sua. Ha protestato in nome dell’eguaglianzaumana e dei diritti di tutti contro le leggi meschine e ostili cheviolavano la prima e inceppavano i secondi: ha atterrato le barriereche gli interessi di poche famiglie avevano innalzato fra i popoli:ma non andò più oltre. Noi non possiamo arrestare! con esso. Nondobbiamo dimenticare che il suo grido fu: libertà — nonassociazione: che il più che uscir possa da esso è un senso dicarità politica, non un dovere di cooperazione.» (SullaNazionalità, vol. XII, pag. 278-282.)
(134)Reforme intellectuale et morale,d’Ernesto Renan.— Questo novissimo scritto di Giuseppe Mazzini comparve nella Romadel Popolo, 7 marzo 1871, tre giorni prima della sua morte.
Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura! Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin) |
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