Carlo Pisacane, il «romito» di Albaro (Zenone di Elea - Giugno 2024) |
PISACANE E LA SPEDIZIONE DI SAPRI (1857) - ELENCO DEI TESTI PUBBLICATI SUL NOSTRO SITO |
Rivista PopolarePolitica, Lettere e Scienze Sociali Direttore: Prof. NAPOLEONE COLAJANNI (Deputato al Parlamento) Amministrazione: Corso Vittorio Emanuele n.º 115 NAPOLI |
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19 Maggio 1856
Vi scrivo dall'Italia ove sono. L’urgenza delle circostanze mi v'ha chiamato.
Aspetto con animo ansioso lettere vostre che giungeranno tardi perch'io possa rispondervi. Se diranno il si che chiediamo, abbiate per nulla questa mia; la risposta da parte vostra sarà l'azione che promettemmo. Se chiederanno protrazione di poco, voi già sapete dall’amico comune che non può essere se non di quindici giorni. Se per mala ventura la chiedesse prolungata o indefinita, sentite:
L’Italia intera ha doveri tremendi; ma più specialmente il Sud. Il Sud ha sul collo una di quelle tirannidi che degradano chi le sopporta. Il Sud, dagli assoldati infuori che sono una cifra non considerevole e determinata, non ha truppe straniere né vicinanza di nemico straniero. Il Sud è, strategicamente parlando, il punto d’onde l’iniziativa Italiana dovrebbe muovere. Il Sud è certo, per l’importanza d’ogni suo moto, d'esser seguito da tutta quanta l’Italia. Il Sud ha empiuto l’Europa di suoi lamenti e della sua minaccia, e sino a quel punto che non è consentito se non a chi vuole anzi tratto giustificare il suo sorgere. L’ Europa era ed è tuttavia pronta a salutare plaudente e in parte ad aiutare il sorgere del Sud; ma incomincia a richiedersi, se la terra dei vulcani vive ancora o è spenta incomincia a mormorare la fatale parola: essi hanno alla fin fine quello che si meritano.
Il Sud non ha da temere intervento straniero. Non parlo dell'Austria che tratterremo noi; parlo di Francia. L’unica terra sulla quale il Francese non possa inoltrare senza romper lite coll’Inghilterra, è la vostra. Vedo dalle vostre che i Muratisti ciarlano d’accordo favorevole ad essi tra i due Gabinetti. La nuova è falsa. Il Gabinetto inglese ha già segretamente protestato contro ogni intervento di Francia in caso di azione interna. Quando v’aspettavate lo invio delle flotte alleate, Lord Palmerston interpellò il Bonaparte s’egli avrebbe insieme all'Inghilterra represso un moto Muratista, quando avesse avuto luogo; perché il Bonaparte rispose non potersi torre l’assunto, il Governo Inglese disdisse la dimostrazione.
Il moto capitanato nazionalmente tra voi avrebbe, siatene certi, per primo risultato, la rottura d'una alleanza già minata dalla pace in poi.
In quanto all'interno, voi versate in condizioni che non concedono, senza scoperte, lavoro sistematico, esteso, prolungato; il vostro s’è già prolungato troppo. Ma d'altro lato, le vostre condizioni son tali da potere ragionevolmente aspettarsi che una iniziativa ardita svegli un incendio. Il malcontento più o meno patente è in ogni classe tra voi. L’esercito non n’è illeso; e non vi parlo dei comparativamente pochi che vi fanno noto il loro sentire; accenno alla generalità, e dico che devonoesistere in seno all’esercito sensi considerevoli di scontento; che non v'è ragione plausibile di credere in resistenza ostinata; che lo staccarsi di un primo nucleo, comunque piccolo, deve trascinare l’universale dissolvimento.
Voi avete un partito moderato potente; dove non è? ma il partito moderato, che un lavoro qualunque non conquisterà mai, dacché ciò che lo costituisce è una mancanza di fede che gli vieta l’iniziativa, seguirà inevitabilmente il moto, quando altri lo inizii. Lo seguirà in parte perché il fatto provandogli la possibilità dell'iniziativa lo tramuterà; in parte a cercare d’impossessarsi del moto e dirigerlo a posta sua. Così fu sempre; così sarà sempre. Il giorno prima dell’insurrezione lombarda del 48, gli uomini della stessa tempra deprecavano tutti l’idea di movere; un ora dopo il moto, v’erano misti. Tre giorni prima che una ardita minoranza proclamasse la repubblica in Roma doversi battere collo straniero, le titubanze erano più che gravi, minacciose: l’intera gerarchia della Guardia Nazionale dava aperto rifiuto a un che vi scrivo; decretata la guerra ognuno vi si gittò coll'impeto che fu il segreto della nostra difesa. Finché chiederete, otterrete dubbi e difficoltà; troncate il nodo col fare; è l’unico modo di averli.
Quand’io v'invitava ad avere il Genio della rivoluzione, io intendeva questo: non il Genio potenza intellettuale che dirige, costituito il fatto, gli elementi d’un popolo a disciplina insieme e guerra e vittoria. Questo sorgerà dalle viscere della Nazione suscitata, nei giorni che seguono il primo irrompere. Io v’invitava ad avere il Genio che sente venuto il momento d’osare: che afferra la condizione morale degli elementi: che intende il paese essere coperto d’uno strato di materie combustibili, e non aver bisogno a incendersi che d'una prima scintilla; e v’invitava ad avere il coraggio di chi, a rischio di morire, appicca prima quella scintilla. E il genio dell'alcalde che prima alzò il grido di muoiana i Francesinella Spagna del 1808; il genio del militare che insorse prima tra voi in provincia nel 1820; il genio di quanti iniziarono le insurrezioni Nazionali: non erano intelletti eccezionali, erano uomini di forte animo e di senso diritto che sentirono giunta l’ora ed osarono e furono seguiti.
Io v'invito ad osare per l’onore e per l’avvenire del paese.
V’invito ad osare per voi: le condizioni non consentono lunghe cospirazioni; voi vi perderete, indugiando, sterilmente.
V’invito ad osare per noi: abbiamo preparato elementi a seguirvi; elementi veglianti e impazienti. Gl'indugi li perderanno; oppure saremo costretti a far noi, con danno forse della Causa, dacché, mentre seguendoimmediatamente la vostra chiamata deciderebbero la questione, iniziandola verrebbero sospetti di localismo e non produrrebbero lo entusiasmo necessario.
Io vi chiedo assenso alla operazione che primo voi proponeste; azione nel vostro punto, quando vi giunga nuova del nostro successo. E vi prometto in ricambio azione immediata dopo le nuove del primo fatto su punti vitali, diretta da me e tale da assicurarvi incremento d'entusiasmo generale e indipendenza assoluta di moti.
In nome d’Italia, accettate. O adesso o più mai per forse dieci anni. Per molti anni io non ho insistito con voi. Se oggi lo fo, è frutto di convinzione profonda che l’ora è giunta, e che noi, non cogliendola, ci disonoriamo.
Vostro
G. Mazzini
Questa lettera fa parte dell'Archivio del Comitato insurrezionale donato dalla signora Rosa Morici al Museo Nazionale di S. Martino. Quell’archivio, quella corrispondenza, tutto quell'insieme di documenti e di note, che è quanto dire, tutto il moto rivoluzionario del mezzogiorno d'Italia, si apre con una lettera di Giuseppe Mazzini, la lettera famosa a Fabrizi del 15 agosto 1854, e si chiude con una lettera di Giuseppe Mazzini al Comitato del i° giugno 1857, vigilia della spedizione di Sapri. Nella prima egli, dopo aver tuonato contro il murattismo, aveva scritto di Napoli all'amico: No tutto ciò «non può escire, checché si tenti, dalla terra delle idee, dalla terra che prima evangelizzò colle sue associazioni segrete il credodella libertà, dalla terra che prima segnò quel credocol sangue dei martiri, dalla terra donde escirono i più forti pensatori d’Italia, che c’ insegnò la filosofia della storia con Vico, la libertà del pensiero e l'unità della vita umana coi suoi filosofi del XVII secolo, l’accordo dell'ideacoll'anione,del genio teorico e del pratico in una tradizione d’uomini che incomincia dai repubblicani Pitagorici e si chiude coi repubblicani di mezzo secolo addietro, con Cirillo, con Russo, con Mario Pagano. Da Napoli l'Italia invoca e spera ben altro. I suoi vulcani daranno fiamme, non fango. Io ho fede malgrado il lungo silenzio, in Napoli. Della Sicilia non occorre ch'io parli: nessun Italiano può dimenticare che da essa partì ngl 1848 il segnale di vita a noi tutti; e la costanza di fremito che I’ ospita d'allora in poi a nuovi fatti m’è nota, non vi parlo di Napoli, del Regno, del Mezzogiorno della Penisola; e ricordo con amore che in questa lunga mia travagliata vita di tentativi per aiutare la creazione d’una Italia, napoletani furono i primi, dopo i giovani che m'ermo stati compagni nell’Università genovese, dai quali raccolsi parole fraterne e giuramenti di Patria. E italiani di Napoli erano parecchi tra i migliori, che, difendendo l’onore d’Italia, mi furono allora fratelli di stima, d’atTetti e di voti non dimenticati di me. D’allora in poi, Napoli — e fu grave danno — si raggruppò in sè, si riconcentrò, temo, soverchiamente nei suoi dolori; e fu troppo per la comunione che tenne con noi tutti quanti siamo figli delle altre provincie, viventi e frementi del grande dolore e della grande speranza di tutta Italia. Ma vedrete che un giorno, quando meno lo aspetterete, Napoli sorge d un balzo gigante a riannettere in un subito la sua vecchia tradizione di gloria. Dite questa mia fede agli amici. La bassa calunnia s’ è più volte adoperata — e ne ho prova — a insinuare ch'io non sento di Napoli come dovrei.»
«Così anche un silenzio che non era se non di dolore per l’isolamento al quale dal 1849 in poi io mi trovai condannato non per mia colpa, fu convertito in arme contro di me da uomini che ha il bastone e la forca fatti legge d’Italia, trovano tempo per architettare accuse stolte e villane contro un uomo il cui sospiro da venticinque anni in qua è l’Unità Nazionale». Questo egli aveva scritto nel 54 e nel giugno del 57 fisso nel suo pensiero che la salute d’Italia dovesse venire dal sud scriveva in una sua lettera inedita: «La causa italiana sarà salva il giorno in cui tre reggimenti nostri passeranno la frontiera» e mandava proclami e incitazioni e danaro, poiché all’ultima lettera erano uniti 3000 franchi. Tra questi due termini le lettere che vanno attraverso gli anni 1855,56 e primi del 57 sono di così viva premura, di fede così fervida in un moto che partisse dal sud, che può dirsi ogni nostro spirito rivoluzionario sia stato da allora aumentato da lui. La lettera bellissima del 26 gennaio 1855 a Fabrizi, come quella magnifica, violenta assai più che un terribile esplosivo moderno, del novembre 56 intorno all’esercito napoletano, e all’anima di esso, dovettero, lette nelle riunioni del Comitato, trasmesse, fatte circolare tra affiliati e aderenti, produrre incalcolabili effetti; e sono per energia di stile, per precisione, nitidezza, calore di forma, veri capilavori di prova d’azione, di storia, anzi, in azione, e di agitante oratoria fattiva. Tutto egli prevede, ad ogni obiezione risponde, ad ogni tentennamento ha una rampogna, tutto accompagna così che tutta appaia come scaturita dalla sua anima.
In questa come in altre lettere, infine, é fotografato il contegno del partito moderato. Mazzini scrivendo nel 1856 si può dire che vedeva ciò che quel partito, guidato da Cavour, fece in Napoli nel 1860 dopo che Garibaldi aveva liberato quasi tutto il mezzogiorno. Proprio a Napoli si organizzarono dai moderati le dimostrazioni al grido: Morte a Mazzini!
N. C.
Il contributo che Jessie White, la vedova di Alberto Mario—il cavaliere della democrazia, cui Giosuè Carducci consacrò una delle sue più scultorie iscrizioni — porta in questa pubblicazione consacrata a Giuseppe Mazzini na un valore davvero eccezionale per lo spirito che lo informa, per le notizie precise ed in gran parte del tutto nuove e sicure che di sull'importantissimo episodio della spedizione di Sapri; la quale costò la vita ad un grande italiano — grande per la mente e per l'animo, per gli scritti e per le azioni — a Carlo Pisacane, ed affrettò gli avvenimenti politici, che condussero alla realizzazione dell’ideale massimo di Giuseppe Mazzini: l’uniti della patria.
Ci sarebbe un vuoto davvero inesplicabile in que ste pagine, se pochi cenni non venissero dedicati all'amica che ha voluto darci questo lavoro originale, ch'è non solo una scrittrice illustre, ma è dotata di un patriottismo italico, quale non fu superato da nessun altro patriota che alla terra natia consacrò tutto se stesso — negli averi, nella liberti, nella vita.
Jessie White non è italiana di nascita. Vide la luce in Gosport, Inghilterra, nel 1832, da genitori inglesi.
Venuta in Italia in giovane età contrasse amicizia coi più ardenti mazziniani ed alla causa della patria nostra dedicò tutta la sua intelligenza altissima, tutto il suo cuore, tutta la sua indomabile energia.
Prese parte subito alle cospirazioni mazziniane; perciò in seguito al moto di Genova e alla spedizione di Pisacane nel 1857 venne arrestata e trattenuta nelle prigioni della Superba per quattro mesi. In carcere continuò un idillio: la relazione amorosa tra lei e Alberto Mario, che poco dopo fu completato dal matrimonio.
Altre e più esatte notizie sulle relazioni con Gariba' di e sulla parte presa dalla medesima nelle cospirazioni italiane si troveranno nel suo scritto, che segue a questi brevi cenni.
In una ad Alberto Mario fu arrestata di nuovo a Bologna nel 1859 per volontà di Napoleone 3.° Alberto Mario e Jessie White avevano comune l’affetto, la devozione illimitata alla causa italiana, alla democrazia; ma la Jessie si mantenne sempre rigorosamente unitaria e mazziniana, mentre Alberto Mario si conservò federalista logico ed irremovibilmente fedele alle dottrine di Cattaneo e di Ferrari. Il rigido unitarismo rese la Jessie White indulgente verso Crispi, anche nei momenti in cui, Alberto Mario nella Lega della Democraziapiù aspramente lo attaccava. Non credo di andare errato affermando che sia stata la Jessie a comunicare a Mario la predilezione per lo studio degli scrittori e delle cose Anglosassoni; ciascuno dei due consorti conservò una impronta propria nello apprezzamento e nello studio delle cose politiche e sociali: Mario si conservò individualista e solo negli ultimi anni si sentì scosso nelle proprie credenze quando si pubblicarono l’Autobiografiae i Frammenti sul socialismodel suo prediletto John Stuart Mill; la Jessie invece mostrò sempre tendenze più sociali, in conformità della dottrina mazziniana.
Jessie White Mario non mostrò l'animo fortemente virile soltanto nelle cospirazioni; ma ancora e forse di più sui campi di battaglia. E questa sua azione la rese cara, prediletta, a Giuseppe Garibaldi. La White Mario si può dire che rappresentò un vero trait-d'unionsentimentale e politico tra i due maggiori fattori dell’unità e dell’indipendenza della patria.
Quale parte abbia preso la White Mario alle lotte nostre per l'unità e per la indipendenza lo lasceremo dire a questa dedica che Garibaldi scrisse di suo pugno sotto la propria fotografia: Alla carissima sorella mia Jessie White Mario, infermiera dei miei feriti in quattro
campagne 1860, 1866, 1867, 1870-71. E i feriti di Garibaldi della Sicilia e del Napoletano le donarono due medaglie d'oro, che ricordavano le sue benemerenze patriottiche e umanitarie. Chi scrive dopo trentanove anni ricorda come se fosse oggi di averla vista instancabile la sera del 21 Lugli' 1866 nella Chiesa di Bezzecca trasformata in ospedale, volare come l’angelo della pietà da un letto all'altro per assistere, per confortare i feriti più gravi della battaglia dello stesso giorno.
Il brevetto per l’assistenza prestata ai feriti di Mentana è illustrato da parole oltremodo lusinghiere di Menotti Garibaldi e di Benedetto Cairoli. Nella Campagna franco-tedesca del 1870-71 Garibaldi, come capo dell’armata dei Vosgi la nominò Ispettrice delle ambulanze sul campo di battaglia col grado di capo di battaglione, a datare dal 21 Novembre 1870.
La campagna di Francia va notata per questa circostanza: Alberto Mario ancora imbronciato per le meravigliedegli chassepots francesi contro i garibaldini a Mentana non volle seguire Garibaldi contro i Prussiani; ma la sua Jessie, sospinta dai suoi sentimenti umanitarii e dal fascino che esercitava su di lei il duce generoso dei Mille con pari generosità lo segui sui campi di battaglia dei Vosgi.
Alla Jessie White Mario si devono le migliori e e più documentate Biografiedi Mazzini, di Garibaldi e di Agostino Bertani, cui era legata da intimissima amicizia e col quale collaborò nella Inchiesta sulle condizioni dei contadini. Essa collaborò e collabora nelle più importanti riviste italiane e straniere; in quelle anglosassoni si occupò a preferenza delle cose italiane con grande competenza e con grande amore per il nostro paese.
Nel Pungolo,più di 30 anni or sono, con vivi colori e col rispetto scrupoloso della verità, fu tra le prime a descrivere le condizioni economiche, morali e sociali di Napoli: gli articoli costituirono poscia un prezioso volume: La miseria a Napoli.
Più tardi nella Nuova Antologiacolla stessa diligenza e collo stesso amore descrisse le condizioni dei lavoratori delle miniere di zolfo della Sicilia e dei condannati al domicilio coatto.
Ora nella tarda età e colla malferma salute Jessie White Mario vive insegnando l’inglese nella Scuola superiore femminile di Firenze con un centinaio di lire al mese... E amare parole all’indirizzo dell’Italia ufficiale ed anche degli Italiani su questo proposito vorrei aggiungere se non fossi sicuro di offendere la sua modestia e la sua fierezza!
Jessie White Mario vive oramai di ricordi — i soli che la mantengono in vita e che in certo modo l’allietano: vita ch'è tutta un culto per l’Italia e per la democrazia, per il suo Alberto, per Giuseppe Mazzini e per Giuseppe Garibaldi.
Vada a lei il riverente saluto di tutti gl’italiani che hanno animo retto e mente elevata per venerare le incarnazioni più pure del patriottismo, della coltura, della rettitudine, della abnegazione.
Dott. Napoleone Colaianni
Tra i molti audaci tentativi, che dal 49 al ’60, senza soluzione di continuità, provarono l’indomita risoluzione degli Italiani di divenire padroni in casa propria, di affermarsi Nazione cosciente de' suoi diritti e de' suoi doveri, quello del giugno 1857 — detto ora di Sapri ora di Genova — fu l’ultimo degli insuccessi che appianarono la via della vittoria.
Come tutti i precedenti, quel tentativo faceva capo a Mazzini, e, più che tutti gli altri—quello del 6 febbraio di Milano non eccettuato—gli fruttò ingiuriose accuse ed oscene calunnie. Pure, esaminato nel suo assieme e nei singoli particolari la spedizione di Pisacane e la partecipazione di Genova nei preparativi per essa, offrono luminosa illustrazione dello scopo finale di Mazzini e dei mezzi da lui adoperati per raggiungerlo. Dimostrano poi che è falsa l’accusa che egli volesse fare o istigare le rivoluzioni a tempo fisso, nel luogo e nei modi da lui decisi. Persuaso fin dal principio del suo apostolato, che l’Italia non poteva risorgere se non per l’Unità, con Roma a capo, egli era altrettanto convinto che, soltanto quando il popolo avesse fatta sua questa convinzione, e fosse pronto ai sacrifizi e deliberato di affrontare i pericoli inevitabili nella lotta, potevasi contare sulla certezza del trionfo. Egli vide nel '48 l’universale volontà di ottenere l’indipendenza da ogni straniero, e in quell’anno, e più ancora nel '49, egli vide che, né l’audacia del combattere, né la pertinacia del vincere o morire facevano difetto agli Italiani. Ma vide inoltre che essi non avevano ancora afferrato la verità, che, soltanto mettendo in cima del pensiero l’idea dell’Italia Una, l’azione potrebbe essere efficace, i mezzi adatti al fine.
Ma negli anni susseguenti vide maturare anche questa, e l’attitudine degli Italiani durante il '55 e il '56, — anni nefandi per le condanne romane, pei sepolti vivi nelle carceri del Borbone, per le stragi e per le ininterrotte rivolte nella Sicilia, per le cospirazioni incessanti a Parma, a Modena, nelle Romagne, ove l’Austria imperava, percuotendo, uccidendo, senza potere estinguere lo spirito di ribellione contro ogni suo atto, contro la sua stessa esistenza, — lo confermava nella convinzione che gli elementi per un’azione generale abbondavano, che una vittoria li porrebbe tutti in moto, infondendo nel popolo il senso delle proprie forze, impedendo ciò che egli sopra ogni cosa paventava—l’intervento dell’Imperatore Francese nelle cose d’Italia—ch’egli ben sapeva essere il sogno e la meta a cui Cavour mirava (1).
Fino allora, un po’ per il sospetto delle tendenze separatiste dei Siciliani ch'egli esagerava e per il fatto che i Napoletani, — per lo più pronti ad agitarsi per la rivendicazione della costituzione accordata, poi violata dal Re nel 1849, — non si erano chiariti fautori dell’Unità dell’Italia tutta, egli aveva concentrato i suoi sforzi nell’aiutare i tentativi nel centro e nel settentrione.
Colui che veramente credeva nell’iniziativa Siciliana era Nicola Fabrizi, il quale da Malta teneva costanti corrispondenze coll'Isola e col continente, che in lui affidarono tutte le loro speranze, attendendone aiuto e cooperazione. E nel 1856 pareva che tanto la Sicilia quanto il Napolitano fossero pronti a forti fatti. Garibaldi sarebbe sceso in Napoli con Cosenz, Pisacane e gli altri esuli; mentre Fabrizi, Crispi, Rosalino Pilo e seguaci si sarebbero mossi per la Sicilia: tutti, s’intende, in nome dell’Unità. Quest’idea era minacciata dalle mene dei
Muratisti, sostenuti da Napoleone III, e punto osteggiati da Cavour, nel cui cervello la possibilità di un’«Italia Una e Indipendente» da ogni straniero, non aveva fatto ancora capolino (2).
Luciano Murat aveva guadagnato a sé il Saliceti a cui la miseria aveva indebolito le forze morali. A lui avevano aderito in seguito Giuseppe Montanelli, federalista, certo Trincherà ed i fratelli Mezzacapo. Ma la magnanima protesta di Poerio, Spaventa, Mauri, Bianchi e altri incarcerati dal Borbone di «preferire di morire in carcere che stendere le loro mani pure a quell’avventuriero straniero» mise gli incauti in guardia. La protesta degli esuli contro le pretese del figlio di Gioacchino Murat, il cui governo avrebbe trasformato il regno in una provincia francese», diede il colpo finale al complotto; e allora, più che mai, i patriotti si dedicarono a promuovere una vera insurrezione. Sventuratamente il giovane barone Francesco Bentivegna di Corleone, riuscito a formare un forte nucleo di valorosi a Termini, mentre Guarnieri sorprendeva la città di Cefalù, fu arrestato e condotto a Palermo.
Condannato a morte, con giudizio sommario, fu fucilato il 23 dicembre a Mezzoiuso, mentre giungeva la commutazione della pena, per avere i giudici supremi riconosciuta illegale la condanna. Fu fucilato anche Spinuzzi, liberato prima con altri prigionieri da Guarnieri. I seguaci si dispersero, tenendosi però pronti ed armati. Finalmente Napoli si scosse. Fu fatta saltare in aria la fregata Carlo III mentre salpava dal porto di Napoli, carica d'armi per domare i Siciliani. Cinquanta uomini morirono; altrettanti furono feriti. La famiglia reale si preparava a fuggire. L’8 dicembre Agesilao Milano, uno dei più audaci cospiratori napolitani, trovandosi ad una rivista faccia a faccia col Re aborrito, gli si scagliò addosso con la baionetta in canna; ma il ferro si ruppe contro la corazza d’acciaio che portava il Bomba (3). L’audace, arrestato, fu fucilato il 10 gennaio 1857. Furono fatti numerosi arresti. Giovanni Falcone, uno, tra i più compromessi, riusci a rifugiarsi a Malta presso Nicola Fabrizi, a cui dipinse l'intenso fermento tra la gioventù incitandolo a procurare poi aiuto pronto ed efficace. Fabrizi, dalla difesa di Roma, aveva stretto rapporti con un giovane Fanelli, che combatté valorosamente sotto Medici al Vascello, e, caduta la Repubblica, dopo aver passato alcun tempo seco lui in Corsica, l’incoraggiò a tentare il suo ritorno in Patria, per ordinare il partito unitario e trovare modo di stabilire i mezzi di comunicazione tra l’interno e l’estero. E Fanelli non molestato al ritorno, riuscì ad intendersi con Nicola Mignogna, il quale teneva le fila della Cospirazione «Unitaria» senza dare sospetto alle autorità. Giovanni Mattina e Giacinto Albini lo misero in relazione coi patriotti più influenti nelle loro provincie di Salerno e di Basilicata, tra cui primeggiavano i fratelli Maglione, Padula e Matera, mentre in Napoli stesso egli trovò dei cittadini, avendo molta influenza coi popolani. Formato un comitato di cui erano a capo il Fanelli, (che firmava ora Kilburn ora Wilson) e Luigi Dragone detto Socio, cognato di Morici, le cose procedevano bene, quando Nicola Mignogna fu arrestato dietro accusa di cospirazione Unitaria Repubblicana. Dopo lungo processo fu condannato al «bando perpetuo», onde potè giungere a Genova e continuare là i preparativi per la riscossa dopo aver lasciato in mano di Fanelli e di Dragone le fila ininterrotte delle sue relazioni con le provincie e con molti uomini insigni, giacenti nelle varie prigioni del regno. Il loro lavoro tu contrastato dai moderati, che fondavano tutte le loro speranze sulla diplomazia, sugli alleati inglesi e francesi, che — indispettiti col Re di Napoli, perche partigiano della Russia durante la guerra di Crimea, si era poi mostrato renitente a tutte le rimostranze da essi fattegli sul modo di governare suoi sudditi — ne avevano richiamato i loro ambasciatori. I moderati fecero grandi dimostrazioni alla partenza di Brenier, ambasciatore francese «per commuovere così la diplomazia estera, che con le lagrime agli occhi verrebbe a riscattarci». Cosi scriveva il comitato di Napoli a Mazzini aggiungendo che, alla maggioranza degli studenti e del Partito d’azione che avevano domandato consiglio al Comitato, esso aveva risposto che «il rappresentante dell’oppressore di Roma, di Grecia, della democrazia francese, se fosse stato acclamato da noi, ci avrebbe reso complici della sua tirannide».
Verso la metà del 1856 Mazzini — recatosi a Genova ove «nascosto nel cuore del popolo» dimorò fino al novembre, pronto, come sempre era, a secondare qualsiasi iniziativa — era intento ai moti sorti nel Carrarese. Le cause del tentativo fallito nella Lunigiana sono esposte da lui nella «Bandiera della Nazione» (Vol. IX, pag. 173). Fra quelle cause la principale era stata la violazione, per parte dei moderati, del pegno dato di accettare la bandiera neutra durante l'insurrezione. Questi fatti avevano persuaso lui e il partito d’azione in generale, dell’inutilità di fare altri tentativi in unione coi moderati, non fidenti questi nelle forze della Nazione, e aspettante solo l’iniziativa del governo piemontese, ostinandosi ad ignorare che questa sarebbe stata impossibile, quand’anche il Re e i suoi ministri lo avessero voluto, senza esporre il Piemonte alle proteste e alle minaccie dei governi dispotici, che, pure avendo violato il trattato di Vienna del 1813, erano sempre pronti a farvi appello quando altri accennasse a mancarvi. E più gravi ancora sarebbero stati i rimproveri degli alleati nella guerra di Crimea, inquantoché i ministri della Francia e dell'Inghilterra avevano assicurato Cavour e il Re, che, per quanto nulla vi fosse da fare per il momento, qualora non fossero successe rivoluzioni o violenze, essi non avrebbero perduto di vista il miglioramento delle condizioni dell’Italia.
Ma già verso la fine del 1856, Cavour stesso aveva perduto quasi ogni speranza; tanta era la prepotenza dell'Austria insuperbita dal fatto che, essendo rimasta neutrale durante la lotta, poteva godersi i frutti della vittoria, e rimanere arbitra dei patti della pace. Per impedire che la guerra, dopo che la Russia era stata vinta in Crimea, si riaccendesse sul Danubio e sul Baltico, rendendo inevitabile l’insorgere delle nazionalità oppresse, essa aveva imposto alla Russia esausta, i famosi quattro punti che formarono la base della pace di Parigi. Tra questi vi era il protettorato delle Potenze sui Principati Danubiani; protettorato che sarebbe stato esercitato di fatto dalla sola Austria, che avrebbe così esteso sempre più la sua malefica influenza dal Mare Nero all’Adriatico e al Mediterraneo.
Né ignara, né indifferente a questo pericolo era la Diplomazia sarda, del che è prova la nota del Cibrario agli ambasciatori d’Inghilterra e di Francia, nota che metteva in chiaro il pericolo a cui si trovava esposto l’equilibrio europeo per effetto di questa preponderanza dell’Austria. E Cavour stesso, alludendo al proprio motto «riforme o rivoluzione» dichiarava in Parlamento impossibili le riforme, la diplomazia essendo impotente a cangiare le condizioni dei popoli soggetti a despoti prepotenti, e capace solo a «riconoscere i fatti compiuti».
Fatti dunque ci volevano; e a fatti forti Mazzini chiamava gli Italiani.
Avvenuta la partenza degli Austriaci dalla Toscana, dopo un soggiorno feroce di parecchi anni, in seguito alla loro entrata nel 1849 per riporvi il Granduca sul trono, era manifesto il ribrezzo e il disprezzo di tutti i Toscani per il sovrano che — fuggiasco durante la seconda campagna di Carlo Alberto, finita col disastro di Novara — vi era tornato cinto di baionette straniere, costringendo i suoi sudditi al doppio giogo dell'Impero e della Chiesa. Una rivoluzione per rovesciare la dinastia di Lorena sembrava possibile, anzi probabile.
I livornesi, fieri e maneschi, non avevano risparmiato al Duca ereditario, tornato con la nuova sposa a risiedere a Livorno, segni manifesti del loro odio e del loro disprezzo. E livornese era Adriano Lemmi, di fede unitaria inconcussa, e in cui il pensiero andò sempre congiunto all’azione. Egli fin dal 1840 aveva lavorato con Mazzini per la redenzione della Patria, ricevendo in casa di suo padre Fortunato, noto negoziante, le corrispondenze e le stampe clandestine, e raccogliendo e dando danaro per il fondo nazionale e per l’acquisto di armi. Ora dimostrava i vantaggi della scelta di Livorno, quale base delle operazioni. Egli godeva tutta la fiducia di Mazzini come quella di Garibaldi, avendo egli condotto a proprie spese Manara e la sua legione. Nel '52 andò a trovare Kossuth prigioniero nella Turchia con proposte di Mazzini per il lavoro da farsi coi soldati Ungheresi al servizio dell'Austria in Lombardia; e là avendo ricevuto il famoso proclama lo distribuì fra essi il 6 Febbraio. Del pericolo corso da lui in quei giorni a Milano non è stato ancor detto. La sua casa in Genova, con uscita sul mare, servi di nascondiglio e di salvataggio a molti dei complici ricercati invano dal governo Piemontese per placare gli sdegni dell’Austria. Ora egli mise a disposizione di Mazzini i mezzi per operare, possedendo egli parecchie barche e bastimenti, e potendo contare in Costantinopoli su duecento uomini a mali e pronti a scendere sulle coste napolitane. L’idea era di uno sbarco a Livorno con militi, essendo certo che i livornesi sarebbero stati pronti all'appello di qualsiasi provincia insorta. A Mazzini sorrideva la proposta. Ma Pisacane dal principio alla fine vedeva nella sola Genova il porto donde salpare per il Sud e portare aiuto ai suoi compatrioti con ragionevole speranza di successo. E Lemmi sempre pronto a dare e fare— dolente, punto convinto della prudenza del nuovo progetto—si arrese nondimeno e fece quanto stava in lui per secondarlo.
Nel settembre del '56, pregata dalla Società degli Amici d'Italia, riorganizzata in Londra dopo la conclusione della guerra di Crimea, mi recai a Genova per conferire con Mazzini, intorno al programma delle conferenze che Salii ed io dovevamo tenere nelle città dell'Inghilterra e della Scozia a pro della indipendenza italiana. Io poi desiderava rivedere Garibaldi, che avevo conosciuto personalmente a Nizza nel 1854-55, e che era stato ospite di mio padre, nella primavera del 1836, quando egli era venuto in Inghilterra per vedere suo figlio Ricciotti affidato alle mie cure, e per intrattenersi con Panizzi, direttore del Museo brittanico, intorno ad un progetto ideato da Sir William Temple, ministro brittanico a Napoli e da Sir James Hudson, ministro a Torino, per liberare Poerio e Settembrini dalle prigioni di Santo Stefano.
Nel breve soggiorno che feci nella «città superba» vidi Mazzini ora in una, ora in un’altra modesta casa di popolani, ora nella casa abitata da Pisacane assieme all'adorata figlia sua Silvia, e alla di lei madre Enrichetta. Talvolta essi discutevano intorno ai due programmi; Pisacane insisteva per l’unione di tutti i mezzi e di tutti gli sforzi in Genova per effettuare una spedizione al Sud, obbiettando che la Toscana non era atta ad una rivoluzione, e che Firenze e le altre città toscane non avrebbero secondato un movimento iniziato a Livorno, i livornesi non essendo amati, ma assai temuti dagli abitanti delle altre città. Ma erano discorsi accademici; che, s’intende, essi non parlavano di progetti precisi davanti a terze persone. Garibaldi non era a Genova, ma m’aveva scritto da Caprera, ove era intento a fabbricarsi una casetta sul terreno comperato col danaro lasciatogli dal fratello Felice, morto in quell'anno. Mi mandò anche Medici per informarmi della sorte del progetto di liberazione dei prigionieri del Re di Napoli. O perché era avvenuta la rottura delle relazioni diplomatiche e il ritiro del ministro inglese col suo seguito; o perché il Re sembrava disposto a mandare tutti i prigionieri politici nella Repubblica Argentina, o ad accordare loro una amnistia purché la domandassero — cosa che essi fieramente avevano rifiutata, non ostante i consigli di Panizzi — il fatto sta che ogni progetto di evasione era stato abbandonato. Garibaldi, Medici e Bertani — ai quali Sir James Hudson si era rivolto, nonostante egli fosse l'amico sviscerato di Cavour e per quanto i prigionieri fossero tutti moderati costituzionali, convinto che soltanto i rompicollo avrebbero arrischiato la propria libertà e la vita — erano sciolti da qualsiasi impegno. In risposta alla domanda: «e cosa ora pensate di fare?», Medici mi disse che Garibaldi, per allora, voleva «dare tempo al tempo», che, pur non disperando ancora nella possibilità dell'azione del Re di Piemonte a capo di un esercito di 40 mila uomini, prodi e ansiosi di battersi contro il vincitore di Novara, neppure molto sperava per il momento; ma che, in ogni caso, pronto a capitanare qualsiasi impresa che offrisse probabilità di riuscita, non intendeva secondare moti, che secondo lui non riuscirebbero se non ad infondere negli italiani la convinzione della loro impotenza a scuotere il giogo. Medici, pur sapendo della presenza di Mazzini in Genova, non l’aveva avvicinato. Però aveva acconsentito di essere ii cassiere della sottoscrizione promossa dai genovesi per l'acquisto di diecimila fucili da dare alla prima provincia che fosse insorta contro l’Austria, o contro i tiranni suoi satelliti. Più tardi ebbi in mano una lettera scritta in Genova da Pisacane e Rosalino Pilo a Bertani, allora sul lago d'Orte, interessandolo per un loro progetto di scendere sulla costa Napolitana lasciando e programma e bandiera alla decisione della provincia sollevata, dicendo che «gli amici che dovevano iniziare non domandavano che l’aiuto di uomini di cuore guidati da Garibaldi, e con essi armi e marinari».
E che la speranza di una sollevazione in Napoli e nella Sicilia fosse generale, ne è prova questa lettera di Giorgio Pallavicino a Manin del dicembre '56:
«Amico carissimo, Ieri furono da me, in deputazione, i seguenti signori: Tommaseo, Cosenz, Varè, lnterdonato, Gemelli, Mordini e La Masa. Essi mi invitarono con calde parole a spalleggiare la rivoluzione italiana in Sicilia coll’autorità del mio nome e con quei mezzi pecuniari di cui posso disporre. Trattandosi di una impresa nazionale, non ho potuto rispondere con un rifiuto, e, poste certe condizioni suggeritemi dalla prudenza, ho promesso il mio concorso, governandomi questa volta col sentimento, e non con la fredda ragione».
E in quell’occasione l’ex galeotto dello Spielberg donò 7 mila lire italiane per comperare fucili. Mazzini, nel novembre, ritornò a Londra, e l’attività degli italiani e degli amici d’Italia si raddoppiò, sia con l’iniziare sottoscrizioni private, sia coi tenere conferenze pubbliche onde procurare danaro per aiutare ii popolo oppresso a liberarsi dagli stranieri e dai domestici oppressori. Chi dava per la liberazione dei prigionieri; chi per i 10 mila fucili; chi, semplicemente «per servire nel modo più adatto allo scopo». E con lettera del settembre, Garibaldi, il quale fino allora si era mostrato renitente a domandare danaro agli stranieri a pro della patria sua, mi scrisse da Genova: «Sorella mia carissima, lo vi autorizzo a domandare denaro in mio nome a pro della redenzione italiana. Parto domattina per la Caprera. Ho meco Menotti e Teresa. Non vi scrivo di più perché ho la mano ammalata. Un bacio a Ricciotti, Sam, Luisa» (i miei fratelli che col suo figlio erano meco a Londra).
Nei giornali che giungevano dall’Italia erano narrati tutti i tentativi e i fiaschi dei primi mesi del 1857. Mauro Macchi li biasimava. Alberto Mario scagliò contro di lui articoli infuocati nell'«Italia del Popolo», e una sfida non ebbe seguilo per l’intromissione autorevole di Garibaldi. Altro notevole argomento era l'amnistia offerta dal giovane imperatore dell’Austria ai Lombardo-veneti, dopo di avere levato tutti i sequestri. Indi, la discussione fra gli emigrati, se più convenisse il rientrare per lavorare dai di dentro, oppure il rimanere in esiglio per protestare contro qualsiasi concessione dello straniero. Prevalse per lo più quest’ultima soluzione; ed il contegno del popolo durante il soggiorno dell’imperatore e della Imperatrice convinse perfino i conservatori inglesi, partigiani dell’Austria, che né con le buone, né con le cattive, gli italiani si sarebbe o rassegnati mai al giogo straniero.
Intanto ferveva la questione del soccorso alla progettata insurrezione nel Napolitano. Pisacane e Pilo avevano preso in affitto un barcone e tenevano pronto un piccolo equipaggio, decisi a partire e tentare uno sbarco anche senza Garibaldi, Bertani li sconsigliò e rifiutò ogni cooperazione, persuaso che senza Garibaldi si sarebbe fatto di nuovo fiasco. Mario, intimo suo, ebbe parecchie discussioni burrascose con lui Bertani ammaestrato dalle cinque giornate e dalla Repubblica Romana sosteneva che soltanto quando un popolo, giunto al punto di non potere o volere più soffrire, fosse insorto, possono gli aiuti dal di fuori essere utili; che gli accordi presi prima sono sempre frustrati da qualche causa, e che, o per tradimento o per imprudenza, la polizia riesce sempre a sapere di che cosa si tratta. Mario, più focoso, sosteneva che, date le condizioni insopportabili delle popolazioni del sud, era dovere degli emigrati che godevano di una certa libertà, di mettersi a disposizione di esse, incoraggiandole ad insorgere con promesse di immediato soccorso.
Mazzini, sempre inclinato ad accarezzare il piano di Livorno, fu commosso e scosso dalle lettere che riceveva dal comitato di Napoli, e specialmente da una, del 2 febbraio '57, da Fanelli, in cui, dopo la descrizione delle mene dei moderati e dei muratisti, era narrato il caso di un reggimento il quale — esasperato per la brutalità di certo colonnello Pucci, che ordinava pubbliche battiture dei soldati — aveva emesso il grido di abbasso, e costretto il colonnello alla fuga. I patriotti si erano messi d'accordo con Mattina per fare uscire armati i soldati raggiungendo di notte tempo Salerno, ove l’insurrezione era decisa. Tutto però era andato a monte per la mancanza di danaro, non essendo giunti in tempo i soccorsi di Fabrizi. in tale lettera lo scrittore continua: «Agesilao Milano, amico nostro, ci rimprovera dalla tomba; mentre egli ammirava l’operosità nostra mi domandava se voi avevate rivolte le mire vostre a noi, perché egli solo così vedeva potersi compiere il disegno che egli voleva iniziare. E’ inutile che io vi ricordi che egli disse ai giudici che lo interrogarono che la sua fede era Mazziniana. Nel sito ove morì l’eroe, la notte del 25 gennaio tacemmo noi mettere un palo con la bandiera triti colore con la leggenda “Viva la Nazione”. Altre bandiere furon messe in altri siti con la leggenda: “Viva l’Italia” La polizia se ne allarmò. La mia posizione di latitante (era ricercato come complice di Milano) non mi ha permesso scrivere di mio carattere; ma lo scrivente è il cognito mio Socio, da tutti gli amici riconosciuto tale e apprezzato sotto il nome di Luigi Dragone. F.to Kilburn».
Pertanto, mentre Mazzini aveva scritto fino allora che solo dopo un altro tentativo avrebbe rivolto il suo pensiero al Sud, ricevuta questa lettera si decise di cooperare con tutti i suoi mezzi ai disegni di quegli operosi. «Fratello – egli rispose – Voi per la prima volta mi proponete un’operazione definitiva, concreta, pratica: com’è debito e impulso del core accetto; me n’occupo subito e sarà fatta. Sia nota a pochi, a nessuno se possibile; ogni cosa dipende dal segreto. Non avete bisogno per preparare che di annunziare qualche cosa che darà l’impulso. Date all’amico, che trasmette la vostra per me (Pisacane), ogni ragguaglio su Ponza. E’ l’essenziale. Ciò che noi faremo è nulla, trattandosi di vostra arena: è una scintilla; il farne incendio dipende dal vostro agire sul punto ove siete. Non lo dimenticate. Non ho bisogno di dirvi che l’azione sul vostro punto, riuscendo sulle prime, è il sorgere di una Nazione; della risposta sovra altri punti mi reco mallevadore, se la bandiera sarà di Nazione. Alla forma penserà il paese; ma quella condizione è essenziale. Addio, amate chi vi stima e ama. G. Mazzini».
Indicibile la gioia di Pisacane, a cui questa lettera era stata spedita per la trasmissione a Napoli. Già aveva ideato il suo piano. Impossessarsi di uno dei vapori postali in partenza da Genova per la Sardegna e per Tunisi, evitando così la spesa ed il rischio della compera o del nolo di un vapore in Inghilterra, ben memore del disastro toccato al vascello The Isle of Thanet comperato da Panizzi per la liberazione dei prigionieri di Santo Stefano, naufragato presso Varmouth in una furiosa tempesta, con la perdita anche di tre dei migliori marinai.
Ma benché deciso a dedicare tutti i suoi mezzi al Sud, Mazzini non era ancora persuaso di dover cambiare Genova con Livorno per base di operazione. Crispi, allora in Parigi, pronto sempre ad andare di nascosto in Sicilia per aiutare gli insorti, sconsigliava qualsiasi movimento negli Stati Sardi fino a rivoluzione compiuta. Saffi, chiamato da Oxford a consulto, dissentì sul modo proposto dai Genovesi per la cooperazione della loro città, «Parevami egli scrisse più tardi dubbia la riuscita, inevitabile una mischia colla guarnigione, difficile il convincere amici e nemici dell'intento nazionale della sorpresa; certa, non riuscendo, tra le calunnie degli avversari e la sfavorevole impressione dei più, la disfatta morale della parte nostra; opportuno l'attendere che i primi successi della spedizione sollevassero gli animi ad aperta azione, rendendo impossibile al governo di resistere». E il parere di Saffi aveva peso su Mazzini, perché egli non aveva mai mancato all’appello del paese, arrischiando libertà e vita durante il tentativo di Milano, portando la croce di fuoco in Bologna.
Ma la decisione di Pisacane era irrevocabile. «Ho promesso agli amici di Napoli — egli scriveva— di capitanare una spedizione in loro soccorso e ho deciso di partire da Genova, porto che offre assai più facilità che non Livorno, che può pure agire per conto proprio. Se i duecento volontari promessi da Costantinopoli tengono parola, possono sbarcare a Catanzaro ove troveranno accoglienza e seguito. Tocca a voi e ai Genovesi di decidere sull’azione, se la credete opportuna, durante o dopo il mio tentativo. Rosalino (Pilo) e Cosenz partiranno meco con altri pochi e scelti. Se facciamo fiasco, il rischio e la responsabilità sono nostri esclusivamente. Certamente l’aiuto di danaro e di armi cresce la probabilità di riuscita, ma la mancanza non cambierà la nostra decisione».
Verso la fine di aprile Mazzini, passando per Parigi e Lione, giunse a Genova, da dove mi scrisse di finire il più presto possibile le conferenze promesse in Inghilterra e nella Scozia, lasciando a Saffi di continuare le sue con maggior agio, e di recarmi a Genova, giacché una corrispondente dei giornali inglesi sarebbe stata utile per tenere quel popolo informato degli avvenimenti e delle correnti della opinione pubblica.
«E’ chiaro» — disse Saffi — che il dado è gettato e che si è deciso per Genova». Fatto si è che Mazzini stesso era sorpreso dell’entusiasmo che circondava Pisacane, sia per parte del comitato degli operai, quanto per parte di quello della borghesia. Un’associazione di quest’ultima era stata fondata nel 1852, pel tiro al bersaglio, capitanata da Antonio Mosto, da Burlando, e da Bartolomeo Savi, direttore del giornale Italia e Popolo.
Molte furono poi le associazioni tra gli operai, ma senza scopo politico, fino al 1856, anno in cui Maurizio Quadrio suggerì un’associazione segreta con intento politico. N’erano a capo Castelli, i fratelli Casareto, Casaccia e Profumo.
Anche i borghesi formarono un comitato segreto con a capo Mosto, Stallo, Burlando, Mangini e Ramorino. Savi ne fu escluso, onde lasciarlo sicuro da ogni rischio nel condurre il giornale l’Italia del Popolo, giornale continuatore in formato più grande dell'Italia e Popolo. I due comitati stavano in relazione tra loro, allo scopo di tenersi pronti a sostenere ogni movimento insurrezionale che fosse per scoppiare in una qualsiasi provincia d’Italia. Naturale era dunque che, venuti in contatto con Pisacane, Pilo e Mignogna, i membri delle due associazioni s’infiammassero per essi e per i loro infelici fratelli di schiavitù.
Pisacane aveva tutto disposto per lo sbarco a Ponza, e scriveva al Comitato che per la metà di Aprile partirebbe; che sul vapore, che contava prendere di sorpresa alla Compagnia Rubattino, vi sarebbero stati 30 nomini armati, trecento fucili, 14,000 cartucce, lui, Pilo, Cosenz e un altro. Mazzini aveva mandato una cambiale di 9000 lire, e si contava su altre lire mille del Fabrizi. Ma numerosi arresti in Napoli e nelle provincie ritardarono l’attuazione dei piani. Il Comitato, spaventato dalla «precipitata partenza» annunziata da Pisacane, implorava tempo per riordinare le file. Carlo rispondeva di rimettere la partenza al 25 Aprile. Mazzini manda intanto altre due mila lire, scrivendo «ne avrete altre fra poco. Addio, Osate! Un popolo non caccia in Europa il modello delle «Cuffie di Silenzio» senza prendere impegno di una protesta virile. Importa all'onore d’Italia farla, al popolo spetta di convertirla in vittoria. Amate il vostro Giuseppe Mazzini»
Ma intanto Fanelli venne disturbato dalla polizia; ebbe il tempo di distruggere tutte le carte e salvarsi, ma nuovi ritardi ne conseguirono. Le lettere del comitato a Mazzini erano sconfortanti, onde disse a Pisacane che sembravagli che là avessero rinunziata all’azione immediata, e che egli non intendeva assumere la responsabilità di spingere chi scriveva che «non può assolutamente fare nulla».
Ma Pisacane rianimò gli amici e decise la partenza per il 10 Giugno. Il 9 scriveva che «le partite bastimento con armi e munizioni sonosi magnificamente accostate»; che tutte le difficoltà per l’equipaggio, che doveva salire sul vapore erano state superate, che sbarcherebbero a Ponza il Venerdì, a Sapri il Sabato; che Cosenz rimaneva per condurre la corrispondenza da Genova sostituendo un altro capo. «È voi — concluse — voi tutti accettate le mie proteste verso di voi, della più grande stima ed adotto, ed io spero di meritare eguale stima da voi. Salute. Cosenz si dirigerà al socio (Dragone) in Napoli».
Ahimè! La sera stessa del 9 Giugno la barca a vela carica d’armi e di munizioni, sorpresa da burrasca, gettò in mare l'abbondante armamento e le provvigioni di guerra, e così nel momento supremo del giorno stesso in cui si doveva partire, tutto fu rovinato. Mazzini e Pisacane si sgomentarono pensando alla situazione degli amici, che si sarebbero trovati ai vari punti fissati, e che essi non avevano modo di avvertire in tempo, non disponendo di mezzi sicuri per la trasmissione segreta della notizia. Pisacane sapendo che quella sera sarebbe salpato un vapore per Napoli, decise di partire con esso, dicendo: «Rischio per rischio. Se sarò preso risparmierò altre sciagure. Pilo, Cosenz, Nicotera mi rimpiazzeranno. Del resto credo che non mi piglieranno questa volta».
Mazzini era angosciato al vederlo non ad affrontare la lotta armata assieme ad altri intrepidi ma rischiare di cadere solo nelle mani degli sgherri del Borbone. Ripensando a quella notte egli scriveva: «Chi vide Carlo in quell'ora avrebbe detto ch’egli s’avviava a diporto. Era tanta in lui la religione del dovere, che la coscienza di compierlo bastava ad infiorargli la vita».
Ma quel disastro era intanto foriere di ben altre sciagure.
Molti genovesi, i popolani specialmente, sapendo in generale che la rivoluzione si preparava in Napoli si accingevano a cooperarvi con ogni mezzo possibile e, pensando che nelle fortezze e negli arsenali dello Stato esistevano cannoni, armi e monizioni, si credevano giustificati d’impossessarsi di una discreta quantità di quel materiale per imbarcarla sopra un vapore e spedirla in aiuto ai fratelli ribelli dell’odiato Re Bomba. Altri si opponevano a qualsiasi tentativo di un tal genere, ciò fino a tanto almeno che la rivoluzione non fosse scoppiata al Sud. L’emigrazione Lombarda, quasi senza eccezione, osteggiava ogni movimento che avesse potuto mettere il governo Piemontese in qualche imbarazzo; visto che la sua condotta verso l’Austria rassicurava della sua intenzione di non transigere, e di mantenere incolumi i diritti dello stato costituzionale, donde la rottura delle relazioni diplomatiche col richiamo dell’ambasciatore Paar della legazione austriaca di Torino, e del Marchese Cantone, e tutta la legazione Sarda da Vienna.
Nel Maggio 1857 Mazzini, fiero dei suoi concittadini desiderosi che «i loro mezzi d’azione e i loro materiali da guerra fossero mobilizzati a pro dell’impresa e della patria comune» mentre ascoltava tutti i consenzienti e dissidenti genovesi, valendosi dei primi, che organizzava, dava poco peso ai consigli Lombardi, che, a vero dire, mentre biasimavano il fatto del 6 Febbraio, nulla avevano fatto o tentato per promuovere altri fatti, che secondo loro, avessero avuto probabilità di successo. E a me, che vedevo molti di questi emigrati e fra essi sempre Medici, scriveva; «Fate pur sentire a tutti — intendo gli esuli ma non quelli che lavorano — che non vi sarà mai un moto in Genova, se non alla fine dei secoli. Pure, se non volete diventar matta com’io incomincio ad esserlo non fate alcuna propaganda — eccettuato per denaro pel Sud — con alcuno, buono o no. Fatevi un concetto chiaro della situazione: se mai io mi risolvo ad agire qui; non ho bisogno d’alcuno, fuori di quelli che ho. Dopo vedremo.»
«Se vi chiedono delle mie opinioni, dite dopo un certo tempo, tanto che credano almeno ch'io sono fuori di Genova, alla distanza di un giorno o un giorno e mezzo, le seguenti cose da parte mia, a meno che preferiate non dirle: «Che io non ricevo consigli da chi non fa nulla: soli consiglieri non li voglio: «Che se mai, come essi suppongono io dovessi agire in Genova, lo farei evidentemente col consenso dei Genovesi, e che non chiederei il consenso dei signori Lombardi, che ora sono qui: «Che io mi sento preso da rossore e da sdegno nel vedere italiani, i quali otto o nove anni fa gettarono il guanto di sfida all’Austria e giurarono di fare la nazione, così abbietti e privi di ogni senso dell’Unità d’Italia, da dichiarare che l’unico terreno sul quale non possa innalzarsi il vessillo d’Italia sia quello al quale, appunto perche possiede libertà e mezzi d’azione, incombono eminentemente ed eccezionalmente maggiori doveri».
Tra gli esuli che lavoravano v'era Alberto Mario, allora mio fidanzato. Da lui sapevo i pro e i contro nel dissidio. Neppure egli era molto convinto della riuscita del piano Genovese. Tuttavia era deciso a partire con fa prima spedizione che avesse seguito quella di Pisacane, non avendo questi voluto con sé altri all’infuori dei capi prestabiliti, dicendo che «toccava ai Napolitani e ai Siciliani di iniziare; ai fratelli a secondarli, seguendo i consigli della propria coscienza». In quanto al momento attuale egli avevi accettato la parte assegnatagli. Il ritardo causato dal disastro delta barca lo metteva in grave apprensione per il mantenimento del segreto. Ma si mirabile era la condotta di tutti che, nonostante un migliaio di popolani fossero arruolati sotto i vari capi borghesi, per la prudenza d'ognuno, nulla riusciva a trapelare, al punto che avvisi arrivati al governo da Parigi — dove la polizia apriva le lettere tra Genova e Londra — furono derisi tanto da Cavour quanto da Rattazzi, allora Ministro dell’interno. (4)
E ad onore dei dissidenti sia detto che, pur avendo inteso, senza venire a conoscenza dei particolari, che qualche cosa si stava preparando in Genova, non diedero il minimo cenno alle autorità di stare all’erta.
Intanto Mazzini e quanti lavoravano con lui moltiplicarono i loro sforzi per provvedere armi e munizioni onde rimpiazzare il perduto; e Adriano Lemmi, nonostante i suoi consigli fossero tenuti in non cale, ammirando l'eroismo di Pisacane, dette in una volta sola ventiduemila lire.
Danaro continuava ad arrivare dall'Inghilterra: molti Genovesi e Torinesi contribuirono pure ad aumentare i mezzi pecuniari.
Così che Pisacane, al suo ritorno, rimase sbalordito di trovare tutto pronto per una seconda spedizione. Egli intanto in pochi giorni aveva potuto prendere cognizione di tutto il lavoro fatto dal comitato di Napoli, e persuadersi che aspettando ancora qualche settimana per lasciare tempo ad introdurre armi in Napoli, i capipopolo avrebbero potuto contare su forte nerbo di militi. Tre di questi erano andati ad una riunione seco lui in casa di Dragone «centro di tutte le operazioni del comitato, vera casa da cospiratore, ove non c’era angolo che non racchiudesse un mistero: le mura forate, staccate le imposte; il pavimento smosso, il soffitto mobile; tutto era divenuto asilo e ricettacolo all’opera della cospirazione. Ove meno si pensava erano celate coccarde e bandiere; le lettere, le carte assicurate ad introvabili segreti; qua armi e munizioni sottratte ad ogni ricerca; in altro luogo sepolti istrumenti ed oggetti di scrittoio di cui si valevano quegli esperii cospiratori».Di tutto questo era custode Rosa, la brava moglie di Dragone (5).
Pisacane ne era meravigliato, e forse per la prima volta apprezzava al suo vero valore l’intelligente ed instancabile lavoro del comitato, rappresentato per vero dire da Dragone e da Fanelli. Questi lo accompagnarono in alcuni punti della città; gli presentarono varii provati patriotti, ed egli rimase convinto che, provveduto armi e un po’ di danaro, sarebbe stato secondato anche dalla città; purché i moderati non avessero avuto sentore di qualsiasi movimento sintanto che, una volta iniziato, non sarebbe divenuto più possibile per essi di dissuadere i popolani a prendervi parte.
Il 18, egli ripartì per Genova, avvisando Fabrizi della necessità o di vendere le armi in Malta e spedire il danaro al comitato, che aveva mezzo di comperarne e spedirne con celerità, oppure di mandare dette armi nelle acque di Pantelleria, donde il comitato le avrebbe trasportate in Napoli stesso.
Senonché i capi in Genova, avvertirono che sarebbe stato impossibile conservare più a lungo il segreto delle operazioni e tenere nascosti i depositi di armi, osservandosi già un movimento insolito tra la polizia (ciò in conseguenza degli avvertimenti venuti dalla Francia) col risultato però che l’Intendente di Genova informava il governo che tutto e tutti era quiete a Genova. Anche Rosalino Pilo era trepidante per il deposito delle armi nuovamente raccolte. Da Livorno venne notizia che tutte le armi ivi spedite erano state sequestrate a Bocca d’Arno. Giovanni Falcone, inviato da Malta da Fabrizi per insistere sulla necessità di un ritardo sufficiente per lasciar spedire le armi di là nelle acque disegnate, si unì ai più impazienti; e riconosciuto anzi la necessità per Cosenz di rimanere a Genova per gli accordi col comitato di Napoli, si offrì di partire in vece sua, quale uno dei capi della spedizione.
Tutto questo Pisacane scrisse a Napoli, avvertendo che egli si sarebbe impossessato del vapore postale in partenza da Genova il 25 giugno, e che arriverebbe all'isola di Ponza il 28; mentre se qualche incidente l'avesse impedito, il comitato avrebbe ricevuto un telegramma «cambiale rifiutata». E così fu deciso. Per essere sicuro dell'incontro tra il vapore e le barche portanti armi, munizioni e la metà degli uomini arruolati per la spedizione, Rosalino Pilo volle assumerne la direzione. Egli partì la notte del 24, e Pisacane sul vapore, con Nicotera e Falcone e 22 marinai liguri e anconitani, i quali pur consci dei pericoli ai quali andavano incontro, accettarono animosamente i rischi, lasciando una dichiarazione «affinché» — scrissero — «il nostro popolo non disconosca i motivi che determinarono la nostra accettatone» (6). I più erano di Lerici. Tutti salirono sul bastimento con passaporti per la Sardegna o per Tunisi ove apparentemente andavano in cerca di lavoro. Li vidi tutti prima della partenza raggianti di speranza e di entusiasmo. I più perirono nell'impresa; i superstiti combatterono sotto Garibaldi, che li aveva liberati dai sotterranei di Favignana. A Milazzo furono feriti Bonomi Amilcare (uno dei quattro fratelli combattenti per la Patria); Carlo Rosa, fedele alla sua fede fino alla morte; Santandrea, morto in seguito alle ferite riportate e che nel semidelirio dell’agonia cantava «Chi per la patria muore vissuto è assai!».
Pisacane mi consegnò il suo testamento politico e una stupenda lettera di Carlo Cattaneo a lui perché pubblicassi l’uno e l’altra nei giornali inglesi. Furono tradotti nel Daily News, mentre li originali vennero sequestrati nella perquisizione fattami dalla polizia, e che dette occasione a Cavour di avvertire d’Azeglio, ministro sardo a Londra, che io «era in possesso di corrispondenze che non lasciavano dubbio sulla mia partecipazione agli atti più violenti dei congiurati» (7).
Carlo raccomandava agli amici la sua Silvia e la di lei madre. V’era in lui una rassegnata convinzione a non doverle più vedere!
Dall’alto del Carignano con Mario si vegliava finché si vide scomparire il fumo del vapore, indice sicuro che gli ufficiali di sanità nulla avevano sospettato. Allora cominciò per Mazzini l'angosciosa attesa del ritorno delle barche vuote; ciò che avrebbe indicato che Pilo e l'equipaggio suo, avevano raggiunto il vapore.
Erasi deciso dagli amici di Mazzini ch’egli cambiasse domicilio, lasciando quello dei popolani per un altro quartiere. Egli accettò l’offerta di Mario che abitava a Salita S. Bartolomeo degli Armeni n. 15, assieme a G. B. Rutilili di Modena, il quale conoscendo di che cosa si trattava, pur non volendo prendere parte in cosa qualsiasi a Genova, non si opponeva alla dimora di Mazzini in casa sua.
Tutto il giorno 20 passò nella più terribile ansietà. Le barche non erano tornate. La sera Mazzini mi scrisse: «Fin ora nulla di certo: tutto è mistero, ma, temo, orribile a dirsi, che non si siano incontrati. Se il Vapore è nostro, a Carlo mancherebbero 19 uomini e tutti i fucili e le munizioni. Si troveranno costretti a prendere l’isola (di Ponza) coi soli revolvers e le daghe. Egli non può retrocedere. Impadronirsi cosi per forza del vapore è delitto di pirateria. C’è da impazzire pensandoci, e ad ogni minuto che passa, perdo l’ultima speranza. Se le barche e il Vapore si fossero incontrati ieri notte, le barche e i pochi uomini dell'equipaggio sarebbero ritornati di pieno giorno. Il non essere giunti dimostra che le barche, cariche come erano di armi e di uomini, non osano venire di giorno. «E più tardi». P. S. No! Il vapore e le barche non si sono incontrati!» (8).
Questa la desolante notizia che Rosalino Pilo, durante la notte del 26, aveva riportata. Egli pur facendo i fuochi e i convenuti segnali ai luogo designato per l’incontro, non vide il vapore. E ora il terribile dubbio! Pisacane si era impadronito del vapore ed aveva osato intraprendere il viaggio per Ponza? Oppure, in mancanza dei fucili e delle munizioni, aveva proseguito per Cagliari? Nell'incertezza quale telegramma spedire al comitato di Napoli? «Vengono?...» E se non erano andati? I compagni designati si sarebbero trovati inutilmente al posto convenuto e la polizia avrebbe avuto buon giuoco su loro. Al contrario, se Cario e i compagni fossero giunti senza trovare le guide?
Due giorni passarono di terribile incertezza. Finalmente un amico di Cagliari avvisò Mazzini che là il vapore non era arrivato. E allora il telegramma partì, ma giungendo al comitato appena in tempo per mandare le guide a Ponza. Gli avvisi per il Cilento e per la Basilicata non poterono giungere in tempo: appena arrivò quello per Salerno. Fu miracolo che Magnone, dalla sua prigione, potesse spedire il proprio nipote a Ponza. Ma le armi non erano giunte a Napoli, e i popolani, affidatisi ai moderati che dominavano la maggior parte di loro, vennero da essi dissuasi a muoversi, persuadendoli che soltanto il governo e la polizia potevano avere interesse di incitarli a fare dimostrazioni, per poi prenderli tutti in una retata.
Ora si direbbe che Pisacane sia stato imprudente di arrischiarsi a tal punto con soli 25 uomini e senza armi. Ma si diede il caso che Nicotera venisse a sapere che lo stesso vapore portava armi e munizioni per conto del governo in Sardegna. Ciò bastò a quelli animosi per operare. In breve s’impadronirono del capitano e dell'equipaggio, costringendo i macchinisti inglesi, a continuare il loro lavoro, e obbligando il Danesi, capitano mercantile, che si trovava fra i viaggianti, ad assumere il comando. Tutto andò a gonfie vele, e il giorno 27 alle ore pomeridiane il Cagliari gettò l'ancora nelle acque di Ponza. Il capitano del porto, salito a bordo, fu trattenuto e messo al sicuro sotto la custodia di Falcone. Pisacane scese con i suoi e con l’equipaggio; disarmò la piccola guarnigione, liberò i prigionieri (per lo più soldati refrattari) e ritornò a bordo con essi: caricò quattro piccoli pezzi, 200 fucili e sufficienti munizioni; indi procedette per il golfo di Policastro in Calabria e scese al piccolo villaggio di Sapri.
Appena accertato che Pisacane era davvero in rotta per Ponza, Mazzini tenne consiglio coi capi genovesi per sapere se si doveva agire subito in Genova, od aspettare ulteriori notizie della spedizione e del movimento atteso in Napoli e nella provincia. Tutti, senza eccezione, votarono per l'azione immediata. Il ritorno delle barche e il luogo ove stavano nascoste le armi erano a conoscenza di molte persone. Il fatto che due feste si seguivano — la domenica e il San Pietro — era favorevole per giustificare un agglomeramento di gente anche insolito in città e nei dintorni. Ogni capo radunò la sua schiera, il Conte Pasi, con la sua, doveva impossessarsi del Palazzo Ducale; Antonio Mosto della Darsena, ove fu presa ogni precauzione per impedire la fuga dei galeotti; Mario dello Spirito Santo, ove era il corpo dell’artiglieria. Altri dovevano impadronirsi del forte del Diamante e dello Sperone per impedire al governo di molestare la città tino a tanto che armi, munizioni e la batteria da campagna non fossero state imbarcate sul Carlo Alberto ancorato nel Porto. Con parecchi dell'equipaggio si era già d’accordo sulla immediata partenza per le spiaggie napolitane. Rosalino Pilo, che non sapeva darsi pace pel mancato incontro, avrebbe capitanato la spedizione. Tutti i capi, Mazzini compreso, ben s’intende, sarebbero partiti, Genova, lasciata illesa; ben calcolandosi del resto che quello dato non sarebbe stato l’unico aiuto offerto dalla patriottica città ai fratelli insorti. Fino alle otto di sera del 29 nessun segno di allarme; ma poco prima di mezzanotte Mazzini veniva avvertito che il governo stava all’erta e che ogni sorpresa sarebbe stata impossibile (9).
Mancata la possibilità della sorpresa e non volendo Mazzini, a nessun costo, un conflitto armato tra il popolo e la guarnigione, radunò subito i capi e li convinse delta necessità di mandare tutti gli aderenti a casa per aspettare un’occasione più propizia. Senza un fatto apparentemente insignificante, l’indomani le autorità avrebbero ripetuto l’asserto del 10 giugno, che in Genova nessuno sognava di muoversi. Ma al forte del Diamante, ove una brigata di allegri operai con qualche borghese aveva fatto festa bevendo e giuocando alle boccie coi soldati della guarnigione, l’avviso della sospensione da ogni tentativo non giunse in tempo. 1 cospiratori riuscirono a chiudere tutta la guarnigione in uno stanzone. Tutto ad un tratto il caporale Storero tirò un colpo di fucile ai rivoltosi (10); e uno tra questi tirò un altro colpo che uccise fatalmente il sergente Michele Pastrone della 14(a) compagnia del 7(0) reggimento fanteria. — Giunte le ore quattro del mattino senza che arrivasse il segnale annunziante la sollevazione in Genova gli insorti lasciarono il forte gettando le armi nella cisterna ove furono rinvenute dalle autorità. Ne seguirono perquisizioni e arresti di quante persone la polizia sospettava; e qua e la furono scoperti depositi di armi e di munizioni.
Sapendo che Mazzini aveva passata gran parte di quella notte alla Concordia o errando qua e la per cercare che gli ordini di sospensione fossero eseguiti, si stette non poco in ansia. Ma il giorno appresso arrivò il solito messo detto «Giacomo il misterioso» e un altro «Giovanni il pauroso» con un biglietto: «A che cosa avete pensato quando al tocco la città rimase silenziosa.» E, sapendo che Elena Casati — che fu poi moglie di Achilie Sacchi abitava con me in casa di Ruggiero, cappellaio (uno dei capi) e che era pronta a spendere quanto aveva per mandare chi si credeva compromesso salvo al confine, aggiungeva: «Se ci sono degli esuli poveri minacciati, fateli partire; ma non badate alle paure fantastiche. Mi occorrono pur sempre mezzi qui. Se avete notizie certe e importanti speditele. Mi è stata data una speranza poco fa. Conservate il proclama (11) e tutto, ma accuratamente nascosto. È interrotto quasi ogni contatto. Domani potrò forse vedere più chiaro nella nebbia». E all'indomani, con dispaccio convenzionale, giunse la notizia che Pisacane era riuscito nello sbarco a Ponza, che aveva liberato i prigionieri, e che era ripartito di la per i luoghi insorti.
Buone furono anche le prime notizie da Livorno, dove i popolani erano capitanati da Maurizio Quadrio, da Civinini e da Simeoni (12).
Ma le speranze durarono poco, né tardarono nuove raccapriccianti dal Napolitano.
Sceso a Sapri, piccolo villaggio nel golfo di Policastro, con i prigionieri liberati a Ponza, Pisacane rimise il Cagliari al suo capitano legittimo, il Sitza, rilasciandogli un certificato della violenza usatagli e nella nessuna complicità sua e dell’equipaggio nel complotto. Là Carlo ed i suoi aspettavano l'arrivo dei compagni in arme, ma, in seguito a notizie trasmesse da Ponza a Napoli, da uno ch'era riuscito adafferrare un battello, tutto l’esercito del Borbone fu in moto, prima che il comitato avesse potuto avvertire Albini, Pisani, Mattina, di trovarsi all'arrivo coi loro bene organizzati militi. Invece furono accolti dalle forze urbane, che avevano detto al popolo, trattarsi di briganti fuggiti dalla galera. Vista la strage e l’inutilità della resistenza, Pisacane cd i suoi presero la strada di Padula, ove furono assaliti da 3000 guardie urbane e più tardi dai cacciatori e dai gendarmi che ne massacrarono 63. Ancora un tentativo fu fatto per attraversare le montagne; ma uccisi Pisacane e Falcone e lasciato Nicotera ferito e creduto morto, gli sbanditi furono presi alla spicciolata e o uccisi o fatti prigionieri. Nicotera, raccolto per morto, riavutosi e trovatosi per miracolo in mano di un pietoso, ottenne che questo, ritornato sul campo della strage, raccogliesse tutte le carte che si poterono trovare sui cadaveri, e così egli, prima e durante il processo, potè salvare, alterando nomi e cifre, tutti i compromessi in Napoli e nelle varie provincie.
Man mano che i particolari giungevano a Genova, il Governo raddoppiava gli sforzi per arrivare a fondo del complotto e, triste a dirsi, fece perquisire la casa di Carlo Pisacane, e negli interrogatori agli arrestati cercò di strappare informazioni che solo sarebbero riuscite utili al governo di Napoli, aggravando così la sorte dei superstiti dell'eroica spedizione.
Più di uno degli accusati aveva risposto che «credendo nel sacrosanto diritto degli italiani liberi di aiutare i fratelli oppressi ad insorgere contro i loro oppressori non intendeva illuminare le autorità intorno ai mezzi adoperati a questo scopo, onde non aggravare la condizione degli arrestati nel regno dei Borboni».
Ed io stessa dovetti domandare ai magistrati venuti ad interrogarmi nella prigione di Sant'Andrea se erano al servizio del Re costituzionale Vittorio Emanuele, oppure del Re di Napoli.
Ma lo scopo principale degli inquisitori era di sapere se Mazzini era stato a Genova; da quanto tempo, dove alloggiava e se era partito! Coloro che sapevano negarono; i più risposero di nulla sapere; da cui la convinzione rinsaldata nelle autorità che egli o non vi fosse stato mai, o che si fosse già messo in salvo.
Ma l’imperatore dei francesi insisteva. Dava dell’imbecille o almeno dell’incapace a tutti, spedendo alle autorità delle lettere sequestrate alla posta di Parigi, e insistendo che Mazzini era stato da mesi negli Stati Sardi e che ivi dimorava tuttora. Una volta la polizia fu sulle sue traccie. Mazzini aveva accettato, dopo i fatti del 29, l’ospitalità offertagli da Ernesto Pareto e da sua moglie Costanza Beart. La polizia ne ebbe sentore. Fece una perquisizione e, non trovando Mazzini, arrestò il marchese Ernesto. Fece una seconda perquisizione, e Mazzini, che di fatto vi era, non volendo che Pareto soffrisse la prigionia per causa sua, avvertì la Costanza che qualora essa avesse fatto opposizione al suo fare si sarebbe dato in mano alla Polizia. Indi, all’arrivo di una nuova brigata di soldati scese la scala, aprì la porta e, fatti entrare tutti, si fermò a farsi accendere un sigaro da un poliziotto, uscì tranquillamente e, dopo breve cammino, prese una carrozza e arrivò a Quarto.
Riusciti vani tutti i tentativi per scoprire Mazzini, Cavour, l’otto luglio, scriveva al Marchese Villamarina.
«J’ai répondu sur le champ à votre dépêche télégraphique d’hier au soir, en vous chargeant d’engager te gouvernement français de nous expédier, sans délai, l’agent qu'il croit capable d’arrêter Mazzini. S’il réussit, il peut comter sur une belle récompense, car, croyoz le bien, nous désirons ardemment délivrer le Piémont, l’Italie et l'Europe de cet infâme conspirateur qui est devenu un véritable chef a assassins. Si nous le prenons, il sera, je l’espère condanne a mort, et il sera pendu sur la place de l’Acquasola... Ce que je crains maintenant, c’est que Mazzini ne se soit sauve et n’ait regagne sa tanière à Londres. Dans ce cas n’y aurait pas le moyen de demander son extradition au gouvernement anglais? Si on parvenait à établir judiciairement qu’il a cherché à taire assassiner l'Empereur, on ne pourrait considérer cet acte comme un délit politique… Ce qui m’étonne le plus c’est l’étendue des moyens pécuniaires dont il a pu disposer... Il a reçu plusieurs sommes provenant de Lombardie. Un individu a traverse plusieurs Ibis la frontière avec des sacs de Swanziche. Nous croyons que la Police autrichienne en était informée, et quelle a pu y contribuer» (13). E lo stesso giorno scriveva a Boncompagni Ministro di Sardegna a Firenze: «Non è da nascondersi che la setta conteneva più aderenti che non si sarebbe creduto. Il numero degli artigliati ad essa eccede i calcoli fatti, e la loro fede, la loro devozione al profeta supera l'aspettativa. Se giungiamo a prenderlo, come un assassino lo giudicheremo, e se viene condannalo, subirà la sorte che spetta ad assassini» (p. 540).
Il 13 luglio non una, ma due spie francesi giunsero a Torino. Furono fatte partire subito per Genova, esortate a nulla negligere per riuscire nella loro missione, con la promessa di «une récompense éclatante». Intanto Cavour ricevette da un confidente l'assicurazione che Mazzini crasi imbarcato per Livorno sui Corinthion. Ma la notizia era falsa, e Cavour esclamo: «E’ veramente cosa strana come questo demonio giunga a sottrarsi alle ricerche di tutte le polizie d Europa».
Se Cavour avesse inteso l'Idea Unitaria — della quale Mazzini era l'incarnazione, onde i popoli oppressi lo veneravano quale l'angelo della resurrezione — la sua meraviglia non sarebbe stata così grande ed avrebbe compreso le domande con cui Dall’Ongaro canzonava gli sbirri affannati nella ricerca di lui.
Chi dice che Mazzini è in Allemagna
Chi dice ch'ei è tornato in Inghilterra
Chi lo pone a Ginevra e chi in Ispagna
Chi lo vuol sugli altari, e chi sotterra.
Ditemi un po', grulloni in cappa magna,
Quanti Mazzini c’è sopra la terra?
Se volete saper dov’è Mazzini
Domandatelo all'Alpi e agli Appennini
Mazzini e in ogni loco ove si trema
Che giunga a' traditor fora suprema;
Mazzini e in ogni loco ove si spera
Versar il sangue per l'Italia intera.
Nonostante la soddisfazione dell'Intendente di Genova, Ottavio Lamarmora, per l’arrivo delle spie francesi «specialmente dei Corso», queste non fecero miglior pesca di quelle sarde. «Les agents français travaillent toujours» — scrive Cavour a Villamarina l'8 agosto. — «Un d’eux, le Corse, venu à Turin, est à la piste d’un des plus dévoués agents de Mazzini. Je l’ai aide de tous mes moyens. Mais, lui aussi, doit reconnaître que la tache qui lui, est imposée présent plus de difficultés qu’il ne l’aurait imagine».
E proprio quell'8 agosto (data sacra per la superba cacciata degli Austriaci dai Bolognesi) Mazzini, avendo rannodate le fila in Napoli e nelle provincie, interrotte per l’assenza di Fanelli e Dragone che si erano salvati per miracolo, raggiungendo Fabrizi in Malta, lasciò Genova, ove era riuscito a riordinare le Associazioni liguri con Quadro intermediario tra esse e lui passò una notte a Rivarolo in Polcevera, donde giunse a Torino rimanendovi pochi giorni. Il Corso ne ebbe sentore ma non potè «le dénicher». Avvertito da un «confidente», che se n’era andato in Isvizzera, si mise al galoppo dietro di lui facendo di nuovo fiasco nonostante che Cavour l’avesse fornito «des hommes e de l’argent le mettre à mème de remplir sa mission».
Pel Reno proseguì il viaggio e sbarcando a Dover andò a passare qualche giorno a Hastings con James Stansfeld e la sua famiglia, a Mazzini e alla causa Italiana devoti.
«In che stato ci è tornato Pippo ci scriveva lo Stansfeld. E’ invecchiato da anni, malato — affranto per la morte di Pisacane che noi tutti rimpiangiamo» (14). Non si dà pace pel suo Leoncino (15).
«Non dubitare che faremo quanto sta in noi per contribuire alla dotazione che Bertani inizia per l’orfana derelitta (la Silvia figlia di Pisacane). Nelle provincie e specialmente a Newcastle-On-Tyne, l'arresto e il trattamento inumano dei macchinisti del Cagliari, Wate e Park ha creata un’agitazione straordinaria. Le lettere di Harcy Wreford, intorno al processo di Nicotera sono mirabili. Che coraggio civile aggiunto all’eroismo nel combattere (16). Meno male che la pena di morte è commutata, ma che strazi inutili! incatenati,insanguinati, legati assieme! Sono cose incredibili. Non può durare quel governo infernale. Intanto il processo è stato veloce. E quello di Genova quando comincierà? Qui non si capisce niente. Pippo dice che stanno fabbricando le accuse. Ed era indovino e la fabbricazione durò per ben sei mesi».
Pure i rigori del governo Piemontese contro i sospettati cospiratori non soddisfecero il padrone a Parigi: egli volle l’arresto e la cacciata di tutti gli emigrati e i suoi moniti perentori ebbero pronto effetto. Tante e tali furono le vessazioni contro gli emigrati, che uomini della parte moderata, i quali pure avevano biasimato i fatti di Genova, e che credevano fermamente nella politica di Cavour, protestarono, affermando «che le molte vessazioni commesse contro gli esuli durante otto anni crescevano, — che i rigori arbitrari aumentarono coll’addossarsi del regime costituzionale e divennero sistema. Tenuti a tutti i doveri di cittadini Sardi ci si niegano i diritti. L’emigrato non può muovere un passo se non porta addosso una carta di soggiorno; il e suo domicilio è violato al minimo cenno dell’ultimo uffiziale di polizia. Non può mutare stanza «senza ottenerne licenza. Chiunque può chiedergli dove vada e donde venga; chiunque può arrestarlo e senza mandato di giudice, né titolo alcuno di delitto; l’emigrato è catturato e strascinato in prigione, poscia è cacciato dallo Stato; e sinanco deportato per forza in paese lontanissimo; talvolta poco civile.
«La condizione dell’esule innocente è spesso più miserabile di quella del colpevole; poiché questi ha una legge scritta che lo punisce, una pena certa che io minaccia; ha giudice e difesa. Ma quegli, abbandonato interamente all’arbitrio del potere, se domanda giudizio non trova che capricci».
L’autore di questo indirizzo al Conte di Cavour, Presidente del Consiglio dei ministri, che esprimeva l’opinione della parte più moderata degli emigrati, era il Conte Emerico Amari, il quale conchiudeva:
«Per provvedere alla nostra sicurezza e alla nostra dignità è tempo ormai che si sappia a quali condizioni possiamo rimanere negli Stati Sardi; che si sappia se gli italiani, in paese italiano e sotto uno Statuto Italiano, debbano essere trattati come perpetui ex-lege, ovvero come fratelli sventurati i quali, siccome si assoggettano a tutte le leggi dello Stato, debbono almeno godere delle guarentigie che si concedono all'ultimo dei cittadini. Se colpevoli dateci giudici; se innocenti rispettate la nostra libertà. Noi non pretendiamo il privilegio del diritto, ma i diritti dell’uomo onesto. Noi non pretendiamo da un governo nazionale se non quello che la ragione comune di tutte le genti civili accorda ai forestieri. uguaglianza di giustizia. Noi domandiamo che l'onore nostro, la nostra sicurezza, e la nostra libertà non siano esposte all’assoluto arbitrio d’una autorità senza freno e senza responsabilità. Quando un ministro inglese in faccia al mondo intero dichiara ch’egli non ha né diritto né potere di torcere un capello ad un forestiero se non secondo la legge e colle guarentigie del cittadino inglese; nel momento stesso che in quella terra straniera veggiamo italiani assicurati dall’ira di tutti i più potenti sovrani d'Europa, sotto lo scudo dell’inglese libertà: è doloroso che esuli italiani non possano invocare la giustizia»!
Tralasciamo di citare le altre proteste degli emigrati italiani, più fiere, invocanti «Leggi, diritti e libertà» e che poterono essere firmate da gente mite come Antonio Mordini, il quale volle fare sapere che aveva già firmato quella scritta da Amari, e pubblicata da Bertani.
Felice Foresti presiedeva allora il Comitato di soccorso dell'emigrazione italiana in Genova. Di soccorsi furono sempre larghi (17) il Giorgio Pallavicini e il Marchese Benedetto Durazzo; mentre Raffaele Rubattino forniva i mezzi di trasporto agli emigranti in paesi lontani. L’avvocato Stefano Castagnola non cessò mai di perorare la causa dell’intera emigrazione perseguitata, volendo i generosi Piemontesi e Liguri dimostrare la loro simpatia per «i fratelli sventurati», il loro sdegno per le ignobili, sleali, e illegali misure adoperate contro di essi dal ministro servo del due dicembre.
«Non dubitiamo che il linguaggio usato dai protestanti ebbe sapor di forte agrume per il presidente del Consiglio.
Ma più forte del rammarico per il biasimo dei patriotti non rivoluzionari era in Cavour il sentimento di odio personale contro Mazzini, in cui egli vedeva il più forte avversario dei suoi disegni, che erano di sottoporre i destini d’Italia all'uccisore della Repubblica Romana, al distruttore della libertà francese.
«Cavour déteste Mazzini» — scrive la Marchesa Pallavicino a suo marito (3 luglio 1856) — «En me parlant de lui, il a ajoute: quand nous pourrons faire quelque chose celui là doit être fusilé sans pitié».
E non potendo per il momento eseguire questo pietoso disegno né contentare l'imperatore che pretendeva l’immediata soppressione dell’Italia del Popolo, non lasciava passare settimana senza che l’intendente di Genova ricevesse da lui incitamento per agire contro il coraggioso giornale, e ciò prima che l’attentato di Orsini classe colore all’accusa che gli Italiani miravano ad estinguere la vita dell’imperatore. «Il governo francese — egli diceva — si lagna sulla tolleranza che si accorda ai mazziniani ed alla loro stampa. Onde non perdere la sua amicizia, la sola sulla quale possiamo fare assegno nelle attuali condizioni dell'Europa è necessario fare qualche cosa a questo riguardo. (Quello che più gioverebbe sarebbe ridurre al silenzio il monitore di Mazzini l'Italia del Popolo. Per raggiungere questo scopo io non esiterei ad impiegare tutti i mezzi in poter mio. La prego di occuparsene senza indugio concertandosi all’uopo coll’Avv. Genne onde vedere se questo alto funzionario credesse potere colpire quel giornale con frequenti e quasi quotidiani sequestri. Se fra gli scrittori del giornale vi sono emigrati, bisogna dar loro immediatamente lo sfratto, qualunque sia la natura degli articoli dovuti alla loro penna. Anche l’appendicista teatrale deve essere cacciato. Il solo fatto di scrivere in quello scellerato giornale, deve rendere l’emigrato indegno della nostra ospitalità. Esso è un’onta cd un pericolo pella società; il distruggerlo è eminentemente patriottico. Se la S. V. può compierlo acquisterà titolo grande alla mia particolare riconoscenza!»
E il degno fisco fece quanto stette in lui per secondare le calde istanze dell'Intendente. Sequestrò «quasi quotidianamente»; mise in prigione un gerente dopo l’altro; ma ve n’erano sempre altri di pronti a prendere il loro posto.
Il giornale pubblicava tutti gli articoli che Mazzini sempre nascosto in Genova scriveva.
Gli sbirri non riuscirono mai a snidare né Maurizio Quadrio né Civinini, che scrivevano quotidianamente rivelando le mire di Napoleone, e avvertendo gli Italiani che ogni sua intromissione nelle cose loro, non avrebbe potuto riuscire se non a render l’Italia schiava di due stranieri; che il compimento dell'Unità sarebbe stato impossibile; e che il ministro Piemontese, nel secondare tali mire, non aveva in mente se non l’ingrandimento degli Stati Sardi, mentre avrebbe lasciato che il resto del paese rimanesse diviso tra i vari pretendenti.
Quadrio trattava maestrevolmente la politica di tutti gli stati dell’Europa. Campanella, a cui sebbene cittadino Sardo, era stato rifiutato il soggiorno in patria, teneva ilari i lettori con le sue argute appendici, or mettendo in ridicolo le pretese di Orsini «di demolire Mazzini e i suoi satelliti»; poi—sdegnato dalle corrispondenze del famigerato Gallenga, che deputato a Torino, aveva esposti alla berlina i patriotti denominandoli assassini e sicari — narrò con caustico sarcasmo i fasti e le gesta del fu Mariotti (nome assunto da Gallenga), giunto a Torino coll'intento di uccidere Carlo Alberto, fallendo all'intento soltanto perché non potè sapere il numero della casa del Re! E Mazzini che fino allora aveva taciuto intorno all’episodio, diede i particolari ampi e precisi di esso, nulla tacendo della propria opera e così il rinnegato dovette dimettersi da deputato e implorare perdono e oblio (18).
Ad ogni modo non si riuscì ad uccidere il giornale. Gli abbonati persistevano a pagare le loro sottoscrizioni, nonostante che pochi rimanessero i numeri salvi dalle unghie del fisco; i giurati continuavano ad assolvere gli scrittori ed i gerenti.
Cavour, non potendo soddisfare Napoleone colla immediata soppressione dell’Italia del Popolo, ciò che—egli scrive al marchese di Villamarina;— «constituerait un véritable coup d’état qui nous mettrait sur le dos cléricaux e libéraux et amènerait infailliblement la chute du ministère», continua: «comme une manifestation contre Mazzini elle n’est nullement nécessaire à ce qu’ il me parait, puis ce que dans le procès qui va s’ouvrir à Genes dans quelques jours, le ministère public demandera tout simplement la condamnation à mort de Mazzini. On ne saurait nier que c’est là une manifestation bien autrement énergique que la suppression arbitraire d’un journal. Veuillez le faire observer a Walewksy. Il est de la plus haute importance non seulement nour nous mais pour la France». Continua ad affermare che la «Cour de Genes devait prononcer là condamnation de Mazzini; un fois Mazzini condamne nous aurons meilleur jeu pour agir contre l'Italia del Popolo» (19).
Sicché non soltanto era deciso prima dell’apertura del processo che il pubblico ministero avrebbe domandato la condanna a morte del Mazzini, ma ancora che la Corte di Genova avrebbe pronunziata quella sentenza capitale!
Dubitiamo che la storia offra un esempio simile in un paese qualsiasi dell’Europa. La corte del Borbone si mostrava, in confronto, onesta, legale, e perfino costituzionale!
Il Conte però lente che non essendovi prove legali della complicità del Savi «le ministère public ne se dissimule pas que sa tache sera difficile et le succès douteux l'assolution de Savi serait, je vous l’avert, excessivement fâcheux».
Ma nemmeno questo doveva succedere per guastare l’intera soddisfazione del Conte! Tale accanimento contro gli imputati da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri che non si tratteneva dal premere sull'Intendente e sul Pubblico Ministero, non potè a meno di riverberarsi sui Giudici.
Il pubblico dibattimento cominciò il 4 febbraio 1858. Il pubblico ministero accusava gl’imputati di avere con direzione, eccitamenti ed atti di esecuzione, preso parte alla cospirazione che si tentò di porre in atto la sera del 29 Giugno; e del quale attentato era scopo cambiare e distruggere il governo legittimo dello stato per sostituirne altro: reati previsti dagli articoli 185 e seguenti del Codice Penale. Gli imputati erano dunque accusati di alto tradimento punibile colla morte sul patibolo.
Il processo durò 46 giorni. Ogni giorno le menzogne dell’accusa venivano sfatate. Fu chiarito che nessuna parte della città era stata minata; che invece di volere liberare i forzati erano stati adottati provvedimenti speciali per impedire ogni tentativo di fuga; che gli ordini di saccheggio non erano mai esistiti, né esistita mai una lista degli indirizzi domiciliari degli ufficiali; che di bottino non si era mai tenuto parola; che invece di eccitamento di guerra accanita, di strage alle truppe, — tutte le istruzioni suonavano «non violentai I soldati Piemontesi sono italiani necessari per la redenzione della patria comune». Appariva chiaramente il fatto che quanti tra gli imputati (e molti erano affatto ignari perfino della spedizione di Pisacane) avevano avuto contatto coi capi, erano stati da questi informati che nel sud d’Italia v’era grande fermento tra i popoli oppressi, i quali, stanchi di vedere tormentati, torturati, imprigionati, massacrati i loro migliori, erano decisi ad insorgere; che alcuni degli esuli, loro concittadini, si preparavano a correre in aiuto dell’insurrezione. Essi erano stati richiesti, se quali uomini liberi in paese libero, avessero voluto soccorrere quegli insorti; prendere armi e munizioni nell’arsenale, caricare queste sopra un bastimento del porto; impadronirsi di sorpresa di alcuni punti della città per impedire il concentramento dei soldati, fino a tanto che le armi ed i volontari fossero salpati. Tutti quanti — anche coloro che durante gli iniqui interrogatori segreti, minacciati di galera e di morte, avevano risposto si! si! si! (20), come voleva Sua Eccellenza — negarono che giammai fosse stato loro parlato di distruggere il Governo, di bandire guerra a Casa Savoia; che mai avevano sentito parlare di Repubblica, di bandiera rossa; che il motto d’ordine era stato: La Nazione; che la bandiera era il tricolore; e che si credevano sicuri che nel caso di rivoluzione riuscita, Re ed esercito Piemontese si sarebbero, come nel '48, mossi in aiuto dei fratelli. Infiniti i tentativi fatti per incolpare Savi, e gli agguati tesi agli imputati per indurli a dichiarare che da lui avevano ricevuto delle istruzioni e degli eccitamenti. Non uno solo rispose affermativamente. O dicevano che non lo conoscevano, o che lo riconoscevano soltanto per il Direttore dell'Italia del Popolo (21).
L'avv. Giuseppe Carcassi — gloria del Foro Genovese—fu l’anima della difesa, splendidamente e gratuitamente condotta dagli avvocati Cabella, Bozzo Andrea e Pantaleo. Tofano, Leseroni, Zuppetta, Castagnola, Celesia, Boldreni, Merialdi, Bruzzo, Gianelli, Castiglioni, Ronco, Cavagnaro, Parodi, Cavagnino, Romagnoli, Molfini, Chiodo, Maurizio Carcassi.
Il Carcassi stette sulla breccia dì e notte durante i sei mesi dell’istruttoria segreta, riuscendo sempre a scuoprire quanto era a carico dei singoli arrestati, facendo partire i veri compromessi, dolente di non aver potuto indurre Savi a passare la frontiera. Soccorreva i bisognevoli di propria borsa, si tenne in corrispondenza quotidiana con Mazzini facilitò il soggiorno nascosto di Civinini e Quadrio tenendo questi ben provveduti di sigari i genovesi: mandava loro spesso ravain e capon magro di cui il prode Valtellinese era apprezzatore. Sovra tutto stava all’erta affinché nessun imputato desse notizie che potessero aggravare le condizioni dei superstiti di Pisacane rivelando l’iniquo fatto furono spediti a Napoli delle carte trovate nel domicilio dell’eroe martire. Ci vorrebbero pagine lunghe per ricordare tutte le fatiche e i beneficii largiti da quel nobile e generoso essere, morto povero e lasciando derelitti i suoi adorati figli che con vita degna e operosa onorano il nome suo, nome pur troppo dimenticato e negletto dai beneficati. — Splendidi furono i suoi discorsi e meritano di esser citate le parole con cui egli conchiudeva la sua ultima arringa ai giudici:
«Eccellenze! di una serie di fatti vi si presenta «doppia esplicazione — dovere forzatamente scegliere, o quella che proponiamo, o quella che il «Pubblico Ministero propone. —Una è piana, facile, logica, irresistibile—la nostra —; quella del Pubblico Ministero è artificiale, aspra, illogica, impossibile. — La nostra ha due supremi risultati, salva l’onore del nome italiano e miti condanne: quella del Pubblico Ministero è un’offesa per la nazione, inalza sei patiboli! — Voi avete seguito, Eccellenza, lo svolgersi delle istanze fiscali! avete notato come siasi affaticato l’oratore della legge per istabilire le premesse, dalle quali trarre conseguenze di pena capitale; avete notato come per giungere a tanto ei dovesse, trascinato dalla china su cui era posto, porre in oblio tutto un passato di gloria, respingere le speranze di uno splendido avvenire; lo avete sentito restringere i confini della patria italiana al Piemonte, chiamar delitto i desideri, i conati a pro’ della indipendenza italiana, delitto il grido di Viva la patria nostra, come se le ossa dei nostri soldati non biancheggiassero invendicate sulla terra lombarda, come se re Carlo Alberto non morisse solitario e lontano per averle volute? la indipendenza e gridato Vira l'Italia, come se lo statuto nostro, la bandiera tricolore che qui sventola, un fiorente e prode esercito coll’arme al braccio non esprimessero lo stesso concetto, non fossero una solenne promessa, una cara e nobile speranza. Lo avete sentito dire che la sottoscrizione dei cento cannoni, a cui, plaudenti, concorsero milizia, municipi, guardia nazionale, cittadini, è atto di virtù soltanto, perché accenna a difesa, — il pensiero di esser libero bensì, ma «la manifestazione eccessiva di esso doversi corti reggere e reprimere coi lavori forzati, col mozzare la testa a sei patrioti. E tutto questo perché? Il che questo sperpero della sublime eredità del 1848?
«Avverta il Pubblico Ministero che, dove i fatti avessero il senso che egli crede, si verrebbe alla dolorosa conseguenza che in questo unico stato d’Italia dove esiste libertà, esiste un vasto malcontento eziandio, che gli italiani sono una razza selvaggia e feroce, che a gran numero di essi sorride un futuro di strage ordinata a rapina. Colla nostra a esplicazione, Eccellenze, le nobili tradizioni del passato son sacre, sacre le speranze dell’avvenire, il malcontento svanisce, non cade tant'onta sul nome italiano, è inutile l’opera del carnefice. — Scegliere». (Supplemento al N. 10 della Gazetta dei Tribunali, Genova, 8 Mario 1858).
Eppure il pubblico accusatore del Regno Costituzionale, vincendo in ferocia il «Pacifico» procuratore del Borbone, insistendo sulla falsa accusa, chiese dodici teste, mentre l’accusatore borbonico, per gli imputati colti davvero in flagrante, si era contentato di domandarne sette (((22))). E il Presidente della Corte d’appello Murialdi, coi consiglieri Vassallo, Parodi, Mangini, Crocco e Morelli, condannò a morte sei: Mazzini, Mosto, Mangini, Casareto, Lastrico, Pittaluga Ignazio; dieci a 20 anni di lavori forzati; otto a 12 anni; dieci a 10 anni, e tra questi Savi, il direttore dell'Italia del Popolo;
poi il ragazzo Capurro ad anni sette.La pena capitale fu poi commutata in galera a vita. Per le nozze del Principe Napoleone con Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele, fu accordata nel 59, l’amnistia a tutti, fuorché a Mazzini. Quasi tutti i liberati accorsero a combattere per l’Unità della Patria. Molti partirono da Quarto coi mille e fra questi il Savi, sebbene affranto per le sofferenze ella prigionia, e fece tutte le campagne delle Due Sicilie. Mosto capitanò i famosi bersaglieri genovesi, tra cui, dopo la loro liberazione dai sotterranei di Favignana, accorsero molti dei superstiti di Pisacane. Garibaldi accogliendoli a braccia aperte sulla sua terrazza favorita della Reggia di Palermo, disse: «I primi onori a Pisacane, precursore, e a questi bravi pionieri».
E disse bene. Quell’ultima catastrofe appianò davvero la via del trionfo! Da parte sua Cavour riuscì ad indurre il Bonaparte ad allearsi col re del Piemonte per fare la guerra all’Austria, promettendo la Savoia f lasciando in forse Nizza; con Murat a Napoli; il Papa a Roma; e le Legazioni da aggiungersi alla Toscana da formarne un regno a un pretendente futuro, se il granduca, avesse preso la parte dell'Austria nella guerra. Questo a patto che la Lombardia e il Veneto venissero aggiunte al Piemonte con Piacenza e Modena (23).
Affranto di salute, angosciato per la perdita di sì nobile schiera d’eroi, esauriti tutti i mezzi pecuniari minacciato di sequestro della piccola annualità che la madre sua avevagli assicurato, Mazzini non si perdette d’animo, anzi esplicò una raddoppiata energia per affrontare i nuovi ostacoli, che insorgevano a minacciare il compimento di quell’ideale pel quale quegli eroi erano corsi al martirio. Vide inevitabile la guerra colla fatale alleanza e ne previde tutte le conseguenze, qualora il Bonaparte fosse riuscito nel suo nobile intento di sostituire il predominio francese a quello austriaco in Italia. Su fatti accertati e con l’intuizione del suo genio, previde che l’intenzione di Napoleone non era già di distruggere l’Austria, ma soltanto di indebolirla nel settentrione, per impedirle ogni azione al centro e al sud d’Italia, ove sperava insediare due membri della sua dinastia. Ed in 15 dicembre 1858 nel giornale «Pensiero ed Anione» Mazzini così ammoniva gli Italiani: «Avete una pace subita, rovinosa, fatale per gli insorti a mezzo la guerra. Un Campoformio, che darà alle vendette nemiche la più parte tra le provincie insorte. Temendo una guerra prolungata e l’insorgere dei popoli, Luigi Napoleone accetterà la prima proposta dell’Austria e i desideri pacifici delle altre potenze, costringerà il Monarca Sardo a desistere, concedendogli una zona di terreno qualunque a seconda dei casi, e abbandonerà, tradite le provincie Venete e parte delle Lombarde».
(N. 8 del Pensiero ed Anione). La raccolta di questo giornale è rara. Una la tengo io a disposizione. Fu pubblicato in Londra —61, Hatton Garden — fino al Maggio ’59; poi sospeso durante la guerra. Ripresala pubblicazione in Luglio —dopo la pace di Villafranca— nel Gennaio 1860 Alberto Mario dopo la prigione (a Bologna 1859) ne divenne il Direttore. Lo stampò a Lugano e a lui e al giornale, Cavour fece la stessa guerra spietata che aveva fatta a. l'Italia del Popolo — Ingiunse al governo della Svizzera di bandire Mario dal Cantone e di proibire il giornale per non esporre le autorità cantonali a delle noie; Mario si rifugiò in campagna e il giornale fu stampato clandestinamente fino al Maggio in cui egli parti per la Sicilia — Allora Maurizio Quadrio incominciò la pubblicazione dell’Unità Italiana a Milano e più tardi Campanella diresse il Dovere a Genova.
E per trasformare la catastrofe certa in una vittoria v’era un solo modo: quello di concentrare tutte le forze della nazione; unire i popoli, il Re, l'esercito per fare fronte ai nemici dell'Unità.
E il 28 febbraio 1859, rinnovando le proteste contro l'alleanza, dichiarò, in nome suo e dei repubblicani firmatari, che «in quanto riguarda la monarchia Piemontese la questione dell’oggi non e per noi questione di Repubblica, ma d’Unità e di sovranità nazionale». Dichiarò che abborrendo egualmente dall’austriaco in Lombardia, come da ogni altro straniero armato in Roma e altrove, amando con lo stesso amore l’Italiano di Sicilia e l’Italiano delle terre Alpine, i repubblicani volevano e anelavano guerra all'unico grido di: Viva l’Italia, Viva la Patria Una; e che in una guerra, condotti con sole forze nazionali, essi seguirebbero sull’arena la monarchia Piemontese e promuover ebbero con tutti i loro sforzi il buon esito di essa, purché tendente in modo esplicito all'Unità Italiana.
E appena firmata la pace di Villafranca, da lui prevista, Mazzini e quanti avevano combattuto co Garibaldi in Lombardia — (e in omaggio al vero devesi dire che la maggior parte dei firmatari! de protesta, non sapendo resistere alla voluttà di mena le mani contro l’Austria avevano già raggiunto Duce Amico) — corsero in Italia per mantener e promessa. E Crispi arrischiò la vita percorrendo volte la Sicilia per ordinare le schiere unitarie. E Mario, appena giunto dalla sua gita di propaganda negli Stati Uniti, chiamò a raccolta «I Fratelli Repubblicani» al grido: «Conserviamo la nostra fede politica, il diritto di farne pacifico apostolato, rispettando la volontà liberamente espressa dalla Nazione. Ma adesso contiamo all’armi francamente e lealmente, Duce Vittorio Emanuele» (24 luglio 1859 Pensiero ed Azione).
«Al centro, al centro, mirando al Sud» gridò allora Mazzini da Firenze, ove stava chiuso in una cameruccia, nota essendo la sua presenza a Ricasoli, che con lui scambiò idee e progetti. Questi fece il sordo agli incitamenti di bandirlo dalla Toscana che gli provenivano da Cavour e Compagni, non appoggiati questi, a dir vero, dal Re, che già aveva saputo apprezzare il valore e il disinteresse di Garibaldi, e incominciava pure a comprendere la magnanima lealtà di Mazzini, specie dopo aver letto la lettera in cui questi lo incitava a fare l'Italia Una,assicurandolo che Dittatore o Re, avrebbe avuto la benedizione dell'intera nazione e la sua.
E mentre il popolo della Toscana e del centro, resistendo alle minaccie e alle blandizie della diplomazia, volle e riuscì a fondersi col Piemonte per creare l'Italia, insorse la Sicilia; e Napoli, sprezzando l’offerta costituzione, non aspettava che Garibaldi per unirsi anch’essa all’Italia, senza dare ascolto al consiglio dei moderati che, istigati da Cavour, facevano sforzi enormi, cospirando col fratello del Re di Napoli e coi suoi ministri, per far proclamare l'annessione del Piemonte, escludendo Garibaldi e impedendogli di varcare la frontiera per liberare le provincie soggette al Papa (24).
Coll'aiuto di Napoleone III Cavour troncò la marcia liberatrice di Garibaldi; serbò per altri dieci anni Roma al Papa e ai masnadieri papali, i quali protetti e aiutati dai soldati francesi, davano mano e rifugio ai briganti che infestavano le provincie napolitano, rendendovi impossibile il pacifico insediarsi di un governo nazionale.
E, morto Cavour, i suoi successori — Ricasoli solo eccettuato — tennero l’Italia, fremente ma impotente, soggetta al volere imperiale, che condusse al delitto
onde Aspromonte è infame.
Ma il Re non si rassegnò e volle la guerra per la Venezia e la bandì, costretto poi a subire la nuova umiliazione di firmare la pace e ricevere quella regione da chi gli vietò di avvicinarsi a Roma. Mentana infranse l’alleanza, conducendo la monarchia sull’orlo della rovina. Ma l’idea dell’Unità, trasformata in volontà suprema salvò anch’essa.
Spezzata a Sédan la spada che aveva troncata la vita alla Repubblica Romana, e che aveva tenuta la Francia schiava di anima e di corpo, — i ministri del Re, — che tenevano Mazzini prigioniero in Gaeta e Garibaldi bloccato a Caprera per avere, durante quei tre anni di vergogna gridato ogni giorno e ogni ora «a Roma! a Roma!» (e verso Roma Mazzini cercava di condurre i Siciliani quando fu arrestato nelle acque di Palermo) — ottennero il permesso di spedire l’esercito italiano alle porte di Roma. E non volendo il rappresentante di Dio cedere il potere temporale, senza che vi fosse spargimento di sangue, essi entrarono per la breccia.
I romani proclamarono Roma capitale dell’Italia Una. E gl’italiani tutti quando videro la bandiera tricolore sventolare dii Campidoglio, acclamarono Vittorio Emanuele Re dell'Italia Una. Memore del supremo fato suo, nel cingere la corona del padre vinto a Novara — ove, combattendo per l’Indipendenza Italiana aveva indarno cercato la morte per essa — il giovane Re innalzò in vista d’Italia e del mondo, la bandiera lacera e calpestata raccolta sul campo della disfatta. E quella bandiera, simbolo della futura riscossa, mai abbassò né per minaccia né per sconfitta.
E con essa mantenne incolume lo Statuto respingendo le lusinghe di Radetzki, il quale gli offriva in cambio dell'abolizione dello Statuto una pace vantaggiosa. Piuttosto che cangiare la bandiera dell’Italica indipendenza o rinnegare il pegno di libertà dato da suo padre al suo popolo — egli protestò: lascerebbe invadere la capitale, dove, se vinto, abdicherò io pure, prendendo come il padre la via dell'esiglio.
E durante il resto del secolo, che vide compiuto il miracolo dei secoli, una Nazione risorta a terza vita, i nomi di quel Re, di Cavour, di Garibaldi e anche di quanti fra la gloriosa schiera di eroi, di martiri e di militi, conquistarono una Patria, furono glorificati e segnalati alle nascenti generazioni.
Ma il nome di Colui che per il primo «vide
La tera Italia; e con le luci fise
A lei trasse per mezzo un cimitero
E un popol morto dietro a lui si mise»
fu proscritto. Colui che durante quarant’anni gridò, animò, costrinse quel popolo a seguirlo, vincendo ogni ostacolo, asserragliato da nemici perfidi, potenti, scaltri: nutrito di dolore, abbeverato di fiele, perseguitato da calunnie ed atroci ingiurie, abbandonato, reietto, deriso; colui, che con incrollabile fermezza era riuscito a condurre l’Italia nel porto di salvezza, fu messo al bando, in morte come in vita.
Gli scritti suoi furono proibiti, banditi dalle scuole, dagli utilizzi, dalle caserme. Perché? Perché egli che aveva indotta e condotta l’Italia ad essere, le aveva anche lasciato le norme per vivere nobilmente, degnamente compiendo i singoli doveri che le avrebbero dato il diritto a tutti i benefici che la conquistata Unità le riserbava. Ma quei benefici i reggitori della Nuova Nazione non avevano voluto concedere al popolo, ritenendoli monopolio e privilegio delle classi agiate, delle classi cosi dette superiori. Perciò vollero tenerlo nell’ignoranza degli insegnamenti di Colui che per essi visse e mori.
Incauti! Il senso del diritto quel popolo l’aveva, e, defraudatone, si risolse a volerlo conquistare anche con la violenza, anche con la minaccia di demolire quanto gli ostacola la via. Solo perciò si è pensato che non potendo impedire la lotta, meglio era di ricondurre il popolo agli insegnamenti dell’Apostolo del dovere e dell’amore. E Mazzini, in questi ultimi tempi, fu lodato, magnificato, contrapposto alle nuove guide, che si offersero di condurre il popolo alla meta prefissa con metodi diversi da quelli da lui indicati.
Meglio tardi che mai, purché troppo tardi non sia.
Possa questo primo centenario della nascita di Giuseppe Mazzini segnare una nuova era, iniziare una nuova crociata a pro della redenzione morale e sociale di tutti i nati sulla terra ove egli nacque il 22 giugno 1805, a pro della Patria ove (sebbene sotto nome non suo, che non volle contaminato da amnistia o da perdono), pure mori il X marzo 1872 (25).
JESSIE WHITE VEDOVA ALBERTO MARIO
Nota.— Questo superbo studio dell'illustre e benemerita donna viene pubblicato in ultimo perché solo all'ultima ora mi pervenne il manoscritto. I lettori vedranno che ad esso spettava il primo posto.
N. C.
La Corte d'Appello in Genova sedente.
Nella causa del R. fisco di Genova contro, ecc.
Considerando che il risultato del pubblico dibattimento, e per quanto concerne gli accusati che si resero contumaci il complesso dell'istruttoria seguito nel processo scritto, avrebbero in modo evidente accertato:
Come nella notte del 29 giugno 1857 sì tentò di attuare una cospirazione da lungo tempo prima macchinata e preordinata, all'intento di distruggere la forma delle istituzioni che ci governano per preparare il trionfo del così nominato partito di azione formato, concitato e diretto da Giuseppe Mazzini, il quale, essendosi dichiarato in lotta, come risulta dai documenti letti all’udienza, con tutti i poteri costituiti, palesò sempre in modo esplicito e le sue intenzioni, di farsi un punto di leva di una città italiana importante, che bisognava compromettere con un colpo di mano per avere un centro direttivi) d’azione all'insurrezione generale d'Italia, con abbattere i (inverni che ne impediscono la unita, e primo ha questi la Monarchia Costituzionale del Regno Sardo riguardata dai Mazziniani, e massime dal giornale che in Genova ne promuove apertamente e ne diffonde le dottrine, come il principale ostacolo alla esecuzione dei loto disegni, e al prevalere delle teoriche repubblicane.;
Che infatti gli assembramenti armati, dì cui si scopersero le tracce recenti, seguiti ne’ la notte tra il 29 e 30 giugno, io arresto quasi simultaneo dì persone trovate in ora tardissima munite d'armi insidiose e cartuccie, la rottura del filo telegrafico che pone Genova in relazione colla capitale del Regno, i depositi d'armi da fuoco di ogni fatta, dì pugnali e lime appuntate in gran numero, di succhi di polvere a miccia giudicati dai periti atti ad abbattere edificii, e altri strumenti di distruzione e di guerra, la concertata occupazione del forte dello Sperone con le scale atte a insalirlo, e la quasi contemporanea invasione del forte Diamante, il tutto avveratosi 0 quella notte medesima, del che fecero fede i molteplici dormenti letti all'udienza e le deposizioni concordi di un gran numero di testimoni, dimostrarono non solo la esistenza della accennata cospirazione, ina come un attentato diretto allo scopo d’impadronirsi della somma delle cose e surrogarsi al potere costitutivo fosse già in parte compiuto, del che specialmente fornirono prova le grida di Viva la Repubblica, innalzata da quelli che si introducevano nel forte, e i discorsi ivi tenuti sull'essersi già stabilito in Genova un Governo provvisorio;
Considerando essere pure constatato come, ad agevolare 1 riuscimento del nequitoso disegno, si volle che all’unita dello intento cooperasse unità d'impulso ed efficace cooperazione di mezzi; e si ebbero prove didatti come a ciascuno delle varie conventicole fosse nella indicata notte assegnata una speciale missione: a quella raccolta in prossimità di Santa Brigida lo assalire il vicino Arsenale di terra, a quella convocata presso S. Siro nel magazzino Roggiero l’occupare il palazzo Tursi, ov’è in deposito l’armamento della Nazionale Milizia, a quella raccolta nella casa presso S. Pantaleo l’occupazione dello Sperone, a quella riunita a S. Lorenzo di Casanova l'incarico recato ad atto d’invadere il forte Diamante; si ebbero prove che a fornire ciascuna di quelle adunanze di un competente numero di esecutori della trama fu per tutte adoperato l'identico stratagemma di trarvi operai e giovinetti inesperti, coll’esca di farsi baldoria, e darsi bel tempo; in tutte adoperata la precauzione di porre persone armate sull’uscio che con minaccie di morte impedivano agli entromessi no: consenziente lo allontanarsi dal luogo; in tutte manifestati gli stessi propositi di sommossa, mentre in tutte un quasi simultaneo ordine di scioglimento, sopravvenuto da ignota persona, diede segno allo sbandarsi degli adunati;
Considerando che a bene e chiaramente palesare il carattere dei moti avvenuti nella notte d il 29 giugno, e a dimostrare insieme come al concorso dei mezzi immediati specificati poc’anzi precedessero disposizioni preparatorie, valse un complesso di fatti fra loro intimamente collocati e strettamente connessi, dei quali pure si ottenne luminosa dimostrazione.
Ciò si dedusse in fatti dalle istruzioni e avvertenze per le bande armate, soscritte da Giuseppe Mazzini, e rinvenute presso uno degli accusati al momento del suo arresto; da varie lettere da lui vergate, e sequestrate durante l'istruttoria sul dosso ed in casa di altri accusati, o presso altre persone con loro strette n relazione, e specialmente da quella indirizzata al Savi colla contemporanea trasmissione degli statuti dalla Giovine Italia, nei quali dicendosi questa per essenza repubblicana e unitaria, il Mazzini nell'inviarli protesta esser tale sempre la sua bandiera, da quella rinvenuta fra le carte dell’Antonio Mosto, in cui si approva il Comitato d’Azione formato in Genova, da una serie di articoli inseriti nel giornale l'Italia e Popolo e nel loglio periodico che gli succedeva col titolo d'Italia de! Popolo, in cui proclamasi l'impotenza della Monarchia di Savoia a procacciare la redenzione d'Italia, dai discorsi tenuti in occasione che in Sestri Ponente s’ inaugurava la Società degli Operai il giorno medesimo che precedette a quello dei moti di che si tratta, e in cui dicendosi schiava la nostra bandiera, e vile chi non prendesse le armi, accennavasi a che il tempo di brandirle era vicino, e forse che il domani sarebbe stato il giorno da ciò; ed infine dai discorsi dall'Ignazio Pittaluga tenuti con più persone intorno ad una rivoluzione da farsi meglio organizzata che quella del 1849.
Né a far reputare diversi l’indole e il fine dell’impresa, a cui s’accingevano i macchinatati del reato in discorso, varrebbe l’opporre, che intento unico degli accusati, come del partito d’azione, si fosse il promuovere l’insurrezione nelle altre parti d'Italia per ottenerne l’affrancamento dallo straniero, e la tramata unità, non mai quello di immutare la forma delle istituzioni che ci governano, dappoiché, ritenute le dottrine, i principi! direttivi e le esplicite proposizioni espresse nei documenti sovra enunciati è impossibile il conciliarne l’applicazione colla conservazione dell’Ordine Monarchico Costituzionale. Che anzi il sostenere come il Mazzini, conseguito che fosse l'affrancamento d'Italia, rimetterebbe nella Nazione convocata l’arbitrio di determinare la forma definitiva di reggimento a cui le piacesse di sottostare, evidentemente appalesa, come a tal uopo riescirebbe d’assoluta necessità il preparare il terreno sgombro da ogni ostacolo di governo qualsiasi che attualmente sussista, e quindi per logica necessità quello che vige nella città che si volea punta di leva alla insurrezione della penisola intiera;
Che, stabilito per tutto ciò, come una cospirazione in Genova si era ordita, all'intento di distruggere la forma del Governo, e che un vero attentato per porla in opera si commetteva nella notte del 29 giugno ultimo, attentato che non meno della cospirazione fu dal P. M. chiaramente dedotta e caratterizzata nell’atto di accusa, sia coll’essersi riferito all’art. 185 del Codice penale, che comprende entrambi i reati, sia coll’avere specificatamente accennato agli atti di esecuzione coi quali la cospirazione si è mandata ad effetto; soprabbondarono poi pure le prove atte a convincere e porre in chiaro quali ne fossero i principali ordinatori, quali gli esecutori, e quali infine i cooperatori in grado più o meno efficace;
Che tutto, infatti, il complesso delle risultanze ottenute, gli articoli del giornale l'Italia del Popolo soscritti da Giuseppe Mazzini, gli statuti della Giovine Italia da lui trasmessa al Direttore di quel giornale in tempo assai prossimo ai movimenti del 29 giugno, le lettere sequestrate sulla persona dell’accusato Bisso, arrestato sul Lago Maggiore il di i° di agosto, lettere delle quali fu accertato il carattere di Mazzini, mediante perizia, e gli opportuni raffronti con altre indubbiamente riconosciute per sue, le disposizioni di chi attestò anche nel processo scritto come il coaccusato contumace Gio. Battista Casareta nel giorno stesso del 29 giugno apertamente dichiarava come dopo 18 mesi era finalmente venuto dal Mazzini l’ordine di operare, soggiungendo com’era questi dimorato per assai tempo in casa sua; l’esser pure constato, come il Mazzini, trovandosi in Genova 6 mesi circa prima del 29 giugno, a chi procurava distoglierlo dai suoi concetti rispondeva: eppure la cosa andrà, e finalmente le ammessioni che si riscontrano negli articoli intitolati la Situazione, inseriti nell'Italia del Popolo, palesavano ad evidenza essere stato il Mazzini l'autore principale della cospirazione di che si tratta;
Che ciò in modo più esplicito si desume da un brano d’una delle lettere succennate, in cui è detto: «Sebbene tutto sia andato a male, abbiate per fermo che l’azione è possibile, che l’elemento popolare, quantunque abbia parzialmente mancato, è buono e potrebbe agire. Più che mai sono risoluto di andare fino all’ultimo punto in questo disperato confitto, fra tutti i poteri costituiti e me, e in altra rimango lo stesso e mi occuperò di rifare».
Che mentre dal tenore di queste lettere si ritrae la funesta pertinacia del Mazzini nei suoi disegni sovvertitori, se ne addimostra insieme persistente il proposito di adoperare di preferenza a strumenti quelle classi del popolo che facili ad aggirare come più naturalmente desiderose di migliorare la loro condizione e cupide di cose nuove, sperano in un subito e generale mutamento sociale il mezzo di appagare lo intento, il che pure ebbe suggello di eloquenza conferma nei gridi di viva Macini inalzati nell'adunanza degli Operai di Sestri, ivi tenuta il dì innanzi all’attentato, e nella quale accennavasi a che il giorno di brandir le armi poteva appunto esser il domani;
Che insieme col Mazzini cospiratori furono Antonio Mosto, ed Angelo Mangini, siccome è risultato, riguardo al primo, dalle carte sequestrate nel cassetto di uno scrittoio situato in una camera da letto dell’alloggio da lui preso in affitto in una casa di campagna in Cornegliano, ed in ispecie dalla lettera del settembre 1850, trovata con altre carte riconosciute proprie di lui Antonio Mosto, con cui Mazzini, qualificandolo fratello, dichiara ad ogni patriota credente nei principii che segue, che il vostro Comitato d'azione costituito in Genova è in pieno accordo con lui, e che avrà qualunque appoggio prestato dai patrioti alle vostre operazioni come prestato alle sue, e conchiude col manifestare il desiderio che possono nel vostro lavoro unificarsi tutti gli elementi attivi dello Stato, e riguardo al secondo, dalla notorietà delle intime sue relazioni coi Mazziniani e dalla lettera da lui scritta il 3 luglio dello scorso anno a persona godente tutta la confidenza del partito e sequestrate in questa città nella casa abitata già da Carlo Pisacane, nella quale, dopo di aver detto, che il dado sembra gettato, se capaci, potremo ancora fare qualche cosa di bene, parla di un Checco che non dispera ancora di tutto, e conchiude col dire che trovasi col comune amico il conosciuto Luigi Stallo, e domanda per favore notizie del nostro Roggero altro coaccusato;
Che esecutori dell'attentato sono stati Ignazio Pittaluga, Gio. Batt. Casareto e Michele Lastrico, i quali dopo di essersi adoperati per radunare persone nelle vicinanze del Diamante, vi entrarono essi dapprima mediante la soverchia condiscenza del Guardarme che seppero cattivarsi con male arti usate per lungo tempo precedente, vi fecero bere vino e liquori alterati ai soldati, e quindi vi fecero irrompere la banda per essi a tale uopo preparata, la quale capitanata dal Pittaluga e potentemente secondato da Casareto e Lastrico, dopo di avere fatto violenza alla sentinella, trascinandola pel collo e minacciandola con pistole, e dopo di avere chiuso i soldati tutti nel camerone nel quale fu ucciso il sergente Pastrone, prese possesso del forte, sfondando le porte dei magazzini, levandone e distribuendo la polvere, trasportando mortai, ed appuntando cannoni, e non se ne andò che nel mattino successivo, quando per la mancanza del convenuto segnale sul forte dello Sperone, Pittaluga, che per vederlo aveva seco portato un canocchiale, che vi è rimasto, indusse colle parole e coll’esempio i compagni a fuggire di là per non esservi arrestati;
Che tutti e tre conoscevano lo scopo finale dell'attentato, poiché Pittaluga e Lastrico dissero al coaccusato Deoberti, uscendo dal tiro nazionale, dove qualche tempo prima era stato condotto dal Pittaluga, che l’esercizio del tiro avrebbe loro servito per conseguire la libertà, mandar via tutti i mangiatori, levarsi le tasse, togliere di mezzo la polizia, per fare insomma una rivoluzione meglio organizzata che nel 1849; e Casareto, strada facendo per il Diamante nel pomeriggio del 29 giugno, disse a quelli della sua brigata che dopo diciotto mesi di aspettativa il momento era finalmente arrivato, che l’ordine di Mazzini era giunto; vedendo poscia da lungi il Gendarme del Diamante, esclamò: è l’ultima volta che me ne mangi, alludendo ai mezzi di cui egli ed i suoi si erano serviti per cattivarsi la confidenza del malaccorto Gendarme; indicando quindi la casa locata al coaccusato Devalasco in S. Lorenzo di Casanova, disse colà esservi di tutto, alludendo alle armi, alle munizioni ed agli armati che vi si trovano; poco stante Casareto e Lastrico aggiungevano che sotto la caserma dei Bersaglieri da S. Ambrogio vi era un sacco di polvere, che se i Bersaglieri non fossero andati via da Genova si sarebbe fatto saltare la caserma, che vi era quanto bastava per cacciare in aria palazzi, e finalmente entrati nel forte cercavano di rassicurare i timidi a non aver paura, che a Genova eravi il Governo provvisorio, al quale non meno che alla repubblica gridavano viva, che comandavano essi, e tutto ciò dopo di avere, armata mano, replicatamentc intimato ai soldati di arrendersi, che altrimenti li avrebbero uccisi;
Che complici nell'esecuzione dell’attentato sono: Francesco Moro, Carlo Banchero, Girolamo Figari, Antonio Pittaluga, Tommaso Rebisso, Teobaldo Ricchiardi, Andrea Sanguineti, Ferdinando Deoberti, Francesco Canepa e Gio. Batt. Capurro minore degli anni 18 per averne aiutato ed assistito gli autori nei fatti che lo prepararono lo facilitarono e lo consumarono;
Che nel fatto concernente il Maso, senza far caso delle voci corse nella banda invaditrice, che le armi distribuite nella casa Develasco siano state da lui caricate, è risultato che nelle ore pomeridiane del 29 giugno andò con Pittaluga Ignazio, Bandiera e Canepa a S. Lorenzo di Casanova aprendo egli colla chiave che portava la casa del Develasco, d'onde più tardi andò con essi al Diamante, dove già erano andati per altra via Lastrico, Deoberti, Sanguineti e Casareto, dicendo per istrada tra loro, Moro, Pittaluga Ignazio, e Banchero: hanno mangiato e mangiato, ci costa qualche cosa, ma alla fine sono come il pesce lupo rimasto all'amo, alludendo ai due gendarme dello Sperone e del Diamante; che Pittaluga Ignazio avendo scritto a Genova una lettera per domandare soccorso d'ogni specie, la quale fu pure sottoscritta da Lastrico e Casareto, fu pel recapito consegnata a Girolamo Figari ed al Moro, ma questi solo se ne incaricò, assicurando che, anziché lasciarsela prendere l'avrebbe mangiata;
Che il Banchero non solo entrò coi sopradetti nel Diamante, non solo tenne coll’Ignazio Pittaluga e col Moro il riferito discorso intorno al pesce lupo colto all'amo, ma condusse pure a S. Lorenzo il coaccusato Canepa, pagandone il viaggio sino a Bolzaneto per la strada ferrata, ed un altro, posto ora fuori causa, indicò la casa Devalasco dove li condusse e strada facendo da Bolzaneto a S. Lorenzo, fatti fermare i compagni, loro dimandò che cosa meriterebbe chi tradisse, alla quale domanda fu risposto — coltellate;
Che il Figari trovato dai compagni a Bolzaneto, dove gli aveva con altri preceduto, andò con essi primissimamente alla casa Devalasco, e quindi al Diamante, nell'interno del quale fu veduto armato come tutti gli altri di schioppo, siccome disse il suo garzone e coaccusato Gio. Batt. Capurro;
Che l'Antonio Pittaluga, se non fu veduto nel Diamante, era però cogli altri, e cosi con suo fratello nella casa Develasco, donde contemporaneamente usci colla brigata, e se forse non la seguitò sino alla meta della spedizione, egli è, come opinò qualche testimonio, per avere voluto andar a prendere notizie dei complici di S. Pantaleo, e per assicurarsi del gendarme dello Sperone, col quale allo scopo di trarlo nella rete, si era messo in istretta relazione;
Che Sanguineto, Deoberti, Canepa ed il Capurro ammettono essi stessi quello che altronde è pure risultato, che cioè entrarono armati cogli altri nel Diamante, scusandosi però col cercare di persuadere che vi furono tratti con inganno, ma inutilmente, poiché la qualità ed il modo della riunione bastavano per se per aprire loro gli occhi e del resto, a detto del medesimo Capurro, nello armarsi e nel fare i preparativi di partenza dalla casa Develasco, dicevasi generalmente che s’andava a prendere il forte per fare la rivoluzione;
Che questa ragione si applica pure al Bebisso, il quale andò con loro a Bolzaneto, di là a S. Lorenzo, e quindi con loro entrò nel forte colle armi alla mano, come fece eziandio il Ricchiardi, siccome è risultato dalle sue confessioni in due tempi diversi fatte a due diversi testimoni che gliele sostennero in faccia ed al faciente funzioni di assessore di pubblica sicurezza delle quali non si è potuto non fare il massimo caso, sia perché i testimoni e quell'impiegato di pubblica sicurezza riferirono cose che non potevano essere state dette che da un testimonio di vista di quanto era succeduto nel Diamante, dove essi non erano, sia perché tutti e tre gliela sostennero in faccia nella procedura scritta, ed ai due primi anche nel pubblico dibattimento, sia perché le confessioni di lui sono avvalorate da che si assentò dal bigliardo, dove dice aver passato la giornata del 29 giugno all’ora appunto quinta pomeridiana, in cui parte della fazione si è avviato a Bolzaneto, dalla puzza di rhum che la sua bocca tramandava alle ore sette mattutine del 30, e cosi poche ore dopo che, prima di sciogliersi, la banda aveva fatte copiose libazioni di quel liquore, dalla circostanza che, a detta di lui stesso, poco prima di partire per Bolzaneto domandò ad un conoscente due soldi per levarsi la fame, e dall'essere stato veduto la mattina del 30 colle vestimenta umide e sucide e colle scarpe rotte ed inzaccherate per modo da indicare che nella precedente notte piovigginosa che le portava aveva lungamente camminato per dirupate strade;
Che dal pubblico dibattimento non essendo però risultato chi sia stato il barbaro uccisore del sergente Lastrone, nell’atto in cui cosi nobilmente compiva il suo dovere militare, ed avendosi anzi dalla procedura scritta argomenti per credere che l'omicida sia l’uno dei contumaci, né il Moro, né il Banchero, né i loro compagni non ne possono essere responsabili per le regole generali del diritto, confermato dal tenore dell'art. 108 del Codice penale prescrivente il modo di punizione degli autori dei reati commessi durante il corso e per occasione di una sedizione;
Che, ritenendosi gli stessi come complici, e dovendosi perciò la pena a loro riguardo diminuire a norma dell'art. 109 del Codice penale, riesce inutile l’occuparsi dell’argomento che la difesa volle desumere dalle combinate disposizioni degli articoli 194 e 196 del Codice medesimo, mentre la pena in cui a termine di tali articoli sarebbero incorsi sarebbe maggiore, o per lo meno uguale a quella che può loro come complici essere applicata;
Che, complici dell'attentato al quale erano indirizzati e coordinati tutti i fatti seguiti in quella notte sono Agostino Marchese, Luigi Stallaggi, Giuseppe Canale; Bernardo Oliva ed Enrico Taschim, per avere cooperato alla formazione e costituzione delle riunioni di persone necessarie per eseguire l'attentato medesimo, poiché ii Marchese, già condannato ad un anno di carcere per sentenza letta all'udienza, grandemente si adoperò per raccogliere la turba di gente che si radunò nella casa Gianué da S. Brigida, trascinando seco i compagni, che, secondo l’usato, volevano andar fuori Porta Pila, e che, egli invece persuase ad andare alla birraria dell'Acquaverde e quindi alla casa Gianuè, persuadendoli che un signore, che voleva sentirli cantare, loro avrebbe dato da cena, che ve li condusse didatti e li fece entrare nella casa stessa, donde persone armate impedivano l'uscita agli ingannati, ma non agli ingannatori, poiché, accortosi il Marchese che fra quelli con lui partiti dalla birraria mancava uno, fu a cercarlo per istrada, e, trovatolo, gli fece premura di entrare, dicendo che i compagni erano già a tavola; i giovani da lui per tal modo sedotti glie ne fecero amari rimproveri, ma egli rispondeva, dando loro dei vili, aggiungendo che bisognava battersi e che loro si sarebbero date armi; la domani due o tre di quelli gli ripeterono per strada i rimproveri, ed egli si scusò dicendo «che adesso era fatto» e raccomandando che tacessero; e la domenica successiva nelle ore pomeridiane avendo tentato di associarsi, come per lo passato. ai suoi soliti compagni, questi non lo guardarono in viso, e finirono per fargli dire da uno di essi che, pel cattivo tratto loro usato non lo volevano più in loro compagnia;
Che Stallaggi, dopo di avere qualche tempo prima del 29 giugno presso S. Girolamo domandato al coaccusato Giovanni Garbarini, se sarebbe stato pronto a prendere le armi per liberare la patria, e di averne avuto affermativa risposta, prese nota delle sue generalità e di quelle di Enrico Razeto, compagno del Carburino, e dopo di avere la mattina del 29 dato loro appuntamento per la sera in Castelletto, dove si trovarono di fatto li condusse nel magazzino del coaccusato Luisi Roggero, dove egli non entrò per aver male ad una gamba, ma dove ben sapeva radunarsi la fazione destinata ad invadere il palazzo Tursi; vero è che l’invito a prendere le armi anteriore al 29 giugno non è attestato che dal Garbarino, ma, andando questi in tutto il rimanente perfettissimamente nelle più minute circostanze d’accordo col Razeto, convien dire che quest’ultimo, che pur ammette che era a S. Gerolamo, non abbia sentito il colloquio, per essere forse momentaneamente alquanto distante, e queste uniformità, a fronte delle proteste dello Stallaggi di non conoscere e di non aver mai veduto ne l'uno, né l'altro ingenera piena fede ai loro detti, che non possono essere suggerito da nessuno particolare interesse;
Che Canale condusse quattro altri giovani nel medesimo magazzino del Roggero dopo di aver loro pagato da bere in una osteria dal Teatro Dinuno; e di averli persuasi ad andare con lui in un luogo dove si sarebbe mangiato e bevuto, con essi entrò effettivamente, ed a chi gli domandava spie; azione intorno alla loro condotta in quel luogo rispondeva di mangiare e bere, e non cercar altro, ad altri che volevano uscire, con piglio minaccioso diceva: che sarebbero più tardi usciti insieme per andare a prendere il palazzo Tursi; nella procedura scritta, Canale, fini per ammettere di essere stato nel magazzino, e di esserne quindi uscito cogli altri per andare verso Castelletto, dove furono distribuite cartuccie, che però egli non volle; nel pubblico dibattimento revocò egli queste ammissioni, ritornando al primitivo suo sistema di negazione assoluta, ma le riferite risultanze del dibattimento, mentre smentiscono le presenti sue negative, giustificano ampiamente le precedenti sue ammessioni;
Che, se non consta che Oliva abbia contribuito alla formazione della brigata riunitasi nella casa Tassara in S. Pantaleo, e però rimasto stabilito che, sopraggiunto egli in quella casa, quando molti conscii o non conscii dello scopo della fazione erano già radunati cooperò patentemente a trattenere quelli che si volevano ritirare, e ad animare i faziosi col dire: non essere più tempo di pensare alle cose nostre, essere tempo di azione e di coraggio, col dar ordine che più nessuno uscisse, col prendere uno schioppo e porsi di guardia alla porta per impedirne P uscita, come minacciosamente la impedì di fatto a quelli che la tentavano, e col figurare come uno dei quattro capi della brigata al momento della partenza da quella casa per alla volta dello Sperone, collo scopo di scalarlo ed invaderlo, munito degli ordigni e delle armi a tal’uopo necessarii; in tutto il corso della procedura scritta, negò sempre costantemente l’Oliva di essersi colà trovato, in confronto anche di chi gli sostenne in faccia di averlo veduto, ma finalmente nel pubblico dibattimento ammise che vi fu, ma trattovi da motivi assolutamente incredibili, e che non si pose spontaneamente, ma fu da chi faceva da capo posto di sentinella alla porta per impedire l’uscita, che impedì realmente, per essere fedele all’avuta consegna, e queste sue ammissioni pienamente confermano tutte le risultanze del dibattimento a suo riguardo;
Che Fraschini non solo cooperò alla formazione della fazione radunatasi nella casa Tassara, col farvi andare due giovani inesperti che sedusse colle arti degli altri, ma risultò che egli il primo giunse a quella casa di cui seco portava la chiave e che andava dicendo ai congregati che il forte cui erano diretti, si sarebbe arreso sanza uno sparo, che altri forti erano in potere dei Genovesi, che fu uno dei quattro capi che erano alla testa allorché la brigata si avviò allo Sperone, e che quando la mattina del 30 giugno fu arrestato, portava ancora in saccoccia dieci palle da pistola, ed all'occhiello del vestito uno spillo da schioppo, e questi risultamenti del pubblico dibatti mento sono in grande parte confermati dalle sue risposte date, tanto nella procedura scritta che all'udienza, colle quali ammise di essere la mattina del 29 giugno andato alla casa Tassara con tre Parmigiani, che non conosceva che di vista, perché invitatovi da uno sconosciuto che glie ne diede la chiave; che venuta la notte, dettosi che bisognava uscire, si armarono di schioppi a di altre armi, e che a lui fu data una sciabola; che si misero scarpe di tela e si avviarono verso un forte, dal quale sentitosi un chi va la, si ritirarono;
Che della conventicola nella casa Tassara in S. Pantaleo fecero certamente parte i coaccusati Lacchi, Spetti, Gabbi Ghezzi, Donati, Parenti, Deila Santa e Ticcò, senza avervi però in nessun modo cooperato, poiché furono nella casa stessa arrestati la domane ad un’ora in cui il luogo nel. quale erano non poteva più legalmente qualificarsi il luogo della riunione sediziosa, mentre la sedizione era cessata collo scioglimento della banda avvenuto otto o nove ore prima ad a causa del chi va la riferito dal Taschini, o per la libera volontà di tutti o della maggior parte dei sediziosi;
Che tanto nell’un caso, come nell'altro, debbono i medesimi andare esenti da pena, perché, se esenti ne sarebbero qualora si fossero disciolti alla prima intimazione loro fatta da una Autorità qualunque, civile o militare, come stabilisce l'art. 196 del Cod. pen. pel caso di vere bande armate, a maggior ragione debbono goder del medesimo beneficio per essersi disciolti spontaneamente, ovvero al solo grido del chi va la della sentinella;
Che se dal dibattimento è risultato che Gioacchino Giussani nel giorno 24 giugno, dopo di avere trattato a pranzo Parenti, Delia Santa, ficcò e Rossi, loro pagò il viaggio per Genova, dove i tre primi furono, come si disse, arrestati la mattina del 30 nella casa di S. Pantaleo, non si può dire che abbia contribuito alla formazione della fazione di cui i medesimi fecero parte, giacché è sembrato che fossero essi dal Giussani diretti fuori Stato, e che solo per avere fallito il loro scopo per un caso impensato siansi riuniti ai faziosi della casa Tassara, del quale fatto non potrebbe perciò Giussani essere responsabile;
Che se i mendaci e le contraddizioni, nelle quali è il Rossi caduto, inducono a credere che fosse nella casa Tassara eoi tre compagni coi quali era il 24 giugno partito da Torino, e che a vece di rientrarvi come dieci degli altri, siasene allo scioglimento della riunione andato difilato a Torino, non se ne ebbe però sufficiente prova legale, e quando si avesse, la sua sorte non potrebbe essere diversa da quella degli sciagurati suoi compagni di viaggio e di ventura;
Che complici dell’attentato, per avere scientemente e di libera volontà, siccome i tatti stessi lo dimostrano, somministrato alle fazioni anzidette il luogo di riunione, vettovaglie, armi, munizioni, istrumenti del reato sono: Giambattista Armellini, Tommaso Battiloro, Agostino, Domenico e Stefano, fratelli Castello, Luigi Stallo, Luigi Roggero, Giacomo Profumo, Gio. Batta Pedemante, Michele Tassara, Francesco Demartini e Giuseppe Develaseo, poiché l’Armellini non solo fu nella casa Tassara, non solo vi lasciò fuggendo o ritirandosi una sciabola portante inciso il suo nome, ma vi fabbricò le scale elle dovevano servire alla insalizione dello Sperone, e tanto fu la parte che prese in tale fazione, elle il i° di luglio mandò alla casa lassata uno sconosciuto per avere notizie dei Lombardi che non sapeva essere già stati arrestati; e dell’Oliva mostrandosi inquieto che non avevano da mangiare che per un giorno, e lo Stallo non solo nel mese di ottobre 1856 coadiuvò con Pittaluga Ignazio, Casareto, Lastrico, Deoberti, Rchisso e Sanguinati, l'introduzione clandestina dall'Armellini fatta in S. Francesco d'Albani di 150 schioppi, i quali con ragione argomentasi avere servito all’attentato, ma somministrò eziandio alla riunione di Vallechiara una rimessa, di cui era locatario, e nella quale si trovarono in grande quantità armi e munizioni di ogni specie;
Che il Battifora forni la casa da lui presa in affitto presso S. Benigno per luogo di riunione dei faziosi, la quale vi seguì di fatto e per deposito d’armi e munizioni, essendovisi ancora trovati un pistolone, stili con fodero, lime a triangolo arrotati di fresco, lanterne dette da birri, cappellazzi, cartuccie e palle, e due delle quattro zappe che alcun tempo prima erano state per di lui commissioni comprate, essendosi le altre due trovate in uno dei magazzini di Vallechiara, e fornì eziandio un luogo di deposito di armi e munizioni nel vico Monachette, da lui pure condotto, nel quale si trovarono duecento schioppi con baionetta, pali di ferro, asce ed altro;
Che il Castello Agostino, oltre all’aver avuto due depositi di armi e munizioni in due diversi luoghi del vico Vallechiara, nei quali si trovarono anche tracce di recente adunanza di persona, insieme col Pedemonte, acquistò la sera del 29 giugno alcuni barili di vino per dare ai faziosi di Vallechiara e di Santa Brigida, che insieme ambedue con altri vi portarono affine di trattenere gli adunati: barili, due dei quali quasi vuoti furono ancora rinvenuti in uno dei magazzini di Vallechiara,
Che Domenico e Stefano Castello, siccome cocchieri delle vetture dette Cittadine, proprie dello Stallo occupavano il magazzino o rimessa, nella quale furono trovate le armi e le munizioni anzidette e traccie di recente riunione di molte persone, riunione e deposito che senza il loro assenso non potevano aver luogo;
Che Passera, oltre all’essere notoriamente mazziniano, avendo anzi, malgrado la scarsità del suo censo a Londra per conferire con Mazzini, era inquilino della casa, ove come si disse, si congregarono i faziosi elle dovevano prendere lo Sperone e della quale diede la chiave al Taschini; il Roggero accolse nel magazzino del suo negozio le persone che dovevano invadere il palazzo Tursi, ed il Profumo era locatario di uno dei magazzini di Vallechiara, nei quali si radunarono armi e persone, e di una camera nel vico Trombettieri, nella quale trovarono nove casse di cartuccie e di polvere, nove pistole, un mazzo di spilli per armi da fuoco ed un sacco di polvere, ossia mina con lunga miccia, del peso di quindici chilogrammi; Develasco era locatario della casa in S. Lorenzo di Casanova dove si riunì e donde parti quindi la fazione invaditrice del Diamante; cercò egli di giustificarsi, dicendo che presala il 1° di aprile e datene le chiavi ai Pittaluga, perché la pulissero, non vi era più andato, ma la notorietà delle sue opinioni, la sua intrinsichezza coi coaccusati Savi, Pittaluga e Casareto, la somma premura mostrata di averne le chiavi dal proprietario per andarla ad abitare, cosa però che non fece, avendone lasciato l’uso ai Pittaluga ed al Casareto, e l’avere colà mandato nel mese di giugno una quantità di gallette eccedente i bisogni della sua famiglia, e due barili di vino, sebbene non siavi egli andato che nel successivo agosto, dimostrano ad evidenza che non solo somministrò ai faziosi il luogo di riunione, ma loro forni anche vettovaglie; e finalmente il Demartini era locatario dell'appartamento degli Orti di S. Andrea e del sottoposto magazzino, nei quali si trovarono schioppi, stili e munizioni, fra le quali molte cartuccie da cannone per mitraglia e granate a mano, e donde risultò agevole il passaggio alle vicine carceri di S. Andrea mediante gli strumenti che vi si rinvennero; tentò Demartini difendersi coll’asseverare di aver preso in affitto l’uno e l’altro per conto del coaccusato Mangini, ma non forni nessuna prova; del resto la sua fuga da Genova, lo avere, come dice egli stesso, passato più di trenta notti in aperta campagna, il clandestino suo imbarco sopra una barchetta presso Arona per andare in Isvizzera e la tentata corruzione con oro dei preposti delle dogane che lo arrestarono, tolgono ogni dubbio intorno alla sua reità.
Che questi ultimi quattro argomenti delle reità del Demartini essendo comuni al suo compagno Antonio Bisso, non si può non dedurre che anch'egli abbia in qualche modo cooperato all'attentato, tanto più che quando fu arrestato era portatore di due lettere di Mazzini, indirizzate ad un pseudonimo di Zurigo, alle cui volta erano certamente ambedue diretti, ma le risultanze del dibattimento non somministrarono sufficiente pruove della sua cooperazione, come non ne fornirono bastantemente riguardo ai coaccusati Bolgiano, Garbarino, Razeto, Ansaldo, Maria, Stefanini, Martini, Nicola, Politi, Ballanti, Casanova, Bocconi, Capurro Paolo, Velia e Lagoraro, siccome anche, meno per Villa e Bolgiano, riconobbe il P. M. recedendo dell'accusa;
Che però il Lagoraro, minore degli anni 18, fu convinto ccn relativo verbale con le sue stesse ammissioni portatore al momento del suo arresto di un arma insidiosa, di un vero stile e triangolo cioè, come dice la perizia;
Che i documenti e le testimonianze delle procedure scritte hanno bensì ingenerato gravi dubbi, che i contumaci Francesco Daueri, Carlo Martini e Giacomo Bruno, e principalmente il primo, stante le notorietà delle sue tendenze, abbiano, in un modo Datteri e Martini, ed in un altro Bruno. cooperato all’attentato, ma non se ne ebbe bastante pruova, malgrado la presunzione nascente dalla loro contumacia, come dai dibattimento non se ne ebbe sufficientemente riguardo al Prina, il quale si e constatato capace di prender parte ad un attentato stante le vive sue simpatie per Mazzini e pei Mazziniani, e la precedente sua condotta in vari tempi, non è risultato che l'abbia realmente presa; fece, è vero, discorsi a Sest ri che dimostrano la pravità del suo animo, ma non può dirsi che con essi abbia direttamente partecipato all’attentato del 29 giugno;
Che invece ebbesi piena la pruova della provocazione al medesimo per parte del Savi, riguardo a cui, considerando come dallo spirito e dal tenore di molti articoli del giornale l’Italia e Popolo e dell'Italia del Popolo, che furono letti all’udienza, giornali di cui egli assunse la direzione, e al quale perciò nella qualità di Direttore apponeva la sua firma, risulta assai chiaramente come quel foglio periodico si è da multi costituito l'interpetre e l'organo del partito di azione, diretto da Giuseppe Mazzini; che in quel giornale, oltre all'essersi posto costantemente segno il governo allo sprezzo ed all'odio del Popolo, tutti gli sforzi si adoperarono per concitare le popolari passioni all’intento di suscitare una generale insurrezione per giungere a stabilire l’unità repubblicana d'Italia;
Che, siffatto intento più esplicitamente si appalesa dal numero 202 pubblicato il di 22 luglio 1856, nell’articolo sottoscritto da Giuseppe Mazzini, in cui dice: «Non potendo noi dunque dalle agitazioni legali, né dalla Monarchia Piemontese, sperare iniziativa di salute per la Patria comune, non rimane che una via sola: l’insurrezione». Segue questo intento a mostrarsi nel numero 90 in data del 22 maggio 1857, in cui senza ambagi pronunziasi: Per noi le Monarchie che regnano in Italia sono tutte straniere e siccome nessuno dei governi italiani si è mai identificato con la Nazione, e sono anche pel solo fatto della loro esistenza l’ostacolo principale a che l’Italia sia libera ed una, noi li abbiamo i posti e porremo tutte in un fascio». Vien poi quel proposito a manifestarsi più energico nel numero 97 in data del 29 maggio 1857 in cui Giuseppe Mazzini, trasmettendo al Savi gli Statuti della Giovine Italia, nei quali è proclamato, esser questa essenzialmente repubblicana e unitaria, si dichiara: «quella bandiera inalzata ventisei anni addietro è anche oggi la nostra; non è male riaffacciarla di tempo in tempo al nostro Popolo perché esso la paragoni alle bandiere problematiche, che i faccendieri di coi ti straniere o nostre, gli vanno tuttavia proponendo». Finalmente nel N.° 114 con la data del 16 giugno 1857, e cosi in tempo assai prossimo all’attentato, dopo avere con vivi colori sostenuto l'assunto, che tutti i popoli che confidarono nella Monarchia rimasero ingannati, si viene a questa conclusione: il giorno che gli Italiani sorgeranno deliberati di conquistare una Patria, sorgano in nome della Nazione, alzino la bandiera italiana, pura di qualunque altro segno: e in quel seguo vinceranno».
Che dal complesso degli articoli succennati e dalle singole proposizioni che mutuamente si legano e si rafforzano emerge evidente come uno sia il pensiero che domina in tutti, uno l’intento, quello cioè di pensare a concitare il popolo ed il paese ad insorgere per surrogarsi al potere, che si vuole ostacolo al conseguimento del fine propostosi dal partito di azione
Che se la provocazione ad un crimine per mezzo della stampa, l'apologia di teoriche e di dottrine sovversive dell'ordine sociale fatta col mezzo medesimo è punito con le speciali sanzioni della legge, che è norma per noi alla libera manifestazione del pensiero, poiché un delitto sussiste e in tal caso indipendentemente dal risultalo, il reato assume ben diverso carattere, e divien meritevole di ben più grave repressione penale, allorché taluno si vale dei più efficaci mezzi morali, quali sono gli scritti, e diramati per mezzo della stampa per infiammare gli spinti ed istigarli ad alcuni dei reati preveduti dall’art. 105, a queste provocazioni conseguitano fatti, per cui vengono i criminosi propositi ridotti in atti;
Che allorquando ciò si avvera, come accade nel caso concreto, non più si tratta di abuso della libera stampa da reprimersi colla legge che ne regola l'esercizio; infatti il disposto dell’alt. 01 di questa legge medesima accenna al caso in cui il reato di stampa si presenta come complicità di un crimine, e la giurisprudenza ha sancito che, in uno scritto diffuso colle stampe, in cui siano provocali gli animi all'insurrezione che indi ebbe luogo, debbano senz’altro ravvisarsi i caratteri delle complicità in un reato comune, complicità che deve quindi dalia legge comune colle ordinarie pene esser punita;
Che la qualità di Direttore nel Savi del giornale in discorso, e perciò di scente partecipe alla pubblicazione degli articoli di cui si tratta, viene a renderlo per le premesse considerazioni responsabile delle provocazioni che vi si racchiudono, non più come convinto d'una complicità eccezionale e fittizia, qual'è stabilita nella legge del 26 marzo 1848, sibbene di una complicità reale, effettiva, ordinaria in un crimine definito dal Codice penale comune, cioè, come uno dei cooperatori all’attentato del 29 giugno, e ciò pel fatto di pubblicazioni indirizzate all'intento dell’effettuazione di un reato, a cui quelli scritti venivano concitando e preparando le menti, e per avere con ciò scientemente assistito l'autore principale del reato medesimo nei fatti che lo prepararono;
Considerando che a meglio convincere di questa cooperazione del Savi nell'attentato concorrono non solo la sua presenza nell'adunanza delle Società degli Operai tenuta in Sestri il di innanzi ai moti del giugno, ove si disse schiava la nostra bandiera e si parlò della necessita di redimerla, e si alzarono le grida di Evviva Macini, ma lo avervi egli arringato, favellando, come il teste si espresse, secondo il colore del suo giornale; oltre al fatto non controverso delle sue strette attinenze cogli accusati Antonio Mosti e gli altri cospiratori e sopratutto con Giuseppe Mazzini, come si ritrae specialmente della lettera di quest’ultimo a lui diretta, ed insenta nell'atto di accusa, con istruzione sul sistema da seguitare nella compilazione del giornale che fu istrumento si efficace all'azione del partito, ed ebbe tanta influenza sui fatti che diedero materia al processo;
Dichiara Antonio Bisso, Giovanni Prina, Gioachino Giussani, Antonio Villa, Enrico Rossi, Giovanni Garbarino, Enrico Razeto, Gaetano Ansaldo, Angelo Maria, Leopoldo Stefanini, Nicola Martini, Francesco Politi, Gaspare Ballatiti, Carlo Casabona, Giuseppe Bocconi, Paolo Capurro, Stefano Lagorara, Francesco Daneri, Carlo Martini, Giacomo Bruno e Michele Bolgiano, non convinti del reato loro ascritto, e ne li assolve, senza costo di spesa; convinti però il Lagoraro del porto di arma insidiosa;
Dichiara Ettore Lucchi, Giuseppe Spotti, Augusto Gabbi, Luigi Ghezzi, Giuseppe Donati, Giovanni Parenti, Vincenzo della Santa e Valentino Ticcò, esenti da pena;
Dichiara convinti Giuseppe Mazzini, Angelo Mangini e Antonio Mosto di cooperazione avente per oggetto di cambiar la forma del governo;
Convinti Gio. Batt. Casareto, Michele Lastrico ed Ignazio Pittaluga di attentato avente per oggetto il cambiamento della forma del governo;
Convinti Francesco Moro, Carlo Banchero, Teobaldo Ricchiardi, Andrea detto, Giuseppe Sanguineti, Ferdinando De Oberti, Francesco Canepa, Girolamo Figari, Antonio Pittaluga, Tommaso Rchisso, Bernardo Oliva, Enrico Taschini, Agostino Marchese, Luigi Statlaggi, Giuseppe Canale, GioBatt. Capurro, Gio. Batt. Armellini, f'ommaso Battifora, i fratelli Agostino, Domenico e Stefano Castelli, Francesco Demartini, Bartolomeo Francesco Savi, Giuseppe Develasco, Luigi Statlo, Giacomo Profumo, Luigi Roggero, Michele Tassare e Gio. Batt. Pedemonte di complicità nell’attentato medesimo;
E visti gli articoli 185, 201, 210, 208, 209, 228 alinea 95, 20, 21, 23, 50, 79 e 489 del Codice Penale;
Dichiara Stefano Lagorara sufficientemente punito col carcere sofferto, condannandolo nelle spese che lo riguardano;
Condanna Gin. Batt. Capurro alta pena della reclusione per anni sette, all’interdizione dai pubblici uffici ed alta sorveglianza speciale della polizia per altri sette anni; Luigi Stallo, Giacomo Profumo, Luigi Ruggero, Michele Tassara, Francesco l)emartini, Giuseppe Develasco, Bartolomeo Francesco Savi, Domenico Castelli, Stefano Castelli e Gio. Batt. Pedemonte alla pena dei lavori forzati per anni dieci;
Bernardo Oliva, Loriche Taschini, Luigi Stallaggi, Giuseppe Canale, Gio. Batt. Armellini Tommaso Battifora e Agostino Castelli alla pena dei lavori forzati per anni dodici; e Agostino Marchese, alla pena dei lavori forzati per anni tredici;
Teobaldo Ricchiardi, Andrea Sanguinetti, Ferdinando Deoberti, Francesco Canepa Girolamo Figaro, Antonio Pittaluga, Tonunaso Bebisso, Carlo Rancherò e Francesco Moro, alla pena dei lavori forzati per anni venti; e tutti all'interdizione dei pubblici uffici ed alla sorveglianza speciale della polizia per anni dieci;
Giuseppe Mazzini, Angelo Mangini, Antonio Mosto, Gio. Batt. Casareto, Michele Lastrico e Ignazio Pittaluga alta pena della morte ed alla perdita dei diritti specificati nell’articolo 44 del Codice Civile;
Li condanna inoltre tutti alla multa di L. 300 ognuno, e solidariamente all'indennizaztone che di ragione e dalle spese del procedimento; dichiarando decadute in confisca le armi, le munizioni, gli strumenti e gli oggetti tutti sequestrati siccome corpo di reato; e mandano la presente a stamparsi, affiggersi, pubblicarsi nei modi dalla legge stabiliti.
Genova 20 marzo 1853.
(1) Fin dal 1854 Mazzini intravedeva le velleità di Napoleone (li. Disse e scrisse che «egli mirava ad un movimento muratista in Napoli, sostenuto dai Francesi che occupavano Roma; che, per impedire l'opposizione della Casa di. Savoia, le si offrirebbe la Lombardia, non la Venezia, per non creare un regno troppo forte sulla frontiera francese.
Quella provincia toccherebbe o a qualche principe straniero, o rimarrebbe alla Casa Austriaca. Roma doveva restare al Papa salvo le province troppo ribelli, che, unite alla Toscana, formerebbero un regno da destinarsi a qualche membro o partigiano del Bonaparte. La Sicilia, che probabilmente non vorrebbe saperne di Murat, verrebbe offerta al Duca di Genova come nel 1848.
«Questo il piano dell’Imperatore»,—egli scrisse. —L’Inghilterra secondo lui, non si opporrebbe, perché con tutta la sua simpatia per i prigionieri del Borbone, e in generale per gli Italiani oppressi, nessuno dei suoi uomini d Stato intendeva la necessità, né credeva possibile la creazione di una Nazione Italiana indipendente e libera. E per dare scacco a questi progetti v’era secondo lui, un solo mezzo; quello di iniziare la rivoluzione popolare in nome nell'Unità, necessità suprema e ineluttabile.
L’iniziativa verrebbe probabilmente dal Sud. Garibaldi era allora in Inghilterra e Mazzini disse a lui e a tutti che il suo posto era nel Sud, ove le popolazioni lo chiamavano, memori delle sue prodezze a Velletri, e nel Napolitano nel 1849. Altri movimenti simultanei avrebbero luogo nel centro e nel settentrione. Per il Sud abbisognava denaro assai, e egli raccomanda agli amici e alle amiche di trovare dicci persone pronte a prendere per cento lire (sterline) di biglietti del prestito nazionale, o venti pronte a prenderne per lire cinquanta. Ma Garibaldi non andò in Sicilia, nonostante che ivi fosse desiderato. E Cavour ne era consapevole e fece quanto era in lui per impedire i moti ivi preparati, e avvisò Sir James Hudson, ministro inglese a Torino pregandolo di far stare sul chi vive il governatore di Malta, e anzi di farne cenno a Lord Clarendon.
(2) Mentre i sei volumi delle lettere di Cavour pubblicati dal Chiala sembrava avessero esaurita la sua corrispondenza vennero fuori altre lettere importantissime, nel 1895, con prefazione e note di Edmondo Mayor (L. Roux e C. Editori). Molto scarse sembrarono allora quelle pubblicate dal Chiala per l’anno 1857. I moti di Giugno di quell'anno sono appena accennati. Si direbbe che il Chiala o ignorasse resistenza di altre lettere; oppure il suo coraggio, nel dare al pubblico tutte le opinioni e i disegni del suo protagonista con imparzialità, gli venisse meno leggendo le lettere del Conte al rappresentante del Piemonte in Parigi, nelle quali egli faceva fervidi voti per la cattura e la impiccagione dell’Apostolo dell'Unità.
Questo coraggio ebbe il Mayor, ma la sua pubblicazione non ha avuto quella pubblicità che ebbe seniore quella del Chiala, per cui citiamo le lettere più importanti intorno al nostro argomento.
(3) Una stampa che si conserva nel Museo Nazionale di( )Martino ha questa iscrizione: «Il giorno 8 dicembre 1856 al( )Campo di Marte in Napoli Ferdinando II di Borbone passa( )rassegna le milizie. Dalle fila dei Cacciatori si parte un soldato, Agesilao Milano e vibra un colpo di baionetta al Re, ma il colpo vien frastornato dal cavallo». E’ la versione più esatta.
N. C.
(4)Cosi Cavour scriveva a Villamarina il 13 Giugno:
«Je ne vous ai plus écrit, fautes d’occasions, depuis votre dépêche télégraphique qui m’annonçait une révolution prochaine a Gènes. Comme l’avis venait de l’Empereur, il fallait s'en montrer très reconnaissant, quoique, au fond, j’eusse la certitude que cette nouvelle était dénuée de tout fondement. En effet, non seulement l’ordre n'a pas été troublé à Gènes, mais la Police, mise en éveil, n’a pu saisir aucun indice d’un mouvement quelconque. Tachez de persuader l’Empereur et son Gouvernent que notre pays est à Cabri de tout mouvement révolutionnaire; il n’aurait aucune chance de réussite, les agitateurs le savent. Ils savent également que le Gouvernement est décide à réprimer la moindre tentative de désordre, et cela de la manière la plus énergique. Personne même parmi nos ennemis, ne met en doute la fermeté du Ministère et la ferme volonté de l'immense majorité du pays de ne pas permettre une infraction quelconque a l’ordre légal. De temps en temps les réfugiés et les quelques Mazziniens qui existent à Gènes se remuent et s’agitent sur des nouvelles et des excitations de dehors, non dans le but d’opérer un mouvement en Piémont, mais pour se préparer à un mouvement qu’on leur dit prêt à éclater en France ou ailleurs.
Tant que l’Empereur vivré et contiendra la révolution en France, nous pouvons dormir sur nos deux oreilles, sans craindre que notre sommeil sera troublé par Mazzini ou ses adhérents». Lettere inedite di Cavour — Elmondo Mayor (p. 530),
(5) Appare qui, per opera di una eroica donna, il nome quasi fino a ieri ignorato di una vera eroina della nostra rivoluzione, Rosa Moric vedova Dragone. Di essa, quando volle donare al Museo Nazionale di S. Martino, l'archivio del Comitato rivoluzionario napoletano, scrisse, additandola alla gratitudine degl'Italiani, Vittorio Spinazzola in un giornale di Napoli e, su sua proposta, un ritratto ad olio, eseguito a spese dello Stato, sono ora esposti in quel Museo Ira i più rari cimeli di quella spedizione di Sapri: il giornale di bordo del «Cagliari», i libretti dei marinai che ne formavano la ciurma, la descrizione manoscritta di quanto avvenne sul «Cagliari» durante la traversata, carte geografiche, libri di propaganda, resti trovati sul campo ove cadde Pisacane, oltre l'archivio del Comitato. Questo era stato conservato, salvato, custodito sempre in casa Dragone dalla vedova signora Rosa che, nei racconti a lui fatti e riferitimi dal Direttore di quell'Istituto, descriveva come qui si descrive la sua casa. In questa dimorò Pisacane nella sua prima venuta in Napoli, e, com'ella ebbe a raccontare, aveva il presentimento, quasi la sicurezza della sua fine. Al piano inferiore abitava un funzionario della polizia borbonica e la eroica donna raccontava questo aneddoto delle bandiere fatte trovare in varii luoghi di Napoli dopo l’esecuzione di Agesilao Milano, aneddoto che, raccontato or son due anni, trova ora qui la sua piena conferma. Si lavorava, dunque, in casa Dragone a confezionare queste bandiere. Molte ve n’erano già nei nascondigli, e la signora Rosa era intenta a compiere il lavoro, quando senti bussare alla porta e dalle voci comprese che trattavasi di una visita della polizia. Le bandieruole erano in un canestro, innanzi a lei; le copri; non si mosse; vi tirò su un panno; sul panno lasciò cadere del cucito e continuò tranquillamente nel lavoro; cosicché quando il funzionario poliziesco sopravvenne la trovò intenta, come la più timida delle massaie, a cucire la più modesta delle camicie. Gli sbirri visitarono; il capo di essi s' intrattenne accanto alla signora Rosa, che, fra l'altro, doveva dalla forte persona sprigionare il fascino della calma energia; e anche quella passò. Assai più gravemente andaron le cose dopo la spedizione di Sapri. Avvertita in tempo, ella comprese che bisognava mettere in salvo i documenti e, di notte tempo, presi gli opportuni accordi, da lei stessa furono trasportati a bordo di un vapore inglese che li portò a Malta dove era Fabrizi. Esulò col Dragone a Costantinopoli e quando potè tornare e non appena fu possibile, recuperò la cassetta coi preziosi documenti, per custodirli; prima gelosamente poi per darli al Musco di S. Martino. Essa stessa volle poi raccontare la parte ultima della spedizione di Sapri. Un documento ufficiale fu redatto alla presenza di studiosi notissimi raccolti m casa Dragone, e anche questo conservasi ora in quel Museo a testimoniare cosi dell’opera del Comitato come della missione affidata al Pateras e del modo in cui falli la spedizione, sulla quale la Iessy-Mario adduce qui preziosissime spiegazioni. N. C.
(6) Questa commovente dichiarazione trovasi nel Proemio di Saffi al IX volume degli scritti di Mazzini.
(7) E proprio poche ore prima di partire, avvisato che i due macchinisti erano inglesi, Pisacane mi fece tradurre un suo avvertimento ad essi delle ragioni per cui s’impossessavano del vapore. Questo scritto fu prodotto come lettera mia dal Governo napolitano, pubblicato nei blue books inglesi intorno al Cagliari onde incolpare i poveri macchinisti di complicità coi rivoltosi. Uno impazzi e l'altro fu assalito da convulsioni in seguito a sette mesi di carcere nelle spelonche, del Borbone, benché vi fossero ben trattati in confrontò di altri; e il caso loro fece capire agli inglesi quali erano i metodi borbonici meglio ancora che non il famoso scritto di Gladstone.
(8) Sembra una fatalità! Anche a Garibaldi nella partenza da Quarto mancarono le barche ove erano caricati fucili, carabine, revolvers e munizioni. Ma egli potè riparare alla mancanza, provvedendosi a Orbetello e a Talamone del necessario.
(9) Tanto nella Vita di Alberto Mario, quanto nel libro Della Vita di Giuseppe Mazzini scrissi che «Il generale Durando ebbe l’avviso da un suo amico, uno dei capi fra i cospiratori, il quale, nello stesso tempo avverti Mazzini.» E questa fu per lungo tempo la convinzione di tutti i capi. Se non che G. B. Ruffini, molti anni dopo mi scrisse che l'accusa era infondata, anzi del tutto falsa, e dimostrò che l’accusato, intimo amico suo, si sarebbe trovato al suo posto nel caso che il movimento avesse avuto luogo: che il fatto che questo rimase ufficiale regio e che giunse ai più alti gradi, nulla provava al suo disdoro; che Medici era perfettamente persuaso della sua lealtà, e che Garibaldi stesso l’ebbe in alta stima. L'unica persona sopravvissuta con cui potei parlare, fu Antonio Mosto, che vidi per l’ultima volta al tempo del Pellegrinaggio a Caprera nel 1888. Egli ne era già persuaso; ma poiché l’accusa non era mai stata resa pubblica, l'aveva lasciata in silenzio.
(10) Vedi la sua deposizione del 12 febbraio 1858, durante il processo davanti la Corte d'Appello di Genova, nella «Gazzetta dei Tribunali».
(11)Mario correggeva le bozze del proclama di Mazzini ai Genovesi, ed ebbe parecchie lettere, scritte tutte di pugno di Mazzini, da portare a certi cittadini che erano divisi al popolo per odiose vessazioni usategli. Questi venivano consigliati a partire per sfuggire a possibile vendetta. Proclama e lettere, Mario, dovendo trovarsi al posto assegnatogli, affidò purtroppo ad un suo intimo amico, il quale sebbene non avesse avuto parte nel complotto, le distrusse temendo di venire compromesso. E fu grave danno perché quel proclama e quelle lettere avrebbero smentito subito le calunnie indegne del fisco e dei moderati dopo il fallito tentativo.
(12)in toscana non mancavano i forti patriotti. Di essi Giuseppe Bandi, segretario del comitato Fiorentino della Giovane Italia,direttore del giornale l’Arte,era l’anima e il duce. 11 carnevale di quell'anno era stato clamoroso. Gli Austriaci avevano severamente proibite le maschere;e perciò appunto tutti se le misero cantando certi stornelli che pungevano ferocemente il gonfaloniere, il quale secondo il popolo si era mostralo troppo servile durante le feste ufficiali fatte in onore del gran principe ereditano di toscana, giunto in Gennaio con la nuova sposa Anna Manu di Sassonia. A tutta prima anche il partito moderato, ossia Cavouriano, sembrava disposto a menare le mani. Capo di esso era Vincenzo Malenchini, valoroso soldato a Curtatone e più tardi di Garibaldi. Ammaestrata dagli Austriaci, la polizia vigilava. Seppe della partenza da Genova di due bastimenti sospetti, e, sorvegliando le coste, riusci a sequestrare parecchie casse d armi e dì munizioni tra Gombo e Mugliarini. Questo fatto e il comparire frequente di bandiere tricolori, il mescolarsi di soldati e popolani nelle osterie e nei caffè, la celebrazione chiassosa dell’anniversario di Curtatone e di Montanara, con cartelli affissi alla porta del Duomo, eccitanti il popolo «a rinnovare i forti fatti»,toglievano il sonno ai Governo. Ma non ostante la vigilanza della polizia sull'arrivo dei forestieri, giunsero ai primi di Giugno: Maurizio Quadrio, Civillini, Mano Simeon e altri rivoluzionari, i quali però ben presto s’accorsero che nel solo Livorno si avrebbe potuto sperale. Forse Quadrio si mostrò un po’ troppo repubblicano; mentre il programma avrebbe dovuto rimanere per tutti puramente nazionale al motto di «Viva l'Italia». Il fatto sta che Malanchini ed i suoi non vollero prendere parte al moto fissato pel 30 Giugno.
Per quella sera da 300 a 500 erano gli uomini risoluti ad agire simultaneamente in diverse parti della città al grido di: Viva l'Italia; viva il Popolo re; viva i fratelli; uniamoci onde salvare la patria in pericolo. Varie scaramucce ebbero luogo tra i rivoltosi e le pattuglie. Qualche pattuglia sembrava disposta a voler fraternizzare col popolo; ma gli ufficiali ne condussero altre contro gli insorti. La Fortezza Vecchia ne diede il segnale di allarme con tre colpi di cannoni. In Via Larderei, e in Piazza S. Benedetto, ora «XX Settembre» si svolsero i fatti più gravi. Capitanava Maurizio Quadrio. Contro di lui l’aiutante maggiore Livio Zanetti condusse una forte schiera e impadronitisi dello stabile in cui i rivoltosi eransi barricati, ne atterrò sette, li trascinò sulla strada e li fece fucilare sul tamburo. Altrove si ebbero molte zuffe, con molti feriti. I nomi accertati dei morti furono incisi su lapide nel 1877 dall’associazione nazionale progressista costituitasi in quell'anno in cui gli uomini chiamati in passato il «partito d’azione» salirono al potere con Nicotera, ministro dell'interno. Essa deliberò che fossero ricordati i prodi Livornesi, che nel 30 Giugno 1857, mentre Pisacane immolavasi a Sapri,
ISPIRATI AL CONCETTO DELL'UNITA DELLA PATRIA
PROCLAMATA DA G. MAZZINI
MORIVANO MARTIRI NELLA PUGNA DISPERATA
CONTRO IL DOMINIO AUSTRIACO LORENSE.
Furono:
Giurovich Marino, Vezzosi Angelo, Vezzosi Fortunato, Garavetti Costantino, Baldi Raffaello, Rosellini Giovanni, Boni Fortunato, Calcano Gaspare, Garabrini Luigi, Angiolo Andrea, Morelli Francesco, Bargela Giuseppe, Rumbaldi Vincenzo, Biondi N., Grassi Cesare, Gianetti Luigi.
Numerosi gli arrestati. Venticinque i processati a Lucca, e molti altri lo sarebbero stati, se con Pacini, il vero capopopolo, non fossero riusciti a fuggire. Così Quadrio, Civinini e Mario Simeoni poterono rimanere sull’arena della lotta tino che ogni speranza fu perduta. Non intimoriti dal pericolo corso, con mezzi somministrati da Lemmi che lasciò inoltre 7000 lire per le famiglie degli arrestati, essi arrivarono a Genova e, vivendo nascostamente, diressero l’Italia del popoloin luogo del Savi, arrestato, processato, e condannato a io anni di galera, per quanto non avesse avuto la minima parte nei moti e nemmeno nei preparativi di Genova.
(13)Pagine 356-7. Raccolta Mayor lettere inedite di Cavour.
(14)Pisacane aveva passato qualche tempo in Londra guadagnando l’affetto e la stima di tutti. L’avvocato Corcassi mi fece giungere le mie lettere indirizzate a lui nelle carceri di 5. Andrea.
(15) Nomignolo dato da Mazzini a Nicotera fin da Roma nel 1849: veterano della libertà a venti anni, essendosi arruolato alla Giovine Italia nel '45 e dopo i fieri combattimenti a Cosenza contro le orde borboniche sotto Nunziante ove suo nonno e suo zio Saverio Musolino furono trucidati, scampò la vita riuscendo a Corfù colla condanna a 25 anni di ergastolo. Arruolatosi nell'esercito della Repubblica romana fu ferito cacciando i Francesi da Porta S. Pancrazio al 30 aprile, alla testa e al braccio. Non ancora guarito tornò al campo, nominato capitano dal Manara capo di Stato maggiore di Garibaldi, fu spesso mandato con dispacci dal campo ai triumviri. Fu prediletto da Garibaldi quanto da Mazzini.
(16)Wreford fu corrispondente in Napoli per molti anni per il «Times e il Daily News». A lui si deve se gli iniqui procedimenti del governo e della polizia furono rivelati in tutta la loro laidezza. Era un vero amico d’Italia e non della ventura.
(17)Vedi l'Italia del Popolo 2 nov. 57, n. 25.
(18) Egli riuscì nel suo intento. Cavour gli scrive: «Il Re ha ricevuto la sua letterale mi ha incaricato di fargli conoscere che approvando i sentimenti di pentimento e di devozione alla causa della Monarchia costituzionale e interpretando le intenzioni del suo magnanimo genitore Carlo Alberto obbli e perdona i fatti» — Cavour aggiunge una paternale «sperando che I’ avvenire gli ponga opportunità di dimostrare con nuovi fatti quanto sia sincero il suo ravvedimento».
(19) Vol. VI. delle lettere inedite di Cavour pubblicate da Chiala pag. 1378.
(20)Dei testi citati dal governo molti mancarono.
Uno disse che alle feste operaie di Sestri Ponente non sentì gridare «Viva la Repubblica, né vide Savi; che l’oratore principale disse: «Non siamo più ai tempi di fare scampagnate; ma di unirci per difendere la patria. Vile chi non prende le armi per essa.
Presidente — «Avete sentito: Viva la repubblica?»
Imputato — «Ho sentito: Viva Savoja
Bartolomeo Varenna, riuscito a scappare a Locarno, davanti a pubblico Notaro col visto del Commissario di Governo e del Consiglio di Stato della Repubblica del Canton Ticino, dichiara che quanto aveva deposto durante l’interrogatorio, e strappatogli dallo spavento, è contrario al vero;che. non volendo lasciare l’Europa col rimorso di avere danneggiato tre innocenti, disdice e ritratta tutto.
M. G. avvertito che le sue parole in pubblico non confermano l’esame scritto, risponde:
«Hanno scritto quello che hanno voluto «
Il Presidente a Capurro: «Prima avete negato tutto!
Capurro: «Mi avevano minaccialo di mandarmi in galera ed io ho negato tutto. Ora dico la verità.
La difesa ha fatto leggere una dichiarazione in margine al processo, scritta da un noto funzionariodi cui fu dietro istanza di Carcassa verificato la calligrafia da un perito: «N. B. Questo esame è falso come quelli che seguono dei cinque militari, avendo deposto il falso di concerto col Guardarme, come risulta dal processo dell'Uditorio di Guerra.
Moro, capo ameno, soprannominato Baxaicòfacchino risoluto, patriota,poi soldato di Garibaldi, dietro insistenza del Presidente, che egli si trovato al Forte del Diamante, rispose: Dissero che Baxaicò era grasso. Mi guardi eccellenza se sono grasso, e noi fili mai come adesso. Quando andai dall'assessore, mi ricevette colle pistole come fossi un brigante «
Durante un’inondazione a Genova il Baxaicòsi era gettato nel canale per salvare i minacciati, e fu trascinato dalla corrente in mare. Nel '48, pure essendo congedato, si recò al comando militare e disse: «Sono venuto a servire l’Italia» e fece la campagna tenendo ottima condotta.
Quel Baxaicòera' il tipo vero del popolano Genovese.
(21)L’avvocato Giuseppe Carcassi — patriotta esimio, a Mazzini devoto e fiero della sua Genova, gloria del Foro Genovese — ecc.
(22)Ecco la sentenza di Salerno, ove Diego Tajani tuttora vivo si distinse per l'audacia e Io splendore della sua difesa: Nicotera, Gagliani, Santandrea, Giordano, Valletta, La Sala e De-Martino furono condannati a morte, due all’ergastolo, nove a 30 anni di ferri, cinquantadue a 25 anni, Bonomi a otto anni di fortezza, ottanta ad un aumento di punizione, della relegazione, ad essere confinati pel rimanente della loro prima sentenza, quarantotto alla prigionia, due all'esilio correzionale e cinquantasei da ritornare a Ponza a disposizione della polizia. Sulle accuse di ladronecci che pesavano su loro, la corte colla formola di consta che non ne assolvette Nicotera e i sedici compagni suoi, e per gli altri colla formola: non consta, decise che tali accuse non erano provate.
Questa sola accusa era quella che fosse di peso agli insorti, e un tale verdetto diede loro piena soddisfazione. Appena letta la sentenza, il procuratore generale apri e lesse un plico ufficiale che annunziava che l'esecuzione dei sette condannati a morte era sospesa. Fra i prigionieri politici di Salerno furono sottoposti al cavalletto Anseimo Esposito, Giuseppe Magno, Giuseppe Olivieri, Salvatore Depadova, Giuseppe Tangrese, Giuseppe Riggione.
(23) Vedi nel III vol. delle lettere inedite di Cavour pubblicate dal Chiala la relazione del suo colloquio con Napoleone III a Plombières net 24 luglio 58 fatta dallo stesso Cavour. P. I. XIV.
(24) Per intendere la condotta di Cavour verso Garibaldi e patrioti, che, come lui, avevano rinunciato al loro sogno di re pubblica, pur di raggiungere l’ambita unità — Mazzini telegrafava a Crispi, allora alter ego di Garibaldi: «Se i separatisti si muovono, precipitate le annessioni» — bisogna leggere tutte le sue lettere del ’60, le sue istruzioni private al Ministro di Sardegna a Napoli, e al contr’ammiraglio Persano; ne citiamo qualche saggio.
A Villamarina — Torino,?o luglio 1860
E grandemente desiderabile che la liberazione di Napoli non proceda per opera di Garibaldi; giacché, ove ciò avvenga, il sistema rivoluzionario prenderà il posto tenuto dal partito costituzionale monarchico. — E quindi necessario, che in Napoli abbia luogo un movimento nazionale prima che Garibaldi vi giunga. Il tentativo è pericoloso; ma è necessario d’impedire che la rivoluzione non trabocchi in Napoli...
(Chiala, Vol. III)
Al conte di Persano, Torino 30 luglio 1860
Scopo apparente di questa sua missione, si è di tenersi a disposizione della principessa di Siracusa, sorella del Principe di Carignano, cugina del Re. Scopo reale è di cooperare alla riuscita di un piano che deve far trionfare in Napoli il principio nazionale, senza l'intervento di Garibaldi. Principali attori in esso debbono essere il ministro dell'interno signor Liborio Romano, ed il generale Nunziante.
(Vol. III)
Al conte di Persano — Torino, 3 agosto 1860
Faccia quanto può per far scoppiare il moto a Napoli prima dell’arrivo di Garibaldi, se poi questi arriva prima di questo, prenda senza esitazione il comando di tutte le forze navali tanto del continente quanto della Sicilia; andando d’accordo col Generale ma anche senza il suo consenso se ciò è necessario.
(Vol. III)
A Villamarina, 27 agosto 1860
(Télégr.)—Faites tout le possible pour éviter dietature Garibaldi sur qui vous comptez beaucoup trop.
Il faut Jaire nommer Persano avec le Comte de Svracuse pour enseigne.
A Persano, 27 agosto 1860
(Télégr.) — Tàchez de vous rendre maitre du mouvement. En tout cas emparez vous des forteresses et de la flotte.
(Vol. III)
Non avendo arrestato Garibaldi a Napoli — scrive Cavour — bisognava ad ogni costo arrestarlo negli Stati romani, altrimenti ci avrebbe trascinato ad una rovina certa quand’anche si fosse rinunciato a marciare sopra Roma.
(Vol. IV)
— Avvenga che avvenga — scrive Cavour a Nigra— veggo con riconoscenza che ’ Imperatore aumenta la guarnigione di Roma rassicurando il mondo sui pretesi pericoli di S. Pietro. Il governo francese ci rende un grande servigio, nello stesso tempo egli aumenta la nostra forza in faccia a Garibaldi.
(Vol. VI)
— Io riassumo in due parole il concetto politico e militare che bisogna attuare: ristabilire l’ordine (mai turbato se non dai suoi agenti) a Napoli prima, domare il re Borbone dopo. Guai se si invertisse il modo di procedere. Quindi occupazione immediata di Napoli. Occupate senza indugio gli Abruzzi' la spedizione di Cialdini a Napoli compie l’opera. Cialdini fa da dittatore militare fino all’arrivo del Re nella capitale.
(Vol. VI)
Cavour non potè tollerare il fatto che il Re non volle, anzi proibì la persecuzione indetta a Mazzini da' suoi ministri; indi scrive al Farini, ministro dell'interno al seguito di S. M.:
8 ottobre 1860
... A mio credere, il Re deve mostrarsi inesorabile per Mazzini ed i Mazziniani, aperti 0 mascherati...
(Vol. IV)
(25) Cosi graduale, impercettibile fu il suo declinare verso la tomba, che né lui né altri s’avvide che la fine era cosi imminente. Non lasciò parola per gli amici inglesi, né per Sarti, né per Quadrio, né per me. Eppure ci amava tutti e avrebbe certo voluto lasciare una parola d'addio. Nemmeno Bertani, che nel 67 e due altre volte l’aveva strappato alla morte, fu chiamato in tempo. Giunse appena, in casa di Pellegrino Rosselli che l'ospitava a Pisa, la Sarina Nathan e il tiglio suo Ernesto, con Felice Dagnino, mentre Mazzini spirava tra le braccia di Gianetta Nathan Rosselli e di Adriano Lemmi, benedetti ambedue, degni di avere raccolto il suo ultimo sospiro.
(26)Questo documento storico non è stato mai pubblicato per intero ed integra la narrazione originale interessantissima dello stesso moto di Genova della spedizione di Sapri, colla quale la ]essie White Mario lu contribuito questa pubblicazione.
Nicola Zitara mi chiese diverse volte di cercare un testo di Samir Amin in cui is parlava di lui - lho sempre cercato ma non non sono mai riuscito a trovarlo in rete. Poi un giorno, per caso, mi imbattei in questo documento della https://www.persee.fr/ e mi resi conto che era sicuramente quello che mi era stato chiesto. Peccato, Nicola ne sarebbe stato molto felice. Lo passai ad alcuni amici, ora metto il link permanente sulle pagine del sito eleaml.org - Buona lettura! Le développement inégal et la question nationale (Samir Amin) |
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